La memoria 552
Luciano Canfora
Il copista come autore
Sellerio editore Palermo
2002 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo e-mail:
[email protected]
Canfora, Lucian\) <1942> TI copista come autore l Luciano Canfora. -Palermo : Sellerio, 2002. (La memoria ; 552) ISBN 88-389-1789-1. l. Filologia 400 CDD-20 SBN Pal0194372
CIP - Bibiioteca cent1·ale della Regione sidliana
Il copista come autore
Prologo Cos'è l' «originale»?
.Non abbiamo originali degli autori greci e romani, a parte, forse, qualche frammento su papiro di semisconosciuti letterati. E nemmeno l'autografo della Divina Commedia. Ciò significa che la gran parte del nostro lavoro consiste nel cercare quanto possibile di avvicinarsi all' «originale» coi mezzi disponibili, che in genere non sono né risolutivi né rassicuranti. A torto consideriamo certa l'esistenza di un originale, il quale appare, al senso comune, connotato da un indiscutibile carattere di unicità. Questo «monismo», o «monoteismo», testuale è stato da tempo messo in crisi in riferimento alle letterature cosiddette classiche. Ol!!t~Um-.se.cQJ~ .Qr.!ma. q_~!. memorabile c:apitolo di Giorgio Pasquali sulle «varianti d'autore» (1934), la intuizione che i modi e Ctempideiia ·-;-èdfi:orfa~ an dca determi~assero ~~ càrattere-éfCstruùurale provvisorietà e modificabiIità dell' orig{na.le si era già formata. Il merito della-più cliiara formulazione spetta, a mia scienza, ad uno storico «dilettante», sir George Cornewall Lewis (1806-1863), ed al suo eccellente ma dimen9
ticato articolo Sulla divisione in libri delle Elleniche
di Seno/onte: i «Sembra che gli scrittori antichi - scrive Lewis - abbiano s~s so tenU:iole loroo!'ereirlre~isio~~ d~nte ~ lunga·p~~ cf~l ta Vita [...]. La pubblicazione di un libro era, allora, un ~en toa5sa1meriodeffriito e preciso che non sia poi divem.i~9:~par tire diill'iilvenzioiiedella stampa .. Quando Platone, Senofonte, Anstotele, avevano composto ~"n'opera, probabilmente essi la leggevano - o ne leggevano delle parti - ad alcuni dei loro amici o discepoli. E forse anche alcuni ottenevano di fare delle copie. Ma la pubblicazione era cosl limitata, che l'autore tranquillamente continuava a rivedere la sua opera per tutto il tempo che restava desto in lui l'interesse per quella materia».
loro
Qui è descritto il fenomeno più importante e delicato; qui emerge chiaramente che modo di diffusione e modo di composizione sono strettamente collegati, o meglio che l'uno (il tipo di ex:oomç) determina l'altro (la scrittura). Altra e più banale cosa è constatare che molte opere antiche ebbero «due edizioni». Hilaiius Èmoiids.-r;~fi9-~f(p~bbll~Ò ~11-c-~talogo ragionato e documentato di questi casi, intitolato La seconda edizione nel mondo antico. 2 Ma spesso si tratta dl"una·-prospetti~a non necessariamente ci furono due edizioni. Certo, alcune varianti, che possono farsi risalire all'autore, dimostrano che ci fu, da parte dell'autore, almeno una riscrittura. Ma il fatto più rilevante è che per
inesatta:.
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G. C. Lewis, The Hel/enics ofXenophon and their Division into Books,
~ological Museum• 2, 1833, pp. 1-44. <:___~- Emonds, Zweite Auflage im Altertum,
lO
Leipzig, Harrassowitz, 1941.
lo più le «seconde edizioni» individuate da Emonds non sono che m_~1?zento di una più /~ng'! storia di rifaci11Jenti e""fiproposizioni d'autore del medesimo scritto. La con;inzio.ne che il fenomeno.sià-stàto peculiare dell'età premoderna, cioè di quella antecedente la stampa, è diffusa. Eppure anche molte storie testuali di opere moderne approdano - a ben guardare - ad un originale «instabile» o senz'altro non unico e anzi, via via, provvisorio. Talvolta si tratta di esempi estremi, che non avrebbe senso generalizzare, come quello dell' «originale» dello Strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, svelato da una lettera della moglie dello scrittore, Fanny Stevenson (all'amico W. H. Henley, 1885, andata all'asta a Londra nel novembre 2000). Secondo questo documento, Stevenson scrisse Jekyll e Hyde in tre giorni, ma la moglie ne rimase talmente delusa e considerò cosl stralunata quella narrazione, composta tra emorragie da tubercolosi e deliri di cocaina, che ne bruciò il manoscritto. Delirante e ostinato, Stevenson riscrisse, in altri tre giorni, un altro originale.
un
Vi è poi un ambito nel quale anche l' «autore», oltre che l' «originale», sfumano nel vago. È la drammaturgia: nelle varie forme che essa ha assunto, nel tempo. E sono gli autori stessi che lo dichiarano: dalla rivendicazione di Aristofane di essere venuto, da giovanissimo, «in soccorso di altri poeti penetrando nei ventri altrui», per profondere, per tale tramite, «versi comici a fiumi» (Vespe 1018-1020), alla decisione di Kubrick di cassare il «lieto fine» di Orizzonti di gloria 11
(1957) su perentoria richiesta dell'impareggiabile attore-protagonista del film, Kirk Douglas. Il film divenne quello che è, un caposaldo della storia di quell'arte, grazie all'intransigenza dell'attore, se è esatta la ricostruzione dei fatti fornita, con qualche prudenza, anni dopo, dallo sceneggiatore, Frederic Raphael: Kubrick aveva accettato il compromesso del lieto fine (i tre condannati a morte con la falsa accusa di codardia venivano graziati all'ultimo minuto) «per paura di un fallimento commerciale». Douglas lo salvò. Chi è l' «autore»? In certo senso entrambi, in lotta con un terzo potenziale «autore», il produttore che vuole il successo commerciale. È solo per mediocre, postuma, polemica politica che la pamphlettistica biografia di Brecht scritta da Jérome Savary ha rivelato con toni di scandalo quello che tutti sapevano e Brecht vantava: l'apporto cioè delle sue attrici predilette, Elisabeth Hauptmann o Margarete Steffin, all'Opera da tre soldi o a Madre coraggio. Aristofane «entrava nel ventre» di altri commediografi, forse anche perché, come scrive in un'altra tirata autobiografica, all'epoca «era una ragazza e non gli era lecito partorire» (Nuvole 528-531); ma diede poi, da vecchio, una mano al figlio Araros, commediografo esordiente. E nell'atelier dei tre grandi tragici ateniesi si erano fatti apprendisti i rispettivi figli, anche se non avevano poi eguagliato i rispettivi maestri. E questo varrà anche per Araros.
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Si trascura però di considerare che una situazione analoga doveva essere abituale anche nell' «officina» degli 12
oratori-capi politici. Oratori «minori» lavoravano intorno a Demostene, con una distinzione di compiti e di ruoli che non fu sempre chiarissima (per lo meno non lo è per noi), allo stesso modo che nel tempo nostro ci interroghiamo sull'apporto degli scrittori-ombra che hanno sorretto l'oratoria di grandi leaders politici e statisti (alcuni dei quali hanno invece praticato un'oratoria gelosamente individuale, né solo per orgoglio letterario, ma per riservarsi la possibilità di dire quello che al «partito» in quanto tale non era lecito dire). Una delle ragioni, forse la principale, per cui già gli antichi critici non venivano.sempre a capo dei problemi di attribuzione dei discorsi conservatisi sotto il nome di Demostene è proprio qui: in quella pratica «di gruppo». In certi casi più mani si alternano o si succedono nello stesso discorso, com'è il caso del Contro Neera. Ma certe parti non redatte da Demostene, come la n6pou à.x6&tl;tç annunciata nel bel mezzo della Prima Filippica, a ~hi sarà toccato di allestirle, per leggerle, al momento opportuno, di fronte all'assemblea? Il coacervo che chiamiamo corpus demostenico è un esempio perfetto del fenomeno di cui stiamo discorrendo: riflette bene l'intreccio degli apporti e rispecchia in modo vivo e immediato cosa doveva essere lo «stato maggiore», lo sta/!, di un leader politico. In altri ambiti, sembra ovvio ricordare che i Trattati di Aristotele che noi leggiamo, non senza serie difficoltà, sono il risultato di una elaborazione in cui quanto scrissero gli allievi mentre Aristotele parlava ha una parte probabilmente non trascurabile. Non furo13
no, ad ogni modo, semplici «scrivani», almeno per quanto attiene alle parole messe per iscritto e all'assetto dei materiali. Qual è il senso del termine «originale» in un caso del genere? O nel caso della trascrizione, da parte di Filippo di Opunte, dei NOjlOt platonici, «che erano su cera» (ovtaç ÈV KllPQl) ?3 (La notizia è di Diogene Laerzio, e non è affatto chiaro a quale dinamica compositiva alluda: una catasta di tavolette cerate dcopiate da Filippo o un lavoro che si è sviluppato via via che Platone componeva, o dettava?). Senofonte ebbe tra mano «gli inediti libri di Tucidide» (è sempre a Diogene che dobbiamo questa preziosa informazione) e «avrebbe addirittura potuto presentarli come suoi». 4 Peraltro non pochi hanno pensato e pensano (è un'idea che ritorna) che nei primi due libri delle Elleniche noi leggiamo, sostanzialmente, pagine di Tucidide. Anche nel più solitario dei lavori letterari, dunque, il concetto di «originale» sembra incrinarsi. Non sappiamo come esattamente Senofonte presentò le carte di cui era entrato in possesso. Nel caso dei testi antichi vi è comunque sempre un anello in più. C'è sempre un altro che li ha scritti: ma chi fu il copista?
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Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III, 37. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Il, 57.
l Il copista come autore
A ben vedere, è il copista il vero artefice dei testi che sono riusciti a sopravvivere. Cosi fu, fino al tempo in cui la loro salvezza fu presa in carico dai tipografi. Il copista è colui che materialmente scrive il testo. Le parole che lo compongono prima sono passate attraverso il filtro, e il vaglio, della sua testa, poi sono state messe in salvo grazie alla destrezza della mano nel tener dietro alla dettatura interiore. Nel racconto saggistico Pierre Menard, autore del« Chisciolte», Borges ha costruito una situazione mentale del tutto confacente a quella del copista. Scrive infatti il Menard inventato da Borges: do ho contratto l'obbligo misterioso di ricostruire letteralmente la sua opera spontanea. Il mio gioco solitario è governato da due leggi antitetiche. La prima mi permette di tentare varianti di tipo formale o psicologico; la seconda m'impone di abolire ogni variante in favore del testo 'originale' ». 1 Inventando Pierre Menard «autore del Chisciotte», Bor1 J. L. Borges, Ficciones [1944], trad. it. Finzioni, Milano, Mondadori, 1974, p. 36. Sulla invenzione di Pierre Menard cfr. E. Rodriguez Monegal, ]orge Luis Borges: a literary biography [1978], trad. it. Borges. Una biografia letteraria, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 122.
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ges ha definito le due facce dell'ambiguo mestiere del copista: Menard vuole riscrivere il Don Chisciotte, ma alla fine lo ricopia. «
,--se~ condo una bella immag:lne di Ortega y Gasset) 4 - ognì traduttore 1i avverte soggettivamente:...: cosi il copista integra, credendo di peifezionarlo, un -testo cui si è perfeti:~~ente identificato: appunto perché""copÌsta. !?._~_ ~_?.l~ t o diciamo che «interpola », ma -così banatizzia-
in
Borges, Finzioni, p. 35. Borges, Finzioni, p. 34. 4 J. Ortega y Gasset, Miseria y esplendorde la traduccion [1937], trad. it. Miseria e splendore della traduzione, Milano, SugarCo, 1984, cap. III, p. 86. 2
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mo e sviliamo quel delicato e inquietante accadimento che ·è l'int~rvento originale del copista. E anzi si~: mo portati a sospettarlo anche quando non c'è: appunto perché n
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piatura è la forma più alta e profonda), in un'opera, cioè in una persona, di secoli precedente. Il copista, infatti, deve essere considerato innanzi tutto come1eiiore, arizi come l'unico ~~r(;--lett~re._del t~;i~; .Gia~ché ·la sola lettura-·che porti ;d ~na piena appropriazione del testo è l'atto della copiatura: la sola via di appropiiazione di un testo consiste nel copiado. Perciò non si copia qualunque testo. E perciò la diffusione della fotocopiatura, o di altre analoghe forme compendiarie di riproduzione meccanica, si è rivelata come il principale ostacolo e il principale antidoto alla lettura. Con le fotocopie siamo purtroppo diventati non più che lettori potenziali: sappiamo che potremmo leggere in qualunque momento ciò che abbiamo fulmineamente riprodotto in un attimo. Va da sé che il ricorso a quel surrogato è inevitabile nelle convulse condizioni di lavoro quasi ovunque vigenti, anche a seguito della crescente ostilità che i bibliotecari manifestano verso i lettori, mirante a rendere loro la vita impossibile nei locali delle biblioteche. Ma torniamo al punto da cui siamo partiti: la sola forma di effettiva appropriazione di un testo ·con~i-= ste i:id éopiarlo. Il passaggio subito succes.sivo è che, appunto con- la totale appropriazione che cosl si determina,· nasce - nel lettore copista - la spinta a intervenire: tipica, e quasi obbllgata, rèazione -d! chCè neliesto. È cosl che il copista, proprio perché c_9.piava, è diventato protagonista attivo del testo·. Proprio perché è colui che più di ogni altro lo ha ca-
anche.
entrato18
pito, il copista è diventato co-autore del testo. Ci si potrebbe perciò spingere a sostenere che il plagiario non è dunque che un copista che ha perso la nozione di sé, e si sente ormai autore di quel testo che ha tanto approfonditamente letto perché lo ha copiato. Non è superfluo ricordare che i plagi erano molto più frequenti quando le copie si facevano a mano (e forse torneranno frequenti ora che la scrittura è diventata virtuale e si può «tagliare» e «incollare» in appena qualche secondo). E meglio si comprende anche perché negli sconcertanti cataloghi di plagiari forniti da Quérard nelle Supercheries littéraires dévoilées figurano nomi quali quelli di Richard Simon, Rousseau, Voltaire, etc. (e si potrebbero aggiungere anche le frasi di Niebuhr che Droysen riprese di peso ed inserl nella sua Geschichte des Hellenismus, e molto altro ancora). Osservò Charles Nodier in un libro classico sull'argomento quali le Questions de littérature légale che il fenomeno del plagio si deve essere intrecciato con quello della copia nel momento in cui il materiale da copiare per la prima volta fu particolarmente abbondante: «Je ne doute pas - scriveva Nodier - qu'il n'ait été fort commun, surtout à la renaissance cles lettres, où une faule d'écrits précieux de l'antiquité ont pu se trouver à la disposition de quelques faux savans, aussi dénués de pudeur que de talens propres; mais les précautions qu'on a du prendre pour cacher une action aussi basse nous en ont dérobé la trace presque partout où l'on soupçonne qu'elle a été commise; et s'il en reste par-ci par-là quelque vestige, il faut avouer 19
qu'ils ne sont pas de nature à légitimer une accusadon de cette importance». 8 Tendenzialmente il copista non si rassegna a scrivere qualcosa che gli s~mbra nOii-dar~ senso, ~-non dare qùello che a lui, trascinato dalla comp.enetra~ione col t~sto, appare come il senso piùd~sidera.~ilein quel punto. Peraltro egli non di rado sa che, prima di lui, alt# uomini, fallaci come .lui sa di essere (e. spesso lo proc1ama drammaticament~ in_ qualche subscriptio), hanno s~ritto·, a loro volta, il medesimo testo che lui ora sta riscrivendo. Tanto più gli sembra ovvio intervenire, in Omaggio alla sua idea, che lo insidia e lo sorregge ad ogni passo, in ogni momento; di senso «migiiore». 9 -QUasi tutti gli errori sono errori concettWili: anche quelli clie.vengono sommariamente classificati come sviste ~-lqp~u!: Naturalmente tutto dipende dalle categorie mentali e dalla cultura o alfabetizzazione del copista, nonché da quante cognizioni egli ha indispensabili ad evitare le insidie di un testo colto o difficile, appartenente per di più a tutt'altro tempo. Perciò Pierre Menard aveva deciso, prima di mettersi a lavorare, di «recuperare la fede cattolica, guerreggiare contro i mori o contro il turco, dimenticare la storia d'Europa tra il 1602 e il1918». Inutile dire che questa esemplificazione di un possibile processo di adeguamento alle categorie e ai 8 Ch. Nodier, Questions de littémture figa/e. Du p/4giat, de 14 supposition d'auteurs, des supercheries qui ont rapport aux /ivres, Paris, Crapelet, 1828, p. 48. 9 Il tipografo è meno «attivo», meno intraprendente: soprattutto perché opera all'interno di una. articolata e coartante «divisione del lavoro».
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presupposti dell'originale è molto sommaria; e infatti, per attenuare l'inadeguatezza della sua lista, Borges ricorre alla formula estrema (che comprende tutte le possibili categorie): «essere Miguel de Cervantes». 10 Uno degli errori di prospettiva che i filologi commettono, quando studiano la tipologia degli errori, è dunque quello di classificarli assiologicamente in «mecèanlCi» e «concettuali»: in alcuni casi persino alcuni errori tipicamente meccanici, come il salto di un gruppo di parole (per lo più di un rigo) dovuto alla presenza, nel modello, di due parole uguali (o quasi uguali) che si susseguono a breve distanza, possono essere agevolati dal fatto che il mostruoso testo risultante non appariva totalmente privo di senso al copista e alla sua idea di coerenza concettuale e sintattica. (Se l'anacoluto gli era abituale nel suo modo di esprimersi lo avrà ritenuto tollerabile anche nella pagina dell'autore che veniva man mano ricopiando). Questo non vuol dire che quell'errore nori aveva un'origine meccanica. Significa piuttosto che, anche nel caso di un errore cosl platealmente meccanico, può interferire - nel suo prodursi e incastonarsi nel testo - un fattore mentale (o concettuale). Peraltro la certezza, ingannevole, di aver ripreso a copiare dal punto giusto (e non da una parola uguale di poco successiva) rinsaldava nel copista la convinzione che quel periodo doveva essere stato scritto dall'autore proprio in quel modo, come lui lo stava ricopiando, e dunque non poteva non avere un senso! 10
Borges, Finzioni, p. 35.
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Poiché questo genere di fenomeni, e molti altri anche più insidiosi, non si è verificato una volta sola, bensi innumerevoli volte nel corso della trasmissione di ciascun testo a noi giunto, non è inutile cercare di fornire un'idea concreta di un tale interminabile e accidentato cammino: Questa mattina ho avuto occasione di farmi battere a macchina una lettera autografa che avevo scritto al padre di un certo studente. La copia che ho ricevuto asseriva che il Rettore di Balliol ha il sacrosanto dovere di debellare il Tizio contro natura. In altri termini, chiunque abbia una segretaria sa che i versi autentici scritti da Catullo erano già travisati dopo esser stati copiati due volte, cioè più o meno all'epoca della prima invasione romana della Britannia: e la più antica copia che ci è pervenuta è stata scritta circa millecinquecento anni dopo quell'invasione. Pensi a tutte quelle segretarie! -ogni svarione provoca un altro svarione, da un papiro all'altro, e dagli ultimi rotoli in disfacimento ai primi libri di fiammante pergamena, con altri mille anni a venire di copiatura manuale, dovendo far fronte alle mutevoli forme di scrittura e di ortografia, e all'assenza di punteggiatura - per non parlare di muffa e di topi, di incendi e inondazioni, e della disapprovazione cristiana al limite della soppressione totale, mentre ciò che Catullo aveva scritto veramente passava da un amanuense all'altro, chi ubriaco, chi assonnato, chi senza scrupoli, e di quelli sobri, svegli e scrupolosi, alcuni ignoranti del latino, altri, ancor peggio, convinti di essere migliori latinisti di Catullo - finché! - da ultimo e dopo tanto tempo - storpiato e lacero come un cane che arrivi a casa dopo una zuffa, rotolò oltre la soglia del Rinascimento italiano l'unica testimonianza sopravvissuta a tren-
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ta generazioni di incuria e di stupidità: il codex Veronensis di Catullo; che andò quasi immediatamente perduto, ma non prima che fosse copiato e avesse quindi un'ultima occasione di errore. Questa copia è il testo su cui si fondano le poesie di Catullo così come andarono in tipografia per la prima volta a Venezia, quattrocento anni fa. 11
Da questa descrizione sommaria ed efficace della trasmissione dei testi si ricava la seguente deduzione palmare: quando la distanza tra autografo e copia (o copie) superstiti è incomparabilmente più piccola che nel caso di Catullo o addirittura di Eschilo, per non parlare di Omero, allora il tasso di deformazioni scende radicalmente a quantità incomparabilmente più piccole. I copisti bizantini che hanno copiato testi bizantini di cinquanta o anche cento anni indietro rispetto al loro tempo erano davvero «uguali» agli autori che copiavano, e non dovevano perciò fare gli sforzi di Pierre Menard. Di fatto sono due filologie diverse, per usare un'espressione fin troppo sommaria: quella che tratta manoscritti che tramandano testi scritti 1500-2000 prima..e quella che tratta manoscritti nati neila stess-a «Civiltà», ma sarebbe più esatto dire nella stessa <>; .deWautore. Nel primo ~~so si. d~vrà risaliré all'indi~tro "ilei tempo con le stesse alee, con gli stessi azzardi degli archeologi che hanno immaginato di scoprire il primo e «originario» strato della città di Troia, quella di Priamo, partendo dalle suggestive rovine del-
anni
11 T. Stoppard, The Invention o/ Lave [1997], trad. i t. L 'invenzione dell'amore, Palermo, Sellerio, 1999, pp. 72-73.
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la odierna Hissarlik. Un processo a ritroso a partire, per adoperare l'espressione borgesiana, da un «palinsesto [ = il testo giunto a noi], in cui andrebbero ricercate le tracce - tenui, ma non indecifrabili - della scrittura anteriore»Y
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Borges, Finzioni, p. 39.
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Un modesto surrogato: l'archetipo
Lo sforzo compiuto già dai primi «critici» fu quello di raffrontare diversi testimoni. La percezione della frequente alternativa tra varianti, la nozione della esistenza di una «pluralità» di testi della medesima opera - situazione che impone un giudizio e, di conseguenza, una scelta - sono ben presenti alla mente di studiosi e di critici, dei quali ci è noto il pensiero. E possiamo ben ritenere che molti altri, dei quali non ci è giunta notizia, avessero la medesima cognizione. Strabone, geografo e storico di epoca augustea, ha ben chi~~o che dei trattati di Aristotele-, dmessi in circolazione dopo la conquista siilana di Atene (86 a.C.), esistevano testi differenti, a causa della ripetuta attività congetturale e di risanamento cui quei testi erano stati sottoposti, da dilettanti, da grammatici e da librai senza scrupoli.l Arpocrazione conosce ordinamenti diversi della raccolta demostenica, nonché una suddivisione in libri delle Elleniche di Senofonte che non corrisponde sempre a quella rispecchiata dai manoscrit1
Strabone, Geografia XIII,1,54.
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ti giunti fino a noi.2 Galeno, il quale ben conosceva le differenze tra esemplari diversi del Timeo platonico/ dedica uno studio sistematico alla tradizione manoscritta di lppocrate, e contrappone le varianti dei «manoscritti più antichi» a quelle dei più recenti. 4 E aveva visto i librai fare scempio dei suoi stessi libri, lui vivo. 5 Qualche secolo più tardi, Fazio è indotto dalle radicali varianti che riscontra, in due esemplari della stessa opera di Eunapio, ad ipotizzare altrettante edizioni d'autore profondamente diverse. 6 Anche se i critici, specie se prudenti, si limitavano a constatare la diversità, i librai inevitabilmente sceglievano, e cosl mettevano in circolazione esemplari - i quali a loro volta «figliavano» - ecletticamente fondati. Del resto l'ansia di indicare la lezione «preferibile» serpeggia già nelle note testuali di ascendenza alessandrina. Cos'altro fecero i grammatici alessandrini, per il testo omerico, se non appunto ricercare e accumulare testimoni tendenzialmente difformi (gli «Omeri» delle città, vennero chiamati)l per costruire edizioni alla luce del tanto materiale raccolto? Certo, non toglievano via dal testo i versi di cui suggerivano (a torto o a ragione) la soppressione, ma dinanzi 2 Cfr. R. Otranto, Antiche edizioni demosteniche in Arpocrazione: i discorsi I-XIII, in Studi sulla tradizione classica. Per Marie/la Cagnetta, Roma-
Bari, Laterza, 1999, pp. 363-371. 3 Galeno, In Platonis Timaeum commentariifragmenta, 2, 107 Schroder. 4 Galeno, In Hippocratis librum III Epidemiarum commentaria, XVII/l, 730 Kiihn. ' Galeno, De libris propriis liber, XIX, 8-9 Kiihn. 6 Biblioteca, capitolo 77, 54a36-39. ; A. Griifenhan, Geschichte der klassischen Philologie im Alterthum, l, Bonn, Konig, 1843, pp. 275-278.
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alle molte divergenze delle loro fonti, inevitabilmente « sceglievano». E nulla esclude che qualcosa del genere abbiano fatto per il teatro attico, cui pure dedicarono molta cura. In questo modo le biblioteche (non solo Alessandria) ed i gruppi di dotti che vi operavano diventavanò-ali:rettanti centri propulsori di un fitto, intrecciatoe for~e ines!~icabile policentrismo testual~.M~_p_2~ ché i iibr~ caii1minano con gli uomini e le copie ~l!t()~~ voifvengono desiderate e imitate, urui.situazione del genere finisce col diventare causa ed effetto insieme di~na massiccia coiitarrunazione. Quantunque punt~ggiata eli tentati dtorrif (più o meno. velleitari) a "più puri esemPlari «att"id»-, tale contaminazione è il tratto dominantedei p!lmTsecoli della storia dei testi". s . . - . --Oltre tl!ÙQ_p~ey~le nei mode_rnpa tend~nza a pensare le raccolte, grandi o piccole, di cui si abbia notizia, in modo troppo statico, come bacini immobili, o contenitori non"èomunicantf. (È sempre l'eterno pregiudiiio" della -i:raèl1z1one-<< verticale» ... ). In~ece non f~ èO.sì. Spesso !libri si muovevano (era piò economico fars_~li___ E!~~~are _che fa_~s.eli co_piare), e, movendosi, «spandevano» varianti. Documenti come le lettere pr-ivate contenenti liste di libri richiesti, o prestati, o 8 Svetonio attesta che, al principio del suo regno, Domiziano (81-96 d.C.) aveva provveduto a risarcire le biblioteche di Roma, incendiate al tempo di Tito, con esemplari racimolati dovunque, e con l'apporto di una delegazione inviata ad Alessandria, incaricata di copiare gli esemplari alessandrini e di emendare le copie racimolate altrove, evidentemente sulla base di altri esemplari (Domiziano, 20). Risulta chiaro l'effetto di massiccia «contaminazione» che una operazione del genere deve aver introdotto nel circuito della tradizione.
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restituiti9 mostrano come lo scambio, presumibilmente finalizzato alla concessione di copia, fosse tutt'altro che insolito, nella pratica dei leggenti. Dinamismo, e moltiplicazione di copie (anche parziali) nono possono contribuito all'ulteriore rimescolamento dei modelli, -e ci~c#. delle varianti. E chi può dire q~f!t~- influenza ~1?~ biano esercitato, nel seguito, proprio esemplari formatic~sl? Tenderei a credere che, nei momenti di crisi, di imbarbarimento, e crollo della cultura scritta, .P!.C?Pr~o i testi appartenenti a privati abbiano maggiormente resistito, perciò prodotto discendenza. Temistio, nel sempre citato (perché testimonianza rara!) discorso del357 d.C. inneggiante alla nuova biblioteca costantinopolitana voluta da Costanzo II, mentre appare allarmato per la possibile sparizione di vari autori, appunto in ragione della grave decadenza delle biblioteche pubbliche, tuttavia sostiene che almeno per i grandissimi classici si può far capo pur sempre agli esemplari dei privati. Testimonianza assai interessante: essa lascia intravvedere uno scenario che può ritenersi di lungo periodo. Apre uno spiraglio, e più che uno spiraglio, sul ruolo delle copie dei privati nel salvataggio dell'antica letteratura (stante che prima o poi tutte le biblioteche pubbliche perirono).
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Il metodo ricostruttivo detto «genealogico» procede, com'è ovvio, a ritroso. Si parte da quello che c'è: 9 Cfr. R. Otranto, Antiche liste di libri su papiro, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000 (per esempio i nrr. l e 19 della raccolta). Cfr. anche P. Oxy. 2912, col. II, Il. 28-38 (la richiesta di libri da ricopiare, contenuta in queste righe, è rivolta probabilmente ad un bibliotecario).
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dai testimoni superstiti. E si tenta di risalire il più possibile verso stadi anteriori del testo, verso l' «originale», anche se il proposito è assai ardimentoso. Lo strumento per fare questo percorso a ritroso è l'analisi degli errori, che sono le «spie» che ci consentono di marciare all'indietro. Ma per capire quanto poco cammino si riesca a fare, con un tale procedimento, nella lunga strada che dovrebbe portarci verso l'originale, e anche per collocare nella giusta luce la portata dei risultati che raggiungiamo, è bene riflettere proprio su quel che si produsse nella lunghissima fase «iniziale» della tradizione. Diciamo «iniziale» ma si tratta di secoli. L'e;pressione non deve indurre in equivoco. Si sa bene che per gli ·autori pre-alessandrini, i quali non ebbero modo di farsi editori di se stessi (lo fece assai saggiamente Ìsocrate, non certo Platone né Demostene) ci fu una fase «iniziale» molto movimentata e deformante. Ma qui ci si vuoi riferire con il termine «iniziale»-~Ìl'inte ra fase che va dal «riordino» alessandrino fino alla rarefazione della cultura antica nei secoli «bui» dell'età di mezzo. Partendo dai testimoni superstiti, che sono medievali e umanistico-rinascimentali per la grandissima parte, si cammina «all'indietro» verso un esemplare presunto capostipite di tutta la tradizione superstite, il cosiddetto ~<archetipç». Per fondare la legittimità di una tale proc~dura, si presume che la discendenza sia stata prevalentemente in linea verticale e poco molestata da interferenze collaterali («contaminazioni»): presunzione tutt'altro che convincente nel caso di autori 29
molto letti e, in varie fasi della tradizione, abbondantemente ricopiati. Per «fortuna», si potrebbe dire un po' scherzosamente, gli esemplari superstiti si lasciano, talvolta, ricondurre ad un unico antecedente. Per fortuna, perché altrimenti la ricostruzione genealogico-congetturale detta «stemmatica» (ricostruzione dei nessi di dipendenza attraverso l'analisi degli errori comuni, e raffigurazione di tali nessi appunto attraverso il disegno schematico di uno «stemma») sarebbe un puro gioco fittizio, un esercizio astratto, un gigantesco exemplum fictum. Certo non è il caso dei grandi autori, molto letti e vastamente tramandati: da Omero a Demostene, da Virgilio a Cicerone, a Isocrate, al Nuovo Testamento, per fare solo degli esempi a caso. Per questi autori, i testimoni superstiti - in particolare quelli più antichi - stentano a farsi annodare nel rassicurante viluppo di uno «stemma» facente capo ad un antecedente unico. Rinviano, semmai, a diverse edizioni per lo più di epoca tardoantica. Insomma ci portano a constatare, ancora una volta, una-pluralltà, e rion cì ·consentono-dlgu-adagnare una rassicùrante unità·,-cui dare" appunto il significativo, ma troppo ambizioso, nome di «archetipo». --Comunqué:· anche quando la tradizione superstite è talmente povera da consentirci di recuperare una unità, cioè un «archetipo», non c'è molto da gioire. Giacché, considerando la tradizione nel suo insieme, cioè dal principio, ci accorgeremo di aver ricostruito appena un segmento, e tutto sommato piuttosto recente, di una molto più lunga traiettoria. In tal caso tutto quello che c'è stato pri30
ma ci sfugge completamente, specie se non ci sono - a parziale e sporadico risarcimento - gli improvvisi eradi sprazzi di luce rappresentati dalla «tradizione indiretta»10 o da pezzi di papiro; sulla qualità dei quali vi è però da riflettere bene prima di mettersi ad esultare. Meglio dunque approdare alla !!_lolt~ljç!!à d~ll.e «antiche edizioni_))1_ 4:~!ducibile a façili ~ ~J:b~~rari proççssi di unificazione «editoriale» (è il caso di Omero, Demostene, Nuovo- Testamento, ecc.)' ch~-E~.!?: ap_p~s!l!Si .9! U!'J:. P?co significante «archetipo» (=comune antecedente delili tf.(ùli:done superstite), coliocabile in un qualche momento dei secoli più incolti dell'età di mezzo: in un momento cioè in cui la rarefazione "della cultura era stata tale, che quell'unico (ipotizzato) esemplare poté trovarsi ad essere l'unico in grado di produrre discendenza, quella appunto giunta a noi. Sarà anche possibile ricostruirlo, in quei casi peraltro ben rari, tale «archetipo». Ma a ben vedere codesto non è che un esemplare qualunque, oltre che tendenzialmente «recente», comunque non molto più vecchio degli esemplari superstiti. Un .esemplare qualunque, alle cui spalle, per secoli, vi è stata una mescolanza incessante, di cui la già ricordata percezione di non infrequenti divergenze tra esemplari della stessa opera - che ritroviamo in Strabone o in Galeno o in Fozio - è testimonianza capitale e ineludibile. L'archetipo non è dunque che una «scheggia» tf!alu_r_tq_f!i~41 qu~Wfn_c:e~~~!1t~ proces~·. -In aJ~-~Lt~rmi~~.Ta ~istanza tra noi e l'archetipo (o, se vogliamo, tra 10
Su cui vd. in/ra il capitolo seguente.
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l'archetipo e la tradizione superstite) è cosa assai più modestao meno significante che non l'abisso tempestosissimo che separa - a sua volta - quel povero arChe-tipo -dali' originale. ·· - - ~
suoi
la
o
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Un punto che comunque resta spesso in ombra è che
il procedimento ricostruttivo-genealogico non può avere validità universale. Non può funzionare allo stesso modo- come s'è detto nel precedente capitolo- quando tra autore e testimoni manoscritti superstiti c'è un millennio o addirittura due, e quando invece tra autore e testimoni superstiti ci sono pochi decenni (questo secondo caso è frequente per molti degli autori bizantini, da Fazio in avanti). Non può funzionare allo stesso modo per gli autori che operarono prima di Alessandria e per quelli, ancorché antichi, che operarono dopo. Per i primi si riuscirà al più - ad essere molto ottimisti - a ricostruire il testo stabilito dagli alessandrini, non certo a spingersi (se non per sprazzi congetturali) al di là di quel momento decisivo per la «COdificazione» delle opere in greco. E comunque il procedimento ricostruttivo-genealogico non è applicabile alle opere di tradizione «bassa»: si pensi, per il Medioevo greco, alla letteratura popolare, cavalleresca, innografica, che è stata via via plasmata da un tipo di trasmissione in cui anche la versione orale (magari genuina!) ha avuto il suo peso. E comunque per i testi letterariamente «scadenti», come distinguere l' «errore» dalla «lezione migliore» ?
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Grandezza e miserie della tradizione «indiretta»
l. Nella pratka editoriale la tradizione indiretta è trattata per lo piit C·:>me un accessorio dell'apparato critico: l'opinione corrente è che la sola· funzione della tradizione in,:l.iretta sarebbe quella di «migliorare» qua e là il testo t!'as·n..!:::so dai manoscritti. I manoscritti li si chiama tradizior,e «diretta». Ciò è piuttosto strano. Per un v-~rso s1 ·mbgerisce, col termine «diretta», l'impressione che i manoscritti derivino direttamente dall'originale; per l'altro si lascia in ombra il dato principale, cht: cioè la ~osiddetta «tradizione indiretta» è in realtà, sul piano cronologico, ben più vicina all'autore di qeanto no: lo siano i manoscritti medievali. Si adopera la !Jarola «indiretta» perché si tratta di una dtazionc di u::: autore fatta da un altro autore: il qu.ale svclre la funzione di i n t e r m e d i a r i o. Si diment!ca c.he d copista medievale è anche lui un intermediario. Per r:ontro, chi fa la citazione avrebbe il diritto di essere considerato anche lui come l'equivalente di un «copista» nel momento in cui trascrive una porzione del testo di un altro autore. Un copista di un certo livello; un copista che era immerso nella stessa realtà storica del suo autore, cosa che non ac34
cade mai ad un copista d'epoca medievale nei confronti degli autori antichi. La parola «indiretta» è dunque inadatta a darci un'idea concreta e veridica dello stato delle cose. 2. Consideriamo la tradizione «indiretta» in rapporto all'edizione critica: a partire dallibellus aureus di Paul Maas, Textkritik. 1 In questo libro, di cui è stato detto che presenta la critica del testo «more geometrico demonstrata», 2 ricorre un'immagine molto positiva dell'apporto della tradizione «indiretta» all'edizione. Il valore inestimabile della citazione- sostiene Maas (§ 16) - risiede nel fatto che essa riflette, all'occorrenza, una ramificazione della tradizione manoscritta ben più antica di quella attestata dai testimoni medievali. Ne consegue che- secondo Maas -, nei luoghi in cui la tradizione «indiretta» è presente, l'archetipo stesso precipita allivello di semplice «portatore di varianti». Il che non è senza effetti dal punto di vista della critica. Se un archetipo (o codex unicus) per mezzo di testimoni che risalgono a una più antica ramificazione, viene abbassato per certi tratti al grado di portatore di varianti oppure addirittura di codex descriptus, in tal caso i generi di errori che si possono mostrare in questi tratti sono da sup1 P. Maas, Textkritik, in Einleitung indie Altertumswis>enschaft, hrsg. von A. Gercke und Ed. Norden, 1, Leipzig, Teubner, 1927\ trad. it. di N. Martinelli, Critica del testo, presentazione di G. Pasquali, Firenze, Le Monnier, 1972 3 • 2 G. Pasquali, in Maas, Critica del testo, p. v.
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porre anche nei luoghi nei quali tale accertamento non è possibile. 3
La conseguenza che Maas trae dalla «degradazione», dal declassamento, dell'archetipo è logica: lo stesso tipo di errori che corrompono l'archetipo, dovremmo presumerlo come possibile anche là dove la tradizione «indiretta» ci abbandona e l'archetipo recupera il suo ruolo dominante. Donde la conclusione: «Sta in questo il grande valore delle citazioni, in quanto esse risalgano a una più antica ramificazione (soweit diese einer alteren Spaltung entstammen)». 4 Infatti ne può risultare un rovesciamento salutare della classificazione dei testimoni all'interno dello «stemma». La precisazione è indispensabile («soweit diese einer alteren Spaltung entstammen»), dal momento che non si verifica sempre necessariamente che la tradizione «indiretta» ci riveli una situazione del genere. Si può restare delusi per via dell'assenza in Maas, nella seconda parte del suo trattato, di esempi concreti del fenomeno che egli ha così ben delineato nella parte teorica. Ciò dipende, forse, dalla rarità del caso esaminato, e, in ogni caso, dalla difficoltà di superare il piano stret3 Maas, Critica del testo, p. 20 = Textkritik, cit., p. 8: «Wenn ein Archetypus (oder codex unicus) durch Zeugen, die einer iilteren Spaltung entstammen, streckenweise zum Variantentriiger oder gar zum codex descriptus degradiert wird, so sind die in diesen Strecken nachweisbaren Gattungen seiner Fehler auch in den Strecken zu vermuten, wo wir ihn nicht kontrollieren konnem>. 4 Maas, Critica del testo, p. 20 = Textkritik, cit., p. 8: «Hierin liegt der groBe Wert der Zitate, soweit diese einer iilteren Spaltung entstammen>>.
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tamente ipotetico. Mi spiegherò con un esempio. Aristotele, nella Retorica (1409a28), cita le prime due parole delle Storie di Erodoto, che sono, a sua conoscenza, 'HpoOO'tO'U E>oupiou e non 'HpoOO'tO'U 'AA.ucapVTtcrcréro<;: variante confermata da Plutarco, il quale dice «vi sono molti che leggono E>o'UptO'U» (Moralia, 604F5). Ammettiamo che sia questa la «buona lezione» (cosa peraltro contestata): cosa se ne dovrebbe concludere? Come facciamo a scoprire quali altri «errori dello stesso genere» possono nascondersi altrove nell'archetipo? È evidente che, nel caso più favorevole, si perviene al più alla presunzione di una possibile ricomparsa nell'archetipo di un certo tipo di errore: ma questa presunzione non ha alcuna conseguenza immediata per l'edieione. 3. Il problema più delicato consiste nella valutazione della qualità dei diversi tipi di citazione, indipendentemente dall'epoca cui risalgono. La discussione più equilibrata intorno ai pregiudizi vigenti contro l'impiego della tradizione «indiretta» nella constitutio textus si trova in un libro prezioso di Hermann Frankel, intitolato Einleitung zur kritischen Ausgabe der Argonautika des Apollonios (1964). Frankel rileva essenzialmente due pregiudizi: a) da una parte l'idea che la citazione sia normalmente fatta a memoria («Der Zitator zitiert vielleicht nur aus dem Gedachtnis, und ungenam>): 5 cioè l'idea, largamente 5 H. Frankel, Einleitung zur kritischen Ausgabe der Argonautika des Apollonios, Gottingen, Vandenhoeck&Ruprecht, 1964, p. 146, n. 2.
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diffusa, che si citasse soprattutto, se non unicamente («nur»!) a memoria, e dunque in maniera poco esatta; b) dall'altro lato una considerazione «tecnica» un po' più fine: comparendo le citazioni nel testo di un altro autore ed avendo i copisti più familiarità con lo stile di quest'ultimo, è presumibile che essi avessero meno familiarità con lo stile dell'autore occasionalmente citato. Ciò potrebbe aver generato molti errori proprio nelle citazioni. In ogni caso, più errori di quelli mediamente presenti nel contesto. 6 Ed ecco la confutazione: a) se la citazione sia fatta effettivamente a memoria o no - dice Frankel -, si dovrebbe cercare di stabilirlo in ciascun caso particolare: la presunzione non ha alcun valore. A rigore, poi, grammatici come Carisio o Nonio da un lato, dall'altro un grande scrittore come Seneca seguivano senza dubbio, nelle loro citazioni, pratiche differenti; b) il criterio dello stile può valere soltanto per parole ed espressioni tipiche dell'autore citato, dunque in una minoranza di casi. 7 4. Torniamo sul problema della citazione fatta «a memoria». Ho evocato per un verso Seneca e per l'altro Ca6 Friinkel, Einleitung, p. 146, n. 2: «Die Abschreiber cles zitierenden Textes waren mit der Diktion cles Werkes, aus dem zitiert wird, weniger vertraut und haben sich daher ofter vertan als diejenigen, die das ganze Werk hintereinander abschrieben». 7 Friinkel, Ein/eitung, p. 146, n. 2: « ... als es sich um Worter, Formen, Wendungen u. dgl. handelt, die in dem zitierten Werk gewohnlicher sind als in der sonstigen Sprache».
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risio e Nonio. Il grammatico, il quale cita decine e decine di passaggi, di norma non cita a memoria. Seneca che ricorda un pensiero di Tito Livio non ha come prilicipa~· le prÒposito quello di dare al lettore le esatte parole dd~ [o stor!co. Egli sceglie, a memori~, un passo che gli sembra ap_propriato al suo discorso: di conseguenza, il pensi~ro di Livio e il contesto di Seneca sin da quel momento si amalgamano profondamente. Colui che cita «influenza» -(se così si può dire) il testo citato. Nel momento stesSo"iri CUi" egli h adotta, lo adatt~ al tessuto del suo dlscorsÒ. Dal punto dCvlsta della crl.tica del testo, questo tipo di citazione è spesso deludente e pericoloso. Eppure talvolta dà un aiuto imprevisto, un aiuto all'interpretazione. Il che comporta, meno raramente di quanto si creda, delle conseguenze anche per la puntuale ricostruzione verbale. Se si tratta di citazione di un testo conservato, tutto è più chiaro. Se invece si tratta di un testo perduto, il problema è: a partire da quale rigo, da quale parola, o da quale concetto colui che cita sta già utilizzando la sua fonte? Non sempre dà notizia tempestiva del fatto che sta citando: spetta al lettore scoprire dov'è l'inizio della «citazione». 5. Ecco un esempio in cui sono implicati due grandi autori, nella parte, rispettivamente, del citante e del citato. In un luogo molto noto, Seneca, partendo da Livio (citato esplicitamente), offre una testimonianza capitale su ciò che era accaduto ad Alessandria nell'anno 48-47 a.C., al momento dell'incendio dell'arsenale, provocato da Giulio Cesare. 39
Seneca, De tranquillitate animi, IX, 5 Quadraginta milia librorum Alexandriae arserunt; pulcherrimum regiae opulentiae monumentum alius laudaverit, sicut T. Livius, qui elegantiae regum curaeque egregium id opus ait fuisse: non fuit elegantia illud aut cura, sed studiosa luxuria, immo ne studiosa quidem, quoniam non in studium sed in spectaculum comparaverant. Quarantamila volumi furono bruciati ad Alessandria. Che altri vantino questo splendido monumento della munificenza reale, come ha fatto anche Tito Livio, che lo definisce capolavoro del gusto e della sollecitudine dei re. Io non vi vedo né gusto né sollecitudine, ma un'orgia di letteratura; e quando dico di letteratura in realtà sbaglio, la cura delle lettere non c'entrava affatto; queste belle collezioni non erano costituite che per l'ostentazione.
«Quadraginta milia». Si tratta, evidentemente, di una porzione modesta dei 500.000 volumi che erano nella Biblioteca al tempo di Tolomeo FiladeHo, o dei 700.000 di cui parla Gellio (Notti attiche, VII, 17, 3). Con qualche brutalità si è voluto correggere questa cifra in «quadringenta mllia» (400.000). La correzione, che ha avuto una qualche fortuna, si fonda su ciò che si supponeva dicesse Orosio (VI, 15, 31), rappresentante della tradizione «indiretta» di Livio. 8 Con buona pace degli appassionati di correzioni superflue, va osservato che i manoscritti fondamentali di Orosio (in particolare il 8 Cfr. Orosio, Adversum paganos, Vl, 15, 31: «Ea fiamma cum partem quoque urbis invasisset, quadringenta [ma la lezione meglio attestata è quadraginta] milia librorum proximis forte aedibus condita exussit, singulare profecto monumentum studii curaeque maiorum».
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Laurenziano 65,1, databile non molto dopo Orosio, e
il Laudunense 137) danno anch'essi «quadraginta miHa librorum» (e non «quadringenta», cioè 400.000). 9 Ma torniamo al quesito di partenza: a partire da quale parola Seneca mette a frutto e riprende Livio? La maniera in cui Seneca si esprime suggerisce che Livio entri in scena soltanto nella seconda parte della frase (« ... come ha fatto anche Livio, che lo definisce capolavoro del gusto ecc.»). Per fortuna ci sono altre fonti, Orosio soprattutto, la cui coincidenza con questo passo di Seneca è pressoché letterale. Orosio definisce infatti i 40.000 volumi «singulare monumentum studii curaeque maiorum» («monumento eccezionale dello zelo e della cura degli antichi»). Questa coincidenza aiuta molto: si è penalizzati dall'assenza dell'originale, ma si è favoriti dal fatto che si dispone di più rappresentanti della tradizione «indiretta». Si tratta, certo, di parafrasi, ma di parafrasi talmente vicine al testo liviano che vi è coincidenza quasi perfetta tra i due autori che citano, peraltro reciprocamente indipendenti. Orosio impiega sia la parola «monumentum» che la parola «CUra». In Seneca «moflumentum» compare già prima dell'espressione «sicut Titus Livius ait», mentre «cura» figura dopo. Dunque Seneca sta citando Livio già prima di evocare il nome dello storico. 9 Cfr. l'apparato ad loc. in Pauli Orosii Historiarum adversum paganos libri VII[ ... ] recensuit [... ]C. Zangemeister, Vindobonae, apud C. Geroldi filium Bibliopolam Academiae, 1882 e in Orose, Histoires (Contre /es Paiens), Il, Livres IV-VI. Texte établi et traduit par M.-P. Arnaud-Lindet,
Paris, Les Belles Lettres, 1991.
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Ma la parafrasi da Livio fin dove prosegue? È ragionevole pensare che la frase immediatamente successiva («non in studium sed in spectaculum comparaverant») venga anch'essa da Livio. Nelle nostre edizioni, il frammento 52 Weissenborn-Mi.iller dovrebbe dunque essere un po' più abbondante. 10 Come s'è appena visto, ci sono i materiali per rimpolparlo. Livio parlava della distruzione fortuita di 40.000 volumi, ma aggiungeva anche altri dettagli: a) questi volumi, provenienti dalle collezioni regali, si trovavano eccezionalmente («forte», come dice Grosio) nell'arsenale di Alessandria, proprio vicino ai depositi di grano (è Dione Cassio il più esplicito su questo punto); b) questi volumi erano degli oggetti «di lusso». L'insieme della tradizione «indiretta» dipendente da Livio permette dunque di concludere che nella pagina di Seneca un contesto molto ampio risente di ciò che Seneca trovava nel libro cxn (oggi perduto) di Livio. E si può aggiungere che Seneca ha compreso meglio degli storici cosiddetti «liviani» il senso di ciò che Livio diceva. 11 I 40.000 volumi destinati «all'ostentazione» («in spectaculum») si trovavano dunque, al momento dell'incendio, fuori posto. Essi erano fuori della biblioteca, accanto ai depositi di grano. Evidentemente, questo 10 Grazie alle altre fonti che provengon'J da Livio (Lucano, Bellum d· vile, x, 498-505; Floro, Epitoma de Tito J.ifJio, 11, 13, 59; Dione Cassio, Xl H, 38, 2) si possono fare progressi ulteriori. cfr. La biblioteca scomparsa, Pa·
!ermo, Sellerio, 1986, pp. 139-143. 11 Orosio, Floro, ecc. danno, di ciò cht: kgtevano in Livio, chi i'uno -:hi l'altro dettaglio.
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«gruppo fuori posto» dei tesori della Grande Biblioteca sarà stato destinato da Giulio Cesare a Roma: si trattava forse di un dono più o meno spontaneo da parte dei giovani Tolomei presso i quali Cesare era ospitato, nella fase iniziale e, per cosl dire, «calma» del suo soggiorno alessandrino. Si segnala, a questo proposito, nel passo di Seneca, la parola «opulentia», nel senso di «munificenza». Un'altra ipotesi possibile è che i volumi «fuori posto» fossero stati chiesti in prestito per essere copiati a Roma. (Una volta realizzata la copia, probabilmente si sarebbe verificato qualcosa di simile a ciò che Tolomeo III Evergete aveva fatto a suo tempo con gli esemplari ateniesi dei tre poeti tragici). Ad ogni modo, questi esemplari furono purtroppo danneggiati. Notiamo, infine, che non vi è nessuna contraddizione tra il racconto risalente a Livio e quello di Plutarco, dove Plutarco dice che l'incendio colpì la biblioteca ('t1ÌV J..LE'YaATIV ~t~A.toO'llKTIV OtÉ<j>OEtpe: Vita di Cesare 49, 6). Giacché il verbo greco Ota<j>Oeipro significa in primo luogo «danneggiare». 6. Fin qui abbiamo considerato la tradizione «indiretta» in quanto ausilio per la constitutio textus. Dal punto di vista della storia, la tradizione «indiretta» gioca un ruolo ben più ampio. Tradizione «indiretta» è anche l'instancabile lavoro--cii"traduzione condotto -senza interruzione, e a partire sin dai tem: prpHi!etJ;oti~d.a quando Esiodo «traduceva»· i suoi rnodeÌli niésopotamici fino alle traduzioni in greco degli autori «stranieri» di cui parla Tzetzes per l'epo43
ca alessandrina, per arrivare infine alle letterature dette «di traduzione» (la letteratura latina, e la letteratura araba del Medioevo). Considerando questa storia nel suo insieme, si riconosce che il passaggio da una lingua all'altra- sotto--forma di traduzione, di p~~ raf~~~i -0 di riscrittura creativa- è un fenomeno ininterrotto, che si svolge parallelamente all'altro grande fenomeno consistente nel lavoro di copia. La tràdizione è essenzialmente o traduzione o copia. L'una e l'altra, in maniera complementare, intervengono-n~T la co~stit~tio textus, ma il loro significato supera di ~aìi-h;;{ga il fine dell'edizione: esse sono la storia, sono le azioni costitutive della storia della civiltà scritta. Lo si vede bene nel caso dei Romani di fronte alla letteratura greca. Essi «traducono» in tutti i sensi che il termine suggerisce. Terenzio traduce Menandro; Lucrezio traduce Epicuro; Cicerone traduce Platone e Senofonte, e Demostene. Ma traduce liberamente, per c:_s~_~pio,_ quando componeil trattato Sulla natura degli dei: si potrebbe dire che in quel caso si pone verso le su~ fonti alla stessa maniera di Lucrezio nei confronti di Epicuro. E allo stesso tempo essi riflettono su ciò che significa «tradurre». Lucrezio alle prese con la traduzione di termini filosofici greci si lamenta della povertà del latino, mentre Cicerone si dice persuaso del contrario. La questione ha interessato Orazio, e ancora Seneca, e più tardi Girolamo. Quando gli arabi entreranno in contatto con i testi della tradizione greca, I:Iunain ibn Is~q scriverà un trattato Sulle traduzioni delle opere di
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Galeno. 12 E un secolo dopo l'enciclopedista-libraio Ibn al-Nadim consacrerà un libro del suo Catalogo (al-Fihrist) alla traduzione araba degli autori greci. 1~ La traduzione è un'attività che impegna sia il traduttore professionale sia l'artista. Costui - che si tratti di Cicerone, di Orazio, o di Teodoro di Gaza- si comporta in maniera diversa a seconda del suo fine. Come ha osservato Jean lrigoin, «i principi del traduttore differiscono a seconda che si tratti di una breve frase o di un dialogo intero come il Timeo». 14 Quando la conoscenza della lingua dell'autore che ci si impegna a tradurre comincia a indebolirsi, si instaura sempre più l'abitudine di tradurre «parola per parola»: cattiva abitudine che i grandi traduttori, da Cicerone a Girolamo, rifiutavano. Essa diventa la regola nel Medioevo latino. Anastasio bibliotecario (verso la metà del IX sec.) è uno dei rari conoscitori del greco a Roma. Inviato a Bisanzio, egli ha partecipato, in qualità di «osservatore», al cosiddetto ottavo Concilio ecumenico (869-870 d.C.). Incaricato, per ordine di papa Adriano II, della traduzione degli Atti del Concilio, Anastasio è in difficoltà: lo dice lui stesso nella prefazione della sua traduzione. 15 La soluzione che di12 Cfr. I.Iunain ibn IsJ:uiq, Uber di e syrischen und arabischen Galen- Obersetzungen, zum ersten Mal hrsg. und iibers. G. Bergstriisser, Leipzig, Brockhaus, 1925. 1 ' Ibn al-Nadim, The Fihrist. A lOth Century AD Surocy of Islamic Culture. Edited and Translated by B. Dodge, New York and London, Columbia University Press, 1970 [rist. 1998]. 14 ]. Irigoin, Tradition et critique des textes grecqucs, Paris, Les Belles Let· tres, 1997, p. 77. " Cfr. Patrolof!,ia !.atina, cxxrx, col. l Bb: «Rara practerca interpreti docriori incerpretanda serva vi».
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chiara di adottare è quella di tradurre, là dove non comprende bene, appunto parola per parola. La traduzione parola per parola di un passo che non si ècompreso diventa non di rado un monstrum. È un'illusione immaginare che questo tipo di procedimento permetta di recuperare, a causa della sua fedeltà ~J modello, un'immagine per cosl dire «fotografica; dell'originale. Anche traducendo parola per parola, il tradUttore- soprattutto quando non ha capito- interpt"édi conseguenza modifica, il suo modello. EgÙ, inoltre, commette ulteriori errori sulla base dell'erronea interpretazione. L'originale greco che Anastasio tradiiceva è perduto: fortunatamente si dispone di una cer· ta quantità di estratti di questo originale, cosa che ci permette di «sorprendere» più volte Anastasio in flagrante congettura.
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4 L'arte di ricavare
e::.tr~td
Il caso rj.cordato nel precedente capito:o ci conduce in un campo quasi illimitato della tradizione «indiretta»: i riassunti e gli estratti. Qui ricorderemo la Biblioteca-storica di Di~cioro Si~ulo, gii estratti costantiniani, la Biblioteca di Fozio. Questi veri e propri pilastri della nostra tradizione storiografica - ai quali si dovrebbe aggiungere il manoscritto Urbinate greco 102 degli estratti di Polibio- sono, in qualche misura, in rapporto l'uno con l'altro. Diodoro inaugura, come si dirà, il «libro-biblioteca»: 1 cosa r.he Plinio il Vecchio, sommo enciclopedista, gli riconosceva come grande merito. 2 La Biblioteca di Diodoro è essenzialmente un libro fatto sulla base di altri libri: per l'appunto i libri che Diodoro leggeva. È questo che significa il titolo dell'opera. La seconda parte della Biblioteca storica (i libri dal XXI al XL), che il dotto e grande patriarca Fozio (IX sec.) leggeva ancora per intero, è accessibile per noi unicamente grazie agli estratti che per un verso Fozio, per l'altro i collaboratori di Costantino Cfr. infra, cap. 7. Plinio, Stona naturale, praefatio, 25: «Apud Graecos desiit nugari Diodoru• et ~t~À.to9itK1lc; historiam suam inscripsit». Cfr. in/ra, cap. 7. 1
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VII (912-959) ne trassero. Accade talvolta che sia Fozio che gli epitomatori costantiniani si siano fermati sullo stesso passo: è proprio questo che permette a noi di apprezzare il loro lavoro di epitomatori. Si sa che gli estratti detti costantiniani sono raggruppati per rubriche. La porzione di testo compresa in ciascun estratto doveva presentarsi come un testo autonomo e concluso: molto spesso la prima frase è ritagliata in modo che essa divenga l'inizio di un piccolo racconto. Ciò significa che all'inizio di ogni estratto bisogna sospettare le maggiori modificazioni dell'originale, operate dall'epitomatore. Ognuno comprende ciò che questa «libertà» comporta dal punto di vista della constitutio textus. Fozio, invece, nei confronti dello stesso testo di Diodoro, non segue un tale procedimento: i suoi estratti sono ben più abbondanti; e, soprattutto, egli si attiene alla divisione in libri del suo modello. La stessa regola vale per gli estratti che egli ha desunto dalle Vite parallele di Plutarco. In questo caso possediamo l'originale, e il modo di lavorare di Fozio risulta immediatamente chiaro.
Diamo la parola, su questo argomento, a un critico che, alla fine del XVII secolo, ammirava enormemente Fozio come «autore di collezioni» (cioè, appunto, come epitomatore), e che ha consacrato un capitolo del suo Traité
de la lecture des Pères de l'Eglise ou méthode pour les lire utilement (Paris 1688) all'arte di raccogliere estratti. Mi riferisco a Noel Bonaventure D' Argonne, certosino e grecista. Il libro II, cap. xv del suo Traité comprende una
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panoramica storica sull'arte di raccogliere estratti, a conclusione della quale D' Argonne così inneggia al suo autore: «Ma la maniera migliore fra tutte è quella che Fazio ha attuato nella sua Biblioteca, dove dà conto di tutte le sue letture con grazia ed eleganza. Tutto lì è raffinato, tutto è piacevole fino all'indifferenza stessa con la quale egli dispone la materia[ ... ]. Questo libero viaggio produce una straordinaria varietà di erudizione che diletta e sorprende il lettore». D' Argonne, autore egli stesso di una Biblioteca in francese e di un'altra in latino, in cui ha trascritto fino a circa settemila estratti, suggerisce un procedimento che lui si augura degno di Fazio. E così infatti si esprime: Per imitare questo raro genio ecco pressappoco come si deve procedere. Bisogna annotare in una specie di diario il nome dell'autore che si è letto, la sua patria, le sue abitudini, la sua epoca, il numero e la qualità delle sue opere; e sebbene il carattere degli autori debba imprimersi nello spirito piuttosto che giacere sulla carta, è necessario tuttavia annotarne qualcosa; perché è a questo carattere, come ad un cardine, che si rapportano, per così dire, tutte le righe di un libro, e perché è da questo punto di vista che si scopre tutta l'arte e tutto il senso profondo della sua dottrina e dei suoi pensieri. 3 ' «Pour imiter ce rare genie, voicy à peu prés comment l'on s'y doit prendre. Il faut marquer sur un journalle nom de l'Auteur qu'on a h1, sa patrie, ses mceurs, son siede, le nombre et la qualité de ses ouvrages; et quoy que le caractere cles Auteurs doive s'imprimer dans l'esprit, plutost que se couchcr sur le papier, il en faut pourtant marquer quelque chose; parceque c'est à ce caractere comme à un centre, que se rapportent pour ainsi dire, routes !es lignes d'un Livre; et que c'est de ce point de veue qu'on découvrc tout l'art et tout le fonds de sa doctrine et de ses pensées».
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Abbiamo evocato D'Argonne non soltanto a causa della schietta ammirazione che questo dotto certosino merita, 4 ma soprattutto per la sua interpretazione originale, e strettamente filologica, della Biblioteca di Pozio. Nello stesso anno in cui D'Argonne pubblicava il suo Traité un libro ben più rinomato usciva a Lubecca: il Polyhistor di Daniel Georg Morhof. Là, in un capitolo assai pungente, consacrato al dotto gesuita Possevino, autore della celebre Bibliotheca selecta, Morhof ha formulato, per la prima volta, l'idea che la Biblioteca di Fozio sarebbe l'equivalente dei moderni «giornali», o meglio «riviste letterarie» (journaux). 5 È a partire da Morhof, la cui autorità era grande in Germania alla fine del XVII secolo, che Constantinus Wolff {o forse il ghost-writer, il grecista Conrad Samuel Schurtzfleisch, che si nasconde dietro di lui) ha lanciato la formula che figura come titolo principale della sua dissertazione dottorale: Photius ephemeridum eruditorum inventor {Wittenberg 1689). 6 A partire da Wolff, che ha avuto la fortuna di essere letto e discusso dai giornalisti gesuiti dei «Mémoires de Trévoux», l'interpretazione della Biblioteca di Fozio come inizio del giornalismo letterario si è largamente diffusa. Essa è codificata nell'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert, 4 Su Noel Bonaventure D'Argonne cfr. La Biblioteca del Patriarca, Roma, Salerno Editrice, 1998, pp. 94-165. 1 D. G. Morhof, Po~vbisior sive de notitia auctorurn et rerum commentarii, Lubecae, Bockmann, 1688, p. l ì8. G Cfr. Marginaìia in edi:doni foziane del XV/l secolo, in Talking to the 1èxt: Marginaliafrom Papyri to Print (Erire, 26.9-3.10.1998), Università di Messina, 2002.
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alla voce ]ournal. L'interpretazione «filologica» di D' Argonne - apprezzata da Mabillon nel suo Traité des études monastiques (1692) - è invece rimasta nell'ombra. Fozio riappare nel lavoro filologico come capitale portatore di estratti solo più tardi, nel secolo XIX, grazie al rinnovato interesse per la storia dei testi. Vissuto nel IX secolo, Fozio è infatti testimone di una fase a suo modo unica della tradizione dei testi greci: egli è ancora in grado di raggiungere vecchi esemplari di autori noti e anche di autori ormai rari. Esemplari che talvolta rispecchiano uno stadio più arcaico della forma materiale dei libri e, perciò, anche della storia tes~uale delle opere che quei libri contenevano. 7 Ed è dunque indotto, in alcuni casi, a tentare una sua ricostruzione della storia di alcuni dei testi che è riuscito - come si esprime a «ritrovare». Ma non è certo il primo a tentare l'impresa. In questo genere di ricostruzione si erano già cimentati ben prima di lui studiosi, che avevano avuto la ventura di vivere nel tempo in cui il mondo cambiava, e con esso anche i libri.
' Sul nesso storia del libro-storia del testo cfr. infra, cap. 6.
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5 Storie di testi raccontate dagli antichi
Libanio, il paterno amico dell'imperatore Giuliano (IV sec. d.C.), merita un posto di rilievo fra gli studiosi di storia della tradizione. Una sua pagina potrebbe ben figurare in un collettivo Texts and Transmission sugli autori greci. Ecco come Libanio lavora sulla storia del testo demostenico e ne ricostruisce una tappa importante. Si tratta di un capitolo dell'opuscolo Argomenti delle orazioni demosteniche, quello dedicato al discorso Su Alonneso (VIII, pp. 618-620 Forster). Questo discorso è intitolato Su Alonneso, 1 ma forse sarebbe più giusto intitolarlo Risposta alla lettera di Filippo. 2 I fatti sono questi: Filippo aveva inviato una lettera agli Ateniesi. Essa affrontava molti argomenti, tra cui la questione di Alonneso. Alonneso era un antico possedimento ateniese, ma all'epoca era in mano ai pirati. Filippo era riuscito a scacciarli; ed ora, alle richieste ateniesi di restituzione dell'isola, ri1
Questo titolo, dovuto a Callimaco (fr. 443 Pfeiffer), l'unico a noi noto
dalla tradizione antica, figurava anche nei manoscritti adoperati da Libanio. 2 Con la sua osservazione iniziale, Libanio si mostra consapevole del carattere non d'autore dei titoli correnti delle orazioni demosteniche. E così anche Dionigi di Alicarnasso (Demostene, 13), vari secoli prima di Libanio, e tre secoli dopo Callimaco.
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sponde che lui non intende restituir/a giacché l'isola è sua, ma che se gli Ateniesi gliela chiedono è pronto a donargliela. Il discorso però non mi sembra essere di Demostene. Lo dimostrano la lingua e la sintassi, che sono di gran lunga al di sotto del modello demostenico. In questo discorso lo stile è fiacco e slegato, in netto contrasto con lo stile demostenico. Per esempio quello che si legge proprio a conclusione del discorso costituisce una prova non trascurabile della sua inautenticità: Se voi avete il cervello tra le tempie piuttosto che sotto i talloni. Giacché, certo, Demostene è solito parlare con molta franchezza, ma questo modo di esprimersi è intollerabile: è pura e semplice ingiuria che travalica ogni limite. E poi l'espressione è molto piatta: per non dire che è sciocco immaginare che gli uomini abbiano il cervello tra le tempie! I critici più antichi sospettarono che questo discorso non fosse di Demostene; e anzi alcuni scoprirono che esso è da attribuirsi ad Egesippo: 3 non solo sulla base di indizi stilistici (è suo quello stile), ma anche in base ai dati di fatto. Chi ha scritto questo discorso, infatti, sostiene di aver presentato un'accusa di illegalità contro Callippo di Peania: orbene risulta4 che non fu Demostene ma Egesippo a presentare la denunzia contro Callippo. A questa constatazione si potrebbe obiettare quanto segue. Il discorso di cui ci stiamo occupando suggerisce agli Ateniesi, per quanto attiene all'isola di Alonneso, di riprenderse/a, non già di ricever/a (in dono). E su questa questione di parole sottilizza. Orbene Eschine5 sostiene che proprio Demostene si era espresso in tal modo.
4
Oratore seguace di Demostene (cfr. Tma Filippica, 72). Evidentemente da documenti di cui quegli «antichi critici» disponevano.
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Contro Ctesifonte, 83.
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Già, ma questo cosa dimostra? È del tutto possibile che la medesima formulazione l'abbiano adottata sia Demostene che Egesippo. Del resto militavano in politica dalla stessa parte e si opponevano entrambi agli oratori filomacedoni: è proprio Demostene che fa menzione di Egesippo come suo compagno di ambasceria e avversario del re macedone. 6 Dunque è evidente che il discorso che anche Demostene aveva pronunziato sulla questione di Alonneso non si è conservato, e che appunto perciò, in assenza di quel discorso, (gli editori postumi della raccolta) inserirono7 come demostenico il discorso che si era conservato e che essi scovarono. La base per tale fraintendimento fu che, comunque, Demostene era intervenuto su questa questione: ma quei postumi editori non si posero il problema se fosse proprio questo il suo discorso.
Libanio discute in questa pagina un rilevante problema di attribuzione, che coinvolge l'intero corpus dei discorsi demostenici ed implica una visione del modo in cui, all'origine, la raccolta si era formata. Esso riguarda uno dei pochi discorsi politici superstiti e la eventualità di toglierlo a Demostene, nonostante l'uso corrente di includere lo spurio Su Alonneso nella raccolta demostenica. Il problema di autenticità gli appare risolubile solo se proposto in termini di storia del testo: solo figurandosi il modo di procedere degli ediTerza Filippica, 72. Questa espressione mostra chiaramente che Libanio pensa ai curato· ri posrumi della raccolta demostenica; li immagina al lavoro sulle carte di Demostene, tra le quali- ovviamente- c'erano carte di alleati politici che rischiavano di essere attribuite al leader. 6 7
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tori postumi del corpus demostenico ci si può avvicinare alla soluzione. Peraltro il puntello della dimostrazione è nel fatto che alcuni critici sostenevano di aver trovato una prova di carattere documentario. Libanio adopera in proposito una espressione che denota la passione dell'indagatore: dice che quei critici avevano «sorpreso sul fatto» (n:ecpropax:am!) la pertinenza di quel discorso ad Egesippo. Ma la fonte era un decreto attico? È da chiedersi dove si fosse conservato: forse in repertori come quello di Cratere il Macedone. O, forse, il dato si ricavava da altre orazioni attiche che non abbiamo più. Sta di fatto che, nella tradizione antica, il polemico gioco di parole riprendere/ricevere era considerato, in riferimento alla controversia su Alonneso, peculiare di Demostene. Ateneo8 e Plutarco9 citano dei versi del comico Antifane, contemporaneo di Demostene, in cui direttamente Demostene viene chiamato in causa, e probabilmente deriso, proprio in quanto auctor di quella disputa nominalistica. Evidentemente Demostene aveva lanciato quella «parola d'ordine» e i suoi gregari, come appunto Egesippo, la ripetevano nei loro interventi assembleari. Se l'attribuzione ad Egesippo dell'accusa per illegalità contro Callippo di Peania era fondata su di una base documentaria (ciò che il verbo 7ttcpropax:am, adoperato da Libanio, sembrerebbe suggerire), allo8 9
Dt!ipnosofisti, VI, 223d-c::. Vita di Demostcne, 9, 5-6.
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ra la domanda da porsi è: come mai non sia bastata una prova oggettiva per togliere definitivamente a Demostene, e al corpus demostenico, quel discorso. Ma la cosa non deve stupire: il meccanismo della tradizione antica è, sotto questo rispetto, sommamente conservativo. Un altro esempio, tratto anch'esso dal corpus demostenico, è indicativo. Da quando fu scoperto il papiro di Didimo (P. Berol. inv. 9780, col. XI, 10-14), sappiamo che l'undicesimo discorso (Risposta alla lettera di Filippo) veniva considerato «inautentico» da alcuni con l'argomento - irresistibile se veridico- che quel discorso ricorreva tal quale, verbatim, nel VII libro delle Storie Filippiche di Anassimene di Lampsaco. Quando Didimo riferisce questa come una delle possibili opinioni sulla pertinenza o meno di quel discorso alla raccolta ci sorprende alquanto. In lui la pratica di non rimuovere anche ciò che inoppugnabilmente risultava falso si spinge addirittura al punto di relativizzare, e presentare come una opinione tra le altre, quella che non poteva non apparirgli decisiva proprio per la sua dirompente forza fattuale. Nel meccanismo della tradizione dei testi passati attraverso i lunghi secoli che intercorrono fra Alessandria e il IV secolo d.C. !!_!!~_tale singolare simbiosi di acume critico e di feticismo del testo tramandato è la cai~i"iù~dstic-a dominante. Essa si combina spesso con una ·sopravvalutazione dèi criteri stilistici: nella pagina libaniana le considerazioni relative allo stile («Demostene non poteva scrivere cosÌ»!) si affiancano a 56
quelle fattuali (a rigore le sole ad avere valore), al punto che Libanio adopera quell'espressione così forte, e caratteristica della prova fattuale (m:cpropciKa.cn), anche per le considerazioni di stile. Queste vengono invece svilite, o almeno ridimensionate, cinque secoli dopo Libanio, dal massimo critico bizantino, il patriarca Fazio, nella cosiddetta Biblioteca. Al principio del capitolo della Biblioteca dedicato a Demostene (cap. 265), Fazio riprende puntualmente la riflessione critica di Libanio sull' Alonneso e la discute. Dopo aver riferito la considerazione di «alcuni» sullo stile «fiacco e slegato» di questo discorso, muove una obiezione alla sua fonte: lo stile non è un fattore immobile nella carriera di uno scrittore (49la12-21). «lo so - scrive Fazio -che discorsi di autori diversi presentano una grande affinità, mentre si constata che appartengono al medesimo autore discorsi assai diversi tra loro: infatti la creatività umana non resta né immobile né immutabile; il che vale in qualunque campo e dunque anche nell'arte del discorso». E perciò conclude che non se la sente di dire se Alonneso sia opera di Demostene o di Egesippo. Il modo in cui Libanio impostava la discussione ha sortito un effetto sconcertante: gli argomenti più importanti contro l'autenticità Fazio non li prende nemmeno in considerazione, a tal punto essi erano, da Libanio, equiparati agli altri. Per altro verso, Fazio porta un colpo molto serio ad un criterio tendenzialmente impressionistico quale quello stilistico. Ed introduce una
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considerazione «storica>> dello stile che ha probabilmente giovato al consolidamento dei corpora nella forma e nell'assetto, comunque discutibile, in cui l'antichità li aveva tramandati.
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Rotoli e codici
l. In un testimonio primario del testo demostenico, il Monacense greco 485, del x secolo, ricorre, nell'intitolazione degli ampi discorsi politico-giudiziari, anche il genitivo dell'autore (~TIJ.l.Ocr9ÉVouç). Per i due discorsi Contro Aristogitone il genitivo dell'autore ricorre solo alla fine del secondo. Per gruppi omogenei di orazioni brevi come i cinque simbuleutici (XIII-XVII), il genitivo dell'autore ricorre solo nella intitolazione comune all'intero gruppo. Il fenomeno si spiega pensando a diversi rotoli, ognuno dei quali col suo titolo librario: un rotolo per ognuno degli ampi «demòsioi», uno per i due discorsi Contro Aristogitone giacché il secondo è brevissimo, uno per i cinque simbuleutici. Nella copiatura su di un unico codice è accaduto che si sono conservati, tendenzialmente, anche gli elementi librari dei singoli rotoli, come appunto il nome dell'autore: elementi che avevano un senso e una funzione finché figuravano su supporti autonomi come i rotoli, ma che non ne hanno in un ormai unico e compatto codice. Un esempio di come si presentasse un rotolo di un oratore attico è il papiro londinese 132, che
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contiene tre discorsi di lperide coi titoli completi all' inizio e alla fine del rotolo. 1 È la ragione per cui il genitivo dell'autore è ripetuto all'inizio o alla fine (o all'inizio e alla fine) delle singole tragedie di Eschilo nel Laurenziano, o delle singole commedie di Aristofane nel Ravennate e nel Veneto;2 o dei singoli libri di Tucidide, Senofonte, Euclide, Archimede, Polibio, Diodoro, Dionigi (Antichità), Giuseppe Flavio, Diane Cassio ecc. Erano singoli rotoli che, col passaggio su codice, diventarono i libri. Livio attesta esplicitamente l'identità rotolilibri (x, 31, 10), Origene usa indifferentemente ì..oyoç e j3tj3ì..iov, per Fazio 'tOJlOl e ì..Oyot sono sinonimi: 3 «codex multorum librorum est; liber unius voluminis» (lsidoro, Etymologiae, VI, 13, 1). Una implicita conferma si ha nel caso di autori che hanno scritto e diffuso le proprie opere in epoche e in ambienti ormai caratterizzati dal codice. Accade cioè che, all'inizio e fine dei singoli libri, per esempio, della Storia Ecclesiastica di Eusebio, o di Sozomeno, o della Storia Nuova di Zosimo, o della Storia Ecumenica di Teofilatto Simocatta, o della Cronaca di Malalas, o della Alessiade di Anna Comnena, o della Cronografia di Michele Psello, o, in P. Lit. Lond. 132. Al principio si legge l'intestazione OI
TflEPEI
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Occidente, della Storia Ecclesiastica di Beda, non figura mai il genitivo dell'autore, ma c'è semplicemente l'indicazione «libro primo, secondo», ecc., o addirittura la semplice cifra alfabetica (spesso mal tramandata o erratica), proprio perché sono testi che in nessuna fase della loro storia sono stati trasmessi su singoli e autonomi rotoli col genitivo dell'autore all'inizio (e alla fine) di ciascuno. Nel manoscritto demostenico Parigino greco 2934 (S), il genitivo dell'autore (oltre che, isolatamente, all'inizio e alla fine del discorso Sulla corona, ai ff. 157v e 196v) appare dinanzi alla Prima Filippica (f. 12r). È un sintomo della collocazione di questo discorso in testa alle Filippiche- cioè in principio di rotolo -, che è l'ordinamento rispecchiato dalla raccolta dei Proemii. Una conferma è nell'intestazione generica ATJJlOcr9Évouç Ka'tà. tA.bmou, senza alcuna numerazione. Probabilmente il discorso era intitolato semplicemente a', e Ka'tà. tA.t1t1tO'U a' è diventato il titolo della cosiddetta Prima Filippica, quando questa non è stata più la prima nell'ordine. Ma proprio perché numerata a', è chiaro che stava in prima posizione: chi l'avrebbe numerata cosl se fosse stata preceduta da altre Filippiche? Se le intestazioni del Parigino e, soprattutto, del Monacense si spiegano come riflesso di una partizione in rotoli, si comprende anche perché i «demòsioi», di norma, non figurano nelle collezioni superstiti nello stesso ordine: evidentemente furono «fissati», nel passaggio su codice, in ordinamenti diversi. Non manca qualche criterio comune: per esempio il XXII discorso (Con61
tro Androzione) è in genere in prima posizione perché ritenuto primo in ordine di tempo; anche in altri gruppi di orazioni un criterio dell'ordinamento è quello cronologico. Le orazioni di minore estensione potevano, invece, essere raggruppate in un unico rotolo: un esempio è il superstite e ben conservato rotolo di Iperide, che comprende tre discorsi. 4 Il «primo rotolo» di una collezione dcmostenica di cui è traccia nel Parigino (al f. 29r) comprendeva sei Filippiche. I «simbuleutici» (XIII-XVII) erano in un unico rotolo, e perciò, nella tradizione, il loro ordinamento è stabile. 2. Il pass_agg~~
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P. Lit. Lond. B2: cfr. supra, n. l.
sordinarsi, con immaginabili inconvenienti. È la ragione per cui si tende a premettere un proemio ad ogni libro-rotolo (Lucrezio, Cicerone ecc.); è la ragione per cui Polibio e Diodoro usano incominciare un nuovo libro-rotolo con una breve prefazione, dove è indicato il numero d'ordine anche del volume precedente (Diodoro, n, 1: «
Patrologia Latina, xxv, coll. 139c-140c. Ms. Vat. Lat. 3226. 7 Cfr. M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der romischen Literatt4r bis zum Gesetzgebungswerk des Kaisers ]ustinian, l, Miinchen, Beck, 1927, pp. 106107; le commedie di Terenzio erano in tutto sei: cfr. ibid., p. 103. 8 Birt, Das antike Buchwesen, p. 376. 6
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3. In epoca di rotoli, scompaiono singoli libri; quando invece a scomparire sono i codici, scompaiono blocchi di libri consecutivi. Dell'opera polibiana, in 40 libri, sono superstiti i primi 5. Di quella di Diodoro, anch'essa in 40 libri, sono tramandati I-V e XI-XX. Di Appiano sopravvivono un pezzo del libro I, i libri VI-IX (mutilo in fine), i libri XI-XV e inoltre XVI e XVII. Degli 80 libri di Dione Cassio la collezione superstite è XXXVIUt (il XXXVI mutilo in principio). Questi fenomeni si possono spiegare immaginando codici di 5 libri ciascuno: di Polibio sopravvisse solo il primo; di Diodoro andarono perduti il secondo (libri VI-X) ed i quattro che contenevano la seconda parte dell'opera (XXI-XL); di Appiano è sopravvissuta per intero soltanto la pentade XI-XV; il primo dei codici superstiti di Dione conteneva i cinque libri XXXVI-XL. Analogamente: i dieci libri dell' Historia Alexandri di Curzio Rufo sono mutili all'inizio e fine e al passaggio dal v al VI, riflesso di due codici di 5 libri ciascuno, con danni iniziali e finali; degli Anna/es di Tacito si sono conservati nel Laurenziano 68, l i libri I-V (mutilo in fine) e VI (mutilo in principio), nel Laurenziano 68,2 i libri XI (mutilo in principio)-xv + XVI; delle Historiae si sono conservati, nel Laurenziano 68,2, i libri I-V (mutilo in fine). Di Eschilo e di Sofocle sono tramandate 7 tragedie, di Plauto 21 commedie; un ramo della tradizione aristofanea (il Veneto) 9 dà solo 7 delle 11 commedie su9
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Mare. Gr. 474: cfr. supra, n. 2.
perstiti. Si può pensare a codici comprendenti ognuno sette pezzi: ne sopravvissero uno per Eschilo, Sofocle, Aristofane (Veneto}, e tre per Plauto. Per Aristofane si era salvata anche una collezione più ampia, con un diverso raggruppamento. 4. Nel IX secolo, Fozio registra casi di opere in vari codici, di cui alcuni - per lui - non reperibili. Sembrerebbe essere il caso dell'opera storica di Memnone: infatti Fozio mostra di conoscere soltanto i libri IX-XVI e si duole di non disporre dei libri l-VIII e dal XVII in avanti: lamenta perciò la mancanza di gruppi di libri, presumibilmente raggruppati in «codici». La mancanza, nella tradizione superstite, di gruppi di libri - e non di singoli libri come al tempo di Diodoro - sarà dovuta al passaggio dal rotolo ( = un libro) al codice: scompare un codice, scompare un gruppo di libri, un blocco di libri consecutivi. Naturalmente i raggruppamenti sono vari. Quello per cinque sembra essere stato frequente, in un determinato momento, per gli storici, forse per influsso di testi molto autorevoli come quello liviano (dopo i primi cinque libri c'è un nuovo proemio). Le notizie bibliografiche di Fozio - il quale dà spesso, per le opere che descrive, il numero dei libri e quello dei codici - attestano anche altri raggruppamenti: l'opera di Appiano, Fozio la trovava «in tre codici e ventiquattro libri» (Biblioteca, cap. 57, 15b2122), cioè, probabilmente, in tre codici di otto libri ciascuno; anche per Clemente Alessandrino, Fozio cono65
sce una edizione in tre codici, di cui il primo e il terzo comprendevano otto libri e il secondo tre; 10 e dell'opera storica di Memnone, come si è detto, leggeva solo gli otto libri dal IX al XVI, e precisava di non essere riuscito a trovare né i primi otto né quelli dal XVII in poi. 11 Ha scritto Paul Maas: «È in generale difficile asserire di qualsiasi opera [della letteratura greca] che sia andata perduta nel Medioevo. I bizantini stessi sono in questo caso estremamente avari di asserzioni». 12 Il silenzio dei bizantini è del tutto comprensibile: Fozio può constatare la mancanza di un'opera (o di una parte di opera), ma difficilmente avrebbe potuto affermare che l'opera non fosse più in circolazione. Piuttosto, un indizio lo fornisce, talvolta, proprio lo stato di conservazione di alcuni testi: il «buco» dei libri VI-X nella tradizione di Diodoro e la scomparsa di tutti i codici polibiani tranne il primo (libri I-V) si saranno prodotti quando ancora quelle opere erano tramandate in codici di 5 libri ciascuno. "' Biblioteca, cap. 109, 89a6-7; 110, 89a41; 111, 89bl0-ll. 11 Biblioteca, cap. 224, 222b2-3 e 240a9·11 12 P. Maas, Schicksalc derantiken Literatur in Byzanz, trad. it. di Giorgio Pasquali, Sorti del!tJ letteratura antica a Bizanzio, in Storia delltJ tradizione e critica del testo, Firenze, Le Monnier, 19522 , p.-489. Maas riscrisse e ampliò gli Schicksalc (apparsi nel 1927 come appendice al I volume della terza edizione di Gercke-Norden, Einlcitung) per la seconda edizione della Storia pasqualiana. Di questo rifacimento, apparso unicamente nella traduzione italiana di Pasquali, non dà notizia W. Buchwald nella raccolta delle K/eine Schriften di Paul Maas, Miinchen, Beck, 1973, pp. 238 e 686.
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Un codice liviano del v secolo- il Parigino latino 5730- conteneva l'intera terza decade (ora ha per intero i libri XXII-XXIX e frammenti del XXI e del XXX). Un altro codice liviano dello stesso secolo - il Vindobonense latino 15 - tramanda solo i 5 libri dal XLI al XLV, ma la subscriptio al termine di quest'ultimo mostra che il codice, quando non era mutilo, comprendeva l'intera decade. 13 E, poiché il testo liviano presenta un «buco» di dieci libri (XI-XX), si può pensare che sia andato perduto un codice di ampiezza analoga ai due superstiti. Né si poté rimediare: nell'ambiente, cioè, cui si deve la sopravvivenza del testo liviano non si trovarono esemplari che colmassero quel «buco», si disponeva di una collezione incompleta. La Suda (d 1239), che conosce una divisione «in decadi» (K:a.tà OOK:c:iòa.ç) della Storia Romana di Diane, riflette probabilmente una edizione costituita di codici con dieci libri ciascuno. 14
u Cfr. la praefatio di C. Giarratano a Tivi Livi ab Urbe condita libri XLIRomae, Typis Regiae Officinae Polygraphicae, 19372 , p. 10. 14 Sul nesso tra forma del libro e storia dei testi, cfr. Conservazione e perdita dei classici, Padova, Antenore, 1974. XI-V,
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Il libro-biblioteca
È il libro che vuole racchiudere, se non tutto il sapere, almeno molta parte di esso, e finisce con l'essere fruito come libro unico e autosufficiente. Per lo meno a partire da Isidoro di Siviglia (VII sec.), i due esempi capitali di librobiblioteca sono la Bibbia e Omero. Nell'enciclopedia di !sidoro, intitolata Etymologiae, la trattazione De bibliothecis si apre appunto con la dichiarazione: «Bibliothecam Veteris Testamenti Esdras scriba post incensam Legem [... ] divino afflatus Spiritu reparavit» (VI, 3, 2). La prima «biblioteca» è dunque il Vecchio Testamento, che Esdra riscrive, dovutamente ispirato, «post incensam Legem». Subito dopo, Isidoro passa all'altro esempio: «Presso i Greci»- che vengono messi in secondo piano in una successione non solo cronologica, ma assiologica- «si ritiene che il primo ad aver allestito una biblioteca ad Atene fosse Pisistrato, tiranno ateniese: essa fu incrementata dagli Ateniesi. In seguito Serse, dopo l'incendio di Atene, trasportò questa biblioteca in Persia e, molto tempo dopo, Seleuco Nicanore la restituì ad Atene». 1 Dietro questa fra1 Isidoro, Etymologiae, VI, 3, 3: «Apud Graecos autem bibliothecam primus instituisse Pisistratus creditur, Atheniensium tyrannus, quam deinceps
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se c'è non molto più che la raccolta omerica: la notizia di Isidoro va infatti interpretata alla luce del De oratore di Cicerone, dove si legge che Pisistrato «mise insieme i libri di Omero con/usos antea, che prima erano in disordine». 2 Giorgio Pasquali, in una bella voce dell'Enciclopedia Italiana sulla storia delle biblioteche nell'antichità, si chiede assai sensatamente cosa potessero contenere le antiche biblioteche greche, prima di Euripide o prima di Aristotele, se non «qualche poema epico». 3 L'enfasi dei racconti tradizionali relativi a queste vicende va invece in senso opposto. Pisistrato ha raccolto, come Esdra i libri dell'Antico Testamento, i libri omerici, «confusos antea». Nella tradizione, egli diviene il creatore di una biblioteca pubblica, in quanto quel libro il corpus omerico- è esso stesso la biblioteca, cioè l'insieme dei libri da «reponere». E ciò determina lanascita della tradizione secondo cui l'Atene di Pisistrato disponeva di una biblioteca pubblica. Questa tradizione si ritrova, nella sua forma più compiuta, e «falsa», in un passo molto noto di Gellio (Notti attiche, VII, 17, l) dove addirittura Pisistrato è indicato come colui che ha per primo raccolto libri «ad legendum», cioè per favorire la pubblica lettura, con la finalità di diffondere le arti liberali: «Libros Athenis disciplinarum liberalium ab Atheniensibus auctam Xerxes, incensis Athenis, evexit in Persas, lon· goque post tempore Seleucus Nicanor rursus in Graeciam rettulit». 2 Cicerone, De oratore, III, 137: «Qui [scii. Pisistratus] primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus». l G. Pasquali, s. v. Biblioteca. Storia delle biblioteche. Antichità, in Enciclopedia Italiana, VI, 1930, p. 942.
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publice ad legendum praebendos primus posuisse dicitur Pisistratus tyrannus». Il seguito del racconto di Gellio coincide con ciò che leggiamo in Isidoro: Serse incendia Atene nel480 a.C., ma salva la biblioteca e la trasporta in Persia; Seleuco Nicanore (358-280 a.C.) restituisce ad Atene questa biblioteca - in realtà inesistente -. 4 È una tradizione che poi ha avuto una vitalità cospicua. Ancora un tardo commentatore di Demostene, Zosimo di Ascalona, o di Gaza (V-VI sec. d.C.), parla di una «biblioteca di Atene» esistente al tempo di Demostene. E sostiene che, quando (presumibilmente) Demostene era ancora giovane, la biblioteca sarebbe andata in fiamme, e il fuoco avrebbe distrutto anche le Storie di Tucidide; solo Demostene le ricordava a memoria per intero e le dettò, sicché il testo poté essere ricopiato. 5 Il «caso» Pisistrato mostra come, dal nucleo storicamente plausibile di un unico libro - il corpus omerico riordinato in epoca pisistratica, alla metà del VI secolo a.C.- si costituisca, in forma mitizzante, l'idea di una intera biblioteca che sta intorno a questa raccolta di libri. E diventa una tradizione di lunga durata, come mostra la testimonianza del grammatico Zosimo. 4 Prosegue Gellio C'lotti attiche, VII, 17, 1): « Deinceps studiosius accuratiusque ipsi Athenienses auxerunt; sed omnem illam postea librorum copiam Xerxes Athenarum potitus urbe ipsa praeter arcem incensa abstulit asportavitque in Persas. Eos porro libros universos multis post tempestatibus Seleucus rex, qui Nicanor appellatus est, referendos Athenas curavit». ~ Oratores Attici, ed. C. Miiller, II, Parisiis, Didot, 1858, p. 523.
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La tradizione grammaticale tarda si finge addirittura la biblioteca di Pisistrato strutturata a posteriori su quella di Alessandria: è il caso del cosiddetto anonimo di Cramer e di Melampode-Diomede. 6 Si legge nell'anonimo di Cramer: « Settantadue grammatici, al tempo della tirannide di Pisistrato in Atene, disposero in ordine i libri omerici, che in precedenza erano sparsi e in disordine». 7 I 72 grammatici sono il corrispettivo dei 72 traduttori del Pentateuco, che ben conosciamo dalla cosiddetta Lettera di Aristea (II sec. a.C.). Nella tradizione successiva, per semplificazione, essi diventano 70: ma sono 72 nella Lettera di Aristea e altrettanti negli autori che più fedelmente ne riprendono il racconto. Nell'anonimo di Cramer le fonti si mescolano: «i libri omerici che in precedenza erano sparsi» (0'7tOpOOTtV tò 7tpiv) è l'equivalente del «Confusos antea» di Cicerone. Siamo dunque di fronte a una testimonianza autentica, che si dilata sul modello alessandrino: si dilata non soltanto in questo dettaglio. Melantpode-Diomede riferisce infatti anche che Pisistrato lanciò un bando per trovare parti del corpus omerico in tutto 6 Il cosiddetto «anonimo di Cramer» è un nep't Kroj.LQ)Sl.aç di datazione non nota: cfr. Anecdota Graeca, ed.]. A. Cramer, l, Oxonii, E Typographeo Academico, 1839, p. 6 [ = Prolegomena de Comoedia. Scholia in Achamenses, Equites, Nubes edidit W. J. Koster, Groningen, Bouma's Boekhuis B. V., 1975, p. 43]. Con il nome Melampode-Diomede si indicano commentatori bizantini dell'An grammatica di Dionigi il Trace, probabilmente risalenti a un'unica fonte e talmente coincidenti da venire indicati come un unico autore. 7 «Kaitot tàç '0JJTJptKàç ÉjiOOJ!tlKOV't<X &Uo yp<XJ!J!<X'tlKOÌ Éln nnmatpato"U toiì 'AEITJvai.rov wpawo"U otÉEITJJCav oiltcooì a700p
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il mondo greco- la notizia è modellata, a posteriori, su T olomeo n che manda in giro a cercare libri per tutto il mondo greco - e nominò alcuni grammatici con il compito di riordinare questi materiali frammentari trovati per ogni dove, a costituire appunto quella raccolta nella forma in cui noi l'abbiamo. 8 È un conio fondato sulla tradizione amplissima, che leggiamo in fonti tardive (Giovanni Tzetzes, lo stesso anonimo di Cramer, ecc.), relativa ai grammatici che ad Alessandria prendono «in cura» le varie raccolte di testi. Intorno al nucleo originale del corpus omerico che Pisistrato ha fatto costituire si crea dunque una realtà che molto rassomiglia a quella della Biblioteca alessandrina. Questa tradizione è stata a lungo vitale. Proiezioni tardive si ritrovano ancora addirittura in tempi a noi vicini. Pensiamo ad un testo sui generis: le didascalie degli affreschi del Salone Sistino in Vaticano. Qui il programma iconografico che illustra le grandi biblioteche della storia parte dalla biblioteca ebraica: «Esdras sacerdos et scriba bibliothecam sacram restituit»; il sa8 Melampode-Diomede, pp. 29-30 Hilgard (Grammatici Graeci, I/3, Lipsiae, Teubner, 1901, pp. 29-30): «Ad un certo momento i poemi omerici perirono in seguito a incendio o diluvio o terremoto; i libri si dispersero qua e là e furono distrutti. In seguito ci si trovò chi in possesso di cento versi di Omero, chi di mille, chi di duecento, chi di un altro numero di versi; una poesia di tale valore stava per cadere in dimenticanza. Ma un certo Pisistrato, stratego ateniese, desiderando guadagnare fama per sé e far rivivere la poesia di Omero, escogitò il seguente piano. Mandò araldi in tutta la Grecia per ordinare a chi possedeva versi di Omero di portarli a lui [ ... ]. Quando ebbe raccolto tutti i versi, Pisistrato convocò settantadue grammatici, con il compito di mettere in ordine ciascuno per conto proprio i versi di Omero».
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cerdote e scrivano Esdra ripristinò la biblioteca sacra; cioè, appunto, i libri dell'Antico Testamento che sono la Biblioteca sacra. Seguono gli affreschi che raffigurano la Biblioteca babilonica, la Biblioteca ateniese, la Biblioteca alessandrina, la Biblioteca di Cesarea, ecc. La tradizione del libro che racchiude in sé tutto e che diventa una biblioteca esso stesso, come nell'esempio ora illustrato, si traduce in una scelta culturale, in una scelta consapevole, grazie alle opere che adottano la parola «biblioteca» nel loro titolo. Se si esclude il caso di Apollodoro di Atene (noi abbiamo, in realtà, non Apollodoro, ma una tarda compilazione), il libro più celebre che porta questo titolo è la Biblioteca storica di Diodoro di Sicilia (I sec. a.C.). Quel titolo meritò un elogio da parte di Plinio il Vecchio (I sec. d.C.), nella prefazione alla Storia naturale. (È, tra l'altro, un caso piuttosto raro in cui il titolo dell'opera, chiamata da Plinio appunto« Biblioteca», è attestato da una fonte antica molto vicina, più tarda di appena 70 anni). Scrive Plinio: «Apud Graecos desiit nugari Diodorus et ~t~A.to91\1Cllc; historiam suam inscripsit» (praefatio, 25): 9 il primo a dare un titolo serio a un'opera greca fu Diodoro, perché «~t~A.to91\KT\c; historiam suam inscripsit», adoperò come titolo della sua opera storica la parola « biblioteca». Il fatto che Diodoro desse quel titolo alla sua opera fu dunque, secondo Plinio il Vecchio, un tratto di serietà. Quel titolo era un titolo onesto, che non ba9
Cfr. anche supra, cap. 4, n. 2.
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rava e anzi dichiarava apertamente la natura dell' opera: il paragone implicito era con la pretenziosa e talvolta vacua storiografia ellenistica («apud Graecos»). Plinio sembra dare l'avvio ad una tradizione esaltatoria di questo tipo di scelta - quella di Diodoro -, che si ritrova «codificata» in Eusebio. In un passo del Chronicon noto nella versione armena [della quale si dà qui la traduzione latina] Eusebio scrive: Age nunc ad alterum quoque harum rerum testem transeamus, Diodorum videlicet, qui onines bibliothecas in unum idemque emporium summatim collegit. Passiamo ora ad un altro testimonio di questi eventi, cioè Diodoro, il quale raccolse nel suo libro come in un unico emporio, in un'unica rivendita, in un unico deposito commerciale, tutte le bibliotcche. 10
Questa formulazione denota la consapevolezza del fatto che l'opera di Diodoro è un libro di libri. Diodoro è un autore che avrebbe fatto indignare Polibio, ove Polibio non fosse vissuto molto prima di lui, perché incarna il tipo di storico che Polibio disprezza: lo storico che va in biblioteca (per Polibio lo storico deve essere un protagonista, deve vedere i fatti direttamente, essere un politico, un generale: per lui, quindi, lo storico vero è Tucidide, o lui stesso, naturalmente).U È buffo che, secondo Girolamo, Commento a Daniele, «Polybius et Diodorus [ ... ] bibliothecarum scribunt hi10
Eusebio, Chronicon, p. 283 Schéine.
11 Polibio, XII, 27, 4-5.
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storias»: 12 «Polibio e Diodoro scrivono storie che sono biblioteche», che cioè sono raccolte di altre opere o epitomi o riassunti di esse. Giudizio in parte iniquo nei confronti di Polibio, perché, almeno per un certo tratto - che per Polibio era quello più importante -, la storia che lui racconta è sicuramente una storia vista, non una storia letta: sarà una storia letta la Prima punica, ma certamente non Numanzia. « Omnes bibliothecas in unum idemque emporium summatim collegit», scrive Eusebio. Nel caso di Diodoro, per la parte che si è conservata, è anche possibile stabilire con una certa approssimazione quali sono gli autori che egli utilizza, talvolta nominati esplicitamente: ma è sicuramente ingiusta l'abitudine, invalsa nell'Ottocento, di considerare Diodoro una semplice riproduzione delle sue fonti, il che non è. Perché Plinio esprime quel giudizio, <>). Plinio elogia la scelta di Diodoro perché pensa a questo modello, lo stesso che lui ha realizzato. 12
Patrologia Latina, xxv, col. 570d.
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Il modello di libro-biblioteca di Diodoro, o, se si vuole, di Plinio, ha avuto grandissima fortuna nel pensiero dei moderni. Penso ad un autore che, nella vicenda dei nostri studi, è probabilmente il primo ad aver tentato di raccontare una storia della tradizione: Edward Gibbon. Gibbon «nasconde» questo schizzo della storia della tradizione nei capitoli LI e Llll della sua Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano. Nel capitolo LI, in particolare, Gibbon racconta criticamente la fine della Biblioteca alessandrina prendendo spunto dal racconto della conquista araba di Alessandria (22 dicembre 640) e dalle opinabili notizie intorno alla (presunta) distruzione dei libri all'epoca conservati nella antica capitale dei Tolomei. Egli rifiuta la tradizione nota allo storico arabo di origine egizia Ibn al-Qifti (XII-XIII sec.) secondo cui, al momento della conquista di Alessandria, la biblioteca andò in fiamme per una scelta oscurantista del califfo Ornar: il califfo avrebbe deliberato che, se i libri non sono concordi col Corano, non vale la pena conservarli; se sono concordi, ugualmente sono inutili perché sono tautologici. Contro questa tradizione, Gibbon argomenta che Ibn alQifti non è testimone attendibile, e che mancano fonti d'epoca che attestino la distruzione voluta da Ornar. 13 La distruzione della biblioteca di Alessandria fu, a suo modo di vedere, di molto anteriore. E di seguito osserva che, nonostante le distruzioni dovute al «decorIl E. Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire [1776-1788], trad. it. di G. Frizzi, Storia de/14 decadenza e caduta dell'impero romano, III, Torino, Einaudi, 1987, p. 2110.
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so dei secoli, i guasti dell'ignoranza e le calamità della guerra», dovremmo tuttavia rallegrarci, ricordando che le ingiurie del tempo e degli uomini abbiano risparmiato le opere dei classici, ai quali dal suffragio dell'antichità fu decretato il primo posto del genio e della gloria. I maestri del sapere antico [quali Galeno, Plinio e Aristotele], le cui opere ci sono pervenute, avevano letto e confrontato le opere dei loro predecessori; né abbiamo motivo di credere ragionevolmente che qualche verità importante, o qualche utile scoperta nell'arte o nella natura sia stata sottratta alla nostra curiosità. 14
È la visione più serena che si possa avere della tradizione, del modo della conservazione dei testi antichi: tantissimo si è perso, ma i grandi libri, che erano libri di libri - come dice Girolamo parlando di Diodoro e di Polibio -hanno operato per noi, hanno drenato e messo insieme quello che valeva la pena di conservare di un'intera civiltà scritta e scientifica. In sostanza afferma Gibbon - abbiamo quello che ci premeva avere del mondo antico. 15 Come è chiaro dall'indicazione «Galeno, Plinio e Aristotele», Gibbon pensa a opere di carattere enciclopedico, opere che si propongono o realizzano la sintesi di intere biblioteche. Per Plinio ne siamo informati in modo esplicito dal già ricordato elenco del libro I, un pinax preziosissimo; ma per Aristotele non sarebbe difficile tentare in modo sistema14 15
Gibbon, Storia, pp. 2111-2112. Cfr. infra, cap. 9. Cfr. in/ra, cap. 9.
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tico, soprattutto attraverso le opere di carattere storico-letterario, la ricostruzione della biblioteca alla quale lui fa riferimento e di cui ci dà il frutto. Cosi come i moderni sono soliti fare nel caso di Diodoro. Diodoro, in realtà, vive - diversamente da quello che poteva pensare Gibbon - in un momento in cui si comincia a percepire che qualcosa non c'è, che qualcosa si sta perdendo. Questa percezione si coglie in modo drammatico alquanto più tardi: colpisce il vederla affiorare già nel! secolo a.C. All'anno 359 a.C., Diodoro dà notizia di un autore per lui prezioso, lo storico Teopompo: egli riferisce che l'opera di Teopompo, relativa alle vicende di Filippo di Macedonia, iniziava appunto nel359 (105" Olimpiade) e constava di cinquantotto libri, «cinque dei quali, però, non si trovano più». 16 Il catalogo epigrafico della biblioteca del ginnasio di Taormina (Tauromenion) informa che quella biblioteca era fornita di libri di storia. 17 Ora, Diodoro- che, a parte il suo famoso viaggio ad Alessandria, viveva per lo più nella sua città- disponeva vicino casa, per cosi dire, di una biblioteca specializzata in opere storiche. La frase di Diodoro sulla perdita di cinque libri dell'ope16 Diodoro Siculo, XVI, 3, 8: «tci>v lìÈ cruyyp(X$Érov 9E6m>J.17toç ò Xìoç t1ÌV apxl)v tci>v 7tEpÌ Clli.At7t7tOV i.O"tOptci>v ÉVtEU!reV 7t0t T)O"~Oç yÉypa.+Ev ~ ÒKtÒ> 7tpÒç t
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radi Teopompo non significa dunque che in tutto l'orbe terracqueo non si trovavano più quei cinque libri di Teopompo: nell'ambiente dove lavorava, Diodoro ha potuto constatare che quei cinque libri non si trovavano, se ne duole e lo segnala. Colpisce, dal punto di vista della percezione delle perdite, che nove secoli più tardi il patriarca Fazio, nel capitolo della Biblioteca riguardante T eopompo, dia una notizia interessante e curiosa sul medesimo soggetto: «Abbiamo letto l'opera storica di Teopompo. Se ne salvano cinquantatré libri». 18 E cinquantatré vuoi dire cinquantotto meno cinque: quei cinque che Diodoro dice di non trovare più. Coincidenza piuttosto suggestiva, forse anche cogente. Prosegue Fazio: «Alcuni degli antichi sostengono che sono caduti il sesto, il settimo, il nono, il ventesimo e il trentesimo»: tali libri, quindi, erano caduti al tempo di questi «antichi». (In realtà, il greco imporrebbe forse di interpretare non il nono, il ventesimo e il trentesimo, ma il vigesimo nono e il trentesimo: in questo caso, però, i libri mancanti sarebbero quattro e non cinque). Fazio soggiunge: «Questi, in verità, non li ho visti neanch'io. Ma un certo Menofane, vissuto tempo fa, e veramente fededegno, tra t18 Fozio, Biblioteca, cap. 176, 120a6·14: «'Aveyvc00e1] 9Emt0!11tO'Il ~ yot lO"'tOpn:oi. N' 8È KaÌ y' EtO"ÌV Ot O"Qlç0!1EV0l <XÙ'tOU 'tC:ÒV lO"'tOptiCC:ÒV ì..Oyot . .dta7tE7ttWJCÉvat & JCaÌ tc:òv 1taÀOO.C:ÒV nvEç ~11aav n\v tE EJCt1]V Kaì É~00!11]V JCaÌ ~lÌ JCaÌ 'tiJv Éva't1]v Kaì EiJCoa'tiJv Kaì 'tiJv tptaJCOO"ttlV. 'A"J...ì..à tautaç llÈV ou~· 1Ì!1Etç E'i00!1EV, M1]VO~V1]ç & nç tà 7tEpÌ 0Eo7t0!17tO'\l ~tEI;tehv (àPXaì.oç & Kaì oUJC EUJCa'ta$p6v1]toç ò àvt1p), Kaì 'tiJv &00t:JCti't1]v O"'I>V~ta7tE7ttWICÉVm ÀÉ:yEt· JCaitot auti)V JÌ!1Etç tatç
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tando di Teopompo, sostiene che non si trovava neanche il dodicesimo». Oltre ai quattro o cinque nominati prima, Fozio segnala dunque un altro libro che, secondo una testimonianza «antica», si era perso: ma il libro XII Fozio l'ha letto, e lo riassume. Conclude, infatti: «Ma io ho potuto leggerlo insieme con il resto». Questo esempio mostra in modo concreto il carattere non universale delle perdite, e documenta la percezione settoriale di esse. Di Eugenio Grassi, sapiente allievo di Pasquali, si conservano e sono pubblicate le postille alla Storia della tradizione e critica del testo. Dove Pasquali si interroga sul problema dell' «archetipo», immaginando che nel Medioevo, in presenza di più esemplari della stessa opera, «se ne scegliesse e trascrivesse uno (per lo più il più facile)», Grassi postillò: «E chi faceva l'inventario dei manoscritti esistenti ?». 19 Domanda davvero calzante. Essa vale anche per epoche molto precedenti. Diodoro, uomo del librobiblioteca, che per primo sente il bisogno di mettere insieme tutto quello che si sa sulla storia per farne un punto fermo, testimonia anche che qualcosa si sta perdendo, ma che si sta perdendo lì, non necessariamen· te altrove. Come dimostra, nove secoli più tardi, la preziosa notizia foziana.
19 V. Bartoletti et al. (a cura di), Inediti di Eugenio Grassi, «Atene eRoma» VI, 3, 1961, pp. 129-165, e part. 151. La citazione da Pasquali in Storia della tradizione, p. 15.
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La biblioteca di Fazio
La Biblioteca di Fazio, oltre ad essere un caso macroscopico di tradizione «indiretta» (i capitoli 186280 in particolare), è anche un insigne esempio di libro-biblioteca. Essa comprende 280 capitoli, in cui sono studiate 386 opere, che si situano fra Erodoto e la generazione che precede immediatamente Fazio stesso. Le notizie variano dalla semplice menzione di un nome d'autore ad una analisi più o meno lunga, fino a sequele di estratti molto ampie. Gli autori e i testi che noi conosciamo unicamente grazie alla Biblioteca di Fazio sono molto numerosi. Colpisce che, già poco dopo Fozio, si erano persi i contatti con una parte considerevole di questa collezione. Paul Maas l'ha notato en passant, ma in maniera al solito penetrante, nel suo saggio prezioso intitolato Sorti della letteratura antica a Bisanzio: «Non è chiaro- egli scrive- a chi appartenesse la biblioteca di cui Fazio descrive una parte. [... ]Essa comprende numerose opere delle quali non ci informa nessun altro bizantino». 1 Poco dopo Maas adotta una definizione che dovrebbe far riflettere i moderni con1
Maas, Sorti, p. 488.
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vinti che Fazio avrebbe composto la sua Biblioteca «per il pubblico», che l'abbia cioè concepita come un libro destinato alla «pubblicazione». Maas scrive: «Tutta la descrizione, voluminosa com'è, fa l'impressione di appunti privati di un uomo intelligentissimo». I problemi che si impongono di fronte alla Biblioteca foziana sono essenzialmente due: a) l'origine della collezione di volumi di cui Fazio dà conto in modo estremamente ineguale nella sua Biblioteca; b) la scomparsa rapida di una parte di tale collezione. Gli «antichisti» puntano la loro attenzione sugli autori profani, soprattutto di epoca classica, che figurano nella Biblioteca. È una maniera erronea di accostarsi a questa grande opera la cui parte maggiore è strettamente teologica. La cosa sorprendente è la presenza, tra gli estratti messi insieme da Fazio, di numerosi scritti, nestoriani e monofisiti soprattutto, che non circolavano certo più a Bisanzio. 2 Al centro della mia ricostruzione della genesi della Biblioteca di Fazio vi è la «cerchia di lettori» operanti intorno a Fazio. Il IX canone dell'ottavo Concilio (869/70) - il concilio di cui s'è detto a proposito della traduzione di Anastasio 3 - attesta che una tale «cerchia» intorno a Fazio esisteva, e che essa era in funzione non solo all'epoca in cui Fazio era 2 Nestoriani: Teodoro di Mopsuestia, Diodoro di Tarso, Teodoreto e Giovanni di Egea. Il monofisismo del VI secolo è rappresentato da Teodoro monaco, Giovanni Filopono, Conone, Eugenio, Stefano Gobar. 3 Cfr. supra, cap. 3.
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ancora laico ma ancora durante il suo patriarcato. 4 Il Concilio che ha condannato Fozio (870) ha disperso questa cerchia, evidentemente malvista. E in una lettera indirizzata all'imperatore Basilio (nr. 98 Laourdas-Westerink) Fozio attesta che, nel momento in cui egli ha perduto il suo seggio patriarcale, i suoi libri sono stati confiscati. Niceta Paflagone conferma, e con molti dettagli, la perdita di cui Fozio si lamenta: egli precisa che «Sette sacchi di manoscritti» erano stati confiscati al momento dell'arresto di Fozio. 5 Ciò che noi chiamiamo «la Biblioteca di Fozio» (ma il titolo d'autore è ben diverso: «
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zio e i suoi sodali hanno salvato ciò che restava della superba collezione di libri probabilmente andata dispersa, quanto meno in misura considerevole. L'inventario che noi chiamiamo Biblioteca fu dtmque un originalissimo strumento volto a contrastare la persecuzione di cui Fozio fu vittima. La storiella che si legge nella lettera prefatoria (indirizzata a Tarasio, fratello amatissimo) non è che una finzione letteraria: «Fiktion», come la definiva Krumbacher. 7 Se l'ipotesi è corretta, il libro di Fozio- che non a torto fu intitolato dagli umanisti Bibliotheca o Btj3À.t0911Kl1 è un caso assai singolare di libro-biblioteca. Gli estratti che contiene riflettono una lettura collettiva che aveva avuto luogo molto tempo prima. Nel momento in cui si sono ricopiate le schede, per costituire il testo intitolato ad uso «esoterico» Inventario numerato dei libri letti da me, gli originali da cui gli estratti erano stati desunti non erano più disponibili, e forse non esistevano proprio più. Nei casi in cui possediamo anche gli autori da cui sono ricavati gli estratti (è il caso, ad esempio, di Giuseppe Flavio)8 si può notare che in realtà gli estratti non sono propriamente tali: essi sono frammisti di aggiunte e commenti. Vi si trova tutto ciò che si aggiungeva, magari al momento della lettura collettiva. Se nel caso di Giuseppe Flavio è 7 K. Krumbacher, Geschichte der byzantinischen Literatur, 12 , Miinchen, Beck, 1897, p. 519. La lettera prefatoria è conservata, prima dell'inizio del testo, unicamente nel Marciano Gr. 450 [A], e nelle sue copie. Cfr. Il Fo· zio ritrovato, Bari, Dedalo, 2001, pp. 428-432. 8 Cfr. J. Scbamp, Flavius ]osèphe et Photios, «}ahrbuch der Òsterreichischen Byzantinistik» 32/3, 1982, pp. 185-196.
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piuttosto semplice identificare queste inserzioni, là dove gli originali ci mancano si deve mettere in conto che si sia (o si possa essere) verificato qualcosa di analogo. Pertanto il caso, per così dire, più macroscopico di tradizione «indiretta», la Biblioteca di Fozio, ci appare- se si comprende bene la sua natura e la sua origine- come uno strumento di conoscenza prezioso e tuttavia pieno di insidie: una raccolta la cui stessa sopravvivenza costituisce di per sé un problema. E nella quale la natura di libro-biblioteca ad uso di una attiva cerchia erudita ha interferito radicalmente. O forse ha addirittura snaturato la sua funzione di mero deposito di tradizione indiretta.
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Un'idea alla Pangloss
«Molti fatti curiosi e interessanti sono sepolti nell'oblio, le opere dei tre grandi storici di Roma non ci pervennero che mutilate e manchiamo d'una quantità di bei passi della poesia lirica, giambica e drammatica dei Greci. Dovremmo tuttavia rallegrarci, ricordando che le ingiurie del tempo e degli uomini abbiano risparmiato le opere dei classici, ai quali dal suffragio dell'antichità fu decretato il primo posto del genio e della gloria. I maestri del sapere antico [quali Galeno, Plinio e Aristotele], le cui opere ci sono pervenute, avevano letto e confrontato le opere dei loro predecessori; né abbiamo motivo di credere ragionevolmente che qualche verità importante, o qualche utile scoperta nell'arte o nella natura sia stata sottratta alla nostra curiosità». 1
La leggenda consistente nell'immaginare la apocalittica distruzione di una biblioteca unica al mondo- quale fu la Biblioteca del Museo di Alessandria - al tempo della cosiddetta «guerra alessandrina» di Giulio Cesare (48-47 a.C.) è smentita, se non altro, dal fatto che Strahone vi ha lavorato durante il suo soggiorno in Egitto 1
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Gibbon, Storia, pp. 2111-2112.
(25-20 a.C.). Non solo vi ha lavorato, ma ha lasciato una descrizione del Museo nella sua Geografia (XVII, l, 8). In realtà la distruzione avvenne molto dopo. Al tempo del conflitto tra Aureliano e Zenobia di Palmira: durissimo conflitto, combattuto per le strade di Alessandria negli anni 270-275 d.C. Fu allora che, come si esprime Ammiano, Alessandria «perse il quartiere chiamato Bruchion, sede per lunghissimo tempo di studiosi dal nome prestigioso» (XXII, 16, 15). Ancora qualche decennio prima Ateneo di Naucrati, attivo alla fine del n secolo o all'inizio del III, sembra aver attinto ai tesori della biblioteca per dare corpo alla smisurata compilazione erudita che va sotto il nome di Sofisti a banchetto. V a da sé che tre secoli di esistenza in più comportano una assai più lunga presenza della biblioteca alessandrina sulla «scena» del complicato cammino della storia dei testi. Il fatto che Domiziano abbia mandato proprio ad Alessandria squadre di copisti perché allestissero libri necessari a ricostituire le incendiate biblioteche della città di Roma (Svetonio, Domiziano, 20)2 conferma non solo l'esistenza della biblioteca alessandrina ma, quel che più conta, la sua perdurante influenza nella storia dei testi nei primi secoli della nostra era. Vista nel suo insieme, la storia delle biblioteche antiche appare come una catena ininterrotta di fondazioni, distruzioni, ricostruzioni, catastrofi: come dominata dal2
Cfr. supra, cap. l, n. 8.
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la attrazione mortale tra il libro e il fuoco. Un filo invisibile sembra legare tutti gli sforzi che la civiltà ellenistico-romana fece per salvare i suoi libri: sforzi molteplici, ma alla lunga inefficaci. Tutto incomincia con Alessandria. Le altre non sono che riprese. Distruzioni, saccheggi, incendi immancabilmente colpiscono i grandi collettori di libri. Né fanno eccezione le biblioteche di Bisanzio. Quello che è rimasto a noi non proviene dunque dai tesori dei grandi centri - i più bersagliati - ma piuttosto dai «margini»: i nostri manoscritti sono in ultima analisi figli, o meglio pro-nipoti, di libri di privati. Gibbon approda alla conclusione: «Le ingiurie del tempo e degli uomini hanno risparmiato le opere dei classici ai quali dal suffragio dell'antichità fu decretato il primo posto». Egli trova conferma di questa sua diagnosi nell'ampio capitolo di Quintiliano, dove l'autore della Institutio oratoria presenta in modo circostanziato gli autori indispensabili (X, 1). «Ho letto spesso, e con piacere, un capitolo di Quintiliano nel quale quel giudizioso critico fornisce una lista ragionata e critica dei vari autori classici, greci e romani». Gibbon identifica, così, un altro principio regolatore della tradizione: si sono conservati questo egli suggerisce - gli autori le cui opere costituiscono un «bacino di raccolta» delle conoscenze fino a quel momento accumulatesi: quelli che abbiamo prima definiti «libri-biblioteche».3 E cita, come si è detto, tre nomi: Aristotele, Plinio il Vecchio, e Galeno, tre maestri - egli di' Cfr. supra, cap. 7.
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ce- «che avevano letto e confrontato le opere dei loro predecessori». Da questo punto di vista, il caso più evidente e più esplicito è quello della Storia naturale di Plinio, il cui primo libro contiene l'enumerazione di tutti gli autori, latini e non, che sono stati messi a frutto, da Plinio, in ciascuno dei libri seguenti. 4 D'altra parte Galeno, nel De placitis, non solo ci informa sulle sue letture ma sceglie anche di commentare alcuni tra i più importanti libri di Ippocrate. Galeno è forse il primo che adotta lo strumento del commento per diffondere un suo pensiero originale. E quanto ad Aristotele, è quasi superfluo ricordare qui l'ampio lavoro di indagine che è alla base dei suoi trattati: ha raccolto e sottoposto alla sua analisi le opere dei drammaturghi{ degli oratori, dei filosofi che lo hanno preceduto. E dunque, in certo senso, come se possedessimo, indirettamente, le biblioteche di lavoro di quei tre grandi. Per lo meno è questo che Gibbon intende suggerire. E certo il suo modo di connettere storia della tradizione e storia delle antiche biblioteche è ammirevole. Tuttavia, il bilancio che lui ne trae è un po' «alla Pangloss». Vi è in lui un ottimismo che ha qualcosa di teleologico: il che si avverte soprattutto nella sottovalutazione di quanto è andato perduto. Per comprendere dunque l'entità, le dimensioni del disastro, bisogna ancora una volta partire da Alessandria, dal suo esponenziale, quasi «inesorabile», processo 4
Cfr. supra, cap. 7.
89
di accrescimento. Basti pensare a due ambiti quasi completamente scomparsi: le traduzioni e i commenti. Una ricca tradizione, che non sarebbe sensato respingere in blocco, attesta che un settore considerevole della Grande Biblioteca era quello delle traduzioni: ne parlano Epifanio, Giovanni Tzetzes, Giorgio Sincello, Giorgio Cedreno. 5 Pfeiffer, nel primo volume della sua History o/ Classica! Scholarship, riconosce che alla base di questa tradizione affiorante in diversi autori vi è una fonte ellenistica bene informata: i dati sono coerenti, le cifre, forse, un po' fantasiose. Per esempio non sappiamo come valutare il dato presente sia in Giorgio Sincello che in Giorgio Cedreno, i quali parlano di «centomila rotoli» di traduzioni. Essi forniscono anche una lista dei popoli le cui opere vennero tradotte ad Alessandria, una lista che comprende anche i Romani (il che suscita qualche perplessità). Ma del fatto come tale è difficile dubitare. Quanto ai commenti, difficile azzardare delle cifre. E tuttavia qualche indizio c'è. Il superstite frammento del commento di Didimo a Demostene (P. Berol. inv. 9780) ci ha rivelato che quel commento comprendeva almeno 28 rotoli. Un indizio non trascurabile della nostra ignoranza in questo campo è venuto dalla scoperta di una lettera privata di un avvocato di Hermoupolis (P. Berol. inv. 21849). Essa ci ha rivelato l'esistenza di un commento a Demostene di cui non sapevamo nulla: quello 5 Epifanio, De mensuris et ponderibus, rr. 270·280 Moutsoulas; Giorgio Sincello, p. 327, 17·21 Mosshammer; GiorgioCedreno, I, p. 289, 18·24 Bekker; Giovanni Tzetzes, Prolegomena de comoedia Aristophanis, 2, 16·21 Koster.
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di Alessandro Claudio. 6 Ancora nel campo dei commenti. Una notizia di Diogene Laerzio ci dà una cifra sconcertante: un Clitomaco aveva composto un commento alle opere di Carneade che ammontava a circa 400 rotoli (Vite dei filosofi, IV, 67). E Temistio, nel discorso in cui esalta la nascente biblioteca imperiale voluta da Costanzo II, afferma- tra l'altro- che tra le opere «in pericolo», che potrebbero scomparire se non prendesse corpo la nuova istituzione, ci sono, in primo luogo, i commenti, in particolare i commenti a Omero e ad Esiodo. 7 Ma veniamo ad un campo dove la produzione letteraria è stata praticamente ininterrotta e geograficamente estesissima, fino a coincidere con l'estensione stessa del mondo greco e romano: la storiografia. In uno splendido articolo, vecchio ormai di un quarto di secolo, Hermann Strasburger ha sviluppato, in merito, alcuni calcoli. 8 Nella raccolta di FelixJacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker- egli osserva-, sono classificati circa 900 autori; i quali però non rappresentano che «un campione scelto a caso». E ancora: a giudicare da quel che sappiamo della estensione delle opere di cui abbiamo solo frammenti, si può stabilire che mediamente il rapporto tra conservato e perduto 6 Cfr. H. Maehler, Menander Rhetor and Alexander Claudius in a Papyrus Letter, «Greek, Roman, and Byzanrine Srudies» 15, 1974, pp. 305-311. 7 Temistio, Orazione IV, 60b. 8 H. Strasburger, Umbiick im Tri4mmer/eid der griechischen Geschichtsschreibung, in Historiographia Antiqua. Commentationes Lovanienses in honorem W. Peremans septuagenarii editae, Leuven University Press, 1977,
pp. 3-52.
91
è di l a 40. Rapporto che diventa molto più sfavorevole se si includono nel calcolo le opere scomparse sen-
za che ne sia rimasta alcuna traccia. Nel corso dell'analisi, Strasburger individua un paio di «leggi» della conservazione (e perciò anche della perdita) delle opere storiografiche in lingua greca. Qui mi piace riprenderle brevemente: a) tendenzialmente si conservano maggiormente le opere più tardive. E infatti dei primi cinquecento anni di storiografia in greco si sono conservati unicamente tre autori interi (Erodoto, Tucidide, Senofonte) ed un terzo dell'opera di Polibio. Invece del secondo semimillennio si sono conservati, in tutto o in larga parte, Diodoro, Dionigi di Alicarnasso, Strabone, Giuseppe Flavio, Pausania, Arriano, Appiano, Dione Cassio, Erodiano, per non parlare delle quasi per integro superstiti Storie ecclesiastiche. La maggiore «aspettativa di vita» dei testi nati più tardi si osserva, peraltro, anche fuori della storiografia; b) i compendi vengono preferiti agli originali. Gli originali (cioè le opere intere) erano, mediamente, di livello stilistico e intellettuale più elevato; data l'ampiezza erano più costosi da allestire; di conseguenza erano disponibili, e accessibili, essenzialmente o prevalentemente nelle grandi biblioteche. Peraltro, come s'è già detto, le collezioni librarie conservate in quelle pubbliche istituzioni si sono rivelate più vulnerabili (ed è ovvio: in una regione la biblioteca è una, i privati colti sono più d'uno). Dunque la loro scomparsa ha trascinato nella rovina anche una quantità di testi di alto livello, dei qua92
li appunto era in circolazione un limitato numero di esemplari. Gli esemplari da biblioteca andati distrutti non sono stati perciò, in tali casi, rimpiazzati da ciò che comunque si conservava presso lettori privati. (Se non nei casi appunto di quel pugno di autori «grandissimi» e comunque molto letti, dei quali Temistio- nel discorso ricordato prima - dà una interessante lista). Il «livello>> di quei testi ha determinato la loro rarità, e la loro conseguente perdita al momento dei disastri. Se c'erano dei compendi, almeno quelli si sono salvati. L'idea «panglossiana» di Gibbon si rivela dunque, alla conclusione di queste brevi note, piuttosto difforme rispetto all'andamento effettivo, alle vicissitudini, e alle sventure che hanno segnato la «storia dei testi».
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Indici
Uno speciale ringraziamento va a Margherita Losacco e Rosa Otranto per l'aiuto critico.
Indice degli argomenti
ANTICHE EDIZIONI molteplicità di «edizioni» delle opere antiche, 9-11, 25-26, 31 ANTICO TESTAMENTO come libro-biblioteca, 68 Esdra ne raccoglie i libri, 68-69 ARCHETIPO definizione, 29-31 è possibile ricostruirlo?, 30-33 «archetipo» e tradizione indiretta, 31, 35-37 vd. anche AUTOGRAFO O ORIGINALE ATTRIBUZIONE/AUTENTICITÀ
Su Alonneso nella critica antica, 52-58 Risposta alla lettera di Filippo, e commento di Didimo, 56 criterio stilistico messo in crisi da Fozio, 57-58 AUTOGRAFO O ORIGINALE critica del concetto di originale nella letteratura antica (e moderna), 9-14 distanza dell'autografo dalle copie, 23-24, 31-32 AUTORE non sempre solitario demiurgo, 11-14 BIBLIOTECA biblioteche antiche e conservazione dei classici, 87-89 prima biblioteca pubblica ad Atene e suo leggendario incendio, 6871 grandi biblioteche della storia nel salone Sistino, 72-73
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BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA
sua consistenza secondo gli antichi, 40-43 Gibbon ne racconta la distruzione, 76-77 incendio dell'arsenale di Alessandria, 39-43, 86-87 la biblioteca di Alessandria come modello, 71-72 BIBLIOTECARI
non esitano a disturbare il pubblico, 18 CITAZIONE
tecniche di citazione nell'antichità, 37-39 valore della citazione ai fini della constitutio textus, 35-38 citazione di testi non conservati, 39-43 CODICE
dal rotolo al codice, 62-63 le pentadi degli storici (Polibio, Diodoro, Appiano, Diane Cassio), 64-66 altri raggruppamenti: codici di otto libri, codici di dieci libri, 65-67 perdita di codici come perdita di gruppi di libri, 64-67 CONTAMINAZIONE
e circolazione libraria in età antica, 26-28 come tratto dominante della storia della tradizione, 27, 32 limita la possibilità di ricostruire un «archetipo», 31-33 COPIA
come appropriazione di un testo, 18-19 copia e plagio, 19 COPISTA
distanza cronologica dall'opera copiata, 23-24 copista come autore, 15-17 copista come lettore, 18 errori del copista nelle citazioni, 38 intervento del copista sul testo, 16-18, 20 DEMOSTENE
Su Alonneso: i critici antichi e la questione dell'autenticità, 52-58 formazione del corpus di Demostene, 13, 59, 61-63 diversi ordinamenti del corpus demostenico attestati da: Arpocrazione, 25 manoscritti conservati, 63
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ordinamento dei «demòsioi», 61-62 collocazione della Prima Filippica e sua intestazione in S, 61 le inscriptiones dei codici medioevali riflettono una antica partizione in rotoli, 59 secondo la tradizione, riscrive a memoria le Storie di Tucidide distrutte nell'incendio della biblioteca di Atene, 70 DIODORO SICULO
la Biblioteca storica come libro-biblioteca, 47 percezione delle perdite di testi in Diodoro, 78-79 ERRORE
l'errore come guida nella ricostruzione stemmatica, 29 tipologia dell'errore: errore meccanico ed errore concettuale, 20-21 EsTRATTI
estratti come forma di tradizione indiretta, 4 7 Excerpta constantiniana, 47-48 estratti nella Biblioteca di Fozio, 47-48, 84-85 riflessione dei moderni sugli estratti di Fozio, 48-51 FILOLOGIA
differenza tra filologia classica e filologia bizantina, 23 FOZIO
Biblioteca di Fozio: titolo, 83-84 prefazione come finzione letteraria, 84 originaria destinazione, 82 provenienza e perdita dei libri descritti nella Biblioteca, 81-84 presenza di scritti ereticali, 82 esempio di libro-biblioteca, 81, 84-85 esempio di tradizione indiretta, 81 inizio del giornalismo letterario, 50 collezione di estratti, 49-51, 84-85 cerchia di lettori operanti intorno a Fozio, 82-83 confisca dei libri di Fozio, 83 storico del corpus di Demostene, 57-58 GIBBON, EDWARD
sulla distruzione della biblioteca di Alessandria, 76-77 sua visione della tradizione e della conservazione dei testi, 77, 86, 88-89, 93
99
[NSCRIPTIONES E SUBSCRIPTIONES
come riflesso della partizione in rotoli, 59-61 nella tradizione del corpus demostenico, 59, 61 nella tradizione di lperide, 59-60 in opere mai trasmesse su rotolo, 60-61 INTERPOLAZIONE
come intervento del copista, 16-17 ISIDORO DI SIVIGLIA
ricostruisce una storia delle biblioteche antiche, 68 LIBANIO
storico del corpus demostenico, 52-55 LIBRO-BIBLIOTECA
summa del sapere, 68, 73 forma di salvataggio del sapere antico, 77, 88-89 Omero come libro-biblioteca, 68-70 Storia naturale di Plinio come libro-biblioteca, 89 Biblioteca storica di Diodoro Siculo come libro-biblioteca, 73-75 ORIGINALE vd. AUTOGRAFO PERDITA DEI TESTI ANTICHI
perdita di rotoli come perdita di singoli libri, 64 perdita di codici come perdita di gruppi di libri, 64-67 carattere «locale» della perdita in età antica, 78-80 PLAGIO
come forma estrema di lettura e di copia, 19-20 cataloghi di plagiari, 19 PLINIO IL VECCHIO
sul titolo della Biblioteca storica di Diodoro, 73-75 vd. LIBRO-BIBLIOTECA RIASSUNTI
come forma di tradizione indiretta, 47-48, 92 RoTOLI
ordinamento di edizioni e numerazione dei rotoli, 62 mobilità dei rotoli e formazione di corpora, 62-63
100
identità rotoli-libri, 60 funzione libraria dei proemi, 63 passaggio dal rotolo al codice, 59-63 suoi effetti sugli elementi librari, 59-60 suoi effetti sull'ordinamento dei corpora, 62-63 STEMMATI CA
suoi limiti, 28-33 STILE
come criterio nella tradizione delle citazioni, 38 come criterio di attribuzione per i critici antichi, 53, 56-58 TRADIZIONE
classica e bizantina: differenze, 23 diretta, 25-33 indiretta (quando appare prevalente), 35-37 indiretta e constitutio textus, 34-37 secondo Gibbon, 77, 86, 88-89, 93 TRADUZIONE
letterale, 45-46 forma di tradizione indiretta, 43-45 raccolta di traduzioni nella biblioteca di Alessandria, 90
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Indice dei nomi
Adriano II, papa, 45 Alembert, J.B. Le Rond d', 50 Alessandro Claudio, 91 Ammiano Marcellino, 87 Anassimene di Lampsaco, 56 Anastasio bibliotecario, 45, 46, 82 Anna Comnena, 60 Antifane, 55 Apollodoro di Atene, 73 Appiano, 64, 65, 92 Araros, 12 Archimede, 60 Aristea, 71 Aristofane, 11, 12, 60 e n., 65 Aristotele, 10, 13, 25, 37, 69, 77,86,88,89 Arnaud-Lindet, M.-P., 41n. Arpocrazione, 25 Arriano,92 Ateneo, 55, 87 Attico, 32 Aureliano, 87 Bartoletti, V., 80n. Basilio, imperatore, 83 Beda, 61 Bergstriisser, G., 45n.
Birt, Th., 60n., 63 e n. Blanck, H., 78n. Blass, Fr., 60n. Borges,].L., 15 e n., 16 e n., 17 e n., 21 e n., 24n. Brecht, B., 12 Buchwald, W., 66n. Callimaco, 52n. Callippo di Peania, 53, 55 Callistene di Olinto, 78n. Carisio, 38-39 Carneade, 91 Catullo, 22-23 Cervantes, M. de, 16, 17, 21 Cicerone, 30, 32, 44, 45, 63, 69 e n., 71 Clemente Alessandrino, 65 Clitomaco, 91 Costantino VII, 47-48 Costanzo II, 28, 91 Cramer, J.A., 71 e n., 72 Curzio Rufo, 64 Cratero, 55 D'Argonne, N.B., 48-49, 50 e n., 51 Demostene, 13, 29, 30, 31, 44,
103
53 e n., 54 e n., 55, 56, 57, 63,70,90 Diderot, D., 50 Didimo, 56, 62, 90 Diodoro Siculo, 47, 48, 60, 63, 64, 65, 66, 73-77, 78 e n., 7980, 92 Diodoro di Tarso, 82n. Diogene Laerzio, 14 e n., 91 Dione Cassio, 42 e n., 60, 64, 67, 92 Dionigi di Alicarnasso, 52n., 60,92 Dionigi il Trace, 71n. Dodge, B., 45n. Domiziano, 27n., 87 Douglas, K., 12 Donato, 63 Droysen, ].G., 19 Egesippo, 53, 54, 55, 57 Emonds, H., 10 e n., 11 Epicuro, 44 Epifanio, 90 e n. Erodiano, 92 Erodoto, 37,81, 92 Eschilo, 23, 60 e n., 64-65 Eschine, 53 Esdra, 68, 69, 72, 73 Esiodo, 43, 91 Euclide, 60 Eugenio, 82n. Eunapio, 26 Euripide, 69 Eusebio, 60, 74 e n., 75 Filippo di Macedonia, 52, 78 Filippo di Opunte, 14 Filisto di Siracusa, 78n.
104
Floro, 42n. Fozio, 26, 31, 33, 47-51, 57, 60, 65, 66, 79 e n., 80-85 Friinkel, H., 37 e n., 38 e n. Frizzi, G., 76n. Galeno, 26 e n., 31, 77, 86, 88, 89 Cellio, 40, 69, 70 e n. Gercke, A., 35n., 66n. Giarratano, C., 67n. Gibbon, E., 76 e n., 77 e n., 78, 86n., 88, 89, 93 Giorgio Cedreno, 90 e n. Giorgio Sincello, 90 e n. Giovanni di Egea, 82n. Giovanni Filopono, 82n. Giovanni Malalas, 60 Giovanni Tzetzes, 43, 72, 90 e n. Girolamo, 44, 45, 63, 74, 77 Giuliano, 52 Giulio Cesare, 39, 43, 86 Giuseppe Flavio, 60, 84, 92 Griifenhan, A., 26n. Grassi, E., 80 Hauptmann, E., 12 Henley, W.H., 11 Hosius, C., 63n. Hunain ibn Ishaq, 44, 45n. Ibn al-Nadim, 45 e n. Ibn al-Qifti, 76 lperide, 60, 62 Ippocrate, 26, 89 Irigoin,]., 45 e n. Isidoro, 60, 68 e n., 69, 70 Isocrate, 29, 30
Jacoby, F., 91 Jensen, Chr., 60n. Koster, W.J., 71n., 90n. Krumbacher, K., 84 e n. Kubrick, S., 11, 12 Lewis, G. C., 9, 10 e n. Libanio, 52 e n., 54 e n., 55, 57 Livio, 39-41, 42 e n., 43, 60 Lucano, 42n. Lucrezio, 44, 63 Maas, P., 35 e n., 36 e n., 66 e n., 81 e n., 82 Mabillon, J., 51 Maehler, H., 91n. Manganaro, G., 78n. Martinelli, N., 35n. Melampode-Diomede, 71 e n., 72n. Memnone, 65, 66 Menandro, 44 Menofane, 79 Michele Psello, 60 Morhof, D.G., 50 e n. Miiller, C., 70n. Niceta David Paflagone, 83 e n. Niebuhr, B.G., 19 Nodier, Ch., 19, 20n. Nonio, 38, 39 Norden, Ed., 35n., 66n. Ornar, califfo, 76 Omero, 23, 30, 31, 68, 69, 72n., 91 Orazio, 44, 45 Origene, 60
Orosio, 40 e n., 41, 42 e n. Ortega y Gasset, J., 16 e n. Otranto, R., 26n., 28n. Pasquali, G., 35n., 66n., 69 e n., 80 e n. Pausania, 92 Pfeiffer, R., 90 Pisistrato, 68-71, 72 e n. Platone, 10, 14, 29, 44 Plauto, 64, 65 Plinio il Vecchio, 47 e n., 73-76, 77,86,88,89 Plutarco, 37, 43, 48, 55 Polibio, 47, 60, 63, 64, 74 e n., 75, 77 Possevino, A., 50 Priamo, 23 Quérard, J.-M., 19 Quintiliano, 88 Quinto Fabio Pittore, 78n. Raphael, F., 12 Rodriguez Monegal, E., 15n. Rousseau, J.J., 19 Savary, J., 12 Schamp, J., 84n. Schanz, M., 63n. Schurtzfleisch, C.S., 50 Seleuco Nicanore, 68, 70 Seneca (padre), 63 Seneca Lucio Anneo, 38-43, 44 Senofonte, 10, 14, 25, 44, 60, 92 Serse, 68, 70 Simon, R., 19 Sofocle, 64, 65
105
Sozomeno, 60 Stefano Gobar, 82n. Steffin, M., 12 Stevenson, F., 11 Stevenson, R. L., 11 Stoppard, T., 23n. Strabone, 25 e n., 31, 86, 92 Strasburger, H., 91 e n., 92 Svetonio, 27n., 87 Tacito, 64 Temistio, 28, 91 e n., 93 Teodoreto di Ciro, 82n. Teodoro monaco, 82n. Teodoro di Gaza, 45 Teodoro di Mopsuestia, 82n.
106
Teofilatto Simocatta, 60 Teopompo, 78-80 Terenzio, 44, 63 e n. Tito, 27n. Tolomeo II Filadelfo, 40, 72 Tolomeo III Evergete, 43 Tucidide, 14, 60, 70, 74, 92 Virgilio, 30 Voltaire, F.-M.-A. de, 19 Wolff, C., 50 Zangemeister, C., 41n. Zenobia di Palmira, 87 Zosimo di Ascalona, 60, 70
Indice dei luoghi
AMMIANO MARCELLINO
Res gestae XXII,
87
16, 15
ANASTASIO BIBLIOTECARIO Interpretatio synodi VIII generalis PL CXXIX, col. 18b
45 e n.
ANONYMUS CRAMERI II, p. 43 Koster
71 e n.
ARISTOFANE
Nubes 528-531 Vespae 1018-1020
12 11
ARISTOTELE
Rhetorica 1409a28 ATENEO VI, 223d-e
37 55 e n.
CALLIMACO
fr. 443 Pfeiffer
52 n.
CICERONE
De oratore
III,
DEMOSTENE Philippica III,
13 7 72
69 e n., 71 53n., 54 e n.
D ID IMO
In Demosthenem col. XI, 10-14
56
107
DIODORO SICULO
Bibliotheca Historica II, l III, l XVI, 3, 8
63 63 78 e n., 79
DIOGENE LAERZIO
Vitae philosophorum II, 57, III, 37 IV, 67
14 e n. 14 e n. 91
DIONE CASSIO
Historiae Romanae XLII, 38, 2
42n.
DIONIGI DI ALICARNASSO
De Demosthenis dictione 52 n.
13 EPIFANIO
De mensuris et ponderibus rr. 270-280 Moutsoulas
90 e n.
ESCHINE
In Ctesiphontem 83
53 e n.
EUSEBIO DI CESAREA
Chronicon p. 283 Schone
74 e n., 75
FLORO
Epitoma de Tito Livio II, 13, 59
42n.
FOZIO
Bibliotheca cap. cap. cap. cap. cap.
108
57, 15b21-22 77, 54a36-39 109, 89a6-7 110, 89a41 111, 89bl0-ll
65 26n. 66 e n. 66 e n. 66 e n.
cap. 176, 120a6-14 cap. 224, 222h2-3; 240a9-10 cap. 265, 491a12-21
79 e n., 80 e n. 65, 66 e n. 57
Epistolae 98 Laourdas-W esterink
83
GALENO
De libris propriis liber XIX,
8-9 Kiihn
26 e n.
In Hippocratis librum III Epidemiarum commentaria XVII/l,
730 Kiihn,
26 e n.
In Platonis Timaeum commentarii fragmenta 2, 107 Schri:ider
26 e n.
GELLIO
Noctes Atticae VII, VII,
17, 1-2 17, 3
69, 70 e n. 40
GIORGIO CEDRENO
Compendium historiarum I,
p. 289, 18-24 Bekker
90 e n.
GIORGIO SINCELLO
Ecloga chronographica p. 327, 17-21 Mosshammer
90 e n.
GIOVANNI TZETZES
Prolegomena de comoedia Aristophanis 2, 16-21 Koster
90 e n.
GIROLAMO
Commentarii in Danielem PL
xxv, col. 570d
74, 75 e n., 77
Commentarii in Ezechielem PL
xxv, coli. 139c-140c
63 e n.
!SIDORO DI SIVIGLIA
Etymologiae VI, VI,
3, 2-3 13, l
68 e n. 60 109
LIBANIO
Argumenta orationum Demosthenicarum pp. 618-620 Forster
VIII,
52 e segg.
LIVIO
Historiae X, 31, 10 fr. 52 Weissenborn-Miiller
60 42
LUCANO
Bellum civile X,
498-505
42n.
MELAMPODE-DIOMEDE
pp. 29-30 Hilgard
71,72 e n.
NICETA DAVID PAFLAGONE
Vita lgnatii
cv, col. 532d cv, col. 540c OROSIO Adversum paganos PG PG
VI,
15, 31
83 e n. 83 e n.
40 e n., 41, 42
PLINIO
Historia naturalis praefatio, 25
47 e n., 73, 75
PLUTARCO
De exilio 604F5
37
Caesar 49,6
Demosthenes 9, 5-6
43 55 e n.
POLIBIO
Historiae XII,
27, 4-5
74 e n.
QUINTILIANO
Institutio oratoria X, l
110
88
SENECA
De tranquillitate animi IX, 5
39-43
STRABONE
Geographia XIII, l, 54 XVII,
1,8
25 e n. 86-87
SUDA ~
1239
67
SVETONIO
Domitianus 27n., 87
20 TEMISTIO
Oratio IV 60b
28, 91 e n.
ZosiMO DI AscALONA
Vita Demosthenis II,
p. 523 Miiller
70en.
111
Indice dei manoscritti
PAPIRI
LAON
P. Berol. inv. 9780 (Didimo), 56,90 P. Berol. inv. 21849 (lettera privata), 90-91 P. Lit. Lond. 132 (Brit. Libr. inv. 108 + 115) (lperide), 59, 60 e n., 62 e n. P. Oxy. 2912 {lettera privata), 28n.
Bibliothèque Municipale 137 (Orosio), 41
MANOSCRITTI CITTÀ DEL VATICANO
Biblioteca Apostolica Vaticana Lat. 3226 (Terenzio), 63n. Urb. Gr. 102 (Polibio), 47 FIRENZE
Biblioteca Medicea Laurenziana 32, 9 (Eschilo), 60n. 65, l (Orosio), 41 68, l (Tacito, Anna/es), 64 68, 2 (Tacito, Anna/es, Historiae), 64
MONCHEN
Bayerische Staatsbibliothek 485 (Demostene), 59, 61, 63 PARIS
Bibliothèque Nationale Gr. 2934 (Demostene), 61, 62, 63 Lat. 5730 (Livio), 67 RAVENNA
Biblioteca Classense 429 (Aristofane), 60n. VENEZIA
Biblioteca Nazionale Marciana Gr. 474 (Aristofane), 60n., 64 e n. Gr. 450 (Fozio), 84n. WIEN
Osterreichische Nationalbibliothek Lat. 15 (Livio), 67
113
Indice
Il copista come autore Prologo. Cos'è l' «originale»? l Il copista come autore
9
15
2 Un modesto surrogato: l'archetipo 25 3 Grandezza e miserie della tradizione «indiretta» 34 4 L'arte di ricavare estratti 5 Storie di testi raccontate dagli antichi 6 Rotoli e codici
47 52 59
7 Il libro-biblioteca 8 La biblioteca di Fozio
68 81
9 Un'idea alla Pangloss
86
Indice degli argomenti Indice dei nomi
97 103
Indice dei luoghi Indice dei manoscritti
107 113
Questo volume è stato stampato su carta Grifo vergata delle Cartiere Miliani di Fabriano nel mese di settembre 2002 Stampa: Officine Grafiche Riunite, Palermo Legatura: LE.I.MA. s.r.l., Palermo