Della stessa autrice Les juifs en Égypte, Éditions de l'Avenir, Genève 1971 (edizione ebraica riveduta e ampliata a cura di Yehudai Mizrayim, prefazione di Hayyim Ze'ev Hirschberg, traduzione dal francese di Aharon Amir, Maariv, Tel Aviv 1974). Le Dhimmi. Profil de l'opprimé en Orient et en Afrique du Nord depuis la conquête arabe, Éditions Anthropos, Paris 1980. The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, prefazione di Jacques Ellul, edizione inglese riveduta e notevolmente ampliata del precedente, traduzione di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 [8a ristampa 2006] (edizione ebraica ampliata, Ha-Dhimmim. B'nai Ha-Sout, introduzione di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; edizione russa in 2 volumi, Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991). Les Chrétientés d'Orient entre jihad et dhimmitude, VIIe-XXe siècle, prefazione di Jacques Ellul, Les Éditions du Cerf, Paris 1991. The Decline of Eastern Christianity under Islam. From Jihad to Dhimmitude (Seventh-Twentieth Century), prefazione di Jacques Ellul, traduzione dal francese del precedente di Miriam Kochan e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Madison (USA) 1996 [7" ristampa 2009] (edizione tedesca, prefazione di Heribert Busse, traduzione di Kurt Maier, Resch Verlag, Miinchen 2002, 2 a ristampa 2006). Juifs et Chrétiens sous l'Islam. Les dhimmisface au défi integriste, Berg International, Paris 1994 1 (2a edizione Face au défi integriste: juifs et chrétiens sous l'Islam, Berg International, Paris 2005). Islam and Dhimmitude: Where Civilizations Collide, traduzione dal francese del precedente di Miriam Kochan e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Madison (USA) 2002 (4a ristampa 2006). Eurabia. The Euro-Arab Axis, Fairleigh Dickinson University Press, Madison (USA) 2005 (6a ristampa 2006). Eurabia, l'axe euro-arabe, Jean-Cyrille Godefroy, Paris 2006 (traduzione italiana Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007). Verso il califfato universale. Come l'Europa è diventata complice musulmano, Lindau, Torino 2009.
dell'espansionismo
Bat Ye'or
IL DECLINO DELLA CRISTIANITÀ SOTTO L'ISLAM Dal jihad alla dhimmitudine
LilDAU
L'Editore desidera ringraziare la dottoressa Valentina Colombo per il fondamentale contributo offerto al lavoro di revisione del testo. Titolo originale: Les chrétientés d'Orient entre jihad et dhimmitude Traduzione dal francese di Lucilla Congiu Copertina di Dada Effe - Torino © Bat Ye'or 2007 © Seld / Jean-Cyrille Godefroy 2007 by arrangement with II Caduceo Literary Agency © 2009 Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 -10128 Torino Prima edizione: settembre 2009 ISBN 978-88-7180-829-1
In memoria di Renée Orebi e Daniel
Littman
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio Haviva Fenton per la traduzione dei documenti del London Foreign Office, riprodotti alle pagine
485-497.
Sono debitrice nei confronti del dottor Paul Fenton dell'Università di Lione, al quale va il merito di avermi procurato i testi di Ibn al-Fuwati, Ibn Qayyim al-Jawziyya, Gedaliah di Siemiatycze e Mattatia Garji [Gorgi], Sono inoltre lieta di potergli esprimere in questa sede la mia gratitudine per i due indici da lui curati e per i suoi amichevoli
suggerimenti.
Ringrazio altresì David Littman per le lettere provenienti dagli archivi dell'AIU (Alliance Israelite Universelle) riportate alle pagine
501-506.
Il manoscritto è stato battuto a macchina con pazienza instancabile da Nicole Fowler, che merita tutta la mia riconoscenza. Infine, ringrazio in modo particolare mio marito, le cui critiche pertinenti, i cui consigli e il cui indefettibile sostegno non soltanto hanno
notevolmente
contribuito a migliorare la qualità di questo lavoro, ma ne hanno anche semplificato le fasi conclusive.
Prefazione di Bat Ye'or all'edizione francese del 2007
Questo libro, pubblicato nel 1991 dalle Éditions du Cerf e andato ben presto esaurito, viene riproposto in Francia a quindici anni di distanza, mentre l'edizione americana del 1996 è alla sua sesta ristampa e la traduzione tedesca, apparsa nel 2002, è stata rieditata nel 2005. Fondato su documenti irrefutabili, questo saggio esamina i processi, spesso irreversibili, che hanno portato all'islamizzazione delle civiltà cristiane sorte lungo il Mediterraneo, postulando un concetto oggi entrato nel linguaggio corrente, ma all'epoca [1991] nuovo: quello di dhimmitudine, termine che designa il complesso intreccio di dinamiche interrelate proprie della conquista islamica, e responsabili delle trasformazioni al tempo stesso strutturali, sociali, psicologiche e demografiche intervenute nei popoli non musulmani sottomessi c o n il jihad.
La ripresa del jihad, registratasi nel XX secolo, si colloca quindi in un continuum storico. Tale processo, iniziato con la lotta armata dei popoli musulmani contro la colonizzazione europea, è proseguito, a partire dal 1968, con il jihad culturale finalizzato ad acquisire il controllo dei media e delle università europee, sostenuto dallo strapotere economico dei paesi petroliferi. Questa sovversione della cultura europea, denunciata da Jacques E l l u l è andata di pari passo con la glorificazione del palestinismo, ideologia jihadista concepita e coltivata in Europa al fine di distruggere Israele. Il movimento, alimentato da una consistente immigrazione islamica, rientrava a sua volta in una strategia mediter-
ranea di accordi e di graduale unificazione tra la Comunità Europea e il mondo arabo: Eurabia 2 . Interamente fondata su interessi economici, sulla perversa illusione del potere 3 e sull'antisionismo, questa politica euro-araba ha favorito l'espansione e la proliferazione in Occidente di cellule jihadiste le cui pratiche terroristiche, che ben presto potrebbero avvalersi anche di armi nucleari \ tolgono surrettiziamente all'Europa la sua autonomia in materia di politica estera e di sicurezza territoriale. In passato il jihsd combinava il terrore, l'immigrazione e la colonizzazione musulmani alla corruzione delle élite cristiane e, spesso, alla collusione dei loro responsabili politici e religiosi. Ai nostri giorni, al contrario, non vi è stata conquista militare dell'Europa, ma piuttosto accoglienza entusiastica delle ideologie e delle passioni islamiste da parte delle sue società disgregate, che si cullano nel rifiuto della storia e della realtà per drogarsi con un pacifismo antisemita che si ritorce come un boomerang contro loro stesse. E così il palestinismo, nuovo culto di Eurabia, è divenuto il cavallo di Troia dell'assoggettamento del continente 5 . Oggi sotto i nostri occhi si compiono le stesse carneficine - descritte dai testimoni oculari dell'VIII secolo - che insanguinarono la Mesopotamia, le stesse scene di decapitazione, rapimenti, riduzione in schiavitù, deportazione, terrore, cattura di ostaggi finalizzata al riscatto che svuotarono dei loro abitanti i paesi soggetti alla dhimmitudine, dall'Armenia alla Spagna, dai Balcani alla Nubia. Nel Sudan meridionale, nel Darfur, nel Ciad, in Libano, in Israele, in India, in Indonesia e altrove il jihad si combatte ancor oggi secondo le strategie legali prescritte da una giurisprudenza teologica elaborata e interpretata dai padri del diritto islamico a partire dall'VIII secolo. E, a tredici secoli di distanza, tornano a risuonare nelle nostre orecchie le stesse ideologie di conquista, nate dai medesimi testi. Non dobbiamo far altro che analizzare la storia dei popoli che subirono la dhimmitudine per ritrovare le nostre lotte, le nostre angosce e le sbruffonerie dei nostri politici, artefici cinici, incompetenti e presuntuosi delle nostre sconfitte. Quegli spettri, che
brillano della pallida luce delle stelle morte, riflettono il nostro avvenire. Bat Ye'or dicembre 2006
'Cfr. Jacques Ellul, La subversión du christianisme, Seuil, Paris 1984' (La Table Ronde, Paris 2004). Vedi anche infra, prefazione all'edizione del 1991, e, dello stesso autore, Islam e cristianesimo. Una parentela impossibile, Lindau, Torino 2006, che riporta la prefazione di Ellul al libro di Bat Ye'or The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad. di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmin. B'nai Ha-Sout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991) [N.d.T.]. Cfr. l'omonimo libro di Bat Ye'or Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007 (ed. orig. Eurabia, l'axe euro-arabe, Jean-Cyrille Godefroy, Paris 2006; ed. inglese Eurabia. The Euro-Arab Axis, Fairleigh Dickinson University Press, Madison (USA) 2005 1 [rist. 2006]) [N.d.T.]. 3 Allude all'illusione dell'Europa di emanciparsi dagli Stati Uniti costruendo un asse geopolitico alternativo e antagonistico rispetto a quello atlantico. Cfr. Ye'or, Eurabia cit., capitolo 5 e passim [N.d.T.]. 4 Allusione alla politica di proliferazione nucleare portata avanti dal presidente iraniano Mahmüd AhmadinejSd [N.d.T.]. 5 «Il palestinismo, nuovo culto di Eurabia» è anche il titolo del capitolo 16 di Eurabia cit. [N.d.T.]. 1
Prefazione di Jacques Ellul all'edizione del 1991
La Storia, contrariamente all'immagine idilliaca o romanzata che in genere si ha di essa, non è una disciplina (per non dire una «scienza», termine che verrebbe subito contestato) innocua. Ogni ricerca storica seria - ossia, per quanto possibile, esente da pregiudizi e da a priori, e condotta sulla base del maggior numero di fonti disponibili, senza operare una selezione fra esse, ma assegnando loro una gerarchia di valore in rapporto alle rispettive finalità - insomma, ogni ricerca effettuata con coscienza e rigore crea sempre scompiglio. Infatti di solito questo tipo di storia mette in discussione le immagini preconfezionate del passato, le tradizioni e le valutazioni relative a questo o quel periodo, le opinioni e, talora, le ideologie - e così facendo suscita turbamenti, polemiche, contestazioni. Ciò è accaduto con tutte le grandi opere storiche, e il libro che oggi presentiamo non farà eccezione. Mi sento di poter dire che si tratta di una grande opera storica per lo scrupolo che rivela nell'esame delle fonti e nella ricerca stessa della loro esistenza 1 (anche se, ovviamente, non si può mai parlare di esaustività!), per il coraggio che dimostra affrontando un tema storico di prima grandezza e fin qui troppo spesso trascurato. Nell'attuale clima di diffusa simpatia per l'islam di cui abbiamo già parlato nella prefazione al precedente libro 2 , le allusioni al jihsd non sono gradite: agli occhi degli occidentali, infatti, esse getterebbero una sorta di «macchia nera» sulla grandezza e sulla purezza dell'islam. E invece questo libro, che è il seguito del precedente, ne amplia considerevolmente la prospettiva prò-
prio perché al concetto già studiato di dhimmitudine aggiunge e contrappone quello di jihad, presentato come un'alternativa «ineludibile» alla dhimmitudine: si tratta di due principi complementari, e quando ci confrontiamo con l'islam siamo obbligati a passare per l'uno o per l'altro! Occorre peraltro precisare la natura del jihad: ne esistono infatti molteplici interpretazioni. Talvolta, quando si fa riferimento a esso, si insiste principalmente sul carattere spirituale di questa «guerra»: si tratterebbe in realtà solo di un «modo di dire» per designare la lotta che il credente deve condurre contro le sue inclinazioni malvagie, contro la sua tendenza all'infedeltà ecc. Insomma, l'antico tema dell'uomo in conflitto con se stesso a noi ben noto grazie al cristianesimo (ancora ima volta ci ritroviamo su un terreno comune!). E so che questa tesi è stata effettivamente sostenuta da alcune scuole islamiche. Ma, anche se tale interpretazione è corretta, essa è ben lungi dall'abbracciare l'intero campo semantico del termine jihad. A volte, invece, si preferisce occultare i fatti, metterli tra parentesi. In una grande enciclopedia è quindi possibile leggere frasi del tipo: «Neil'VIII e nel IX secolo si assistette all'espansione dell'islam...» oppure: «Questo o quel paese passarono nelle mani dei musulmani...». Ma ci si guarda bene dal dire come si verificò l'espansione dell'islam, come quei paesi «passarono nelle sue mani». Si direbbe che gli eventi si siano prodotti da sé, grazie a un intervento taumaturgico o amichevole... Nei resoconti di questa espansione si parla molto poco del jihad. Eppure, ogni sua tappa è stata resa possibile proprio da esso! Il libro che state per leggere mette chiaramente in evidenza ciò che di solito è nascosto, oserei dire, accuratamente, tanto il processo si compie nel silenzio: un silenzio che può essere solo il frutto di un tacito accordo fondato su presupposti impliciti. Rispetto a tale accordo questo libro apparirà blasfemo, e sarà etichettato come «polemico» unicamente perché riporta alla luce dei fatti, o meglio, un insieme omogeneo di fatti, collegati tra loro da una struttura coerente, direi quasi permanente, il che dimostra che non si tratta affatto di eventi accidentali. Ma, malgrado il suo intento chiarificatore, questo libro non è affatto polemico, perché l'autri-
ce non ha problemi a riconoscere le grandi conquiste della civiltà musulmana, né ne esclude in alcun modo i pregi, sottolineando ad esempio che le vittorie dell'islam furono dovute all'abilità militare dei suoi eserciti così come all'esistenza al suo interno di statisti di grande valore. Analogamente - altra qualità che avevamo individuato in The Dhimmi - , Bat Ye'or accorda la massima attenzione alle diversità e alle sfumature, non universalizza né generalizza a partire da pochi fatti isolati: è il rigoroso e accurato esame delle fonti a consentirle di cogliere le differenze tra le varie epoche e situazioni. Due fattori sostanziali trasformano il jihad in qualcosa di totalmente diverso dai conflitti tradizionali, che vengono combattuti, per ambizione o per interesse, in vista di obiettivi circoscritti, e che, costituendo eventi eccezionali rispetto alla situazione «normale» - la pace tra i popoli - , sono destinati a concludersi con il ritorno alla pace. Il primo dei due fattori è il carattere religioso del jihad, il secondo il fatto che con esso la guerra diviene un'istituzione (e non più un evento isolato). Veniamo al primo. In genere jihad si traduce con «guerra santa», espressione piuttosto infelice che evoca simultaneamente due aspetti: da un lato si tratta di una guerra ispirata da un forte sentimento religioso, dall'altro il suo obiettivo primario non è tanto conquistare dei territori, quanto islamizzarne gli abitanti. Il jihad è un dovere religioso. Forse qualcuno dirà che ogni religione in fase di espansione rischia di sfociare in una guerra, e che nel corso della storia ci sono stati infiniti casi di guerre religiose: anzi, quest'analogia è divenuta oggi un luogo comune 3 . Ma, anche ammettendo che talora la passione religiosa si esprima così, si tratta pur sempre di una «passione», e soprattutto di un fenomeno rispetto al quale non è difficile dimostrare che non corrisponde al messaggio di fondo di quella religione. Ciò è evidente nel caso del cristianesimo. Nell'islam, invece, il jihad è un obbligo religioso: fa parte delle opere che il credente deve compiere, è la via normale di diffusione della sua fede. Tale concetto è ripetuto decine di volte nel Corano. Quindi il musulmano che pratica il jihad non agisce in contraddizione con il suo messaggio religioso: anzi, è così che lo adempie
al meglio. Inoltre, i fatti minuziosamente esposti e analizzati in questo libro illustrano con chiarezza che il jihad non è una «lotta spirituale», ma una guerra di natura decisamente militare ed espansionistica, che esprime l'accordo tra il «testo fondante» e l'azione pratica dei fedeli. Tuttavia - come mostra chiaramente Bat Ye'or - le cose non sono così semplici, perché il jihad non viene combattuto soltanto all'esterno, ma può divampare anche all'interno del mondo islamico, e furono molti, anche se caratterizzati sempre dagli stessi aspetti, i conflitti tra i musulmani. Il secondo e fondamentale tratto distintivo del jihad è che esso costituisce un'istituzione e non un evento isolato, ossia che appartiene a duplice titolo al normale funzionamento del mondo islamico. In primo luogo, infatti, tale guerra crea delle istituzioni che ne sono la conseguenza. Logicamente tutte le guerre, per il fatto che vi sono dei vincitori e dei vinti, determinano dei cambiamenti istituzionali, ma qui siamo in presenza di un fenomeno ben diverso: i popoli sconfitti cambiano status (diventando dhimmt), la shart'a tende a essere applicata integralmente, stravolgendo la precedente fisionomia giuridica del paese ecc. Le conquiste non comportano un semplice mutamento di «proprietario» per i territori, ma l'integrazione degli abitanti (a condizione che abbiano ottenuto lo status di dhimmf) in un'ideologia (religiosa) collettiva e obbligatoria e in un apparato amministrativo davvero molto perfezionato 4 . In questa prospettiva il jihad è un'istituzione perché contribuisce in modo determinante all'economia del mondo islamico. Come la dhimmitudine. Il che peraltro implica - come illustra efficacemente l'autrice - una concezione originale di tale economia. Ma quello che realmente conta è cogliere che il jihad è di per sé un'istituzione, cioè una componente organica della società musulmana. In quanto dovere religioso, esso rientra nell'organizzazione del culto, come i pellegrinaggi ecc., tuttavia non è questa la sua connotazione essenziale, la quale va invece ricercata nella divisione del mondo insita nel pensiero (religioso) islamico. Il mondo - spiega magnificamente Bat Ye'or - è diviso in due parti: il dar al-islam e il dar al-harb, ossia il «territorio dell'islam» e il «territorio della guerra». Quindi il mondo esterno
non è più diviso in nazioni, popoli, tribù ecc.: tutte le sue partizioni rientrano in blocco nel «territorio della guerra», il che implica che non sono possibili altre relazioni con esso se non di tipo bellico. La Terra appartiene ad Allah, e tutti i suoi abitanti devono riconoscerlo; perché questo avvenga, esiste un solo mezzo: la guerra. Quest'ultima quindi non è un fenomeno di natura evenemenziale e accidentale, ma un dato costitutivo del pensiero, dell'organizzazione, della struttura di questo mondo. E con il mondo della guerra non è possibile alcuna pace. Ovviamente a volte si è costretti a fermarsi: esistono circostanze - il Corano le prevede - in cui è meglio non combattere. Ma ciò non cambia niente: la guerra resta un'istituzione, il che significa che, non appena le circostanze lo permettono, essa deve riprendere. Ho insistito molto sulle caratteristiche del jihad perché ai nostri giorni si fanno talmente tante affermazioni circa la tolleranza e il fondamentale pacifismo dell'islam, che sarebbe invece opportuno richiamarne la natura... fondamentalmente bellica! L'autrice fornisce inoltre ima spiegazione illuminante dell'«islamizzazione», il complicato processo in virtù del quale le popolazioni islamiche soppiantarono i popoli, le civiltà e le religioni dei paesi vinti, un processo improntato a due modalità - quella della fusione (assorbimento delle culture locali, conversione) e quella della conflittualità (massacri, riduzione in schiavitù ecc.) - che peraltro potevano coesistere. Ma vi erano sempre due fasi distinte: la prima caratterizzata dalla guerra, la seconda dall'imposizione dello status di dhimmì. Sono queste le basi dalle quali sono scaturite al tempo stesso l'espansione dell'islam e le sue successive evoluzioni, che nulla ha potuto impedire poiché erano frutto dei rapporti tra l'impero musulmano e l'Occidente. Apparentemente, tali evoluzioni hanno condotto a un'inversione di tendenza: da un lato infatti si è assistito alla conquista di numerosi paesi islamici da parte dell'Occidente, dall'altro, taluni «valori» occidentali sono penetrati nel mondo musulmano arrivando a influenzarlo. Ma se alcuni di questi valori (ad esempio la tolleranza) sono stati recepiti come una sorta di sfida implicante la necessità di provare che anche l'i-
slam li coltiva, altri ne hanno in qualche m o d o rafforzato l'orientamento di fondo: ad esempio il nazionalismo. Tuttavia, a prescindere dalla natura di tali evoluzioni, non bisogna mai dimenticare che esse non potevano essere che superficiali, in quanto le dottrine e i comportamenti su cui si innestavano poggiavano su un fondamento religioso. E, anche se può sembrare che quest'aspetto si affievolisca o si modifichi, esiste sempre quella che altrove ho chiamato «persistenza del religioso», ossia il fenomeno per cui, se di una religione un tempo potente, e oggi apparentemente trascurata, sopravvivono solo riti, strutture, consuetudini, basta una scintilla perché tutto ciò ritorni immediatamente alla vita, a volte anche con violenza. È appunto il processo che vediam o magistralmente descritto in questo libro. La situazione che credevamo liquidata e superata d'un tratto rivive, e noi ci troviam o nuovamente di fronte alla stessa opzione fondamentale: il mondo è ancora ima volta diviso in «territorio dell'islam» e «territorio della guerra». E all'interno della umma5 l'infedele non può vivere se non nella dhimmitudine. Ciò induce l'autrice a porsi un interrogativo di inquietante attualità: si può parlare di una «dhimmitudine dell'Occidente»? Così, dopo aver attraversato tredici secoli di storia letti alla luce di tale interrogativo, giungiamo infine alla nostra condizione, di cui avvertiamo chiaramente l'ambiguità e la fragilità, m a che non comprendiamo fino in fondo in quanto ci manca una visione chiara di quell'alternativa che, in forma più o meno esplicita, si è riproposta lungo l'intero arco di tali secoli, e che questo libro ha l'immenso pregio di analizzare con rigore. Bat Ye'or ha il coraggio di verificare (seppure sommariamente, poiché non è questo il tema del suo studio) se un certo numero di eventi, di strutture e di situazioni che oggi sperimentiamo in Occidente non siano già riconducibili a una sorta di dhimmitudine del nostro mondo nei confronti di quello islamico, che ha ripreso le sue guerre e la sua espansione. I rapimenti di ostaggi, gli atti di terrorismo, la distruzione del cristianesimo libanese, l'indebolimento delle Chiese d'Oriente (senza contare la volontà di distruggere Israele), e, dal lato opposto, la reazione difensiva europea (infrastrutture an-
titerroristiche, impatto psicologico del «terrorismo» intellettuale, pressioni politiche e giudiziarie nei confronti del ricatto terroristico), tutto ciò richiama alla mente proprio la rinascita della tradizionale politica dell'islam. Alcuni dei tanti governi musulmani tentano di combattere la corrente islamista, ma perché i loro sforzi abbiano successo ci vorrebbe al tempo stesso una totale rifondazione delle mentalità, una desacralizzazione del jihód, una presa di coscienza in chiave autocritica dell'imperialismo islamico, un'accettazione della laicità del potere politico e il rifiuto di taluni dogmi coranici. Certo, dopo tutto ciò che abbiamo visto accadere in Unione Sovietica questa evoluzione non è impensabile, ma quale mutamento radicale implicherebbe! Il cambiamento di un'intera corrente storica e la riforma di una religione rigorosamente strutturata! Questo libro permette quindi di fare il punto anche sulla nostra situazione attuale, come del resto ogni autentico studio storico dovrebbe fare, senza naturalmente operare assimilazioni artificiali e ricordandosi che la storia non si ripete. Jacques Ellul Bordeaux, luglio 1991
1 A tale proposito bisogna leggere molto attentamente la parte critica della conclusione. Critica nei confronti degli a priori di cui sono infarcite numerose opere storiche, critica rispetto alle spiegazioni da esse fomite della legittimità del jihad, o all'adozione pura e semplice delle tesi musulmane da esse operata. Va altresì sottolineata l'originalità insita nella constatazione che la maggior parte di tali opere si fonda su ciò che gli arabi stessi hanno scritto di sé, e non tengono conto delle fonti provenienti dai popoli che essi hanno sottomesso e conquistato. Come se i primi fossero necessariamente obiettivi, e i secondi necessariamente parziali! Dopo aver dato tanto spesso la parola all'islam, perché non ascoltare anche tutti i popoli da esso conquistati e poi emancipati: greci, rumeni, bulgari, serbi ecc.? Ecco il grande merito, e uno dei principali elementi di novità, di questo libro. 2 The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, pref. di Jacques Ellul, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad. di David Maisel, Paul Fen-
ton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmiti. B'nai Ha-Sout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991), pp. 25-33. Si veda ad esempio il volume collettaneo, realizzato sotto la direzione di Pierre Viaud, Les religions et la guerre, Éditions du Ceri, Paris 1991. 'Quanto a quest'apparato, esso può dare l'impressione, come mostra questo libro, di un certo disordine, che discende però dall'estrema complessità di tale impero (di cui, ancora una volta, Bat Ye'or coglie tutte le sfumature), mentre in realtà esso è caratterizzato da una profonda, sostanziale unità. 3
Termine arabo che significa letteralmente «comunità di fedeli» e designa la comunità dei musulmani al di là della nazionalità e della parcellizzazione dei poteri politici che li governano [N.d.T.]. 5
Periodici e archivi1
AIU: Alliance Israélite Universelle (Paris) AS: «Arabian Studies» (Cambridge) ARABICA: «Revue d'études arabes» (Paris) BAIU: «Bulletin de l'Alliance Israélite Universelle» (Paris) BIJS: «Bulletin of the Institute of Jewish Studies» (London) BJRL: «Bulletin of the John Rylands Library» (Manchester) BL: British Library (London) BN: Bibliothèque Nationale (Paris) BSOAS: «Bulletin of the School of Oriental and African Studies» (London) BTS: Biblioteca del Topkapi Sarâyi (Istanbul) DOP: «Dumbarton Oaks Papers» (Washington) EI ': Encyclopédie de l'Islam, l a ediz. (Leyden-Paris, 1913-1938) EI2: Encyclopédie de l'Islam, 2 a ediz. (Leyden-Paris,1960-2005) EJ: Encyclopaedia Judaica (Jerusalem, 1971)
FO: Foreign Office, ex PRO (Public Record Office) Archives (London)2 HESPERIS: «Institut des Hautes Études Marocaines» (Paris) HGS: «Holocaust and Genocide Studies» (London) IOS: «Israel Oriental Studies» (Jerusalem) JA: «Journal Asiatique» (Paris) JAOS: «Journal of the American Oriental Society» (New York) JESHO: «Journal of the Economic and Social History of the Orient» (Leyden) JHSE: «Jewish Historical Society of England» (London) JIMMA: «Journal of the Institute of Muslim Minority Affairs» (Jeddah) JIS: «Journal of Israel Studies» (Baltimore)
JJS: «Journal of Jewish Studies» (Oxford) JOS: «Journal of Ottoman Studies» (Istanbul) JQ: «Jerusalem Quarterly» (Jerusalem) JRAS: «Journal of the Royal Asiatic Society» (London) MES: «Middle Eastern Studies» (London) NC: «Nouveaux Cahiers» (Paris) PAAJR: «Proceedings of the American Academy for Jewish Research» (New York) PARDÈS: «Pardès» (Paris) PP: Parliamentary Papers (London) PRO: Public Record Office (London) RAS: «Royal Asiatic Society» (London) REI: «Revue des Études Islamiques» (Paris) REJ: «Revue des Études Juives» (London) RFSE: «Revue de la Faculté des Sciences Économiques» (Istanbul) ROC: «Revue de l'Orient Chrétien» (Paris) RSJB: «Recueils de la Société Jean Bodin» (Bruxelles) RSPT: «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques» (Paris) SP: State Papers (London) SPS: «Studies in Plural Societies» (Den Haag) SI: «Studia Islamica» (Paris) TM: «Les Temps Modernes» (Paris) VJHfZ: «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte» (Stuttgart) WLB: «Wiener Library Bulletin» (London) YOD: «Revue des Études Hébraïques et Juives Modernes et Contemporaines» (Paris) ZfA: «Zeitschrift für Assyriologie» (Strasburgo) Zion: «A Quarterly for Research in Jewish History» (Jerusalem).
'Gli acronimi sono quelli che compaiono in bibliografia [N.d.T.]. La denominazione ufficiale è The National Archives of the UK, Public Record Office. Il Public Record Office (PRO) è il principale istituto di conservazione britannico. Ha la finalità di raccogliere e conservare con i metodi più moderni il patrimonio archivistico prodotto dall'amministrazione 2
centrale dello Stato. I fondi archivistici presenti nel PRO, che coprono la storia amministrativa, finanziaria, politica e sociale del Regno Unito dal Medioevo ai giorni nostri, si articolano in: HO, Home Office (Ministero dell'Interno); FO, Foreign Office (Ministero degli Esteri); CAB, Cabinet Office (Ufficio di Gabinetto); PREM, Prime Miriister's Office (Ufficio del Primo Ministro); WO, War Office (Ministero della Guerra) http://www.nationalarchives.gov.uk/ [N.d.T.].
Introduzione
Questo non è un libro sull'islam: non ne esamina infatti né lo sviluppo, né la civiltà. Il suo oggetto è lo studio dei numerosi popoli che esso sottomise, e l'individuazione, nella misura in cui ciò sia possibile, dei complicati processi - tanto endogeni quanto esogeni - che portarono alla loro progressiva estinzione. Questi popoli - genericamente raggruppabili sotto l'etichetta di dhimmt, ossia «protetti» - erano gli stessi che un tempo detenevano la rivelazione contenuta nei libri sacri, prima di essere conquistati dai musulmani. In particolare, per quanto riguarda l'Iran e il bacino del Mediterraneo, essi erano i seguaci delle religioni zoroastriana, cristiana ed ebraica. Per orientarmi nel mio lavoro ho fatto largamente uso di fonti che, in quanto provenienti proprio da tali popoli, hanno il pregio di essere spesso contemporanee agli eventi narrati. Queste testimonianze, inevitabilmente circoscritte a regioni ed epoche ben definite, sono responsabili degli aspetti più illuminanti come delle lacune del mio studio. Questo saggio è nato in origine come ripresa del mio Le dhimmi, e più precisamente della sua edizione inglese riveduta e ampliata 1 . Pertanto non sorprenderà il fatto di trovarvi alcune analogie con esso, in particolare nel terzo capitolo. Tuttavia l'abbondanza di nuovo materiale - che ha comportato ulteriori analisi - , unita al desiderio di assicurare al libro un formato maneggevole, mi hanno indotta a ridurre sensibilmente la parte inerente agli ebrei in terra d'islam, ampiamente trattata nei miei precedenti lavori.
Mentre la storia della civiltà islamica ha generato innumerevoli pubblicazioni generali e specialistiche, i saggi relativi ai popoli conquistati da essa restano frammentari e limitati. Tali lavori, comprensibilmente assai più preziosi, esaminano l'organizzazione e la storia dei vari gruppi etnico-religiosi in base a criteri geografici e di appartenenza religiosa. La mia ricerca non vuol essere una ricapitolazione cronologica delle vicende di tutti i popoli che furono sottomessi dagli arabi, dai turchi e dai persiani islamizzati. U n o studio simile sarebbe di competenza di un team di storici in grado di padroneggiare - oltre all'arabo, al persiano, al turco - lo spagnolo, il greco, l'ebraico, il siriaco, il copto, l'armeno, le lingue slave e i dialetti parlati da tutti i popoli che costituirono, nel corso dei secoli, la grande massa dei dhimml. Popoli che tra l'altro hanno lasciato abbondanti testimonianze sul loro passato: cronache, racconti, poemi o altri tipi di documenti. Di qui l'impossibilità per una sola persona di abbracciare nella sua totalità un processo storico che, con i suoi fermenti e le sue contraddizioni, si estende su tre continenti. La mia ricerca segue ima struttura tematica richiesta dall'ampiezza stessa dell'argomento e dalla sua estrema complessità. Tale metodo, malgrado i suoi inconvenienti, ha tuttavia il merito di consentire una sintesi dei vari temi in ima prospettiva a lungo termine. L'idea di una panoramica generale della storia dhimmì mi è stata suggerita dall'opera del geografo serbo Jovan Cvijic La Penisola Balcanica. Geografia umana2. In questo saggio di geografia umana l'autore, con l'ausilio di numerose mappe, delinea l'area di influenza islamica nei Balcani e ne esamina le differenze legate alle proporzioni demografiche, alle caratteristiche del suolo, al clima e al contesto rurale o urbano. In prospettiva analoga, il mio lavoro tenta di definire il quadro giuridico, sociologico e storico che ha determinato l'evoluzione dei popoli dhimmì, limitandosi a tracciarne appena i contorni e senza avere certo la pretesa di esaurire l'argomento. Sono debitrice nei confronti di Bashir Gemayyel per l'uso del termine «dhimmitudine» 3 , da lui coniato per designare una pre-
cisa condizione storica. Nessuna parola potrebbe definire più felicemente la materia della mia ricerca, dedicata ai molteplici, contraddittori aspetti di un'esperienza umana vissuta da milioni di individui per secoli, anzi, per più di un millennio. L'universo della dhimmitudine emerge dai documenti, e non a caso il libro, nei suoi temi di riflessione, nei suoi snodi fondamentali e nelle sue tappe, è strutturato attraverso e sui documenti, i quali, sebbene divergano lievemente sulle date - talora incerte - concordano tuttavia sui contenuti essenziali. Se testimoni appartenenti a contesti ed epoche differenti descrivono gli stessi fatti - che sono anche oggetto di specifiche prescrizioni da parte dei teologi-giuristi, quali le norme relative all'abbigliamento - , i dati in questione si possono a buon diritto considerare elementi permanenti dello status del dhimmi. Ho affrontato questo argomento in chiave rigorosamente storica, pertanto non ho ritenuto necessario ricorrere alle formule apologetiche o alle operazioni di maquillage storico che, con il pretesto dell'obiettività, sono purtroppo divenute la norma in questo campo. È del tutto evidente che un tale studio non può che proiettare un'immagine negativa della storia dei popoli musulmani, in quanto questa - talora per una serie di circostanze casuali, talora per calcolo politico - si traduce innegabilmente nei processi di disintegrazione dei popoli conquistati. Malgrado questo serio inconveniente, non ho ritenuto opportuno rinunciare a tale ricerca. Mi sembrava infatti che il prestigio di una civiltà, i cui contributi furono così rilevanti sia sul piano culturale che scientifico, non avrebbe sofferto poi tanto se, accanto alla sua epopea splendida e trionfante, la storia avesse riservato un piccolissimo posto ai popoli dimenticati che ne furono le vittime. Spero che non mi si serbi rancore per questo tributo di simpatia e di rispetto, che, peraltro, è loro dovuto. L'analisi della condizione dei dhimml contenuta in questo saggio riguarda unicamente i cristiani e gli ebrei del bacino del Mediterraneo e dell'Armenia. Gli zoroastriani, che pure ebbero un'influenza preponderante sulla civiltà islamica classica, sono menzionati solo in via accessoria.
A v e n d o già p u b b l i c a t o u n a c o s p i c u a m o l e di d o c u m e n t i relativi al M e d i o e v o e alla p r i m a m e t à del X I X secolo, qui m i s o n o lim i t a t a a u n a serie di fonti p r e m e d i e v a l i s c a r s a m e n t e n o t e , c o n c e m e n t i in p a r t i c o l a r e la c o n d i z i o n e c o n t a d i n a , e a d a l c u n i d o c u m e n t i inediti del X I X secolo. Il lettore interessato al p e r i o d o int e r m e d i o p o t r à fare r i f e r i m e n t o alla s e z i o n e « D o c u m e n t i » del m i o l a v o r o sul dhimmi, preferibilmente n e l l ' e d i z i o n e inglese 4 .
Le dhimmi. Profil de l'opprimé en Orient et en Afrique du Nord depuis la conquête arabe, Éditions Anthropos, Paris 1980 [The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, pref. di Jacques Ellul, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad, di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmin. B'nai Ha-Sout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991)]. 2 Jovan Cvijié, La Penisola Balcanica. Geografia umana, a cura di Marianna Rovere, trad, di Maria Cian, http://www.units.it/~labgeo/ labgeo/balkan.rtf (ed. orig. La Péninsule Balkanique. Géographie humaine, Armand Colin, Paris 1918). 1
Si veda l'intervista Liban: il y a un peuple de trop, «Le Nouvel Observateur», Paris, 19 giugno 1982, p. 62, e il discorso pronunciato da Gemayyel a Dayr-Salib (Libano) il 14 settembre 1982, giorno in cui fu assassinato, Notre droit à la différence, «Bulletin d'information» (Union libanaise-suisse), n. 1, dicembre 1982, alcuni estratti del quale sono riportati in Bat Ye'or, The Dhimmi cit., sezione «Documenti» 116, pp. 403-405. 'Vedi nota 1. 3
Avvertenza
In linea di massima l'ortografia è stata semplificata mediante l'adozione delle trascrizioni più comunemente usate a livello internazionale, sebbene corredate dagli opportuni segni diacritici. Nelle varie parti del testo (compresi i documenti, le citazioni e i riferimenti bibliografici) si è cercato di puntare alla massima uniformità nella trascrizione dei nomi individuali, mentre si è mirato a riprodurre il più possibile integralmente e fedelmente il testo delle citazioni. Nella sezione documentaria, i numeri tra parentesi quadre che nell'originale figuravano al termine delle citazioni sono stati riportati in nota e opportunamente collegati alle opere da cui sono tratte le citazioni stesse, opere che compaiono peraltro anche nella bibliografia finale. Le parentesi uncinate < > indicano le note dei traduttori dei testi siriaci, armeni e arabi. Le parti tra parentesi quadre e in corsivo sono rispettivamente precisazioni e sintesi introdotte dall'autrice per esigenze di chiarezza. Per quanto riguarda le fonti cristiane l'autrice, pur sottolineando che i lunghi commenti di ispirazione biblica sugli eventi narrati contenuti nei testi degli alti esponenti ecclesiastici non mancano talora né di bellezza né d'interesse, in quanto proiettano una luce umana sulle percezioni e il vissuto della storia, ha ritenuto necessario sostituirle con le parentesi quadre [...] per semplificare la lettura, e riprendere il filo della narrazione qualche pagina dopo. Le cifre fornite dai cronisti in relazione ad alcuni
personaggi, in genere esagerate, indicano piuttosto una scala di proporzione che un vero e proprio numero di individui. I riferimenti al Corano rimandano a G. Mandel (a cura di), Il Corano, UTET, Torino 2004.
IL DECLINO DELLA CRISTIANITÀ SOTTO L'ISLÀM
Capitolo 1 L'Oriente preislamico
Per affrontare la storia dei popoli dell'Oriente preislamico è necessario accennare, seppur in modo assai succinto, alla situazione generale prevalente in esso nel VII secolo, ossia alla vigilia della conquista araba. Situata alle porte dell'Arabia, la Persia sasanide si estendeva dal Golfo Persico a Sud sino all'Armenia a Nord e al fiume Indo a Est. Nelle fertili regioni comprese in questi immensi territori, sorgeva una fitta rete di villaggi che garantiva i rifornimenti alle città e ai borghi abitati da mercanti e artigiani operosi. Innumerevoli chiese, monasteri e sinagoghe erano disseminate lungo le valli dell'Eufrate e del Tigri. Infatti la dinastia dei sasanidi (224-651), nonostante alcuni periodi di intolleranza, aveva accettato il pluralismo religioso. L'aristocrazia, l'esercito e il popolo persiano aderivano allo zoroastrismo o mazdeismo, la religione nazionale, mentre in Babilonia e sino all'Alta Mesopotamia i cristiani e gli ebrei costituivano praticamente la maggioranza delle masse rurali e urbane Proibito in territorio bizantino e di conseguenza favorito in Persia, il cristianesimo nestoriano 2 si era diffuso in Babilonia, Susiana (Elam), Fars, Khuzestan 3 , sulla costa orientale dell'Arabia, nel Bahrein e nell'Oman; essendo penetrato fino al Slstan 4 (Afghanistan), aveva raggiunto anche la Cina 5 . Dopo i nestoriani, la comunità religiosa più consistente della Babilonia era rappresentata dagli ebrei 6 . Essi costituivano la maggioranza nella provincia meridionale compresa tra l'Eufrate
e il Tigri (Sawad), in cui una rete decisamente avanzata di canali di irrigazione consentiva un'intensa valorizzazione del suolo. Perciò quest'area era rinomata per la sua fertilità, i suoi giardini e i suoi frutteti. Gli ebrei, stanziati soprattutto sulle rive del Tigri e dell'Eufrate, costituivano anche alcuni nuclei disseminati nel territorio dell'attuale Iraq, in Siria e fino alle pendici dei monti Zagros. Benché meno numerosi dei nestoriani e degli ebrei, i cristiani monofisiti (o giacobiti) 7 costituivano comunque importanti comunità, specialmente in Mesopotamia, nella regione della Jazira, compresa tra l'Armenia e la Siria, e nei dintorni della città di Tikrit, sul Tigri (Assiria), sede del primate monofisita d'Oriente. Culle di una civiltà fondata su una fiorente economia sia rurale che urbana, queste regioni densamente popolate ospitavano città prospere, nelle quali operavano attivamente mercanti e artigiani la cui abilità conferiva agli oggetti, tanto di uso quotidiano quanto ornamentali - tessuti, forgiati, cesellati o modellati che fossero - la più splendida delle forme. La vita spirituale si svolgeva all'interno delle sinagoghe, delle chiese e dei monasteri, mentre i giuristi codificavano le basi di un'organizzazione civile che consentiva ai cristiani e agli ebrei della Persia di governarsi secondo la propria giurisdizione. Ogni comunità religiosa possedeva infatti molteplici scuole e accademie, in cui letterati, eruditi e teologi avevano modo di approfondire le loro conoscenze e di trasmettere il loro sapere. Di fronte al potente Impero persiano si stendeva l'Impero bizantino, i cui lembi orientali andavano dai confini desertici della Siria e della Palestina sino al Nord Africa. In queste province, una serie di conflitti dogmatici minavano il cristianesimo, divenuto religione di Stato in seguito alla conversione di Costantino (337). Mentre i nestoriani si rifugiavano in Persia, il dogma monofisita si diffondeva in Egitto, in Siria, in Mesopotamia, in Armenia. Sebbene interamente cristianizzati, i territori bizantini ospitavano tuttavia una foltissima comunità ebraica, disseminata un po' ovunque nelle regioni mediterranee, ma concentrata prevalentemente in Palestina (Galilea, Samaria, Giudea), in Siria e in Egitto.
Queste popolazioni, di carattere essenzialmente rurale, sfruttavano in modo intensivo le valli del Nilo, del Giordano e del Litani 8 , le aree montuose e collinari della Palestina, del Libano e della Siria, le oasi dell'Egitto, del Negev e della Transgiordania. Densamente popolate, queste zone erano tra le più fertili dell'epoca, nonostante la povertà di alcuni suoli. Agli abbondanti raccolti dei campi si aggiungevano i prodotti della frutticoltura e dell'allevamento, che garantivano i rifornimenti alimentari ai numerosi borghi come alle città, veri e propri fari di civiltà e di cultura, tra cui brillavano soprattutto Gerusalemme, Alessandria, Cesarea e Antiochia, che irradiavano del loro splendore il mondo latino-bizantino. La magnificenza dell'architettura urbana, l'ingegnosità e l'abilità degli artigiani, il genio degli artisti e il fervore delle dispute intellettuali rispecchiavano le molteplici esigenze di una folta e variegata popolazione cittadina, formata da letterati, filosofi, giuristi, teologi, eruditi o commercianti, le cui attività si dispiegavano lungo tutto l'arco del Mediterraneo e giungevano fino alle Indie. Alla vigilia della conquista islamica le civiltà mediorientali e nordafricane, nonostante i sanguinosi conflitti religiosi da cui erano tormentate, presentavano una certa omogeneità; eredi della cultura ellenistica, esse avevano incorporato attraverso il cristianesimo i valori spirituali del giudaismo. Sebbene le lingue ufficiali degli Imperi bizantino e persiano fossero rispettivamente il greco e il pahlavi 9 , le popolazioni autoctone della Babilonia, della Mesopotamia, della Siria e della Palestina parlavano e scrivevano in aramaico, un idioma vernacolare, liturgico e letterario impiegato nella stesura di testi giuridici come il Talmud e nella redazione delle opere storiografiche e teologiche delle Chiese nestoriana e monofisita (siriaca). In Egitto le popolazioni indigene usavano il copto, lingua nazionale sia parlata che scritta. Come nella Mesopotamia sasanide, così anche in territorio bizantino l'intensità della vita religiosa e culturale si esprimeva attraverso la presenza di innumerevoli luoghi di culto e la violenza delle dispute e dei conflitti religiosi, che stimolavano la produzione letteraria e artistica. Dalla valle del Nilo a Ctesifonte (Babi-
Ionia), capitale dei sasanidi, gli abitanti indigeni dei territori che sarebbero stati invasi dalle armate arabe erano tra i più civilizzati del tempo. Perfino l'Arabia, nonostante l'isolamento impostole dai suoi deserti, era permeata dalle correnti spirituali che agitavano i suoi potenti vicini: la Persia e Bisanzio. Nella Penisola erano infatti penetrati, lungo le coste dei mari prospicienti l'Egitto o la Persia, dapprima, in epoca antichissima, il giudaismo, e in seguito il cristianesimo nestoriano e monofisita. Numerose tribù ebraiche, immigrate o nate in suolo arabo, coltivavano le oasi del Hijaz, tra cui Ta'if, Yathrib, Fadak, Khaybar, Tayma, Tabùk ecc. 10 . Formate essenzialmente da contadini e artigiani, esse vivevano fra gli arabi pagani, pastori in parte sedentarizzati o mercanti residenti nelle città che assicuravano il traffico carovaniero tra la Palestina, la Siria, la Persia e l'Oceano Indiano. Fuori dalle oasi, la vegetazione desertica dell'Arabia riusciva a sfamare solo le greggi delle tribù nomadi costrette alla transumanza stagionale. Legate tra loro da rapporti di clientela o, come avveniva al Nord e al centro dell'Arabia, unite in potenti confederazioni guerriere, tali tribù erano dedite alle razzie contro le oasi e le carovane. In assenza di un'organizzazione statale e giuridica in grado di regolamentare i rapporti sociali, le relazioni tra i guerrieri nomadi dei deserti e le popolazioni sedentarie delle oasi o delle città erano regolate dalla pratica dell'estorsione o «diritto di protezione» 11 . Le continue incursioni dei nomadi nei territori coltivati della Bassa Mesopotamia e della Siria ai confini dell'Arabia avevano reso necessario, sin dai tempi antichi, un costante controllo di tali confini. Così i bizantini avevano affidato a una tribù araba cristianizzata, i ghassanidi, il compito di contenere nel deserto la spinta nomade, in cambio di regolari sussidi, di un sostegno militare sotto forma di armi e di cavalli, e di alcuni titoli onorifici. I lakhmidi, un'altra tribù araba convertita al cristianesimo, svolgevano le medesime funzioni presso la frontiera meridionale della Persia. Tuttavia la continua pressione da Sud a Nord aveva indotto molte tribù arabe parzialmente cristianizzate a stabilirsi, nel cor-
so delle loro migrazioni periodiche, ai margini dei deserti siriaci e mesopotamici. Progressivamente, in seguito a infiltrazioni lente e costanti, questi pastori nomadi si erano insediati in modo permanente o stagionale sulla riva occidentale dell'Eufrate e ai confini della Siria e della Palestina. Poiché praticavano l'allevamento, in forma semisedentaria oppure nomadica, essi frequentavano i mercati e i borghi limitrofi, conservando stretti rapporti con le tribù sorelle o alleate che si spostavano attraverso il Hijaz o il Najd 12 . Pur facendo da intermediari tra il mondo arabo e le culture stanziali, essi restavano pur sempre elementi allogeni, distinti dalle civiltà mediorientali: le dispute religiose che le infiammavano, così come le grandi correnti culturali che ne alimentavano la creatività, rimanevano loro estranee Il VII secolo inaugurò appunto ima stagione di cruenti fanatismi sullo sfondo delle guerre persiano-bizantine. In Persia il manicheismo era stato soffocato in un bagno di sangue, e nel mondo cristiano la condanna del nestorianesimo da parte del Concilio di Efeso (431), seguita dalla messa al bando del monofisismo decretata dal Concilio di Calcedonia (451), alimentava la guerra tra le Chiese d'Oriente e la Chiesa greca (calcedoniana o melchita). Tali dissensi dottrinali erano inaspriti dalle dispute tra patriarchi per il primato gerarchico delle sedi, per il controllo delle nomine e delle finanze all'interno delle diocesi, nonché per i rispettivi confini. A tali conflitti, fondati su enormi interessi politico-economici, si aggiungevano gli antagonismi nazionali tra le varie etnie cristiane, che contrapponevano i nestoriani di Persia ai monofisiti (o giacobiti) presenti in Armenia, in Egitto (copti) e nei territori aramaici (Siria, Mesopotamia). Deciso ad assoggettare e ridurre all'obbedienza le Chiese d'Oriente, l'episcopato greco ne aveva proibito il culto tramite persecuzioni e confische di chiese, monasteri e diocesi. I tumulti si aggravarono quando Eraclio (610-641) dietro istigazione dei vescovi di Gerusalemme, decretò la conversione forzata degli ebrei (628). Questa misura scatenò in tutto l'Impero un'ondata di torture e di stragi, e accrebbe l'ostilità contro la dominazione bizantina.
Prima dell'offensiva araba, la partita per il potere che si era giocata a Costantinopoli tra l'imperatore Foca (602-610) e il suo generale Eraclio aveva provocato sedizioni nelle file della burocrazia e fra le truppe greche di stanza in Egitto. Per giunta, le rovinose guerre greco-persiane (611-630) avevano sguarnito le frontiere arabe dei due imperi. Quando i beduini islamizzati pianificarono le loro spedizioni contro le città della Babilonia e della Siria, essi reclutarono alleati non soltanto tra i cristiani - nestoriani, giacobiti e perfino melchiti - , ma soprattutto tra gli arabi insediati in quelle regioni, che, passati dalla parte degli invasori, parteciparono ai saccheggi delle città e delle popolazioni fra cui avevano vissuto fino ad allora. In queste distruzioni i persiani e i greci non videro nient'altro che le consuete predazioni dei nomadi, i quali erano soliti prelevare il loro bottino mediante razzie. Ma si sbagliavano: si trattava di jihad.
Origine del «jihad»
L'islam, religione rivelata in lingua araba da un profeta arabo, nacque in Arabia nel VII secolo e si sviluppò in seno a ima popolazione le cui tradizioni e usanze erano influenzate da un particolare ambiente geografico. Per questo, pur mutuando dalle religioni bibliche il nucleo essenziale del loro insegnamento etico, esso incorporò elementi culturali locali, propri dei costumi delle tribù nomadi o parzialmente sedentarie che popolavano il Hijaz. Queste tribù, che costituivano il nucleo militante della comunità islamica, attraverso la guerra le assicurarono il costante sviluppo delle sue risorse e dei suoi adepti. Fu così che nel giro di un secolo gli arabi islamizzati, originari delle regioni più aride del pianeta, ne conquistarono gli imperi più potenti, e al tempo stesso assoggettarono i popoli che avevano dato vita alle civiltà più prestigiose. Il jihad (la guerra santa contro i non musulmani) nasceva dall'incontro tra le consuetudini del grande nomadismo guerriero e le condizioni di vita di Maometto a Yathrib (più tardi Medina),
dov'era emigrato nel 622 sfuggendo alle persecuzioni degli idolatri a La Mecca. Priva di mezzi di sostentamento, la piccola comunità musulmana in esilio viveva a carico dei neoconvertiti di Medina, gli ansar ovvero gli ausiliari. Ma poiché tale situazione non poteva protrarsi, il Profeta organizzò alcune spedizioni volte a intercettare le carovane che commerciavano con La Mecca. Interprete della volontà di Allah, Maometto riuniva in sé i poteri politici del capo militare, la leadership religiosa e le funzioni di un giudice: «Chiunque obbedisce al Messaggero, obbedisce a Dio» (Corano IV,80)15. Fu così che una serie di rivelazioni divine, elaborate ad hoc per tali spedizioni, vennero a legittimare i diritti dei musulmani sui beni e la vita dei loro nemici pagani, e furono creati versetti coranici finalizzati a santificare di volta in volta il condizionamento psicologico dei combattenti, la logistica e le modalità delle battaglie, la spartizione del bottino e la sorte dei vinti. A poco a poco fu definita la natura delle relazioni da adottare nei confronti dei non musulmani nel corso delle imboscate, delle battaglie, degli stratagemmi e delle tregue, ossia dell'intera gamma di strategie in cui si articolava la guerra santa necessaria ad assicurare l'espansione dell'islam. La vita di Maometto è già stata oggetto di molteplici studi e non è il caso di ritornare su di essa. Basti notare che la politica adottata dal profeta arabo nei confronti degli ebrei di Medina, nonché degli ebrei e dei cristiani delle oasi del Hijàz, determinò quella dei suoi successori nei confronti degli abitanti indigeni ebrei e cristiani dei paesi conquistati. Gli ebrei di Medina furono o depredati e cacciati dalla città (sorte toccata ai banu qaynuqa' e ai banu nadir, 624-625), o massacrati, a eccezione dei convertiti all'islam, delle donne e dei bambini, che furono ridotti in schiavitù (come accadde ai banu qurayza, 627) 16 . E poiché tutte queste decisioni furono giustificate mediante rivelazioni di Allah contenute nel Corano, esse assunsero valore normativo e divennero una componente obbligata della strategia del jihad. I beni degli ebrei di Medina andarono a costituire un bottino che fu spartito tra i combattenti musulmani, in base al criterio per cui un quinto di
ogni preda era riservato al Profeta. Tuttavia, nel caso dei banu nadir Maometto conservò la totalità del bottino poiché questo, essendo stato confiscato senza colpo ferire, secondo alcuni versetti coranici (LIX,6-8) spettava integralmente al Profeta, incaricato di gestirlo a beneficio della comunità islamica, la umma. Fu questa l'origine del fay', ossia del principio ideologico, gravido di conseguenze per il futuro, in base al quale il patrimonio collettivo della umma era costituito dai beni sottratti ai non musulmani. Fu nel trattato concluso tra Maometto e gli ebrei che coltivavano l'oasi di Khaybar che i giureconsulti musulmani delle epoche successive individuarono l'origine dello statuto dei popoli tributari, tra i quali il presente studio prende in esame gli ebrei e i cristiani - designati collettivamente come Gente del Libro (la Bibbia) - e gli zoroastriani persiani. Secondo questo trattato, Maometto aveva confermato agli ebrei di Khaybar il possesso delle loro terre, la cui proprietà passava invece ai musulmani a titolo di bottino (fay'). Gli ebrei conservavano la loro religione e i loro beni in cambio della consegna di metà dei loro raccolti ai musulmani. Tuttavia tale statuto non era definitivo, in quanto Maometto si riservava il diritto di abrogarlo quando lo avesse ritenuto opportuno 17 . La umma continuò a ingrandirsi e ad arricchirsi grazie alle spedizioni contro le carovane e le oasi - abitate da ebrei, cristiani o pagani - dell'Arabia e delle regioni di confine siro-palestinesi (629-632). Tali agglomerati, situati a nord di Ayla (Eilat), nel WadI Rum e nei pressi di Mu'tah, erano circondati da tribù arabe nomadi. Quando esse si schierarono con Maometto gli stanziali, terrorizzati dalle razzie, preferirono trattare con il profeta e concordare il pagamento di un tributo 19 . Attingendo a fonti contemporanee, Michele il Siro rievoca quegli eventi: [Maometto] cominciò a radunare delle truppe e a salire a tendere delle imboscate nelle regioni della Palestina, al fine di persuadere [gli arabi] a credere in lui e a unirsi a lui portando loro del bottino. E poiché egli, partendo [da Medina], si era recato più volte [in Palestina] senza subire danni, anzi, l'aveva saccheggiata ed era tor-
nato carico
Alla morte del Profeta (632), quasi tutte le tribù del Hijaz avevano aderito all'islam, in Arabia l'idolatria era stata vinta e le Genti del Libro (ebrei e cristiani) pagavano un tributo ai musulmani. Il successore del profeta, Abu Bakr, represse la rivolta dei beduini (ridda) e impose loro l'adesione all'islam e il pagamento dell'imposta legale (zakat)20. Dopo aver unificato la Penisola, egli portò la guerra (jihad) al di fuori dell'Arabia. Il jihad consisteva nell'imporre ai non musulmani una di queste due alternative: la conversione o il tributo; il rifiuto di entrambe obbligava i musulmani a combatterli fino alla vittoria. Gli arabi pagani potevano scegliere tra la morte e la conversione; quanto agli ebrei, ai cristiani e agli zoroastriani, in cambio del tributo e in base alle modalità della conquista, essi potevano «riscattare» le loro vite e al tempo stesso mantenere la libertà di culto e il sicuro possesso dei loro beni. Nel 640 il secondo califfo, Omar ibn al-Khattab, cacciò dal Hijaz i tributari ebrei e cristiani appellandosi alla dhimma (contratto) di Khaybar: la Terra appartiene ad Allah e al suo Inviato, e il contratto può essere rescisso a discrezione dell'imam, leader religioso e politico della umma e interprete della volontà di Allah. Omar invocò altresì l'auspicio espresso dal profeta: «Nella Penisola Arabica non devono coesistere due religioni» 21 .
Il «jihad»: dogma e strategie
La dottrina del jihad mutua le pratiche razziatorie tipiche dei nomadi, ma mitigandole con una serie di ingiunzioni contenute
nel Corano 2 2 . Furono i giureconsulti musulmani a ratificare in base alla dogmatica coranica le strategie e le tattiche delle operazioni militari legate alle guerre di conquista, il trattamento da riservare ai popoli vinti, il regime fiscale e lo status da assegnare ai territori conquistati (decima, kharaj, fay'). Di tale elaborazione giuridica proponiamo qui un breve spaccato. Scopo del jihad è sottomettere tutti i popoli della Terra alla legge di Allah, rivelata dal suo profeta Maometto. L'umanità è divisa in due gruppi: musulmani e non musulmani. I primi costituiscono la comunità islamica o umma, che possiede i territori del dar al-islam, retti dalla legge islamica, mentre i non musulmani sono gli harbl, ossia i «cittadini del dar al-harb» o «territorio della guerra», designato i n tal modo perché è destinato a passare sotto la giurisdizione islamica o con la guerra (harb), o attraverso la conversione dei suoi abitanti. Secondo il giureconsulto Ibn Taymiyya (XIV secolo), i possedimenti dei non musulmani spettano di diritto ai soli adepti della vera religione. Pertanto il jihad costituisce il mezzo grazie al quale si realizza la restituzione ai musulmani dei beni illegalmente usurpati dai non musulmani 2 3 . Ecco perché all'interno del dar al-harb ogni atto di guerra è lecito ed esente da riprovazione 24 . In quanto guerra permanente, il jihad esclude la nozione di pace ma prevede delle tregue temporanee legate alle contingenze politiche (muhàdana). Queste tregue, che non devono mai durare più di dieci anni, possono essere revocate unilateralmente dall'imam, previa notifica all'avversario. Anche in tale contesto è il jihad a regolare le modalità dei trattati con il dar al-harb, contemplando uno stadio intermedio di non guerra o di vassallaggio. La guerra santa, considerata dai dotti dell'islam uno dei pilastri della fede, è obbligatoria per tutti i musulmani, i quali devono contribuirvi, a seconda delle loro possibilità, con la propria persona, i propri beni o i propri scritti. Il jihad può essere combattuto con mezzi militari, come avvenne all'epoca della grande espansione araba (VII-VIII secolo), continuata più tardi in Europa dai turchi islamizzati. La tattica di guerra prevede ripetuti assalti alle frontiere del dar al-harb da
parte di truppe irregolari, incendi di villaggi, rapimenti di ostaggi, saccheggi e massacri, il tutto al fine di cacciare gli abitanti e facilitare l'avanzata dell'esercito tramite progressivi sconfinamenti territoriali. Le modalità di spartizione del bottino sono regolate da rivelazioni coraniche in base alle quali un quinto di esso spetta al detentore dell'autorità spirituale e politica (l'imam o il califfo). Il jihad può essere condotto anche con mezzi pacifici, quali il proselitismo, la propaganda e la corruzione: quest'ultima consiste nell'elargire gratifiche destinate a coloro di cui si desidera «conquistare il cuore» (ta'llf al-qulub). Il harbt, in quanto abitante del territorio della guerra, è un nemico che non può avventurarsi impunemente nelle terre dell'islam, in cui, secondo la legge religiosa, ogni musulmano è autorizzato a versare il suo sangue e a impadronirsi dei suoi beni. Tuttavia la sua sicurezza può essere garantita dall'amari, ima protezione temporanea che può essergli accordata da qualunque «credente» di entrambi i sessi. Quando una porzione del dar al-harb, in seguito alla vittoria, diventa dar al-islam, i suoi abitanti (harbt) sono considerati prigionieri di guerra. L'imam, in base alle circostanze in cui è avvenuta la conquista, può condannarli al massacro, alla schiavitù, all'esilio, oppure trattare con i loro rappresentanti e concedere loro un patto di protezione (dhimma), che conferisce loro lo status di tributari (dhimmi). Poiché la condizione di dhimmT è il diretto risultato del jihad, essa è legata al contratto che sospende l'originario diritto del vincitore sui vinti, in cambio dell'accettazione da parte di questi ultimi del pagamento di un tributo e della loro sottomissione all'islam, secondo l'esempio degli accordi stipulati dal Profeta con gli ebrei e i cristiani da lui sconfitti. Se collochiamo il jihad, ossia l'insieme delle strategie belliche, nel contesto dell'epoca, osserviamo che l'islam costituì non solo un elemento moderatore rispetto alla barbarie dei beduini, ma anche un enorme fattore di progresso per la loro società. La dhimma infatti, a prescindere dalle sue applicazioni e interpretazioni successive, vietava ormai i saccheggi, i massacri e la riduzione in schiavitù insiti nelle razzie. Anche se nessun vincitore si era mai
macchiato dello sterminio totale dei vinti, resta il fatto che le trattative connesse alla dhimma, erette a principio teologico, costituirono un freno nei confronti delle atrocità della guerra.
Fred McGraw Donner, The Early Islamic Conquest, Princeton University Press, Princeton 1981 pp. 168-169 (ACLS, History E-Book Project, New York 2005). 1
II nestorianesimo è una forma di cristianesimo che prende il nome da Nestorio (381-451 circa), patriarca di Costantinopoli dal 428 al 431, il quale teorizzava la presenza in Cristo di due nature (divina e umana) e di due persone (dio e uomo) distinte, e rifiutava l'unione ipostatica (ossia l'unione delle due nature, umana e divina, in un'unica persona divina). Inoltre sosteneva il predominio in Cristo della natura umana e negava a Maria il titolo di «madre di Dio», che sostituiva con «madre di Cristo»: avrebbe infatti generato solo Gesù, il Cristo-uomo, in cui Dio abitava «come in un tempio». Oggetto di un'aspra controversia, la dottrina fu condannata nel 431 dal Concilio di Efeso, che esiliò Nestorio e ne dichiarò eretici i seguaci, i quali trovarono rifugio in Persia, India, Cina e Mongolia, dando vita alla Chiesa nestoriana [N.d.T.]. 2
Nomi di altrettante province dell'Impero persiano: la prima è quella che ha per capitale la città omonima; la Susiana è il biblico Elam, antica regione corrispondente alla parte sud-occidentale dell'attuale Iran; il Fars, oggi una delle trenta province dell'Iran, situata nel Sud del paese, fu la culla della civiltà e della cultura persiane, che diede il nome alla lingua, il farsi, e al paese stesso (Persia, da Persis, forma greca di Parsa, nome originario della provincia); infine il Khûzestân, anch'esso una provincia dell'attuale Iran, si affaccia sul Golfo Persico ed è separato dall'Iraq dallo stretto dello Shatt al-'Arab [N.d.T.]. 3
Si tratta di una regione posta al confine tra l'Iran orientale e l'Afghanistan occidentale; attualmente la sezione iraniana costituisce, insieme al Belucistan, una provincia dell'Iran. Corrisponde all'antica Drangiana, attraversata nel IV secolo a.C. da Alessandro Magno e in seguito occupata dai saki, tribù nomade del gruppo degli sciti che la chiamò Sakasthàn: di qui il nome odierno [N.d.T.]. 4
François Nau, L'expansion nestorienne en Asie, Annales du Musée Guimet, Hachette, Paris 1914; Michael G. Morony, Iraq after the Muslim Conquest,
5
Princeton University Press, Princeton 1984 1 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2005]. 'Donner, The Early lslamic Conquest cit., pp. 169-170. 7 D monofisismo è una dottrina cristologica che afferma la presenza in Gesù Cristo di una sola natura, quella divina. La teoria, diffusasi nell'Oriente cristiano nel V secolo, fu ritenuta ortodossa dal Concilio di Efeso (449) ma condannata come eretica da quello di Calcedonia (451), che sancì la duplicità della natura e l'unicità della persona di Cristo. I monofisiti rimasero attivi in Siria, Etiopia, Armenia, e in Egitto, dove si divisero in due fazioni: i melchiti e i copti. Questi ultimi rifiutarono l'idea di fusione delle due nature in Cristo incarnato, preferendo quella di unione tra corpo e anima. Oggi si ispirano al monofisismo alcune Chiese orientali, tra cui quella armena, quella copta e quella giacobita. La Chiesa giacobita, meglio nota come Chiesa monofisita di Siria, fu fondata a metà del VI secolo dal vescovo di Edessa Giacomo (Ia'qub) Bar Adai a sostegno del monofisismo moderato, e tuttora esiste in gruppi isolati in Siria e Turchia [N.d.T.]. Si tratta del fiume Leonte, oggi più noto con il nome arabo di al-Lìtanl. Nasce presso la città di Baalbek e percorre la valle della Beka' per poi sfociare nel mar Mediterraneo, a nord di Tiro. Nell'Antichità segnò il confine tra la sfera d'influenza dell'Egitto e quella del regno ittita. Durante la guerra del Libano del 2006 è stato teatro di scontri tra esercito israeliano e militanti di Hezbollah [N.d.T.].
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Nome assunto dalla lingua persiana in epoca sasanide. Attestata prevalentemente in iscrizioni regali e testi religiosi zoroastriani, dopo l'invasione araba dell'Iran la lingua ha subito un'ulteriore evoluzione trasformandosi nel persiano classico (tuttora in uso), che si differenzia dal pàhlavi, cui pure rimane molto vicino, soprattutto nella scrittura e in gran parte del lessico di derivazione araba [N.d.T.]. 9
Hijaz (lett. «barriera») è il nome della parte nord-occidentale della Penisola Arabica, oggi inclusa nell'Arabia Saudita, le cui città (Mecca, Medina, ex Yathrib, e Ta'if) ebbero un ruolo fondamentale nella nascita e nello sviluppo del primo islam. La regione perse importanza quando il centro religioso e politico dell'islam si spostò verso la Siria e l'Iraq. Per secoli fu retta da capi locali (sceriffi) nominalmente soggetti all'Egitto o alla Turchia, e nel 1932 fu annessa al neonato regno dell'Arabia Saudita, fondato da 'Abd al-'Aziz ibn Faysal al-Sa'ud I, come provincia autonoma [N.d.T.]. 11 Donner, The Early lslamic Conquest cit., pp. 20-49; Hugh Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates, Longman, London-New York 1986 1 (2004 2 ), pp. 18-21. 10
12 Regione situata al centro dell'Arabia Saudita, in cui si trova la capitale del paese, Riyad. Strappata all'Impero ottomano da 'Abd al-'Azlz ibn Faysal al-Sa'ud, nel 1932 divenne una provincia dell'Arabia Saudita. Cfr. Xavier de Planhol, Les fondements géographiques de l'histoire de l'islam, Flammarion, Paris 1968, pp. 64-70 [N.d.T.].
Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates cit., pp. 16-17. II generale Flavio Eraclio (575-641), figlio di un esarca di Cartagine, salì al trono di Bisanzio rovesciando l'imperatore Foca in un'epoca di grave crisi, dovuta alla dissidenza monofisita e alle incursioni di avari, persiani, slavi e longobardi. Divenuto imperatore con il nome di Eraclio I (610-641), riorganizzò l'Impero dal punto di vista militare e lo guidò alla riscossa, «comprando» l'alleanza degli avari e sconfiggendo ripetutamente i persiani. Favorì la conciliazione tra ortodossi e monofisiti. Negli ultimi anni di regno dovette affrontare gli arabi che nel 636, invasa la Persia, devastarono Mesopotamia, Siria e Palestina [N.d.T.]. 13 14
''L'edizione di riferimento del Corano adottata per questa e le successive citazioni è G. Mandel (a cura di), Il Corano, IJTET, Torino 2004 [N.d.T.]. 161 banu qaynuqa', i banu nadir e i banu qurayza erano tribù ebraiche insediate nella città-oasi di Yathrib (l'attuale Medina) nel VII secolo, all'epoca dell'egira di Maometto. Yathrib ospitava da tempo gruppi ebraici, forse frutto della primitiva diaspora all'epoca dell'imperatore Tito o di un processo di ebraizzazione delle popolazioni del Hijàz. I banu qaynuqa' erano commercianti, e come tali in proficui rapporti con gli altri mercanti della Penisola Arabica in genere e del Hijaz e di La Mecca in particolare, mentre i banu nadir erano agricoltori o artigiani specializzati nella lavorazione del ferro e dell'oro, e i banu qurayza erano esperti nella concia delle pelli. Con tutte e tre le tribù Maometto concluse il cosiddetto «patto di Medina» nel 623 d.C. Ma ben presto i rapporti tra loro iniziarono a deteriorarsi, e i musulmani accusarono una dopo l'altra le tribù di essere scarsamente leali verso l'islam, annientandole e costringendole a rifugiarsi in Siria o nell'oasi di Khaybar {N.d.T.]. 17 Ibn Ishaq Muhammad ibn Yasar (morto nel 767), Stra rasili Allah (Vita dell'Inviato di Dio), in Alfred Guillaume, The Life of Muhammad: A Translation of Ishaq's Sirat Rasul Allah, Oxford University Press, New Delhi 2004 2 (1955 '), pp. 524-525; El-Bokhari [al-Bukharl] (morto nel 869), Les traditions islamiques (al-Sahih), trad. di Octave Houdas e William Marqais, 4 voli., Leroux, Paris 1903-1914, voi. 2, titolo 41, capp. 8, 9 , 1 1 , 1 7 , e titolo 57, cap. 19 (traduzione italiana parziale in Sergio Noja, Virginia Vacca e Michele Vallaro, Detti e fatti del Profeta dell'Islam raccolti da al-BukharT, UTET, Torino 2003).
Per i trattati stipulati tra Maometto e gli ebrei di Makna (presso Eilat) vedi Abü al-'Abbas Ahmad ibn Jabir al-Baladhurï (morto nell'892), The Origins of the Islamic State (Kitab futüh al-buldan), trad, di Philip Khuri Hitti, 2 voli., Murgotten, New York 1916-1924 1 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2007], vol. 1, pp. 93-94. "Donner, The Early Islamic Conquest cit., p. 109. Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche (1166-1199), trad, di Jean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924 1 (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), vol. 2, pp. 403-404, 413.
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Nota anche come «elemosina legale», la zakût è l'obbligo religioso prescritto dal Corano di «purificazione» della propria ricchezza che ogni musulmano deve adempiere per potersi definire un vero credente. Originariamente era un prelievo sui beni superflui di ciascuno destinato ad aiutare le categorie più svantaggiate - specialmente i poveri, gli orfani e le vedove - , o al sostentamento della comunità musulmana. L'importo attuale della zakat è pari al 2,5% del reddito netto [N.d.T.]. 20
Ibn Ishâq, Sira rasûl Allah cit., p. 525; al-Bukhârl, Les traditions islamiques cit., vol. 2, titolo 41, cap. 17 e titolo 54, cap. 14; vol. 4, titolo 89, cap. 2; Muslim ibn al-Hajjàj, (morto nell'875), Traditions (al-Sahîh), trad, di AbdülHamld Siddïqï, 4 voli., Muhammad Ashraf Press, Lahore 1976, vol. 3, cap. 723 (4366); Antoine Fattal, Le statut légal des non-musulmans en pays d'islam, Imprimerie Catholique, Beirut 1958 1 (Dar el Machreq, Beirut 1995 2 ), p. 85. 21
II jihad è un tema ricorrente nelle fonti islamiche; qui ci limiteremo a citare Bukharl, Les traditions islamiques cit., vol. 2, titolo 56, cap. «De la guerre sainte»; titolo 57, cap. «De la prescription du Quint»; titolo 58, cap. 17, «La capitation»; Muslim, Traditions (al-Sahlh) cit., vol. 3, capp. 704-753, «The Book of Jihad and Expedition»; Joseph Schacht (a cura di), Kitab aljihad (Book of the Holy War) di Abü Ja'far Muhammad ibn Jarir al-Tabarl, Brill, Leyden 1933; al-Shaybânl (morto nell'805), Siyar (The Islamic Law of Nations), trad, di Majid Khadduri, Johns Hopkins Press, Baltimore 1966; Duncan Black MacDonald, «Djihad», EI', vol. 2, pp. 1072-1073; Émile Tyan, «Djihad», EI2, vol. 2, pp. 551-553; Armand Abel, «Dar al-Harb» e «Dar ai-Islam», EI2, vol. 2, pp. 129-131; Adolphe-Marie du Caurroy, Législation musulmane sunnite, rite hanéfi, «JA», 4 a serie, n. 17,1851, pp. 211-25 e 568-591; n. 18, 1851, pp. 290-321; n. 19, 1852, pp. 519-550; 5 a serie, n. 1, 1853, pp. 39-91; n. 2,1853, pp. 471-528; Roger Arnaldez, La guerre sainte selon lbn Hazm de Cordoue, Études d'orientalisme dédiées à la mémoire de LéviProvençal, 2 voli., Maisonneuve & Larose, Paris 1962, vol. 2; Majid Khadduri, War and Peace in the Law of Islam, Johns Hopkins Press, Baltimore 22
1955' (The Lawbook Exchange, Ltd., New Jersey 2007 2 ); Id., The Islamic Conception of Justice, Johns Hopkins Press, Baltimore-London 1984; cfr. Fattal, Le statut légal des non-musulmans en pays d'islam cit., pp. 14-18 e 372-373. Per il periodo moderno vedi Al Azhar University (a cura di), The 4th Conference of the Academy of Islamic Research (1968), II Cairo 1970, pp. 23-250; D. [David Littman] F. [Yehoshafat Harkabi] Green (a cura di), Les juifs et Israël vus par les théologiens arabes: extraits des procès-verbaux de la 4e Conférence de l'Académie de Recherches Islamiques (1968), Éditions de l'Avenir, Genève 1976 3 (1971 '), pp. 56-63 (trad, franc, di Arab Theologians on Jews and Israel: Extracts from the Proceedings of the 4th Conference of the Academy of Islamic Research, 1968, Éditions de l'Avenir, Genève 1971); Sayyed Ruhollâh Khomeyni, Principes politiques, philosophiques, sociaux et religieux de l'ayatollah Khomeiny, estratti di testi, trad, di Jean-Marie Xavière, Éditions Libres-Hallier, Paris 1979, pp. 22-23; Emmanuel Sivan, L'islam et la croisade. Maisonneuve, Paris 1968, pp. 209-219 (si veda la bibliografia); Rudolph Peters, Jihad in Medieval and Modem Islam, «Nisaba» (Religious Texts Translation Series), vol. 5, Brill, Leyden 1977, in particolare la bibliografia pp. 86-90; Id., Islam and Colonialism: The Doctrine of Jihad in Modern History, Mouton, The Hague 1979, con la bibliografia alle pp. 201-225, più due opere che trattano in profondità tutti gli aspetti di questo tema: Jean-Paul Chamay, Principes de stratégie arabe, Paris 1984' (L'Herne, Paris 2003 2 ), e Id., L'islam et la guerre, Fayard, Paris 1986, con le relative bibliografie. 23 Henri Laoust, Le traité de droit public d'Ibn Taymiya, Institut Français de Damas, Beirut 1948, pp. 35-36. "Maurice Gaudefroy-Demombynes, Mahomet, Albin Michel, Paris 1969, p. 521.
Capitolo 2 L'età delle conquiste
La prima ondata d'islamizzazione (632-750) Sotto i primi quattro califfi, Abu Bakr, 'Umar, 'Uthman e 'Ali, e sotto i loro successori omayyadi l'espansione araba progredì sia per terra che per mare. Sbaragliando gli eserciti persiani, i musulmani, guidati da strateghi brillanti e intrepidi, si impadronirono della Babilonia, dell'Elam, della Mesopotamia, dell'Armenia, della Persia e poi si spinsero fino al Sindh (713) e al di là del Syr Darya (751). A ovest, conquistarono tutte le province cristiane del Mediterraneo orientale - Siria, Palestina, Egitto, Nord Africa - , quindi risalirono lungo la Spagna e si fermarono soltanto a Narbona (720) e a Poitiers (732). Dopo la rivolta abbaside (750) i califfi, stremati dai continui scismi religiosi e dinastici e dai ripetuti attacchi degli eserciti bizantini, si limitarono a inviare le proprie truppe a saccheggiare, depredare e fare incetta di bottino ai loro confini, in Anatolia e in Armenia. Ma a Occidente l'espansione islamica proseguì sotto forma di guerra navale. Nel IX e nel X secolo i maghrebini e gli arabi di Spagna devastarono le coste della Francia, dell'Italia, della Sicilia e delle isole greche. Questi scontri tra arabi e bizantini nel Mediterraneo centrale miravano ad assicurare all'islam la supremazia marittima, e al tempo stesso fornivano agli avventurieri l'opportunità di cospicui saccheggi.
L'espansione
terrestre
Verso il 633 le armate arabe, composte da tribù nomadi originarie dello Yemen, del Hijaz e di altre regioni dell'Arabia, invasero la Babilonia e la Siria. La conquista, scaglionata lungo circa un decennio, comportò alcuni decisivi scontri armati, ma soprattutto una serie di razzie e saccheggi a danno dei villaggi e delle campagne. La vittoria finale fu facilitata dall'intervento a fianco dei conquistatori delle tribù arabe che da circa due secoli si erano infiltrate, e talora stabilmente insediate, presso i confini mesopotamici e siro-palestinesi dell'Arabia. Queste tribù, alcune delle quali si erano convertite al cristianesimo, optando o per il nestorianesimo o per il monofisismo a seconda che fossero stanziate in territorio persiano o bizantino, in qualità di vassalle di questi Imperi si assumevano il compito di difenderne le frontiere e di proteggerne le città e i villaggi dai saccheggi dei beduini, che conducevano un'esistenza nomadica nei deserti limitrofi. Recentemente, l'analisi di questa migrazione delle tribù arabe e del loro insediamento nei territori persiano e bizantino ha indotto alcuni storici a sostituire la teoria di una conquista islamica fulminea con quella di un processo graduale spalmato su due secoli: la costante penetrazione del mondo arabo nomade nei paesi caratterizzati da una civiltà stanziale 2 . La disgregazione degli Imperi persiano e bizantino e il crollo delle loro strutture difensive permisero alle tribù nomadi, unificate dall'islam, di invaderne le campagne e di reclutare per i loro raid, tra gli arabi insediati ai margini della Mesopotamia e della Siria, preziosi aiutanti che ben conoscevano la topografia di quelle regioni. Alla morte del Profeta, il califfo Abti Bakr organizzò l'invasione della Siria, un progetto che era già stato elaborato da Maometto. Radunò le tribù nomadi del Hijaz, del Najd e dello Yemen, e raccomandò ad Abu 'Ubayda, responsabile delle operazioni nel Golan (Palestina), di razziare le campagne ma di astenersi dall'assalire le città, non disponendo di adeguati armamenti 3 . Così, nella spedizione del 634 l'intera regione di Gaza sino a Cesarea fu saccheggiata e devastata. Quattromila contadini - cristiani, ebrei e samaritani - , che avevano difeso le loro terre, furono massa-
Sinagoga di Kfar Bar'am (III-VIII secolo), Galilea, Israele. Sull'architrave conservata al Louvre si può ancora leggere l'iscrizione: «Possa la pace regnare in questo luogo e in tutto Israele».
crati. I villaggi del Negev furono depredati da 'Amr ibn al-'Às, mentre gli arabi si riversavano nelle campagne, tagliavano le comunicazioni e rendevano pericolosi gli spostamenti. Le città, tra cui Gerusalemme, Gaza, Giaffa, Cesarea, Nablus e Beit She'an, rimaste isolate, chiusero le loro porte. Nella sua omelia natalizia del 634 il patriarca di Gerusalemme Sofronio deplorava l'impossibilità di recarsi a Betlemme come di consueto poiché i cristiani erano trattenuti con la forza a Gerusalemme, «trattenuti non da legami fisici, ma incatenati e paralizzati dal terrore dei saraceni», la cui «spada feroce, barbara e grondante sangue» li teneva prigionieri in città 4 . In Siria i ghassanidi, tribù araba monofisita, si schierarono con i musulmani. Sofronio, nell'omelia pronunciata in occasione dell'Epifania del 636, si lamentava delle chiese e dei monasteri distrutti, delle città saccheggiate, dei villaggi dati alle fiamme dai nomadi che percorrevano in lungo e in largo il paese, e in una lettera del 636 a Sergio, patriarca di Costantinopoli, menzionava le devastazioni
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compiute dagli arabi 5 . Nel 639 morirono migliaia di persone, vittime della carestìa e della peste conseguenti alle distruzioni. In questa fase occorre distinguere la sorte dei contadini da quella degli abitanti delle città. Le spedizioni combinavano infatti le consuete razzie perpetrate dai nomadi a danno degli stanziali ai nuovi elementi introdotti dai negoziati di capitolazione dei centri urbani. Le campagne, in particolare le pianure e le valli costellate di borgate e di villaggi, venivano regolarmente devastate dai nomadi, che incendiavano i raccolti, massacravano, rapivano il bestiame e la popolazione, lasciando dietro di sé solo rovine. Diversa era la situazione degli abitanti delle città: protetti dalle loro mura, essi potevano difendersi o negoziare le condizioni della resa in cambio di un tributo versato ai capi beduini. Questa distinzione tra regioni rurali e città, cui fanno riferimento le cronache cristiane del tempo, è confermata dai resoconti degli storici musulmani posteriori. Infatti l'esatta registrazione delle modalità di svolgimento delle conquiste arabe costituì un principio essenziale del diritto musulmano fin dalle origini, in quanto determinò non solo lo status e il regime fiscale dei vari territori, ma anche la legislazione applicabile alle popolazioni indigene non musulmane. Se a proposito delle città emergono talora alcune divergenze, le campagne rientrano invece, nella maggior parte dei casi, nella categoria delle «conquiste senza trattato». E nella strategia del jihad l'assenza di trattato autorizza il massacro o la riduzione in schiavitù dei vinti e la spartizione dei loro beni. Questo schema, che si ripetè invariabilmente, quali che fossero i luoghi, i paesi e i popoli conquistati, in entrambe le fasi dell'islamizzazione, quella araba e quella turca, coniugava le abitudini predatorie dei nomadi nei confronti degli stanziali, le regole del jihad e, naturalmente, le pratiche in uso all'epoca. L'attacco alla Babilonia fu sferrato su due fronti, che corrispondevano esattamente alle zone di più forte concentrazione araba: a Sud, nei pressi di al-Ubulla, e un po' più a Nord, sull'Eufrate, nella regione di Hira. Molte tribù arabo-cristiane combatterono a fianco dei persiani 6 , ma altre, pur stabilmente insediate in quei territori, si unirono ai musulmani per saccheggiare
e razziare i villaggi 7 . Il capo di una di esse, i banü 'ijil, arrivò perfino a informare il califfo Omar, che si trovava a Medina, delle lacune della difesa persiana, invitandolo a inviare un esercito sul posto. Alcune tribù dell'Arabia settentrionale, che, approfittando delle debolezze dei persiani, saccheggiavano regolarmente i villaggi lungo l'Eufrate, furono arruolate nelle truppe islamiche. Grazie al supporto arabo locale - attivo soprattutto nella regione centrale e in quella del basso Eufrate - e alle truppe di rinforzo inviate dall'Arabia, i musulmani estesero i loro raid alle campagne e ai villaggi situati nel Sud e al centro dell'Iraq, nei pressi di Mada'in (l'antica Ctesifonte). Dopo la vittoria di Qadisiyya, essi invasero il Sawad (Babilonia) e i paesi che sorgevano lungo il Tigri e l'Eufrate, risalendo fino a Tikrit, sul fiume Tigri, e a Karkisiya, sull'Eufrate 8 . Le loro incursioni erano sostenute da Omar, che da Medina inviava loro rinforzi. I monasteri furono saccheggiati, i monaci uccisi, gli arabi monofisiti massacrati, ridotti in schiavitù o islamizzati con la forza 9 ; nell'Elam la popolazione fu sterminata e a Susa i notabili furono passati a fil di spada. La conquista della Mesopotamia ebbe luogo tra il 635 e il 642. Come quella della Siria, sembra che anch'essa sia consistita in un'operazione congiunta delle armate musulmane e degli arabi già insediati sul territorio. Siamo meglio informati sulla situazione politica egiziana grazie alla cronaca redatta tra il 693 e il 700 da Giovanni, vescovo di Nikiu, località sul Nilo presso l'attuale Damanhür. L'autore, che fu testimone degli eventi, era un rappresentante dell'episcopato giacobita dell'Alto Egitto e deteneva la carica di rettore dei monasteri: era quindi un personaggio sufficientemente importante da comprenderne la complessità 10 . Una guerra religiosa vecchia di dieci anni dilaniava l'Egitto quando le bande arabe vi penetrarono nel dicembre del 639. Alla testa di 4000 uomini, 'Amr ibn al'Às superò al-Arlsh e, dopo un mese di assedio, si impadronì di Pelusium (sul Delta) e poi di Bilbeis; quindi marciò su Babilonia (Cairo Vecchia) continuando al tempo stesso a lanciare spedizioni contro al-Fayyüm. I musulmani conquistarono Behnesà (al-Bahnasa), una città nei pressi di al-
Fayyum, e ne sterminarono gli abitanti 12 . La stessa sorte toccò ad al-Fayyum e ad Aboit. A Nikiu l'intera popolazione venne passata a fil di spada. Poi 'Amr proseguì la conquista dell'Egitto saccheggiando e massacrando. Gli abitanti, terrorizzati, si rifugiarono nelle città abbandonando i loro beni mobili e immobili e il loro bestiame. Il vescovo Giovanni menziona due egiziani che aiutarono i beduini. Uno rivelò a 'Amr la posizione dell'armata greco-egiziana, che fu massacrata presso Aboit, mentre l'altro, un melchita, si unì agli arabi per ripicca, perché il prefetto di Damietta (Dumyat), Giovanni, l'aveva umiliato con uno schiaffo. Atterrita dagli orrori commessi dai beduini, la popolazione egiziana si affrettò a obbedire a 'Amr, provvedendo all'equipaggiamento e alle forniture dell'esercito. Un certo numero di egiziani rinnegarono il cristianesimo e si associarono agli arabi nei saccheggi. Pare che le devastazioni causate dall'invasione musulmana e dalla partenza delle truppe bizantine si inserissero nel confuso contesto di una guerra civile tra egiziani, con annessi regolamenti di conti da parte dei cristiani rinnegati, oltre che tra copti monofisiti e greco-ortodossi. Gli arabi continuarono a lanciare raid, uno dopo l'altro, in Palestina, Siria, Mesopotamia, Persia e Armenia. Le campagne furono razziate, e quanti sfuggivano alla spada andavano a ingrossare la schiera di donne e bambini ridotti in schiavitù da spartirsi tra i soldati, una volta detratta dal «bottino» la quinta parte riservata al califfo. Secondo Michele il Siro, le regioni strappate ai greci venivano sistematicamente saccheggiate: «I tayyaye [arabi] si arricchirono, crebbero di numero e occuparono (i territori) sottratti ai romani [bizantini], abbandonandoli ai saccheggi» 13 . Dopo la resa di Damasco: Omar [ibn al-Khattab] inviò un esercito guidato da Khalid [ibn alWalid] nella regione di Aleppo e di Antiochia. Lì essi provocarono la morte di molte persone. Nessuno poteva sfuggire loro. Per quanto si possa dire sui mali che la Siria ebbe a subire, non è possibile raccontarli tutti perché essi furono troppo numerosi: infatti i tayyayè [gli arabi] furono il grande strumento della collera di Dio. 14
La Palestina fu devastata e saccheggiata 15 . Poi gli arabi passarono in Cilicia, facendo prigionieri i suoi abitanti e deportandoli. Quindi Mu'awiya 1 6 inviò Hablb ibn Maslama in Armenia, all'epoca dilaniata dalle contese tra i vari satrapi. Per suo ordine la popolazione di Euchaita (sul fiume Halys) fu passata a fil di spada; quelli che riuscirono a farla franca furono ridotti in schiavitù 17 . Secondo i cronisti armeni gli arabi, dopo aver decimato gli abitanti dell'Assiria e costretto molte persone ad abbracciare l'islamismo, «entrarono nel distretto di DarOn [a sud-ovest del lago Van], che saccheggiarono e in cui versarono fiumi di sangue. Pretesero il pagamento di tributi e si fecero consegnare donne e bambini» 18 . Nel 642 presero la città di Dvitt e annientarono la popolazione a colpi di spada. Poi «gli ismailiti19 ripresero la via per la quale erano venuti, trascinandosi dietro una moltitudine di prigionieri: in tutto 35.000» 2 0 . L'anno seguente, secondo lo stesso cronista, gli arabi invasero di nuovo l'Armenia, «portando con sé lo sterminio, la rovina e la schiavitù» 21 . Fermatosi in Cappadocia, Mu'awiya saccheggiò tutta la regione, catturò molti uomini e fece un grosso bottino. Poi condusse le sue truppe a devastare l'intera zona di Amorium. Anche Cipro fu razziata e depredata (649); quindi Mu'awiya si diresse verso la capitale Costanza (Salamina) 22 , su cui stabilì il suo dominio con un «grande massacro» 23 . Il saccheggio dell'isola si ripetè una seconda volta. Nel Nord Africa gli arabi fecero migliaia di prigionieri e accumularono un ricco bottino. Mentre le piazzeforti resistevano, «i musulmani erano impegnati a percorrere in lungo e in largo e devastare il paese sguarnito» 24 . Tripoli fu saccheggiata nel 643, Cartagine fu interamente distrutta e rasa al suolo, e la maggior parte dei suoi abitanti venne uccisa. Gli arabi misero a ferro e fuoco il Maghreb, ma ci volle più di un secolo perché riuscissero a pacificarlo e a venire a capo della resistenza berbera. Le guerre proseguirono per mare e per terra sotto i successori di Mu'awiya. Le truppe arabe saccheggiarono l'Anatolia con ripetute incursioni; le chiese furono incendiate e profanate, e tutti gli abitanti di Pergamo, di Sardi e di altre città furono fatti pri-
gionieri. I centri greci di Gangres e Nicea furono distrutti. Le cronache cristiane del tempo parlano di intere regioni devastate, di villaggi rasi al suolo, di città incendiate, saccheggiate e annientate le cui popolazioni furono integralmente ridotte in schiavitù. Come si può constatare, non sempre gli abitanti delle città vennero risparmiati: spesso subirono il massacro o la schiavitù, sempre accompagnata dalla deportazione. Fu il caso dei cristiani di Aleppo, Antiochia, Ctesifonte, Euchaita, Costanza, Pathos (nell'isola di Cipro), Pergamo, Sardi, Germanicea (Kahramanmarafl) 25 e Samosata, per citare solo alcuni esempi. Durante l'ultimo tentativo degli omayyadi di sottomettere Costantinopoli (717), l'esercito arabo comandato da Maslama effettuò una manovra a tenaglia dal mare e da terra, e devastò l'intera regione prospiciente la capitale. L'obbligo religioso di combattere i cristiani comportava uno stato di guerra permanente che quattro volte all'anno - in inverno, in primavera, in estate e in autunno - si traduceva nell'organizzazione di razzie (ghazxva). Queste consistevano talora in brevi incursioni a scopo di saccheggio nei villaggi harbt limitrofi, al fine di accumulare bottino, rubare il bestiame e decimare gli abitanti del villaggio con la schiavitù. Altre spedizioni, guidate dal califfo in persona, richiedevano preparativi militari consistenti. Le province venivano devastate e incendiate, le città saccheggiate e distrutte, gli abitanti massacrati o deportati. I primi califfi abbasidi, alla testa delle loro truppe di arabi e schiavi turchi, continuarono a dirigere personalmente i raid contro l'Anatolia bizantina e l'Armenia. Durante il sacco di Amorium (838), consegnata agli arabi da un traditore musulmano, il califfo al-Mu'tasim fece passare a fil di spada 4000 abitanti; le donne e i bambini furono portati via e venduti come schiavi, mentre i prigionieri greci che non potevano essere deportati furono finiti sul posto. Una rivolta scoppiata fra loro fu punita con lo sterminio di 6000 greci. Nonostante la frammentazione dell'Impero arabo in emirati o province semiautonome, le razzie compiute in nome del califfo per accumulare bottino e schiavi proseguirono, con alterne fortune, nel corso dei secoli. Negli anni 939-940 Sayf al-dawla, celebre
per le sue guerre contro gli infedeli, devastò Mush, in Armenia, e l'intera regione di Coloneia con i villaggi circostanti. Negli anni 953-954 incendiò la zona di Melitene, catturando parte dei suoi abitanti. Due anni più tardi partì «per il territorio greco e vi compì un'incursione, nel corso della quale si spinse fino a Harsan [Armenia] e a Sariha, prese molte fortezze, fece prigionieri di ambo i sessi e costellò il suolo greco di massacri, incendi e devastazioni» 26. Nel 957 Sayf al-dawla incendiò le città della Cappadocia e la regione di Hisn Ziyad (Kharput) in Armenia, riducendo in schiavitù le donne e i bambini. L'emigrazione dei nomadi turkmeni segnò la ripresa del jihad arabo. Nell'XI secolo: «L'Impero dei turchi si era esteso fino alla Mesopotamia, alla Siria, alla Palestina [...]; i turchi e gli arabi erano fusi come un unico popolo» 27 . Per quanto riguarda la parte occidentale del dar al-islam, la Spagna, conquistata nel 712, divenne per secoli il teatro per antonomasia del jihad. Qui le ondate di immigrati islamici, arabi e berberi si erano appropriate dei feudi coltivati dagli abitanti del luogo, tollerati, in base alle circostanze della conquista, in veste di tributari o di schiavi. Ma le diverse tribù arabe che conducevano una vita nomade al Sud (kalb), o al Nord e al centro dell'Arabia (qays), emigrate nel Maghreb e quindi in Spagna, si erano accaparrate le terre migliori, relegando i berberi nelle regioni montuose. Queste ondate successive di immigrati, provenienti dall'Arabia e dai territori conquistati - Mesopotamia, Siria, Palestina - , una volta insediatesi stabilmente in Spagna iniziarono a terrorizzare la Provenza. Risalendo fino ad Avignone, devastarono la valle del Rodano con ripetute razzie. Nel 793 i sobborghi di Narbona vennero incendiati e la sua periferia saccheggiata 28 . Gli appelli al jihad attiravano orde di fanatici che affluivano in massa nei ribat (conventi-fortezze) di cui erano costellate le frontiere ispano-islamiche, e da cui partivano i saccheggi delle città e gli incendi delle aree rurali. Nel 981 la città di Zamora (Regno di Leon) e le campagne circostanti subirono la devastazione e la deportazione di 4000 prigionieri. Quattro anni dopo, anche Barcellona fu incendiata e quasi tutti i suoi abitanti furono trucidati o
ridotti in schiavitù; Coimbra, conquistata nel 987, rimase un deserto per molti anni; Leon fu demolita e le zone rurali limitrofe furono devastate dai raid e dagli incendi. Nel 997 Santiago di Compostela fu saccheggiata e rasa al suolo. Tre anni più tardi, le truppe islamiche misero a ferro e fuoco la Castiglia, e la popolazione catturata durante queste spedizioni fu deportata e ridotta in schiavitù 29 . Le invasioni degli almoravidi e degli almohadi (XI-XIII secolo), dinastie berbere del Maghreb, segnarono la ripresa della guerra santa.
Il «jihad» sul mare
Ben presto gli arabi, avvalendosi delle tecniche di navigazione mutuate dalle popolazioni cristiane sottomesse, portarono le loro devastazioni sulle coste europee. Gli abitanti delle isole di Cipro (649), Cos, Rodi (672) e Creta (674) assaggiarono la spada o subirono la deportazione e la schiavitù. La penisola di Cizico fu saccheggiata (670), e Paros ridotta a un deserto inospitale. Le coste provenzali e italiane furono messe a ferro e fuoco. Dopo l'islamizzazione forzata delle tribù berbere ebraiche e cristiane del Maghreb e il consolidamento della potenza araboislamica, i pirati maghrebini, all'epoca della dinastia degli aghlabidi, si unirono agli arabi di Spagna ed effettuarono numerose spedizioni sulle coste europee. Durante l'VIII, il IX e il X secolo, la Sardegna, la Sicilia, le zone litoranee dell'Italia e della Provenza, e, nel Mediterraneo orientale, le Cicladi, le regioni del monte Athos e dell'Eubea e le coste greche furono spopolate dalle razzie. Una volta sbarcati a Creta (827 o 828), gli arabi di Spagna devastarono l'isola per dodici giorni, riducendo in schiavitù la popolazione di 29 città e risparmiando una sola località, in cui i cristiani poterono conservare la loro religione. Passati nell'isola di Egina (golfo di Corinto), sterminarono o deportarono come schiavi tutti gli abitanti; in Italia, dopo avere conquistato Bari (842), poi Messina (843) e Modica (844) in Sicilia, gli arabi assediarono Roma (846). Durante la spedizione dell'852-853 contro le città siciliane di
Enna, Catania, Siracusa, Noto e Ragusa, il tunisino al-'Abbas «raccolse del bottino in tutti quei territori, li devastò e li bruciò» 30 . E>urante la spedizione estiva in Sicilia dell'853-854, al-'Abbas «distrusse i raccolti dei cristiani e inviò distaccamenti in tutte le direzioni»31. Dopo un assedio di sei mesi, gli abitanti di Butera si impegnarono a consegnargli 6000 prigionieri, che egli trascinò via con sé. Ogni anno le messi venivano devastate, i villaggi incendiati e distrutti, le città conquistate e ridotte in macerie. Nel corso della spedizione dell'857-858, gli abitanti di Cefalù (Sicilia) ottennero la pace impegnandosi ad abbandonare la città e a lasciarla in balia dei musulmani, che la distrussero. Nell'878, dopo un assedio durato ben nove mesi, Siracusa capitolò: «Migliaia dei suoi abitanti furono uccisi, e il bottino raccolto fu tale quale non se n'era mai visto in nessun'altra città. Solo pochi uomini riuscirono a fuggire» 32. Dopo il saccheggio, i maghrebini distrussero la città. Nel 902 gli abitanti di Taormina furono falcidiati a colpi di spada 33 . Questo schema generale, fatto di devastazioni, distruzioni, massacri e deportazioni degli abitanti prelevati dalle città e dalle campagne, fu applicato a tutti i territori conquistati in Asia, in Africa e in Europa. Gli esempi citati illustrano una situazione generale assai ben documentata dalle cronache contemporanee - siriache, greche, arabe - in quanto si ripetè regolarmente per anni, anzi, per secoli, in occasione delle razzie stagionali. Tali cronache, più volte pubblicate e tradotte e ben note agli storici, attestano chiaramente, senza alcun margine di dubbio, che le regole del jihad relative al bottino, al quinto, al fay', ai raccolti e alla sorte delle popolazioni vinte (conversione, massacro, riduzione in schiavitù o tributo) non rimasero affatto i vaghi principi di un trattato teorico sulla guerra partorito da un oscuro teologo. Gli arabi, spinti dalla loro fede profonda e dalla convinzione di appartenere a un popolo d'élite superiore a tutti gli altri (Corano 111,106), le applicarono con la sensazione di compiere un dovere religioso e di obbedire alla volontà di Allah. Tuttavia è bene precisare che il massacro o la riduzione in schiavitù dei vinti, l'incendio, il saccheggio, la distruzione, l'imposizione di un tributo erano procedure attuate da tutti gli eser-
citi - fossero essi greci, latini o slavi - nel periodo in questione. Solo la dismisura, la durata infinita e la sistematicità di tali processi, che vennero addirittura codificati dalla teologia, distinguono il jihad dalle altre guerre di conquista o di rapina.
La seconda ondata d'islamizzazione Malgrado la continua avanzata del jihad in Spagna, nel Mediterraneo e in Asia Minore, l'Impero arabo, benché frammentato, sembrava aver raggiunto il massimo dell'espansione nel X secolo. All'interno di questi territori i cristiani, un tempo maggioritari e potenti, e le consistenti comunità ebraiche, avevano già subito un notevole ridimensionamento. L'islamizzazione dei turchi apportò all'Impero musulmano un'iniezione di forze nuove e potenzialmente illimitate. Sin dal IX secolo questo popolo rozzo e resistente aveva fornito contingenti di schiavi riservati in modo esclusivo alla guardia del califfo abbaside e al servizio militare. L'ideologia e le tattiche del jihad non potevano che esaltare le tendenze guerriere delle tribù turche, che conducevano un'esistenza nomade ai confini asiatici dei territori greci e armeni. Per questo esse le accolsero con il fervore dei neofiti, e, con le loro razzie, facilitarono l'islamizzazione e la «turchizzazione» dell'Armenia e delle province greche dell'Anatolia e dei Balcani, sebbene, a dire il vero, le loro scorrerie sfuggissero al controllo dello Stato musulmano, ledendone spesso gli interessi economici. Ma di fatto l'Impero islamico, nella versione araba come in quella turca, fu fondato dai nomadi. Perciò nomadismo, jihad e islamizzazione appaiono i tre poli interconnessi della geografia umana e dell'evoluzione politica dei territori conquistati. La battaglia di Manzikert (1071) consegnò l'Anatolia orientale alle bande dei selgiuchidi che, fin dal 1021, devastavano l'Armenia. Esse saccheggiarono la regione, la annessero al califfato ed emigrarono in Siria: «Quello fu l'inizio dell'esodo dei turchi in Celesiria 34 e nel litorale palestinese. Essi sottomisero tutte quelle contrade con crudeli devastazioni e saccheggi» 35 . Come i ribat
Guerrieri che assaltano una fortezza, XIII secolo, Iran. Grande piatto «minai» selgiuchide (Galleria d'arte Freer, Washington. Foto: D.R.).
arabi, nei quali i militanti della guerra santa accorrevano per depredare e tormentare le popolazioni non musulmane di frontiera, così a loro volta i confini turchi dell'Anatolia attiravano dall'hinterland islamizzato avventurieri avidi di bottino, anch'essi pronti ad arruolarsi nella guerra santa (detti ghazi, dal termine ghazwa,
«razzia»), I qadi arabi 36 , profondi conoscitori delle regole del jihad, affluivano alle frontiere per istruirli e inquadrarli. Indottrinate da stuoli di teologi, le bande di ghazi, seguite da eserciti regolari composti da schiavi, devastarono l'Armenia, la Mesopotamia e l'Anatolia, in cui varie tribù turche diedero progressivamente vita ad altrettanti emirati. Nel XIH secolo la spinta mongola fece confluire sull'Anatolia nuove ondate di nomadi turchi. Dal suo feudo, la Bitinia, Osman Ghazi (1299-1326), capo di una tribù di turchi oghuz e fondatore dell'Impero ottomano, lanciò le sue bande contro le province cristiane. I suoi successori unificarono sotto il loro dominio gli emirati turchi dell'Anatolia, senza interrompere nel frattempo i raid vittoriosi contro Bisanzio e l'Europa. A tali devastazioni si sommavano quelle causate dagli eserciti latini e bizantini, coinvolti nel groviglio delle alleanze e delle rivalità militari, economiche e dinastiche. A proposito del jihad turco disponiamo di un cospicuo numero di fonti di provenienza assai varia: greche, latine, serbe, bulgare, ungheresi, arabe e turche. Questa pletora di dati contrasta con la scarsità di notizie relative alla fase iniziale delle conquiste arabe: le informazioni al riguardo provengono infatti dall'ambiente giuridico-religioso islamico (hadith), da storici musulmani posteriori agli eventi e da poche fonti contemporanee di origine siriaca, greca e armena. Invece il secondo ciclo d'islamizzazione, per il fatto che si protrasse per sei secoli, ebbe luogo in un periodo più recente (XI-XVII secolo) su un territorio contiguo all'Europa - l'Anatolia e i Balcani - , e conquistò il continente europeo sino a Vienna (1683), fu minuziosamente descritto dai contemporanei. La guerra dei ghazi coniugava la fede religiosa con le razzie finalizzate al bottino e alla cattura dei non musulmani, destinati alla schiavitù o alla richiesta di riscatti. Il jihad che aveva portato all'islamizzazione dell'Anatolia fu proseguito dagli ottomani in Bulgaria (1308-1311), nella Tracia meridionale - dove i raid si succedettero a partire dal 1326 - , nel Sud della Macedonia e sul litorale greco. Le tattiche del saccheggio, della graduale erosione territoriale e dell'accerchiamento furono integrate dalle grandi operazioni militari condotte dagli ottomani - dapprima sotto Suley-
man, figlio di Orkhan 37 (1326-1359), e poi sotto Murad I (13591389) - , in Bulgaria (1371), Macedonia, Peloponneso, Grecia centrale, Epiro, Tessaglia, Albania, Montenegro e Serbia. I cronisti dell'epoca attestano che i turchi facevano prigionieri tutti coloro che non si rifugiavano nelle roccaforti; essi devastavano, saccheggiavano, distruggevano i borghi e i v i l l a g g i r a pendo contadini, donne e bambini 39 . Un testimone dell'inizio del XIV secolo osserva: Mentre la guerra civile logorava Bisanzio, i turchi compivano frequenti incursioni dall'Asia per mezzo di navi monoremi e triremi, penetrando impunemente in Tracia, soprattutto nella stagione della mietitura, rubando il bestiame, riducendo in schiavitù donne e bambini e causando danni tali che queste regioni restavano poi spopolate e incolte.40 Nel 1390 Bayazrd I inviò una flotta a incendiare Chio e i villaggi circostanti, le isole del Mar Egeo, l'Eubea e una parte dell'Attica 41 . Egli distrusse tutti i borghi e i villaggi tra la Bitinia e la Tracia nei dintorni di Costantinopoli, e ne deportò l'intera popolazione. Nel corso delle sue spedizioni in Serbia (14101413), Musa saccheggiò le campagne, «portò via i giovani più robusti e fece passare a fil di spada tutti gli altri, e conquistò tre piccole città, in cui non risparmiò nessuno degli abitanti» 42 . Ridusse in cenere anche i borghi e i villaggi circostanti Costantinopoli. Potendo contare su un esercito intrepido e su notevoli statisti, gli ottomani seppero trarre vantaggio dalle divisioni e dalle rivalità economiche che dilaniavano le fila cristiane. La conquista definitiva della Penisola Balcanica fu avviata a partire dal 1451 da Mehmed II, e continuata dai suoi successori. Costantinopoli, accerchiata, cadde nel 1453, la Serbia fu occupata nel 1459, la Bosnia e l'Impero di Trebisonda nel 1463, l'Erzegovina nel 1483. L'espansione turca proseguì in Europa con la conquista della Valacchia, della Moldavia e dell'Ungheria orientale, e si fermò a Vienna nel 1683 e in Polonia nel 1687.
Se si eccettuano le differenze dovute alle specifiche circostanze spaziali, storiche, sociali, le due ondate dell'espansione musulmana - la sua versione araba, iniziata nel VII secolo, e la sua variante turca, di quattro secoli posteriore - presentano notevoli affinità: «I turchi e gli arabi erano fusi come un unico popolo», osserva Michele il Siro. Prima di invadere l'Anatolia, infatti, alcune tribù turche si erano già insediate nelle province arabe, ossia in Armenia, in Mesopotamia, in Palestina, in Siria ed Egitto: «Queste costituivano l'Impero dei turchi nel cuore dei territori arabi» I grandi conquistatori arabi e turchi misero in atto le stesse strategie militari e le stesse politiche di consolidamento del potere islamico. Tale continuità deriva dal fatto che le loro conquiste rientravano nella comune ideologia del jihad e nel comune apparato amministrativo e giuridico della shan'a. Un'uniformità che sfida il tempo e si adatta ai diversi popoli e luoghi, poiché si inscrive nella coerenza interna di una teologia politica. Nel corso delle loro operazioni militari, i turchi applicarono ai popoli vinti le regole del jihfid, elaborate dagli arabi quattro secoli prima e registrate dal diritto religioso islamico. Anche qui si riscontra un'identità e una continuità tra la sorte delle popolazioni sconfitte dalle armate arabe e quella dei popoli assoggettati in Asia Minore e in Europa dai turchi. Lo storico bizantino Ducas (XV secolo) scrive: I turchi, più di ogni altro popolo, amano i saccheggi e le guerre. Essi lo manifestano già nei loro rapporti reciproci, figuriamoci nei confronti dei cristiani! [...]. I turchi avanzano a piedi fino al Danubio per asservire i cristiani. Essi invadono una provincia a decine di migliaia, penetrandovi c o m e briganti, e si dileguano una volta che l'hanno saccheggiata. Tali incursioni hanno tramutato in deserto l'intera Tracia, fino alla Dalmazia. Hanno decimato gli albanesi, che pure conservano una popolazione numerosissima. In conclusione, i turchi hanno annientato i valacchi, i serbi e i bizantini. Quando sottomettono i popoli, in conformità alla loro legge danno la quinta parte del bottino al loro sultano. Così essi assegnano la quinta parte, che è spesso la migliore, alle autorità. Inoltre, quando
i rappresentanti del potere scorgono un prigioniero giovane e forte, lo acquistano a un prezzo irrisorio e lo dichiarano schiavo dello Stato. Il sultano chiama questi orfani «le sue nuove truppe», o, nella sua lingua, i «giannizzeri».44 Speros Vryonis ha analizzato i processi della conquista turca dell'Anatolia bizantina 45 . Per il secondo ciclo d'islamizzazione rinviamo dunque il lettore a questo minuzioso studio, dal quale emerge l'affinità tra le strategie e le procedure militari turche e quelle arabe.
La nascita e il consolidamento dello Stato musulmano In base alle più recenti teorie, sembrerebbe che l'invasione arabo-islamica dei territori limitrofi all'Arabia - Siria, Iraq, Palestina - sia stata un processo scaglionato nel tempo, che nella fase decisiva, la conquista, si compì a due livelli. Il primo, menzionato dalle fonti, è quello delle invasioni dei nomadi, dei saccheggi, delle distruzioni. Il secondo è quello dei negoziati condotti dai leader arabi con i rappresentanti delle popolazioni delle diverse città o province, impazienti di sbarazzarsi degli invasori che, con il sostegno degli arabi locali, dilagavano nelle campagne. Tali rappresentanti - governatori laici o autorità religiose (patriarchi, vescovi) - ottenevano, in cambio del versamento di un tributo, il rispetto della vita, dei beni e delle istituzioni civili e religiose dei popoli sedentari. I trattati, che variavano a seconda delle situazioni locali, incorporavano pratiche fiscali e amministrative precedenti e assicuravano la continuità degli Stati bizantino e persiano malgrado il crollo politico e militare di questi Imperi 46 . I primi quattro califfi (632-661), ossia Abu Bakr, Omar ibn alKhattab, 'Uthman e 'Ali, assorbiti dalle conquiste, permisero agli autoctoni di amministrare i paesi occupati sotto il controllo dei governatori militari arabi. Si trattava di un compromesso conveniente per i rappresentanti dei popoli vinti che avevano negoziato la resa delle città o delle regioni assediate dagli arabi. Alcuni vi
scorsero perfino dei vantaggi: i cristiani monofisiti ad esempio, che erano stati perseguitati dai greco-ortodossi, si rallegrarono della partenza dei loro oppressori. Il loro clero interpretò la disfatta e l'umiliazione di Bisanzio come un castigo divino: Il Dio delle vendette [...], vedendo la perfidia dei romani [bizantini], che, ovunque dominassero, saccheggiavano crudelmente le nostre chiese e i nostri monasteri e ci condannavano senza pietà, fece venire dalla regione del Sud i figli di Ismaele, per liberarci attraverso di loro dalle mani dei romani. 4 7
Quest'osservazione personale di un patriarca giacobita ellenofobo che vive e scrive nel XII secolo, anche se in parte corrisponde a verità, non dev'essere interpretata come la trascrizione letterale di un'opinione diffusa sei secoli prima. In ogni caso, vi furono delle resistenze e delle rivolte locali, e l'invasione araba, con tutto il suo carico di devastazioni, fu percepita come una calamità. Persiani, siriaci ed egiziani, assorbiti dai propri conflitti con Costantinopoli, ignoravano gli sconvolgimenti religiosi verificatisi in Arabia. L'islam sembrava ai più ima delle tante eresie ebraiche o cristiane che nascevano in quell'epoca travagliata dalle guerre di religione. I fogli sparsi del Corano 48 , redatti in arabo, non erano ancora stati assemblati; per giunta, pochissimi orientali conoscevano quella lingua. Quanto al jihad, i contemporanei lo assimilavano alle consuete razzie degli arabi, i quali in genere, dopo averle effettuate, si ritiravano nel deserto portando con sé il loro bottino. Per questo il principe di Nihavand (Elam), ricevendo al-Mughira, capo delle operazioni militari arabe in Persia, gli disse che egli comandava «un gruppo di arabi spinti fino a noi dalla fame e dalla miseria». «Se volete - proseguì - vi fornirò delle provviste, e poi ve ne tornerete indietro.» Al che, al-Mughira replicò che essi combattevano perché un profeta uscito dal loro popolo aveva portato loro una rivelazione e promesso loro una vittoria che li avrebbe resi padroni di quei luoghi, in cui egli vedeva una ricchezza e un lusso tali «che coloro che mi seguono non ne vorranno sapere di ritirarsi prima che siano divenuti loro» 49 .
In genere, in cambio di un tributo equivalente alle imposte riscosse da Bisanzio o dallo Stato persiano, ma ormai versate a Medina, le popolazioni indigene zoroastriane, cristiane ed ebraiche conservavano l'autonomia religiosa e amministrativa. I loro rispettivi leader le rappresentavano presso il califfo, e ricevevano un diploma d'investitura che sanzionava la loro autorità. Così, l'eclissi del potere politico bizantino o persiano ebbe per effetto il rafforzarsi dell'egemonia esercitata sui popoli soggetti all'islam dalle rispettive gerarchie religiose, che ora assommavano in sé i poteri temporale e spirituale. I compiti spettanti ai funzionari civili - riscossione delle imposte e amministrazione della giustizia - toccavano ormai al clero. Responsabile del tributo collettivo, che ripartiva poi tra il suo gregge, il patriarca nominava i vescovi e controllava le finanze della comunità. Insomma, la sostituzione del potere politico e civile bizantino o persiano con il dominio islamico aumentava l'influenza delle Chiese autoctone sulle loro comunità e accresceva la loro potenza economica. Anche la classe dei funzionari trasse profitto dal mutamento di regime: una volta partiti i greci calcedoniani, gli indigeni monofisiti, i nestoriani e gli ebrei subentrarono loro nell'amministrazione e presso i governatori arabi. All'inizio della conquista, i cristiani gestivano e controllavano tutti gli affari di Stato nei paesi da poco passati sotto la dominazione islamica. Sembra si fosse instaurata una sorta di simbiosi e di collaborazione tra gli occupanti musulmani, all'epoca ancora minoritari, e la maggioranza cristiana, tra l'apparato militare arabo e l'amministrazione locale. A quel tempo i popoli orientali sottomessi usavano ancora le loro lingue nazionali - l'aramaico (Iraq, Mesopotamia, Siria, Palestina), il copto (Egitto), il pahlavi (Persia) - , e le basi del dominio arabo restavano precarie. Per questo i califfi e i loro delegati, nonostante la loro ripugnanza, dovevano ricorrere ai servigi degli amministratori indigeni ebrei o cristiani, una situazione che rischiava di compromettere la durevolezza del loro potere. Divenne quindi imperativo consolidare la leadership politicomilitare islamica con un incremento della popolazione araba e l'apporto stabilizzante della legislazione musulmana; il potere legisla-
tivo andò infatti a completare, rafforzare e strutturare quello politico-militare con una serie di misure adottate progressivamente. Queste due fasi, che corrispondono grosso modo al periodo dell'arabizzazione attuata dagli omayyadi e a quello dell'islamizzazione realizzata dagli abbasidi, assicurarono definitivamente il controllo arabo-islamico sulle terre e le popolazioni conquistate. In effetti l'epoca posteriore alla conquista fu caratterizzata da un'intensa colonizzazione araba, imposta da esigenze strategiche: infatti, se da un lato la prosecuzione del jihad procurava un cospicuo bottino e cementava la solidarietà islamica, dall'altro queste guerre in zone molto lontane indebolivano la presenza militare araba nei paesi conquistati. Per ovviare temporaneamente a tale rischio, Omar, e soprattutto 'Uthmàn, ricorsero a una politica di arabizzazione, continuata dai loro successori. Gli aspetti di tale strategia - organizzazione militare, origine e luoghi di insediamento delle tribù emigrate - sono stati accuratamente studiati da Fred McGraw Donner per quello che riguarda Siria e Iraq50. Qui ci limiteremo a esporne sinteticamente le conseguenze per le popolazioni locali. La continua migrazione di intere tribù con il loro bestiame tribù originarie di diverse regioni dell'Arabia, e spesso tra loro nemiche - nelle città e nelle campagne, che erano tra le più fertili e le più densamente popolate, creava non solo problemi di sistemazione, ma anche di sovvenzioni e di convivenza con le popolazioni locali, in quanto i nomadi erano ostili alle attività agricole e urbane. Questi flussi migratori, opportunamente controllati dall'amministrazione militare araba, furono incanalati in ben precise regioni: alcune tribù raggiunsero i luoghi di insediamento militare, come Bassora e Kufa in Iraq, al-Fustat in Egitto ecc.; ad altre furono assegnate vaste tenute coltivate dagli abitanti del luogo, ridotti alla condizione di schiavi o di servi della gleba (Iraq, Egitto, Spagna, Maghreb). In Palestina e in Siria, le tribù dello Yemen e i nomadi del Hijaz si insediarono nelle città e nelle campagne, dove si impossessarono di case e di terre. Gli immigranti percepivano sovvenzioni annuali (gli 'atà), prelevate dalle imposte pagate dalle popolazioni indigene e graduate dallo Stato musulmano sulla base dei servigi resi alla causa della guerra santa.
Quest'arabizzazione ebbe effetti disastrosi sulle popolazioni locali, in quanto la confisca delle terre e l'appropriazione di case e villaggi da parte degli invasori non si compirono senza abusi o spoliazioni. Da tale emigrazione scaturirono quattro conseguenze di fondo: 1. l'intera superficie dei paesi conquistati fu confiscata da una tribù originaria di La Mecca, il cui controllo militare si esercitava attraverso le tribù arabe nomadi; 2. l'emigrazione in massa degli arabi in paesi nei quali fino ad allora avevano costituito, rispetto agli abitanti indigeni, nient'altro che esigue minoranze stanziate alla periferia dei deserti, generò un'anarchia endemica. Infatti le modalità di spartizione del bottino - terre e uomini - tra tribù da una parte e Stato arabo dall'altra, o tra le tribù stesse, suscitarono conflitti permanenti che, dalla Spagna all'Armenia, insanguinarono l'Impero arabo; 3. in questo periodo di arabizzazione del Medio Oriente, le lingue locali furono proibite nell'uso amministrativo dal califfo 'Abd alMalik (685-705), e sostituite dall'arabo; 4. l'emigrazione di tribù nomadi, le cui abitudini predatorie e guerriere erano corroborate dall'ideologia del jihad e dalle vittorie ottenute, in paesi caratterizzati da civiltà stanziali, accrebbe l'instabilità, i saccheggi e la desertificazione delle zone coltivate. I raid degli invasori contro le popolazioni locali, la sola forza lavoro soggetta a imposte, assunsero una portata così catastrofica che le entrate dello Stato omayyade diminuirono notevolmente. I governatori delle province dovettero assicurare protezione ai contadini, e al tempo stesso ricondurre all'obbedienza con le armi le tribù che si erano indebitamente appropriate di terre, o che rapivano gli abitanti del luogo in cambio di un riscatto, mentre ai problemi economici si aggiungevano i conflitti dinastici e religiosi interarabi.
L'amministrazione dei territori conquistati II complesso intreccio delle fasi di conquista, di arabizzazione e di stabilizzazione del potere islamico conferisce un carattere anar-
chico e violento a questo periodo, durante il quale nessun luogo conobbe sviluppi omogenei o lineari. Fin dall'inizio dell'espansione araba, infatti, emersero le contraddizioni tra gli interessi a lungo termine dello Stato musulmano, incarnato dal califfo, e l'avidità dei beduini. Il problema concerneva il bottino, costituito dalle terre, dalle popolazioni indigene e dai loro beni. In conformità con le loro abitudini predatorie, le tribù nomadi ne invocavano l'immediata spartizione, seguita dalla riduzione in schiavitù dei vinti, come al tempo del Profeta. Ma la redistribuzione del potere nel clan coreiscita, in cui emergeva la borghesia mercantile e carovaniera di La Mecca, sostituì a tali pratiche la nozione di uno Stato islamico a cui spettava il monopolio delle ricchezze derivanti dal bottino di guerra, che in seguito esso concedeva alle tribù arabe sotto forma di tenute (iqta') o di sussidi (atà)5'. Preoccupato di imporre questa politica amministrativa e fiscale ai nomadi, il potere fece ricorso al Corano e conferì valenza normativa alle decisioni del Profeta. A poco a poco si costituì un'enorme raccolta, che registrava le parole e gli atti attribuiti a Maometto. Tali detti sacri (hadtth), tramandati da una catena di «trasmettitori» (isnad), furono ridotti e trascritti nel corpus della Tradizione (sunna); l'opera fu completata verso la fine del IX secolo. Le diverse interpretazioni della sunna furono poi codificate dalle quattro principali scuole di diritto musulmano ortodosso (hanafita, malikita, sciafi'ita e hanbalita). L'insieme di questi testi costituisce la shart'a. In tale contesto si colloca la ricerca dei criteri della giustizia da parte delle embrionali istituzioni giuridiche e amministrative dello Stato islamico, ansioso di legittimare il suo controllo fiscale sui territori e sui popoli conquistati. Sul piano politico, la giustizia si concretizzò nel determinare le modalità di assegnazione e spartizione tra i musulmani dei beni conquistati con il jihad, e si incarnò nella rigorosa applicazione delle prescrizioni religiose riguardanti da un lato i diritti e i doveri della umma immigrata, dall'altro quelli dei dhimmi indigeni, la cui religione era tollerata in funzione del loro ruolo contributivo. I giuristi dell'epoca abbaside si ispirarono al Corano e alla Tradizione per definire lo status dei dhimmi, autoctoni non musul-
mani che avevano negoziato mediante trattati i loro diritti nei paesi divenuti dar ai-islam. Tale status, conosciuto anche come «patto di Omar», è attribuito dai cronisti arabi ora a Omar I (634644), ora a Omar II (717-720). Gli elementi del regime fiscale bizantino e persiano, assorbiti dalle istituzioni islamiche, si concretizzarono nei concetti di jizya (testatico sui non musulmani), kharaj (imposta in natura o in denaro sulle loro terre) e fay' (beni dello Stato) 52 , che furono tutti inseriti in una concezione teologica della guerra di conquista: il jihad. Questi giureconsulti si impegnarono a discriminare, nel colossale bottino costituito dai paesi e dai popoli sottomessi, tra i beni dello Stato (fay') e quelli delle tribù che avevano partecipato al jihad. Essi adottarono una classificazione fiscale delle terre conquistate funzionale alle modalità della conquista e ai trattati di resa, autentici o fittizi che fossero. Fu dunque il diritto di conquista a determinare la categoria fiscale da applicare a un territorio (decima o kharaj) e a regolare lo status dei suoi abitanti. Questa classificazione fu attribuita dai giureconsulti medievali al secondo califfo, Omar ibn al-Khattab. Secondo tali giuristi, Omar avrebbe negoziato le condizioni della resa in funzione del tributo versato dai non musulmani, e si sarebbe opposto alla riduzione in schiavitù e alla spartizione immediata delle popolazioni stanziali produttrici di ricchezza, due misure che rischiavano di distruggere la fonte stessa della potenza araba, poiché i beduini non erano né abbastanza numerosi per popolare i nuovi territori, né abbastanza abili per lavorarli. Infatti i loro clan, composti da mercanti carovanieri e da una maggioranza di pastori nomadi, ignoravano le complesse tecniche economico-amministrative proprie di civiltà culturalmente evolute quali quella persiana e bizantina. Per imporre le sue decisioni, il califfo avrebbe invocato quelle prese da Maometto al tempo delle guerre contro gli ebrei di Medina, quando egli aveva confiscato i beni dei banu nadir, classificandoli come fay', per amministrarli a beneficio della umma; quanto agli ebrei di Khaybar, il Profeta li aveva dispensati dalla schiavitù in cambio del tributo imposto sui loro raccolti.
Omar avrebbe fatto riferimento a tali precedenti per decretare che i popoli scritturali 53 vinti, poiché avevano negoziato la loro resa, erano protetti dalla schiavitù e dai massacri dallo stesso Stato islamico, che garantiva la sicurezza delle loro vite, dei loro beni, della loro fede, e si asteneva dall'intromettersi nei loro affari. Questi popoli costituivano il fay' della umma, cioè il bottino che, in quanto appartenente alla collettività, sarebbe stato sottratto alla spartizione individuale e amministrato dal califfo. Si formò così la peculiare categoria sociopolitica e religiosa dei «protetti» o dhimmì. Da allora Omar avrebbe introdotto nel diritto bellico concernente le popolazioni vinte una distinzione giuridica tra il bottino umano, spartito individualmente secondo le modalità della conquista, e i dhimmì, bottino collettivo soggetto al tributo. Per quanto riguarda la terra, egli si sarebbe rifatto al precedente stabilito da Maometto a proposito dei beni dei banü nadir per distinguere tra le prede da spartirsi tra i singoli conquistatori e quelle che costituivano la proprietà fondiaria collettiva dello Stato musulmano. Senza addentrarci in complessi dettagli giuridici e cronologici, ci limiteremo a osservare che queste dispute sui vinti e sui loro beni rispecchiano bene i conflitti del periodo successivo alla conquista. All'interno di tale dibattito concettuale, la sopravvivenza di queste popolazioni prende la forma di un «barcamenarsi» tra la protezione garantita dallo Stato islamico da un lato, e le pratiche predatorie dei nomadi dall'altro. Come hanno sottolineato gli storici moderni, i giuristi medievali proiettavano sui primi secoli dell'egira un'immagine idealizzata, che aveva ben poco a che vedere con la realtà storica. Infatti a quell'epoca, in cui il diritto islamico era ancora a uno stadio embrionale e tutt'altro che uniformemente diffuso nella totalità del dar al-islam, prevaleva l'anarchia e le situazioni venivano decise dalle forze in campo. All'avvento degli abbasidi (750), i musulmani rappresentavano ancora una minoranza all'interno dei folti gruppi di cristiani monofisiti (Egitto, Siria, Mesopotamia) o nestoriani (Iraq). Gli zoroastriani popolavano le città e i villaggi dell'Iran, ed esisteva ancora una consistente comunità ebraica, concentrata prevalente-
mente in Palestina, in Siria e in Iraq, ma anche in Persia, in Egitto, in Nord Africa e in Spagna. Nonostante la forte pressione fiscale esercitata dagli omayyadi, in particolare dal governatore del Sawàd (Iraq meridionale) al-Hajjaj, a danno dei contadini ebrei e cristiani, costretti a lavorare come schiavi o come servi della gleba nei territori confiscati dallo Stato, i non musulmani costituivano ancora la maggioranza nell'Impero arabo. I nuclei arabizzati erano stanziati o nelle zone devastate dai raid in cui si erano insediati i nomadi (Palestina, Siria), o nelle regioni colonizzate (Iraq, Khorasan), oppure nelle sedi dei quartieri militari. La Siria, in virtù del fatto che Damasco venne promossa a capitale degli omayyadi e a sede del governo, conobbe un'arabizzazione più rapida e intensiva. Nonostante le conversioni, incoraggiate dal trattamento fiscale privilegiato riservato ai musulmani, e l'aumento esponenziale di una popolazione servile proveniente dal bottino di guerra o dai raid, la composizione etnoreligiosa del Medio Oriente non si era ancora drasticamente modificata. I complicati processi che avrebbero portato all'inversione degli equilibri demografici e religiosi nei paesi originariamente non musulmani, e poi divenuti dar ai-islam, si sarebbero verificati sotto la dinastia degli abbasidi, nell'arco di oltre due secoli. Sebbene sia estremamente artificioso isolarne gli elementi costitutivi, tanto sono intrecciati a livello sia politico che economico e religioso, tuttavia è possibile distinguere all'interno di tali processi alcuni fattori di trasformazione. La politica di colonizzazione araba inaugurata già da Omar articolata in emigrazione e stabilizzazione dei nomadi nei paesi vinti, erogazione di sussidi alle tribù e arabizzazione del settore amministrativo - preparò la fase seguente: quella dell'islamizzazione. In epoca abbaside l'abolizione delle frontiere tra l'Arabia e le aree caratterizzate da civiltà stanziali - la Persia e il Medio Oriente - favorì la costante penetrazione in esse di gruppi nomadi, o di origine araba, o provenienti dall'Asia islamizzata (curdi, turchi). L'influsso di queste popolazioni bellicose contribuì a diffondere ovunque un'anarchia alimentata da scismi religiosi e dinastici.
Il massiccio afflusso di stranieri, investiti - o in via ufficiale dallo Stato o grazie alle loro ribellioni - del potere politico-militare, relegò le popolazioni indigene non musulmane a un ruolo di mera produttività economica. Ruolo tanto più importante in quanto la crescita della potenza militare della Costantinopoli bizantina stava prosciugando due delle principali fonti di ricchezza dello Stato arabo-islamico: il bottino e gli schiavi. Quest'impoverimento ebbe luogo in un periodo in cui la difesa dei confini e la sicurezza stessa del califfo esigevano il finanziamento ossia l'acquisto, l'invio, il mantenimento e l'equipaggiamento di un esercito composto esclusivamente di schiavi. I problemi economici, la frammentazione dell'Impero e le guerre contro Bisanzio determinarono un inasprimento della pressione fiscale sulle popolazioni indigene non musulmane, e diedero il via a una sistematica persecuzione religiosa, ratificata dalle istituzioni politiche islamiche. Questo periodo (VIII-X secolo) coincise con la crisi iconoclastica, che lacerò il mondo cristiano, e con una recrudescenza dell'intolleranza religiosa bizantina nei confronti dei monofisiti e degli ebrei. Tali conflitti religiosi si riverberavano all'interno di comunità cristiane ed ebraiche indebolite da dissensi dogmatici, da dispute liturgiche e soprattutto da discordie di carattere venale. Di conseguenza, intorno al X e all'XI secolo la mappa etnoreligiosa dell'Impero abbaside appariva completamente modificata. Gli zoroastriani, sterminati o costretti all'esilio dalle persecuzioni religiose, sopravvivevano solo in esigui, insignificanti nuclei sparsi. I copti, i monofisiti siriaci, gli ebrei e i nestoriani, i quali un tempo popolavano a milioni le prospere città e le fertili campagne di immensi territori, erano ridotti, pur in proporzioni diverse, a comunità urbane confinate nei loro quartieri, o a nuclei rurali che sopravvivevano in un clima di incertezza e precarietà. Nonostante una certa fioritura letteraria, filosofica ed economica - di cui parleremo più avanti - in Spagna, in Egitto e in Mesopotamia, questo fu l'inizio del lento declino, o meglio, del graduale sprofondamento delle Genti del Libro nell'universo della dhimmitudine, un fenomeno del quale essi furono al tempo stesso gli attori e le vittime. Erano bastati quattro secoli perché l'insieme
dei processi politici, economici e sociali, con i loro lenti, impercettibili sviluppi, alimentati dalle imprevedibili congiunture nate dal magma della storia, conducessero a questi risultati. Durante il secondo ciclo d'islamizzazione, guidato dai turchi a partire dall'XI secolo, si manifestarono gli stessi rapporti tra nomadi e sedentari. Tuttavia, a quell'epoca lo Stato musulmano disponeva già di un dogma e di istituzioni giuridiche e politiche, che erano state elaborate e fissate durante il cosiddetto periodo classico della civiltà arabo-islamica. Pertanto gli organismi legislativi e governativi degli emirati turchi, in seguito incorporati nell'Impero ottomano, attecchirono rapidamente nei territori conquistati in Anatolia. Come i conflitti etnico-religiosi delle Genti del Libro avevano permesso allo Stato arabo-islamico di consolidare la sua durata grazie alla collaborazione dei loro rappresentanti religiosi, così le lotte dinastiche bizantine e i conflitti tra cristiani favorirono l'espansione turco-musulmana in Anatolia. Le pretese egemoniche del patriarcato greco sulle Chiese slave, armena e monofisita, incoraggiavano le alleanze con i turchi, proprio come si era verificato altrove a causa del dissidio tra papato e patriarcato. Sopraffatti dalle continue guerre e dalla miseria, i contadini dell'Anatolia si univano ai turchi e si convertivano. Le discordie tra i principi cristiani permisero agli eserciti turchi di soccorrere le fazioni rivali e di familiarizzarsi con la topografia dei loro paesi, di cui devastavano i campi e conquistavano le fortezze strategiche. Queste piazzaforti militari divennero centri di islamizzazione intensiva, grazie alla costruzione di moschee gestite da un folto stuolo di qadi e di 'ulama accorsi dalle province arabe. Ondate continue di immigrati provenienti dall'hinterland arabo-musulmano e asiatico, con le loro infiltrazioni, alimentavano il processo di diffusione dell'islam. Le tribù nomadi si riversavano a frotte nelle pianure, accerchiavano i villaggi, tendevano imboscate nelle strade e tagliavano le comunicazioni. Quest'invasione era accompagnata dal movimento in senso inverso delle popolazioni indigene, che abbandonavano i campi infestati dai briganti e affluivano nelle città.
La colonizzazione ottomana dell'Anatolia è quella che conosciamo meglio, grazie alle numerose cronache contemporanee. La terra fu spezzettata in feudi militari, composti di città e villaggi popolati da una moltitudine di schiavi e di contribuenti dhimml, secondo una strategia già messa in atto dagli arabi durante la prima ondata d'islamizzazione, e poi dagli emiri selgiuchidi. In tal modo si formò una classe di piccoli e medi proprietari terrieri musulmani. Questo sistema si sviluppò sotto il regno di Othman (1299-1326), e si consolidò sotto suo figlio Orkhan (1326-1359). In Bulgaria l'insediamento dei turchi nelle guarnigioni militari istituite nelle regioni strategiche decimò, se non cancellò, la popolazione indigena. Le terre più fertili furono assegnate ai musulmani, mentre i contadini cristiani, per sfuggire ai saccheggi, si rifugiavano sulle montagne: un esodo, questo, che diede origine a numerose città 54 . Altrove, fiorenti centri urbani e villaggi furono totalmente distrutti e spopolati, e alcune città divennero esclusivamente musulmane poiché la popolazione indigena si assottigliò o sparì del tutto. I tanti viaggiatori che percorrevano i paesi cristiani da poco islamizzati raccontavano le stesse storie di distruzione che si leggevano alcuni secoli prima nelle cronache siriache. Il motivo di ciò è che le regole politico-religiose del jihad conferivano alle conquiste arabe e turche una complessiva uniformità. Appena i turchi si impadronivano di una provincia, vi insediavano dei giudici (qadT) e degli 'ulamà, convocati dall'hinterland arabo per dare un assetto stabile all'intera amministrazione giudiziaria. Un'ondata di transfughi cristiani - principi sediziosi, governatori, soldati, sacerdoti e rinnegati - attratti dalla munificenza dei sultani e dalla loro potenza militare, preparavano e acceleravano la decadenza e la rovina di quel cristianesimo che abbandonavano. Promossi alle più alte cariche presso la corte ottomana, in qualità di consiglieri, ufficiali, amministratori essi contribuirono alle vittorie turche e condussero ineluttabilmente il loro popolo sulla via dell'asservimento. I cristiani islamizzati, in particolare i greci del XIV secolo, come osserva imo storico moderno:
Rinascendo spiritualmente nel mondo islamico, divennero i suoi più disciplinati, zelanti e abili soldati. Furono loro che assestarono all'Impero bizantino i colpi definitivi, i più letali, gli ultimi. Furono loro i più crudeli persecutori dei loro compatrioti e dei loro ex correligionari. Furono loro che contribuirono nel modo più efficace all'organizzazione, all'ampliamento e al consolidamento dello Stato ottomano.55 Alle corti dei principi serbi, bosniaci, bulgari e greci, come pure all'interno del clero slavo o ellenico, i sultani avevano «conquistato i cuori» finanziando un partito turcofilo che alimentava il pessimismo, predicava l'inevitabilità del trionfo islamico e celebrava i vantaggi economici offerti dai mercati musulmani 56 . Un ulteriore elemento favorì, infine, l'islamizzazione dei territori conquistati, un elemento di ordine psicologico di cui è im-
Basilica di Santa Sofia, VI secolo, Costantinopoli.
possibile sottolineare abbastanza l'importanza: il terrore. La popolazione tentava di sfuggire all'insicurezza prodotta dal dilagare dei nomadi, che tendevano imboscate, uccidevano o rapivano a fini di riscatto gli abitanti dei villaggi, e portavano via donne e bambini. Sotto il regno di Andronico il Giovane (1328-1341) 57 , i turchi infestavano le strade per assalire i passanti 58 , e «compivano corse [razzie] nei territori dell'impero» 59 . Le fonti alludono a più riprese a questo terrore, che impediva alle donne di uscire e agli uomini di recarsi disarmati nei campi, e a un'insicurezza che richiedeva spostamenti collettivi e il ricorso a guardie armate: una situazione che rimase la norma fino al XX secolo in tutti i paesi soggetti alle invasioni nomadi, specialmente in Palestina, Siria e Iraq. Questo terrore favorì le capitolazioni, i tradimenti, la corruzione e l'abbandono delle terre invase da parte delle popolazioni indigene. La relazione simbiotica creatasi tra l'islam e la cristianità nelle terre oggetto di invasioni, dopo la conquista o ancora prima, per il presagio e il desiderio di essa, fu la forza che innescò, nell'arco della storia, il processo permanente di islamizzazione della cristianità. Tutti i popoli dell'Anatolia e dell'Europa che furono sottomessi dalla seconda ondata d'islamizzazione e poterono conservare la loro religione entrarono nella categoria dei dhimmi, in genere definiti raya nell'Impero ottomano. Il loro status sociale era già stato definito nella fase dell'organizzazione politica delle conquiste arabe, e in seguito era stato codificato nella sharT'a. Lo statuto degli ebrei e dei cristiani nell'islam conobbe alcune varianti a seconda dei luoghi e delle epoche, ma nei paesi conservatori come lo Yemen sopravvisse fino al XX secolo. Nel 1856 il sultano ottomano, sotto la pressione delle potenze europee, proclamò l'uguaglianza di tutti i suoi sudditi. In Algeria e in Marocco fu la colonizzazione europea a portare all'abolizione dello status di inferiorità degli ebrei, mentre in Persia toccò alla rivoluzione di Reza Pahlavi, scoppiata nel 1925, sopprimere le discriminazioni religiose. La letteratura giuridica musulmana, i cronisti arabi e non, i consoli e i viaggiatori europei, forniscono un'interessante documentazione sui dhimmi.
1 La prima dinastia califfale, che guidò la umma islamica dal 661 al 750. Fu fondata da Mu'âwiya I della tribù dei banu umayya (di qui il nome), proclamato califfo a Damasco al termine di un sanguinoso conflitto contro il califfo 'Ali. Ottenuto il controllo di tutti i territori arabi ed eletta la Siria a centro del suo potere, Mu'âwiya rese ereditaria la carica, designando il figlio Yazld quale successore, il che non impedì lo scoppio di una grave crisi religiosa e politica alla sua morte, quando i discendenti e i seguaci di 'Ali tentarono invano di riprendere il potere. Lo scontro politico determinò anche uno scisma religioso, che vide i seguaci di 'Ali dar vita alla corrente degli sciiti, in contrapposizione ai sunniti, che riconoscevano l'autorità di Mu'âwiya. I contrasti tra arabi e non arabi e le differenti concezioni dell'isiàm determinarono il carattere fortemente diviso della prima dinastia islamica, che crollò nel 750 davanti alla rivolta guidata dagli appartenenti alla famiglia degli abbasidi, quando Marwân II (744-750) fu catturato e ucciso da Abu al'Abbâs, che si proclamò califfo. L'unico membro della dinastia che scampò al massacro fu 'Abd al-Rahmân ibn Mu'âwiya, che si rifugiò in Spagna dove occupò Cordova e Siviglia, dando vita all'emirato autonomo di al-Andalus [N.rf.T.].
Fred McGraw Donner, The Early Islamic Conquest, Princeton University Press, Princeton 1981, pp. 94-95 e 170 (ACLS History E-Book Project, New York 2005); Moshe Sharon, The Military Reforms of Abu Muslim, Their Background and Consequences, in Moshe Sharon (a cura di), Studies in Islamic History and Civilisation in Honour of Professor David Ayalon, Cana-Brill, Jerusalem-Leyden 1986, pp. 107-112; Abraham N. Poliak, L'arabisation de l'Orient sémitique, «REI», n. 12, 1938, pp. 35-63; Hugh Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates, Longman, London-New York 1986 1 (2004 2 ), pp. 15-21; per l'emigrazione araba in epoca preislamica vedi René Dussaud, La pénétration des arabes en Syrie avant l'islam, Geuthner, Paris 1955; François Nau, Les arabes chrétiens de Mésopotamie et de Syrie du VIl""e au VIIIéme siècle, Imprimerie Nationale, Paris 1933; George Henry Bousquet, Observations sur la nature et les causes de la conquête arabe, «SI», n. 6, 1956, pp. 37-52; Jérôme Labourt, Le Christianisme dans l'empire perse sous la dynastie sassanide (224-632), Lecoffre, Paris 1904; Eliyahu Ashtor, A Social and Economic History of the Near East in the Middle Ages, Collins, London 1976, pp. 11-12 (ed. it. Storia economica e sociale del Medio Oriente nel Medioevo, Einaudi, Torino 1982). 2
'Donner, The Early Islamic Conquest cit., p. 117. ' Félix-Marie Abel, Histoire de la Palestine depuis la conquête d'Alexandre ju-
squ'à l'invasion arabe, 2 voli., Lecoffre-Gabalda, Paris 1952, voi. 2, p. 397 (rist. G. Olms, Hildesheim 2004). 5 Ivi, p. 399; cfr. Sharon, The Military Reforms of Abu Muslim cit., p. 112 e Demetrios J. Constantelos, The Moslem Conquest of the Near East as Revealed in the Greek Sources of the Seventh and the Eighth Centuries, «Byzantion», n. 42, 1972, pp. 329-330. 'Donner, The Early Islamic Conquest cit., p. 185. 7 Ivi, p. 176; Nau, Les arabes chrétiens cit., pp. 100-113. "Donner, The Early Islamic Conquest cit., p. 210. Michael G. Morony, Iraq after the Muslim Conquest, Princeton University Press, Princeton 1984, p. 382 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2005].
9
L'originale greco della Cronaca di Giovanni di Nikiu è andato perduto; del testo etiopico esistono due traduzioni in lingue europee: una in francese, La chronique de Jean, évêque de Nikiou (cura e traduzione di Hermann Zotenberg), Imprimerie Nationale, Paris 1879, disponibile on line al link http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6kl08650z, e una in inglese, The Chronicle of John, Bishop of Nikiu, transi, from Zotenberg's Ethiopie Text by R.H. Charles, Williams & Norgate-Oxford University Press, London-Oxford 1916, hHp://www.tertullian.org/fathers/nikiu2_chronicle.htm [N.d.T.]. 10
Si tratta dell'antica fortezza di Babilonia sul Nilo, la più antica costruzione di II Cairo, che ospita un intero quartiere racchiuso tra le mura, chiamato «Cairo vecchia» o «Cairo copta», da oltre 1500 anni roccaforte della comunità cristiana copta d'Egitto [N.d.T.]. 11
12
Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évêque de Nikiou cit., p. 229.
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche (1166-1199), trad, di lean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924', voi. 2, p. 418 (Culture et civilisation, Bruxelles 1963). 13
"Ivi, p. 421. Ivi, p. 431.
15
Si tratta di Mu'âwiya ibn Abï Sufyân (603-680), fondatore della dinastia omayyade, che regnò a Damasco tra il 661 e il 680. Cfr. nota 1 [N.d.T.]. "Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., p. 431. 18 Edouard Dulaurier, Recherches sur la chronologie arménienne, 2 voli., Imprimerie Impériale, Paris 1859, vol. 1, p. 226. 16
"Gli arabi sono detti così in quanto discendenti di Ismaele, figlio di Abramo e della schiava Agar (Gen 16,15). Dopo la nascita di Isacco, per la gelosia della moglie Sara, Abramo è costretto a scacciare Agar e Ismaele, che si rifugiano nel deserto di Paran. Più tardi Ismaele prenderà in moglie un'egiziana dando origine alla stirpe degli arabi [N.d.T.].
Sebeo (morto alla fine del VII secolo), in Dulaurier, Recherches sur la chronologie arménienne cit., vol. 1, p. 228.
20
Ivi, p. 231. Amorium è l'odierna Ammuriye, una città armena nei pressi di Antiochia; Costanza o Constantia è l'antica capitale di Cipro, l'odierna Salamina di Cipro [N.d.T.]. 21 22
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 442. 'Abd al-Rahmân ibn Muharrtmad ibn Khaldûn, Histoire des Berbères et des dynasties musulmanes de l'Afrique septentrionale, trad. di William MacGuckin de Slane, 4 voli., Geuthner, Paris 1968 2 , vol. 1, p. 210 (ripr. anast. dell'ed. Algeri 1852-1856). 23 21
Kahramanmarafl, nella Turchia sud-orientale, fu fondata dagli ittiti nel 1000 a.C. ca. Prese il nome di Germanicia Caesarea (Germanikeia) all'epoca degli imperi romano e bizantino. Fu chiamata Marafl fino al 1973, quando la Grande Assemblea Nazionale turca aggiunse al nome il prefisso Kahraman, che significa «eroe», in ricordo della vittoriosa battaglia di Marafl contro la legione franco-armena durante la resistenza turca al Traité de Sèvres [N.d.T.]. 25
Abu al-Hasan 'Ali 'Izz al-Dìn ibn al-Athlr (morto nel 1234), in Aleksandr A. Vasil'ev, Byzance et les arabes, 3 voli., Institut de Philologie et d'Histoire Orientales (Fondation Byzantine), Bruxelles 1950, vol. 2, La dynastie macédonienne (867-959), pp. 161-162.
26
"Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 175. ^Évariste Lévi-Provençal, Histoire de l'Espagne musulmane, 3 vol!., Maisonneuve et Larose, Paris 1950-1953 1 (ripr. anast. 1999), vol. 1, La conquête et l'émirat hispano-umayyade (710-912), p. 145. Per il jihad in Spagna vedi Lévi-Provençal, Histoire de l'Espagne musulmane cit., vol. 2.
29
Abu al-Hasan 'Alî 'Izz al-Dïn ibn al-Athlr in Vasil'ev, Byzance et les arabes cit., vol. 1, La dynastie d'Amorium (820-867), pp. 364-368. 30
Ahmad ibn Muhammad ibn al-Idhari (morto alla fine del XIII secolo), in ivi, pp. 376-377. 32 Ibn al-Athîr in ivi, vol. 2, La dynastie macédonienne (867-959), pp. 136-137. 33 Al-Nuwayrï (morto nel 1332) in Ivi, p. 234. Vedi anche George Cable Miles, Byzantium and the Arabs: Relations in Cretes and the Aegean Area, «DOP», n. 18,1964, pp. 1-33; Francesco Gabrieli, Greeks and Arabs in the Central Mediterranean Area, «DOP», n. 18,1964, pp. 57-67. 31
"Celesiria (gr. Koile Syria, «Siria concava») era il nome dato dai greci, e adottato poi dai romani quando ne fecero una loro provincia (Syria Coelé)
alla regione compresa tra le catene del monte Libano e dell'Antilibano, nell'attuale Stato libanese [N.d.T.]. Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, pp. 170-171. II qiïdî o cadì era un magistrato islamico di nomina politica cui toccava in età classica l'amministrazione della giustizia ordinaria [N.d.T.]. 17 Suleyman, in arabo Sulaymân (1316-1357), era il figlio maggiore di Orhàn (Orkhân) I, secondo bey (capo) del nascente Impero ottomano, figlio di Osmân I. Murad I (1326-1389) era il figlio minore di Orhân I, salito al trono nel 1359, al quale va il merito di aver organizzato la tribù dei turchi osmanli in un vero e proprio Impero [N.d.T.]. 55
36
Giovanni Cantacuzeno in Louis Cousin (a cura di), Histoire de Constantinople depuis le règne de l'Ancien Justin, jusqu'à la fin de l'empire, traduite sur les originaux grecs par Mr Cousin, 8 voli., Foucault, Paris 1672-1674, vol. 7, p. 919. 38
Niceforo Briennio, Histoire des empereurs Constantin Ducas et Romain Diogene in Ivi, vol. 3, passim.
39
"Niceforo Gregoras, citato da Dimitur Angelov, Les Balkans au Moyen Âge: la Bulgarie des Bogomils aux Turcs, Variorum Reprints, London 1978, cap. 12, «Certains aspects de la conquête des peuples balkaniques par les Turcs», p. 242. Michele Ducas, Histoire des empereurs Jean, Manuel, Jean et Constantin Paléologues in Cousin (a cura di), Histoire de Constantinople depuis le règne de l'Ancien Justin cit., vol. 8, p. 335. i2Ivi, p. 375. 41
"Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 176. "Michele Ducas in Angelov, Les Balkans au Moyen Âge cit., pp. 260-61. 45 Speros Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1971 1 (1986). 46 Daniel C. Dennett, Conversion and the Poll-Tax in Early Islam, Harvard University Press, Cambridge 1950 (e-book Idarah-i Adabiyat-i Delli, Delhi 2000); Frede Lakkegaard, Islamic Taxation in the Classical Period, Branner & Corch, Copenhagen 1950 (Porcupine Press, Philadelphia 1977); Dominique Sourdel, Janine Thomine-Sourdel, La civilisation de l'islam classique, Arthaud, Paris 1983 1 (1993); Ignaz Goldziher, Le dogme et la loi de l'islam, Geuthner, Paris 1920 (ed. orig. Vorlesungen iiber den Islam, Carl Winters Universitàtsbuchhandlung, Heidelberg 1910; ed. it. Lezioni sull'islam, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000); Gustav Edmund von Grunebaum, L'islam médiéval, Payot, Paris 1962 (ed. orig. Medieval Islam, Univer-
sity of Chicago Press, Chicago 1946); Id., Classical Islam: A History (6001258), Allen and Unwin, London 1970 (ed. orig. Der Islam in seiner klassischen Epoche: 622-1258, Artemis, Zürich-Stuttgart 1966); Joseph Schacht, An Introduction to Islamic Law, Clarendon Press, Oxford 1964 (ed. it. Introduzione al diritto musulmano, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1995); Hamilton Alexander Rosskeen Gibb, Studies on the Civilization of Islam, Routledge & Kegan, London 1962; Reuben Levy, The Social Structure of Islam, Cambridge University Press, Cambridge 1969 [ripr. anast. in Bryan S. Turner (a cura di), Orientalism: Early Sources, 12 voll., Taylor & Francis, London-New York 2000, vol. 12]; William Montgomery Watt, The Formative Period of Islamic Thought, Edinburgh University Press, Edinburgh 1973 1 (Oneworld, Oxford 1998). "Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 412. "Secondo la tradizione islamica il testo del Corano fu elaborato in tre fasi. La prima, che risale all'epoca del Profeta, fu sostanzialmente orale, ma già allora, secondo le sue indicazioni, alcuni scribi scelti da lui trascrivevano i versetti rivelati su tutti i supporti disponibili (scapole di cammello ecc.). Dopo la morte del Profeta (632), e in particolare dopo la battaglia della Yamama (633), in cui morirono oltre 70 persone che conoscevano a memoria il Corano, su suggerimento di Omar fu deciso di riunire i fogli sparsi e formare un testo completo. Questo fu il primo mushaf («insieme dei fogli»), affidato a una donna, Hafsa, figlia di Omar (il futuro secondo califfo). Infine, nel 653 il terzo califfo 'Uthmän, vedendo che, con la dispersione dei musulmani e soprattutto con la diffusione dell'islam in territori non arabofoni, le letture cominciavano a divergere, fece copiare esemplari del Corano a partire dall'originale di Hafsa e le fece distribuire in tutto il territorio musulmano, esigendo che quello fosse da allora in poi il testo di riferimento, la Volgata [N.d.T.]. Abu Yüsuf Ya'qüb, Le livre de l'impôt fonder (Kitäb al-Kharâdj), trad, di Edmond Fagnan, Geuthner, Paris 1921, pp. 51-52. Del libro è disponibile anche l'edizione on line: http://www.archive.org/details/lelivredelimpotfOOabysuoft [N.d.T.].
49
Vedi anche Morony, Iraq after the Muslim Conquest cit. Donner, The Early Islamic Conquest cit., pp. 226,231-233,237-238, 265-266; vedi anche Abü Yüsuf Ya'qüb, Le livre de l'impôt foncier cit., pp. 37-61; cfr. Poliak, L'arabisation de l'Orient sémitique cit., e Ashtor, A Social and Economic History of the Near East cit., pp. 22-26. 50 51
52 Morony, Iraq after the Muslim Conquest cit., pp. 106-117; Dennett, Conversion and the Poll-Tax in Early Islam cit.
"L'espressione, tratta da alcuni versetti coranici, è un corrispettivo di Genti del Libro (a volte anche singolare collettivo, Gente del Libro), cioè gli ebrei e i cristiani [N.Ì/.T.]. M Iono Mitev, Le peuple bulgare sous la domination ottomane (1396-1878) in Ivan Dujiev et al., Histoire de la Bulgarie dès origines à nos jours, Horvath, Roanne 1977, p. 249. Apostolos Euangelou Vakalopoulos, The Greek Nation, 1453-1669: The Cultural and Economie Background of Modem Greek Society, Rutgers University Press, New Brunswick (USA) 1976, p. 44 (ed. orig. Tourkokratia 14531669: Hoi historikes baseis tes neoellenikes koinonias kai oikonomias, in Historia tou neou Hellenismou, 6 voli., Thessaloniki 1961-1982, vol. 2); vedi anche Vakalopoulos, History of Macedonia 1354-1833, Institute for Balkan Studies, Thessaloniki 1973 (per l'edizione on line del testo cfr. http://www.promacedonia.org/en/av/index.html), pp. 100-116; per la fuga dei contadini e la creazione di nuovi villaggi vedi Ivi, pp. 103-104 (ed. orig. Historias tes Makedonias: 1354-1833, E. Sfakianake, Thessaloniki 1969). w
Antun Dabinovic, Les pactes d'assistance entre les gouverneurs ottomans et les grands seigneurs de Bosnie et de Croatie depuis le XVe au XVIIe siècle, «Tùrk Tarih Kongressi V», III seksiyon, Ankara 1960, pp. 478-673. 56
Si tratta dell'imperatore bizantino Andronico III Paleologo (1297-1341) [N.d.T.].
57
58 Giovanni Cantacuzeno in Cousin, Histoire de Constantinople depuis le règne de l'Ancien Justin cit., vol. 7, p. 191. 59
Ivi, p. 314.
Capitolo 3 La dhimmitudine: fondamenti giuridici e condizionamenti storici
Durante i primi due secoli che seguirono alla conquista araba, il diritto islamico, che era ancora a uno stadio embrionale, non aveva certamente acquisito il carattere istituzionale e definito proprio delle età successive. Fu al tempo degli abbasidi che l'esigenza di creare un sistema giuridico uniforme per governare il dar al-islam diede luogo alla redazione di vari trattati di diritto. Il quadro che emerge dalle cronache siriache dell'epoca corrisponde a questa situazione politicamente oscillante e spesso anarchica. La condizione dei popoli conquistati non era né definitiva né uniforme, ma variava in base alle particolarità locali, alle scelte politiche dei governi e alle interazioni di fattori economici e politici quali le guerre, le invasioni, le insurrezioni. Al tempo degli omayyadi le Genti del Libro, soprattutto i cristiani, costituivano la grande maggioranza dei sudditi dello Stato islamico, e, insieme agli zoroastriani, i suoi principali contribuenti. Ma questa potenza economica era anche una forza politica che occorreva trattare con riguardo, perché eventuali rivolte da parte sua avrebbero paralizzato l'esercito arabo, impegnato ad accumulare bottino e schiavi per i califfi all'interno del dar al-harb. Per di più, erano queste stesse popolazioni vinte a padroneggiare le tecniche della civiltà: l'agricoltura, il commercio, l'architettura, l'artigianato, l'amministrazione statale. Le loro élite erano infatti profondamente esperte nelle complesse e diverse attività proprie della vita urbana, nonché nelle relazioni intemazionali a sfondo economico e politico tipiche dei grandi imperi. Era quindi necessario ingraziarsi le attive
e operose Genti del Libro, delegando loro l'amministrazione dei paesi sottomessi ma al tempo stesso controllandone le entrate, in modo da accrescere le risorse e la potenza dell'Impero musulmano. Nei territori occupati i due pilastri del nascente Stato islamico erano l'esercito, composto dalle tribù arabe e dagli schiavi provenienti dal bottino di guerra, e la grande massa dei popoli vinti tributari, servi, uomini liberi e convertiti - : un'immensa forza lavoro che alimentava il settore economico. Il terzo pilastro, il potere giudiziario, era allora in fase di elaborazione: sarebbe toccato a esso equilibrare e rettificare l'enorme scarto demografico tra le Genti del Libro vinte e i vincitori musulmani. Ora alleato con il potere politico, ora in competizione con esso, il corpo giudiziario si impegnò a elaborare un insieme di leggi che, a poco a poco, erosero i diritti dei dhimmT e li condannarono allo strangolamento e all'annientamento, trasferendo alla umma tutte le leve del comando di cui un tempo tali popoli disponevano. Il seguente capitolo si propone di esaminare questo corpus di misure, che fecero la loro comparsa separatamente - ora in un luogo, ora in un altro, in occasione di specifici eventi politici - in un tessuto sociopolitico non ancora strutturato e uniforme, prima dell'epoca in cui si sarebbe consolidato il diritto islamico. Lo status legale dei dhimmì si esprimeva a due livelli: vino mobile, legato al flusso storico, l'altro fisso, ancorato al dogma giuridico. Tra i due piani, che rimanevano interdipendenti e interattivi, si sviluppò lo spazio libero delle fluttuazioni di natura congiunturale.
Caratteristiche dei territori conquistati L'islamizzazione dei territori conquistati costituì al tempo stesso un principio dogmatico di natura religiosa e un processo pratico di carattere politico ed economico. Caratteristiche religiose Tutte le terre sottratte agli infedeli diventavano proprietà {Jay ') dello Stato, ed entravano a far parte del dar al-islSm, territorio am-
ministrato secondo la legge islamica a beneficio dei musulmani e dei loro discendenti. Questo principio, introdotto dalla conquista araba, diede vita a un dogma politico e giuridico che affondava le sue radici nella teologia, e che portò all'uniformazione dei peculiari sistemi amministrativi dei vari paesi asiatici ed europei conquistati in seguito dai popoli musulmani non arabi. Il diritto islamico relativo ai territori occupati costringeva le popolazioni indigene non musulmane a conformarsi a particolari prescrizioni, che nel loro insieme costituivano la dhimmitudine. Nessun cittadino non musulmano, a meno che beneficiasse di una protezione straniera, poteva sottrarvisi. L'instaurazione della legge islamica in un paese implicava quindi la dhimmitudine, in tutti i suoi aspetti e con tutte le sue regole. Il diritto islamico vietava ai non musulmani la proprietà fondiaria, che veniva trasferita all'erario pubblico musulmano gestito dal califfo. Quest'ultimo suddivideva la terra in una serie di circoscrizioni militari che cedeva in feudo, in forma temporanea o perpetua, a membri della sua famiglia, a tribù oppure a capi militari, tenuti in cambio ad allestire un esercito e a partecipare con esso alle spedizioni. Nell'Impero ottomano tale gerarchia militare e amministrativa si perpetuò fino al XIX secolo. È bene precisare che questa forma di «feudalesimo» - termine peraltro improprio nel nostro contesto - non possedeva affatto le caratteristiche del sistema feudale europeo, data la natura fondamentalmente diversa dei diritti e dei doveri che regolavano i rapporti tra la casta militare musulmana e i contadini dhimmì. Questi ultimi potevano però conservare il possesso della terra, percepirne l'usufrutto ed ereditarla. Tuttavia la conquista islamica determinò di fatto una situazione ben diversa, attestata da innumerevoli fonti e le cui conseguenze a lungo termine condussero alla scomparsa delle classi contadine indigene ebree e cristiane. Perciò, anche se la legge islamica riconosceva in linea di principio il diritto dei dhimtnT al possesso fondiario, la storia rivela un processo di usurpazione delle terre, delle case, del bestiame e dei beni delle popolazioni originarie che non era certo contemplato dalla legge.
Caratteristiche fiscali Fu sulla base delle imposte che i giuristi islamici istituirono una distinzione tra i territori arabi, ossia musulmani (le «terre della decima»), e l'insieme dei territori sottratti ai non musulmani (le «terre del kharaj»). E per definire la natura del kharaj la giurisprudenza islamica fece ancora ricorso al precedente di Khaybar: come Maometto aveva ridotto gli ebrei di quell'oasi alla condizione di tributari, soggetti a imposte in natura e in denaro a beneficio della umma, così i popoli vinti d'Oriente e d'Occidente furono assoggettati a un tributo e obbligati a versare alla umma una percentuale dei prodotti dei loro campi. Il kharaj era l'imposta che lo Stato musulmano, proprietario della terra in virtù del jihad, riscuoteva dalle popolazioni conquistate, che conservavano il godimento delle loro terre in qualità di tributarie e usufruttuarie. Il kharaj, dapprima pagato esclusivamente dai non musulmani, fu interpretato in modo diverso a seconda dei luoghi e dei tempi. Più tardi i giuristi distinsero tra jizya, testatico di origine coranica, e kharaj, tributo fondiario in contanti e in natura, sebbene spesso in pratica i due termini fossero confusi. Le imposte sulla terra, nelle loro diverse forme, esistevano già negli imperi persiano e bizantino, ma da allora l'islamizzazione conferì loro, in chiave giuridica, un nuovo carattere, religioso e sacro. Tutti i territori soggetti al kharaj erano in origine parti del bottino e prede di guerra (dar al-harb); sottratti agli infedeli, essi costituivano ormai una proprietà definitiva della umma. Nel dar al-islam il piano fiscale e quello religioso erano talmente intrecciati che la storia dei dhimml indigeni e le loro evoluzioni demografiche emergono dalle fonti relative alla politica tributaria dei califfi. Anche questa politica è già stata minuziosamente analizzata alla luce delle fonti arabe, siriache, greche ed ebraiche 1 . Qui ne sintetizzeremo le linee generali. All'indomani della conquista dell'Egitto, i copti dovevano fornire indumenti (tuniche, calzoni, cappelli, scarpe ecc.) a ogni arabo, e provvedere per tre giorni alle necessità dei viaggiatori musulmani (alloggio, vitto, foraggio); questa clausola includeva anche il mantenimento delle truppe. Essi dovevano altresì rifornire di cibo (car-
ne, pollame e altre derrate alimentari) e di manufatti (tende, cavi, corde ecc.) le popolazioni arabe immigrate. Erano inoltre soggetti a un tributo complessivo in ragione delle clausole dei loro trattati. Dopo il consolidamento dell'occupazione araba, i conquistatori ristrutturarono il regime tributario dei popoli vinti. Al tempo degli omayyadi il fisco riscuoteva dalle popolazioni indigene cinque tipi di tasse: un'imposta fondiaria, il kharaj, pagata anche dai monasteri; prestazioni in natura proporzionali ai raccolti; un testatico, la jizya; una destinata a coprire le spese e il mantenimento degli esattori fiscali; una somma globale, finalizzata alle requisizioni, alle imposte straordinarie, al sostentamento e alle spese d'abbigliamento dei musulmani 2 .1 popoli indigeni dovevano fornire allo Stato islamico ogni sorta di manufatti: ad esempio àncore, tappeti, sacchi. Ulteriori imposte gravavano su determinati prodotti alimentari (burro, miele ecc.). Inoltre, l'intera popolazione senza distinzioni era precettata per pesanti corvè che andavano dalla realizzazione di edifici e di strade agli imbarchi forzati, anche sulle flotte da guerra. È evidente che alcune di queste imposte e di queste prestazioni obbligatorie, già in vigore presso i bizantini, furono semplicemente prorogate dal governo arabo. Tuttavia, a partire dall'inizio dell'VIII secolo, dall'Egitto alla Mesopotamia armena si verificò un fenomeno nuovo, legato alla rapacità del fisco: la fuga delle popolazioni dai villaggi. Fu questa l'epoca dei «fuggitivi» e degli «esuli», attestata da papiri e da fonti siriache ed ebraiche che descrivono l'esodo degli ebrei e dei cristiani i quali, abbandonando i loro villaggi, si rifugiavano sulle montagne, nelle caverne o in altri paesi per sottrarsi al fisco. Al fine di garantirsi i propri introiti, l'amministrazione ricorse a metodi brutali: impose il censimento della popolazione e il rilascio a ogni individuo di un lasciapassare, una sorta di scheda segnaletica indicante le generalità dei genitori e il luogo d'origine del titolare. Chiunque venisse sorpreso senza tale documento era messo a morte. I fuggitivi venivano riportati nei loro villaggi, e nessuno poteva spostarsi senza aver pagato le tasse proprie o quelle dei genitori deceduti.
Le conversioni all'islam e le confische dei terreni da parte dei nomadi trasferirono a poco a poco le terre del kharàj nella categoria fiscalmente privilegiata di «terre della decima». Per giunta, poiché i contadini dhimmt abbandonavano i campi e i beduini, che non erano in grado di coltivarli, li lasciavano incolti, il territorio imponibile e gli introiti dello Stato diminuivano considerevolmente. Per arginare questo duplice processo di impoverimento, i califfi omayyadi e i primi abbasidi presero una serie di misure finalizzate a vincolare il kharàj alla terra. I contadini dhimmì, in quanto fonte di reddito imponibile, furono protetti dalle usurpazioni e dalle rapine. II profeta Abacuc. Alcuni testi di diritto Bibbia siriaca, VI-VIII sec. islamico specificano la natu(manoscritto Syr. 341, folio 180, BN). ra, la base di calcolo e le modalità di riscossione del kharaj. Nell'epoca detta dell'islam classico, considerata la più prestigiosa della civiltà arabo-musulmana sia per il suo splendore culturale sia per l'opulenza di una corte che disponeva di ricchezze favolose, il celebre qadi di Baghdad Abu Yusuf Ya'qub (731-798) scrisse al riguardo un'opera fondamentale, destinata al califfo Harun al-Rashld (786-809). L'autore raccomanda agli esattori delle tasse di trattare i tributari con gentilezza e moderazio-
ne, citando hadith a sostegno di tale tesi. Questo saggio di diritto teorico, nonostante contenga un capitolo dedicato alle disposizioni restrittive da adottare nei confronti degli ebrei e dei cristiani, conferma l'immagine tradizionale di un governo innamorato della tolleranza e dell'equità, di un'autentica età dell'oro per i popoli ebraico e cristiano retti dalla giustizia musulmana. Ma una pregevole cronaca redatta da un religioso monofisita, lo pseudopatriarca Dionigi, originario di Teli Mahre, un villaggio della Mesopotamia 3 , fotografa con esattezza la situazione fiscale dei non musulmani. Dettagliata come un'istantanea scattata su questo periodo storico di transizione, la cronaca termina nel 774 e abbraccia la Mesopotamia, l'Egitto, la Siria e la Palestina dell'VIII secolo. All'epoca i dhimmt - piccoli proprietari, artigiani o mezzadri che coltivavano i feudi assegnati agli arabi - costituivano la maggior parte della popolazione rurale, formata per lo più da cristiani (copti, siriaci, nestoriani), a cui si univano numerosi contadini ebrei. Dalla cronaca emergono i meccanismi che, in tutto l'Oriente islamizzato, condussero alla distruzione di una struttura sociale basata su una fiorente classe agricola dhimmì. Ai continui processi di confisca delle terre da parte delle tribù beduine infiltratesi con i loro greggi, o degli arabi sedentarizzati delle prime ondate della penetrazione islamica, si sommavano i devastanti effetti della pressione fiscale praticata dal governo. Il califfo al-Mansùr (754-775) ordinò il censimento dei contribuenti soggetti al khardj, e insediò un governatore in Mesopotamia: Per bollare e marchiare gli uomini nella parte superiore del collo, come fossero schiavi [...]. In questo caso, però, gli uomini non recavano tale segno [il marchio della Bestia, vedi Ap. 20,4] solo sulla fronte, m a anche su entrambe le mani, sul petto e perfino sulla schiena [...]. Quando egli [il governatore] si presentò nelle città, tutti gli uomini furono assaliti dal terrore e si diedero alla fuga dinanzi a lui [...]. Egli [al-Mansùr] istituì anche un altro governatore, con il compito di ricondurre al suo paese e alla casa di suo padre ciascuno di
[...]. Da allora
non vi fu più scampo in nessun luogo, m a dappertutto regnarono il saccheggio, la malvagità, l'iniquità, l'empietà e ogni sorta di cattive azioni: calunnie, ingiustizie e vendette reciproche. 4
Spremuti e torturati dagli esattori, gli abitanti dei villaggi si nascondevano o emigravano nelle città, dove speravano di confondersi nell'anonimato della moltitudine di prigionieri deportati dalle regioni conquistate e nella massa degli schiavi arraffati durante le razzie. Tuttavia, perfino in città raramente i dhimmi sfuggivano agli esattori: «Gli uomini furono dispersi, e presero a errare da un luogo all'altro; i raccolti furono devastati, le campagne saccheggiate; la gente si mise a vagare di paese in paese» 5 . Il denaro veniva estorto con le percosse, le torture e la morte, specie per crocifissione 6 . Talvolta l'intera popolazione di un villaggio - cristiani, ebrei, arabi - restava rinchiusa in una chiesa per parecchi giorni, senza cibo e costretta alla promiscuità, finché non pagava un riscatto. Al tempo stesso, gli arabi che si erano appropriati con la frode delle terre dei dhimmi furono espulsi dagli agenti del fisco. Il califfo insediò un persiano [un funzionario di Baghdad] a
Marda
[Mardln], con l'incarico di ricondurvi i fuggitivi e di riscuotere il tributo. In questa città, infatti, le fughe erano state più massicce che in qualsiasi altra, e l'intera regione era occupata dagli arabi poiché i siriaci [le popolazioni indigene non musulmane] erano fuggiti di fronte alla loro avanzata. 7
Quest'uomo, «di cui è impossibile trovare l'uguale, prima e dopo di lui, per l'animosità che manifestava contro gli arabi», ricondusse da tutte le città nelle quali erano dispersi gli originari abitanti di Marda, da cui, due o tre generazioni prima, erano stati scacciati dagli arabi: In tal m o d o egli radunò in quella regione una moltitudine tanto grande che non vi era luogo, né villaggio, né casa che non fosse pieno e non traboccasse di abitanti. Quindi costrinse gli arabi a tra-
sferirsi da una regione all'altra e s'impadronì di tutto ciò che possedevano; poi riempì le loro terre e le loro case di siriaci, e fece seminare il loro grano da questi ultimi. 8
Il carattere paradossale di questa strategia si spiega alla luce di motivazioni di carattere fiscale. I popoli vinti non musulmani costituivano il fay', il bottino di guerra del califfo, e in quanto tali erano tenuti a pagargli un tributo, mentre gli arabi, avendo contribuito alla vittoria, reclamavano da lui una parte del bottino o delle sovvenzioni. Pertanto, le misure implicanti la restituzione dei beni alle popolazioni locali e la loro permanenza forzata nei villaggi andavano ad accrescere il patrimonio fondiario del califfo e le sue entrate. I contadini non erano i soli a soffrire a causa del fisco. La cronaca menziona le estorsioni a danno dei notabili e le esecuzioni di «uomini liberi»9. Il rastrellamento organizzato in tutto l'Impero abbaside per scovare i contadini dhimml richiedeva l'impiego di un enorme numero di persone, alle quali spesso si univano i briganti, avidi di rapine e di saccheggi. Le spese per l'alloggio e il mantenimento dei decimatori e degli esattori, unite ai doni che essi esigevano dai loro ospiti, finirono per mandare in rovina i villaggi I0 . II cronista ci ragguaglia così sulla situazione in Palestina: Il califfo si recò nella regione occidentale, diretto a Gerusalemme. E la sconquassò, la sconvolse, la atterrì e la devastò ancor più violentemente di quanto avesse fatto con la Mesopotamia. Agì in conformità alle profezie di Daniele sull'Anticristo stesso. Trasformò il tempio in moschea, infatti quel poco che restava del Tempio di Salomone divenne una moschea a uso degli arabi [...]. Egli restaurò le rovine di Gerusalemme. Assaliva gli uomini impadronendosi dei loro beni e del loro bestiame, soprattutto dei bufali. Non lasciò nulla a nessuno di sua volontà. E, dopo aver arrecato ogni sorta di devastazioni, come aveva fatto in Mesopotamia, all'inizio dell'inverno ritornò in Mesopotamia per soggiornarvi e continuare la sua opera di distruzione. 1 1
Anche in Egitto, nello stesso periodo, i dhimml, rovinati dalle imposte, abbandonavano le loro terre e i loro villaggi, ma, inseguiti dagli agenti del fisco, vi venivano ricondotti con la forza. Avvalendosi del diritto di conquista sui non musulmani, lo Stato si rifaceva sui contadini copti insolventi riducendone in schiavitù i figli. La cronaca contemporanea di Pseudo-Dionigi descrive con realismo e precisione una situazione totalmente opposta a quella ritratta dal trattato posteriore, astratto e teorico, di Abü Yüsuf. Il quadro che ne emerge è fatto di contadini e artigiani espropriati, costretti a nascondersi e a fuggire da un luogo all'altro: di un popolo braccato e sfruttato agli occhi del quale si dispiegano i fasti dei califfi abbasidi e la ricchezza della umma. Alcuni secoli più tardi, l'emigrazione dei nomadi turchi e il jihad determinarono una situazione analoga in Anatolia, negli emirati turchi e nei Balcani. L'assegnazione di feudi agli immigrati e l'oppressione dei contadini cristiani innescarono processi simili, con un conseguente esodo verso le città. Come i conquistatori arabi di un tempo, anche i sultani turchi Othmän e Orkhän adottarono, all'interno dei loro nuovi domini europei, una serie di misure che ancoravano i contadini cristiani ai feudi e vietavano loro l'emigrazione e la fuga 12 . Ansiosi di salvaguardare il rendimento del suolo e il volume delle imposte, gli ottomani proteggevano i contadini. Alcuni territori cristiani, ad esempio l'isola di Chio, beneficiavano perfino di un'amministrazione semiautoctona, che garantiva ima migliore resa economica e un gettito fiscale più elevato. Nelle regioni lontane e poco accessibili della Serbia, il governo turco lasciava grande autonomia ai villaggi, i cui sindaci, eletti dagli abitanti, provvedevano a ripartire le imposte e facevano da intermediari con i dominatori. Fu così che la lingua e le tradizioni nazionali serbe poterono conservarsi. Questa politica relativamente tollerante e illuminata degli ottomani nei confronti dei loro sudditi raya cristiani spiega la sopravvivenza di una classe agricola indigena nella Turchia europea dopo secoli di dominazione musulmana, mentre nelle regioni arabizzate i contadini ebrei e cristiani erano stati praticamente annientati, tranne che in Egitto.
La «jizya» L'obbligo di partecipare al jihad e di esigere la jizya trova il suo fondamento nel versetto coranico IX,29: Combattete quelli che non credono né in Dio né nel Giorno ultimo, quelli che non dichiarano illecito ciò che Dio e il suo Messaggero hanno dichiarato illecito, e quelli fra le Genti del Libro che non rispettano come religione la Verità, sino a che non versino la tassa con le loro proprie mani dopo essersi umiliati. La jizya veniva graduata in base a tre aliquote, corrispondenti allo stato patrimoniale del contribuente Secondo Michele il Siro «Omar [ibn al-Khattab] ordinò di censire, ai fini del testatico, tutte le nazioni del suo impero» I 4 . Le fonti ebraiche confermano questo dato. In Palestina, nel 640, per ordine di Omar fu effettuato un censimento di tutti gli abitanti e dei loro beni per assoggettarli all'imposta. Fu redatto un catasto delle terre, degli animali, delle piante. In Iraq il testatico, che all'epoca dei sasanidi ammontava a 4, 6, 8 e 12 dirham, fu aumentato a 12, 24 e 48 dirham da Omar 1 5 . Pseudo-Dionigi attribuisce l'introduzione del testatico in Siria e Mesopotamia al califfo 'Abd al-Malik ibn Marwan (685-705): Nell'anno 1003 (691-692) 'Abd al-Malik effettuò il ta'dil [= riforma], ossia introdusse il testatico a carico dei siriaci. Egli emanò un severo editto in base al quale ognuno doveva recarsi nel suo paese e nel suo villaggio d'origine per farvi registrare il suo nome, il nome di suo padre, la sua vigna, i suoi olivi, i suoi beni, i suoi figli e tutto quanto possedeva. Così ebbe origine il testatico; così ebbero origine anche tutti i mali che si abbatterono sui cristiani. Fino ad allora, infatti, i re avevano preteso un tributo sulla terra, non sulle persone. Ma da quel momento i figli di Agar cominciarono a imporre la schiavitù egiziana ai figli di Abramo [gli aramei] 16 . Maledizione a noi! Poiché abbiamo peccato, gli schiavi regnano su di noi. Fu quello il primo censimento effettuato dagli arabi.17
Col tempo la situazione non migliorò di certo, tanto che, a proposito del califfo Hisham (724-743), il cronista osserva: «Fin dall'inizio del suo regno egli si mise a opprimere gli uomini con imposte e tributi eccessivi» 18 . A quell'epoca solo i dhimml erano soggetti al testatico, mentre i musulmani pagavano la decima o «elemosina rituale». I copti si ribellarono, ma la maggior parte di essi fu massacrata, e i superstiti fuggirono via mare. La situazione peggiorò sotto Marwan II (744-750): «Marwan si preoccupava [unicamente] di accumulare ricchezze, e fece gravare il suo giogo sulle genti del paese. Le sue truppe inflissero agli uomini molti tormenti: dalle percosse ai saccheggi agli oltraggi alle donne al cospetto dei loro mariti» 19 . Il califfo al-Mansür (754-775) «aggravò le imposte di tutti i tipi, su tutti i popoli e in tutti i luoghi. Egli raddoppiò ogni sorta di tributo a carico dei cristiani» 20 . Riguardo a quest'epoca Pseudo-Dionigi ricorda «le oppressioni che gli uomini dovevano sopportare da parte della potenza tirannica [del califfo], le fughe da una città all'altra, da un luogo a quello adiacente, da un villaggio all'altro» 21 . Il testatico veniva estorto sotto tortura 22 . Gli agenti del fisco esigevano doni per sé; le vedove e gli orfani venivano depredati ed espropriati: «Essi percuotevano senza pietà gli uomini perbene e i vecchi con i capelli bianchi» 23 . Tali piaghe affliggevano tutto l'Impero abbaside. Nel Basso Egitto i copti, oberati e rovinati dalle imposte, nonché sottoposti a torture, si ribellarono (832). Allora il governatore arabo fece incendiare i loro villaggi, le loro vigne, i loro orti, le loro chiese e l'intera regione; coloro che non vennero massacrati furono deportati. Ma già nel 725 e nel 739 le sommosse copte nel Basso Egitto erano state soffocate nel sangue. Per quanto riguarda la Spagna, le fonti del IX secolo attestano una situazione simile 24 . Anche qui la cupidigia e le esazioni provocavano le incessanti rivolte dei neomusulmani (muwalladün, sing. muwallad) e dei cristiani (mozarabi). Secondo alcuni giuristi, il testatico doveva essere versato individualmente nel corso di un'umiliante cerimonia pubblica: mentre pagava, il dhimmi veniva colpito alla testa o alla nuca. Questo
colpo alla nuca, simbolo dell'umiliazione del non musulmano, ha attraversato i secoli in forma immutabile e ripetitiva, giungendo fino agli albori del XX secolo, epoca in cui veniva assestato in forma rituale nei paesi arabo-musulmani - Yemen e Marocco - che estorcevano ancora agli ebrei la tassa coranica 25 . Teoricamente le donne, gli indigenti, i malati e gli invalidi erano esenti dal testatico; tuttavia le fonti armene, siriache ed ebraiche dimostrano ampiamente che la jizya gravava sui bambini, sulle vedove, sugli orfani e perfino sui defunti 26 . Numerosi documenti, conservatisi attraverso i secoli, attestano la costanza e la perennità di queste misure. Ad Aleppo, nel 1683, il cavalier D'Arvieux, console di Francia, notò che i bambini cristiani di dieci anni pagavano la jizya27. Anche in questo caso sono evidenti il divario e il contrasto tra gli ideali teorici e la realtà dei fatti. Nel Medioevo era obbligatorio portare con sé, durante gli spostamenti, la ricevuta della jizya, che consisteva in una pergamena appesa al collo o in un sigillo impresso sul polso oppure sul petto; se un dhimmi viaggiava senza tale ricevuta, rischiava la morte. Il sigillo della jizya, simbolo della dhimmitudine, fu ben presto considerato un marchio d'infamia. Nell'Impero ottomano la ricevuta doveva essere esibita, sotto pena di incarcerazione immediata, a richiesta degli agenti fiscali, i quali fermavano sistematicamente per strada i dhimmi, resi riconoscibili dall'abbigliamento che li contraddistingueva.
Altri tipi di imposta («'awàrid» o imposte irregolari) Oltre alle imposte vere e proprie, alle comunità venivano arbitrariamente estorte notevoli somme, in genere mediante l'incarcerazione e la tortura dei loro rappresentanti, religiosi o laici. Pseudo-Dionigi parla di esattori che «catturavano i notabili e li spremevano senza pietà, al punto che trucidarono e annientarono molti di loro» 28 . In mancanza di denaro, procedevano alla riduzione in schiavitù di donne e bambini. Ma lo Stato non era il solo a riscuotere tasse. Le tribù nomadi e tutti i ribelli e i capi-
banda, popolazione fluttuante fatta di emigrati o di profughi privi di habitat e occupazioni stabili, sopperivano ai loro bisogni s a c c h e g g i a n d o e taglieggiando i dhimmi, le cui fatiche costituivano u n a provvidenziale e inesauribile fonte di ricchezza. Tanto Nasr, il leader della ribellione araba contro il califfo Ma'mun, quanto i suoi uomini, vivevano delle razzie a danno dei
dhimmi.
Numerosi documenti attestano che questi ricatti o soprusi ('awarid) venivano perpetrati sotto la tortura o la minaccia di un massacro generale 2 9 . Le cronache della comunità ebraica di Fes (secoli XVI-XVIII) descrivono la miseria causata dalle estorsioni fiscali e dai ripetuti saccheggi 30 . Questa situazione era endemica in Marocco e nelle regioni barbaresche 31 del Maghreb. Nel XVII secolo il cavalier D'Arvieux constatò che gli abitanti delle isole del M a r Egeo subivano continue rapine e soprusi 32 . Ancora nel XIX secolo, in Siria, in Palestina e in Iraq, regioni soggette alle invasioni dei nomadi, l'anarchia e l'insicurezza permanenti obbligavano le comunità ebraiche e cristiane a proteggersi dai saccheggi e dai massacri versando riscatti agli emiri turchi o curdi e ai leader beduini. La stessa situazione regnava nell'Armenia turca. Con il passare dei secoli, pagare per la propria sicurezza e sopravvivenza divenne il tratto di fondo delle comunità dhimmi e la conditio sine qua non della loro esistenza, peraltro meramente tollerata, all'interno dei loro paesi. Tuttavia, per garantirsi tale sopravvivenza essi non poterono fare riferimento allo Stato, unico rappresentante della umma, poiché la frammentazione regionale e la debolezza del potere centrale consentirono ai diversi clan di compiere indisturbati le loro rapine 33 . Lo sfruttamento fiscale e i taglieggiamenti a danno dei non musulmani, fossero essi greci, armeni, bulgari, ebrei, cristiani nestoriani, giacobiti oppure ortodossi, rimasero endemici in tutto il dar al-islam, dalla Persia allo Yemen, dall'Impero ottomano al Maghreb, fino alla nascita degli Stati moderni.
Contadino greco («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).
La funzione pubblica L'esclusione dei dhimmi dalla funzione pubblica si fonda su numerosi versetti coranici (Corano 111,27; 111,114-115; V,56) e su una serie di hadith che vietano a un cristiano o a un ebreo di detenere qualunque forma di autorità nei confronti di un musulmano. Già Omar (634-644) aveva proibito l'ammissione di esponenti dei popoli indigeni agli incarichi governativi. Tuttavia, all'epoca di 'Abd al-Malik (685-705) i notabili cristiani guidavano ancora l'amministrazione nelle regioni di lingua greca. Malgrado la sostituzione del greco con l'arabo, i funzionari dhimmi rimasero ai loro posti. Vent'anni dopo, Omar II (717-720) pretese la destituzione di tutto il personale amministrativo dhimmi presente nel suo Impero. Nel Medioevo la nomina di esponenti dhimmi ad alte cariche amministrative scatenava il fanatismo e provocava massacri: casi del genere sono regolarmente attestati in Mesopotamia, nel Levante, in Egitto, nel Maghreb e perfino in Andalusia.
Disuguaglianze di fronte alla legge Ogni disputa tra musulmani e dhimmi era di competenza della legislazione islamica, che non riconosceva al giuramento dei secondi la stessa validità di quello dei primi. Michele il Siro attribuiva a Omar II l'origine del decreto che, in pratica, assicurava ai musulmani l'impunità di fronte ai tribunali islamici nelle controversie interconfessionali. Fu questa misura a determinare la cronica corruttibilità dei giudici e dei testimoni musulmani, che venivano assoldati dai dhimmi per «comprare» la loro innocenza. Adottata in tutto il dar al-islam, tale norma sopravvisse fino alla metà del XIX secolo e, in alcune regioni, anche oltre. Il rifiuto di accettare la testimonianza dei dhimmi si basa, secondo un hadith, sulla natura perversa e menzognera dell'infedele, che si ostina a negare la superiorità dell'islam Lo stesso ragionamento vietava la condanna a morte di un musulmano, benché colpevole, se la vittima era un infedele. Secondo un hadith at-
tribuito a Maometto dal compilatore Muslim (morto nell'874): «Nessun musulmano morirà, ma Allah farà entrare all'inferno al suo posto un ebreo o un cristiano» 35 . In Ifriqiya 36 , alcuni decreti del IX e del X secolo stabilirono che gli ebrei dovevano prestare giuramento al sabato e i cristiani la domenica 37 . La frequenza con cui gli ebrei o i cristiani venivano accusati di blasfemia, reato punito con la pena capitale, rendeva particolarmente grave il rifiuto della loro testimonianza. Di fronte alla minaccia dell'esecuzione infatti il dhimmi, non potendo smentire l'accusa del musulmano, o moriva o si convertiva. Il cavalier D'Arvieux, osservatore attendibile, osserva: Sarà sempre impossibile provare che un turco [musulmano] è un falso testimone, e mai un turco renderà testimonianza contro un altro turco in favore di un cristiano; è questa la loro usanza, la loro pratica costante. Peraltro, neppure ai francesi è concesso rendere testimonianza contro un turco. Ci considerano alla stregua degli infedeli, la cui testimonianza non dev'essere accettata in un processo. 38 In una lettera del 1877, il viceconsole inglese Freeman osserva a proposito della Bosnia: L'attuale qadt [giudice musulmano] di Travnik rifiuta recisamente ogni testimonianza cristiana resa di fronte ai tribunali, e, sebbene si trovino sempre - è vero - testimoni musulmani disponibili in cambio di denaro, quando vigono tali pratiche non si può sperare in nulla se non in un errore giudiziario.39 Nel 1895 l'agente consolare britannico a Giaffa segnala: «Ci sono sempre falsi testimoni pronti a presentarsi ogni volta che un musulmano muove un'accusa o un reclamo contro i cristiani e gli ebrei» 40 . Tuttavia esistevano eccezioni a questa regola: in alcuni casi la testimonianza dei dhimmi veniva accettata, perfino dai tribunali religiosi musulmani.
Nel XIX secolo gli ottomani introdussero un nuovo sistema amministrativo - la Mejelle (1840) - , che gestiva le cause sia civili che penali secondo una legislazione modificata, derivante dalla giurisprudenza europea, in particolare francese. Quest'evoluzione costituì la base di un nuovo sistema giudiziario, che riconosceva la testimonianza dei dhimmT. Anche se la maggior parte dei giudici musulmani ignorò tali innovazioni e rimase fedele alla tradizionale legislazione discriminatoria nei confronti delle Genti del Libro, il loro m o d o di procedere era ormai inficiato di illegalità. Il diritto musulmano applica la legge del taglione: «E c'è una vita, per voi, nel taglione, o dotati di intelligenze. Riuscirete a essere timorati» (Corano 11,179). La legge del taglione si applica solo tra individui alla pari, ossia tra musulmani. Essa è inapplicabile tra un musulmano e un dhimmT, data la presunta inferiorità di quest'ultimo. Secondo Pseudo-Dionigi, il califfo Yazld II (720-724) «fissò il prezzo <del sangue> di un arabo in 12.000 e quello di un siriaco [indigeno non musulmano] in 6000. Così ebbero origine queste leggi perverse» 4 1 . Quello della superiorità dei musulmani era un dogma fortemente radicato. All'imperatore bizantino che gli chiedeva di procedere a uno scambio di prigionieri, al-Mu'tasim (833-842) rispose: «Noi arabi non possiamo accettare uno scambio alla pari tra musulmani e romani [bizantini], perché Dio considera i primi superiori ai secondi» 4 2 . A parità di reato, la pena veniva dimezzata se la vittima del musulmano era un dhimmT. A eccezione che per i giudici hanafiti, il sangue dei dhimmT era stimato la metà di quello dei musulmani. Accadeva spesso a livello di consuetudine, se non di legge, che il dhimmT il quale avesse osato alzare le mani su un musulmano fosse punito con l'amputazione della mano o la pena capitale, perfino in caso di legittima difesa: «[Che] ogni cristiano che ha minacciato un turco abbia la mano tagliata, e che sia bruciato vivo se lo ha colpito, e che tutta la grazia in cui possa sperare sia di riuscire a riscattare la sua vita a suon di denaro, dopo molteplici torture» 4 3 .
Nelle sue funzioni di console di Aleppo, nel 1679, D'Arvieux si trovò di fronte a un caso simile: Mi fu riferito che nelle prigioni vi era un cristiano maronita al servizio di messer Jean Fouquier, un mercante olandese che risiedeva in quella città da molto - lungo - tempo [sz'c], e fui pregato di chiederne la liberazione. Egli aveva percosso un turco e il (¡adi lo aveva condannato ad avere la m a n o mozzata. 4 4
Il culto Gli edifici In teoria la legislazione sugli edifici di culto dipendeva dalle condizioni della conquista e dalle clausole incluse nei trattati. Se la costruzione di nuove chiese, conventi e sinagoghe era proibita, il restauro degli edifici anteriori alla conquista islamica era lecito, ma a certe condizioni, e a patto che essi non venissero né ingranditi né modificati. Le restrizioni nei confronti delle religioni indigene ebraica e cristiana erano dettate da motivazioni politiche. Era importante proteggere l'islam, religione straniera non ancora istituzionalizzata e minoritaria all'interno del dar al-islam, dalla seduzione delle antiche e brillanti civiltà delle Genti del Libro. Michele il Siro osserva che Omar II, fin dall'inizio del suo califfato, emanò norme ostili contro i cristiani «perché voleva consolidare i diritti dei musulmani» 4 5 . Per i beduini, i privilegi conferiti ai conquistatori e le umiliazioni inflitte alle altre religioni confermavano la supremazia islamica. Le discriminazioni di natura confessionale determinate dagli imperativi della colonizzazione arabo-musulmana si cristallizzarono nell'uso, accompagnandosi a un fanatismo intransigente, anche quando l'islam riuscì a soppiantare i culti indigeni ebraico e cristiano. Ciò è dovuto al fatto che la mentalità medievale in genere era permeata da pregiudizi analoghi, quale che fosse la religione in questione.
Fin dal principio della conquista, i cristiani avevano dovuto cedere ai musulmani - in Spagna e in Siria, come in altre province conquistate - la metà delle loro chiese, che, in seguito alla massiccia immigrazione islamica, divennero moschee. Del resto era evidente che tale coabitazione non sarebbe potuta durare, tenuto conto dell'avversione manifestata dai musulmani nei confronti del culto cristiano. I divieti relativi alle campane, ai funerali, alle cerimonie religiose e alla costruzione di chiese furono applicati in Andalusia come in tutto il dar al-islam46. L'oppressione religiosa esercitata dallo Stato nell'epoca considerata come l'età dell'oro dell'islam, quella dei califfi omayyadi e abbasidi, iniziò con 'Abd al-Malik. Il califfo al-Walld (705-715), che detestava i cristiani, ordinò la demolizione di molte chiese e la loro sostituzione con altrettante moschee. Al-Mahdl (775-785) fece distruggere tutti gli edifici religiosi eretti dopo la conquista. Il fenomeno assunse proporzioni tali in tutto l'Impero arabo che nell'830 Ma'mun proibì di distruggere chiese e monasteri senza il suo consenso. Ma durante il califfato di al-Mutawakkil (847-861) si abbatté su tutto l'Impero abbaside un'ondata di persecuzioni religiose, di distruzioni di chiese e sinagoghe, di conversioni forzate. Alla morte del califfo, arrivò in Egitto come ministro delle Finanze M u h a m m a d al-Mudabbir (861), di ritorno dalla Palestina dove, per un lungo periodo, aveva oppresso gli abitanti con ogni sorta di tormenti. Egli triplicò la jizya per gli ebrei e i cristiani «a tal punto che riempì le prigioni in ogni luogo» i 7 ; fece saccheggiare le chiese e confiscò per il dixvan (il Tesoro islamico) il denaro e le elemosine destinati al mantenimento dei vescovi e dei monasteri. I monaci vennero imprigionati e messi ai ferri 48 , mentre il patriarca, non essendo in grado di pagare le tasse imposte all'episcopato copto, fuggiva nascondendosi di luogo in luogo. Le persecuzioni religiose, indubbiamente motivate dall'intolleranza tipica del Medioevo, m a anche dall'estorsione fiscale, riempiono le pagine delle cronache copte, armene e siriache. E importante tuttavia distinguere la tirannide ufficiale, imposta a tutto l'Impero dai decreti del califfo o dei governatori, da quella conseguente al fanatismo popolare o alle devastazioni dei nomadi.
Le persecuzioni di Stato, che si ripetevano periodicamente, potevano essere fermate dalle pressioni dei sovrani cristiani sulle autorità musulmane. I dhimmi stessi, per intercessione di uno schiavo un tempo cristiano o di un medico di corte, ne ottenevano talora la revoca in cambio di una somma di denaro. Fu così che, con la mediazione dei cristiani vicini al califfo, i popoli della dhimma (ebrei e cristiani) poterono recuperare i loro beni - luoghi di culto, case, terreni - confiscati da al-Mudabbir in Egitto, in Siria e in Palestina 49 . Anche gli accessi di fanatismo popolare, così frequenti nel Medioevo, potevano essere tenuti a freno dalle milizie di schiavi. Ma le reiterate distruzioni provocate dai nomadi o dalle bande di briganti, piaghe endemiche in tutto l'Impero, sfuggivano a ogni controllo. L'insicurezza generale spingeva gli abitanti dei paesi e delle città, e perfino i funzionari musulmani, ad affidare le loro ricchezze ai monaci. Il ruolo di moderne banche svolto dai monasteri ne provocò innumerevoli saccheggi, e al tempo stesso conferì loro l'apparenza di fortini inaccessibili, trincerati com'erano dietro alte mura. Le situazioni variavano da regione a regione, a seconda delle disposizioni impartite dai governatori, delle condizioni politiche o della sedentarizzazione dei nomadi all'interno delle città e dei villaggi. Nell'Elam, alla fine dell'VIII secolo, la Chiesa nestoriana, un tempo così fiorente, si era fortemente ridimensionata. Parecchie diocesi erano prive di vescovi che le guidassero e i monaci rifiutavano di recarsi a occuparne le sedi a motivo dei pericoli, dell'insicurezza e della povertà delle regioni in questione ^ un fenomeno che si sarebbe riprodotto qualche secolo dopo nell'Anatolia turca 51 . Patriarchi e catholicoi52, chiamati a spostarsi in continuazione per visitare le chiese della loro diocesi o per invocare giustizia presso i governatori o presso il califfo, ci hanno lasciato delle regioni che attraversavano descrizioni che rispecchiano il processo di lenta disgregazione religiosa, sociale, economica e culturale delle loro comunità. Ben di rado le chiese e le sinagoghe venivano rispettate: considerate luoghi di perdizione, esse venivano spesso incendiate o
demolite nel corso di rappresaglie contro gli infedeli, colpevoli di aver oltrepassato i loro limiti. Il deterioramento sia interno che estemo di tali edifici e l'estrema povertà dei loro arredi - conseguenti ai ripetuti saccheggi o finalizzati ad avvilirli, o, ancora, intesi come elementi costitutivi intrinseci della condizione sociale del dhimml - sono spesso segnalati dai cronisti e descritti dai consoli europei, e, più tardi, dai viaggiatori stranieri. Ecco la situazione ad Algeri nel 1660: «Gli ebrei, sebbene molto numerosi [da 10.000 a 12.000], hanno pochissime sinagoghe. I turchi [musulmani], che li disprezzano in sommo grado, difficilmente li autorizzano a costruire tali luoghi di culto, e in cambio fanno loro pagare un cospicuo tributo» 53 . Mentre a Smime, nel 1655, i turchi erano assai tolleranti e permettevano ai greci di tenere le loro processioni, i maghrebirii (barbareschi), largamente presenti nei porti e nelle città ottomane, erano violenti e fanatici 54 . Per contro Tavemier, che fece scalo a Famagosta (Cipro) nel 1651, riferisce che tutte le chiese del luogo erano state convertite in moschee e che i cristiani non avevano il diritto di passarvi la notte 55 . Descrivendo le difficoltà incontrate nel restaurare la chiesa e l'ospizio di Alessandretta, il cavalier D'Arvieux annota: «I musulmani non permettono che si faccia la benché minima aggiunta alle chiese, né che vi si apporti la più piccola riparazione, senza un catacherif [permesso] del Gran Signore [il sultano ottomano], che è sempre molto costoso» 5 é . Negli anni 1697-1698 un viaggiatore francese segnala le numerose chiese trasformate in stalle in tutta la Palestina ottomana 57 . Ancora nel 1855, a Gerusalemme, il restauro di una sinagoga ne escludeva l'ampliamento e l'abbellimento 58 . Alcune illustrazioni raffiguranti la città negli anni 1840-1850 testimoniano il degrado della chiesa del Santo Sepolcro, la cui cupola fu ornata da una croce solo dopo l'editto di emancipazione (1856) 59 . A Gerusalemme, fino al 1967, accanto al Muro del Tempio sorgevano delle latrine pubbliche. Per contro, secondo la testimonianza di alcuni viaggiatori europei del XIX secolo, ebrei e cristiani rischiavano la pena capitale se entravano in una moschea. A Tunisi, nel mese di gennaio del
1869, un ebreo che passava davanti alla grande moschea della Zeituna venne assassinato con la falsa accusa di avere cercato di entrarvi. A Isfahan, nel 1888, dopo che un ebreo fu ingiustamente accusato di aver colpito un musulmano e di aver profanato una moschea, la comunità ebraica subì una serie di rappresaglie collettive e rischiò di essere sterminata. In Yemen, nel 1910, Yomtob Sémach osserva che un ebreo non sarebbe mai uscito vivo da una moschea. Invece nell'Impero ottomano, verso la metà del XIX secolo, le autorità si sforzavano di imporre alla popolazione comportamenti più tolleranti. Grazie alle relazioni privilegiate tra la Turchia e la Gran Bretagna, nel 1862 il principe del Galles fu il primo cristiano a cui le autorità islamiche concessero di visitare a Hebron la grotta di Macpela, interdetta a ebrei e cristiani fin dal 126660. Il mandato britannico (1922-1948) affrancò i cristiani da tale divieto, m a gli ebrei poterono visitare le tombe dei loro patriarchi soltanto dopo la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967. La restituzione di questo luogo di culto ai suoi proprietari originari suscitò lo sdegno degli arabi palestinesi, i quali fomentarono sommosse contro gli israeliani con 10 stesso fanatismo che, a partire dalla conquista, aveva ispirato la distruzione o l'islamizzazione delle chiese o delle sinagoghe nei paesi divenuti parte del dar al-islam. Hebron è il tipico caso di monopolizzazione in senso islamico di una miriade di luoghi sacri appartenuti in precedenza a ebrei o cristiani. 11 rituale
La tradizione islamica fa risalire all'inizio della conquista le restrizioni relative alle pratiche rituali e il divieto di usare le campane, di esporre la croce, le insegne, le icone e altri oggetti di culto. Per arginare la distruzione delle chiese e le persecuzioni religiose, i leader dhimmì invocavano al cospetto dei califfi i termini dei trattati di resa, autentici o fittizi, che attestavano l'origine preislamica delle chiese o delle sinagoghe minacciate. Alcuni teologi autorizzavano le processioni dei dhimmì nelle città in cui questi erano in maggioranza. Jéròme Maurand notò che a Costantinopoli non si suonavano le campane delle chiese 61 . Nel 1655 Tavernier, viaggiando per l'Arme-
nia persiana, osservò che lì le campane si usavano, mentre ciò era proibito in tutta la Turchia 62 . D motivo è che il paese, da Tokat a Tabriz, era abitato quasi esclusivamente da cristiani 63 . Talvolta accadeva che dei notabili dhimmi acquistassero con il denaro alcuni privilegi, il che dava luogo a rivolte popolari. Così essi venivano a trovarsi al centro di un conflitto tra la venalità del potere, che «vendeva» loro i suoi benefici, e il fanatismo delle masse, che reclamavano la loro umiliazione. La stessa discriminazione religiosa, favorendo la corruzione, costituiva ima fonte di arricchimento. Più l'oppressione era cavillosa, più era remunerativa. Abu Dawùd, figlio di al-Mu'tasim (833-842), fece promulgare dal padre un editto contro i cristiani. Da allora, scrive Michele il Siro, «gli uomini divennero preda dei prefetti, i quali inasprivano o addolcivano tale editto nella misura in cui volevano e in proporzione a ciò che ricevevano» M. Nel 1173 il vescovo della Jazlra fu perseguitato dagli arabi che, con l'aiuto di falsi documenti, si impadronirono di un convento. Ma, in cambio di una grossa somma di denaro, i membri della sua diocesi poterono riscattare sia il convento che il vescovo 6 5 . Le cerimonie religiose dei dhimmi e i loro funerali dovevano svolgersi nel silenzio. La distinzione tra sepolture musulmane e dhimmi era obbligatoria, e i cimiteri degli infedeli non meritavano alcun rispetto, tanto che spesso furono completamente rasi al suolo, e le loro tombe profanate, pratiche che in alcuni paesi perdurano tuttora. Come nel mondo cristiano durante il Medioevo, così anche nell'islam l'apostasia 66 e la blasfemia erano punite con la morte 6 7 . L'accusa di blasfemia contro l'islam e il suo Profeta, vera o falsa che fosse, portò spesso a esecuzioni sommarie di dhimmi. Il caso più famoso del XIX secolo fu quello dell'ebreo Samuel Sfez, giustiziato a Tunisi nel 1857 6S . La stessa accusa provocò rappresaglie collettive contro gli ebrei a Tunisi (1876), ad Aleppo (1889), a Hamadàn (1876), a Suleymaniye (1895), a Teheran (1897) e a Mossul (1911).
Conversioni forzate Il Corano proibisce le conversioni forzate. Tuttavia, le guerre e l'esigenza di consolidare il dominio islamico sulle terre e le popolazioni conquistate relegarono questo principio di tolleranza religiosa nell'ambito teorico. In nessun periodo della storia esso fu rispettato. Il jihad, e con esso l'aut aut imposto alle Genti del Libro - ossia la scelta tra il pagamento del tributo e la sottomissione alla legge islamica, o il massacro e la riduzione in schiavitù dei superstiti - contraddice di fatto il principio della libertà religiosa. I continui attacchi portati al dar al-harb dagli eserciti islamici, i raid contro le popolazioni non musulmane - destinate alla schiavitù dalla loro stessa appartenenza religiosa - , la pirateria marittima, finalizzata a estorcere riscatti a coloro che viaggiavano all'interno del dar al-harb, le deportazioni su scala regionale dei vinti, la distruzione di città e villaggi: tutte queste forme di aggressione legate alla guerra santa obbligatoria, che scandiscono a più riprese il corso dei secoli, costituiscono altrettante violazioni permanenti del rispetto della libertà religiosa. Nei secoli dell'espansione islamica, un flusso continuo di popolazioni non musulmane andò ad alimentare il traffico degli schiavi. Nel 1658 il cavalier D'Arvieux osservò che gli schiavi cristiani polacchi, moscoviti, circassi - venivano condotti al mercato come bestie per essere venduti 69 . Neanche gli ebrei erano risparmiati: sui bilanci delle loro comunità incidevano pesantemente le spese per il riscatto di coloro che venivano rapiti e ridotti in schiavitù durante gli assalti dei pirati arabi, maghrebini o turchi, o in occasione dei raid che scandivano le spedizioni militari. Il trauma della prigionia e della schiavitù spingeva alla conversione coloro che non venivano riscattati e avevano perduto famiglia, denaro e amici. In seguito alle guerre turco-persiane, lo shah 'Abbas I (15581629) deportò molti armeni dall'Armenia e dall'Azerbaijan, e li sparpagliò in diversi villaggi compresi tra Isfahan e Shiraz. Alla morte degli anziani: «A poco a poco tutti i giovani si fecero maomettani, e oggi a stento troveresti due cristiani armeni in tutte queste belle pianure, che i loro padri furono inviati a coltivare» 70 .
Regolata da leggi discriminatorie, la condizione dei dhimmT fu anch'essa contrassegnata da costrizioni religiose. Dopo la conquista islamica, molte tribù arabe cristianizzate subirono massacri, riduzioni in schiavitù, conversioni forzate 71 . Nel 705 Muhammad, figlio di Marwan, radunò i notabili armeni in una chiesa alla quale poi diede fuoco. Al-Walld fece massacrare i prigionieri cristiani rifugiatisi all'interno delle chiese in tutte le città della Siria. Ricorrendo a diversi supplizi, egli tentò di spingere all'apostasia la tribù arabo-cristiana dei taghllb. Omar II decretò che fossero esentati dal testatico gli ebrei e i cristiani che avessero rinnegato la propria religione. Sotto al-Mansur (754775), gli arabi catturarono e deportarono tutti gli abitanti cristiani della valle di Germanicea (Kahramanmarafl), conducendoli a Ramla. Al-Mahdi (775-785) usò la tortura per indurre la tribù cristiana dei tanukh, che viveva nei pressi di Aleppo, a diventare musulmana: 5000 uomini abiurarono la loro fede e le donne si salvarono 72 . Sotto il suo regno si intensificarono anche le persecuzioni nei confronti dei manichei. Quanto a Idris I (789-793), «una volta giunto nel Maghreb, egli fece sparire da quella regione anche le ultime tracce delle religioni , e pose fine all'indipendenza di quelle tribù [ebreo-berbere]» 73 . In Andalusia la resistenza cristiana ebbe i suoi martiri sotto 'Abd al-Rahman II (822-852); il suo successore, Muhammad I, cedendo agli 'ulama di Cordova, obbligò alcuni dei suoi funzionari cristiani a convertirsi all'islam per conservare il posto. I tumulti religiosi proseguirono nella provincia di Elvira nell'899, e nell'891 Siviglia e le zone circostanti furono insanguinate dal massacro di migliaia di spagnoli, cristiani o convertiti. Nel 1066, a Granada, l'intera comunità ebraica - circa 3000 persone - fu annientata 74 . Nel Maghreb, dove regnava un'endemica anarchia, alcune fonti segnalano il massacro di 5000-6000 ebrei, avvenuto a Fes nel 1033. Le persecuzioni degli almohadi nel Maghreb (1130-1212) e nella Spagna musulmana cancellarono la presenza cristiana. A Tunisi, nel 1159, «gli ebrei e i cristiani che si trovavano in città dovettero scegliere tra l'islamismo o la morte: una parte di essi si fece musulmana, gli altri furono giustiziati» 75 .
Ma poiché i criptogiudei praticavano segretamente l'ebraismo, gli inquisitori almohadi strappavano i bambini alle famiglie per affidarli a educatori musulmani. Una legge simile esisteva nello Yemen: essa stabiliva la conversione forzata di tutti i bambini ebrei orfani 76 . Abrogata dai turchi durante la loro breve occupazione, iniziata nel 1872, fu rimessa in vigore dall'imam Yahya nel 1922, e ulteriormente inasprita nel 1925. Ad Antiochia, intorno al 1058, i greci e gli armeni furono islamizzati con la forza, e per persuadere i recalcitranti venne utilizzata la tortura 71. Le persecuzioni perpetrate sotto il califfo al-Hakim (996-1021), e poi sotto i selgiuchidi, non solo scatenarono le Crociate, ma provocarono anche un rigurgito di intolleranza e di fanatismo. Dopo l'annientamento dei mongoli in Siria a opera dei mamelucchi ( 1 2 6 0 ) i cristiani di Damasco furono depredati e sgozzati, e tutti gli altri vennero ridotti in schiavitù; le chiese furono distrutte e incendiate. In seguito «gli abitanti di Damasco saccheggiarono le case degli ebrei, senza lasciare al loro interno neppure una briciola. Le botteghe che essi possedevano nei mercati furono trasformate in cumuli di macerie» 79 . Nel 1261 gli schiavi di Malik Salih, il governatore di Mossul, depredarono i cristiani e uccisero tutti coloro che non si facevano musulmani. Nel 1264 gli ebrei e i cristiani di II Cairo, che erano stati minacciati di essere arsi vivi, barattarono la loro vita con pesanti riscatti, «il cui pagamento fu sollecitato a colpi di frusta; e moltissimi di quei malcapitati morirono tra le torture» 80 . In Persia gli ebrei furono costretti a convertirsi nel 1291 e nel 1318, a Baghdad nel 1333 e nel 1344. Nel 1617 e nel 1622 gli ebrei persiani, calunniati da alcuni apostati, subirono un'ondata di conversioni forzate e persecuzioni che non risparmiò neppure i nestoriani e gli armeni. Sotto il regno di shah 'Abbas II (16421666), tutti gli ebrei persiani furono obbligati ad aderire all'islam tra il 1653 e il 1666. Tuttavia, come nella maggior parte dei casi di conversioni di massa, peraltro proibite dal Corano, la libertà religiosa fu di nuovo ripristinata. Una legge del 1656 dava al convertito all'islam, ebreo o cristiano che fosse, diritti esclusivi alla successione ereditaria. Grazie all'intervento di papa Ales-
Sandro VII, questa disposizione fu attenuata per i cristiani, ma rimase in vigore per gli ebrei sino alla fine del XIX secolo 81 . Cazès segnala la presenza in Tunisia di leggi che favorivano l'erede convertito 82. Per ragioni strategiche, i turchi convertirono con la forza gli abitanti delle regioni di confine della Macedonia e della Bulgaria settentrionale, specialmente nel XVI e nel XVII secolo. Coloro che si opponevano erano giustiziati o bruciati vivi 83 . Mentre visitava l'Anatolia, e precisamente la regione del Lago Salato [lago Tuz], Tavernier notò che in un paesino (Mucur) «tutti i giorni moltissimi greci erano costretti a diventare turchi [musulmani]» 8 4 . In effetti, l'intera storia delle conquiste islamiche è punteggiata di conversioni forzate. Nel 1896 gli armeni della regione di Biredjik, sull'Eufrate, obbligati a convertirsi, dovettero recarsi in esilio per poter ritornare al cristianesimo. Dopo i grandi massacri degli anni 1915-1916, un piccolo numero di armeni riuscì a sfuggire alla morte convertendosi all'islam. Sarebbe tedioso elencare tutti i casi simili, che si ripetono quasi di anno in anno nelle cronache cristiane e musulmane. Nella categoria delle conversioni forzate rientra anche il rapimento dei bambini dhimmT ebrei o cristiani. Sebbene fosse illegale, questa pratica è costantemente attestata nel corso della storia, o in forma sporadica - come strumento per estorcere riscatti, per rifornire gli harem o per alleviare il tributo - o in modo istituzionalizzato, come nel devshirme a carico dei bambini cristiani nei Balcani (vedi infra, cap. 4).
Segregazione e umiliazione La dhimma comportava l'umiliazione dei non musulmani, accusati di aver falsificato la Bibbia eliminando, deformando e omettendo le profezie che annunciavano la missione di Maometto. La loro perseveranza nell'errore, che ne attestava la natura diabolica, li destinava all'avvilimento 85 . In genere ai dhimmT venivano assegnati quartieri riservati, formati da abitazioni che dove-
Abitazioni e chiese trogloditiche. Cappadocia, Anatolia (Foto di Daniel Littman).
vano apparire inferiori a quelle dei musulmani per l'aspetto fatiscente e le dimensioni ridotte. Spesso le loro case, essendo ritenute troppo alte, furono demolite. Non potevano avere servitori musulmani né possedere armi, sebbene, a quanto pare, esistessero eccezioni, costituite da alcune tribù ebraiche dell'Atlante marocchino e dell'Asia centrale, nonché dai maroniti del Libano. Gli 'ulama precludevano ai dhimmT l'accesso ai titoli arabi e all'insegnamento del Corano e sconsigliavano il ricorso ai loro medici e farmacisti, sospettati di voler avvelenare i musulmani. Malgrado questa diffidenza, i califfi e i principi islamici non potevano fare a meno delle loro cure 8 6 .1 matrimoni e i rapporti sessuali tra dhimmT e musulmane erano puniti con la morte, ma un fedele islamico poteva sposare una tributaria.
Nel Kurdistan, armeni, ebrei e nestoriani erano soggetti a continue esazioni di tasse e di corvè 8 7 . Nello Yemen, al sabato gli ebrei dovevano portare via le carogne e pulire le latrine pubbliche. La corvè, introdotta nel 1806, rimase in vigore fino alla loro partenza per Israele nel 1950. Nello Yemen e in Marocco i dhimmì dovevano decerebrare e salare le teste dei condannati, e poi esporle sulle mura delle città. Louis Franck, medico del bey di Tunisi all'inizio del XIX secolo, osserva: Quando un turco [musulmano] è condannato allo strangolamento, mandano a prendere in città dei cristiani o dei locandieri greci, che sono costretti a svolgere le funzioni di boia; due di loro fissano al collo del condannato una corda ben unta di sapone, e altri due afferrano la corda e la legano in egual modo a ognuno dei loro piedi, poi tutti e quattro, di comune intesa, tirano con i piedi e con le mani fino a che non sopraggiunge la morte [...]. In genere, il bey fa tagliare la mano ai ladri. Una volta pronunciato il verdetto, gli imputati vengono condotti all'ospedale dei mori per esservi operati; qui, un ebreo esegue la sentenza e amputa alla bell'e meglio la mano all'altezza dell'articolazione con un coltellaccio. 88 Montare animali nobili come cammelli o cavalli era considerato un grave reato per un dhimmì. Fuori dalle città, egli poteva spostarsi a dorso d'asino, ma in alcuni periodi del Medioevo tale concessione fu ristretta ai casi di urgenza. Nel XVII secolo D'Arvieux osservava: Soltanto ai consoli è permesso possedere un cavallo; inoltre, dev'essere il pasha a donarglielo o a prestarglielo. I suoi [del console] funzionari per gentile concessione dispongono di muli, e tutti gli altri, quale che sia il loro status, non hanno che asini, mezzi di trasporto invero piuttosto comodi, ma che sottolineano il disprezzo nutrito dai turchi nei confronti dei cristiani e degli ebrei, che essi trattano pressappoco nello stesso modo. 89
Nel 1697 un francese in visita a II Cairo notò che i cristiani potevano montare solo asini, e dovevano scenderne quando passava un musulmano di alto rango, «perché un cristiano non può mai presentarsi al cospetto di un musulmano se non in ima postura umiliante» 90 . Il viaggiatore 'Ali Bey (pseudonimo dello spagnolo Domingo Badia y Leblich), che visitò Damasco tra il 1803 e il 1807, riferisce che nessun ebreo o cristiano poteva spostarsi all'interno della città, neppure a dorso di mulo. Nello Yemen il decreto che proibiva di montare a cavallo, in vigore fino al 1948, specificava che il dhimmi doveva sedere sulla sella del suo asino tenendo tutte e due le gambe dallo stesso lato. Fino all'inizio del XX secolo, nello Yemen e nelle zone rurali del Marocco, della Libia, dell'Iraq e della Persia, un ebreo doveva scendere dall'asino quando scorgeva da lontano un musulmano. Se se ne dimenticava, quest'ultimo era autorizzato a gettarlo a terra 91 . Nelle opere dei giuristi si trovano responsi giuridici (fatiliva, sing. fatwa) che prescrivono ai dhimmi di camminare a occhi bassi, passando alla sinistra - lato impuro - dei musulmani, ai quali viene raccomandato di spingerli verso i lati. In presenza di un musulmano il dhimmi deve restare in piedi in atteggiamento umile e rispettoso, e parlare - ovviamente a voce bassa - solo dopo che gli è stato ordinato di farlo. Fino alla metà del XIX secolo, ebrei e cristiani venivano umiliati e maltrattati per le strade di Gerusalemme, Hebron, Tiberiade e Safed. Atteggiamenti analoghi sono segnalati più tardi da alcuni viaggiatori recatisi nel Maghreb e nello Yemen. Nahum Slouschz osservò che a Bu Zein, nella regione del Djebel Gharian (Libia), i bambini arabi erano soliti scagliare pietre ai passanti ebrei 92 . In Persia e nello Yemen, all'inizio del XX secolo, gli stranieri osservarono che le porte basse - ulteriore elemento di umiliazione obbligavano i dhimmi a chinare la testa o a curvarsi quando varcavano la soglia di casa 93 . A Sanaa, la notte, soltanto nel quartiere ebraico mancavano l'illuminazione e il servizio di nettezza urbana 94 . A Bukharà, sulle case degli ebrei doveva essere issato un logoro cencio; esse si differenziavano inoltre da quelle dei musulmani per le dimensioni ridotte. Gli ebrei di Bukhara, costretti, in alcuni perio-
di, a vestirsi unicamente di nero, dovevano stare accovacciati nelle loro botteghe in modo da mostrare ai clienti musulmani solo la testa e non il corpo 95 , una pratica che ricorda l'obbligo vigente a Damasco nel XIV secolo, per gli ebrei e i cristiani, di abbassare il pavimento dei loro negozi al di sotto del livello della strada, per presentarsi sempre in posizione inferiore di fronte ai musulmani 96 . A Costantinopoli, fino alla metà del XIX secolo, le case del Fanar, il quartiere dei nobili greci, erano dipinte con colori scuri97. Le porte chiuse dei quartieri dhimmì non proteggevano gli abitanti dai saccheggi o dagli stupri. Nello Yemen, le case ebraiche somigliavano a un labirinto di celle, che davano ai fuggitivi la possibilità di nascondersi o di far perdere le proprie tracce agli inseguitori. A causa del tabù dell'impurità, in Persia, nello Yemen e in Nord Africa, sino alla fine del XIX secolo gli ebrei non potevano entrare in determinati quartieri musulmani, e vivevano in zone separate, costretti a restare chiusi in casa sin dal tramonto, ima consuetudine che in Yemen rimase in vigore fino al 1950. L'accesso a certe città era loro precluso. Sempre per gli stessi motivi, nessun non musulmano può contaminare con la propria presenza La Mecca e Medina. Le restrizioni erano ancor più severe nei confronti dei cristiani stranieri. Nel Nord Africa, solo alcune città costiere li tolleravano, purché raggruppati in un funduq sotto l'autorità di un console 98 . Per visitare l'entroterra dovevano munirsi di permessi speciali, oppure farsi passare per ebrei e soggiornare nel quartiere ebraico. Alcuni viaggiatori europei del XIX secolo, obbligati, per ragioni di sicurezza, ad alloggiare tra gli ebrei, hanno lasciato descrizioni ampie e dettagliate delle umiliazioni e delle violenze che questi subivano. In alcune aree interne della Tripolitania, dell'Atlante e dello Yemen, gli ebrei, con tutti i loro possedimenti, appartenevano al signore musulmano locale, e non potevano lasciarlo. Solo questa condizione di servaggio garantiva loro la sopravvivenza, in quanto il signore li sfruttava, ma li proteggeva anche dalle aggressioni di altre tribù, nello stesso modo in cui proteggeva i propri beni, le proprie tende, le proprie greggi.
Charles de Foucauld descrive alcune regioni del Marocco in cui, negli anni 1883-1884, gli ebrei e le loro famiglie, insieme ai loro beni, costituivano un possedimento del signore musulmano e non potevano fuggire. Il carattere religioso del servaggio si tramandava di padre in figlio, per cui anche i bambini rientravano nell'eredità del signore. Ancora nel 1913 gli ebrei di Dadas, nell'Alto Atlante, appartenevano a questa categoria di servi della gleba, propria di una società tribale". È interessante notare che era il patrocinio del signore musulmano a garantire la vita dei servi ebrei. Emerge qui, in tutta la sua purezza, la nozione musulmana di «protezione», che soppianta il concetto di diritti umani. La protezione, aman per lo straniero, dhimma per il tributario, regola e delimita i diritti dei non musulmani e sancisce il loro rapporto di dipendenza. Alcune di queste norme discriminatorie furono mutuate dal Codice Giustinianeo (534), e più precisamente dalla sezione relativa agli ebrei e ai cristiani eretici; probabilmente esse erano in parte applicate nei territori bizantini all'epoca della conquista araba. Altre, come abbiamo già sottolineato, appartengono al corredo dei pregiudizi, delle superstizioni e dei fanatismi propri di tutto il periodo medievale, a prescindere dal paese e dalla religione. Tuttavia la discriminazione nell'abbigliamento sembra essere un'innovazione araba. Gli abiti dei dhimmt (colore, forma, lunghezza), il loro taglio di capelli (i cristiani dovevano rasarsi la parte anteriore del capo), i loro turbanti, le loro calzature e le loro selle, nonché l'aspetto esteriore delle loro mogli, dei loro figli e dei loro servitori, diedero luogo a molteplici decreti. In alcune regioni (Persia, Ifriqiya) i dhimmi erano esclusi dai bagni pubblici; in altri, come l'Egitto e la Palestina, dovevano portare dei campanelli. In Ifriqiya le norme relative agli indumenti discriminatori erano rigorosamente applicate. A Qayrawan, nel IX secolo, cristiani ed ebrei erano obbligati a ostentare visibilmente la cintura sugli abiti. Quelli che si astenevano dal portare i segni di riconoscimento - cintura (zunnar) o distintivo (riqa ) - erano frustati, imprigionati e pubblicamente umiliati 100 .
I dhimmT tuttavia infrangevano queste norme umilianti, e per questo venivano puniti con rappresaglie. Nel Medioevo, inoltre, i continui conflitti tra mondo cristiano e musulmano, che favorivano le rivolte contro i dhimmT, alimentavano il fanatismo. I cristiani, accusati di collusione con il nemico, furono le principali vittime delle passioni religiose. Le discriminazioni in materia di abbigliamento erano una delle norme consuetudinarie essenziali dello status dei tributari, e sarebbe tedioso elencarne tutte le varianti. Le fonti attestano che i dhimmT rimasero soggetti a queste restrizioni fino al XIX secolo. Nel 1875 gli ebrei della Tunisia erano obbligati a indossare un burnus 101 blu o nero, come pure pantofole e berretti neri. A Tripoli (Libia), gli ebrei portavano un segno distintivo blu. Nello stesso periodo, in quasi tutte le città del Marocco essi avevano il divieto di usare le scarpe al di fuori della mellah102. N a h u m Slouschz osserva che nel 1912 a Zenaga, nel Sahara algerino, gli arabi non consentivano agli ebrei di indossare le scarpe né di montare alcun animale. Nel Mzab (Algeria meridionale), prima della colonizzazione francese, gli ebrei pagavano la jizya e vivevano nei loro quartieri, da cui uscivano solo vestiti di nero; era loro proibito lasciare il paese. Le stesse costrizioni gravavano anche sugli ebrei di Tafilalet e dell'Atlante 103 . L'obbligo per gli ebrei e per i cristiani di indossare colori scuri è menzionato anche da 'Ali Bey a proposito di Gerusalemme 1 0 4 . A Bukhara, il missionario anglicano Joseph Wolff osservò che negli anni 1831-1834, oltre a subire le consuete restrizioni relative alle sinagoghe, gli ebrei erano costretti a portare un distintivo 105. A Hamadan, nel 1892 e nel 1902, gli 'ulama imposero agli ebrei di indossare una rotella rossa e abiti volti a differenziarli. La stessa intolleranza emerse a Shiraz e Teheran nel 1897. Nello Yemen, Yomtob Sémach rimase colpito dagli indumenti discriminatori indossati dagli ebrei e intesi a ridicolizzarli; a Sanaa, nel 1947, Louise Février annotava: «A loro [gli ebrei] non era permesso possedere cavalli, e in genere erano maltrattati dagli arabi. Ho visto un membro di una tribù il cui asino, sovraccarico, aveva fatto cadere la sua lucerna, afferrare l'ebreo più vicino e obbligarlo a raccoglierla e rimetterla a posto» 106 .
Per contro, nella Turchia europea, in Grecia e in Albania, nonché nelle città e nei villaggi dell'Impero arabo in cui i cristiani erano in maggioranza, le discriminazioni in materia di abbigliamento e il divieto di portare armi non esistevano. Ma secondo lo storico Ivan Dujfev nella Bulgaria turca i giudici islamici rifiutavano le testimonianze dei cristiani a carico dei musulmani. Anche il porto d'armi e i vestiti eleganti erano preclusi ai bulgari; essi non potevano cavalcare in presenza di un turco, né costruire nuove chiese o riparare quelle vecchie senza prima averne avuto l'autorizzazione. Infine, i bulgari erano soggetti a rapine e umiliazioni arbitrarie 107 . Tra le regioni della Turchia europea e quelle arabe e persiane emergono notevoli differenze rispetto al carattere più o meno minuzioso delle prescrizioni mortificanti. Questo breve excursus storico attesta l'evoluzione e i diversi aspetti di una particolare condizione giuridica, come pure le sue varianti regionali, determinate dalle congiunture economico-politiche. Le restrizioni elencate venivano a tratti abolite o attenuate da tin sultano o un governatore benevolo, a tratti invece ripristinate, su richiesta dei teologi, nelle epoche di guerra e di fanatismo. Spesso una comunità perseguitata in una regione fuggiva da essa e riusciva a sopravvivere mettendosi al riparo dell'autorità di un principe islamico più clemente. Fu così che i dhimml oppressi in Persia si rifugiarono a più riprese in Afghanistan, e che, in alcuni periodi, gli ebrei del Maghreb e dello Yemen emigrarono nel più tollerante Impero ottomano. Anche in questo caso, però, la tendenza a generalizzare nello spazio e nel tempo si rivela ingannevole. Ad esempio, all'inizio del XVII secolo: Molti principi e funzionari dell'Azerbaijan, maomettani e cristiani, si erano recati alla corte del re persiano perché la stirpe ottomana opprimeva crudelmente il paese, oberandolo di requisizioni, «scorticandolo» con spoliazioni e rapine, costringendolo all'apostasia e torturando in mille modi non solo gli armeni, ma anche gli iberiani [georgiani] 108 e i musulmani. Tali persecuzioni li avevano spinti fra le braccia del re di Persia, il quale, forse, li avrebbe confortati e liberati
Sacerdote e pellegrini maroniti a Gerusalemme. «Solo i turchi portano il turbante bianco, i cristiani si accontentano di avvolgersi attorno al berretto un pezzo di stoffa a righe a forma di turbante. La cintura della giacca che indossano sotto la z'este è un rozzo panno stretto in l'ita, largo circa tre dita» Jerome Dandini, «Voyage du Mont Liban» (1536), pp. 45-50. Incisione di Ludwig Mayers (1804), in Ernst Rosenmiiller, «Ansichten von Palästina», p. 25.
dalla schiavitù degli ottomani. [...] Con loro era giunto dal re anche un gruppo di armeni provenienti dall'Aghovania . [...] Inoltre, quattro villaggi del paese di Dizac erano emigrati in massa verso la Persia, e lo shah li aveva fatti insediare a Isfahan. A causare l'emigrazione degli abitanti di Dizac e della pianura erano stati le eccessive requisizioni, le vessazioni, le rapine, l'obbligo di apostasia per i cristiani e gli spietati massacri. Essendo tutti ridotti all'indigenza e carichi di debiti, avevano cercato rifugio nel paese dei persiani. l m
Ma i motivi di tale esodo variavano a seconda dei gruppi etnoreligiosi cui appartenevano gli emigrati, ossia i curdi musulmani, gli armeni dhimmi e i principi georgiani cristiani. Questi ultimi, conoscendo l'intenzione dello shah di invadere l'Armenia, desideravano entrare nelle sue grazie e vendicarsi dell'uccisione dei principi georgiani condotti come ostaggi alla corte ottomana. Era infatti pratica comune che, durante le campagne militari, i principi musulmani - califfi, sultani, emiri - portassero con sé in qualità di ostaggi i figli dei re cristiani, al fine di neutralizzarli, assicurarsi la loro obbedienza, ed eventualmente, immischiandosi nei conflitti dinastici, far prevalere i loro pupilli debitamente convertiti. L'applicazione della dhimma variava a seconda delle circostanze economico-politiche e della preferenza accordata dal potere islamico a una comunità a scapito di un'altra. Certe pratiche erano comuni a tutto l'Oriente islamizzato, altre invece rimasero solo locali. Solo in Yemen un decreto approvato nel 1806, ma in vigore fino al 1950, obbligava gli ebrei a pulire le latrine e a portare via le carogne. Il divieto di uscire dal mellah con le scarpe vigeva solo in Yemen e nel Maghreb. La legislazione relativa all'impurità degli ebrei era particolarmente severa nello Yemen e in Persia, ma non nell'Impero ottomano. Nel suo Viaggio in Oriente, risalente al 1843, Gérard de Nerval ci mostra gli egiziani come un popolo ospitale, bonario e tollerante. Lo scarto tra questo comportamento e il fanatismo che, nello stesso periodo, imperversava nel Maghreb, in Siria, in Persia e nello Yemen testimonia l'enorme varietà di consuetudini vigenti da una regione all'altra.
Le condizioni di vita differivano a seconda che il contesto fosse di tipo urbano o rurale, e in base alla composizione - musulmana o dhimmi - del gruppo sociale maggioritario. Anche la distribuzione dei rilievi sul territorio influenzava la carta della dhimmitudine: le montagne offrivano sicuri luoghi di rifugio, mentre le pianure, esposte ai saccheggi dei nomadi, venivano abbandonate dalla popolazione. Sembra che i cristiani della Turchia europea fossero preservati dalla maniacale tirannide propria delle regioni arabizzate, nelle quali, all'inizio della conquista ottomana, sopravvivevano solo delle sparute comunità. A più riprese Michele il Siro segnala il ricorso alla persecuzione da parte di leader islamici ansiosi di affermare la loro popolarità. In Siria, ad esempio, Nür ai-Din (1146-1174) era considerato un profeta dagli arabi «tanto si dedicava a tormentare in ogni m o d o i cristiani per poter apparire agli occhi dei musulmani un assiduo osservante delle loro leggi» 110 . Purtroppo, non esiste alcuno studio comparativo sulle diversità tra il trattamento riservato ai popoli indigeni ebrei e a quelli cristiani nelle aree islamizzate dagli arabi o dai turchi. Per fare un esempio, le discriminazioni in materia di culto, di abbigliamento, di uso delle cavalcature e di accesso a determinate strade e città, così peculiari e rigidamente applicate in tutti i paesi arabizzati, erano inesistenti nelle regioni della Turchia europea e perfino in Anatolia. La condizione dei dhimmi dipendeva anche dalla legislazione in vigore nei singoli paesi. In Turchia e in Egitto prevalevano le scuole hanafita e shafi'ita, mentre quella hanbalita, la più fanatica, si affermò in Iraq, in Siria e in Palestina, dove sopravvisse fino al XV secolo. In alcune regioni del Maghreb e, in certi periodi, anche in Persia, veniva applicato il principio della responsabilità collettiva: se un solo dhimmi nuoceva ai musulmani, tutti gli altri perdevano la protezione, e i loro beni venivano confiscati, assimilati a bottino e assoggettati alla legge del quinto 111 . È facile immaginare gli eccessi causati da tale normativa, che equivaleva a legalizzare il saccheggio periodico di una comunità, tanto più che la testimonianza dei suoi membri era ritenuta non valida.
Questo sistema oppressivo e umiliante abbracciò spazi e tempi immensi. Il disprezzo penetrò nei costumi e plasmò le tradizioni, la coscienza collettiva, i comportamenti. Forse alcune usanze si instaurarono anche in assenza di leggi specifiche. L'obbligo per gli ebrei di camminare scalzi, attestato nel Maghreb, o quello di indossare una corta tunica nera che lasciava loro nude le gambe, vigente nello Yemen, si giustificavano agli occhi degli arabi come consuetudini immemorabili fondate sulla religione, anche se il Corano di fatto non le menziona. Le fonti arabo-musulmane nominano raramente i dhimmT, opportunamente relegati nella sfera della non esistenza. Ecco perché è impossibile trovare un'esposizione accurata e ricca di sfumature della storia degli abitanti indigeni dei territori che, per effetto del jihad, divennero dar al-islam, nelle opere degli autori islamici, imbevuti dei pregiudizi del loro tempo e impegnati a difendere il potere. Quanto alle testimonianze dei dhimmT, esse acquisterebbero maggiore significato se fossero interpretate non soltanto alla luce del condizionamento psicologico per cui la nozione di protezione collettiva soppiantò quella di diritto personale, ma anche tenendo conto delle rivalità che opponevano tra loro le diverse comunità dhimmT, e dei conflitti sociali presenti all'interno di ciascuna di esse. Non di rado le altre fonti sono completate dalle osservazioni dei viaggiatori occidentali, benché anche in questo caso occorra tener conto dei pregiudizi e degli interessi personali. Infatti non si potrà mai mettere sufficientemente in guardia il lettore dai preconcetti del mondo latino e occidentale nei confronti degli ebrei, dei greci, dei cristiani monofisiti e dei musulmani; ciò non toglie che le loro testimonianze ci forniscano spesso informazioni preziose.
Vedi Daniel C. Dennett, Conversion and the Poll-Tax in Early Islam, Harvard University Press, Cambridge 1950 (e-book Idarah-i Adabiyat-i Delli, Delhi 2000); Frede Lokkegaard, Islamic Taxation in the Classical Period, Branner & Corch, Copenhagen 1950 (Porcupine Press, Philadelphia 1977); Antoine 1
Fattal, Le statut légal des non-musulmans en pays d'islam, Imprimerie Catholique, Beirut 1958 ' (Dar el Machreq, Beirut 1995 2 ), pp. 264-344; Arthur Stanley Tritton, The Caliphs and Their Non-Muslim Subjects, Oxford University Press, London 1930 1 (F. Cass & Co., London 1970), cap. 13; Eliyahu Ashtor, A Social and Economic History of the Near East in the Middle Ages, Collins, London 1976, capp. 1 e 2 (ed. it. Storia economica e sociale del Medio Oriente nel Medioevo, trad, di Sergio Antonucci, Einaudi, Torino 1982). Vedi anche Lokkegaard, «Fai'», El2, vol. 2,1965, pp. 889-890; Claude Cahen, «Kharadj», El2, vol. 4, pp. 1062-1066; Id., «Djizya», EI2, vol. II, pp. 573-576. Dennett, Conversion and the Poll-Tax in Early Islam cit., pp. 114-115. La Cronaca citata, un tempo attribuita a Dionigi di Tell Mahre, patriarca della Chiesa ortodossa siriaca dall'818 all'848, autore di un'importante opera storica apparentemente perduta (tranne pochi passi citati da altri autori), narra in quattro parti la storia del mondo dalla creazione al 774775 d.C; la quarta parte tratta del periodo della conquista araba. L'opera in realtà non va attribuita a Dionigi di Tell Mahre, ma a un autore precedente, un monaco del convento di Zulfnin presso Amid (Diarbekir), di limitate competenze storiche, ma a cui va il merito di averci lasciato uno dei rari resoconti contemporanei sugli eventi di quel periodo [N.rf.T.]. 4 Iean-Baptiste Chabot (a cura di), Chronique de Denys de Tell Mahré, quatrième partie, Bibliothèque de l'École des Hautes Études, Bouillon, Paris 1895, pp. 104-105. 2 3
Ivi, p. 112; per le città come luoghi di rifugio vedi Ashtor, A Social and Economic History of the Near East cit., p. 17. * Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 193-195; Lokkegaard, Islamic Taxation in the Classical Period cit., p. 92. 5
Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 105-116. Nelle cronache siriache i termini «egiziani, siriaci» designano sempre le popolazioni indigene cristiane monofisi te. Invece gli arabi sono chiamati «tayyayë», dal nome di una tribù nomade del Nord dell'Arabia, i banu tayy o banu tayyiya. 7
Ivi. "Ivi, p. 165. "'¡vi, p. 193; sul declino dell'agricoltura cfr. Ashtor, A Social and Economic History of the Near East cit., p. 36; sulla condizione dei contadini vedi p. 66. " Chronique de Denys de Teli Mahré cit., pp. 108-109. 8
Dimitur Angelov, Les Balkans au Moyen Âge: la Bulgarie des Bogomils aux Turcs, Variorum Reprints, London 1978, cap. 12, «Certains aspects de la conquête des peuples balkaniques par les Turcs», pp. 231-232; Halil Inalcik, The Ottoman Empire: Conquest, Organization and Economy, Variorum Re12
prints, London 1978 (Phoenix, London 2000), cap. 6, p. 235; sull'erosione dei terreni abbandonati ai nomadi cfr. Ashtor, A Social and Economic History of the Near East cit., pp. 5 1 , 5 3 , 5 8 ; Xavier De Planhol, Le monde islamique, PUF, Paris 1957, pp. 50-53; per le città come luoghi di rifugio vedi pp. 84-103. ''Dennett, Conversion and the Poll-Tax in Early Islam cit., pp. 86-87. N Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche (1166-1199), trad, di Jean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924 voi. 2, p. 426 (Culture et civilisation, Bruxelles 1963). 15 Abu Yusuf Ya'qûb, Le livre de l'impôt fonder (Kitâb al-Kharddj), trad, di Edmond Fagnan, Geuthner, Paris 1921, p. 197; cfr. Michael G. Morony, Iraq after the Muslim Conquest, Princeton University Press, Princeton 1984 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2005], p. 107. "Il testo fa riferimento alla vicenda narrata in Gen 16 e Gen 21, che vede protagonisti Abramo, sua moglie Sara, da cui nacque Isacco, che diede origine alla stirpe degli aramei (gli ebrei), e la sua schiava Agar, da cui nacque Ismaele, progenitore degli ismailiti, nome con cui in ambiente cristiano si designavano gli arabi. Cfr. supra, cap. 2, nota 19 [N.d.T.]. Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 10. Si tratta della riforma fiscale ordinata da 'Abd al-Malik e dal governatore della Mesopotamia al-Hajjaj. 17
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 490. "Ivi, p. 505. 18
Ivi, p. 522. Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 68. Le cronache armene riferiscono una situazione analoga in Armenia. L'estorsione fiscale praticata dagli arabi, accompagnata da molteplici episodi di saccheggio e tortura, causò frequenti ribellioni. 20
21
22 23
Dennett, Conversion and the Poll-Tax in Early Islam cit., p. 80. Chronique de Denys de Teli Mahré cit., p. 134.
Évariste Lévi-Provençal, Histoire de l'Espagne musulmane, 3 voli., Maisonneuve, Paris 1950-1953 vol. 1, La conquête et l'émirat hispano-umaiyade (710-912), p. 307; vol. 3, Le siècle du Califat de Cordoue, pp. 196-216. 25 Bat Ye'or, The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, pref. di Jacques Ellul, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad, di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: HaDhimmin. B'nai Ha-Sout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish CommunitiesAliyah Library, Jerusalem 1991), sezione «Documenti», nn. 7,19, 20, 59, 79 24
e p. 74, nota 4; Abu Yusuf Ya'qûb, Le livre de l'impôt fonder cit., pp. 159-195. 26 Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 133; Shlomo Dov Goitein, Evidence on the Muslim Poll-Tax from Non-Muslim Sources, «JESHO», n. 6,1963, pp. 278-295; Id., A Mediterranean Society: The Jewish Communities of the Arab World as Portrayed in the Documents of the Cairo Geniza, 6 voli., University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1971, vol. 2, The Community, pp. 132,380-394 (ed. it. Una società mediterranea, compendio in un volume a cura di Jacob Lassner; presentazione di Elena Loewenthal, traduzione di Giuseppe Bernardi, Bompiani, Milano 2008); Alexander Scheiber, The Origins of Obadyah, the Norman Proselyte, «JJS», vol. 5, n. 1,1954, p. 37. "Laurent d'Arvieux, Mémoires du chevalier d'Arvieux. Envoyé extraordinaire du Roy à la Porte, consul d'Alep, d'Alger, de Tripoli & autres Échelles du Levant, ses voyages à Constantinople, dans l'Asie, la Syrie, la Palestine, l'Égypte & la Barbarie [1663-1685], 6 voli., raccolti da padre Jean-Baptiste Labat, Delespine, Paris 1735, vol. 6, p. 439. [Di questo testo è disponibile anche un'edizione on line: http://books.google.it/books?id=eq-bZx4wHUgC&dq= cavalier+d'arvieux&source=gbs_summary_s&cad=0, N.d.T.]. 28
Chronique de Denys de Teli Mahré cit., p. 170.
Le estorsioni fiscali sono menzionate in continuazione nelle cronache dhimmì. Per le modalità e le conseguenze di quest'impoverimento dell'Anatolia nel XIV secolo, cfr. Speros Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, University of California Press, Berkeley-Los AngelesLondon 1971 1 (1986), cap. 4. 29
"Georges Vajda, Un recueil de textes historiques judéo-marocains, «Hespéris», n. 12,1951. Con il nome di Reggenze barbaresche o Stati barbareschi si designavano i paesi della Barberia, ossia Marocco, Algeria, Tunisia e Tripoli. Il termine «barbareschi» è connesso con Barberia e berberi, gli abitanti originari di quei paesi, che vissero di scorrerie contro beni e imbarcazioni dell'Europa cristiana dal XVI secolo agli inizi del XIX secolo nel Mediterraneo occidentale e lungo le coste atlantiche dell'Europa e dell'Africa [N.d.T.] 31
D'Arvieux, Mémoires du chevalier d'Arvieux cit., vol. 5, p. 24. 1 rapporti della corrispondenza diplomatica inglese e francese dei secoli XVIII e XIX descrivono il continuo processo di annientamento dei dhimmì nelle regioni rurali o nei borghi della Palestina, della Mesopotamia e dell'Armenia, a opera dei nomadi arabi e turkmeni. Per l'Anatolia nel Medioevo si veda Speros Vryonis Jr., Nomadization and Islamization in Asia Minor, «DOP», n. 29, 1975; per i Balcani vedi Angelov, Les Balkans au Moyen 32
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Âge cit., e Paul Wittek in Victor-Louis Ménage (a cura di), La formation de l'Empire ottoman, Variorum Reprints, London 1982 (ed. orig. The Rise ofthe Ottoman Empire, The Royal Asiatic Society, London 1938). 31 El-Bokhâri [al-Bukhârî] (morto nell'869), Les traditions islamiques (alSahïh), trad. di Octave Houdas e William Marçais, 4 voli., Leroux, Paris 1903-1914, voi. 2, titolo 52, cap. 29 (traduzione italiana parziale in Sergio Noja, Virginia Vacca e Michele Vallare, Detti e fatti del Profeta dell'Islam raccolti da al-Bukhârî, UTET, Torino 2003), Corano 111,16-19,71-72; V,70-71. Vedi Mario Grignaschi, La valeur du témoignage des sujets non-musulmans (dhimmï) dans l'Empire ottoman, «RSJB», in La preuve, vol. 18, 3 a parte, Civilisations archaïques, asiatiques et islamiques, De Boeck Université, Bruxelles 1963. Nel 1851 e nel 1858 il console inglese a Gerusalemme notò che la testimonianza di un ebreo contro un musulmano era rifiutata dai tribunali islamici: cfr. Albert M. Hyamson, The British Consulate in Jerusalem in Relation to the Jews of Palestine (1838-1914), 2 voli., Edward Goldston, London 1939, vol. 1, pp. 171, 261. Muslim (morto nell'875), Traditions (al-Sahîh), trad. di Abdiil-Hamld SiddlqT, Lahore 1976, voi. 4, cap. 1149 (6666); Id., «Quando verrà il Giorno della Resurrezione, Allah consegnerà a ogni musulmano un ebreo o un cristiano, e gli dirà: "Costui è la tua salvezza dal Fuoco dell'Inferno"» (6665); «Il Giorno della Resurrezione si presenteranno tra i musulmani persone con peccati pesanti come macigni, e Allah le perdonerà e metterà al loro posto gli ebrei e i cristiani» (6668); al-Bukhârî, Les traditions islamiques cit., vol. 2, titolo 56, cap. 180,2. Tuttavia il Corano (VI,164) dice: «Ogni anima agisce solo a titolo personale; nessuno porterà il fardello di un altro». 35
IfrTqiya è il nome dato dagli invasori arabi all'«Africa», la provincia istituita da Roma e mantenuta dai bizantini, coincidente con l'attuale Tunisia, più le propaggini occidentali dell'Algeria e della Cirenaica orientale. Sotto l'islam l'Ifrìqiya divenne sede di una wilaya (governatorato) fin dal VII secolo, con capitale Qairawàn [N.d.T.]. 36
Hadi Roger Idris, Les tributaires en Occident musulman médiéval d'après le Mi'yàr d'Al-Wansarisi, in Pierre Salmon (a cura di), Mélanges d'islamologie, volume dédié à la mémoire de Armand Abel, Brill, Leyden 1974; Id., La Berbérie orientale sous les Zirides, X-XII siècle, 2 voli., Maisonneuve, Paris 19591962, vol. 2, pp. 757-811. 37
D'Arvieux, Mémoires du chevalier d'Arvieux cit., vol. 5, pp. 15-16; Aryeh Shmuelevitz, The Jews ofthe Ottoman Empire in the Late Fifteenth and the Sixteenth Centuries: Administrative, Economie, Légal and Social Relations as Re38
flected in the Responsa, Brill, Leyden 1984, p. 44, cap. 2. Il cronista armeno del XVII secolo Arakel di Tabriz conferma questa situazione: cfr. Arakel di Tabriz, Livre d'histoires in Marie-Félicité Brosset (a cura di), Collection d'historiens arméniens: dix ouvrages sur l'histoire de l'Arménie et des pays adjacents du Xème au XIXéme siècle, 2 voli., Saint Petersbourg 1874-1876 1 , vol. 1 (Apa, Amsterdam 1979 2 ). ''Edward Freeman [viceconsole di Mostar], nella lettera inviata dal console di Bosna-Serai [Sarajevo] William R. Holmes a lord Derby, ministro degli Affari Esteri, Londra, 15 maggio 1877, PP 1877 [C. 1768], 92, p. 554. "Hyamson, The British Consulate in Jerusalem cit., vol. 2, p. 501. Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 18; Michele il Siro attribuisce queste norme a Omar II, il predecessore di Yazld: cfr. Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, pp. 488-489. 41
42 43
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 102. D'Arvieux, Mémoires du chevalier d'Arvieux cit., vol. 4, p. 179.
Ivi, vol. 5, p. 533. Nel 1744, ad Aleppo, l'ebreo Belibio, che era sotto la protezione francese, dopo un litigio con un capocarovana dovette rifugiarsi al consolato per sottrarsi al taglio della mano: cfr. François CharlesRoux, Les échelles de Syrie et de Palestine au XVIIIe siècle, Geuthner, Paris 1928, p. 49. 44
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 488. Vedi Idris, Les tributaires en Occident musulman médiéval d'après le Mi'yàr d'Al-Wansarisi cit., per l'opinione dei giuristi sulla distruzione, le confische o i divieti relativi a chiese e sinagoghe. 45
46
Sawirus [Severus] ibn al-Muqaffa', History of the Patriarchs of the Egyptian Church, 3 voli., Publications de la Société d'Archéologie Copte, Il Cairo 1943-1970, voi. 2, p. 35. "Ivi, p. 36. "Ivi, p. 47. 47
Jean-Maurice Fiey, Communautés syriaques en Iran et Irak des origines à 1552, Variorum Reprints, London 1979, cap. 3, p. 257; vedi anche Id., Assyrie chrétienne, 3 voli., Imprimerie Catholique, Beirut 1965-1968, e Id., Mossoul chrétienne, Imprimerie Catholique, Beirut 1959. 50
Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism cit., cap. 4; Wittek in La formation de l'Empire ottoman cit.
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Nei primi secoli del Cristianesimo «patriarca» era un titolo onorifico che si applicava, come «arcivescovo», ai vescovi delle diocesi più importanti. In seguito passò a indicare un'autorità sui vescovi metropoliti, e dal VII secolo fu attribuito ai vescovi delle diocesi di Costantinopoli, Alessandria,
52
Antiochia e Gerusalemme. Tuttora nelle chiese ortodosse e orientali il patriarca è il vescovo o l'arcivescovo a capo di una Chiesa autonoma. Fra i patriarchi ortodossi il primus inter pares è il patriarca di Costantinopoli, che per questo è definito «patriarca ecumenico». Il termine catholicos (katholikos) nelle chiese cristiane orientali designava in origine i vescovi a capo di diocesi importanti ma dipendenti dal patriarca. In seguito i due titoli divennero sinonimi e furono applicati ai capi di alcune chiese ortodosse orientali, in particolare della Chiesa armena [N.d.T.]. 53
D'Arvieux, Mémoires du chevalier d'Arvieux cit., vol. 5, p. 230.
M , vol. 1, p. 106. 55 Jean-Baptiste Tavemier, Les six voyages en Turquie et en Perse de Jean-Baptiste Tavernier [1631-1668], 6 voli., nuova edizione riveduta e corretta, P. Ribou, Rouen 1712-1713, vol. 1, p. 271 ( 1 6 7 6 o n line http://gallica.bnf.fr/ ark: /12148/bpt6k853250.pdf, e Maspero, Paris 1981). Per i Balcani cfr. Nikolaj Todorov, La ville balkanique sous les Ottomans (XV-XIX siècle), Variorum Reprints, London 1977, cap. 6, p. 108. ''D'Arvieux, Mémoires du chevalier d'Arvieux cit., vol. 6, pp. 26-27. 57 Antoine Morison, Relation historique d'un voyage nouvellement fait au mont de Sinaï et à Jérusalem, A. Dezallier, Paris 1705, passim. ^Hyamson, The British Consulate in Jerusalem cit., vol. 1, p. 235. "L'assenza della croce sulla chiesa del Santo Sepolcro e sulle altre chiese della Palestina, come pure il loro stato fatiscente, sono confermati dalle illustrazioni e dalle fotografie dell'epoca. Vedi Ely Schiller (a cura di), The Holy Land in Old Engravings and Illustrations, Ariel, Jerusalem 1977: Auguste de Forbin (1817-1818), pp. 48, 51, 55; Adrien Dausatz (barone Taylor) (1830), p. 81; Johann Martin Bernatz (1837), p. 102, e David Roberts (1839), p. 118; E. Schiller, The First Photographs of the Holy Land, Ariel, Jerusalem 1979, pp. 198-202 (1862), pp. 201-202 (1868, sostituzione della cupola del Santo Sepolcro e collocamento di una croce sulla parte esterna di essa); Id., The First Photographs ofJerusalem and the Holy Land, Ariel, Jerusalem 1980, p. 87 (1856) e p. 64 (1865). "Charles Wilson (a cura di), Picturesque Palestine, Sinai and Egypt, 4 voli., J.S. Virtue & Co., London 1882, vol. 3, pp. 198-199. 54
" Jérôme Maurand, Itinéraire de Jérôme Maurand d'Antibes à Constantinople (1544), Leroux, Paris 1901. "Tavernier, Les six voyages en Turquie et en Perse cit., vol. 1, p. 40. "Ivi, pp. 47-48. Questi cristiani erano stati deportati dall'Armenia dallo shah 'Abbâs I. Lo shah, dapprima benevolo nei loro confronti, adottò in seguito una politica di persecuzioni e conversioni forzate: vedi Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit.
"Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 96. Ivi, p. 351. Arakel di Tabriz menziona i riscatti pagati dalla comunità per ottenere la restituzione dei conventi e delle chiese. Samuel Marinus Zwemer, Law of Apostasy in Islam (Marshall Brothers, London-Edinburgh-New York 1924'), Munshiram Manoharlal, New Delhi 1975; testo on line: http://www.bible.ca/islam/library/Zwemer/Apostasy/index.htm. Vi furono numerosi casi in cui i dhimml islamizzati con la forza furono autorizzati all'apostasia, poiché il Corano proibisce le conversioni forzate. Questi ultimi casi sono menzionati da Roland Lebel, Les voyageurs français du Maroc, Librairie coloniale et orientaliste Larose, Paris 1936. Per il caso di Zulaika Hajwal, un'ebrea di 14 anni convertita all'islam con la forza e decapitata per ordine del sultano nel 1834, vedi Hayyim Ze'ev Hirschberg, A History of the Jews in North Africa, 2 voli., Brill, Ley den 1981, vol. 2, p. 304. 66
Al-Bukharî, Les traditions islamiques cit., vol. 2, titolo 56, cap. 144; vol. 3, titolo 64, cap. 5 5 , 1 , 3; Corano 111,80-84 e 102; IV,91 e 115; XXXH,22. "Questo incidente provocò un'esplosione di fanatismo popolare contro gli ebrei di Tunisi, che furono assaliti e saccheggiati. Gli europei organizzarono allora la difesa del loro quartiere: vedi Jean Ganiage, Les origines du protectorat français en Tunisie (1861-1881), PUF, Paris 1959, pp. 71-72. "D'Arvieux, Mémoires du chevalier d'Arvieux cit., vol. 1, pp. 152-153. Per le razzie turche nei Balcani poco prima della caduta di Costantinopoli, vedi Charles Schefer (a cura di), Le voyage d'outremer de Bertrandon de la Broquière, Leroux, Paris 1892, pp. 199-200. 67
Tavernier, Les six voyages en Turquie et en Perse cit., vol. 1, p. 54; vol. 2, pp. 7 e 65. Il cronista Arakel di Tabriz descrive l'islamizzazione di questi popoli, realizzata o tramite la forza e le torture, o per effetto della deportazione. 70
Morony, Iraq after the Muslim Conquest cit., p. 379; François Nau, L'expansion nestorienne en Asie, Annales du Musée Guimet, Hachette, Paris 1914, pp. 106-113. 71
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 1. 'Abd al-Rahmân ibn Muhammad ibn Khaldun, Histoire des Berbères et des dynasties musulmanes de l'Afrique septentrionale, trad, di William MacGuckin de Slane, 4 voli., Geuthner, Paris 1968 2 (ripr. anast. deJl'ed. Algeri 1852-1856'), vol. 1, p. 209. 72
73
Hirschberg, A History of the Jews in North Africa cit., vol. 1, p. 108; Moshe Perlmann, Eleventh-Century Andalusian Authors on the Jews of Granada, «PAAJR», n. 18,1948-1949, p. 285. 74
AbQ al-Hasan 'Ali 'Izz ai-Din ibn al-Athlr; cfr. Ibn Khaldun, Histoire des Berbères cit., voi. 2, p. 590. All'epoca del califfo merinide [merinidi: dinastìa berbera che regnò per due secoli sull'attuale Marocco e per breve tempo su tutto il Maghreb, N.d.T.] Abu Ya'qub Yusuf ibn Ya'qub (1286-1307), tutti gli ebrei che vendevano vino ai musulmani furono trucidati, e le loro famiglie ridotte in schiavitù, in tutti gli stati merinidi: vedi Idris, Les tributaires en Occident musulman médiéval d'après le Mi'yàr cit., p. 191. 75
Secondo un hadlth, tutti i bambini nascono musulmani: sono i loro genitori a farli diventare ebrei o cristiani: vedi Muslim, Traditions (al-Sahlh) cit., voi. 4, cap. 1107 (6423 e 6426); al-Bukharl, Les traditions islamiques cit., voi. 1, tìtolo 23; tìtolo 92,3. Il rapimento e la conversione forzata di bambini dhimmT, soprattutto cristiani, per quanto illegali furono cronici in tutte le epoche, come attestato da molteplici fonti. In occasione della deportazione degli armeni da parte di shah 'Abbas I, i soldati persiani, incaricati di sfoltire la popolazione, «si misero, da veri razziatori e ladri di uomini, a saccheggiare e a rapire i figli dei cristiani»: cfr. Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., voi. 1, p. 291.1 genitori che si ribellavano venivano bastonati e mutilati. 76
Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism cit., pp. 143-287. 1 mamelucchi (arabo mamluk) erano schiavi al servizio dei califfi abbasidi, impiegati nell'amministrazione e nell'esercito. I più famosi erano quelli che si imposero alla guida dell'Egitto e della Siria fra il XIII e il XVI secolo, restando al servizio degli ottomani fino all'affermazione in Egitto di Muhammad 'Ali (1805). Fin da piccoli entravano in scuole in cui ricevevano un puntuale addestramento alle arti belliche e alla disciplina. Al termine di lunghi anni di formazione sia teorica che pratica, acquistavano la libertà ed entravano al servizio dei più potenti signori egiziani e siriaci. I mamelucchi costituirono a lungo la più efficiente forza di cavalieri del mondo islamico [N.d.T.]. 77
78
Ahmad ibn 'Ali Taql ai-Din al-Maqriz! (morto nel 1442), Histoire des sultans mamlouks de l'Égypte, trad. di Étienne Marc Quatremère, 2 voli, in 4 partì, Orientai Translation Fund of Great Britain & Ireland, Paris 18371845, voi. 1, p. 107. Tuttavia i soldati della milizia impedirono al popolino di incendiare le sinagoghe e le case degli ebrei: cfr. Ivi. mIvi, voi. 1 , 2 a parte, p. 154. Per le conversioni forzate dei copti in quest'epoca vedi Donald Presgrave Little, Coptic Conversion to Islam under the Bahrì Mamluks, 692-755/1293-1354, «BSOAS», n. 39,1976, pp. 552-569. Vedi anche Ira M. Lapidus, The Conversion ofEgypt to Islam, «IOS», n. 2,1972, pp. 248-262; Moshe Perlmann, Notes on Anti-Christian Propaganda in the
79
Mamluk Empire, «BSOAS», n. 10,1940-1942, pp. 843-861; Id., Asnawi's Tract against Christian Officials, in Samuel Lòwinger et al. (a cura di), Ignace Goldziher Memorial Volume, 2 voli., Rubin Mass, Jerusalem 1958, vol. 2. La lettera del Papa è datata 21 settembre 1658. Vedi Walter Joseph Fischei, The Jews in Medieval Iran from the 16th to the 18th Centuries: Political, Economic and Communal Aspects e Ezra Spicehandler, The Persecution of the Jews of Ispahan under Shah 'Abbas II (1642-1666), in International Conference on Jewish Communities in Muslim Lands, Institute of Asian and African Studies-Ben Zvi Institute, Jerusalem 1974; per gli stessi eventi vedi Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., cap. 34, pp. 489-496; Laurence D. Loeb, Outcaste: Jewish Life in Southern Iran, Gordon & Breach, New York 1977, p. 17. Il codice Jam Abbasi del XVII secolo imponeva misure restrittive e umilianti agli ebrei per farli convertire. 81
David Cazès, Essai sur l'histoire des israélites de Tunisie, Durlacher, Paris 1888, p. 103. M Iono Mitev, Le peuple bulgare sous la domination ottomane (1396-1878) in Ivan Dujiev et al., Histoire de la Bulgarie dès origines à nos jours, Horvath, Roanne 1977, pp. 251 e 259. 82
"Tavernier, Les six voyages en Turquie et en Perse cit., vol. 1, p. 125. 8 5 Corano 11,154-157. Vedi Georges Vajda, «Ahi al-Kitab», EI2, vol. 1, pp. 272-274; Id., Juifs et musulmans selon le hadith, «JA», n. 229,1937, pp. 151221; Strauss Eduard [Astor Eliyahu], The Social Isolation of Ahi adh-Dhimma, in Paul Hirschler Memorial Book, Komlos, Budapest 1949, pp. 73-94. Moshe Perlmann, Notes on the Position of Jewish Physicians in Medieval Muslim Countries, «IOS», n. 2,1972, pp. 315-319. 86
Israel Joseph Benjamin, Cinq années de voyage en Orient (1846-1851), M. Levi, Paris 1856, pp. 68-75. Vedi anche Reports by Her Majesty's Diplomatic and Consular Agents in Turkey Respecting the Condition of the Christian Subjects of the Porte (1868-1875), in PP, Turkey, n. 16,1877; Hrant Pasdermadjian, Histoire de l'Arménie depuis les origines jusqu'au traité de Lausanne, Librairie Orientale H. Samuelian, Paris 1986, pp. 246-97; Bat Ye'or, The Dhimmi cit., sezione «Documenti», n. 52. 87
Louis Franck, Tunis, Description de cette Régence, in Jean Joseph Marcel (a cura di), L'univers. Histoire et description de tous les peuples: Algérie. États tripolitains. Tunis, Firmin Didot, Paris 1862, pp. 64-65. 88
*' D'Arvieux, Mémoires du chevalier d'Arvieux cit., vol. 1, p. 165. Alla metà del XV secolo, Bertrandon de la Broquière notò che ai cristiani era proibito montare a cavallo nelle città siriache: cfr. Schefer, Le voyage d'outremer cit., pp. 32-33.
"Morison, Relation historique d'un voyage cit., p. 155. Per l'interdizione del cavallo, e perfino dell'asino, agli europei, imposta dai notabili di Aleppo nel 1770, vedi Charles-Roux, Les échelles de Syrie et de Palestine cit., p. 86; per l'Egitto nello stesso periodo vedi Carsten Niebuhr, Voyage de M. Niebuhr en Arabie et en d'autres pays de l'Orient, 2 voli., Libraires Associés, Lausanne 1780, vol. 1, pp. 80-81. Lettera inviata il 16 maggio 1900 da J. Hœfler (Tripoli), al presidente dell'Alliance Israélite Universelle (Parigi), archivi AIU (LIBYE I.C.12), in David Gerald Littman, Jews under Muslim Rule in the Late 19th Century, «WLB», n. 28, nuova serie 35-36,1975, p. 71; per il Marocco vedi James Riley, Loss of the American Brig Commerce, Wrecked on the Western Coast of Africa in the Month of August 1815, John Murray, London 1817, pp. 515-517; 537. Vedi edizione on line: http://books.google.it/books?id=Q9FAAAAIAAJ&dq=loss+of+the+american+brig+commerce&printsec=f rontcover&source=bl&ots=uleQoOXIz7&sig=qRvLKDCqvad3EERLrme0bhvnHZg&hl=it&sa=X&oi=book_result&resnum=3&ct=result. 9 2 Nahum Slouschz, Travels in North Africa, Jewish Publication Society, Philadelphia 1927, p. 153; vedi anche Horace Edward Wilkie Young [viceconsole inglese a Mossul], Notes on the City of Mosul, nell'appendice al Rapporto n. 4, Mosul, 28 gennaio 1909, in FO 195/2308. Il testo è riportato e introdotto da Elie Kedourie in «MES», n. 7,1971, p. 232. In Palestina era consuetudine che i bambini arabi lanciassero pietre ai viaggiatori europei, vedi Bat Ye'or, The Dhimmi cit., pp. 64 e 76; nota 47.
91
Yomtob David Sémach, À travers les communautés israélites d'Orient, Alliance Israélite Universelle, Paris 1931, p. 25; Id., Une mission de l'Alliance au Yémen, Alliance Israélite Universelle, Siège de la Société, Paris 1910, pp. 23, 31, 47. Per le restrizioni in Persia vedi Loeb, Outcaste cit., cap. 2 e appendice 1. 93
Sémach, Une mission de l'Alliance au Yémen cit., p. 76. Yitzhak Ben Zvi, The Exiled and the Redeemed: The Strange Jewish «Tribes» of the Orient, trad, dall'ebraico di Isaac Abbady, Vallentine-Mitchell, London 1958, pp. 86-87.
94
95
Eliyahu Ashtor, Levantine Jewries in the Fifteenth Century, «BIJS», n. 3, 1975, p. 92. Una pratica analoga è segnalata in Persia (1622), ma forse non fu applicata: vedi Loeb, Outcaste cit., p. 292, nota 65. "Jean Henri Abdolonyme Ubicini, Lettres sur la Turquie ou tableau statistique, religieux, politique, administratif, militaire, etc. de l'empire ottoman, 2 voli., Librairie Militaire de J. Dumaine, Paris 1853-54, vol. 2, p. 212 (edizione digitale del 30-1-2009, http://books.google.it/books?id=rTlbAAAA-
%
QAAJ&dq=%22Lettres+sur+la+Turquie+ou+tableau+statistique,+religieux,+politique,%22&printsec=frontcover&source=bl&ots=xWVFEu9D ND&sig=Ml_FFmyj6PqZ7N3sVD_yKnjP3KE&hl=it&ei=jfTiSb6zFtGasAbW5vzQCA&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=4; ed. it. Lettere sulla Turchia o quadro statistico, religioso, politico, amministrativo, militare ecc. dell'impero ottomano, Ufficio del Cosmorama Pittorico, Milano 1853); numerosi viaggiatori europei hanno descritto i colori scuri o l'aspetto fatiscente delle abitazioni dei raya. " I l funduq era una sorta di albergo per commercianti ambulanti, formato da un insieme di stanzette più un cortile in cui sistemavano i loro animali ed esponevano le loro merci in attesa della visita degli acquirenti. La stessa parola fondaco rimase, sulle coste barbaresche, a designare il luogo dove si fa il cambio delle merci [N.d.T.]. "Charles de Foucauld, Reconnaissance au Maroc (1883-1884), Challamel, Paris 1888, pp. 398-400 (Éditions du Jasmin, Clichy 1999); Slouschz, Travels in North Africa cit., p. 483; per l'area del Gebel Nafusa cfr. Mordechai Hakohen, Highid Mordekhai (sezione 91), in Harvey E. Goldberg (cura e traduzione), The Book of Mordekhai: A Study of the Jews of Libya, Ishi Press, Philadelphia 1980, p. 74. Idris, Les tributaires en Occident musulman médiéval d'après le Mi'yàr d'AlWansarisi cit., p. 173.
100
101 Ampio e lungo mantello senza maniche, con cappuccio di lana per l'inverno e di tela per l'estate, caratteristico di alcuni popoli dell'Africa settentrionale [N.d.T.]. 102 Tipico quartiere ebraico (equivalente del ghetto) circondato da mura, situato nelle città del Marocco [N.d.T.]. 103 Slouschz, Travels in North Africa cit., pp. 351-352. Vedi anche Littman, Jews under Muslim Rule cit., pp. 65-76; Id., Jews under Muslim Rule, II: Morocco 1903-1912, «WLB», n. 29, nuova serie 37-38,1976, pp. 13-19; Id., Quelques aspects de la condition de dhimmi: Juifs d'Afrique du Nord avant la colonisation (basato su documenti dell'AIU), «YOD», 2, n. 1, POF (Publications Orientalistes de France), Paris 1976, pp. 22-52 (ed. riv. e ampliata, Avenir, Genève 1977); Id., Mission to Morocco (1863-1864), in Sonia and Vivian David Lipman (a cura di), The Century of Moses Montefiore, Oxford University Press, Oxford 1985, pp. 171-229 [cenni su Tafilalet e Atlante],
'All Bey [Domingo Badia y Leblich], Travels of'All Bey in Morocco, Tripoli, Cyprus, Egypt, Arabia, Syria and Turkey, between the Years 1803 and 1807, Written by Himself, 2 voli., Longman-Hurst-Rees-Orme-Brown, London 1816, vol. 2, p. 242 [ed. orig. Baptiste de Roquefort (a cura di), Voyages d'A104
li-Bey el Abbassi en Afrique et en Asie pendant les années 1803,1804,1805,1806 et 1807, 4 voli., Pierre Didot, Paris 1814, trad. it. Viaggi di 'Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia dall'anno 1803 a tutto il 1807, Sonzogno, Milano 1816], Molti viaggiatori del XIX secolo hanno osservato che i musulmani di Gerusalemme, Hebron e Nablus erano tra i più fanatici. Joseph Wolff, Researches and Missionary Labours Researches among the Jews, Mohammedans, and Other Sects (1831-1834), J. Nisbet & Co., London 1835, p. 177. In Iran gli ebrei furono costretti a portare una rotella fino all'inizio del XX secolo. Essa era obbligatoria a Hamadan, Teheran, Shiraz, Yazd e in altri luoghi: cfr. David Gerald Littman, Les Juifs en Perse avant les Pahlevi, «Les Temps Modernes», n. 395, giugno 1979, pp. 1920-1929; Id., Jews under Muslim Rule: The Case of Persia, «WLB», n. 32, nuova serie 49-50, 1979, pp. 7-11; Loeb, Outcaste cit., p. 21. 105
Louise Février, A French Family in the Yemen, «AS», n. 3,1979, p. 132. Mitev, Le peuple bulgare sous la domination ottomane cit., p. 249.1 rapporti dei consoli inglesi dell'epoca confermano questi dati. Le prescrizioni umilianti relative ai dhimml cristiani ed ebrei erano in vigore nell'Impero ottomano ed erano richiamate da una serie di firmani e di ordinanze emessi dai sultani. L'ultimo in ordine di tempo, che concerne le discriminazioni nell'abbigliamento, risale al 10 agosto 1837 ed è del sultano Mahmud II. Indirizzato al Gran Rabbino di Istanbul, esso gli ingiunge, in conformità con le sue funzioni, di imporre ai correligionari la stretta osservanza delle distinzioni negli indumenti; ordinanze analoghe erano state trasmesse anche ai patriarchi armeno, greco e cattolico. Vedi Abraham Galanté, Documents officiels turcs concernant les juifs de Turquie, trad. franc., Haim, Rozio & Co., Istanbul 1931, pp. 119-120. 106
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Iberia era il nome dato dagli antichi greci e romani al regno georgiano di Kartli, corrispondente all'incirca alla parte orientale e meridionale dell'odierna Georgia. Perciò il mondo antico designava gli abitanti di tale regione come iberiani [N.d.T.]. 108
Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., vol. 1, pp. 275-276. Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 343. 111 Idris, Les tributaires en Occident musulman médiéval cit., p. 191.
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Capitolo 4 Processi d'islamizzazione dei territori conquistati
Il termine «islamizzazione» designa in questa sede il complicato processo - di natura al tempo stesso politica, economica, culturale, religiosa ed etnica - in virtù del quale le tribù islamizzate di origine araba o turca soppiantarono i popoli, le civiltà e i culti dei paesi che invasero. All'interno di questo processo è possibile distinguere elementi di fusione - l'assorbimento delle culture indigene da parte degli invasori, la conversione all'islam di parte delle popolazioni locali - , e aspetti conflittuali, quali i massacri, la riduzione in schiavitù, le deportazioni, la distruzione sistematica delle civiltà originarie e delle loro espressioni culturali e religiose. Il processo in esame non esclude peraltro la simultanea coesistenza di situazioni conflittuali ed elementi di fusione. Nell'islamizzazione dei paesi occupati è opportuno individuare due fasi: la prima consiste in una guerra di conquista disciplinata da regole precise, il jihad; la seconda è quella della dhimma, ossia dell'amministrazione politica dei popoli conquistati. Se il jihad sancisce le modalità di spartizione del bottino (terre, beni, persone) tra i vincitori, la dhimma assegna ai vinti un ruolo economico a lungo termine: il mantenimento della comunità musulmana. È all'interno di questa struttura funzionale di carattere produttivo che prende forma, come in ima matrice, il processo di islamizzazione. L'estinzione dei popoli dhimmT fu la conseguenza di una miriade di complessi elementi di natura contingente o cronica, che a loro volta affondano le radici in un coacervo di fattori reciproca-
mente interdipendenti: il già menzionato jihad, le razzie dei nomadi nelle zone a popolamento sedentario, il consolidarsi della giurisdizione islamica nei territori soggetti alla dhimmitudine.
I nomadi come fattore di islamizzazione La conquista araba del VII secolo avvenne all'insegna del grande nomadismo bellico, le cui pratiche, note fin dall'Antichità, furono incorporate dall'islam in una concezione religiosa: quella di jihad. La consacrazione della componente nomade all'interno dello Stato musulmano e, soprattutto, la dipendenza di tale Stato da quei guerrieri itineranti che gli avevano fornito i contingenti militari necessari per le conquiste e per l'arabizzazione \ fecero cadere gli ostacoli che proteggevano le civiltà sedentarie dalle consuete razzie. La partecipazione dei nomadi al processo di islamizzazione trasformò la loro permanente conflittualità con gli stanziali in uno scontro religioso, che vedeva schierati da un lato gli arabo-musulmani e dall'altro le cosiddette Genti del Libro (dhimmi), discriminate dallo Stato islamico. Anche se in teoria una giurisdizione codificata due secoli dopo la conquista assicurava ai dhimmi l'inviolabilità condizionata della loro vita e dei loro beni, di fatto le situazioni sul campo erano decise con la forza, e non sulla base dell'etica. Se al limite nelle grandi città i dhimmi potevano reclamare giustizia attraverso i loro notabili, o, come spesso avveniva, «comprando» i favori di un visir o di un qadi in grado di impugnare la legge, nelle province o nei centri lontani dalla capitale era invece quasi impossibile ricorrere a tali mezzi. I comportamenti dei beduini dall'Antichità al XIX secolo sono stati descritti con dovizia di particolari, e poiché, stando a tali descrizioni, essi si sono conservati nei millenni con immutabile costanza, non vi è motivo di concepire il processo di islamizzazione dei paesi della dhimmitudine come un gentleman's agreement. Si trattò, forse, della più colossale operazione di saccheggio della storia, come attestano inconfutabili fonti sia storiche che archeologiche.
I beni di cui si appropriarono gli invasori arabi non si limitavano al patrimonio fondiario degli Stati vinti, ma includevano anche le proprietà e le abitazioni degli innumerevoli popoli che, secondo le fonti, furono passati a fil di spada, ridotti in schiavitù, deportati o costretti alla fuga e all'esilio. I trattati di capitolazione menzionano spesso la cessione agli islamici di metà delle chiese e delle case da parte delle popolazioni indigene, e sarebbe ingenuo credere che i vincitori fossero riluttanti a sfrattarne in tutta fretta gli occupanti. Gli espropri a danno dei dhimrriì, operati o direttamente dallo Stato musulmano, o da alcune tribù all'insaputa di esso, o ancora da singoli, nel corso di guerre, insurrezioni tribali o persecuzioni religiose, furono endemici nel dar al-islUm fino al XX secolo compreso. Come abbiamo già osservato 2 , fin dall'inizio della conquista Omar ibn al-Khattab, per assicurarsi il controllo e la fedeltà delle tribù arabe, in particolare di quelle convertitesi all'islam, le spinse a emigrare nei paesi occupati 3 e assegnò loro terre e sovvenzioni prelevate dal patrimonio dei dhimmì. Quest'arabizzazione, cominciata nel 638, proseguì sistematicamente sotto 'Uthman. In Mesopotamia, in Medio Oriente, in Nord Africa e in Spagna il jihad precedette la lunga fase di declino e regresso seguita all'insediamento di popoli dediti alla pastorizia in aree sedentarizzate e coltivate. Durante l'espansione turco-islamica, invece, gli stessi processi - deterioramento dell'agricoltura, desertificazione e distruzione delle città - anticiparono e facilitarono il jihad. Nel XII secolo Anna Comnena descrive tutte le città e le regioni che, da Smirne ad Antalya, erano state ridotte dai nomadi turchi a un desolato deserto 4 . Un suo contemporaneo, lo storico Niceta, ricorda che gli islamici, portando le loro greggi a pascolare nella zona di Dorileo, bruciavano i villaggi e le colture e saccheggiavano le campagne 5 . Speros Vryonis ha analizzato minuziosamente, passando in rassegna un cospicuo numero di fonti, le cause e gli effetti del nomadismo in Anatolia, nonché le loro interazioni con il jihsd e con l'islamizzazione dei territori conquistati. Anche se la documentazione relativa alla conquista araba è meno abbondante, essa offre
comunque interessanti spunti per imo studio analogo. Le fonti, in particolare quelle siriache e armene, ma anche quelle arabe, ci forniscono preziose informazioni sul processo di degrado delle regioni rurali dell'Impero arabo. Ne emerge che il calo demografico dei popoli dhimmi, il regresso dell'agricoltura, l'abbandono delle campagne e dei villaggi e la progressiva desertificazione di province che, nel periodo preislamico, erano densamente popolate e fertili, sono tutti fenomeni legati all'immigrazione delle tribù nomadi arabe, berbere (Spagna) e, più tardi, turkmene. L'avanzata dei nomadi generò insicurezza, spopolamento e carestie. Nel 750, nella parte nord-occidentale della Spagna, le razzie dei berberi, l'incendio delle colture e la riduzione in schiavitù degli abitanti causarono una carestia tale che i conquistatori dovettero tornare nel Maghreb. Nello stesso periodo Palestina e Siria, soggette a una forte colonizzazione araba essendo Damasco sede del califfato omayyade, erano impoverite dalle epidemie conseguenti alle carestie. Già intorno al 700 i villaggi un tempo fiorenti del Negev erano scomparsi, e alla fine dell'VIII secolo la popolazione aveva abbandonato la maggior parte delle regioni comprese tra il Sud di Gaza e Hebron per rifugiarsi a Nord, lasciando dietro di sé chiese e sinagoghe distrutte 6 . Le stesse piaghe - brigantaggio, guerre tribali, epidemie e carestie - afflissero la Mesopotamia sotto l'ultimo califfo omayyade Marwan II (744-750). Ecco la spada degli arabi contro di loro; ecco una furia predatoria tale che è impossibile uscire senza essere saccheggiati e spogliati dei propri beni; ecco la carestia che infuria all'interno e all'esterno. Se qualcuno entra in casa, vi incontra la fame e la peste; se esce fuori, gli corrono incontro la spada e la prigionia. Ovunque non vi sono che crudele oppressione, dolore straziante, sofferenza e turbamento.7 In Armenia, nelle regioni del Mogkh e dell'Arzanene 8 , negli anni 749-750 «gli arabi di Maipherkat dilagarono nella regione e iniziarono ad arrecare molti mali agli abitanti delle montagne e di tutto il paese» 9 .
Il cronista descrive i ripetuti tentativi degli arabi di impadronirsi dei beni degli armeni e le esecuzioni da essi inflitte ai loro notabili. Johannes Bar Dadai (Mamikonian?) 10 , radunati gli abitanti, «parlò loro in questi termini: "Oggi, lo sapete bene, non abbiamo un re in grado di vendicare il nostro sangue versato da costoro. Ma se li lasciamo fare, essi si uniranno contro di noi e ci porteranno via di qui come prigionieri, insieme a tutto ciò che possediamo"» 1 1 . Esazioni e torture provocarono la rivolta degli armeni guidati da Mushegh Mamikonian: «Da quel momento, i mali si sommarono ai mali. Gli abitanti della montagna e gli arabi si assalivano e si uccidevano continuamente tra loro. Poi i montanari presero possesso delle gole e non si vide più un solo arabo sulla montagna» 12. La crudeltà di Abù Ja'far al-Mansur, governatore dell'Armenia, della Jazlra e di Mossul (750-754), unita alla carestia causata dalla distruzione dei raccolti, determinarono ima massiccia emigrazione: Tutta l'Armenia emigrò per sfuggire alla carestia che era sopraggiunta, e [i suoi abitanti] invasero la Siria, spinti dalla paura di morire di fame insieme ai loro figli [...]. Essi partirono e riempirono l'intera regione: le città, i monasteri, i villaggi, le campagne; vendettero tutto ciò che avevano per comprare del pane e provocarono la carestia nel paese.13 L'anarchia favoriva il banditismo: un certo Ibn Bukhtari, della regione di Edessa, in Mesopotamia: Si ribellò e arrecò molte sofferenze a un gran numero di uomini, soprattutto a Beit Ma'ada, dove catturò i cittadini più abbienti. [...] Per impossessarsi del loro oro egli uccise, fece prigioniera o provocò la morte di una miriade di persone. Poi devastò tutti i monasteri della regione di Edessa, di Harran e di Tela [tra Màrdin ed Edessa], si impadronì di tutti i loro beni e fece morire arrostiti dal fuoco i loro padri superiori.14
L'insediamento di coloni arabi a Erzerum (756) e l'invasione di truppe provenienti dal Khorasan (760) al servizio del califfo abbaside, seguiti dalla deportazione degli abitanti di Kahramanmarafl e di Samosata da parte degli arabi (769), provocarono la rivolta degli armeni negli anni 771-772, e la loro disfatta a Bagravan 15 . La situazione non era molto diversa nelle province settentrionali. All'inizio del IX secolo le tribù dei qays, insediate nel delta egizio, taglieggiavano le popolazioni indigene. Le condizioni peggiorarono quando, tra l'814 e l'815,15.000 arabi, senza contare le donne e i bambini, sbarcarono ad Alessandria provenienti da Cordova (Andalusia). L'omayyade al-Hakam, dopo aver massacrato parte dei rivoltosi, li aveva costretti a partire entro tre giorni sotto la minaccia della crocifissione. Questi arabi si impadronirono di Alessandria e si stabilirono nelle case dei cristiani e degli ebrei, che furono tutti cacciati dalla città. A quell'epoca «tutta la città [Alessandria] era già in rovina. Dei tanti luoghi, degli illustri templi e delle splendide case non restavano ovunque che poche tracce, circondate da rari insediamenti umani e da alcuni villaggi» 16 . Questi arabi di Spagna lasciarono Alessandria nell'827 e andarono a devastare Creta, mettendola a ferro e fuoco. Dopo la morte di Mutawakkil (861), e durante la guerra civile tra al-Musta'm e al-Mu'tazz (862-866), «tutte le tribù si rallegravano a causa della paura che regnava» in Egitto: gli arabi infatti - precisa il cronista copto - avevano ridotto il paese a un cumulo di rovine Essi avevano devastato l'Alto Egitto, depredando, uccidendo e distruggendo i monasteri, compresi quelli del Fayyum e del delta: «Gli arabi bruciarono le fortezze e saccheggiarono le province; poi uccisero una moltitudine di santi monaci che vivevano nel paese, e violentarono una miriade di monache vergini, passandone alcune a fil di spada» 19 . Fu verso la metà del IX secolo che la maggior parte dei monasteri situati ai margini del deserto venne abbandonata. Infatti gli arabi, conoscendo le date delle festività religiose cristiane, scendevano in segreto dall'Alto Egitto per depredare i conventi e prò-
curarsi bottino e schiavi a spese dei pellegrini. Il patriarca Shenuda I, vittima di una di queste razzie, ce ne ha lasciato un commovente resoconto. Durante la Pasqua dell'866, gli arabi saccheggiarono tutti i monasteri dello Wadi Natrun, svuotandoli e portando via tutto ciò che contenevano, compresa la mobilia e il cibo. Gli stessi monaci furono depredati e la maggior parte dei pellegrini passati a fil di spada. Dopo essersi allontanati con il bottino, gli arabi tornarono più volte a tormentare i monaci e a costringerli all'apostasia, rubando perfino le loro vesti e ferendo con la spada coloro che opponevano resistenza. La cronaca prosegue con la descrizione degli eventi dei giorni successivi e del terrore dei religiosi copti assediati dagli arabi, che minacciavano di ucciderli o di ridurli in schiavitù 19 . Le prove per le chiese d'Egitto - scrive il patriarca - non finivano mai 20 . La stessa cronaca offre una descrizione fedele del comportamento tenuto dai nomadi nei territori che invadevano. A quell'epoca un musulmano di Alessandria formò una banda, alla quale si unì una moltitudine di beduini. Essi, che incendiavano le città, uccidevano le persone e riscuotevano le imposte dalle regioni che controllavano, «erano tra i più grandi assassini che ci fossero» 21 . Nella regione di Alessandria e in molti altri luoghi, essi si impadronirono dei beni e del patrimonio fondiario delle chiese che saccheggiavano: Quando ebbero commesso ogni sorta di sopruso e di ingiustizia, ed ebbero accresciuto le loro ricchezze, il numero dei loro uomini, dei loro animali, delle loro donne, dei loro figli e delle loro case, il capobanda e i soldati che aveva selezionato decisero di assediare la città di Alessandria. Egli chiese che gli venisse consegnata per poterla saccheggiare come aveva fatto con le altre città, dove aveva fatto prigionieri i bambini e le donne, e aveva massacrato gli uomini e preso il loro denaro.22 Non disponendo di macchine da guerra per attaccare le fortificazioni della città, i beduini la cinsero d'assedio. Chiunque si spostasse da una località a un'altra con un solo dirham indosso, ri-
schiava di perdere la vita per colpa di quella moneta. Un uomo non poteva viaggiare in sicurezza se non era vestito di stracci 23 . Queste aggressioni si spiegano in parte con la politica fondiaria degli abbasidi, che espropriavano le tribù arabe dei possedimenti assegnati loro dagli omayyadi al tempo delle conquiste e dell'arabizzazione del Medio Oriente. Tali misure furono aggravate dall'abolizione nell'833 dei sussidi ('atà) versati loro dallo Stato musulmano. Private dei loro mezzi di sussistenza, le tribù arabe attaccarono i rappresentanti del califfo e, grazie ai saccheggi a danno dei popoli dhimmT, si rifecero delle sovvenzioni soppresse dallo Stato. L'anarchia investì soprattutto la Palestina e la Siria, le regioni più fortemente arabizzate, ma anche l'Egitto e l'Iraq. Nonostante un periodo di stabilità coinciso con il regno di Ibn Tulun e del suo successore (866-896), la situazione globale dell'Egitto continuava a deteriorarsi. I folti contingenti di schiavisoldati dei quali i governatori si circondavano costituivano elementi facilmente strumentalizzabili dalle fazioni rivali. In Siria e Palestina la decadenza degli agglomerati urbani e rurali, iniziata già sotto gli omayyadi, si era aggravata con il trasferimento della capitale in Iraq e la scomparsa, intorno alla metà dell'VIII secolo, dei commerci un tempo fiorenti che interessavano l'area mediterranea. Qui proporremo un breve excursus storico, senza il quale il drastico ridimensionamento delle popolazioni rurali indigene, ossia delle Genti del Libro, rimarrebbe incomprensibile. Questo fenomeno si spiega infatti soltanto alla luce della crescente espansione dei popoli nomadi nelle aree coltivate dell'Impero arabo dall'VIII al IX-X secolo. Oggetto di costanti e generalizzate infiltrazioni da parte dei beduini, l'Egitto divenne preda del tribalismo, mentre al tempo stesso, verso l'861, la maggior parte delle città e delle pianure della Siria e della Palestina cadeva in potere delle tribù tayy, originarie del Nord dell'Arabia. La loro alleanza con i carmati, beduini eretici giunti dalle coste orientali della Penisola Arabica, accentuò, all'inizio del X secolo, le pressioni provenienti dal deserto. Prima furono saccheggiate Homs e Damasco (902), poi le
città del Nord della Siria (903), quindi fu la volta di Tiberiade e della regione di Hawran, devastate a più riprese tra il 906 e il 969. La dominazione dei banu jarrah - pastori nomadi della tribù dei tayy saldamente insediatisi in Palestina - trasformò l'intera regione, dall'Arabia alle coste palestinesi, in un immenso territorio percorso in lungo e in largo dai nomadi, che depredavano gli indigeni non musulmani ed estorcevano loro tributi esorbitanti. I raid dei carmati e dei tayy, a cui si aggiunsero, a metà del X secolo, le invasioni dei berberi fatimidi, devastarono la Siria, la Palestina, l'Egitto e l'Iraq meridionale. Le fertili oasi siro-palestinesi, coltivate sin dall'Antichità, i centri agricoli e urbani del Negev, della Giordania, delle valli dell'Orante, dell'Eufrate e del Tigri, e soprattutto del Sawad, cuore della Babilonia ebraica e nestoriana, scomparvero e divennero città morte, trasformate in pascoli in cui, fra le rovine, si aggiravano mandrie di capre e di cammelli. Nel Nord dell'Iraq, i governatori hamdanidi della tribù dei banu taghlib contrastavano le armate di Baghdad e opprimevano i popoli stanziali della Jazira con ripetute estorsioni, destinate a mantenere la loro fastosa corte, i loro ghilman24 e le loro milizie di schiavi. A questo fosco quadro si aggiunsero le conquiste dei bizantini: Aleppo (962), Antiochia (969) e la Palestina settentrionale (972). Esse accrebbero i tormenti dei popoli indigeni e non modificarono se non in minima parte il quadro etnogeografico complessivo, segnato dal totale dominio dei beduini sulle terre un tempo coltivate. La spinta dei nomadi verso il Nord, motivata essenzialmente dalla ricerca di bottino 25 , fece sì che nel X secolo le dinastie beduine assumessero il controllo di tutta la Mezzaluna Fertile: gli hamdanidi e gli 'uqayl della regione della Jazira, i numayr del Hawran, i kalb dell'area di Damasco, i tanukh, i lakhm, i judham e i taghllb della Siria, i tayy della Palestina, i tamim e gli shayban dell'Iraq e gli asad della zona di Kufa. E innegabile che i califfi si sforzarono di pacificare queste regioni e di ristabilirvi l'ordine con numerose spedizioni. Tuttavia i disordini rimasero endemici, in quanto i nomadi non avevano so-
lo invaso i territori, ma anche occupato l'apparato politico-militare, dando vita a dinastie beduine semi-indipendenti in Siria e Alta Mesopotamia. La costante intrusione del mondo nomade arabo nelle terre dei dhimmt culminò nel X secolo con l'invasione dei banu hilal. Tali tribù, emigrate dalla Penisola Arabica, ridussero ulteriormente gli habitat sedentari con i loro raid, che andarono dal Sudan al Medio Oriente e al Maghreb. Tale situazione - estesa a tutto il dar al-islam, dalla Spagna all'Armenia, ed esposta nelle cronache a cui rinviamo il lettore - indica che i popoli conquistati, pur godendo teoricamente dello status di tributari protetti dai trattati, di fatto subivano saccheggi e violenze da parte dei clan arabi ribelli o incontrollabili, quando non era lo stesso governo a farlo, mosso dalle sue esigenze strategico-politiche. Dall'Armenia alla Mesopotamia, dall'area siropalestinese all'Egitto, dall'Anatolia alla Spagna, gli episodi predatori a danno dei dhimmT residenti nei villaggi riempiono le pagine delle cronache, che narrano le incessanti ribellioni e le guerre civili dilaganti all'interno del dar al-islam. In Mesopotamia gli insediamenti dhimmT si ridussero a piccoli nuclei isolati e sporadici. Questa situazione si cristallizzò per oltre un millennio: infatti, ancora nel XIX secolo, in tutte le regioni controllate dai nomadi (in Armenia o in Kurdistan, nella valle dell'Eufrate o in Palestina e nel Maghreb) regnava l'insicurezza. Gli stranieri, m a anche gli indigeni dhimmT e musulmani, si spostavano soltanto sotto scorta armata o in carovana, e nessuno poteva sfuggire ai «diritti di protezione», riscatti estorti da ogni capotribù sulla porzione di territorio che controllava.
La schiavitù: aspetti demografici, religiosi e culturali Del fenomeno dello schiavismo islamico esaminiamo qui solo l'aspetto delle vittime del jihad, e non quello del commercio degli schiavi. Il processo schiavistico legato al jihàd riguarda i contingenti di ambo i sessi inviati ogni anno dai sovrani tributari al califfo in
conformità ai trattati di sottomissione. Quando, nel 643, 'Amr conquistò Tripoli (Libia), egli costrinse i berberi ebrei e cristiani a cedere come schiavi all'esercito arabo le loro mogli e i loro figli, detraendoli dalla jizya. Dal 652 fino alla sua conquista, ossia al 1276, la Nubia fu costretta a inviare annualmente a II Cairo un contingente di schiavi. I trattati conclusi dai califfi omayyadi e abbasidi con alcune città della Transoxiana, del Sistan, dell'Armenia e del Fezzan (Maghreb) prevedevano l'invio annuale di schiavi di entrambi i sessi26. Tuttavia, le principali fonti della riserva di schiavi restavano i raid sistematici contro i villaggi del dar al-harb e le spedizioni militari che rastrellavano più in profondità i paesi degli infedeli, svuotando le città e le province dei loro abitanti. Questa strategia, applicata fin dall'inizio dell'espansione arabo-islamica dai primi quattro califfi, e in seguito dagli omayyadi e dai loro successori, rimase invariata in tutti i territori interessati dal jihad. Lo spopolamento e la desertificazione di regioni un tempo fiorenti e densamente popolate, fenomeni ampiamente descritti dai cronisti musulmani e cristiani, sono il risultato delle massicce deportazioni di prigionieri. Musa ibn Nusayr deportò 30.000 schiavi frutto delle sue incursioni in Spagna (714) 17 . Nel 740 il governatore della provincia di Tangeri provocò la rivolta dei berberi musulmani della setta kharijita perché voleva «prelevare il quinto dai berberi con la scusa che questo popolo era da considerarsi un bottino acquisito dall'islam». Il cronista osserva che fino ad allora nessun emiro aveva osato esigere dai vinti islamizzati un tributo in schiavi come «porzione del quinto», e conclude: «Soltanto ai popoli che si rifiutarono di abbracciare l'islamismo i governatori imposero tale tributo» 28 . In Andalusia, 'Abd al-Rahman I (756788) annoverava tra le sue truppe più di 40.000 schiavi non musulmani. Il suo successore Hisham ne avrebbe posseduti 45.000. Le continue campagne militari in Spagna, unite alle razzie, fruttavano infatti un enorme numero di prigionieri, che venivano poi ridotti in schiavitù. Spostandoci all'altra estremità del dar al-islam, segnaliamo che, in occasione del sacco di Efeso (781), furono catturati e deportati
7000 greci. Durante la presa di Amorium (838), al-Mu'tasim «ordinò che i prigionieri fossero messi all'asta solo tre volte» per affrettarne la vendita. Essi erano talmente numerosi che venivano venduti a gruppi di cinque o di dieci» 29 . Dopo il sacco di Tessalonica (903), 22.000 cristiani furono spartiti tra i capi arabi o venduti come schiavi. Nel 924 una spedizione marittima «fruttò 1000 prigionieri, 8000 capi di bestiame di grosso taglio, 20.000 di bestiame minuto e una grande quantità d'oro e d'argento» 30 . Nell'agosto del 931, nel corso della campagna estiva contro Amorium: I musulmani entrarono nella piazza e vi trovarono grandi quantità di mercanzie e di viveri, di cui si impadronirono. Essi incendiarono tutti gli edifici costruiti dai nemici, poi penetrarono più in profondità nel territorio bizantino, abbandonandosi ai saccheggi, agli eccidi e alle devastazioni, e giunsero ad Ancyra, città oggi nota come Ankuriya [Ankara]. Tornarono indietro tranquillamente e senza aver incontrato la minima ostilità. Il valore dei prigionieri ammontava a 136.000 dinari.31 Nel 1064 il sultano selgiuchide Alp Arslan (1063-1072) ricoprì di rovine la Georgia e l'Armenia, si diede ai massacri, «seminò ovunque morte e schiavitù», sterminò interi popoli e catturò innumerevoli prigionieri 32 . Tutta la popolazione maschile di Ani fu trucidata, e le donne e i bambini furono deportati. Nel XIII secolo i mamelucchi d'Egitto misero a ferro e fuoco il regno d'Armenia-Cilicia. Nella spedizione condotta nel 1266 dal sultano Baybars, a Sis furono sterminate 22.000 persone. Gli egiziani incendiarono la città e saccheggiarono i dintorni, trascinando via come prigionieri gli abitanti di Adana, Ayas e Tarso: I vincitori, essendo penetrati nella città di Sis, la distrussero da cima a fondo. Rimasero in quel territorio per alcuni giorni, portando dappertutto carneficine e incendi, e rapendo un gran numero di prigionieri. Quindi l'emiro Ugan si diresse verso il paese di Rum [Bisanzio], e l'emiro Kelaun [Qala'un] verso Masisah, Adnah, Aias e Tarsus [Masis, Adana, Ayas e Tarso]. Entrambi sgozzarono
gli abitanti, catturarono molti prigionieri, distrussero numerose piazzeforti e diedero alle fiamme ogni cosa. 3 3
Durante la spedizione del 1268, i mamelucchi passarono a fil di spada tutti gli uomini di Antiochia, e catturarono tutte le donne e i ragazzi. La città divenne un cumulo di macerie e un deserto34. Nel corso della campagna del 1275, Baybars e le sue truppe si diedero ai massacri ovunque, e raccolsero un considerevole bottino. Mopsuestia fu incendiata e la sua popolazione sterminata; Sis venne di nuovo saccheggiata. Secondo il cronista siriaco Bar Hebraeus, 60.000 persone furono uccise e il numero di donne, ragazzi e bambini deportati come schiavi fu incalcolabile 35 . Nel contesto geografico oggetto di questo studio, i popoli ridotti in schiavitù erano per lo più cristiani, ma anche ebrei sia bizantini che europei. Intere famiglie, smembrate e dilaniate dalla lotteria della spartizione dei premi tra i soldati o della vendita di schiavi, venivano deportate in paesi lontani e ignoti. Quest'umanità prigioniera, costantemente incrementata dal jihàd, si perdeva nella totalità indistinta del bottino, il fay' musulmano. Individui atomizzati dal venir meno dei vincoli di solidarietà familiare, religiosa e sociale provocato dalla schiavitù e dalla deportazione, i prigionieri andavano a ingrossare le file dei marnali (schiavi affrancati), che gremivano gli accampamenti militari arabi all'inizio della conquista. Questo aumento demografico, frutto dei bottini di guerra, diede il via al processo di urbanizzazione manifestatosi a partire dall'VIII secolo. I cronisti parlano di province e di intere città del dar ai-islam svuotate dei loro abitanti. Tuttavia non sarebbe giusto sottovalutare il ruolo storico di queste moltitudini rastrellate dal dar al-harb a opera degli eserciti islamici vincitori. Infatti sia i cristiani che gli ebrei, di provenienza rurale o urbana, prelevati dai paesi mediterranei e dall'Armenia letterati, medici, architetti, artigiani, contadini, vescovi, monaci o rabbini - appartenevano tutti a civiltà superiori rispetto a quelle delle tribù arabe o turche. Fu grazie allo sfruttamento di questa «manodopera» servile che venne edificata la potenza militare ed economica dei califfi e si compì il processo di islamizzazione.
I prigionieri venivano inviati nelle campagne e nelle città spopolate dalle guerre per dare nuova vita alle terre abbandonate e gestire i feudi che i musulmani si erano assegnati nei paesi conquistati. Le loro competenze, la loro padronanza delle tecniche tradizionali, la loro abilità manuale nelle diverse attività contribuirono all'arricchimento della umma. I più brillanti pervennero a incarichi di prestigio grazie all'ascendente acquistato sui padroni. Penetrando in tutti gli strati sociali, popolando gli harem e gli accampamenti militari, la maggior parte di essi si convertì all'islamismo. Alcuni approfittarono della propria condizione privilegiata per proteggere gli ex correligionari, come l'eunuco ex cristiano originario di Antiochia, probabilmente rapito durante una razzia o venduto come parte di un bottino di guerra, che divenne governatore di Mossul nel 1171: Poiché era ben disposto nei confronti dei cristiani, come un tempo lo era stato Mardocheo nei confronti dei suoi concittadini, era visto di cattivo occhio dai tayyaye [arabi], che erano gelosi. [...] Nur alDin stesso diceva che il suo zelo [il suo furore] era stato risvegliato, e che era venuto a Mossul a causa di quest'uomo. [...] Q u a n d o quest'uomo partì [1173] per Berrhoe [Aleppo], fu un grande dolore per le popolazioni cristiane che vivevano in Assiria e in Mesopotamia. 36
Che si trattasse di abitanti dei villaggi catturati dai ribelli, o di viaggiatori vittime della pirateria, o di prigionieri inclusi nel bottino di guerra e poi venduti dai soldati, o della cosiddetta «porzione del quinto» riservata al califfo, gli schiavi lavoravano nei campi, popolavano le città, ricoprivano incarichi amministrativi e militari e talvolta giungevano alle prime cariche dello Stato. II numero di prigionieri ebrei, ma soprattutto cristiani - eunuchi, uomini, donne, bambini - era così elevato che il loro riscatto andava oltre le possibilità finanziarie delle comunità, ormai impoverite. Tuttavia, stando a fonti ebraiche e cristiane, alcuni si avvicinavano ai loro correligionari, che li riscattavano e affrancavano. Essi si univano allora alle comunità dhimmT. Quando Zangi si
impadronì di Edessa (1144-1145), tra i 5000 e i 6000 abitanti furono trucidati e 10.000 ragazzi ridotti in schiavitù, ma il patriarca siriaco di Mardln ne riscattò un gran numero, che poi affrancò 37 . La distinzione tra la categoria sociale dei dhimmi e quella degli schiavi non era poi così netta, visto che bastava uno dei tanti rapimenti di donne e bambini infedeli, un raid contro i loro villaggi o quartieri, una rivolta tribale o l'insolvenza della jizya perché un individuo passasse da un giorno all'altro dallo status di dhimmi a quello di schiavo. Infatti niente è più sbagliato del ritenere che i popoli dhimmi godessero di uno status definitivamente acquisito e permanente. La storia della dhimmitudine rivela al contrario la fragilità delle sue strutture giuridiche di protezione, sottoposte a continue minacce. Ad esempio, H a r ü n al-Rashld ricevette un cospicuo numero di schiavi dhimmi in pagamento del kharaj™, e Ma'mùn ridusse in schiavitù un gruppo di tributari copti del Basso Egitto, che deportò in massa nella regione del basso Iraq. Lo Stato non era il solo a rifornirsi di schiavi tra i popoli dhimmi. I nomadi provvedevano sempre a rinnovare le loro scorte con raid e imboscate. In un toccante poema, Yoseph ibn Abitür rievoca i saccheggi, i massacri, la sodomizzazione e la schiavitù inflitte agli ebrei palestinesi nel 1024 dai beduini tayy, guidati da Hasan ibn Jarrah, signore della regione. Questi disordini, provocati dall'indebolimento del potere fatimide seguito alla morte di al-Hakim, sconvolsero anche la Siria. Eppure le popolazioni indigene palestinesi e siriache vittime della furia tribale erano dhimmi, la cui vita e i cui beni in teoria avrebbero dovuto essere protetti. Questi esempi attestano lo scarto tra l'astrattezza teorica e la tendenza semplificatoria proprie dei testi di diritto e la realtà del vissuto quotidiano. Peraltro, come emerge dalla complessità del tessuto storico, la dhimmitudine non investe esclusivamente l'ambito religioso, ma si innesta nei conflitti etnici, culturali, economici, e in particolare, dopo la conversione all'islam dei beduini arabi e turchi, nell'antagonismo tra nomadi e stanziali. Le fonti relative alla Palestina, all'Egitto, alla Mesopotamia, all'Armenia, e, in seguito, all'Anatolia, ai Balcani e alla Persia sa-
vafide, attestano che le famiglie tributarie le quali non riuscivano a far fronte alle tasse islamiche erano costrette a cedere i figli in parziale pagamento della jizya. Viaggiando per l'Armenia, Tavernier notò che gli armeni, troppo poveri per pagare il testatico, erano condannati alla schiavitù insieme alle mogli e ai figli39. A Cipro, dove fece scalo nel 1651, egli apprese che «da tre o quattro mesi più di 400 cristiani si erano fatti maomettani perché non potevano pagare il loro carage [kharaj], ossia il tributo che il Gran Signore impone ai cristiani dei suoi Stati»40. Nel 1652, a Baghdad, i cristiani erano soggetti a esborsi tali «che, quando dovevano pagare i debiti o il carage, erano costretti a vendere i figli ai turchi per onorare gli impegni» 41 . Le molteplici testimonianze - fonti storiografiche relative ad alcune comunità, documenti ufficiali e comportamenti individuali casualmente registrati dalle cronache - attestano che la prole dei dhimmì era considerata una riserva di schiavi da utilizzare per fini economici o politici. Nel 1836 il sultano ottomano ordinò la deportazione di numerosi bambini armeni:
Vendita di una famiglia cristiana a Costantinopoli (Anonimo, «Het ellendigh leven der Turcken, Moscoviters en Chinesen, aende Christcnheyt verttont», Amsterdam 1663).
Per decreto reale, molti bambini armeni furono radunati da Erzerum, da Sebastia e da altre città dell'Anatolia, e poi condotti a Costantinopoli per eseguire lavori forzati a Iblikhane e nei cantieri navali del sultano, dove dovevano tessere le vele delle navi e battere il ferro rovente. Ricevevano pane e indumenti, ma non percepivano né denaro né un salario. Da allora, quest'ordine viene rinnovato anno dopo anno, e da ogni città vengono radunati centinaia di bambini armeni, strappati ai loro genitori e alla loro patria; e dopo un cammino [viaggio] di 30 giorni, che essi compiono a piedi, nudi o vestiti di stracci, vengono condotti a Costantinopoli. Molti muoiono lungo la via, per il freddo e gli stenti, e poi per la tirannia dei loro padroni, mentre altri si convertono all'islam sperando di ottenere la libertà. E nessuno dei capi armeni può protestare presso il governo contro questa diabolica calamità.42 Nel firmano (= decreto) del 1 febbraio 1841, il sultano 'AbdùlMejid confermava al suo vassallo Muhammad 'Ali il comando delle province africane del Darfur, della Nubia, del Kordofan e del Sennar, e aggiungeva: Le incursioni che le truppe sono solite fare di tanto in tanto nei villaggi delle succitate regioni, e in seguito alle quali gli uomini più giovani e vigorosi, ridotti in schiavitù, vengono assegnati ai soldati in pagamento del loro salario, implicano inevitabilmente la distruzione e lo spopolamento di quelle regioni, e sono contrarie alla Nostra Sacra Legge e ai principi dell'equità.43 I prelevamenti delle popolazioni indigene da parte delle truppe regolari, dei ribelli o dei nomadi, sono attestati dalle cronache in tutte le regioni del dar al-islam, tanto in quelle vicine quanto in quelle lontane dal governo centrale. È impossibile stabilire il numero di cristiani e di ebrei che, nel corso dei secoli, passarono dalla dhimmitudine alla schiavitù; gli ultimi furono le donne e i bambini armeni ottomani, deportati tra il 1914 e il 1916.
Il «devshirme» Un'altra importante strategia di islamizzazione fu il devshirmeu. Questa pratica, che fu inaugurata dal sultano ottomano Orkhan (1326-1359), consisteva nel rapire regolarmente, a titolo di tributo, un quinto dei bambini cristiani dai paesi conquistati. Gli intervalli tra i prelevamenti variavano a seconda delle necessità. Alcuni luoghi ne erano esenti: Galata, Giannina, Rodi. Convertiti all'islam, questi giovani, di età compresa tra i 14 e i 20 anni, entravano nel corpo dei giannizzeri, un corpo formato quasi esclusivamente da cristiani. I rapimenti periodici, ciascuno dei quali fruttava un contingente di 1000 individui, con il tempo divennero annuali. I bambini cristiani venivano reclutati tra le file dell'aristocrazia greca, serba, bulgara, armena, albanese e tra i figli dei sacerdoti. Nel giorno stabilito, tutti i padri dovevano radunarsi con i figli in una piazza del paese, dove i funzionari addetti al reclutamento, anch'essi giannizzeri, sceglievano i più belli e i più robusti alla presenza del qadr. Nessun padre poteva sottrarsi a questo tributo di sangue, se non voleva incorrere in severe sanzioni. Spesso il devshirme dava luogo ad abusi: i reclutatori infatti si impadronivano dei bambini in soprannumero per poi rivenderli ai genitori. Coloro che le famiglie, a motivo della loro indigenza, non potevano riscattare, restavano schiavi. Per scoraggiarne la fuga, i ragazzi venivano trasferiti in province lontane e affidati a feudatari musulmani che li trattavano come schiavi. Sottratti alle famiglie, induriti dalle prove subite e trasformati in credenti fanatici dall'educazione ricevuta, questi soldati diventavano la più crudele delle armi contro i loro stessi popoli. Secondo lo storico bizantino Ducas, i giannizzeri della guardia personale di Bayazid I (1389-1402) venivano «tutti assoldati e radunati da diverse nazioni cristiane» 45 . Parallelamente a questo sistema di reclutamento, ne esisteva un altro, che consisteva nel rapire i bambini tra i sei e i dieci anni (gli ig oglan) per destinarli ai serragli dei sultani. Confinati nei palazzi e affidati agli eunuchi, essi subivano un severo addestramento per quattordici anni. Erano loro a rifornire le gerarchie più elevate dello Stato ottomano. Questo puntuale e regolare salasso
Devshirme, reclutamento in massa di bambini cristiani (Balcani): «Ed è uno spettacolo pietoso quando gli Ufficiali del Signore fanno radunare questi bambini, dopo aver esaminato l'elenco preparato dai Sacerdoti e aver ascoltato il giuramento di padri e madri, e scelto i [ragazzi] più forti e più belli [...]. Fu il sultano Selim, il primo a portare questo nome, a introdurre la crudele e riprovevole disposizione in base alla quale li suoi Ufficiali], ogni tre anni, devono recarsi nelle case di ciascuno dei sudditi cristiani delle province a lui soggette, e, ogni cinque figli, prenderne uno: ma spesso ne prendono ben due, e addirittura tre, per casa, contro la volontà del padre e della madre, e ancor oggi osservano tale disposizione più rigorosamente che mai. Ebbene, se i genitori oppongono il benché minimo rifiuto, Dio sa come vengono percossi, massacrati di botte, spesso addirittura uccisi, per quanto potenti e ricchi siano; e nel frattempo [gli Ufficiali] non cessano di legare, imbavagliare e portare via con sé quei poveri ragazzi, nel modo che potete osservare nella presente figura, riprodotta dal vero» (André Thevet, 1575, voi. 2, libro 18, folio 818).
a carico dei popoli vinti implicava da un lato l'aumento della popolazione musulmana, dall'altro il calo proporzionale di quella cristiana. Il devshirme fu teoricamente abolito nel 1656, ma il reclutamento degli ig oglan continuò fino alla metà del XVIII secolo.
L'instabilità politica In un impero così vasto, per giunta conquistato a filo di spada, a partire dalla morte del Profeta la lotta per il potere e le ribellioni delle tribù nomadi sfavorite nella spartizione del bottino (terre e schiavi) scatenarono una serie di scismi politico-religiosi e di guerre civili, uniti a un'endemica anarchia, di cui risentirono soprattutto i popoli dhimmT. Infatti proprio questi popoli, le loro terre, i loro beni e le loro ricchezze divennero la posta in gioco dei conflitti di potere che dilaniavano i clan arabi. Il periodo omayyade, che diede il via a un'intensa colonizzazione islamica, soprattutto in Siria e Palestina, fu un'epoca di guerre civili, di anarchia e di insicurezza. Gli scontri tra sciiti, sunniti e altre correnti secessioniste andavano al di là del problema strettamente religioso delle modalità di elezione del califfo, in quanto le competenze di quest'ultimo non si limitavano esclusivamente alla sfera cultuale, ma includevano anche il controllo politico ed economico di un immenso impero, l'amministrazione delle sue colossali ricchezze e delle imposte pagate da un'innumerevole popolazione di tributari. L'indebolimento del potere di un califfo a seguito delle contestazioni dei clan ribelli implicava la distruzione del fondamento economico di tale potere, l'usurpazione dei suoi territori e della forza lavoro da cui attingeva le sue risorse. Perciò nei paesi vinti al centro delle dispute tra clan rivali i dissensi politico-religiosi tra le tribù arabe sfociarono in una situazione anarchica, caratterizzata dall'incendio di campi e villaggi, dalla cattura e dalla riduzione in schiavitù delle popolazioni tributarie o dai taglieggiamenti perpetrati a loro danno per mantenere e alloggiare le truppe. In un'epoca in cui la legislazione islamica non era ancora chiaramente definita né
uniformemente diffusa all'interno di un territorio per giunta frammentato dalle tendenze secessioniste dei governatori provinciali o dei clan eretici, i dhimml si rassegnarono a una sicurezza solo relativa, ricorrendo al clientelismo in assenza di una legislazione vera e propria. Questa situazione, osservata e vissuta da un contemporaneo, è efficacemente descritta, per quanto riguarda la Mesopotamia dell'VIII secolo, dalla Cronaca di Pseudo-Dionigi. I primi abbasidi tentarono di stroncare i focolai di ribellione, ma alla morte di H a r u n al-Rashld (809) i suoi figli - al-'Amln (809813), sostenuto dagli arabi, e al-Ma'mun (813-833) - iniziarono a contendersi l'Impero. In quel periodo 'Amr, un assassino a capo di un gruppo di banditi, «si recò in Palestina, dove lui e la sua banda si diedero al brigantaggio, alle uccisioni e ai saccheggi» 4é . 'Amr si unì a Nasr ibn Shabat della tribù dei qays, che faceva incetta di prigionieri e di bottino nella Jazlra e nella regione di Damasco ed Emesa, ed essi, «senza alcuna pietà, massacrarono, saccheggiarono, violentarono donne sposate, vergini e bambini. Si impadronirono delle ricchezze di quei paesi e ottennero due vittorie, a Harran e a Edessa; poi bruciarono i villaggi, le chiese e i monasteri» 47 . I cristiani di Edessa se la cavarono con il pagamento di un forte riscatto. I ribelli arabi devastarono la Mesopotamia, la Siria, la Palestina: «Allora in tutto l'Occidente, in Egitto e in Africa apparvero dei ribelli e dei capi briganti; i beni dei cristiani furono presi dagli yamanaye, dagli 'aqulayé, dai gannawaye < ? > e dai sulaymanaye, che provocarono ovunque la rovina dei cristiani»4e. Per sottometterli, il califfo inviò il suo esercito, comandato da 'Abd Allah ibn Tahlr, che: Costrinse gli abitanti a raccogliere il grano e la paglia occorrenti al suo esercito durante l'assedio di Kaysun. L'intera Jazlra e l'Occidente [la Siria] subirono una tale oppressione che i loro abitanti desideravano la morte. Erano talmente sotto pressione che mietevano il grano, l'orzo e gli altri cereali ancora prima del tempo, per trebbiarli e consegnarli [a 'Abd Allah]. Intanto Nasr si aggirava tra i campi, massacrando i mietitori e incendiando tutto quello che c'era [per impedire all'esercito del califfo di approvvigionarsi]. 4 9
Quando 'Abd Allah andò ad assediare Kaysun (824-825), la fortezza di Nasr: «Vi fu una grande oppressione in tutti i paesi, poiché gli abitanti [dhimmi] erano obbligati a fornire i viveri all'accampamento; e quello fu un periodo di carestia e di penuria di ogni genere di prodotti, e in ogni luogo» M. Per proteggersi dai colpi di cannone degli assalitori, Nasr e le sue truppe adottarono uno stratagemma già messo in atto durante l'assedio di Balis: fecero salire sulle mura le donne cristiane con i loro figli, e li esposero alle armi da lancio dei persiani, i quali allora, per ordine di 'Abd Allah, mirarono soltanto alle mura 5 1 . Al secondo assedio di Kaysun, Nasr ripetè la stessa tattica. Nell'842 un filo-omayyade della tribù degli al-Yaman soprannominato Abu Harb radunò un gruppo di briganti e si diede ai massacri e ai saccheggi in Palestina e in Siria. Quando giunse a Gerusalemme, gli ebrei, i cristiani e perfino gli arabi fuggirono. «Il patriarca gli inviò molto oro.» Alla morte di al-Mu'tasim (842), la rivolta si estese fino a Damasco, e fu inviato un esercito nel Nord della Mesopotamia, allora in balia dei briganti e dei raid. Le insurrezioni e il continuo protrarsi del jihad richiedevano costanti movimenti di truppe sul territorio. L'obbligo per i dhimmi di dare alloggio ai numerosi eserciti e di provvedere alle loro necessità mandava in rovina gli abitanti dei villaggi, che spesso si ritrovavano derubati dai loro ospiti. Nel 997 il distretto di Dakukah (a sud di Kirkuk) era retto da due avvocati cristiani. Gli arabi del luogo andarono a dire ai soldati che si apprestavano a saccheggiare il territorio bizantino: «Perché andare cosi lontano? Non avete che da depredare questi due cristiani». Ed essi lo fecero 52 . Nel 1001 gli arabi fomentarono alcune sommosse contro i cristiani di Baghdad, le cui chiese furono distrutte e saccheggiate. Le cronache pullulano di episodi simili, per giunta reiterati nel corso degli anni. A volte i curdi, i turchi o gli arabi depredavano i dhimmi sottraendo loro il bestiame, le dorine e i giovani, a volte le accuse dei rinnegati scatenavano le persecuzioni. I documenti alludono spesso alle vessazioni e alle esazioni perpetrate contro i dhimmi da parte di governatori o di emiri semi-indipendenti.
La creazione di milizie di schiavi turchi a opera di al-Mu'tasim (833-842) introdusse un ulteriore elemento di conflittualità etnica e di anarchia nel dar al-islam. A partire dal IX secolo, i capi di questa soldataglia tennero in scacco il governo con congiure e rivolte. I governatori provinciali, provenienti da questa casta militare, perseguirono una politica di accaparramento delle terre e di controllo diretto delle imposte. Dal X secolo in poi le continue infiltrazioni di turchi e di curdi islamizzati spopolarono le regioni urbane e rurali di Egitto, Siria, Mesopotamia, Armenia, Georgia e Anatolia, teatro di scontri tra le numerose tribù turkmene, che vi fondarono emirati e sultanati autonomi e tra loro rivali. Ad esempio, nel 1057 il sultano Togrul Bey (1038-1065), durante la sua spedizione in Iraq, vedendo che il suo Tesoro era vuoto e le truppe affamate, abbandonò al saccheggio la città di Balad, sul fiume Tigri, presso Mossul 5 3 . Gli abitanti riuscirono a salvarsi pagando un riscatto in oro. Nel monastero nestoriano di Akhmul, dei 400 monaci, 120 furono massacrati e i rimanenti riscattarono le loro vite per una somma esorbitante. Quando, nel 1143, Mas'ud, sultano di Iconium (Anatolia) dopo aver distrutto la città di Sebastia e averne scacciato Ya'qub Arslan, assediò Melitene, 'Ayn alDawla, che la difendeva, estorse ai notabili cristiani cifre astronomiche per pagare le sue t r u p p e Q u e s t e circostanze si ripeterono nel 1152 e nel 1170. Durante il XII secolo i vari principi turchi e curdi, impegnati a scontrarsi nel dar al-islam per strapparsi l'un l'altro i territori e le città dell'Anatolia, della Georgia, dell'Armenia, della Siria e dell'Iraq, saccheggiavano i villaggi dei rivali e ne deportavano gli abitanti dhimmi per ripopolare i loro possedimenti divenuti deserti 55 . Le vittime di tali misure non erano i popoli nemici del dar al-harb, ma gli indigeni dhimmi del dar al-islam. La città di Tikrit (Iraq), che apparteneva ai selgiuchidi, fu interamente distrutta dal califfo al-Muktafi intorno al 1153. Taqi al-Dìn Omar, governatore dell'Armenia e nipote di Salah ai-Din (Saladino), odiava così aspramente i cristiani - riferisce il cronista - che «fece scorrere senza pietà il sangue dei contadini armeni oppressi» 56 .
Il continuo jihad contro i cristiani d'Occidente esasperava il fanatismo: «In quell'epoca [1140], ogni cristiano che pronunciasse, anche involontariamente, i nomi del re dei greci o dei franchi, veniva trucidato dai turchi. Per questo motivo a Melitene morirono molte persone» 57 . In seguito alla disfatta dei franchi a opera di Nùr ai-Din (1149), «i turchi ridussero in schiavitù tutto il paese [la regione di Antiochia]» 58 . Scrivendo dopo le vittorie di Salah ai-Din, il cronista commenta: «È impossibile descrivere a parole l'entità degli schemi, delle derisioni e degli insulti che dovettero subire in quel periodo i cristiani che vivevano nell'Impero degli arabi» 59 . Il favore di cui godevano i cristiani, soprattutto i nestoriani, presso i mongoli, attirava su di loro l'odio islamico. Nel 1261 i musulmani di Mossul saccheggiarono e uccisero tutti coloro che non si convertivano all'islam. Molti tra i religiosi, i notabili e il popolo abiurarono. In seguito, i curdi scesero dalle montagne e assalirono i cristiani massacrandoli; essi inoltre depredarono il convento di Mar Matai e si allontanarono solo dopo aver estorto ai monaci un forte riscatto 60 . Nel 1273 un gruppo di briganti siriaci provenienti da 'Ayn Tab e da Birah calarono sulla regione di Claudia (alto Eufrate) e fecero prigionieri tutti gli abitanti, comprese le donne e una moltitudine di giovani". Nel 1285 un'orda di circa 600 banditi nomadi di etnia curda, turca e araba piombò su Arbll, saccheggiando e massacrando i dhimmT dei villaggi circostanti. Dopo aver devastato l'intera regione di Mardin, essi ripartirono portando con sé un cospicuo bottino costituito da greggi, donne e bambini ridotti in schiavitù. L'anno successivo una banda di 4000 briganti curdi, turkmeni e arabi, devastò e depredò tutta la zona intomo a Mossul 62 . Nel 1289 un gruppo di predoni attaccò un grande villaggio nestoriano sul Tigri: dopo aver ucciso 500 uomini e aver devastato il luogo, si ritirarono portando con sé un ricco bottino, bestiame e circa 1000 prigionieri tra uomini, donne e bambini 63 . Le cronache cristiane e islamiche da cui sono tratti questi esempi attestano il perdurare di tale situazione. Uno dei motivi, probabimente il principale, dell'estinzione delle comunità indigene dhimmT fu il fatto che allo stato di guerra permanente contro gli
infedeli stanziati all'interno del dar al-harb (harbi) si aggiungevano i conflitti tra musulmani e l'anarchia che dilaniavano anche il dar al-islàm. I califfi, i sultani, gli emiri o i governatori provinciali - arabi o turchi che fossero - consolidavano il loro potere contro i rivali facendo emigrare e insediare le loro tribù nei paesi soggetti alla dhimmitudine. I nomadi, in costante e crescente afflusso, sopperivano alle loro necessità soltanto saccheggiando i villaggi e i borghi, usurpando, estorcendo denaro sotto tortura, taglieggiando e rapendo i giovani, merce monetizzabile e fonte di guadagno sul mercato degli schiavi. Spesso i nomadi, approfittando dell'impunità dovuta alla distanza del potere centrale e degli eserciti impegnati a combattere alle frontiere del dar al-harb, devastavano ima provincia fertile e densamente popolata lasciandovi solo macerie e riducendone in schiavitù la popolazione. Le città offrivano maggior sicurezza rispetto alle campagne, sebbene anche in esse l'anarchia e l'avidità di bottino provocassero saccheggi e incendi, oppure estorsioni, a danno dei quartieri dhimmì. Gli stessi fenomeni si verificarono all'epoca della «turchizzazione» dell'Anatolia e dei Balcani. I territori anatolici, di cui i sultani selgiuchidi si erano appropriati con il jihad, costituivano altrettanti Stati ghaziM, in cui affluivano le tribù seminomadi turkmene 65 . La cultura di queste «terre di confine» era dominata dalla nozione islamica di guerra santa e dalle prescrizioni della sharT'a relative agli infedeli e ai loro beni 66 . Lo spirito ghazi e la pressione demografica dovuta all'immigrazione turca in Anatolia e nei Balcani favorirono l'intensificarsi del popolamento islamico 67. Perciò nel XV secolo la mappa demografica delle province della Tracia e dell'Aydin si era ormai totalmente modificata per effetto della massiccia immigrazione dei musulmani, che costituivano già l'80% della popolazione. Poiché la guerra santa era la pietra angolare dello Stato ottomano 6", la fonte della sua espansione, della sua forza e della sua ricchezza, l'intera amministrazione dei territori era dominata da necessità e concezioni politiche improntate al militarismo. Quando, nel XVI e nel XVII secolo, la resistenza degli Absburgo in Eu-
ropa centrale e quella della Persia a Est arrestarono l'espansione ottomana, la macchina da guerra, in mancanza di sfoghi esterni, implose devastando il territorio stesso dell'Impero. Proprio come era accaduto con l'islamizzazione araba, in cui all'età delle conquiste era seguita una fase anarchica, l'immigrazione delle tribù seminomadi provocò disordini incontrollabili in Anatolia, in Armenia e nei Balcani. Cacciati dalle loro terre o sradicati dalle deportazioni, i contadini, gli immigrati turchi, gli avventurieri e gli schiavi in fuga divennero una massa fluttuante, priva di legami e dedita al banditismo, al cui interno i vari leader ribelli reclutavano le loro truppe e i loro scagnozzi 69 . Il movimento ribelle dei jelalT (1595-1628), funzionari decaduti della Porta 70 , mise a ferro e fuoco l'Armenia. Alla testa delle loro bande i leader dei rivoltosi, alleati con le tribù curde o turkmene, devastarono le città e i campi dell'Asia Minore e dell'Armenia, saccheggiando e massacrando, provocando carestie e l'esodo di intere popolazioni: Essi legavano e appendevano gli uomini, chi per i piedi, chi per le braccia, chi per i genitali, e li bastonavano senza pietà; quando li lasciavano andare, erano mezzi morti e respiravano a stento. Alcuni morivano tra i tormenti. A qualcuno venivano cavati gli occhi; altri erano condotti in giro con le narici trapassate da ima freccia, e costretti dagli atroci dolori a mostrare i loro depositi di orzo e di grano, o i ripostigli contenenti i loro beni e le loro ricchezze. Il pavimento delle case e degli edifici veniva scavato per scoprire i tesori sepolti sottoterra; i muri abbattuti, i nascondigli posti sui tetti frugati dai cercatori di oggetti preziosi: il risultato era una devastazione generale.71 La gente correva a nascondersi nelle caverne, sulle montagne, nei sotterranei: «Fu così che tutti i villaggi dell'Ararat furono depredati e devastati, e tutte le semenze alimentari furono portate via, come pure gli abitanti» 71 . Le modificazioni etniche erano accompagnate dal trasferimento delle proprietà fondiarie (fay'), dei possedimenti religiosi,
degli edifici (chiese e sinagoghe divenute moschee) e dei «beni di manomorta» (ivaqf) 73 allo Stato islamico. In seguito al processo di invasione, le etnie indigene entrarono in una spirale irreversibile di estinzione causata dagli espropri, dalle fughe, dalla rovina e dal venir meno degli stili di vita tradizionali e dell'omogeneità del tessuto umano, sociale, culturale e religioso. Speros Vryonis ha analizzato minuziosamente questi processi, che si verificarono dall'XI al XV secolo in Anatolia e in Armenia. I suoi metodi di indagine e di studio, se applicati all'islamizzazione araba della Mesopotamia, della Spagna e del Levante, condurrebbero alle stesse conclusioni. Il quadro generale che emerge dall'esame dell'epoca a cavallo tra il IX e il X secolo in Oriente ci mostra una società cristiana ancora ricca e numericamente prevalente, m a ormai rassegnata a un processo di decomposizione perché aveva delegato il suo futuro politico e la sua sicurezza a popoli che avrebbero finito per soppiantarla.
La funzione economica dei «dhimmJ» La funzione economica svolta dai non musulmani è un fattore decisivo e fondamentale, che regola i rapporti tra dar al-islam e dar al-harb. È infatti la rivendicazione del tributo a scatenare il jihad, ed è il suo pagamento da parte dei vinti a porvi fine. L'origine e la legittimazione del tributo si fonda su un versetto coranico (IX,29) e sul balzello imposto dal Profeta agli ebrei e ai cristiani residenti nei villaggi dell'Arabia. Quest'introito fu la fonte prima di arricchimento della umma, che da esso fu strappata alla sua miseria. Il tributo - in denaro, in natura e in forza lavoro umana - fu costantemente investito nella macchina da guerra e da conquista islamica, al duplice fine di alimentarla e di rafforzarne il potere e il dominio. L'Egitto, che si era rifiutato di pagarlo, fu invaso una seconda volta e l'entità dell'imposta fu triplicata. La Siria, la Mesopotamia, l'Armenia erano soggette a esso tanto quanto le isole greche e le città costiere occidentali. Il bottino e il tributo erano i fondamenti essenziali del sistema politico-teologico del jihad, e
legittimavano i raid e le razzie. Città, province, regioni, paesi interi venivano invasi al fine di riscuotere il tributo, e gli assediati ottenevano la pace solo sottomettendosi a esso, ossia accettando di pagare regolarmente una somma che garantiva loro protezione dai saccheggi, dalla morte o dalla schiavitù finché continuavano a versarla. Era il tributo a tutelare, almeno in teoria, la vita e la sicurezza di quella moltitudine di persone - contadini, artigiani, commercianti, gente di campagna o di città, di religione cristiana (nestoriani, giacobiti, melchiti), zoroastriana o ebraica - che vivevano nei territori islamizzati dal jihad. Ecco perché il tributo fa da trait d'union fra il concetto di jihad e quello di dhimma. È innegabile che ai paesi vassalli sia sempre stata imposta una qualche contribuzione, collettiva o individuale, ma essa non era mai stata integrata in una concezione teologica della conquista. Il taglieggiamento dei popoli stanziali da parte dei nomadi, consuetudine preislamica saldamente radicata in Arabia, costituisce il principio di fondo del clientelismo. Esso suggella l'alleanza tra i sedentari, contadini o artigiani, e i beduini, pastori e guerrieri. Questi ultimi si astengono dal saccheggiare i primi e li proteggono dalle altre tribù in cambio di un riscatto in denaro o in natura. La pratica di taglieggiare i dhimmt, elemento essenziale della dhimmitudine, sopravvisse nel corso dei secoli in molteplici forme. In un paese come la Palestina che, sin dall'inizio della conquista, fu dominata dai nomadi, fino alla fine del XIX secolo gli ebrei pagarono un «prezzo della protezione» alle tribù arabe e turkmene che vivevano allo stato nomade in Galilea, in Samaria e in Giudea. Che si pensi agli ebrei, agli armeni e ai siriaci, insediati in tutto l'Oriente, o ai greci e agli slavi dell'Europa centrale, è innegabile che dal VII al XIX secolo, e ancora agli inizi del XX, le estorsioni a danno dei popoli tributari, anche se perpetrate all'insaputa dello Stato e a scapito dei suoi interessi, si estendevano all'intero dar al-islam e investivano tutti i livelli e gli aspetti della dhimmitudine. Dalle razzie contro i villaggi o i quartieri dhimmt alle incarcerazioni e alle torture inflitte ai notabili, ai rapimenti delle dorine e dei bambini, infiniti esempi attestano lo sfruttamento in
tutte le sue forme della produttività economica dei tributari. Anche la deportazione dei popoli dell'Armenia e del Karabakh da parte dello shah Abbas I fu dettata da motivi economici. Ancor più delle imposte abusive percepite dallo Stato, l'estorsione fiscale praticata dai capitribù o dai governatori costituì un elemento essenziale di erosione e corruzione delle società dhimmT7\ Questo fenomeno fondamentale, e tuttavia assente dai regolamenti governativi ufficiali, è peraltro confermato dalla geografia della dhimmitudine. Oltre agli aspetti economici ed etnici, il tributo ha una valenza religiosa che determina le variazioni della sua base di calcolo, della sua riscossione e della sua destinazione. Tale dimensione teologica, che trascende la funzione economica, impedisce di assimilarlo alla nozione di imposta.
Il tributo: un fattore di strumentalizzazione e di collusione Dopo la conquista araba, i notabili cristiani detenevano ancora il potere economico e amministrativo, mentre i poteri esecutivo, politico e militare divennero un'esclusiva islamica. La maggioranza della popolazione era indigena e cristiana, la minoranza straniera e arabo-musulmana. I cronisti siriaci distinguono i cristiani delle diverse province islamiche con i seguenti termini: egiziani, siriaci, mesopotamici e armeni; la Palestina è ancora chiamata «il paese degli ebrei», mentre il termine tayyaye (banu tayy) designa gli arabo-musulmani, opportunamente distinti dagli indigeni. La riscossione del tributo nelle sue varie forme era assegnata ai leader religiosi dei popoli vinti, i quali ne ripartivano l'ammontare tra le proprie «pecorelle» e versavano all'erario islamico la somma pattuita, prelevandone la quota loro spettante a titolo di beneficio. E così, la scomparsa delle strutture statali bizantine comportò il trasferimento ai patriarcati delle cariche temporali, giudiziarie e fiscali non più detenute dallo Stato. Il califfo accordava l'investitura al notabile o al patriarca che si impegnava a estorcere alla sua comunità il tributo più elevato. La
rivalità tra i diversi leader di ogni comunità era doppiamente vantaggiosa per lo Stato musulmano, che non solo si arricchiva grazie al gioco al rialzo praticato dai capi dei tributari, ma guadagnava anche dei neoconvertiti. Da allora furono le autorità religiose cristiane, assistite dai notabili, a gestire le colossali somme provenienti dalle imposte prelevate ai correligionari. Sotto gli omayyadi, questa funzione fiscale delle alte cariche ecclesiastiche contribuì all'arricchimento di chiese e monasteri e all'accumulo di considerevoli fortune da parte di notabili e vescovi. Il tesoriere di 'Amr era un cristiano, Sabunji, che, sebbene melchita, si era schierato con gli invasori arabi al momento della conquista dell'Egitto. I suoi servigi furono ricompensati con la carica di tesoriere del califfo, carica che, rimasta alla sua famiglia, toccò in seguito al nipote, il vescovo Giovanni Damasceno. Michele il Siro cita l'esempio di Atanasio, precettore di al'Azlz, emiro dell'Egitto e fratello minore del califfo 'Abd al-Malik. Monofisita originario di Edessa, egli accumulò ricchezze incommensurabili e fece costruire alcune chiese. Essendo stato denunciato, fu condotto dal califfo, il quale gli disse: «Atanasio, noi non riteniamo opportuno che un cristiano possieda un patrimonio così grande. Daccene una parte». E Atanasio obbedì, senza per questo impoverirsi 75 . Nella sua Cronaca, Pseudo-Dionigi allude spesso alla miseria degli abitanti dei villaggi e alle ricchezze dei notabili - banchieri, mercanti, prelati ecc. - , che sfruttavano senza pietà i loro correligionari. In qualità di intermediari tra il califfo e lo stuolo dei contribuenti, i leader religiosi e laici accumulavano potere e prestigio, arricchendosi con l'appalto delle imposte e la vendita delle diocesi e delle funzioni ecclesiastiche. Inoltre, il controllo dei commerci e delle banche permetteva loro di svolgere un ruolo economico di rilievo. Questa potente classe di notabili laici ed ecclesiastici rimase in piedi per tutto il periodo della dhimmitudine, di cui era l'inevitabile emanazione. In quanto beneficiaria del potere islamico, essa gli fu sempre fedele. E fu dietro il suo schermo protettivo, di-
venuto via via più sottile nel corso dei secoli, che presero forma gli ingranaggi del rapporto di forza tra il potere economico cristiano e il potere politico islamico, un rapporto la cui evoluzione, modulata dalle congiunture storiche, sfociò nella distruzione del Cristianesimo orientale e nel rovesciamento delle proporzioni demografiche tra le due forze. Il successo e la durata della conquista islamica dipendevano appunto dalla collusione di interessi tra leader dei popoli vinti e califfi: i primi infatti si arricchivano grazie all'asservimento dei loro popoli e i secondi consolidavano il proprio potere grazie alla docilità di quei leader.
Il califfato, potenza protettrice dei «dhimml» L'invasione arabo-islamica dell'Oriente, nelle sue successive ondate, non fu un fenomeno pacifico. Per anni, anzi, per secoli, intere regioni furono devastate nel corso di ricorrenti guerre. L'arruolamento nel jihad di milizie di schiavi curdi e turchi rilanciò l'offensiva di distruzione in Asia Minore, nei Balcani e nel cuore stesso dell'Europa. In questo turbinio di violenze, il califfo rappresentava l'ordine, l'autorità, la stabilità. In qualità di detentore del potere, egli promuoveva la pace o la guerra all'interno del dar al-islam, faceva da arbitro nei conflitti tra dhimml e garantiva la legalità. Inoltre proteggeva i suoi sudditi dalle orde di immigranti che, dalla poverissima Arabia, si spostavano verso le ricche terre del bottino, desiderando avidamente i beni dei tributari non musulmani che popolavano le città e le campagne dell'Impero. Perciò le loro ambizioni si scontravano con la politica del califfo, le cui risorse economiche dipendevano dagli effettivi e dalle attività imponibili svolte dai vinti. Combattere la rapacità dei nomadi significava tutelare l'agricoltura, l'economia mercantile dei borghi e delle città e il gettito fiscale: infatti non soltanto gli arabi beneficiavano di un regime contributivo privilegiato, ma le loro rapine e i loro colpi di mano a danno dei tributari danneggiavano le fonti di introito dello Stato. Il conflitto che vede contrapposti da una parte
i califfi, e poi i sultani, protettori dei cristiani e degli ebrei sottomessi, dall'altra i clan nomadi arabi, e poi curdi e turchi, percorre tutta la storia della dhimmitudine. Questo conflitto, che prese il via all'inizio della conquista con la disputa tra Omar ibn al-Khattab e i guerrieri arabi i quali reclamavano la spartizione immediata delle popolazioni rurali e dei loro beni, trovò espressione in molti hadith, specchio delle preoccupazioni dei governanti musulmani nei primi tempi della dominazione islamica. Cos'avrebbero fatto i musulmani quando non avessero più visto «entrare né un dinar, né un dirham di imposte?» 76. Una situazione che si sarebbe certamente verificata se, in seguito ai maltrattamenti, «Dio avesse indurito i cuori dei tributari e questi avessero rifiutato di pagare l'imposta sui loro beni» 77. Questo imperativo economico ispirò le numerose esortazioni attribuite a Omar, che prescriveva ai musulmani di rispettare i diritti dei tributari, i quali «provvedono al sostentamento delle vostre famiglie» 78 . Abu Yusuf diede vita a una politica altrettanto rispettosa nei confronti dei dhimmi, «spolpandoli entro i limiti legali». Quindi il califfato si configura come istanza protettrice dei tributari indigeni dai tentativi di accaparramento messi in atto dalle tribù beduine islamizzate. Il conflitto tra Stato e nomadi, che si ripropose nel corso delle generazioni in tutto il dar al-islam, spiega la tendenza dei dhimmi cristiani ed ebrei a riferirsi con gratitudine alla suprema autorità islamica, che incarnava e garantiva l'ordine e la continuità - fondamenti di ogni civiltà - contro l'anarchia e la distruzione. A quest'antico conflitto di tipo etnico, politico, economico e sociale, l'islam conferì una dimensione teologica attraverso la sua giurisprudenza che fissò le prerogative dei musulmani e del loro dominio sugli ebrei e sui cristiani. Qualunque fosse la posta politica in gioco nella raffica di guerre e rivolte di cui erano testimoni, i dhimmi si mettevano sempre sotto la protezione del partito al potere, fondando la loro sicurezza e i loro diritti sugli organi religiosi e giudiziari dello Stato islamico, sulla shari'a e sulla dhimma. Questo sentimento di gratitudine e di fiducia verso il califfo o i rappresentanti dell'autorità traspare dalle cronache dei patriarchi siriaci.
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Patriarca greco (1720) («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).
Per giunta l'intransigenza di Bisanzio, che perseguiva una propria politica di unificazione religiosa, spingeva i culti perseguitati a richiedere la protezione islamica. Le conversioni forzate degli ebrei decretate dall'imperatore Leone Isaurico, come pure le persecuzioni contro i monofisiti, gli armeni, i siriaci e i nestoriani, provocarono un'ondata migratoria verso il dar al-islam. Infatti non solo il califfo accoglieva gli ebrei e i cristiani vittime del fanatismo bizantino, m a li proteggeva dalla rapacità delle bande di predoni. Tramite i loro rappresentanti, i dhimmT potevano fargli pervenire le loro lamentele e appellarsi alla sua giustizia. Non era facile discernere il vero dal falso né fare luce sugli intrighi, ed è degno di nota che, malgrado l'onere della gestione di un immenso impero, i califfi e i sultani si sforzassero di rispondere con equità alle lagnanze dei loro sudditi e tributari 79 . L'autorità musulmana interveniva regolarmente, e spesso con imparzialità, nei conflitti che opponevano le varie comunità giacobiti contro melchiti, melchiti contro nestoriani, cristiani contro ebrei e viceversa - e in quelli presenti perfino all'interno di ognuna di esse. È stato sottolineato spesso che il califfato sfruttava gli scismi al fine di distruggere tali comunità; tuttavia oggi si è più inclini a credere che esse si siano distrutte da sole, a causa dell'intensità degli odi e dei fanatismi che le contrapponevano ancor prima della comparsa dell'islam. E non si può negare l'azione moderatrice dello Stato musulmano in questi scontri, né il suo positivo ruolo nei conflitti tra dhimmT. Esistono abbondanti testimonianze sulla benevolenza delle autorità islamiche, califfi o leader regionali, nei confronti dei notabili dhimmT - alti funzionari, medici, astrologi, amministratori che patrocinavano le loro comunità. È a questo livello che emerge la simbiosi plurireligiosa presente nel dSr al-islam, una simbiosi fatta di comunanza di interessi, partecipazione al potere e gestione dell'amministrazione e dell'economia da parte della potente classe di mercanti e letterati che si muoveva nelle capitali e nei circoli di potere. Acquisita al regime, quest'ultima non poteva progredire e sopravvivere che alla sua ombra, grazie alla sua protezione e alla sua benevolenza. E fu all'insegna di questo contra-
sto tra tutela e oppressione, determinato da fattori economici, ideologici e politici, che si perpetuò nel tempo, con alterne vicende, ora positive ora negative, il regime della dhimmitudine.
Oppressione e collaborazione La dominazione islamica sulle popolazioni cristiane riuscì a imporsi e consolidarsi grazie alla stretta collaborazione tra lo Stato musulmano e i notabili dhimmT, che assommavano in sé i poteri spirituale e temporale. Nel complesso l'intero sistema della dhimmitudine si fondava su un delicato equilibrio di rapporti tra la umma dominante e i vinti dominati, equilibrio implicante collaborazione. Una collaborazione inevitabile, dal momento che la nomina dei capi civili e religiosi dei popoli dhimmT era soggetta all'approvazione del potere islamico, che si assicurava in tal modo la sottomissione di preziosi aiutanti. Durante i primi secoli della conquista araba, i dirigenti ebraici, ma soprattutto cristiani e zoroastriani, le folle di maivalT e gli innumerevoli schiavi cristiani ed ebrei provenienti dal bottino di guerra ricoprivano importanti funzioni non solo presso i califfi, m a anche all'interno dell'amministrazione e dell'esercito. Sotto il califfato di 'Abd al-Malik (685-705), «i capi cristiani gestivano ancora, nelle città e nei paesi, tutti gli affari di governo» 8 0 . In Andalusia, il comes (= conte) Rabi, leader della comunità cristiana di Cordova, comandava le milizie di schiavi - tutti cristiani - di alHakam I (796-822), e fu su richiesta di 'Abd al-Rahm3n II (822852) che il metropolita di Siviglia Recafredo e i vescovi delle diocesi andaluse sconfessarono la resistenza dei cristiani mozarabi. Il portavoce del califfo era un funzionario cristiano preposto all'amministrazione delle finanze, il comes Omar, figlio di Antoniano, convertitosi in seguito all'islamismo. In qualità di scribi, segretari, tesorieri, contabili, architetti, artigiani, contadini, medici, letterati, diplomatici, traduttori e politici, i cristiani formavano la base, l'ossatura, l'élite e il nerbo
dell'impero musulmano, che senza di loro probabilmente non avrebbe potuto né sorgere né progredire. I popoli cristiani vinti misero tutte le risorse, le loro competenze, i tesori di tecnologia e di scienza accumulati dalle civiltà precedenti, al servizio dei leader nomadi o seminomadi arabi e più tardi turchi. La letteratura, le scienze, l'arte, la filosofia e la giurisprudenza islamiche non nacquero né si svilupparono in Arabia, vale a dire in un contesto esclusivamente arabo-musulmano, ma tra i popoli conquistati, nutrendosi della loro linfa vitale, del corpo morente ed esangue della civiltà dhimmi. Questa dedizione e questa fedeltà non sfuggirono al potere islamico: non a caso i collaboratori più prossimi del califfo, i suoi consiglieri, erano persiani convertiti ma soprattutto cristiani, e la sua milizia personale, l'ossatura del suo esercito, era costituita da prigionieri cristiani. E non solo perché essi erano più abili e più ingegnosi, ma anche perché la loro vulnerabilità di dhimmi o di schiavi gli assicurava una fedeltà che difficilmente avrebbe potuto trovare fra i suoi correligionari. Durante la fase di disgregazione delle zone rurali, che ebbe inizio sotto gli omayyadi e si accentuò sotto gli abbasidi, nelle capitali, sia Damasco che Baghdad, si formò una potente classe di notabili dhimmi - mercanti, banchieri, commercianti - le cui ricchezze, il cui potere economico e la cui influenza a corte mascheravano il processo di sgretolamento delle classi agricole. Ma le rivolte contadine, come quelle scoppiate in Egitto, restavano localizzate, e, in assenza di sostegno da parte dei notabili e di una guida organica, erano destinate al fallimento, così come i loro artefici al massacro. Perciò i leader islamici, per quanto anticristiana fosse la loro politica, si assicuravano sempre la presenza di eminenti personalità cristiane nel loro entourage più prossimo, per avvalersi dei loro servigi. Ad esempio Nasr, che terrorizzò i cristiani della Mesopotamia all'epoca di Ma'mün, aveva un segretario nestoriano. Questa classe privilegiata di mercanti, banchieri, diplomatici o consiglieri sopravvisse nei secoli, intatta nella struttura ma mutevole nella composizione: presso gli ottomani, infatti, in genere i greci e gli armeni presero il posto degli ebrei, dei cristiani
e degli zoroastriani, che avevano servito i califfi arabi. Presente fin dagli albori dell'Impero, la ritroviamo al suo tramonto, nel 1840, nella descrizione severa ma fedele di un contemporaneo: Ubicini. In effetti, come è stato spesso sottolineato, i leader cristiani e le Chiese si adattarono alla dominazione islamica, che permetteva a una classe privilegiata e minoritaria di notabili di arricchirsi grazie all'appalto per la riscossione del tributo, e alle comunità ecclesiali di mantenere i loro riti e il controllo fiscale, giudiziario e spirituale dei loro fedeli, anche se, in quel prolungato declino che fu la dhimmitudine, le circostanze storiche certamente imprevedibili nell'arco di una vita umana - ridussero il loro potere alle istituzioni ormai sclerotizzate di altrettanti popoli-fantasma. Benché le fonti del periodo arabo ci forniscano abbondanti informazioni su tali rapporti, tuttavia è grazie alla vasta e variegata gamma di autori greci e latini che narrano la storia dei Balcani nel Medioevo che possiamo comprendere meglio la natura di queste relazioni economiche e politiche, di questa simbiosi tra conquistatori turchi e rappresentanti greci e slavi dei popoli sottomessi. Questa cooperazione, che aveva preceduto e facilitato le vittorie ottomane, non era che il prolungamento naturale delle alleanze tra i vari sultani e i principi cristiani 81 . Meno fulminea della conquista araba delle province bizantine d'Oriente, l'avanzata turca contro i centri della cristianità, Bisanzio e Roma, si articolò in quattro secoli: un periodo lungo, costellato da guerre e da alleanze tra popoli che, di volta in volta, passavano dallo scontro alla collaborazione. All'interno di tale processo è possibile cogliere un ulteriore elemento, che si perpetua nel corso della storia: la formazione di una corrente cristiana islamofila, che portò i dhimmT a ingrossare le file degli eserciti islamici, a rafforzarli e a guidarli alla conquista della loro stessa patria. Signori, avventurieri, personaggi assetati di potere le cui ambizioni erano state frustrate affluivano a getto continuo alle corti dei sultani, ai quali fornivano preziosi consigli e dati precisi sulla condizione delle province cristiane. Eludendo le difese più accanite, l'avanzata islamica, efficacemente spalleggiata dall'apporto
dei transfughi e dei rinnegati cristiani, progredì alternando alle guerre gli accerchiamenti e le invasioni pacifiche. Nei Balcani, ad esempio, il frazionamento dei territori serbo e bulgaro in molteplici signorie rivali e indipendenti, e i dissidi tra le Chiese nazionali serba, greca e bulgara diedero luogo a numerose alleanze tra i principi cristiani e gli emiri turchi. Intanto, a Costantinopoli i conflitti dinastici rendevano il trono tributario delle armate turche. Le alleanze venivano suggellate da matrimoni e dall'invio di principi in qualità di ostaggi - nonché di consiglieri greci - alla corte dei sultani. Più anarchica la situazione in Bosnia, dove le rivolte dei feudatari contro la monarchia si inasprirono a seguito del conflitto religioso tra i seguaci del bogomilismo e i cattolici 92 . Ma la collaborazione cristiano-islamica, che affondava le sue radici nelle lotte e nelle ambizioni di potere, non si limitava all'ambito politico: essa era presente anche ai più alti gradi della gerarchia religiosa ortodossa, ansiosa di proteggere dal proselitismo cattolico i numerosi popoli che controllava. L'antica rivalità tra papato e patriarcato, l'intransigenza delle posizioni, il fanatismo e la crudeltà dei conflitti religiosi intercristiani suscitarono in seno al clero greco-ortodosso un potente partito latinofobo e turcofilo. Mehmed II (1451-1481) ricompensò lo zelo filoturco di Gennadios Scholarios, acerrimo nemico dell'unione con Roma, conferendogli l'amministrazione civile e religiosa di tutti i cristiani balcanici. Collaborazione sul piano politico e religioso, quindi, ma anche su quello militare. Infatti i mercenari cristiani spagnoli, greci, slavi e armeni costituirono un significativo supporto per le truppe arabe e turche. Inoltre i principi cristiani, divenuti vassalli degli ottomani, pagavano loro un tributo e dovevano fornire contingenti di soldati che combattevano a fianco dei turchi. A livello sia militare che economico, religioso, politico e sociale, nei normali rapporti tra Stati o in quelli sfociati nella lunga soggezione della dhimmitudine, la cooperazione e l'alleanza, la fusione e l'integrazione costituirono altrettante dinamiche sincretistiche ed evolutive che attraversarono e plasmarono la storia dei rapporti tra islam e cristianesimo.
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Patriarca armeno (1720) («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).
Altre strategie di islamizzazione I pericoli costituiti dallo squilibrio demografico e dal potere economico e amministrativo detenuto dai cristiani vinti non sfuggirono né ai califfi arabi né ai sultani turchi. Se gli interessi economici portavano a limitare le misure di espulsione e di conversione forzata dei dhimmi, la sicurezza militare esigeva invece un incremento della presenza islamica nei territori conquistati, al fine di neutralizzare e spezzare le resistenze locali dei popoli vinti. La durevolezza delle colonizzazioni araba e turca poggiò sulla densità demografica dell'hinterland musulmano, da cui partivano continuamente nuove ondate migratorie. Ma in questi flussi è opportuno distinguere le migrazioni dei popoli dediti alla pastorizia, in cerca di pascoli e ricche città da saccheggiare, dalla politica di colonizzazione perseguita dai califfi, in virtù della quale gli arabi si stanziarono in tutto l'Oriente, nel Maghreb, in Spagna, nelle isole italiane e greche. Al-'Abbas ibn al-Fadl fece insediare dei musulmani in Sicilia, in Calabria e in Longobardia. Durante la spedizione contro Amorium (833), al-Ma'mun diceva: «Io andrò a cercare gli arabi , li condurrò fuori dai loro deserti e li farò stabilire in tutte le città che conquisterò, finché non attaccherò Costantinopoli» 83 . Alla politica di colonizzazione araba si accompagnò un movimento inverso, costituito dal trasferimento e dalla deportazione dei popoli dhimmi, misure, queste, rispondenti a motivi economici e strategici. La forza lavoro veniva spostata nelle zone i cui abitanti erano stati catturati e ridotti in schiavitù o decimati. Ma questo rimpasto etnico mirava soprattutto a rompere l'omogeneità del tessuto sociale, a frammentare i popoli in enclave spesso ostili tra loro e a favorire in essi, strappandoli al loro ambiente, la disintegrazione dei vincoli di solidarietà comune. Siriaci, copti, armeni, indiani, ebrei, nestoriani e melchiti furono deportati nel corso della conquista e della colonizzazione arabe. Durante l'occupazione della Babilonia (Iraq), un considerevole numero di persone era stato spostato nel Hijaz, e alla presa di Cesarea pare fossero stati deportati a Medina 4000 abitanti M. Nel
670 Mu'awiya trasferì numerose famiglie da Bassora in Siria, e sia al-Walrd che Yazrd II ricorsero a misure analoghe. Al-Mansur a sua volta deportò gli armeni di Kahramanmarafl e Samosata. AlMa'mun, nel corso della spedizione volta a domare l'insurrezione copta in Basso Egitto, fece trasferire parte dei ribelli nel basso Iraq, mentre gli altri vennero trucidati sul posto. Gli almoravidi spostarono un gruppo di cristiani da Siviglia (Andalusia) a Meknes (Marocco): secondo il qadi Abu al-Hasan al-MaghribT (XIV secolo), infatti, data l'esperienza dei cristiani in fatto di edilizia, arboricoltura e irrigazione - arti in cui i musulmani non eccellevano di certo, e che peraltro non praticavano - era opportuno farli insediare fra gli islamici per favorire lo sviluppo di quella città e indebolire gli infedeli. E in effetti la deportazione dei tributari in Marocco da parte degli almoravidi comportò un considerevole aumento di ricchezze per questa regione 85 . La politica di colonizzazione araba realizzata mediante il trasferimento delle popolazioni indigene e l'insediamento delle tribù islamiche nei territori conquistati fu applicata dai selgiuchidi (XI secolo), e più tardi dagli ottomani, nel processo di «turchificazione» e islamizzazione dell'Armenia, dell'Anatolia e dei Balcani. Nel 1137 il sultano di Iconium Mas'ùd conquistò Adana (Cilicia) e fece prigionieri tutti i suoi abitanti 86 . Nel 1171 Kilij Arslan II catturò e deportò l'intera popolazione dell'area prospiciente Melitene87. Dopo aver conquistato i Balcani, gli ottomani ordinarono il trasferimento (stirgun, esilio) dei popoli indigeni 88 . Parte dei contadini della Valacchia e della Rumelia fu deportata in Bosnia 89 . Murad I (1359-1389) si impossessò di Adrianopoli e delle regioni circostanti, che popolò di musulmani originari dell'Anatolia 90. Sotto Mehmed II, migliaia di ungheresi, serbi, bulgari e greci furono trasferiti dalle loro province natali, divenute dar al-islam, in altre regioni. Alla caduta di Costantinopoli, nel 1453, fra le 50.000 e le 60.000 persone furono ridotte in schiavitù e deportate. Poi la città deserta fu ripopolata grazie al trasferimento di migliaia di musulmani, di cristiani e di ebrei fatti arrivare da varie province dell'Impero. Nella seconda metà del XV secolo alcuni popoli greci furono trasferiti dal Pe-
loponneso nelle regioni disabitate dello Stato ottomano 9 1 . Nel 1573 circa 20.000 turchi furono spostati a Cipro con le loro famiglie e il loro bestiame 92 . Tutti questi nuclei di persone, distribuiti sia nei villaggi che nelle città, divennero fermenti attivi di islamizzazione. Ma quest'ultima fu messa in atto anche grazie ai rinnegati, che in ogni epoca fornirono un apporto talmente considerevole e svolsero un ruolo così rilevante che meriterebbero una monografia a sé. Qui ci limiteremo a citare quelli della Bosnia, che, secondo molte fonti, si consideravano i migliori tra i credenti, e furono i più violenti oppressori dei loro correligionari. I bosniaci convertiti all'islamismo esercitarono un'influenza tristemente nota soprattutto sull'amministrazione turca, sull'esercito e sul corpo dei giannizzeri. Talora, malgrado le conversioni, venivano mantenuti alcuni legami, soprattutto culturali, con la comunità originaria. Ad esempio, nel XVI e nel XVII secolo il serbo divenne la lingua ufficiale della cancelleria turca per gli affari della Penisola Balcanica. Nel 1557 uno dei gran visir convertiti all'isiàm, Mehmed Sokolovic, attraverso un'estensione della sua giurisdizione ripristinò il patriarcato serbo. Quest'importante istituzione contribuì a preservare la coscienza nazionale serba, in quanto all'ombra delle chiese e dei conventi trovarono riparo i serbi islamizzati consapevoli delle loro origini93. Una situazione analoga si verificò tra i bizantini. Fino alla conquista turca, i ruoli chiave del potere statale erano ripartiti tra i membri di un gruppo di famiglie - sempre le stesse - della nobiltà greca. I legami familiari contribuivano a cementare la solidarietà politica, militare e perfino religiosa, dato che le alte cariche ecclesiastiche (vescovati e patriarcati) erano riservate alla nobiltà. Dopo la conquista, i nobili che si convertirono per conservare le loro proprietà fondiarie e i loro privilegi mantennero comunque i legami con le loro famiglie, che erano rimaste cristiane, in particolare con i membri appartenenti all'alto clero. Un notevole saggio 94 esamina le relazioni tra i nobili islamizzati e i loro familiari cristiani a Cipro dopo la conquista turca (1570-1571).
Benché questo dettagliato studio costituisca un caso a sé, esso illustra efficacemente i processi di islamizzazione attuati dai nobili rinnegati in Turchia, nei Balcani e, qualche secolo prima, in Oriente. Le conversioni erano motivate da considerazioni di ordine materiale: la partecipazione al potere, la conservazione dei privilegi e dello status sociale. Gli islamizzati mantenevano i rapporti con i loro familiari - notabili o prelati che fossero - incaricati di amministrare a livello fiscale e giuridico i popoli cristiani per conto dello Stato musulmano. Alla corte del califfo o del sultano, essi potevano svolgere un'azione moderatrice a vantaggio della loro comunità d'origine, controllando l'esercito, l'amministrazione e la politica. E in effetti, su tutti i territori conquistati si assistette a una tripolarizzazione del potere, che sul piano militare era gestito dagli islamici (arabi o turchi), su quello amministrativo era in mano ai funzionari islamizzati, agli 'ulama, ai qadt ecc., e su quello politico era esercitato dai rappresentanti dei popoli vinti. La conservazione del potere da parte dei nobili cristiani islamizzati (monofisiti, melchiti o nestoriani) favoriva la continuità, garantiva la transizione dallo Stato cristiano a quello musulmano e assicurava il trasferimento delle tecnologie e dei meccanismi amministrativi. All'inizio delle conquiste arabe nel Levante, i monofisiti, che erano stati perseguitati da Bisanzio, erano la religione dominante, mentre il culto greco-ortodosso era proibito. Alla caduta di Costantinopoli, il patriarcato greco-ortodosso ottenne il controllo su tutti i cittadini ortodossi dell'Impero, mentre le Chiese nazionali slave furono soppresse. Questi rapporti di collusione e collaborazione tra islamizzati, notabili e potere musulmano, che si inscrivevano nella dinamica dei reciproci interessi politici, economici e strategici, non sfuggirono ai crociati. Non a caso essi non si fidavano dei greci e dei monofisiti, che più di una volta li avevano traditi. In effetti, senza questa complicità con il mondo dhimmi gli arabi o i turchi non avrebbero potuto dominare i popoli cristiani conquistati né conservare il potere sui loro territori.
I convertiti all'islam introdussero nel governo musulmano la loro esasperata faziosità e il loro settarismo politico e religioso. Ma essi, grazie alla loro azione moderatrice, furono anche gli artefici della cosiddetta età della «tolleranza umanistica», benché l'applicazione di questi termini moderni a contesti medievali non sia che un assurdo anacronismo. Di fatto questo periodo, che fece seguito alle conquiste, assicurò la transizione tra le civiltà indigene e quella islamica, caratterizzata dal fatto che una maggioranza demografica zoroastriana o cristiana era governata da una minoranza musulmana tramite i convertiti all'islam, a loro volta strettamente legati all'aristocrazia dhimmT locale. Tuttavia, con il passare delle generazioni e il consolidarsi, nel lungo periodo, delle conseguenze delle conquiste - trasferimenti di popoli e modificazioni etniche indotte dall'immigrazione - , la solidarietà familiare di tipo transreligioso venne meno, minata dall'emergere, nel corso del tempo, di nuove realtà. In questa categoria rientra anche il gruppo degli scismatici, sebbene esso non sia del tutto assimilabile a quello dei rinnegati; tuttavia accadeva spesso che uno scismatico fosse costretto a convertirsi per salvarsi la vita. Le rivalità, l'ambizione di potere, la sete di ricchezza e di dominio erano responsabili del sorgere e del perpetuarsi, all'interno delle comunità, di croniche tendenze secessioniste, che si trasformavano in altrettanti germi di autodistruzione. Gli scismatici, accecati dalle loro mire personalistiche o dal loro rancore, non esitavano a ricorrere alla diffamazione e alle delazioni, provocando così rappresaglie collettive contro i loro correligionari. Se a volte poteva accadere che trovassero un'eco favorevole ai loro intrighi in certi ambienti musulmani, le stesse manovre potevano anche portare, a seconda delle circostanze e della forza dei rivali, alla loro incarcerazione ed esecuzione. Camuffati sotto le più diverse motivazioni, tali atteggiamenti compaiono con notevole frequenza in tutte le comunità. Troppo numerosi per poter essere repertoriati, gli scismi e le delazioni costituiscono fattori permanenti del tessuto sociologico e umano della dhimmitudine, e svolgono un ruolo non solo disgregativo, ma anche contestativo ed evolutivo, all'interno delle comunità.
Tra i fattori di islamizzazione bisogna ancora segnalare le leggi religiose coraniche che consentivano a un uomo di possedere simultaneamente quattro mogli legali e un numero illimitato di schiave-concubine, nonché di divorziare ogni volta che lo desiderava. L'islamizzazione attuata attraverso le donne - nobili o miscredenti costrette a sposare dei musulmani - , ma anche attraverso gli harem, pieni di prigioniere e di schiave, favoriva il rapido incremento della popolazione islamica, mentre nel caso dei cristiani l'obbligo della monogamia, il divieto di divorzio e le diverse strategie di islamizzazione dei figli provocavano un'inesorabile inversione demografica. Le ondate di conversioni in massa conseguenti alle guerre e alle conquiste acceleravano questo movimento.
Conclusioni Il periodo che va dall'VIH all'XI secolo sembra essere quello in cui, sotto la spinta di particolari eventi storici o ideologici, si innescarono i processi che, a lungo termine, avrebbero condotto all'estinzione dei popoli e delle culture preislamiche del Medio Oriente. Questa evoluzione si inserisce nella relazione simbiotica tra l'Impero islamico e i suoi tributari non musulmani, nella loro dipendenza reciproca e nella loro alleanza obbligata contro i nomadi. Fin dalle origini lo Stato arabo-musulmano si formò, si edificò, si rafforzò e si perpetuò grazie alla produttività e al rendimento fiscale di una forza lavoro costituita da popoli indigeni che non erano né arabi né musulmani. Era quanto prevedeva il regime della dhimma, il contratto che pose fine alle ostilità del jihad: in base a esso i popoli vinti dovevano coltivare, costruire e adoperarsi per sfamare, vestire, alloggiare e arricchire la umma. Le loro imposte servivano a pagare gli stipendi dei soldati e i sussidi assegnati alle tribù insediatesi nei loro paesi. Gli indigeni venivano precettati per combattere negli eserciti, remare sulle galee e svolgere tutte le attività più faticose in settori che andavano dall'agricoltura alla costruzione di strade, dall'edilizia civi-
Ebreo e armeno a Costantinopoli, XVIII secolo (François Charles-Roux, «Les échelles de Syrie et de Palestine au XVllleme Geuthner, Paris 1928, fig. 20).
siècle»,
le e militare alla cantieristica navale, dalla navigazione alla realizzazione di infrastrutture, dalle forniture alimentari alla creazione di manufatti. Era il loro lavoro a produrre le colossali ricchezze fornite dall'Egitto, dalla Siria, dalla Palestina, dalla Mesopotamia, dall'Iran e dalle altre province. Senza questi tesori incalcolabili, estorti dal clero per conto dell'erario islamico, lo Stato arabo-musulmano non avrebbe potuto andare avanti. Perciò era nel suo interesse trattare bene questi popoli, scoraggiarne le conversioni, che avrebbero fatto diminuire i suoi introiti, e conciliarsene i capi lasciando loro le briciole e l'illusione del potere. Da un lato quindi la minoranza araba dominante dipendeva economicamente dalle maggioranze non musulmane, dall'altro però anch'esse erano dipendenti dallo Stato, che garantiva loro protezione militare e giuridica. Gestire un'immensa forza lavoro produttrice di ricchezze: fu questa la sfida politica dei primi califfi. Ma l'influsso dei nomadi all'interno dei territori conquistati e le scissioni interarabe provocarono conflitti di natura politica, economica e religiosa tra gli immigrati e i popoli indigeni. La definizione dello status di questi ultimi avvenne per l'appunto nel contesto di tali conflitti, e risentì dell'impatto culturale tra vincitori e vinti. Il contrasto tra la povertà di mezzi e di cultura dei nomadi, e le prodigiose ricchezze materiali e spirituali (arte, scienza, letteratura) di due civiltà tra le più prestigiose - quella ebraico-cristiana e quella persiana - fu compensato dal senso di superiorità razziale e di predilezione divina proprio della umma araba. Tuttavia lo scarto tra il dogma e la realtà quotidiana diede luogo a reazioni di ostilità e di disprezzo misto ad astio, che trovarono espressione in ben precise norme istituzionali. A questo punto si impone ima distinzione tra le pratiche predatorie dei nomadi, osteggiate dal governo musulmano, e la sistematica politica di oppressione attuata dallo Stato. Sotto gli omayyadi le aggressioni contro i non musulmani sembravano il risultato della caotica situazione seguita alla conquista, nonché dei problemi di coesistenza tra invasori e popoli indigeni, sebbene il tradizionale conflitto tra nomadi e sedentari si fosse già tra-
sformato in conflitto religioso. Giovanni di Nikiu, autore coevo alla conquista dell'Egitto, scrive che gli arabi definivano i cristiani «nemici di Dio» Questo perché ormai l'invasione dei nomadi islamizzati era inserita nell'ideologia religiosa della guerra santa, un dato che sfuggiva ai contemporanei. Perciò ebbe inizio la discriminazione religiosa, inaugurata da Omar I e proseguita da al-Walid e da Omar II. Ma fu l'epoca abbaside a sviluppare e a generalizzare la politica di umiliazione dei popoli indigeni non musulmani, integrandola nel sistema giuridico del dar al-islam. Parallelamente alla crescente ostilità nei confronti dei popoli indigeni da parte di una comunità islamica in continua espansione grazie al duplice apporto dell'immigrazione e degli schiavi liberati e convertiti (marnali), si sviluppavano i fondamenti politicoreligiosi e istituzionali della nascente civiltà musulmana. Insediatasi tra popoli dotati di un ricco patrimonio culturale, essa poteva sbocciare solo cancellando le civiltà che si accingeva a soppiantare. Meticolosa nei dettagli, accanita in ogni tempo, continua nella durata, questa distruzione fu il frutto del lavoro meditato e metodico di giuristi e teologi. Talora imposta alle autorità dalle pressioni popolari, talora decretata da califfi fanatici, la persecuzione delle religioni e delle culture indigene si manifestava in tutti gli aspetti della vita. Sul piano fiscale i dhimmi erano penalizzati dall'obbligo di pagare imposte esorbitanti. Su quello giuridico, la legislazione favoriva i diritti economici, religiosi e culturali della comunità immigrata a scapito di quelli dei popoli indigeni. La distruzione, generalizzata e a più riprese, delle chiese, dei monasteri e delle sinagoghe rendeva impossibile celebrare il culto ed equivaleva di fatto a proibirlo. Il saccheggio degli edifici sacri, la confisca dei beni religiosi di manomorta e il taglieggiamento dei leader delle comunità privavano i credenti dhimmi dei mezzi per mantenere il clero, le scuole e soprattutto le moltitudini di mendicanti e malati, i contadini e gli operai poveri e perseguitati dal fisco. Le ricchezze dei popoli conquistati, trasferite al Tesoro islamico, erano riservate esclusivamente alla umma, e destinate alla proliferazione di moschee e di scuole coraniche, alle dotazioni in denaro o in terreni (waqf) alle
moschee, al proselitismo, ai sussidi per i coloni musulmani delle zone di confine, all'edificazione di palazzi e lussuose dimore per l'elite islamica ecc. Oltre all'impoverimento delle comunità ecclesiastiche, anche i reiterati tentativi di esclusione dei non musulmani dagli organi di controllo dell'amministrazione e delle finanze spogliavano i popoli indigeni del loro potere economico e politico, e al tempo stesso li privavano dei loro mezzi di sostentamento. Sotto gli abbasidi il processo di umiliazione e denigrazione dei popoli indigeni, che procedette di pari passo con quello di glorificazione della umma, divenne sistematico, come se occorresse avvilire i popoli del Medio Oriente per compensare l'abisso culturale che li separava dai loro conquistatori arabo-islamici, i quali peraltro diventavano via via più raffinati man mano che si accostavano ai loro costumi e alla loro cultura. Quello della superiorità musulmana divenne un dogma tanto più imposto nelle leggi e nel quotidiano quanto più era crudelmente smentito dalla realtà. I non musulmani continuavano a fare gli amministratori, i segretari, i letterati, gli artigiani, i contadini negli stessi luoghi in cui ancora sopravvivevano le testimonianze del loro genio (urbanistica, monumenti, scultura, architettura), per non parlare di quelle delle arti minori (tessitura, lavorazione del vetro e dei metalli), di cui i musei conservano tuttora esemplari di ineguagliabile perizia e raffinatezza. Tutti i decreti intesi a umiliare i credenti cristiani ed ebrei dall'obbligo di abbassare le loro case alle discriminazioni in materia di abbigliamento e di cavalcature, finalizzate a esporli alla derisione, alla cacciata dai posti di prestigio accompagnata dalle conversioni forzate - contribuirono a instaurare una perfida e perniciosa persecuzione di Stato. Le fonti dhimmi citano ripetutamente le enormi sofferenze causate da queste umiliazioni, che provocavano sempre delle conversioni. Il periodo che va dall'VIII al XI secolo, pertanto, sembra essere caratterizzato da una svolta irreversibile nell'evoluzione dei popoli dhimmi. Dall'Egitto alla Mesopotamia, fu in quest'epoca che fecero la loro comparsa i «fuggitivi» e gli «esuli» citati dalle fonti cristiane ed ebraiche. Le popolazioni, braccate dal fisco, la-
sciavano i loro paesi d'origine e fuggivano dalla schiavitù conseguente alle razzie. La struttura di questa società rurale si disgregò, le terre un tempo irrigate, coltivate a cereali o ad alberi, furono abbandonate ai nomadi, liberi di percorrerle in lungo e in largo con le loro greggi. Questo sradicamento favorì il brigantaggio, messo in atto da bande di predoni che infestavano le strade. Intanto l'avidità dello Stato, l'accaparramento di terre da parte di governatori semi-indipendenti provenienti dalla casta militare e le croniche insurrezioni delle milizie di schiavi minavano alla radice le fonti di introiti del Tesoro: i contributi fiscali di un'abbondante manodopera dhimmì inserita nel suo ambiente geografico. Questa massa tiranneggiata si riversò nelle città già colme di schiavi deportati dai fronti di guerra o inviati dall'Africa, dall'Europa e dall'Asia. Nelle capitali, l'insubordinazione dei contingenti di schiavi diede luogo a ricorrenti sommosse, accompagnate da saccheggi e massacri % . L'effetto combinato di questi diversi fattori intaccò gli equilibri demografici dei popoli dhimmì, e alla loro progressiva scomparsa si accompagnò il processo di degrado di quei luoghi di antica civiltà. Anche se un banchiere, un mercante o un medico dhimmì potevano ancora acquistare ricchezza e prestigio all'ombra di imo schiavo influente a corte, si trattava pur sempre di apparenze, che non bastavano a scalfire la realtà. Prima che scoppiasse la prima Crociata (1096), il destino dei popoli indigeni cristiani ed ebrei, pur con modalità diverse in ognuno dei paesi di quel vasto territorio che andava dall'Armenia al Maghreb, era già inesorabilmente avviato verso la dhimmitudine. I nestoriani poterono ancora brillare di un effimero splendore sotto i mongoli pagani, ma esso venne meno quando questi si islamizzarono, e le persecuzioni dei mamelucchi e del popolino diedero il colpo di grazia anche ai copti, che fino ad allora avevano conservato con coraggio effettivi di tutto rispetto. Questi tre secoli, che furono quelli dell'islam classico e che videro sorgere i suoi fasti e il suo splendore, furono simultaneamente, e forse ineluttabilmente, quelli del declino e della decadenza delle culture indigene non musulmane.
Vedi Fred McGraw Donner, The Early Islamic Conquest, Princeton University Press, Princeton 1981 [ACLS (American Council of Learned Societies) History E-Book Project, New York 2005], capp. 5 e 6; Dominique Sourdel, Janine Thomine-Sourdel, La civilisation de l'islam classique, Arthaud, Paris 1983 1 (1993), cap. 7; Xavier de Planhol, Les fondements géographiques de l'histoire de l'islam, Flammarion, Paris 1968; Hugh Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates, Longman, London-New York 1986 1 (2004 2 ), pp. 285-287 e cap. 11. 1
Cfr. cap. 2, par. «La nascita e il consolidamento dello Stato musulmano» [N.d.T.]. 'Donner, The Early Islamic Conquest cit., pp. 227 e 231. 4 Anna Comnena in Louis Cousin (a cura di), Histoire de Constantinople depuis le règne de l'Ancien Justin, jusqu'à la fin de l'empire, traduite sur les originaux grecs par Mr Cousin, 8 voli., Foucault, Paris 1672-1674, vol. 3, p. 457; Osman Turan, L'islamisation dans la Turquie du Moyen Âge, «SI», n. 10,1959, pp. 137-152. 2
Niceta Coniata in ivi, vol. 5, p. 174. Xavier de Planhol, De la plaine pamphylienne aux lacs pisidiens. Nomadisme et vie paysanne, Librairie Adrien Maisonneuve, Paris 1958.
5
'Nehemia Levtzion (a cura di), Conversion to Islam, Holmes & Meier, New York 1979; Id., Conversion to Islam in Syria and Palestine, and the Survival of Christian Communities, in Michael Gervers, Ramzi Jibran Bikhazi (a cura di), Conversion and Continuity: Indigenous Christian Communities in Islamic Lands, Eighth to Eighteenth Century, Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto 1990, p. 294; Richard W. Bulliet, Conversion to Islam in the Medieval Period: An Essay in Quantitative History, Harvard University Press, Cambridge (USA)-London 1979. Jean-Baptiste Chabot (a cura di), Chronique de Denys de Tell Mahré, quatrième partie, Bibliothèque de l'École des Hautes Études, Bouillon, Paris 1895, p. 34. 7
II Mogkh è un'antica provincia armena, oggi inclusa nel distretto di Van (Turchia) con il nome di Bahçesaray. L'Arzanene (antico nome persiano dell'Aghdznik o Altzniq) è anch'esso una regione storica dell'Armenia, situata oggi nella parte nord-orientale della Turchia, sul corso superiore del Tigri e a sud-est del Lago Van [N.d.T.]. 8
'Chabot, Chronique de Denys de Teli Mahré cit., p. 46. L'Armenia conobbe all'epoca un regime di terrore che provocò numerose sollevazioni. Il cronista descrive qui i disordini che afflissero la provincia dell'Arzanene, dominata dalla porzione meridionale dei monti del Tauro e popolata da armeni.
10Mamikonian o Mamikonean è il nome di una nobile famiglia che dominò la scena politica armena tra IV e Vili secolo, nota tra l'altro per aver guidato una rivolta contro il califfato arabo tra il 774 e il 775. Con il fallimento della rivolta, la sua supremazia in Armenia finì. Lo storico citato dall'autrice, Johannes Bar Dadai, è forse da identificare con uno dei membri di questa famiglia, (Pseudo)-Yohannes Mamikonean, a cui viene attribuita la Storia di Taron, cronaca romanzata della storia armena che l'autore sostiene di aver composto nel 680-681, ma che in realtà appare successiva all'Vin secolo [N.d.T.]
Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 47. La cronaca accenna confusamente ai dissensi tra i clan armeni: i Bagratuni, che militavano con gli omayyadi, e i Mamikonian, favorevoli agli abbasidi. Altri armeni si schierarono con i bizantini, i quali, all'epoca di Costantino V, invasero la Sofene fino a Erzerum (l'antica Theodosiopolis) nel 751. 11
Ivi, p. 49. "Ivi, p. 56. "Ivi, p. 49. 12
Per questo periodo vedi Joseph-François Laurent, L'Arménie entre Byzance et l'islam depuis la conquête arabe jusqu'en 886, De Boccard, Paris 1919 (nuova edizione riveduta e aggiornata da M. Canard, Librairie BertrandFondation Calouste Gulbenkian, Lisbona-Paris 1980). Dopo la disfatta di Bagravan, l'Armenia subì sanguinose rappresaglie. 15
"Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche (1166-1199), trad. di Jean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924 1 (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), voi. 3, p. 60. 17 Sawirus [Severus] ibn al-Muqaffa', History ofthe Patriarchs ofthe Egyptian Church, 3 voli., Publications de la Société d'Archéologie Copte, Il Cairo 1943-1970, voi. 2, p. 45. "Ivi, pp. 45-46. "Ivi, pp. 52-56. Ivi, p. 56. Ivi, p. 57. 22 Ivi. 20 21
Ivi, p. 59. 1 ghilmdn (sing. ghulSm) erano schiavi-soldati per lo più di origine turca, arruolati in veste di cavalieri nelle truppe dell'Impero ottomano. A partire dalla caduta del califfato abbaside, essi erano raggruppati in interi eserciti. Sembra fossero tenuti al celibato, il che spiega perché, pur ottenendo spesso posizioni di potere, in genere non fondarono dinastie né proclamarono la loro indipendenza [N.d.T.].
23 24
Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates cit., p. 293. Vedi al-Balâdhurî (morto nell'892), The Origins of the Islamic State (Kitab futah al-buldSn), trad, di Philip Khuri Hitti, 2 voli., Murgotten, New York 1916-1924' [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2007], p. 326; Daniel Pipes, Slaves Soldiers and Islam: The Genesis of a Military System, Yale University Press, New Haven-London 1981, pp. 142-143, e capp. 5 e 6. 25 26
Altre fonti parlano di oltre 300.000 prigionieri; vedi Pipes, Slaves Soldiers and Islam cit., p. 124. 27
En-Noweiri [Al-NuwayrT] in 'Abd al-Rahmân ibn Muhammad ibn Khaldun, Histoire des Berbères et des dynasties musulmanes de l'Afrique septentrionale, trad, di William MacGuckin de Slane, 4 voli., Geuthner, Paris 1968 2 (ripr. anast. dell'ed. Algeri 1852-1856), vol. 1, p. 359, appendice. 28
Abu Ja'far Muhammad ibn Jarir al-Tabarî in Aleksandr A. Vasil'ev, Byzance et les arabes, 3 voli., Institut de Philologie et d'Histoire Orientales, poi Fondation Byzantine, Bruxelles 1950, vol. 1, La dynastie d'Amorium (820867), p. 308, e Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 100. 29
Abu al-Hasan 'All 'Izz al-Drn ibn al-Athïr in Vasil'ev, Byzance et les arabes cit., vol. 2, p. 148.
30
Ivi, pp. 152-153. Matteo di Edessa, Tavole cronologiche, in Marius Canard, L'expansion arabo-islamique et ses répercussions, Variorum Reprints, London 1974, vol. 6, p. 255; Osman Turan, Les souverains seldjoukides et leurs sujets non-musulmans, «SI», n. 1 (1953), pp. 65-100.
31 32
Ahmad ibn 'Alï Taql al-Dïn al-Maqrîzï (morto nel 1442), Histoire des sultans mamlouks de l'Égypte, trad, di Étienne Marc Quatremère, 2 voli, in 4 parti, Oriental Translation Fund of Great Britain & Ireland, Paris 18371845, vol. 1 , 4 a parte, p. 34; vedi Bar Hebraeus [Abu al-Faraj ibn Hariin alMalatï], The Chronography of Gregory Abu'l Faraj, the Son of Aaron, the Hebrew Physician Commonly Known as Bar Hebraeus, trad. Ernest Alfred Wallis Budge, 2 voli., Oxford University Press, Oxford 1932, vol. 1, p. 446 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2003, on line http://rbedrosian.com/ BH/bh.html, N.d.T.]. 33
Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 448. Ivi, p. 453. 36 Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, pp. 342-343. 37 Ivi, p. 263. 34
35
Pipes, Slaves Soldiers and Islam cit., p. 147. Jean-Baptiste Tavemier, Les six voyages en Turquie et en Perse de Jean-Baptiste Tavernier [1631-1668], 6 voli., nuova edizione riveduta e corretta, P. Ri38
39
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Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., voi. 3, p. 21. Per l'instabilità politica vedi Sourdel, La civilisation de l'islam classique cit., capp. 2 e 3, e Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates cit., passim.
46
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., voi. 3, p. 22. Ivi, p. 23. Quelli citati sono nomi di tribù originarie dell'Arabia. 49Ivi, p. 52. 47
48
"Ivi. 51 Ivi, p. 53. 52 Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 181. 53 Ivi, p. 210; per un quadro generale dell'invasione dei nomadi e delle loro predazioni in Siria, Palestina, Mesopotamia e Iraq dal IX all'XI secolo vedi Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates cit., cap. 11, «The Bedouin Dynasties», e inoltre pp. 297 e 307-308; Levtzion, Conversion to Islam in Syria and Palestine cit.; Eliyahu Ashtor, A Social and Economic History of the Near East in the Middle Ages, Collins, London 1976 (ed. it. Storia economica e sociale del Medio Oriente nel Medioevo, trad, di Sergio Antonucci, Einaudi, Torino 1982), cap. 2; Kamal S. Salibi, Syria under Islam: Empire on Trial (634-1097), Caravan Books, Beirut-New York 1977. Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 267. Ivi, passim; per l'Anatolia vedi Speros Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1971 1 (1986), p. 183, e Turan, Les souverains seldjoukides et leurs sujets non-musulmans cit. 54
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Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 338.
Ivi, p. 266. Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 289. 59 Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 325. "'Ivi, p. 441. 57 58
"Ivi, p. 450. 62 Ivi, p. 476. 63 II continuatore di Bar Hebraeus, Ivi, p. 483. M Per i ghazi, avventurieri avidi di bottino che affluivano ai confini turchi dell'Anatolia dall'hinterland musulmano per arruolarsi nella guerra santa, e le cui bande devastarono l'Armenia, la Mesopotamia e l'Anatolia preparando la conquista di quei territori da parte di varie tribù turche, cfr. cap. 2, par. «La seconda ondata d'islamizzazione» [N.d.T\. 65 Halil Inalcik, The Emergence of the Ottomans, in Peter M. Holt, Ann Katharine S. Lambton, Bernard Lewis (a cura di), The Cambridge History of Islam,
2 voli, in 4 parti, Cambridge University Press, Cambridge 1977, vol. 1, pp. 263-268. 66 Ivi, p. 269. 67 Ivi, p. 268; Vakalopoulos, History of Macedonia 1354-1833 cit., p. 106. 68 Inalcik, The Emergence of the Ottomans cit., p. 283. m Inalcik, The Heyday and the Decline of the Ottoman Empire, in Holt, Lambton, Lewis, The Cambridge History of Islam cit., vol. 1, p. 343. La corte e il governo dell'Impero ottomano, e per estensione l'Impero stesso [N.d.T.]. 71 Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., vol. 1, pp. 307-309. 71 Ivi, p. 309. 70
" I n età medievale e moderna il termine waqf(«beni di manomorta») designa un regime giuridico ed economico tipico del mondo islamico e riguardante i beni, specie immobili, appartenenti a istituzioni religiose e a enti morali e pertanto considerati inalienabili e non assoggettabili alle tasse di successione [N.d.T.]. L'estorsione fiscale e i taglieggiamenti sono motivi ricorrenti in tutte le cronache dhimmi. La situazione vigente prima dell'epoca delle riforme (tanzlmat) è descritta dal turcofilo Jean Henri Abdolonyme Ubicini, Lettres sur la Turquie ou tableau statistique, religieux, politique, administratif, militaire, etc. de l'empire ottoman, 2 voli., Librairie Militaire de J. Dumaine, Paris 185354 (ed. it. Lettere sulla Turchia o quadro statistico, religioso, politico, amministrativo, militare ecc. dell'Impero ottomano, 2 voli., Ufficio del Cosmorama Pittorico, Milano 1853), voi. 2, pp. 272-363, nota 1. Nelle province armene la situazione non subì sostanziali modifiche fino alla prima guerra mondiale. 74
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 477. El-Bokhâri [al-Bukhâri] (morto nell'869), Les traditions islamiques (alSahîh), trad. di Octave Houdas e William Marçais, 4 voli., Leroux, Paris 1903-1914, tìtolo 58, cap. 17, «La capitation», p. 3.
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Ivi. Ivi, cap. 3. 791 patriarchi copti e giacobiti alludono spesso alla benevolenza incontrata presso alcuni califfi e governatori. Per le misure di protezione nei confronti dei raya contenute nella legislazione ottomana vedi Halil Inalcik, The Ottoman Empire: Conquest, Organization and Economy, Variorum Reprints, London 1978 (Phoenix, London 2000), voi. 7, pp. 134-135. Alcuni firmarli di Murâd III (aprile 1584, novembre 1585, dicembre 1587) proibivano ai musulmani di devastare le pietre tombali del cimitero ebraico (si77 78
tuato nel Corno d'Oro, a Costantinopoli) e ingiungevano loro di porre fine alle vessazioni e ai tentativi di scacciarne gli ebrei: Abraham Galanté, Documents officiels turcs concernant les juifs de Turquie, trad. fr., Haim, Rozio & Co., Istanbul 1931, pp. 62-66; sempre Galanté (Ivi, pp. 191-192) menziona il divieto per i pirati di saccheggiare e ridurre in schiavitù gli abitanti dhimmt di Naxos (Sellm II, marzo 1568), e per i soldati e i musulmani di molestarli. A proposito della gratitudine degli ebrei nei confronti del sultano, vedi Aryeh Shmuelevitz, The Jews of the Ottoman Empire in the Late Fifteenth and the Sixteenth Centuries: Administrative, Economie, Legai and Social Relations as Reflected in the Responso, Brill, Leyden 1984, pp. 33-34. In Arakel di Tabriz si leggeranno con interesse le pagine relative alle relazioni amichevoli intrattenute con gli armeni dagli shah 'Abbâs I e 'Abbâs II. Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 474. Paul Wittek, Deux chapitres de l'histoire des Turcs de Roum (1936), in VictorLouis Ménage (a cura di), La formation de l'Empire ottoman, Variorum Reprints, London 1982 (ed. orig. The Rise of the Ottoman Empire, The Royal Asiatic Society, London 1938), pp. 285-319. 80 81
Antun Dabinovic, Les pactes d'assistance entre les gouverneurs ottomans et les grands seigneurs de Bosnie et de Croatie depuis le XVe au XVIIe siècle, «Turk Tarih Kongressi V», III seksiyon, Ankara 1960, pp. 478-673; Jovan Cvijié, La Péninsule Balkanique. Géographie humaine, Armand Colin, Paris 1918, pp. 344-355 (ed. it. La Penisola Balcanica. Geografia umana, a cura di Marianna Rovere, trad. di Maria Cian, on line http://www.units.it/~labgeo/labgeo/balkan.rtf). Per la decisione di una parte della popolazione ortodossa e del clero di schierarsi con i turchi all'epoca della conquista di Cipro vedi Inalcik, The Ottoman Empire cit., cap. 8, pp. 5-23. 82
Al-Ya'qûbl in Vasil'ev, Byzance et les arabes cit., vol. 1, La dynastie d'Amorium (820-867), p. 274.
83
Régis Blachère, Regards sur /'«acculturation» des Arabo-Musulmans jusque vers 40/661, «Arabica», n. 3, 1956, p. 259; Ashtor, A Social and Economie History of the Near East in the Middle Ages cit., pp. 15-22. 84
Hadi Roger Idris, Les tributaires en Occident musulman médiéval d'après le Mi'yàr d'Al-Wansarisi, in Pierre Salmon (a cura di), Mélanges d'islamologie, volume dédié à la mémoire de Armand Abel, Brill, Leyden 1974, p. 194. Quando lo shah 'Abbâs I deportò gli armeni: «Gli operai tagliatori di pietra furono tenuti da parte, condotti e insediati a Isfahan, perché la loro attività era necessaria in quel luogo per la costruzione delle case, sia del re che del popolo persiano» (cfr. Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., p. 488). 85
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Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 264; per il sistematico ri-
petersi delle deportazioni, si vedano le cronache e i saggi storici sull'Anatolia: in particolare Vryonis Jr., The Decline cit., p. 169, «Displacement of Population», e, infra, «Nomadization»; Turan, L'islamisation dans la Turquie du Moyen Âge cit. All'epoca della fondazione di Qayrawân il governatore dell'Egitto ricevette l'ordine di trasferire un migliaio di famiglie copte o ebraiche per sviluppare l'economia della città, cfr. Shlomo Dov Goitein, Changes in the Middle East (950-1159) as Illustrated by the Documents of the Cairo Geniza, in Donald Sidney Richards (a cura di), Islamic Civilization, 950-1150: A Colloquium Published under the Auspices of the Near Eastem History Group, Papers on Islamic History III, Cassirer, Oxford 1973. Questi trasferimenti, determinati da cause economiche, interessavano intere popolazioni dhimml e non erano riservati esclusivamente ai popoli da poco sottomessi o ridotti in schiavitù. Alcune cronache forniscono indicazioni su questi spostamenti. Le partenze dovevano essere effettuate il giorno stesso, o con margini di rinvio assai brevi, di due o tre giorni, mettendo i deportati nell'impossibilità di vendere i loro beni. Per scoraggiare le fughe essi venivano contati e strettamente sorvegliati, ed era loro proibito spostarsi dai loro nuovi luoghi di residenza, in genere assai distanti da quelli di origine. Quando veniva deportata la popolazione di un intero villaggio, le abitazioni venivano incendiate e il villaggio integralmente distrutto. In tal modo venivano annientati gli archivi della comunità, le biblioteche e il ricordo stesso dei deportati. Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 296. ""Inalcik, The Emergence ofthe Ottomans cit., p. 288. 87
Angelov, Les Balkans au Moyen Âge cit., pp. 249 e 256. Evliya Efendi, Narrative of Travels in Europe, Asia, and Africa in the Seventeenth Century, trad. di Joseph von Hammer, 2 voli., Oriental Translation Fund of Great Britain and Ireland, London 1846-1850 (Johnson Reprint, New York 1968), vol. 1, parte l a , p. 28.
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Angelov, Les Balkans au Moyen Âge cit., p. 262. Inalcik, The Emergence of the Ottomans cit., p. 288. 93 Cvijié, La Péninsule Balkanique. Géographie humaine cit., pp. 353-387. 91
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È il saggio di Costas P. Kyrris, L'importance sociale de la conversion à l'islam (volontaire ou non) d'une section des classes dirigeantes de Chypre pendant les premiers siècles de l'occupation turque (1570-fin du XVIle siècle), in Actes du premier Congrès International des Études Balkaniques et Sud-Est Européennes, Sofia 26 août-1 septembre 1966, III, Éditions de l'Académie Bulgare des Sciences, Sofia 1969, pp. 437-462. 94
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Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évêque de Nikiou, trad. di Her-
mann Zotenberg, Imprimerie Nationale, Paris 1879, p. 234, Demetrios J. Constantelos, The Moslem Conquest of the Near East as Revealed in the Greek Sources of the Seventh and the Eighth Centuries, «Byzantion», n. 42,1972, pp. 329-330; Jean Meyendorff, Byzantine Views of Islam, «DOP», n. 18,1964, pp. 113-132. "Simha Sabari, Mouvements populaires à Bagdad à l'époque abbasside, IXe-XIe siècle, Maisonneuve, Paris 1981. Per tale periodo vedi Richards, Islamic Civilization cit.
H o Q
iV f t II
Capitolo 5 Relazioni tra le comunità «dhimmi»
È innegabile che le relazioni tra i numerosi popoli dhimmi orientali, e più tardi europei, formino una delle trame storiche più complesse. È praticamente impossibile esaminare tutti gli aspetti di queste interazioni, che abbracciano ben tre continenti e tredici secoli: interazioni inestricabilmente intrecciate con il flusso storico, gli elementi congiunturali e le strutture fisse. Tutt'al più è possibile richiamarne alcune caratteristiche, che, attestate già prima della conquista islamica, si perpetuarono in seguito nella dhimmitudine. Su questa sfera di rapporti endogeni ai popoli dhimmi si innestarono poi fattori di evoluzione e trasformazione esogeni, quali le interferenze dei conquistatori islamici o delle potenze europee.
Fattori di interazione endogeni I numerosi e diversi popoli che, dal I al VII secolo, diedero vita al vasto Impero Romano d'Oriente, costituivano un conglomerato di etnie gelose delle loro rispettive culture e dei loro privilegi religiosi, economici e politici. Sanguinosi conflitti etnoreligiosi o di ordine economico e politico opponevano tra loro questi popoli indigeni - egiziani, giudei (ebrei), samaritani, persiani e armeni - , mentre i particolarismi nazionali li portavano a schierarsi contro gli allogeni (greci e romani), legati all'apparato militare delle metropoli imperiali.
A partire dal 337, la cristianizzazione dell'Impero Romano acuì gli irredentismi nazionali, che degenerarono in altrettante forme di fanatismo religioso. Le controversie dogmatiche furono accompagnate da persecuzioni e da guerre civili. Anche se le dispute vertevano per lo più sulla definizione della natura di Cristo, oppure sulla gerarchia dei patriarcati e i limiti delle loro diocesi, o ancora sui riti e le formule liturgiche, la vera posta in gioco era di natura politica ed economica. Eredi degli immensi patrimoni della classe sacerdotale pagana ormai scomparsa, i patriarcati d'Oriente si sforzavano di sottrarre all'ingerenza di Costantinopoli le loro considerevoli ricchezze e il controllo delle chiese e dei monasteri, e di mantenere la loro indipendenza nella nomina dei vescovi e nelle loro specifiche aree di influenza. La prodigiosa crescita del monachesimo cui si assistette a partire dal IV secolo, legata all'enorme aumento dei beni delle Chiese, assicurava a ogni vescovo schiere di monaci ignoranti, che trascinavano il popolino in sanguinose rivolte contro le fazioni cristiane rivali. La conversione forzata del mondo pagano antico come degli ebrei aveva infatti suscitato una fioritura di eresie e scismi che degeneravano in lotte fratricide. Le resistenze nazionali degli egiziani, dei siriaci e degli armeni contro Costantinopoli trovarono espressione nel rifiuto della sua gerarchia religiosa e del dogma sancito dal Concilio di Calcedonia (451). Quest'ultimo aveva adottato, riguardo alla natura di Gesù, la dottrina di papa Leone, secondo cui in Cristo vi è ima sola Persona dotata di due nature inseparabili. Approvata dall'imperatore, essa divenne «ortodossa» e obbligatoria in tutti i suoi domini, e i suoi seguaci si autodefinirono greco-ortodossi, melchiti o calcedoniani. La politica di unità religiosa perseguita dagli imperatori bizantini e dall'episcopato greco diede luogo a persecuzioni e torture contro gli anticalcedoniani, cioè i cristiani monofisiti copti (egiziani), giacobiti (siriaci) e armeni, e contro i nestoriani (Mesopotamia), tacciati come eretici a partire dal 431 L'ascendente acquisito dal clero greco sull'imperatore introdusse la persecuzione tra le pratiche governative e amministrative: i Codici teodosiano (438) e giustinianeo (534), più una serie di
leggi conciliari, diedero vita a una giurisdizione coerente e strutturata, che legittimò in tutto l'Impero bizantino la persecuzione dei pagani, dei cristiani scismatici e degli ebrei. Tali norme vennero insegnate e commentate all'interno delle accademie, dei monasteri e delle scuole patrocinate da Giustiniano e disseminate in tutto l'Impero. Sotto gli imperatori che succedettero a Giustiniano, le persecuzioni contro i monofisiti si intensificarono, e in alcuni periodi essi furono torturati, espulsi, massacrati o addirittura crocifissi, mentre i calcedoniani si appropriavano delle loro chiese, dei loro monasteri, delle loro diocesi. Nella Persia sasanide la situazione era capovolta: le autorità favorivano i nestoriani e i monofisiti, entrambi nemici dei calcedoniani ma non meno divisi tra loro. Le guerre tra i due Imperi sfociavano in vendette e in persecuzioni religiose i cui obiettivi mutavano a seconda che a prevalere fosse l'uno o l'altro schieramento, con i monofisiti e i nestoriani che approfittavano dei successi persiani per cacciare dalle loro sedi i vescovi calcedoniani e viceversa. Esasperati dall'intolleranza del clero bizantino, monofisiti, nestoriani, ebrei e samaritani favorivano le vittorie persiane per sbarazzarsi dei greci. Le guerre civili tra cristiani ortodossi e monofisiti non impedivano loro, all'occorrenza, di unirsi per perseguitare gli ebrei o scacciarli dalle città. I loro beni venivano confiscati, le sinagoghe incendiate o convertite in chiese in Egitto, Palestina, Siria, Mesopotamia e Nord Africa. L'ambizione del cristianesimo di soppiantare l'ebraismo acuì, soprattutto in Palestina, le persecuzioni contro gli ebrei. Melchiti o giacobiti che fossero, alcuni vescovi ben più simili a predoni che a prelati guidavano i loro monaci fanatici all'assalto delle sinagoghe palestinesi. Nel VII secolo gli editti che sancivano la conversione forzata e in massa degli ebrei, o la loro espulsione e la confisca dei beni, si moltiplicarono in tutto il mondo cristiano: dalla Spagna visigota governata dal re Sisebut (612-620) all'Impero bizantino, dove Eraclio, cedendo alle pressioni del vescovo melchita e di quello giacobita di Gerusalemme, aveva imposto agli ebrei di farsi battezzare (632 o 634). Nel 633 il Concilio di Toledo confermò le leggi
antiebraiche volute da Bisanzio, e nel 681 gli ebrei furono di nuovo costretti ad accettare il battesimo sotto la minaccia della morte e delle torture. Il XVII Concilio di Toledo (694) decretò la riduzione in schiavitù degli ebrei convertiti al cristianesimo, il prelevamento dei loro figli dai sette anni in su e l'appropriazione di tutti i loro beni da parte del fisco. Il termine «ebreo», che nel lessico del tempo era divenuto un comune insulto e un sinonimo di «perverso», veniva attribuito a cristiani e musulmani particolarmente malvagi. Pseudo-Dionigi qualificava come «ebreo» un governatore decisamente tirannico e Michele il Siro appioppava tale epiteto a un vescovo calcedoniano da lui detestato. Fu in questo clima di guerre civili e fanatismo che si scatenò l'offensiva arabo-islamica. In Egitto il greco Ciro, che riuniva in sé le cariche di patriarca melchita e di governatore, aveva instaurato da dieci anni un regime di terrore contro i copti: ricorrendo alle torture, alle confische di chiese e alle persecuzioni, egli si sforzava di portare il clero monofisita d'Egitto sotto il controllo e l'autorità del patriarcato di Costantinopoli. In tale contesto, le delazioni e i tradimenti finalizzati a sbarazzarsi dell'oppressione bizantina favorirono gli invasori arabi. Le prime a tradire furono le tribù arabe cristianizzate, ossia i ghassanidi, monofisiti, e i lakhmidi, nestoriani, i quali si schierarono con gli islamici fin dall'inizio della conquista. Nella battaglia dello Yarmuk (636), gli armeni arruolati nelle truppe bizantine si ribellarono e i cristiani ghassanidi passarono dalla parte dei musulmani. Damasco fu consegnata alle armate di Khalid ibn Walld (635) dal tradimento del melchita Mansur ibn Sarjun, nonno di san Giovanni Damasceno. In Egitto, Ciro cedette a 'Amr senza combattere la fortezza di Babilonia (Cairo Vecchia) e Alessandria. Giovanni di Nikiu cita diversi cristiani melchiti e monofisiti che scelsero l'apostasia e aiutarono gli invasori. Gli armeni, il cui territorio fu tanto spesso devastato ora dai bizantini ora dagli arabi, passavano spesso al miglior offerente. In Spagna, oltre che del presunto aiuto degli ebrei, i musulmani si avvalsero della collaborazione del conte Giuliano - a quanto pare un esarca bizantino che li guidò e fornì
loro le sue navi - e della delazione di Oppas, arcivescovo di Siviglia e parente dell'ex re Witiza. L'isola di Cos fu consegnata agli arabi dal suo vescovo e la Sicilia venne conquistata grazie al tradimento dell'ammiraglio greco Eufemio. Questi esempi, sebbene tutt'altro che esaustivi, illustrano tuttavia la situazione. Dopo la sconfitta delle armate sasanidi e l'ingloriosa disfatta dei bizantini, in Oriente gli alti funzionari cristiani perseguirono sistematicamente i loro interessi personali. Desiderosi di risparmiare le razzie alle popolazioni civili, in particolare a quelle dei villaggi, trattarono con i nomadi. Dopo la vittoria araba, i prelati calcedoniani furono espulsi dall'Oriente e il clero monofisita potè recuperare le sue chiese, i suoi conventi e le sue diocesi. I secolari conflitti arabo-bizantini accentuarono la separazione tra i monofisiti, che ormai vivevano nell'Impero musulmano, e il patriarcato di Costantinopoli. Evidentemente l'autorità islamica non vedeva di buon occhio l'unificazione delle Chiese, che avrebbe posto la maggioranza dei suoi sudditi sotto la leadership spirituale di Costantinopoli. La nomina dei patriarchi monofisiti più intransigenti verso Bisanzio otteneva l'approvazione dei califfi; perciò non bisogna stupirsi dei commenti favorevoli al governo islamico, ad esempio, di Michele il Siro, le cui opere esprimono peraltro una virulenta animosità nei confronti dei calcedoniani. Questi commenti, di fatto limitati a due in tutta la voluminosa Cronaca del patriarca giacobita di Antiochia, sono stati riproposti fino alla noia, mentre sono state censurate le innumerevoli lamentele strappate al patriarca dalla persecuzione contro il suo gregge nell'Impero arabo-musulmano. Sotto la dominazione araba, i conflitti intercristiani si trasformarono in guerre tra patriarcati, finalizzate a conservare o sottrarre al clan nemico chiese, monasteri, reliquie. La crisi iconoclasta, che dal 726 all'843 oppose gli iconoduli (fautori dell'adorazione delle immagini e della loro fabbricazione) agli iconoclasti, i quali, attraverso la riforma del culto, desideravano abolire le superstizioni e restringere il potere del clero, divampò a Costantinopoli ma si ripercosse anche in terra d'islam. Gli antagonismi si inasprirono a tal punto che il patriarcato bizantino si sforzò di
convertire al dogma calcedoniano con le persecuzioni i monofisti delle province asiatiche riconquistate da Bisanzio. In alcune regioni, specialmente in Egitto, la potenza delle Chiese d'Oriente, e quindi la loro combattività, era considerevolmente diminuita a partire dal IX secolo. Il progressivo impoverimento del clero, le confische e le distruzioni delle chiese, i ripetuti saccheggi e taglieggiamenti a danno dei monasteri, il declino o la scomparsa di interi villaggi avevano sottratto alla Chiesa la colossale potenza economica di un tempo, che le aveva permesso di seminare l'anarchia politica attraverso gli eccessi di fanatismo. Da allora, la dhimmitudine trasferì sul piano economico i conflitti politico-religiosi tra popoli sottomessi. Nel corso dei secoli le rivalità si giocarono nell'ambiente dei notabili, dei mercanti e dei banchieri che, grazie agli intrighi dell'harem - il favore di un eunuco greco, la complicità di ima concubina cristiana - o la corruzione di un funzionario islamico, riuscivano a proteggere le loro comunità. Ma questo effimero splendore, che a tratti rifulse qua e là nel tempo, si riduceva a un potere solo apparente, frutto del denaro e delle trame di popoli-fantasmi sottomessi a dinastie di schiavi stranieri, che governavano i territori in cui un tempo i loro antenati avevano creato le basi della civiltà. Se sul piano teologico i loro rapporti restavano ostili, sembra invece che, nei loro contatti quotidiani, le comunità dhimml d'Oriente avessero sviluppato una sorta di solidarietà e di compassione, generate dalla comune condizione di insicurezza e umiliazione. Cristiani ed ebrei subivano in egual misura i massacri, le deportazioni, i taglieggiamenti o le riduzioni in schiavitù durante le guerre, le insurrezioni o le razzie. La storia forgiò le regole di una coesistenza che sopravvisse fino ai tempi moderni all'interno di congregazioni racchiuse ognuna, oltre che entro le mura del proprio ghetto, in un millenario strato di pregiudizi. In un'area totalmente diversa, ossia in Anatolia e nell'Europa orientale, gli eventi stavano preparando il terreno per la dhimmitudine di altri popoli, anch'essi un tempo creatori di brillanti civiltà. Quando, verso l'XI secolo, la pressione demografica nell'Asia centrale spinse i turchi islamizzati in direzione dell'Armenia,
le guerre tra ortodossi greci e slavi stavano devastando la Penisola Balcanica. Mentre gli scismi indebolivano le Chiese slave bulgara e serba - che tentavano di affrancarsi dalla tutela romana o bizantina, nel 1054 si consumò la rottura tra la Chiesa latina di Roma e quella greca di Costantinopoli. La dominazione turco-islamica (XI-XVII secolo), che dall'Adriatico si estese fino alle rive del Mar Nero, stese un velo di oblio sugli interminabili conflitti religiosi ed etnici inscritti nella storia e nelle tradizioni dei popoli conquistati, decaduti al rango di millet2 o comunità etnico-religiose 3 . Lungi dallo scomparire, tali conflitti, di natura economica e politica oltre che religiosa, si esacerbarono sotto il dominio dei sultani ottomani, i quali, temendo l'unione dei popoli cristiani in funzione antiturca, sfruttarono abilmente i loro dissensi. L'islam si consolidò e si sviluppò negli immensi territori conquistati man mano che il cristianesimo, stremato dagli scismi, si indeboliva. Questi odi e rancori antichi, che avevano continuato a covare nei secoli della servitù, tornarono a divampare nel XIX e nel XX secolo, durante le guerre di liberazione dei popoli balcanici.
Fattori di interazione esogeni La dominazione e le ingerenze dello Stato islamico La dominazione islamica, che succedette alla teocrazia bizantina, fu esercitata su popoli già fortemente impregnati di intolleranza religiosa. Lo Stato bizantino aveva promulgato molte leggi discriminatorie negli ambiti amministrativo, politico, religioso ed economico. I funzionari responsabili della loro applicazione, dopo che si furono convertiti all'islam, le incorporarono nella legislazione araba: infatti la collaborazione con gli invasori aveva dato luogo a molteplici conversioni nelle classi dominanti greche. Queste leggi bizantine, ispirate a un dogma religioso, si integrarono nella legislazione islamica ma sulla base di principi teologici diversi. Ironia della storia: nei paesi passati sotto il suo dominio, l'islam trovò un potente alleato per distruggere il Cristiane-
simo nel sistema di oppressione ideato e perfezionato dalla Chiesa. Giunti all'apice del loro potere, e nello stesso momento in cui elaboravano la legislazione antiebraica, i Padri della Chiesa prepararono anche, quali strumenti inconsapevoli della storia, la distruzione sul nascere del cristianesimo orientale. E come la Chiesa aveva dimostrato la superiorità del suo dogma umiliando Israele, così l'islam, dal canto suo, dimostrò la propria superiorità gettando l'obbrobrio sulla Chiesa. Più le religioni nemiche venivano mortificate e più la religione dominante, esaltata dal potere temporale, appariva veritiera. Nelle due legislazioni esistevano misure analoghe riguardanti il possesso di schiavi, il proselitismo, la bestemmia, l'apostasia, gli edifici di culto, le conversioni, l'esclusione dalla funzione pubblica, il divieto dei matrimoni misti, la segregazione sociale, il rifiuto di accettare la testimonianza degli «infedeli» in sede giudiziaria. Queste leggi di origine bizantina, sebbene spesso infrante, disegnarono a poco a poco gli elementi generali della condizione dhimmT. I conquistatori arabi vi aggiunsero la jizya, vale a dire il «prezzo del sangue» da versare in cambio del diritto a vivere. In seguito, ulteriori misure mortificanti dotarono la persecuzione di una raffinatezza ben di rado raggiunta. Esse contenevano disposizioni sulla forma e il colore degli indumenti dei dhimmT, sui loro copricapi e le loro calzature. Specificavano quali animali potevano montare, con quali selle e in che modo, e ne disciplinavano i comportamenti per strada, le formule di saluto ecc. Tuttavia occorre sottolineare che la legislazione cristiana relativa agli ebrei e agli eretici, per quanto ispirata a criteri prevalentemente religiosi, prese forma e acquistò i suoi tratti definitivi all'interno del quadro giuridico-istituzionale del diritto romano-bizantino. Per contro lo statuto dei dhimmT, malgrado le apparenti somiglianze dovute al fatto che, pur con alcune varianti, ne incorporò le norme, si sviluppò in seno a una struttura concettuale totalmente diversa. Infatti l'islam inquadrò tutti questi aspetti giuridici in una concezione generale della guerra santa in base alla quale i diritti dei non musulmani erano subordinati a un rapporto di protezione e di clientela mutuato dalle pratiche dei no-
madi arabi. È negli hadith che si manifestano in modo particolare gli elementi tratti dal diritto bizantino: essi, una volta rielaborati e riplasmati in una nuova e coerente struttura religiosa e giuridica, contribuirono a definire la nozione connessa all'islam di dhimmitudine. Ma fu la connessione tra i popoli dhimmT e le guerre di conquista a determinare le modalità della loro storia e il loro peculiare destino. Ogni paragone tra cristianesimo e islam che si limiti alle analogie su questioni di dettaglio e non tenga conto delle differenze essenziali a livello di concezione teologica globale, è destinato a restare superficiale. Tali differenze influenzarono in vario modo i processi di emancipazione, di uguaglianza dei diritti e di integrazione nazionale delle «minoranze» in Occidente e nell'islam. Oltre alle limitazioni previste dalla dhimma, i motivi di interferenza dell'autorità islamica nella vita delle comunità erano molteplici. Si è già visto che la necessità della ratifica da parte del califfo del diploma di investitura dei patriarchi e degli esiliarchi 4 costituiva una fonte perenne di ingerenze e di conflitti interni. Ma anche il proliferare degli scismi all'interno dei popoli tributari e il frantumarsi della loro coesione corrispondevano agli interessi politici dei califfi. La concessione di uno status ufficiale al leader dei caraiti 5 da parte di al-Ma'mun (813-833) accentuò la disintegrazione dell'ebraismo. Nell'825 un editto del califfo decretò che bastava il consenso di dieci uomini, rispettivamente ebrei, cristiani o zoroastriani, per dare vita a una comunità indipendente. Tale editto non poteva che minare l'autorità dei capi dei popoli dhimmT, ancora numericamente in maggioranza, e frammentarne l'omogeneità etnica grazie all'anarchica proliferazione di microcomunità tra loro ostili. I popoli tributari tentarono di limitare l'ingerenza del califfo nella scelta del patriarca e dell'esiliarca, i quali, divenuti suoi fantocci, gli permettevano di controllare i vertici gerarchici e funzionali delle comunità, di creare o di alimentare le divisioni intestine. La venalità delle cariche favoriva la corruzione, e quindi la malleabilità e la controllabilità, degli organismi rappresentativi e dirigenziali cristiani ed ebraici. I vescovi, ad esempio, conferivano le ordinazioni sacerdotali in cambio di doni. Il patriarca Dionigi, in
missione in Egitto (830), descrive l'ignoranza e l'enorme miseria della Chiesa copta, costretta a vendere le dignità ecclesiastiche. E non era la sola: Michele il Siro parla del «traffico di sacerdoti, che era, per così dire, legge tra gli armeni» 6 . In effetti, questo traffico era un ingrediente inscindibile della dhimmitudine. I cronisti cristiani lamentavano la decadenza e la corruzione che inquinavano il cuore stesso della Chiesa finendo per paralizzarla, e lo stesso fenomeno suscitò echi analoghi nelle cronache ebraiche. Gli esempi di interferenze islamiche pullulano nelle cronache siriache. I membri delle fazioni cristiane non esitavano a procurarsi l'appoggio del califfo mediante la corruzione o le denunce: «Dio ha consegnato i cristiani nelle mani dei [loro] nemici; coloro che li detestavano hanno prevalso su di loro. Essi si sono levati contro di noi per porre fine alla libertà che regnava nelle leggi dei cristiani, per non parlare delle vessazioni che i cristiani stessi attiravano su di sé» 7 . Le dispute tra i patriarchi imposti con la forza dai califfi o dai sultani e quelli che erano stati eletti dai sinodi dei vescovi dilaniavano le comunità. Il califfo omayyade Marwan II (744-750) ordinò ai calcedoniani di accettare come patriarca il suo orefice Teofilatto Bar Qanbara di Harran, e costui, alla testa di un esercito, andò a perseguitare e a torturare i monaci maroniti per imporre loro le sue formule liturgiche. Al-Saffah (750-754), il primo califfo abbaside, nominò patriarca dei monofisiti il frate assassino Atanasio Sandalaya, che gli aveva promesso di trasformare il piombo in oro. Al-Mahdi (775-785) proibì al patriarca Giorgio, tornato in libertà dopo nove anni di carcere a Baghdad e sostenuto dai suoi fedeli, di fregiarsi del titolo di patriarca e di esercitarne le funzioni. Spesso due, o anche tre patriarchi rivali, ricoprivano la carica simultaneamente, combattendosi a colpi di scomuniche. L'autorità islamica, costantemente sollecitata in tal senso, interveniva nelle dispute tra vescovi, patriarchi e monaci, oppure faceva da arbitro, in funzione delle somme offerte, nelle contese in cui era in palio una diocesi remunerativa o la conservazione di una chiesa o di un convento agognati da una fazione rivale 8 . Questi contrasti sfociavano spesso in reciproche accuse passibili di
pena capitale - conversione di musulmani al cristianesimo, collusione con Bisanzio o con Roma - e in denunce che provocavano il saccheggio e la distruzione di monasteri e di chiese. Le cronache siriache citano frequentemente, tra le sventure dei monofisiti, l'intervento dei melchiti convertiti all'islam o influenti presso i califfi. Ad esempio, a Damasco il ricco Atanasio fu denunciato dallo scriba calcedoniano di 'Abd al-Malik. Il proliferare di accuse di questo genere, peraltro non necessariamente fondate, attesta la virulenza dei conflitti religiosi. Nel periodo in cui prese forma il potere islamico - all'epoca della raccolta degli hadìth, della loro compilazione e della genesi di un corpus giuridico-amministrativo musulmano nel cuore stesso dei territori e dei popoli conquistati - , la principale preoccupazione delle Chiese d'Oriente era quella di estirpare dalle loro diocesi il paganesimo e le sue pratiche, ancora vive perfino nei monasteri. Esse si sforzavano di definire il dogma e il regolamento liturgico ufficiale, e lottavano per diffondere e rafforzare il cristianesimo combattendo le sempre risorgenti eresie, fonte di divisione e di indebolimento. Gli esponenti del clero monofisita, dal canto loro, rifiutavano di aderire al movimento iconoclasta (VIII-IX secolo), e soprattutto si difendevano dalle usurpazioni e dall'esclusivismo del patriarcato bizantino, alimentati dai temporanei successi di Bisanzio in Asia Minore, in Siria e in Armenia. Gli ebrei, gran parte dei quali viveva ancora in Oriente, erano anch'essi divisi da scissioni intestine che li indebolivano. Il movimento caraita, emerso intomo alla metà dell'VIII secolo, si affermò come forma di rifiuto del Talmud e dell'autorità rabbinica, un rifiuto che si innestava sugli intrighi politici connessi all'elezione dell'esiliarca, rappresentante temporale del potere ebraico presso il califfo. I gaon (i capi delle accademie rabbiniche in Babilonia e in Palestina) si immischiavano indirettamente in questi intrighi proponendo i loro personali candidati. In queste lotte, regolate dalla potenza finanziaria dei mercanti, ognuna delle fazioni rivali tentava di estendere la sua influenza giuridica e religiosa, e quindi anche il suo controllo fiscale, sull'intero popolo ebraico coinvolto nella diaspora. Queste rivalità inteme favorirono le divisioni e l'inde-
bolimento del giudaismo diasporico in un'epoca in cui la distruzione e il saccheggio della Palestina da parte di bande nomadi contribuivano al declino dell'ebraismo in quella regione. La subordinazione dei tribunali dhimml al governo musulmano attraverso la figura del qadi, responsabile dell'attuazione delle loro decisioni penali, minava la loro autorità e apriva la via alle malversazioni. Costantemente sollecitato da opposte fazioni, il potere giudiziario islamico svolgeva il ruolo di arbitro e di paciere non solo quando si trattava di ristabilire la concordia tra comunità rivali, o di riparare a eventuali ingiustizie reciproche, ma anche per porre fine alle contese partigiane che dilaniavano questa o quella comunità. Perciò i giudici dhimmt proibivano ai loro correligionari i ricorsi all'autorità islamica, che erano frequenti e anche assai dispendiosi, per risolvere le loro dispute. In Turchia questa situazione si perpetuò fino al XIX secolo, come attesta, tra molte altre fonti, il seguente rapporto del console generale inglese John Cartwright, risalente al 1835: La legge islamica governa tutti i sudditi del sultano in m o d o uniforme, senza tenere conto delle differenze esistenti tra loro, e a prescindere dall'autorità sui rispettivi fedeli conferita ai leader delle diverse comunità cristiane dell'Impero. Le loro decisioni e quelle dei loro delegati, infatti, possono essere annullate appellandosi alla legge islamica. Così nei processi civili un greco può citare il suo correligionario greco davanti al mehkeme [tribunale] per opporsi a una decisione del patriarcato. 9
Il diritto di controllo rivendicato dai giudici musulmani sugli affari dei tributari diminuiva sensibilmente l'efficacia e il prestigio dei tribunali dhimmT e incoraggiava la corruzione. Proprio com'era avvenuto in Oriente alcuni secoli prima, la conquista turca dell'Anatolia e delle province europee cristallizzò conflitti religiosi e politici secolari. Ormai non erano più i re e i principi cristiani a contendersi il potere, ma una classe di notabili e prelati che esercitavano sui loro popoli un'influenza di cui erano debitori al giogo islamico. Questi leader, che dipendevano
dal sultano per la loro investitura, erano interamente soggetti alla sua autorità. Paradossalmente, fu sotto la dominazione ottomana che il patriarcato greco acquistò sulle Chiese bulgara e serba quel controllo che non era riuscito a ottenere con interminabili guerre. Ma non è tutto! A partire da allora, esso riconquistò il diritto ad amministrare e governare a livello civile e religioso i popoli cristiani sottomessi, e si affrancò dalla tutela imperiale in materia di dogma, disciplina religiosa, elezioni patriarcali e controllo fiscale, nonché da ogni altra ingerenza del basileus. Forte dei suoi privilegi, la Chiesa greca impose ai cristiani slavi la propria lingua e il proprio culto. Quest'egemonia religiosa si associava al potere finanziario detenuto da una consistente burocrazia greca, arricchitasi grazie alla raccolta delle imposte destinate al sultano. Questo dominio spirituale ed economico dei greci sugli altri popoli raya, che si sommava all'oppressione turca, non mancò di suscitare tenaci rancori. A Costantinopoli, l'antica aristocrazia bizantina legata al patriarcato, i fanarioti, diede vita a una classe di alti funzionari interamente dedita agli interessi del sultano. Fu al suo interno che vennero reclutati, a partire dal 1711, i governatori (hospodar) dei principati di Valacchia e di Moldavia. L'amministrazione degli hospodar greci durò fino al 1822, e si segnalò per la sua politica corrotta e venale, particolarmente nefasta per le popolazioni. Dispotismo e corruzione determinavano non solo l'organizzazione interna, ma anche la sorte delle comunità rivali, ansiose di conquistare il favore del potere per sopravvivere o svilupparsi. L'intolleranza nei confronti dei non musulmani era modulata da vari fattori, legati ai contesti specifici di ogni regione del dar alislam. Le persecuzioni erano più accentuate nei luoghi in cui sopravviveva una sola comunità, come quella ebraica nello Yemen e nel Maghreb. Invece nella Spagna araba e nell'Impero ottomano, dove gli ebrei costituivano un'esigua minoranza in mezzo a un folto stuolo di cristiani dhimmT, le loro condizioni erano nel complesso migliori.
Le ingerenze degli Stati cristiani La protezione accordata dalla giurisdizione islamica ai popoli indigeni ebrei e cristiani rientrava nel quadro legale della dhimma, ossia di un trattato di sottomissione. Tuttavia, i cristiani dhimmì beneficiavano di un altro genere di protezione, proveniente dall'esterno del dar ai-islam, per l'esattezza da Bisanzio e dai paesi latini, che tentavano di proteggere i diritti e i possedimenti religiosi dei cristiani, e di mantenere con loro contatti economici, culturali e spirituali. Queste ingerenze del dar al-harb (la cristianità) erano un'ineluttabile conseguenza del jihsd, che aveva trasformato molti paesi cristiani in paesi islamici. La tutela esercitata dal mondo cristiano, comunemente etichettata come «protezione straniera», si sviluppò in diversi ambiti. Essa costituisce un capitolo della storia dei rapporti diplomatici tra dar al-harb e dar al-islam, ed è registrata nelle clausole dei trattati di pace, delle alleanze politiche o degli scambi commerciali stipulati dai califfi o dai sultani con i sovrani cristiani. 1. Protezione religiosa Dopo l'islamizzazione dei paesi cristiani del Levante, della Mesopotamia e del Maghreb, Bisanzio e poi gli Stati latini si sforzarono di salvare dalla distruzione il patrimonio cristiano indigeno attraverso la protezione religiosa. Ciò che contava era soprattutto assicurare la continuità dei pellegrinaggi in Palestina, che, malgrado la sua arabizzazione, restava la culla storica della Bibbia. In cambio di concessioni e doni accordati ai principi musulmani, la cristianità ottenne una relativa sicurezza per i pellegrini, che prima venivano spesso aggrediti, presi in ostaggio o costretti a convertirsi. Essa negoziò inoltre un alleggerimento delle restrizioni previste dalla dhimma in materia di distruzione, riparazione o costruzione di chiese. A seconda dei loro interessi politici, i califfi concedevano questi favori ai sovrani cristiani sotto forma di patti di amicizia o alleanza. Ad esempio, nel IX secolo, all'epoca delle sue guerre contro i greci, H a r u n al-Rashld si assicurò l'alleanza di Carlo Magno attraverso la concessione di un diritto di
protezione per i pellegrini e i cristiani d'Oriente, che beneficiarono così delle elargizioni fatte all'imperatore franco. Talvolta anche gli imperatori bizantini intervenivano per proteggere i cristiani dhimmi. Fu così che i tentativi di avvicinamento tra Bisanzio e l'Egitto prima della morte del califfo al-Hakim (1021) posero fine alle severe persecuzioni anticristiane, e nel 1036 una delle clausole del trattato concluso tra il califfo fatimide e l'imperatore Romano III autorizzò quest'ultimo a ricostruire tutte le chiese distrutte dai musulmani a Gerusalemme, nonché a restaurare il Santo Sepolcro. Sotto il fatimide al-Mustansir (10361094), numerosi melchiti ricoprivano cariche governative a II Cairo. Nel 1064 il patriarca greco divenne il protettore ufficiale del quartiere cristiano di Gerusalemme, mentre Romano IV Diogene finanziò la costruzione delle sue mura nel 1069 10 . Queste concessioni non erano certo unilaterali, infatti i califfi ottenevano dai sovrani cristiani privilegi non meno importanti. Ad esempio, sia a Efeso nel IX secolo che ad Atene nel IX e nell'XI è segnalata la presenza di moschee, e nel 1027 nella moschea di Costantinopoli, attribuita a Maslama (717), si recitava la preghiera in nome del califfo fatimide dell'Egitto al-Zahir. Inoltre, in molte città dell'Anatolia a Trebisonda e in Armenia era presente una folta comunità musulmana, composta di prigionieri, mercanti e viaggiatori. Le tregue che punteggiavano il jihad consentivano lo scambio di prigionieri e l'invio di sontuosi doni e di ambasciatori incaricati di importanti missioni. La delegazione inviata dal basileus Giovanni Cantacuzeno (1341-1354), ad esempio, chiese «al sultano d'Egitto, di Siria e di Giudea» di emanare un editto in favore dei cristiani dei suoi Stati, «in base al quale fosse proibito infastidire i cristiani che vivevano nei luoghi santi di Gerusalemme, nonché profanare le loro chiese o i loro monasteri». Tale editto doveva ribadire il dovere del governatore musulmano di proteggere i dhimmt e tutti i tipi di pellegrini, così che non fossero più né insultati né percossi 12 . L'ambasciatore chiese poi la liberazione degli schiavi greci e la possibilità, per i mercanti di etnia greca, di abitare nelle terre del
sultano. Nel 1391 Bayazld ottenne l'insediamento a Costantinopoli di un qtidt preposto a giudicare i musulmani, mercanti e non 13 . Bisanzio e i regni cattolici, che intervenivano in favore delle comunità cristiane indigene o straniere, vedevano i bilanci dei propri consolati pesantemente gravati dai doni o dalle somme pretese dalle autorità islamiche per far rispettare privilegi regolarmente contestati, quando non arbitrariamente annullati H . Le comunità dhimmi greco-ortodosse e latine, godendo della tutela religiosa di Stati potenti, erano favorite rispetto a quelle monofisite, nestoriane ed ebraiche, ma in compenso erano perseguitate in caso di conflitti. Nel XVI secolo le relazioni privilegiate della Francia con gli ottomani le permisero di proteggere le scuole e le missioni cattoliche presenti nell'Impero turco. Con il firmano dell'ottobre 1596, Parigi ottenne che i pellegrini cristiani non fossero né molestati, né costretti ad abbracciare l'islam con la violenza. L'anno seguente, su richiesta di Enrico IV, il sultano rinunciò a mettere ai ferri i religiosi di Terra Santa e a convertire in moschea la chiesa del Santo Sepolcro. Tuttavia i funzionari musulmani, che visitavano regolarmente le chiese per accertarsi che non fosse stata eseguita alcuna riparazione, trovavano sempre dei pretesti per taglieggiare i religiosi. Nel 1740 l'ambasciatore di Francia Jean-Louis de Bonnac ottenne la riduzione di tali visite vessatorie a un unico controllo annuale, e, dopo ben quarant'anni di negoziati, l'autorizzazione a riparare la volta del Santo Sepolcro. Poiché la stragrande maggioranza dei cristiani delle regioni islamiche era di professione ortodossa oppure monofisita, il papato tentò di ricondurli sotto la sua autorità facendoli convertire al cattolicesimo. La Congregazione per la Propagazione della Fede, creata nel 1622 da papa Gregorio XV, inviò missionari nei territori ottomano e persiano. All'inizio del XVII secolo le missioni francesi dei Padri gesuiti e lazzaristi si diffusero nelle città del Levante e della Persia. L'Ordine dei cappuccini si stabilì a Costantinopoli, ad Aleppo e in Persia nel 1626; i carmelitani e i gesuiti fondarono una missione ad Aleppo nel 1627, mentre i domenicani si insediavano in Siria, in Libano, in Iraq e in Anatolia.
Gli insediamenti missionari sorsero nelle città e nei villaggi popolati dai cristiani, come Aleppo, Gerusalemme, Tripoli, Saida, Damasco, Mossul, Diyarbakir, Baghdad, Mardln ecc. Queste missioni godevano del sostegno della Francia, i cui consoli nel XVII secolo si fecero strumenti della politica unionista romana. I missionari aprirono scuole e tentarono, convertendo i greco-ortodossi, i giacobiti siriaci, i nestoriani e gli armeni, di estendere sia il dominio spirituale del Papa sia la sfera di influenza francese, che avrebbero beneficiato entrambi di un aumento del numero dei cattolici. I patriarchi ortodossi, armeni e siriaci reagirono violentemente a queste usurpazioni, che diminuivano il loro potere e facevano sorgere, all'interno delle loro congregazioni, Chiese scismatiche rivali unite a Roma. Dal canto suo, la Porta non vedeva di buon occhio il fatto che i suoi sudditi ripudiassero la leadership spirituale dei patriarchi - che potevano essere comodamente controllati a Costantinopoli - per mettersi sotto la tutela del suo storico nemico, il Papa, il quale risiedeva a Roma. Essa quindi intervenne a sostegno dei patriarcati e per impedire il passaggio dei suoi sudditi cristiani da un rito all'altro. Negli Stati musulmani le ragioni politiche, sommate alle divergenze religiose, avevano sempre indotto a contrastare gli sporadici tentativi unionisti. I monofisiti, vescovi o laici, che si convertivano al rito latino oppure greco venivano denunciati alle autorità islamiche dalle loro stesse Chiese. I neofiti, accusati di collaborare con i nemici dell'islam per ripristinare la supremazia cristiana, sfuggivano alla morte o con l'apostasia o con la fuga. Come i califfi di un tempo, così i sultani ottomani erano i migliori alleati dei patriarcati orientali, di cui tutelavano rigorosamente le tendenze separatiste. Gli interessi politici del potere musulmano coincidevano con quelli delle Chiese orientali, il cui zelo grecofobo o antipapista veniva ricompensato con il riconoscimento ufficiale dei loro particolarismi o la concessione di chiese o monasteri sottratti a una confessione nemica. Nel 1700 il patriarca armeno monofisita ottenne un firmano che proibiva la presenza di missionari cattolici a Costantinopoli.
A Erzerum il collegio gesuitico, dove 300 armeni si erano convertiti al cattolicesimo, fu chiuso, e i sacerdoti, costretti alla fuga, si rifugiarono per lo più in Persia. Aiutati segretamente dall'ambasciatore francese Charles de Fériol, i cattolici armeni si vendicarono rapendo il patriarca monofisita. Il sultano pose fine alla contesa intestina tra armeni con una severità sfociata nel martirio o nell'apostasia. Tuttavia, i vantaggi commerciali e politici di cui godevano i cattolici incoraggiavano le conversioni, che si moltiplicarono tra i giacobiti del Nord della Siria intorno alla metà del XVII secolo. Il console francese di Aleppo, François Picquet, intervenne perfino nelle elezioni del patriarca, e ottenne dalla Porta firmani di investitura per il suo candidato. Dal canto loro i governatori provinciali, i qâdï e i consoli si intromettevano nelle nomine dei patriarchi. Si arrivò al punto che nella stessa chiesa, appositamente divisa da ima cortina, si celebravano contemporaneamente i riti cattolico e giacobita. La protezione religiosa esercitata dalla Francia favorì all'interno dei vari millet il sorgere di scismi che sfociarono nella nascita di Chiese orientali autonome - armena, giacobita, greca e caldea (nestoriana) - unite a Roma. Con il Trattato di Kuçuk Kainarji (1774), la Russia si assicurò a sua volta il diritto di intervenire a favore dei raya ortodossi. Nel XIX secolo i missionari protestanti, europei e statunitensi, che operavano sotto la protezione delle loro ambasciate, accrebbero il potere d'intervento dei rispettivi paesi convertendo ai loro riti alcuni membri delle comunità dhimmì. I patriarcati difendevano le loro comunità scomunicando i transfughi, proibendo di frequentarli e denunciandoli. Le linee di frattura all'interno di ogni millet si inserivano negli scismi religiosi occidentali e corrispondevano alle rivalità economiche e politiche esistenti tra gli Stati europei protettori. Nel XIX secolo la crescita della potenza economica e politica europea determinò l'intensificarsi del proselitismo tra i dhimmì e dei finanziamenti accordati a strutture missionarie di vario genere, tra cui ospedali, ospizi, scuole, dispensari. Fra le associazioni missionarie va ricordata la London Society for Promoting Chri-
stianity among the Jews, fondata nel 1809, che inviava periodicamente ebrei europei convertiti presso le comunità più disperate e quindi più vulnerabili 15 . All'inizio del XX secolo, poi, un gran numero di caldei (nestoriani) dell'Azerbaijan si convertirono all'ortodossia per mettersi sotto la protezione russa. È impossibile apprezzare fino in fondo i benefici effetti della protezione religiosa, tanto questa fu importante, e addirittura essenziale, per i popoli dhimmT. Ma essa ebbe anche dei risvolti negativi, poiché, ingerendosi nei millet e nelle famiglie attraverso la politica delle conversioni, diede spesso luogo a scismi e a ostilità. Tuttavia il proselitismo dei missionari obbligò il clero e i notabili dhimmT a migliorare i servizi delle loro comunità, dalle scuole agli ospedali all'organizzazione dei millet. Di fronte a nemici temibili, che agivano sotto l'egida delle loro ambasciate e disponevano non solo di risorse consistenti, m a anche di conoscenze superiori, i leader delle comunità dhimmT furono costretti a raccogliere la sfida. La lotta contro l'incuria, le prevaricazioni e le umiliazioni insite nella dhimmitudine favorì il rinnovamento e la modernizzazione delle strutture comunitarie. 2. Protezione commerciale Se la protezione religiosa rispecchiava il carattere frammentato della cristianità (divisa in ortodossi, monofisiti, cattolici e nestoriani), la protezione economica, che dipendeva dalle relazioni commerciali e dagli scambi tra Europa, Asia e Africa, si sviluppò in un contesto internazionale relativamente libero da criteri confessionali. Questi scambi, che risalivano alla più remota Antichità, avevano favorito lo sviluppo della cultura greco-romana e la fioritura delle religioni bibliche in tutto il bacino del Mediterraneo. Sebbene limitati dalla dominazione musulmana, tali rapporti proseguirono e furono definiti da patti e da trattati stipulati tra i paesi cristiani e quelli islamici. È nell'Impero bizantino che va ricercata l'origine degli accordi commerciali i quali, nel corso dei secoli, regolarono gli scambi economici tra l'islam e la cristianità. Nelle città bizantine, in particolare a Costantinopoli, i mercanti latini, raggruppati per nazio-
Condanna di Dergumidas da parte del gran visir. Dergumidas e altri due armeni, che erano passati dal rito gregoriano a quello cattolico, furono decapitati il 5 novembre 1707. Il patriarca Saary e altri sette notabili armeni, che si erano convertiti al cattolicesimo, si fecero musulmani per sfuggire alla morte (Charles de Fériol d'Argentai, «Explication de cent estampes qui représentent différentes nations du Levant avec nouvelles estampes de cérémonies turques qui ont aussi leurs explications», tavola 85, cfr. pp. 44-47).
nalità, controllavano i commerci con l'estero. Nel 1082 Alessio Comneno concesse ai mercanti veneziani una serie di privilegi fiscali e vino statuto di extraterritorialità. Ben presto anche Genova, Pisa e le altre città mercantili latine ottennero vina serie di benefici doganali. Bisanzio accordò ai mercanti stranieri - latini, musulmani ed ebrei - l'esenzione dalla giurisdizione locale, pratica questa che fu adottata dai Regni cristiani di Gerusalemme, di Cipro e d'Armenia. Raggruppati, a seconda della nazionalità, in apposite vie o quartieri, i mercanti erano governati dai loro consoli in base alla giurisdizione dei paesi d'origine. Un'analoga struttura, integrata da alcune varianti determinate dai particolarismi religiosi locali, definiva le modalità del commercio con i paesi cristiani nei paesi islamici. Nel loro Impero gli ottomani non fecero che rinnovare e confermare ai mercanti latini i privilegi di cui già godevano sotto gli imperatori greci. Tali privilegi, riportati in apposite «carte» o «capitolazioni», garantivano la sicurezza dei beni e delle persone dei mercanti stranieri non musulmani, ribadendo la loro libertà individuale, commerciale e religiosa, il loro statuto di extraterritorialità, alcune esenzioni fiscali e il diritto a una navigazione sicura. Le circostanze geopolitiche ed economiche del XVI secolo diedero modo agli ottomani di sviluppare questi rapporti commerciali su scala intemazionale stipulando trattati di tipo preferenziale con alcuni paesi europei. Le capitolazioni proibivano le ricerche, le perquisizioni e l'apposizione dei sigilli all'interno dei consolati. Esse vietavano altresì l'incarcerazione dei consoli ed esentavano i loro interpreti dhimmi dal pagamento del tributo e delle altre imposte arbitrarie. La presenza del console e del suo interprete era obbligatoria nei processi tra musulmani e stranieri deferiti ai tribunali ottomani, in quanto la sentenza doveva fondarsi sugli atti e sui registri, mentre la legge islamica si accontentava della testimonianza dei musulmani. I commercianti stranieri non potevano essere né vessati, molestati o tassati arbitrariamente, né ridotti in schiavitù, giustiziati o puniti per un delitto commesso da un altro straniero. I beni degli stranieri deceduti venivano tutelati e restituiti agli eredi. Poiché le capitolazioni potevano essere abrogate urtila te-
Talmente dal sultano, esse venivano rinnovate all'ascesa al trono di un nuovo regnante. Queste convenzioni commerciali implicavano reciprocità: anche i sudditi musulmani che vivevano in terra cristiana beneficiavano degli stessi diritti e privilegi di cui godevano i mercanti stranieri nell'Impero ottomano. A partire dal 1597 fu inserita in tutte le capitolazioni una serie di misure, tanto inefficaci quanto reiterate, volte a impedire il rapimento di viaggiatori europei e la loro detenzione in schiavitù negli «Stati pirata» maghrebini vassalli della Porta, le cui galee, dedite alla guerra di corsa attraverso i mari, traevano considerevoli profitti dal taglieggiamento dei viaggiatori infedeli. Nel 1528 la Francia ottenne il diritto a proteggere tutti i mercanti stranieri di religione cristiana residenti in Turchia. Il trattato del 1535 tra Francesco I e il sultano Suleyman servì da modello per le capitolazioni accordate in seguito ai vari Stati europei che via via affrancavano i loro commerci dalla tutela francese. I cittadini di questi paesi, i cosiddetti «nazionali», vivevano in locali detti funduq od okel (Egitto), oppure khan (Siria). Queste stazioni commerciali o «scali» contenevano alloggi abbastanza spaziosi da accogliere i mercanti, i loro consoli, i funzionari, i viaggiatori, una cappella, un tribunale e perfino un magazzino. Lo sviluppo e la varietà dei settori commerciali indussero i consoli ad ammettere nei loro scali mercanti privi di rappresentanza consolare, i quali diedero vita alla categoria dei «protetti», distinta da quella dei «nazionali». Anch'essi beneficiavano delle capitolazioni, ma, rispetto ai «nazionali», erano fiscalmente e socialmente discriminati. La classe dei «protetti», già esistente in passato nei regni latini d'Oriente e a Bisanzio, comprendeva indigeni orientali - cristiani melchiti, giacobiti, nestoriani, armeni, ebrei - ed europei. E così in terra d'islam gli interessi economici degli Stati cristiani avevano il sopravvento sui pregiudizi religiosi delle metropoli. In molte città, in particolare nelle isole dell'arcipelago greco e nei paesi barbareschi, la funzione di consoli di alarne potenze europee era esercitata da sudditi raya (= dhimmi). Oltre a costoro, beneficiavano della protezione consolare anche altri raya, tra cui gli interpre-
ti e i funzionari impiegati nei consolati. Ora, questi «protetti» raya, come tutti i sudditi non musulmani del sultano, erano costretti a indossare indumenti discriminatori, a pagare la jizya, simbolo di infamia, e a subire umiliazioni e oltraggi per le strade. Talvolta il sultano o i pasha, scontenti di un console, si vendicavano facendo impalare, impiccare o bastonare il suo interprete (dragomanno) cristiano. I consoli si sforzarono quindi di estendere la protezione di cui godevano al loro personale dhimmi, per sottrarlo alle umilianti norme della giurisdizione islamica. Si formò così, in seno alle comunità dhimmi, una classe privilegiata di notabili, in genere mercanti, protetti dagli Stati europei, le cui condizioni di vita differivano notevolmente da quelle dei loro correligionari soggetti alla dhimma. Tuttavia le capitolazioni non sempre li salvavano dalla rapacità dei governatori, come attestano i rapporti consolari e le testimonianze dei contemporanei. All'ostilità religiosa si aggiungeva la rivalità economica tra le comunità dhimmi, talora in competizione tra loro all'interno di ima stessa categoria professionale: rivalità tanto più aspra quanto più le possibilità economiche erano ridotte e soggette ai capricci di despoti corrotti. Quest'accanita concorrenza economica tra minoranze dhimmi fu all'origine dell'accusa di crimine rituale scagliata nel 1840 a Damasco contro la comunità ebraica dai cristiani siriaci e dal console francese Ratti-Menton lé. Tra ebrei emancipati d'Occidente e comunità ebraiche dhimmi si intrecciarono allora relazioni che capovolsero le strutture del giudaismo orientale. L'incontro tra gli ebrei emancipati residenti in Europa e quelli asserviti dei paesi islamici (1840) diede il via a trasformazioni radicali in seno alle comunità. Infatti, a partire dal 1862, le scuole dell'Alliance Israélite Universelle (AIU), patrocinate da ebrei francesi, modernizzarono l'insegnamento in Nord Africa, nell'Impero ottomano e in Iran 17 . In effetti, nel XIX secolo, in seguito al rinnovamento in atto nei territori musulmani, in questi paesi era emerso prepotentemente il problema di un aggiornamento dell'istruzione scolastica e degli istituti di formazione. I cristiani raya disponevano già - in Turchia,
in Egitto, in Terra Santa, in Libano e in altre regioni islamiche - di strutture scolastiche di elevato profilo culturale, gestite da religiosi o da missionari europei. Le scuole dell'AIU divennero l'equivalente ebraico delle scuole cristiane patrocinate dall'Occidente. E impossibile sottolineare adeguatamente l'importanza culturale, economica e perfino politica della modernizzazione dell'insegnamento per le diverse etnie raya, in particolare per i greci e gli armeni, che grazie a essa recuperarono la loro lingua e la loro cultura nazionale. Il rinnovamento del settore scolastico trasformò le comunità raya indigene, che languivano nell'umiliazione, in élite attivamente impegnate per l'industrializzazione e lo sviluppo dei loro paesi. Mentre i dhimml cristiani godevano della protezione degli Stati europei - specialmente della Francia, della Russia e dell'Austria - e del rispetto per le loro strutture scolastiche, culturali e ospedaliere, gli ebrei potevano contare soltanto sul sostegno del giudaismo europeo, emancipatosi di recente. Questa disparità numerica, economica e politica tra le diverse comunità raya fu tuttavia compensata dalla qualità delle scuole dell'AIU, dal desiderio di modernizzazione degli ebrei e dalla loro lotta contro l'ignoranza, prerogativa e compagna della dhimmitudine. Le innumerevoli lettere e i rapporti dei delegati dell'AIU e, a partire dal 1872, della Anglo-Jewish Association, costituiscono una fonte preziosa per lo studio sociologico della dhimmitudine in un mondo in continua evoluzione. Negli ultimi decenni del XIX secolo, eminenti personalità ebraiche di nazionalità francese e inglese, sostenute e aiutate dai propri consoli, si batterono per l'emancipazione degli ebrei d'Oriente e si impegnarono a migliorarne le condizioni culturali ed economiche nell'Impero ottomano, nel Nord Africa e in Iran. 3. Protezione politica Le congiunture politiche, le alleanze o le guerre tra i paesi islamici e le varie nazioni cristiane si ripercuotevano sulle diverse comunità raya, legate da vincoli religiosi o di protezione agli Stati europei belligeranti o alleati. Tali circostanze influivano non soltan-
to sulle relazioni delle comunità con l'Impero musulmano, ma anche sui rapporti di forza tra le comunità stesse. Ad esempio, nel XVI secolo le relazioni privilegiate della Francia con la Persia e gli ottomani conferirono alcuni vantaggi alle chiese cattoliche. Nel XVIII e nel XIX secolo la situazione conobbe sviluppi favorevoli per l'Inghilterra e le etnie da lei protette, nonché per i culti ortodossi e armeni patrocinati dalla Russia. A partire dal XIX secolo, il timore ispirato alla umma dalle possibili rappresaglie militari dei potenti Stati europei contribuì a migliorare le condizioni dei cristiani. Attraverso le protezioni, l'Europa sviluppò i suoi commerci e, più tardi, diede il via alla sua politica precoloniale. Si è già visto che all'interno della umma il dhimmT costituiva il fulcro di un conflitto tra il potere, impegnato a speculare sulle sue libertà, e il fanatismo delle masse, sempre pronte a defraudarlo di esse: situazione, questa, che lo obbligava a corrompere i suoi oppressori. Nella relazione tra islam e cristianità egli si trovò costretto ad assumere un ruolo ugualmente ambiguo. Infatti gli Stati europei traevano un duplice vantaggio dall'aumento del numero dei loro protetti in territorio musulmano: da un lato, intensificando la loro protezione commerciale, si garantivano lo sviluppo dei loro scambi economici a tassi preferenziali, dall'altro la stessa protezione permetteva loro di intromettersi negli affari del governo islamico. È importante sottolineare che i mercanti musulmani godevano di prerogative analoghe nei paesi cristiani. Tuttavia la loro condizione - quella di liberi individui che viaggiavano per affari senza alcuna restrizione - era totalmente diversa da quella dei dhimmT, che, in quanto parte delle masse indigene vinte, erano soggetti a una legislazione restrittiva e umiliante. Per questo cristiani ed ebrei, tentati dalle offerte dei consoli, ambivano alla protezione europea, la sola in grado di affrancarli da un giogo avvilente, benché al tempo stesso favorisse gli interessi dei paesi occidentali. Così, liberandosi dalla dhimmitudine, essi diventavano gli involontari strumenti della penetrazione europea. Questa collusione tra il dar al-harb e i dhimmT - essi stessi, peraltro, ex harbT per aggirare le oppressive leggi islamiche scriveva già nelle pagine della storia le rappresaglie future.
Nel corso del XIX secolo i popoli cristiani della Turchia europea, ossia i raya serbi, greci, bulgari e slavi, tentarono di liberarsi dal giogo islamico. La riconquista dei loro diritti e della loro libertà religiosa implicava una rivolta contro la dhimmitudine. Questi conflitti di matrice nazionalistica, e, per forza di cose, anche religiosa, esacerbarono le passioni anticristiane della umma18. Per tutto il XIX secolo greci, slavi, maroniti e armeni subirono rappresaglie e massacri, temperati però dalla presenza degli eserciti europei. In queste guerre cristiano-islamiche la popolazione ebraica, in netta minoranza rispetto ai cristiani, assunse un atteggiamento più pavido, più umile e, per necessità, apolitico. Il suo prudente neutralismo, unito alla protezione di eminenti personalità inglesi - di religione ebraica come Rotschild e Montefiore, o anglicana, come Disraeli, Shaftesbury ecc. - in un'epoca in cui l'Inghilterra era la più fedele alleata della Turchia, procurarono ai raya ebrei la benevolenza del governo turco, desideroso di apparire tollerante e liberale agli occhi dell'Europa. Questa disparità di trattamento politico tra raya ebrei e cristiani, e la contestuale ascesa economica degli ebrei in Turchia, in Egitto e in Siria, esasperarono le tensioni intercomunitarie. Ragioni di ordine politico suscitavano l'interesse delle potenze europee nei confronti dei raya cristiani. Desiderose di sottrarre ai russi ogni motivo di intervento militare in favore dei dhimtriì ortodossi - in realtà un pretesto per penetrare nell'Impero ottomano ormai in disfacimento - esse imposero al governo turco il principio dell'uguaglianza dei diritti per tutte le etnie che lo componevano (1839-1856). Quindi la protezione europea influenzò profondamente le condizioni politiche, economiche e sociali dei dhimmi, modificando non solo le loro relazioni con la umma, ma anche i rapporti tra le diverse comunità: un gruppo dhimmi, infatti, poteva trovarsi favorito rispetto ad altri in virtù della potenza del suo Stato protettore e dell'influenza di esso sul sultano. Così, dall'inizio del XIX secolo, la protezione dei paesi europei nel complesso assicurò ai cristiani condizioni migliori di quelle degli ebrei sia in Siria che in Terra Santa, in Egitto e in Persia.
È lecito dire che senza gli interventi e le protezioni europee i popoli preislamici sarebbero interamente scomparsi per effetto del processo di islamizzazione dei loro vecchi territori. Sta di fatto che gli ebrei e i samaritani furono quasi completamente eliminati dalla loro patria palestinese. La situazione dei cristiani nei territori arabizzati in cui un tempo la loro religione era stata potente e maggioritaria era meno grave, ma pur sempre tragica. Invece nello Yemen, in cui non si ebbe mai alcuna influenza straniera, all'inizio del XX secolo esisteva ancora una piccola comunità ebraica, ma nessuna cristiana. Stessa situazione nel Maghreb, in cui riuscirono a sopravvivere alcune comunità ebraiche, per lo più di origine spagnola, ma il cristianesimo scomparve. Se è difficile determinare il grado di influenza dell'Occidente sull'evoluzione dei popoli dhimmi, si può quantomeno affermare che esso, aiutando la Grecia, i paesi balcanici e il Libano, aprì ai dhimmi nuovi orizzonti di dignità e di libertà. Quel che è certo è che, a seguito dei contatti con l'Europa, ebbe inizio un conflitto che oppose l'intero popolo dhimmi, seppur diviso al suo intemo, ai valori tradizionali della dhimma, che avevano consacrato l'usurpazione dei loro territori e la loro umiliazione. Un conflitto condotto simultaneamente dalle diverse comunità, ma in un contesto segnato dalla disunione, dall'odio, dalle rivalità e dal servilismo delle alleanze. La protezione europea innescò due forze contrastanti. Da una parte rallentò il processo di annientamento dei popoli indigeni non musulmani, dall'altra accentuò la dhimmofobia e provocò la rescissione della dhimma, mettendo in moto i vari processi che accelerarono il declino e la scomparsa di tali popoli. La protezione europea è inscindibile dal movimento di emancipazione dei dhimmi: infatti non soltanto lo ispirò ideologicamente, ma all'occorrenza lo sostenne anche con la forza militare. Sul piano ideologico, l'emancipazione dei dhimmi si rifà alle Dichiarazioni dei diritti dell'uomo e al principio di autodeterminazione dei popoli. Nei suoi sviluppi più estremi, tale movimento divenne una guerra di liberazione nazionale dei popoli dhimmi.
1 Henry Bettenson (a cura di), Documents of the Christian Church, Oxford University Press, Oxford 1956 2 (1999 3 ), pp. 65-68.
Per il concetto di millet (lett. «nazione»), uno dei molteplici raggruppamenti etnico-religiosi in cui erano suddivisi i sudditi nell'Impero ottomano, cfr. Bat Ye'or, Eurabia, Lindau, Torino 2007, p. 334 e nota 1, p. 340 [N.d.T.]. 2
'Benjamin Braude, Foundation Myths of the Millet System, in Benjamin Braude, Bernard Lewis (a cura di), Christians and Jews in the Ottoman Empire: The Functioning of a Plural Society, 2 voli., Holmes & Meier, New York-London 1982, vol. 1; Zvi Ankori, Encounter in History. Jews and Christian Greeks in Their Relation through the Ages (testo in lingua ebraica), University of Tel Aviv, Tel Aviv 1984, cap. 4 (pp. 66 sgg.) e cap. 6 (pp. 157 sgg.); Steven B. Bowman, The Jews of Byzantium, 1204-1453, University of Alabama Press, Tuscaloosa (Alabama) 1985. L'esiliarca (da non confondersi con l'esarca, governatore delle province nell'Impero bizantino) era il capo della comunità ebraica dall'esilio babilonese all'XI secolo [N.d.T.]. 4
Sui caraiti, setta ebraica fortemente influenzata dalle correnti razionalistiche islamiche dell'epoca (sec. IX) e contestatrice del valore della tradizione postbiblica, vedi infra, in questo stesso sottoparagrafo, e http://www.cabala.org/articoli/ebraismo.shtml [N.d.T.]. 5
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche (1166-1199), trad, di Jean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924" (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), voi. 3, p. 359.
6
Ivi, voi. 3, p. 109. "Ivi, p. 358 e passim. 7
'Console generale John Cartwright (Costantinopoli), Report from His Majesty's Consul General at Constantinople on the Consular Jurisdiction in the Levant, FO 4 0 6 / 1 4 (23 dicembre 1835). Joseph-François Laurent, Byzance et les Turcs seldjoucides dans l'Asie occidentale jusqu'en 1081, Berger, Nancy-Paris 1913, p. 22, nota 1; Marius Canard, Les relations politiques et sociales entre Byzance et les arabes, «DOP», n. 19,1964, pp. 33-56; Bar Hebraeus [Abu al-Faraj ibn Hârûn al-Malatï], The Chronography of Gregory Abû'l Faraj, the Son of Aaron, the Hebrew Physician Commonly Known as Bar Hebraeus, trad, di Ernest Alfred Wallis Budge, 2 voli., Oxford University Press, Oxford 1932, vol. 1, p. 196 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2003 e, on line, h t t p : / / r b e d r o s i a n . c o m / BH/bh.html, N.d.T.]. 10
"Speros Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the
Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1971 1 (1986), p. 50, nota 256. 12 Giovanni Cantacuzeno in Louis Cousin (a cura di), Histoire de Constantinople depuis le règne de l'Ancien Justin, jusqu'à la fin de l'empire, traduite sur les originaux grecs par Mr Cousin, 8 voli., Foucault, Paris 1672-1674, vol. 8, p. 54.
Michele Ducas, Histoire des empereurs Jean, Manuel, Jean et Constantin Paléologues in Cousin, Histoire de Constantinople cit., vol. 8, p. 335. Bayâzîd aveva preteso l'insediamento nel quartiere di Galata (Costantinopoli) di 20.000 musulmani, ai quali aveva fatto assegnare i diritti di proprietà su tutti gli orti e le vigne situati al di fuori della città. A questo scopo fu istituita una corte di giustizia islamica: cfr. Evliya Efendi, Narrative of Travels in Europe, Asia, and Africa in the Seventeenth Century, trad, di Joseph von Hammer, 2 voli., Oriental Translation Fund of Great Britain and Ireland, London 1846-1850 Qohnson Reprint, New York 1968), vol. 1, parte l a , p. 28. 13
Vedi François Charles-Roux, Les échelles de Syrie et de Palestine au XVIIIe siècle, Geuthner, Paris 1928; Francis Rey, La protection diplomatique et consulaire dans les échelles du Levant et de Barbarie, Larose, Paris 1899, passim. 14
William Thomas Gidney, History of the London Society for Promoting Christianity amongst the Jews from 1809 to 1908, London Society for Promoting Christianity amongst the Jews, London 1909. [Il testo è inoltre disponibile on line al link: http://www.archive.org/details/historyoflondons00gidnuoft, N.d.T.]. 15
The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, pref. di Jacques Ellul, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad, di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmin. B'nai HaSout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991), p. 96, nota 11; vedi Abraham Jacob Brawer, «Damascus Affair», E/, n. 5, Jerusalem 1971, pp. 1249-1252 (con annessa bibliografia); Albert M. Hyamson, The Damascus Ajfair-1840, «JHSE», n. 16, 1945-1951, pp. 47-71; Tudor Parfitt, The Year of the Pride of Israel: Montefiore and the Blood Libel of 1840, in Sonia and Vivian David Lipman (a cura di), The Century of Moses Montefiore, Oxford University Press, Oxford 1985, pp. 131-148. ''Narcisse Leven, Cinquante ans d'histoire. L'Alliance Israélite Universelle (1860-1910), 2 voli., Librairie F. Alcan, Paris 1911-1920; André Chouraqui, 16
L'Alliance Israélite Universelle 1960), PUF, Paris 1965.
et la Renaissance
juive contemporaine
(1860-
" L e fonti relative a quest'epoca, in particolare gli archivi diplomatici e i rapporti dei consoli inglesi e francesi, rivelano il disprezzo provato dai responsabili musulmani per i greci, i maroniti, gli slavi e gli armeni che cercavano di emanciparsi. Vedi Bat Ye'or, The Dhimmi cit., sezione «Documenti», «The Era of Emancipation», e tra gli altri, PP. 1860 [2734] 69; 1861 [2800] 68; 1877 [C. 1739] 92; 1877 [C. 1768] 92; 1877 [C. 1806] 92.
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Romance d'Alexandre (1536) testo illustrato da Krikonis di Aght 'amar (ms. n. 473, folio 17, Collezione Gulbenkian, Saint Thoros Manuscript Library, Gerusalemme)
Capitolo 6 Dall'emancipazione al nazionalismo (1820-1876)
Il movimento umanitario europeo Alimentata dalle idee rivoluzionarie europee, l'emancipazione dei dhimmì fu uno dei parti della prolifica Europa del XIX secolo. Questo processo, legato a congiunture esterne al dar al-islam, potè affermarsi in esso anche contro la volontà dei dominatori musulmani grazie all'eccezionale convergenza di molteplici fattori culturali, sociali, scientifici ed economici, che coincisero con un'epoca in cui l'Europa era particolarmente forte dal punto di vista militare. In quel periodo (siamo all'inizio dell'800) i movimenti di indipendenza nazionale e di rivendicazione sociale, che veicolavano le idee delle rivoluzioni americana e francese, stavano facendo sorgere in Occidente teorie politiche ispirate a valori socialisti e laici. Contemporaneamente, la neonata passione per le scienze storiche e archeologiche e la riscoperta dell'Antichità classica incoraggiavano i viaggi in terre lontane. Le ferrovie e le navi a vapore accorciavano le distanze; il telegrafo accelerava le comunicazioni, creava l'informazione in tempo reale e dava vita alla grande stampa. Intanto una borghesia ricca, colta e ansiosa di esplorare nuovi orizzonti, figlia della Rivoluzione Industriale, iniziava ad avventurarsi in regioni un tempo pericolose e ostili ai cristiani. E anche se, in quelle dominate da tribù nomadi - come la Palestina, la Siria, l'Iraq - , era ancora necessaria una scorta armata, ormai le potenze europee erano in grado di reprimere il fa-
natismo e di far rispettare l'inviolabilità delle persone e dei beni dei loro cittadini. Nel corso di questi pellegrinaggi, che erano anche un ritorno alle sorgenti della loro cultura, gli Occidentali scoprivano i monumenti ridotti in pezzi dell'arte greco-romana ed ebraica, e il pietoso stato in cui versavano gli edifici di culto del cristianesimo primitivo. Constatavano de visu la decadenza di popoli un tempo lievito di civiltà e ormai umiliati e avviliti nei loro stessi paesi da un giogo straniero. Li vedevano aggirarsi come un monito vivente tra le vestigia devastate di un passato glorioso. Proiettati nell'era della meccanizzazione e della scienza, questi viaggiatori scoprivano alle porte dell'Europa la stagnazione e l'oscurantismo, incarnati dalle masse di eunuchi e di schiavi, dagli harem, da una giustizia parziale e sommaria e da dhimmi indigenti, soggetti a un testatico e a discriminazioni in fatto di abbigliamento. In questo clima politico e culturale, all'interno dell'intellighenzia europea si sviluppò una corrente di compassione e simpatia per le vittime di quella millenaria oppressione.
La politica delle potenze occidentali In questo secolo di espansionismo europeo, gli interessi rivali delle potenze occidentali si unirono per coniugare la Realpolitik dei governi proprio con questa tendenza umanitaria dell'opinione pubblica. Talora, in particolare nel caso della Grecia, fu la pressione di tale corrente a obbligare alcuni Stati - la Francia e l'Inghilterra - a vincere le loro esitazioni e a intervenire militarmente in aiuto dei raya. Peraltro, la debolezza dell'Impero ottomano incoraggiava nei suoi immediati vicini - la Russia e l'Austria - ambizioni annessioniste che impensierivano Francia e Inghilterra, preoccupate di mantenere l'equilibrio in Europa. Gli Stati europei, impegnati a spiarsi a vicenda, non trovando un consenso circa la spartizione dell'Impero ottomano preferivano ingessare la situazione e contrastare qualunque manovra, russa come austria-
ca, finalizzata a soccorrere le popolazioni cristiane nelle province turche di confine. L'Inghilterra, fautrice di questa politica, difendeva il principio dell'integrità territoriale dell'Impero turco. Traendo vantaggio dalla sua debolezza, essa svolgeva al suo interno un ruolo di eminenza grigia, e in più controllava le vie marittime dei commerci con le Indie. E come non tollerava gli ingrandimenti territoriali russi o austriaci realizzati a spese della Turchia, così non accettava la nascita di microstati balcanici indipendenti, che avrebbero finito per gravitare nella sfera d'influenza di altre potenze. Tuttavia le esazioni, la tirannide e il fanatismo religioso continuavano a provocare nei paesi islamici rivolte di raya, puntualmente represse nel sangue dai turchi, e ingerenze militari da parte della Russia e dell'Austria. Così l'Europa, per togliere a queste ultime ogni pretesto per intervenire, tentò di abolire gli abusi introducendo in Turchia una serie di radicali riforme. Queste misure implicavano molteplici trasformazioni, destinate in particolare a risanare le finanze del governo turco, a rafforzarne la potenza militare e a garantire l'equiparazione giuridica tra musulmani e raya. Furono queste le ragioni politiche - ma ve ne furono anche di economiche - che spinsero gli Stati europei e il movimento umanitario a unire gli sforzi per imporre a Costantinopoli il principio dell'uguaglianza dei diritti tra sudditi musulmani e dhimmT. L'emancipazione di questi ultimi implicava però un radicale capovolgimento di valori. Un concetto nuovo, oggettivo e di carattere universale - quello di diritto - si sostituiva alla vecchia idea di tolleranza, frutto del rapporto soggettivo e gerarchico tra un superiore e un inferiore, rapporto che creava, manteneva e riproduceva la disuguaglianza. Infatti, mentre il diritto è inalienabile, la tolleranza, fondata sulla buona volontà o sull'opportunismo politico, è revocabile a piacere. E se il primo garantisce dignità e sicurezza, la seconda, essendo la negazione del diritto, genera ima politica di espedienti, intrighi e corruzione, i soli mezzi per sopravvivere in una condizione di permanente insicurezza. A questo punto occorre precisare che nel caso dei raya il termine
«emancipazione» designa un processo assai diverso da quello, sia pure omonimo, che vide coinvolti gli ebrei e i protestanti nei paesi cristiani e cattolici. Infatti, dal punto di vista politico e ideologico, i dhimmi non sono assimilabili alle minoranze religiose europee; tuttavia, in assenza di un termine migliore, continueremo a usare «emancipazione», anche se esso rimanda a un contesto differente da quello europeo. Tra il principio di protezione inteso in senso europeo e quello di emancipazione esisteva una differenza profonda. La protezione nasceva da un insieme di accordi commerciali tra Stati per promuovere il commercio su basi reciproche. Queste convenzioni riguardavano i mercanti ottomani trasferitisi in Europa e i commercianti stranieri insediatisi nell'Impero turco, ai quali più tardi si aggiunsero i raya impiegati nei consolati, il cui numero restava però limitato e soggetto a dispute. Tuttavia, imponendo alla Turchia l'abrogazione della dhimma, l'Europa imboccava una direzione totalmente diversa: non solo interferiva nelle scelte del governo di uno Stato sovrano, ma per giunta sopprimeva di sua iniziativa un principio fondamentale della politica islamica: la discriminazione e la disuguaglianza di cui dovevano essere oggetto in tutti i campi i popoli indigeni sottomessi non musulmani. Non si trattava più, come nel caso della protezione, di accordi concernenti un ristretto numero di persone, ma di un'iniziativa riguardante i milioni di cristiani raya che, con densità diverse a seconda delle casualità storiche e geografiche, vivevano soggetti a leggi di conquista arabo-islamiche in quelli che un tempo erano i loro paesi. Imponendo alla Porta il principio dell'uguaglianza dei diritti, l'Europa sperava di pacificare i Balcani e, al tempo stesso, di giustificare di fronte alla propria opinione pubblica il sostegno accordato a un Impero turco riformato, che avrebbe abolito la discriminazione dei cristiani. Il 3 novembre 1839 il sultano Abdùl-Mejld emanò il Hatt-i Shertf(= Nobile Editto) di Gulhane 1 . Dopo la cocente disfatta militare inflittagli a Nezib [Nizip], qualche mese prima, dal suo vassallo Muhammad 'Ali, il suo trono era stato salvato per il rotto della cuffia dall'intervento delle potenze europee. In questo fir-
mano, il sultano annunciava la sua intenzione di procedere a un insieme di riforme (tanzimat) che avrebbero migliorato le condizioni dei suoi sudditi, indipendentemente dalla loro religione. Durante la guerra di Crimea (1853-1856), la Turchia misurò di nuovo la sua debolezza in confronto alla Russia e la sua dipendenza dagli aiuti militari franco-inglesi. Il 18 febbraio 1856, nel corso di una cerimonia ufficiale, il sultano Abdul-Mejid diede lettura del Hatt-i Humayun (= Editto Imperiale), con cui annunciava una serie di riforme che avrebbero posto fine agli abusi e alle ingiustizie e garantito la sicurezza dei beni e delle persone e l'uguaglianza di tutti i suoi sudditi di fronte alla legge, senza distinzioni di culto. Questi firmani furono emanati alla fine di due guerre che, senza il sostegno dell'Europa, sarebbero state fatali alla Porta. Entrambi erano stati voluti dall'Inghilterra, il primo da lord Palmerston, ministro degli Affari Esteri, e il secondo da lord Stratford de Redcliffe, ambasciatore inglese a Costantinopoli e promotore del movimento turcofilo. Il Trattato di Parigi, siglato qualche settimana dopo il Hatt-i Humayun, nell'articolo 7 specificava che le potenze europee firmatarie - Francia, Austria, Inghilterra, Prussia, Russia e Regno di Sardegna - ammettevano la Sublime Porta a partecipare ai vantaggi del diritto pubblico, e si impegnavano altresì a «rispettare l'indipendenza e l'integrità territoriale dell'Impero ottomano». L'articolo 8 confermava il punto precedente e precisava che i conflitti con la Sublime Porta dovevano essere risolti con la concertazione, e non con la forza. Come ad associare l'emancipazione dei raya al rispetto dell'integrità territoriale turca, l'articolo seguente si riferiva direttamente al Hatt-i del 1856 e ribadiva l'intenzione del sultano di istituire l'uguaglianza tra tutti i suoi sudditi, «senza distinzioni di religione né di razza». In questo modo l'Europa definiva chiaramente la sua posizione: il rispetto dell'integrità territoriale della Turchia era vincolato a un insieme di riforme amministrative, compresa l'introduzione dell'uguaglianza dei diritti promessa dal sultano. Contrariamente alle apparenze, questa politica favoriva gli interessi turchi e danneggiava le aspirazioni dei popoli balcanici
che sosteneva di proteggere, per quanto sia innegabile che, all'inizio del XIX secolo, solo i greci, i serbi e i rumeni manifestassero una qualche velleità di indipendenza. Secoli di umiliante servitù avevano distrutto, anche nei più colti tra i dhimmi, le qualità necessarie per unirsi e liberarsi. La loro decadenza sociopolitica era accentuata dalle discordie e dalle delazioni croniche. Minacciati da potenti vicini, i raya dei Balcani rischiavano di passare dal dispotismo turco al giogo austriaco o russo. Poiché l'Europa aveva decretato, in funzione dei suoi interessi, l'intangibilità dell'Impero turco - riformato, è vero - , la sua propaganda si sforzò di provare con argomenti speciosi la tolleranza della Porta nei confronti dei dhimmi, la cui condizione era perfino presentata come migliore di, e preferibile a, quella dei musulmani. Il movimento turcofilo europeo esaltava i privilegi e le libertà di cui godevano i raya, descritti con tratti negativi e spesso oggetto di commenti malevoli. Per comprendere tali argomenti, divenuti quasi classici anche in opere attuali, è necessario inquadrarli nel contesto della politica franco-inglese dell'epoca, preoccupata di mantenere l'equilibrio europeo 2 . Benché essenziale, l'abolizione delle discriminazioni e dell'insicurezza di cui soffriva la totalità dei popoli raya in fondo non era altro che una misura preliminare. Ogni millet fu riorganizzato al fine di eliminare, ai vertici dell'onnipotente gerarchia religiosa, i fattori responsabili degli abusi, della corruzione, del nepotismo e dell'ignoranza. A tali misure si accompagnò un programma di sviluppo scolastico e culturale. Sul piano amministrativo, i raya furono ammessi a condividere con i musulmani le responsabilità del governo delle province, con una rappresentanza proporzionale al peso di ogni comunità all'interno dello Stato. La parità di diritti implicava anche la partecipazione ai doveri militari: infatti, nella condivisione da parte dei raya dei pericoli e dei rigori delle battaglie, Londra vedeva il mezzo per addestrare alla guerra popoli soggetti al divieto del porto d'armi e condizionati dalle leggi fino a diventare vigliacchi. Questa trasformazione dei popoli tributari in cittadini alla pari con i musulmani rientrava nel vasto programma di rinnova-
mento (tanzlmat) dell'Impero ottomano avviato con il supporto di esperti europei. Rinnovamento che implicava l'introduzione nel dar al-islam delle tecniche amministrative occidentali, con tutto il corrispondente apparato giuridico, culturale e scientifico 3 . Già il sultano Mahmud II (1808-1839), impressionato dallo sviluppo industriale europeo, aveva iniziato a riformare il suo Impero; a maggior ragione, il rafforzamento militare delle potenze confinanti (russi e austriaci) non poteva che accrescere il desiderio della Porta di assicurarsi la lealtà dei suoi sudditi raya. Perciò la corrente riformista turca si impegnò a eliminare le divisioni confessionali e a fondere l'insieme eterogeneo dei popoli dell'Impero in un'unica nazionalità, sulla base di una nuova ideologia: l'«ottomanismo». Questo movimento nazionalistico, che predicava l'uguaglianza di tutti i sudditi ottomani, era irriducibilmente opposta, in virtù della sua concezione laica della società, ai valori della umma, fondati sulla solidarietà religiosa. L'ottomanismo tuttavia occultava il tratto fondamentale insito nelle rivolte dei raya, le cui rivendicazioni di libertà religiosa si intrecciavano alle aspirazioni nazionali. I serbi, i rumeni, i bulgari, i greci, gli armeni lottavano più per il loro territorio, la loro lingua, la loro cultura e la loro storia che per la loro religione. Ispirato a concezioni astratte importate dall'estero, l'ottomanismo restava un movimento superficiale e limitato a un ristretto numero di uomini politici. Concepito come veicolo di emancipazione, esso teorizzava ima strategia riformistica che era destinata a sconvolgere le tradizioni politiche e gerarchiche della umma. La nuova società, auspicata da politici ottomani realisti e desiderosi di migliorare le condizioni culturali ed economiche dei loro popoli, esigeva innanzitutto l'abolizione delle arcaiche strutture sociali che consacravano l'umiliazione dell'infedele e favorivano l'oppressione e la corruzione giudiziaria. I consoli europei menzionano spesso le carenze della giustizia ottomana. Lord Holmes, console inglese di Bosna-Serai (Sarajevo), riassume la situazione in una lettera del 1871 a lord Granville, ministro degli Affari Esteri:
Il ritardo superfluo e la negligenza a scapito di persone spesso innocenti, l'aperta concussione e la corruzione, l'invariabile e ingiusta preferenza di cui godono i musulmani in tutte le controversie fra turchi e cristiani - elementi, questi, che contraddistinguono l'amministrazione turca di quella che in tutto l'Impero è chiamata «giustizia» - non può non suggerire una domanda: quale sarebbe il destino degli stranieri in Turchia se le potenze europee revocassero le capitolazioni? Io sono convinto che la loro situazione nelle province sarebbe in ogni caso intollerabile, e che tutti, senza eccezione, lascerebbero il paese, mentre l'indignazione europea contro la Turchia ne causerebbe la rovina. L'ignoranza generale, la corruzione e il fanatismo diffusi in tutte le classi precludono ogni speranza in un'efficace amministrazione della giustizia almeno per un'altra generazione. 4
Qui fa la sua comparsa un fattore nuovo, l'opinione pubblica, elemento che condiziona il sostegno morale e politico europeo alla Turchia e la preserva dal crollo. Si spiega così la preoccupazione di fondo delle cancellerie europee, e in particolare del Foreign Office, di presentare l'esistenza dei raya, attraverso il movimento turcofilo, in una luce idillica che, per quanto necessaria alla salvaguardia dell'equilibrio europeo, non era necessariamente conforme alla realtà vissuta. Poiché la condizione dei cristiani della Penisola Balcanica aveva assunto una dimensione internazionale, che rischiava di provocare un conflitto su scala europea, la questione delle riforme preoccupò l'Europa fino alla prima guerra mondiale. L'attività diplomatica portò all'accumulo nelle cancellerie di innumerevoli volumi di rapporti, analisi, lettere che oggi costituiscono un'inestimabile fonte di informazioni sui cristiani raya. Le riforme, ultima speranza europea prima di arrivare allo smembramento di un Impero che teneva in vita a prezzo di enormi sforzi, incontrarono un'accanita resistenza negli ambienti musulmani.
La reazione islamica Nelle società islamiche del XIX secolo la disuguaglianza tra dhimmi e musulmani non solo costituiva un dogma ideologico e giuridico, ma corrompeva anche l'intero sistema relazionale della vita quotidiana. Perciò i musulmani interpretarono i concetti di diritto e di uguaglianza come un'eresia sovversiva imposta dalla cristianità per indebolire l'islam. Contro le riforme, in particolare contro quelle che concernevano l'uguaglianza religiosa, si scatenò una violenta opposizione. L'opposizione all'Europa Nell'Impero ottomano l'adozione dei principi occidentali in materia di uguaglianza dei cittadini e libertà dei popoli sollevava problemi religiosi e politici che investivano la legittimità e la sicurezza stessa dell'impero. Infatti l'emancipazione dei raya si inseriva in un vasto contesto di cooperazione, di scambi e di interazioni culturali tra Occidente (dar al-harb) e dar al-islam. Ora, la modificazione dei rapporti tra queste due entità costituiva di per sé il possibile fattore scatenante di una rivoluzione ideologica, sociale e politica. Al concetto di guerra permanente e obbligatoria contro il dar al-harb subentrava infatti una relazione pacifica, che favoriva l'adozione di riforme e di idee ispirate da un mondo non musulmano ormai assolto dal disprezzo e dal biasimo teologico. Questa riabilitazione apriva la strada all'emancipazione dei raya, a loro volta ex harbT le cui terre erano entrate a far parte del dar alislam. Inevitabilmente, il processo di emancipazione portava con sé ima serie di conflitti territoriali, poiché i seguaci delle «religioni tollerate» erano di fatto popoli espropriati. Perciò la logica int e m a del jihad escludeva l'emancipazione religiosa. La guerra permanente, la perversità del dar al-harb e l'inferiorità degli harbT sottomessi costituivano i tre poli interconnessi ed essenziali su cui si erano fondate l'espansione e la dominazione religiosa e politica della umma. Le circostanze politiche intemazionali accentuavano l'intolleranza religiosa. La Francia, nonostante si proclamasse amica dei
musulmani, aveva invaso l'Egitto (1798) e l'Algeria (1830). L'Inghilterra, grande alleata della Turchia, stava assoggettando i musulmani delle Indie. A Navarino (1827), le due potenze unite avevano affondato la flotta turco-egiziana e facilitato l'indipendenza greca, sebbene allo scopo di sottrarre il popolo ellenico alla tutela russa. La Russia, dal canto suo, nel corso della sua espansione sul Mar Nero si era impadronita della Crimea (1783), della Georgia (1800) e della Bessarabia (1812); inoltre, sognando di ripristinare a Costantinopoli la gloria di Bisanzio, assicurava il suo sostegno alle rivolte in Serbia, Macedonia e Romania. Parallelamente, conquistava territori armeni in Persia e si arrogava il diritto di controllo sull'intera popolazione armena dell'Impero ottomano (Trattato di Santo Stefano, 1878). La cristianità, percepita nel suo insieme come dar al-harb, senza distinzione di Stati o di strategie politiche, costituiva il nemico storico che l'islam aveva combattuto fin dal principio della sua espansione al di fuori dei confini arabi, e che aveva sottomesso in Africa, in Asia e in Europa, in una guerra protrattasi per dodici secoli, le cui gesta eroiche si perpetuavano nei racconti edificanti e nelle leggende popolari. L'apposizione all'ottomanismo La classe religiosa musulmana rimproverava al sultano di obbedire alle corti straniere e di abbandonare la legge islamica, che aveva assicurato le folgoranti vittorie della umma nella sua fase trionfante. La dottrina del panislamismo, predicata dagli 'ulama, reclamava il ripristino della politica dei primi califfi e l'unione di tutti i musulmani nel jihad contro i loro correligionari modernisti e contro l'Occidente. All'opposto dell'ottomanismo, che incarnava un nazionalismo unitario e laico, il panislamismo glorificava la superiorità dell'islam e i valori del jihad. Mentre i riformisti turchi, con l'ottomanismo, elaboravano una formula laica finalizzata a facilitare l'integrazione dei sudditi cristiani e la modernizzazione dell'Impero in base alla separazione dei poteri spirituale e temporale, gli 'ulamà predicavano il panislamismo, che insegnava esattamente l'opposto e proclama-
va la supremazia della sfera religiosa. Questo movimento, che affondava le sue radici nell'humus storico, nella tradizione e nella legge, conobbe un forte sviluppo presso tutte le classi sociali. Negli ultimi decenni del XVIII, e per tutto il XIX secolo, le rivolte endemiche dei dhimmi cristiani nelle province balcaniche e greche, come pure in Anatolia, esacerbarono gli odi religiosi da una parte e dall'altra. La violenza degli scontri e la cacciata dei musulmani dalle regioni cristiane liberate risvegliavano nella umma l'antico terrore di perdere il frutto delle proprie conquiste e di subire la vendetta di popoli defraudati e lungamente oppressi. Nei centri più popolosi i dervisci, predicando la guerra santa, corroboravano il sentimento generale di una catastrofe imminente che avrebbe colpito l'islam: ben presto Allah avrebbe castigato il suo popolo, reo di aver abbandonato le sue leggi per adottare quelle dell'Occidente. Questo pessimismo era alimentato dal continuo afflusso nelle città dell'Impero dei profughi musulmani che sfuggivano alla dominazione cristiana sulle ex province della Turchia europea. Indotti al fanatismo dalle guerre e dalle sofferenze, spogliati della loro onnipotenza dai tanto disprezzati ex sudditi cristiani, questi rifugiati incitavano il popolo all'odio per la cristianità. La Sublime Porta insediava questa moltitudine di profughi musulmani (muhajirun) nelle sue province nevralgiche, al fine di rafforzare il proprio controllo su di esse grazie a ima politica di popolamento islamico. I muhajirun delle regioni balcaniche furono inviati in Armenia, mentre quelli caucasici, negli anni 18741875, si stabilirono nelle province del Danubio - allora in pieno fermento nazionalistico - , nel Golan e in Galilea (Terra Santa), e alle porte di un Libano fortemente cristianizzato. Nel 1878, dopo l'annessione da parte dell'Austria della Bosnia-Erzegovina, i coloni musulmani bosniaci furono trasferiti in Macedonia e in Terra Santa. Nel 1912 la Russia tentò di arrestarne l'emigrazione in Armenia. Furono circa tre milioni i muhajirun che, un'ondata dopo l'altra, affluirono dai territori europei liberati e si insediarono nella Turchia asiatica e nelle sue province arabe 5 .
L'opposizione ali 'emancipazione Nel 1841, il console generale inglese a Beirut osservava: È un fatto curioso che, a soli sei mesi o poco più dalla lettura e dalla proclamazione in questo paese del Hatt-i SherTf di Gulhane, vi sia stata una reazione generale a favore del Corano e dei privilegi esclusivi dei maomettani nei confronti dei cristiani, in totale opposizione con la dottrina dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge che è l'essenza del Hatt-i SherTf.6 N o n solo l'emancipazione dei sudditi tributari implicava aspetti religiosi e politici insiti nel carattere dualistico della dhimmitudine, ma, come se non bastasse, l'unione dei poteri religioso e temporale all'interno dello Stato islamico determinava un'inscindibile fusione tra il confessionalismo e la sfera politica. Le leggi del jihad, fondamento del governo dei popoli vinti, tolleravano l'esistenza dei dhimmT solo in un contesto di discriminazione, all'interno del quale il pagamento della jizya simboleggiava la sottomissione degli infedeli alla supremazia islamica. Perciò i tradizionalisti interpretarono l'abolizione della jizya da parte dei riformisti e il riconoscimento dell'uguaglianza tra musulmani e raya come ima rottura della dhimma, rottura destinata a restituire alla umma i suoi iniziali diritti sulla vita e i beni dei dhimmT, e quindi a sfociare nella riduzione in schiavitù di donne e bambini oppure nell'espulsione, misure che erano state sospese soltanto in virtù del contratto di sottomissione. Pertanto le rappresaglie contro i dhimmT emancipati non solo erano giustificate, m a diventavano sia obbligatorie che meritorie, perché i seguaci delle religioni tollerate erano stati risparmiati solo nel quadro di un'ideologia politico-religiosa di mortificazione dell'infedele. Poiché il principio stesso dell'uguaglianza dei diritti era un sacrilegio, esso potè essere imposto unicamente da una forza esterna che poggiava su un dispiegamento militare. Per quanto timide fossero nelle loro applicazioni, le riforme scandalizzavano i tradizionalisti, che di conseguenza aggredivano i dhimmT, spesso con il tacito consenso delle autorità, le quali, con il pretesto di
evitare un bagno di sangue, si affrettavano a sospendere le impopolari misure. Così i dhimmt si trovarono di nuovo al centro del conflitto tra un movimento religioso di marca reazionaria e ima corrente musulmana liberale, ansiosa di modernizzare l'apparato militare del suo paese e di procurarsi l'appoggio europeo contro le usurpazioni russe. Questo conflitto tra forze riformiste e reazionarie - talora in collusione tra loro - conferì al XIX secolo il contraddittorio aspetto di un'epoca di speranze e di lutti. Esso fu infatti un secolo di emancipazione, ma anche di persecuzioni e massacri (Grecia, Libano-Siria, Serbia, Bulgaria, Armenia). La reazione era alimentata non solo dai pregiudizi religiosi, ma anche da un imperialismo di tipo culturale. L'interesse dei ricercatori europei per il patrimonio spirituale trasmesso dall'Antichità classica, infatti, risvegliava l'orgoglio nazionale dei raya e il loro desiderio di libertà proprio nel momento in cui le riforme ottomane sottraevano ai musulmani i loro privilegi tradizionali. Gli ebrei e i cristiani (greci, copti, armeni, serbi, bulgari, rumeni) si ricordavano di non essere sempre stati minoranze religiose avvilite, ma grandi nazioni, di cui, nei loro stessi paesi, era stata tollerata soltanto la dimensione religiosa, per di più a prezzo del pagamento di un tributo e della loro umiliazione. All'annientamento delle loro comunità si era accompagnato lo sradicamento delle loro culture, delle lingue e dell'arte, simboli della loro specificità nazionale. Perciò era con profondo rancore che la umma vedeva emergere dalle rovine e dall'oblio un patrimonio nazionale anteriore alla sua conquista. Queste implicazioni culturali del processo di emancipazione determinarono, come nel caso estremo degli armeni, la distruzione di monumenti e la trasformazione di molte chiese in moschee. L'emancipazione Le vicissitudini sin qui brevemente rievocate illustrano le cause che conferirono alla lotta di emancipazione e di liberazione dei popoli dhimmì dell'Impero ottomano il carattere violento e fanatico delle guerre di religione. La corrispondenza e i rapporti con-
Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Si nota l'assenza della croce (Ermete Pierotti, «Jerusalem Explored», 2 voli, Bell and Daldy, London 1864, voi. 2, tavola 31)
solari descrivono con cadenza quasi quotidiana, per giunta dal vivo, la battaglia dei raya per la loro emancipazione. Ebbene, da tutti questi documenti emerge con chiarezza un identico schema politico: erano gli 'ulama, custodi dei valori politico-religiosi, a fomentare le rappresaglie popolari. I motivi delle rivolte erano religiosi - i raya erano accusati di aver infranto i patti con un comportamento insolente e arrogante - ma i loro fini erano politici: intimidire i governatori turchi incaricati di imporre le riforme. In Armenia, in Siria, in Libano, in Terra Santa, in Erzegovina e in Macedonia i funzionari turchi sospendevano le riforme, temendo di essere assassinati, e quando le rappresaglie, collettive o individuali, contro i raya rischiavano di irritare le nazioni protettrici, la umma tentava di terrorizzare i cristiani con pressioni e minacce per obbligarli a rinunciare ai loro nuovi diritti.
Gli ebrei, i quali, sia per motivi demografici che religiosi, non avevano mai avuto alcun ruolo nelle ambizioni politiche dell'Austria e della Russia, avevano, se così si può dire, beneficiato di riflesso dell'emancipazione. Nei territori musulmani - come il Nord Africa e lo Yemen - , privi di cristiani e per nulla minacciati da ingerenze russe, la dhimma degli ebrei fu mantenuta senza che ciò turbasse più di tanto l'Europa, se non per le deplorevoli conseguenze economiche. Questo fatto spinse gli ebrei ottomani a esercitare con prudenza e moderazione i loro nuovi diritti. È chiaro quindi che il contesto politico in cui si inserisce l'emancipazione dei raya cristiani o ebrei varia a seconda della religione e, all'interno delle diverse comunità cristiane, in funzione della vicinanza e della potenza dello Stato protettore e dei suoi interessi politici. Diversi anche gli strumenti di pressione di cui disponevano i protettori dei due gruppi. Nel caso dei cristiani, essi consistevano in una protezione politica e, all'occorrenza, militare, scandita dalle seguenti tappe: firma del Trattato di Kuquk Kainarji (1774), intervento di una squadra navale anglo-franco-russa a fianco dei greci (Navarino, 1827); instaurazione di un protettorato europeo sui cristiani di Turchia (Trattato di Parigi, 1856); invio di aiuti militari ai maroniti (Siria, 1860); intervento dell'esercito russo in difesa degli armeni (presa di Kars, 1878) e a sostegno della ribellione degli slavi (1877-1878); instaurazione del protettorato austriaco sulla Bosnia-Erzegovina (1878) e di quello russo sugli armeni (Trattato di Santo Stefano, 1878). Gli ebrei d'Europa e quelli statunitensi, dal canto loro, difendevano l'emancipazione dei loro correligionari in nome di una morale universale, denunciando gli abusi del fanatismo al cospetto dell'opinione pubblica, dei Parlamenti e della stampa europea. Questi eccessi screditavano i regimi che li tolleravano o le Chiese che se ne rendevano responsabili. Per necessità o per sincera convinzione - è difficile misurare il ruolo giocato da queste due componenti negli arcani del potere - , le autorità musulmane presero provvedimenti per stroncare il fanatismo. Gli esponenti dell'alto clero cristiano sconfessarono le accuse di crimine rituale e altre pratiche pubbliche di marca antisemita, frequenti soprat-
tutto tra i greco-ortodossi 7 , e i responsabili politici islamici promulgarono editti in difesa dei loro sudditi ebrei 8 . Dopo il 1860 si registra imo sforzo senza tregua delle organizzazioni ebraiche francesi e inglesi, in collaborazione con i consoli europei, per includere gli ebrei nelle misure di emancipazione inizialmente accordate solo ai dhimmT cristiani. Tale sforzo per promuovere l'uguaglianza religiosa nell'Impero ottomano, per colossale che fosse, si esplicava solo ai livelli superiori della sfera politica. Restava da compiere il passo più importante: imporre i decreti del sultano ai governatori regionali e alle masse islamiche. Infatti le autorità ottomane, temendo i pregiudizi popolari, le rivolte e l'ostilità degli 'ulama, spesso rinunciavano ad applicare le riforme. Impotente a controllare la corruzione e l'insicurezza generale delle province, il potere centrale turco abbandonava le minoranze all'arbitrio dei governatori locali o dei capitribù. Nel 1875 l'ambasciatore inglese a Costantinopoli riferiva che il gran visir Mahmud Pascià (Pasha) riconosceva l'impossibilità di introdurre in Bosnia la testimonianza dei cristiani nel corso dei processi. Pertanto constatava: «La conclamata uguaglianza tra cristiani e musulmani è comunque illusoria fintantoché viene mantenuta tale distinzione» 9 . Questa situazione giuridica comportava gravi conseguenze a causa delle modalità con cui si perveniva alla sentenza: «Questo punto [il rifiuto della testimonianza] è di grande importanza per i cristiani, poiché, considerando che i tribunali religiosi non ammettono né documenti né prove scritte, e neppure accolgono la testimonianza cristiana, essi non possono sperare che in una giustizia assai limitata» 10 . Di fatto l'intolleranza investiva l'intero ambito delle relazioni sociali e professionali, come attesta questo banale incidente: Circa un mese fa, un suddito austriaco di nome [...] fu assalito e rapito tra Sarajevo e Visoka da nove bashi-bazouk11. Al fatto assistette un musulmano rispettabile di quella città, di nome [...], il quale fu citato come testimone quando la vicenda fu portata al cospetto del tribunale di Sarajevo. Egli testimoniò in favore dell'austriaco, e il
giorno seguente venne convocato dal vicepresidente e da uno dei membri del tribunale e minacciato di essere gettato in carcere per aver osato testimoniare contro i suoi correligionari. 1 2
La difficoltà di imporre le riforme in un così vasto Impero provocò questo commento disincantato: «In verità la moderna perversione dell'idea orientale di giustizia consiste in ima concessione [elargita] a un attore per grazia e per favore, e non nell'enunciazione di un diritto [fondato] su principi di legge e ispirato alla ricerca dell'equità» 13 . Molto schematicamente, è possibile individuare tre forze distinte, che tuttavia operarono simultaneamente per destabilizzare il dar al-islam: l'emancipazione, i movimenti di liberazione dhimmT e la colonizzazione. Questi tre movimenti, legati ai progressi militari, intellettuali ed economici dell'Europa, fecero vacillare le società islamiche tradizionali. Senza tralasciare le differenze regionali, è evidente che il processo di emancipazione dei dhimmT seguì lo stesso schema tanto nell'Impero ottomano quanto, più tardi, nel Maghreb e in Persia. In tutte le province in cui l'indebolimento delle società islamiche favoriva la politica europea di emancipazione dei dhimmT, l'abolizione della discriminazione suscitò un conflitto tra l'autorità musulmana riformista, per quanto debole fosse, e l'ostilità degli 'ulama. In Egitto l'emancipazione dei cristiani, seguita da quella degli ebrei, si compì senza strappi: infatti M u h a m m a d 'Air, ansioso di conservare il sostegno economico e militare della Francia, aveva imbavagliato l'opposizione religiosa. Nel Maghreb l'emancipazione dei dhimmT patrocinata dall'Europa portò a uno scontro tra il potere islamico, minacciato di un intervento europeo, e il fanatismo delle masse. Fu così che il Pacte fondamental, imposto dalla Francia al bey di Tunisi nel 1857, dovette essere abrogato nel 1864 in seguito a un'insurrezione. L o stesso schem a si ritrova nel periodo compreso tra il 1850 e il 1875 in Marocco e in Persia, dove l'autorità riformista, e spesso impotente, del sultano o dello shah non riuscì a imporsi sulle masse guidate dagli 'ulama.
Dai documenti emerge che in Egitto e in Turchia la legislazione relativa ai dhimmì era meno severa che nel Maghreb, in Terra Santa, in Siria, nello Yemen e in Persia. In Terra Santa e in Siria le riforme imposte alla popolazione araba dal sultano turco provocarono cruente rappresaglie. Nel Maghreb fu necessario nientemeno che un completo capovolgimento di fronte - la colonizzazione - per modificare i comportamenti tradizionali. In Persia le minoranze si emanciparono grazie a una rivoluzione (1922), e nello Yemen la situazione rimase invariata fino all'emigrazione in massa degli ebrei verso lo Stato di Israele tra il 1948 e il 1949. Queste diverse modalità corrispondono alle differenti correnti storiche e ai peculiari tratti che caratterizzavano i vari popoli del dar ai-islam. Sebbene distinti - il nazionalismo mirava a liberare un territorio, mentre l'emancipazione lottava per abolire una discriminazione giuridica - questi due movimenti erano tuttavia organicamente collegati. Infatti ogni gruppo dhimmì, a causa della sua dispersione nella umma, partecipava di entrambi. Se i cristiani e gli ebrei rivendicavano uguali diritti sui luoghi in cui la storia li aveva dispersi, tali rivendicazioni si trasformavano tuttavia in movimenti nazionalistici nelle province che erano state culla della loro storia specifica: la Grecia, i Balcani, l'Armenia, la Terra Santa. Ecco perché persecuzioni e massacri colpirono indistintamente i dhimmì ovunque si trovassero, in quanto la umma accomunava in un identico rifiuto sia l'Europa - per giunta colonizzatrice - che patrocinava i movimenti di liberazione e di emancipazione, sia i suoi protetti. È possibile seguire l'arretramento della umma grazie alla traccia di sangue che lasciò nelle comunità dhimmì. La guerra di Crimea (1853-1856) suscitò rappresaglie contro gli armeni, espropriati a vantaggio dei rifugiati musulmani di etnia circassa. Massacri in Grecia e «orrori bosniaci» nei Balcani accompagnarono le guerre di liberazione greca e balcanica. L'emancipazione provocò lo sterminio di 20.000 cristiani in Siria e in Libano (1860). I pogrom in cui perirono tra il 1895 e il 1896, nell'Armenia turca, dai 100.000
ai 200.000 armeni, si estesero anche ai cristiani di Siria, i cui villaggi vennero incendiati e saccheggiati, mentre gli uomini furono uccisi e le donne rapite. All'inizio del XX secolo il nazionalismo armeno fu schiacciato da un genocidio che, tra il 1915 e il 1917, travolse indistintamente giacobiti, caldei, siriaci cattolici e protestanti. Nella sola città di Mardln (Mesopotamia) furono massacrati 86.000 giacobiti 14 . In meno di un secolo, le guerre di liberazione e i movimenti di emancipazione, oppure l'ascesa economica dei raya, provocarono l'estinzione di questi popoli e la loro pressoché totale scomparsa dal dar al-islSm. Eccettuato l'Egitto, che in questo periodo cruciale era controllato dall'Inghilterra, la disintegrazione dei popoli indigeni non musulmani della Turchia e del Levante fu il risultato sia dell'abolizione della dhimma che dell'alleanza - tanto temuta e ostinamente rifiutata in passato - tra i cristiani orientali e un Occidente indubbiamente seduttivo, ma che, sotto la vernice dell'umanitarismo, mascherava i suoi calcoli politici.
' Il decreto, noto anche come Tanzimdt Ferman-i, fu detto così perché venne firmato nel Giilhane, il «giardino delle rose» del palazzo imperiale di Istanbul [N.d.T.]. Stanford Jay Shaw, Ezel Kural Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey, 2 voli., Cambridge University Press, Cambridge 1976-1977, vol. 2, pp. 1 8 , 1 4 9 , 1 9 0 . 2
Roderic Hollet Davidson, Reform in the Ottoman Empire, 1856-1876, Princeton University Press, Princeton 1963 (University of Michigan Press, Ann Arbor 1993), pp. 95, 116, 195; Bernard Lewis, The Emergence of Modern Turkey, Oxford University Press, London 1968 (Oxford-New York 2002); Moshe Ma'oz, Ottoman Reform in Syria and Palestine, 1840-1861: The Impact of the Tanzimat on Politics and Society, Oxford Clarendon Press, Oxford 1968. 3
' Lettera inviata dal console di Bosna-Serai [Sarajevo] William R. Holmes a lord Granville, ministro degli Affari Esteri, Londra, 24 febbraio 1871, n. 20, PP 1877 [C. 1739] 92, p. 665. A proposito delle ingiustizie e della corruzione nell'Impero ottomano, vedi anche Report of Holmes to Elliot, allegato a Holmes, Ivi, n. 21, pp. 666-672.
Kemal H. Karpat, The Status of the Muslim under European Rule: The Eviction and Seulement of the Cerkes, «JIMMA», vol. 1, n. 2 e voi. 2, n. 1,19791980, pp. 7-27; Victor Guérin, Description géographique, historique et archéologique de la Palestine, 7 voli., Imprimerie impériale [poi Imprimerie nationale], Paris 1868-1880, vol. 1, Judée, 1868, p. 84; Xavier de Planhol, Les fondements géographiques de l'histoire de l'islam, Flammarion, Paris 1968, pp. 253-266; Stanford J. Shaw, Ottoman Population Movements during the Last Years ofthe Empire, 1885-1914: Some Preliminary Remarks, «JOS», n. 1, 1980, pp. 191-205. 5
Hugh Henry Rose (console generale di Siria, Beirut), Lettera al conte di Aberdeen, ministro degli Affari Esteri, Londra, 12 ottobre 1841, PRO [Public Record Office] Archives (London), oggi FO 78/449, n. 110, in Ma'oz, Ottoman Reform in Syria and Palestine cit., p. 200. L'emancipazione dei cristiani provocò una ribellione ad Aleppo nel 1850. Il patriarca greco cattolico Massimo vi aveva fatto un ingresso trionfale in pompa magna e con costosi paramenti sacri. Già irritati dalla coscrizione, i musulmani si scagliarono contro i quartieri cristiani. Vedi Ma'oz, Ottoman Reform in Syria and Palestine cit., pp. 190-91 e note. Gli ebrei, che avevano mantenuto il loro consueto comportamento improntato all'umiltà, non furono attaccati. 6
Per l'accusa di crimine rituale in Oriente vedi Moïse Franco, Essai sur l'histoire des Israélites de l'Empire ottoman: depuis les origines jusqu'à nos jours, Librairie A. Durlacher, Paris 1897 (ripr. anast. Georg Olms, Hildesheim 1973), pp. 47-48 e 87-88; Jacob M. Landau, Ritual Murder Accusations in Nineteenth-Century Egypt, in Middle Eastern Themes, Frank Cass, London 1973, pp. 99-142. Vedi anche Victor X. Fontanier, Voyage dans l'Inde, dans le Golfe Persique par l'Égypte et la Mer Rouge, 2 voli., Paulin, Paris 1844-1846, vol. 2, p. 607. Le accuse scagliate, e frequentemente reiterate, contro gli ebrei dalle Chiese orientali, avevano causato la tortura e la morte di molti innocenti. Vedi supra, cap. 5, nota 16. 7
Dopo l'accusa di crimine rituale a Damasco, sir Moses Montefiore aveva ottenuto dal sultano 'Abdul-Mejld, il 6 novembre 1840, un firmano che dichiarava falsa l'accusa di crimine rituale e ne proibiva la formulazione all'interno del suo impero.
8
'Lettera di sir Henry Elliot (Therapia, Istanbul) a lord Derby (Londra), 20 novembre 1875, FO 424/39, n. 518. 10 Lettera di sir Henry Elliot (Therapia, Istanbul) a lord Derby (Londra), 29 novembre 1875, FO 424/39, n. 572. " I bashi-bazouk (turco baflibozuk), lett. «teste corrotte» o «senza guida», erano soldati mercenari appartenenti alle truppe irregolari dell'Impero otto-
mano, tristemente noti per la loro indisciplina, i loro saccheggi e la loro brutalità. Fecero la loro comparsa alla fine del XVIII secolo e combatterono in Egitto contro Napoleone. I loro eccessi durante la guerra russo-turca del 1877-78 costrinsero il governo ottomano a rinunciare a essi [N.d.T.]. 12 Lettera di Edward Freeman (Bosna-Serai) a lord Derby (Londra), 30 dicembre 1876, FO, 424/40, n. 56. "Memorandum by Consul-General and Judge Sir P. Francis on the New Judicial Reforms Contemplated in the Sultan's Recent hade of 20th October and the Firman of 12th December 1875, Costantinopoli, 8 gennaio 1876, FO, 4 2 4 / 4 0 , allegato al n. 136. "John Joseph, Muslim-Christian Relations and Inter-Christian Rivalries in the Middle East, Suny Press, New York 1983, p. 98.
Capitolo 7 I nazionalismi (1820-1918)
La storia dei popoli schiavi è ovunque la stessa, o meglio, essi non hanno storia. Gli anni, i secoli si susseguono senza apportare modifiche alla loro situazione. Le generazioni vanno e vengono senza clamore. Si direbbe che essi temano di ridestare i loro padroni, addormentati accanto a loro. Tuttavia, se li esaminate da vicino, scoprirete che quest'immobilità è solo apparente. Un lavorio sordo e incessante li agita. La vita in loro si è totalmente ritirata all'interno. Somigliano a quei fiumi che scompaiono sotto terra: se incollate l'orecchio al suolo, potete udire il mormorio sordo delle loro acque; poi, a poche leghe di distanza, riappaiono nella loro interezza. Questa è la condizione dei popoli cristiani della Turchia sotto la dominazione ottomana '. Di primo acchito, abbracciare in una visione d'insieme l'evoluzione di popoli così diversi e numerosi come quelli che costituivano l'universo dhimmì appare un'impresa azzardata. Tuttavia si può notare che questi popoli avevano almeno un punto in comune: che fossero ebrei o cristiani - di nazionalità greca, spagnola, slava, bulgara, armena ecc. - , erano tutti soggetti alle stesse leggi islamiche. È quindi possibile appurare se vi fossero divergenze o analogie nel loro modo di rapportarsi a questa comune realtà. Inoltre è necessario sgombrare il campo da ambiguità e confusioni terminologiche. Infatti espressioni quali «indipendenza» e «territorio liberato» presuppongono una legittimità nazionale e implicano l'esistenza in questi popoli di caratteri nazionali, an-
corché attenuati dal loro stato di dhimmitudine, ossia dalla loro soggezione all'autorità politica islamica. Di conseguenza, descrivere tali gruppi unicamente come «minoranze religiose» sarebbe inadeguato. Peraltro quest'espressione, di uso relativamente recente, è nata nel mondo cristiano in riferimento all'emancipazione degli ebrei europei, oppure dei protestanti nei paesi a maggioranza cattolica. Tuttavia le considerevoli differenze tra Europa e Oriente fanno sì che il suo impiego in questo contesto sia particolarmente improprio, in quanto rischia di dare adito a interpretazioni errate. Il termine arabo ahi al-dhimma (genti del patto), che rimanda a un trattato tra vincitori e vinti, è più corretto. Quanto a millet, usato dai turchi e dai consoli stranieri, esso corrisponde alla parola «nazione» e designa una collettività di tipo etnoreligioso. Ciascuna di queste comunità non musulmane presenta peculiari caratteristiche nazionali e religiose, assai difficili da separare, tanto esse sono intrecciate e fuse tra loro. Inoltre, tali caratteristiche si evolvono nel tempo: ora si affievoliscono, si attenuano o scompaiono a seconda delle circostanze, ora invece si accentuano e si consolidano. Questa mutevolezza, che determina la specificità di ogni gruppo dhimmi, è il risultato di diverse variabili - il radicamento geografico, la religione, la storia - unite a fattori endogeni quali lo sviluppo demografico, la deculturazione, l'assimilazione, la classe sociale di appartenenza ecc. Pertanto, pur segnalando l'esistenza di differenze non soltanto tra i vari gruppi dhimmi, ma anche all'interno di ognuno di essi, differenze legate alle loro specifiche componenti socioculturali, è possibile individuare alcune analogie nella sfera che avevano in comune, quella della dhimmitudine, ossia nelle conseguenze del fatto di essere soggetti alle stesse leggi.
Anatolia e Turchia europea: caratteri comuni Senza entrare nei dettagli del processo di liberazione dei diversi gruppi dhimmi, possiamo tuttavia ricostruire le tappe comuni che permisero loro di accedere all'indipendenza. Tali fasi, che investirono gli ambiti culturale, economico, religioso e politi-
co, presero forma in un contesto di interazioni e di interdipendenze. Il processo ebbe inizio con la rinascita delle lingue nazionali, che diede nuovo impulso alla produzione letteraria; in seguito il movimento culturale mise in moto la ricerca storica, e diede il via alla modernizzazione dell'insegnamento scolastico all'interno dei gruppi. Intanto, la laicizzazione e la riforma degli organi comunitari contribuivano a ridurre il dispotismo del clero, lo strapotere e la corruzione dei notabili. Infine, il fermento prodotto dal nazionalismo culturale innescò le insurrezioni e la lotta politica per l'abolizione della dhimma. La rinascita culturale L'antico patrimonio popolare di leggende e racconti di guerra religiosamente custodito nei conventi e nei monasteri, in particolare in quelli del monte Athos, dei monti Rodopi e dell'Armenia 2 , fecondò il rinnovamento delle culture dhimmi balcaniche e di quella armena. Le antiche lingue nazionali - greco, serbo, bulgaro, valacco (rumeno) e armeno - cadute nell'oblio e nel disprezzo, furono affinate e perfezionate. Una serie di riforme linguistiche codificò l'ortografia all'interno dei dizionari e delle grammatiche, e la lingua si modernizzò e si snellì, adeguandosi alle esigenze di una produzione letteraria moderna. Attingendo al folklore nazionale delle guerre contro i turchi, la filologia restituì il passato alla coscienza popolare e alimentò la ricerca storica. Questa rinascita culturale, alla quale concorsero la filologia, la letteratura e la storia, si manifestò in Grecia grazie ad autori quali Rhigas Velestinlis e Adamantios Korais, in Serbia con Vuk Karadzii, Dmitrij Obradovic e Ljudevit Gaj, in Romania con Samuel Klein [Samuel Micu], Ion Heliade-Ràdulescu e Mihail Kogàlniceanu, e in Bulgaria con Georgi Rakovski, Ljuben Karavelov e Dragan Tzarikov. Come i greci e gli ebrei, anche gli armeni seppero preservare la loro lingua nazionale fissandola in numerose opere storiografiche e letterarie. I monaci mechitaristi di Venezia (armeno-cattolici) 3 diedero vita a ricche biblioteche. Le loro tipografie pubblicavano opere storiche e filologiche che preservavano l'identità nazionale e religiosa.
Varcando le frontiere, il vasto movimento culturale dei popoli balcanici si ricollegava al fervore della ricerca storica, filologica, linguistica e sociologica fiorita nelle capitali dell'Europa occidentale nel XIX secolo. Riorganizzazione dei «millet» Nell'Impero ottomano tutti i cristiani duofisiti - fossero essi greci, slavi o siriaci - erano stati riuniti in un unico millet, che aveva per rappresentante il patriarcato greco-ortodosso. Quest'ultimo assunse la direzione degli altri patriarcati nazionali un tempo indipendenti: il patriarcato serbo di Pei, abolito nel 1766, e l'arcivescovato bulgaro di Ohrid, soppresso nel 1767. Il millet armeno, meno gerarchizzato, era governato da vari vescovi regionali (catholicoi). Verso la fine del XVIII secolo, il patriarca armeno di Costantinopoli riuscì a imporre il suo controllo e a raggruppare sotto la sua giurisdizione la totalità dei cristiani monofisi ti 4 . L'amministrazione civile e religiosa dei raya, devoluta al patriarca assistito dal Santo Sinodo, conferiva all'autorità ecclesiastica poteri assai più estesi sotto i sultani di quelli di cui godeva sotto gli imperatori bizantini. Poiché la loro investitura dipendeva da una concessione del sultano, in genere ottenuta con la venalità e gli intrighi, i capi del millet diventavano strumenti di controllo politico e di ingerenze da parte del sovrano ottomano. Per giunta, eccetto che in materia religiosa, la convalida delle decisioni di un patriarca richiedeva la ratifica di un funzionario della Porta, il che dava luogo a fenomeni di corruzione e intromissione 5 . La nobiltà bizantina che era sopravvissuta ai massacri legati alle conquiste, o che non era andata in esilio, entrò al servizio del sultano o mediante la pratica del devshirme o venendo integrata nei quadri dell'amministrazione pubblica, e si arricchì grazie agli appalti per la riscossione delle imposte. Questa collusione, o collaborazione, dei vinti cristiani con i vincitori musulmani si manifestò soprattutto fra i greci. Indispensabili al mantenimento del governo turco, questi ultimi controllavano l'intero settore dei servizi amministrativi. Furono probabilmente i peculiari caratteri di questa collaborazione, improntata all'ostilità e al disprezzo reci-
proci, a conferire al millet greco i tratti negativi descritti da tanti osservatori dell'epoca, per quanto filoellenici fossero. Ricordiamo che le funzioni civili e le cariche ecclesiastiche venivano concesse dal sultano al miglior offerente. L'acquisto delle diocesi obbligava i titolari a recuperare fondi tramite la vendita di cariche religiose minori, mentre il commercio degli incarichi amministrativi arricchiva i banchieri e gli usurai greci del Fanar. Questa pratica, che si ripercuoteva a tutti i livelli della scala sociale e ricalcava la situazione vissuta dai cristiani d'Oriente sotto gli omayyadi e gli abbasidi, impoveriva le istituzioni. Spesso sollecitata da contestatori ambiziosi, la Porta interveniva negli affari dei patriarcati, giocando sulle discordie e gli intrighi per imporre elezioni o dimissioni arbitrarie. La riforma e la modernizzazione dell'insegnamento scolastico, unite allo studio delle lingue e delle storie nazionali, risvegliarono l'orgoglio delle nuove generazioni raya. Una classe di intellettuali educati all'estero, di artigiani, di piccolo borghesi iniziò a contestare il dispotismo dei notabili e dell'alto clero. Quest'evoluzione all'interno dei singoli millet diede il via alla lotta per la democratizzazione degli organismi comunitari. In questa fase i nazionalismi dhimmT, sebbene affondassero le radici nella religione, si configuravano come movimenti di intellettuali in conflitto con le loro gerarchie ecclesiastiche, ree di essersi fatte strumenti e complici della dominazione islamica. Anche l'abbattimento delle strutture comunitarie istituite e controllate dal potere musulmano, sulle quali era stato edificato l'intero sistema della dhimmitudine, appariva una fase preliminare obbligata della lotta per l'indipendenza politica. Questa fase corrispondeva peraltro all'evoluzione ideologica e agli orientamenti anticlericali propri del XIX secolo. È un vero peccato che le lotte in seno alle singole comunità non abbiano attirato maggiormente l'interesse degli storici, perché questi conflitti interni, con le loro tendenze democratiche e laiche, di fatto veicolarono la fine del potere economico dei patriarcati dhimmT e le rivendicazioni indipendentistiche. La lotta per l'indipendenza non si limitava quindi alla sola guerra contro i turchi, guerra che i popoli raya sarebbero stati in-
Affresco (XIII secolo). Monastero di SopoCani, Serbia (Foto D. R).
capaci di sostenere. Essa implicava altresì una radicale trasformazione di ogni millet grazie a una rivoluzione ideologica e a una riorganizzazione amministrativa. Questi cambiamenti avrebbero consentito a un contropotere laico di eliminare gli abusi e la corruzione che avevano preparato il regime della dhimmitudine e lo avevano mantenuto in vita. Le riforme introdotte comportarono l'assegnazione di salari fissi ai patriarchi e ai vescovi, e la separazione della sfera temporale da quella spirituale negli affari comunitari. La nascita di un potere laico preposto ad amministrare le rendite della comunità e a dirigere le scuole suscitò una viva opposizione all'interno del clero, in particolare di quello greco.
Durante questo periodo di transizione dalla dhimmitudine all'indipendenza, tutti i millet procedettero a una riorganizzazione interna (1860-1865). I loro rappresentanti, affrancati dalla tutela del sultano, annoveravano sia laici che religiosi, che disponevano di fondi per gestire le loro istituzioni scolastiche e filantropiche. La nuova gestione dell'informazione, affidata a ima stampa redatta in lingua nazionale, lingua riportata in vita da un processo di rinnovamento, assicurava la coesione comunitaria, introduceva la modernità e spalancava nuovi orizzonti concettuali. Quest'evoluzione, confortata dalle felici modifiche apportate dal tanzlmdt e dal sostegno delle nazioni europee protettrici, trasformò le masse dhimmT sottomesse e spianò la strada alla libertà. Le insurrezioni Malgrado secoli di soggezione, i popoli cristiani dei Balcani, della Grecia e dell'Anatolia non avevano mai perso la speranza di liberarsi. I preti di paese, benché fanatici, ignoranti e poveri, oltre a custodire la fede mantenevano viva nel popolo la coscienza nazionale. Il desiderio di indipendenza si esprimeva nelle elegie popolari nate dall'oppressione e nei poemi che celebravano gli eroi nazionali e la resistenza ai turchi. Questa miscela esplosiva di speranza e impotenza rendeva i raya vulnerabili agli intrighi di paesi pronti a sfruttarli o ad abbandonarli a seconda dei loro interessi. Le insurrezioni o le rivolte sporadiche incoraggiate dalla Russia o dall'Austria provocavano sanguinose rappresaglie. La speranza tuttavia non si estingueva, alimentata in particolare dagli agenti di queste due potenze, dalle circostanze, dal disfacimento dell'Impero ottomano, dalla sua debolezza e dalla superiorità militare degli Stati cristiani. La resistenza politica si organizzò dapprima nelle regioni di confine - i principati moldo-valacchi (Romania) 6 vicini alla Russia, il Montenegro e la Croazia - , con il sostegno di volta in volta austriaco o russo. Nel 1711 l'insurrezione dei moldo-valacchi appoggiati dalla Russia fallì. La Porta affidò l'amministrazione dei principati ad alcuni esponenti dell'antica aristocrazia bizantina, i fanarioti,
cui verme conferita la carica di governatori (hospodar)7. Nel 1769 i russi fomentarono un'insurrezione nel Peloponneso, ma Caterina II abbandonò il suo piano e lasciò sgozzare circa 50.000 greci (Trattato di Kùquk Kainarji, 1774). Questi smacchi non scoraggiarono né i greci né gli slavi, che continuarono a tentare di ottenere fondi, armi e aiuti militari dalla Russia. All'alba del XIX secolo, la rinascita del nazionalismo ellenico accompagnò le insurrezioni dei kleftes8 sulle montagne e nelle isole greche. La Filiki Etairia, associazione patriottica fondata da Rhigas e riorganizzata nel 1814 dal fanariota Alexandros Ypsilanti, alimentò il movimento nazionalista clandestino; qualche anno più tardi, insorse il Peloponneso. I turchi risposero alla rivolta dei dhimmT applicando le leggi del jihad: massacro e riduzione in schiavitù delle popolazioni cristiane ribelli. Nella sola Chio (1822), i 113.000 abitanti dell'isola si ridussero a 1800. Ma l'indignazione generale obbligò la Francia, la Russia e l'Inghilterra a intervenire. Esse tentarono di far assegnare alla Grecia lo status di provincia autonoma, retta da un governatore cristiano ma vassalla della Porta. L'indipendenza greca fu riconosciuta nel 1830. In Serbia, a partire dal 1804, Karadorde 9 , con un esercito composto da contadini, assunse la guida dell'insurrezione e scacciò i giannizzeri nel 1806. Nel 1830 la Serbia ottenne l'autonomia amministrativa pur restando vassalla della Porta, che manteneva guarnigioni militari sul suo territorio. Alcuni anni più tardi, con il Trattato di Parigi (1856), le potenze europee si sostituirono alla Russia in qualità di protettrici della Serbia e ne garantirono l'indipendenza. Influenzata dai rivoluzionari europei e dal panslavismo russo, e inoltre alimentata dal movimento per la rinascita culturale balcanica, l'insurrezione cristiana si diffuse in Montenegro, Bosnia, Erzegovina e Macedonia. Le ribellioni dei kleftes (greci), degli haiduk e dei comitadji (bulgari), bande di partigiani nazionalisti, furono appoggiate dalla Serbia, dall'Austria, dalla Russia e dal Montenegro. La lunga e sanguinosa marcia verso l'indipendenza dei vari popoli cristiani dei Balcani presenta i seguenti tratti comuni: il recupero, verso la fine del XVIII secolo, della lingua, della cultura e
della storia nazionali. Questa rinascita culturale, legata alla fioritura degli studi storici e al pensiero rivoluzionario europeo, condurrà alla democratizzazione e alla secolarizzazione dei millet tramite il ridimensionamento del potere amministrativo degli ecclesiastici e dei notabili. Tale processo è punteggiato di rivolte e insurrezioni fomentate e sostenute da potenze straniere.
Caratteri differenti Le affinità tra i processi generali di liberazione non possono tuttavia mascherare le grandi differenze che distinguevano, per non dire opponevano, le molteplici etnie insediate nelle province europee della Turchia. Tali differenze derivavano in primo luogo dalla geografia e dalla storia. Ad esempio i rumeni, contrariamente ai bulgari, beneficiavano della loro lontananza dai centri abitati, che erano prevalentemente o completamente islamizzati. La Valacchia subì la dominazione turca per quattro secoli, la Moldavia per tre; eppure questi principati, riimiti sotto il nome di Romania, non furono mai ridotti allo status di province amministrate da governatori musulmani. Retti dai boiari usciti dall'aristocrazia locale e dai loro voivodi10, essi poterono conservare le loro istituzioni, la loro cultura nazionale e una relativa autonomia. In quanto vassalli della Porta, però, erano tenuti a mantenere le guarnigioni turche di stanza nei loro territori, a fornire contingenti militari e a ottenere dal sultano l'investitura per i voivodi eletti dai boiari. I rumeni, popolo di origine neolatina ma di rito ortodosso uniate (ossia uniti a Roma), vivevano alla periferia del dar al-islam, il che costituiva un vantaggio rispetto ai tributari le cui terre erano state totalmente invase e inglobate nel mondo musulmano. Questa posizione periferica privilegiata permise loro di mantenere i legami con l'Occidente, in particolare con la Francia, e di prendere parte all'evoluzione culturale e politica della civiltà europea. Stretti nella morsa della Russia e dell'Impero ottomano, essi tentarono di svincolarsi dall'invadente protezione di Mosca, che nel 1802 aveva acquisito un diritto di controllo sugli hospodar.
La situazione era diversa per i serbi, i greci e i bulgari. I loro territori, amministrati dai turchi, subirono non solo una consistente immigrazione e colonizzazione musulmana, ma anche un regime di deportazione dei popoli indigeni. I greci tuttavia furono privilegiati rispetto ai bulgari e ai serbi, in quanto poterono preservare la loro Chiesa nazionale e, attraverso il controllo del governo turco, acquisire un considerevole potere economico e politico. Da Costantinopoli, le ricche famiglie fanariote proteggevano i loro compatrioti e intrecciavano relazioni con l'Europa, in particolare nelle aree periferiche dell'impero, che beneficiavano di larghe autonomie locali. Quanto ai serbi e ai bulgari, privati delle loro Chiese nazionali ed estromessi dalle loro sedi episcopali e metropolitane dal patriarcato greco, essi subirono ima profonda deculturazione sotto l'egemonia spirituale e religiosa del clero ellenico 11 . La scomparsa delle loro élite, dovuta ai massacri, alle conversioni o all'emigrazione, aveva lasciato senza una guida le masse incolte. I serbi, che si erano rifugiati sulle montagne del Montenegro, riuscirono a conservare il proprio spirito di indipendenza e ad arruolarsi negli eserciti austriaci, mentre i bulgari furono danneggiati dalla configurazione pianeggiante del loro territorio e dalla vicinanza di Costantinopoli, divenuta il simbolo dell'islam conquistatore. La lotta dei popoli cristiani della Turchia europea contro la dhimmitudine fu un processo vasto e articolato, scandito da molteplici fattori: in primo luogo la posizione geografica, la densità demografica e / o l'atomizzazione nella diaspora (legata alle deportazioni). Ma anche il grado di sopravvivenza della lingua e della cultura nazionali, l'autonomia o la soppressione del clero locale, i contatti con l'estero oppure l'isolamento influirono sugli eventi. L'assimilazione delle élite o l'irredentismo politico, il ruolo e il coinvolgimento delle potenze protettrici, la natura dei loro interessi e i casi della politica internazionale modularono anch'essi gli svolgimenti storici. A volte la ribellione partiva dalle élite (come in Romania), a volte dai montanari e dai contadini (è il caso della Grecia, della Serbia, della Bulgaria). La dinamica rivoluzionaria combinava
sforzi interni e aiuti stranieri. Le interferenze estere, connesse alle rivalità e agli interessi dei vari Stati europei, a tratti accelerarono, a tratti invece rallentarono od ostacolarono il movimento di indipendenza. Dopo il trattato del 1774 la Russia accreditò come consoli negli scali del Levante alcuni membri delle popolazioni greche autoctone, e garantì la sua protezione ai loro impiegati e servitori. La tutela russa stimolò i commerci e favorì il sorgere di una nuova classe di mecenati che, grazie alla distanza dai centri della politica turca, poterono finanziare la rinascita culturale dell'ellenismo. La Bulgaria fu praticamente creata dalla Russia (con il Trattato di Santo Stefano, 1878); la Serbia, vicina all'Austria, beneficiò anch'essa delle simpatie russe, ma dovette guardarsi da entrambi i suoi «protettori», cui se ne aggiunse un terzo non meno avido: la Germania. La Romania fu occupata e devastata a più riprese dall'armata russa «protettrice», mentre la posizione strategica della Grecia la collocava sotto la stretta sorveglianza dei suoi «liberatori»: Russia, Francia e Inghilterra. Obbedendo sempre e soltanto ai loro interessi strategici o economici, gli Stati europei sfruttavano le aspirazioni nazionali dei popoli raya per ingrandire il loro territorio o la loro sfera di influenza. Le controversie internazionali si innestavano sui conflitti religiosi. L'autonomia delle Chiese slave esigeva in primo luogo la loro emancipazione culturale, amministrativa ed economica dalla tutela greca. Nel 1870 la Porta, temendo l'intervento russo, riconobbe un esarcato bulgaro autonomo con sede a Costantinopoli, che fu subito scomunicato dalla Chiesa greco-ortodossa. Nel millet armeno gli scismi religiosi si riflettevano nelle discordie nazionali. I monofisiti (gregoriani) avevano conservato la loro cultura, ma i cattolici erano divisi in due sette tra loro nemiche: i mechitaristi, di orientamento nazionalista, che speravano di ottenere l'indipendenza grazie all'unione con Roma, e gli armeni di rito romano, antinazionalisti. A tali conflitti, che laceravano le comunità opponendo i laici ai religiosi, gli slavi ai greci, i nazionalisti ai notabili, si aggiungevano gli intrighi dei missionari europei, protestanti o cattolici. Per
proteggersi da essi, le chiese raya ricorsero all'autorità islamica. Nel 1817, a seguito di una lamentela del patriarca greco di Gerusalemme Policario, Mahmud II inviò ai governatori di Damasco e Saida (Sidone), nonché al qadl di Gerusalemme, un firmano in cui ribadiva il divieto di proselitismo cattolico. Il patriarca aveva denunciato le offese e i soprusi inflitti agli ortodossi dai cattolici greci. Confermando le ordinanze precedenti in materia, la più antica delle quali risaliva al 1732, il firmano specificava che il sultano «proibisce tali comportamenti, vieta ai greco-ortodossi di entrare nelle chiese cattoliche e ai sacerdoti cattolici di entrare nelle case dei greco-ortodossi e di catechizzare i loro figli, pena l'esilio e la confisca dei loro beni» 12 . Se il sultano, fedele alla grande tradizione islamica, interveniva per regolare con equità i contenziosi che dividevano i suoi sudditi, sul piano politico, tuttavia, egli infieriva su di loro con il massimo rigore. Qualche anno più tardi, nel 1821, lo stesso sultano inviò al suo vassallo Muhammad 'Ali, governatore d'Egitto, un firmano relativo alla rivolta dei raya greci, in cui gli intimava di conformarsi alla sharT'a, la quale, secondo le indicazioni dell'autorità religiosa, prescrive che «i ribelli siano combattuti apertamente e passati a fil di spada, che i loro beni siano saccheggiati e che le loro mogli e i loro figli siano ridotti in schiavitù» 13 . L'appello al jihad (30 marzo 1821), provocato dall'insurrezione in Moldavia e in Morea, fece accorrere dall'Asia orde guidate dai dervisci, che instillarono nel popolo il fanatismo contro gli infedeli. Per due mesi il terrore imperversò a Costantinopoli, in Tracia, in Asia Minore, in Macedonia. Gli arcivescovi e i prelati furono torturati, impiccati e trucidati, le chiese demolite, i greci massacrati, i loro beni saccheggiati e incendiati. I «franchi» 14 osavano a malapena uscire. Il patriarcato greco scomunicò i nazionalisti ellenici; notabili o delatori greci e rumeni denunciarono le società segrete di stampo nazionalista. Il terrore delle rappresaglie suscitò una generale diffidenza, e gli insorti furono traditi e combattuti dai loro stessi correligionari e dal loro stesso clero. Dopo la disfatta riportata dai turchi il 20 ottobre del 1827 a Navarino, i monofisiti armeni denunciarono al sultano i loro corina-
Sacerdote greco (1720) («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).
zionali cattolici, accusandoli di volersi emancipare con la complicità della Francia e del Papa. Per ordine del sultano, tutti i cattolici armeni dell'Impero furono costretti a tornare sotto l'autorità del patriarca monofisita, e quelli di Costantinopoli furono espulsi. L'intervento francese pose fine alle persecuzioni e portò, nel 1831, al riconoscimento dell'indipendenza del millet cattolico armeno, sotto l'autorità di un patriarca che godeva delle stesse prerogative del confratello monofisita. Circa dieci anni più tardi, la scissione all'interno del millet armeno si aggravò in seguito alla nascita di una Chiesa protestante armena autonoma. Osservando la violenza dei conflitti tra raya, Ubicini osservava: L'ostilità delle popolazioni raya nei confronti del dominio turco non è neanche lontanamente paragonabile all'odio reciproco da cui esse sono pervase, e, piuttosto che unirsi per far prevalere l'elemento cristiano su quello musulmano, i greci, gli armeni e i latini preferirebbero cento volte condannarsi a un'eterna schiavitù, e non esiterebbero affatto, se ciò fosse necessario, a unirsi ai turchi per impedire il trionfo dei loro rivali [...]. Fortunatamente per la Porta, se in fondo i raya nutrono ben poca simpatia per la dominazione ottomana, essi si detestano tra loro ancor più di quanto detestino i turchi, e ciò basta, lo ripeto, per mettere questi ultimi al riparo dalla minaccia di un'insurrezione dotata di un carattere tanto generalizzato da mettere in pericolo la loro esistenza.15 Per domare le insurrezioni cristiane, la Porta procedette alla massiccia islamizzazione dei Balcani; solo tra il 1855 e il 1866, un milione di rifugiati curdi e circassi si insediò in questa regione, depredando e taglieggiando i contadini. Ogni insurrezione dava luogo a massacri la cui ferocia terrorizzava gli abitanti. Le popolazioni cristiane dei Balcani impiegarono oltre un secolo per uscire, letteralmente dissanguate, dalla dhimmitudine. Questa trasformazione implicò una radicale rivoluzione interna di tipo culturale e sociale, che fu portata avanti di pari passo con la lotta politica e militare contro la Turchia. Popoli privi di eserciti e di coesione, disorganizzati e divisi da controversie millenarie
esacerbate dai loro alleati, dovettero costantemente difendersi dai loro nemici e tutelarsi dai loro protettori, che li liberavano soltanto per «divorarli meglio» (Russia, Austria), o per imporre loro confini arbitrari o artificiali (Congresso di Berlino, 1878), o ancora per costringerli con ogni mezzo a rimanere sotto il dominio islamico (Francia, Inghilterra) 16 .
L'Armenia Situata ai margini settentrionali dell'Impero arabo omayyade, l'Armenia sfuggì alla sorte degli ebrei palestinesi e dei cristiani d'Oriente, i quali, dal VII al X secolo, furono travolti e annientati dalle ripetute invasioni e dai conflitti interni al dar al-islam. In questa lontana provincia, spesso teatro di ribellioni, la dominazione arabo-islamica non riuscì a insediarsi stabilmente. Vassalla ora di Bisanzio ora del califfato, nonostante le devastazioni e le prove l'Armenia conservò la sua lingua, la sua cultura e un certo grado di autonomia amministrativa. Quando, intorno al 1050, i turchi selgiuchidi la devastarono, i cristiani emigrarono verso la regione del Tauro, in territorio bizantino, dove alcuni territori erano già stati assegnati ai principi armeni. Dopo la disfatta bizantina di Manzikert (1071), le tribù turche ricacciarono gli armeni in Anatolia, dove essi diedero vita a numerosi centri abitati (Piccola Armenia). Con la progressiva islamizzazione dell'Asia Minore, armeni e greci divennero le popolazioni dhimmT dei diversi emirati che si spartirono l'Anatolia. Intorno al 1828 il governo russo, che già controllava le province armene della Persia, iniziò a interessarsi alla sorte degli armeni raya, incoraggiandone l'emigrazione nella loro antica patria, ora divenuta parte della Russia, e promuovendo la rinascita del monastero di Etchmiadzin, sede nazionale del catholicos. Ben presto l'autorità spirituale di questo primate su tutti gli armeni eclissò quella del patriarca di Costantinopoli, soggetto al sultano. I possedimenti russo-armeni, accresciuti dalla guerra del 18771878, divennero, con le loro numerose popolazioni cristiane, fo-
colai di attività nazionaliste. Incoraggiati dagli analoghi fermenti che scuotevano i Balcani, gli armeni ottomani si avvicinarono ai loro connazionali russi, nella speranza di scuotersi di dosso un giogo oppressivo e di riconquistare anch'essi l'indipendenza. Queste simpatie filorusse ridestarono l'animosità dei popoli musulmani, contrariati dalla collusione tra un'importante etnia raya, situata al centro del loro Impero, e il loro più temibile nemico. Salvata dall'occupazione russa dall'intervento dell'Europa (1877-1878), la Turchia fu costretta ad accettare l'articolo 16 del Trattato di Santo Stefano, che legava l'evacuazione delle truppe russe dal suo territorio all'applicazione delle riforme amministrative in sei vilayet (= province) armeni dell'Anatolia centrale, dalle coste della Cilicia fino a Erzerum. Tali riforme, destinate ad abolire le discriminazioni e le umiliazioni nei confronti dei cristiani raya, imponevano l'uguaglianza giuridica e amministrativa tra i musulmani e gli armeni, assai numerosi in queste regioni. Tuttavia, invece di procedere alle riforme, il sultano AbdulHamid II (1876-1909) organizzò una milizia armata composta di curdi, che prese a perseguitare gli abitanti dei villaggi armeni. Inoltre indirizzò il flusso dei profughi musulmani in fuga dalle province turche restituite alla sovranità nazionale cristiana, oppure conquistate dalla Russia, verso i territori armeni, dove favorì il loro insediamento assegnando loro delle terre. Sul piano politico diversi elementi, tipici della condizione armena, giocavano a sfavore di questo popolo. Il più importante era la sua ripartizione geografica in varie regioni che attraversavano l'Anatolia centrale, dal Mar Nero al Mediterraneo. Se la perdita delle province europee periferiche non rappresentava un pericolo mortale per la Turchia, la nascita di un'Armenia autonoma nel cuore stesso del suo Impero l'avrebbe invece ridotta a un microstato, mutilato del suo hinterland musulmano arabo-asiatico a est, e minacciato da una «reconquista» russo-greca a Nord e a Ovest. Per giunta, gli armeni non potevano giocare sulla concorrenza di altri Stati «protettori», poiché il loro isolamento li condannava esclusivamente alla protezione russa. Ebbene, nessuno Stato era disposto a tollerare il crollo degli equilibri europei né una con-
quista russa della Turchia realizzata attraverso gli armeni. E, nella particolare congiuntura di quel fine secolo, anche quell'unico protettore si rivelava un alleato specioso. Così, non solo la collusione degli armeni con lo storico nemico della Turchia suscitava il sospetto degli ottomani, ma soprattutto la Russia zarista, alla vigilia del crollo, prestava scarsa attenzione alla questione armena. Se il sultano era contrariato dall'arruolamento degli armeni nelle truppe russe, lo zar dal canto suo diffidava della militanza armena nei comitati anarchici e rivoluzionari, tra cui il Hentchak, di tendenza marxista, fondato nel 1887, e la Fédération Révolutionnaire Arménienne (FRA), creata a Tbilisi nel 1890. E probabile tuttavia che, se non fosse stato per l'improvviso scoppio della prima guerra mondiale, la cui estensione e le cui nuove tecniche monopolizzarono tutte le forze alleate, lo sterminio degli armeni - il primo genocidio di questo secolo - sarebbe stato se non evitato, perlomeno ridimensionato. A differenza dei greci, degli slavi e dei maroniti, agli armeni vennero a mancare i soccorsi in un momento cruciale della loro storia, poiché gli eserciti europei erano impegnati a massacrarsi tra loro e perché la rivoluzione marxista-leninista stava paralizzando il loro paese protettore: la Russia. I massacri Dopo lo sterminio, perpetrato a Trebisonda, a Sassun e in altre città della Mesopotamia (1894-1896), di un numero di armeni compreso tra i 100.000 e i 200.000, e quello di 30.000 armeni ad Adana (1909), la Russia impose alla Porta l'Atto del 26 gennaio 1914. Questo accordo affidava il controllo del governo delle province armene a due ispettori generali europei e riconosceva l'armeno come lingua ufficiale. Esso aboliva altresì le restrizioni relative al numero delle scuole armene e le disuguaglianze amministrative e giudiziarie tra cristiani e musulmani. Il protettorato europeo su una popolazione ripartita in un vasto territorio situato al centro della Turchia indeboliva la politica di turchificazione e di islamizzazione perseguita dal governo dei Giovani Turchi 17 . La prima guerra mondiale sembrò essere l'oc-
casione per liquidare il problema armeno, tanto più che gli armeni del Caucaso, arruolati nelle file dell'esercito russo, non nascondevano la loro intenzione di liberare l'Armenia turca, destinata dallo zar Nicola II a un brillante avvenire. All'inizio della guerra, l'avanzata russa sul fronte caucasico e le trame dei rivoluzionari armeni servirono da pretesto ai Giovani Turchi per schiacciare definitivamente il nazionalismo armeno. Il genocidio degli armeni fu ima combinazione di massacri, deportazioni e riduzioni in schiavitù. Nelle regioni dell'Armenia centrale, tutti i maschi dai dodici anni in su furono oggetto di uno sterminio collettivo, che li vide freddati a colpi di arma da fuoco, annegati, gettati nei burroni o vittime di altri supplizi. La deportazione consistette nel trasferimento di determinate fasce della popolazione, soprattutto donne e bambini, nel deserto di Dayr alZür, tra la Siria e l'Iraq 16 . I convogli si spostavano a piedi per percorsi interminabili lungo territori accidentati, nel corso dei quali la penuria d'acqua, di cibo e di riparo notturno acuiva le sofferenze dei deportati. Per tutto il cammino le schiere di donne e di bambini erano in balia degli stupri, dei furti, della crudeltà dei briganti, dei predoni oppure degli abitanti dei villaggi, a cui si aggiungevano i loro accompagnatori, esclusivamente musulmani. In ogni città e in ogni villaggio che attraversavano, gli armeni, ammassati davanti alla prefettura, erano esposti ai cittadini islamici, gli unici autorizzati a scegliere degli schiavi tra loro. In alcuni casi, le donne potevano sottrarsi alla morte o alla schiavitù insieme ai loro figli mediante la conversione all'islam, ratificata dal matrimonio immediato con un musulmano. Coloro che sopravvivevano alle torture del tragitto - la fame, la sete, lo sfinimento, gli stupri - giungevano a Dayr al-Zür. Informate in anticipo dell'arrivo dei convogli, le tribù arabe e curde, insieme ai contadini musulmani, li aspettavano per arrecare loro gli ultimi oltraggi. I cadaveri venivano abbandonati nel deserto. II genocidio degli armeni fu il normale esito di una politica insita nella struttura politico-religiosa della dhimmitudine. Questo processo di annientamento fisico ai danni di una nazione ribelle
aveva già fatto la sua comparsa durante le rivolte dei cristiani slavi e greci, che si salvarono dallo sterminio collettivo solo grazie agli interventi europei, interventi effettuati talora a malincuore. Il genocidio degli armeni fu un jihad. Nessun raya, infatti, vi prese parte. Nonostante la disapprovazione di molti turchi e arabi musulmani, e il loro rifiuto a collaborare al crimine, questi massacri furono perpetrati unicamente dai cittadini islamici, ed essi soli beneficiarono del bottino: i beni delle vittime, le loro abitazioni, i loro campi - assegnati ai muhajirun - , le donne e i bambini, spartiti e ridotti in schiavitù. L'eliminazione dei maschi dai dodici anni in su è conforme alle prescrizioni del jihad e all'età regolamentare per il pagamento della jizya. Le quattro tappe dello sterminio - deportazioni, riduzioni in schiavitù, conversioni forzate ed eccidi - riproducono le condizioni storiche del jihad, applicate a partire dal VII secolo in tutto il dar al-harb. Cronache di provenienze diverse, soprattutto di autori islamici, descrivono minuziosamente l'organizzazione del massacro dei vinti e le deportazioni dei prigionieri, le cui marce forzate al seguito degli eserciti infliggevano loro le stesse sofferenze provate dagli armeni nel XX secolo. Questa politica non era un episodio isolato. Essa rientrava in una strategia difensiva finalizzata a mantenere sotto la giurisdizione islamica un territorio conquistato con la guerra e ad annientare i nazionalismi dhimmi. Perciò la tragedia armena fu accompagnata dallo sterminio dei cristiani giacobiti e nestoriani della valle dell'Eufrate, nel Nord della Siria. Nel mese di settembre del 1915, a Musa Dagh (Jabal Musa, presso Antiochia), tra i 4000 e i 5000 armeni, accerchiati dai turchi e dagli arabi, furono imbarcati in extremis su alcune navi francesi. Ma le autorità inglesi e francesi, temendo l'ostilità delle popolazioni islamiche, si rifiutarono di lasciarle sbarcare in Egitto, a Rodi, a Cipro, in Marocco e in Tunisia. Alla fine l'Alto Commissario inglese d'Egitto accettò il loro sbarco provvisorio ad Alessandria. Il concorso di tutte queste circostanze dimostra che il genocidio degli armeni fu un affaire esclusivamente musulmano, nelle finalità come nell'attuazione, e che nessuna fase di tale piano
Convoglio di armeni scortati da guardie turche e diretti verso il luogo della loro esecuzione. Kharput, 1915 (foto conservata al Museo armeno di Gerusalemme).
vide coinvolte le comunità raya. Al contrario, i rapporti pervenuti agli Alleati sugli eccidi erano di provenienza cristiana ed ebraico-ottomana. Sul fronte internazionale, poi, l'Austria e la Germania, alleate della Turchia, non furono esenti da responsabilità. In che misura i racconti di coloro che avevano preso parte a quei massacri influenzarono Hitler? Circa vent'anni più tardi, il 22 agosto 1939, alla vigilia dell'invasione della Polonia, il Fuhrer comunicava ai comandanti in capo dei suoi eserciti riuniti a Obersalzberg: Perciò, per il momento ho inviato a Est solo le mie unità di Teste di Morto [Totenkopfverbànde], con l'ordine di uccidere senza alcuna pietà né compassione tutti gli uomini, le donne e i bambini di razza o di lingua polacca. Oggigiorno chi parla ancora dello sterminio de-
gli armeni? (Wer redet heute noch der Vernichtung der Armenier?)19
Gli alibi addotti per scagionare i popoli che all'epoca collaborarono a queste atrocità si spiegano con il contesto internazionale e la volontà degli Stati coloniali di attuare una politica di appeasement nei confronti del mondo arabo e islamico. Tali Stati - la Russia, l'Inghilterra, la Francia e l'Italia - governavano su milioni di musulmani in Caucasia, in Asia, nelle Indie, in Egitto, nel Levante e nel Maghreb: perciò si sforzarono di occultare la tragedia. La responsabilità di essa fu imputata ad alcuni capri espiatori - la massoneria o altri - , utili alla ripresa delle buone relazioni con la Turchia e con i popoli islamici, in particolare con i siro-iracheni, ostili ai protettorati francese e britannico. Inoltre, nessuno Stato europeo aveva allora interesse a ingrandire il territorio dell'URSS con la creazione di un'Armenia sovietica. La specificità della storia armena rispetto a quella dei nazionalismi balcanici è data dal particolare contesto geopolitico in cui si svolse. Gli insediamenti armeni, infatti, erano situati al centro della Turchia, mentre i raya europei conservavano forti concentrazioni demografiche alla periferia dell'Impero ottomano. I popoli balcanici, inoltre, potevano contare sulle rivalità tra gli Stati vicini, mentre gli armeni dipendevano solo dalla Russia, il cui piano - la restaurazione dell'Impero bizantino, da Costantinopoli alla Mesopotamia, sotto la corona degli zar - incontrava opposizione in tutta Europa. Fu in tale contesto, qui ricostruito in forma assai schematica, che si compì il tragico destino del popolo armeno, oscurato dal frastuono e dalle stragi della prima guerra mondiale.
Le province arabe ottomane All'inizio del XIX secolo la parte asiatica e africana dell'Impero ottomano, che includeva anche l'Arabia, andava dai confini della Persia alle coste meridionali del Mediterraneo, giungendo sino all'Algeria. In queste regioni l'islamizzazione era stata più prolungata e completa, specie sul piano demografico. La lontananza dai paesi europei in grado di fornire ai raya un rifugio o un
sostegno armato, e l'assenza di protettori stranieri sensibili alla causa dei monofisiti, dei nestoriani e degli ebrei, avevano contribuito a creare una situazione assai diversa da quella dei dhimml stanziati nella Turchia europea. Per questo, intorno al XII-XIII secolo, quando si compirono i processi che avrebbero fatto precipitare l'Anatolia e l'Europa sud-orientale nella dhimmitudine, in Oriente i giochi erano già fatti. La Palestina, patria degli ebrei, e i luoghi d'origine del cristianesimo - Siria, Egitto, Nord Africa erano già stati completamente arabizzati e islamizzati. Le grandi comunità ebraiche e cristiane della Mesopotamia erano state distrutte e l'Armenia devastata. In queste antiche regioni d'Oriente, nel XIX secolo, non si trovava certo l'equivalente delle miriadi di cristiani raya europei che, sebbene asserviti, tuttavia in alcune aree balcaniche costituivano ancora la maggioranza rispetto ai musulmani immigrati o convertiti. La scarsa consistenza numerica dei raya ebrei e cristiani in quella che un tempo era stata la loro patria, unita alla loro atomizzazione nella umma araba, determinavano quindi un quadro demografico ben diverso da quello dei Balcani. Di questi antichi popoli restavano solo dei relitti, la cui consistenza fisica era stata talmente mutilata che qualsiasi speranza di indipendenza sembrava loro preclusa. Ai mali della dhimmitudine si aggiungevano le discordie interne, alimentate dalla Porta e dalle rivalità economiche e geopolitiche tra le potenze europee e i loro missionari. Perciò il rifiuto della dhimmitudine non trovò espressione in una rivolta nazionalista, m a nello schema di emancipazione elaborato dall'Europa e da essa imposto sia alla umma che ai raya. Infatti la riluttanza degli ebrei e dei cristiani ad affrancarsi dall'influenza araba nasceva non tanto dalla vigliaccheria, quanto dal viscerale terrore delle rappresaglie musulmane, nonché dalle sanguinose esperienze vissute per oltre un millennio nel cuore del contesto arabo-islamico 20 . In questo ambiente, caratterizzato da un fanatismo bigotto, il pashalik (provincia) turco semiautonomo d'Egitto costituì un'eccezione: la sua emancipazione, che precedette le riforme del 1856, si compì infatti senza strappi. Poiché la sua liberazione dalla so-
vranità turca dipendeva dalla Francia, sotto il governatore Muhammad 'Air (1805-1848) l'Egitto, volente o nolente, si incamminò sulla via della modernizzazione e della laicità. Questo processo proseguì sotto il protettorato inglese (1882) e fino alla rivoluzione nasseriana (1952), che sancì il trionfo del panarabismo. Sotto la dinastia fondata da Muhammad 'Ali (1849-1952), i copti, comunità pacifica e industriosa, poterono così dedicarsi alla ricerca storica, archeologica e filologica. Questo rinnovamento culturale, accompagnato da ima corrispondente ascesa economica e politica, fu integrato nella politica complessiva di occidentalizzazione sotto il patrocinio coloniale. Difatti l'emancipazione dei copti, dei siriaci e dei melchiti arabofoni si compì in un quadro sostanzialmente religioso, privo dei caratteri nazionalistici propri delle rivolte balcaniche. Malgrado quest'anomalia, e con la complicità della Porta, l'emancipazione dei cristiani provocò sanguinose distruzioni in Siria e in Libano, dove, a differenza che in Egitto, i governatori turchi non seppero padroneggiare la situazione. In queste regioni la contesa per le spoglie dell'Impero ottomano vide emergere le stesse rivalità che dividevano gli Stati europei, stavolta però fra i loro intermediari dhimmi. Presso questi ultimi, infatti, nacquero e si scontrarono due movimenti politici, uno cristiano e l'altro ebraico, che imboccarono vie totalmente diverse. L'emancipazione cristiana: l'arabismo La spedizione di Bonaparte in Egitto (1798-99) aveva posto le premesse per una politica araba della Francia, che proseguì con Muhammad 'Ali e suo figlio Ibrahim (1805-1848). Essa si tradusse nella creazione di un patrocinio francese sull'Egitto e sulla Siria, riuniti in un'unica provincia sottratta all'Impero ottomano sulla base di una distinzione tra turchi e arabi. A partire dal 1842, la Francia approfittò della parziale autonomia dei maroniti per svolgere un ruolo culturale e politico in Libano. Dopo il suo viaggio in Algeria del 1860, Napoleone III, il cui impero coloniale includeva ormai milioni di musulmani, precisò la natura della sua politica araba dichiarandosi «imperatore degli arabi come dei
francesi» 21 . Questa politica si accompagnò a una propaganda turcofoba, che contrapponeva la magnanimità dei califfi arabi e dell'islam originario al fanatismo oscurantista dei turchi, presunti responsabili di tutti i mali dell'Impero. In Siria e in Libano, fin dall'inizio del XIX secolo, le istituzioni missionarie cattoliche (gesuiti, lazzaristi) e presbiteriane (americani) si impegnarono a definire le basi culturali di un progetto politico mediante una serie di opere letterarie e linguistiche. I loro pupilli, essenzialmente cristiani raya, fecero loro da agenti di trasmissione. L'idea di «arabismo», inteso come patrimonio culturale comune in grado di unificare le sette cristiane dilaniate dagli scismi religiosi, si diffuse tra i maroniti, tradizionalmente protetti dalla Francia, e i melchiti siriaci, desiderosi di affrancare il loro clero dalla tutela greca. Si delineò in tal modo un'area arabofona funzionale all'unificazione cristiana e refrattaria alla politica di ottomanizzazione cara all'Inghilterra. I massacri di cristiani, avvenuti negli anni 1850-1860 in Libano e in Siria, indussero la Francia, e in seguito l'Inghilterra - specialmente durante la prima guerra mondiale - a politicizzare la nozione culturale di arabismo, che divenne il nuovo terreno di scontro tra le potenze europee rivali (Russia compresa) nel Levante. La cultura araba costituì la base ideologica della «nazione araba», concetto di matrice europea e laica destinato a prendere il posto della concezione segregazionista su base confessionale della umma. Predicando una solidarietà araba laica implicante l'uguaglianza politica e la separazione tra religione e Stato, questa forma di nazionalismo eliminava l'elemento religioso, principale ostacolo all'integrazione e all'assimilazione dei cristiani arabofoni. Desiderosi di svolgere un ruolo politico e di affrancarsi dalla marginalità del millet, i cristiani siro-libanesi militarono attivamente nel movimento nazionalista arabo. Le élite cristiane - che da sempre, grazie alla loro posizione a cavallo tra due civiltà, facevano da mediatrici tra cristianità e islam, ed erano altresì dotate di una formazione universitaria di tipo europeo - si ritenevano investite di una missione d'avanguardia: quella di rigenerare la umma guidandola verso la modernità. Ma la proliferazione delle
missioni straniere (francesi, americane, tedesche e italiane), anch'esse invischiate nell'intrico delle dispute ecclesiastiche e degli interessi conflittuali delle potenze europee, non mancò di inasprire i dissensi intercristiani locali. L'antagonismo franco-russo vide lo scontro tra maroniti e melchiti uniati (latini), entrambi patrocinati dalla Francia, e ortodossi siriaci, manovrati dalla Russia. Dopo la guerra del 1914-1918, le scissioni che affondavano le radici nelle tradizionali discordie tra le Chiese locali portarono alla spaccatura del fronte nazionalista cristiano in indipendentisti libanesi (Bulus Nujaym, la famiglia Khazin) e fautori di ima Grande Siria (Butrus Bustani, Khalil al-Khuri, Qustantin Zurayq, Jirji Zaydan). Il primo gruppo aspirava a ottenere, sotto l'egida delle potenze straniere, l'esistenza di un Libano autonomo a maggioranza cristiana. Coscienti della realtà storica e profondamente intrisi di nazionalismo, i cristiani libanesi diffidavano del panislamismo, che assimilava l'islam all'arabismo 22 . I fautori di una Grande Siria araba e laica a maggioranza musulmana provenivano dalle file dei cristiani siriaci di formazione francese (Samné, Azoury), ma soprattutto degli ortodossi, vicini alla Russia, e dei protestanti, educati nelle missioni americane e ostili al predominio maronita in Libano 23 . I promotori cristiani di un nazionalismo arabo laico si ispiravano alle concezioni europee che avevano permesso l'emancipazione degli ebrei d'Occidente 24 . Ciò equivaleva però a ignorare le profonde differenze che separavano il dar al-islam dal continente europeo, in cui l'anticlericalismo e le idee di libertà e uguaglianza erano il frutto di un'evoluzione politico-culturale legata a precise realtà. I fattori che avevano portato all'emancipazione ebraica in Occidente - in particolare la separazione dei poteri religioso e temporale, la secolarizzazione dello Stato e gli sconvolgimenti sociali generati dal mutamento dei costumi e delle tecniche - erano inesistenti nell'Impero ottomano. Inoltre, la condizione giuridica dei cristiani nel dar al-islàm era fondamentalmente diversa, sul piano politico, religioso e storico, da quella degli ebrei nel mondo cristiano. Un'ulteriore ambiguità era costituita dall'i-
Maroniti nel convento di Mar Antan. Libano, 1859 (Edouard-Auguste Spoll, «Souvenir d'un voyage nu Liban» 118591, «Le Tour du Monde: nouveau journal des voyages publié sous la direction de M. Edouard Charton et illustré par nos plus célèbres artistes», anno 2°, 1° semestre, Paris 1861, tavola 8)
dentificazione tra arabismo e islam, scolpita nel dogma e simboleggiata dall'espulsione dal Hijaz degli ebrei e dei cristiani di origine araba. Il concetto stesso di arabismo, che storicamente era sempre stato un veicolo dell'islam, era incompatibile con il secolarismo. L'arabo non poteva essere che musulmano. L'opzione filoaraba dei siro-libanesi determinò, a partire dal XIX secolo, il loro destino politico. Tale movimento presentava alcune analogie, ma anche una serie di divergenze, rispetto alle correnti nazionaliste balcaniche contemporanee. Come queste, era dilaniato dalle interferenze degli imperialismi europei. Le sue fazioni rivali restavano dipendenti dalle potenze protettrici, che le manovravano in funzione dei loro interessi mediante i notabili levantini. Costoro, sacrificando l'interesse collettivo all'ambizione personale, favorivano una politica di corto respiro, finanziariamente redditizia ma disastrosa sul lungo termine. Ma il nazionalismo arabo-cristiano differiva da quelli dei Balcani sul piano dei contenuti. Se infatti i popoli balcanici contrapponevano alla dominazione turca la legittimità di una specifica identità nazionale (linguistica, culturale, storica), radicata in un ben preciso contesto geografico, i cristiani arabofoni scelsero l'approccio opposto: anziché tentare di recuperare e definire la loro vera identità, si assimilarono alla cultura dei conquistatori. Quest'opzione politica era destinata a produrre molteplici conseguenze. In primo luogo, l'arabizzazione culturale avrebbe implicato l'abbandono della cultura e della lingua siriaca e il ripudio di dodici secoli di storia dhimmT. È evidente infatti che i cristiani non potevano richiamarsi alla grandezza della civiltà araba e al tempo stesso restare fedeli a un passato di oppressione che attestava il contrario. La glorificazione delle conquiste e della civiltà arabo-islamica di epoca omayyade e abbaside li portò così a occultare i valori e i processi che avevano condotto all'annientamento del cristianesimo orientale. Il movimento letterario e culturale del nazionalismo arabo cristiano scelse di celebrare la saggezza e la tolleranza dell'islam primitivo, nonché la tradizionale armonia tra cristiani e musulmani, nati dallo stesso ceppo arabo; per giunta, all'inizio del XX secolo
cadde nella trappola dell'antioccidentalismo. Così, invece di purificare e modernizzare la loro lingua (il siriaco) e di recuperare la loro storia religiosa, i cristiani della Siria e del Libano le occultarono per adottare incondizionatamente la cultura dei loro conquistatori. Mentre i popoli balcanici sceglievano l'indipendenza, i cristiani arabofili, ultimi residui di nazioni ormai estinte, optarono per un'assimilazione che forse avrebbe avuto successo, se non fosse stato per le caratteristiche politiche e religiose dell'islam, che creavano condizioni ben diverse da quelle dell'Europa. Predicando la laicità, i cristiani arabofili rigettarono la solidarietà religiosa del millet, che aveva tenuto viva l'unità nazionale, coagulata attorno alla Chiesa. L'arabofilia, in quanto fattore di emancipazione religiosa, generò un processo di alienazione ideologica e spezzò la coesione storica del cristianesimo orientale, nata in oltre un millennio di dhimmitudine. Contrariamente a quanto era accaduto nei Balcani, dove le comunità ecclesiali erano state focolai nazionalistici, nel Levante le Chiese nazionali furono rinnegate e denigrate per permettere, tramite il nazionalismo arabo laico, l'assimilazione dei valori e della cultura che esse avevano combattuto. Così il rinnegamento della storia dhimmi e l'indifferenza religiosa insite nel nazionalismo arabo predisponevano i cristiani di queste regioni al comunismo o all'islamizzazione, e talora a entrambi, secondo l'opportunità politica. Nella misura in cui tale orientamento coniugava le giudeofobie islamica e cristiana, esso trovò partigiani nel clero orientale. All'inizio del XX secolo, attraverso l'antisionismo, questo divenne il sostenitore più intransigente dell'arabismo. Ancora una volta, la umma traeva vantaggio dalle divisioni tra i popoli dhimmi. Durante la prima guerra mondiale l'Inghilterra si sbarazzò del cadavere ottomano e, assai opportunamente, colmò il conseguente vuoto politico con la carta del nazionalismo arabo. Da allora in poi, l'arabismo fu considerato un programma di modernizzazione e di laicità radicato nella nobile tradizione della tolleranza araba, che solo un califfo discendente dal Profeta avrebbe potuto imporre all'Oriente 25 .
Tale opzione si sposava peraltro con la linea turcofoba seguita nel Levante dalla Francia, la quale, preoccupata di salvare le sue colonie e di ingrandire la sua sfera d'influenza, aveva da tempo optato per la nascita di una grande nazione araba, che avrebbe riunito la Palestina, la Siria e il Libano. Quest'ambizioso progetto politico europeo, che prevedeva la restaurazione della umma del VII secolo e una rinascita dell'età dell'oro dei califfi omayyadi e abbasidi, ebbe tra i suoi fautori più entusiastici e attivi proprio i nazionalisti arabi cristiani. Favorendo le mire francesi, inglesi o russe, il nazionalismo arabo dei cristiani - elaborato e messo a punto nelle missioni cattoliche, protestanti od ortodosse della Siria, del Libano e della Palestina - alimentò una potente corrente antisionista di marca antisemita. Alcuni storici hanno messo in evidenza la contrapposizione tra la militanza politica delle minoranze cristiane e la pusillanime apatia delle comunità ebraiche del Levante. Questa differenza di atteggiamento si spiega con molteplici fattori, in particolare con il ruolo di mediatori svolto dai dhimmt cristiani nel circuito di scambi economici, politici e culturali che intercorrevano tra dar al-harb e dar ai-islam. Inoltre, il nazionalismo arabo laico dei militanti cristiani si sviluppò all'ombra delle istituzioni missionarie straniere, le quali godevano del sostegno e della protezione di potenti Stati cristiani, cosa che di certo non valeva per gli ebrei. L'arabofilia dei cristiani implicava altresì la cancellazione di una peculiare identità collettiva cristiana anteriore all'islam. Per il giudaismo orientale, al contrario, la rivendicazione di un'origine araba era inconcepibile, dal momento che la civiltà e le istituzioni politiche di Israele si erano formate nei due millenni che avevano preceduto la comparsa degli arabi sulla scena della storia, e si erano irradiate ben al di là della sua patria originaria. Poiché l'autorinnegamento implicito nell'identificazione con l'arabismo era l'unica strada politica aperta ai non musulmani, gli ebrei d'islam si rifugiarono nell'assenteismo, pur continuando a cercare di conciliare con le condizioni ambientali la realizzazione delle loro aspirazioni sioniste.
Il nazionalismo «dhimmT» ebraico: il sionismo Di primo acchito può sembrare aberrante classificare tra i nazionalismi dhimmT il movimento sionista, la cui formulazione politica moderna si è sviluppata in seno al giudaismo europeo. Tuttavia è bene ricordare che tutti i nazionalismi dhimmT nacquero in Europa e che le loro lotte partirono o da centri operativi situati al di fuori del dar al-islam o dalle province semi-indipendenti. Occorre altresì precisare che la dhimmitudine è ima nozione connessa a un territorio conquistato con il jihad: ogni popolo non musulmano è infatti destinato a diventare dhimmT se continua a vivere in una patria soggetta alla legge islamica, di per sé generatrice di dhimmitudine. Il sionismo quindi si configura come un nazionalismo dhimmT se mira a liberare la Palestina dalle leggi del jihad per ripristinarvi l'indipendenza della popolazione indigena e non musulmana. Sin dal XVI secolo l'idea di un ritorno del popolo ebraico nella sua terra - preannunciato dai suoi profeti, antesignani della Rivelazione cristiana - aveva alimentato, specialmente nei paesi protagonisti della Riforma, un sionismo cristiano fondamentalista parallelo al messianismo ebraico. Questa corrente avrebbe corroborato i movimenti di liberazione dei popoli dhimmT nel XIX secolo. Proprio come i nazionalismi balcanici, anche il sionismo assunse in primo luogo la forma di un rinnovamento culturale. Linguisti come Eliezer Ben Yehuda e poeti come Hayyim Nahman Bialik riportarono in vita e modernizzarono l'ebraico. Gli specifici problemi legati alla dispersione del popolo ebraico furono ridefiniti in termini politici da pensatori e politologi come Yehudah Alkalay, Moses Hess, Jehudah Leib Gordon, Yehudah Leib Pinsker, Theodor Herzl e Ahad Ha'am. In alcune comunità dell'Est europeo, ancorate al letteralismo talmudico e soggette a un rabbuiato dispotico, il sionismo politico, imbevuto delle teorie socialiste e laiche del XIX secolo, divenne un fermento rivoluzionario e di liberazione. Il recupero delle dimensioni nazionali da parte delle varie comunità si compì, come nei millet europei, attraverso il rigetto di una tirannide religiosa che, all'interno del popolo di-
sperso, aveva colmato l'assenza del potere accentratore di uno Stato sovrano. In alcune comunità della shtetl (Europa dell'Est), controllate da un rabbinato onnipotente, il sionismo laico fu aspramente combattuto dalle autorità religiose perché sminuiva il loro ascendente sulle congregazioni 26 . In Oriente invece l'assenza di un rigorismo fanatico all'interno delle comunità ebraiche evitò la rottura tra religione e sionismo politico. Quest'ultimo si inserì in modo naturale nelle aspirazioni storico-religiose delle popolazioni. Le difficoltà venivano dall'ambiente islamico, contrariamente a quanto accadeva in Europa, dove l'antisionismo emergeva in seno allo stesso mondo ebraico, tra ortodossi, assimilazionisti, bundisti 27 e comunisti, mentre le reazioni dei non ebrei andavano dall'indifferenza all'incoraggiamento. Se il sionismo fu percepito come un movimento esclusivamente europeo, ciò è dovuto al fatto che la specificità della condizione dhimmT, con le sue componenti di insicurezza e di tragica vulnerabilità, fu occultata. Il sultano ottomano aveva dichiarato che non avrebbe fatto della Palestina una seconda Armenia. Ovviamente, le velleità nazionalistiche degli ebrei nelle piccole comunità isolate e sporadiche del suo immenso Impero sarebbero state stroncate con maggior ferocia di quanto non fosse accaduto con il nazionalismo armeno, che pure era ben organizzato e armato dalla vicina Russia. Il massacro dei nazionalisti cristiani nei Balcani e il genocidio armeno mostravano agli ebrei del dar alislam, privi di qualsiasi protezione, il prezzo di sangue da pagare per la libertà28. Prigionieri di questa realtà, essi evitarono di schierarsi apertamente per il sionismo, poiché perfino nell'epoca di transizione rappresentata dalla colonizzazione europea essi rischiavano la vita. Del resto, di ciò si ebbe un'ulteriore conferma quando i paesi arabi decretarono il sionismo un crimine passibile della pena capitale. Tuttavia furono elaborate altre forme di partecipazione clandestina o camuffata, anche se in Oriente non emersero certi tratti specifici del sionismo occidentale, come il fallimento dell'assimilazione, esemplificato alla fine del XIX secolo dall'affaire Dreyfus.
È evidente però che un «affaire Dreyfus» non avrebbe mai potuto verificarsi in Oriente, dove nessun ebreo o cristiano aveva accesso a cariche importanti in uno stato maggiore musulmano. A maggior ragione, mai un paese islamico sarebbe stato così turbato, come lo fu la Francia, dall'ingiusta condanna inflitta a un ebreo o a un cristiano, e perfino a un musulmano. Lo studio del sionismo in Oriente progredirebbe certamente se smettesse di riferirsi in modo esclusivo agli schemi occidentali, estranei al fenomeno, per esaminare invece gli elementi storici e politici del rapporto dar al-islam-dhimmì e le sue modalità di sviluppo. Da questi aspetti emerge che la liberazione di una «terra di dhimmitudine», la Palestina, soggetta alle regole di conquista del jihad, non poteva essere innescata che dall'esterno del dar al-islam - com'era accaduto per altri popoli, in particolare per gli armeni - e che tale ruolo spettava all'ebraismo occidentale. Secondo Volney, alla fine del XVIII secolo la popolazione della Palestina ammontava a circa 300.000 abitanti 29 , cifra che, nel secolo seguente, aumentò in seguito all'arrivo dei musulmani in fuga dall'Europa. Nel 1878, infatti, una legge ottomana aveva decretato l'assegnazione di terre palestinesi ai coloni islamici, insieme a dodici anni di esenzione dalle tasse e dal servizio militare. Così, nella zona del monte Carmelo, in Galilea, nella piana di Sharon e a Cesarea furono assegnati appezzamenti di terra ai musulmani slavi dell'Erzegovina e della Bosnia; i georgiani furono insediati nella regione di Qunaytra, sulle alture del Golan, e i marocchini in bassa Galilea. In Transgiordania e in Galilea i turkmeni, i circassi e i ierkessi 30 , che fuggivano la russificazione della Crimea, della Caucasia e del Turkestan, si ricongiunsero alle tribù che li avevano preceduti nel XVIII secolo stabilendosi ad Abu Ghush, presso Gerusalemme. Inoltre, intorno agli anni '30, circa 18.000 fellah egiziani erano emigrati a Gerico, Giaffa e Gaza, e nel 1830, in seguito all'occupazione francese, migliaia di algerini, guidati dall'emiro 'Abd al-Qadir, avevano scelto l'esilio insediandosi in Siria, sulle alture del Golan, in Galilea e a Gerusalemme. Sempre in Terra Santa, le popolazioni cristiane indigene o immigrate dal Levante e dalla Grecia potevano contare sulla prote-
zione europea o russa, che invece mancava agli ebrei palestinesi. Dopo la guerra di Crimea, infatti, furono decretate consistenti concessioni territoriali alla Francia in favore dei cattolici, all'Inghilterra per i protestanti, all'Austria per i luterani, alla Russia per gli ortodossi e gli armeni. Nel 1887 31 il divieto di emigrare in Palestina, di risiedervi, di acquistarvi terreni e di vivere a Gerusalemme fu applicato soltanto agli ebrei, sia stranieri che raya, ma non ai cristiani né ai musulmani. Tuttavia, gli sforzi del sultano per fermare il ritorno degli ebrei in Palestina furono in parte inefficaci. Infatti la proibizione ai soli ebrei europei - e non ai cristiani - di visitare la Palestina, di insediarvisi e di acquistarvi terre era il frutto di una discriminazione religiosa assente dalle capitolazioni siglate tra la Porta e gli Stati europei. Fu in virtù di tali trattati, stipulati tra i sultani ottomani e i paesi occidentali sulla base della reciprocità, che gli ebrei europei poterono intraprendere questa prima e cruciale fase della lotta sionista, mentre quelli residenti nei paesi islamici - sudditi ottomani e non - essendo privi di tale requisito, furono respinti 32 . Grazie ad alcuni filantropi europei, la comunità ebraica palestinese potè dotarsi di dispensari e ospedali e acquisire dei terreni. Di fatto la marginalizzazione dei raya e alcuni elementi specifici dell'ebraismo europeo concorsero a limitare la prima fase dell'immigrazione sionista in Palestina a popolazioni provenienti in maggioranza dall'Europa. Questi fatti vengono citati qui solo per mettere in rilievo la totale ignoranza del contesto della dhimmitudine. La dispersione del popolo ebraico costituiva il principale ostacolo alla realizzazione della sua indipendenza. A differenza dei cristiani del Levante, miseri resti di nazioni ostili tra loro, gli ebrei, malgrado la loro frammentazione, presentavano una relativa omogeneità e potevano contare su un consistente sviluppo demografico. Ma al contrario dei cristiani balcanici, ancora assai numerosi nelle loro patrie, gli ebrei palestinesi, che uscivano da oltre un millennio di dhimmitudine, costituivano una comunità esangue, tanto più umile e vulnerabile in quanto attirava molte persone anziane e devote che si recavano a morire in Terra Santa 33 .
Tuttavia, in epoca moderna, le circostanze, un tempo favorevoli alla dominazione araba, iniziarono a modificarsi. Ormai le persecuzioni dei non musulmani, segnalate dai consoli di Costantinopoli ai rispettivi ambasciatori e condannate nelle capitali europee, davano luogo a sanzioni. D'altra parte, lo sviluppo della stampa e dei mezzi di comunicazione e locomozione conferiva al sionismo l'impulso di un movimento di liberazione nazionale coerente e, grazie all'espansione della diaspora, esteso su scala mondiale. Ora che i tempi erano cambiati, le moderne tecnologie venivano a correggere gli svantaggi numerici. Le piccole migrazioni regionali, un tempo neutralizzate mediante persecuzioni, espulsioni e uccisioni, si trasformarono in un movimento di massa, che questa volta avrebbe condotto all'indipendenza dello Stato ebraico. Il ritorno degli ebrei nella loro antica patria (il cosiddetto «raduno degli esuli») costituì l'episodio più tragico e al tempo stesso più eroico di questa lotta. Sul fronte esterno, nell'Europa hitleriana, gli ebrei dovettero affrontare la politica di sterminio dei nazisti, che imperversava in tutti i territori occupati. Dovettero forzare il blocco inglese, che di fatto conciliava gli interessi britannici, le mire naziste e la politica araba. Nella stessa Palestina dovettero combattere contro l'opposizione e il terrorismo arabo-palestinesi, mentre edificavano le strutture istituzionali di uno Stato indipendente. Nell'antisionismo arabo è opportuno distinguere la corrente islamica da quella cristiana, in quanto la loro ideologia e i loro scopi sono fondamentalmente diversi. L'opposizione musulmana si fonda sui valori del jihad e sulla volontà di ripristinare in Israele la legge islamica, generatrice di dhimmitudine per i popoli indigeni. Con lo stesso accanimento con cui tentò di stroncare i nazionalismi cristiani, la umma araba negò la legittimità di uno Stato ebraico sovrano. Israele era parte del dar al-harb, così come tutte le terre non musulmane destinate alla conquista. Per giunta, l'antisionismo islamico è essenzialmente anticristiano, in quanto entrambi i popoli scritturali, gli ebrei e i cristiani, devono essere obbligatoriamente soggetti alle stesse leggi di ispirazione divina.
L'antisionismo dei cristiani arabofoni, più complesso, deriva in parte dalla tradizionale giudeofobia teologica, che, soprattutto in Palestina, si accanì a perseguitare e umiliare gli ebrei. I cristiani d'Oriente, in particolare gli indigeni palestinesi o gli immigrati recenti (siro-libanesi e greci), non potevano tollerare il ripristino di uno Stato ebraico libero dalla dhimmitudine quando loro languivano ancora in tale condizione. A queste ragioni di natura soggettiva si aggiungevano le manovre degli Stati protettori, la Francia e la Russia, che erano profondamente ostili al sionismo. Sul piano dell'ideologia politica, inoltre, esso si contrapponeva alle tesi dei nazionalisti arabi cristiani, che dissolvevano l'identità e l'anima dei loro popoli nel mito di una nazione araba laica, elaborato nelle cancellerie europee in funzione dei loro interessi coloniali e postcoloniali. Tuttavia, in Libano si manifestò una corrente cristiano-maronita favorevole al sionismo e alla nascita di uno Stato cristiano come terra d'asilo per i perseguitati dalla umma. Questo movimento, che preferiva la realtà storica alle ideologie fumose, fu soffocato dalla Francia, impegnata ad attuare nelle sue colonie ima politica islamofila. Ma il vero humus dell'antisionismo cristiano, quello da cui attinse la sua virulenza, la sua linfa e la sua colorazione specifica, restava il terreno avvelenato della dhimmitudine. I cristiani arabofoni, minoranze vulnerabili in balia degli interessi inglesi, francesi o russi, e al tempo stesso ostaggi spiati dalla umma, usarono Tantisionismo, cemento di un odio che unificava cristiani e islamici, come un mezzo - forse l'unico - di assimilazione nella umma. Dalla ricostruzione della fase attiva della lotta contro la dhimmitudine emergono alcune osservazioni. Eccetto che per la Romania, favorita dal suo status di provincia periferica tributaria, la liberazione dei popoli raya si configura come un vasto movimento nato dalle classi popolari, tramandato da una generazione all'altra per più di un secolo e realizzato dai popoli nonostante e contro i notabili e l'alto clero, strumenti e regolatori del sistema di oppressione. Questa lotta dai molteplici aspetti dovette adattarsi al modello imposto a ciascun popolo dalla sua storia e dalla sua geografia.
Le situazioni variavano in base alla conformazione del territorio, ossia a seconda che fosse costituito da valli facilmente penetrabili in quanto pianeggianti e aperte (Palestina, Bulgaria), o da regioni montuose che, essendo di difficile accesso, offrivano un sicuro luogo di rifugio (Libano, Montenegro). Il cammino verso la libertà si articolò in diverse fasi - ognuna delle quali caratterizzata da più dimensioni - e si compì per gradi. In primo luogo, ogni gruppo mise in atto una serie di riforme interne che accompagnarono, sostennero e condizionarono i successi o i fallimenti della lotta esterna. Quest'evoluzione interna, che riguardò gli ambiti culturale (sistema scolastico), amministrativo (eliminazione del nepotismo e della corruzione, lotta contro l'oligarchia dominante) e istituzionale (secolarizzazione, conflitti tra elementi progressisti e conservatori), preparò la trasformazione dei millet in nazioni amalgamate da un senso civico ormai in grado di rimpiazzare la solidarietà religiosa e il clientelismo. Questo lento, difficile processo di rinnovamento interno distrusse le strutture endogene di asservimento generate dai gruppi stessi e favorì la nascita - nelle terre della dhimmitudine e nel cuore del dar ai-islam - di Stati indipendenti che, dopo secoli di servitù e di esilio forzato, riallacciarono i legami con il passato degli antichi popoli indigeni, le cui lingue e le cui specifiche istituzioni erano state nel frattempo riportate in vita. In tutto questo periodo, alle lotte settarie e alle delazioni si aggiunsero i pericoli esterni. Minacciati di sterminio da parte della umma, i popoli raya furono inoltre costretti a guardarsi dalle insidie e dalle trappole tese loro dai paesi protettori, e ad aprirsi un varco verso la libertà anche in mezzo a queste. A tratti Francia e Inghilterra si accordarono per prolungare a loro spese la dominazione ottomana, a tratti li indebolirono con discordie intestine da esse stesse alimentate per manovrarli. Ora vennero fagocitati dalla Russia e dall'Austria, ora invece abbandonati, quando le grandi potenze europee non arrivarono addirittura a smembrarli per controllarli meglio (Trattato di Berlino, 1878; Trattato di Bucarest, 1913). L'alleanza dei popoli dhimmì con gli Stati occidentali era fondata su una convergenza di interessi, in quanto i primi si ap-
poggiavano all'Europa per liberarsi dalla dhimma, mentre i secondi sostenevano questa lotta per ampliare la loro sfera d'influenza. Nello scacchiere intemazionale, in cui le grandi potenze disputavano il loro crudele gioco, i popoli dhimmi erano poco più che pedine, cinicamente manipolate o sacrificate. La destabilizzazione dei millet per effetto delle pressioni combinate degli Stati protettori era spesso aggravata dalle guerre tra i paesi europei. Alle insurrezioni dei popoli raya la Porta rispondeva con altrettanti ordini di sterminio. Greci, bulgari e slavi furono salvati soltanto dall'intervento degli eserciti europei, inviati sotto la spinta dell'opinione publica o del calcolo politico. Ma gli armeni, abbandonati dai loro protettori russi, incarnarono paradigmáticamente nel XX secolo il destino millenario dei dhimmi ribelli. Fu il primo genocidio del '900, perpetrato con la complicità dell'esercito tedesco, che collaborò con i turchi su tutti i fronti di guerra. Trent'anni dopo, i testimoni di quei massacri avrebbero pianificato lo sterminio degli ebrei. L'Inghilterra protesse gli ebrei e il sionismo, m a solo per sostituire la Francia o la Russia in Palestina. Dopo aver ricevuto il mandato su questo paese nel 1 9 2 2 e s s a si affrettò a smantellarlo per offrirne i tre quarti a 'Abd Allah, figlio dello sharip5 di La Mecca. Le rigorose limitazioni all'emigrazione degli ebrei in Palestina (White Paper, 1939) li condannarono a morte in Europa. L'Inghilterra, giunta all'apice del suo prestigio e della sua forza, dopo aver protetto e utilizzato il sionismo per i suoi scopi, decise di stroncarlo e di sacrificare gli ebrei ai suoi interessi arabi. Nel 1948 la sorte degli armeni sembrò incombere anche su Israele, quando gli eserciti di sette Stati arabi tentarono di annientarlo sotto gli occhi colmi di rancore dell'Inghilterra, umiliata per essere stata sbattuta fuori dalla Palestina dai suoi stessi «protetti». U n secolo dopo le guerre turche contro i greci, i bulgari, gli slavi e gli armeni, le rappresaglie arabe si abbatterono sulle comunità ebraiche inermi dell'Egitto, della Siria, dell'Iraq, della Libia, dello Yemen e del Nord Africa. Ma contrariamente ai turchi, i quali, dopo le loro pesanti disfatte, seppero accettare l'indipendenza dei popoli un tempo loro tributari, i paesi arabi, i cui
a n t e n a t i h a n n o c r e a t o il jihad e la dhimma, e c c e t t u a t o l ' E g i t t o c o n t e s t a n o a n c o r o g g i la legittimità dello Stato di Israele. L a lotta c o n t r o la d h i m m i t u d i n e fu p o r t a t a a v a n t i d a p o p o l i i n e r m i , c o n il c o r p o s p e z z a t o d a l l ' o p p r e s s i o n e e l ' a n i m o u m i l i a t o e fiaccato d a secoli di m o r t i f i c a z i o n e . L o g o r a t i d a i t r a d i m e n t i fratricidi, i n g a n n a t i dai loro alleati, c h e s p e c u l a v a n o sulle loro d e b o l e z z e , e c o n t r a s t a t i d a n e m i c i implacabili, essi s e p p e r o t u t t a v i a e l e v a r s i dalla schiavitù alla libertà.
'Jean Henri Abdolonyme Ubicini, Lettres sur la Turquie ou tableau statistique, religieux, politique, administratif, militaire, etc de l'Empire ottoman, 2 voli., Librarne Militaire de J. Dumaine, Paris 1853-54 (ed. it. Lettere sulla Turchia o quadro statistico, religioso, politico, amministrativo, militare ecc. dell'Impero ottomano, Ufficio del Cosmorama Pittorico, Milano 1853), voi. 2, p. 32. 2 II monte Athos o Monte Santo, situato nella Penisola Calcidica e oggi sede di una repubblica monastica autonoma sotto la sovranità greca, ospita numerosi monasteri. Dalla fine del VII secolo, infatti, divenne meta di eremiti, che si diedero una regola approvata poi dall'imperatore d'Oriente. Nel XV secolo, all'apice dello sviluppo monastico, l'Athos contava 30 conventi di 1000 monaci ognuno; oggi ne ospita 20, tutti di rito ortodosso, che godono di autonomia amministrativa già riconosciuta dai turchi e confermata nel 1927. I monti Rodopi, compresi per lo più in Bulgaria meridionale e in minima parte in Grecia, sono anch'essi sede di numerosi monasteri sorti dopo che fu dichiarata l'indipendenza della Chiesa ortodossa bulgara (927). Il più grande di essi è quello di Rila. Tra la fine del XII e quella del XIV secolo, essi divennero prestigiosi centri letterari e artistici. Sotto la dominazione turca e dopo la caduta di Costantinopoli (1453), i monasteri bulgari scelsero come punto di riferimento la repubblica monastica del monte Athos. Dalla seconda metà del '700 (declino dell'Impero ottomano), essi assunsero un ruolo ancor più rilevante nella cultura bulgara. In particolare Rila divenne uno dei maggiori centri del movimento detto «Rinascimento bulgaro», assieme al monastero della Santa Trinità di Etropole (centro di rilegatura artistica dei libri, illustrazione di manoscritti e decorazione di icone), a quelli di Samokov, Trjavna, Bansko, Strandja, sede di scuole d'arte dalla fine del XVIII secolo, di Backovo - secondo so-
lo a Rila per grandezza e importanza architettonica, - di Cipka, Drjanovo, Rozen e Aladza [N.d.T.]. 3 La Congregazione mechitarista è un Ordine religioso cattolico fondato a Costantinopoli nel 1700 da Mechitar, un monaco benedettino armeno, e trasferitosi a Venezia nel 1715, prima presso la chiesa di San Martino, poi nell'isola di San Lazzaro, dove ha sede tuttora. Seguendo l'esempio del fondatore, i monaci proseguirono il lavoro di riscoperta, studio, traduzione e stampa di antichi testi armeni, e di traduzione in armeno di importanti opere classiche e della cristianità. Ma la comunità fu scossa da tensioni che nel 1772 sfociarono in una scissione: un gruppo di monaci restò a Venezia, mentre un altro si spostò a Trieste e poi a Vienna, dov'è ancora attivo. Nel 2000 i due rami si sono ricongiunti, e l'Ordine ha così ritrovato l'originaria unità [N.d.T.]. Kevork B. Bardakjian, The Rise of the Armenian Patriarchate of Constantinople, in Benjamin Braude, Bernard Lewis (a cura di), Christians and Jews in the Ottoman Empire: The Functioning of a Plural Society, 2 voli., Holmes & Meier, New York-London 1982, voi. 1, pp. 89-100. 1
Roderic Hollet Davidson, Reform in the Ottoman Empire, 1856-1876, Princeton University Press, Princeton 1963 (University of Michigan Press, Ann Arbor 1993), pp. 114-135. 5
II termine moldo-valacchi rimanda a una precisa fase della storia della Romania, nata dall'unione di due dei tre principati sorti nel XIII secolo, la Valacchia, la Moldavia e la Transilvania, divenuti vassalli dell'Impero ottomano rispettivamente dal 1476, dal 1538 e dal 1547. La Transilvania, benché soggetta all'Impero ottomano, era l'unica parte ancora autonoma, appartenendo al Regno d'Ungheria, di cui condivise le sorti passando dal 1711 sotto la reggenza della monarchia absburgica ed entrando a far parte dell'Impero Austro-Ungarico nel 1867. Invece la Romania nacque dall'unione del principato di Moldavia e di Valacchia (1859), che divennero indipendenti nel 1877. Dopo la prima guerra mondiale la Romania riconquistò e incorporò la Transilvania, la Bucovina e la Bessarabia [N.d.T.]. 7 Per i funzionari fanarioti reclutati, dal 1711 al 1822, come governatori (hospodar) dei principati di Valacchia e di Moldavia, cfr. cap. 5, par. «Fattori di interazione esogeni», sottopar. «La dominazione e le ingerenze dello Stato islamico» [N.d.T.]. 6
"I kleftes (lett.: ladri) erano bande di ribelli greci che, muovendo dalle loro basi sulle montagne, condussero continue azioni di guerriglia contro il dominio ottomano tra i secoli XVIII e XIX, contribuendo alla lotta per l'indipendenza della Grecia [N.d.T.].
Dorde Petrovic [pseud. Karadorde] fu il leader della prima rivolta serba contro i turchi (1804-1813) e il capostipite della dinastia dei Karadordevic. Il suo pseudonimo deriva dal fatto che i turchi lo chiamavano Kara Yorgi, Giorgio il Nero, per il timore che incuteva o per il colorito scuro [N.d.T.]. 9
10 Tra il X e il XVII secolo (e in Romania fino al XX), il termine «boiardo» o «boiaro» designava un membro dell'alta aristocrazia feudale russa, rumena, ucraina e bulgara, con potere e influenza secondi solo a quelli dei principi regnanti. Voivòda è un termine slavo indicante in origine il comandante di un'unità militare. Sin dal Medioevo, il titolo veniva attribuito ai governatori o capi di territori in Polonia, Russia, Moldavia, Serbia, Romania e Bulgaria; in questi ultimi due paesi esso spettava anche al principe ereditario [N.d.T.].
La distinzione tra sedi episcopali e metropolitane, rette rispettivamente da vescovi e arcivescovi, corrisponde a quella tra diocesi e arcidiocesi: l'arcidiocesi è la diocesi più importante della provincia ecclesiastica, detta anche sede metropolitana dalla figura del metropolita, nata nelle Chiese d'Oriente come figura intermedia tra vescovo e patriarca, e resa ufficiale dal Concilio di Nicea. Il suo compito principale era presiedere all'elezione dei vescovi e ordinarli. Attualmente nella Chiesa ortodossa, soprattutto slava, 11
11 titolo di metropolita è superiore a quello di arcivescovo, e designa i primati delle più importanti città; i metropoliti della Chiesa greca hanno un ruolo direttivo durante i rispettivi sinodi e concili di vescovi. Invece nella Chiesa cattolica la carica è quasi solo onorifica [N.d.T.]. 12 Haim Nahum (a cura di), Recueils de firmans impériaux ottomans adressés aux Valis et aux Khédives d'Égypte (1597-1904), Institut Français d'Archéologie Orientale, Il Cairo 1944, p. 91.
"Ivi, pp. 109-110. u Dall'età delle Crociate, appellativo generico con cui greci, turchi e arabi indicavano i popoli cattolici dell'Occidente europeo stanziati nel Mediterraneo orientale e sulle coste del Mar Nero. Infatti i crociati erano detti «franchi» dagli arabi e «latini» dai bizantini. http://www.islamistica. com/giuseppe_cossuto/levantini.html [N.d.T.]. 15 Ubicini, Lettres sur la Turquie cit., vol. 2, pp. 415-418. "Robert William Seton-Watson, The Rise of Nationalité in the Balkans, Constable & Co., London 1917 (Howard Fertig, New York 1966). 17 Movimento politico nato all'inizio del XX secolo nell'Impero ottomano, ispirato alla Giovine Italia e intenzionato a trasformare l'Impero, ormai autocratico e inefficiente, in una monarchia costituzionale con un esercito addestrato ed equipaggiato modernamente. Esso comprendeva per lo più
intellettuali reclutati nelle società segrete degli studenti universitari progressisti, nonché ufficiali dell'esercito che volevano modernizzare e occidentalizzare l'intera società, liberandosi dei «Vecchi Turchi». L'ala militare del gruppo, nell'estate del 1908, marciò con le proprie truppe su Istanbul, costringendo il sultano a concedere una Costituzione e cambiamenti al governo del paese [N.d.T.]. James Bryce (a cura di), The Treatment of the Armenians in the Ottoman Empire (1915-1916), Sir Joseph Causton & Sons, London 1916; Johannes Lepsius, Deutschland und Armenien 1914-1918: Sammlung diplomatischer Aktenstücke, Der Tempelverlag, Potsdam 1919 (Donat & Temmen, Bremen 1986); Yves Temon, Les arméniens: histoire d'un génocide, Editions du Seuil, Paris 1977 [ed. it. Gli armeni: 1915-1916, il genocidio dimenticato, Rizzoli, Milano 2007]; Arthur Beylerian, Les Grandes Puissances, l'Empire ottoman et les arméniens dans les archives françaises (1914-1918), Publications de la Sorbonne, Paris 1983. Nonostante la proibizione dei Giovani Turchi di aiutare gli armeni, alcuni cristiani, ebrei e musulmani (sia turchi che arabi) si sforzarono di soccorrerli. 18
«The Times», London, 24 novembre 1945, p. 4, documento presentato al processo di Norimberga. Cfr. Winfried Baumgart, Zur Ansprache Hitlers vor den Führern der Wehrmacht am 22. August 1939: Eine quellenkritische Untersuchung, «VJHfZ», n. 16,1968, p. 139; Kevork B. Bardakjian, Hitler and the Armenian Genocide, Zoryan Institute, Cambridge (USA) 1985; Vahake N. Dadrian, The Role of Turkish Physicians in the World War I Genocide of Ottoman Armenians, «Holocaust and Genocide Studies» 1, n. 2,1986, pp. 169192; Id., The Convergent Aspects of the Armenian and Jewish Cases of Genocide. A Reinterpretation of the Concept of Holocaust, «Holocaust and Genocide Studies» 3, n. 2, 1988, pp. 151-169. 19
James Finn, Stirring Times, or Records from Jerusalem Consular Chronicles of 1853 to 1856, Kegan Paul & Co., London 1878 (ripr. anast. Adamant Media, Boston 2004); Bat Ye'or, The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, pref. di Jacques Ellul, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad, di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmin. B'nai Ha-Sout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991), sezione «Documenti», n. 35, pp. 228-241. 20
Jean Ganiage, L'expansion coloniale de la France sous la Troisième République (1871-1914), Payot, Paris 1968, p. 30.
21
Per un'analisi approfondita del nazionalismo arabo, delle sue origini e dei suoi sviluppi, vedi Albert Hourani, Arabie Thought iti the Liberal Age (1798-1939), Oxford University Press, London-New York-Toronto 1967 2
22
(1962 '); Sylvia G. Haim (a cura di), Arab Nationalism: An Anthology, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1976 2 ; Robert Brenton Betts, Christians in the Arab East, Society for Promoting Christian Knowledge, London 1979 2 (1972'). 23 Hourani, Arabie Thought in the Liberal Age cit., cap. 11, pp. 273-279. 24 Ivi, pp. 309-311. 25 Ivi, pp. 267-273. 26 II termine shtetl (pl. shtetlekh, dal ted. Stiidtlein) designa gli insediamenti dell'Europa orientale con un'alta percentuale di abitanti di origine ebraica (ashkenaziti). In senso lato indica l'intera area della cultura yiddish http://www.israele.net/sezione„l71 .htm [N.d.T.]. 27 II bundismo è un movimento ebraico di ispirazione socialista fondato a Vilnius nel 1897 da un gruppo di socialdemocratici ebrei, intenzionati a contrapporsi al sionismo e al suo progetto di stato israeliano liberale a immagine dell'Occidente capitalista. Il termine deriva da Bund (abbreviazione di Algemeyner Yidisher Arbeter Bund in Lite, Poyln un Rusland un Poyln, Sindacato Generale dei Lavoratori Ebrei di Lituania, Polonia e Russia) http://www.comiteactionpalestine.org/modules/news/article.php? storyid=33 [N.d.T.]. 28 In una lettera al presidente dell'AIU, il rabbino capo dell'Impero ottomano Nahum Effendi spiega che il suo atteggiamento, seppur tacciato di antisionismo, ha «evitato agli ebrei turchi e palestinesi il destino degli armeni e dei greci»: lettera inviata da Costantinopoli il 27 aprile 1919 al presidente dell'Alliance Israélite Universelle, cfr. Esther Benbassa, Un grand rabbin sépharade en politique, 1892-1923, Presses du CNRS, Paris 1990, p. 234. Constantin-François Volney, Voyage en Égypte et en Syrie (1783-1785), 2 voli., Parmantier-Froment-Didot, Paris 1825 (1788-1789 '), vol. 2, p. 215. Per un'analisi statistica più precisa, relativa alla fine del XIX secolo, vedi Vital Cuinet, Syrie, Liban et Palestine. Géographie administrative, statistique, descriptive, 3 voli., Ernest Leroux, Paris 1896. 301 circassi o ierkessi sono una popolazione della Caucasia nord-occidentale, che risiede principalmente nelle Repubbliche di Adighezia e Karaiajevo-Cerkessia (entrambe parte della Federazione Russa). Benché la Circassia sia stata ceduta alla Russia nel 1829, il suo popolo fu soggiogato solo nel 1864, quando gran parte di esso abbandonò il Caucaso ed emigrò 25
in varie zone dell'Impero ottomano. Mentre in Occidente si preferisce il termine circassi, che però si applica anche ad altri popoli del Caucaso settentrionale, essi si autodefiniscono Adighi (Adyghe) [N.d.T.]. Allude alle restrizioni imposte all'immigrazione ebraica dal governo turco e delle parole del console russo, che si era vantato di «avere più sudditi a Gerusalemme che in tutti gli altri consolati russi messi insieme». Ma il divieto, segnalato nel marzo 1887 dal console britannico a Gerusalemme, durò poco tempo, perché il deciso intervento di vari stati, prima fra tutti la Gran Bretagna, portò alla sua abrogazione (gli ebrei dell'impero ottomano o dei paesi musulmani ne rimasero esclusi) http://www.al-moharer.net/ mohl40/kayalil-140.htm [N.d.T.]. 31
Bat Ye'or, Yehudi Mitzraiyim [Gli ebrei in Egitto], Maariv, Tel Aviv 1974 (testo in lingua ebraica) (ed. orig. Les Juifs en Égypte, Éditions de l'Avenir, Genève 1971), cap. 13; Id., Zionism in Islamic Lands: The Case of Egypt, «WLB», n. 30 (nuova serie 43-14), 1977, pp. 17-29; Id., Le Sionisme dans les pays islamiques: le cas de l'Égypte (edizione abbreviata e in francese del precedente articolo), in Le Second Israël, dossier pubblicato da «Les Temps Modernes», n. 394 bis, Paris, maggio 1979, pp. 162-181; Michel Abitbol, Zionist Activity in the Maghreb, «JQ», n. 21,1981, pp. 61-84. Per un'analisi di questo periodo nell'Impero ottomano, si veda la tesi di dottorato di Esther Benbassa, Haim Nahum Efendi, dernier Grand Rabbin de l'Empire ottoman (19081920): son rôle politique et diplomatique, 2 voli., Université de Paris HI, 1987. 32
Per un'analisi del sionismo nell'Impero ottomano vedi Esther Benbassa, Israël face à lui-même: Judaïsme occidental et judaïsme ottoman (XIX-XX siècle), «Pardès», n. 7, Paris 1988, pp. 105-129; Id., Zionism in the Ottoman Empire at the End ofthe 19th and the Beginning ofthe 20th Century, in Studies in Zionism, «JIS», n. 11, Baltimore 1990 (autunno), pp. 127-140. 33
II mandato britannico sulla Palestina fu deciso alla Conferenza di San Remo (aprile 1920) e reso esecutivo dalla Società delle Nazioni (Société des Nations) il 24 luglio 1922. Il mandato riconosce il collegamento storico del popolo ebraico con la Palestina e obbliga il Regno Unito a sostenere la costruzione del Jewish National Home. Il mandato ha governato la Palestina dal 1920 al 1948. Nel settembre 1922 Londra separò la Transgiordania dalla Palestina della quale constituiva il 78%, per costituire uno stato soltanto arabo, proibito agli ebrei. 34
Lo sharlf (plur. ashraf lett. «illustre, nobile», termine che designa i discendenti di Maometto attraverso la figlia Fatima e il cugino 'Air ibn Abl Talib) di La Mecca era il governatore del Hijâz e il custode delle città sante di La Mecca e Medina dall'era degli abbasidi fino al 1924, quando i 35
Sa'ud occuparono il Hijaz sconfiggendo l'ultimo Gran Sharlf di La Mecca 'Ali ibn al-Husayn. Da allora sono essi ad amministrare le città sante e i pellegrinaggi a La Mecca [N.d.T.].
Capitolo 8 Alcune forme di ritorno del passato in età moderna
Il retaggio dell'epoca coloniale Nel prolifico XIX secolo l'Occidente, spinto dalla curiosità, si riversò come una marea entusiasta e fecondatrice nell'antico Oriente. Gli esploratori e i geografi tracciarono le carte di contrade misteriose, gli archeologi e gli storici decifrarono i segni dei millenni, mentre gli scienziati definivano i fondamenti della medicina moderna. Il turbinio delle rivoluzioni sociali si accompagnava al progresso tecnologico, i cui strumenti, via via perfezionati, svelavano agli studiosi l'esistenza di immensi ambiti di ricerca. La Terra, rimpicciolita dalle ferrovie, schiudeva la molteplice varietà delle sue culture, lasciando emergere il relativismo dei valori e la fondamentale identità della natura umana da un capo all'altro dell'universo. Armati di idee rivoluzionarie, i politici e i giuristi elaborarono nuove legislazioni, che sancivano l'uguaglianza tra gli uomini, la libertà dei popoli, la laicità della sfera giuridica e l'intangibilità del diritto naturale e di quello umanitario. Come un inarrestabile uragano, la civiltà europea e i suoi eserciti rivoltarono da cima a fondo il dcir al-islam. Poco più di cent'anni dopo l'Europa, letteralmente dissanguata da due guerre mondiali, traumatizzata dalle stragi subite, screditata e scacciata, vilipesa e umiliata, si ritirava con ignominia nei propri confini. L'avventura coloniale era terminata! Ma ne cominciava un'altra, questa volta nello spazio!... Prodiga del suo genio, l'Europa abbandonava ai deserti
d'Oriente le città che aveva edificato come per gioco, mentre, simili a miraggi di sabbia e a caricature rinsecchite, si sgretolavano i suoi ideali di libertà. A partire dalla seconda metà del XIX secolo le antiche comunità dhimmì, favorite da un'istruzione di tipo europeo e liberate dalle catene dell'oppressione, avevano partecipato attivamente al rinnovamento e all'industrializzazione dei propri paesi. Il sorgere della borghesia e di un'amministrazione pubblica multiconfessionale condusse all'abolizione della millenaria e rigida divisione su basi religiose imposta dalla dhimma. Commercianti, industriali e funzionari, reclutati dall'apparato amministrativo coloniale, nel loro duplice ruolo di agenti e di «ingranaggi» del processo di modernizzazione catapultarono il dar al-islam dal Medioevo nel XX secolo. Sotto i regimi coloniali europei, le trasformazioni in atto all'interno delle comunità dhimmì si accelerarono. La nascita di una piccola borghesia educata nelle scuole europee cristallizzò le tensioni di classe, che a loro volta innescarono la democratizzazione degli organismi comunitari e lo sgretolamento del potere dei notabili. Questa evoluzione, che ricalcava il modello europeo, sebbene ineluttabile non era certo priva di inconvenienti. Infatti l'impatto della civiltà occidentale - tanto più seducente agli occhi dei dhimmì in quanto fonte di liberazione - indeboliva ulteriormente l'identità storica dei vari gruppi. Il processo di acculturazione si innestava peraltro sull'alienazione causata da ima millenaria oppressione, che era stata così profondamente interiorizzata e assimilata sul piano sociale da sfuggire a qualsiasi riflessione critica. L'ibridismo culturale accentuò l'amnesia delle comunità, che vennero sommariamente designate come «le minoranze». Nei primi decenni del XX secolo, l'ascesa sociale ed economica dei cristiani e degli ebrei d'Oriente e del Maghreb si integrò nelle dinamiche di «occidentalizzazione» dell'islam messe a punto dai regimi coloniali. Si innescò così un movimento di reinterpretazione dei dogmi religiosi e politici del mondo islamico, finalizzato ad abolire le disuguaglianze tra musulmani e non musul-
mani. Tale evoluzione ideologica prese lentamente forma in seno alle strutture statali che, subentrate ai principi politici ispirati alla sharfa, sostituirono il consenso nazionale a quello della umma. Generazioni di intellettuali e politici islamici furono plasmate secondo quest'orientamento all'interno delle scuole coloniali e delle università europee. La rivoluzione intellettuale e industriale, imposta dalle esigenze di modernizzazione e legata alla colonizzazione europea, trasformò e sconvolse le società arabo-islamiche tradizionali in modo talmente profondo che gli schemi della dhimmitudine scomparvero nell'oblio. Quest'occultamento confortava peraltro il desiderio della corrente panaraba cristiana di non urtare le suscettibilità musulmane. Fermamente intenzionati a utilizzare ^ a r a b i smo» come strumento di uguaglianza, i nazionalisti arabi cristiani fecero di tutto per seppellire la dhimmitudine. Dal canto loro Francia e Inghilterra, che governavano i popoli musulmani colonizzati, condivisero questa politica di appeasement e di intesa. Ancor più accentuato fu lo spirito di conciliazione creatosi tra l'Europa e i nuovi Stati arabi indipendenti, che rappresentavano ormai un'importante scommessa economica e geostrategica. Le antiche istituzioni religiose e scolastiche cristiane dovettero astenersi dal criticare la storia islamica per continuare a esistere, mentre un team di storici legati al mondo arabo per ragioni professionali o economiche metteva a punto una ricostruzione delle vicende dei dhimmT censurata o improntata a un mix di elementi fattuali, apologetici e fantastici. Dopo la seconda guerra mondiale, l'egemonia intellettuale della sinistra e il sorgere di regimi arabi socialisti o alleati di Mosca contribuirono a consolidare un internazionalismo rivoluzionario arabofilo che conobbe il suo apogeo a partire dal 1973, grazie all'impennata dei prezzi del petrolio. Accomunate nella generale condanna riservata a un Occidente imperialista, colonialista, clericale e reazionario, le comunità dhimmT, un tempo oggetto delle attenzioni europee e russe, furono bollate come agenti dell'imperialismo, tacciate di collusioni nazionalistiche, confessionalistiche e isolazionistiche, ed etichettate con l'epiteto di compradoreK
La patente di obbrobrio affibbiata all'imperialismo europeo portò a screditare i suoi ex protetti e produsse un'inversione di ruoli nella storia mediorientale. I gruppi dhimml si videro attribuire un passato puramente mitico di «minoranze religiose» che, in terra araba e islamica, avrebbero goduto di un'ospitalità e una tolleranza indiscriminate e uniformi. Per giunta alcuni di essi che vantavano culture d'origine del calibro di quella aramaica (ebraica, siriaca), copta, armena e greca - , per il fatto che erano ebrei o cristiani furono etichettati come stranieri rispetto al contesto arabo-musulmano! L'occultamento delle forze che avevano modellato la storia del Medio Oriente permise di trasformare lo Stato di Israele in una creazione colonialista e di interpretare la resistenza cristiana libanese come una forma di fanatismo clericale reazionario. Così le congiunture politiche - ossia gli interessi dei paesi occidentali e dei cristiani «arabi» assimilazionisti, uniti alla corrente dell'internazionalismo rivoluzionario - concorsero a cancellare definitivamente dalla faccia della storia la dhimmitudine. Sul piano politico i paesi arabi recuperarono, sotto forma di nazionalismi, i particolarismi regionali della umma. Sorti all'interno di confini delimitati dalla colonizzazione, i nuovi Stati coincidevano spesso con antiche entità geografiche prearabe. La colonizzazione europea delle antiche province arabe e ottomane e del Maghreb durò, a seconda delle regioni, dai 50 ai 130 anni. Questo periodo vide il rapido succedersi di una serie di trasformazioni scaturite dalle riforme giudiziarie e amministrative del tanzimat: emancipazione dei dhimmT, indipendenza dei popoli raya, abolizione della schiavitù ecc. All'evoluzione politica si accompagnarono innovazioni tecnologiche quali la creazione di importanti infrastrutture del genio civile e l'industrializzazione delle colonie 2 . Le nuove esigenze richiesero la costruzione di strade e di città, lo sviluppo dell'istruzione scolastica e di quella universitaria. L'accavallarsi di tanti e tali sconvolgimenti - ciascuno dei quali ricco di ripercussioni politiche, culturali e ideologiche - si verificò tra il 1830 e il 1960, ossia in un tempo infinitesimale se paragonato alla storia millenaria dell'Oriente islamico. È pertanto
legittimo interrogarsi sulla solidità e la durevolezza di fondamenta erette in un arco di tempo così ridotto. Ritirandosi dal dar ai-islam, l'Europa si illudeva di avervi lasciato due risorse politiche: l'arabismo laico e infrastrutture istituzionali moderne, fondate sull'interdipendenza tra le tecnologie e i valori occidentali, destinati a perpetuarsi nelle università di sua creazione. Ma l'attuale rinascita dell'islam tradizionale - che va sotto il nome di «fondamentalismo» o «integralismo» o «radicalismo» - predica esattamente l'opposto, e propugna il rifiuto di quelle idee straniere che furono assimilate solo da una ristretta élite «occidentalizzata», peraltro oggi in via di estinzione. Ormai sono le stesse università fondate dagli europei per tramandare i propri valori a formare i quadri dirigenti dei gruppi di militanti islamici antioccidentali. Ed è sempre la tecnologia militare e scientifica dell'Occidente ad armare i ghazi o i fedayin3 moderni, nonché a fornire loro i mezzi di telecomunicazione grazie ai quali possono coordinare la loro azione e la loro propaganda in tutto il dar al-islam e il dar al-harb. L'Europa aveva depositato presso la umma un bagaglio di valori comprendente, tra gli altri, i concetti di emancipazione, uguaglianza dei diritti e laicità, ma ritirandosi lo portò via con sé.
Le radici dell'islamismo moderno Questo capitolo non pretende affatto di tracciare anche solo una sintesi dell'età moderna, la cui fluidità e complessità sfuggono ai politologi più esperti, i quali spesso sono disorientati fra sapere e «politicamente corretto». Qui ci accontenteremo di accennare ai prolungamenti attuali delle ideologie del passato. Certo, essi non rispecchiano tutti i variegati aspetti del mondo islamico; tuttavia è innegabile che la loro crescente importanza contribuisca a fare oggi dell'islamismo un potente movimento politico trasversale all'Asia, all'Africa e all'Europa. In realtà l'attuale ascesa dell'islam non costituisce affatto una rivoluzionaria innovazione ideologica, poiché essa rientra in
un'ininterrotta corrente storica, la stessa che, nel corso dei secoli, alimentò e sostenne il jihad, la conquista di nuovi territori e la dhimmitudine dei popoli indigeni non musulmani. Contenuto dalla superiorità militare europea e tenuto sporadicamente a freno, a partire dal XIX secolo, dalle forze innovative del progresso, il radicalismo islamico prese forma sotto la spinta di tensioni politiche e sociali che aggregarono le masse attorno a una serie di leader religiosi cui veniva attribuito il carisma della santità. Nell'Egitto degli anni '30 e nell'Iran prekhomeinista, l'islamismo funzionò da valvola di sfogo in grado di incanalare nell'alveo religioso - dal momento che ogni altra forma di protesta politica era proibita - il malcontento popolare e la rivolta dei «colletti bianchi». L'integralismo moderno - espressione delle violente tensioni e dello smarrimento che pervadono società eminentemente religiose quali quelle musulmane, mandate in frantumi dall'intrusione occidentale - , ha cause molteplici e contraddittorie. Il suo scopo, invece, è inequivocabile: ripristinare il Corano e la shari'a come uniche fonti del governo e della giurisdizione negli Stati islamici 4 . Questo ritomo a una rigida ortodossia esige in primo luogo l'eliminazione di ogni valore o legge estranei all'islam, ossia mutuati dal dar al-harb. La restituzione ai popoli dhimmT dei territori conquistati e gli umilianti rovesci militari subiti sono infatti imputati a queste nefaste influenze, responsabili dei castighi divini abbattutisi sulla comunità dei fedeli di Allah, attualmente guidata da leader eretici. L'islamismo si traduce quindi anzitutto in un rigetto dei cambiamenti introdotti dai contatti con le civiltà del dar al-harb e nel rifiuto di riconoscere la sovranità dei dhimmt. Questo atteggiamento è il frutto della riduzione del mondo non musulmano a una serie di stereotipi dispregiativi, che mirano a neutralizzarne il potere di seduzione: Grande Satana, nemico dell'umanità, culla del materialismo, del colonialismo, dell'imperialismo e del sionismo. In Iran i mullah fomentarono la rivoluzione contro la dinastia filo-occidentale dei Pahlavi alimentando e usando il fanatismo per impadronirsi del potere. L'ignoranza e la miseria popolare fu-
rono il seme della rivolta, orientata e guidata dal clero. I Pahlavi (1925-1979), che avevano cercato di modernizzare il paese, vennero travolti dalla marea integralista. In Egitto il presidente Sadat tentò di ingraziarsi il movimento islamista al fine di controllarlo dall'interno e debellarlo. Tuttavia la sua politica di apertura nei confronti del dar al-harb, dell'Occidente e di Israele, illuminata dalla visione modernista di una società liberata dal giogo della religione, fece di lui, come già era accaduto per i Pahlavi e i turchi kemalisti 5 , il nemico dell'islam. L'islamismo però non si limita allo stadio del rifiuto: esso accoglie in sé le sofferenze e le speranze dei popoli. Perciò si autoproclama la via della redenzione di ima umma corrotta dall'Occidente. I popoli musulmani - esso insegna - conosceranno di nuovo la gloria se ripristineranno nel nostro tempo le istituzioni che furono elaborate nel VII secolo e che li condussero al potere. Un potere che si fondava sul jihad, l'annessione di terre, il bottino derivante dalle vittorie, il saccheggio a danno delle civiltà vinte e lo sfruttamento delle enormi riserve di schiavi e manodopera provenienti dalle Indie, dall'Africa, dall'Oriente e dall'Europa. E così il rigetto dell'Occidente e la nostalgia di una potenza edificata sulla guerra e sulle conquiste contribuiscono a fare dell'islamismo il veicolo e il pilastro del jihad. Il programma politico della corrente integralista è ben noto. Essa predica il ritorno alla sharfa in tutti gli Stati musulmani. Questo primo stadio permetterà l'accorpamento delle leadership politica e militare e il ripristino della mentalità ghazi. Solo allora potrà essere intrapreso lo stadio successivo nonché finale, articolato nelle seguenti fasi: conquista del mondo e instaurazione della supremazia universale della legge islamica, distruzione delle civiltà dell'epoca preislamica (jdhiliyya) non musulmane e imposizione della dhimma ai popoli del dar al-harb, riconquistato e quindi ridivenuto dar al-islam. La corrente islamista legittima la sua ideologia sulla base del passato: in effetti le epoche gloriose dell'islam furono proprio quelle legate alle due ondate (araba e turca) di conquiste. Non fu certo nella sua culla - l'Arabia, popolata esclusivamente da arabi musulmani - né a La Mecca o a Me-
dina, che rifulse in tutto il suo splendore la civiltà islamica. Essa brillò soltanto nelle terre della dhimmitudine, nei periodi in cui i dhimmì costituivano ancora delle maggioranze soggette a conquistatori musulmani numericamente inferiori. Sotto gli arabi, infatti, essa raggiunse il suo apogeo nell'Oriente cristiano e in Spagna, ma lo stesso fenomeno si verificò sotto i turchi: non fu nell'Asia centrale che i selgiuchidi e gli ottomani fondarono un impero prestigioso, ma in Anatolia e nei Balcani, dove assoggettarono le popolazioni ortodosse. Oggi i popoli musulmani, i quali - tranne che nei paesi petroliferi - sono tra i più poveri del pianeta, sono affascinati dalle ricchezze dell'Europa e dell'America tanto quanto un tempo i nomadi dell'Arabia e del Turkestan erano attratti dalle fiorenti e raffinate città dell'Oriente prearabo e di Bisanzio. In effetti il movimento integralista non nasconde affatto la sua intenzione di islamizzare l'Occidente. La sua propaganda, contenuta negli opuscoli in vendita nei centri islamici europei, ne chiarisce gli scopi e i mezzi, che includono il proselitismo, le conversioni, i matrimoni con donne indigene e soprattutto l'immigrazione. Ricordando che i musulmani partirono sempre minoritari nei paesi conquistati (o, per usare il loro termine, «liberati») prima di divenire la maggioranza, gli ideologi del movimento considerano l'insediamento islamico in Europa e negli Stati Uniti come la grande occasione dell'islam.
Dhimmitudine dell'Occidente? Il jihad sferrato contro l'Occidente dalla corrente islamista è un conflitto multiforme e pluridimensionale, che non si lascia circoscrivere in una definizione. Esso si manifesta attraverso le azioni terroristiche dei gruppi ghazi, ossia dei terroristi al servizio di alcuni Stati (Iran, Iraq, Siria, Libia), attraverso pressioni economiche o minacce (una su tutte, l'arma del petrolio) e attraverso il condizionamento psicologico. La cattura di ostaggi è una tipica tattica del jihad6. Sul piano teologico-giuridico, essa è ritenuta sia moralmente che legalmen-
te giustificata. L'ostaggio, un prigioniero harbt, costituisce una risorsa dal punto di vista militare, poiché consente di effettuare scambi di prigionieri o di ottenere un riscatto che serve a finanziare la guerra di islamizzazione. In entrambi i casi l'ostaggio (americano, europeo o di altra nazionalità) è considerato un oggetto disumanizzato, ossia privo dei diritti inalienabili legati all'essere umano. Tale disumanizzazione è un aspetto fondamentale del concetto di harbì. È l'opportunità del momento che può trasformare un harbì qualunque in un prigioniero. In passato erano le razzie di confine e la pirateria marittima, specialmente maghrebina, ad alimentare ima cospicua riserva di ostaggi destinati alla schiavitù qualora non venissero riscattati. Fino al 1815, le Reggenze barbaresche e il Marocco costituirono dei veri e propri Stati pirata, che si arricchivano con il bottino umano prelevato dal dar al-harb7. Il terrorismo moderno richiama le razzie di confine, solo che oggi i mezzi di locomozione permettono ai ghazi di seminare la morte nel cuore stesso del dar al-harb, mentre i loro antenati massacravano gli abitanti dei villaggi di frontiera. Si deve al terrorismo arabo-palestinese se sono stati rinverditi ai giorni nostri i fasti eroici del ghazi che si imboscava per assalire i civili. Ammassati fino al 1982 nei campi militari situati in Libano o presso il confine israelo-libanese, gli arabi palestinesi hanno dato vita a una società guerriera, resa fanatica dalla predicazione del jihad anti-israeliano. E proprio come i ghazi medievali, che combattevano nei ribat posti al limes dei territori cristiani con l'appoggio dell'intera umma, così i palestinesi, moderni eroi del jihad, hanno suscitato l'ammirazione popolare grazie agli attacchi terroristici sferrati contro i civili e alle loro «performance» di pirateria aerea. Eredi spirituali dei fedayin - i campioni dell'islam, noti anche come «combattenti della fede», che per più di un millennio avevano affossato gli Stati cristiani della regione - , essi hanno concentrato su di sé e riportato in vita le tradizioni belliche antioccidentali. Quindi il terrorismo arabo-palestinese ha rispolverato, aggiornandola a livello ideologico e tattico, la millenaria ghazwa anticristiana.
Se da un lato fu l'antisionismo ad alimentare e innescare l'opposizione al cristianesimo, dall'altro fu il millenario movimento anticristiano, istituzionalizzato da secoli di jihad e da ima corrispondente tradizione culturale e politica, ad avvelenare ed esacerbare il moderno antisionismo. La tradizione storica delle guerre per la conquista dei territori cristiani (Oriente, Bisanzio, Europa) e l'assoggettamento dei popoli cristiani sono di fatto confluiti nell'antisionismo attuale. L'antisionismo cristiano sia orientale che occidentale, che forniva una legittimazione etica alle razzie palestinesi e al jihad, fu simultaneamente responsabile di tre fenomeni: distrusse le comunità cristiane libanesi, indebolì le Chiese d'Oriente e, per finire, proiettò sull'Occidente l'ombra della dhimmitudine. Infatti, dal punto di vista storico, sia il jihad anti-israeliano che quello antioccidentale non sono che i due aspetti interdipendenti e interconnessi di una stessa guerra contro le due Genti del Libro, accomunati, sotto il dominio islamico, da un'identica condizione di dhimmitudine. La causa di questi conflitti non va ricercata nel desiderio d'indipendenza di tali popoli, ma nella natura delle relazioni internazionali con gli ebrei e con i cristiani prescritte dal dogma islamico. La guerra per annientare Israele concesse una proroga ai cristiani d'Oriente e allontanò provvisoriamente dall'Occidente l'offensiva del jihad. Attribuire a Israele la responsabilità della rinascita dell'islam tradizionale, come fanno alcuni cristiani orientali, è del tutto infondato: essa deriva semmai dall'occultamento di dodici secoli di dhimmitudine cristiana. Infatti, anche se Israele non esistesse, il resto del dar al-harb - dall'Europa all'Australia - resterebbe come un tempo oggetto di mire e di conquiste, destinato cioè a diventare terra di bottino e di futura dhimmitudine. Pertanto la soluzione non passa certo per l'eliminazione degli Stati bersaglio del jihad, ma consiste in un cambiamento di mentalità e nella salvaguardia di questi Stati. Se si pensa alle infrastrutture antiterroristiche che oggi presidiano militarmente l'Europa, i suoi luoghi pubblici e i suoi aeroporti, a quanto investono i contribuenti per finanziare la difesa
armata delle loro libertà, all'impatto psicologico del terrorismo intellettuale, alle restrizioni politiche e giudiziarie imposte dal ricatto dei terroristi e alle deroghe introdotte alle leggi vigenti, è legittimo chiedersi se l'Occidente non sia già entrato, senza neppure accorgersene, in una fase di dhimmitudine. L'analisi dell'età moderna non rientra affatto nell'ambito di questo studio. Nondimeno, le osservazioni sin qui condotte sulla continuità della storia e sul suo riproporsi nell'attualità contemporanea inducono a certe constatazioni. In primo luogo, è evidente che la rinascita di alcune strategie islamiche tradizionali non è certo un fenomeno passeggero. Questi comportamenti affondano le loro radici in tredici secoli di storia e si sviluppano in base a permanenti realtà di ordine ideologico, religioso, demografico e politico. L'ultima ondata del jihad fu fermata davanti a Vienna nel 1683. Ma il consolidamento delle frontiere non interruppe certo il processo di islamizzazione di territori popolati in origine solo da non musulmani. Le strategie volte a trasformare quello che un tempo era il dar al-harb in dar alislam si articolarono - come nella precedente conquista araba - , nell'arco di più secoli, e prolungarono sul piano interno gli obiettivi del jihad. Poi, con il rafforzamento militare dell'Europa, ebbe inizio una sorta di ritirata islamica, che liberò progressivamente dalla dhimmitudine i territori del continente. Durante il periodo coloniale l'Europa tentò di «epurare» e occidentalizzare l'antico islam arabo, sostituendo alla sharl'a ima giurisdizione laica. Ma il movimento panarabo, incoraggiato dall'Europa e dai cristiani d'Oriente, era fatalmente destinato a risorgere e a riportare in vita i valori elaborati dagli arabi, gli stessi che, all'epoca delle conquiste, li avevano condotti all'apice della gloria, presiedendo alla formulazione e all'applicazione della shari'a. La nostalgia di quell'epoca contribuì ad alimentarne il ricordo e gli sforzi intesi a farlo rivivere, e a perpetuare la demonizzazione del dar al-harb. Gli espedienti di Ubicini, giornalista turcofilo del XIX secolo che tentò di addomesticare o neutralizzare l'ostilità musulmana verso l'Occidente camuffando moderni concetti occidentali sotto ima vernice islamica, ci appaiono oggi
nient'altro che trucchi grossolani. Sarebbe stato meglio intraprendere ima critica approfondita, sull'esempio dei moderni riformatori turchi, piuttosto che tentare di costruire sul terreno effimero delle adulazioni menzognere. Sebbene numerosi governi musulmani - Turchia, Egitto, Marocco e altri - tentino oggi di combattere la corrente islamista, i loro sforzi sono destinati a fallire senza un radicale cambiamento di mentalità, una desacralizzazione del jihsd storico e un'analisi priva di compiacenza dell'imperialismo islamico. In assenza di un simile approccio, il passato continuerà ad avvelenare il presente e ostacolerà l'instaurazione di relazioni armoniose. Un'autocritica di questo tipo, in fin dei conti, non è poi così eccezionale, se si pensa che in Occidente piaghe quali il fanatismo religioso, le Crociate, l'Inquisizione, la schiavitù, l'apartheid, il colonialismo, il nazismo e, più recentemente, il comunismo, vengono tutte rimesse in discussione, analizzate ed esorcizzate. Perfino il giudaismo così anodino se paragonato alla potenza della Chiesa e all'enorme diffusione del cristianesimo - , a sua volta impegnato in un grande processo di rinnovamento, è stato costretto a sbarazzarsi di alcune strutture passatiste. E quindi inconcepibile che l'islam, movimento partito da La Mecca e poi dilagato in tre continenti, sia l'unico a potersi esimere da una riflessione sui meccanismi della sua potenza e della sua espansione. Questa valutazione storica compete ai musulmani stessi, e non tanto a quelli che, vivendo in Occidente, non sono affatto rappresentativi, quanto a quelli che risiedono nei propri paesi, in mezzo a centinaia di milioni di persone. Perfino un enorme impero come quello sovietico - con i suoi Stati satelliti europei e le sue colonie - , dopo aver visto crollare le sue fondamenta ha saputo inaugurare la perestroika, aprire gli archivi, svuotare i campi di prigionia e, grazie a un processo di autocritica, intraprendere la sua redenzione. È quindi lecito sperare che un giorno la liquidazione del contenzioso sul passato dei dhimmi dia il via all'armonizzazione della grande famiglia umana.
1 II termine comprador, lett. «acquirente», in origine riferito alle aziende private che si arricchivano grazie ai commerci con l'estero (es.: imprese coloniali), in seguito è passato a indicare, soprattutto nell'analisi marxista, quella parte della borghesia che privilegiava gli scambi finanziari e commerciali con le potenze coloniali a scapito degli investimenti nel settore nazionale. La scelta di un aggettivo spagnolo si spiega con il fatto che esso fu applicato in primo luogo alla borghesia portuale sudamericana, i cui interessi la portarono a sviluppare i commerci di tipo transnazionale anziché quelli intemi. Il termine ha sempre e comunque un valore dispregiativo [N.d.T.].
Per il Nord Africa si veda Jean Ganiage, L'expansion coloniale de la France sous la Troisième République (1871-1914), Payot, Paris 1968, compresa la bibliografia; Jean-Louis Miège, Le Maroc et l'Europe: 1830-1894, 4 voli., PUF, Paris 1961-1965; Id., Documents d'histoire économique et sociale marocaine au 19e siècle, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris 1969 (che fa da indice ai 4 volumi precedenti). 2
Per il concetto di ghazi cfr. cap. 2, par. «La seconda ondata d'islamizzazione»; per quanto riguarda i fedsyin, lett. «devoti», il termine designava in origine i seguaci ismailiti di Hasan-i Sabbàh, il quale, sulle alture iraniche di Alamut, fondò uno Stato teocratico da cui partivano frequenti attentati contro i crociati presenti in Terra Santa, ma anche contro gli esponenti del potere sunnita (specialmente i selgiuchidi) che, in Siria e in Palestina, perseguivano una politica di buon vicinato con i crociati. La loro capacità di sacrificio, spinta fino al suicidio, fece ritenere i fedsyin i più temibili esponenti dell'islam militante dei secoli XIII e XIV. In età moderna il termine è stato riesumato dai militanti della guerriglia armata palestinese contro lo Stato israeliano [N.d.T.].
3
Wilfred Cantwell Smith, Islam in Modem History, Princeton University Press, Princeton 1977 (1957'); Manfred Halpem, The Politics of Social Change in the Middle East and North Africa, Princeton University Press, Princeton 1963; Richard P. Mitchell, The Society of the Muslim Brothers, Oxford University Press, Oxford 1969 (Oxford-New York 1993); Sayyed Ruhollah Khomeyni, Principes politiques, philosophiques, sociaux et religieux de l'ayatollah Khomeiny, estratti di testi, trad. di Jean-Marie Xavière, Libres-Hallier, Paris 1979; Emmanuel Sivan, Radicai Islam: Medieval Theology and Modem Politics, Yale University Press, New Haven-London 1985 1 (1990 2 ); JeanPaul Charnay, Principes de stratégie arabe, L'Heme, Paris 1984 1 (2003 2 )); Id., L'islam et la guerre: de la guerre juste à la révolution sainte, Fayard, Paris 1986; Gilles Kepel, Le Prophète et Pharaon: les mouvements islamistes dans l'Égypte 4
contemporaine, Édit. La Découverte, Paris 1984 (ed. it. Il profeta e il faraone: i Fratelli Musulmani alle origini del movimento islamista, Laterza, Roma-Bari 2006); Bruno Étienne, L'islamisme radical, Hachette, Paris 1987 (ed. it. L'islamismo radicale, Rizzoli, Milano 2001); Olivier Carré, Juifs et chrétiens dans la société islamique idéale d'après Sayyid Qutb [1906-1966], «RSPT», n. 68, Paris 1984; Daniel Pipes, In the Path of God: Islam and Political Power, Basic Books, New York 1983 (Transaction Publishers, New Brunswick 2002); Id., The Rushdie Affair: The Novel, the Ayatollah and the West, Birch Lane, New York 1990 [Transaction Publishers, New Brunswick (USA) 2003]; JeanPierre Péroncel-Hugoz, Le radeau de Mahomet, Lieu Commun, Paris 2006 (1983 '); William Montgomery Watt, Islamic Fundamentalism and Modernity, Routledge, London-New York 1990 (1988 •). II kemalismo è l'ideologia alla base della lotta di liberazione nazionale dei popoli turchi guidata dall'ufficiale Mustafa Kemal, chiamato in seguito Atatiirk ovvero «padre dei turchi», e culminata nel 1923 con la fondazione della Repubblica turca [N.d.T.]. 5
Poiché il libro era in corso di stampa durante la guerra del Golfo, gli sviluppi di tale situazione non hanno potuto essere esaminati qui. Sarebbe tuttavia azzardato tentare di prevederne le conseguenze, sia nel senso della modernizzazione che in direzione del radicalismo, malgrado gli sforzi delle élite musulmane. 6
'William Shaler, Sketches of Algiers, Cummings, Hilliard & Co., Boston 1826, pp. 134-138; Ellen G. Friedman, Spanish Captives in North Africa in the Early Modern Age, The University of Wisconsin Press, Madison-London 1983; Charles Richard Pennell (a cura di), Piracy and Diplomacy in Seventeenth-Century North Africa. The Journal of Thomas Baker, English Consul in Tripoli, 1677-1685, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford-London-Toronto 1989.
Capitolo 9 Caratteri della dhimmitudine
I capitoli precedenti sono serviti a rievocare le molteplici sfaccettature e interazioni che hanno caratterizzato i vari gruppi dhimml nel corso della loro storia. Costellata da date precise e influenzata da avvenimenti specifici, questa storia - o meglio, quest'intrico di storie ora divergenti ora parallele - sembra ridursi alla consistenza effimera di un tempo frammentato, ulteriormente scandito dalla dispersione in un variegato spazio geografico. Tuttavia, al di là dei singoli eventi storici, la cui infinita varietà proietta sulla superficie del tempo una struttura eterogenea e composita, nelle società dhimmT è possibile cogliere un altro aspetto: quello della fissità e della permanenza, che affondano le loro radici nella lunga durata, come se la dhimmitudine derivasse da strutture fisse destinate a perpetuarsi nel tempo. Ora, le strutture fisse di tutte le collettività sono sostanzialmente le ideologie (religioni), le istituzioni e le leggi, che, condizionando e modellando le menti dei singoli membri, contribuiscono al perdurare di identici comportamenti sul piano sociale. Questo capitolo tenterà di chiarire l'aspetto atemporale della dhimmitudine, le sue fondamenta e la sua ossatura, riproponendo quindi - con inevitabili ripetizioni - le linee essenziali dei contenuti diffusamente esposti nei capitoli precedenti. La dhimmitudine può essere definita come l'insieme delle caratteristiche elaborate in un lungo arco di tempo da società sottomesse, nelle loro stesse terre, a costumi e ideologie introdotti dal jihad. La dhimmitudine è una condizione collettiva che trova
espressione in una specifica mentalità, e investe sia l'ambito politico che quello economico, culturale, sociologico e psicologico, dal momento che essi sono tutti interdipendenti e correlati tra loro. Tuttavia, la dhimmitudine si configura soprattutto come un processo dinamico e interattivo, e non come un fenomeno passivo: è una miscela di azione, collaborazione e fusione tra collettività distinte, e di conseguenza è determinata tanto dalle strutture del gruppo dominante quanto da quelle del gruppo dominato.
Fattori insiti nel gruppo dominante che rendono inevitabile la dhimmitudine Il movente ideologico della dhimmitudine è espresso da questa osservazione del celebre storico del XIV secolo Ibn Khaldun: Per l'islamismo la guerra contro gli infedeli è un dovere sacro, poiché questa religione si rivolge a tutti gli uomini e poiché essi devono abbracciarla per amore o per forza. Per questo nel mondo islamico il potere spirituale e quello temporale [il califfato e l'autorità reale] coincidono, affinché colui che li esercita possa adoperarsi simultaneamente in questa duplice direzione.1 Se sul piano tattico il jihad non si differenzia più di tanto dai normali conflitti, per contro, sul piano ideologico, esso possiede tratti eccezionali, per non dire unici. Infatti è la sola guerra offensiva di carattere perenne e universale legata a un sistema religioso. Certo, innumerevoli popoli hanno dato vita a conflitti religiosi - di tipo offensivo o difensivo - altrettanto o ancor più crudeli, ma lo scopo di queste guerre restava limitato nel tempo o circoscritto nello spazio. Il complesso di strategie che costituiscono il jihad rappresenta il mezzo per costringere con la forza le popolazioni prese di mira a entrare nella dhimmitudine. Sebbene in altri regimi politici sia possibile individuare alcuni tratti simili, la dhimmitudine resta una struttura irriducibile e peculiare, legata a un particolare ordi-
ne ideologico e politico. Solo un superficiale processo di amalgama potrebbe indurre ad assimilarla ad altri sistemi. La dhimmitudine infatti nasce dal jihäd e dalla shan'a. Esistono fattori politici contingenti che possono talora condurre all'abolizione della dhimmitudine, ma ciò non implica necessariamente che il suo archetipo sia distrutto, poiché esso si situa nell'ideologia, nei testi giuridici islamici e nella percezione collettiva. Divenuto un modello astratto, ma pur sempre un punto di riferimento, tale archetipo attinge dalla storia una forza ossessiva, che gli consente di selezionare e organizzare le correnti politiche del presente in funzione della sua realizzazione in nuove, favorevoli congiunture. Così l'archetipo preserva, proiettandola nel futuro, la possibilità di ricreare la dhimmitudine, anche se questa è temporaneamente abolita da contingenze storiche quali la vittoriosa ribellione di un gruppo oppresso. E, pur essendo di per sé privo di contenuti, il concetto di dhimmitudine trasmette al futuro una struttura ideologica in grado di volta in volta di elaborare, sulla base delle circostanze fluide ed eterogenee in cui è inserito, quelli che gli sono più congeniali.
L'area della dhimmitudine La dhimmitudine è una categoria a sé nella storia delle società umane. Tuttavia, come altre categorie sociopolitiche, possiede una propria struttura e una propria evoluzione. Essa è contraddistinta da tre fattori: 1. il carattere universale: colpisce qualsiasi raggruppamento umano vittima del jihäd, indipendentemente dalle sue peculiarità etniche o sociali; 2. l'enorme - o meglio, pressoché illimitata - estensione geografica: decine di milioni di esseri umani divennero dhimmv, 3. la durata tendenzialmente infinita: essa si protrae per secoli. Nel complesso, la dhimmitudine presenta un carattere unitario, che però non esclude la presenza al suo interno di una grande varietà di elementi. Essa abbraccia fattori diversi ed eteroge-
nei, che rientrano tuttavia in un sistema di costanti fisse e stabili. La dhimmitudine è imo schema concettuale, un quadro generale in cui vari fenomeni tra loro interconnessi determinano le specifiche evoluzioni di ogni gruppo. Non si tratta di una nozione statica, ma dinamica, se non altro vista la disgregazione e la progressiva scomparsa delle nazioni interessate (cristiani d'Oriente), o la loro improvvisa rinascita (greci, bulgari, israeliani ecc.). Codificata in testi giuridici di carattere religioso, ossia metastorico, essa è dotata di una tipicità e di una coerenza che le consentono di dominare la molteplicità caotica della storia e l'intreccio degli eventi. Perciò, malgrado gli innumerevoli fattori circostanziali di ordine sociale, politico, religioso, etnico e psicologico che include, essa rivela comunque alcuni tratti permanenti e sostanziali. La dhimmitudine si è diffusa e affermata in seguito a processi diversi, spesso impalpabili e impercettibili nel presente, ma i cui effetti si sono sommati nel tempo. È così che nel corso dei secoli si è delineata un'area della dhimmitudine, dotata di una geografia umana diversificata, ma contrassegnata a livello sociologico da caratteri specifici e relativamente omogenei. Ciò non implica affatto un'affinità tra i gruppi etnici interessati - tutt'altro - , ma indica soltanto un'analogia tra i processi di disintegrazione che li hanno colpiti, come pure una somiglianza tra le loro strategie di sopravvivenza, rivelatesi più o meno efficaci nel lungo periodo in base a fattori sia circostanziali (ossia legati al momento storico), sia costanti (cioè determinati dalla collocazione geografica). Il crollo dell'Impero bizantino permette di individuare alcuni fattori responsabili della dhimmitudine. Nell'evento in questione è possibile distinguere tre fasi, scaglionate su cinque secoli: quella precedente alla conquista, quella della conquista vera e propria e quella successiva a essa, ossia la gestione dei territori occupati, divenuti terre della dhimmitudine. Paul Wittek sottolinea come in tale processo si coniughino e si alternino la corrente ghazi - ossia le modalità del jihäd - e quella che egli definisce la «tendenza musulmana», vale a dire l'instaurazione e il perfezionamento degli organi di governo di un vero e proprio Stato 2 . È precisamente in questa dialettica tra la guerra e le strutture statali edificate nei
territori conquistati con tale guerra che prende forma il carattere giuridico-istituzionale della dhimmitudine, codificata e prescritta da innumerevoli fatSzva (sing. fatwa) e ordinanze obbligatorie.
Strutture insite nei gruppi sottomessi che conducono alla dhimmitudine Queste strutture si evidenziano nei rapporti di dipendenza economica e politica dei gruppi dhimmì rispetto al potere islamico. Esse si situano pertanto ai massimi livelli gerarchici di queste comunità. Le funzioni delle alte cariche ecclesiastiche e dei notabili - banchieri e mercanti - sono già state delineate a sufficienza nei capitoli precedenti, il che ci consente ora di non tornare sull'argomento. Qui basti precisare che il perpetuarsi di tali gerarchie nel corso dei secoli rispecchiava il prevalere delle varie forze dhimmì alleate con i vertici islamici nei conflitti che, sotto forma di scismi religiosi o etnici, dilaniavano le comunità. L'avanzata dei nazionalismi dhimmì e il loro sviluppo amplificarono le tensioni presenti all'interno dei millet, che divennero via via più evidenti e violente, fino a provocare, con la rinascita degli Stati sovrani, la disintegrazione e la distruzione delle strutture di potere corresponsabili della dhimmitudine. Tali strutture affondavano le radici negli obiettivi politici a breve termine, negli interessi finanziari e nella preminenza assegnata al guadagno e alle ambizioni personali a scapito delle esigenze collettive e di una visione di più ampio respiro. Esse erano essenzialmente il frutto del dominio imposto con la forza - per l'esattezza, dalla forza militare straniera - a un gruppo sottomesso da ima classe privilegiata uscita dal suo stesso seno, nonché della corruttibilità dei leader e del ricorso a eserciti mercenari per proteggere comunità ricche, schiave del profitto e incapaci di assumersi da sole l'onere della propria difesa. Tra i vari popoli soggetti alla dhimmitudine si osservano differenze di comportamento, a seconda che fossero stanziati sulle rive orientali o su quelle occidentali del Mediterraneo. I cattolici spagnoli, gli ortodossi greci o slavi non persero mai la speranza
di liberarsi e, con il supporto delle nazioni cristiane dell'hinterland, portarono avanti per secoli la loro lotta per l'indipendenza. Per contro, sulla riva orientale, i copti, gli aramei, i monofisiti e i nestoriani, sopraffatti dalla politica e dagli eserciti e isolati dal loro separatismo religioso, optarono per l'alleanza con le armate beduine, a cui delegarono il compito di proteggerli e difenderli. E così i mercenari arabi o turchi, intrepidi, tenaci e dotati di un'intelligenza politica di tutto rispetto, grazie alla loro abilità e tolleranza conquistarono un immenso impero e liquidarono i loro «protetti».
Le comunità: l'organizzazione ai tempi della dhimmitudine Anche se le leggi della dhimma in teoria si applicavano in modo uniforme alle comunità ebraiche e cristiane, a prescindere dai rispettivi culti, diversi fattori di ordine geografico, demografico, politico ed economico influivano sull'organizzazione e l'evoluzione dei due gruppi. L'argomento è così vasto e presenta tanti e tali aspetti differenti che per i dettagli preferiamo rinviare il lettore alle opere specialistiche sui singoli millet. Qui ci limiteremo ad azzardare alcune ipotesi di carattere generale. Sul piano comunitario la coesione nasceva da un solido sistema organizzativo, in virtù del quale tutti gli individui si sentivano legati da un senso di responsabilità collettiva, peraltro riconosciuta anche dall'autorità islamica. I vari organi della comunità provvedevano alle esigenze del culto, dell'istruzione, della beneficenza (ospedali, dispensari ecc.). Un fondo collettivo si occupava di pagare la jizya per gli anziani, gli indigenti, gli invalidi, nonché i cosiddetti «soprusi» o imposte irregolari 3 , e il riscatto degli ostaggi cristiani ed ebraici ridotti in schiavitù. La comunità dispensava viveri, denaro, indumenti e cure gratuite alle vedove, ai poveri, agli orfani e agli anziani. Inoltre provvedeva al mantenimento degli stranieri di passaggio e aiutava gli altri millet che si trovavano in ristrettezze.
Sebbene alimentato dai tributi estorti ai popoli vinti, il Tesoro islamico copriva appena i bisogni della umma, per cui le comunità cristiane ed ebraiche dovevano autofinanziarsi. Il pesante carico fiscale favoriva il passaggio all'islam mediante le conversioni, ma ciò, riducendo il numero dei contribuenti dhimmi, ne aumentava proporzionalmente le spese. La graduale diminuzione delle entrate comunitarie, dovuta in particolare alle reiterate confische di beni religiosi dhimmi e ai «soprusi», ridusse i servizi forniti alla collettività, e soprattutto i sussidi elargiti alle miriadi di vittime dei saccheggi, di malati e di indigenti. L'impoverimento delle comunità, attestato da innumerevoli fonti, stimolò ulteriormente il processo delle conversioni. In un'epoca come questa, in cui la spiritualità era particolarmente intensa, il rispetto delle tradizioni religiose e dei tabù sociali orientava i comportamenti e plasmava le mentalità dalla nascita alla morte. Questo sistema di credenze costituiva ima rigida ossatura, senza dubbio limitante, ma al tempo stesso rassicurante. La legge religiosa era infallibilmente in grado di distinguere il bene dal male; inoltre, aveva l'ultima parola in fatto di perdono o di dannazione, nozioni la cui carica emotiva dominava le esistenze individuali. La classe religiosa, depositaria della scienza sacra, preservava l'identità e la coesione del gruppo, che a essa toccava guidare nei meandri della storia. L'importanza del loro ruolo di leader spirituali era vissuto e avvertito con particolare intensità dai capi religiosi, specie nelle epoche di sconforto e smarrimento. La forza interiore, alimentata dalla fede, consentiva di superare le difficoltà. Oltre ai legami religiosi, il millet rinsaldava la solidarietà insita nelle relazioni familiari, sociali e professionali. Inoltre garantiva i diritti dell'individuo e gli assicurava protezione. Le giurisdizioni cristiana ed ebraica si pronunciavano in materia di economia nonché di stato civile (matrimoni, divorzi) in collaborazione con i tribunali islamici. Spesso alcuni dhimmi si rivolgevano a questi tribunali per eludere le sanzioni inflitte dai loro giudici. In altri settori, specie in quelli delle transazioni immobiliari e della registrazione dei prestiti, erano i giudici dhimmi stessi a rivolger-
si al qàdi per l'iscrizione degli atti nei registri 4 . Quest'azione combinata delle diverse giurisdizioni nelle attività quotidiane, sebbene non piacesse affatto ai millet, gelosi della propria autonomia giuridica, aveva tuttavia il merito di tessere una rete flessibile e dinamica di relazioni e protezioni tra le diverse comunità. I vari organismi del millet e i loro legami con le istituzioni islamiche fornivano ai dhimmT una guida e una tutela.
Il ruolo dei notabili I notabili rivestivano un ruolo non privo di ambiguità. In veste di intermediari tra i popoli dhimmT che amministravano e il potere musulmano che se ne serviva, essi diventavano spesso, in virtù dei privilegi connessi alle loro funzioni, gli agenti e i pilastri dell'oppressione. Meglio servivano l'Impero islamico, più si arricchivano e consolidavano la loro influenza sulle rispettive comunità 5 . Questo carattere ambiguo, legato alla loro funzione socioeconomica di leader dei millet, appare particolarmente evidente - come attestano le abbondanti fonti al riguardo - nella collusione dei fanarioti greci con i sultani ottomani. L'alleanza stipulata dagli imperatori e dai principi bizantini con gli emiri e i sultani turchi prima delle conquiste si prolungò nella dhimmitudine, a tutto vantaggio della umma. Tutti gli osservatori concordano nell'individuare una notevole varietà di tipologie non solo tra i popoli raya, m a anche all'interno dei singoli gruppi. Al vertice della gerarchia stavano i patriarchi e i notabili che gestivano i millet. Era a questo livello che si esplicava al meglio la saldatura tra i poteri dello Stato islamico e quelli dei capi dhimmT, nonché la convergenza dei loro interessi sul piano dell'influenza religiosa e dell'amministrazione fiscale. Nella misura in cui il loro millet era numericamente superiore agli altri, i notabili potevano controllare le finanze dell'Impero grazie all'entità dei tributi che riscuotevano dal loro popolo. Secondo Ubicini, osservatore tardo e non par-
ticolarmente ben disposto verso i greci, essi, per il fatto che form a v a n o il millet più numeroso e attivo dell'Impero ottomano, ne sostenevano l'intera economia, mentre la maggior parte degli scambi commerciali interni era in m a n o agli armeni, l'etnia che, secondo quest'autore, «ha più interessi in c o m u n e con i turchi» 6 . Fu questa convergenza tra le ambizioni personali dei notabili e gli interessi dello Stato a conferire al governo islamico i suoi tratti di tolleranza. Una tolleranza, però, strettamente legata agli ambiti amministrativo ed economico, in quanto, fin dagli inizi della conquista, la funzione produttiva dei dhimmT costituì un fattore essenziale per la gestione dei paesi sottomessi. E poiché l'entità del tributo dipendeva dalla rilevanza demografica dei millet e dalle loro attività economiche, mantenere immutato il numero dei dhimmT limitando i vantaggi derivanti dalle conversioni e garantire la stabilità dei commerci tutelando la sicurezza di persone e beni equivaleva ad assicurare allo Stato un costante volume di entrate. Infatti sembra proprio che, nell'Impero ottomano come in quello arabo, le epoche di particolare prosperità economica e sviluppo abbiano coinciso con quelle in cui i popoli dhimmT erano ancora la maggioranza. L'entità dei tributi e delle imposte, correlata con la consistenza demografica dei popoli dhimmT, determinava la potenza e il prestigio dei notabili presso il sultano. Per quanto vantaggiose sul piano economico, le maggioranze dhimmT rappresentavano pur sempre, su quello politico, un pericolo e una minaccia per il potere islamico. Questo conflitto tra interessi politici ed economici diede luogo nel corso dei secoli a reazioni diverse, a seconda dell'incidenza delle guerre. All'inizio delle conquiste arabe e ottomane, la strumentalizzazione delle élite dhimmT assicurò la stabilità del regime, e, nel lungo periodo - come avvenne in Oriente e in Anatolia - , la progressiva scomparsa di questi popoli, con la conseguente svalutazione dei loro notabili, ridotti ormai a insignificanti gruppuscoli all'interno della umma.
Mecenatismo ed «età dell'oro» Il ruolo di mediazione rivestito dai dhimml negli scambi NordSud e i loro contatti con la cristianità permisero ai notabili di essere al tempo stesso i mecenati delle loro comunità e gli strumenti della loro evoluzione. All'ombra di questo mecenatismo le culture dhimml fiorirono ognuna secondo la propria indole - legata alle rispettive radici preislamiche - , ma anche grazie all'interazione con il mondo musulmano, bizantino, latino. Non si trattò certo di prestiti culturali a senso unico, in quanto le civiltà dhimml fornirono il terreno di coltura e la materia prima a cui si abbeverarono sia l'islam che l'Occidente cristiano. Nella storiografia ebraica l'espressione «età dell'oro» designa quei periodi, effimeri e legati a specifiche circostanze, in cui gli alti funzionari dhimml esercitarono il patrocinio sulle loro comunità, attirandovi gli intellettuali in fuga dalle aree in preda all'anarchia. La mobilità dei millet ebraici garantì la continuità di una ricerca intellettuale particolarmente vivace, fin dall'età ellenistica, in campo filosofico, esegetico e giuridico. Infatti gli ebrei, popolazione assai numerosa e disseminata per le città e i paesi dell'Egitto, della Palestina, della Siria, dell'Iraq e dell'Asia Minore, nel periodo preislamico avevano creato fiorenti centri di erudizione ad Alessandria, in Palestina e in Babilonia. Nei primi secoli dell'islam, quando il popolo ebraico non aveva ancora subito drastiche modificazioni demografiche, questa ricca tradizione culturale proseguì con varia fortuna. Tuttavia la totale assenza di fonti relative alla Spagna, al Nord Africa, all'Egitto, alla Siria e alla Palestina, fatta eccezione per le scarse notizie reperibili qua e là negli autori ebraici e musulmani posteriori e nella ricca letteratura giuridica babilonese, riduce ogni ipotesi a mere congetture. Della foltissima comunità ebraica egiziana non si sa praticamente nulla fino al X secolo 7 . Tuttavia la mobilità individuale è attestata dalla corrispondenza tra i diversi millet in cui risiedevano personalità di origine straniera, per lo più mercanti o eruditi in fuga dalle zone in preda all'anarchia o in cerca del sapere de-
Dhimmi armeno con la moglie (1720). («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).
tenuto da insigni maestri 8 . Peraltro questa mobilità, che era stata un elemento costitutivo della diaspora ebraica fin dai tempi biblici, era presente, sempre come fattore di sopravvivenza, comunicazione e scambio, anche tra i cristiani. Mentre su Siria, Palestina ed Egitto, in balia delle bande tribali, regna il silenzio, i centri babilonesi, che sorgevano in prossimità della capitale abbaside e godevano di una relativa sicurezza, fiorivano e accoglievano i fuggitivi. Se nel IX e nel X secolo le razzie delle tribù arabe dei carmati e dei banu tayy disperdevano intere comunità della Siria, della Palestina e della Mesopotamia, nello stesso periodo sorgevano altri centri in cui le condizioni politiche favorivano la prosperità economica e la vita intellettuale. La disintegrazione del califfato abbaside innescò l'emigrazione ebraica verso la Tunisia fatimide e favorì il sorgere a Qayrawan di una fiorente comunità, in cui, nel X e nell'XI secolo, si distinsero medici, filosofi, grammatici e filologi. Quando la regione ripiombò nell'anarchia, altri centri emersero ad al-Fustat (Egitto) e in Spagna. Gli emiri detentori del potere, che talvolta è il caso dei fatimidi - provenivano dalle minoranze religiose eretiche, si circondavano di consiglieri dhimmT i quali, in quanto elementi stabili, fidati e strumenti del progresso economico, costituivano un'intellighenzia in grado di dominare il mondo tribale. In Andalusia le circostanze erano particolarmente favorevoli alla fioritura delle comunità ebraiche. In un contesto dominato dalle ribellioni dei cristiani, dei berberi e degli arabi immigrati dalla loro Penisola, gli ebrei, con le loro tradizioni artigianali e commerciali, le loro conoscenze linguistiche e le loro brillanti figure intellettuali, si configuravano come un popolo affidabile e generatore di prosperità. Sotto il patrocinio di Hasday ibn Shaprut (905-975), diplomatico, medico, fine letterato e consigliere dei califfi 'Abd al-Rahman m e al-Hakam II, fiorirono la produzione lessicografica e filologica, la poesia e la scrittura. Probabilmente questo mecenate ebreo incontrava l'approvazione del califfo omayyade di Spagna, desideroso di far sorgere a Cordova, la sua capitale, un centro spirituale ebraico indipendente da quelli babilonesi [Academia di Sura e Pumbedita], la cui lealtà andava al suo riva-
le, il califfo abbaside di Baghdad. A Granada, all'inizio dell'XI secolo, un altro visir ebreo, Samuel ibn Naghrila, trucidato nel 1056 durante ima sommossa, patrocinava una fiorente comunità che sarebbe stata a sua volta annientata dalla plebaglia nel 1066. Il declino delle comunità ebraiche, iniziato in Marocco e in Spagna sotto la dominazione degli almoravidi, originari della Mauritania, sarebbe proseguito con l'annientamento dell'ebraismo e del cristianesimo spagnoli a opera della dinastia berbera degli almohadi. Fuggendo le persecuzioni musulmane, questi gruppi si dispersero nella Spagna cristiana e in Sicilia, o, come fece Maimonide 9 , passando per il Maghreb si diressero in Oriente, in particolare in Egitto, dove esistevano comunità prospere in grado di accogliere i fuggitivi. Nella parte orientale dell'Impero islamico, nell'Iran retto dai mongoli pagani, dopo la caduta del califfato abbaside rinacquero alcuni centri culturali dhimmt. Un intellettuale ebreo, Sa'ad alDawla, medico e visir di Arghun Khan (1284-1291), potè proteggere la sua comunità fino a che la conversione all'islam del successore di Arghun e l'omicidio del suo visir chiusero questa «età dell'oro» in un bagno di sangue. Il principale interesse di queste epoche privilegiate della storia, in cui per una, al massimo due generazioni, a Qayrawan come in Andalusia, ad al-Fustat come a Baghdad, rifulsero il mecenatismo e il munifico patrocinio dei notabili, consiste nella fioritura, in un tempo assai breve, di una ricca produzione letteraria, erudita, giuridica e filologica. Il fenomeno si spiega precisamente con la mobilità degli intellettuali, che si rifugiavano nei luoghi più propizi alla ricerca del sapere. Gli immigrati giungevano in queste città recando con sé le loro competenze professionali, le loro tradizioni culturali, insomma, tutto un patrimonio di conoscenze e know-how che arricchiva la comunità locale e l'intero Stato. L'esempio degli ebrei che, cacciati dalla Spagna (1492) e poi dal Portogallo (1497), furono accolti nell'Impero ottomano, è ben noto. Ma anche la corrente culturale ebraica che, seppur con splendore intermittente (a tratti si spense, ma per riaccendersi altrove), brillò ininterrotta per tutto il Medioevo, attesta il perma-
nere e il dinamismo della vita spirituale di questo popolo - saldamente ancorata alle sue origini e al tempo stesso versatile e varia - fino al definitivo declino causato dal calo demografico e dalla generale decadenza. Quanto ai cristiani dhimmt, sembra che anch'essi abbiano conosciuto un'evoluzione parallela, sebbene non abbiano mai usato l'espressione «età dell'oro», probabilmente perché non scorgevano un particolare privilegio nel fatto di essere associati al governo del loro paese da invasori stranieri. Peraltro, la simbiosi cristiano-islamica in tutti i campi fu ben più generalizzata, profonda e dinamica di quanto non lo sia stata quella ebraico-islamica, che pure è assai più nota. Erano cristiani - giacobiti, melchiti o nestoriani - i politici, i consiglieri, gli ambasciatori, gli scribi addetti alla Segreteria di Stato, gli scrittori, i traduttori, i banchieri e i mercanti, per non parlare dei convertiti, presenti in ogni classe sociale, laica come religiosa, e a tutti i livelli gerarchici. Mentre i califfi o i leader arabi dissidenti accrescevano il proprio Impero e il proprio potere, i cristiani, sotto il patrocinio dei loro mecenati, dei rinnegati o degli schiavi, poterono conservare la loro cultura. Il periodo omayyade, che da un lato corrisponde alla fase di incubazione della società dhimmì, dall'altro alla fioritura della civiltà islamica, è anche l'epoca in cui fu più forte la simbiosi tra cristiani e musulmani. Una simbiosi che non escluse tuttavia la distruzione di insigni centri culturali quali Ctesifonte, Gerusalemme, Cesarea, Alessandria, Cartagine, e un'anarchia imputabile alle grandi migrazioni tribali, apparentemente responsabili della assenza quasi totale di vestigia dell'epoca. Questa sinergia dalle molteplici sfaccettature è riconducibile alla convergenza di interessi tra i califfi e le popolazioni sedentarie, nonché ai loro comuni sforzi per mantenere integre e preservare le strutture economiche. Oltre a questa cooperazione economica e amministrativa, senza la quale non sarebbe mai potuto sorgere lo Stato islamico, fu elaborata una simbiosi culturale la cui straordinaria forza e ricchezza si spiegano alla luce della situazione precedente alla con-
quista araba. Infatti, fin dal riconoscimento ufficiale del cristianesimo da parte di Costantino, i Padri della Chiesa si erano sforzati di convertire il mondo pagano ellenizzato ai precetti biblici, nonché di assicurarne l'unità dottrinale e la coesione religiosa. Questa rielaborazione del pensiero e della civiltà pagana richiedeva una costruzione concettuale di enorme portata e la creazione di un corpus teologico, filosofico e giuridico in grado di conciliare l'eredità greco-romana con l'etica biblica. Malgrado gli sconvolgimenti politici legati alla conquista araba, questo lavoro proseguì nei centri di erudizione presenti all'interno dei monasteri melchiti, giacobiti e nestoriani, particolarmente numerosi in Egitto, in Mesopotamia e in Babilonia. La cultura continuò a circolare al riparo delle alte mura dei monasteri, risparmiati dai nomadi in cambio del pagamento di tasse di protezione, oppure patrocinati da notabili o eunuchi vicini al potere centrale. La ricerca spaziava dall'esegesi all'ascetica, dalla teologia al diritto canonico, dai trattati polemici a quelli impegnati a definire il dogma e la liturgia, dalle cronache ai saggi storiografici, abbracciando tutti gli ambiti, da quello religioso a quello filosofico e giuridico. Varcando i confini, tali correnti culturali si ricollegavano ai vasti movimenti di idee che in passato avevano rivoluzionato il mondo pagano, e che avevano gradualmente generato, sulle rive del Mediterraneo, la cultura ebraico-cristiana. I legami con Bisanzio e con Roma venivano mantenuti, se non altro sotto forma di scontri ideologici e polemiche virulente, ma anche grazie a contatti e apporti di vario genere, dovuti agli innumerevoli prigionieri cristiani provenienti da tutte le parti dell'Impero, dall'Armenia alla Spagna. Alimentata dal suo precedente dinamismo, la produzione teologica sarebbe proseguita con alterne fortune a seconda delle vicende politiche. Nella sua espressione melchita, si sarebbe estinta con Giovanni Damasceno (morto all'incirca nel 748), teologo, filosofo e musicista. In Egitto, le rivolte dei copti e l'anarchia seguita all'ascesa al potere degli abbasidi (750) avevano distrutto la Chiesa. Il patriarcato copto, che all'apice del suo splendore era stato il fiore
all'occhiello del cristianesimo primitivo e il campione della resistenza giacobita, all'inizio del IX secolo era minato dalla miseria, dai debiti e dall'ignoranza, e non era più in grado di mantenere i suoi monasteri, un tempo fiorenti e ora desolatamente fatiscenti, né i suoi stuoli di monaci, una volta così ribelli e ormai dispersi o convertiti. Alessandria, faro della civiltà mediterranea nel V secolo, intorno all'814, dopo reiterate razzie, era ormai ridotta a un borgo cadente, circondato dalle rovine dei suoi monumenti devastati. Allora la cultura giacobita si rifugiò nel Nord della Siria e in Mesopotamia settentrionale, nei monasteri di Antiochia e di Tikrit, mentre la Babilonia restava il feudo dei nestoriani. Tale situazione fu dovuta a una serie di circostanze politiche favorevoli, tra cui in primo luogo la vicinanza alla capitale Baghdad e il controllo esercitato dai banu taghlib, tribù araba di origine cristiana, sul Nord della Siria e della Mesopotamia. Inoltre la prossimità di Co-
Annunciazione (1179-1180) (manoscritto copto n. 13, folio 136 recto, BN).
stantinopoli, e in particolare la riconquista bizantina di Aleppo (962), di Antiochia (969) e della Galilea (972), posero tutte queste regioni sotto il protettorato bizantino; tra il 950 e il 1050, i giacobiti furono perfino incoraggiati a emigrare e a ripopolare le province riconquistate. Infine, gli emiri hamdanidi di Aleppo e i loro successori, i mirdasidi (1023-1038), essendo minacciati a Ovest dai fatimidi egiziani, a Sud dai carmati e a Est dai bizantini, avevano adottato una politica conciliante nei confronti dei cristiani. La corrente culturale islamo-ebraico-cristiana Parallelamente alle correnti teologiche proprie di ogni comunità, si sviluppò un campo di interazione islamo-ebraico-cristiano, integrato in tutti gli aspetti della vita economica, amministrativa, giuridica, politica e culturale. A causa del loro isolamento geografico, i nuovi padroni arabo-musulmani delle popolazioni aramaiche e persiane possedevano un ben misero bagaglio culturale. Occorreva ora elaborare una nuova civiltà a misura degli intrepidi guerrieri che proseguivano la loro corsa al bottino fin nel cuore dell'Europa. E, mentre i nomadi facevano pascolare le greggi nelle città ormai in rovina, attingendo i loro sussidi dai popoli dhimmT, questi ultimi si dedicarono a tale compito, vale a dire a rendere assimilabile da parte degli arabi l'intero patrimonio di conoscenze che avevano generato e al tempo stesso alimentato le loro culture. Zoroastriani, giacobiti (sia copti che siriaci), nestoriani, melchiti ed ebrei tradussero in arabo i trattati di astronomia, di medicina, di alchimia e di filosofia, i testi letterari e novellistici. Ciò richiese tra l'altro la coniazione di termini inediti e l'adeguamento della lingua e della grammatica arabe a nuovi modelli concettuali, non soltanto in ambito filosofico, scientifico e letterario, ma anche in campo amministrativo, economico, politico e diplomatico. È impossibile elencare in questa sede gli innumerevoli artefici di tale processo culturale, e neppure i loro fondamentali contributi in tutti i settori. DhimmT o schiavi che fossero, questi individui, malgrado le vicissitudini politiche e le razzie, contribuirono a preservare e perpetuare il loro patrimonio intellettuale. I centri della loro civiltà, un tempo autentici fari di luce per tutto l'O-
riente, cadevano ormai in rovina, ma ne nascevano altri - Kufa, Damasco, Baghdad, Qayrawan, al-Fustat, Cordova, Siviglia ecc. - , in cui si riversavano i letterati e gli eruditi in fuga dalle città incendiate e dai villaggi devastati, che trasferivano così di luogo in luogo il loro prezioso sapere. La prima opera scientifica redatta in arabo fu un trattato di medicina scritto in greco da Ahrun, un sacerdote cristiano di Alessandria, e tradotto dal siriaco all'arabo nel 683 da Masarjawayh, un medico ebreo di Bassora (Iraq) 10 . In Babilonia, all'epoca dei primi abbasidi, la medicina veniva ancora insegnata in aramaico. Il medico nestoriano Ibn Bakhtishu' (morto nel 771 ca), chiamato a Baghdad da al-Mansur, vi fondò un ospedale di cui divenne direttore il figlio (morto nell'801). Un giacobita, Yuhanna ibn Masawayh (777-857), medico, traduttore e oftalmologo, compilò in lingua araba il primo trattato di oftalmologia. Artisti, architetti e muratori, tutti reclutati nelle file della manodopera locale, accresciuta dai contingenti di prigionieri, contribuirono a perpetuare stili e tecniche. I ricchi temi animalistici, floreali o geometrici propri dell'arte persiana ed ellenistica andarono così a decorare le creazioni omayyadi e abbasidi. La Cupola della Roccia 11 di Gerusalemme, costruita negli anni 687-690, è di concezione ed esecuzione bizantine 12 ; Baghdad fu costruita nel 762 da centomila architetti, operai e artisti fatti venire appositamente dalla Siria e dalla Mesopotamia. Quest'immenso progetto di trasmissione della cultura mediante la sua trasposizione in lingua araba raggiunse il suo apogeo sotto i primi abbasidi, la cui corte, interamente «iranizzata», tentava di riprodurre gli splendori di Cosroe. Fu il periodo delle traduzioni (750-850), incoraggiate da al-Ma'mùn il quale, nell'830, creò una biblioteca che era al tempo stesso un centro di traduzioni (Bayt al-hikma, la Casa della saggezza), in cui varie opere vennero tradotte dal sanscrito, dal persiano, dall'aramaico, dal greco. Fino all'XI secolo l'istruzione statale veniva impartita all'interno di strutture semipubbliche, ma soprattutto nelle moschee, i principali luoghi di trasmissione del sapere, in cui venivano allestite delle biblioteche.
Questo movimento culturale assorbiva gli elementi più brillanti delle comunità, a causa dell'islamizzazione di intellettuali ansiosi di conservare condizioni favorevoli agli studi. Le molle che spingevano gli eruditi dhimml a convertirsi erano molteplici: la possibilità di accedere più facilmente al sapere e di ottenere borse di studio; le manifestazioni di gelosia e di frustrazione dei concorrenti musulmani nei loro confronti; le persecuzioni, le pressioni e le minacce messe in atto dai califfi per ottenere la conversione di sapienti che, in tal modo, avrebbero innalzato il prestigio dell'islam e confermato la sua superiorità rispetto alle civiltà degli infedeli. Tra i convertiti celebri possiamo citare l'astronomo ebreo Sind ibn 'Ali; gli zoroastriani Ibn al-Muqaffa' (morto nel 757) e Bashar ibn Burd (poeta cieco morto nel 783), entrambi giustiziati insieme a migliaia di altre persone nel corso delle persecuzioni contro i persiani; il Mago al-Khwarizmi (780-850 ca); il medico, filosofo e astronomo giacobita 'Ali al-Tabari e il medico nestoriano Hunayn ibn Ishaq (809-873), ambedue «convertiti» dalle persecuzioni di Mutawakkil; e ancora il cristiano Qudama; l'ebreo residente a Baghdad Ya'qub ibn Killls, morto nel 991, che gettò le basi della prosperità dell'Egitto fatimide e fu patrono delle scienze e delle lettere; il geografo greco Yaqut (1179-1229). Questo gruppo di dhimmi islamizzati era rimpinguato da un folto stuolo di schiavi liberati e di prigionieri. Ibn Ishaq, il biografo del Profeta, era il nipote di un cristiano catturato nel 633 da Khalid ibn al-Walid ad Ayn al-Tamr, in Iraq 13 . Abu Harufa, il fondatore della scuola di diritto hanafita morto nel 767, era figlio di uno schiavo zoroastriano; il persiano Ibrahlm al-Mawsili (724-804), il padre della musica classica araba, era stato catturato da bambino a Mossul; Jawhar, che nel 969 assoggettò l'Egitto per conto del fatimide al-Mu'izz, fondò II Cairo ed eresse la moschea di Al-Azhar (972), era uno schiavo cristiano originario di Qayrawan. L'integrazione e la fusione tra i popoli islamico, persiano e cristiano avvenne negli harem colmi di donne etiopi, greche, «franche», armene e slave, come pure alla corte del califfo, circondato da eunuchi, mamelucchi, ghilman e giannizzeri. Le arti e l'architettura ci hanno tramandato il ricordo di masse anonime di pri-
gionieri: mosaicisti greci o «latini» 14 catturati nel corso delle campagne omayyadi e abbasidi, marmisti bizantini esperti in rivestimenti murari, architetti e muratori armeni e «franchi» che apposero il sigillo della loro arte nelle moschee mamelucche. Fino al X secolo, in quelli che un tempo erano i territori aramairi e persiani, vivevano l'uno accanto all'altro popoli di diverse etnie, tuttora legati a un passato non musulmano e ben disposti nei confronti delle loro comunità originarie. Si trattava di società mobili, variegate e «multiculturali», in cui, malgrado i duri colpi inferti dalle persecuzioni, dalle conversioni forzate e dalle migrazioni inarrestabili dei nomadi, i convertiti all'islam non erano ancora la maggioranza. La sovrastruttura neomusulmana (politici, militari, letterati, eruditi) che, dalla Spagna all'Armenia, reggeva questi popoli in perenne trasformazione, annoverava tra i suoi ricordi d'infanzia quelli delle sinagoghe, delle chiese o dei templi buddisti e zoroastriani. Nata dal processo di fusione realizzato dall'islam nel crogiolo della storia, quest'élite diede vita a una nuova civiltà mentre sperimentava da un lato le catene della schiavitù e dell'oppressione, dall'altro gli agi del potere e i benefici di una collaborazione in cui diede il meglio di sé. Tre secoli dopo le prime invasioni arabe, il declino del cristianesimo era particolarmente evidente in Nord Africa, dove le 500 diocesi originarie si erano ridotte a ima quarantina. Benché dissanguato dalla tratta degli schiavi, il regno di Nubia sarebbe rimasto cristiano sino alla fine del XIV secolo. Le zone rurali dell'Egitto, della Siria e del Nord dell'Iraq erano ancora popolate in prevalenza da cristiani. Tuttavia si intravedevano già le tracce degli inesorabili sviluppi futuri: tracce impossibili da distinguere nell'arco di una vita umana, e inoltre né regolari né uniformi, ma diverse da regione a regione a seconda delle congiunture storiche e della posizione geografica. Gli storici ritengono che il periodo culminante del processo di penetrazione delle tribù dedite alla pastorizia e al nomadismo sia stato quello compreso tra il 950 e il 1050. Già in atto fin dall'epoca preislamica, tale processo si intensificò con la conquista araba, benché i califfi, spalleggiati dagli indigeni convertiti, tentassero di con-
tenerlo. Ma le dinamiche che avevano condotto alla nascita dell'Impero musulmano, fondato su milizie di schiavi di cui il califfo era di fatto ostaggio, corruppero il potere e accelerarono un'evoluzione politica e demografica che, in costante progressione nelle province eccentriche e rurali, si concluse nell'XI secolo con la conquista delle città. Con l'apparizione di nuove tribù nomadi islamizzate originarie dell'Asia - i buwayhidi, i selgiuchidi, i turkmeni - , gli stessi cicli, lenti e discontinui, di impercettibili trasformazioni, si ripeterono in Anatolia, e in seguito nell'Europa sud-orientale. In Mesopotamia, dopo la caduta dei mongoli e le devastazioni compiute da Tamerlano (1400-1405), i centri nestoriani e giacobiti di Tìkrit, Amid, Mardin, Arbil, Mossul e Tur Abdin furono distrutti. Sotto la guida di cortigiani, mercanti e prelati, i popoli dhimmT perpetuarono una cultura condannata all'emarginazione e al declino, poiché, in connessione con questo processo di stagnazione e di progressivo inaridimento, si affermò una dinamica che avrebbe condotto al sorgere di un'altra civiltà. La cultura dhimmT, «tradotta» in nuovi schemi concettuali, permise all'islam di edificare la sua grandezza sulle fondamenta elaborate dalle élite dei vinti prima di sparire nel dispregio e nell'oblio. Perciò questi tre secoli di simbiosi e di «età dell'oro» sembrano il canto del cigno di una splendida fase della storia umana.
La sindrome «dhimmT» In ogni società le disuguaglianze e i pregiudizi danno luogo a comportamenti particolari, e le società dhimmT non sfuggono a questa regola generale. Tuttavia, poiché l'analisi dei condizionamenti psicologici in atto nei gruppi attiene più propriamente alla sfera della psicosociologia 1 5 , qui ci limiteremo a citare un'unica sindrome, specificamente connessa al nostro tema. La sindrome dhimmT è un insieme di atteggiamenti mentali e di comportamenti legati alla dhimmitudine e comuni a diversi gruppi, che li esprimono con maggiore o minor intensità a seconda delle circostanze.
Gli elementi fondamentali di tale sindrome consistono negli effetti psicologici congiunti della vulnerabilità e dell'umiliazione. Ridotto, nei casi più estremi, a una sopravvivenza precaria il cui valore dipende dal denaro, il dhimmi si percepisce e si riconosce come un essere umano svalutato. I rapporti asimmetrici: oppressione/gratitudine E evidente che tutti i rapporti tra vincitori e vinti sono asimmetrici. Talvolta l'asimmetria si attenua e viene meno in seguito alla fusione dei due gruppi. Tuttavia, se è radicata nella religione, diviene duratura. Nel nostro caso, l'asimmetria che connota ogni aspetto delle relazioni sociali dà luogo a condizionamenti psicologici analoghi a quelli rintracciabili in altre società coeve, ossia medievali. La dhimmitudine possiede però due tratti peculiari. In primo luogo il «diritto di protezione» pagato dal vinto non è un'imposta qualsiasi: esso implica la riduzione dei suoi diritti umani a una somma di denaro, il cui pagamento è per giunta accompagnato da una serie di umiliazioni. Ne consegue che non solo la sua vita si configura come un bene monetizzabile, ma, dal momento che egli è ritenuto spregevole, il potere che lo risparmia risulta essere tanto più magnanimo. Un altro fondamentale elemento di disumanizzazione discende dal diritto inalienabile del vincitore sulla vita del vinto. Comprensibile nel fervore del combattimento, tale diritto, incorporato nello statuto giuridico del dhimmi, si perpetua di generazione in generazione anche in tempo di pace. Ancora nel XIX secolo le tribù curde e turche estorcevano ai villaggi giacobiti siriaci e armeni della Piccola Armenia (Cilicia, Iraq settentrionale) una serie di «diritti di protezione», senza con ciò escludere il prelevamento arbitrario di somme di denaro o l'obbligo di sottoporsi a periodiche corvè. In cambio di diverse prestazioni, i monasteri ottenevano la protezione da queste tribù, che si astenevano dal saccheggiarli. In un simile scenario, invitabilmente, la sicurezza e i diritti fondamentali delle persone non sono prerogative inalienabili, ma il frutto di un rapporto di protezione da un ambiente ostile, costantemente rinnovato con il denaro e la sottomissione. Per que-
sto il dhimmi, il quale, come l'ostaggio, si muove in un contesto di vulnerabilità che distrugge la nozione di diritto, è condannato a stillare un'intima gratitudine per la tolleranza che gli viene magnanimamente accordata. La dhimma è pertanto incompatibile con la moderna concezione dei diritti umani, intesi come prerogative inalienabili e uguali per tutti.
Manovrabilità del «dhimmi» Sono molti i fattori che contribuiscono a creare un terreno propizio alla manipolazione dei gruppi o dei singoli. Tra gli altri possiamo citare la vulnerabilità, i condizionamenti psicologici, la corruzione e la perdita di identità o amnesia storica. La vulnerabilità è intrinsecamente connessa alla dhimmitudine per il fatto che il dhimmi, sconfitto in guerra e inerme, è costretto a riscattare continuamente la sua vita. Inoltre, il diritto dell'autorità islamica a ratificare la nomina dei leader spirituali delle comunità dhimmi le consente di intervenire in questa scelta nel m o d o più conveniente ai suoi interessi, di imporre il proprio candidato e di aggravare le scissioni di natura venale che corrompono le istituzioni. In tal m o d o la moralità e il livello culturale delle comunità si degradano, poiché al disprezzo dell'ambiente estemo si aggiunge il discredito intemo. Sulla vulnerabilità si innesta il condizionamento ideologico, di cui il caso dei giannizzeri fornisce l'esempio più perfetto. Costoro - in origine bambini cristiani rapiti in tenera età nel corso dei raid o reclutati a quote fisse sotto forma di quinto del bottino di guerra o di devshirme - venivano anzitutto ridotti in schiavitù e convertiti all'isiàm. Poi, dopo essere stati sottoposti a un'intensa educazione militare e religiosa, costituivano le truppe d'élite dell'Impero musulmano. Strumenti ciechi e fanatici del sultano, essi finivano per divenire i persecutori più crudeli dei cristiani, che venivano così combattuti dai loro stessi figli. La dhimmitudine integrale, giunta alla sua perfezione, si incarna nel giannizzero.
Il successo di questa strumentalizzazione poggiava su due fattori: l'estrema vulnerabilità del bambino, strappato alla famiglia e completamente dipendente, per le sue esigenze, dai padroni musulmani, e il totale sradicamento dal passato e dai legami familiari. Su questa spersonalizzazione dell'anima infantile e su questa destrutturazione identitaria si fondava il carattere, spesso così crudele, del giannizzero o del mamelucco. Soldati senza passato e senza famiglia, condannati al celibato obbligatorio, i giannizzeri incarnavano una sorta di robotizzazione del materiale umano, integrato in una macchina da guerra. Quanto alla corruzione, essa permise di comprare la collaborazione dei leader dhimmt nel periodo in cui i loro popoli, essendo ancora in maggioranza, dovevano essere trattati con riguardo. È quindi comprensibile che la «conquista dei cuori» 16 fosse annoverata nel repertorio delle strategie militari del jihad. La corruzione - non si potrà mai sottolinearlo abbastanza - ebbe un ruolo decisivo nel declino delle popolazioni vinte. Il fascino delle ricchezze derivanti dalla gestione delle entrate fiscali trasformò i loro leader in convinti membri dell'establishment. La promessa di un patriarcato a un dissidente ambizioso, il trasferimento a una comunità religiosa della proprietà di una chiesa o di un monastero appartenenti a ima setta rivale, la protezione dei suoi edifici di culto in cambio di una delazione o del rifiuto della politica unionista di Bisanzio o di Roma, costituivano altrettanti mezzi di pressione esercitati sui dhimmì, per non parlare delle minacce di rappresaglie a loro carico. Una cronaca redatta dalla comunità ebraica di Fes (Marocco), risalente al 1648, descrive le dispute continue tra i notabili per ottenere dal sultano il titolo di nagid (capo della comunità). I concorrenti facevano a gara a chi offriva di più sul piano fiscale, attingendo a piene mani ai fondi di una collettività che, così facendo, mandavano in rovina. Perciò «la comunità decise di sopprimere tale carica, ma dovette ritornare sulla sua decisione poiché non si poteva fare a meno di questa figura a causa dell'oppressore» '7. Una corruzione analoga regnava nelle comunità cristiane.
Ancora in tempi relativamente recenti, il jihad antisionista e la guerra in Libano 1 8 ci hanno riportato alla mente questi aspetti, che da sempre appartengono alla storia della dhimmitudine. In particolare, i conflitti intercristiani che hanno insanguinato il Libano hanno evidenziato le rivalità tra i vari leader, che in un clim a di disunione perseguivano ima politica da notabili dhimmi. La frammentazione della cristianità libanese ricalca le fratture presenti in seno all'intera cristianità orientale e fa seguito alle spaccature che, in epoca prearaba, dilaniavano le Chiese, le sette, le etnie. Tali fratture, cristallizzate nella dhimmitudine, si perpetuarono all'interno di gruppi che, simili a particelle alla deriva nella massa islamica, andarono gradualmente polverizzandosi nel corso dei secoli in seguito all'accelerazione di alcuni processi complementari: lo sradicamento dei contadini dhimmi, l'urbanizzazione e le conversioni. La parcellizzazione dei gruppi vinti e il proliferare di dissensi al loro interno ne accentuò la vulnerabilità, la malleabilità e la disponibilità a essere strumentalizzati. Esclusione e occultamento della storia La sfera della dhimmitudine, per il fatto che interessa intere collettività umane, deborda dall'ambito dell'esistenza individuale e abbraccia tutte le manifestazioni culturali proprie di una comunità. Generalmente l'identità collettiva di un gruppo si costruisce grazie a una coscienza storica costituita da una serie di punti di riferimento saldamente ancorati nello spazio e nel tempo. Sono questi punti di riferimento che permettono al gruppo di situarsi nel mondo e di realizzare la sua coesione nel corso dei secoli. Sul piano collettivo, la condizione dhimmi è accompagnata dalla distruzione della cultura e della storia del gruppo. Ciò è il risultato dell'usurpazione e dell'appropriazione del passato dei popoli vinti da parte dei vincitori, eredi legittimi delle civiltà edificate sui territori da essi conquistati. Questa reticenza sul passato dei dhimmi non è casuale: essa corrisponde all'intento di cancellare la loro storia. L'annientamento di una collettività implica infatti il passaggio della sua eredità culturale - umanistica, scien-
Armeni fucilati in un campo, Ankara, 1915 (foto conservata al Museo armeno di Gerusalemme).
tifica, artistica - al gruppo dominante. All'imperialismo territoriale si accompagna quello intellettuale: la cultura, in mano al potere, diviene un ulteriore strumento di oppressione e di alienazione. Tutte le manifestazioni culturali sono infatti monopolio della umma: le lingue dhimml sono bandite e relegate alla sfera liturgica, e i loro monumenti, testimoni della grandezza delle loro civiltà, vengono distrutti o riadattati in funzione delle esigenze islamiche. In nessun campo l'infedele può prevalere sul musulmano, confortato fin dall'inizio della conquista dal dogma teologico della sua superiorità. Quest'arrogante convincimento non solo contribuì a far ripiegare su se stesso il dar al-islam, che disprezzava l'intera cultura del dar al-harb, ma si manifestò sotto forma di intolleranza intellettuale nei confronti dei dhimmT, i quali, a prescindere dai loro meriti passati, si videro invariabilmente bollati dal marchio del disprezzo. Per giunta, le insostituibili competenze e le superiori qualifiche di alcuni di loro, essendo motivo di umiliazione per quanti li circondavano, li costrinsero a convertirsi. L'islamizzazione della cultura implica l'islamizzazione della geografia, fenomeno insito in tutte le conquiste. Spesso le città
Giannizzero (1720) («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d. ).
perdono i loro nomi originari: così l'armena Amida diventa Diyarbakir, Costantinopoli Istanbul e Gerusalemme al-Quds, mentre Hebron è arabizzata in al-Khalll. Gli esempi, presenti in tutto il dar al-islam, potrebbero proseguire all'infinito, ed è curioso constatare come le cronache delle comunità ebraiche e cristiane continuino a fare riferimento ai toponimi originari, come se la storia nazionale, per nulla intaccata dall'islamizzazione dei territori, proseguisse sommessamente nei suoi ancestrali punti di riferimento geografici. L'occultamento della storia dei vinti deriva dal silenzio e dal divieto di critica imposti ai suoi protagonisti. In effetti, il rifiuto di accettare la testimonianza di un dhimmì contro un musulmano dà luogo a un ben preciso comportamento ed è indicativo della psicologia dei due gruppi. I dhimmì, spogliati dei loro mezzi di difesa, vengono a trovarsi nella condizione di ostaggi in balia di accuse gratuite. Questa perenne, umiliante vulnerabilità è fonte di servilismo, piaggeria e corruzione. Dopo l'emancipazione, i consoli europei toccarono con mano il timore dei dhimmì di far valere i loro diritti. Il fatto è che la loro «arroganza» era spesso punita con il ricatto e l'omicidio. Nel gruppo dominante, il rifiuto della testimonianza - conseguente alla soppressione della parola, segno distintivo dell'essere umano - esprime la negazione di un diritto. Questa parola mutilata, questa testimonianza rifiutata si traspone dal piano individuale a quello collettivo e si perpetua nei secoli. Infatti, se è vero che la storia di un popolo è la prova della sua esistenza nel tempo e il fondamento dei suoi diritti, occultarla equivale a sopprimere i diritti di quel popolo. La versione ufficiale della storia diventa allora un'epopea monocorde, che prolunga il meccanismo di cancellazione e di esclusione dei popoli dhimmì. Questo fenomeno di occultamento - che Vidiadhar Surajprasad Naipaul ha definito «uccidere la storia» 19 - prosegue anche ai giorni nostri.
'Abd al-Rahmàn ibn Muhammad ibn Khaldûn, Prolégomènes, trad, dall'arabo di William Mac Guckin de Slane, 3 voli., Imprimerie Impériale, Paris 1862-1868 (Geuthner, Paris 1934-1938), vol. 1, p. 469 (ed. ingl. The Muqaddimah. An Introduction to History, trad, di Franz Rosenthal, 3 voli., Routledge & Kegan, London 1967, vol. 1, p. 183 [ed. on line http://classiques.uqac.ca/classiques/Ibn_Khaldoun/Ibn_Khaldoun.html, N.d.T.]). 2 Paul Wittek in Victor-Louis Ménage (a cura di), La formation de l'Empire ottoman, Variorum Reprints, London 1982 (ed. orig. The Rise of the Ottoman Empire, The Royal Asiatic Society, London 1938), vol. 2, pp. 2-33. ' P e r la nozione di «sopruso» ÇawSrid) o imposta irregolare, cfr. cap. 3 [N.d.T.]. l
Aryeh Shmuelevitz, The Jews of the Ottoman Empire in the Late Fifteenth and the Sixteenth Centuries: Administrative, Economic, Legal and Social Relations as Reflected in the Responsa, Brill, Leyden 1984; per il coordinamento tra le legislazioni, vedi cap. 2. 4
L'ambiguità del ruolo dei leader, sia laici che religiosi, delle comunità non islamiche, non è stata finora oggetto di alcuno studio specifico. Tuttavia si troveranno informazioni relative all'Andalusia in Évariste Lévi-Provençal, Histoire de l'Espagne musulmane, 3 voli., Maisonneuve-Larose, Paris 1999 (1950-1953'); Eliyahu Ashtor, The Jews of Moslem Spain, 3 voli., Jewish Publications Society of America, Philadelphia 1973-1984 (Varda Books, Judaic Digital Library, 2004); sugli armeni nel XVIII e XIX secolo esiste un interessante saggio di Hagop Barsoumian, The Dual Role of the Armenian Amira Class within the Ottoman Government and the Armenian Millet (17501850), in Benjamin Braude, Bernard Lewis (a cura di), Christians and Jews in the Ottoman Empire: The Functioning of a Plural Society, 2 voli., Holmes & Meier, New York-London 1982, vol. 1, pp. 171-184; Apostolos Euangelou Vakalopoulos, The Greek Nation, 1453-1669: The Cultural and Economic Background of Modern Greek Society, Rutgers University Press, New Brunswick (USA) 1976 (ed. orig. Tourkokratia 1453-1669: Hoi historikes baseis tes neoellenikes koinonias kai oikonomias, in Historia tou neou Hellenismou, 6 voli., Thessaloniki 1961-1982), vol. 2, pp. 31-45. Ulteriori informazioni possono essere reperite nelle cronache delle comunità, e, per la Turchia nel XIX secolo, in Jean Henri Abdolonyme Ubicini, Lettres sur la Turquie ou tableau statistique, religieux, politique, administratif, militaire, etc de l'empire ottoman, 2 voli., Librairie Militaire de J. Dumaine, Paris 1853-54 (ed. orig. Lettere sulla Turchia o quadro statistico, religioso, politico, amministrativo, militare ecc. dell'impero ottomano, Ufficio del Cosmorama Pittorico, Milano 1853). "Ubicini, Lettres sur la Turquie cit., vol. 2, p. 347. 5
Jacob Mann, The Jews in Egypt and Palestine under the Fatimid Caliphs, 2 voli., Oxford University Press, Oxford 1969 (1920-1922'), vol. 1, p. 13. * Shlomo Dov Goitein, A Mediterranean Society: The Jewish Communities of the Arab World as Portrayed in the Documents of the Cairo Geniza, 6 voli., University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1971 (ed. it. Una società mediterranea, compendio in un volume a cura di Jacob Lassner, Bompiani, Milano 2008), vol. 1, pp. 30-57. Vedi anche Id., Changes in the Middle East (950-1159) as Illustrated by the Documents of the Cairo Geniza, in Donald Sidney Richards (a cura di), Islamic Civilization, 950-1150: A Colloquium Published under the Auspices of the Near Eastern History Group, Papers on Islamic History, Cassirer, Oxford 1973, pp. 17-32. 7
' Moshe ben Maimon, più noto in Italia come Mosè Maimonide, fu un filosofo, rabbino e medico spagnolo di origine ebraica. Nato nel 1138 a Cordova, quando nel 1148 la città fu conquistata dagli almohadi fu costretto a spostarsi con la famiglia prima nel Sud della Spagna, poi a Fes, in Marocco, e infine, toccando Acri, Hebron e Gerusalemme, ad al-Fustat, primitivo nucleo urbano da cui nel X secolo era sorta II Cairo. Qui potè dedicarsi con successo agli studi filosofici, teologici e medici. Nel 1171 assunse il ruolo di nàgid (capo) della locale comunità ebraica. Nel 1185 circa divenne il medico personale del visir dell'Egitto. Morì nel 1204 [N.d.T.]. 10 Philip Khuri Hitti, History of the Arabs, MacMillan-St. Martin's Press, London-New York 1968 (Macmillan, London 1937', 10 a ed. Palgrave Macmillan, London 2002; ed. it. Storia degli Arabi, trad, di Paola Attendoli, La Nuova Italia, Firenze 1966), p. 225 e cap. 21. Come ho già precisato nell'introduzione, il considerevole apporto degli zoroastriani in ambito letterario, scientifico, teologico, che contribuì in modo determinante a plasmare la civiltà islamica, non viene menzionato in questo lavoro. Vedi anche Erwin Isak Jacob Rosenthal, Studia Semitica, 2 voli., Cambridge University Press, Cambridge 1971, voi. 2, Islamic Themes. 11 La Cupola della Roccia è un edificio sacro di struttura ottagonale sormontato da un'enorme cupola dorata, che sorge a Gerusalemme sulla roccia sacra da cui, secondo la tradizione islamica, Maometto ascese al cielo. Fu costruita verso la fine del VII secolo dal califfo 'Abd al-Malik nel tentativo di superare in splendore le chiese cristiane della regione. Essa rimane ancor oggi il simbolo architettonico della città, per il fatto che la sua cupola dorata si staglia su tutte le altre costruzioni di Gerusalemme [N.d.T.]. 12 Aleksandr A. Vasil'ev, History of the Byzantine Empire, 2 voli., University of Wisconsin Press, Madison 1928-1929, vol. 1, p. 284.
"Hitti, History ofthe Arabs cit., p. 388. " Per il significato dei termini «franco» e «latino» in questo contesto, cfr. cap. 7, nota 14 [N.d.T.]. L'opera di Laurence D. Loeb [Outcaste: Jewish Life in Southern Iran, Gordon & Breach, New York 1977, N.d.T.] è dedicata appunto all'analisi di questo tema all'interno della comunità ebraica di Shiraz. In fatto di condizionamento mentale, si può citare il seguente episodio: dopo i ripetuti esodi e tragedie abbattutisi sulle comunità giacobite dell'Iraq nel corso della prima guerra mondiale, i leader di tali comunità chiesero di potersi esprimere in occasione della conferenza di pace che si tenne a Parigi (1919), e il vescovo giacobita di Siria Ignazio Afram I Barsoum, futuro patriarca, si unì alla delegazione. Durante una sessione, egli si sorprese a difendere i diritti degli arabi anziché quelli della sua comunità, suscitando gli applausi dei delegati arabi, che lo chiamarono «il vescovo dell'arabismo» (cfr. John Joseph, Muslim-Christian Relations and Inter-Christian Rivalries in the Middle East, Suny Press, New York 1983, p. 101); lo stesso vescovo scrisse al gran visir per elogiare la legge islamica e accusare gli armeni di aver massacrato e saccheggiato la sua comunità (27 aprile 1896); inoltre scrisse alla regina Vittoria celebrando la protezione dei turchi (Ivi, pp. 92-93). E evidente che testimonianze di questo tipo erano motivate dalla paura e dall'insicurezza. Esse costellano l'intera storia della dhimmitudine fino ai giorni nostri, e, proprio come le dichiarazioni degli odierni ostaggi, non costituiscono documenti credibili. 15
"Per la nozione di «conquista del cuore» (ta'llf al-qulub), cfr. cap. 1, par. «Il jihad: dogma e strategie» [N.d.T.]. "Georges Vajda, Un recueil de textes historiques judéo-marocains, «Hespéris», n. 12,1951, p. 47. Per la Bulgaria cfr. Iono Mitev, Le peuple bulgare sous la domination ottomane (1396-1878) in Ivan Dujiev et al., Histoire de la Bulgarie dès origines à nos jours, Horvath, Roanne 1977, p. 252. "Qui l'autrice fa riferimento al conflitto libanese scoppiato nel 1982 e conclusosi nel 1990, caratterizzato appunto da violenti scontri tra fazioni cristiane [N.d.T.]. " Vidiadhar Surajprasad Naipaul, Crépuscule sur l'islam: voyage au pays des croyants, Paris 1981, voi. 2, cap. 4, «Uccidere la storia», pp. 144-155 [ed. orig. Among the Believers: An Islamic Journey, André Deutsch, London 1981 (Picador, London 2001), trad. it. Tra i credenti: un viaggio nell'Islam, Rizzoli, Milano 1983].
Capitolo 10 Conclusioni
Questo capitolo si limiterà a esaminare alcuni argomenti tipici della controversia relativa alla condizione del dhimmi. In primo luogo è necessario riconoscere che la dhimmitudine mette a confronto due concezioni irriducibili. La prima, che appartiene alla dimensione teologica, invoca la presenza di una volontà divina incarnata negli scopi e nei metodi del jihad. Jihad e dhimma, in quanto emanazioni della volontà di Allah, sono corredati di attributi divini - immutabilità, perfezione, giustizia, infallibilità - che fanno di entrambi dei sistemi perfetti, i quali non ammettono alcuna critica. La sottomissione dei cristiani e degli ebrei alla legge islamica, conforme alla volontà divina, si realizza nella perfezione della dhimma, e qualunque critica al jihad e alla dhimma, che pure si collocano sul piano temporale, è considerata un sacrilegio a causa dell'inscindibile unione tra quest'ultimo e la sfera spirituale. La seconda concezione è quella che inquadra il jihad nel più ampio contesto delle guerre ordinarie, alle quali può essere accostato in base a criteri fondati su argomenti razionali e non sulla fede. Procedendo da una conquista che, secondo questa concezione, non è né giusta né santa, la dhimma non è che un sistema politico, e in quanto tale per certi aspetti evoca, o differisce da, altre forme di governo. Questa realtà storica può pertanto essere esaminata in tutti i suoi aspetti, elogiata o criticata, paragonata in termini favorevoli o sfavorevoli ad altri contesti bellici e politici, senza chiamare in causa considerazioni di ordine teologico. Que-
sta visione è conforme all'approccio critico di tipo razionalistico proprio delle discipline storiche occidentali. Il dibattito non nasce dal confronto tra queste due concezioni, di natura sostanzialmente diversa e pertanto incomparabili. Nasce da divergenze all'interno dello «schieramento» razionalistico, i cui principali e più controversi argomenti saranno raggruppati in base a diversi temi. In linea di massima i fatti sono noti. I cronisti, musulmani e non, hanno ampiamente riferito e commentato una serie di informazioni la cui convergenza attesta, nei limiti della credibilità storica, le date e gli eventi relativi al jihad e alla dhimma. Il problema sta nella definizione dei termini, nell'interpretazione dei fatti e nel giudizio di valore formulato sulla dhimma. I popoli vinti, nel momento in cui entrano nella dhimmitudine, sono gruppi etnici, oltre che religiosi, o semplici minoranze religiose prive di caratteri nazionali (ossia di una lingua, una storia e una cultura comune)? La dhimma è un trattato scaturito da una guerra, rinnovato di anno in anno dal vincitore unilateralmente in cambio degli obblighi imposti ai vinti, o uno status che accorda a chi ne gode eccezionali privilegi? E in confronto ad altri, questo sistema è spietato e crudele o, al contrario, particolarmente tollerante?
Popoli vinti o minoranze religiose tollerate? L'espressione «minoranze religiose protette» o «tollerate» è una definizione appropriata dello status dei popoli dhimmt? In primo luogo, i termini «protetto» e «tollerato» hanno significati diversi; inoltre, usati separatamente sono incompleti, in quanto i dhimtni erano al tempo stesso «protetti» e «tollerati». Ma l'equivoco, oltre che in questi due aggettivi, si annida nei termini «minoranza» e «religione». Nei territori conquistati con il jihad - in pratica tutti i paesi musulmani tranne l'Arabia - le Genti del Libro erano in netta superiorità numerica sia rispetto agli arabi che diedero vita alla prima ondata di islamizzazione, sia rispetto ai turchi artefici della
seconda. I processi, poco noti e complessi, che trasformarono queste maggioranze in minoranze, durarono, si presume, circa tre o quattro secoli per ciascuna ondata di islamizzazione. L'espressione «minoranze religiose», che sintetizza drasticamente un processo storico durato per secoli, di fatto ne stravolge il senso, indicando come punto di partenza quello che è invece il suo risultato (la condizione minoritaria). Questa lettura arbitraria, che cancella con un tratto di penna una fase essenziale in cui si compirono cambiamenti irreversibili, occulta la dimensione politica della dhimmitudine, riducendola esclusivamente a uno status minoritario di tipo religioso. Inoltre la formula appare inadeguata per alcune regioni, come i Balcani, in cui i non musulmani rimasero in maggioranza sino al XIX secolo; furono le circostanze della conquista, unite alle leggi da cui erano retti, a farli ugualmente rientrare nella categoria di dhimmt. Pertanto il fatto di appartenere a ima «maggioranza» o a una «minoranza» non è l'elemento determinante e necessario per la nascita della dhimmitudine, ma un suo aspetto contingente, e quindi non basta per definire in modo esaustivo questo fenomeno politico. Oggi designare come ex «minoranze religiose tollerate» popoli quali i romani, gli slavi, i greci e gli ebrei suonerebbe assurdo. Analogamente, l'espressione stereotipata «cittadini di seconda classe» non significa nulla, anzitutto perché i dhimmi non erano cittadini, e poi perché il termine «seconda classe» è privo del substrato storico e giuridico della dhimma.
Carattere politico della dhimmitudine La correlazione tra diritto territoriale e guerra determina lo status degli edifici di culto delle popolazioni indigene. Tale correlazione genera, dalla Mesopotamia all'Andalusia, perenni discussioni sulla legittimità delle chiese e delle sinagoghe, il cui status è dibattuto dai giureconsulti in base alle modalità di una conquista avvenuta secoli prima. Il fatto di appurare, ad esempio, se l'Egitto o una determinata città siano stati conquistati a seguito
di una resa o mediante le armi riveste un'importanza capitale, poiché sancisce una volta per tutte i diritti dei dhimmi. Ed è appunto la loro condizione di popoli vinti, perpetuata dalla dhimmitudine, a motivare i numerosi riferimenti ai documenti di resa - autentici o fittizi - risalenti all'epoca delle conquiste, i quali specificavano i diritti e le garanzie che le parti in causa cercavano di difendere o di impugnare. Religiosamente custoditi nei più intimi recessi delle sinagoghe, dei monasteri, delle chiese, questi documenti erano spesso gli unici, pietosi baluardi rimasti ai dhimtriì per sottrarre alla distruzione le ultime vestigia della loro civiltà. Nell'Impero ottomano questa legislazione di tipo territoriale, scaturita dalla conquista, fu abolita soltanto con la promulgazione delle nuove leggi sui diritti della persona e della proprietà introdotte dal tanzlmdt e dal Hatt-i Humàyun del 18 febbraio 1856. Il devshirme, ovvero il prelevamento di un quinto della popolazione cristiana dei Balcani, e in seguito dell'Anatolia (greci e armeni compresi), è un ulteriore elemento del quadro politico-militare della dhimmitudine. Esso perpetua il diritto di conquista che autorizzava i vincitori a prelevare un quinto del bottino umano fra i vinti, i cui discendenti erano quindi ritenuti prigionieri per sempre.
Il problema della tolleranza La tolleranza islamica nei riguardi delle religioni cristiana ed ebraica può essere indagata in rapporto a due ambiti: quello teologico, che trova espressione nella dottrina coranica, e quello politico, che si traduce nel dominio esercitato sulle Genti del Libro. Benché queste due sfere siano interdipendenti - come emerge in particolare dal versetto IX,29, che lega l'ingiunzione religiosa al contesto politico - tuttavia tra esse esistono notevoli differenze. Infatti, mentre sul piano teologico la dottrina ufficiale dell'islam nei confronti delle altre religioni fu codificata una volta per tutte nei testi sacri, le leggi che sancivano lo status politico degli ebrei e dei cristiani furono elaborate gradualmente nel corso dei secoli
successivi alla morte del Profeta, e fondate sulle interpretazioni posteriori del Corano e degli hadith, nonché sull'islamizzazione di pratiche preesistenti, introdotte nella religione musulmana dai convertiti. Qui ci limiteremo a esaminare l'ambito politico, osservando innanzitutto che il termine «tolleranza» è improprio in quanto è equivoco. La tolleranza in ambito politico La politica esercitata dal governo islamico nei confronti delle Genti del Libro varia a seconda che ci troviamo nel Hijaz, la culla della civiltà musulmana, o nel dar al-harb, la terra degli infedeli e del bottino. Nel primo regna incontrastato l'islam: le Genti scritturali indigene sono di fatto esuli e i pagani vivono sotto il giogo della spada o delle conversioni forzate. Nel dar al-harb, il territorio della guerra e degli infedeli, le religioni monoteiste dei popoli indigeni, che sono numericamente superiori, sono tollerate, m a soltanto nel quadro della dhimmitudine. Questa netta distinzione tra «terra degli arabi» e «terra della guerra e degli infedeli» si esprime a livello politico, religioso e fiscale. La tolleranza si misura in base al grado di costrizione esercitato da un gruppo su un altro. Quindi essa nasce sempre in un contesto di disuguaglianza. Il giudizio che attribuisce una valenza etica a questo rapporto disuguale si fonda su un'implicita giustificazione dell'uso della forza (etichettata come benevola), che scaturisce dalla svalutazione della vittima: è infatti l'intrinseca perversità di quest'ultima a conferire valore alla tolleranza del gruppo dominante. Se invece - come attestano tutte le guerre e le invasioni che nel tempo hanno sconvolto il pianeta - il rapporto di disuguaglianza generato dalla violenza e dalla guerra si configura come un'ingiustizia, la valenza etica della tolleranza viene meno. Nel formulare un giudizio di merito su un sistema politico occorre innanzitutto definire i criteri di valutazione a cui ci si attiene. Bisogna giudicarlo sulla base dei dogmi, peraltro soggetti a molteplici interpretazioni, o dei fatti storici, a loro volta costituiti
da elementi complessi, contingenti e transitori? E, ammesso che sia possibile stabilire i criteri della tolleranza, si può parlare di tolleranza relativa, ossia limitata a un solo popolo, o anche a più popoli? Tolleranza relativa o tolleranza assoluta? Il problema dei criteri di tolleranza relativa o assoluta è tipico degli imperi multinazionali o multiconfessionali. Nel contesto della dhimmitudine, esso consiste nel determinare il carattere e le cause di ima tolleranza selettiva anziché uguale per tutti. Ad esempio, come si conciliano con il concetto di tolleranza da una parte l'accoglienza riservata dall'Impero ottomano agli ebrei cacciati dalla Spagna, dall'altra i massacri, le deportazioni, le conversioni forzate, le riduzioni in schiavitù e il devshirme, messi in atto dagli stessi ottomani a danno di altri popoli? La medesima ambivalenza si manifesta nei secoli XVIII e XIX, in cui coesistono simultaneamente la crescente potenza economica dei grandi funzionari statali greci e armeni e gli eccidi delle popolazioni greche e slave che si ribellavano alla dhimma. Come far rientrare nella stessa etichetta di «tolleranza islamica» il genocidio degli armeni? L'ambiguità nasce dal circoscrivere una situazione storica estremamente complessa entro gli angusti limiti di un giudizio di valore: quello sulla tolleranza. Eppure la dhimmitudine abbraccia situazioni contrastanti nell'arco di uno stesso periodo, come pure fasi evolutive determinate da motivi contingenti e transitori, che investono simultaneamente più piani. Ad esempio, gli ebrei vennero accolti da Bayazid II perché, nell'Anatolia spopolata del XV secolo, essi costituivano una forza lavoro importante per lo sviluppo economico, ma due generazioni dopo la loro stella tramontò a favore dei greci e degli armeni. In questo immenso affresco storico, il concetto di tolleranza perde consistenza, e appare come un semplice vocabolo coniato dagli occidentali nel XIX secolo in funzione dei loro obiettivi politici: la conservazione dell'Impero ottomano o la politica di appeasement nei confronti degli arabi. Liberata dalla trappola oziosa della tolleranza e delle discussioni sui suoi gradi e le sue sfumature - tanto speciose quanto i
paragoni tra Oriente e Occidente - la dhimmitudine ritrova il suo autentico contesto politico. È infatti in questo stampo che essa fu concepita, razionalizzata, fissata nei dogmi, nelle regole e nelle leggi. Progetto religioso inscritto nei testi fondanti, destinato a realizzarsi sulla Terra tramite istituzioni politiche e giuridiche, la dhimmitudine è la storia dei popoli le cui trasformazioni preparano il compimento terreno di questo progetto. Il suo ambito abbraccia la geografia (importanza della topografia), la sociologia (conflitti religiosi e culturali), gli specifici tratti dei diversi popoli dhimmT, le loro interazioni ostili o pacifiche e il gioco delle politiche e degli influssi esterni. Situata nel campo mobile dei meccanismi militari, politici, ideologici ed economici che regolano le società umane, la vicenda dei popoli dhimmT si libera da etichette moralizzanti nonché sclerotizzanti, ed entra finalmente nella storia. Nel suo saggio sulla geografia umana della Penisola Balcanica, con l'ausilio di numerose cartine e schizzi, Jovan Cvijic analizza l'area della dhimmitudine - da lui definita l'area dei raya sulla base della topografia, del clima, della vegetazione, delle manifestazioni sociologiche, del folklore, della cultura, perfino dell'architettura, e degli stili di vita. Le sue ricerche sul campo dopo il ritiro dei turchi e le inchieste da lui effettuate presso gli anziani dei villaggi contribuiscono a farci conoscere strutture destinate a scomparire per effetto della modernizzazione.
La corrente storica
globalizzate
Per «corrente g l o b a l i z z a t e » intendo la scuola di pensiero secondo la quale le «minoranze religiose tollerate» avrebbero beneficiato di uno status privilegiato che attesterebbe la tolleranza religiosa islamica. Questa affermazione chiama simultaneamente in causa tre livelli di riflessione: quello temporale (l'analisi politica), quello teologico (il ruolo dell'islam) e quello dei giudizi di valore (la valutazione critica della tolleranza). La corrente g l o b a l i z z a t e presuppone implicitamente una concezione statica della storia. I popoli dhimmT vengono infatti
presentati come i beneficiari di uno status improntato a benevola tolleranza, che avrebbe interessato in maniera uniforme e indefinita ben tredici secoli e tre continenti. Le esplosioni di fanatismo o le ondate di persecuzioni, quando non sono occultate, vengono interpretate come situazioni eccezionali, imputabili alle vittime stesse o a provocazioni straniere, «strappi» passeggeri e accidentali in un tessuto storico la cui uniformità esprime di fatto la negazione della storia. Quest'interpretazione puerile dell'esistenza dei dhimmì, simile alle immagini di Épinal conferisce all'islam un'aura di eccezionalità: questa condizione paradisiaca collettiva, di cui avrebbero beneficiato per tredici secoli milioni di individui, non è stata infatti sperimentata da nessun altro popolo, in nessuna epoca e in nessuna parte del pianeta, essendo disgraziatamente incompatibile con la condizione umana. I popoli felici - come si suol dire - non hanno storia. Perciò gli stuoli di dhimmT che entrano nella beatitudine divina della dhimmitudine, così simili agli ipotetici «popoli felici», sono in realtà i personaggi senza storia del mondo delle fiabe. Questa concezione conforta i teologi musulmani, i quali ritengono che la legge islamica, espressione della volontà divina, sia in grado di ispirare la migliore forma di governo possibile per le Genti del Libro. La corrente globalizzate raggruppa diverse tendenze politiche. La sua origine risale al XIX secolo, quando servì per elaborare argomenti di propaganda apologetica in favore della conservazione dell'Impero ottomano, al fine di sottrarre le province cristiane alle avide mire russe e austriache. Il dogma della tolleranza islamica e della felicità dei raya divenne la pietra angolare della politica e degli equilibri europei. La dimensione etnica dei popoli dhimmì fu negata e sbeffeggiata, in quanto poteva giustificare le rivendicazioni nazionali sapientemente manovrate dagli imperialismi stranieri. La difficile e sanguinosa marcia verso la libertà intrapresa da greci, serbi, croati, rumeni, bulgari e armeni tutti indistintamente raggruppati sotto l'etichetta di «minoranze religiose protette» - suscitò, all'epoca, un'indignazione simile all'ostilità manifestata attualmente verso altri gruppi dhimmì e verso Israele.
La corrente globalizzate sposava le tesi dei nazionalisti turchi, la cui argomentazione principale consisteva nel rifiuto dei caratteri nazionali dei raya, e nella conseguente contestazione delle loro pretese di indipendenza all'interno dei loro territori ancestrali. I dhimmi, considerati esclusivamente «minoranze religiose» che avevano beneficiato di uno status particolarmente privilegiato per i suoi tratti tolleranti, avrebbero conosciuto di nuovo la gioiosa esperienza della dhimmitudine, un tempo prevalente, qualora avessero rinunciato alle loro affabulazioni nazionalistiche e si fossero fusi nell'ottomanismo. L'esaltazione della tolleranza islamica, nella sua duplice funzione di argomento politico e di valvola di sfogo per i pregiudizi religiosi, fu utilizzata tanto dai latini contro gli slavi e i greci, quanto dai cattolici contro gli ortodossi. La corrente globalizzante, che rifletteva le tendenze politiche e culturali del XIX e del XX secolo, divenne il veicolo di pregiudizi razzisti nei confronti di gruppi umani la cui presunta inferiorità precludeva loro l'accesso alla sovranità nazionale e la cui schiavitù era ritenuta uno status privilegiato. Entrambe le posizioni nascevano da ima svalutazione dei loro diritti funzionale agli interessi politici europei. La dhimmitudine divenne così il terreno di convergenza e di scontro dei vari conflitti religiosi e nazionali, fattori, questi, intrinsecamente e inscindibilmente connessi alla sua struttura geopolitica e alla sua storia. Segnaliamo ancora, nell'ambito dell'interpretazione globalizz a t e , la corrente ebraica, che usò il contesto della dhimmitudine per pareggiare i conti con la Chiesa, mettendola a confronto con la tolleranza del suo tradizionale nemico: l'islam 2 . Sul piano politico i sionisti, desiderosi di tenersi buono il governo turco in Palestina, attribuirono all'«età dell'oro ebraico-islamica», fiorita in Spagna e nell'Impero ottomano (XVI secolo), una durata ininterrotta di tredici secoli su tre continenti, senza distinzione di luoghi né di periodi. In seguito, alcune correnti israeliane trasformarono questa pietosa menzogna in sacrosanto assioma politico e strumento di propaganda, nel quadro dei loro sforzi di pace con gli Stati arabi.
Lo scoppio della prima guerra mondiale sconfessò in pieno il principio delle nazionalità. Gli armeni, vittime della loro liaison forzata con la Russia, furono sacrificati dagli alleati, tutt'altro che impazienti di ingrandire un'Armenia sovietica a scapito della Turchia, vista come un baluardo contro il comunismo. Lo sviluppo del panarabismo, l'ascesa dei popoli arabo-musulmani nel contesto geopolitico internazionale, il loro accesso all'indipendenza e la formazione di un blocco egemonico islamico hanno fatto tornare d'attualità in tempi recenti la corrente globalizzate, dandole nuova linfa grazie all'afflusso dei petrodollari. Oggi alcuni partiti politici europei - per non parlare dei movimenti islamisti - usano gli stereotipi della corrente globalizzante per colpevolizzare l'Occidente, rinfacciandogli le Crociate e l'imperialismo, mentre interi secoli di jihsd, di dhimmitudine e di devshirme, genericamente etichettati come «tolleranza islamica», non suscitano la benché minima riprovazione in questi moralisti. Poiché l'estrema complessità dei rapporti simbiotici tra la civiltà islamica e il mondo dei dhimmì non merita di essere ridotta a un giudizio puerile su tolleranza o intolleranza - giudizio che sarà sempre soggettivo - , ci asterremo in questa sede da un dibattito futile, di cui rigettiamo in foto lo spirito semplicistico e i metodi. Tuttavia, in ima prospettiva analitica, discuteremo la pertinenza dei suoi argomenti più classici. La pratica dell'elusione o amalgama La pratica dell'elusione consiste nel confrontare su base egualitaria due termini di cui viene data per scontata l'uguaglianza mentre in realtà sono di natura fondamentalmente diversa e addirittura contraddittoria - eludendo appunto quegli elementi o parametri che danno luogo alle differenze. Tale pratica era familiare al movimento politico turcofilo. La propaganda apologetica turca si sforzava di convincere l'opinione pubblica che il destino dei raya era perfino migliore di quello dei musulmani. Tale affermazione poggiava su diversi argomenti: la tradizionale tolleranza islamica nei confronti delle «minoranze religiose», la possibilità dei raya di ricorrere alla protezione
dei consoli, la loro esenzione dal servizio militare, la ricchezza dei loro notabili ecc. 3 Questi paragoni collocano su un piano di uguaglianza popoli che, a livello giuridico, nazionale e storico, vivevano in condizioni diametralmente opposte. L'intero contenzioso della dhimmitudine - in particolare il problema della disuguaglianza giuridica e fiscale, che rendeva necessarie le protezioni consolari - viene così eluso 4 . Infatti i musulmani, sebbene oppressi sotto il profilo amministrativo, vivevano in uno Stato fondato sul diritto islamico, la cui cultura nazionale era turca o araba. Invece la posizione dei greci o degli slavi, per limitarci alle province europee, era quella di popoli soggetti a una legislazione straniera. La riluttanza dei cristiani balcanici ad arruolarsi nell'esercito ottomano dopo il tanzimat - riluttanza stigmatizzata dalla corrente europea turcofila - si spiega con il loro rifiuto a collaborare al perpetuarsi della schiavitù che li opprimeva nel loro stesso paese, schiavitù le cui secolari sofferenze marchiavano la loro carne e il loro spirito 5 . La pratica dell'amalgama consiste anche nel negare l'intero contesto della dhimmitudine, camuffandolo con le difficili condizioni imposte ai popoli musulmani dalla tirannide dei governi, dalle carestie e dalle guerre. Situazione, questa, che nessuno si sogna di negare, ma che è totalmente indipendente dal problema dei dhimmi. Nessuno storico serio infatti ha mai messo nello stesso calderone la miseria e lo sfruttamento dei mugik in Russia e i pogrom antiebraici, la povertà dei contadini spagnoli e l'Inquisizione, la miseria dei ceti rurali francesi e la strage di San Bartolomeo 6 . Se i mali che affliggevano i musulmani e le Genti del Libro fossero stati davvero equamente condivisi, le proporzioni demografiche tra i due gruppi si sarebbero mantenute nella forma iniziale: una minoranza islamica che viveva in seno a una maggioranza cristiana, con una foltissima rappresentanza ebraica in tutto il bacino del Mediterraneo. E poiché le calamità naturali non selezionano gli uomini in base alla religione, non ha senso appellarsi a esse per spiegare il rovesciamento di tali proporzioni e la riduzione degli ebrei e dei cristiani a sparute minoranze. Bisogna quindi includere anche la responsabilità umana in quel complesso di
fattori discriminanti - tipici appunto della dhimmitudine - che impedirono lo sviluppo di questi gruppi a beneficio della umma. Questa corrente rinfaccia all'Europa il suo «bigottismo» e il suo «fanatismo religioso di stampo medievale», riportati in vita dalla sua stampa e dai suoi politici, che «denunciano a gran voce» le morti, relativamente poco numerose, dei cristiani all'interno dell'Impero islamico, mentre tacciono sui massacri perpetrati su vasta scala, nei Balcani e altrove, a danno dei musulmani 7 . Quanti stigmatizzano con violenza la parzialità di un'Europa indifferente al destino delle vittime musulmane tralasciano però di segnalare se esista o meno nel mondo islamico una voce che condanni l'imperialismo del jihad, l'oppressione e la crudeltà della dhimma, e che riconosca la legittimità delle rivendicazioni dei raya all'interno dei loro paesi. La corrente turcofila, che bacchetta l'imperialismo occidentale in nome di un approccio critico e moralizzante di tipo unilaterale, ma scagiona quello legato al jihad, introduce un contrasto tra le persecuzioni, la brutalità e l'oppressione degli Stati europei nei confronti dei loro sudditi musulmani, e, sul versante opposto, la tolleranza e il benevolo trattamento (good treament) riservato ai non musulmani nei grandi imperi islamici, compreso quello ottomano 8. È evidente che l'epopea storica della beatitudine dhimml, totalmente priva di consistenza scientifica, non è altro che uno strumento di propaganda antioccidentale. Questi pregiudizi, riscontrabili anche nei testi più eruditi, rivelano che gli intellettuali, per quanto dotti, non sempre sono esenti da parzialità o da cliché. Pratica e teoria: costumi e leggi Il classico argomento della corrente apologetica sostiene che le regole del jihad, essendo di natura puramente teorica, furono applicate solo in casi rari o eccezionali, generalmente in seguito a provocazioni del fanatismo europeo o dei dhimml stessi. Tale interpretazione è però smentita da tutte le fonti storiche. I cronisti arabi, turchi, armeni, latini e bizantini attestano che il jihad fu sempre combattuto secondo le regole: razzie, saccheggi, incendi, massacri, riduzione in schiavitù del bottino umano. Si potrebbe
obiettare che la crudeltà delle guerre bizantine ed europee non era certo inferiore. Naturalmente..., ma nessuno si è mai sognato di contestarlo. E sufficiente leggere le cronache musulmane anteriori alle Crociate, o le opere di Jean-Paul Charnay sull'argomento, per constatare fino a quale grado di assurdità si sia spinta questa lettura fuorviante anche tra gli storici più competenti. Scoprire che esistono autori i quali, a dispetto di una moltitudine di documenti che lo smentiscono, conferiscono alla conquista araba un carattere pacifico, non può non sorprendere 9 . Scrivere poi che «la Siria, dalla fine dell'XI secolo, [... è] completamente estranea a qualsiasi forma di guerra santa» 10 , equivale a occultare quattro secoli di jihsd su tutti i fronti, o a pensare che i processi di islamizzazione anteriori all'XI secolo abbiano avuto luogo nel vuoto, ossia in uno spazio totalmente disabitato. Il devshirme - il rapimento e la riduzione in schiavitù dei bambini cristiani - è designato come un «procedimento originale» e le deportazioni in massa attuate dagli ottomani come «scambi di popoli» 12 . Secondo questa stessa corrente, le discriminazioni giuridiche insite nella dhimma caddero ben presto in disuso e furono imposte solo in casi eccezionali. Notiamo in primo luogo la generalizzazione implicita in tale affermazione: per poterla verificare lo storico dovrebbe disporre di dati precisi su tutti i centri abitati non islamici presenti nei territori conquistati in Africa, in Asia, in Europa. Solo un censimento del genere, che, a seconda delle regioni, coprisse un arco temporale da cinque a dodici secoli, permetterebbe di determinare con esattezza i periodi in cui queste regole furono rispettate oppure allentate. L'impossibilità di effettuare un tale censimento riduce quest'affermazione a una mera congettura. Per contro, fino al XIX secolo gli osservatori hanno segnalato in molteplici luoghi ed epoche le discriminazioni in materia di abbigliamento, il rifiuto della testimonianza dei dhimmT, le restrizioni relative alle cavalcature e ai luoghi di culto, i carichi fiscali - in particolare i «diritti di protezione» percepiti dai capi nomadi - e il pagamento della jizya-, il fatto poi che quest'ultima, prima dell'in-
traduzione del tanzimat, fosse camuffata come imposta di esenzione dal servizio militare, rappresenta ima flagrante interpolazione che non concorda né con il versetto coranico IX,29, né con l'opinione dei fondatori delle quattro scuole di diritto coranico. Non solo la dhimma fu imposta pressoché ininterrottamente, visto che nel XIX secolo era ancora applicata nell'Impero ottomano - il più civilizzato del m o n d o islamico - e nel XX secolo in Persia, Maghreb e Yemen, ma a livello consuetudinario si affermarono ulteriori abusi non codificati dalle leggi, quali il devshirme, l'assegnazione ai raya dei compiti più umilianti (come il boia o il becchino), il rapimento degli orfani ebrei (Yemen), l'obbligo di camminare scalzi (Marocco e Yemen) ecc. Non si può non citare inoltre il condizionamento mentale subito dal dhimmi, che, conscio della sua vulnerabilità, entrava nel ruolo del personaggio impostogli dall'ambiente. Così, oltre alle costrizioni legali, in lui subentrava un altro fattore: la percezione dell'esistenza di una sfera del lecito, sintetizzabile nella formula (ancora attuale): «oltrepassare i propri limiti». Una percezione tramandatasi nella mentalità collettiva degli ebrei e dei cristiani, che trovava espressione in una vasta g a m m a di comportamenti. Questo condizionamento psicologico pervadeva tutti gli aspetti dell'esistenza, permeando l'individuo dalla culla alla tomba, colorando la sua anima e influenzando il suo portamento, i suoi atteggiamenti, il suo aspetto esteriore e le sue attività. È dalle fonti che emergono le diverse sfaccettature della dhimmitudine e il processo di identificazione tra la legge e la consuetudine. Le testimonianze de visu, riportate da molteplici fonti, dell'esistenza di una normativa immutabile riservata alle Genti del Libro, che si perpetuò attraverso i secoli da un capo all'altro del dar al-islam (entro i confini presi in esame qui), costituiscono un indizio sufficientemente probante del suo radicamento nei costumi. E anche se a volte un califfo non teneva conto di questi pregiudizi, la pressione dei teologi e del fanatismo popolare lo obbligava a conformarsi a essi. Non ha senso, d'altronde, generalizzare i singoli casi di favoritismo, in quanto il problema della dhimmitudine non investe le scelte particolari o individuali di questo o quel
notabile, né il carattere benevolo o tirannico di questo o quel leader musulmano, ma è un fatto di civiltà, di ideologia, di costumi. Furono i periodi di allentamento della dhimma - allentamento le cui cause e le cui modalità sono tuttora da determinare - a restare eccezionali, e non il contrario, come afferma in m o d o lapidario, e senza addurre alcuna prova, la corrente apologetica. L'alibi del «deus ex machina» La corrente apologetica imputa le epoche di fanatismo a cause esterne, come se la tolleranza intesa in senso lato - ossia come coesistenza pacifica fondata sulla reciproca stima tra musulmani e dhimmi - appartenesse a un universo ideale, chiuso, avulso dal m a g m a perenne dei conflitti umani. Dei periodi più oscuri della storia dhimmi sarebbero quindi responsabili le Crociate, le guerre in seno al mondo cristiano, la Reconquista, le invasioni mongole, le ingerenze europee, il colonialismo, l'imperialismo e, da ultimo, i nazionalismi dei popoli sottomessi. Passando dal ruolo di osservatore a quello di giudice, cui compete assegnare le responsabilità, l'apologeta trascura la sfera della dhimmitudine. Eppure è proprio essa a inglobare e determinare tutti questi fattori - le manipolazioni da parte degli Stati imperialisti, le collusioni con i crociati o gli eserciti europei e le rivolte nazionalistiche - , i quali a loro volta innescano le reazioni della umma in difesa delle conquiste del jihad. Quest'intreccio di interazioni costituisce appunto il terreno specifico della dhimmitudine, vale a dire l'area cruciale in cui si scontrano e si decidono i destini dei gruppi. Quindi alla base della riflessione sui rapporti - di adattamento o di conflitto tra i popoli sottomessi e la società islamica dominante dovrebbe esservi l'integrazione di tutti questi aspetti della dhimmitudine. In altre parole, quali che siano gli agenti esterni (Occidente, Russia ecc.), le rappresaglie contro gli ebrei e i cristiani all'interno del dar al-islam attengono al rapporto umma-dhimmT. Il fatto che gli Stati europei o l'Impero zarista abbiano sfruttato le disgrazie dei raya per ingrandirsi, o che questi ultimi si siano lasciati manovrare per ottenere la libertà, non sono che le inevitabili conseguenze della dhimmitudine. L'espressione «minoranze
religiose protette», tuttavia, permette di aggirare questo fattore essenziale sostituendovi un Occidente manipolatore e imperialista. È come se il contesto storico dell'Inquisizione cattolica in Europa - islamizzazione dell'Anatolia cristiana e dei Balcani, nascita della Riforma protestante e delle guerre di religione in seno alla cristianità - fosse usato come pretesto per eludere lo studio rigoroso dei suoi principi e delle sue regole. In sostanza, le strutture fisse dei sistemi politici sono occultate dalle situazioni transitorie che, di tanto in tanto, si sovrappongono a esse esasperando le tensioni. Ma i due contesti, l'uno determinato da istituzioni permanenti e l'altro derivante da fattori contingenti, non possono essere amalgamati. Il metodo storico comparativo La storia dei dhimmt dà spesso luogo a confusi paragoni tra il m o n d o cristiano e quello islamico. Ma il metodo comparativo esige precisione. È importante definire gli ambiti di confronto - specificando se si tratta di segmenti di storia (periodizzazioni) o di categorie specifiche (istituzioni giuridiche, politiche, religiose ecc.) - e indicare se ci si riferisce al breve o al lungo periodo, al dogma o alla sua attuazione. Il paragone implica l'attenzione a diversi parametri, non solo temporali e geografici (date, luoghi), ma anche storici (ossia contingenti). La periodizzazione, ossia la comparazione di segmenti di storia in uno spazio circoscritto, scongiura le generalizzazioni, che portano a sconfinare in ambiti temporali e spaziali più ampi (ad esempio, dalla Spagna musulmana alla Germania nazista), generalizzazioni che implicano peraltro ima concezione statica e uniforme della storia, mentre essa è dinamica e multiforme. Infatti, dal momento che le società sono organismi viventi, le istituzioni e i costumi si evolvono e si modificano in virtù delle interazioni tra fattori permanenti e fissi (leggi) e fattori contingenti (eventi e aggiustamenti politici). Perciò occorre distinguere le situazioni transitorie, nate da aspetti circostanziali, da quelle permanenti, determinate da regole codificate in un corpus teologicogiuridico. U n giudizio generale sulla condizione degli ebrei nel-
l'islam che si fondasse sulla loro situazione nella Spagna omayyade del X secolo sarebbe subito contraddetto dalla realtà radicalmente opposta che sperimentarono in Yemen nello stesso periodo, e perfino in Andalusia una o due generazioni più tardi. Quest'estrapolazione a partire da sequenze localizzate entro perimetri spaziali e temporali definiti è un classico esempio della tendenza g l o b a l i z z a t e . E necessario osservare che, negli stessi luoghi o in altre regioni, era possibile trovare al tempo stesso ima simbiosi socioculturale, alleanze fondate sull'interesse (come quella tra turchi e bizantini), una stretta collaborazione in seno all'amministrazione (i fanarioti) e all'esercito (le milizie cristiane al servizio degli ottomani), ma anche l'oppressione di altri strati sociali (contadini, artigiani urbani dhimmt). Così il potere dei fanarioti e degli hospodar non impedì la condizione servile del popolo greco, anzi, ne fu addirittura la conseguenza, così come la ricchezza dei notabili armeni di Costantinopoli non scongiurò l'oppressione dei loro correligionari nella Cilicia-Armenia n , né, più tardi, il tragico compimento del loro destino di dhimmt con il genocidio di un'intera etnia. Per procedere a un confronto tra le rispettive politiche del cristianesimo e dell'islam nei confronti dell'ebraismo è necessario distinguere al loro interno i seguenti elementi: la sfera politica, quella teologica e l'evoluzione delle idee e delle istituzioni. Un ulteriore e non trascurabile elemento di riflessione è costituito dalla presenza nel mondo cristiano di due principi - quello della separazione dei poteri religioso e temporale e quello laico dell'uguaglianza dei diritti degli individui e dei popoli - inesistenti in quello islamico. Sul piano sociologico è possibile notare che il cristianesimo nacque in ambiente ebraico, e in origine sembrò assumere la forma di ima disputa religiosa interna all'ebraismo. Poi, grazie alla sua graduale espansione in un contesto pagano, assimilò elementi ellenistici, conservando tuttavia l'essenza delle sue radici ebraiche. Le due religioni condividono quindi un patrimonio spirituale comune; inoltre, il loro radicamento geografico permette di inserirle entrambe nella categoria delle culture le cui istituzioni, va-
lori, civiltà e arti si formarono e si svilupparono grazie alla sedentarizzazione. Naturalmente, questi elementi comuni non escludono gli episodi di rigetto, di persecuzione e di intolleranza. L'islam, dal canto suo, non si situa in una continuità cronologica rispetto all'ebraismo o al cristianesimo, m a rivendica il ruolo di religione originaria. Il Profeta infatti, attraverso il Corano, propone ima versione riveduta e corretta della Rivelazione divina fornita dai suoi predecessori ebrei e cristiani, di cui la versione biblica sarebbe una falsificazione. Non siamo quindi in presenza di una disputa interpretativa su un testo comune, m a di una confutazione di questo testo. Inoltre il credo islamico, che si è sviluppato in un contesto assai differente dal mondo mediterraneo, ha incorporato i costumi e i valori dei beduini arabi e dei nomadi, in particolare la concezione del jihad. Nel mondo islamico lo status dogmatico e politico degli ebrei è equiparato a quello dei cristiani, e in entrambi i casi è regolato dal jihdd, una realtà che, non avendo equivalenti nel mondo cristiano, accentua la complessità dei paragoni. Qualunque saggio comparativo sulle politiche adottate dal cristianesimo nei confronti delle minoranze religiose e dall'islam rispetto ai popoli dhimmi dovrebbe tener conto delle sostanziali differenze esistenti tra questi due gruppi. In particolare, va sottolineato che nel cristianesimo le minoranze religiose non hanno mai costituito i residui di antiche maggioranze etniche. In realtà l'espressione «minoranza religiosa», impropriamente usata per designare i popoli dhimmi, è estrapolata dal contesto europeo. Il fatto che nel giro di due-tre decenni, soprattutto in Francia, si siano formate comunità islamiche che includono milioni di individui, può talora dare luogo a strani paragoni. Ad esempio l'islamologo Bruno Etienne osserva: «I musulmani in Francia [si trovano] in una situazione analoga a quella dei dhimmi nei paesi arabo-islamici» 1 4 . Ora, se veramente la condizione degli immigrati musulmani in Francia fosse simile a quella dei dhimmi, essi sarebbero i residui di popolazioni indigene un tempo in maggioranza, ridotte allo stato di minoranze dalle persecuzioni e dagli esili. Invece i musulmani presenti in Francia - come in altre
parti d'Europa - sono emigrati giunti in Occidente, per loro libera scelta, da vari paesi (tra cui, appunto, quelli sottratti ai dhimrriì), anche se è innegabile che siano privi di certi diritti, riservati ai cittadini degli Stati d'accoglienza, e che siano purtroppo esposti a una diffusa ostilità di matrice xenofoba. L'accostamento con i dhimmi, suggerito dal fatto che anche a questi - peraltro impropriamente - viene riservato l'epiteto di «minoranze», occulta la presenza di substrati storici e culturali totalmente differenti.
La scelta delle fonti e la loro attendibilità Mentre gli studi relativi alla civiltà islamica sono innumerevoli, quelli dedicati ai dhimmi sono a dir poco esigui. Questi popoli infatti dovettero attendere di essere liberi per poter scrivere la loro storia, in quanto un dhimmi non poteva esprimere altro che gratitudine per il fatto di essere stato tollerato, dal momento che ogni forma di critica alla dhimma era proibita. Per perorare la sua causa, egli era obbligato a passare attraverso canali stranieri, portavoce, si sa, sempre interessati. La dhimmitudine divenne quindi il terreno di scontro privilegiato delle passioni politiche, dei pregiudizi religiosi, degli imperialismi. Per oltre un secolo l'emancipazione dei dhimmi e le loro guerre d'indipendenza, seguite dalla nascita di Stati sovrani (Grecia, Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Libano e Israele), suscitarono appassionati dibattiti e conflitti micidiali, che cambiarono il volto del pianeta. Occorre quindi rassegnarsi ad ammettere la parzialità delle fonti relative a questo settore, inclusa - anzi, soprattutto - quella delle fonti musulmane e delle argomentazioni pseudoobiettive addotte dai simpatizzanti islamici. Questi testi esprimono infatti le opinioni di storici contemporanei, che vissero i conflitti sociali, politici e religiosi del loro tempo alla luce dei propri pregiudizi. Alcuni puristi rifiutano di prendere in considerazione i documenti di provenienza europea e si rifanno esclusivamente alle fon-
ti arabe e turche, come se queste non fossero ancor più parziali Esse infatti ci parlano attraverso il loro prisma ideologico, imperniato sulla santità del jihad, l'equità della dhimma e la perfezione della legge islamica. Questo flusso uniforme di dati non induce alcuna contestazione o alcun interrogativo: soltanto la serena certezza di un discorso ideale in cui i vinti esistono unicamente per servire, per giunta con gratitudine, la causa dell'islam. Le fonti dhimmT, dal canto loro, esibiscono una violenta cacofonia, piene come sono di virulente accuse reciproche che rispecchiano gli scismi religiosi e i fanatismi settari del tempo. Così, se gli ebrei gioiscono del massacro dei cristiani che li hanno perseguitati, i cristiani plaudono all'eccidio degli ebrei che cordialmente detestano, mentre i copti e gli armeni si rallegrano dello stato di asservimento dei greci, i quali a loro volta si consolano della propria umiliante condizione con l'annientamento delle Chiese serba e bulgara. Un vescovo loda l'islam per la distruzione di ima Chiesa rivale, un altro si rende complice dell'oppressione di un gruppo che odia. Tali discordanze - specchio della classe sociale e del grado di partecipazione al potere dell'autore - si manifestano anche in seno a una stessa comunità. A ciò si aggiungono le dichiarazioni dei rinnegati e dei transfughi, che giustificano la propria conversione incolpando le loro comunità di origine. L o storico potrebbe quindi attingere senza difficoltà a questa o quella fonte dhimmT per puntellare la tesi islamica della tolleranza. Le fonti europee, dal canto loro, evidenziano altrettanti paradossi e contraddizioni, specchio delle alleanze politiche tra i paesi europei e quelli musulmani, delle inimicizie e dei pregiudizi religiosi che dividevano i cattolici, gli ortodossi, i protestanti, i giacobiti, i nestoriani, gli ebrei ashkenaziti o sefarditi. La nascita degli Stati balcanici, fenomeno relativamente recente, ha alimentato gli studi slavi e bizantini. Queste fonti - trascurate e screditate perché accusate di pregiudizi anti-islamici, e perciò spesso criticate dai moderni - ci hanno invece restituito un passato occultato. Gli storici greci e slavi contestano la tesi della «tolleranza» del dominio turco, generalmente difesa dagli storici anglofoni e francofoni. Lo studioso serbo Jovan Cvijic definisce
«un doloroso martirio» il giogo musulmano in Moravia l é . Le critiche sono ancora più aspre nei testi armeni, greci e bulgari. Sono quindi due interpretazioni della storia e dei fatti a scontrarsi: quella dei popoli che hanno vissuto e subito la dhimmitudine, e quella degli studiosi estranei a tale contesto, e motivati, nella selezione delle loro fonti, da pregiudizi e interessi diversi. Probabilmente tali opinioni resteranno sempre inconciliabili, poiché gli storici ex dhimmT non potranno leggere le prove sopportate dai loro popoli con la disinvolta indifferenza dei loro colleghi stranieri. È così che il devshirme ha potuto essere presentato come un'istituzione benigna, a cui i cristiani avrebbero collaborato con gratitudine, scorgendovi un mezzo di promozione sociale. Secondo alcuni autori musulmani, infatti, i cristiani accorrevano riconoscenti a offrire i loro figli che, grazie al devshirme, avevano l'onore di essere convertiti all'islam 17 . Eppure altre fonti attestano esattamente il contrario. È noto che gli abitanti di Galata si arresero alle armate turche a patto che venisse loro risparmiato il «tributo del sangue». Innumerevoli ballate e racconti popolari esprimono il dolore delle madri a cui erano stati strappati i figli, l'abbandono dei villaggi da parte dei contadini fuggiti per nascondere i bambini nelle foreste. La crudeltà del «tributo del sangue» ha impresso nell'animo dei popoli greco, slavo e armeno il ricordo di un orrore indelebile, che è all'origine di una vasta letteratura popolare. Queste fonti di provenienza dhimmT smentiscono recisamente la tesi dell'entusiasmo delle famiglie cristiane per il devshirme. Per tagliare la testa al toro, ci si p u ò chiedere se questa pratica sarebbe sembrata odiosa anche alle famiglie musulmane. Se essa - come di fatto avviene - si rivela deprecabile per alcuni gruppi umani m a benigna per altri, è perché i dhimmT appaiono agli occhi dei musulmani come creature prive di valore e umanità, e perciò sprovviste dei naturali sentimenti che un genitore prova per i suoi figli. Questa visione disumanizzante dei popoli dhimmT attenua l'orrore del devshirme e lo camuffa in una pratica benefica.
Punizione degli schiavi cristiani (XVI secolo): «Così, quando qualcuno di questi sventurati fuggitivi viene ripreso, essi lo torturano in mille modi: infatti, oltre a bastonarlo mentre è appeso per i piedi, e talora anche per le ascelle, gli cospargono le piaghe di sale e di altre intollerabili misture per accrescere il suo tormento. Sovente quelli che sono stati riacciuffati per la seconda o la terza volta hanno dei padroni talmente severi che non si fanno scrupolo di farli impiccare, e ancor più spesso impalare per via anale» (André Thevet, «La cosmographie universelle d'André Thevet, illustrée de diverses figures des choses plus remarquables veués par l'auteur», 2 voli., Pierre l'Huilier, Paris 1575, voi. 1, libro 8, folio 265, recto e verso).
Qui entra in gioco il classico sofisma che consiste nel neutralizzare o sopprimere l'etica dalla storia sulla base del concetto di relatività dei valori (storicismo). Ma se l'approccio storicistico è valido nel caso della dhimmitudine, dev'esserlo anche per l'intera storia umana. La crudeltà della schiavitù, il fanatismo delle leggi medievali, tutte le forme di barbarie che la coscienza moderna oggi ripudia perderebbero ogni connotazione malefica se ricollocate in un quadro di relatività dei contesti. Eppure, gli studiosi che invocano lo storicismo per sottrarre al giudizio storico
la sfera della dhimmitudine non applicano tale procedimento ad altri fenomeni. Se l'interpretazione storicistica vale esclusivamente nel caso dei popoli dhimmt, questa scelta equivale a classificarli come categorie a sé stanti.
Epilogo La dhimmitudine è un evento storico, politico, sociale e geografico. La sua collocazione spaziale, benché mobile, è delimitata da contorni e frontiere assai precisi. È un fenomeno storico vivente, con i suoi periodi di espansione e di arretramento. Numerosi popoli ne sono stati toccati, e milioni di individui hanno subito le sue restrizioni. Essa appartiene alla storia generale dell'umanità, e tuttavia è determinata da peculiari caratteristiche che ne fanno una categoria a sé. La sua durata, che varia a seconda dei luoghi, va da alcuni secoli a più di un millennio. La dhimmitudine è un sistema evolutivo e non statico, chiamato dalla sua stessa dinamica a svilupparsi senza sosta. Di conseguenza non può essere racchiusa entro formule quali «minoranze religiose protette», «sistema islamico basato sulla tolleranza» o «cittadini di seconda classe». La dhimmitudine - attraverso i suoi tipici strumenti, il jihad e la shari'a - è stata un motore decisivo della storia umana. A partire dal suo originario nucleo di espansione, l'Arabia, ha dato luogo a continue guerre in più continenti. Ha provocato ribellioni a non finire e ripetuti interventi armati dei paesi europei e della Russia; nel XIX secolo, poi, ha letteralmente dominato la politica degli Stati occidentali, divisi tra la sua abolizione o la sua conservazione nell'area balcanica. La dhimmitudine ha inghiottito nella morte infiniti popoli e brillanti civiltà. Ha plasmato e distrutto innumerevoli generazioni, ha condizionato intere mentalità. Ancor oggi essa mobilita forze politiche e militari di livello planetario. La dhimmitudine costituisce un campo di indagine e di confronto per équipe pluridisciplinari di specialisti: infatti richiede un approccio multidimensionale, che tenga conto delle interazioni tra molteplici fattori.
Non è un periodo storico in cui si possano distinguere da un lato i buoni e dall'altro i cattivi, poiché, come in ogni epopea umana, tutto si mescola e si intreccia nell'arco del tempo. Di questa miscela di secoli e genti non restano che pallidi riflessi ed echi estinti. Questo saggio non intende né confermare né smentire il concetto di tolleranza islamica. Esso infatti non si colloca sul piano dei giudizi di valore: si limita a suggerire dei temi di riflessione e a formulare, a titolo di conclusione, alcune domande. Quali sono le popolazioni oggetto della dhimmitudine? Perché essa ha inghiottito interi popoli, mentre altri sono riusciti a sottrarvisi? Quali sono le forze che secolo dopo secolo, ondata dopo ondata, modellandosi su un disegno iniziale, su un progetto politico a lungo termine, la preparano e la impongono? E, d'altro canto, quali sono le cause patogene che, all'interno della cultura presa di mira, concorrono e cooperano alla sua autodistruzione? Ambizioni personali, tradimenti, lotte intestine, o un inconscio desiderio di morte insito in queste società materialiste e raffinate, impotenti e incapaci di lottare per sopravvivere? La dhimmitudine infatti - è bene sottolinearlo - è tanto la storia di un'oppressione quanto quella di una collaborazione. Probabilmente essa non sarebbe stata possibile senza questa cooperazione, fondata su regole e obiettivi ben precisi, tra ima minoranza militarizzata di conquistatori e alcune maggioranze pacifiche e altamente civilizzate, che delegarono agli eserciti stranieri la difesa del loro patrimonio e delle loro ricchezze. Ciò determinò da un lato il trasferimento di beni dai popoli ricchi a quelli poveri, dall'altro la nascita di nuove civiltà sulle ceneri delle vecchie. Questo progetto di islamizzazione di enormi territori e miriadi di popoli (dalla Russia al Sudan, dal Maghreb all'Indo), che avrebbe potuto fallire - e spesso la storia sembra effettivamente esitare deve il suo successo tanto all'ardore impetuoso dei combattenti islamici e all'acume dei suoi politici quanto alla venalità, ai tradimenti, all'attiva collaborazione dei leader dhimmi e dei rinnegati ambiziosi. Mentre la umma unificava in funzione di un comune obiettivo il suo enorme potenziale militare, demografico, giuridico e finan-
ziario, i notabili dhimmi, divisi dal settarismo religioso e dal pragmatismo economico, si preoccupavano di arricchirsi prima sotto il dominio arabo e poi sotto quello turco. In effetti, sarebbe facile presentare questa storia come un percorso di codardia, di cecità, di pusillanimità. Eppure, la dhimmitudine ha in serbo anche un'altra verità. Quella di popoli che, una volta assimilate l'eredità ellenistica e la spiritualità biblica, diffusero la civiltà ebraico-cristiana ovunque, fino all'Europa e alla Russia. Di ebrei, cristiani e zoroastriani che, sopraffatti da bande di nomadi, seppero insegnare ai loro oppressori, con la pazienza dei secoli, le sottili arti del governo degli imperi dalla necessità di un ordine fondato sulla legge alle tecniche per gestire le finanze e amministrare le città e le campagne, nonché alle regole della fiscalità in luogo di quelle del saccheggio - e poi ancora la filosofia, le scienze, le lettere e le arti, l'organizzazione e la trasmissione del sapere: insomma, i rudimenti e le basi della civiltà. Erano dhimmi i contadini che seminavano, piantavano e coltivavano, quelli che scavavano i solchi, mietevano e lavoravano i campi, quelli che curavano i frutteti e il bestiame, come pure gli apicultori e i vignaioli, i fattori e i braccianti. E, spostandoci nelle città, erano ancora dhimmi gli artigiani che lavoravano, forgiavano, tessevano e modellavano gli oggetti, i vetrai, i navigatori e i commercianti, così come gli urbanisti che ideavano le città, gli architetti che progettavano le moschee e i palazzi islamici, i muratori che le costruivano e coloro che si occupavano della manutenzione di ponti e acquedotti. In qualità di artisti, essi crearono, perfezionarono e misero generosamente a disposizione dell'«arte islamica» un talento che aveva animato l'architettura, la scultura, l'arte musiva e l'infinita gamma di arti minori di ima civiltà mediterranea preislamica che ancora adesso ci stupisce. In veste di letterati, sapienti, poeti, filosofi e storici, essi coltivarono assiduamente il sapere tramandato nei secoli. Infine, come traduttori e copisti, trascrissero queste summae di conoscenza per darle in pasto ai loro rozzi conquistatori. Decimati dalle razzie nelle campagne, essi si rifugiarono nelle città, che svilupparono e abbellirono. E, sebbene marchiati dal-
l'obbrobrio, furono ancora loro a essere trascinati da una regione all'altra dai conquistatori per ridare vita a zone desertifícate e rianimare città distrutte. Ancora una volta i dhimmT costruirono e lavorarono. E ancora una volta furono scacciati, depredati e taglieggiati. Ma nella misura in cui essi sparivano, svuotati del loro sangue e perfino della loro anima, era la civiltà stessa a scomparire, mentre le terre che un tempo, quando le occupavano loro, erano state luoghi di civiltà, di raccolti e di prosperità, entravano in una lenta fase di decadenza e di barbarie. Le élite che fuggirono in Europa portarono con sé il proprio bagaglio culturale, la propria erudizione e la propria conoscenza dell'Antichità classica. Fu allora che nei paesi cristiani in cui si erano rifugiati - Spagna, Sicilia, Provenza, Italia - sorsero centri culturali in cui gli ebrei e i cristiani in fuga dall'islam poterono trasmettere alla giovane Europa il sapere dell'antico Oriente preislamico, tradotto a suo tempo in arabo dai loro antenati. Stanziati a cavallo delle due sponde del Mediterraneo, e in qualità di intermediari tra due civiltà, essi assicurarono i commerci, gli scambi, la circolazione di beni e idee e il trasferimento delle tecnologie, arricchendo se stessi e gli altri con la loro ingegnosità. Poi, quando nel XIX secolo l'Europa sollevò la cappa di obbrobrio che li opprimeva, eccoli di nuovo pronti a cogliere le sfide della modernità: dalla ferrovia al telegrafo, dalla stampa al giornalismo, dai trasporti alle industrie e alle banche. Ovunque essi furono promotori e lievito di civiltà ed evoluzione, e, indossati ancora una volta i panni di infaticabili artefici del progresso e costruttori di civiltà, introdussero in tutto l'Impero islamico, dalla Persia al Maghreb, le infrastrutture della modernità. Infine, dopo essere stati scacciati, depredati e decimati per l'ennesima volta, essi fuggirono in America, in Europa o in Israele, dove oggi gli armeni, i maroniti, i siriaci, i caldei, i copti e gli ebrei vivono non della carità internazionale, m a del loro lavoro. Di questi popoli, dalla Turchia all'Iran ai paesi arabi, sopravvivono ormai solo sparute minoranze, ultime vestigia delle moltitudini di cristiani e di ebrei che un tempo popolavano queste terre. Soltanto i cimiteri e le rovine evocano il loro passato. I loro diritti storici, politici e culturali si
Architetto armeno di Costantinopoli (1707): «La maggior parte degli architetti e dei carpentieri di Costantinopoli è armena. Essi dispongono di uno strumento che funziona da un lato come martello, dall'altro come ascia, e se vi aggiungono la sega non hanno bisogno di nessun altro attrezzo per costruire una casa» (Charles de Fériol d'Argentai, «Explication de cent estampes qui représentent différentes nations du Levant avec nouvelles estampes de cérémonies turques qui ont aussi leurs explications», Jacques Collombat, Paris 1715, tavola 88, p. 48).
d i s s o l v o n o nel g r a n d e oblio del t e m p o , e nella loro storia u s u r p a t a si s v e l a il s e n s o p r o f o n d o della d h i m m i t u d i n e : la s c o m p a r s a nella n o n esistenza e nel nulla. Per questo è con u n sostanziale o m a g g i o che questo studio v o r r e b b e c o n c l u d e r s i . C e r t o , c o n il p a s s a r e dei secoli e il g r a d u a le affiorare della v e r i t à storica, e m e r g o n o s e m p r e p i ù le infinite v a r i e t à dei c a r a t t e r i u m a n i - servili, corrotti, c o d a r d i , p u s i l l a n i m i e p r e s u n t u o s i , m a a n c h e eruditi, laboriosi, eroici - di questi reietti della storia. M a tutti questi aspetti si c o n f o n d o n o e si m e s c o l a n o sui l o r o volti pieni di s a n g u e e l a c r i m e , pieni di i n t e r r o g a t i v i e di s a g g e z z a , scolpiti in u n m i l l e n a r i o m a g m a u m a n o a cui lo stor i c o p u ò solo a c c o s t a r s i c o n rispetto, e s e n z a a l c u n giudizio.
Épinal è una città della Francia orientale al confine della pianura lorenese, che deve la sua fama alle images, stampe popolari di ampia diffusione, considerate tra i precursori del fumetto, nate nella seconda metà dell'800. Tali immagini, di soggetto ora devozionale ora storico, sono caratterizzate da un'iconografia ingenua e quantomai semplificata, tanto da essere divenute per antonomasia il simbolo di un procedimento narrativo o figurativo non realistico, pluridimensionale e complesso, ma schematizzato ed edulcorato [N.d.T.]. 1
Bernard Lewis, Islam in History: Ideas, Men and Events in the Middle East, Alcove Press, London 1973 (Open Court, Chicago-La Salle 1993), pp. 123137. Évariste Lévi-Provengal (Les communautés juives dans VEspagne califienne, «Evidences», 5, n. 32, Paris, maggio 1953, p. 15) segnala l'estrema carenza di fonti relative agli ebrei spagnoli tra l'VUI e l'XI secolo. Vedi anche Eliyahu Ashtor, The Jews of Moslem Spain, 3 voli., Jewish Publications Society of America, Philadelphia 1973-1984 (Varda Books, Judaic Digital Library, 2004). 2
3 Stanford Jay Shaw, Ezel Kural Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey, 2 voli., Cambridge University Press, Cambridge 1976-1977, vol. 2, p. 128; Roderic Hollet Davidson, Reform in the Ottoman Empire, 18561876, Princeton University Press, Princeton 1963 (University of Michigan Press, Ann Arbor 1993), p. 116. 4 Shaw, Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey cit., vol. 2, p. 149.
I dhimmì rifiutano l'arruolamento per arricchirsi mentre i musulmani combattono e si sobbarcano i sacrifìci della guerra (Ivi, p. 128); i contadini musulmani soffrono per la tirannia dei feudatari musulmani tanto quanto i cristiani, i quali però sono difesi dagli europei (Ivi, p. 149). La condizione dei contadini bulgari e degli altri cristiani è identica a quella di tutti gli altri sudditi dell'Impero (Ivi, p. 160), e lo stesso accostamento con finalità livellanti è ripetuto a proposito degli armeni (Ivi, p. 201). 5
Allude alla strage compiuta in occasione della «notte di San Bartolomeo» (tra il 23 e il 24 agosto 1572), che per i francesi è semplicemente «la SaintBarthélemy» dalla fazione cattolica ai danni degli ugonotti a Parigi, nel clima di rivincita indotto dalla battaglia di Lepanto e dal crescente prestigio della Spagna [N.d.T.]. 6
Shaw, Shaw, History of the Ottoman Empire and Modem Turkey cit., voi. 2, pp. 18,158, 259; Robert Mantran, Les débuts de la Question d'Orient (17741839), in Robert Mantran (a cura di), Histoire de l'Empire ottoman, Fayard, Paris 1989 (trad. it. Storia dell'Impero ottomano, Argo, Lecce 2004), p. 442. 7
Shaw, Shaw, History of the Ottoman Empire and Modem Turkey cit., voi. 2, p. 259.
8
'Claude Cahen, L'islam des origines au début de l'Empire ottoman, Bordas, Paris 1970, p. 116 (ed. orig. Der Islam I, Vom Ursprung bis zu den Anfàngen des Osmanenreiches, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt am Main 1968; ed. it. L'islamismo. Dalle origini all'inizio dell'Impero ottomano, Feltrinelli, Milano 1969 [1981 2 ]). 10Ivi, p. 221. "Ivi, p. 258. nIvi, p. 259. La regione della Cilicia-Armenia è l'erede del regno di Armenia-Cilicia, noto anche come Armenia Minor o Piccola Armenia (come viene designata al cap. 7 e al cap. 9), fondato nel Medioevo dagli esuli armeni in fuga dall'invasione della loro patria da parte dei selgiuchidi sul golfo di Alessandretta, nell'attuale Turchia meridionale. Esso rimase autonomo dal 1078 al 1375, quando fu invaso e conquistato prima dai mamelucchi egiziani e poi da Tamerlano [N.d.T.]. 13
"Bruno Étienne, L'islamisme radicai, Hachette, Paris 1987, p. 285 (ed. it. L'islamismo radicale, Rizzoli, Milano 2001). Le osservazioni dei viaggiatori europei circa le differenze di abbigliamento presenti nell'Impero ottomano sono confermate da alcuni documenti ufficiali turchi. V. Abraham Galanté, Documents offtciels turcs concernant les juifs de la Turquie, tr. frane., Haim, Rozio & Co., Istanbul 1931. 15
"Jovan Cvijié, La Péninsule Balkanique. Géographie humaine, Armand Colin, Paris 1918, p. 465 (ed. it. on line La Penisola Balcanica. Geografia umana, a cura di Marianna Rovere, trad, di Maria Cian, http://www.units.it/~labgeo/labgeo/balkan.rtf); Apostolos Euangelou Vakalopoulos, The Greek Nation, 1453-1669: The Cultural and Economic Background of Modern Greek Society, Rutgers University Press, New Brunswick (USA) 1976, p. 211 (ed. orig. Tourkokratia 1453-1669: Hoi historikes baseis tes neoellenikes koinonias kai oikonomias, in Historia tou neou Hellenismou, 6 voli., Thessaloniki 1961-1982, vol. 2), e Id., History of Macedonia 1354-1833, Institute for Balkan Studies, Thessaloniki 1973 (http://www.promacedonia.org/en/av/index.html), pp. 122-123 e passim (ed. orig. Historias tes Makedonias: 1354-1833, E. Sfakianake, Thessaloniki 1969). 17 Vedi Paul Wittek, Devshirme and Sharta, «BSOAS», n. 17, 1955, pp. 271278; J.A.B. Palmer, The Origin of the Janissaries, «BJRL», n. 35,1952-1953, p. 470.
DOCUMENTI
L'evangelista san Marco (1455). Illustratore: Minas del Vaspurakan. Lago Van (manoscritto 3815, Collezione Gulbenkian, Saint Thoros Manuscript Library, Gerusalemme).
Jihad
L'ERA DELLE CONQUISTE ( V I I - X I s e c o l o )
Egitto, Palestina, Tripolitania
(640-646)
La presa di al-Fayyum Il generale Teodosio, apprendendo dell'arrivo degli ismailiti, si spostava da u n luogo all'altro al fine di osservare le mosse del nemico. Gli ismailiti attaccarono, uccisero il comandante, massacrarono tutte le sue truppe e si impadronirono subito della città . Chiunque si recasse presso di loro, veniva massacrato; non
risparmia-
rono né vecchi, né donne, né bambini 1 . Dopo la fuga dell'esercito greco nei pressi di Nikiu2 Allora i musulmani arrivarono a Nikiu. Non vi era un solo soldato che opponesse loro resistenza. Si impadronirono della città e massacrarono tutti coloro che incontravano, sia per strada che nelle chiese - uomini, donne e bambini - , senza risparmiare nessuno. Poi si spostarono in altri luoghi, li saccheggiarono e uccisero tutti gli abitanti che vi trovavano. Nella città di Sa sorpresero Esqtitaos e i suoi uomini, che appartenevano alla tribù del generale Teodoro, nascosti nelle vigne, e li massacrarono. Ma ora tacciamo, perché è impossibile riferire gli orrori commessi dai musulmani quando occuparono l'isola di Nikiu nel diciottesimo giorno del mese di guenbót (una domenica), nel quindicesimo anno del ciclo lunare 3 , c o m e pure le terribili scene che si verificarono a Cesarea di Palestina [...] 4 .
' A m r [ibn al-'Às] 5 assoggettò l'Egitto. Poi inviò gli abitanti di quel paese ad attaccare gli abitanti della Pentapoli [Tripolitania], e, d o p o che ebbero riportato la vittoria, non permise loro di rimanere lì. Prelevò da quel paese un bottino considerevole e un gran numero di prigionieri. AbulyanOs [...], il governatore della Pentapoli, le sue truppe e i notabili della provincia si ritirarono nella città di Teucheira 6 , che era solidamente fortificata, e vi si rinchiusero. I musulmani se ne tornarono al loro paese con il bottino e i prigionieri. Il patriarca Ciro provava un profondo dolore a causa delle sventure che si erano abbattute sull'Egitto, poiché 'Amr, che era di origine barbara, trattava gli egiziani senza pietà e non rispettava gli accordi che erano stati stipulati con lui [...] 7 . La posizione di ' A m r diventava di giorno in giorno più solida. Egli riscuoteva l'imposta che era stata concordata, ma si guardò bene dal toccare i beni delle chiese, preservandoli da ogni saccheggio e proteggendoli per tutta la durata del suo governo. Dopo aver preso possesso di Alessandria, fece prosciugare il canale della città, seguendo l'esempio di Teodoro il malfattore. Egli aumentò l'imposta portandola a 22 batr d'oro, di m o d o che gli abitanti, piegati sotto il peso del tributo e impossibilitati a pagarlo, si nascosero [...]". Ma è impossibile descrivere la straziante situazione degli abitanti di questa città, i quali, non trovando nessuno che li aiutasse, arrivarono a offrire i propri figli in cambio delle enormi s o m m e che dovevano pagare ogni mese, poiché Dio li aveva abbandonati e aveva consegnato i cristiani nelle mani dei loro nemici 9 . Giovanni di Nikiu Iraq Omar ibn al-Khattab (634-644), desiderando spartire al-Sawad tra i musulmani, ordinò che [gli abitanti] fossero contati. In seguito alla spartizione, ogni musulmano ricevette tre contadini. Omar chiese consiglio ai Compagni del Profeta 10 , e 'Ali disse: «Lasciali [liberi], poiché possono diventare una fonte di guadagno e un aiuto per i musulmani» 1 1 . al-Baladhuri
Armenia L'armata devastatrice <degli arabi> uscì dall'Assiria [Alta Mesopotamia] e, passando per la valle di Dzor 1 2 , penetrò nella contrada di DarOn, di cui si impadronì, così come dei distretti di Peznounik' e di Agh'iovid 1 3 ; poi, dirigendosi verso la valle di Pergri attraverso Ortorou e Gokovid, essa dilagò nella provincia dell'Ararat [ . . . ] " . Non vi fu nessuno tra gli armeni che potè dare l'allarme al villaggio di Tev'in [Dvin 1 5 ], fatta eccezione per tre capi, che accorsero proprio in quel m o m e n t o per radunare le truppe disperse: Teodosio Vahevonni, Katchian Ar'avegh'ian e Shapuh Amatimi. Essi si precipitarono a Tev'in. Giunti al ponte sul Medzamor 1 6 , lo distrussero alle loro spalle e andarono ad annunciare agli abitanti la triste notizia dell'avvicinarsi dei nemici; poi fecero entrare nella fortezza tutti coloro che si trovavano nel paese, ed erano giunti lì per la vendemmia. Teodoro 1 7 , dal canto suo, si era diretto nella città di Nakhidjevan. Giunti al ponte sul Medzamor, gli infedeli dapprima rimasero bloccati; ma poi, siccome avevano per guida Vartig, principe di Mogkh 1 8 , soprannominato Agnig, attraversarono il ponte e invasero tutta la regione. Dopo aver preso una considerevole quantità di bottino e di prigionieri, andarono ad accamparsi ai margini della foresta di Khosrovaguerd. Il giovedì diedero l'assalto alla città di Tev'in, che cadde in loro potere; infatti l'avevano avvolta in una grande nube di fumo, e, un po' grazie a questo espediente, un po' a colpi di frecce, ebbero la meglio sugli uomini che difendevano i bastioni. Poi, issate le scale, si arrampicarono sulle m u r a e di lì, lanciandosi nella piazzaforte, aprirono le porte. Tutto l'esercito [arabo] si precipitò all'interno e passò gli abitanti a fil di spada. Una volta sazio di bottino, rientrò negli accampamenti, che erano situati fuori città. Dopo alcuni giorni di riposo, gli ismailiti [= arabi] ripresero la via per la quale erano venuti, trascinandosi dietro una moltitudine di prigionieri: in tutto 35.000. Tuttavia il principe d'Armenia Teodoro, signore di Rechtounik, che con un piccolo drappello di uomini aveva preparato un'imboscata nel distretto di Gokovid ", piombò su di loro; ma fu sconfitto e costretto
alla ritirata. Gli infedeli, d o p o essersi messi al suo inseguimento, uccisero molti dei suoi uomini, dopodiché rientrarono in Assiria 2 0 . Sebeo
Cipro, le isole greche e l'Anatolia
(649-654)
Mu'awiya e il suo seguito si diressero a Costanza, capitale di tutto il paese. La trovarono completamente piena di abitanti. Stabilirono il loro dominio su questa città con un grande massacro [...]. Radunarono tutto l'oro dell'isola, molte ricchezze, schiavi, e si spartirono il bottino. Gli egiziani ne presero una parte, gli arabi un'altra, e se ne andarono. Ma dal momento che il Signore aveva fissato il suo sguardo sull'isola e aveva deciso di farla devastare, subito dopo scatenò Abu al-'Awar e il suo esercito, che giunsero a Cipro per la seconda volta, poiché avevano appreso che gli abitanti si erano nuovamente riuniti lì. Quando arrivarono,
la popolazione fu presa dallo spavento. Al loro ingresso, i
tayyaye fecero uscire la gente dalle caverne e saccheggiarono l'intera isola. Essi cinsero d'assedio la città di Pathos e, dopo un aspro combattimento, la sottomisero. Quando gli abitanti chiesero di trattare, Abu al'Awar li informò che avrebbe preso l'oro, l'argento e i loro beni, m a che non avrebbe fatto loro alcun male. Allora essi aprirono le porte della città: i tayyaye radunarono tutte le ricchezze e ritornarono in Siria. In seguito, Mu'awiya assediò la città di Aruad [Arwad], che sorge su un'isola, ma senza riuscire a impadronirsene. Mandò a dire al vescov o Tommaso che gli abitanti dovevano abbandonare la città e andarsene in pace, m a essi non accettarono, e Mu'awiya ritornò a Damasco. Q u a n d o arrivò la primavera, Mu'awiya tornò ad assediare Aruad. Allora tutta la popolazione la abbandonò, e Mu'awiya la distrusse in modo che non fosse più abitata. Abu al-'Awar venne per mare con il suo esercito e arrivò nell'isola di Cos, di cui si impadronì grazie al tradimento del vescovo del luogo. Egli devastò e depredò tutte le sue ricchezze, massacrò parte della popolazione e trascinò via i superstiti c o m e prigionieri, poi distrusse la sua cittadella. Quindi passò a Creta e la saccheggiò. Poi lui e i suoi uo-
Sinagoga di Kefar Nahum, Mar di Galilea, Israele (abbandonata insieme alla chiesa adiacente intorno al 700). mini si diressero a Rodi, che devastarono nell'anno 965 [654] secondo il calendario greco 2 1 [... ] 22 . In quel periodo giunse al termine la tregua di sette anni che i romani [bizantini] avevano stipulato con i tayyaye. Questi presero a saccheggiare tutte le regioni dell'Asia [Minore], della Bitinia e della Panfilia. In Mesopotamia scoppiò una grave pestilenza. I tayyaye saccheggiarono e devastarono di nuovo tutti i territori fino al Ponto e alla Galazia 11. Michele il Siro
Cilicia e Cesarea di Cappadocia Essi [i tayyaye] passarono in Cilicia saccheggiando e facendo prigionieri, e piombarono a Euchaita [città dell'Armenia sul fiume Halys]
senza che la popolazione se ne accorgesse. In un attimo presero il controllo delle porte, e, quando Mu'awiya arrivò, ordinò di passare a fil di spada gli abitanti; dispose sentinelle in più punti affinché nessuno potesse fuggire. Dopo aver radunato tutte le ricchezze della città, essi si misero a torturare i capi perché mostrassero loro le cose [= i tesori] nascoste. I tayyayS ridussero in schiavitù tutti gli abitanti, uomini e donne, ragazzi e ragazze, e diedero vita a una grande orgia in quella sventurata città, commettendo iniquamente ogni sorta di impurità all'interno delle chiese. Poi se ne tornarono allegramente al loro paese [...] 2 4 . Mu'awiya, generale dei tayyaye, divise le sue truppe in due gruppi. Alla testa di uno di essi mise il perfido siriaco Habib 25 , che inviò in Armenia nel mese di tesrin . Quando le sue truppe vi giunsero, trovarono il paese pieno di neve. Ma usarono l'astuzia e portarono con sé dei buoi, che fecero marciare davanti a sé per aprirsi la strada. Così penetrarono nella regione senza essere intralciati dalla neve. Gli armeni, che non avevano previsto questa mossa, furono colpiti quando meno se l'aspettavano. I tayyayé diedero inizio alle devastazioni e ai saccheggi. Fecero prigionieri gli abitanti, incendiarono i villaggi e ritornarono al loro paese felici e contenti 2 6 . Intanto l'altro esercito, quello rimasto con Mu'awiya, penetrò nella regione di Cesarea di Cappadocia. Passando per Callisura, essi trovarono i villaggi pieni di uomini e di animali, e se ne impadronirono. Dopo aver radunato il bottino raccolto in tutto il paese, Mu'awiya attaccò la città [Cesarea], assediandola per dieci giorni. Poi devastò radicalmente l'intera provincia, lasciò la città in preda all'abbandono e tornò indietro. Di lì a pochi giorni lui e i suoi uomini tornarono per la seconda volta ad attaccare Cesarea, e combatterono contro di essa per molti giorni. Gli abitanti, vedendo che una grande collera si era abbattuta su di loro e che non avevano un liberatore, acconsentirono a trattare per avere salva la vita, e i notabili uscirono e concordarono il pagamento di un tributo. Quando i figli di Agar [gli arabi] penetrarono in città e videro la bellezza degli edifici, delle chiese, dei monasteri, e la grande opulenza che vi regnava, si pentirono di aver fatto loro delle promesse. Ma, non potendo ritornare sulla parola data, presero tutto quello che volevano e si spostarono nella regione di Amorium. Alla vista di quel paese affascinante,
simile a un autentico paradiso, decisero di non compiervi alcuna devastazione, ma si diressero verso la città. Dopo averla circondata, riconoscendo che era imprendibile, proposero agli abitanti di negoziare e di aprire loro la città. Ma, poiché essi non acconsentivano, Mu'5wiya inviò le sue truppe a devastare la regione: esse si impossessarono dell'oro, dell'argento, delle ricchezze, e se ne tornarono nel loro paese 27 . Michele il Siro
Armenia (705 circa) Lo sterminio dei nobili armeni Al tempo della dominazione degli arabi , dopo la morte del prim o Muhammad <Maometto>, nell'anno 85 della loro era e sotto il califfato di 'Abd al-Malik, figlio di Marw5n, essi, ispirati da Satana che infondeva loro uno spirito di collera, appiccarono un incendio contro di noi. Di comune accordo, infatti, ordirono un atroce piano pervaso da una malizia velenosa e letale, che andò a sommarsi ai mali che già ci avevano colpito così dolorosamente 2 8 : sterminarono e massacrarono interamente le nostre truppe e i loro generali, i nostri capi, i nostri principi, i nobili e tutti coloro che appartenevano alla stirpe dei satrapi. Essi si affrettarono a inviare in diversi luoghi messaggeri latori di notizie false, incaricati di persuadere tutti i leader armeni, mediante parole insidiose e promesse menzognere, a radunarsi in uno stesso punto. Essi distribuirono loro, da parte del califfo, ricchi doni e tahegan29 a profusione, e condonarono loro le imposte di quell'anno. Poi, con l'astuzia li privarono delle armi, fingendo di essere loro a volersi proteggere dalle loro spade: «Voi - dissero - non siete stabili come noi nei vostri giuramenti». Quindi, d o p o averli radunati tutti, li misero sotto buona guardia in due diversi luoghi, gli uni a Nakhidjevan e gli altri nel villaggio di Hram 3 0 . Il capo di questi scellerati [messaggeri] era un certo Qasim 3 1 amico di M u h a m m a d 3 2 , il quale era stato nominato governatore dell'Armenia per ordine di 'Abd al-Malik. Avendo così radunato i satrapi armeni, [gli arabi] dissero: «Che nessuno osi allontanarsi da questa grande riunione». Poi, dopo essersi se-
gratamente impossessati delle loro armi, si misero in agguato e, precipitandosi alle porte, le bloccarono con materiali vari. Intanto gli armeni intonavano il cantico dei Santi Bambini nella fornace e quello degli angeli che celebrano con i pastori il Re degli spiriti celesti. Gli arabi, avendo praticato un'apertura nel tetto, appiccarono il fuoco in quel punto, e vi ammassarono materiale combustibile in quantità ancora maggiori di quelle utilizzate nella fornace di Babilonia. Spinti dalla paura del loro tirannico sovrano e da una legione di demoni penetrati nei loro corpi, [gli arabi] erano in preda all'ira e correvano tutt'intorno all'edificio facendo lampeggiare le spade. Gli armeni intanto sentivano ardere le viscere di amore paterno, e, mentre una pioggia di fuoco, cadendo dal solaio, aderiva alle vesti dei loro figli, gliele strappavano a brandelli. Di fronte all'atroce spettacolo della morte delle creature a cui avevano dato la vita, essi non si preoccupavano in alcun m o d o del loro pericolo personale: così morirono tutti avvolti dalle fiamme [...]. I carnefici ormai non avevano più nulla da temere dalle loro vittime, loro che tante volte, malgrado la superiorità numerica, erano stati battuti da un pugno di coraggiosi e nobili condottieri armeni. E non è tutto: i nostri guerrieri più illustri ebbero la testa mozzata, e i loro corpi furono inchiodati alle croci. Fu questo l'ultimo atto di quell'atroce tragedia. In seguito gli infedeli - quegli scellerati - si riversarono da tutte le parti e rovistarono da cima a fondo le case di coloro che avevano immolato. Portarono via tutti i tesori presenti nel paese; si impadronirono anche delle case dei cavalieri e delle loro famiglie, dopodiché condussero con sé i prigionieri a Nakhidjevan. Quanto a quelli che erano rimasti sconvolti dalla notizia di tali atrocità e che piangevano sulle sorti della nostra patria, essi li trascinavano in giro per mostrare loro i malcapitati che erano stati inchiodati alle croci; in tal m o d o intendevano non solo incutere il terrore nell'animo del nostro popolo, ma ostentare la loro «prodezza» agli occhi dell'universo. Questo mistero d'iniquità si compì nel sedicesimo anno del regno di 'Abd al-Malik, che devastò l'Armenia e la ricolmò di sventure fino al giorno in cui morì 3 3 . Per ben quattro volte, sempre su suo ordine, si ripeterono questi massacri. Dopo la sua morte, nel primo anno del califfato di al-Walrd [...], durante le festività pasquali, gli arabi trasportarono una moltitudine di prigionieri nella capitale Tev'in. Li tennero in car-
Chiesa di Aght'amar (915-921). Lago Vari, Turchia (foto conservata al Museo armeno di Gerusalemme). cere per tutta quella torrida estate, e a mio avviso tra essi furono più i morti che i sopravvissuti. Q u a n d o venne l'autunno, li fecero uscire di prigione e, impresso loro un marchio sul collo, li costrinsero a partire per la Siria, dopo aver contato e registrato ciascuno di loro. A Damasco i nobili vennero trattenuti a corte, i loro figli avviati all'apprendimento di un mestiere e tutti gli altri spartiti fra vari padroni. Quanto a coloro che morirono lungo il cammino, non so se fu data loro sepoltura o se rimasero a giacere nello stesso punto in cui erano caduti 3 4 .
Élégie sur les malheurs de l'Arménie et le martyre de saint Vahan de Kogh'ten
Spagna e Francia
(793-860)
Nel 177 < 1 7 aprile 7 9 3 > Hishàm, principe di Spagna, inviò nel territorio nemico un folto esercito guidato da 'Abd al-Malik ibn 'Abd al-
Wahld ibn Mughit, che si spinse fino a Narbona e a Djeranda . Questo generale dapprima attaccò Djeranda, dove si trovava una guarnigione scelta di franchi; uccise i più valorosi di essi, distrusse le mura e i dintorni della città e fu lì lì per impadronirsene. Poi marciò su Narbona, dove ripetè gli stessi exploit; quindi, proseguendo l'avanzata, invase il suolo della Cerdagna. Per molti mesi il suo esercito attraversò in lungo e in largo la regione, facendo violenza alle donne, uccidendo i guerrieri, distruggendo le fortezze, bruciando e saccheggiando ogni cosa, mentre il nemico fuggiva disordinatamente dinanzi a esso. Infine, rientrò in Spagna sano e salvo, portando con sé Dio solo sa quale enorme bottino. Questa spedizione è una delle più celebri tra quelle condotte dai musulmani in Spagna [...] 3 5 . Nel 210 < 2 3 aprile 825> 'Abd al-Rahman ibn al-Hakam inviò nel territorio franco un forte squadrone di cavalleria comandato da 'Ubayd Allah, noto con il nome di Ibn al-Balansi. Quest'ufficiale organizzò razzie in tutte le direzioni, si abbandonò ai massacri e ai saccheggi e fece molti prigionieri. Nel mese di rebì I ebbe luogo tino scontro con le truppe degli infedeli, conclusosi con la disfatta di questi ultimi, che subirono numerose perdite; i nostri invece riportarono una significativa vittoria [...J 3 6 . Nel 223 < 2 dicembre 8 3 7 > 'Abd al-Rahm5n II ibn al-Hakam, sovrano di Spagna, inviò un esercito contro Alava; questo si a c c a m p ò nei pressi di Hisn al-Gharat, che cinse d'assedio, e si impossessò di tutto il bottino che vi trovò, poi uccise gli abitanti e si ritirò, portando via come prigionieri le donne e i bambini [...] 3 7 . Nel 231 < 6 settembre 8 4 5 > un esercito musulmano penetrò in Galizia, nel territorio degli infedeli, compiendo ovunque saccheggi e massacri. Esso avanzò fino alla città di Leon, di cui intraprese l'assedio con le catapulte. Gli abitanti, spaventati, fuggirono abbandonando la città e tutto ciò che conteneva, di m o d o che i musulmani poterono saccheggiarla a loro piacimento, per poi distruggere quel che restava. Ma essi si ritirarono senza essere riusciti ad abbattere le mura: esse infatti avevano un'ampiezza di 17 cubiti, per cui non poterono far altro che aprirvi numerose brecce [...] M . Nel 246 < 2 7 m a r z o 860> M u h a m m a d ibn 'Abd al-Rahmàn avanzò con ingenti truppe e un consistente apparato militare contro la regione di
Pamplona; egli conquistò, devastò e annientò questo territorio, saccheggiandolo e seminandovi la morte 3 9 . Ibn al-Athlr
Anatolia La presa di Amorium
(838)
[...] Q u a n d o gli abitanti si accorsero che Bodln 4 0 faceva entrare i tayyaye, si rifugiarono chi in chiesa, gridando: «Kyrie eleison», chi in casa, altri ancora nelle cisterne o nelle buche; le donne coprivano i loro figli c o m e chiocce, poiché temevano di esseme separate dalla spada o dalla schiavitù. I feroci tayyaye diedero inizio al massacro, e accumularono interi mucchi di cadaveri; poi, quando le loro lame furono sazie di sangue, arrivò l'ordine di sospendere la strage e di fare prigionieri gli abitanti per condurli fuori da Amorium. Allora saccheggiarono la città. Q u a n d o il re entrò a vederla, ammirò le sapienti strutture dei templi e dei palazzi. Ma, poiché gli era giunta una notizia che gli aveva arrecato inquietudine, le fece appiccare il fuoco e la incendiò. Vi erano talmente tanti conventi e monasteri femminili al suo interno che oltre mille vergini furono fatte prigioniere, senza contare quelle che erano state massacrate. Esse vennero cedute agli schiavi turchi e mori e abbandonate ai loro oltraggi: sia gloria agli imperscrutabili giudizi
la causa, fu irritato perché avevano cominciato a deportare la popolazione senza il suo consenso. In preda alla collera montò a cavallo, e colpì e uccise di sua mano tre uomini che aveva incontrato con degli schiavi al seguito. Subito d o p o fece radunare nuovamente gli abitanti nel punto in cui si trovavano, e, per suo ordine, parte di essi fu assegnata agli ufficiali delle truppe, parte agli schiavi turchi del re, parte infine venduta ai mercanti. Le famiglie però venivano vendute tutte insieme, e i genitori non venivano separati dai figli [...] 4 1 . A quell'epoca Teofilo, imperatore dei romani [bizantini], inviò doni ad Abu Ishaq [al-Mu'tasim], re dei tayyaye, e chiese di procedere a uno scambio tra i prigionieri romani e quelli tayyaye. Abu Ishaq accettò i doni e gliene inviò di ancora più grandi, replicando: «Noi arabi non possiamo accettare uno scambio alla pari tra musulmani e romani, perché Dio considera i primi superiori ai secondi. Tuttavia, se tu mi restituirai i tayyayé senza chiedere nulla in cambio, noi sapremo restituirvi il doppio e superarvi in ogni cosa». Gli inviati di Teofilo ritornarono con cinquanta cammelli carichi di doni principeschi da parte del califfo, e tra i due re fu ristabilita la pace 4 2 . Michele il Siro
Sicilia e Italia (835-851 e 884) Un'altra incursione diretta contro l'Etna e i forti circostanti ebbe per effetto l'incendio delle messi, il massacro di molti uomini e il saccheggio. Nel 221 < 2 5 dicembre 8 3 5 > Abu al-Aghlab organizzò u n n u o v o assalto nella stessa direzione; il bottino che esso fruttò fu tra i più considerevoli, sebbene gli schiavi fossero venduti a prezzi bassi. Quanto a coloro che presero parte alla spedizione, essi ritornarono in patria sani e salvi. Lo stesso anno fu inviata una flotta contro le isole ; anch'essa, d o p o aver raccolto un ricco bottino e aver conquistato diverse città e fortezze, ritornò a casa sana e salva [...] Nel 234 < 5 agosto 848> i ragusani conclusero la pace con i musulmani, in cambio della consegna della città e di tutto quello che conteneva. I vincitori la distrussero dopo averne prelevato tutto ciò che era trasportabile.
Nel 235 < 2 5 luglio 8 4 9 > un esercito musulmano marciò contro Castrogiovanni [Enna] e ne tornò sano e salvo, dopo essersi abbandonato ai saccheggi, ai massacri e agli incendi in tutta la città. Nel redjeb del 236 morì l'emiro musulmano della Sicilia, M u h a m m a d bin 'Abd Allah ibn al-Aghlab, che era rimasto al potere per diciannove anni. Egli risiedeva a Palermo, da cui non usciva mai, limitandosi a inviare di lì truppe e colonne che utilizzava come strumenti di conquista e di saccheggio [...] 4 4 . Anche nel 271 [884?] un forte esercito musulmano fu inviata contro Rametta; esso compì enormi devastazioni e rientrò con un abbondante bottino e un gran numero di prigionieri. Poiché in quel periodo era morto l'emiro della Sicilia al-Husayn ibn A h m a d , gli subentrò Sawàda b. M u h a m m a d ibn Khafaja al-Tamlmi. Q u a n d o costui arrivò nell'isola, guidò un forte esercito contro Catania e annientò tutto ciò che si trovava nei < d i n t o m i > . Poi andò a portar guerra agli abitanti di Taormina, e devastò i raccolti del paese. Stava continuando la sua avanzata, quando un messaggero inviato da un patrizio cristiano venne a sollecitare una tregua e uno scambio di prigionieri. Sawada accordò una tregua di tre mesi e riscattò trecento prigionieri musulmani, dopodiché fece ritomo a Palermo 4 5 . Ibn al-Athlr
Mesopotamia Le cause delle invasioni turche (XI secolo) Poiché gli arabi, vale a dire i tayyayè, si stavano indebolendo, mentre i greci [bizantini] si stavano impadronendo di numerose regioni, i tayyaye furono costretti a chiamare in loro aiuto i turchi. Essi combattevano accanto agli arabi in qualità di sudditi, e non di padroni. Ma poiché, ovunque andassero, si comportavano valorosamente e riportavano la vittoria, a poco a poco si abituarono a trionfare. Ogni volta essi si caricavano delle ricchezze della regione e le portavano in patria per mostrarle agli altri, incitandoli a partire con loro per andare a stabilirsi in un luogo magnifico come quello, colmo di simili beni 46 .
Saccheggio di Melitene [odierna Malatya]
(1057)
In quello stesso periodo ebbe inizio l'impero dei turchi nelle regioni della Persia. Infatti, nell'anno 430 dell'impero arabo un sultano soprannominato Togrul Bey 4 7 occupò il trono regale del KhorSsan. Egli inviò delle truppe nel territorio armeno, che all'epoca era sotto il dominio romano [bizantino]; quando esse vi giunsero, si misero a fare prigionieri, a saccheggiare e a incendiare barbaramente ogni cosa. Più volte catturarono gli abitanti e li portarono via con sé senza che nessuno osasse affrontarli 48 . Durante l'inverno del 1369 [1057], circa 3000 uomini giunsero all'ex città fortificata di Melitene, e poiché essa era priva di m u r a in quanto Ciriaco 4 9 le aveva distrutte quando l'aveva sottratta ai tayyayS, gli abitanti presero a rifugiarsi sulle montagne, dove vennero uccisi dal freddo e dalla fame. Il primo giorno, i turchi cominciarono a massacrare senza pietà, tanto che molti si nascosero sotto i cadaveri delle uccise. Gli invasori stabilirono il loro accampamento fuori dalla città, sul fianco di una collina; nessuno di loro passava la notte fuori dal campo. Per tutta la notte i ceri della chiesa restavano accesi Il secondo giorno si misero a torturare gli uomini perché mostrassero loro le cose [tesori] nascoste, e molti morirono tra i tormenti: fra essi il diacono Petrus, scrittore e maestro di scuola [...]. I turchi restarono a Melitene dieci giorni, devastando e saccheggiando. Poi incendiarono la sventurata città, razziarono i territori circostanti fino a una giornata di marcia e diedero fuoco all'intera regione. Durante questo saccheggio fu preso e razziato anche il convento di BarGSgai [nella zona di Melitene]. Dopo aver catturato gli abitanti della regione, i turchi se ne andarono, m a si allontanarono dalla strada [principale] e si trovarono ad attraversare montagne impervie e fiumi. Mentre erano accampati in una valle situata in prossimità dei monti dei slnlsayS 51 , vi fu un'abbondante nevicata che impedì loro di avanzare. I slrusayè, che se n'erano accorti, piombarono sui turchi occupando tutte le vie e i passaggi che si aprivano dinanzi a loro, così che essi morirono di fame e di freddo in quel luogo; i sopravvissuti vennero uccisi dai sinisaye, e non uno di essi riuscì a salvarsi. Del folto gruppo dei prigionieri di Melitene, tutti quelli che erano sfuggiti alla morte contribuirono al massacro, e vi presero parte anche coloro che erano nascosti sulle montagne [...] 5 2 .
L'imperatore [Michele VI Stratiotico, 1056-1057], vedendo che i turchi avanzavano ed erano giunti fino al Ponto Eusino " facendo prigionieri, saccheggiando e incendiando, mosso a pietà per i popoli cristiani della regione inviò cavalli e carri, e, dopo che essi vi ebbero caricato tutto il loro mobilio, li fece trasportare oltre il mare. <1 turchi> razziarono le città e i villaggi di tutta l'area pontica, e il fatto che essi fossero disabitati si rivelò un vantaggio per loro, che vi trovarono altrettanti luoghi
Chiesa di Ani, anno 1000 circa, Ararnt, Turchia (foto conservata al Museo armeno di Gerusalemme).
in cui insediarsi. Ora, mentre tutti biasimano l'imperatore, noi dal canto nostro diciamo che questo male non venne da lui, ma dall'alto 51 . Michele il Siro
Armenia Presa di Ani da parte del sultano Alp Arsldn
(1064)
Nell'anno 513 dell'era armena, durante la festa della Madonna, un lunedì, la città di Ani fu conquistata dal sultano Alp Arslan, il quale ne massacrò gli abitanti, eccetto le donne e i bambini, che condusse via con sé c o m e prigionieri 55 . Samuele di Ani
Siria e Palestina Poiché i turchi regnavano in Siria e in Palestina, essi infliggevano ogni sorta di tormento ai cristiani che si recavano a pregare a Gerusalemme: li percuotevano, li depredavano e riscuotevano da loro il testatico non soltanto all'ingresso della città, m a anche al Golgota e al Santo Sepolcro. Inoltre, ogni volta che vedevano ima carovana di cristiani, soprattutto <provenienti> da Roma e dalle regioni dell'Italia, si ingegnavano a ucciderli nei modi più diversi. E quando innumerevoli pellegrini furono morti per questo motivo, i re e i conti furono finalmente presi da zelo e uscirono da Roma alla testa dei loro eserciti; si unirono a loro truppe di tutti i paesi cristiani, ed essi sconfissero per m a re i turchi fino a Costantinopoli 5 6 57. Michele il Siro
¡ihAD
387
L A TEORIA DEL «JIHÀD» 58
Il jihad è un obbligo istituito per volere divino. Il suo adempimento da parte di alcuni ne dispensa gli altri. Per noi malikiti è preferibile non dare inizio alle ostilità con il nemico prima di averlo invitato ad abbracciare la religione di Allah, a meno che non sia egli stesso a prendere l'iniziativa di attaccare. Due sono le alternative da proporgli: o si converte all'islamismo, o paga il testatico <jizya>; in caso contrario, gli si farà guerra. È concesso agli infedeli di pagare la jizya solo se vivono in un territorio in cui è possibile applicare le nostre leggi. Se però sono fuori dalla nostra portata [giurisdizione], potranno pagarla solo se si recano nel nostro territorio. Altrimenti si farà loro guerra [...]. Si deve combattere il nemico senza preoccuparsi di appurare se il jihad sarà condotto da un capo devoto o depravato. Non vi è alcuna controindicazione rispetto all'eliminazione dei prigionieri di razza bianca non arabi. Ma nessuno dovrà essere ucciso se ha ottenuto Vamati <salvacondotto>, né si dovranno violare gli impegni presi nei confronti dei prigionieri. Non si trucideranno né le donne, né gli impuberi. Si eviterà di uccidere monaci e rabbini, a meno che non abbiano preso parte ai combattimenti. Anche la donna sarà messa a morte se ha partecipato alla guerra. L'amari accordato dal più umile dei musulmani dev'essere ritenuto valido anche dagli altri. Perfino la donna e l'impubere islamici possono concederlo se ne comprendono la portata. Ma, secondo un'altra opinione, tale amati è valido solo se un imam lo ratifica. Del bottino raccolto dai musulmani nel corso delle operazioni belliche l'imam preleverà un quinto, e distribuirà i restanti quattro quinti tra i membri dell'esercito. Tale spartizione avverrà di preferenza in territorio nemico 5 9 . Ibn Abi Zayd al-Qayrawaru Nell'islamismo la guerra contro l'infedele è un obbligo di natura divina, poiché questa religione si rivolge a tutti gli uomini, ed essi devono abbracciarla per amore o per forza. Perciò presso i musulmani sono state istituite sia l'autorità spirituale sia quella temporale, affinché i
due poteri si adoperino contemporaneamente a realizzare questo duplice scopo. Le altre religioni non si rivolgono alla totalità degli uomini, pertanto non impongono ai loro adepti l'obbligo di fare la guerra agli infedeli; esse autorizzano a combattere soltanto per autodifesa. Per questo motivo i leader di tali religioni non si occupano minimamente di amministrazione politica. Il potere temporale è nelle mani di un individuo che lo ha ottenuto in m o d o del tutto fortuito o in seguito a un accordo con cui la religione non ha niente a che fare. Presso questi popoli la sovranità [politica] è nata perché, come abbiamo già indicato, un sentimento collettivo per sua stessa natura li ha portati a ciò; non è stata la religione a imporre loro questa istituzione, dal m o mento che essa non prescrive loro di sottomettere gli altri popoli, com e avviene nell'islamismo. Essi sono obbligati soltanto ad assicurare la sopravvivenza della loro religione all'interno della loro nazione; perciò gli israeliti, dopo l'epoca di Mosè e di Giosuè, attesero circa quattro secoli prima di pensare a fondare un regno: la loro unica preoccupazione era preservare in vita il loro culto [...] 6 0 . Da allora in poi i cristiani, in seguito a una serie di dispute relative ai dogmi e a ciò che si deve credere a proposito del Messia, si divisero in più sette, ciascuna delle quali invocava il sostegno del re cristiano che era anche il suo sovrano. Tale disparità di opinioni, per cui di volta in volta nascevano sempre nuove sette, prevalse per molti secoli, fino a quando rimasero solo tre sette principali: i melchiti , e il fay.
l'elemosina rituale <sadaqa>
Il bottino è l'insieme dei beni sottratti agli infedeli con la forza. Allah stesso ne ha sancito lo statuto nella sura al-AnfSl [= Il bottino], che ha rivelato in occasione della battaglia di Badr 6 ', e a cui ha dato appunto il nome di al-AnfSl in quanto il bottino costituisce un accrescimento della ricchezza islamica. Allah ha detto: «Ti interrogheranno a proposito del bottino. Dì: «Il bottino è di Dio e del Suo Messaggero"» M . Nei due Sahihts, secondo JabTr ibn 'Abd Allah, il Profeta ha detto: «Io ho ricevuto cinque doni che mai nessun Profeta aveva mai ottenuto prima di me. Ho trionfato con il terrore nel giro di un mese. Per mezzo mio, la terra è diventata moschea e purezza: ogni uomo della mia comunità, sorpreso dall'ora della preghiera, può pregare ovunque si trovi. H o ricevuto il permesso di accumulare bottino, privilegio che non era mai stato accordato ad alcuno dei miei predecessori. Ho ottenuto il dono dell'intercessione. I profeti che mi hanno preceduto erano stati inviati unicamente ai loro popoli: io invece sono stato inviato all'umanità intera». Il Profeta ha detto: «Io sono stato inviato con la spada prima del giorno della resurrezione perché tutti gli uomini servano l'unico Dio, senza alcuna figura a esso associata. Le mie risorse sono state poste all'ombra della mia lancia. Coloro che si sono levati contro i miei ordini hanno avuto in sorte umiliazione e avvilimento. Chiunque cerchi di assomigliare a questi uomini dev'essere considerato simile a loro» 66 .
Il «fay'» Il fay' ha per fondamento i seguenti versetti della sura del Raduno [AlHashr], che Allah rivelò a Maometto durante la spedizione contro i banu nadrr 67 , seguita alla battaglia di Badr. Dio ha detto: «Per ciò che del bottino preso loro Dio ha destinato al suo Profeta voi non avete fatto correre cavalli né altre cavalcature. Dio dà ai suoi Profeti potere su chi Egli vuole. Dio è Onnipotente. Ciò che Dio ha concesso al suo Profeta come bottino preso agli abitanti della città, è di Dio, del Profeta, dei suoi parenti, degli orfani, dei poveri, del viandante» cCorano LIX,6-7> 6 8 .
Questi beni sono stati designati con l'appellativo di fay' in quanto Allah li ha sottratti agli infedeli per restituirli ai musulmani. In principio Allah ha creato i beni di questo mondo unicamente perché concorressero al suo servizio, dal momento che egli ha creato gli uomini solo per esseme servito. Perciò gli infedeli perdono ogni diritto sia sulle loro persone che sui loro beni - di cui non si avvalgono certo per servire Allah - in favore dei veri credenti, ai quali Allah restituisce ciò che è loro dovuto poiché essi lo servono; allo stesso modo si restituisce a un uomo l'eredità di cui è stato privato, anche se fino ad allora non ne era entrato in possesso. In tale categoria rientrano il testatico <jizya> versato dagli ebrei e dai cristiani; i contributi imposti ad alcuni paesi nemici o i doni da essi offerti al sultano dei musulmani, come ad esempio le «spedizioni» effettuate da alcuni popoli cristiani; la decima <usr>
pagata
dai commercianti delle regioni appartenenti alla «zona di guerra» -, la tassa del ventesimo, riscossa dai popoli protetti che praticano il commercio al di fuori dei loro paesi d'origine <era questo il tasso applicato da Omar ibn al-Khatt5b>; i pagamenti aggiuntivi imposti alle Genti del Libro che violano il patto di protezione, e l'imposta fondiaria , che in origine colpiva solo le Genti del Libro e che in seguito fu parzialmente estesa anche ad alcuni musulmani. Sono inoltre incluse nel fay' tutte le proprietà statali che rientrano nel patrimonio comune dei musulmani, come quelle che non hanno un possessore chiaramente designato: i beni vacanti per assenza di eredi, quelli usurpati, i prestiti o i depositi per i quali è impossibile risalire ai proprietari, e, in generale, tutti i beni mobili o immobili appartenenti a cittadini islamici e caratterizzati da un analogo status. Tutti i possedimenti di questo tipo, infatti, concorrono a formare il patrimonio comune dei musulmani [...] 6 9 . Gli uomini dei quali è opportuno «conquistare i cuori» [con i doni] possono essere sia infedeli che musulmani. Se si tratta di infedeli, mediante questi doni si spera di ottenere un vantaggio - ad esempio indurli a convertirsi - o di evitare un danno; è bene ricorrervi solo a condizione che sia impossibile agire diversamente. Anche se si tratta di musulmani influenti si spera in tal modo di ricavare un qualche bene-
ficio: ad esempio consolidarne la conversione, determinare con la forza quella di un loro simile, procurarsi il loro sostegno al fine di ottenere il pagamento della sadaqa da un gruppo che rifiuta di versarla, arrecare danno a un nemico o impedirgli di nuocere all'islam; anche con loro, tuttavia, si ricorrerà ai doni solo a condizione che tali
risultati
non possano essere ottenuti che in questo modo. Queste gratifiche, accordate ai potenti e rifiutate agli umili, apparentemente somigliano a quelle elargite dai sovrani, m a il valore di un'azione è determinato dall'intenzione che la ispira. Perciò, se tali doni sono finalizzati al comune interesse della religione e dei musulmani, saranno della stessa natura di quelli concessi dal Profeta e dai suoi califfi; se invece il loro movente è l'ambizione e la corruzione, saranno simili a quelli dispensati dal Faraone [...] 7 0 . Le altre due religioni rivelate sono state indebolite o dalla loro incapacità di perfezionarsi, o dal timore provato dai loro adepti di fronte alle inevitabili prove; perciò sono apparse prive di forza e di grandezza agli uomini, i quali hanno compreso che esse non erano in grado di assicurare la felicità né a loro né ad altri. Di queste due vie erronee, una è quella seguita da coloro che hanno aderito a una religione senza portarla a compimento tenendo conto di tutto ciò che è necessario alla loro esistenza - potere, jihad, risorse materiali - , l'altra quella imboccata da coloro che hanno ricercato il potere, la ricchezza o la guerra, senza subordinare tali obiettivi allo scopo prioritario di far trionfare la religione. Queste due vie sono quelle seguite rispettivamente da coloro che si sono smarriti, e da coloro che sono incorsi nella collera divina. La prima è la via dei cristiani, i quali vivono nell'errore, la seconda quella degli ebrei, oggetto della collera divina. La retta via è unicamente quella indicata dai profeti, dai santi <siddìqin>, dai martiri e dai devoti: è la via del profeta Maometto, dei suoi califfi, dei suoi Compagni, di coloro che hanno seguito le loro tracce e dei precursori che ci hanno mostrato il cammino: i muhSjirun, gli ansar e i fedeli di seconda generazione 7 1 . A tutti loro Allah ha riservato giardini in cui scorrono acque vive, dove dimoreranno per sempre. È questo il trionfo supremo 7 2 . Ibn Taymiya
0 principe n , tu hai chiesto anche quali siano le regole applicabili agli abitanti del «territorio della guerra» (dSr al-harb) che si convertono per conservare la loro vita e i loro beni. La loro vita è sacra, i beni per conservare i quali si sono convertiti restano di loro proprietà, e lo stesso vale per le loro terre, che sono quindi soggette al pagamento della decima c o m e quelle adiacenti a Medina, i cui abitanti si convertirono dop o del Profeta e che sono pertanto inquadrate tra le «terre della decima». La stessa regola fu applicata a Ta'if e al Bahrein, nonché ai beduini che si convertirono per conservare le loro falde acquifere e i loro terreni: entrambi sono infatti rimasti di loro proprietà, e continuano a esserlo [...] 7 4 . Tutti i popoli politeisti con i quali l'islam ha concluso la pace a patto che riconoscessero la sua autorità saranno soggetti alla spartizione [delle terre] e pagheranno il kharaj-, essi sono infatti da considerarsi tributari, e il suolo che occupano è definito «terra del kharaj». L'importo dell'imposta sarà quello stabilito dai trattati stipulati con loro, m a sarà riscosso in buona fede e senza applicare sovrattasse. Qualunque territorio di cui l'imam [sovrano] sia entrato in possesso con la forza, se egli lo ritiene opportuno - infatti ha piena libertà sotto tale profilo - può essere da lui spartito tra coloro che l'hanno conquistato, e in questo caso diviene «terra della decima», oppure lasciato in possesso degli abitanti, come fece Omar ibn al-Khattab per al-Sawad 7 5 . In questo caso il territorio diviene «terra del kharaj» e nessuno può riprenderselo: i vinti ne detengono la piena proprietà, trasmissibile per eredità o mediante contratto, e l'entità del kharaj a cui è soggetto non deve superare le possibilità dei contribuenti [...] 7 6 . Lo statuto dei territori conquistati varia a seconda che siano arabi o non arabi: infatti si fa guerra agli arabi soltanto per farli aderire all'islam, non per esigere da loro il testatico; da essi non si pretende altro che la conversione, e le loro terre, se ne conservano il possesso, sono considerate «terre della decima»; perfino se l'imam non gliele lascia e ne attua la spartizione, esse sono ritenute ancora «terre della decima». 1 criteri da adottare nei confronti dei non arabi sono diversi: infatti si combatte con loro sia per convertirli che per esigere da loro il testatico, mentre nei confronti degli arabi si persegue solo il primo scopo, visto che devono scegliere tra la conversione e la morte. N o n conoscia-
m o alcun caso in cui il Profeta, o uno dei suoi Compagni o dei califfi che gli sono succeduti, abbia accettato il pagamento del kharHj dagli arabi idolatri, i quali potevano unicamente scegliere se convertirsi o morire. Se venivano sconfitti, le loro mogli e i loro figli erano fatti prigionieri, come fece il Profeta con i banu hawazin in occasione della battaglia di Hunayn 7 7 ; in seguito però restituì loro la libertà. Peraltro si comportò così soltanto con gli idolatri. I sudditi arabi che professano religioni rivelate [ebrei e cristiani] sono trattati c o m e i non arabi: pertanto sono ammessi a pagare la capitazione. È quanto fece Omar nei confronti dei banu taghllb [tribù cristiana], ai quali raddoppiò l'elemosina rituale in sostituzione del kharSj, in linea con quanto aveva fatto il Profeta, esigendo un testatico di un dinar, o il suo equivalente in indumenti, da ogni suddito pubere dello Yemen, misura che ai nostri occhi appare simile < a quelle adottate nei confronti> dei popoli seguaci delle religioni rivelate. Qualcosa di analogo fece il Profeta accordando la pace agli abitanti di Najran [cristiani] in cambio di un riscatto. Quanto ai non arabi, ebrei o cristiani, politeisti, idolatri o adoratori del fuoco, dai sudditi maschi si riscuote la capitazione. Il profeta infatti la fece pagare ai Magi di Hajar, i quali sono politeisti e non aderiscono a una religione rivelata: pertanto essi sono considerati da noi c o m e non arabi, e non sposiamo le loro donne così come non m a n g i a m o le bestie che sgozzano. Omar ibn al-Khattab applicò ai non arabi di sesso maschile e di religione politeista dell'Iraq un testatico corrispondente a tre fasce di reddito: cittadini indigenti, ricchi e di condizione media. Per quanto riguarda i rinnegati, arabi e non arabi, essi sono trattati com e gli arabi idolatri: devono scegliere tra la conversione e la morte, e non sono passibili di capitazione [... ] 78 . Gli abitanti dei villaggi e delle campagne - m a lo stesso vale per le città, i loro abitanti e tutto ciò che contengono - possono, a discrezione dell'imam, rimanere nelle loro terre, nelle loro case e nelle loro abitazioni, e continuare a godere dei loro beni in cambio del pagamento del testatico e del khardj, < o essere spartiti tra i vincitori;». Non esistono eccezioni se non per gli arabi maschi e idolatri, che non sono ammessi a pagare la capitazione, e devono scegliere tra la conversione e la morte [...].
L'imam può quindi scegliere tra due opzioni altrettanto valide: o effettuare la spartizione c o m e ha fatto il profeta, o lasciare i beni al loro posto, c o m e fece lo stesso profeta altrove, tranne che a Khaybar, o c o m e O m a r ibn al-Khattab, che lasciò tutto immutato nel Sawad [Iraq]. La maggior parte delle regioni agricole siriache ed egiziane fu conquistata con la forza, e pertanto furono ammessi a trattare solo gli abitanti delle piazzeforti. Poiché le campagne erano state occupate dai vincitori e prese con la forza, Omar le abbandonò nelle mani della comunità islamica dell'epoca e di quelle a venire. Fu questa la soluzione adottata di preferenza da lui, e anche l'imam può conformarsi a tale linea, purché adotti in compenso le precauzioni necessarie dei fedeli e della religione 79 .
Strategie di combattimento Il meglio che abbiamo sentito dire a questo proposito, a quanto pare, è che non vi è nulla di male ad adoperare ogni sorta di armi contro i politeisti: dall'inondare e bruciare le loro abitazioni al tagliare i loro alberi e le loro palme da dattero al fare uso di mangani
il tutto senza
attaccare con deliberata intenzione le donne, i bambini o i vecchi in età assai avanzata. È inoltre possibile inseguire coloro che fuggono, dare il colpo di grazia ai feriti, uccidere i prigionieri quando essi costituiscono un pericolo per i musulmani, m a soltanto quelli che hanno già iniziato a radersi [i puberi], poiché gli altri sono dei bambini e non si possono giustiziare. Quanto ai prigionieri che vengono condotti dall'imam, è a sua totale discrezione scegliere se metterli a morte o far pagare loro un riscatto, adottando la soluzione più vantaggiosa per i musulmani e più oculata per l'islam. Il riscatto imposto a costoro non è costituito né da oro, né da argento o merci preziose, ma esclusivamente da schiavi destinati al servizio dei musulmani. Tutto ciò che i vincitori hanno raccolto sul c a m p o di battaglia, o sottratto dai beni e dagli effetti personali dei vinti, costituisce il fay', che viene suddiviso in cinque porzioni: una di esse è assegnata a coloro che sono elencati nel Libro sacro, mentre le altre quattro sono riparti-
te tra le truppe che hanno contribuito ad accumulare il bottino, nella misura di due parti per i cavalieri e una per i fanti. Se è stata conquistata una determinata porzione di territorio, l'imam adotterà la soluzione più prudente per i musulmani: se ritiene di doverla lasciare ai suoi abitanti imponendo loro il kharaj - c o m e fece O m a r ibn alKhattab, che lasciò il Sawad [Iraq] nelle mani delle popolazioni indigene - p u ò farlo; se invece ritiene di doverla assegnare ai conquistatori, ripartirà il territorio tra loro d o p o averne prelevato la quinta parte [...] 8 1 . Per parte mia, ritengo che la decisione relativa ai prigionieri spetti all'imam: a seconda di ciò che gli sembra più conveniente per l'islam e per i musulmani, potrà farli giustiziare o usarli c o m e riscatto per i prigionieri islamici [ . . . ] 8 2 . Quando i musulmani, assediando una fortezza nemica, trattano con gli assediati, i quali accettano di arrendersi alle condizioni indicate da un u o m o designato e costui decide che i combattenti siano messi a morte, le donne e i bambini fatti prigionieri, la sua decisione è da ritenersi valida. Fu appunto quello che stabilì Sa'ad ibn Mu'adh per i banu qurayza 8 3 [ . . . ] w . Se il verdetto adottato dall'arbitro designato avesse previsto qualcosa di diverso dalla morte per i combattenti e dalla riduzione in schiavitù per le donne e i bambini, [e] se comportava l'obbligo del pagamento della capitazione, sarebbe stato ugualmente corretto; e se qualcuno, in un caso analogo, stabilisse che i vinti devono essere invitati a convertirsi, ed essi lo facessero, la sua decisione sarebbe ancora valida ed essi diventerebbero musulmani e liberi [...] 8 5 . Sta all'imam pronunciarsi sul trattamento da riservare ai vinti, e la sua scelta cadrà su ciò che è preferibile per la religione e per l'islam: se ritiene che l'esecuzione dei guerrieri e la riduzione in schiavitù di donne e bambini siano più utili per l'islam e per i suoi adepti, egli adotterà quest'opzione sulla base di quanto fece Sa'ad ibn Mu'adh; se invece ritiene più vantaggioso trasformarli in tributari soggetti al kharaj, soluzione preferibile in quanto fa aumentare i I f a y ' , che a sua volta accresce le risorse a disposizione dei musulmani per lottare contro di loro e gli altri politeisti, allora sarà questa la misura che adotterà nei loro confronti. Infatti non è forse vero che Allah nel suo Libro dice:
« [...] sino a che non versino la tassa con le loro proprie mani d o p o essersi umiliati» < C o r a n o IX,29>, e che il Profeta chiamava i politeisti ad abbracciare l'islam, o, in caso di rifiuto, a pagare la capitazione, e che O m a r ibn al-Khattab, d o p o aver assoggettato gli abitanti del Sawad, non versò il loro sangue e ne fece dei tributari? [...] 8 6 . Se i vinti accettano di arrendersi sottoponendosi all'arbitrato di un musulmano designato da loro e di u n esponente della loro fede, quest'ultimo verrà ricusato: non è lecito infatti tollerare la collaborazione tra un fedele e un miscredente quando si deve prendere una decisione in materia di religione. Se per errore il rappresentante del principe acconsente, e viene emessa una sentenza congiunta da questi due uomini, l'imam non le darà forza esecutiva a meno che essa non comporti che i nemici diventino tributari o si convertano; se infatti adottassero questa seconda opzione, non vi sarebbe nulla da rimproverare loro, e se si riconoscessero tributari sarebbero accettati come tali senza bisogno di ima sentenza ad hoc 8 7 . Abu Yusuf
1 Giovanni di Nikiu, La chronique de jean, évèque de Nikiou, trad. di Hermann Zotenberg, Imprimerie Nationale, Paris 1879, pp. 228-229. 2 L'originale ha Nikius, la forma usata dall'autore della Cronaca, che nel testo etiopico si alterna a Nakius (forma araba). Per uniformità (Nikiu, forma attuale del nome, è quella già usata in precedenza nel libro), si è scelto di unificare le due grafie [N.d.T].
GuenbOt (o ghenbdt) è il nono mese del calendario etiope, un calendario su base limare costituito da dodici mesi di 30 giorni ciascuno, seguiti da un tredicesimo mese di 5 giorni (6 negli anni bisestili). Il primo dell'anno corrisponde al nostro 11 settembre (o al 12 negli anni bisestili) http://www.amicidelsidamo.org/cultura_etiope.php [N.d.T]. 4 Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évèque de Nikiou cit., pp. 243-244. 3
Per 'Amr ibn al-'Às e la conquista dell'Egitto cfr. cap. 2, par. «L'espansione terrestre» [N.d.T.]. 'Città di origine greca nota anche come Taucheira, Tauchira o Teuchira, ribattezzata Arsinoe dai Tolomei e parte della Pentapoli; sorge sulle coste 5
della Cirenaica, in Libia, a nord-est di Bengasi. È l'attuale Tocra [N.d.T.]. 'Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évêque de Nikiou cit., pp. 254-255. 8 Ivi, p. 261. "Ivi, pp. 262-263. Compagno del Profeta o semplicemente Compagno (sShib o sahabi, plur. ashSb, sahb) è il termine arabo che indica chi sia stato a contatto diretto, a titolo di fedele e di discepolo, con il profeta Maometto. Furono i Compagni a memorizzare e trasmettere gli hadìth e il Corano, prima che questo fosse messo per iscritto. La generazione successiva ai Compagni e che con essi abbia avuto relazioni più o meno prolungate è definita dei Seguaci (arabo Tabi'un) [N.d.T.]. 10
Abu al-'Abbâs Ahmad ibn Jabir al-Baladhuri, The Origins of the Islamic State (Kitab futah al-buldan), trad. di Philip Khuri Hitti, 2 voli., Murgotten, New York 1916-1924 1 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2007], p. 423. 11
A sud-ovest del lago Van. Per questi eventi cfr. Ghevond, Histoire des guerres et des conquêtes des arabes en Arménie, trad. di Garabed Chahnazarian, Meyrueis, Paris 1856 [http://www.mediterranee-antique.info/ Moyen_Age/Divers/Ghevond.htm, N.d.T.], p. 5. 12
A ovest del lago Van. Sebeo (VII sec.), Histoire d'Héraclius par l'éoêque Sébéos, trad. dall'armeno e note di Frédéric Macler, Léroux, Parigi 1904 (ed. it. Storia, trad. dall'armeno, introd. e note di Claudio Gugerotti, Mazziana, Verona 1990), p. 227. Cfr. http://rbedrosian.com/sebl.htm. 15 In prossimità dell'attuale Erevan. " U n affluente dell'Arasse. 13
14
" Teodoro Rechtouni era il generale in capo dell'Armenia bizantina. Destituito dall'imperatore Costante II, passò dalla parte degli arabi e fu riconosciuto da Mu'âwiya come signore dell'Armenia e della Georgia fino alla regione di Karabakh, a est. Distretto dell'Armenia [cfr. supra, cap. 4, «I nomadi quale fattore di islamizzazione», e nota 8], " A sud del monte Ararat. 18
Sebeo, Histoire d'Héraclius par l'éoêque Sébéos cit., p. 228. La datazione a cui si fa riferimento è la cosiddetta «era dei greci» o «di Alessandro» in uso presso i siriaci cristiani e gli arabi, nota anche come «era dei Seleucidi» perché il computo degli anni partiva dal 312 a.C. (data del rientro di Seleuco a Babilonia dopo la vittoria di Gaza), rimasta localmente in uso in Asia Minore fino all'epoca araba [N.d.T.]. 20 21
22
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche
(1166-1199), trad. di Jean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924' (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), voi. 2, p. 442. 23 Ivi, p. 450. 24 Ivi, p. 431. 25 Habib ibn Maslama conquistò la Quarta Armenia [insieme alla Prima, alla Seconda e alla Terza Armenia, ima delle quattro amministrazioni militari bizantine in cui era divisa l'Armenia Minore, N.d.T.], tutta la regione del lago Van, il Vaspurakan [prima provincia, e poi regno, della Grande Armenia situato attorno al lago Van, considerato la culla della civiltà armena, N.d.T.], la Siunia [oggi Syunik, era una delle quindici province del Regno d'Armenia, e precisamente della Prima Armenia, N.d.T] e la Georgia. Gli arabi devastarono l'Armenia nel corso di campagne che si ripetevano con cadenza annuale. 27 Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 441. 26
Nel 695 gli arabi avevano operato confische e massacri in Armenia. Intorno al 700 la sollevazione generale della regione provocò una campagna di repressione.
28
II tahegan (o dahekan) era una moneta d'oro all'incirca dello stesso valore del dinar arabo. Cfr. Nicola Cariello, Bisanzio Roma e Kiev al tempo dell'imperatore Giovanni Tzimisce: antologia di documenti, 969-976, Fabreschi, Subiaco 2008 [N.d.T.]. 29
"Sul fiume Arasse. 31 Governatore di Nakhidjevan e luogotenente di Muhammad. 32 Generale di 'Abd al-Malik e figlio di Marwan. 33 Altri cronisti collocano questi eventi sotto il califfato di al-Walld (705715). 34 Élégie sur les malheurs de l'Arménie et le martyre de saint Vahan de Kogh'ten, in Édouard Dulaurier, Recherches sur la chronologie arménienne, 2 voli., Imprimerie Impériale, Paris 1859, vol. 1, pp. 238-240. Abu al-Hasan 'Ali 'Izz al-Dïn ibn al-Athïr, Annales du Magreb et de l'Espagne, trad. e note di Edmond Fagnan, Adolphe Jourdan, Algeri 1898, p. 144 (ripr. anast. GAL, Grand Alger Livres, Alger 2007). 35
Ivi, p. 200. Ivi, p. 211. MIvi, p. 222. "Ivi, p. 236. "Bôdîn era uno dei tre notabili di Amorium che si erano recati con il vescovo a parlare con il califfo arabo Abu Ishâq per dissuaderlo dall'attacca36 37
re la città, ma poi era tornato da lui e gli aveva promesso di consegnargli la città in cambio di 10.000 darici [N.d.T.]. J1 Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, pp. 98-100. 12 Ivi, p. 102. 43 Ibn al-Athlr, Annales du Magreb et de l'Espagne cit., pp. 192-193. "Ivi, pp. 217-218. 45 Ivi, p. 261. "Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 154. Si tratta di Togrul Bey (1038-1063), fondatore della dinastia dei selgiuchidi. 481 turchi selgiuchidi devastarono l'Armenia fin dall'inizio dell'XI secolo. L'autore qui fa riferimento alle campagne degli anni 1048-1054. 49 Le fortificazioni di Melitene erano state distrutte nel 934 dal domestikos [generale] bizantino Johannes Kurkuas e dal principe armeno Mleh. "Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 158. 47
Gli abitanti del Sasun, il distretto, oggi situato nella provincia turca di Batman e un tempo parte del territorio armeno, attraversato dai monti del Tauro, che avrebbe preso il nome dalla famiglia armena dei Sanasuni [N.d.T.]. 51
52 53
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 159. L'attuale Mar Nero.
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 160. Samuele di Ani, Tables Chronologiques, in Marie-Félicité Brosset (a cura di), Collection d'historiens arméniens: dix ouvrages sur l'histoire de l'Arménie et des pays adjacents du Xeme au XIXème siècle, 2 voli., Saint Petersbourg 18741876 (ripr. anast. Apa, Amsterdam 1979), vol. 2, p. 297. 56Si tratta della prima Crociata (1096-1099). 51
55
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 182. Vedi capitolo 1, nota 22. 59 Abu Muhammad 'Abd Allàh ibn Abi Zayd al-Qayrawànï, La Risala (Épitre sur les éléments du dogme et de la loi de l'Islam selon le rite malikite), traduzione e cura di Léon Bercher, Algeri I960 5 (ed. it. La Risala, ovvero Epistola sul diritto islamico, testo arabo a fronte, Edizioni Orientamento, Caprara di Campegine 2006), p. 163.
57 58
'Abd al-Rahmàn ibn Muhammad ibn Khaldun, Prolégomènes, trad. dall'arabo di William Me Guckin barone de Slane, 3 voli., Imprimerie Impériale, Paris 1862-1868 (Geuthner, Paris 1934-1938), vol. 1, p. 469. " In realtà melchiti non è sinonimo tout court di ortodossi: designa invece i cristiani dei patriarcati di Gerusalemme, Alessandria e Antiochia, che, in w
linea con le prescrizioni del Papa e dell'Imperatore bizantino, sposavano le tesi del Concilio di Calcedonia (451) sulla duplicità della natura e l'unicità della persona di Cristo. Il termine (semitico melek, «re»), che identificava i seguaci dell'imperatore, fu coniato in chiave spregiativa dai monofisiti, convinti del carattere unicamente divino della natura di Cristo. I melchiti aderirono allo scisma che nel 1054 originò le Chiese ortodosse, ma nei secoli successivi alcuni di essi tornarono alla comunione con Roma entrando a far parte delle Chiese di rito orientale e di lingua araba [N.d.T.]. 62 Ibn Khaldun, Prolégomènes cit., vol. 1, p. 476. La sura al-Anfdl, «il bottino di guerra», 6 l'ottava del Corano. Fu rivelata dopo la battaglia di Badr, svoltasi nel 624 a sud-ovest di Medina e conclusasi con un'importante e inaspettata vittoria dei musulmani sui loro oppositori meccani (i banû quraysh), che si erano fermati ai pozzi di Badr con le loro carovane per abbeverare i dromedari e gli uomini [N.d.T.]. 63
Henri Laoust, Le traité de droit public d'ibn Taymiya, Institut Français de Damas, Beirut 1948, pp. 27-28. 64
Nella letteratura religiosa islamica il termine sahìh («sano, corretto, giusto») designa i testi su cui, data la loro correttezza formale e sostanziale, è possibile fare il massimo affidamento. In particolare i sunniti definiscono «I due Sahìh» le due principali raccolte di hadlth, attribuite rispettivamente a Bukhari e a Muslim [N.d.T.]. 65
"Laoust, Le traité de droit public d'Ibn Taymiya cit., p. 28. 67 Una delle tre principali tribù ebraiche di Medina, da dove fu espulsa da Maometto nel 625. "Laoust, Le traité de droit public d'Ibn Taymiya cit., p. 34. 69Ivi, pp. 35-36. Ivi, p. 51. 1 muhâjirûn sono i convertiti della primissima ora, che insieme al profeta Maometto lasciarono La Mecca diretti a Medina effettuando l'egira (in arabo hijra). Essi si distinguono dagli ansar o «ausiliari», gli abitanti di Medina che aderirono all'isiàm all'arrivo in città di Maometto e contribuirono alla sua vittoria. Per i Compagni del Profeta cfr. supra, nota 10 [N.d.T.]. ^Laoust, Le traité de droit public d'Ibn Taymiya cit., p. 178. "L'autore, un giurista, rivolge qui i suoi consigli al califfo Hârûn al-Rashïd (786-809). 70 71
Abu Yusuf Ya'qûb, Le livre de l'impôt foncier (Kitâb ai-Kharâdj), trad. di Edmond Fagnan, Geuthner, Paris 1921, pp. 94-95. 71
Al-Sawâd è il nome islamico della fertile e acquitrinosa regione della Mesopotamia corrispondente a una zona dell'Iraq meridionale [N.d.T.]. 75
Abu Yusuf, Le livre de l'impôt foncier cit., p. 95. 1 banu hawâzin erano una delle tante tribù del Hijaz che nel 630 furono sconfitte dai musulmani nella battaglia di Hunayn, presso il wOdl omonimo [N.d.T.]. 76
77
Abu Yûsuf, Le livre de l'impôt fonder cit., pp. 100-101. Ivi, pp. 103-104. "Macchine da guerra simili alle catapulte usate nel Medioevo [N.d.T.]. 81 Abu Yusuf, Le livre de l'impôt fonder cit., pp. 301-302. 82 Ivi, pp. 302-303. 83 Una delle tre principali tribù ebraiche di Medina. m Abu Yusuf, Le livre de l'impôt fonder cit., p. 310. 85 M , p. 311. 86 Ivi, p. 312. 87 Ivi, p. 314-315. 78
79
Battaglia di Bolnisi (Georgia, 7227). Scontro tra i georgiani e le truppe del sultano dello shah del Khwarazm [Corasmia] /alai ai-Din in marcia verso Tiflis [Tbilisi], Tankh-i jalmngushà'i di Juvaym, manoscritto copto-persiano Shiraz (1437), supplem. persiano n. 206, folio 67, BN.
La condizione contadina
L E REALTÀ VISSUTE
Mesopotamia-Iraq (Vili secolo) Spopolamento [Al-Mansur] nominò un altro governatore e lo incaricò di contrassegnare e marchiare a fuoco gli uomini nella parte superiore del collo, c o m e fossero schiavi '. Dice il profeta: «E chiunque non ha ricevuto il marchio della bestia sulla fronte [,..]» 2 . In questo caso, però, gli uomini non recavano tale segno solo sulla fronte, ma anche su entrambe le mani, sul petto e perfino sulla schiena [...] 3 . Giunse quindi sul posto il nuovo governatore, e al suo arrivo fece tremare la regione più di tutti coloro che l'avevano preceduto. Infatti aveva avuto ordine di imprimere sulle mani degli abitanti un marchio indelebile, destinato a rimanere nello stesso identico punto per tutta la vita di coloro preferivano fermarsi all'esterno per paura di ciò che poteva accadere loro; d'altro canto, quelli che volevano uscirne erano costretti a rimanere all'interno, poiché le porte delle città erano state chiuse e a nessuno era permesso andarsene.
Dopo che le cose procedettero così per una settimana, gli amministratori del testatico, < v e d e n d o che> per le strade non c'era anima viva e che nessuno si recava in città dalle campagne, mandarono a dire al funzionario che era subentrato ad al-'Abb5s nella riscossione della tassa 4: «La gente fugge dinanzi al marchiatore, e se costui non se ne va sarà impossibile percepire l'imposta». Il funzionario, udendo queste cose, inviò un messaggio al marchiatore, che partì. Poi, per qualche tempo gli uomini beneficiarono di una tregua sotto quel profilo, perché egli morì durante il viaggio 5 . L'esilio Al-Mansur istituì un altro governatore, con il compito di ricondurre al suo paese e alla casa di suo padre ciascuno di «ccoloro che si erano dati alla fuga>. Costui, dal canto suo, designò ulteriori governatori e prese a inviarli nelle varie città, ma non necessariamente in quelle di loro competenza: anzi, spesso mandava il reggente di una di esse in un'altra, di m o d o che a volte i governatori di tutte le città della Mesopotamia si trovavano riuniti nello stesso luogo per affrontare il problema dell'esilio. Da allora non vi fu più scampo in nessun luogo, ma dappertutto regnarono il saccheggio, la malvagità, l'iniquità, l'empietà e ogni sorta di cattiva azione - calunnie, ingiustizie e vendette reciproche - non solo nei confronti degli stranieri, m a anche dei membri della propria famiglia. Il fratello tendeva insidie al fratello, il quale a sua volta lo consegnava ai governatori. Poi al-Mansur insediò un persiano [un funzionario di Baghdad] a Marda [Mardun], con l'incarico di ricondurvi i fuggitivi e di riscuotere il tributo. In questa città infatti le fughe erano state più massicce che in qualsiasi altra, e l'intera regione era occupata dagli arabi poiché i siriaci [le popolazioni indigene non musulmane] erano fuggiti al loro avanzare. Quest'uomo si chiamava KhalTl ibn Zadan. Egli inflisse molte sofferenze agli arabi, ed è impossibile trovarne l'uguale, prima e d o p o di lui, per l'animosità che manifestava contro di loro. Egli spedì vari emiri in tutte le città, e se questi scoprivano che un u o m o - oppure suo padre o suo nonno - aveva vissuto a Marda anche quaranta o cinq u a n t a n n i prima, lo strappavano alla sua casa, al suo villaggio, alla
sua terra, e lo riportavano in quella città. Per quest'uomo il presente non significava nulla, e su di lui la persuasione non aveva alcun effetto, così che ben pochi riuscivano a sfuggirgli. In tal m o d o egli radunò in quella regione una moltitudine tanto grande che non vi era luogo, né villaggio, né casa che non fosse pieno e non traboccasse di abitanti. Quindi costrinse gli arabi a trasferirsi da una regione all'altra e si impadronì di tutto ciò che possedevano; poi riempì le loro terre e le loro case di siriaci, e fece seminare il loro grano da questi ultimi. Inoltre catturò i più ricchi e inflisse loro senza alcuna pietà tormenti e supplizi di ogni sorta. Generalmente convocava uno di loro, gli faceva radere i capelli e la barba e indossare una corona di pasta, dopodiché lo esponeva al sole. Quindi gli versava dell'olio sul capo in m o d o che gli colasse a poco a poco sugli occhi, e così la sua testa era preda di atroci dolori. Poi gli faceva applicare alle cosce, alle dita, alle braccia catene strette e inserire delle «noci» di ferro negli occhi 6 . Queste erano le torture che egli infliggeva senza alcuna pietà agli arabi, molti dei quali morirono in seguito a esse. Gli altri fuggirono e presero a trasferirsi da un luogo all'altro [ . . . ] ' . Faremo conoscere anche i mali che si abbatterono sugli arabi, poiché nessuno sfuggì alle calamità che si verificarono in quel periodo a causa dei nostri numerosi peccati [...]". In verità, in questo caso il malvagio fu punito dal malvagio [...]. Gli arabi infatti si erano insinuati, c o m e il tarlo nel legno, tra gli sventurati contadini del luogo, prendendo le loro terre, le loro case, le loro sementi e il loro bestiame, tanto che ormai mancava poco che si appropriassero anche di loro e dei loro figli in qualità di schiavi: infatti, all'interno delle loro stesse proprietà, questi contadini lavoravano già come schiavi per gli arabi [...]. Ovunque non si sentiva parlare d'altro che di percosse e di crudeli supplizi; per giunta, in alcuni casi gli arabi portarono alla rovina i contadini che vivevano nelle loro terre: poiché infatti i governatori li caricavano di imposte, essi li costringevano a pagarle con loro fino a quando non li avevano rovinati e non si erano impadroniti di tutto ciò che possedevano. Allora essi fuggivano dalle loro abitazioni. Ma quello fu solo l'inizio della calamità e il principio della devastazione: infatti nel paese vi erano ancora risorse sufficienti, perciò i contadini non erano
ancora ridotti totalmente alla fame; tuttavia quei governatori perversi non erano mai sazi [...]*. Quando i capi di distretto e i governatori entravano in un villaggio, mettevano le mani sul prefetto del luogo e gli ordinavano di consegnare loro tutto il denaro che aveva riscosso. Quindi, aperto il sacco, prendevano tutto quello che volevano, dicendo: «Questa è la parte dell'emiro». Percuotevano senza pietà anche le persone rispettabili e i vecchi con i capelli bianchi. Da quel momento, ovunque non si sentivano altro che grida strazianti. Egli [il governatore] dava spesso manforte ai governatori incaricati di cercare i fuggitivi, rendendosi complice delle loro furfanterie. Li inviava agli estremi confini della provincia, incaricandoli
[...]. Essi [i contadini] erano stati abbandonati a se stessi poiché i loro capi erano impegnati a passare di malizia in malizia, a correre da un'iniquità all'altra. Spogliavano e depredavano i poveri presenti tra loro c o m e fossero agnelli finiti fra le grinfie dei lupi, infliggendo loro ogni sorta di mali e vendendone i beni, grazie a cui essi riuscivano appena a pagare il testatico. Per non parlare delle altre calamità che i malcapitati ebbero a subire < d a parte> di coloro che ricercavano gli esuli, di quelli che portavano via il bestiame, e <degli incaricati di riscuotere> la decima, il gauphi" e il ta'dil12 Le torture In primo luogo fabbricavano dei pezzi di legno larghi quattro dita e piatti da ambo i lati, poi facevano stendere un uomo faccia a terra e si posizionavano uno sulla sua testa e uno sui suoi piedi, mentre un terzo lo percuoteva senza pietà sulle cosce, come se battesse una pelle [...]. In secondo luogo si procuravano due bastoni, li legavano a un'estremità con delle catene e li applicavano alle cosce di un individuo, uno dall'alto e l'altro dal basso, poi un u o m o robusto si sistemava all'altra estremità, fino a quando le cosce venivano spappolate [...]. In terzo luogo li appendevano per le braccia finché le loro membra non si slogavano, e appendevano perfino le donne per le mammelle, fino a quando queste non si strappavano. Oppure li spogliavano dei vestiti, li caricavano di pietre e, così conciati, li immergevano nella neve e nel ghiaccio, versando loro addosso, per giunta, dell'acqua fredda, fino a che non restavano immobili e piombavano faccia a terra. A volte invece prendevano cinque pezzi di legno, li foravano tutti a un'estremità e in quei fori introducevano le dita di qualcuno; poi tiravano l'altra estremità fino a che le due parti non si riunivano e le dita non si spezzavano. Prendevano anche due assi, che legavano tra loro da una parte, e ne sistemavano una sotto i reni e l'altra sotto l'addome, dopodiché un u o m o si metteva in piedi dall'altra parte fino a quando le costole si spezzavano e le viscere erano sul punto di uscire. Fabbricavano apposite catene per le braccia e per ogni singolo m e m bro. Affilavano dei bastoncini di canna e li infilavano sotto le unghie. Costruivano delle piccole «sfere», che introducevano nella cavità ocu-
lare fino a quando gli occhi non erano in procinto di uscire. Li obbligavano a restare a piedi nudi e senza niente addosso sotto la neve e l'acqua, fino a che non diventavano pallidi come morti. Roteavano grossi bastoni e li colpivano senza pietà mentre giacevano a terra. Per loro le fruste erano inutili e il carcere superfluo [...] 1 4 . Non aspettavano nemmeno di aver finito di infliggere una tortura per passare a un'altra [...]. Infatti il loro intento era far convergere simultaneamente sui loro corpi ogni genere di supplizio. Li gettavano nudi nella neve; raccoglievano grosse pietre e gliele premevano sulla schiena finché scoppiavano loro le viscere e si spezzavano loro le costole e la spina dorsale. Riscaldavano la stanza da bagno sino a renderla ardente c o m e il fuoco, poi la riempivano di fumo e ve li rinchiudevano nudi; quindi facevano entrare dei gatti e li buttavano in m e z z o a loro, cosicché, quando gli animali si scottavano, si gettavano su di essi e li dilaniavano con le unghie. Oppure li rinchiudevano in camere buie, in cui non filtrava mai un raggio di luce [...]. Questi erano tutti i tormenti e i supplizi che infliggevano alla povera gente all'epoca della riscossione dell'imposta. Se questa piaga non fosse stata universale - se cioè non avesse riguardato indistintamente cristiani e pagani, ebrei e samaritani, adoratori del fuoco e del sole, magi e musulmani, sabei e manichei - i vari dèi e dee non si sarebbero forse compiaciuti di quest'amara persecuzione? Ma la faccenda non aveva niente a che vedere con la fede, né riguardava i seguaci delle fedi orientali in misura maggiore degli adepti delle religioni occidentali. Il nome del <culto> del Sud [l'islamismo] fu annientato com e quello del <culto> del Nord [il cristianesimo]. Se i cristiani fossero stati i soli bersagli di questa persecuzione, a buon diritto potrei esaltare la superiorità dei martìri del nostro tempo rispetto a tutti quelli che li hanno preceduti: infatti la morte rapida di spada è più dolce delle torture prolungate all'infinito [...]. U n amaro calice e un boccone d'ira erano imbanditi indistintamente per tutti gli uomini, grandi o piccoli, ricchi o poveri che fossero, come dice il profeta. Il ricco assaporava continuamente l'amarezza poiché gli prendevano ingiustamente ciò che aveva e gli frantumavano le ossa a furia di percosse, il povero perché esigevano da lui ciò che non possedeva, e in più non poteva chiedere prestiti e nessuno lo faceva lavorare nel suo campo o nella sua vigna [...].
Nessuno pensi, fratelli miei, che io abbia esagerato in questo racconto, anzi, voglio che si sappia che tutti i calami 1 5 e tutta la carta dell'universo non basterebbero a descrivere i mali che hanno colpito gli uomini del nostro tempo. Nessuno ci accusi peraltro di averli voluti ridimensionare: infatti non siamo in grado di ricostruirne tutti gli aspetti, e queste calamità non si sono certo abbattute su una sola città [ . . . ] " . Essi praticavano l'iniquità senza pudore. La regione era turbata e sconvolta, e gli uomini fuggivano di villaggio in villaggio, di luogo in luogo [...]. Nessuno - né vescovo né prete né giudice - era esente da peccato: si andava dalla calunnia alla rapina, dalla delazione all'ingiuria, dalla maledizione all'odio, dalle mormorazioni al brigantaggio, dall'adulterio alla profanazione di tombe. Ogni seme del demonio fu seminato a quel tempo in tutti gli uomini. Ciascuno, secondo il suo grado e il suo potere, si ingegnava a fare il male [...] 1 7 . Di questi fatti non siamo venuti a conoscenza per sentito dire, ma li abbiamo visti con i nostri occhi [...]. Se qualcuno possedeva qualcosa e voleva fuggire, veniva imprigionato e incatenato fino a che non era stato spogliato di tutto e non gli restava nulla. Quando ormai non aveva più niente gli era concesso andarsene, m a finché possedeva qualcosa no. Se prendeva la fuga, il viaggio stesso lo privava dei suoi beni. Se per caso nascondeva qualcosa sottoterra, il luogo stesso sembrava denunciarlo: «Ecco le ricchezze di quel tale: venitele a prendere», e se affidava i suoi beni a qualcuno ci pensava costui a depredarlo, appropriandosene al posto dei ladri e dei briganti [...] 1 9 . I cristiani tolsero dalle loro case tutti gli utensili di ferro o di legno e li vendettero; fecero lo stesso con le porte, nell'attesa di tempi migliori; infine, staccarono dalle loro abitazioni perfino i correntini 1 9 e vendettero anche quelli. Poi abbandonarono i miseri resti delle loro dimore e se ne andarono spogliati di tutto, errando di villaggio in villaggio, di luogo in luogo [...] 2 0 . Non dobbiamo dire solo che «sono scomparse offerta e libagione dalla casa del Signore» 2 1 , m a anche che i libri liturgici sono stati portati via dalle chiese e venduti, che tutto il resto è bruciato negli incendi e i vasi sacri 2 2 sono andati distrutti. Le vigne sono state devastate, la vendemmia ha pianto 2 3 .1 campi hanno prodotto spine e rovi; gli alberi di
fico si sono seccati, gli olivi sono stati devastati; i melograni, le palme da dattero, i meli e tutti gli altri alberi sono morti. Per questo la gioia è scomparsa dal cuore degli uomini, i lavoratori sono fuggiti e le loro case sono divenute la dimora delle bestie selvagge. Pur riscuotendo già il testatico e molte altre tasse, [gli ausiliari dei governatori] ne esigevano ripetutamente il pagamento. Essi vendevano tutti i beni degli uomini e ne intascavano non conoscevano inizio né fine. Essi piombavano in un villaggio dicendo: «La cifra complessiva dovuta da questo villaggio è di tot: restano tot migliaia ». E riscuotevano di nuovo l'imposta. Poi, una volta che con la violenza avevano ottenuto quella somma, tornavano ancora a pretenderla. Nessuno osava aprir bocca in quanto tutti temevano di essere ulteriormente tassati dal giudice. [Gli ausiliari] catturavano i notabili e li vessavamo senza pietà, tanto da provocare la morte e la distruzione di molti di loro. I contadini stessi davano manforte ai malfattori. Assalivano gli uomini, sottraendo loro e poi vendendo tutto ciò che possedevano. Oppure, mentendo, dicevano loro: «Tu possiedi una vigna, un giardino, un bosco, un c a m p o di olivi nel nostro paese», o: «Tu ti sei fatto garante per qualcuno», o ancora: «Tu sei soggetto alla capitazione nel nostro territorio, e sono tanti anni che non paghi il tributo. Versalo subito perché siamo in ristrettezze». Con questi e altri simili pretesti i contadini fermavano gli uomini poveri e li depredavano. Il giudice stesso insegnava loro ad agire così, rendendosi loro complice e non chiedendo loro conto di ciò che facevano. Essi piombavano su un passante, lo catturavano e citavano contro di lui falsi testimoni < c h e d i c e v a n o : «Costui è tenuto c o m e noi a pagare il tributo in questa regione». E se lui replicava sotto giuramento: «Non ho mai visto questi uomini, e neppure loro mi hanno mai visto», essi ripetevano: «Costui è tenuto a pagare il nostro tributo». Tra essi infatti si trovava sempre qualcuno disposto a testimoniare contro di lui. Così vendevano il suo bestiame, i suoi beni e tutto ciò che possedeva. Essi si aggiravano per le città c o m e cani che fiutino a terra le tracce dei loro padroni, degli animali o delle greggi. Si informavano su chi aveva qualcosa da parte - frumento, ferro o qualsiasi altra merce -
Una delle tre chiese presenti nel VI secolo a Shwta (deserto del Negei', Israele). L'iscrizione sulla croce ripartii il monogramma «XP», che sta per Christos o Messia, e le lettere alfa e omega. La chiesa fu abbandonata dopo In conquista araba.
e lo catturavano. Bisognava vederli muoversi in gruppo nelle città, adocchiando un u o m o e dicendo: «Questo è uno dei nostri» M. E chi sfuggiva a uno di loro era preso da altri, che lo conducevano da altri ancora. Se per caso aveva nascosto qualche cosa, o sottoterra o a casa di qualcuno, il luogo stesso lo gridava a gran voce, come una donna incinta in preda alle doglie del parto. Fu in queste e analoghe condizioni che gli uomini trascorsero i santi giorni della Quaresima 2 5 . L'esodo dei contadini Razin 2 6 giunse ad Arzun 2 7 e a Maipherkat 2 \ e quando venne a conoscenza delle pratiche brigantesche dei governatori delle città li condannò ad atroci torture e a violenti supplizi, a tal punto che furono rosi dai vermi e morirono. Li gettò in catene, spezzando loro mani e piedi, e li spogliò di tutto ciò di cui si erano appropriati. Dio li abbandonò ai tormenti inflitti loro da quell'uomo crudele e scellerato, e tutte le sozzure che avevano commesso ricaddero su di loro. Si diceva infatti che fossero soliti catturare i giovani imberbi incontrati per strada per poi insudiciarli. Inoltre gli scribi e i cambiavalute, che pure erano cristiani, nella loro empietà facevano prendere e condurre loro delle fanciulle da profanare, sia di origine popolare che appartenenti alle famiglie dei notabili [...]. H o riportato alcuni di questi fatti perché i potenti, leggendoli, si mettano una mano sulla coscienza e non agiscano più secondo il loro capriccio o contrariamente all'onestà, e poi perché sappiano che esiste ima legge anche per colui che fa la legge, e comprendano che un principe, se si comporta in m o d o sregolato, perde immediatamente e rapidamente quel titolo in cui consiste tutta la sua gloria, e acquista in cambio la nomea di tiranno. L a quale, connessa com'è a ogni sorta di comportamento malsano, è l'inizio della demenza [...]. Vi fu grande afflizione nelle regioni del Sud [basso Iraq, Siria], a causa della siccità di cui abbiamo parlato in precedenza. Tutta la parte meridionale e orientale della provincia fu sconvolta dalla crudeltà e dalle persecuzioni di Musa ibn Mus'ab. Perciò i loro abitanti si riversarono in Mesopotamia, invadendo i villaggi e le città, le case e i campi, a tal punto che non si poteva né circolare né sostare in alcun luogo a causa della loro presenza. Ciò aggravò la miseria che già opprimeva
i poveri e gli operai mesopotamici, poiché nessuno d a v a loro un salario o era disposto ad assumere uno solo di essi. E se qualcuno offriva loro di lavorare in cambio del solo vitto, erano in moltissimi ad accettare, anche quando non dava loro pane a sufficienza. Uomini e donne, bambini e anziani si aggiravano senza sosta attorno alle case per tutto il giorno, e, quando scorgevano una porta aperta, vi si precipitavano in trenta o quaranta alla volta. All'inizio tutti facevano loro l'elemosina, ma quando questo stuolo di poveri, di stranieri e di affamati crebbe oltre misura, smisero di aiutarli. Infatti gli abitanti temevano di ritrovarsi essi stessi nell'indigenza e di diventare più disgraziati di costoro, tanto più che il governatore, con la frode e il furto, aveva sottratto tutto il grano ai proprietari e lo aveva fatto vendere [...]. Gli abitanti delle diverse regioni della Mesopotamia, spinti dalla carestia, si riunirono e si diressero in massa verso le città. Tutti i loro beni erano già stati venduti, e nessuno era disposto a far loro un prestito. Mangiarono carne e latticini per tutta la Quaresima: infatti, per effetto dei bassi costi del bestiame da macello, ovunque andassero ricevevano carne a volontà. In alcuni luoghi la carestia colpì con maggior crudeltà le popolazioni indigene a causa dell'enorme numero di stranieri presenti tra loro, tanto che si ridussero a mangiare i cadaveri dei defunti. Gli stranieri [quelli di un altro villaggio o un'altra città] che, per non morire, avevano lasciato i loro paesi colpiti dalla carestia, ovunque giungessero erano preceduti, accompagnati e seguiti, dalla spada e dalla peste [...] M . Quando, a causa dell'oppressione del governatore, della penuria di viveri, della carestia, della peste e delle molteplici malattie abbattutesi sugli uomini, le loro sventure si furono moltiplicate, essi abbandonarono le loro case e andarono a stabilirsi in montagna e nelle valli. Lì morivano c o m e le mosche - di fame, di peste, di freddo - ed erano divorati dagli uccelli e dagli animali, senza che vi fosse nessuno a dar loro sepoltura. La peste infierì maggiormente nelle regioni meridionali, m a devastò l'intera provincia, tanto che corti [case] 3 0 in cui prima vivevano 40 o 50 persone rimasero senza un solo abitante. A Mossul ogni giorno venivano portate fuori dalla città oltre 1000 bare. Nella regione di Nisiba, molti villaggi un tempo importanti furono completamente annientati.
Tutti i notabili della regione morirono. La peste provocò soprattutto la morte dei sacerdoti delle città e delle campagne [...]. I campi, i villaggi, le grandi «corti» delle città rimasero deserti 3 1 . Pseudo-Dionigi di Teli Mahre
Egitto Secondo viaggio in Egitto di Dionigi di Teli Mahre (832) Nel mese di sebat il re [Ma'mün] entrò in Egitto, e il patriarca Mar Dionysius 3 2 andò con lui per la seconda volta, c o m e riferisce egli stesso dicendo: «Quando giungemmo nella città di Farma [Pelusa], la prima dell'Egitto, il re mi fece convocare da Fadhl, responsabile degli affari reali. Appena entrai da lui, mi tese la mano secondo le usanze e mi disse: "Patriarca, tu sei venuto a conoscenza della rivolta dei cristiani egiziani noti come biamaye [stanziati nel Basso Egitto]. A loro non è bastata la prim a devastazione che hanno subito. E se non fosse che sono misericordioso e che non medito il massacro, non invierei da loro un u o m o com e te. Ma prendi i vescovi che sono con te e alcuni vescovi egiziani, e recati da loro; tratta con loro, a condizione che consegnino i ribelli e che vengano con l'esercito in un luogo a m e gradito, in cui concederò loro di abitare; altrimenti li farò perire di spada". E, dopo che gli ebbi parlato a lungo della [possibilità di accettare la] loro sottomissione e di lasciarli nel loro paese, egli rispose: " N o ! Escano o saranno messi a morte". E subito ordinò che il patriarca dell'Egitto venisse con me. Ci mettemmo in viaggio per via fluviale, e otto giorni dopo fummo raggiunti dal patriarca Giuseppe, intenzionato a entrare con noi [nella regione]. Subito scendemmo nel Basrut, il distretto in cui vivono i biamaye, e li t r o v a m m o riuniti e al sicuro in un'isola interamente circondata da acqua, giunchi e canneti. Allora i loro capi uscirono e ci vennero incontro. Q u a n d o li rimproverammo per la rivolta e i massacri dei quali si erano resi responsabili, essi ne attribuirono la colpa a chi li governava, e quando appresero di dover lasciare il loro paese furono costernati, e ci pregarono di inviare [dei messaggeri] dal re, per chiedergli il per-
messo di recarsi da lui e raccontargli tutto ciò che avevano subito. Dissero che Abü al-WazTr li obbligava a pagare un tributo veramente esorbitante; che li imprigionava nei [parole mancanti], e che, quando le mogli venivano a trovarli per portare loro del cibo, i suoi servitori le rapivano e le violentavano; che aveva ucciso molti di loro e che aveva intenzione di eliminarli tutti, perché non andassero a lamentarsi di lui presso il re. Era lui che aveva costretto [il generale] Aphsin a inviare i suoi soldati nei loro villaggi per indurli a presentarsi in quell'accampamento, al fine di uccidere gli uomini. M a era accaduto che i soldati avevano incontrato una donna e l'avevano rapita per violentarla. Quando lei si era messa a urlare e a gridare, quelli che si trovavano nell'isola, udendo la sua voce, erano usciti precipitosamente e avevano attaccato battaglia, infliggendo e subendo perdite: per questo motivo la pace era stata infranta, ed era cessata del tutto [...] 3 3 . Quando arrivammo dal generale Aphsin e lo mettemmo a conoscenza del fatto che i ribelli erano irremovibili, egli ci rispose: «Ormai la pace è stata infranta. Andate a dire al re che nessuna pace è possibile». E diedero inizio alla guerra, appiccando il fuoco ai villaggi, alle vigne, agli orti e alle chiese di tutto il distretto. I biamaye, dal canto loro, sbucando dall'acqua trafiggevano i persiani 3 4 a colpi di giavellotto o di lancia. Essi portarono con sé i loro vicini, li istigarono contro di essi [i persiani], e insieme si misero a uccidere e a farsi uccidere. Quando arrivammo dal re, io gli raccontai tutto, rivelandogli l'offesa < c h e era stata arrecata agli> egiziani, l'iniquità di Abü al-WazIr - che si era opposto alla pace - e il fatto che gli abitanti della regione si lamentavano di lui e di altre due persone [...] 3 5 . Il re M a ' m ü n scese nella terra dei biamaye e fece cessare le devastazioni che regnavano presso di loro: convocò infatti i loro capi e ordinò loro di lasciare la regione. Poi i biamaye gli descrissero la durezza dei prefetti <nominati> per governarli, e gli spiegarono che, se fossero usciti dalla loro terra, non avrebbero più avuto mezzi di sussistenza perché traevano il proprio sostentamento dal papiro e dalla pesca. In seguito accettarono il suo ordine: salparono alla volta di Antiochia e di lì furono inviati a Baghdad. Erano in tutto 3000. La maggior parte di essi morì durante il viaggio. Quelli che erano stati fatti prigionieri in
guerra - circa 500 uomini - furono ceduti come schiavi ai tayyayè, che li deportarono a Damasco e li vendettero. E, cosa che non era mai accaduta nell'impero dei tayyayè, vendettero anche quanti erano soggetti al giogo del testatico. Ma con l'aiuto di Dio noi incoraggiammo i fedeli, e tutti furono riscattati e liberati. Tuttavia essi non tornarono nel loro paese poiché vi regnava una grave carestia, e molti di essi si stabilirono in Siria per avere pane a sazietà. Il re ordinò ai prefetti di non trattare con durezza gli egiziani, altrimenti li avrebbe messi a morte. Poi condonò la metà dell'imposta a tutto l'Egitto. Ma quando il re fu partito, sugli egiziani si abbatterono molteplici calamità. I persiani entravano infatti nei villaggi, incatenavano a gruppi di dieci o di venti quanti opponevano loro resistenza, e li inviavano ad alFustat 3 6 senza accertare se fossero colpevoli o innocenti. Così molti di loro morivano senza aver commesso alcuna colpa. Un giorno alcuni di essi, mentre venivano condotti in catene al massacro, chiesero all'uomo che li scortava di accettare un dono e di liberarli. Ma, dal momento che glieli avevano affidati in un numero ben determinato, egli rispose loro: "Aspettate che incontriamo degli altri per strada, e li incatenerò al vostro posto". Incontrarono tre uomini: un sacerdote e due taiyayè, uno dei quali era l'imam di una moschea; ebbene, costoro furono presi al posto degli altri, i quali vennero rilasciati in cambio di doni. E poiché ai [nuovi] oppressi non era concesso parlare, furono massacrati. Così le strade erano piene di uomini trucidati ingiustamente. A quell'epoca in terra d'Egitto regnavano la spada e la prigionia, la carestia e la peste. [Alla morte di Ma'mun, gli succedette al-Mu'tasim],
il quale inviò le sue
truppe a combattere gli zotaye37, che abitavano all'interno della regione lacustre formata dalla piena dell'Eufrate e del Tigri [basso Iraq], poiché questo popolo era perennemente in rivolta ed era fonte di fastidi per il re. Essi infatti percuotevano, depredavano e massacravano i mercanti che si recavano a Baghdad da Bassora, dall'India e dalla Cina. M a le truppe non poterono far nulla contro di loro, perché essi combattevano sulle barche. Allora il re inviò ad attaccarli gli egiziani che aveva fatto prigionieri e deportato dal Basrut, i quali erano abituati all'acqua e nuotavano c o m e pesci; senza essere visti, essi colpivano all'improvviso gli zótaye con le lance e li trafiggevano. Così gli zo-
Chiesa e convento di San Simeone Stilita (Qal'at Sim'Sn) nel V secolo. Situati nel deserto settentrionale della Siria, furono abbandonati dopo la conquista araba («Syrie centrale. Architecture civile et religieuse du ìer au VIIime siècle», 2 voli., Paris 1865-1877, di Charles-Jean Melchior marchese de Vogtié, archeologo e diplomatico francese vissuto tra il 1829 e il 1916, voi. 2, tavola 145). taye furono sconfitti dai biamayè; vennero catturati con le loro mogli e i loro figli, e marcirono e perirono in carcere a Baghdad. Quando il re vide le brillanti gesta degli egiziani nella battaglia contro gli zOtaye, iniziò ad apprezzarli, tanto che ne prese alcuni al suo servizio per farli lavorare nei giardini e nei parchi, altri invece perché si dedicassero a tessere le tipiche vesti di lino ricamate dell'Egitto, mentre ai restanti concesse di tornare nel loro paese. Quando giunsero al mare, presero posto sulle navi per scendere in Egitto, m a la giustizia non permise loro di arrivare a stabilirvisi: infatti si levò una tempesta ed essi furono tutti sommersi dalle acque» 3 8 . Sotto il califfo Harun
al-Wathiq
(842-847)
A Cirro [a nord di Aleppo] un altro prefetto, passando di villaggio in villaggio, incontrò un cammelliere i cui cammelli stavano urinando per strada, e gli disse: «Perché permetti ai tuoi cammelli di pisciare
sulla strada in cui passeranno i musulmani? Per farli scivolare e cadere?». E lo fece incarcerare con i suoi cammelli fino a che l'uomo non gli ebbe fatto < u n dono>. Un altro giorno, vide un u o m o che era caduto dal suo asino e si era fracassato la testa. Avendo appreso da lui che l'asino si era spaventato e per questo lo aveva gettato a terra, ordinò di ucciderlo, con il pretesto che era un animale pauroso e un potenziale assassino del suo padrone. Q u a n d o il p o v e r ' u o m o lesse la sentenza del prefetto, gli diede due dinari e in tal m o d o salvò il < s u o a s i n o . Q u a n d o qualcuno si lamentava di un altro, egli li imprigionava entrambi fino a che non li aveva rovinati. E così gli uomini erano impossibilitati a sporgere querela e costretti con la forza a osservare il comandamento che recita: «Non renderai male per male». I prefetti impedivano loro di vendemmiare al momento opportuno se prima non avevano ricevuto un dinaro ogni mille ceppi di vite; analogamente, proibivano loro di spremere i grappoli ai torchi finché non avessero ottenuto da loro tutto il denaro che volevano; poi depositavano il vino nelle proprie botti fino a che non avessero prelevato < u n ' i m p o s t a > dai venditori e dai compratori. Riscuotevano di questo tipo anche per le strade e alle porte delle città, nonché all'inizio della mietitura, della macinatura, della disinfestazione dei bachi da seta 3 9 e della raccolta delle olive 40 . Michele il Siro
L E OPINIONI DEI GIURISTI
L'abbigliamento e l'aspetto esteriore dei tributari È necessario inoltre che tu [l'autore consiglia il califfo Harun al-Rashld] apponga un sigillo sulla loro nuca al momento di riscuotere la jizya, fino a che non siano stati passati in rassegna tutti, salvo poi rompere questi sigilli a loro richiesta, come fece 'Uthman ibn Hunayf 4 1 . Tu sei riuscito a imporre che nessuno di loro sia lasciato libero di imitare un musulmano nel modo di vestire, nella cavalcatura e nell'aspetto esteriore; che tutti si cingano la vita con la cintura detta zunnar, simile a uno spago grossolano che ognuno deve annodare al centro del corpo; che i loro zucchetti
siano trapuntati; che le loro selle abbiano, al posto del pomo, un pezzo di legno simile a una melagrana, che le loro scarpe siano provviste di doppie stringhe; che essi evitino di trovarsi faccia a faccia con i musulmani; che le loro donne non usino selle imbottite; che non costruiscano nuove sinagoghe o chiese in città, e si limitino a utilizzare come luoghi di culto quelli esistenti all'epoca del trattato che li ha trasformati in tributari, e che sono stati lasciati loro senza essere demoliti; lo stesso valga per le pire funerarie 42 . È loro consentito risiedere nei principali centri urbani o commerciali ed esercitarvi l'attività di compravendita, m a senza vendere vino o carne di maiale, e senza esibire croci nelle città principali; i loro copricapi però dovranno essere lunghi e grossolani. Impartisci dunque ai tuoi delegati l'ordine di imporre ai tributari il rispetto di queste norme esteriori, proprio come fece Omar ibn al-Khattab, «al fine - sosteneva - di distinguerli dai musulmani già a prima vista». Leggo in 'Abd al-Rahman ibn Thabit ibn Thawban, il quale a sua volta cita il padre, che un giorno il califfo Omar ibn 'Abd al-'Aziz [717720] scrisse a uno dei suoi governatori, dopo i [saluti] preliminari: «Non permettere a nessuno di esibire la croce, m a rompila e distruggila; che nessun ebreo o cristiano faccia uso della sella, m a adoperi il basto, e che nessuna donna ebrea o cristiana usi la sella imbottita, ma soltanto il basto; a tale proposito emana dei divieti formali e impedisci ai tuoi collaboratori di violarli. Che nessun cristiano osi indossare la qabct", né abiti di seta 4 4 , né turbante! Mi è stato riferito infatti che molti cristiani soggetti alla tua giurisdizione sono tornati a usare i turbanti, non portano più la cintura e si lasciano crescere liberamente i capelli invece di tagliarli. Per Allah! Se nel tuo entourage si è verificato ciò, lo si deve alla tua debolezza, alla tua impotenza, alle adulazioni a cui hai dato ascolto; evidentemente, se questa gente ha ripreso le sue antiche usanze, è perché ha capito di che pasta sei fatto. Vigila sull'applicazione di tutto ciò che io ho proibito e impedisci a quanti già 10 hanno fatto di contravvenire ancora a tali norme. Salute a te» 45 . Abu Yusuf Ya'qub Imposta prò capite e imposta fondiaria 11 testatico e il kharaj sono due fardelli dei quali Allah ha gravato i politeisti a vantaggio dei fedeli; essi presentano tre aspetti comuni e tre
divergenti, da cui discendono le molteplici applicazioni possibili di tali regole. I tre aspetti in comune sono i seguenti: a) l'una e l'altra imposta vengono riscosse dai politeisti per
rimarcare
la loro condizione di inferiorità e di umiliazione; b) entrambe alimentano il fay', e il loro ricavato viene assegnato agli aventi diritto al fay'-, c) il loro pagamento è esigibile alla fine dell'anno, m a non prima di tale scadenza. I tre aspetti per i quali essi si differenziano sono i seguenti: a) il testatico è fondato su un testo, mentre il kharaj trae origine da valutazioni personali
4é;
b) nel caso del primo, il tasso più basso è stabilito dalla Legge mentre il più alto deriva da valutazioni personali; nel caso del secondo entrambi i tassi derivano da valutazioni personali; c) il primo, dovuto finché il contribuente è un infedele, cessa con la conversione, mentre il secondo è esigibile tanto dagli infedeli quanto da chi professa l'islamismo. II termine jizya (testatico), che designa un'imposta applicabile individualmente a ogni suddito dhimml, è riconducibile al concetto di jezà : infatti si tratta sia di un compenso che egli è tenuto a versare in ragione del suo status di infedele - non a caso gli viene estorta con disprezzo - sia di una rimunerazione nei nostri confronti per il fatto che gli abbiamo risparmiato la vita, non a caso gli viene chiesta con dolcezza. Tale imposta si fonda sui versetti sacri: «Combattete quelli che non credono né in Dio né nel Giorno ultimo, quelli che non dichiarano illecito ciò che Dio e il suo Messaggero hanno dichiarato illecito, e quelli fra le Genti del Libro che non rispettano com e religione la Verità, sino a che non versino la tassa [con le loro proprie mani] 4 7 dopo essersi umiliati» [...] 4 S . Le parole «con le loro stesse mani» possono alludere o alla condizione di ricchezza e di opulenza dei dhimmT, o alla loro convinzione che abbiamo la forza e il potere necessari per esigere da loro quest'imposta. Il termine «umilmente» rinvia invece o al loro stato di mortificazione e umiliazione, o al fatto che sono soggetti alle prescrizioni islamiche. Chiunque detiene l'autorità deve imporre la jizya ai seguaci delle religioni rivelate che passano sotto la nostra protezione, così che essi pos-
sano dimorare in territorio islamico; dal versamento di essa scaturiscono due diritti: quello di essere lasciati in pace e quello di essere protetti. In virtù del primo hanno la sicurezza, in virtù del secondo trovano riparo all'ombra del nostro braccio [...]. Gli arabi, <se ne esistono le c o n d i z i o n i ^ sono soggetti come tutti gli altri al testatico; Abu Hanlfa 4 ' però ha asserito: «Io non lo esigo dagli arabi perché non voglio che siano umiliati». Neppure il rinnegato è tenuto a versarlo, e neanche il materialista o l'idolatra; nondimeno, Abu Hanlfa ne prevedeva il pagamento per quest'ultimo, m a solo se non era arabo. I seguaci delle religioni rivelate sono gli ebrei e i cristiani, i cui rispettivi libri sacri sono la Torah e la Bibbia Chi vuole passare da una setta ebraica a una cristiana non è libero di farlo: secondo la più attendibile delle due scuole di pensiero in materia, egli è tenuto a farsi musulmano [...] 5 1 .
Chiesa bizantina di San Teodoro (Avdat, deserto del Negev, Israele). La chiesa fu abbandonata tra il VII e l'VIll secolo.
Q u a n d o la p a c e è stata concessa [agli infedeli] in cambio dell'obbligo di ospitalità nei confronti dei musulmani di passaggio, tale obbligo è limitato a un periodo di tre giorni, e non può essere ulteriormente prolungato. Furono questi i termini dell'accordo stipulato da O m a r con i cristiani di Siria, ai quali impose di ospitare per tre giorni tutti i musulmani che p a s s a v a n o dalle loro parti p r o v v e d e n d o a nutrirli secondo le loro usanze - m a senza l'obbligo di sacrificare una pecora o una gallina - , nonché di offrire u n riparo notturno ai loro animali, m a senza fornire loro l'orzo; peraltro assoggettò a tale obbligo soltanto gli abitanti delle campagne, escludendone quelli delle città [,..] 5 2 . Nel contratto legato al testatico sono previste due clausole, una delle quali è di rigore mentre l'altra è altamente raccomandata. La prima comprende sei articoli: a) [i dhimmT] non devono né attaccare, né snaturare il Libro sacro; b) non devono accusare il Profeta di menzogna o nominarlo con disprezzo; c) non devono parlare della religione islamica per criticarla o contestarla; d) non devono abbordare una donna musulmana al fine di instaurare con lei relazioni illecite oppure di sposarla; e) non devono allontanare dalla fede alcun musulmano, né nuocere alla sua persona o ai suoi beni; f) non devono dare aiuto ai nemici [dei musulmani] né accogliere alcuna delle loro spie. Questi sono divieti di carattere rigorosamente obbligatorio, ai quali i dhimmT devono conformarsi senza che occorra stipularli esplicitamente; se ciò viene fatto, è unicamente per renderli pienamente consapevoli di essi, per corroborare la solennità dell'impegno che viene loro imposto e per sottolineare adeguatamente che d'ora in poi il compimento di uno di questi atti comporterà la rottura del patto che è stato loro accordato. La seconda clausola, che è solo raccomandabile, verte anch'essa su sei punti: a) l'obbligo di modificare il loro aspetto esteriore indossando il segno distintivo o ghiyar e la speciale cintura zunnar,
b) il divieto di costruire edifici più alti di quelli dei musulmani: i loro dovranno essere di altezza uguale, se non inferiore; c) il divieto di offendere le orecchie musulmane con il suono delle loro campane (nakus), la lettura dei loro libri e le loro pretese in relazione a Uzayr 5 3 e al Messia; d) quello di non abbandonarsi pubblicamente al consumo di vino, nonché all'esibizione di croci e di maiali; e) l'obbligo di procedere all'inumazione dei loro defunti in segreto, senza fare sfoggio di pianti né di lamenti; f) il divieto di utilizzare c o m e cavalcature i cavalli, siano essi di razza 0 di sangue misto, mentre è loro consentito servirsi di muli e di asini. Queste sei prescrizioni raccomandabili non sono necessariamente incluse nel contratto di vassallaggio, a meno che esse non siano state espressamente specificate, poiché in questo caso acquistano carattere strettamente obbligatorio. Il fatto di trasgredirle qualora siano state stipulate non implica la rottura del patto, ma gli infedeli sono costretti con la forza a rispettarle e puniti per averle violate. N o n incorrono invece in alcuna pena quando non è stato specificato nulla al riguardo [...J 5 4 . Quando gli alleati e i tributari si uniscono per combattere i musulmani, diventano subito loro nemici e ognuno di essi può essere messo a morte; per coloro che non hanno preso le armi, si tiene conto del fatto che abbiano consentito o meno alle ostilità. Il rifiuto da parte dei tributari di pagare il testatico costituisce una violazione del trattato che è stato loro concesso. Secondo Abu Hanlfa, questo rifiuto non costituisce una violazione se non nel caso in cui essi si spostino nel «territorio di guerra» [dar al-harb]. L'ammontare dell'imposta viene prelevato con la forza c o m e tutte le altre s o m m e dovute. 1 dhimmi non possono erigere nuove sinagoghe o chiese nel territorio islamico (dar al-islam); qualora ciò accada, bisogna demolirle senza alcun indennizzo; possono ricostruire le vecchie sinagoghe o chiese cadute in rovina. La violazione del contratto da parte dei tributari non autorizza a ucciderli, a spogliarli dei loro beni e a ridurre in prigionia le loro mogli e i loro figli se non quando ci combattono; altrimenti vanno espulsi dal
territorio musulmano, m a rispettandone l'incolumità, finché non abbiano raggiunto un luogo sicuro nel più vicino paese politeista. Se non partono di loro spontanea volontà, verranno espulsi con la forza 5 5 . Al-Mawardi «Umiliazione e derisione devono toccare in sorte a coloro che disobbediscono alla mia parola.» I dhimmt sono i più refrattari al Suo com a n d o e i più ostili alla Sua parola: di conseguenza essi meritano di essere umiliati discriminandoli dai musulmani, che Allah ha esaltato in virtù della loro sottomissione a Lui e al Suo Profeta, innalzandoli al di sopra di coloro che Gli disobbediscono. Questi ultimi, invece, Egli li ha umiliati, mortificati e resi abominevoli, di m o d o che il marchio del disprezzo sia ben visibile su di loro, e affinché possano essere distinti grazie al loro aspetto. Che a costoro debba essere imposto un segno distintivo [ghiydr] emerge chiaramente dall'affermazione del Profeta: «Chi sceglie di assomigliare [ai dhimmt] sarà considerato uno di loro» [...] 5 6 . È obbligatorio costringere l'infedele ad assomigliare a quelli del suo popolo, affinché i musulmani possano individuarlo [...]. Se uno di essi [un ebreo o un cristiano] saluta uno di noi [un musulmano], dobbiamo rispondergli: «Anche su di te» 5 7 . Se è questa la consuetudine nell'islam, allora è necessario imporre ai dhimmt un abbigliamento speciale affinché possano essere riconosciuti e le consuetudini islamiche possano essere correttamente osservate, e affinché il musulmano possa scoprire chi l'ha salutato. Si tratta di un musulmano, che merita l'augurio di pace, o di un dhimmi che non lo merita? [...]. Inoltre, l'abbigliamento distintivo risponde ad altri scopi: grazie a esso il musulmano può scoprire che chi lo indossa è una persona che non deve incontrare né far sedere in un'assemblea di musulmani, a cui non deve baciare la m a n o né di fronte a cui deve alzarsi in piedi, a cui non deve né rivolgersi con gli appellativi di «fratello» o di «signore», né augurare il successo o l'onore c o m e si è soliti fare con un musulmano; né elargire l'elemosina rituale o ricorrere a lui c o m e testimone, sia di accusa che di difesa, né vendere una schiava islamica o affidare libri religiosi o giuridici concernenti l'islam [... ]
È severamente proibito chiamare un dhimmT «signore» o «maestro», come recita ì'hadlth [...]. Quanto agli appellativi «gloria dello Stato», «pilastro dello Stato» ecc., anche questi non sono leciti. Se uno di essi si fregia di tali titoli, il musulmano non deve attribuirglieli. Se si tratta di un cristiano, lo apostroferà dicendo: «Ehi tu, cristiano!», o «Ehi tu, croce!»; se invece è un ebreo gli dirà: «Ehi tu, giudeo!» [...] 5 9 . L'abbandono o la sostituzione di queste leggi istituite da Omar con altre leggi, anche se esse sono accettate dalle autorità religiose, costituisce un atto di negligenza da parte di colui a cui Allah ha intimato [il rispetto del] la verità e l'annientamento dei Suoi nemici. Infatti, se si permette ai dhimmT di manifestare la loro empietà e di uscire dal loro stato di inferiorità, la religione di Allah, il Suo Profeta, il Suo Libro e i musulmani vengono di fatto diffamati [...], e le spiegazioni da noi fornite confermano che il jihdd è obbligatorio fino a che la parola di Allah non regnerà sovrana, e tutti professeranno la sua religione, e tale religione prevarrà su tutte le altre, e i dhimmT pagheranno il tributo nell'umiliazione". Ibn Qayyim al-Jawziyya
Malik 61 sostiene che a un musulmano non si addice insegnare né l'alfabeto arabo né qualsiasi altra cosa a un cristiano; egli non deve neanche mandare suo figlio in una scuola straniera [non musulmana], perché vi apprenda una scrittura diversa da quella araba [...]. Quando un dhimmT starnutisce, non bisogna dirgli: «Che Dio ti benedica!», ma: «Che Dio ti conduca sulla retta via!», oppure: «Che egli migliori la tua condizione!» [...]. Se un dhimmT ha avuto relazioni peccaminose con una musulmana e lei era consenziente, esistono opinioni contrastanti circa il fatto che ciò comporti la rottura del patto; se invece l'ha presa con la forza, non vedo possibile alcuna divergenza riguardo alla violazione del trattato e a questo individuo. È così che la maggior parte dei dhimmT egiziani ha infranto il patto: poiché hanno offeso i musulmani e intrattenuto relazioni peccaminose con le loro mogli, consenzienti o no. Del resto, solo Allah è l'onnisciente.
Se il dhimmi si rifiuta di pagare la jizya vi è rottura del patto, ed è lecito impadronirsi di tutto ciò che possiede. Se ha proferito ingiurie contro il profeta, sarà messo a morte. Ma ci si chiederà - può sfuggire a tale sorte abbracciando l'islamismo? A tale proposito esistono due scuole di pensiero; tuttavia sembrerebbe che, ogni volta che un dhimmi viene condannato a morte per aver violato il patto, possa sfuggire alla pena capitale convertendosi all'islam. Se egli ha acquistato uno schiavo musulmano o una copia del Corano, sarà punito. A Malik fu posto il seguente quesito relativo ai testi sacri contenenti il Pentateuco e il Vangelo: «Pensi sia lecito vendere questi libri agli ebrei e ai cristiani?». Ed egli rispose: «Ascoltatemi: in primo luogo siamo sicuri che questi testi siano veramente il Pentateuco e il Vangelo? In ogni caso, ritengo che a noi non sia consentito né venderli, né accettare denaro in cambio di essi». Alcuni 'ulamà sostengono altresì che, siccome l'islamismo ha abrogato tutte le religioni precedenti, non è lecito vendere questi libri agli uomini che credono ai loro precetti e non riconoscono il Corano - che li ha sostituiti tutti - , anche se fossero davvero il Pentateuco e il Vangelo. Ma neanche questo è ammissibile, poiché non vi è alcun modo di pervenire alla conoscenza dei testi autentici: infatti, come dice Allah stesso, «Essi hanno alterato il Pentateuco e il Vangelo» 62 . CHIESE: secondo la tradizione, si narra che il Profeta abbia pronunciato queste parole: «Non si edificheranno chiese nei paesi musulmani, né si ripareranno quelle che cadono in rovina». Al riguardo si cita anche questo suo hadith: «Niente chiese nell'islam». Omar ibn al-Khattab ordinò di demolire tutte le chiese che non esistessero già prima dell'islamismo, e proibì di costruirne di nuove; inoltre stabilì che ai cristiani fosse proibito esporre croci fuori dalle chiese, e che, se qualcuno ne portava ima, gli venisse spaccata sulla testa. 'Urwa ibn Nàj ordinò di distruggere tutte le chiese di Sanaa [Yemen]. Questa è la legge sancita dagli 'ulamà dell'islam. Omar ibn 'Abd al-'AzIz rincarò ulteriormente la dose, ordinando di non lasciare in piedi in alcun luogo chiese o cappelle, vecchie o nuove
che fossero. È consuetudine - afferma Hasan al-Basrì 63 - distruggere le chiese antiche e recenti in tutti i paesi. Omar ibn 'Abd al-'AzIz emanò anche una serie di ordinanze che proibivano ai cristiani di alzare la voce quando cantavano nelle loro chiese, poiché questi sono i canti più sgraditi all'Altissimo; inoltre vietò loro di riparare le parti dei loro luoghi di culto che cadevano in rovina. Su quest'ultimo punto esistono due opinioni: se ne rintonacano l'esterno - dice al-Istakhari 64 - bisogna impedirglielo, ma se si limitano a ripararne l'interno, ossia la parte visibile a loro, ciò può essere tollerato; comunque, solo Allah è l'onnisciente. TESTATICO: gli 'ulama nutrono opinioni discordanti riguardo alla jizya: secondo alcuni essa è stata fissata una volta per tutte sulla base della cifra stabilita da Omar ibn al-Khattab, e non è possibile né aumentarla né diminuirla; secondo altri invece la determinazione del suo importo è affidata allo zelo dell'imam, il quale è il giudice più competente su questa materia; infine, secondo ima terza opinione, non si può apportare alcuna riduzione all'aliquota introdotta dall'imam Omar ibn al-Khattab, ma è possibile elevarla [...]. La jizya stabilita da Omar era di 48 dirham per i ricchi, 24 per gli esponenti della classe media e 12 per i poveri, ma è opportuno che l'imam manifesti il suo zelo per la religione innalzandone l'importo; certo, ai tempi in cui viviamo sarebbe più che giusto prelevare annualmente 1000 dinari da questo o quel dhimml, i quali peraltro, viste le ricchezze che hanno accumulato grazie ai musulmani, non sarebbero affatto impossibilitati a pagare tale somma. In ogni caso l'imam, una volta accertate le azioni disoneste che hanno commesso per accumulare questi tesori, deve confiscarglieli senza esitazione; qualora invece non sia del tutto certo della loro slealtà, deve venire a patti con loro, prendendo la metà di ciò che possiedono. Beninteso, agirà in questo modo solo nel caso in cui fossero ricchi già prima di entrare nell'amministrazione pubblica <wilaya>é5; ma, se all'epoca erano poveri e bisognosi, allora l'imam dovrà appropriarsi interamente dei loro beni. Tra l'altro, è così che si comportò Omar ibn al-Khattab nei confronti dei notai egiziani, basandosi sul fatto che tali individui si erano probabilmente arricchiti nell'esercizio delle funzioni pubbliche; eppure non era stato possibile appurare la loro colpevolezza.
Sia lode al Dio altìssimo, al Dio unico! Possano la benedizione e la pace accompagnare Maometto, la sua famiglia e i suoi Compagni! 6 0 . Ibn al-Naqq3sh
' Al-Mansûr, fratello del califfo Abu al-'Abbâs al-Saffâh (750-754) e in seguito califfo egli stesso (754-775), fu governatore della Mesopotamia, di Mossul, dell'Azerbaijan e dell'Armenia. Secondo lo storico armeno Ghevond (Vili secolo) egli impose a tutti i dhimmï di portare un sigillo di piombo sulla nuca (Histoire des guerres et des conquêtes des arabes en Arménie, trad. di Garabed V. Chahnazarian, Meyrueis, Paris 1856, p. 124). 2 II passo è liberamente tratto da Apocalisse 20,4, che recita testualmente: «Poi vidi alcuni troni e a quelli che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare. Vidi anche le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non ne avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano». La traduzione [di questo, come di altri passi biblici] è tratta da Conferenza Episcopale Italiana (a cura di), La Sacra Bibbia, Edizioni CEI, Roma 2003. Vedi anche: http://www.vatican.va/archive/ITA0001/_INDEX.HTM# fonte [N.d.T.]. Jean-Baptiste Chabot (a cura di), Chronique de Denys de Tell Mahré, quatrième partie, Bibliothèque de l'École des Hautes Études, Bouillon, Paris 1895, p. 104. 4 Al-'Abbâs, ex governatore della Jazîra, fu sostituito da Musa ibn Mus'ab. 5 Chronique de Denys de Teli Mahré cit., p. 105. 'Sono le piccole «sfere» di ferro menzionate poco più avanti, nel paragrafo sulle torture [N.d.T.]. 7 Chronique de Denys de Teli Mahré cit., pp. 105-106. Hvi, p. 128. "Ivi, p. 130. 3
Ivi, p. 134. Tassa destinata al demanio dello Stato. 12 Censimento quantitativo e qualitativo della terra finalizzato a determinare l'entità dell'imposta. 13 Chronique de Denys de Teli Mahré cit., pp. 135-136. 14 La pratica della tortura è confermata dagli storici armeni. Secondo Ghevond, Histoire des guerres et des conquêtes des arabes en Arménie cit., p. 131: 10
11
«Dappertutto venivano innalzati forche, torchi e patiboli; dappertutto non si vedevano che continui, spaventosi supplizi». Le persone dei ceti inferiori erano «esposte a diversi tipi di tormento: alcuni subivano la flagellazione per non essere riusciti a pagare imposte esorbitanti; altri erano appesi alle forche, o schiacciati sotto i torchi; altri ancora erano spogliati degli indumenti e gettati nei laghi ghiacciati nel pieno di un inverno particolarmente rigido, mentre dei soldati strategicamente disposti sulla riva impedivano loro di toccare terra e li facevano morire orribilmente» (Ghevond, ivi, p. 132). Molti si rifugiavano nelle grotte, altri ancora si suicidavano. Bastoncini di canna di cui ci serviva per scrivere. "•Chronique de Denys de Teli Mahré cit., pp. 142-144. "Ivi, p. 166. 18 Ivi, p. 167. 15
"Travi in legno che sostengono i listelli cui sono appoggiate le tegole [N.d.T.]. Chronique de Denys de Teli Mahré cit., p. 168. Gioele 1,9 [N.d.T.]. 221 «vasi sacri» sono i diversi recipienti di cui si fa uso nella liturgia: il calice, la patena, la pisside o ciborio, la teca, l'ostensorio, le ampolline per l'acqua e il vino, le ampolle per gli oli santi. Cfr. http://www.celebrare.it/ quindicinale/019.htm [N.d.T.]. 20 21
Libera citazione da Isaia 24,7: «Lugubre è il mosto, la vigna languisce, gemono tutti» [N.d.T.]. 23
24
Un membro della nostra comunità [N.d.T.].
Chronique de Denys de Teli Mahré cit., pp. 169-170. Personaggio incaricato di controllare i governatori, la cui crudeltà, secondo il nostro autore, tormentò tutti gli abitanti. 25 26
Antica capitale dell'Arzanene, situata nel Kurdistan, a nord del Tigri. L'antica Martiropoli, nel Sud dell'Armenia. 29 Chronique de Denys de Teli Mahré cit., pp. 175-177. 27
28
L'uso del termine «corte» come sinonimo di «casa» deriva dalla tipica struttura della casa-cortile mesopotamica (presente anche in Egitto e nell'area mediterranea, raggiunse la perfezione architettonica nell'antica Roma), caratterizzata da uno schema risalente ai sumeri: un cortile-giardino centrale interno, protetto dall'esposizione diretta al sole, su cui si affacciavano le stanze, mentre le mura esteme erano chiuse dal lato della strada, perché la vita privata fosse al sicuro da sguardi indiscreti e dai rumori della città [N.d.T.]. 30
Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 186. Nelle Chiese cristiane orientali, in particolare in quella siriaca, Mar o Mor (lett. «mio Signore»), è un titolo onorifico conferito a vescovi e santi. Le varianti Maran o Moran («Nostro Signore») sono attribuite in genere a Gesù, talvolta a patriarchi e catholicoi. Il patriarca siro-ortodosso di Antiochia e il catholicos ortodosso siro-malankarese (India) usano il titolo Moran Mor [N.d.T.]. 31 32
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche (1166-1199), trad. di Jean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924 1 (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), voi. 3, pp. 76-78.
33
Per «persiani» si intendono qui i funzionari di Baghdad presenti nelle province. Cfr. supra, nel paragrafo «Mesopotamia-Iraq», il sottopararafo «L'esilio» [N.d.T.]. 31
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 79. Località nei pressi di II Cairo. 37 Gli zôtaye o zanj erano schiavi neri originari dell'Africa che coltivavano i territori degli arabi nel basso Iraq. Essi si ribellarono all'inizio del IX secolo. 35 36
Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, pp. 82-84. II termine écheniller, lett. «disinfestare dai bruchi», allude alla fase della bachicoltura in cui, per evitare che i bruchi, ultimata la metamorfosi e trasformatisi in falene, escano dai bozzoli tagliando i fili di seta e rendendoli inutilizzabili, gli allevatori gettano i bozzoli in acqua bollente uccidendoli [N.d.T.]. 38
39
"Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, pp. 106-107. 41 Uno dei Compagni del Profeta, al servizio del califfo Omar ibn alKhattab [N.d.T.]. "Allusione al culto funerario degli zoroastriani [N.d.T.]. 43 La qaba è una tunica o una veste con le maniche larghe, di vari colori, aperta davanti e indossata sopra la camicia. È il classico indumento dei ricchi, e si distingue dalla aba o abSya, una sorta di mantello di lana, nero o a strisce bianche e marroni, tipico dei poveri. http://www.persian. packhum.org/persian/index.jsp?serv=pf&f=&file=50001010&ct=17 [N.d.T.]. L'originale ha filoselle, che corrisponde all'italiano «filosello» o «bavella», ossia il filo di seta continuo ricavato dal bozzolo del baco (di qui il termine, che è una variante medievale di «filugello»). Il filosello è anche il tessuto fatto con tale filo [N.d.T.].
44
Abu Yûsuf Ya'qub, Le livre de l'impôt foncier (Kitab al-KharOdj), trad. di Edmond Fagnan, Geuthner, Paris 1921, pp. 195-196.
45
Termine giuridico indicante uno sforzo personale d'interpretazione di un dogma o di una legge.
46
L'espressione [con le loro stesse mani] è stata posta tra parentesi poiché non figura nella traduzione francese utilizzata altrove dall'autrice (cfr. supra, ad es. cap. 3, «Caratteristiche dei territori conquistati», «Jizya», e «Documenti», cap. 1, «La teoria del jihad», «Strategie di combattimento») [N.d.T.]. 47
Abu al-Hasan 'Ali ibn Muhammad ibn Habib al-Mâwardl, Al-ahkam alsultâniyya (Gli statuti governativi), trad. di Edmond Fagnan, A. Jourdan, Algeri 1915, pp. 299-300. 48
Si tratta di al-Nu'man ibn Thabit ibn Zuta Abu Hanlfa, teologo, giurista e fondatore della scuola di giurisprudenza hanafita o hanifita. 49
Al-Mawardl, Al-ahkam al-sultâniyya (Gli statuti governativi) cit., pp. 301302. 50
Ivi, p. 302. Ivi, pp. 304-305. B Secondo i musulmani questo personaggio, nominato in Corano IX,30, sarebbe ritenuto dagli ebrei il figlio di Dio [Uzayr è stato identificato con il profeta biblico Esdra, N.d.T.] 51
52
Al-Mâwardl, Al-ahkdm al-sultâniyya (Gli statuti governativi) cit., pp. 305306. 54
Ivi, pp. 308-309. La citazione è liberamente tratta da Corano V,51: «Credenti, non prendete come alleati quegli ebrei e cristiani che si sono alleati gli uni agli altri. Chi di voi li prende come alleati diventa uno di loro» [N.d.T.]. 55 56
Questa formula significa: «Che le tue maledizioni ricadano su di te». Muhammad ibn Abu Bakr ibn Qayyim al-Jawziyya, Sharh al-shurut al'Umriyya (Commento al Patto di Omar), a cura di S. Salih, Damasco 1961, p. 81.
57 58
"Ivi, p. 115. "Ivi, pp. 236-237. Malik ibn Anas, giurista morto nel 795, fondatore della scuola malikita. "Muhammad ibn 'Ali ibn al-Naqqâsh, Fetoua [1357-1358] relatif à la condition des zimmis et particulièrement des chrétiens en pays musulmans, depuis l'établissement de l'islamisme, jusqu'au milieu du VIII^ siècle de l'hégire, trad. di François-Alphonse Belin, «IA», 4" serie, n. 18,1851, pp. 510-512. "Si tratta di Abu Sa'ld ibn Abl al-Hasan Yasâr al-Basrl (642-728), figura di spicco del primo secolo dell'islam, famoso per la sua devozione e il suo ascetismo. 61
È Abu Sa'ld al-Hasan ibn Ahmad al-Istakhari (898-940), giurista shafi'ita residente a Baghdad, autore di numerose opere di giurisprudenza islamica. 65 II termine wilaya (turco vilayet) designa un certo livello di divisione amministrativa, corrispondente, a seconda dei casi, ai nostri «stato», «regione», «provincia» o «distretto» [N.d.T.]. 64
"Ibn al-Naqqash, Fetoua [1357-1358] relatifà la condition des zimmis cit., pp. 513-515.
Sedizioni, nomadismo e dhimmitudine
Imperi abbaside efatimide Dopo al-Wathiq
<salì al trono> suo fratello al-Mutawakkil, il quale
governò per 14 anni e 9 mesi. Egli iniziò a regnare nell'anno 231 dell'egira 2 . Questo califfo odiava i cristiani e li tormentava, [obbligando]li a legarsi [delle] pilktre di lana attorno alla testa; inoltre, nessuno di loro poteva uscire di casa senza una cintura e un cordone. E se uno di essi possedeva uno schiavo, doveva cucirgli due strisce di tessuto di colori diversi sulla tunica, una davanti e una dietro. Quanto alle nuove chiese, dovevano essere demolite, e tra quelle già esistenti, se una era particolarmente spaziosa, anche nel caso in cui si trattasse di un edificio antico, parte di essa doveva essere trasformata in moschea. Inoltre, era vietato innalzare le croci nella festa delle Palme. Comandi analoghi, e molti altri ancora di questo genere, furono da lui imposti anche agli ebrei [...] 3 . Nell'anno 382 dell'egira [1001], a Baghdad gli arabi diedero vita a una sommossa contro i cristiani e ne saccheggiarono le case. Osarono allungare le mani anche sulle loro chiese, e le distrussero. Ma quando appiccarono il fuoco alla chiesa dei giacobiti, situata presso la piazza dove si macina la farina, essa crollò su un gran numero di arabi - uomini, donne e bambini - e li soffocò, bruciando vive le stesse persone che le avevano dato fuoco, e gli spettatori furono assaliti dal terrore [...] 4 . In quel tempo, per ordine del califfo 5 d'Egitto al-H5kim [996-1021], la chiesa della Resurrezione 6 di Gerusalemme fu divelta dalle fondamenta, e tutti i suoi arredi furono saccheggiati. Inoltre egli fece devastare migliaia di chiese situate nel suo regno, e ordinò agli araldi di
Chiesa di Qalb-Lozeh, VI secolo, deserto settentrionale siriaco. La chiesa fu abbandonata dopo la conquista araba («Syrie centrale. Architecture civile et religieuse du Ier au VIF"1" siècle», 2 voli, Paris 1865-1877, di Charles-Jean Melchior marchese de Vogiié, archeologo e diplomatico francese vissuto tra il 1829 e il 1916, voi. 2, tavola 123). proclamare: «Ogni cristiano che aderirà alla fede degli arabi sarà onorato, mentre colui che non vi aderirà cadrà in disgrazia e dovrà portare al collo una croce . Quanto agli ebrei, si appenderanno al collo l'immagine di una testa di vitello, poiché fabbricarono un vitello [d'oro] nel deserto e lo adorarono. Non porteranno anelli alle dita della m a n o destra e non si sposteranno a cavallo, ma solo a dorso di mulo e d'asino, con selle ordinarie e staffe di legno. E chi non è disposto ad accettare questa umiliazione può prendere tutti i suoi beni e trasferirsi nei territori dei romani [bizantini]». Quando fu pubblicato quest'editto, furono in moltissimi ad andarsene, mentre solo pochi rinnegarono la fede cristiana. Quanto a quelli che non partirono, ma neppure tradirono la loro fede, essi appesero al
loro collo croci d'oro e d'argento e si fecero costruire selle in tessuti a vivaci colori. Quando al-Hakim lo seppe, si indispettì e ordinò: «Ogni cristiano che non porti al collo una croce di legno del peso di quattro litres [sic], secondo le misure in uso a Baghdad, sarà ucciso. E anche gli ebrei che non si appenderanno al collo una piastra < ? > con l'immagine di un piede di pollo del peso di sei libbre dovranno morire. E quando si recano alle terme, si legheranno al collo dei campanellini, così da poter essere distinti dagli arabi» 7 . Bar Hebraeus
Baghdad
(1100)
Racconto di Obadiah (Johannes), sacerdote e poi proselito normanno di Oppido Lucano (Italia meridionale), convertitosi all'ebraismo e rifugiatosi a Baghdad8 Il servitore insediò il proselito Obadiah in una casa utilizzata dagli ebrei per pregare, e qui gli fu portato del cibo. Poi Isaac, il capo dell'Accademia, stabilì che Johannes [Obadiah] si unisse ai giovani orfani per imparare la legge di Mosè e la parola dei profeti in caratteri sac r i ' e in lingua ebraica. Prima di questi eventi [nel 1091] il califfo di Bagdad, di n o m e al-Muqtadl [1075-1094], aveva autorizzato il suo visir Abu Shuja' a mettere in atto un cambiamento di politica nei confronti degli ebrei di Baghdad, ed egli aveva tentato più volte di annientarli. M a il Dio d'Israele aveva sventato il suo piano < e > anche in quell'occasione li aveva protetti dalla sua collera. Abu Shuja' aveva ordinato a ogni maschio ebreo di portare un'insegna gialla sul suo copricapo. Quello era il primo segno distintivo; l'altro era un pezzo di piombo del peso [dimensioni?] di un dinar [?] d'argento, appeso al collo di ogni ebreo e recante la scritta dhimmT, per indicare che era tenuto a pagare il testatico. Inoltre, gli ebrei dovevano indossare dei cordoni intorno alla vita. Abu Shuja' aveva altresì imposto due segni distintivi alle donne ebree: esse dovevano portare una scarpa bianca e l'altra nera, e ognuna doveva avere al collo o ai piedi un campanello di rame, che con il suo tintinnio avrebbe sancito la discriminazione tra le donne ebree e quelle gentili
[musulmane]. Poi scelse dei musulmani crudeli e li incaricò di spiare gli uomini ebrei, e delle musulmane crudeli perché spiassero le donne ebree, così da opprimerli con ogni sorta di maledizioni, umiliazioni e malvagità. Il popolo era solito schernire gli ebrei, e il popolino, compresi i bambini, li percuoteva per tutte le strade di Baghdad. La legge sul testatico, versato ogni anno dagli ebrei ai funzionari del califfo, stabiliva quanto segue: ogni ebreo appartenente alla classe agiata doveva pagare 4 dinari e m e z z o d'oro; gli esponenti della classe media 2 dinari e mezzo e gli ebrei più poveri 1 dinaro e mezzo. Q u a n d o un ebreo moriva, se non aveva pagato per intero la tassa ed era ancora in debito, in misura significativa o anche lieve, i musulmani non permettevano di dargli sepoltura fino a quando non fosse stata pagata l'imposta. Se il defunto non lasciava alcuna proprietà, i m u sulmani chiedevano agli altri ebrei di pagare il debito del defunto; altrimenti <minacciavano> di bruciarne il corpo 1 0 . Obadiah
Nord Africa e Andalusia [...] Il qadi A h m a d ibn Talib [IX secolo] obbligò i dhimmi a portare sulla spalla un pezzo di stoffa bianca , su cui erano raffigurati una scimmia e un maiale pochi abitanti opposero loro resistenza ai confini estremi della città. Allora Abu Yazld inviò a Qayrawan un corpo di truppe capitanato da uno dei suoi uomini, Ayyub Zawili, il quale, entrato in città alla fine del mese di safar a, la abbandonò ai saccheggi e ai massacri e commise ogni sorta di atrocità [...] 1 4 .
Per due mesi e otto giorni A b u Yazld dimorò nelle tende di Maysur 1 5 , inviando in tutte le direzioni colonne incaricate di riportare del bottino. Una di esse fu spedita contro Susa, che venne espugnata spada alla mano: gli uomini furono massacrati, le donne catturate e la città incendiata; gli invasori squarciarono i genitali delle donne e le sventrarono. E così ben presto in Ifriqiya non vi fu più né un c a m p o coltivato, né una casa intatta; gli abitanti si rifugiarono a Q a y r a w i n a piedi nudi e senza vestiti, e quelli che non divennero schiavi morirono di fam e e di sete [...] 1 6 . Abu Yazld avanzò verso Mahdiyya e stabilì il suo accampamento a 15 miglia di lì. Poi lanciò in direzione di quella città delle colonne che saccheggiarono e massacrarono tutti, di m o d o che l'intera popolazione si rifugiò entro il m u r o di cinta 1 7 . Ibn al-Attini a condizione dei «dhimml» a Siviglia (circa 1100) Un musulmano non deve praticare massaggi a un ebreo o a un cristiano, né portare via i loro rifiuti o pulire le loro latrine: infatti gli ebrei e i cristiani sono più adatti per questi compiti di natura umiliante. U n musulmano non deve occuparsi della cavalcatura di un ebreo o di un cristiano 1 8 , né deve svolgere per lui mansioni di asinaio o reggergli le staffe. Se un musulmano è sorpreso a infrangere tali divieti, sarà punito [...]. U n ebreo non deve sgozzare gli animali da macello destinati a un musulmano. Agli ebrei sarà quindi ordinato di aprire macellerie riservate esclusivamente a loro [ . . . ] " . Non si deve vendere un mantello appartenuto a un lebbroso, a un ebreo o a un cristiano, a meno di non rivelame l'origine all'eventuale acquirente; lo stesso vede se tale indumento era di proprietà di un pervertito [...] 2 0 . Non dev'essere consentito a nessun gabelliere, funzionario di polizia, ebreo o cristiano di indossare abiti che si addicano a un esponente dell'aristocrazia, a un giurista o a un u o m o perbene; anzi, tutti costoro devono essere aborriti e sfuggiti. N é bisogna salutarli con la formula «La pace sia con te!» , poiché: «Satana li ha dominati; ha fatto dimenticare loro la Rammemorazione di Dio. Quelli sono solo la
fazione di satana e la fazione di satana è quella dei perdenti» cCorano LVIII,19>. Bisogna imporre loro un segno distintivo, che permetta di riconoscerli e che rappresenti per loro un marchio di ignominia [...] 2 1 . Il suono delle campane dev'essere bandito dai territori musulmani e riservato ai soli paesi degli infedeli [...] 2 2 . Non bisogna vendere agli ebrei o ai cristiani libri scientifici, a meno che non riguardino la loro stessa religione: infatti essi traducono tali testi e ne attribuiscono la paternità ai loro correligionari e ai loro vescovi, mentre in realtà sono opera di autori musulmani! Sarebbe meglio non permettere ad alcun medico ebreo o cristiano di insediarsi in città per curare i musulmani. Infatti, dal momento che non possono nutrire buoni sentimenti nei confronti di un musulmano, è bene che curino soltanto i propri correligionari; conoscendo la loro disposizione d'animo, com'è possibile affidare loro le vite dei musulmani Ibn 'Abdun Sotto gli almohadi Verso la fine del suo regno, Abù Yusuf 2 4 ordinò agli ebrei residenti nel Maghreb di differenziarsi dal resto della popolazione indossando una tenuta particolare, consistente in abiti blu scuri provvisti di maniche talmente ampie da giungere sino ai piedi, e, al posto del turbante, uno zucchetto della forma più grossolana - tanto che lo si sarebbe preso per un basto - , che ricadeva fin sotto le orecchie. Tale abbigliamento divenne comune a tutti gli ebrei del Maghreb e rimase in vigore sino alla fine del regno di quel califfo e all'inizio di quello di suo figlio Abù 'Abd Allah [1224-1227]. Quest'ultimo lo modificò in seguito ai tentativi di tutti i tipi fatti dagli ebrei, che ricorsero all'intercessione di tutti coloro che ritenevano utili in questo senso. Abu 'Abd Allah stabilì che indossassero abiti e turbanti gialli, e tale è la loro tenuta anche nel presente anno 621 [1224]. Ciò che aveva indotto Abu Yusuf ad adottare la misura di imporre loro un abbigliamento particolare e distintivo era il dubbio che nutriva rispetto alla sincerità della loro fede islamica: «Se fossi sicuro - diceva che sono veramente musulmani, lascerei che si confondessero con noi attraverso i matrimoni e in qualunque altra forma; se però ac-
certassi che sono rimasti infedeli, farei uccidere gli uomini, ridurrei in schiavitù i loro figli e confischerei i loro beni a vantaggio dei veri fedeli» 2 5 . al-Marrakushl
Mesopotamia-Iraq (XII-XIII secolo) Obblighi dei «dhimml» secondo Abu 'Abd Allah ibn Yahya ibn FadlHn (lettera indirizzata al califfo al-Nasir ai-Din Allah,
1180-1225)
Omar ibn al-KhattSb scrisse ai governatori delle province perché ordinassero ai dhimml di tagliarsi i capelli, di portare sigilli di piombo e di ferro sulla nuca, di montare in sella di traverso e di portare speciali cinture che li distinguessero dai musulmani. All'epoca dei califfi era così, m a l'ultimo a imporre il rigoroso rispetto di tali obblighi fu il califfo al-Muqtadir ibn Amir Allah [908-932], che costrinse gli ebrei a osservare le leggi in vigore all'epoca di al-Mutawakkil. Egli ordinò loro di portare al collo dei campanelli e di appendere alle porte di casa delle immagini in legno che le differenziassero dalle abitazioni islamiche. Le loro dimore non dovevano essere della stessa altezza di quelle musulmane. Impose agli ebrei di indossare una rotella e un turbante gialli, e alle ebree veli giallastri e scarpe di due colori diversi, una nera e l'altra bianca; inoltre, quando si recavano ai bagni pubblici dovevano portare collane di ferro. Quanto ai cristiani, essi dovevano indossare abiti di colore nero o grigio e una speciale cintura, e avere ima croce appesa al petto. Per spostarsi non potevano usare un cavallo, m a un mulo o un asino senza basto né sella, da montare trasversalmente, [con tutte e due le gambe] dallo stesso lato. Tutte queste consuetudini sono state abbandonate, senza che ciò comportasse [per contro] un aumento delle imposte, mentre nella maggior parte dei paesi [islamici] gli ebrei sono ancora costretti a portare la rotella ed è consentito loro svolgere soltanto i mestieri più umilianti. A d esempio, a Bukhara e Samarcanda sono i dhimml che puliscono le latrine e le fognature e che portano via i rifiuti e le immondizie. Nella provincia di
Aleppo, che è la più vicina a noi [a Baghdad], gli ebrei hanno tuttora l'obbligo di portare la rotella. Per giunta, in conformità con la legge islamica, al m o m e n t o di pagare il testatico <jizya> colui che consegna la s o m m a deve stare in piedi e colui che la riceve seduto, e il dhimmi deve deporla nella m a n o del musulmano in m o d o tale che questi la riceva al centro della palma; inoltre, la m a n o del musulmano è in alto e quella del dhimmi in basso. Poi quest'ultimo protende la barba e l'altro gli schiaffeggia le guance dicendo: «Paga il debito ad Allah, o nemico di Allah, o infedele». Oggi invece accade perfino che certi non si presentino in prima persona al cospetto del funzionario, m a mandino al loro posto un messaggero. Quanto ai sabei, che sono idolatri residenti nella provincia di Wasit (Iraq), essi non sono dhimmi, nonostante un tempo lo fossero. Q u a n d o il califfo al-Qahir bi-Allah [932-934] si consultò con lo shafi'ita Abu Sa'Td al-Istakhari riguardo a essi, quest'ultimo dichiarò che era lecito versarne il sangue e rifiutò di estendere loro lo status derivante dal testatico. Q u a n d o essi ebbero sentore di ciò, lo subornarono con 50.000 dinari, e lui li lasciò in pace. Di conseguenza oggi non solo non pagano la capitazione, m a non si pretende da loro alcun tributo, sebbene siano sotto il dominio dei musulmani. Sia fatta la volontà del sultano 2 6 ! Ibn al-Fuwati La testimonianza rifiutata Al tempo del sultano al-Malik al-Sàlih Najm ai-Din Ayyub [12401249], un musulmano si recò al suq al-Tujj5r di II Cairo. Aveva con sé un atto di riconoscimento di debito 2 7 relativo a una somma dovutagli da un soldato. Il documento era completo, e mancavano solo le firme dei testimoni. L'uomo incontrò due cristiani, che portavano corpetti e abiti dotati di ampie maniche, c o m e quelli indossati dai musulmani di rango aristocratico. Egli, realmente convinto che si trattasse di nobili, porse loro il documento ed essi lo firmarono: ima vera e propria beffa nei confronti dei musulmani! Questo fatto giunse all'attenzione del sultano al-Malik al-Salih, il quale ordinò che i cristiani fossero percossi e costretti a portare un cordone nonché il marchio distintivo dei non
musulmani, e a conformarsi alla posizione bassa e umile che era stata loro assegnata, quella a cui Allah li aveva degradati 2 8 . Ghazi ibn al-Wasiti Celebrazioni religiose Nei giorni del digiuno quaresimale [1271], gli ismailiti si scagliarono contro 'Ala ai-Din, il capo del Diwan [governo], mentre girava a cavallo per Baghdad, e lo colpirono con dei pugnali m a senza ferirlo <mortalmente>. Ed essi furono catturati ed ebbero le membra mozzate. Quindi gli arabi sparsero la voce che erano cristiani e che erano stati inviati dal catholicos. Allora tutti i santi uomini, i monaci e i notabili residenti a Baghdad furono presi e gettati in carcere, e Kutlu Bag, l'emiro di Arbil, catturò e rinchiuse in prigione il catholicos e i santi uomini del suo seguito. Per tutta la Quaresima essi conobbero una grande tribolazione, fino a quando Dio aiutò e giunse un pukdana [editto] dall'Accampamento, ed essi furono rilasciati. Da allora il catholicos si stabilì nella città di Ushnu [Oshnavieh], nell'Azerbaijan In quei giorni [1274] i cristiani di Arbil, che desideravano celebrare la Domenica delle Palme e sapevano che gli arabi si apprestavano a impedirglielo, chiamarono in loro aiuto alcuni tartari di religione cristiana stanziati nelle vicinanze. E quando costoro arrivarono, misero delle croci in cima alle loro spade, e il metropolita dei nestoriani si incamminò con gioia insieme a tutto il suo popolo, mentre i tartari cavalcavano dinanzi a loro. Ma quando giunsero presso la facciata della fortezza, si radunarono dei gruppetti di arabi che andarono a prendere delle pietre e le scagliarono contro i tartari e i cristiani, finché la loro assemblea si disperse e ciascuno fuggì in una direzione diversa. Dopo questo episodio, i cristiani rimasero in casa per qualche giorno senza osare uscire. Sventure del genere affliggevano i cristiani in ogni luogo 30 . Anarchia e banditismo Il primo giorno della settimana e il ventinovesimo del mese di tammuz [1285], un'orda siriaca di briganti a cavallo, curdi, turchi e arabi del deserto, forte di circa 600 [uomini], piombò sulla regione di
Canoni evangelici armeni: il Quarto Vangelo (1265). Illustratore: Thoros Roslin (manoscritto n. 1955, folio 4, Collezione Gulbenkian, Saint Thoros Manuscript Library, Gerusalemme).
Arbll, dove depredò e uccise molte persone, per lo più cristiani di Amkabad ['Ankawa, presso Arbil], di Surhagan e di altri villaggi. Il curdo Baha ai-Dm uscì da Arbll per dar loro battaglia, m a le sue truppe furono sbaragliate da essi, e costrette a fuggire e a rientrare in città. Infine quei maledetti ladri se ne andarono, portando con sé un ricco bottino: donne, fanciulle e molti capi di bestiame. In quei giorni altre bande di predoni invasero la regione di Tur Abdin 3 1 , dove compirono un grande massacro nel villaggio di Keshlath, a Bfith Man'Tm e nei villaggi circostanti, e a SbTriria, portando via un copioso bottino dalla regione di Beth Rlshe. Poi se ne andarono. Nell'anno 1597 <del calendario greco, 1286 d.C.> 3 2 , il diciassettesimo giorno del mese di hazirSn < g i u g n o > , si radunarono - tra curdi, turkmeni e arabi - circa 4000 ladri e briganti a cavallo; alcuni dicono che si fossero uniti a loro anche 3000 cavalieri scelti tra gli schiavi egiziani [mamelucchi]. Ed essi volsero il loro sguardo sulla regione di Mawsil [Mossul]. E, dopo aver saccheggiato tutti i villaggi che incontravano sul loro cammino, piombarono sulla città all'alba del secondo giorno <della settimana;», il ventiduesimo del terzo mese dell'anno 685 secondo il calendario islamico < 1 2 8 5 d.C.> [...] 3 3 . E i cristiani che si t r o v a v a n o nelle vicinanze della chiesa dei tagrìtanaye presero le mogli, i figli e le figlie, e, insieme al loro bestiame, andarono a rifugiarsi nel palazzo dello zio del profeta, il quale si chiamava Naklb al-Alawakin < . . . > , nella remota speranza che, se i predoni avessero rispettato quell'edificio, essi si sarebbero salvati dai massacri e dal saccheggio della città. Allora i restanti cristiani, che non avevano alcun luogo in cui fuggire e non erano riusciti a rifugiarsi nel palazzo di Naklb, rimasero, atterriti e tremanti, a piangere e a gemere su se stessi e sul loro destino funesto, mentre in realtà la sorte si sarebbe accanita con coloro che si erano recati lì
colpito da una freccia e morì. Essi torturarono non solo i cristiani, m a anche gli arabi, e si presero gioco 3 4 delle loro mogli, dei loro figli e delle loro figlie nelle moschee, sotto i loro occhi. Quando ebbero finito con loro passarono al quartiere ebraico, e anche qui saccheggiarono le case e depredarono l'intera comunità [...] 3 5 . Sempre in quell'anno [1289], circa 2000 cavalieri appartenenti alle bande dei predoni siriaci si radunarono e attraversarono la frontiera all'altezza di Slnjar [sul fiume Tharthar] e Beth ArbayS, m a non saccheggiarono né depredarono finché non giunsero nei pressi di Plshabhur, un paesino sulle rive del Tigri dove si fermarono per dormire. Durante la notte si alzarono e attraversarono il fiume; poi i loro sguardi si posarono su Wastaw, un grande villaggio popolato da nestoriani sul quale piombarono alle prime luci dell'alba del primo giorno della settimana, il quattordicesimo del mese di ab < a g o s t o > . Allora gli abitanti, pensando si trattasse soltanto di pochi predoni, uscirono tranquillamente per combatterli. M a quando videro quanti erano, tornarono al villaggio, dove alcuni, rifugiatisi in chiesa, si salvarono, mentre altri si sparpagliavano per gli orti e per le vigne. Allora quei banditi maledetti si sparsero per le sette frazioni circostanti, arrecandovi un'immane distruzione. Uccisero circa 500 uomini e fecero prigioniere oltre 1000 persone (tra donne, ragazzi e ragazze); inoltre si impossessarono di molti tesori e di innumerevoli quantità di pecore e di altri capi di bestiame. [...] In quella stessa estate, i predoni siriaci - circa 2000 uomini a cavallo effettuarono una sortita contro le regioni di Melitene e di Hesna [Kharput]. Q u a n d o Kharbanda, il capitano delle truppe di stanza in quei territori, lo seppe, radunò i suoi uomini e iniziò i preparativi per la battaglia; poi essi [Kharbanda e i suoi] andarono ad affrontare i nemici, m a furono annientati. Molti di coloro che erano con lui furono uccisi, mentre alcuni dei suoi amici e dei suoi compagni, più i figli dei suoi fratelli e un numero imprecisato di persone, furono catturati. Solo lui e i 40 uomini che erano riusciti a fuggire ritornarono sani e salvi dal combattimento, dopodiché si recarono nel nuovo palazzo che egli si era fatto costruire nella regione di Hesna, nel luogo chiamato Hesòna in aramaico. E, mentre essi sedevano lì in preda allo sconforto e riflettevano su come avrebbero potuto salvare coloro che erano stati
fatti prigionieri, finirono per riconoscere tutti quanti che la guerra che aveva colpito il paese era stata causata dai cristiani, e che di conseguenza era giusto prendere loro del denaro per riscattare coloro che erano stati catturati. E così iniziarono ad assegnare a ogni città e paese una certa quantità d'oro < d a pagare>, a seconda delle possibilità economiche del luogo 3 6 . Dopo la conversione dei mongoli all'islam Ed egli [Nawruz] 3 7 emanò un decreto [in base al quale] tutte le chiese, le dimore delle immagini 3 8 e le sinagoghe ebraiche dovevano essere distrutte, e sia i sacerdoti <delle immagini> [buddisti] che i leader religiosi [ebrei e cristiani] dovevano essere trattati con ignominia e assoggettati al pagamento di tributi e tasse. Nessun cristiano poi doveva farsi vedere senza indossare un cordone attorno alle reni, e lo stesso valeva per gli ebrei, ognuno dei quali doveva portare un segno distintivo sul capo. In quei giorni [ottobre 1296], i popoli stranieri 3 9 allungarono le mani su Tàbriz e ne distrussero tutte le chiese, il che suscitò grande tristezza tra i cristiani del m o n d o intero. N o n ci sono parole per descrivere i tormenti, la vergogna, gli scherni e l'ignominia che i cristiani dovettero subire in quel periodo, soprattutto a Baghdad[...]. La persecuzione si accaniva allora non solo sul nostro popolo, ma anche sugli ebrei 40 , ed era due volte più crudele, oltreché costantemente reiterata, contro i sacerdoti adoratori di idoli [buddisti]. Il tutto dopo gli onori a cui erano stati innalzati dai sovrani mongoli, onori tanto grandi che metà del denaro depositato nelle casse del regno era stato elargito loro, i quali lo avevano speso < ? > per fabbricare immagini d'oro e d'argento. E un numero enorme di sacerdoti pagani, a causa della persecuzione di cui erano oggetto, si convertì all'islamismo. In seguito furono pubblicati un decreto del Re dei Re [Ghazan] e [alcuni] yarlìki <editti> indirizzati a tutte le regioni, e furono inviati messaggeri mongoli in ogni paese e città per distruggere le chiese e saccheggiare i monasteri. E ovunque i messaggeri trovassero dei cristiani che si presentavano dinanzi a loro per rendere servigi e recare doni, erano meno severi e più compiacenti. Infatti erano molto più ansiosi di raccogliere ricchezze che di distruggere chiese, come dimostra quanto
accadde nella città di Arbela [Arbll]. Quando i funzionari si recarono lì, vi si trattennero 20 giorni, nell'attesa che uno d e < i > cristiani si facesse avanti e prendesse l'iniziativa di portare loro una certa quantità d'oro, di m o d o che, in cambio di quel segno di generosità, le chiese del luogo fossero risparmiate e non devastate; ma non si presentò nessuno. Perfino il metropolita della città non seppe farsi carico della salvezza delle sue chiese, e nessun altro lo fece, m a ognuno vigilò con cura solo sulla sua casa. In tal modo fu offerta ai pagani un'opportunità diretta, ed essi stesero le mani sulle tre splendide chiese di Arbela, distruggendole completamente fino alle fondamenta [...]. Quando i niniviti 41 udirono della disgrazia che aveva colpito la città, furono atterriti ed estremamente spaventati. E come i nobili e i funzionari < m o n g o l i > giunsero nella regione di Mawsil [Mossul], alcuni uomini che si occupavano con amorevole sollecitudine della manutenzione delle sante chiese, e che avevano deciso di farsi carico dei problemi in cambio della distruzione delle chiese e in pagamento del tributo dovuto dai cristiani. E, con l'aiuto di Dio, non una sola chiesa fu danneggiata 4 2 . Bar Hebraeus
Egitto Il 7 jumada 1122 < 1 giugno 1419> il sultano d'Egitto <Malik M u ' a y y a d Abu N a s r > 4 3 fece comparire al suo cospetto, in presenza dei cfSdì e dei dottori della legge, il patriarca cristiano, il quale rimase in piedi ricevendo rimproveri e percosse e venendo redarguito dal sultano a causa delle umiliazioni inflitte ai musulmani dal principe degli abissini;
gli furono addirittura rivolte minacce di morte. Poi c o m p a r v e dinanzi al sultano lo shaykh Sadr ai-Din A h m a d ibn al-'Ajami, prefetto di polizia di II Cairo, il quale si sentì contestare il disprezzo dei cristiani nei confronti delle ordinanze relative al loro abbigliamento e al loro aspetto esteriore. In seguito a una lunga conversazione tra i dottori e il sultano su tale argomento, fu stabilito che nessuno degli infedeli sarebbe stato più assunto negli uffici governativi e neppure presso gli emiri, e che nessuno sarebbe sfuggito alle misure prese per mantenerli in uno stato di umiliazione. Quindi il sultano convocò alla sua presenza il cristiano al-Akram Fada'il, segretario del visir, che era in carcere da parecchi giorni; egli fu percosso, spogliato dei suoi abiti e portato in giro con ignominia per le vie di II Cairo sotto gli occhi del prefetto di polizia, il quale gridava: «Ecco il compenso che spetta ai cristiani impiegati negli uffici governativi!». Dopodiché, fu ricondotto in prigione. Il sultano vigilò personalmente sull'attuazione di tali misure, tanto che in nessuna parte d'Egitto un solo cristiano fu più assunto in alcu-
Carta di Bar Hebraeus da «Il candelabro dei santuari», opera filosofica redatta nel 1267 o nel 1274 e relativa alle dottrine teologiche e alle scienze naturali (manoscritto siriaco n. 210 del 1406, fondo antico n. 121, folio 38, BN).
na amministrazione; questi infedeli furono costretti a rimanere a casa, a ridurre le dimensioni dei loro turbanti e ad accorciare le loro maniche, e la stessa sorte toccò anche gli ebrei. A tutti loro fu proibito di usare gli asini come cavalcature, tanto che il popolino, quando ne vedeva uno in groppa a un asino, lo picchiava e gli confiscava sia l'animale sia quello che trasportava: così non li si vide più montare un asino se non al di fuori di II Cairo. I cristiani fecero tutti gli sforzi possibili per recuperare i loro impieghi, offrendo a tale scopo grosse somm e di denaro; ma, malgrado il sostegno offerto loro dagli scribi copti, il sultano non acconsentì mai alle loro richieste e rifiutò di ritornare sui divieti che aveva emanato. In merito ai fatti esposti vorrei proporre le seguenti riflessioni: forse in virtù di questo atto Allah perdonerà tutti i suoi peccati a d al-Malik al-Mu'ayyad, che in tal m o d o ha d a v v e r o apportato un contributo preziosissimo all'islam! Infatti, la presenza di funzionari cristiani negli uffici governativi egiziani è uno dei mali peggiori, poiché c o m porta un'esaltazione della loro religione. In effetti, visto che la m a g gior parte dei musulmani ha bisogno, per sbrigare i loro affari, di frequentare tali ambienti, ogni volta che h a n n o un problema di competenza di un ufficio gestito da tali funzionari devono umiliarsi e m o strarsi gentili con loro, anche se si tratta di cristiani, ebrei o samaritani [ . . . ] " . L'ordinanza di questo principe equivalse a ima seconda conquista dell'Egitto; con essa egli esaltò l'islam e umiliò gli infedeli, e niente è più meritorio agli occhi di Allah 45 . Ibn Taghnbirdl
Marocco [Al-Maghill] dimostrò una tenacia inflessibile nel prescrivere il bene e proibire il male. Egli riteneva che gli ebrei < c h e Allah li maledica> non dovessero beneficiare più dello status di minoranza protetta :
tale status risultava infranto a causa
della loro associazione con i musulmani che detenevano il potere.
Tale partecipazione al potere è contraria all'avvilimento e al disprezzo che sono alla base del p a g a m e n t o della jizya. È sufficiente che uno solo < o una parte> di loro abbia violato il patto perché esso risulti invalidato per tutti. <11 nostro dottore al-M5ghrlì> dichiarò lecito versare il sangue degli ebrei e spogliarli dei loro beni, e presentò la necessità di reprimerli c o m e un obbligo più imperioso di quelli che abbiamo nei confronti degli altri infedeli. Egli scrisse a tale proposito un'opera composta di più capitoli < ? > , che lo fece entrare in conflitto con la maggior parte dei giuristi del suo tempo, tra i quali vi erano lo shaykh Ibn Zakri e altri
man anifa
ansafa>46. Ibn 'Askar
La riscossione del testatico («jizya») Il giorno della riscossione della jizya [i dhimmi] verranno radunati in un luogo pubblico, ad esempio il siiq. Lì essi dovranno restare in piedi nel punto più spregevole e situato più in basso. Gli ausiliari della Legge occuperanno un posto più alto del loro, e assumeranno un atteggiamento minaccioso, così che appaia evidente, ai loro occhi e a quelli degli altri, che il nostro scopo è mortificarli fingendo di prendere i loro beni. Essi dovranno rendersi conto che . Poi dovranno essere trascinati uno a uno . È così che si comportano gli amici del Signore, delle prime c o m e delle ultime generazioni, nei confronti dei Suoi nemici, i miscredenti, poiché la forza appartiene ad Allah, al suo Inviato e ai Credenti 4 7 . al-MaghllI
Il dhimmT, cristiano o ebreo che sia, nel giorno stabilito si recherà personalmente, e senza avvalersi della mediazione di un wakTl < p r o c u ratore>, dall'emiro incaricato di riscuotere la jizya; costui siederà su un seggio elevato, simile a un trono, e il dhimmì avanzerà verso di lui recando il tributo, che terrà al centro del p a l m o della mano, da d o v e poi l'emiro lo prenderà, facendo attenzione a che la sua m a n o si trovi sempre al di sopra e quella del dhimmT al di sotto. Dopodiché l'emiro, con il pugno, gli darà un colpo sulla nuca, mentre in piedi accanto a lui vi sarà un u o m o preposto a scacciare bruscamente il dhimmT; poi, uno d o p o l'altro, si presenteranno un secondo e un terzo dhimmì, ai quali verrà inflitto lo stesso trattamento, c o m e pure a quelli che li seguiranno. Tutti saranno ammessi a godere di questo spettacolo. N o n sarà consentito ad alcuno di loro incaricare un terzo di p a g a r e la jizya a suo nome: bisogna che essi sperimentino di persona questo segno di avvilimento, perché forse così finiranno per credere in Allah e nel suo Profeta, e allora saranno liberati da questo giogo infamante 4 8 . al-'Adàwi
Persia (XVII-XVIII
secolo)
Deportazione49 del popolo armeno da parte di shah 'Abbàs I (1604) [Shah 'Abbas I] convocò al suo cospetto gli ufficiali del regno, e scelse tra loro le guide e gli ispettori a cui affidare gli spostamenti della popolazione, designando un comandante per distretto. In particolare, Amlr-Guna-Khan 5 0 fu assegnato alla città di Erevan, alla regione dell'Ararat e ai piccoli distretti limitrofi. Essi ricevettero istruzioni di scacciare e deportare tutti, fino all'ultimo cane vivente, fossero essi cristiani o musulmani, ovunque giungesse la loro autorità, e di punire con la spada, la morte o la riduzione in schiavitù chiunque opponesse loro resistenza e si ribellasse al decreto reale. Dopo aver ricevuto dal sovrano quest'ordine crudele e letale, i generali partirono, ognuno con la sua divisione, e si recarono nei distretti dell'Armenia che erano stati loro assegnati. Li si sarebbe detti una fiamma prò-
pagata dal vento fra i canneti. Immediatamente, in tutta fretta e senza neanche il tempo di fiatare, gli abitanti delle province, costretti a lasciare le loro case ed esiliati dalla loro patria, furono spinti avanti come mucchi di bestiame grosso e minuto, trascinati via con violenza e ammassati nella provincia di Ararat, la cui vasta pianura si riempì da un'estremità all'altra [...]. I soldati persiani preposti all'operazione, ovunque giungessero, nei villaggi come nelle città, radunavano la popolazione e davano alle fiamme senza pietà le case e gli edifici; bruciavano e distruggevano le provviste di foraggio, le scorte di frumento, d'orzo e di altri prodotti utili; devastavano e facevano il vuoto intomo a sé perché le truppe ottomane restassero senza provviste e perissero 51 , e perché a quella vista gli emigranti perdessero la speranza e perfino il pensiero del ritomo. Mentre le truppe persiane incaricate di deportare la popolazione la trascinavano verso la pianura di Etchmiadzin, shah 'Abbas si trovava a Yervandashat e il sardar52 ottomano Kshqal-Oghli stava arrivando con le sue truppe a Kars. Sapendo di non poter sostenere la campagna contro gli ottomani, la cui superiorità numerica lo scoraggiava, shah 'Abbas si volse in direzione di Nakhidjevan e, con tutti i suoi uomini, iniziò a seguire le tracce delle orde dirette in Persia. Gli ottomani, dal canto loro, si misero alle calcagna dei persiani. Vi erano dunque tre grandi, innumerevoli gruppi: quello dei popoli armeni, quello persiano e quello ottomano. Così accadeva che, quando i primi si mettevano in marcia, shah 'Abbas e i persiani piombassero sul loro precedente accampamento, e quando questi lasciavano il posto, esso venisse occupato da Dshqal-Oghli e dagli ottomani. Si inseguirono a vicenda, ricalcando gli uni le impronte degli altri, finché i popoli deportati e i persiani non ebbero raggiunto il villaggio di Julfa e gli ottomani Nakhidjevan. Da allora in poi, i persiani non permisero più agli armeni di fermarsi, nemmeno per un'ora: li spingevano, li incalzavano, ne uccidevano alcuni a colpi di bastone, ad altri tagliavano il naso o le orecchie, oppure mozzavano loro la testa e la conficcavano su dei pali. Fu così che Iohandjan, fratello del catholicos Arakel, e un altro uomo, ebbero il capo troncato e conficcato su una pertica lungo la sponda del fiume Arasse. Questi e altri supplizi ancora peggiori venivano inflitti alla popolazione allo scopo di costringerla, per l'estremo terrore, ad affrettarsi a guadare il fiume. La stirpe profondamente scellerata dei persiani tormentava così gli armeni per paura degli ottomani che
avanzavano alle sue spalle: vedeva infatti l'accampamento del popolo rigurgitante di gente, il proprio, anch'esso stracolmo di uomini, e capiva che ci sarebbero voluti giorni per effettuare il guado. Essa temeva che, approfittando di quel ritardo, gli ottomani le piombassero addosso all'improvviso infliggendole una rovinosa disfatta, oppure che, rapendo il popolo armeno, lo riportassero indietro, il che in seguito avrebbe arrecato loro notevoli danni. Ecco perché assillavano gli armeni e facevano loro pressioni perché attraversassero. Ma non c'erano abbastanza barche e casse per una tale moltitudine. Erano state portate molte imbarcazioni da diversi luoghi, e sul posto erano state costruite numerose casse, ma armeni e persiani formavano una massa tanto grande che nulla sarebbe stato sufficiente. I guerrieri persiani incaricati di guidare gli emigranti li circondavano e badavano che nessuno fuggisse, li colpivano coi bastoni e spingevano la gente nell'acqua in piena [profonda], di modo che per il popolo le sofferenze e i pericoli erano spaventosi. La sventurata moltitudine vedeva dinanzi a sé il fiume immenso, che, come un grande mare, l'avrebbe ingoiata, e dietro la spada assassina dei persiani, che non lasciava alcuna speranza di fuga. Era tutto un concerto di penose lamentazioni, di fiumi di lacrime tali da formare un altro Arasse, di grida, di gemiti, di singhiozzi, di urla di dolore, di invettive, di lamenti strazianti; le suppliche si mischiavano ai clamori, ma non si scorgeva alcun segno di pietà o mezzo di salvezza da nessuna parte. In quel frangente il nostro popolo avrebbe a v u t o bisogno dell'antico condottiero Mosè e del suo discepolo Giosuè per strappare Israele dalle mani di un altro faraone, per placare le onde in piena di un grande, a m p i o fiume; m a essi n o n apparvero, perché la moltitudine dei nostri peccati aveva sbarrato le porte della misericordia del buon Dio. I feroci soldati persiani che guidavano la folla la spingevano nel fiume fino a riempirlo, poi, entrando essi stessi in acqua, raddoppiavano le urla e i lamenti strappati agli armeni dalla consapevolezza del pericolo. Gli uni si aggrappavano al fasciame delle barche, e perfino alle casse, altri afferravano le code dei cavalli, dei buoi, dei bufali, altri ancora attraversavano a nuoto. Quelli che non sapevano nuotare, i deboli, gli anziani, le donne, i bambini, le ragazze, i ragazzi ricoprivano la su-
perfide dell'acqua, che li trascinava come fuscelli autunnali; il fiume spariva sotto i corpi travolti dalla corrente; alcuni riuscirono a guadarlo, m a molti annegarono e vi trovarono la morte. Alcuni cavalieri persiani, dotati di robuste cavalcature o di grande vigore fisico, si aggiravano tra i cristiani osservando le femmine e i m a schi, e, se scorgevano qualcuno di loro gradimento, donna, ragazzo o ragazza che fosse, ingannavano il suo responsabile [il padre o un parente] dicendogli: «Dammelo, lo porterò io all'altra riva». Poi, dopo averlo condotto all'altra sponda, lo trascinavano con sé per soddisfare i loro capricci. Alcuni li trasportavano a nuoto, altri ancora li afferravano e, dopo averne ucciso il responsabile, li rapivano; altri ancora si allontanavano, gettando i bambini per terra e abbandonandoli. Intanto i responsabili fuggivano lasciando soli i malati, a causa dei rischi e delle fatiche insopportabili a cui erano sottoposti. In ima parola, il nostro popolo era in preda a dolori e tormenti così intollerabili che io non sono in grado di ricostruire in dettaglio le traversie mortali che hanno distrutto il popolo armeno, prostrato da tali calamità [...]. Finalmente avvenne che tutta la moltitudine attraversò il fiume, e, mescolato alla rinfusa con essa, anche l'esercito persiano. Amir-GunaKhan, che li aveva guidati fino a quel momento, ricevette ordine da shah 'Abbas di unirsi al suo esercito, lasciando alla testa degli armeni Khalifalu Elias-Sultan, il quale fu incaricato di condurli a marce forzate, di tenerli lontani dagli ottomani e di depositarli in terra persiana. Quanto allo shah, egli, seguendo la strada reale o dshadeh, insieme alle sue truppe marciò dritto in direzione di Tauris [Tabriz], m a non volle che i deportati seguissero la stessa via, per paura che, mentre marciavano alle sue spalle, fossero separati da lui e rapiti. Perciò aveva raccomandato a Elias-Sultan di guidarli per vie traverse e attraverso luoghi difficilmente accessibili, in cui gli ottomani non potessero inseguirli. Così Elias fece avanzare e guidò la moltitudine lungo le valli in cui scorre l'Arasse, per valichi montuosi e impervi sia in salita che in discesa, c o m e pure per valloni e passaggi stretti. E fu solo con grande pena e sofferenza che essi varcarono le gole montuose e passarono da un luogo scosceso all'altro. [...]
La caccia ai fuggitivi Conclusa quest'operazione, il Khan e le sue truppe marciarono all'inseguimento di altri fuggitivi, sempre del distretto di Gami, e quelli che riuscirono
a bloccare li depredarono, li massacrarono o li trascinarono
con loro. Andando avanti e indietro per la regione, raggiunsero la grande valle chiamata Kurhudara. Sebbene in questa valle vi fossero molte caverne e luoghi fortificati in cui si nascondevano i cristiani, essi li trascurarono per recarsi alla famosa grotta di Iakhsh-Khan, la cui salda posizione aveva attratto un gruppo di un migliaio di cristiani tra uomini e donne, i quali ne sorvegliavano con cura le vie di accesso. Per quanto i soldati persiani avessero provato a lungo ad attaccarli, dal basso non avevano ottenuto alcun risultato, poiché si trattava di una postazione molto elevata. Ma la loro diabolica immaginazione suggerì loro un altro metodo. Un distaccamento di 200 uomini uscì dalla valle e cominciò a scalare le rocce, le cui pietre formavano dei gradini che conducevano fino in cima. Essendosi legati l'uno all'altro con lunghe corde, scesero uno per volta di gradino in gradino, e in questo m o d o raggiunsero il livello delle vette in cui si trovava la caverna. Lì fecero indossare a quattro di loro armature di ferro che li coprivano dalla testa ai piedi, a cui erano fissate quattro o cinque sciabole. Ognuno aveva in m a n o una sciabola sguainata e quattro o cinque corde attorno al corpo, di m o d o che, se una si fosse spezzata, le altre lo avrebbero trattenuto. Poi costoro furono sospesi da un'altezza vertiginosa fino a che non ebbero raggiunto la caverna. Arrivati al centro del nascondiglio, si misero a colpire senza pietà uomini e donne, come lupi che, entrati in un recinto, dilanino crudelmente delle pecore. Alla vista delle sciabole persiane decise a massacrarli, i malcapitati cristiani emisero un forte grido di dolore; si udivano singhiozzi, lamenti, pianti e gemiti provocati dalle angosce mortali che li assalivano; essi presero a dimenarsi, agitarsi e a spingersi disordinatamente, andando e venendo da un capo all'altro della caverna come le onde di un mare tempestoso, cercando la salvezza dove non vi era via di scampo. Sentendo le urla e capendo cos'era accaduto, quelli che sorvegliavano i sentieri che portavano alla caverna abbandonarono il loro posto, spinti dalla sollecitudine per i compagni, ed entrarono all'interno per andare in loro aiuto.
Quando dall'esterno i persiani videro arrivare i guardiani, si diressero in massa verso la caverna e piombarono sui cristiani vibrando colpi di sciabola. Dall'ingresso fino al più remoto angolo della grotta, fu come quando si falcia l'erba: tutti venivano massacrati e scaraventati giù uomini, donne anziane, bimbi in tenera età - e il suolo della caverna grondava sangue cristiano, che tinse di rosso tutte le pietre. Il lattante veniva strappato dal seno della madre e scagliato giù di sotto. Alcune donne, ragazzi e ragazze che erano scampati alla carneficina, vedendosi in balia di quelle bestie feroci e disumane che sicuramente li avrebbero trascinati via come prigionieri per poi torturarli e insudiciare la loro purezza, preferirono la morte a una vita breve ed effimera, piena di crimini e di sofferenze. Molti di essi, coprendosi la testa con un velo o con le vesti, si lanciarono nell'abisso dall'alto della grotta, trovando così la morte. Nella valle però vi era ima fitta foresta, per cui alcuni di coloro che si erano gettati dalla caverna rimasero impigliati nei rami degli alberi che ne arrestarono la caduta, perforando loro l'addom e per poi fuoriuscire dalla schiena, oppure colpendoli al cuore e lacerando loro le spalle, di m o d o che la loro morte fu ancora più dolorosa e crudele. Infine, quelli che erano rimasti furono depredati e rapinati, e il ricco bottino venne spartito tra i soldati persiani, i quali poi li catturarono e li condussero all'accampamento principale. Quindi la deportazione in Persia non riguardò solo uno o due distretti, m a un gran numero di essi: da Nakhidjevan a Eghegnadzor, sul confine di Gegham, da Lori (Hamzachiman) ad Aparan; da SharapKhan e Shirakavan a Zarishat e a parte dei villaggi del distretto di Kars [presso Ani]; dall'intera vallata di Gaghzvan a tutto il territorio di Alashkert, dal villaggio di Macon alla zona di Aghbak; da Salamast e Khoy fino a Urmi (inclusi tutti gli stranieri e le persone di passaggio che erano rimaste a Tabriz e nei villaggi circostanti); dall'intera pianura di Ararat alla città di Yerevan, fino alle province di Kirkh Bulaqh e Dzaghcnots-Dzor; da Garni-Dzor a Urtza-Dzor e, prima ancora, ai distretti di Karin, Basen, Khnus e Manzikert, Artsakhe, Ardjish, Berkri e Van, i cui abitanti erano stati prima trascinati in schiavitù a Yerevan e poi condotti più lontano. Tutti i distretti della bella terra d'Armenia, compresi i territori da essi dipendenti, le cui popolazioni erano state deportate con la forza in Per-
sia per ordine dello shah, vennero saccheggiati e ridotti a un deserto. Ancor oggi il loro suolo ricco e fertile, i loro campi e i loro giardini, offrono allo sguardo lo spettacolo di innumerevoli villaggi e pregevoli borghi in preda alla desolazione 5 3 . Dopo aver devastato la regione dell'Ararat, gharkunik e ne saccheggiano i villaggi
i «jelall»54 passano nel Ge-
(1605)
Inoltre catturarono e trascinarono con sé c o m e prigionieri le donne e i bambini, al fine di costringere i loro responsabili in cambio di moltissimo oro e argento. Dopo aver portato a termine ogni cosa secondo i propri desideri, disposero che le donne e i bambini catturati procedessero a piedi, fecero caricare ai guardiani caduti nelle loro mani le bestie da soma e i buoi, e poi presero con sé le numerose greggi di pecore, le provviste e le mandrie di cavalli. Dal momento che la spedizione si svolgeva in inverno, e che quell'anno il freddo era particolarmente intenso e la neve copiosa, non passarono due giorni che gli animali, esausti, morirono lungo il cammino; allora i jelall divisero i carichi di quelli che erano venuti a mancare e li distribuirono tra le donne e i bambini prigionieri. Fu così che essi attraversarono la montagna e giunsero al villaggio di Karbi. Quante sofferenze dovettero sopportare gli infelici cui era toccato quel compito! Alcuni, a causa del gelo, persero le mani, i piedi o le orecchie ed ebbero le carni mutilate; altri invece, ai quali i venti gelidi avevano mozzato il respiro, caddero sul posto e spirarono. Essi morirono dunque lungo il cammino, mentre i superstiti vennero condotti a Karbi, dove alcuni furono venduti per moltissimo argento, altri invece destinati, in qualità di schiavi, al servizio dei jelall, i quali rimasero a riposare in quel luogo fino alla primavera 55. Conversione degli ebrei di Isfahan all'epoca di shah 'Abbas II (1656) Dopo aver cacciato dal centro di Isfahan il popolo armeno, si accinsero ad allontanarne anche gli ebrei. Fu così che, al tempo di shah 'Abbas II, nell'anno 1106 del calendario armeno (1656), un venerdì, , vigilia dello shabbat, verso sera, lo stesso ehtim al-dawla [ministro] Mehmed Beg che aveva eliminato gli armeni dal centro di Isfahan decise di fare altrettanto con il popolo ebraico. Scel-
se quindi dei soldati e li m a n d ò a dire agli ebrei o yehud [giudei]: «O ebrei, voi tutti dovete uscire da Isfahan e stabilirvi all'esterno, in uno dei sobborghi. Dal momento che non siete musulmani, e per giunta siete una razza impura, lasciate la città e andate a vivere fuori, secondo il volere del re» 56 . «Poiché tale è il volere del re nei nostri riguardi - replicarono gli ebrei in tono di supplica - il suo ordine incombe su di noi e noi lo eseguirem o fino in fondo; vi chiediamo soltanto di concederci qualche giorno, così che possiamo partire con i nostri figli, i nostri beni e i nostri effetti personali. Tra l'altro, vedete che ormai si sta facendo tardi e che abbiamo tra noi molti malati e infermi, anziani e bambini piccoli, i quali non possono partire di notte: perciò vi chiediamo di accordarci tre giorni». Tuttavia i soldati presenti sul posto non consentirono loro di rimandare fino all'indomani e insistettero affinché partissero al più presto, anzi, quella sera stessa, poiché tale era il volere dell'ehtim al-dawla, il quale non li aveva autorizzati ad aspettare fino al mattino e aveva ordinato loro di farli sloggiare immediatamente, loro e le loro famiglie, aggiungendo che, se il giorno dopo ne fosse rimasto anche uno solo, il bastone, il carcere e le torture avrebbero punito il ribelle che aveva osato restare in spregio ai suoi comandi. Il ministro agiva così nei confronti degli ebrei per costringerli a commettere il crimine di violare lo shabbat, che essi osservano astenendosi da qualsiasi azione. I soldati dell'ehtim al-dazula, venuti a cacciarli con percosse e maltrattamenti, li fecero uscire dalle loro case con la spada e il bastone, spingendoli brutalmente, sparpagliando ovunque i loro effetti personali e abbattendo le loro porte. Gli ebrei partirono a tarda ora, gridando, emettendo urla, piangendo e lamentandosi, tenendo ognuno per mano il figlio o la figlia, trascinandosi dietro i letti e gli indumenti, e andando di porta in porta, lungo le strade e le piazze, senza che alcun maomettano avesse pietà di loro. Avendo lasciato la città ed essendo giunti nel distretto di Djugha e di Garabad, essi non poterono ancora fermarsi perché i soldati non glielo permisero, sostenendo che l'ehtim al-dawla aveva ordinato loro di non consentire alla gente di Djugha e di Garabad di offrire loro asilo,
e passarono tutti la notte all'addiaccio. Poiché non erano al riparo, e tra loro vi erano molti indigenti di ambo i sessi, il freddo autunnale, anzi, quasi invernale, li faceva soffrire molto. Inoltre i maomettani, quando li incontravano, li trattavano con disprezzo e disgusto, li percuotevano e infliggevano ai malcapitati molti soprusi. Dopo questi fatti Yehtim al-dawla, vedendo che non c'era m o d o di indurli con le buone a diventare musulmani, decise di usare la violenza per raggiungere tale fine. Quindi ordinò a tutti i musulmani, e specialmente ai soldati, ovunque trovassero un ebreo, di catturarlo e condurlo alla sua presenza. Di conseguenza, appena un musulmano acciuffava un ebreo, agiva così. Il ministro parlava agli ebrei, dapprima in tono mellifluo, dicendo: «Andiamo, brava gente, lasciate la vostra vana religione, riconoscete il vero Dio creatore del cielo e della terra e diventiamo fratelli». Ma gli ebrei rispondevano: «Noi conosciamo già il Dio creatore del cielo e della terra e lo serviamo, m a non desideriamo instaurare una fratellanza con voi e non professeremo la vostra religione. La nostra è quella vera, rivelata da Dio per m e z z o del profeta Mosè, nel quale anche tu credi» 5 7 . «Abbracciando la nostra religione - replicava Yehtim al-dawla - voi sarete i nostri fratelli diletti, e inoltre vi colmeremo di ricchi doni e di onori speciali». [...] Dopo aver tenuto un'assemblea comune, gli ebrei presentarono ima supplica alYehtim al-dawla, chiedendogli di avere un luogo in cui risiedere: «Come avete fatto con gli armeni - dicevano - ai quali, dopo averli scacciati dal centro della città, avete assegnato un altro posto in cui abitare, così fate anche con noi, consentendoci di stabilirci in un qualunque punto della periferia cittadina in cui a poco a poco possiam o costruirci delle case. Quella sarà la nostra dimora fissa ora che abbiamo abbandonato la città». Ma Yehtim al-dawla, dopo essersi consultato con gli altri nobili persiani, indicò loro una località distante da Isfahan di nome Gozaldar, situata nei pressi di Muthallath-Imam: un sito del tutto inadatto e privo di risorse, in primo luogo perché era lontano dalla città e poi perché l'acqua era scarsa, tanto più che, se anche si provava a farla arrivare da fuori, essa non vi giungeva a causa della distanza. E se vi si scava-
va un pozzo,
l'acqua non sgorgava da quel suolo montuoso e pietro-
so, che era stato scelto apposta per far soffrire e ridurre alle strette gli ebrei qualora vi si fossero insediati. Quindi essi non poterono trasferirvisi e rimasero a vivere fuori città, in isolamento. In seguito, l'ehtim al-dawla decise di aumentare progressivamente le sofferenze degli ebrei. Vi era da tempo immemorabile, alla periferia della città e lontano da tutti gli edifici abitati, un luogo circondato da un'alta muraglia e provvisto di una porta, all'interno del quale non vi era un solo fabbricato, ma soltanto il muro che formava la cinta difensiva. Egli ordinò di assegnare un soldato persiano a ogni coppia di ebrei al fine di tormentarli; di catturare e condurre in catene all'interno delle mura tutti gli esponenti della comunità ebraica che i suoi uomini riuscissero a scovare, di cospargere d'acqua l'intera superficie del suolo e di farli sedere lì senza vestiti. Poiché allora (1658) si era nella fredda stagione autunnale, l'acqua non era solo fresca, m a ghiacciata; inoltre, gli ebrei rimasero tre giorni e tre notti a digiuno, senza toccare cibo: infatti non solo nessuno gliene dava, m a quando i loro compatrioti, che erano rimasti fuori, portavano loro del pane e lo gettavano oltre le mura, all'interno della cinta, i soldati lo prendevano e se lo mangiavano loro. Poi l'ehtim al-dawla li fece portare via di lì e condurre in prigione. Quindi sottopose al sadr, il capo della religione persiana, il seguente quesito: «Se queste persone non acconsentono ad abbracciare la nostra fede, cosa dobbiamo fare? Dobbiamo convertirle con la forza oppure no?». «La nostra legge - rispose il sadr - non consente di convertire la gente con la violenza». «Allora che devo fare?», riprese il ministro. «Questo non è affar mio, m a tuo» ribatté il sadr. Avendo nuovamente convocato gli ebrei alla sua presenza, l'ehtim aldawla li invitò a sottomettersi e ad abbracciare la fede di Maometto: «Chiunque lo farà - aggiunse - riceverà da me due tuman
sarà libe-
rato dai tormenti e siederà in pace nella sua casa; colui che per primo professerà la nostra fede avrà l'autorità di un capo». [...] [Uno di loro, Ovadia, rinnegò il giudaismo e divenne consigliere dei persiani.] Su suo consiglio, essi si affrettarono a cercare il hakam [rabbino-capo], un uomo di nome Sa'Td, e, quando lo ebbero trovato, lo condussero dall'ehtim al-dawla che gli disse: «Cedi alle mie esortazioni, obbedisci all'ordine del re; andiamo, abbraccia la fede musulmana e io ti
colmerò di doni e di benefici». M a anziché acconsentire, il hakham rispose con un rifiuto, e, per quanto i nobili insistessero, egli tenne duro e chiese soltanto di rientrare a casa sua. Dopo che lo ebbero congedato, il rinnegato Ovadia, che in quel momento si trovava lì, li incitò a trattenerlo in custodia presso di loro, cosa che i nobili decisero di fare. Il giorno dopo egli venne richiamato nella sala del dTwdn [Consiglio], e nuovamente invitato ad abbracciare la fede musulmana, ma anche questa volta rifiutò. Il terzo giorno si ripetè la stessa trafila, con identico risultato. Infine, l'indomani, dopo molte parole e promesse, fu emessa la sentenza a carico del hakham: «Se non si convertirà alla religione islamica, gli sarà squarciato il ventre e sarà portato in giro per la città legato a un cammello; quanto ai suoi beni e ai suoi familiari, saranno consegnati al saccheggio». Una volta pronunciata la sentenza, fu portato un cammello ed egli vi fu fatto sedere sopra, poi entrarono i carnefici che gli scoprirono il ventre e lo percossero con ima spada sguainata, dicendogli che, se non avesse abiurato, glielo avrebbero squarciato. La paura della morte, unita all'affetto per i familiari, lo indusse a cedere e a pronunciare la professione di fede musulmana, con cui aderiva alla religione islamica, il che fu fonte di gioia indicibile per i persiani. Dopo che ebbero costretto il hakham alla conversione, iniziarono a convocare gli ebrei al diwan, uno o due alla volta, e a dire loro: «Che motivo avete di perseverare nella vostra resistenza dal momento che il hakham ha già fatto la sua professione di fede?». E poiché costoro tenevano duro, i nobili li fecero imprigionare dai soldati. Furono fatti uscire [dal carcere], ricondotti dentro e riportati fuori [presso il diwan] più volte, e durante il tragitto i soldati, gli schiavi e i servi dei nobili che si trovavano sul posto sputavano loro addosso, li insultavano, li percuotevano, li schiaffeggiavano, li gettavano a terra e li trascinavano, dopodiché li riconducevano al cospetto dell'ehtim al-dawla e dei nobili, che tentavano di strappare loro la professione di fede musulmana. Se gli ebrei, volenti o nolenti, per paura di morire la pronunciavano, subito i persiani facevano indossare ai rinnegati abiti nuovi, regalavano loro due tuman presi dal Tesoro reale e li lasciavano tornare a casa. Quelli che resistevano venivano trattenuti in prigione; poi, per due o tre volte e spesso anche di più, venivano riportati in tribunale e sottoposti a pressioni perché abiurassero. In questo modo tutti i prigionieri furono costretti ad aderire alla reli-
gione islamica: nel giro di un mese, 350 uomini divennero musulmani. Da allora, ossia da quando metà degli ebrei ebbe abbracciato la fede maomettana, il loro ascendente sui persiani scomparve a tutto vantaggio di costoro; non fu più permesso loro neppure di esistere, visto che ogni giorno erano condotti con la forza davanti aìì'ehtim al-dawla e costretti a convertirsi all'islamismo. I persiani misero tanta determinazione nelle violenze finalizzate alla loro conversione che tutti gli ebrei residenti a Isfahan, a dire il vero non molti - circa 300 famiglie - , aderirono alla religione maomettana. Infine, a coronare il tutto, fu imposto loro un mullG musulmano incaricato di istruirli nella legge islamica, di condurli assiduamente al luogo del culto, di farli pregare in persiano, di insegnare ai loro figli la letteratura e la storia persiane; inoltre gli ebrei furono costretti a dare le loro figlie in spose a uomini musulmani, a sposare essi stessi donne musulmane, a non sgozzare gli animali vivi secondo il loro antico metodo 5 9 e ad acquistare la carne nelle botteghe dei macellai musulmani. In una parola, furono assoggettati a una miriade di usanze persiane. Tuttavia c'erano degli ebrei che non frequentavano la moschea ed evitavano ogni contatto con i persiani; inoltre, invece di comprare la carne in macelleria, uccidevano in segreto delle pecore in casa propria, oppure non ne acquistavano per molti giorni. Se di tanto in tanto, per paura dei traditori, andavano ad acquistare la carne alla macelleria persiana, la portavano in giro con grande ostentazione e disinvoltura perché tutti la vedessero, e poi, una volta a casa, anziché mangiarla la davano ai cani. Da questa, e da molte altre strategie analoghe messe in atto dagli ebrei, emerge che essi non intendevano affatto rinnegare il giudaismo. [...] Quindi gli ebrei, nei raduni riservati alla loro etnia, non seguivano i precetti dell'islam, m a quelli del giudaismo: «Ogni anno - dicevano mettiamo da parte l'importo che dobbiamo versare annualmente al fisco reale e lo capitalizziamo nel nostro tesoro, per poterlo pagare subito, alla prima esazione, e avere salva la vita. Quanto ai due tuman che ci hanno dato in cambio della nostra apostasia, li conserviamo e ne ricaviamo un interesse annuale, per far fronte alle richieste persiane in caso di riscossioni straordinarie». Questa è dunque la natura delle relazioni tra persiani ed ebrei al momento in cui scriviamo, ossia nel-
l'anno 1109 < 1 1 6 0 > [...]. Quanto al futuro, Dio solo lo conosce. Bisogna inoltre sapere che, all'epoca in cui gli ebrei furono convertiti v olenti o nolenti - alla fede di Maometto, Yehtim al-dawla ottenne dal re l'ordine, esteso a tutti i capi delle province dell'Impero persiano, di costringere tutti gli ebrei presenti in qualunque paese e città del regno - singoli o comunità - , a rinnegare il giudaismo. Se si sottomettevano di buon grado, tanto meglio; quanto ai recalcitranti, dovevano essere indotti ad abbracciare la legge islamica con la forza e le torture. Appena il decreto reale giungeva in un luogo, vi si diffondeva con la forza di un incendio che divampi tra i canneti. Gli ebrei venivano subito radunati e costretti a obbedire all'editto supremo, m a non tutti si sottomettevano: alcuni vi sfuggivano con i doni, con la fuga o con l'astuzia. Quelli che restavano, essendo stati presi alla sprovvista, aderivano volenti o nolenti alla religione islamica, perlomeno in apparenza e agli occhi dei persiani, m a in realtà continuavano a professare in segreto i precetti del giudaismo. Gli ebrei residenti nelle città persiane non ebbero altra scelta se non conformarsi, almeno apparentemente, alle leggi del paese. Fu quanto accadde a Kashan, Qum, Ardavel, Tabriz, Qazbin, Lar, Shiraz, Banderi-i-Qum.
Vi si sottrassero invece con i doni, con la fuga o con astuti
espedienti gli abitanti di Gulpekian, Khunsar, Bandar, Shushtar, Ham a d a n e Yezd, del Kirman, del Khorasan, di Dumavand, di Astarbad, del Gilan e dei villaggi adiacenti a Phahrabad. Per quanto riguarda coloro che vivevano nella città stessa di Phahrabad, essi resistettero apertamente all'ordine reale e non aderirono alla fede maomettana. Avendo appreso che gli ebrei di Isfahan l'avevano abbracciata, il loro governatore, il principe Mirza-Satgh, decise di costringerli con la forza a fare altrettanto prima ancora di ricevere il decreto del re. Allora gli ebrei, turbati dalle sue violenze, gli dissero in faccia: «Se non hai ricevuto un ordine supremo in questo senso, perché ci tormenti?». Queste parole ridimensionarono un po' la sua arroganza, m a nel suo cuore rimase un vivo risentimento; tuttavia, attese pazientemente fino a che non ebbe ricevuto il decreto. Allora m a n d ò a chiamare gli ebrei e li apostrofò così: «Cos'avete da dire ora? Ecco l'ordine supremo: sottomettetevi a esso e diventate musulmani». Ma gli ebrei persistettero senza cedimenti di sorta nella loro opposizione, dicendo: «Noi non accettiamo la legge di Maometto e non rinunce-
remo alla religione dei nostri padri; fa' pure di noi quello che vuoi». Per ridurli all'obbedienza il principe ricorse a vari tipi di tortura: alcuni venivano appesi a un palo e bastonati fino a lasciarli senza fiato; altri soffocati nell'acqua del lago, poi tirati fuori e malmenati. Inoltre egli inviò dei soldati a saccheggiare le loro case e profanare le loro donne, ordine che essi eseguivano con bramosia anche nei confronti delle ragazze e dei ragazzi. Gli ebrei del paese erano ricchi e agiati, e poiché molti di loro possedevano al mercato botteghe e dukan [negozi] dove commerciavano in tessuti pregiati e argenteria, il principe dei musulmani ordinò di saccheggiare i loro lussuosi negozi, e il suo com a n d o fu prontamente eseguito. Più di 100 ebrei vennero arrestati, e poi, con il collo cinto da una lunga e pesante catena di ferro - che portavano stando in fila poiché ce n'era una sola - , furono trascinati senza sosta alla porta del principe per essere giudicati, e quindi ricondotti in prigione. Le cose andavano avanti così da tre o quattro mesi quando il principe, stancatosi egli stesso della situazione, prese questa decisione: «Dal m o m e n t o che rifiutate di rinnegare il giudaismo, mettetevi addosso un segno che faccia sapere a tutti che siete ebrei». Ed essi accolsero prontamente la proposta di portare tale segno. Gli ebrei dovettero ancora subire molti tormenti e angherie, fino a che i persiani stessi si stancarono e smisero completamente di perseguitarli. Liberati in tal m o d o dalle mani dei persiani, essi perseverano a tutt'oggi nella fede dei loro padri 6 0 . Sia gloria in eterno a Dio, che conosce il futuro! Amen 6 1 . Arakel di Tabriz Deportazione degli armeni dell'Ararat
(1735)
Dopo la partenza [da Tiflis, Georgia, settembre 1735] del Khan [Nadir Shah], io rimasi a Tiflis [Tbilisi] tre giorni. Infatti il temibile signore aveva ordinato di far uscire dalla città, come già aveva stabilito per l'Ararat, 300 famiglie, e di trasferirle nel Khorasan. Anche il Khan di Yerevan, il kalSntar e il melik62 avevano ricevuto l'ordine di registrare 300 famiglie, di strapparle, volenti o nolenti, dalle loro abitazioni, e di farle emigrare. Nel registro figuravano i nomi di altrettante famiglie di
Dopo la presa della fortezza di Tiflis (1386) da parte di Tamerlano, i prigionieri georgiani sono condotti via per ordine del sultano (manoscritto del Rawzat al-SafS di MTr KhzvSnd, 6° parte, copia persiana del 1603, suppl. pers. 151a, folio n. 59 verso, BN).
Tiflis. La gente si radunò in una chiesa, e, dal momento che molti avevano saputo della partenza e dell'arresto dei loro connazionali, accorsero nel luogo in cui alloggiavo. Si levarono mormorii, lamenti e grida che si innalzavano fino al cielo; si udivano pianti, gemiti e lamenti; le persone si rotolavano per terra, mi scongiuravano di chiedere al Khan di liberarle e di non condurle in terra straniera. Afflitto dallo spettacolo delle sofferenze del mio popolo - degli uomini c o m e delle donne - , con il cuore pesante, straziato e grondante lacrime di sangue, presi a bussare alle porte dei potenti, pregando, scongiurando e supplicando con insistenza di salvarlo da una simile sventura. Grazie a Dio, certi argomenti addolcirono il cuore del Khan, che accordò loro la grazia in cambio di 3000 tuman e 3000 sacchi di grano: essi li raccolsero e furono ritenuti liberi. Quanto alle 300 famiglie dell'Ararat, malgrado i miei aspri tormenti e le mie incessanti fatiche, non ottenni nulla. Egli ordinò di fornire loro, a spese del fisco, due bufali per ogni casa, per trasportare quello che volevano; ciascuno di coloro che restavano dovette dare tre buoi, tre mucche, tre litras63 di oggetti in rame, tre pezze di stoffa, tre Iheps < ? > di farina e frumento e un tuman d'argento in favore di ogni famiglia di emigranti 6 4 . A b r a m o di Creta
Palestina Ebrei e cristiani a Gerusalemme
(1700)
Noi [ebrei] fummo costretti a dare una grossa s o m m a di denaro alle autorità musulmane di Gerusalemme affinché ci consentissero di costruire una nuova sinagoga. Infatti, benché quella vecchia fosse troppo piccola e noi volessimo ingrandirla solo in misura minima, in base alla legge islamica era proibito apportarvi anche la più lieve modifica [...]. Oltre a quello che spendevamo in mance per guadagnarci il favore dei musulmani, ogni maschio [ebreo] era tenuto a pagare annualmente al sultano un testatico che ammontava a due pezzi d'oro. Il ricco non doveva dare di più, m a il povero non poteva dare di meno. Ogni anno, generalmente durante il periodo di Pasqua, arrivava a Ge-
Ebreo («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).
contratti di pace; [altre], c o m e II Cairo, Kufa, Bassora, Baghdad e Wasit, sorsero in aree disabitate che furono delimitate e poi popolate da musulmani; [infine] bisogna considerare tutti i villaggi che vennero conquistati con la forza, e che il califfo non ritenne opportuno restituire a coloro ai quali erano stati sottratti. Vi sono città islamiche in cui i «popoli protetti» [dhitnmi] non possono usare apertamente nessuno dei loro simboli religiosi: ad esempio edificare ima chiesa, esibire vino o carne di maiale, suonare le campane. Secondo l'opinione unanime dei giuristi, in queste città non può sorgere alcuna nuova sinagoga, chiesa, monastero o luogo di preghiera. Abbiamo già segnalato in precedenza che la nostra città, Il Cairo, è di origine islamica; essa fu fondata d o p o la conquista dell'Egitto, durante il regno dei fatimidi. Ecco perché al suo interno non p u ò essere costruita alcuna chiesa, sinagoga o altro edificio di culto. Tra coloro che lo affermano va annoverato il muftT islamico nonché erudito hanafita shaykh Qasim ibn Qutlubugha 7 6 , discepolo di Ibn alH u m a m 7 7 . I testi della sua scuola sono unanimi nel proibire la costruzione di chiese e altri monumenti analoghi di proprietà dei dhimmi in tutto il territorio islamico. Quindi c o m ' è possibile che ciò sia consentito in questa colonia islamica, in questa città in cui l'incredulità non ha mai preso piede sin dal m o m e n t o della sua fondazione? Il Profeta - pace e benedizione su di lui - ha detto: «Niente castrazione né chiese nell'islam». Ora, il termine per «castrazione», khisa, che segue lo schema fi'al™, è il sostantivo verbale di khsy, «castrare». Il nesso tra «castrazione» e «chiesa» sta nel fatto che l'erezione di una chiesa in territorio m u s u l m a n o comporta la perdita della virilità da parte dei suoi abitanti, proprio c o m e la castrazione implica di fatto la perdita della virilità da parte degli animali, sebbene, nel nostro contesto, la parola alluda a una disaffezione nei confronti delle donne generata da un eccessivo attaccamento alle chiese. La connessione è evidente. Dicendo: «Niente chiese», il Profeta intendeva: «Nessuna costruzione di chiese», ossia esprimeva un divieto, quello per cui non p u ò essere edificata alcuna chiesa in territorio islamico in quanto ciò implica la perdita della virilità per quanti vi abitano, il che non può essere consentito, così c o m e è vietato privare gli uomini della virilità mediante castrazione 7 9 .
Badanadji o armeno che imbianca le mura («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).
Sebbene alcuni dati siano già ricavabili dalle precedenti affermazioni, sappi che, come ai dhimmì è proibito costruire chiese, così essi sono soggetti ad altre interdizioni. In primo luogo non devono recare aiuto a un miscredente a danno di un musulmano, arabo o meno, né devono rivelare al nemico i punti deboli dei musulmani, ad esempio la loro eventuale impreparazione al combattimento. Inoltre, i dhimtnT non devono imitare i musulmani nel m o d o di vestire, indossare uniformi militari, ingannare o colpire un musulmano, innalzare la croce in un'assemblea islamica, lasciare che i maiali escano dalle loro case ed entrino nei cortili dei musulmani, esibire bandiere durante le loro ricorrenze o portare armi nei loro giorni festivi, anzi, non devono portarle affatto e nemmeno tenerle in casa. Se fanno ima di queste due cose, devono essere puniti e le loro armi confiscate. Nessun ebreo né cristiano ha il diritto di andare a cavallo, con o senza sella. Essi possono invece montare un asino, m a con il basto. Non devono portare né la qaba né abiti di seta, e neppure il turbante, ma una qalansuwa [alto berretto conico] imbottita. Se passano vicino a un gruppo di musulmani, devono scendere dall'asino, che peraltro possono usare solo in caso di necessità, malattia o partenza per la campagna; comunque, anche in questi casi bisogna lasciare loro solo uno spazio ristretto. Essi non devono imitare il m o d o di vestire delle persone istruite e onorevoli, né indossare indumenti lussuosi, di seta o di altri tessuti pregiati. Devono distinguersi da noi nell'abbigliamento secondo gli usi propri di ciascun luogo, e non usare ornamenti, così da sottolineare la loro umiliazione, la loro sottomissione e la loro mortificazione. Perfino i lacci delle loro calzature non devono essere simili ai nostri, e, dove si usano scarpe chiuse e senza lacci, le loro devono essere grossolane e di colori sgradevoli. I Compagni [del Profeta] si sono trovati d'accordo su tali misure, che hanno la funzione di evidenziare l'avvilimento dell'infedele e di tutelare la fede del musulmano poco fervente. Infatti, se costui lo vedrà umiliato non sarà attratto dalla sua fede, al contrario di quanto accadrebbe se gli apparisse potente, fiero o rivestito di abiti lussuosi, cosa che potrebbe indurlo a stimarlo e ad avvicinarsi a lui, viste la sua miseria e la sua povertà. In breve, la stima per l'infedele è mancanza di fede. Nel trattato alasbah wa-al-naza'irm si dice: «La deferenza per l'infedele è mancanza di
fede. Chi saluta un dhimmT con deferenza è colpevole di infedeltà. Chi, rivolgendosi a un magio 8 1 , gli dice in tono deferente: " O Maestro", è reo di incredulità. È così perché essi sono i nemici del nostro diletto, il Signore dei Messaggeri, e chi onora i nemici del suo diletto umilia il suo diletto. Ecco perché è proibito nominare funzionario un infedele. Lasciare che egli prenda il sopravvento su un musulmano conferendogli il potere di picchiarlo, di imprigionarlo o di opprimerlo per estorcergli del denaro fa dell'infedele un esattore fiscale nei confronti del musulmano. Il tutto per conto di un capotribù o di un dignitario che, per ragioni meramente temporali e disprezzando la punizione che ci attende nell'aldilà, non teme le conseguenze della scelta di conferire al miscredente potere sul credente. Se l'infedele ha agito in questo modo, egli ha violato il patto [dhimma] con i musulmani citato in precedenza, e può essere messo a morte». Kamal ibn al-Humam [morto nel 1457] dice: «L'infedele dhimmT che si innalza al di sopra dei musulmani in modo tale da opprimerli può essere messo a morte dal califfo». È proibito assegnare loro un posto d'onore in un'assemblea di musulmani, manifestare amicizia nei loro confronti e salutarli. Se avete salutato qualcuno che credevate musulmano, per poi scoprire che si trattava di un dhimmT, ritirate il vostro saluto adducendo il pretesto: «Ha risposto al mio saluto». Se uno di loro vi saluta, rispondetegli solo: «Altrettanto a te». Se siete in corrispondenza con un dhimmT, usate la formula: «Saluti a chi segue la retta via», ma evitate di congratularvi con lui, di consolarlo o di fargli visita a meno che non speriate di convertirlo all'islam. Se è questo che vi aspettate, andate pure a trovarlo e proponetegli l'islam. L'infedele non può costruire una casa più alta di quella del suo vicino musulmano, anche se questa è molto bassa e se il musulmano accetta senza problemi l'altezza della sua casa. Egli non ha il diritto di acquistare una copia del Corano o un testo di diritto islamico o relativo alla tradizione profetica 82 , né di prenderli in pegno, poiché questo non sarebbe corretto. Come si è già detto in precedenza, non bisogna alzarsi di fronte a lui e salutarlo per primi. Se insieme all'infedele che vi accingete a salutare c'è un musulmano, porgete a lui il vostro saluto, e non lasciatevi andare a espressioni del tipo: «Come va? Come stai? Come ti senti?».
È invece consentito dire: «Che Dio ti onori e ti guidi», sottintendendo: «All'islam», come pure: «Che Dio ti conceda una lunga vita, grandi ricchezze e molti figli» perché questo implica il pagamento di numerose imposte prò capite. C o m e i musulmani devono differenziarsi nettamente dagli infedeli in vita, così anche le loro tombe devono essere chiaramente distinte da quelle dei miscredenti, ed essere situate lontano da esse 8 3 . al-DamanhurT
Turchia Lettere degli ambasciatori britannici a Costantinopoli
(1662-1785)
Lettera di sir James Porter a sir William Pitt, Londra Costantinopoli, 3 febbraio 1758 [...] Le proibizioni relative all'abbigliamento dei cristiani e degli ebrei, che vietano loro qualsiasi indumento che non sia di tessuti modesti e di colore nero o bruno, nonché quelle concementi i copricapi e gli stivali, sono applicate con il più grande rigore e in una forma sino a oggi sconosciuta, che preoccupa molto tutti coloro che non sono maomettani, e li induce a temere di incorrere in terribili punizioni; eppure ciò sembra del tutto naturale se si considera che proviene da un principe devoto e ascetico [il sultano Mustafa III] M . Lettera di sir John Murray a lord Thomas Weymouth, Londra Costantinopoli, 17 settembre 1770 [...] Il Bostanci Bashi85 è cambiato, e il nuovo funzionario ha immediatamente emanato dei decreti [in base ai quali] nessun greco, armeno o ebreo deve farsi vedere fuori di casa mezz'ora dopo il crepuscolo; pertanto, se incontrasse per strada uno qualunque [di loro] d o p o l'ora [stabilita], lo farebbe impiccare senza distinzioni. Si suppone che la ragione di questo editto sia che i turchi escono travestiti con abiti [non musulmani] K .
Marocco (XIX secolo) Lettera del sultano del Marocco Mulay Abd al-Rahmdn (1822-1859) sole di Francia a Tangeri
al con-
(1841)
Gli ebrei del Nostro fortunato Paese hanno ricevuto garanzie delle quali beneficiano in cambio del rispetto delle condizioni imposte dalla Nostra Legge religiosa ai popoli che g o d o n o della protezione [dhimma\: tali condizioni sono state osservate, e lo sono tuttora, dai Nostri correligionari. Se gli ebrei le rispettano, la nostra Legge vieta di versare il loro sangue e ordina di rispettare i loro beni, m a se violano anche una sola di esse, la Nostra Legge autorizza a versare il loro sangue e ad appropriarsi dei loro beni. La Nostra gloriosa religione attribuisce loro unicamente i marchi della mortificazione e dell'avvilimento, per cui il solo fatto che un ebreo alzi la voce contro un musulmano costituisce una violazione delle condizioni su cui si basa la protezione. Se «in casa vostra» essi sono uguali a voi in tutto e per tutto, se sono assimilati a voi, questo va benissimo per il vostro paese, m a non per il Nostro. Tuttavia il vostro status nei Nostri territori è diverso dal loro: voi siete dei «riconciliati», mentre loro sono dei «garantiti». Così, se uno di loro viene a commerciare nel Nostro fortunato Impero, deve conformarsi agli stessi obblighi a cui sono soggetti i «protetti» in casa Nostra, e portare gli stessi segni esteriori [di discriminazione]. Colui che non è disposto a osservare tali obblighi, non deve far altro che restare nel suo paese, poiché noi non abbiamo bisogno dei suoi commerci se essi sono esercitati in condizioni contrarie alla Nostra Legge benedetta. [...] [Lettera] terminata il 20 del mese sacro di dhu al-Hijja87 dell'anno 1257 <1841> 9 8 . Eugène F u m e y
Afghanistan Cacciata degli ebrei da Mashhad (1839) e da Herat
(1857-1859)
Nell'anno 1839, in seguito a un'ondata di diffamazioni, il giovedì 13 del mese di nisan [marzo-aprile] i musulmani insorsero contro i nostri
padri, e minacciarono di uccidere e annientare tutti gli ebrei [di Mashhad] e di spogliarli di tutti i loro beni se non si fossero convertiti all'islam. Trentun ebrei furono trucidati, e, se non fosse stato per la grazia di Dio, saremmo morti tutti. [...] Qualche tempo dopo, coloro che desideravano rimanere fedeli alla parola di Dio lasciarono la città di Mashhad e si recarono a Her5t [Afghanistan nord-occidentale], dove, a partire dal 1840, vissero in pace e al sicuro per 15 anni. [...] Ma nell'anno 1856, a causa dei nostri numerosi peccati, l'esercito di Nasser alD m Shah Qajar 89 attaccò e tenne sotto assedio per nove mesi la città di Herat. Alla fine del mese di tishri [ottobre] 1857, la città cadde senza colpo ferire, in seguito a un tradimento. Da allora, [gli assalitori] cominciarono a umiliarci con accuse di ogni genere e a minacciarci dicendo: «Voi avete perpetrato questo o quel crimine, e quindi noi vi puniremo in questo o quel modo». Ci calunniarono con accuse menzognere al cospetto del nostro re e dei suoi principi, persuadendoli a bandirci dalla città e a inviarci in esilio a Mashhad. Così, il 15 sebat [gennaio-febbraio] del 1858 gli aggressori piombarono su di noi sferrando colpi mortali e dicendo: «Uscite dalle vostre case: è un ordine del re». Poi sbatterono tutti - uomini, donne e bambini - fuori di casa, senza risparmiare n e m m e n o i vecchi e i lattanti, senza misericordia né c o m p a s s i o n e T u t t a la città risuonava dei lamenti dei poveri e degli orfani. N o n a v e m m o neppure il tempo di raccogliere i nostri effetti personali e di preparare delle provviste perché, nel giro di tre giorni, tutti gli ebrei furono cacciati dalla città e radunati in un luogo chiamato Musalla. Il 19 sebat iniziarono a deportarci, e per 30 giorni avanz a m m o senza sosta, circondati da soldati musulmani. Faceva freddo, dal cielo cadevano neve e grandine, e molte persone perirono lungo il cammino a causa del freddo estremo, della penuria di viveri e di innumerevoli altre calamità. Giungemmo a Mashhad nel mese di adar [febbraio-marzo], m a non f u m m o autorizzati a entrare in città: fummo invece rinchiusi in un recinto per animali all'interno della fortezza conosciuta c o m e Bab Qudrat. Esso non era altro che ima prigione, e le sue anguste dimensioni accrebbero la nostra vergogna e la nostra umiliazione. Per le enormi sofferenze, alcuni dei nostri fratelli si convertirono all'islam. Di noi si sarebbe potuto ben dire: «Di fuori la spada li priverà dei figli, dentro le case li ucciderà lo spavento» [Dt. 32,25], per-
Sulak Bashi (capitano delle guardie) (Charles de Fériol d'Argentai, «Explication de cent estampes qui représentent différentes nations du Levant avec nouvelles estampes de cérémonies turques qui ont aussi leurs explications», Jacques Collombat, Paris 1715, tavola 16).
ché i nostri carcerieri ci picchiavano tutti i giorni con grande brutalità e ci estorcevano l'importo del noleggio dei cammelli che a v e v a m o portato con noi [...]; inoltre, e r a v a m o tormentati dalle malattie e dalla pestilenza, e molti di noi morirono. Soffrimmo infinite altre sventure che sarebbe tedioso elencare, perché, c o m e si suol dire, «La prigionia è peggio della spada della morte» [TB, Baba Bathra, 8 b ] " . Restammo lì per due anni interi, fino a che in Cielo i nostri peccati furono perdonati, e il re si decise a permetterci di tornare alle nostre case. Partiti da Mashhad nel mese di kislev [novembredicembre] del 1859, arrivammo a Herat il lunedì 13 tebet [dicembregennaio], e ciascuno potè rientrare a casa propria 9 2 . Mattatia Garji
Si tratta del califfo HarOn al-Wathiq (842-847). Al-Mutawakkil regnò dall'847 all'861. [Il calendario islamico parte dal 622, l'anno dell'egira di Maometto da Medina a La Mecca; tuttavia, poiché si tratta di un calendario lunare, per determinare le corrispondenze tra anno islamico e anno gregoriano non è sufficiente sottrarre 622 a quest'ultimo, ma occorre utilizzare una speciale formula N.d.T.]. 1
2
Bar Hebraeus [Abu al-Faraj ibn Harun al-MalatT], The Chronography of Gregory Abu'l Fara), the Son of Aaron, the Hebrew Physician Commonly Known as Bar Hebraeus, trad. di Ernest Alfred Wallis Budge, 2 voli., Oxford University Press, Oxford 1932, voi. 1, p. 141 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2003; http://rbedrosian.com/BH/bh.html N.d.T.]. 'Ivi, p. 183. 3
Si tratta in realtà dell'imam di Egitto e Siria: infatti i califfi fatimidi, antagonisti di quelli abbasidi e omayyadi, preferivano definirsi imam, in linea con la tradizione sciita a cui appartenevano [N.d.T.]. 6 E la chiesa del Santo Sepolcro, chiamata anche chiesa della Resurrezione dai cristiani di rito ortodosso [N.d.T.]. 7 Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abu'l Faraj cit., voi. 1, p. 184. "Johannes Obadiah era il figlio di un condottiero normanno, Drochus, signore del feudo di Oppido Lucano, in Basilicata, all'epoca (XI secolo) sotto il dominio normanno. Mentre suo fratello, Rogier, fu cavaliere e poi barone delle sue terre, Johannes prese gli ordini religiosi, ma nel 1102 si convertì al5
l'ebraismo (di qui l'appellativo di proselito), assunse il nome di Obadiah e, subito dopo la prima Crociata, si trasferì in Medio Oriente e scrisse estesamente delle sue esperienze in molte di quelle regioni. Nulla di certo si sapeva di lui fino al XX secolo, quando importanti frammenti delle sue memorie furono scoperti tra le collezioni di manoscritti Geniza di II Cairo (si tratta dei circa 200.000 documenti rinvenuti nel 1864 da Jacob Saphir nella geniza, cioè nel deposito di documenti, della sinagoga Ben Ezra di D Cairo, risalenti ai secoli IX-Xm) e di altre biblioteche europee e americane. Le pagine erano sufficientemente ben conservate, tanto da permettere di gettare luce su vari eventi storici non documentati in nessun'altra fonte, nonché di ricostruire la sua identità di proselito e di musicista grazie alle minuziose indicazioni geografiche e topografiche presenti nella sua Cronaca e alle indagini di Shlomo Dov Goitein, Alexander Scheiber, Normann Golb e Leo Levi http://www.oppidolucano.net/cultura/obadiah.html [N.d.T.]. 'Il termine «caratteri sacri» non designa le semplici lettere dell'alfabeto ebraico, ma l'antico ebraico, noto come paleoebraico, usato ai tempi di Mosè e di Davide [N.d.T.]. 10 Alexander Scheiber, The Origins ofObadyah, the Norman Proselyte, «JJS» 5, n. 1,1954, p. 37. 11 Hady Roger Idris, Contributions à l'histoire de l'Ifriqiya (d'après le Riyad anNufus d'Abu Bakr El-Maliki), «REI», n. 9,1935, p. 142 [L'allusione alle scimmie e ai maiali è tratta da Corano V,60 N.d.T.]. 121 kharijiti (lett. «coloro che uscirono») sono un movimento separatista sorto in seno all'islam in seguito all'uccisione del terzo califfo 'Uthman (656) e all'avvento al potere di 'Ali, quarto califfo legittimo per i sunniti, nonché primo califfo legittimo e primo imam per gli sciiti. I kharijiti, inizialmente seguaci di 'Ali, in seguito si separarono da lui e dalla umma. Le sette che si rifanno a tale movimento si ispirano a due principi fondamentali: ogni uomo religioso e puro, anche uno schiavo, può essere eletto califfo, ma, qualora si riveli indegno o incapace, dev'essere deposto e messo a morte; la fede è subordinata alle opere e ogni peccato è un atto di infedeltà: chi lo commette, ad esempio un ribelle alla legittima autorità califfale, va considerato decaduto dalla sua qualità di membro della umma, e, in quanto murtadd (apostata) è lecito ucciderlo. I kharijiti, inoltre, accettano solo l'interpretazione letterale del Corano, e hanno formulato una loro raccolta di leggi e di hadith [N.d.T.]. 13 Lett. «il (mese) vuoto», è il secondo mese del calendario islamico, considerato il più infausto del calendario perché nel corso di esso Adamo fu cacciato dall'Eden [N.d.T.].
'Izz ai-Din ibn al-Athir al-Jazarî, Annales du Magreb et de l'Espagne, trad, e note di Edmond Fagnan, Adolphe Jourdan, Algeri 1898 (ripr. anast. GAL, GrandAlger Livres, Alger 2007), pp. 328-329. 14
Generale sconfitto da Abu Yazld. " Al-Jazarî, Annales du Magreb et de l'Espagne cit., p. 330. 17 Ivi, p. 331. 18 Nel Medioevo servitore addetto alla custodia e alla cura del palafreno (cavallo da sella e non da battaglia, usato per viaggi o parate), dell'equipaggiamento del cavaliere e della sua persona [N.d.T.]. 15
" Evariste Lévi-Provençal, Seville musulmane au début du XII""e siècle. Le traité d'Ibn 'Abdun sur la vie urbaine et les corps de métiers (trad., introd. e note), «Islam d'hier et d'aujourd'hui», vol. 2, Maisonneuve, Paris 1947, p. 110 (edizione on line al link: http://classiques.uqac.ca/classiques/levi_provencal_evaris te / seville_musulmane_l 2e / levi_provencal_Ibn_Abdun.doc ; Maisonneuve & Larose, Paris 2001; trad. it. di Francesco Gabrieli, Il trattato censorio di Ibn 'Abdtìn sul buon governo di Siviglia, in «Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche della Reale Accademia nazionale dei Lincei», serie VI, voi. 11, fase. 11-12, Roma 1936, pp. 878-935 [N.d.T.]). Ivi, p. Ivi, p. 22 Ivi, p. 23 Ivi, p. 20 21
112. 114. 123. 128.
Abu Yusuf Ya'qûb al-Mansûr (1184-1198), sovrano almohade della Spagna e del Nord Africa. Gli ebrei e i cristiani sono stati costretti a convertirsi all'isiàm. 24
'Abd al-Wâhid al-Marrâkushî, Al-mu'jib fi talkhls akhbSr ahi al-Maghrib (Histoire des Almohades), trad, di Edmond Fagnan, Adolphe Jourdan, Algeri 1893, pp. 264-265.
25
Ibn al-Fuwatì, al-HawOdith al-jSmi'a (Storia completa di Baghdad), Mustafa Jawad, Baghdad 1932. 26
"Termine del linguaggio giuridico indicante un documento che attesta il diritto di un creditore a esigere un credito www.lef.ch/dottrina/ LEF82_agg_2005_02_18.pdf [N.d.T.]. Ghâzi ibn al-Wâsiti in Richard James Horatio Gottheil, An Answer to the Dhimmis and to Those Who Follow Them, «JAOS», n. 41,1921, pp. 439-440. M Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abii'l Faraj cit., vol. 1, p. 449. 30 Ivi, p. 451. 28
Tur Abdin, tra Mardin e Mossul, nella Jazïra, era un centro giacobita.
31
Una nota, presente sia nella traduzione che nell'introduzione del curatore, segnala che in questa data Bar Hebraeus morì e che la sua cronaca fu continuata da qualcun altro. 32
Si noterà la confusione tra le date greche e arabe. L'espressione, palesemente eufemistica, evoca gli stupri compiuti dai banditi [N.d.T.] 35 Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abu'l Faraj cit., voi. 1, pp. 475477. 33 34
Ivi, pp. 483-484. Funzionario musulmano che persuase il suo signore, l'Il-Khan Ghazan (1295-1304), a convertirsi all'islam, e diede così il via a un'ondata di persecuzioni contro i buddisti e i cristiani [l'IlKhanato o U-Khanato era un Khanato mongolo comprendente Persia, Iraq, Afghanistan, Azerbaijan, parte della Siria e del Pakistan, N.d.T.]. 36 37
Allude ai templi buddisti, in particolare alle pagode, la cui originaria funzione - come attesta l'etimologia, che rinvia al persiano butkada (but, idolo, immagine + kada, dimora, tempio) - doveva essere quella di ospitare le immagini sacre, a differenza degli stupa, per lo più destinati a conservare le reliquie [N.d.T.]. 38
"Quest'espressione si incontra spesso in autori greci, armeni e siriaci in riferimento ai musulmani. Ciò è dovuto al fatto che, all'epoca, l'islam era percepito come una religione portata da popoli stranieri, generalmente nomadi. " I n riferimento agli eventi accaduti dopo la morte dell'Il-Khan Argun (1284-1291) e l'esecuzione del suo visir, l'ebreo Sa'd al-Dawla, Bar Hebraeus scrive: «Non c'è lingua che possa narrare, né penna che possa descrivere le prove e la collera che si abbatterono sugli ebrei in quel periodo». Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abu'l Faraj cit., voi. 1, p. 491. Gli abitanti di Ninive, città situata di fronte a Mossul. Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abu'l Faraj cit., voi. 1, pp. 507508. "Si tratta di al-Malik al-Mu'ayyad Abu Nasr (1412-1421), sultano mamelucco d'Egitto della dinastia Burji [N.d.T.]. J1
12
Abu al-Mahasin ibn Taghribirdl, al-Nujum al-Zàhira fi Muluk Misr wa-alQahira (Le stelle brillanti nei regni dell'Egitto e di II Cairo). Extraits relatifs au Maghreb, a cura di Edmond Fagnan, Imprimerie D. Braham, Constantine 1907, «Recueil des notices et mémoires de la Société archéologique de Constantine», n. 30,1906, pp. 115-116. 44
Ivi, p. 117. Muhammad ibn 'Ali ibn 'Askar, Dawha al-nasir (L'alba della vittoria), in Georges Vajda, Un traité maghrébin «Adversus Judaeos»: Ahkùm ahi al-Dhim>5
46
ma du shaykh Muhammad ibn 'Abd al-Karlm al-Maghîlî, in Extraits des études d'orientalisme dédiés à la mémoire de Lévi-Provençal, Paris 1962, p. 806. 47 Ibn 'Abd al-Karim al-Maghill, in ivi, p. 811. 48 A1-'Adâwi Ahmad al-Dardïr, Fetoua (= Fa twit) 11772], trad, di FrançoisAlphonse Belin, «JA», 4 a serie, n. 19,1852, pp. 107-108. 491 trasferimenti di popoli furono sempre effettuati su larghissima scala, sia dagli arabi all'epoca delle loro conquiste che dai selgiuchidi, dagli ottomani e dai safavidi. Qui riportiamo alcune testimonianze che attestano come furono vissuti questi traumi. Per le deportazioni dei bizantini da parte dei turchi vedi Speros Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1971 1 (1986); per le comunità ebraiche all'interno dell'Impero ottomano vedi Joseph Hacker, The Siirgiin System and Jewish Society in the Ottoman Empire during the 15th-17lh Centuries, «Zion», n. 55, 1990, pp. 27-82 articolo in lingua ebraica [trad. ingl. in Aron Rodrigue (a cura di), Ottoman and Turkish JewryCommunity and Leadership, Indiana University Turkish Studies Dept., Bloomington (USA) 1992, pp. 1-65], 50 II termine am.Tr, successivamente evolutosi in senso politico (cfr. il nostro «emiro»), ha qui il significato originario di «comandante» [N.d.T.]. 51 La deportazione degli armeni si inserisce nel quadro dell'annosa disputa persiano-ottomana per il possesso dell'Armenia, iniziata nella seconda metà del XIV secolo, con l'ascesa degli ottomani nell'Anatolia centrale e occidentale e nei Balcani, e l'affermarsi in Iran della dinastia dei safavidi. La disputa, culminata, all'inizio del XVII secolo, nel fallito tentativo di cacciare gli ottomani dal territorio armeno da parte di shah Abbas I, che durante il ritiro aveva costretto gli abitanti di Julfa a emigrare a Isfahan, si sarebbe conclusa negli anni 1735-36 con la conquista persiana della Transcaucasia meridionale, inclusa l'Armenia orientale http://www.mekhitar.org/ITA/storia6.shtml [N.d.T.]. Titolo persiano indicante un capo politico o militare; qui «comandante» [N.d.T.]. 53 Arakel di Tabriz, Livre d'histoires in Marie-Félicité Brosset (a cura di), Collection d'historiens arméniens: dix ouvrages sur l'histoire de l'Arménie et des pays adjacents du Xe"* au XIX*™ siècle, 2 voli., Saint Petersbourg 1874-1876 1 (Apa, Amsterdam 1979 2 ), vol. 1, pp. 287-295. 52
1 jelalT (turco celali) erano un gruppo di tribù ribelli dell'Anatolia che diedero vita a una serie di rivolte contro l'Impero ottomano nel XVI e XVII secolo. Il loro nome deriva da quello del predicatore Celai, leader della prima rivolta (1519). Il fenomeno cessò sotto il regno di Murad IV (1612-1640) [N.d.T.]. 54
Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., voi. 1, pp. 309-10. " U n o dei quartieri di Isfahan era abitato da sempre da ebrei, e si chiamava Yehudiyah. 55
57 Secondo il Corano Mosè (Musa) fu un grande uomo, uno dei maggiori profeti che precedettero Maometto, nonché la figura biblica menzionata più di frequente [N.d.T.].
Antica valuta persiana in oro, del valore di 10.000 dinar. Tuttora in Iran esiste una moneta con questo nome, ma di valore assai inferiore (equivale a 10 rial) [N.d.T.]. 58
Allude alla macellazione rituale degli animali, la cosiddetta shechitah, che dev'essere effettuata secondo regole ben precise. Essa prevede l'uccisione dell'animale con un solo taglio alla gola eseguito con un coltello affilatissimo, in modo da provocarne l'immediata morte e il completo dissanguamento. Ogni animale non macellato secondo queste regole è automaticamente impuro. http://www.pisaebraica.it/ebraismo/kasherut2.htm [N.d.T.]. 59
Nel 1661 un editto autorizzò gli ebrei a professare apertamente la loro religione, a condizione che pagassero la jizya e portassero un segno distintivo sugli indumenti.
60
Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., voi. 1, pp. 489-496. " I l kalantar era un alto ufficiale equivalente a un maggiore nell'esercito persiano, di grado inferiore al khan ma superiore al melik, nobile armeno con funzioni di alto ufficiale ed esattore fiscale in Persia e nell'Armenia orientale nei secoli XIV-XVIII [N.d.T.]. 61
Unità di misura ponderale in uso nel Mediterraneo (Grecia, Palestina) e in Medio Oriente, equivalente a circa 327,45 g. Secondo alcuni è il corrispettivo greco e semitico del latino libra http://www.2iceshs.cyfronet.pl/ 2ICESHS_Proceedings/Chapter_l 6/R-8_Nikolantonakis.pdf; http://www.ancientlibrary.com/smith-dgra/0716.html [N.d.T.].
63
Abramo di Creta, Histoire de Nadir-Chah, in Collection d'historiens arméniens cit., voi. 2, pp. 278-279.
64
Queste procedure - incarcerazione e riscatto dei tributari - sono già state ampiamente menzionate dallo Pseudo-Dionigi di Teli Mahre, da Michele il Siro, dai documenti della geniza [cfr. supra, nota 8] pubblicati da Shlomo Dov Goitein, da autori armeni e stranieri quali D'Arvieux, Taver65
nier ecc. Esse possono essere considerate come elementi costanti della dhimmitudine. "Gedaliah di Siemiatycze, Sha'alu Shelom Yerushalaym (Pregate per la pace di Gerusalemme), Berlino 1716 (testo in lingua ebraica), folii 3 a-b. 67 Allude alle principali festività religiose ebraiche, nate dalle prescrizioni bibliche risalenti ai tempi di Mosè e specificate in Levitico 23 [N.d.T.]. "Gedaliah di Siemiatycze, Sha'alu Shelom Yerushalaym cit., folio 7 b. Ivi, folii 8 b-9 a. Si tratta del talled (o anche tallii, talit, taled), indumento rituale ebraico la cui origine risale ai tempi della compilazione della Torah: nella sua forma più comune consiste in un telo rettangolare, in genere di lana, seta, lino o cotone, di varia grandezza, più o meno decorato e dotato di frange agli angoli e spesso anche (più corte) su due dei lati [N.d.T.]. 69 70
Gedaliah di Siemiatycze, Sha'alu Shelom Yerushalaym cit., folii 13 a-b. Nel 1730, per evitare rappresaglie, il console di Francia fece togliere dal suo alloggio una tenda di tela verde, colore riservato ai soli «sceriffi» (sharìf), ossia i discendenti del Profeta: vedi François Charles-Roux, Les échelles de Syrie et de Palestine au XVIIIe siècle, Geuthner, Paris 1928, p. 54. 71
72
Gedaliah di Siemiatycze, Sha'alu Shelom Yerushalaym cit., folio 13 b. Badr al-Dîn Muhammad al-Qaraft (1533-1601), autore del trattato di giurisprudenza al-Durar al-nafs'is. 73
74
Abu 'Ubayd al-Qâsim (morto nell'838), studioso vissuto in Iraq [autore del KitSb al-amwal (Il libro delle entrate fiscali), Ithaca Press, London 2005, N.d.T.]. 75
Qâsim ibn Qutlubugha (1399-1474), insigne erudito egiziano della scuola hanafita.
76
" K a m a l al-Dìn Muhammad ibn al-Humâm (morto nel 1457), giurista egiziano. Particolare schema vocalico impiegato per la creazione dei sostantivi dai temi verbali http://www.glottodidattica.net/Articoli/articolo4_01.pdf [N.d.T.]. 78
Ahmad ibn 'Abd al-Mun'im al-Damanhûrï, IqSmat al-hujja al-bdhira 'alshadm kanà'is Misr wa-l-Qnhira, in Moshe Perlmann, Shaykh Damanhuri on the Churches of Cairo (1739), University of California Press, Berkeley 1975, pp. 20-21.
79
""Titolo di numerosi libri sulla «struttura sistematica della legge positiva». L'opera citata è forse quella di Ibn Nujaym (morto nel 1562), autore hanafita di testi di questo genere.
Sacerdote e sapiente delle antiche religioni mesopotamico-persiane, in questo caso di quella zoroastriana [N.d.T.]. 82 Allude alla sunna, la raccolta degli atti e dei detti del Profeta trasmessi 81
negli hadïth, la seconda fonte della Legge islamica (sharT'a) dopo lo stesso Corano [NAT.]. 83 Al-Damanhûrï in Perlmann, Shaykh Damanhuri on the Churches of Cairo cit., pp. 55-57. 84 Lettera di sir James Porter, ambasciatore britannico a Costantinopoli, a sir William Pitt, ministro degli Affari Esteri, Londra, SP (State Papers) 9740 (n.p.) [= no page, senza numero di pagina, N.d.T.]. 8 5 Capo delle guardie del sultano Mustafa III [N.d.T.]. 86 Lettera di sir John Murray, ambasciatore britannico a Costantinopoli, a lord Thomas Weymouth, ministro, Londra, SP 97-46, pp. 216-216b. 87 Dodicesimo mese del calendario islamico, sacro perché dedicato al compimento dei riti di pellegrinaggio [N.d.T.] 88 Eugène Fumey, Choix de correspondances marocaines (50 lettres officielles de la cour chérifienne), Maisonneuve, Paris 1903, pp. 14-16. 89 Noto anche come Nasr al-Dïn Shah Qajâr (pers. Nasisiri al-Dïn Shah Qajar), fu shah di Persia dal 1848 al 1896 [NAT.]. T e r un'altra descrizione di questi eventi cfr. Nikolaj Vladimirovii Khanikoff [Nicolas de Khanikoff], Méched, la Ville Sainte, et son territoire: extraits d'un voyage dans le Khorassan [1858], «Le Tour du Monde: nouveau journal des voyages publié sous la direction de M. Edouard Charton et illustré par nos plus célèbres artistes», anno 2°, 2° semestre, Paris 1861, pp. 280-282. " TB sta per Talmud Babilonese e il Baba Bathra («ultima porta») è uno dei 63 trattati che lo compongono [N.d.T.]. Mattatia Garji [Gorgi] in Reuven Kashani (a cura di), Qorot ha-Zemanim (Chronique du Judaïsme Afghan [du rabbin Matathias Gargi] (ebr.), «Shevet veAm», nuova serie, n. 1, Jerusalem 1970, pp. 12-13.
92
L'età dell'emancipazione
IMPERO OTTOMANO
Rapporti dei diplomatici britannici
(1850-1876)
Lettera di lord Hugh H. Rose a sir Stratford
Canning
Beirut, 31 ottobre 1850 Il sig. Console Werry ha già informato Vostra Eccellenza dei deplorevoli eventi di Aleppo
e la mole di deposizioni pervenutemi sullo
stesso argomento ha contribuito a gettare una luce ancor più fosca su questi incidenti. Citerò alcuni fatti, i quali proveranno che, se non fosse stato per l'imperdonabile comportamento delle autorità civili e militari turche, la rivolta avrebbe potuto essere facilmente repressa. [...] Dopo aver consentito agli insorti di commettere, durante la notte, ogni sorta di atrocità nel quartiere cristiano, al mattino Kertm Pasha fece quella che definì «una dimostrazione militare», ossia fece sfilare le sue truppe e i suoi cannoni, al suono della fanfara, attorno al quartiere dove, in pieno giorno, i rivoltosi incendiavano e saccheggiavano chiese, trucidavano esponenti del clero e laici, violentavano le donne cristiane davanti ai loro parenti più prossimi e più cari. Gli insorti avevano capito benissimo la natura di questa pusillanime parata, perché il sig. Werry ha riferito «che durante e dopo la dimostrazione le atrocità a Guedidah proseguirono». Finalmente, dopo 24 ore di violenze ininterrotte, fu inviato nel quartiere cristiano un piccolo contingente guidato da un civile, 'Abd Allah Bey, e pochi [soldati] regolari musulmani, che
ripristinarono l'ordine. Questo fatto, c o m e ho già affermato, prova quanto sarebbe stato facile per le autorità ristabilire l'ordine fin dall'inizio. [...] Gli avvenimenti di Aleppo hanno suscitato in tutte le etnie, e a qualsiasi livello della scala sociale, un'impressione quale non avevo mai visto prima. La popolazione di Aleppo è la comunità più ricca e meglio amministrata della Siria. Che una comunità come questa, in un periodo di pace assoluta, vivendo sotto la protezione di un governo organizzato, di due pasha e di una guarnigione di truppe regolari armate, possa ritrovarsi vittima - senza la più piccola provocazione da parte sua e senza il minimo preavviso - di atrocità che ben di rado si verificano anche in una città preda di tumulti, è un fatto che, con mio grande rammarico, ha generato una reazione particolarmente ostile nei confronti del governo che se ne è reso responsabile. I cristiani di Siria, perfino quelli che sono sotto la protezione delle truppe regolari e delle autorità, tremano al pensiero di poter condividere la sorte dei loro correligionari di Aleppo. Ovviamente i timori di coloro che vivono dove non vi sono né truppe regolari, né rappresentanti governativi, sono ancora più forti 2 . Lettera del console James Finn al conte di Malmesbury,
Londra
Gerusalemme, 8 novembre 1858 Continuando a riferire circa le apprensioni dei cristiani di fronte alla ripresa del fanatismo fra i musulmani, ho l'onore di informarla che mi vengono trasmessi rapporti quotidiani sugli insulti e gli atti di violenza dei quali sono vittime per le strade gli ebrei e i cristiani. Benché generalmente insignificanti, questi fatti accadono di frequente. Le vittime, se si tratta di indigeni, hanno paura di informare le autorità turche, in quanto, malgrado il Hatt-i HùmUyun3, che io sappia non esiste a tutt'oggi un solo caso in cui la testimonianza di un cristiano a carico di un musulmano sia stata accolta in un tribunale distrettuale o in una corte d'assise (medjlis) 4 . Si sono avuti casi di musulmani puniti per aver offeso dei cristiani, ma solo in m o d o sommario e senza un processo formale, o senza che fosse stata registrata la deposizione del cristiano (si possono trovare esempi di tale giustizia nelle Mille e una notte, il che attesta che essa esisteva già prima del Hatt-i
Humayun).
Ma gli stessi incresciosi eventi si verificano anche a danno di personaggi importanti. Solo pochi giorni fa Sua Beatitudine il Patriarca greco stava tornando, attraverso i vicoli, dalla Corte di Giustizia del qadi (dove forse si era recato a far visita al nuovo qOdT), preceduto dai suoi cavassi5 e dai suoi dragomanni, quando ha dovuto sorbirsi un fuoco di fila di maledizioni contro la sua religione, le sue preghiere, i suoi padri ecc. E ciò [è accaduto] qui a Gerusalemme, dove sventolano le bandiere dei consoli cristiani, compresi quelli russi. Ma questo stato di cose può durare ancora a lungo? Questo è il genere di incidente la cui funzione è rivelare gli umori dell'opinione pubblica piuttosto che portare alla punizione dei colpevoli, punizione che, peraltro, difficilmente potrebbe essere messa in atto. M a esso non sarebbe potuto accadere all'epoca di Kiamil Pasha, nonostante egli fosse il protettore degli interessi latini 6 . L'attuale pasha si vanta di non prestar fede troppo facilmente alle lamentele dei cristiani. Di recente, in un momento di distrazione, ha confessato al mio dragomanno che, al di là dei suoi compiti abituali, la sua vera missione non è tanto demoralizzare i cristiani quanto piuttosto ridimensionare o ridurre l'influenza europea. Chiedo il permesso di esprimere la mia opinione su questo punto. Che tra i pochi patrioti turchi prevalga una simile aspirazione, purché resti confinata nella sfera dei sentimenti e non sfoci nell'azione, è giustificabile, ma sfortunatamente essi pensano di poter realizzare il loro obiettivo soltanto paralizzando il progresso del loro stesso popolo. Pertanto i lavori pubblici non sono solo intralciati: sono impediti d'autorità. Il benché minimo tentativo di dar voce all'opinione pubblica attraverso la stampa viene soffocato, e siccome gli europei sono cristiani, ed essi devono essere ostacolati, l'indipendenza dell'Impero turco viene fatta consistere nell'indipendenza dell'islam 7 . Allegato alla lettera del console James Finn al conte di Malmesbury,
Londra
Gerusalemme, 8 novembre 1858 H o l'onore di farle pervenire, allegata alla presente, una copia del mio dispaccio del 27 ultimo scorso, indirizzato a Mr. Moore, console generale di Sua Maestà [a Beirut], e di informarla di questo: premesso che
nella regione di Nablus esistono molti villaggi in cui risiedono alcune famiglie cristiane, all'avvicinarsi del pasha militare Tahlr, e poco prima del suo insediamento, esse sono state sottoposte a saccheggi e oltraggi da tutte le parti. Ma i due villaggi di Zebabdeh e Likfair cinteramente abitati da cristiani, e nel primo dei quali si trova un'umile cappella> sono stati completamente saccheggiati: uomini e donne sono stati spogliati perfino delle camicie, e poi lasciati mezzi morti. L'aggressione è stata opera delle tribù di Tubaz e Kabatieh, da sempre particolarmente violente, e a tutt'oggi le autorità militari non hanno garantito alcuna soddisfazione o punizione. Non c'è bisogno che le dica che nulla è stato fatto nemmeno dall'autorità civile, anch'essa incarnata da un leader fazioso. Ma all'arrivo in città di Tahir Pásha i musulmani, invece di farlo accampare nelle tende data la bella stagione, hanno preteso una casa da assegnargli come caserma, e, in assenza del sacerdote cristiano , hanno requisito la sua casa e le sue provviste di grano e olio per uso domestico in vista dell'inverno. Tuttavia esse non sono state affatto consumate dai soldati , ma sono state mescolate in un unico sacco - frumento, lenticchie e olio - e gettate in mezzo alla strada. Mi sento sempre più autorizzato ad attribuire le sommosse scoppiate a Nablus nel 1856 a un diffuso sentimento anticristiano. Può essere che al momento il pasha militare non sia stato ancora informato delle modalità seguite per requisire la casa del sacerdote per le sue esigenze. Ma perché lui non lo sa e io sì? Semplicemente perché io sono cristiano mentre lui non lo è: per questo loro [i cristiani di Nablus] hanno paura di dirglielo, tanto più che egli ha paura a sua volta di esercitare la benché minima repressione sugli abitanti. In conclusione, ho l'onore di citare la frase usata continuamente dai cristiani di Palestina: essi dicono che, da quando è finita la guerra di Russia [di Crimea], la loro condizione è divenuta di gran lunga peggiore di quanto non fosse prima, almeno a partire dal 1831 8 . Lettera del console James Henry Skene a sir Henry Bulwer,
Constantinopoli
Aleppo, 31 m a r z o 1859 [...] Ad Aleppo i sudditi cristiani del sultano vivono ancora in uno sta-
to di terrore. È difficile spiegare questo fatto se non c o m e u n riflesso del panico dovuto a quanto hanno subito nove anni fa. Infatti ho potuto constatare che la loro condizione non è in alcun m o d o peggiore di quella delle popolazioni cristiane di altre città turche, dove pure tali apprensioni non esistono affatto. Ma non è facile dimenticare eventi come quelli del 1850: le case furono saccheggiate, vi furono omicidi di personaggi eminenti e stupri sulle donne. Pertanto è legittimo attendersi che coloro che sono stati testimoni oculari di tali orrori nascondano le proprie ricchezze e impediscano ai familiari di farsi vedere in giro al di là dei confini del quartiere cristiano. Prima dell'occupazione egiziana del 1832, essi avevano dei motivi di lamentela che al momento non possono essere invocati: non erano autorizzati a montare a cavallo in città, e neppure a passeggiare nei giardini; i ricchi mercanti erano costretti a indossare gli abiti più umili per non mettersi in evidenza, e, se contravvenivano a tale divieto, spesso erano costretti a spazzare le strade o a svolgere la mansione di facchini per dar prova della loro pazienza e obbedienza. Inoltre, un musulmano non doveva mai apostrofarli se non con espressioni piene di disprezzo. Gli egiziani invece li trattavano diversamente, e dopo la fine della loro occupazione [1840] nessun atteggiamento simile è stato mai apertamente evidenziato dalla popolazione musulmana. Tuttavia, in cuor mio credo sia cambiato poco o nulla. I cristiani dicono che non vi è stato alcun mutamento, se non a un livello alquanto superficiale, e parlano continuamente di saccheggi e massacri, c o m e fossero imminenti, ogni volta che le festività musulmane scatenano il fanatismo. [...] Vi è un'altra parte di questo distretto consolare in cui sembra che sia cambiato ben poco rispetto ai vecchi tempi, quando rapine e spargimenti di sangue erano all'ordine del giorno in Turchia. Alludo alle montagne dell'Ansaireh, che si estendono dalla valle dell'Orante al monte Libano. Di recente un membro del medjlis di Tripoli, passando per un villaggio cristiano mentre inseguiva gli ansaireh in rivolta, lo ha incendiato, e quando gli abitanti hanno trasportato i loro beni mobili più pregiati in chiesa, dove speravano che sarebbero stati rispettati, [i suoi uomini] vi hanno fatto irruzione con la forza e l'hanno saccheggiata. Questa vicenda, al pari di altre non meno abominevoli accadute nello stesso periodo, è stata sottoposta al Console Generale di
Sua Maestà in Siria, in quanto gli autori dei crimini sono sotto la giurisdizione del pasha di Beirut, e pertanto sarà già stata portata all'attenzione di Vostra Eccellenza'. [...]
RAPPORTO RELATIVO ALLA CONDIZIONE DEI CRISTIANI IN TURCHIA ( 1 8 6 0 )
L'11 giugno
1860 l'ambasciatore britannico a Costantinopoli, sir
Henry
Bulwer, inviò ai consoli regionali una circolare contenente 25 quesiti relativi alla condizione dei cristiani nell'Impero ottomano, sollecitando le loro risposte. L'inchiesta era fondata sull'impegno preso dalla Turchia (Trattato di Costantinopoli, 12 marzo 1854) a promuovere l'uguaglianza tra tutti i suoi sudditi in cambio del sostegno militare franco-inglese
nella guerra di Crimea.
Qui di seguito sono riportati alcuni estratti dell'inchiesta. Risposte alle domande Dal console Charles J. Calvert a sir Henry
Bulwer
Salonicco, 20 luglio 1860 [...] [Domanda n. 12: i casi di oppressione nei confronti dei cristiani di Salonicco sono imputabili alle azioni del Governo o al fanatismo della popolazione?] 12. Sono attribuibili soprattutto all'odio innato che i musulmani nutrono nei confronti dei cristiani, e se mai i funzionari della Porta agiscono contro i cristiani, essi, , in genere lo fanno perché istigati da qualche influente proprietario terriero islamico che siede nel medjlis [consiglio municipale]. Per il resto, le popolazioni musulmana e cristiana vivono in pace tra loro, non già per ragioni di affetto e di simpatia, ma perché, a causa della reciproca avversione, si evitano il più possibile l'un l'altra. Il musulmano si considera sempre superiore al cristiano, e, ogni volta che agisce con bontà nei suoi confronti, lo fa con una sorta di condiscendenza e di indulgenza che trasforma il diritto in favore 1 0 . Dal console James Finn a lord John Russell Gerusalemme, 19 luglio 1860 [...] [Domanda n. 7: la testimonianza di un cristiano è accettata nelle Corti
di Giustizia? In caso contrario, indicare le occasioni in cui è stata rifiutata.] 7. Nel Mahkeme o Corte di Giustizia del qadì la testimonianza del non musulmano viene sempre respinta. Nei vari medjlis si ricorre sistematicamente a qualche sotterfugio per rifiutare di accogliere la testimonianza del non musulmano contro il musulmano, o per registrarla sotto il termine tecnico di «testimone»
Queste corti di giustizia e il pa-
sha preferiscono condannare immediatamente un musulmano e dare ragione a un cristiano senza registrarne la deposizione, piuttosto che accettare la testimonianza di un non musulmano. Invece la testimonianza di un cristiano a carico di un ebreo o viceversa, vale a dire di un non musulmano contro un altro non musulmano, è sempre accolta. [...] [Domanda n. 8: nel complesso la popolazione cristiana vive meglio, è più considerata e meglio trattata di quanto non lo fosse cinque, dieci,
quindici,
vent'annifa?] La condizione dei cristiani era infima e incredibilmente degradante prima dell'occupazione egiziana [1831-1840]. Sotto il dominio egiziano i cristiani godevano di libertà e benessere maggiori rispetto al presente. Dopo la cacciata degli egiziani, si è avuta una reazione a favore dei musulmani, sebbene, fino al 1853, essa sia stata notevolmente mitigata dalla crescente influenza dei consolati e degli europei in generale. Durante la guerra russa [guerra di Crimea] la condizione dei cristiani è migliorata, e sono stati portati alla mia attenzione diversi esempi di comportamenti arroganti dei cristiani nei confronti dei musulmani, ora che i primi potevano contare sui consolati. Dopo la guerra si è manifestata un'altra tendenza, che per molti aspetti è di segno anticristiano, e, nel caso dei governatori, antieuropeo. [Domanda n. 9: attualmente esistono discriminazioni su base religiosa, e se sì, qual è la natura di tali discriminazioni?] 9. Ai cristiani non viene affidato alcun incarico di fiducia, né nel governo locale, né nelle forze armate, e nemmeno nella polizia. Sostanzialmente si può dire che essi costituiscano la classe dei governati, e i musulmani quella dei governanti. [...]
[Domanda n. 11: i cristiani incontrano difficoltà nel costruire chiese o neliosservare le loro pratiche religiose?] 11. Sorgono sempre delle difficoltà, finché da Costantinopoli non arriva un decreto che autorizza la costruzione di nuove chiese; m a tali decreti, quando si riesce a ottenerli, sono formulati - almeno a tutt'oggi - in termini talmente vaghi da generare inutili vessazioni e lunghi ritardi. Qui più che altrove si osserva la tendenza a creare ostacoli. Sinora non mi è giunta notizia di richieste di campanili da parte dei cristiani. Le campane sono di uso comune nelle città in cui i cristiani sono numerosi, mentre in altre non sono permesse a causa degli atteggiamenti fanatici della maggioranza degli abitanti. Il loro impiego risale però solo agli ultimi anni, fatta eccezione per il Libano, dove sono in uso da tempo. [Domanda n. 12: quando si verificano casi di oppressione nei confronti dei cristiani, essi sono generalmente dovuti alle azioni del Governo o al fanatismo della popolazione?] 12. L'oppressione nei confronti dei cristiani nasce in genere dal fanatismo popolare, m a non viene né repressa, né punita dal Governo: un significativo esempio di ciò è costituito dal caso di Nablus (aprile 1856). Sempre nel 1856, si verificò u n episodio simile a Gaza. M a fin dal suo arrivo Suraya Pasha mostrò la tendenza a umiliare i cristiani, ad esempio rinchiudendo nella prigione comune il sacerdote e il diacono copti. Il fanatismo popolare non esplode mai prima che risulti evidente l'orientamento fanatico del governatore 1 2 . Dal console John Elijah Blunt a sir Henry
Bulwer
Pristina, 14 luglio 1860 [...] Per molto tempo la provincia [di Uscup] 1 3 è stata in balia del brigantaggio: questa piaga, alimentata da un'indomabile popolazione di montanari, eminentemente bellicosi e mercenari, è più sviluppata nelle pianure. Ma si può dire che la sua diffusione sia stata piuttosto arrestata che incoraggiata: infatti le chiese e i monasteri cristiani, le città e i loro abitanti non vengono più depredati, massacrati e bruciati dalle orde degli albanesi c o m e accadeva abitualmente fino a dieci anni fa. Nel complesso, il sottoscritto può affermare, senza tema di smentita,
che la provincia di Uscup attraversa una felice fase di transizione dal male al bene, probabilmente lenta nella sua attuazione, ma, proprio per questo, non meno sicura nei suoi effetti. [...] 1. Essi [i cristiani] non sono autorizzati a portare armi. Questo fatto, considerata l'assenza di ima polizia efficiente, li espone maggiormente agli assalti dei briganti. [...] [...] [Domanda n. 7: la testimonianza di un cristiano è accettata nelle Corti di Giustizia? In caso contrario, indicare le occasioni in cui è stata rifiutata.] 7. La testimonianza dei cristiani nei processi tra musulmani e non musulmani non è ammessa dai tribunali locali. Nel caso in cui ambo le parti siano non musulmane, la testimonianza cristiana è accettata. Circa 17 mesi fa un soldato turco ha assassinato un maomettano, un u o m o anziano che stava lavorando nei campi. Le uniche due persone che hanno assistito al fatto sono due cristiani: ebbene, il medjlis di Uscup non ha voluto tener conto della loro testimonianza, sebbene il sottoscritto insistesse presso il kaimakam [governatore distrettuale] perché lo facesse. All'incirca nello stesso periodo, uno zaptieh [poliziotto] ha tentato di convertire con la forza all'islamismo una ragazza bulgara. M a poiché ella ha dichiarato dinanzi al medjlis di C a m a n o v a 1 4 che non avrebbe rinnegato la sua religione, lui l'ha uccisa nei pressi della residenza stessa del tnudir [governatore cittadino]. La tragedia ha suscitato enorm e scalpore nella provincia. I medjlis di Camanova e Prisrend 1 5 hanno rifiutato
di tenere conto della testimonianza cristiana, e sono stati
compiuti sforzi di tutti i tipi per salvare lo zaptieh; ma poiché l'eco del caso era giunta a Costantinopoli, le autorità hanno avuto ordine di «accettare la testimonianza di tutti coloro che avevano assistito all'omicidio». Ciò è stato fatto, e Kiani PSsha, che proprio in quel periodo ha assunto il comando della provincia in cui poi ha operato così bene, ha fatto immediatamente decapitare lo zaptieh. Sei mesi fa, nel distretto di Camanova un bulgaro - senza che da parte sua vi fosse stata alcuna provocazione - è stato aggredito da due albanesi, che lo hanno ferito gravemente; nonostante l'episodio sia stato tra-
smesso per competenza a Prisrend, il medjlis ha rifiutato di prenderne atto in quanto la sola testimonianza prodotta era quella di un cristiano. [Domanda n. 8: nel complesso la popolazione cristiana vive meglio, è più considerata e meglio trattata di quanto non lo fosse cinque, dieci,
quindici,
vent'annifa?] 8. Decisamente sì: mentre ovunque vi sono segnali che i turchi, specialmente le classi più elevate, stanno perdendo terreno sotto il profilo demografico, agricolo e commerciale, per i cristiani è il contrario. Quasi in ogni città vi sono strade, anzi, interi quartieri, che sono passati sotto il controllo dei cristiani. L'imposta detta djeremeh, la forma di gran lunga più odiosa dell'oppressione orientale, che era rigidamente applicata fino a quindici, vent'anni fa, è stata abolita dal tanzlmàt. Dieci anni fa la tortura era sistematicamente usata dalle autorità, m a [oggi] non si fa più ricorso a essa. N o n era permesso costruire chiese, e, per giudicare il grado di «tolleranza» turca in quel periodo, basti pensare che bisognava strisciare sotto le porte, alte a malapena quattro piedi. Fumare e andare a cavallo alla presenza di un turco era u n reato; m a anche attraversargli la strada o non alzarsi in piedi dinanzi a lui era considerato un torto. [...] [Domanda n. 9: attualmente esistono discriminazioni su base religiosa, e se sì, qual è la natura di tali discriminazioni?] 9. La testimonianza cristiana, c o m e si è già dichiarato in risposta alla d o m a n d a n. 7, non è rispettata dai medjlis. Il contegno incivile e sprezzante dei mudir e dei membri dei medjlis nei confronti dei cristiani sembra essere percepito da questi ultimi c o m e determinato dalla differenza di religione. I termini degradanti kaffir [infedele] e giaour [pagano], con cui i governanti si rivolgono loro, li offendono e suscitano il loro odio. [Domanda n. 15: i cristiani sono ammessi nei medjlis o consigli locali? Questi consigli, in generale, sono più favorevoli al progresso e al buon governo rispetto ai funzionari della Porta, o più ostili?] 1 5 . 1 cristiani sono ammessi in questi organi, ma in genere si tratta di
una pura formalità. Non è loro consentito svolgere un ruolo importante negli affari pubblici, e sono trattati in m o d o irrispettoso. Nel complesso questi consigli sono di gran lunga più ostili alle riforme e al buon governo dei funzionari della Porta [ . . . ] " . Dal console James Henry Skene a sir Henry Bulwer Aleppo, 4 agosto 1860 [...] Vaste pianure di una terra tra le più fertili giacciono incolte a causa delle incursioni dei beduini, che spingono a Ovest le popolazioni agricole per garantire il pascolo alle loro sempre più numerose greggi di pecore e mandrie di cammelli. H o visto 25 paesi devastati da una sola incursione di shaykh M o h a m m e d Dukhy con 2000 cavalieri banü sachar. H o visitato un fertile distretto che vent'anni fa ospitava 100 villaggi, e non vi ho trovato che pochi fellah residui, destinati ben presto a seguire i compagni sulle colline che si ergono lungo la costa. H o esplorato città nel deserto con strade ben pavimentate, case ancora provviste di tetti e porte di pietra che ruotavano sui cardini, pronte per essere occupate eppure del tutto disabitate; quanto alle migliaia di acri di buona terra coltivabile che le circondavano, con tracce di condutture idriche per l'irrigazione, ora non producono che magri pascoli per le pecore e i cammelli dei beduini. Quest'invasione del deserto a danno delle pianure coltivate cominciò ottant'anni fa, quando le tribù anezi migrarono dall'Asia centrale in cerca di pascoli più vasti, invadendo la Siria. Oggi esso ha raggiunto il mare in due punti: presso Acri [Palestina] e tra Latakia e Tripoli [Libano], Tuttavia, non sempre gli arabi portano via agli abitanti dei villaggi tutte le loro provviste, m a spesso si accontentano di un'offerta conciliatoria in denaro e granaglie. [...] L'insicurezza per la propria vita e i propri beni causata dall'insubordinazione delle tribù nomadi è un male gravissimo; le autorità turche potrebbero fare molto per porvi rimedio Dal console supplente James Zohrab a sir Henry Bulwer Bosna Serai [Sarajevo], 22 luglio 1860 [...] L'odio dei cristiani nei confronti dei musulmani bosniaci è intenso. Infatti, per un periodo di circa 300 anni, essi sono stati sottoposti a
un'immensa oppressione e crudeltà. Per loro non esisteva altra legge che il capriccio dei loro padroni 18 .
CORRISPONDENZA RELATIVA AI DISORDINI IN ERZEGOVINA E IN MONTENEGRO
(1861-1862) Nella primavera del 1861 il sultano, tramite un proclama ufficiale
pro-
mulgò una serie di riforme in Erzegovina, promettendo tra l'altro ai cristiani la libertà di edificare chiese e usare le campane, e la possibilità di acquistare proprietà fondiarie (Cfr. FO 4 2 4 / 2 6 , n. 320, allegato 2, in n. 167, Ali Pasha to the Representatives of Austria, France, Great Britain, Prussia and Russia, 1 maggio 1861). Dal console William R. Holmes a sir Henry Bulwer Bosna-Serai [Sarajevo], 21 maggio 1861 [...] Riguardo alle concessioni contenute nel Proclama, desidero sottolineare che qui - e, per quanto mi è dato credere, anche in Erzegovina - le più importanti, se non tutte, sono da tempo in vigore solo nominalmente, ma non sono mai applicate nei fatti, come sanno molto bene gli insorti. A d esempio, la promessa di autorizzare la costruzione di chiese fatta anche agli altri sudditi cristiani della Porta qui sembra ingannevole, se si pensa che una delle comunità cristiane - quella grecoortodossa - ha raccolto denaro per edificare una chiesa, ma ciò le viene impedito con il futile pretesto della vicinanza a ima moschea, moschea che si trova a più di 150 metri dal sito proposto per la chiesa, ed è a malapena visibile da esso. È ampiamente noto che il pregevole accordo stipulato qualche tempo fa tra i contadini e i proprietari terrieri, in seguito all'invio di una delegazione ad hoc dalla Bosnia a Costantinopoli, è rimasto lettera morta. Ancor oggi ogni possibile ostacolo viene frapposto all'acquisto di terra da parte dei cristiani, e non è un segreto che molto spesso, dopo che eremo finalmente riusciti a comprare e valorizzare un terreno, esso è stato loro tolto per questo o quell'ingiusto pretesto 20 .
CORRISPONDENZA RELATIVA A PRESUNTI CASI DI PERSECUZIONE RELIGIOSA IN TURCHIA ( 1 8 7 3 - 1 8 7 5 )
Da sir Henry Elliot al conte Granville Therapia [Tarabya] 2 1 ,10 ottobre 1873 [...] Quasi tutti i consoli di Sua Maestà concordano nel riferire che l'uguaglianza teorica tra musulmani e cristiani di fronte alla legge, che non è mai pienamente esistita in pratica, nella maggior parte delle province è oggi più illusoria di quanto non fosse qualche anno fa, e che è necessario che il Governo [turco] dimostri di essere fermamente intenzionato ad applicarla 2 2 .
Memorandum
del console generale e giudice sir Philip Francis al conte di
Derby sulle nuove riforme giudiziarie contemplate dal recente firmano del sultano Costantinopoli, 5 gennaio 1876 [...] Sembra che uno degli obiettivi - di per sé del tutto rispettabile del nuovo firmano [allude aWirade23 del 2 ottobre e al firmano del 12 dicembre 1875] sia far sì che le testimonianze rese dai cristiani o dai non musulmani al cospetto dei tribunali del paese siano accettate. Tale risultato è stato ottenuto indirettamente, ossia non decretando che d'ora in poi i testimoni cristiani saranno ascoltati dinanzi alla shan'a dovranno essere eletti presidenti di tutte le Corti d'Appello locali, ed è lecito chiedersi se alla testimonianza dei cristiani così a m m e s s a potrà essere attribuito molto peso da presidenti che, data la loro profonda fede nel Corano e la loro educazione religiosa, certamente continueranno a considerarla del tutto priva di valore c o m e hanno fatto in passato 2 4 .
L A QUESTIONE ARMENA
Due testimonianze oculari sulla vicenda armena durante la prima
guerra
mondiale Palestina, 1915 Estratto dal rapporto in francese Pro Armenia (Athlit, 22 novembre
1915)
di Absalom Feinberg25 per il tenente C.Z. Wooley, ufficiale navale britannico a Port Said (Egitto) [...] Sulle nostre strade [in Palestina] si scorgono lunghe teorie di uomini, giovani e meno giovani, impegnati nei lavori forzati. Di tanto in tanto, uno di quelli più malconci viene caricato sulle spalle da un compagno di sventura servizievole; talora se ne vede qualcuno disteso a terra, che presto avrà finito di soffrire. Ma non è tutto: questi disgraziati sono costretti a procedere lungo la linea [ferroviaria] del Hijaz 2 6 . Vecchi, vecchie, bambini. Talvolta viene loro concesso di accamparsi. N o n u n tozzo di pane, non uno straccio per coprirsi, non un pezzo di stoffa da mettere sulla testa per ripararsi dal sole o dal freddo, non uno strumento di lavoro. Eppure, di tanto in tanto questi infelici hanno il coraggio di chiedere: «Ci ferm i a m o qui finalmente?». E la risposta è invariabilmente la stessa: «Non si sa!». Così, alle altre torture si aggiunge la peggiore: la tortura dell'incertezza. In molti luoghi è proibito fare l'elemosina a questi sventurati. Ma non è ancora tutto: lo sa che cosa ne hanno fatto delle bambine e delle ragazze?! Sì, lei che conosce l'islam, appena ha letto la mia domanda, lo avrà indovinato. Tuttavia ciò non mi impedirà di dirglielo: LE H A N N O VENDUTE! Sì, sì, vendute tutte le femmine dai sette, otto anni in su. N o n costavano molto. Benché, in questo paese di morti di fame, sia difficile nutrire perfino le bestie, si sono trovati dei «credenti» disposti a sborsare da cinque a cento franchi per un pezzo di carne bianca. E non si consoli pensando che quelle che le racconto siano tutte chiacchiere! Sarebbe una vana consolazione! Si tratta di cose viste, certificate, dimostrate, ufficiali! Bambine piccolissime strappate alle madri, giovani spose tolte ai mariti, fanciulle kaffir [«miscredenti»] divenute schiave della dissolutezza dei «credenti»! Figlie di una razza
Armeni trucidati in una fossa, regione di Kharput, 1915 (Archivio Armin Wegner). di martiri, una razza che si dice sia fisicamente bella, e che è innegabilmente dotata di una superiore finezza d'ingegno. [...] Quanto a me, non ho neanche più gli occhi per piangere : 7 . A chi toccherà ora?! Perché sono venuto nel mio paese, nella più santa delle ter-
re, lungo la via di Gerusalemme, e m i sono chiesto se fossimo nel 1915 0 ai tempi di Tito o di Nabucodònosor. Perché io, un ebreo, ho dimenticato di essere ebreo - un «privilegio» molto difficile da dimenticare! - e mi sono chiesto se avessi il diritto di piangere unicamente per l'afflizione del mio popolo, e se Geremia [8,21] non avesse versato le sue lacrime di sangue anche per gli armeni! E infine perché - dal momento che i cristiani, alcuni dei quali talora pretendono di avere il monopolio delle opere d'Amore, di Carità e di Solidarietà, tacciono - ancora una volta bisognerà trovare un figlio dell' Antica Razza che disprezza il Dolore, vince la Tortura o rinnega la Morte, che da venti secoli ci vengono «offerti» più spesso di quanto ci spetti; bisognerà che una goccia di sangue 2 8 dei Patriarchi e di Mosè, dei Maccabei dell'arida Giudea, di Gesù, colui che sogna lungo la sponda dell'azzurro lago della dolce Galilea, e di Bar Kochba; bisognerà che una goccia di sangue sfuggita agli eccidi si ribelli e dica: «Guardate, voi i cui occhi non vogliono aprirsi! Ascoltate, voi le cui orecchie si rifiutano di sentire! Cos'avete fatto dei segreti d'Amore e di Carità che vi sono stati affidati? A che cosa sono serviti i fiumi di sangue che abbiamo versato? Cosa ve ne fate nella Vita delle vostre altisonanti parole?!». E mentre, a una notte di viaggio da qui, migliaia e migliaia di inglesi, di canadesi e di australiani - tutti volontari e tutti venuti per combattere - rimangono inattivi, un p u g n o di cani arabi e di iene turche si rotolano in un carnaio che essi stessi creano e alimentano. E dire che basterebbero poche fruste per spazzar via tutta questa codardia! Ahimè, la tortura di essere impotenti e disarmati! 1 prodi soldati che susciterebbero u n «Alleluia» di liberazione e di gioia non arrivano... Ma domani arriverà un funzionario a spiegarci che la moschea di Hasan a Giaffa è sacra e infinitamente
rispettabile
perché... un bandito l'ha costruita con le pietre rubate alle case, e che quel tale musulmano, il quale indossa una lafeh [veste] d'un bianco immacolato, è degno di rispetto e di onore perché tiene saldamente rinchiuse nel suo harem due donne armene comprate «a buon mercato», o, per usare le parole della Sacra Bibbia, «per un paio di scarpe». Perdoni il mio tono, caro tenente! M a in questo paese ci sono le radici del mio passato, i miei sogni per il futuro; [...]. Qui c'è tutto il mio cuore che sanguina e urla: lo perdoni.
E mentre quei maledetti tedeschi inondano l'universo con le loro menzogne stampate, con i loro tradimenti eretti a professione di fede [...], voi perché tacete?! Il disdegno e il disprezzo espressi in silenzio vanno bene, ma Qoèlet non ha forse detto: «C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare»? [...] E soprattutto dato che siete persone perbene, non dovreste parlare, invece di lasciare che sia ancora un giovane ebreo ribelle a farlo 29 ?! Iraq,
1915-1917
Lettere di David Sasson, preside della scuola maschile dell'Alliance Israélite Universelle a Mossul, al presidente dell'AIU a Parigi Costantinopoli, 3 aprile 1919 [...] Nel momento in cui mi raccolgo per coordinare le idee e descriverle con una certa precisione la situazione di Mossul durante la guerra, mi sento invadere da un sentimento di malessere e di imbarazzo, perché mi rendo conto che la penna è uno strumento troppo imperfetto per rendere in m o d o autentico tutti gli orrori di cui sono stato testimone, tutte le immagini che ancor oggi affollano la mia mente. Q u a n d o mi ricordo, a pochi mesi di distanza, delle dolorose scene a cui abbiamo assistito; q u a n d o ripenso a quella folla di spettri smunti e scheletrici dal volto cadaverico, che si a g g i r a v a n o per le strade e le c a m p a g n e alla ricerca di una carogna o di un p o ' d'erba per placare la fame; quando penso a quegli altri, con le m e m b r a e le guance gonfie d'aria, che, venuti a chiedere l'elemosina, si accasciavano per la fame sulla soglia di casa mia, arrivo a dubitare di m e stesso. Si è trattato forse di un incubo? Quale penna, quali parole potrebbero mai descrivere l'angoscia e l'agonia di Mossul nel 1918? Quali termini potrebbero rendere lo spettacolo sinistro di quelle teste di bimbi recise dai corpi e portate in giro per la città per invitare le m a dri in lacrime a riconoscere i loro figli rapiti, rapiti per la strada da uomini feroci e famelici per i quali quella era l'ultima risorsa? Per quanto inverosimile questo possa sembrare, si tratta - a m e n o che io non stia ancora s o g n a n d o - di qualcosa che ho visto, di una realtà che ho vissuto 3 0 .
Armeni torturati (Archivio Armin Wegner 1915).
Costantinopoli, 30 aprile 1919 Se il 1915 era stato testimone del massacro degli armeni, il 1916 assistette - o vendetta divina! - allo scoppio di una spaventosa epidemia. I cadaveri armeni che giacevano abbandonati in mezzo ai campi, e quelli che, stupidamente, venivano gettati nelle acque vivificanti del Tigri, nella loro fetida decomposizione esalavano germi vendicativi di malattie inesorabili, che falciarono, ahimè, un'intera popolazione innocente. Si trattava di febbre tifoide, malaria, febbre gialla e colera. L'esodo ininterrotto dei deportati e degli emigrati portò con sé il tifo esantematico, la più terribile delle calamità, che decimò la popolazione e al quale purtroppo i nostri correligionari pagarono un immenso e crude-
Testimonianza fotografica degli orrori perpetrati sul popolo armeno (Archivio Armin Wegner). le tributo. Oh, che triste fu quell'anno la Pasqua! Essa trovò il nostro quartiere immerso nel lutto, e quasi tutte le famiglie intente a piangere sulla tomba di un defunto o al capezzale di un agonizzante 1 1 . Costantinopoli, 20 luglio 1919 Finalmente, nel 1917, dopo la caduta di Baghdad, alcuni giovani cristiani si rivolsero a m e per organizzare una raccolta di fondi in favore degli sventurati armeni deportati nella nostra città. Quella folla disgraziata, sfuggita quasi per miracolo ai coltelli dei boia e alle fatiche di una marcia forzata durata parecchi mesi, brulicava nelle nostre strade in preda ai morsi della fame e condannata agli orrori della più atroce persecuzione. Alcuni di loro - donne e bambini di buona famiglia, dotati di una raffinata educazione - avevano un po' di risparmi nelle banche locali, ma un crudele decreto aveva vietato a tutti questi isti-
tuti finanziari di fare versamenti ai deportati attingendo ai fondi che custodivano per loro. Si sarebbe detto che il governo, non avendo potuto sterminarli tutti con il ferro e il fuoco, volesse eliminarli con la fame e le malattie. Per mesi e mesi assistemmo impotenti e angosciati all'arrivo di quegli interminabili convogli di donne e bambini, emaciati, stremati, gialli in viso e in condizioni pietose, che evocavano le più atroci persecuzioni del periodo dell'Inquisizione. Arrivavano con la speranza di stabilirsi finalmente da qualche parte, felici, malgrado tutto, di essere sfuggiti alla morte fino a quel momento. I loro padri, mariti, fratelli, figli, in una parola tutti i maschi delle loro famiglie, erano stati massacrati, sgozzati sotto i loro occhi con una crudeltà atrocemente raffinata. E, sulla via dell'esilio, tutte quelle donne e bambini che non riuscivano a seguire il convoglio cadevano infilzati dalle baionette dell'orda selvaggia incaricata di scortarli. Le ragazze in buona salute venivano strappate [ai loro cari] e assoggettate ai più orribili atti di lascivia. Mai la barbarie fu esercitata con tanta crudeltà sulle donne e sui bambini. I superstiti, vestiti di stracci, scheletrici, più morti che vivi, si trascinavano penosamente per le nostre strade. A vederli sfilare non si sarebbe potuto dire con esattezza se quei fantasmi fossero nudi o vestiti, se quelle figure spettrali fossero bestie o esseri umani. Soltanto nella nostra città il numero di questi deportati ammontava a più di 8000, ma si dice che altrettanti, non riuscendo a seguire il convoglio, fossero stati abbattuti lungo il cammino. E in effetti le strade tutt'intorno erano cosparse di cadaveri; il Tigri river[s]ava quotidianamente sulle sue sponde cadaveri gonfi e irriconoscibili. E, per colmo d'orrore, era vietato commuoversi o mostrare pietà verso i superstiti. Questa era un'altra condanna a morte, lenta e dolorosa, ancor più crudele dei massacri perpetrati con il ferro e con il fuoco a danno dei loro connazionali maschi o dei loro compagni di viaggio. Eppure, le autorità non pensavano che la presenza di questa schiera di sventurati, in queste orribili condizioni, potesse costituire un pericolo per la città. Volevano prendere due piccioni con una fava? Annientare la razza armena e al tempo stesso ridurre il numero degli arabi con la dissolutezza e le epidemie? La moglie di un negoziante di Kharput, una donna alta, bionda, sulla quarantina, aveva visto fucilare sotto i suoi occhi il marito, lo zio e il
Impiccagione di notabili armeni a Costantinopoli, (Archivio Armin Wegner).
1915
figlio di sedici anni. Quanto a lei, era stata condannata a lasciare lì i suoi beni mobili e immobili e a prendere la via dell'esilio insieme alle due figlie di tre e otto anni. M a la sventurata, prima di mettersi in cammino, si era bruciata la pelle del viso e tagliata il labbro inferiore e la punta del naso. Durante il viaggio la figlia maggiore, che non riusciva a seguire il convoglio, era stata gettata in acqua. A Mossul questa donna, d o p o molteplici peripezie, potè finalmente essere accolta da ima famiglia caldea che aveva intrattenuto relazioni d'affari con il marito prima della guerra. La donna parlava francese. Appresi così che si era sfigurata in quel m o d o per non essere costretta a fare da strumento di piacere per i suoi aguzzini. «Avrei potuto uccidermi - mi disse un giorno - m a le mie due bambine erano ancora vive e non volevo abbandonarle; poi - aggiunse - ci tengo a vedere la fine di questa guerra: voglio vedere se Dio esiste.» Pochi giorni dopo, fu annunciata la visita del ministro della Guerra Enver Pàsha. Al fine di prevenire ogni increscioso incidente, ogni ge-
Documento fotografico della persecuzione turca contro il popolo armeno (Archivio Armin Wegner).
sto violento dettato dalla disperazione, i deportati furono riuniti e divisi in due gruppi: uno fu stipato in uno spazio chiuso e l'altro obbligato a partire per Dayr al-Zur. Questa sventurata andò con l'ultimo gruppo. Più tardi appresi che era morta lungo il cammino. Povera donna! Il suo cuore straziato non aveva avuto la gioia di scoprire che Dio esiste e che la sua giustizia, che ella aveva invocato e che desiderava tanto vedere, si era finalmente manifestata. Comunque sia, tentammo di organizzare una piccola sottoscrizione in favore di questi infelici. Ma la polizia, avendo avuto sentore della cosa, si mise alle nostre calcagna e arrestò m e e un certo numero di altri, dopodiché procedette a una perquisizione in casa mia. Non essendo riuscita a trovare nulla di sospetto, e in seguito a ripetuti interventi di amici influenti, mi rilasciò dopo una detenzione di dieci ore e con la raccomandazione formale di non immischiarmi più in questioni del genere 3 2 .
1 Ad Aleppo era scoppiata una sommossa causata dalla coscrizione, dall'introduzione di un'imposta (il ferde) e dai nuovi diritti accordati ai cristiani.
Lettera di lord Hugh H. Rose, console di Beirut, a sir Stratford Canning, ambasciatore a Costantinopoli, FO 78/836, n. 47. 2
'Si tratta del firmano emanato il 18 febbraio 1856, all'indomani della guerra di Crimea, nell'ambito delle riforme del tanzTmfit, che teoricamente estendeva i pieni diritti civili ai popoli non musulmani dell'Impero ottomano. Cfr. supra, cap. 10. Qui «corte d'assise», ma più avanti (cfr. Lettera di sir James Henry Skene a sir Henry Bulwer, e passim) il termine è usato nel significato di «consiglio municipale» [N.d.T.]. 4
1 cavassi erano le guardie del corpo dei notabili, i dragomanni i loro interpreti [N.d.T.].
5
Kibrisli Mehmed Kiamil Pssha (1833-1913) era uno statista turco che ricoprì numerosi incarichi diplomatici nell'Impero ottomano tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, e fu quattro volte gran visir. Grazie alla sua piena padronanza della lingua inglese e alla sua ammirazione per la Gran Bretagna, coltivò sempre una politica dichiaratamente anglofila. Ciò lo portò a difendere gli interessi della Chiesa cattolica (ossia latina, piuttosto che di quella greca o armena) in Turchia, il che spiega l'affermazione di sir James Finn [N.d.T.]. 6
'Lettera di sir James Finn, console britannico a Gerusalemme, al conte di Malmesbury, ministro degli Affari Esteri, Londra, PP 1860 [2734] 69, n. 67, estratto, pp. 500-501. "Ivi, n. 68, p. 501. Lettera di sir James H. Skene, console britannico ad Aleppo, a sir Henry Bulwer, ambasciatore a Costantinopoli, FO 78/1452, n. 11, estratto.
9
10 Lettera di sir Charles J. Calvert, console britannico a Salonicco, a sir Henry Bulwer, ambasciatore a Costantinopoli, FO 4 2 4 / 2 1 , n. 26, allegato 2 al n. 2, estratto, p. 14. 11 Ossia registrandone la testimonianza senza specificarne lo status etnicoreligioso di non musulmano [N.d.T.]. 12 Lettera di sir James Finn, console britannico a Gerusalemme, a lord John Russell, primo ministro, Londra, FO 424/21, n. 21, allegato al n. 5 , 1 7 luglio 1860, estratti, p. 34. "Uscup è l'odierna Skopje, nell'attuale [Kosovo] Repubblica di Macedonia. 14 Kumanovo, località presso Skopje, nell'attuale [Kosovo] Repubblica di Macedonia.
L'odierna Prizren, in Kosovo. "Lettera di sir John Elijah Blunt, console britannico a Pristina, a sir Henry Bulwer, ambasciatore a Costantinopoli, FO 4 2 4 / 2 1 , n. 470, allegato al n. 7, estratti, pp. 43-44. 17 Lettera di sir James Henry Skene, console britannico ad Aleppo, a sir Henry Bulwer, ambasciatore a Costantinopoli, FO 424/21, n. 47, allegato al n. 9, estratto, pp. 58 e 61. "Lettera di sir James Zohrab, console supplente di Bosna Serai [Sarajevo], a sir Henry Bulwer, ambasciatore a Costantinopoli, FO 4 2 4 / 2 1 , n. 41, allegato 1 in n. 10, estratto, p. 65. "Il testo originale inglese ha «announced in a Proclamation», e infatti il termine ritorna all'inizio della lettera [N.d.T.]. 20 Lettera di sir William R. Holmes, console di Bosna-Serai [Sarajevo] a sir Henry Bulwer, ambasciatore a Costantinopoli, FO 424/26, n. 71, in n. 177, estratto, p. 111. 21 Uno dei tanti villaggi situati sulla riva europea del Bosforo, nel distretto di Sariyer, il più settentrionale di Istanbul [N.d.T.]. 22 Lettera di sir Henry George Elliot, ambasciatore britannico a Costantinopoli, al conte di Granville, ministro degli Affari Esteri, FO 424/34, n. 361, in n. 6, estratto, p. 7. 23 Decreto scritto emanato da un sultano ottomano (dall'arabo irada, «vol