Maria Venturi
IL CIELO NON CADE MAI
TRAMA A diciott'anni Francesca, bella, ricca, adorata dai genitori, scopre di ess...
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Maria Venturi
IL CIELO NON CADE MAI
TRAMA A diciott'anni Francesca, bella, ricca, adorata dai genitori, scopre di essere stata adottata: lei, bianca, è in realtà figlia di una prostituta negra uccisa da un cliente occasionale. Per di più è incinta di Nicola che si allontana da lei facendole crollare il mondo addosso. Ma la nascita della piccola Cielo, dalla pelle color caffelatte, le da la forza di ricominciare da zero e sarà proprio la bimba a ritrovare il padre riunendolo finalmente a Francesca.
IL RUMORE DEI RICORDI I tuoi occhi sfuggenti le tue dita belle le tue labbra pallide la tua voce prudente il tuo cuore pauroso le tue parole di spada. Non era niente solo il tuo amore stretto che si chiudeva per sempre. Eppure quando mi fermo il rumore dei ricordi giunge alla punta del mio cuore e mi fa sobbalzare l'anima. (Anonima dama di corte giapponese - secolo XI)
1960 (Antefatto) «Non voglio una coppia giovane e coraggiosa come i Timone. E nemmeno una coppia ricca e carismatica come i Fasser.» La voce dell'anziana pediatra del Gaslini si levò secca come una staffilata. «Le ricordo che il caso Cielo è di mia competenza, dottoressa» replicò il giudice minorile. L'ufficialità della dichiarazione sopraffece il tono di provocatoria gentilezza. «Non dimetterò la bambina fino a quando non sarò certa che avrete cercato per lei la migliore delle famiglie possibili.» Rossa in volto, l'assistente sociale proruppe: «Ma è quello che abbiamo fatto per dieci giorni! Sono state esaminate duecento richieste di adozione arrivate da tutta la Liguria prima di arrivare ai Timone e ai Fasser, e il solo problema, adesso, è decidere tra due coppie ugualmente...». Lo psicologo le fece un cenno d'intesa, interrompendola. «Ci siamo occupati della piccola con particolare attenzione, dottoressa. E non a caso ci troviamo davanti a questa alternativa. Il futuro di una bambina di colore si prospetta senz'altro meno problematico se ha alle spalle due genitori combattivi come i Timone o una famiglia importante come quella dei Fasser» spiegò con voce paziente. La pediatra vi avvertì l'isterico vibratino di chi ha perso le staffe ma si è imposto di restare calmo. E questo, anziché accrescerla, fece sparire la sua irritazione. «Cielo non è una bambina di colore» disse con tristezza. «É la figlia bianca di una prostituta negra morta ammazzata e di un cliente occasionale.» Il giudice minorile intervenne: «Proprio per questo dovrebbe condividere quanto ha detto lo psicologo: Cielo avrà un futuro sereno soltanto se sarà adottata da una coppia capace di imporla, oltre che di inserirla nella società». La pediatra scosse la testa. «Nessuna famiglia potrà cancellare la diversità della bambina e gli enormi problemi che l'aspettano. Per lei tutto sarà più difficile: la scuola, l'amore, il lavoro, il matrimonio. E soprattutto la maternità. Perché, se vorrà un figlio, dovrà proiettarsi anche nei problemi di questo figlio e dei pronipoti: il colore della pelle di sua madre è una mina vagante, e la legge di Mendel non è un'opinione.» «Stiamo parlando di una bambina, dottoressa, non di una pianta di pisello» ironizzò lo psicologo. «Appunto: se Cielo fosse una pianta di pisello, non starei qui a parlare dei suoi futuri problemi.» «Non crede che due genitori come i Timone o i Fasser glieli renderebbero, quanto meno, più leggeri?» chiese con sincera curiosità il giudice minorile.
«Personalmente sono convinta del contrario. Allevata da una coppia progressista, la bambina crescerebbe senza realizzare la propria diversità e dando per scontato di dover essere accettata da tutti. L'impatto con la realtà sarebbe molto amaro, perché il razzismo alligna ovunque.» «In questo senso» osservò l'assistente sociale a i Fasser «la proteggerebbero di più.» «Neppure su questo, purtroppo, sono d'accordo. Due genitori dal cognome talmente carismatico da essere ricattatorio farebbero di Cielo un'adulta iperprotetta e presuntuosa. Tutto le sembrerebbe lecito e dovuto, mentre deve essere preparata a lottare per conquistarsi ciò che vuole.» «Lei ipotizza una famiglia adottiva ideale che purtroppo, dottoressa, non esiste» enunciò solennemente lo psicologo. Stavolta fu la pediatra ad essere ironica. «E lo insegna proprio a me? Da trent'anni passo le mie giornate tra i bambini. Ho conosciuto genitori violenti, deboli, egoisti, sacrificali: quelli che passa la natura. Siete soltanto voi cosiddetti esperti a pensare che nel mondo dell'adozione esista una specialissima fauna di esseri illuminati e amorosi. E finite per cadere nella trappola delle coppie che recitano meglio questa parte. Nossignori, non è di genitori così che i piccoli hanno bisogno. E io spero che Cielo sia data a un uomo e a una donna normali, consapevoli e anche spaventati dell'enorme responsabilità che si assumono. Non credo nel generoso slancio dei Fasser, diffido della coraggiosa intelligenza dei Timone. La coppia che prenderà questa piccola dovrà spiegarle subito, non appena avrà l'età per capire, chi è e come è nata. E dovrà trasmetterle anche prudenza e umiltà.» «In tutta franchezza, dottoressa, la sua è suggestiva retorica che contrasta con le più elementari norme di psicologia» obiettò il giudice minorile. «Non ho ancora finito. Spero anche che alla bambina sarà mantenuto l'attuale nome: è la sola cosa che la madre le ha lasciato, il segno di una diversità da vivere guardando in alto, senza piegare le spalle. Probabilmente fu con questi sentimenti che una povera prostituta di colore accettò la sua gravidanza. E quando le misero in braccio una creatura dalla pelle bianca la chiamò ingenuamente Cielo. Voleva dire luce, miracolo, speranza? Quel che sappiamo è che tre mesi fa la registrò così all'anagrafe, e che per tre mesi Cielo è stata amorosamente nutrita, vestita e pulita in un sordido scantinato dei vicoli.» Lo psicologo guardò il giudice minorile con un impercettibile cenno di intesa. «Sono belle parole» confermò «e penso che le sue opinioni, dottoressa, siano in contrasto anche con le più elementari norme di buonsenso. Il futuro di questa disgraziata bambina è già abbastanza incerto per non aggravarlo con il marchio di un nome così pateticamente inconsueto.» «Cielo non sarà "disgraziata", se le si consentirà di diventare una adulta equilibrata e responsabile.» «E lei possiede una speciale ricetta, dottoressa?» Era l'assistente sociale, questa. «No, ma posso sottoporre il caso di Cielo a un tribunale normale, se non avrò la certezza che avete deciso per il suo bene. E nel frattempo tratterrò la piccola al Gaslini. Sono la sua pediatra, e sta solo a me stabilire quando potrà essere dimessa.» «Questo è un abuso» urlò il giudice minorile.
«Può dimostrarlo? I carabinieri sono arrivati alla piccola dieci giorni fa, quattro dopo l'assassinio di sua madre: aveva la febbre a quaranta ed era in un gravissimo stato di disidratazione. Sono il primario del reparto pediatrico in cui è stata ricoverata, e nessun giudice può contestare la data in cui io riterrò Cielo in condizioni di lasciare l'ospedale.» La dottoressa Franca Lupis sperò che le sue parole esprimessero una sicurezza assai maggiore di quella che dentro di sé sentiva: trascorse tre settimane, quattro al massimo, sarebbe stata costretta a dimettere la piccola lasciando che un giudice arrogante, uno psicologo presuntuoso e una assistente sociale ottusa decidessero della sua vita.
PARTE PRIMA IL SOLE Ieri è piovuto tutto il giorno e oggi, tutto il giorno, c'è stato il sole. Quanti eventi della mia vita avrebbero preso un altro corso, se oggi fosse piovuto e ieri ci fosse stato il sole? GEORG CHRISTOPH LICHTENBERG
CAPITOLO 1 Era la seconda volta che Silvia Vitali, la professoressa d'italiano, passava accanto al suo banco, indicando con un'occhiata interrogativa il foglio bianco. La certezza che entro dieci minuti sarebbe tornata di nuovo accrebbe il nervosismo di Francesca. La privatista alla sua destra aveva cominciato a scrivere pochi minuti dopo la dettatura dei temi, senza fermarsi un attimo, e ora stava attaccando la quarta facciata. Sentendosi osservata, la privatista si girò e automaticamente abbassò gli occhi verso il foglio di Francesca: solo in quel momento parve accorgersi che la compagna di banco non aveva scritto una sola riga. «Non hai neppure scelto il tema» disse, più che chiedere. «Quello sul progresso è il più facile, lo sto facendo anch'io» sussurrò incoraggiante. Restò qualche istante con la bocca semiaperta, come a ricercare la concentrazione perduta, e tornò ad aggredire il foglio. Francesca si ritrovò a fissare con attenzione il cerchio viola del timbro. I bordi erano dentellati come quelli di un francobollo, la scritta quasi illeggibile. Con leggeri tratti di penna ricompose accuratamente la stampigliatura PARINI. «Ti decidi a cominciare, Fasser?» La voce della professoressa la fece sobbalzare. «Non mi viene niente.» «Smettila di fare scarabocchi. Ti resta poco più di un'ora e mezzo, lo sai?» «Sì, ma non mi viene niente» Francesca ripeté. «Concentrati sulla frase del Machiavelli. Nel primo trimestre vi avevo dato un tema analogo e tu avevi preso otto. Avanti, scrivi, tra dieci minuti torno a dare un'occhiata.» Nel primo trimestre non era in gioco la maturità, si disse Francesca. E tu non eri smaniosa di sbalordire la commissione con un tema eccezionale, si rimproverò. Si era svegliata alle quattro, quella mattina, e aveva mentalmente ripassato tutte le osservazioni profonde e originali che avrebbe potuto piazzare qui e là nello scritto d'italiano. Rilesse per la ventesima volta gli argomenti proposti: tutti offrivano più di uno spunto per farlo, e proprio nello sforzo di sceglierne uno aveva perso tempo e concentrazione. Ma adesso doveva decidersi. Cancellando mentalmente le altre alternative, si impose di riflettere soltanto sulla frase di Machiavelli. La modernità del Principe, il progresso e la morale, il cinismo distruttivo e quello illuminato, lo strapotere dello Stato, compromesso e ideali (citare Marx e Freud), brevi cenni su personaggi e ideologie che oggi la società strumentalizza, la corte dei Medici, i vecchi ed i nuovi mecenati... L'urgere delle idee fece tremare Francesca di eccitazione e di sollievo. Raddrizzò il foglio e ordinandosi di restare calma fece uno schema mentale dello svolgimento. Le idee si susseguivano intelligenti ed armoniose, il tema, perfetto, era praticamente
già scritto nella sua mente. Guardò l'orologio: le restava tutto il tempo per riportarlo sul foglio. Ma nel momento in cui si accinse a farlo, qualcosa la bloccò. Non le veniva l'attacco. Esistono personaggi che scrisse d'impeto. Cancellò con rabbia, troppo pomposo. Nel 1469, quando Machiavelli nacque. Cancellò di nuovo, troppo didascalico. Si sforzò di ricostruire lo schema iniziale, ma le idee intelligenti di pochi minuti prima all'improvviso le apparvero inafferrabili e senza senso. Devo stare calma. Forza, genio, butta giù la prima idiozia che ti viene in mente e liberati del complesso di prima della classe. Con la coda dell'occhio vide la privatista che rileggeva a bocca semiaperta, stavolta per autoinnamoramento, ciò che aveva finito di scrivere. Tutti gli altri erano ancora curvi sui loro fogli, e quel mare di teste in giù le causò un soprassalto di sinistro divertimento. Le parve di vedere, su ciascuna, levarsi un fumetto. O meglio, il fumo delle idee. Cosa stavano elaborando Alessandra la bella, Piero il mangione, Grazia l'idiota, Simona la vamp, Gigi il seduttore, Marega l'affarista? Tutti, tutti, dormono sulla collina. Brava, adesso mettiti pure a pensare a Edgar Lee Masters. Ci speravi, eh, nel tema diverso che ti avrebbe permesso di citare e volare? E invece no, devi dimostrare di essere matura attraverso la solita sentenza roboante o il solito Sommo Autore alternativo a Dante di cui nessun liceale ha letto nulla all'infuori delle tre paginette di vita e opere sul libro di letteratura. Cercò di riportare la mente sul Machiavelli. Come volevasi dimostrare: chi di noi ha letto le Istorie Fiorentine, o La Mandragola o il Principe? si disse con ira. Eccolo il fumetto che si leva dalle vostre teste, compagni: il fine giustifica i mezzi. É su questa frase che state arrabattandovi da quattro ore: aggirandola, rivoltandola, guarnendola di libere interpretazioni e disgustose banalità. «Ricopia in fretta, tra poco ritireremo i temi.» Era, di nuovo, la professoressa Vitali. Francesca si alzò dal banco e le tese i fogli protocollo. «Non ho scritto niente, non riesco a scrivere niente» disse torva. Raccolse la sacca e corse precipitosamente fuori dall'aula. Tutto come previsto. Papà che «cercava di capire», mamma che si rigirava gli anelli tra le dita, lo sguardo rivolto verso l'alto come se aspettasse di veder piovere la soluzione del problema a mo' di manna. Quando Francesca era giunta a casa, la telefonata del preside l'aveva preceduta. «Prima di trovare il rimedio» diceva ora suo padre «vorrei sentire che cosa ti è successo, Francesca. L'italiano non è mai stato un problema per te, e non posso pensare che in tante ore non sia riuscita a mettere giù una sola riga. Ti sei sentita poco bene? Qualcosa o qualcuno ti ha spaventato? Hai avuto un vuoto di memoria?
Una spiegazione deve esserci, bambina.» La voce era, come sempre, incoraggiante e gentile. «Quello che importa è rimediare, Giovanni. Non posso nemmeno pensare che Francesca sia bocciata.» Era sua madre, questa. E la ragazza si chiese perché mai, anche quando parlava del tempo o chiedeva una tazza di caffè, dovesse avere quel tono affannato e sopra le righe. «Non sta qui il vero problema. Come ha suggerito il preside, con un certificato medico e una eventuale visita di controllo si potrebbe chiedere di ripetere la prova. Mal che vada, con un ottimo orale la commissione d'esame terrebbe conto...» «Non mi presenterò agli orali, papà» Francesca lo interruppe. «Che cosa vuol dire?» chiese sua madre, l'interrogativo strozzato da uno strillo in falsetto. «Vuol dire che con gli esami di maturità ho chiuso. Per quest'anno e per sempre.» «E cosa vuoi fare? La commessa, la ricamatrice, l'acrobata?» Il falsetto toccò il diapason. «Per favore, Diana, ragioniamo con calma. Francesca ha senz'altro una spiegazione da darci. Stiamo aspettandola, bambina.» «Non si può spiegare tutto, papà!» «Sei certa di non voler dire "voi non capireste niente, papà"?» l'ingegner Fasser insinuò affettuosamente. «E perché dovrebbe pensare una cosa simile?» Di nuovo sua madre. «Quando mai non l'abbiamo capita? In questo momento, purtroppo, c'è una sola cosa da capire: è la solita stravaganza di nostra figlia. Ma stavolta, ragazza, non l'avrai vinta. Domattina ti sveglierò alle sette, ti preparerai, farai colazione e andrai brava brava a proseguire gli esami. Mettendocela tutta per rimediare alla tua alzata d'ingegno di stamattina: e se non ce la farai, non importa. A costo di ripresentarti fino a trent'anni, tu la maturità la prenderai.» «Altrimenti ?» Francesca aveva eretto il busto e la fissava con sfida. «Altrimenti niente. Non ti sto ricattando, ti ho dato un ordine. E quanto è vero Iddio lo eseguirai, dovessi trascinarti a scuola tirandoti per i capelli o a calci nel sedere.» Anche Diana Fasser aveva istintivamente eretto il busto e Francesca, nonostante l'ira, registrò con stupore un inedito senso di ammirazione. La sua infantile e frivola mammina per la prima volta mostrava di possedere determinazione e idee proprie. La terrificante prospettiva di doversi ripresentare agli esami travolse sul nascere un confuso senso di colpa. «Mamma, ti prego, non farmi tornare lì» disse. «Lì è la scuola che hai frequentato per cinque anni, stimata dai professori e amata dai compagni.» E ricascata nella retorica, Francesca pensò sarcastica. Amata dai compagni... E perché poi dovrebbero amarmi? Fanatica, scorbutica, puritana, asociale: così mi vedono.
Quando mai mi hanno invitato alle loro festine? O a andare con loro a un concerto? O a mangiare la pizza? Mi rispettano, questo sì. Oh, quale privilegio essere invitati nella splendida casa di Francesca Fasser e fare la versione di greco o di latino con la prima della classe! Ma dopo tre ore hanno fretta di scappare, perché non reggono la noia. Detesto Rettore e i Pooh, non sopporto il fracasso delle discoteche, Superman mi fa vomitare, non vado in estasi per la Honda di Gigi, non corro per mercatini come Simona alla fanatica ricerca di argenti corrosi e gilet indiani con gli specchietti luccicanti. E a diciott'anni, orrore! sono ancora vergine. «Francesca, stiamo sempre aspettando una spiegazione.» Suo padre. «Non possiamo cedere a questo capriccio, è in gioco il tuo futuro.» Sua madre. «Ti assicuro che capiremo, qualunque cosa ci dirai.» Suo padre. «Abbiamo il diritto di sapere, come genitori siamo responsabili di te.» Sua madre. «Qualcuno ti ha detto qualcosa che ti ha offeso, ferito?» Suo padre. «Per favore, di' qualcosa, vuoi farmi morire d'infarto?» Sua madre. Francesca scoppiò in un pianto dirotto, e si sorprese ad ascoltare con inorridita curiosità il suono lacerante dei suoi stessi singhiozzi. Papà e mamma corsero ad abbracciarla e lei sentì le loro parole di conforto e le loro voci spaventate; ma era incapace di frenare il pianto, come se i singhiozzi fossero diventati parte di lei entrandole nei muscoli, nei nervi, nel sangue. Le mancava il respiro e le spalle erano scosse da un tremito irrefrenabile. «Calmati, Francesca, calmati. Diana, prendi un bicchiere d'acqua. Adesso vai a riposare, bambina, e stasera, se vorrai, ne riparleremo. » «Non... non voglio... Non voglio parlarne più, papà.» Soltanto più tardi, sdraiata sul suo letto, Francesca realizzò l'enormità di ciò che aveva fatto. Come aveva potuto consegnare il foglio in bianco? Sono pazza, si disse ad alta voce. Pazza e cretina. Alla rabbia subentrò una disperazione paralizzante. Oh, Dio, che cosa ho fatto! pensò sconvolta. La consapevolezza di non potervi porre rimedio trasformò la disperazione in un dolore sordo, insopportabile. Forse è questo che si prova quando muore una persona cara, si disse, e come spesso le accadeva una piccola parte della sua mente si estraniò da lei stessa dividendola in due persone: mentre una soffriva, l'altra guardava e rifletteva per conto proprio. Basta. Sono contorta e morbosa e chi mi credo di essere? Che motivi ho per sentirmi superiore ai miei compagni? Nascere da genitori ricchi non è un merito, ma un caso. E amare lo studio e i libri più dei ragazzi e delle discoteche non è intelligenza, ma viltà. Avanti, confessalo, Francesca. Dietro al tuo delirio di superiorità c'è solo la paura di confrontarti con gli altri. E dietro la tua verginale inaccessibilità c'è solo il terrore di non essere spiritosa come Marina, corteggiata come Alessandra o amata come Simona. E soltanto per
non competere con le tue coetanee che ti sei creata degli interessi che loro non hanno. Ma stamattina, agli esami, per la prima volta eri costretta al confronto. É stata la paura di essere giudicata a paralizzarti la mente, è stata l'umiliante probabilità che qualcuno facesse un tema migliore del tuo a farti consegnare il foglio in bianco. La smania di perfezione ti ha distrutta. Che cosa c'è di sbagliato in me? Perché sono così insicura quando la vita mi ha dato tutti i doni possibili? Sono persino bella, si ritrovò a pensare con l'altra parte di sé. Automaticamente si sollevò sul letto e si fissò nella piccola specchiera antica appesa sulla parete di fronte. Tra le sbavature e le muffe del vecchio vetro apparve il viso di una giovane ragazza che Francesca scrutò con puntigliosa obiettività. I lunghi capelli scuri e arricciati, la fronte alta e appena arrotondata, i grandi occhi color velluto, il corto naso (oh, nota dolente!) con la punta fortunatamente rivolta all'insù, le labbra carnose e come contornate da un segno di matita rosa scuro, i denti bianchissimi, la curva dolce del mento. Si mise in ginocchio e corse in giù con lo sguardo: ben squadrate le spalle, ah, se avessi il collo un po' più lungo!, seni dall'attaccatura larga ma non enormi, vita sottile, fianchi un po' rotondi (un po' ad anfora, da Lollo o Loren prima maniera), gambe... Si sollevò in piedi, cercando l'equilibrio sul materasso. Gambe perfette, solo se fossero state un po' più lunghe. Esiste qualcuno che impazzirà per il mio corpo, accarezzandolo con mani tremanti e voce gemente? Vorrei essere amata da un uomo romantico e avventuroso come Stendhal. O ironico e dolce come Dustin Hoffman. O sublime e infelice come Charlie Parker... Sarei una compagna rassicurante, spiritosa, intelligente. Il ricordo del foglio bianco ritornò improvviso ributtandola in una desolazione senza scampo. Ormai, certamente, tutti i compagni sapevano che non era stata capace di svolgere il tema. Chissà lo stupore e le risate. Ma non avrebbero avuto la soddisfazione di assistere alla sua sconfitta. Non mi rivedranno mai più, si disse, non metterò mai più piede in quella scuola. Papà e mamma non riusciranno a costringermi, no. E si preparò a dar battaglia avvertendo il sollievo della certezza che si stava annidando nel solito angolino della mente: ancora una volta saprai bene come persuaderli, Franci.
CAPITOLO 2 Quel settembre del '78 l'estate declinò dolcemente verso un mite autunno. Giorno dopo giorno le giornate si accorciavano, la luce scoloriva, il sole si sbiancava. Francesca avvertiva una tristezza d'agonia, anche perché non aveva mai amato la vecchia villa di Nervi, né mai capito perché ogni anno suo padre si ostinasse a trascorrervi con la famiglia due settimane fuori stagione. Non che lei sentisse la mancanza del fracasso estivo, al contrario. Le piaceva l'assenza di suoni e di persone, ma il silenzio delle grandi stanze aveva una solennità quasi intimidatoria e il vago odore di muffa e di umido, che quindici giorni di finestre aperte al sole sbiadito non bastavano a fugare, le sembrava quello dell'estate che moriva. «Una genovese che non ama Nervi: è inaudito!» la prendeva sempre in giro papà. Per essere precisi, a lei non piaceva nemmeno Genova. Un ibrido tra Nord e Sud, stupendi palazzi liberty e case fatiscenti saldate l'una all'altra, colore di mare e buio di vicoli sudici, gente amabile e gente avara di cordialità e parole. Ma riconosceva onestamente che era una impressione sua, superficiale e forse gratuita. Di Genova conservava gli sfocati ricordi della prima infanzia: aveva cinque anni e mezzo quando suo padre aveva trasferito a Milano la sede amministrativa della Fasser Immobiliare, e a Milano lei era cresciuta, aveva cominciato la scuola, allacciato le poche e tiepide amicizie. La scuola. Ecco l'incubo scacciato, il pensiero raggirato per tutta la mattina. Si era ritirata dagli esami, papà e mamma avevano ceduto alla supplica di non farle ripetere la terza liceo al Parini, ma per il resto si erano mostrati irremovibili: l'anno prossimo avrebbe dovuto ripetere la maturità, sia pure presentandosi come privatista, sia pure facendo gli esami a Genova anziché a Milano, se lo preferiva. «Al mattino prenderai delle lezioni secondo un preciso programma, al pomeriggio studierai» aveva detto con insolita autorevolezza suo padre. «La tua ex professoressa di italiano si è gentilmente offerta di trovarci gli insegnanti per le varie materie, e dai primi di novembre comincerai a impegnarti come se frequentassi la scuola.» Tra meno di un mese, Francesca pensò con disgusto. E sua madre che aveva avuto la bella idea di pregare, addirittura pregare! la ex insegnante di italiano perché la preparasse personalmente per la sua materia. La famigerata sera del tema in bianco la signora Vitali, come del resto il preside, le aveva telefonato tentando di convincerla a proseguire gli esami, e quando si era accorta che tutti gli argomenti erano risultati inutili aveva esclamato con voce dolente: «Mi aspettavo tanto da te, come hai potuto deludermi?». Ho deluso soprattutto me stessa, avrebbe voluto urlare, e invece aveva riattaccato senza commenti.
Quella frase le tornava spesso in mente causandole la stessa ira. Se un giorno avrò un figlio, si ripromise, non sarò mai così presuntuosa da pensare che viva per farmi dispetto. Se sbaglia, non penserò ridicolmente che l'ha fatto per dare un dolore a me. Né piagnucolerò sulla mia delusione anziché preoccuparmi della sua. Peccato che al liceo non si facciano più quei bei temini su mamma e papà: potrei riempire sei fogli protocollo sulle palate di sensi di colpa che in questi ultimi mesi i miei genitori mi hanno scaricato amorosamente addosso. Quanto sarebbe stato meglio, rifletté, se l'avessero rimproverata, castigata, persino picchiata. E invece no, si erano mostrati affettuosi e squisitamente pieni di tatto, così che l'astiosità che adesso provava per loro le appariva immotivata e colpevole. Di sua madre per esempio non sopportava l'ignoranza. «Ma non senti mai il desiderio di comprarti un buon libro?» Il battibecco era della sera prima. Benché avesse fatto il liceo e tre anni di università, sua madre leggeva esclusivamente settimanali femminili e romanzi d'amore; e dei quotidiani si limitava a leggere i titoli. «Cosa intendi per buon libro, Francesca?» «Qualunque cosa fuorché quel che leggi tu.» «Ma io leggo per distrarmi, per passare il tempo.» «Potresti farlo in modo più intelligente.» La donna aveva lasciato cadere il discorso con una risatella, alzando le spalle. Doveva ammettere che sua madre non era per niente permalosa e, salvo che nelle emergenze, mostrava il tipico buon carattere dei superficiali. Era anche una bella donna: bionda, più alta di lei, e con gli occhi verde-azzurri che a tredici anni le aveva molto invidiato. Un'altra cosa che non sopportava era la sua vanità: a quarantatré anni ne dichiarava trentanove, sperando chiaramente che non gliene dessero più di trenta. Sapeva le calorie di tutti i cibi e, da quando aveva memoria, Francesca l'aveva sempre vista seguire una dieta o in procinto di iniziarne una. Quel che non capiva era la smisurata tolleranza di suo padre. Non perdeva la pazienza neppure quando doveva cercare il rasoio in un mare di tubi, creme e flaconi di profumo. Ecco, questa tolleranza era il suo peggior difetto. Francesca si chiedeva spesso come fosse possibile che un professionista autorevole e imprenditoriale come suo padre, con la fama di essere un duro, una volta tornato a casa si trasformasse in un marito mite e gentile. Sembrava che la moglie lo avesse depersonalizzato. Sicuramente la amava molto, e questo la stupiva, come il successo che Grazia aveva tra i compagni di classe: le risultava incomprensibile che uomini intelligenti come suo padre fossero attratti da donne come loro, belle e basta. Incapaci di fare un discorso profondo, un'osservazione intelligente, una battuta spiritosa. Sono ingiusta, si rimproverò. La sua bella e frivola mamma era anche una donna capace di grande tenerezza. E di una fisicità ricolma d'amore. Nei miei capelli, nel
mio viso e nel mio corpo c'è l'impronta di due mani gentili che per anni mi hanno pettinato, lavato, accarezzato. Era nata con il taglio cesareo, le aveva raccontato papà, dopo una gravidanza difficile e un travaglio molto doloroso. Nella prima foto scattata in clinica, a poche ore dal parto, sua madre la teneva contro di sé fissandola con un amore che le illuminava il volto ancora sofferente e gonfio. Francesca teneva quella fotografia sul cassettone, e ogni volta che la guardava si sentiva intenerita ma anche rattristata. Come se dentro di sé sapesse di non essere meritevole di tanto amore. Era per vincere quella fastidiosa sensazione di inadeguatezza che cercava di sminuire in ogni modo sua madre? Devo smetterla di elucubrare, si ripeté. E stavolta le fu facile: dal soggiorno udì improvvisamente giungere le voci concitate dei suoi genitori, e quella di suo padre era alterata dall'ira. Non li aveva mai sentiti litigare a quel modo, e ne provò uno spavento così spropositato che li raggiunse correndo. Come la videro, marito e moglie ammutolirono. «Che cosa sta succedendo, papà? State discutendo per me?» «No, tu non c'entri. É una cosa che riguarda la mamma e me. Ti dispiacerebbe...» «Avete intenzione di separarvi?» chiese d'impulso, impaurita dalla sua stessa domanda. La risatina nervosa di sua madre. «Non essere melodrammatica, Francesca! Stiamo soltanto discutendo, tutte le coppie lo fanno.» «Non voi. Se volete restare soli, me ne vado. Però non trattatemi da deficiente, è chiaro che è successo qualcosa.» «Una sciocchezza, Francesca. Una sciocchezza a cui tuo padre ha dato un'importanza esagerata. Proprio da qui è nato il diverbio.» La ragazza li guardò alternativamente. «Non posso sapere di che cosa si tratta?» Diana Fasser fece una spallucciata. «Ma sì, che cosa c'è da nascondere? Ho deciso di sottopormi a un piccolo intervento di chirurgia estetica, e come l'ho detto a tuo padre è scoppiata la tragedia. Il lifting è un intervento di routine, ormai tutte lo fanno e...» «Ma tu sei bellissima, mamma!» L'esclamazione proruppe sincera. «E sei anche giovane. Che bisogno hai di un lifting? Non hai rughe, non hai...» Intervenne l'ingegner Fasser: «Sarei contrario anche se tu avessi sessant'anni, Diana. Con l'anestesia non si scherza, te lo ripeto, e per quanto "piccolo" il lifting è pur sempre un intervento chirurgico. A parte questo, la tua faccia mi piace com'è, e vorrei che piacesse anche a te. Ritengo un sintomo di enorme immaturità e di scarsa autostima questa smania di cancellare i segni del tempo.» «Evidentemente sono infantile e ho una scarsissima opinione di me: perché questo lifting voglio farlo, e che a te piaccia o no lo farò!» «Non puoi rifletterci per qualche mese? Non mi pare che tu stia cascando a pezzi...» «Risparmiami la tua ironia! Ci ho già riflettuto, caro, e appena rientreremo a Milano andrò dal professor Alberti per concordare l'intervento. Se può consolarti, ne ha eseguiti a migliaia, e tutte le pazienti sono uscite vive dalla sala operatoria.» «Non hai paura, mamma?» Francesca chiese con curiosità. Lei ricordava come un incubo la lontana operazione di appendicectomia e il momento in cui l'anestesista si era curvato per infilarle l'ago nella vena. «Ho paura, sì! Della vecchiaia! Di queste palpebre che cascano, di questo collo molliccio, di questi bargigli sul mento...» Diana Fasser accompagnava le parole
tirandosi e pizzicandosi il viso con gesti isterici da autoflagellazione e Francesca la guardò combattuta tra repulsione e angoscia. Le sembrava impossibile che sua madre vedesse tanta devastazione in un volto ancora giovane e intatto. In un empito d'affetto corse ad abbracciarla. «Ma che cosa dici? Non ti guardi mai allo specchio?» La donna si divincolò bruscamente. «É proprio perché mi guardo allo specchio che so quel che dico.» Suo marito scosse la testa. «A questo punto non parliamone più. Non mi ero mai accorto, credimi, che avessi tanta paura di invecchiare. Prima o poi dovrai comunque rassegnarti all'idea: per quanti lifting potrai fare, non ti tireranno indietro gli anni.» «Grazie, sei stato molto gentile a ricordarmelo! Visto che di più non si può, mi accontento di portarli con decenza, cancellando i segni del degrado fisico.» «Diana... Non ti sembra di precorrere i tempi? Hai solo quarant'anni, santo cielo!» «Quarantatré» puntualizzò torva. «Mamma, ci sono donne alla tua età che si sposano, fanno figli e...» «Vorresti averli, tu, quarantatré anni?» Diana investì la figlia. Quell'urlo ostile la desolò. «Sì, mamma, vorrei.» Le lacrime le pungevano gli occhi. «Se avessi la tua età, non dovrei più chiedermi se ce la farò a finire la scuola, a incontrare un uomo, a avere dei figli. Avrei già fatto e avuto tutto, mentre non ho ancora niente» concluse con voce di pianto. Subito si vergognò di quello sfogo, e automaticamente ne diede la colpa a sua madre. Come poteva essere tanto egoista e superficiale? Come si permetteva di angosciare lei e papà per un problema così cretino? Possibile che il suo mondo si fosse ridotto a uno specchio? Sollevò gli occhi su di lei, con sguardo di sfida, e l'ira smontò di colpo. Sua madre, come uscita da una trance, la stava a sua volta fissando con amorosa preoccupazione e smania di rassicurarla. «Ma che cosa stai dicendo, Franci? Tu avrai tutto, e non capisco queste sciocche paure. Sei una ragazza eccezionale, devi soltanto crescere, lasciare tempo al tempo. E poi ci siamo io e papà. Lo sai, vero, quanto bene ti vogliamo?» Francesca fece cenno di sì. «Scusami, mamma» disse. E contemporaneamente si chiese di che cosa doveva scusarsi, avvertendo l'eterno sentimento di inadeguatezza. «Sono gli scherzi dell'autunno.» Era suo padre. «E questa casa, in ottobre, non aiuta a essere allegri.» «Odio questa casa» sibilò Francesca. L'ingegner Fasser fece un piccolo sorriso, sollevato di poter cambiare discorso. «Lo so. E anche tua madre la odia.» «Ma allora, perché tutti gli anni ci costringi a venire qui, papà?» «Perché qui nacquero i miei nonni e mio padre e sono cresciuto io, qui è morto il mio unico fratello. Sono le nostre radici, Francesca, e desidero che siano anche le tue. Col tempo imparerai anche tu ad amare questa vecchia casa.» La ragazza fece una smorfia: «É troppo triste. O forse è troppo grande per noi». Sua madre le strinse la mano. «Proprio così. Le stanze sono enormi, i soffitti alti, è uno sperpero di spazio che fa sentire perduti e non favorisce l'intimità. Forse bisognerebbe eliminare un po' di anticaglie e scegliere un arredamento più caldo e
funzionale, ma tuo padre non vuole saperne. Le sue radici devono avere odore di muffa» scherzò. Non era questo che intendevo dire, Francesca pensò. Forse non è la casa ad essere troppo grande, è la nostra famiglia che è troppo piccola. Non ricordo i miei nonni, il mio solo zio è morto prima che nascessi, non abbiamo altri parenti all'infuori di quelli, lontani, della mamma e io sono figlia unica. Non ho mai corso nelle stanze o nel parco con fratelli o amici, in questa casa non ci sono mai stati risate, rumori. Ecco perché non la amo, è come un simbolo della mia solitudine. E di quella di mamma e papà. Il flusso dei pensieri si arrestò di colpo: era sbalorditivo che per la prima volta si rendesse conto di quanto anche l'esistenza dei suoi genitori fosse deserta di presenze e affetti. Avevano più conoscenti che amici, uscivano pochissimo, e i rari inviti a pranzo erano motivati da esigenze di cortesia o di lavoro. La solitudine: ecco cosa aveva finito per annoiare e mettere in crisi sua madre. Di nuovo Francesca si sentì sopraffatta da un moto d'amore. Da quando aveva memoria, si era sempre dedicata a lei e papà. Ascoltando, consigliando, prodigandosi per assecondare ogni loro desiderio. Qualche volta, è vero, si lamentava e strillava con quel suo ridicolo falsetto, ma subito tornava ad essere paziente e gentile. Io e papà non avremmo potuto desiderare una madre e una moglie migliore, si disse, e adesso dovremmo essere più indulgenti con lei, capire che non è di invecchiare che ha paura, ma di sentirsi inutile. Papà dovrebbe pensare meno al suo lavoro, regalarle qualche fiore, ripeterle più spesso che gli piace così com'è, portarla fuori a cena. E io ... io dovrei vergognarmi di essere tanto spesso ingrata e ostile. Si catapultò sulle sue ginocchia con l'impeto di quando era bambina ricoprendola di baci. «Ehi!» rise sua madre sorpresa, stringendosela contro. «Ti voglio un bene pazzo. Non prendertela, tra pochi giorni torniamo a Milano e il professor Alberti ti toglierà questi bargigli mollicci» scherzò accarezzandole il mento di pesca.
CAPITOLO 3 Alla vigilia della partenza, l'estate agonizzante ebbe un soprassalto che spazzò via la nebbiolina, illuminò l'aria e riaccese i colori. Quella mattina, quando aprì le persiane, Francesca ebbe la sorpresa di una giornata bellissima. Al di là del parco, tra gli alberi, si intravvedeva una striscia di mare che tremolava alla luce gialla del sole. Guardò l'orologio: le dieci. Aveva tutto il tempo per andare in spiaggia e godersi quella mattinata calda e scintillante. Sotto i jeans, indossò il costume; infilò nel borsone di paglia un lenzuolo di spugna e un libro e infine scese in cucina per bere, al volo, un bicchiere di latte. Amelia, la moglie del custode, stava lavando le stoviglie della colazione. «Tua madre è andata dal parrucchiere e ha lasciato detto che non tornerà a mezzogiorno» l'avvertì. «E papà?» «Quando sono arrivata io, era già uscito. Ma tua madre ha lasciato detto che non tornerà nemmeno lui, perché ha dovuto andare a Imperia per un affare urgente. Puoi venire a mangiare da noi, se credi.» «Non importa. Quando hai finito vai pure, Amelia. Mi arrangerò con un panino.» Bevuto il latte, Francesca uscì direttamente dalla porta della cucina e imboccò il vialetto che portava verso il parco. Cinque anni prima una misteriosa malattia aveva decimato buona parte degli alberi piantati dal bisnonno, ma lei non condivideva il disappunto di suo padre: le piaceva il manto vellutato del prato, e lo stesso parco, spogliato dalle sagome troppo fitte delle piante, si ergeva sopra il mare con il suo profilo dolce e pulito di promontorio. Visto dal basso, sembrava un verde panettone leggermente schiacciato. Un vecchissimo sentiero a gradoni rozzamente tagliati nella roccia partiva dalla punta e scendeva fino a una piccola insenatura sabbiosa circondata dagli scogli. Molti anni prima anche il tratto di spiaggia sottostante aveva fatto parte della proprietà, ma adesso apparteneva al demanio. Nei tre mesi estivi brulicava di bagnanti che spesso si inerpicavano sul sentiero roccioso e giungevano fino al parco. Proprio per questo suo padre aveva fatto costruire sotto l'insenatura un cancello di legno, con l'indicazione che da lì iniziava la proprietà privata. Ma ormai la stagione era finita e la spiaggetta deserta. Francesca iniziò la discesa saltando per i gradoni come quando era bambina. Si sentiva serena, leggera. E padrona del mondo: che si era ristretto ad una microscopica oasi di silenzio e di luce. «Questo non risolverà nulla, Nicola.» Una voce, di ragazza, triste e sottile, schioccò nell'oasi come una staffilata.
Francesca si fermò sul penultimo gradone paralizzata da uno spavento che l'altra parte di lei subito ritenne spropositato. «Milly, vuoi farmi impazzire?» Era un rauco sussurro maschile, questo, e il tono era così angosciato che Francesca Si accorse di tremare. «É finita, vuoi capirlo?» Di nuovo la ragazza. «Non posso perderti, non posso accettare la tua decisione senza lottare.» Il sussurro era diventato un grido d'amore. «Vuoi cominciare violentandomi ?» Nessuna risposta. Lentamente, come ipnotizzata, Francesca risalì tre gradoni e si nascose alla destra del sentiero, dietro un cespuglio d'oleandri. Da lì poteva guardare l'insenatura, e quel che vide la turbò profondamente. Una coppia seminuda stava dibattendosi sulla sabbia. La ragazza si ritraeva con furia e il ragazzo tentava di inchiodarla sotto di sé. A un certo punto lei riuscì a risollevarsi e Francesca si ritrovò a studiarla trattenendo il fiato. Era magrissima, il collo lungo e i capelli biondi pettinati alla paggio. Una mano del ragazzo Si mosse e Francesca ne seguì come stregata il movimento. La vide posarsi su un seno piccolo e rosato che le diede una violenta sensazione di repulsione. La tenerezza con cui le belle dita cominciarono ad accarezzare quel seno le apparve oscena. Si sollevò di scatto dai cespugli e scese i gradoni volando come una furia sulla radura. «Questa è proprietà privata, non avete visto il cartello?» strillò. Il ragazzo si sollevò istantaneamente, come azionato da una molla, e Francesca dovette farsi violenza per distogliere gli occhi dalle sue nudità. Rivolse lo sguardo alla ragazza che si era rannicchiata su se stessa nascondendosi la testa fra le ginocchia. Bionda e scomposta, sembrava un angelo a cui avessero spezzato le ali. Anziché impietosirla, questo accrebbe l'ira di Francesca. «Dico anche a lei, signorina. Non ha sentito? Questa è proprietà privata.» Il ragazzo le si eresse di fronte minaccioso. «Adesso piantala, stronza. Se ti togli dai piedi raccogliamo la nostra roba e sgombriamo il possedimento.» Teneva i pugni stretti, quasi dovesse sforzarsi per non picchiarla. Francesca si scostò istintivamente, e udì l'angelo sussurrarle gentile: «Scusaci, hai ragione». «Ma quale ragione? É solo una maleducata e una guardona. Nessuno ti ha insegnato il rispetto per il prossimo, ragazza? Non hai capito che stavamo affrontando un problema maledettamente nostro?» Francesca, il viso di fuoco, indicò verso il basso. «C'è il cartello...» Il ragazzo la fissò interrogativamente, e lei notò che aveva gli occhi arrossati, come se avesse pianto. «Il cartello che indica la proprietà» precisò sentendosi un'idiota. «Ancora! ?» «Ti prego, Nicola, andiamo via.» La ragazza, Milly, si era alzata e si stava rivestendo in fretta. «Non sono una guardona» puntualizzò Francesca. Aveva ritrovato la padronanza di sé e l'imbarazzo era sparito lasciando posto alla stizza. «Scendendo qui, nella mia
spiaggetta, vi ho sentiti. E visti.» «Non ti è venuto neppure in mente di tornare indietro? Una persona educata lo avrebbe fatto.» «Dovrei scusarmi io, ora? Senti da che pulpito arriva la lezione... Due persone educate i loro problemi intimi se li risolvono a casa. O a letto. Non in una spiaggia pubblica.» «Oh, oh! Non avevi detto che questa è una spiaggia privata? La verità è che sei una...» La frase restò sospesa. L'angelo biondo aveva aperto il cancellino di legno e stava scendendo a grandi passi giù per il sentiero. «Milly, dove vai? Aspettami!» Il ragazzo la inseguì correndo, come se il mondo rischiasse di sparire con lei. Francesca li vide girare la curva sotto gli scogli e per qualche istante restò ridicolmente impalata, come se due alieni le fossero apparsi per svanire subito nel nulla. In un certo senso era proprio così. Per la prima volta aveva avuto un incontro ravvicinato con la passione, e si sentiva confusa e turbata. Ma soprattutto immalinconita. Allargò il lenzuolo sulla sabbia, si sfilò i jeans e si sdraiò con la faccia rivolta al sole, le mani intrecciate dietro la nuca. Ripensò alla ragazza che pochi minuti prima era distesa in quello stesso posto. La sua voce gentile, l'affannosa vergogna con cui aveva tentato di coprirsi, la dignitosa compostezza con cui si era allontanata. Io non diventerò mai così, si disse. Sono sgraziata, scorbutica e villana, e nessuno potrà mai amarmi come è amata lei. Riandò col pensiero al nudo corpo di statua del ragazzo. Nicola, sì. Solo ora le veniva in mente ciò che a quanto pareva aveva osservato senza rendersene conto: i folti capelli resi irti da una curiosa rosetta alla sinistra della tempia, gli occhi chiari dal taglio allungato, gli incisivi superiori leggermente accavallati. E quelle dita lunghe e bellissime. Francesca, arrossendo, le rivide nel gesto di una lenta carezza e d'istinto si portò le mani sul seno. Stringendolo a coppa, si sentì rimescolare tutta. Come quella sera di sei mesi prima, quando Gianni Guidi, il ripetente della terza D, l'aveva riaccompagnata a casa dopo una festa di compleanno. Arrivato sotto casa, le aveva circondato le spalle e, tirandosela contro, l'aveva baciata sussurrando: «Sono due mesi che volevo farlo». Perché si era ritratta? Gianni le piaceva e anche lei desiderava baciarlo. Prima di lui le erano piaciuti Franco, Massimo, Paolo. Di Massimo aveva creduto addirittura di essere innamorata. Perché si erano lasciati? Di che cosa aveva avuto paura? Non buttarti via. Non flirtare con leggerezza. Concedi te stessa soltanto a un ragazzo eccezionale. Le raccomandazioni dei suoi genitori. Mi hanno educata con troppo rigore, come una pudibonda fanciulla dell'Ottocento, pensò. E nonostante
abbiano fatto di tutto per convincermi che sono una persona straordinaria, non sono riusciti a trasmettermi l'autostima. Lo sforzo di essere all'altezza della loro grandiosa opinione era sempre stato sproporzionato rispetto ai risultati. Per quanto cercasse di rendere suo padre e sua madre orgogliosi di lei, alla fine le sembrava sempre di non aver fatto abbastanza, di averli delusi. Per punirsi assumeva atteggiamenti tali da provocare una dolorosa e scoperta disapprovazione. Fin dall'adolescenza conviveva con una smania di consenso puntualmente frustrata; e il peggio era che, tutta tesa a piacere agli altri, aveva finito col non piacere a se stessa. É che non mi riconosco nel mio modo di comportarmi e di reagire. La mia esistenza è stata come una recita, e a volte ho l'impressione di non capire più che cosa realmente penso e voglio. La mente riandò a Nicola, il ragazzo di poco prima. In questo momento so esattamente quel che vorrei: trasformarmi in Milly e sentire la carezza di quelle mani, il tono appassionato di quella voce. Invece nessuno la desiderava, la rincorreva o piangeva per lei. Era sola e padrona nella «proprietà privata» strenuamente rivendicata. Stronza. Il ricordo di quell'insulto, di nuovo, la riempì di vergogna. Come aveva potuto comportarsi in modo tanto odioso? Si mise a sedere, nervosamente, ricostruendo quanto era accaduto al fine di trovare una giustificazione. Dopotutto lo stronzo era stato lui. Sorpreso a fare i propri comodi in casa d'altri, invece di scusarsi e andarsene aveva reagito a parolacce e insulti. Si concentrò nello sforzo di provare antipatia e rabbia, ma inutilmente. Basta. Tirò fuori dal borsone una biografia di George Sand che aveva trovato tra i libri di suo padre e cominciò a leggere. Come sempre le accadeva, ben presto la lettura la estraniò da tutto, se stessa compresa. Quando sollevò gli occhi dal libro e guardò l'orologio si accorse che era l'una. Amelia aveva lasciato sul tavolo della cucina un'insalatiera con del radicchio tagliato, un piatto di formaggi, due panini e una spremuta di arancia. Contro un bicchiere aveva posato un biglietto: «Ha telefonato la mamma di preparare la tua roba perché partite stasera». Agli ordini, signora. La prospettiva di quella partenza anticipata, sia pure di poche ore, la mise di buonumore. Addio Nervi. E addio odore di muffa, letture solitarie, cattivi pensieri. Da ora in avanti, si ripropose, vivrò come tutte le ragazze della mia età. Voglio imparare a ballare e a civettare, a dire cose stupide e a stare in mezzo agli altri.
Imbottì un panino con una fetta di formaggio e cominciò a morderlo scoprendo di avere fame. Se ne preparò un altro e condito il radicchio, vuotò anche l'insalatiera. Infine bevette la spremuta. Passò in soggiorno e accese il televisore. Il telegiornale era alle ultime battute. Francesca si allungò sul divano e cambiò canale. Si accorse di essersi profondamente addormentata quando udì, senza vederla, sua madre. «Che cosa stai facendo con le finestre chiuse?» «Che ore sono?» «Quasi le sette. Stai poco bene?» «No, no.» Sua madre aveva acceso la luce e lei si sollevò ancora insonnolita. «Cosa ne dici, Francesca? Ugo ha voluto a tutti i costi tagliarmi i capelli...» «Ma li hai anche schiariti!» Il sonno era passato. «Solo qualche colpo di sole. E allora, ti piaccio?» «Non so, devo abituarmi.» Con quelle ciocche chiare e sforbiciate appariva molto più giovane. «Sembri una ragazza» le sfuggì. Il sorriso compiaciuto di sua madre la sorprese, in quanto non aveva inteso farle un complimento. Non le andava che sembrasse una ragazza, quel viso sbarazzino le comunicava una sensazione di inspiegabile fastidio. «A papà piacevano i tuoi capelli di prima» osservò. «Dopo vent'anni avevo voglia di cambiare.» «E dopo il lifting non ti riconosceremo più» Francesca rise amaro. «Ehi, che tono. Cambiando discorso, hai preparato la tua roba?» «Non ancora. Ma perché partiamo stasera?» «Perché papà domattina alle otto deve essere a Linate. L'amministratore gli ha telefonato stamane per avvertirlo che hanno vinto l'appalto per quei lavori in Nigeria e che lo aspettano d'urgenza a Lagos per firmare il contratto. É andato a Imperia a parlare con l'ingegnere che dovrebbe dirigere il cantiere e da lì è tornato direttamente a Milano. Adesso sbrigati, prepariamo i bagagli e lo raggiungiamo.» «Ma non ti dà fastidio guidare di notte?» «Andremo piano, nessuno ci corre dietro. E possiamo fermarci a mangiare un boccone in un autogrill. Ora muoviti, io in mezz'ora sono pronta.» Francesca odiava dover fare le cose in fretta, fosse anche chiudere quattro indumenti in una valigia. Le metteva agitazione, le impediva di concentrarsi. Dirigendosi controvoglia verso la sua stanza le venne in mente quel che la signora Vitali, la professoressa d'italiano, le aveva detto una volta scherzando: «Il perfezionismo è un'infiammazione della scrupolosità e, non curato, può diventare una grave malattia». Purtroppo ne aveva avuto la prova agli esami di maturità. Il timore che l'incidente potesse ripetersi le diede i brividi. Con la fine delle vacanze era finita anche la tregua. Avrebbe dovuto ricominciare a studiare e riascoltare i predicozzi della Vitali. Ripiegando gli indumenti, le venne da chiedersi come la saggia e perfetta professoressa avrebbe reagito se si fosse trovata di fronte alla coppia della spiaggetta. Probabilmente si sarebbe infuriata come lei. Benché trasudasse progressismo, era sposata con un magistrato che godeva la fama di essere un rigido e inflessibile reazionario: e non si può vivere tanti anni insieme senza finire per rassomigliarsi.
Chissà cosa avevano in comune Milly e Nicola. Nel momento stesso in cui se lo chiedeva, Francesca si sentì ridicola. Cosa diavolo le veniva in mente? Più tardi, in autostrada, la sua mente tornò improvvisamente a loro e con sbalordimento si udì raccontare a sua madre: «Oggi, alla spiaggetta, c'erano un ragazzo e una ragazza che facevano l'amore». Sentì, fisicamente, il sobbalzo di lei. «E tu, cosa hai fatto?» «Gli ho detto che era proprietà privata e li ho mandati via.» «Bisognerà cambiare lucchetto e mettere un cancello più alto. Comunque hai fatto malissimo a discutere, dovevi risalire in casa e avvertire il custode. Potevano essere due drogati o chissà che.» «Erano persone perbene» tenne a precisare Francesca. «Come fai a affermarlo? Due persone perbene non fanno certe cose in pubblico» «É quel che gli ho detto io. E Milly, la ragazza, si è molto offesa.» «Milly? Come fai a sapere il suo nome? Francesca ti ho detto mille volte di non dare confidenza agli estranei. Il ragazzo poteva essere armato, avere una reazione violenta.» «Per poco non mi picchiava, infatti.» Adesso Francesca era quasi divertita. Parlare dell'episodio l'aveva aiutata a scacciare il malessere. Accorgendosi di aver spaventato sua madre, si affrettò ad aggiungere: «Non è che fosse un violento, si è semplicemente sentito in dovere di difendere la sua ragazza. Si stavano lasciando e lui aveva gli occhi rossi». «Sembra che tu abbia assistito alle riprese di una telenovela» notò sua madre, subito sollevata. «Non ci si ama solo nelle telenovelas.» «No. Ma nella vita vera i grandi amori sono più rari ed il lieto fine non è garantito.» «Mi piacerebbe vivere un grande amore.» «Spero un po' diverso da quello della ragazza di cui parlavi. É indecente andarsi a rotolare per spiaggette e sedili di automobili.» «Tu vedi il male dappertutto, mamma! Con te non si può mai fare un discorso serio.» «Guarda che sono molto seria, Francesca.» Aveva rallentato l'andatura, adesso. «L'amore è rispetto, bellezza e dignità. E non esiste niente di tutto questo negli approcci frettolosi o negli amplessi rubati qui e là.» «Il ragazzo di stamattina era molto innamorato.» «E come lo sai? Io non credo. Un uomo innamorato non mette mai la sua donna nelle condizioni di vergognarsi, o di perdere la stima di sé.» «Ora sei tu, mamma, a parlare come in una telenovela! Tutte le mie compagne hanno il ragazzo, e penso che facciano spesso l'amore in macchina o in posti solitari. La diversa sono io, l'unica vergine della classe.» «Avresti preferito darti a un ragazzo qualunque per sentirti uguale alle altre? Il sesso senza amore è un'esperienza squallida che ti sei saggiamente risparmiata.» «E se fossi incapace di innamorarmi ?» Diana Fasser rise teneramente. «É una paura ridicola Tu sei diversa dalle altre solamente perché non ti accontenti di un ragazzo qualsiasi: ti innamorerai quando incontrerai una persona davvero degna di te.» Tolse una mano dal volante e le arruffò i capelli. «Devi credere alla mamma, Franci. E non dimenticare mai quanto vali. Hai diciotto anni soltanto. Dio, se li avessi io!»
CAPITOLO 4 La professoressa Vitali abitava in corso di Porta Romana, all'ultimo piano di un palazzo ottocentesco con il classico giardino d'ombra all'interno. «Scala a sinistra, l'ascensore è nell'ammezzato», le indicò la portinaia. Il vecchio ascensore a gabbia salì con cigolante lentezza portandola davanti a tre porte d'ingresso con le targhe di ottone tirate a lucido. Su nessuna lesse il cognome Vitali: a quanto pareva, il severo magistrato si era fagocitato il cognome della moglie. Già, ma qual era il suo? Se indovino al primo colpo passerò gli esami con sessanta, Francesca scommise profeticamente con se stessa; e scartati d'istinto Gardella e Buratti premette il dito sul campanello dei Brentano, aspettando con ridicola ansia la conferma di aver suonato alla porta giusta. Quando la porta si aprì, lei ebbe la certezza che mai più nella vita avrebbe potuto dimenticare la violenta sensazione che provò in quel momento: di fronte a lei si trovava Nicola, il ragazzo della spiaggetta. Fu come sentirsi trascinata all'improvviso alle soglie di una dimensione irreale dove non esistevano più né suoni, né emozioni, né tempo. Per una frazione di secondo le parve di essere sparita e di galleggiare nel vuoto. Poi passò. Sentì le orecchie ronzare, il pianto di un bambino e il cigolare dell'ascensore che scendeva. Il contatto con la realtà fu ristabilito e accolse con gioia l'urgere di sensazioni familiari: sorpresa, disagio, ridicolo. «Che ci fa lei qui?» chiese sgarbatamente, accorgendosi che il ragazzo, fermo dietro la porta, la stava fissando con curiosità. «Oh, il suono d'arpa della tua voce! Adesso ho capito chi sei, la guardiana del paradiso.» Quegli occhi chiari pieni di scherno mandarono Francesca su tutte le furie. «Che ci fa qui ?» ripeté. «Proprietà privata» la sbeffeggiò. «Infatti sono sull'uscio di casa mia.» «Dovrei sprofondare per la vergogna?» lo provocò cupamente. «Non disturbarti. É sufficiente dire che cosa vuoi.» «Cerco la professoressa Vitali.» «Se non vendi saponette o cerotti, entra pure.» «Sono Francesca Fasser, e la signora mi aspetta per una lezione d'italiano.» Nicola si fece da una parte per farla passare, abbozzando un inchino. «Ah, ah, sei il genio del tema in bianco! Ma che fai lì impalata? La professoressa Vitali è mia madre e ti sta aspettando.» «Come fai... fa a sapere del tema in bianco?» «Dammi pure del tu, tra vecchi amici si usa. E non sottovalutarti, nella storia degli esami di maturità il tuo nome resterà scritto a lettere d'oro: hai fatto davvero sensazione.» La introdusse in uno studio con le pareti tappezzate di libri. «Siediti da qualche parte, vado a avvertire che sei arrivata.» Un altro ironico inchino e Nicola scomparve.
Era pazzesco, incredibile averlo ritrovato in questa circostanza. All'idea che avesse raccontato alla madre il modo in cui era stato scacciato dalla spiaggetta si sentì rabbrividire. Ma no, cosa andava a pensare? Nicola aveva tutto l'interesse a star zitto: sarebbe stata la signora Vitali a vergognarsi, se il figlio le avesse raccontato come si era comportato lui. Con buona pace del papà magistrato, si trattava in pratica di atti osceni in luogo pubblico. Chissà perché quella mattina Nicola era a Nervi. Fine delle vacanze? Week-end d'amore? E Milly era un incontro estivo oppure un amore che durava da tempo? A Francesca venne la curiosità di sapere se era davvero finito. Forse no. Nel viso e nei modi del ragazzo che le aveva aperto la porta non vi era traccia di sofferenza. Questa considerazione le sembrò subito idiota: cosa pensava, che dopo tre settimane avesse ancora gli occhi rossi e la voce straziata? Non posso accettare la tua decisione senza lottare. L'ipotesi più probabile era che avesse lottato e vinto. E che la storia con Milly fosse ripresa felicemente. É impossibile, rifletté, respingere un ragazzo che ti ama tanto e non ricambiare il suo amore. «Francesca, cosa fai in piedi? Sono contenta di rivederti, e così in forma.» La signora Vitali si stava avvicinando a braccia protese e, come le fu di fronte, la strinse affettuosamente a sé. «Sono contenta soprattutto che ti sia convinta a riprendere la scuola, sia pure da privatista.» La condusse verso un piccolo divano e si sedette accanto a lei. «Quel che conta è mettere una pietra sul passato e ripartire seriamente. Una bravata come quella di quest'anno non te la perdonerei più!» «Neppure io. Non so ancora, mi creda, che cosa mi è successo.» «Capitolo chiuso. Come dicevo a tua madre, fino alla prossima primavera basterà che io ti dia un paio di lezioni al mese. Di più non servirebbe. Non sei una ripetente piena di lacune, perciò mi limiterò a interrogarti e a leggere i temi che ti avrò dato da svolgere a casa. E chiaro che devi organizzarti bene. In matematica sei sempre stata più debole, perciò avrai bisogno di un maggior numero di lezioni e soprattutto di maggior impegno.» Francesca assentì. «Ho cominciato ieri, e andrò a lezione tutti i mercoledì. Per greco e latino non so ancora, devo incontrarmi con il professore dopo le vacanze dei morti.» «Quanto sarebbe stato più semplice se avessi ripetuto regolarmente!» «Non ce l'avrei mai fatta a tornare al Parini. Lo so che è una paranoia, ma...» «In tutta franchezza, al posto dei tuoi genitori sarei stata più inflessibile. Non è "paranoia", Francesca, ma vanità. Al tuo orgoglio di eterna prima della classe bruciava affrontare dei nuovi compagni come ripetente.» «Mi sembra normale...» «No, se si rifiuta con tanta violenza un ruolo perdente o una sconfitta. Assecondando questo atteggiamento, tuo padre e tua madre ti hanno impedito una salutare esperienza. E gliel'ho detto con la stessa franchezza con cui lo sto dicendo a te.» «Signora Vitali, io non le piaccio, vero?» Subito si pentì di averglielo chiesto. Sarebbe stato orribile averne la conferma. «Santo cielo, spero di non averti dato questa impressione!
Perché mai non dovresti piacermi? Sei una delle migliori allieve che abbia mai avuto e provo molto affetto per te. Proprio per questo ti ho ripresa spesso. Nello sforzo di emergere stavi perdendo di vista tutto il resto. L'intelligenza è un talento pericoloso se è speso senza comprensione e amore. La decantata solitudine del genio è soltanto l'infelice punto di arrivo di una strada sbagliata. O, se preferisci, un monumento della superbia.» «Non sono un genio» ribatté Francesca sentendo il rossore pizzicarle le gote. E non sono venuta qui per ascoltare i tuoi predicozzi infarciti di banalità e retorica, avrebbe voluto aggiungere. «É quello che spero» sorrise la donna. Il telefono interruppe la presumibile spiegazione di questa speranza. Uno squillo, due squilli, tre squilli... Francesca ne contò otto prima che la signora Vitali si alzasse a rispondere. «Nicola, è per te» richiamò il figlio dalla porta dello studio. «É possibile che non vada mai a rispondere?» Dieci minuti dopo, quando la lezione era appena cominciata, il ragazzo fece capolino per annunciare che usciva e sparì. Francesca ebbe l'impressione che non l'avesse neppure vista. «É mio figlio» disse la Vitali. «Un altro ragazzo con la vocazione del genio» soggiunse con voce leggera. Francesca lo rivide la terza settimana di novembre, sul pianerottolo di casa Brentano-Vitali. Terminata la lezione d'italiano, lei stava aspettando l'arrivo dell'ascensore quando udì aprirsi la porta e si ritrovò accanto Nicola. «Scendo anch'io» le disse. Guardò l'orologio e poi si sporse con impazienza sulla tromba delle scale. Sembrava avere molta fretta. Finalmente il cigolante monumento si arrestò al piano. Il ragazzo allargò le portine ed entrò dopo di lei. Mentre l'ascensore scendeva, di nuovo guardò l'orologio. «É molto lento» Francesca osservò rischiarandosi la gola. Nicola parve non capire. «Ah, sì» disse poi. La discesa era finita. Dall'ammezzato raggiunsero insieme il piano terra e poi il portone. Pioveva a dirotto, e Francesca si inchiodò sul marciapiede udendo il fragore di un tuono. Aveva il terrore dei temporali. «Se non hai l'ombrello» Nicola osservò quasi sgarbatamente «ti conviene risalire e fartene prestare uno da mia madre.» «Non importa, vado al bar là in fondo e chiamo un taxi.» «Ti saluto.» «Sì. Ciao.» Sembrava che tutte le auto di Milano transitassero in quel momento per corso di Porta Romana impedendole di attraversare la strada. Francesca sollevò la cartella sulla testa e approfittò del varco di un breve rallentamento per raggiungere l'altro lato del marciapiede. Era a pochi metri dal bar quando udì, contemporaneamente, lo strombazzare di un clacson e il richiamo di Nicola proteso dal finestrino di una Mini rossa. «Ehi, da che parte devi andare?» «Via Vivaio. Chiamo un taxi e...» «Sali, sto andando giusto dalle parti di San Babila.» «Non dovevi disturbarti» Francesca disse quando fu seduta. «Nessun disturbo. Te l'ho detto, sono sulla strada.» Le gettò un'occhiata ironica: «Non ti facevo tanto riservata e educatina».
«É solo nella proprietà privata che do sfogo alla mia vera personalità.» «Uhauu! Spiritosa, la ragazzina. Come hai detto che ti chiami?» «Francesca.» Si erano imbottigliati, adesso, e Nicola, dopo aver guardato l'orologio, cominciò a picchiettare nervosamente le dita sul volante. Francesca ricordò di aver già notato la singolare bellezza di quelle mani e, avvampando, le rivide indugiare su un piccolo e roseo seno. «Stai andando da Milly?» chiese avventatamente. Nicola ebbe la prevista reazione. Guardandola con gli occhi a fessura comunicò secco: «No, Milly mi ha lasciato, e sto andando da lei solo per restituirle alcune cose.» La fila ricominciò a muoversi e la Mini ripartì. «Mi dispiace.» «Di più a me.» «Perché ti ha lasciato?» Dovrei tagliarmi questa linguaccia, adesso mi uccide. Nicola sorrise sinistramente. «Sei curiosa, insensibile e cafona, talenti ideali per sfondare come star del giornalismo pettegolo. É una idea, non disperderti in vocazioni alternative.» «Guarda che esiste anche una curiosità umana! Si chiede per conoscersi, per stabilire un contatto...» Francesca proruppe offesa. «E che cosa ti fa credere che io desideri stabilire un contatto con te?» «L'imbecillità. Hai dimenticato di includerla tra i miei talenti naturali» sibilò. «Senti, non sono nell'umore per sostenere una brillante schermaglia da commedia hollywoodiana. Volevi sapere perché Milly mi ha lasciato? Semplice: non mi amava abbastanza per concedermi tempo e fiducia. Ti basta?» Francesca riuscì miracolosamente a trattenere un candido e irrefrenabile «no». Era ovvio che avrebbe voluto saperne di più, ma non gli diede la soddisfazione di sentirsi rivolgere altre domande. Chissà per che cosa Nicola aveva chiesto tempo e fiducia. Non sapeva nulla di lui però, sarcasmo a parte, aveva tutta l'aria di essere un bravo ragazzo. Non era possibile che Milly non si fidasse, di certo stava perseguendo una delle tattiche ricattatorie squisitamente femminili per metterlo con le spalle al muro. Intanto era caduto nella trappola di questo appuntamento. Vedendolo guardare per la centesima volta l'orologio si sentì tremare di rabbia. Quella non scappa, fu sul punto di urlargli. Invece strinse le labbra e si eresse sul busto, inchiodando i palmi delle mani sul sedile. Continuava a piovere, e lo strascicato sibilo dei tergicristalli faceva da sottofondo al clacson delle auto imbottigliate. Se guarda un'altra volta l'orologio lo strozzo, pensò, mentre, con voce mielata, diceva: «Non preoccuparti, Milly ti aspetterà certamente». «E chi si preoccupa?» «Continui a guardare l'orologio.» «É perché tra un'ora ho un altro appuntamento.» «Con... con un'altra ragazza?» Era così stupefatta che balbettò. La risata fragorosa di Nicola le fece capire di aver detto un'idiozia. «Mi hai preso per un assatanato? No, devo prelevare un amico e andare a vedere un quadro.» Gli
interessa più il quadro di Milly, Francesca annotò con meticolosità. «Non potrai stare molto con lei» tradusse a voce alta. «Quel che dovevamo dirci, ce lo siamo già detto.» «A quanto pare, sei uno che si rassegna senza lottare.» «Non mi sono rassegnato affatto.» «Non capisco...» «La vita, ragazzina, è tutta questione di precedenze e di tempi.» Il flusso delle auto era ripreso lentamente e mentre Nicola rimetteva in moto Francesca attese col fiato sospeso che finisse il discorso. «Milly è la donna fatta per me, ma per il momento debbo lasciarla andare: per averla devo, prima, vincere un'altra lotta.» Francesca non tentò neppure lo sforzo di tacere. «Quale?» «É un discorso lungo e laggiù c'è San Babila. Te lo spiegherò un'altra volta, se capiterà l'occasione.» L'ultimo semaforo era verde e occorsero trenta secondi per arrivare all'angolo della piazza. «L'occasione capiterà perché mi sono presa una cotta per te.» Francesca disse con voce dignitosa mentre apriva la portiera. La chiuse lentamente davanti alla faccia incredula di lui e, prima di girare le spalle, agitò festosamente una mano in gesto di saluto. Tanto valeva aver fatto fuori subito il problema. Si diresse verso il parcheggio dei taxi con un senso di enorme sollievo.
CAPITOLO 5 Diana Fasser uscì dall'anestesia passando istantaneamente dal torpore alla lucidità, come se il suono della sveglia l'avesse destata dopo una lunga notte di sonno ristoratore. Sollevò le mani verso il viso e le insinuò sotto la borsa del ghiaccio, percorrendo lentamente, con una delicata pressione dei polpastrelli, tutta la superficie coperta dalle bende. Sembrava che non avesse fine, quasi il viso e la testa si fossero smisuratamente ingranditi. Per qualche istante ebbe l'impressione che tutta la sua persona si fosse concentrata in quella cosa gonfia e estranea che sentiva pulsare sordamente. Accentuò la pressione, ma pelle e muscoli erano privi di sensibilità. Riportò le mani contro i fianchi. Non provava né paura, né curiosità né fretta e si abbandonò a quell'assenza di emozioni come se galleggiasse, avvertendo un benessere esclusivamente fisico. «Brava. Si rilassi, stia ferma.» La voce giungeva da lontano, con un suono ovattato e irreale che la cullava sopra le onde spingendola a lasciarsi andare sempre di più, sempre di più... Ma d'un colpo la voce diventò fastidiosamente vicina strappandola con violenza dal galleggiante torpore. Vedendo il professor Alberti curvo su di lei, si rese conto di essersi profondamente addormentata. «É andato tutto bene, signora Fasser. No, non si tocchi.» «Sono tutta gonfia e mi sento bruciare le orecchie.» «Non si preoccupi, è normale. Domattina il gonfiore sarà sparito e non avvertirà più alcun dolore» la rassicurò il chirurgo. «Come fa a capire fin da ora che è andato tutto bene? Non bisogna aspettare qualche giorno per esserne certi?» I timori e i dubbi della vigilia erano ritornati con urgenza. Gino Alberti le batté due affettuosi colpetti sulla mano. «Credevo di aver risposto a tutti gli interrogativi possibili nel nostro colloquio della scorsa settimana» sorrise con aria di rimprovero. Era vero. Pennarello alla mano, aveva indicato su una foto di lei, appositamente scattata, tutti i punti in cui sarebbe intervenuto sollevando, incidendo e tirando. E poi era passato a illustrare minuziosamente come e con quali risultati. «Il lifting non è un'estrazione del lotto» aveva concluso, «e, fatti salvi i rischi che tutte le operazioni comportano, la sola incognita è se darà risultati ottimi oppure mediocri.
Questo dipende sia dall'abilità dell'operatore sia, soprattutto, da peculiarità individuali: età, salute, struttura e tono dei muscoli e del derma, buona ossigenazione, eccetera eccetera. Lei possiede tutti i requisiti per prevedere un risultato ottimale...» Con un'onestà professionalmente encomiabile l'aveva però invitata a riflettere sull'eventualità di rimandare l'intervento di un paio d'anni: «Mi capita di operare donne anche più giovani di lei ma perlopiù si tratta di cantanti o attrici. I riflettori enfatizzano senza pietà il più piccolo cedimento, e per loro potersi esporre a cineprese o telecamere senza la preoccupazione di dover controllare ogni movimento può essere un'esigenza irrinunciabile. Ma lei non ha questi problemi, a occhio nudo il suo viso appare ancora fresco e giovane.» «Perché lei non sa come sono stata guardata l'ultima volta che ho fatto l'amore» avrebbe voluto piangere. Spogliandosi, aveva intercettato due occhi che la scrutavano con desiderio, ma anche con meticolosità, con indugio, con tenerezza compassionevole. Altro che telecamere o cineprese! Era stato il ricordo di quello sguardo a farle rispondere in fretta: «La ringrazio per tutto quanto mi ha detto, ma preferisco non aspettare». Adesso, però, paventava il momento in cui, tolti i cerotti e l'intelaiatura delle bende, avrebbe visto il suo nuovo volto allo specchio. E se si fosse verificato l'imponderabile? Se l'effetto fosse stato, anziché ottimo o mediocre, sciaguratamente catastrofico? Sapeva, il chirurgo le aveva preannunciato anche questo, che sarebbero occorse un paio di settimane perché sparissero tutte le tracce dell'intervento. Ma nonostante fosse preparata, era certa che si sarebbe spaventata a morte il momento in cui, sfasciata, avrebbe visto gli occhi circondati da un alone bluastro e il viso qui e là segnato dalle livide ombre delle ecchimosi. «L'infermiera passerà a farle un'iniezione calmante» disse il professor Alberti congedandosi, e Diana si accorse di essersi dimenticata della sua presenza. Rimasta sola, si impose di distogliere la mente da tutti i pensieri neri, ma nonostante gli sforzi non riuscì a concentrarsi su nulla che le desse tranquillità o consolazione. La giovinezza se n'era andata, e a ricordarglielo c'era quel fastidioso senso di calore, quel sordo indolenzimento agli zigomi e alla mascella, come di ossa fratturate e ricomposte. Da ora in poi guardandosi allo specchio non avrebbe provato più alcuna gioia, perché dietro quel suo viso liscio avrebbe riconosciuto l'artificio del chirurgo che aveva scollato, tagliato, tirato e ricucito. Sei bellissima. Il familiare complimento, anziché darle eccitazione e orgoglio, le avrebbe provocato l'umiliazione di sapersene immeritevole. I suoi meriti, del resto, non erano tutto un bluff? Chiuse gli occhi con un sospiro, e il volto di sua figlia emerse come un doloroso fantasma, distogliendola da se stessa. Ho fatto di Francesca una ragazza infantile, orgogliosa e sventata, si disse aprendo un nuovo filone di amarezza.
Riandò col pensiero a quando era piccolissima e lei se la portava nel lettone matrimoniale per guardarla e averla più vicina. Perché non era riuscita a trasmettere a Francesca la capacità di essere fiduciosa e spensierata come le sue coetanee? Ricordando la prima volta che l'aveva presa tra le braccia avvertì lo stesso struggimento, la stessa sensazione di dono miracoloso e gli occhi le si inumidirono. Ricacciò le lacrime. Non doveva piangere, le lacrime avrebbero potuto nuocere alle microscopiche suture lungo le palpebre. La frivolezza di quello scrupolo la mortificò. Sono una donna superficiale e fatua, pensò, e Giovanni meritava una moglie migliore di me. Ma era proprio vero? Non era forse per lui che si ritrovava in quel letto con la faccia ricucita e dolorante? Tutto è cominciato per colpa sua, si disse. Mi ha dato ricchezza, prestigio e tenerezza, ma neppure nei momenti di intimità sono riuscita a sentirmi davvero sua. Mi ha tenuta fuori dalla sua vita come se fossi una sciocca bambina da viziare e proteggere. Non mi ha mai confidato le sue preoccupazioni, non mi ha mai raccontato i suoi successi, non mi ha mai fatto capire di aver bisogno di me. Ha fatto invece di tutto perché fossi io ad aver bisogno di lui, e così facendo mi ha reso dipendente e insicura. Il lifting è il monumento della mia mancanza di autostima e Francesca il prodotto naturale di una madre che le ha saputo trasmettere soltanto paure e tabù sotto forma di bellissime parole. «Andiamo bene, signora?» La voce dell'infermiera la fece sobbalzare. «Devo farle l'iniezione.» Diana Fasser si girò su un fianco. L'intrusione era stata provvidenziale perché aveva interrotto il flusso dei suoi pensieri proprio quando stavano inesorabilmente trascinandola dove c'erano soltanto angoscia e rimorsi. Quando l'infermiera uscì, il pericolo era ormai scongiurato perché le venne all'improvviso in mente che né suo marito né sua figlia sapevano che quella mattina lei era stata operata. Avrebbe dovuto comunicarglielo adesso, prima che tornassero a casa per il pranzo e si preoccupassero della sua sparizione. E non soltanto: doveva trovare le parole più convincenti per spiegare che uscita dalla clinica si sarebbe fatta portare direttamente nella casa di Nervi. Non sopportava che la vedessero con la faccia incerottata o con il patetico schermo degli occhiali da sole. Allungò una mano verso il telefono, già innervosita per la prevedibile reazione di sorpresa e di disappunto che quanto stava per dire avrebbe provocato. Lasciò definitivamente Nervi il 5 dicembre, nelle prime ore di una mattina gelida e ventosa, dopo tre brevi viaggi a Milano per i controlli di routine. Aveva evitato di parlare e al marito e alla figlia per non correre il rischio che la raggiungessero in clinica, così come non aveva precisato l'ora del ritorno a casa. Era intenzionalmente partita presto, per arrivare quando Giovanni e Francesca fossero già usciti, in modo da avere un paio d'ore di tempo per fare una doccia e rilassarsi prima di subire il loro esame.
Mentre l'ascensore saliva, si sentiva tesa ed eccitata proprio come se fosse stata una studentessa che si preparava a sostenere una prova importante consapevole di essere perfettamente preparata. Come il chirurgo aveva previsto, il lifting aveva dato il migliore dei risultati. E ripensando al tremendo istante in cui lo specchio le aveva rimandato l'immagine di un viso estraneo e giallastro, con gli zigomi gonfi e gli occhi contornati da un cerchio violaceo, non poté trattenere un sospiro di smisurato sollievo. Premette il campanello e aspettò impazientemente che Germana o Mario, i camerieri, venissero ad aprire. Non aveva neppure considerato l'eventualità che Francesca fosse rimasta a casa, così quando se la trovò di fronte sbottò, quasi aggredendola: «Ma non dovevi essere a lezione?». «Mamma...» Diana Fasser si rese conto di averla mortificata. «Scusami, Franci, sono in viaggio dalle sei di stamattina e ho i nervi a pezzi» disse stringendola in un breve abbraccio. «Ti trovo benissimo» sua figlia commentò con tono neutro, scrutandola. Il fastidio di Diana crebbe in misura irragionevole. La ragazza l'aveva psicologicamente spiazzata mandando all'aria il sorprendente incontro che aveva programmato con meticolosità. «L'operazione è riuscita abbastanza bene, infatti» replicò. E mentre si dirigeva verso la sua stanza da letto, Diana chiese di nuovo: «Ma tu, perché sei a casa a quest'ora?». «Avevo la lezione d'italiano.» «E allora ?» «Ieri sera il figlio della professoressa ha avuto un incidente d'auto. Niente di grave, però dovrà stare un paio di giorni all'ospedale e stamattina la Vitali mi ha telefonato di non andare a lezione.» «Figlio? Credevo che avesse una femmina.» «No, è un maschio e...» Francesca si interruppe. Stava per raccontarle chi era, come lo aveva rivisto, ma la voglia di confidarsi si spense sul nascere. La donna che si era seduta sul letto e la fissava con aria interrogativa, aspettando che proseguisse, le sembrava un'estranea. Benché i lineamenti fossero gli stessi, non c'era nulla di familiare in quel viso liscio di bambola. Era come se il bisturi le avesse tolto anche emozioni e ricordi. «Che cosa mi stavi dicendo, Franci ?» «Niente, mamma. Penso che vorrai riposare un po' e ti lascio.» Tornò nella sua stanza cercando di vincere un'assurda sensazione di perdita. Si sentiva come un'orfana, e al doloroso smarrimento si era aggiunta una repulsione istintiva. C'era qualcosa di spaventoso e indecente nell'infantile levigatezza di quel viso, e Francesca avvertì un remoto segnale di allarme. Si buttò sul letto e scoppiò in singhiozzi. Si accorse che sua madre era entrata soltanto quando sentì le mani di lei sulle spalle e il suono familiare dell'amata voce. «Cosa c'è, bambina? Ti prego non fare così. Avevo tanta voglia di vederti, e invece sono stata villana. Franci, smettila.» La sollevò dal letto e se la strinse contro, cullandola come quando era bambina. I fantasmi sparirono e Francesca gettò le braccia al collo di sua madre. «Mi sei mancata molto» disse.
«Anche tu. Ma adesso sono qui e non voglio vederti piangere. É così che si accoglie la mamma tutta nuova?» Francesca fece di no con la testa. E alzando gli occhi per guardarla, ritrovò nel viso nuovo la familiare espressione di ansiosa tenerezza. «Ti voglio tanto bene» disse. «Io ancora di più» Diana recitò allargando le braccia. Era il vecchio gioco di quando era bambina, e Francesca rise sollevata. «Non mi racconti niente, Franci? Voglio sapere tutto quello che è successo in questi dieci giorni. Papà come sta? Ti trovi bene coi professori ? Hai cominciato a studiare regolarmente?» «Una cosa alla volta, mamma!» «Forza, comincia dalla più importante.» «Mi sono innamorata» comunicò solenne. «Davvero innamorata» sottolineò. «Oh, mi sembra proprio importante! Ma lui chi è? Dove l'hai conosciuto?» «É il figlio della Vitali. Si chiama Nicola e...» Diana Fasser la interruppe. «Cioè è il figlio di Brentano, il magistrato?» «Sì, certo. Il giudice Brentano è il marito della Vitali» spiegò, infastidita che sua madre si perdesse in particolari irrilevanti. «É un ragazzo straordinario, e non indovineresti mai dove l'ho visto la prima volta. Ricordi di quando ti parlai di quella coppia...» «E lui, è innamorato di te?» sua madre la interruppe di nuovo. Ma stavolta Francesca non provò fastidio. La domanda mirava al centro della nota dolente. «Purtroppo no» rispose con un sospiro. «Anzi, da quando gli ho detto che lo amo non fa che provocarmi. Non mi prende sul serio, crede che sia uno scherzo o un capriccio.» «Francesca! Come hai potuto dire "ti amo" a un ragazzo che un mese fa nemmeno conoscevi, senza sapere se eri ricambiata o no?» Diana Fasser sembrava inorridita. «Ormai è fatta e non me ne pento. Non ho fretta, col tempo capirà che non è un capriccio. Vedi, mamma, Nicola è il ragazzo giusto per me e dovrà amarmi.» «Hai diciotto anni! Ma non sai quanti uomini dovrai conoscere, prima di incontrare quello giusto? Parli come l'eroina di un fotoromanzo, non è da te! Questo Nicola non mi piace affatto e per cominciare smetterai subito di prendere lezioni da sua madre. Le telefono oggi stesso dicendole che...» «Non farlo, mamma.» Era un ordine e la secca perentorietà del tono raggelò la donna. Oh, Dio, non aveva fatto in tempo a rientrare che un enorme problema le cadeva sulle spalle. Problemi, problemi, sembrava che da qualche tempo Francesca non riuscisse a darle altro. Per un istante la detestò. «Non farlo, mamma. Per piacere» la sentì ripetere più gentilmente. Francesca avrebbe voluto spiegarle che la battaglia per farsi amare da Nicola la faceva sentire per la prima volta spiritosa e seduttiva, come una vera donna, e non la umiliava affatto. Ma si rese conto che non esistevano parole per razionalizzare uno stato d'animo che a lei appariva meravigliosamente stimolante.
CAPITOLO 6 Il dottor Ezio Brentano, percorrendo per la seconda volta la galleria alla ricerca della sala 12 del Niguarda, imprecò mentalmente contro la paranoia demagogica di quei primari progressisti che avevano già abolito le stanze a pagamento costringendolo ad affrontare il figlio degente tra chissà quanti letti e quali persone. Benché in tribunale applicasse con rigore il principio che la legge è uguale per tutti, e tutte le sue sentenze fossero ispirate a criteri di impeccabile imparzialità, era intimamente convinto che lo stesso padreterno aveva creato il genere umano attento a distinguere tra geni e imbecilli, bianchi e colorati, pigmei e giganti, scimmie e adoni. Seguendo sempre più innervosito la numerazione delle sale, lo sguardo gli cadde su un tizio che gli sorrise con espressione ebete, la bocca sdentata e un logoro pigiama che gli penzolava addosso. Altro che uguaglianza. Lui e quel degente addirittura appartenevano a due specie diverse e solo una sanità in sfascio poteva meditare una riforma dopo la quale un essere civile avrebbe dovuto adattarsi a essere ricoverato nella stessa stanza di quella larva umana. Intanto era suo figlio a dover subire questa esperienza. La considerazione non valse a intenerirlo. Nicola, complice una madre sinistroide e senza spina dorsale, stava imboccando una strada senza ritorno ed era suo dovere intervenire d'autorità. Era ricoverato in una stanza a sei letti, tre da una parte e tre dall'altra, e quello alla sua sinistra era vuoto. Ezio Brentano si vietò di esternare il sollievo che provò nel constatare che suo figlio aveva l'aria di stare benissimo. «Quale onore, papà» lo accolse sollevandosi sul letto. «La tua allegria mi pare fuori luogo. Ti rendi conto della nottata di inferno che hai fatto passare a me e a tua madre?» lo apostrofò a bassa voce, perché il paziente del letto accanto non udisse. «Neppure la mia è stata paradisiaca: ho un braccio rotto e due vertebre incrinate.» «E avresti potuto lasciarci la pelle. Lo scontro non sarebbe accaduto se tu fossi stato a lezione all'università, come credevo, anziché trovarti in una strada ghiacciata a venti chilometri da Milano.» «Tu non sei venuto a pranzo e avevo avvertito la mamma. Ieri pomeriggio si inaugurava una personale dei miei quadri, e anziché andare a lezione sono partito per controllare la sala. Non è colpa mia se il primo gallerista che mi ha dato fiducia si trova a venti chilometri da Milano.» «Il discorso è un altro, Nicola: tu non hai alcun bisogno della fiducia dei galleristi per la semplice ragione che devi fare l'avvocato, non il pittore.» «In che senso, devo ?» «Nel senso che lo voglio io. Non per un abuso di autorità ma per il tuo bene. Anche se hai ventiquattro anni e sei maggiorenne, il mio dovere morale di genitore è di impedire la tua rovina. Con questa storia della pittura sei già andato fuori corso: esigo che
entro il prossimo luglio tu termini tutti gli esami e prepari la tesi, che peraltro ti è già stata assegnata.» «Spiacente, papà, ma non posso continuare a vivere per interposta persona. Alla fine delle medie avrei voluto fare il liceo artistico, e tu mi imponesti il classico. Dopo la maturità avrei voluto iscrivermi all'Accademia, e tu mi imponesti la facoltà di legge. Adesso basta, è arrivata l'età per fare scelte autonome.» «Non urlare» sibilò suo padre, ricordandogli con un gesto stizzoso che non erano soli. «Concluderò pianissimo: siccome non voglio perdere altro tempo, e siccome una laurea in legge non serve per fare il pittore, con l'università ho chiuso.» «Pittore! Mi sai dire che professione è? Quali sicurezze offre?» «Pare che anche il signor Buonarroti la pensasse allo stesso modo, ma se il figlio Michelangelo gli avesse obbedito non esisterebbero la Pietà, o il Giudizio universale.» Ezio Brentano sentì il sangue montargli alla testa. Gli era intollerabile che si tentasse di buttare in scherzo cose che invece avrebbero meritato una seria riflessione. «Credo che tra te e Michelangelo corra qualche differenza» puntualizzò con sarcasmo. «Lo dirà la storia! Intanto, nel mio piccolo, ho già avuto qualche riconoscimento. In una recensione il grande critico Lombardi mi ha addirittura definito "quel che Botero avrebbe potuto essere se fosse nato prima di Picasso". E Giorgi, in un'altra recensione, ha deprecato che la mia produzione sia troppo esigua per introdurmi come meriterei nei circuiti che contano. E Benzi, il famoso gallerista, vorrebbe organizzare una mia personale alla grande per il prossimo aprile. Se tu non ti fossi irrigidito nel voler ignorare tutto quello che faccio al di fuori dell'università, queste cose le sapresti.» Si accorse di essersi accalorato. L'effetto dell'analgesico era sparito, e le vertebre fratturate avevano cominciato a irradiare fitte lancinanti per tutta la schiena. La mano di suo padre lo afferrò per una spalla, con presa di artiglio, strappandogli un gemito. «So tutto, Nicola, ma la mia decisione non cambia: prenderai la laurea e farai l'avvocato perché nella mia famiglia non c'è posto per emarginati, artistoidi e sognatori.» «Vorrà dire che uscirò dalla tua famiglia. Ho ventiquattro anni, chi può impedirmelo?» «Io.» Quel monosillabo era secco come un colpo di proiettile. «Se te ne andrai di casa ti metterò nelle condizioni di ritornare strisciando.» «E come?» Più che una domanda, era un gemito. «Farò in modo che nessun gallerista, nessun critico si occupi più di te. E se oseranno farlo, tirerò fuori gli scheletri dai loro armadi, li farò perseguitare dalla finanza, gliela farò pagare cara.» Era lui che stava urlando, ora. I compagni di stanza di suo figlio lo fissavano incuriositi, ma al giudice non importava più che lo sentissero. «Questo è un ricatto, papà.» La voce di Nicola era sommessa, il suo sguardo pieno di dolore e di compassione. Ezio Brentano ne fu turbato. «Che tu mi creda o no, ragazzo, ti voglio molto bene e andrei anche oltre il ricatto, se fosse indispensabile per la tua salvezza.» Il ragazzo si girò su un fianco, senza rispondere e pochi minuti dopo, allontanandosi, il giudice
fu certo di averlo convinto colpendolo al centro della sua unica debolezza: l'incapacità di lottare. Benessere, intelligenza e buon carattere avevano fatto ottenere a Nicola, subito e senza sforzi, tutto ciò che aveva voluto, così che era cresciuto disabituato a sfoderare gli artigli. Il giudice Brentano era persuaso, eccome, che il ragazzo avesse un autentico talento. Anche lui aveva letto quelle recensioni entusiastiche. E, attento che nessuno lo vedesse, era spesso entrato nel vecchio abbaino riadattato a studio dove Nicola dipingeva. L'ultimo quadro gli aveva dato un'emozione violenta: in quale mondo suo figlio aveva visto quei colori ardenti e irreali? In quale vita aveva conosciuto quelle donne dai vasti corpi irradianti carnalità e luce? In quale scuola aveva imparato quelle pennellate impetuose e inarrestabili come l'eruzione di un vulcano? Ezio Brentano era arrivato alla decisione di fermarlo dopo mesi di indecisione e scrupoli, consapevole di frustrare una reale vocazione. Ma non aveva alcun dubbio di aver fatto la scelta giusta. Nicola non era attrezzato per muoversi in un mondo che, spariti mecenati e papi, era stato inquinato da volgarità e mercanti. Proprio il mese prima era stato rinviato a processo un noto pittore. Esaminando i fascicoli dell'istruttoria lui aveva toccato con mano l'estremo degrado di quel mondo: la corruzione, il mercato dei falsi, i furti, i bluff, i giri di droga, i ricatti. Ovviamente esistevano anche successi puliti e artisti puri, ma per non oltrepassare l'ambigua linea di delimitazione occorrevano una volontà e una forza che Nicola non possedeva. Tuttavia, dentro di sé, era profondamente orgoglioso di quel suo unico figlio geniale e irrequieto, allegro e perbene. Con il suo aiuto sarebbe diventato un grande avvocato. «Tuo padre è un bello stronzo» disse a Nicola il degente del letto accanto, aiutandolo a sistemarsi sui suoi cuscini. «Già» il ragazzo confermò gentile chiudendo gli occhi. Non aveva voglia di parlare, di pensare e nemmeno di allungare una mano per dissetare la gola riarsa. Praticamente è come se avessi voglia di essere già morto, si disse con un residuato dell'antico umorismo. Mancava poco alle sette di sera e non poteva lamentarsi, la giornata gli aveva offerto un bell'en-plein di emozioni e colpi di scena. Poco prima di suo padre era venuta a trovarlo Milly. Non si sentivano da tre settimane, e mentre si dirigeva verso il suo letto bionda e danzante a Nicola era parso di avere la visione di un angelo. L'angelo sterminatore, sogghignò amaro. Con malinconica vocina dal tono implacabile Milly gli aveva annunciato: «Io parto, Nicola. Ho vinto una borsa di studio e per due anni studierò musica a Parigi».
«Come nel film Love story, eh?» Sul momento, non gli era venuto in mente niente di meglio. Poi aveva aggiunto di essere contento per lei, auguri sinceri di felicità e successo; sì, si rendeva conto che era finita davvero, eccetera eccetera. Assurdamente, rifletté ora, è proprio l'enormità dei nostri sogni a renderci realisti e rassegnati alla sconfitta. Come sperare che il destino sia così grandioso da riunire, un giorno, il famoso pittore e la celebre pianista? Oddio, dopo la visita di suo padre qualcosa si era ridimensionato: sparito il celebre pittore, le trame per riavvicinare la celebre pianista a un anonimo leguleio erano meno epiche... Un'incerta speranza si insinuò nella mente di Nicola, ma non gli diede alcun conforto. La pittura era più importante di tutto, anche di Milly, e la consapevolezza di dovervi rinunciare gli causava una sensazione di perdita insopportabile. Ma non si sentiva vile per aver rinunciato al sogno senza battersi: la volontà di suo padre era irrevocabile come quella di Dio. Si sentiva, semplicemente, desolato e impotente come chi piange un morto e sa di non potergli ridare la vita. Il cigolio di un carrello e un penetrante odore di sedano lo riportarono miserevolmente alla realtà che per i sopravvissuti l'esistenza doveva continuare. Era l'ora della cena. L'inserviente arrestò il carrello ai piedi del suo letto e sollevò dalla pila dei piatti un gigantesco mazzo di fiori. Glielo depose sulle ginocchia. «É per lei, l'hanno mandato su adesso.» Nicola lacerò il bigliettino senza curiosità e, dopo averlo letto, suo malgrado sorrise. Era di Francesca. Se ti sei buttato sotto una macchina per sfuggire al mio amore è inutile, perché anche se fossi sfigurato, rimbambito e con le ossa rotte io continuerei a amarti. Non aveva ancora capito se quel corteggiamento, iniziato la sera in cui le aveva dato un passaggio in macchina, era una cotta o un gioco. tuttavia quella ragazzina gli piaceva: aveva la perseveranza dell'autentica lottatrice.
CAPITOLO 7 Tutto accadde l'antivigilia di Natale. Quella indimenticabile era per la verità cominciata male.
giornata
meravigliosa
e
Come Francesca si svegliò, udì le voci alterate dei genitori e pensò con allarme che da qualche tempo quei litigi erano diventati troppo frequenti. Sapendo che la sua presenza immediatamente smorzava i toni e riportava l'autocontrollo, infilò la vestaglia e li raggiunse. Come previsto, i suoi genitori zittirono. «Che cosa è successo?» chiese. Fu l'ingegner Fasser a rispondere: «Tua madre ha scoperto stamattina, non si sa perché, che detesta Cortina e pertanto preferisce trascorrere le feste a Milano». «Odio la montagna, lo sci, la neve: perché mai dovrei amare Cortina?» Il familiare falsetto. «Perché io e tua figlia amiamo la montagna, lo sci eccetera eccetera. E non esisti soltanto tu. Senza contare che abbiamo sempre trascorso le vacanze di fine anno in montagna.» «Se è per me» intervenne precipitosamente Francesca «resto volentieri a Milano.» «Non se ne parla neppure. Domattina alle dieci partiremo come stabilito, e non c'è altro da aggiungere» disse Giovanni Fasser. Il perfetto e levigato viso di sua madre era atteggiato a un'ira che dimostrava il contrario. Francesca voltò le spalle e si diresse in cucina per fare colazione. Le era insopportabile restar lì a sentirli litigare, consapevole di non poter far nulla contro l'aggressività di sua madre e l'esasperazione che aveva trasformato il mite e gentile papà in un uomo carico di astiosità. Alle undici, mentre era nella sua stanza concentrata nello svolgimento dell'ultimo dei tre temi che la Vitali le aveva assegnato, sentì sbattere la porta di casa. A mezzogiorno e mezzo, quando andò in cucina per bere un bicchier d'acqua, Germana l'avvertì che né suo padre né sua madre sarebbero tornati per colazione. Dove diavolo era andata, la mamma? Più tardi sbocconcellò controvoglia un panino farcito con una fetta d'arrosto e tornò a lavorare al tema. Lo terminò alle quattro e la lezione con la mamma di Nicola era fissata per le sei. Francesca si sentiva troppo inquieta per restare in casa a bighellonare per oltre un'ora, e decise di uscire subito. Avrebbe fatto un giro per il centro. Oppure si sarebbe addirittura diretta a piedi verso casa Brentano, prospettandosi tutte le eventualità: non avrebbe incontrato Nicola; lo avrebbe incontrato di sfuggita; lui si sarebbe fermato, come l'ultima volta, a farle compagnia in studio in attesa che arrivasse la madre; al termine della lezione le avrebbe dato un passaggio fino a casa, come la penultima volta; al termine della lezione non l'avrebbe rivisto affatto. Alle sei meno cinque, quando l'ascensore si fermò al piano e
Francesca premette il campanello, si prospettò l'ipotesi più dolorosa: non l'avrebbe visto né ora né al momento di andarsene. Invece il cielo le fece la grazia: fu proprio Nicola ad aprire la porta. «Dove ti eri cacciata, ragazzina?» Sul momento, Francesca non capì e restò a guardarlo con la bocca semiaperta. «Ti ho telefonato a casa, ma mi hanno detto che eri già uscita.» Le aveva telefonato a casa? Perché mai? Nicola le agitò una mano davanti agli occhi. «Ehi, mi ascolti? Mia madre ha avuto un impegno improvviso e prima di uscire mi aveva incaricato di dirtelo. Mi dispiace che tu abbia fatto la strada per niente.» «Proprio per niente non direi» sottolineò, compiaciuta per l'insinuante malizia che registrò nella sua voce e pervasa da una dilagante felicità. Si infilò tra Nicola e la porta ed entrò quasi di prepotenza. «Devo sentirmi in pericolo?» ridacchiò lui. Francesca aveva questo curioso potere di metterlo di buonumore. «Preferirei il contrario. Sono una donna all'antica e lascio all'uomo il ruolo di seduttore» recitò provocante. «Allora mettiamoci comodi. Gli spifferi del pianerottolo non mi ispirano cattivi pensieri.» Era la prima volta che Francesca entrava nel salotto di casa Brentano e se ne sentì intimidita. Tutti quei mobili antichi, quei tappeti dai toni scuri e quei cupi ritratti nelle vecchie cornici dorate le ricordavano la villa di Nervi. Nicola le indicò un divano foderato in velluto color senape. «Cosa posso offrirti da bere?» chiese con ostentata professionalità da playboy. «Menta, aranciata, cocacola?» «Guarda che ho saltato il fosso del superalcolico. Ho quasi diciannove anni, nel caso te ne fossi dimenticato.» «Oh, oh, le soglie della decrepitezza. Whisky? Cognac? Vodka?» «Devi smetterla di trattarmi come se fossi una bambina» Francesca proseguì in tono offeso, come se non l'avesse sentito «o almeno rispettare i miei sentimenti di persona.» Nicola le porse un bicchiere e si sedette accanto a lei. «D'accordo. Però se vuoi essere presa sul serio, devi smetterla con questo infantile giochino che ti sei innamorata di me. É durato abbastanza.» «Non è un giochino. Sono davvero innamorata di te. É stato molto infantile dirtelo, ma a questo punto tanto vale smetterla con le schermaglie e uscire allo scoperto.» «Stai forse chiedendo la mia mano?» insinuò Nicola, subito pentito della battuta imbecille. A quanto pareva Francesca parlava sul serio, e girandosi a guardarla vide nel suo viso una determinazione e una sofferenza che lo turbarono. Le prese una mano. «Scusami. É la prima volta che ricevo una dichiarazione d'amore, e non so come comportarmi.» Le parole erano scherzose, ma il tono no. «Tu non provi niente per me, vero?» «Non lo so, credevo che tu scherzassi e... e poi ti ho sempre considerato una brava e divertente ragazzina. Ancora adesso non riesco a prenderti sul serio. Sei troppo giovane per me, Francesca.» «Milly quanti anni aveva?» Nicola suo malgrado rise. «Oh, questa sì è una domanda da vissuta
signora! Ne aveva venticinque, uno più di me. Ma non è di anagrafe che sto parlando.» Accarezzandole le dita spiegò gravemente: «La sola idea di poter avere un rapporto con te mi fa sentire a disagio». Francesca sottrasse la mano. «Parli come se fossi un vecchio satiro.» «É esattamente quel che mi sento.» «Credo piuttosto che stia cercando il modo più gentile per dirmi che non ti piaccio.» «Sbagli. Mi piaci moltissimo, invece.» «E allora perché non possiamo provare? Non sto chiedendo la tua mano, ti chiedo soltanto di trattarmi come una ragazza da invitare al cinema o a fare una passeggiata o a mangiare una pizza. Insomma, potremmo cominciare a frequentarci... senza impegno. Ho avuto altri ragazzi, che ci creda o no.» Di nuovo Nicola rise. «Lo sapevo che avrei dovuto sentirmi in pericolo! L'innocente fanciulla si sta rivelando un'insidiosa Messalina.» «Spero altrettanto irresistibile.» La tensione si era allentata e fu lei, ora, a scherzare. Nicola le circondò le spalle. «Quel che mi piace di te è la spericolatezza. Credo che diventerai una gran donna.» «E intanto, non ti piace nient'altro?» «Se dobbiamo frequentarci, lascia che conservi qualche freccia nel mio arco.» Le depose un bacio sulla fronte. «E adesso ti riaccompagno a casa. Tra un'ora devo essere da un amico.» «Quello del quadro?» Nicola si alzò. «Uno che mi deve dare delle dispense. I quadri non mi interessano più.» Le luci del soggiorno erano spente e il chiarore bluastro del televisore acceso rendeva ancor più angoscioso il suono di quei singhiozzi. «Mamma?!» Francesca chiamò a bassa voce. «Non accendere la luce!» Era lei che stava piangendo. Francesca si avvicinò e le posò delicatamente una mano sulla spalla. «Stai poco bene, mamma?» Non si aspettava quella reazione di incontrollato dolore. «Non ne posso più» sua madre singultò «se non fossi una vigliacca mi butterei dalla finestra... Non ce la faccio più a andare avanti così.» Francesca si odiò per l'incapacità di consolarla e di stringerla tra le braccia. Era paralizzata da una raggelante sensazione di disagio molto vicino al fastidio, e non riusciva neppure a provare dolore. «Se non vuoi partire per Cortina» mormorò con sforzo «convincerò io papà a rimanere a Milano.» «Oh, per quel che me ne importa...» Le parole furono soffocate da un nuovo attacco di pianto. Francesca restò immobile. L'eccitazione e la felicità con cui era rientrata a casa erano sparite, e si sentiva vuota come un fantoccio. «Voglio andarmene via... Oh, Franci, la mia vita è diventata un inferno. Sono vecchia, capisci?» La prese per un braccio, e lei si divincolò istintivamente. No, mamma, non voglio capire. Ma allungò una mano e sussurrò con tristezza: «Ti prego, non piangere». E intanto pensava che i figli non dovrebbero mai dover provare compassione per i genitori. La sua repulsione, adesso lo capiva, non era per la madre, ma per una pietà innaturale che aveva invertito i ruoli. La compassione aveva portato via rassicurazione e potere alla figura materna, e questa sconosciuta in lacrime esigeva ora che fosse lei a darle tutto questo. Non sono
capace, mi ripugna, non voglio essere coinvolta, pensò. Ma intanto chiedeva: «Posso fare qualcosa per te, mamma?». «Niente. Vai a preparare le valigie, Franci, e non dire niente a papà.» «Posso dirgli che neppure io ho voglia di partire, perché vuoi...» «No, no, partiamo. Qui o in montagna, che differenza fa per me?» Fu in quel momento che a Francesca venne in mente che non aveva dato a Nicola il numero di telefono di Cortina. Per dodici giorni l'esilissimo filo di contatto che si era stabilito tra loro si sarebbe spezzato, e questo accrebbe la sua tristezza. Andò a preparare le valigie, controvoglia, e poi si sdraiò sul letto aspettando l'ora di cena. Sentì l'urlo lontano di una sirena, lo squillo del telefono, la voce di Germana che chiamava la mamma, un rumore di bicchieri e di piatti, l'anta di un armadio sbattuto, ancora lo squillo del telefono e infine l'ascensore che si arrestava al piano. Incrociò le mani sul petto e trattenne il respiro, immaginando di essere morta, ma subito si riscosse, spaventata. Adesso Germana stava chiamando lei, era pronto in tavola. Soltanto gli occhi, impercettibilmente arrossati, recavano i segni della crisi di poco prima: per il resto Diana Fasser appariva distesa e sorridente come sempre. Persino allegra, pensò Francesca con sollievo, sedendosi alla sinistra di suo padre. Mangiando la zuppa di verdura, con un appetito che non aveva sospettato di avere, li udì conversare amabilmente, e un paio di volte la mamma rise. Le sembrò nuovamente di adorarla. Stavano finendo di cenare quando Germana avvertì Francesca che c'era una telefonata per lei. Non era assolutamente preparata a sentire la voce di Nicola, e lui dovette ripetere due volte «pronto?» prima di sentirla rispondere. «Ti ho disturbato, Messalina?» «No, tutt'altro.» «Hai dimenticato di darmi il numero di Cortina e alla Sip dicono che non c'è nessun Giovanni Fasser.» Dio, aveva addirittura chiamato la Sip! L'emozione le fece tremare la voce. «Infatti, il telefono è intestato a mia madre.» «Cos'è, volevi sfuggirmi ?» «No» rise «soltanto riconquistare un po' del terreno perduto.» Con il controllo aveva ritrovato il piacere di sentirsi divertente e maliziosa. «Credo di essermi esposta un po' troppo» spiegò. «Non cambiare tattica, ragazzina, questa sta funzionando a meraviglia. L'idea di non sentirti per tanti giorni mi dispiaceva, sai ?» É troppo, Francesca pensò, con una felicità così violenta da sembrarle insopportabile. «Dici davvero?» le riuscì di dire. Nicola le rifece il verso: «Non vorrei espormi troppo. Quanto ti fermi a Cortina?». «Torneremo il 4 gennaio. Tu cosa farai, durante le vacanze?» «Tra venti giorni ho un esame e resterò a casa tutto solo a studiare. I miei partono per Genova, vanno a passare il Natale dai cugini di papà.» «Anche mio padre è genovese» osservò Francesca trasportando il telefono vicino al divano e sedendosi. «Non mi dire che hai anche una casa a Nervi» aggiunse scherzosamente.
«Purtroppo no. Ecco perché sono costretto a intrufolarmi nelle proprietà altrui.» «Quella mattina sono stata una gran cafona, non so che cosa mi aveva preso» ammise con imbarazzo. «Io sì. Eri pazzamente gelosa di me.» «Non scherzare. Posso farti una domanda, Nicola?» «Quando mai hai chiesto il permesso?» «Vorrei sapere se in queste settimane hai rivisto Milly.» Aspettò la risposta col fiato sospeso. «Sì, è venuta all'ospedale per annunciarmi di aver vinto una borsa di studio a Parigi. Starà via due anni, e credo sia già partita.» «Ti... ti manca molto?» La risposta tardò ad arrivare e a Francesca parve di vederlo riflettere, i chiari occhi socchiusi in quella espressione assorta che le era ormai familiare. «Non credo. Non so. Evito di pensare a lei, sono troppo incasinato per crearmi degli altri problemi.» Che cosa si aspettava? Che lui le rispondesse, ilare e pronto, «no, ho dimenticato Milly e adesso penso solamente a te?» Ben ti sta, si disse, hai voluto indagare morbosamente e così hai saputo che è ancora innamorato di lei. Solo una sognatrice deficiente poteva illudersi del contrario. Milly, vuoi farmi impazzire? Non posso rassegnarmi, non posso perderti. La sua voce arrochita dall'angoscia, i suoi occhi arrossati di pianto. Era accaduto meno di tre mesi prima, e tre mesi non bastano per dimenticare un amore così. Ammesso che si potesse mai dimenticare. L'idea di non sentirti per tanti giorni mi dispiaceva, sai? La scherzosa ammissione di pochi minuti prima le apparve improvvisamente una miserevole cosa, e si sentì patetica per la spropositata felicità che le aveva dato. «Francesca, ci sei ?» La voce di Nicola. «Sì. Adesso devo lasciarti, buon Natale, ciao.» Riagganciò in fretta, un istante ancora e sarebbe scoppiata a piangere. In quel momento entrarono in salotto i suoi genitori. «Chi era?» Il papà. «Un ammiratore?» La mamma, maliziosa. Il telefono squillò di nuovo e fu Diana Fasser a rispondere. Passò il ricevitore alla figlia. «É per te.» Di nuovo Nicola. «Ehi, Messalina, hai riagganciato senza darmi il numero di Cortina.» «Ti interessa proprio saperlo?» chiese, quasi con malgarbo. «Molto». Molto. Molto. Molto. Più tardi, quel piccolo avverbio di due sillabe le risuonò nelle orecchie impedendole di addormentarsi. Oh, non era affatto una miserevole cosa. E quel giorno, a dispetto di tutto, era stato il più bello della sua vita. Così credeva. Ma quello di Natale, a Cortina, fu ancora più bello. Era in cucina quando qualcuno suonò alla porta. Andò a aprire e tornò stringendo il fascio di fiori più colorato e enorme che avesse mai visto. Sua madre, le gote improvvisamente arrossate, tese le braccia. «Chi me le manda?» cinguettò estraendo il biglietto da visita. Glielo porse subito, perplessa.
«C'è scritto per Francesca Fasser. Sono per te.» Perplessa anche lei, infilò l'indice nella busta e la lacerò. Buon Natale, Messalina. Questi fiori sono piccola cosa rispetto alle enormi aspettative che ho per noi due. «Chi te li manda?» chiese sua madre. «Nicola Brentano» rispose con voce sognante. «É una cosa seria.» Il momento che Diana Fasser per anni aveva atteso con speranza e paura era arrivato. Sua figlia era diventata donna e non poteva più proteggerla né trattenerla alle soglie della vita. Dio mio, implorò tra sé, fa' che abbia dato il suo cuore a un uomo capace di amore e intelligenza. Poi alzò gli occhi su Francesca, e indicando i fiori sorrise. «A giudicare da quelli sembra davvero che sia una cosa seria.»
CAPITOLO 8 La chiave girò nella serratura. Nicola sentì aprire e richiudere la porta, e poi i passi di sua madre che rientrava. Sollevò gli occhi dalla dispensa e guardò l'orologio. Le cinque e mezzo. Era inchiodato alla scrivania da quattro ore, e non era andato oltre la quinta pagina. Gliene rimanevano circa duecento per arrivare alla fine, e l'esame era tra due giorni: l'ultimo prima della tesi. Forse proprio per questo non riusciva a concentrarsi. Si stava avvicinando a grandi passi al traguardo della laurea, e l'inesorabilità di un detestato avvenire gli si era spalancata davanti come un abisso. La sua ripugnanza era la stessa del suicida che, al momento di buttarsi, è combattuto tra istinto di autoconservazione e volontà di distruggersi. Solo che io non ho scelta, pensò scarabocchiando furiosamente il foglietto degli appunti. Sentì di nuovo i passi di sua madre. Sempre più vicini: si stava infatti dirigendo verso la sua stanza. «Come va, Nicola?» «Stupendamente. E tu, hai trovato il tailleur che cercavi?» Invece di rispondere, la professoressa Vitali spostò una sedia e si sedette di fronte al figlio. «Vorrei parlarti. E non è un discorso né facile né breve.» Il ragazzo indicò l'orologio. «Credo che dovrai rimandarlo, la tua allieva arriverà da un momento all'altro.» «É proprio di Francesca Fasser che voglio parlarti, Nicola. Non sono cieca, e questa storia va avanti da troppo tempo.» «Quattro mesi esatti» precisò suo figlio. «É una situazione che mi crea molti problemi e molto disagio, dovresti capirlo. Di fronte ai genitori di Francesca sono moralmente responsabile di lei, e...» «Mettiti tranquilla, non abbiamo commesso alcun atto contrario alla morale.» «Non sono affatto tranquilla! Francesca è eccezionalmente intelligente, ma del tutto priva di meccanismi di autodifesa. É una ragazza fantasiosa e sensibilissima a cui due genitori sciaguratamente iperprotettivi hanno risparmiato ogni problema. Non sopporterei che fosse proprio mio figlio a farle del male. Mi sono molto affezionata a questa ragazza, Nicola.» «Anch'io.» «E Antonia, Sabina, Paola, Milly? In questi ultimi anni ti ho visto "molto affezionato" a parecchie persone. La verità è che non sei ancora pronto, in alcun senso, per impegnarti seriamente. E Francesca non è una ragazza che si può prendere e lasciare con leggerezza: prende tutto sul serio, è incapace di riflessione e prudenza.» «É quello che mi piace di lei.» «Mi piace è troppo poco.» «Mamma, non stiamo girando per mobilifici alla ricerca dei pensili per la cucina o della camera da letto. Il nostro rapporto è ancora agli inizi. Siamo, per così dire, alla fase della reciproca conoscenza e non ci poniamo il problema del futuro. Nemmeno lei è pronta per un legame definitivo, però ti assicuro che stare con me non la rende né insicura né infelice.» «Prima o poi potrebbe succedere.» Nicola allargò le braccia. «Il padreterno ci ha buttato nell'esistenza senza garanzie.» «Non ho mai sopportato le
persone in malafede e in questo momento lo sei, Nicola. Fingi pure di non capire. Però una cosa ti dico forte e chiaro: da stasera in poi, quando arriva Francesca, tu te ne starai chiuso qui. Basta chiacchiere, capatine nel mio studio, passaggi in auto. Se vuoi frequentarla, fallo fuori da casa mia. Io non voglio sapere, né essere coinvolta.» «Chi è in malafede, adesso?» La professoressa Vitali non fece in tempo a rispondere, perché stavano suonando alla porta. «É senz'altro Francesca. Vado a aprire io» modulò polemicamente dirigendosi verso l'ingresso. Nicola la udì entrare, salutare, ridere brevemente. E fu come se la vedesse gettare attorno uno sguardo furtivo, delusa che lui non fosse venuto come sempre a salutarla. Da tempo si aspettava l'intervento di sua madre, e in un certo senso adesso si sentiva sollevato. Era finita con la disapprovazione scontrosa, le battute allusive e gli interrogativi circospetti. E tutto sommato era andata assai meglio di quanto prevedesse: niente suppliche o ricatti, solo la richiesta di frequentare Francesca fuori casa. Poiché il portone non rientrava nei limiti, prima che la lezione finisse sarebbe sceso ad aspettarla. Affermando che lei gli piaceva molto non aveva mentito: al contrario, si era tenuto un po' sotto rispetto a ciò che provava per Francesca. Abbozzando con la biro i lineamenti del suo viso, si accorse che con pochi e brevi tratti ne aveva fatto emergere tutte le peculiarità essenziali: impetuosità, determinazione, calore. É una ragazza solare, pensò, e ha per la vita il trasporto curioso e innocente di un bambino. Due giorni prima l'aveva portata in Brianza, nella baita disabitata di un amico. Dopo l'amara spiegazione con suo padre, aveva portato lì tutti i suoi quadri e all'improvviso gli era venuta la stupida voglia di farli vedere a Francesca. E lei si era soffermata a guardarli in silenzio, con una lentezza meticolosa che lo aveva fatto stare ridicolmente sulle spine. Poi si era girata a guardarlo, il viso traboccante di emozione e amore. «Sei un genio» aveva detto solenne. In un empito di felicità, l'aveva stretta tra le braccia. E per la prima volta il desiderio fisico di lei era esploso con una urgenza inarrestabile. Aveva cominciato a baciarla e a accarezzarla con mani tremanti, e lei, anziché ritrarsi, gli era aderita contro con un abbandono totale. Prendendole il viso tra le mani, e guardandola negli occhi, fu come folgorato da quel che vi scorse: adorazione, tenerezza, fiduciosa aspettativa. L'aveva quasi strappata da sé. «Perché? Lo voglio anch'io, Nicola. Sono pronta...» Io no, aveva pensato d'impulso. E adesso, ricostruendo quanto era accaduto, capì di non sentirsi realmente pronto per darle ciò che si aspettava da lui. Sua madre sbagliava ritenendo che avesse la cotta facile. Le ragazze che aveva nominato erano state avventurette o simpatie. Una sola aveva contato nella sua vita, Milly. E il vero problema era lei.
Non era sicuro di averla dimenticata. Erano stati insieme per un anno, e il loro rapporto era passato dai vertici della felicità agli abissi della sofferenza attraverso il profondo legame della passione fisica. Ma all'improvviso e senza motivo Milly si era ritratta. Soltanto di recente aveva creduto di capire: il suo amore più grande era la musica, e lui rappresentava la distrazione, il freno. Francesca si era appassionatamente catapultata nella sua esistenza e gli aveva tolto il fiato. Non c'era più stato il tempo per ricordare o rimpiangere. Ma dentro di me, ammise onestamente, è ancora annidato il fantasma di Milly. Devo essere certo di averlo scacciato prima di lasciarmi andare. Francesca è del tutto priva di meccanismi di difesa. Colpito, mamma: lo sapevo anch'io, e proprio per questo sono sempre rimasto sulla soglia della nostra storia, anche quando la tentazione di prendermi questa eccezionale ragazza era così forte da farmi star male. Non scenderò ad aspettarla sul portone, decise. E tra una decina di giorni, quando il mio silenzio l'avrà preparata, le spiegherò con amore e gentilezza che ho bisogno di tempo. Invece la chiamò al quarto giorno. Superato con trenta l'ultimo esame, piombò nell'ormai nota sensazione di inesorabilità. Il traguardo della laurea era a un passo, e proiettandosi nel futuro Nicola non provava più soltanto repulsione, ma anche tristezza. Rimpianse di aver fatto piazza pulita di tele e pennelli: se solo avesse potuto dipingere, quell'opprimente senso di vuoto sarebbe sparito. Ne sei certo? si chiese. E finalmente capì che la vera ragione del suo malessere era l'essersi traumaticamente privato di Francesca. Resistette tutta la mattina. Ma dopo pranzo, quando i suoi genitori uscirono, si ritrovò davanti al telefono con la smania di un drogato in crisi di astinenza. Mi basta sentire la sua voce, pensò componendo il numero. Come verrà a rispondere metterò giù il ricevitore, si ripromise ascoltando il segnale di linea. Invece non appena sentì il suo «pronto?», disse in fretta: «Sono io». E rimase ad aspettare. «Oh.» Francesca fece una breve pausa. Poi aggiunse con voce leggera: «Scusami se in questi giorni non ti ho mai cercato, Nicola. Ho avuto un sacco di cose da fare, ma proprio ora mi stavo dicendo che stasera ti avrei chiamato». Superato un brevissimo istante di incredulità, Nicola provò un moto di travolgente ammirazione. Brava ragazza, le disse mentalmente, hai umorismo e dignità. E a voce alta, stando al gioco: «Cominciavo a chiedermi cosa c'era dietro a questo tuo silenzio inspiegabile». «Me lo stavo giusto chiedendo anch'io.» «Sono stato uno stronzo, Francesca.» Nicola sbottò cupamente. «Oh, oh, e poi? Stronzo non basta.» «Egoista. Vile. Idiota. Masochista. E anche...» «Può bastare.» Nicola aspettò che aggiungesse qualcosa, invece tacque.
Gli aveva passato la palla, toccava a lui parlare: ma non era facile, la fiera lottatrice all'altro capo del filo gli stava incutendo una timidezza sconosciuta. «Nicola, sei lì? Dicendo può bastare mi riferivo all'autoflagellazione, non al tuo discorso.» Gli aveva teso il salvagente dello scherzo, ma gli ripugnò aggrapparvisi. «Mi sei mancata, Francesca.» Fece un sospiro e aggiunse: «Credo che tu stia diventando molto importante per me. Voglio vederti. Subito». «No.» «Non mi credi?» «Sono stata molto male in questi giorni, Nicola. Tu sei già importante e mi sono resa conto che questo è sbagliato. Io ho corso e tu sei rimasto indietro: continuando così rischiamo di non incontrarci mai, mentre un buon rapporto è un gioco di squadra» spiegò. «Perfetto. Preferisci fermarti tu ad aspettarmi oppure che faccia io una gran corsa per raggiungerti?» «Non conosco il tuo sprint e le pause mi raggelano.» «Mettimi alla prova: guarda l'orologio e arrivo.» «Ho lezione di matematica e sono già in ritardo, nicola.» «Possiamo vederci più tardi.» «Preferisco di no. No per il momento» si affrettò a precisare prima di abbassare gentilmente il microfono. La lottatrice mi ha messo alle corde, pensò riagganciando a sua volta. Fu tentato di richiamarla subito, ma si ordinò di riflettere. Era stato colpito al cuore oppure il pugno aveva mirato al centro della sua vanità? Gli mancava Francesca o l'irresistibile compagna di schermaglie? Era realmente attratto da lei oppure questo soprassalto d'interesse era stimolato dal suo inatteso ritrarsi? Di una cosa era certo: Francesca era molto più forte di quanto fino a pochi minuti prima aveva creduto. E, nell'emergenza, sapeva sfoderare meccanismi di difesa eccellenti. Piero Baldini, professore di matematica di Francesca nonché vecchio collega di sua madre, abitava in zona Lambrate. E in un caseggiato strategico: proprio di fronte al portone d'ingresso, tra un'autoscuola e una piccola pensione, c'era un bar coi tavolini che correvano lungo una vetrata. Nicola sedette in quello che gli offriva la miglior visuale del portone. Ordinò un caffè doppio, lo pagò subito, e si preparò ad aspettare per un tempo imprecisato: non sapeva se la lezione di Francesca sarebbe durata una o due ore, e per prudenza era uscito dieci minuti dopo la telefonata. Predisponendosi ad attenderla senza fretta, gli occhi fissi oltre la vetrata, gli venne stranamente da pensare a suo padre. Il giudice Brentano non avrebbe mai potuto vivere in una strada come quella, tra vecchi negozietti, caseggiati anonimi, marciapiedi percorsi da quella che egli definiva «gente comune» e che, a quanto pareva, non si faceva riguardo nel gettarvi mozziconi di sigarette e cartacce. Sua madre, invece, in un quartiere come quello era nata. Uno dei grandi interrogativi senza risposta era come i suoi genitori, tanto diversi per mentalità e origine, avessero potuto formare una buona coppia. Non li aveva mai
sentiti alzare la voce né discutere per sopraffarsi. Ma forse una spiegazione c'era: per suo padre era molto volgare che marito e moglie litigassero e moralmente inaccettabile che arrivassero alla separazione o al divorzio. Quanto a sua madre, era chiaro che aveva accettato i lati positivi di quell'unione colmandone le molte lacune con interessi autonomi quali la scuola, i concerti, le amicizie. Nicola era consapevole che le sue qualità migliori gli provenivano dalla madre. Anche la passione per la pittura: era stata lei a comprargli, piccolissimo, i primi pennelli e a guidare la sua mano incerta, facendogli prima distinguere e poi capire la magia dei colori. Si sarebbe aspettato un appoggio ben più concreto, nella battaglia contro suo padre. Ma non le aveva serbato rancore per non averlo fatto: sua madre era come lui, incapace di atti di forza. Un'auto parcheggiò accanto alla sua Mini, nel tratto di marciapiede antistante il tavolino, e Nicola, automaticamente, controllò che non gli avesse tolto la visuale. Fu in quel momento che la vide sul portone. Con uno scatto da centometrista uscì dal bar, attraversò la strada e la bloccò. «Avevamo lasciato un discorso in sospeso» le disse prendendola per un braccio. «Ho la macchina parcheggiata qui di fronte, ti accompagno a casa.» Francesca si divincolò. «Ti avevo pregato di darmi tempo. Non è un capriccio da bambina.» «Lo so. Non sono venuto qui per portarti le caramelle.» «Ho bisogno di tempo» ripeté. «Non voglio più stare male.» «Nemmeno io. In questi giorni ho capito che non posso perderti, Francesca.» La riprese per un braccio. «Sbaglio o questa frase l'ho già sentita?» lei rise con sarcasmo. Nicola la trascinò, quasi, dall'altro lato del marciapiede, e senza lasciarle il braccio aprì la portiera. «Sali. Ti chiedo soltanto cinque minuti, poi se credi puoi scendere.» Quando Francesca fu seduta, fece il giro dell'auto e si sedette anche lui. «In questi giorni non ti ho cercato perché, dopo quello che è successo in Brianza, avevo bisogno di riflettere.» «In Brianza non è successo niente» lei ribatté velenosamente, la testa girata verso il finestrino. «Tranne che ho visto i tuoi quadri e ho capito che non mi desideri né mi ami.» Nicola le passò un braccio sulle spalle e tentò di stringersela contro. «Io non sono Milly.» Francesca disse divincolandosi di nuovo. «Uno che dipinge come te ha bisogno di una compagna eccezionale, e io mi sentirei sempre inadeguata.» «Questa è la più grossa idiozia che ho sentito. Francesca, guardami, ti chiedo solo di continuare a frequentarci.» «Questo l'avevo detto prima io.» Nicola sorrise. «Ma aggiungendo: "senza impegno". Invece voglio impegnarmi, capire se quello che provo è amore. Credo di sì, però hai ragione affermando che tu hai corso e io sono rimasto indietro. La cosa che desidero con tutto me stesso è raggiungerti. Me lo devi
permettere. Francesca, vuoi guardarmi, per favore?» Lo fece di scatto, e il volto terreo e contratto di lei lo spaventò. Poi Francesca si voltò di nuovo verso il finestrino, e Nicola si spinse in avanti per seguire il suo sguardo. Una coppia si era fermata davanti al piccolo ingresso della pensione, a tre metri da loro, e stava discutendo. «Vuoi vedermi ridotta al degrado di me, Michele? Non posso farlo» implorava la donna con voce di pianto. La risata innervosita dell'uomo: «Non fare la bambina, hai sempre detto che per me avresti fatto qualunque cosa!». Nicola sollevò la mano dalla spalla di Francesca e la alzò sul suo viso, girandolo con dolcezza verso di sé. «Non guardare, è la solita coppietta squallida.» «Lei è mia madre» sussurrò, il volto rigato di lacrime. Nicola soffocò un'imprecazione e istintivamente la spinse verso il basso, tenendole una mano sulla testa per impedirle di guardare. Con l'altra tentò di mettere in moto, ma il motore si era ingolfato. Insistendo avrebbe corso il rischio di richiamare l'attenzione della signora Fasser, e così anche lui si fece scivolare verso il basso, per non essere visto, e raccolse Francesca contro di sé cullandola come una bambina. Ma non poteva impedirle di sentire. «Non capisco i tuoi scrupoli Diana» stava insistendo l'uomo. «É una pensione a ore, mi fai sentire sporca.» Questa era lei. «E nel letto di tuo marito no?» Nicola sentì il corpo di Francesca irrigidirsi, e poi il suono sommesso e straziante dei suoi singhiozzi. Al diavolo, che quella puttana sentisse pure. Girò la chiave e tentò di rimettere in moto, pregando tra sé di riuscirci. E nel momento in cui, finalmente, l'auto partì, Francesca si eresse sul busto. Giusto in tempo per vedere sua madre e l'amante varcare l'orribile portoncino.
CAPITOLO 9 Erano le dieci di sera quando Nicola realizzò l'unica cosa che poteva fare. Da tre ore stava guidando senza meta, avanti e indietro per le stesse strade ormai sgombre di traffico, il cuore stretto dalla pena. Francesca non voleva bere, non voleva mangiare, non voleva fermarsi, non voleva tornare a casa: la testa appoggiata alla spalla di lui, sembrava che il suo unico desiderio fosse piangere finché le lacrime l'avessero dissolta. Nicola imboccò la tangenziale est e si diresse verso le autostrade, una mano sul volante e una teneramente posata sulle spalle di Francesca. Poco prima dei caselli, imboccò la deviazione per l'autogrill e giunto nella piazzola antistante frenò. «Entro a fare una telefonata e torno subito.» Lei fece di sì con la testa, ma Nicola ebbe l'impressione che non lo avesse neppure sentito. Si diresse alla cassa, chiese alcuni gettoni e compose il numero di casa. Come aveva sperato, venne a rispondere sua madre. «Nicola dove sei? Cominciavamo a essere molto preoccupati...» «Mamma non ho tempo di spiegarti e ti prego di non fare domande. Telefona ai Fasser e avverti che Francesca stanotte dormirà fuori casa. Trova una scusa plausibile, inventa qualcosa, ma telefona subito.» «Che cosa è successo?» Il ragazzo benedisse la sensibilità di sua madre. In quel momento non avrebbe sopportato illazioni morbose o sospetti offensivi. «Domattina ti spiego. Non preoccuparti, io e Francesca stiamo bene. L'importante è avvertire i suoi che stasera non torna a casa. Dovrai escogitare qualche scusa anche per papà. Ora devo lasciarti. Grazie, mamma. Ti adoro» aggiunse riagganciando. Tornò in macchina. Raggomitolata su se stessa, Francesca continuava a piangere. «Mi vergogno tanto» singultò quando lui la sollevò contro di sé, accarezzandole il viso. «É una cosa così squallida.» «Ne parliamo dopo, piccolina. Adesso andiamo via da qui.» «Non voglio tornare da mia madre, non voglio rivederla mai più. Dove mi stai portando?» chiese con voce d'allarme, sentendo che Nicola rimetteva in moto. «Nella baita del mio amico, dove ti ho portato a vedere i quadri. Ho le chiavi e...» «Non lasciarmi lì da sola.» «Certo che no. Resterò con te e domattina, a mente serena, decideremo cosa fare. Tuo padre è stato avvertito che non torni a casa» tenne a rassicurarla. «Povero papà... Come ha potuto fargli una cosa simile?» «Francesca, tua madre non è la prima moglie che tradisce. In un matrimonio possono esistere infelicità che ai figli sfuggono... Essere genitori non mette al riparo da tentazioni e sbagli.» «Ma tu hai visto l'uomo che stava con mia madre?» Nel grido di Francesca c'erano repulsione e rabbia.
Lo aveva visto, sì, e non aveva notato nulla di ripugnante. Elegante, distinto, ben piazzato. E di almeno dieci anni più giovane della signora Fasser: a parte lo squallore della situazione, era la sola nota stonata. «Oh, adesso capisco tutto. La paura di invecchiare, il lifting, le crisi di pianto, le corse al telefono...» Nicola aveva deviato in direzione Agrate e imboccò lo svincolo. Duecento metri più avanti, sulla sinistra, iniziava quella che era stata una vecchia mulattiera e che adesso era un piccolo viale alberato ai cui lati si susseguivano case in costruzione e villette a schiera. Quella di Gigi, il suo amico, era un vecchio rustico in pietra e legno che la ristrutturazione non aveva ancora toccato. Arredata con vecchi mobili e pezzi di fortuna via via aggiunti, da anni costituiva il punto di riferimento per rimpatriate, partite a carte, e, eccezionalmente, incontri d'amore. Nicola fece strada a Francesca, la sospinse verso un vecchio divano foderato in cretonne dai grandi fiori ormai stinti e poi si diresse verso l'ingiallito frigidaire sperando di trovarvi qualcosa di commestibile. «Non ho fame» lo prevenne Francesca. «Se le cose vanno male, non è giusto che il corpo debba soffrire.» «Non ho nemmeno voglia di scherzare.» Nicola si avvicinò con una coppa di gelato al caffè e gliela porse. «C'è solo questa. Per favore, mangia qualcosa. Ti sentirai meglio, dopo.» «Mi è crollato il mondo addosso. Credevo che mia madre ci amasse, a volte provavo persino rimorso vedendo con quale dedizione si occupava di me e papà. Sembrava che esistessimo solo noi, e io ero così orgogliosa della mia stupenda famiglia...» Nicola sospirò. «Non l'hai perduta, hai solo scoperto che la famiglia stupenda è un sogno da bambini. Tua madre non ha smesso di amarvi, vi ama semplicemente in modo imperfetto. Prima di condannarla, prova a chiederti quali sensi di colpa e quale umiliazione la stanno tormentando. Non aveva l'aria molto felice, oggi.» «E mio padre? É alla sua umiliazione che penso. Dio mio, se solo sapesse! La perfetta e adorata mogliettina che s'infila in una pensione a ore con il giovane gigolò. É schifoso.» «Soltanto all'apparenza, e non dovrei essere io a insegnartelo, Francesca. A cosa ti è valso leggere tanti libri Anna Karenina o Madame Bovary non ti ispirano "schifo" ma simpatia e pietà, perché hai capito le sofferenze e le inquietudini che le hanno portate al tradimento. Dovresti fare altrettanto con tua madre: sforzarti di capire.» Francesca fece di no, di no con la testa. «É una donna immorale e vuota che ha recitato per tutta la vita. Non voglio più vederla, non voglio più tornare a casa. Dio, se penso a tutte le belle parole che per anni mi ha detto! La dignità del sesso, la grazia dell'amore, il rispetto di sé...» «Adesso basta piangere, Francesca. Domattina quando ti sveglierai decideremo cosa fare. E tutto ti sembrerà meno tragico.» «Balle.» Tirò su col naso e Nicola, aiutandola a sdraiarsi sul divano, sorrise. La coprì con un vecchio plaid e le depose un bacio sulla fronte.
«Cerca di riposare.» «E tu dove dormi ?» «Accanto a te. Non ti lascio, Francesca.» Prese da un armadio un vecchio sacco a pelo, lo stese di fianco al divano e vi si infilò. Poi alzò un braccio per cercare la mano di Francesca e la strinse nella sua. La udì sospirare a fondo, con l'affanno del bambino che riprende fiato dopo un'ondata di singhiozzi capricciosi, e provò per lei una tenerezza quasi materna. Avrebbe voluto stringerla e confortarla come se davvero fosse stata una bambina, ma purtroppo non lo era più e non c'era consolazione per quel che aveva visto. Lui stesso, uscito da un bel pezzo dalle illusioni dei diciott'anni, sarebbe andato in pezzi scoprendo sua madre nella situazione di quella di Francesca. Conosceva Diana Fasser di vista, e un paio di volte era anche venuta a casa sua. Il giudice padre aveva sentenziato, solo ora gli veniva in mente, che prima o poi tutte le donne troppo ricche e troppo belle finiscono per cacciarsi nei guai, ma escludeva che sapesse qualcosa della sua relazione extraconiugale. Fuori dalle aule del tribunale Ezio Brentano era un uomo distratto e privo di curiosità. C'era da giurare che non sapesse neppure che Francesca era un'allieva di sua moglie! Nicola riandò col pensiero a Diana Fasser mentre entrava in quella miserevole pensione. Chissà cosa l'aveva condotta fin lì. Sesso? Amore? Follia? Comunque fosse, il prezzo da pagare era molto caro: mai più sua figlia l'avrebbe guardata negli occhi con fiducia e innocenza. Fu lui a sospirare, adesso, e subito sentì le dita di Francesca stringere le sue. «Dormi?» gli chiese piano. «No, aspetto che ti addormenti prima tu.» «Sto cercando di pensare a qualcosa di bello ma non so a che cosa. Ho paura.» Nicola si sollevò dal sacco a pelo. «Sono qui. Pensa a me.» «Se penso a te sto peggio, mi sento ancora più sporca.» Balzò sul divano e l'afferrò per le spalle: «Ma che cosa stai dicendo? Sei pazza, Francesca?». «Ti stringevo la mano e mi vergognavo. Dobbiamo lasciarci, non posso trascinarti giù.» «Giù dove?» La scosse con ira dicendo a se stesso che era l'infantile delirio di una ragazzina sotto choc. Ma sapeva di essere furioso solo con se stesso. Non c'era niente di infantile, nella voce di Francesca, e se la raccolse tra le braccia con una desolata sensazione d'impotenza, spaventato dalla consapevolezza che non sarebbe stato capace di rassicurarla né di confortarla. La strinse più forte, pregando tra sé che non aggiungesse altro, e il contatto di quel corpo inerte accrebbe il suo spavento. Di colpo sperò che parlasse. «Francesca, giù dove?» ripeté trattenendo il fiato. «In un mondo dove non c'è più bellezza, né speranza, né amore» disse con voce lontana, e le parole sembrarono una sinistra cantilena. «Il bene è sparito dalla mia vita, c'è solo un sudicio vuoto, e non voglio contaminarti.» Devo fermarla, pensò Nicola con una paurosa sensazione di urgenza.
Francesca stava sfuggendo, e sentiva con ogni fibra di se stesso che quel vuoto gliela stava strappando di dosso. Riuscì a immobilizzarla e si distese con affanno sopra di lei, lottando e lottando contro le forze che volevano sottrargliela. E più il corpo si divincolava, più lui premeva per tenerlo fermo. La prese per i capelli e la baciò con forza. «Non puoi andartene, ti amo» disse con voce di preghiera. E d'un tratto il vuoto si dissolse, i demoni fuggirono, le forze si placarono. Francesca era salva, abbandonata sotto di lui, e sentiva il tepore della gola, la morbida rotondità del seno, il battito del cuore. Il desiderio di lei arrivò lentamente, e fu prima languore, poi dolcezza, poi tremito e infine smania di entrare e sciogliersi in lei. «Francesca» la chiamò. «Sì... non ho più paura.» Si era scostata e si stava spogliando. Nella penombra Nicola indovinò, più che vedere, la spontaneità di quei gesti e ne fu commosso. Spogliandosi a sua volta, gli sembrò di deporre ipocrisie e paure per ritrovarsi con Francesca, nudo, nel mondo dell'innocenza. Entrò in lei lentamente, dolcemente, timoroso di farle male. Francesca gli allacciò le mani sul collo, inarcando la schiena con un breve sospiro, e il timore diventò urgenza di prenderla, di confortarla, di restituirle bellezza e speranza e amore. E mentre l'orgasmo arrivava, Nicola si sentì pervadere da un'emozione dolcissima, quasi religiosa. Racchiuse il volto di Francesca tra le mani, e ricoprendolo di baci, disse per la seconda volta: «Ti amo». «É il 28 aprile del '79: mi ricorderò per tutta la vita di questo giorno.» La solennità del tono gli causò uno strano turbamento, perché ciò che Francesca aveva detto era vero: come avrebbe potuto dimenticare? Quel giorno, in poche ore, era passata dalla disperazione alla felicità, e aveva conosciuto tutto il male e tutto il bene della vita. Alle sette, quando Nicola si svegliò, Francesca era ancora addormentata. In punta di piedi andò nel cucinino e frugò tra le scansie sperando che ci fosse del caffè. Ne trovò un barattolo quasi pieno. Riempì la moka, accese il fornello del gas e quando il caffè fu pronto andò a svegliare Francesca. Si sedette sul bordo del divano e le accarezzò i capelli, chiamandola. Aprì subito gli occhi e sul suo viso passarono, come in una sequenza, perplessità, pena, sollievo, gioia. Era come assistere per la decima volta alla proiezione di un film amatissimo e Nicola scommise con se stesso che di lì a un istante Francesca, ricordando quel che era accaduto poche ore prima, sarebbe arrossita. E infatti le sue gote s'imporporarono. L'abbracciò intenerito. Poi le disse, porgendole il caffè: «É ora di andare. Mia madre stamattina comincia le lezioni alle dieci, e dobbiamo bloccarla a casa prima che esca. É stata lei ad avvertire i tuoi che ti saresti fermata fuori, e in un modo o nell'altro ti aiuterà a tornare».
Mentre parlava gli sembrava di essere l'eroe disarcionato dal cavallo dalle ali dorate. Ed era esattamente come si sentiva, con il sedere per terra. Sarebbe stato entusiasmante poterle dire "resta con me, a casa non tornerai più" e invece non era ancora nelle condizioni per farlo. Francesca gli afferrò il braccio. «Devi promettermi che non le dirai nulla di mia madre e di quello che abbiamo visto.» «Non le dirò nulla. Promesso.» Lasciarono la baita alle sette e mezzo, e impiegarono oltre un'ora e un quarto per liberarsi dagli imbottigliamenti della tangenziale e percorrere le strade, tutte intasate, che da via Palmanova portavano in corso di Porta Romana. Quando, finalmente, entrarono nel portone, incrociarono il giudice Brentano che ne stava uscendo. L'uomo salutò il figlio con un sorriso, senza fermarsi, e Nicola pensò che quasi certamente non aveva fatto caso a Francesca. Distratto com'era, c'era il caso che non si fosse neppure accorto della sua assenza di quella notte.
PARTE SECONDA LA BURRASCA La vita come il mare si alza e si abbassa, ha tempeste e bonacce. Molte infelicità sarebbero risparmiate agli uomini se, travolti dalla tempesta, avessero fede nell'eterno movimento che fatalmente porterà l'ondata a ritrarsi. ANDRÉ MAUROIS
CAPITOLO 10 Sua figlia stava ancora telefonando e l'altra linea era guasta. Guardò l'orologio: le sedici. Non le restava molto tempo per confermare a Michele che lo avrebbe accompagnato a Varese, né poteva illudersi che lui restasse in casa oltre l'ora stabilita nella speranza di vederla arrivare all'ultimo minuto. Michele non aspettava, non forzava e non pregava, convinto, come gli piaceva ripetere, che l'amore non deve trasformare una persona in mendicante. Era stata proprio la risolutezza del suo corteggiamento a travolgerla. Oppure no? Benché l'imbarazzasse ammetterlo, a spingerla tra le braccia di Michele era stata la sfrontata ammirazione con cui gliele aveva tese. Nessun uomo, neppure suo marito, era mai riuscito a trasmetterle quell'inebriante consapevolezza di essere bella e desiderabile: «unica», per usare un aggettivo di Michele. E per alcuni mesi non aveva mai dubitato che dicesse la verità. Solo più avanti le era venuto il sospetto che parte del fascino potesse derivarle dal prestigio del cognome. Era comprensibile che questo la rendesse unica agli occhi di un ragioniere trentaduenne, funzionario in una banca dove Giovanni Fasser depositava in un mese ciò che lui non avrebbe guadagnato in un'intera vita di lavoro. Il sospetto era diventato certezza quando Michele si era reso conto di averla in pugno. I ruoli si erano invertiti: lei aveva perduto l'alone di irraggiungibile dea, e lui era diventato smanioso di misurare fin dove potesse spingersi. La trascurava e la cercava, la esaltava e la umiliava, attento a non farle mai raggiungere né i vertici dell'estasi né gli abissi della disperazione. Tenere sospesa la moglie di Giovanni Fasser in un'altalena di frustrante insicurezza, e sapere che dipendeva soltanto da lui spingerla in su o in giù, certo gli dava un'esaltante sensazione di potere. Ma a dispetto di tutto Michele teneva realmente a lei. Dopo mesi e mesi la desiderava con un ardore che non accennava a smorzarsi. La consapevolezza di non esserne fisicamente travolta leniva gli scrupoli di Diana e nobilitava la relazione. Non si trattava della solita e squallida storia di sesso, ma di amore. D'altro canto era questo a renderla pericolosa. Dieci giorni prima, accompagnandola al parcheggio dei taxi, Michele aveva detto a bruciapelo: «Comincio a stancarmi di questa precarietà. Prima o poi potrei chiederti di divorziare e vorrei trovarti preparata all'idea. Pensaci». Ci aveva provato, ma era stato come affacciarsi sull'orlo di un orrido. Sperava con tutta se stessa che quel «prima o poi» non arrivasse mai. Per vivere con Michele
avrebbe potuto rinunciare a tutti i privilegi del matrimonio, ma mai ferire suo marito e distruggere la serenità di Francesca. Sollevò di nuovo il microfono, ma era sempre occupato. Fu sul punto di andare nella stanza di sua figlia per pregarla di lasciare libero il telefono, ma decise di concederle altri cinque minuti. Stava parlando con Nicola e quella storia, si disse Diana, stava diventando troppo coinvolgente. Ma non osava parlarne con Francesca, né lei sembrava desiderosa di confidarsi. Negli ultimi tempi i loro rapporti erano diventati inesistenti, come se un muro le avesse divise. Sua figlia le parlava con toni impersonali e cortesi; e ogni volta che lei aveva cercato di avvicinarla, si ritraeva andando a chiudersi nella sua stanza. «Ho molto da studiare», era il pretesto. Ma forse non lo era: tra pochi giorni avrebbe dovuto ripetere la maturità, ed era comprensibile che fosse occupata e tesa. Tuttavia ogni giorno trovava il tempo per incontrarsi con Nicola o perdersi in telefonate interminabili come questa. Sedici e venticinque. Guardando l'orologio il nervosismo di Diana crebbe. Le restavano pochi minuti prima che Michele uscisse. Sollevò il ricevitore e, intromettendosi nella linea, chiese alla figlia: «Puoi lasciare libero l'apparecchio? Devo fare una telefonata urgente». La spia rossa si spense dopo pochi istanti, ma Diana non aveva fatto in tempo a comporre l'ultima cifra del numero di Michele che sua figlia irruppe nella stanza. «Non ti interrompo mai, io» l'apostrofò. «Con chiunque tu debba parlare, la telefonata che stavo facendo era molto più urgente.» Se ne andò com'era venuta, furiosa, e Diana ricompose il numero sospirando. La voce di Michele lenì avvilimento e irritazione. «Meno male che sei ancora lì» gli disse. «Ho deciso di accompagnarti: vuoi che ti raggiunga a casa oppure al casello?» Francesca la sentì uscire, chiamare l'ascensore, aprire e richiudere le portine. Corri pure dal tuo ganzo, le disse mentalmente, il pomeriggio me l'hai rovinato. In realtà se l'era rovinato da sola, e l'interruzione della telefonata le aveva impedito di far danni peggiori. Come aveva potuto essere così lacrimevole e possessiva? Ebbe l'impulso di richiamare casa Brentano, ma immaginando ciò che in quel momento Nicola stava pensando di lei si sentì sprofondare. Ci avrebbe messo ben poco a concludere che la loro storia era durata abbastanza, tanto più che l'Ideale con la maiuscola era volato da Parigi nel momento giusto per ricordargli la differenza tra sogno originale e ripiego. Cercherò di sopravvivere, si incoraggiò con patetico cinismo. E mentre l'altra parte di lei le chiedeva come, il telefono squillò. «Tua madre permettendo, vorrei ripartire da dove eravamo rimasti»
Nicola l'apostrofò senza preamboli. «Non ne vale la pena.» «Era il nostro primo litigio e ti ci sei buttata da diva tagliandomi fuori. É sleale. Voglio anch'io le mie battute.» «Non montiamoci la testa, Nicola. La diva è Milly. Non soltanto ci ha scippato il copione, ma ha fatto anche la colonna sonora.» «E ridagli! Con questa storia mi hai rotto, Francesca. Se ieri avessi saputo che alla cena di mia cugina c'era Milly, non ti ci avrei certo portata. E se avessi previsto che la sua strimpellata da salotto ti avrebbe fatto l'effetto di un concerto al Metropolitan, appena si è seduta al pianoforte ti avrei portato via.» «Senti chi parla! Mentre Milly strimpellava, come dici, tu la fissavi con una ridicola aria rapita, neanche stessi ascoltando le arpe del paradiso!» Aveva sempre invidiato, anzi, odiato le compagne che sapevano suonare qualche strumento. Con il pianoforte o la chitarra esercitavano una seduzione che la umiliava, una suggestione di cui si sapeva incapace. E quando Milly, bionda e assorta, con il tocco delle dita aveva riempito la stanza di magiche armonie, a stento si era trattenuta dall'urlare a Nicola: "Non è lei ad averle composte, non è sua la struggente dolcezza di queste note!". Nicola, quasi le avesse letto nel pensiero, spiegò asciutto: «Stava suonando la K 466: ero rapito da Mozart, non da Milly. Tanto per esaurire l'argomento, non sapevo neppure che fosse arrivata a Milano, ma a quanto ha detto mia cugina tra due giorni ritornerà a Parigi». «E prima che parta, la rivedrai ?» «Da circa due mesi la nostra storia è diventata piuttosto intima e coinvolgente, Francesca: non ho bisogno di emozioni alternative.» «Scusami. La verità è che sono molto gelosa» ammise. «Nooo! Giuro che non l'avevo capito.» La tensione si era allentata e Francesca avvertì uno smisurato sollievo. «Scusami davvero» ripeté. «Pensavo di essermi giocata la nostra storia "intima e coinvolgente"... Meno male che mia madre mi ha impedito di dire cose irreparabili!» «Per esempio?» s'informò Nicola, divertito. «Avevo deciso di non vedere più tua madre, a cominciare da oggi...» La interruppe: «Questa decisione era più demenziale che irreparabile. A proposito, stamattina mia madre se l'è presa con me. Sostiene che ti stai deconcentrando proprio alla vigiglia degli esami e che, naturalmente, è tutta colpa mia. Hai fatto i temi che ti ha dato la settimana scorsa?». «Mi manca di finire il terzo.» «Tra un'ora devi essere qui, come fai? Forse mia madre ha ragione, in questi giorni dovremmo vederci un po' meno. E rimandare il nostro week-end a Nervi di sabato prossimo.» «Quello non si tocca, Nicola» rispose con fermezza. Erano i primi due giorni che potevano trascorrere insieme, loro due soli nella villa che per anni aveva detestato e che adesso le appariva il più meraviglioso dei posti. Erano dieci giorni che stava programmando quel fine settimana, come una cospiratrice, e si era scoperta una insospettata fantasia nell'inventare ai genitori una spiegazione che li aveva convinti.
«Ne riparleremo tra poco, Francesca. Tra l'altro anch'io devo concentrarmi sulla tesi.» Quel pomeriggio, per la prima volta, Silvia Vitali parlò scopertamente a Francesca di suo figlio. Finita la lezione, la invitò a bere una bibita nel terrazzo e si sedette accanto a lei sul divano di vimini. Giugno volgeva alla fine e l'aria aveva ormai il profumo dell'estate. Dai vasi di terracotta appesi alle ringhiere ricadevano le fiammeggianti cascate dei gerani edera, e le piante aromatiche, da poco innaffiate, esalavano inebrianti profumi. Francesca socchiuse gli occhi, sospesa tra vigile raccoglimento e una stordita sensazione di languore fisico. I colombi attraversavano il cielo rosato del tramonto come colpi di fionda. La voce della professoressa Vitali sembrò giungere da lontano. «Tu e Nicola state correndo troppo» disse senza preamboli «e sono molto preoccupata.» Francesca si eresse. «Non capisco.» «Senti, parliamone lealmente. Fino a un paio di mesi fa potevo ancora sperare che si trattasse di una cotta da ragazzi, ma siete stati voi stessi a aprirmi gli occhi. E non soltanto. La famosa sera in cui non tornasti a casa, Francesca, toccò a me inventare una bugia ai tuoi. E la mattina successiva non potei che confermarla. Mi avete preso la mano, rendendomi complice di una relazione che disapprovo e che mi allarma. Né tu né mio figlio siete ancora pronti per un legame impegnativo, e questo non può portarvi che amarezze. A suo tempo ho tentato di farlo capire a Nicola, ma inutilmente.» Francesca inghiottì, con un vago senso di nausea. «Io e Nicola sappiamo bene che dovrà passare del tempo prima che siamo pronti a impegnarci nel senso che intende lei.» «Questo non basta a preservarvi da sofferenze e problemi. I sentimenti hanno tempi e sbocchi che non possono essere ostacolati, così come avviene per il corso di un fiume. I lunghi fidanzamenti, le relazioni extraconiugali e quelle degli innamorati indecisi prima o poi portano all'infelicità proprio perché ostacolano e frustrano il naturale evolversi dei sentimenti.» «Nessuno di questi è il nostro caso.» Francesca inghiottì di nuovo. «In un certo senso è ancora peggiore, perché state giocando con la passione. É come se aveste in mano un'arma che non sapete usare. Io sono preoccupata soprattutto per te, Francesca. Sei più profonda e forse più innamorata di mio figlio, ma ti mancano l'equilibrio e l'esperienza per poter vivere senza pericoli una grande passione.» «Che cosa dovrei fare?» «Per prima cosa mandare a monte il week-end a Nervi. Ne parlavate qui la scorsa settimana, e purtroppo ho sentito. Poi, concentrarti sugli esami: superarli bene è una prima prova di essere "maturi" in ogni senso. Nicola, a sua volta, deve discutere la tesi e laurearsi. Non vi dico di troncare la vostra storia, ma soltanto di essere meno precipitosi e imprudenti. Buttarvi nello studio e prendere un po' di fiato non può farvi che bene.» Francesca stava per replicare qualcosa, ma non le fu possibile: il giudice Brentano varcò la portafinestra del soggiorno e raggiunse la moglie in terrazzo. «Sono quasi le otto, non si cena?» chiese. Solo in quel momento parve accorgersi della ragazza. La fissò con espressione interrogativa e poi le rivolse un sorriso vago.
«É Francesca Fasser, una mia alunna. Stavamo facendo due chiacchiere» Silvia Vitali la presentò. Francesca si alzò, intimidita: «É tardi, debbo andare». Alla tristezza del colloquio appena terminato si aggiunse quella di non aver visto, neppure per un attimo, Nicola. Aprì la porta e chiamò l'ascensore. Rimasto solo con la moglie, Ezio Brentano osservò: «Non pensavo che a quest'ora tu ti occupassi ancora dei tuoi allievi, ricevendoli addirittura in casa». «Francesca Fasser è una ripetente a cui do qualche lezione» riassunse Silvia Vitali. «Ma non facciamo mai così tardi.» «Ho l'impressione di averla vista da qualche parte. Con Nicola: è possibile?» «É possibile. Si sono incontrati qui e tra ragazzi si fa presto a entrare in confidenza.» «Come hai detto che si chiama?» «Fasser. Suo padre ha un'impresa di costruzioni e tra l'altro è genovese come noi.» «Fasser... E un cognome che mi suona familiare.» Sua moglie rise. «I cartelli dei suoi cantieri si innalzano in mezza Italia!» Ezio Brentano scosse la testa. «Non è questo che intendevo.» Si accarezzò la fronte con le dita, l'abituale gesto di quando rifletteva profondamente. «Ti risulta che a Genova abbia avuto qualche processo o sia stato coinvolto in qualche scandalo?» chiese a un tratto. Silvia Vitali rise di nuovo. «Ezio, la tua deformazione professionale sta confinando con la patologia! I Fasser sono quel che si suol dire una rispettabile e prestigiosa famiglia!» Il giudice scosse la testa, perplesso. «Sarà. Ma ho la certezza di aver sentito questo cognome proprio in Tribunale. A Genova, una ventina d'anni fa.» Le dita tornarono a accarezzare la fronte. «Ti dirò di più, Silvia. Mi pare proprio di ricordare che a parlarmi di Fasser sia stato, a quei tempi, un collega.» Aveva l'espressione soddisfatta di quando poteva dare un'ennesima dimostrazione della sua eccezionale memoria. Sua moglie alzò le spalle. «I costruttori incorrono spesso in multe o abusi... Che ne diresti di andare a tavola?» Teresa, la domestica, si affacciò sulla porta della cucina e disse: «Nicola arriva più tardi, è andato a accompagnare a casa la Fasser».
CAPITOLO 11 Quando il commissario dissigillò la busta e cominciò a dare lettura dei temi, Francesca avvertì uno strano ronzio alle orecchie e per alcuni istanti perse la nozione della realtà. Era come se il tempo fosse ritornato indietro di un anno. Anzi, come se quell'anno non fosse mai esistito e lei si trovasse in quella stessa aula del Parini, condannata a restarvi per l'eternità. Si aggrappò istintivamente al banco, sopraffatta da uno stordimento che le fece girare la testa. E quando ritrovò il controllo s'infuriò con se stessa. Stava sceneggiando un'altra crisi per ripetere la bravata dell'anno prima? Intendeva crogiolarsi per tutta la mattina in fantasie morbose al solo scopo di deconcentrarsi dal tema? Prova a consegnare il foglio in bianco e ti uccido, giurò a se stessa. Fu come infilare un ago in un palloncino: l'incubo si sgonfiò e tutto tornò a posto. Il commissario stava rileggendo i temi e Francesca, improvvisamente lucida, fece via via mente locale su ciascuno. Dopo una breve valutazione, optò decisamente per il secondo: ripercorrendo a grandi tappe l'evoluzione e gli eventi dell'umanità, avrebbe dovuto dire se, secondo lei, era stata la storia a condizionare l'uomo, oppure l'uomo a fare la storia. Cominciò a scrivere con la mano che le tremava per l'eccitazione, sperando che la penna riuscisse a seguire il ritmo delle idee che si susseguivano fluide e veloci. Non aveva dubbi: erano stati i bisogni, l'aggressività, le tracotanze e lo spirito d'avventura dell'uomo a determinare gli eventi. Riempì in meno di un quarto d'ora la prima facciata e, girando il foglio, notò che la sua compagna di banco non aveva ancora cominciato a scrivere. Ricordando quanto, l'anno prima, fosse stata infastidita dalla compassionevole petulanza della privatista che le sedeva accanto, si vietò di fare altrettanto. Ma, rivolgendo suo malgrado un'ultima occhiata alla compagna, la vide piegarsi su se stessa e premersi le mani sul grembo con una smorfia. «Ti senti poco bene?» chiese preoccupata. La ragazza le rivolse un breve sorriso e scosse la testa. «Non è niente, ho preso un cachet e spero che passi. Una bella jella, proprio stamattina dovevano venirmi le mie cose!» Francesca aprì e richiuse la bocca. E lei, quando aveva avuto l'ultimo ciclo? Nel momento stesso in cui se lo chiedeva, prima ancora che la sua mente avesse il tempo di calcolare, attutire e mediare, la risposta l'aveva già aggredita nella più piccola fibra del suo corpo. Sono incinta. La mente le venne pietosamente in soccorso: calmati, lasciami riflettere, forse è un ritardo causato dalla tensione per gli esami, forse sto confondendo le date...
No. Aveva avuto l'ultimo ciclo alla metà di aprile, oltre due mesi prima, e fino ad ora si era rifiutata di registrare il ritardo e di fare affiorare alla coscienza lo spaventoso sospetto. Avvertì una fitta di nausea alla bocca dello stomaco e inghiottì a vuoto, improvvisamente cosciente della familiarità di quei disturbi. Sono incinta. Una ridda di interrogativi rese ancor più spaventosa quella realtà. Devo decidere qualcosa, devo fare qualcosa. Non ora, la mente le ordinò imperiosamente. Ora devi soltanto fare il tema. Francesca rilesse ciò che aveva scritto e tirò un fregio rabbioso. Era folle credere che l'uomo, nell'infinita piccolezza del proprio essere, avesse potuto determinare la storia. Era stato il flusso inarrestabile degli eventi a condizionare la sua esistenza e mutare i suoi pensieri, le sue azioni e i suoi valori. Prese un nuovo foglio e cominciò a scrivere di getto, stupita con se stessa di essere riuscita a ritrovare la concentrazione estraniandosi dal proprio problema. Soltanto all'una, quando rilesse il tema, si rese conto che aveva parlato della storia identificandola mentalmente con la sua gravidanza, come se la storia e il figlio che aspettava fossero la stessa cosa. Nicola l'aveva chiamata alle sette del mattino, e prima di riattaccare con l'allegro e ben augurale «merda, merda, merda» le aveva detto: «Appena hai finito il tema telefonami, volo a prenderti e andiamo a mangiare una pizza insieme». Come sentì il suo «pronto?» decise che no, non poteva dirglielo subito. Tra due giorni Nicola avrebbe dovuto discutere la tesi, e le sembrò crudele gettargli quella croce addosso. Due giorni più due meno, cosa sarebbe cambiato? «Sono appena uscita. Credo che il tema mi sia venuto bene» gli comunicò. «Dove sei, adesso?» «Nel bar tabaccheria della scorsa settimana.» «Aspettami, arrivo subito. Hai telefonato ai tuoi?» «No, li chiamo adesso. Tu avverti tua madre che è andata bene.» Sette giorni prima Nicola l'aveva accompagnata in segreteria per consegnare un documento e si erano fermati a bere un caffè in quello stesso bar. Spostando una sedia, Francesca ricordò che anche il tavolino era lo stesso. Soltanto io sono un'altra, pensò. In mezza mattinata tutto quello che speravo e volevo è cambiato. Era sopravvissuto, intatto, l'amore per Nicola, ma pensare a lui adesso la faceva star male. Il cameriere si avvicinò e gli ordinò una spremuta d'arancia. Dovrei avvertire papà che ho finito lo scritto d'italiano, si disse, ma le parve ridicolo preoccuparsi di risparmiargli una piccola apprensione quando stava per infierirgli un enorme dolore. Una ragazza dai lunghi capelli biondi si stava dirigendo verso di lei e Francesca impiegò alcuni istanti per metterla a fuoco. Ma sì, era la sua compagna di banco, quella che dopo la lettura dei temi si era sentita poco bene. Ricordò anche il suo nome, Clara Siani.
«Stai aspettando qualcuno anche tu?» Clara le chiese spostando una sedia e dando per scontato di aspettare al suo stesso tavolo. «Sì. Come ti senti adesso?» «Perfettamente, ma non sono per niente contenta del tema. L'italiano è sempre stato il mio incubo, beata te che non hai questo problema.» Prima che Francesca le chiedesse come faceva a saperlo spiegò: «Non puoi nemmeno immaginare quanto abbiamo parlato in classe di quello che ti è successo l'anno scorso. Persino il professore d'italiano ce lo agitava come uno spauracchio, dicendo che neppure una candidata brava come te è risparmiata dalle incognite della maturità». Francesca si sorprese a sorridere malinconicamente: tutta qui l'umiliazione? Era per non essere riconosciuta e additata che aveva tentato prima di non ripetere la maturità, poi di dare gli esami a Genova? Ben altra prova l'aspettava adesso, e le era insopportabile pensare all'amarezza di suo padre, al gemente falsetto di sua madre, alla reazione sicuramente spaventata di Nicola. Si costrinse ad ascoltare ciò che Clara Siani stava dicendo. «Tu non mi hai mai notata, ma io sì. Ero una classe indietro e ti invidiavo moltissimo. Non per la fama di genio» precisò con un risolino «ma per la classe. Se mi vestissi come te sembrerei una monaca di clausura, tu invece hai un'austerità così raffinata e sexy!» Francesca si ritrovò di nuovo a sorridere. «Non ho mai avuto un particolare interesse per vestirmi» ammise «e mi sento a mio agio soltanto con giacche, gonne e jeans.» Cambiando discorso (la tipica superficialità degli estroversi, Francesca annotò con simpatia) Clara chiese: «Stai aspettando il tuo ragazzo?». Prima che lei rispondesse aggiunse sospirando: «Io, col mio, ho chiuso due mesi fa. Era una tale pizza! Il fatto è che ho voglia di conoscere, viaggiare, divertirmi. Adesso sto aspettando un tizio che ho conosciuto sere fa a una festa. Ha trent'anni e è separato dalla moglie, ma è talmente diverso da quei bambocci dei nostri compagni di scuola! Ti sto scandalizzando, Fasser?». Soltanto ieri, Francesca le rispose mentalmente, ti avrei giudicato una ciarliera e insopportabile ragazza. «No, non mi stai scandalizzando affatto» disse a voce alta. «Sei molto simpatica.» Clara Siani arrossì di piacere. «Peccato che il liceo sia finito, avremmo potuto diventare amiche! Comunque abito in piazza Napoli, c'è Siani sulla guida. Se mi telefoni potremmo combinare qualcosa insieme.» Francesca guardò l'orologio appena sopra al bancone del bar. Erano trascorsi tre quarti d'ora da quando aveva telefonato a Nicola, come mai tardava tanto? Benedisse tra sé l'incontro con Clara, chiacchierando con lei si era risparmiata nervosismo e cattivi pensieri. Ma Clara adesso si stava alzando, il viso eccitato e allegro rivolto all'ingresso. «É arrivato, devo andare. Ci vediamo domattina agli esami.» E scappò via. Nicola arrivò dieci minuti dopo, quando ormai Francesca si stava chiedendo se fosse il caso di continuare ad aspettarlo.
«Scusami per il ritardo» disse «mentre uscivo dal portone mi sono imbattuto in mio padre e non mi mollava più. Dove vai, con chi, perché, mancano due giorni alla tesi e dovresti buttarti anima e corpo nello studio. Eccetera eccetera eccetera. Un vero interrogatorio.» Nonostante il tono scherzoso, aveva la faccia buia ed appariva molto teso, Francesca osservò mentre uscivano dal bar e si dirigevano verso la macchina parcheggiata poco distante. «Pensavo di portarti a colazione a Chiaravalle» Nicola disse poco dopo, mettendo in moto «ma oggi pomeriggio mio padre non va a lavorare, e se torno tardi un'altra predica non me la leva nessuno. Dovrai accontentarti di una pizza al volo.» Quella frase suonò a Francesca malinconicamente premonitrice: da ora in avanti avrebbe dovuto soltanto accontentarsi, ormai per lei non c'erano che compromessi e ripieghi. «Va bene lo stesso» si costrinse a dire. «Parlami degli esami. Che tema hai fatto?» «Il rapporto tra uomo e storia, e cioè quello che tua madre chiama il provvido tema universale: chi è bravo può far sfoggio di quel che sa, chi è meno dotato riesce comunque a dire qualcosa.» Nicola annuì, ma Francesca ebbe l'impressione che neppure l'avesse sentita. Anche la sua guida era nervosa, e quel susseguirsi di piccole frenate le stava torcendo lo stomaco. Fece un profondo respiro: «E tu a che punto sei?». Dovette ripetere la domanda. Nicola alzò le spalle e borbottò: «Pessimo». «Perché sei così disfattista? Fino a una settimana fa eri molto soddisfatto della tua tesi.» «La stessa soddisfazione del condannato a morte a cui è stato concesso di scegliere tra la sedia elettrica e la corda.» Francesca si sentì contemporaneamente sopraffare da nausea e furia. «Questo tuo drammatizzare è ridicolo. É insultante per chi ha dei problemi autentici.» Un fiotto di saliva le salì alla gola e dovette inghiottire. «Dove sta il tuo?» riprese. «Non mi pare poi una condanna a morte uscire dall'università per entrare nello studio legale più prestigioso della città, attraverso la porta principale spalancata da papà.» Nicola si voltò verso di lei lanciandole un'occhiata compassionevole. «Nella tua infinita banalità hai dimenticato che ho pagato il biglietto d'ingresso. Carissimo.» Sottolineò con una brusca frenata. «Nella mia infantile banalità ho imparato che...» Nicola la interruppe: «Risparmiami la lezione. Siamo arrivati». «Dove?» «In pizzeria. Salta giù, non ho molto tempo.» «E io non ho per niente fame. Riaccompagnami a casa» Francesca ribatté. Fecero tutta la strada in silenzio. Quando arrivarono davanti al portone, Nicola allungò un braccio e le socchiuse la portiera. «Scendi subito, non posso fermarmi.» «Quando... quando ci vediamo?» «Ti telefono io. Scendi» ripeté «c'è una fila di macchine dietro di noi.» Soltanto mentre suonava il campanello Francesca realizzò che erano le tre e mezzo del pomeriggio e
si era dimenticata di telefonare ai suoi. Venne ad aprirle Germana, con un'espressione di sollievo che le fece capire quanto dovevano essersi preoccupati. «Francesca, meno male che è arrivata!» disse la domestica. «Suo padre è stato ricoverato al Niguarda. Non è niente di grave, stia calma. Sua madre è all'ospedale e ha continuato a telefonare chiedendo di lei.»
CAPITOLO 12 Nicola depose il ricevitore con un sollievo di cui subito si vergognò. Dopo due giorni di silenzio aveva telefonato a Francesca per comunicarle che quel mattino si era laureato con 110, ahilui senza lode, e Francesca gli aveva raccontato con voce di pianto che suo padre, colpito da un infarto, era stato dichiarato fuori pericolo solo da poche ore. Meno male che l'ho saputo adesso, era stata l'istintiva reazione di Nicola. E malgrado si detestasse per il suo egoismo non poteva fare a meno di sentirsi sollevato per il pericolo che lui aveva corso di dover rimandare l'esame di laurea per star vicino a Francesca. Che razza di verme sono? si disse ripensando alla strana voce di lei, senza traccia di contentezza. O almeno di quel sollievo che è normale, quando il peggio è passato. La verità è che da molte settimane Francesca ha perduto slanci e allegria, pensò. L'ho mio malgrado trascinata in una relazione che ha fatto esplodere in lei sentimenti violenti e smania di assoluto. E io sono un frustrato artista mancato, troppo pieno di casini per appagare le sue implacabili aspettative. Abbiamo corso troppo e dobbiamo darci una calmata. La voce di suo padre lo fece quasi sobbalzare. «Congratulazioni per l'esame, ero certo che non mi avresti deluso.» Almeno con lui sono stato all'altezza, Nicola sogghignò tra sé. «Mi spiace per la lode, papà» disse ironico. Ezio Brentano fece un gesto di fastidio, come a dire che non aveva voglia di scherzare. «Sono tornato a casa perché debbo farti un discorso molto grave, Nicola.» «Se riguarda il mio avvenire dovrai rimandarlo. Sto correndo dalla mia ragazza.» «É proprio di lei che debbo parlarti. Tu sai chi è?» chiese con esagerata enfasi. «Direi di sì. E a quanto pare lo sai anche tu.» Il giudice Brentano si schiarì la voce. «Purtroppo temo che non ci riferiamo alla stessa persona.» Il ragazzo lo fissò. «Io mi riferisco a Francesca Fasser. Per altri particolari aggiorniamoci a stasera.» «Sai chi è questa Fasser?» Il tono solenne causò a Nicola, in egual misura, irritazione e ilarità. «É la figlia di Giovanni Fasser. Senza volerlo, te lo assicuro, frequento una ragazza che nella tua ottica ha tutti i requisiti della moglie ideale.» «Non è la figlia di Giovanni Fasser. Ed è una moglie che nessun genitore sensato desidererebbe per il proprio figlio.» «Papà, forse avevi ragione. Non ci riferiamo alla stessa persona» Nicola ribatté infastidito. «Sciaguratamente sì. Il discorso non è facile. E...» «Ti dispiace se lo riprendiamo più tardi? Ho appena saputo che il padre di Francesca ha avuto un infarto e sto andando da lei.» «Francesca non è la figlia dell'ingegner Fasser. É stata adottata. Lo sapevi?» «No» ammise Nicola, perplesso. «E sono certo che neppure Francesca lo
sa.» Una breve pausa e aggiunse: «Benché sia abbastanza stupito per la notizia che mi hai dato, non mi sembra che essere figli adottivi sia così grave». «In questo caso lo è. Il cognome di Fasser mi suonava familiare, ma soltanto quando tua madre ha ammesso che tra te e quella Francesca esisteva un legame diciamo così impegnativo mi sono deciso a andare a fondo. Diciannove anni fa tutti i giornali parlarono di una neonata rinvenuta in uno scantinato dei vicoli, a Genova. Era rimasta abbandonata e senza cibo per molti giorni, e fu ricoverata in gravissime condizioni al Gaslini. Mezza Italia si offrì di adottarla e del caso si occupò un mio collega e amico, il giudice Leonardi. Fu lui a scegliere i Fasser. La moglie dell'ingegnere aveva appena dato alla luce una neonata con una grave malformazione cardiaca che morì dopo tre giorni. Quando lesse della bimba abbandonata, era ancora in ospedale. Lei e il marito ricorsero a ogni mezzo, e a ogni pressione, perché fosse affidata a loro: e Leonardi si confidò con me, esprimendomi alcune riserve che poi sciolse. Ieri sono andato a Genova apposta per parlare con lui e non esistono possibilità di dubbio: la tua Francesca e la neonata dei vicoli sono la stessa persona.» Nicola appariva profondamente turbato. E all'improvviso gli venne la frenesia di correre da Francesca, di stringerla tra le braccia e consolarla di tutte le violenze che avevano segnato la sua piccolissima vita innocente. Si schiarì la voce. «Papà, che Francesca sia figlia naturale o adottata non cambia nulla, per me.» «La madre naturale era una prostituta negra uccisa da un maniaco dopo un rapporto sessuale. E il padre naturale un cliente di cui è stato impossibile scoprire l'identità.» Ezio Brentano alzò gli occhi sul viso del figlio. «Non è neppure pensabile che tu possa, un giorno, formare una famiglia con una persona così... così...» «Riluttante?» suggerì Nicola, con voce neutra. «Guardati allo specchio, papà. É ributtante la tua mancanza di pietà. Sembra che tu stia per vomitare.» Il giudice Brentano inghiottì un fiotto di saliva acida. «Sto per vomitare, sì. Mi ripugna il solo immaginarti accanto a quella persona.» «Oh, il tuo meraviglioso figlio bianco contaminato da un'immonda creatura di razza bastarda!» «Non riesci a offendermi, Nicola. Ti dirò che in qualche modo sono addirittura orgoglioso di questa tua reazione. Ma spero che rifletterai su quanto ti ho detto, comprendendo i limiti tra solidarietà umana e autodistruzione. Le regole della società e le leggi della genetica non le ho fatte io, e sfidarle è insensato.» «Già! Per Francesca è arrivato il momento di riscoprire le proprie radici e i propri limiti. Può battere il marciapiede come la madre. Oppure partire per l'Africa nera alla ricerca del buon selvaggio con cui procreare una tribù di angioletti dalla pelle color cioccolato. É la prima volta che mi fai vergognare di essere tuo figlio, papà. E la genetica mi ha usato un occhio di riguardo consentendomi di non avere nulla in comune con te. Mi piacerebbe, al proposito, sapere come mia madre ha reagito alla tua rivelazione sulle origini di Francesca.» «Molto meno disinvoltamente di quanto supponi, mio caro. L'aperta e liberale professoressa Vitali spera con la mia medesima meschinità che questa ragazza sparisca dall'esistenza di suo figlio. Se non mi credi puoi andarglielo a chiedere: è nel suo studio.» A Nicola bastò guardarla in faccia per capire che suo padre non aveva
mentito e neppure esagerato. Sua madre aveva gli occhi gonfi e una strana espressione mortificata e colpevole che scatenò in lui una furia cieca. «Mi ero sempre chiesto come potevi vivere con un uomo come tuo marito e finalmente ho capito: siete identici. Solo che lui è più stimabile di te, perché non ha mai recitato la parte del progressista illuminato.» Sperò che la sua voce esprimesse tutto il disprezzo e la delusione che provava. Non gli bastava vedere sua madre mortificata, voleva che strisciasse. Ma il tono con cui lei lo apostrofò fu raggelante. «La recita più penosa è stata quella che ho fatto a esclusivo beneficio di me stessa, per convincermi di avere allevato un adulto generoso e equilibrato.» «E invece?» la provocò. «Invece ti ho visto crescere sempre più velleitario e insicuro. Senza spina dorsale» precisò impietosa. «Oh, certamente ho delle grosse responsabilità. Vi sono molte specie di madri chioccia, e io sono stata la peggiore: quella che si tiene stretta il figlio sotto l'ala della tolleranza e della libertà. Perché mai avresti dovuto volare via da me, dal momento che simboleggiavo, e ti offrivo, tutto ciò che affascina un giovane?» «Non sottovalutarmi, mamma, qualche colpo d'ala me lo sono concesso.» «Ma sei sempre tornato a starnazzare al suolo. La pittura, per esempio: perché non hai saputo tenere testa a tuo padre? Perché non ti sei battuto per difendere la tua vocazione?» «Se può esserti di conforto, per Francesca adesso mi batterò. E molto.» Silvia Vitali alzò sul figlio due occhi pieni di tristezza. «E io starei dalla tua parte, se fossi l'adulto che vorrei. Non sono le origini di Francesca a impaurirmi, perché chiunque sia suo padre e qualunque cosa abbia fatto sua madre lei è un individuo a sé, una persona distinta da loro.» «É quello che penso anch'io. É allora, dove sta il problema?» «Nel colore dei figli che verranno. Nella violenza della stupidità e dei pregiudizi. Nell'enorme amore di cui Francesca avrà bisogno il giorno in cui i suoi incoscienti e ingenui genitori adottivi non potranno più nasconderle la verità. Vorrei con tutta me stessa che tu fossi l'uomo capace di darle questo amore, ma non sei all'altezza. E lo devo ammettere con grandissimo dolore.» «Io la amo molto, mamma.» «In questi ultimi giorni avrei giurato il contrario. Ieri, in un momento di sincerità, tu stesso mi hai detto di sentirti impaurito e pieno di dubbi per la piega troppo impegnativa del vostro legame» Silvia ricordò al figlio. E aggiunse, più dolcemente: «In questo momento provi per Francesca tenerezza e pena. Bellissimi sentimenti che però non sono amore. Intendi batterti per lei, dici. Sei sicuro che non sia per puntiglio? Per provare a te, e a me, e a tuo padre di essere il grand'uomo che non sei ?» «Stai picchiando senza pietà, mamma.» «Sto solo dicendo quello che penso e non intendo offenderti. Dopotutto l'esistenza non richiede l'eccezionalità, e possiedi doti più che sufficienti per diventare un bravo professionista e un ottimo padre di famiglia. Ma per vivere con Francesca non bastano, perché è una delle poche unioni che esigono l'eccezionalità. Il dolore che le darai ora, lasciandola, è enormemente più piccolo di quello che le piegherebbe le spalle il giorno in cui realizzasse di avere investito tutta se stessa in un uomo inadeguato.» «Spiacente. Non mi hai convinto.» «Non lo
pretendevo affatto. Benché siamo tutti degli esseri normali e imperfetti, poche cose ci urtano come il dover ammettere di non essere eccezionali. Fortunatamente non sempre siamo costretti a ridimensionarci, e molte persone invecchiano conservando questa illusione. Purtroppo tu non sei tra questi: e spero che troverai il tempo e l'onestà per prendere atto dei tuoi limiti.» «Mi hai sempre insegnato che bisogna battersi per superarli». «Non sulla pelle degli altri, Nicola. E ti invito a riflettere su quanto ti ho detto.» Dirigendosi verso la casa di Francesca, Nicola poté finalmente abbassare la guardia e abbandonarsi al flusso delle emozioni. Si accorse con sorpresa di essere stordito e triste, ma non sconvolto. Era come se la sua emotività si fosse anestetizzata impedendogli di avvertire dolore e sbalordimento. Anche la stravolgente pena che aveva provato per Francesca dopo la rivelazione di suo padre si era attutita. Il pensiero che tra pochi minuti si sarebbe trovato faccia a faccia con lei aprì una piccolissima breccia attraverso la quale si insinuarono disagio e paura. Coraggio, prova a riflettere. L'aver saputo che sua madre è una negra ti spingerà tuo malgrado a spiare il suo viso morbosamente, con occhi nuovi? Che effetto ti fa l'eventualità di avere, un giorno, un figlio con la pelle scura? Nell'ipotesi di vivere con lei, riusciresti ad essere te stesso oppure la pietà per le sue origini ti renderebbe schiavo della circospezione e dei doveri? Non sai rispondere, grand'uomo. Ho bisogno di tempo, Nicola pensò affranto. Ma intanto era arrivato davanti al portone di casa Fasser. Doveva scendere dall'auto, attraversare il marciapiede e citofonare: Francesca sarebbe scesa concedendogli al massimo dieci minuti. Gliene diede ancor meno: dopo cinque la vide uscire dall'ascensore e dirigersi verso di lui. «Sono contenta che tu mi abbia telefonato» gli disse. «L'altra mattina sono stata stupida e aggressiva. Mi proponevo di chiamarti subito per chiederti scusa, ma come sono entrata in casa mi hanno detto che mio padre era stato male.» «E adesso come sta?» «I medici dicono che il peggio è passato, però è sempre in terapia intensiva all'Unità Coronarica. É stato terribile finire gli scritti con il pensiero di papà in ospedale, ma non mi avrebbe mai perdonato se mi fossi ritirata per la seconda volta.» Nicola si odiò: preso dalla tesi e in balìa di una puntigliosa astiosità aveva del tutto dimenticato che Francesca stava ancora facendo gli esami. «Sei tu che devi scusarmi» disse umiliato. «Ora sei qui e va tutto bene. Papà è fuori pericolo, gli scritti sono finiti, tu mi hai perdonata e ho persino voglia di un gigantesco gelato alla panna. Che cosa potrei chiedere di più?» disse prendendolo per una mano. Nicola avvertì nella sua forzata allegria una tremula umiltà che lo turbò profondamente. «Tu puoi chiedere tutto, Francesca» disse prendendola per un braccio e conducendola verso l'auto. Prima di mettere in moto le sorrise, e notò che era molto pallida, con gli occhi cerchiati. Il suo rimorso crebbe. «Appena avrai finito gli orali faremo una bella vacanza, io e te soli, dove vuoi tu» disse stringendosela vicino.
Francesca gli posò la testa sulla spalla, con un grosso sospiro: «Non so se essere preoccupata o contenta: hanno sorteggiato la lettera effe, e sarò la terza a essere interrogata dopo Gianna Faletti e Marino Fasoli». Chissà qual era il suo cognome prima che i Fasser la adottassero, Nicola pensò istantaneamente. E il vero padre chi era? Un cliente da sbarco, un professionista a caccia di sensazioni forti, un impacciato ragazzo alla prima esperienza mercenaria? Chiunque fosse, aveva dato a Francesca il colore della pelle. Era invece difficile stabilire cosa potesse aver ereditato dalla povera madre nera: non certo la fierezza, l'allegria, la fiducia nella gente. C'era però in lei qualcosa di instabile e sfuggente. Il pensiero si insinuò in un angolo della sua mente: anche nel suo viso. Gli occhi fissi alla strada, ricostruì meticolosamente i lineamenti di lei e si stupì di non avere notato fino a quel momento i segni, pur impercettibili, della razza nera: la tumidità delle labbra, la larga attaccatura del piccolo naso, i denti bianchissimi, il profondo e scintillante velluto degli occhi. «Dove stiamo andando, Nicola?» La voce di Francesca gliela restituì familiare e amata, dissipando una inquietante sensazione di estraneità. <«A mangiare un gigantesco gelato alla panna» sorrise accarezzandole i capelli. Ritrasse subito la mano per impedirsi di indugiare sulla ruvida lanosità dei riccioli, e la allungò per indicare l'insegna di una gelateria. «Potremmo entrare lì.» «Nicola...» Francesca esitò qualche istante e lui aspettò che continuasse, voltandosi a guardarla interrogativamente. «Dovrei parlarti. Non possiamo cercare un posto più tranquillo?» disse in fretta. «Non esistono gelaterie tranquille» osservò in tono volutamente leggero. «Credevo che fossi diretto verso la baita del tuo amico. Siamo vicini alla tangenziale, potremmo andare lì.» Nicola stava per risponderle che no, non era possibile, ma si trattenne per tempo chiedendosi perché mai la proposta di Francesca lo avesse istintivamente messo sulle difensive. E mentre diceva «d'accordo, andiamoci» si rispose che per quel giorno aveva fatto il pieno di discorsi e prediche. Imboccando la tangenziale gli venne il sospetto che Francesca volesse confessargli di essere una figlia adottiva, ma subito escluse questa eventualità. Era improbabile, per non dire impossibile, che qualcuno le avesse fatto una rivelazione tanto traumatizzante mentre era impegnata con gli esami di maturità e suo padre era in ospedale. Tuttavia prima o poi i genitori avrebbero dovuto raccontarle la verità sulle sue origini. Il solo immaginare la reazione di Francesca gli causò una insopportabile pena.
Perché non lo avevano fatto subito, quando Francesca era troppo piccola per esserne turbata? La sua innocente mente di bambina, incapace di giudicare e di distinguere tra bene e male, avrebbe memorizzato le parole dei genitori accantonandole dentro di sé. Crescendo, le avrebbe fatte via via affiorare alla coscienza sino ad afferrare per intero una realtà cresciuta con lei, e perciò familiare. Possibile che nessun giudice minorile avesse suggerito ai Fasser un comportamento tanto ovvio? Che nessuna psicologa fosse stata incaricata di seguire e controllare la piccola? Alla compassione per Francesca stava subentrando un'ira sorda contro i ricchi e superficiali genitori adottivi di lei. Non era impossibile che la loro ingenuità arrivasse al punto da voler tenere Francesca all'oscuro per sempre. Ma in che modo? Prima o poi la necessità di un estratto di nascita l'avrebbe fatalmente messa, nero su bianco, di fronte alla realtà delle sue origini. Ma anche ammesso che a suo tempo i Fasser avessero manipolato qualche documento o comprato qualche ufficiale anagrafico, con la natura non si poteva barare: geneticamente esistevano parecchie probabilità che Francesca, neomamma felice, si vedesse deporre tra le braccia un vispo negretto. Nicola si rifiutò di approfondire ciò che avrebbe provato lui, come padre di quel bimbo con un trionfante quarto di sangue nero. Francesca lo stava guardando con una triste espressione ansiosa, e le sorrise meccanicamente. «Sono molto stanco» si scusò «e ho qualche problema coi miei.» Stronzo che sei, pensò, parli come se lei fosse di ritorno da una festa. Ma, stranamente, anziché essere irritato con se stesso avvertì una oscura ostilità nei suoi confronti. «Neppure tu mi sembri dell'umore dei giorni migliori» sottolineò. «Difatti non sto vivendo i miei giorni migliori.» La quieta risposta accrebbe il nervosismo di Nicola, ma s'impose l'autocontrollo. Aveva ormai imboccato il viale che portava alla baita, e arrivato davanti al cancellino fece una brusca frenata. «Non scendi?» chiese frugando nel cruscotto alla ricerca della chiave. Come l'ebbe trovata, si avviò velocemente ad aprire la porta e si fece da un lato aspettando con ostentata impazienza che Francesca lo raggiungesse. L'andatura e l'espressione erano quelle di una vittima sacrificale, pensò torvo. Quando furono dentro, sbatté la porta e disse: «Eccoci nel posto tranquillo che cercavi. Vuoi fare il tuo discorso subito o ci prepariamo prima un caffè?». Francesca non rispose. Immobile, le mani abbandonate lungo i fianchi, lo stava fissando col viso inondato di lacrime. Quel pianto desolato, senza singhiozzi, per qualche istante lo paralizzò. Poi una tristezza di morte invase ogni fibra del suo corpo. Darei tutto per essere l'adulto che volevi, mamma, e invece sono un vecchio bambino impaurito e vile.
Cautamente, lentamente tese le braccia verso Francesca e se la strinse contro. Dovrò lasciarla, pensò sconsolato, non diventerò mai l'eccezionale uomo di cui ha bisogno. «Portami a casa» Francesca mormorò con un filo di voce, sottraendosi dolcemente al suo abbraccio. Nicola avvertì come un senso di mutilazione. Ti amo tanto, le disse mentalmente, ma per te non è abbastanza.
CAPITOLO 13 Forse era soltanto un brutto sogno. Se apro gli occhi, Francesca pensò, la chiesa, la gente, la bara saranno spariti e non sentirò più i singhiozzi della mamma e il suono dell'organo. Ma quando aprì gli occhi suo padre era ancora morto. É morto per sempre, non lo vedrò mai più, si ripeté con forza, cercando di provocare il dolore. Invece non sentì nulla. Aveva consumato tutta la sofferenza e le lacrime all'alba di tre giorni prima, quando lei e sua madre, avvertite da una pietosa telefonata che l'ingegner Fasser era stato colpito da un secondo infarto, si erano precipitate al Niguarda e avevano trovato ai piedi del letto un sacerdote nell'atto di benedire la salma. Si stupì che Nicola le tenesse una mano nella sua, stringendogliela di tanto in tanto in un gesto di conforto. Lei non soffriva. Suo padre era morto, e si era assuefatta a questa realtà come se avesse vegliato il suo corpo per tutta la vita. La stessa parola, morte, le suonava così familiare che non ne afferrava più il senso. Il pianto sommesso di sua madre accrebbe il suo disagio. Francesca, a differenza di lei, aveva ormai un rapporto vissuto e scaltrito col dolore, e questo distacco la umiliava. Neppure la consapevolezza di essere incinta riusciva a trasmetterle una qualsiasi emozione. Più tardi, al Monumentale, quando la bara fu tumulata nella tomba di famiglia e un rettangolo di cemento la inghiottì nel buio eterno, Francesca si concentrò affannosamente sul pensiero del figlio che aspettava. Non conoscerà mai la tenerezza e i sorrisi di suo nonno. E anch'io l'ho perduto per sempre. Papà mio, senza di te che farò? Chi mi aiuterà? Ma neppure l'artificioso meccanismo dell'autocompassione ristabilì il contatto col dolore. Perdonami, papà, non riesco a provare né pena, né paura, né rimpianti. Nel momento stesso in cui lo pensava, la disperazione attraversò il suo corpo come una folgore. Francesca barcollò e cadde in avanti, le braccia tese verso il loculo. Vi si aggrappò singhiozzando, e mentre sua madre e Nicola la strappavano a forza di lì, pensò che avrebbe continuato a piangere per tutta la vita. Invece smise al mattino dopo. Al terzo giorno riuscì a trattenere una tazza di brodo, al quinto sua madre la convinse a prendere una boccata di aria sul terrazzo, al sesto andò al Parini per sostenere gli orali (e non sarebbe mai più riuscita a ricostruire cosa le chiesero, come rispose, in che modo apprese di essere stata promossa con cinquantasei sessantesimi). Al settimo uscì con Nicola, ma preferiva non ricordare. Riallacciò il filo con la realtà soltanto alla fine di luglio.
Tra poco entrerò nel quarto mese di gravidanza, pensò meccanicamente facendo la doccia, e soltanto mentre si asciugava realizzò con spavento la gravità della cosa. Cercò sulle pagine gialle il nome di un ginecologo ed ebbe l'appuntamento per il pomeriggio seguente. Uscendo dallo studio, dopo la visita, si stupì per il sovrumano autocontrollo di cui era stata capace: il ginecologo l'aveva visitata, trattata e rassicurata convinto di avere di fronte una giovanissima sposa normalmente trepida e ansiosa. Devo dirlo a Nicola, pensò, ma proiettandosi nel momento dell'annuncio avvertì una violenta riluttanza. Persino pensare a lui le metteva addosso agitazione e tristezza. Le loro ultime telefonate erano diventate caute e gentili, entrambi attenti a restare sempre ai margini del coinvolgimento e delle emozioni. E ripensare all'unica volta che aveva accettato di vederlo, dopo i funerali, le era penoso. Nicola l'aveva quasi costretta a fare l'amore, ma tra le sue braccia il duro nodo si era miracolosamente sciolto e Francesca si era lasciata andare con beatitudine, e senza più resistenze, a un'ondata di struggente dolcezza. Il corpo di Nicola emanava calore e vita, e lei a un certo punto aveva inarcato la schiena per aderirgli contro, sentendo quel calore e quella vita penetrare e diffondersi lentamente dentro di lei. Ma all'improvviso Nicola si era ritratto, brusco, e aveva raggiunto l'orgasmo sussultando brevemente fuori di lei con piccoli gemiti simili a singhiozzi. «Scusami» le aveva detto dopo, sollevando su di lei il volto sudato «dobbiamo stare molto attenti.» Ricordando quella frase Francesca ebbe di nuovo l'impressione di essere schiaffeggiata. E sentì il suo corpo rifiutato riempirsi dello stesso gelo, mentre frustrazione e ira le toglievano il respiro. Quella sera Nicola sarebbe venuto a trovarla. Se non fossi tanto vile e lo amassi un poco di meno dovrei dirgli che non voglio rivederlo più, pensò. Nicola tornò a casa pochi minuti prima di mezzanotte e notò che le luci del soggiorno erano ancora accese. Non fece in tempo a decidere se infilarsi direttamente nella sua stanza o affacciarsi sull'uscio per un breve saluto, perché suo padre lo raggiunse mentre era ancora in anticamera e gli disse: «Ti aspettavo per parlarti, puoi venire un momento di là?». La voce gentile e il volto atteggiato a un'espressione di cordialità rassicurarono Nicola. Lo seguì in soggiorno e si sedette. Festa grande, stasera ironizzò tra sé, vedendo suo padre dirigersi verso il mobile bar e versare del whisky. «Come sta la Fasser? Si è ripresa per la morte di suo padre?» l'uomo gli chiese porgendogli un bicchiere e andandosi a sedere di fronte a lui. Nicola bevette un sorso, stupito e perplesso per l'inaspettato interesse. «É stato un brutto colpo» rispose vagamente. «Capisco. E non ti disapprovo certamente per esserle stato così vicino.» Perché quel verbo al passato? Una familiare irritazione serpeggiò in lui. «Che ti piaccia o no, papà, continuerò a starle vicino.» «Certo. Ma perché questo tono, Nicola?» Ezio Brentano sembrava sinceramente rammaricato.
Già, perché ? Bevette un altro sorso e chiese, imponendosi di essere gentile: «Cosa dovevi dirmi, papà?». «Volevo appunto parlarti di Francesca Fasser. Ripensando al modo in cui ti ho raccontato delle sue origini mi sono reso conto di esserti apparso piuttosto brutale e anche ingiusto. Sbaglio?» Stavolta Nicola non si curò di nascondere il suo sbalordimento. Fissò suo padre e assentì, incapace di parlare. «Una sola cosa desidero farti capire: sei il mio unico figlio e mi arreca molto dolore vederti sbagliare o agire d'impulso.» «A Francesca voglio bene davvero, se è a lei che alludi» Nicola scattò. «Ecco che ti infiammi di nuovo! Perché dovrei alludere a lei ? Te ne sto parlando apertamente e con molta serenità, mi pare.» «Scusa se ti ho interrotto.» «Io non voglio assumere posizioni preconcette. Se dicessi che approvo il tuo legame con la Fasser certo mentirei, tuttavia potrei anche accettare la tua scelta se fossi realmente convinto che non si tratta di una passione giovanile.» «Non hai proprio fiducia in me, vero, papà?» «Ne ho moltissima: è dell'inesperienza dei giovani che diffido, perché non hanno ancora un metro di giudizio per valutare il prezzo dei loro sentimenti e delle loro scelte. Per esempio, hai riflettuto su quanto ti costerebbe un ipotetico matrimonio con una ragazza di colore? Il giorno in cui dovesse annunciarti l'arrivo di un figlio, la tua prima reazione sarebbe di felicità oppure istintivamente e con angoscia ti chiederesti "sarà nero o bianco?". E, nell'eventualità che fosse nero, lo ameresti ugualmente con orgoglio di padre oppure quella parte di lui che non appartiene alla tua razza, e della quale non sai nulla, ti farebbe sentire impaurito e inquieto? Soltanto quando ti sarai posto questi interrogativi, e le risposte non ti faranno paura, io crederò che la tua passione per Francesca è vero amore.» Nicola abbassò le spalle. «Me li sono già posti, papà. E le risposte mi fanno ancora paura.» Stasera ho visto Francesca, fu sul punto di aggiungere, e sono stato rigido e lontano per non desiderarla. Fare l'amore con lei mi spaventa, guardare la sua bella faccia bianca mi fa sentire smarrito come di fronte a uno scherzo della natura... Si accorse che suo padre si era versato dell'altro whisky e lo stava fissando in silenzio, senza fretta, il bicchiere in mano. Gliene fu smisuratamente grato. «Nonostante tutto sono certo di amarla, papà.» Il giudice Brentano sorrise. «Nei veri amori la parola nonostante non esiste. E se c'era, è stata scacciata.» Sfilò dalle dita del figlio il bicchiere vuoto, vi versò dell'altro whisky e glielo porse. «Ci vuole solo tempo, Nicola.» «Ma io ho fretta. Anche di cominciare a lavorare. Vorrei che domani stesso tu telefonassi all'avvocato Santi per concordare il mio ingresso nel vostro studio. Non sono ancora iscritto all'albo, ma...» «É anche di questo che stasera volevo parlarti» il giudice Brentano lo interruppe «e non soltanto di Francesca. In queste ultime settimane, mentre studiavi per gli esami di laurea, mi sono chiesto più spesso di quanto avrei voluto se ti ho costretto a diventare avvocato per il tuo bene oppure per realizzare egoisticamente una mia antica ambizione.» Nicola aspettò, incredulo, che il padre continuasse, e invece l'uomo tacque con espressione assorta, come se il dubbio non avesse smesso di arrovellarlo. «Io avevo una sola vocazione, papà, la pittura!» proruppe.
Ezio Brentano lo guardò gravemente, e disse, come parlando a se stesso: «Dovrei averne la certezza.» Nicola si proibì di lasciarsi esaltare da quell'inaspettato barlume di speranza. Ma suo malgrado aveva il cuore in gola quando, con tono volutamente neutro, chiese: «E cosa dovrei fare, per convincerti?». «Soltanto darmi tempo. Come vedi, anch'io ne ho bisogno» sorrise ammiccando. «Ti do tutto il tempo che vuoi. Cinque anni? Dieci?» «Me ne basta molto meno. La mia proposta è questa: per un anno potrai dimenticare la laurea e la professione di avvocato per dedicarti a tempo pieno a dipingere, seriamente. Se riuscirai a dimostrare una vera vocazione e un autentico talento, non soltanto io non ti ostacolerò, ma ti darò un aiuto concreto per fare della pittura la tua sola professione.» Sentire di nuovo il contatto con la tavolozza. Prendere in mano il pennello e volare dove non esistevano confini, forme, volti e colori, in un universo che poteva ricreare e ridipingere da padrone. Nicola ebbe una sensazione di vertigine. «Ricomincerò a dipingere da domani stesso, papà. E me ne starò rinchiuso dalla mattina alla sera nel mio...» Il giudice Brentano lo interruppe scuotendo la testa. «Ho detto seriamente, Nicola, non da artistoide invasato e autodidatta. Inoltre, parlando di "tempo pieno", non mi riferivo agli orari, bensì a una concentrazione totale. La mia proposta presuppone perciò una condizione essenziale: per un anno dovrai lasciare Milano e frequentare una scuola d'arte internazionalmente qualificata. Avrei pensato a Parigi, per esempio.» Il volo di Nicola finì con una brusca picchiata che lo lasciò furioso e umiliato. «Dovevo capirlo che c'era l'inganno! Tu vuoi soltanto allontanarmi da Francesca, papà, ma non ci casco. Tienti pure la tua Parigi, non sono un bambino che puoi far correre agitando l'automobilina o il lecca-lecca.» Il giudice Brentano sospirò malinconicamente. «Credevo che la mia proposta rappresentasse qualcosa di più per te, ma evidentemente ho sopravvalutato la tua vocazione artistica. E soprattutto ho sopravvalutato la tua maturità. Non intendevo tenderti una trappola, ma offrirti un'occasione irripetibile per vedere contemporaneamente chiaro nei tuoi sentimenti e nel tuo futuro professionale. Non voglio allontanarti da Francesca, come credi: desidererei soltanto che tu riflettessi a fondo prima di impegnarti scambiando un'infatuazione per amore. Pensavo che un'ottica meno emotiva e la sicurezza che avresti tratto da dodici mesi di attività gratificante sarebbero state il migliore dei test. Ed ero pronto ad arrendermi alla tua volontà, se tra un anno tu mi avessi detto che nulla era cambiato nei tuoi sentimenti per la Fasser. Ma a quanto pare né la tua vocazione artistica né il tuo amore sono abbastanza forti per subire una piccola prova.» «Questo è ingiusto e gratuito» Nicola reagì debolmente. La verità era che suo padre aveva ragione. E non soltanto: dando prova di una sensibilità insospettata, attento a non umiliarlo, aveva messo serenamente a fuoco tutte le sue insicurezze e i suoi dubbi. Voglio bene a Francesca, si disse, ma prima di legarmi definitivamente a lei devo essere certo di poter affrontare senza paura le incognite e i problemi del nostro futuro. In quest'anno di lontananza ci scriveremo, impareremo a conoscerci meglio. E dopo aver dimostrato a me stesso di non essere
un artistoide invasato, le mie frustrazioni spariranno e diventerò l'adulto sicuro e responsabile di cui lei ha bisogno. Vide che suo padre si stava alzando senza neppure guardarlo, con l'aria di chi considera ormai chiuso un argomento, e si sentì in preda al panico. Lo afferrò per un braccio e disse affannosamente: «Papà, scusami per quello che ho detto. La tua proposta non è affatto insensata. Per favore» lo implorò «riparliamone. Mettimi alla prova». Molto più tardi, il giudice entrò nella stanza da letto in punta di piedi e si spogliò lentamente, attento a non svegliare la moglie. Poi infilò il pigiama, sollevò cautamente le coltri e si allungò con un profondo sospiro. Silvia Vitali accese la luce. «Ero nella stanza accanto e ho sentito tutto. Anzi, quasi tutto, perché a un certo punto sono dovuta scappare via. Quello che hai fatto è ignobile, Ezio.» «Preferirei vedere Nicola morto, piuttosto che sposato alla figlia di una puttana negra» il giudice Brentano sibilò. «Oh, stai tranquillo! Non la sposerà, gli hai teso una trappola eccellente.» «Ma che razza di madre sei? Dovresti sentirti sollevata al pensiero del pericolo a cui tuo figlio è scampato.» «Il pericolo l'ha scampato Francesca Fasser. E sono profondamente avvilita perché non sono riuscita a fare di mio figlio un uomo.»
CAPITOLO 14 «Non so che cosa fare, mamma» Francesca disse quando uscirono dallo studio Cerqui «è una decisione troppo grande per me.» Il notaio le aveva convocate a fine agosto per la lettura del testamento. «Un giorno tutte le azioni dell'Immobiliare apparterranno a te e ai tuoi figli, e papà ha giustamente voluto che fossi tu a decidere se conservare la proprietà per loro oppure metterla in vendita. In entrambi i casi ti ha coperto le spalle, perché nel testamento ha indicato sia la persona che può succedergli ai vertici, sia il gruppo interessato ad acquistare al miglior prezzo.» Mentre si dirigevano verso la macchina Francesca rifletté, turbata, che suo padre aveva previsto tutto e predisposto tutto, quasi avesse avuto un presentimento di morte. Ma le era difficile crederlo: era un uomo così pieno di vitalità e ottimismo! Aveva semplicemente un amore profondo per me e la mamma, pensò salendo sull'auto e distendendosi sul sedile. La lettura del testamento, con tutte le annotazioni e i codicilli, aveva richiesto circa tre ore. E via via che il notaio elencava gli immobili, i depositi bancari, le società minori e le quote azionarie, indicandone il valore e i redditi, cresceva in Francesca lo stupore per l'immensità del patrimonio di cui era diventata coerede. E lo stupore era cresciuto a dismisura quando Cerqui aveva dato lettura dell'«allegato C»: una lettera datata dieci anni prima, con la quale Diana Fasser concordava e sottoscriveva che, eccezion fatta per quattro stabili, uno dei quali era la casa in cui abitavano, la proprietà di tutto il patrimonio immobiliare sarebbe stata della figlia con l'obbligo di corrisponderle metà dell'usufrutto. Alla sua protesta, la mamma aveva detto con un sorriso, stringendole la mano: «Questa è anche la mia volontà, Franci. Io e tuo padre concordammo a suo tempo di intestarti direttamente e senza passaggi intermedi ciò che come figlia unica prima o poi ti sarebbe interamente appartenuto». É il discorso più lungo che le ho permesso di farmi in questi mesi, Francesca si disse con rimorso osservando il bellissimo profilo di sua madre, assorta nella guida. Tese una mano verso di lei, ma subito la ritrasse. Ogni volta che la guardava o le parlava, riaffiorava la squallida immagine di una moglie infedele che s'infila col suo ganzo in un albergo a ore. Chissà se suo padre aveva intuito qualcosa. «Perché non hai voluto che il notaio aprisse la busta segnata come allegato A?» chiese a un tratto, stupita di quella curiosità improvvisa e senza alcun nesso. Diana Fasser fece una spallucciata noncurante. «Ne conoscevo già il contenuto, cifre noiose e senza importanza che potremo vedere più avanti, semmai ci serviranno. É l'una passata, lo sai ?» Germana venne ad aprire la porta e disse a Francesca: «Nicola Brentano ha già telefonato quattro volte, dovrebbe richiamarlo».
«Fallo subito» le suggerì sua madre «così poi andiamo a tavola.» «Non ho fame, mamma. Se non ti spiace, vado nella mia stanza.» E non aveva neppure voglia di chiamare Nicola, stabilì. Sfilò le scarpe e si distese sul letto. L'unica persona di cui avrebbe avuto bisogno, in quel momento, era suo padre. Povero papà. Un giorno, spinto da chissà che cosa, si era messo a tavolino. E dopo aver calcolato, vagliato, ipotizzato e programmato aveva messo tutto nero su bianco, in dieci fitte pagine. Ma questo non avevi potuto prevederlo, Francesca gli sussurrò mentalmente premendosi le dita sul ventre. Si era già arrotondato, per quanto tempo ancora avrebbe potuto nascondere il suo stato? Oh, papà, se tu fossi ancora vivo! Non si era mai sentita desolatamente orfana come in quel momento. Orfana di due braccia amorose in cui rifugiarsi come quando era piccola, cullata da una voce che le sussurrava dolci parole di conforto. Su, su, bambina. Le lacrime le punsero gli occhi. Quelle parole e quelle braccia erano perdute per sempre e lei era sola, con qualcosa di pauroso che stava avvenendo nel suo corpo. I primi di settembre sarebbe entrata nel quinto mese di gravidanza. Un conato di vomito le contrasse lo stomaco, e si strinse al cuscino respirando a fondo. Ebbe l'impressione di aver già vissuto quel momento e di sapere tutto ciò che avrebbe fatto negli istanti successivi. Adesso sposto il braccio, pensò. E poi chiudo gli occhi, li riapro, tossisco, sento il suono del campanello. Trattenendo il fiato, si vide tendere l'orecchio e eseguire come se fosse diventata la burattinaia di se stessa. Adesso mia madre parla con qualcuno, e poi mi giro su un fianco, guardo l'orologio, sento squillare il telefono. E il telefono, in quel preciso momento, squillò. «Francesca, finalmente ti trovo! Ti sto cercando da stamattina, non te l'hanno detto?» Era Nicola. «Sì, ma sono appena tornata» mentì. «A che ora possiamo vederci? Ho qualcosa di molto importante da dirti.» L'eccitazione della voce risvegliò in Francesca una fioca curiosità. «Spero che sia una buona notizia.» Nicola ebbe una breve esitazione, poi ridacchiò. «Come sempre, dipende dall'ottica con cui la si esamina.» «Ho capito, è una brutta notizia e non è il caso che mi metta fretta. Tra due ore al bar qui sotto, va bene?» Riagganciò prima che potesse rispondere e si sollevò sul letto. Come sempre, l'ansia le aveva messo fame, e annaspando alla ricerca delle scarpe decise di fare uno spuntino. Chissà dove si erano infilate. Scese dal letto e a piedi nudi si diresse verso la cucina, passando direttamente dal soggiorno. Come fu sulla porta, si inchiodò bruscamente, la bocca spalancata, incapace di distogliere lo sguardo dalla ripugnante visione. Sua madre era semiallungata sul divano e un uomo, quell'uomo, la stava baciando.
Richiuse la bocca e la riaprì, alla ricerca dell'aria per respirare. Tra un istante solleveranno la faccia, previde. In punta di piedi, cominciando dal piede destro, io volterò le spalle e tornerò nella mia stanza. Invece una forza cieca la trascinò verso il divano, e non le sembrò suo il lacerante urlo che le raschiò la gola. «Fuori di qui!» Lo sguardo angosciato di sua madre e il sorrisetto mellifluo del gigolò la riempirono di una furia così violenta che si sentì vacillare. «Andate a accoppiarvi nella pensioncina di Lambrate» vomitò «non qui.» «Francesca, lascia che ti spieghi...» Sua madre la fissava terrea. «Non c'è niente da spiegare. Persino le puttane hanno più decenza di te.» Fu felice che l'astio della sua voce l'avesse spaventata. «La signorina se ne intende, eh?» ghignò l'uomo, guardandola provocante. «Fuori di qui» Francesca ripeté, abbassando gli occhi. «Se permetti, me ne andrò solamente quando me lo dirà la signora.» «Michele, ti prego, lasciaci sole...» Vedere sua madre implorare l'amante aggiunse schifo alla furia. «Mio padre ha avuto una fortuna» sibilò «morire prima di rendersi conto che razza di donnaccia fosse sua moglie.» «Ehi, adesso basta» intervenne l'orrendo ganzo, afferrandola per un braccio. Francesca glielo strappò via furiosamente. «Non mi tocchi, ha capito? Io non sono come mia madre.» «Quale madre?» chiese l'uomo con un leggero tono salottiero. «Michele!» Un grido violento, terrorizzato. Adesso era questa la voce che Francesca non riconosceva. «Ma sì, che cosa aspetti a dirglielo?» Era l'uomo. «Vattene subito, Michele!» Ancora l'irriconoscibile voce di sua madre. Che cosa sta succedendo?, Francesca si chiese guardandoli alternativamente, con una spaventosa sensazione di pericolo incombente e inafferrabile. «Me ne vado, sì. Ma sarebbe l'ora che tu spiegassi a questa schizzinosa ragazzina chi era la sua vera madre.» «Oh, no... Mio Dio, no!» gemette Diana Fasser chiudendosi la faccia tra le mani. Francesca fece un passo verso di lei. «Che cosa vuol dire, mamma?» Fu lui a rispondere. «La tua vera mammina era una puttana negra che batteva i vicoli di Genova. I particolari spiegaglieli tu, Diana.» «Sei un vigliacco. Non farti vedere mai più» la donna singhiozzò. Francesca lo guardò allontanarsi. Sentì la porta sbattere. E poi l'ascensore scendere. E poi le braccia di sua madre che la raccoglievano contro il suo corpo. «Per noi sei sempre stata la nostra unica e adorata bambina» la udì sussurrare dolcemente. «Mi avete adottata.» Era un'affermazione, non una domanda. «Sì. Avevi tre mesi e la tua mamma era morta.» «E mio padre?» «Non... non risultava il suo nome, all'anagrafe.» Puttana negra. Soltanto in quel momento
Francesca afferrò il significato di quell'insulto, ma si limitò a registrarlo senza incredulità, né stupore, né paura. «Perché ho la pelle bianca?» chiese, infantilmente. «Perché tuo padre probabilmente era bianco.» Puttana negra. Probabilmente. La verità si insinuò in lei come una viscida serpe e lentamente giganteggiò fino a diventare una mostruosa realtà. «Oh, Dio... Mia madre si prostituiva e io sono un incidente di lavoro... Una mezza negra» singhiozzò. «Francesca, tu sei tu. E abbiamo fatto di te una meravigliosa donna.» «Come avete potuto nascondermelo? E chi è la neonata che tenevi in braccio nella foto dell'ospedale? Perché avete adottato proprio me, una disgraziata bastarda?» Sembrava invasata. «Basta» Diana Fasser disse con fermezza costringendo la figlia a restare accanto a lei. «Non è la squallida storia che credi, e io e tuo padre abbiamo lottato con tutte le nostre forze per poterti adottare. Volevamo te, e soltanto te.» «E quella neonata?» «Era nostra figlia. Morì tre giorni dopo essere nata e due settimane dopo tu prendesti il suo posto. Anche nel nostro cuore. E ti demmo il nome che avrebbe avuto lei, Francesca.» «Come mi aveva chiamata... mia madre?» Diana Fasser chiuse gli occhi. «Cielo. All'anagrafe eri stata registrata come Cielo Ndiaye, il suo cognome. Era una senegalese di vent'anni capitata a Genova chissà come e per scappare chissà da che cosa. La solitudine e la fame la avviarono alla prostituzione, ma sono certa che era una brava e fiera ragazza. Nei tre mesi che visse con te, ti tenne come una principessina...» «Di che cosa è morta?» «Un... incidente. Francesca, quando fosti affidata a noi ci rifiutammo di sapere di più sulle tue origini. La pediatra che ti prese in cura, al Gaslini, si affezionò moltissimo a te e so che indagò sul passato di... della tua madre naturale. Ma questo passato non ci interessava, la tua vita iniziava nel momento in cui ti portammo a casa.» «Come si chiamava quella pediatra?» Era implacabile. «Franca Lupis...» Pronunciando il suo nome, Diana Fasser ebbe l'impressione di rivivere i torturanti interrogativi di quei lontani giorni. Perché la Lupis sembrava detestarla tanto? Perché era addirittura venuta in ospedale per dissuaderla dall'adozione? Rivide nitidamente il volto chiuso e triste della pediatra quando, congedandosi, le aveva detto: "Se vuole il bene di Cielo, lasci che sia affidata a una famiglia capace di darle serenità". Quelle parole l'avevano riempita di mortificazione e di rabbia. E quando, a dispetto di tutto, aveva potuto stringere a sé quella creatura dal tondo visetto accigliato aveva giurato a se stessa: «Ti farò felice, bambina, e non soltanto serena». Ho miseramente fallito, Diana si disse diciannove anni dopo. Il viso livido della figlia le strinse il cuore. «Perché non me lo avete detto subito? Pensavate che in tutta la mia vita non avrei mai avuto bisogno di un documento, di un certificato?» La donna sospirò. «All'epoca vi fu chi aiutò tuo padre... Non gli ho mai chiesto i particolari, però dai documenti è sparita ogni traccia della piccola Cielo Ndiaye.» Francesca avvertì un assurdo dolore, e poi un gelido senso di morte.
Era come se l'avessero annientata. «Hai detto anche questo, al tuo amante?» Gli occhi di Diana si riempirono di lacrime. «No. Gli ho raccontato di te una sera che...» «Non ti ho chiesto i particolari di alcova, mamma... Scusami, devo ancora chiamarti così ?» «Sei mia figlia e lo sarai per sempre. Proprio per questo non ti permetto di trattarmi in questo modo» Diana disse con inaspettata fermezza. «Confidandomi con quel mascalzone ho commesso una leggerezza criminale» aggiunse, la voce di nuovo incrinata. «Vuoi che mi uccida? Vuoi uccidermi tu stessa?» «No, signora Fasser. Voglio una sola cosa, sparire. E non vederti mai più.» Uscendo dalla stanza le gettò un'occhiata e provò una torva gioia notando che era come se l'avesse uccisa. Non mi resta che Nicola, pensò mentre attraversava la strada, e provò un sollievo smisurato scorgendolo sul marciapiede opposto, davanti alla porta del bar. «Ti sto aspettando da mezz'ora» lui disse. Ma senza impazienza, sorridendo. «Vieni, entriamo.» La saletta posteriore era vuota e silenziosa: si udivano soltanto frusciare le pale del grande ventilatore appeso al soffitto. Francesca si sedette e disse: «Devo parlarti». «Prima io» Nicola rise. «Il famoso discorso che ti ho preannunciato.» Già, la notizia, bella o brutta a seconda dell'ottica. «Puoi cominciare dal risvolto felice?» chiese con un pallido sorriso. Nicola si sporse verso di lei e le prese le mani. «Sto partendo per Parigi. Ci resterò un anno, per studiare pittura. Mio padre è stato...» «Dove sta il bello della notizia?» lo interruppe. Il ragazzo ritrasse le mani. «Santo Iddio, Francesca, ti sto dicendo che vado a dipingere! Mi è stato miracolosamente concesso di realizzare la vocazione della mia vita e tu mi chiedi dove sta il bello...» Era sinceramente offeso. «E io, Nicola?» «Tu mi aspetti qui. E se le cose andranno come spero, tra un anno potremo addirittura sposarci. Ecco, questa breve separazione è il solo risvolto fastidioso del mio soggiorno a Parigi.» Non posso vomitare adesso, Francesca si ordinò premendosi lo stomaco. Alzò la testa e lo fissò. «Vorrei tanto capire se sei cretino o in malafede.» «Entrambe le cose. Soltanto un imbecille in malafede poteva credere che tu fossi una ragazza speciale, Francesca.» Sono Cielo Ndiaye, rispose affranta dentro di sé, una mezza negra bara e incinta. Gli occhi semiaccecati dalle lacrime, vide Nicola alzarsi e sedersi di nuovo, con espressione incerta. Cielo Ndiaye, Cielo Ndiaye, Cielo Ndiaye, si ripeté. Fino a quando il suo nome le parve un insieme di curiose sillabe senza senso. Non sono nulla, pensò istericamente. Non ho padre, non ho madre, non ho radici, non ho identità, non ho passato, non ho futuro... Il senso di annientamento era così violento che si stupì di poter respirare. Di nuovo Nicola le prese le mani. «Stai male, Francesca? Posso fare qualcosa per te?» Quel viso proteso con ansia verso di lei le parve miracolosamente la sola cosa reale. «Portami a Parigi con te» lo implorò.
«Non fare la bambina, sai bene che non è possibile. Un anno passa in fretta, Francesca...» Fra un anno nostro figlio sorriderà e avrà messo il primo dentino, urlò. Ma senza voce. Con concentrazione, con sforzo, riuscì a dire: «Non posso aspettare». «Che cosa significa?» «Sono disperata, Nicola. Perché non puoi portarmi a Parigi?» Aspettò la risposta senza fiato, stremata, e vide le dita belle di lui muoversi sul bordo del tavolo come se lo accarezzassero. «Ho bisogno di stare solo, di vedere chiaro in me e nel mio futuro. E anche nella nostra storia» rispose a labbra strette. «Se ti dicessi che sono incinta, che cosa faresti ?» Le labbra di lui si socchiusero in una smorfia. «Spererei in uno scherzo. O ti supplicherei di abortire. Ma partirei comunque, perché è la mia sola possibilità di raggiungere quello che voglio. É difficile farti capire cosa significa per me la pittura. Tu sai scrivere, leggere, sognare, fare molte cose. Io invece so fare una cosa sola, dipingere, e senza tele e pennelli non esisto. Non puoi esistere neppure tu.» Non sono mai esistita, lei pensò. Spostò la sedia e si alzò con grazia. «Anch'io so fare una sola cosa, Nicola: amare. Lo sbaglio è stato scegliere una persona che non sa ricambiarmi.» «Mi stai buttando fuori dalla tua vita?» Era chiaramente un addio e Nicola non sapeva se sentirsi affranto o vilmente sollevato. Se ne stava andando senza rispondere. Forse non l'aveva neppure sentito. La trattenne per un braccio, affannosamente. Ma la lasciò subito andare. «Ti ho amato quanto ho potuto, Francesca» sussurrò con voce umile.
CAPITOLO 15 Negli anni che sarebbero venuti, mai più Francesca avrebbe permesso alla sua mente di tornare sugli eventi di quell'orribile giorno. Ma nel buio della notte o nei momenti di silenzio le sarebbe capitato spesso di risentire, sussultando, il rumore dei ricordi. Uscita dal bar, cominciò a camminare in una specie di trance popolata di voci e di suoni. La lettura del testamento e il clacson delle auto, il sogghigno di quell'uomo e lo stridere di una frenata, l'urlo di sua madre e il fischio del vigile, le parole vili di Nicola e la risata di due ragazzine. Suo padre ha stabilito... Che cosa aspetti a dirglielo?... Eri stata registrata come Cielo Ndiaye... Prostituta negra... Probabilmente bianco... Vado a Parigi... Quelle frasi le arrivavano al cervello come ondate, e la loro eco le dava le vertigini. Si fermò un istante, stanchissima, appoggiandosi a un'auto parcheggiata e lo sguardo le cadde sull'orologio da polso. Le ventidue e trenta. Le sembrò impossibile aver camminato per quasi quattro ore. Devo tornare a casa, si disse, e il cervello si svuotò d'un tratto di suoni e di voci per registrare la spaventosa realtà. Era senza Nicola, senza casa, senza amici e persino senza borsa. Entra in un locale e chiedi un gettone, si suggerì. Ma dove? I negozi avevano le serrande abbassate e non si scorgeva alcuna insegna d'un bar. Lo sconforto morì sul nascere: anche se avesse trovato un gettone, non avrebbe saputo a chi telefonare. Clara Siani, la ragazza bionda che aveva fatto la maturità con lei e che più tardi le aveva fatto compagnia mentre aspettava Nicola. Chissà perché le era venuta in mente. Il pensiero che quella sconosciuta ragazza era la sola persona a cui potesse rivolgersi le diede la misura della propria solitudine. Era così che si era sentita, vent'anni prima, la sua povera mamma di colore? La compassione le riempì gli occhi di lacrime, ma non capì se piangeva per lei o per se stessa. Muoviti, cerca un bar e telefona a Clara Siani, si ordinò. Si staccò dall'auto e guardandosi intorno si accorse di essersi spinta in un quartiere che non conosceva, e per di più in una strada secondaria. In fondo si scorgeva un piazzale illuminato e Francesca vi si diresse faticosamente. Le tempie le martellavano, le gambe pesavano come piombo e le voci dei televisori accesi che provenivano dalle finestre aperte rendevano ancor più pesante la sua solitudine. Era digiuna dalla sera prima, e lo stomaco aveva cominciato a contrarsi per la fame e la nausea.
Inghiottendo a vuoto, guardò davanti a sé e il piazzale le parve troppo lontano per essere raggiungibile. Si appoggiò al muro di una casa e le parve che mai più avrebbe potuto staccarsi da lì. Un gruppo di ragazzi le passò accanto rumoreggiando, una donna richiamò il suo cane, un bambino con una fetta d'anguria si infilò correndo nel portone accanto. Un'auto rallentò, riprese la marcia e poi rallentò di nuovo fino a fermarsi. Un uomo si sporse dal finestrino. «Vuole un passaggio?» Francesca impiegò qualche istante per capire che la domanda era diretta a lei. Cercò di staccare il corpo dal muro e si accorse con sollievo che le stava riuscendo. Cautamente spostò un piede, e poi l'altro. Vide che il signore aveva spalancato la portiera. «Allora, si o no?» le chiese con impazienza. Il timore che se ne andasse senza aspettarla le mise le ali ai piedi. «Grazie, lei è molto gentile» disse non appena fu seduta. «Hai un posto dove andare?» La domanda, così diretta, le fece balenare il sospetto che quell'uomo la stesse inseguendo per ordine di sua madre, e perciò sapesse tutto di lei. Non fare la bambina, si disse, chiunque capirebbe che sei una povera randagia. Ricordando che solo dodici ore prima si trovava nello studio del notaio Cerqui, ricolmata di beni e di affetto, un guizzo dell'antica fierezza si risvegliò in lei. Si girò verso l'uomo e disse: «Sto andando a casa di una mia amica, in piazza Napoli.» «Ehi, ma è all'altro capo della città!» Francesca non si curò di rispondere. Stava pensando a suo padre, e per la prima volta non provava alcun conforto. Giovanni Fasser non era suo padre, ma soltanto un generoso estraneo che un secolo prima aveva avuto pietà di una povera bastardina di colore. Diciannove anni di sicurezza e di orgoglio d'un tratto sparirono e a Francesca sembrò di dissolversi nel nulla. Cielo Ndiaye. Probabilmente bianco. Non aveva più radici, identità, affetti... La voce dell'uomo accanto a lei sembrò giungere da molto lontano. «Piazza Napoli è troppo distante, pupa. Ho fretta, meglio arrangiarci qui.» Anche quelle parole senza senso caddero nel nulla. Perché l'automobile si era fermata? Galleggiando nel vuoto, Francesca avvertì il contatto di una mano che afferrava prepotentemente la sua, e la sentì spostarsi come se fosse diventata una parte estranea al resto del corpo. Con torpida curiosità ne seguì il movimento e vide un'altra mano, molto più grande, annaspare con la cerniera di un pantalone. Ne emerse qualcosa di viscido e ripugnante, come una serpe. Francesca tentò di ritrarsi, inorridita, ma un artiglio aveva imprigionato la sua mano e la costringeva a toccare quella ripugnante serpe, su e giù, sempre più in fretta, mentre l'uomo sul sedile accanto ansimava affannosamente. E d'un tratto Francesca capì. Emise un urlo lacerante e ritrasse la mano con violenza. Era appiccicosa e bagnata. Urlò ancora, e ancora, e ancora. L'uomo le tappò la bocca. «Sei impazzita?» Aprì lo sportello e la cacciò fuori. Prima di mettere in moto le infilò qualcosa tra le dita.
Erano due banconote da diecimila lire. Mi ha scambiato per una prostituta, Francesca pensò tremando, annientata dall'umiliazione e dall'orrore. Puttana negra. La frase le esplose nel cervello e l'inafferrabile fantasma della sua vera madre per la prima volta prese corpo con una inspiegabile sensazione di familiarità. Era una ragazza di colore della sua età. É così che hai cominciato, mamma? Hai provato anche tu questa mortificazione e questo schifo quando un uomo ti ha pagato per la prima volta? É stato un tizio laido come quello che se n'è appena andato a metterti incinta? Ti ha tenuto come una principessina. L'eco di quelle parole fermò sul nascere un moto di repulsione. Sua madre, a dispetto di tutto, l'aveva accettata e amata come un miracoloso dono del cielo. Cielo. D'un tratto, emozionata, capì il significato del suo nome e fu travolta da un'ondata di amore. Oh, mamma, gemette, darei tutto per poter ricordare i miei primi tre mesi di vita, il calore del tuo corpo, il suono della tua voce. Anch'io aspetto un figlio. Tra qualche mese anch'io avrò un bambino da abbracciare e amare. Portò istintivamente le mani sul ventre e si disse: è qui. Sentì un languido rimescolio che quasi le piegò le gambe. Ma negli istanti che seguirono una misteriosa forza irruppe nel suo corpo e cominciò a salire simile a una marea. Quando l'ondata si ritrasse, la stanchezza, l'umiliazione e gli orribili ricordi di quella giornata erano spariti. Restava soltanto la realtà di un figlio da far nascere e proteggere. Devo andarmene di qui e telefonare alla Siani. Devo mangiare, riposare, organizzarmi, Francesca pensò. Vide poco distante, al lato opposto, l'insegna luminosa di un bar. Attraversando velocemente la strada si accorse che aveva ancora in mano le due banconote arrotolate. Fece per buttarle, ma d'istinto strinse le dita. É il prezzo che ho pagato per crescere, si disse, e per oggi mio figlio ha subito abbastanza strapazzi. Come entrò nel locale ordinò un cappuccino e una brioche. Soltanto dopo essersi rifocillata chiese un elenco telefonico. Cercò il numero di Siani in piazza Napoli e telefonò. Quando il taxi fermò davanti al palazzo dei Siani mancavano pochi minuti a mezzanotte. Clara era scesa ad aspettarla con sua madre. Appena la vide le andò incontro e l'abbracciò, con il calore di una vecchia amica. Poi la prese per mano e la guidò verso il portone. «Mamma, questa è Francesca Fasser» la presentò. Francesca notò che la signora Siani era in pigiama e vestaglia. A quell'ora, evidentemente, era già a letto. «Non so come scusarmi» disse. «Ho telefonato a voi perché non sapevo dove andare.» Mentre salivano le scale si rese conto che dovevano essere piuttosto stupite. Era obiettivamente curioso che la figlia dei Fasser fosse in giro da sola, a quell'ora, e non avesse altre persone a cui rivolgersi all'infuori di due estranee.
Tuttavia non fecero domande e Francesca apprezzò la loro discrezione. Fu lei stessa, più tardi, a spiegare brevemente: «Nel pomeriggio ho avuto una discussione con mia madre e non me la sono sentita di tornare a casa. Senza accorgermene ho camminato per ore, finché mi sono trovata in una zona sconosciuta. Non avevo soldi né amici da cui andare, e all'improvviso ho pensato a te, Clara». La preoccupazione si dipinse sul volto della signora Siani. «Vuoi dire che da questo pomeriggio tua madre non sa nulla di te? Mio Dio, bisogna chiamarla subito!» Come in un flash Francesca la rivide accasciata sul divano, ferita a morte dai sensi di colpa e dalle sue parole. Ma un'altra immagine si sovrappose, quella di lei tra le braccia dell'amante, e la subitanea pietà si spense. Non la odiava più, ma non era ancora pronta per perdonarla. Era colpa della sua leggerezza se il dramma della sua nascita le era stato rivelato con brutalità e violenza da un estraneo. Per colpa sua in pochi minuti aveva perduto se stessa. E anche Nicola. Sono corsa da lui in preda all'angoscia e al panico, pensò, e lui è fuggito spaventato. «Francesca» la richiamò Angela Siani «vuoi che telefoni io a tua madre? Ti prego» insisté. Il suo viso emanava gentilezza e sensibilità e rifiutare parve a Francesca un affronto che non meritava. Le diede il numero e la vide allontanarsi. Restate sole, Clara disse: «Mi è dispiaciuto tanto quando ho saputo di tuo padre. Il mio è morto due anni fa, ma non è stata una grande perdita. Lasciò questa casa quando io avevo cinque anni e si è sempre disinteressato di noi. Devo tutto a mia madre, ha persino fatto la domestica a ore per mantenermi». «Si vede che è una donna straordinaria...» Clara fece di sì con la testa e disse inaspettatamente: «Quel giorno, al bar, ti ho raccontato un sacco di balle: l'uomo sposato, la voglia di divertirmi e di viaggiare... É che volevo far colpo su di te. Il giorno del tema d'italiano, quando mi sono ritrovata accanto a te, ero così emozionata che non riuscivo a scrivere una riga. Non fraintendermi non sono la borghesuccia smaniosa di prestigiose amicizie. E che sei così intelligente, così diversa dalle altre. Non sai come sono felice che stasera tu sia venuta qui». Se sapesse chi è la mia vera madre e con quali soldi ho pagato il taxi, sarebbe ugualmente felice? Francesca si chiese amaramente. Ma la signora Siani le impedì di rispondere a Clara. «Tua madre chiede se vuoi venire al telefono» disse sulla porta. Francesca fece di no con la testa e la donna sparì di nuovo. Ricomparve dopo circa un quarto d'ora e, rivolgendosi alla figlia, disse: «Vi ho preparato i letti. Per te ho aperto il letto, Clara». La voce di Francesca si levò sommessamente nel buio della stanza. «Non sono figlia dei Fasser. Mi hanno adottata quando avevo tre mesi.» Qualche istante di silenzio, poi aggiunse: «Me ne sono andata da casa per questo. L'ho saputo soltanto oggi».
Le parve di vedere il viso stupito di Clara. Ma la sua voce era del tutto naturale. «Capisco quel che hai provato, però non mi sembra tanto grave. Adottata o no, per i Fasser sei stata una figlia...» Un altro breve silenzio. «Ho saputo anche che mia madre era una prostituta di colore. Sono per metà negra.» Clara si drizzò fulmineamente sul divano e le cercò una mano. «Oh, Francesca...» proruppe. Non sembrava più stupita, ma soltanto addolorata per lei. «Il mio vero padre era un... un cliente di mia madre. Non so nulla di lui. Potrei essere la figlia di un criminale, di un vizioso, di un folle.» Un balzo, e Clara fu sul letto accanto a lei. «Perché vuoi farti male, Francesca? Mio padre era un fannullone convinto di essere un genio incompreso. E per consolarsi beveva. Non ci ha lasciati: è stata mia madre a buttarlo fuori di casa. Fu la sera che lo sorprese mentre cercava di farsi toccare da me, una innocente bimbetta di cinque anni. Crescendo, l'idea di avere un padre simile non mi ha mai umiliata o impaurita: l'ho semplicemente rimossa.» Tacque ansimando, e stavolta fu Francesca a stringerle una mano. Era questa la ragazza che aveva giudicato sciocca e superficiale? Simona, Paola, Grazia, Mariella... Ricordando le vecchie compagne di scuola, si chiese con tristezza di quanto calore umano si era privata in tutti quegli anni. Come aveva potuto essere tanto supponente e impietosa? Avvertì un'improvvisa smania di conforto. «Non è tutto, Clara. Sono incinta di cinque mesi e sei la prima persona a cui ho avuto il coraggio di dirlo» confessò d'un fiato. Sentì il corpo di Clara irrigidirsi di nuovo. «Il tuo ragazzo non lo sa?» «Ci siamo lasciati. Per un anno si trasferirà a Parigi e... e non vorrei neppure che si fermasse.» Le tue dita belle il tuo cuore pauroso le tue parole di spada... / I versi di un rassegnato addio, scritti secoli prima da un'anonima dama di corte del Giappone, le risuonarono tristemente nel cuore. Non era niente, solo il tuo amore stretto che si chiudeva per sempre... Come aveva detto, Nicola? «Ti ho amato quanto ho potuto.» Non abbastanza per me e per tuo figlio, gli disse ora. «Devi parlare con tua madre, Francesca.» «No. Sai da chi ho saputo tutta la verità? Dal suo amante. Erano abbracciati sul divano, nella casa di mio padre» spiegò duramente. Clara sospirò. «Questo non significa affatto che non ti voglia bene. Mia madre mi ha detto che da ore aspettava una tua telefonata. Era impazzita di paura e non finiva di ringraziarla.» «I sensi di colpa non hanno nulla a che fare con l'amore.» «E chi l'ha detto? Come puoi giudicare i sentimenti di una persona in modo tanto rigido e sentenzioso?» disse, quasi con ira. Francesca temette di averla delusa e tacque, combattuta tra mortificazione e dispiacere.
«Ha tradito suo marito, non te» incalzò Clara. «É certamente grave, ma uno sbaglio non cancella tutto quello che si è fatto di giusto e di buono.» «Chi è che sentenzia, adesso?» «Francesca, tu sei diventata quello che sei anche per merito di questa donna. E credo che abbia dimostrato una autentica vocazione materna scegliendo, all'epoca, la neonata che aveva maggiormente bisogno di una madre. Il più delle volte i genitori adottivi cercano il figlio di cui hanno bisogno loro, bello come un angioletto e preferibilmente con un pedigree rassicurante.» «E io non l'avevo certamente. É questo che vuoi dire? Che alla figlia di una povera negra è vietato capire, giudicare e provare qualsiasi altro sentimento all'infuori di una gratitudine eterna?» Clara si curvò su di lei. «Ti ostini a evocare il fantasma di una neonata che non esiste più perché ha avuto una vita e un destino diversi da quelli che erano stati scritti per lei. Tu sei Francesca, e quant'è vero Dio, a dispetto di tutto, mi scambierei subito con te. Non per i soldi o per il cognome, ma per le eccezionali qualità che hai. Qualcuna la devi a tua madre, e questo le dà il diritto non alla tua eterna gratitudine, ma a un minimo di comprensione. In questo momento ha bisogno di te come tu di lei: perché vuoi lo spargimento di sangue del taglio netto? Non c'è già abbastanza sofferenza, nella tua vita?» Francesca, nel buio, annuì stancamente. In un solo giorno aveva avuto più sofferenza di quella che pochi conoscono in un'intera esistenza. Era svuotata, esausta e i rumori di quella giornata scrosciavano nella sua testa come una cascata. Sentì Clara scivolare nella poltrona letto e poi il respiro regolare del sonno e poi il suo stesso corpo sprofondare velocemente in un torpore di cui le sfuggì il controllo. Fece per alzare un braccio, ma il braccio non si mosse. Si concentrò con tutta se stessa nello sforzo di strappare il corpo a quell'assopimento di morte, con l'angosciosa sensazione che se non avesse opposto resistenza non si sarebbe risvegliata mai più. E finalmente braccia e gambe tornarono a rispondere ai suoi ordini. Francesca si rilassò sollevata, ma la mente restò in guardia. Clara sbaglia, si disse. La neonata di diciannove anni fa non si è lasciata cancellare, ma se n'è stata buona buona a guardare l'altra che cresceva. Adesso rivuole il suo posto, la sua vera madre, le sue radici, forse anche un figlio con la pelle nera. La sconosciuta neonata si materializzò nella sua mente come una piccola divinità offesa che esigeva giustizia. Ma anche l'usurpatrice, la fortunata e tracotante Francesca Fasser le appariva un'estranea. Devo capire chi sono, pensò, ricostruirmi un'identità e un'esistenza mia. Non voglio né l'aiuto di mia madre né l'eredità di mio padre. Devo cominciare a cavarmela da sola. Coraggio, ragazza, fammi vedere cosa sai fare senza i privilegi di Francesca Fasser.
CAPITOLO 16 Francesca si svegliò alle nove e mezzo. Dalle maglie della tapparella filtravano righe di luce polverosa che rischiaravano la stanza da letto. La poltrona era vuota, evidentemente Clara si era già alzata. Guardandosi attorno, notò che la camera era molto piccola: come, del resto, tutta la casa. Ricordò di aver visto, la sera prima, un microscopico bagno con il vano della doccia ed uno stretto soggiorno rettangolare con la zona pranzo da una parte e due divanetti ad angolo dall'altra. Francesca provò un'oscura vergogna al pensiero che per la prima volta in vita sua toccava con mano la realtà di una famiglia che viveva in un appartamento modesto e probabilmente doveva fare i conti ogni giorno con uno stipendio appena sufficiente per garantire l'indispensabile. Come Clara stessa aveva detto la sera prima, persino mandarla al liceo era stato per sua madre un grande sacrificio. Eppure quella modesta casa irradiava serenità e allegria, notò percorrendo il breve corridoio che la separava dalla cucina. Erano i poster appesi ai muri? Le mensole ricolme di oggetti e piante ricadenti? Le vivaci stuoie grezze che ricoprivano con una nota di colore i vecchi pavimenti ? Clara era sola e stava riempiendo la macchinetta del caffè. «Mia madre è andata a lavorare» le comunicò «però in tuo onore tornerà a casa per pranzo. Mi ha lasciato la lista delle spese, aspettavo che ti svegliassi per andare al supermercato. E mi ha ordinato di farti fare una nutriente colazione. Cosa sei abituata a prendere?» «Solo caffè, grazie. Senti, Clara, non posso approfittare oltre della vostra ospitalità. Bisogna che oggi stesso cerchi una sistemazione.» Clara accese il gas sotto la moka. «Stamattina alle sette e mezzo ha chiamato tua madre: vorrebbe soltanto parlarti, e io mi limito a riferirtelo. O torni a casa oppure resti con noi. Per il momento non vedo altre sistemazioni» disse tenendole girate le spalle. «Posso pagarmi un paio di mesi in un residence: ho in banca due milioni.» «Quel che si dice un'ereditiera» Clara commentò asciutta. «Due anni fa partecipai al concorso di un settimanale femminile per giovani scrittrici e il mio racconto vinse il premio di due milioni. Sono la sola somma mia che ho.» Clara le porse la tazza di caffè e si sedette di fronte a lei. «Mi sembra di capire che intendi prendere le distanze anche dai soldi dei Fasser. Puoi permettertelo? Dimmi pure di farmi i fatti miei, ma nelle tue condizioni temo proprio di no: i figli non vivono di solo amore...» «Lo so. E infatti ho deciso di cercarmi un lavoro, subito.» «Scendi tra noi, Fasser! Che lavoro sai fare? Coi tempi che corrono, chi assume una ragazza incinta di cinque mesi ?» «Qualcosa troverò» le rispose a labbra strette.
«Pulizia scale? Lavaggio vetri? Sguattera? Se hai qualche idea migliore, dimmelo! Si dà il caso che stia cercando lavoro anch'io» Clara l'assalì con sarcasmo. Francesca, stranamente, le rivolse un sorriso luminoso. «É bellissimo quello che ci è successo, sai? Praticamente ci conosciamo da poche ore, e stiamo già litigando come vecchie amiche. Non avevo mai avuto un'amica.» Clara la fissò smontata. Poi borbottò: «Proprio perché mi stai a cuore mi preoccupo per te e ti dico quello che penso. Hai un sacco di problemi, ma tutti risolvibili se li affronti con realismo». Francesca fece segno di sì, indecisa se confidarle o no l'incerta speranza che d'un tratto s'era fatta strada in lei. Ai tempi del famoso concorso, l'assegno dei due milioni le era stato consegnato nel corso di un cocktail organizzato al Toulà per festeggiare i vincitori. La giovane direttrice del giornale si era mostrata molto interessata a lei. «Mi piacerebbe conoscerti meglio» le aveva detto al termine della serata «e se vieni a trovarmi in redazione potremmo fare quattro chiacchiere per esaminare l'opportunità di una collaborazione. Scrivi molto bene, e nei femminili c'è fame di buona narrativa.» I suoi genitori le avevano suggerito di finire il liceo prima di impegnarsi in un'attività che l'avrebbe deconcentrata dallo studio, e tutto era caduto nel nulla. Perché non provare, adesso, a riallacciare quell'antico rapporto? Non era escluso che la direttrice si ricordasse ancora di lei e le offrisse di scrivere qualche racconto per la sua rivista. Clara la ricondusse alla realtà. «Sembri improvvisamente in estasi: è un meraviglioso segreto oppure puoi rallegrare anche me?» chiese semiseria. Francesca ebbe l'impressione che, tacendo, avrebbe in qualche modo svilito una amicizia appena nata. E così le raccontò della vecchia proposta e della sua intenzione di verificare se fosse ancora valida, sperando ardentemente che il cinico realismo di Clara non le facesse apparire la cosa infantile o irrealizzabile. Fu con grande sollievo che la vide invece favorevolmente colpita. «Provare non costa niente» commentò «e scrivere è l'unico lavoro che puoi fare nelle tue condizioni. Magari offrendo i tuoi racconti anche ad altre riviste. Però, anche nella rosea ipotesi che riuscissi a mantenerti da sola, il problema di tua madre resta. Non puoi tagliarla fuori dalla tua vita e tanto vale che le parli subito.» «So già che risentirla mi manderà in pezzi. Lascia che prima risolva la faccenda dei racconti.» «D'accordo. C'è una cosa che debbo dirti, Francesca: stamattina, mentre dormivi, ho dovuto spiegare a mia madre i... i tuoi problemi. Non l'ho fatto per tradire la tua confidenza, ma perché capisse di quanto aiuto hai bisogno. Spero che non ti dispiaccia.» «No. Le avrei raccontato tutto io stessa.» «É sottinteso che di trasferirti in un residence non si parla neppure. Puoi restare con noi tutto il tempo che vuoi. Se ti adatti, s'intende.» La redazione di «Fortuna» si trovava in corso Italia e occupava il terzo piano di una vecchia palazzina in fase di ristrutturazione. L'atrio, ingombro di calcinacci, era ponteggiato e si poteva accedere alle scale attraverso un varco tra le assi. L'ascensore era fermo per manutenzione, ma
Francesca non ne fu contrariata: salire a piedi l'avrebbe aiutata a scaricare l'ansia di quell'incontro. La segretaria di Daria Rossetti, la direttrice, le aveva fatto una specie di terzo grado telefonico. E quando finalmente si era decisa a passarle la linea, lei si era presentata quasi balbettando, dandosi dell'idiota per aver sperato che la direttrice della rivista si ricordasse di lei. E invece, dopo qualche istante di esitazione, l'aveva riconosciuta e si era detta lieta di incontrarla. Adesso che il momento era arrivato, l'emozione stava di nuovo per sopraffarla. Una grande targa in ottone con il logo del giornale, «Fortuna», troneggiava sopra il portone al centro del piano. Le vecchie ante di legno erano aperte e sulla portina a vetri una scritta indicava AVANTI. Francesca girò delicatamente la maniglia e un suono di carillon segnalò la sua presenza. La ragazza seduta alla scrivania di fronte stava telefonando e sollevò gli occhi con aria interrogativa. «Ho un appuntamento con la direttrice» Francesca le disse. La scrivania era in realtà una piccola centralina e la ragazza doveva essere l'addetta allo smistamento delle telefonate e dei visitatori. «Chi devo annunciare?» le chiese schiacciando un pulsante. Francesca disse il suo nome e dopo un paio di minuti arrivò una signora sulla quarantina, dall'aspetto molto distinto, che la condusse nell'ufficio della direttrice. Daria Rossetti era al telefono e indicò con un sorriso la poltroncina di fronte a lei. Stava parlando di un contratto pubblicitario che non era ancora stato rinnovato, e Francesca si trovò a osservarla. Non doveva avere più di trentacinque anni. Aveva gli occhi chiari appena truccati, i capelli raccolti a coda di cavallo. Continuando a telefonare la direttrice si protese per stringerle la mano e le fece cenno di avere pazienza. Indossava una giacca dal taglio impeccabile e non portava gioielli, Francesca notò ancora. «Mi ricordo molto bene di te» le disse dopo aver abbassato il microfono. «Posso darti del tu, vero?» Senza aspettare la risposta proseguì: «Mi sei tornata in mente quando ho letto sui giornali della morte di tuo padre. Mi è dispiaciuto molto.» Francesca assentì scacciando l'improvvisa tristezza. «In un certo senso sono qui per questo» disse d'un fiato. «Ho bisogno di lavorare.» Daria non riuscì a nascondere un moto di sorpresa. Doveva apparirle curioso che l'erede di Giovanni Fasser cercasse un'occupazione, ma tacque aspettando che lei spiegasse. «Per motivi molto... gravi sono costretta a mantenermi da sola. Vale ancora la proposta di scrivere racconti per il suo giornale?» «Puoi darmi del tu» la direttrice prese tempo. La sorpresa aveva lasciato posto alla perplessità, e dopo una breve pausa osservò con un sorriso gentile: «Escludo che tu possa mantenerti scrivendo racconti».
«Per cominciare può bastarmi. Vede... vedi, sono incinta di cinque mesi e scrivere è il solo lavoro che per il momento possa fare» Francesca spiegò quasi con affanno. Di nuovo silenzio. Poi, fissandola nuovamente con stupore, Daria Rossetti disse: «Sono troppo indiscreta se ti chiedo perché non puoi vivere di rendita, almeno fino a quando il bambino non sarà nato?». «É accaduto qualcosa di cui... di cui non me la sento di parlare. Ma ho davvero bisogno di guadagnare. Sono ospite di una mia amica, e mi basterebbe una piccola cifra per poter contribuire alle spese...» «Capisco» Daria Rossetti mormorò. Adesso la guardava con simpatia, e Francesca si rese conto che la sola cosa che doveva aver capito era la sua disperazione. «L'aiuto che posso darti è minimo e putroppo assai limitato nel tempo» la donna riprese. «Il nostro editore ha deciso di buttarsi nel business della televisione e ha messo in vendita sia questa testata sia questa palazzina. Se non si troverà un compratore, tra cinque mesi al massimo "Fortuna" cesserà le pubblicazioni.» «Credevo che un settimanale femminile rendesse molti soldi.» «Per dieci anni "Fortuna" è stato una specie di vacca grassa. L'editore ha continuato a mungere senza preoccuparsi di investire in tecnologie, promozioni e rilancio: e la mucca si è spompata. In teoria la testata è ancora vitale, in pratica da un anno esce in perdita. Per renderla nuovamente produttiva occorrerebbe un grosso investimento in soldi e in fiducia, ma l'editore non ci sente: ha preferito puntare tutto sulla televisione. E se il mitico acquirente non si farà avanti, tra breve saremo tutti a spasso. Alcuni giornalisti se ne sono già andati, compreso l'art director. Ad assistere all'agonia di "Fortuna" è rimasto un gruppetto di fedelissimi ingenui, tra i quali figura la sottoscritta.» Nella voce di Daria Rossetti c'era una profonda amarezza e per qualche istante Francesca dimenticò i propri guai. «Mi rincresce davvero» disse. «Quel che è frustrante» proseguì la direttrice, «è avere un'infinità di idee e non poterle realizzare per mancanza di mezzi. L'utenza pubblicitaria ci sta abbandonando, le agenzie fotografiche ci portano soltanto gli scarti, le top model e i maghi dell'obiettivo hanno costi proibitivi e la concorrenza ci sta fagocitando. Giorno dopo giorno, perdiamo credibilità e immagine. Dovremmo andarcene anche noi, e invece restiamo qui a sperare nel miracolo.» «Mi dispiace» ripeté Francesca. «Tornando al tuo problema, quel che posso offrirti è di salire su questa barca ad aspettare il naufragio con noi. Puoi farci due racconti al mese, finché il giornale uscirà, però ti avverto che paghiamo molto poco e molto in ritardo.» «Mi sta bene lo stesso.» Daria sorrise con mestizia. «Non demordi, eh? Saresti stata una redattrice ideale, e soltanto due anni fa ti avrei assunta sui due piedi...» «Sono ugualmente contenta. Quando devo portarti il primo racconto?» «Appena l'hai scritto. La lunghezza è di circa dodici cartelle dattiloscritte di trenta righe per sessanta battute, il tema che va meglio è l'amore. A proposito, il padre del bambino che cosa dice di
tutta questa faccenda?» «Niente. Non sa che sono incinta.» Scacciò subito il ricordo di Nicola, non doveva pensare mai più alle sue parole vili, alle sue dita belle e al suo amore stretto. Rientrò a casa alle tredici. Clara e sua madre l'aspettavano per pranzare e quando furono a tavola Francesca raccontò sia il suo incontro con la direttrice sia le vicissitudini di «Fortuna». «Quando nacque, alla fine degli anni Cinquanta, era un giornale femminile molto bello e intelligente» osservò Angela Siani, «e sono stata per anni una lettrice affezionata. C'erano rubriche utili, inchieste coinvolgenti, firme di donne prestigiose. Col tempo però ho smesso di comprarlo: è uno di quei giornali belli da sfogliare ma assolutamente inutili.» «Non sono mai stata una lettrice di giornali femminili» confessò Francesca «e ora che ci penso credo di averli sempre ritenuti inutili, come lei. Il bricolage non mi interessa, i vestiti preferisco vederli nelle vetrine e l'informazione è più attuale sui quotidiani. I libri sono una lettura senz'altro migliore.» Clara rise. «Speriamo che non tutte le donne la pensino come te, altrimenti la tua carriera finisce ancor prima di cominciare!» «Durerà comunque pochissimo: cinque mesi al massimo, stando alle previsioni della direttrice.» La signora Siani intervenne dolcemente. «Tua madre ha telefonato un'ora fa, Francesca. Avrai bisogno del suo aiuto in ogni senso, e non puoi più nasconderle che aspetti un bambino. Le ho proposto di venire qui oggi pomeriggio, se sei d'accordo: sta aspettando la mia conferma.» «Va bene» sospirò Francesca, «le telefoni pure di venire.»
CAPITOLO 17 In tre giorni, Diana Fasser sembrava invecchiata di dieci anni. Francesca si immobilizzò sulla porta combattuta tra pena e risentimento. «Entra» disse poi «siamo sole.» Le fece strada verso il piccolo soggiorno e indicandole uno dei divanetti d'angolo non poté trattenersi dal dire: «Qui non è lussuoso come casa tua, mi dispiace». «Casa nostra» sua madre la corresse con voce dimessa. Francesca ricacciò un nuovo soprassalto di pena. Non l'aveva mai vista così disarmata e umile. «Mamma» disse brusca «non voglio giudicarti e non ti serbo rancore. Però quello che è successo non si può riparare.» «Mi hai chiamato mamma» Diana sorrise debolmente «e quello che è successo non è riuscito a cancellare la realtà che sei mia figlia.» «Non tua, adottata.» «Ti ho voluta esattamente come la bambina che è morta e ho aspettato che ti affidassero a me con gli stessi sentimenti della gravidanza: emozione, amore, gioia.» «E quali sentimenti ti hanno fatto volere l'orribile uomo con cui hai tradito tuo marito?» l'assalì con voce di pianto. «Non sono venuta qui per giustificarmi o per sollecitare la tua compassione, Franci. Il prezzo più caro dei miei sbagli purtroppo l'hai pagato tu, e quello che voglio è soltanto cercare di riparare.» «Offrendomi dei soldi ?» «Non posso "offrirti" quello che è già tuo. Desidero che torni a casa. Sono stata io a sbagliare, e se la nostra convivenza è diventata penosa tocca a me non a te, andarsene. Ecco, questo sono venuta a dirti.» Francesca ricacciò in gola un singhiozzo. «Anch'io ho sbagliato. Sono incinta di cinque mesi.» «Mio Dio, no...» sua madre gemette. «Scusami, non avrei dovuto dirtelo così.» «Avresti dovuto dirmelo subito! Come hai potuto nascondermi una cosa così... così grave?» Era angosciata. «Tu mi hai nascosto per diciannove anni una cosa ancora più grave, mamma.» Non c'era rimprovero, ma soltanto amarezza nella sua voce. «Io avrei voluto dirtelo, Francesca, ma tuo padre non me l'ha mai permesso. Sapessi quante volte ne abbiamo discusso! Il giorno in cui tu avessi deciso di sposarti e di avere un figlio saremmo stati comunque costretti a spiegarti le tue origini, e mi sembrava più onesto metterti in grado per tempo di fare delle scelte consapevoli.» «Alludi al colore della pelle del bambino, mamma?» «Anche a questo. Ma tuo padre, nel suo ottimismo, rifiutava di considerare l'eventualità che non fosse bianco. E in ogni caso riteneva presuntuosamente che questo non costituisse un problema: né per noi, né per te, né per il padre. Adesso il giorno che tanto temevo è arrivato. E il nostro colpevole silenzio ti ha impedito di valutare responsabilmente questa gravidanza. Perché tu sai, vero, che potresti avere un bimbo nero?» «Lo so. E anche se l'avessi saputo prima non avrei
abortito.» Diana Fasser annuì. «Spero che anche per Nicola il problema non esista. Gliene hai parlato, vero?» chiese con circospezione. «No. Ci siamo lasciati l'altra sera e non sa neppure che sono incinta. Questo figlio è soltanto mio.» Sua madre le afferrò una mano, gli occhi colmi di lacrime. «Torna a casa, ti supplico. Sei troppo giovane per affrontare da sola tutto quello che ti aspetta.» Lo desidererei tanto, si disse Francesca. La nostalgia per la sua stanza, i suoi libri e le sue cose le trafisse il cuore. E la tentazione di rientrare in quel mondo sicuro e protetto fu fortissima. Ma non poteva. La mia adolescenza è finita, pensò, e il bambino che nascerà ha bisogno di una madre agguerrita e adulta. «Non posso» disse con voce triste. «Devo imparare a camminare da sola.» «Non ora, Francesca. Nelle tue condizioni hai bisogno di serenità e riposo. Lascia che mi prenda cura di te» supplicò di nuovo. Francesca fece cenno di no, di no con la testa. «Finché visse, mia madre riuscì a badare a me. Voglio fare altrettanto con mio figlio.» Diana Fasser reagì come se avesse ricevuto uno schiaffo. «Se volevi ferirmi ci sei riuscita» mormorò a testa bassa. Ma la rialzò subito. «Quella povera ragazza fu costretta a arrangiarsi, mentre per te sarebbe soltanto una sfida infantile. Tuo padre ti ha lasciato una fortuna, non dimenticarlo.» «Per dirla come quel signore che ben conosci, quale padre?» Francesca esplose sinistramente. «Il solo che hai avuto. E il migliore che potessi avere» Diana Fasser disse con voce ferma. «Continua pure a ferirmi, ma non illuderti che mi alzi da qui e me ne vada offesa. Andrò via soltanto quando avrò capito che cosa intendi fare e, soprattutto, quando mi avrai assicurato che preleverai dalla banca quanto ti serve per vivere senza problemi. Anche lontana da me, se è proprio questo che desideri.» «Perché ti rifiuti di capire, mamma? Io non userò una lira dell'eredità, perché se lo facessi avrei perduto per sempre la probabilità di trovare la vera me stessa. Oggi non mi sento più Francesca Fasser, ma non mi identifico ancora con la neonata Cielo Ndiaye.» «Avrei dovuto impedirti di leggere tutti quei libri! Questa è letteratura, è farneticazione!» Il familiare falsetto di sua madre la intenerì, ma per pochi istanti. «Quella neonata era una possibilità di vita che non si è mai realizzata» Diana Fasser proseguì gravemente. «Forse sarebbe tornata in Africa con la madre, forse crescendo avrebbe dovuto prostituirsi come lei o forse la povertà e le malattie l'avrebbero fatta fuori risparmiandole questa sorte. Che cosa c'entri tu, con lei? Dal momento in cui sei stata nostra figlia hai avuto una vita e un destino diversi. Sei diventata un'altra persona.» «Anche questa è letteratura, mamma. La neonata Cielo è davanti a te, adulta e incinta, probabilmente di un figlio con i lineamenti e la pelle della sua gente.» Per sentire mia questa creatura, proseguì silenziosamente tra sé, devo riconoscermi in lei e accettare la mia vera madre, le mie origini africane, la mia parte di sangue nero. Tornando ad essere la privilegiata Francesca Fasser, erede di una colossale fortuna, non riuscirei mai.
Diana Fasser, inaspettatamente, si sollevò in piedi. «C'è un altro motivo per cui ho voluto vederti» disse. «Consegnarti questa.» Le porse una busta sigillata e Francesca vi lesse il proprio nome, vergato dalla spigolosa scrittura di Giovanni Fasser. Fissò interrogativamente sua madre. «É il famoso allegato "A", depositato dal notaio Cerqui che non ho voluto farti leggere. Una lettera che tuo padre scrisse molti anni fa e che mi pregò di consegnarti personalmente, nel caso non fosse stato più in vita, soltanto il giorno in cui tu avessi aspettato un bambino. Non so perché l'ho portata con me, forse sentivo quel che era successo» aggiunse sottovoce. Seduta sul letto di Clara, Francesca tenne a lungo la busta tra le dita prima di riuscire ad aprirla. Più che emozionata, si sentiva sopraffatta dalla solennità quasi religiosa di quel momento. Suo padre era tornato per dirle qualcosa che lei oscuramente temeva di non poter capire. O sopportare. Cautamente, con delicatezza, lacerò la busta ed estrasse la lettera. E quando cominciò a leggerla fu come riudire l'adorata voce di lui. Bambina mia, prima di venire nel mio studio sono entrato nella tua stanza. Eri ancora addormentata e mi sono seduto accanto a te cercando di scorgere nel tuo visetto disteso dal sonno i lineamenti dell'adulta che adesso sta leggendo questa lettera. Tua madre si è impegnata a consegnartela soltanto dopo averti raccontato come e quando ti abbiamo scelto per figlia, e spero che lo abbia fatto con tutta la sensibilità e l'amore di cui è capace. Stai aspettando un bambino che soltanto per tre quarti è tuo: l'altro quarto appartiene a una razza diversa, e non è escluso che per un capriccio genetico possa essere quella predominante. La creatura che aspetti è il solo legame con le tue origini perdute e la sua nascita potrebbe essere per te fonte di grande turbamento e problemi. Nulla è insensato e violento come la discriminazione razziale, ma la società in cui tu vivi e della quale tuo figlio farà parte è purtroppo impietosamente emarginante nei confronti di chi in qualunque modo É diverso . Esiste però un'arma infallibile e intimidatoria per pagarsi, con il riscatto, il diritto di essere integrato tra gli uguali. Quest'arma è il danaro. Col danaro si può comprare il rispetto e la libertà di pensare e di vivere. É una miserabile verità che ripugna agli onesti, ma che né io né tu possiamo modificare. Ecco perché, d'accordo con tua madre, ti ho voluto unica erede di tutto ciò che posseggo e ho costruito. Di qualunque colore sarà la pelle di tuo figlio, tu avrai i soldi per pagargli l'ingresso a testa alta nella società ed ovunque vorrà entrare. L'adulta onesta che certamente sei diventata potrebbe obiettare che solo la dignità e l'autostima danno il diritto di tenere alta la testa. Respingo questa obiezione con tristezza: un emarginato arriva all'amore di sé con molta fatica e molta sofferenza, ed è quanto io voglio risparmiare al mio ipotetico nipotino nero.
Toccherà poi a te, e solamente a te, trasmettergli la fiducia, il calore umano e l'onestà, impedendo che la ricchezza faccia di lui un essere presuntuoso e tracotante. Ma di questa ricchezza ha bisogno. Sono certo che tu stessa saprai fare il miglior uso del patrimonio che ti ho lasciato, e cioè te ne servirai per raggiungere con minor tempo e minori sforzi tutti i traguardi che ti proponi. Io ti starò sempre vicino, con il mio amore e il mio orgoglio di padre. Francesca rimise delicatamente la lettera nella busta. Poi (dopo dieci minuti? un'ora?) si alzò dal letto e si diresse in anticamera, verso il telefono. Compose un numero e aspettò. Stavolta la segretaria della direttrice le passò subito la comunicazione. Come Daria Rossetti fu in linea, Francesca chiese senza preamboli: «Quanto chiede, il tuo editore, per vendere «Fortuna»?» La donna non rispose subito, evidentemente stupita per l'eccentricità della domanda. Infine disse, leggermente: «Una ventina di miliardi, trattabili. É la cifra che circola. Ma perché ti interessa?». «Ho deciso di rilevarla io. La compero» precisò, onde non esistessero dubbi sulle sue intenzioni. Occorsero tre settimane perché la successione ereditaria fosse perfezionata rendendo possibile l'accesso di Francesca ai depositi bancari e azionari di suo padre. Le trattative per l'acquisto di «Fortuna» furono condotte da Paolo Forte, avvocato di famiglia nonché vecchio amico di Giovanni Fasser. Agli inizi si era mostrato molto riluttante. «Non soltanto è una testata decotta, ma Francesca è una ragazzina senza alcuna esperienza del settore. É un investimento insensato e ad altissimo rischio», aveva detto a Diana Fasser. «Mia figlia intende assumere il miglior amministratore e il miglior direttore editoriale sulla piazza. Può permetterselo. E già questa decisione mi sembra prova di grande realismo. In ogni caso può disporre liberamente della propria eredità e non intendo condizionarla in alcun modo» la donna aveva replicato. Paolo Forte riuscì a concludere per dieci miliardi, l'esatta metà della cifra richiesta, dimostrando che il solo valore della testata era un passato di prestigio ormai pressoché inesistente. Bisognava costruire i vertici, ricreare una redazione valida, riconquistare la fiducia dell'utenza pubblicitaria, organizzare una massiccia campagna di rilancio: dieci miliardi erano una valutazione più che equa. Lo stesso avvocato si mise in contatto con la più famosa organizzazione di «cacciatori di teste» affinché segnalasse nel più breve tempo possibile i candidati più validi per la direzione amministrativa e commerciale. Nel frattempo, Francesca si fece mandare a casa le collezioni rilegate degli ultimi due anni di «Fortuna». Era ancora ospite di
Clara Siani. «Ho deciso di tornare a vivere con te,» aveva detto alla madre «ma devi darmi ancora qualche settimana di tempo.» E con Clara passò giornate intere a leggere, studiare, sottolineare e commentare i vecchi numeri della testata. Al decimo giorno telefonò a Daria Rossetti, la direttrice. «Possiamo vederci? Vorrei parlare con te e poi riunire la redazione.» Era il 5 ottobre del 1979 e Francesca iniziava il sesto mese di gravidanza. Per prima cosa la tranquillizzò. «Tu resterai alla direzione e nessun giornalista verrà licenziato. La redazione sarà potenziata, e sarai tu a segnalare gli elementi migliori. Da ora in avanti avrai tutti i mezzi per realizzare idee e progetti: dovrai soltanto sottoporli al vaglio dell'amministrazione e discuterli con il direttore editoriale. Che, per inciso, è Tony Ferrario, una persona con cui hai già lavorato e che ha grande stima di te.» «Qui circolava la voce che avessi comprato il giornale per dirigerlo di persona» Daria confessò con visibile sollievo. «Dovrei essere una megalomane con la vocazione alla rovina per aver avuto un progetto simile» Francesca scherzò. Poi, seria: «"Fortuna" dovrà tornare ad essere un giornale di grande successo e rendermi con fior d'interessi i capitali che ho investito e che ancora investirò. É una sfida che non posso perdere e questo dovrà essere chiaro a tutti. Dirigere o amministrare non è il mio mestiere, ma neppure fare la proprietaria che aspetta gli utili e nel frattempo vive da ereditiera rientra nelle mie aspirazioni. Lavorerò a "Fortuna", alle tue dipendenze, e con il tuo aiuto spero di diventare una brava giornalista.» «Ho avvertito la redazione che volevi avere un incontro, e sono tutti molto curiosi di conoscerti.» «Anch'io. Sfogliando le annate del giornale che mi hai fatto avere, ho capito quello che intendevi parlando delle vostre frustrazioni. Come lettrice, inoltre, ho alcune idee sul femminile che mi piacerebbe leggere, e vorrei sentire che cosa ne pensa la redazione.» «Puoi anticiparmene qualcuna?» «Per prima cosa, amerei un giornale non intercambiabile e perciò unico nel suo genere. "Fortuna" mi sembra troppo uguale agli altri femminili: stessi vestiti, stessi argomenti, stessi personaggi e così via. Ne consegue che comperare questa testata o un'altra è indifferente.» Prese fiato, grata a Daria di aspettare il seguito del discorso senza interromperla. «É chiaro che per diversificare la testata occorrono collaboratori creativi che vi lavorino in esclusiva» proseguì. «Possiamo permetterci di porre loro l'aut-aut: o solo con noi, oppure liberi di collaborare altrove.» Daria annuì, molto attenta. «Un altro difetto di "Fortuna" mi sembra una sua certa aria da tetra e raffinata signora. Parlandone da lettrice, lo trovo un giornale poco cordiale e molto costruito.» «Stai andando giù di brutto» sorrise Daria Rossetti. «Però è esattamente quel che penso io. Vedi, una redazione frustrata si gratifica con lo chic o con lo sfoggio d'impegno.» «Nessuno, qui, dovrà più sentirsi frustrato. Tornando al discorso iniziale, mi sono chiesta a lungo che cosa spinge una donna a comprare un femminile. E la risposta mi pare scontata: la convinzione, o la speranza,
di trovarvi argomenti che la aiutino o la coinvolgano o la distraggano in un'ottica, appunto "femminile". Ma senza buttarle addosso valanghe di angoscia più o meno sottintesa. Leggendo "Fortuna", si ha l'impressione che la realtà della donna sia fatta soprattutto di problemi.» «É la realtà di tutti, purtroppo» osservò Daria. «Sì. E la televisione, i quotidiani, i rotocalchi gliela sbattono in faccia continuamente. Ecco, io credo che un giornale femminile dovrebbe mostrare l'altra faccia di questa realtà, sottolineando in ogni pagina quanto di positivo esiste nell'essere donna. Abbiamo dalla nostra la testata, "Fortuna". Creiamo un giornale rassicurante, pratico, "fortunato". Tragedie e violenze sono scontate, e tocca ad altri mezzi d'informazione porgerglieli. Le nostre pagine debbono essere la lettura del momento di tregua. E, allo stesso tempo, un realistico richiamo alla vita che nonostante tutto continua: esci, va' a vedere questo film, cucina questo piatto, hai bisogno di un vestito nuovo, non perderti l'ultimo romanzo dello scrittore tale, guarda che bel posto abbiamo trovato per le tue prossime vacanze...» «Se non fossi la mia padrona, non ti vorrei mai in questa redazione» Daria disse con serietà. E, ridendo, aggiunse: «Sospetto che il tuo mestiere sia proprio dirigere, e già mi vedo lontana da questa poltrona e da questo ufficio!». «Puoi giurarci. Entro un anno dovremo cercarci un'altra sede. Più grande e funzionale» disse Francesca. Senza ridere. L'uomo corse per anni sotto il cielo scuro e tra i picchi flagellati dal vento per inseguire il sole che brillava in fondo alla valle. Ma ogni volta che lo raggiungeva, il sole si era spostato perché correva più veloce di lui. E finalmente capì che doveva tornare al villaggio a chiedere perdono alla donna che aveva abbandonato, perché solo lei poteva insegnargli la magia di legare il sole. Leggenda india.
CAPITOLO 18 Sulle prime Nicola non capì, e si limitò a osservare con distaccata curiosità, senza prenderlo in mano, l'assegno che il direttore dell'agenzia 6 del Crédit Lyonnais aveva estratto dalla sua borsa con la destrezza di un prestigiatore e che da qualche istante teneva allungato verso di lui. «É un assegno di sua moglie, monsieur Brantanò» Robert Durand spiegò pronunciando il suo cognome alla francese, e il braccio si protese a tal punto che Nicola non poté ignorarlo. Meccanicamente prese l'assegno e gli gettò un'occhiata. L'entità della cifra, vergata con la familiare scrittura di Milly, dovette causargli un visibile sussulto, perché notò che il banchiere aveva improntato il viso a un'espressione di grande rincrescimento. «In lire italiane fanno circa duecento milioni» tradusse gentilmente. «E il conto della signora ha già uno scoperto di circa cinquanta milioni. Sempre in lire.» «Com'è possibile? É sicuro che non ci sia uno sbaglio?» Robert Durand scosse malinconicamente la testa. «Mi dispiace averla disturbata, monsieur Brantanò, ma l'esposizione di sua moglie mi è stata segnalata dalla direzione generale e senza copertura non sono in grado di onorare l'assegno. Prima di procedere al protesto mi sono sentito in dovere di avvisarla.» L'italiano del banchiere, molto carente nella pronuncia, era tecnicamente perfetto. «Mia moglie rientra stasera da una tournée e sicuramente chiarirà questo incidente» Nicola spiegò. «In ogni caso, domattina lei avrà i fondi necessari.» Monsieur Durand scosse di nuovo la testa. «Sono desolato, ma non posso aspettare: l'assegno va pagato o protestato questa stessa mattina. Per tre giorni ho tentato, inutilmente, di mettermi in contatto con sua moglie e non mi sarei rivolto a lei se avessi potuto attendere oltre.» Nicola osservò l'assegno con maggiore attenzione e il banchiere, prevenendolo, precisò: «É stato rilasciato da madame Brantanò a tale Michel Dubois, il quale l'ha girato a Pierre Roussel. Se volta lo chèque, può notare la girata e la firma per l'incasso». «Lei conosce queste persone?» «Soltanto Pierre Roussel.» Il banchiere si schiarì nuovamente la voce. «É un piccolo commerciante di automobili che alcuni anni fa ebbe dei problemi con la nostra banca e non figura più tra i nostri clienti.» Il tono lasciava chiaramente intendere che era un cliente poco desiderabile per qualsiasi banca. Che rapporti poteva avere Milly, con questi personaggi? E a che titolo aveva rilasciato un assegno di duecento milioni? Ma quel che a Nicola risultava del tutto incomprensibile era quella situazione debitoria. Da tre anni Milly divideva regolarmente gli introiti dell'orchestra in cui suonava e nella quale aveva il nome in ditta. Li depositava in un conto personale e per quanto lui ne sapeva
si trattava di cifre superiori a quelle che avesse il tempo di spendere, occupata com'era con concerti, esibizioni televisive e tournée. Era certamente da escludere che si fosse indebitata per rovinosi capricci tipo pellicce e gioielli. Doveva obiettivamente ammettere di essere un marito molto brillante in questo senso, anche perché i loro ultimi anni di matrimonio erano coincisi con la sua crescente affermazione artistica, e ogni successo, ogni affare erano stati l'occasione per fare a sua moglie un regalo importante. Che fine avevano fatto, e facevano, i soldi che lei guadagnava? Un discreto colpo di tosse lo richiamò alla realtà: il direttore della banca aspettava una decisione. Nicola fece mentalmente i conti della propria liquidità: Philippe Lévy, il suo gallerista, gli avrebbe versato il prossimo assegno tra circa tre mesi, alla fine di marzo, e la grande mostra organizzata in maggio a Milano certamente gli avrebbe fruttato dei cospicui extra. Ma nel frattempo la cifra di cui poteva disporre era di poco superiore a quella che il bancario chiedeva per la copertura. Tuttavia bastava. «Le farò un assegno personale» decise ad alta voce «mi dia soltanto il tempo di andare a riempirlo.» Robert Durand gli rivolse un cordiale sorriso di approvazione. Restato solo, diede un'esperta occhiata al soggiorno di casa Brentano, approvandone la sobria raffinatezza. Più che la casa di una giovane coppia di artisti, gli ricordava quella di un aristocratico banchiere: divani bianchi, pochi ma importanti mobili, un Kashan imperiale che doveva valere una fortuna e, isolato nella parete di fronte, un grande quadro dello stesso padrone di casa. Lo rimirò con un sospiro: la quotazione dei Brentano aveva raggiunto vertici che ormai erano per lui inaccessibili. Gli dispiacque sinceramente che un tale artista dovesse essere avvilito dai problemi di una moglie irresponsabile. Ma il sollievo di vederlo tornare con l'assegno fu superiore al dispiacere. Tese signorilmente una mano e controllò la cifra con ostentata noncuranza. Ma subito il suo viso si fece attento e perplesso. «La cifra corrisponde soltanto all'assegno della signora: ci sarebbe anche l'altro scoperto...» fece notare. «Per quello dovrà aspettare. Avendo lei autorizzato l'esposizione di mia moglie, non mi spiego questa improvvisa fretta» replicò brusco. Era stata Milly, nell'aprile dell'84, a segnalargli il miracolo di un piccolo appartamento libero nel cuore del Quartiere Latino. Per oltre quarant'anni era stato occupato dai nonni del suo impresario, morti di vecchiaia a poche settimane di distanza l'uno dall'altra. Lo stesso impresario, che ne era diventato erede, aveva fatto l'allettante proposta: per tre anni lo avrebbe ceduto gratuitamente ai coniugi Brentano purché si fossero fatti carico di tutti i lavori di ristrutturazione. I costi si erano rivelati superiori al previsto e Nicola aveva dovuto chiedere un anticipo a Philippe Lévy impegnandosi a consegnargli dieci quadri entro il prossimo settembre.
Non avrebbe mai dimenticato l'euforia e il caos di quando lui e Milly si erano trasferiti in quella nuova casa, realizzando di colpo che non era rimasta neppure una lira per ammobiliarla. Due materassi, un fornelletto a gas, un vecchio tavolo e tre sedie avevano rappresentato per sei mesi il solo arredo. I vestiti erano appesi a un filo steso tra una parete e l'altra della stanza da letto, piatti e posate erano riposti in due cassette da frutta e tutto il resto veniva ammucchiato dove capitava. In quel clima talmente bohémien da apparire sfacciatamente banale Nicola aveva conosciuto giorni di inebriante felicità. Gli era capitato di dipingere anche per venti ore consecutive, perduto in una frenesia creativa che sembrava smaterializzarlo per portarlo alle soglie dell'estasi. Era Milly a ricondurlo alla realtà, staccandolo dal cavalletto per costringerlo a riposarsi. E lì, sopra ai due materassi stesi per terra, la possedeva con una eccitazione febbrile che finalmente si placava consentendogli di scivolare in un sonno senza pensieri. Sei mesi dopo, la mostra alla Galérie Lévy lo aveva consacrato il giovane e indiscusso talento degli anni Ottanta e le quotazioni delle sue opere avevano subito raggiunto vertici da maestro. Finita la bohème, lui e Milly avevano brindato al 1985 nella casa dei loro sogni, finalmente arredata senza risparmio e con amore. Purtroppo il sogno stava per finire. Scaduti ormai i tre anni pattuiti, il padrone aveva comunicato che intendeva mettere in vendita l'appartamento, riconoscendo loro un diritto di prelazione. La cifra richiesta, due miliardi di lire, alla luce degli ultimi eventi diventava proibitiva. Nicola aveva dato per scontato che sua moglie contribuisse all'acquisto, e invece non aveva né risparmi né credito. La prospettiva di trasferirsi altrove gli appariva, stranamente, assai meno dolorosa di quanto avesse supposto. La verità era che da qualche tempo viveva in un inspiegabile stato di irrequietezza e di scontento. A trentadue anni era riuscito a realizzare le più ardite aspirazioni. Aveva esposto a Roma, Milano, Londra, Madrid, New York e i suoi quadri cominciavano a entrare nei principali musei del mondo. Aveva acquistato la casa di Milano in cui i suoi genitori abitavano e salvato l'azienda del fratello di Milly dal fallimento. Proseguendo col ritmo degli ultimi tre anni, neppure il traguardo della vera ricchezza era lontano. Probabilmente lo scontento derivava proprio dalla consapevolezza di non avere più aspirazioni da realizzare. Sempre più spesso gli capitava di ritrovarsi davanti al cavalletto incapace di concentrazione e svuotato di ogni slancio. E ogni volta che finiva un quadro restava a guardarlo come un padre quando scopre di avere procreato un figlio infelice, con frustrazione e impotenza. Non gli sembrava suo. Non riconosceva nulla di sé in quei colori e in quelle forme. Lo stesso dipingere era ormai un impegno svuotato degli antichi significati, e l'investimento che aveva fatto in questa vocazione gli appariva talvolta spropositato. Ma non gli restava possibilità di investimenti alternativi. L'anno prima Milly era stata sottoposta a un intervento che le aveva precluso per sempre la maternità, e benché né
lui né sua moglie avessero mai sentito l'urgente bisogno di un figlio, la certezza di non poter mai diventare padre era stata per Nicola più frustrante di quanto si fosse aspettato. E nonostante non ne avessero mai parlato, sospettava che per Milly fosse la stessa cosa. Di certo, dopo l'intervento si era ancor più concentrata nella carriera. L'antico sogno di diventare una concertista famosa era purtroppo rimasto irrealizzato: Milly era semplicemente la pianista di una buona orchestra che non sarebbe mai assunta ai fasti della Scala o dell'Opéra o del Metropolitan, e tuttavia era sempre impegnata. L'iniziale patto di non accettare mai tournée che la tenessero lontana da Parigi per più di un mese era stato tacitamente disatteso. Anche adesso stava per rientrare dopo sei settimane di concerti nel Sud della Francia, interrotti da due brevissime visite. Pittore scontento, padre mancato e marito inutile, ecco cosa si sentiva. E quel che era peggio, non vedeva alcuna via d'uscita: persino la casa un tempo tanto amata gli sembrava una gabbia. Il pensiero riandò all'assegno scoperto e gli interrogativi senza risposta si riaffacciarono in una luce improvvisamente inquietante: possibile che si fosse allontanato da sua moglie al punto da ignorare tutto di lei? Tra poco l'avrebbe rivista, ma dubitava che l'inevitabile spiegazione avrebbe colmato la lacuna. Milly rientrò alle nove di sera, con molto ritardo rispetto all'ora prevista. «Ho già cenato» disse al marito e si infilò subito in bagno per fare una doccia. Poi l'impresario la chiamò al telefono e restò all'apparecchio per oltre venti minuti, con l'accappatoio e i capelli gocciolanti, a concordare i particolari di uno special televisivo. Quando finalmente tornò in soggiorno, il telefono squillò di nuovo. E stavolta era per Nicola: sua madre chiamava da Milano per salutarlo e rassicurarlo sullo stato di salute di suo padre. Il giudice Brentano, ormai in pensione, sei mesi prima era stato colpito da un'emiparesi: soltanto da poco aveva riacquistato l'uso della parola e riusciva a muoversi, sia pure col sostegno di un bastone. Nicola parlò brevemente anche con lui. E poi passò la comunicazione a Milly che, a sua volta, salutò i suoceri. «Sono molto stanca» gli disse quando ebbe finito. «Ti dispiace se vado subito a dormire?» «Stamattina ho pagato un tuo assegno di duecento milioni. Scoperto» Nicola comunicò senza preamboli, ma con voce tranquilla. Se era sorpresa, Milly non lo diede a vedere. «Mi dispiace. Te li restituirò appena possibile.» «Non è questo il problema. Vorrei sapere per che cosa ti è servita una cifra simile. Ma, soprattutto, capire la ragione per cui ti sei riempita di debiti.» La reazione distaccata di sua moglie lo aveva irritato. «Non credo siano fatti tuoi.» L'ira gli salì alla testa. «Che cazzo di risposta è? Sono fatti miei perché sei mia moglie e i tuoi problemi, di qualunque natura siano, coinvolgono anche me.» «Oh, questa sì che è una bella notizia!» Milly replicò
sarcastica. «E da quando, di grazia, ti senti così coinvolto?» «Non vale, bella mia. É di te, non di me che stiamo parlando. Ti ho fatto una domanda e sto aspettando la risposta.» «Posso soltanto ripetere che sono fatti miei e che ti restituirò i soldi al più presto.» «E come? Non mi risulta che il tuo lavoro abbia prospettive economiche così grandiose.» Si accorse che stavolta aveva fatto centro, perché l'imperturbabile viso di Milly si coprì di subitaneo rossore. «Hai fatto bene a ricordarmelo» replicò, «quello che ha successo sei tu, e le aspettative grandiose sono appannaggio esclusivamente tuo!» La discussione stava degenerando in toni e accuse che Nicola non sopportava. «Non era mia intenzione farti il processo, Milly, ma solo parlare dell'assegno. Possiamo rimandare a domani, se stasera sei troppo stanca.» «Ho capito bene? Domani il famoso Nicola Brentano troverà un piccolo ritaglio di tempo da dedicare alla sua stupida moglie?» La profonda amarezza di quella voce colpì Nicola come uno schiaffo in piena faccia. Come aveva potuto non accorgersi, prima d'ora, di quanto lei fosse infelice e frustrata? «Ti amo» disse impulsivamente, e subito avvertì la presuntuosa vacuità di quella frase. Cosa pensava, che Milly andasse in estasi e gli cadesse tra le braccia? «Io non lo so più, Nicola. Ho una relazione con Stan Pavlov.» Era di nuovo calma. Ma molto triste. Per qualche istante Nicola fu incapace di dire qualunque cosa. Più che addolorato, era stupefatto. «Da quanto tempo dura?» si impose di chiedere. Ma la domanda che avrebbe voluto rivolgerle era un'altra: "Stan Pavlov: come è possibile?". «É cominciato dieci mesi fa, quando Antenne Deux mi ha chiamato per accompagnarlo al pianoforte. Ero così emozionata e inorgoglita all'idea che proprio io ero stata scelta per...» Nicola la interruppe. «In tutta franchezza, non vedo nulla di emozionante nel suonare con un violinista sopravvissuto alla sua leggenda. Stando a quanto si legge, da qualche tempo il suo unico lavoro consiste nello sceneggiare dal vivo la decadenza e la sregolatezza del genio...» «Stan Pavlov è troppo sensibile e geniale per i tempi in cui vive.» «Oddio, Milly, risparmiami almeno queste banalità vomitevoli! Cosa vorresti dirmi, che sei l'unica donna capace di capirlo? L'unico conforto della sua sublime emarginazione?» «É un uomo sensibile e infelice. E ha bisogno di me.» Prima ancora che il sospetto prendesse corpo, Nicola urlò: «Ha bisogno anche dei tuoi soldi, vero? É per lui che firmi assegni a vuoto e ti stai ricoprendo di ridicolo e di debiti ?». «Non esattamente. Ma non voglio più proseguire questa discussione né ti permetterò più di farmi sentire una donna velleitaria e fallita.» «Milly, che cosa è successo al nostro matrimonio?» L'ira aveva lasciato il posto a una profonda tristezza. «Da quanto tempo vedi in me un frustrante aguzzino?» Per tutta risposta lei si prese la testa tra le mani e cominciò a piangere silenziosamente. La tristezza di Nicola crebbe. Non sapeva come confortarla, e aveva paura che qualunque parola fosse sbagliata. Osservando le sue spalle curve, gli sembrò di tornare a una lontanissima mattina di
fine estate, a Nervi, quando si erano rifugiati in una spiaggetta privata e la loro intimità era stata bruscamente violata dall'irruzione della furibonda padroncina. Milly, umiliata, aveva assunto la stessa posizione di adesso. E poi era scappata via. É destino, sospirò Nicola, che io passi la vita a rincorrerla. Un altro ricordo gli affiorò alla mente. Era l'autunno del 1979 e lui, arrivato da pochi giorni a Parigi, aveva già la tentazione di tornarsene a casa. Si sentiva spaesato, solo e il ricordo dell'ultimo incontro con Francesca gli bruciava. Sensi di colpa? Nostalgia? Stava girando a vuoto per Montmartre, sentendosi lo stupido turista a caccia di emozioni artistiche, quando aveva visto Milly al lato opposto della piazza. Era stato come se gli fosse apparsa la Madonna: con una corsa affannosa l'aveva raggiunta e da quel momento non si erano più lasciati. Così, almeno, si era illuso: in realtà sua moglie si era allontanata da lui giorno dopo giorno, e purtroppo non se n'era mai accorto. «Milly» le disse con forza «non voglio perderti. Dimmi che cosa posso fare: per te e per me.» «Portami via da qui! Odio Parigi, odio questa casa!» singhiozzò quasi istericamente. Nicola le fu grato di non aver aggiunto che odiava anche lui. Più tardi, incapace di prendere sonno, si alzò silenziosamente e andò nel suo studio. Tornare in Italia: perché no? Negli ultimi tempi più volte si era sorpreso a prospettarsi questa ipotesi. Pur non odiando Parigi come Milly, vi aveva vissuto con un senso di provvisorietà razionalmente inspiegabile, visto che qui lui e sua moglie abitavano, lavoravano e fino a quella mattina avevano pensato di risiedere per sempre. Ma ora capiva di non essersi mai emotivamente staccato da Milano. Milano era legata agli anni delle speranze, delle frustranti lotte con suo padre, della rabbiosa volontà di vincere. Ripensò ai quadri nascosti nella baita della Brianza e alla incontenibile felicità di quando gli era stato concesso di mettere alla prova la sua vocazione. In qualche modo, lo sentiva, tornare alle radici lo avrebbe aiutato a riscoprire emozioni e entusiasmi perduti. Guardò il quadro a cui da un mese stava svogliatamente lavorando, e al viso di donna abbozzato sulla tela si sovrappose quello di Francesca. E si rese conto che il ricordo di lei, evocato con quello della spiaggetta di Nervi, da alcune ore gli girava intorno come un fantasma. Sei mesi prima, sul volo da Parigi a Roma, aveva visto fotografato sulla copertina di un rotocalco italiano un sorridente gruppo presentato come La famiglia Fortuna. Francesca era seduta in primo piano e teneva in braccio una splendida bambina dalla pelle color caffelatte. Che avesse avuto una figlia lo aveva incidentalmente saputo, all'epoca, da sua madre, ma la vista di quel visetto in primo piano gli aveva suscitato uno strano turbamento. E si era soffermato a studiarlo quasi morbosamente. La piccola fissava
l'obiettivo con scintillanti occhi color velluto, e nel suo sguardo si leggevano intelligenza e fierezza. Deve essere una bambina testarda e spericolata, Nicola pensò. Dietro Francesca, in piedi, erano ritratti la madre Diana e due uomini, uno più giovane e l'altro più anziano. Leggendo l'articolo aveva appreso che la vedova Fasser si era risposata con Paolo Forte, il legale di famiglia. Era l'uomo che compariva alla sua destra. Quello più giovane era Tony Ferrario, il compagno di Francesca. La professoressa Vitali aveva raccontato al figlio anche dei successi professionali dell'ex allieva, ma solo attraverso l'articolo del rotocalco Nicola si era reso conto dell'entità di quel successo. Rilevata «Fortuna», una testata agonizzante, non soltanto Francesca ne aveva fatto il femminile leader ma era riuscita anche a mantenere attiva e redditizia l'impresa immobiliare paterna. Nel silenzio dello studio, Nicola si chiese ora come sarebbero state le loro vite se un tardo pomeriggio di otto anni e mezzo prima lui non l'avesse lasciata scappare da quel bar angosciata e piena di rabbia. L'immagine di una bimba dalla pelle scura e dai neri occhi pieni di fierezza si sostituì a quella di Francesca. Avrebbe potuto essere sua figlia. Per la prima volta Nicola si permise di pensare, con profonda vergogna, che anche la paura di poter procreare una creatura con quel colore di pelle l'aveva spinto a fuggire. Francesca l'aveva chiamata Cielo.
CAPITOLO 19 Francesca era in riunione con la direttrice Daria Rossetti e la responsabile del marketing quando la segretaria le passò la telefonata di sua madre. «Franci? Non agitarti e non strillare: durante la ricreazione Cielo è scappata da scuola e adesso è da me.» Lo strillo di Francesca fece sobbalzare le due donne. «Di nuovo?! Ma io la uccido, quella incosciente! Non perderla di vista un istante, arrivo subito.» Sbattendo il ricevitore e riponendo nel cassetto, con mani tremanti, il fascicolo dei dati, disse: «Scusatemi, dobbiamo aggiornare la riunione a questo pomeriggio». «Che cosa è successo?» Daria s'informò preoccupata. «L'ennesima bravata di mia figlia. Ma stavolta non la passa certo liscia!» Quando una giornata comincia male, pensò poco dopo mentre si infilava nervosamente nel traffico della tangenziale, tutto va storto fino a sera. Alle otto e un quarto un ragazzo in motocicletta l'aveva tamponata rompendo un fanalino posteriore della sua auto. Alle nove Paolo Forte, il marito di sua madre, le aveva telefonato che, come previsto, erano stati condannati a pagare i danni al giornale tedesco da cui «Fortuna» aveva riprodotto due fotografie senza previa autorizzazione. Alle nove e mezzo il capo dei grafici aveva confermato l'irrevocabilità delle sue dimissioni. E alle dieci, sfogliando i quotidiani, aveva appreso che il divin maestro Nicola Brentano era in procinto di tornare definitivamente in patria con la moglie. I piccoli incidenti dell'ora successiva le erano apparsi, al confronto, di irrilevante entità. Fino a quando non era arrivata la telefonata di sua madre. Imboccando lo svincolo per Milano centro, Francesca emise un sospiro di profondo sconforto. Cielo sembrava indomabile. Era una bambina intelligente e sensibile, ricolma di tenerezza e di calore, ma nulla al mondo riusciva a piegare la sua volontà. Aveva un temperamento impetuoso e inarrestabile che travolgeva ogni regola, ogni disciplina. Talvolta, scontrandosi con lei, Francesca aveva la ridicola ma inquietante impressione di vedere un dritto pioppo affrontare impavidamente le sferzate e gli scrolloni del vento. La nuova scuola non le piaceva ed era la quinta volta in quattro mesi che nell'intervallo della ricreazione riusciva a eludere la sorveglianza dell'insegnante e a sgattaiolare fuori dallo stabile. Le prime tre volte l'avevano ripresa subito, all'angolo dell'isolato; la quarta volta Cielo era riuscita a raggiungere i giardini di Porta Venezia. E stavolta, addirittura, era arrivata in via Vivaio, a casa dell'adorata nonna.
Francesca rabbrividì al pensiero di sua figlia sola nel traffico e nelle insidie della strada. E aspettando che Germana o Mario venissero a aprirle la porta, si propose di ricorrere anche ai mezzi più drastici per frenare la spericolata testardaggine di Cielo. «La bambina è in salotto con sua madre» le disse Germana. Diana Fasser le si parò davanti prima che potesse varcare la soglia. «Ha litigato con la sua compagna di banco e per questo ha lasciato la scuola. Non sgridarla.» «Anch'io litigavo, ma queste bravate non le ho mai fatte!» Francesca urlò spostandola con malgarbo. Si catapultò sulla figlia e l'afferrò per le spalle. «Adesso mi ascolti bene, Cielo. Domani non ci sarà nessuna festina per il tuo compleanno. E il 5 febbraio non partirai con la scuola per la settimana bianca. E per un mese nessuna amichetta verrà a giocare con te, né tu andrai a giocare a casa loro. Potrai guardare la televisione soltanto per un'ora e la signorina ti darà l'album e gli acquarelli soltanto quando avrai finito i compiti. Da ora in poi pagherai a caro prezzo ogni disubbidienza. Mi sono spiegata, Cielo?» Il pioppo ondeggiò dritto e fiero. «Sì, mamma.» «Ti rendi conto che scappando da scuola hai fatto una cosa molto brutta?» «Sì, mamma.» «Si può sapere perché sei scappata, allora?» «Non lo farò più. Posso andare in cucina a bere un bicchier d acqua?» Francesca le fece nervosamente cenno di sì, con l'amara sensazione di essere ancora una volta uscita perdente dallo scontro con Cielo. La vista di sua madre, che evidentemente aveva sentito tutto e ora la stava fissando con aria di disapprovazione, accrebbe il suo nervosismo. «Dovresti smettere di difenderla, mamma. E lo stesso discorso vale per tuo marito e per Tony. La bambina se ne approfitta vergognosamente.» Diana Fasser si avvicinò e le si sedette di fronte. «Sei tu che dovresti smetterla con questi tuoi modi severi e oppressivi.» «Dovrei assecondare la natura di mia figlia e lasciarla crescere come una selvaggia che si arrampica sulle liane?» Diana le lanciò un'occhiata di fuoco: «Il fatto che Cielo abbia la pelle più scura della tua non ti autorizza a considerarla una scimmia. É una bambina eccezionale che qualunque donna sarebbe orgogliosa di avere. Ma tu no. Tu vedi nei suoi slanci e nella sua vivacità i segni inquietanti di una natura che non osi chiamare come vorresti: ereditarietà? Negritudine? Quel che è certo, ti stai comportando come una madre frustrante e razzista». Francesca fece un'amara smorfia. «Mi dispiace che tu non abbia capito nulla. Io sono pazza di Cielo, e non ho bisogno che tu o chiunque altro mi dica che è una bambina eccezionale. Ma devo piegare il suo orgoglio prima che il razzismo e l'ipocrisia della gente le spezzino la schiena. C'è una cosa che non ti ho mai raccontato, mamma: Nicola scappò per la paura della mia pelle. La professoressa Vitali mi cercò pochi giorni dopo la sua partenza e, una volta appreso che sapevo tutto della mia nascita, mi spiegò anche che il giudice Brentano aveva scoperto le mie origini e ne era stato vilmente terrorizzato.» «Dovevi dirmelo... Avrei parlato io con il padre di Nicola» sussurrò. «Per fargli leggere i bilanci dell'impresa Fasser? Per comprare il suo coraggio a suon di miliardi? No, mamma.
Cielo è mulatta, ed è una realtà che deve accettare umilmente imparando due verità fondamentali per costruirsi una vita serena: non odiare gli imbecilli che passeranno sul suo cammino e vincere la tentazione di comprarsi con la ricchezza il rispetto e l'amore. É quello che papà scrisse nel famoso "allegato A", ricordi?» Diana Fasser fece di sì con la testa. Non nascondeva più le lacrime, adesso. «Quel terribile pomeriggio di tanti anni fa ti parlai di un'anziana pediatra del Gaslini, Franca Lupis. Venne a trovarmi in ospedale e mi disse tante cose che allora sembrarono incomprensibili e cattive. Le ho capite soltanto adesso, perché sono le stesse cose che hai detto tu.» Era la prima volta che consentivano al passato di ritornare e per qualche istante furono sopraffatte dall'angoscia di parole e eventi sepolti. Diana fu la prima a parlare. «Ho commesso tanti errori con te, Franci. E ora ho il terrore che tu faccia altrettanto con Cielo. Anch'io sono pazza di questa bambina, lo sai.» «Non è soltanto il colore della sua pelle che mi preoccupa, mamma. Cielo è sognatrice e influenzabile come suo padre e...» «Dio mio» sua madre la interruppe «stai parlando di una bambina che ha otto anni appena!» «So quello che dico. Dal padre ha certamente ereditato la smania di dipingere: per un album e un astuccio di acquarelli nuovi si venderebbe l'anima. Non potrei sopportare che in nome di un vero o presunto talento Cielo diventasse insensibile e egoista come lui.» «Ti crei troppi problemi, Francesca. Io vedo Cielo per quello che è, e non mi succede mai di associarla a te, o al padre o ai nonni di colore. Poco fa sei stata ingiusta: prima di castigarla avresti dovuto permetterle di spiegarsi.» «Oh, mamma, perché è così facile sbagliare coi figli? Perché si fanno gli sbagli peggiori proprio quando si crede di fare il loro bene?» Francesca gemette. Cielo era seduta in cucina, davanti a una fetta di torta che non aveva neppure toccata. Francesca la prese in braccio e le tirò indietro i capelli. «La nonna mi ha detto che sono stata troppo severa. Può darsi che abbia ragione, però vorrei saperlo da te. Che cosa è successo stamattina?» Cielo si strinse nelle spalle. «Non importa, mamma.» «A me importa molto, piccolina.» «Beh, ho litigato con Giulia. É una sciocchezza, davvero, e ho fatto male a scappare dalla scuola. Non lo farò più...» «Stasera ne riparleremo, Cielo. Non posso vivere nella continua paura che ti succeda qualcosa e debbo essere certa che tu abbia capito la gravità di quello che hai fatto. Hai mai visto per la strada un bambino della tua età senza qualche persona grande che lo accompagni? Esiste una tua sola compagna che se ne scappa da scuola come te?» «Hai ragione, mamma.» «Per oggi puoi restare a pranzo dalla nonna. Passerò a prenderti stasera e poi faremo un bel discorso. Intesi, amore?» «Sì, mamma.» Quando restò sola, Cielo pensò che per la prima volta aveva detto una bugia. Il litigio con Giulia, la sua compagna di banco, non era stato affatto una sciocchezza, ma qualcosa all'ultimo minuto l'aveva trattenuta dal raccontare la verità alla mamma. Tutto era cominciato dieci minuti prima della ricreazione.
La maestra stava spiegando la differenza tra metro quadrato e metro cubo con dei disegni alla lavagna e Giulia, anziché seguire la lezione, continuava a scarabocchiare un quaderno. Cielo si era a un tratto accorta che quel quaderno era suo e le aveva sussurrato inorridita: «Ma che cosa fai? Ridammelo!». Giulia, con un maligno sorriso di sfida, per tutta risposta aveva strappato due fogli. Ne era seguita una silenziosa schermaglia che aveva richiamato l'attenzione della maestra. «Che cosa sta succedendo, in quel banco?» A quel punto Giulia si era alzata dicendo con sfacciata impudenza: «La Fasser mi disturba e non riesco a seguire la lezione. Posso cambiare posto?». Poco dopo, durante la ricreazione, tutta la classe aveva fatto cordone attorno a Cielo isolando con ostentata disapprovazione la sua compagna di banco. E quando una bambina le aveva dato della bugiarda, Giulia era malignamente sbottata: «Prendete pure le difese di quella bastarda negra, che me ne importa?». Cielo non aveva provato né umiliazione né rabbia. Solo un grandissimo dolore. Le amichette la stavano fissando mute, aspettando che reagisse, e lei si era detta: «Vattene via, non farti vedere piangere». Aveva percorso la strada tra la scuola e la casa della nonna con la paura che qualcun altro, guardandola, le ripetesse quella frase, bastarda negra. Sapeva di avere degli sconosciuti nonni africani con la pelle molto più scura della sua, ma non le era mai sembrata una cosa vergognosa, anche se la mamma le aveva spiegato che prima o poi qualche persona razzista avrebbe cercato di offenderla o di ferirla perché non era completamente bianca. Adesso capiva ciò che aveva voluto dire. Mentre la mamma e la nonna chiacchieravano in salotto lei aveva cercato un vocabolario per leggere il significato della parola bastarda e aveva avuto la conferma che si trattava di un modo dispregiativo per indicare «figlio di due genitori non coniugati» oppure «nato dall'incrocio di due razze». Aveva cercato anche il significato di «coniugato»: voleva dire sposato. Che la mamma non fosse sposata lo sapeva da sempre, come pure che suo padre era partito per l'estero prima ancora che lei nascesse, senza più dare notizie di sé. Neppure questo le era mai sembrato vergognoso, ma l'insulto di Giulia glielo aveva fatto apparire molto brutto. É una bambina razzista e cattiva e io la odio, pensò. Se lo avesse confessato alla mamma, subito l'avrebbe rimproverata dicendo che non si devono odiare i razzisti perché sono povere persone infelici. Ma non era affatto d'accordo. Simona era molto infelice perché aveva perso la mamma all'inizio dell'anno scolastico, ma era sempre gentile e buona anche se ogni tanto posava la testa sul banco e piangeva. Chissà perché la mamma non si sposava con Tony. Lei diventerebbe coniugata e io non sarei più bastarda, Cielo rifletté. Però resterei lo stesso un po' nera e ora non sono sicura che la mamma abbia ragione quando dice che la pelle più chiara o più scura non fa nessuna differenza.
Era evidente, per esempio, che la maestra non la pensava affatto così. Qualche settimana prima aveva tentato di dirlo alla mamma, ma si era accorta che non avrebbe mai saputo spiegarle il motivo. Mi tratta come se fossi Simona, che è orfana, o come se fossi molto povera, come Christian, continuò a riflettere. Mi chiede sempre se ho capito la lezione, se la nuova scuola mi piace, se i compagni giocano con me. Però non è gentile, e tutte le volte che mi parla ci resto male come quando la mamma scopre che ho disubbidito. La maestra dell'altra scuola, invece, mi sgridava e mi metteva in castigo. Mi piaceva di più, anche se mi faceva arrabbiare. Ricordò che sua madre, andandosene, aveva detto «stasera ne riparleremo». Le farò capire perché questa scuola non mi piace, Cielo si propose, e le dirò che Giulia mi ha chiamato negra bastarda. L'idea di dire la verità le diede un enorme sollievo e già le parve di sentire le braccia della mamma attorno a sé e la sua voce tranquillizzante e dolce. Ma il sollievo subito sparì. Non poteva dire nulla, e la sola idea di ripetere quella frase la faceva avvampare di vergogna. Si vergognava anche per la mamma. Riferirle la parola bastarda era come accusarla di non essere coniugata, e non poteva darle questo dispiacere. Addirittura, avrebbe potuto pensare che lei volesse farle qualche domanda sul padre che non conosceva. Le sarebbe piaciuto, sicuro, sapere come si chiamava, che cosa faceva, se era negro come lei, ma era un argomento che rendeva nervosissima la mamma e Cielo aveva da tempo capito che era vietato affrontarlo.
CAPITOLO 20 Francesca finì di leggere la lettera e alzò gli occhi su Paolo Forte, stupita. «É incredibile, Pardieri si dimette.» «Direi che è naturale: a una certa età tutti vanno in pensione» sorrise il marito di Diana Fasser. «Ma Pardieri è ancora giovane... E non posso neppure pensare che se ne vada.» «Quando lo chiamai per farti da amministratore, tu eri un'inesperta diciannovenne che si era messa in mente di fare l'editore e lui un commercialista cinquantasettenne onesto ed esperto. Da allora è passato qualche anno, vecchia mia.» Quasi nove, calcolò mentalmente Francesca. E cinquantasette più nove facevano sessantasei: l'età della pensione, appunto. «Sostituirlo non sarà facile» commentò. «Ieri ho avuto un lungo colloquio con Pardieri, e secondo lui la soluzione ottimale sarebbe mettere al suo posto Vanni Giusti. Lavora con Pardieri da cinque anni e ha dato prova di grande correttezza e professionalità. Se sei d'accordo, gliene parlo subito. O puoi comunicarglielo tu stessa, visto che è il marito della tua amica Clara.» «Non voglio che pensi a una decisione presa per amicizia, meglio che gliene parli tu. Paolo, non è che dall'oggi al domani mi abbandonerai anche tu comunicandomi che hai l'età per la pensione come Pardieri?» L'avvocato Forte rise. «C'è tempo, stai tranquilla. E in ogni caso come potrei abbandonarti? Sono della famiglia, ormai.» Già. Nell'arco di tempo che separava l'inesperta ragazzina di ieri dalla efficiente e disincantata ventottenne di oggi c'erano state anche le seconde nozze di sua madre con l'avvocato di famiglia. Restata sola, Francesca si rese conto, con sorpresa, di non aver mai pensato prima di quel momento quanto lungo quell'arco di tempo fosse stato né mai valutato la molteplicità e l'importanza degli eventi che l'avevano scandito. Si era rappacificata con sua madre, Cielo era nata e diventata grande, si era buttata anima e corpo nel rilancio di «Fortuna», aveva acquistato i nuovi uffici di Milano Fiori e una nuova casa per sé e la bambina, Clara Siani si era sposata e aveva avuto due gemelli, Daria Rossetti si era separata dal marito e dopo due anni di convivenza con un fotografo americano era tornata alla direzione della testata. E nella sua vita era entrato Tony Ferrario: prima come direttore editoriale e poi come compagno. Era un uomo perfetto, come Clara le ripeteva continuamente, con un'enfasi mai perduta. Di certo possedeva i requisiti che ogni donna ritiene irrinunciabili: era tenero, generoso e affidabile. Anche al giornale, compariva miracolosamente ovunque vi fosse un problema da risolvere o una divergenza da appianare. Nei primi mesi di vita del nuovo «Fortuna» era capitato spesso che la redazione si fermasse fino a notte inoltrata per lavorare o discutere nuovi programmi. E Tony, a
una certa ora, riuniva tutti nella sua stanza per un appetitoso spuntino. Oppure sturava del vino bianco frizzante. Ogni occasione era buona per festeggiare, fosse un compleanno, un fidanzamento o la vendita di cinquemila copie in più. Cielo era nata il 31 gennaio dell'80, dieci giorni prima della data prevista e quattro mesi dopo che Francesca aveva rilevato la testata. Era andata in ufficio anche il giorno del parto, col suo enorme pancione. E alle otto di sera era ancora nella stanza di Tony, con Daria Rossetti e il caporedattore moda, per proiettare le diapositive della copertina. Le doglie erano arrivate, inaspettate e violente. Era stato Tony a caricarla sulla sua macchina, portarla di corsa in clinica, telefonare a sua madre. Contrariamente alle speranze del ginecologo, il nascituro continuava a presentarsi in posizione podalica e il battito cardiaco dava lievi segni di sofferenza. E così tutto era stato immediatamente predisposto per il parto cesareo. Quando si era risvegliata dall'anestesia, era stato Tony a porgerle la bambina. Si era sollevata sul cuscino e l'aveva stretta contro di sé notando quietamente, senza sorpresa, il color bronzo-dorato di quel visetto a cui neppure l'abbandono del sonno toglieva un che di prepotente e fiero. La piccola testa era ricoperta di una fitta peluria nera che all'attaccatura della fronte formava una specie di ciuffo, e Francesca riconobbe la rosetta del padre. Anche il taglio degli occhi era quello di Nicola, e le labbruzze piegate all'insù evocavano il ricordo di un remoto sorriso. Ma si impose di scacciarlo. Sua figlia era una creatura unica, venuta al mondo senza passato e con un futuro che sarebbe somigliato soltanto a lei. Voglio che impari a sollevarsi dalla meschinità e dalla paura per volare coraggiosamente verso il suo destino, aveva pensato. E in quel momento aveva deciso di chiamarla Cielo, come vent'anni prima un'altra donna aveva fatto con un'altra neonata. Il pensiero tornò a Tony. Cielo era molto affezionata a lui, «Fortuna» gli doveva buona parte del ritrovato successo, sua madre e il suo patrigno non aspettavano altro che decidesse di sposarlo, Clara le ripeteva continuamente che prima o poi una ragazza meno scema di lei gliel'avrebbe portato via. Perché non si decideva a stabilizzare il loro legame? Tony glielo aveva chiesto due anni prima, durante un viaggio di lavoro a New York. Alla vigilia del ritorno a casa avevano fatto l'amore per la prima volta. E al mattino dopo Tony le aveva detto: «Desidero sposarti, ma questa è la prima e l'ultima volta che te lo chiedo. Se tu non fossi Francesca Fasser insisterei, ti inonderei di fiori, non ti darei un attimo di tregua. Ma la tua ricchezza mi paralizza».
Era stato di parola. La relazione era continuata, ma Tony non le aveva più parlato di matrimonio. Desidera ancora sposarmi? Francesca si chiese con curiosità. Da qualche tempo l'iniziale passione di lui sembrava essersi attenuata. Era sempre tenero, premuroso e disponibile, ma più che un amante travolgente adesso sembrava un vecchio e devoto marito. I sentimenti hanno tempi e sbocchi che non possono essere ostacolati, come avviene per il corso di un fiume... Era strano che le parole della madre di Nicola le ritornassero all'improvviso alla mente dopo tanti anni. Ma è quello che è successo con Tony, Francesca pensò. La nostra relazione dopo qualche mese avrebbe dovuto naturalmente sfociare nel legame stabile: la mia indecisione e la mia paura l'hanno frustrata. Coraggio, ammettilo: hai seppellito il ricordo di Nicola, ma non hai mai potuto dimenticare i sentimenti e le emozioni che hai vissuto con lui. Tony non è mai riuscito a travolgerti. Fare l'amore con lui non ti ha mai mandato in estasi. Ed è solo di questo che hai paura, di non amarlo come hai amato l'altro. Smettila di girarci intorno: da quando hai saputo che i coniugi Brentano torneranno in Italia i ricordi hanno ricominciato a farti male e da tre giorni vivi in stato d'allarme pensando all'incontro che avrai tra mezz'ora. Dopo anni di silenzio, tre giorni prima la mamma di Nicola l'aveva cercata al giornale. «Vorrei vederti» le aveva detto subito. Aggiungendo gentilmente: «Ho qualcosa di molto importante da chiederti, e sarei molto addolorata se rifiutassi di ricevermi. Anche se ne avresti tutto il diritto». L'emozione e la sorpresa l'avevano spiazzata. E come un'idiota, quasi balbettando, aveva acconsentito a incontrarla. Ma adesso era tornata in sé, ed i meccanismi di autodifesa erano pronti a scattare. Guardò l'orologio: mancava un quarto d'ora all'arrivo della professoressa Vitali. Qualsiasi cosa debba dirmi le impedirò di farmi ancora male, decise uscendo dalla sua stanza per andare a bere un caffè. Più che dai capelli ingrigiti, più che dal corpo rinsecchito come quello di una vecchia, Francesca fu impressionata dallo sguardo sommesso di Silvia Vitali: dov'era finita la serena fermezza di due occhi che tante volte si erano posati su di lei per richiamare, rimproverare e indagare? «Scusa se ti faccio perdere tempo» la donna le disse accogliendo il tacito invito a sedersi. E anche quella frase umile strinse il cuore di Francesca. Le fece un gesto come a dire che no, non si preoccupasse e chiese: «Posso farle portare un caffè, una spremuta di frutta?». «Sei molto gentile, non desidero nulla.» Si guardò intorno come intimidita e osservò: «Ho seguito con fiducia la tua carriera, sapevo che avresti fatto grandi cose».
Nello sguardo triste baluginò un lampo di vivacità e Francesca fu come folgorata. Ha gli stessi occhi di mia figlia, pensò. E provò una profonda pena quando il lampo si spense. Silvia Vitali allungò una mano verso la scrivania e prese la fotografia di Cielo. «Posso guardarla?» chiese. Ma lo stava già facendo. Dopo alcuni istanti, che a Francesca parvero eterni, sollevò lo sguardo dalla fotografia della bambina al viso di lei. «Sono venuta a chiederti se posso vederla» disse. L'allarme scattò e sopraffece lo stupore. «Mia figlia? E perché?» l'aggredì quasi. Un bagliore dell'antica fierezza accese il volto di Silvia Vitali. «Perché è la mia nipotina. É nata quattro mesi dopo la partenza di mio figlio per Parigi: come hai potuto pensare che non capissi ? A parte i colori» aggiunse con un tono molto vicino all'orgoglio «Cielo è il ritratto di Nicola. E io ho aspettato troppo tempo per conoscerla.» L'allarme era diventato panico. «No» Francesca disse duramente, incapace di aggiungere altro. «No che cosa, Francesca? Che Cielo non è figlia di Nicola? Che non vuoi farmela vedere?» «No tutto» annaspò. Silvia Vitali, inaspettatamente, sorrise. «Sei rimasta la cocciuta e irruenta ragazzina che amavo. E l'istinto mi dice che Cielo, in questo, sia identica a te. Sbaglio?» «Signora Vitali, potrei dirle che sbaglia su tutto, ma questo ci porterebbe a una discussione molto lunga.» In pochi istanti la ragazzina spaventata aveva ripreso la situazione in pugno, con piglio manageriale. «E purtroppo» spiegò ricambiando cortesemente il sorriso «non ho molto tempo.» «Neppure io, Francesca. Mi restano pochi mesi e proprio per questo voglio conoscere la mia nipotina.» «Che cosa significa?» Non capiva davvero. «Ho un tumore ormai metastatizzato che non è più operabile» Silvia spiegò con distacco, quietamente. «Tre giorni fa ne ho avuto la conferma e ti ho subito telefonato. Non voglio turbare Cielo, stai tranquilla, e neppure dirle chi sono. Mi basta soltanto vederla.» «Ha chiesto un consulto? Chi le ha dato questa certezza che è inutile operare? Non deve arrendersi subito. Io posso...» Silvia Vitali interruppe l'impetuosa valanga con un sorriso quasi divertito. «Non cambi proprio mai, eh? Ma è bello che sia così: mi sarebbe molto rincresciuto trovarmi di fronte una efficiente e vissuta signora di successo.» Francesca aveva gli occhi lucidi. «Poco prima che lei arrivasse stavo pensando che tutto sommato la mia vita è stata un gran fallimento» confessò senza riflettere. «I fatti ti danno torto, bambina. I soli perdenti siamo io, mio marito e Nicola.» Sentì su di sé uno sguardo perplesso e precisò sospirando: «Anche Nicola, sì. Ha corso tanto per diventare un pittore affermato, e credo che adesso cominci a chiedersi se ne valeva la pena. Nel mostruoso prezzo che ha pagato è compresa anche una figlia: e questo per sua fortuna non lo sa ancora.» «E non dovrà saperlo mai. Mi prometta che non glielo dirà, signora. É stato difficile per Cielo abituarsi alla realtà di un padre che non esiste, ma in qualche modo è riuscita.
Sarebbe dolorosissimo scoprire all'improvviso che un padre c'è, ma non può chiedergli né aspettarsi nulla da lui.» Silvia Vitali curvò le spalle e si rattrappì paurosamente su se stessa. «Nicola sa che hai una bambina. Glielo dissi otto anni fa, un paio di mesi dopo che era nata e continuo a chiedermi come non capì subito che era sua figlia. Ma prima o poi, fatalmente ricostruirà avvenimenti e date e...» «Se non l'ha fatto fino ad oggi, tutto lascia supporre che non lo farà mai.» «Ne sei certa? Tra un mese Nicola si trasferirà a Milano e non puoi illuderti che la città sia abbastanza grande per non incontrarvi mai. Può succedere per strada, al cinema, in un bar, in un ufficio, in casa di conoscenti comuni. E vedendoti con Cielo, la curiosità o la vanità maschile automaticamente lo spingeranno a ricostruire quanto tempo hai messo per dimenticarlo e concepire una figlia con un altro uomo. Dovrebbe balzargli all'occhio che questo tempo non l'hai avuto.» «In nove anni io e lei non ci siamo mai incontrate, signora A dispetto di tutto, spero che lo stesso capiti con suo figlio.» La donna la guardò con dolcezza e chiese: «Francesca, non sei ancora riuscita a dimenticarlo oppure a perdonarlo?» «Cielo è sua figlia, e questa è una realtà che non posso dimenticare.» «Ho letto su un giornale che da tempo hai un bravo e innamorato compagno. Perché non l'hai ancora sposato?» «Perché non riesco a dimenticare quanto un uomo apparentemente innamorato possa d'un tratto rivelarsi egoista e codardo. E con questo ho risposto a tutte le sue domande.» Si accorse di essere stata crudelmente polemica, e stringendole una mano si affrettò a dire: «Non odio Nicola, signora Vitali. Credo di non averlo mai odiato, neppure quando seppi, casualmente, che si era sposato con Milly. Fu il giorno del primo compleanno di Cielo, e in un certo senso fui sollevata da quella notizia perché chiudeva per sempre una parte della mia vita e mi vietava di cullare patetiche speranze». Era vero soltanto in parte. Quel che Francesca tralasciò di raccontare fu che pianse per due ore prima di accettare la realtà che Nicola era perduto per sempre. Quando Clara le aveva telefonato, lei stava giocando con Cielo. Era andata a rispondere con la piccola in braccio e, come l'amica le aveva cautamente dato la notizia delle nozze, Francesca aveva riattaccato bruscamente scoppiando in singhiozzi. Cielo, spaventata, si era messa a piangere anche lei. E, strette l'una all'altra, avevano continuato a piangere mentre il telefono continuava a squillare. Poi la bambina si era addormentata e lei aveva detto a se stessa: «Meglio così, adesso il passato si è allontanato per sempre». E invece era ritornato con Silvia Vitali. Per poco tempo, pensò guardando il suo volto stanco, con il cuore stretto dalla pena. «Cielo dovrebbe essere già tornata da scuola» le disse. «Se vuole, può conoscerla oggi stesso.»
CAPITOLO 21 Una porta sbattuta con violenza svegliò di soprassalto il giudice Brentano. Tese l'orecchio, ma non udì alcun rumore. Evidentemente si era sbagliato. Sua moglie dormiva raggomitolata su un fianco, il respiro leggero. Guardò la sveglia: le lancette fosforescenti segnavano le due e un quarto. Si riadagiò piano, sperando di riprendere sonno. La porta sbatté di nuovo, facendolo sobbalzare. Non si era sbagliato, doveva esserci una corrente d'aria o un temporale. Stava per alzarsi a controllare che le finestre fossero chiuse, ma il suono concitato di due voci lo fermò. Milly e Nicola stavano litigando. Ezio Brentano soffocò un colpo di tosse cavernosa e si vietò di ascoltare, ma soltanto una sottile parete divideva la sua stanza da letto da quella del figlio e della nuora e ogni frase giungeva distintamente. A un certo punto udì Nicola sibilare: «Vuoi parlare piano? Sono le due di notte e i miei hanno diritto di dormire». «Il problema non esisterebbe se avessimo una casa nostra. E forse ne risolveremmo anche altri, ben più importanti.» «Milly, non cercare alibi! Il vero problema è che ti sei adagiata in una oziosa infelicità e qui o altrove continueresti a trascinarti senza fare nulla per reagire.» La voce invelenita di lei. «Ti fa comodo crederlo, eh? La verità è che altrove perderesti lo stato di grazia dell'amato figliolo tornato all'ovile.» «Dovresti vergognarti.» La voce addolorata e furiosa di Nicola tuonò nella stanza. «Sono tornato qui solamente per stare accanto a mia madre che sta morendo.» Ezio Brentano si sollevò con violenza, strozzando una bestemmia, ma una mano lo trattenne. «Resta qui, Ezio» sua moglie sussurrò dolcemente. «Mi dispiace, Silvia. Oh, Dio, mi dispiace...» Si curvò su di lei e la abbracciò convulsamente, schiacciato da una disperata sensazione di impotenza. Le tenere mani di lei gli accarezzarono la nuca. «Non è successo niente, Ezio... Ho un bravo figlio e un bravo marito e non mi sono mai sentita viva come in queste ultime settimane.» «Non puoi lasciarmi, Silvia.» «Sono ancora qui. E posso ancora camminare, uscire, tenere il dolore sotto controllo. É strano, sai? Sono preparata a morire, eppure ogni mattina mi sveglio come se una nuova giornata fosse un mio diritto.» Milly vuoi farmi impazzire? la voce esasperata di Nicola trapassò la sottile parete e, di nuovo, la mano di Silvia Brentano si posò ferma sul braccio del marito. «Domani parlerò con Nicola» l'uomo disse. «É meglio che vadano a abitare altrove.» «Ssst. Non gli dirai niente. Lui e Milly stanno attraversando un periodo di crisi e bisogna lasciarli tranquilli.» «E la nostra tranquillità, Silvia? Da un mese hanno invaso questa casa e adesso ci svegliano anche di notte coi loro litigi. Non avrei mai dovuto proporgli di venire qui.» Non lo so, non lo so! L'urlo di Milly.
Stavolta sua moglie non riuscì a trattenerlo. Ezio Brentano si alzò di scatto e si diresse verso la stanza da letto accanto. Bussando alla porta, con forza, tuonò: «La volete smettere?». Le voci tacquero e la porta si aprì. Per qualche istante Nicola si arrestò sulla soglia in silenzio, fissando il padre con desolata mortificazione. «Mi dispiace» disse poi. L'ira di Ezio Brentano sbollì di colpo. La breve corsa senza bastone gli aveva causato delle fitte lancinanti alla gamba, ma a fargli male era lo sguardo di Nicola. Dov'erano finite la baldanza e la sfida? Quelli erano occhi di un uomo sconfitto. Il giudice dovette girare la faccia. Lui era un mezzo invalido, sua moglie stava per morire e il suo unico figlio aveva rinunciato a lottare. La vita aveva piegato i Brentano e tra cinquant'anni della sua famiglia non sarebbe rimasto nulla perché non esistevano nipoti, né speranze, né riscatto. Tanti anni prima aveva voluto manipolare e mutare il naturale corso degli eventi, e il destino si era implacabilmente vendicato. L'antico orgoglio si risvegliò. Non tutto era perduto, Nicola possedeva ancora le armi della giovinezza e del talento e lui non gli avrebbe permesso, oh no, di arrendersi. Il primo nemico da affrontare era Milly. Per qualche istante al giudice parve di odiare la sua sterile e castrante nuora, ma subito si rese conto di provare per lei soprattutto pietà. Era un sentimento sconosciuto che gli causava un malinconico stupore. Milly era infelice come Nicola, ed era soprattutto questo a stupirlo: si erano sposati riannodando il filo di un amore spezzato, avevano realizzato le loro vocazioni, possedevano gioventù, salute e ricchezza. Che cosa gli mancava? E in che cosa era fallito il suo stesso disegno perfetto? Tanti anni prima, mandando Nicola a Parigi, aveva puntato con fede sia sul talento del figlio sia sulle circostanze che avrebbero rimesso sulla sua strada una onesta e brava ragazza bianca. Perché adesso questa vittoria gli si ritorceva contro come una bruciante sconfitta? Suo figlio era sempre immobile sull'uscio, umiliato e triste. D'impulso lo prese per un braccio. «Vieni, dobbiamo parlare.» Senza lasciarlo, gli fece strada verso il soggiorno. Aprì la luce e lo guidò verso il divano. Quando furono seduti, il giudice disse senza preamboli: «Sono molto preoccupato, Nicola, e non capisco che cosa ti sta succedendo. Vuoi dirmelo tu?» «É un brutto momento, tutto qui.» «Di giorno entri e esci senza concludere nulla, di notte litighi con tua moglie. Che cosa aspetti, che il brutto momento passi per magia? Non soltanto non dipingi più, ma ti sei persino dimenticato della mostra. É un riconoscimento che dovrebbe inorgoglirti. E invece, a poco più di due mesi dall'inaugurazione, ancora non hai indicato i fotocolor da pubblicare nel catalogo.» «Catalogo, mostre, riconoscimenti... Che cosa me ne importa? Il giorno dell'inaugurazione mia madre potrebbe già essere morta, e non riesco a pensare a
altro.» «Il male è ancora sotto controllo, e finché tua madre è viva io mi rifiuto di disperare. É quello che dovresti fare anche tu. La mostra potrebbe essere la più grande gioia della sua vita: pensa a dargliela, invece di seppellirla prima del tempo. Se hai i coglioni, questo è il momento di dimostrarlo.» Nicola rivolse al giudice Brentano un compassionevole sorriso. «Spiacente, ma me li hai tagliati. Te lo sei dimenticato?» «Quel che ricordo è di averti aiutato a ottenere tutto ciò che volevi» Ezio Brentano rispose, sulle difensive. «Nel momento in cui l'hai deciso tu, e senza darmi altre possibilità: o Parigi o niente, o subito o mai più. In pratica, hai fatto di me un forzato della vocazione.» Dall'espressione di suo padre Nicola capì di aver picchiato duro, e se ne vergognò. «Scusami» disse asciutto «sto soltanto cercando degli alibi. Non puoi avermi tagliato i coglioni, per la semplice ragione che non li ho mai avuti.» Hai torto, Ezio Brentano avrebbe voluto gridare al figlio, ti ho raggirato con un'abilità micidiale dalla quale non potevi difenderti. Ma ammetterlo significava uscire allo scoperto riconoscendo di aver sbagliato tutto: e non ne era ancora certo. O era ancora troppo presuntuoso per accettare una sconfitta? si chiese. Fu con sollievo che vide Nicola alzarsi. «Torniamo a letto, papà» gli disse. «Discutere di notte peggiora soltanto le cose.» «Incamminati, tra cinque minuti andrò anch'io.» Udì il figlio entrare nella stanza e richiudere la porta, poi un sommesso parlottare e infine il silenzio. Lentamente, trascinando la gamba offesa, il giudice Brentano raggiunse il vecchio abbaino che da un mese era tornato ad essere lo studio di Nicola. Mucchi di tele bianche erano accatastati contro la parete destra. Su due cavalletti, spinti contro la parete opposta, erano posati due quadri schizzati e chiaramente abbandonati: entrambi raffiguravano una incerta figura femminile. Il terzo cavalletto era al centro della stanza, sotto al lucernario. La tela era seminascosta da una casacca gettata di traverso, e il giudice Brentano la spostò con delicatezza. Quel che vide, per qualche attimo gli fermò il cuore. Un corpo abbozzato con pochi tratti di pennello, così piccolo da apparire immateriale, era sovrastato da due enormi occhi senza viso che fissavano oltre la tela e oltre il tempo, là dove tutto era luminoso e eterno. Era lo sguardo di chi ha raggiunto la suprema comprensione del tutto, e irradiava una intelligenza infinita. Ezio Brentano riconobbe, straziato, il volto di sua moglie. Nicola gli aveva tolto i lineamenti, la carne, il male e gli affanni per immortalare solo l'essenza, l'anima. Sua madre gli aveva dato la vita e lui, col suo talento, l'aveva accompagnata alla soglia della morte. Ne era nato un quadro perfetto. Tuttavia l'uomo, folgorato, vi scorse l'opera incompiuta. Nicola era rimasto al di qua della soglia, incapace sia di consolazione sia del gesto di pietà estrema: quegli occhi vedevano tutto e capivano tutto, ma non avevano ancora trovato la pace.
Era come se all'ultimo momento Nicola avesse voluto trattenere la madre aggrappandola all'esile filo di un segreto dolore che li accomunava: e più il giudice Brentano fissava quegli immensi occhi, più l'impressione di immaterialità si attenuava. Carne e sangue e affanni non se n'erano andati: Nicola non era riuscito a dare pace all'essenza di sua madre perché lui stesso non trovava pace. Devo aiutarlo, Ezio Brentano si disse con affanno allontanandosi dallo studio. Ma come? Era assolutamente impotente. Quando tornò in camera, sua moglie era ancora sveglia e fu come uscire da un incubo. Gli occhi che lo fissavano erano reali, e in quello sguardo familiare e amato non esisteva nulla di sovrumanamente irraggiungibile. Milly sentì il suocero aprire e chiudere la porta e parlare sommessamente con la moglie. Steso accanto a lei, Nicola sembrava addormentato, ma la sua immobilità era troppo rigida per essere quella del sonno ed emanava ondate di tormentosa tensione che Milly percepiva quasi fisicamente. A che cosa sarebbe servito proseguire la discussione? Non poteva urlare, né muoversi, né alzarsi, né uscire: e il senso di costrizione diventò così violento che a un certo punto le mancò l'aria. Per sfuggire da Parigi, da Stan Pavlov e dalle frustrazioni degli ultimi mesi era finita in gabbia. Ma quando mai era stata realmente libera? Fin da piccola era stata spezzata in due: da una parte c'era la bambina creativa e ribelle, dall'altra la figlia pavida e remissiva. Crescendo, era stata incapace di rimuovere i condizionamenti di un'educazione convenzionale. Sua madre le aveva fatto frequentare i corsi di pianoforte perché alla sua mentalità piccolo borghese appariva un segno di distinzione, ma si era rifiutata di scorgere la vocazione o il talento nell'impegno appassionato della figlia. Dava per scontato che il solo successo a cui potesse aspirare era un buon matrimonio. E benché Milly non sognasse altro che la libertà di suonare, era tormentata dalla paura di restare sola e di deludere le aspettative di sua madre. Questa lacerazione aveva finito col renderla insicura e senza grinta. Il matrimonio con Nicola era stato il traguardo della Milly convenzionale e succube, ma aveva tarpato le ali dell'artista trasgressiva e ambiziosa. Soltanto l'incontro con Stan Pavlov aveva ricomposto le due parti, perché lui si era innamorato allo stesso modo della pianista e della donna, e finalmente vocazione e amore erano diventate una sola cosa. Ma l'antica viltà era riaffiorata con il passare delle settimane, quando aveva capito che vivere con Stan significava rinunciare a tutto ciò che aveva sempre considerato irrinunciabili valori, a cominciare dal consenso sociale. Stan non conosceva radici, regole e censure. Per due anni aveva avuto una relazione omosessuale con Michel Dubois, e glielo aveva confessato senza alcun pudore, quasi divertito, la sera in cui il suo legale gli aveva telefonato che il ragazzo esigeva duecento milioni a titolo di risarcimento morale e materiale. Milly, che non aveva potuto impedirsi di ascoltare la conversazione, quando Stan posò il ricevitore chiese: «Ma chi è questo Dubois? E perché vuole dei soldi da te?».
«In un certo senso glieli devo. Non soltanto mi ha fatto vivere alcune esperienze che mi erano sconosciute ma per due anni l'ho monopolizzato facendogli fare il giro del mondo.» «Che tipo di esperienze, Stan?» La voce di Milly tremava. «Sesso. Bellezza. Crudeltà. E immagino che nel conto abbia incluso anche l'ottima coca che aveva sempre miracolosamente a disposizione nei momenti di fastidiosa lucidità.» «Perché mi racconti queste cose? Vuoi farmi scappare inorridita per poter tornare dal tuo amante?» «É una storia chiusa, Milly. Non sono un omosessuale e ti amo. Più di quanto abbia amato qualsiasi altra persona. Ma non puoi chiedermi di vergognarmi o di recriminare. Il pentimento è un tentato suicidio: rinnegando cose che hai fatto e ti appartengono, tenti di uccidere una parte di te stesso. E io mi voglio troppo bene per farlo.» Non si era vergognato neppure quando Milly aveva emesso un assegno personale per tacitare quel Dubois. «Te li renderò, piccola. Quei due anni di ozioso vagabondaggio hanno avuto un costo economico molto alto.» Corteggiato da tutti i teatri, richiesto dal pubblico di tutto il mondo, Stan Pavlov si concedeva secondo imperscrutabili umori, pronto a annullare un concerto e a sparire se all'ultimo minuto non aveva più voglia di suonare. «La pretesa che un genio si esibisca a pagamento è profondamente immorale» spiegava con scoperta immodestia «perché il genio è libero e si esprime soltanto nel momento di grazia dell'ispirazione e della creatività.» Penali per rottura di contratto e momenti di grazia sempre più rari lo avevano ridotto a uno stato di cronica indigenza. E Milly gli aveva dato altri soldi. A spaventarla ancor di più era stata la scoperta che Stan, prima dei concerti, faceva abitualmente uso di sostanze stupefacenti. Come si conciliava la libertà del genio con la schiavitù della droga? «Milly, non essere così rigidamente ottusa. Quasi tutti gli artisti si drogano, perché la forza fisica è infinitamente inferiore a quella mentale: e per sostenere gli stress della tensione creativa sei costretto a cancellare la stanchezza, il sonno e tutte le altre necessità del corpo. Con la droga non diventi schiavo, ma affranchi lo spirito dalle meschine esigenze della materia.» Con repulsione e paura aveva voluto provare anche lei. Era accaduto all'inizio dell'ultima tournée nel Sud della Francia. Stan l'aveva raggiunta ed era stato in quella circostanza che lei aveva appreso di Michel Dubois e dello squallido ricatto. A un'ora da un concerto, troppo stanca e avvilita per avvertire qualunque censura, aveva chiesto a Stan di darle qualcosa. E lui le aveva dato della cocaina, insegnandole pazientemente come usarla. Frustrazioni e stanchezza erano miracolosamente sparite. Aveva suonato con una inebriante sensazione di onnipotenza, concentrata con ogni fibra del suo corpo sul pianoforte. Il pianoforte era un universo e lei possedeva il magico tocco della creazione. Bastava sfiorare i tasti per evocare libertà, bellezza e pace.
Alla fine la platea si era levata in piedi con uno scrosciante applauso. «Ti sei sentita schiava o padrona?» l'aveva provocata Stan. Quella sera avevano fatto l'amore con una frenesia e una gioia simile all'estasi. Naturalmente non era rimasto un episodio isolato. Altre volte, durante quella tournée, Milly aveva sniffato della cocaina. Finché una sera Stan si era rifiutato di dargliela, spiegandole seriamente che stava entrando nella zona rischio. «La droga è il rimedio dell'emergenza, o se preferisci il lusso di un momento eccezionale. Ma quando diventa uno strumento di sopravvivenza è la fine.» La droga era comunque una micidiale arma per imbecilli, disperati e incoscienti, Milly aveva pensato, sentendo all'improvviso scattare tutti i meccanismi di autodifesa. E Stan, anche se l'amava, era un pericolo forse maggiore della droga: lei non era attrezzata per vivere con un uomo trasgressivo e inaffidabile, e dubitava persino della sua genialità. Anche Nicola aveva talento e successo, ma era rimasto agganciato alla realtà, rispettando i sentimenti e le regole del vivere civile. Come gli aveva chiesto aiuto, glielo aveva offerto. Ma purtroppo non lo amo, Milly pensò sconsolata, rigirandosi nel letto. La parte più vera e segreta di me somiglia a Stan e lo vuole. Perché mi sono lasciata mettere in gabbia? Perché non ho avuto il coraggio di restare con lui ? Il respiro di Nicola si era fatto leggero: adesso dormiva davvero. Gli scivolò accanto e posò la testa sul suo petto. Automaticamente, una mano di lui si sollevò a cingerle una spalla in un tenero gesto di complicità. É un uomo meraviglioso, Milly pensò turbata, e lasciarlo sarebbe la mia rovina. A suo modo anche lei lo amava. Ma doveva amarlo ancora di più, e scacciare l'ossessione di Stan.
CAPITOLO 22 Nell'autunno del '79, poco dopo l'acquisto di «Fortuna», Francesca aveva avuto un traumatico impatto con le frange più sindacalizzate della redazione. Attraverso un documento, redatto dopo interminabili e burrascose riunioni, i giornalisti chiedevano garanzie ideologiche e retributive, controllo sulle promozioni e sui contenuti della testata e soprattutto rassicurazioni sul ruolo che lei intendeva svolgere all'interno. Il comitato di redazione esprimeva «perplessità e inquietudine» sulla nuova proprietà, rappresentata da una ragazza giovanissima, senza alcuna esperienza lavorativa, e con le sole referenze di una ricchezza peraltro ereditata. Francesca era stata dapprima offesa e subito dopo sbalordita dalla lettura del documento. Le appariva incredibile che i giornalisti di una testata agonizzante, con la spada di Damocle della disoccupazione, anziché accogliere con sollievo il suo arrivo si mostrassero tanto schizzinosi e avidi di rassicurazioni. Il passaggio della testata, benché concordato nei minimi dettagli e praticamente concretizzato con il versamento della prima quota, non era ancora stato legalmente formalizzato. D'impulso, era stata tentata di telefonare all'avvocato Forte di bloccare l'operazione cercando di contenere quanto era possibile i danni. Ma l'orgoglio le aveva impedito di dichiararsi sconfitta ancor prima di lottare. E decise che avrebbe giocato a carte scoperte. Un'ora dopo che il documento le era stato consegnato, Francesca riunì la redazione e fissando ciascun giornalista con gelida aria di sfida disse esattamente ciò che pensava. «Il vostro atteggiamento mi ha molto stupita, perché Daria Rossetti mi aveva parlato di una redazione fatta da persone combattive e entusiaste. Tuttavia non è del mio stato d'animo che intendo parlare. Voi esigete garanzie e sicurezze che non sono in grado di darvi: come avete sottolineato, la sola cosa che posseggo è il danaro. Non ho mai lavorato, non so nulla di giornali e la proprietà di questa testata mi rende inquieta e perplessa quanto voi.» Fece una breve pausa, senza staccare gli occhi dagli interlocutori e intimamente soddisfatta di scorgervi una perplessità ben più autentica di quella espressa con l'enfasi sindacale. E proseguì: «Ho fatto questo investimento seguendo l'istinto, e l'istinto mi dice che in breve tempo saprò diventare un buon editore. Ma non vi darò ugualmente le garanzie e i poteri che chiedete. Fermo restando il vostro diritto di lavorare ed esprimervi liberamente, le decisioni saranno prese ai vertici, e soltanto a me spetterà controllare, respingere o approvare.» «Quel che volete voi è esattamente quel che voglio io: fare di "Fortuna" un giornale prestigioso e venduto. E il mio impegno in questo senso è la sola garanzia che posso darvi. Pertanto esigo ora, subito, una vostra decisione. O vi fidate oppure no. In quest'ultimo caso rinuncerò a rilevare la testata. Mi rendo conto di porvi uno
spiacevole ricatto, ma posso assicurarvi che la vostra impennata sindacale è stata altrettanto spiacevole». La vittoria era stata talmente facile che Francesca ne aveva addirittura provato delusione. Adesso, accingendosi a incontrare la redazione per la solita riunione mensile, non poté fare a meno di pensare a quante cose erano cambiate in quei nove anni. Dei giornalisti dell'epoca soltanto uno se n'era andato e molti altri erano stati assunti: ma tutti avevano con lei un rapporto che andava ben oltre il cameratismo di buoni colleghi. «Fortuna» nasceva da un gioco di squadra di cui Francesca era la punta di diamante, in quanto le sue doti di managerialità e acutezza erano plebiscitariamente riconosciute. Ma all'ammirazione si aggiungevano affetto, amicizia, confidenza. Francesca era contemporaneamente l'autorevole editore e la collega adorabile. Non aveva tradito l'antico proposito di scrivere, e sulle pagine del giornale spesso comparivano articoli o interviste con la sua firma. Né Daria Rossetti, né gli altri personaggi ai vertici, si erano mai sentiti esautorati da lei: rispettava le autonomie di ciascuno e raramente le era capitato di dover bocciare un'iniziativa o contestare una decisione. Più spesso, invece, entrava nella stanza dell'uno o dell'altro e annunciava con allegra solennità: «Mi sarebbe venuta un'idea...». Pronta a bocciarla se qualcuno la convinceva che era troppo costosa o difficilmente realizzabile o scarsamente funzionale. Prima di raggiungere la redazione nella stanza di Tony, Francesca si fermò davanti alla macchinetta per bere un caffè. Il quinto della mattinata, ed erano soltanto le dieci e mezzo. Fu l'ultima a entrare, e Tony le offrì il suo posto dietro alla scrivania. «Come avevo preannunciato» Francesca esordì «i dati di vendita dell'ultimo trimestre confermano il trend negativo della testata: meno tre in gennaio, meno cinque in febbraio, meno sei in marzo e i primi dati di aprile non sono incoraggianti. Ho esaminato con estrema attenzione tutti i numeri dell'ultimo semestre, e non ho notato né sciatterie né calo di creatività e di impegno. É chiaro che la nostra crisi è stata causata dalla massiccia controffensiva della concorrenza. E a questo punto non basta difenderci, dobbiamo metterci in assetto di guerra. L'unico appunto che posso fare è che stiamo vivendo di rendita con idee e iniziative ormai copiate da tutti: è indispensabile che uniamo le nostre forze per trovarne di nuove.» Tony Ferrario annuì, e dando un'occhiata circolare alla redazione, disse: «Nonostante le tue smentite, circola con insistenza sempre maggiore la voce che intendi lanciare una nuova testata di target popolare e acquistare la quota di maggioranza di "Telenazione"...». Francesca esitò qualche istante, indecisa se rispondere per le rime, come era tentata, o buttarla in ridere. Optò rapidamente per la via di mezzo. «Premesso che mi sarebbe difficile creare questa specie di impero sotto il vostro naso» disse «per quale ragione dovrei tenervelo nascosto? Come ben sapete, mi è stato sottoposto il progetto di una nuova testata, peraltro eccellente, e mi è stata offerta un'ottima occasione per
entrare nel settore televisivo: ma ho deciso di rinunciare a entrambe le possibilità in meno di un'ora. Ho una figlia, l'impresa edilizia ereditata da mio padre e una testata impegnativa come "Fortuna": cercarmi altre responsabilità sarebbe un'idiozia o un suicidio.» Rivolse a Tony un sorriso agrodolce: «Di tutto questo ti avevo già parlato nei giorni scorsi, e ti ringrazio per aver interpretato il ruolo dell'ignaro portavoce difendendo quello che evidentemente ritenevi un segreto d'alcova!». Tony ricambiò il sorriso: «Touché. Dal canto mio ti ringrazio per avermi escluso dall'elenco degli affetti e dei gravami della tua lista». Daria Rossetti intervenne brusca: «Ragazzi, per le vostre schermaglie vi richiamo all'alcova. Siamo qui per parlare di "Fortuna", non dei vostri destini!». «Giusto» disse Francesca. «E qui vorrei lasciare la parola proprio a te, Daria. Spiega alla redazione la tua idea.» «Niente di strepitoso o originale, ma semplicemente un modo per organizzarci concretamente. La prossima settimana ogni responsabile di settore riunirà i propri giornalisti per studiare tutte le innovazioni che si possono apportare al settore di loro competenza. La redazione moda si occuperà di moda, quella della bellezza di bellezza, quella dell'attualità di attualità e così via. I caporedattori vaglieranno tutte le idee e le proposte e tra dieci giorni io li riunirò nel mio studio per discuterle con loro. A nostra volta, io, Francesca, Ferrario e il marketing studieremo altre innovazioni. I tempi sono brevi: entro due settimane bisogna avere un concreto ventaglio di proposte su cui lavorare.» Teresa Giacomelli, la più giovane delle redattrici moda, chiese la parola. «Se permetti, Daria, ho un'obiezione da fare: queste riunioni per settore escludono la possibilità di comunicazione e rischiano di segmentare troppo il giornale. Non sarebbe meglio che moda, bellezza, attualità, arredo e così via studiassero insieme un'unica linea di rilancio?» Fu Francesca ad intervenire. «In teoria sì, in pratica le riunioni fiume si risolverebbero in un bla-bla-bla sui massimi sistemi, senza arrivare a nulla di concreto. "Fortuna", come tutti i giornali, è diviso in settori e considerata l'emergenza penso sia più sbrigativo che a occuparsene siano i giornalisti specializzati, vale a dire quelli che meglio ne conoscono le caratteristiche e le potenzialità. Va da sé che prima di rilanciare la testata tutti i redattori saranno informati dei programmi e potranno eventualmente discuterne.» «Posso dire qualcosa sul tuo intervento iniziale, Francesca?» chiese Ornella Rossi, la più brava e la più anziana delle inviate. «Certamente.» «Tu hai detto che, sfogliando i numeri dell'ultimo semestre, non hai notato alcun calo di creatività e di impegno. Come parte in causa ti sono grata di questa generosità di giudizio, ma purtroppo non la condivido. Trovo che da qualche tempo "Fortuna" abbia perduto l'antica grinta e sia diventato un giornale preconfezionato con raffinatezza e poco attento a quel che accade intorno. Sono d'accordo che l'attualità vera e propria va lasciata ai rotocalchi familiari, ma esistono fatti e personaggi che nessuna testata dovrebbe ignorare.» «Per esempio?» intervenne Daria Rossetti.
«Per esempio il serial televisivo Isolde: quattordici milioni di ascolto, un fenomeno di costume di cui si sono occupati quotidiani, psicologi e vari esperti. Noi lo abbiamo ignorato. Un altro esempio? La struggente autobiografia di quello studente morto di AIDS: in America ha già venduto venti milioni di copie, mai questa tragedia era stata affrontata con tanta umanità e realismo. Avremmo potuto occuparcene in anteprima, andare a intervistare l'amico e il medico che ha cinicamente usato lo studente come cavia per una nuova cura, accelerandone la morte.» «Ma tu dov'eri, Ornella?» la interruppe gentilmente Francesca. «Perché a suo tempo non hai fatto queste proposte al tuo direttore?» «Perché non mi sembravano adatte al distaccato, astratto e rassicurante "Fortuna" degli ultimi mesi.» Stavolta fu Daria a parlare. «Non ti viene il sospetto che il distacco di "Fortuna" rispecchi anche il tuo distacco?» «Può darsi. E spero che il rilancio dia una risvegliata a tutti, non soltanto a me. C'è un'ultima cosa che vorrei chiedere, a proposito di treni perduti: intendiamo ignorare Nicola Brentano e la sua mostra? É il più grande pittore del decennio, trasuda fascino, incuriosisce le donne ed è tornato a vivere in Italia con la bellissima moglie pianista.» Francesca intervenne pronta: «Brentano ha rifiutato di farsi intervistare, e i ritratti da tavolino come ben sai non sono nello stile di "Fortuna"». «Dovete darmi atto che negli ultimi dieci anni sono riuscita a fare parecchie interviste che sembravano "impossibili": potrei provarci anche con lui.» Daria si alzò frettolosamente: «Aggiorniamo la riunione. Di Brentano riparliamo dopo, Ornella. In linea di massima questo non mi sembra il momento di disperdersi in tentativi: ci sono molti personaggi accessibili e altrettanto interessanti da intervistare». «Credo che Ornella abbia ragione. Se riuscisse ad avvicinarlo, per "Fortuna" sarebbe un prestigioso scoop.» Francesca aveva parlato con voce ferma e Daria la fissò incapace di nascondere il proprio turbamento. Più tardi, quando rimasero sole, mormorò: «Mi dispiace. Se Ornella avesse saputo, non avrebbe certo...». «Avremmo dovuto comunque occuparci di Nicola Brentano e della sua mostra. Io stessa finirò per incontrarlo da qualche parte, prima o poi» Francesca ribatté quietamente. Il mattino dopo Ornella entrò raggiante nella sua stanza. «Vittoria, Franci! Brentano mi riceverà fra tre giorni!» Senza chiedere il permesso spostò una poltroncina e si sedette davanti a lei. «La cosa più difficile è stata farmelo passare al telefono: non c'era, era occupato, non poteva e così via. Finalmente è arrivata una signora gentile che me lo ha chiamato. Mi tremavano le gambe, credimi...» Si interruppe per accendere una sigaretta. «Toglimi una curiosità,
Francesca: Brentano ti conosce? Personalmente, voglio dire...» «Perché ?» «Sulle prime sembrava irremovibile. Gentilmente, ma senza neanche darmi il tempo di spiegargli cosa volevo, mi ha detto che era molto in ritardo con la mostra e comunque non rilasciava interviste. Ma quando sono riuscita a dirgli che ero un'inviata di "Fortuna" è cambiato da così a così. Mi ha fatto ripetere due volte il nome del giornale e mi ha chiesto se era il "Fortuna" di Francesca Fasser. Quando gli ho detto di sì, è successa una cosa curiosa...» «E cioè?» Francesca sperò che l'inviata non avesse afferrato la nota di panico. «Ha domandato se tu eri al corrente dell'intervista che intendevo fargli. Quando gli ho detto di sì, è stato zitto qualche istante e poi mi ha detto con una strana voce: "Va bene, l'aspetto". Solo che ha riattaccato subito, senza precisarmi dove e quando. E l'ho dovuto richiamare per farmelo dire. Per quanto mi mortifichi ammetterlo, ho l'impressione che il merito dell'intervista sia più tuo che mio. Per questo volevo sapere se Brentano ti conosce.» «Ci conoscevamo da ragazzi, poi ci siamo perduti di vista.» «Secondo me non guasterebbe se gli mandassi due righe per ringraziarlo. Potrei consegnargliele io stessa.» «Non credo di avere tempo» replicò asciutta Francesca. Il viso stupito di Ornella Rossi le fece capire la ridicola stupidità di quella frase.
CAPITOLO 23 L'intervista con Nicola Brentano uscì sul terzo numero di maggio, una settimana prima dell'inaugurazione ufficiale della mostra. Arrivata in ufficio, Francesca trovò sulla scrivania la prima copia di macchina di «Fortuna». Aveva resistito alla tentazione di leggere l'intervista prima della pubblicazione, e adesso si impose di sfogliare lentamente il giornale partendo dalla prima pagina, come sempre faceva, anziché correre al servizio che la interessava. La disponibilità di Nicola non si era spinta fino a posare per un servizio fotografico, tuttavia Ornella Rossi era riuscita a strappargli tre recenti immagini inedite. Nella prima, sparata su due pagine, Nicola era ritratto nel suo studio di pittore, e un abile gioco di controluce dava l'inquietante sensazione che fosse stato fagocitato dai quadri che lo circondavano. A colpire Francesca fu l'espressione del viso. Vi si leggeva una grande stanchezza, come se per anni Nicola avesse continuato a inseguire qualcosa che gli sfuggiva. E la luce indomita degli occhi diceva che non aveva rinunciato a raggiungerla. Ma che cosa poteva cercare ancora, visto che tutti i sogni della sua vita si erano realizzati? Tra il rosso e il nero, diceva il titolo dell'intervista, e in un inconscio moto di professionalità Francesca deprecò quel sofisticato ermetismo di sapore stendhaliano. Ripromettendosi di farlo osservare alla direttrice, cominciò a leggere l'intervista. Ornella Rossi era stata all'altezza della sua bravura: attraverso osservazioni sensibili e domande intelligenti era riuscita a far abbassare la guardia a Nicola Brentano ottenendone una confessione di straordinaria sincerità. Era la storia di un uomo posseduto da una vocazione inesorabile: fin dall'infanzia, tutti i sentimenti e gli eventi erano stati esaltati, frustrati, manipolati in funzione del dipingere e Nicola ammetteva umilmente che il grande artista era nato da compromessi e viltà che gli avevano impedito di diventare un grande uomo. «Ho amato le persone e le cose di cui l'artista aveva bisogno, ho ucciso e sacrificato quelle che avrebbero reso felice me» a un certo punto confessava. «E sua moglie Milly ?» Ornella chiedeva. «É nel mucchio delle vittime.» «Nei suoi ultimi quadri i colori hanno la violenza dell'angoscia: eppure, come ha scritto Salvatore Fiume, vi aleggia un'impalpabile luce di speranza. Che cosa sta cercando Brentano? Qual è la sua speranza segreta?» «Una vecchia leggenda india racconta di un uomo che per anni camminò a testa bassa, tra le intemperie, per inseguire il sole. Ma l'astro correva più veloce di lui... Ecco, come quell'uomo, anch'io sto cercando una magia per legare il sole.» «La leggenda dice che soltanto con l'aiuto della donna amata è possibile trovare questa magia. Il vecchio indio decise di tornare al villaggio a riprendersi la sua. E lei ?» «Io mi sono lasciato alle spalle un cimitero: terra bruciata e fantasmi. Posso soltanto andare avanti.» Non è vero, Francesca pensò con rabbia. La tristezza e la pietà con cui fino a quel momento aveva seguito la confessione di Nicola furono scacciate da
questa frase. Il grande affossatore che è in te non è riuscito a distruggere tua figlia, gli disse mentalmente. Se fossi davvero incinta, ti supplicherei di abortire... Quell'ultima sera stavo per confessarti tutto, e se l'avessi fatto anche Cielo sarebbe sepolta nel tuo cimitero. Tuo malgrado, maestro, non sei riuscito a lasciarti alle spalle terra bruciata. Puoi correre fino all'eternità, ma non riuscirai a legare il sole perché è nelle mani di una bambina che non conosci e che non potrai mai avere. L'ingresso di Daria Rossetti nella sua stanza la portò alla realtà. Anche l'amica direttrice teneva in mano una copia di «Fortuna». «Posso sedermi un attimo o hai da fare?» le chiese. «Siediti pure. Ho appena finito di leggere l'intervista con Nicola Brentano.» «Anch'io. Ornella ha fatto una cosa eccellente e...» Ebbe una breve esitazione: «Ti dispiace se ne parlo, Francesca?». «Affatto.» «Non so se te ne sei accorta, ma quando Nicola rievoca la partenza per Parigi e la disperazione dei primi giorni il tuo fantasma aleggia in modo impressionante.» «Non sono il solo fantasma della sua vita.» «Ma forse l'unico che continua a perseguitarlo: parlando della sua fuga dall'Italia e del vile sacrificio di persone e affetti, a chi altri può riferirsi se non a te? É curioso: più che dal racconto che mi facesti a suo tempo, ho capito da questa intervista tutto il male che ti ha fatto.» «Fortunatamente è acqua passata. L'unico contatto che mi è rimasto con lui è sua madre. É una donna meravigliosa e Cielo l'adora.» Non avrebbe mai dimenticato il pomeriggio di due mesi prima, quando l'aveva condotta a casa sua per farle conoscere la bambina. Cielo era in salotto. Seduta sul tappeto, davanti al set del «piccolo scultore» che Tony le aveva appena regalato, stava modellando un vasetto. Era talmente assorta che non si accorse del loro arrivo. E per qualche istante Silvia Vitali restò sulla soglia a guardarla con profonda emozione. Francesca stava cercando le parole per presentarla, quando Cielo alzò la testa e vide la donna. Come ipnotizzata, si alzò dal tappeto e andò verso di lei. Nei suoi occhi c'erano turbamento e aspettativa, e quando le fu accanto tese le piccole braccia con gesto di amorosa e istintiva sapienza. L'ha riconosciuta, Francesca pensò folgorata, senza averla mai vista prima ha capito che è parte di lei stessa e del suo sangue. Silvia Vitali se la strinse contro soffocando un singhiozzo. «É tua nonna, Cielo» Francesca disse piano. «La mamma del tuo papà.» «Eri partita anche tu?» la bambina chiese. «Sì...» Silvia, il volto rigato di lacrime, lanciò un'occhiata supplichevole a Francesca. Cosa debbo dire? Aiutami a non farle male. «E tornata per conoscerti, tesoro.» E prima che Cielo facesse l'ovvia, dolorosa domanda, aggiunse: «Tuo padre, invece, non è potuto tornare». «Dov'è, nonna? É morto?» Non mi guardi, non posso aiutarla, Francesca pensò in un assurdo soprassalto di odio, voltando bruscamente la testa. Ma Silvia non la stava guardando. E udì la sua voce triste dire:
«Neppure io so dov'è, Cielo. Non è morto: credo che si sia perduto e stia cercando la strada». Ricordando quel momento, Francesca provò per la madre di Nicola la stessa gratitudine di allora. E ripeté a Daria Rossetti: «É una donna meravigliosa. E ha una grande influenza su Cielo: solo lei è riuscita a farle amare la nuova scuola, e non so davvero in che modo». «Come sta di salute ?» «Credo che sia in quella fase di tregua che precede il precipitare del male. Ma non posso sapere nulla di preciso, perché lei non ne parla e io non ho alcun rapporto con i suoi famigliari. Tra l'altro in questi mesi l'ho vista soltanto due volte: per paura di turbarmi, o di disturbarmi, viene a trovare Cielo quando io sono al giornale o si mette d'accordo con mia madre per incontrarla fuori.» «Povera donna. Dev'essere molto doloroso vedere l'unica nipote quasi clandestinamente, e senza poter dire nulla al marito e al figlio.» Francesca emise un profondo sospiro. «É quello che penso anch'io, ma la situazione è senza via d'uscita.» Daria le lanciò una delle sue occhiate dirette. «Ne sei proprio sicura, Francesca? Ti sembra giusto continuare a tenere nascosta a Nicola Brentano l'esistenza di sua figlia?» «Cielo è una bambina di colore e vorrei ricordarti che a suo tempo lui fuggì proprio per il terrore di avere una figlia come lei.» «Sono passati quasi nove anni, Francesca, e non si vive impunemente...» «Appunto. Brentano si è sposato ed è uscito dalla nostra vita. Tirarcelo dentro per i capelli sarebbe rovinoso per tutti, e soprattutto per Cielo: il solo rapporto che può avere con la famiglia paterna è quello con la nonna, l'unica a non essere razzista o vile. E con questo, Daria, il discorso è chiuso.» «Per quanto mi riguarda sì. Ma non è soltanto con me che devi fare i conti» l'amica disse alzandosi. Tre giorni dopo l'uscita di «Fortuna» in edicola, il fattorino portò nell'ufficio di Francesca un cesto di fiori bianchi. Dentro al cellophan c'era una busta, e lei riconobbe la scrittura di Nicola. La aprì lentamente. Non so se le pagine che mi hai dedicato sono un segno di distaccato ricordo o di perdono, ma in ogni caso il ragazzo di tanti anni fa ti ringrazia per avergli aperto la porta di "Fortuna". Una piccolissima parte di ciò che è rimasto di lui è in mostra coi suoi quadri: se pensi che ne valga la pena, puoi venire a vedere. Ti abbraccio. Nicola. Quando ebbe finito di leggere, Francesca appallottolò il biglietto e lo buttò nel cestino. Poi chiamò la segretaria e, indicandole il cesto fiorito, le disse: «Portalo nel tuo ufficio, per favore». Era stupita di non sentirsi turbata né triste: semplicemente non voleva ristabilire alcun rapporto con Nicola. Non le interessavano i suoi quadri e non sarebbe andata alla mostra per vedere cos'era rimasto di lui: il ragazzo di un tempo le aveva fatto troppo male, e l'uomo di oggi era un estraneo. Ma non aveva fatto i conti con la fatalità, o il caso.
Il pomeriggio del tre giugno partecipò alla riunione di consiglio all'Immobiliare Fasser. Benché non avesse alcun ruolo operativo nella società, di cui presidente era Paolo Forte e amministratore delegato il più vecchio e fidato collaboratore di suo padre, Francesca presenziava a tutte le assemblee di straordinaria amministrazione. Quel pomeriggio la riunione si protrasse oltre il previsto e arrivò al giornale che mancavano pochi minuti alle diciannove. Non fece a tempo a sedersi che la segretaria l'avvertì di avere Ornella Rossi in linea. «É la seconda volta che chiama» precisò «e dice che è urgente.» Dal tono in cui Ornella esordì non sarebbe sembrato. «Ehi, non indovineresti mai dove sono e con chi!» «Sicuramente no. É grave?» ribatté Francesca, cercando con la mano libera di aprire un cassetto che si era inceppato. «Dipende se vuoi o no recuperare tua figlia. Scherzi a parte, e nel caso non ti avessero ancora avvertita, guarda che Cielo è con me e sta ottenendo un successo personale strepitoso.» «Cielo è con te? E come mai ?» «Un paio d'ore fa è venuta a trovarti al giornale, e siccome non c'eri ho rispedito a casa la tata e mi sono prelevata la piccola.» Per Cielo venire al giornale era una festa, perché tutti facevano a gara per coccolarla e accaparrarsela. Ma Ornella Rossi era la preferita: e non era la prima volta che Cielo andava al cinema o a mangiare una pizza con lei. «Bene. Se non la ingozzi e non me la riporti a mezzanotte, come il mese scorso, spupazzala pure.» «Tutto qui? Non vuoi sapere dove siamo?» Il cassetto finalmente si era aperto e Francesca, andando alla ricerca di un contratto, chiese compiacente: «Ah, sì: dove siete?». «Alla mostra di Nicola Brentano. Non solo Cielo è in estasi, ma...» «Sei impazzita?» Francesca urlò, sentendosi raggelare il sangue. Tacque un istante, ansimando, e aggiunse: «Aspettami lì, vengo immediatamente». «Ma cosa ti prende?» Ornella Rossi era sbalordita. «Francesca, mi senti?» Aveva riattaccato. Ornella abbassò il ricevitore e si diresse lentamente verso la sala a destra, dove aveva lasciato Cielo. Quell'urlo le risuonava ancora nelle orecchie e, più che sbalordita, adesso si sentiva allarmata e a disagio. Non riusciva a capire perché Francesca avesse reagito a quel modo quando le aveva detto di aver portato sua figlia alla mostra di Brentano. Cielo la stava aspettando giusto accanto a lui. Avvicinandosi, vide Nicola indicare alla bambina qualcosa di un suo quadro e poi guidarle la piccola mano sulla tela, come a farle capire una linea o un movimento. Non appena Cielo la vide, chiese: «Che cosa ha detto la mamma? Possiamo restare ancora qui ?». Ornella Rossi scosse la testa: «No. É già partita dal giornale per venirti a prendere e sarà il caso che andiamo fuori ad aspettarla». «Ma io devo ancora vedere tutti i quadri!» Cielo protestò con voce vibrante. Nicola le scarruffò i capelli: «Verrai a vederli un altro giorno».
Sperò che la voce non tradisse la delusione che anche lui provava. Mezz'ora prima aveva visto una bambina immobile davanti a un suo quadro e si era diretto incuriosito verso di lei. Lingua stretta fra i denti e espressione accigliata, la piccola stava riproducendo su un foglio la sagoma del corpo che vi era raffigurato. C'era qualcosa di familiare, in quel visetto ambrato, e quando l'inviata di "Fortuna" si era avvicinata, Nicola subito aveva collegato e capito: era la stessa bambina che aveva vista fotografata sulla copertina di un giornale con Francesca. La figlia Cielo. Ma stranamente, più che questa scoperta a emozionarlo era stata la rapita concentrazione con cui la bambina stava tentando di ridisegnare il suo quadro. La mezz'ora trascorsa a farle da maestro era davvero volata. Ornella Rossi prese la bimba per mano e disse sospirando a Nicola: «Mi dispiace, ma dobbiamo proprio interrompere questa bella seduta. Francesca è una madre di ferro e ai suoi ordini bisogna scattare». «Non se ne parla nemmeno» Cielo sillabò a labbra strette. «Quando la mamma arriva, aspetterà. Io voglio vedere almeno i quadri di questa sala.» «Ti piacciono proprio tanto?» rise Nicola, ignorando l'aria aflitta della giornalista di «Fortuna». «Sì.» Un monosillabo grave. «Che cosa capisce una bambina come te? Mi interessa davvero saperlo, Cielo.» La piccola corrugò i sopraccigli e rifletté. Poi, con un'alzata di spalle, disse quasi infastidita: «Non so che cosa capisco. Mi piacciono i colori, ecco... Quando penso, io vedo quei colori». Indicò i quadri davanti a sé con un vago gesto circolare. «Dipingere è la sua passione» precisò Ornella Rossi guardando l'orologio. «Però i colori non mi vengono mai bene. Soprattutto il giallo. Non è mai giallo come vorrei.» Nicola l'abbracciò impulsivamente, turbato dall'improvviso ricordo di quando, bambino, provava la stessa rabbiosa impotenza per il giallo che «non gli veniva mai». «Se torni a trovarmi» promise a Cielo «ti farò trovare dei colori speciali.» «Tornerò. Sicuro.» «Ma adesso dobbiamo andare, Cielo» intervenne Ornella Rossi, ormai incapace di controllare il nervosismo. «La mamma al telefono aveva molta fretta, e non possiamo farla girare per le sale a cercarci. Da brava, andiamo ad aspettarla all'ingresso.» «Vai tu, ti prego. Io resto qui con Nicola e vieni a prendermi con la mamma.» Francesca doveva essere in arrivo, e non c'era altra scelta. «D'accordo. Però non muoverti da questo posto, intesi?» Ornella raccomandò allontanandosi. Francesca era già all'ingresso e si stava guardando intorno con un espressione tra spaventata e furibonda. «Dov'è la bambina?» chiese non appena scorse la collega.
«É in quella sala che ci aspetta» Ornella indicò, impressionata. «Ha fatto amicizia con Nicola Brentano.» Calma, si ordinò Francesca seguendola. Adesso tutto dipende da te. Non tremare, non svenire, comportati con naturalezza. Questo momento doveva arrivare, e tanto vale affrontarlo subito. Cielo stava chiacchierando con Nicola e, come li scorse, Francesca si sentì piegare le ginocchia. Cammina e non fare l'isterica. Non è successo niente. Ornella Rossi, sbalordita per la fulminea metamorfosi, la vide dirigersi verso Brentano e porgergli la mano con il sorriso cordiale e incerto di chi crede di aver riconosciuto un vecchio amico. «Sono contenta di rivederti. Complimenti per la mostra» disse con voce affettuosa. E, prendendo per mano Cielo: «Non credi di aver disturbato abbastanza, piccolina?». «Ma ti pare... quale... disturbo?» Lui sì sembrava stravolto. «Hai una bambina stupenda» aggiunse d'un fiato, senza annaspare. «Chi direbbe che anche lei ha dei difetti?» Francesca replicò, con un garrulo gorgheggio. E, rivolta a Cielo: «Dobbiamo proprio andare, la nonna ti sta aspettando». «La nonna Diana o la nonna...» «La nonna Diana» Francesca disse in fretta, tirandosi contro la figlia con un movimento così brusco che a Ornella Rossi, sempre più stupefatta, sembrò un tentativo di soffocamento più che un gesto affettuoso. «Ma non vuoi vedere i quadri, mamma?» Per la bambina quel disinteresse era evidentemente un delitto. «Non stasera, Cielo.» E rivolgendo a Nicola uno smagliante sorriso: «Tornerò senz'altro a vedere i tuoi quadri, con calma. Intanto auguri. Sono stata davvero felice di rivederti». Prima che Brentano potesse aggiungere qualsiasi cosa, Francesca afferrò la bimba per un braccio e la trascinò verso l'uscita. Per starle al passo, Ornella Rossi dovette correre. Nicola restò impalato a guardarle e quando madre e figlia sparirono alla sua vista avvertì un'assurda malinconia, come se con loro se ne fosse andato il sole. L'impetuosa e spontanea ragazza che ricordava era diventata una splendida donna, controllata e disinvolta. E com'era stata sbrigativa, nel congedarlo: era quella la Francesca che per tanti anni aveva ricordato con rimorso e disagio? A giudicare dall'età di sua figlia, non le era occorso molto tempo per dimenticarlo. Il pensiero di Cielo gli causò un'altra fitta di tristezza. Era esattamente come l'aveva immaginata scrutandola nella fotografia del giornale: tenera e spontanea come la Francesca di un tempo, ma con una fierezza unica che esprimeva integrità e intelligenza. Era una bambina di gran razza, e certamente suo padre era un uomo eccezionale per essersi meritato quel dono sontuoso. Gli sarebbe piaciuto rivederla, ma nonostante Francesca gli avesse assicurato che sarebbe tornata a vedere i suoi quadri
era irragionevolmente e malinconicamente certo che solo per caso, e chissà tra quanto tempo, avrebbe rivisto madre e figlia.
CAPITOLO 24 Sei squilli, sette squilli, otto squilli... Al nono, Francesca capì che chi la stava chiamando non si sarebbe arreso e sporse un braccio gocciolante dalla vasca per sollevare il ricevitore. «Che cosa aspettavi a rispondere?» l'aggredì scherzosamente l'amica Clara Siani. «Ah, sei tu.» «Purtroppo solo io, però potresti simulare un minimo di interesse!» «Scusa, ma è tutto il giorno che aspetto una chiamata di Tony. Ho bombardato la sua segreteria telefonica di messaggi, ma inutilmente.» «Non l'hai visto al giornale?» «No. Stamattina alle nove ha avvertito la segretaria che non sarebbe venuto per tutto il giorno, senza spiegare perché. E non l'ho ancora sentito.» «Oh, oh! Come ha osato levarsi il guinzaglio senza il permesso della padrona?» «Non fare la scema. Perché mi hai chiamato?» «Per invitarti a cena con Cielo. Mio marito ha finito adesso di impastare una stupenda pizza e tra poco la metterà in forno.» «Mi dispiace. Sto preparandomi per andare a rimettere il guinzaglio al cagnolino. In altre parole, ho deciso di sposare Tony.» Una breve pausa. «Per usare le parole giuste, hai deciso di scappare da Nicola Brentano» Clara osservò leggermente. «Non vedo il nesso.» «Perché quello che è successo ieri sera ti ha accecata. Prevedendo il tuo ovvio interrogativo, ho saputo che Nicola e Cielo si sono incontrati alla mostra dalla professoressa Vitali. Mi ha telefonato a mezzogiorno. Francesca, è arrivato il momento di fare chiarezza in tutto questo casino. Non puoi manovrare i destini come se fossi Dio. Ti lascio immaginare lo strazio di quella povera donna quando Nicola le ha raccontato, in termini rapiti, l'incontro con l'eccezionale figlia di Francesca Fasser. Quella bambina è sua, e deve saperlo.» Francesca si irrigidì immediatamente. «Per quanto lo riguarda, Cielo è uno spermatozoo vagante che è andato a buon fine incidentalmente e suo malgrado. E dubito che sarebbe altrettanto rapito se si fosse imbattuto in una negroide dalla mente ottusa e dall'aspetto selvaggio.» «Mio Dio, Francesca, quando la smetterai con questa paranoia da Africa nera?» Clara era furibonda. «Sono nove anni che la stai rimenando con il complesso della negritudine e ci giurerei che quando vedi un vu' cumprà devi farti violenza per non gettargli le braccia al collo e chiamarlo fratello. Ma a questo punto devi deciderti: o ti realizzi con un commercio ambulante di accendini o rinsavisci e impari a comportarti da persona civile.» «Ci hai messo parecchio a dire quel che pensi di me. E nove anni di amicizia con una selvaggia mezzosangue devono esserti pesati non poco» Francesca replicò con voce di ghiaccio.
«Parliamoci chiaro, gioia. La tua amicizia è una delle cose più belle che ho avuto, ma lascia perdere questo gigionismo folcloristico. Sei una fottuta stronza bianca che di selvaggio ha una sola cosa, l'orgoglio. L'orgoglio ti ha tolto pietà, buon senso e...» «Hai finito?» «Mi resta una sola domanda: vuoi nascondere la verità per paura di far soffrire Cielo o per paura che Nicola non abbia sofferto abbastanza?» «Siamo di fronte a un superbo colpo di scena: adesso la vittima è lui! Ma te la ricordi la famosa notte in cui arrivai a casa tua? Ero incinta di cinque mesi e in poche ore avevo perduto la mia identità, la mia casa, la stima per mia madre. Non mi restava che Nicola e lo supplicai di aiutarmi. Ma lui scappò via come un coniglio spaventato, per inseguire la sua perfetta Milly e i suoi sogni di gloria. Ha avuto tutto. Che cosa vuole da me, adesso? Che cosa gli devo?» Era scoppiata in un pianto dirotto. «Quello che gli appartiene, Franci: sua figlia» Clara disse con dolcezza. Si sentiva come il chirurgo costretto a eseguire una mutilante amputazione: afflitta ma consapevole di non poter fare altro. «Che tu ci creda o no, io penso soltanto al bene di Cielo» Francesca disse. «Nicola ha il suo lavoro, è sposato con un'altra donna, vive in un'altra casa: che padre può essere? La bambina, pazza di felicità per averlo ritrovato, si legherebbe a lui aspettandosi amore e dedizione totale. Voglio risparmiarle la sofferenza di scoprire che non può avere nulla di questo.» «Che cosa ti dà questa certezza? Io credo invece che Nicola le darebbe tutto, perché ha bisogno di dare quanto Cielo di ricevere.» «Te l'ha detto sua madre, Clara? É stata la professoressa Vitali a pregarti di farmi questi discorsi? Ho un profondo affetto per lei, ma non dimenticare che Nicola viene al di sopra di tutto e ha sempre assecondato i suoi egoismi e le sue debolezze. Adesso si è convinta che lui abbia bisogno di Cielo e si batte per dargliela.» «Come ti sbagli, Francesca! Silvia Vitali vuole solo il bene di sua nipote e neppure ti immagini quanto la ama. É l'amore per Cielo che la tiene ancora aggrappata alla vita, è per dare un padre a lei che si batte, non per dare una figlia a lui. Non hai mai pensato alla confusione della bambina di fronte a un'immagine paterna tanto misteriosa e inafferrabile? Probabilmente no, perché hai sempre evitato questo argomento. E a poco più di otto anni, Cielo ha intuito che per te è un tabù. Ma con me e tua madre ne parla, con sua nonna Silvia ne ha parlato Francesca, tua figlia ha bisogno di un padre.» «Lo so. É per questo che voglio sposare Tony Ferrario. Può riconoscerla come sua e...» «Credo che non sia più disponibile» Clara disse in fretta. «Che cosa vuoi dire ?» Clara emise un profondo sospiro. «Tony è molto amico di mio marito, come sai. É stato lui a farlo assumere a "Fortuna" e a proporlo a Pardieri per...» «Vieni al nocciolo, per favore.» «Tony si è innamorato di Daria Rossetti. Ricambiato. Si sentono imbarazzati, impauriti e in colpa perché non sanno come dirtelo e meditano di dimettersi. Benché a Vanni ripugnasse tradire le
confidenze di un amico, stasera mi aveva pregato di invitarti a cena proprio per parlarti di questo. Franci, non Si può tenere sulla corda un uomo per anni e poi stupirsi se scappa. Non immagini quanto Tony si sia sentito frustrato e in crisi durante la vostra storia, e adesso saresti ingiusta infierendo contro di lui: non credo che tu ne sia mai stata innamorata, quel che ti brucia è semmai l'orgoglio.» Era vero. Ma questo non le impediva di sentirsi umiliata e di star male. Chissà perché, pensò, tutti minimizzano questa sofferenza, quasi fosse una suggestione o un puntiglio. Salvo poi provare di persona quanto brucianti possano essere le ferite dell'orgoglio. Perché Tony e Daria non erano stati leali con lei? La ritenevano tanto meschina da boicottarli professionalmente? O tanto fragile da essere distrutta dall'abbandono? In ogni caso, si proponevano vilmente di risolvere il problema dimettendosi. Questo pensiero la fece fremere di rabbiosa impotenza: ancora una volta era costretta a subire l'affronto della viltà. Per quale amaro destino continuava a fare i suoi investimenti affettivi su persone impaurite e codarde? Clara non è così, Francesca si disse. Clara è sempre stata un'amica leale e non si è mai lasciata intimorire da me, né mi ha mai nascosto quel che pensava. Come ha fatto adesso per Nicola e Cielo. «Franci, sei lì ?» Clara le chiese. «Sì. Stavo pensando.» «Vieni a cena da noi, ti prego. Voglio parlarti seriamente, ma non per telefono.» «Ti ringrazio, sarà per un'altra sera. Non sono nello stato d'animo migliore per ascoltare discorsi seri. Ringrazia anche Vanni, ciao.» Messo giù il ricevitore, Francesca tornò ad allungarsi nella vasca. L'acqua si era raffreddata, e con un piede azionò il miscelatore. Poi chiuse gli occhi e si lasciò andare. Dalla stagione delle docce frettolose e energetiche sono passata a quella dei bagni calmi e rilassanti. Come aveva letto da qualche parte, la gioventù finisce quando si comincia a indugiare con piacere nella vasca. Ma il piacere che lei ora stava provando era molto misero. Indugiava nell'acqua soltanto perché aveva paura di asciugarsi, vestirsi e uscire per affrontare una spiegazione con Tony. Il fatto che avesse smesso di amarla non era soltanto umiliante per la sua vanità, ma la privava dell'unica via di scampo. Aveva deciso di sposarlo poche ore dopo l'incidente della mostra, per dare alla figlia una figura paterna e chiudere la porta ai fantasmi del passato. Qualunque fosse l'opinione di Clara, lei non cambiava la sua. Cielo era una piccola tiranna, e si buttava appassionatamente nelle situazioni e negli affetti. Avrebbe subito adorato Nicola, e scoprire che nella sua vita poteva occupare solamente un piccolo spazio sarebbe stato per lei fonte di enorme confusione e dolore. Devo tenere Nicola lontano da lei, si disse uscendo dalla vasca e infilandosi nell'accappatoio. Ma come? All'infuori di Tony la sua vita sentimentale era un deserto. Potrei mettere un'inserzione tipo
«ereditiera offre lussuosa esistenza a uomo disposto matrimonio scopo riconoscimento illegittima», pensò sarcastica. E l'avrebbe fatto davvero, se fosse servito. Ma non era di uno squallido padre in vendita che Cielo aveva bisogno. In attesa di trovare una soluzione, doveva assolutamente impedire che il caso rimettesse sua figlia a contatto con Nicola. Fu mentre si asciugava i capelli che le venne l'idea: trasferirsi per un paio di mesi a New York, dagli zii di Paolo Forte. Li aveva conosciuti in occasione del matrimonio di sua madre e da allora erano venuti tutti gli anni in Italia. Si erano molto affezionati sia a lei sia a Cielo, e certo sarebbero stati felici di ospitarle. Era una soluzione provvisoria che non risolveva nulla, però l'idea che per due mesi avrebbe tenuto sua figlia al riparo da ogni rischio le diede un sollievo enorme. Ma c'era un doloroso risvolto: Silvia Vitali. Come giustamente aveva detto Clara, era l'amore per la nipote a tenerla aggrappata alla vita. Pensando a lei, il sollievo crollò istantaneamente e il sogno di fuga svanì. Non poteva infierirle un simile dolore. Però esisteva un'alternativa: trasferirsi per qualche tempo nella villa di Nervi, portando Cielo ogni settimana a Milano per incontrare la nonna. La mente di Francesca lavorava febbrilmente. Era un compromesso indolore: sua figlia non avrebbe avuto alcuna possibilità di imbattersi in Nicola e allo stesso tempo il legame tra lei e la nonna non si sarebbe spezzato. Restava un solo problema pratico da risolvere: la gestione di «Fortuna». Non era così presuntuosa da ritenersi indispensabile, però se Tony e Daria meditavano realmente di dimettersi, come Clara aveva detto, il giornale avrebbe perduto nello stesso momento la migliore direttrice ed il miglior direttore editoriale che esistevano sul mercato. E questo sì sarebbe stato fatale alla testata. Doveva fermarli, parlando chiaramente con Tony e dandogli la certezza che non serbava alcun rancore né a lui né a Daria. Non era affatto vero, ma aveva troppo bisogno di loro per concedersi il lusso di accettarne le dimissioni e vederli professionalmente sconfitti. In nessun'altra testata, ammesso che vi fossero direzioni aperte, avrebbero mai raggiunto il potere e le gratificazioni, anche economiche, che avevano a «Fortuna». Ma neppure lei, per quanto avesse cercato, sarebbe riuscita a trovare due persone altrettanto creative e professionalmente affidabili. Non c'era tempo da perdere. Francesca staccò il phon e cominciò a prepararsi per andare da Tony sperando ardentemente di trovarlo in casa. Da mesi mi guarda con questa espressione addolorata e circospetta, Francesca pensò quando fu seduta di fronte a lui. Come ho potuto non accorgermi di nulla? Il loro silenzio stava diventando imbarazzante, e fu la prima a romperlo. «Tony, credo che dobbiamo dirci qualcosa» esordì.
Il vago allarme che scorse sul viso di lui la impietosì. Meglio tagliar corto coi preamboli. «So di te e di Daria» aggiunse in fretta. «Non sono venuta qui per chiederti una spiegazione né per fare una scena madre. La sola cosa che posso rimproverarti è non avermi confessato subito, e lealmente, di esserti innamorato di lei. Ma questo non deve cambiare nulla nel nostro rapporto di lavoro.» «Non è così semplice, Francesca.» «Intendi dire che volete dimettervi ?» «Sto parlando di sentimenti, non di lavoro. E le cose non sono chiare e definite come credi. Detto più semplicemente, non sono affatto certo di quel che provo per Daria. La conosco da quindici anni e con lei sto bene. Ma benché la relazione con te mi abbia reso frustrato e insicuro, non sono certo neppure di avere smesso di amarti.» «Ti renderebbe più sicuro sapere che poche ore fa desideravo con tutta me stessa di sposarti ?» Tony scosse la testa. «Quel che vuoi non è un marito, ma un compagno di fuga. E io non ho né la struttura né il fiato per questo ruolo.» «Sbagli. Quel che ti chiedevo è comprensione e tenerezza.» «E li hai già, Francesca: sono i sentimenti di un vero amico. Purtroppo ho aspettato per anni di poterti dare di più, e ho dovuto arrendermi. Anche se ti brucia farlo, dovresti arrenderti anche tu: non hai mai smesso di amare il padre di tua figlia.» «Non coinvolgermi nella tua smania di giustificazioni morali.» «Adesso sbagli tu. Quel che mi sforzo di trovare non sono giustificazioni ma chiarezza. La sola cosa che mi è chiara è che da anni stai scappando da Nicola. É arrivato il momento di fermarti e affrontare questa realtà.» Francesca si alzò di scatto. «Pensala come vuoi, non sono venuta per parlare di questo. Volevo soltanto dirti che non avete nessuna ragione per dimettervi.» Anche Tony si alzò. «Stai riducendo tutto in termini manageriali» commentò amaro. «Qui almeno è tutto chiarissimo: le vostre dimissioni non converrebbero né a me né a voi.» «Grazie di avermelo ricordato. Purtroppo non sono ancora distaccato e lucido come te.» «Sono soprattutto disperata» Francesca confessò con improvvisa umiltà. «Tutte le sicurezze e gli equilibri che ero riuscita a costruire in nove anni rischiano di crollare, e se tu e Daria ve ne andate, per il giornale è il crollo sicuro. "Fortuna" è il mio solo punto fermo, qualcosa che va molto al di là dell'investimento o del lavoro: se mi aiuti a tenerlo in piedi, ho qualche speranza anch'io. Se va alla deriva, andrò alla deriva anch'io.» Tony le si fece vicino e l'abbracciò suo malgrado commosso. «Non succederà. Almeno in questo posso aiutarti.»
CAPITOLO 25 «Cielo, sto parlando con te!» La voce della signorina si levò innervosita e stridula e la bambina si riscosse. «Sì?» «Ti ho chiesto se vuoi restare sulla spiaggetta o salire in casa con me.» «Resto qui.» «Non scendere al mare da sola, intesi? Fra mezz'ora ti chiamo per il pranzo, non farmi sgolare come al solito.» «Va bene, Tilde.» «E spostati sotto la roccia, ormai ti sei asciugata e il sole scotta.» «D'accordo.» «Ricordati di portare su l'accappatoio e i giornali.» La bambina fece cenno di sì, sperando che la signorina si decidesse ad andarsene. Invece se ne stava in piedi e la fissava con aria d'aspettativa. Fremendo d'impazienza, Cielo si alzò e trasportò il lenzuolo da bagno sotto la roccia. «Ora puoi andare» disse tornando a sdraiarsi. Con la coda dell'occhio la seguì mentre risaliva il sentiero, fino a quando scomparve dalla sua vista. Guardò l'orologio: mezzogiorno e venti. Tra poco più di due ore sarebbe stata sul treno per Milano, finalmente libera. Via da Nervi, dalla signorina, da quella orribile spiaggetta cintata come una prigione. Il fastidioso rimorso del giorno prima, quando aveva meditato la fuga, era scomparso. La mamma meritava di stare in pena, e Cielo ebbe un fremito di torva felicità nel prevedere meticolosamente quanto sarebbe successo. Tilde che si svegliava dal pisolino pomeridiano e non la trovava. Le ricerche affannose nella villa e nel parco. La telefonata per avvertire della sua scomparsa. Le urla e lo spavento della mamma Finalmente avrebbe dovuto ricordarsi che lei esisteva, e si sarebbe pentita di essere stata tanto cattiva. Le parve di vederla mentre singhiozzava e la chiamava. Sì, le stava proprio bene. L'enormità delle ingiustizie subite la fece tremare di indignazione. Da un giorno all'altro, senza nessuna spiegazione, la mamma l'aveva portata a Nervi. E così lei aveva perso gli ultimi giorni di scuola e la festina di Maria Giovanna; non aveva potuto partecipare al saggio di fine anno, né dare a nonna Silvia il disegno fatto per lei e neppure tornare dal pittore Brentano per ritirare quei colori speciali che le aveva promesso. La mamma non mi vuole bene, pensò. Mi dice mangia studia, non si fa così, ma non le importa niente di quello che penso, e quando capisce che voglio una cosa per dispetto fa tutto il contrario. Ma si pentirà, oh, se si pentirà! Tre giorni prima una bambina aveva rischiato di affogare sulla spiaggia pubblica, e la mamma era scesa di corsa a vedere due bagnanti che la riportavano a riva. Era tornata tutta spaventata e l'aveva stretta forte tra le braccia. Aveva desiderato con tutta se stessa di essere al posto di quella bambina, e per un momento le era venuta la tentazione di fare finta di affogare anche lei. Ma come era possibile? Non la lasciavano mai sola, e chissà adesso come si sarebbe arrabbiata, la mamma, se avesse saputo che Tilde era salita a casa lasciandola sulla spiaggetta. Certamente
avrebbe accusato la signorina di averla fatta scappare, e invece la colpa era tutta sua che da due giorni se n'era andata lasciandola a Nervi. La voce di Tilde la richiamò alla realtà: era pronto a tavola. «Vengo!» Cielo rispose subito, balzando in piedi e raccogliendo la roba. Non doveva assolutamente insospettirla, né farla arrabbiare, così subito dopo mangiato se ne sarebbe andata tranquilla a fare il pisolino e lei ne avrebbe approfittato per andarsene. Salì in fretta il sentiero ed entrò direttamente dalla porta della cucina. «Vai a lavarti le mani» Tilde le disse «e appendi in bagno l'accappatoio.» «Va bene.» Prima di tornare in cucina, Cielo andò nella sua stanza per controllare se le cinquantamila lire che la mamma le aveva lasciato per comprare il materassino di gomma erano ancora nel cassetto del comodino. C'erano. Alle due Tilde si alzò da tavola. «Vado a riposare anch'io» Cielo sorrise. «Brava, così stasera ti porto a mangiare il gelato.» Alle due e un quarto, in punta di piedi, la bambina salì a prendere i soldi e ridiscese. Si era fatto troppo tardi per andare alla stazione a piedi, e si chiuse in studio per chiamare un taxi. Il numero era sull'agenda della mamma e lo formò lentamente, sperando con tutta se stessa che la signorina non sentisse. Diede sottovoce l'indirizzo della villa e uscì dallo studio lentamente tendendo le orecchie. Silenzio. Badando a non fare rumore, si diresse verso l'ingresso. Premette il pulsante del cancello, aprì il portone e lo riaccostò piano. Di corsa, col cuore che le batteva precipitosamente, attraversò il viale e si nascose dietro al pilastro. Guardò l'orologio: le due e un quarto. Il taxi arrivò alle due e venti. «Sei sola?» le chiese l'autista. «Sì. Devo andare alla stazione a prendere mia madre.» «Bene, signorinella.» Sperando che l'uomo non facesse altre domande, Cielo girò ostentatamente la testa verso il finestrino. Con la coda dell'occhio notò che la stava fissando dallo specchietto, e istintivamente eresse le spalle. Dopo un tempo che le parve interminabile il taxi arrivò a destinazione. «Eccoci arrivati» l'autista disse girandosi a socchiuderle la portiera. «Sono ottomila lire.» Cielo gli tese la banconota da cinquanta e quando ebbe il resto scese. «Tante grazie, buongiorno.» La biglietteria era alla sinistra dell'atrio, e vi si diresse decisa. Lo sportello era libero e con voce naturale lei chiese un biglietto per Milano. «Seconda?» «Sì...» «Primo binario. Il treno è in arrivo» l'informò il bigliettaio dandole il resto. Possibile che fosse stato tutto così facile? Cielo si sentiva allo stesso tempo enormemente sollevata e profondamente delusa. Nessuno l'aveva fermata, nessuno aveva sospettato nulla. Adesso sono proprio costretta a scappare, si disse dirigendosi
verso il binario. E come vide il treno spuntare da lontano, assurdamente sperò che la signorina o la mamma piombassero su di lei per riportarla a casa. Invece il treno arrivò, e guardandosi affannosamente intorno capì che nessuno l'avrebbe fermata. Salì con riluttanza, e si infilò nel primo scompartimento. Era vuoto. Si sedette accanto al finestrino e, posando lo zainetto sul sedile di fronte, incollò la faccia al vetro. Una bambina mangiava il gelato, un ragazzo e una ragazza si stavano abbracciando e una vecchia signora si sventagliava seduta su una panchina. Li vide scivolare sulla banchina mentre il treno cominciava a muoversi. Con un grosso sospiro si staccò dal finestrino. Non fare la fifona, si ordinò, tanto stasera ti ritrovano. Guardò l'orologio: le quattordici e cinquanta. Tilde dormiva ancora, la mamma chissà dov'era. Oh, ma avrebbero imparato. Immaginando lo spavento che di lì a qualche ora avrebbero provato, la paura cessò d'incanto e si sentì di nuovo fremere di felicità. Riprese lo zaino e cercò l'ultimo numero di «Topolino». Va tutto bene, pensò cominciando a leggere. Ma non riusciva a concentrarsi. E se la mamma, anziché stringerla singhiozzando tra le braccia, le avesse fatto una terribile scenata? Le sue collere erano spaventose, e il solo pensiero la faceva rabbrividire. Il treno stava fermando e Cielo guardò nuovamente al di là del finestrino, incerta se temere o sperare che qualcuno fosse sulla banchina ad aspettarla. Era la stazione di Genova Brignole, e non vide altro che sconosciuti passeggeri. Un signore anziano si affacciò alla soglia dello scompartimento e dopo un attimo di esitazione si sedette di fronte a lei, rivolgendole un distratto sorriso. Cielo osservò che era zoppo e aveva l'aria perbene, ma fu ancor più tranquilla quando anche un ragazzo e una ragazza presero posto nello scompartimento. Erano due innamorati, perché si tenevano la mano e gli innamorati non erano mai pericolosi. Quando il treno ripartì, la ragazza prese dalla borsetta una confezione di chewingum e allungò il braccio verso di lei con un sorriso. «Ne vuoi?» chiese. Cielo stava per accettare, ma ricordò che la mamma le aveva proibito di accettare qualunque cosa da chi non conosceva e ritirando in fretta la mano disse gentilmente: «No, grazie». I due innamorati si misero a chiacchierare sottovoce e l'uomo anziano cominciò a leggere un giornale. Cielo lo imitò e riprese in mano «Topolino». Ma non fece in tempo a concentrarsi, perché entrarono una mamma e un bambino della sua età, carichi di bagagli. L'innamorato aiutò la signora a sistemare due valigie sulla rete e tornò a sedersi. Il bambino scavalcò le ginocchia del signore anziano e venne a sedersi accanto a lei. Cielo finse di essere immersa nella lettura. Non aveva voglia di parlare, e l'insistenza con cui Si sentiva fissata da quel ragazzetto la infastidiva.
«Cosa leggi?» le chiese a un tratto. Senza rispondere, gli mostrò la copertina. «Non sai parlare in italiano?» Cielo si girò stupita. «Sì, perché?» «Sembri straniera.» Senza rispondere, lei si strinse nelle spalle e voltò pagina. «Posso guardare?» il bambino chiese. Senza aspettare la risposta, le strappò il giornaletto dalle mani. «Puoi restituirmelo, per favore?» «Piglialo» lui disse per tutta risposta, lanciandolo per aria. Il giornaletto volò addosso all'anziano signore seduto di fronte a loro. «Che modi sono?» tuonò fissando severamente il bambino. «Scusi tanto» Cielo mormorò rossa di vergogna. L'uomo scosse la testa e osservò con voce più gentile: «Non sei stata tu». «Guido, vieni subito qui.» Era la madre del ragazzino. Rivolta all'uomo, aggiunse polemicamente: «Vorrei sapere come fa a stabilire con tanta sicurezza di chi è la colpa, quando due bambini bisticciano. Ma è una domanda retorica. Nel nostro paese basta essere diversi per avere ragione». «Non capisco, signora.» La discussione fu interrotta sul nascere dall'arrivo del conduttore. Cielo frugò nello zainetto alla ricerca del biglietto e glielo porse. «Questa è prima classe, devi cambiare vettura» l'uomo disse quasi villanamente. Cielo lo fissò senza capire. «Tu hai il biglietto di seconda, se vuoi restare qui devi pagare il cambio di classe» spiegò. «Pago» Cielo disse rimettendo le mani nello zainetto. Ne estrasse il resto delle cinquantamila lire e lo tenne stretto tra le dita. «Sei sola ?» «Sì...» La madre del bambino lanciò al conduttore un'occhiata d'intesa e disse tra i denti: «Adesso certa gente viaggia anche in prima classe...». Cielo si voltò di scatto verso di lei. «Io non sono certa gente» disse con voce vibrante. Lo sguardo della bambina colpì l'uomo che poco prima aveva preso le sue difese. Non esprimeva soltanto ira, ma orgoglio e commiserazione. La vide porgere due banconote al conduttore e poi mettere via il resto con distaccata noncuranza. «Come mai viaggi da sola?» non poté trattenersi dal chiedere. La bambina lo scrutò qualche istante. «Sto andando a casa» disse vagamente. «C'è qualcuno che ti aspetta, alla stazione?» «Sì.» Gli rivolse un brevissimo sorriso e si rimise subito a leggere. A quanto pareva, non desiderava fare conversazione.
Senza farsi accorgere, l'uomo le lanciò un'occhiata attenta. Non era certo una zingarella né la figlia di povera gente di colore: dal suo modo di comportarsi e di esprimersi si capiva che era una bambina ottimamente educata. E continuando ad osservarla di sottecchi, notò che era vestita con capi costosi e di gusto. Come mai viaggiava da sola? Le antenne dell'uomo vibrarono. C'era qualcosa che non andava, e comunque sarebbe stato suo dovere avvertire il conduttore o un agente della polfer della presenza di quella piccola viaggiatrice. Stava per alzarsi, quando vide l'insopportabile bimbetto di prima cambiare posto e tornare accanto a lei. Una volta che fu seduto, prese possesso del bracciolo dando un brusco colpo di gomito alla bambina e cominciò a dondolare le gambe fino a quando, intenzionalmente, non colpì la caviglia di lei. La bambina alzò gli occhi al cielo, sbuffando, e si fece silenziosamente più in là. Anche il ragazzino si spostò con provocatoria noncuranza. Sbalordito, l'uomo vide la piccola mulatta alzarsi di scatto e uscire dallo scompartimento. Cielo attraversò due vagoni e si fermò sulla piattaforma in testa al treno, senza fiato per l'ira e per la corsa. Accanto al finestrino notò un piccolo sedile di legno. Lo spinse all'infuori e vi si sedette, pensando che se la mamma fosse stata presente né il controllore né quel bambino sarebbero stati tanto villani con lei. La mamma mi protegge sempre, dovette ammettere. Però mi fa sempre fare quello che vuole e non mi ascolta mai. Chissà perché lei ha la pelle bianca e io no. Tutti quelli che conosco hanno la pelle più bianca della mia e per questo nessuno li tratta mai male. Quella signora è stata villana perché sono mulatta. La mamma dice che devo provare compassione, ma io la odio. Non sopporto di essere trattata male. Due lacrimoni le rotolarono giù dagli occhi. Cercò un fazzoletto, ma aveva dimenticato di prenderlo. Le mani le andarono sul rotolo dei soldi. Tirando su col naso, si chiese se le sarebbero bastati per pagare un altro taxi. Ma per andare dove? L'interrogativo la lasciò a bocca aperta. La mamma doveva cercarla e preoccuparsi moltissimo, perciò andare subito dalla nonna Diana non voleva. A casa di nonna Silvia non era mai stata, e poi anche lei avrebbe avvertito subito che era li. Mi fermerò alla stazione, decise, e quando farà notte telefonerò a casa. Chissà se Tilde si era svegliata e aveva già detto alla mamma che non la trovava più. Dove sarà la mia bambina? Portatemi subito Cielo! Le parve di udire la voce disperata della mamma. Ma stranamente non provava più alcuna gioia. Anzi, si sentiva rimescolare tutta per il dispiacere e la paura di quello che aveva fatto. Fece il resto del viaggio con la fronte appoggiata al finestrino, sforzandosi di non piangere. Non era mai stata così triste. Quando il treno imboccò la galleria di Milano Centrale, si alzò in piedi e aspettò con impazienza di scendere. Come fu sul marciapiede, ebbe qualche istante di incertezza, ma vide che tutti si dirigevano verso destra e si accodò a loro. Aveva sempre viaggiato in auto o in aereo, e non ricordava che la stazione fosse così grande e brulicante di gente. Si ritrovò
nell'atrio centrale e di nuovo perse l'orientamento. Da dove poteva telefonare? E da che parte erano i taxi? Guardandosi intorno, vide un uomo e una donna seduti su una valigia e una bambina che saltellava intorno a loro. Si fermò a guardarli rapita: all'infuori che in televisione non aveva mai visto dei neri come lei. Questi erano molto più scuri, però era la stessa cosa. Chissà se sono miei parenti, Cielo pensò con eccitazione. Di certo non erano estranei e la mamma non avrebbe avuto niente da ridire sapendo che lei gli aveva rivolto la parola. Si avvicinò alla coppia con un sorriso incerto. «Per favore, sapete dov'è la fermata dei taxi?» chiese. La bambina smise di saltellare e si aggrappò alla gamba del padre e l'uomo, sorridendo, le rispose qualcosa che lei non capì. «Prego?» Cielo chiese. La donna intervenne, ma purtroppo continuava a non capire. Evidentemente parlavano una lingua che non conosceva. Cielo fece un mesto gesto di saluto, e a malincuore si allontanò. Ricominciò a guardarsi intorno e d'un tratto sobbalzò: un grande cartello riproduceva un quadro che lei aveva già visto. Si avvicinò e lesse le scritte. Non si era sbagliata, era un quadro del pittore Brentano, e quello era il manifesto della sua mostra. Guardò l'orologio: erano le cinque, prestissimo. Forse Tilde dormiva ancora, e comunque mancava molto perché venisse notte e la mamma si preoccupasse davvero. Faceva in tempo ad andare alla mostra, dare un'occhiata ai quadri e ritirare i colori che il pittore le aveva promesso. Poi avrebbe telefonato. Ma dov'erano i taxi ? Poco distante c'era un carrello coi fiori. Poteva chiederlo al fiorista, anche se non lo conosceva non era un estraneo. Stava per dirigersi in quella direzione, quando si trovò di fronte il signore anziano del treno. «Vedo che sei ancora sola» le disse. Stava appoggiato al bastone e sembrava molto meno gentile, adesso. «Sto... sto aspettando» rispose intimidita. «Chi deve venirti a prendere?» Aveva la stessa voce della mamma quando era arrabbiata. «La nonna» disse d'un fiato. «E dove ti ha detto di aspettarla?» «Qui.» Cielo fece un gesto vago. «Qui dove? Al binario d'arrivo? Davanti al bar centrale o alla farmacia?» Cielo alzò la testa. «La mamma non vuole che dia confidenza agli estranei» disse d'un fiato, con sussiego. «E certo non vuole nemmeno che ti aggiri tutta sola per la stazione» l'uomo insistette. A Cielo parve di scorgere un accenno di sorriso in quel viso burbero.
«Non si preoccupi, adesso arriverà la nonna» sorrise a sua volta, apertamente. E aggiunse in fretta: «Aspetto ancora cinque minuti, poi se non arriva vado a prendere un taxi». «Vedo che sei una esperta viaggiatrice. Viaggi spesso da sola?» L'espressione confusa della bambina gli confermò quel che già in treno aveva sospettato: qualcosa non quadrava, e a scanso di dubbi la sola cosa da fare era consegnarla alla polizia ferroviaria. «Adesso devo andare, mi scusi» Cielo disse in fretta. «Aspetta un attimo.» La prese per un braccio, nel timore che scappasse via come aveva fatto in treno. «Lo sai che alla tua età è proibito girare da soli ?» Cielo lo guardò spaventata. «Lei è un poliziotto? L'ha mandato la mia mamma a cercarmi ?» Era tutto chiaro. La bambina era scappata di casa. Premendo la stretta sul braccio, l'uomo spiegò gentilmente, attento a non spaventarla ancora di più: «In un certo senso sì. Per questo debbo avvertire la tua famiglia che ti ho trovata. Vuoi darmi il numero di telefono?» chiese guidandola verso una cabina telefonica. Senza accorgersene, aveva spostato la mano dal braccio alla spalla della piccola, e involontariamente vi si era appoggiato. Notò intenerito che, invece di divincolarsi, lei si era raddrizzata per offrirgli un sostegno migliore. Era proprio una bambina sensibile e bene educata. «Allora mi dai il numero?» ripeté quando furono davanti al telefono. «Se la nonna sente un estraneo si arrabbia» sussurrò la bambina. «Posso chiamare io?» «Va bene.» Infilò una moneta nella fessura e le porse il ricevitore. Vide le piccole dita formare il numero e, mentre il telefono squillava, un visetto terrorizzato si sollevò su di lui «Ora mi ammazzano» la bimba disse con voce tremante. Il pronto? all'altro capo del filo risuonò angosciosamente nella cabina. «Nonna? Sono io.» «Cielo! Dove sei? Che cosa ti è successo?» «Sono alla stazione, nonna.» «In quale stazione? Con chi? Per l'amor di Dio, Cielo, parla.» «Sono alla stazione centrale con... con un poliziotto.» «Passamelo subito. Hai capito, Cielo? Passami il poliziotto e non muoverti!» La bambina tese il ricevitore all'uomo. «La nonna vuole parlare con lei.» «Pronto, signora? Stia tranquilla, la bambina è con me.» «Dove l'ha trovata? Sta bene? Stiamo impazzendo... Mi dica dove posso venirla a prendere.» «L'aspetto al bar in fondo alla Galleria.» Un brevissimo silenzio. «Scusi, ma lei chi è? Un poliziotto?» In quella voce femminile, stravolta dal panico, si era di colpo insinuata una nota di allarme. L'uomo si affrettò a tranquillizzarla. «Ero sul treno per Milano e mi ha subito insospettito la presenza di una bambina sola.
Fortunatamente sono riuscito a bloccarla qui nell'atrio, e l'ho fatta subito chiamare. Non sono un poliziotto, ma può fidarsi lo stesso. Mi chiamo Ezio Brentano e sono un giudice in pensione.» «Oh, mio Dio...» «Signora, mi ha capito? La bambina sta bene e l'aspetto al bar» il giudice ripeté, stupito che la donna continuasse ad apparire tanto spaventata. «Va bene, vengo subito.» Quando l'uomo uscì dalla cabina, Cielo chiese con un filo di voce: «Era molto arrabbiata?». «Un po'. E lo sarei anch'io, se fossi mia nipote. Scappare da casa è una cosa molto grave e pericolosa.» «Non ne potevo più» Cielo disse con voce grave, emettendo un profondo sospiro. «Oh, e perché mai ?» «La mamma è molto prepotente e mi ha costretto a andare a Nervi. Io avevo tante cose da fare qui...» Si interruppe. «Però non sono scappata. Anche se non trovavo lei, stasera telefonavo di venirmi a prendere.» «Dirigiamoci verso il bar, piccola. Come ti chiami, a proposito ?» «Cielo.» «Che bel nome. E quanti anni hai?» «Otto e mezzo. Si appoggi pure, non mi pesa.» «Alla tua età nessuna bambina va in giro da sola. Si possono fare dei brutti incontri, lo sai?» «Sì. Però io non do mai confidenza agli estranei.» Suo malgrado, il giudice sorrise. «Il guaio è» spiegò tornando serio, «che le persone cattive si prendono confidenza senza permesso.» «Io non ho mai conosciuto persone cattive. Solo dei razzisti, però la mamma dice che non bisogna farci caso. Il bar dove dobbiamo aspettare è quello lì in fondo?» «Sì. Tu sai cosa vuol dire razzista?» «La mamma dice che sono persone ignoranti perché vedono soltanto il colore della pelle e credono che esistano solo i bianchi. Invece ci sono anche i gialli, i rossi, i neri... Dipende dal paese dove si è nati e dai nonni che si hanno. Io sono un po' nera perché una delle mie tre nonne è nata in Africa.» «Tre nonne. Sei una bambina molto fortunata» Ezio Brentano osservò in tono leggero. «La mamma dice che non tutte le bambine hanno la vita facile come me, però lei è tutta bianca e certe cose non le può capire. Eccoci al bar. La nonna viene a prendermi lì dentro o qui fuori ?» «Sediamoci a questo tavolino, Cielo. Vuoi bere qualcosa? Mangiare un gelato?» «Niente, grazie.» La bambina lo aiutò a spostare la poltroncina e si sedette anche lei. Indicando la gamba chiese: «É caduto?» Il giudice sorrise. «In un certo senso sì. Purtroppo per i vecchi la vita non è facile, sai?» Cielo aggrottò i sopraccigli. «Lei non è molto vecchio, e poi il male alla gamba passa. Due anni fa sono caduta con gli sci e sono stata quasi un mese ingessata, per questo lo so.» «Tu sai molte cose.» L'uomo sorrise di nuovo. Gli occhi intelligenti e dolci di quella piccola mulatta gli erano curiosamente familiari, e guardandola provava una inspiegabile sensazione di turbamento e di disagio. «Ti piace sciare?» chiese tanto per dire qualcosa. «Molto. Però da quando sono caduta la mamma mi fa fare solo le piste facili e continua a dire non correre, guarda avanti, rallenta...» «É una brava mamma che si preoccupa per te e ti vuole molto bene.» «Beh, sì. Ma è molto nervosa e mi sgrida
sempre. Così io tante cose non gliele posso dire e se vede che sto ferma a pensare mi dice vai a giocare, cosa fai lì ?» «A che cosa pensi?» Cielo allargò le braccia. «Oh, a tante cose. Ho pensato anche prima, sul treno. Quella signora mi ha chiamata diversa perché non sono tutta bianca, e invece è diverso suo figlio.» Prese fiato e spiegò gravemente: «É un bambino prepotente e maleducato. Se io avessi fatto come lui, la mamma mi avrebbe sgridata moltissimo. Anche l'uomo dei biglietti era maleducato. Lei invece è stato molto gentile. Si vede subito che non è un razzista» aggiunse rivolgendogli un'occhiata scintillante di ammirazione. Il giudice abbassò la testa, profondamente turbato. Conosco questi occhi, si disse, ho provato altre volte questa stessa sensazione di disagio e di colpa. Vide la bambina spostare di scatto la sedia e alzarsi. «Sta arrivando la nonna...» Il giudice Brentano vide una donna bionda dirigersi affannata verso di loro e quando fu vicina, immediatamente, la riconobbe: era Diana Fasser, madre di Francesca Fasser e vecchia amica di sua moglie. Con un senso di estraneità simile a una trance la vide precipitarsi sulla bambina e scuoterla per le spalle, singhiozzando. «Ci hai fatti impazzire... La mamma è corsa a Nervi. Andiamo subito a casa» ordinò con voce spezzata. Cielo, sentendosi trascinare, puntò i piedi e lanciò all'uomo uno sguardo supplice. «Nonna, lasciami salutare.» «Andiamo via!» Diana Fasser strillò. Non aveva ancora guardato il giudice Brentano, come se non l'avesse visto. L'uomo si alzò bruscamente, facendo leva sul bastone, e si eresse di fronte a lei. «Un momento, signora.» «Chi è lei? Che cosa vuole?» Diana Fasser disse stridula, la faccia voltata dall'altra parte. Tentò di spingere Cielo verso di lei, ma la bambina sembrava inchiodata. «Nonna, questo signore è stato molto gentile con me...» protestò. «Bene, grazie. Vuoi venire, sì o no?» Adesso la voce era ridotta a un urlo isterico. «Un momento» Ezio Brentano ripeté. Non sapeva cosa dire né cosa fare, però doveva fermare quella donna. Diana Fasser si curvò sulla bambina e la prese in braccio come se fosse un fuscello. Senza rispondere, senza guardarlo, corse via incurante di Cielo che gridava e scalciava.
CAPITOLO 26 La pastiglia smise di sfrigolare nel bicchiere e la pendola della cucina batté tre colpi, facendo sussultare il giudice Brentano. Le tempie gli scoppiavano e la gamba era trafitta da sorde fitte dolorose, con buona pace del professore che riteneva la cosa impossibile. Che stupida tracotanza, pensò portando il bicchiere alle labbra. C'era stato un tempo in cui anche lui distingueva tra ciò che era razionalmente ipotizzabile e ciò che non si sarebbe potuto verificare mai. E invece l'impossibile si era abbattuto come un ciclone nella sua vita. Otto anni e mezzo. Otto anni e mezzo. La voce della bambina rimbombava nelle sue orecchie e nel silenzio della notte. Non so, non ricordo, è un caso... La mente rifiutava con spavento di riflettere. Un solo attimo di concentrazione e la verità che intuiva gli si sarebbe spalancata davanti come un baratro. La bambina è nata attorno al gennaio del 1980. Ezio Brentano si agitò sulla sedia. Quel pensiero era scappato da chissà dove. Basta, devo fermarmi, si impose. É passato tanto tempo, non Si può ricostruire e ricordare. La bambina è nata cinque mesi dopo la partenza di nicola per Parigi. Ezio Brentano strinse i pugni e si percosse rabbiosamente le tempie. Cosa vai a pensare? Smettila! Ma la sua mente, ormai inarrestabile, ricordava e ricostruiva. Cielo era figlia di Nicola. Sua nipote. L'enormità di quella scoperta gli fece balzare il cuore da una parte all'altra. Ripensò al panico di Diana Fasser quando, poche ore prima, era corsa alla stazione a riprendersi la piccola. Come aveva osato sottrargliela? Quella bambina era anche sua. Sangue del suo sangue. L'astio si spostò su Francesca. Oh, se le era stato facile nascondere a Nicola la verità! Forte della ricchezza dei genitori adottivi, si era illusa di poter comprare anche una figlia tutta sua. Ma gliela avrebbe fatta pagare, quanto era vero Iddio. Rivoglio mia nipote, pensò. Il ricordo di quella coraggiosa e dolcissima bambina allentò la morsa dell'odio. Cielo si chiamava. Cielo. Sua madre le aveva dato il suo antico nome, quello scelto per lei dalla prostituta di colore. Si stupì di non provare né indignazione né orrore. Al contrario, quel nome gli piaceva. I Brentano non sono finiti, si disse con forza, questa bambina è la continuità e la speranza. Provò una struggente tenerezza per lei. E l'irresistibile voglia di correre da sua moglie per dirle di Cielo.
La vita di Silvia continuava in una bambina coi suoi stessi occhi, e non poteva lasciarla morire senza darle questa gioia. Nicola era a Parigi con Milly: al ritorno avrebbe dovuto saperlo anche lui. Ezio Brentano spense le luci della cucina e si diresse verso la stanza da letto. Silvia era profondamente addormentata. Scivolò nel letto, accanto a lei, e la scosse delicatamente per le spalle. Si svegliò subito. «Che c'è, Ezio?» La prese tra le braccia. «Se mi prometti di non agitarti, ho una cosa molto importante da dirti.» La sentì irrigidirsi, e si affrettò ad aggiungere: «Una cosa bellissima, Silvia: Nicola ha una bambina. L'ho scoperto ieri pomeriggio per caso, ma non ho dubbi». Sua moglie trattenne il fiato e poi sospirò profondamente. «Hai conosciuto Cielo...» disse, come a se stessa, con un filo di voce. Il giudice Brentano allentò la stretta e accese la luce. «Come fai a sapere di Cielo?» chiese esterrefatto. «L'ho sempre saputo, Ezio: da quando la piccola è nata. E con il permesso di sua madre, da qualche tempo posso anche frequentarla. É una creatura meravigliosa...» «Come hai potuto nascondermi della sua esistenza?» l'aggredì. «E soprattutto come hai potuto nasconderlo a Nicola? Una figlia avrebbe potuto dare tutto un altro corso alla sua vita!» «A suo tempo decidesti tutto tu, col ricatto più subdolo. Avresti preferito vedere Nicola morto piuttosto che sposato a una bastarda negra, ricordi?» Ogni traccia di esitazione era sparita dalla voce di Silvia. Dritta sul busto, lo fissava con occhi severi. «Tuo figlio ha avuto la vita che volevi» aggiunse «e non si può più tornare indietro. Purtroppo le vittorie hanno la stessa ineluttabilità delle sconfitte, e talvolta hanno un prezzo ancora più alto. Mi dispiace che tu debba capirlo solo adesso.» «Io capisco soltanto che non striscerò mai come un mendicante per avere il permesso di vedere mia nipote. Francesca Fasser dovrà fare i conti con me. A costo di portarla in tribunale.» «Giù le mani dalla bambina, Ezio» la donna sibilò. «Cielo è nata soltanto per il coraggio di sua madre. Appartiene solamente a lei e neppure se decidessi di strisciare ai suoi piedi, Francesca Fasser ti permetterebbe di vederla.» «Ne parlerò con Nicola. Stavolta...» «No. Non lo farai» Silvia lo interruppe con voce gelida. «E chi me lo impedisce?» «Io. Cielo ha un suo mondo di equilibrio e di affetti che non può essere violentato. Se fai un solo passo per avvicinare sua madre, o parli con Nicola, io esco da questa casa e per quanto mi resta da vivere giuro che non mi vedrai più.» «Mi stai mettendo con le spalle al muro» Ezio Brentano disse angosciato. Sua moglie gli prese una mano. «Sto soltanto proteggendo Cielo. Sapere che esiste, ed è nostra nipote, deve bastarci. Ma voglio proteggere anche Nicola. Lui e Milly si sono riavvicinati, sono giovani, hanno benessere e successo: io ho molte speranze per il futuro, e non voglio
distruggerli con una rivelazione tanto traumatizzante. Lo capisci, Ezio?» «Sì... Come al solito, hai ragione tu» il giudice Brentano sospirò. «Da chi hai saputo di Cielo?» «L'ho incontrata sul treno, ieri pomeriggio.» Evitò di raccontarle che stava tentando di scappare di casa. «E quando ho visto Diana Fasser con lei, ho ricollegato e capito. É una bambina straordinaria.» «Anche se non è bianca?» «Perché vuoi umiliarmi ricordando l'uomo che sono stato?» Ezio Brentano gemette. Nicola e Milly rientrarono da Parigi la sera del 28 giugno. Silvia aveva già cenato ed era andata a letto. Benché l'iniezione di analgesico avesse cominciato a fare il suo effetto, causandole una torpida sonnolenza, notò che Milly aveva lo sguardo sereno e Nicola si comportava con lei con la tenerezza di un tempo. Non mi sono sbagliata, pensò quando uscirono dalla stanza, hanno superato la crisi e si stanno davvero riavvicinando. Li udì preparare la tavola chiacchierando, e poi raccontare qualcosa a suo marito, e poi ridere. Si voltò su un fianco e si addormentò sollevata, senza neppure accorgersi che Nicola era venuto in punta di piedi a chiudere la porta della sua stanza. «La mamma mi sembra dimagrita» osservò tornando a sedersi a tavola. «Cosa dice il professore?» Il giudice Brentano allargò le braccia. «La situazione è sempre stazionaria e per ora non ci sono segni di aggravamento. Ma il professore ripete che non dobbiamo farci illusioni: tutto può precipitare da un giorno all'altro.» «Papà, vorrei che tu fossi molto franco: se io e Milly andiamo ad abitare in una casa nostra, per la mamma è un sollievo o un dispiacere?» L'uomo rifletté brevemente. «Se è questo che desiderate, ne sarà sicuramente contenta. E credo che sia un'ottima cosa per tutti: voi avete bisogno della vostra intimità, tua madre di stare tranquilla.» «Ne abbiamo parlato a Parigi» intervenne Milly. «Vede, signor Brentano, dal mese prossimo io riprenderò a lavorare e dovrò incontrare gente, esercitarmi al pianoforte...» «Non devi giustificarti, Milly. Io e mia moglie abbiamo abitudini e esigenze che non possono conciliarsi con quelli di una giovane coppia. Avete già qualche idea, per la nuova casa?» «No» rispose Nicola, «volevo prima discuterne con te. Penso comunque che cercheremo qualcosa in questa zona, per stare vicini a voi. In queste settimane Lévy ha venduto tutti i miei quadri, e non dovrei avere problemi per comprare un appartamento decoroso.» «Sei deciso a stabilirti definitivamente qui?» «Sì. Tra l'altro Lévy aprirà una galleria anche a Milano e potrò continuare a lavorare con lui. É un ottimo mercante, e mi sarebbe dispiaciuto dovermene cercare un altro.» «E i tuoi progetti di lavoro quali sono, Milly?» «Per il momento rientro nella mia vecchia orchestra. Sono previsti cinque concerti estivi in Italia, e ho accettato per questo. Tra un concerto e l'altro tornerò a casa. E se sarà possibile, Nicola mi raggiungerà.» Ezio Brentano annuì assalito da un'improvvisa tristezza. Sua moglie stava per lasciarlo, i ragazzi se ne andavano verso una nuova vita e a lui non restava che soppravvivere, invalido e solo, in una casa piena di fantasmi.
Il ricordo di Cielo lo colpì in mezzo al petto. Ho voluto manipolare il destino di mio figlio, pensò, e la mia tragica superbia è stata punita. Si appoggi pure... Quella voce gentile, quelle piccole spalle erette per sostenerlo. Si vede subito che lei non è un razzista... Lo sono stato, bambina. Nove anni fa sarei inorridito all'idea che tu potessi nascere, e adesso mi batterei come un leone per difenderti, le disse mentalmente. Difenderla da chi, vecchio idiota? Sei stato il suo peggiore nemico. Le hai tolto il padre, una famiglia in cui crescere sicura, il cognome che le spettava, il diritto di avere una vita facile. «Papà, stai bene?» Nicola lo stava fissando preoccupato la mano nella mano di Milly. «Sto bene» rispose automaticamente. Devo riparare. Cielo non può scappare da casa, pensare, affrontare sola, con la sua patetica fierezza, l'ignoranza dei razzisti. Devo parlare con Diana Fasser, pensò. É sua nonna, come me, e non può non capirmi. «Sei stanco, papà. Perché non vai a letto?» Diana Fasser deve capirmi. «Sì» disse alzandosi «vado.» Venne al telefono al terzo giorno, dopo essersi negata innumerevoli volte. «Lei deve smetterla di importunarci» Diana esordì con voce di ghiaccio. «Per piacere, mi ascolti. Voglio soltanto il bene di Cielo. Sono disposto a fare qualunque cosa per lei.» «A suo tempo ha già fatto tutto, giudice.» «Chiedo soltanto di riparare.» «Quello che ha distrutto? Non si può.» Il ghiaccio si sciolse. «La prego, signor Brentano, ci lasci in pace. Non può nemmeno immaginare quello che ha passato mia figlia. In nove anni le è riuscito soltanto di sopravvivere... E io devo difendere anche lei. Non ci faccia ancora del male, la prego» ripeté. E tolse la comunicazione. Il 22 luglio Milly partì per la tournée. Il 30 luglio Nicola firmò il preliminare d'acquisto per la nuova casa. E il 15 agosto Silvia Brentano Vitali morì. La città era deserta, alunni, colleghi e amici si trovavano in vacanza, e ai funerali parteciparono pochissime persone. Fu una cerimonia triste e breve. Dopo la benedizione in chiesa, il furgone mortuario corse a velocità pazzesca verso il cimitero. Sembrava che tutti avessero una gran fretta di seppellirla, il giudice pensò, come se in quel mondo inondato di calore e di sole non ci fosse più posto per il piccolo corpo freddo di Silvia. Tra i telegrammi di condoglianze, Ezio Brentano trovò più tardi anche quello di Diana Fasser. Le sono vicina con infinito dolore diceva. E quelle poche parole, apparentemente formali, gli furono di enorme conforto.
CAPITOLO 27 «Mamma, hanno già chiamato il mio volo. Passami subito la bambina, per piacere.» «Ma le hai parlato dieci minuti fa!» La voce di Diana Fasser tradiva un'esasperazione a stento contenuta. «Cielo adesso sta facendo il bagno, smettila di essere così angosciante. Tra poco ceneremo, poi farà una partita a dama con Paolo e infine andrà a dormire felice e contenta di essere a casa nostra. Vai a prendere questo benedetto aereo e domattina ci risentiremo.» Per Parigi imbarco immediato, la solita voce femminile avvertiva perentoria. Francesca riagganciò e si diresse a malincuore verso l'uscita 8. «Faccia presto,» la sollecitò la hostess «i passeggeri sono già sul bus.» Come salì, le portiere si chiusero e il pullmino si mise in moto per raggiungere l'aereo. Con un sospiro, Francesca si attaccò alla maniglia pensando che ormai era troppo tardi per tornare indietro. Il contratto per il gemellaggio tra «Fortuna» e «Charme», la festa organizzata in suo onore dall'editore Fleury, il premio che la città di Parigi le avrebbe consegnato... Tutto le appariva improvvisamente irrilevante di fronte all'amara realtà che l'indomani mattina era il primo giorno di scuola di sua figlia e non sarebbe stata lei ad accompagnarla. Lei stava volando verso il trionfo, e ancora una volta era Cielo a pagarne il prezzo. Se qualche compagna fosse stata sgarbata con lei? Se la seconda maestra non le fosse piaciuta? Se si fosse trovata accanto ad una bambina antipatica? Il solo sospetto che per ribellione o per dispetto sua figlia potesse decidere di scappare come aveva fatto quattro mesi prima, a Nervi, la riempiva di angoscia. Non poteva nemmeno pensare al terribile pomeriggio in cui Tilde le aveva comunicato che Cielo era scomparsa. Le telefonate alla cieca, la folle corsa in auto a Nervi, la denuncia ai Carabinieri, l'affannosa perlustrazione nelle stanze, nel parco, sulla spiaggia. Fino a quando sua madre aveva telefonato che Cielo era stata fermata alla stazione e lei stava correndo a riprenderla. La brusca fermata del bus la fece vacillare. Erano arrivati davanti all'aereo. Francesca scese e vi si diresse lentamente, accodandosi ai passeggeri della prima classe. Detestava volare sopraffatta dalle premure della hostess o dello steward, continuamente incombenti con l'offerta di una bibita, un giornale, un dolcetto, un bicchiere di champagne: ma i doveri di immagine e rappresentanza le imponevano la prima. La hostess stava guidandola verso il suo posto, quando Francesca sentì una mano posarsi delicatamente sul suo braccio. «Se vuoi sederti qui, è libero.» Nicola Brentano la fissava con un sorriso incerto e gentile. Oh, no! lei pensò bloccandosi, incapace di muoversi e di parlare. «É libero» la hostess confermò «se crede, può fermarsi.» Automaticamente, Francesca si sedette di fianco a Nicola.
«Ti ho vista sul bus, ma avevi un'aria talmente arcigna che non ho osato avvicinarmi» osservò con voce leggera. «Già. Se ben ricordo, il coraggio non è mai stato il tuo punto forte» Francesca sorrise dolcemente. Vuoi il dialogo allegro e disimpegnato di due vecchi amici che si rivedono per caso? Eccoti servito. Nicola parve non raccogliere. «Sono contento di averti rivisto. La tua splendida bambina come sta?» «Bene. E i tuoi ?» «Mia moglie sta registrando dei concerti per la televisione francese e mio padre purtroppo non si è ancora ripreso dal brutto colpo. Forse lo sai, mia madre è morta qualche settimana fa.» E come poteva non saperlo? Erano in vacanza a Nervi, quando Silvia Vitali le aveva telefonato. «É la fine, Francesca. Vorrei salutare Cielo.» Alla nipotina aveva detto che doveva partire per un lungo viaggio, ma che un giorno si sarebbero senz'altro riviste. E Cielo, riagganciando, aveva commentato «Forse è andata dal papà. Chissà se ritornerà con lui». Distacchi, solitudine, voglia struggente di un padre: il pensiero di tutte le violenze che a neppure nove anni sua figlia aveva dovuto subire riempì Francesca di rabbiosa amarezza. «Mia madre non ti aveva mai dimenticato, lo sai ?» Nicola osservò. Era l'unica persona degna della vostra famiglia, avrebbe voluto urlare. «Neppure io» disse invece. La hostess allungò verso di loro un vassoio di caramelle. Francesca ne prese una e la scartò con lentezza. Poi girò la testa verso il finestrino. «Stai bene coi capelli raccolti» disse Nicola, rompendo il silenzio. «Grazie.» «Ti trovo molto bene. Volevo dirtelo anche alla mostra, ma sei...» Francesca si voltò di scatto. «Per favore, risparmiami queste stronzate. Non sono in vena di conversazioni frivole.» «Scusami.» Era molto stupito. «Scusami tu.» Dopo una breve pausa, chiese gentilmente: «Vai spesso a Parigi ?». «Ogni tanto.» «Ti sei trasferito definitivamente a Milano?» «Sì.» «Ho letto da qualche parte che stai preparando quattro quadri sulla Natività per il Presepe dei pittori.» «Già.» Era lui a stare sulle sue, adesso. Francesca, seccata, osservò: «Sto educatamente sforzandomi di tener viva la conversazione, nel caso non l'avessi capito». «Risparmiatelo: neppure io sono in vena di conversazioni frivole.» «Mi stavo adeguando. Come non detto.» L'implacabile hostess chiese se volevano un bicchiere di champagne. «Sì, grazie» disse Francesca allungando la mano. Quando ebbe finito di bere, posò il bicchiere e si girò di nuovo verso il finestrino. «Ti fermi molto a Parigi?» Nicola chiese inaspettatamente.
«Due giorni» lei rispose senza voltarsi. «Un viaggio di lavoro, immagino.» La voce era tornata ad essere cordiale. «Tanto per non sbagliare» Francesca non poté trattenersi «questa sarebbe una conversazione profonda?» Nicola scosse la testa, suo malgrado divertito. «Una delle cose che non ho mai dimenticato di te è la dialettica guerrigliera.» «Se a questo punto ti aspetti che ti chieda quali sono le altre, mi spiace deluderti. Ho un presente troppo affollato per riesumare i fantasmi del passato.» «Posso dirti che poco fa, vedendoti sul bus, mi sono sentito molto emozionato?» «L'hai detto.» «Speravo che saresti tornata alla mostra con la tua bambina. Ho tenuto fino all'ultimo giorno una scatola di colori che le avevo promesso.» Francesca strinse le labbra. «Non vado mai alle mostre.» «Tra qualche anno dovrai fare i conti con tua figlia... Per quel che ho visto, ha un innato talento per la pittura.» «Tutti i bambini della sua età amano pasticciare coi colori. E tu quando torni a Milano?» «Tra cinque o sei giorni. Ma perché cambi discorso? Dovresti essere orgogliosa di tua figlia.» «Lo sono. Ma non sopporto le madri che annoiano il prossimo raccontando le prodezze dei loro pargoli.» «Io non mi annoio affatto. E se avessi una bambina come la tua non farei che parlare di lei.» Francesca gli lanciò un'occhiata di traverso. «Sei sempre in tempo a metterne al mondo una.» «Non possiamo averne» confessò semplicemente. «Ma anche se mi dispiace, non ne faccio una tragedia.» «Già. Quel che per te era essenziale l'hai avuto del resto.» «E cioè?» «Il successo, la donna che amavi, l'approvazione di tuo padre. Mi sembra un bilancio da privilegiati.» «A parte qualche imprecisione, i veri privilegiati sono quelli che non devono pagare il conto. Nel conto che io ho dovuto pagare figuri anche tu» Nicola mormorò con amarezza. «Questi sono spiccioli» Francesca replicò velenosamente. «E mi pare che tutto sommato te la sia cavata a buon prezzo.» «Anche tu, direi.» «Difatti non mi lamento.» Nicola le prese una mano. «Per anni ho provato vergogna e rimorso pensando al modo in cui ti avevo lasciato. Se fossi stato meno presuntuoso, avrei dovuto immaginare che non avresti sofferto molto a lungo.» Francesca gli rivolse un amichevole sorriso. «In fondo, tra noi c'era stato soltanto un breve idillio senza impegno» disse dopo qualche istante, senza ritrarre la mano. «Ti stupirà sapere che per me era qualcosa di molto più importante.» «Oh. Davvero?» Francesca sgranò ostentatamente gli occhi. «Partii per Parigi in treno, e come scesi alla stazione dovetti farmi violenza per non ritornare subito in Italia, da te. I primi due giorni non feci che pensarti. Poi incontrai Milly e...» «E fu subito ritorno di fiamma. Era la ragazza dei tuoi sogni, se ben ricordo.» «Così credevo prima di innamorarmi di te. Poi diventò un'ancora di salvezza. Se non ci fosse stata lei, non avrei retto tanti anni a Parigi. Pochi mesi dopo il mio trasferimento tornai a Milano. Volevo telefonarti, sai? Ora sono contento di non averlo fatto. Sarebbe stato un brutto colpo per il mio orgoglio scoprire non soltanto che avevi un altro uomo, ma addirittura una bambina. Però lo seppi ugualmente, da mia madre. Posso farti una domanda?» «Certo.» «Perché non hai sposato il padre di tua figlia?» Francesca rise leggermente. «Forse per preveggenza. Da qualche mese ha una relazione con un'altra, e alla luce di questa realtà mi sono risparmiata l'amarezza di un divorzio.» «Mi dispiace. Soprattutto per
la vostra bambina.» Francesca si strinse nelle spalle. «Io e... Tony non abbiamo mai convissuto, e perciò per Cielo non cambia molto.» «Credi? Mi è sembrata una bambina sensibilissima e straordinariamente intelligente.» «Tutti i mulatti lo sono.» Fu Nicola a ritrarre la mano, fissandola con un'espressione stupita. «Non si può dire altrettanto di te» disse con disapprovazione. «Soltanto perché non ho la tua circospetta ipocrisia da razzista? Mia figlia è mulatta e non c'è nulla di vergognoso nell'ammetterlo» replicò con tono insultante. «Io non sono razzista.» «Forse oggi no. Ma a quei tempi, se hai il coraggio di ripensarci con sincerità, l'idea di avere una figlia di colore ti avrebbe terrorizzato.» «A quei tempi ero un'altra persona. E anche tu. Che fine ha fatto la dolce e disarmata Francesca che ricordavo?» «Si è dovuta mettere in assetto di guerra per sopravvivere. E non ha vinto tutte le battaglie, purtroppo.» Nicola le cercò nuovamente la mano. «Neppure io. Sto andando a Parigi per combattere l'ultima contro Milly. Vuole lasciarmi.» «Oh.» L'ira cadde di colpo. «Credevo che il vostro fosse un matrimonio molto felice.» «Diciamo che ha funzionato. Purtroppo da qualche mese sta andando tutto a rotoli. C'è di mezzo un altro uomo, il violinista Stan Pavlov. Milly lo aveva piantato, ma lui l'ha cercata e adesso la loro relazione è ripresa.» «Non puoi tenere tua moglie con la forza, se ama un altro.» «In Milly c'è un inquietante istinto di autodistruzione, e io ho il dovere morale di salvarla da una relazione rovinosa. Pavlov si droga, è pieno di debiti e non lavora quasi più.» «Mi dispiace» Francesca mormorò. «Dietro la facciata gloriosa ci sono purtroppo anche fallimenti e crepe. A dispetto di tutto, credo che tu abbia avuto più fortuna di me.» Francesca assentì con la testa. Sarebbe stato difficile spiegargli che la fortuna non sta mai a lungo dalla parte dei protagonisti e dei vincenti. Nel momento in cui volete diventare artefici delle vostre esistenze, gli disse in silenzio, siete alla balia di voi stessi. Tutto ciò che raggiungete è merito vostro, ma vi basta uno sbaglio o un attimo di stanchezza per perdere tutto. La fortuna corre in aiuto di chi la invoca: i diseredati, gli sconfitti, quelli messi in ginocchio dalle scelte e dalle violenze degli altri. Come lei la spaventosa sera in cui si era ritrovata a vagare, abbandonata, nella notte. Risentì il corpo dolente, le gambe irrigidite, l'ansimare da bestia dell'uomo che l'aveva rimorchiata in macchina... Anziché uccidermi, ho alzato disperatamente la testa e la fortuna è corsa a darmi una mano amorosa, pensò con gli occhi inondati di lacrime. Un braccio di Nicola la circondò teneramente e la sua voce triste chiese: «Ti faccio tanta compassione?». Francesca gli posò la testa sulla spalla, soffocando un singhiozzo. «No. Piango per... per il rumore dei ricordi.» Le accarezzò i capelli con un sospiro, senza capire. Un lungo silenzio calò tra loro e dopo poco udì il respiro regolare di Francesca. Si era addormentata? Il contatto con il corpo di lei gli diede una sensazione di pace sovrumana. Era come se un'antica solitudine fosse finita,
cancellando scontento e angoscia. Tutto gli appariva all'improvviso inondato di vibrazioni e di luce. É questo che cercavo, si disse con eccitazione. É per ritrovare Francesca che in questi anni ho corso ciecamente. Me ne sono andato da lei senza capire che le lasciavo i colori, il sole, la mia stessa anima. «Abbiamo cominciato a scendere» disse la hostess a bassa voce curvandosi su di lui: «Vuole qualcosa?». Fece cenno di no. Rivoglio la mia anima, pensò con il cuore di piombo, ma questa ragazza la tiene legata e io non conosco la magia per riprenderla. Né posso supplicarla di restarmi accanto per insegnarmela. Il pensiero di sua moglie lo rigettò in un buio affannoso. Strinse Francesca con una tale forza che lei si svegliò. «Aiutami» le disse. Quella voce irriconoscibile, quel viso contratto. «Nicola, stai male?» «Non lasciarmi.» «L'ho detto prima io. Nove anni fa.» Francesca si era improvvisamente irrigidita. Il braccio di lui lasciò le sue spalle e lo vide come rattrappirsi davanti a lei. Il ricordo di Silvia Vitali le tolse il respiro: Nicola aveva lo stesso atteggiamento rassegnato e sconfitto. Provò l'assurdo terrore che anche lui potesse morire e gli si aggrappò alle spalle come per trattenerlo. Non lo odio più, pensò. Io, lui, nostra figlia, sua madre, la mia povera madre nera, siamo stati tutti sconfitti. «Ti amo, Francesca.» Ti ho amato quanto ho potuto. Provò una malinconica pena per l'infantile ragazzo che tanti anni prima le aveva detto quella frase, smanioso di prendere il volo. Lo so, gli rispose silenziosamente, la testa nascosta sul suo petto. E sono disperata perché ora che ci siamo ritrovati tu non puoi fermarti. Nove anni fa ti sei condannato per sempre ad amarmi poco e male. Allora ci divideva la tua paura, oggi ci divide una moglie che ti è impossibile lasciare. «Dovete allacciare le cinture di sicurezza» li avvertì la hostess. «Stiamo atterrando.» Il comandante ringraziava e sperava di averli nuovamente a bordo, i passeggeri erano avvertiti di non dimenticare i bagagli a mano. «Qualcuno ti sta aspettando, Francesca?» «No.» Aspettò col fiato sospeso che lui dicesse qualcosa. Non avere paura, lo pregò in silenzio, chiedimi di passare questa notte con te, ti desidero con tale forza che non riesco nemmeno a respirare. «Allacciati la cintura» le disse soltanto, a testa bassa. «Nicola, posso venire con te?» Per qualche istante la fissò in silenzio, gli occhi spalancati, come se non osasse credere a ciò che gli aveva chiesto. Poi la strinse convulsamente a sé. «Oh, sì...» rispose. Lévy gli aveva dato le chiavi della piccola mansarda sopra la galleria. Fecero il viaggio in taxi abbracciati, senza parlare. E appena chiuse la porta di casa, Nicola la riprese tra le braccia. Restarono aggrappati l'uno all'altra senza dire niente, senza fare niente. Solo dopo, molto dopo, lui le prese la testa tra le mani e ripeté con voce adorante: «Ti amo, Francesca». Quando si svegliò, la stanza era inondata di sole e ricordò che
durante la notte si erano affacciati alla finestra per guardare i tetti illuminati dalla luna. Il letto era vuoto e Nicola si alzò col terrore che lei se ne fosse andata. Era seduta in cucina, già vestita, lo sguardo fisso nel vuoto e le mani incrociate sulle ginocchia. Come lo sentì entrare si alzò. «Ti aspettavo per salutarti, Nicola.» «Mi vesto subito e ti accompagno.» «Non importa, chiamo un taxi.» «Francesca, dove posso rivederti ? Stasera dove.. .» Lo interruppe scuotendo la testa. «Stanotte ci siamo dati tutto quello che potevamo. Il resto sarebbe bruttissimo» disse con voce triste. «Voglio vivere con te, Francesca.» «Puoi farlo? Puoi fuggire dai tuoi doveri?» «No. Ma dev'esserci un modo per...» «Una relazione? Qualche incontro rubato? Un killer per eliminare tua moglie, se la sua volontà di autodistruzione non fosse abbastanza forte?» Tacque di colpo, sperando con tutta se stessa che lui insistesse. Lo amo tanto, pensò, che accetterei qualunque umiliazione, qualunque compromesso. Nicola piegò le spalle e, per qualche istante, assurdamente, le parve di odiarlo: perché non insisteva, perché non faceva nulla per trattenerla?
CAPITOLO 28 «Non capisco le tue perplessità, Francesca» disse Daria Rossetti. «Abbiamo chiuso l'anno con un più due: mi sembra una rimonta più che soddisfacente, calcolando l'affollamento dei femminili e soprattutto il fatto che fino ad aprile "Fortuna" ha avuto una diffusione notevolmente sotto rispetto all'anno precedente.» La redazione, riunita per la prima volta e con tre settimane di ritardo dopo la pausa delle feste natalizie, sembrava condividere la perplessità della direttrice. «Credevamo di ricevere un bell'applauso» osservò la caposervizio moda «e invece si respira aria da veglia funebre.» «Non esageriamo» reagì Francesca. «Il messaggio che come editore vorrei lanciarvi è: non sediamoci sugli allori né cantiamo trionfo. Il rilancio di "Fortuna" è stato massiccio e costosissimo: in tutta franchezza, mi aspettavo qualche copia di più.» «E a chi o a che cosa imputi il non averle vendute?» si informò puntigliosamente il caporedattore attualità. Francesca allargò le braccia. «Come poco fa dicevamo con Daria e i responsabili del marketing, è possibile che questa sia la diffusione fisiologica della nostra testata e oltre non Si possa andare.» «Cinquecentoventimila copie per un settimanale femminile sono comunque un venduto che da anni non ha precedenti sul mercato» spiegò calmo Vanni Giusti, il marito di Clara. «Al record strepitoso è soltanto mancato il tocco del miracolo. E forse era presuntuoso aspettarselo.» La voce di Ornella Rossi, l'inviata, si levò con la solita nota alta. «Non so che cosa intendete per "tiratura fisiologica". Di certo "Fortuna" è ben lontano dalla perfezione, e c'è sempre qualcosa che qualche altro femminile fa meglio oppure prima di noi.» «Per esempio?» si informò Francesca, fermando con un'occhiata la protesta di Daria Rossetti. Con un gesto da prestigiatore, Ornella Rossi estrasse dalla borsa una copia di «Grazia» e gliela sventolò davanti agli occhi. «L'hai sfogliata, Francesca?» «Non ancora.» «Fino a un paio di mesi fa eri la prima a guardare la concorrenza» puntualizzò. «Chiuso l'inciso, ti invito a guardare con particolare attenzione il monografico sui nuovi tailleur, molto migliore del nostro, e l'intervista esclusiva con Stan Pavlov, semplicemente strepitosa.» Francesca tese una mano per prendere il giornale che Ornella teneva allungato verso di lei. «Stan Pavlov il violinista?» chiese stupidamente. «Già. E ti invito a guardare anche le foto. Perché la Neri le ha date a "Grazia" e non a noi? Sta succedendo un po' troppo spesso che le agenzie fotografiche ci...» «Lasciami vedere» Francesca la interruppe. Stan Pavlov era ritratto in un caldo e raffinato salotto amorosamente allacciato a Milly Brentano. Con lei la mia vita suona ancora diceva il titolo.
Più tardi, quando la riunione si sciolse, Francesca premette il pulsante della luce rossa e lesse avidamente l'intervista. Pavlov raccontava con franchezza i suoi anni bui, la dipendenza dalla droga, la lucida furia con cui si era rintanato a un angolo della vita riducendosi alla disperata alienazione di un cane ringhioso. Fino a quando una donna dal cuore colmo di amore e di pietà gli aveva teso la mano. «L'ho umiliata, sfruttata, ferita, scacciata» Pavlov confessava «ma quando l'ho vista allontanarsi ho lasciato l'angolo per inseguirla: era la mia vita che se ne andava, e di colpo ho capito che non volevo più morire.» Abbandonati i toni aulici, il violinista passava a dettagli più concreti. Vivevano insieme da due mesi, con l'eredità del padre aveva acquistato una casa a Parigi e lì lui e Milly stavano preparandosi per un concerto. Si sarebbero sposati al più presto. Lei aveva già chiesto il divorzio al marito, il famoso pittore Nicola Brentano. «Il dolore che ho arrecato a questo grande uomo» precisava Pavlov, tornando ai toni aulici «è la sola nota stonata della nostra vita armoniosa.» Quando Francesca finì di leggere, aveva un cerchio alla testa e una violenta sensazione di nausea. Il grande uomo era stato abbandonato un paio di settimane dopo la loro notte a Parigi, ma si era guardato bene dal farsi vivo. E perché mai avrebbe dovuto? Sei stata per lui l'emozione di una notte, disse a se stessa, ma cosa è mai di fronte al violento dolore del tradimento, con cui ora può alimentare ispirazioni e nevrosi? Adesso tocca a lui mettersi all'angolo della vita come un cane ringhioso, rise sinistramente. E io, l'ottusa donna qualunque, che quella notte sono stata più volte sul punto di dirgli «abbiamo una figlia!». Ringrazio Dio per non averlo fatto. Quel tremebondo masochista deve stare lontano da Cielo. All'improvviso risentì, con spavento, la voce insistente e supplice della bambina chiederle il permesso di andare a Palazzo Reale con la signorina per vedere il Presepe dei pittori. C'è anche il mio amico Nicola Brentano, mamma. «La mostra è aperta fino alla fine di gennaio, c'è tempo» aveva tergiversato. «Ma perché non posso andare subito?» «Perché no» aveva tagliato corto. Cielo era uscita dal salotto senza insistere oltre, con gli occhi fiammeggianti di sdegno. Perché non ho cercato una scusa plausibile? Francesca si rimproverò adesso. Cielo si era sempre ribellata alle proibizioni immotivate e alle spiegazioni che non la convincevano. E se si metteva in testa una cosa, non c'era verso di dissuaderla. Fortunatamente mancavano soltanto tre giorni alla chiusura della mostra. Compose in fretta il numero di casa. «Mi passa la bambina?» chiese non appena Tilde venne a rispondere. «Ma... è ancora a scuola, signora.» «Andrò a prenderla io, Tilde.» «Farà in tempo?» La signorina era perplessa. Francesca guardò l'orologio: le dodici e un quarto. «Sì, parto subito» rispose riattaccando.
Parcheggiò la macchina in sosta vietata e percorse a piedi, correndo, il breve tratto che la separava dalla scuola. Mancavano pochi minuti alla fine delle lezioni, ma bastarono per riempirla di sensi di colpa. Una legione di madri era in attesa davanti al portone: soltanto Cielo, uscendo dalla classe, non aveva mai trovato la sua. Quali altri impegni, quali altre persone avevano potuto apparirle più importanti di sua figlia? Eccola. Stava chiacchierando animatamente con due amichette e la vide fermarsi, ridere, gridare qualcosa a un ragazzino che correva. Signore, si ritrovò a pregare, fai che la mia bambina sia sempre così allegra e non si senta mai umiliata e respinta. Le andò incontro lentamente e Cielo, come la vide, le volò addosso. «Ehi, ci siamo lasciate soltanto stamattina!» Francesca disse stampandole un bacio sulla testa spettinata. «Sono contentissima che sei venuta tu.» Il linguaggio di sua figlia era fiorito di superlativi e corrispondeva perfettamente al suo modo di sentire. Per Cielo non esistevano i sentimenti sfumati: o si innamorava delle persone oppure le detestava, e le cose le apparivano meravigliose oppure orribili. Quante delusioni e quanti compromessi l'esistenza le avrebbe inflitto?, Francesca pensò con tristezza guidandola verso la macchina, la piccola mano stretta nella sua. «Mangi a casa con me, mamma?» le chiese quando mise in moto. «Sì. Hai l'aria molto allegra» notò. «Hai preso un bellissimo voto a scuola?» Cielo scosse la testa. «La maestra non ha dato voti, oggi.» «Fra tre giorni è il tuo compleanno. Hai fatto tutti gli inviti ai tuoi compagni di scuola?» «Sì. L'ho detto anche a Paola. Abbiamo fatto la pace.» «Bene. É per questo che sei contenta?» Cielo fece di nuovo di no con la testa. «É un segreto» disse in fretta. «Oh. E da quando hai dei segreti per me?» «Da sempre, mamma. Mica posso raccontarti tutto!» Sembrava sorpresa che lei potesse credere il contrario. «Non c'è nessuno con cui ti confidi?» Cielo rifletté qualche istante. «La nonna Silvia capiva tutto, però anche la nonna Diana è...» Si interruppe cercando l'aggettivo. «Comprensiva?» suggerì Francesca. «Sì.» «E io non sono comprensiva, Cielo?» «Tu sei molto nervosa, mamma. E se non faccio quello che vuoi, mi Sgridi.» «Sei una bambina grande, e dovresti capire che io voglio soltanto il tuo bene» Francesca spiegò gravemente. «Sì, ma tu non puoi sapere tutte le cose che mi piacciono, e se te le dico ti arrabbi. Però ti voglio lo stesso tantissimo bene.» «Oh, grazie! Anch'io te ne voglio tantissimo, lo sai ?» «Sì, e non devi arrabbiarti se ho dei segreti. Anche tu li hai con me. Siamo arrivati, mamma» disse curvandosi a raccogliere lo zainetto, con l'evidente sollievo di poter interrompere quella conversazione. Francesca accostò l'auto con un vago senso d'allarme.
C'erano troppe cose di sua figlia che non conosceva. Devo dedicarle più tempo, pensò, e soprattutto imparare ad ascoltarla senza opprimerla con le mie paure e le mie prediche. Cielo guardò l'orologio. Le tre, pensò con impazienza, e la mamma ancora non si decideva a tornare in ufficio. Aveva mangiato senza fretta, e poi le aveva chiesto di guardare i suoi disegni, e poi si era messa a fare un sacco di domande inutili. Adesso stava telefonando. «Non devi andare a lavorare, mamma?» non poté trattenersi dal chiederle, quando ebbe finito. «Sì. Ma prima volevo stare un po' con te.» «Non preoccuparti, io adesso vado nella mia stanza, ho tantissimi compiti da fare per domani.» «Aspetto che Tilde torni dal parrucchiere, dovrebbe essere già qui.» «Non resto sola, c'è la filippina.» «La filippina ha un nome, Cielo. Devi essere gentile con lei. É venuta in un paese che non è il suo, non conosce la nostra lingua, non ha amici...» La bambina la interruppe: «Ma io sono gentile, mamma! Solo che ha un nome difficile e non me lo ricordo». Sempre prediche, sempre prediche! «Si chiama Luzon. E non usare quel tono infastidito.» «Va bene, mamma. Adesso vado a studiare, ciao» disse alzandosi. Si alzò anche Francesca. «Ci vediamo stasera. Se hai bisogno di qualcosa chiedilo a Luzon.» Dopo che la porta si chiuse e l'ascensore salì e ridiscese, Cielo si impose di aspettare cinque minuti. Doveva essere certa che la mamma non sarebbe tornata indietro. Ma non poteva neppure rischiare che Tilde tornasse. Tolse dalla tasca il foglietto ripiegato, lo aprì e con cura si avvicinò al telefono. Lentamente compose il numero, sperando di averlo ricopiato giusto dalla guida. Era così difficile fare le cose per bene senza farsi accorgere, sbuffò alzando gli occhi al cielo. La linea era libera e contò gli squilli col cuore che le batteva. Il sesto fu interrotto da un frettoloso «pronto ?». «Sono Cielo Fasser.» Si fermò per respirare. «Può passarmi...» «Cielo?» La voce che l'aveva interrotta era piena di stupore e tacque di colpo. «Sì. Vorrei parlare con il signor Nicola Brentano.» «Sono io... Che sorpresa, Cielo.» «Si ricorda di me? Sono la bambina...» «Certo che mi ricordo. E sono molto contento di sentirti. Dove sei ?» «A casa. Non posso stare molto al telefono. Domani mattina alle dieci la maestra mi porta con tutta la classe a visitare il presepe dei pittori e volevo darle un appuntamento. Lei mi aveva promesso dei colori e finalmente posso venirli a prendere. Se lo ricorda, vero?» ripeté preoccupata. «Certo, sono mesi che li conservo per darteli.» Rendendosi conto che quella frase poteva suonare come un rimprovero, Nicola si affrettò a aggiungere: «Ho pensato che tu fossi troppo occupata per tornare alla mostra, ma ero certo che prima o poi ti saresti fatta viva per chiedermeli».
Cielo ebbe qualche attimo di esitazione. «Io sarei venuta anche subito» spiegò sinceramente «ma la signorina e la mamma non mi hanno accompagnato. Meno male che la maestra mi porta con la classe. Guardi che non vengo soltanto per i colori. I suoi quadri mi interessano moltissimo.» «La mamma sa... della tua visita?» Nicola s'informò in tono noncurante. «Nooo.» Cielo si fermò per cercare le parole. «É un segreto» disse in fretta. Si sarebbe certo offeso se gli avesse spiegato che alla mamma non piacevano i suoi quadri ed era diventata molto nervosa quando le aveva chiesto di portarla alla mostra. «Forse tua madre non sarebbe contenta sapendo che vieni alla mostra.» Che cos'era, un indovino? Un mago? «La mia mamma è strana,» lo rassicurò «per questo tante cose non gliele dico. Basta tenere il segreto e lei non si arrabbia.» «Senti, Cielo...» «Sta arrivando la signorina, devo mettere giù. Ci vediamo domattina alle dieci, eh?» la bambina disse concitatamente. Solo quando ebbe posato il ricevitore Nicola si accorse che suo padre era entrato nella stanza. Stava in piedi, appoggiato al bastone, e come il figlio si voltò gli chiese brusco: «Come fai a conoscere quella bambina?». «L'ho incontrata mesi fa alla mia prima mostra. Perché me lo chiedi ?» «Niente, niente.» Un attacco di tosse piegò le spalle del giudice Brentano. Quando passò, l'uomo chiese: «Hai richiamato l'avvocato Franchi ?». «Sì, ma i documenti da Parigi non sono ancora arrivati.» «Sollecita Milly, datti da fare. Visto che avete la fortuna di poter divorziare in Francia, non capisco questo vostro...» «Papà» Nicola lo interruppe «la Francia non è il Messico o il Nevada, dove si divorzia al volo.» Alle fissazioni di suo padre, sempre più frequenti e bizzarre, si era adesso aggiunta quella di vederlo tornare subito libero. A volte gli sembrava impossibile che fosse lo stesso inflessibile uomo di cui lui per trent'anni aveva subito, con soggezione, l'autorità e il potere. La perdita della moglie lo aveva improvvisamente trasformato in un vecchio immalinconito e spento. Non usciva più, si trascinava per la casa come un'anima in pena, era diventato stranamente apprensivo. Dopo la separazione da Milly, Nicola era tornato ad abitare con lui. Spesso aveva la curiosa sensazione che fosse suo padre a volerlo proteggere, e non viceversa. Si preoccupava se tornava in ritardo, se si fermava a dipingere oltre una certa ora, se era stanco o silenzioso. Nicola avvertiva in certe premure qualcosa di pateticamente materno, e ne era allo stesso tempo intenerito e amareggiato. La sua vita sarebbe stata molto diversa se dieci anni prima suo padre avesse avuto una infinitesima parte della sensibilità e della tolleranza che mostrava oggi. Ma era troppo onesto per scaricare su di lui la colpa del suo fallimento. Mi ha potuto manovrare perché sono stato un uomo immaturo e senza spina dorsale, pensò. E adesso si prende cura di me perché istintivamente avverte che tra noi due il più debole sono sempre io. Perché hai paura delle parole, maestro?
Sei un fallito. Dopo l'ultimo dei quattro olii che si era impegnato a fare per il presepe dei pittori, e che alla chiusura della mostra sarebbero andati a un'asta benefica, non era più riuscito a terminare un quadro. Creatività e ispirazione lo avevano abbandonato. Era come se una grande fiamma si fosse spenta: e sempre più spesso, chiuso nel suo studio, aveva la sensazione di essere annegato in un mare di cenere. I colori avevano perduto luce, le tele magia, la sua anima ogni vibrazione. Lévy, il suo gallerista, minimizzava e lo esortava a non scoraggiarsi: ma era chiaramente allarmato. L'abbandono di Milly gli aveva dato la drammatica consapevolezza della propria nullità. Era corso a cercarla con la tracotante convinzione che solo da lui dipendesse la sua salvezza, pronto a sacrificare se stesso all'altare della pietà e dei doveri. Ma sua moglie era stata già salvata. Un violinista trasgressivo, drogato e folle le aveva dato sicurezza e amore. L'enorme sollievo di essere stato liberato dalla responsabilità morale di Milly era stato sopraffatto sul nascere da una umiliante e angosciosa presa di coscienza: era incapace di rendere felice qualsiasi persona. La sola salvezza di chi aveva avuto la sventura di amarlo era stata la fuga. Francesca, sua madre, Milly... Per trovare il successo o la pace se n'erano dovute andare. Molte volte era stato sul punto di chiamare Francesca, ma all'ultimo minuto era riuscito a trattenersi. Non poteva ritornare nella sua vita per toglierle tutto quello che era riuscita a costruirsi. Si accorse che suo padre lo stava scrutando con la solita espressione ansiosa. «Torno in studio a lavorare» gli disse. «Sai chi era la bambina che ti ha telefonato?» chiese, senza nesso, Ezio Brentano. «La figlia di Francesca Fasser» Nicola rispose automaticamente, rendendosi subito conto di essersi addentrato in un sentiero minato. Non era escluso che suo padre avesse un soprassalto degli antichi livori. «Come fai a conoscerla?» «Francesca? Forse ti ricorderai, molti anni fa avevo...» «Non Francesca. La bambina.» «Te l'ho detto, l'ho incontrata per caso alla mia prima mostra.» «E perché ti ha cercato?» Nicola si rabbuiò. «Papà, spero che i tuoi pregiudizi non ti facciano disapprovare anche l'incontro casuale con una piccola mulatta.» «Ma cosa ti viene in mente?» Ezio Brentano sembrava davvero offeso. «Ti stavo soltanto chiedendo che cosa voleva.» «Domani va con la sua classe a Palazzo Reale, e mi ha chiesto se sarei stato lì anch'io. A differenza di te, che non ti sei ancora degnato di visitare la mostra, è una mia piccola ammiratrice» Nicola tagliò scherzosamente corto. «Allora non devi deluderla. A che ora ti aspetta?» Ezio Brentano commentò serio. Nicola lo fissò senza rispondere. L'età aveva reso suo padre davvero strano e imprevedibile, pensò immalinconito.
CAPITOLO 29 «E ora» disse la maestra «andiamo a vedere i quadri del pittore più giovane della mostra, Nicola Brentano. Rimettetevi in fila, bambini. Cielo, cosa fai lì impalata?» La bambina si era arrestata davanti a un ragazzo seduto contro un muro. Era magrissimo, coi capelli rasati quasi a zero e la testa ripiegata su una spalla. Aveva gli occhi chiusi e sembrava che non respirasse. Cielo si curvò e lo scosse per una spalla: «Stai male?». La maestra lasciò il gruppo e corse verso di lei, guardandosi intorno alla ricerca di un custode: non c'era più scampo, ora i drogati bivaccavano impunemente anche a Palazzo Reale. «Vieni via, stiamo aspettando te» disse brusca. Il ragazzo aprì gli occhi e li richiuse. «Stai male?» Cielo ripeté. La maestra l'afferrò per un braccio. «Vuoi venire via? Non sta male, è un... un...» La voce le si strozzò istericamente in gola. «Un drogato, per servirla» precisò il ragazzo aprendo di nuovo gli occhi e puntandoli sulla donna. Erano chiarissimi, come scoloriti, e pieni di una tristezza che contrastava con il tono strafottente. La maestra staccò il braccio da Cielo e restò a fissarlo come ipnotizzata. «Hai bisogno di qualcosa?» chiese con più gentilezza. «Indovini» la provocò. La donna si girò e afferrò Cielo per una mano. «Andiamo, i tuoi compagni ci stanno aspettando.» «Obbedisci, bambina, io sono il lupo mannaro!» il ragazzo sogghignò spalancando la bocca. Ma i suoi occhi restarono tristissimi. «Il lupo mannaro non esiste» Cielo osservò seriamente «e prima hai detto che sei un drogato.» «Sai chi sono i drogati ?» La bambina fece di sì con la testa. «La droga è una cosa molto brutta e pericolosissima» enunciò con gravità. «Brava. Non dimenticartene mai.» La maestra tirò la piccola per un braccio. «Ora andiamo» ripeté. Cielo puntò i piedi. «Perché non vieni con noi a vedere i quadri di Brentano? É un mio amico». «É uno stronzo» il ragazzo sorrise a labbra strette. «Hai detto una brutta parola, e poi non è vero. Io lo conosco molto bene, è un pittore bravo e gentilissimo.» «E io conoscevo bene sua madre. Si chiamava Vitali, era la mia profe» «Te l'ha detto lei che è uno stronzo?» «Cielo!» urlò la maestra. «Sono quasi le undici e tra meno di un'ora il pullmino verrà a riprenderci. Vuoi
vedere sì o no la mostra?» La bambina guardò l'orologio, come folgorata. Le dieci e quaranta. E lei aveva dato l'appuntamento a Nicola per le dieci! «Devo scappare» disse in fretta al ragazzo, lasciandosi portare via dalla maestra senza più opporre resistenza. Si unì al gruppo dei bambini guardandosi ansiosamente intorno: di Brentano non c'era traccia. Com'era possibile che non fosse venuto? Glielo aveva promesso. La maestra le lasciò il braccio e si staccò da lei per raggiungere la testa del gruppo. Erano arrivati nella sala con i quadri di Nicola, Cielo registrò continuando a guardarsi intorno nella speranza di vederlo spuntare. «Brentano ha raffigurato i quattro momenti più solenni della vita della Madonna» cominciò a spiegare la maestra. «Il primo è la visita dell'Arcangelo Gabriele che annuncia la nascita di Gesù. Soffermiamoci su questo quadro. Che cosa Vi colpisce subito?» «La Madonna è dipinta senza la faccia» rispose una bambina. «E sai perché?» Cielo non udì la spiegazione. Spostandosi per tenere d'occhio l'accesso alla sala, era arrivata davanti a un altro quadro e come sollevò la testa restò con la bocca spalancata, incapace di respirare. Era la nascita di Gesù. La Madonna era nera, e aveva il viso della mamma. Il bambino era identico a lei e San Giuseppe non c'era. «Oh!» Un silenzioso gemito uscì dal profondo del suo cuore, mentre paura, stupore e vergogna la facevano tremare tutta. Chiuse gli occhi e li riaprì di nuovo. Era terribile. La mamma, dal quadro, la fissava con una faccia così triste che le veniva da piangere. Forse le dispiaceva di essere diventata nera. Abbassò lo sguardo sul Bambin Gesù e guardò i suoi occhi grandissimi con un dolore crescente. Quel bambino non solo aveva la sua stessa faccia, ma si chiedeva come lei: perché la nonna Silvia non torna più? Dov'è andato il mio papà? Perché i grandi hanno tanti segreti? «Oh... cazzo!» disse una voce soffocata dietro di lei. Ma Cielo non la udì. La maestra si stava avvicinando. Adesso la classe l'avrebbe riconosciuta su quel quadro, Cielo pensò affannosamente. Tutti i bambini capiranno che non sono uguale a loro e che mi vergogno di non avere il papà e che sono infelice. L'umiliazione di essere stata messa a nudo le causò una pena insopportabile. Girò le spalle al quadro e prima ancora che la sua mente se ne rendesse conto le gambe la stavano trascinando precipitosamente verso l'uscita. Non si accorse che il drogato di poco prima la stava inseguendo. Alle undici e tre quarti la maestra telefonò a Diana, con voce isterica. «Cielo è scappata di nuovo! Non abbiamo voluto spaventare sua figlia, ma...» «Scappata? Come è successo? E quando?» Quegli interrogativi terrorizzati accrebbero l'isterismo dell'insegnante. «Stavamo visitando la mostra di Palazzo Reale con tutta la classe
quando all'improvviso sua nipote è volata via dalla sala. Io e la mia collega l'abbiamo rincorsa, ma come siamo arrivate nell'atrio Cielo era già sparita. Non è la prima volta che la bambina scappa, e prima di avvertire i...» «Chi l'ha autorizzata a far uscire mia nipote dalla scuola?» Diana urlò. «Signora, all'inizio dell'anno sua figlia, come tutti gli altri genitori, ha firmato un'autorizzazione per tutte le eventuali uscite tipo la visita alla mostra di stamattina. Soltanto per le gite scolastiche fuori dall'area urbana è previsto uno speciale permesso scritto.» La maestra sembrava offesa. «Da dove sta telefonando?» Diana tagliò corto. «Dalla direzione. Io ho riaccompagnato i bambini in classe e la mia collega è rimasta a Palazzo Reale. Prima di prendere qualunque iniziativa, abbiamo voluto avvertirla. Uno dei bidelli ha preso la macchina e sta girando per le strade qui intorno, il direttore ha raggiunto la mia collega e...» Diana la interruppe con impazienza. «Devo avvertire mia figlia. Lei resti lì, per favore: mi rimetterò subito in contatto con lei.» Ormai Francesca camminava a testa bassa, senza più guardarsi intorno. Per quattro ore aveva percorso e ripercorso tutte le vie del centro, e pensare che Cielo stesse ancora aggirandosi in quella zona era assurdo. Fu tentata di richiamare sua madre, ma non era trascorso neppure un quarto d'ora dall'ultima telefonata e non poteva sentirsi ripetere per l'ennesima volta che la signora Diana era uscita senza dire dove andava. Aspettando ancora un poco, invece, avrebbe dato pietosamente tempo a un esile filo di speranza di crescere dentro di lei. Paolo Forte stava seguendo le ricerche dal centro operativo della questura: era in atto una specie di mobilitazione per cercare la piccola e forse l'avevano già trovata. Devo scacciare l'orrendo dubbio che le sia successo qualcosa, si impose. Se continuo a ripetermi che è finita nelle mani di un maniaco o di un pazzo, questo avviene davvero. Il pessimismo porta male, aveva detto una volta la madre di Clara Siani, e ripensando a quella affermazione rabbrividì: da ore, prospettandosi le ipotesi peggiori, il suo cervello stava emettendo delle forze negative che, come un magnete, rischiavano di attirare la disgrazia. Piantala, sei già abbastanza terrorizzata per non andarti a creare questi incubi da selvaggia. Ma tu sei una selvaggia, e forse si è abbattuta su di te la maledizione degli antenati neri che non ti perdonano di esserti staccata dalle tue radici si disse istericamente.Abbiate pietà, insegnatemi una magia per ritrovare la mia bambina. Posso rotolarmi sulla strada, ululare, spogliarmi, ricoprirmi di penne, fare una danza propiziatoria, invocare i vostri idoli. Francesca ormai aveva perso il controllo e si sentiva sull'orlo della follia. Le ginocchia le cedettero. Rialzati, cammina, se ti fermi tua figlia è perduta. Oh, Cielo, dove sei? Muoversi, muoversi, mamma aiutami, non senti la sua voce?, ha freddo, l'hanno legata, l'hanno uccisa, piantala, non è la prima volta che succede e l'hai sempre ritrovata, cammina, ma non erano mai passate tante ore,
corri, oh, Dio, dove?, sei sempre nervosa, perché non mi porti alla mostra, solo con te non parla mai di suo padre, hai una figlia meravigliosa, muoviti!, devi dirgli che Cielo è sua figlia, ti ho amato quanto ho potuto, non ha sofferto abbastanza?, alzati! «Signora, si sente male?» Francesca si appoggiò al braccio teso verso di lei e il suono di quella voce vera fece tacere il rumore dei fantasmi. «Sto bene, grazie.» A pochi metri c'era un bar con l'insegna del telefono. Entrò barcollando e chiamò sua madre. Fu lei stessa a rispondere, al secondo squillo, e l'angoscia di quel «pronto?» la spinse a riagganciare subito. La bambina non era ancora stata ritrovata. Non metterti a delirare, si ordinò uscendo dal bar, rifletti. Qualcosa o qualcuno ha spaventato Cielo spingendola a fuggire. É successo durante la visita a Palazzo Reale, disse una voce dentro di lei. E il senso di quel pensiero le esplose nel cervello facendola tremare. Come aveva potuto non capirlo prima? Era lì che doveva andare, perché lì stava la chiave del mistero. Sapere da che cosa sua figlia aveva cercato scampo era un piccolissimo ma concreto passo per tentare di ricostruire le sue reazioni e le sue mosse. Attraversò correndo piazza della Scala, e poi la Galleria, e poi piazza del Duomo. Il tempo era prezioso, non c'era un minuto da perdere. Ma arrivata in prossimità di Palazzo Reale dovette fermarsi: il cuore le batteva all'impazzata e le gambe non la reggevano più. Guardò l'orologio: le cinque. Tra poco sarebbe sceso il buio, e il pensiero di Cielo perduta nella notte le diede la forza della disperazione. Ansimando, le mani premute sul cuore perché non scoppiasse, riprese la corsa. Avanti, presto, non perdere tempo. «Abbiamo cominciato la visita da Fiume, poi siamo passati a Sassu, e poi a Schifano...» aveva detto la maestra. Francesca, varcato l'ingresso, si impose di ripercorrere con attenzione lo stesso itinerario della scolaresca. Ciascun pittore aveva raccontato un diverso momento della natività, e tutti i quadri emanavano religiosità, dolcezza, pace. Chiudendo gli occhi, Francesca poteva rivivere la struggente magia di tutti i Natali della sua infanzia. Hai sbagliato, si disse con malinconia, nulla può aver turbato o spaventato Cielo perché queste sono visioni di rasserenante e perfetta bellezza. E infine siamo arrivati a Nicola Brentano. Sua figlia è corsa per prima... La voce della maestra la guidò verso la sala successiva. Varcandone l'ingresso, Francesca avvertì un'oscura riluttanza, e il cuore ricominciò a battere forte. Non fermarti. Entra. Mamma, quando mi porti alla mostra? Tu non puoi sapere tutte le cose che mi piacciono. Mica posso raccontarti tutto... É un segreto. La voce di sua figlia sembrava aver riempito tutta la sala. Eccolo, il segreto: la visita alla mostra con i compagni di scuola e la maestra. Per paura di vedersi negare il permesso non gliene aveva fatto parola.
Sette ore prima Cielo era entrata dove lei si trovava adesso e con eccitazione gioiosa si era avvicinata ai quadri di Nicola. Le gambe di Francesca si rifiutarono di procedere nello stesso percorso. Quei quadri erano l'opera di un talento cinico e devastante. Appesi al muro di fronte c'erano viltà e compromessi. E le sue umiliazioni, l'infelicità di una figlia ciecamente rifiutata. Se fossi davvero incinta, ti chiederei di abortire... Ti odio, pensò mentre si costringeva a muoversi e si dirigeva a testa bassa dove Cielo si era diretta. Ti odio anche per avermi costretto a subire questa tortura. Lo sforzo di sollevare la testa le fece dolere il collo. Fissò la prima tela con occhi ciechi, e fu abbacinata da un'immensa macchia bianca che scintillava come una lama. Sbatté le palpebre e capì che erano le ali di un angelo. Due spalle femminili, trapassate da quella lama bianca, pendevano informi come un sacco sgonfio comunicando una angosciosa sensazione di impotenza. La lettura del testamento, il clacson delle auto, il fischio del vigile, le parole impaurite di Nicola, il rantolo bestiale di quell'uomo... I rumori e le voci di una lontana notte d'incubo le strapparono un gemito animalesco. Tornò a fissare il quadro, come stregata. So tutto, ho provato tutto, ho perduto tutto, le dissero i cerchi vuoti degli occhi. Francesca si spostò in fretta verso il secondo quadro. La notte di Maria, lesse su una targhetta. Un ventre rotondo come la terra emergeva in controluce da un buio senza fine. Maria non aveva corpo, né collo, né spalle, né viso. Solo quel ventre, e i cerchi vuoti all'improvviso ricolmi di una comprensione infinita. Oh, Dio. Oh, Dio. Accecata dalle lacrime, Francesca incespicò verso il terzo quadro e cautamente, col fiato sospeso, alzò gli occhi. Il tempo si fermò qualche istante e poi tornò indietro, indietro, indietro mentre l'aria si riempiva di vibrazioni e di suoni. Ho paura, pensò battendo i denti. Dio, aiutami. Guarda. Non posso. Guarda. Nel quadro c'erano lei, Cielo, la povera prostituta nera, Silvia Vitali... Il talento di Nicola aveva trasformato la rappresentazione della Natività nella nascita del dolore. E quelle esistenze violate chiedevano: perché? Perché la solitudine, la violenza, il razzismo, la paura, la malattia, la morte? Nei visi tanto amati Cielo aveva riconosciuto il dolore ed era fuggita, portando con sé il fardello di tutti i suoi interrogativi senza risposta. Non ho potuto dartele perché nemmeno io le so, Francesca singhiozzò silenziosamente. Nicola sì, le disse una voce imperiosa. Guarda meglio. Dal quadro, Cielo neonata la fissava con due occhi adulti in cui non c'era soltanto la consapevolezza del futuro sacrificio, ma anche il presagio della resurrezione. La salvezza è nella pietà, Cielo sembrava dire. E dipingendo quel quadro era come se Nicola si fosse messo in ginocchio per chiedere perdono. É verità.
Ma chi assolverà me per la mia forsennata tracotanza?, Francesca pianse. Mi sono voluta sostituire a Dio, e Dio mi ha punito. Una mano si posò delicatamente sulla sua spalla. «Signora Fasser... è lei?» Era un carabiniere. «Sì. Che cosa è successo?» urlò. «Per fortuna l'ho riconosciuta. Ero di guardia a Palazzo Reale e mi hanno telefonato dalla centrale di controllare se lei si trovava qui.» «Hanno trovato mia figlia?» «Non ancora. E la sua famiglia comincia a essere preoccupata anche per lei. Dovrebbe tornare a casa, signora. Tra mezz'ora i custodi chiudono.» «Avverta i miei che io resto qui. Non mi muovo» precisò seccamente. Se Cielo era ancora libera di spostarsi, era qui che sarebbe tornata: non sapeva spiegarsene la ragione, ma ne aveva la certezza.
CAPITOLO 30 Francesca guardò l'orologio: le ventidue e trenta. Da un'ora era cessato il fastidioso pellegrinaggio per tentare di portarla via di lì. Erano venuti sua madre, Clara Siani, la madre di Clara Siani, il vicequestore, due carabinieri, Paolo Forte. Solo dopo una scenata isterica si erano persuasi a lasciarla in pace. Seduta sul marciapiede di fronte, poteva tener d'occhio sia l'ingresso illuminato sia un lungo tratto di strada. Non aveva fame, né freddo, né sonno. Il solo sforzo che doveva fare era vietarsi di pensare che a Cielo fosse accaduto qualcosa di brutto. Forse, stanca di camminare, si era addormentata in un portone. Oppure si era rifugiata in casa di qualche amica di cui non sapevano il nome. Domattina, appena sveglia, verrà qui e voglio essere la prima a vederla, si ripeté per l'ennesima volta. «Mi vuoi dire una sola dannata ragione per cui dovrebbe tornare in questo posto?» aveva strillato Paolo Forte. Perché è una bambina coraggiosa, rispose ora a se stessa, e ha sempre voluto verificare e capire. Ricordò la volta in cui, piccolissima, l'aveva trovata carponi nel sottoscala. «Ho sentito un rumore strano e volevo vedere se c'era un ladro», aveva spiegato. Non temeva il temporale, perché si era fatta spiegare che cos'era. Non accettava che una situazione o un oggetto fossero «pericolosi» senza averne capito chiaramente il perché. Il quadro di Nicola l'aveva riempita di oscura angoscia, spingendola a fuggire: sicuramente sarebbe tornata sui suoi passi per rivederlo e spiegarsene la ragione. Tuo padre è partito, tuo padre è lontano. Quando sarai grande ti dirò... Come aveva potuto essere tanto idiota da illudersi che Cielo avesse accettato le sue ridicole spiegazioni? Si era limitata a non farle più domande, ma chissà quali paure e quanti fantasmi si erano annidati nel suo piccolo cuore. Sono i fantasmi che la tengono ancora lontana da qui, si disse affranta. Piantala, vuoi menare gramo? Nicola le piace, e sarà pazza di orgoglio quando le dirò che è suo padre. Appena la vedrò arrivare, la prenderò per mano e la porterò davanti al quadro che l'ha spaventata facendole capire che di spaventoso c'è soltanto... La vita? Il cieco istinto con cui Nicola in questi anni l'ha cercata? L'odio con cui hai voluto tenerlo lontano da sua figlia? Smettila di farneticare. Non sto farneticando, Cielo dev'essere rassicurata e avere una risposta a tutti gli interrogativi. Non voglio più che scappi, si ribelli, abbia dei segreti, pensò ripiegandosi su se stessa, la testa sulle ginocchia. Qualcuno si stava avvicinando. Chiunque tu sia vattene, di qui non mi muovo, gli disse mentalmente. I passi avevano una lentezza solenne. Quasi di morte, pensò sussultando.
Cercò di non sentire, ma la sorda cadenza di quel passo era sempre più vicina. «Francesca» mormorò una voce grave sopra di lei. Spostò la testa da un fianco e la sollevò piano, trattenendo il fiato. Vide due piedi, un bastone, l'orlo d'un cappotto, una mano sollevata. E il viso di un vecchio uomo curvo su di lei. «Francesca» l'uomo ripeté dolcemente. «Cosa fa lei qui?» Francesca chiese con violenza. «Sono venuto a prenderti. Cielo è venuta poco fa a casa mia. Non preoccuparti, sta bene.» É un sogno. Sto impazzendo. Il fantasma di Ezio Brentano è tornato a prendersi gioco di me. Un singhiozzo le lacerò la gola e morì senza suono. Non appartenevano a un fantasma le braccia che l'avevano sollevata e la stringevano. Ed era viva e delicata la mano che le accarezzava timidamente i capelli. «É passato tutto, Francesca. Cielo sta bene. Zitta, non chiedere nulla. Tocca a me parlare, sono venuto qui per questo... Da tanto tempo so di Cielo... E oggi pomeriggio, quando tua madre è venuta a casa mia a chiedermi aiuto, ho capito che esisteva, se possibile, una infelicità più grande della mia: quella che aveva spinto la mia nipotina a fuggire. Ti ho fatto tanto male, Francesca, e non sono venuto a chiederti perdono per liberarmi dal rimorso... Soltanto il tuo perdono può salvare Cielo e cancellare quello che ho fatto contro le vostre vite.» Francesca assentì con la testa, il volto rigato di lacrime. «L'ho capito guardando i quadri di Nicola...» «Anch'io. Di notte, quando lo sentivo andare a letto, mi alzavo furtivamente e andavo nel suo studio a vedere quello che stava dipingendo. Cercava la sua donna e sua figlia... E io gliele avevo tolte.» «Perché Cielo è venuta a casa sua?» Francesca chiese con un filo di voce. «Ce l'ha portata qualcuno... Ma capirai. Vieni con me.» L'aveva presa per un braccio, adesso, e la stava delicatamente sospingendo. Francesca si bloccò. «Nicola sa già che Cielo è sua figlia?» «No. Soltanto tu devi decidere se vuoi dirglielo.» Lo stesso ascensore, lo stesso pianerottolo, lo stesso portoncino. Undici anni prima una orgogliosa e innocente ragazzetta aveva suonato per la prima volta quel campanello ed era andata incontro al suo destino. Perdite, sconfitte, conquiste, equilibri: tutti i grandi giochi sembravano compiuti, e invece il destino aveva capricciosamente scombinato e tramato per ripartire da zero, come un bambino che dice «Non vale, ricominciamo». Tra pochi istanti quella porta si sarebbe nuovamente aperta e lei avrebbe dovuto affrontare un'altra partita. Stavolta fu Ezio Brentano a suonare il campanello, senza abbandonare il suo braccio. Ma, come allora, fu Nicola che venne ad aprire. La fissò per qualche istante senza parlare, profondamente turbato, poi la prese per una mano. «Vieni, va tutto bene.» Cielo era ferma sulla porta del soggiorno, a testa bassa. «Fai bene a sgridarmi, mamma.» disse. «Non dovevo scappare.» Francesca corse verso di lei e la strinse convulsamente a sé. «Non voglio sgridarti, sono troppo felice
che tu sia tornata.» Gli occhi di Cielo si illuminarono. «Non devi sgridare nemmeno lui» disse indicandole uno sconosciuto ragazzo che stava guardando il vuoto con aria imbarazzata. La bambina la trascinò verso di lui. «Si chiama Diego. É un drogato molto gentile che mi ha fatto compagnia per tutto il pomeriggio e poi mi ha accompagnata in questa casa.» Francesca sobbalzò e guardò il ragazzo con aria impaurita. «Che cosa ha fatto alla mia bambina?» sussurrò. «Ho cercato di tirarla fuori dai vostri casini, ma è una bella impresa» rispose sgarbatamente. Tacque un attimo e poi spiegò con accigliata gentilezza: «Ero alle sue spalle quando l'ho vista scappare dalla mostra. E correva così forte che l'ho perduta di vista. L'ho dovuta cercare per un'ora. E giuro che quando l'ho finalmente trovata, non aveva proprio l'aria di una piccola ereditiera. Stava seduta su un marciapiede e piangeva a dirotto. Chiunque avrebbe potuto scambiarla per una marocchina abbandonata o roba del genere, per questo me la sono rimorchiata a casa. E qui ho capito che era più incasinata di me.» Francesca sentì il braccio di Nicola circondarle le spalle e sorreggerla. Diego, il ragazzo, li fissò alternativamente con una strana espressione di curiosità e rabbia. Poi i suoi occhi si fermarono su Francesca. «Sua figlia è innamorata di lei. Come ha potuto farle tanto male?» Ezio Brentano fece un passo avanti. «Dovresti essere più umano, ragazzo.» «Oh. E chi è stato umano con questa bambina? L'ho ascoltata parlare per dieci ore. Ho dormito, mi sono svegliato, mi sono fatto un buco, mi sono addormentato di nuovo e lei ha continuato a parlare. Una nonna sparita, un'altra nonna negra, un padre misterioso, un quadro pieno di fantasmi con una madre che ha cambiato colore di pelle... Questa stanza mi sembra più affollata di una stazione ferroviaria: possibile che nessuno abbia mai spiegato alla bambina quello che voleva sapere? Beh, dovreste decidervi a farlo prima che smetta di farvi domande e si cerchi le risposte da sola.» «Non sgridare la mamma, Diego. É molto buona.» Cielo disse con una piccola voce supplice. Il ragazzo si curvò sulla bambina e le accarezzò il viso «Ricordi quello che ti ho detto oggi, Cielo?» «Sì...» «Ripetilo, allora.» «Che non dovevo avere paura del quadro perché...» Si interruppe stringendo le labbra in una smorfia di pianto. «Perché quel quadro è amore e bellezza» proseguì Diego per lei «ed è stato dipinto dal figlio che Silvia Vitali è riuscita a partorire prima della morte.» Abbassò gli occhi e mormorò: «Ero il suo alunno prediletto. E con me parlava Nonostante questo mi stimava». Sollevò un braccio indicando i lividi degli aghi, e a Francesca parve di vedere Cristo in croce. Diego fermò i suoi occhi sul viso di lei. «Se è davvero molto buona» disse gentilmente «non capisco perché cazzo non ha ancora detto a Cielo che Nicola Brentano è suo padre.» Solo in quel momento Francesca si accorse che in soggiorno c'erano anche sua madre, Paolo Forte, l'amica Clara.
Tutti si erano girati verso di lei. Tranne Cielo. La bambina aveva sollevato il viso verso Nicola e lo guardava con la bocca aperta. Ora soffoca, Francesca pensò. Smettetela di guardarmi Cielo, chiudi la bocca. Mi vergogno troppo. Smettetela di guardarmi! La mano di Nicola la afferrò per un braccio. «Non scappare» disse con voce roca. E, rivolto agli altri: «Per piacere, volete lasciarmi solo con Francesca?». «Io resto.» Era la voce di Cielo. Diego fu l'ultimo a lasciare la stanza. Passando davanti a Nicola gli prese la mano e la tolse via dal braccio di Francesca. «Non così, maestro. E tu, Cielo, vieni con me.» La trascinò via incurante delle proteste e chiuse la porta alle sue spalle. «Avrei dovuto capirlo subito» proruppe Nicola. «Con che diritto mi hai sottratto mia figlia? Quello che hai fatto è orribile. Disumano.» Era senza respiro. «Non così, maestro» lei disse enfaticamente, a labbra strette. «Vuoi vedermi strisciare? Mendicare? In questo momento ti odio» sibilò. «Io ti odio da dieci anni.» Gli occhi di Nicola si riempirono improvvisamente di lacrime. «Non così, Francesca.» «Conosciamo altri modi? Prima ci siamo amati con irresponsabilità, troppo e troppo male. Poi ci siamo lasciati con incoscienza. Tu per paura e io per orgoglio. Da allora non sono riuscita a provare alcun sentimento più forte dell'amarezza con cui ho seguito la tua carriera, della umiliazione con cui ho letto delle tue nozze con Milly, della sinistra gioia di quando ho saputo da tua madre che non eri felice con lei. Persino l'amore per Cielo è stato inquinato da te, perché vedendola crescere così intelligente e dolce dicevo a me stessa: suo padre non conoscerà mai la gioia di questa figlia stupenda. Dio sa quanto la amo, eppure l'ho usata anche come strumento di vendetta. E non ho finito. Poco fa, quando tuo padre è venuto a cercarmi, ho vibrato di perversa soddisfazione nel vederlo invecchiato e infelice. É durato pochi istanti, ma sufficienti per capire quanto sono arida e incattivita.» «A Parigi eri colma di amore e di tenerezza, Francesca.» «Però non ti avevo detto nulla di Cielo.» «Forse l'avevo capito. In questi mesi pensavo a te e rivedevo il suo viso. Prendevo il pennello in mano e tentavo ciecamente di ricostruire i suoi occhi, il suo sorriso. E alla fine mi ritrovavo davanti il ritratto di mia madre. Cielo è identica a lei. La Natività l'ho dipinta in tre notti, come in trance. La Madonna eri tu, il figlio Cielo, e dietro il vostro sapiente presagio della crocifissione c'ero io, il grande colpevole. Ho commesso i più gravi dei peccati, quelli di omissione. Poco fa non ho capito perché proprio mio padre avesse voluto venire a cercarti. Prima che tu arrivassi, Cielo parlava di nonna Silvia, e neppure mi sfiorava il sospetto che parlasse di mia madre. Povera mamma. Mi pare di risentire la sua voce grave quando nove anni fa mi disse: "Francesca ha avuto una bambina...", mentre mi fissava con uno
sguardo triste e ansioso, come supplicandomi di capire. Ho vissuto a testa bassa e con gli occhi chiusi. E ad aprirmeli è stato "un drogato molto gentile", come lo chiama Cielo. Francesca, ti amo. Voglio te, voglio mia figlia. E voglio soprattutto che troviamo un modo migliore di amarci. Ti supplico, dammi questa possibilità. E lascia che sia io a parlare con Cielo.» Devo farmi. Subito, Diego pensò scendendo le scale. I muscoli del collo tiravano come corde, le gambe tremavano e fitte lancinanti gli trafiggevano lo stomaco. Stai anche piangendo, coglione. Baci, abbracci, la sacra famiglia riunita. E quella mocciosa che aggrappata al padre se lo mangiava con occhi adoranti. Sparati una dose e dimentica, figliolo. Il sipario è calato e certi spettacoli non fanno per te. Con una mano si appoggiò alla ringhiera e con l'altra si frugò in tasca. Tirò fuori l'orologino d'oro di Cielo e se lo agitò davanti agli occhi. Hai compiuto la tua buona azione e ti sei ricompensato: grazie a questo, tra un'ora ti sentirai come nuovo. Riprese a scendere le scale. Beh, il giorno dopo Cielo sarebbe rimasta malissimo accorgendosi che il drogato molto gentile le aveva fregato l'orologio. É ora che impari, mocciosa, a non fidarti del prossimo. Finalmente era arrivato al pianterreno. Aria, fuori di lì. Grazie di tutto, ragazzo. La voce burbera del vecchio. Tornerai a trovarmi, eh, Diego? Guarda che ci conto! Il sorriso luminoso della bambina. Le cassette della posta erano allineate alla destra del portone. Diego cercò la targa dei Brentano e vi lasciò cadere l'orologino. Al diavolo, pensò uscendo. Se quella bimbetta è riuscita da sola a riparare dieci anni di casini infernali, io posso ben provare a non bucarmi. Almeno per una sera.