LE SCIE. Arrigo Petacco. IL CRISTO DELL'AMIATA. La storia di David Lazzaretti. 2003 ARNOLDO MONDADORI EDITORE - MILANO. ...
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LE SCIE. Arrigo Petacco. IL CRISTO DELL'AMIATA. La storia di David Lazzaretti. 2003 ARNOLDO MONDADORI EDITORE - MILANO. I EDIZIONE MARZO 2003. SCANSIONE DI SERENELLA Dello stesso autore In edizione Mondadori Le battaglie navali del Mediterraneo nella seconda guerra mondiale Dear Benito, caro Winston I ragazzi del '44 La regina del Sud Il Prefetto di ferro La principessa del Nord La Signora della Vandea La nostra guerra. 1940-1945 Il comunista in camicia nera L'archivio segreto di Mussolini Regina Il Superfascista L'armata scomparsa L'esodo L'anarchico che venne dall'America L'amante dell'imperatore joe Petrosino L'armata nel deserto Ammazzate quel fascista! L'Editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici senza riuscire a reperirli: è ovviamente a piena disposizione per l'assolvimento di quanto occorra nei loro confronti. http://www.mondadori.com/libri ISBN 88-04-51269-5 INDICE 3 I Il secondo figli» di Dio 14 II Il sinedrio di Roma 22 III La visione 41 IV La chiamata 53 V Il bollo divino 68 VI L'uomo del mistero 79 VII L'ultima cena 87 Viii I codici 99 IX L'arresto 108 X L'infiltrato 117 XI In Francia 127 XII La perizia psichiatrica 135 XIII L'aiuto della Provvidenza 141 XIV Per l'Europa 151 XV I dodici apostoli 156 XVI «La Repubblica è il Regno di Dio» 164 XVII La manifestazione 172 XVIII In nome della legge 187 Bibliografia essenziale
ARRIGO PETACCO Il CRISTO DELL'AMIATA **********
La storia di David Lazzaretti «Lassù sul monte Amiata è morto Gesù Cristo da vero socialista ucciso dai carabinieri»: così i versi di un'antica canzone popolare rievocano la leggendaria figura di David Lazzaretti, umile barrocciaio nativo di Arcidosso, paesino in provincia di Grosseto, che, scopertosi mistico visionario, divenne nell'Italia postrisorgimentale predicatore di un radicale rinnovamento religioso e fondatore di una comunità di fedeli basata su un ideale di socialismo evangelico. Dopo l'unificazione si verificò nel nostro Paese un peggioramento delle condizioni di vita nelle campagne, soprattutto nelle regioni centro-meridionali. I contadini si trovarono da un lato vessati dalla politica «coloniale» del nuovo Stato, che li gravava di tasse particolarmente odiose, e dall'altro sottoposti alla subdola influenza di una Chiesa arroccata su posizioni antiliberali e antimoderniste. Fu questo l'humus primario in cui maturarono non soltanto il brigantaggio e le insurrezioni anarchiche di quegli anni, ma anche la singolare esperienza spirituale di Lazzaretti. Autodidatta dalla fantasia fervida e impetuosa, con una naturale propensione al comando, il «santo David» ricevette l'«illuminazione» nel 1868, a trentaquattro anni. La sua predicazione, iniziata nel territorio del monte Amiata e poi diffusasi oltre i confini italiani, s'ispirava a un cristianesimo delle origini. Attraverso grandiose e spesso stravaganti visioni egli vaticinava l'avvento di un'era di fratellanza e uguaglianza che sarebbe culminata nella manifestazione, per suo tramite, del «grande liberatore del mondo, il secondo Cristo». Lo slancio profetico di Lazzaretti si concretizzò poi in un ampio progetto comunitario, la Società delle famiglie cristiane, che introdusse riforme rivoluzionarie invise sia allo Stato liberale sia alle gerarchie ecclesiastiche, come l'abolizione della proprietà privata, la comunanza dei beni, la suddivisione degli utili e la parità di diritti fra uomini e donne. Nel Cristo dell'Amiata, edito per la prima volta nel 1978 e ora riproposto all'attenzione dei lettori, Arrigo Petacco ricostruisce le vicissitudini di David Lazzaretti al di là della tradizione popolare ancor oggi viva nell'Amiata e della confusione con le rivolte e i movimenti così diffusi nell'Italia postunitaria. Ne emerge l'immagine di un popolano semianalfabeta, di un visionario ingenuo che, nell'ansia di realizzare il regno di Dio su questa terra, divenne suo malgrado un ribelle, e come tale morì, raggiunto da un colpo d'arma da fuoco durante uno scontro con le forze dell'ordine. Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra, La Spezia, e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore de «La Nazione» e di «Storia illustrata», ha sceneggiato alcuni film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo: L'anarchico che venne dall'America, Joe Petrosino, Il Prefetto di ferro, Riservato per il Duce (nuova edizione L'archivio segreto di Mussolini), Dal Gran Consiglio al Gran Sasso (con Sergio Zavoli), Pavolini. L'ultima raffica di Salò (nuova edizione Il superfascista), I ragazzi del '44, Dear Benito, caro Winston, La regina del Sud, La principessa del Nord, La signora della Vandea, La nostra guerra. Il comunista in camicia nera, Regina. La vita e i segreti di Maria Hosé, L'armata scomparsa, Ammazzate quel fascista!
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Sono intimamente convinto che se Lazzaretti avesse avuto maggior cultura e fosse nato in altri tempi e in altri luoghi, avrebbe potuto riuscire un san Paolo, un sant'Agostino, o per lo meno un Lutero.
ANDREA VERGA. Se David è matto son matti tutti i santi in Paradiso. Detto dell'Amiata. Gli allucinati compongono una strana famiglia dalla quale sono usciti eroi, martiri, santi e assassini. ANDREA VERGA. CAPITOLO I. IL SECONDO FIGLIO DI DIO. «Ego sum! Sì, io sono quello che attendevano le nazioni. Sono il Figlio dell'Uomo. Ego sum! Sì, è giunto il tempo che io riveli a voi la mia natura divina. Io sono il David d'Isaia, sono il Leone della tribù di Giuda, sono il Cristo, Duce e Giudice, la reincarnazione di Gesù...» Le parole di David Lazzaretti si levarono alte nella stanza ampia e disadorna, che torce e lumi a olio sfrigolanti per i soffi d'aria provenienti da mille fessure rischiaravano malamente. Fuori, intanto, continuava a diluviare, il vento ululava e le folgori squarciavano lembi di cielo illuminando con bagliori sinistri la vetta bianca e brulla del monte Labbro dove David aveva fatto erigere il suo eremo e la sua torre. «Ego sum!» gridò ancora David in piena crisi mistica. La sua figura, gigantesca e spettrale, si stagliava contro l'altare in un gioco suggestivo di ombre e di luci. Grosse lacrime gli solcavano il volto barbuto e scavato dai lunghi digiuni. «Sì,» ripeté «io sono quel Cristo.» Poi cadde in ginocchio e aggiunse, con quella sua caratteristica parlata toscana, che il lungo soggiorno all'estero non aveva affatto migliorato: «Voi non dovete temere della tempesta che infuria fuori, perché la tempesta è in me. Questa è la notte in cui si aprono gli abissi e milioni di anime volano al cielo. Voi non dovete temere perché io vi porto la redenzione. Io solo sono la vittima predestinata. Il sangue delle mie vene placherà lo sdegno di Dio». Circa cento persone ammassate una sull'altra sul freddo pavimento di terra battuta ascoltavano estatiche le parole del profeta, ma nessuno dei fedeli parve capire il vero significato della sconvolgente dichiarazione di David. Soltanto i due sacerdoti che officiavano all'altare l'avevano accolta con un brivido di paura e poi, folgorati dalla rivelazione, erano caduti in ginocchio accanto a lui borbottando freneticamente sommesse preghiere. Era la sera dell'8 marzo 1878, venerdì. La Nuova Sion (questo il nome imposto all'eremo da David, il quale aveva anche modificato quello del monte Labbro in monte Labaro perché gli pareva più suggestivo) era più affollata del solito. La notizia del ritorno di Lazzaretti, il «santo David», come tutti lo chiamavano nell'Amiata, era corsa di bocca in bocca, di villaggio in villaggio e tutti i membri della Società delle famiglie cristiane si erano inerpicati sotto la pioggia fin sulla vetta del monte per ascoltarlo. C'erano, in prima fila, i dodici apostoli col loro caratteristico cappello di lana grigia e poi gli eremiti penitenzieri, i militi crociferi, i discepoli, le matrone, le figlie dei cantici, le vergini e gli altri componenti degli ordini e dei sottordini religiosi che David aveva meticolosamente classificato e di cui quei montanari di animo semplice si erano lasciati investire accettandone le regole rigorose con sincero entusiasmo e autentica fede. Tutti i presenti portavano appuntato sul petto il «simbolo di David» che distingueva i seguaci di Lazzaretti dagli altri cristiani. Si trattava di una sorta di distintivo composto da due «C» contrapposte con una croce in mezzo e che appariva all'incirca così:
seguaci di appuntarlo sulle vesti e anche di scolpirlo sull'uscio di casa. Con questa disposizione aveva favorito senza volerlo il lavoro del delegato di pubblica sicurezza di Arcidosso. Questi, infatti, quando gli era stato ordinato di tenere d'occhio la presunta setta papista sviluppatasi nell'Amiata, non aveva dovuto faticare molto per redigere l'elenco completo dei suoi componenti. Ma neanche il delegato, fino a quel momento, era riuscito a scoprire il recondito significato di quelle due «C» con la croce in mezzo che i lazzarettisti usavano anche per marchiare i beni e gli animali appartenenti alla loro comunità. Scriveva infatti al prefetto di Grosseto, Cotta Ramusino, il quale più per curiosità che per altro gli aveva chiesto lumi in proposito: Dicesi che questo simbolo ricalchi fedelmente un misterioso tatuaggio che il suddito Lazzaretti David porterebbe impresso sulla fronte. Io personalmente non ho mai visto questo marchio né l'hanno visto persone di mia fiducia poiché il sedicente profeta, che usa portare i capelli alla nazzarena, è solito nasconderlo sotto il ciuffo. Secondo una credenza popolare qui molto diffusa e che il Lazzaretti alimenta furbescamente, il marchio gli sarebbe stato impresso in fronte addirittura da San Pietro durante un suo lungo eremitaggio in una grotta di Montorio Romano, allora negli Stati Pontifici, nel corso della quale egli avrebbe avuto delle conferenze con la Madonna e altri Santi... Il tanto discusso simbolo, la sera dell'8 marzo 1878, figurava ricamato in rosso anche sulla cotta dei due sacerdoti della Nuova Sion di monte Labaro. Don Filippo Imperiuzzi e don Giovanni Battista Polverini erano due frati, poco più che trentenni, dell'ordine di san Filippo Neri, che il vescovo di Montefiascone, monsignor Concetto Focacetti, aveva autorizzato a lasciare il convento di Gradoli per andare a prendersi cura delle anime, a suo parere un po' confuse, dei lazzarettisti dell'Amiata. Di quei tempi, infatti, quando era ancora nell'aria il rombo delle sacrileghe cannonate di Porta Pia, i clericali revanscisti annidati in Vaticano o distribuiti nelle diocesi erano prodighi di approvazioni, di benedizioni e persino di sovvenzioni verso tutti coloro che gridavano «Viva Pio IX». E non si dava gran peso se a gridarlo erano dei briganti dell'Aspromonte o dei visionari dell'Amiata. Per questa ragione, monsignor Focacetti e il suo collega Raffaele Pucci Sisti, vescovo di Montalcino nella cui diocesi sorgeva l'èremo di monte Labbro, avevano preso sotto la loro benevola protezione il nascente movimento lazzarettista. Questa protezione spirituale era durata anni, anche dopo che i due vescovi avevano cominciato a nutrire un certo sospetto verso quella strana comunità cristiana di stampo primitivo dove, se da un lato si proclamava l'assoluta fedeltà a Pio IX, dall'altro si mettevano in pratica sistemi di vita associativa che non potevano non allarmare chi aveva a cuore la conservazione dell'ordine sociale esistente, come, per esempio, l'abolizione della proprietà privata, la comunanza dei beni, la suddivisione degli utili e persino l'elezione del consiglio della comunità con l'estensione alle donne del diritto di voto. La decisione di Lazzaretti di assegnare a uomini e donne parità di diritti per poco non aveva fatto traboccare il vaso della pazienza dei due vescovi. Una cosa simile non era mai accaduta! Ma quelli erano tempi duri per i clericali, la Chiesa aveva un gran bisogno di alleati per frenare l'avanzata liberalmassonica e, di conseguenza, non si poteva guardare troppo per il sottile. Così, i due vescovi non erano intervenuti, anche se «L'Osservatore Romano», dopo la pubblicazione del Sillabo che condannava in pratica tutti i princìpi essenziali del liberalismo, non si stancava di mettere in guardia i credenti e i benpensanti contro certe idee socialiste e rivoluzionarie che giungevano d'oltralpe a confondere i cervelli e a suscitare ribellione e odio di classe. Oltre che a dir messa, dunque, i due giovani frati filippini erano stati mandati sul monte Labbro per mantenere la comunità cristiana il più possibile vicino a Dio e al papa e il più possibile lontano dal modernismo e dal socialismo. Ma i due religiosi non avevano atteso al loro compito, anzi col passare del tempo
si erano lasciati affascinare dalla forte personalità del santo David, avevano finito per sposare la sua causa, convincendosi della veridicità della sua missione celeste e, quando si era verificata la paventata «scissura» fra la grande Chiesa di Roma e la microscopica chiesa dell'Amiata, non avevano esitato a schierarsi con questa contro quella pur essendo ben consci dei rischi che tale scelta comportava. La temuta scissura aveva cominciato a profilarsi sul finire del 1877. David Lazzaretti si trovava in Francia da circa tre anni, ospite, con la famiglia, del giudice Leon du Vachat, un ricchissimo esponente dei circoli clericali e reazionari francesi. Si diceva che avesse lasciato l'Italia e la comunità della Nuova Sion per sfuggire alle persecuzioni della polizia che non si stancava di spedirlo in catene davanti ai tribunali dai quali usciva immancabilmente assolto. Dalla Francia, tuttavia, egli aveva mantenuto stretti contatti coi suoi fedeli amiatini, che continuava a guidare da lontano attraverso una copiosa corrispondenza. Oltre alle istruzioni sul modo di amministrare la comunità, improntate di buon senso pratico, David inviava anche dettagliati resoconti dei suoi fantastici colloqui col Padreterno. Si trattava solitamente di pastrocchi letterari, quasi sempre scritti in versi a rima baciata, in cui, con assoluto disprezzo per la sintassi e l'ortografia, il buon Dio illustrava al suo profeta quale sarebbe stato il futuro assetto del mondo. Erano stati appunto gli ultimi scritti di David a mettere in allarme i censori del Sant'Uffizio. Fino a quel momento, anche se erano state giudicate allarmanti certe innovazioni adottate dalla comunità dell'Amiata, la prolissa produzione letteraria del profeta non aveva mai preoccupato eccessivamente i difensori dell'ortodossia cattolica. Questo perché David aveva sempre manifestato, sia in versi che in prosa, la sua assoluta obbedienza alla gerarchia e anche perché le sue profezie, fino a quel momento, non erano mai uscite dal seminato. Ma ora era diverso. Ora il Dio che parlava per bocca di David cominciava a dimostrare, sia pure in modo confusionario, un forte impegno politico e anche una gran voglia di cambiare l'ordine delle cose. A mettere in guardia il Sant'Uffizio contro la predicazione del profeta dell'Amiata aveva provveduto in particolare l'arciprete di Arcidosso, paese natale di Lazzaretti. Don Francesco Pistolozzi, al quale David inviava ingenuamente copia di tutti i suoi scritti, era da tempo roso dall'invidia. Lui, per la verità, non aveva mai visto di buon occhio l'attività di quel suo parrocchiano squilibrato che si spacciava per emissario del Padreterno, ma aveva dovuto pazientare in obbedienza agli inviti ammiccanti del suo vescovo. In segreto, però, don Pistolozzi invidiava il successo di David tra i fedeli, gli addebitava il progressivo spopolamento della sua bella chiesa arcipresbiteriale a vantaggio dell'inospitale eremo del monte Labbro e, soprattutto, non gli perdonava di aver causato la drastica riduzione del gettito delle elemosine. Così, appena gli era parso di avvertire puzza di eresia negli scritti del profeta (di cui era attentissimo lettore) si era affrettato a inviarli trionfante al vescovo di Montalcino il quale, a sua volta, dovette dirottarli verso il Sant'Uffizio. Gli scritti di Lazzaretti presi particolarmente in esame dai censori erano due opuscoli da lui stampati in Francia. Il primo aveva per titolo: Il libro dei celesti fiori, il secondo: La mia lotta con Dio. Si trattava in effetti di due componimenti di difficile lettura e dal contenuto assai confuso. In essi il profeta, o meglio, il Dio che parlava per suo tramite, vaticinava un prossimo straordinario avvenimento che avrebbe provocato la fine dell'Era della grazia e l'inizio dell'Era del diritto, in cui «il mondo sarà guidato da un solo pastore, unito in una sola fede e cadrà ogni vincolo imposto alla libertà di coscienza degli uomini». Questa era, che avrebbe comportato la completa riforma della cristianità, doveva avere inizio il 14 marzo 1878 e realizzarsi cinque mesi dopo, esattamente il 14 agosto, vigilia della festa dell'Assunzione. «Quel giorno» annunciava lo scritto di Lazzaretti «apparirà il grande liberatore del mondo, il secondo Cristo. Egli scenderà dai monti dell'Appennino toscano, raggiungerà Roma e tutti
i monarchi della terra si inginocchieranno davanti a lui...» Ora, già in queste frasi un po' sconclusionate (gli opuscoli erano anche infarciti di allusioni all'abolizione della proprietà, alla spartizione delle terre, alla fine del regno dei papi) di affermazioni eretiche ce n'erano persino troppe e qualcuna si rivelava di sconcertante attualità. Per esempio: il riferimento alla caduta di ogni vincolo «imposto alla libertà di coscienza» suonava apertamente come una contestazione del Sillabo di Pio IX che condannava appunto, oltre il liberalismo, il progresso e la moderna civiltà, anche la libertà di coscienza e di stampa. A ben vedere, c'era inoltre un attacco indiretto al recente dogma dell'infallibilità del papa che aveva suscitato discussioni e perplessità anche in molti ambienti cattolici. Tuttavia, ciò che soprattutto scandalizzò i giudici del Sant'Uffizio fu l'annuncio relativo alla venuta sulla terra del «secondo Cristo». Qui, oltre all'eresia, appariva evidente il peccato di superbia, di presunzione diabolica. Non ci voleva molto, infatti, a capire che David, collocando il secondo Cristo sull'Appennino toscano, alludeva a se stesso. Come sua consuetudine, il Sant'Uffizio aveva preso in esame la questione con molta cautela, ma anche con insolita fretta. Ai primi di dicembre del 1877, i vescovi di Montalcino e di Montefiascone, sollecitati da don Pistolozzi il quale, desideroso di riunificare il proprio gregge e di rimpinguare le cassette delle elemosine, continuava a dipingere con tinte sempre più fosche lo svilupparsi dell'eresia nell'Amiata, avevano ordinato ai due filippini di monte Labbro di interrompere i servizi religiosi nella Nuova Sion e di rientrare nel convento di Gradoli. Per don Imperiuzzi e per don Polverini, quelli erano stati giorni molto difficili. Lontani dal loro maestro, del cui consiglio avrebbero avuto gran bisogno in quel frangente, e incerti sul come interpretare i suoi messaggi, sempre di difficile lettura, essi pregarono a lungo, si macerarono in digiuni e, alla fine, risposero ai superiori che perdonassero la loro disobbedienza, ma che non se la sentivano di abbandonare l'eremo e i fedeli del monte Labbro. In risposta al loro atto di ribellione, il vescovo Focacetti li sospese a divinis, mentre il vescovo Pucci Sisti dichiarò la chiesa di monte Labbro interdetta all'esercizio delle funzioni religiose. Frattanto, finalmente libero di lanciare anatemi contro gli «eretici», don Pistolozzi non aveva perduto l'occasione di scatenare una violenta campagna diffamatoria contro Lazzaretti e i lazzarettisti (che ora preferiva chiamare «lazzaroni»). Gli davano man forte non soltanto i ricchi possidenti dell'Amiata, ma anche i liberali, i repubblicani, i liberi pensatori e i pochi circoli di sinistra. I primi perché avvertivano il pericolo rappresentato dal fervoroso attivismo comunitario dei lazzarettisti, i secondi perché incapaci di capire (e non lo avrebbero mai capito) che quel «ritorno al medioevo», come essi definivano il lazzarettismo, era in realtà un movimento di agitazione sociale che, sia pure in maniera confusa e primitiva, mirava alla creazione di una società più libera e più giusta. In ogni modo, gli anatemi dei clericali e lo scherno dei liberali si erano rivelati controproducenti. Come sempre accade, anche in questa occasione la persecuzione aveva ottenuto l'opposto risultato di aumentare il numero dei seguaci di David. In quei giorni la cappella dell'eremo di monte Labbro fu più frequentata che mai, mentre le chiese di Arcidosso e di tutta l'Amiata registrarono vuoti paurosi persino durante le feste natalizie. Quando poi, ai primi di gennaio del 1878, morì Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia e, poche settimane dopo, Pio IX lo seguì nella tomba, sul monte Labbro si gridò al miracolo. Il «grande avvenimento» profetizzato pochi mesi prima da David era accaduto. Ora stava dunque per avere inizio l'Era del diritto, un'era di cui quei semplici montanari capivano ben poco, ma in cui comunque travasavano tutte quelle speranze di giustizia sociale e di fratellanza umana che sono sempre state alla base dei movimenti millenaristi. La morte di Pio IX aveva portato confusione e scoramento negli ambienti clericali e in tutto il mondo cattolico. Crollava definitivamente la leggenda
autorevolmente diffusa dai pulpiti che questo pontefice era destinato a scacciare da Roma gli «usurpatori subalpini» e a ridare nuova forza e nuova gloria alla Chiesa. Da parte sua, David Lazzaretti, che non era un mistificatore ma un uomo assolutamente convinto della propria missione, scorse in quell'avvenimento il segno della volontà divina. A Lione, dove lo aveva raggiunto la notizia, David si era autoproclamato «Gran Monarca» e aveva promulgato una serie di Editti alle nazioni latine che, secondo lui, avrebbero dovuto avviare la Riforma dello Spirito Santo subito dopo l'inizio dell'Era del diritto. Dal 14 marzo 1878 in poi, diceva il primo editto, i conclavi per l'elezione dei futuri pontefici, cominciando da quella del successore di Pio IX, si sarebbero dovuti svolgere in Francia, nella città di Lione. Con sconcertante sicurezza, Lazzaretti aveva inviato i suoi editti anche a Roma, in Vaticano, dove nel frattempo il conclave aveva già proclamato papa, col nome di Leone XIII, il cardinale Vincenzo Gioacchino Pecci. Non sappiamo se il nuovo pontefice abbia avuto modo di leggere questi curiosi proclami. E' certo tuttavia che furono presi in esame dai giudici del Sant'Uffizio. Questi infatti, allarmati forse più del dovuto (ma probabilmente si riteneva che alle spalle di David si celasse una parte del clero francese), con insolita solerzia si erano affrettati a convocare il sedicente profeta a Roma per il 10 marzo. David Lazzaretti aveva scorto in questo perentorio invito un altro segno del volere divino. Era così convinto di essere l'«inviato del Signore» che neppure per un attimo si era affacciato nella sua mente confusa il dubbio che a Roma lo attendesse una trappola. A rafforzare questa sua convinzione era stata anche la data fissata per l'incontro romano: essa cadeva esattamente quattro giorni prima di quel 14 marzo che, nelle sue visioni, Dio gli aveva indicato quale inizio della nuova Era del diritto. «Io vado a Roma» aveva confidato al suo credulo protettore, il giudice du Vachat «perché Dio mi ha ordinato di portare la luce in quella che sta diventando una bottega.» Poi aveva scritto ai suoi seguaci della Nuova Sion per annunciare loro che sarebbe passato dall'eremo («per schiarirvi con la mia viva voce i progetti di Dio») prima di raggiungere la città di Roma. David partì da Lione ai primi di marzo dopo avere affidato la moglie Carola e i figli Tarpino e Bianca alle cure della sua più attiva sostenitrice francese, suor Marie Gregoire. Giunto a Siena la mattina del 7 marzo, ebbe la sorpresa di incontrare alla stazione nientemeno che don Pistolozzi. L'arciprete si finse sorpreso dell'incontro, ma certamente mentiva. Forse era stato informato dell'arrivo di David da qualche parrocchiano. Il fatto è che, senza perdere troppo tempo, cominciò a prenderlo di petto rovesciandogli contro una serie di accuse roventi e ordinandogli di non mettere piede a monte Labbro e di proseguire invece al più presto per Roma. «Altrimenti» concluse minacciosamente il sacerdote «ti farò rinchiudere in galera o in manicomio.» David era abituato da anni a sentirsi dare del matto e dell'imbroglione, e tali accuse non lo avevano mai turbato; anzi, manifestava commiserazione verso chi gliele rivolgeva. Un tempo rissoso e collerico, David pareva ormai incapace di uno scatto d'ira e neppure in questa occasione perse la sua abituale serenità. «Tu non mi fermerai, prete» si limitò a dire con la sua parlata lenta e ispirata. «Nessuno può fermare i passi dell'inviato di Dio.» Don Pistolozzi, paonazzo di rabbia, si fece il segno della croce nell'ascoltare quella che riteneva una bestemmia, poi riprese a discutere, a minacciare, a supplicare e, alla fine, convinse David a seguirlo dal vescovo di Montalcino. «Per un chiarimento» precisò. Senza più parlare fra di loro, i due uomini affittarono una carrozza e raggiunsero la sede vescovile. Monsignor Pucci Sisti, però, era seriamente ammalato, così almeno aveva mandato a dire ai due visitatori: che lo scusassero quindi se non era in grado di riceverli. Don Pistolozzi accolse la notizia con un gesto di stizza, David invece con totale indifferenza. «Comunichi a monsignore che pregherò per lui» disse al famiglio del vescovo che lo osservava incuriosito per via del suo strano abbigliamento, poi si allontanò
a piedi senza rivolgere una parola di saluto allo stizzito arciprete. Quando, nel pomeriggio del giorno seguente, David Lazzaretti giunse ad Arcidosso, una grande folla di seguaci, ma anche di curiosi si radunò all'ingresso del paese per accoglierlo. Avvolto in un ampio mantello nero che rendeva ancor più gigantesca la sua figura (era alto un metro e novantasei centimetri), David venne avanti maestosamente fra la sua gente distribuendo sorrisi e benedizioni. Molte donne che si erano inginocchiate al suo passaggio allungavano il collo per baciargli la mano. La barba lunga, i capelli alla nazarena, il profeta indossava un maglione di lana rossa con ricamato in oro sul petto il suo ormai famoso simbolo. In testa portava un curioso cappello di pelle attorno al quale era avvolto un lungo velo nero che gli ricadeva sulle spalle. A chi gli chiedeva il significato di quel velo, rispondeva: «Porto il lutto per il nostro re».
CAPITOLO II. IL SINEDRIO DI ROMA. Dopo che col canto di inni sacri si concluse la suggestiva cerimonia nel corso della quale si era rivelato ai suoi seguaci come il secondo Cristo, David Lazzaretti si riunì con i due frati e i discepoli più intimi nella vasta caverna naturale che si apriva sotto il luogo in cui era stato eretto l'eremo della Nuova Sion. In questa caverna, primitivo centro di riunione dei fedeli del profeta all'inizio della sua predicazione, si svolse un convivio spirituale di alta drammaticità. I presenti erano tutti molto commossi e al tempo stesso molto felici. Da quasi tre anni non vedevano il loro maestro e ora lui era tornato per rivelarsi figlio di Dio e per ridare forza ed entusiasmo alla loro fede un po' appannata dalle persecuzioni di quegli ultimi mesi. David li invitò a recitare insieme i «misteri dolorosi», essendo venerdì, poi tolse di tasca una banconota da 10 lire, l'ultimo denaro rimastogli, e lo consegnò all'eremita Federigo Bocchi dicendo che non poteva più tenere con sé alcuna moneta dopo che si era compiuto il grande avvenimento. Riprese quindi a pregare mentre fuori continuava a imperversare la tempesta e il vento faceva rotolare dall'alto della torre le pietre murate a secco. «Terminata la preghiera» racconterà un testimone «David diventò pallido in faccia mentre, nel tempo stesso, la fronte gli grondava di sudore in così grande quantità che anche la sua barba era bagnata. Si capiva che stava soffrendo moltissimo e questo fece piangere tutti noi che lo vedevamo.» Seguì un lungo silenzio, poi David si rivolse direttamente a don Imperiuzzi e a don Polverini per invitarli a continuare il loro servizio divino senza tenere conto della sospensione decretata dal vescovo. «Io vi dico» soggiunse «che la santa messa sarà celebrata in eterno nella nostra chiesa di monte Labaro.» Prese quindi fra le mani una copia del suo libro La mia lotta con Dio; ne lesse alcuni brani, poi annunciò ai discepoli che l'indomani sarebbe partito per Roma allo scopo di difendersi dalle accuse che venivano mosse al suo scritto. «Io dico che il mio sangue» spiegò David «è unito al sangue di Cristo, ed essi affermano che questa è eresia.» Poi uscì dal vago in cui era solito avvolgere le sue affermazioni e cominciò a parlare con chiarezza e a rispondere a tutti gli interrogativi che gli venivano posti o che vedeva scritti negli sguardi dei presenti. Ripeté che fra il 14 marzo e il 14 agosto la società umana e la Chiesa si sarebbero finalmente rinnovate. «Io vi dico figlioli miei» continuò David «che il trono si riunirà all'altare, che i dissidi sociali si sopiranno fino a scomparire e che il clero sarà finalmente purificato.» Ma tutto questo non sarebbe stato ottenuto senza sacrifici. «Il raggiungimento della pace sociale» annunciò «costerà lunghi e terribili sconvolgimenti che provocheranno lo spargimento di molto, molto sangue...» Pertanto, i figli della Nuova Sion dovevano organizzare delle legioni le quali, sotto le bandiere e il
simbolo di David e l'aiuto degli angeli di Dio, avrebbero alfine sgominato le schiere nemiche... Mentre Imperiuzzi e Polverini, gli unici in grado di leggere e scrivere della compagnia, prendevano frettolosi appunti sopra dei quaderni per non perdere una parola del maestro, gli altri, in piena estasi mistica, ascoltavano il verbo con fiducia e devozione assoluta e senza manifestare la minima preoccupazione per il loro futuro che, secondo le parole del profeta, non si preannunciava per niente rassicurante. David cambiò poi argomento e prese a descrivere molto dettagliatamente le novità di rito e di culto che la sua riforma avrebbe comportato. «Oltre all'abolizione di ogni vincolo alla libertà di coscienza» disse «sarà abolito anche il voto del celibato per i sacerdoti. E non solo,» aggiunse «sarà dato a tutti sulla terra ciò di cui hanno bisogno, e non sarà negata più a nessuno la speranza della vita eterna. Perché io vi dico, figlioli miei, che il diavolo è stato finalmente sconfitto, che non ci sarà più inferno per nessuno, ma solo un più lungo purgatorio...» Fra una preghiera e l'altra, David parlò fino all'alba illustrando nei minimi dettagli, con la sua abituale meticolosità, le innovazioni future della sua chiesa. Ciò che maggiormente colpì la fantasia dei presenti fu l'annuncio che fin dall'indomani la «confessione auricolare» sarebbe stata sostituita con la «confessione di emenda», ossia con una confessione pubblica nel corso della quale sarebbe stata concessa l'assoluzione a chi, sinceramente pentito, si fosse inginocchiato davanti all'altare per chiedere perdono dei propri peccati qualunque essi fossero e senza l'obbligo di elencarli. David tornò poi a parlare del suo prossimo viaggio a Roma, avvenimento questo per cui tradiva una trepida aspettazione. «Le cose che vi ho detto» annunciò ai discepoli «io le ripeterò anche ai Giuda Iscariota di Roma che hanno tradito Cristo per avidità dell'oro e dei godimenti terreni. A costoro io mi rivelerò come la reincarnazione del Cristo che hanno tradito e guai a loro se non si pentiranno in tempo, perché i terribili giorni da me annunciati non sono lontani.» E levatosi in piedi, concluse con enfasi: «Io andrò a Roma. Andrò alla grande città per parlare al nuovo papa e fate conto che io vada al Calvario. Ma guai a Roma se non farà profitto della riforma da me predicata. Io vi dico che il Leone di Roma avrà a che fare col Leone delle montagne...». Per il resto della notte, mentre continuava a infuriare la tempesta e i numerosi seguaci del profeta dormivano ammucchiati nei tre edifici che costituivano la Nuova Sion, gli uomini riuniti nella caverna pregarono in silenzio davanti alla Madonna della Conferenza, un dipinto naif raffigurante la prima visione divina ricevuta da David Lazzaretti dieci anni prima nell'eremo di Montorio Romano. L'autore del quadro, il barbiere e becchino di Arcidosso Filippo Corsini, era anche lui fra i presenti e pregava alla destra del maestro di cui era stato il più giovane discepolo. Nei due giorni che seguirono, sabato e domenica, l'eremo di monte Labbro fu meta di un incessante pellegrinaggio. Da tutti i villaggi dell'Amiata giunsero comitive di fedeli, gruppi festosi di famiglie, giovani e vecchi, chi a piedi, chi a dorso di mulo. Sul monte la tempesta si era placata, ma faceva molto freddo, tanto che si era reso necessario accendere dei fuochi per riscaldare la gente che non aveva trovato posto nella cappella o nell'eremo ed era stata costretta a trascorrere la notte all'aperto. Questi fuochi, che illuminavano la vetta del monte, alta più di 1200 metri sul livello del mare, erano visibili anche da Arcidosso e davano un gran fastidio ai notabili e, soprattutto, a don Pistolozzi, che dal pulpito della sua chiesa semideserta continuava a inveire contro quel suo parrocchiano squilibrato che gli aveva scompigliato il gregge. La mattina di domenica, davanti a una turba enorme di fedeli (il delegato di pubblica sicurezza ne contò circa tremila) ardenti di fede da far invidia non soltanto a don Pistolozzi, ma anche al vescovo di Montalcino, David assunse in pubblico funzioni sacerdotali. Fino a quel momento, infatti, aveva sempre rifiutato di sostituirsi al sacerdote, come aveva sempre rifiutato di operare miracoli. «I miracoli» diceva «servono per gli
allocchi. All'uomo deve bastare la ragione.» Dopo la messa, David parlò alla folla. Spiegò la sua riforma e come sarebbero stati, da quel momento, la confessione di emenda e il nuovo modo di avvicinarsi ai sacramenti. «Bisogna innanzitutto» disse «che vi pentiate in cuor vostro dei vostri peccati e il pentimento deve essere sincero. Dopodiché verrete a ricevere il Signore qui davanti all'altare in modo naturale, semplice e franco. Dovete comportarvi come fanno i bambini quando vogliono il latte dalle loro madri. Dovete procedere senza caricature di alcuna specie: venite composti e modesti, ma non confusi e impacciati, e con tanta confidenza verso il nostro Padre amoroso e benefico...» Poco dopo, tutti i presenti eseguirono con compostezza le istruzioni ricevute e si comunicarono con sincero fervore ricevendo il boccone di pane casareccio che, secondo un'altra innovazione dettata da David, sostituiva da quel momento l'ostia consacrata. Nel pomeriggio, dopo avere mangiato pane e formaggio con i discepoli più intimi, David Lazzaretti lasciò monte Labbro per recarsi davanti al Sant'Uffizio, che lui preferiva chiamare il «sinedrio di Roma», con la scoperta intenzione di modellare la propria vicenda umana su quella vissuta da Gesù. David lasciò l'eremo in stato di totale sovreccitazione. L'invito del Sant'Uffizio lo intimoriva e lo inorgogliva nello stesso tempo. Era la prima volta, dopo dieci anni di predicazione, che la Chiesa di Roma sembrava essersi accorta di lui, e si può intuire quale turbamento avesse provocato questo fatto nella sua mente esaltata. Partì comunque sicuro e deciso a portare a termine la sua missione. Aveva con sé, come confidò ai suoi compagni, una gemma, una verga e un sigillo che avrebbero dovuto convincere i giudici del «sinedrio» che lui era l'inviato del Signore, il nuovo Cristo, Duce e Giudice. Circa questi tre oggetti consegnati da David agli inquisitori del Sant'Uffizio, sappiamo che la gemma era una pietra di nessun valore, il sigillo un marchio metallico raffigurante le solite due «C» contrapposte con la croce in mezzo, e la verga un bastone formato da tre pezzi di legno d'ulivo incastrati insieme. Centinaia di fedeli, sovreccitati quanto lui, accompagnarono il santo David alla stazione ferroviaria di monte Amiata. Partì con l'accelerato delle 16.15, dopo avere promesso di far avere al più presto sue notizie. Invece, per un mese intero non si seppe più nulla di lui. Cosa sia accaduto in quel mese che David Lazzaretti trascorse rinchiuso nel convento dei Santi Giovanni e paolo, situato sul Celio, e affidato ai padri passionisti, nessuno probabilmente lo scoprirà mai con esattezza poiché gli atti del processo (insieme alla gemma, al sigillo e alla verga) sono tuttora custoditi gelosamente negli archivi vaticani. Di certo sappiamo soltanto che lo smarrito montanaro attraversò allora il momento più difficile della sua carriera di profeta. Per giorni e giorni fu sottoposto a estenuanti penitenze e a interminabili interrogatori. Dovette rendere conto dei suoi copiosi scritti eretici di fronte a una severa commissione (presieduta da un assessore di cui si conosce soltanto il cognome: Saula) che gli contestò punto per punto le sue affermazioni e le sue «illusioni diaboliche». Oltre il processo, David dovette anche subire un robusto lavaggio del cervello a opera di monsignor Gaetano Carli e del francescano Gioacchino da Scai. I due religiosi avevano una certa influenza sull'inquisito perché gli erano stati vicini all'inizio della sua predicazione, quando ancora, in Vaticano, si sperava di indurre il sedicente profeta a dar vita a un movimento sanfedista e antiunitario. Dopo un mese di questo trattamento, David Lazzaretti crollò. In preda a una profonda crisi di disperazione, riconobbe di essere caduto in errore, chiese perdono e promise di non mettere più piede nell'Amiata. Sarebbe tornato in Francia, alla certosa di Lione, a far penitenza e a pregare per il resto della sua vita. David Lazzaretti partì effettivamente per la Francia ai primi di aprile. Ma prima di lasciarlo andare, i suoi inquisitori lo invitarono a vergare di sua mano una lettera ai due frati apostati di monte Labbro per indurli a rientrare nei ranghi di santa madre Chiesa. Il messaggio, copia del quale venne inviata anche ai vescovi di Montalcino e di
Montefiascone, fu sicuramente scritto e composto da David. I giudici del Sant'Uffizio - certamente per garantirne la credibilità - non vi intervennero neppure per aggiustare lo stile scorretto che caratterizzava la prosa davidiana. Eccone il testo: Carissimi fratelli G.B. Polverini e Filippo Imperiuzzi, venuto a Roma e essendo stato ascoltato dai Superiori, hanno giudicato che sono affetto da illusioni diaboliche; essendo figlio obbediente della Chiesa mi sono sottomesso al suo giudizio e procuro dal canto mio di riparare a quel male che i Superiori giudicano che io ho fatto, per cui per quel male che la Chiesa giudica che avete fatto a mia ingiunzione col celebrare la Messa e amministrare i Sacramenti, essendo stati dal vostro Vescovo sospesi, vi esorto di ritornare al-l'obbedienza della Chiesa e alla sottomissione del vostro Vescovo. Pregate per il vostro David Lazzaroni Roma, 8 aprile 1878. Com'era prevedibile, la lettera di David provocò sorpresa e scoramento tra i fedeli del monte Labbro che, da un mese, attendevano ansiosamente notizie del loro profeta. Il primo a cadere in crisi fu il giovane «don Tista», come veniva chiamato confidenzialmente il frate Giovanni Battista Polverini. Il filippino, dopo giorni di tormento, lasciò segretamente la Nuova Sion per andarsi a prostrare ai piedi del vescovo Focacetti nella chiesa di Montefiascone. Trascorrerà il resto della sua vita a far penitenza nel convento di Gradoli. Frate Imperiuzzi, invece, tenne duro. La diserzione di Polverini, tutto sommato, gli fece anche piacere perché fra i due era sorta da tempo una sottile forma di competizione. Ora, dunque, Imperiuzzi era solo e, in assenza di David, poteva considerarsi il capo della piccola chiesa dell'Amiata. In questo senso ottenne dai fedeli anche una sorta di investitura. Le cose andarono così. Il 16 aprile, al ritorno da un viaggio, Imperiuzzi annunciò ai confratelli di avere incontrato David alla stazione di Tornieri, sulla linea Asciano-Grosseto. In quell'occasione, raccontò Imperiuzzi, il maestro lo aveva pregato di sostituirlo e di mantenere viva la sua chiesa, «Io» gli aveva detto David «ormai sono morto moralmente. Vado perciò in Francia a raggiungere la mia famiglia e ad attendere il risultato dei divini disegni e voleri.» Per la verità, non è assolutamente provato che questo incontro sia avvenuto. Anzi è assai probabile che il frate filippino se lo sia inventato nel tentativo di mantenere viva la comunità religiosa alla quale aveva votato la propria vita. In ogni modo, neppure questo avvenimento, vero o falso che sia, riuscì a frenare la lenta emorragia di seguaci. Di giorno in giorno, infatti, andò sempre più diminuendo il numero degli eremiti penitenzieri che, secondo una regola stabilita da David, dovevano recarsi sul monte a «fare la settimana», ossia gli esercizi spirituali. Molte diserzioni si registrarono anche fra i gruppi di lavoro che operavano nei terreni presi in affitto dalla Società delle famiglie cristiane. Infine, quando il 24 luglio 1878 la Chiesa di Roma pose all'indice tutti gli scritti di David Lazzaretti quocumque idiomate edita, e don Pistolozzi, raggiante, ne fece un gran falò sul sagrato della chiesa, il sogno religioso e comunitario dei montanari dell'Amiata parve definitivamente tramontato.
CAPITOLO III. LA VISIONE. Arcidosso, al tempo in cui si svolse la vicenda narrata in questo libro, aveva 6500 abitanti, nove chiese, un castello disabitato, la pretura, l'ufficio centrale delle poste e l'«ospizio dei gettatelli». Duemila dei suoi abitanti, in gran parte artigiani, commercianti e barrocciai, oltre naturalmente le sei o sette famiglie di ricchi possidenti, erano concentrati nel comune capoluogo; gli altri
erano sparsi nelle frazioni circostanti e nei molti casolari isolati fra i pascoli montani, i castagneti e i poderi ben curati, adibiti soprattutto alla coltivazione della vite, dell'ulivo e di un po' di grano. Con altri quattro comuni (Castel del Piano, Cinigiano, Santa Fiora e Roccalbegna), Arcidosso faceva parte di quel versante del monte Amiata che già allora era inserito nella provincia di Grosseto a differenza dei comuni di Abbadia San Salvatore, Piancastagnaio e Radicofani, situati sul versante orientale della montagna e che gravitavano nella provincia di Siena. Secondo un'inchiesta svolta nel 1878 dall'ispettore del ministero dell'Interno Edoardo Caravaggio, nei cinque comuni amiatini dove maggiormente si diffuse l'eresia lazzarettista, su una popolazione complessiva di 27.000 abitanti, soltanto il 30 per cento aveva frequentato le due classi elementari che allora costituivano la scuola dell'obbligo. Risultava ancora che il 75 per cento della popolazione era dedito all'agricoltura o alla pastorizia e che moltissimi erano i piccoli proprietari: circa il 46 per cento. Ma questo dato statistico non deve trarre in inganno. Si trattava, in effetti, di famiglie che traevano a malapena di che sopravvivere dal loro fondo, tant'è vero che l'autore dell'inchiesta era incerto se definirle «molto povere» o «poverissime», una distinzione che, secondo i metri dell'epoca, aveva evidentemente una sua ragione di essere. Abbastanza diffusa era anche la mezzadria, mentre i braccianti giornalieri rappresentavano una insignificante percentuale. Ad Arcidosso, Cinigiano, Santa Fiora e Roccalbegna non esistevano lavoratori addetti all'industria, salvo i pochi dipendenti di qualche lanificio. Ce n'era invece un buon numero a Castel del Piano: in gran parte minatori occupati nelle miniere di bolo, o terra d'ombra, di ossido di manganese e di mercurio situate la maggior parte sul versante senese dell'Amiata; ma anche operai delle tre fabbriche che lavoravano i minerali di ferro importati dall'isola d'Elba. La presenza di una classe operaia spiega perché a Castel del Piano già esistesse una società di mutuo soccorso forte di 220 iscritti che versavano volontariamente nella cassa sociale dieci centesimi la settimana. Negli altri comuni, invece, non esistevano organizzazioni mutualistiche e l'assistenza, o meglio, la carità, era monopolio esclusivo dei parroci. Questo accadeva perché se da un lato esisteva una difficoltà obiettiva rappresentata dal fatto che lo spirito associazionistico non ha mai facilmente attecchito fra i contadini, dall'altro, preti e ricchi possidenti combattevano apertamente l'insorgere di organizzazioni di questo tipo considerandole l'anticamera dell'internazionalismo se non, addirittura, della rivoluzione. La composizione sociale diversa di Castel del Piano fornisce anche, come vedremo, una chiara spiegazione al fatto che questo comune si rivelerà il più refrattario alla predicazione millenarista di David Lazzaretti. Per quei minatori, le cui condizioni di vita e di lavoro erano di una durezza inimmaginabile al giorno d'oggi, ci voleva ben altro che la promessa di una soluzione divina ai loro problemi terreni. Essi, sia pur confusamente, avevano già individuato la natura umana dei loro mali e delle ingiustizie che dovevano subire. Sapevano che il loro nemico non era un'entità astratta da placare con suppliche e preghiere, ma un uomo in carne e ossa come loro, ossia il padrone stesso della fabbrica o della miniera in cui lavoravano. Al contrario, i piccoli proprietari amiatini, travolti dal brusco ingresso del capitalismo moderno nella loro arcaica società contadina, non sapevano con chi prendersela e neppure sapevano, è proprio il caso di dirlo, a che santo votarsi per chiedere aiuto. Non certo al parroco, che predicava soltanto la rassegnazione; non allo Stato, che si faceva vivo soltanto con gli esattori; né, tantomeno, ai ricchi possidenti che miravano solo a impadronirsi dei loro campicelli per un boccone di pane. Per questa povera gente, rappresentante una classe sociale ormai condannata a scomparire, non restava altro che affidarsi al cielo. Sarà su questo terreno che fiorirà rigoglioso il seme gettato da David. Un mestiere abbastanza diffuso a quei tempi sull'Amiata era quello del barrocciaio. Per le strade impervie della
montagna era un continuo schioccare di fruste e tintinnare di sonagliere e un viavai di carri, trainati da muli, che trasportavano legna, carbone e, soprattutto, i materiali estratti dalle miniere. Anche i Lazzaretti di Arcidosso facevano i barrocciai da diverse generazioni. In particolare, trasportavano il bolo alle colorerie di Grosseto, passando attraverso la desolata e malarica valle dell'Ombrone, e a quelle di Roma, che raggiungevano attraversando la Val di Paglia e la Sabina. Erano viaggi lunghi e faticosi che richiedevano giorni di cammino sotto il sole o la pioggia, in assoluta solitudine. Giuseppe Lazzaretti e Faustina Biagioli, genitori di David, avevano messo al mondo, fra il 1830 e il 1840, sei figli maschi sani e robusti da fare invidia a tutto il paese. Pasquale, David, Angelo, Lazzaro, Francesco e Giovanni, erano degli autentici giganti: la loro altezza variava fra il metro e novantacinque e i due metri. Erano tutti dotati di una memoria eccezionale (che la gente scambiava per intelligenza) e anche di un notevole spirito pratico tanto che tutti - tranne naturalmente David, che avrà un destino diverso - riuscirono fin da giovani a mettersi in proprio, chi come barrocciaio, chi come commerciante. Pasquale, il primogenito, pur essendo analfabeta era abilissimo negli affari: ricordava a memoria il dare e l'avere di circa duecento clienti senza sbagliarsi di un centesimo. David, il secondogenito (era nato il 6 novembre 1834), si rivelò precocemente un ragazzo estroverso, molto fantasioso e pieno di interessi e di idee. Da bambino, una la faceva, l'altra la pensava, così che in paese l'avevano ribattezzato «Milleidee», un soprannome che si porterà dietro per tutta la vita. Malgrado soffrisse di un misterioso male che, di tanto in tanto, gli provocava febbroni altissimi, deliri e forti emicranie (in casa pensavano fosse la terzana contratta accompagnando il padre nella Maremma, ma più probabilmente si trattava di epilessia), David venne su bene, grande e grosso come i suoi fratelli. Alla scuola dell'arciprete Pistolozzi, che frequentò per un anno soltanto, imparò così bene a leggere che il prete gli affidava spesso la lettura dei brani sacri durante le funzioni religiose. Suonava bene anche l'organo della chiesa e riusciva a improvvisare dei motivi persino suonando le campane del campanile di San Leonardo. A scrivere, invece, imparò poco e male, e questa deficienza lo angustierà per tutta la vita. Il futuro profeta non riuscì a frequentare completamente le elementari perché suo padre preferì portarselo dietro nei suoi lunghi viaggi alle colorerie di Grosseto e di Roma, ma il ragazzo continuò a leggere con la disordinata avidità dell'autodidatta. Leggeva tutto quello che gli capitava per le mani, frugando in casa e nella biblioteca parrocchiale: vite di santi, poemi classici e, con maggior entusiasmo, i poemi del ciclo carolingio che erano allora la lettura popolare più ambita e più diffusa. David si immedesimava così profondamente in quelle storie fantastiche e appassionanti che spesso le riviveva insieme all'amico Beppe Corsini, improvvisando scenette o inventando episodi nuovi che recitavano fra loro esprimendosi in zoppicanti terzine di endecasillabi. A quindici anni, David Milleidee era molto richiesto nelle feste paesane perché sapeva comporre con facilità poesie e stornelli che poi, non avendogli mai fatto difetto la vanità personale, recitava o cantava lui stesso con grande impegno. A vent'anni aveva già letto Dante, Petrarca, Omero e conosceva a memoria La Gerusalemme liberata, il suo poema preferito. A quell'età aveva anche cominciato a rivelare delle velleità letterarie. Preferibilmente componeva in versi con quella sua illeggibile calligrafia di autodidatta, piena zeppa di errori e di strafalcioni che, in seguito, quando affermerà di scrivere sotto la dettatura di Dio, rappresenterà il più serio ostacolo alla sua credibilità. Ma, a vent'anni, David non era stato ancora, per così dire, toccato dalla grazia. Scriveva, è vero, anche laudi e preghiere che poi lui e Beppe Corsini facevano stampare a proprie spese dalla tipografia Maggi e Gorgoni di Arcidosso per rivenderle in seguito a scopo di beneficenza, ma in particolare preferiva misurarsi con le tragedie. Di queste ne scrisse almeno una mezza dozzina. Una era ispirata a un
episodio dell'Iliade, altre a leggende cavalleresche e ben tre avevano per soggetto Kolokotronis, un eroe della guerra d'indipendenza greca allora molto conosciuto. In queste sue opere, l'autore non mancava occasione per manifestare la sua ammirazione fanatica per i condottieri e i trascinatori di folle. I rapporti di David con la Chiesa erano, in quel periodo, abbastanza controversi. Da ragazzo, per la verità, aveva manifestato l'idea di farsi frate cappuccino. A spingerlo in questa direzione, oltre alla grande influenza che aveva su di lui don Pistolozzi, era stata la predicazione di un curioso penitente girovago approdato ad Arcidosso nel 1846, quando David aveva dodici anni. Costui diceva di chiamarsi Baldassare Audibert, di essere francese e di essersi fatto penitente per purgarsi della colpa di avere votato, quale membro della Convenzione repubblicana, la condanna a morte di Luigi XVI e di Maria Antonietta. La gente lo chiamava l'«omo bono», ascoltava estatica i suoi infuocati sermoni e tollerava, o meglio, venerava anche il sudiciume che lo ricopriva. Per la verità, questo personaggio, che usava erigere a ogni tappa del suo pellegrinaggio una croce sulla quale incideva le proprie iniziali, non era affatto francese, non aveva mai fatto parte della Convenzione e non si chiamava Audibert, ma Audiberti. Originario di Vercelli e probabilmente un po' squilibrato, l'«omo bono» si fingeva giacobino pentito per dare maggior forza alle sue prediche contro ogni forma di modernismo e contro i nemici della Chiesa e dell'ordine costituito. Era insomma uno dei tanti fanatici che, strumenti spesso inconsapevoli di un disegno antiprogressista, andavano di quei tempi in giro per le campagne a predicare l'obbedienza e la rassegnazione. In particolare, l'Audiberti ce l'aveva con Voltaire, da lui dipinto come un demonio tentatore e ingannatore, mentre non si stancava di tessere le lodi del piissimo Luigi XVI e della buona regina sua moglie che i rivoluzionari senzadio avevano barbaramente decapitati. David fu molto impressionato da questo strano personaggio che riusciva a trascinare la gente con la sua oratoria. Anche le prediche dell'«omo bono» lasciarono un segno nella mente molto ricettiva del ragazzo. Come vedremo, infatti, continuerà per tutta la vita a addebitare a Voltaire (del quale non lesse mai neppure un rigo) tutti i mali del mondo e ad amare i re di Francia fino al punto di immaginare, nel momento più esaltato della sua crisi mistica, di essere addirittura un loro discendente. Affascinato dall'«omo bono», e desideroso di seguire al più presto le sue orme, il dodicenne David, già allora molto portato ai facili entusiasmi, espresse più volte alla madre il desiderio di indossare il saio. A togliergli quei grilli dalla testa ci pensò comunque suo padre. Giuseppe Lazzaretti non voleva tonache per casa. «Preti e frati» diceva «o son matti o son vagabondi.» E aveva almeno una buona ragione per pensarla così: pochi anni prima un suo cugino prete, don Giuseppe Lazzaretti, era finito in manicomio dopo che si era messo in testa di essere il Padreterno in persona. Per la verità, di matti in famiglia ce n'erano altri due: una zia e un cugino di David. David dunque non si fece frate; divenne invece un valido aiuto del padre barrocciaio lungo le strade della montagna e della Maremma. Quegli anni giovanili, egli li trascorse in gran parte sul carro, ora immerso nella lettura, ora nei suoi sogni fantastici. Un mondo diverso e arcano gli andava crescendo intorno. La sua fantasia lo portava spesso fuori della realtà e non bastavano le urla e gli strattoni del genitore a ricondurlo sulla terra. David entrava in questo suo universo segreto, popolato di santi e di paladini, di madonne e di anacoreti quasi senza rendersene conto, tanto che a volte faticava a distinguere il vero dal falso, la realtà dall'illusione. Sarà così per tutta la vita. La prima visione, David Lazzaretti l'ebbe il 25 aprile 1848, all'età di quattordici anni. Egli svelò questo episodio molto più tardi in un memoriale diretto a Pio IX di cui si conserva l'autografo, redatto con la solita forma convulsa e sgrammaticata. Accadde in Maremma, nei pressi di Macchia dei Peschi. David, quel giorno, era solo con i suoi muli, che in quel momento stavano riposando. Anche lui riposava all'ombra di un cespuglio quando
fu colto da uno dei suoi attacchi di febbre. Nel delirio che ne seguì, racconta David, «mentre un diluvio di lacrime mi scendeva dagli occhi», gli apparve un vecchio religioso che indossava un saio grigio e conduceva a mano un muletto bianco. Il frate dell'apparizione si rivolse al ragazzo e gli raccomandò di non parlare con nessuno del loro incontro, poi «mi suggerì di essere sempre devoto specialmente alla Maria Vergine e al papa Pio IX». Prima di scomparire nella nebbia «così fitta che non si vedeva un uomo a dieci passi di distanza», il misterioso personaggio salutò David con queste parole: «La tua vita è un mistero che un giorno ti sarà svelato». Tornato a casa febbricitante, David non mantenne il segreto e ne parlò con la madre che era molto religiosa e che non l'aveva mai deriso per il suo comportamento. Faustina Biagioli ascoltò il figlio prediletto con molta attenzione e non lo derise neanche questa volta. Si limitò a raccomandargli: «Non parlarne con nessuno, figlio mio. Altrimenti ti faranno a pezzi». «Dopo questa visione» racconta David nel suo memoriale «ebbi una lunga e seria malattia. Appena fui guarito, mio padre mi condusse di nuovo a lavorare in Maremma e per più anni dovetti rassegnarmi a menare sì misera vita cosicché abbandonai l'idea di farmi religioso.» Per la verità, non solo David abbandonò l'idea di farsi frate, ma con il passare degli anni si trasformò in un giovanottone violento, rissoso, bestemmiatore, accanito fumatore di toscani e insaziabile bevitore di ponce nero. La morte del padre, avvenuta nel 1853, fece inoltre cadere tutto il peso della famiglia sulle sue spalle e su quelle del fratello Pasquale. Soltanto quando Faustina Biagioli si risposò tre anni dopo con Agostino Lorenzoni, di professione calzolaio, la situazione familiare tornò a riequilibrarsi. A vent'anni, Milleidee era un bel giovanotto e molte ragazze se lo covavano con gli occhi quando andava a messa o all'osteria col vestito di velluto, un fazzoletto colorato e le bùccole d'oro alle orecchie che i montanari usavano portare perché, si diceva, proteggevano la vista. Era anche uno spettacolo vederli insieme, i fratelli Lazzaretti. Pasquale, David, Angelo, Lazzaro e Francesco (escluso Giovanni perché ancora troppo piccolo) quando si recavano alle fiere di montagna o di Maremma erano al tempo stesso ammirati e temuti. Tutti alti, belli, forti, intolleranti e risoluti, erano sempre pronti alla buona bevuta come alla rissa. Del gruppo, David era il più forte e il più intelligente, ma anche il più attaccabrighe. Nelle zuffe si trovava a suo agio e spesso le provocava con la sua invadenza e per la sua inveterata abitudine di intromettersi nelle discussioni per stabilire chi aveva ragione e chi aveva torto. Una volta, assalito da una mezza dozzina di avversari, si tolse d'impaccio sollevando un barile pieno di vino e scaraventandolo sul gruppo degli assalitori, alcuni dei quali finirono all'ospedale. Più tardi, quando lo scavezzacollo Milleidee diventerà il santo David, i suoi fanatici seguaci, per togliere qualche ombra dal suo passato, racconteranno che David nel periodo di «vita peccaminosa» che condusse non usò mai il coltello, ma sempre i pugni e che, sia pure nella violenza e nell'impeto dell'ira, sempre predominarono in lui la difesa del debole e il trionfo della causa giusta. Questo è vero almeno in parte: David, infatti, non ebbe mai, in gioventù, noie con la giustizia o con i gendarmi del granduca, ma quando si impegnava nelle risse d'osteria non si batteva per un'astratta giusta causa, ma solo per quello che lui giudicava essere giusto. Perché, oltre a ritenersi culturalmente superiore ai suoi compagni, voleva sempre avere ragione ed era un esibizionista forsennato. Violento, intollerante, bestemmiatore di prima forza e sempre pronto a farsi saltare la mosca al naso, il giovane David non era considerato un partito raccomandabile dalle famiglie che avevano in casa ragazze da marito. E non bastava a modificare il giudizio della gente il suo attivismo frenetico quando si trattava di portare a buon fine qualche operazione benefica bandita dalla parrocchia. Per questa ragione, quando si innamorò della coetanea Carola Minucci (che conquistò inviandole centinaia di poemi amorosi) i genitori della giovane fecero tutto il possibile per impedire il
matrimonio. Fino a quel momento, il futuro profeta non aveva mai avuto storie d'amore. «Le donne mi annoiano» era solito dire «come la chiesa e il ballo.» In realtà, il sesso non aveva una grande importanza per lui, anche se non si schiererà mai in favore dell'astinenza e, molti anni più tardi, si farà addirittura paladino dell'abolizione del voto di castità e di celibato dei preti. Prima di innamorarsi di Carola, David aveva avuto dei rapporti soltanto con un'altra ragazza: una giovane ebrea di Pitigliano di nome Sara. Ma pare che fosse interessato alla giovane solo perché poteva discutere con lei di argomenti religiosi. David, infatti, non aveva mai trascurato le letture e i suoi disordinati interessi culturali. Leggeva dove e quando poteva e cercava ansiosamente persone più istruite di lui per discutere dei problemi più vari e per ascoltare opinioni e giudizi che la sua mente assorbiva come una spugna. I colloqui con la Sara di Pitigliano indussero David a interessarsi anche di religioni diverse da quella cattolica. Pare che abbia letto anche il Corano o, più probabilmente, qualche libro sulla storia dell'Islam. E' un fatto che egli manifestò in più occasioni molta ammirazione per Maometto: «il Profeta con la spada in pugno,» diceva «il Profeta che non aveva bisogno di operare miracoli per trascinare le folle». Di lui ammirava soprattutto l'impegno fanatico e galvanizzante nel predicare la guerra santa. La sua confessata simpatia per Maometto permetterà in seguito ai nemici di David di lanciargli, fra le altre accuse tendenti ad alienargli la simpatia dei devoti montanari, anche quella di avere rinnegato il Vangelo per abbracciare il Corano. E questa accusa, a ben guardare, non era del tutto infondata. Non c'è dubbio, infatti, che nella mente delirante del profeta dell'Amiata i modelli rappresentati da Gesù e da Maometto si siano sovrapposti e confusi. Come non c'è dubbio che il «Cristo, Duce e Giudice», nella cui veste David si presenterà ai fedeli di monte Labbro per annunciare la «guerra santa», assomigli, almeno nelle sue nebulose intenzioni, più al battagliero predicatore della Medina che al mite e rassegnato messia nazareno. Malgrado l'opposizione della famiglia Minucci, David riuscì ugualmente a sposare la sua Carola. Le nozze furono celebrate da don Pistolozzi il 23 agosto 1856. Gli sposi ebbero cinque figli, ma ne sopravvissero soltanto tre: il primogenito Turpino, il cui nome deriva dalla leggenda carolingia tanto cara al genitore, Roberto e Bianca. Moglie e figli, verso i quali David manifesterà sempre un affetto profondo, seguiranno la sconcertante avventura del capofamiglia con fiducia cieca e serena. Gli anni immediatamente successivi al matrimonio di Lazzaretti furono anni di entusiasmo risorgimentale e di tensioni politiche anche per quella parte dell'Italia non ancora unita al Regno di Sardegna. Gli echi di quanto andava maturando nel paese giunsero fin sull'Amiata, sia pure attutiti dalla distanza non soltanto geografica che separava questi borghi montani dal resto del paese. Ad Arcidosso, che già vantava un martire nella persona dello studente Pietro Pifferi, caduto a Montanara nel 1848, il capo del movimento annessionista era il farmacista Agostino Becchini, liberale e libero pensatore. Fu appunto il Becchini a eccitare gli animi dei giovani arcidossini e, in particolare, quello di David, che subito abbandonò i vecchi interessi storico-religiosi per votarsi anima e corpo all'impegno politico. La sua produzione poetica di quegli anni è tutta dedicata alla lotta per l'unità nazionale. Scrisse infatti inni e poemi patriottici, che il farmacista fece stampare a proprie spese, e li inviò un po' a tutti i protagonisti della vita politica italiana: a Garibaldi, a Cavour, a re Vittorio Emanuele e anche al Brofferio, un deputato della sinistra allora molto noto. Quest'ultimo lesse addirittura un brano poetico di David in Parlamento, a Torino, per testimoniare la partecipazione popolare alla lotta unitaria. L'avvenimento, riportato dai giornali, fece vivere a David un momento di esaltante popolarità. Il suo inno patriottico cominciava con queste strofe: Figli d'Italia all'armi. La tregua è già finita La voce della Patria A debellar c'invita Sul campo della gloria Il nordico oppressor... In un altro poema, intitolato La preghiera del tempio, David, dopo avere implorato con
tronfia retorica la Vergine delle Vittorie a proteggere le armi della patria, concludeva con questi versi: Opprimi i lupi della finta pella Abbatti l'idra delle sette teste Proteggi Re Vittorio Emanuele. Coerente fino al fanatismo con le sue convinzioni del momento, David non si limitò in quel periodo a scrivere rime grondanti di amor patrio. Nel 1860, infatti, quando ebbe notizia dell'avanzata dei piemontesi attraverso i territori dello Stato della Chiesa, non seppe frenare il proprio entusiasmo e decise di arruolarsi. Del suo progetto non ne parlò in famiglia, forse immaginando che l'avrebbero tutti sconsigliato, visto che sua moglie e i suoi figli non avevano altro sostegno oltre lui. Si confidò invece con gli amici più fedeli, il solito Beppe Corsini e Raffaello Vichi, un contadino di Macchie, isolata località di monte Labbro, ai quali era legato anche dal reciproco comparatico. A costoro, quali padrini dei suoi ragazzi, rivelò i propri progetti e affidò la protezione della sua famiglia, quindi partì nottetempo verso la grande avventura senza salutare nessuno e lasciando alla moglie un'enfatica lettera d'addio colma di promesse, sogni di gloria ed errori di ortografia. Il ventiseienne David si arruolò volontario in una formazione garibaldina, ma vi rimase poche settimane per poi passare nell'esercito regolare piemontese dove, considerata la sua dimestichezza con i quadrupedi, fu assegnato a un reparto di cavalleggeri. Restò sotto le armi per circa un anno e seguì il generale Cialdini alla conquista dell'Umbria e delle Marche. Il 18 settembre partecipò alla battaglia di Castelfidardo combattendo contro i papalini. Successivamente raggiunse Napoli dove rimase alcuni mesi di guarnigione. Frattanto, ad Arcidosso, la moglie Carola non era rimasta con le mani in mano ad attendere il ritorno del suo strambo marito. Dando prova di lodevole spirito pratico, la giovane donna aveva risolto il problema della sopravvivenza mettendo su, in casa propria, una modestissima locanda di cui si occupava lei sola fungendo da cuoca, da sguattera e da cameriera. Della fuga del suo Milleidee, che in paese aveva suscitato commenti niente affatto benevoli, non si lamentò mai. La Carola era una moglie innamorata, fedele e anche orgogliosa. «Il mio David sa quello che fa» rispondeva immancabilmente a chi le manifestava la propria commiserazione. E si fingeva serena con tutti, tranne che con Beppe Corsini, l'affezionato compare che le leggeva le ardenti lettere del marito e trascriveva le sue accorate risposte. Attese dunque per mesi e soltanto quando fu informata che il reparto del marito era stato trasferito a Empoli rivelò quello che covava nell'animo. «Ora che è così vicino,» disse un giorno al compare Corsini «me lo vado a riprendere.» Partì infatti per Empoli dopo avere affidato i figli alla nonna Faustina, e tanto disse e tanto fece che, non si sa come, riuscì effettivamente a riportarsi a casa il marito in congedo illimitato. Negli anni che seguirono, i bollori patriottici di David si sopirono lentamente anche se lui continuò a lungo a tediare amici e parenti con i suoi ricordi di guerra che, col passare del tempo, andavano sempre più dilatandosi nella sua fervida fantasia. Raccontava, per esempio, di essere stato protagonista a Castelfidardo di un episodio eroico nel corso del quale aveva salvato la vita a un generale francese di nome Epimodan, ma probabilmente mentiva. Il generale Georges de Pimodan (e non Epimodan) era uno dei tanti nobili legittimisti accorsi a Roma per arruolarsi nell'esercito papalino al comando di Lamoricière. Nella battaglia di Castelfidardo, alla testa di una brigata di zuavi, Pimodan era stato l'unico a opporre una dignitosa resistenza mentre il resto del suo esercito si squagliava come neve al sole dopo le prime schioppettate. Raccolto mortalmente ferito dai piemontesi, era deceduto poche ore dopo e Cialdini, per rendere onore al suo coraggio, aveva ordinato che la sua salma imbalsamata fosse trasportata a Roma per essere restituita alla famiglia (Pimodan sarà poi sepolto in San Luigi dei Francesi). E' molto probabile quindi che David avesse soltanto sentito parlare della vicenda e, col passare del tempo, abbia finito per rielaborarla nella sua mente assegnandosi la parte del
protagonista. Fra le altre storie di guerra, David amava raccontare di una volta che aveva raccolto un bersagliere ferito per portarlo in salvo attraversando a cavallo le linee nemiche; e di un'altra volta che aveva sfidato la corte marziale per dare degna sepoltura a un caduto. L'ultimo episodio era accaduto davvero e Lazzaretti fu effettivamente deferito alla corte marziale per abbandono di posto e insubordinazione. Era successo questo: durante l'avanzata nelle Marche, David aveva scorto il cadavere di un garibaldino che alcuni cani stavano dilaniando. Impressionato da quello spettacolo, era allora uscito dai ranghi senza chiedere il permesso, allo scopo di seppellire la salma. Richiamato da un sottufficiale, che gli aveva ordinato di riunirsi al reparto, David si era rifiutato di obbedire e aveva minacciato il superiore con la sciabola. Da qui il suo deferimento alla corte marziale dove, peraltro, era stato assolto. Nei suoi ricordi di guerra, figurava anche un'avventura galante da lui vissuta a Napoli. Quella, diceva, era stata l'unica volta in cui aveva corso il rischio di tradire la sua Carola. Pare che la giovane figlia di un oste si fosse innamorata del cavalleggero toscano, tanto da provocare la gelosia del fidanzato. Questi, una sera, aveva aggredito Lazzaretti armato di coltello, ma tutto si era alla fine aggiustato per il meglio. Disarmato l'aggressore, David non solo aveva placato la sua gelosia, ma aveva perfino convinto la ragazza a ricredersi e a tornare fra le braccia del suo vecchio amore. Anche se questi racconti sono in buona parte delle millanterie o, almeno, delle esagerazioni, rivelano comunque come David fosse più portato verso l'esaltazione degli atti generosi e edificanti piuttosto che per le vicende di pura violenza o di vuoto ardimento che di solito infarciscono le narrazioni dei reduci. D'altra parte, dopo il ritorno ad Arcidosso, dove aveva ripreso l'antico mestiere di barrocciaio, il futuro profeta andò via via manifestando un sempre maggiore interesse per i problemi sociali e una profonda delusione per i risultati conseguiti dopo la tanto auspicata unità nazionale. David, d'altronde, era andato a combattere con i piemontesi perché si era convinto che l'unificazione del paese rappresentasse l'appagamento di quel confuso sogno di giustizia e di fratellanza che andava maturando nella sua mente. Ora, invece, si rendeva conto che il cambiamento politico non aveva affatto migliorato la situazione. Come in tutta l'Italia centro-meridionale, anche nell'Amiata l'aspetto più appariscente del nuovo sistema politico era rappresentato dalla coscrizione obbligatoria e dalle tasse. Tasse e imposte di ogni genere, tutte pesanti e impopolari, e ancora proibizioni odiose quali, per esempio, l'abrogazione dei diritti di pascolo e di legnatico nelle antiche terre demaniali che avevano rappresentato fino a quel momento una insostituibile fonte di reddito per le classi più umili della montagna amiatina. L'incamerazione e la vendita dei beni ecclesiastici decisa dal governo piemontese si era risolta a tutto vantaggio di speculatori e di proprietari terrieri già esistenti. Le vendite all'asta dei terreni già appartenenti alla chiesa erano infatti manifestamente truccate. Anche quando un piccolo coltivatore riusciva, malgrado gli ostacoli per ottenere i mutui, ad acquistare un lotto di terra, difficilmente riusciva a tenerselo: bastava un raccolto sfavorevole per essere costretti a vendere, magari per una somma inferiore a quella pagata. Per giunta i lavori per la costruzione di nuove strade decisi dal governo furono interamente addebitati agli enti locali, cosicché anche le soprattasse comunali erano enormemente aumentate andando a colpire soprattutto i piccoli proprietari di case e di terreni. Nasceva, proprio in quei giorni, una nuova borghesia terriera fatta di massari, di fattori e di contadini arricchiti, mentre si formava un nuovo proletariato rurale più povero in termini assoluti di quello preunitario. In questa situazione di malcontento e di disagio economico si era inserita la subdola propaganda dei clericali, dei reazionari e dei nostalgici del granduca. Indispettiti per il sequestro dei loro beni e allarmati per l'incombente «questione romana», preti e frati si scatenarono per fanatizzare le
folle contro i nuovi governanti. In particolare, i predicatori si scagliavano contro la sacrilega eventualità che la Roma dei papi potesse essere violata dagli eserciti dell'«usurpatore subalpino» e che il santo padre potesse essere gettato giù dal trono a opera dei liberalmassoni senzadio. Furono perciò scatenati per le campagne torme di «omini boni» esaltatori del buon tempo antico e denigratori del difficile presente. In quegli anni fiorì anche un'intensa attività pubblicistica con chiari intendimenti antiunitari. Opuscoli e libelli che profetizzavano punizioni e sventure per chi avesse attentato alla sovranità del papa e alla intangibilità dei beni ecclesiastici venivano distribuiti a man salva nelle chiese e sui sagrati non soltanto d'Italia ma anche di Francia, che in quel momento era la grande protettrice del papato. Pubblicazioni redatte senza rispetto per la verità e la decenza da solerti monsignori, come Il vaticinatore, La ruota simbolica e profetica di sant'Anselmo o Le profezie della Sibilla Tiburtina, incontrarono notevole fortuna fra le masse cattoliche e ignoranti. Così come ebbero fortuna i predicatori fanatici e i visionari squilibrati che andavano di villaggio in villaggio a gabbare i fedeli inventandosi miracoli mai accaduti e visioni premonitrici di madonne piangenti e di santi preoccupati per il pericolo che santa madre Chiesa stava correndo. Fu appunto in quegli anni di confusione religiosa e di malessere economico che ebbe inizio la trasformazione di David Lazzaretti. A poco a poco, il barrocciaio violento e bestemmiatore andò riavvicinandosi alla religione. Il suo desiderio di fare del bene al prossimo e di aiutare i più deboli e i più miseri cominciò a condirsi di misticismo. Deluso da Garibaldi e da Vittorio Emanuele, che non avevano corrisposto alle sue speranze di giustizia, rientrò nell'alveo della Chiesa. Oltre a comporre poemi in lode del buon papa Pio IX, suo nuovo idolo, cominciò a lanciare anatemi contro «i possessor di merci e di villaggi» e contro gli «imperatori e regi» che meritavano di finire «nella polvere delle strade». Intensificò anche il suo attivismo benefico. Con gli inseparabili compari Beppe Corsini e Raffaello Vichi, organizzò questue e collette il cui ricavato consegnava alla chiesa affinchè fosse distribuito ai poveri. Come sempre, anche in questo nuovo impegno David rivelò il solito entusiasmo fanatico che caratterizzò sempre le sue manifestazioni. Più di una volta, infatti, sua moglie Carola trovò svuotata la dispensa della modesta osteria perché il marito filantropo aveva distribuito tutto ai poveri. Altre volte le capitò di trovare addormentati nel suo letto mendichi vagabondi che David aveva ospitato e rifocillato gratuitamente. Un giorno sorprese addirittura il pio marito tutto intento a lavare il corpo macilento di un vecchio accattone al quale lui volle anche regalare uno dei suoi pochi vestiti. David andava dunque facendosi sempre più strano agli occhi della gente. Il suo entusiastico altruismo veniva da tutti deriso o commiserato. Di conseguenza, l'opinione che Milleidee avesse qualche rotella fuori posto andava diffondendosi velocemente fra i benpensanti di Arcidosso, ma lui non se la prendeva. Fra un'opera di bene e l'altra, continuava il suo lavoro di sempre viaggiando giorni e giorni solo con le sue bestie, ora assorto nei suoi sogni misteriosi, ora impegnato nelle sue amate letture. Saranno appunto le sue nuove letture, provenienti tutte dalla biblioteca parrocchiale a influire in maniera determinante sulla sua fantasia. David, come sappiamo, era un autodidatta del tutto sprovvisto di senso critico. Nessuno gli aveva mai detto che quello che sta scritto sui libri non è sempre oro colato. Anzi, gli avevano insegnato che la vera sapienza stava celata nei libri. Di conseguenza, per lui tutto ciò che era stampato sulla carta, fosse un fantasioso romanzo storico o una profezia della Sibilla Tiburtina, doveva indubitabilmente corrispondere al vero. E per questa ragione egli prese troppo sul serio due libri che, come vedremo, penetrarono così profondamente nella sua spugnosa fantasia da spingerlo a immedesimarsi nelle vicende in essi narrate. I due libri erano: Manfredo Pallavicini, un romanzo pseudostorico dello scrittore popolare milanese Giuseppe Rovani, che
raccontava le vicende di un bastardo del re di Francia finito dopo molte avventure a fare l'eremita in una grotta, e Le lettere di san Francesco da Paola, un apocrifo attribuito all'eremita calabrese del XV secolo che era stato prestato a David da uno scalpellino chiamato Giuseppe Camarri. Questo falso messaggio messianico, ristampato per i soliti motivi reazionari, annunciava l'arrivo sulla terra di un inviato celeste, discendente della stirpe di re Pipino (ossia un francese) il quale, con l'ausilio delle «sante milizie crocifere», da lui stesso organizzate in legioni, avrebbe rimesso tutte le cose al loro posto. Il contenuto di questo libro, fusosi nella mente di David con la vicenda di Manfredo Pallavicini, costituirà la base sulla quale il futuro profeta costruirà in pieno XIX secolo la sua dottrina millenarista. Il passo che segue, tratto appunto dalle Lettere di san Francesco da Paola, è una lettura indispensabile per comprendere lo sviluppo della lucida follia del barrocciaio di Arcidosso: Volgomi ai Principi spirituali, molto più peggiori di voi Principi secolari e mondani. Oh compagni di Giuda Iscariota! A voi dico, mali prelati avidissimi alla rapina per divorare le pecorelle di Gesù Cristo ricomperate col suo preziosissimo sangue: che cura avete del santo ovile di Cristo? Non altra cura avete se non quella di mangiarvi i beni di Santa Chiesa senza mai ricordarvi i poveri di Gesù Cristo benedetto. Non vi bastano i vostri benefizi, i quali io chiamo malefizi, non le abbazie dei monaci che avete tiranneggiati, ma ancora con gli ospedali, pigliandovi le loro entrate, ed i poveri si muoiono di fame nei campi e per le strade. Guai a voi, perché Iddio onnipotente esalterà un uomo poverissimo del sangue di Costantino imperatore, figliolo di Sant'Elena e del seme di Pipino il quale porterà il segno che vedeste all'inizio di questa lettera [un marchio]. Per virtù dell'Altissimo egli confonderà i tiranni, gli eretici ed infedeli. Farà un grandissimo esercito e gli angeli combatteranno per loro e uccideranno tutti i ribelli dell'Altissimo. David, naturalmente, era troppo ignorante per badare alle note redatte dal curatore dell'opera (il protonotaro apostolico Domenico Cerri) come, per esempio, quella in cui si precisava: «Badisi che il santo scriveva prima della riforma fatta dal Sacro Concilio di Trento»; e l'altra assai più ambigua in cui si affermava: «I compilatori di questa raccolta dichiarano che non intendono dare maggior peso ed autorità alle predizioni in essa contenute, oltre a quelli di cui già godono presso le persone prudenti, pie ed erudite». Per David, insomma, quegli scritti, per di più stampati con la «permissione dell'autorità ecclesiastica», erano oro colato. Il barrocciaio di Arcidosso aveva trovato la sua strada.
CAPITOLO IV. LA CHIAMATA. Il 1868 fu un anno decisivo nella vita del trentaquattrenne David Lazzaretti. Fu l'anno della grande svolta, l'anno della «chiamata», l'anno in cui si registrò la sua improvvisa, e per taluni aspetti sorprendente, conversione. E fu anche l'anno in cui ebbe inizio nella mente del giovane barrocciaio di Arcidosso quel complesso processo di delirante misticismo che lo avrebbe condotto, dieci anni più tardi, a rivelarsi ai suoi seguaci come «il secondo figlio di Dio», la reincarnazione del Cristo ridisceso sulla terra con funzioni di Duce e Giudice. Portato com'era, per sua natura, a intravedere misteriosi significati celesti anche in banali coincidenze di date e di numeri, David non mancherà di scorgere una prova della continuità fra lui e Gesù anche nel fatto di essere stato folgorato dalla grazia proprio all'età di trentaquattro anni: evidentemente, stava scritto che era da quel punto della sua vita che lui doveva riprendere e portare avanti la missione divina del «primo figlio di Dio», Gesù, il quale, come sappiamo, l'aveva interrotta sul Golgota appunto a trentatré anni. Il
1868 fu un anno difficile anche per l'Italia. Passata la grande ubriacatura dell'unificazione, dalla quale peraltro erano rimaste escluse le grandi masse, restavano enormi problemi da risolvere. La Destra, ben salda al potere, governava con fermezza e brutalità. Rigorosa, onesta, ma priva di fantasia, la classe dirigente era convinta che senza la forza non si potesse far nulla, che il brigantaggio andasse combattuto senza pietà e che le proteste di piazza andassero represse sul nascere, senza tentennamenti e senza perdere tempo a cercare eventuali giustificazioni del malcontento popolare. Da parte sua, l'opposizione, la Sinistra, era ancora composta da troppi acchiappanuvole: mazziniani delusi e incattiviti o azionisti velleitari, ai quali, se non faceva difetto il coraggio, mancava certamente quel senso pratico delle cose che è sempre indispensabile per costituire una seria alternativa di governo. Per giunta, da qualche anno una nuova dottrina internazionalista, portata al di qua dalle Alpi da personaggi affascinanti, come il russo Michail Bakunin, aveva cominciato a erodere dalle file della Sinistra ufficiale quella piccola parte di proletariato emancipato che ora già intravedeva nella lotta di classe altri sbocchi per la soluzione dei propri problemi. Destra e Sinistra erano dunque lontane anni luce dalla realtà del paese. Una realtà rappresentata da plebi immense, refrattarie agli entusiasmi risorgimentali dei notabili che dall'unità nazionale non avevano ottenuto nessun vantaggio, ma solo motivi di rimpianto per i passati governi. Da queste plebi, di tanto in tanto, erano scaturiti e scaturiranno ancora quei movimenti di rivolta (fenomeni di brigantaggio e moti libertari con il consueto corollario di incendi di municipi, di caserme di carabinieri e di uffici delle imposte) che il governo stroncherà con una spietatezza che consentirà a molti storici, compreso Gramsci, di interpretare il Risorgimento quasi come un'impresa coloniale ai danni delle masse contadine dell'Italia centro-meridionale. In effetti, tale interpretazione è semplicistica perché le motivazioni che indussero la Destra a comportarsi con durezza furono assai più complesse. A far scegliere la linea dura al governo italiano - trasferitosi da poco a Firenze - non fu infatti soltanto l'arroganza del potere e la volontà di difendere determinati privilegi di classe, ma anche e soprattutto la paura che l'unità del paese fosse ancora molto fragile e che bastasse un nulla per frantumarla. Questo timore della classe dirigente, questa sua mania di dare corpo anche alle ombre (come accadrà per il movimento lazzarettista) oggi può anche far sorridere, ma a quei tempi era più che giustificata. Occorre infatti ricordare che nel 1868 le grandi potenze europee, tranne l'Inghilterra, non avevano ancora rinunciato all'idea che l'Italia fosse soltanto un'espressione geografica. Per giunta, molti nemici dell'unità erano annidati nella stessa penisola. I Borboni di Napoli, per esempio, vivevano a Roma, ospiti del papa, e da là svolgevano una intensa campagna antiu-nitaria, ora soffiando sul fuoco del malcontento popolare, ora sovvenzionando le bande dei briganti, ora arruolando mestatori e mercenari. Da parte sua, Pio IX non si stancava di lanciare anatemi e scomuniche contro il nuovo Stato, mentre gli spodestati duchi e granduchi dell'Italia centrale attendevano come avvoltoi il momento propizio per ritornare in possesso dei loro piccoli regni. La data della conversione del barrocciaio bestemmiatore di Arcidosso è significativa anche perché corrisponde a un periodo di grande fermento popolare e di crisi economica, due fenomeni che ebbero una notevole influenza su di lui. Il 1867 si era chiuso con il fallito tentativo garibaldino di Mentana che, oltre a riproporre clamorosamente la questione romana, a scatenare la reazione clericale e a mettere in serio imbarazzo il governo Menabrea di fronte alle grandi potenze europee, aveva anche fortemente impressionato le masse cattoliche. Il 1868, che già si iniziava sotto il peso di una seria crisi industriale, registrò anche una grave crisi agricola dovuta al cattivo raccolto e a un conseguente aumento dei prezzi dei generi alimentari. A peggiorare la situazione provvide, in quell'anno, il ministro delle Finanze, Quintino Sella, che riuscì a far ripristinare dalla Camera (con 182 voti contro
164) l'odiosa imposta sul macinato. Questa tassa, vergognosa e impopolare poiché gravava praticamente soltanto sulle spalle delle già affamate plebi rurali, era stata abolita nel 1860 dal primo governo nazionale quasi come preannuncio della futura prosperità. L'imposta era però molto allettante per un uomo, come il Sella, che nutriva un'unica idea fissa: il pareggio del bilancio. Essa infatti presentava il grande vantaggio di poter essere applicata con grande facilità e senza possibilità di evasione, grazie ad appositi contatori che venivano applicati alle macine dei mulini. E il «mito del pareggio» aveva indotto gli uomini della Destra a votarla e a dimenticare che le masse italiane vivevano esclusivamente di pasta, di pane e di polenta. La «tassa sulla miseria», come veniva chiamata l'imposta sul macinato, provocò disordini violentissimi nelle campagne. Purtroppo, la reazione, al solito brutale, del governo non si fece attendere: in meno di due settimane già si contavano 250 morti, oltre mille feriti e più di quattromila arrestati. Fu in quei giorni che, per la prima volta, si riudì gridare per le campagne «Viva il papa» e «Viva l'Austria». La ribellione assunse aspetti preoccupanti soprattutto in Toscana e nelle ex province pontificie. In Romagna, per esempio, si rese necessario mobilitare un corpo d'armata agli ordini del generale Cadorna. Il 1868 fu dunque un anno terribile. Niente di strano quindi che a un montanaro sensibile e fantasioso capitasse di sprofondare in una crisi di misticismo o, se si vuole, di perdere il lume della ragione. David Lazzaretti cominciò a ricevere visioni celesti nell'aprile del 1868, esattamente venti anni dopo (come lui, puntiglioso annotatore di ricorrenze, non mancherà di far notare) quel 25 aprile 1848 in cui, ragazzino, aveva avuto a Macchia dei Peschi la prima esperienza del genere. Contemporaneamente alle visioni, David registrò un riacutizzarsi del suo male, ossia di quei violenti febbroni che gli provocavano deliri e lunghi assopimenti. A testimonianza della sua semplicità e buona fede, va detto che lui non cercò mai di nascondere questi suoi disturbi (che, ai nostri occhi, forniscono la spiegazione clinica delle sue escursioni nel soprannaturale). Anzi, usava descriverli dettagliatamente certo scambiando per momenti di estasi quelli che erano forse soltanto degli attacchi epilettici. Ecco, infatti, come racconta la sua prima visione: «La mattina del 25 aprile 1868, ritornato da un viaggio a Siena dove ero andato per i miei interessi, fui assalito, appena rientrato in casa, da un brivido che mi durò poco, ma mi venne un calore alla testa che si calmò e appresso risentii un violento attacco di febbre che mi durò fino alle sei di sera. Per l'abbattimento patito mi addormentai di un profondo sonno». Durante il sonno, David ricevette la visione di un vecchio, facilmente identificabile in san Pietro, il quale lo condusse in barca verso la Terra dei Grandi «il cui nome era Lazio, ma che non si chiamava più così perché le false dottrine che la infestano sono innumerevoli». La visione si concludeva con l'invito di san Pietro a David «di recarsi a rivelare quanto aveva visto a Colui che presiede alla giustizia del Cielo e della Terra», ossia a papa Pio IX. Se il papa non lo avesse ascoltato, aveva soggiunto san Pietro, David si sarebbe dovuto ritirare fra i ruderi di un convento «situato in territorio romano e là vivere e attendere in preghiera i voleri del cielo con l'aiuto di un eremita che avrebbe trovato sul luogo». L'idea di andare a parlare al papa è sempre stata una costante fissa dei mistici visionari. Nessuna meraviglia quindi che anche il Lazzaretti coltivasse questo progetto. In quegli anni, d'altra parte, l'ex volontario di Castelfidardo aveva rinnegato i suoi trascorsi risorgimentali ed era tornato a essere un papista, convinto che soltanto la Provvidenza divina, con l'intercessione del santo padre, potesse migliorare la sorte dei miseri. Si limitava semmai ad ammettere che, se la Chiesa non corrispondeva a questa sua aspettativa, ciò era dovuto ai cattivi consiglieri che circondavano Pio IX; consiglieri dai quali egli evidentemente intendeva liberarlo. Anche la sua dottrina sociale era in quel momento alquanto moderata se non addirittura reazionaria: «Chiudete la bocca» era solito dire «a tutti
quelli che gridano libertà, libertà; e trattateli da stupidi». E ancora: «Il buon padrone è quello che rispetta il suo servo e paga puntualmente la mercede. Il buon servo è quello che si dimostra riverente e ubbidiente al suo padrone». Tuttavia, dai suoi discorsi traspariva anche una profonda inquietudine per l'instabilità del momento e per le trasformazioni e le ingiustizie sociali di cui era testimone. Nei giorni che seguirono alla sua prima visione, David ne ebbe molte altre e tutte si concludevano con l'invito di recarsi al più presto dal papa «per schiarirgli i disegni e i voleri del cielo». Di questo suo particolare stato di uomo toccato dalla grazia, David si guardò bene di far parola con la moglie Carola, che era già abbastanza preoccupata per le condizioni di salute del consorte. Si confidò invece con Beppe Corsini, il più credulo e il più devoto dei suoi amici. Secondo l'ispettore Caravaggio, che si occuperà tempo dopo del movimento lazzarettista, fra David e Beppe nacque in quei giorni una sorta di complicità «per delinquere». Il Corsini, insomma, avrebbe acconsentito di tenere bordone al futuro profeta in cambio della promessa di spartire con lui «gloria e ricchezza». Niente di più falso: David manifestò sempre un totale disinteresse per i beni materiali, e la ricchezza e la gloria che effettivamente prometteva ai suoi seguaci non avevano un significato terreno. E' certo comunque che i due amici si misero d'accordo in quei giorni, ma decisero il da farsi in perfetta buonafede, convinti l'uno e l'altro di adempiere a un volere divino. E il da farsi, in quel momento, era semplicemente questo: che David andasse a Roma e cercasse di parlare col papa. Vi andò infatti. Lasciò Arcidosso all'alba del 1° maggio 1868 con un carico di terra d'ombra destinato a una tintoria romana e dopo quattro giorni di viaggio attraverso la Val di Paglia, Acquapendente, Bolsena e Viterbo, raggiunse la capitale dei papi. Il giorno 5, alle 11 di mattina, era in piazza San Pietro. Per cinque giorni si aggirò attorno alla basilica chiedendo a questo e a quello come poteva farsi ricevere dal pontefice. «Ma tutti» racconterà lo stesso David nel suo ingenuo memoriale «mi cacciavano dicendomi che ero un pazzo o un imbecille.» Tornò dunque a casa deluso col suo barroccio vuoto e alla moglie preoccupata per la sua lunga assenza disse che era stato male e che per questo aveva ritardato. Non aveva comunque rinunciato alla sua missione. Un mese dopo, il 7 maggio, giorno del Corpus Domini, era nuovamente in piazza San Pietro. Questa volta fu un poco più fortunato: potè infatti vedere, ma da lontano, il papa che passava sotto il baldacchino durante la processione. Quella vista lo mandò in estasi. «La sua immagine» racconterà David «mi produsse l'effetto che fa provare una cosa ardentemente desiderata e che si trova dove non si aspetta.» Egli seguì emozionatissimo la processione all'interno della basilica, pregò a lungo e andò anche a baciare il piede della statua di bronzo di san Pietro «dall'interno della quale mi giunse la voce del santo che ancora una volta mi incoraggiava nel mio intento». E tentò infatti più volte di essere ammesso dal papa, ma tutte le volte fu cacciato e deriso. Tornato a casa abbattuto, smagrito e febbricitante, David fu messo a letto e la Carola, d'accordo con i cognati e la suocera, volle che il dottor Terni, medico condotto, convocasse altri medici e che tutti insieme cercassero di dare una risposta ai misteriosi disturbi sofferti dal consorte. Il consulto si svolse il 20 giugno e la diagnosi che ne scaturì fu abbastanza curiosa: vizio al cuore. «Quei medici non erano lontani dalla verità» commenterà in seguito lo strano paziente «il cuore c'entrava per davvero, perché il mio male era la conseguenza della mia passione...» Trascorse così l'estate. David si faceva sempre più bizzarro: pregava molto, leggeva libri sacri, digiunava e faceva penitenze. In famiglia erano tutti seriamente preoccupati. Spesso, sentendolo parlare da solo, chiuso nella sua camera, la Carola scuoteva il capo sconsolata e Pasquale, il fratello più grande, era ormai convinto che David «desse i numeri». Ma queste impressioni i Lazzaretti se le scambiavano fra di loro, a quattrocchi. Con gli estranei nessun commento perché certe cose era meglio non farle sapere, sennò la gente chissà come ci avrebbe
ricamato sopra... David pareva del tutto estraneo ai problemi e alle preoccupazioni che il suo stato di salute e mentale suscitava in famiglia. Ormai viveva in un'altra dimensione. Sempre silenzioso, sempre immerso nei suoi sogni fantastici, ridiventava loquace soltanto quando veniva a trovarlo l'amico Corsini. Fu appunto a Beppe che rivelò verso la fine di agosto di avere avuto una nuova visione molto più prodigiosa delle precedenti. Questa volta, infatti, non gli era apparso il solito fraticello vagamente rassomigliante a san Pietro, ma addirittura la Madonna. La Vergine vista da David vestiva secondo la moda del tempo, ossia come la si rappresentava negli ex voto e nelle illustrazioni popolari: tunica azzurra, manto di porpora, capelli disciolti e l'immancabile serpente sotto il piede. «Appena la vidi» racconterà il profeta «mi prostrai ai suoi piedi, ma lei mi fece cenno di avvicinarmi e poi mi disse: voi avete pregato e la vostra voce è stata esaudita. Ora potete eseguire la vostra missione.» Tale missione era naturalmente la solita: andare a Roma a parlare al papa. Incoraggiato da questo nuovo segno della volontà divina, e anche dalle parole di Beppe Corsini, testimone partecipe e appassionato della straordinaria vicenda, David Lazzaretti decise di ritentare l'impresa per la terza volta. In questa occasione, egli preferì agire allo scoperto, ossia volle mettere al corrente di ogni cosa anche la propria famiglia per convincerla a collaborare. Non gli fu facile. Tuttavia alla fine la spuntò. Il racconto appassionato e convincente delle sue visioni e dei suoi colloqui con i personaggi celesti finì per turbare un po' tutti. La moglie Carola e la vecchia madre scoppiarono in singhiozzi e anche i fratelli di David, escluso Pasquale, e il suo patrigno Agostino Lorenzoni, rimasero fortemente impressionati dalle parole e dalle certezze del loro congiunto. Insomma, il dubbio che David dicesse il vero, che fosse effettivamente al centro di una vicenda prodigiosa, si insinuò da quel momento nei loro animi. La cosa non deve meravigliare: i Lazzaretti erano gente semplice e timorata di Dio. Per giunta, in quegli anni tanto difficili di miracoli e di prodigi se ne registravano un po' dovunque e preti e predicatori si affrettavano a ratificarli e a diffonderli fra le masse dei credenti. Perché dunque non dovevano credere alle parole di David? Appena pochi anni prima era accaduto qualcosa di simile ai pastorelli Melania e Massimino di Salette, per non parlare della piccola Bernadette di Lourdes... E nessuno si era scandalizzato, o aveva gridato «dalli al matto», anzi ne era seguito un gran fervore religioso. Probabilmente furono queste considerazioni e queste reminiscenze a indurre la famiglia Lazzaretti ad approvare i progetti di David. Andasse pure a Roma a parlare al papa ma, per l'amordiddio, non rivelasse a nessuno il suo intendimento. In paese se ne dicevano già troppe sul conto di Milleidee, meglio mantenere il segreto almeno fino a cose fatte. Fu deciso, per giustificare il viaggio, di affidare a David un carico di terra gialla da consegnare alla solita tintoria. Francesco, uno dei fratelli più piccoli, si offrì di accompagnarlo per essergli vicino in caso di bisogno mentre Pasquale, il fratello più grande, e anche il più scettico, gli diede un buon consiglio: se si fosse trovato in difficoltà, se avesse incontrato altri ostacoli in Vaticano, si rivolgesse all'amiatino monsignor Luciani che quello sarebbe stato capace non solo di farlo ricevere dal papa ma anche dal Padreterno... Monsignor Michelangelo Luciani, nativo di Santa Fiora, era un prelato notissimo nell'Amiata dove tornava spesso a bordo di una splendida carrozza per curare i propri interessi e anche i propri intrallazzi. Sgonnellando nelle sacrestie e nei palazzi dei notabili, il religioso amiatino, grazie anche alla protezione dei Cesarini Sforza, feudatari di Santa Fiora, era riuscito a conquistarsi un'ottima posizione in Vaticano. Era infatti cappellano di San Giovanni in Laterano e stretto collaboratore di potenti cardinali. Per il suo attivismo spregiudicato, i suoi compaesani l'avevano ribattezzato «monsignor Frugafruga» e questo soprannome è sufficiente a definirlo. David si rivolse a codesto monsignore verso la metà del mese
di settembre. Era giunto a Roma il giorno 8 e, dopo avere consegnato la terra gialla, era subito corso in San Pietro smanioso di trovare il modo di essere ricevuto dal santo padre. Per giorni e giorni aveva supplicato inutilmente le impassibili guardie svizzere e i burberi guardaportoni. La risposta era sempre la stessa, ossia che il papa non aveva tempo da perdere con i matti. Ma lui questa volta non si era rassegnato, né erano valse le parole del fratello Francesco il quale, seriamente preoccupato per le condizioni di David che continuava a piangere e a disperarsi, aveva fatto il possibile per convincerlo a riprendere con lui la via del ritorno. Così, dopo una settimana di inutili tentativi, Francesco se n'era tornato a casa col barroccio vuoto abbandonando il fratello al suo destino. Come David Lazzaretti sia finito al cospetto di monsignor Frugafruga, non lo sappiamo. Sappiamo invece che il prelato lo accolse cordialmente, ascoltò la sua storia e quindi lo affidò a padre Schiaffino, superiore di un convento di Olivetani. Nel convento, racconterà lo stesso padre Schiaffino, diventato poi cardinale, David trascorse due giorni e due notti a pregare, rifiutando il cibo e respingendo i buoni monaci che tentavano di distoglierlo dalla sua meditazione. Frattanto, monsignor Luciani alias Frugafruga si era effettivamente dato da fare per organizzare l'incontro fra il suo strano concittadino e il santo padre. Tramite il cardinale Antonio Panebianco, dell'ordine dei Minori Conventuali, aveva infatti informato il pontefice della presenza a Roma del misterioso «uomo di Dio» e il pontefice aveva acconsentito a riceverlo in udienza dopo la presentazione da parte dell'interessato di una «memoria intorno a tutto ciò che gli era accaduto». Per spiegare la relativa facilità con cui monsignor Luciani riuscì a combinare questo incontro, va detto che Pio IX era notoriamente sensibile al prodigioso: credeva infatti ciecamente nelle manifestazioni del soprannaturale nelle vicende umane ritenendole un fatto normale soprattutto per gli uomini di fede. Per questa sua profonda convinzione non aveva mancato di prestare fede a molti «miracoli», alle visioni e alle comunicazioni col soprannaturale di molte suore. Proprio in quei giorni, per l'appunto, godeva della sua fiducia una monaca romana la quale andava annunciando di avere ricevuto messaggi divini secondo i quali i piemontesi non avrebbero mai messo piede a Roma. Quando fu informato della richiesta pontificia, David si mise subito a scrivere con grande entusiasmo la memoria che gli era stata richiesta. Riempì pagine e pagine. Raccontò della sua vita e degli avvenimenti prodigiosi di cui era stato testimone. Non mancò naturalmente di sottolineare che, secondo l'ordine divino ricevuto, dopo avere parlato con il papa (ma di che cosa non lo diceva e neppure forse lo sapeva) si sarebbe dovuto ritirare «in un convento situato in territorio romano dove vivere in preghiera con l'aiuto di un eremita che ivi avrebbe incontrato». Malgrado la banalità del memoriale, all'uomo di Dio l'udienza fu ugualmente concessa. Venne fissata per il 16 settembre 1868. David fu istruito circa il comportamento da tenere nel corso dell'udienza dal segretario del cardinale Panebianco, don Nazzareno Caponi. Questi gli spiegò minuziosamente quello che avrebbe dovuto fare e quindi gli fece indossare la livrea nera dei camerieri del cardinale perché, disse, essa si confaceva assai di più all'occasione dei suoi abiti spiegazzati. Questa livrea piacque molto a David e dovette inorgoglirlo non poco visto che non perderà occasione, in futuro, di raccontare come egli si presentasse bene con indosso quei panni eleganti. La tanto sospirata udienza si risolse comunque in una banalissima conversazione di pochi minuti. A Pio IX, malgrado la sua benevola predisposizione verso i visionari, bastò un colpo d'occhio per valutare il visitatore e infatti si limitò a rivolgergli poche parole e a donargli la solita catenina del rosario. David, trepidante ed emozionatissimo, non riuscì a dire quasi nulla, ammesso che avesse qualcosa di importante da dire al papa. Rispose farfugliando alle poche domande del pontefice e solo alla fine trovò il coraggio di chiedergli se per caso sapesse dov'era quel tal convento nel quale san Pietro gli aveva ordinato di ritirarsi. A questa domanda,
secondo taluni testimoni, il papa avrebbe risposto con ironia: «Forse sarà in Sabina dove c'è anche della buona acqua diaccia» (l'acqua diaccia, è risaputo, allora era ritenuta un'ottima cura per la pazzia). E' naturalmente inutile sottolineare l'effetto fanatizzante che, malgrado il palese fallimento, ebbe su David la tanto sospirata udienza papale. Egli lasciò gli appartamenti pontifici in stato di completa esaltazione mistica, convinto di avere ottenuto una sorta di ratifica per la missione divina che si accingeva a intraprendere. D'altra parte, essere ricevuto in forma privata dal pontefice non era cosa di tutti i giorni, tanto meno per un povero barrocciaio ignorante e squilibrato. L'avvenimento segnò dunque una tappa memorabile nella vita del neoprofeta e lui infatti non si stancherà di rievocare questo colloquio a tu per tu col santo padre ingigantendo l'importanza dell'incontro e i risultati ottenuti. Tuttavia, in cuor suo, dovette avvertire una certa insoddisfazione per come erano andate le cose. Questa punta di delusione si avverte in un suo memoriale quando scrive con malcelato disappunto che, in quell'occasione, il papa «poteva darmi certamente qualche miglior consiglio riguardo ai miei affari».
CAPITOLO V. IL BOLLO DIVINO. L'incontro con il papa, la confidenza con gli ambienti vaticani e l'accoglienza bonaria e sorniona dei reverendissimi prelati, primo fra tutti il cardinale Panebianco che lo gratificava della sua protezione, fornirono a David Lazzaretti quella spinta decisiva che lui forse inconsciamente attendeva per potersi gettare anima e corpo nella sua sconcertante avventura. Ormai, l'«uomo del mistero» - come lui stesso amava definirsi con ingenuo esibizionismo - era definitivamente tagliato fuori dalla realtà quotidiana. La sua mente spaziava altrove e lui si muoveva in un mondo fantastico popolato indistintamente di personaggi celesti, di re, di principi e di antichi cavalieri. La sua fantasia tarata aveva insomma dato corpo ai protagonisti delle sue sconclusionate letture che ora, affastellati insieme, avevano finito per creare una realtà diversa in cui lui solo riusciva, a suo modo, a raccapezzarsi. Deciso dunque a eseguire fino in fondo le disposizioni impartitegli da san Pietro, secondo le quali, come sappiamo, dopo l'incontro col papa egli doveva ritirarsi «in un eremo situato in territorio romano», David cominciò a chiedere a tutti i suoi autorevoli protettori consigli e indicazioni. Alla fine (pare dietro suggerimento di un'ennesima visione) decise di spingersi in Sabina. Confidò questo suo progetto al cardinale Panebianco il quale, dopo essersi fatto promettere che l'avrebbe tenuto al corrente di guanto gli sarebbe capitato, ordinò al segretario Nazzareno Caponi di affidare al pellegrino una lettera commendatizia per monsignor Vitali che era appunto vicario generale della Sabina. David lasciò Roma il 18 di settembre. Non fu sufficiente a farlo rinsavire neppure un'accorata lettera che la moglie era riuscita a fargli pervenire. La Carola, come del resto tutti i suoi familiari, era molto preoccupata per la lunga assenza del marito. Il suo silenzio, d'altronde, non prometteva nulla di buono e, per giunta, in paese correvano già strane voci sulla scomparsa del bizzarro barrocciaio. Si diceva, per esempio, che fosse andato in pellegrinaggio in paesi lontanissimi e misteriosi, come la Corsica e l'Algeria, e pare che queste voci le avesse messe in circolazione Beppe Corsini dietro suggerimento dello stesso David. Ma perché, è difficile dirlo. La Carola comunque, essendo anche in angustie economiche, gli aveva scritto pregandolo di tornare al più presto perché lei si era seriamente ammalata. David rispose alla moglie da Montorio Romano, in Sabina, dove aveva trovato ospitalità presso l'arciprete Giuseppe Milani. Carissima consorte, ho ricevuto la tua da me tanto desiderata lettera e dalla
medesima sono rimasto afflitto nel sentire che tu hai avuto le febbri e che vivi sempre afflitta. Oh, questo è ciò che conturba l'anima mia grandemente. Ma io ti devo chiedere una grazia che tu, nel nome di Dio Santo, dell'amore e della fede, non me la negherai. Eccoti qual è la grazia che ti chiedo: vivi tranquilla, consolati con i nostri cari figli, educali nel santo timore di Dio e soffri tutto questo con rassegnazione che tutto è volere dell'Altissimo. Sappi che la gloria non si acquista che con fatiche. Poi, dopo averle raccontato delle sue ultime visioni e della sua meravigliosa «conferenza con il Santo Padre», concludeva così: Vivi tranquilla mia cara consorte che tanto te che i miei cari figli sarete il compimento della mia gloria. Sono certo che tutto questo tu lo prenderai come cosa da non credersi, ma invece devi credermi e lo vedrai col tempo. Ora però ti raccomando il segreto. In quanto agli interessi contentati di campare alla meglio... Nei giorni che seguirono, David peregrinò in lungo e in largo per la Sabina alla ricerca del famoso eremo. Su indicazione di don Milani, a un certo punto credette di averlo trovato nel cenobio francescano di Santa Maria delle Grazie, ma quando scoprì che esso si trovava in territorio italiano e non pontificio, riprese il suo pellegrinaggio. Alla fine, su consiglio di un frate, si mise in cerca delle rovine di un vecchio convento, quello di Sant'Angelo, un tempo reso famoso dalla presenza di san Bonaventura da Barcellona ma abbandonato dai religiosi ai tempi della soppressione degli ordini decisa da Napoleone. Pieno di speranze, David si rimise in cammino. Lacero, affamato e febbricitante camminò giorni e notti nel freddo e nella pioggia. Dormiva sulla nuda terra e si cibava di erbe. Il suo inesausto girovagare attraverso i boschi lo condusse una sera davanti a una piccola caverna dove decise di trascorrere la notte. Qui, in questa grotta di tre metri per quattro, situata nel Montecalvo, fra Montorio, Scandriglia, Particoli! e Farà Sabina, David ebbe una nuova visione in cui gli apparve uno strano fraticello dal saio grigio che gli annunciò che quella era la sua meta. Il giorno dopo, David si recò a messa al cenobio di Santa Maria delle Grazie e quando quei frati gli comunicarono che la caverna da lui scoperta era stata in passato abitata da un eremita portoghese noto come il Beato Amedeo e che, successivamente, era stata persino visitata da san Leonardo da Porto Maurizio, non ebbe più dubbi: quello era l'eremo in cui, come gli era stato ordinato, «doveva attendere in preghiera i voleri del cielo con l'aiuto di un eremita che avrebbe trovato sul luogo». David prese dunque dimora nell'umida grotta lusingato che essa fosse già stata, prima del suo arrivo, testimone di altri rigori ascetici. Era così convinto ormai di vivere in pieno prodigio che non manifestò nessuna meraviglia quando l'eremita annunciatogli da san Pietro comparve effettivamente davanti a lui in carne e ossa. Costui era un tedesco, originario della Vestfalia, giunto non si sa come fra i boschi della Sabina. Si chiamava padre Ignazio da Heineusen, ma tutti lo chiamavano frate Mikus. Uomo di carattere difficile, lo strano eremita si faceva vedere molto di rado nei luoghi abitati, tanto che almeno vent'anni prima, ai tempi del suo arrivo in quella zona, era stato spesso scambiato per un brigante e fatto segno di fucilate. Da molto tempo comunque la gente si era adattata alla sua invisibile presenza e i boscaioli avevano preso l'abitudine di lasciargli qua e là dei tozzi di pane che lui andava poi a raccogliere quando nessuno era più in vista. Il rapporto che si stabilì fra David e Mikus non è mai stato completamente chiarito. I due comunque legarono e, da quel momento, l'eremita tedesco sarà l'unico testimone delle estasi, dei febbroni e delle sconcertanti apparizioni divine che David avrà durante il lunghissimo romitaggio nella grotta del Beato Amedeo. In seguito, fattosi suo fedele seguace, Mikus lo raggiungerà nella Nuova Sion di monte Labbro dove morirà prima dell'amara conclusione della loro fantastica avventura. David Lazzaretti soggiornò nella inospitale caverna del Montecalvo dall'8 ottobre 1868 all'8 gennaio 1869. In piena follia mistica affrontò prove tremende che forse solo grazie alla sua
fibra robusta riuscì a superare. Esposto al freddo e all'umidità, egli trascorse il suo tempo ora in preghiera ora in preda ai violenti attacchi del suo male. «Nel delirio» racconterà Mikus che lo assisteva «si lamentava, starnazzava di paura e anche mi raccontava ciò che vedeva in quel momento: le visioni, le conferenze coi santi e altre cose che poi lui non ricordava quando riprendeva i sensi.» I particolari riferiti da Mikus (indubbiamente molto utili per una diagnosi psichiatrica del soggetto) non mancheranno naturalmente di insospettire gli scettici circa l'influenza che ebbe questo misterioso personaggio sui fatti prodigiosi di cui David si ritenne protagonista durante il suo soggiorno in Sabina. Ma vediamo ora cosa accadde, o meglio, cosa sarebbe accaduto nella grotta del Beato Amedeo. E' infatti opportuno precisare a questo punto che nessun documento o testimonianza attendibile ci consentono di fornire una versione esatta dei fatti. Non possediamo cioè nessuno strumento, tranne quelli fornitici dalla ragione, per controllare la credibilità di quanto ebbe a raccontare lo stesso David con l'avallo di frate Mikus. Rintanato nella grotta, David ne combinò e ne vide di tutti i colori. Macerato dai digiuni, dalle preghiere e dalle febbri, ebbe una serie di visioni che gli permisero di far luce nel mistero in cui, egli diceva, era avvolta la sua persona. A queste «conferenze», come lui le definiva, partecipavano oltre la Madonna, san Pietro e san Michele Arcangelo e il solito misterioso «fraticello», anche il fantasma di un guerriero medievale il quale gli aveva rivelato di essere il suo sedicesimo avo e di chiamarsi Manfredo Pallavicino, da Milano, «bastardo del re di Francia e discendente del più nobile sangue di Pipino e dei principi d'Europa» il quale però non aveva avuto «diritto di stirpe perché nato da donna di altro uomo». Il fantasma aveva poi narrato a David le perigliose vicende della sua vita avventurosa in un mondo popolato di intrighi di corte, di tradimenti, di amori senza speranza e di furiose battaglie. Per la verità, questo guerriero apparso nella grotta del Beato Amedeo corrispondeva esattamente sia nel nome che nelle gesta al suo omonimo protagonista di quel romanzo storico di Giuseppe Rovani che appena poco tempo prima aveva profondamente colpito l'immaginosa fantasia del barrocciaio di Arcidosso. E' tuttavia curioso notare che in quegli anni neppure i più attenti e scettici studiosi del fenomeno lazzarettista scoprirono questa coincidenza rivelatrice che forse sarebbe stata sufficiente per mettere in ridicolo l'uomo del mistero. Non la scoprì neppure il cardinale Panebianco, al quale, fedele alla promessa fatta, David inviò una memoria dettagliatissima sull'avvenimento. E neanche la notarono i giudici del Sant'Uffizio che pure ebbero modo di esaminare a lungo tutti gli scritti di David. La sconcertante coincidenza sarà infatti scoperta soltanto nel 1904 dallo studioso danese Emilio Rasmussen il quale, venuto in Italia per rintracciare testimonianze sulla vita del «Cristo dell'Amiata», trovò appunto fra le sue cose una copia del Manfredo Pallavicino del Rovani. A ogni modo, va anche detto che il guerriero apparso nella grotta del Beato Amedeo non si limitò a narrare al suo «sedicesimo discendente» la stessa romanzesca vicenda raccontata dallo scrittore milanese. Vi aggiunse infatti un'appendice altrettanto romanzesca che però ben si attagliava alle conclusioni cui il Lazzaretti, consapevole o no, evidentemente voleva giungere. Il fantasma del Pallavicino rivelò infatti che lui non era morto giustiziato, per ordine del governatore di Milano, maresciallo Lautrec, visconte di Odet de Foix, «come era scritto nei libri». Era stato invece liberato in gran segreto dallo stesso maresciallo e così era potuto fuggire e aveva potuto raggiungere Parma dove aveva ritrovato una «donna oscura» da lui un tempo amata, dalla quale aveva avuto un figlio. Timoroso che i suoi nemici potessero in seguito perseguitare quell'innocente, il Pallavicino gli aveva imposto il nome di Lazzaro Lazzaretti, facendo di lui il capostipite della stirpe di David. Il guerriero aveva poi concluso il suo racconto rivelando che in seguito si era ritirato a far vita di penitenza proprio in quella stessa grotta di Montorio dove David abitava e che lì, dopo quarantacinque anni di vita
ascetica, era morto ed era stato sepolto. A conferma delle sue parole, il fantasma del Pallavicino pregava il suo «sedicesimo discendente» di recuperare le sue ossa e di dar loro più degna sepoltura in un luogo sacro dopo averle raccolte in una cassa sulla quale dovevano essere incise le iniziali del suo nome: M.P. Riavutosi dal delirio, David illustrò la sua visione a frate Mikus e quindi all'arciprete Giuseppe Milani di Montorio ed essi lo consigliarono di esaudire il desiderio espresso dal misterioso guerriero. David si mise così a scavare con le mani nude nell'interno della grotta alla presenza di Mikus, di don Milani, del fratello di questi, don Gaetano, e di altre trentacinque persone che erano state richiamate nel luogo dalla notizia dell'avvenimento. Comunque si voglia pensare, la visione ebbe conferma e David portò effettivamente alla luce, dopo un lungo lavoro di scavo, uno scheletro umano. Il ritenuto portento fece accorrere sul luogo molta altra gente, i parroci dei paesi vicini e anche tutti i frati del cenobio di Santa Maria delle Grazie. Le ossa ritrovate furono poi raccolte in una bara dove Lazzaretti volle anche deporre i suoi orecchini d'oro, che erano gli unici oggetti di valore in suo possesso. Poi la cassetta con incise sopra le iniziali di Manfredo Pallavicino fu trasportata in processione nella chiesa di San Leonardo di Montorio e lì sepolta dopo un rito religioso cui assistettero centinaia di persone estatiche e convinte di essere testimoni di un prodigio. Sempre assistito dall'ormai inseparabile frate Mikus, David Lazzaretti fece ritorno nel suo eremo deciso a continuare la sua penitenza e ad affrontare prove sempre più difficili e stupefacenti. Per questa ragione si fece rinchiudere dentro la grotta dallo stesso Mikus mediante un muro a secco tirato su davanti all'ingresso. In questa cella improvvisata rimase volontariamente prigioniero per quarantasette giorni sostentandosi con del pane di granturco che gli veniva gettato attraverso un pertugio lasciato aperto sulla sommità del muro. Durante questa lunga clausura, David ebbe naturalmente molte altre visioni in cui ritroviamo puntualmente traccia delle sue confuse letture di testi sacri e profani. Ora però, più che le vicende di Manfredo Pallavicino, prendono corpo nelle sue allucinazioni le reminiscenze delle lettere di san Francesco da Paola, da lui avidamente lette pochi mesi prima. Fu appunto in quei giorni trascorsi al buio e al freddo nella grotta di Montorio che David dopo avere superato, come lui raccontava, la «prova del fuoco», ossia l'attraversamento di un rogo immaginario che lo aveva mondato di tutti i peccati, si autoconvinse di aver ottenuto il «dono della profezia». E grazie a questo dono potè stabilire di essere lui quell'«uomo poverissimo del seme di Pipino» che, marchiato da un simbolo divino, come aveva vaticinato san Francesco da Paola, era destinato a confondere i tiranni e gli eretici alla testa di un esercito formato dalle «milizie crocifere». Ora non gli mancava che il «bollo», ossia il marchio che doveva indicare l'inviato dell'Altissimo. E il bollo non tardò a giungere: gli venne infatti imposto nel corso di un'ennesima conferenza cui parteciparono la Madonna, san Pietro, Manfredo Pallavicino e il solito misterioso fraticello dal saio grigio. Costoro, racconterà David, penetrarono nella grotta durante una notte di tempesta e dopo che una folgore aveva aperto un varco nel muro che la chiudeva. Ma ecco come lo stesso David racconta l'episodio della sua marchiatura in una memoria inviata al cardinale Panebianco: E allora San Pietro mi dice che Colui che regna nei cieli gli ha ordinato di mettermi una marca in fronte per essere riconosciuto dai popoli. Così dicendo, fa due passi avanti, mi mette la mano sinistra dietro il collo e colla destra mi dà una grossa manata fra lo stomaco e il corpo; poi portandosi la palma della stessa mano destra alla bocca, vi dà una gran fiatata e quindi me la imprime sulla fronte, sicché mi sentii morire dal dolore e credei che mi avesse fracassato il cranio. Poi mi lasciò con queste parole: se vinci questa battaglia sei il vincitore. Frate Mikus, da parte sua, racconterà che il giorno seguente, richiamato dai lamenti di David, penetrò nella grotta dopo aver abbattuto il muro e trovò l'uomo del mistero semisvenuto con la fronte
sanguinante per il bollo divino. Se fossimo convinti che David Lazzaretti non era altri che un imbroglione matricolato, a questo punto sarebbe facile ridere di lui e smascherare il suo trucco. Il suo gioco, se di gioco si trattasse, appare fin troppo scoperto. Ecco, infatti, come potrebbero essere andate le cose: deciso a interpretare la parte del nuovo Salvatore annunciato da san Francesco da Paola, egli dapprima si procura l'indispensabile «seme di Pipino» (ossia il sangue dei re francesi) manipolando il romanzo del Rovani e autoproclamandosi sedicesimo discendente del «bastardo del re di Francia» Manfredo Pallavicino. Successivamente ricorre a un banale tatuaggio per procurarsi quel bollo altrettanto indispensabile, sempre secondo il vaticinio dell'eremita calabrese, per assumere le vesti dell'inviato dell'Altissimo. Si aggiunga a tutto questo il dono della profezia ottenuto durante la lunga clausura ed ecco l'uomo del mistero trasformarsi nel Profeta, nel Salvatore delle genti, nel nuovo Messia... Ma David Lazzaretti non era un imbroglione. E, a ben vedere, un imbroglione matricolato non sarebbe mai ricorso a un trucco tanto ingenuo e tanto rischioso per mettere in piedi una vicenda destinata a sollevare prevedibili sospetti. Il libro del Rovani, infatti, aveva avuto in quegli anni una vasta diffusione anche a livello popolare per via della sua pubblicazione a dispense. Di conseguenza, le probabilità che qualcuno scoprisse il plagio erano moltissime. Se poi, come sappiamo, ciò non accadde e il collegamento Rovani-Lazzaretti sarà notato soltanto molti anni dopo, questo deve essere attribuito a un caso eccezionale e comunque imprevedibile. Esistono insomma molte buone ragioni per credere che David Lazzaretti visse in perfetta buonafede quel suo complicato processo simbiotico e che non fu l'astuzia, ma la sua fantasia allucinata che lo indusse a immedesimarsi nei personaggi da lui incontrati nelle sue letture. Ma resta ancora il mistero del bollo che pare raffigurasse le due famose «C» contrapposte con la croce in mezzo. David, infatti, non esibì mai, se non a pochi intimi, il bollo che portava sulla fronte ed era solito tenerlo nascosto sotto il ciuffo. Resta comunque da chiedersi come fece il neoprofeta a procurarsi questo tatuaggio, che fu visto da molti testimoni che erano stati chiamati da frate Mikus quando lui uscì dalla caverna dopo il lungo ritiro. Naturalmente, non mancarono coloro che insinuarono che se lo fosse fatto da solo, ma è difficile credere a questa ipotesi. Difficile per motivi pratici, poiché neanche un esperto riuscirebbe facilmente a tatuarsi al buio la fronte, ma anche per altre ragioni. Che sono queste: David non era un mistificatore e la sua consapevolezza di essere effettivamente l'uomo di Dio era tale che mai ricorse a qualche sotterfugio per accrescere la propria fama. Non ricorse a trucchi e non produsse miracoli neppure al tempo della sua massima popolarità, quando turbe di seguaci erano pronte a credere qualunque cosa egli volesse far credere. E allora? Una spiegazione del fenomeno la si potrebbe trovare nei risultati dei più recenti studi neurologici secondo i quali i bolli o le stimmate che ancora oggi appaiono di tanto in tanto sul corpo di individui affetti da misticismo religioso sono provocati da fenomeni di natura nervosa. Ma neanche questa è la spiegazione giusta. Siamo infatti convinti che il bollo di David sia il frutto di un tatuaggio eseguito, all'insaputa del soggetto, dallo stesso frate Mikus. Questa convinzione, naturalmente, non si basa su prove certe, ma soltanto su delle intuizioni. Essa è tuttavia l'unica risposta logica che si può dare al curioso fenomeno. Sappiamo infatti che David, dopo le sue crisi di natura epilettica, andava soggetto a lunghi assopimenti con febbri altissime e totale insensibilità al dolore che duravano anche due giorni; sappiamo ancora che frate Mikus (il quale assomiglia stranamente al «fraticello col saio grigio» che appare nelle visioni avute da David nella grotta di Montorio) rimase giorni e giorni accanto all'uomo di Dio assistendo ai suoi rapimenti mistici e ascoltando quanto lui diceva in quei lunghi momenti di estasi. Nessuno può quindi escludere che Mikus abbia approfittato di uno dei soliti assopimenti di David per tatuargli quel bollo divino che, probabilmente,
lo stesso David invocava dal cielo nel corso delle sue sofferte allucinazioni. Va ancora detto che non è neppure da escludere che lo stesso David, col passare degli anni, si sia reso consapevole dello scherzo giocatogli da Mikus. Lo si potrebbe infatti dedurre dalla sua aperta ritrosia a mostrare il bollo persino agli amici più intimi, quasi se ne vergognasse, e anche dal suo difficile rapporto con l'eremita tedesco. Padre Ignazio era un personaggio totalmente diverso da quelli che circondarono David nel periodo della sua predicazione. Tanto questi erano aperti, estroversi, caritatevoli e sempliciotti quanto quello era scorbutico, malizioso, quasi torvo. Mikus era legato a David da un affetto morboso e possessivo, che non riusciva a nascondere un senso di invidia o di dispetto verso gli altri discepoli. Si sentiva, in un certo senso, suo protettore e cercò anche di impedirgli di abbandonare la grotta di Montorio e la vita di ascetico masochismo che entrambi condividevano nella Sabina. Poi, quando David decise di tornare al paese di origine nell'Amiata, non lo seguì subito, ma più tardi e di malavoglia. Nella Nuova Sion, dove alfine si stabilì, visse fino alla sua morte avvenuta nel 1876, solo e senza amici, mal sopportato dagli altri che, tuttavia, si erano rassegnati alla sua presenza «perché pareva che David subisse lo strano fascino di quel misterioso e antipatico frate prussiano». Frattanto, in tutta la Sabina si faceva un gran parlare delle cose meravigliose che accadevano in quel di Montorio. Quasi ogni giorno, gruppi di pellegrini provenienti dai paesi vicini venivano a vedere l'uomo di Dio nella grotta del Beato Amedeo. Alla propagazione di questi avvenimenti aveva enormemente contribuito il parroco di Montorio. Don Giuseppe Milani, «uomo dotato di vivissima immaginazione», come scriverà al cardinale Panebianco il suo segretario Nazzareno Caponi, aveva anche provveduto a far stampare a Roma dei santini raffiguranti una delle tante visioni ricevute da David, che lui offriva in cambio di elemosine. Da parte sua, David, ormai convinto di possedere il dono della profezia, aveva ritrovato il suo antico estro di rozzo poeta popolare. E in versi, appunto, vergava i suoi vaticini e le sue profezie che poi inviava per posta ai «potenti della terra». Fra i potenti figuravano il papa, il cardinale Panebianco, il re d'Italia, Napoleone III, il re di Prussia e, curiosamente, anche un certo Domenico Pastorelli il quale, essendo allora considerato il più ricco proprietario di Arcidosso era, Per l'ingenuo profeta, anche lui un «potente della terra». Cosa annunciava David in questi «avvisi profetici» che produceva con intensità da grafomane? Un po' di tutto: guerre, rivoluzioni, riforme ma, soprattutto, elargiva consigli di ogni genere ai potenti. A Vittorio Emanuele intimava: «Togliete l'empia politica secolare e conciliatevi con Dio, altrimenti perderete la corona e la vita». A Pio IX: «Non fidarti dell'intervento straniero perché Dio ti manderà un gran principe che conquisterà il mondo». Poi, con tono più confidenziale, gli raccomandava ancora: «Guardati pur dal mangiar dolciumi: so ben che al tuo palato fan buon gusto!». All'imperatore dei francesi consigliava: «Rinuncia a Voltaire e la tua Francia sarà unita in una grande nazione con l'Italia, la Spagna e la Grecia». Al re di Prussia: «Smetti la superbia e aspetta un giovine principe che ti darà l'impero su un terzo dei popoli». E ancora a Vittorio Emanuele: «I tuoi ministri sono nemici di te e della tua casa; mi dispiace di non essere a te vicino perché vorrei salvarti dalla triste fine che ti si prepara...». Ai potenti in genere inviava anche ammonimenti che rivelano il suo impegno sociale. Ecco un esempio: Voi possessor di merci e di villaggi Diminuite un poco il vostro lucro, E siate meno splendidi nel lusso, E date il pane al misero che langue, Altrimenti vedrete darvi sacco Alle vostre sostanze. In quel periodo, David cominciò anche a esprimersi con curiosi giochi di parole, spesso di interpretazione oscura, quasi volesse accrescere il mistero attorno alla sua persona. Ecco, per esempio, come si presentava: Io sono, ma chi egli sia non so, ma sono Colui che esser dovrò chi ero in primo Ma prima me non conoscevo me stesso Ma or che conosco me non so chi ero E colui che era in me non
è più meco Perché son Seco a chi con me prim'era Ed essendo Seco opro con Seco, Ed egli opra con me, come opro in lui E lui opra con me come in se stesso, Per cui me stesso opro in voler di lui. Poi, quasi a spiegare la ragione di questo suo linguaggio ermetico, soggiungeva: Con questo mio profetico trattare Molto vi dico e poco sono inteso D'ora in avanti così uso parlare: Chi mi vorrà capir, poco capisce E chi poco capisce, molto intende. In quei suoi primi giorni da profeta, David dovette rendersi conto che rischiava di essere preso per matto. «Mentecatto e peggio» lo aveva infatti definito il governatore di Palombara Sabina che, su ordine del cardinale Antonelli, era andato a ingiungergli di lasciare il territorio pontificio dove «la sua presenza poteva provocare turbamenti». Naturalmente, i sorrisetti di scherno che notava sulle labbra degli «scettici miscredenti» non intaccavano le sue convinzioni, tuttavia qualche preoccupazione doveva pur averla se nei suoi scritti faceva spesso riferimento al fatto che quasi tutti i profeti erano stati definiti pazzi dagli stolti. Scriveva, per esempio, al «potente» di Arcidosso Domenico Pastorelli: Oh, sì tutto è voler di chi mi guida Esser tra i pazzi declamato pazzo, Ma quando il pazzo avrà ripreso senno I pazzi sempre ne saranno pazzi. Con l'amico Filippo Corsini, David fu ancora più chiaro nell'annunciargli il suo nuovo modo di comportarsi. Lo si deduce da questa lettera che gli inviò da Montorio il 22 dicembre 1868. Carissimo compare, in questa mia ultima che ti dirigo ti voglio annunciare il mio modo nuovo di procedere da me imparato fra mezzo alle mie incantevoli visioni, o per meglio dire, fra le mie grazie. E questo mio dire Crebbe il ragionare in senso profetico che sarebbe questo: ascoltalo e ponderane bene il senso che è misterioso e grande. A questo punto segue una lunga poesia irta di giochi di parole, di frasi senza senso o comunque di difficile interpretazione. Poi David così conclude la sua lettera: Eccoti, o mio pregiatissimo amico, con questo linguaggio parlano i pazzi, i sonnambuli del secolo, o per meglio dire, del giorno. Questi due titoli me li hanno messi gli uomini sentendomi raccontare quello che in buona parte a te è noto. Basta. Passò pure da pazzo Gesù, ed era un Dio: dunque non deve far specie a me che sono un misero mortale. Ma avanti senza timore. Ti saluta il tuo aff.mo amico David lazzaretti. Quello stesso giorno, David scrisse anche alla moglie Carola, annunciandogli il suo prossimo ritorno. Erano quattro mesi che il Lazzaretti mancava da Arcidosso e ormai la sua scomparsa era diventata motivo di ogni sorta di pettegolezzi. Si diceva fra le altre cose che si fosse messo a fare il contrabbandiere negli Stati pontifici. Qualche giorno prima la Carola gli aveva fatto pervenire una lettera molto accorata. Gli raccontava delle brutte dicerie messe in giro sul suo conto, gli manifestava le proprie preoccupazioni per il suo stato di salute e di mente e, certo per commuoverlo, aveva allegato alla lettera due certificati medici, firmati dal dottor Traversi, dai quali risultava che i piccoli Turpino, Bianca e Roberto versavano in cattive condizioni di salute. Probabilmente fu questa la ragione (oltre naturalmente la perentoria ingiunzione del governatore di Palombara, che indusse David a fare ritorno ad Arcidosso. Prima di partire, comunque, scrisse alla moglie la seguente lettera nella quale si rilevano i suoi sforzi per dimostrarle che non ha perduto il senno ma anche per avvertirla che comunque, tutto non tornerà come prima. Carissima consorte, finalmente vengo con questa mia ad avvisarti del mio ritorno in seno alla famiglia, il quale è da me tanto bramato. Sì, cara consorte, infine ho vinto la dolorosa battaglia in cui mi sono ritrovato nel tempo della mia assenza da te, coll'aiuto di Dio e di Maria Vergine. Ora vivo tranquillo, giacché mi è stato rivelato il mistero della mia vita. E chi poteva immaginare un fatto così meraviglioso o, per meglio dire, soprannaturale? Ah no! non lo potevo immaginare né io, né gli altri, solo che Dio così ha voluto. Credevo che fosse qualche cosa di sorprendente, è vero; ma non credevo fosse tale. Ma basta, lasciamo correre, e non si tratti più di questo, che tempo avrò di rivelarti il tutto quando sarò da te in seno alla mia famiglia. Vengo a prevenirti
che io sarò da te tra l'8 e il 12 del mese entrante. Dentro questi quattro giorni aspettami. Perché ti do questo indeterminato tempo? perché non so da dove passare. Avverti bene. Io arriverò di sera fra le ore 10 e l'11; procura che in casa non vi sia nessuno, eccetto che il tuo compare e mio intimo amico [Filippo Corsini], perché non ho piacere di essere veduto da quei tali che desiderano tanto la mia persona. Sappi che io d'ora in avanti terrò un tenore di vita così rigido che non mi sarà permesso di avere colloqui con chicchessia: pochi ne avrò e quei saranno buoni. Dunque vivi tranquilla e levati dal capo la pazzia. Io sono lontano, ma ti vedo e ti sento. Tu pensi male sul mio conto, cara consorte! Abbi fede e coraggio, come ti ho sempre detto, e non avere timore di nulla. Ora non puoi più dubitare del mio ritorno a te, perché mi è stato imposto da colui che guida i miei passi. Vivi tranquilla e avverti quello che ti ho detto. Ti saluto caramente e sono il tuo aff.mo consorte. David Lazzaretti. La mattina del 2 gennaio 1869, David Lazzaretti lasciava la grotta del Beato Amedeo «con gli abiti coperti di muffa, ma bianco, rosso e vegeto come fosse vissuto in aperta campagna», così almeno testimonieranno don Milani di Montorio, don Orlandi di Scandriglia, i religiosi del convento di Santa Maria delle Grazie e, naturalmente, frate Mikus. A testimonianza del passaggio in Sabina dell'uomo di Dio, i seguaci di Lazzaretti erigeranno una cappella davanti la grotta per celebrarvi la messa. La cappella esiste ancora. La sera del 9 gennaio, David tornava in gran segreto nella sua casa di Arcidosso. La Carola non lo trovò affatto fresco e vegeto come pretendevano i religiosi di Montorio, ma scarno, macilento e coperto di stracci. «Il mio David pare che torni dall'oltretomba» mormorerà la poveretta prima di metterlo a letto con la segreta speranza di farlo rinsavire.
CAPITOLO VI. L'UOMO DEL MISTERO. «Parlare con voi di religione sarà come ragionar di musica con gli asini, come dare concime alle colonne, ma mi ci proverò lo stesso...» Era con frasi come queste, pronunciate però senza ombra di superbia ma piuttosto con quel tono di superiorità bonaria e paziente usato dai maestri con i propri allievi, che David affrontava la piccola folla che ogni sera si riuniva nella povera osteria della Carola per ascoltare i lunghi sermoni dell'uomo del mistero. David era rientrato ad Arcidosso da meno di un mese e già era al centro dell'attenzione dei suoi compaesani. Malgrado gli sforzi fatti da sua moglie, da sua madre e dai suoi fratelli per mantenere segreta quella che consideravano una disgrazia di famiglia, la notizia della sua conversione e dei miracolosi avvenimenti di cui era stato protagonista in Sabina aveva fatto il giro di tutti i paesi dell'Amiata. D'altra parte, egli non era certo il tipo da rassegnarsi a restare nell'ombra. Esibizionista per natura e nello stesso tempo convinto oltre ogni limite di essere effettivamente predestinato a portare a compimento una missione divina, non aveva esitato a esporsi alla curiosità del pubblico nella sua nuova veste di peccatore convertito. E di curiosità ne dovette sollevare parecchia anche per il suo singolare abbigliamento. Ora infatti, oltre la lunga barba e i lunghi capelli, cresciutigli durante il romitaggio in Sabina, che davano al suo volto scavato e ai suoi dolcissimi occhi un risalto particolare, David usava indossare sotto il mantello nero un maglione rosso porpora con le due «C» e la croce ricamate in oro sul petto. In testa portava un berretto di lana di vari colori e nella mano destra un lungo bastone che si era confezionato da solo incastrando insieme tre pezzi di legno d'ulivo. A questa verga attribuiva un significato misterioso. Contrariamente a quanto si aspettavano i suoi familiari, il neoprofeta
fu preso sul serio da moltissima gente. Risero di lui soltanto i pochi liberali di Arcidosso e, in particolare, quel farmacista Becchini, patriota e libero pensatore, che pochi anni prima aveva fatto pubblicare a proprie spese le poesie patriottiche di David. Ma lo scherno di costoro favorì, invece di danneggiare, l'opera del Lazzaretti. Don Pistolozzi e tutti gli altri sacerdoti della zona non faticarono molto a capire che, in un momento tanto difficile per la Chiesa, anche la crisi mistica di un barrocciaio poteva essere utilizzata per far fronte all'ondata montante di anticlericalismo i cui primi segnali già cominciavano a serpeggiare anche fra i castagni e le miniere dell'Amiata. Fu così dunque che dai pulpiti delle chiese di Arcidosso, Santa Fiora e Piancastagnaio predicatori infervorati esaltarono e benedirono la miracolosa conversione di David il quale, dovendo i predicatori per necessità di cose rafforzare le tinte, veniva presentato per un ex vetturale incallito nel vizio, nella bestemmia e nel peccato (molto peggio, insomma, di quello che era effettivamente stato) per dare maggiore importanza al suo passaggio al servizio della Chiesa e della fede. Anche se la protezione dei preti gli fu indubbiamente utile nei primi tempi del suo apostolato, David forse non se ne rese neppure conto tanto era sicuro di sé e del suo rapporto diretto con il cielo. Forse fu proprio questa sua certezza a trasformare l'iracondo barrocciaio sempre pronto alla rissa in un personaggio di tutt'altra pasta: buono, paziente, comprensivo, infinitamente dolce e incapace di portare rancore a chi lo derideva e a chi gli aveva fatto del male. Anzi, a dire il vero, fu proprio questo suo cambiamento improvviso a dare la massima credibilità alla sua conversione. Tutti coloro che lo avevano conosciuto prima erano rimasti profondamente colpiti dal suo cambiamento che non si limitava all'aspetto esteriore ma anche al comportamento e al modo di esprimersi. «Il nostro David è un altro uomo» mormoravano i suoi amici stringendosi sempre più numerosi attorno a lui la sera dopo il lavoro. David teneva queste sue prime riunioni nella modestissima locanda che la moglie Carola aveva messo su qualche anno prima per tirare avanti, visto che il suo fantasioso consorte sembrava preoccuparsi molto poco dei problemi pratici, come per esempio il sostentamento dei tre figli, uno dei quali, Roberto, era per giunta malato e bisognoso di cure. Di riprendere la vecchia attività di barrocciaio, David non aveva la minima intenzione. Anzi, appena tornato a casa si era affrettato a vendere muli e barroccio al fratello Francesco. «D'ora in poi il mio lavoro non sarà di questa terra» aveva detto alla moglie sconcertata consegnandole l'intera somma ricavata dalla vendita: «Con questo denaro e con l'aiuto della Provvidenza potrai rimediare ai bisogni della famiglia». Per fortuna, il richiamo esercitato dalla presenza di David aveva fatto registrare un aumento delle consumazioni nella locanda. Ma questo risultato pratico, se rappresentava per la Carola l'unico aspetto consolatorio della vicenda in cui era stata giocoforza coinvolta, per David non aveva la minima importanza. Lui non manifestava, e non manifesterà mai, dell'interesse per il denaro. Aveva anche ripreso, con disappunto della moglie, la sua vecchia abitudine di vuotare il cassetto e la dispensa per distribuirne il contenuto ai poveri. David trascorreva le sue giornate ora immerso nella preghiera, ora impegnato ad aiutare don Pistolozzi nella chiesa parrocchiale. Con l'arciprete andava anche in visita nelle altre parrocchie, sempre affettuosamente accolto dai parroci e dai parrocchiani. Soltanto la sera si concedeva ai suoi primi seguaci. Col passare dei giorni avevano cominciato ad affluire nella locanda anche abitanti dei paesi vicini. Ne arrivavano persino dalla lontana Maremma. Costoro erano quasi esclusivamente contadini o piccoli proprietari, gli uni e gli altri poverissimi. Venivano, spesso accompagnati dalle loro donne, non solo per ascoltare le prediche dell'uomo del mistero, o del santo David come già qualcuno cominciava a chiamarlo, ma anche per chiedere il suo giudizio o il suo consiglio su questioni d'affari e di famiglia. Pare infatti che David manifestasse già allora delle qualità, se non
profetiche o divinatorie, certamente di introspezione psicologica. I suoi giudizi e i suoi consigli erano quasi sempre azzeccati o comunque sempre improntati di saggezza. Ma di cosa parlava principalmente David alla gente riunita nella locanda, mentre sua moglie «sempre silenziosa e immalinconita» lo osservava da dietro il banco? Parlava di se stesso e delle sue visioni ma lo faceva con grande umiltà, dicendosi indegno di tanta grazia. Derideva anche, bonariamente, coloro che con malizia o per semplicità d'animo gli chiedevano di fare dei miracoli. «Come pretendere» diceva con quel suo nuovo modo di esprimersi lento e ispirato che suggestionava gli ascoltatori «un miracolo da un misero peccatore quale io sono? I miracoli li fa Iddio, a lui dovete chiederli.» Amava anche esprimere le proprie opinioni attraverso delle parabole secondo i modelli appresi dalle sacre scritture. Di queste parabole riportiamo quella «del pittore e del calzolaio» (ovvero di come David intendeva la libertà di critica) così come è stata tramandata dal frate filippino Imperiuzzi che di David fu, in un certo senso, l'evangelista. Si trovava David un giorno in mezzo ad una comitiva di persone che trattavano dell'opera sua e c'era chi la giudicava in un modo e chi in un altro in senso opposto. Egli allora portò l'esempio di un pittore che aveva esposto alla critica pubblica un bel quadro rappresentante l'immagine di un uomo e che poi si era nascosto dietro la porta per udire i giudizi della gente che passava. Passò tra gli altri un calzolaio il quale, osservato bene il quadro, disse che alla figura mancavano le scarpe. A questa osservazione, il pittore uscì e disse: «Bravo il mio critico calzolaio». Poi rimediò alla mancanza e di nuovo espose il quadro e si mise a origliare. Mentre i passanti lodavano la pittura, ripassò il calzolaio che, inorgoglito dalla lode ricevuta, cominciò a criticare anche i colori e l'atteggiamento della figura. Questa volta il pittore uscì di nuovo e disse al critico: «Mio caro calzolaio, finché hai criticato sulle scarpe hai avuto ragione, ma non intendendoti di altro io ti dico che ora sei un ignorante superbo. Va' per i fatti tuoi e non parlare più di ciò che non conosci e non comprendi». Con questo esempio, continuò David, io vi dico che nessuno mi può comprendere nel mio essere misterioso, se non riceve la grazia di Dio. Perciò i vostri giudizi sono tutti erronei, perché nessuno di voi ha compreso chi sono. Il rinnovato fervore religioso provocato ad Arcidosso dalla predicazione di David Lazzaretti indusse il clero locale a ritenere che fosse giunto il momento propizio per realizzare un vecchio sogno: quello di costruire una nuova chiesa in una località più accessibile delle altre, tutte collocate nella parte più antica del paese. Don Pistolozzi, insieme ai preti Duchi e Cadetti, ne parlò con David in occasione di un pranzo offerto in suo onore dal parroco di Santa Fiora e David, sempre facile agli entusiasmi, si lasciò subito conquistare dall'idea. Di questa nuova chiesa da erigere esisteva già un progetto realizzato anni prima dall'ingegnere Marchetti. Essa doveva essere costruita in una zona pianeggiante, detta «il poggiolo», sulla strada che porta a Santa Fiora dove sorgeva una di quelle croci innalzate anni prima dall'«omo bono» Baldassare Audiberti. Il terreno sul quale si intendeva edificare apparteneva al ricco possidente Domenico Pastorelli, ma a David, subito nominato presidente del comitato per la raccolta delle oblazioni, non costò molta fatica convincere il «potente» arcidossino a fare dono alla comunità dell'area stessa e anche di una notevole somma di denaro. Tutto preso da questo nuovo impegno, David, con la collaborazione dei suoi fedeli compari Beppe Corsini e Raffaello Vichi, si mise subito al lavoro per organizzare la manodopera che, naturalmente, doveva prestare gratuitamente la propria attività. Al suo invito risposero con entusiasmo centinaia di persone, compresi vecchi, donne e ragazzi, quasi tutti abitanti nella campagna circostante. Gli arcidossini, invece, si mostrarono piuttosto freddi e preferirono collaborare con qualche offerta in denaro. Frattanto, David si era improvvisato anche ingegnere. Evidentemente per personalizzare al massimo l'opera, aveva voluto modificare il progetto originale dell'ingegner Marchetti e, anche se
ciò può sembrare strano, lo avevano lasciato fare. Ottenne pure, grazie all'intercessione di Domenico Pastorelli, la nomina di capo delle maestranze e di direttore dei lavori. Senza paga, naturalmente. Il primo colpo di piccone fu vibrato dallo stesso David al termine della Quaresima del 1869. Quel giorno ci fu gran festa sul poggiolo. Don Pistolozzi benedì la folla enorme che vi si era radunata e annunciò che di lì a pochi mesi vi avrebbe cantato il Te Deum. Per l'occasione, David aveva preparato anche un proclama ma all'ultimo momento non trovò la forza di leggerlo in pubblico poiché mai in vita sua si era trovato al cospetto di così tanta gente. Lo lesse infatti un maestro elementare che insegnava nel villaggio della Zancona il quale, in seguito, darà da intendere di averlo scritto lui. Nel proclama, molto lungo e verboso, David annunciava fra l'altro: «Qui, miei cari fratelli, sarà piantata quella Rocca inespugnabile contro la quale tenteranno invano l'assalto i mostri della terra e i maligni spiriti d'averno». E così concludeva: «Io, miei cari patrioti arcidossini, fra breve tempo vi lascerò e dove andrò non saprei dirvelo. Andrò dove la voce di Dio mi richiama. Ma benché lungi, sarò sempre con voi all'esecuzione dell'intrapreso edificio». I lavori cominciarono subito dopo. Poiché i volontari erano numerosissimi, David li divise in gruppi, ciascuno dei quali doveva lavorare un giorno la settimana. Questi gruppi si riunivano al mattino in un punto determinato e da lì partivano processionalmente in direzione del cantiere con gli strumenti da lavoro sulle spalle e cantando lungo il percorso le litanie e le laudi spirituali alla Vergine Maria. Per David, quelli furono giorni di grande eccitazione e di frenetico attivismo. L'essere al centro di un grande avvenimento e il poter disporre di centinaia di persone che si muovevano obbedienti ai suoi ordini appagava completamente ogni sua segreta ambizione. Era la prima volta che provava l'ebbrezza del comando e certamente lo lusingava anche la constatazione del forte ascendente che la sua persona esercitava su quella folla ormai fanatizzata. Mentre il lavoro procedeva velocemente grazie all'abbondanza di manodopera e i muri perimetrali già si levavano alti verso il cielo, David fantasticava nuovi progetti sempre più audaci. Per esempio, lasciava intendere che quella che si stava costruendo non sarebbe stata una chiesa come le altre, ma addirittura una cattedrale dalla quale avrebbe pontificato un vescovo perché lui sapeva che, per disegno celeste, Arcidosso era destinato a diventare sede di una nuova diocesi. Discutendo animatamente con i preti (i quali erano sempre ben disposti con lui visti gli insperati risultati che aveva ottenuto) ottenne che l'erigendo edificio venisse dedicato alla Madonna degli Angeli in quanto «la Madre di Dio avrebbe atterrato le potenze infernali che si opponevano tenacemente ai lavori». Purtroppo, la Madonna di David non mantenne la promessa. Le forze infernali ebbero infatti la meglio grazie a una collina sovrastante il poggiolo che, a causa dei lavori di scavo eseguiti alla sua base, franò improvvisamente travolgendo l'edificio e provocando la morte di un ragazzo di vent'anni. Fu un brutto colpo per tutti, ma soprattutto per David, anche perché subito dopo i suoi nemici liberali, col farmacista Becchini in testa, lo accusarono di essere responsabile del disastro. Seguirono polemiche furiose e David alla fine si trasse in disparte. Dal canto loro, i preti cercarono in seguito di riprendere i lavori affidandone la direzione a persone più competenti, ma fu tutto inutile perché i volontari che si erano mossi con entusiasmo all'appello del profeta questa volta rifiutarono ogni collaborazione. Così, della chiesa di Santa Maria degli Angeli non si parlò più e sul poggiolo di Arcidosso rimase una montagnola di macerie, a testimonianza del primo sogno di Lazzaretti andato in frantumi. Nel frattempo, David aveva cambiato dimora. Esacerbato dalle accuse e desideroso di vivere in solitudine, si era trasferito in un piccolo podere, appartenente al suo amico Raffaello Vichi, situato in località Le Macchie, a circa un miglio dalla vetta del monte Labbro e distante cinque o sei miglia da Arcidosso. In questo podere poverissimo di terra e ricco di sassi, molto più adatto alle capre che agli uomini, sorgeva
una vecchia casupola col tetto sfondato che David aggiustò alla meglio per renderla abitabile. Vi si stabilì definitivamente nell'aprile del 1869 dopo avere annunciato agli amici e ai familiari che vi avrebbe vissuto da eremita sostentandosi con quello che avrebbe ricavato dall'unico campicello coltivabile di cui disponeva. Ma non rimase solo molto a lungo. Ben presto apparve evidente che l'insuccesso registrato con il crollo della chiesa non aveva neppure scalfito l'ascendente che egli esercitava sulla povera gente. A poco a poco, il podere di Vichi diventò meta di un continuo pellegrinaggio. Arrivava gente da ogni parte dell'Amiata, chi per chiedergli consigli e chi semplicemente per sentirlo parlare di religione e per ricevere una parola di consolazione e di speranza. A un certo punto il viavai di pellegrini si fece tanto fitto che David non trovava più il tempo per accudire al suo campo. Di questo impaccio che provocavano al profeta si resero conto gli stessi pellegrini i quali si offrirono spontaneamente di sostituirlo nei lavori agricoli, affinchè potesse più liberamente dedicarsi al suo apostolato. In un primo tempo, egli rifiutò questa offerta perché non la giudicava giusta: «Non voglio» disse «che si pensi che io sono un pelandrone». Ma in seguito si lasciò convincere. Stabilì comunque che nessuno doveva lavorare per più di un giorno sul suo campo. L'iniziativa ebbe grande successo: lavorare nel campo di David, o meglio, nel «Campo di Cristo» perché così il podere del Vichi venne subito ribattezzato, per quella gente semplice e pia assunse il significato dell'assolvimento di un voto. E i lavoratori volontari erano così numerosi che in un solo giorno ne furono contati centottanta. Probabilmente furono proprio queste scene di fervoroso volontarismo che fecero sbocciare nella mente non più tanto confusa di David la prima idea di utilizzare queste forze di cui disponeva per la creazione di una comune in cui lavoro e profitto potevano essere equamente divisi e dove il collettivo avrebbe avuto ragione dell'individuale. Ma, sul momento, egli pensò di sfruttare altrimenti questa disponibilità di braccia. Da qualche tempo, David Lazzaretti aveva preso l'abitudine di spingersi fin sulla vetta brulla del monte Labbro dove soleva sostare in preghiera. Il posto era assolutamente inospitale perché battuto dal vento, privo di vegetazione, tranne qualche macchia di ginepro, e fino a quel momento frequentato solo dalle capre. Ma la vista era bellissima: David poteva ammirare uno splendido panorama che si spingeva a levante fino al massiccio del Gran Sasso e a ponente fino al mare e alla suggestiva isola di Montecristo. «Lassù su quel monte» aveva detto un giorno al fedele Beppe Corsini «che la gente chiama erroneamente Labbro ma che io chiamerò Labaro, sorgeranno le nostre piramidi.» Corsini, ormai abituato ai discorsi misteriosi del suo maestro, non aveva ritenuto opportuno chiedere ulteriori spiegazioni, ma David aveva invece messo a punto nuovi progetti. Cosa lo spinse a scegliere il più inabitabile dei monti dell'Amiata per costruirvi la Nuova Sion, è difficile dirlo. Probabilmente agì in lui anche uno spirito di rivalsa verso quegli arcidossini che avevano goduto del suo insuccesso come costruttore edile. Il monte infatti è ben visibile dal paese e tutti quindi avrebbero potuto ammirare le «piramidi» che intendeva costruirvi. A ogni modo, la spiegazione che egli fornì ai suoi seguaci fu ben diversa. «Il Signore» rivelò infatti alla gente riunita nel Campo di Cristo «mi ha ordinato di costruire una torre sul monte Labaro. Essa sarà l'Arca della Nuova Alleanza, il simbolo della nuova Chiesa, nella quale troverà la salvezza da un secondo diluvio di fuoco e di sangue la famiglia eletta da Dio.» I lavori per la costruzione della torre iniziarono nel luglio del 1869. Vi partecipavano settanta volontari e alcuni scalpellini chiamati appositamente che venivano regolarmente retribuiti con denaro attinto da una cassa comune. Secondo il progetto elaborato anche questa volta da David, la torre doveva avere alla base una circonferenza di trentatré braccia e misurare in altezza una quindicina di metri. All'interno era prevista la costruzione di tre celle rotonde poste una sopra l'altra, e all'esterno una cordonata a spirale avrebbe dovuto consentire l'accesso al tetto
anche ai cavalli. Durante le opere di scavo venne alla luce una grotta naturale larga una quindicina di metri e dall'altissima volta, resa più suggestiva da una cornice di stalattiti alla quale si poteva accedere abbastanza comodamente attraverso un cunicolo largo più di un metro. Tale scoperta scatenò subito la fantasia di David il quale, memore dei suoi scavi nella grotta di Montorio, si mise di persona a rovistare fra le pietre. E anche questa volta si verificò quello che tutti i presenti ritennero ingenuamente un miracolo: emersero infatti fra i sassi dei vasi etruschi, una lancia arrugginita e delle ossa umane... Dopo avere ringraziato il Signore per questo segno di benevolenza, David dispose subito che la grotta fosse adibita a cappella. Vi fece costruire delle panche di pietra e vi eresse un piccolo altare sopra il quale verrà esposta alla venerazione l'immagine della Madonna della Conferenza dipinta dal giovanissimo Filippo Corsini. La notizia del miracolo avvenuto sul monte Labaro fece notevolmente aumentare il numero dei volontari, fra i quali figuravano anche molte donne che, in seguito, si riveleranno spesso molto più attive e fervorose degli stessi uomini. Qualche giorno più tardi, quando i lavori per l'erezione della torre erano appena iniziati, giunse sul monte a cavallo di un mulo il delegato di pubblica sicurezza di Arcidosso. Il funzionario era stato messo in allarme dalle voci che correvano in paese a proposito della misteriosa attività dei lazzarettisti. Il delegato aveva naturalmente buoni motivi per dimostrarsi sospettoso. Di quei tempi, infatti, con tutti i problemi che sollevava la questione romana, ogni buon poliziotto dello Stato unitario aveva il dovere di farsi guardingo solo a sentire odore d'incenso. E Lazzaretti era per lui uno strumento più o meno consapevole nelle mani dei clericali. D'altra parte, lo stesso David non faceva punto mistero della sua sviscerata devozione al santo padre, anche se negava sdegnosamente di essere «partitante dei preti». In ogni caso, al delegato non occorse molto tempo per sincerarsi che gli improvvisati muratori di monte Labaro erano tutti gente pacifica. Così, alla fine della sua visita di controllo, si limitò a disporre la sospensione dei lavori fino a quando gli interessati non avessero ottenuto la regolare licenza edilizia dalle autorità competenti. La sospensione fu comunque di breve durata. Grazie all'efficiente burocrazia piemontese, David ottenne il permesso appena una settimana dopo. Nella licenza, rilasciata dalla prefettura di Grosseto, si stabiliva tuttavia che la torre doveva essere costruita «a secco» perché una tale opera, se eseguita in muratura, avrebbe assunto l'aspetto di un fortilizio e ciò era severamente vietato dalle leggi vigenti.
CAPITOLO VII. L'ULTIMA CENA. La sera del 14 gennaio 1870, David Lazzaretti convocò al Campo di Cristo trentatré suoi seguaci scelti tra i più fedeli e valenti. Erano tutti padri di famiglia di età matura e tutti piccoli possidenti (oggi si direbbe coltivatori diretti) tranne uno, Coriolano Marcelli, di professione commerciante, che era anche il più istruito della compagnia: sapeva infatti leggere e scrivere correntemente mentre tutti gli altri, fatta eccezione di David e di Beppe Corsini, erano analfabeti. Questi uomini, che avrebbero costituito il gruppo dirigente della comunità cristiana dell'Amiata, furono accolti all'ingresso del Campo dal loro profeta che per l'occasione indossava una fiammeggiante cappa rossa sulla quale era ricamato in oro il solito monogramma misterioso. «Vi ho chiamati» annunciò David agli ospiti «per trascorrere con voi l'ultima sera prima della mia partenza. Partirò infatti domani e andrò dove Dio mi comanda per osservare una quaresima di quarantasette giorni. Al mio ritorno» concluse «realizzeremo insieme i disegni che il Signore avrà voluto indicarmi.» David aveva preparato
con molta cura questa cerimonia nell'evidente tentativo di produrre il massimo effetto suggestivo. Egli invitò i suoi devoti seguaci a sedere in circolo attorno a lui nell'unica stanza disponibile della casupola in cui viveva e quindi distribuì a tutti dell'agnello arrosto, del pane e del vino. Durante questo pasto in comune, la cui regia ricalcava molto scopertamente il simbolismo dell'ultima cena, non mancò neppure l'accenno alla presenza di un Giuda che, disse David con tono rassegnato, «io già conosco anche se lui non sa ancora di esserlo». Terminato il pranzo, insolitamente abbondante, Lazzaretti ordinò che gli avanzi fossero gettati nel fuoco «perché era tutta roba benedetta». Salvò soltanto i quattro stinchi dell'agnello che consegnò ad altrettanti convitati affinchè li conservassero come reliquie. Poi si ritirò in disparte e tornò più tardi per leggere ai discepoli un lungo discorso che disse di avere scritto sul momento, per ispirazione divina ma che, in realtà, doveva avere preparato da tempo, considerata la lunghezza del testo e la sua complessità. In questo suo messaggio, che i trentatré convitati ascoltarono con grande devozione, Lazzaretti si diffondeva a lungo nella descrizione delle meravigliose piramidi che sarebbero sorte nella Nuova Sion di monte Labaro. Rievocava le sue visioni celesti, divagava sui misteriosi obiettivi della sua missione, ma diceva anche cose molto pratiche e concrete a proposito di quello che potrebbe essere definito il suo programma a medio termine. Egli annunciò infatti la sua decisione di costituire tre organismi comunitari che si sarebbero dovuti ispirare alle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. La fede, secondo il programma lazzarettista, doveva essere rappresentata dal costituendo Istituto degli eremiti penitenzieri di cui, in quel momento stesso, chiamava a far parte i trentatré discepoli partecipanti alla cena. La speranza sarebbe stata rappresentata dall'associazione di tutte le famiglie cristiane dell'Amiata che avrebbero dovuto mettere in comune i propri beni e il proprio lavoro. La carità, infine, sarebbe stata simboleggiata da una lega di mutua assistenza alla quale potevano aderire tutti i «veri credenti» dietro versamento di una quota di modesta entità. Benché in maniera confusa e con i soliti riferimenti al soprannaturale, nella lucida follia di David Lazzaretti stava dunque prendendo corpo un progetto realistico per la creazione di una società più giusta di cui tutti i suoi seguaci avvertivano, più o meno consapevolmente, l'esigenza. Quella sera, comunque, il profeta non doveva ancora avere le idee molto chiare almeno per quanto riguarda l'organizzazione dei due organismi collegati con la speranza e la carità. Infatti, alle domande ansiose e curiose dei suoi entusiasti discepoli, egli si limitò a rispondere che avrebbe dettato gli statuti di queste due nuove società soltanto «dopo che avrò trascorso quarantasette giorni in penitenza e in diretto colloquio con Dio». Evidentemente aveva ancora bisogno di riflettere. Preferì invece occuparsi a fondo della fede che, disse, era la cosa più importante. Poi, chiamato accanto a sé Coriolano Marcelli affinchè fungesse da scrivano, cominciò a dettare le regole che avrebbero dovuto osservare da quel momento i trentatré membri dell'Istituto degli eremiti. Agli esponenti di questo organismo, David affidava praticamente la guida della comunità cristiana dell'Amiata («perché io non resterò sempre fra voi anche se il mio spirito non vi abbandonerà mai»). Gli eremiti dovevano essere di esempio a tutti per laboriosità e per religiosità, dovevano predicare la vera fede, aiutare i deboli, far rinsavire i peccatori, prendere decisioni e assumersi le responsabilità «così come facevano i santissimi Apostoli». In particolare, essi dovevano contribuire a rafforzare e a valorizzare quell'atmosfera di collaborazione e di fratellanza che già era maturata fra i «veri credenti» grazie all'esperienza di lavoro in comune fatta nel Campo di Cristo e sul monte Labaro. Le regole di comportamento che gli eremiti avrebbero dovuto osservare da quella sera erano tutte molto severe se non addirittura stoiche. Prescrivevano digiuni e penitenze di ogni tipo: levatacce all'alba per pregare con le mani sotto le ginocchia, lunghi
percorsi da compiere ginocchioni e altre prove masochistiche che David aveva evidentemente copiato dalle regole ascetiche di altri ordini religiosi. Una regola, per esempio, prescriveva agli eremiti di «fare la settimana» sul monte Labaro alternando alla preghiera il lavoro gratuito per l'erezione dell'eremo. Un'altra stabiliva che gli eremiti in gruppo effettuassero ogni anno un pellegrinaggio lungo un percorso (da compiere naturalmente a piedi e vivendo di elemosina) di circa quattrocento chilometri con soste prestabilite in sette basiliche di Roma, nella grotta del Beato Amedeo in Sabina e presso altri luoghi di culto distribuiti nella bassa Toscana e nell'alto Lazio. Curiosamente, nelle regole dettate da David non si faceva alcun cenno all'astinenza dai rapporti carnali che pure è sempre un tema ricorrente in casi del genere. Anzi, gli eremiti venivano espressamente invitati a adempiere regolarmente ai loro doveri coniugali. Salutati i discepoli, David partì all'alba del giorno seguente in compagnia di Raffaello Vichi. Non rivelò a nessuno dove intendeva recarsi per osservare la sua lunga quaresima, ma aveva già una meta precisa: Montecristo. Fu spinto in questa direzione da un miscuglio di motivi diversi: dal nome suggestivo dell'isola, dalla lettura del Conte di Montecristo, che lo aveva appassionato pochi anni prima; dall'accostamento fatto nella sua mente esaltata fra quest'isola e quella di Patmo dove l'apostolo Giovanni avrebbe scritto l'Apocalisse e, infine, dal fatto che Montecristo si vedeva distintamente dalla vetta del monte Labbro. David raggiunse l'isola, che allora era disabitata e popolata da capre selvatiche, a bordo di una barca di pescatori. Portava con sé soltanto undici pani. Prima di sbarcare, egli si fece promettere dai pescatori che avrebbero mantenuto il segreto, ma tutto fu inutile. Già pochi giorni dopo a Santo Stefano, erano tutti al corrente della presenza a Montecristo dello strano eremita. La notizia giunse anche alle autorità le quali, preoccupate per la sopravvivenza del Lazzaretti nell'isola inospitale, segnalarono il fatto al sindaco Ferrini di Arcidosso. Questi, a sua volta, avvertì i familiari di David che, ormai rassegnati alle mattane del loro congiunto, preferirono interessare del caso gli amici del profeta. Toccò infatti a Raffaello Vichi, e allo zio di questi, Giuseppe, il compito di andare a recuperare David. Lo trovarono smagrito e macilento, con una pesante catena al collo e con gli abiti laceri, ma più che mai deciso a restare in quel luogo per il periodo di tempo prescritto. Dal momento del suo arrivo erano trascorsi trenta giorni e, fatto notevole, aveva mangiato soltanto sei degli undici pani che si era portato appresso. Per sloggiare David dall'isola occorse infine l'intervento dei carabinieri di Orbetello. Lui però non volle tornare ad Arcidosso e preferì ritirarsi in una zona isolata del comune di Scansano per trascorrervi i rimanenti diciassette giorni di penitenza. Fedele alla promessa fatta, David tornò all'eremo di monte Labbro la sera dell'8 marzo 1870. Erano ad attenderlo circa duemila persone che fin dal mattino avevano raggiunto la vetta del monte, malgrado il freddo intenso, e che ora sostavano all'aperto intorno alla torre, riscaldandosi alla meglio accanto a decine di falò. David, che aveva evidentemente preparato, o meglio, sceneggiato la cerimonia del suo ritorno all'eremo, apparve improvvisamente da un bosco circondato dai suoi fidi eremiti che illuminavano il cammino con delle torce. Il profeta montava un cavallo baio, portava la tunica rossa con la solita sigla e teneva alzata la mano benedicente. La folla, completamente fanatizzata, gli corse incontro festosa e lui salutò tutti chiamandoli per nome. In quel momento, la regola che nessuno è profeta in patria veniva clamorosamente smentita. Disceso da cavallo, egli percorse a piedi soltanto pochi metri fra le acclamazioni, poi decine di braccia lo sollevarono e venne portato in trionfo fino allo spiazzo davanti alla torre dove era stato eretto un altare. Tornata la calma, David cominciò a parlare con quel suo tono dolce e ispirato che mandava in estasi i suoi ingenui ascoltatori. Non parlò a braccio come era solito fare, ma lesse invece un testo che evidentemente aveva preparato durante il suo lungo ritiro. Senza che nessuno dei presenti osasse
mettere in dubbio la veridicità delle sue parole, annunciò alla folla sbigottita che durante il suo soggiorno nell'isola di Montecristo aveva udito la voce di Dio così come Mosè l'aveva udita sul monte Sinai. Disse infatti, testualmente, parlando di se stesso in terza persona: La voce di Dio ha parlato all'uomo nell'isola di Montecristo nei giorni 26,27 e 28 gennaio 1870. Detta voce fu udita sette volte fra il fragore del turbine e la percussione delle folgori e lo scrollo terribile di tutta l'isola. Le parole erano declamate lentamente e sillabate come in tono musicale così che l'uditore ne ha distribuite le sillabe in versi sciolti per dar loro un metro più energico ed espressivo... Dopo questo preambolo, David Lazzaretti diede inizio alla lettura di un lungo poema di cui diamo un paio dei brani più significativi. Naturalmente, è il buon Dio che parla per bocca del profeta: Chi sono i Re del mondo? Non son caduca polvere? Perché son così orribili E stuprano il mio onor? Di essere mortali ignorano E vantano il poter... Poi, dopo una lunga divagazione sui destini del mondo, il Padreterno concludeva rivolgendosi minacciosamente alle teste coronate: Non serviranno l'algebre Dei vostri computisti L'ingegno dei meccanici La mano degli artefici A reggervi sul trono. Cadrete in man dei popoli Un solo sarà Re. Ora noi sappiamo, anche per quanto accadrà in seguito, che David Lazzaretti, nella sua ingenua presunzione, preannunciando che un solo re sarebbe rimasto in piedi, intendeva riferirsi a se stesso. Ma questo non potevano allora intuirlo i pochi liberali di Arcidosso guidati dallo speziale Becchini, i quali infatti non esitarono un istante a stabilire che quel sovversivo di Milleidee pronosticava la fine dei Savoia e l'avvento, come unico re d'Italia, del papa Pio IX. Da questa convinzione fu contagiato anche il delegato di pubblica sicurezza il quale denunciò il Lazzaretti all'autorità giudiziaria «siccome colpevole di attentati diretti a rovesciare il Governo o a mutarne la forma, o a muovere la guerra civile, o apportare la devastazione, il saccheggio o la strage in uno o più comuni dello Stato (artt. 97 e 126 del codice penale toscano)». Per fortuna questa denuncia, prima di una lunga serie, non ebbe alcuna conseguenza per il santo David. Appena venti giorni dopo il tribunale di Grosseto dichiarava infatti che non vi era luogo a procedere contro il presunto rivoluzionario per totale insussistenza di reato. Tornato a vivere alle Macchie, nel podere di Vichi, David si fece raggiungere dalla moglie e dai figli. Noi non sappiamo cosa indusse Carola Minucci a chiudere la sua osteria, dalla quale traeva un reddito modesto ma sicuro, per affrontare quel nuovo genere di vita che non le si addiceva e verso il quale non provava alcuna attrazione. Certamente non lo fece per calcolo, come qualcuno insinuerà più tardi riferendosi alle promesse di «gloria e di ricchezza» che il santo David dispensava a piene mani. Ma non lo fece neppure per una sorta di folgorazione mistica, visto che rifletté a lungo e si consigliò con i familiari prima di operare quella scelta decisiva. E' molto più probabile che la Carola fosse spinta in questa direzione dalla consapevolezza che, dopo averle provate tutte, quello era l'unico modo per mantenere unita la famiglia. A monte Labbro, intanto, i lavori per la costruzione della «torre davidica», come veniva chiamato quella specie di nuraghe, erano ormai terminati e decine di volontari si alternavano di settimana in settimana per mettere in atto due nuovi progetti di David, un eremo e una cappella per i quali egli aveva ottenuto dalle autorità il permesso di realizzarli in muratura. Purtroppo, malgrado la vantata protezione divina, David non era molto fortunato come costruttore edile. Il 10 settembre 1870, infatti, la torre crollò. L'incidente si verificò alle nove del mattino. Il profeta, che si trovava sulla vetta del monte, fu chiamato da alcuni seguaci che gli indicarono impauriti la crepatura che si era aperta sulla sommità dell'edificio. Lui, per la verità, prese la cosa con molta calma. «Andiamo nella grotta a dire le litanie alla Madonna» disse. Mentre pregavano si udì un gran rumore: era una parte della torre che franava. L'incidente, subito collegato con il crollo dell'erigenda chiesa di Arcidosso, non mancò di turbare molte
coscienze e di ridare fiato ai liberi pensatori che non avevano mai smesso di dileggiare e combattere l'ondata di fanatismo sollevata dalla predicazione di Lazzaretti. Nella comunità del monte Labbro si registrarono anche alcune diserzioni: in particolare si allontanarono gli arcidossini, che per la verità non erano mai stati molto numerosi. Restarono invece vicini al loro profeta gli abitanti della campagna. Per fortuna di David, lo stesso giorno del crollo giunse la notizia della sconfitta di Napoleone III a Sedan e dieci giorni dopo, il 20 settembre, i bersaglieri di Cadorna occupavano Roma. E' quasi inutile dire che, immediatamente, la rovina della torre assunse per quei semplici montanari un significato simbolico.
CAPITOLO VIII. I CODICI. Nei mesi che seguirono, pur non trascurando le sue rigorose pratiche ascetiche (si nutriva soltanto di pane e di verdura condita con sale e aceto), David affrontò con maggiore impegno l'attività di riformatore religioso e sociale. Avendo a disposizione un «eremita scrivano» (Coriolano Marcelli) egli poteva ora con maggiore facilità, visto che scrivere gli costava sempre grande fatica, elaborare le proprie dottrine, le profezie, i programmi e i codici morali e politici per quella che lui definiva la «Riforma dello Spirito Santo». La sua produzione letteraria non fu mai così intensa come in quel periodo. Nei suoi «avvisi profetici», alcuni dei quali non furono dati alle stampe per mancanza di fondi, egli annunciava la creazione di un Impero delle nazioni latine (che erano per lui l'Italia, la Francia, la Spagna e la Grecia) sotto l'egida della Chiesa di Roma e la guida di un condottiero nel quale, abbastanza scopertamente, si poteva individuare lo stesso Lazzaretti. Nell'opuscolo Il risveglio dei popoli, egli accennava, per esempio, a un profeta, invitto capitano, legislatore e novello pastore del Sinai, che sarebbe sorto a liberare i popoli «gementi come schiavi sotto il dispotismo del mostro di ambizione, d'ipocrisia, d'eresia e di superbia». In un successivo scritto, Gli avvisi di un incognito profeta, David, rivolto a Pio IX, preannunciava l'arrivo di un «Monarca» destinato a risollevare le sorti della Chiesa e a riconciliarla con la nazione italiana. Questo monarca «scenderà dai monti seguito da mille giovani tutti di sangue italiano, e questa sarà chiamata la milizia dello Spirito Santo». In altre lettere, come quella rivolta «ai cittadini romani» o quella «ai popoli d'Italia», il «futuro liberatore dei popoli», «il rigeneratore dell'ordine morale», il «Gran Monarca» assumeva sempre più le caratteristiche anche somatiche del profeta di Arcidosso. Oltre le profezie, David dettò in quel periodo anche statuti e codici che avrebbero dovuto regolare la vita degli uomini nella nuova società. Il codice politico conteneva, fra gli altri, i seguenti articoli: La Chiesa e lo Stato devono essere d'accordo nell'amministrazione delle leggi. I ministri del culto devono vivere sotto severa disciplina e nella povertà, ma devono essere rispettati come primi militi della patria e della fede. II voto di celibato dei ministri del culto è libero. I ministri dello Stato devono essere uomini probi e veri amanti della patria e della fede. La miseria dei popoli deve essere sollevata dall'intervento dei ricchi che dovranno dare lavoro e fare opere di carità fraterna. Le classi sociali saranno divise secondo le condizioni economiche e le professioni. Ciascun cittadino dovrà avere la sua patente di riconoscimento. I processi devono essere sbrigati in pochissimo tempo e con poca spesa. I codici e le leggi devono essere scritti in modo chiaro per essere compresi da tutti. Ogni persona deve pagare una tassa calcolata sul suo guadagno certo e netto. Il giornalismo deve essere frenato nei limiti della verità e della giustizia. Il denaro non deve essere sepolto negli scrigni ma deve
essere messo in circolazione a beneficio della società. Ogni cittadino deve presentarsi per quello che veramente è poiché due sono le tinte, il bianco e il nero. In un altro codice, che definiva «delle leggi morali», sosteneva la necessità dell'istruzione dei fanciulli che doveva essere affidata agli ordini religiosi «per cui ogni comune di oltre cinquemila abitanti dovrà avere almeno un convento». Prevedeva ancora la costituzione di particolari università in dodici città europee che si riservava di indicare. Fra le riforme progettate aveva una parte importante anche quella relativa al sistema tributario. Secondo lui si doveva naturalmente abolire, «perché nefanda», la tassa sul macinato e dovevano essere modificate le tasse vigenti sulla pesca, sulla caccia, sul bestiame e sui generi di prima necessità. «Tutti i cittadini fra i 20 e i 75 anni» sosteneva David «eccetto i preti, le monache e i frati, devono pagare una tassa personale da centesimi 50 a 6 lire a seconda della classe sociale cui appartengono. Le donne pagheranno metà di questa tassa.» Anche se sempre più spesso si faceva prendere dalla sua mania di grandezza (progettava anche la costruzione di altri sette eremi come quello di monte Labaro in altrettante non meglio precisate «città eternali»), David Lazzaretti non perdette mai del tutto il rapporto diretto con la realtà dell'ambiente in cui operava. Costituì infatti, come aveva promesso, la Santa lega della fratellanza che ebbe subito notevole successo. «Questa lega» scriverà padre Imperiuzzi «aveva per simbolo la Carità. Chiunque vi si poteva associare, di qualunque età e condizione. Per mantenerla si pagavano cinque centesimi la settimana. L'obolo era raccolto dal Preside e dai Decurioni che lo segnavano in un apposito registro che poteva essere veduto da chi voleva. Al fine di ogni mese, il Preside e i Decurioni facevano i conti dei sussidi distribuiti e la somma che avanzava si depositava nelle mani del Camerlengo della lega il quale aveva il compito di comprare al raccolto i generi di vitto, immagazzinarli e poi rivenderli ai soci allo stesso prezzo salvo le spese di trasporto e conservazione.» Le ragioni del successo ottenuto dalla Lega della fratellanza cristiana sono facilmente comprensibili: era la prima volta che veniva organizzata una società di mutuo soccorso con annessa cooperativa di consumo alla quale potevano partecipare dei contadini. Essa aveva infatti come scopo principale l'assistenza materiale e spirituale di tutti i soci con particolare riguardo per i membri della comunità in condizioni di grave indigenza, per gli orfani, le vedove, gli ammalati. Lo statuto della Lega prevedeva inoltre che dovessero essere assistiti a spese della comunità anche i «viandanti e i mendichi in condizioni di bisogno per un periodo massimo di tre giorni». Il regolamento era molto dettagliato, stabiliva le punizioni per eventuali abusi e l'espulsione dei soci in caso di cattiva condotta. Questo istituto, che per un certo periodo estese la propria attività anche nella Sabina, a Montorio e a Scandriglia, fra i contadini che erano stati testimoni delle prime esperienze ascetiche di David, sarà l'unico che sopravviverà alla morte del profeta di Arcidosso. Svolgerà infatti, sia pure in maniera limitata e clandestina, la propria attività assistenziale fino al 1925. Soppresso dal fascismo, non potrà riprendere la sua attività dopo la liberazione solo perché efficacemente sostituito dalle organizzazioni cooperative e mutualistiche create dal moderno movimento operaio. L'impresa sociale più importante realizzata da David fu tuttavia la Società delle famiglie cristiane o Lega della speranza. Qui ci troviamo di fronte al tentativo più coraggioso compiuto da David per creare una società socialista e cristiana corrispondente ai principi evangelici. Egli potè realizzare questo ardito progetto grazie all'ascendente di cui ormai indiscutibilmente godeva fra i suoi pii montanari. La sua base era infatti solidissima. Amato e ammirato da tutti perché portatore di quelle promesse di solidarietà umana e di giustizia sociale che tutti istintivamente attendevano, disponeva di un gruppo dirigente omogeneo e affiatato (gli eremiti) pronto a collaborare con lui a dispetto di qualsiasi difficoltà. Lo statuto della Società delle famiglie si
proponeva di raggiungere i seguenti obiettivi: 1) Formare di tante famiglie una sola famiglia comune. 2) Togliere dal seno delle famiglie la pigrizia e fare attendere ogni socio al lavoro quotidiano. 3) Fare progredire l'agricoltura, le arti, i mestieri. 4) Educare i figli e le figlie dei soci civilmente e moralmente. 5) Estirpare dal cuore dei soci l'invidia e l'egoismo. 6) Far nascere nel cuore dei soci la fratellanza, l'amore, la concordia e la pace. 7) Ammaestrare tutti i soci nei diritti e nei doveri civili, patrii e religiosi. Alla Lega aderirono con entusiasmo quasi tutti gli abitanti dei villaggi di Zancona, Macchie, Poggio Marco, Pastorelli e dei poderi vicini che erano tutti pastori o agricoltori, oltre un piccolo nucleo di artigiani e commercianti di Arcidosso. In totale oltre cento famiglie di cui ottantaquattro di piccoli proprietari. I soci, al momento dell'adesione, si impegnarono ad accettare e a rispettare un regolamento di cui riferiamo i punti essenziali: Il socio conferisce se stesso, l'universalità dei propri beni, la moglie e possibilmente i figli alla Società. Tutti devono servire la Società e guadagnarsi il sostentamento. La Società mantiene ed alimenta i soci, cura gli infermi, educa i figli dei soci a seconda della posizione che avevano prima. Fino alla costituzione dei nuovi eremi, i soci possono anche continuare a vivere nelle loro case, ma devono sempre dipendere dalla Società e lasciare che questa faccia propri i raccolti dei loro campi. I soci che vivono in comune nell'eremo di monte Labaro, o nelle rispettive case, devono vestire in modo uniforme e con generi forniti dalla Società. Praticamente, fu costituita nell'Amiata una specie di cooperativa di lavoro alla quale tutti i componenti avevano conferito (sia pure di fatto, perché in diritto tale associazione non poteva sussistere essendo allora vietata ogni forma di cooperazione) i loro beni e l'amministrazione degli stessi. La comunità era «regolata da un Presidente e da una magistratura di dodici persone scelte dagli stessi soci fra le più anziane e le più savie». Le donne, oltre ad avere diritto di voto al pari degli uomini, potevano anche essere elette e il regolamento stabiliva che ne fosse presente almeno una in ogni organismo. Ogni socio aveva l'obbligo di svolgere quotidianamente l'attività che gli era propria «mettendo in comunanza il lavoro, i terreni, il bestiame, gli attrezzi e gli altri interessi onde trarne il guadagno per il mantenimento comune». Con la sua consueta meticolosità, David aveva messo a punto anche i necessari strumenti di controllo per evitare abusi e ingiustizie. Per esempio, al momento dell'ammissione di un socio veniva prudentemente eseguito un minuzioso inventario dei beni che questi affidava alla società «pel fine che o al ritiro volontario dello stesso, o alla sua espulsione dalla Lega, gli fosse riconosciuto tutto ciò che gli apparteneva e gli venisse restituito». I soci disponevano anche di un libretto personale (precursore di quel libretto colonico che più tardi sarebbe stato istituito in Italia dal nuovo regolamento dei rapporti di mezzadria) nel quale ogni famiglia registrava le entrate e le uscite. Allo scadere di ogni trimestre veniva fatto un bilancio generale onde avere sempre presente la reale situazione amministrativa. La comunità aveva anche il diritto-dovere di occuparsi delle questioni private delle famiglie che ne facevano parte. Bisticci fra coniugi, rapporti fra genitori e figli, la scelta del mestiere o l'educazione dei ragazzi, tutto doveva essere discusso a livello comunitario senza ritrosie o infingimenti. Occorreva il permesso della società anche per contrarre matrimonio, soprattutto quando il socio intendeva scegliersi il coniuge fuori della confraternita. In questi casi poteva anche essere esercitato il diritto di veto. Un rigoroso codice morale regolava il comportamento di tutti i membri. Si poteva infatti essere espulsi per bestemmia, per percosse alla moglie «non per giusta causa», per insulti ai ministri di Dio e ai rappresentanti del governo, per ubriachezza continuata, per vagabondaggio e per rifiuto dei sacramenti. La comunità dell'Amiata registrò subito un grande sviluppo. Soprattutto negli anni in cui David
potè seguirla personalmente, i risultati furono tali che molti gridarono al miracolo. Il successo dell'impresa convertì anche molti scettici che andarono a ingrossare le file della Lega ma, nello stesso tempo, allarmò non poco i ricchi possidenti della zona che certo non potevano vedere di buon occhio il progredire di un esperimento che, a loro giudizio, avrebbe finito per contagiare anche i loro mezzadri. L'aperta intonazione «di sinistra» della comune dell'Amiata non impaurì invece gli esponenti del partito clericale che, anzi, la incoraggiarono così come attizzavano a ogni occasione le agitazioni dei contadini, particolarmente intense nelle ex province pontificie, dove si faceva uso di slogan di ispirazione cattolica. Si intravedeva, insomma, in questo movimento che mescolava il fanatismo religioso alle concrete rivendicazioni sociali, uno strumento importante per combattere l'egemonia «dell'usurpatore subalpino» e per restituire alla Chiesa di Roma quel potere temporale di cui era stata privata con la forza. Ma il segreto del successo dell'iniziativa lazzarettista non deve comunque essere attribuito agli aiuti esterni (che ci furono) e al fanatismo religioso che animava tutti i membri della comunità. Se la fede fu indubbiamente il mastice che favorì l'aggregazione, i fattori che contribuirono al suo sviluppo furono soprattutto di natura economica e sociale, come l'assistenza mutualistica, la disponibilità di un fondo comune cui attingere nei momenti di crisi, l'organizzazione del lavoro collettivo nei poderi affidati alla società, lo scambio degli attrezzi e delle bestie da lavoro e la possibilità di barattare, senza fare uso del denaro, i prodotti della terra con quelli delle attività artigianali. La comunità era autonoma sotto ogni punto di vista. La dirigeva il «maestro generale» Vincenzo Tonioni, assistito dagli altri eremiti a ciascuno dei quali era stato affidato un particolare settore in cui erano più esperti. Il commerciante Cherubino Cheli sovraintendeva ai magazzini e ai rapporti d'affari con l'esterno; Paolo Conti dirigeva i falegnami; Vincenzo Paris era il capo della sartoria comune; Agostino Lorenzoni, patrigno di David, si occupava della calzoleria; i fratelli Federico e Angelo Bramerini, esperti capimastri, guidavano i muratori, mentre altri eremiti si occupavano degli scalpellini, dei pastori, dei barrocciai e dei braccianti. Inutile dire che l'attività principale della comune dell'Amiata era l'agricoltura, essendo la maggioranza dei soci formata da agricoltori. Questo settore, affidato all'abile guida di Raffaello Vichi, esperto fattore, diventò subito la fonte di reddito più importante. Un'accorta distribuzione del lavoro nei terreni appartenenti alla comune e l'ingresso nella stessa di un considerevole numero di braccianti provocarono, a un certo momento, una considerevole esuberanza di braccia da lavoro. Questa disponibilità permise alla Lega di allargare la propria attività e i propri guadagni prendendo in affitto vasti appezzamenti di terreno da coltivare nell'Amiata e anche a Baccinello in Maremma. Un'altra iniziativa molto importante fu la costituzione delle scuole rurali che David riuscì ad aprire, col permesso del governo, alle Macchie, a Zancona e in località Rondinelli. Vi insegnavano la maestra Angela Fioravanti, una delle più attive collaboratrici del profeta e un maestro elementare regolarmente assunto dalla società. In queste scuole, oltre lo svolgimento del normale programma, veniva ovviamente concesso molto spazio all'insegnamento della religione e allo studio dei testi davidiani. Per rafforzare l'unità del gruppo, ma anche per la sua inclinazione alle manifestazioni esteriori, David dispose che tutti i soci scolpissero sulla soglia delle proprie abitazioni il suo monogramma misterioso che era anche diventato lo stemma della comunità. Con la stessa sigla furono marchiati il bestiame, i mobili, gli attrezzi e la stessa biancheria. I membri della comunità adottarono anche una sorta di uniforme uguale per tutti disegnata dallo stesso David. Si trattava di un abito di lana grigia tessuto e cucito dalle donne della sartoria sociale. Gli uomini portavano sul cappello un cordone, pure di lana grigia, con cinque nodi «a memoria delle cinque piaghe di Gesù e dei cinque nodi della verga del Profeta». I membri della comune lavoravano sei giorni la settimana, «da
sole a sole», ossia dall'alba al tramonto svolgendo le attività a essi affidate. La sera del sabato tutti quanti, compresi i vecchi e i ragazzi, raggiungevano l'eremo di monte Labbro per adempiere alle pratiche religiose prescritte. Alle nove di sera cominciava la recitazione del rosario col canto di laudi composte da David. Seguiva una breve meditazione e poi, al lume delle torce, si formava una processione che scendeva nella grotta per rendere omaggio alla Madonna della Conferenza. Iniziava quindi il riposo e la gente, se la stagione lo consentiva, si coricava all'aperto, altrimenti trovava rifugio nell'eremo o in varie capanne che erano sorte accanto alla torre. A mezzanotte suonava la sveglia per i soli eremiti, che andavano a recitare il mattutino. Alle cinque si alzavano tutti per riprendere la preghiera. La giornata della domenica era dedicata al riposo e alle sacre funzioni. In quella giornata si svolgevano anche le riunioni dei dirigenti della Società alla presenza di David, il quale parlava poi alla folla alternando ai consigli pratici il racconto delle sue visioni e gli oscuri riferimenti alla sua missione misteriosa. La promiscuità fra i sessi che si verificava in quelle occasioni non avrebbe mai dato motivo a inconvenienti di sorta. Questo fu anche riconosciuto dalle autorità ecclesiastiche. Ma ad Arcidosso non mancarono le solite voci maligne che corrono sempre in questi casi. Si ironizzava soprattutto sul fervoroso attivismo delle «sagrestane», come venivano definite con scherno le donne nubili e le vedove emarginate che avevano trovato nella vita in comune la possibilità di realizzarsi. Molte di queste donne, che si riveleranno le più fanatiche seguaci del santo David, si erano trasferite stabilmente all'eremo insieme alle mogli degli eremiti per occuparsi della sartoria sociale, della cucina e degli altri lavori domestici. Ma ecco il racconto di una di quelle riunioni domenicali fatto dal frate filippino Giovanni Battista Polverini il quale, spinto, come lui afferma, dalle visioni di una penitente, aveva voluto raggiungere il monte Labbro per vedere con i propri occhi l'uomo del mistero. Era il 20 maggio 1871. Ciò che provò il mio cuore a quell'incontro è indicibile. Lo intesi e stupii. Era eloquente, energico e tutto di Dio; di una libertà nel dire che affascinava. La notte si passò quasi tutta in discorsi. Quando ci quietammo si prese sonno, ma credo che fosse tanto breve perché si vide subito apparire il giorno. La mattina ben presto ci levammo: veniva gente, cresceva di numero e si affollava in quel luogo deserto. Salimmo alla Torre da dove si vedevano le sottostanti campagne e la gente, per quanto scopriva l'occhio, in quantità su tutti i punti e tutti alla volta del monte. Eccoli, piano piano, arrivare a migliaia. Era uno spettacolo per me, un grande avvenimento vedere come una macchina che muoveva tutta quella gente. Erano circa le 11 quando David giudicò essere il momento che doveva leggere la sua visione. Durò circa due ore seduto sopra una roccia elevata e fece stupire per certe sue scappate che non poteva farle se non un profeta... Conquistato dal santo David, frate Polverini accettò di rimanere all'eremo come «eremita stanziale» col compito di celebrare la messa nella cappella. Naturalmente, il frate dovette chiedere il permesso al suo vescovo, monsignor Concetto Focacetti di Montefiascone, ma questi glielo accordò di buon grado interessato com'era, considerato il momento difficile che stava attraversando la Chiesa, a favorire lo sviluppo di una nuova comunità cristiana. Pochi mesi dopo, su richiesta dello stesso David che si recò a fargli visita, il vescovo acconsentì che anche un secondo frate, don Filippo Imperiuzzi, raggiungesse il collega sulle vette dell'Amiata per assistere spiritualmente quella comunità cristiana di cui tutti parlavano. Imperiuzzi, che possedeva un diploma di insegnante elementare, fu incaricato da David di occuparsi dell'educazione dei ragazzi insieme alla maestra Fioravanti. Polverini, invece, fu chiamato a sostituire l'«eremita scrivano» Coriolano Marcelli che, nel frattempo, aveva disertato la comunità ed era andato a schierarsi con i più accaniti detrattori del suo antico maestro. E vale qui la pena di notare che il tradimento di Marcelli tolse un grosso peso dal cuore degli altri
trentadue eremiti. David non aveva forse preannunciato che un Giuda si nascondeva fra loro? Ebbene, ora rutti sapevano chi era e gli altri potevano rasserenarsi. E' stato detto che la presenza dei due filippini permise a David di arricchirsi culturalmente e di acquisire una maggior sottigliezza dottrinaria. Se ciò è accaduto, si è tuttavia trattato di semplice riverniciatura. David era troppo sicuro di sé, troppo certo di essere l'inviato del Signore per accettare di modificare le proprie convinzioni. D'altra parte, lo stesso Polverini, che ebbe il compito di revisionare l'intera produzione letteraria del profeta e di trascrivere i suoi «avvisi» e il racconto delle sue visioni, ammetterà di non avere minimamente influito sul loro contenuto. «Il Maestro» racconterà «mi affidava tutti i suoi scritti e li voleva da me riveduti e corretti sebbene fosse molto geloso per quanto riguardava le "rivelazioni". Poco voleva che fosse corretto: soltanto gli errori di grammatica e dove non si intendeva bene il senso.» La comunità cristiana dell'Amiata, quando David cadrà in disgrazia sia con la Chiesa sia con lo Stato, verrà accusata di essere eretica, sovversiva e comunista e lo seguirà nella rovina. Ma ci fu veramente in essa un influsso ideologico del nascente movimento socialista? Quasi certamente no. David non si definì mai socialista, anzi considerò sempre il socialismo un'ideologia diabolica poiché di questa dottrina egli conosceva soltanto ciò che sentiva dire dai preti o che leggeva nelle pubblicazioni clericali. E' quasi certo, per esempio, che lui non ebbe mai fra le mani uno di quegli opuscoli di propaganda socialista che già cominciavano a circolare clandestinamente in Italia. Ciò lo si deduce dal fatto che se ne avesse posseduto anche uno soltanto, di sicuro i carabinieri che più volte perquisirono la sua abitazione in cerca di prove o di indizi che permettessero la sua incriminazione, non avrebbero esitato a denunciare la presenza di questi fogli sovversivi. Invece, sui verbali di sequestro figurano soltanto titoli di libri e di opuscoli «reazionari» e «clericali». Insomma, David fu socialista senza saperlo. Spinto da un'esigenza essenzialmente religiosa cercò di realizzare sulla terra quello che fu il sogno di tutti i movimenti millenaristi: una società basata sui principi socialisti del Vangelo. Il suo fu anche l'ultimo movimento di massa di stampo medievale. In seguito, infatti, le masse seguiranno altre strade e altre ideologie più moderne e più concrete. Riuscì tuttavia, sia pure per breve tempo, a realizzare ciò che altri profeti, santi o squilibrati, avevano cercato di realizzare nei secoli passati: una comunità cristiana primitiva che contestava e rifiutava il presente e si isolava dal resto del mondo costituendo una società autosufficiente, cementata dalla fede comune, che basava la propria sopravvivenza sul lavoro collettivo, la reciprocità e il baratto.
CAPITOLO IX. L'ARRESTO. I carabinieri arrivarono all'alba del 19 agosto 1871. Erano undici e li guidava la guardia municipale di Arcidosso, Ettore Farneschi. Attraversato il Campo di Cristo, si avvicinarono in silenzio alla casa: quattro si appostarono all'esterno per evitare eventuali tentativi di fuga, gli altri si diressero verso l'uscio e bussarono con forza. Venne ad aprire lo stesso David che indossava la solita cappa rossa. «Siate i benvenuti» disse come se fosse preparato a quella visita. I carabinieri irruppero nell'interno con le armi in pugno. Dalla camera da letto uscì la Carola con gli occhi pieni di paura. Aveva in braccio il piccolo Roberto, che in quei giorni era più ammalato del solito. Turpino e Bianca la raggiunsero poco dopo più assonnati che impauriti. Mentre Farneschi sostava sulla soglia osservando la scena con un sorrisetto maligno, i carabinieri
cominciarono a rovistare dappertutto. Raccolsero opuscoli, libri, quaderni e i registri contabili delle società per farne un pacco da portare via. Poi il brigadiere si rivolse a David: «Vi dichiaro in arresto» disse. «Avete qualche minuto per prepararvi.» «Sono già pronto» rispose David, e porse i polsi ai militi affinchè lo incatenassero. Poi, dopo avere rivolto qualche raccomandazione alla moglie che lo guardava impietrita con un figlio al collo e due attaccati alla gonna, seguì docilmente i carabinieri. Il gruppo percorse a piedi l'impervio viottolo che conduceva alla strada carrozzabile, poi prese posto sopra una carretta militare sulla quale già si trovavano un ufficiale dell'Arma e il delegato di pubblica sicurezza. David rifiutò di sedersi e rimase in piedi, al centro del carro traballante, circondato da tutti quegli uomini in armi che parevano reduci da un'operazione antibrigantaggio piuttosto che da una banalissima azione di polizia. L'arresto del profeta di monte Labbro era stato ordinato il giorno prima dal tribunale di Grosseto su denuncia dello stesso prefetto della provincia, Cotta Ramusino. Da tempo, come sappiamo, le autorità locali cercavano un pretesto qualsiasi per togliere di circolazione questo scomodo personaggio, il cui attivismo religioso e sociale non aveva mancato di sollevare sospetti. Perdurava insomma la convinzione che sotto le mentite spoglie del profeta bonaccione e stravagante si celasse un furbo matricolato al servizio del partito clerico-reazionario, che mirava a provocare disordini nelle campagne per restaurare i passati governi. Il pretesto per arrestarlo lo aveva fornito proprio il «giuda» Coriolano Marcelli. Costui, o perché spinto da motivi di rancore personale o, più probabilmente, perché indottovi dai nemici di David che, ad Arcidosso, si facevano sempre più numerosi, aveva inviato al prefetto di Grosseto un dettagliato rapporto in cui accusava il suo antico maestro di oscure macchinazioni sovversive nonché di truffe e raggiri ai danni dei suoi ingenui seguaci. Sulla base appunto di questa denuncia, che il prefetto si era affrettato a consegnare all'autorità giudiziaria, il tribunale aveva ordinato l'arresto preventivo di David Lazzaretti «per istigazione a commettere disordini, per questua illecita e per frode aggravata e continuata». Affidando ai carabinieri l'esecuzione del mandato di cattura, il magistrato si era anche raccomandato che all'arresto venisse data «la massima solennità onde intimidire e scoraggiare i seguaci del ciurmadore». Se con quell'azione dimostrativa si intendeva veramente fare gran rumore, lo scopo fu pienamente raggiunto. Quando la carretta che trasportava David, la cui figura ieratica e gigantesca emergeva fra i carabinieri che lo circondavano, giunse ad Arcidosso le strade si riempirono di gente. Si formarono subito due gruppi numerosi: da una parte i nemici e i denigratori del profeta, dall'altra i membri della comunità di monte Labbro facilmente riconoscibili per le loro uniformi di lana grigia e i cappelli dai lunghi cordoni. Ci furono anche momenti di grande tensione: volò qualche sasso, si udirono grida minacciose e scoppiarono dei tafferugli tra le frange più estremiste dei due gruppi, tanto che l'ufficiale ordinò ai suoi uomini di tenere pronte le armi. Ma non si andò oltre, perché David, che con una sola parola avrebbe potuto provocare una rivolta popolare dalle conseguenze imprevedibili, intervenne dall'alto del carro per invitare i suoi seguaci alla calma e alla rassegnazione. «Questo è il mio calvario» disse fra l'altro «ma non è ancora giunto il momento della mia crocifissione.» Il profeta appariva sereno e per niente intimidito. Anzi, come riferirà lo stesso ufficiale dell'Arma, «sembrava piuttosto lusingato di trovarsi al centro di quella rumorosa manifestazione». Il giorno seguente il prigioniero fu tradotto a Scansano, una località collinare dove, da giugno a settembre, tutti gli uffici pubblici di Grosseto si trasferivano per «l'estatura». Anche qui si ripeté la stessa scena del giorno precedente, con la sola differenza che i sostenitori dell'uomo di Dio erano in netta minoranza. La carretta avanzava dunque fra una folla di curiosi che deridevano e schernivano quello strano prigioniero avvolto nella tunica rossa, dando vita a una
situazione che pareva tolta da una rappresentazione della via crucis, quando accadde un fatto inatteso che sollevò grande impressione. Da una lussuosa carrozza che si era affiancata al corteo discese infatti un maturo signore dall'aria autorevole il quale, dopo essersi fatto largo agitando il bastone dal pomo dorato, andò a inginocchiarsi proprio davanti alle zampe dei cavalli che trainavano la carretta. Nel silenzio generale che aveva seguito quella scena, lo sconosciuto si fece compitamente il segno della croce poi si levò in piedi, passò fra i carabinieri che lo osservavano allocchiti e, manifestando profonda commozione, volle baciare le mani incatenate di David al quale poi rivolse espressioni di stima e di ammirazione nonché la promessa del suo personale e disinteressato intervento in suo favore. Lo sconosciuto che aveva bloccato il corteo davanti alle carceri di Scansano era l'avvocato Giovanni Salvi, già procuratore generale del Granducato di Toscana, il quale, costretto a lasciare l'alto incarico dopo l'annessione, si era ritirato a vita privata nelle sue vaste tenute agricole. Giovanni Salvi, che David scambierà per «l'inviato della Provvidenza», si prese effettivamente a cuore la sorte del prigioniero. Sfruttando le vaste amicizie che ancora contava negli ambienti giudiziari, ottenne infatti per il suo protetto la libertà provvisoria nel giro di soli otto giorni. E poiché tale libertà venne concessa a patto che David rimanesse a domicilio coatto in Scansano fino alla conclusione dell'istruttoria, Salvi non esitò, sotto la sua personale responsabilità, a ospitare David nella sua villa dove, più tardi, il profeta fu raggiunto anche dalla moglie e dai figli. I fatti successivi dimostreranno che a spingere l'ex procuratore di Leopoldo di Lorena in aiuto di David non fu semplice solidarietà umana ma calcolo politico. Salvi, infatti, era da tempo a conoscenza di quanto stava succedendo nell'Amiata e anche lui, come molti altri, si era convinto che sotto la tonaca scarlatta del profeta arcidossino si celasse un agente del papa o quanto meno un potenziale alleato di tutti coloro che mal sopportavano la dominazione piemontese. Per questo e solo per questo Giovanni Salvi era intervenuto in suo aiuto e per questo, come vedremo, spenderà tempo e denaro per favorire lo sviluppo della comunità religiosa dell'Amiata. David rimase ospite nella villa di Giovanni Salvi per sette mesi. Tanto infatti durò l'istruttoria che poi si concluse in suo favore con un'assoluzione per palese insussistenza dei reati attribuitigli. Grazie alla presenza del profeta, villa Salvi diventò in quel periodo luogo d'incontro di strani personaggi abituali frequentatori degli ambienti clericali e antiunitari: monsignori trafficoni, agenti del granduca, legittimisti francesi, monache visionarie, avventurieri, predicatori e anche fanciulle ricche e romantiche in cerca di emozioni. Figuravano, fra gli altri, l'avvocato Cosimo Cempini, di Firenze, figlio di un ministro di Leopoldo e noto attivista reazionario; monsignor Carli, un vescovo cappuccino missionario, don Pierini, spiritista, poliglotta e direttore della «Buona Novella», giornale clericale fiorentino; miss Alice Gordon, una ricca e bella ereditiera britannica che si innamorerà di David e che, per amor suo, abiurerà la fede anglicana per farsi cattolica e sovvenzionerà abbondantemente la comunità dell'Amiata; e ancora frate Gioacchino da Scai, campione del potere temporale della Chiesa che diventerà padre spirituale di David per trasformarsi poi in suo accusatore quando il profeta sarà chiamato davanti al Sant'Uffizio. Più tardi giunse a Scansano anche una stravagante monaca francese, suor Marie Gregoire de la Charité de Saint Louis Roi de France, destinata a svolgere una parte importante nella sconcertante vicenda terrena del profeta di Arcidosso. Suor Marie Gregoire, legata agli ambienti clericali più retrivi di Francia, era una visionaria che fin dal 1861 si era votata alla «ricerca dell'Eletto di Dio scelto per restaurare il trono di Francia». La data di nascita della sua vocazione è significativa, perché fu in quell'anno che Napoleone III ruppe i rapporti con i clericali francesi che fino a quel momento lo avevano sostenuto. Questa monaca, che si era evidentemente nutrita delle stesse
letture profetiche che avevano sconvolto la mente del barrocciaio Milleidee, e in particolare delle lettere di san Francesco da Paola, appena aveva avuto notizia della predicazione di Lazzaretti e dei suoi misteriosi accenni al «seme di Pipino» che gli scorreva nelle vene si era subito convinta di avere finalmente trovato «l'atteso re». Gli scrisse un paio di lettere ardenti di fede e quindi lo raggiunse a Scansano per annunciargli esultante: «c'est Vous méme qui Dieu juge digne d'étre le Roi future de la France...». L'incontro fra i due visionari, svoltosi alla presenza del prete Pierini che fungeva da interprete, assunse toni allucinanti. La suora, emozionatissima, raccontò a David le sue visioni e questi la ripagò con la stessa moneta. Parlarono a lungo, in piena estasi mistica, e nacque da quel momento fra i due un rapporto spirituale destinato a durare molto a lungo. L'incontro con la monaca francese ebbe anche l'effetto di rinverdire nella mente confusa di David le sue antiche rivendicazioni dinastiche che, per la verità, da qualche tempo aveva messo in disparte, preso com'era dall'impegnativo esperimento comunitario che stava portando avanti fra i montanari dell'Amiata. Sarà infatti questa monaca a indurlo a trasferirsi in Francia «per prendere possesso del trono che gli spettava per diritto divino» e gli preparerà la strada annunciando il suo arrivo negli ambienti legittimisti e prendendo persino contatto col conte di Chambord, pretendente al trono, al quale propose un «coordinamento delle rispettive missioni». A Scansano, nella villa di Giovanni Salvi, prendevano corpo in un'atmosfera impregnata di cinismo, di furberia pretesca e di disarmante buonafede altri oscuri disegni reazionari che, ciascuno a suo modo, i vari ospiti covavano nel proprio animo. Interessati osservatori provenienti anche da altri paesi europei fecero in quel periodo ripetute visite alla Nuova Sion di monte Labbro, ora per sondare le segrete aspirazioni di quegli onesti montanari, ora per studiare la natura del terreno e anche la possibilità di nascondervi degli uomini e delle armi. C'era evidentemente l'intenzione di strumentalizzare il movimento lazzarettista come nucleo centrale di un'armata contadina sanfedista che, come molti speravano in quei giorni, avrebbe potuto favorire un moto rivoluzionario il cui principale obiettivo non poteva essere che la riconquista dello Stato pontificio. E, a dire il vero, non doveva trattarsi di velleitarismi di pochi nostalgici isolati, visto che a Roma il governo italiano era in continuo allarme e la paura di un'aggressione da parte della «Francia clericale» era tale che proprio in quell'anno si erano rafforzate le difese sul confine e ampliati gli arsenali di La Spezia e di Taranto. Ci si chiede ancora oggi se David Lazzaretti si rese mai conto che l'interesse sollevato attorno a lui dall'avvocato Giovanni Salvi aveva ben poco a che vedere con la sua conclamata missione divina. Probabilmente non si accorse di nulla. E tale ipotesi trova conferma anche in alcune sue scoperte ingenuità che gli alienarono la fiducia di molti suoi protettori. Il primo ad abbandonarlo al suo destino fu l'avvocato Cosimo Cempini. Uomo d'azione, cinico e spregiudicato, il Cempini in un primo tempo tentò addirittura di monopolizzarsi il profeta togliendolo dalle mani del Salvi e dei suoi amici per portarselo a casa sua, a Firenze, con la scusa che il secondogenito di David, Roberto, era bisognoso di cure. Questo accadeva nel dicembre del 1871. «Uno di questi giorni» scriveva in quel periodo David a Beppe Corsini «si mette sotto l'operazione di Roberto. I medici dicono che non vi è nessun pericolo e che in pochi giorni guarirà.» Invece Roberto, che soffriva del «mal della pietra» (un calcolo alla vescica), morì sotto i ferri. A questa sventura ne seguì subito un'altra: il Cempini, che restando a contatto col suo strano ospite si era evidentemente convinto che in David non c'era la stoffa del guerrigliero che lui andava cercando, gettò letteralmente in strada l'intera famiglia Lazzaretti gridandogli dietro che non voleva aver più niente da spartire «con quella banda di mentecatti». In soccorso di David giunse per fortuna Alice Gordon che ospitò gli sfrattati nella sua casa, pagò di sua tasca le spese mediche e il funerale del ragazzo e quindi ricondusse tutti quanti a Scansano
presso il Salvi, in quanto David rischiava una denuncia per aver abbandonato il domicilio coatto. Strano impasto di presunzione sconfinata, di astuzia contadina e di ingenuità disarmante, il profeta visionario continuava a credere di essere al centro di una vicenda soprannaturale. In tutto quello che gli accadeva intravedeva un disegno della Provvidenza, sia che si trattasse della morte del figlioletto sia che si trattasse della predizione di una monaca squilibrata. Per questa ragione i suoi interessati protettori avevano buon gioco con lui. Essendo sinceramente convinto della sua natura misteriosa, non si stupiva affatto che persone ricche e colte gli mostrassero tanta devozione. Non si insospettiva neppure del continuo viavai che, in quei giorni, si registrava sia in casa del Salvi sia a monte Labbro dove lui era tornato a vivere nella primavera del 1872. Non lo insospettivano neppure le domande dei suoi visitatori che, abbastanza spesso, erano chiaramente politiche. Probabilmente, nella sua ingenua presunzione, qualche volta si lasciò scappare delle risposte compromettenti senza rendersene conto e solo perché spinto da quel suo spirito megalomane che mirava a sorprendere gli ascoltatori. Come quando confidò a un tale, che si diceva inviato del re di Napoli, di essere in grado di portare «trentamila uomini di macchia in macchia fino a Roma», o come quando rivelò a un altro emissario che gli chiedeva se poteva ospitare un certo numero di uomini, di disporre di «una caverna in cui possono celarsi anche cento armati». Ma occorre precisare che queste frasi, opportunamente virgolettate ed estrapolate dal loro contesto, sono state tolte dai rapporti degli agenti di polizia i quali, o per bene meritare presso i superiori, o per avallare una tesi precostituita, potrebbero aver forzato la mano e sbrigliato la fantasia. E' anche probabile che certi comportamenti ambigui assunti da David in questo periodo siano stati dettati da motivi di interesse che potevano avvantaggiare la sua comunità. Non si può infatti escludere che, pur di accattivarsi la fiducia dei suoi protettori, spesso assai prodighi con lui, abbia finto di stare al loro gioco senza capirlo completamente. Significativo potrebbe essere il suo rapporto con Giovanni Salvi, il quale, fra l'altro, gli procurò anche il denaro necessario per acquistare due edifici ad Arcidosso che dovevano diventare la sede della Società delle famiglie cristiane (l'affare non si concluse, ma solo perché il proprietario all'ultimo momento cambiò idea). Di Salvi, Lazzaretti aveva piena fiducia. «Io sono in casa di un eccellente signore» scriveva a Beppe Corsini quando stava a domicilio coatto in Scansano «il quale ha preso l'incarico della mia difesa. E' un vecchio magistrato dell'antico governo toscano, un certo Giovanni Salvi, ed è pure un ricco signore, buono, religiosissimo e cristiano. Altri signori di Firenze si sono impegnati nella mia causa. Vivete tranquilli che io ho buoni appoggi e non posso negare che prodigiosamente mi vengono tutti per mano della divina Provvidenza.» L'uomo della Provvidenza, ossia Giovanni Salvi, si interessò a lungo di David: gli corresse i «codici morali e politici», gli revisionò gli statuti delle società e lo tolse d'impaccio anche in una questione fiscale in cui venne coinvolta la comunità agricola dell'Amiata. Ma anche il Salvi non tardò molto a rendersi conto che il suo protetto non era il capopopolo che lui andava cercando. E se gli rimase vicino e continuò a manifestargli amicizia fu per motivi niente affatto politici. Salvi affidò infatti a mezzadria tutti i suoi vigneti alla comunità del monte Labbro e, a quanto risulta dai rapporti di polizia, ne trasse un notevole vantaggio per via del grande impegno con cui gli ingenui montanari assolsero finché potettero il loro compito.
CAPITOLO X. L'INFILTRATO. Dopo il proscioglimento di David Lazzaretti con ordinanza
del tribunale di Scansano del 9 marzo 1872, le autorità locali di polizia continuarono le indagini nella speranza di trovare altre prove che potessero in qualche modo fornire gli strumenti necessari per stroncare l'esperimento comunitario di monte Labbro. In questo senso furono compiuti anche alcuni tentativi per via amministrativa, ora cercando di applicare un articolo del codice toscano (peraltro decaduto) che vietava le associazioni segrete, ora ricorrendo al trucco di far considerare la comunità religiosa una normale società commerciale onde poterla mettere in crisi mediante un aggravio fiscale insostenibile. Ma tutto si era rivelato inutile in quanto lo scaltro avvocato Giovanni Salvi, in qualità di patrono della comune dell'Amiata, non aveva faticato molto per dimostrare l'inapplicabilità di quelle norme antistatutarie. Pressato dai possidenti arcidossini, ben decisi a combattere quella «società comunista che diseducava i mezzadri un tempo obbedienti e timorati», il prefetto di Grosseto chiese anche lumi al ministro dell'Interno. «Vostra Eccellenza» gli scriveva nel maggio del 1872 «conosce quali siano i miei principi e quale sia la mia maniera di pensare; non vorrà quindi credermi un pessimista, ma vorrà invece ritenere che se dipingo il Lazzaretti come uomo pericoloso è perché il di lui contegno misterioso lascia fondati sospetti, e perché negli attuali momenti il partito reazionario è capace di qualsiasi eccesso, ben prevedendo che più non gli resta altra via se non quella di suscitare disordini...» Dal ministero risposero al prefetto di continuare le indagini, ma di fare anche in modo che «le commendevoli investigazioni non venissero ancora annullate dall'autorità giudiziaria che già due volte aveva mandato assolto il Lazzaretti...». Per non fare per la terza volta una brutta figura, il prefetto Cotta Ramusino decise a questo punto di non prestare più orecchio alle delazioni e alle voci raccolte nelle osterie di Arcidosso, ma di inviare un suo uomo di fiducia a compiere un'attenta inchiesta proprio nel covo del profeta. Per compiere questa delicata missione da infiltrato fu scelto il delegato di pubblica sicurezza Cesare Riccardi, un funzionario che già si era segnalato per la sua abilità in operazioni del genere. Quello che segue è appunto il rapporto del Riccardi da lui stesso redatto al termine della sua missione: All'illustrissimo signor prefetto di Grosseto. In relazione all'incarico dalla S.V. affidatomi, mi pregio esporle dettagliatamente i risultati della riservata investigazione fatta sul conto di David Lazzaretti d'Arcidosso, il quale dopo essere riuscito a creare proseliti e fantasticherie religiose che rivelano la rozza copiatura di alcune pagine dell'Apocalisse, e per la quale s'affibia la qualità di profeta, costituiva ultimamente una società religioso-economica che, basandosi sulla comunione dei beni, e facendo credere in specie alla classe dei contadini, che in un tempo prossimo è destinata a rigenerare l'umanità, riesce al fine di formare una società nella società, svincolata da legami esterni di parentela e di patria, e fedele solamente e ciecamente allo indirizzo del partito che tende a dominarla e pel cui profitto viene istituita. Importava determinare quale effettivamente potesse essere l'intento del David Lazzaretti nel farsi credere un illuminato; se questo fatto nascondesse sotto le apparenze di una monomania religiosa uno scopo diverso; quale influenza il sedicente profeta sia riuscito ad esercitare; se e quali pericoli possano sorgere da essa; se dietro al simbolo popolare che si vuol fare del suo nome si nasconda l'azione di un partito politico e, nel caso, se questo ha cominciato ad agire moralmente con la propaganda o materialmente con atti preparatori all'azione. Per praticare questa esplorazione conveniva anzitutto agire con riserva, ricorrere a mezzi non consueti, atteggiarsi in modo di diminuire, per quanto possibile, l'attenzione dei piccoli luoghi che dovevansi percorrere, ove una persona nuova è facilmente osservata e studiata, raccogliere con attenzione e disamina severa tutte le circostanze che direttamente o indirettamente rifluiscono al nome del Lazzaretti, giungere francamente a lui, interrogarlo, strappargli, se possibile, il segreto della sua condotta, o se non altro ricercare le
probabilità dello scopo che si prefigge, tenendo conto degli apprezzamenti dei suoi amici, e dei giudizi dei suoi avversari. A questo intento, vestito da contadino mi diressi verso i monti di Santa Fiora e precisamente nel giogo roccioso di monte Labbro, ove il Lazzaretti ha stabilito da alcuni anni il suo quartier generale. Lungo la via diligentemente interrogai gli abitanti dei casolari sparsi sulla montagna ricercando nella confidente loquacità dei contadini qualche traccia della verità. Il nome del Lazzaretti è notissimo e popolare. Ad un raggio di venti miglia di distanza le convinzioni sono ancora vacillanti per ciò che riguarda la società di comunanza dei beni da esso fondata, benché da tutti si dica che in settembre si avranno alla medesima nuove numerose adesioni. Sostenute sono invece per ciò che riflette il carattere religioso e la ispirazione divina del Profeta. Il cangiamento che si vuole operato nella di lui condotta, la memoria che si ha del suo carattere virulento, confrontata colla posa mellifluamente «nazzarena» che ora assume, ha esercitato una impressione vivissima sulla limitata intelligenza dei contadini. Più però il circolo si stringe e il monte Labbro si avvicina, più la influenza del Profeta si estende e si fortifica. Non lo si discute più; lo si venera, lo si subisce come una individualità fatata, soprannaturale. Un fascino si è esteso per tutti quei poveri casolari; il David, o il Santo, come anche lo chiamano, per quegli alpigiani è il messia, l'uomo del Signore e beati i vicini suoi che potranno essere gli eletti per il giorno profetizzato della rigenerazione, in cui gli umili, cioè, secondo lui, i contadini, raddrizzeranno il mondo a loro piacimento. Nella credenza illimitata, senza esame, basata su di una fede che il Profeta esige cieca, quella povera gente ha perduto l'iniziativa personale in modo che il David la può muovere a suo capriccio, cominciando come fa ad amministrare per mezzo di un suo sedicente apostolo le poche sostanze, dalle quali preleva una tassa per il mantenimento della sua oziosità. Tenuto conto della difficoltà dell'incarico datomi, ed al fine di entrare naturalmente e logicamente sul terreno nel quale mi conveniva chiamare il Lazzaretti, reputai necessario fingermi con lui uno straniero e scelsi di farmi credere svedese, sapendo che v'era da lui un frate prussiano che avrebbe potuto distinguere l'accento tedesco o francese, lingue di cui potevo limitatamente usare. Decisi anche di aggiungere la mia appartenenza a un comitato cattolico. Con tale proposito giunsi il terzo giorno della mia investigazione al monte Labbro, sulla cui cima rimangono tuttora i ruderi giganteschi di una torre conica che il David fece erigere dai suoi adepti e che essendo stata fatta senza le regole dell'arte, diroccò quasi subito, per cui non conserva ora che l'aspetto informe di un ammasso di pietre che ha qualche cosa di druidico e la cui vista in quel luogo favorisce la tendenza all'immaginario e al soprannaturale. Mentre salivo con la guida la via scoscesa che si apre nella roccia, vedevo pure ascendere contadini con canestri di pere ed uova, omaggi tributati al Santo. Sulla spianata del monte, e al disotto dei resti della torre, si stanno facendo costruzioni murarie: una chiesuola con al di sopra alcune celle già finite, una grotta, i fondamenti di un vasto eremitaggio. Un frate e un prete mi vennero incontro ma io che avevo già ordinato alla guida di fare avvertito Lazzaretti che uno straniero desiderava parlargli, salutai rispettosamente quei due religiosi e mi diressi alla chiesuola ivi aperta, ove mi prosternai ginocchioni, tanto per sottrarmi alla curiosità dei due ecclesiastici, tanto per prepararmi con fermezza al primo incontro col ciurmatore, di cui mi importava conoscere le arti e il recondito scopo. Il David, avvisato dalla guida, domandava dalla cella ove fosse il forestiero che lo cercava. Annunciatoglisi che io ero in chiesa, parve si decidesse ad aspettare, ma giacché a me importava essere colto in quell'atteggiamento che mi valeva una presentazione e una dichiarazione di fede, credei di lasciare che la sua curiosità si eccitasse e lo spingesse a vedermi. Infatti, scorsi circa dieci minuti, venne a me e vistomi inginocchiato e assorto mi fece segno con la mano di ultimare ciò che stavo facendo e si
allontanò in punta di piedi indicandomi una scaletta dietro l'altare. Di lì a poco lo seguii ed entrai nella sua cella. Erano giunti contemporaneamente anche il frate ed il prete che avevo già veduti e che mi interrogarono del nome, cognome e patria. Risposi che ero dolente di non potermi che con molta difficoltà esprimere nella loro lingua, che venivo da Marsiglia e che ero svedese. Il Lazzaretti prese una carta geografica, la spiegò seriamente a rovescio, e ciò mi provò la sua cultura, per ricercarvi la situazione della Svezia, ma il frate con un'occhiata gli fece comprendere l'errore che il Lazzaretti si affrettò a riparare. Del resto, questo frate mi sembrò fin dal principio una delle ruote intelligenti che fanno muovere la macchina del Profeta. Riporto questi dettagli forse troppo minuti perché la natura grave dei fatti che mi restano da riferire venga a risultare dalla relazione esatta dei particolari che hanno preparato una fiducia che riuscì utile allo scopo prefisso. Quando vidi assicurato il primo passo, dissi a David che confidenziale desideravo che fosse il mio colloquio con lui e che lo pregavo quindi di accordarmi il favore di intrattenerlo da solo. Il prete si allontanò e anche il frate apparentemente fece lo stesso, ma invece entrò nella cella vicina e da una fessura dell'assito osservai costantemente i di lui occhi fissi su di me durante il lunghissimo colloquio di parecchie ore che ebbi col Profeta. Intavolato il discorso col Lazzaretti, gli dissi che non badasse all'abito che indossavo perché la necessità di non destare l'attenzione delle autorità italiane e dei curiosi mi aveva imposto quel travestimento, che io appartenevo a un comitato cattolico di Marsiglia dalla quale provenivo per la via di Livorno e che il grido della sua missione giunto al mio partito aveva reso necessaria una più larga conoscenza dell'uomo per vedere quale vantaggio potesse trarsi nei frangenti attuali della Chiesa da questo fatto anormale che non si sapeva ancora se chiamare miracolo, o atto di devozione alla causa: che dell'esito del colloquio dovevo riferire al sotto-comitato esistente a Roma ove dovevo recarmi dopo quell'incontro. La facilità fattami dal parlare un linguaggio strascicato, di poter al tempo stesso studiare la fisionomia di David e di usare pensatamente le frasi più appropriate alle espressioni che lasciava vedere, non gli lasciò dubbio alcuno sulla veridicità di quanto gli dicevo. Rispose che egli pure lavorava per la stessa causa e che a ciò aveva avuto missione da Dio; raccontò la sua vita, lamentò i suoi peccati antichi, esternò con fiele poco evangelico il suo astio contro gli arcidossini suoi compatrioti, parlò delle sue visioni che pubblicò a Prato e ad Arcidosso, di un viaggio nell'isola di Montecristo ove sentì le voci che guidano il suo destino. Ma continuando esso a divagare nella parte mistica che si assumeva davanti a me, procurai di richiamarlo su un terreno più pratico. Gli dissi che il comitato al quale appartenevo faceva assai calcolo su di lui, che il giornalismo clericale si sarebbe occupato risolutamente della sua missione, generalizzando la sua influenza, ma che esso tendeva a uno scopo diretto ossia a combattere con le armi temporali i nemici della Chiesa. A questa dichiarazione quell'uomo smise per incanto l'accento mistico, la parte nebulosa della sua parola scomparve, ed assunse il linguaggio comune che si usa nella trattazione di un affare. Espose come suo pensiero da qualche anno fosse sempre stato quello di finirla con la oppressione della Chiesa; che nei suoi opuscoli, in mezzo a molte verità aveva dovuto infiltrare qualche parola in omaggio all'ordine costituito per non incontrare disturbi e dietro suggerimento di una mente superiore. Aggiunse che, allo scopo di una riscossa di cui il pensiero traluce dai suoi libri, egli stesse da tempo preparando elementi di forza e di unione; che egli aveva 30.000 contadini (cifra che ritengo per ora esagerata) che poteva utilizzare e muovere come voleva; che manteneva molte relazioni più con individui che con gruppi o organizzazioni, sia in Italia che all'estero e che infine era in grado di guidare una truppa di macchia in macchia fin sotto Roma senza che alcuno la potesse scorgere. Aggiunse ancora come, qualche tempo addietro, due preti francesi ed un borghese che si mantenne silenzioso e
che si faceva chiamare signor de Larcy, dicendosi parente di un ex ministro francese, si fossero da lui presentati a nome di Don Carlos (del quale estrasse una fotografia dal pagliericcio e me la mostrò) chiedendogli se vi era in quei luoghi modo di occultare una sessantina di persone che sarebbero giunte da Porto Ercole. David rispose che il mezzo vi era ma i tre visitatori da quel momento non si fecero più vivi e non mandarono più alcun avviso. Mi raccontò ancora il David che cercò più volte di unirsi ad altre frazioni del partito cattolico ma che pur essendosi recato a Roma e nonostante l'interessamento di certo monsignor Nardi, suo protettore, non aveva potuto parlare con Sua Santità. Mi disse pure che coi suoi amici aveva realizzato una società nello scopo di raccogliere denaro per ultimare le opere iniziate a monte Labbro, che di questa società egli non teneva l'amministrazione ma che la teneva l'«apostolo» Tonioni; che al pretore di Arcidosso erano stati trasmessi gli statuti della società per regolarizzarla e che tre dirigenti della stessa si erano recati a Scansano per conferire con l'avvocato Giovanni Salvi e che questi aveva loro assicurato che essendo stato derogato l'articolo del codice toscano che proibiva le riunioni e le società segrete, nel nuovo Regno era permesso il libero sviluppo delle associazioni. Secondo quanto mi spiegò, i membri della società dovrebbero portare come segno di riconoscimento una medaglia sulla quale sarà incisa una croce col motto in hoc signo vinces. Strinsi vieppiù l'argomento e gli chiesi se in quella località si poteva trovare il modo di nascondere armi ad una evenienza. Mi rispose che il luogo era sicurissimo, mi condusse ad una grotta vicina alla torre diroccata ove disse che si potevano praticare nascondigli ma che comunque egli poteva nascondere armi fin che voleva nelle macchie dove operano molti suoi fedeli. Mi precisò inoltre che stava per acquistare a Firenze un torchio tipografico dalla stamperia del giornale «La Buona Novella» e che ove il comitato cui ero iscritto se ne fosse voluto servire avrebbe da quel luogo potuto diramare sicurissimo tutto ciò che voleva; e che non era il caso di preoccuparsi delle autorità, le quali avevano già tentato invano altre volte di colpirlo perché allarmate dal moto generale che lui stava operando negli animi. Nello scopo di vedere fino a qual punto concreto egli fosse per venire, io gli osservai che il fatto delle armi non era una cosa vaga e che io attendevo da lui una risposta esatta e precisa. A questa interpellanza mi condusse all'aperto sui ruderi della torre, mi indicò due lunghe linee di boschi che si perdevano nell'orizzonte: una, egli disse, conduce a Porto Ercole, luogo di sicuro sbarco, l'altra a Roma. Ella senta il comitato, continuò, gli faccia conoscere che ho bisogno di sussidi anch'io per la stessa opera e poi torni o mandi qualcuno. Dica che posso cedere loro le celle di cui abbisognano nel caso che intendessero stabilire qui un loro centro d'azione. Io osservai a questo punto che essendo difficile di potere io stesso tornare, lo pregavo di lasciarmi un segno di riconoscimento. Egli prese allora un pezzetto di carta, tuffò nell'inchiostro l'impronta di una P, vi aggiunse i segni: D C e me lo porse dicendo che chiunque portasse un segno uguale, o alla lettera che con tali note pervenisse a monte Labbro, egli avrebbe prestato fede come a persona o scritto venuto dal comitato. Dopo questo io lo lasciai dicendogli che sarei andato a riferire della sua offerta ai miei superiori i quali solo avrebbero potuto prendere una decisione definitiva. Nell'unire il segno lasciatomi dal Lazzaretti, credo ora necessario riassumere le impressioni che il fatto anormalissimo di questa ciurmeria estesa largamente, desta nella parte più intelligente di quegli abitanti che assistono all'incontestabile suo progresso con giusta meraviglia. Da qualche anno dal monte Labbro si fa una propaganda continua di idee mistiche avvolte nel segreto le quali, per loro natura, attecchiscono facilmente nei corti intelletti di quei valligiani. E vi producono qualche cosa di più di una convinzione, vi producono lo scrupolo della fede che tende a creare una massa devota e cieca, ossia un elemento pericolosissimo nella evenienza di torbidi. Un David Lazzaretti furbo e intrigante vuole di una apparente umiltà evangelica
farsi un altare o, per lo meno, una sinecura. Parecchi piccoli possidenti che creano una società la quale offre loro tutti i vantaggi della amministrazione e tutto l'utile di avere un nucleo compatto di persone indeclinabilmente legate alla loro causa. Un orgasmo e un'agitazione che si sono estesi nella classe contadina e attraverso i quali si infiltrano nelle masse tendenze a miglioramenti immaginari danno vita a una parvenza di «internazionale» resa assai più pericolosa dallo innesto in essa del fanalino religioso. Infine un lavoro sotterraneo di cui l'intenzione, il concetto definitivo sono noti e che riesce a costituire un corpo di individui da poter gettare al tempo opportuno nella lotta, raccolto nell'ombra in luoghi quasi inaccessibili, nei quali la sorveglianza è difficilissima. Questi sono i fatti che si verificano a monte Labbro e che creano a parere della sana opinione pubblica una situazione eccezionale. Da essa traesi argomento a sperare che il Governo impedirà lo sviluppo ulteriore di questo vivente anacronismo storico che irrita la coscienza del paese e la sua tolleranza. E a questo proposito non devo tacere che i fautori del Profeta David Lazzaretti dicono ad alta voce che l'autorità giudiziaria non agirà mai contro di lui. Risolto così il mandato conferitomi, lascio alla S.V. il decidere e provvedere su quanto resti da fare nell'argomento. Il delegato di P.S. in missione Cesare Riccardi. Che dire del rapporto dell'infiltrato Riccardi? Anche un'analisi superficiale rivela in primo luogo il tentativo di drammatizzare al massimo una missione che in realtà non presentava il minimo rischio. E' pure abbastanza chiaro, malgrado le evidenti forzature, che David accolse senza sospetti lo spione: non gli chiese credenziali, si dimostrò fin troppo ben disposto alla confidenza e affrontò temi compromettenti, come la possibilità di nascondere armi e armati, con una ingenuità davvero sconcertante. Si sarebbe comportato in questo modo un potenziale guerrigliero? Certamente no. Semmai, leggendo attentamente il rapporto, si ricava l'impressione che David fosse abituato a questo tipo di domande insidiose e che si fosse rassegnato a stare al gioco (lui avrebbe preferito parlare di se stesso e della sua missione divina) solo perché aveva imparato che quello era l'unico modo per fare allargare i cordoni della borsa dei suoi interessati visitatori. Lo stesso Riccardi, infatti, sottolinea l'interessamento del profeta a proposito di eventuali sussidi. Di questa opinione deve essere stato anche il prefetto Cotta Ramusino. Egli infatti non prese alcun provvedimento contro la comunità lazzarettista. Anzi, da quel momento, sia lui sia i suoi successori, si disinteresseranno di «quella manica di matti dell'Amiata» considerandola una comunità di brava gente nient'affatto pericolosa. Questo almeno fino a quando, per ragioni religiose e politiche, si renderà opportuno trasformare quel manipolo di devoti montanari in una banda di rivoluzionari intenzionata a travolgere l'ordine sociale esistente.
CAPITOLO XI. IN FRANCIA. L'estate del 1872 segnò il momento più bello della breve vita della comunità di monte Labbro. Tutto andava bene: David era tornato dal lungo esilio di Scansano completamente affrancato da ogni pendenza giudiziaria; i bilanci fatti dopo la stagione dei raccolti avevano registrato un attivo superiore a tutte le previsioni. Il futuro insomma si prospettava roseo e incoraggiante, tanto più che, oltre all'aumento delle possibilità di lavoro, pareva che le autorità di polizia si fossero finalmente rassegnate ad accettare la nuova realtà che si era instaurata nell'Amiata. «Dio è con noi» affermavano soddisfatti quei devoti montanari ormai certi di avere stabilito un rapporto diretto con
il cielo. E manifestavano la loro gratitudine partecipando in massa alle riunioni settimanali che, in quelle domeniche estive, trasformavano la brulla vetta del monte in un festoso formicaio. Altri avvenimenti esaltanti avevano contribuito a rafforzare la già grande popolarità del santo David. A fine maggio era stata ufficialmente consacrata la cappella dell'eremo con la partecipazione di monsignor Carli, di altri ecclesiastici giunti da Roma e da Firenze oltre ai rappresentanti di tutte le parrocchie dell'Amiata. Don Giovanni Battista Polverini, che tutti chiamavano familiarmente «don Tista», aveva celebrato commosso la prima santa messa dopo che, assieme al collega Filippo Imperiuzzi, era stato nominato «eremita stanziale». Poi erano cominciate le visite all'eremo da parte di personaggi autorevoli che giungevano da Grosseto in carrozza, pagando «anche cento lire al vetturale», come riferirà allarmato il delegato di pubblica sicurezza di Arcidosso. L'arrivo di questi signori, molti dei quali stranieri, che giungevano da luoghi lontani per venerare l'uomo di Dio non poteva non colpire profondamente la fantasia di quei montanari, più che mai orgogliosi del grande ascendente che il loro David si andava conquistando anche fra le persone ricche e istruite. Tra i frequentatori più assidui figurava la ragazza inglese Alice Gordon che David aveva conosciuto nella villa dell'avvocato Salvi a Scansano. La giovane, che contribuirà generosamente alle spese per la costruzione dei nuovi edifici progettati, si stabilì addirittura nella casa del profeta al Campo di Cristo e vi rimase fino alla fine dell'estate. Vale qui la pena di riferire che la presenza della bella giovane sotto lo stesso tetto di David sollevò molte chiacchiere ad Arcidosso e anche qualche sorrisetto malizioso fra gli stessi membri della comunità. Questi, d'altra parte, erano tutti piuttosto tolleranti riguardo ai cosiddetti peccati della carne, giudicando, come predicava il santo David, molto più grave «rubare la roba d'altri» che «desiderare la donna d'altri». Pare tuttavia sia da escludere che l'infatuazione evidentissima che la giovane inglese provava per l'ascetico montanaro dagli occhi azzurri abbia valicato i confini del rapporto spirituale. La stessa Carola, che non era certo un'ingenua, non se ne preoccupò punto. Anzi fu sempre affettuosamente vicina all'ospite straniera, parendole forse più che naturale che tutti si lasciassero affascinare dal suo straordinario consorte. Durante questo suo soggiorno a monte Labbro, la bella Alice, ormai completamente coinvolta in quell'atmosfera mistica, decise di abiurare la fede anglicana e farsi cattolica. La suggestiva cerimonia, celebrata dal vescovo Carli, si svolse una sera di fine agosto alla presenza di centinaia di persone. La festa continuò per buona parte della notte fra canti e fiaccolate. In seguito la neofita sarà costretta ad abbandonare l'eremo e l'Italia dai familiari, venuti a riprenderla perché allarmati dal suo comportamento. Pare sia morta alcuni anni dopo avvelenata, così almeno si disse allora a monte Labbro. Oltre gli aiuti finanziari di Alice Gordon (questo sarebbe stato in realtà il vero motivo che indusse i suoi congiunti a farla rientrare in Inghilterra), la comunità dell'Amiata ricevette molti importanti contributi da suor Marie Gregoire. La visionaria religiosa bretone, ormai convinta di avere rintracciato quel «re di Francia» che andava cercando da molti anni, dopo la visita a Scansano era tornata in patria per svolgere un'attivissima propaganda in favore del profeta toscano. Curiosamente, aveva trovato ascolto e rispondenza negli ambienti clericali e legittimisti, tanto che era riuscita a raccogliere una grossa somma di denaro che subito si era affrettata a portare a monte Labbro. David, disinteressato come sempre, non aveva da parte sua esitato a depositare l'intera somma nelle casse della comunità affinchè fosse utilizzata per provvedere all'allargamento della cappella e dell'eremo, edifici questi che, essendo stati progettati quando i «veri credenti» erano pochi, ora si rivelavano alquanto angusti, tanto che durante le cerimonie molti fedeli dovevano rimanere all'esterno. In quell'estate piena di speranze e di avvenimenti prodigiosi, si era stabilito nell'eremo anche frate Mikus, antico compagno di David in
tante prove ascetiche. Ma, a dire il vero, il trasferimento di Mikus (dovuto soprattutto alle insistenze degli eremiti che si recavano in pellegrinaggio alla grotta del Beato Amedeo) non aveva dato buoni risultati. Il frate prussiano non aveva per niente modificato il suo carattere scorbutico né compiuto il minimo sforzo per accattivarsi la simpatia dei suoi nuovi compagni. Misantropo e misogino, tendeva a isolarsi, manifestava disapprovazione per quelle manifestazioni esteriori, piene di calore umano di cui David invece si compiaceva tanto e, soprattutto, non nascondeva una certa gelosia verso tutti coloro, in particolare le donne, che mantenevano rapporti affettuosi col profeta. Questo suo attaccamento morboso ed esclusivo alla persona di David (così forte da far sospettare un latente istinto omosessuale), Mikus lo rivelava anche nei rapporti con la famiglia Lazzaretti, quasi vedesse in essa un ostacolo all'elevazione ascetica del suo compagno. Insofferente con i piccoli Turpino e Bianca, era apertamente sgarbato con Carola. La donna, che evidentemente continuava a nutrire nel segreto dell'animo qualche dubbio sulla missione divina del suo fantasioso consorte, appena arrivato Mikus all'eremo subito gli aveva chiesto la conferma di quei fatti prodigiosi che si erano verificati nella grotta del Beato Amedeo. In particolare, la Carola voleva spiegazioni circa il misterioso «bollo» che David portava sulla fronte. Ma le domande della moglie curiosa avevano avuto l'effetto di fare infuriare il frate che aveva insultato la donna definendola scettica, miscredente e indegna compagna dell'uomo di Dio. Da quel momento, il rapporto fra i due si era praticamente rotto e la Carola non aveva mancato di lamentarsi col marito del comportamento ostile di Mikus. Anche i due frati filippini, e molti eremiti, si erano lamentati del frate prussiano venuto a turbare col suo atteggiamento scontroso la serena convivenza comunitaria. David però lo aveva sempre difeso, limitandosi a dire che tutto dipendeva «dall'indole tedesca che è aspra e barbara». Malgrado la presenza del turbolento frate, l'operosa e devota comunità amiatina prosperava serena. Le casse sociali erano ben fornite di denaro, sull'eremo muratori e scalpellini lavoravano di buona lena mentre i poderi comunitari, come quelli presi in affitto, erano curati come giardini. Ma David non era soddisfatto. L'irrequieto profeta già accarezzava nuove imprese e nuovi sogni di grandezza. Il piccolo regno che si era creato nell'Amiata non gli bastava più e la sua mente esaltata spaziava verso altri orizzonti. In particolare pensava alla Francia e sognava quel trono cui riteneva assurdamente di avere diritto e che ora una santa monaca, da lui scambiata per l'inviata dalla Provvidenza, gli era venuta a offrire insieme a ricchi e sostanziosi doni. Non c'è dubbio infatti che, oltre alle predizioni della visionaria Marie Gregoire, dovettero fare notevole effetto nella mente confusa, ma anche a suo modo calcolatrice di David Lazzaretti, la cospicua offerta in denaro che gli era stata elargita e le promesse di buona accoglienza in territorio francese fattegli dalla stessa monaca e dagli altri suoi connazionali che erano saliti all'eremo di monte Labbro. D'altra parte è noto che in quegli anni maturava negli ambienti clericali e legittimisti più retrivi e fanatici di Francia un disegno di restaurazione monarchica sulla base di una rivolta contadina attizzata da motivazioni sociali e religiose. Come avremo modo di vedere, taluni di questi legittimisti attendevano effettivamente un inviato del cielo per risolvere il problema istituzionale, mentre molti altri erano disposti ad accettare qualsiasi santone capace di fanatizzare le masse campagnole pur di raggiungere i loro scopi. Non è quindi da escludere che David avesse scambiato per una chiamata celeste quello che era un messaggio terrestre fattogli pervenire tramite l'inconsapevole suor Marie Gregoire. Come si vedrà, infatti, non partì allo sbaraglio, ma seguendo tappe precise ed evidentemente preordinate da qualcuno. Prima di partire David volle anche fare apporre alcuni simboli significativi sulle opere murarie dell'eremo. Chiamati gli scalpellini, egli ordinò di incidere sul portale della cappella, oltre la sua sigla misteriosa, una corona regale con due gigli incrociati, emblema dei reali di Francia.
Sotto lo stemma fece scolpire le seguenti lettere maiuscole: D.L.P.L.M.C.C.S.C. che stavano a significare, come spiegò lo stesso profeta: David Lazzaretti, Principe, Legislatore, Monarca, Conte, Cavaliere, Santo Crocifero. Sull'altare fece appendere un quadro su tavola, opera del più giovane degli eremiti, il ventenne Filippo Corsini, nel quale erano dipinte a olio le immagini di Gesù, di Maria e di san Luigi re di Francia. Il profeta lasciò i suoi seguaci di monte Labbro ai primi di gennaio del 1873. «Dio mi chiama per una nuova meravigliosa missione» annunciò ai fedeli riuniti attorno a lui. «Io vado. Sarò lontano da voi con la persona ma vicino con l'amore, il pensiero e l'opera. State forti nei principi che vi ho insegnato e tutto vi andrà bene.» Poi accompagnò la moglie e i figli a Scansano dall'avvocato Giovanni Salvi che, informato della partenza del profeta, si era offerto di ospitarli, e quindi prese la strada per Roma in compagnia di Raffaello Vichi e di Vincenzo Tonioni. Sostarono a Gradoli, nel convento degli amici filippini e poi a Scandriglia dove esisteva un'altra comunità lazzarettista diretta dall'eremita locale Augusto Sacconi: pregarono nella grotta del Beato Amedeo e furono ospiti dell'arciprete don Milani di Montorio. Qui Tonioni si separò dal gruppo per tornare a monte Labbro, gli altri due raggiunsero Roma. Nella capitale, dopo avere tentato invano di farsi ricevere da Pio IX, David ebbe vari incontri con alcuni monsignori e, in particolare, con un certo Lord Stapons, ricco inglese di fede cattolica che, a quanto pare, gli diede del denaro e si impegnò ad accompagnarlo alla Gran Certosa di Grenoble, casa madre dei certosini. Prima di partire per la Francia, David compì un lungo giro nel meridione d'Italia. Fece una sosta alla certosa di Trisulti, in Val di Cona, il cui priore Gabriele Maria Falconis, cacciato dalla certosa di Torino per propaganda antiunitaria, si era prima rifugiato nella casa madre di Grenoble per poi stabilirsi a Trisulti. Il priore, che «vivendo i giorni tribolati della Chiesa desiderava che qualche rimedio si trovasse», scambiò David per «l'atteso salvatore», iniziò con lui una novena in onore della Madre del Buon Consiglio «onde ottenere più facilmente e più sicuramente il trionfo della Chiesa e il divino soccorso per ogni bisogno spirituale e temporale in quei terribili giorni tanto vicini alla breccia di Porta Pia», e infine gli affidò una lettera di raccomandazione per il padre generale della Gran Certosa di Grenoble. Successivamente, David raggiunse Napoli per incontrare un frate agostiniano che aveva pubblicato le famose Lettere di san Francesco da Paola e anche alcuni scritti dello stesso Lazzaretti. Tornò quindi a Roma, vi trascorse la Pasqua ospite del suo padre spirituale Gioacchino da Scai, che gli garantì di aver ottenuto per lui la benedizione del santo padre, e quindi, sempre in compagnia dell'inseparabile Vichi, partì per Torino dove arrivò il 1° maggio. Nell'ex capitale, David prese alloggio nella già famosa Casa di don Bosco in via Cottolengo 32. Vi rimase alcuni giorni per attendere l'arrivo di Lord Stapons che doveva accompagnarlo a Grenoble. «Qui mi trovo molto bene» scriveva a padre Gioacchino «mi hanno assegnato una stanza, mi provvedono di tutto e mangio alla stessa tavola di don Bosco e di tutti i suoi sacerdoti.» Giunto Lord Stapons, rispedito a monte Labbro l'amico Vichi, David Lazzaretti partì per la Francia e giunse a Grenoble il 14 maggio. Da qui, sempre in treno, arrivò a Voiron, proseguì in tram a vapore per Saint-Laurent-du-Pont e quindi in diligenza lungo la stretta valle di Guiers-Mort finché, varcata la porta della Jaratte, gli apparve al centro di quel paesaggio solitario e rupestre la maestosità della Gran Certosa, sorta dove nel 1084 san Bruno si era ritirato a meditare. Affidato da Lord Stapons (che ripartì immediatamente) al priore generale dell'ordine, padre Carlo Maria di Saisson, che già era stato informato del suo arrivo, David prese dimora nell'ascetico luogo. Padre Carlo, che aveva dimorato a lungo a Torino, Roma e Genova, conosceva abbastanza bene l'italiano, cosicché al profeta dell'Amiata non costò fatica farsi capire. Deciso a stupire anche quei buoni frati con le sue manifestazioni di ascetico masochismo, David si
sottopose a prove durissime. Prese dimora nella più scomoda delle celle, da dove si allontanava per raggiungere la cappella di Notre Dame de Casalibus, una sperduta chiesetta distante un paio di chilometri dalla certosa in cui si soffermava, per periodi di due o tre giorni alla volta, senza prendere cibo e bevande, tutto assorto nelle sue visioni che poi trascriveva dettagliatamente in un libro di cui aveva scelto come titolo Les fleurs célestes. A mano a mano che andava avanti nella frenetica preparazione di questa opera, David spediva i manoscritti a frate Imperiuzzi il quale glieli faceva riavere riscritti in buon italiano. Questo complesso procedimento era necessario perché David desiderava sottoporre la sua opera a padre Carlo Maria di Saisson, ma questi si era dichiarato incapace di decifrare la pasticciata calligrafia del profeta autodidatta. Il libro dei celesti fiori, che sarà pubblicato in francese nel 1876 dalla tipografia Pitral di Lione, proponeva, fra laudi e lamentazioni, la costituzione dell'«Arca dell'Alleanza della Turris Davidica», una non meglio precisata comunità religiosa internazionale che doveva preparare il mondo alla prossima proclamazione della «Nuova Legge del Diritto». Questa nuova legge che avrebbe governato la terra, spiegava David, discendeva direttamente dallo Spirito Santo «così come la Legge di Giustizia discende dal Padre e la Legge della Grazia discende dal Figlio». I confusi concetti contenuti in questo libro rivelano una chiara derivazione dall'opera di Gioacchino da Fiore, il monaco profeta del dodicesimo secolo, che David certamente non conosceva (pare addirittura che non lo avesse mai sentito nominare). Come spiegare allora questa influenza gioachimita? In seguito, i giudici del Sant'Uffizio accuseranno il frate Imperiuzzi di avere messo molta farina del suo sacco negli scritti di David Lazzaretti, ma questa ipotesi è da escludere. L'imperiuzzi, oltre a essere un fanatico ammiratore del profeta, del quale non avrebbe mai modificato coscientemente il pensiero, malgrado possedesse un'istruzione superiore a quella di David, non era certamente in grado di rimaneggiarne l'opera. La sua cultura, infatti, era molto limitata e così pure la sua intelligenza e la sua sensibilità. E' molto più probabile che David, la cui mente assorbiva come una spugna idee e concetti fra i più diversi, abbia orecchiato qualcosa delle teorie gioachimite proprio nei suoi ritiri fra i certosini di Trisulti e di Grenoble. D'altra parte, proprio nell'ordine certosino erano confluiti con il loro bagaglio ideale i monaci gioachimiti dopo lo scioglimento dell'ordine fondato dal predicatore calabrese «di spirito profetico dotato». Anche per Il libro dei celesti fiori, David naturalmente sostenne di essere stato ispirato da una visione celeste. «Io voglio,» gli aveva detto la Madonna, apparsagli questa volta vestita a lutto invece che con l'abito bianco che indossava nella grotta di Montorio «io voglio che questo libro sia propagato fra tutti i popoli della terra. Esso farà conoscere alla famiglia umana i continui sforzi della mia misericordia per ridurre il numero di milioni di vittime che sono sul punto di cadere sotto il flagello dell'irata giustizia divina... Io voglio» proseguiva la Vergine «che il programma enunciato in questo libro [cioè la costituzione dell'Arca dell'Alleanza] sia come una tromba e risvegli tutti coloro che per la loro incredulità dormono nel sonno della morte.» Riaffiorava dunque anche in questa occasione il vecchio sogno davidiano di riformare l'attuale stato delle cose, purificare la Chiesa, cacciare i mercanti dal tempio del Signore, bandire la cupidigia e la menzogna e creare, naturalmente con l'aiuto di Dio perché gli uomini da soli, secondo David, non ne sarebbero mai stati capaci, quella società più giusta e più umana cui aspiravano tutti i diseredati della terra. Ma David, illustrando questo suo ambizioso programma, usciva anche dalla carreggiata dell'ortodossia affermando arditamente che l'opera di redenzione non si era affatto compiuta col sacrificio del Golgota, e rinverdiva, forse inconsapevolmente, l'eresia millenarista preannunciando l'avvento di un regno dello Spirito Santo (dopo il regno del Padre e il regno del Figlio), che sarebbe stato consacrato dalla
seconda venuta del Cristo... Possiamo facilmente immaginare i sussulti di sgomento del buon padre Carlo Maria di Saisson al quale David, sempre così candidamente sicuro del fatto suo, aveva dato in lettura la sua opera revisionata dall'Imperiuzzi. Per giunta il profeta Milleidee, sicuramente suggestionato dall'ambiente claustrale e dai lunghi digiuni, passava da una visione all'altra e di queste forniva esatti resoconti allo sconcertato certosino. Un giorno, per esempio, gli confidò come, recandosi all'oratorio di San Bruno situato su un picco scosceso, egli fosse stato catturato da uno spirito diabolico il quale, dopo averlo condotto sull'orlo di una rupe voleva indurlo alla rinuncia della sua missione con l'offerta di tutta la terra che da lassù si vedeva... Probabilmente fu proprio questa parodia della tentazione di Gesù narrata dall'evangelista Matteo a mettere definitivamente in sospetto il certosino, peraltro ben disposto alle manifestazioni del soprannaturale. I frati della Gran Certosa decisero infatti di allontanare dal convento il pericoloso eretico, «ce qui ne se fit pas sans difficulté», ostinandosi David a rimanere in quel luogo per portare a compimento il suo libro. Ma alla fine fu cacciato, e pare in malo modo. Secondo una leggenda sorta fra i montanari di quella zona, «l'uomo dal bollo diabolico» vagò a lungo fra i boschi cibandosi di erbe e di frutti selvatici ed «eludendo ogni ricerca perché al momento opportuno riusciva per incantesimo a trasformarsi in ogni sorta di animali». La prima amara esperienza francese del profeta dell'Amiata si concluse comunque agli inizi di settembre del 1873 quando Raffaello Vichi, probabilmente avvertito dai certosini di Grenoble di quanto stava accadendo, andò a cercarlo fra i boschi dell'Isère e riuscì a ricondurlo a casa.
CAPITOLO XII. LA PERIZIA PSICHIATRICA. I carabinieri ricomparvero sul monte Labbro la notte del 19 novembre 1873. Questa volta fu adottata una tattica diversa dalla precedente: niente clamori ed esibizioni inutili, ma segretezza assoluta e rapidità nell'azione, come se si trattasse di un colpo di mano in territorio nemico. David venne catturato all'alba mentre lasciava il Campo di Cristo per recarsi all'eremo a recitare il mattutino. Tutto si svolse in pochi minuti: un delegato di pubblica sicurezza che accompagnava i carabinieri lo dichiarò in arresto mentre due militi provvedevano a cingergli i polsi con le catene. Poi lo trascinarono via senza neppure consentirgli di rientrare in casa a salutare i familiari e a rifornirsi degli abiti e delle altre cose necessarie. L'arresto del profeta non passò tuttavia inosservato al frate Imperiuzzi che, impensierito per il suo ritardo, si era affacciato sulla sommità del monte. «Io che abitavo nell'eremo» racconterà il filippino «fui il primo ad accorgermi dell'accaduto perché lo vidi accompagnato dai soldati mentre passava sotto le falde della montagna. Scesi immediatamente al podere di Vichi per avvertire la moglie e i figli che si misero a piangere con grande costernazione.» A ordinare l'arresto di David Lazzaretti era stato questa volta il giudice Carlo Mentale del tribunale di Rieti sulla base di un rapporto fattogli pervenire dalla sottoprefettura della stessa città. Nel mandato di cattura venivano mosse a David le accuse di truffa continuata, di vagabondaggio e di cospirazione politica ai danni dello Stato. Questi reati, secondo il capo d'imputazione, erano stati consumati nella Sabina e in particolare a Montorio, Ponticelli e Scandriglia dove esisteva una comunità lazzarettista presieduta dall'arciprete Milani e diretta dall'eremita Augusto Sacconi. E' certamente singolare che venisse avviata un'azione giudiziaria contro David Lazzaretti addebitandogli presunti crimini che sarebbero stati
compiuti in un territorio dove in quegli ultimi tempi si era recato appena un paio di volte e dove esisteva una comunità che, pur ispirandosi ai principi sociali e religiosi del profeta, disponeva di un proprio gruppo dirigente che operava in maniera autonoma e responsabile. Ma tant'è. Probabilmente, chi desiderava la rovina di David, visti inutili i tentativi delle autorità di Grosseto per incriminarlo, cercava ora di colpirlo attraverso la sottoprefettura di Rieti nella cui giurisdizione ricadeva appunto la Sabina. David raggiunse il carcere di Rieti alla fine di novembre, dopo avere brevemente soggiornato in quelli di Scansano, Grosseto, Roma e Perugia. Nel frattempo, l'avvocato Giovanni Salvi, avvertito dell'accaduto, si era subito messo in azione per ottenere la sua libertà provvisoria. Ma tutti i suoi sforzi si erano rivelati inutili; per cui, dopo un breve colloquio col prigioniero e l'accertamento che anche questa volta l'accusa si basava sulle solite delazioni e su alcune irregolarità riscontrate nei bilanci della comunità di Scandriglia, Salvi affidò la difesa di David all'avvocato reatino Francesco Ceci, mentre provvedeva ancora una volta a ospitare nella sua villa la moglie del profeta e i figli Turpino e Bianca. Da parte sua, il giudice istruttore Carlo Mentale, non troppo convinto della validità delle prove fino a quel momento raccolte contro l'imputato, ne cercava altre più serie e concrete. Ma il suo fu un lavoro inutile perché non riuscì a trovare un solo componente del movimento lazzarettista disposto a muovere un appunto alla cristallina onestà del santo David. Deluso ma non rassegnato, Mentale cercò allora un'altra strada, decise cioè di sottoporre il prigioniero a perizia psichiatrica, sicuro che il risultato della stessa gli avrebbe consentito in un modo o nell'altro di togliere per un pezzo dalla circolazione l'imbarazzante personaggio. L'indagine «sullo stato mentale di David Lazzaretti» fu affidata il 15 febbraio 1874 ai medici Alessandro Silvaggi e Augusto Benghini di Rieti. La perizia dei due sanitari costituisce un documento eccezionale ancora oggi, perché Silvaggi e Benghini sono stati gli unici medici che abbiano avuto modo di studiare la complessa personalità del profeta interrogando direttamente l'interessato. Ecco i brani più importanti della loro perizia: Noi abbiamo riconosciuto nel Lazzaretti un uomo di circa quarant'anni, di costituzione sana e di un eccellente temperamento. La sua fisionomia e la sua attitudine non rivelano alcuna apparenza di quella stravaganza, di quella violenza e di quell'abbattimento il cui insieme costituisce i caratteri esterni degli alienati. I suoi organi in generale e il cranio in particolare non presentano alcun difetto naturale o accidentale, né traccia di lesioni anteriori, salvo una cicatrice a forma irregolare rotonda, limitata all'epidermide, posta in mezzo ed un po' in alto nella regione frontale e nascosta da un leggero ciuffo di capelli che ricadendo sulla fronte la ricopre. Alle interrogazioni a lui dirette egli ha sempre risposto convenientemente, con buon senso, con perfetta memoria del passato e con lucida conoscenza del presente. Dette ragguaglio con esattezza dello stato della sua famiglia, dell'eredità lasciata da suo padre, del commercio suo e dei suoi fratelli, della loro età, di quella dei suoi figli e del numero. Invitato a raccontare gli episodi straordinari della sua vita, riferì con pieno discernimento e con esatta memoria i fatti «veramente incredibili» delle visioni che ebbe nel 1848 e venti anni dopo, affermando che il segno in fronte gli sarebbe stato impresso con una chiave da un personaggio che egli credeva fosse San Pietro. Esaminata dai noi medici questa cicatrice sembrò a noi che fosse stata prodotta da un ferro incandescente oppure da esplosione di polvere pirica, ma poteva essere anche un tatuaggio fatto sulla carne iniettandovi un liquido caustico. Abbiamo altresì constatato che tutte le sue funzioni si compivano regolarmente, che il suo sonno era assai regolare del pari che la veglia, ch'egli mangiava con moderazione, pur con appetito, che prendeva le cure necessarie della sua persona e nulla trascurava per le sue esigenze. Se interrogato, egli risponde con giudizio senza mai abbandonarsi a movimenti bruschi e irriflessivi. E' un
uomo pacifico, non importuna mai alcuno, non ha mai accessi di collera o di furore e parla senza sussiego con i compagni. Nei rapporti con le persone di servizio che sono state proposte alla sua sorveglianza non tiene mai discorsi ascetici, non ha mai detto una parola a nessuno delle sue misteriose visioni, né della missione che ha ricevuto. Conserva un affettuoso ricordo dei suoi parenti più cari e si lamenta quando non riceve le loro notizie. Si lagna di essere ritenuto a torto in prigione e spera che un'ordinanza di non luogo a procedere interverrà prossimamente in suo favore. Egli afferma che tutte le accuse che pesano contro di lui sono menzogne e che non ha altro da rimproverarsi che di essere vissuto da buon cristiano. Noi abbiamo osservato ugualmente che egli è dotato di sufficiente intelligenza e di un equilibrio di spirito naturale, benché sia senza conoscenze letterarie e scientifiche. Successivamente, i due medici furono incaricati di prendere in esame anche l'opera letteraria di David Lazzaretti e di esprimere il loro giudizio in proposito. E vale la pena di sottolineare a questo punto che l'analisi dei due sanitari, come si vedrà, sconfina apertamente nella censura politica quasi si volesse, esclusa l'ipotesi della follia del soggetto, avvalorare l'accusa di cospirazione contro lo Stato che figurava nel capo d'imputazione. L'attenzione dei due medici-censori si accentrò in particolare sui seguenti brani estrapolati dai numerosi scritti del Lazzaretti messi a loro disposizione. Dai Rescritti profetici: No, no miei buoni lettori, non mi vogliate riguardare come un taumaturgo o come uomo politico e ambizioso. Riguardatemi come un uomo che a voi suggerisce la verità senza oscurarla. Dal Risveglio da popoli: Io non temo di essere ingannato da Colui che mi impose tali ordini. Mi ha ordinato che io parlassi ai popoli ed ho parlato e parlerò in avanti. Se poi i popoli non credono io non ho che ridire. Se mi vogliono falso io non credo che falsa sia la mia parola. Se mi credono ipocrita, esaminino la mia condotta. Se mi dubitano strumento di partito, facciano le autorità governative e giudiziarie di me quello che a loro piace di fare: io sono a disposizione di qualunque esame. Parlo libero e non temo di alcuno, perché mi guida il giusto ed opro con la giustizia. Ciò che io manifesto ai popoli non è volontà dell'uomo, ma è volontà dell'Altissimo. Dalle Sentenze dettate da san Pietro a un mortale: Il vero monarca della terra è colui che rappresenta Dio. Gli eserciti invincibili sono quelli che combattono per la causa del vero Dio e per la giustizia dei popoli. Chiudete la bocca a coloro che gridano: Libertà, Libertà. E trattateli da stupidi. I più valorosi difensori della patria sono coloro che sono più vicini alla fede. Tutte le vittorie possono essere ottenute con la perseveranza e la fiducia in Dio. Dalle Profezie sui cambiamenti del mondo: Italia, patria mia, madre di eroi Di pellegrini ingegni e fior del mondo Tempo verrà che de' tuoi regi il seme, Più non avrai... O voi di Europa imperatori e regi, Verrà quel dì che sopra il vostro capo, Cadrà di Dio la vindice mano. Torino, Torino, sede del tuo re, tu hai levato troppo in alto il tuo volo e dal fasto a cui sei giunta ti toccherà cadere di colpo. Tornerai alla tua primitiva dimora ridotta a dipendere da colui che hai sottoposto ai tuoi ordini. Dal Discorso ai miei fratelli d'Italia: Oh sì, per quanto mi sembra, popoli miei, avete bisogno di un nuovo ordinamento sullo stato morale e politico, e per dar principio a un nuovo ordine di cose vi abbisognano delle forze superiori a quelle che ci opprimono. Confrontando queste espressioni con i problemi politici che si dibattono attualmente nella nostra penisola non si può certo negare che esse abbiano un preciso scopo propagandistico. Come non si può non rilevare che le visioni del Lazzaretti ebbero inizio nel 1848, epoca nella quale il Pontefice, non sperando più di potersi mantenere nel trono reale, fuggiva a Gaeta, e che la pubblicazione degli Opuscoli avvenne dopo il 1870 allorché il Papa, privo della protezione delle armi straniere e despogliato del suo scettro, si costituiva Prigioniero nel Vaticano. Per queste ragioni noi sospettiamo che Lazzaretti si propose di raggiungere un duplice fine, cioè di provocare un fanatismo religioso e di propagandare un partito
politico: il primo scopo non è che un pretesto, il secondo è l'oggetto principale. Egli, insomma, non ha cercato di fomentare tale fanatismo sotto l'incubo di una forza irresistibile, perché tutte le sue determinazioni non furono prese in accessi di delirio, sibbene propagò le sue massime con giudizio, con calma e persuasione di modo che egli è realmente promotore e capo di questo partito, ovvero strumento cieco agente per conto altrui. Ma in un modo o nell'altro, il mantello della religione sotto il quale ha sempre nascosto la sua attività politica gli permetterà di uscire vittorioso da qualunque processo gli venisse intentato. Questo è il nostro pensiero. E riassumendo, noi possiamo liberamente affermare che David Lazzaretti gode ed ha sempre goduto del pieno possesso delle sue facoltà mentali. David fu processato in prima istanza dal tribunale di Rieti nei giorni 23,24 e 25 maggio, dopo circa sette mesi di carcere preventivo. La profezia dei due medici, secondo la quale l'imputato sarebbe uscito vittorioso da ogni processo, si avverò soltanto in parte. Fu infatti riconosciuto innocente del reato di cospirazione politica, ma venne però condannato a quindici mesi di reclusione e a un anno di libertà vigilata per frode, vagabondaggio e «predizione della sorte». Quando gli eremiti che avevano assistito trepidanti al processo portarono all'eremo la triste notizia, si registrarono scene di grande dolore e di sconforto. Quei devoti montanari erano così sicuri del trionfo di David che ora non riuscivano a frenare il loro sgomento. «Qualcuno osò persino bestemmiare il santo nome» racconterà un testimone. «Tutti comunque eravamo convinti che Dio ci avesse abbandonati.» A riportare la speranza e la voglia di lottare fu la Carola che, nei momenti difficili, sapeva comportarsi da donna coraggiosa e assennata. La moglie del profeta prese infatti l'iniziativa di organizzare una colletta allo scopo di assumere un grande avvocato capace di far trionfare la giustizia nel processo di appello che già era stato fissato per il prossimo 23 luglio. La sua azione ebbe successo e all'appello diramato per posta dal frate Imperiuzzi risposero in molti: monsignor Carli inviò cento lire, altrettante ne inviarono Giovanni Salvi, il cardinale Panebianco e altri prelati romani. Dalla Francia, per interessamento di suor Marie Gregoire, giunsero quasi millecinquecento lire, mille delle quali le aveva offerte una persona sola, il magistrato Leon du Vachat. Altri soldi offrì Alice Gordon e moltissime piccole offerte furono raccolte fra i membri della comunità. A conti fatti, la Carola si trovò in possesso della somma di 2599 lire, equivalenti a trentatré volte il reddito annuo di un bracciante agricolo. Questo denaro fu immediatamente consegnato a Giovanni Salvi affinchè provvedesse lui stesso a scegliere il nuovo difensore di David. Salvi non ebbe esitazioni; scelse il migliore: Pasquale Stanislao Mancini, giurista insigne, uomo politico di grande autorità destinato a diventare entro pochi anni primo ministro della Giustizia e poi ministro degli Esteri del governo italiano. Quando ebbe inizio il processo nella Corte d'Appello di Perugia, presieduta dal consigliere Enrico Ferri, per l'illustre penalista fu abbastanza facile scardinare il fragile piedistallo di prove su cui si basava l'accusa. La sentenza assolutoria decisa dalla Corte, prendendo in esame le accuse di frode, vagabondaggio e predizione della sorte addebitate all'imputato, riconosceva che la Società delle famiglie cristiane avendo per fine l'osservanza dei principi evangelici, il soccorso nelle malattie, la comunanza del lavoro, dei beni e dei frutti ripartiti in proporzione del capitale impiegato, era «in armonia con i principi della tolleranza religiosa e di libera associazione garantiti dallo Statuto del Regno e per ciò non poteva costituire il primo elemento del delitto di truffa». Anche l'accusa di vagabondaggio veniva giudicata inesistente per il fatto che nel 1872 David Lazzaretti era stato una sola volta a Scandriglia ospite per una notte di Augusto Sacconi, amministratore della Società. Cadeva anche l'accusa che si imputava al Lazzaretti di avere, il 13 giugno 1873, predetto calamità contro coloro che non si fossero iscritti alla Società perché in quel periodo l'imputato si trovava in
Francia ospite della Gran Certosa di Grenoble. «Inoltre» proseguiva la sentenza «nessuno fra gli abitanti di Scandriglia ha fatto reclamo contro il Lazzaretti e la maggior parte dei testimoni, compreso il curato, hanno invece attestato sotto giuramento che non solamente il Lazzaretti era estraneo all'amministrazione di quella Società, ma che non aveva mai percepito alcuna somma né altra cosa.» A testimoniare l'onestà di intenti di David Lazzaretti erano giunte alla Corte anche molte dichiarazioni scritte. Fra le altre aveva fatto un notevole effetto quella inviata da don Giovanni Bosco. «Se mai potesse giovare la mia parola in suo vantaggio» scriveva il sant'uomo ai giudici «io sono disposto a pronunciarla ben di cuore: giacché avendo avuto il piacere di conoscerlo nella scorsa primavera, anzi avendogli io dato ospitalità in questa mia casa per alcune settimane, riconobbi in lui una persona veramente dabbene, desiderosa di far del bene al prossimo, noncurante dei propri interessi purché possa giovare agli altri.» Assolto con formula piena e scarcerato all'istante fra le grida di gioia degli eremiti che erano giunti a Perugia addobbati nelle loro curiose uniformi, David partì subito per monte Labbro dove potè riabbracciare la moglie e i figli dopo nove mesi di forzata assenza.
CAPITOLO XIII. L'AIUTO DELLA PROVVIDENZA. David aveva tanta fiducia nella Provvidenza divina quanto ne aveva poca negli uomini. «Senza l'aiuto di Dio non si può far nulla, cari miei» ripeteva a ogni occasione. «Pazzi sono coloro che credono di poter creare con le sole loro forze una società giusta sulla terra» affermava ancora, polemizzando indirettamente con gli «internazionalisti» le cui dottrine cominciavano ad attecchire fra i minatori dell'altro versante dell'Amiata. Lasciato il carcere di Rieti e ritornato all'eremo di monte Labbro, David non dovette quindi sorprendersi molto nel trovare pienamente confermata questa sua pessimistica convinzione. Durante la sua lunga assenza, infatti, nella comunità dell'Amiata ne erano successe di tutti i colori. Ministri generali e fattori, caporali e dispensieri, quasi tutti i componenti del gruppo dirigente erano in lotta fra di loro: si scambiavano accuse molto pesanti e provocavano malessere e sfiducia anche fra le altre famiglie. Motivo principale della discordia era la suddivisione delle rendite che, secondo quanto David aveva stabilito, doveva essere calcolata non in maniera uguale per tutti, ma sulla base della quantità di lavoro svolto da ogni famiglia e dei beni personali affidati alla società. Naturalmente c'erano anche altri motivi di dissidio: l'invidia, l'ambizione, l'egoismo e tutte quelle debolezze umane che hanno sempre impedito la creazione di una società perfetta. Ma ecco come descrive la crisi della comunità l'onesto frate Filippo Imperiuzzi: Finché David stette a dirigere le cose, tutto procedeva bene, ma quando lui si allontanò nacquero dei disordini fra i soci. Alcuni credevano che la Società fosse una vacca grassa da mungere senza darle il necessario nutrimento, e costoro mangiavano e bevevano senza economia poco pensando al lavoro privato e comune. Altri credendo che la Società avesse dei tesori non tenevano conto dei vestiari e degli arnesi da lavoro. Altri che avevano dei debiti antichi di famiglia pretendevano che la Società glieli dovesse pagare. Altri ancora che avevano messo in comune dei beni personali ritenevano che la loro roba dovesse fruttare senza che essi lavorassero mentre prima erano costretti a lavorarla per vivere; e pretendevano che i soci braccianti lavorassero per essi. Le donne poi, sempre facili a chiacchierare insensatamente, cominciarono a criticare e a lamentarsi. Tra loro vi furono quelle che per la carica ricoperta dai loro mariti o perché possidenti, si erano date al non far nulla e pretendevano di essere servite mentre prima lavoravano. Inoltre, nell'assenza di David i capi incominciarono a
insuperbirsi e a trattare male i soci subalterni i quali tacevano e sopportavano per amore di David che era lontano... Il caso più scandaloso era tuttavia rappresentato dal «ministro generale» Vincenzo Tonioni il quale si era addirittura impossessato di gran parte delle derrate comuni e non intendeva dividerle con nessuno. Appena rientrato a monte Labbro, David si trovò dunque di fronte a questi nuovi problemi e a centinaia di soci amareggiati ma anche convinti che lui avrebbe rimesso le cose a posto. Invece non gli fu possibile, almeno per quanto riguarda il caso più clamoroso. Il Tonioni, infatti, si ostinò a negare ogni rendiconto della sua amministrazione. A questo punto, David inviò all'ex ministro generale una lettera molto dura. «Io vi avverto» scriveva «non più come amico, ma come fratello, che facciate le cose come debbono essere fatte. Altrimenti, se avete la testa dura e piena di capricci a vostro vantaggio, io vi farò provare tanti dispiaceri quanti ne avete fatti provare a me. Voi mi dovrete rendere conto della vostra amministrazione dall'agosto del 1872 all'agosto del 1874... Ma che modo di trattare è il vostro?» proseguiva il profeta trascurando per l'occasione i suoi soliti appelli alla fede e alla carità cristiana. «Voi dite che io debbo accomodare il tutto, ma perché io possa fare queste cose bisognava che mi aveste dato le chiavi dei magazzini, delle caciaie, delle dispense e la facoltà di vendere il bestiame e gli altri generi per accomodare le partite di entrata e di uscita.» Poi David concludeva con una minaccia: «Se voi non farete conto di questi avvertimenti, io farò agire questa gente prima per via legale e poi, all'occorrenza, per via criminale...». Le minacce del profeta non spaventarono il Tonioni e, di conseguenza, alcuni soci lo citarono in giudizio. La causa civile fu esaminata dalla pretura di Arcidosso dove, fra la sorpresa generale, il pretore diede ragione al Tonioni col pretesto «che la Società delle famiglie cristiane non era legalmente costituita e che quindi i suoi regolamenti interni non avevano validità alcuna». Depredati legalmente del frutto di anni di lavoro, amareggiati e delusi, i lazzarettisti vissero giorni di profondo sconforto. Il loro ambizioso sogno comunitario stava crollando miseramente. Di fronte a questa situazione che minacciava anche la sopravvivenza degli altri istituti, David decise di sciogliere la Società delle famiglie cristiane assumendo di persona gli oneri della fallita iniziativa. Prese quindi a suo carico tutti i terreni precedentemente affittati dalla Società e assunse come propri dipendenti i braccianti e i pastori impegnandosi a pagare loro un salario mensile. Si trattava, a ben vedere, di un'iniziativa alquanto rischiosa, se non addirittura pazzesca. David di proprio non possedeva una lira, le casse della disciolta società erano vuote e, per giunta, c'erano anche molti debiti da pagare. Soltanto un miracolo poteva salvare il profeta e i suoi devoti seguaci dalla completa rovina. E il miracolo, anche questa volta, si verificò puntualmente: evidentemente la buona sorte o, per dirla con David, la Provvidenza divina, non aveva ancora abbandonato quei fiduciosi montanari. La Provvidenza si manifestò sotto le vesti di un singolare personaggio che già durante la carcerazione di David aveva contribuito alla sua difesa con un vistoso obolo. Si trattava del magistrato francese Leon Anselm Juvanon du Vachat, giudice presso il tribunale civile della città di Belley. Du Vachat, «uomo sui trentacinque anni, di bell'aspetto, robusto, con barba castana, cattolico, erudito», come lo descrive il frate Imperiuzzi, era erede di un ricco patrimonio di famiglia nel quale era compreso anche il feudo di Le Vachat, un villaggio del cantone di San Ramperto presso Belley. Spirito inquieto e balzano, Leon du Vachat era un ardente legittimista di parte borbonica e auspicava l'avvento sul trono di Francia di Enrico V nella persona del pretendente conte di Chambord, il «figlio del miracolo», come lo definivano i suoi sostenitori. Oltre la fede legittimista, il du Vachat era anche animato da uno strano fanatismo religioso che lo portava a credere alle manifestazioni soprannaturali e, in particolare, alle visioni di suor Marie Gregoire che frequentava assiduamente la sua bella casa. Rigoroso
osservatore delle regole della vita cristiana, il giovane magistrato era tuttavia ostile con tutti quegli ecclesiastici che, a suo giudizio, non erano esemplari modelli di virtù. A Belley, infatti, si era reso protagonista di molte stravaganze, si era inimicato il vescovo e aveva assunto un comportamento strano in occasione di un attentato alla vita dell'abbé Berger, facendo imprigionare una donna innocente e coinvolgendo nella causa la setta massonica. Egli era stato informato dell'esistenza del profeta dell'Amiata dalla monaca Marie Gregoire che gli aveva anche portato alcuni opuscoli di David. Convinto che il profeta toscano potesse essere utile non soltanto alla Chiesa, ma anche alla Francia, il magistrato aveva subito espresso il desiderio di farsi patrono della sua causa. Così, dopo la sua prima offerta in denaro, si era rivolto ai certosini di Trisulti e a don Salvatore Felloni, parroco di Collepardo, pregandoli di metterlo in contatto con l'uomo di Dio perché aveva intenzione di conoscerlo personalmente e di aiutarlo nell'assolvimento della sua missione. L'appello di Leon du Vachat raggiunse David quando la comunità di monte Labbro stava vivendo i giorni più difficili. Il profeta, che alla sconfinata fiducia nella Provvidenza univa una buona dose di furberia contadina, comprese al volo che quella era l'occasione che attendeva. Rispose subito allo sconosciuto benefattore e gli fissò un appuntamento a Torino nella Casa di don Giovanni Bosco. L'incontro fra i due mistici ebbe luogo il 15 aprile 1875. Raccontano che Leon du Vachat volle innanzitutto sincerarsi dell'identità di David rialzandogli sulla fronte il ciuffo dei capelli che celava il segno misterioso e «convinto nella sua buona fede di essere di fronte all'uomo atteso per la salvezza della Francia e per la riforma della Chiesa, lo stringesse al petto in un amplesso di sicura fiducia e di indissolubile alleanza». I due uomini conversarono a lungo (David balbettava un po' di francese, l'altro conosceva qualche parola di italiano) e il magistrato si lasciò affascinare dalla forte personalità di Lazzaretti, dal racconto delle sue visioni e dalla forza della sua fede. Quando il colloquio fu concluso, du Vachat cavò di tasca un sacchetto di pelle contenente ottomila franchi in monete d'oro e lo consegnò a David quale disinteressato contributo alla sua missione. Poi i due si lasciarono, ma non prima che il profeta avesse promesso al ricco benefattore di raggiungerlo a Belley appena sistemata ogni cosa a monte Labbro. Quel giorno, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, l'ex barrocciaio di Arcidosso dovette più che mai convincersi che il Padreterno era indiscutibilmente dalla sua parte. Aveva lasciato monte Labbro povero in canna, con un mucchio di gravi problemi finanziari di cui non intravedeva alcuna soluzione e ora eccolo ritornare a casa con in tasca un piccolo tesoro, meno della metà del quale sarebbe stata più che sufficiente per sanare ogni pendenza. «Questi sì che sono i veri miracoli» pare abbia esclamato mostrando le tintinnanti monete d'oro ai suoi fiduciosi eremiti. A testimonianza dell'onestà di David Lazzaretti, va detto che egli non trattenne nulla per sé di quella somma cospicua. Pagò i debiti, distribuì i salari, rimise in ordine ogni cosa e quindi investì tutto ciò che restava per il completamento della chiesa e degli altri edifici dell'eremo. La chiesa fu solennemente inaugurata il 29 settembre 1875 nella rinata fiducia di centinaia di seguaci ormai convinti di essere veramente i figli prediletti di Dio. Per l'occasione, riapparvero sul monte il vescovo Carli, frate Gioacchino da Scai, il prete Pierini direttore della «Buona Novella», l'avvocato Salvi e tanti altri personaggi che non si erano più fatti vivi da quando la comunità era entrata in crisi. Non mancava neppure don Pistolozzi, che già si mostrava diffidente e invidioso verso quel suo parrocchiano fin troppo fortunato. La cerimonia si concluse con un copioso pranzo all'aperto preparato e servito dalle massaie che erano tornate a sorridere e a sperare nel futuro. Unica ombra in tanta festa: frate Mikus, che non aveva voluto partecipare al banchetto e continuava a insistere affinchè David scegliesse con lui il ritiro nella solitudine perché «gli uomini, anche i più bravi, vivendo insieme diventano cupidi,
egoisti e traditori».
CAPITOLO XIV. PER L'EUROPA. Anche questa volta si incontrarono in via del Cottolengo, a Torino, nella Casa di don Giovanni Bosco. Leon du Vachat era giunto con alcuni giorni di anticipo in compagnia di suor Marie Gregoire e insieme avevano atteso trepidanti l'arrivo del profeta il quale, finalmente, aveva mandato a dire che gli inviassero pure i denari per il viaggio perché lui era spiritualmente pronto a trasferirsi in terra di Francia per svolgervi la sua missione celeste. David arrivò in compagnia della moglie Carola, dei figli Turpino e Bianca e della maestra Angela Fioravanti, sua giovane e ardente sostenitrice. L'incontro avvenne sotto gli occhi bonari di don Bosco il 3 ottobre 1875. Il profeta, oltre al suo abituale abbigliamento (maglione rosso con cifre ricamate in oro, uniforme di lana grigia e ampio mantello nero), esibiva per l'occasione un nuovo copricapo di feltro azzurro a larghe falde con rosari e catenelle al posto del nastro, tre piume colorate e una placca di rame sulla quale era scolpita a bulino una colomba con le ali aperte sormontante il solito monogramma davidico. David, questa volta, non aveva attribuito a una chiamata divina la sua decisione di lasciare monte Labbro; l'aveva invece annunciata ai suoi eremiti spiegando loro che riteneva prudente scegliere la via del volontario esilio in quanto era stato avvertito che nuove persecuzioni poliziesche stavano per essere tramate ai suoi danni. E gli eremiti avevano tutti convenuto che tale decisione era giusta e opportuna: fatta eccezione del solito frate Mikus il quale, nel suo stentato italiano, aveva borbottato che «David andava a godersela lasciando agli altri le tribolazioni». Per la verità, non risulta assolutamente che David corresse in quel periodo dei pericoli di ordine giudiziario o politico. E' più probabile invece che l'irrequieto Milleidee, stanco di dover affrontare ogni giorno i mille problemi che la direzione della comunità gli poneva, cercasse altri spazi dove poter liberamente esplicare la sua vocazione ascetica senza essere distratto da preoccupazioni di ordine materiale ed economico. D'altra parte, la Francia continuava a essere per David una meta ambita, convinto com'era che in quel paese si dovesse celebrare il suo trionfo. L'amara esperienza fatta nella Gran Certosa di Grenoble non aveva per niente modificato questa sua certezza. Anzi, considerava quella dura prova una sorta di barriera posta sul suo cammino dalle potenze infernali. Naturalmente, nella parte più nascosta del suo animo, deve avere avuto un certo peso anche la consapevolezza di essere atteso in Francia da un importante personaggio che già gli aveva dimostrato grande generosità e fiducia nella sua missione. Ma questo sospetto di malizia, evidenziato dalla battuta sarcastica dello scorbutico frate prussiano, forse è frutto della malizia nostra. Dopo l'incontro nella Casa di don Bosco, la comitiva franco-italiana varcò le Alpi e raggiunse Saint-Jean-de-Maurienne, nella Savoia, dove Leon du Vachat aveva predisposto ogni cosa: Carola Lazzaretti, Angela Fioravanti e Bianca furono sistemate in un monastero, David in una casa privata, e Turpino fu condotto a Lione e affidato a un convitto affinchè ricevesse la necessaria educazione. L'impatto con il piccolo centro savoiardo non fu felice per il profeta. Il clero locale si mostrò subito ostile nei confronti di quello strano personaggio piovuto dall'Italia. Anche la polizia lo prese di mira sospettando si trattasse di una spia. Inoltre corsero voci maligne sul suo conto: si mormorava, per esempio, che la Carola e la Fioravanti fossero le concubine del profeta, cosa questa che sollevò allarme e preoccupazione fra le buone suore cui le due donne erano state affidate. In quei due mesi che trascorse a Saint-Jean, egli ebbe modo di farsi un solo amico:
l'avvocato Jean Deymonas, il quale si assunse l'incarico di tradurre in francese le opere del profeta. Deciso a lasciare quel luogo inospitale, David, dando prova di sconcertante ingenuità, tornò a bussare alla porta della Gran Certosa per chiedere asilo. Naturalmente ne fu cacciato e allora chiese ancora aiuto al du Vachat il quale, felice di esaudire ogni desiderio dell'uomo di Dio, lo ospitò con la Carola nella sua casa di Belley mentre la maestra Fioravanti fu rispedita a monte Labbro e la piccola Bianca sistemata nell'educandato del monastero di San Giuseppe sempre a Belley. Ma neanche nella bella casa del mistico magistrato le cose si misero bene per i due coniugi. La moglie di du Vachat, Josephine Rambaud, che evidentemente non condivideva le stravaganze del consorte, manifestò subito un'aperta ostilità verso quegli ospiti alquanto grossiers. Un po' meglio disposto verso David pare che fosse il precettore dei ragazzi di casa, Florenzo Miége, un altro certosino destinato a diventare il venerabile padre Antiquior della certosa di Farneto, presso Lucca, negli anni in cui l'ordine certosino venne espulso dalla Francia per motivi politici. «David» scriveva allora l'abate Miége ai suoi superiori che gli chiedevano notizie di quel profeta giunto dall'Italia «est toujour très mal habillé avec une espèce de casque qui lui couvre toute la téte.» E aggiungeva che «a causa delle visioni meravigliose che dice di avere ricevuto, egli si presenta tout court come il salvatore della Francia. Malgrado tutto,» concludeva l'abate «egli è sicuramente in buonafede». Anche gli altri prelati che frequentavano la casa di du Vachat nutrivano delle perplessità sul conto di David. Nessuno, per l'esattezza, sospettava che il profeta potesse essere un imbroglione perché la sua sincerità era da tutti riconosciuta; si propendeva piuttosto a crederlo uno strumento inconsapevole del demonio, forse per la ragione che i suoi discorsi critici verso la gerarchia e i privilegi del clero (che mandavano in visibilio il rigoroso magistrato) emanavano per questi religiosi un forte odore di zolfo. Scriveva, per esempio, l'abate Evieux, professore di teologia dell'Università di Lillà, al canonico Joly, elemosiniere della Provvidenza di Bourg: «Bisogna riconoscere che c'è qualcosa in quest'uomo. Qualcosa di soprannaturale, dì divino o di diabolico... Non è affatto sorprendente che il signor du Vachat si sia lasciato sedurre da lui». Maggior successo ottenne invece la Carola, sempre cordiale e servizievole. «Elle est une sainte!» dicevano di lei. Anche la coabitazione con i due Vachat durò pochi mesi. Nel febbraio del 1876, forse per placare l'adirata consorte, il magistrato decise di trasferire i due ospiti nella sua bella villa di campagna a Beligny. Qui David trovò finalmente la pace. Indifferente alle comodità che gli offriva quella grande dimora, egli scelse «una cameretta larga due metri e lunga tre, illuminata dalla luce di una finestrella. Il mobilio consisteva in un tavolino con carta e calamaio, una sedia e un materasso di crine disteso per terra». All'inizio della Quaresima il profeta si fece preparare dalla moglie sette pani e quindi si rinchiuse nell'abbaino deciso a trascorrervi una severa penitenza. Vi rimase trentatré giorni, nutrendosi soltanto di pane e acqua. In quella lunga clausura egli ebbe, come al solito, molte visioni e occupò gran parte del suo tempo a scrivere con incredibile rapidità un Manifesto ai popoli e ai principi cristiani e a meditare la sua opera più vasta, quella che gli avrebbe dato i maggiori grattacapi, per la quale aveva scelto un titolo alquanto presuntuoso: La mia lotta con Dio. Fra un ritiro e l'altro, David non aveva dimenticato la sua comunità dell'Amiata. Manteneva con gli eremiti una fitta corrispondenza inviando loro consigli, esortazioni e qualche piccola somma di denaro. A monte Labbro, infatti, le cose non andavano bene: erano ricominciati i dissidi e le discordie. Nel tentativo di appianare le difficoltà crescenti, David cercò di convincere il suo devoto benefattore ad acquistare i poderi della cooperativa. La proposta, che non nascondeva alcunché di disonesto, fu portata avanti per qualche mese e ancora si conserva un nutrito carteggio. L'affare però non andò in porto per l'opposizione a vendere manifestata da Raffaello Vichi e da
altri eremiti. Nel maggio successivo, David, dovendo ricopiare in buon italiano le sue opere per poi farle tradurre in francese dall'avvocato Deymonas, chiamò in Francia il padre Imperiuzzi. Abbastanza curiosa è la lettera di invito fatta recapitare al frate. «Venga» gli scriveva David «vestito di panni bianchi [intendeva dire di bucato] e se può tenga quel giubbone che le lasciai io. E guardi di avere una pezzuola di seta nera al collo e le scarpe sempre pulite e decenti, perché lei sa che il decoro delle persone con le quali deve trattare richiede di essere discretamente pulito in tutta la persona.» Evidentemente il buon frate, tutto preso dai suoi impegni ascetici, non doveva avere molta dimestichezza con l'acqua e il sapone... Imperiuzzi giunse a Beligny nell'estate del 1876. Portò al profeta la triste notizia della morte di frate Mikus, spirato qualche tempo prima e poi sepolto in una cappella privata, offerta da un socio, nel cimitero di Arcidosso. Da allora, salvo qualche breve scappata a monte Labbro, la cui comunità era ora diretta da don Polverini, padre Filippo resterà in Francia per oltre un anno. David frattanto, sempre più ossessionato dal pensiero che nelle sue vene scorresse il «seme di Pipino» e che il cielo lo volesse protagonista e artefice della ormai prossima riforma dello Spirito Santo, andava progettando e scrivendo con rapidità da grafomane statuti e editti da promulgare il giorno in cui la profezia si fosse avverata. Nella sua mente sconvolta, aveva anche fissato con esattezza sconcertante il giorno fatidico: 14 marzo 1878. Il credulo du Vachat, che ormai si era lasciato completamente coinvolgere in quella allucinante avventura mistica, lo seguiva come un discepolo ardente di fede. I due singolari personaggi compirono in quei giorni lunghi pellegrinaggi attraverso la Francia e altri paesi europei. Si recarono sicuramente a Londra e forse in Belgio e in Spagna. Il motivo di questi viaggi non è noto, ed è probabile che non lo conoscessero neppure loro stessi. Li spingeva la smania di David di scoprire cose nuove e di conoscere gente nuova alla quale rivelare la sua missione divina. Delle sue ambizioni regali David non faceva più mistero tanto era sicuro che il fatto si compisse. Scriveva in quei giorni al piccolo Turpino: «Rammenta di chi sei figlio e di quello che deve avvenire per la gloria di Dio e dei tuoi genitori. Il sangue tuo è sacrato perché è sangue destinato a far trionfare la vera causa della giustizia». E ai suoi confratelli di monte Labbro che lo rimproveravano di averli dimenticati: «Voi non avete ancora convinzione delle mie verità che più volte vi ho accennato e che ora vado pubblicando in lingue straniere e patrie. Ma dovrete convincervi fermamente se un giorno vorrete essere degni di me e ascendere alla gloria e al possesso di quella dignità e grandezza che ci pervengono per diritto del nostro regio sangue». Gli scritti che andava pubblicando «in lingue straniere», ossia in francese, erano: Il libro dei celesti fiori, Il manifesto ai popoli e ai principi cristiani, La mia lotta con Dio e altri opuscoli che aveva già stampato in Italia. Anche nelle sue opere più recenti, il profeta continuava a battere con ostinazione sul tasto della sua predestinazione al trono. Ai principi cristiani, «siano essi cattolici, scismatici o eretici, purché battezzati» riassumeva la storia misteriosa della sua vita per concludere che lui, «issu de la race des rois», aveva ricevuto il mandato di annunciare la nuova riforma, e proponeva un'alleanza fra tutti i principi per realizzarla. Dopo di che «il mondo sarà diviso fra tredici monarchie costituzionali sopra le quali avrebbe regnato il Gran Monarca». Cioè lui. In La mia lotta con Dio, pubblicato dalla stamperia Villefranche di Bourg, David si faceva ancora più ardito nelle sue sconvolgenti profezie fino a sconfinare palesemente nell'eresia. Questo libro, che costituisce l'opera più complessa dell'allucinato pensiero da vidi ano, è chiaramente frutto di una lettura attenta e tormentata dell'Apocalisse, ma rivela anche il tentativo di completarla e svilupparla. La simbologia è chiaramente derivata da quella di Giovanni, come si avverte nel frequente ricorso ai numeri magici 3, 7,12, 144, nella descrizione degli animali favolosi e nei particolari illustranti la futura Sion, o Città
del Sole. Di propria iniziativa, David annuncia poi la fondazione di altre sei «città eternali» (quella di Sion, come sappiamo, era già sorta sul monte Labbro) che sarebbero state edificate in Francia, Spagna, Grecia, Germania, Inghilterra e Gerusalemme. Ma la parte più interessante e delicata del libro, quella cioè che metterà in allarme i difensori dell'ortodossia cattolica, è quella in cui David descrive la «lotta con Dio» che lui sostiene orgogliosamente per salvare l'umanità dal flagello dell'ira divina. In questa parte già si accenna esplicitamente a un possibile nuovo olocausto, simile a quello consumato sul Golgota, per risparmiare agli uomini un diluvio di sangue e di fuoco. Nell'estate del 1876 i coniugi Lazzaretti furono sfrattati dalla villa di Beligny. Madame du Vachat, che soleva recarsi in villeggiatura presso questa sua dimora di campagna, ottenne dal marito l'allontanamento dei suoi protetti. Leon du Vachat, al quale i rapporti col profeta dovevano causare seri contrasti coniugali, sistemò, naturalmente a sue spese, David e Carola in un appartamento di Lione situato nella montée Gourguillon. In quella zona trovò anche un quartierino da scapolo per frate Imperiuzzi. Fin dall'inizio del suo soggiorno lionese, il profeta entrò in contatto con alcuni prelati che frequentavano abitualmente l'entourage di du Vachat e i locali circoli legittimisti. Fra costoro figurava il protonotario apostolico Onorio Taramelli, un prete genovese, erudito e reazionario, che era stato costretto a riparare in Francia per sfuggire alle conseguenze giudiziarie della sua violenta attività pubblicistica antiunitaria e repubblicana. Don Taramelli) esercitò per un lungo periodo una forte influenza spirituale e politica sul profeta toscano. Non sappiamo esattamente a cosa mirasse questo sacerdote di vasta cultura e intelligenza nell'assumersi la guida spirituale di David. Senza dubbio avrà avuto il suo peso sull'esule anche il fatto che il fanatico Leon du Vachat era molto generoso con gli amici del profeta. Ma non può essere questo il solo motivo. Taramelli, che era indubitabilmente un attivo oppositore dell'Italia nata dal Risorgimento (anche la sua conclamata fede repubblicana va intesa in questo senso e non, ovviamente, in senso mazziniano), presumibilmente intendeva, come già avevano tentato altri, strumentalizzare per fini politici il vasto ascendente che David esercitava sui montanari dell'Amiata. Pare fra l'altro che il prete gli abbia addirittura offerto i galloni di colonnello dell'esercito austriaco a patto che accettasse di tornare fra le sue montagne a svolgervi azioni di guerriglia. Questa curiosa notizia, ricavata da una confidenza fatta dallo stesso David a frate Imperiuzzi, non è mai stata confermata da altri. Tuttavia resta il fatto che, in quel periodo, il fantasioso Milleidee cominciò ad assumere atteggiamenti che poco avevano a che vedere con la sua missione di pace: indossò una divisa garibaldina adorna di immagini sacre, tornò a rievocare con entusiasmo le vicende belliche di cui era stato protagonista nel 1860, annunciò la sua intenzione di scrivere un'opera intitolata Episode de ma vie militaire e scrisse effettivamente un opuscolo, dal titolo La nouvelle Science militaire, in cui pare (perché purtroppo il manoscritto è andato perduto) illustrasse alcune meravigliose macchine belliche di sua invenzione. Questo ritorno di fiamma militaresco può anche essere spiegato col fatto che David andava sempre più convincendosi che la sua riforma non poteva essere realizzata se non dopo una guerra lunga e sanguinosa. Di questa terribile prospettiva aveva convinto anche l'amico du Vachat col quale trascorreva ore per discutere del futuro assetto del mondo. Un giorno, per esempio, lo condusse sulla sommità del colle di Fourvier, dal quale si poteva ammirare la città di Lione, per rivelargli che «quando la guerra sarà finita e trionferà la pace universale, in quel punto là, verso levante, faremo accatastare i cannoni e gli altri strumenti di guerra come segno della superbia e della barbarie umana». Un'altra volta, dopo avere segnato insieme sulla carta geografica il perimetro della nuova «città eternale» di Lione, che si sarebbe chiamata Trislonia «diventando sede del Papato e del Gran Monarca che già trovasi incognito in terra di
Francia», volle che il magistrato lo seguisse in un pellegrinaggio lungo l'immaginario perimetro della futura città eternale che pare misurasse un centinaio di chilometri. «Ma dopo avere percorso meno della metà del tragitto» racconta l'onesto frate Imperiuzzi «essi dovettero fermarsi perché gli si riscaldarono i piedi...» Don Taramelli, intanto, si era assunto il compito di ricopiatore e traduttore delle opere di David con grande disappunto del povero frate Imperiuzzi il quale vedeva venir meno l'unica giustificazione della sua presenza a Lione. Il prete si era assunto questo difficile compito col preciso scopo di censurare o modificare secondo i suoi fini gli scritti del profeta. L'inganno fu però scoperto da Imperiuzzi che avvertì David il quale, essendo gelosissimo della sua prosa, convinto com'era di scrivere sotto dettatura divina, tolse l'incarico al Taramelli. Ne seguì una lotta sorda fra i due sacerdoti al termine della quale ebbe la peggio l'Imperiuzzi. Sobillato dal Taramelli, e anche dai suoi familiari che osservavano preoccupati il suo sconcertante comportamento, Leon du Vachat decise di licenziare il filippino. Se ne tornasse alla sua montagna e la smettesse di seminare zizzania fra i veri amici di David. Prima di partire, Filippo Imperiuzzi raccontò piangendo al suo maestro quanto gli era accaduto. E David, con una di quelle battute fulminanti che a volte facevano sospettare che dietro l'innocente uomo di Dio si celasse un gran furbacchione, commentò con prontezza: «Mi sa tanto che hanno picchiato il cane per avvertire il padrone». Filippo Imperiuzzi tornò dunque a monte Labbro verso la fine del 1877. Trovò facce malinconiche e fedi affievolite. La lunga assenza di David e i soliti dissidi fra i soci avevano creato larghi vuoti nei ranghi della non più fervorosa comunità. Ma quello stato di incertezza non durò a lungo. Quando, ai primi del 1878, giunse la notizia della morte di Pio IX e di Vittorio Emanuele II, a monte Labbro rifiorì la speranza ed ebbe inizio la trepidante attesa. Non aveva forse annunciato il santo David che si sarebbe rivelato nella sua vera natura in occasione di un «gran lutto»? Ora questo gran lutto era arrivato, non restava che aspettare. Quegli ingenui e fiduciosi montanari si riferivano alla seguente Profezia sulla mia vita, che David aveva persino inserito nei programmi di studio delle scuole agricole della comunità. Io (per mio conto) sarò oscuro al mondo Fino che Italia non sarà in gran lutto. E allora mi vedran dall'Appennino Calar come Mosè dal Sinai Monte, E mischiarmi fra i popoli agguerriti E portar pace e riformar le leggi. E chi io mi sia, lo conoscerete Da un marchio che ne porto sulla fronte. Dopo che la pace in voi avrò portato, Passerò pellegrino al suolo santo A consultar gli oracoli di Dio. E a fin di un lustro tornerovvi appresso A tripudiar la causa dell'Europa. Quindi il giro farò di mezzo mondo E sui quindici lustri di mia vita In seno a Roma morirò compianto Da tutta Italia. Povero David. Di tutte queste profezie, tranne il «gran lutto», non ne avrebbe azzeccata una.
CAPITOLO XV. I DODICI APOSTOLI. Monte Labbro, 9 giugno 1878, domenica di Pentecoste. Son trascorsi appena tre mesi da quando David è risalito all'eremo dopo anni di assenza per rivelarsi ai suoi discepoli come la reincarnazione del Cristo e annunciare l'inizio della nuova era in cui sarebbe compiuta la riforma dello Spirito Santo. Tre mesi lunghi come una vita, nel corso dei quali i suoi seguaci, dopo l'iniziale fiducioso entusiasmo, sono piombati nell'abisso della disperazione e del dubbio. David, partito alla volta di Roma sicuro di riuscire a confondere i giudici del «sinedrio», ha invece piegato per la prima volta il capo orgoglioso di fronte all'autorità della Chiesa, ha rinnegato se stesso e ha scritto ai suoi fratelli dell'eremo invitandoli all'obbedienza e alla sottomissione. Qualcuno gli ha obbedito, come il frate Polverini che è
corso a prostrarsi ai piedi del suo vescovo, altri, incerti e confusi, hanno preso le distanze. L'unico a non rassegnarsi è stato frate Filippo Imperiuzzi. Ostinato, tenace, tetragono e sicuramente in buonafede, il giovane filippino (deve ancora compiere trentatré anni) ha persino mentito per mantenere unita la piccola comunità religiosa cui ha votato la propria esistenza. Ha mentito affermando di aver incontrato David al suo ritorno da Roma e di aver ottenuto l'incarico di sostituirlo al vertice della loro piccola chiesa. E ha mentito altre volte fingendo di essere in stretta corrispondenza con lui. Ma adesso mentire non è più necessario: David gli ha effettivamente scritto invitandolo a riunire per la festa di Pentecoste il consiglio generale degli eremiti. Gli ha anche inviato dettagliate istruzioni per ristrutturare la sua chiesa, la Chiesa giurisdavidica, questo il nome scelto da David, e il testo del «Simbolo della Nuova Riforma», una lunga preghiera divisa in 23 articoli che d'ora in poi dovrà sostituire il credo cattolico. «David tornerà se saremo degni di lui» annuncia frate Imperiuzzi agli eremiti che prendono lentamente posto nella «santa caverna» dove hanno trascorso tante notti esaltanti inebriati dal suono armonioso della voce del profeta. Dopo le preghiere, il frate spiega ai presenti di avere ricevuto il compito di scegliere fra gli eremiti dodici apostoli, dodici discepoli e dodici condiscepoli. Questi ultimi, secondo il desiderio espresso da David, dovranno essere in grado di saper leggere e scrivere per coadiuvare gli altri che sono in maggioranza analfabeti. Ma prima di passare alle nomine mediante elezione, il frate pretende che tutti i presenti facciano professione di fede «per lasciarne memoria nei nostri atti». Ha così inizio una curiosa, ma anche commovente gara fra i presenti per testimoniare a David la propria fiducia e la propria obbedienza. Le testimonianze sono trascritte a verbale dall'eremita-segretario, Vincenzo Polverini, nella maniera seguente: Interrogato per primo, l'eremita più anziano Giuseppe Vichi disse: «Io sono pronto nella mia semplicità a servire il Cristo Duce e Giudice, a propagare i suoi principi fra i popoli e dare il sangue e la vita». Paolo Conti disse: «Io sono pronto a servire il Cristo Giudice e a propagare i principi». Angelo Pii disse: «Poiché Iddio mi ha richiamato al suo amore, col suo aiuto sono pronto a propagare le verità infallibili che per bocca del suo servo David Lazzaretti ha palesato». Achille Rossi disse: «Anch'io sono pronto a far tutto per la propagazione dei principi di Cristo Giudice». Federigo Bocchi disse: «Da che Cristo Giudice venne a parlare la verità, io ne sono sempre stato persuaso e pronto sono a far tutto». Angelo Imberciadori disse: «Ripeto quanto ha detto Federigo Bocchi: dal primo giorno in poi sono sempre stato lo stesso». Vincenzo Paris disse: «Sono pronto a tutto e ne ringrazio Dio di poter dare il sangue e la vita per amore di Cristo Giudice». Federico Bramerini disse: «Io pure sono pronto a tutto». Marco Pastorelli disse: «Io ancora non vedo l'ora di andare a predicare la verità». Filippo Corsini disse: «Anch'io sono ispirato di propagare i principi di Cristo Giudice e sono pronto a tutto». Tomencioni Francesco disse: «Io sono pronto a dare il sangue e la vita per difendere la verità e la giustizia». Pasquale Tonioni disse: «Sono pronto a tutto». Quindi gli altri per non ripetere ciascuno le stesse espressioni si alzarono in piedi ed unanimi dissero: «Siamo pronti a tutto». Terminata la trascrizione del verbale, frate Imperiuzzi invita tutti ad apporre la propria firma in calce al documento, e ai più che si vergognano un poco di non saper tracciare che un segno a croce, il frate rammenta commosso che anche «gli apostoli di Gesù e Gesù stesso erano tutti analfabeti e di animo semplice». Successivamente vengono eletti i dodici apostoli, ciascuno dei quali dovrà scegliersi un discepolo, e questi un condiscepolo. Al termine della laboriosa operazione la gerarchia della Chiesa giurisdavidica risulta così composta: David Lazzaretti istitutore Filippo Imperiuzzi 2° sacerdote eremita Apostoli Discepoli Condiscepoli Filippo Corsini Giuseppe Corsini Domenico Pastorelli Federigo Bocchi Luigi Vichi Giuseppe Pastorelli Achille Rossi Giuseppe Rossi
Angelo Bianchini Giuseppe Vichi Achille Vichi Leopoldo Monaci Paolo Conti Martino Peri Marsilio Lorenzoni Ottavio Arcangeli Angelo Cheli Bruno Massimi Augusto Sacconi Francesco Tomencioni Adriano Corsini Angelo Imberciadori Francesco Tomencioni Vincenzo Polverini Vincenzo Paris Antonio Domenichini Francesco Cheli Federico Bramerini Domenico Contri Luciano Contri Marco Pastorelli Gabriello Magnani Paolo Dondolini Angelo Pii Cherubino Cheli Pietro Bianchini. Quegli uomini sinceramente devoti riuniti nella caverna dell'eremo si rendono confusamente conto di avere dato vita a una setta eretica. Ma non provano alcuna paura: come tutti gli eretici sono convinti di essere dalla parte giusta, dalla parte di Dio. Così, dopo le consuete preghiere, riprendono i lavori dell'assemblea e approvano unanimi quello che oggi chiameremo un ordine del giorno per dichiarare che «la condanna data dal supremo tribunale della Chiesa Romana contro il nostro Istitutore David Lazzaretti è ingiusta». Dopo di che il frate Imperiuzzi dà lettura dei ventitré articoli del «Simbolo dello Spirito Santo». Questa preghiera, che ricalca in molte sue parti il simbolo della fede cattolica, contiene degli articoli chiaramente blasfemi. Ne citiamo alcuni: Art. 8. Crediamo fermamente che nostro Signore Gesù Cristo sieda alla destra di Dio Padre Onnipotente e di là ha da venire per mistero ammirabile una seconda volta al mondo, come giudice supremo a giudicare i vivi e i morti. Art. II. Crediamo alla terza legge divina del Diritto ossia alla Riforma dello Spirito Santo, nella Chiesa cattolica, alla Comunione dei Santi, al Sacramento del perdono e della penitenza, alla confessione di emenda, nella remissione dei peccati e rigettiamo come cosa indegna e spiacevole a Dio la confessione auricolare. Art. 17. Crediamo al paradiso, al purgatorio, al Regno della speranza dove sono i giusti morti fuori della cattolica Chiesa, e all'inferno; ma non crediamo che in esso le pene siano eterne, bensì a tempo determinato a seconda della gravità dei peccati. Apostoli e discepoli ascoltano emozionati la lettura di quello che d'ora in avanti sarà il loro nuovo credo. Terminato di leggere, frate Imperiuzzi informa i presenti che il nuovo simbolo non è concluso perché David ha lasciato volutamente sospeso il 24° articolo affinchè esso venga formulato dallo stesso consiglio generale degli eremiti. La conclusione, proposta dallo stesso Imperiuzzi e approvata all'unanimità, risulta formulata nel modo seguente: Art. 24. Concludiamo di proposito fermamente che il nostro Istitutore David Lazzaretti, l'Unto del Signore, giudicato e condannato dalla Curia romana, è realmente il Cristo Duce e Giudice, vera e viva figura della seconda venuta del nostro Signore Gesù Cristo sul mondo come Figlio dell'Uomo a portare compimento alla redenzione copiosa su tutto il genere umano in virtù della terza legge divina del Diritto e Riforma generale dello Spirito Santo, la quale deve riunire tutti gli uomini alla fede di Cristo in seno alla cattolica Chiesa in un sol culto e in una sola legge in conferma delle divine promesse. Il giorno seguente, frate Imperiuzzi, vuoi per ingenua sconsideratezza, vuoi per tortuosa frustrazione di prete spretato e scomunicato, raccolse in un plico copia dei documenti approvati dal consiglio degli eremiti e lo inviò ai «Reverendissimi Signori Componenti la Suprema Corte del Sant'Uffizio», con la seguente lettera di accompagnamento: Mi prendo doverosa cura di rimettere alle S.V.R.me il Simbolo dello Spirito Santo della nuova Riforma e la deliberazione annessa fatta da noi sottoscritti. Di tutto ciò comprenderanno le S.V.R.me i misteri altissimi della Provvidenza infinita di Dio, cui nessuna umana forza potrà resistere od opporsi in qualsiasi modo. Le S.V. prenderanno in considerazione le nostre sante verità e facciano sì che da esse se ne cavino copiosi frutti per il bene di tutta l'umanità. Riflettano pure seriamente che la universale Chiesa di Cristo piange e geme oppressa da
quelli stessi che di essa dovrebbero avere la prima e suprema cura, e questi Pastori e capi dormono nel sonno placido e mortifero della incuranza e della ingratitudine. Riflettano che i giorni sono vicini della venuta del supremo Giudice e perciò guai a coloro che non hanno avuto buona cura dell'ovile di Cristo. Io parlo a nome mio e di tutti i confratelli eremiti che altro non desiderano che di vedere abbattuta l'empietà, la tirannide, l'egoismo e dispersa l'ipocrisia, l'impostura e gli abusi della religione, e di far trionfare la giustizia e la Chiesa di Cristo per tutta la faccia della terra. In nome di tutti i miei confratelli mi firmo um.mo servo di Cristo F. Imperiuzzi S. Eremita. CAPITOLO XVI. «LA REPUBBLICA E' IL REGNO DI DIO». David Lazzaretti tornò definitivamente a monte Labbro il 5 luglio 1878. Lo accompagnavano la moglie Carola con i figli Turpino, ormai quindicenne, e Bianca, di dodici anni. Fu naturalmente accolto con grande entusiasmo. «Il nostro David è tornato» annunciarono gli eremiti in tutti i villaggi dell'Amiata. «E' tornato per sempre.» Il profeta era magrissimo, il volto cereo, gli occhi ardenti di febbre e la lunga barba ormai filigranata d'argento. Ma il contatto con quella folla che credeva ciecamente in lui, dopo mesi di tormentato isolamento, gli restituì quella forza e quella fiducia in se stesso che forse aveva perduto. Resta ancora difficile, per la verità, stabilire il vero motivo che indusse David a fare ritorno all'antico eremo. E vero che con la sicurezza dei folli aveva stabilito degli appuntamenti precisi fissando, fra l'altro, la sua «manifestazione» pubblica per il 14 agosto, precisando inoltre che quel giorno «il grande Liberatore del mondo sarebbe sceso dall'Appennino toscano come Mosè dal Sinai». Ma è anche vero che ragioni di ordine pratico rendevano estremamente difficile il suo soggiorno in territorio francese. Al ritorno da Roma, dopo la condanna del Sant'Uffizio, egli aveva trovato a Lione una situazione del tutto diversa. Don Onorio Taramelli lo diffamava pubblicamente trattandolo da eretico e da impostore, gli altri religiosi francesi che un tempo frequentava, ora lo evitavano come un appestato e, per giunta, gli era anche venuta a mancare l'indispensabile protezione di Leon du Vachat. La famiglia del mistico magistrato infatti, allarmata dal comportamento sempre più squilibrato del proprio congiunto, si era alfine decisa a farlo interdire dal tribunale togliendogli in tal modo ogni disponibilità finanziaria. Privata dell'appoggio economico del ricco francese, la Carola aveva così dovuto lasciare il piccolo appartamento di Lione e aveva trovato un precario asilo presso le suore del convento di Saint-Charmond insieme ai due figli che, a loro volta, erano stati espulsi dagli istituti religiosi in cui studiavano. Questa era dunque la condizione in cui versava la famiglia Lazzaretti alla vigila del rimpatrio: non si può quindi escludere che anche i problemi economici abbiano avuto una parte importante nella decisione presa da David di fare ritorno a casa. Ma qualunque sia stata la causa del suo rimpatrio, appena tornato fra i suoi fedeli montanari, il profeta dell'Amiata riprese con lena la sua predicazione. Rassicurato dalla fiducia sincera dei suoi seguaci, egli riacquistò di colpo tutta la sua sicurezza di un tempo. La data ormai prossima della sua manifestazione pubblica (l'aveva fissata per il 15 agosto, cadendo quel giorno la festa dell'Assunta) invece di spaventarlo lo galvanizzava. Ormai non parlava d'altro e non pensava ad altro, tanto che era riuscito a creare nella sua comunità una fervida atmosfera di aspettazione per i meravigliosi avvenimenti che sarebbero accaduti in quella fatidica giornata. E vale la pena di sottolineare, qualora ne fosse ancora il caso, che la buonafede che David nutriva nella propria missione divina trova qui la sua più alta testimonianza. Nessun impostore, infatti, sarebbe stato così ingenuo da fissare un appuntamento preciso per la verifica della propria
credibilità. David attendeva dunque quel giorno con assoluta fiducia e nell'attesa organizzava i preparativi, redigeva editti e programmi. In queste pagine, da lui vergate nel trepido fervore della vigilia, il profeta rivelava un suo più realistico impegno politico e sociale. Ora infatti, pur mantenendosi fermo nella sua convinzione che solo un intervento soprannaturale avrebbe potuto portare sulla terra la vera giustizia, egli si avventurava anche in argomentazioni puramente materialistiche: criticava il sistema fiscale «che colpisce soltanto i poveri», lamentava l'assenza di scuole per le classi bisognose e affrontava per la prima volta apertamente lo stesso concetto di proprietà, affermando che ogni uomo aveva diritto a possedere un pezzo di terra quanto bastasse. Insomma, scriveva e diceva cose che quei piccoli possidenti, quegli artigiani, quei mezzadri e quei braccianti poverissimi che si stringevano fiduciosi attorno a lui volevano evidentemente sentirsi dire. Dalla Francia, David aveva portato anche uno slogan di nuovo conio che doveva diventare da quel momento la parola d'ordine della comunità dell'Amiata: «La Repubblica è il Regno di Dio». Un'affermazione piuttosto contraddittoria nella quale, forse inconsapevolmente, aveva riversato le sue delusioni e le sue frustrazioni. Amante come sempre del fasto esteriore, David decise che per la sua manifestazione del 15 giugno tutti dovessero indossare una divisa. «Ognuno di voi» aveva detto oscuramente «dovrà essere vestito come è vestito nel suo interno.» Poi aveva organizzato una colletta mettendo nel mucchio anche le uniche 500 lire che rappresentavano tutti i risparmi di sua moglie. Col denaro ricavato partì per Torino insieme al fratello Giovanni e a Giuseppe Vichi per acquistare centinaia di metri di stoffa colorata, berretti, fasce, cordoni e nappe che poi spedì per ferrovia dentro grosse casse di legno. Mentre il caposarto Tibaldo Innocenti e le sue lavoranti si affannavano a preparare i costumi espressamente disegnati dallo stesso David, questi era già impegnato con gli altri eremiti nella costruzione di un grande altare all'aperto, sul quale troneggiava una croce alta dieci metri, in previsione del fatto che il giorno dell'Assunta la piccola chiesa dell'eremo non sarebbe stata capace di contenere le migliaia di persone che certamente sarebbero salite sul monte. Rubando tempo anche al sonno, il profeta scrisse pure una serie di inni, come quello dedicato alla Madonna delle Vittorie o come il Cantico delle milizie crocifere del governo della Repubblica. I fedeli avrebbero dovuto imparare a memoria tali inni per cantarli il giorno della manifestazione del Cristo, Duce e Giudice. Nel frattempo il più giovane dei discepoli, il ventenne Beppe Corsini, che aveva fama di buon pittore, era intento a preparare distintivi di cartone, che tutti coloro che non potevano indossare i costumi avrebbero dovuto portare appuntati alla spalla destra. In questi distintivi figurava su fondo rosso la nota sigla davidica « D + C », che ora non era più misteriosa poiché il profeta aveva ritenuto giunto il momento di rivelare che le due «C» contrapposte stavano a significare «la prima e la seconda venuta di Cristo sulla terra». Altri ragazzi, intanto, sotto la guida di Beppe preparavano bandiere rosse e cartelloni dello stesso colore nei quali veniva scritto a grandi lettere «Viva la Repubblica Regno di Dio». Un cartellone enorme con questa scritta venne anche issato sulla torre. I preparativi procedevano dunque in un'atmosfera di strana euforia e di mistica attesa. Amano a mano che la data della manifestazione si avvicinava aumentava il numero dei partecipanti (la sera della vigilia ammonteranno a circa tremila). Intere famiglie, anche con i bambini in fasce, si erano trasferite sul monte e ora bivaccavano all'aperto riparandosi sotto tende o capanne di frasche. Tornarono pentiti all'eremo anche coloro che avevano abbandonato la comunità nei momenti di crisi. Tornò persino il «giuda», Coriolano Marcelli, che si gettò in lacrime ai piedi del santo David invocandone il perdono. Naturalmente lo ottenne. Non mancarono neppure i soliti segni che sempre si registrano in momenti di così intenso misticismo. Una ragazza di Castel del Piano, sordomuta dalla nascita, guardando verso l'eremo avrebbe gridato «Quanto
fuoco è a monte Labbro!» e condotta lassù avrebbe riacquistato la parola. Due contadini di Arcidosso, volgendo lo sguardo verso il monte, avrebbero visto innalzarsi una grande croce di fuoco, mentre una fonte presso Stribugliano avrebbe improvvisamente sgorgato sangue. Francamente, ancora oggi ci si chiede cosa questa gente si aspettasse di vedere il 15 agosto. «Volevano vedere il miracolo» spiega laconicamente frate Imperiuzzi. Ma forse volevano qualcosa di più. In preda a una forma di mistica follia collettiva, quegli uomini che l'ispettore Caravaggio non saprà se definire «molto poveri» o «poverissimi», si aspettavano di vedere risolti tutti i loro problemi e trionfare quella utopica giustizia cui le classi subalterne hanno sempre agognato. David, da parte sua, prometteva tutto questo ma, nello stesso tempo, annunciava sconvolgimenti terribili, lacrime e sangue. Il suo comportamento era fortemente contraddittorio, come se passasse da momenti di esaltante follia a momenti di profondo sconforto. Ora parlava di trionfo, ora di martirio. Il suo atteggiamento di quei giorni fa persino sorgere il dubbio che presentisse la sua prossima fine, o meglio, che la cercasse coscientemente intravedendo in essa l'unico sbocco possibile per concludere degnamente la sua sconcertante avventura. Naturalmente è impossibile individuare un filo logico in una mente sconvolta. Resta tuttavia il fatto che David, rivelandosi improvvisamente repubblicano, oltre che eretico, provocò quell'innaturale alleanza fra Stato e Chiesa che sarebbe stata causa della sua rovina. Avvicinandosi il giorno della manifestazione, David si fece sempre più assorto. Pregava molto. Fu anche colto da una di quelle sue terribili emicranie che lo costrinse a letto per due giorni. Dopo questo attacco, che lui definì «l'agonia della morte», mutò contegno e «divenne serio e grave sicché nessuno più azzardava di prenderci confidenza come prima, poiché ora a tutti incuteva temenza e rispetto». Il 5 agosto convocò tutti i fedeli nel piazzale e rivolse loro queste parole: Cari figliuoli, come ben sapete, da molto tempo Dio vi ha chiamati a far parte del sangue mio e alla mia missione: ora dunque necessita, poiché lo vuole Iddio, che voi tutti vi prepariate per il giorno 15 agosto con l'orazione e col digiuno. Sì, per voi quel giorno è il più grande che potrà esservi, perciò vi prego di prepararvi casti e puri, ma non solo coll'orazione: vi asterrete pure dal consumare il matrimonio, abbenché sia un santo Sacramento. Così lo vuole Iddio. Io credo che per dieci giorni potrete anche astenervi... Sono dieci anni che mi preparo a questo giorno 15, il quale per noi significa Pasqua. Siate pentiti di cuore innanzi a Dio e domandategli perdono delle colpe passate. Esso sarà con voi e voi con esso. Il giorno seguente accadde un fatto che ha dell'incredibile e che comunque dimostra quale ascendente esercitasse il profeta sui suoi fedeli. David convocò infatti gli apostoli e discepoli «possidenti», che risultarono essere trentadue. A costoro, racconta frate Imperiuzzi, disse: «Voi sapete che i primi apostoli furono poveri, anzi che rinunciarono a tutto quello che possedevano perché Gesù così aveva voluto. Ebbene, io ora vi dico: chi non rinuncia a tutto quello che ha non potrà essermi apostolo». «A questo punto» prosegue il racconto di frate Filippo «l'apostolo Angelo Pii si alzò e disse: "Noi siamo nati nudi e nudi dobbiamo morire. Quello che abbiamo al mondo lo dobbiamo lasciare. Io sono pronto a rinunciare a tutto". Anche gli altri si dissero pronti alla rinunzia e David mandò allora un eremita a Castel del Piano a comprare delle cambiali e tutti le firmarono sacrificando ogni loro avere.» L'operazione richiese molto tempo perché ciascun eremita dovette calcolare con esattezza il valore delle proprie cose (case, podere o bestie) prima di stabilire la cifra da registrare nella cambiale. Alla fine furono firmate ventun cambiali nel modo seguente: Giuseppe Vichi L. 17.000; Raffaello Vichi L. 25.000; Achille Rossi L. 10.000; G. Battista e Giuseppe Rossi L. 20.000; Antonio Domenichini L. ] 0.000; Giuseppe Pastorelli L. 17.000; Angelo, Francesco e Giovanni Lazzaretti L. 6000; Cherubino Cheli, Federigo Bocchi e Filippo Corsini L. 5000; Paolo Conti, Federico Bramerini e Marco Pastorelli L. 4000;
Giuseppe e Addano Corsini L. 20.000; Angelo Bianchini L. 2000; Augusto Sacconi e Ottavio Arcangeli di Scandriglia L. 12.000; Bruno Massimi, di Scandriglia L. 2000; Francesco Tomencioni e G. Battista Domenichini L. 2000; Angelo Imberciadori L. 10.000; Pasquale Tonioni L. 3000; Francesco Petrucci L. 1500; Angelo Pii L. 12.000; Paolo Dondolini L. 4000; Vincenzo Paris L. 1500; Angelo e Francesco Cheli L. 20.000. Le offerte ammontavano complessivamente a 204.000 lire, una somma enorme se si pensa che, secondo un'inchiesta svolta in quegli anni, il reddito medio di un mezzadro toscano era di 87 lire all'anno. Queste cambiali erano perfettamente esigibili alla scadenza fissata per il 20 gennaio 1879. Come beneficiario, David aveva scelto in un primo tempo Leon du Vachat, quasi volesse sdebitarsi con lui, ma non riuscendo a mettersi in contatto col magistrato francese, aveva deciso alfine di farle firmare a favore dell'avvocato Isidoro Maggi, ex deputato democratico dì Arcidosso. La scelta di Maggi, assolutamente estraneo al movimento, fu certamente dovuta alle simpatie che questo giovane uomo politico godeva fra la povera gente. Due anni prima egli era stato eletto nel collegio di Scansano al primo scrutinio, come non era mai accaduto neanche quando era candidato il Ricasoli. Motivo del suo successo: la promessa di battersi per l'abolizione della tassa sul macinato e per l'istituzione di una imposta progressiva sul reddito. Ma la sua elezione era stata invalidata e così una seconda e una terza volta, grazie a brogli elettorali e alla violenta campagna di stampa sostenuta dalla governativa «Nazione» di Firenze che gridava allo scandalo contro questo sconsiderato giovanotto che «per far breccia sull'animo delle plebi vagheggiava un'imposta progressiva che avrebbe dato un colpo mortale alla proprietà...». L'atto di completa rinuncia e, diciamolo pure, di sublime sacrificio compiuto da questi montanari colpì così profondamente l'avvocato Maggi che, più tardi, ne assumerà la gratuita difesa davanti alla Corte d'Assise di Siena. Le cambiali, invece, furono da lui restituite più tardi agli interessati, che le bruciarono. Un'altra prova terribile che David chiese ai suoi eremiti fu la cosiddetta «prova del fuoco», una sorta di battesimo consistente nella marchiatura eseguita sulla spalla destra del credente con un sigillo arroventato. Egli si fece marchiare per primo la spalla e all'interno delle cosce, poi marchiò i suoi figli Turpino e Bianca davanti alla povera Carola sgomenta, ma ormai incapace di qualsiasi tentativo di difesa. Lei stessa, d'altronde, accettò di farsi marchiare e dopo di lei altre decine di credenti, in preda a una forma di ascetico masochismo, fecero a gara per ricevere nella viva carne il marchio infuocato che li metteva ancora di più in comunione spirituale con il loro profeta. CAPITOLO XVII. LA MANIFESTAZIONE. La massa enorme di popolo che s'andava radunando sul monte Labbro, fra lo sventolare di bandiere rosse, l'ondeggiare di crocefissi e l'echeggiare di slogan sovversivi, aveva effettivamente provocato ad Arcidosso l'insorgere di una sorta di compromesso storico fra due nemici tradizionali: il partito cattolico e quello liberalmonarchico. Ora, infatti, liberi pensatori e possidenti quali lo speziale Becchini, il sindaco Ferrini o l'assessore Malcapi, che fino a poco tempo prima avevano assistito divertiti alle beghe pretesche fra don Pistolozzi che gridava al sacrilegio e frate Imperiuzzi che continuava a celebrare malgrado la sospensione a divinis, non ridevano più, ma seguivano seriamente preoccupati ciò che stava accadendo sulla montagna. La notizia che i lazzarettisti sarebbero scesi a valle il 15 agosto per la manifestazione pubblica del loro profeta era ormai nota a tutti. D'altra parte David, meticoloso come sempre, aveva provveduto a chiedere il permesso al delegato di pubblica sicurezza Carlo De Luca su carta da bollo da 1,20 lire. Ma cosa si proponevano quegli invasati?
Questo era l'interrogativo del momento. Di voci allarmanti, per la verità, ne correvano molte in quei giorni. Chi diceva che i falò che ardevano sul monte Labbro erano segnalazioni all'esercito francese che si apprestava a lasciare la Corsica per venire a liberare Roma, e chi invece affermava che David, d'accordo con Bakunin e Andrea Costa (le bestie nere del momento), intendeva scatenare una rivolta popolare assai più pericolosa di quella tentata l'anno prima nel Matese da Cafiero e Malatesta. Il sospetto che stesse effettivamente maturando qualcosa di grosso era, fra l'altro, avvalorato dall'atteggiamento di molti lazzarettisti i quali non facevano più mistero del fatto «che fosse giunto ormai il momento in cui i poveri si sarebbero pigliate le cose dei ricchi». Era anche accaduto che molti proprietari recatisi nei poderi per la divisione dei raccolti, si fossero sentiti dire dai loro mezzadri «che quello era l'ultimo Sant'Andrea perché dopo il 15 agosto le spartizioni le avrebbe fatte il santo David». Molti esattori si erano visti chiudere la porta in faccia da contadini che sostenevano non si dovessero più pagare le tasse. L'allarme era così diffuso che, per esempio, gli appaltatori del dazio sospesero i versamenti in cinque comuni in attesa di un chiarimento, mentre le famiglie più ricche d'Arcidosso trasferirono in luoghi più sicuri denaro e oggetti di valore. Da parte sua, la giunta comunale riunita in seduta straordinaria aveva votato una deliberazione in cui chiedeva al prefetto l'intervento della forza pubblica a monte Labbro «in quanto che dal cozzo dei princìpi propagati dal noto David Lazzaretti e dai suoi seguaci è possibile vedere turbato l'ordine pubblico e porre in seria condizione equivoca e pericolosa le persone oneste del paese». Successivamente, la giunta aveva anche deliberato di rimuovere dal suo ufficio di becchino comunale l'eremita Beppe Corsini per attività sovversive... Al prefetto Giusti di Grosseto, giunsero in quel periodo molti altri inviti a intervenire, sia da semplici cittadini, sia dal vescovo di Montalcino che si diceva allarmatissimo del dilagare dell'eresia lazzarettista. Il funzionario, che stava trascorrendo l'«estatura» a Scansano, non era tuttavia molto convinto della pericolosità di David e dei suoi seguaci. Inviò comunque il capitano dei carabinieri Narciso Grotti a eseguire un sopralluogo, ma anche l'ufficiale non sembrò molto allarmato per quanto aveva visto sul monte Labbro. «Risulta che David Lazzaretti» scriveva il capitano al prefetto «espulso, per quanto si dice, dalla Francia, si è recato a monte Labbro da dove ha fatto pervenire all'arciprete Pistolozzi un nuovo Credo e due Inni che trattano di religione e toccano pure la politica alludendo alla repubblica universale. Per quanto potei apprendere, il concorso a monte Labbro è ora un po' più numeroso del solito per la curiosità di vedere e sentire parlare il Lazzaretti, ma sibbene questi e il detto arciprete siano antagonisti e ciascuno cerchi di far prevalere le proprie idee religiose, non si temono presentemente disordini.» Malgrado l'ottimismo delle autorità, il movimento lazzarettista continuava a preoccupare le «persone oneste» anche in considerazione del fatto che esso si innestava in un contesto politico particolarmente difficile. Il paese stava attraversando un momento molto delicato. L'avvento della Sinistra al potere, nel 1876, aveva sollevato molte speranze nelle classi popolari, subito però deluse dal comportamento del nuovo governo che, non solo aveva mantenuto in vigore le cosiddette «tasse sulla miseria», ma aveva anche impresso una violenta sterzata alla politica interna in chiave antipopolare. Campione di questo nuovo corso era stato il ministro dell'Interno Nicotera. L'immemore compagno di Pisacane, responsabile fra l'altro di brogli elettorali e dei primi episodi di malcostume del governo unitario, si era rivelato anche un deciso avversario del nascente movimento operaio. Le sue idee sui diritti politici e civili erano infatti abbastanza singolari. Accusato di negare le libertà statutarie agli internazionalisti, egli aveva affermato alla Camera che «questi principi di larga libertà non devono applicarsi a costoro: verso di essi le autorità possono applicare la legge dell'ammonizione senza
tema di imbattersi in un uomo politico. .. perché gli internazionalisti d'Italia sono quasi tutti analfabeti e non bisogna confonderli coi pensatori, gli scienziati, i pubblicisti...». Ma indipendentemente dalla grettezza del pensiero di Nicotera, in quel periodo la classe dirigente italiana, finito il bel sogno risorgimentale, si accorse dell'esistenza di una questione sociale e cominciò a esserne seriamente preoccupata. Finiva insomma quella illusoria convinzione, fino a quel momento molto diffusa, che l'Italia, appartata e contadina, non turbata dai profondi squilibri che affliggevano le altre nazioni europee, fosse impenetrabile alla propaganda socialista. «Manca la materia combustibile a tanto incendio» aveva detto con sicurezza Crispi appena succeduto al Nicotera. «L'operaio italiano non possiede l'altezza di istruzione necessaria a comprendere quelle teorie.» Poi a quell'illusione assurda era seguito di colpo il timore altrettanto assurdo che la rivolta sociale fosse dietro l'angolo. Ora, infatti, in ogni società operaia di mutuo soccorso si intravedeva un covo rivoluzionario e in ogni richiesta di giustizia sociale un attentato all'integrità dello Stato. Un disperato tentativo rivoluzionario compiuto da Bakunin, Andrea Costa e pochi altri compagni in Romagna aveva messo in allarme l'intero paese, per non dire poi della folle avventura tentata dal Cafiero e dai suoi pochi seguaci sulle montagne del Matese. Nell'agosto del 1878, quando l'innocuo profeta amiatino si accingeva a fare la propria manifestazione pubblica, al ministero dell'Interno sedeva Giuseppe Zanardelli, uomo di provato lealismo monarchico e anche di sicura probità politica e morale. Succeduto a personaggi molto discussi per il loro manifesto disprezzo per i diritti statutari di ogni cittadino, Zanardelli si era fatto portatore di una nuova linea di comportamento politico che riassumeva con questo slogan: «reprimere, non prevenire». Il che stava a significare nessuna arbitrarietà prima che il fatto sia accaduto e inesorabile repressione subito dopo. Ma torniamo nell'Amiata. Malgrado l'ottimismo del prefetto Giusti, il movimento lazzarettista spaventava ogni giorno di più i notabili di Arcidosso. A un certo punto si temette seriamente che esso coinvolgesse anche i minatori di mercurio che, fino a quel momento, si erano disinteressati di quanto accadeva sul monte Labbro. Lo si può constatare dalla vivissima inquietudine che spinse Massimiliano Romei, sindaco di Santa Fiora e amministratore dei conti Sforza Cesarini, proprietari delle miniere della zona, a tempestare di lettere allarmate e infarcite di menzogna il ministero dell'Interno e le autorità locali. Ecco la lettera che Romei scrisse al prefetto di Grosseto il 6 agosto 1878: Si reputerà forse che la leggerezza del soggetto a prima vista non meriti la pena di un rapporto, poiché fino ad ora esso si rimirò come tendente ad uno scopo meramente religioso, senza avere di mira un fine politico. Ed è per questo che non si dette al medesimo quel poco peso che purtroppo è forza dargli al presente. Quindi la necessità di non dilazionare a chiedere un provvedimento atto a tutelare la sicurezza di queste popolazioni. Sono abbastanza noti alla S.V. i precedenti dell'individuo David Lazzaretti che da semplice barrocciaio, addivenuto facoltoso, potè in pochi anni acquistare assai d'influenza su molti della massa ignorante del popolo e nel monte Labbro dare atto alle più ridicole superstizioni religiose. Quello però che merita le più serie attenzioni del governo si è che questi atti di religione non stanno altro che a camuffare un fine politico. Infatti al monte Labbro o Labaro si cantano inni rivoluzionari, si grida alla repubblica coll'annientamento dei troni e dell'attuale ordine delle cose; si accusa il governo per la gravezza delle tasse, si stimola a scuotere il giogo ed, in una parola, si accendono gli animi di una massa di gente riscaldata al fuoco di nuova religione fomentatrice di passioni e rapine, al puro e pretto socialismo. Ogni domenica, da quattro a cinquecento persone sono radunate sotto quella torre; aumenta quotidianamente il numero degli adepti, nella mente dei quali si infondono tali massime. Queste popolazioni sono allarmate dalla piega che prendono le cose; si ritiene
David affiliato all'Internazionale per i suoi contatti avuti nella sua dimora in Francia e nei suoi giri, a quanto dicesi, per la Germania, e si suppone che stia radunando i settari per attendere l'opportunità di scendere in questi paesi a fare man bassa di tutto. Infatti i principali aderenti sono legati a David da un giuramento, ed interrogati replicano di avere il «sigillo» che gli vieta di favellare di quanto avviene nei loro conciliaboli. Tempo fa David acquistò una quantità di biglietti all'ordine da servire, a quanto dicesi, a fini illeciti. Si parla di vestiari e di armi che gli sono arrivati per ferrovia, si parla che dia forti somme a chi sotto la sua bandiera accorra, e da molti giorni si fanno su quel monte novene e funzioni di lutto in preparazione del 14 agosto, nel quale giorno, si dice, che debba avvenire un castigo o meglio, si suppone che David ed i suoi aderenti tentino una qualche dimostrazione o sommossa. In tutto ciò vi sarà qualcosa di esagerato, ma credo che molto sia vero e che non si possano più oltre permettere tali assembramenti, e che sia tempo che l'autorità governativa adotti un provvedimento radicale nell'interesse della pubblica quiete e della sicurezza di queste popolazioni. Particolarmente sollecitato a intervenire era il delegato di pubblica sicurezza di Arcidosso, Carlo De Luca. Cinquantatré anni, barbetta biforcuta, originario di Ravenna ed ex carceriere capo del penitenziario di Ventotene (aveva subito un processo per maltrattamenti ai detenuti), Carlo De Luca non immaginava di diventare il principale protagonista della tragedia che sarebbe scoppiata di lì a pochi giorni. Ma chi ha voluto additarlo come lo strumento di un omicidio premeditato e studiato in qualche «ufficio speciale» del ministero dell'Interno è probabilmente fuori strada. Fino alla vigilia del dramma, Carlo De Luca si comportò come chi è ben deciso a far rispettare l'ordine pubblico obbedendo alla nuova massima del «reprimere, non prevenire». Incaricato dal prefetto di mantenere sotto controllo la situazione, De Luca era salito una prima volta all'eremo verso la fine di luglio soprattutto per conoscere di persona il profeta che lui, trasferito da poco ad Arcidosso, non aveva mai visto prima. Trovò un uomo aperto e cordiale che si dimostrò lieto di fargli visitare la Nuova Sion in ogni angolo possibile e di spiegargli l'organizzazione della sua piccola comunità (gli consegnò persino l'elenco dei soci). Quando gli chiese cosa contenessero quelle misteriose casse di cui tutti parlavano in quei giorni, David tolse una chiave e gliela consegnò. Poi disse: «Vada a vedere lei stesso». Il delegato andò e potè così constatare che le casse non contenevano armi ma tagli di stoffa. Tornato ad Arcidosso, Carlo De Luca riferì di non avere trovato sul monte nulla di sospetto, ma tanta buona gente dall'aspetto innocuo. E che fosse convinto di quanto diceva lo dimostrò la domenica successiva recandosi nuovamente all'eremo in compagnia della moglie e della figlia. I tre pranzarono in casa di David, ospiti del profeta e della Carola. Spinto dalla tensione che continuava a salire come una marea, Carlo De Luca vi fece ritorno il 13 agosto. Questa volta era molto preoccupato. «Io non credo né ai preti né a lei» disse a David «credo solo nel mio dovere di salvaguardare l'ordine pubblico.» Poi lo pregò di rinunciare alla manifestazione progettata per il giorno 15. Di fronte alle proteste di David, che sbandierava l'autorizzazione ottenuta in precedenza dalle autorità, il delegato cercò altre scuse. Notando gli strani costumi che già molti fedeli indossavano, avvertì David che non avrebbe potuto organizzare «corsi mascherati» senza uno speciale permesso. Allora il profeta gli portò i figurini che lui stesso aveva disegnato affinchè si rendesse conto che non si trattava di maschere. Il bisticcio durò a lungo. De Luca tentava ogni espediente per impedire la manifestazione, l'altro ripeteva che era suo diritto farla. Prima di lasciare l'eremo, il delegato di pubblica sicurezza proibì formalmente a David di organizzare la processione e di spingersi in pellegrinaggio ai santuari di Arcidosso e di Castel del Piano come risultava dal programma. Il profeta gli rispose sereno che avrebbe fatto ciò che Dio gli avrebbe comandato. Rientrato in sede, Carlo De Luca scrisse al prefetto di Grosseto
pregandolo di inviare ad Arcidosso un rinforzo di carabinieri poiché prevedeva dei disordini per la giornata di giovedì 15 agosto. Ma il suo appello rimarrà inascoltato. Eppure, per dare maggior credito alla sua richiesta, aveva persino inviato al prefetto «per conoscenza» l'unica prova che era riuscito a raccogliere per dimostrare che la comunità lazzarettista aveva carattere sovversivo. Si trattava dell'ultimo parto poetico del profeta dell'Amiata che riproduciamo integralmente:
CANTICO DELLE SANTE MILIZIE CROCIFERE DELLA NAZIONE LATINA NEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA. Noi figli dei Grandi, progenie latina, invitti nei brandi, la voce divina, Noi dice: la fede dobbiam propagar, Evviva la repubblica, Iddio, la libertà, noi siamo di Cristo, soldati campioni, tendiamo all'acquisto, dei tristi e dei buoni, a ogni alma infedele la fede portiam, noi siamo giurati, nemici degli empi, soldati campioni degli ultimi tempi, che il fine portiamo ad ogni empietà, noi siamo gli eletti, il popol di Dio, dal cielo protetti, ogni empio, ogni rio, nemico di Cristo, veniamo a estirpar. Voi popoli e genti, voi regni e nazioni, fedeli credenti, voi principi e troni, Unitevi al Dritto Dell'umanità. Evviva la Repubblica Iddio e la libertà. Evviva la Repubblica. La nostra bandiera, Iddio e la libertà. Si deve munire Di fede sincera, Noi siamo di Cristo Speranza e fervore Soldati campioni, Amor, Carità. Chi brama la gloria del nome divino, D'aver la vittoria col popol latino, Uniscasi a noi Soldati crociati. di buona volontà, Evviva la Repubblica la Patria il suo cuore Iddio e la libertà. Con patto d amore Noi siamo gli eletti, Di eterna amicizia Il popol di Dio, Giuriam fedeltà.
CAPITOLO XVIII.
IN NOME DELLA LEGGE.
La manifestazione del 15 agosto fu un fallimento. Le schiere angeliche, che David attendeva per sterminare gli empi e realizzare la Riforma, non si presentarono all'appuntamento fissato dalle profezie. La delusione dovette turbarlo profondamente, anche se nessuno dei suoi seguaci se ne accorse, tranne forse l'Imperiuzzi, che si affannerà nei suoi scritti successivi a giustificare con assurdi pretesti il mancato prodigio. Ma David, anche se seppe abilmente nascondere il suo profondo scoramento, ne rimase sconvolto e disorientato. Il dubbio di avere male interpretato le profezie penetrò profondamente nel suo animo. Probabilmente, fu proprio in questo momento terribile che desiderò di morire, scorgendo nella morte l'unico modo per uscire da una situazione senza sbocchi. Eppure, fino al momento di scendere a valle, tutto si era svolto secondo le sue visioni profetiche. La notte della vigilia, quasi tremila persone avevano vegliato in preghiera, impegnate negli ultimi preparativi. All'alba tutto era pronto: circa cento fra uomini, donne e ragazzi indossavano i costumi, gli altri portavano appuntato sul petto lo stemma dei militi crociferi. In testa al corteo dominava l'alta figura del profeta: indossava una camicia rossa, pantaloni bianchi e un gran mantello celeste foderato di rosso. In testa portava una sorta di elmo attorniato di catenelle con appese delle immagini sacre e sormontato da tre piume di struzzo variopinte; ai piedi un paio di zoccoli di legno intarsiati, di tipo olandese, che si era fatto da solo. Il segno del comando era rappresentato dalla «verga sacerdotale» che stringeva in pugno. Dietro David veniva frate Imperiuzzi vestito di una tunica bianca stretta ai fianchi da una fascia azzurra dalla quale pendevano cordoni e nappe gialle. Sulle spalle portava un piviale verde e in testa una sorta di casco coloniale con una piuma a forma di croce. Seguivano poi, suddivisi per ordine e gradi con la consueta meticolosità di cui David aveva sempre dato prova, sette principi legionari (fra i quali i tre fratelli credenti del profeta: Lazzaro, Francesco e Giovanni) con mantello azzurro, camicia rossa, pantaloni chiari e berretto rosso e giallo di foggia sarda; dodici apostoli in tunica bianca con mantello rosso; ventiquattro discepoli e condiscepoli in camicia rossa e pantaloni bianchi; le matrone, fra cui la Carola, con tunica rossa e ampio velo azzurro sul capo e infine le vergini pie e le fanciulle pie in tunica bianca. Unico a non indossare il costume nel gruppo di testa era il giovane Tarpino. Malgrado le insistenze del marito, che lo voleva principe legionario, la Carola aveva preteso che vestisse la sua bella divisa da collegiale francese di cui andava molto fiera. Qua e là, nella moltitudine, si innalzavano labari e bandiere. Bianca Lazzaretti sorreggeva il labaro della Madonna della Conferenza dipinto da Beppe Corsini, un'altra ragazza aveva il gonfalone della Madonna delle Vittorie mentre i cavalieri crociferi innalzavano bandiere rosse inneggianti alla «Repubblica Regno di Dio». C'erano anche i vessilli delle «Nazioni Latine»: quella italiana, celeste, bianca e gialla, era fregiata da un leone coronato; quella francese, rossa verde e gialla, aveva un'aquila ad ali aperte e quella spagnola un toro alato e i colori rosso, bianco e azzurro. Unici non credenti in costume, i dieci musici. Si trattava della banda musicale di Arcidosso, diretta da Francesco Pozzi, che il profeta aveva assunto per mezza giornata impegnandosi a pagare cento lire. All'alba, dunque, tutto era pronto. Ma David, che la sera prima aveva invitato invano il sindaco Ferrini alla manifestazione, volle mandare, singolare scrupolo per un presunto rivoluzionario, un messo al delegato di Arcidosso. Ecco il testo del suo messaggio: Ill.mo Signor Delegato. A motivo di ordine superiore non ho potuto mantenere la parola che le detti ieri di non indossare il vestiario. Oggi l'ho fatto assieme ai miei seguaci come avevo divisato. D.L.
Ora David, con la verga in pugno e il manto svolazzante, andava avanti e indietro come passando in rivista un reparto. Era eccitatissimo e, forse, felice. «Ecco il nuovo Mosè col suo popolo e con la sua milizia» annunciò osservando la sua gente. «Io sono il Gran Monarca predetto dalle profezie e mi manifesterò al popolo latino. Io sono il Re dei Re. Ecco la piccola mascheratina con la quale il Figlio dell'Uomo oggi farà la sua comparsa.» Poi, come colto da un altro presentimento, aggiunse: «Io quello che dovevo fare l'ho fatto. Ora tocca a voi. Oggi io faccio la mia trasfigurazione. Oggi vi ho legato con una catena di ferro». A chi gli chiedeva dove la processione sarebbe andata, rispondeva che soltanto Iddio lo sapeva. «Noi andiamo e basta.» Poi ingiunse a tutti di lasciare sul monte bastoni e coltelli. Prima di ordinare al corteo di muoversi disse ancora che all'eremo sarebbe rimasta soltanto sua madre «perché non mi ha mai creduto». La vecchia Faustina Biagioli, unica persona a non lasciarsi soggiogare dal fascino del profeta, continuava infatti a mormorare: «Figliolino mio, ti faranno a pezzi». E manifestava preoccupazione anche per tutta quella gente che il suo Milleidee si portava appresso. Faustina restò infatti all'eremo assistita dal secondo marito, l'eremita Agostino Lorenzoni. Alle sette il corteo si mosse. La banda suonava e i fedeli cantavano l'inno della Madonna delle Vittorie: Salve o Madre di Vittoria Figlia altissima di Dio Questo popol santo e pio Pien di fé ricorre a te. Appena iniziata la discesa, una nuvola improvvisa spinta dal vento avvolse la vetta del monte. David, trepidante, vi intravide un segno. «Ecco come si avverano le profezie» annunciò. «Gesù Cristo doveva arrivare per la sua seconda venuta sopra le nubi, e noi ora siamo in mezzo alle nubi e in mezzo alla gloria.» Ma non accadde più nulla. La nube scomparve e il sole già tiepido tornò a brillare sopra quella turba fanatizzata. Della delusione provata da David nessuno si accorse e lui, giunto al «prato del paradiso» dove dovevano attenderlo le schiere angeliche, senza dir nulla cambiò strada e imboccò un viottolo che riconduceva alla vetta del monte. Curiosamente, nessuno dei presenti pose domande imbarazzanti al profeta. Se ci fu turbamento, nessuno lo dimostrò, tanta era la fede che animava questa gente. David, frattanto, aveva ripreso la sua sicurezza. Come sempre gli capitava nei momenti di crisi, la sua mente esaltata subito gli forniva giustificazioni e alternative. «Nessuno deve lasciare l'eremo» disse. «Resteremo tutti qui fino a domenica, perché quello sarà il gran giorno. E' Dio che lo vuole.» Il disperato rinvio ordinato da David non sollevò proteste, tranne quelle dei musici che non avevano nessuna voglia di rimanere e che, fra l'altro, avevano un impegno per il pomeriggio, dovendo suonare al santuario di Montelatrone. Alle insistenze del profeta e di tutti gli altri che non volevano lasciarli andare, un bandista ebbe uno scatto di rabbia. «Sono stufo di questa pagliacciata» urlò, e si lasciò scappare una fragorosa bestemmia. Lo sciagurato fu subito aggredito da un gruppo di credenti decisi a fargliela pagare. Una ragazza isterica gridò: «Ammazziamolo!». Solo l'intervento di David, che lo obbligò a recitare in ginocchio l'atto di dolore, evitò al musico di finire lapidato. Alla banda fu tuttavia concesso di lasciare l'eremo dopo che tutti i componenti ebbero giurato davanti all'altare che sarebbero ritornati la mattina del 18. Prima di lasciarli, David consegnò al capobanda Francesco Pozzi la somma di 40 lire. «Gli altri ve li darò domenica, se verrete» spiegò. «Perché io degli arcidossini non mi fido.» Per tre giorni migliaia di lazzarettisti rimasero sulla montagna a pregare, a digiunare, ad ascoltare le prediche di David che, di ora in ora, si facevano sempre più pessimistiche. «Io sono la vittima del genere umano» ripeteva con insistenza. «Io basto per tutti. Nessuno di coloro che sono con me ne soffrirà.» Venerdì 16 qualcuno portò all'eremo un giornale clericale in cui frate Polverini ritrattava pubblicamente le massime di fede fin allora professate. Ma la notizia non suscitò alcun sgomento; David, da parte sua, lo commentò con parole oscure: «Anche
queste sono le scene che si dovevano compiere per la mia prossima tragedia». Frattanto, ad Arcidosso, la presenza sul monte di quella enorme folla di fanatici gravava come un incubo. La preoccupazione era vivissima, soprattutto perché il prefetto si rifiutava di inviare l'esercito come era stato chiesto da molti. Anzi, finita nel nulla la manifestazione del 15, il sottotenente dei carabinieri reali Caiboli, mandato di rinforzo con sei militi, aveva ritenuto opportuno fare ritorno a Scansano. Ora la forza pubblica presente era costituita dal delegato di pubblica sicurezza Carlo De Luca, dal brigadiere Giuseppe Caimi, dai militi Sante Caporin, Angelo Poggi, Bruno Bertolotti, Settimo Ardente, Angelo Buschi, Salvatore Michelli, oltre le guardie comunali Ettore Farneschi e Agostino Pozzi. A essi si era aggiunto, pare spontaneamente, un bersagliere di Livorno, Antonio Pellegrini, che si trovava in licenza ad Arcidosso presso dei parenti. Dopo la tragedia, come è noto, sarà accreditata la tesi che essa fosse il frutto di un preciso disegno poliziesco ordito a Roma, al ministero dell'Interno. Il sospetto prese piede perché la situazione del momento contribuiva a rafforzarlo. Il paese attraversava infatti un periodo di gravi tensioni sociali. Le bombe degli anarchici cominciavano a esplodere qua e là per l'Italia allarmando i buoni borghesi, abituati a dormire sonni tranquilli cadenzati sul passo doppio dei carabinieri. L'Internazionale veniva dipinta come un'accolita di sanguinari e tutti erano convinti che la rivoluzione fosse dietro l'angolo. Nello stesso tempo, il fragile governo Cairoli-Zanardelli era continuamente attaccato da destra per la sua manifesta debolezza. Gli si addebitava inoltre l'eccessiva leggerezza delle condanne emesse tre mesi prima dalla Corte d'Assise di Benevento nei confronti dei «guerriglieri» del Matese. Nulla di strano quindi che il governo, per riacquistare credibilità, avesse deciso di dare una prova di forza scegliendo come obiettivo il «focolaio rivoluzionario» dell'Amiata. Anche gli avvenimenti successivi, come la decisione di decorare al valor civile il delegato De Luca, su proposta della giunta di Arcidosso, e le relazioni degli ispettori tutte infarcite di menzogne allo scopo di far passare per «pericolosi, rivoltosi comunisti» gli innocui seguaci di David, contribuirono alla diffusione di questo sospetto. Come vi contribuirono le cronache esaltanti il valor civile delle forze dell'ordine apparse sui giornali governativi e anche sull'«Osservatore Romano» che, per la prima volta dalla presa di Roma, pubblicò ampi stralci dell'anticlericale «Nazione» (la più ostile ai lazzarettisti) in cui si auspicava la morte del falso profeta. Ma, a ben vedere, la documentazione esistente di quei drammatici eventi non offre una sola prova di questo presunto complotto ad alto livello. Come non lo prova di certo il comportamento del prefetto di Grosseto (che perderà il posto per la sua ignavia) o quello delle forze dell'ordine che, come sappiamo, ritirarono da Arcidosso persino i modesti rinforzi che vi avevano inviato. Si deve perciò dedurre che se complotto ci fu, esso maturò ad Arcidosso, alimentato unitariamente dai possidenti e dal clero saldamente alleati contro lo stesso nemico. D'altra parte, al processo che sarà intentato contro i seguaci di David l'anno dopo alla Corte d'Assise di Siena, la quale riconobbe tutti innocenti, molti testimoni affermeranno che ad Arcidosso «essendo venuta meno la fiducia nella legge, visto che il Lazzaretti ne usciva sempre assolto, si diceva apertamente che l'unica cosa che rimaneva da fare era toglierlo di mezzo». Ma anche David, più o meno consapevolmente, mirava allo stesso scopo dei suoi nemici arcidossini. Che presentisse di morire lo manifestava apertamente, che volesse essere ucciso potrebbero dimostrarlo i seguenti fatti: aveva preso un impegno preciso con i suoi seguaci che ora attendevano fiduciosi il miracolo; se questo miracolo non avveniva, per lui sarebbe stata la fine. Non poteva infatti non immaginare le risate di scherno dei suoi nemici, la delusione dei suoi fedeli e, magari, il disappunto dei suoi apostoli che, firmando quelle cambiali, si erano praticamente privati di tutti i loro averi. Anche la situazione economica della Società di cui si era
assunto la piena responsabilità era a dir poco disperata. Nelle casse dell'eremo, la sera del 17 agosto, c'erano rimasti 27 centesimi. Nell'ultima notte trascorsa a monte Labbro, David passò da momenti di sconforto a momenti di esaltazione fanatica. Quella che segue fu la sua ultima predica: Io invito tutti, grandi e piccoli, giovani e vecchi, padri e madri coi vostri bambini in collo a venire domani ad Arcidosso. Sì, vi prego, venite tutti, che io vi farò vedere il miracolo che tanto desiderate e che non potrete negare perché io lo farò alla vista di tutti e sarà evidente. Perché se io dicessi al monte Amiata che partisse e andasse nella piana di Grosseto, e questo vi andasse, l'incredulità degli uomini direbbe che è arte diabolica, oppure effetto di ottica e di chimica. Parimenti, se io facessi piovere fuoco, o risuscitassi un morto, si direbbe che è effetto di spiritismo o di chimica. Ma il miracolo che vi mostrerò domani sarà quello che nessuno potrà negare. Perciò vi ripeto: venite domani con me e domani stesso farò contento tutto il monte dell'Amiata. All'alba di domenica radunò il suo popolo e lo dispose come il giovedì precedente. L'eccitazione era di nuovo altissima. Erano quasi tutti digiuni dal giorno prima perché così David aveva voluto. Aveva anche ordinato che i mariti non dormissero con le mogli per tema che rompessero la già lunga astinenza che, per quei vigorosi montanari, pare fosse la prova più ardua. Ordinate le schiere, il profeta arringò i presenti. «Che cosa volete da me?» chiese. E gli altri risposero: «Vogliamo la pace e la misericordia». Lui disse ancora: «Siete contenti di non pagare più le tasse?». La risposta fu un clamoroso applauso. «Siete contenti della Repubblica?» e alla risposta affermativa della massa subito aggiunse: «Ma badate bene che questa non è la Repubblica del 1849, ma la Repubblica di Dio. Quindi gridate tutti con me "Evviva la Repubblica di Dio!"» e tutti lanciarono quel grido. E' inutile chiedersi cosa si aspettasse quella gente dalla processione che stava per iniziare. Ormai nessuno se lo chiedeva più. Una sorta di ubriacatura collettiva spingeva la turba a seguire il santo David dovunque egli avesse voluto. Poco prima che il corteo si muovesse, giunse trafelato sul monte un giovane inviato espressamente da Pasquale Lazzaretti, fratello primogenito di David, che non aveva mai condiviso le folli teorie del congiunto. «Pasquale mi ha mandato a dirti» disse il ragazzo ad altissima voce perché così gli era stato ordinato di fare «di non venire ad Arcidosso. Sennò ti tirano.» Evidentemente Pasquale, informato di quanto stava maturando, aveva tentato l'ultimo stratagemma per dissuadere il suo fantasioso fratello. Sentendo quella notizia, Carola ebbe uno scoppio di pianto. «David fermati!» gridò. «Ti ammazzeranno. Pensa ai tuoi figli.» Ma lui non si commosse, alzò invece la mano e disse: «Io ho moglie e non ho moglie. Ho figli e non ho figli. Sono dieci anni che fatico per arrivare a questa giornata. E non c'è autorità sopra la terra che possa impedirmi di andare ad Arcidosso». Carola ammutolì e tornò fra le matrone. E David disse ancora: «La mia missione si compie. E' scaduta la cambiale. Guardate, sono tutto grondante di sangue. Ma voi non temete. La vittima è già fatta. Io sono quella vittima. Andiamo dunque e non temete nulla. Io vado a portare la pace. Se vogliono la misericordia, avranno la misericordia, se vogliono il sangue ecco il mio petto». Armato di sole bandiere e di fanatismo, il corteo iniziò la discesa del monte cantando inni sacri, senza accompagnamento musicale perché la banda di Arcidosso, come David aveva previsto, non si era fatta viva. Al bivio di Santa Fiora e Roccalbegna, dove giunsero dopo un paio d'ore, il corteo fece sosta e le madri ne approfittarono per allattare i bambini che portavano in braccio. Ma gli adulti non si ristorarono perché David aveva detto: «Non mangiate e non bevete fino a che non sia fatta la vittima». Più che il miracolo promesso, era la morte a ossessionare in quel momento l'angosciato profeta. Intanto, a mano a mano che scendeva, al corteo si erano aggiunti numerosi curiosi e simpatizzanti. «Erano più di tremila» riferirà a suo tempo l'ispettore Caravaggio. La massa enorme di popolo, che cantava l'inno dei crociferi, il cui ritornello «Evviva la
Repubblica di Dio e la libertà» si udiva distintamente fra il vociare confuso, giunse alle dieci sullo spiazzo dove sorgeva la croce dell'«omo bono» Baldassare Audiberti e dove sarebbe dovuta sorgere la chiesa voluta da David. Da qui i sopraggiunti distinsero lo spiegamento di forze che sbarrava loro l'ingresso del paese. C'erano il delegato di pubblica sicurezza Carlo De Luca in stiffelius, cilindro e sciarpa tricolore. Aveva a tracolla una doppietta. Dietro di lui, schierati e armati di fucile, c'erano i sette carabinieri, le due guardie e il bersagliere Pellegrini. In seguito si dirà che molti arcidossini erano fuggiti e che altri si erano sbarrati in casa sprangando le porte dei magazzini e dei negozi. Non è vero. Moltissima gente era infatti radunata sul piazzale, per assistere al passaggio del corteo. I notabili, come lo speziale Becchini, vi erano giunti in carrozza. Non appena notò lo sbarramento di forze, David ordinò che cessasse il canto e si fece avanti da solo. Anche De Luca si mosse verso di lui. Il loro dialogo, che si svolse nel silenzio assoluto, fu udito da tutti e quindi può essere ricostruito abbastanza fedelmente. De Luca, pallido e teso, ordinò: «David Lazzaretti, in nome della legge retrocedi e sciogli il corteo». «Io vado avanti nel nome della legge del diritto» rispose David. Qualcuno aggiunse che il delegato disse ancora «In nome del re, retrocedi» al che David avrebbe risposto «Il re son io», ma questa versione di comodo, riportata nella menzognera relazione dell'ispettore Caravaggio, non è assolutamente provata. De Luca intimò invece a David di mostrargli «la patente», ossia il permesso che ben sapeva di avergli negato. Per tutta risposta, il profeta sollevò il piccolo crocifisso che portava al collo all'altezza della fronte sulla quale, ora libera dei capelli rialzati sotto l'elmo, si scorgeva il famoso bollo. «Ecco chi mi ha dato la patente» esclamò con atteggiamento di aperta sfida. «Lazzaretti retrocedi» gridò ancora De Luca visibilmente innervosito. «Altrimenti ti sparo.» E così dicendo impugnò la doppietta. David allargò le braccia a forma di croce, pareva proprio che intendesse spingere al massimo la tensione. Era comunque chiaro che non sarebbe mai tornato indietro. «Io vado avanti in nome di Cristo, Duce e Giudice» disse infatti. «Se volete il mio sangue, ecco il mio petto.» Pare anche che, in quel momento, il profeta abbia toccato con la sua verga la spalla del delegato; l'episodio comunque sarà ingigantito e si parlerà di «colpi di bastone». Contemporaneamente intorno ai due piovvero alcuni sassi. Non si sa chi fu a lanciarli, ma poiché uno di essi colpì alla nuca il delegato (fortunatamente ben difesa dal robusto cilindro) si dovrebbe supporre che venissero dalla parte opposta a quella in cui si trovavano i lazzarettisti. Seguì un momento di grande tensione. Si udirono grida minacciose e caddero altri sassi, questa volta provenienti da ambo le parti. A questo punto, David si volse verso i suoi e pronunciò una frase che fu diversamente interpretata. I fedeli del profeta sostennero che aveva gridato: «Popolo mio, disarmati». Gli avversari affermarono invece di avere capito: «Popolo mio, disarmali». Comunque, Lazzaretti andò ancora avanti urlando come un invasato: «Ecco il mio petto. Tirate a me, salvate il mio popolo». Ormai la confusione era al massimo. Pare che De Luca avesse cercato di sparare contro il profeta ma senza riuscirvi. Anche il fucile del brigadiere Caimi avrebbe fatto cilecca. Di certo si sa che il bersagliere Pellegrini, messo un ginocchio a terra, prese la mira dalla distanza di circa sei metri e dopo avere gridato: «Porca madosca, vediamo se lo chiappo io!» fece fuoco. David, che pur notando il pericolo aveva atteso impassibile il colpo tenendo tese le sue lunghe braccia, cadde a terra. La palla di Pellegrini lo aveva colpito in mezzo alla fronte centrando il bollo. Il che impedirà ai periti di analizzarne la vera natura. In quell'istante, mentre Carola, Turpino, Bianca e alcuni apostoli accorrevano attorno al caduto, una gragnuola di sassi si abbattè sulle forze dell'ordine. A tirarli non erano soltanto i lazzarettisti, ma anche molti estranei visibilmente indignati per l'accaduto. D'altra parte, alcuni testimoni, fra i quali l'avvocato Leopoldo Calassi di Roma e un ispettore di
polizia, pure di Roma, che si trovavano in vacanza ad Arcidosso, non esiteranno a definire l'episodio un omicidio premeditato quanto inutile. Ma ormai il tumulto era inarrestabile. Delegato e carabinieri, costretti a ritirarsi sotto il lancio delle pietre, aprirono più volte il fuoco sparando alla cieca. Caddero uccisi tre montanari, Domenico Bargagli, Mariano Camani e Antonio Lorenzini e ci furono almeno una cinquantina di feriti, fra uomini e donne, anche se il numero esatto non si potè mai conoscere poiché molti feriti, per paura, non si recarono dal medico. Tra le forze dell'ordine, l'unica vittima fu la guardia Farneschi. Aggredito da un gruppo di lazzarettisti infuriati, il vigile cercò di fare uso della pistola ma si sparò da solo a un ginocchio. Fuggiti i carabinieri, questa volta sì che gli arcidossini si sprangarono in casa temendo la rappresaglia. Fu però una paura inutile. Quei poveri montanari non avevano desiderio di vendetta. Impauriti e forse delusi del mancato miracolo, si dispersero per la montagna. I più fedeli raccolsero il profeta morente e, adagiatolo sopra una scala a pioli, lo condussero nel villaggio di Bagnore, in casa dell'eremita Marsilio Lorenzoni. Prima di muoversi, frate Imperiuzzi aveva inviato un messaggio al sindaco Ferrini, chiedendo soccorso, ma non aveva ottenuto risposta alcuna. Da parte sua, il farmacista Becchini si era rifiutato di fornire garze e I medicine. In casa di Lorenzoni, David fu visitato dal dottor Luigi Terni, di Monticello. «Non c'è più niente da fare» fu il suo verdetto. Ma nessuno volle credergli: quegli ingenui montanari erano convinti che il «loro David» fosse immortale. Invece morì poche ore dopo senza riprendere conoscenza. Lo assistevano i fratelli, i figli, la moglie, le cognate Amadea, Palissena e Pergettina, la maestra Fioravanti, l'Imperiuzzi e alcuni apostoli, tutti ancora addobbati nelle loro [variopinte uniformi. Il cadavere fu sepolto nel cimitero di [Santa Fiora, in una tomba anonima «senza fiori e senza lumi», come aveva ordinato il prete. Ma una leggenda narra [che un cespo di violacciocche rosse come il sangue sbocciò subito su quel tumulo. Il giorno dopo l'uccisione del profeta, tre compagnie di [linea e un reparto di carabinieri a cavallo giunsero ad Arcidosso per dare inizio alla caccia al lazzarettista. Il rastrellamento durò una settimana e furono arrestate oltre cento persone fra cui tutti gli apostoli, i tre fratelli di David, la Carola, Turpino e, naturalmente, frate Imperiuzzi. incatenati come briganti, vennero condotti nel carcere di Grosseto non essendo sufficiente quello di Arcidosso. Due di essi morirono di malaria in prigione, altri furono prosciolti in istruttoria; ne rimasero ventuno, rinviati al giudizio della Corte d'Assise di Siena sotto l'accusa di ribellione alle leggi, di tentato saccheggio e di tentativo di avvertire il governo del paese. Processati nel novembre dell'anno dopo, furono tutti assolti in primo grado con la formula più ampia. Il pubblico ministero rinunciò a ricorrere in appello. Cadeva così il castello di false accuse costruito contro un gruppo di uomini che avevano avuto il solo torto di credere che fosse possibile applicare sulla terra gli insegnamenti del Vangelo. La Carola, tornata al paese, andò a vivere con la vecchia suocera che continuava a ripetere di non voler morire «prima che gli uomini non riconoscano che il mio povero David non era un impostore». La vedova del profeta, invece, non volle mai commentare la sconcertante avventura in cui l'aveva trascinata il suo irrequieto Milleidee. Turpino e Bianca, appena diventati adulti, furono assunti come impiegati presso l'ufficio postale di Arcidosso. Una riparazione tardiva di chi li aveva resi orfani. Frate Imperiuzzi, il «piccolo Paolo» della Chiesa giurisdavidica, soffrì la scomunica, il carcere, il dileggio e la povertà pur di dedicare il resto della sua vita a raccogliere e a diffondere la parola del suo maestro. Morì nel 1921. Anche gli apostoli di David, in particolare Beppe Corsini, morto nel 1943, dedicarono la loro vita alla piccola Chiesa giurisdavidica dell'Amiata che esiste tuttora. E Leon du Vachat? Abbiamo ritrovato una traccia del mistico magistrato francese in una lettera del 1903 indirizzata a frate Imperiuzzi. Diceva: Ho appreso che esiste un
sant'uomo nel nord della Francia che ha un tavolo nella sua camera sul quale disegna gli eventi futuri. Sono andato a trovarlo e, davanti a me, ha disegnato la figura di David Lazzaretti alla testa di un corpo d'armata. Egli sta marciando. Come interpretate questa visione? Povero du Vachat. Quasi trent'anni dopo sperava ancora in un profeta armato che rimettesse sul trono di Francia Enrico V. L'eremo di monte Labbro, l'ambiziosa Nuova Sion di David, non sopravvisse a lungo alla morte del suo fondatore. Chiesa, cappella ed eremo furono saccheggiati da fanatici clericali fomentati dal vendicativo don Pistolozzi. Le cose di pregio furono rubate, il resto dato alle fiamme. Ora sulla calva vetta del monte rimangono la caverna e pochi muri sbrecciati a testimoniare il passaggio di quell'uomo. Il suo nome è rimasto nella storia e molti studiosi si sono occupati di lui. Cesare Lombroso lo definì un «mattoide», ma subito precisando che erano «mattoidi» anche Francesco d'Assisi, Savonarola, Lutero, Cola di Rienzo, Passanante e Guiteau. Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere sostiene che Lazzaretti «in realtà fu fucilato e non ucciso in conflitto» e critica il costume culturale dell'epoca secondo il quale, invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, si isolava il protagonista limitandosi a farne una biografia patologica. Eric J. Hobsbawm, infine, dedica un intero capitolo del suo libro I ribelli al movimento lazzarettista. Ancora oggi la Chiesa fondata da David Lazzaretti nell'Amiata continua a vivere nella tradizione popolare più autentica e sincera. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE. Opere di David Lazzaretti. Rescritti profetici, Il risveglio dei popoli, Il libro dei celesti fiori, La mia lotta con Dio, Manifesto ai popoli e ai principi cristiani, Statuti degli eremiti e della Società delle Famiglie Cristiane. Lettera ai cittadini romani, Lettera ai reverendi parrochi, Avvisi ai monarchi d'Europa, Rimproveri ai miei seguaci, Inni, cantici e poemi. Opere su David Lazzaretti: Barzelletti, Giacomo, Il Monte Amiata e il suo profeta (David Lazzeretti), Milano, Ed. Treves, 1909. Cavoli, Alfio, Il Cristo della povera gente. Vita di Davide Lazzaretti da Arcidosso, Siena, Nuova immagine editrice, 1989. Graziani, Leone, Studio bibliografico su David Lazzaretti profeta dell'Amiata, Roma, La torre davidica, 1964. Hobsbawm, Eric J., I ribelli, Torino, Einaudi, 1965. Imperiuzzi, Filippo, Storia di David Lazzaretti, profeta di Arcidosso, Siena, Tip. Nuova, 1905. Innocenti Periccioli, Anna, David Lazzaretti. Il profeta toscano della fine '800 nelle memorie trasmesse dalla figlia alla nipote, Milano, Jaca Book, 1985.
Lazzareschi, Eugenio, David Lazzaretti, il Messia dell'Amiata, Brescia, Morcelliana, 1945. Moscato, Antonio, Davide Lazzaretti, il messia dell'Amiata: l'ultima delle eresie popolari agli albori del movimento operaio e contadino, Roma, Savelli, 1978. Verga, Andrea, Davide Lazzaretti e la pazzia sensoria, Milano, F.lli Rechiedei, 1880.
FINE.
VOLUMI PUBBLICATI NELLA COLLEZIONE «LE SCIE» A. Petacco, L'armata nel deserto, IL segreto di El Alamein E. Ciano, La mia vita Intervista di Domenico Olivieri. T. Segev, IL settimo milione Come l'Olocausto ha segnato la storia di Israele. P. Cesaretti, Teodora Ascesa di una imperatrice. A. Spinosa, Churchill Il nemico degli italiani. J. Kotek - P. Rigoulot, Il secolo dei campi Detenzione, concentramento e sterminio. 1900-2000. F. Bigazzi - E. Zhirnov, Gli ultimi 28 La storia incredibile dei prigionieri di guerra italiani dimenticati in Russia. B. Lewis, Gli assassini Una setta radicale islamica, i primi terroristi della storia. C. Erickson, Il grande Enrico Vita di Enrico Viii, re d'Inghilterra. M. Franzinelli, Le stragi nascoste L'armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti. 1943-2001. R. Conquest, Stalin La Rivoluzione, il Terrore, la guerra. L.V. Arena, Samurai Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri. R. Canosa, La voce del duce L'agenzia Stefani: l'arma segreta di Mussolini. J.T. Cross, I carnefici della porta accanto 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia. R. Calimani, Storia dell'ebreo errante Dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme al Novecento. M. Boneschi, Di testa loro Dieci italiane che hanno fatto il Novecento. R. Weis, Gli ultimi catari La repressione di un'eresia. Montaillou, 1290-1329. E. Lever, Madame de Pompadour Passioni e destino di una favorita. A. Di Pierre, Il sacco di Roma 6 maggio 1527: l'assalto dei lanzichenecchi.
G. Oliva, Foibe Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria. A. Spinosa, Storace L'uomo che inventò lo stile fascista. R. Overy, Interrogatori Come gli italiani hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich. G. Rumi - E. Bressan, Don Carlo Gnocchi Vita e opere di un grande imprenditore della carità. I. Silone, Il fascismo Origini e sviluppo. D. Quirico, Squadrone bianco Storia delle truppe coloniali italiane. E. Ferri, La gran contessa Vita, avventure e misteri di Matilde di Canossa. G.B. Guerri, Rapporto al duce L'agonia di una nazione nei colloqui tra Mussolini e i federali nel 1942. A. Petacco, Ammazzate quel fascista! Vita intrepida di Ettore Muti. L. Turrini, Enzo Ferrari Un eroe italiano. F. Scaglia, Sorelle Storie di suore dall'antichità a oggi. A. Spinosa, Cleopatra La regina che ingannò se stessa. F. Lucifero, L'ultimo re I diari del ministro della Real Casa, 1944-1946. D. Rockefeller, La mia vita. R. Calimani, L'inquisizione a Venezia Eretici e processi 1548-1674. J. Lang, Il Magnifico Vita di Lorenzo de' Medici. A. Lepre, Storia degli italiani nel Novecento Chi siamo, da dove veniamo. G. Nissim, Il tribunale del bene La storia di Moshe Bejski, l'uomo che creò il Giardino dei giusti. M. Allam, Saddam Storia segreta di un dittatore. G. Oliva, Duchi d'Aosta I Savoia che non diventarono re d'Italia.