PETER ROBINSON IL CAMALEONTE (Aftermath, 2001) A Richard e Barbara, ottimi amici e squisiti padroni di casa Il male che ...
68 downloads
707 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
PETER ROBINSON IL CAMALEONTE (Aftermath, 2001) A Richard e Barbara, ottimi amici e squisiti padroni di casa Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita. William Shakespeare, Giulio Cesare Prologo La chiusero nella gabbia quando cominciò a sanguinare. Tom era già lì. Era lì da tre giorni e ormai aveva smesso di piangere. Tremava ancora, però. Era febbraio, la cantina non era riscaldata, ed erano entrambi nudi. Sapeva che non avrebbe ricevuto niente da mangiare per molto tempo, finché non avesse avuto tanta fame da credere di essere divorata dall'interno. L'avevano già imprigionata nella gabbia in passato, ma questa volta era diversa dalle altre. In precedenza, era sempre successo perché aveva fatto qualcosa di sbagliato o non aveva obbedito ai loro ordini. Questa volta era differente; era stato per via di quel che era diventata, e aveva davvero paura. Appena chiusero la porta in cima alle scale, l'oscurità l'avviluppò come una pelliccia. Sentiva che le si strofinava contro la pelle come un gatto ti si strofina contro le gambe. Iniziò a tremare. Detestava la gabbia più di qualsiasi altra cosa, più delle botte, più delle umiliazioni. Ma non avrebbe pianto. Non piangeva mai. Non ne era capace. Il tanfo era terribile. Non avevano un water, soltanto il secchio nell'angolo, che avrebbero potuto svuotare solo quando fossero usciti. E chissà quando sarebbe accaduto. Ancor più insopportabile del puzzo era però il lieve grattare che cominciò già pochi minuti dopo che la ebbero rinchiusa. Ben presto, lo sapeva, sarebbe arrivato: il solletico di zampette aguzze sulle gambe o sulla pancia se si fosse azzardata a sdraiarsi. La prima volta aveva provato a muoversi e a fare rumore per tutto il tempo nella speranza di tenerli lontani, ma alla fine si era addormentata, esausta, indifferente a quanti fossero o a che cosa
facessero. Dal peso e dal modo in cui si spostavano, distingueva, nel buio, se fossero topi o ratti. I ratti erano i peggiori. In un'occasione, uno l'aveva persino morsicata. Abbracciò Tom e cercò di confortarlo, cercando di riscaldarsi a vicenda. A dire il vero, anche lei avrebbe avuto bisogno di un po' di conforto, ma non c'era nessuno che potesse darglielo. I topi le saltellavano tra i piedi. Di tanto in tanto agitava le gambe e li udiva squittire quando finivano contro la parete. Dal piano di sopra proveniva una musica a tutto volume, il basso che faceva vibrare le sbarre della gabbia. Chiuse gli occhi e tentò di trovare un bellissimo rifugio nel profondo della mente, un luogo dove tutto fosse caldo e dorato, dove il mare che si infrangeva sulla battigia fosse di un azzurro intenso, l'acqua tiepida e gradevole come i raggi del sole quando lei ci saltava dentro. Ma non riuscì a trovarlo, non riuscì a trovare quella spiaggia sabbiosa e quel mare azzurro, quel giardino pieno di fiori dai colori vivaci o quella fresca foresta verde in estate. Quando chiuse gli occhi, non trovò altro che urla, mormorii distanti, tenebre striate di rosso e una spaventosa sensazione di terrore. Scivolò dentro e fuori del sonno, dimentica dei topi e dei ratti. Non sapeva da quanto fosse lì allorché udì dei rumori al piano superiore. Rumori insoliti. La musica era cessata molto prima, e tutto era silenzio a eccezione del grattare e del respiro di Tom. Credette di sentire un'auto che si fermava fuori. Voci. Un'altra auto. Poi dei passi. Un'imprecazione. All'improvviso, di sopra si scatenò l'inferno. Parve che qualcuno cercasse di sfondare la porta d'ingresso con il tronco di un albero, quindi vi fu uno scricchiolio seguito da un forte schianto quando l'uscio cedette. Tom, ormai sveglio, piagnucolava tra le sue braccia. Udì delle grida e forse piedi di adulti che correvano, a decine. Dopo quella che sembrò un'eternità, qualcuno forzò la serratura della cantina. Filtrò un po' di chiarore, ma non molto, e non c'erano lampadine laggiù. Altre voci. Poi giunsero le abbaglianti lame di luce delle torce, sempre più vicine, così vicine da farle male agli occhi e da costringerla a schermarli con la mano. Allora il fascio luminoso la incontrò, e una voce sconosciuta prese a strillare: «Oh, Dio! Oh, mio Dio!». Capitolo 1 Maggie Forrest aveva il sonno molto leggero in quel periodo, così non si
meravigliò quando le voci la destarono verso le quattro di una mattina d'inizio maggio, anche se prima di coricarsi si era accertata che tutte le finestre fossero sbarrate. Se non fossero state le voci, sarebbe stato qualcos'altro: la portiera di un'auto che sbatteva quando qualcuno usciva per il turno mattutino, il primo treno che attraversava il ponte sferragliando, il cane della vicina, il legno che scricchiolava da qualche parte nella vecchia casa, il frigorifero che si accendeva e spegneva con un clic, un tegame o un bicchiere che scivolava sullo scolapiatti. O magari uno dei rumori della notte, per colpa dei quali si svegliava madida di sudore freddo con il cuore che batteva all'impazzata, boccheggiando come se, anziché dormire, stesse per annegare: l'uomo che aveva soprannominato signor Scheletro intento a camminare su e giù per la Collina con il suo bastone, il grattare contro la porta d'ingresso, gli strilli tormentati di un bambino in lontananza. Oppure un incubo. In quei giorni era semplicemente troppo tesa, disse a se stessa, cercando di buttarla sul ridere. Ma rieccole. Voci, senza dubbio. Una alta e maschile. Si alzò e si avvicinò alla finestra con passo felpato. La via chiamata la Collina si arrampicava su per il pendio settentrionale dell'ampia valle e, dove viveva Maggie, più o meno a metà salita, proprio sopra il ponte della ferrovia, le abitazioni sul lato orientale si ergevano in cima a un'altura di sei metri che si inclinava verso il marciapiede in una profusione di cespugli e alberelli. Talvolta gli arbusti e il fogliame sembravano così folti che, percorrendo il vialetto, la donna non vedeva dove metteva i piedi. La finestra della sua camera si affacciava sugli edifici lungo il bordo occidentale della Collina, permettendo allo sguardo di spaziare anche sul mosaico di prati, ciminiere, magazzini, autostrade e complessi residenziali che si allargava tra Bradford e Halifax fino ai Pennini. Talvolta Maggie sedeva per ore ad ammirare il paesaggio, pensando alla bizzarra concatenazione di eventi che l'aveva condotta lì. Ora, nella luce antelucana, le collane e i grappoli distanti di lampioni ambrati avevano tuttavia un'aria spettrale, come se la città non avesse ancora assunto contorni reali. In piedi accanto alla finestra, Maggie osservava l'altro lato della via. Avrebbe giurato che, da Lucy, nella casa proprio di fronte alla sua, la luce dell'anticamera fosse accesa e, udendo di nuovo la voce, ebbe l'improvvisa sensazione che tutti i suoi presentimenti si fossero concretizzati. Era la voce di Terry, che inveiva contro Lucy. Non capiva che cosa dicesse. Seguirono un urlo, il rumore di vetri infranti e un tonfo.
Lucy. Riscuotendosi dalla sua paralisi, Maggie sollevò il ricevitore del telefono sul comodino e, con mani tremanti, compose il 999. Ferma accanto all'auto della polizia, sopravvento rispetto al fumo maleodorante, la recluta Janet Taylor guardava bruciare la BMW argentata schermandosi gli occhi dal bagliore. Il suo compagno, l'agente Dennis Morrisey, era in piedi lì vicino. Uno o due curiosi sbirciavano dalle finestre delle camere da letto, ma nessun altro pareva molto interessato. Non si poteva certo dire che le vetture incendiate fossero una novità in questo quartiere. Neppure alle quattro del mattino. Fiamme rosse e arancioni, con intense sfumature verde-azzurre al centro e rari tentacoli viola, si attorcigliavano nell'oscurità emanando spire di denso fumo nero. Nonostante la sua posizione, Janet avvertiva l'odore della gomma e della plastica bruciata. Le stava procurando un'emicrania, e sapeva che capelli e uniforme ne sarebbero rimasti impregnati per giorni. Gary Cullen, il capo dei pompieri, si avvicinò ai due. Naturalmente, si rivolse a Dennis, come sempre. Erano amici. «Che cosa ne pensi?» «Furto.» Dennis indicò la BMW con il mento. «Abbiamo controllato il numero di targa. Rubata ieri sera in un'elegante via residenziale del ceto medio a Heaton Moor, Manchester.» «Perché qui, allora?» «Non lo so. Potrebbe trattarsi di una gang, di un regolamento di conti o qualcosa del genere. Qualcuno che ha dato una piccola dimostrazione dei suoi sentimenti. Potrebbe avere a che fare persino con la droga. Ma tocca ai ragazzi delle alte sfere scoprirlo. Sono loro a essere pagati per avere cervello. Noi abbiamo finito per adesso. Nessun pericolo?» «Tutto sotto controllo. Che cosa facciamo se c'è un corpo nel bagagliaio?» Dennis rise. «Ormai sarà bell'e andato, non credi? Aspetta un attimo, è la nostra radio, vero?» Janet si diresse verso l'auto. «Vado io» disse da sopra la spalla. «Centrale a tre-cinque-quattro. Rispondete, per favore, tre-cinquequattro. Passo.» Janet prese la ricetrasmittente. «Tre-cinque-quattro a centrale. Passo.» «Segnalata lite domestica al numero 35 della Collina. Ripeto. Trecinque. La Collina. Potete occuparvene voi? Passo.»
Cristo, pensò Janet, una maledetta lite domestica. Nessuna poliziotta con un po' di sale in zucca amava le liti domestiche, soprattutto a quest'ora del mattino. «D'accordo» sospirò guardando l'orologio. «Tempo di arrivo previsto: tre minuti.» Chiamò Dennis, che sollevò la mano e rivolse qualche altra parola a Gary Cullen prima di allontanarsi. Quando raggiunse l'auto, ridevano entrambi. «Gli hai raccontato quella barzelletta, vero?» domandò Janet sedendo al posto di guida. «Quale barzelletta?» chiese Dennis, con fare da innocentino. Janet accese il motore e sfrecciò verso la strada principale. «Lo sai, quella della bionda che fa il suo primo pompino.» «Non so di che cosa tu stia parlando.» «Al commissariato ti ho sentito mentre la raccontavi a quel nuovo agente, lo sbarbatello. Dovresti dare a quel poveretto la possibilità di farsi una sua opinione sulle donne, Den, anziché riempirgli subito la testa di preconcetti.» La forza centrifuga li scagliò quasi fuori strada quando Janet imboccò a velocità eccessiva la rotatoria in cima alla Collina. Dennis si aggrappò saldamente al cruscotto. «Gesù Cristo. Le donne al volante. È solo una barzelletta. Non hai un po' di senso dell'umorismo?» Sorridendo tra sé, Janet rallentò e procedette piano lungo il cordone del marciapiede cercando il 35. «Comunque, inizio ad averne abbastanza» aggiunse Dennis. «Abbastanza di che cosa? Della mia guida?» «Anche di quella, ma soprattutto della tua lagna continua. In questi giorni non posso neanche dire quello che mi passa per la mente.» «Non se hai la mente come una fogna. Va a finire che inquini l'aria. A ogni modo, i tempi cambiano, Den. E noi dobbiamo cambiare con loro, altrimenti faremo la fine dei dinosauri. A proposito, quel neo...» «Quale neo?» «Lo sai, quello che hai sulla guancia. Vicino al naso. Quello con tutti i peli che spuntano fuori.» Dennis si portò la mano al viso. «E allora?» «Se fossi in te, lo farei vedere al più presto. Mi sembra canceroso. Ah, il 35. Eccoci qui.» Accostò parcheggiando qualche metro dopo la casa. Era una villetta unifamiliare di arenaria e mattoni rossi, tra una serie di orti e una fila di nego-
zi. Non era molto più grande di un cottage, con le tegole di ardesia, il giardino dal muro basso e un moderno garage comunicante sulla destra. Al momento, era tutto tranquillo. «C'è la luce accesa in anticamera» notò Janet. «Andiamo a dare un'occhiata?» Tastandosi ancora il neo, Dennis sospirò borbottando qualcosa che Janet interpretò come un sì. Scese dall'auto per prima e imboccò il vialetto, sentendo che il compagno la seguiva strascicando i piedi. Poiché il giardino era invaso dalle erbacce, dovette scostare rametti e cespugli man mano che avanzava. Il suo livello di adrenalina era salito leggermente mettendola in stato di allarme, come le accadeva sempre con le liti domestiche. La maggior parte dei poliziotti le odiava perché era impossibile prevedere che cosa sarebbe successo. Spesso staccavi il marito dalla moglie e poi quest'ultima prendeva le sue difese e cominciava a minacciarti con un matterello. Janet si arrestò davanti alla porta. Tutto tranquillo, eccetto il respiro rumoroso di Dennis alle sue spalle. Era ancora troppo presto perché la gente andasse al lavoro, e i nottambuli erano ormai quasi tutti nel mondo dei sogni. Da qualche parte, in lontananza, i primi uccelli cominciarono a cinguettare. Passeri, molto probabilmente, pensò Janet. Topi con le ali. Non vedendo il campanello, bussò. Da dentro non arrivò alcuna risposta. Bussò più forte. I colpi parvero riecheggiare su e giù per la via. Ancora nessuna risposta. Allora Janet si inginocchiò e spiò attraverso la fessura per le lettere. Riuscì a distinguere solo una sagoma sul pavimento in fondo alle scale. La sagoma di una donna. Era un motivo ragionevolmente sufficiente a giustificare un'irruzione nella casa. «Entriamo» disse. Dennis provò ad abbassare la manìglia. Bloccata. Poi, facendo segno alla collega di scostarsi, si scagliò contro la porta con la spalla. Poco efficace come tecnica, pensò Janet Lei sarebbe indietreggiata e avrebbe usato un calcio. Ma Dennis era stato seconda linea di rugby, rammentò, e all'epoca le sue spalle si erano scontrate con un tale numero di stronzi che dovevano necessariamente essere robuste. La porta si spalancò al primo tentativo e Dennis, catapultato nell'anticamera, afferrò l'estremità della balaustra per evitare di ruzzolare sulla figura immobile sdraiata a terra. Janet era proprio dietro di lui, ma ebbe il vantaggio di fare un ingresso
più dignitoso. Chiuse la porta meglio che poté, si inginocchiò sul pavimento accanto alla sconosciuta e le sentì il polso. Debole ma regolare. Un lato del viso grondava sangue. «Mio Dio» mormorò Janet. «Den? Tutto a posto?» «Sì. Occupati di lei. Io do un'occhiata in giro.» Si avviò verso il piano di sopra. Per una volta, a Janet non dispiacque che qualcuno le dicesse che cosa fare. Non le dispiacque neppure che Dennis fosse saltato automaticamente alla conclusione secondo cui la donna doveva prendersi cura dei feriti mentre l'uomo andava in cerca di gloria eroica. Be', le dispiacque, ma avvertì una sincera preoccupazione per la vittima, quindi non obiettò. Bastardo, pensò. Chiunque sia stato. «Va tutto bene, cara» le disse pur sospettando che non riuscisse a sentirla. «Chiamiamo un'ambulanza. Tieni duro.» Il sangue sembrava uscire per lo più da un profondo taglio poco sopra l'orecchio sinistro, benché ve ne fosse un po' anche intorno al naso e alle labbra. Pugni, si sarebbe detto. Vi erano poi giunchiglie e vetri rotti sparpagliati tutt'intorno, oltre a una chiazza umida sul tappeto. Janet si staccò la radio dal gancio della cintura e chiamò i soccorsi. Era una fortuna che l'apparecchio funzionasse sulla Collina; le radio personali UHF avevano un campo molto minore rispetto ai modelli VHF installati sulle auto ed erano soggette a famigerate zone d'ombra in cui la ricezione era discontinua. Dennis scese scuotendo la testa. «Quel figlio di puttana non è nascosto di sopra» annunciò. Porse a Janet una coperta, un cuscino e un asciugamano indicando la donna con il mento. «Per lei.» Janet le infilò il cuscino sotto il capo, le stese sopra la coperta con delicatezza e premette l'asciugamano sulla ferita sanguinante alla tempia. Incredibile, pensò, è pieno di sorprese, il nostro Den. «Credi che se la sia squagliata?» domandò. «Non lo so. Vado a controllare dietro. Resta con lei finché arriva l'ambulanza.» Prima che la giovane potesse replicare, si incamminò verso il retro della casa. Non era via da più di un minuto, quando la chiamò: «Janet, vieni a vedere. Sbrigati. Forse è importante». Curiosa, Janet lanciò un'occhiata alla sconosciuta. L'emorragia si era fermata, e non vi era altro che potesse fare. Tuttavia, era riluttante a lasciare sola quella poveretta.
«Forza» la chiamò di nuovo Dennis. «Sbrigati.» Rivolgendo un ultimo sguardo alla figura prona, Janet si allontanò. La cucina era immersa nell'oscurità. «Quaggiù.» Pur non riuscendo a vedere Dennis, capì che la voce veniva dal piano di sotto. Oltre una porta aperta alla sua destra, tre gradini conducevano a un pianerottolo illuminato da una semplice lampadina. Vi era un'altra porta (probabilmente quella del garage, ipotizzò) e dietro l'angolo gli scalini che scendevano in cantina. Dennis era in piedi là in fondo, davanti a una terza porta. Vi era appeso il poster di una donna nuda. Era sdraiata su un letto di ottone con le gambe divaricate, le dita che allargavano i bordi della vagina, e sorrideva da sopra il seno prosperoso, invitando lo spettatore, facendogli cenno di entrare. Dennis era lì davanti, con un ghigno stampato in faccia. «Bastardo» sibilò Janet. «Dov'è il tuo senso dell'umorismo?» «Non è divertente.» «Secondo te, che cosa significa?» «Non lo so.» Janet scorse una luce sotto l'uscio, fioca e tremolante, come se provenisse da una lampadina difettosa. Percepì anche uno strano odore. «Che cos'è questo tanfo?» chiese. «Come faccio a saperlo? Umidità? Fognature?» A Janet pareva però puzza di marcio. Marcio e incenso di sandalo. Scrollò leggermente le spalle. «Entriamo?» Bisbigliava senza sapere perché. «Direi di sì.» Janet lo precedette, quasi in punta di piedi, giù per gli ultimi gradini. Ormai il suo livello di adrenalina era salito alle stelle. Pian piano, allungò il braccio e provò ad abbassare la maniglia. Bloccata. Si spostò, e questa volta Dennis usò un calcio. La serratura andò in pezzi, e la porta si spalancò. Dennis si fece da parte, si piegò scimmiottando un inchino da gentiluomo e disse: «Prima le signore». Janet entrò nella cantina con Dennis a pochi centimetri dietro di lei. Non ebbe quasi il tempo di registrare le sue prime impressioni della stanzetta (specchi; decine di candele accese intorno a un materasso sul pavimento; una ragazza stesa sul materasso, nuda e legata, qualcosa di giallo intorno al collo; il fetore disgustoso, ancora più penetrante malgrado l'incenso, un odore come di fognature otturate e carne putrefatta; volgari dise-
gni a carboncino sulle pareti intonacate) prima che tutto accadesse. Sbucò da qualche parte dietro di loro, da uno degli angoli bui della cantina. Dennis si voltò per fronteggiarlo, tendendo le dita verso il manganello, ma fu troppo lento. Il machete gli tagliò la guancia, aprendo uno squarcio dall'occhio alle labbra. Prima che il poliziotto potesse provare dolore o sollevare la mano per stagnare il sangue, l'uomo lo colpì ancora, questa volta sul lato della gola. Dennis emise un gorgoglio e cadde in ginocchio, gli occhi spalancati. Il sangue caldo zampillò sulla faccia di Janet schizzando sui muri bianchi in vorticanti motivi astratti. Il suo lezzo intenso le provocò conati di vomito. Non ebbe il tempo di pensare. Non ce l'avevi mai quando succedeva davvero. Sapeva solo di non poter fare niente per Dennis. Non ancora. Doveva prima vedersela con il tizio armato di coltello. Resisti, Dennis, implorò in silenzio. Resisti. Quel tipo pareva non avere ancora finito di accanirsi su Dennis, e questo diede a Janet l'opportunità di estrarre lo sfollagente con impugnatura laterale. Aveva appena stretto il manico in modo che il bastone le proteggesse l'esterno del braccio, quando lui le si avventò contro per la prima volta. Sembrò confuso e stupito allorché, invece di affondare nella carne e nelle ossa, la lama fu deviata dal materiale duro. Questo fornì a Janet l'occasione che aspettava. A fanculo la tecnica e l'addestramento. Girandosi su se stessa, lo colpì alla tempia. Roteando gli occhi all'indietro, lo sconosciuto volò contro la parete, ma restò in piedi. Janet gli si avvicinò e gli sferrò una manganellata al polso della mano che reggeva il coltello. Sentì qualcosa che si spezzava. Lui urlò, e il machete cadde sul pavimento. Dopo averlo spedito con un calcio in un angolo lontano, la poliziotta afferrò con entrambe le mani lo sfollagente esteso in tutta la sua lunghezza, prese lo slancio e glielo abbatté di nuovo sul lato della testa. L'uomo cercò di recuperare l'arma, ma lei lo percosse ancora con tutte le sue forze alla nuca, poi di nuovo alla guancia e un'altra volta alla base del cranio. Ancora in ginocchio, lui si sollevò coprendola di oscenità, e lei gli diede un'altra bastonata sfondandogli la tempia. Lo sconosciuto rovinò contro il muro, dove restò immobile, le gambe distese, dopo aver lasciato una lunga macchia scura sull'intonaco scivolando giù. Un po' di schiuma rosa gli ribollì di fianco alla bocca, poi sparì. La recluta lo colpì di nuovo, una poderosa manganellata alla sommità del cranio, quindi estrasse le manette e lo legò a uno dei tubi che correvano in fondo alla parete. Lui gemette e si mosse, così lo picchiò di nuovo, con vigore, in cima al cranio.
Quando tacque, Janet tornò da Dennis. Era ancora in preda agli spasmi, ma gli spruzzi di sangue dalla ferita diminuivano. Janet si sforzò di ricordare le cure da prestare come primo soccorso. Preparò una compressa con il fazzoletto e la premette forte contro l'arteria recisa, cercando di ricongiungerne le estremità. Tentò quindi di effettuare la chiamata 10-9 sulla radio personale: poliziotto con urgente bisogno di aiuto. Ma non servì a nulla. Ottenne solo una serie di scariche. Una zona d'ombra. Niente da fare se non attendere l'arrivo dell'ambulanza. Non poteva spostarsi né uscire, non con Dennis in quelle condizioni. Non poteva lasciarlo. Sedette così a gambe incrociate e si posò la testa del collega in grembo, cullandolo e sussurrandogli assurdità nell'orecchio. L'ambulanza sarebbe arrivata presto, gli disse. Si sarebbe ripreso, aspetta e vedrai. Sembrava tuttavia che, per quanto tenesse premuta la compressa, il sangue le filtrasse fino alla divisa. Ne sentiva il tepore sulle dita, sulla pancia e sulle cosce. Per favore, Dennis, pregò, per favore, resisti. Sopra la casa di Lucy, Maggie scorse la piccola falce di una luna nuova e il tenue filo argenteo che disegnava intorno al buio di quella vecchia. La luna vecchia tra le braccia della nuova. Un cattivo presagio. I marinai credevano che il suo avvistamento, soprattutto attraverso un vetro, annunciasse un fortunale e la perdita di molte vite umane. Maggie rabbrividì. Non era superstiziosa, ma l'apparizione aveva qualcosa di raggelante, qualcosa che la sfiorava protendendosi verso di lei dal passato, quando la gente prestava maggiore attenzione a eventi cosmici come i cicli lunari. Riabbassando gli occhi verso la villetta, vide arrivare l'autopattuglia, sentì la poliziotta che bussava e chiamava, quindi guardò il suo compagno sfondare la porta. Poi non udì nulla per un po' (forse cinque o dieci minuti), finché credette di percepire un urlo straziante e lamentoso salire dalle viscere dell'edificio. Ma forse era stata la sua immaginazione. Ora il cielo era di un blu più chiaro e il coro dell'alba aveva cominciato a cantare. Che fosse stato un uccello? Sapeva però che nessun uccello aveva un verso tanto afflitto e angosciato, nemmeno la strolaga sul lago o il chiurlo tra la brughiera. Si massaggiò il collo continuando a osservare. Qualche secondo dopo, giunse un'ambulanza. Poi un'altra auto della polizia. Poi i paramedici. Gli inservienti lasciarono la porta socchiusa, e Maggie vide che si inginocchiavano accanto a qualcuno nell'anticamera. Qualcuno avvolto in una co-
perta marrone chiaro. Deposero la figura su una barella con le ruote e la spinsero lungo il vialetto fino all'autolettiga, che attendeva con gli sportelli posteriori aperti. Accadde tutto così in fretta che Maggie non distinse con chiarezza chi fosse, ma credette di scorgere i lucidi capelli neri di Lucy spiccare su un cuscino bianco. Dunque era come aveva temuto. Si rosicchiò l'unghia del pollice. Sarebbe dovuta intervenire prima? Aveva senz'altro avuto dei sospetti, ma avrebbe potuto in qualche modo impedire tutto questo? Che cosa avrebbe potuto fare? Il prossimo ad arrivare fu, le sembrò, un poliziotto in borghese. Ben presto sopraggiunsero cinque o sei uomini che indossarono immacolate tute usa e getta prima di entrare in casa. Qualcuno tese anche del nastro bianco e azzurro attraverso il cancello e isolò sia un lungo tratto di marciapiede, compresa la fermata dell'autobus più vicina, sia l'intero lato della via su cui sorgeva il numero 35, trasformando la Collina in una strada a una corsia per fare spazio alle auto della polizia e alle ambulanze. Maggie si domandò che cosa accadesse. Di sicuro non si sarebbero dati tanto da fare se non si fosse trattato di un episodio davvero grave. Che Lucy fosse morta? Che Terry, alla fine, l'avesse ammazzata? Forse si doveva arrivare fino a questo punto per attirare l'attenzione delle autorità. Man mano che la luce si intensificava, la scena divenne ancor più bizzarra. Comparvero altre auto della polizia e una nuova ambulanza. Mentre gli inservienti spingevano fuori una seconda barella, il primo autobus mattutino discese la Collina ostruendole la visuale. Scorse i passeggeri che si giravano, quelli dalla sua parte della strada che si alzavano per vedere che cosa fosse capitato, ma non capì chi fosse steso là sopra. Vide solo due poliziotti che salivano anch'essi sull'autolettiga. Poi una figura curva infagottata in una coperta incespicò lungo il vialetto, sostenuta da due agenti in divisa. In un primo momento, Maggie non la riconobbe. Una donna, pensò, a giudicare dalla sagoma e dal taglio della chioma bruna. Poi credette di intravedere l'uniforme blu. La poliziotta. Si sentì soffocare. Che cosa poteva essere accaduto per cambiarla così tanto in così poco tempo? Maggie non aveva mai pensato che una lite domestica potesse provocare tanto trambusto. Erano arrivati almeno cinque o sei veicoli della polizia, tra cui alcune auto civetta. Un uomo nerboruto dagli scuri capelli a spazzola scese da una Renault blu ed entrò nella villetta come se fosse il padrone di casa. Il tizio che lo accompagnava pareva un medico. O almeno, portava
una borsa nera e aveva quell'aria presuntuosa. Ora la gente della Collina usciva per andare al lavoro, tirando fuori le macchine dai garage o aspettando l'autobus alla fermata provvisoria creata da un addetto della rimessa. Alcune persone si riunirono davanti all'abitazione per curiosare, ma la polizia le allontanò. Maggie guardò l'orologio. Le sei e trenta. Era inginocchiata accanto alla finestra da due ore e mezzo, ma aveva l'impressione di aver assistito a una rapida serie di avvenimenti, come una sequenza di immagini al rallentatore. Rialzandosi, sentì le ginocchia scricchiolare e notò i profondi rombi rossi che il largo tappeto le aveva impresso sulla pelle. Ora vi era molta meno confusione davanti alla casa, solo i poliziotti e gli investigatori che andavano e venivano, sostando sul marciapiede per fumare, scuotere la testa e bisbigliare. Il groviglio di vetture parcheggiate a casaccio davanti all'abitazione di Lucy bloccava il traffico. Stanca e perplessa, Maggie si infilò jeans e maglietta e scese a prepararsi una tazza di tè e qualche fetta di pane tostato. Mentre riempiva il bollitore, si accorse che le tremava la mano. Senza dubbio avrebbero voluto interrogarla. E allora che cosa avrebbe detto loro? Capitolo 2 Il sostituto commissario Alan Banks - «sostituto» perché il suo diretto superiore, il commissario Gristhorpe, si era fratturato una caviglia lavorando sul muretto del giardino e sarebbe rimasto in malattia per almeno un paio di mesi -, firmò il registro di servizio al cancello e, traendo un profondo sospiro, entrò al numero 35 della Collina poco dopo le sei di quel mattino. Proprietari: Lucy Payne, ventidue anni, funzionario addetto ai prestiti presso l'agenzia locale della NatWest, vicino alla zona commerciale, e suo marito, Terence Payne, ventotto anni, insegnante della Silverhill Comprehensive. Nessun figlio. Nessun precedente penale. A tutti gli effetti una giovane coppia felice e realizzata. Sposata soltanto da un anno. Tutte le luci della villetta erano accese, e gli uomini della scientifica erano già al lavoro, vestiti, come Banks, con gli indumenti sterili di rigore: tute, guanti, calosce e cappucci bianchi. Assomigliavano a una specie di impresa di pulizie fantasma, pensò Banks, intenti a spazzolare, passare l'aspirapolvere, raccogliere campioni, impacchettare, etichettare. Banks sostò un attimo in anticamera per studiare la situazione. Sembrava una normale abitazione del ceto medio. La carta da parati a coste rosa
corallo pareva nuova. A destra, le scale coperte di moquette conducevano alle camere da letto. Forse i locali profumavano un po' troppo di deodorante per ambienti al limone. L'unico elemento che stonava era la macchia color ruggine sul tappeto crema dell'ingresso. Lucy Payne al momento era tenuta sotto osservazione sia dai medici sia dalla polizia presso il Leeds General Infirmary, proprio in fondo al corridoio in cui il marito, Terence Payne, lottava per la vita. Banks non provava molta pietà per lui; l'agente Dennis Morrisey aveva perso la battaglia per la vita molto più in fretta. E c'era anche una ragazza morta in cantina. Banks aveva ottenuto gran parte di queste informazioni parlando al cellulare con l'ispettore capo Ken Blackstone mentre si recava a Leeds, le altre interrogando i paramedici e gli inservienti dell'ambulanza davanti all'edificio. La prima telefonata al suo cottage di Gratly, quella che l'aveva svegliato dal sonno agitato, leggero e inquieto cui pareva destinato in quei giorni, era arrivata poco dopo le quattro e mezzo, quando si era fatto la doccia, si era infilato qualche indumento ed era saltato in auto. Un CD degli Zelenka Trios l'aveva aiutato a restare calmo durante il tragitto e l'aveva dissuaso dal correre rischi eccessivi mentre guidava sulla A1. In tutto, la corsa di centotrenta chilometri era durata circa un'ora e mezza e, se non avesse avuto altro per la testa, nella prima parte del viaggio avrebbe potuto ammirare una splendida alba di maggio sulle Yorkshire Dales, fenomeno fino ad allora piuttosto raro quella primavera. Sta di fatto che non aveva visto nulla al di fuori della strada davanti a sé e non aveva quasi sentito neppure la musica. Quando aveva raggiunto il raccordo di Leeds, l'ora di punta del lunedì mattina era già iniziata. Aggirando le macchie di sangue e le giunchiglie sul tappeto dell'anticamera, Banks si avviò verso il retro della villetta. Notò che qualcuno aveva rimesso nel lavello della cucina. «Uno degli inservienti dell'ambulanza» spiegò l'uomo della scientifica impegnato a setacciare pensili e cassetti. «La sua prima volta, poveretto. Per fortuna è riuscito ad arrivare fin qui evitando di vomitare dappertutto.» «Cristo, che cosa aveva mangiato a colazione?» «Patatine e curry rosso tailandese, direi.» Banks imboccò le scale che conducevano in cantina. Scendendo, scorse la porta che dava accesso al garage. Molto comoda se volevi introdurre qualcuno in casa senza essere visto, qualcuno che avevi rapito, magari drogato o messo fuori gioco con una botta in testa. Apri e diede una rapida occhiata all'automobile. Era una Vectra scura a quattro porte, con la targa
che iniziava per «S». Le ultime tre lettere erano NGV. Non della zona. Si appuntò di richiedere un controllo presso l'Ufficio della motorizzazione di Swansea. Riusciva a sentire le voci giù in cantina, a vedere i flash delle macchine fotografiche. Probabilmente era Luke Selkirk, il bravissimo fotografo della scientifica, reduce da un corso di addestramento finanziato dall'esercito a Catterick Camp, dove aveva imparato a immortalare scene di bombardamenti terroristici. Non che quel particolare talento servisse ora, ma era rassicurante sapere di lavorare con un professionista altamente qualificato, uno dei migliori. Gli scalini di pietra erano consumati in alcuni punti; le pareti erano di mattoni intonacati. Qualcuno aveva teso altro nastro bianco e azzurro attraverso la porta aperta in fondo al locale. Una scena del crimine interna. Nessuno avrebbe oltrepassato quel limite finché Banks, Luke, il medico e gli uomini della scientifica avessero portato a termine i rispettivi compiti. Banks si fermò sulla soglia e annusò. L'odore era rivoltante: muffa, incenso, putrefazione e la dolce zaffata metallica del sangue. Entrò tuffandosi sotto il nastro, e l'orrore lo colpì con tanta forza che indietreggiò di qualche centimetro vacillando. Non che non avesse visto di peggio, anzi. Aveva visto di molto peggio: Dawn Whadden, la prostituta di Soho sventrata; William Grant, il ladruncolo decapitato; Colleen Dickens, la giovane barista di cui erano rimasti solo i resti mangiucchiati; corpi crivellati di proiettili e squartati da coltelli. Rammentava tutti i nomi. Ma non era quello il punto, l'aveva imparato nel corso degli anni. Non era questione di sangue e visceri, di intestini che si riversavano fuori del ventre, di arti mancanti o di profondi squarci che si aprivano agitandosi in un'oscena parodia di bocche. In fondo, non era quello a sconvolgere. Quello era solo l'aspetto esteriore. Mettendocela tutta, ci si convinceva che un luogo del delitto come questo era un set cinematografico oppure un teatro durante le prove, che i cadaveri erano solo manichini e il sangue era finto. No, quello che lo sconvolgeva più di ogni altra cosa era la compassione, la profonda empatia che era giunto a provare verso le vittime dei crimini su cui indagava. A differenza di molti suoi colleghi, e contrariamente a quanto aveva immaginato un tempo, con il passare degli anni non era diventato più insensibile, più immune. Ogni nuovo omicidio era come una ferita sanguinante che si riapriva. Soprattutto un omicidio come questo. Riusciva a controllarsi e a fare il suo lavoro tenendo la bile giù nelle budella bronto-
lanti, ma lo corrodeva da dentro come un acido e gli impediva di dormire la notte. Paura, dolore e disperazione permeavano quelle pareti come il sudiciume delle fabbriche aveva incrostato gli antichi edifici della città. Solo che questo tipo di orrore non si poteva rimuovere con la sabbiatura. Sette persone nella cantina claustrofobica, cinque vive e due morte; sarebbe stato un incubo legale e logistico. Qualcuno aveva acceso la luce, una semplice lampadina, ma le fiammelle delle candele tremolavano ancora in tutta la stanza. Dalla soglia, Banks vide il medico chino sopra il corpo esangue sul materasso. Una ragazza. Gli unici segni esterni di violenza erano alcuni tagli ed ecchimosi, il naso insanguinato e un pezzo di corda da bucato di plastica gialla intorno alla gola. Era stesa con braccia e gambe divaricate sul suo lurido giaciglio, le mani legate con la stessa corda a pioli metallici conficcati nel pavimento. Il sangue fuoriuscito dall'arteria recisa dell'agente Morrisey le aveva schizzato stinchi e caviglie. Nella cantina si erano intrufolate alcune mosche, tre delle quali ronzavano intorno alla crosta sotto il suo naso. Sembrava avere una sorta di vescica o eruzione cutanea intorno alla bocca. Il volto era pallido, pervaso dal colore bluastro della morte, il resto del corpo bianco sotto il bagliore della lampadina. A peggiorare il tutto erano i grandi specchi sul soffitto e su due delle pareli, che moltiplicavano la scena come un trucco da luna park. «Chi ha acceso la luce?» domandò Banks. «Gli inservienti dell'ambulanza» rispose Luke Selkirk. «Sono stati i primi ad arrivare dopo gli agenti Taylor e Morrisey.» «Okay, per il momento la lasceremo accesa, tanto per avere un'idea più chiara di quello che ci troviamo di fronte. Ma voglio che più tardi fotografi anche la scena originale. Solo con le candele.» Luke annuì. «A proposito, questa è Faye McTavish, la mia nuova assistente.» Simile a un'orfanella, Faye era una donna esile, cerea, sulla ventina, con un chiodo infilato nella narice e fianchi quasi inesistenti. La pesante e antiquata Pentax che portava intorno al collo pareva troppo grossa perché riuscisse a tenersi in equilibrio, ma se la cavava abbastanza bene. «Piacere, Faye» la salutò Banks stringendole la mano. «Vorrei solo averla conosciuta in circostanze migliori.» «Anch'io.» Banks si girò verso la giovane sul materasso. Sapeva chi era: Kimberley Myers, quindici anni, sparita venerdì sera, mentre tornava da un ballo organizzato presso il circolo giovanile a soli
quattrocento metri da casa sua. Era una ragazza carina, con i caratteristici capelli lunghi e biondi e la snella figura atletica di tutte le vittime. Ora i suoi occhi sbarrati fissavano lo specchio sul soffitto come se cercassero una spiegazione a tutta quella sofferenza. Sui peli pubici scintillava dello sperma secco. E del sangue. Sperma e sangue, la solita vecchia storia. Perché questi mostri sceglievano sempre ragazze carine?, si chiese Banks per la centesima volta. Oh, conosceva tutte le risposte scontate; sapeva che donne e bambini erano bersagli facili perché più deboli sul piano fisico, più semplici da intimidire e assoggettare alla forza maschile, proprio come sapeva che anche prostitute e fuggiaschi erano bersagli facili perché ci si accorgeva raramente della loro scomparsa, più raramente di quanto accadesse con il membro di una bella famigliola come quella di Kimberley. Ma c'era dell'altro. Questo genere di casi presentava sempre un oscuro e profondo lato sessuale e, per essere l'oggetto adatto a chiunque fosse capace di un simile gesto, la vittima non doveva solo essere più debole, ma doveva anche avere un seno e una vagina, pronti per il piacere e la profanazione suprema da parte dell'aguzzino. E magari una certa aura di giovinezza e innocenza. Questa era la depredazione dell'innocenza. Gli uomini uccidevano altri uomini per molte ragioni, durante le guerre addirittura a migliaia, ma nei crimini come questo la vittima doveva sempre essere una donna. Il primo poliziotto giunto sul posto aveva avuto l'accortezza di delimitare con il nastro un angusto percorso sul pavimento cosicché nessuno camminasse per tutta la stanza distruggendo le prove ma, dopo quanto era capitato agli agenti Morrisey e Taylor, probabilmente era troppo tardi. Dennis Morrisey giaceva a terra, raggomitolato su un fianco in una pozza di sangue. Quest'ultimo aveva imbrattato anche parte del muro e uno degli specchi, tracciando ghirigori che avrebbero retto il confronto con le opere di Jackson Pollock. Le altre pareti erano tappezzate di foto pornografiche strappate da riviste e di oscene e infantili figure stilizzate di uomini dal fallo enorme, simili al gigante di Cerne, disegnate con gessetti colorati. Qua e là erano sparsi grossolani simboli occulti e teschi sogghignanti. Vi erano un'altra pozza di sangue accanto al muro vicino alla porta e una lunga macchia scura sull'intonaco. Terence Payne. La macchina fotografica di Luke Selkirk lampeggiò, riscuotendo Banks dalla sua trance. Faye maneggiava ora la videocamera portatile. L'altro uomo presente si voltò e parlò per la prima volta: l'ispettore capo Ken Blackstone della polizia del West Yorkshire, impeccabile come sempre nono-
stante gli indumenti protettivi. I capelli grigi gli si arricciavano sopra le orecchie, e gli occhiali dalla montatura metallica gli ingrandivano gli occhi penetranti. «Alan» disse quasi sospirando. «Sembra un dannato mattatoio, vero?» «Bell'inizio di settimana. Quando sei arrivato?» «Alle quattro e quarantaquattro.» Abitando poco distante da Lawnswood, probabilmente Blackstone non aveva impiegato più di mezz'ora per raggiungere la Collina. Banks, a capo dell'unità del North Yorkshire, era contento che fosse Blackstone a guidare il nucleo del West Yorkshire assegnato a quell'operazione congiunta, denominata «Camaleonte» perché fino ad allora l'assassino era riuscito a mimetizzarsi, a passare inosservato confondendosi nell'oscurità. Spesso la collaborazione comportava problemi di egocentrismo e incompatibilità caratteriale, ma Banks e Blackstone si conoscevano da otto o nove anni e si erano sempre trovati bene insieme. Andavano d'accordo anche al di fuori del lavoro, perché accomunati dalla predilezione per i pub, il cibo indiano e le cantanti jazz. «Hai già parlato con i paramedici?» domandò il commissario. «Sì» rispose l'altro. «Hanno detto di aver controllato i segni vitali della ragazza e di non averne riscontrati, così l'hanno lasciata perdere. Anche l'agente Morrisey era ormai morto. Terence Payne era ammanettato a quel tubo laggiù. Aveva subito violenti colpi alla testa, ma respirava ancora, dunque l'hanno portato d'urgenza all'ospedale. C'è stato un certo inquinamento delle prove, soprattutto per quanto riguarda la posizione del corpo di Morrisey, ma è minimo, date le circostanze insolite.» «Il fatto è, Ken, che qui abbiamo due scene del delitto sovrapposte, forse tre, se consideri che cosa è successo a Payne.» Banks si interruppe. «Quattro, se conti Lucy Payne al piano superiore. Questo ci causerà non poche difficoltà. Dov'è Stefan?» Il sergente investigativo Stefan Nowak era il cocoordinatore della scientifica, da poco arrivato alla centrale della Divisione occidentale di Eastvale e inserito nella squadra da Banks, che non aveva tardato ad ammirare le sue capacità. In quel momento non lo invidiava per niente. «Qui da qualche parte» rispose Blackstone. «L'ultima volta che l'ho visto era diretto di sopra.» «Puoi dirmi qualcos'altro, Ken?» «Non molto, purtroppo. Dovremo aspettare di approfondire il discorso con l'agente Taylor.»
«Quando?» «Più tardi. I paramedici l'hanno portata via. Era sotto shock.» «Non mi meraviglia per niente. Hanno...» «Sì, hanno sigillato i suoi vestiti in un sacchetto e il medico della polizia è andato all'ospedale per fare il necessario.» Il che significava, tra l'altro, prelevarle tamponi dalle mani e residui da sotto le unghie. Un dettaglio facile da dimenticare, e un dettaglio che forse tutti volevano dimenticare, era che, per il momento, la recluta Janet Taylor non era un'eroina, bensì la sospettata in un caso di abuso di potere. Una bella gatta da pelare. «Che cosa te ne pare, Ken?» chiese Banks. «Così, intuitivamente.» «Ho l'impressione che abbiano sorpreso Payne quaggiù, che l'abbiano messo alle corde. Lui non ha esitato ad aggredirli e, chissà come, ha colpito l'agente Morrisey con quello.» Indicò un machete insanguinato sul pavimento, accanto alla parete. «Come puoi vedere, Morrisey è stato colpito due o tre volte. L'agente Taylor deve aver avuto tempo sufficiente a estrarre il manganello e usarlo contro Payne. Ha fatto la cosa giusta, Alan. Deve averla assalita come un maledetto pazzo. Ha dovuto difendersi. Legittima difesa.» «Non sta a noi deciderlo» osservò Banks. «Quali lesioni ha subito Payne?» «Cranio fracassato. Fratture multiple.» «Peccato. Però, a ben guardare, la sua morte risparmierebbe ai tribunali un po' di denaro e parecchi grattacapi. E la moglie?» «Pare che lui l'abbia colpita con un vaso sulle scale e che sia caduta di sotto. Lieve commozione cerebrale, qualche ecchimosi. A parte questo, niente di grave. È stata fortunata che non fosse cristallo massiccio, altrimenti a quest'ora sarebbe nella stessa barca del marito. Comunque, è ancora priva di sensi e la tengono sotto osservazione, ma si rimetterà. L'agente Hodgkins è all'ospedale in questo momento.» Banks studiò di nuovo la stanza, con gli specchi, le candele tremolanti e i disegni osceni. Notò dei pezzi di vetro sul materasso, vicino al cadavere, e, scorgendo il proprio riflesso in uno dei frammenti, si rese conto che appartenevano a uno specchio rotto. Sette anni di disgrazie. Roomful of Mirrors di Hendrix non gli sarebbe più sembrata la stessa. Il medico alzò gli occhi dal corpo per la prima volta da quando il commissario era entrato in cantina e, rimessosi in piedi, si avvicinò ai due uomini. «Dottor Ian Mackenzie, patologo del ministero degli Interni» si pre-
sentò tendendo la mano a Banks, che gliela strinse. Era un uomo robusto con una grossa testa di capelli castani divisi dalla scriminatura centrale, un naso carnoso e una fessura tra i denti davanti. Sempre di buon auspicio, quella, pensò Banks ricordando le parole pronunciate una volta da sua madre. Magari avrebbe controbilanciato lo specchio rotto. «Che cosa può dirci?» gli domandò. «La presenza di cianosi, emorragie petecchiali ed ecchimosi sulla gola indica un decesso per asfissia, molto probabilmente asfissia da strangolamento provocata da quella corda gialla intorno al collo, ma non ne avrò la certezza fino a dopo l'autopsia.» «Qualche traccia di attività sessuale?» «Alcune lacerazioni anali e vaginali, quelle che sembrano chiazze di sperma. Ma lo può vedere anche da solo. Di nuovo, potrò fornirle altri dettagli più tardi.» «Ora della morte?» «Recente. Molto recente. Non c'è quasi nessuna ipostasi, il rigor mortis non è iniziato, ed è ancora calda.» «Quanto?» «Due o tre ore, direi.» Banks guardò l'orologio. Poco dopo le tre, allora, non molto prima della lite domestica che aveva indotto la dirimpettaia a chiamare il 999. Imprecò. Se la telefonata fosse arrivata solo qualche minuto o magari un'ora prima, forse avrebbero potuto salvare Kimberley. D'altro canto, l'orario era interessante per i quesiti che sollevava sui motivi del litigio. «E l'eruzione intorno alla bocca? Cloroformio?» «Può darsi. Probabilmente usato per rapirla, magari addirittura per calmarla, anche se esistono metodi molto più delicati.» Banks lanciò un'occhiata al corpo di Kimberley. «Non penso che il nostro uomo si sia preoccupato troppo di essere delicato, non crede, dottore? Il cloroformio è facile da reperire?» «Abbastanza. Viene usato come solvente.» «Ma non è stato la causa del decesso?» «No, non direi. Non posso esserne del tutto sicuro fino a dopo l'autopsia, naturalmente, ma, se fosse la causa della morte, troveremmo vesciche più estese nell'esofago e vi sarebbero anche gravi danni epatici.» «Quando può iniziare?» «Se escludiamo l'eventualità di un tamponamento a catena sull'autostrada, dovrei riuscire a cominciare le autopsie oggi pomeriggio» rispose Ma-
ckenzie. «Si dà il caso che abbiamo parecchio da fare, ma... be', ci sono delle priorità.» Guardò prima Kimberley, poi l'agente Morrisey. «Si direbbe che sia morto dissanguato. Carotide e giugulare entrambe recise. Molto doloroso, ma rapido. A quanto pare, la sua compagna ha fatto il possibile, ma era troppo tardi. Ditele di non sentirsi in colpa. Era spacciato.» «Grazie, dottore» replicò Banks. «Grazie mille. Se potesse eseguire prima l'autopsia di Kimberley...» «Certo.» Mackenzie si allontanò per dare le disposizioni necessarie, mentre Luke Selkirk e Faye McTavish continuavano a fotografare e riprendere. Banks e Blackstone restarono in silenzio, registrando la scena. Non vi era molto altro da vedere, ma quello che c'era sarebbe rimasto impresso a lungo nella loro memoria. «Dove conduce quella porta laggiù?» Banks indicò la parete accanto al materasso. «Non lo so» rispose Blackstone. «Non ho ancora avuto il tempo di controllare.» «Diamo un'occhiata, allora.» Banks si avvicinò e provò ad abbassare la maniglia. Non era bloccata. Con lentezza, aprì la pesante porta di legno che dava accesso a un altro locale, più piccolo, con il pavimento di terriccio. Il fetore era molto più forte là dentro. Cercò a tastoni un interruttore, ma non lo trovò. Mandò Blackstone a prendere una torcia e tentò di distinguere qualcosa nella luce che filtrava dalla cantina. Quando i suoi occhi si furono abituati al buio, gli parve di vedere gruppetti di funghi che spuntavano qua e là. Poi capì... «Oh, Cristo» esclamò abbandonandosi contro la parete. Quelli più vicini a lui non erano affatto funghi, bensì dita umane che facevano capolino dalla terra. Dopo una veloce colazione e un interrogatorio con due detective della polizia a proposito della sua chiamata al 999, Maggie sentì il bisogno di una boccata d'aria fresca. Con tutto il trambusto dall'altra parte della strada, per un po' non sarebbe riuscita comunque a lavorare, anche se si ripromise di provarci più tardi. In quel momento, era irrequieta e avvertiva la necessità di schiarirsi le idee. Gli investigatori si erano limitati per lo più a rivolgerle domande di carattere generale, e lei non aveva accennato a
Lucy, ma aveva avuto la sensazione che almeno uno di loro non fosse soddisfatto delle sue risposte. Sarebbero tornati. Non sapeva ancora che cosa diavolo stesse accadendo. Naturalmente, i poliziotti con cui aveva parlato non si erano lasciati sfuggire nulla, non le avevano nemmeno detto come stava Lucy, e il giornale radio locale non era stato molto illuminante. Per il momento avevano annunciato solo che un civile e un agente di polizia erano rimasti feriti qualche ora prima, e la notizia era passata in secondo piano rispetto alla vicenda di Kimberley Myers, una ragazza dei dintorni scomparsa venerdì sera mentre tornava a casa da un ballo al circolo giovanile. Scendendo i gradini davanti alla porta d'ingresso e oltrepassando le fucsie, che di lì a poco sarebbero fiorite chinando le pesanti campane rosa violaceo sopra il vialetto, Maggie notò che la confusione al numero 35 andava aumentando e che alcuni vicini si erano riuniti in capannelli sul marciapiede, ormai isolato dalla strada per mezzo di corde. Diversi uomini che indossavano tute bianche e portavano pale, secchi e crivelli scesero da un furgone e attraversarono rapidi il giardino. «Oh, guardate» gridò uno dei curiosi. «Hanno secchiello e paletta. Staranno andando alla spiaggia di Blackpool.» Ma nessuno rise. Come Maggie, tutti cominciavano a rendersi conto che era avvenuto qualcosa di davvero molto brutto al 35 della Collina. Una decina di metri più in là, dall'altra parte della viuzza che la separava dalla casa di Lucy, si snodava una fila di negozi (una pizzeria da asporto, un parrucchiere, un minimarket, un'edicola, una rosticceria), e vari poliziotti in uniforme discutevano con i commercianti. Probabilmente questi ultimi volevano aprire le loro attività, ipotizzò Maggie. Alcuni agenti in borghese fumavano e chiacchieravano seduti sul muretto davanti alla casa. Le radio gracchiavano. Il quartiere aveva ben presto iniziato ad assomigliare al luogo di un disastro naturale, come un terremoto o il deragliamento di un treno. Maggie rammentò di aver visto le conseguenze del sisma verificatosi a Los Angeles nel 1994, quando ci era andata con Bill prima del matrimonio: un palazzo appiattito (tre piani ridotti a due nel giro di pochi secondi), le vie solcate da crepe, l'autostrada in parte crollata. Benché qui non vi fossero danni visibili, quel che era accaduto sembrava la stessa cosa, aveva la stessa aura traumatizzata. Pur non sapendo ancora che cosa fosse capitato, la gente, stordita, stimava l'entità della catastrofe; la comunità era oppressa da una cappa di apprensione e da un profondo senso di terrore per la potenza distruttiva che la mano di Dio
aveva scatenato. Erano consapevoli che era accaduto qualcosa di grave a pochi passi da casa loro. Maggie avvertiva già che la vita nel quartiere non sarebbe più stata la stessa. Svoltò a sinistra e si avviò lungo la Collina, sotto il ponte della ferrovia. In fondo vi era un piccolo stagno artificiale, incastrato tra i complessi residenziali e le zone commerciali. Non era molto, ma sempre meglio di niente. Per lo meno, poteva sedere su una panchina accanto all'acqua e dare da mangiare alle anatre, osservando gli altri che portavano a spasso i cani. Era anche un luogo sicuro, caratteristica importante in questa zona della città, dove le abitazioni grandi e vecchie come quella di Maggie sorgevano fianco a fianco alle case popolari, più brutte e recenti. I furti imperversavano, e gli assassinii non erano rari, ma giù allo stagno gli autobus a due piani sfrecciavano sulla strada principale a pochi metri di distanza, e il numero delle persone normali intente a passeggiare con i cani era sufficiente a non farla mai sentire isolata o minacciata. Le aggressioni si verificavano in pieno giorno, lo sapeva, eppure laggiù le pareva di essere abbastanza vicina alla sicurezza. Era una bella mattinata tiepida. Il cielo era sereno, ma la brezza frizzante costringeva a indossare una giacca leggera. Di tanto in tanto, una nuvola alta passava davanti al sole schermandone i raggi per uno o due secondi e proiettando ombre sulla superficie dell'acqua. Maggie pensava che vi era qualcosa di molto rilassante nel dar da mangiare alle anatre. Quasi qualcosa di ipnotico. Non dipendeva certo dai pennuti, che sembravano non conoscere il significato della parola generosità. Tu gettavi il cibo, e loro vi si avventavano addosso litigando e schiamazzando. Sbriciolandosi il pane raffermo tra le dita e buttandolo nell'acqua, Maggie ricordò il suo primo incontro con Lucy Payne, solo un paio di mesi prima. Quel giorno, un giorno molto caldo per essere marzo, era andata in città a comprare carta e colori, poi si era recata da Borders sulla Briggate per acquistare qualche libro e in seguito si era ritrovata a gironzolare per il Victoria Quarter verso Kirkgate Market, quando si era imbattuta in Lucy che veniva dall'altra direzione. Si erano già viste per la strada e nei negozi del quartiere e si erano sempre salutate. In parte per scelta e in parte per timidezza (uscire e conoscere gente non era mai stato il suo forte), Maggie non aveva amici nel suo nuovo mondo, a eccezione di Claire Toth, la figlia adolescente della vicina, che pareva averla adottata. Lucy Payne, aveva ben presto scoperto, era uno spirito affine.
Forse perché erano entrambe lontane dal loro habitat naturale, come compatrioti che si incrociano in un paese straniero, si erano fermate e avevano scambiato quattro chiacchiere. Lucy aveva spiegato che era la sua giornata libera e che stava facendo un po' di shopping. Maggie aveva proposto di prendere una tazza di tè o caffè al bar all'aperto di Harvey Nichols, e Lucy aveva accettato. Così, si erano sedute e avevano riposato i piedi stanchi, appoggiando i pacchetti sul pavimento. Lucy aveva notato le scritte (tra cui anche quella di Harvey Nichols) sui sacchetti di Maggie e aveva farfugliato qualcosa sul fatto di non avere il fegato di entrare in un posto tanto chic. Le sue buste, era emerso ben presto, venivano da negozi meno pretenziosi, come British Home Stores e C&A. Maggie aveva già notato questa riluttanza negli abitanti dell'Inghilterra settentrionale e aveva sentito ripetere spesso che la tipica folla di Leeds in K-way e berretto di panno non si avventurava mai in un grande magazzino di lusso come Harvey Nichols, ma la confessione di Lucy l'aveva sorpresa comunque. Questo perché Maggie considerava Lucy una donna tanto bella ed elegante, con i lucidi capelli corvini lunghi fino al fondoschiena e il genere di figura che gli uomini ammirano nelle fotografie delle riviste. Lucy era alta e prosperosa, con la vita che si stringeva e i fianchi che si allargavano nella giusta proporzione e, quel giorno, il sobrio abito giallo sotto la giacca leggera ne sottolineava le forme senza eccessiva vistosità, mettendo anche in risalto le gambe tornite. Non era molto truccata; non ne aveva bisogno. La pelle chiara era liscia come il riflesso in uno specchio, le sopracciglia scure arcuate, gli zigomi alti sul viso ovale. Gli occhi erano neri, con pagliuzze simili a pietre focaie che, sparpagliate qua e là, catturavano la luce come cristalli di quarzo mentre si guardava intorno. Quando era arrivato il cameriere, Maggie aveva domandato a Lucy se desiderasse un cappuccino. L'altra aveva risposto di non averne mai bevuto uno prima e di non sapere bene che cosa fosse, ma aveva aggiunto che l'avrebbe assaggiato volentieri. Maggie ne aveva ordinati due. Al primo sorso, Lucy si era sporcata le labbra di schiuma, che aveva tamponato con il tovagliolo. «Sono una pasticciona» aveva riso. «Non essere sciocca» aveva replicato Maggie. «No, dico sul serio. È quello che ripete sempre Terry.» Aveva parlato in tono molto dolce, come aveva fatto anche Maggie per un po' dopo aver mollato Bill. Maggie era stata sul punto di commentare che Terry era uno stupido, ma
si era morsicata la lingua. Insultare il marito di Lucy durante il loro primo incontro non sarebbe stato per nulla educato. «Ti piace il cappuccino?» le aveva chiesto. «È squisito.» Lucy ne aveva bevuto un altro sorso. «Da dove vieni?» aveva domandato. «Non sono troppo ficcanaso, vero? È solo che il tuo accento...» «No, figurati. Vengo da Toronto, in Canada.» «Non mi meraviglia che tu sia così raffinata. Io non sono mai andata più lontano della regione dei Laghi.» Maggie aveva riso. Toronto, raffinata? «Vedi» aveva proseguito Lucy rabbuiandosi un po'. «Mi stai già prendendo in giro.» «No, no, non è così» l'aveva rassicurata Maggie. «Davvero, credimi. È solo che... be', suppongo che sia tutta questione di prospettiva, non trovi?» «Che cosa vuoi dire?» «Se dicessi a una newyorkese che Toronto è raffinata, mi riderebbe in faccia. Le caratteristiche più lusinghiere che attribuiscono alla città sono la pulizia e la sicurezza.» «Be', è qualcosa di cui andare fieri, no? Leeds non ne ha nessuna delle due.» «A me non sembra tanto male.» «Perché sei partita? Voglio dire, perché sei venuta qui?» Maggie aveva aggrottato le sopracciglia frugando nella borsa alla ricerca di una sigaretta. Si dava ancora della scema per aver ceduto a trent'anni dopo essere riuscita a evitare il maledetto tabacco per tutta la vita. Naturalmente, poteva incolpare lo stress, anche se, alla fine, la nicotina non aveva fatto altro che accrescere quello stress. Le era tornata in mente la prima volta che Bill aveva sentito l'odore di fumo nel suo alito, quel passaggio repentino da marito premuroso a «Faccia da mostro», come l'aveva soprannominato. Fumare non era però così male. Persino la strizzacervelli diceva che, per il momento, non era un'idea tanto riprovevole togliersi lo sfizio di una sigaretta di quando in quando. Avrebbe sempre potuto smettere più tardi, una volta che si fosse rimessa in sesto. «Insomma, perché sei venuta qui?» aveva insistito Lucy. «Non voglio essere indiscreta, ma mi interessa. Ti hanno offerto un nuovo lavoro?» «Non proprio. Quello che faccio, lo posso fare ovunque.» «Di che cosa si tratta?» «Faccio la grafica. Illustro libri, soprattutto libri per bambini. Al mo-
mento sto lavorando a una nuova edizione delle Fiabe dei fratelli Grimm.» «Oh, sembra affascinante» aveva commentato Lucy. «A scuola ero una schiappa in educazione artistica. Non so disegnare nemmeno un omino stilizzato.» Aveva riso portandosi la mano alla bocca. «Allora, perché sei qui?» Maggie aveva lottato con se stessa per un attimo, temporeggiando. Poi le era accaduta una cosa strana, come se le sue cinghie e catene interiori si fossero allentate, lasciandole spazio e trasmettendole la sensazione di fluttuare nell'aria. Mentre sedeva lì nel Victoria Quarter fumando e bevendo un cappuccino con Lucy, aveva avvertito un'inattesa e improvvisa ondata di affetto per questa giovane donna che conosceva appena. Aveva desiderato che diventassero amiche, aveva immaginato che discutessero dei loro problemi, proprio come stavano facendo adesso, offrendosi consigli e comprensione, come aveva fatto con Alicia a Toronto. Con la sua goffaggine, con il suo charme ingenuo, Lucy le aveva ispirato una sorta di sicurezza emotiva: ecco qui qualcuno di cui potersi fidare, aveva pensato Maggie. E quel che più contava, pur essendo forse la più «raffinata» delle due, aveva avuto l'impressione che avessero più cose in comune di quanto sembrasse. Per lei era difficile ammettere la verità, ma aveva sentito il bisogno impellente di parlare con qualcuno che non fosse la psicologa. E perché non Lucy? «Che cosa ti prende?» le aveva chiesto l'altra. «Sembri così triste.» «Davvero? Oh... Niente. Vedi, io e mio marito» aveva balbettato Maggie incespicando sulle parole come se avesse la lingua delle dimensioni di una bistecca «io... ehm... siamo separati.» Aveva la bocca secca. Nonostante le corde allentate, era stato molto più difficile del previsto. Aveva bevuto qualche altro sorso dalla tazza. Lucy aveva corrugato la fronte. «Mi dispiace. Ma perché trasferirsi così lontano? Un sacco di gente si separa, ma non cambia paese. A meno che lui non sia... Oh, mio Dio.» Si era data uno schiaffetto alla guancia. «Lucy, temo che tu abbia appena fatto un'altra gaffe.» Maggie non era riuscita a trattenere un pallido sorriso, sebbene Lucy avesse indovinato l'amara verità. «Non preoccuparti» l'aveva tranquillizzata. «Sì, era violento. Sì, mi picchiava. Si può dire che stia scappando. È vero. Di certo, per un po', non voglio nemmeno vivere nel suo stesso paese.» La veemenza con cui aveva pronunciato quelle parole aveva sbalordito persino lei. Con una strana espressione negli occhi, Lucy si era guardata intorno di
nuovo, come se cercasse qualcuno. Solo clienti anonimi scivolavano su e giù per il grande magazzino sotto il tetto di vetro colorato, i sacchetti in mano. Lucy le aveva sfiorato il braccio con i polpastrelli, e Maggie si era sentita percorrere da un lieve brivido, quasi il riflesso automatico di tirarsi indietro. Un attimo prima aveva pensato che le avrebbe fatto bene sfogarsi con qualcuno, condividere la sua vicenda con un'altra donna, ma adesso non ne era più tanto sicura. Si sentiva troppo nuda, troppo svestita. «Mi dispiace averti messa in imbarazzo» si era scusata, una punta di sarcasmo nella voce. «Ma sei stata tu a chiedermelo.» «Oh, no» aveva detto Lucy afferrandole il polso. Là stretta era molto forte, le mani fredde. «Per favore, non scusarti. Me la sono cercata. Lo faccio sempre. È colpa mia. Ma non mi hai messa in imbarazzo. È solo... Sono senza parole. Insomma... tu? Tu sembri così in gamba, così decisa.» «Sì, è proprio quello che pensavo: com'è possibile che una cosa del genere capiti a una come me? Non succede solo alle altre donne, donne povere, stupide, ignoranti, meno fortunate?» «Per quanto tempo?» aveva chiesto Lucy. «Voglio dire...?» «Per quanto tempo gli ho permesso di continuare prima di andarmene?» «Sì.» «Due anni. E non domandarmi come abbia fatto a sopportarlo così a lungo. Non lo so. Sto ancora cercando una risposta con l'aiuto di una strizzacervelli.» «Capisco.» Lucy aveva fatto una pausa, assimilando il tutto. «Alla fine, che cosa ti ha spinto a mollarlo?» Maggie aveva taciuto per un istante, poi aveva proseguito. «Un giorno ha semplicemente passato il segno» aveva spiegato. «Mi ha rotto la mandibola e due costole, procurandomi alcune lesioni agli organi interni. Sono finita in ospedale. Mentre ero lì, ho sporto denuncia per aggressione. E sai una cosa? Appena l'ho fatto, avrei voluto ritirarla, ma la polizia me l'ha impedito.» «Che cosa vuoi dire?» «Non so come funzioni qui, ma in Canada non sei più tu a decidere dopo aver sporto denuncia per aggressione. Non puoi cambiare idea e ritirarla. A ogni modo, hanno emesso una diffida contro di lui. È filato tutto Uscio per un paio di settimane, poi si è presentato a casa con un mazzo di fiori, dicendo che voleva parlarmi.» «Che cosa hai fatto?» «Non ho tolto la catenella. Non l'ho lasciato entrare. Era in una delle sue
fasi di pentimento, supplicava e faceva moine, giurando sulla tomba di sua madre. L'aveva già fatto in passato.» «E aveva violato la promessa?» «Ogni volta. Comunque, poi ha cominciato a minacciarmi e offendermi. Ha iniziato a martellare la porta di colpi e a coprirmi di insulti. Ho chiamato la polizia. L'hanno arrestato. È tornato a tampinarmi. Poi un'amica mi ha consigliato di andarmene per un po', più lontano era, meglio sarebbe stato. Sapevo della casa sulla Collina. I proprietari sono Ruth e Charles Everett. Li conosci?» Lucy aveva scosso la testa. «Solo di vista. Ma non li vedo da un po'.» «E come avresti potuto? Charles ha accettato un incarico di un anno alla Columbia University di New York a partire da gennaio. Ruth è partita con lui.» «Come fai a conoscerli?» «Io e Ruth lavoriamo nello stesso settore. È un mondo abbastanza piccolo.» «Ma perché Leeds?» Maggie aveva sorriso. «Perché no? Primo, c'era la casa, che aspettava solo me. Secondo, i miei genitori erano originari dello Yorkshire. Sono nata qui. A Rawdon. Ma ce ne siamo andati quando ero una bambina. A ogni modo, sembrava la soluzione ideale.» «Così vivi dall'altra parte della strada, tutta sola in quella grande casa?» «Tutta sola.» «Mi pareva, infatti, di non aver visto entrare e uscire nessun altro.» «A dire il vero, Lucy, tu sei quasi la prima persona con cui parlo da quando sono arrivata, a parte la strizzacervelli e il mio agente, intendo. Non che la gente sia antipatica. Sono solo stata... be', fredda, suppongo. Un po' distaccata.» La mano di Lucy era ancora posata sul suo avambraccio, ma ora non lo stringeva più. «È naturale. Dopo tutto quello che hai passato. Ti ha seguita fin qui?» «Credo di no. Credo che non sappia dove sono. Ho ricevuto qualche telefonata anonima nel cuore della notte, ma, a essere sincera, non so se fossero da parte sua. Penso di no. Tutti i miei amici hanno giurato di non rivelargli dov'ero, e lui non conosce Ruth e Charles. Non si interessava molto alla mia carriera. Dubito sappia che sono in Inghilterra, anche se non mi stupirei se lo scoprisse.» Aveva bisogno di cambiare argomento. Sentiva gli squilli nelle orecchie, aveva l'impressione che il grande magazzino le vorticasse intorno e che la mandibola le facesse male, che il tetto di vetro
colorato sopra di lei girasse come un caleidoscopio e che i muscoli del collo le si irrigidissero, come succedeva sempre quando pensava per troppo tempo a Bill. «Disturbi psicosomatici», aveva diagnosticato la strizzacervelli. Come se servisse a farla stare meglio. Chiese notizie sulla vita di Lucy. «Nemmeno io ho degli amici» aveva replicato l'altra rigirando il cucchiaino tra gli avanzi di schiuma. «Credo di essere sempre stata piuttosto timida, anche a scuola. Non so mai che cosa dire alle persone.» Poi era scoppiata a ridere. «Neppure la mia vita è un granché. Lavoro in banca. Torno a casa. Mi prendo cura di Terry. Siamo sposati da meno di un anno. Non vuole che esca da sola. Nemmeno oggi, il mio giorno libero. Se lo sapesse... Ora che ci penso...» Aveva guardato l'orologio ed era parsa innervosirsi. «Mille grazie per il cappuccino, Maggie. Devo proprio scappare. Devo prendere l'autobus prima che finiscano le lezioni. Sai, Terry fa l'insegnante.» A quel punto era stata Maggie ad afferrare il braccio di Lucy e a impedirle di andarsene così all'improvviso. «Che cosa c'è, Lucy?» le aveva domandato. L'altra aveva distolto lo sguardo. «Lucy?» «Non è niente. È solo quello che hai detto prima.» Aveva abbassato la voce e aveva lanciato un'occhiata al grande magazzino prima di continuare. «So bene che cosa si prova, ma adesso non posso parlarne.» «Terry ti picchia?» «No. Non come... Ecco... è molto severo. Per il mio bene.» Aveva guardato Maggie dritta negli occhi. «Tu non mi conosci. Sono una bambina disobbediente. Terry deve mettermi in riga.» Disobbediente, aveva ripetuto Maggie tra sé. Mettere in riga. Che parole strane e allarmanti. «Deve tenerti a freno? Controllarti?» «Sì.» Lucy si era rialzata. «Ascolta, devo scappare. È stato un piacere chiacchierare con te. Spero che diventeremo amiche.» «Anch'io» aveva detto Maggie. «Dobbiamo assolutamente parlare ancora. Ci sono persone che possono aiutarti, sai.» Abbozzando un sorriso, Lucy si era incamminata in tutta fretta verso Vicar Lane. Maggie era rimasta istupidita, la mano che le tremava mentre vuotava la tazza. La schiuma lattiginosa era secca e fredda contro le sue labbra. Lucy una vittima come lei? Maggie stentava a crederci. Questa donna
sana, forte e bella una vittima, proprio come la debole, gracile e minuscola Maggie? Non poteva essere. Ma non aveva forse avvertito un certo non so che in Lucy? Una specie di affinità, qualcosa che le accomunava. Doveva trattarsi di questo. Era ciò di cui non aveva voluto parlare con la polizia quel mattino. Sapeva che forse vi sarebbe stata costretta, se la situazione si fosse rivelata davvero grave, ma voleva rimandare quel momento il più a lungo possibile. Ripensando a Lucy, Maggie ricordò l'unica cosa che aveva imparato fino ad allora sulla violenza domestica: non importa chi sei. Può succederti lo stesso. Alicia e tutte le sue altre care amiche canadesi si erano meravigliate che una donna sveglia, affettuosa, realizzata, intelligente e istruita come Maggie fosse potuta cadere vittima di una canaglia come Bill. Aveva scorto l'espressione sui loro volti, aveva notato che si zittivano e cambiavano argomento appena entrava in una stanza. Doveva avere qualcosa che non andava, mormoravano tutte. Ed era quello che aveva pensato anche lei, quello che pensava ancora, in certa misura. Era innegabile, infatti, che anche Bill fosse sveglio, affettuoso, realizzato, intelligente e istruito. Finché non assumeva la sua Faccia da mostro, beninteso, ma solo Maggie l'aveva visto sotto quella luce. Ed era bizzarro, riteneva, che nessuno si fosse chiesto perché un avvocato brillante, facoltoso e affermato come Bill sentisse il bisogno di maltrattare una donna quasi trenta centimetri più bassa e almeno quaranta chili più leggera di lui. Anche quando i poliziotti erano intervenuti allorché Bill aveva cominciato a tempestare la sua porta di pugni, Maggie aveva intuito che volevano giustificarlo: era uscito di senno perché sua moglie aveva inspiegabilmente chiesto una diffida contro di lui; era soltanto sconvolto perché il suo matrimonio era andato a rotoli e la moglie non voleva dargli l'opportunità di aggiustare le cose. Scuse, nient'altro che scuse. Maggie era l'unica a sapere come poteva diventare. Ogni giorno ringraziava Dio per non aver avuto figli. Erano queste le sue riflessioni quando tornò al presente, alle anatre nello stagno. Lucy era una vittima come lei, e adesso Terry l'aveva fatta finire in ospedale. Maggie si sentiva responsabile, come se avesse dovuto fare qualcosa. Ci aveva provato, il Signore le era testimone. Dopo che - durante numerosi incontri segreti a base di caffè e biscotti - Lucy le aveva raccontato delle violenze fisiche e psicologiche inflittele dal marito costringendola a giurare di non fiatare con anima viva, avrebbe dovuto fare qualcosa. A differenza di molti altri, Maggie sapeva però con esattezza come funziona-
vano quelle cose. Conosceva la posizione di Lucy, sapeva che la cosa migliore era tentare di persuaderla a chiedere aiuto, a lasciare Terry. Cosa che aveva cercato di fare. Ma Lucy non voleva piantarlo. Diceva di non avere un posto dove andare e nessuno a cui rivolgersi. Un pretesto abbastanza diffuso. E del tutto logico. Dove puoi andare quando abbandoni la tua vita? Maggie era stata fortunata perché gli amici le erano stati vicini e, se non altro, aveva trovato una soluzione temporanea. La sorte non era altrettanto benevola con la maggior parte delle donne nelle sue condizioni. Il suo matrimonio era così recente, aveva inoltre precisato Lucy, che si sentiva in dovere di dargli una possibilità, di concedergli un po' di tempo; non poteva semplicemente mollare ogni cosa, voleva mettercela tutta. Un'altra risposta diffusa tra le donne nella sua situazione, ma, pur essendone consapevole, Maggie aveva solo potuto sottolineare che, malgrado tutti gli sforzi, le cose non sarebbero migliorate, che Terry non sarebbe cambiato e che prima o poi Lucy se ne sarebbe andata, quindi perché non andarsene prima e risparmiarsi le percosse? Ma niente da fare. Lucy voleva tenere duro ancora per un po'. Almeno per un periodo più lungo. Terry era così gentile dopo, così buono con lei; le comprava fiori e regali, giurava che non l'avrebbe rifatto, che sarebbe cambiato. Sentire tutto questo faceva venire la nausea a Maggie (nel vero senso della parola, poiché una volta aveva addirittura vomitato appena Lucy era uscita da casa sua), gli stessi maledetti motivi e pretesti che aveva dato a se stessa e ai pochi amici intimi cui aveva raccontato tutto sin dall'inizio. Ma ascoltava. Che cos'altro poteva fare? Lucy aveva bisogno di un'amica e, nel bene o nel male, Maggie lo era. E adesso questo. Maggie lanciò le ultime briciole di pane nello stagno. Mirò all'anatroccolo più brutto, piccolo e arruffato di tutti, quello in fondo, che fino a quel momento non era riuscito a partecipare al banchetto. Non fece alcuna differenza. Il pane atterrò a pochi centimetri dal suo becco ma, prima che riuscisse a raggiungerlo, gli altri si avvicinarono nuotando in un branco minaccioso e glielo strapparono da sotto il naso. Banks voleva dare un'occhiata al 35 della Collina prima che gli uomini della scientifica mettessero a soqquadro l'intera casa. Non sapeva che cosa avrebbe scoperto, ma aveva bisogno di passare qualche istante nell'a-
bitazione. Al piano di sotto, oltre alla cucina con il piccolo tinello, vi era solo un salotto contenente un divanetto e due poltrone, uno stereo, un televisore, un videoregistratore e una minuscola libreria. Benché la stanza fosse arredata con lo stesso tocco femminile dell'ingresso (tendine di pizzo increspate, carta da parati rosa corallo, un morbido tappeto, soffitto crema con elaborate cornici), le videocassette nel mobiletto sotto la TV riflettevano gusti maschili: film d'azione, innumerevoli episodi dei Simpson, una collezione di pellicole dell'orrore e di fantascienza - comprese le serie complete di Alien e Scream -, oltre a qualche vero classico come The Wicker Man, Il bacio della pantera in versione originale, La notte del demonio e un cofanetto dei film di David Cronenberg. Banks rovistò qua e là, ma non trovò alcun porno, niente di amatoriale. Forse gli uomini della scientifica sarebbero stati più fortunati quando avessero buttato tutto all'aria. I CD formavano un singolare miscuglio. Vi era qualcosa di classico, per lo più FM compilation e una raccolta con il meglio di Mozart, ma vi era anche qualche CD di rap, heavy metal, country e western. Gusti eclettici. Anche i libri erano eterogenei: manuali di bellezza, compendi del «Reader's Digest» in edizione straordinaria, tecniche di cucito, romanzi rosa, gialli tradizionali e occulti della varietà più cruda, biografie tascabili di famosi serial killer e assassinii di massa. Il locale mostrava uno o due segni di disordine (il quotidiano della sera prima aperto sul tavolino, un paio di videocassette fuori delle custodie), ma nel complesso era lindo e pulito. Qua e là vi era anche qualche soprammobile, statuine di porcellana raffiguranti personaggi e animali delle fiabe, il genere di oggetti che la madre di Banks detestava perché le complicavano la vita quando doveva spolverare. Nel tinello, vi era una grande vetrina colma di ceramiche Royal Doulton. Probabilmente un regalo di nozze, ipotizzò Banks. Di sopra vi erano due camere da letto (la più piccola adibita a ufficio casalingo), oltre a una toilette e una stanza da bagno. Niente doccia, solo vasca e lavabo. Entrambi gli ambienti erano immacolati, la porcellana scintillante, l'aria greve del profumo di lavanda. Banks guardò intorno ai fori di scarico, ma vide solo cromo lucido, nessuna traccia di sangue o capelli. David Preece, l'esperto di informatica, sedeva nell'ufficio battendo sulla tastiera del computer. Un grande archivio era sistemato nell'angolo; avrebbero dovuto svuotarlo e trasferirne il contenuto nella stanza dei reperti di Millgarth. «Ancora niente, Dave?» domandò Banks.
Preece si spinse gli occhiali su per il naso e si voltò. «Non molto. Solo qualche sito Web pornografico con segnalibro, alcune chat room, cose di questo genere. Ancora niente di illegale, direi.» «Insisti.» Banks entrò nella camera da letto padronale. I colori parevano proseguire il tema dell'oceano, ma invece del corallo vi era il blu mare. Azzurro? Cobalto? Ceruleo? Annie Cabbot avrebbe indovinato la sfumatura esatta perché suo padre era un artista, ma per Banks era un semplice blu, come le pareti del suo salotto, anche se di uno o due toni più scuro. Il letto a una piazza e mezza era coperto da un piumino nero sprimacciato. I mobili fai da te erano di pino biondo della Scandinavia. Un altro televisore era posato su un supporto ai piedi del letto. Stando alle etichette, l'armadietto conteneva una collezione di film erotici, ma nulla di illegale o amatoriale, niente roba con bambini o animali. I Payne erano appassionati di video porno, dunque. E con questo? Lo era anche più di metà delle famiglie del paese, Banks era disposto a scommetterci. Più di metà delle famiglie del paese non se ne andava però in giro a rapire e ammazzare ragazzine. Qualche fortunato giovane agente avrebbe dovuto sedersi e guardarli dal primo all'ultimo per verificare che il contenuto corrispondesse ai titoli. Banks frugò nell'armadio: vestiti, camicie, completi, scarpe (per lo più da donna), nulla di insolito. Gli uomini della scientifica avrebbero dovuto sigillare tutto nei sacchetti ed esaminarlo con cura. Anche lì vi erano molti soprammobili: porcellane di Limoges, portagioie con carillon, scatole laccate e dipinte a mano. Il profumo di anice e rosa muschiata che aleggiava nell'aria, notò il commissario, proveniva da una ciotola di pot-pourri sul cesto della biancheria sporca sotto la finestra. La stanza si affacciava sulla Collina e, scostando le tendine di pizzo, Banks vide le abitazioni in cima all'altura sopra la strada, seminascoste da alberi e cespugli. Vide anche il trambusto più giù, nella via. Si voltò e si guardò intorno ancora una volta, trovando la camera un po' deprimente nella sua assoluta sterilità. Pareva ordinata da un depliant a colori e montata il giorno prima. L'intera casa (a eccezione della cantina, naturalmente) trasmetteva quell'impressione: confortevole, contemporanea, perfetta per la giovane coppia emergente e mondana del ceto medio. Così normale, ma anonima. Con un sospiro, tornò al piano di sotto. Capitolo 3
Kelly Diane Matthews era scomparsa durante la festa dell'ultimo dell'anno al Roundhay Park di Leeds. Aveva diciassette anni, era alta un metro e sessanta e pesava solo quarantacinque chili. Abitava ad Alwoodley e frequentava la Allerton High School. Aveva due sorelline: Ashley, nove anni, e Nicola, tredici. La chiamata al commissariato locale era giunta alle 9.11 del 1° gennaio 2000. Il signore e la signora Matthews erano preoccupati perché la figlia non era rincasata quella notte. Erano andati anche loro a un party e non erano tornati fino quasi alle tre. Avevano notato che Kelly non era ancora arrivata, ma non si erano dati troppo pensiero, perché era con un paio di amiche e sapevano che le feste di San Silvestro duravano spesso fino alle ore piccole. Sapevano anche che aveva soldi sufficienti per un taxi. Erano stanchi e un po' brilli, avevano spiegato alla polizia, così si erano coricati subito. Quando si erano svegliati l'indomani e avevano scoperto che il letto di Kelly era ancora intatto, avevano cominciato ad agitarsi. Non aveva mai fatto nulla del genere. Prima avevano telefonato ai genitori delle due amiche con cui era uscita: attendibili, a loro giudizio. Entrambe le adolescenti, Alex Kirk e Jessica Bradley, erano rientrate poco dopo le due del mattino. Poi Adrian Matthews aveva chiamato la polizia. L'agente Rearden, che aveva risposto alla telefonata, aveva colto una sincera apprensione nella sua voce e aveva mandato subito un collega a casa Matthews. I genitori di Kelly avevano dichiarato di averla vista per l'ultima volta intorno alle 19 del 31 dicembre, quando si era recata all'appuntamento con le amiche. Indossava blue jeans, scarpe da tennis bianche, un pesante maglione a trecce e una giacca tre quarti scamosciata. Più tardi, quando la polizia le aveva interrogate, le altre due ragazze avevano affermato che il gruppo si era diviso durante lo spettacolo pirotecnico, ma che nessuno si era preoccupato troppo. Dopo tutto, c'erano migliaia di persone nelle strade, gli autobus avrebbero circolato fino a tardi e i taxi andavano in giro a caccia di clienti. Pur non essendo ricchi, Adrian e Gillian Matthews erano abbastanza benestanti. Adrian supervisionava i sistemi informatici di un grande negozio al dettaglio, mentre Gillian era vicedirettrice della filiale di un istituto di credito immobiliare in centro. Erano proprietari di una villetta semindipendente in stile georgiano non lontana dall'Eccup Reservoir, in una zona della città più vicina ai parchi, alla campagna e ai campi da golf che alle fabbriche, ai magazzini e alle sudicie file di case a schiera.
A detta di amici e insegnanti, Kelly era una bella ragazza sveglia e responsabile che prendeva sempre ottimi voti e che sarebbe stata senza dubbio accettata dalla sua università preferita, al momento quella di Cambridge, dove intendeva studiare legge. Era anche la migliore velocista della scuola. Aveva lunghi e splendidi capelli biondo oro e amava lo sport, la danza, i vestiti e i cantanti pop. Era infine un'appassionata di musica classica e un'eccellente pianista. Il poliziotto incaricato delle indagini aveva ben presto concluso che Kelly Matthews non era la tipica adolescente scappata di casa e aveva ordinato una perlustrazione del parco. Tre giorni dopo, non avendo trovato nulla, le squadre di ricerca avevano gettato la spugna. Nel frattempo, la polizia aveva interrogato centinaia di nottambuli, alcuni dei quali avevano dichiarato di averla vista con un uomo e altri con una donna. Erano stati interpellati, invano, anche tassisti e conducenti di autobus. Una settimana dopo la scomparsa, la borsetta di Kelly era stata rinvenuta tra i cespugli vicino al parco; conteneva le chiavi, un diario, una spazzola, qualche cosmetico e un portamonete con oltre trentacinque sterline e un po' di spiccioli. Il diario non aveva fornito alcun indizio. L'ultima annotazione, risalente al 31 dicembre 1999, era una breve lista dei propositi per il nuovo anno: 1. Aiutare più spesso la mamma nelle faccende. 2. Esercitarmi tutti i giorni al pianoforte. 3. Essere più buona con le mie sorelline. Banks si tolse gli indumenti protettivi e si appoggiò all'auto accendendosi una sigaretta. Prevedeva che sarebbe stata una calda giornata di sole, con qualche rara nuvola alta che attraversava il cielo azzurro sospinta da una lieve brezza, e lui l'avrebbe trascorsa per lo più rinchiuso da qualche parte, nella casa o a Millgarth. Ignorò i curiosi sull'altro lato della via e finse di non udire i clacson strombazzanti dei veicoli bloccati lungo la Collina, che adesso era stata del tutto isolata dai colleghi della stradale. I giornalisti erano arrivati; li vedeva premere contro le transenne. Sapeva che alla fine si sarebbe giunti a questo, o a qualcosa di molto simile a questo, sin da quando aveva accettato di guidare metà della task force assegnata all'indagine congiunta sulla serie di scomparse: cinque giovani donne in tutto, tre del West Yorkshire e due del North Yorkshire. Il supervisore generale era il vicecapo della polizia di contea (Sezione inve-
stigativa) del West Yorkshire, ma Banks e Blackstone lo vedevano di rado perché lavorava alla centrale di Wakefield. Rispondevano direttamente al comandante di distretto Philip Hartnell - capo della Divisione investigazioni criminali di Millgarth, a Leeds, nonché inquirente responsabile ufficiale -, che però demandava tutto il lavoro a loro due. Anche la sala operativa principale era a Millgarth. Sotto Banks e Blackstone vi erano diversi ispettori; un'intera schiera di agenti e sergenti investigativi scelti tra le forze di entrambe le parti della contea; alcuni esperti civili; il sergente investigativo Stefan Nowak, coordinatore della scientifica; e, in qualità di psicologa consulente, la dottoressa Jenny Fuller, che era stata in America per imparare a elaborare profili criminali presso il Centro nazionale per l'analisi dei reati violenti all'accademia dell'FBI di Quantico, in Virginia, e non assomigliava nemmeno un po' a Jodie Foster. Aveva studiato anche con Paul Britton a Leicester ed era considerata uno degli astri nascenti nel campo relativamente nuovo della psicologia applicata al lavoro d'indagine. Banks aveva collaborato con Jenny Fuller durante il suo primissimo caso a Eastvale, ed erano diventati cari amici. Forse qualcosa di più, ma tra loro sembrava sempre frapporsi qualche ostacolo. Probabilmente era meglio così, si disse Banks, anche se spesso, guardandola, non riusciva a convincersene. Jenny aveva labbra che ci si poteva aspettare di vedere solo sulla bocca imbronciata di una bomba sexy francese, la figura che si assottigliava e si arrotondava nei punti giusti e i vestiti (di solito costosi, per lo più di seta verde e color ruggine) che sembravano scorrerle addosso. Era la «liquefazione dei suoi vestiti» di cui scriveva quel vecchio sporcaccione del poeta Herrick. Banks vi si era imbattuto in un'antologia che aveva iniziato a leggere dopo essersi sentito per anni troppo ignorante in materia di poesia. I versi come quelli di Herrick gli rimanevano impressi, per esempio quello sul «dolce disordine dell'abito» che, chissà perché, gli ricordava il sergente investigativo Annie Cabbot. Annie non era appariscente come Jenny, non era altrettanto voluttuosa, non era il genere di donna che attirava fischi d'ammirazione per la strada, ma possedeva una bellezza discreta e profonda che lo attraeva molto. Purtroppo, a causa delle nuove e onerose responsabilità che gli erano state affidate, non aveva visto Annie molto spesso di recente e, per via dell'inchiesta, si era ritrovato a trascorrere sempre più tempo con Jenny, accorgendosi che i vecchi sentimenti, quella bizzarra e improvvisa scintilla tra loro, non si erano mai affievoliti.
Di fatto, non era successo nulla, ma di quando in quando qualcosa si era messo in moto. Anche Annie era oberata di lavoro. Aveva trovato un posto da ispettore nella Sezione reclami e disciplina della Divisione occidentale e l'aveva accettato perché era stata la prima opportunità che le si era presentata. Non era il massimo, e di certo non l'avrebbe resa famosa, ma era un gradino obbligatorio nella scala che si era prefissa di salire, e Banks l'aveva incoraggiata a tentare. L'agente investigativo Karen Hodgkins infilò la sua piccola Nissan grigia nel varco che i poliziotti le avevano aperto fra le transenne, interrompendo le riflessioni di Banks. Scese e gli si avvicinò. Si era dimostrata energica e ambiziosa sin dall'inizio delle indagini, e il commissario pensava che avrebbe fatto strada se avesse sviluppato una predisposizione per la politica della polizia. Gli ricordava vagamente Susan Gray, la sua ex collaboratrice, ora sergente investigativo a Cirencester, ma aveva un carattere più malleabile e sembrava più sicura di sé. «Come procedono le cose?» le domandò Banks. «Niente di nuovo, signore. Lucy Payne è sotto sedativi. Il medico dice che non potremo parlarle fino a domani.» «Ha preso le impronte digitali a lei e al marito?» «Sì, signore.» «E i vestiti?» Banks aveva chiesto che gli indumenti di Lucy Payne venissero esaminati dalla scientifica. Dopo tutto, in ospedale non ne avrebbe avuto bisogno. «A quest'ora dovrebbero già essere al laboratorio, signore.» «Bene. Che cosa aveva indosso?» «Camicia da notte e vestaglia.» «E Terence Payne? In che stato è?» «Tiene duro. Ma dicono che, anche se dovesse riprendersi, potrebbe restare... sa... un vegetale... Potrebbero esserci gravi danni cerebrali. Gli hanno trovato frammenti di cranio conficcati nel cervello. Sembra... be'...» «Continui.» «Il medico sostiene che la poliziotta ha usato più forza del necessario. Era molto arrabbiato.» «Davvero?» Cristo. Banks vide profilarsi all'orizzonte un processo se Payne fosse sopravvissuto con danni cerebrali. Meglio lasciare che se ne occupasse il comandante di distretto Hartnell; in fondo, era per questo che esistevano i comandanti di distretto. «Come sta l'agente Taylor?»
«E a casa, signore. C'è un'amica con lei. Una collega di Killingbeck.» «Okay, Karen, per il momento voglio che faccia da tramite con l'ospedale. Se cambiano le condizioni dei pazienti - di uno dei due -, voglio saperlo subito. È sua responsabilità, d'accordo?» «Sì, signore.» «E ci servirà qualcuno che tenga i contatti con la famiglia.» Indicò la casa. «Dobbiamo informare i genitori di Kimberley prima che apprendano la notizia dai media. Dobbiamo anche chiedergli di identificare il cadavere.» «Ci penso io, signore.» «Gentile da parte sua, Karen, ma ha già parecchia carne al fuoco. E poi è un compito ingrato.» Karen Hodgkins tornò all'auto. A dire il vero, Banks riteneva che non avesse il tatto indispensabile a fare da tramite con la famiglia. Riusciva a immaginare la scena: l'incredulità dei genitori, il loro sfogo di dolore, l'imbarazzo e i modi bruschi di Karen. No. Ci avrebbe mandato quel grassottello di Jones. L'agente investigativo Jones sarà anche stato uno sciattone, ma sprizzava compassione e sollecitudine da tutti i pori. Avrebbe dovuto fare il prete. Uno dei problemi che si presentavano quando selezionavi una squadra da un ventaglio così ampio, pensò Banks, era l'impossibilità di conoscere abbastanza bene i singoli membri. Il che non era di grande aiuto quando si trattava di assegnare i compiti. Durante le indagini era necessaria la persona giusta per il lavoro giusto, e una sola decisione errata avrebbe potuto mandare a monte un'intera inchiesta. Banks non era abituato a dirigere un gruppo tanto numeroso, e i problemi di coordinamento gli avevano procurato non pochi grattacapi. Anzi, tutte quelle responsabilità non gli davano pace. Non si riteneva all'altezza dell'incarico, non si sentiva in grado di tenere in aria tante palle tutte insieme. Aveva già commesso più di un piccolo errore e aveva gestito nel modo sbagliato qualche situazione con il personale. Tanto che cominciava a considerare molto limitate le sue capacità di valutazione. Era più facile lavorare con un gruppo ristretto (Annie, Winsome Jackman, il sergente Hatchley), in cui poteva stare dietro a ogni minimo dettaglio. Questo assomigliava più al lavoro che aveva svolto nella polizia di Londra, ma lì era un semplice agente o sergente che riceveva gli ordini anziché impartirli. Nemmeno verso la fine, quando l'avevano promosso ispettore, aveva mai dovuto accollarsi un simile carico di responsabilità. Si era appena acceso la seconda sigaretta, quando un'altra auto superò le transenne. Ne saltò fuori la dottoressa Jenny Fuller che, litigando con una
ventiquattr'ore e una borsetta di pelle stracolma, era di fretta come sempre, quasi fosse in ritardo per un appuntamento importante. La chioma rossa le ricadeva scompigliata sulle spalle, e gli occhi erano verdi come l'erba dopo un acquazzone estivo. Le lentiggini, le zampe di gallina e il naso leggermente adunco di cui si lamentava sempre non facevano altro che renderla più avvenente e più umana. «Buongiorno, Jenny» la salutò Banks. «Stefan ti sta aspettando dentro. Pronta?» «Che cosa sarebbe questo? Il benvenuto dello Yorkshire?» «No. Significava solo: "Sei sveglia?".» Jenny abbozzò un sorriso. «Mi fa piacere vedere che sei in forma nonostante l'ora impossibile.» Banks guardò l'orologio. «Jenny, sono in piedi dalle quattro e mezzo. Adesso sono quasi le otto.» «Appunto» ribadì lei. «Un'ora impossibile.» Guardò in direzione della casa. L'apprensione le oscurò il volto. «È una faccenda seria, vero?» «Molto.» «Entri con me?» «No. Ho visto abbastanza. Inoltre, farò meglio ad aggiornare Hartnell, altrimenti mi scuoierà vivo.» Jenny trasse un profondo respiro e parve prepararsi all'azione. «Giusto» approvò. «Forza e coraggio. Sono pronta.» Così dicendo, entrò. L'ufficio di Philip Hartnell era spazioso, come si conveniva al suo grado. Era anche piuttosto spoglio. Hartnell non reputava opportuno mettersi a proprio agio là dentro. Questo, sembrava gridare la stanza, è un ufficio e soltanto un ufficio. Vi era un tappeto, naturalmente (un comandante di distretto meritava pur un tappeto), oltre a un archivio, una libreria traboccante di manuali tecnici e procedurali e, sulla scrivania, accanto a un tampone di carta assorbente vergine, un lucido lap-top nero e un unico raccoglitore giallo. Tutto qui. Nessuna fotografia della famiglia, nulla fuorché una cartina della città alla parete e la vista del mercato all'aperto e della stazione degli autobus dalla finestra, il campanile della parrocchia di Leeds che sbucava al di là del terrapieno ferroviario. «Accomodati, Alan» lo salutò Hartnell. «Tè? Caffè?» Banks si passò la mano sul cuoio capelluto. «Gradirei un caffè nero, se non è troppo disturbo.»
«Niente affatto.» Hartnell ordinò per telefono e si appoggiò allo schienale della sedia, che cigolò quando si mosse. «Devo far oliare questo maledetto aggeggio» osservò. Aveva una decina di anni meno di Banks, il che significava che era vicino ai quaranta. Aveva approfittato del programma di promozioni accelerate, che intendeva offrire ai giovani brillanti come lui la possibilità di arrivare al comando prima di diventare dei vecchi rincoglioniti. Banks non aveva seguito il medesimo percorso; aveva scalato la gerarchia nel modo tradizionale, facendo una lunga gavetta e, come chi aveva alle spalle la sua stessa esperienza, tendeva a diffidare di quelli che avevano conosciuto una carriera folgorante, perché avevano imparato tutto fuorché il fondamentale squallore del mestiere di poliziotto. Strano a dirsi, Banks trovava simpatico Phil Hartnell. Era affabile, era uno sbirro sollecito e intelligente e lasciava che gli uomini ai suoi ordini facessero il loro lavoro. Nel corso dell'indagine Camaleonte, Banks aveva avuto incontri regolari con lui e, pur avendo dato qualche suggerimento (alcuni dei quali utili), Hartnell non aveva mai cercato di interferire o di mettere in dubbio i suoi giudizi. Alto, di bell'aspetto e con il tronco affusolato di un culturista dilettante, veniva anche considerato un dongiovanni, scapolo e felicemente incline a rimanere tale ancora per un po'. «Spiegami che cosa dobbiamo aspettarci» disse a Banks. «Uno stramaledetto casino, se vuoi proprio saperlo.» Banks gli raccontò che cosa avevano trovato per il momento nello scantinato del numero 35 della Collina, informandolo sulle condizioni dei tre sopravvissuti. Hartnell lo ascoltò, la punta dell'indice posata sulle labbra. «Quindi è molto probabile che sia il nostro uomo? Il Camaleonte?» «Molto probabile.» «Bene, allora. Se non altro, abbiamo qualcosa di cui essere contenti. Un serial killer in meno per le strade.» «Non è stato merito nostro. La sorte ha voluto che i Payne abbiano avuto una lite domestica e che una vicina abbia chiamato la polizia dopo averli sentiti.» Hartnell allungò le braccia dietro la testa. Gli occhi grigio-azzurri brillavano. «Ascolta, Alan, data la merda che ci piove addosso quando la sorte ci mette i bastoni tra le ruote o quando non facciamo alcun passo avanti pur sgobbando come negri, direi che questa volta abbiamo il diritto di cantare vittoria e magari anche di vantarci un po'. Dipende tutto dal punto di
vista.» «Se lo dici tu.» «Lo dico, Alan. Lo dico, eccome.» Arrivò il caffè, ed entrambi tacquero per sorseggiarlo. A Banks, che quel mattino non ne aveva ingollate le solite tre o quattro tazze, parve delizioso. «Ma abbiamo un potenziale grave problema, vero?» proseguì Hartnell. Banks annuì. «L'agente Taylor.» «Esatto.» Hartnell picchiettò con il dito sul raccoglitore. «La recluta Janet Taylor.» Distolse lo sguardo per un attimo, volgendolo verso la finestra. «A proposito, conoscevo Dennis Morrisey. Non bene, ma lo conoscevo. Un tipo con le palle. Pare che lavorasse con noi da anni. Ci mancherà.» «E l'agente Taylor?» «Non posso dire di conoscerla. Sono state seguite le procedure prescritte?» «Sì.» «Ancora nessuna dichiarazione?» «No.» «Okay.» Hartnell si alzò e guardò fuori per qualche istante, dando la schiena a Banks. Quando riprese a parlare, non si girò. «Sai bene quanto me, Alan, che, secondo il protocollo, l'Autorità per i reclami contro la polizia deve affidare la soluzione di problemi come questo all'ispettore di un'unità vicina. Non deve esserci il minimo sospetto di insabbiamento, di trattamento privilegiato. Inutile dire che mi piacerebbe molto occuparmene di persona. Dopo tutto, Dennis era uno dei nostri. Come l'agente Taylor. Ma non è consentito.» Si voltò e tornò verso la sedia. «Riesci a immaginare come si fregherà le mani la stampa, soprattutto se Payne muore? Poliziotta eroica mette al tappeto serial killer e finisce per essere accusata di abuso di potere. Anche se si tratta di omicidio preterintenzionale, per quanto ci riguarda è sempre un lavoro malfatto. E con il caso Hadleigh in tribunale proprio ora...» «Hai ragione.» Banks, come qualsiasi altro poliziotto, aveva dovuto assistere più di una volta allo scandalo di uomini e donne che avevano ferito o ucciso dei criminali per difendere familiari o proprietà e che erano stati arrestati per aggressione, o peggio per omicidio. Al momento, il paese attendeva il verdetto della giuria su un agricoltore di nome John Hadleigh, che aveva freddato con la doppietta un ladro di sedici anni disarmato. Hadleigh viveva in una fattoria sperduta del Devon, e poco più di un anno prima alcuni delinquenti avevano già fatto irruzione in casa sua derubandolo
e malmenandolo. Il giovane ladro aveva una fedina penale lunga un braccio, ma non aveva importanza. L'elemento più importante era che i fori lasciati dai pallini coprivano parte del fianco e della schiena, segno che il ragazzo si era girato per scappare quando il fucile aveva sparato. In tasca gli avevano trovato un coltello a serramanico chiuso. Il caso era sulle prime pagine dei giornali da un paio di settimane e sarebbe stato discusso in tribunale di lì a qualche giorno. Un'inchiesta non significava che l'agente Janet Taylor avrebbe perso il lavoro o sarebbe finita in carcere. Per fortuna, in situazioni simili si chiamavano in causa autorità più alte, come i giudici e i capi della polizia di contea, ma era innegabile che l'accaduto avrebbe potuto avere ripercussioni negative sulla sua carriera. «Be', è un mio problema» dichiarò Hartnell massaggiandosi la fronte. «Però è una decisione che va presa molto in fretta. Naturalmente, come ho detto, mi piacerebbe gestire la faccenda dall'interno, ma non posso.» Tacque e guardò Banks. «D'altra parte, l'agente Taylor lavora nel West Yorkshire, e mi sembra ragionevole considerare il North Yorkshire un'unità vicina.» «Giusto» replicò Banks cominciando ad allarmarsi. «Ci aiuterà a non pubblicizzare troppo la vicenda, non credi?» «Penso di sì.» «A proposito, il vicecapo della polizia di contea McLaughlin è un mio vecchio amico. Forse vale la pena che gli parli. E la Sezione reclami e disciplina? Non conosci nessuno lassù?» Banks deglutì. A prescindere dalla sua risposta, se la faccenda fosse passata alla Sezione reclami e disciplina della Divisione occidentale, la patata bollente sarebbe toccata quasi di sicuro a Annie Cabbot Era un piccolo reparto (Annie era l'unico ispettore), e Banks sapeva che il suo capo, il commissario Chambers, era uno scansafatiche con una particolare antipatia per le detective promettenti. Annie era l'ultima arrivata, e per giunta era una donna. Nessuna speranza che potesse starne fuori. Banks riusciva quasi a vedere il bastardo che gongolava all'arrivo dell'ordine. «Non pensi che potrebbe sembrare un po' troppo vicino a noi?» chiese. «Forse sarebbe meglio il Greater Manchester o il Lincolnshire.» «Niente affatto» lo contraddisse Hartnell. «In questo modo, daremo l'impressione di fare la cosa giusta senza troppa pubblicità. Devi pur conoscere qualcuno alla Sezione, qualcuno consapevole del fatto che è suo interesse tenerti aggiornato?»
«Il responsabile è il commissario Chambers» rispose Banks. «Sono certo che troverà la persona adatta.» Hartnell sorrise. «Be', parlerò con Ron questa mattina, e vedremo se darà qualche frutto, d'accordo?» «Bene» disse Banks, pensando che Annie lo avrebbe sicuramente ucciso, benché non fosse colpa sua. Varcando la soglia della cantina davanti al sergente investigativo Stefan Nowak, Jenny Fuller notò con disgusto il poster osceno, poi mise da parte i sentimenti e lo guardò con imparzialità, come una prova. Cosa che era. Faceva da guardiano alla porta degli oscuri inferi dove Terence Payne si immergeva in quel che amava di più nella vita: il dominio, il potere sessuale, l'omicidio. Una volta superato questo volgare custode, le regole che di solito governavano il comportamento umano non valevano più. Ora Jenny e Stefan erano soli nel locale. Soli con i morti. La psicologa si sentiva una guardona. Cosa che era. Si sentiva anche un impostore, come se nulla di quanto potesse dire o fare servisse a qualcosa. Aveva quasi voglia di stringere la mano di Nowak. Quasi. Alle sue spalle, Stefan spense la lampadina facendola trasalire. «Scusa. All'inizio era così» spiegò. «Un paramedico dell'ambulanza l'ha accesa per vedere che cosa fosse successo, e nessuno l'ha più spenta.» Il battito cardiaco di Jenny tornò alla normalità. Sentiva profumo di incenso, insieme con altri odori su cui non voleva soffermarsi. Dunque era questo il suo ambiente di lavoro: solenne, simile a una chiesa. Ormai molte candele si erano consumate, e alcune si smorzavano sgocciolando, ma dieci o più brillavano ancora, moltiplicate in centinaia dagli specchi tutt'intorno. Nella penombra, Jenny riusciva appena a distinguere il cadavere del poliziotto sul pavimento, il che era probabilmente una fortuna, e le fiammelle delle candele attenuavano l'impatto scioccante che si riceveva alla vista del corpo di Kimberley, e conferivano alla sua pelle una tale sfumatura dorata e rossastra che Jenny l'avrebbe creduta viva se non fosse stato per l'immobilità soprannaturale delle membra e la maniera in cui gli occhi fissavano lo specchio sul soffitto. Morta. Specchi. Ovunque volgesse gli occhi, Jenny vedeva vari riflessi di se stessa, di Stefan e della ragazza sul materasso, tenui nella luce tremula. Ama guardarsi mentre lavora, pensò. Può essere che sia il suo unico modo per sentirsi reale? Guardarsi mentre lo fa?
«Dov'è la videocamera?» chiese. «Quella di Luke Selkirk...» «No, non mi riferisco alla videocamera della polizia, mi riferisco alla sua, a quella di Payne.» «Non abbiamo trovato nessuna videocamera. Perché?» «Osserva la stanza, Stefan. Quest'uomo ama guardarsi in azione. Sarebbe davvero sorprendente se non conservasse alcuna testimonianza dei suoi gesti, non credi?» «Ora che mi ci fai pensare, sì» ammise l'altro. «Questo genere di cose è all'ordine del giorno negli omicidi a sfondo sessuale. Una sorta di souvenir. Un trofeo. E di solito anche una specie di supporto visivo che lo aiuta a rivivere l'esperienza prima della successiva.» «Ne sapremo di più quando la squadra avrà finito di ispezionare la casa.» Jenny seguì il nastro fosforescente che segnalava la strada verso il locale attiguo, dove i corpi giacevano, ancora intatti, in attesa della scientifica. Alla luce della torcia di Stefan, il suo sguardo registrò le dita che spuntavano dalla terra e quelli che sembravano, forse, un indice, un naso, una rotula. Il suo serraglio della morte. Una piantagione di trofei. Il suo giardino. Stefan si mosse accanto a lei, e Jenny si rese conto di avergli stretto il braccio, conficcandogli le unghie nella carne. Tornarono nella cantina. Mentre, china sopra Kimberley, osservava i graffi, le ferite e i taglietti, Jenny non poté fare a meno di piangere, lacrime silenziose e umide contro la sua guancia. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano, sperando che Stefan non se ne accorgesse. Se se ne accorse, fu abbastanza galante da non dire nulla. All'improvviso, Jenny avvertì il bisogno di andarsene. A trasmetterle un senso di nausea e claustrofobia mentre osservava quell'orrore con Stefan non furono la vista di Kimberley Myers sul materasso, l'odore dell'incenso e del sangue o le immagini ondeggianti negli specchi e nella luce delle candele, bensì la combinazione di tutti questi elementi. Non voleva stare lì con lui, né con nessun altro uomo, provando le emozioni che provava. Le sembrava indecente. Ed era un'indecenza imposta dall'uomo alla donna. Cercando di nascondere il tremore, sfiorò il braccio di Stefan. «Ho visto abbastanza quaggiù, per il momento» annunciò. «Andiamo. Vorrei dare un'occhiata al resto della casa.» Nowak annuì e si voltò verso le scale. Jenny ebbe la stramaledetta impressione che il sergente avesse decifrato con esattezza i suoi sentimenti.
Al diavolo il sesto senso, di cui ora avrebbe fatto volentieri a meno, pensò. La vita era già abbastanza complicata con i cinque normali. Seguì Stefan oltre il poster su per i consunti gradini di pietra. «Annie. Come sei messa in questo momento?» «Se proprio vuoi saperlo, indosso una gonna blu scuro al ginocchio, scarpe rosse e una camicetta di seta bianca. Vuoi che ti descriva la biancheria intima?» «Non tentarmi. Desumo che sei sola in ufficio?» «Sola soletta.» «Ascolta, Annie. Ho qualcosa da dirti, anzi da cui metterti in guardia.» Banks sedeva in auto davanti alla villetta dei Payne e parlava al cellulare. Il furgone dell'obitorio aveva portato via i corpi, e il padre e la madre di Kimberley, completamente paralizzati dallo shock, avevano identificato la salma. Finora gli uomini della scientifica avevano individuato altri due cadaveri nella stanzetta adiacente alla cantina, entrambi in stato di decomposizione così avanzato che il riconoscimento diretto era impossibile. Avrebbero dovuto controllare le radiografie dentali, prelevare campioni di DNA e confrontarli con quelli dei genitori. Sarebbe stato necessario molto tempo. Un'altra squadra setacciava l'abitazione, inscatolando conti, lettere, bollette, scontrini, documenti, istantanee, ogni cosa possibile e immaginabile. Banks ascoltò il silenzio dopo aver finito di spiegare a Annie l'incarico che credeva le avrebbero assegnato nell'immediato futuro. Aveva deciso che sarebbe stato meglio cercare di dipingere la situazione in termini positivi, persuadendo Annie che sarebbe stata all'altezza del lavoro e che quello era il lavoro giusto per lei. Non prevedeva di avere molto successo, ma valeva la pena tentare. Contò i battiti. Uno. Due. Tre. Quattro. Poi arrivò l'esplosione. «Ha intenzione di fare che cosa? È una specie di scherzo di cattivo gusto, Alan?» «Nessuno scherzo.» «Perché, se lo è, puoi piantarla subito. Non è affatto divertente.» «Non è uno scherzo, Annie. Dico sul serio. E, se ci pensi per un attimo, ti renderai conto di quanto sia fantastico.» «Se ci pensassi per il resto della vita, continuerebbe a non sembrarmi fantastico. Come osa... Sai che non riuscirò mai a venirne fuori a testa alta. Se dimostro che Janet Taylor è colpevole, ogni poliziotto e ogni membro del pubblico mi odierà a morte. Se non lo faccio, i giornali grideranno al-
l'insabbiamento.» «No, non lo faranno. Hai idea di che razza di mostro sia Terence Payne? Urleranno di gioia dicendo che finalmente la giustizia populista è fatta.» «Qualcuno, forse. Ma non quelli che leggo io. O tu, se è per questo.» «Annie, non morirai! La questione passerà nelle mani della Pubblica accusa molto prima di allora. Non sei giudice, giuria e carnefice, lo sai. Sei solo un'umile investigatrice che cerca di capire come siano andati i fatti. Come potrebbe nuocerti?» «Sei stato tu a propormi, tanto per cominciare? Hai fatto tu il mio nome a Hartnell, gli hai detto tu che sono la persona più adatta? Non posso credere che tu mi abbia fatto questo, Alan. Pensavo di piacerti.» «Mi piaci. Io non ho fatto un bel niente. È stata tutta un'iniziativa di Hartnell. E sappiamo entrambi che cosa succederà appena la questione arriverà nelle mani del commissario Chambers.» «Be', almeno su questo siamo d'accordo. Sai, quel ciccione bastardo si rode da una settimana perché non è riuscito a trovare niente di davvero schifoso da rifilarmi. Santo cielo, Alan, non puoi fare qualcosa?» «Per esempio?» «Convincerlo ad affidare il compito al Lancashire o al Derbyshire. Qualsiasi cosa.» «Ci ho provato, ma aveva già deciso. Conosce McLaughlin, il vicecapo della polizia di contea. Inoltre, crede che in questo modo potrà mantenere un certo controllo sull'indagine.» «Be', potrebbe ripensarci, cazzo.» «Annie, hai l'occasione di fare qualcosa di buono. Per te stessa, per l'interesse pubblico.» «Non cercare di fare appello al mio lato migliore. Non ne ho uno.» «Perché sei così contraria?» «Perché è un lavoro di merda, e lo sai anche tu. Almeno fammi la cortesia di non cercare di indorarmi la pillola.» Banks sospirò. «Io sono solo il messaggero. Ambasciator non porta pena.» «E allora a che cosa servono gli ambasciatori? Mi stai dicendo che non ho alternative?» «C'è sempre un'alternativa.» «Sì, quella giusta e quella sbagliata. Non preoccuparti, non farò storie. Ma sarà meglio che tu abbia ragione riguardo alle conseguenze.» «Fidati di me. Ho ragione.»
«E il mattino dopo mi rispetterai ancora. Come no.» «Ascolta, a proposito del mattino dopo. Questa sera torno a Gratly. Farò tardi, ma forse potresti passare di lì, oppure potrei fermarmi io da te lungo la strada.» «Per che cosa? Una sveltina?» «Non deve per forza essere così veloce. Visto come dormo in questi giorni, potrebbe volerci tutta la notte.» «Neanche per idea. Ho bisogno del mio sonno di bellezza. Ricorda, la mattina devo alzarmi presto ed essere ben sveglia per guidare fino a Leeds. Ciao.» Banks tenne il cellulare muto incollato all'orecchio per qualche istante, poi se lo rimise in tasca. Cristo, pensò, te la sei cavata proprio bene, vero, Alan? Capacità di valutazione. Capitolo 4 Samantha Jane Foster, diciotto anni, un metro e sessantacinque e quarantasei chili, frequentava il primo anno della facoltà di inglese all'università di Bradford. I genitori abitavano a Leighton Buzzard, dove Julian Foster faceva il commercialista e Teresa Foster il medico generico. Samantha aveva un fratello maggiore, Alistair, disoccupato, e una sorella minore, Chloe, che andava ancora a scuola. La sera del 26 febbraio, Samantha aveva assistito a una lettura di poesie che aveva avuto luogo presso un pub vicino al campus, quindi si era diretta da sola verso il suo monolocale intorno alle undici e un quarto. Viveva poco lontano dalla Great Horton Road, a circa quattrocento metri di distanza. Quando non si era presentata da Waterstone, la libreria del centro in cui lavorava nei fine settimana, Penelope Hall, una delle sue colleghe, si era preoccupata e aveva telefonato all'appartamentino durante la pausa pranzo. Samantha era affidabile, aveva raccontato in seguito alla polizia, e, quando non poteva presentarsi perché era malata, avvertiva sempre. Questa volta non l'aveva fatto. Temendo che Samantha stesse davvero male, Penelope era riuscita a convincere il padrone di casa ad aprirle la porta. Il monolocale era deserto. Con tutta probabilità, la polizia di Bradford non avrebbe preso sul serio la scomparsa di Samantha Foster (almeno non così in fretta), se non fosse stato per la borsetta che uno studente coscienzioso aveva trovato per la strada e aveva consegnato dopo la mezzanotte della sera precedente. Con-
teneva un'antologia di poesie intitolata Sangue nuovo; un volumetto di versi dedicato «A Samantha, tra le cui cosce di seta vorrei posare il capo dando libero sfogo alla lingua» e datato da Michael Stringer, il poeta che aveva tenuto la lettura al pub la sera prima; un quaderno a spirale pieno di appunti, osservazioni e riflessioni sulla vita e sulla letteratura, comprese quelle che al poliziotto erano sembrate descrizioni di stati allucinogeni ed esperienze extracorporee; mezzo pacchetto di Benson&Hedges; una confezione rossa di cartine per sigarette Rizzla e un sacchettino di plastica con un po' di marijuana, meno di sette grammi; un accendino verde usa e getta; tre assorbenti sfusi; un mazzo di chiavi; un lettore CD portatile con un compact disc di Tracy Chapman all'interno; una piccola trousse; e un portafoglio con quindici sterline in contanti, una carta di credito, la tessera dell'unione studentesca, scontrini di libri e CD e altri oggetti di vario tipo. Date le due circostanze (una borsetta abbandonata e una ragazza scomparsa), e dato soprattutto che il giovane agente investigativo cui era stato assegnato il caso ricordava un fatto analogo verificatosi al Roundhay Park di Leeds l'ultimo dell'anno, l'indagine era iniziata quella stessa mattina con telefonate ai genitori e agli amici più cari di Samantha, nessuno dei quali l'aveva vista o sapeva di qualche cambiamento nei suoi progetti o nelle sue abitudini. Vista la dedica che aveva scritto, per qualche tempo era stato sospettato Michael Stringer, ma alcuni testimoni avevano dichiarato che aveva continuato a bere nei locali del centro e che qualcuno aveva dovuto riportarlo al suo hotel intorno alle tre e mezzo del mattino. Il personale dell'albergo aveva assicurato alla polizia che il giorno dopo non si era svegliato fino all'ora del tè. Gli interrogatori nei pressi dell'università avevano individuato una possibile testimone, che sosteneva di aver scorto Samantha dialogare con qualcuno attraverso il finestrino di un'auto. O almeno, la giovane era bionda e indossava gli stessi vestiti che Samantha indossava quando era uscita dal pub: jeans, stivali neri al polpaccio e un lungo soprabito svolazzante. L'automobile era scura, e la testimone rammentava le ultime tre lettere della targa perché coincidevano con le sue iniziali: Kathryn Wendy Thurlow. Non avendo avuto alcun motivo per credere che vi fosse qualche problema, aveva attraversato la strada e aveva proseguito fino al suo appartamento. Le ultime due lettere di una targa indicano il luogo di immatricolazione, e WT significa Leeds. L'Ufficio della motorizzazione civile di Swansea
aveva fornito un elenco di oltre mille possibili vetture (poiché Kathryn non era riuscita a essere più precisa riguardo alla marca o al colore), e la Divisione investigazioni criminali di Bradford aveva contattato i proprietari senza però cavare un ragno dal buco. Tutte le ricerche e gli interrogatori successivi non avevano rivelato nient'altro sulla scomparsa di Samantha Foster, e il tamtam della polizia aveva cominciato a risuonare. Due sparizioni, a quasi due mesi e a circa venticinque chilometri di distanza l'una dall'altra, erano sufficienti a far scattare qualche campanello d'allarme, anche se non a scatenare un panico vero e proprio. Samantha non aveva molti amici, ma i pochi che aveva erano leali e affezionati, in particolare Angela Firth, Ryan Conner e Abha Gupta, tutti sconvolti per l'accaduto. Secondo loro, Samantha era una ragazza molto seria, incline a parlare per aforismi e a chiudersi in lunghi silenzi riflessivi, senza tempo per lo sport, la televisione o le chiacchiere. Però aveva la testa a posto, avevano insistito e, a detta di tutti, non era il tipo da andarsene con un estraneo per capriccio, sebbene continuasse a ripetere che era importante vivere la vita fino in fondo. Quando la polizia aveva accennato alla possibilità che Samantha si fosse allontanata sotto l'effetto degli stupefacenti, gli amici avevano replicato che era improbabile. Sì, avevano ammesso, di quando in quando le piaceva fumarsi uno spinello (diceva che la aiutava a scrivere), ma non faceva uso di droghe più pesanti; non beveva nemmeno molto e non poteva aver consumato più di due o tre bicchieri di vino nel corso della serata. Al momento non aveva il ragazzo e non sembrava ansiosa di trovarne uno. No, non era lesbica, ma aveva manifestato una certa curiosità verso le esperienze sessuali con altre donne. Samantha poteva parere anticonformista per certi aspetti, aveva spiegato Angela, ma aveva molto più buon senso di quanto la gente pensasse talvolta al primo impatto; semplicemente, non era frivola e si interessava a molte delle cose che gli altri giudicavano ridicole o insignificanti. Secondo i docenti universitari, Samantha era una studentessa eccentrica con la tendenza a dedicare troppo tempo alle letture fuori programma, ma uno dei suoi professori, che aveva pubblicato qualche componimento in versi, aveva affermato che forse un giorno sarebbe diventata una brava poetessa se avesse coltivato un po' più di autodisciplina nella sua tecnica. Tra le passioni di Samantha, aveva aggiunto Abha Gupta, figuravano l'arte, la poesia, la natura, le religioni orientali, le esperienze medianiche e
la morte. Banks e Ken Blackstone raggiunsero il Greyhound, un rustico pub dalle travi basse e dalle caratteristiche tazze a forma di omino disposte tutt'intorno alle rastrelliere portapiatti situato nel villaggio di Tong, a circa quindici minuti dalla scena del crimine. L'una era passata da un pezzo, e quel giorno nessuno dei due aveva ancora mangiato. In realtà, Banks non aveva mandato giù granché nelle ultime quarantotto ore, da quando aveva saputo della quinta adolescente sparita nella notte di sabato. Talvolta, negli ultimi due mesi, aveva temuto che la testa gli esplodesse sotto la pressione di tutti i particolari che doveva tenere a mente. Si svegliava prestissimo, alle tre o alle quattro del mattino, e i pensieri gli vorticavano nel cervello impedendogli di riaddormentarsi. Allora si alzava, si preparava una tazza di tè e sedeva in pigiama al tavolo di pino della cucina prendendo appunti per l'indomani mentre la pioggia sferzava i vetri oppure il sole sorgeva spandendo la sua limpida luce color miele attraverso l'alta finestra. Erano momenti solitari e silenziosi e, benché si fosse abituato alla solitudine e addirittura la gradisse, a volte sentiva la nostalgia del periodo in cui abitava con Sandra e i ragazzi nella villetta bifamiliare di Eastvale. Ma Sandra se n'era andata ed era sul punto di sposare Sean, e i ragazzi erano cresciuti e avevano la loro vita. Tracy frequentava il secondo anno all'università di Leeds, e Brian girava il paese con il suo gruppo rock, passando di successo in successo dopo le ottime recensioni ricevute al loro primo CD che avevano autoprodotto. Negli ultimi due mesi, si rese conto Banks, li aveva trascurati entrambi, soprattutto sua figlia. Al bancone ordinarono le ultime due porzioni di riso e stufato d'agnello insieme con pinte di birra amara Tetley's. Faceva abbastanza caldo da sedere fuori, a uno dei tavoli accanto al campo da cricket. Una squadra locale si stava allenando, e la loro conversazione fu scandita dal confortante suono della mazza che colpiva il cuoio. Dopo essersi acceso una sigaretta, Banks riferì a Blackstone che il comandante di distretto Hartnell aveva deciso di affidare al North Yorkshire l'inchiesta sull'agente Taylor e che, a suo parere, l'incarico sarebbe stato senz'altro assegnato a Annie. «Ne sarà felice» commentò Blackstone. «Ha già espresso i suoi sentimenti con molta chiarezza.» «Gliel'hai detto?»
«Ho cercato di avvertirla e renderle la cosa più digeribile, ma... direi che si è rivelato controproducente.» Blackstone sorrise. «Voi due state ancora insieme?» «Penso di sì, o almeno credo, ma la maggior parte delle volte non ne sono sicuro, a essere sincero. È molto... elusiva.» «Ah, il dolce mistero della donna.» «Qualcosa del genere.» «Forse pretendi troppo da lei?» «Che cosa intendi?» «Vedi, quando un uomo viene lasciato dalla moglie, qualche volta inizia a cercarne una nuova nella prima donna che gli dimostra interesse.» «Il matrimonio è l'ultimo dei miei pensieri, Ken.» «Se lo dici tu.» «Lo dico, eccome. Non ho un attimo di tempo, tanto per cominciare.» «A proposito di matrimonio, quale credi sia il ruolo della moglie, Lucy Payne?» chiese Blackstone. «Non lo so.» «Doveva essere al corrente. Voglio dire, viveva con quel tizio.» «Può darsi. Ma hai visto com'è strutturata la casa. Payne avrebbe potato introdurre chiunque attraverso il garage e portarlo dritto in cantina. Se teneva la stanza chiusa e sprangata, è possibile che nessuno lo sapesse. Era insonorizzata abbastanza bene.» «Spiacente, ma non riuscirai a convincermi che una donna possa vivere con un assassino come Payne senza intuire nulla» replicò Blackstone. «Come funziona? Lui si alza da tavola dopo cena e annuncia che scenderà nel seminterrato a giocare con una ragazzina appena rapita?» «Non è costretto a dirle un bel niente.» «Ma deve essere coinvolta. Anche se non era sua complice, deve almeno aver sospettato qualcosa.» Qualcuno scagliò lontanissimo la palla da cricket, e dal campo si levò un'acclamazione. Banks spense la sigaretta. «Probabilmente hai ragione. A ogni modo, se c'è qualcosa che collega Lucy Payne a quanto è successo nella cantina, lo scopriremo. Per il momento, non andrà da nessuna parte. Però, finché non saremo certi del contrario, faremo meglio a non dimenticare che prima di tutto è una vittima, ricordatelo.» Banks era consapevole che le squadre della scientìfica sarebbero potute restare per settimane sul luogo del delitto e che molto presto il numero 35
della Collina avrebbe assunto l'aspetto di un edificio sottoposto a un radicale restauro. Gli esperti avrebbero portato luci laser, metal detector, martelli pneumatici, lampade a infrarossi e a ultravioletti e aspirapolvere ad alta potenza; avrebbero raccolto peli, fibre, libri, lettere, impronte digitali, secrezioni secche, documenti personali, brandelli di pelle, schegge di vernice e ricevute Visa; avrebbero tolto la moquette e praticato fori nei muri, smantellato il pavimento della cantina e del garage e scavato nei giardini. Tutto quel che avrebbero trovato, forse più di mille reperti, avrebbe dovuto essere etichettato, immesso nel sistema HOLMES e depositato nella sala delle prove a Millgarth. Arrivarono le ordinazioni, e i due uomini si misero subito a mangiare, scacciando una mosca di tanto in tanto. Lo stufato era abbondante e appena speziato. Dopo qualche boccone, Blackstone scosse la testa con lentezza. «Curioso che Payne sia incensurato, non trovi? La maggior parte ha fatto qualcosa di strano in passato, per esempio agitare l'uccello davanti agli scolaretti o qualche tentativo di violenza sessuale.» «Non è nel suo stile. Magari ha solo avuto la fortuna dalla sua.» Blackstone tacque. «Oppure non abbiamo fatto il nostro lavoro come si deve. Ricordi quella serie di stupri nei pressi di Seacroft circa due anni fa?» «Lo Stupratore di Seacroft? Sì, ricordo di aver letto qualcosa.» «Sai, non l'abbiamo mai acciuffato.» «Pensi che potesse essere Payne?» «Possibile, no? Gli stupri sono cessati, poi le ragazze hanno cominciato a scomparire.» «DNA?» «Campioni di sperma. Lo Stupratore di Seacroft era un escretore e non si prendeva la briga di infilarsi il preservativo.» «Allora confrontateli con quelli di Payne. E controllate dove vivesse all'epoca.» «Oh, lo faremo, stanne certo. A proposito» continuò Blackstone «uno degli agenti investigativi incaricati di interrogare Maggie Forrest, la donna che ha segnalato la lite domestica, ha avuto l'impressione che non gli raccontasse tutto.» «Oh. Che cosa ha notato?» «Che sembrava deliberatamente vaga, schiva. Ha ammesso di conoscere i Payne, ma ha aggiunto di non sapere nulla di loro. Comunque, il poliziotto pensa che non gli abbia detto tutta la verità sui suoi rapporti con Lucy
Payne. Crede che siano molto più vicine di quanto abbia voluto confessare.» «Le parlerò più tardi» promise Banks lanciando un'occhiata all'orologio. Guardò il cielo azzurro, i fiori rosa e bianchi che volavano via dagli alberi trasportati dal vento, i giocatori in divisa candida sul campo da cricket. «Cristo, Ken, potrei restare seduto qui per tutto il pomeriggio» disse «ma è meglio che torni alla villetta per vedere se ci sono novità.» Come aveva temuto, Maggie non riuscì a concentrarsi sul lavoro per il resto della giornata e trascorse le ore osservando i movimenti della polizia dalla finestra della camera e ascoltando i notiziari della radio locale. Le informazioni furono piuttosto scarse finché il comandante di distretto responsabile del caso tenne una conferenza stampa confermando che avevano trovato Kimberley Myers e che sembrava essere stata strangolata. Non volle aggiungere altro, se non che era stata aperta un'inchiesta, che gli esperti della scientifica erano sulla scena del crimine e che ulteriori dettagli sarebbero stati divulgati entro breve. Sottolineò che le indagini non erano ancora concluse e invitò chiunque avesse visto Kimberley dopo le undici di venerdì sera a farsi avanti. Dopo le tre e mezzo, quando udì bussare alla porta e il familiare grido: «Tranquilla, sono soltanto io», Maggie si sentì sollevata. Chissà perché, era stata in pensiero per Claire. Sapeva che frequentava la medesima scuola di Kimberley Myers e che Terence Payne insegnava lì. Non la vedeva dalla scomparsa di Kimberley, ma immaginava che fosse preoccupata da morire. Le due giovani avevano suppergiù la stessa età e dovevano conoscersi. Claire Toth passava spesso a trovarla tornando da scuola, poiché abitava due case più in là, i suoi genitori lavoravano entrambi e sua madre non rientrava fino alle quattro e mezzo circa. Maggie sospettava anche che Ruth e Charles avessero suggerito quelle visite per tenerla d'occhio di nascosto. Curiosa nei confronti della nuova arrivata, all'inizio Claire si era limitata a fare un salto di quando in quando per salutarla. Poi, affascinata dall'accento di Maggie e dalla sua professione, era diventata un'ospite abituale. A Maggie non spiaceva. Claire era una brava ragazza e rappresentava una boccata d'aria fresca, benché parlasse a raffica e non di rado se ne andasse lasciandola esausta. «Credo di non essere mai stata così male» dichiarò Claire gettando lo zaino sul pavimento del salotto e buttandosi sul sofà, le gambe piegate. Era
anzitutto un atteggiamento strano, perché di solito andava diritta in cucina, dove Maggie le offriva latte e biscotti con gocce di cioccolato. Scostò le lunghe ciocche di capelli infilandosele dietro le orecchie. Indossava l'uniforme della scuola: blazer e gonna verdi, camicetta bianca e calzini grigi che le erano scivolati intorno alle caviglie. Aveva un paio di brufoli sul mento, notò Maggie: mestruazioni o cattiva alimentazione. «Lo sai già?» «All'ora di pranzo la voce era girata per tutta la scuola.» «Conosci il signor Payne?» «È il mio insegnante di biologia. E vive di fronte a noi. Come ha potuto? Che depravato. Quando penso a quello che deve essergli passato per la mente mentre ci spiegava il sistema riproduttivo, la dissezione delle rane e tutta quella roba... puah!» Rabbrividì per il disgusto. «Claire, non siamo ancora certi che abbia fatto qualcosa. Siamo solo certi che ha litigato con la moglie e l'ha picchiata.» «Ma hanno trovato il corpo di Kim, vero? E non ci sarebbero tutti quei poliziotti dall'altra parte della strada se avesse solo picchiato la moglie, giusto?» Se avesse solo picchiato la moglie. Maggie restava spesso allibita di fronte all'indifferente rassegnazione verso la violenza domestica, persino da parte di una ragazzina come Claire. Sicuro, si era espressa male e sarebbe inorridita se avesse appreso i particolari della vita di Maggie a Toronto, ma le parole le erano uscite con tanta facilità. Solo picchiato la moglie. Secondario. Non importante. «Giustissimo» disse Maggie. «C'è dell'altro. Ma non siamo certi che il signor Payne sia colpevole di quanto è successo a Kimberley. Potrebbe essere stato qualcun altro.» «No. È lui. È stato lui. Le ha uccise tutte lui. Ha ucciso lui Kim.» Claire scoppiò a piangere. Colta alla sprovvista, Maggie recuperò una scatola di Kleenex e andò a sedersi accanto a lei sul divano. L'altra le affondò la testa nella spalla e singhiozzò, la fragile ostentazione di distacco adolescenziale svanita in un secondo. «Mi dispiace» si scusò Claire tirando su con il naso. «Di solito non mi comporto da mocciosa.» «Che cosa c'è?» le domandò Maggie continuando ad accarezzarle i capelli. «Che cosa c'è, Claire? Puoi dirmelo. Eri sua amica, vero? Eri amica di Kim?» Il labbro della giovane tremò. «Mi sento così male.» «Posso capirlo.»
«Ma non capisci. Non puoi capire! Non ci arrivi?» «Arrivare a che cosa?» «Al fatto che è stata colpa mia. È stata colpa mia se hanno ucciso Kim. Dovevo essere con lei venerdì. Dovevo essere con lei!» Quando Claire tornò ad affondare il viso nella spalla di Maggie, si udirono dei violenti colpi alla porta. Annie Cabbot sedeva alla scrivania maledicendo ancora Banks sotto voce e desiderando di non aver mai accettato la nomina alla Sezione reclami e disciplina, anche se era l'unico posto da ispettore che le fosse stato offerto dopo il superamento degli esami. Certo, sarebbe potuta rimanere alle Investigazioni criminali come sergente oppure sarebbe potuta tornare a indossare l'uniforme per un po' nella stradale, ma aveva deciso che la Sezione avrebbe costituito un'appagante sistemazione temporanea finché si fosse presentata una posizione idonea nelle Investigazioni criminali, posizione che, le aveva assicurato Banks, non avrebbe tardato ad arrivare. La Divisione occidentale era ancora nel bel mezzo di una riorganizzazione strutturale che riguardava in parte l'organico, e al momento le Investigazioni criminali si accontentavano di operazioni di polizia più visibili, effettuate per la strada e sotto gli occhi di tutti. Ma il loro giorno sarebbe arrivato. Nel frattempo, se non altro, avrebbe maturato un po' di esperienza come ispettore. L'unico aspetto positivo della nuova nomina era l'ufficio. La Divisione occidentale aveva occupato l'edificio adiacente alla vecchia centrale dalla facciata Tudor, che apparteneva alla medesima costruzione, abbattendo i muri e rinnovando l'interno. Pur non avendo una grande stanza tutta per sé come il commissario Chambers, Annie aveva un box nell'area generale, che le offriva un po' di privacy e si affacciava sulla piazza del mercato, come l'ufficio di Banks. Al di là della sua celletta di vetro smerigliato sedevano i due sergenti investigativi e i tre agenti che, insieme con Annie e Chambers, costituivano l'intera Sezione reclami e disciplina della Divisione occidentale. Dopo tutto, la corruzione della polizia non era un problema scottante a Eastvale, e il caso più grave cui Annie aveva lavorato fino ad allora era stato quello di un poliziotto squattrinato che aveva accettato focaccine tostate gratuite dal Golden Grill. Era emerso che usciva con una delle cameriere, ansiosa di prenderlo per la gola. Un'altra cameriera si era ingelosita e aveva denunciato il fatto.
Probabilmente era ingiusto incolpare Banks, pensò Annie contemplando la piazza affollata dalla finestra, e forse lo faceva solo perché cominciava già a essere insoddisfatta della loro relazione. Non sapeva da che cosa dipendesse, però iniziava a sentirsi un po' a disagio. Era vero, non si vedevano tanto spesso per via del caso Camaleonte, e talvolta Banks era così stanco che si addormentava ancor prima di... Ma quello non la infastidiva quanto la facile familiarità che il rapporto pareva aver raggiunto. Quando erano insieme, si comportavano sempre più come una vecchia coppia sposata, e di certo Annie non desiderava niente del genere. Per quanto sembrasse ironico, l'intimità e la confidenza la mettevano in imbarazzo. Mancavano soltanto le pantofole e il caminetto. A ben pensarci, nel cottage di Banks c'erano anche quelli. Squillò il telefono. Era Chambers che la convocava nell'ufficio accanto. Annie bussò e attese che dicesse: «Avanti», come piaceva a lui. Il commissario sedeva dietro la scrivania disordinata, un omone in completo gessato con i bottoni del gilet tirati su petto e ventre. Annie non capì se la cravatta fosse costellata di patacche o se fosse stata studiata per dare quell'impressione. Chambers aveva una faccia su cui sembrava stampato un eterno sogghigno, e occhietti porcini che la spogliarono quando entrò. Aveva la carnagione simile a una fetta di manzo e le labbra rosse, umide e carnose. Annie si aspettava sempre che cominciasse a sbavare e sputacchiare mentre parlava, ma fino ad allora non era mai successo. Sul tampone di carta assorbente verde non era ancora caduta neppure una goccia di saliva. Chambers aveva l'accento delle Home Counties, cosa che, a quanto pareva, lo faceva sentire raffinato. «Ah, ispettore Cabbot. Prego, si accomodi.» «Signore.» Annie sedette nella posizione più comoda possibile, accertandosi che la gonna non le salisse troppo sulle cosce. Se, prima di uscire per andare al lavoro, avesse saputo di dover incontrare Chambers, avrebbe indossato un paio di pantaloni. «Mi hanno appena assegnato un incarico interessante» proseguì il commissario. «Davvero molto interessante. Un incarico che, penso, le andrà a genio, come si suol dire.» Annie aveva un vantaggio su di lui, ma non voleva darlo a vedere. «Un incarico, signore?» «Sì. È ora che cominci a fare la sua parte qui, ispettore Cabbot. Da quanto lavora con noi?»
«Due mesi.» «E in tutto questo tempo si è occupata...» «Del caso dell'agente Chaplin e delle focaccine tostate, signore. Scandalo evitato per un pelo. Una soluzione soddisfacente da tutti i punti di vista, se posso permettermi di dirlo.» Chambers avvampò. «Sì, be', questo potrebbe farle abbassare la cresta, ispettore.» «Signore?» Annie alzò le sopracciglia. Non riusciva a trattenersi dall'esasperarlo. Aveva un atteggiamento così borioso e arrogante che la voglia di punzecchiarlo era irresistibile. Annie era consapevole che quelle frecciate avrebbero potuto avere ripercussioni negative sulla sua carriera, ma, nonostante il riaccendersi dell'ambizione, aveva giurato a se stessa che la carriera non avrebbe avuto alcun valore se le fosse costata l'anima. Aveva inoltre la bizzarra convinzione che i bravi poliziotti come Banks, il commissario Gristhorpe e il vicecapo della polizia di contea McLaughlin avrebbero avuto maggiore influenza sul suo futuro di un cretino come Chambers, giudicato da tutti uno scansafatiche impaziente di andare in pensione. All'inizio, non aveva tuttavia prestato maggiore attenzione nemmeno con Banks, ed era stata una fortuna che la sua insubordinazione l'avesse sedotto e affascinato anziché stizzito. Gristhorpe, pover'uomo, era un santo, e Annie non vedeva quasi mai Red Ron McLaughlin, quindi non aveva avuto l'opportunità di farlo incazzare. «Sì» continuò Chambers infervorandosi «penso che troverà questo caso un po' diverso dalle focaccine tostate. Questo le cancellerà il sorriso dalla faccia.» «Sarebbe così gentile da spiegarsi meglio, signore?» Chambers gettò un sottile fascicolo nella sua direzione. Prima che Annie riuscisse ad afferrarlo, scivolò dal bordo del tavolo sulle sue ginocchia e quindi sul pavimento. Non volendo chinarsi a raccoglierlo per evitare di regalare al superiore una bella panoramica delle sue mutandine, lo lasciò dov'era. Chambers socchiuse gli occhi, e i due si fissarono per qualche secondo, ma alla fine il commissario si alzò a fatica dalla sedia e recuperò il dossier. Arrossendo per lo sforzo, lo buttò sulla scrivania con veemenza ancora maggiore. «Pare che una recluta del West Yorkshire abbia esagerato un tantino con il manganello, e vogliono che indaghiamo sulla faccenda. Solo che il tizio cui le ha suonate è sospettato di essere il Camaleonte, l'assassino che cercano di stanare da un po', e questo, come di sicuro si renderà conto anche
lei, cambia la situazione.» Picchiettò sul fascicolo. «I dettagli, così come sono ora, si trovano tutti qui dentro. Crede di potercela fare?» «Nessun problema» rispose Annie. «Invece» aggiunse Chambers «io credo che ci saranno un sacco di problemi. È quello che viene definito un caso di alto profilo, e dunque ci sarà il mio nome sopra. Capirà, ne sono sicuro, che non possiamo chiedere a un semplice ispettore alle prime armi di condurre un'indagine così importante.» «Se è così» lo rimbeccò Annie «perché non la conduce da solo?» «Perché al momento sono troppo impegnato» si giustificò Chambers con un sorriso obliquo. «E poi, perché sgobbare quando qualcuno può farlo al tuo posto?» «Certo. Perché? Giustissimo» concordò Annie, che reputava Chambers incapace persino di trovare la strada di casa. «Capisco alla perfezione.» «Lo immaginavo.» Chambers si accarezzò uno dei numerosi menti. «E siccome ci sarà il mio nome sopra, non voglio casini. Anzi, se cadranno delle teste per questa faccenda, la sua sarà la prima. Ricordi, sono a un soffio dalla pensione, quindi una promozione è l'ultimo dei miei pensieri. Lei, invece... non so se mi spiego.» Annie annuì. «Risponderà direttamente a me, ovviamente» proseguì Chambers. «Rapporti quotidiani, a meno che non ci siano sviluppi cruciali, nel qual caso dovrà informarmi subito. Intesi?» «Non chiedo di meglio.» Gli occhi di Chambers si ridussero a fessure. «Un giorno quella boccaccia la metterà in guai seri, signorina.» «Me lo diceva anche mio padre.» Il commissario grugnì e si agitò sulla sedia. «Ancora una cosa.» «Sì?» «Non mi piace come mi hanno affidato questo incarico. C'è qualcosa che non mi convince.» «A che cosa si riferisce, signore?» «Non lo so.» Chambers aggrottò la fronte. «Il sostituto commissario Banks della Divisione investigazioni criminali guida una parte dell'operazione Camaleonte, vero?» Annie annuì. «E, se la memoria non mi inganna, lei lavorava con lui come sergente investigativo prima di venire qui, vero?»
Annie annuì di nuovo. «Be', potrebbe non significare nulla» proseguì Chambers spostando lo sguardo dalla donna a un punto alto della parete. «Potrebbe voler dire tutto e niente. Ma d'altro canto...» «Signore?» «Stia attenta. Non scopra mai le sue carte.» Parlando, la guardò come se, invece delle carte, volesse scoprire lei, e Annie fu attraversata da un brivido involontario. Alzatasi, si diresse verso la porta. «Un'altra cosa, ispettore Cabbot.» Annie si voltò. «Signore?» Chambers sogghignò. «Questo Banks. Stia in guardia. In caso non l'abbia già sentito, si mormora che sia un dongiovanni.» Annie avvampò uscendo dall'ufficio. Banks seguì Maggie Forrest nel soggiorno dalla boiserie scura e dai melanconici paesaggi racchiusi in pesanti cornici dorate. La stanza era rivolta a ovest, e il sole del tardo pomeriggio proiettava tremule ombre di foglie attorcigliate sulle pareti più lontane. Ben lungi dall'essere un salotto femminile, assomigliava ai locali in cui gli uomini si ritiravano per bere porto e fumare sigari nei film d'ambiente della BBC, e Banks avvertì che Maggie si sentiva a disagio lì dentro pur non capendo che cosa gli trasmettesse quell'impressione. Notando l'odore di fumo nell'aria e un paio di mozziconi nel posacenere, il poliziotto si accese una Silk Cut offrendone un'altra a Maggie, che la accettò. Banks guardò la ragazza sul sofà, la testa china, i ginocchi nudi serrati (uno recava le croste di una recente caduta), il pollice in bocca. «Non ha intenzione di presentarci?» chiese a Maggie. «Commissario...?» «Banks. Sostituto commissario.» «Commissario Banks, questa è Claire Toth, una vicina.» «Piacere di conoscerti, Claire» disse Banks. Claire alzò gli occhi e bofonchiò un saluto, poi estrasse dalla tasca del blazer un pacchetto accartocciato di Embassy Regal da dieci e seguì l'esempio degli adulti. Banks intuì che non era il momento adatto per le ramanzine sui rischi del fumo. Era evidente che c'era qualche problema. Dagli occhi arrossati e dai segni sul viso, capì che la giovane aveva pianto. «Mi sono perso qualcosa» constatò. «Nessuno vuole aggiornarmi?»
«Claire andava a scuola con Kimberley Myers» spiegò Maggie. «Naturalmente, è sconvolta.» Claire si agitò, gli occhi che guizzavano qua e là. Dava tiri brevi e nervosi alla sigaretta, tenendola con affettazione tra l'indice e il medio dritti come fusi, allentando la presa durante le boccate e quindi richiudendo le dita. Pareva che fumasse senza aspirare, soltanto per sembrare grande, pensò Banks. O magari addirittura per sentirsi grande, perché Dio solo sapeva quali burrascosi sentimenti ribollissero in lei in quell'istante. E la situazione non avrebbe fatto altro che peggiorare. Il commissario ricordava la reazione di Tracy all'omicidio di Deborah Harrison, una ragazza di Eastvale, solo qualche anno prima. Non si conoscevano neppure bene, provenivano da ambienti sociali diversi, ma erano più o meno coetanee e avevano chiacchierato insieme in varie occasioni. Banks aveva cercato di proteggere Tracy dalla verità il più a lungo possibile, ma alla fine aveva soltanto potuto consolarla. Era stata fortunata; con il tempo, aveva superato lo shock. Alcuni non ci riuscivano mai. «Kim era la mia migliore amica» dichiarò Claire. «E io l'ho tradita.» «Che cosa te lo fa pensare?» domandò Banks. Claire scoccò un'occhiata a Maggie, come a chiederle il permesso. Maggie fece un cenno quasi impercettibile con il capo. Era una donna attraente, notò Banks, non tanto dal punto di vista fisico (aveva il naso un po' troppo pronunciato e il mento appuntito, anche se la corporatura esile e la graziosa figura da ragazzo non gli dispiacevano), quanto per la gentilezza e l'intelligenza che pareva possedere. Gliele leggeva negli occhi, e vi era un'eleganza da artista nell'economia dei suoi movimenti più semplici, come quando scuoteva la cenere dalla sigaretta con le grandi mani dalle lunghe dita affusolate. «Avrei dovuto essere con lei» continuò Claire. «Ma non c'ero.» «Eri al ballo?» volle sapere Banks. Claire annuì mordendosi il labbro. «Kimberley era lì?» «Kim. La chiamavo sempre Kim.» «D'accordo: Kim. Kim era lì?» «Ci siamo andate insieme. Non è lontano. Poco dopo la rotatoria e giù per Town Street, vicino al campo da rugby.» «Ho presente il posto» osservò Banks. «È la chiesa congregazionalista di fronte alla Silverhill Comprehensive, giusto?» «Sì.»
«Così siete andate al ballo insieme.» «Sì, siamo arrivate là e... e...» «Rilassati» la rassicurò Banks notando che era di nuovo sull'orlo delle lacrime. Dopo aver dato un ultimo tiro alla sigaretta, Claire la spense. Non fece un buon lavoro, e il mozzicone continuò a bruciare piano. Tirò su con il naso. «Dovevamo tornare a casa insieme. Insomma... Avevano detto... Lo sa... Ne avevano parlato alla radio e in TV, e mio padre ci aveva raccomandato... di stare attente, di restare insieme.» Era stato Banks a diramare quegli avvertimenti. Sapeva che esisteva un confine sottile tra il panico e la prudenza e, pur volendo evitare la paranoia collettiva suscitata per un lungo periodo dal caso dello Squartatore dello Yorkshire all'inizio degli anni Ottanta, aveva sottolineato che le giovani donne avrebbero dovuto prestare attenzione dopo il calare del buio. A meno di imporre il coprifuoco, non puoi però costringere le persone a essere caute. «Che cosa è successo, Claire? L'hai persa di vista?» «No, non è andata così. Insomma, non proprio. Non capite.» «Aiutaci a capire, Claire» la esortò Maggie tenendole la mano. «Vogliamo capire. Aiutaci.» «Dovevo essere con lei.» «Perché non c'eri?» domandò Banks. «Avevate litigato?» Claire tacque e distolse lo sguardo. «È stato per un ragazzo» rispose infine. «Kim era con un ragazzo?» «No, io. Io ero con un ragazzo.» Proseguì nonostante le lacrime che le rigavano le guance. «Nicky Gallagher. Gli facevo il filo da settimane, e mi aveva invitata a ballare. Poi si è offerto di accompagnarmi a casa. Kim voleva andare via poco prima delle undici, aveva il coprifuoco, e in circostanze normali sarei andata con lei, ma Nicky... è voluto restare per un lento... Ho pensato che in giro ci sarebbe stato un mucchio di gente... Io...» Poi scoppiò di nuovo a piangere affondando il viso nella spalla di Maggie. Banks trasse un profondo respiro. Il dolore, il rimorso e l'angoscia di Claire erano così reali da abbattersi su di lui in ondate e bloccargli l'aria nel petto. Maggie le accarezzò i capelli e le sussurrò parole di conforto, ma la ragazza non riuscì a trattenere il pianto. Infine, smise di singhiozzare e si soffiò il naso in un Kleenex. «Mi dispiace» disse. «Davvero. Darei qualsiasi cosa per tornare a quella sera e comportarmi diversamente. Odio
Nicky Gallagher!» «Claire» disse Banks, che conosceva bene quello stato d'animo. «Non è colpa sua. E di certo nemmeno tua.» «Sono una stronza egoista. Sono stata io a chiedere a Nicky di accompagnarmi. Pensavo che forse mi avrebbe baciata. Volevo che mi baciasse. Vedete? Sono anche una puttana.» «Non essere sciocca» la contraddisse Maggie. «Il commissario ha ragione. Non è colpa tua.» «Ma se solo...» «Se. Se. Se» la interruppe Banks. «Ma è vero! Kim non aveva nessuno, così è dovuta tornare da sola e il signor Payne l'ha rapita. Scommetto che le ha fatto delle cose terribili prima di ucciderla, vero? Ho letto qualcosa sui tipi come lui.» «Qualunque cosa sia successa quella sera» insistette Banks «non è colpa tua.» «Allora di chi è la colpa?» «Di nessuno. Kim si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Saresti potuta essere...» Banks si fermò. Cattiva idea. Sperava che Claire non avesse intuito quel che stava per dire, ma l'aveva intuito. «Io? Sì, lo so. Magari avesse preso me.» «Non puoi dire sul serio, Claire.» «Sì, invece. Almeno non dovrei vivere con questo peso. È stata colpa mia. Perché non voleva reggere il moccolo.» Ricominciò a piangere. Banks si domandò se sarebbe potuta essere Claire. Era il tipo giusto: capelli biondi e gambe lunghe, come tante ragazzine dell'Inghilterra settentrionale. Payne aveva scelto a casaccio? Oppure aveva messo gli occhi su Kimberley Myers sin dall'inizio? Forse Jenny aveva qualche teoria in merito. Cercò di immaginare l'accaduto. Payne che attendeva in auto, forse vicino al circolo giovanile, sapendo che quella sera era in programma un ballo, sapendo che la prescelta sarebbe stata lì. Non poteva contare sul fatto che tornasse a casa da sola, naturalmente, ma chi non risica non rosica. C'era sempre un rischio, ma sarebbe valsa la pena di correrlo. La ragazza che desiderava di più. Tutte le altre gli erano servite solo per fare pratica. Era lei quella che voleva, quella che sognava sin dal primo momento, a scuola sotto il suo naso, a tormentarlo giorno dopo giorno. Con tutta probabilità, Terence Payne sapeva anche, come lo sapeva Banks, che Kimberley abitava sulla Collina, duecento metri più in là ri-
spetto all'amica Claire Toth, sotto il ponte ferroviario, e che vi era un tratto di strada buio e deserto laggiù, nulla fuorché un'area abbandonata da una parte e una cappella metodista dall'altra, cappella che a quell'ora sarebbe stata immersa nell'oscurità perché i metodisti non erano famosi per le feste sfrenate a tarda notte. Quando vi si era recato il sabato pomeriggio, il giorno successivo alla scomparsa di Kimberley, ripercorrendo il tragitto seguito dall'adolescente per rincasare, Banks aveva pensato che quello era il punto perfetto per un rapimento. Probabilmente, Payne aveva parcheggiato l'auto poco più avanti e ne era sceso aggredendo Kimberley oppure fingendo di volerla solo salutare: il familiare, sicuro signor Payne della scuola; chissà come, l'aveva persuasa a salire, poi l'aveva cloroformizzata e l'aveva portata in cantina attraverso il garage. Forse, si rese conto ora Banks, Payne non aveva creduto alla sua fortuna quando Kimberley si era incamminata verso casa da sola. Con ogni probabilità, si era aspettato di vederla con Claire, se non con altri conoscenti, e aveva soltanto potuto sperare che gli altri vivessero più vicino alla Silverhill e che la ragazza si ritrovasse senza compagnia per quell'ultimo tratto breve ma isolato. Poiché era stata sola sin dall'inizio, se fosse stato attento e non si fosse fatto vedere da nessuno, avrebbe addirittura potuto offrirle un passaggio. Kimberley si fidava di lui. Da bravo e gentile dirimpettaio, magari le aveva persino già dato uno strappo in precedenza. «Sali in macchina, Kimberley, sai che non è prudente per una ragazza della tua età andarsene in giro tutta sola a quest'ora. Ti porto a casa.» «Sì, signor Payne. Molte grazie, signor Payne.» «Sei fortunata che sia passato di qui.» «Sì, signore.» «Ora allaccia la cintura di sicurezza.» «Commissario?» «Mi scusi» disse Banks, che si era perso nelle sue fantasie. «Claire può andare? Ormai sua madre dovrebbe essere rientrata.» Banks guardò la giovane. Il suo mondo era andato in mille pezzi. Per tutto il fine settimana doveva aver avuto paura che fosse successo qualcosa del genere, temendo il momento in cui l'ombra del senso di colpa si sarebbe concretizzata, in cui gli incubi sarebbero diventati realtà. Non vi era motivo per trattenerla. Che tornasse pure dalla madre. Avrebbe saputo dove trovarla se avesse avuto bisogno di parlarle ancora. «Solo un'ultima cosa, Claire» disse Banks. «Hai visto il signor Payne la
sera del ballo?» «No.» «Non era al ballo?» «No.» «Non aveva parcheggiato fuori del circolo giovanile?» «Non che io sappia.» «Non hai notato nessuno che gironzolava nei dintorni?» «No. Ma non ci ho fatto caso.» «Hai visto la signora Payne?» «La signora Payne? No. Perché?» «Va bene, Claire. Puoi andare adesso.» «Ci sono novità su Lucy?» chiese Maggie dopo che fu uscita. «Sta bene. Si riprenderà.» «Voleva vedermi?» «Sì» rispose Banks. «Solo qualche punto rimasto in sospeso durante l'interrogatorio di questa mattina, ecco tutto.» «Oh...» Maggie si infilò un dito nel collo della T-shirt. «Nulla di importante, direi.» «Di che cosa si tratta?» «Uno degli agenti dice di aver avuto l'impressione che non gli abbia raccontato tutto riguardo ai suoi rapporti con Lucy Payne.» Maggie alzò le sopracciglia. «Capisco.» «Vi definireste amiche intime?» «Amiche sì, ma intime no. Non conosco Lucy da molto tempo.» «Quando l'ha vista l'ultima volta?» «Ieri. Ha fatto un salto nel pomeriggio.» «Di che cosa avete parlato?» Maggie abbassò gli occhi sulle mani, che teneva posate in grembo. «Di niente, a dire il vero. Sa, il tempo, il lavoro, cose di questo tipo.» Kimberley Myers era legata nuda nella sua cantina, e Lucy aveva fatto un salto per parlare del tempo. O era davvero innocente o la sua malvagità superava qualunque cosa in cui Banks si fosse imbattuto in passato. «Le ha mai dato motivo di sospettare che qualcosa non andasse bene a casa?» domandò Banks. Maggie tacque. «Non nel modo che intende lei. No.» «E quale sarebbe il modo che intendo io?» «Suppongo si riferisca all'omicidio? All'omicidio di Kimberley?» Banks si appoggiò allo schienale della poltrona sospirando. Era stata una
lunga giornata e stava diventando ancor più lunga. Maggie non era una brava bugiarda. «Signora Forrest» disse il commissario «in questo momento qualunque cosa riusciamo a scoprire sulla vita al numero 35 della Collina ci sarà utile. Qualunque cosa. Ho la stessa impressione del mio collega... che lei non racconti tutto». «Non è niente di importante.» «Come diavolo fa a saperlo!» sbottò Banks. Rimase allibito di fronte al modo in cui la donna si innervosì davanti al suo tono duro, di fronte alla paura e alla soggezione che le attraversarono il volto e alla maniera in cui si strinse le braccia intorno al corpo. «Signora Forrest... Maggie» aggiunse con maggiore dolcezza. «Senta, mi dispiace, ma ho avuto una giornataccia, e tutto questo sta diventando molto frustrante. Se avessi un penny per ogni volta che qualcuno ha sostenuto di non avere informazioni importanti riguardo a un'indagine, a quest'ora sarei un uomo ricco. So che tutti abbiamo dei segreti. So che ci sono argomenti di cui preferiremmo non parlare. Ma questa è un'inchiesta su un omicidio. Kimberley Myers è morta. L'agente Dennis Morrisey è morto. Dio sa quanti altri corpi dissotterreremo laggiù, e devo stare seduto qui a sentirla dire che conosce Lucy Payne, che forse questa persona le ha confidato certi sentimenti o particolari e che lei non li giudica importanti. Mi faccia il piacere, Maggie!» Il silenzio sembrò durare un'eternità, finché Maggie lo interruppe con un filo di voce. «Era vittima di abusi. Lucy. Lui... suo marito... la picchiava.» «Terence Payne maltrattava la moglie?» «Sì. È così strano? Se è capace di uccidere delle adolescenti, è sicuramente capace di malmenare la moglie.» «Gliel'ha raccontato lei?» «Sì.» «Perché non ha fatto qualcosa?» «Non è facile come pensa.» «Non sto dicendo che è facile. E non creda di sapere quello che penso. Che cosa le ha consigliato?» «Le ho suggerito di rivolgersi a un esperto, naturalmente, ma lei tirava per le lunghe.» Banks conosceva la violenza domestica abbastanza da sapere che le vittime trovavano spesso molto difficile scappare o rivolgersi alle autorità: si vergognavano, ritenevano che fosse colpa loro, si sentivano umiliate e preferivano tenersi tutto dentro, sperando che alla fine ogni cosa si sarebbe risolta. Molte non avevano nessun altro posto in cui andare, nessun'altra vita
da vivere, e temevano il mondo esterno alla casa, anche se la casa era teatro di maltrattamenti. Aveva anche la sensazione che Maggie Forrest avesse attraversato un'esperienza analoga. Il modo in cui si era innervosita di fronte alla sua esplosione, la riluttanza a parlare del problema, l'atteggiamento evasivo... Erano tutti sintomi. «Ha mai detto di sospettare il marito di altri crimini?» «Mai.» «Ma aveva paura di lui?» «Sì.» «È stata a casa loro?» «Sì. Qualche volta.» «Notato niente di insolito?» «No. Niente.» «Come si comportavano quando erano insieme?» «Lucy sembrava sempre nervosa, agitata. Ansiosa di assecondarlo.» «Ha mai visto dei lividi?» «Non sempre lasciano lividi. Ma pareva che Lucy avesse paura di lui, che avesse paura di mettere un piede in fallo. Ecco che cosa intendo.» Banks prese qualche appunto. «È tutto?» domandò. «Che cosa vuol dire?» «Ci ha nascosto solo questo o c'è dell'altro?» «Nient'altro.» Banks si alzò e si congedò. «Vede» disse sulla soglia «quanto mi ha raccontato è importante, dopo tutto. Molto importante.» «Non capisco.» «Terence Payne ha riportato gravi lesioni cerebrali. È in coma, forse non si riprenderà mai e, anche se dovesse riprendersi, potrebbe non ricordare niente. La signora Payne guarirà presto. Lei è la prima persona ad averci fornito qualche informazione su Lucy, e si tratta di informazioni che potrebbero aiutarla.» «Come?» «Ci sono soltanto due domande su Lucy Payne. Primo: era coinvolta? E secondo: sapeva e ha taciuto? Quanto mi ha appena riferito è il primo elemento che depone a suo favore. Parlando con me, ha fatto un piacere alla sua amica. Buona sera, signora Forrest. Mi accerterò che ci sia un poliziotto a tenere d'occhio la casa.» «Perché? Pensa che sia in pericolo? Ha detto che Terry...» «Non quel genere di pericolo. I giornalisti. Sanno essere molto insistenti,
e non vorrei che gli rivelasse quanto ha appena rivelato a me.» Capitolo 5 Leanne Wray aveva sedici anni quando era sparita da Eastvale venerdì 31 marzo. Era alta un metro e cinquantotto, pesava solo quarantaquattro chili ed era figlia unica. Abitava con il padre, Christopher Wray, un conducente di autobus, e con la matrigna Victoria, casalinga, in un quartiere operaio poco a nord del centro città. Frequentava la Eastvale Comprehensive. In seguito, i genitori avevano detto alla polizia di non aver visto nulla di male nel permettere alla figlia di andare al cinema quel venerdì sera, sebbene avessero sentito parlare delle scomparse di Kelly Matthews e Samantha Foster. Dopo tutto, sarebbe stata in compagnia di amici, e le avevano ordinato di rincasare entro le dieci e mezzo. L'unico particolare su cui Christopher e Victoria avrebbero obiettato, se ne fossero stati al corrente, era la presenza di Ian Scott nel gruppo. Non gradivano infatti l'idea che Leanne uscisse con lui. Anzitutto, aveva due anni più di lei, e a quell'età non erano pochi. In secondo luogo, Ian aveva la nomea di piantagrane ed era addirittura stato arrestato due volte: una per furto d'auto, e una per spaccio di ecstasy al Bar None. Inoltre, Leanne era snella, benfatta e molto carina, con splendidi capelli biondo oro, una carnagione quasi traslucida e occhi azzurri dalle ciglia lunghe, e i Wray pensavano che un giovanotto più grande come Scott potesse interessarsi a lei soltanto per uno scopo. Il fatto che vivesse da solo in un appartamento era un altro punto a suo sfavore. A Leanne piaceva tuttavia uscire con la combriccola di Ian. La ragazza di quest'ultimo, che era con loro quella sera, si chiamava Sarah Francis, diciassette anni, e il quarto membro della banda era Mick Blair, diciotto anni, un semplice amico. Avevano dichiarato tutti di aver passeggiato un po' per il centro dopo il film e di essere poi stati all'El Toro per un caffè, sebbene ulteriori indagini avessero rivelato che in realtà erano andati a bere all'Old Ship Inn, in un vicolo tra North Market Street e York Road, e che avevano mentito perché Leanne e Sarah erano minorenni. Messi alle strette, avevano raccontato tutti che Leanne li aveva salutati fuori del pub e si era incamminata verso casa intorno alle dieci e un quarto, un tragitto che non avrebbe richiesto più di una decina di minuti. Ma non era mai arrivata. Nonostante la collera e la preoccupazione, i Wray avevano atteso fino al mattino prima di segnalare la scomparsa, e ben presto era stata avviata u-
n'inchiesta guidata da Banks. Eastvale era stata tappezzata di poster di Leanne; era stato rintracciato chiunque fosse stato in centro, al cinema, e all'Old Ship Inn quella sera. Niente. La polizia aveva persino tentato una ricostruzione, ma senza alcun esito. Leanne Wray si era dileguata. Nessuno l'aveva vista dopo che era uscita dall'Old Ship. I tre amici avevano affermato di essersi spostati in un altro pub, il Riverboat, un locale affollato che restava aperto fino a tardi, e di essere quindi finiti al Bar None, sulla piazza del mercato. Le telecamere a circuito chiuso avevano dimostrato che erano giunti lì verso le dodici e mezzo. La scientifica aveva passato al setaccio l'appartamento di Ian Scott alla ricerca di qualche segno della presenza di Leanne, ma invano. Se era stata lì, non aveva lasciato tracce. Vi erano delle tensioni nella famiglia Wray, aveva scoperto Banks di lì a poco, e secondo Jill Brown, una compagna di scuola, Leanne non andava molto d'accordo con la matrigna. Litigavano spesso. La ragazza sentiva la mancanza della vera madre, morta di cancro due anni prima, e riteneva che Victoria avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche anziché «vivere sulle spalle di suo papà», che non guadagnava nemmeno molto. La situazione finanziaria non era delle più rosee, aveva spiegato Jill, e Leanne doveva indossare abiti più resistenti di quelli che considerava alla moda e farseli durare più a lungo di quanto avrebbe desiderato. Quando aveva compiuto sedici anni, aveva trovato un lavoro per il sabato in una boutique del centro, così si era potuta comprare dei bei vestiti in un discount. Era quindi nata la tenue speranza che Leanne fosse fuggita da un contesto difficile e che, chissà come, non avesse udito gli appelli. Finché la sua borsetta era stata ritrovata tra i cespugli di un giardino che avrebbe dovuto oltrepassare rincasando. Gli investigatori avevano interrogato i proprietari dell'abitazione, ma era emerso che si trattava di due pensionati ultrasettantenni, ed erano stati cancellati quasi subito dalla lista dei sospettati. Dopo il terzo giorno, Banks aveva contattato Ron McLaughlin, il vicecapo della polizia di contea, discutendo poi del caso con il comandante di distretto Philip Hartnell della polizia del West Yorkshire. In meno di una settimana aveva visto la luce la task force Camaleonte, e Banks era stato messo a capo della sezione del North Yorkshire. Questa iniziativa significava più risorse, più personale e azioni più mirate. Significava anche, purtroppo, che ritenevano fosse tutta opera di un serial killer, e i giornali non avevano tardato a ricamarci sopra. Leanne era una studentessa mediocre, avevano dichiarato gli insegnanti.
Probabilmente avrebbe ottenuto risultati migliori se si fosse impegnata di più, ma non voleva fare fatica. Intendeva lasciare la scuola alla fine dell'anno e cercarsi un lavoro, magari in un negozio di abbigliamento o di dischi come Virgin o HMV. Amava la musica pop, e il suo gruppo preferito erano gli Oasis. Era una fan leale nonostante quello che la gente diceva di loro. Gli amici la giudicavano una persona piuttosto timida e buona, propensa a ridere delle battute degli altri e non molto incline all'introspezione. Era anche affetta da una lieve forma di asma e aveva sempre con sé un inalatore, rinvenuto nella borsetta abbandonata insieme con gli altri effetti personali. Se la seconda vittima, Samantha Foster, era un po' eccentrica, Leanne Wray era forse la ragazza della classe media inferiore più normale che si potesse trovare in tutto lo Yorkshire. «Sì, sono in condizioni di parlare, signore. Davvero. Entri.» L'agente Janet Taylor non pareva in condizioni di fare un bel niente quando Banks passò da lei dopo le sei di quella sera, ma chiunque, quella mattina, avesse messo LO. un serial killer e cullato la testa del proprio compagno morente sulle ginocchia aveva tutti i diritti di sembrare un po' fuori fase. Janet aveva il volto smunto e tirato, e il fatto che fosse tutta vestita di nero non faceva altro che accentuarne il pallore. Il suo appartamento si trovava sopra un parrucchiere in Harrogate Road, poco distante dall'aeroporto. Il commissario avvertì il profumo del fissatore per capelli e dello shampoo alle erbe nell'ingresso al pianterreno. La seguì su per l'angusta scala. La giovane si muoveva con svogliatezza, strascicando i piedi. Banks si sentiva esausto quasi quanto lei. Aveva appena assistito all'autopsia di Kimberley Myers e, sebbene l'esame non avesse riservato alcuna sorpresa (decesso dovuto ad asfissia da strangolamento), il dottor Mackenzie aveva rilevato tracce di sperma nell'ano, nella bocca e nella vagina. Con un po' di fortuna, il DNA avrebbe condotto a Terence Payne. Il salotto mostrava i segni della trascuratezza tipica dell'abitazione di un poliziotto single. Banks li conosceva fin troppo bene. Cercava di tenere il suo cottage il più pulito possibile, ma qualche volta era difficile se non potevi permetterti una colf e non avevi tempo. Quando poi potevi goderti qualche ora libera, l'ultima cosa che avevi voglia di fare erano proprio le faccende domestiche. La stanzetta era tuttavia abbastanza accogliente, nonostante lo strato di polvere sul tavolino, le riviste sparse qua e là, qualche
tazza di tè semivuota e la T-shirt e il reggiseno gettati sullo schienale della poltrona. Alle pareti erano appesi tre poster incorniciati di vecchi film di Bogart (Casablanca, Il mistero del falco e La regina d'Africa), mentre sulla mensola del caminetto vi erano alcune fotografie, compresa una di Janet, tutta fiera nella sua uniforme, tra due anziani che, dedusse Banks, dovevano essere il padre e la madre. La pianta sul davanzale della finestra sembrava avere i minuti contati, avvizzita e marrone lungo i bordi delle foglie. Un televisore trasmetteva immagini mute in un angolo. Era sintonizzato su un notiziario locale, e Banks riconobbe il quartiere dei Payne. Janet spostò la T-shirt e il reggiseno. «Si accomodi, signore.» «Possiamo rimettere il sonoro per un attimo?» domandò Banks. «Non si sa mai, magari c'è qualche novità.» «Certo.» Janet alzò il volume, ma ascoltarono solo una replica del precedente comunicato stampa di Hartnell. Quando finì, Janet andò a spegnere la TV. Pareva ancora lenta nel muoversi e legata nel parlare, e Banks immaginò che dipendesse dai tranquillanti prescritti dal medico. O magari dalla bottiglia di gin semivuota sul buffet. Un aereo decollò dall'aeroporto di Leeds e Bradford e, pur non scuotendo davvero l'appartamento, il rumore fu sufficiente a far vibrare un bicchiere e a rendere la conversazione impossibile per un minuto o giù di lì. Nel piccolo locale faceva anche caldo, e Banks sentì il sudore che gli inumidiva la fronte e le ascelle. «Ecco perché costa così poco» spiegò Janet dopo che il rombo si fu ridotto a un ronzio lontano. «Non mi disturba più di tanto. Ci si fa l'abitudine. A volte siedo qui e immagino di essere lassù in aereo, diretta verso qualche paese esotico.» Si alzò per versarsi un goccio di gin, aggiungendo un po' di acqua tonica da una bottìglia di Schweppes aperta. «Gradisce un drink, signore?» «No, grazie. Come va?» Janet tornò a sedersi scrollando la testa. «La cosa strana è che proprio non lo so. Sto bene, suppongo, ma mi sento come intontita, quasi mi fossi appena risvegliata dall'anestesia e il mondo fosse ancora tutto ovattato. O quasi stessi sognando e dovessi aprire gli occhi domattina scoprendo che è tutto diverso. Ma non sarà così, vero?» «Probabilmente no» rispose Banks. «Potrebbe addirittura essere peggio.» Janet rise. «Be', grazie per non avermi raccontato un sacco di balle.» Banks abbozzò un sorriso. «Prego. Ascolti, non sono qui per criticare la
sua condotta, ma devo sapere che cosa è accaduto in quella casa. Ha voglia di parlarne?» «Certo.» Notando il linguaggio del suo corpo, il modo in cui incrociò le braccia e parve ritrarsi in se stessa, Banks immaginò che non ne avesse voglia, ma dovette continuare comunque. «Mi sono sentita una criminale, sa» esordì Janet. «Che cosa vuol dire?» «Il medico mi ha visitata, ha infilato i miei vestiti in un sacco, ha prelevato i residui sotto le mie unghie.» «È la procedura. Lo sa.» «Lo so. Lo so. Però è differente quando lo fanno a te.» «Credo di sì. Senta, non intendo mentirle, Janet. Questo potrebbe essere un grosso problema. Potrebbe concludersi in men che non si dica, come un banale incidente di percorso, ma potrebbe anche non risolversi e intralciarle la carriera...» «Penso di non averne più una ormai, non crede, signore?» «Non è detto. Non se non è lei a volerlo.» «Devo ammettere che non ci ho riflettuto molto da quando... lo sa.» Scoppiò in una risata aspra. «La cosa buffa è che, se fossimo in America, sarei un'eroina.» «Che cosa è successo quando avete ricevuto la chiamata?» Con frasi brevi ed esitanti, Janet gli raccontò dell'auto incendiata, della segnalazione via radio e di Lucy Payne svenuta nell'ingresso, interrompendosi di quando in quando per bere un sorso di gin and tonic, perdendo il filo una o due volte e fissando la finestra aperta. Il baccano del traffico serale saliva dalla strada affollata, e di tanto in tanto un aereo atterrava o decollava. «Le è sembrata una ferita grave?» «Abbastanza. Non mortale. Ma sono rimasta con lei mentre Dennis dava un'occhiata di sopra. È tornato con una coperta e un cuscino, me lo ricordo. Ho pensato che fosse gentile da parte sua. Mi ha sorpresa.» «Dennis non era sempre gentile?» «Non è la parola che userei per descriverlo, no. Bisticciavamo spesso, ma tutto sommato andavamo d'accordo. Era un tipo a posto. Solo un po' preistorico. E pieno di sé.» «Poi che cosa avete fatto?» «Dennis si è spostato sul retro, in cucina. Voglio dire, qualcuno l'aveva
picchiata e, se era stato il marito, era probabile che fosse ancora in casa, da qualche parte. Giusto? Magari a piangersi addosso.» «Lei è rimasta con Lucy?» «Sì.» «Poi che cos'è successo?» «Dennis mi ha chiamata, così l'ho lasciata sola. Dopo averle sistemato la coperta e il cuscino non avrei potuto fare altro. L'emorragia si era quasi fermata. Non credevo che corresse rischi seri. L'ambulanza stava per arrivare...» «Non avete fiutato alcun pericolo in casa?» «Pericolo? No, per niente. Insomma, non più che in qualsiasi altra lite domestica. Possono aggredirti. È successo. Ma no.» «Okay. Che cosa vi ha spinti a scendere in cantina? Avete pensato che il marito potesse essere lì?» «Sì, suppongo di sì.» «Perché Dennis l'ha chiamata?» Janet tacque, con evidente imbarazzo. «Janet?» Alla fine lo guardò. «È stato laggiù, commissario? In cantina?» «Sì.» «Quel poster sulla porta. La donna.» «L'ho visto.» «Dennis voleva mostrarmelo. Era la sua concezione di scherzo. Ecco che cosa intendo per preistorico.» «Capisco. La porta era aperta? Quella della cantina, voglio dire.» «No, era chiusa. Ma da sotto filtrava una luce, una specie di luce tremolante.» «Non avete sentito nessun rumore all'interno?» «No.» «Nessuno dei due ha gridato prima di entrare, per identificarvi come agenti di polizia?» «Non ricordo.» «Okay, Janet. Se la sta cavando benissimo. Continui.» La recluta teneva le ginocchia serrate e, parlando, si torceva le mani in grembo. «Come ho detto, c'era una luce tremolante.» «Le candele.» Janet lo guardò e rabbrividì appena. «C'era anche una puzza, come di fogna.»
«A quel punto avete cominciato ad avere paura?» «Non proprio. Ti faceva accapponare la pelle, ma procedevamo con cautela, come sempre in situazioni del genere. Ordinaria amministrazione. Sarebbe potuto essere armato. Il marito. Eravamo consapevoli di quella possibilità. Ma se vuole sapere se abbiamo avuto il minimo sospetto di quello che avremmo trovato là dentro, allora no. Altrimenti saremmo corsi via come fulmini e avremmo chiamato i rinforzi. Io e Dennis non siamo tipi da fare gli eroi.» Scosse la testa. «Chi è entrato per primo?» «Io. Dennis ha aperto la porta con un calcio e si è scansato, sa, con una specie di inchino. Una presa per il culo.» «Poi che cosa è successo?» La testa di Janet ebbe un brusco scatto. «È accaduto tutto così in fretta. Era una visione sfuocata. Ricordo le candele, gli specchi, la ragazza, i disegni volgari sulle pareti, cose che ho visto con la coda dell'occhio. Ma sono come le immagini di un sogno. Di un incubo.» Con il respiro che si faceva più affannoso, si raggomitolò sulla poltrona, le gambe rannicchiate, le braccia strette intorno al corpo. «Poi è sbucato fuori. Dennis era dietro di me. Sentivo il suo alito caldo sul collo.» «Da dove è uscito?» «Non lo so. Da dietro. Da un angolo. Questione di un secondo.» «Che cosa ha fatto Dennis?» «Non ha avuto il tempo di fare niente. Deve aver udito o avvertito qualcosa che l'ha indotto a voltarsi, e poi ho visto che sanguinava. Ha urlato. È stato allora che ho tirato fuori lo sfollagente. Quel tizio ha ferito di nuovo Dennis, e il sangue mi è schizzato addosso. Era come se non si fosse accorto della mia presenza, o se non gliene importasse, si sarebbe occupato di me più tardi. Ma quando mi si è avvicinato, ho estratto il manganello. Ha cercato di accoltellarmi, ma ho parato il colpo. Poi ho reagito...» Cominciò a singhiozzare fregandosi il dorso delle mani sugli occhi. «Mi dispiace, Dennis. Mi dispiace così tanto.» «Va tutto bene» la rassicurò Banks. «Si rilassi, Janet. È bravissima.» «Aveva la testa sulle mie ginocchia. Ho cercato di tenere chiusa l'arteria, come ti insegnano alle lezioni di pronto soccorso. Ma non ci sono riuscita. Non l'avevo mai fatto prima, non con una persona in carne e ossa. Il sangue continuava a uscire. Tutto quel sangue.» Tirò su con il naso e vi passò sopra il dorso della mano. «Mi scusi.» «Non si preoccupi. Sta andando a meraviglia, Janet. Prima di allora.
Prima di cercare di salvare Dennis, che cos'altro ha fatto?» «Rammento di aver ammanettato quell'uomo a un tubo.» «Quante volte l'ha colpito?» «Non ricordo.» «Più di una?» «Sì. Non smetteva di attaccarmi, così l'ho colpito ancora.» «E ancora?» «Sì. Continuava a rialzarsi.» Riprese a singhiozzare. Quando si fu calmata, chiese: «È morto?». «Non ancora.» «Quel bastardo ha ammazzato Dennis.» «Lo so. E quando ti ammazzano il compagno, devi fare qualcosa, giusto? Altrimenti che figura fai, che figura fanno tutti i detective del mondo?» Janet lo guardò come se fosse pazzo. «Che cosa?» Banks alzò gli occhi verso Bogart nei panni di Sam Spade, di cui aveva appena cercato di imitare una battuta. Evidentemente, i poster erano lì per bellezza, non in conseguenza di una grande passione per i film, e il suo patetico tentativo di rallegrare l'atmosfera era fallito. «Lasci perdere» disse. «Mi domandavo solo che cosa le fosse passato per la testa.» «Niente. Non ho avuto il tempo di fermarmi a riflettere. Aveva accoltellato Dennis e voleva accoltellare anche me. Lo chiami istinto di autoconservazione, se vuole, ma non è stato un ragionamento consapevole. Insomma, non ho pensato che fosse meglio colpirlo di nuovo prima che si rialzasse e mi si avventasse contro. Non è andata così.» «Com'è andata, allora?» «Gliel'ho detto. Una visione sfuocata. Ho messo fuori combattimento l'assassino, l'ho ammanettato a un tubo e poi ho cercato di tenere in vita Dennis. Non ho più nemmeno guardato nella direzione di Payne. A essere sincera, non me ne fregava un cazzo delle sue condizioni. Soltanto di Dennis.» Fece una pausa e abbassò gli occhi sulle mani serrate intorno al bicchiere. «Sa che cosa mi brucia davvero? Ero appena stata acida con lui, e tutto perché aveva raccontato le sue dannate barzellette sessiste a quel pompiere.» «Può essere più precisa?» «Avevamo litigato, ecco tutto. Poco prima di arrivare alla villetta. Gli avevo detto che probabilmente il suo neo era canceroso. Sono stata crudele. Sapevo che era ipocondriaco. Perché l'ho fatto? Perché sono una perso-
na tanto orribile? Poi è stato troppo tardi. Non ho potuto dirgli che non parlavo sul serio.» Scoppiò di nuovo in lacrime, e Banks pensò che fosse meglio lasciarla sfogare. Ci sarebbe voluto più di un pianto per liberarla dal senso di colpa, ma almeno era un inizio. «Si è messa in contatto con la Federazione?» «Non ancora.» «Lo faccia domani. Parli con il suo rappresentante. Sapranno offrirle un po' di assistenza, se le serve, e...» «Consulenza legale?» «Sì, se necessario.» Janet si alzò e, con passo un po' più malfermo, andò a prepararsi un altro drink. «È sicura che sia saggio?» Janet si versò una generosa dose di liquore e tornò a sedersi. «Mi dica che cos'altro dovrei fare, signore. Dovrei parlare con la moglie e i figli di Dennis? Dovrei cercare di spiegargli come è successo, perché è stata tutta colpa mia? Oppure dovrei buttare all'aria l'appartamento, andare in città e scatenare una rissa da qualche parte, in un pub anonimo, cosa di cui avrei davvero voglia? Non credo. Questa è senz'altro l'alternativa meno dannosa a tutte le altre cose che preferirei fare al momento.» Banks si rese conto che aveva ragione. Si era sentito così anche lui più di una volta e aveva persino ceduto alla tentazione di andare in città e scatenare una rissa. Non era servito a niente. Sarebbe stato ipocrita fingere di non sapere che cosa significasse annegare i dispiaceri nella bottiglia. Vi erano stati due periodi della sua vita in cui aveva cercato conforto in quel modo. Il primo era stato quando aveva avuto la sensazione di essere sull'orlo di un esaurimento nervoso durante gli ultimi mesi a Londra, prima del trasferimento a Eastvale, e il secondo più di un anno addietro, dopo che Sandra l'aveva piantato. Il fatto era che, al contrario di quanto si diceva, funzionava. Come soluzione provvisoria, per l'oblio temporaneo, non esisteva niente di meglio di una bella sbronza, a eccezione forse dell'eroina, che Banks non aveva mai provato. Magari Janet Taylor non si sbagliava, e bere era la cosa migliore che potesse fare quella sera. Soffriva, e talvolta si deve soffrire da soli. L'alcol ti aiuta a lenire il dolore per un po', e alla fine perdi i sensi. I postumi della sbornia sarebbero stati atroci, ma sarebbero arrivati solo l'indomani. «Ha ragione. Tolgo il disturbo.» Uscendo, Banks si chinò e le baciò la
testa in un gesto istintivo. I suoi capelli sapevano di gomma e plastica bruciata. Quella sera, Jenny Fuller sedeva nello studio di casa sua, davanti al computer dove teneva tutti i file e gli appunti relativi all'indagine, perché non le avevano messo a disposizione un ufficio a Millgarth. La stanza si affacciava sul Green, un angusto tratto di parco tra la sua via e l'East Side Estate. Attraverso gli spazi tra gli alberi scuri distingueva solo le luci delle abitazioni. Lavorare a stretto contatto con Banks le aveva riportato alla mente molti episodi del loro passato comune. Una volta aveva tentato di sedurlo, rammentò con imbarazzo, e lui aveva rifiutato con garbo, affermando di essere un uomo felicemente sposato. Però era attratto da lei; almeno di questo era sicura. Ormai non era più un uomo felicemente sposato, ma adesso aveva l'«Amichetta», come Jenny aveva preso a chiamare Annie Cabbot pur non avendola mai conosciuta. Era accaduto perché lei aveva trascorso tanto tempo fuori del paese e non era stata presente nemmeno quando Banks e Sandra si erano separali. Se... be', le cose sarebbero potute andare diversamente. Invece, si era imbarcata in una serie di relazioni disastrose. Uno dei motivi per cui era stata via così a lungo, aveva finalmente confessato a se stessa dopo essere tornata dalla California quest'ultima volta con la coda tra le gambe, era il desiderio di allontanarsi da Banks, dalla sua continua vicinanza, che la tormentava tanto anche se ostentava indifferenza e si mostrava molto più distaccata di quanto si sentisse. E adesso lavoravano fianco a fianco. Con un sospiro, tornò a concentrarsi sul lavoro. Fino ad allora, si accorse, il suo maggior problema era stata la mancanza quasi totale di informazioni sui corpi e sulla scena del crimine, dati senza i quali sarebbe stato pressoché impossibile produrre un'analisi accettabile (una valutazione preliminare che fungesse da bussola investigativa, aiutando la polizia a orientarsi), e tanto meno un profilo più complesso. Era riuscita a lavorare solo sulla vittimologia. Tutto questo aveva naturalmente fornito parecchie munizioni alla folta schiera dei suoi detrattori nella task force. L'Inghilterra era rimasta al Medioevo per quanto riguardava l'impiego nelle indagini di psicologi consulenti e profiler, riteneva Jenny, soprattutto in confronto agli Stati Uniti. In parte, dipendeva dal fatto che l'FBI era un'organizzazione nazionale con risorse idonee a sviluppare programmi na-
zionali, mentre la Gran Bretagna aveva cinquanta o più forze di polizia diverse, che operavano ciascuna in modo autonomo. Inoltre, negli USA, gli elaboratori di profili criminali erano per lo più poliziotti, e dunque godevano di maggiore considerazione. In Gran Bretagna, erano di solito psicologi o psichiatri e, come tali, venivano trattati con diffidenza dalla polizia e dall'intero sistema legale. Jenny sapeva che gli psicologi consulenti erano fortunati quando riuscivano a salire sul banco dei testimoni di un tribunale britannico, e ancor più quando venivano interpellati in qualità di periti tecnici, come avveniva in America. Anche se riuscivano ad arrivare fino al banco dei testimoni, il giudice e la giuria guardavano con diffidenza la loro deposizione, e la difesa presentava un altro psicologo con una teoria diversa. Il Medioevo. In cuor suo, Jenny sapeva che quasi tutti i poliziotti con cui collaborava la consideravano, se mai, poco più di una chiaroveggente e si rivolgevano a lei soltanto perché era più semplice che non farlo. Ma non si dava per vinta. Anche se era pronta ad ammettere che la stesura di profili criminali era ancora più un'arte che una scienza, e anche se quelle descrizioni puntavano solo di rado il dito contro un delinquente particolare, era convinta che il suo lavoro potesse restringere il campo e dare una direzione precisa alle indagini. Guardare le immagini sullo schermo non le serviva a granché. Così tornò a sparpagliare le fotografie sulla scrivania, pur conoscendole già a memoria: Kelly Matthews, Samantha Foster, Leanne Wray, Melissa Horrocks e Kimberley Myers, tutte belle ragazze bionde tra i quindici e i diciotto anni. Per i suoi gusti, gli investigatori avevano dato troppe cose per scontate sin dall'inizio, per esempio saltando subito alla conclusione che tutte e cinque le ragazze fossero state rapite dal medesimo individuo o individui. Persino con le poche informazioni di cui disponeva, aveva detto a Banks e alla squadra, sarebbe riuscita a dimostrare che l'ipotesi contraria era altrettanto convincente. Le ragazze scompaiono di continuo, aveva sostenuto Jenny; litigano con i familiari e scappano di casa. Secondo quanto le aveva riferito Banks, gli interrogatori dettagliati e approfonditi con amici, vicini, genitori, insegnanti e conoscenti avevano però evidenziato che tutte le ragazze (eccezion fatta, forse, per Leanne Wray) provenivano da famiglie solide e che a parte i consueti litigi riguardanti vestiti, ragazzi, musica a tutto volume e
compagnia bella - non era accaduto nulla di strano o significativo nella loro vita prima che sparissero. Queste, aveva sottolineato Banks, non erano fuggiasche adolescenti come tante altre. C'era anche l'elemento delle borsette abbandonate poco lontano dai luoghi in cui le vittime erano state viste per l'ultima volta. Con il pasticcio dell'inchiesta sullo Squartatore dello Yorkshire che le pesava ancora sulla testa come un mattone, la Divisione occidentale non intendeva correre rischi. Il numero era salito a quattro, poi a cinque, e non si erano trovate tracce delle ragazze attraverso i canali consueti: gruppi di supporto per giovani, il telefono amico nazionale per le persone scomparse, le ricostruzioni della trasmissione televisiva Crimewatch UK, i manifesti con la scritta CHI L'HA VISTA?, gli appelli dei media e il lavoro della polizia locale. Alla fine, Jenny aveva accettato la tesi di Banks e aveva proceduto come se le sparizioni fossero collegate, appuntandosi allo stesso tempo con chiarezza le differenze tra i singoli episodi. Ben presto aveva scoperto che le analogie erano molto più numerose delle discrepanze. Vittimologia. Che cosa avevano in comune? Erano tutte giovani, con i capelli biondi e lunghi, le gambe ben tornite e la figura snella e atletica. Allora era questo il tipo di ragazza che piaceva al killer, aveva concluso Jenny. Hanno tutti gusti diversi. Dopo la vittima numero quattro, Jenny aveva notato un aumento nella frequenza dei rapimenti: quasi due mesi tra il primo e il secondo, cinque settimane tra il secondo e il terzo, ma solo due settimane e mezzo tra il terzo e il quarto. Il colpevole diventava sempre più ingordo, aveva pensato all'epoca, il che significava che forse sarebbe diventato anche meno cauto. Era inoltre pronta a scommettere che era in atto un processo di dissociazione della personalità. Il criminale aveva scelto con cura i suoi luoghi d'azione. Pub, feste con balli, cinema, circoli, concerti pop e feste all'aperto erano tutti posti dove si avevano ottime probabilità di trovare dei giovani che, in un modo o nell'altro, sarebbero poi dovuti tornare a casa. Jenny sapeva che la squadra lo chiamava «Camaleonte» e concordava sul fatto che avesse dimostrato una grande abilità nel selezionare le vittime senza dare nell'occhio. Le aveva sequestrate tutte in contesti urbani: tratti di strada isolati, deserti e semibui. Era anche riuscito a tenersi alla larga dalle telecamere a circuito chiuso ormai installate in molte piazze e nei centri di parecchie città. Una testimone aveva dichiarato di aver visto Samantha, la vittima di Bradford, parlare con qualcuno attraverso il finestrino di un'auto scura, e
quello era l'unico dato che Jenny possedeva sul possibile metodo di rapimento. Se le proiezioni cinematografiche, gli incontri al pub dell'università, la festa dell'ultimo dell'anno e il concerto pop di Harrogate erano iniziative molto reclamizzate e terreni di caccia prevedibili, Jenny si arrovellava chiedendosi come avesse fatto l'assassino a sapere del ballo al circolo giovanile dopo il quale era scomparsa Kimberley Myers. Che vivesse nei paraggi? Che facesse parte della congregazione? Che fosse solo passato di lì per caso? Per quanto ne sapeva questo tipo di eventi venivano pubblicizzati soltanto all'interno della comunità interessata o addirittura soltanto tra gli effettivi membri del circolo. Ora aveva trovato la risposta: Terence Payne abitava in fondo alla strada, insegnava alla scuola superiore locale. Conosceva la vittima. Ora alcuni dei particolari emersi quel giorno gettavano inoltre luce su altri fatti ed elementi che le erano parsi inspiegabili nel corso delle settimane. Poiché quattro sequestri su cinque si erano verificati il venerdì sera o nelle prime ore del sabato mattina, Jenny aveva ipotizzato che l'assassino lavorasse cinque giorni la settimana e si dedicasse al suo hobby nel weekend. L'unica eccezione, Melissa Horrocks, l'aveva confusa, ma adesso, sapendo che Payne faceva l'insegnante, riusciva a dare un senso anche al rapimento di martedì 18 aprile. Erano iniziate le vacanze di Pasqua, e Payne aveva avuto più tempo a disposizione. Basandosi su questi scarsi dettagli (risalenti tutti al periodo precedente la sparizione di Kimberley Myers), Jenny aveva supposto di trovarsi di fronte a un rapitore che agiva in modo opportunistico. Perlustrava i luoghi ideali cercando vittime di un certo tipo e, quando ne individuava una, colpiva veloce come un fulmine. Nulla indicava che le ragazze fossero state avvicinate la sera del rapimento o in altre occasioni, anche se era una possibilità da tenere presente, ma Jenny era pronta a scommettere che l'assassino aveva esplorato le varie zone, studiando ogni via d'entrata e d'uscita, ogni centimetro quadrato, tutti gli angoli e le visuali. I piani come il suo implicavano sempre un certo grado di rischio. Abbastanza, forse, da garantire quella rapida scarica di adrenalina che faceva probabilmente parte del brivido. Ora Jenny sapeva che aveva usato il cloroformio per sottomettere le vittime, mossa che diminuiva il grado di rischio. Fino ad allora Jenny non aveva neppure potuto analizzare le informazioni riguardanti la scena del crimine, perché non esisteva alcuna scena del crimine. Le ragioni per cui non era stato rinvenuto alcun corpo, aveva det-
to, potevano essere numerose. Magari il colpevole li aveva abbandonati in punti remoti dove nessuno li aveva ancora scoperti, seppellendoli nei boschi oppure gettandoli in mare o in un lago. Man mano che le scomparse aumentavano, e man mano che il tempo trascorreva senza che fosse reperita alcuna salma, Jenny aveva tuttavia cominciato a orientarsi verso la teoria secondo cui l'uomo era un collezionista, un tizio che raccoglieva e assaporava le vittime per poi disfarsene come un appassionato di farfalle asfissia i suoi trofei e li infilza con gli spilli. Dopo aver visto la stanzetta in cui l'assassino aveva seppellito, o parzialmente seppellito, i cadaveri, non pensava che avesse compiuto quell'azione per caso o per fretta. Non pensava che le dita dei piedi di una vittima spuntassero dalla terra perché Terence Payne era un lavoratore poco scrupoloso; erano così perché lui aveva voluto che fossero così, perché facevano parte della sua fantasia, perché lo eccitavano. Appartenevano alla sua collezione, alla sua sala dei trofei. O al suo «giardino». Ora Jenny avrebbe dovuto rielaborare il profilo, inserendo tutte le prove che sarebbero state raccolte al numero 35 della Collina nelle settimane successive. Avrebbe inoltre dovuto scoprire tutto il possibile su Terence Payne. E non era finita. Avrebbe dovuto tenere in considerazione anche Lucy Payne. Lucy sapeva che cosa faceva il marito? Era possibile che avesse almeno avuto qualche sospetto. Perché non aveva sporto denuncia? Forse per un distorto senso di lealtà (dopo tutto, era suo marito) oppure per paura. Se l'aveva colpita con un vaso la sera precedente, magari l'aveva picchiata anche altre volte, avvertendola della sorte che le sarebbe toccata se avesse spifferato la verità a qualcuno. Naturalmente, doveva essere stato un vero inferno, ma Jenny non escludeva l'eventualità che Lucy avesse protetto il marito. Molte donne trascorrevano tutta la vita in simili inferni. Ma Lucy aveva avuto un ruolo più attivo? Ancora una volta, possibile. Il metodo di rapimento, aveva azzardato Jenny, rivelava che forse l'assassino aveva un complice, qualcuno che attirasse la vittima nell'auto o la distraesse mentre lui le arrivava alle spalle. Una donna sarebbe stata perfetta per quella parte e avrebbe semplificato il sequestro vero e proprio. Le ragazzine diffidenti verso gli uomini sono molto più inclini ad accostarsi al finestrino e a fornire indicazioni quando vedono una donna al volante.
Le donne erano capaci di una simile malvagità? Senza dubbio. E se mai venivano catturate, l'indignazione nei loro confronti era molto maggiore di quella riservata a qualsiasi uomo. Per rendersene conto, era sufficiente ricordare le reazioni del pubblico contro Myra Hindley, Rosemary West e Karla Homolka. Insomma, Lucy Payne era un'assassina? Banks era sfinito quando si fermò nel vialetto davanti al cottage di Gratly poco prima di mezzanotte. Sapeva che probabilmente avrebbe dovuto prendere una camera d'albergo a Leeds, come aveva fatto in passato, o accettare il divano offertogli da Ken Blackstone, ma quella sera aveva davvero voglia di tornare a casa anche se Annie aveva declinato il suo invito, e il viaggio non gli era pesato troppo. L'aveva aiutato a rilassarsi. Due messaggi lo attendevano sulla segreteria telefonica. Il primo era di Tracy, che diceva di aver sentito il notiziario e si augurava che lui stesse bene, mentre il secondo era di Christopher, il padre di Leanne Wray, che, avendo seguito la conferenza stampa e il telegiornale della sera, voleva sapere se la polizia avesse rinvenuto il corpo della figlia a casa Payne. Banks non rispose a nessuno dei due. Anzitutto, era troppo tardi e, in secondo luogo, non se la sentiva di parlare con nessuno. Ci avrebbe pensato l'indomani. Adesso che era a casa, era persino contento che Annie non lo raggiungesse. L'idea di avere compagnia, persino la sua, non gli sorrideva e, dopo tutto quanto aveva visto e pensato quel giorno, l'idea del sesso lo attirava quanto quella di una seduta dal dentista. Si versò un generoso bicchiere di whisky Laphroaig e cercò di trovare una musica adatta. Aveva bisogno di ascoltare qualcosa, ma non sapeva che cosa. Di solito non aveva difficoltà a individuare i pezzi più adeguati tra la sua vasta collezione, ma quella sera scartò quasi tutti i CD che gli capitarono tra le mani. Escluse il jazz, il rock e i generi altrettanto selvaggi e primitivi. Wagner e Mahler erano fuori discussione, come tutti i romantici: Beethoven, Schubert, Rachmaninoff e gli altri. Escluse anche l'intero Novecento. Alla fine, la sua scelta ricadde sulle suite per violoncello di Bach interpretate da Rostropovich. All'esterno del cottage, il muretto di sassi fra il ruscello e la stradina di terriccio sporgeva all'infuori formando un piccolo parapetto sopra le cascate di Gratly, una semplice serie di gradoni - nessuno alto più di un metro disposti in diagonale attraverso il villaggio e sotto il piccolo ponte di pietra che ne costituiva il principale punto di ritrovo. Da quando aveva traslocato
l'estate precedente, Banks aveva preso l'abitudine di restare in piedi là fuori tutte le sere quando il tempo lo permetteva, o addirittura di sedere sul muretto, facendo penzolare le gambe sopra il fiumiciattolo e godendosi un bicchierino e una sigaretta prima di coricarsi. L'aria buia era immobile e profumava di fieno ed erba calda. La valle sotto di lui dormiva. Le luci di una o due fattorie brillavano sul versante più lontano ma, a parte i belati delle pecore nel campo sull'altra sponda e i versi degli animali notturni nei boschi, regnava il silenzio. Nelle tenebre, Banks distingueva solo le sagome delle colline distanti, gobbe o frastagliate contro il cielo scuro. Credette di udire l'inquietante canto di un chiurlo su nella brughiera. La luna nuova emanava una luce fioca, ma vi erano più stelle di quante ne vedesse da tempo. In quel momento, una di loro attraversò l'oscurità disegnando una sottile scia opalescente. Banks non espresse alcun desiderio. Si sentiva leggermente depresso. L'euforia che si era aspettato di provare catturando l'assassino gli era in qualche modo sfuggita. Non aveva la sensazione che la fine fosse arrivata, che il male fosse stato espiato. Per qualche strano motivo, aveva l'impressione che il male fosse soltanto all'inizio. Cercò di liberarsi dell'apprensione. Udendo un miagolio accanto a sé, abbassò gli occhi. Era lo sparuto gatto tigrato dei boschi. A partire da quella primavera, era andato a trovarlo in diverse occasioni mentre era fuori, da solo, a tarda ora. La seconda volta, Banks gli aveva portato un po' di latte, che la bestiola aveva bevuto prima di sparire di nuovo tra gli alberi. Non l'aveva mai visto da nessun'altra parte, né in orari diversi da quelli notturni. Una volta aveva persino acquistato del cibo per gatti, in modo da essere preparato a una sua visita, ma l'animale non l'aveva toccato. Si limitava a bere, miagolare, camminare impettito per qualche istante e tornare da dove era venuto. Banks andò a prendere un piattino di latte e lo posò a terra, approfittandone anche per riempirsi il bicchiere. Il gatto alzò lo sguardo verso di lui facendo sfavillare nel buio gli occhi color ambra prima di chinarsi sul liquido. Il commissario si accese una sigaretta e si appoggiò al muro, posando il whisky sulla ruvida superficie di sasso. Cercò di sgomberare la mente dalle terribili immagini della giornata. Il gatto gli si strofinò contro la gamba e partì di corsa verso i boschi. Rostropovich continuava a suonare e, con la loro precisione matematica, le note di Bach facevano da buffo contrappunto alla musica sfrenata e ruggente delle cascate di Gratly, appena gonfiate dal disgelo primaverile. Almeno per qualche minuto, Banks riuscì a per-
dersi. Capitolo 6 Secondo i genitori, Melissa Horrocks, diciassette anni, che non fece mai ritorno a casa dopo il concerto pop tenutosi a Harrogate il 18 aprile, attraversava una fase di ribellione. Steven e Mary Horrocks avevano quell'unica figlia, tanto sospirata e arrivata solo quando la donna aveva ormai superato la trentina. Steven era impiegato in un caseificio locale, mentre Mary lavorava part-time presso un'agenzia immobiliare del centro. Verso i sedici anni, Melissa aveva iniziato a mostrare un interesse per lo stravagante genere di musica pop che usava il satanismo come principale mezzo di espressione. Benché gli amici li avessero rassicurati dicendo che si trattava di una passione innocua ed effimera (si sa come sono i giovani), Steven e Mary si erano allarmati quando la ragazza aveva cominciato a cambiare il proprio look e a trascurare lo studio e l'atletica. In un primo momento, Melissa si era tinta i capelli di rosso, si era infilata un chiodo nel naso e aveva preso a vestirsi di nero. La parete della sua camera era costellata di poster che raffiguravano ossute pop star dall'aspetto inquietante, come per esempio Marilyn Manson, e di incomprensibili simboli occulti. Circa una settimana prima del concerto, Melissa aveva deciso che i capelli rossi non le piacevano più ed era tornata al suo naturale colore biondo. Se non avesse cambiato idea, molto probabilmente si sarebbe salvata, pensò Banks in seguito. Quel particolare indusse il commissario a concludere anche che non fosse stata avvicinata prima del rapimento, o almeno non molto prima. Il Camaleonte infatti non si sarebbe interessato a una rossa. Harrogate, una prospera città vittoriana del North Yorkshire con circa settantamila abitanti, nota come centro per conferenze e polo d'attrazione per anziani, non era il luogo più adatto per un concerto dei Beelzebub's Bollocks, ma il gruppo, che era nuovo e non si era ancora accaparrato nessun importante contratto discografico, si dava da fare per ottenere scritture di maggior prestigio. Vi erano state le solite richieste di divieto da parte di colonnelli in pensione e dei vecchi rompiscatole che guardavano ogni porcheria possibile e immaginabile alla TV per poi scrivere lettere di protesta, ma alla fine era stato tutto inutile. Nel teatro adibito ad auditorio erano entrati circa cinquecento ragazzi,
tra cui Melissa e le sue amiche Jenna e Kayla. Il concerto era terminato alle dieci e mezzo, e le tre si erano fermate per un po' fuori a commentare lo spettacolo. Si erano salutate verso le undici meno un quarto, quando ognuna era andata per la sua strada. Era una serata mite, così Melissa aveva annunciato che sarebbe tornata a casa a piedi. Non abitava lontano dal centro e si sarebbe spostata per lo più lungo la Ripon Road, una via trafficata e tutt'altro che buia. Più tardi, due testimoni avevano affermato di averla scorta poco prima delle undici che camminava verso sud vicino all'incrocio tra West Park e Beech Grove. Avrebbe dovuto imboccare Beech Grove e quindi svoltare dopo un centinaio di metri, ma non era mai arrivata fin lì. All'inizio, era nata la tenue speranza che fosse scappata di casa, dati gli incessanti conflitti con i genitori. Steven e Mary, insieme con Jenna e Kayla, avevano però escluso con decisione quella possibilità. In particolare, le due amiche avevano spiegato a Banks che, essendo abituate a confidarsi tutto, l'avrebbero saputo se Melissa avesse progettato di fuggire. Inoltre, non aveva con sé nessuno dei suoi oggetti più cari e si era detta impaziente di rincontrarle il giorno successivo al Victoria Centre. Vi era poi l'elemento satanico, da tenere in seria considerazione quando a sparire era un'adolescente. La polizia aveva interrogato i membri della band e tutti gli spettatori che era riuscita a rintracciare, ma aveva fatto l'ennesimo buco nell'acqua. Esaminando le dichiarazioni in un secondo momento, persino Banks aveva dovuto ammettere che quell'aspetto appariva piuttosto insulso e inoffensivo, che la magia nera era un semplice ornamento, come lo era stata per i Black Sabbath e Alice Cooper ai suoi tempi. Sul palco, i Beelzebub's Bollocks non decapitavano nemmeno i pulcini. Quando, due giorni dopo la scomparsa, la borsetta di pelle nera di Melissa era stata rinvenuta tra alcuni cespugli con i soldi ancora al loro posto, come se fosse stata lanciata dal finestrino di un'auto in corsa, il caso era stato portato all'attenzione della task force Camaleonte. Come Kelly Matthews, Samantha Foster e Leanne Wray, Melissa Horrocks era svanita nel nulla. Jenna e Kayla erano distrutte. Poco prima che l'amica si allontanasse nel buio, aveva raccontato Kayla, avevano fatto qualche battuta sui pervertiti, ma Melissa si era indicata il petto e aveva affermato che il simbolo occulto sulla T-shirt l'avrebbe protetta dagli spiriti maligni. La sala operativa era affollata alle nove di quel martedì mattina. Oltre quaranta detective erano seduti sui bordi delle scrivanie o appoggiati alle
pareti. Poiché nell'edificio era vietato fumare, molti masticavano gomme o giocherellavano con elastici e graffette. Facevano quasi tutti parte della task force sin dall'inizio e avevano lavorato sodo, investendo nell'operazione molte energie, sia fisiche sia emotive. L'incarico aveva mietuto le sue vittime. Banks sapeva che il matrimonio di un povero agente investigativo era andato a monte perché l'uomo aveva trascorso troppe ore lontano da casa e sua moglie si era sentita trascurata. Prima o poi sarebbe successo comunque, si era detto il commissario, ma un'indagine come quella poteva esacerbare le tensioni, poteva spingere gli avvenimenti fino al punto di crisi, soprattutto se il punto di crisi non era troppo lontano già in partenza. In quei giorni, anche lui aveva la sensazione di essere vicino a quel limite, pur non avendo idea di dove fosse o di che cosa sarebbe accaduto quando l'avesse raggiunto. Sebbene la situazione sembrasse ancora confusa, adesso avevano per lo meno l'impressione di aver fatto qualche passo in avanti, e nell'aria ronzavano innumerevoli domande. Tutti volevano sapere che cosa fosse capitato. L'umore era eterogeneo: da una parte, pareva proprio che avessero beccato il loro uomo; dall'altra, uno di loro era stato ucciso e la sua compagna stava per vedersela davvero brutta. Quando Banks entrò con andatura frettolosa, sfinito dopo un'altra notte quasi insonne nonostante un terzo Laphroaig e il secondo CD delle sonate per violoncello di Bach, tutti tacquero, ansiosi di sentire le novità. Il commissario sì fermò accanto a Ken Blackstone, vicino alle fotografie delle ragazze affisse al pannello di sughero. «Okay» esordì «tenterò di spiegarvi a che punto siamo. Gli uomini della scientifica sono tuttora sul posto, e sembra che ci rimarranno ancora per molto. Finora hanno rinvenuto tre corpi nel locale attiguo alla cantina, e pare che lì non ce ne siano altri. Stanno scavando in giardino alla ricerca del quarto. Nessuna delle vittime è ancora stata identificata, ma il sergente investigativo Nowak afferma che i cadaveri appartengono tutti a giovani donne, dunque per il momento è ragionevole supporre che siano delle ragazze rapite. Tra qualche ora dovremmo essere in grado di fare qualche progresso nel riconoscimento controllando le radiografie dentali. Il dottor Mackenzie ha eseguito l'autopsia di Kimberley Myers ieri sera e ha scoperto che era stata anestetizzata con il cloroformio, ma che la causa del decesso è stata un'inibizione vagale dovuta ad asfissia da strangolamento. Nella ferita erano incastrate alcune fibre gialle della corda da bucato.» Fece una pausa, quindi proseguì con un sospiro. «Aveva anche subito violenza anale
e vaginale ed era stata costretta a praticare una fellatio.» «E Payne, signore?» chiese qualcuno. «Quel bastardo morirà?» «Secondo le ultime notizie che ho ricevuto, devono operarlo al cervello. Terence Payne è ancora in coma, ed è impossibile prevedere per quanto resterà in questo stato o se si riprenderà. A proposito, ora sappiamo che aveva abitato e insegnato a Seacroft prima di trasferirsi nella parte occidentale di Leeds nel settembre di due anni fa, all'apertura delle scuole. L'ispettore capo Blackstone sospetta che sia lo Stupratore di Seacroft, così stiamo già analizzando il DNA. Voglio che una squadra riesamini la relativa documentazione con la Divisione investigazioni criminali locale. Può occuparsene lei, sergente investigativo Stewart?» «Subito, signore. È la Divisione di Chapeltown.» Banks era certo che Chapeltown vi si sarebbe buttata a capofitto, perché avrebbe avuto la possibilità di chiudere in un sol colpo vari casi rimasti in sospeso. «Abbiamo inoltre controllato la targa di Payne tramite l'Ufficio della motorizzazione di Swansea. Utilizzava targhe false. Le sue finiscono con KWT, proprio come ha dichiarato la testimone del rapimento di Samantha Foster. La scientifica le ha trovate nascoste in garage. Questo significa che la Divisione investigazioni criminali di Bradford doveva già averlo interrogato. È stato allora che ha cominciato a usare quelle false, suppongo.» «E Dennis Morrisey?» domandò qualcuno. «Secondo l'esame effettuato in loco dal dottor Mackenzie, che eseguirà l'autopsia tra qualche ora, l'agente Morrisey è morto dissanguato in seguito alla recisione della carotide e della giugulare. Come potrete immaginare, c'è una fila bella lunga giù all'obitorio. Il dottore ha bisogno di una mano. Qualcuno si offre volontario?» Una risata nervosa attraversò la stanza. «Che cosa ci dice dell'agente Taylor?» chiese uno dei detective. «L'agente Taylor sta bene» rispose Banks. «Le ho parlato ieri sera. Mi ha raccontato che cosa è successo nella cantina. Come probabilmente tutti saprete, verrà messa sotto inchiesta, quindi cerchiamo di starne fuori.» Si levò un coro di disapprovazione. Banks li zittì. «È inevitabile» osservò. «Anche se antipatico. Nessuno di noi è al di sopra della legge. Ma non lasciamoci distrarre. Il nostro lavoro è tutt'altro che finito. Anzi, è solo all'inizio. Gli esami effettuati dalla scientìfica nella casa ci forniranno una montagna di materiale, che andrà tutto etichettato, registrato e archiviato. Il sistema HOLMES è ancora in uso, dunque dovremo compilare e inserire i
rapporti informativi.» Banks udì Carol Houseman, l'operatrice specializzata nell'utilizzo di HOLMES, reagire con un lamentoso: «Oh, dannazione!». «Spiacente, Carol» le disse con un sorriso comprensivo. «Non si può fare altrimenti. In altre parole, nonostante quanto è successo, per il momento abbiamo ancora molto da fare. Dobbiamo raccogliere le prove. Dobbiamo dimostrare senza ombra di dubbio che Terence Payne è l'assassino delle cinque ragazze scomparse.» «E la moglie?» domandò qualcuno. «Doveva saperlo.» Proprio quello che aveva detto Ken Blackstone. «Non ne siamo sicuri» replicò Banks. «Per ora è una vittima. Ma il suo possibile coinvolgimento è uno dei punti su cui indagheremo. Sappiamo già che forse Payne aveva un complice. La moglie dovrebbe essere in condizioni di parlare con me in mattinata.» Guardò l'orologio e si rivolse al sergente investigativo Filey. «Nel frattempo, Ted, dovresti mettere insieme una squadra che riesamini tutte le dichiarazioni e interroghi di nuovo tutti quelli con cui abbiamo parlato quando è stata denunciata la sparizione delle ragazze. Amici, familiari, testimoni, chiunque. Okay?» «D'accordo, capo» acconsentì Ted Filey. Banks detestava essere chiamato «capo», ma lasciò correre. «Procurati qualche fotografia di Lucy Payne e mostrala a tutti quanti. Scopri se qualcuno ricorda di averla vista negli orari dei rapimenti.» Esplosero altri borbottii, e Banks li zittì di nuovo. «Per adesso» disse «voglio che vi teniate tutti in stretto contatto con il nostro responsabile amministrativo, il sergente investigativo Grafton...» Si levò un «Urrà», e Ian Grafton arrossì. «Assegnerà incarichi e perizie tecniche, e ce ne saranno per tutti. Voglio sapere che cosa Terence e Lucy Payne mangiano a colazione e quante volte vanno al gabinetto. Secondo la dottoressa Fuller, è possibile che Payne abbia tenuto una sorta di testimonianza visiva delle sue gesta: video, molto probabilmente, ma forse solo normali fotografie. Non abbiamo ancora trovato niente nella casa, ma dobbiamo scoprire se i Payne abbiano mai posseduto o noleggiato un'apparecchiatura video.» Appena ebbe menzionato Jenny Fuller, Banks notò alcune occhiate scettiche. La solita mentalità ristretta, pensò. Forse gli psicologi consulenti non erano dotati di poteri magici e non erano in grado di fare il nome dell'assassino nel giro di qualche ora, ma aveva constatato di persona che sapevano restringere il campo e isolare l'area in cui viveva il colpevole. Per-
ché non usarli? Nella migliore delle ipotesi potevano essere utili, e nella peggiore non arrecavano alcun danno. «Ricordate» proseguì «cinque ragazze sono state rapite, stuprate e assassinate. Cinque ragazze. È superfluo dire che una di loro sarebbe potuta essere vostra figlia. Crediamo di aver acciuffato il killer, ma non abbiamo la certezza che abbia agito da solo e, finché non riusciremo a dimostrare che è stato lui, a prescindere dal suo stato di salute, questa squadra non rallenterà il ritmo, intesi?» Dopo aver bofonchiato un «Sì, signore», i detective cominciarono a dividersi, alcuni uscendo per fumarsi l'agognata sigaretta, altri tornando alle scrivanie. «Ancora una cosa» disse Banks. «Agenti investigativi Bowmore e Singh. Nel mio ufficio. Subito.» Dopo una breve riunione con il comandante di distretto Hartnell, che non le aveva levato gli occhi di dosso neanche per un attimo, e con Banks, che era sembrato infastidito da quegli sguardi, l'ispettore Annie Cabbot lesse con attenzione il fascicolo riguardante l'agente Janet Taylor mentre attendeva nel piccolo ufficio assegnatole. Poiché la recluta non era in arresto e sembrava disposta a collaborare, Hartnell aveva deciso che un ufficio sarebbe stato un ambiente molto meno minaccioso di una squallida stanza degli interrogatori per il colloquio preliminare. Annie restò sorpresa di fronte al curriculum dell'agente Taylor. Se fosse stata scagionata da tutte le accuse, probabilmente sarebbe entrata nel Corso promozioni accelerate e avrebbe raggiunto il grado di ispettore nel giro di cinque anni. Originaria di Pudsey, un paesino dei dintorni, Janet si era diplomata a pieni voti e aveva conseguito la laurea in sociologia presso l'università di Bristol. Aveva soltanto ventitré anni, era nubile e viveva sola. Aveva ottenuto punteggi elevati in tutti i test di ammissione e, secondo gli esaminatori, aveva dimostrato sia di essere consapevole delle difficoltà che un poliziotto doveva affrontare in una società composita sia di possedere le doti cognitive e lo spirito d'iniziativa indispensabili per un buon detective. Era in ottima salute e, tra i suoi hobby, aveva indicato lo squash, il tennis e l'informatica. Quando era ancora una studentessa, aveva trascorso diverse estati lavorando nella sorveglianza del White Rose Centre di Leeds, dove controllava le telecamere e pattugliava il centro commerciale. Aveva anche fatto del volontariato per la chiesa locale, offrendo assistenza agli anziani. Tutto questo suonava molto noioso a Annie, che era cresciuta in una comune di artisti vicino a St. Ives, circondata da hippy, eccentrici e indivi-
dui strambi di ogni tipo. Era inoltre entrata tardi nella polizia e, pur avendo frequentato l'università, era laureata in storia dell'arte, materia che non serviva granché nella sua professione; non aveva nemmeno seguito il Corso promozioni accelerate a causa di un episodio verificatosi nella contea in cui aveva lavorato prima, dove tre colleghi avevano tentato di stuprarla durante la festa per la sua nomina a sergente. Uno vi era riuscito prima che lei potesse respingerli. Sconvolta, non aveva denunciato il fatto fino al mattino successivo, quando le ore che aveva trascorso nella vasca da bagno avevano ormai lavato via tutte le prove. Il commissario capo aveva accettato la parola dei tre agenti contro la sua e, pur ammettendo che le cose erano loro sfuggite di mano perché Annie era sbronza e li aveva provocati, gli uomini avevano dichiarato di aver mantenuto il controllo e di non aver commesso alcuna violenza carnale. Aveva trascurato la carriera per molto tempo, e nessuno si era meravigliato più di lei quando la sua ambizione si era riaccesa - fatto che l'aveva costretta ad affrontare lo stupro e le sue conseguenze, più complicate e traumatiche di quanto immaginassero tutti gli altri -, ma era accaduto, e adesso Annie era un brillante ispettore impegnato nelle indagini su un caso politicamente delicato per conto del commissario Chambers, che sembrava terrorizzato a morte dall'incarico. Un leggero bussare alla porta annunciò l'ingresso di una giovane dai corti capelli neri, piuttosto secchi e aridi. «Mi hanno detto che l'avrei trovata qui» disse. Annie si presentò. «Si sieda, Janet.» La recluta cercò di mettersi comoda sulla dura sedia. Dal volto pallido e dalle occhiaie livide, si sarebbe detto che era reduce da una notte in bianco, cosa che non stupì affatto Annie. Forse, dietro le devastazioni dell'insonnia e del terrore pusillanime, Janet Taylor era una ragazza attraente. Aveva splendidi occhi color sabbia, e il genere di zigomi su cui le modelle basano il loro successo. Pareva anche una persona molto seria, gravata dal peso dell'esistenza, o magari quello era solo il risultato degli ultimi avvenimenti. «Lui come sta?» domandò Janet. «Chi?» «Lo sa. Payne.» «Ancora privo di sensi.» «Sopravviverà?» «È presto per dirlo, Janet.» «Okay. Insomma, è solo che... Be', suppongo che faccia differenza. Sa,
per la mia situazione.» «Se muore? Sì, certo. Ma non preoccupiamocene per il momento. Voglio che mi racconti che cosa è successo nella cantina dei Payne, poi le porrò qualche domanda. Infine, voglio che scriva tutto in una dichiarazione. Questo non è un interrogatorio, Janet. Sono sicura che ha passato un inferno in quella cantina, e nessuno vuole trattarla come una criminale. Ma ci sono delle procedure da seguire in casi come questo, e prima cominciamo meglio è.» Annie non era stata del tutto sincera, ma voleva mettere Janet Taylor per quanto possibile a suo agio. Sapeva che avrebbe dovuto spingere e pungolare un po', magari persino calcare la mano di tanto in tanto. Era la sua tecnica di interrogatorio; dopo tutto, le pressioni aiutavano spesso a far venire a galla la verità. Avrebbe aspettato di vedere come andavano le cose ma, se avesse dovuto strapazzare un po' Janet Taylor, non ci avrebbe pensato due volte. Accidenti a Chambers e a Hartnell. Se doveva fare quel maledetto lavoro, intendeva farlo bene. «Stia tranquilla» la rassicurò Janet. «Non ho fatto niente di male.» «Ne sono certa. Cominci pure.» Mentre l'agente parlava in tono piuttosto freddo e annoiato, come se avesse già raccontato quei fatti troppe volte o come se stesse riferendo la storia di qualcun altro, Annie ne osservò il linguaggio del corpo. Si agitava spesso sulla sedia, si torceva le mani in grembo e, quando arrivò al culmine dell'orrore, incrociò le braccia e la sua voce si fece più piatta, inespressiva. Annie lasciò che proseguisse, prendendo appunti sui particolari che riteneva importanti. Anziché concludere con un finale vero e proprio, Janet tacque dopo aver spiegato di aver atteso l'ambulanza con la testa dell'agente Morrisey sulle ginocchia e il sangue caldo che le colava sulle cosce. Mentre descriveva quella scena, le sopracciglia le si alzarono corrugandole il centro della fronte e gli occhi le si riempirono di lacrime. Quando Janet ebbe finito, l'ispettore lasciò che il silenzio si prolungasse per qualche istante, poi le domandò se gradisse qualcosa da bere. L'altra chiese dell'acqua, e Annie gliene portò un po' dal serbatoio. Poiché nella stanza faceva caldo, ne prese un bicchiere anche per sé. «Solo un paio di domande, Janet; poi mi allontanerò per permetterle di scrivere la dichiarazione.» La giovane sbadigliò. Si mise la mano davanti alla bocca, ma senza scusarsi. In circostanze normali, Annie avrebbe interpretato lo sbadiglio come un segno di paura o nervosismo, ma Janet Taylor aveva buoni motivi per essere stanca, così non gli diede troppo peso questa volta.
«A che cosa ha pensato in quei momenti?» chiese Annie. «Pensare? Non sono sicura di aver pensato. Ho reagito e basta.» «Ha ricordato l'addestramento?» Janet Taylor rise, ma fu un riso forzato. «L'addestramento non ti prepara a niente di simile.» «E le esercitazioni con il manganello?» «Non ci ho dovuto pensare. Mi è venuto istintivo.» «Si è sentita minacciata?» «Può dirlo forte. Stava ammazzando Dennis e aveva intenzione di ammazzare anche me. Aveva già ucciso la ragazza sul letto.» «Come faceva a sapere che era morta?» «Che cosa?» «Kimberley Myers. Come faceva a sapere che era morta? Ha detto che è accaduto tutto così in fretta da consentirle a malapena di intravederla prima dell'aggressione.» «Io... io credo di averlo soltanto dato per scontato. Insomma, giaceva nuda lì sul letto con una corda gialla intorno al collo. Aveva gli occhi sbarrati. È stata una deduzione logica.» «Okay» concesse Annie. «Dunque non ha mai pensato di poterla salvare, di poterla aiutare?» «No. Mi interessava di più quello che stava capitando a Dennis.» «E quello che pensava era che sarebbe capitato a lei in seguito?» «Sì.» Janet bevve qualche altro sorso d'acqua. Parve non accorgersi delle gocce che le scivolarono lungo il mento atterrando sul davanti della maglietta grigia. «Così ha tirato fuori il manganello. E poi?» «Gliel'ho spiegato. Si è scagliato contro di me con quello sguardo folle negli occhi.» «E ha cercato di accoltellarla con il machete?» «Sì. Ho deviato la lama appoggiandomi lo sfollagente contro il braccio, come ci hanno insegnato. Poi, quando si è girato, prima che potesse riportare l'arma in posizione, ho preso lo slancio e l'ho picchiato.» «Dove l'ha colpito la prima volta?» «Sulla testa.» «Dove, con esattezza?» «Non lo so. Non ci ho fatto caso.» «Ma voleva metterlo fuori combattimento, vero?» «Volevo impedirgli di uccidermi.»
«Quindi avrà voluto mirare a un punto efficace?» «Be', sono destrorsa, dunque suppongo di aver centrato il lato sinistro della testa, più o meno all'altezza della tempia.» «È caduto?» «No, ma era stordito. Non è riuscito a impugnare bene il machete per usarlo di nuovo.» «Poi dove l'ha colpito?» «Al polso, credo.» «Per disarmarlo?» «Sì.» «Ci è riuscita?» «Sì.» «E dopo?» «Ho buttato il machete nell'angolo con un calcio.» «E che cosa ha fatto Payne?» «Si teneva il polso e bestemmiava.» «A quel punto l'aveva colpito una volta alla tempia sinistra e una al polso?» «Esatto.» «Che cosa ha fatto poi?» «L'ho picchiato ancora.» «Dove?» «Alla testa.» «Perché?» «Per stenderlo.» «Era in piedi?» «Sì. Si era messo in ginocchio cercando di recuperare il machete, ma si è alzato e mi si è avventato contro.» «In quel momento era disarmato?» «Sì, ma era pur sempre più grosso e più forte di me. E aveva uno sguardo folle negli occhi, come se avesse energia da vendere.» «Così l'ha colpito di nuovo?» «Sì.» «Nel medesimo punto?» «Non lo so. Ho usato il manganello nello stesso modo. Dunque sì, suppongo di sì, a meno che non fosse girato di profilo.» «Lo era?» «Penso di no.»
«Ma è possibile? Voglio dire, è stata lei a suggerirlo.» «Suppongo che sia possibile, ma non saprei spiegare il perché.» «Non l'ha mai colpito sulla nuca?» «Credo di no.» Janet aveva cominciato a sudare. Annie distingueva le gocce intorno all'attaccatura dei capelli e una macchia scura che le si allargava pian piano sotto le ascelle. Non voleva torchiare troppo quella poveretta, ma doveva fare il suo lavoro e, all'occorrenza, sapeva essere dura. «Che cosa è successo dopo la seconda bastonata alla testa?» «Niente.» «Come sarebbe a dire, niente?» «Niente. Ha continuato ad attaccarmi.» «Così l'ha picchiato ancora.» «Sì. Ho afferrato lo sfollagente con entrambe le mani, come una mazza da cricket, per colpirlo più forte.» «In quel momento Payne non aveva nulla con cui difendersi, giusto?» «Solo le braccia.» «Ma non le ha alzate per parare la manganellata?» «Si teneva il polso. Penso fosse rotto. Avevo sentito qualcosa che si spezzava.» «Dunque avrebbe potuto bastonarlo quanto voleva?» «Continuava ad aggredirmi.» «Intende dire che continuava a venire verso di lei?» «Sì, e a coprirmi di insulti.» «Che tipo di insulti?» «Insulti osceni. E Dennis gemeva e sanguinava. Volevo aiutarlo, ma non avrei potuto fare niente finché Payne avesse continuato a muoversi.» «A quel punto non le è venuto in mente di immobilizzarlo con le manette?» «Niente da fare. L'avevo già colpito due o tre volte, ma sembrava che non fosse servito a niente. Continuava a scagliarsi contro di me. Se gli fossi andata vicino e mi avesse presa, mi avrebbe strangolata.» «Anche con il polso rotto?» «Sì. Avrebbe potuto serrarmi il braccio intorno alla gola.» «Okay.» Annie tacque per annotare qualcosa sul blocco. Sentiva quasi l'odore della paura di Janet Taylor e non sapeva se fosse un residuo della cantina o se dipendesse dalle circostanze attuali. Seguitò a scrivere finché Janet cominciò ad agitarsi e dimenarsi, quindi le chiese: «Quante volte
pensa di averlo colpito in tutto?». Janet voltò la testa di lato. «Non lo so. Non stavo contando. Stavo lottando per la vita, per difendermi da un pazzo.» «Cinque volte? Sei?» «Gliel'ho detto. Non ricordo. Le volte necessarie. Per impedirgli di saltarmi addosso. Non smetteva di assalirmi.» Janet iniziò a singhiozzare, e Annie la lasciò piangere. Era la prima volta che l'emozione si faceva largo attraverso lo shock, e le avrebbe fatto bene sfogarsi. Dopo un minuto o poco più, la recluta riprese il controllo di sé e sorseggiò l'acqua. Pareva vergognarsi di essere crollata davanti a una collega. «Ormai ho quasi finito, Janet» la rassicurò Annie. «Poi la lascerò in pace.» «Okay.» «È riuscita a farlo cadere, giusto?» «Sì. Ha sbattuto contro la parete ed è scivolato per terra.» «Si muoveva ancora?» «Non molto. Più che altro, si contorceva e respirava affannosamente. Aveva del sangue intorno alla bocca.» «Ultima domanda, Janet: l'ha colpito ancora dopo che è caduto?» Le sopracciglia della giovane ebbero uno scatto di paura. «No. Credo di no.» «Che cosa ha fatto?» «L'ho ammanettato al tubo.» «E poi?» «Poi sono andata da Dennis.» «È certa di non averlo più bastonato dopo averlo steso? Nemmeno per sicurezza?» Janet distolse lo sguardo. «Gliel'ho detto. Credo di no. Perché avrei dovuto?» Annie si sporse in avanti appoggiando le braccia sulla scrivania. «Cerchi di ricordare, Janet.» Ma la ragazza scosse il capo. «È inutile. Non ricordo.» «Okay» disse Annie alzandosi. «Fine dell'interrogatorio.» Spinse verso Janet una penna e un foglio per le dichiarazioni. «Scriva quanto mi ha raccontato nel modo più dettagliato possibile.» Janet afferrò la penna. «Che cosa devo fare dopo?» «Quando ha finito, cara, torni a casa e si beva un bicchierino. Diavolo, se ne beva due.»
Le labbra di Janet si piegarono in un sorriso pallido ma sincero, mentre Annie usciva chiudendosi la porta alle spalle. Gli agenti investigativi Bowmore e Singh sembravano nervosi quando entrarono nell'ufficio provvisorio di Banks a Millgarth, e ne avevano tutte le ragioni, pensò il commissario. «Sedetevi» disse. Obbedirono. «Di che cosa si tratta, signore?» domandò Singh con disinvoltura. «Ha un incarico per noi?» Banks si appoggiò allo schienale della sedia intrecciandosi le dita dietro la testa. «In un certo senso» rispose. «Se definite un incarico temperare matite e svuotare cestini della carta straccia.» Spalancarono la bocca. «Signore...» fece per dire Bowmore, ma Banks sollevò la mano. «Una targa che finisce per KWT. Vi suona familiare?» «Signore?» «KWT. Kathryn Wendy Thurlow.» «Sì, signore» ammise Singh. «È quella che è stata segnalata alla Divisione investigazioni criminali di Bradford durante l'indagine su Samantha Foster.» «Tombola» confermò Banks. «Ora, correggetemi se sbaglio, ma Bradford non ci ha inviato le copie di tutti i dossier sul caso Foster quando è stata creata questa squadra?» «Sì, signore.» «Compresi i nomi di tutti coloro che, nella zona, possedevano un'auto scura con la targa terminante in KWT.» «Oltre mille, signore.» «Oltre mille. Esatto. La Divisione di Bradford li ha interrogati tutti. E indovinate chi c'era tra quei mille?» «Terence Payne, signore» rispose di nuovo Singh. «Lei sì che è sveglio» osservò Banks. «Ora, lavorando a quell'inchiesta, la Divisione di Bradford aveva notato collegamenti a crimini analoghi?» «No, signore.» Questa volta fu Bowmore a rispondere. «C'era la ragazza scomparsa durante la festa dell'ultimo dell'anno al Roundhay Park, ma all'epoca non vi era motivo per collegarle.» «Giusto» approvò Banks. «Allora perché pensate che, poco dopo la creazione di questa task force, abbia dato ordine di riesaminare tutta la documentazione relativa ai casi precedenti, compresa la sparizione di Samantha
Foster?» «Perché ha pensato che ci fosse un legame, signore» disse Singh. «Non ero l'unico» continuò Banks. «Però, sì. Tre ragazze, fino ad allora. Poi quattro. Poi cinque. La possibilità di un nesso diventava sempre più plausibile. Ora indovinate chi era incaricato di riesaminare la documentazione del caso di Samantha Foster?» Singh e Bowmore si scambiarono un'occhiata, quindi corrugarono la fronte e guardarono Banks. «Noi, signore» risposero all'unisono. «E anche di reinterrogare i proprietari di auto presenti sulla lista che la Divisione di Bradford aveva ricevuto dall'Ufficio della motorizzazione.» «Oltre mille, signore.» «Giusto» ripeté Banks «ma ho ragione se dico che disponevate di parecchio aiuto, che l'incarico è stato suddiviso tra più persone e che la lettera P era tra quelle a voi assegnate? Perché è quello che leggo nei miei fascicoli. P come Payne.» «Ce n'erano tanti da interrogare, signore. Non abbiamo ancora fatto in tempo a parlare con tutti.» «Non avete ancora fatto in tempo a parlare con tutti? È stato all'inizio di aprile. Più di un mese fa. Ve la siete presa un po' comoda, vero?» «Non era l'unico incarico affidatoci, signore» ribatté Bowmore. «Ascoltate» continuò Banks «non voglio sentire scuse. Per un motivo o per un altro, non avete reinterrogato Terence Payne.» «Ma non avrebbe fatto alcuna differenza, signore» si difese Bowmore. «Insomma, la Divisione di Bradford non l'aveva indicato come il sospetto numero uno, vero? Che cosa ci avrebbe detto che non aveva già detto a loro? Non avrebbe certo deciso di confessare a noi le sue malefatte, giusto?» Banks si passò la mano tra i capelli bofonchiando una muta imprecazione. Non era dispotico di natura (al contrario) e odiava fare ramanzine - anche se purtroppo faceva parte del suo lavoro - perché ne aveva ricevute parecchie a sua volta, ma se qualcuno aveva mai meritato una bella lavata di capo, quel qualcuno erano questi due idioti patentati. «Questo sarebbe un esempio di come usate il vostro fiuto?» chiese. «Perché, se lo è, avreste fatto meglio ad attenervi alla procedura e a seguire gli ordini.» «Ma, signore» disse Singh «faceva l'insegnante. Appena sposato. Bella casa. Abbiamo riletto tutte le testimonianze...» «Scusate» replicò Banks scuotendo la testa. «Mi sono perso qualcosa?» «Che cosa intende, signore?» «Be', non sapevo che all'epoca la dottoressa Fuller ci avesse già fornito
un profilo della persona da cercare.» L'agente investigativo Singh sorrise. «A ben guardare, non ci ha ancora fornito granché, vero, signore?» «Quindi che cosa vi ha indotti a pensare di poter escludere un insegnante appena sposato e con una bella casa?» La bocca di Singh si aprì e si chiuse come quella di un pesce. Bowmore si fissava le scarpe. «Allora?» insistette Banks. «Sto aspettando.» «Ascolti, signore» disse Singh «mi dispiace, ma non avevamo ancora fatto in tempo a interpellarlo.» «Avete interpellato qualcuna delle persone sull'elenco?» «Un paio, signore» mormorò Singh. «Quelle che la Divisione di Bradford aveva segnalato come possibili sospetti. C'era un tizio con un precedente per atti osceni in luogo pubblico, ma aveva un alibi di ferro per Leanne Wray e Melissa Horrocks. Abbiamo verificato, signore.» «Dunque, quando non avevate niente di meglio da fare, facevate qualche straordinario cancellando uno o due nomi dalla lista, nomi accanto ai quali la polizia di Bradford aveva messo dei punti di domanda. È così?» «Non è giusto, signore» ribatté Bowmore. «Non è giusto. Maledizione, le dico io che cosa non è giusto, agente investigativo Bowmore. Non è giusto che almeno cinque ragazze siano state quasi sicuramente uccise da Terence Payne. Ecco che cosa non è giusto.» «Ma non ce l'avrebbe confessato, signore» protestò Singh. «Dovreste essere detective, vero? Sentite, lasciate che ve lo spieghi con parole semplici. Se foste andati a casa di Payne quando avreste dovuto farlo, diciamo lo scorso mese, forse una o due ragazze non sarebbero morte.» «Non può incolpare noi, signore» si difese Bowmore, rosso in volto. «Non può saperlo.» «Ah, no? Che cosa sarebbe successo se aveste visto o sentito qualcosa di strano mentre lo interrogavate? Che cosa sarebbe successo se il vostro sviluppatissimo istinto da segugi avesse colto qualcosa e voi aveste chiesto di dare un'occhiata in giro per la casa?» «La Divisione di Bradford non ha...» «Non me ne frega un cazzo di quello che la Divisione di Bradford ha fatto o non ha fatto. Loro indagavano su un unico caso: la scomparsa di Samantha Foster. Voi, invece, eravate alle prese con una serie di rapimenti. Se aveste avuto una qualsiasi ragione per guardare in cantina, l'avreste beccato, credetemi. Forse vi sareste insospettiti anche solo frugando tra la sua
collezione di videocassette. Se aveste esaminato l'auto, avreste notato le targhe false. Quelle che usa ora finiscono per NGV, non per KWT. Sarebbe scattato qualche campanello d'allarme, non pensate? Invece avete deciso che non valeva la pena di eseguire le mie disposizioni con tempestività. Dio solo sa che cosa avete ritenuto più importante. Allora?» Abbassarono entrambi lo sguardo. «Niente da dire in vostra difesa?» «No, signore» sussurrò Singh a labbra strette. «Vi darò persino il beneficio del dubbio» proseguì Banks. «Voglio credere che abbiate seguito altre piste anziché limitarvi a battere la fiacca. Ma avete combinato lo stesso un casino.» «Ma deve aver mentito alla Divisione di Bradford» ribadì Bowmore. «Avrebbe mentito anche a noi.» «Non riuscite a capire, vero?» disse Banks. «Ve l'ho detto. Dovreste essere detective. Non dovete dare niente per scontato. Forse avreste notato qualcosa nel suo linguaggio del corpo. Forse l'avreste colto in fallo. Forse Dio ce ne scampi! - avreste persino controllato uno dei suoi alibi e avreste scoperto che non reggeva. Forse qualcosa vi avrebbe fatto venire dei sospetti riguardo a Terence Payne. Mi spiego? Rispetto alla polizia di Bradford avevate almeno due, o forse tre, elementi in più su cui basarvi, e vi siete giocati questa occasione. Ora siete sollevati dal caso, tutti e due, e verrà registrato sul vostro stato di servizio. Capito?» Bowmore lo guardò in cagnesco, e Singh sembrava sull'orlo delle lacrime, ma Banks non provava compassione per nessuno dei due in quel momento. Sentiva una forte emicrania in arrivo. «Toglietevi di torno» ordinò. «E non fatevi più vedere nella sala operativa.» Maggie si rintanò nella tranquillità dello studio di Ruth. Il sole primaverile filtrava attraverso la finestra, che la donna socchiuse per far entrare un po' d'aria. Era una stanza spaziosa situata sul retro della casa - in origine la terza camera da letto - e, benché il panorama lasciasse parecchio a desiderare (uno squallido vicolo disseminato di cartacce e, più in là, le case popolari), il locale in sé era perfetto per le sue esigenze. Oltre al bagno, alla toilette e alle tre camere, di sopra vi era anche una soffitta, accessibile mediante una scala retrattile, che Ruth usava come ripostiglio. Maggie non vi riponeva niente; anzi, non si arrampicava mai fin lassù, perché era infastidita dagli ambienti polverosi, disordinati e infestati dai ragni, al cui solo pensiero si sentiva rabbrividire. Soffriva anche di allergie, e il più piccolo
granello di polvere le faceva bruciare gli occhi e pizzicare il naso. Quel giorno era più contenta del solito di essere salita nello studio, perché non veniva distratta di continuo da tutto il trambusto sulla Collina. La via era stata riaperta al traffico, ma il numero 35 era transennato, e c'era un costante andirivieni di persone che portavano casse e sacchetti di Dio solo sapeva che cosa. Era impossibile dimenticare del tutto l'accaduto, naturalmente, ma quel mattino Maggie non aveva letto il giornale e aveva sintonizzato la radio su una stazione di musica classica con pochissimi notiziari. Si apprestava a illustrare una nuova selezione di lusso delle Fiabe dei fratelli Grimm lavorando a bozzetti e schizzi preliminari. Rileggendole per la prima volta dall'infanzia, aveva scoperto che erano storielle davvero disgustose e raccapriccianti. Quando era piccola, le erano parse inverosimili e umoristiche, ma adesso l'orrore e la brutalità sembravano fin troppo reali. Lo schizzo che aveva appena terminato riguardava Tremotino, il malvagio nanerottolo che aiutava Anna a filare l'oro dalla paglia in cambio del suo primogenito. L'illustrazione era un po' troppo idealizzata, pensò: una mesta bambina davanti a un filatoio, con due occhi di brace e l'ombra deforme dell'omino appena tratteggiati sullo sfondo. Non poteva usare la scena in cui il protagonista pestava il piede in terra con tanta forza da sfondare il pavimento e la gamba gli si staccava mentre cercava di liberarla. Violenza blanda, che non si soffermava sul sangue e sui visceri come facevano tanti film moderni (effetti speciali fine a se stessi), ma pur sempre violenza. Ora stava lavorando a Raperonzolo, e gli schizzi mostravano la fanciulla - un'altra primogenita strappata ai veri genitori - che calava i lunghi capelli biondi dalla torre in cui una maga la teneva prigioniera. Un altro lieto fine: la maga veniva divorata da un lupo, a eccezione delle mani e dei piedi simili ad artigli, che la belva sputava lasciandoli ai vermi e agli scarafaggi. Maggie tentava di sistemare la corda di capelli e l'angolazione della testa di Raperonzolo in modo che almeno sembrasse in grado di sostenere il peso del principe, quando il telefono squillò. Rispose dall'apparecchio dello studio. «Pronto?» «Margaret Forrest?» Era la voce di una donna. «Parlo con Margaret Forrest?» «Chi è?» «È lei, Margaret? Sono Lorraine Temple. Non ci conosciamo.» «Che cosa vuole?» «È stata lei a chiamare il pronto intervento nella mattinata di ieri? Per una lite domestica sulla Collina?»
«Chi è lei? Una giornalista?» «Oh, non gliel'ho detto? Sì, scrivo per il "Post".» «Mi hanno proibito di parlare con la stampa. Mi lasci in pace.» «Senta, sono in fondo alla strada, Margaret. Le telefono dal cellulare. La polizia non mi permette di avvicinarmi a casa sua, quindi mi chiedevo se le andasse di vedermi per un aperitivo o qualcosa del genere. È quasi ora di pranzo. C'è un bel pub...» «Non ho niente da dirle, signora Temple, quindi è inutile incontrarci.» «Ha segnalato una lite domestica al numero 35 della Collina ieri mattina presto, vero?» «Sì, ma...» «Allora ho trovato la persona giusta. Da che cosa ha dedotto che si trattava di una lite domestica?» «Mi spiace, non capisco. Non so che cosa intenda.» «Ha sentito dei rumori, vero? Delle urla? Dei vetri rotti? Un tonfo?» «Come fa a sapere tutto questo?» «Mi chiedo solo che cosa l'abbia fatta saltare alla conclusione che fosse una lite domestica, ecco tutto. Insomma, perché non poteva essere qualcuno che lottava con un ladro, per esempio?» «Non so dove voglia andare a parare.» «Oh, forza, Margaret. Si fa chiamare Maggie, vero? Posso chiamarla Maggie?» Maggie tacque. Non sapeva perché non avesse già sbattuto la cornetta in faccia a Lorraine Temple. «Su, Maggie» la pregò la reporter «mi dia una chance. Devo guadagnarmi da vìvere. Era amica di Lucy Payne, vero? Conosce qualcosa del suo passato? Qualcosa che il resto di noi non conosce?» «Non ho altro tempo da dedicarle» replicò Maggie chiudendo la comunicazione. Se ne pentì però quasi subito, perché qualcuna delle frasi di Lorraine Temple aveva toccato una corda sensibile. Nonostante le raccomandazioni di Banks, se voleva aiutare Lucy forse la stampa avrebbe potuto rivelarsi un'alleata, non una nemica. Forse avrebbe dovuto parlare con i giornalisti, mobilitarli a sostegno di Lucy. La solidarietà del pubblico sarebbe stata molto importante, e i media avrebbero potuto darle una mano. Naturalmente, dipendeva tutto dall'approccio che la polizìa avrebbe adottato. Se Banks avesse creduto alle sue dichiarazioni riguardo ai maltrattamenti e se Lucy le avesse confermate (come avrebbe senz'altro fatto), si sarebbero accorti che era innanzi tutto una vittima e l'avrebbero lasciata li-
bera appena si fosse rimessa. Lorraine Temple fu abbastanza tenace da richiamare un paio di minuti dopo. «Forza, Maggie» insistette. «Che cosa c'è di male?» «Va bene» disse Maggie «vediamoci per un aperitivo. Tra dieci minuti. Conosco il locale. È il Woodcutter. In fondo alla Collina, giusto?» «Giusto. Tra dieci minuti. La aspetto lì.» Maggie riagganciò. Mentre si trovava ancora accanto al telefono, sfogliò le pagine gialle cercando il fioraio più vicino. Ordinò un mazzo di tulipani da consegnare a Lucy in ospedale, insieme con un biglietto contenente gli auguri di pronta guarigione. Prima di uscire, lanciò un'ultima, fuggevole occhiata al disegno e notò qualcosa di curioso. Il volto di Raperonzolo. Non era il tipo di volto standard da principessa delle fiabe che si vede in tante illustrazioni; era singolare, unico, qualcosa di cui Maggie andava fiera. Ma soprattutto, il viso di Raperonzolo, mezzo girato verso lo spettatore, assomigliava a quello di Claire Toth, persino nei due brufoli sul mento. Aggrottando la fronte, Maggie li cancellò con la gomma prima di andare all'appuntamento con Lorraine Temple del «Post». Banks detestava gli ospedali, li detestava in tutto e per tutto, da quando gli avevano tolto le tonsille all'età di nove anni. Destava i suoni riecheggianti, l'odore di antisettico, i colori delle pareti, le divise delle infermiere e i camici bianchi dei medici, detestava i letti, le flebo, le siringhe, i termometri, gli stetoscopi e le strane macchine che si intravedevano dietro le porte socchiuse. Ogni cosa. A dire il vero, detestava tutto questo da molto prima dell'intervento alle tonsille. Quando era nato suo fratello Roy, aveva cinque anni, sette in meno di quelli necessari a entrare in un ospedale negli orari di visita. Sua madre aveva avuto dei problemi con la gravidanza (quei non ben definiti problemi da «adulti» di cui i grandi sembravano sempre parlare a bassa voce) ed era rimasta ricoverata per un intero mese. Era l'epoca in cui ti permettevano ancora di occupare un letto tanto a lungo. Banks era stato mandato a casa di uno zio e una zia di Northampton e aveva frequentato una nuova scuola per tutto quell'arco di tempo. Non era mai riuscito ad ambientarsi e, essendo l'ultimo arrivato, aveva dovuto difendersi da più di un bullo. Rammentava che lo zio l'aveva portato all'ospedale in una cupa e fredda serata d'inverno e l'aveva sollevato all'altezza della finestra (grazie a Dio
avevano sistemato sua madre al pianterreno) cosicché potesse pulire via la brina con la muffola di lana, scorgere la sagoma dilatata a metà corsia e farle ciao con la mano. Si era sentito così triste. Doveva essere un posto orribile, aveva concluso, che teneva una mamma lontano dal figlio e la costringeva a dormire in una stanza piena di sconosciuti quando stava tanto male. La tonsillectomia non aveva fatto altro che. confermare le sue impressioni iniziali e, sebbene fosse cresciuto, gli ospedali lo facevano ancora cagare sotto. Li considerava ultime spiagge, luoghi in cui si finiva, in cui si andava a morire e in cui gli esami, le iniezioni, le incisioni, le cure premurose e tutte le varie «ectomie» della scienza medica si limitavano a rimandare l'inevitabile, riempiendo i tuoi ultimi giorni sulla terra di paura, dolore e torture. Banks era un vero Philip Larkin quando si trattava di ospedali, e riusciva a pensare soltanto all'«anestetico da cui nessuno si risveglia». Lucy Payne era sotto sorveglianza al Leeds General Infirmary, non lontano da dove il marito giaceva in terapia intensiva dopo un intervento d'urgenza finalizzato a rimuovergli le schegge del cranio dal cervello. L'agente seduto fuori della camera, un libro di Tom Clancy con le orecchie posato sulla sedia accanto, non riferì di alcuna visita a parte quelle del personale ospedaliero. Era stata una notte tranquilla, disse. Buon per te, pensò Banks mentre entrava nella stanza privata. Il medico lo aspettava dentro. Si presentò come dottoressa Landsberg. Niente nome di battesimo. Pur non volendola intorno, Banks non poté opporsi alla sua presenza. Lucy Payne non era in arresto, ma era sotto osservazione. «Temo di poterle concedere solo pochi minuti con la mia paziente» annunciò la dottoressa. «Ha subito un'esperienza molto traumatica e ha assoluto bisogno di riposo.» Banks guardò la donna sul letto. Metà della faccia, compreso un occhio, era coperta di bende. L'occhio visibile era dello stesso nero lucente dell'inchiostro che gli piaceva usare per la stilografica. La pelle era liscia e pallida, i capelli corvini sparsi su cuscino e lenzuola. Banks ripensò al corpo di Kimberley Myers con le gambe e le braccia divaricate sul materasso. Era accaduto a casa di Lucy Payne, ricordò a se stesso. Sedette accanto a Lucy, e la dottoressa Landsberg prese a gironzolare come un avvocato pronto a fare obiezione appena Banks avesse pronunciato una mezza parola sbagliata. «Lucy» esordì il detective «mi chiamo Banks, sostituto commissario
Banks. Dirigo l'indagine sulle cinque ragazze scomparse. Come va?» «Bene» rispose Lucy. «Tutto sommato.» «Sente molto dolore?» «Un po'. Mi fa male la testa. Come sta Terry? Che cosa è successo a Terry? Nessuno vuole dirmelo.» La voce sembrava impastata, come se la lingua fosse gonfia e le parole indistinte. I farmaci. «Forse mi può raccontare che cosa è capitato ieri notte, Lucy. Lo rammenta?» «Terry è morto? Qualcuno mi ha detto che è ferito.» La preoccupazione della moglie maltrattata per il suo aguzzino (se era questo ciò cui stava assistendo) non sorprese affatto Banks; era la solita penosa solfa, e l'aveva già sentita molte volte, in tutte le sue varianti. «Suo marito ha riportato lesioni molto gravi, Lucy» interloquì la dottoressa Landsberg. «Stiamo facendo tutto il possibile.» Banks la maledisse sottovoce. Non voleva che Lucy Payne conoscesse le condizioni del marito; se avesse pensato che non sarebbe sopravvissuto, avrebbe potuto affermare qualsiasi cosa, certa che la polizia non avrebbe avuto modo di verificare la sua versione. «Può raccontarmi che cosa è capitato ieri notte?» ripeté. Lucy socchiuse l'occhio buono; cercava di concentrarsi o fingeva di cercare di concentrarsi. «Non lo so. L'ho dimenticato.» Ottima risposta, riconobbe Banks. Prima di cantare vuole vedere che cosa succede a Terry. Scaltra, la ragazza, anche in un letto di ospedale, anche imbottita di medicinali. «Mi servirà un legale?» domandò Lucy. «Perché dovrebbe servirle un legale?» «Non lo so. Quando la polizia interroga la gente... Sa, in TV...» «Non siamo in TV, Lucy.» La giovane arricciò il naso. «Lo so, che sciocca. Non intendevo... Non ha importanza.» «Qual è l'ultima cosa che rammenta?» «Di essermi svegliata, di essermi alzata, di essermi infilata la vestaglia. Era tardi. O presto.» «Perché si è alzata?» «Non lo so. Devo aver udito qualcosa.» «Che cosa?» «Un rumore. Non saprei.» «Che cosa ha fatto dopo?»
«Non lo so. Ricordo solo di essermi alzata, poi ho sentito un dolore e tutto è diventato buio.» «Rammenta di aver litigato con Terry?» «No.» «È andata in cantina?» «Non credo. Non ricordo. Può darsi.» Copre tutte le possibilità, osservò Banks. «Scendeva mai in cantina?» «Era la stanza di Terry. Mi avrebbe punita se ci fossi andata. La teneva chiusa a chiave.» Interessante, pensò Banks. Ricordava quanto bastava per prendere le distanze da qualunque cosa avessero potuto trovare in cantina. Sapeva tutto? La scientifica sarebbe dovuta essere in grado di scoprire se dicesse la verità o meno. Era la regola di base: ovunque tu vada, ti lasci dietro qualcosa e ti porti via qualcosa. «Che cosa faceva suo marito laggiù?» domandò Banks. «Non lo so. Era il suo rifugio privato.» «Quindi lei non ci entrava mai?» «No. Non osavo.» «Che cosa pensa che facesse Terry là dentro?» «Non lo so. Leggeva, guardava videocassette.» «Da solo?» «Qualche volta un uomo ha bisogno della sua privacy. È quello che diceva sempre.» «E lei obbediva?» «Sì.» «E il poster sulla porta, Lucy? L'ha mai visto?» «Solo dalla cima delle scale, entrando dal garage.» «È piuttosto esplicito, vero? Che cosa ne pensa?» Lucy abbozzò un sorriso. «Gli uomini... gli uomini sono fatti così, vero? Gli piace quel genere di cose.» «Dunque non la disturbava?» Lucy rispose di no con una smorfia delle labbra. «Commissario» intervenne la dottoressa Landsberg «adesso sarebbe meglio lasciar riposare la paziente.» «Solo un altro paio di domande. Lucy, ricorda chi l'ha ferita?» «Io... io... Deve essere stato Terry. Non c'era nessun altro in casa, vero?» «Terry l'aveva mai picchiata prima?» Lucy voltò la testa di lato, mostrandogli solo la parte fasciata.
«La sta agitando, commissario. Devo proprio chiederle...» «Lucy, ha mai visto Terry con Kimberley Myers? Sa chi è Kimberley Myers, vero?» La donna tornò a guardarlo. «Sì. È quella povera ragazza scomparsa.» «Esatto. Ha mai visto Terry con lei?» «Non ricordo.» «Frequentava la Silverhill, dove insegnava Terry. Suo marito l'ha mai menzionata?» «Non credo... Io...» «Non ricorda.» «No. Mi dispiace. Che cosa c'è che non va? Che cosa succede? Posso vedere Terry?» «Temo di no, non ora» rispose la dottoressa Landsberg. Poi si rivolse a Banks. «Adesso devo pregarla di uscire. Vede come è sconvolta?» «Quando potrò parlarle di nuovo?» «Le farò sapere. Presto.» Lo prese per il braccio. Banks sapeva riconoscere una sconfitta. Inoltre, l'interrogatorio non aveva portato da nessuna parte. Non capiva se Lucy avesse davvero dimenticato tutto o se fosse confusa a causa dei farmaci. «Si riposi un po', Lucy» le raccomandò la dottoressa Landsberg mentre si dirigevano verso la porta. «Signor Banks? Commissario?» Era Lucy, la sua vocetta impastata, indistinta, l'occhio di ossidiana che lo fissava. «Sì?» «Quando potrò tornare a casa?» Banks immaginò in che stato fosse la sua casa in quel momento, stato in cui sarebbe probabilmente rimasta per il prossimo mese o più. Lavori in corso. «Non lo so» rispose. «Mi farò sentire.» Fuori, nel corridoio, chiese al medico: «Può darmi un chiarimento, dottoressa?». «Forse.» «La sua difficoltà a ricordare. È sintomatica?» La Landsberg si fregò gli occhi. Sembrava che non avesse dormito molto più di Banks. Qualcuno chiamò un certo dottor Thorsen all'altoparlante. «Può darsi» ipotizzò. «In casi come questo insorge spesso una sindrome da stress post-traumatico, tra i cui effetti figura l'amnesia retrograda.» «Pensa che sia il caso di Lucy?»
«Troppo presto per dirlo, e non sono un'esperta del campo. Dovrebbe consultare un neurologo. Siamo abbastanza sicuri che non vi siano danni cerebrali fisici, ma anche lo stress emotivo può avere un'influenza.» «Questa amnesia è selettiva?» «Che cosa intende?» «Sembra ricordare che il marito è stato ferito e che è stato lui a picchiarla, ma nient'altro.» «È possibile, sì.» «Può essere permanente?» «Non è detto.» «Quindi la memoria potrebbe tornarle?» «Con il tempo.» «Quando?» «È difficile prevederlo. Magari già domani, magari... be', forse mai. Sappiamo così poco sul cervello.» «Grazie, dottoressa. Mi è stata molto utile.» Lei gli lanciò un'occhiata perplessa. «Non c'è di che» disse. «Commissario, spero di non essere inopportuna, ma ho scambiato due parole con il dottor Mogabe, il medico di Terence Payne, poco prima del suo arrivo.» «Sì?» «È molto preoccupato.» «Davvero?» Era quello che l'agente Hodgkins gli aveva riferito il giorno prima. «Sì. Pare che il suo paziente sia stato aggredito da una poliziotta.» «Non sono io a occuparmi del caso» replicò Banks. La dottoressa Landsberg sgranò gli occhi. «È tutto quello che ha da dire? Non gliene importa niente?» «Che me ne importi o meno è irrilevante. Qualcun altro sta indagando sull'aggressione contro Terence Payne e senza dubbio parlerà con il dottor Mogabe a tempo debito. A me interessano le cinque ragazze morte e i Payne. Arrivederci, dottoressa.» Così dicendo, si allontanò lungo il corridoio riecheggiante, lasciando il medico ai suoi cupi pensieri. Un inserviente, diretto con tutta probabilità verso la sala operatoria, gli passò accanto spingendo un vecchietto rugoso e pallido su una barella, la flebo fissata al gancio. Rabbrividendo, Banks accelerò il passo. Capitolo 7
Un aspetto positivo delle catene di pub dotate di ristorante, pensò Maggie, era il fatto che nessuno si scandalizzava se ordinavi soltanto una tazza di tè o caffè, l'unica cosa di cui aveva voglia quando incontrò Lorraine Temple al Woodcutter quel martedì. Lorraine era una piccola brunetta paffuta dai modi disinvolti e dalla faccia onesta, una faccia di cui ci si poteva fidare. Aveva appena passato la trentina, come Maggie, e indossava jeans neri e una giacca sopra una camicetta bianca. Pagò i caffè e mise l'altra a suo agio con qualche chiacchiera e qualche frase comprensiva sui recenti fatti della Collina, quindi arrivò al sodo. Maggie notò con piacere che utilizzava un block-notes anziché un registratore. Per qualche motivo, non gradiva l'idea della sua voce, delle sue parole, fissate su un nastro; sotto forma di scarabocchi sulla pagina, sembravano non avere alcun peso. «Usa la stenografia?» domandò, immaginando che ormai fosse caduta nel dimenticatoio. Lorraine le sorrise. «Una mia versione. Desidera qualcosa da mangiare?» «No, grazie. Non ho fame.» «Okay. Allora cominciamo, se è d'accordo.» Maggie si irrigidì un po' in attesa delle domande. Il pub era silenzioso, soprattutto perché era un giorno lavorativo e il tratto in fondo alla Collina non era un'area turistica né un quartiere commerciale. Vi erano un paio di zone industriali nei dintorni, ma non era ancora l'ora di pranzo. Il juke-box suonava una musica pop a livello accettabile, e persino i pochi bambini nella sala ristorante sembravano più calmi di quanto si sarebbe aspettata. Forse, in un modo o nell'altro, i recenti episodi avevano lasciato il segno su tutti. Pareva che una cappa impenetrabile aleggiasse sopra il locale. «Mi può raccontare come sono andate le cose?» chiese dapprima Lorraine. Maggie rifletté per un istante. «Be', non dormo molto bene, e forse ero sveglia o qualcosa mi ha svegliata, non ne sono sicura, ma ho sentito dei rumori dall'altra parte della strada.» «Quali rumori?» «Voci che litigavano. Quella di un uomo e quella di una donna. Poi vetri che si rompevano e quindi un tonfo.» «Ed è certa che arrivassero dall'altra parte della strada?» «Sì. Quando ho guardato fuori della finestra, c'era una luce accesa, e mi
è sembrato di vedere un'ombra che si muoveva.» Lorraine si fermò un attimo per prendere appunti. «Perché era così certa che si trattasse di una lite domestica?» domandò, come aveva già fatto al telefono. «È solo che... Ecco...» «Faccia pure con comodo, Maggie. Non voglio metterle fretta. Ci pensi. Cerchi di ricordare.» Maggie si passò la mano tra i capelli. «Be', non lo sapevo con certezza» proseguì. «Suppongo di averlo solo dedotto dalle urla e, sa...» «Ha riconosciuto le voci?» «No. Erano troppo lontane.» «Ma sarebbe potuto essere qualcuno che lottava contro un ladro, vero? Ho sentito dire che si sono verificati numerosi furti da queste parti.» «È vero.» «Quindi, Maggie, forse aveva qualche altro motivo per pensare a una lite domestica.» Maggie tacque. Era giunto il momento di prendere una decisione, ma fu più difficile di quanto avesse immaginato. Anzitutto, non voleva che il suo nome venisse sbattuto sulle prime pagine dei giornali perché temeva che Bill lo vedesse, anche se dubitava che persino lui sarebbe arrivato a tanto per rintracciarla. Naturalmente, era improbabile che un quotidiano regionale come il «Post» le facesse tanta pubblicità, ma, se la stampa nazionale si fosse interessata alla storia, sarebbe stato un altro paio di maniche. Era uno scoop, ed era ragionevole concludere che, in Canada, avrebbe almeno suscitato l'interesse del «National Post» e del «Globe and Mail». D'altro canto, doveva ricordare il suo obiettivo, concentrarsi su quel che era importante lì: la brutta situazione della sua amica. Aveva accettato di parlare con Lorraine Temple soprattutto per creare l'immagine di «Lucy la vittima». Si sarebbe potuta definire una mossa preventiva: più il pubblico vedeva Lucy in quel modo sin dall'inizio, minori erano le possibilità che la considerasse l'incarnazione del male. Finora la gente sapeva solo che il corpo di Kimberley Myers era stato rinvenuto nella cantina dei Payne e che un agente era stato ucciso, con tutta probabilità da Terence Payne, ma tutti sapevano che la polizia stava scavando, e tutti sapevano che cosa avrebbe quasi sicuramente trovato. «Può darsi» disse. «Può spiegarsi meglio?» Maggie sorseggiò il caffè. Era tiepido. A Toronto, rammentò, venivano a riempirti la tazza una o due volte. Qui no. «Forse avevo ragione di credere
che Lucy Payne fosse in pericolo a causa del marito.» «Gliel'ha detto lei?» «Sì.» «Che il marito la maltrattava?» «Sì.» «Lei che cosa ne pensa di Terence Payne?» «Non molto, a dire il vero.» «Le piace?» «Non particolarmente.» Per nulla, confessò Maggie a se stessa. Terence Payne le faceva accapponare la pelle. Non riusciva a spiegarlo, ma, quando lo vedeva arrivare, preferiva attraversare la strada piuttosto che fermarsi, salutarlo e fare quattro chiacchiere sul tempo, mentre lui continuava a guardarla con quella sua curiosa espressione vacua e fredda, come se fosse una farfalla infilzata su un cuscinetto di feltro o una rana su un tavolo, pronta per la dissezione. A quanto ne sapeva, però, era l'unica ad aver avuto quella sensazione. All'apparenza, Payne era bello e affascinante e, secondo Lucy, a scuola era popolare sia tra gli alunni sia tra i colleghi. Aveva tuttavia qualcosa che la spaventava, un vuoto interiore che lei giudicava inquietante. Con quasi tutti gli altri, Maggie aveva l'impressione che qualunque cosa comunicasse, qualunque raggio radar o sonar emettesse, rimbalzasse e tornasse indietro in qualche modo, producendo una specie di puntino sullo schermo. Con Terry, no; il segnale scompariva nella vasta e caotica oscurità del suo animo, dove riecheggiava per sempre inascoltato. Era l'unica maniera in cui riusciva a descrivere quel che provava verso Terry Payne. Aveva ammesso con se stessa che forse aveva immaginato tutto quanto, reagendo a una qualche profonda paura o insicurezza (e Dio sapeva che ne aveva in abbondanza), quindi aveva deciso di non criticarlo per rispetto di Lucy, ma era stato difficile. «Che cosa ha fatto dopo che Lucy gliel'ha confidato?» «Le ho dato dei consigli, ho tentato di convincerla a rivolgersi a un esperto.» «Ha mai lavorato con donne maltrattate?» «No, non proprio. Io...» «È stata anche lei vittima di abusi?» Maggie si sentì irrigidire dentro; cominciò a girarle la testa. Cercò le sigarette, ne offrì una a Lorraine, che la rifiutò, quindi ne accese una per sé. Da quando viveva qui non aveva mai confidato a nessuno i particolari del-
la sua vita con Bill (lo schema di violenza e rimorso, di percosse e regali) a eccezione della psichiatra e di Lucy Payne. «Non sono qui per parlare di me» replicò. «Non voglio che scriva di me. Sono qui per parlare di Lucy. Non so che cosa sia capitato in quella casa, ma ho la sensazione che Lucy sia stata più che altro una vittima.» Lorraine spinse da parte il block-notes e finì il caffè. «È canadese, vero?» domandò. Sorpresa, Maggie rispose di sì. «Di dove?» «Toronto. Perché?» «Pura curiosità, nient'altro. Ho una cugina che vive là. Mi dica, la casa in cui abita non appartiene a Ruth Everett, l'illustratrice?» «Sì.» «Allora non mi sbagliavo. Una volta ci sono andata per intervistarla. Sembra simpatica.» «È stata una buona amica.» «Come vi siete conosciute, se non sono troppo invadente?» «Sul lavoro, durante una convention qualche anno fa.» «Quindi fa l'illustratrice anche lei?» «Sì. Soprattutto libri per bambini.» «Magari potremmo scrivere un pezzo su di lei e sul suo lavoro.» «Non sono molto famosa. Gli illustratori lo sono di rado.» «Non importa. Siamo sempre alla ricerca di celebrità locali.» Maggie avvampò. «Be', non posso definirmi tale.» «Ne parlerò comunque con il mio redattore, se è d'accordo.» «Scusi, ma preferirei di no.» «Ma...» «Non insista! Ho detto di no. Okay?» Lorraine sollevò la mano. «Va bene. Non ho mai conosciuto nessuno che rifiutasse un po' di pubblicità gratuita, ma se insiste...» Ripose matita e block-notes nella borsetta. «Adesso devo scappare» annunciò. «Grazie per la chiacchierata.» Maggie la seguì con gli occhi, avvertendo una strana apprensione. Guardò l'orologio. Aveva tempo per una breve passeggiata intorno allo stagno prima di rimettersi al lavoro. «Be', tu sì che sai come viziare una ragazza» scherzò Tracy mentre Banks la guidava nel McDonald's sull'angolo tra la Briggate e Boar Lane
qualche ora dopo. Banks rise. «Pensavo che McDonald's piacesse a tutti i bambini.» Tracy gli diede una gomitata nelle costole. «Smettila di chiamarmi "bambina", per favore» disse. «Ormai ho vent'anni, sai.» Per un terribile momento, Banks temette di aver scordato il suo compleanno. Ma no. Era stato in febbraio, prima della task force, e le aveva spedito un biglietto, le aveva regalato un po' di soldi e l'aveva portata a cena alla Brasserie 44. Una cena molto costosa. «Allora non sei più nemmeno una teen-ager» replicò. «Esatto.» Era vero. Ormai Tracy era una giovane donna. E attraente, per giunta. Banks aveva quasi l'impressione che il cuore gli si spezzasse quando notava quanto fosse simile a Sandra vent'anni prima: la stessa figura sottile, con le stesse sopracciglia scure, gli zigomi alti, i capelli raccolti in una lunga coda di cavallo bionda, le ciocche sciolte spinte dietro le orecchie delicate. Riproduceva persino alcuni dei manierismi di Sandra, come mordersi il labbro inferiore quando era concentrata e attorcigliarsi ciuffi di capelli intorno alle dita mentre parlava. Era vestita come tutti i moderni studenti (zaino, blue jeans, giubbotto di denim, T-shirt bianca con il logo di una rock band) e si muoveva con grazia e sicurezza. Una giovane donna, senz'ombra di dubbio. Banks l'aveva richiamata quella mattina, e Tracy gli aveva proposto di incontrarsi sul tardi per il pranzo, dopo l'ultima lezione della giornata. Il commissario aveva anche informato Christopher Wray che non avevano ancora trovato il corpo di Leanne. Si misero in fila. Il locale era gremito di impiegati in pausa caffè, studenti che avevano marinato la scuola e madri con bimbi e passeggini che si riposavano dalle fatiche dello shopping. «Che cosa vuoi?» chiese Banks. «Offro io.» «Allora prendo il menù completo. Big Mac, porzione gigante di patatine e Coca-Cola grande.» «Sicura di non volere nient'altro?» «Per il dolce, vedremo dopo.» «Ti farà venire i brufoli.» «No. Non mi vengono mai i brufoli.» Era vero. Tracy aveva sempre avuto una pelle impeccabile, che suscitava l'invidia delle sue amiche. «Allora ingrasserai.» La ragazza si diede un colpetto sulla pancia piatta facendogli una smor-
fia. Banks le aveva trasmesso il suo metabolismo, che gli consentiva di restare magro nonostante la dieta a base di birra e porcherie. Presero da mangiare e sedettero a un tavolo di plastica vicino alla vetrina. Era un pomeriggio caldo. Le donne indossavano sgargianti abiti estivi sbracciati, mentre gli uomini avevano le giacche dei completi gettate sulle spalle e le maniche delle camicie arrotolate. «Come sta Damon?» domandò Banks. «Abbiamo deciso di non vederci fino a dopo gli esami.» Nel tono di Tracy, qualcosa indicava che non era tutto lì. Problemi con il fidanzato? Con il laconico Damon, che l'aveva portata a Parigi il novembre precedente, quando Banks sarebbe dovuto partire con lei anziché dare la caccia alla bizzosa figlia di Riddle, il capo della polizia di contea? Non voleva costringerla a parlare; l'avrebbe fatto da sola, se ne avesse avuta voglia. Non ci sarebbe riuscito comunque; Tracy era sempre stata molto riservata e sapeva essere cocciuta quanto lui quando si trattava di discutere dei suoi sentimenti. Appena Banks affondò i denti nel Big Mac, la salsa speciale gli colò giù per il mento. Si pulì con un tovagliolo. Tracy aveva già mangiato metà hamburger, e anche le patatine stavano scomparendo in fretta. «Mi spiace di non essermi fatto sentire molto spesso negli ultimi tempi» si scusò Banks. «Sono stato molto occupato.» «È il mio destino» disse Tracy. «Credo di sì.» Gli posò una mano sul braccio. «Scherzo, papà. Non ho niente di cui lamentarmi.» «Hai molto di cui lamentarti, ma sei gentile a non farlo. Comunque, a parte Damon, tu come stai?» «Sto bene. Studio parecchio. Alcuni dicono che il secondo anno sia più duro degli esami finali.» «Qualche progetto per l'estate?» «Forse tomo in Francia. I genitori di Charlotte hanno un cottage nella Dordogne, ma andranno in America e le hanno detto che può portarci un paio di amiche, se vuole.» «Buon per te.» Dopo aver finito il Big Mac, Tracy bevve qualche sorso di Coca-Cola con la cannuccia, fissando Banks con intensità. «Sembri stanco, papà» commentò. «Sono stanco.»
«Il lavoro?» «Sì. Troppe responsabilità. Mi tengono sveglio la notte. Non sono per niente sicuro di essere tagliato per questo incarico.» «Sono certa che te la cavi a meraviglia.» «Grazie per la fiducia. Ma non lo so. Non ho mai condotto un'indagine così importante prima d'ora e non credo di voler ripetere l'esperienza.» «Ma l'hai beccato» gli ricordò Tracy. «Il Camaleonte.» «Pare di sì.» «Congratulazioni. Sapevo che ce l'avresti fatta.» «Io non ho fatto niente. Si è trattato di una serie di coincidenze.» «Be'... il risultato è lo stesso, no?» «Giusto.» «Ascolta, papà, so perché non ti sei fatto sentire. Sei stato occupato, sì, ma c'è dell'altro, vero?» Banks spinse da parte l'hamburger sbocconcellato e attaccò le patatine. «Che cosa vuoi dire?» «Sai che cosa voglio dire... Come sempre, ti sei ritenuto personalmente responsabile dei rapimenti di quelle ragazze, vero?» «Non direi.» «Hai pensato che, se avessi abbassato la guardia anche solo per un momento, ne avrebbe catturata un'altra, un'altra giovane donna proprio come me, vero?» Banks lodò l'intuito della figlia. Ed era anche bionda. «Be', forse c'è un briciolo di verità» riconobbe. «Solo un piccolissimo briciolo.» «È stato davvero così orribile là sotto?» «Non ho voglia di parlarne. Non a pranzo. Non con te.» «Penserai che assomigli a una giornalista assetata di scoop, ma sono preoccupata per te. Non sei fatto di pietra, sai. Ti lasci influenzare da queste cose.» «Per essere una figlia» la punzecchiò Banks «interpreti abbastanza bene il ruolo della moglie bisbetica.» Si pentì subito di aver pronunciato quella frase. Aveva riportato tra loro lo spettro di Sandra. Come Brian, Tracy si era sforzata di restare imparziale durante la separazione ma, mentre Brian aveva dimostrato un'immediata antipatia per Sean, il nuovo compagno di Sandra, Tracy ci andava d'accordo, cosa che feriva Banks, anche se non gliel'avrebbe mai confessato. «Hai parlato con la mamma di recente?» gli chiese Tracy ignorando il rimprovero.
«No, lo sai.» Dopo aver bevuto qualche altro sorso di Coca-Cola, la ragazza aggrottò le sopracciglia come sua madre e guardò fuori della vetrina. «Perché?» domandò Banks, avvertendo un cambiamento di atmosfera. «C'è qualcosa che dovrei sapere?» «Sono stata da lei a Pasqua.» «Lo so. Ha detto qualcosa su di me?» Banks era consapevole di aver tirato per le lunghe il divorzio. La decisione gli era solo parsa un po' troppo affrettata, e non era incline ad affrettarsi quando non ne vedeva il motivo. Così Sandra voleva sposare Sean, ufficializzare il loro rapporto. E allora? Che aspettassero. «Non è quello» continuò Tracy. «Che cosa c'è, allora?» «Davvero non lo sai?» «Te lo direi se lo sapessi.» «Oh, merda.» Tracy si morse il labbro. «Vorrei non aver mai affrontato l'argomento. Perché è toccato proprio a me?» «Perché sei stata tu a cominciare. E non dire parolacce. Forza, sputa il rospo.» Tracy sospirò, abbassando gli occhi sul cartone di patatine vuoto. «Va bene. Mi ha raccomandato di non dirti niente, ma alla fine lo scoprirai comunque. Ricorda, sei stato tu a chiedermelo.» «Tracy!» «Okay. Okay. La mamma è incinta. Ecco tutto. È incinta di tre mesi. Avrà un bambino da Sean.» Poco dopo che Banks ebbe lasciato la camera di Lucy Payne, Annie Cabbot percorse a grandi passi i corridoi dell'ospedale per recarsi all'appuntamento con il dottor Mogabe. Non era per niente soddisfatta della dichiarazione dell'agente Taylor e, per quanto possibile, doveva verificare il punto di vista medico. Naturalmente, poiché Payne non era morto, non vi sarebbe stata alcuna autopsia, almeno non per il momento. Se aveva davvero fatto quello che pareva avesse fatto, l'ispettore pensava però che non sarebbe stata una cattiva idea sezionarlo mentre era ancora vivo. «Avanti» disse Mogabe. Annie entrò. Lo studio era piccolo e funzionale: un paio di librerie traboccanti di testi medici, uno schedario con il primo cassetto che non si chiudeva e l'immancabile computer, un lap-top. Alle pareri color crema e-
rano appesi lauree e master, e una cornice di peltro era posata sulla scrivania, rivolta verso il dottore. Una foto di famiglia, ipotizzò Annie. Lì accanto non vi era tuttavia alcun teschio, e nemmeno uno scheletro nell'angolo. Mogabe era più basso di quanto avesse immaginato, ma aveva un tono di voce più alto di quanto si aspettasse. La pelle era di un lucido nero violaceo, e i corti capelli ricciuti erano grigi. Anche le mani erano piccole, ma le dita erano lunghe e affusolate; dita da neurochirurgo, si disse Annie, pur non avendo alcun metro di paragone, e il pensiero che si aprissero un varco tra la materia grigia le fece rivoltare lo stomaco. Dita da pianista, decise. Molto meno raccapricciante. O dita da artista, come quelle di suo padre. Il medico si chinò in avanti intrecciando le mani sulla scrivania. «Sono contento che sia venuta, ispettore Cabbot» esordì, con un accento che arrivava direttamente da Oxford. «Anzi, se la polizia non avesse ritenuto opportuno passare di qui, mi sarei sentito in dovere di chiamarla io. Il signor Payne è stato picchiato con molta brutalità.» «Sempre lieta di essere utile» replicò Annie. «Che cosa può dirmi riguardo al paziente? In termini da profano, se non le spiace.» Il dottor Mogabe inclinò leggermente la testa. «Certo» accondiscese, quasi sapesse già che l'elitario gergo tecnico della sua professione sarebbe andato sprecato con una piedipiatti ignorante come Annie. «Il signor Payne è stato ricoverato con gravi traumi alla testa, che hanno provocato dei danni cerebrali. Aveva anche un'ulna rotta. Finora l'abbiamo operato due volte. Una per ridurre un ematoma subdurale, ossia...» «So che cos'è un ematoma» interloquì Annie. «Benissimo. L'altra per rimuovere i frammenti di cranio dall'encefalo. Posso essere più preciso, se desidera.» «Gliene sarei grata.» Mogabe si alzò e prese a camminare su e giù con le mani dietro la schiena, come se tenesse una lezione. Quando iniziò a elencare le varie parti, le indicò su di sé senza smettere di muoversi. «L'encefalo umano si compone essenzialmente del cervello, del cervelletto e del tronco cerebrale. Il cervello è la parte più alta, divisa da una profonda scanalatura superiore in due porzioni, quelli che probabilmente ha sentito chiamare emisfero destro ed emisfero sinistro. Tutto chiaro?» «Credo di sì.» «Analoghe scanalature sporgenti dividono ciascun emisfero in lobi. Quello frontale è il più grande. Vi sono anche il lobo parietale, temporale e occipitale. Il cervelletto è alla base del cranio, dietro il tronco cerebrale.»
Quando ebbe finito, tornò a sedersi, con aria molto compiaciuta. «Quante volte l'hanno picchiato?» domandò Annie. «È difficile stabilirlo con esattezza a questo stadio» rispose il medico. «Capisce, mi interessava soltanto salvare la vita di quell'uomo, non eseguire un'autopsia, ma a occhio e croce direi due colpi alla tempia sinistra, forse tre. Sono stati quelli che hanno causato i danni maggiori, tra cui l'ematoma e i frammenti di cranio. Le ammaccature indicano che la vìttima ha ricevuto anche uno o due colpi alla sommità della scatola cranica.» «Alla sommità della testa?» «Sì, la scatola cranica è la parte della testa distinta dalla faccia.» «Botte violente? Come se qualcuno si fosse accanito direttamente su quel punto?» «Forse. Ma non posso esserne certo. Con tutta probabilità, questi colpi hanno messo il signor Payne fuori gioco, ma non sono stati letali. La sommità della scatola cranica è dura e, benché - come ripeto - il cranio fosse fratturato e contuso, l'osso non si è scheggiato.» Annie prese qualche appunto. «Quelle non sono state le lesioni più pericolose, però» aggiunse il dottor Mogabe. «Ah...» «No, il trauma più grave è stato determinato da uno o più colpi alla nuca, alla regione del tronco cerebrale. Vede, quella zona contiene il midollo allungato, che è il cuore, il polmone e il vaso sanguigno dell'encefalo. Una grave lesione in quell'area può essere fatale.» «Eppure, il signor Payne è ancora vivo.» «Per un pelo.» «Esiste la possibilità di danni cerebrali permanenti?» «Ci sono già danni cerebrali permanenti. Qualora si riprendesse, il signor Payne potrebbe trascorrere il resto della vita su una sedia a rotelle e aver bisogno di assistenza ventiquattr'ore su ventiquattro. L'unico aspetto positivo è che probabilmente non se ne renderebbe conto.» «Potrebbe essersi procurato questa lesione al midollo cadendo contro la parete?» Il medico si sfregò il mento. «Ancora una volta, non spetta a me fare il lavoro della polizia o del patologo, ispettore. Basti dire che, a mio parere, questi traumi sono stati causati dal medesimo corpo contundente degli altri. Ne tragga un po' le conclusioni che vuole.» Si chinò in avanti. «In soldoni, quest'uomo è stato picchiato con molta forza sulla testa, ispettore.
Con molta forza. Mi auguro creda anche lei che il colpevole debba essere consegnato alla giustizia.» Merda, pensò Annie mettendo via il block-notes. «Naturalmente, dottore» lo rassicurò dirigendosi verso la porta. «Mi terrà informata, vero?» «Può contarci.» Annie guardò l'orologio. Era ora di tornare a Eastvale e preparare il rapporto giornaliero per il commissario Chambers. Dopo il pranzo con Tracy, Banks vagò per il centro di Leeds in uno stato di stordimento, rimuginando su quanto la ragazza gli aveva appena comunicato. La notizia della gravidanza di Sandra era stata una batosta più dura di quanto avrebbe immaginato dopo una separazione tanto lunga, si accorse mentre fissava la vetrina di Curry sulla Briggate senza quasi vedere gli stereo, i computer e le videocamere portatili in esposizione. L'aveva vista per l'ultima volta a Londra nel novembre precedente, quando era andato laggiù per la scomparsa di Emily Riddle. Ripensandoci, si sentì stupido per la fiducia che aveva riposto in quell'incontro quando aveva sperato che, poiché aveva presentato domanda per un posto all'interno della Squadra nazionale anticrimine, sarebbe tornato a vivere nella capitale e Sandra si sarebbe resa conto del suo errore, mollando quel tappabuchi di Sean e gettandosi di nuovo tra le sue braccia. Sbagliato. Sandra gli aveva invece detto di volere il divorzio perché lei e Sean intendevano sposarsi, e Banks si era illuso che quell'evento catartico l'avesse cancellata una volta per tutte dalla sua mente, insieme con il proposito di trasferirsi alla Squadra anticrimine. Finché Tracy gli aveva raccontato della gravidanza. Il commissario non aveva immaginato, non aveva sospettato nemmeno per un momento, che volessero sposarsi per avere un bambino. A che cavolo di gioco credeva di giocare Sandra? L'idea di un fratellastro o di una sorellastra più pìccoli di vent'anni per Brian e Tracy gli pareva irreale. E l'idea che Sean, per lui tuttora uno sconosciuto, fosse il padre gli pareva ancor più assurda. Cercò di immaginare le conversazioni che avevano condotto a quella decisione, i rapporti sessuali, il desiderio di maternità che si riaccendeva in Sandra dopo tanti anni, e persino la più nebulosa di quelle fantasie gli procurò la nausea. Non la riconosceva, questa donna sulla quarantina che voleva un figlio da un uomo con cui non era stata neanche per cinque minuti, e questo pensiero gli procurò anche un'ondata di tristezza.
Banks guardava la variopinta esposizione di best-seller da Borders senza neppure ricordare di essere entrato nel negozio, quando il suo cellulare squillò. Uscì e si tuffò nel Victoria Quarter prima di rispondere, appoggiandosi vicino all'entrata dell'Harvey Nichols, di fronte al caffè. Era Stefan. «Alan, ho pensato che avresti voluto saperlo appena possibile: abbiamo identificato i tre corpi ritrovati nella cantina. Siamo stati fortunati con i dentisti. Analizzeremo comunque il DNA e faremo un controllo incrociato con i genitori.» «Grandioso» commentò Banks riscuotendosi dalle cupe riflessioni su Sandra e Sean. «E allora?» «Melissa Horrocks, Samantha Foster e Kelly Matthews.» «Che cosa?» «Ho detto...» «Sì. Ho capito che cosa hai detto. Solo che...» I passanti gli sfilavano accanto con i sacchetti degli acquisti, e Banks non voleva che qualcuno origliasse. A dire il vero, si sentiva ancora un po' una testa di cazzo quando parlava al cellulare in pubblico, anche se, da quanto vedeva tutt'intorno, non era l'unico. Una volta, in un bar di Helmthorpe, aveva persino visto un padre telefonare alla figlioletta nel parco giochi di fronte per avvertirla che era ora di tornare a casa e imprecare perché la bimba aveva spento il telefonino, costringendolo ad attraversare la strada e a chiamarla gridando. «Sono soltanto sorpreso, ecco tutto.» «Perché? Che cosa c'è che non quadra?» «La sequenza» rispose Banks. «È tutta sbagliata.» Abbassò la voce augurandosi che Stefan lo udisse comunque. «Andando a ritroso: Kimberley Myers, Melissa Horrocks, Leanne Wray, Samantha Foster, Kelly Matthews. Uno dei tre cadaveri dovrebbe appartenere a Leanne Wray. Come mai non c'è?» Una bambina che teneva la madre per mano gli lanciò un'occhiata curiosa oltrepassandolo all'entrata del centro commerciale. Spegnendo il cellulare, Banks si diresse verso Millgarth. Quella sera, Jenny Fuller si meravigliò quando aprì la porta e si ritrovò davanti Banks. Era trascorso parecchio tempo dall'ultima volta che le aveva fatto visita. Si erano incontrati in molte occasioni, per un caffè o un drink, addirittura per un pranzo o una cena, ma era andato di rado a casa sua. Si era spesso domandata se dipendesse dalle goffe avances che gli a-
veva fatto durante la loro prima collaborazione. «Entra» lo invitò, e il commissario la seguì attraverso l'angusto corridoio fino al salotto dal soffitto alto. Da quando era stato lì l'ultima volta, Jenny aveva cambiato sia la tappezzeria sia la disposizione dei mobili e notò che lui si guardava intorno con il suo fare da poliziotto, controllando ogni dettaglio. Be', lo stereo costoso era sempre lo stesso, e il divano, pensò la donna sorridendo tra sé, era il medesimo su cui aveva cercato di sedurlo. Quando era tornata dall'America, dove aveva preso l'abitudine di guardare dei film, aveva comprato un piccolo televisore e un videoregistratore ma, a parte la moquette e la carta da parati, era rimasto quasi tutto uguale. Osservò che lo sguardo di Banks indugiava sulla stampa di Emily Carr sopra il caminetto, una ripida e gigantesca montagna scura che sovrastava un villaggio in primo piano. Jenny si era innamorata delle opere di quella pittrice durante la specializzazione a Vancouver e aveva acquistato la riproduzione come ricordo dei tre anni trascorsi là. Anni felici, per la maggior parte. «Qualcosa da bere?» «Qualunque cosa andrà bene.» «Sapevo che non mi avresti delusa. Mi dispiace ma non ho del Laphroaig. Un po' di vino rosso?» «Ottimo.» Riempiendo i bicchieri, Jenny vide che Banks si avvicinava alla finestra. Il Green pareva abbastanza tranquillo nella dorata luce serale: ombre lunghe, foglie verde cupo, gente che portava a spasso il cane, bambini che tenevano per mano i genitori. Magari stava ripensando alla seconda volta che era venuto a trovarla, ipotizzò Jenny con un brivido mentre versava il Côtes du Rhône del supermercato. Uno sbandato di nome Mick Webster l'aveva tenuta in ostaggio con una pistola, e Banks era riuscito a risolvere la situazione. Il ragazzo soffriva di notevoli sbalzi d'umore, e l'esito del sequestro era rimasto incerto per un po'. Jenny era terrorizzata. Non era più riuscita ad ascoltare la Tosca, che aveva in sottofondo quel giorno. Accantonando il brutto ricordo, mise un CD dei quartetti per archi di Mozart e portò il vino verso il sofà. «Salute!» Fecero tintinnare i bicchieri. Banks pareva più stanco che mai. Il volto era pallido, i lineamenti, generalmente affilati e asciutti, sembravano afflosciarglisi sulle ossa della faccia come il completo gli si afflosciava sul corpo, e gli occhi apparivano più infossati del solito, più spenti, privi del consueto luccichio. Probabilmente, dedusse Jenny, il poveretto non
dormiva da quando l'avevano messo a capo della task force. Avrebbe voluto allungare la mano e accarezzargli il viso, cacciare via le preoccupazioni, ma non osò rischiare un altro rifiuto. «Allora? A che cosa devo l'onore?» chiese. «Penso che non sia stata unicamente la mia irresistibile compagnia a portarti qui.» Banks sorrise. Sembrava che stesse un po' meglio, pensò Jenny. Solo un po'. «Vorrei poter dire che è così» replicò lui «ma sarebbe una bugia.» «E Dio non voglia che tu dica bugie, Alan Banks. Un uomo tanto rispettabile. Ma non potresti essere un po' meno rispettabile qualche volta? Il resto di noi esseri umani... be', non può fare a meno di raccontare una frottola di tanto in tanto, ma tu no, tu non sai mentire nemmeno per fare un complimento a una ragazza.» «Jenny, non sono riuscito a stare lontano. Una forza interiore mi ha spinto verso casa tua, mi ha costretto a cercarti. Sapevo solo di dover venire...» Ridendo, Jenny lo interruppe con un cenno. «D'accordo, d'accordo. Basta così. Rispettabile è molto meglio.» Si passò la mano tra i capelli. «Come sta Sandra?» «È incinta.» Jenny scosse la testa come se le avessero dato uno schiaffo. «È... che cosa?» «È incinta. Mi spiace di avertelo detto in modo così brusco, ma non avrei saputo quali altre parole usare.» «È tutto a posto. Sono solo un po' stupita.» «Non sei la sola.» «Come l'hai presa?» «Sembri una psicologa.» «Sono una psicologa.» «Lo so. Ma non è necessario che lo sembri. Come l'ho presa? Non lo so ancora. In fondo, non sono affari miei, giusto? Me ne sono lavato le mani la sera in cui mi ha chiesto il divorzio per poter sposare Sean.» «È questo il motivo?» «Sì. Vogliono sposarsi, riconoscere il bambino.» «Le hai parlato?» «No. Me l'ha detto Tracy. Io e Sandra... be', non comunichiamo più molto.» «È triste, Alan.» «Può darsi.» «Provi ancora molta rabbia e amarezza?»
«Strano a dirsi, no. Oh, so che posso sembrare un po' scombussolato, ma è colpa dello shock, tutto qui. Insomma, ho provato molta rabbia, ma è stata una specie di rivelazione quando Sandra mi ha chiesto il divorzio. Una liberazione. Ho capito che il nostro matrimonio era finito e che dovevo solo andare avanti con la mia vita.» «E ci sei riuscito?» «Sì, in gran parte.» «Ma qualche volta i sentimenti residui ti sorprendono? Ti si avvicinano di soppiatto e ti colpiscono alle spalle?» «Credo che si possa dire così.» «Benvenuto nella razza umana, Alan. Ormai dovresti sapere che non si smette di voler bene a una persona solo perché hai rotto con lei.» «Per me è stata la prima volta. Era l'unica donna con cui avessi avuto una relazione stabile. L'unica che volessi. Adesso so come ci si sente. Naturalmente, auguro ogni bene a tutti e due.» «Ci risiamo.» Banks rise. «No. Sono sincero.» Jenny avvertì che le nascondeva qualcosa, ma sapeva anche che, quando voleva, era molto riservato riguardo alle sue emozioni e che sarebbe stato inutile cercare di forzarlo. Meglio andare al sodo, pensò. E se vuole parlare ancora di Sandra, lo farà quando sarà pronto. «Non è neanche questo il motivo della tua visita, vero?» «Non del tutto. Forse in parte. Ma voglio discutere con te del caso.» «Qualche sviluppo?» «Soltanto uno.» Le raccontò dei tre cadaveri identificati e delle sue perplessità. «Curioso» concordò Jenny. «Anch'io mi sarei aspettata una specie di sequenza. Stanno ancora scavando all'esterno?» «Oh, sì. Resteranno là fuori per un bel po'.» «Non c'era molto spazio in quella piccola cantina.» «Sì, appena sufficiente per tre» concesse Banks «ma questo non spiega perché non siano le tre più recenti. A ogni modo, vorrei solo riesaminare qualche punto con te. Ricordi quando, all'inizio, hai suggerito che l'assassino potesse avere un complice?» «Era solo una possibilità remota. Nonostante l'enorme pubblicità fatta ai vostri West, Brady e Hindley, la coppia di assassini è ancora un fenomeno raro. Suppongo che tu ti riferisca a Lucy Payne?» Banks sorseggiò il vino. «Le ho parlato all'ospedale. Ha... be', ha dichia-
rato di non ricordare granché dell'accaduto.» «Non mi sorprende» osservò Jenny. «Amnesia retrograda.» «È quello che ha detto la dottoressa Landsberg. Non che non ci creda, mi è già capitato altre volte, è solo così maledettamente...» «Comodo?» «Da un certo punto di vista, sì. Jenny, ho avuto la netta impressione che volesse aspettare, calcolare, prendere tempo.» «Aspettare che cosa?» «Aspettare di vedere che aria tira, come se non volesse parlare prima di sapere che cosa ne sarà di Terry. E quadrerebbe, vero?» «Con che cosa?» «Con il modo in cui le vittime sono state rapite. Una ragazza sola non sarebbe propensa a fermarsi per dare indicazioni a un uomo in auto, ma forse si fermerebbe se gliele chiedesse una donna.» «E l'uomo?» «Rannicchiato sul sedile posteriore con il cloroformio già pronto? Apre di scatto la portiera e la trascina dentro? Non conosco i dettagli. Ma è plausibile, vero?» «Sì, è plausibile. Hai qualche altra prova della complicità di Lucy?» «Nessuna. Ma è troppo presto. La scientìfica sta ancora setacciando la villetta, e i ragazzi del laboratorio stanno analizzando i vestiti che indossava quando è stata aggredita. Anche questo potrebbe risolversi in un nulla di fatto se dichiarasse di essere scesa in cantina, di aver visto quel che aveva combinato il marito e di essere scappata urlando. Ecco che cosa intendo quando dico che aspetta di vedere che aria tira. Se Terence Payne muore, Lucy avrà campo libero. Se resta in vita, la sua memoria potrebbe subire danni permanenti. Ha riportato lesioni molto gravi. Anche se guarisse, potrebbe decidere di proteggerla, di sorvolare sul ruolo svolto dalla moglie.» «Se ha svolto un ruolo. Non poteva certo prevedere che Terry perdesse la memoria o morisse.» «È vero. Ma forse l'incidente le ha offerto l'occasione ideale per nascondere il suo eventuale coinvolgimento. Hai dato un'occhiata alla casa, vero?» «Sì.» «Che impressione ti ha fatto?» Bevendo qualche sorso di vino, Jenny rifletté: i ninnoli, la pulizia ossessiva, l'arredamento così perfetto da sembrare uscito da una rivista. «Ti riferisci ai video e ai libri?» chiese.
«In parte. C'era della roba piuttosto spinta, soprattutto in camera da letto.» «Amano la pornografia e le perversioni sessuali. E allora?» La donna alzò le sopracciglia. «A dire il vero, anch'io ho un paio di film erotici in camera da letto, e non mi dispiace un po' di perversione di tanto in tanto. Oh, non arrossire, Alan. Non sto cercando di sedurti. Ti sto solo dicendo che qualche video incentrato su un ménage à trois e un po' di blando sadomasochismo consenziente non fanno un assassino.» «Lo so.» «E anche se è vero che, secondo le statistiche» proseguì Jenny «la maggior parte degli assassini sessuali ama la pornografia estrema, è sbagliato sostenere il contrario.» «So anche questo» replicò Banks. «Che cosa ne pensi dell'aspetto occulto? Mi chiedo quale sia il significato delle candele e dell'incenso.» «Forse servivano solo a creare un po' di atmosfera.» «Ma c'era una specie di elemento rituale.» «Può darsi.» «Mi sono addirittura domandato se potesse esistere un legame con la quarta vittima, Melissa Horrocks. Le piaceva la musica rock satanica. Sai, Marilyn Manson e compagnia bella.» «O forse Payne ha solo molta ironia nella scelta delle vittime. Ma, ascolta, Alan, anche se Lucy andasse pazza per la perversione e il satanismo, questo non dimostrerebbe niente, vero?» «Non ti sto chiedendo prove da produrre in tribunale. Ora come ora mi accontenterei di qualsiasi cosa.» Jenny rise. «È la forza della disperazione a fartelo dire?» «Forse. Ken Blackstone ritiene anche che Payne possa essere lo Stupratore di Seacroft.» «Lo Stupratore di Seacroft?» «Due anni fa, tra maggio e agosto. Eri in America. Un uomo ha violentato sei donne a Seacroft. Non l'abbiamo mai preso. È emerso che all'epoca Payne viveva lì, da solo. Ha conosciuto Lucy in luglio, e si sono trasferiti sulla Collina verso l'inizio di settembre, quando ha cominciato a insegnare alla Silverhill. Gli stupri sono cessati.» «Non sarebbe la prima volta che un serial killer ha trascorsi da stupratore.» «Certo che no. Comunque, stanno analizzando il DNA.» «Fumati una sigaretta, se ne hai voglia» lo invitò Jenny. «Vedo che ti
stai innervosendo.» «Davvero? Allora approfitto, se non ti dispiace.» Jenny gli portò il posacenere che teneva nel buffet per gli ospiti. Pur non avendo il vizio del fumo, a differenza di molte delle sue amiche non aveva la mania di vietare le sigarette in casa propria. Anzi, il periodo trascorso in California l'aveva spinta a odiare i nazisti anti-nicotina ancor più dei fumatori. «Che cosa vuoi che faccia?» gli chiese. «Il tuo lavoro» disse il commissario Banks chinandosi in avanti. «Per come stanno le cose, probabilmente abbiamo abbastanza prove da far condannare Terry Payne a dieci ergastoli, se sopravvive. È Lucy che mi interessa, e il tempo stringe.» «Che cosa vuoi dire?» Banks diede un tiro alla sigaretta prima di rispondere. «Finché resta in ospedale, stiamo tranquilli ma, quando la dimetteranno, potremo trattenerla solo per ventiquattr'ore. Possiamo chiedere delle proroghe - forse fino a novantasei ore, in un caso estremo come questo -, ma, se vogliamo ottenerle, faremo meglio ad avere tra le mani qualcosa di concreto, altrimenti sarà libera.» «Ritengo ancora inverosimile che sia in parte responsabile degli omicidi. Quella notte, qualcosa l'ha svegliata; rendendosi conto che il marito non c'era, l'ha cercato per la casa, ha visto la luce in cantina, è scesa e ha trovato...» «Ma perché non se n'è accorta prima, Jenny? Perché non è entrata prima là dentro?» «Aveva paura. Sembra terrorizzata dal marito. Guarda che cosa le è successo quando è andata nello scantinato.» «Lo so, ma Kimberley Myers è stata la quinta vittima, per l'amor di Dio. La quinta. Perché Lucy ci ha messo così tanto per scoprirlo? Perché si è svegliata ed è scesa a curiosare solo questa volta? Ha detto che non andava mai in cantina, che non osava. Perché questa volta era tanto diversa?» «Forse prima non voleva sapere. Ma, non dimenticarlo, pare che Payne stesse peggiorando, che fosse sul punto di crollare. Immagino che sia diventato sempre più instabile. Forse questa volta nemmeno lei è riuscita a fare finta di niente.» Banks diede una boccata alla sigaretta con aria meditabonda ed espirò il fumo pian piano. «È questo che pensi?» le domandò. «È possibile, non credi? In passato, se il marito si comportava in modo
strano, può aver sospettato che avesse qualche orribile vizio segreto e può aver finto di non accorgersene, come fa la maggior parte di noi con le cose brutte.» «Facendo la gnorri?» «O facendo come lo struzzo. Nascondendo la testa nella sabbia. Sì. Perché no?» «Quindi siamo d'accordo entrambi sul fatto che possono esistere varie spiegazioni per l'accaduto e che Lucy Payne potrebbe essere innocente?» «Dove vuoi andare a parare, Alan?» «Voglio che scavi a fondo nella vita di Lucy Payne. Voglio che scopri tutto il possibile su di lei. Voglio...» «Ma...» «No, lasciami finire, Jenny. Voglio che la rivolti come un guanto: il passato, l'infanzia, la famiglia, le fantasie, le speranze, le paure.» «Rallenta, Alan. A che cosa serve tutto questo?» «Potresti imbatterti in qualcosa che la comprometta.» «O che la assolva?» Banks sollevò le mani mostrando i palmi. «Se è quello che scopri, va bene. Non ti chiedo di inventare niente. Solo di indagare.» «Ma può darsi che non trovi nulla di utile.» «Non importa. Almeno ci avremo provato.» «Non è un lavoro da poliziotto?» Banks spense la sigaretta. «Non proprio. Voglio una valutazione, un profilo psicologico approfondito di Lucy Payne. Naturalmente, spetterà a noi verificare le eventuali piste in cui incapperai. Non mi aspetto che tu ti metta a giocare all'investigatore.» «Be', te ne sono grata.» «Pensaci, Jenny. Se è colpevole, non può aver cominciato a rapire e uccidere ragazze con il marito tutto a un tratto il giorno di San Silvestro. Deve esserci qualche patologia, qualche precedente di disturbi psicologici, qualche schema di comportamento anomalo, vero?» «Di solito sì. Ma anche se emergesse che faceva pipì a letto, che amava appiccare incendi e che strappava le ali alle mosche, non sarebbe comunque qualcosa da poter usare contro di lei in tribunale.» «E invece sì, se qualcuno si è scottato tra le fiamme. E invece sì, se isoli altri misteriosi episodi della sua vita. È tutto quel che ti chiedo, Jenny: studiare la psicopatologia di Lucy Payne. Se scopri qualcosa su cui valga la pena fare ulteriori indagini, ce lo dici e noi ci mettiamo al lavoro.»
«E se non trovo niente?» «Allora non andremo da nessuna parte. Ma siamo già da nessuna parte.» Jenny rifletté per un attimo sorseggiando il vino. Alan le era parso così determinato che si era sentita tiranneggiata, e non voleva cedere solo per questo. Però era incuriosita dalla sua richiesta; non poteva negare che l'enigma di Lucy Payne la interessava sia come professionista sia come donna. Non aveva mai avuto l'opportunità di esaminare da vicino la psicologia di un possibile serial killer, e Banks aveva ragione quando affermava che, se Lucy Payne era complice del marito, non poteva essere sbucata fuori dal nulla. Scavando abbastanza a fondo, forse avrebbe trovato qualcosa nel suo passato. Dopo di che... be', Banks aveva detto che il resto era compito della polizia, e aveva ragione anche a questo proposito. Jenny riempì di nuovo i bicchieri. «Supponiamo che accetti» disse. «Da dove comincio?» «Da qui» rispose il commissario estraendo il taccuino. «Dalla filiale della NatWest dove lavora Lucy Payne. Una delle nostre squadre è andata a parlare con i dipendenti, e c'è solo una persona che la conosce bene. Si chiama Pat Mitchell. Poi ci sono Clive e Hilary Liversedge. I genitori di Lucy. Vìvono dalle parti di Hull.» «Sono al corrente?» «Certo che sono al corrente. Per chi ci prendi?» Jenny sollevò un sopracciglio sottile, depilato. «Sono al corrente» ripeté Banks. «Come hanno reagito?» «Sono rimasti sconvolti, ovvio. Per non dire sbalorditi. Ma, a detta dell'agente investigativo che li ha interrogati, non sono stati di grande aiuto. Non vedono Lucy molto spesso da quando ha sposato Terry.» «Sono andati a trovarla in ospedale?» «No. Pare che la madre non sia in condizioni di affrontare uno spostamento e che il padre sia riluttante ad assistere i malati.» «E i genitori di Terry?» «A quanto siamo riusciti a capire» rispose Banks «la madre è in manicomio... da quindici anni o giù di lì.» «Che cos'ha?» «Schizofrenia.» «E il padre?» «È morto due anni fa.» «Di che cosa?»
«Un grave colpo apoplettico. Faceva il macellaio a Halifax, aveva dei precedenti per lievi reati a sfondo sessuale: voyeurismo, atti osceni in luogo pubblico, roba del genere. Un quadro abbastanza classico per uno come Terry Payne, non credi?» «Se esiste un quadro classico per individui simili.» «Il miracolo è che Terry sia riuscito a diventare insegnante.» Jenny rise. «Oh, al giorno d'oggi lasciano entrare chiunque in aula. Inoltre, non è quello il miracolo.» «E qual è, allora?» «Che si sia tenuto stretto il lavoro per tanto tempo. E che si sia sposato. Di solito i serial killer sessuali come Terence Payne trovano difficile conservare un posto e mandare avanti una relazione. Il nostro uomo ha fatto entrambe le cose.» «È significativo?» «È interessante. Se mi avessi chiesto un profilo un mese fa o giù di lì, avrei detto che stavate cercando un soggetto tra i venti e i trent'anni, che con tutta probabilità viveva solo e svolgeva un lavoro umile o aveva svolto una serie di lavori simili. Ti dimostra quanto sia facile sbagliarsi, vero?» «Lo farai?» Jenny giocherellò con lo stelo del bicchiere. Mozart tacque, lasciando soltanto il ricordo della musica. Passò un'auto, e un cane abbaiò sul Green. Aveva tutto il tempo di fare quel che Banks le aveva chiesto. Avrebbe dovuto tenere una conferenza venerdì mattina, ma l'aveva tenuta identica già altre cento volte, quindi non aveva bisogno di prepararsi. Poi non avrebbe avuto altri impegni fino alle lezioni di lunedì. Avrebbe dunque avuto tempo a sufficienza. «Come ho detto, è interessante. Dovrò parlare di persona con Lucy.» «Si può fare. Sei la nostra psicologa consulente ufficiale, dopo tutto.» «Troppo comodo dirlo adesso che hai bisogno di me.» «Non l'ho mai dimenticato. Non permettere che qualche meschino...» «Va bene» lo interruppe Jenny. «Sei stato chiaro. Posso sopportare che un branco di sbirri scemi rida alle mie spalle. Ormai sono grande. Quando potrò parlarle?» «Meglio farlo il prima possibile, mentre è ancora solo una testimone. Che tu ci creda o no, alcuni avvocati della difesa hanno accusato gli psicologi di aver raggirato gli indiziati persuadendoli a incriminarsi. Che cosa ne dici di domattina? Tanto dovrò essere all'ospedale alle undici per la prossima autopsia.»
«Non ti invidio. Okay.» «Ti do un passaggio, se vuoi.» «No. Farò un salto dai Liversedge subito dopo aver parlato con Lucy e la sua collega. Mi servirà l'auto. Ci vediamo lì?» «Alle dieci, allora?» «Perfetto.» Banks le disse qual era la stanza di Lucy. «E avvertirò i genitori del tuo arrivo.» Le fornì i ragguagli necessari. «Allora farai quello che ti ho chiesto?» «Non mi sembra di avere molta scelta, giusto?» Banks si alzò e, piegandosi in avanti, le diede un fuggevole bacio sulla guancia. Pur avvertendo l'odore di vino e fumo nel suo alito, Jenny ebbe un tuffo al cuore e desiderò che le labbra dell'uomo avessero indugiato un po' di più, che si fossero avvicinate un po' di più alle sue. «Ehi!» esclamò. «Non ci riprovare, altrimenti ti denuncio per molestie sessuali.» Capitolo 8 Banks e Jenny oltrepassarono il poliziotto di guardia davanti alla camera di Lucy Payne poco dopo le dieci del mattino seguente. Non c'era nessun medico a controllarli questa volta, notò Banks con piacere. Lucy, appoggiata ai cuscini, leggeva una rivista di moda. Le assicelle delle veneziane lasciavano filtrare un po' di sole, illuminando il vaso di tulipani sul comodino e disegnando un motivo a sbarre sul volto della paziente e sulle lenzuola bianche. I lunghi capelli neri e lucidi erano sparsi sul guanciale intorno al volto pallido come un cencio. Le ecchimosi si erano scurite rispetto al giorno precedente, il che significava che erano in via di guarigione, e la giovane aveva ancora metà della testa avvolta nelle bende. L'occhio sano - scuro, sfavillante e dalle ciglia lunghe - prese a fissarli. Banks non capì che cosa esprimesse, ma di certo non era paura. Presentò Jenny come la dottoressa Fuller. Lucy sollevò lo sguardo e accennò un fugace sorriso. «C'è qualche novità?» domandò. «No» rispose Banks. «Morirà, vero?» «Che cosa glielo fa pensare?» «Ho solo la sensazione che morirà, ecco tutto.» «Farebbe differenza, Lucy?»
«Che cosa intende?» «Sa che cosa intendo. Se Terry morisse, farebbe differenza riguardo a quanto ci racconterà?» «E come potrebbe?» «Me lo dica lei.» Lucy tacque. Banks la vide aggrottare le sopracciglia come se pensasse a che cosa replicare. «Se le raccontassi, sa, che cosa è capitato. Insomma, se avessi saputo... ecco... di Terry, di quelle ragazze e di tutto il resto... che cosa mi succederebbe?» «Dovrà essere un po' più chiara, temo, Lucy.» La ragazza si inumidì le labbra. «Non posso proprio essere più chiara. Non ora. Devo pensare a me stessa. Voglio dire, se ricordassi qualcosa capace di mettermi in cattiva luce, che cosa farebbe?» «Dipende da che cos'è, Lucy.» Lei si richiuse nel silenzio. Jenny sedette sul bordo del letto spianandosi la gonna. Con un cenno, Banks la autorizzò a proseguire l'interrogatorio. «Non rammenta nient'altro di quanto è accaduto?» chiese. «È una psichiatra?» «Sono una psicologa.» Lucy guardò il commissario. «Non possono obbligarmi a fare dei test, vero?» «No» rispose Banks. «Nessuno può costringerla a sottoporsi ad alcun test. Non è questo il motivo per cui la dottoressa Fuller è qui. Vuole soltanto parlarle. È venuta per aiutarla.» E l'assegno è già stato spedito, aggiunse tra sé e sé. Lucy lanciò un'occhiata a Jenny. «Non so...» «Non ha niente da nascondere, vero, Lucy?» domandò Jenny. «No. Temo solo che inventino delle cose su di me.» «Chi inventerebbe delle cose?» «I dottori. La polizia.» «Perché dovrebbero farlo?» «Non lo so. Perché pensano che sia cattiva.» «Nessuno pensa che sia cattiva, Lucy.» «Si chiede come abbia potuto vivere con lui, con un uomo che ha fatto quel che ha fatto Terry, vero?» «Come ha potuto vivere con lui?» domandò Jenny. «Mi minacciava. Diceva che mi avrebbe uccisa se l'avessi lasciato.»
«E la maltrattava, giusto?» «Sì.» «Fisicamente?» «Qualche volta mi picchiava. Dove non si sarebbero visti i lividi.» «Fino a lunedì mattina.» Lucy si toccò le bende. «Sì.» «Perché quella volta è stato diverso, Lucy?» «Non lo so. Non riesco ancora a ricordare.» «Va bene» continuò Jenny. «Non sono qui per obbligarla a dire qualcosa che non vuole dire. Si rilassi. Suo marito la maltrattava in altri modi?» «Che cosa vuol dire?» «Psicologicamente, per esempio.» «Come mortificarmi, umiliarmi di fronte ad altre persone?» «Esatto.» «Allora la risposta è sì. Per esempio, sa, quando cucinavo qualcosa che non gli piaceva o non gli stiravo bene la camicia. Era molto esigente in fatto di camicie.» «Che cosa faceva se le camicie non erano stirate bene?» «Me le faceva stirare ancora e ancora. Una volta mi ha persino ustionato con il ferro.» «Dove?» Lucy distolse lo sguardo. «Dove non si sarebbe visto.» «Vorrei parlare della cantina, Lucy. Il commissario Banks mi ha detto che ha dichiarato di non essere mai scesa laggiù.» «Forse ci sono stata una volta... sa... la volta che mi ha ferita.» «Lunedì mattina?» «Sì.» «Ma l'ha dimenticato?» «Sì.» «Non ci era mai andata prima?» La voce di Lucy assunse uno strano tono acuto e lamentoso. «No. Mai. Non da quando ci siamo trasferiti, a ogni modo.» «Dopo quanto tempo le ha proibito di entrare là dentro?» «Non ricordo. Non molto. Quando ha fatto le modifiche.» «Quali modifiche?» «Mi ha spiegato di averlo trasformato in uno studio, in una stanza privata.» «Non le è mai venuta voglia di dare un'occhiata?»
«No. Inoltre, la teneva sempre chiusa e si portava dietro la chiave. Ripeteva che, se mai avesse sospettato che ero andata laggiù, me le avrebbe suonate fino a ridurmi in fin di vita.» «E gli credeva?» Lucy puntò l'occhio scuro su Jenny. «Oh, sì. Non sarebbe stata la prima volta.» «Suo marito era appassionato di pornografia?» «Sì. Qualche volta portava dei video dicendo di averli presi in prestito da Geoff, un suo collega. Ogni tanto li guardavamo insieme.» Si rivolse a Banks. «Deve averli visti. Insomma, probabilmente è stato a casa, per la perquisizione o roba del genere.» Banks ripensò ai nastri. «Terry possedeva una videocamera?» domandò. «Girava dei filmati?» «No, non credo» rispose Lucy. Jenny riprese il filo del discorso. «Che tipo di video gli piacevano?» volle sapere. «Gente che faceva sesso. Lesbiche. A volte persone legate.» «Ha detto che di quando in quando li guardavate insieme. A lei piacevano? Che effetto avevano su di lei? La obbligava a guardarli?» Lucy si agitò sotto le lenzuola sottili. La sagoma del suo corpo provocò Banks in modi in cui non voleva essere provocato da lei. «Non mi piacevano molto» rispose la donna con una specie di vocetta infantile. «Ogni tanto, sa, però... mi... mi eccitavano.» Si mosse di nuovo. «Suo marito la maltrattava sessualmente, la costringeva a fare cose che non voleva fare?» insistette Jenny. «No» rispose l'altra. «Era tutto normale.» Banks cominciava a chiedersi se il matrimonio con Lucy fosse soltanto una parte della facciata «normale» di Terence Payne, qualcosa che sviasse l'attenzione dalle sue vere inclinazioni. Dopo tutto, aveva funzionato con gli agenti investigativi Bowmore e Singh, che non si erano nemmeno presi il disturbo di reinterrogarlo. Forse Payne soddisfaceva altrove i suoi gusti più perversi: con le prostitute, per esempio. Valeva la pena di indagare su quell'aspetto. «Sa se frequentava altre donne?» domandò Jenny, quasi leggendogli nel pensiero. «Non me ne ha mai parlato.» «Ma lo sospettava?» «Credevo che fosse possibile, sì.»
«Prostitute?» «Non lo so. Preferivo non pensarci.» «Ha mai trovato bizzarro il suo comportamento?» «Che cosa intende?» «L'ha mai disorientata, l'ha mai indotta a chiedersi che cosa stesse combinando?» «Non proprio. Usciva dai gangheri... sa... se non era libero di fare quello che voleva. E qualche volta, durante le vacanze scolastiche, non lo vedevo per giorni.» «Non sapeva dove andasse?» «No.» «E lui non gliel'ha mai detto?» «No.» «Non era curiosa?» Lucy parve indietreggiare nel letto. «La curiosità era pericolosa con Terry. "Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino" ripeteva, "Se non chiudi il becco, tu ci lascerai le penne".» Scosse la testa. «Che cosa ho fatto di male? Filava tutto liscio. La mia era una vita come tutte le altre. Finché ho conosciuto Terry. Poi ha cominciato ad andare tutto a rotoli. Come ho potuto essere così stupida? Avrei dovuto saperlo.» «Sapere che cosa, Lucy?» «Che tipo di persona era. Che mostro era.» «Ma lo sapeva. Mi ha raccontato che la picchiava, che la umiliava in pubblico e in privato. Lo sapeva. Sta cercando di dirmi che lo riteneva normale? Credeva che tutti quanti vivessero così?» «No, certo che no. Ma non lo rendeva il genere di mostro che immagina lei.» Lucy distolse di nuovo lo sguardo. «Che cosa c'è, Lucy?» «Mi giudicherà una persona debole perché gli ho permesso di fare tutto questo. Una persona terribile. Ma non è così. Sono una brava persona. Lo dicono tutti. Ero spaventata. Parli con Maggie. Lei mi capisce.» Banks fece un passo avanti. «Maggie Forrest? La sua vicina?» «Sì.» Lucy lo guardò. «È stata lei a mandarmi quei fiori. Ne abbiamo discusso... sa... degli uomini che maltrattano le mogli, e ha tentato di convincermi a mollare Terry, ma avevo troppa paura. Forse, con il tempo, avrei trovato il coraggio. Non lo so. Ormai è troppo tardi, vero? Per favore, sono stanca. Non ho più voglia di parlare. Desidero solo tornare a casa e continuare la mia vita.»
Banks si chiese se dovesse comunicarle che non sarebbe potuta tornare a casa per un po', che la sua casa assomigliava al sito di uno scavo archeologico e sarebbe rimasta nelle mani della polizia per settimane, forse per mesi. Decise di farne a meno. L'avrebbe scoperto di lì a poco. «Togliamo subito il disturbo, allora» annunciò Jenny alzandosi. «Abbia cura di sé, Lucy.» «Mi fareste un favore?» domandò la giovane mentre uscivano. «Cioè?» chiese Banks. «A casa, c'è un piccolo e grazioso portagioie sulla toeletta della camera. È una scatola giapponese laccata, nera con tanti splendidi fiori dipinti a mano. Contiene tutti i miei gioielli preferiti: gli orecchini che ho comprato durante la luna di miele a Creta, una catena d'oro che Terry mi ha regalato quando ci siamo fidanzati. Ci tengo molto. Me lo portereste, per piacere? Il mio portagioie?» Banks cercò di tenere a bada la collera. «Lucy» disse con tutta la pacatezza possibile. «Crediamo che diverse ragazze siano state violentate e assassinate nella cantina della sua villetta, e l'unica cosa cui riesce a pensare sono i gioielli?» «Non è vero» lo rimbeccò Lucy, una punta di stizza nella voce. «Mi spiace molto per quanto è successo a quelle ragazze, naturalmente, ma non è colpa mia. Non vedo perché dovrebbe impedirmi di avere il mio portagioie. Le uniche cose che mi hanno permesso di tenere sono la borsetta e il portafoglio, e ho notato che qualcuno aveva perquisito anche quelli.» Banks seguì Jenny in corridoio, dove si diressero verso gli ascensori. «Calmati, Alan» disse Jenny. «Lucy attraversa un processo di dissociazione. Non si rende conto del significato emotivo di quanto è capitato.» «Giusto» osservò Banks lanciando un'occhiata all'orologio sulla parete. «Davvero molto forbito ed elegante. Adesso devo andare a vedere il dottor Mackenzie che esegue la prossima autopsia, ma farò del mio meglio per ricordare che non è colpa di Lucy Payne e che lei si dissocia da tutto quanto, grazie mille.» Jenny gli posò la mano sul braccio. «La tua frustrazione è comprensibile, Alan, ma non servirà a niente. Non puoi forzare Lucy. Non vuole essere forzata. Sii paziente.» L'ascensore arrivò, ed entrarono. «Cercare di sostenere una conversazione con quella donna è come cercare di raddrizzare le gambe ai cani» commentò Banks. «Te lo concedo, è un tipo strambo.»
«È il tuo parere professionale?» Jenny sorrise. «Fammici pensare. Mi farò sentire dopo aver parlato con la sua collega e i suoi genitori. Ciao.» Raggiunsero il pianoterra, e la psicologa si affrettò verso il parcheggio. Traendo un profondo respiro, Banks premette il pulsante «S». Raperonzolo andava molto meglio quel giorno, decise Maggie arretrando ed esaminando il lavoro, la punta della lingua tra i piccoli denti bianchi. Non sembrava più che un bello strattone potesse staccarle la testa dalle spalle e non assomigliava neanche un po' a Claire Toth. Il giorno prima, dopo la scuola, Claire non si era fatta viva, e Maggie si domandò come mai. Forse non era molto in vena di compagnia dopo quanto era avvenuto. Magari voleva soltanto stare da sola per riflettere. Maggie stabilì di parlarne con la dottoressa Simms, la sua psichiatra, per chiederle se fosse il caso di intervenire. Aveva un appuntamento per l'indomani, appuntamento cui, nonostante i fatti della settimana, era determinata a non mancare. A differenza di quanto aveva sperato, l'artìcolo di Lorraine Temple non era comparso nel giornale del mattino, ed era rimasta delusa quando aveva sfogliato ogni singola pagina senza trovarlo. Ipotizzò che la giornalista avesse bisogno di più tempo per verificare i particolari e imbastire la storia. Dopo tutto, avevano parlato soltanto il giorno prima. Magari sarebbe stato un lungo pezzo incentrato sulla condizione delle donne maltrattate, un servizio speciale nell'edizione del week-end. Si chinò sul tavolo da disegno e tornò a concentrarsi sullo schizzo di Raperonzolo. Dovette accendere la lampada sullo scrittoio perché la mattinata si era fatta nuvolosa e soffocante. Un paio di minuti dopo squillò il telefono. Maggie posò la matita e rispose. «Maggie?» Riconobbe la vocetta dolce. «Lucy? Come ti senti?» «Molto meglio adesso, davvero.» All'inizio Maggie non seppe che cosa dire. Si sentì in imbarazzo. Pur avendole spedito dei fiori e avendo difeso Lucy sia con la polizia sia con Lorraine Temple, si rese conto che non si conoscevano bene e che provenivano da mondi molto diversi. «È bello sentirti» affermò. «Sono contenta che tu stia meglio.» «Volevo solo ringraziarti per i fiori» proseguì Lucy. «Sono magnifici.
Danno un'aria diversa alla stanza. È stato un pensiero gentile.» «Era il minimo che potessi fare.» «Sai, sei l'unica che si è disturbata. Tutti gli altri si sono dimenticati di me.» «Sono certa che non è così, Lucy.» «Oh, invece sì. Persino i miei colleghi.» «Come sta Terry?» Pur non avendone nessuna voglia, Maggie glielo chiese per cortesia. «Non vogliono dirmi nemmeno questo, ma credo che sia ferito molto gravemente. Credo che morirà. Credo che la polizia voglia incolpare me.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Non lo so.» «Sono venuti a parlarti?» «Un paio di volte. Due di loro sono appena stati qui. Uno era una psicologa. Mi ha fatto un sacco di domande.» «Riguardo a che cosa?» «Riguardo a quello che mi faceva Terry. Riguardo alla nostra vita sessuale. Mi sono sentita così stupida. Maggie, sono così sola e spaventata.» «Ascolta, Lucy, se posso aiutarti in qualche modo...» «Grazie.» «Hai un avvocato?» «No. Non ne conosco nessuno.» «Ascolta, Lucy. Se la polizia torna a infastidirti, non dire niente. So bene come riescono a distorcere le tue parole, a creare qualcosa dal nulla. Mi permetti almeno di cercarti qualcuno? Una delle amiche di Ruth e Charles in città fa l'avvocato. Julia Ford. L'ho conosciuta, e sembra abbastanza simpatica. Lei saprà che cosa fare.» «Ma non ho molti soldi, Maggie.» «Non preoccuparti. Risolveremo il problema con lei in qualche modo. Vuoi che la chiami per conto tuo?» «Forse. Insomma, se pensi che sia la cosa migliore da fare.» «Credo di sì. La chiamo subito e le chiedo di passare di lì per parlare con te, d'accordo?» «Okay.» «Sei sicura che non possa fare altro?» Maggie udì una risata amara all'altro capo del telefono. «Pregare per me, forse. Non lo so, Maggie. Non so che cosa abbiano intenzione di farmi. Per il momento, mi basta sapere che qualcuno sta dalla mia parte.»
«Contaci, Lucy.» «Grazie. Sono stanca. Adesso devo andare.» Così dicendo, riagganciò. Dopo aver assistito all'autopsia eseguita dal dottor Mackenzie sul triste mucchio di ossa e carne putrefatta che un tempo era stato una ragazza giovane e piena di vita con sogni, segreti e speranze, Banks si sentì più vecchio di vent'anni, ma non per questo più saggio. La prima vittima a essere analizzata era stata la più recente, perché, secondo il patologo, avrebbe potuto fornire maggiori indizi, osservazione che il commissario aveva trovato logica. Il corpo, aveva però calcolato Mackenzie, era rimasto semisepolto sotto un leggero strato di terra nella cantina di Payne per circa tre settimane, il che spiegava perché la cute, le unghie e i capelli erano flosci e facili da staccare. Gli insetti erano entrati in azione, e la carne era in gran parte sparita. Dove era ancora presente, la pelle si era spaccata in alcuni punti, rivelando il grasso e i muscoli scintillanti. Il grasso non era molto, in realtà, perché il cadavere apparteneva a Melissa Horrocks, che pesava poco meno di quarantacinque chili e la cui T-shirt recava simboli volti a scacciare gli spiriti maligni. Banks se n'era andato prima che il dottore avesse concluso, non perché lo spettacolo fosse troppo raccapricciante, ma perché gli esami sarebbero proseguiti ancora per un po', e lui aveva altre faccende da sbrigare. Ci sarebbero voluti più di uno o due giorni per redigere un rapporto, gli aveva spiegato Mackenzie, perché gli altri due corpi erano in uno stato di decomposizione ancor più avanzato. Qualcuno della squadra avrebbe dovuto assistere alle autopsie fino alla fine, ma questo era uno dei pochi compiti che Banks aveva delegato volentieri a qualcun altro. Dopo i suoni, gli odori e le immagini dell'obitorio, lo scialbo ufficio del preside della Silverhill Comprehensive gli sembrò un paradiso. Nella stanza sgombra e impersonale, nulla indicava un legame con l'istruzione o, se è per questo, con qualcos'altro; il locale assomigliava a un qualsiasi ufficio anonimo in un qualsiasi edificio anonimo, e non aveva neppure un suo odore, a eccezione di un tenue profumo di lucido per mobili al limone. Il preside si chiamava John Knight: quarantina appena passata, calvizie incipiente, spalle incurvate, forfora sul collo della giacca. Dopo avergli chiesto qualche informazione generale sul curriculum di Payne, Banks gli domandò se l'insegnante avesse mai causato problemi. «C'è stato qualche reclamo, ora che mi ci fa pensare» ammise Knight.
Banks sollevò le sopracciglia. «Da parte degli alunni?» Knight arrossì. «Buon Dio, no! Niente di simile. Ha idea di che cosa succede oggi al minimo segnale di qualcosa del genere?» «No» rispose Banks. «Ai miei tempi, gli insegnanti ci picchiavano praticamente con qualunque cosa su cui riuscissero a mettere le mani. Ad alcuni piaceva anche.» «Be', quei giorni sono finiti, grazie a Dio.» «O grazie alla legge.» «Non è credente?» «Non è facile, con il mio lavoro.» «Sì, la capisco.» Knight lanciò un'occhiata alla finestra. «Anche con il mio, a volte. È una delle grandi sfide della fede, non pensa?» «Dunque, che tipo di problemi ha avuto con Terence Payne?» Knight tornò da una dimensione molto lontana e sospirò. «Oh, soltanto sciocchezze. Niente di importante in sé e per sé, ma tante piccole cose che si sono accumulate.» «Per esempio?» «Svogliatezza. Troppi giorni di assenza senza un motivo valido. Gli insegnanti avranno anche delle vacanze lunghissime, commissario, ma devono essere qui durante il trimestre, salvo gravi malattie, beninteso.» «Capisco. Qualcos'altro?» «Solo una specie di menefreghismo. Esami non corretti in tempo. Ricerche lasciate senza supervisione. Terry è abbastanza irascibile e diventa piuttosto intrattabile se gli metti fretta.» «Da quanto tempo durava tutto questo?» «Secondo il direttore della sezione di scienze, solo dall'anno nuovo.» «E prima di allora?» «Neanche un problema. Terence Payne è un bravo insegnante, molto in gamba nella sua materia, e sembrava piacere agli studenti. Nessuno di noi riesce a credere a quanto è accaduto. Siamo esterrefatti. Del tutto esterrefatti.» «Conosce sua moglie?» «No. L'ho incrociata una volta alla festa natalizia per il personale. Donna affascinante. Un po' riservata, forse, ma comunque affascinante.» «Terry ha un collega di nome Geoff?» «Sì. Geoffrey Brighouse. È l'insegnante di chimica. Parevano molto amici. Ogni tanto uscivano a bere insieme.» «Che cosa mi sa dire di lui?»
«Geoff lavora qui ormai da sei anni. Un tipo a posto. Nessuna grana.» «Posso parlargli?» «Certo.» Knight guardò l'orologio. «Adesso dovrebbe essere in laboratorio a prepararsi per la prossima lezione. Mi segua.» Uscirono. L'aria diventava sempre più afosa man mano che le nuvole si addensavano, minacciando pioggia. Non era una novità. A parte l'ultimo periodo, era piovuto quasi ogni giorno dall'inizio di aprile. La Silverhill Comprehensive, una costruzione di mattoni rossi, era una delle poche scuole gotiche dell'anteguerra che non erano ancora state sabbiate e trasformate in uffici o appartamenti di lusso. Capannelli di adolescenti bighellonavano nel cortile. Sembravano tutti abbattuti, pensò Banks, e una cappa di paura, tristezza e confusione incombeva su di loro, palpabile come una fitta nebbia. I gruppi non erano misti, notò il commissario; le ragazze erano strette nei loro piccoli conclavi, come se si fossero riunite per darsi conforto e sicurezza, fissando il pavimento e sfregando le scarpe contro l'asfalto mentre Banks e Knight le oltrepassavano. I ragazzi erano un po' più vispi; se non altro, alcuni parlavano e si scambiavano i soliti urti e spintoni scherzosi. L'effetto generale era però inquietante. «È così da quando l'abbiamo saputo» spiegò Knight, quasi leggendogli nel pensiero. «La gente non si rende conto di quanto saranno profonde e durature le conseguenze qui dentro. Forse alcuni studenti non lo supereranno mai. Getterà un'ombra sulla loro vita. Non solo abbiamo perso una cara alunna, ma una persona che ricopriva una posizione di fiducia sembra essersi macchiata di azioni abominevoli, se non è esagerato definirle così.» «Niente affatto» replicò Banks. «E chiamarle abominevoli è poco. Ma non lo racconti ai giornalisti.» «Sarò muto come una tomba. Sono già stati qui, sa.» «Non mi sorprende.» «Non gli ho detto niente. Non avevo niente da dire, a essere sincero. Eccoci arrivati. Il Bascombe Building.» Il Bascombe Building era una moderna struttura in vetro e cemento. Sul muro accanto alla porta vi era una targa con la scritta: IN MEMORIA DI FRANK EDWARD BASCOMBE, 1898-1971. «Chi era?» chiese Banks mentre varcavano la soglia. «Ha lavorato qui durante la guerra» lo informò Knight. «Insegnava inglese. All'epoca, questa costruzione faceva parte dell'edificio principale, ma è stata colpita da una bomba volante nell'ottobre del 1944. Frank Bascombe era un eroe. Ha tratto in salvo dodici ragazzi e un collega. Due al-
lievi sono rimasti uccisi durante l'attacco. Per di qua.» Aprì la porta del laboratorio, dove un giovane sedeva alla cattedra davanti a un fascio di appunti. L'uomo alzò lo sguardo. «Geoff. Il commissario Banks vuole parlarti.» Poi il preside si dileguò richiudendosi l'uscio alle spalle. Banks non metteva piede in un laboratorio scolastico da trent'anni o forse più e, benché questo fosse dotato di apparecchiature molto più moderne di quelle dei suoi tempi, era quasi identico a quello in cui aveva studiato: becher, pipette, provette, tavoli alti e becchi di Bunsen; la vetrina vicino alla parete piena di bottiglie turate contenenti potassio, acido solforico, fosfato di sodio e simili. Quanti ricordi. Il locale aveva persino lo stesso odore: un po' acre, un po' putrido. Banks ripensò al primo Piccolo Chimico che i genitori gli avevano regalato per Natale quando aveva tredici anni, ripensò al sottile allume in polvere, al solfato di rame azzurro e ai vivaci cristalli viola del permanganato di potassio. Amava mescolarli per vedere che cosa accadeva, infischiandosene delle istruzioni e delle avvertenze. Una volta, riscaldava uno strano miscuglio sopra una candela sul tavolo della cucina, quando la provetta era scoppiata spruzzando roba dappertutto. Sua madre era andata in bestia. Brighouse, che non indossava un camice bensì una giacca leggera e pantaloni di flanella grigia, si fece avanti e gli strinse la mano. Era un tipo dal volto roseo, più o meno dell'età di Payne, con occhi azzurro pallido, capelli biondi e una carnagione da aragosta, come se fosse riuscito a scovare un po' di sole e ci fosse rimasto troppo a lungo. La sua stretta fu breve, decisa e asciutta. Notò che Banks si guardava intorno. «Rievoca dei ricordi, vero?» «Qualcuno.» «Belli, mi auguro?» Il commissario annuì. La chimica gli piaceva, ma il suo insegnante, «Tappo» Barker, era uno dei bastardi peggiori e più brutali della scuola. Picchiava gli alunni con i flessibili di gomma dei becchi di Bunsen. Una volta gli aveva tenuto la mano sopra uno di quegli aggeggi e aveva fatto per accenderlo, ma aveva cambiato idea all'ultimo minuto. Banks aveva scorto la scintilla del sadismo nei suoi occhi, lo sforzo che gli era costato non usare il fiammifero. Non gli aveva dato la soddisfazione di implorare pietà o di manifestare paura, ma dentro aveva tremato. «A ogni modo, adesso si utilizza il sodio» aggiunse Brighouse. «Come?» «Il sodio. Perché è così instabile nell'aria. Dà sempre ottimi risultati. I
ragazzi di oggi non hanno un livello di attenzione molto alto, quindi devi ricorrere ai fuochi d'artificio per destare il loro interesse. Per fortuna, la chimica ne offre a bizzeffe.» «Ah.» «Si accomodi.» Geoff indicò un alto sgabello accanto al tavolo più vicino. Banks sedette davanti a un portaprovette e a un becco di Bunsen. Brighouse gli sedette di fronte. «Non so se potrò aiutarla» esordì l'insegnante. «Conosco Terry, naturalmente. Siamo colleghi, e anche buoni amici. Ma non posso dire di conoscerlo bene. È un tipo molto riservato sotto diversi aspetti.» «Può dirlo forte» osservò Banks. «Basta pensare a quello che è riuscito a tenere nascosto.» Brighouse batté le palpebre. «Ehm... giusto.» «Signor Brighouse...» «Geoff. Per favore. Mi chiami Geoff.» «Va bene, Geoff» acconsentì Banks, che preferiva sempre il nome di battesimo perché gli conferiva uno strano potere sul sospettato, cosa che Geoff Brighouse era senza dubbio ai suoi occhi. «Da quanto tempo conosce il signor Payne?» «Da quando è arrivato qui, circa due anni fa.» «Prima di allora insegnava a Seacroft. È esatto?» «Sì. Credo di sì.» «Non lo conosceva all'epoca?» «No. A proposito, posso chiederle come sta?» «È ancora in terapia intensiva, ma tiene duro.» «Bene. Ecco... Oh, merda, è così difficile. Non riesco ancora a crederci. Che cosa devo dire? Quell'uomo è un mio amico, dopo tutto, a prescindere...» Si portò un pugno alle labbra e si mordicchiò una nocca. All'improvviso, parve sull'orlo delle lacrime. «A prescindere da quello che ha fatto?» «È quello che stavo per dire, ma... Sono soltanto confuso. Mi perdoni.» «Ci vorrà del tempo. Lo capisco. Ma intanto ho bisogno di scoprire tutto il possibile su Terence Payne. Che cosa facevate quando eravate insieme?» «Andavamo per lo più al pub. Non bevevamo mai molto. O almeno, non io.» «A Payne piace alzare il gomito?» «Non fino a poco tempo fa.» «L'ha rimproverato?»
«Un paio di volte. Sa, quando doveva guidare.» «Che cosa ha fatto?» «Ho cercato di portargli via le chiavi dell'auto.» «Come ha reagito?» «È andato su tutte le furie. Una volta mi ha persino preso a pugni.» «Terence Payne l'ha presa a pugni?» «Sì. Ma era sbronzo. Si incazza con facilità quando è sbronzo.» «Le ha spiegato perché beveva così tanto?» «No.» «Non ha accennato a nessun problema personale?» «No.» «Era a conoscenza di altri problemi oltre a quello dell'alcol?» «Trascurava un po' il lavoro.» La stessa cosa che aveva detto Knight. Come l'alcolismo, probabilmente era più un sintomo che il problema vero e proprio. Forse Jenny Fuller l'avrebbe confermato, ma Banks riteneva logico che un uomo che aveva fatto - che si era sentito costretto a fare - quanto aveva fatto Payne, avesse bisogno di una qualche forma di oblio. Sembrava quasi che avesse voluto essere catturato, che avesse voluto porre fine a tutto quanto. Il rapimento di Kimberley Myers, risalente al periodo in cui sapeva già di essere a rischio per via del numero di targa, era stato una mossa avventata. Se non fosse stato per gli agenti investigativi Bowmore e Singh, forse Banks avrebbe subodorato qualcosa prima. Anche se il secondo interrogatorio non avesse condotto a nulla, il suo nome sarebbe saltato fuori da HOLMES appena Carol Houseman avesse immesso i nuovi dati: che Kimberley Myers frequentava la Silverhill, dove insegnava Payne, e che quest'ultimo figurava come il proprietario di un'auto la cui targa finiva per KWT, nonostante le targhe false terminanti per NGV. «Non ha mai parlato di Kimberley Myers?» domandò Banks. «No. Mai.» «Non parlava mai di ragazzine in generale?» «Parlava di ragazze, non di ragazzine in particolare.» «In che modo parlava delle donne? Con affetto? Disgusto? Lascivia? Rabbia?» Brighouse rifletté per un istante. «Adesso che ci penso» rispose «ho sempre considerato Terry un po' prepotente per il modo in cui parlava delle donne.» «Può essere più preciso?»
«Be', per esempio, adocchiava una ragazza carina in un locale e cominciava a dire che gli sarebbe piaciuto scoparla, legarla al letto e scoparla a sangue. Cose del genere. Ecco... insomma, io non sono un bacchettone, ma a volte era un po' sopra le righe.» «Ma questa è solo volgarità maschile, giusto?» Brighouse sollevò un sopracciglio. «Davvero? Non saprei. A essere sincero, non so che cosa significhi. Sto solo dicendo che sembrava rude e prepotente quando parlava delle donne.» «A proposito di volgarità maschile, ha mai prestato dei video a Terry?» Brighouse distolse lo sguardo. «A che cosa si riferisce? Che tipo di video?» «Video pornografici.» Era impossibile che un individuo rosso come Brighouse arrossisse, ma per un attimo Banks avrebbe quasi giurato che fosse accaduto. «Solo qualcosa di erotico. Niente di illegale. Niente che non si possa noleggiare al negozio dietro l'angolo. Gli ho prestato anche altre cassette. Film di guerra, dell'orrore, di fantascienza. Terry è un patito dei film.» «Niente video amatoriali?» «Certo che no. Per chi mi prende?» «Non mi sono ancora fatto un'opinione in proposito, Geoff. Terry possiede una videocamera?» «Non che io sappia.» «E lei?» «No. So maneggiare a malapena una macchina fotografica.» «Andava spesso a casa sua?» «Ogni tanto.» «Non è mai sceso in cantina?» «No. Perché?» «Ne è sicuro, Geoff?» «Maledizione, sì. Non penserà mica che...?» «Sa che i nostri uomini stanno conducendo un esame completo nella cantina dei Payne, vero?» «E allora?» «E allora, secondo la prima regola della scientifica, chiunque sia stato sulla scena del crimine lascia qualcosa e si porta via qualcosa. Se è stato lì, lo scopriremo, tutto qua. Non vorrei che sembrasse colpevole solo per non avermi detto che ci è andato a fare qualcosa di innocuo come guardare un video porno.»
«Non sono mai entrato là dentro.» «Okay. Uomo avvisato mezzo salvato. Avete mai rimorchiato delle donne insieme?» Spostando gli occhi sul becco di Bunsen, Brighouse prese a giocherellare con il portaprovette. «Signor Brighouse? Geoff? Potrebbe essere importante.» «Non vedo come.» «Lasci giudicare a me. E se teme di tradire un amico, stia tranquillo. Terry è all'ospedale in coma. Sua moglie è nello stesso ospedale, ricoverata per i tagli e i lividi che lui le ha procurato. E abbiamo rinvenuto il corpo di Kimberley Myers nella sua cantina. Si ricorda di Kimberley? Probabilmente era in una delle sue classi, vero? Ho appena assistito all'autopsia di una delle vittime precedenti e mi sento ancora un po' sottosopra. Non c'è bisogno che aggiunga dell'altro e, mi creda, è meglio così.» Brighouse trasse un profondo respiro. Sembrava che le guance e la fronte avessero perso parte del loro colore. «Be', okay, sì, l'abbiamo fatto. Una volta.» «Che cosa è successo?» «Niente. Sa...» «No, non lo so. Mi dica.» «Ascolti, è...» «Non mi importa se è imbarazzante. Voglio sapere come si è comportato Payne con la donna che avete abbordato. Forza. Finga di confidare al suo medico di aver avuto un attacco di gonorrea.» Brighouse deglutì prima di proseguire. «È stato durante una conferenza a Blackpool. In aprile, poco più di un anno fa.» «Prima che si sposasse?» «Sì. Usciva con Lucy, ma all'epoca non erano sposati. Non fino a maggio.» «Vada avanti.» «Non c'è molto da dire. C'era una splendida insegnante di Aberdeen, e una sera... sa... abbiamo bevuto tutti qualche bicchierino al bar e abbiamo cominciato a flirtare. A ogni modo, dopo qualche gin sembrava che ci stesse, così siamo saliti in camera.» «Tutti e tre?» «Sì. Io e Terry dividevamo la stanza. Intendiamoci, non mi sarei intromesso se fosse stata una sua conquista, ma lei ci aveva fatto capire che non le sarebbe dispiaciuto. È stata una sua idea. Ha detto di aver sempre so-
gnato un triangolo.» «E lei?» «Era una delle mie fantasie, sì.» «Com'è andata?» «Secondo lei? Abbiamo fatto sesso.» «È piaciuto alla ragazza?» «Be', come ho detto, all'inizio era stata soprattutto una sua idea. Era un po' brilla. Lo eravamo tutti. Non ha obiettato. Anzi, non vedeva l'ora. È stato solo più tardi che...» «Che cosa è stato solo più tardi?» «Be', sa com'è.» «No, non so com'è.» «Per farla breve, Terry ha proposto un sandwich. Non so se...» «So che cos'è un sandwich. Continui.» «Ma lei non ne aveva voglia.» «Che cosa è successo?» «Terry sa essere molto persuasivo.» «Come? Con le percosse?» «No. Ma non si dà per vinto. Insiste fino a logorare la tua resistenza.» «Così avete fatto il sandwich?» Brighouse abbassò lo sguardo strofinando i polpastrelli contro il tavolo ruvido e graffiato. «Sì.» «E la ragazza era consenziente?» «Più o meno. Insomma, sì. Nessuno l'ha obbligata. Non fisicamente. Ci eravamo scolati un altro paio di drink, e Terry le stava addosso, sa, solo a parole, ripetendo che sarebbe stato fantastico, così alla fine...» «Che cosa è accaduto dopo?» «Niente, davvero. La ragazza non ha fatto casino. Ma l'atmosfera si è rovinata. Lei ha pianto un po', pareva giù, sa, come se si sentisse tradita, usata. E, mentre lo facevamo, avevo intuito che non le era piaciuto molto.» «Ma non si è fermato?» «No.» «La donna ha urlato o vi ha chiesto di smettere?» «No. Ecco, faceva dei versi... Be', era un'urlatrice di natura. Temevo persino che i vicini si lamentassero del baccano.» «E poi?» «È tornata nella sua stanza. Abbiamo bevuto qualche altro drink, poi ho perso i sensi. Immagino che Terry abbia fatto lo stesso.»
Banks tacque e scarabocchiò qualcosa nel taccuino. «Non so se se ne rende conto, Geoff, ma quanto mi ha appena raccontato costituisce complicità in uno stupro.» «Nessuno l'ha stuprata! Gliel'ho detto. Era del tutto consenziente.» «Non mi pare. Due uomini. Lei da sola. Che alternative aveva? Ha detto con chiarezza di non voler fare quello che desiderava Terence Payne, ma lui se n'è fregato e l'ha fatto comunque.» «È riuscito a convincerla.» «Balle, Geoff. Ha logorato la sua resistenza e la sua determinazione. L'ha detto lei stesso. E scommetto anche che la ragazza aveva paura di quanto sarebbe potuto capitare se non l'avesse accontentato.» «Nessuno l'ha minacciata di violenza.» «Forse non esplicitamente.» «Può darsi che le cose siano andate solo un po' troppo in là...» «Che vi siano sfuggite di mano?» «Forse un pochino.» Banks sospirò. Quante volte aveva sentito giustificare così la violenza maschile contro le donne. Anche gli aggressori di Annie Cabbot avevano usato quella scusa. Provava disgusto per Geoffrey Brighouse, ma non vi era molto che potesse fare. L'episodio aveva avuto luogo più di un anno prima, pareva che la donna non avesse sporto denuncia e, in ogni caso, Terence Payne era in ospedale, in bilico tra la vita e la morte. Il fatto meritava tuttavia di essere tenuto in considerazione. «Mi dispiace» aggiunse Brighouse. «Ma deve capire. La ragazza non ci ha mai chiesto di smettere.» «Non mi sembra che abbia avuto molte opportunità di farlo, infilata tra due giovani robusti come lei e Terry.» «Be', tutto il resto le è piaciuto.» Cambia argomento se non vuoi mollargli un cazzotto, pensò Banks tra sé. «Altri episodi come quello?» «No, è stata l'unica volta. Che ci creda o no, commissario, dopo quella notte mi vergognavo un po', anche se non avevo fatto niente di male, e mi sarei sentito a disagio se mi fossi trovato ancora in quella situazione con Terry. Per me era troppo. Quindi sono stato alla larga dalle occasioni di quel tipo.» «Dunque Payne è rimasto fedele alla moglie da allora?» «Non è quello che ho detto.» «Che cosa intende?»
«Solo che noi due non abbiamo più rimorchiato ragazze insieme. Sa, a volte mi raccontava di aver abbordato delle prostitute.» «Che cosa faceva con loro?» «Secondo lei?» «Non scendeva nei dettagli?» «No.» «Non parlava mai della moglie sotto il profilo sessuale?» «No. Mai. Era molto possessivo nei suoi confronti, e molto abbottonato. Non la menzionava mai quando eravamo insieme. Era come se lei facesse parte di un'altra vita. Terry è molto bravo a dividere le cose in scomparti.» «Pare proprio di sì. Le ha mai proposto di rapire delle ragazzine?» «Pensa davvero che mi presterei a una cosa del genere?» «Non lo so, Geoff. Me lo dica lei. Le confidava che gli sarebbe piaciuto legarle e scoparle a sangue, e di certo ha stuprato quell'insegnante a Blackpool, anche se prima la donna aveva acconsentito ad avere un normale rapporto sessuale con tutti e due. Se devo essere sincero, non so che cosa pensare del suo ruolo in tutto questo, Geoff.» Ormai Brighouse era sbiancato del tutto e tremava. «Non crederà mica che io...? Insomma...» «Perché no? Non c'è ragione di escludere un suo coinvolgimento. In due sarebbe stato più comodo. Sarebbe stato più facile rapire le vittime. C'è del cloroformio in laboratorio?» «Cloroformio? Sì. Perché?» «Sotto chiave, vero?» «Certo.» «Chi ha la chiave?» «Io. Terry. Keith Miller, il direttore della sezione di scienze. Il signor Knight. Non so chi altri. Probabilmente il custode e gli addetti alle pulizie, immagino.» «Quali impronte pensa che troveremo sulla bottiglia?» «Non lo so. Non ricordo nemmeno l'ultima volta in cui io ho usato quella roba.» «Che cosa ha fatto lo scorso fine settimana?» «Non molto. Sono rimasto a casa. Ho corretto qualche ricerca. Sono andato a fare la spesa in città.» «Ha una ragazza al momento, Geoff?» «No.» «Ha visto qualcun altro durante il week-end?»
«Solo i vicini... Sa, gli inquilini degli altri appartamenti, nell'androne, sulle scale. Oh, e sono andato al cinema sabato sera.» «Da solo?» «Sì.» «Che cosa davano?» «Il nuovo film di James Bond, in centro. E poi mi sono fermato al solito pub.» «Qualcuno l'ha vista?» «Alcuni clienti abituali, sì. Abbiamo fatto una partita a freccette.» «Fino a quando è rimasto lì?» «Fino all'ora di chiusura.» Banks si grattò la guancia. «Non so, Geoff. In fondo, non è granché come alibi, non trova?» «Non sapevo che me ne sarebbe servito uno.» La porta si aprì, e due ragazzi infilarono dentro la testa. Geoff Brighouse parve sollevato. Guardò prima l'orologio, poi Banks, quindi accennò un sorriso. «Ora di lezione, temo.» Banks si alzò. «Va bene, Geoff. Non vorrei interferire con l'istruzione dei giovani.» Brighouse fece cenno ai due studenti di entrare, e ben presto ne comparvero altri, che sciamarono intorno agli sgabelli vicino ai tavoli. L'insegnante accompagnò Banks all'uscita. «La pregherei di venire a Millgarth per rilasciare una dichiarazione» disse il commissario prima di andarsene. «Una dichiarazione? Io? Ma perché?» «Una pura formalità. Racconti al detective le stesse cose che ha appena raccontato a me. E avremo anche bisogno di sapere con esattezza dov'era e che cosa stava facendo quando sono state rapite quelle cinque ragazze. Dettagli, testimoni, tutto quanto. Ci serviranno anche una scansione delle impronte digitali e un campione di DNA. Non sarà doloroso, un po' come lavarsi i denti. Questo pomeriggio dopo la scuola andrà bene. Facciamo alle cinque? Vada alla reception e chieda dell'agente investigativo Younis. Gli dirò di aspettarla.» Banks gli porse un biglietto da visita dopo avervi scritto il nome del giovane e brillante (anche se piuttosto ipercritico) poliziotto che aveva appena scelto per raccogliere la dichiarazione ufficiale di Brighouse. Younis era attivo nella cappella metodista del quartiere e un po' all'antica sul piano morale. «Arrivederci» salutò Banks, lasciando un Geoff Brighouse allibito e preoccupato a insegnare le gioie dell'instabile sodio al-
la sua classe. Capitolo 9 Quando Jenny raggiunse la banca, Pat Mitchell fece una pausa e andò con lei al caffè nel centro commerciale dall'altra parte della strada, dove dialogarono sorseggiando un tè lattiginoso e piuttosto leggero. Pat era una briosa brunetta con umidi occhi marrone e un grosso anello di fidanzamento. All'inizio, non fece altro che scuotere la testa e ripetere: «Non ci credo ancora. Non credo che stia succedendo davvero». Jenny conosceva bene la negazione della realtà, sia come psicologa sia come donna, dunque emise versetti comprensivi e concesse a Pat il tempo di calmarsi. Di tanto in tanto, uno degli altri clienti lanciava un'occhiata perplessa verso il loro tavolo, come se le avesse riconosciute ma non riuscisse a inquadrarle, ma in fin dei conti il caffè era quasi vuoto e poterono conversare indisturbate. «Conosce bene Lucy?» chiese Jenny quando l'altra ebbe smesso di piangere. «Siamo molto amiche. Insomma, la conosco da circa quattro anni, da quando ha cominciato a lavorare qui alla banca. All'epoca aveva un appartamentino poco lontano da Tong Road. Siamo pressappoco coetanee. Come sta? L'ha vista?» Per tutto il tempo in cui parlò, i suoi grandi occhi marrone continuarono a luccicare, sull'orlo delle lacrime. «L'ho vista questa mattina» rispose Jenny. «Sta bene. È in via di guarigione.» Fisicamente, almeno. «Che tipo era quando vi siete conosciute?» Pat sorrise al ricordo. «Era simpatica, una sagoma. Voleva spassarsela.» «Che cosa intende?» «Sa, voleva solo divertirsi, godersela.» «Qual era la sua idea di divertimento?» «Vedere gente, bazzicare i pub, andare alle feste, ballare, attaccare bottone con i ragazzi.» «Solo attaccare bottone?» «Lucy era... be', allora era strana in fatto di ragazzi. Ecco, la annoiavano quasi tutti. Ci usciva un paio di volte e poi li piantava.» «Da che cosa pensa che dipendesse?» Pat fece mulinare il tè grigiastro nella tazza guardandovi dentro come se volesse leggere il destino nelle foglie. «Non lo so. Era come se aspettasse qualcuno.»
«L'uomo giusto?» Pat rise. «Più o meno.» Jenny ebbe l'impressione che la sua risata sarebbe stata molto più pronta e frequente se non fosse stato per le circostanze. «Le ha mai spiegato come sarebbe dovuto essere l'uomo giusto?» «No. Diceva soltanto che nessuno dei ragazzi di qui la soddisfaceva. Pensava che fossero tutti stupidi e che avessero in mente solo il football e il sesso, in quest'ordine.» Jenny aveva conosciuto molti ragazzi come quelli. «Che cosa cercava? Un uomo ricco? Stimolante? Pericoloso?» «Non era interessata ai soldi in particolare. Pericoloso? Non so. Può darsi. Allora le piaceva vivere, per così dire, al limite. Sapeva essere piuttosto sopra le righe.» Jenny prese qualche appunto. «Come? In che senso?» «È una sciocchezza, davvero. Avrei dovuto tenere la bocca chiusa.» «Vada avanti. Mi racconti.» Pat abbassò la voce. «Ascolti, lei è una psichiatra, giusto?» «Una psicologa.» «Quello che è. Significa che, se le riferisco qualcosa, non andrà a spifferarlo in giro? Resterà tra noi e nessuno potrà costringerla a rivelare il nome della sua fonte? Sa, non vorrei che Lucy mi giudicasse una pettegola.» Se generalmente avrebbe avuto qualche appiglio valido per non consegnare i dossier dei suoi pazienti senza un'ordinanza del tribunale, in questo caso Jenny lavorava per la polizia e non poteva garantire la riservatezza. D'altro canto, aveva bisogno di sentire la storia di Pat, e probabilmente Lucy non l'avrebbe mai scoperto. Senza ricorrere a una bugia bella e buona disse: «Farò del mio meglio. Promesso». Pat si mordicchiò il labbro inferiore e rifletté per un istante, quindi si piegò in avanti e strinse la tazza con entrambe le mani. «Be', una volta è voluta andare in uno di quei night di Chapeltown.» «Un night caraibico?» «Sì. Ecco, è difficile che una brava ragazza bianca si avvicini a posti come quelli, ma Lucy pensava che sarebbe stato elettrizzante.» «Ci è andata?» «Sì, con Jasmine, una ragazza giamaicana della filiale di Boar Lane. Naturalmente, non è successo nulla. Ma credo che abbia provato qualche droga.» «Perché? Che cosa le ha detto?» «Si è limitata a fare allusioni e ad ammiccare con quell'aria da superiore,
sa, come se lei ci fosse stata di persona e noialtri l'avessimo solo visto in TV. Quando fa così, sa essere piuttosto irritante, la cara Lucy.» «C'è dell'altro?» «Sì.» Una volta che Pat era partita, sembrava impossibile fermarla. «In un'occasione mi ha raccontato di aver finto di essere una prostituta.» «Di aver finto che cosa?» «È vero.» Pat si guardò intorno per accertarsi che nessuno ascoltasse e abbassò ancor più la voce. «È stato più di due anni fa, prima che entrasse in scena Terry. Ne avevamo discusso una sera in un locale dopo averne vista una - una prostituta, intendo -, domandandoci come sarebbe stato farlo per soldi, sa, tanto per ridere un po'. Lucy ha detto che le sarebbe piaciuto provare e che ci avrebbe fatto sapere.» «L'ha fatto?» «Mmm. È quello che mi ha raccontato. Circa una settimana dopo, ha detto che la notte prima si era messa qualcosa di provocante - calze a rete, tacchi a spillo, minigonna di pelle nera e camicetta scollata - e si era seduta al bar di uno di quegli hotel per uomini d'affari vicino all'autostrada. Non ci era voluto molto, ha detto, prima che un tizio la avvicinasse.» «Le ha spiegato che cosa era successo?» «Non nei dettagli. Sa quando tacere, la nostra Lucy. Per attirare l'attenzione. Ma ha detto che avevano parlato, in modo molto pratico e cortese, e che si erano accordati sul prezzo, poi erano saliti in camera e... e l'avevano fatto.» «Le ha creduto?» «Non subito. Insomma, è scandaloso, vero? Ma...» «Alla fine le ha creduto?» «Be', come ripeto, Lucy riesce sempre a sorprenderti e ama il rischio, le emozioni forti. Suppongo di aver cambiato idea quando mi ha mostrato i soldi.» «Glieli ha mostrati?» «Sì. Duecento sterline.» «Poteva averli rubati in banca.» «Sì, ma... A ogni modo, non so altro.» Jenny prese qualche appunto. Pat inclinò la testa per vedere che cosa scrivesse. «Deve essere un lavoro affascinante, il suo» commentò. «Ha i suoi pro e i suoi contro.» «Proprio come la protagonista di quel telefilm. X Files.» «Non sono una poliziotta, Pat. Soltanto una psicologa consulente.»
Pat arricciò il naso. «Però è una vita eccitante, vero? Acciuffare criminali e compagnia bella.» Anche se «eccitante» non era il primo aggettivo che le sarebbe venuto in mente, Jenny decise di lasciare Pat alle sue illusioni. Come quelle di quasi tutte le persone, non avrebbero fatto male a nessuno. «E dopo che Lucy ha conosciuto Terry?» «È cambiata. Ma è quello che succede a tutti, vero? Altrimenti a che cosa serve il matrimonio? Se non ti cambia, voglio dire.» «Sono d'accordo. In che senso è cambiata?» «È diventata molto più chiusa. Usciva meno. Terry è un tipo casalingo, così Lucy non andava più nei night tanto spesso. È anche geloso, Terry, se capisce che cosa intendo, quindi Lucy ha dovuto smettere di attaccare bottone con i ragazzi. Non l'ha mai fatto dopo le nozze. Da allora è stato tutto un "Terry qua" e un "Terry là".» «Erano innamorati?» «Direi di sì. Pazzi l'uno dell'altra. O almeno, così diceva lei, e sembrava felice. Quasi sempre.» «Facciamo un passo indietro. Era presente quando si sono conosciuti?» «Lucy sostiene di sì, ma io l'ho del tutto dimenticato.» «Quando è stato?» «Quasi due anni fa. In luglio. Una serata calda, afosa. Avevamo organizzato un'uscita per sole donne in un pub di Seacroft. Uno di quei posti enormi con un sacco di piste da ballo.» «Che cosa ricorda?» «Ricordo che Lucy se n'è andata da sola. Ha detto che non aveva abbastanza soldi per il taxi e che non voleva perdere l'autobus. Non circolano fino a tardi. Avevo bevuto qualche drink, ma mi è rimasto impresso perché le ho raccomandato di stare attenta. Lo Stupratore di Seacroft colpiva più o meno in quel periodo.» «Che cosa ha risposto Lucy?» «Si è limitata a guardarmi con quell'aria superiore e si è allontanata.» «Ha visto Terry lì quella sera? L'ha visto agganciare Lucy?» «Credo che fosse al bar da solo, ma non ricordo se abbiano parlato.» «Che cosa le ha raccontato Lucy in seguito?» «Di avergli rivolto la parola per la prima volta andando a prendere i drink al bancone e di averlo trovato affascinante, di averlo incrociato ancora mentre usciva e di averlo seguito in qualche altro pub. Non ricordo. Ero senz'altro un po' sbronza. A ogni modo, qualunque cosa sia successa, è
cominciato tutto quella sera. Da allora è stata una Lucy diversa. Non aveva più tempo per i vecchi amici.» «È mai andata a trovarli? Si è mai fermata a cena da loro?» «Un paio di volte, con Steve, il mio ragazzo. Ci siamo fidanzati un anno fa.» Sollevò l'anello. Il diamante catturò la luce e brillò. «Ci sposiamo in agosto. Abbiamo già prenotato il viaggio di nozze. Andiamo a Rodi.» «Aveva un buon rapporto con Terry?» Pat rabbrividì leggermente. «No. Non mi piace. Non mi è mai piaciuto. Steve pensava che fosse un tipo a posto, ma... A dire il vero, è questo il motivo per cui abbiamo smesso di frequentarli. Terry ha qualcosa... E Lucy era una specie di zombie quando era con lui. O quello o si comportava come se fosse drogata.» «Che cosa intende?» «Be', è solo un modo di dire. Ecco, non era davvero drogata, ma soltanto, sa, sovreccitata, parlava troppo, saltava da un argomento all'altro.» «Ha mai notato segni di percosse?» «Vuole sapere se mi fossi accorta che Terry la picchiava?» «Sì.» «No. Niente. Non ho mai visto lividi o cose simili.» «Ha avuto l'impressione che Lucy fosse cambiata in qualche modo?» «In che senso?» «Di recente. È diventata più riservata, pareva avere paura di qualcosa?» Pat si mordicchiò la punta del pollice per un istante prima di rispondere. «È cambiata un po' negli ultimi mesi, ora che mi ci fa pensare» disse finalmente. «Non so dire con esattezza quando è iniziato, ma sembrava più agitata, più assente, come se avesse qualche problema, qualche preoccupazione.» «Si è confidata con lei?» «No. Ormai ci eravamo allontanate molto. La picchiava davvero? Non so lei, ma io non riesco a capire come una donna, soprattutto una donna come Lucy, possa accettare una cosa del genere.» Jenny lo capiva, ma sarebbe stato inutile cercare di convincere Pat. Se Lucy aveva intuito che quella era l'opinione della sua vecchia amica riguardo al problema, non c'era da meravigliarsi che si fosse rivolta a una vicina come Maggie Forrest, che, se non altro, le aveva offerto un po' di comprensione. «Lucy non parlava mai del suo passato, della sua infanzia?» Pat guardò l'orologio. «No. So soltanto che viene dalle parti di Hull e
che la sua era una vita piuttosto piatta. Non vedeva l'ora di andarsene e non si teneva molto in contatto con la famiglia, soprattutto dopo aver conosciuto Terry. Ascolti, adesso devo proprio salutarla. Spero di esserle stata d'aiuto.» Si alzò. Alzandosi a sua volta, Jenny le strinse la mano. «Grazie. Sì, mi è stata davvero molto utile.» Mentre osservava Pat che si dirigeva verso la banca con passo frettoloso, guardò anche lei l'orologio. Aveva abbastanza tempo per andare a Hull e rivolgere qualche domanda ai genitori di Lucy. Banks non faceva un salto a Eastvale da diversi giorni e, poiché aveva temporaneamente ereditato la mole di lavoro di Gristhorpe, la quantità di scartoffie accumulatesi era sbalorditiva. Quando trovò il tempo di passare al commissariato nel tardo pomeriggio, subito dopo aver interrogato Geoff Brighouse, la sua casella traboccava pertanto di rapporti, richieste, promemoria, messaggi telefonici, revisioni del budget, statistiche sulla criminalità e varie circolari in attesa di una firma. Decise di smaltire un po' di pratiche arretrate e di portare Annie Cabbot a bere qualcosa al Queen's Arms per parlare dell'inchiesta su Janet Taylor e magari sondare un po' il terreno. Dopo aver lasciato un biglietto a Annie chiedendole di raggiungerlo nel suo ufficio alle sei, Banks si chiuse la porta alle spalle e fece cadere la pila di fogli sulla scrivania. Non aveva nemmeno voltato la pagina del calendario di «Dalesman» da aprile a maggio, notò, passando da una fotografia del ponte di Linton alle linee vertiginose della finestra orientale dello York Minster, con sfuocati fiori di biancospino rosa e candidi in primo piano. Era l'11 maggio. Difficile credere che fossero trascorsi così pochi giorni dalla raccapricciante scoperta al numero 35 della Collina. I giornali scandalistici si fregavano già le mani per la contentezza e chiamavano la villetta «La casa degli orrori del dottor Terry» o, peggio ancora, «La casa dei vizi e delle sevizie». Chissà come, erano venuti in possesso di due istantanee dei Payne: quella di Terry sembrava ritagliata da una foto di classe, mentre quella di Lucy era stata scattata quando la donna aveva ricevuto il titolo di «dipendente del mese» alla filiale della NatWest. Erano entrambe immagini scadenti e, per riconoscerli, bisognava già sapere chi erano. Banks accese il computer e rispose alle e-mail che giudicò degne di risposta, quindi diede una scorsa alla pila di fogli. A quanto pareva, non era successo granché in sua assenza. Il maggior grattacapo erano state alcune pericolose rapine agli uffici postali, messe in atto da un uomo mascherato che terrorizzava clienti e personale con un lungo coltello e uno spray al-
l'ammoniaca. Per ora nessuno era rimasto ferito, ma non significava che non sarebbe accaduto. La Divisione occidentale aveva conosciuto quattro di queste rapine nell'arco di un mese. Il sergente investigativo Hatchley era intento a riunire la sua eterogenea schiera di informatori. A parte questo, il reato più grave era forse il furto di una tartaruga che dormiva in una scatola di cartone sottratta da un giardino insieme con un tosaerba e una bicicletta Raleigh. Tutto nella norma. E, dopo gli orrori della cantina dei Payne, Banks trovò una sorta di singolare conforto in questi crimini noiosi e prevedibili. Accese la radio e riconobbe il pigro movimento di una tarda sonata per piano di Schubert. Avvertendo un forte dolore tra gli occhi, massaggiò il punto con delicatezza. Vedendo che non funzionava, mise in bocca un paio delle compresse di paracetamolo che teneva nella scrivania per le emergenze, le inghiottì con del caffè tiepido, quindi spinse da parte la montagna di documenti e lasciò che la musica si riversasse su di lui in onde leggere. Le emicranie erano più frequenti in quei giorni, insieme con le notti insonni e una strana riluttanza ad andare al lavoro. Ricordò quel che aveva passato poco prima di lasciare Londra per lo Yorkshire, quando era arrivato sull'orlo dell'esaurimento nervoso, e si domandò se stesse per ridursi ancora in quello stato. Probabilmente avrebbe dovuto rivolgersi al medico, decise. Quando avesse avuto tempo. Come era già accaduto tante volte in passato, lo squillo del telefono lo irritò. Accigliandosi, sollevò il ricevitore e ringhiò: «Banks». «Sono Stefan. Mi hai chiesto di tenerti informato.» Il commissario assunse un tono più dolce. «Sì, Stefan. Novità?» Udì alcune voci di sottofondo. Millgarth, molto probabilmente. O la villetta dei Payne. «Una buona notizia. Hanno rilevato le impronte di Payne sul machete usato per uccidere l'agente Morrisey, e il laboratorio ha trovato sia alcune fibre di plastica gialla della corda nei residui sotto le unghie di Lucy Payne sia tracce del sangue di Kimberley Myers sulla manica della sua vestaglia.» «Il sangue di Kimberley sulla vestaglia di Lucy Payne?» «Quindi è stata laggiù» dedusse Banks. «Così sembra. Attenzione, potrebbe spiegare la presenza delle fibre dichiarando di aver steso la biancheria. Usavano lo stesso tipo di corda da bucato nel giardino sul retro. L'ho visto io.» «Ma il sangue?»
«Forse avrà più difficoltà a giustificarlo» osservò Stefan. «Non ce n'era molto, ma almeno prova che è scesa in cantina.» «Grazie, Stefan. Mi sei stato di grande aiuto. Che cosa mi dici di Terence Payne?» «Idem. Sangue e fibre gialle. Oltre a una generosa spruzzata di sangue dell'agente Morrisey.» «E i corpi?» «Un altro, ormai ridotto a uno scheletro, in giardino. Con questo fanno cinque.» «A uno scheletro? Quanto tempo ci sarà voluto?» «Dipende dalla temperatura e dall'attività degli insetti» rispose Stefan. «Potremmo ipotizzare quattro settimane o giù di lì?» «Sì, nelle giuste condizioni. Non ha fatto molto caldo nell'ultimo mese, però.» «Ma è possibile?» «È possibile.» Leanne Wray era scomparsa il 31 marzo, poco più di un mese prima, quindi vi era almeno qualche probabilità che si trattasse dei suoi restì. «A ogni modo» proseguì Stefan «manca ancora una bella porzione di giardino. Gli uomini della scientifica scavano con molta lentezza e attenzione per evitare di scompaginare le ossa. Domani un botanico e un entomologo dell'università verranno a esaminare la scena del crimine. Dovrebbero essere in grado di darci una mano a stabilire il momento del decesso.» «Avete trovato qualche indumento con le vittime?» «No. Nessun effetto personale.» «Metticela tutta per identificare quel corpo, Stefan, e aggiornami appena sai qualcosa, anche se è negativo.» «Contaci.» Dopo averlo salutato, Banks riagganciò, quindi si avvicinò alla finestra aperta e fumò una sigaretta proibita. Era un pomeriggio caldo e afoso, con l'atmosfera satura dell'elettricità che annuncia la pioggia imminente, magari persino un temporale. Gli impiegati annusavano l'aria e prendevano gli ombrelli incamminandosi verso casa. I negozianti chiudevano bottega e riavvolgevano le tende da sole. Banks ripensò a Sandra, a tutte le volte che si erano incontrati per un drink al Queen's Arms prima di rincasare quando lei lavorava al centro sociale di North Market Street Giorni felici. O così erano parsi. E adesso aspettava il bambino di Sean. Schubert continuava a suonare, ora impegnato nella serena ed elegiaca
apertura dell'ultima sonata in si bemolle. L'emicrania si attenuò un poco. Delle gravidanze di Sandra, Banks rammentava solo che sua moglie non era stata contenta, che non era scoppiata di gioia all'idea di diventare madre. Aveva sofferto di forti nausee mattutine e, pur non fumando e non bevendo molto, aveva continuato a fare entrambe le cose, perché allora nessuno faceva tante storie al riguardo. Aveva continuato anche ad andare a mostre e commedie e a uscire con gli amici, lamentandosi quando le sue condizioni glielo rendevano difficoltoso o impossibile. Mentre era incinta di Tracy, si era fratturata una gamba scivolando sul ghiaccio durante il settimo mese e aveva trascorso il resto della gravidanza con l'arto ingessato. L'incidente l'aveva mandata su tutte le furie più di qualsiasi altra cosa, perché le aveva impedito di andarsene in giro con la macchina fotografica come era solita fare, rinchiudendola nel loro angusto appartamento di Kennington a guardare una giornata grigia che seguiva un'altra giornata grigia per tutto l'inverno, mentre Banks lavorava vendquattr'ore su ventiquattro e non rientrava quasi mai. Be', forse Sean sarebbe stato più presente. Chissà, magari se lo fosse stato anche Banks... Non ebbe però modo di seguire quel pensiero fino al girone dell'inferno che, ne era sicuro, ospitava i mariti e i padri negligenti. Annie Cabbot bussò alla porta e infilò dentro la testa, offrendogli una fuga temporanea dal rimorso e dall'autorecriminazione che in quei giorni parevano perseguitarlo sebbene si sforzasse di fare la cosa giusta. «Hai detto alle sei, vero?» «Sì. Scusa, Annie. Ero lontano anni luce.» Banks prese la giacca controllando di avere sigarette e portafoglio nelle tasche, quindi si guardò indietro lanciando un'occhiata al mucchio di scartoffie che giacevano intatte sulla scrivania. Al diavolo. Se pretendevano che facesse due o tre lavori alla volta, allora la loro maledetta cartaccia poteva aspettare. Guidando sotto un acquazzone e guardando la brutta foresta di gru che si ergeva dalle banchine di Goole, Jenny si domandò per l'ennesima volta che cosa mai l'avesse indotta a tornare in Inghilterra. Nello Yorkshire. Non erano di certo stati i legami familiari. Jenny non aveva fratelli né sorelle, e i suoi genitori, entrambi docenti universitari in pensione, vivevano nel Sussex. Suo padre e sua madre erano stati troppo presi dal lavoro (lui era uno storico, lei un fisico), e Jenny aveva trascorso gran parte dell'infanzia con una serie di tate e ragazze alla pari. Dato il loro naturale distacco accademico, aveva poi spesso la sensazione di essere stata più un esperimento
che una figlia. Non le seccava (dopo tutto, non aveva conosciuto nulla di diverso), e quello era il modo in cui aveva per lo più vissuto anche la sua vita: come un esperimento. A volte, quando si voltava indietro, trovava tutto così superficiale ed egocentrico da cadere nel panico; altre volte le sembrava soddisfacente. Avrebbe compiuto quarant'anni il prossimo dicembre, era ancora single (anzi, non si era mai sposata) e, pur essendo un po' contusa, sciupata e malconcia, era tutt'altro che fuori gara. Aveva ancora la sua bellezza e la sua linea, anche se aveva bisogno di una quantità sempre maggiore di pozioni magiche per conservare la prima e doveva faticare sempre di più alla palestra dell'università per mantenere la seconda, considerando soprattutto quanto le piacevano il vino e il buon cibo. Aveva anche un bel lavoro, una reputazione sempre più solida come profiler e qualche pubblicazione al suo attivo. Allora perché ogni tanto si sentiva così vuota? Perché le sembrava sempre di correre verso un luogo che non raggiungeva mai? Persino ora, con la pioggia che sferzava il parabrezza e i tergicristalli che funzionavano alla massima velocità, andava a novanta chilometri all'ora. Rallentò a ottanta, ma la lancetta del tachimetro riprese ben presto a salire, insieme con la sensazione di essere in ritardo per qualcosa, sempre in ritardo per qualcosa. L'acquazzone era terminato. Classic FM trasmetteva le Variazioni Enigma di Elgar. A nord, una centrale elettrica con enormi torri di raffreddamento a forma di corsetto era acquattata contro l'orizzonte e vomitava un vapore quasi indistinguibile dalle nuvole basse. Ormai la fine dell'autostrada era vicina. La M62, che si allungava verso est, assomigliava a tante altre cose della vita: ti lasciava poco prima della destinazione. Be', disse a se stessa, era tornata nello Yorkshire per fuggire dalla brutta relazione con Randy. Era il suo destino. Aveva un grazioso appartamento a West Hollywood, che uno scrittore le aveva affittato a un prezzo generosissimo dopo essersi arricchito abbastanza da comprare casa a Laurel Canyon, e abitava a un tiro di schioppo da un supermercato nonché dai club e dai ristoranti del Santa Monica Boulevard. Seguiva le lezioni ed effettuava ricerche all'università della California di Los Angeles, e aveva Randy. Ma Randy aveva l'abitudine di portarsi a letto le specializzande carine di ventun anni. Dopo una breve crisi, Jenny aveva mollato tutto ed era tornata di corsa a Eastvale. Forse questo spiegava perché aveva sempre fretta, pensò: era im-
paziente di arrivare a casa, ovunque essa fosse, impaziente di allontanarsi da un rapporto fallimentare e di buttarsi nel successivo. Se non altro, era una teoria. E poi, naturalmente, a Eastvale c'era Alan. Se era parte del motivo per cui era partita, poteva anche essere parte del motivo per cui era tornata? Non aveva voglia di soffermarsi sulla questione. La M62 si trasformò nella A63, e di lì a poco, sulla destra, Jenny intravide l'Humber Bridge che si allungava maestoso sopra l'ampio estuario tra le felci e le foschie del Lincolnshire e di Little Holland. All'improvviso, qualche raggio di sole perforò la coltre di nubi sfilacciate, mentre la variazione Nimrod toccava il suo travolgente apice. Un «momento dello Yorkshire». Jenny ricordò i «momenti di Los Angeles» che Randy amava mostrarle nei primi tempi, quando guidavano, guidavano e guidavano intorno alla città immensa e caotica: una palma stagliata contro il cielo rosso sangue; una grossa e luminosa luna piena, bassa sopra la scritta HOLLYWOOD. Appena poté, Jenny si fermò in una piazzola di sosta per studiare la cartina. Ormai le nuvole si stavano dissipando, facendo filtrare altro sole, ma le strade erano ancora punteggiate di pozzanghere, e le auto e i camion sollevavano spruzzi d'acqua sfrecciandole accanto. Poiché i genitori di Lucy abitavano poco lontano dalla A164 verso Beveriey, non fu costretta ad attraversare il centro di Hull. Proseguì attraverso i disordinati sobborghi occidentali, e ben presto trovò l'area residenziale che cercava. Clive e Hilary Liversedge abitavano in una curata casa semindipendente con bovindo situata in una tranquilla mezzaluna di case analoghe. Non era il posto dove una ragazzina avrebbe scelto di crescere, pensò Jenny. I suoi si erano trasferiti più volte quando era piccola e, pur essendo nata a Durham, aveva vissuto a più riprese a Bath, Bristol, Exeter e Norwich, tutte città universitarie piene di giovanotti arrapati. Non era mai rimasta bloccata in una noiosa zona suburbana come questa. Aprì la porta un ometto paffuto dai morbidi baffi grigi. Indossava un cardigan verde sbottonato e pantaloni marrone scuro che abbracciavano la parte inferiore del ventre prominente. Una cintura non sarebbe stata molto comoda con una forma come quella, pensò Jenny notando le bretelle che sostenevano i calzoni. «Clive Liversedge?» «Entri, mia cara» disse l'uomo. «Lei deve essere la dottoressa Fuller.» «Esatto.» Jenny lo seguì nell'ingresso claustrofobico, da cui una porta a pannelli di vetro conduceva a un minuscolo salotto con un divano e due
poltrone di velluto rosso, un fuoco elettrico con carbone finto e carta da parati a righe. Chissà perché, Jenny non avrebbe mai immaginato che Lucy Payne fosse cresciuta lì; non le pareva proprio l'ambiente adatto a lei. Capì che cosa aveva voluto dire Banks riguardo alla madre inferma. Carnagione esangue e occhi da procione, Hilary Liversedge era sdraiata sul sofà, una coperta di lana sulle gambe. Le braccia erano scarne, la pelle rugosa e flaccida. Quando l'ospite entrò, non si mosse, ma gli occhi sembravano abbastanza vivaci e attenti nonostante la sfumatura giallognola della sclera. Pur non sapendo di che cosa soffrisse, Jenny imputò le sue condizioni a una di quelle vaghe malattie croniche in cui certe persone amano crogiolarsi verso la fine della vita. «Come sta?» domandò Clive Liversedge, come se Lucy avesse subito una caduta o un incidente stradale di poco conto. «Hanno detto che non era niente di grave. Sta bene?» «L'ho vista questa mattina» rispose Jenny. «Tiene duro.» «Povera bambina» intervenne Hilary. «Che cosa deve aver passato! Le dica che può venire a stare da noi quando esce dall'ospedale.» «Sono venuta solo per capire come è fatta Lucy» spiegò Jenny. «Che tipo di ragazza era.» I Liversedge si scambiarono un'occhiata. «Come tutte le altre» disse Clive. «Normale» confermò Hilary. Certo, pensò Jenny. Le ragazze normali sposano serial killer tutti i giorni. Anche se Lucy non era responsabile degli omicidi, ci doveva essere qualcosa di strano in lei, qualcosa fuori del normale. L'aveva percepito persino durante la breve chiacchierata in ospedale di quel mattino. Poteva nasconderlo dietro tutti gli astrusi termini psicologici che voleva (e l'aveva fatto parecchie volte nella sua carriera), ma tutto si riduceva alla sensazione che a Lucy Payne mancasse qualche rotella. «Come andava a scuola?» insistette Jenny. «Benissimo» rispose Clive. «Si è diplomata con il massimo dei voti. Anche le pagelle erano ottime. Tutti otto e nove» soggiunse Hilary. «Sarebbe potuta andare all'università» proseguì Clive. «Perché non l'ha fatto?» «Non ha voluto» spiegò Clive. «Ha preferito camminare con le proprie gambe e guadagnarsi da vivere per conto suo.» «È ambiziosa?»
«Non è avida, se è quello che intende» affermò Hilary. «Naturalmente, vuole fare strada come chiunque altro, ma non pensa che le serva la laurea per farlo. Comunque, quei pezzi di carta sono sopravvalutati, non trova?» «Suppongo di sì» concesse Jenny, che aveva una laurea e un dottorato di ricerca. «Era una studentessa diligente?» «Non la definirei proprio così» disse Hilary. «Faceva quanto bastava per avere la sufficienza, ma non era una secchiona.» «Aveva molti amici a scuola?» «Mi pareva che andasse d'accordo con gli altri. O almeno, non si è mai lamentata.» «Niente episodi di prepotenza o cose del genere?» «Be', una volta una bambina c'è stata, ma è finito tutto in niente» ricordò Clive. «Una bambina che aveva minacciato Lucy?» «No. Una bambina che sosteneva di essere stata minacciata da Lucy, che la accusava di averle estorto dei soldi con le intimidazioni.» «Che cosa è successo?» «Niente. Era solo la sua parola contro quella di Lucy.» «E voi avete creduto a Lucy?» «Sì.» «Quindi non è stato preso alcun provvedimento?» «No. Non avevano prove contro di lei.» «E non si sono più verificati fatti simili?» «No.» «Partecipava alle attività del doposcuola?» «Non era molto tagliata per lo sport, ma ha recitato in un paio di commedie. Bravissima, tra l'altro, vero, cara?» Hilary annuì. «Era turbolenta?» «Era vispa e, se si metteva in mente di fare qualcosa, non c'era modo di fermarla, ma non direi che era "turbolenta".» «E in famiglia? Com'erano i vostri rapporti?» I Liversedge si scambiarono un'altra occhiata. Era un gesto abbastanza naturale, ma diede un po' sui nervi a Jenny. «Ottimi. Era tranquillissima. Mai un problema» ribadì Clive. «Quando se n'è andata di casa?» «Quando aveva diciotto anni. Ha ottenuto quel posto in banca a Leeds. Non l'abbiamo ostacolata.»
«Non avremmo potuto nemmeno volendo» osservò in aggiunta Hilary. «L'avete vista spesso negli ultimi tempi?» Hilary si rabbuiò un po' in volto. «Ha detto di non essere riuscita a venire quanto avrebbe voluto.» «Quando l'avete vista l'ultima volta?» «A Natale» rispose Clive. «Lo scorso Natale?» «Due anni fa.» Era come aveva detto Pat Mitchell; Lucy si era allontanata dai genitori. «Quindi diciassette mesi fa?» «Più o meno.» «Vi ha scritto o telefonato?» «Ci scrive delle belle lettere» disse Hilary. «Che cosa vi racconta della sua vita?» «Parla della casa e del lavoro. Cose normalissime.» «Vi ha detto come se la cavava Terry a scuola?» Lo sguardo che si scambiarono questa volta era senza dubbio eloquente. «No» rispose Clive. «E noi non gliel'abbiamo chiesto.» «Non approvavamo che si fosse messa con il primo ragazzo che aveva incontrato» disse Hilary. «Ha avuto altri ragazzi prima di Terry?» «Niente di serio.» «Ma pensavate che avrebbe potuto trovare di meglio?» «Non stiamo dicendo che Terry è cattivo. Sembra abbastanza simpatico e ha un lavoro onesto, delle buone prospettive.» «Ma?» «Ma ci è sembrato che volesse prendere il nostro posto, vero, Clive?» «Sì. Era molto strano.» «Che cosa volete dire?» chiese Jenny. «Era come se non volesse che Lucy venisse a trovarci.» «È stato uno di loro due a dirvelo?» Hilary scosse la testa. La pelle flaccida sbatté. «Non proprio. È solo l'impressione che ho avuto. Che abbiamo avuto.» Jenny prese un appunto. Le ricordava una delle fasi della relazione sessuale sadica che aveva studiato a Quantico. Il sadico, in questo caso Terry Payne, comincia a isolare la partner dalla famiglia. Anche Pat Mitchell aveva tratteggiato lo stesso tipo di allontanamento progressivo dagli amici. «Stavano per conto loro» continuò Clive.
«Che cosa pensavate di Terry?» «C'era qualcosa di bizzarro in lui, ma non sono riuscito a capire che cosa.» «Che tipo di persona è Lucy?» insistette Jenny. «Di solito è fiduciosa? Ingenua? Sottomessa?» «Non la descriverei con nessuna di queste parole, vero, Hilary?» «No» confermò la moglie. «Anzitutto, è molto indipendente. E anche testarda. Fa le sue scelte da sola e le mette sempre in pratica. Come quando ha stabilito di non andare all'università e di trovarsi un lavoro. Una volta presa la decisione, è partita in quarta. Ha fatto lo stesso quando ha sposato Terry. Amore a prima vista, diceva.» «Non avete assistito alle nozze, però.» «Hilary non è più in condizioni di viaggiare» spiegò Clive avvicinandosi alla sagoma immobile della moglie e dandole una lieve pacca affettuosa. «Vero, tesoro?» «Abbiamo spedito un telegramma e un regalo» aggiunse Hilary. «Un gran bel servizio di ceramiche Royal Doulton.» «Pensate che Lucy abbia poca fiducia in se stessa, poca autostima?» «Dipende dalle circostanze. È abbastanza sicura di sé sul lavoro, ma non altrettanto con le persone. Diventa spesso molto taciturna con gli estranei, molto schiva e diffidente. Non ama la folla, ma le piaceva uscire con un gruppetto di amiche. Sa, le colleghe. Cose di questo genere.» «Direste che è solitaria di natura?» «Un po' sì. È riservatissima, non ci ha mai parlato molto di quello che le succedeva o che le passava per la mente.» Jenny avrebbe voluto chiedere se Lucy avesse strappato le ali alle mosche, avesse bagnato il letto e avesse appiccato un incendio a scuola, ma non trovò il coraggio necessario. «Era così anche da bambina?» volle sapere. «Oppure il suo bisogno di solitudine è emerso solo in seguito?» «Non possiamo saperlo» disse Clive guardando la moglie. «Non la conoscevamo all'epoca.» «Che cosa vuol dire?» «Be', Lucy non è nostra figlia, non la nostra figlia naturale. Hilary non può avere bambini, sa. È cardiopatica. Lo è sempre stata. Il dottore ha detto che il parto avrebbe potuto ucciderla.» Hilary si diede un colpetto al cuore rivolgendo a Jenny un'occhiata mesta. «Avete adottato Lucy?» «No. No. L'abbiamo presa in affidamento. È stata la terza e l'ultima. È
rimasta con noi molto più a lungo degli altri, e abbiamo cominciato a considerarla nostra.» «Non capisco. Perché non l'avete detto alla polizia?» «Non ce l'hanno chiesto» rispose Clive, come se fosse una giustificazione ragionevole. Jenny era sbalordita. Ecco qui una tessera essenziale del mosaico di Lucy Payne, e nessuno della squadra ne era a conoscenza. «Quanti anni aveva quando è arrivata da voi?» domandò. «Dodici» disse Clive. «È stato nel marzo del 1990. Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Non lo sapeva? Lucy era una dei Sette di Alderthorpe.» Distendendo le gambe, Annie si allungò come se la sedia di legno duro fosse stata modellata su misura per lei. Banks aveva sempre invidiato il modo in cui, come in quell'istante, riusciva a sembrare così sicura e a suo agio praticamente dappertutto. La donna bevve un sorso di birra amara Theakston facendo quasi le fusa. Quindi gli sorrise. «Ti ho maledetto per tutto il giorno, sai» disse. «Ho nominato il tuo nome invano.» «Ecco perché mi è parso che mi fischiassero le orecchie.» «Se fosse vero, a quest'ora saresti sordo.» «Messaggio ricevuto. Che cosa ti ha detto il commissario Chambers?» Annie fece un gesto indolente con la mano. «Quello che avevo previsto. Se ci saranno conseguenze, sarà la mia camera a essere in pericolo. Oh, e mi ha messo in guardia da te.» «Da me?» «Sì. Pensa che potresti estorcermi qualche informazione e mi ha raccomandato di non scoprire mai le mie carte. Tra parentesi, sembrava che, invece delle carte, volesse scoprire me.» «Qualcos'altro?» «Sì. Ha detto che sei un dongiovanni. È vero?» Banks scoppiò a ridere. «Sul serio? Ha detto proprio così?» Annie annuì. Il Queen's Arms era gremito di impiegati appena usciti dall'ufficio e di turisti alla ricerca di un riparo, e Banks e Annie erano stati fortunati a trovare posto al ruvido tavolino d'angolo ricoperto di rame. Oltre le lastre di vetro rosse e gialle, Banks scorgeva le spettrali immagini dei passanti muniti di ombrello che andavano su e giù per Market Street. La pioggia punteggiava la vetrina, e la sentiva tamburellare nei silenzi tra le parole. Il ju-
ke-box suonava una canzone in cui i Savage Garden affermavano di aver amato una donna ancor prima di averla conosciuta. L'aria era piena di fumo e conversazioni animate. «Che cosa ne pensi di Janet Taylor?» chiese Banks. «Non voglio immischiarmi nel tuo caso. Mi interessa solo la tua prima impressione.» «Questo è quello che dici tu. Comunque, la giudico molto in gamba e sono dispiaciuta per lei. È una recluta con poca esperienza che si è ritrovata in una posizione impossibile. Ha fatto quello che le è venuto spontaneo.» «Ma?» «Non permetterò ai sentimenti di mettermi il paraocchi. Non ho ancora capito bene come sono andate le cose, ma temo che Janet Taylor abbia mentito nella dichiarazione.» «Ha mentito volutamente o soltanto non ricordava?» «Credo di poterle concedere il beneficio del dubbio. Ascolta, non mi sono mai trovata in una situazione simile. Non riesco nemmeno a immaginare che cosa deve aver passato Janet. Resta il fatto che, secondo il dottor Mogabe, ha colpito Payne con il manganello almeno sette od otto volte dopo averlo immobilizzato.» «Lui era più forte. Forse l'ha picchiato per farlo stare buono. La legge ci consente un po' di tolleranza nell'uso ragionevole della forza quando arrestiamo qualcuno.» Annie scosse la testa. Allungò le gambe di lato e le accavallò. Banks notò la catenina d'oro intorno alla caviglia, uno dei tanti dettagh che trovava sexy in lei. «Ha perso il controllo, Alan. E andata oltre la legittima difesa e l'uso ragionevole della forza. C'è anche un altro elemento.» «Quale sarebbe?» «Ho parlato con i paramedici e con gli inservienti dell'ambulanza che sono arrivati per primi sul luogo del delitto. Non avevano idea di che cosa fosse capitato, naturalmente, ma non ci hanno messo molto a intuire che era qualcosa di davvero orribile e fuori del comune.» «E allora?» «Uno di loro ha affermato di essersi avvicinato a Janet Taylor, che stava cullando l'agente Morrisey, e di averla sentita chiedere, guardando Payne: "E morto? Ho ammazzato quel bastardo?".» «Potrebbe significare qualsiasi cosa.» «È quello che penso anch'io. Nelle mani di un buon avvocato, potrebbe significare che ha avuto intenzione di ucciderlo fin dall'inizio e che voleva
accertarsi di aver raggiunto il suo obiettivo. Potrebbe significare dolo.» «Potrebbe anche essere solo una domanda innocente.» «Sappiamo entrambi che non c'è nulla di innocente in questa faccenda. Soprattutto dopo lo scalpore suscitato dal caso Hadleigh. E non dimenticare che Payne era disarmato e steso sul pavimento quando lei gli ha sferrato le ultime bastonate.» «Come facciamo a saperlo?» «L'agente Taylor ha dichiarato di avergli fratturato il polso e di aver buttato il machete nell'angolo in cui è stato ritrovato in seguito. Le angolazioni dei colpi e la forza con cui sono stati inferti indicano inoltre che aveva il vantaggio dell'altezza, vantaggio che - è assodato - non aveva di natura. Payne è alto un metro e ottantacinque, Janet Taylor solo un metro e sessantasette.» Dando un lungo tiro alla sigaretta, Banks assimilò le parole di Annie pensando che non sarebbe stato affatto divertente riferirle al comandante di distretto Hartnell. «Payne non rappresentava una minaccia immediata, allora?» osservò. «Non per come la vedo io.» Annie si agitò un poco sulla sedia. «La reazione di Janet è comprensibile» ammise. «Non sto dicendo che un fatto del genere non farebbe uscire di testa anche lo sbirro meglio addestrato. Ma, se devo essere sincera, ho la sensazione che l'agente Taylor abbia perso il controllo. Vorrei dare comunque un'occhiata alla scena del crimine.» «Certo. Anche se dubito che sia rimasto granché da vedere dopo che gli uomini della scientifica hanno lavorato là dentro per tre giorni.» «Tuttavia...» «Capisco» disse Banks. E capiva davvero. Visitare il luogo del delitto aveva un che di rituale. Non importava che assorbissi le vibrazioni dalle pareti o cose simili. Quel che importava era il contatto più stretto con il crimine. Eri stato lì, nel posto dove il male era entrato in azione. «Quando ci vuoi andare?» «Domani mattina. Poi passerò da Janet Taylor.» «Darò disposizioni agli agenti di turno» promise Banks. «Posso accompagnarti, se vuoi. Devo parlare di nuovo con Lucy Payne prima che sparisca.» «Stanno per dimetterla?» «È quel che ho sentito dire. Le lesioni non sono poi così gravi. Inoltre, hanno bisogno del letto.» Annie tacque, poi riprese: «Preferirei sbrigarmela da sola».
«Okay. Come vuoi.» «Oh, non avere quell'aria abbattuta, Alan. Non è niente di personale. Solo che non farebbe una buona impressione. E ci vedrebbero insieme, checché tu ne dica...» «Hai ragione» ammise il commissario. «Ascolta, se sei libera sabato sera, che cosa ne dici di andare a cena e...?» Gli angoli della bocca di Annie si piegarono all'insù, e una scintilla si accese nei suoi occhi scuri. «Andare a cena e che cosa?» «Lo sai.» «No, non lo so. Dimmelo tu.» Banks si chinò in avanti guardandosi intorno per accertarsi che nessuno stesse origliando. Ma prima che potesse parlare, le porte si aprirono ed entrò l'agente investigativo Winsome Jackman. Molte teste si voltarono: alcune perché era nera, e alcune perché era una giovane splendida e statuaria. Winsome era di servizio, e Banks e Annie le avevano comunicato dove avrebbe potuto rintracciarli. «Mi spiace disturbarla, signore» esordì avvicinando una sedia e accomodandosi. «Non c'è nessun problema» replicò Banks. «Di che cosa si tratta?» «Ha appena telefonato una certa agente investigativa Karen Hodgkins della task force.» «E allora?» Winsome guardò Annie. «Riguarda Terence Payne» annunciò. «È morto un'ora fa all'ospedale senza riprendere conoscenza.» «Oh, merda» commentò Annie. «Be', ne vedremo delle belle» osservò Banks prendendo un'altra sigaretta. «Raccontami dei Sette di Alderthorpe» disse Banks quella sera parlando al telefono di casa. Quando Jenny l'aveva chiamato, si era appena messo ad ascoltare Black, Brown and Beige di Duke Ellington, leggendo l'ultimo numero di «Gramophone» e sorseggiando due dita di Laphroaig. Abbassò il volume e allungò la mano verso le sigarette. «Ecco» proseguì «credo di averne sentito parlare all'epoca, ma non ricordo molti dettagli.» «Per ora, non ne ho molti nemmeno io» replicò Jenny. «Solo quello che mi hanno riferito i Liversedge.» «Continua.» Banks udì un frusciare di carta all'altro capo del filo. «All'alba dell'11
febbraio 1990» cominciò Jenny «la polizia e i servizi sociali hanno fatto una retata nel villaggio di Alderthorpe, vicino a Spurn Head, sulla costa dell'East Yorkshire. Sospettavano l'esecuzione di cerimoniali satanici su minori e indagavano sulla scomparsa di una bambina.» «Chi aveva fatto la soffiata?» domandò Banks. «Non lo so» rispose Jenny. «Non gliel'ho chiesto.» Banks accantonò la questione per dopo. «Okay. Vai avanti.» «Non sono un poliziotto, Alan. Non so che tipo di domande porre.» «Sono certo che te la sei cavata a meraviglia. Continua, per favore.» «Hanno dato in affidamento sei bambini di due famiglie diverse.» «Che cosa pensavano fosse successo con esattezza?» «All'inizio era tutto molto vago. Comportamento lascivo e libidinoso. Danze, musica e costumi rituali.» «Sembra una centrale di polizia il sabato sera. Nient'altro?» «Be', è qui che la faccenda si fa interessante. E disgustosa. Pare che questo sia stato uno dei pochi casi analoghi in cui i procedimenti giudiziari sono andati avanti e si sono ottenute delle condanne. I Liversedge mi hanno detto solo che si mormorava di torture, di bambini costretti a bere urina e a mangiare... Cristo, non sono schizzinosa, Alan, ma questa roba mi rivolta lo stomaco.» «D'accordo. Rilassati.» «Venivano umiliati» riprese Jenny. «A volte maltrattati fisicamente, tenuti in gabbie senza cibo per giorni, usati come oggetti di gratificazione sessuale in rituali satanici. Una bambina di nome Kathleen Murray è stata trovata morta. I suoi resti presentavano segni di sevizie e violenza carnale.» «Com'è morta?» «L'hanno strangolata. L'avevano anche picchiata e quasi lasciata morire di fame. Ecco che cosa ha indotto l'informatore a fare la soffiata: non si era presentata a scuola.» «Le accuse sono state dimostrate in tribunale?» «In gran parte sì. L'omicidio. L'aspetto satanico non è venuto fuori durante il processo. Il Dipartimento della pubblica accusa avrà pensato che sarebbe sembrato troppo inverosimile.» «Com'è emerso?» «Alcuni bambini hanno fornito delle descrizioni più tardi, dopo essere stati dati in affidamento.» «Lucy?»
«No. Secondo i Liversedge, Lucy non ha mai parlato di quanto era successo. Si è limitata a buttarsi tutto alle spalle.» «C'è stato qualche caso simile?» «No. Ci sono state delazioni e retate analoghe a Cleveland, Rochdale e nelle Orcadi, e ben presto è finito tutto sui giornali. È scoppiato un grosso scandalo nazionale. Quasi un'epidemia di abusi sui minori. Assistenti sociali troppo solerti. Discussioni alla Camera e compagnia bella.» «Ricordo» disse Banks. «La maggior parte dei casi è stata archiviata, e nessuno voleva parlare dell'unico che era vero. Be', Alderthorpe non è stato l'unico. Se ne era verificato uno analogo a Nottingham nel 1989, anch'esso sfociato in una serie di condanne, ma non è stato molto pubblicizzato. Poi sono seguiti il rapporto Butler-Schloss e le revisioni della legge sui minori.» «Che fine hanno fatto i veri genitori di Lucy?» «Sono finiti in carcere. I Liversedge non sanno se siano ancora dentro. Non si sono tenuti al corrente.» Sorseggiando il Laphroaig, Banks lanciò il mozzicone nel caminetto vuoto. «Così Lucy è rimasta dai Liversedge?» «Sì. Tra l'altro, ha anche cambiato nome. Si chiamava Linda. Linda Godwin. Poi, dopo tutto quello che era successo, ha deciso di cambiarlo. I Liversedge mi hanno assicurato che è tutto in regola.» Da Linda Godwin a Lucy Liversedge a Lucy Payne, pensò Banks. Interessante. «A ogni modo» proseguì Jenny «dopo che mi hanno raccontato tutto questo, ho insistito un po' e, se non altro, li ho persuasi a riconoscere che la vita con Lucy non era affatto "normale" come avevano detto all'inizio.» «Ma davvero?» «Problemi di adattamento, che sorpresa, eh? Durante il primo biennio con loro, tra i dodici e i quattordici anni, Lucy era docile come un agnellino, una bambina passiva, tranquilla, rispettosa e sensibile. Temevano che fosse traumatizzata.» «Davvero?» «È stata in cura per un periodo da uno psichiatra infantile.» «E poi?» «Tra i quattordici e i sedici anni ha cominciato a fare i capricci, è uscita dal guscio. Ha smesso di andare dallo psichiatra. Ha avuto dei ragazzi, i genitori sospettavano che fosse sessualmente attiva, e dopo ci sono state le minacce.»
«Le minacce?» «Sì. All'inizio mi hanno detto che era stato un episodio isolato e che era finito in nulla, ma poi hanno ammesso che aveva causato qualche problema con la scuola. Lucy costringeva le bambine più piccole a consegnarle i soldi del pranzo e roba del genere. È abbastanza frequente.» «Ma nel caso di Lucy?» «Una fase. I Liversedge hanno collaborato con le autorità scolastiche, e lo psichiatra è rientrato in scena per un breve periodo. Nel biennio successivo, tra i sedici e i diciotto anni, si è calmata, si è chiusa di più in se stessa, è diventata meno attiva sul piano sociale e sessuale. Ha superato brillantemente l'esame di diploma e ha trovato lavoro presso la NatWest di Leeds. È stato quattro anni fa. Sembrava quasi che avesse progettato la fuga. Ha avuto pochissimi contatti con i Liversedge dopo essersene andata, e ho l'impressione che per loro sia stato un sollievo.» «Perché?» «Non lo so. Chiamalo sesto senso, ma credo che siano arrivati al punto di avere paura di Lucy, per il modo in cui riusciva a manipolarli. Come ho detto, è solo una vaga sensazione.» «Interessante. Continua.» «L'hanno vista ancor meno dopo che si è legata a Terence Payne. In un primo momento, ho pensato che fosse stato lui a isolarla dalla famiglia e dagli amici, sai, come fanno molti aguzzini, ma ora sembra altrettanto probabile che sia stata lei a isolarsi. Pat Mitchell, la collega di Lucy, ha detto la stessa cosa. Quando ha conosciuto Terry, Lucy ha subito un cambiamento radicale, ha tagliato quasi del tutto con la sua vecchia vita, con le sue vecchie abitudini.» «O era succube di lui o aveva trovato una vita che le piaceva di più, quindi?» «Sì.» Jenny gli raccontò l'episodio della prostituzione. Banks rifletté per un attimo. «È singolare» commentò. «Davvero singolare. Ma non dimostra niente.» «Ti avevo detto che probabilmente sarebbe andata così. Lucy è una tipa stramba, ma essere strambi non è un motivo per venire arrestati, altrimenti metà della popolazione sarebbe dietro le sbarre.» «Più della metà. Ma, aspetta un attimo, Jenny. Hai scovato qualche pista che vale la pena di seguire.» «Per esempio?» «Per esempio, Lucy potrebbe essere coinvolta negli abusi di Alderthor-
pe. All'epoca ho letto di casi in cui le vittime più grandi avevano seviziato i fratelli minori.» «Ma che cosa otterremmo anche se riuscissimo a provarlo dopo tutto questo tempo?» «Non lo so, Jenny. Sto solo pensando ad alta voce. Qual è la tua prossima mossa?» «Domani mi rivolgerò ai servizi sociali per cercare di scoprire i nomi degli assistenti intervenuti.» «Bene. Io farò qualche ricerca appena avrò un minuto libero. Dovrà pur esserci qualche dossier, qualche documento. E poi?» «Voglio andare a Alderthorpe, curiosare un po', parlare con qualcuno che ricordi i fatti.» «Stai attenta, Jenny. Laggiù la ferita deve essere ancora aperta, nonostante tutto il tempo che è passato.» «Starò attenta.» «E non dimenticare che qualcuno potrebbe essere sfuggito alla giustizia e temere nuove rivelazioni.» «Questo mi fa sentire davvero al sicuro.» «Gli altri bambini...» «Sì?» «Che cosa puoi dirmi di loro?» «Niente, a dire il vero, a parte che avevano un'età compresa tra gli otto e i dodici anni.» «Qualche idea su dove siano?» «No. I Liversedge non lo sanno. E questa è una domanda che gli ho fatto.» «Non stare sulla difensiva. Ti nomineremo investigatore.» «No, grazie.» «Sarebbe utile riuscire a rintracciarli, giusto? Dovrebbero conoscere Lucy Payne meglio di chiunque altro.» «Okay. Vedrò quanto sono disposti a sbottonarsi gli assistenti sociali.» «Non molto, scommetto. Avrai più possibilità se qualcuno di loro è andato in pensione o ha cambiato attività. In quel caso, vuotare il sacco non sarebbe un tradimento vero e proprio.» «Ehi, dovrei essere io la psicologa. Lascia a me questo genere di ragionamenti.» Banks rise. «A volte il lavoro investigativo sconfina nella psicologia, vero?»
«Prova a dirlo a qualcuno dei tuoi stupidi colleghi.» «Grazie, Jenny. Sei stata grande.» «E sono soltanto all'inizio.» «Fatti sentire.» «Promesso.» Quando Banks riagganciò, Mahalia Jackson stava cantando Come Sunday. Dopo aver alzato il volume, il commissario portò il bicchiere sul suo balconcino affacciato sopra le cascate di Gratly. La pioggia era cessata, ma il rovescio era stato abbastanza forte da amplificare lo scroscio delle cascate. Essendo appena passato il tramonto, intensi viola, vermigli e arancioni si smorzavano nel cielo occidentale venato da fosche strie di nuvole, mentre a est l'orizzonte sempre più buio passava dall'azzurro al blu inchiostro. Davanti alle cascate vi era un pascolo punteggiato di pecore. Vi si ergeva un grappolo di enormi alberi antichi dove nidificavano le cornacchie che spesso lo svegliavano la mattina presto con i loro chiassosi bisticci. Sembravano uccelli così scorbutici. Oltre il prato, il versante della valle declinava verso il fiume Swain e, un paio di chilometri più in là, si intravedeva il fianco della collina prospiciente, che si faceva via via più scuro nella sera innalzandosi verso la lunga e ghignante bocca da scheletro di Crow Scar. Nella luce sempre più fioca, i disegni runici dei muri a secco parevano sbalzati a rilievo. Poco più a destra, si distingueva il campanile della chiesa di Helmthorpe che spuntava dal fondo della vallata. Banks guardò l'orologio. Ancora troppo presto per scendere laggiù e bere una o due pinte al Dog and Gun, magari scambiando quattro parole con qualcuno dei residenti con cui aveva fatto amicizia da quando si era trasferito. Decise però che non aveva voglia di compagnia; aveva troppe cose per la mente, tra la morte di Terry Payne, il mistero di Leanne Wray e le rivelazioni che Jenny Fuller gli aveva appena fatto riguardo al passato di Lucy. Si rese conto che, da quando aveva assunto il comando dell'indagine Camaleonte, era diventato un tipo sempre più solitario, sempre meno incline alle chiacchiere da bar. Dipendeva in parte dal peso della responsabilità, pensò, ma c'era anche qualcos'altro; la vicinanza a tanta malvagità, forse, che l'aveva contaminato facendo apparire le chiacchiere una reazione del tutto fuori luogo. La notizia della gravidanza di Sandra gli ronzava ancora in testa, riportando a galla ricordi che aveva sperato di cancellare. Sapeva che non sarebbe stato di compagnia, ma non sarebbe nemmeno riuscito ad addormentarsi così presto. Rientrò con passo rapido e si versò dell'altro whisky,
quindi prese le sigarette e tornò fuori per appoggiarsi al muro umido e godersi l'ultima luce della sera. Un chiurlo fischiò sulla brughiera distante, e Mahalia Jackson continuò a canticchiare la melodia per un bel po' anche dopo aver esaurito le parole. Capitolo 10 Quel venerdì mattina iniziò male per Maggie. Aveva trascorso una notte disturbata da incubi vaghi e spaventosi che si dileguavano tra le ombre appena si svegliava urlando e cercando di afferrarli. Riaddormentarsi era stato difficile non solo per via dei brutti sogni, ma anche per via delle voci e dei rumori inquietanti che arrivavano dall'altra parte della strada. La polizia non dormiva mai? A un certo punto, alzandosi per andare a prendere un bicchiere d'acqua, aveva guardato fuori della finestra della camera e aveva visto alcuni agenti in uniforme caricare scatoloni su un furgone che attendeva con il motore acceso. Poi alcuni tìzi erano entrati nella villetta con quelle che sembravano apparecchiature elettroniche, e poco dopo Maggie aveva creduto di scorgere una luce spettrale dietro le tende tirate del salotto al numero 35. Gli scavi continuavano nel giardino anteriore, che era circondato da una protezione di tela e illuminato dall'interno, cosicché si intravedevano soltanto sagome ingrandite e deformate. Queste figure si erano insinuate nel suo incubo successivo, e alla fine non aveva più capito se fosse sveglia o dormisse. Si alzò poco dopo le sette e si diresse verso la cucina, dove una tazza di tè la aiutò a calmare i nervi logori. Era un'abitudine inglese cui si era adeguata con facilità. Programmava di trascorrere la giornata lavorando ancora ai Grimm - magari a Hänsel e Gretel, ora che aveva schizzi soddisfacenti per Raperonzolo - e cercando di dimenticare la faccenda del numero 35 almeno per qualche ora. Appena udì il fattorino che faceva scivolare il quotidiano sulla stuoia dell'ingresso attraverso la fessura per le lettere, corse fuori e portò il giornale in cucina, dove lo allargò sul tavolo. L'articolo di Lorraine Temple spiccava in prima pagina accanto a un titolo più grande, con la notizia che Terence Payne era morto senza riprendere conoscenza. Vi era persino una fotografia di Maggie, scattata a sua insaputa mentre usciva dal cancello. Dovevano avergliela fatta quando era andata al pub per parlare con Lorraine, concluse, perché portava gli stessi
jeans e la stessa giacca di cotone leggero che aveva indossato martedì. Il pezzo, intitolato LA CASA DEI VIZI E DELLE SEVIZIE: LE RIVELAZIONI DI UNA VICINA, narrava con dovizia di particolari come Maggie avesse udito dei rumori sospetti provenire dall'altra parte della Collina e avesse chiamato la polizia. Più avanti, definendo Maggie un'«amica» di Lucy, Lorraine Temple annunciava che quest'ultima era vittima di abusi domestici e che era terrorizzata da Terry. Fin qui tutto bene. Ma poi arrivava il colpo gobbo. Secondo alcune fonti canadesi, proseguiva la reporter, anche Maggie Forrest era fuggita da un marito violento: William Burke, un avvocato di Toronto. Il servizio specificava il tempo che aveva trascorso in ospedale e il numero delle diffide che il tribunale aveva emesso invano per impedire a Bill di avvicinarla. Maggie era una donna nervosa e impacciata, aggiungeva la giornalista, ed era in cura presso una psichiatra locale di nome dottoressa Simms, che «si è astenuta da ogni commento». Forse a causa dei suoi problemi psicologici, concludeva Lorraine, Maggie si era lasciata suggestionare e si era identificata tanto nella situazione di Lucy da non riuscire più a distinguere la verità. La reporter non aveva potuto muovere delle accuse contro Lucy (le leggi contro la diffamazione lo vietavano), ma era riuscita molto bene a dipingerla come una persona ingannevole e manipolatrice, capace di mettersi in tasca una donna debole come Maggie. Era spazzatura, naturalmente, ma spazzatura efficace. Come aveva potuto arrivare a tanto? Ora tutti l'avrebbero saputo. Ogni volta che Maggie avesse percorso la Collina per andare a fare la spesa o a prendere l'autobus diretto in città, vicini e negozianti l'avrebbero guardata in modo diverso, con commiserazione e magari con una lievissima traccia di biasimo negli occhi. Alcuni avrebbero evitato di guardarla in faccia e forse avrebbero addirittura smesso di rivolgerle la parola, scorgendo un legame troppo stretto fra lei e i fatti del numero 35. Persino gli estranei che l'avessero riconosciuta dalla fotografia si sarebbero chiesti il perché del suo comportamento. Magari Claire non sarebbe più venuta a trovarla, anche se non passava da quando si era presentato il poliziotto e Maggie era già in pensiero per lei. Forse l'avrebbe scoperto anche Bill. Era tutta colpa sua, naturalmente. Si era messa nei guai da sola. Aveva cercato di fare un favore alla povera Lucy tentando di conquistarle un po' di solidarietà pubblica, e l'intera faccenda le si era ritorta contro. Come era stata stupida a fidarsi di Lorraine Temple. Un solo pidocchioso articolo
come questo, e tutto il suo nuovo e fragile mondo protetto sarebbe andato a catafascio. Proprio così. Non era giusto, disse Maggie a se stessa mentre piangeva sopra la colazione. Non era giusto, punto e basta. Dopo una breve ma discreta notte di sonno (dovuta forse alle generose dosi di Laphroaig e Duke Ellington), Banks era di nuovo nel suo bugigattolo a Millgarth già alle otto e mezzo del venerdì mattina, e il primo messaggio ad attraversare la sua scrivania fu un biglietto di Stefan Nowak, secondo cui i resti di scheletro rinvenuti nel giardino dei Payne non erano di Leanne Wray. Se avesse avuto anche solo una debolissima speranza che Leanne fosse ancora viva e vegeta dopo tutto quel tempo, il commissario avrebbe fatto i salti di gioia, invece si massaggiò la fronte per la frustrazione; si prospettava un'altra giornataccia. Compose con foga il numero del cellulare di Stefan e ottenne una risposta dopo tre squilli. Pareva che Nowak fosse impegnato in un'altra conversazione, ma borbottò qualche frase e rivolse la sua attenzione a Banks. «Scusami» disse. «Problemi?» «Il solito caos dell'ora di colazione. Sto solo cercando di uscire di casa.» «So che cosa vuoi dire. Ascolta, a proposito di questa identificazione...» «È affidabile, signore. Radiografie dentali. Per il DNA ci vorrà un po' più di tempo. È escluso che sia Leanne Wray. Sto proprio per tornare alla villetta. I ragazzi stanno ancora scavando.» «Chi diavolo può essere?» «Non lo so. Finora ho scoperto soltanto che è una giovane donna, tra i diciotto e i ventidue anni, sepolta lì da qualche mese, e che c'è parecchio acciaio inossidabile nelle sue otturazioni, compresa una capsula.» «Il che significa?» domandò Banks, un vago ricordo che gli affiorava alla mente. «Possibile origine europea orientale. Usano ancora molto acciaio inossidabile laggiù.» Giusto. Banks l'aveva già sentito dire. Una volta, un odontoiatra legale gli aveva spiegato che i russi usavano l'acciaio inossidabile. «Europea orientale?» «È solo un'ipotesi, signore.» «Va bene. Qualche possibilità che il confronto del DNA tra Payne e lo Stupratore di Seacroft sia pronto prima del fine settimana?» «Li contatterò questa mattina per vedere se riesco a farli muovere.»
«Okay. Grazie. Dacci sotto, Stefan.» «Contaci.» Banks riagganciò, più perplesso che mai. Una delle prime iniziative che il comandante di distretto Hartnell aveva preso quando aveva messo insieme la task force era stata la creazione di una squadra speciale incaricata di controllare tutti i casi di persone scomparse del paese, soprattutto se riguardavano adolescenti bionde, senza motivi evidenti per scappare, sparite mentre tornavano a casa da pub, balli, circoli e cinema. Il gruppo aveva monitorato decine di casi al giorno, ma nessuno corrispondeva ai criteri dell'indagine Camaleonte, a parte una ragazza del Cheshire che era ricomparsa viva e pentita a distanza di quarantott'ore dopo una breve convivenza con il fidanzato - e dopo aver scordato di informarne i genitori - e la triste vicenda di una ragazza di Lincoln che era stata investita e non aveva con sé documenti di identificazione. E adesso Stefan sosteneva che probabilmente c'era una giovane dell'Europa orientale morta in giardino. Banks non andò molto lontano con il suo ragionamento prima che la porta dell'ufficio si aprisse e l'agente investigativo Filey lasciasse cadere una copia del «Post» di quel mattino sulla sua scrivania. Annie parcheggiò l'Astra viola in fondo alla via e si diresse verso il numero 35 della Collina schermandosi gli occhi dal sole mattutino. Il nastro e le transenne delimitavano la zona di marciapiede davanti al muretto, cosicché i pedoni dovevano fare una deviazione sul macadam per passare. Uno o due curiosi si fermarono per lanciare un'occhiata oltre il cancello, notò l'ispettore, ma la maggior parte attraversava la strada e distoglieva lo sguardo. Vide una signora anziana che si faceva addirittura il segno della croce. Dopo aver mostrato il distintivo all'agente di guardia e aver firmato il registro di servizio, si incamminò lungo il vialetto. Non aveva paura degli eventuali particolari raccapriccianti che potevano essere rimasti all'interno della villetta, ma non aveva mai visto una scena del crimine così brulicante di uomini della scientifica, e il solo entrarvi la innervosì. I poliziotti nel giardino anteriore la ignorarono, continuando a scavare. La porta era socchiusa e, quando Annie la spinse piano, si aprì sull'anticamera. L'ingresso era deserto, e il silenzio era tale che credette di essere sola. Poi qualcuno urlò, e il baccano di un martello pneumatico lacerò l'aria salendo dalla cantina e mandando in frantumi la sua illusione. La casa era calda, soffocante e piena di polvere, e Annie starnutì tre volte prima di
proseguire. L'agitazione cedette pian piano il passo alla curiosità professionale, e la donna notò con interesse che la moquette era stata tolta, lasciando solo scale e pavimenti spogli, e che anche il salotto era vuoto, sgomberato dai mobili e persino dalle lampade. Nelle pareti erano stati aperti diversi fori, senza dubbio per assicurarsi che non vi fossero cadaveri tumulati là dentro. Annie rabbrividì leggermente. Il barilotto di Amontillado di Poe era uno dei racconti più spaventosi che avesse letto a scuola. Ovunque andasse, seguiva l'angusto percorso indicato dalle funi. Era un po' come visitare la canonica delle Brontë o il cottage di Wordsworth, dove potevi solo stare in piedi al di qua della corda ammirando gli arredi antichi dall'altra parte. La cucina, dove tre agenti della scientifica lavoravano al lavello e alle tubature, era nel medesimo stato pietoso: pensili vuoti, piastrelle divelte, forno e frigorifero spariti, polvere per impronte digitali sparsa dappertutto. Annie non avrebbe mai immaginato che si potessero provocare tanti danni a una costruzione in soli tre giorni. Uno degli uomini la guardò e le chiese in tono piuttosto seccato che cosa credesse di fare lì dentro. Quando gli mostrò il distintivo con orgoglio, tornò a demolire il lavandino. Il martello pneumatico tacque, e Annie udì il ronzio di un aspirapolvere provenire dal piano di sopra, un suono dall'innaturale sapore domestico nel caos del luogo del delitto, anche se l'ispettore sapeva che l'apparecchio aveva uno scopo molto più sinistro della semplice pulizia. Interpretò la quiete nello scantinato come un invito ad andare laggiù, notando, mentre scendeva, la porta aperta sul garage, che era stato svuotato come il resto della casa. L'auto era scomparsa - si trovava senz'altro nella rimessa della polizia, dove l'avrebbero smontata pezzo dopo pezzo -, e il pavimento macchiato d'olio era stato scavato. Avvicinandosi alla cantina, si sentì invadere dall'inquietudine, il respiro che si faceva affannoso. Sulla porta era attaccato un poster osceno con una donna nuda dalle gambe divaricate, e sperò che gli agenti della scientifica non ce l'avessero lasciato perché gli piaceva guardarlo. Doveva come minimo aver irritato Janet Taylor, pensò avanzando adagio, come ipotizzava avessero fatto Dennis e la recluta. Cristo, anche lei cominciava a mettersi in ansia pur sapendo che là dentro c'erano solo gli uomini della scientifica. Janet e Dennis non avevano goduto del beneficio di sapere che cosa aspettarsi, rammentò a se stessa, e non si erano certo aspettati quel che avevano trovato. Lei sapeva molto più di quanto avessero saputo loro, e senza dub-
bio la sua fantasia ci ricamava sopra. Varcò la soglia, avvertendo che laggiù faceva molto più fresco, cercando di immaginare come fossero andate le cose, nonostante la presenza di due agenti e l'illuminazione intensa... Janet era entrata per prima, Dennis subito dietro di lei. La cantina era più piccola di quanto avesse previsto. Doveva essere accaduto tutto molto in fretta. La luce delle candele. La figura che sbuca fuori dell'ombra, maneggiando un machete, conficcandolo nella gola e nella guancia di Dennis Morrisey, il più vicino. Dennis cade. Janet ha già estratto il manganello, esteso in tutta la sua lunghezza, pronta a parare la prima coltellata. È così vicina a Payne da sentirne l'alito. Forse Terry non riesce a credere che una donna, più bassa e debole di lui, riesca a metterlo al tappeto con tanta facilità. Prima che si riprenda dalla sorpresa, Janet gli si scaglia contro e lo colpisce alla tempia sinistra. Accecato dal dolore e forse dal sangue, Terry si accascia contro il muro. Avverte poi una fitta lancinante al polso e non riesce più a stringere il machete. Lo sente scivolare sul pavimento, ma non capisce dove. Si rialza e si avventa sulla poliziotta. Ormai furiosa perché il suo compagno sta morendo dissanguato a terra, Janet lo colpisce ancora e ancora, desiderando che sia tutto finito per potersi occupare di Dennis. Payne cerca l'arma a tentoni, il sangue che gli gocciola sul viso. Janet lo bastona di nuovo. E di nuovo. Quanta forza gli è rimasta a questo punto?, si domandò Annie. Di certo non abbastanza da sopraffare Janet. E quante volte ancora lei lo colpisce adesso che è K.O., ammanettato al tubo, del tutto immobile? Annie sospirò osservando gli uomini della scientifica che spostavano il martello pneumatico e si apprestavano a perforare un altro punto. «Avete intenzione di riaccendere quel coso?» chiese. Uno di loro sorrise. «Vuole una cuffia?» Annie ricambiò il sorriso. «No, preferirei uscire di qui prima che cominciate. Potete darmi un altro paio di minuti?» «Certo.» L'ispettore si guardò intorno scrutando le volgari figure stilizzate e i simboli occulti sulle pareti e domandandosi in che misura fossero stati parte integrante della fantasia di Payne. Banks le aveva anche riferito che la stanza era illuminata da decine di candele, ma ormai erano sparite tutte quante, come il materasso su cui avevano rinvenuto il corpo. Un tizio della scientifica era inginocchiato sul pavimento, impegnato a esaminare qualcosa accanto alla porta. «Che cos'è?» volle sapere Annie. «Trovato qualcosa?»
«Non lo so» rispose l'altro. «Dei segni sul cemento. Sono appena visibili, ma non sembrano disposti a casaccio.» Annie si inginocchiò a sua volta. Non vide nulla finché l'agente le indicò quelli che assomigliavano a cerchietti sul pavimento. Erano tre in tutto, quasi equidistanti. «Proverò a illuminarli da diverse angolazioni» annunciò l'uomo, quasi parlando tra sé. «Magari userò un po' di pellicola a infrarossi per evidenziare i contrasti.» «Potrebbe essere un treppiede» azzardò Annie. «Che cosa? Cazzo - scusa, dolcezza -, ma forse ha ragione. Luke Selkirk e la sua piccola e buffa assistente sono stati quaggiù. Forse sono stati loro a lasciare i segni.» «Saranno senz'altro stati più professionali, giusto?» «Sarà meglio chiederglielo, non crede?» Annie lo lasciò perdere e si diresse verso la stanza attigua. Il pavimento era stato suddiviso a griglia, e la terra scavata. L'ispettore sapeva che lì erano stati ritrovati tre corpi. Seguì il sentiero segnalato fino alla porta, la aprì e salì i gradini verso il giardino posteriore. Il nastro le sbarrò la strada in cima alla scala, ma non aveva bisogno di andare oltre. Come il locale adiacente alla cantina, il giardino incolto era stato suddiviso a griglia e delimitato da funi. I riquadri erano già stati liberati quasi tutti da erbacce e terriccio ma alcuni, più distanti, erano ancora intatti. Accanto al muretto più lontano, era arrotolato come un tappeto il grande lenzuolo impermeabile usato per proteggere il giardino dalla pioggia del giorno precedente. Era un lavoro delicato: Annie l'aveva imparato assistendo al recupero di uno scheletro nel villaggio di Hobb's End. Era fin troppo facile scompaginare le vecchie ossa. Scorse una buca profonda circa novanta centimetri, dove era stato portato alla luce un cadavere, e ora due uomini erano chini su un'altra buca, intenti a prelevare il terriccio con palette da giardiniere e a passarlo a un terzo uomo, che lo setacciava come se separasse la sabbia dall'oro. «Che cos'è?» domandò Annie in cima ai gradini. Uno degli agenti alzò lo sguardo verso di lei. Non aveva riconosciuto subito Stefan Nowak. Non lo conosceva bene perché era arrivato da poco alla centrale della Divisione occidentale di Eastvale, ma Banks glielo aveva presentato. Secondo Ron McLaughlin, il vicecapo della polizia di contea, Stefan era colui che avrebbe trascinato il North Yorkshire nel Ventunesimo secolo a forza di urla e calci. Annie l'aveva giudicato piuttosto tì-
mido, persino un po' misterioso, come se si portasse dietro un importante segreto o un grosso dolore. Anche se ostentava una certa allegria, la donna aveva intuito che era solo apparenza. Era alto più di un metro e ottanta e possedeva una bellezza linda ed elegante. Annie sapeva che aveva origini polacche e si era spesso domandata se fosse conte, principe o qualcosa del genere. Molti dei polacchi di sua conoscenza sostenevano di discendere da conti o principi di questa o quest'altra epoca, e vi era qualcosa di regale e solenne nel portamento di Stefan. «Annie, vero?» chiese Nowak. «Il sergente investigativo Annie Cabbot?» «Ispettore Annie Cabbot, ormai, Stefan. Come va?» «Non sapevo che ti avessero assegnato a questo caso.» «A una parte di questo caso» precisò Annie. «Terence Payne. Lavoro per la Sezione reclami e disciplina.» «Non credo che il Dipartimento della pubblica accusa si accanirà contro Janet Taylor» commentò Stefan. «Omicidio per legittima difesa, senza dubbio?» «Spero che siano di questa opinione, ma con loro non si può mai dire. A ogni modo, volevo solo dare un'occhiata a questo posto.» «Temo che abbiamo fatto un bel casino» si scusò Stefan. «Pare che abbiamo appena trovato un altro corpo. Vuoi vedere?» Annie scivolò sotto il nastro. «Sì.» «Fai attenzione» le raccomandò Stefan. «Segui il percorso indicato.» Annie obbedì, e ben presto si ritrovò accanto alla tomba parzialmente scavata. Si trattava di uno scheletro. Non sudicio e macchiato come quello di Hobb's End, ma pur sempre uno scheletro. Si intravedevano parte del cranio, una spalla e una porzione del braccio sinistro. «Da quanto tempo?» chiese la donna. «Difficile da stabilire» rispose Stefan. «Diversi mesi.» Le presentò gli altri due tìzi chini sulla tomba, un botanico e un entomologo. «Questi signori dovrebbero aiutarci a determinarlo. E abbiamo chiesto al dottor Ioan Williams dell'università di venire a darci una mano.» Annie aveva conosciuto il giovane medico dai capelli lunghi e dal pomo di Adamo sporgente ai tempi dell'inchiesta di Hobb's End e non aveva dimenticato lo sguardo lascivo che le aveva lanciato accarezzando l'osso pelvico di Gloria Shackleton. «So che non è il mio caso» osservò «ma non c'è un corpo di troppo?» Stefan alzò gli occhi verso di lei schermandoli dal sole. «Sì» riconobbe.
«Sì. E questo ci mette un bel bastone fra le ruote, vero?» «Puoi dirlo forte.» Annie tornò verso l'auto. Non avrebbe ottenuto altro gironzolando per la Collina. Inoltre, si accorse controllando l'orologio, doveva assistere a un'autopsia. «Che cosa diavolo credeva di ottenere parlando con la stampa?» chiese Banks. «Non l'avevo messa in guardia?» «Non sapevo che vivessimo in uno Stato di polizia» lo rimbeccò Maggie Forrest, le braccia conserte, gli occhi furibondi e pieni di lacrime. Erano in cucina, Banks che brandiva il «Post» e Maggie che lavava i piatti della colazione. Dopo aver letto l'articolo a Millgarth, il commissario era andato dritto alla Collina. «Mi risparmi queste stronzate adolescenziali sugli Stati di polizia. Chi pensa di essere, una studentessa che protesta contro una guerra lontana?» «Non ha il diritto di parlarmi con questo tono. Non ho fatto niente di male.» «Niente di male? Ha idea del vespaio che potrebbe aver sollevato?» «Non so che cosa voglia dire. Volevo solo raccontare la storia dal punto di vista di Lucy, ma quella tizia ha travisato tutto.» «È così ingenua da non averlo immaginato?» «C'è differenza tra essere ingenua ed essere altruista, ma probabilmente un cinico come lei non la capirebbe.» Banks si accorse che Maggie tremava di rabbia o di paura, e temette di aver esagerato nel dare libero sfogo alla collera. Sapeva che il marito l'aveva picchiata, che era un'anima ferita, quindi era probabilmente spaventata a morte da quest'uomo che alzava la voce nella sua cucina. Era stato insensibile, ma, maledizione, quella donna lo irritava. Sedette al tavolo cercando di calmarsi. «Maggie» disse piano. «Le chiedo scusa, ma potrebbe averci causato un sacco di problemi.» Maggie parve rilassarsi un poco. «Non vedo come.» «La solidarietà del pubblico è una cosa molto volubile, e stuzzicarla è come giocare con il fuoco. Può allungare la mano e divorarti da un momento all'altro.» «Ma come farà la gente a scoprire che cosa ha passato Lucy per colpa del marito? Lei si rifiuterà di parlarne, glielo posso assicurare.» «Nessuno di noi sa che cosa sia successo a casa di Lucy. Sta solo mettendo a repentaglio la possibilità che abbia un processo equo, se...»
«Processo? Processo per che cosa?» «Stavo per dire: "Se si arriverà a quel punto".» «Mi spiace, ma non sono d'accordo.» Maggie mise il bollitore elettrico sul fornello e sedette di fronte a Banks. «La gente deve sapere dei maltrattamenti domestici. Non è un argomento da passare sotto silenzio per nessun motivo. E tanto meno perché lo dice la polizia.» «Giusto. Ascolti, vedo che è prevenuta nei nostri confronti, ma...» «Prevenuta? Sì. Grazie a voi sono finita in ospedale.» «Ma deve capire che, la maggior parte delle volte, abbiamo le mani legate. Dobbiamo muoverci in base alle informazioni di cui disponiamo e alle prescrizioni della legge.» «Una ragione in più per raccontare la storia di Lucy. Dopo tutto, lei non è qui per aiutarla, vero?» «Sono qui per scoprire la verità.» «Be', è molto arrogante da parte sua.» «Adesso chi è il cinico?» «Sappiamo tutti che la polizia vuole soltanto condanne, che non è poi tanto interessata alla verità o alla giustizia.» «Le condanne sono utili, se tengono i cattivi lontani dalle strade. Troppo spesso non lo fanno. E la giustizia la lasciamo ai tribunali, però si sbaglia riguardo al resto. Non posso parlare per gli altri, ma io sono molto interessato alla verità. Lavoro giorno e notte a questo caso dall'inizio di aprile e, qualunque inchiesta mi affidino, voglio appurare che cosa sia accaduto, chi sia stato e perché. Non ci riesco sempre, ma si meraviglierebbe di quante cose vengo a scoprire. A volte mi caccio nei guai. E devo convivere con la consapevolezza di questo rischio, portarla nella mia esistenza, portarla a casa con me. Sono una palla di neve che rotola giù per la collina, solo che la neve candida è esaurita, e raccolgo strato dopo strato di ghiaia e terriccio affinché lei possa starsene tranquilla e beata e possa accusarmi di essere una specie di agente della Gestapo.» «Non è quello che volevo dire. E non mi sono sempre sentita tranquilla e beata.» «Si rende conto che quanto ha appena fatto potrebbe distorcere la verità, qualunque essa sia?» «Non sono stata io. È stata lei. Quella giornalista. Lorraine Temple.» Banks diede una pacca al tavolo, ma se ne pentì appena vide Maggie trasalire. «Sbagliato» ribatté. «Quella ha solo fatto il suo lavoro. Che le piaccia o no, è così. Il suo lavoro consiste nel vendere giornali. Sta guardando
le cose al contrario, Maggie. Pensa che i media siano qui per raccontare la verità e la polizia per mentire.» «Adesso mi sta confondendo.» Il bollitore fischiò, e la donna si alzò per preparare il tè. Quando fu pronto, gliene versò automaticamente una tazza senza prima offrirgliela. Il commissario la ringraziò. «Sto solo dicendo, Maggie, che potrebbe fare a Lucy più male che bene parlando con la stampa. Guardi che cosa è capitato questa volta. Ha ammesso lei stessa che hanno esposto i fatti in modo errato e che hanno quasi accusato Lucy di essere colpevole quanto il marito. Non sarà di grande aiuto alla sua amica, non crede?» «Ma gliel'ho detto. Ha travisato le mie parole.» «E io le sto dicendo che avrebbe dovuto prevederlo. Scritta così, la storia fa più scalpore.» «Allora dove dovrei andare a raccontare la verità? O a trovarla?» «Cristo, Maggie, se conoscessi la risposta a questa domanda, sarei...» Ma lo squillo del cellulare lo interruppe. Questa volta era l'agente di servizio all'ospedale. Lucy Payne era appena stata dimessa, e con lei c'era un legale. «Sa niente di questo avvocato?» chiese Banks a Maggie quando ebbe chiuso la comunicazione. La donna gli sorrise timidamente. «A dire il vero, ecco... sì.» Banks non replicò, temendo di non riuscire a essere civile. Senza nemmeno assaggiare il tè, salutò in tutta fretta Maggie Forrest e si precipitò verso l'auto. Non si fermò neppure a parlare con Annie Cabbot quando la vide uscire dal numero 35, facendole solo un rapido cenno della mano prima di saltare a bordo della Renault e allontanarsi tra il rombo del motore. Quando Banks entrò, Lucy Payne sedeva sul letto intenta a dipingersi di nero le unghie dei piedi. Appena lo vide, si abbassò la gonna sulle cosce con fare pudibondo. Non aveva più la testa bendata, e sembrava che le ecchimosi fossero in via di guarigione. Si era pettinata i lunghi capelli corvini in modo da coprire la zona che il medico aveva rasato per i punti. Nella stanza vi era un'altra donna, ferma accanto alla finestra: l'avvocato. Bassa, con i capelli color cioccolato corti quasi quanto quelli di Banks e gli occhi nocciola seri e vigili, indossava una giacca gessata color carbone, una gonna in tinta e una camicetta bianca con dei volant sul davanti. Portava calze scure e lucide décolleté di vernice nera.
Si avvicinò tendendogli la mano. «Julia Ford. Sono il legale di Lucy. Non credo di conoscerla.» «Molto piacere» disse Banks. «Questa non è la prima volta che parla con la mia assistita, vero, commissario?» «No» ammise Banks. «E l'ultima volta era accompagnato da una psicologa di nome dottoressa Fuller?» «La dottoressa Fuller è la psicologa consulente della task force Camaleonte» spiegò Banks. «Le consiglio di stare attento, commissario. Avrei ottimi motivi per sostenere che qualunque dettaglio la dottoressa Fuller abbia appreso dalla mia cliente è inammissibile come prova.» «Non stavamo raccogliendo prove» affermò Banks. «Lucy è stata interrogata come testimone e come vittima. Non come indiziata.» «Una tattica abile, commissario, qualora la situazione dovesse ribaltarsi. E adesso?» Banks lanciò un'occhiata a Lucy, che aveva ripreso a mettersi lo smalto, indifferente al battibecco. «Non sapevo pensasse che le servisse un legale, Lucy» osservò. La giovane alzò gli occhi. «È nel mio interesse. Mi dimetteranno questa mattina. Appena i documenti saranno pronti, potrò tornare a casa.» Banks guardò Julia Ford, esasperato. «Mi auguro che non abbia alimentato questa fantasia?» Julia sollevò le sopracciglia. «Non so di che cosa stia parlando.» Banks si rivolse di nuovo a Lucy. «Non può tornare a casa, Lucy» spiegò. «Gli esperti della scientifica la stanno demolendo mattone dopo mattone. Ha una vaga idea di quel che è successo là dentro?» «Certo che ce l'ho» rispose Lucy. «Terry mi ha picchiata. Mi ha stesa e fatta finire in ospedale.» «Ma ormai Terry è morto, giusto?» «Sì. E allora?» «Questo cambia le cose, vero?» «Ascolti» continuò Lucy. «Ho subito dei maltrattamenti e ho appena perso mio marito. Ora mi sta dicendo che ho perso anche la mia casa?» «Per il momento.» «Bene, che cosa dovrei fare? Dove dovrei andare?» «Perché non dai suoi genitori adottivi, Linda?»
Dal suo sguardo, Banks capì che aveva colto l'allusione. «Non mi sembra di avere molte alternative, no?» «A ogni modo, non dovrà preoccuparsi di questo problema ancora per un po'» proseguì Banks. «Abbiamo trovato tracce del sangue di Kimberley Myers sulle maniche della sua vestaglia, oltre ad alcune fibre gialle sotto le sue unghie. Prima di andare da qualche parte, dovrà fornire parecchie spiegazioni.» Lucy parve allarmata. «Che cosa vuol dire?» Julia Ford guardò Banks socchiudendo gli occhi. «Vuol dire, Lucy, che ha intenzione di portarla al commissariato per interrogarla.» «Può farlo?» «Ho paura di sì, Lucy.» «E può trattenermi lì?» «In conformità alle norme sulla detenzione, sì, se non è soddisfatto delle sue risposte. Per ventiquattr'ore. Ma esistono regole molto rigide. Non ha nulla da temere.» «Vuol dire che potrei restare in prigione per una giornata intera? In cella?» «Non si spaventi, Lucy» la rassicurò Julia facendosi avanti e sfiorandole il braccio. «Non le accadrà niente di brutto. Ormai quei giorni sono passati. Riceverà un'ottima assistenza.» «Ma andrò in prigione!» «Forse. Dipende.» «Ma non ho fatto niente!» Rivolse a Banks un'occhiata furiosa, gli occhi neri simili a tizzoni ardenti. «Io sono la vittima qui. Perché se la prende con me?» «Nessuno se la prende con lei, Lucy» la contraddisse Banks. «Ci sono molte domande in attesa di risposta, e pensiamo che lei possa aiutarci.» «Risponderò alle vostre domande. Non mi sto rifiutando di collaborare. Non è necessario che mi porti al commissariato. E poi, ho già risposto.» «Non del tutto. Ci sono molti altri particolari che dobbiamo appurare, e ci sono alcune formalità, alcune procedure da seguire. Comunque, è tutto diverso ora che Terry è morto, vero?» Lucy distolse lo sguardo. «Non so che cosa intenda.» «Adesso può parlare liberamente. Non deve più avere paura di lui.» «Oh, capisco.» «Che cosa credeva che intendessi, Lucy?» «Niente.»
«Che avrebbe potuto modificare la sua testimonianza? Ritrattare tutto e basta?» «Gliel'ho detto. Niente.» «Ma ora deve spiegare la presenza del sangue. E delle fibre gialle. Sappiamo che è stata in cantina. Possiamo dimostrarlo.» «Non ne so niente. Non ricordo.» «Molto comodo. Non le dispiace che Terry sia morto, Lucy?» La giovane ripose lo smalto nella borsetta. «Certo che sì. Ma mi pestava. È stato lui a farmi finire qui, è stato lui a cacciarmi in questo guaio con la polizia. Non è colpa mia. Nulla di tutto questo è colpa mia. Io non ho fatto niente di male. Perché devo essere io a soffrire?» Banks si alzò scuotendo la testa. «Forse faremmo meglio ad andare.» Lucy guardò Julia Ford. «Vengo con lei» annunciò l'avvocato. «Sarò presente durante l'interrogatorio e resterò nei paraggi in caso abbia bisogno di me.» Lucy abbozzò un sorriso. «Ma non starà in cella con me?» Julia ricambiò il sorriso, quindi guardò Banks. «Temo che non abbiano delle doppie, Lucy.» «Esatto» confermò Banks. «Le piacciono le ragazze, vero, Lucy?» «Non era necessario» osservò Julia Ford. «E le sarei grata se potesse evitare di porre altre domande finché saremo nella stanza degli interrogatori.» Lucy si limitò a scoccargli un'occhiataccia. «Comunque» riprese l'avvocato rivolgendosi di nuovo alla sua cliente «non siamo pessimiste. Può darsi che non si arrivi a tanto.» Si girò verso Banks. «Commissario, posso suggerire di passare da un'uscita discreta? Non può non aver notato la presenza dei media.» «Per loro questo è uno scoop» disse Banks. «Ma sì, è una buona idea. E ne ho anche un'altra.» «Quale sarebbe?» «Andiamo a Eastvale per l'interrogatorio. Come sappiamo bene tutti e due, Millgarth diventerà un manicomio appena la stampa scoprirà che Lucy si trova lì. In questo modo, riusciremo a evitare tutto quel caos, almeno per un po'.» Julia Ford rifletté per un istante, quindi guardò Lucy. «Non è un'idea malvagia» riconobbe. «Verrebbe con me a Eastvale? Ho paura.» «Certo.» Julia guardò Banks. «Sono sicura che il commissario mi saprà
consigliare un hotel passabile.» «Come avrà fatto a scoprire che sono in cura da lei?» chiese Maggie a Susan Simms all'inizio della seduta di quel pomeriggio. «Non ne ho idea. Ma può stare certa che io non l'ho detto a nessuno. E che non ho detto niente a quella giornalista.» «Lo so» replicò Maggie. «Grazie.» «Si figuri, mia cara. È una questione di etica professionale. Voleva dare il suo supporto a Lucy, vero?» Maggie sentì montare di nuovo la rabbia quando rammentò il litigio di quel mattino con Banks. Era ancora sconvolta. «Penso che Lucy sia stata vittima di maltrattamenti, sì.» La dottoressa Simms tacque per un po' sbirciando fuori della finestra, quindi si spostò sulla sedia e disse: «Stia attenta, Margaret. Stia attenta. Sembra molto sotto pressione. Allora, cominciamo? Se non erro, l'ultima volta abbiamo parlato della sua famiglia». Maggie ricordava. Era stato il loro quarto incontro, e il primo in cui avevano discusso della sua famiglia. Cosa che l'aveva sorpresa. Sin dall'inizio, si era aspettata domande freudiane sulla relazione con suo padre, sebbene la dottoressa Simms avesse precisato di non essere un'analista freudiana. Si trovavano in un piccolo studio affacciato su Park Square, un elegante e tranquillo frammento della Leeds settecentesca. Gli uccelli cinguettavano sugli alberi tra i boccioli rosa e bianchi, e gli studenti sedevano sull'erba a leggere o semplicemente a godersi di nuovo il sole dopo la pioggia del giorno prima. Pareva che l'afa si fosse in gran parte dissipata, e l'aria era tiepida e frizzante. La finestra era aperta, e Maggie sentiva il profumo dei fiori nella cassetta sul davanzale; non sapeva di che tipo, ma erano senz'altro fiori, rossi, viola e candidi. Intravedeva la sommità della cupola del municipio oltre gli alberi e le signorili facciate delle case sull'altro lato della piazza. La stanza assomigliava a un ambulatorio medico, pensò, o almeno a un ambulatorio medico vecchio stampo, con schedari, luci fluorescenti, diplomi alle pareti, una scrivania di legno massiccio e librerie traboccanti di volumi e riviste di psicologia. Niente divano; Maggie e la dottoressa Simms erano accomodate su poltrone, non una di fronte all'altra, bensì leggermente di sbieco, cosicché il contatto visivo fosse facile ma non obbligatorio, utile alla collaborazione anziché al confronto. La dottoressa Simms le era stata raccomandata da Ruth, e finora era stata una vera rive-
lazione. Sui cinquantacinque anni, di costituzione robusta - se non addirittura imponente - e dall'espressione austera, indossava sempre abiti fuori moda stile Laura Ashley, e la lacca le fissava i capelli grigio-azzurri in onde e spirali che sembravano affilate come rasoi. Contrariamente alle apparenze, aveva i modi più cortesi e comprensivi che Maggie potesse sperare, senza per questo essere tenera. Non era infatti per niente tenera; anzi, a volte era davvero pungente, soprattutto quando Maggie (che, chissà perché, la dottoressa Simms chiamava sempre Margaret) alzava le difese o iniziava a piagnucolare. «Non ci sono mai stati episodi di violenza a casa quando eravamo piccole. Mio padre era severo, ma non ha mai usato le botte o la cinghia per metterci in riga. Né con me né con mia sorella Fiona.» «Allora che cosa faceva per mettervi in riga?» «Oh, le solite cose. Ci proibiva di uscire, non ci dava la mancia, ci faceva la predica, roba del genere.» «Alzava la voce?» «No. Non l'ho mai sentito urlare con nessuno.» «Sua madre aveva un carattere violento?» «Santo cielo, no. Insomma, strillava e usciva dai gangheri se io o Fiona facevamo qualcosa che la irritava, come non riordinare le nostre stanze, ma era tutto finito e dimenticato in un batter d'occhio.» La dottoressa Simms posò il mento sopra il pugno chiuso. «Capisco. Torniamo a Bill, d'accordo?» «Come vuole.» «No, Margaret, non sono io che devo volerlo, ma lei.» Maggie si agitò sulla poltrona. «Sì, va bene.» «Durante l'ultima seduta mi ha raccontato di aver notato segni della sua aggressività prima del matrimonio. Può essere più precisa?» «Sì, ma non erano diretti verso di me.» «Verso chi erano diretti? Il mondo in generale, forse?» «No. Solo verso alcune persone. Persone che combinavano dei pasticci. Come fattorini e camerieri.» «Li malmenava?» «Sbraitava, andava su tutte le furie, perdeva le staffe. Li chiamava scemi, idioti. Intendevo dire che incanalava molta aggressività nel suo lavoro.» «Ah, sì. Fa l'avvocato, giusto?» «Sì. Per un grosso studio. E voleva diventare socio a tutti i costi.»
«È competitivo di natura?» «Molto. Era una stella dello sport alle superiori, e forse avrebbe finito per diventare un giocatore di football professionista se non si fosse rotto il ginocchio in una partita di campionato. Cammina ancora con una leggera zoppia, ma odia se qualcuno la nota o ne parla. Non gli impedisce di giocare nella squadra di softball dello studio. Ma non vedo che cosa c'entri.» La dottoressa Simms si chinò in avanti e abbassò la voce. «Margaret, voglio che capisca, che si renda conto, da dove vengono la rabbia e la violenza di suo marito. Non venivano da lei; venivano da lui. Non venivano nemmeno dalla sua famiglia. Venivano da quella di Bill. Solo quando lo comprenderà, quando si accorgerà che era soltanto un problema di suo marito, comincerà a convincersi che non è stata colpa sua e troverà la forza e il coraggio di andare avanti e condurre un'esistenza il più completa possibile, anziché continuare a vivere nell'ombra come fa ora.» «Ma me ne sono già resa conto» protestò Maggie. «Insomma, so che era la sua aggressività, non la mia.» «Però non lo sente.» Maggie era delusa; la psichiatra aveva ragione. «Davvero?» chiese. «Suppongo di no.» «Sa niente di poesia, Margaret?» «Non molto, no. Solo quello che abbiamo studiato a scuola, e all'accademia di belle arti avevo un ragazzo che mi scriveva dei versi. Schifezze terribili, in realtà. Voleva solo portarmi a letto.» La dottoressa Simms scoppiò in una risata. Un'altra sorpresa, perché quello che produsse fu un sonoro sghignazzo cavallino. «Samuel Taylor Coleridge scrisse una poesia intitolata Ode allo scoraggiamento. È in parte incentrata sulla sua incapacità di sentire, e una delle citazioni che mi sono rimaste impresse si trova nel punto in cui, dopo aver contemplato la luna, le stelle e le nuvole, l'autore conclude dicendo: "Io vedo, ma non sento, quanta bellezza tutto questo ha!". Penso che rispecchi la sua situazione, Margaret. E penso che lei lo sappia. La consapevolezza razionale di qualcosa tramite l'intelletto non ne garantisce l'assimilazione emotiva. E lei è una persona molto razionale, nonostante le sue evidenti inclinazioni creative. Se fossi junghiana, cosa che non sono, probabilmente la classificherei come tipo riflessivo e introverso. Ora continui a parlarmi del fidanzamento con Bill.» «Non c'è granché da dire.» Una porta si aprì e si richiuse nel corridoio. Due voci maschili si alzarono e si abbassarono. Poi restarono solo il canto
degli uccelli e i rumori del traffico lontano sull'Headrow e in Park Lane. «Credo che mi abbia fatto girare la testa» proseguì. «È stato circa sette anni fa, e io ero solo una giovane diplomata della scuola d'arte, senza carriera, ancora alle prime armi, che frequentava gli intellettualoidi nei bar e discuteva di filosofia nei pub e nei locali di Queen Street West, pensando che un giorno un ricco mecenate sarebbe comparso e avrebbe scoperto il mio genio. Avevo avuto qualche avventura all'accademia, avevo fatto sesso con qualche ragazzo, niente di speciale, e poi ecco qui quest'uomo alto, bello, bruno, intelligente e vestito con un completo Armani, che voleva portarmi a concerti e ristoranti costosi. Non sono stati i soldi. Niente affatto. Non sono stati nemmeno i ristoranti. Non mangiavo neanche molto all'epoca. È stato il suo charme, suppongo, la sua classe. Mi ha abbagliata.» «E si è rivelato il mecenate delle arti che aveva sognato?» Maggie abbassò lo sguardo sulle ginocchia consumate dei jeans. «Non proprio. Bill non è mai stato molto interessato all'arte. Oh, avevamo tutti gli abbonamenti indispensabili: opera, balletto, musica sinfonica. Ma in qualche modo io...» «In qualche modo lei che cosa?» «Non lo so. Forse sono ingiusta. Ma penso che lo facesse solo per gli affari. Per farsi vedere. Come quando accettava l'invito nel palco di un cliente allo Skydome. Insomma, era entusiasta di andare all'opera, per esempio, impiegava un'eternità per mettersi lo smoking e faceva un sacco di storie per il mio abbigliamento, poi bevevamo un drink al bar degli abbonati prima dello spettacolo e incontravamo colleghi e assistiti, tutti i pezzi grossi locali. Ma avevo l'impressione che la musica in sé lo annoiasse.» «È sorto qualche problema all'inizio della relazione?» Maggie si rigirò intorno al dito l'anello con zaffiro, l'anello della «libertà» che aveva acquistato dopo aver gettato la fede nel lago Ontario. «Be'» disse «è facile riconoscere i problemi in retrospettiva, vero? Affermare che te ne sei resa conto, o che avresti dovuto rendertene conto, dopo aver visto com'è andata a finire. All'epoca certi atteggiamenti potevano non sembrare strani, giusto?» «Faccia un tentativo.» Maggie continuò a giocherellare con l'anello. «Be', credo che il problema principale fosse la gelosia di Bill.» «Di che cosa era geloso?» «Di quasi tutto, direi. Era molto possessivo, non voleva che parlassi troppo a lungo con altri uomini alle feste, cose di questo genere. Ma era
geloso soprattutto dei miei amici.» «Gli artisti?» «Sì. Vede, non gli dedicava mai molto tempo, li considerava tutti un branco di perdenti, di fannulloni, e credeva di avermi in qualche modo "salvata" da loro.» Rise. «E i miei amici, d'altro canto, non volevano avere niente a che fare con esperti di diritto societario in completo Armarli.» «Ma lei ha continuato a frequentarli?» «Oh, sì. Qualche volta.» «E come ha reagito Bill?» «Li derideva in mia presenza, li snobbava, li criticava. Li chiamava decerebrati, sfaccendati e pseudointellettuali. Se ne incontravamo uno quando eravamo insieme, si limitava a restare lì fischiettando, alzando gli occhi al cielo, spostando il peso del corpo da un piede all'altro e lanciando occhiate al suo Rolex. Mi sembra di vederlo anche adesso.» «Lei li difendeva?» «Sì. Per un po'. Poi mi sono accorta che era fiato sprecato.» Maggie tacque per un istante, quindi continuò. «Non dimentichi che ero innamorata pazza di Bill. Mi portava alle prime dei film. Trascorrevamo i week-end a New York, alloggiando al Plaza, facendo passeggiate in carrozza a Central Park, partecipando a cocktail party pieni di amministratori delegati, agenti di cambio e chi più ne ha più ne metta. C'erano dei momenti romantici. Una volta siamo persino andati in aereo fino a Los Angeles per assistere alla prima di un film del cui copyright si erano occupati i legali dello studio. Abbiamo presenziato anche al ricevimento, e c'era Sean Connery. Riesce a crederci? Ho conosciuto Sean Connery!» «Come si trovava lei nell'alta società?» «Mi sono inserita abbastanza bene. Ero brava a confondermi tra loro: avvocati, imprenditori, uomini d'affari, alti papaveri di ogni tipo. Che ci creda o no, tanti sono molto più colti di quanto pensino gli intellettualoidi. Molti acquistavano collezioni d'arte aziendali. I miei amici ritenevano che chiunque indossasse un completo fosse noioso, conservatore e per giunta filisteo. Ma non si può sempre giudicare dalle apparenze. Ne ero convinta. Trovavo molto immaturo questo comportamento. Immagino che Bill mi considerasse uno stimolo positivo per la sua carriera, ma considerava i miei amici pesi morti che mi avrebbero trascinata giù con loro alla prima occasione. E forse avrebbero trascinato giù anche lui, se non fossimo stati attenti. E non mi sentivo affatto a disagio nel suo mondo quanto lui nel mio. Comunque, ho cominciato a persuadermi di aver solo recitato la parte
dell'artista "affamata".» «Che cosa intende?» «Be', mio padre è un architetto molto affermato, e abbiamo sempre frequentato le alte sfere. Quando io ero piccola, subito dopo essere emigrati dall'Inghilterra, abbiamo anche viaggiato un bel po' per il continente a causa del suo lavoro. Di tanto in tanto, durante le vacanze scolastiche, mi portava con sé. Quindi non provengo da un ambiente operaio né bohémien. Papà ama l'arte, ma è molto all'antica. E non eravamo poveri. Comunque, con il passare del tempo, suppongo di aver iniziato a essere d'accordo con Bill. Ha abbattuto le mie difese, come ha fatto sotto molti altri aspetti. Insomma, i miei amici sembravano solo passare da un assegno della previdenza sociale all'altro senza cercare di fare qualcosa, perché altrimenti avrebbero compromesso la loro preziosa arte. Nella nostra cerchia, il peccato più grande era vendersi.» «Cosa che lei ha fatto?» Maggie fissò per un attimo il paesaggio fuori della finestra. I fiori cadevano adagio dagli alberi. Provando un brivido improvviso, si strinse le braccia intorno al corpo. «Sì» rispose. «Credo di sì. Non mi importava più dei miei amici. Mi ero lasciata sedurre dall'onnipotente dollaro. E tutto per via di Bill. Durante un party dello studio legale ho conosciuto un piccolo editore che cercava un illustratore per un libro destinato ai bambini. Gli ho mostrato i miei disegni, e gli sono piaciuti. Ho ottenuto quel lavoro, poi un altro e così via.» «Come ha reagito Bill al suo successo?» «All'inizio era contento. Entusiasta. Orgoglioso che l'editore fosse rimasto colpito dai miei schizzi, orgoglioso quando è uscito il libro. Ne ha comprate copie per tutti i suoi nipotini e per i figli dei suoi clienti. Per il suo capo. Decine di copie. Ed era contento che tutto questo fosse capitato grazie a lui. Come non smetteva mai di ripetermi, non sarebbe mai accaduto se avessi deciso di restare con i miei amici fannulloni.» «Questo all'inizio. E poi?» Maggie si sentì rimpicciolire sulla poltrona, la voce che si faceva più flebile. «Le cose sono cambiate. Poi, dopo il matrimonio, penso che Bill abbia cominciato a essere invidioso del mio successo, perché non era ancora riuscito a diventare socio. Chiamava l'arte il mio "piccolo passatempo" e riteneva che dovessi abbandonarla e iniziare a fare figli.» «Ma lei aveva scelto di non avere bambini?» «No. È stata una scelta obbligata. Non potevo averne.» Maggie ebbe la
sensazione di scivolare giù nella tana del coniglio, proprio come Alice, l'oscurità che la avvolgeva. «Margaret! Margaret!» Udì la voce della dottoressa Simms come se fosse solo un'eco lontana. Con grande fatica, si sforzò di salire nella sua direzione, nella direzione della luce, ed ebbe l'impressione di uscire di colpo, ansimando, come se stesse per annegare. «Margaret, tutto bene?» «Sì... Sono... Io... Ma non ero io» disse, accorgendosi delle lacrime che le scendevano lungo le guance. «Non sono io a non poter avere bambini. E Bill a non poterne avere. È Bill. Dipende dalla sua conta spermatica.» La psichiatra le concesse un po' di tempo per asciugarsi gli occhi, calmarsi e ricomporsi. Una volta fatto, Maggie rise di se stessa. «Si masturbava sopra un contenitore Tupperware e lo portava ad analizzare. Sembrava in qualche modo così... be', Tupperware, ecco, sembrava tutto così Leave It to Beaver.» «Scusi?» «Una vecchia serie televisiva americana. La mamma a casa, il papà in ufficio. Torta di mele. Famiglie felici. Bambini perfetti.» «Capisco. Non avete pensato all'adozione?» Ora Maggie era tornata alla luce. Solo che era troppo intensa. «No» rispose. «A Bill non stava bene. Il figlio non sarebbe stato suo in quel caso, capisce. Non più di quanto lo sarebbe stato se avessi ricevuto lo sperma di qualcun altro con l'inseminazione artificiale.» «Avete discusso il da farsi?» «All'inizio sì. Ma non dopo aver scoperto che il problema fisico era suo, non mio. Da allora, mi picchiava appena mi azzardavo a nominare i bambini.» «Ed è stato più o meno in quel periodo che ha cominciato a essere invidioso del suo successo?» «Sì. Anche al punto di commettere piccoli atti di sabotaggio per impedirmi di rispettare le scadenze. Sa, buttare via colori e pennelli, riporre nel posto sbagliato un'illustrazione o un pacchetto per il corriere, cancellare accidentalmente immagini dal computer - dal mio computer -, dimenticarsi di riferirmi una telefonata importante, cose di questo genere.» «Quindi, all'epoca, Bill voleva dei figli ma ha scoperto di non poterne avere e voleva anche diventare socio dello studio legale ma non ci è riuscito?»
«Esatto. Ma non giustifica quello che ha fatto a me.» La dottoressa Simms sorrise. «Giusto, Margaret. Giustissimo. Ma è una miscela abbastanza esplosiva, non trova? Non voglio giustificarlo, ma riesce a immaginare lo stress cui deve essere stato sottoposto, il modo in cui la tensione può aver innescato la sua aggressività?» «Non me ne sono accorta subito. Come avrei potuto?» «No, sarebbe stato impossibile. Nessuno avrebbe potuto pretenderlo. È come ha detto lei. Il senno di poi. Lo sguardo retrospettivo.» Si appoggiò allo schienale, accavallò le gambe e guardò l'orologio. «Bene, penso che per oggi possa bastare, non crede?» Era arrivato il momento. «Ho una domanda da porle» si lasciò sfuggire Maggie. «Ma non riguarda me.» La dottoressa Simms sollevò le sopracciglia ricontrollando l'orologio. «Ci vorrà meno di un minuto. Mi creda.» «D'accordo» acconsentì l'altra. «Chieda pure.» «Be', si tratta di un'amica. Non di un'amica vera e propria, perché è troppo giovane, è soltanto una ragazzina, ma ogni tanto fa un salto da me... sa... quando rientra da scuola.» «Sì?» «Si chiama Claire, Claire Toth. Era amica di Kimberley Myers.» «So chi è Kimberley Myers. Ho letto i giornali. Vada avanti.» «Erano amiche. Compagne di classe. Conoscevano entrambe Terence Payne. Era il loro insegnante di biologia.» «Sì. Continui.» «Si sente in colpa, sa, per Kimberley. Quella sera sarebbero dovute tornare a casa insieme, ma un ragazzo ha invitato Claire a ballare. Un ragazzo che le piaceva e...» «E Kimberley è tornata a casa da sola? Andando incontro alla morte?» «Sì» disse Maggie. «Ha detto di avere una domanda da pormi.» «Non vedo Claire da quando me l'ha raccontato lunedì pomeriggio. Sono preoccupata. Dal punto di vista psicologico, intendo. Che effetti potrebbe avere un fatto simile su una persona come lei?» «Non conoscendo la ragazza in questione, non posso pronunciarmi» rispose la psichiatra. «Dipende dalle sue risorse interiori, dalla sua immagine di se stessa, dal sostegno della famiglia, da molti fattori. Mi pare inoltre che qui si presentino due problemi diversi.» «Quali?»
«Primo, gli stretti rapporti della ragazza con il criminale e con una vittima in particolare; secondo, il rimorso, il senso di colpa. Posso fare qualche considerazione generale sul primo, se vuole.» «Gliene sarei grata.» «Innanzi tutto, mi descriva il suo stato d'animo.» «Il mio?» «Sì.» «Io... io non lo so ancora. Paura, suppongo. Sfiducia. Era un mio vicino, dopo tutto. Non lo so. Non ci ho ancora riflettuto bene.» La dottoressa Simms annuì. «Con tutta probabilità, la sua amica prova gli stessi sentimenti. Soprattutto confusione, per ora. Solo che è più giovane di lei, e probabilmente dispone di minori difese. Sarà di sicuro più diffidente verso gli altri. In fin dei conti, quest'uomo era il suo insegnante, una figura di rispetto e autorità. Attraente, ben vestito, con una bella casa e una moglie giovane e carina. Non sembrava proprio il tipo di mostro che di solito la nostra mente associa a crimini come questo. E potrebbe sviluppare delle paranoie. Può darsi che non voglia più uscire da sola, per esempio, o che abbia l'impressione di essere spiata e pedinata. Oppure può darsi che i genitori non le permettano di uscire. Talvolta gli adulti prendono il controllo in queste situazioni, soprattutto se ritengono di aver trascurato il minore.» «Quindi può darsi che i genitori la tengano in casa? Che le proibiscano di venire a trovare me?» «È possibile.» «Cos'altro?» «Stando a quanto è emerso finora, sono stati commessi crimini sessuali che avranno sicuramente delle ripercussioni su una ragazzina dalla sessualità vulnerabile e in rapida crescita. È difficile prevedere con esattezza quali ripercussioni. Individui diversi ne risentono in modo diverso. Alcune adolescenti diventano più infantili e reprimono la loro sessualità, pensando che questo garantisca loro una sorta di protezione. Altre si indirizzano addirittura verso una maggiore promiscuità, perché essere brave ragazze non ha aiutato le vittime. Non so dirle in che direzione si muoverà Claire.» «Non è il tipo da indirizzarsi verso una maggiore promiscuità.» «Forse si chiuderà in se stessa e continuerà a rimuginare sull'accaduto. A mio parere, è fondamentale che non si tenga dentro questi sentimenti, che si sforzi di capire quanto è successo. So che non è facile, nemmeno per noi adulti, ma possiamo aiutarla.»
«Come?» «Accettando l'effetto che l'episodio ha avuto su di lei, ma anche spiegandole che è stata una specie di aberrazione, non il corso naturale delle cose. Le conseguenze saranno senza dubbio profonde e durature, ma dovrà imparare a convivere con la sua nuova visione del mondo.» «Che cosa intende?» «Ripetiamo di continuo che gli adolescenti si sentono immortali, ma l'immortalità che la sua amica credeva di possedere è stata distrutta dall'accaduto. È difficile rassegnarsi al fatto che quanto è capitato a una persona cara potrebbe succedere anche a noi. E l'orrore non è ancora venuto a galla del tutto.» «Che cosa posso fare?» «Forse niente» rispose la dottoressa Simms. «Non può costringerla a venire da lei, ma, se lo farà, la incoraggi a parlare, sia una buona ascoltatrice. Però non la forzi e non cerchi di dirle come dovrebbe sentirsi.» «È meglio che si rivolga a uno specialista?» «Probabilmente sì. Ma deve essere lei a decidere. O i suoi genitori.» «Ha qualcuno da consigliarmi? Sa, in caso fossero interessati.» La dottoressa Simms scrisse un nome su un foglietto. «È un'ottima psicologa» disse. «Ora, fuori di qui. Sto facendo aspettare il mio prossimo paziente.» Fissarono un altro appuntamento, e Maggie uscì in Park Square ripensando a Claire, a Kimberley e ai mostri umani. La assalì di nuovo quella sensazione di intorpidimento, la sensazione che il mondo fosse distante, ovattato, percepito attraverso filtri e specchi, visto dall'estremità sbagliata del telescopio. Si sentiva un'aliena con sembianze umane. Voleva tornare al luogo da cui era venuta, ma non sapeva più dove fosse. Una volta raggiunta City Square, oltrepassò la statua del Principe nero e delle ninfe con le loro fiaccole, quindi si appoggiò al muro vicino alla fermata dell'autobus in Boar Lane e si accese una sigaretta. Una signora anziana le rivolse un'occhiata curiosa. Come mai, si domandò Maggie alla fine dei colloqui con la dottoressa Simms si sentiva sempre peggio di quando era iniziato? Quando arrivò l'autobus, spense la sigaretta calpestandola e salì. Capitolo 11 Il viaggio da Millgarth a Eastvale filò abbastanza liscio. Dopo aver ordi-
nato un autista e un'auto civetta, Banks sgattaiolò fuori dell'ospedale da un'uscita secondaria con Julia Ford e Lucy Payne. Nessun reporter in vista. L'uomo sedette davanti accanto alla giovane agente investigativa che guidava, e le due donne presero posto dietro. Durante il tragitto, nessuno aprì bocca. Il commissario rimuginava sulla scoperta di un altro corpo nel giardino dei Payne, notizia che Stefan Nowak gli aveva appena comunicato al cellulare. C'era dunque un cadavere di troppo e, da quanto gli avevano riferito, Banks credeva che nemmeno questo appartenesse a Leanne Wray. Di tanto in tanto, intravedendo Lucy nello specchietto retrovisore, notava che la ragazza fissava per lo più il panorama fuori del finestrino. Non riusciva a decifrarne l'espressione. Per sicurezza, entrarono nel commissariato di Eastvale da un ingresso posteriore. Dopo aver accompagnato Lucy e Julia in una stanza degli interrogatori, Banks andò nel suo ufficio, dove si avvicinò alla finestra e si accese una sigaretta preparandosi al compito imminente. Per strada era stato così assorto nei suoi pensieri da non rendersi conto che là fuori la giornata era splendida. Vi erano pullman e automobili parcheggiati sull'acciottolato della piazza, famiglie che giravano in tondo tenendo per mano i bambini, donne con le maniche dei cardigan mollemente annodate intorno al collo (caso mai si alzasse una brezza fresca) e con gli ombrelli stretti in pugno (caso mai piovesse). Perché noi inglesi non riusciamo mai a credere che il bel tempo durerà?, si domandò. Ci aspettiamo sempre il peggio. Ecco perché i meteorologi coprivano tutte le possibilità: soleggiato con cielo a tratti coperto e rischio di acquazzoni. La stanza degli interrogatori odorava di antisettico perché il suo ultimo occupante, un diciassettenne ubriaco accusato di furto d'auto, aveva vomitato una pizza da asporto su tutto il pavimento. A parte questo, il locale era abbastanza pulito, sebbene dall'alta finestra munita di sbarre filtrasse pochissima luce. Banks inserì i nastri nel registratore e, dopo averli provati, recitò ora, data e identità dei presenti. «Bene, Lucy» disse quando ebbe finito. «Pronta per cominciare?» «Se vuole.» «Da quanto tempo vive a Leeds?» «Che cosa?» Banks ripeté la domanda. Nonostante la perplessità, Lucy rispose: «Più o meno da quattro anni. Da quando ho cominciato a lavorare in banca». «Ed è arrivata da Hull, dove abitano Clive e Hilary Liversedge, i suoi genitori adottivi?»
«Sì. Lo sapeva già.» «Serve solo ad avere un quadro generale più chiaro, Lucy. Dove viveva prima di allora?» Lucy iniziò a giocherellare con la fede nuziale. «A Alderthorpe» disse piano. «Al numero 4 di Spurn Road.» «E i suoi genitori?» «Sì.» «Sì che cosa?» «Sì, vivevano lì anche loro.» Banks sospirò. «Non faccia giochetti con me, Lucy. È una faccenda seria.» «Pensa che non lo sappia?» lo rimbeccò. «Mi trascina fuori dell'ospedale e mi porta qui senza alcun motivo, poi comincia a chiedermi della mia infanzia. Non è mica uno psichiatra.» «Mi interessa, ecco tutto.» «Be', non è stato molto interessante. Sì, mi maltrattavano, e sì, sono stata data in affidamento. I Liversedge sono stati buoni con me, ma non erano i miei veri genitori. Quando è arrivato il momento, ho preferito farmi strada nel mondo per conto mio, buttarmi il passato alle spalle e camminare con le mie gambe. C'è qualcosa di male in questo?» «No» riconobbe Banks. Voleva scoprire di più sull'infanzia di Lucy, soprattutto sui fatti verificatisi quando aveva dodici anni, ma sapeva che probabilmente non le avrebbe cavato molte informazioni. «È per questo che ha cambiato nome da Linda Godwin a Lucy Liversedge?» «Sì. I giornalisti continuavano a perseguitarmi. I Liversedge hanno sistemato la questione con i servizi sociali.» «Che cosa l'ha spinta a trasferirsi a Leeds?» «Il lavoro.» «Il primo per cui ha fatto domanda?» «Il primo che abbia voluto davvero. Sì.» «Dove abitava?» «All'inizio avevo un appartamento vicino a Tong Road. Quando Terry ha ottenuto il posto alla Silverhill, abbiamo comperato la villetta sulla Collina. Quella in cui, secondo quanto dice lei, non posso tornare anche se è casa mia. Magari pretende persino che continui a pagare il mutuo mentre i suoi uomini mettono tutto a soqquadro?» «Siete andati a convivere prima di sposarvi?» «Avevamo già deciso di sposarci. All'epoca era un affare così vantag-
gioso che saremmo stati stupidi a lasciarcelo scappare.» «Quando ha sposato Terry?» «Solo l'anno scorso. Il 22 maggio. Ci frequentavamo dall'estate precedente.» «Come l'aveva conosciuto?» «Che importanza ha?» «Sono solo curioso. Non è che una domanda innocua.» «In un pub.» «Quale pub?» «Non ricordo il nome. Ma era grande, con la musica dal vivo.» «Dove?» «A Seacroft.» «Terry era solo?» «Credo di sì. Perché?» «L'aveva agganciata?» «Non proprio. Non ricordo.» «Si era mai trattenuta nel suo appartamento?» «Certo che sì. Non c'era niente di male. Ci amavamo. Stavamo per sposarci. Eravamo fidanzati.» «Già allora?» «È stato amore a prima vista. Forse non mi crederà, ma è così. Uscivamo insieme solo da due settimane quando mi ha comprato l'anello di fidanzamento. Costava quasi mille sterline.» «Aveva altre ragazze?» «Non quando ci siamo conosciuti.» «E prima?» «Immagino di sì. Non me ne fregava niente. Ho dato per scontato che avesse condotto una vita abbastanza normale.» «Normale?» «Perché no?» «Non ha mai notato tracce della presenza di altre donne nel suo appartamento?» «No.» «Che cosa ci faceva a Seacroft se abitava vicino a Tong Road? È un bel po' di strada.» «Avevamo appena terminato un corso di formazione di una settimana in città, e una delle ragazze ha detto che era il posto ideale per una serata fuori.»
«Aveva sentito parlare dell'uomo che, in quel periodo, i giornali chiamavano lo Stupratore di Seacroft?» «Sì. Era sulla bocca di tutti.» «Ma non le ha impedito di andare a Seacroft.» «Ognuno deve vivere la propria vita. Non si deve permettere alla paura di avere la meglio, altrimenti una donna non si azzarderebbe neppure a mettere il naso fuori casa da sola.» «Giusto» osservò Banks. «Quindi non ha mai sospettato che questo sconosciuto potesse essere lo Stupratore di Seacroft?» «Terry? No, certo che no. Perché avrei dovuto?» «Non ha notato niente di preoccupante nel suo comportamento?» «No. Ci amavamo.» «Ma la maltrattava. L'ha ammesso l'ultima volta che abbiamo parlato.» Lucy distolse lo sguardo. «Quello è stato dopo.» «Quanto dopo?» «Non lo so. A Natale, forse.» «Lo scorso Natale?» «Sì. Più o meno. Ma non era sempre così. Dopo, era meraviglioso. Si sentiva sempre in colpa. Mi comprava dei regali. Fiori. Collane. Bracciali. Vorrei tanto averli qui adesso come ricordo.» «Col tempo, Lucy. Dunque cercava sempre di rimediare dopo averla pestata?» «Sì, era meraviglioso con me per giorni.» «Beveva di più negli ultimi mesi?» «Sì. Restava anche fuori di più. Non lo vedevo tanto spesso.» «Dove andava?» «Non lo so. Non me lo diceva.» «Non gliel'ha mai chiesto?» Lucy voltò la faccia con aria dimessa, mostrandogli il lato pieno di lividi. Banks recepì il messaggio. «Sarebbe opportuno passare oltre, non crede, commissario?» intervenne Julia Ford. «Come vede, questo argomento sconvolge la mia assistita.» Poverina, avrebbe voluto ribattere Banks, ma aveva ancora molte domande da porre. «Benissimo.» Si rivolse di nuovo a Lucy. «Ha avuto qualcosa a che fare con il rapimento, lo stupro e l'assassinio di Kimberley Myers?» Pur incrociando lo sguardo della ragazza, non riuscì a leggere niente nei suoi occhi scuri; se gli occhi erano lo specchio dell'anima, quelli di Lucy
Payne erano fatti di vetro colorato e la sua anima portava gli occhiali da sole. «No» rispose la giovane. «E con la morte di Melissa Horrocks?» «No. Non ho avuto niente a che fare con la morte di nessuna di loro.» «Quante erano, Lucy?» «Lo sa.» «Me lo dica lei.» «Cinque. O almeno, è quello che ho letto sui giornali.» «Che cosa ne avete fatto di Leanne Wray?» «Non capisco.» «Dov'è, Lucy? Dov'è Leanne Wray? Dove l'avete seppellita lei e Terry? Che cosa la rendeva diversa dalle altre?» Costernata, Lucy guardò Julia Ford. «Non so di che cosa stia parlando» disse. «Gli dica di smetterla.» «Commissario» interloquì Julia «la mia cliente ha già affermato di non sapere nulla di questa persona. Credo che dovrebbe passare oltre.» «Suo marito ha mai menzionato una di queste ragazze?» «No, mai.» «È mai entrata in quella cantina, Lucy?» «Me l'ha già chiesto.» «Le sto offrendo la possibilità di cambiare la sua risposta, di fare una dichiarazione ufficiale.» «Come ripeto, non ricordo. Può darsi, ma non ricordo. Soffro di amnesia retrograda.» «Chi gliel'ha detto?» «Il mio medico all'ospedale.» «La dottoressa Landsberg?» «Sì. È un sintomo della sindrome da stress post-traumatico.» Banks non ne aveva mai sentito parlare. La dottoressa Landsberg gli aveva confessato di non essere un'esperta in materia. «Be', sono molto contento che sappia come si chiama il suo disturbo. Quante volte potrebbe essere scesa in cantina, se riuscisse a ricordare?» «Soltanto una.» «Quando?» «Il giorno in cui è successo tutto. Quando mi hanno portata all'ospedale. Lo scorso lunedì, alle prime ore del mattino.» «Quindi ammette la possibilità di essere stata laggiù?» «Se lo dice lei. Non ricordo. Se mai sono scesa, è stato allora.»
«Non sono io a dirlo, Lucy. Sono le prove scientifiche. Il laboratorio ha trovato tracce del sangue di Kimberley Myers sulle maniche della sua vestaglia. Come ci è arrivato?» «Non... non lo so.» «Può esserci arrivato solo in due modi: prima che la ragazza venisse chiusa in cantina o dopo che è stata chiusa in cantina. Come è andata, Lucy?» «Deve essere stato dopo.» «Perché?» «Perché non l'avevo mai vista prima.» «Ma non viveva lontano. Non l'aveva incontrata da qualche parte?» «Per la strada, forse. O in qualche negozio. Sì. Ma non le avevo mai rivolto la parola.» Banks tacque, riordinando alcuni fogli davanti a sé. «Così ora ammette che forse è stata in cantina?» «Sì, ma non ricordo.» «Che cosa pensa sia potuto accadere, tanto per fare un'ipotesi?» «Be', può darsi che abbia sentito un rumore.» «Che tipo di rumore?» «Non lo so.» Lucy fece una pausa e si portò la mano alla gola. «Un grido, forse.» «Le uniche grida udite da Maggie Forrest sono state le sue.» «Be', magari si è sentito solo all'interno della casa. Magari veniva dalla cantina. Quando Maggie mi ha udita urlare, ero nell'ingresso.» «Se lo ricorda? Di essere stata nell'ingresso?» «Solo vagamente.» «Continui.» «Dunque può darsi che abbia sentito un rumore e sia scesa a controllare.» «Pur sapendo che era lo studio di Terry e che l'avrebbe ammazzata se l'avesse scoperto?» «Sì. Forse mi sono spaventata.» «Per che cosa?» «Per quello che avevo sentito.» «Ma la cantina era insonorizzata molto bene, Lucy, e la porta era chiusa quando è arrivata la polizia.» «Allora non lo so. Sto solo cercando una spiegazione.» «Vada avanti. Che cosa può aver trovato entrando?»
«Quella ragazza. Magari mi sono avvicinata a lei per vedere se potevo aiutarla.» «Che cosa mi dice delle fibre gialle?» «Che cosa vuole sapere?» «Appartenevano alla corda di plastica che era avvolta intorno al collo di Kimberley Myers. Secondo il patologo, la causa del decesso è stata un'asfissia da strangolamento dovuta a quella corda. Alcune fibre erano conficcate anche nella gola di Kimberley.» «Devo aver cercato di togliergliela.» «Ricorda di averlo fatto?» «No, sto solo immaginando come possa essere andata.» «Prosegua.» «Poi Terry deve avermi beccata, inseguita fino al piano di sopra e picchiata.» «Perché non l'ha trascinata giù in cantina e non ha ucciso anche lei?» «Non lo so. Era mio marito. Mi amava. Non avrebbe potuto uccidermi come...» «Come una qualsiasi adolescente?» «Commissario» lo interruppe Julia Ford «non credo che le congetture su quanto il signor Payne ha fatto o non ha fatto siano pertinenti. La mia cliente afferma che forse è scesa in cantina e ha suscitato la collera del marito sorprendendolo a... a fare qualunque cosa stesse facendo. Questo dovrebbe spiegare i risultali delle vostre analisi. Dovrebbe anche essere sufficiente.» «Ma ha detto che Terry l'avrebbe ammazzata se fosse scesa in cantina. Perché non l'ha fatto?» insistette Banks, rivolgendosi a Lucy. «Non lo so. Magari aveva intenzione di farlo. Magari aveva qualcos'altro da fare prima.» «Per esempio?» «Non lo so.» «Uccidere Kimberley?» «Forse.» «Ma non era già morta?» «Non lo so.» «Sbarazzarsi del suo corpo?» «Può darsi. Non lo so. Ero svenuta.» «Oh, andiamo, Lucy! Sono tutte fesserie» esclamò Banks. «Adesso cercherà di convincermi che è sonnambula. È stata lei a uccidere Kimberley
Myers, vero, Lucy? È entrata in cantina, l'ha vista sdraiata lì e l'ha strangolata.» «Non è vero! Perché dovrei aver fatto una cosa del genere?» «Per gelosia. Terry desiderava Kimberley più di quanto desiderasse lei. Voleva tenerla con sé.» Lucy batté il pugno sul tavolo. «Non è vero! Se lo sta inventando.» «Be', per quale altro motivo l'aveva legata nuda al materasso? Per farle lezione di biologia? E che lezione, Lucy. L'ha violentata più volte, a livello sia vaginale sia anale. L'ha costretta a praticargli una fellatio. Poi lui (o qualcun altro) l'ha strangolata con una corda da bucato di plastica gialla.» Lucy si prese la testa tra le mani, singhiozzando. «Questo genere di dettagli raccapriccianti... è proprio necessario?» chiese Julia Ford. «Che cosa c'è?» le domandò Banks. «Ha paura della verità?» «È solo un po' esagerato, ecco tutto.» «Esagerato? Maledizione, le dico io che cosa è esagerato.» Banks indicò Lucy. «Il sangue di Kimberley sulle maniche della sua vestaglia. Le fibre gialle sotto le sue unghie. È stata lei ad ammazzare Kimberley Myers.» «Sono tutte prove indiziarie» ribatté Julia Ford. «Lucy le ha già spiegato come potrebbero essere andate le cose. L'ha dimenticato. Non è colpa sua. Questa poveretta era traumatizzata.» «O è così oppure è una bravissima attrice» commentò Banks. «Commissario!» Banks tornò a rivolgersi alla sospettata. «Chi sono le altre ragazze, Lucy?» «Non so di che cosa stia parlando.» «Nel giardino sul retro c'erano due cadaveri non identificati. O meglio, i resti di due scheletri. Fanno sei in tutto, compresa Kimberley. Stavamo indagando solo su cinque adolescenti scomparse, e finora non le abbiamo nemmeno trovate tutte. Non conosciamo queste due. Chi sono?» «Non ne ho idea.» «È mai uscita in auto con suo marito per abbordare delle ragazzine?» Il cambio di direzione parve sbalordire Lucy tanto da zittirla, ma ben presto ritrovò la voce e l'autocontrollo. «No, mai.» «Dunque non sapeva niente delle giovani sparite?» «No. Solo quello che avevo letto sui giornali. Gliel'ho detto. Non ero scesa in cantina, e di certo Terry non me ne aveva parlato. Quindi come avrei potuto sapere qualcosa?»
«Sì, come?» Banks si grattò la piccola cicatrice accanto all'occhio destro. «Ma mi interessa di più capire come avrebbe potuto non saperlo. L'uomo con cui vive, suo marito, rapisce e porta a casa sei ragazzine (stando a quanto abbiamo scoperto finora), le tiene prigioniere per... Dio solo sa quanto tempo... mentre le stupra e le sevizia, quindi le seppellisce in giardino o in cantina. Intanto lei abita in quella casa, solo un piano più su, due al massimo, e vuole farmi credere che non sapeva niente, che non sospettava nemmeno niente? Pensa che sia nato ieri, Lucy? Non vedo come potesse essere all'oscuro di tutto.» «Le ho detto che non scendevo mai laggiù.» «Quando suo marito spariva nel cuore della notte, non se ne accorgeva?» «No. Ho il sonno molto pesante. Penso che Terry mi mettesse dei sonniferi nella cioccolata calda. Ecco perché non mi sono mai accorta di niente.» «Non abbiamo trovato nessun sonnifero in casa, Lucy.» «Doveva averli finiti. Ecco perché mi sono svegliata lunedì mattina con la sensazione che ci fosse qualcosa di strano. Oppure se n'era dimenticato.» «Uno dei due aveva una ricetta per l'acquisto di tranquillanti?» «Io no. Non so se Terry ce l'avesse. Forse li aveva comprati da uno spacciatore.» Banks si segnò di approfondire la questione. «Perché pensa che abbia scordato di drogarla questa volta? Perché è andata in cantina questa volta?» continuò. «Che cosa c'era di tanto diverso questa volta? È stato perché Kimberiey abitava troppo vicino a casa vostra? Terry doveva sapere che avrebbe corso un rischio enorme rapendola, vero? Era ossessionato da Kimberiey, Lucy? È stato per questo? Le altre gli erano servite solo per fare pratica, erano state solo un riempitivo finché non è più riuscito a trattenersi dal prendere quella che voleva davvero? Come si è sentita, Lucy? Rendendosi conto che Terry desiderava Kimberiey più di lei, più della vita stessa, più della libertà?» Lucy si tappò le orecchie con le mani. «La smetta! Sono bugie, tutte bugie! Non so che cosa voglia insinuare. Non capisco che cosa stia succedendo. Perché mi tormenta in questo modo?» Si rivolse a Julia Ford. «Mi faccia uscire subito di qui. La prego! Non sono obbligata ad ascoltare altro, vero?» «No» rispose l'avvocato alzandosi. «Può andarsene quando vuole.» «Non penso proprio.» Banks si alzò a sua volta traendo un profondo re-
spiro. «Lucy Payne, la dichiaro in arresto per complicità nell'omicidio di Kimberiey Myers.» «È ridicolo» osservò il legale. «È tutta una farsa.» «Non credo alla storia della sua cliente» dichiarò Banks. Tornò a rivolgersi a Lucy. «Ha il diritto di non parlare, Lucy, ma qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale. Capito?» Aprendo la porta, Banks ordinò a due poliziotti in uniforme di accompagnarla dal responsabile delle detenzioni. Quando gli agenti si diressero verso di lei, la donna impallidì. «Per favore» implorò. «Tornerò quando vuole. Per favore, la supplico, non mi chiuda da sola in una cella buia!» Per la prima volta da quando la conosceva, Banks ebbe l'impressione che fosse davvero spaventata. Rammentò quel che Jenny gli aveva riferito riguardo ai Sette di Alderthorpe. Imprigionati per giorni in una gabbia senza cibo. Mancò poco che esitasse, ma ormai non poteva tornare indietro. Si costrinse a ricordare Kimberley Myers legata mani e piedi nella lugubre cantina di Lucy Payne. A lei nessuno aveva dato una possibilità. «Le celle non sono buie, Lucy» la rassicurò. «Sono ben illuminate e molto confortevoli. Di norma ricevono quattro stelle nella guida degli alloggi della polizia.» Julia Ford lo guardò disgustata. Lucy scosse la testa. Banks annuì alle guardie. «Portatela giù.» Ci era riuscito per un pelo e si sentiva meno soddisfatto di quanto avesse immaginato, ma aveva Lucy Payne dove voleva che fosse per ventiquattr'ore. Ventiquattr'ore per trovare qualche prova concreta a suo carico. Annie provò solo indifferenza verso il cadavere di Terence Payne, disteso nudo sul tavolo di acciaio dell'obitorio. Era soltanto il guscio, l'ingannevole forma umana di un'aberrazione, un supposito, un demone. Pensandoci bene, però, non era nemmeno sicura di credere questo. La malvagità di Terence Payne era fin troppo umana. Nel corso dei secoli, gli uomini avevano stuprato e mutilato le donne per compiere atti di saccheggio in tempo di guerra oppure per procurarsi piaceri oscuri in quartieri malfamati e squallide stanze di città in rovina, nella solitudine delle campagne o nei salotti dei ricchi. Non c'era bisogno di un demone con sembianze umane per fare quel che gli uomini sapevano già fare tanto bene. Si concentrò sui fatti del momento: l'accurato esame che Mackenzie stava effettuando sulla parte esterna del cranio di Terence Payne. L'identità
del defunto e l'ora del decesso non erano state difficili da stabilire in questo caso: il dottor Mogabe aveva dichiarato che Payne era morto alle 20.13 della sera precedente presso il Leeds General Infirmary. Senza dubbio, Mackenzie avrebbe lavorato con la massima meticolosità (il suo assistente aveva già eseguito la pesatura e le misurazioni, provvedendo anche alle fotografie e alle radiografie); Annie immaginava che fosse il tipo da condurre un'autopsia accurata anche su un tizio freddato da un proiettile sotto i suoi occhi. Mai dare niente per scontato. Il corpo era pulito e pronto per essere aperto, perché nessuno è più pulito di chi è appena uscito dalla sala operatoria. Per fortuna, il medico della polizia aveva raccolto gli indumenti insanguinati, i campioni di sangue e i residui sotto le unghie subito dopo il ricovero, così nessuna prova era andata perduta a causa degli scrupoli dell'igiene ospedaliera. Per il momento, Annie era interessata solo ai colpi sferrati alla testa di Payne, e il dottor Mackenzie intendeva concentrarsi sul cranio prima di passare a un'autopsia completa. Avevano già esaminato il polso rotto, concludendo che era stato fratturato dal manganello dell'agente Janet Taylor (appoggiato sul tavolo del laboratorio accanto alla parete di piastrelle bianche) e constatando che Payne si era anche procurato diverse ecchimosi quando aveva sollevato le braccia per difendersi dalle bastonate. A meno che Payne non fosse stato assassinato da un medico o da un'infermiera dell'ospedale, era molto probabile che Janet Taylor fosse la diretta responsabile della sua morte. Restava solo da stabilire in che misura fosse colpevole. Mackenzie aveva spiegato a Annie che l'intervento di emergenza volto a ridurre un ematoma subdurale aveva complicato le cose, ma sarebbe stato abbastanza facile distinguere la procedura chirurgica dalle randellate inesperte. La testa di Payne era stata rasata prima dell'operazione, il che rendeva più semplice l'individuazione delle lesioni. Dopo un attento esame, Mackenzie si rivolse a Annie dicendo: «Non sono in grado di determinare l'esatta sequenza dei colpi, ma ci sono alcune aggregazioni interessanti». «Aggregazioni?» «Sì. Venga, guardi.» Il dottore indicò la tempia sinistra, che, con i capelli tagliati e la carne insanguinata, assomigliava più a un topo morto in una trappola. «Qui ci sono almeno tre ferite che si sovrappongono» proseguì tracciandone i profili con il dito. «La prima, l'avvallamento in questo punto, seguita da una seconda lesione sopra e da una terza, qui, che copre parte di entrambe.»
«È possibile che siano state inferte in rapida successione?» domandò Annie, rammentando sia quanto Janet Taylor le aveva raccontato riguardo alla gragnola di colpi sia il modo in cui aveva immaginato la scena quando era stata nella cantina. «Sì» rispose Mackenzie «ma è probabile che ognuna di queste bastonate l'abbia messo fuori gioco per un po', magari modificando anche la sua posizione rispetto all'aggressore.» «Può essere più preciso?» Con delicatezza, il patologo le mise la mano sul lato della testa e spinse. Annie indietreggiò a causa della lieve pressione, il capo girato. Quando Mackenzie allungò di nuovo la mano, quest'ultima si posò più vicino alla sua nuca. «Se fosse stato un pugno vero» spiegò il medico «l'avrebbe spedita ancor più lontano da me e l'avrebbe stordita. Avrebbe potuto impiegare un po' di tempo per tornare nella posizione di partenza.» «Capisco» disse Annie. «Quindi ritiene che possano esserci stati altri colpi?» «Mmm. Bisogna considerare anche le angolazioni. Se guarda bene gli avvallamenti, noterà che la prima bastonata è stata inflitta mentre la vittima era in piedi.» Lanciò un'occhiata allo sfollagente. «Vede, la ferita è relativamente liscia e uniforme, il che si spiega tenendo conto della differenza di statura tra l'agente Taylor e Payne. Tra parentesi, ho misurato il manganello e l'ho confrontato attentamente con ciascuna lesione; questi dati, insieme con le radiografie, mi aiutano ad avere un'idea più chiara della posizione di Payne al momento di ciascun colpo.» Indicò di nuovo. «Almeno una delle manganellate alla tempia è stata sferrata quando Payne era in ginocchio. Vede come l'impronta diventa profonda. È ancora più evidente sulla radiografia.» Dopo aver condotto Annie al visore sulla parete, il dottor Mackenzie vi infilò dentro una lastra e accese la luce. Aveva ragione. Annie constatò che la ferita era più marcata verso la parte posteriore, il che provava che lo sfollagente si era abbassato di sbieco. Tornarono al tavolo. «Avrebbe potuto rialzarsi dopo un colpo come quello?» chiese l'ispettore. «È possibile. Con le ferite alla testa non si può mai dire. Si sa di persone che se ne sono andate in giro per giorni con un proiettile nel cranio. Il problema principale è l'intensità dell'emorragia. Le lesioni al capo sanguinano moltissimo. Ecco perché, durante le autopsie, di solito teniamo il cervello per ultimo. A quel punto, gran parte del sangue è ormai fuoriuscita. Meno
sporcizia.» «Che cosa intende fare con il cervello di Payne?» domandò Annie. «Conservarlo per qualche studio scientifico?» Mackenzie sbuffò. «Mi piacerebbe interpretare la sua personalità in base ai bernoccoli che ha in testa» disse. «A proposito dei quali...» Pregò gli assistenti di voltare il cadavere. Annie scorse un'altra area escoriata e polposa sulla nuca. Credette di vedere schegge d'osso che spuntavano fuori, ma si rese conto che doveva averle immaginate. Payne era stato in ospedale, e i medici non avrebbero lasciato schegge d'osso che gli spuntavano dalla nuca. C'erano anche i segni dei punti di sutura, e probabilmente erano stati quelli a ricordarle delle schegge. Era rabbrividita solo perché lì dentro faceva freddo, ripeté a se stessa. «Queste ferite sono state inflitte quasi sicuramente quando la vittima era in una posizione più bassa, per esempio carponi, e i colpi sono arrivati da dietro.» «Come se Payne si stesse allontanando a quattro zampe dall'aggressore, alla ricerca di qualcosa?» «Non saprei» rispose Mackenzie. «Ma è possibile.» «Janet Taylor afferma di averlo colpito al polso. Lui ha mollato il machete, che lei ha buttato in un angolo con un calcio. A quanto pare, Payne ha cercato di recuperarlo muovendosi carponi e l'agente ha usato di nuovo lo sfollagente.» «Giustificherebbe questo tipo di ferita» concesse il dottor Mackenzie «anche se conto tre manganellate nella stessa area generale: il tronco cerebrale, per l'esattezza, la parte di gran lunga più esposta e vulnerabile.» «L'ha colpito lì tre volte?» «Sì.» «Sarà stato in grado di alzarsi, dopo?» «Di nuovo, non saprei. A quel punto, un uomo più debole sarebbe potuto essere già morto. Il signor Payne è sopravvissuto per tre giorni. Forse ha trovato il machete e si è rimesso in piedi.» «Dunque è uno scenario possibile?» «Non posso escluderlo. Ma guardi qui.» Le fece notare le chiare depressioni alla sommità del cranio. «Posso affermare con certezza che queste due lesioni sono state inferte quando la vittima era in posizione più bassa rispetto all'aggressore - forse seduta o accovacciata, vista l'angolazione - e che sono state inflitte con una forza tremenda.» «Che tipo di forza?»
Mackenzie indietreggiò e, alzando entrambe le braccia in aria, giunse le mani dietro la testa, quindi le abbassò con tutta l'energia possibile, come se colpisse una vittima immaginaria con un martello immaginario. «Così» disse. «E non vi è stata alcuna resistenza.» Annie deglutì. Cazzo. Questo caso si stava trasformando in una bella grana. Elizabeth Bell, l'assistente sociale incaricata dell'indagine sui Sette di Alderthorpe, non era andata in pensione, ma aveva cambiato attività e si era trasferita a York, il che consentì a Jenny di fare un salto da lei dopo una breve sosta nel suo ufficio all'università. Trovò un angusto parcheggio a una certa distanza dalla villetta a schiera nei pressi di Fulford Road, poco lontano dal fiume, e riuscì a infilarvi l'automobile senza causare alcun danno. Anche se, al telefono, Jenny era stata vaga riguardo all'ora del suo arrivo, Elizabeth le aprì subito, quasi stesse aspettando dietro la porta. L'orario non aveva importanza, le aveva detto, perché quella settimana il venerdì era il suo giorno libero, i bambini erano a scuola e lei aveva un bel po' di bucato da stirare. «Lei deve essere la dottoressa Fuller» esordì. «Esatto. Ma mi chiami Jenny.» Elizabeth la accompagnò all'interno. «Non so ancora perché abbia voluto vedere proprio me, ma entri pure.» La indirizzò fino a un piccolo salotto, reso ancor più piccolo dall'asse da stiro e dal cesto di biancheria in equilibrio su una sedia. Jenny avvertì la fragranza del detersivo al limone e dell'ammorbidente, mescolata al profumo caldo e rassicurante degli indumenti appena stirati. Il televisore era acceso, sintonizzato su un vecchio thriller in bianco e nero con Jack Warner. Elizabeth spostò una pila di vestiti ripiegati da una poltrona e la fece accomodare. «Scusi il disordine» disse. «È una casa minuscola, ma nei paraggi costano un occhio della testa, e poi ci piace la posizione.» «Perché ve ne siete andati da Hull?» «Avevamo in mente di traslocare da un po', poi Roger, mio marito, ha ottenuto una promozione. È un rispettabile funzionario pubblico. Be', non proprio così rispettabile, non so se mi spiego.» «E lei? Che lavoro fa?» «Sempre nei servizi sociali. Solo che adesso sono all'ufficio sussidi. Le spiace se continuo a stirare mentre parliamo? Sa, devo finire.»
«No. Niente affatto.» Jenny osservò Elizabeth. Era una donna alta dall'ossatura robusta, che indossava jeans e una camicia scozzese con i bottoni sul colletto. Le ginocchia dei calzoni erano macchiate, notò, come se avesse fatto giardinaggio. Sotto il taglio di capelli corto e pratico, il volto era duro e segnato da rughe precoci, ma addolcito dalla tenerezza che traspariva dagli occhi e dalle espressioni. «Quanti figli ha?» le chiese la psicologa. «Solo due. William e Pauline.» Elizabeth indicò con il mento la mensola del caminetto, su cui era posata la fotografia di due bimbi sorridenti in un parco giochi. «Comunque, mi tolga una curiosità. Perché è venuta qui? Non mi ha detto granché al telefono.» «Mi dispiace. Non intendevo essere misteriosa, mi creda. Sono qui per i Sette di Alderthorpe. Ho saputo che si è occupata del caso.» «Come potrei dimenticarlo? Ma perché vuole delle informazioni? Si è concluso tutto dieci anni fa.» «Niente è mai "concluso" nel mio lavoro» replicò Jenny. Aveva riflettuto su quanto sbottonarsi con Elizabeth e ne aveva persino discusso al telefono con Banks. Utile come sempre, il commissario le aveva consigliato: «Raccontale tutto il necessario, ma non più dell'indispensabile». Jenny aveva già pregato i Liversedge di non rivelare il vero nome o le vere origini di Lucy ai reporter, ma non ci sarebbe voluto molto prima che qualche genio si imbattesse in un pezzetto di carta o riconoscesse una foto nell'archivio della redazione. Sapeva che lei e Banks avevano pochissimo tempo a disposizione prima che vagonate di giornalisti approdassero a York e Hull e giungessero persino nella piccola e sonnacchiosa Alderthorpe. Corse il rischio confidando che nemmeno Elizabeth Bell li avvertisse. «Sa mantenere un segreto?» domandò. L'altra alzò gli occhi dalla camicia che stava stirando. «Se devo. L'ho già fatto in passato.» «La persona che mi interessa è Lucy Payne.» «Lucy Payne?» «Sì.» «Il nome non mi è nuovo, ma temo che debba rinfrescarmi la memoria.» «I media ne hanno parlato molto ultimamente. Era sposata con Terence Payne, l'insegnante che la polizia ritiene responsabile dell'omicidio di sei ragazzine.» «Certo. Sì, ho visto un articolo sul giornale, ma le confesso che non seguo queste vicende.» «Comprensibile. A ogni modo, è saltato fuori che i genitori di Lucy,
Clive e Hilary Liversedge, sono genitori adottivi. Lucy era una dei Sette di Alderthorpe. Probabilmente l'ha conosciuta come Linda Godwin.» «Santo cielo.» Elizabeth tacque, tenendo il ferro da stiro a mezz'aria, come se viaggiasse all'indietro nel tempo con i ricordi. «La piccola Linda Godwin. Quella povera piccina.» «Forse ora capisce perché le ho chiesto se sapesse mantenere un segreto?» «La stampa ci sguazzerebbe dentro.» «Ci può scommettere. E probabilmente lo farà, alla fine.» «Da me non otterrebbero niente.» Era valsa la pena rischiare, allora. «Ottimo» disse Jenny. «Sarà meglio che mi sieda.» Elizabeth appoggiò il ferro da stiro in posizione verticale e prese posto di fronte a Jenny. «Che cosa vuole sapere?» «Tutto quello che può raccontarmi. Per prima cosa, com'è iniziato tutto quanto?» «È stata un'insegnante a metterci la pulce nell'orecchio» rammentò Elizabeth. «Maureen Nesbitt. Da qualche tempo nutriva sospetti sulle condizioni di alcuni bambini e sulle cose che dicevano quando pensavano di essere soli. Poi, quando la piccola Kathleen non si è presentata a scuola per una settimana e nessuno aveva una spiegazione ragionevole...» «Si riferisce a Kathleen Murray?» «Ne ha sentito parlare?» «Ho soltanto fatto qualche ricerca preliminare sfogliando vecchi giornali in biblioteca. So che Kathleen Murray è stata l'unica a morire.» «L'hanno uccisa. Bisognerebbe chiamarli i Sei di Alderthorpe, perché uno di loro era già morto quando la faccenda è venuta a galla.» «Che cosa sa dirmi di Kathleen?» «Le famiglie coinvolte erano due: Oliver e Geraldine Murray, e Michael e Pamela Godwin. I Murray avevano quattro figli: da Keith, di undici anni, a Susan, di otto. Nel mezzo c'erano Dianne e Kathleen, rispettivamente di dieci e nove anni. I Godwin avevano tre bambini: Linda, di dodici anni, era la maggiore, poi venivano Tom, che ne aveva dieci, e Laura, che ne aveva nove.» «Mio Dio, sembra complicato.» Elizabeth sorrise. «C'è dell'altro: Oliver Murray e Pamela Godwin erano fratello e sorella, e nessuno sa con esattezza chi abbia messo al mondo chi. Violenza in una famiglia allargata. Non è rara come sembra, soprattutto nelle piccole comunità isolate. I Murray e i Godwin vivevano gli uni ac-
canto agli altri in una bifamiliare a Alderthorpe, abbastanza appartata da godere di una certa privacy. Sa, è una zona piuttosto fuorimano. Non ci è mai stata?» «Non ancora.» «Dovrebbe andarci. Tanto per respirare l'atmosfera del posto. Ti fa accapponare la pelle.» «Ci andrò. Le accuse erano fondate, allora?» «La polizia saprà fornirle maggiori dettagli. Io mi sono limitata per lo più a separare i bambini e ad accertarmi che qualcuno si prendesse cura di loro, a sottoporli a un controllo medico e anche a darli in affidamento, naturalmente.» «Tutti quanti?» «Non ho fatto tutto da sola, ma avevo la responsabilità generale del caso, sì.» «Qualcuno di loro è mai tornato dai genitori?» «No. Oliver e Geraldine Murray sono stati accusati dell'omicidio di Kathleen e, a quanto ne so, sono ancora in carcere. Michael Godwin si è suicidato due giorni prima del processo, e sua moglie è stata dichiarata incapace di intendere e di volere. Credo che sia tuttora in cura. In un istituto psichiatrico, voglio dire.» «Allora non ci sono dubbi sulla loro colpevolezza?» «Come ho detto, la polizia sarà più informata di me, ma... Se mai mi sono ritrovata faccia a faccia con il male nella mia vita, è stato lì, quella mattina.» «Che cosa è successo?» «Non è successo niente, è solo che... Non so... le sensazioni che ti trasmetteva quel luogo.» «È entrata?» «No. I poliziotti non ce l'hanno permesso. Dicevano che avremmo solo contaminato la scena del crimine. Avevamo un furgone, un furgone riscaldato, e ci hanno portato fuori i bambini.» «E per quanto riguarda la componente satanica? Mi pare che non sia emersa in tribunale.» «Secondo gli avvocati, non era necessario. Avrebbe solo creato maggiore confusione.» «C'era qualche prova?» «Oh, sì. Ma, se vuole il mio parere, era solo un mucchio di ciarpame per giustificare l'uso di alcolici o stupefacenti e gli abusi sui bambini. La poli-
zia ha trovato cocaina e marijuana in entrambe le case, sa, oltre a un po' di LSD, chetamina ed ecstasy.» «È stato quel caso a spingerla ad abbandonare i servizi sociali?» Elizabeth rifletté prima di rispondere. «In parte sì. Se vuole, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma stavo per crollare già molto prima di allora. Avere a che fare di continuo con bambini maltrattati è davvero sfibrante. Perdi di vista l'umanità, la dignità della vita. Capisce che cosa intendo?» «Penso di sì» rispose Jenny. «Trascorrere troppo tempo con i criminali fa un effetto simile.» «Ma quelli erano bambini. Non avevano scelta.» «Ha ragione.» «All'ufficio sussidi si incontrano dei veri falliti, mi creda, ma non è come l'assistenza ai minori.» «In che condizioni era Lucy?» «Come gli altri. Sporca, affamata, coperta di lividi.» «Aveva subito abusi sessuali?» Elizabeth annuì. «Che tipo era?» «Linda? Suppongo che farò meglio a chiamarla Lucy d'ora in avanti, vero? Era una bimba dolcissima. Timida e spaventata. Se ne stava lì con una coperta intorno alle spalle e quell'espressione da angioletto sul viso sudicio. Non ha quasi aperto bocca.» «Riusciva a parlare?» «Oh, sì. Uno dei piccoli - Susan, se non erro - ha perso l'uso della parola, ma non Lucy. Aveva subito tutti gli abusi possibili e immaginabili, ma si è ripresa in modo sorprendente. Parlava quando ne aveva voglia, ma non l'ho vista piangere nemmeno una volta. Anzi, pare che si fosse presa cura dei più piccini, anche se non era nella posizione di fare granché. Però era la più grande, quindi forse aveva offerto agli altri un po' di conforto. Lei ne saprà più di me, ma ho avuto l'impressione che cercasse di reprimere tutto l'orrore di quell'esperienza, che cercasse di tenerselo dentro. Mi sono domandata spesso che cosa ne sarebbe stato di lei. Non avrei mai immaginato che avrebbe fatto questa fine.» «Il problema è, Elizabeth...» «Liz, per favore. Mi chiamano tutti così.» «Okay. Liz. Il problema è che non sappiamo quale ruolo abbia avuto Lucy in tutto questo. Sostiene di soffrire di amnesia, e senza dubbio il ma-
rito la maltrattava. Stiamo tentando di capire se fosse al corrente delle sue altre attività o in quale misura potesse esservi coinvolta.» «Non dirà mica sul serio! Lucy coinvolta in una cosa simile? Di certo quello che ha passato...» «So che sembra assurdo, Liz, ma le vittime si trasformano spesso in aguzzini. Non conoscono altre realtà. Dolore, rifiuto, torture, prepotenza. È un fenomeno frequente. Gli studi dimostrano che alcuni bambini maltrattati cominciano a maltrattare i fratellini o gli amichetti già a otto o dieci anni.» «Ma di sicuro non Lucy.» «Non lo sappiamo. Ecco perché le sto facendo queste domande, perché sto cercando di ricostruire la sua psicologia, di tracciare il suo profilo. Ha qualcosa da aggiungere?» «Be', come ho detto, era taciturna, dotata di buone capacità di recupero, e gli altri bambini, i più piccoli, sembravano obbedirle.» «Avevano paura di lei?» «Non posso dire di aver avuto quella sensazione.» «Ma le davano retta?» «Sì. Era senz'altro il capo.» «Che cos'altro sa dirmi sulla personalità di Lucy in quel periodo?» «Mi faccia pensare... Non molto, a essere sincera. Era una persona molto riservata. Ti permetteva di vedere solo quello che voleva farti vedere. Tenga presente che la retata, la brusca separazione dai genitori, hanno scosso quei bimbi come, se non più, dei fatti precedenti. Era l'unico mondo che conoscessero, dopo tutto. Sarà anche stato un inferno, ma era un inferno familiare. Lucy era sempre dolce, ma, come la maggior parte dei bambini, talvolta sapeva essere crudele.» «Davvero?» «Non sto dicendo che torturava gli animali o cose del genere» precisò Elizabeth. «Suppongo sia questo il tipo di episodi che le interessa, vero?» «Simili schemi di comportamento infantile possono essere un'indicazione utile, ma ho sempre ritenuto che venissero sopravvalutati. A essere onesta, una volta anch'io ho strappato le ali a una mosca. No, voglio solo raccogliere qualche notizia su Lucy. In che senso sapeva essere crudele, per esempio?» «Come può immaginare, è stato impossibile tenere uniti i fratelli dopo aver trovato dei genitori adottivi, così abbiamo dovuto separarli. In quel momento, era più importante che ciascun bambino vivesse in un ambiente
stabile e pieno d'affetto, possibilmente per un lungo periodo. Comunque, ricordo in particolare che Laura, la sorellina di Lucy, era sconvolta, ma Lucy si è limitata a commentare che ci avrebbe fatto l'abitudine. La povera piccina non riusciva a smettere di piangere.» «Dov'è finita?» «Laura? Da una famiglia di Hull, credo. È stato molto tempo fa, quindi mi perdoni se non ricordo tutti i dettagli.» «Si figuri. Sa dirmi che cosa è accaduto agli altri bambini?» «Purtroppo me ne sono andata poco dopo, quindi non mi sono mai aggiornata su di loro. Spesso vorrei averlo fatto, ma...» «Sa dirmi nient'altro?» Elizabeth si alzò e riprese a stirare. «Non mi viene in mente niente.» Alzandosi a sua volta, Jenny estrasse dalla borsa un biglietto da visita e glielo porse. «Se dovesse ricordare qualcosa...» Sbirciandolo, Elizabeth lo posò sul bordo dell'asse da stiro. «Sì, certo. Sono molto contenta di averla aiutata.» Non si direbbe, pensò Jenny facendo manovra per uscire dal minuscolo parcheggio. Elizabeth Bell le era sembrata una donna costretta ad affrontare ricordi che avrebbe preferito dimenticare. E Jenny non la biasimava. Non sapeva se avesse appreso qualcosa di utile oltre alla conferma del ritrovamento di oggetti satanici nella cantina, un particolare che Banks avrebbe di certo giudicato interessante. Il giorno dopo sarebbe andata fino a Alderthorpe per cercare qualcuno che conoscesse le famiglie prima dell'indagine e, come aveva suggerito Elizabeth, per «respirare l'atmosfera del posto». Capitolo 12 Dopo non aver fatto nemmeno una pausa in tutto il giorno e dopo aver persino saltato il pranzo per interrogare Lucy Payne, verso le tre di quel pomeriggio Banks si ritrovò senza accorgersene a gironzolare lungo una viuzza poco distante da North Market Street, in direzione dell'Old Ship Inn, oppresso dalla recente notizia che il secondo corpo rinvenuto nel giardino posteriore al numero 35 della Collina non era sicuramente quello di Leanne Wray. Lucy Payne era chiusa in una cella nel seminterrato della centrale, e Julia Ford aveva preso alloggio al Burgundy, l'hotel più costoso e confortevole di Eastvale. La task force e la scientifica lavoravano con tutta la rapi-
dità e l'impegno possibili, mentre Jenny Fuller scavava nel passato di Lucy, tutti alla ricerca di quel piccolo punto debole, di quella piccola prova concreta che dimostrasse il suo coinvolgimento negli omicidi. Banks sapeva che, se non avessero scoperto nient'altro entro le dodici dell'indomani, avrebbe dovuto rilasciarla. Quel giorno aveva ancora una faccenda da sbrigare: parlare con George Woodward, l'ispettore che aveva condotto gran parte delle indagini sugli eventi di Alderthorpe e che, ormai in pensione, gestiva un bed & breakfast a Withernsea. Banks lanciò un'occhiata all'orologio. Gli sarebbero occorse circa due ore: anche se si fosse concesso un goccetto e un boccone prima di mettersi in viaggio, sarebbe riuscito a non tornare troppo tardi. L'Old Ship era un anonimo e squallido bar vittoriano dalle vetrine fumé e dall'insegna raffigurante un antico veliero, con qualche panca sparpagliata sull'acciottolato del vicolo antistante. Poiché gli edifici tutt'intorno erano alti e scuri, non entrava molta luce. Il locale era famoso perché piuttosto appartato e, si diceva, tollerante verso i bevitori minorenni. Banks aveva sentito dire che più di un ragazzo di Eastvale aveva sorseggiato la sua prima pinta all'Old Ship molto prima di compiere i diciotto anni. Il pub non era molto affollato in quel momento della giornata, tra l'ora di pranzo e la ressa del dopolavoro. A onor del vero, non capitava molto spesso che l'Old Ship fosse affollato, perché pochissimi turisti vi si avventuravano e quasi tutti i residenti conoscevano posti migliori. L'interno era mal illuminato, l'aria viziata e acre del fumo e delle birre di oltre un secolo. Il che rendeva ancor più sorprendente che la barista fosse una ragazza dai corti capelli tinti di rosso e dal viso ovale, dalla pelle liscia, dal sorriso smagliante e dal carattere allegro. Banks si appoggiò al bancone. «Suppongo che non sia possibile avere un panino con cipolle e formaggio, vero?» «Spiacente» rispose la giovane. «Non serviamo da mangiare dopo le due. Un sacchetto di patatine, okay?» «Meglio di niente» disse Banks. «A che gusto?» «Vanno bene classiche. E anche una pinta di panaché, per favore.» Mentre Banks infilava la mano in una confezione di patatine piuttosto mollicce, la barista gli versò da bere continuando a sbirciarlo con la coda dell'occhio. Alla fine, gli chiese: «Lei non è il poliziotto che è stato qui per la ragazza scomparsa più o meno un mese fa?». «Leanne Wray» rispose Banks. «Sì.»
«Mi sembrava di averla vista. Non è il poliziotto con cui ho parlato, ma c'era anche lei. Non l'avete ancora trovata?» «Ti chiami Shannon, vero?» Lei sorrise. «Ricorda il mio nome e non ha nemmeno parlato con me. Incredibile.» Secondo la dichiarazione raccolta dall'agente investigativo Winsome Jackman, Shannon era una studentessa americana che si era presa un anno di libertà dai libri. Aveva già viaggiato in quasi tutta l'Europa e, grazie all'ospitalità di alcuni parenti e - come sospettava Banks - di un fidanzato, aveva finito per trascorrere qualche mese nello Yorkshire, dove pareva trovarsi benissimo. Il commissario immaginò che lavorasse all'Old Ship perché il gestore non richiedeva visti e permessi e pagava in contanti. Nemmeno molti, con tutta probabilità. Banks si accese una sigaretta dando un'occhiata intorno. Due vecchietti sedevano accanto alla vetrina fumando la pipa, senza parlare, senza nemmeno guardarsi. Sembrava che fossero lì da quando il locale aveva aperto nell'Ottocento. Il pavimento era di pietra consunta, e i tavoli erano graffiati e traballanti. A una parete era appeso di sghembo l'acquerello di un enorme veliero, mentre da quella opposta pendevano alcuni schizzi di scene marine a carboncino, molto belli per l'occhio inesperto di Banks. «Non volevo ficcare il naso» aggiunse Shannon. «Gliel'ho chiesto perché non l'ho più vista e ho letto di quelle ragazze di Leeds.» Rabbrividì leggermente. «È orribile. Ricordo che ero a Milwaukee (è da lì che vengo, Milwaukee, nel Wisconsin) quando è saltata fuori la vicenda di Jeffrey Dahmer. Ero solo una bambina, ma ero al corrente della storia, ed eravamo tutti spaventati e confusi. Non riesco a capire come la gente possa fare cose simili, e lei?» Guardandola, Banks riconobbe la fiducia, l'innocenza e la speranza che la sua vita fosse degna di essere vissuta e che il mondo non fosse un luogo del tutto malvagio nonostante i fatti terribili di cui era teatro. «No» rispose. «Nemmeno io.» «Allora non l'avete trovata? Leanne?» «No.» «Non che la conoscessi. L'ho vista solo una volta. Ma, sa, quando capita una cosa del genere, quando pensi di poter essere l'ultima persona ad aver visto qualcuno, be'...» Si posò la mano sul petto. «Ti resta dentro, capisce cosa intendo? Non riesco a cancellare quell'immagine dalla mente. Lei seduta là in fondo, accanto al caminetto.»
Banks pensò a Claire Toth, divorata dal senso di colpa per l'omicidio di Kimberley Myers, e intuì che chiunque avesse anche solo un legame remoto con i crimini di Payne si sentiva contaminato. «Capisco che cosa intendi» disse. Uno dei vecchietti si avvicinò al bancone e vi sbatté sopra un bicchiere da mezza pinta. Shannon glielo riempì; l'uomo pagò e tornò a sedersi. La ragazza arricciò il naso. «Vengono qui ogni giorno. Puntuali come orologi svizzeri. Se uno dei due non si presentasse, mi verrebbe spontaneo chiamare un'ambulanza.» «Quando dici di non riuscire a cancellare l'immagine di Leanne dalla mente, significa che hai riflettuto su quella sera?» «Non proprio» spiegò Shannon. «Insomma, ho pensato... sa, che l'avessero rapita, come le altre. È quello che hanno pensato tutti.» «Sto cominciando a credere che forse non è così» osservò Banks dando voce per la prima volta alla sua paura. «Anzi, sono sempre più convinto che siamo fuori strada.» «Non capisco.» «Non ha importanza» replicò Banks. «Ho solo pensato di fare un salto per vedere se per caso ti fosse venuto in mente qualcos'altro. È passato un bel po' di tempo.» E questo significava che le eventuali piste lasciate da Leanne potevano essersi raffreddate, aggiunse tra sé. Se erano stati troppo frettolosi nel dare per scontato che Leanne Wray fosse stata sequestrata dalla stessa persona, o dalle stesse persone, che avevano sequestrato Kelly Matthews e Samantha Foster, gli indizi riguardo a quanto era accaduto veramente potevano ormai essere scomparsi per sempre. «Non saprei come aiutarla» dichiarò Shannon. «Ascolta» continuò Banks «hai detto che erano seduti laggiù, giusto?» Indicò il tavolo accanto al vuoto caminetto rivestito di piastrelle. «Sì. Erano in quattro. A quel tavolo.» «Bevevano molto?» «No. L'ho già detto alla poliziotta. Hanno bevuto solo uno o due drink a testa. Mi sembrava che Leanne fosse troppo piccola, ma il padrone ci ha ordinato di chiudere un occhio, a meno che non sia davvero evidente.» Si portò la mano alla bocca. «Accidenti, probabilmente non dovevo dirglielo, vero?» «Non preoccuparti. Sappiamo tutto sui metodi del signor Parkinson. E dimentica quello che ci hai raccontato il mese scorso, Shannon. So che, se volessi, potrei consultare i dossier, ma vorrei che ricominciassi da capo,
come se fosse la prima volta.» Era difficile spiegarlo a un civile, ma doveva fingere di indagare sulla scomparsa di Leanne Wray come se fosse un crimine appena commesso. Non voleva cominciare studiando vecchi fascicoli in ufficio (anche se sarebbe andata a finire così qualora non fosse emerso qualcosa entro breve), voleva cominciare rivisitando il luogo in cui era stata vista per l'ultima volta. «Leanne sembrava ubriaca?» domandò. «Aveva la ridarella, parlava a voce un po' troppo alta, come se non fosse abituata all'alcol.» «Che cosa beveva?» «Non ricordo. Non birra. Forse vino, o magari Pernod, qualcosa del genere.» «Hai avuto l'impressione che fossero divisi in coppie? Che ci fosse del tenero?» Shannon rifletté per un istante. «No. Due di loro stavano sicuramente insieme. Si capiva da come si toccavano ogni tanto. Insomma, non è che si sbaciucchiassero o cose di questo tipo. Ma gli altri due, Leanne e...» «Mick Blair» intervenne Banks. «Non so come si chiamano. Comunque, mi è sembrato che lui fosse attratto da Leanne e che lei flirtasse un po', forse per colpa dei drink.» «La stava molestando?» «Oh, no, niente di simile, altrimenti ve l'avrei detto subito. No, ho solo visto che la guardava in un certo modo una o due volte. Sembrava che andassero d'accordo, ma, come ripeto, ho solo pensato che lui le facesse il filo e che lei lo tenesse un po' sulla corda, ecco tutto.» «Non avevi accennato a questo particolare.» «Non mi sembrava importante. E poi, nessuno me l'ha chiesto. All'epoca, tutti temevano che fosse stata rapita da un serial killer.» Giusto, pensò Banks con un sospiro. I genitori avevano continuato a ribadire che Leanne era una brava ragazza e che, in circostanze normali, non avrebbe mai violato il coprifuoco. Erano così sicuri che fosse stata aggredita o sequestrata che la loro certezza aveva condizionato le indagini, e la polizia aveva trasgredito una delle sue regole fondamentali: non dare niente per scontato finché non hai vagliato ogni possibile aspetto. Quello era stato anche il periodo del clamore causato dalla sparizione di Kelly Matthews e Samantha Foster, e la scomparsa di Leanne, un'altra adolescente carina e con la testa sulle spalle, era stata associata alle loro. Naturalmente,
vi era poi la questione della borsetta abbandonata. Conteneva sia l'inalatore, di cui Leanne avrebbe avuto bisogno nell'eventualità di un attacco d'asma, sia il borsellino con venticinque sterline e una manciata di monete. Se intendeva scappare di casa, era assurdo che avesse gettato via i soldi. Le avrebbero senza dubbio fatto comodo. Forse l'agente investigativo Winsome Jackman, che aveva interrogato Shannon, avrebbe dovuto rivolgerle domande più approfondite, ma Banks non se la sentiva di biasimarla. Aveva scoperto quel che contava all'epoca: che i quattro si erano comportati bene, che non avevano causato problemi, che non avevano litigato, che non erano sbronzi e che non avevano attirato l'attenzione sgradita di alcun estraneo. «Qual era il loro stato d'animo generale?» chiese Banks. «Sembravano agitati, tranquilli o che altro?» «Non ricordo niente di insolito. Non hanno dato fastidio a nessuno, altrimenti ve l'avrei senz'altro detto. È normale con i minorenni. Sanno di sgarrare, capisce, e cercano di non dare nell'occhio.» Banks ricordava bene quella sensazione. A sedici anni, lui e il suo amico Steve si erano seduti, orgogliosi e terrorizzati, in un piccolo e squallido pub a circa due chilometri dal complesso in cui abitavano, bevendo la loro prima pinta di birra amara in un angolo accanto al juke-box e fumando Park Drive con il filtro. Rammentava che, pur essendosi sentiri dei veri adulti, avevano anche temuto che arrivasse la polizia o entrasse un conoscente (un amico di suo padre, per esempio), quindi avevano tentato di confondersi il più possibile con il rivestimento di legno. Sorseggiando la panaché, appallottolò il sacchetto delle patatine. Shannon lo prese e lo buttò nel cestino della spazzatura sotto il bancone. «Però ricordo che, poco prima di uscire, sembravano entusiasti» aggiunse la ragazza. «Ecco, anche se ero troppo lontana per sentire che cosa dicevano e anche se non parlavano a voce alta, ho intuito che qualcuno aveva fatto una proposta interessante.» Era un dettaglio nuovo per Banks. «Non sai di che cosa si trattasse?» «No, era solo come se avessero detto: "Sì, facciamolo". Se ne sono andati un paio di minuti dopo.» «Che ora era?» «Dovevano essere più o meno le undici meno un quarto.» «Ed erano tutti entusiasti di questa proposta? Anche Leanne?» «A essere sincera, non saprei distinguere le varie reazioni» rispose Shannon aggrottando la fronte. «È stato qualcosa di generale, come se qualcuno avesse lanciato un'idea e tutti pensassero che sarebbe stato diver-
tente.» «Questa idea fantastica, hai avuto l'impressione che fosse qualcosa da fare subito, appena usciti di qui?» «Non lo so. Forse. Perché?» Banks vuotò il bicchiere. «Perché Leanne Wray aveva il coprifuoco alle undici» spiegò. «E secondo i suoi genitori non lo violava mai. Se fosse andata via con gli altri dopo che erano stati qui, non sarebbe arrivata a casa in tempo. C'è anche dell'altro.» «Che cosa?» «Se avevano davvero intenzione di fare qualcosa, allora tutti i suoi amici hanno mentito.» Shannon rifletté per un istante. «Capisco. Ma non c'è motivo per pensare che non intendesse tornare a casa. Magari stava per farlo. Insomma, forse erano solo gli altri tre ad avere in mente qualcosa. Ascolti, mi dispiace tanto... Ecco, sa, l'altra volta non mi è venuto in mente. Ho cercato di ricordare l'essenziale.» «Stai tranquilla» la rassicurò Banks sorridendo. «Non è colpa tua.» Guardò l'orologio. Era ora di mettersi in viaggio verso Withernsea. «Devo scappare.» «Oh. Partirò alla fine della prossima settimana» annunciò Shannon. «Il prossimo mercoledì sarà la mia ultima sera, sa. Se vuole fare un salto per un drink o per un saluto...» Banks non sapeva come interpretare l'invito. Era un'avance? Sicuramente no. Shannon non poteva avere più di ventun anni. Eppure, anche solo la minima probabilità che una ragazza più giovane gli facesse la corte lo riempiva di orgoglio. «Grazie» disse. «Non sono sicuro di riuscire a passare, quindi, in caso non abbia tempo, ti auguro bon voyage adesso.» Shannon reagì con una noncurante scrollata di spalle, e Banks uscì nel vicolo desolato. Era solo metà pomeriggio, ma Annie avrebbe giurato che Janet Taylor fosse ubriaca. Non tanto da non reggersi sulle gambe, ma abbastanza da sembrare confusa, in preda a un leggero intontimento. Annie aveva conosciuto diversi ubriaconi nella comune di artisti dove era cresciuta con Ray, suo padre. Una volta, per un breve periodo, c'era stato uno scrittore alcolizzato, un uomo robusto e puzzolente dagli occhi cisposi e dalla folta barba arruffata. Nascondeva bottiglie dappertutto. Ray le aveva raccomandato di stargli alla larga e quando quel tizio - di cui aveva scordato il nome -
aveva osato rivolgerle la parola, si era infuriato e l'aveva sbattuto fuori della stanza. Era stata una delle rare occasioni in cui aveva visto suo padre davvero arrabbiato. Gli piaceva bere un goccio di vino di tanto in tanto e senza dubbio fumava un po' d'erba, ma non era un alcolista né un drogato. Era quasi sempre assorbito dal suo lavoro, dal dipinto del momento, a spese di ogni altra cosa, compresa Annie. L'appartamento di Janet era a soqquadro, con indumenti sparsi ovunque e tazze di tè lasciate a metà sul davanzale e sulla mensola del caminetto. Puzzava anche come la stanza di un ubriacone, quella singolare miscela di chiuso e odore agrodolce dell'alcol. Del gin, nel caso di Janet. La recluta si accasciò su una poltrona, sopra una T-shirt spiegazzata e un paio di jeans, lasciando che l'ospite si arrangiasse da sola. Annie spostò alcuni giornali da una sedia con lo schienale rigido e si accomodò. «Che cosa vuole adesso?» chiese Janet. «È venuta ad arrestarmi?» «Non ancora.» «Allora perché è qui? Per farmi altre domande?» «Ha saputo che Terence Payne è morto?» «Sì.» «Come sta, Janet?» «Come sto? Ah. Bella domanda. Be', vediamo un po'.» Cominciò a contare sulle dita mentre parlava. «A parte il fatto che non riesco a dormire, a parte il fatto che giro per l'appartamento come un'anima in pena e soffro di claustrofobia ogni volta che fa buio, a parte il fatto che continuo a rivivere quel momento appena chiudo gli occhi, a parte il fatto che mi sono quasi fottuta la carriera, vediamo un po'... sto benissimo.» Annie trasse un profondo respiro. Non era sicuramente lì per farla stare meglio, anche se, in un certo senso, era quello che avrebbe voluto. «Sa, dovrebbe davvero rivolgersi a uno specialista, Janet. La Federazione sarà...» «No! No, non andrò da nessuno strizzacervelli. Non voglio che mi incasinino la testa. Non con tutta la merda che sta succedendo. Quando avranno finito con me, non saprò più nemmeno dove mi trovo. Immagini che figura farei in tribunale.» Annie alzò le mani. «Okay. Okay. Spetta a lei decidere.» Estrasse alcuni documenti dalla cartella. «Ho assistito all'autopsia di Terence Payne, e ci sono un paio di dettagli che vorrei riesaminare nella sua dichiarazione.» «Mi sta accusando di aver mentito?» «No, niente affatto.»
Janet si passò la mano tra i capelli unti e aridi. «Perché non sono una bugiarda. Forse ero un po' confusa sulla sequenza dei fatti - è capitato tutto così in fretta -, ma gliel'ho raccontata come la ricordavo.» «Okay, Janet, va bene. Ascolti, nella dichiarazione afferma di aver colpito Payne tre volte alla tempia sinistra e una volta al polso e di avergli sferrato una delle manganellate alla tempia con due mani.» «Davvero?» «Sì. È corretto?» «Non ricordavo con precisione quante volte l'avessi picchiato o dove, ma, sì, mi sembra più o meno esatto. Perché?» «Secondo il dottor Mackenzie, ha bastonato Payne nove volte. Tre alla tempia, una al polso, una alla guancia, due alla base del cranio mentre era accovacciato o in ginocchio e due sulla sommità della testa mentre era acquattato o seduto.» Janet non aprì bocca, e un jet interruppe il silenzio, riempiendolo con il rombo dei motori e la promessa di luoghi lontani ed esotici. Ovunque tranne qui, pensò Annie, e ipotizzò che Janet avesse espresso il medesimo desiderio. «Janet?» «Che cosa? Non mi ero accorta che mi avesse fatto una domanda.» «Qual è la sua opinione su quanto le ho appena spiegato?» «Non lo so. Gliel'ho detto. Non stavo contando. Stavo solo cercando di salvarmi la pelle.» «È sicura di non aver agito per vendicare Dennis?» «Che cosa intende?» «Il numero di colpi, la posizione della vittima, la violenza delle manganellate.» Janet avvampò. «Vittima? È così che chiama quel bastardo? Vittima. Dennis era steso lì sul pavimento in fin di vita, e lei chiama vittima Terence Payne. Come osa?» «Spiacente, Janet, ma è questa la tesi che verrebbe presentata se si finisse in tribunale, e farebbe meglio ad abituarsi all'idea.» Janet tacque. «Perché ha detto quel che ha detto all'inserviente dell'ambulanza?» «Che cosa gli ho detto?» «"È morto? Ho ammazzato quel bastardo?" A che cosa si riferiva?» «Non lo so. Non ricordo neppure di averlo detto.» «Si potrebbe sostenere che questa frase esprime la sua intenzione di ucciderlo, se ne rende conto?»
«Sì, suppongo che la si possa interpretare così.» «È vero, Janet? Intendeva uccidere Terence Payne?» «No! Gliel'ho detto. Stavo solo cercando di salvarmi la pelle. Perché non mi crede?» «E i colpi alla nuca? Dove si collocano nella sequenza degli eventi?» «Non lo so.» «Si sforzi. Sa fare di meglio.» «Forse quando si è chinato tentando di prendere il machete.» «Okay. Ma non ricorda di averglieli sferrati?» «No, ma suppongo di averlo fatto, se lo dice lei.» «E quei due colpi alla sommità della testa? Secondo il dottor Mackenzie, sono stati assestati con parecchia forza. Non sono stati casuali.» Janet scosse il capo. «Non lo so. Non lo so.» Annie si piegò in avanti e strinse il mento di Janet tra il pollice e l'indice, fissandola negli occhi annebbiati e intimoriti. «Mi ascolti, Janet. Terence Payne era più alto di lei. Date la violenza e l'angolazione, quelle bastonate possono essere state inflitte solo mentre era seduto e solo se l'aggressore ha avuto abbastanza tempo da eseguire un'ampia rotazione ininterrotta delle braccia verso il basso e... be', può immaginarlo. Forza, Janet. Parli con me. Che ci creda o no, sto cercando di aiutarla.» Janet liberò il mento dalla stretta e distolse lo sguardo. «Ma che cosa vuole che dica? Mi caccerei nei guai ancora di più.» «Non è vero. Non otterrà niente dando l'impressione di mentire o di nascondere le sue azioni. Si procurerà solo un'accusa di spergiuro. La verità è la sua miglior difesa. Pensa che, se si arriverà a quel punto, ci sarà anche un solo giurato incapace di immedesimarsi nella sua situazione, anche nel caso in cui ammettesse di aver perso il controllo per qualche istante? Faccia un favore a se stessa, Janet.» «Che cosa vuole che dica?» «La verità. È andata così? Payne era a terra e lei, fuori di sé, gli ha dato una manganellata per Dennis? E poi, pum, un'altra? È andata così?» Janet balzò in piedi e cominciò a misurare la stanza a grandi passi, torcendosi le mani. «Che cosa ci sarebbe di male se gliene avessi date un paio per Dennis? Era quel che si meritava.» «È quello che ha fatto? Adesso ricorda?» Janet si fermò e socchiuse gli occhi, quindi si versò due dita di gin e lo tracannò. «Non con chiarezza, no, ma se lei dice che è andata così, non posso negarlo, giusto? Non di fronte al referto del patologo.»
«I patologi possono sbagliare» osservò Annie, anche se non riguardo al numero, alla violenza e all'angolazione dei colpi, aggiunse tra sé. «Ma a chi crederanno in tribunale?» «Gliel'ho detto. Se si arriverà a quel punto, saranno tutti molto comprensivi. Ma forse non si andrà in tribunale.» Janet tornò a sedersi, appollaiata sul bordo della poltrona. «Che cosa vuol dire?» «Dipende dal Dipartimento della pubblica accusa. Li incontrerò lunedì. Nel frattempo, se desidera modificare la sua dichiarazione, questo è il momento giusto.» «Non serve a niente» replicò Janet prendendosi la testa tra le mani e piangendo. «Non ricordo con chiarezza. È accaduto tutto così in fretta, è finito prima che mi rendessi conto di che cosa stava succedendo, e Dennis... Dennis era morto, sanguinava tra le mie braccia. Quella parte è durata un'eternità, io che cercavo di arrestare l'emorragia, che gli ripetevo di tenere duro.» Si guardò le mani come se vedesse la stessa cosa che vede Lady Macbeth, quel che non poteva lavare via. «Ma non smetteva di perdere sangue. Non riuscivo a fermarlo. Forse è andata come ha detto lei. Forse può essere andata soltanto così. Ricordo solo la paura, l'adrenalina, la...» «La collera, Janet? È questo che stava per dire?» Janet le lanciò un'occhiata di sfida. «E anche se fosse? Non avevo forse un buon motivo per essere in collera?» «Non sono qui per giudicarla. Penso che anch'io sarei stata in collera, che probabilmente mi sarei comportata proprio come lei. Ma dobbiamo sistemare la faccenda. Il problema non scomparirà. Come le ho detto, il Dipartimento della pubblica accusa potrebbe optare per un reato più lieve: nella peggiore delle ipotesi, omicidio preterintenzionale, magari addirittura omicidio per legittima difesa. Non stiamo parlando della pena da scontare, Janet. Ma non possiamo insabbiare il caso sperando che svanisca da solo. Dobbiamo prendere dei provvedimenti.» Annie parlò piano, con dolcezza, come se si rivolgesse a un bambino impaurito. «Capisco» rimbeccò Janet. «Sono una specie di agnello sacrificale portato al macello per rabbonire l'opinione pubblica.» «Niente affatto.» Annie si alzò. «È molto più probabile che l'opinione pubblica si schieri dalla sua parte. È solo una procedura da seguire. Ascolti, se desidera mettersi in contatto con me per qualcosa - qualsiasi cosa prima di lunedì, ecco qui il mio biglietto.» Scrisse sul retro il numero di casa e del cellulare.
«Grazie.» Janet lo prese, gli lanciò un'occhiata e lo posò sul tavolino. «Sa» aggiunse Annie sulla porta «non sono una sua nemica, Janet. Sì, dovrei produrre delle prove se finissimo in tribunale, ma non sono contro di lei.» Janet le rivolse un sorriso stiracchiato. «Sì, lo so» replicò allungando di nuovo la mano verso il gin. «La vita è una stronza, vero?» «Può dirlo forte.» Annie sorrise di rimando. «E l'alternativa è la morte.» «Claire! Com'è bello rivederti. Entra.» Claire Toth seguì Maggie nell'ingresso fino al soggiorno, dove si accasciò sul divano. Maggie notò subito il suo pallore e il fatto che si era tagliata i magnifici capelli biondi. I pochi rimasti le spuntavano a zigzag dal cranio, indicando che non era certo andata dal parrucchiere. Non indossava la divisa della scuola, bensì un paio di jeans cascanti e una felpa altrettanto cascante che nascondevano ogni traccia della sua avvenenza. Non era truccata e aveva il viso punteggiato di brufoli. Maggie rammentò quanto la dottoressa Simms le aveva spiegato riguardo alle possibili reazioni delle migliori amiche di Kimberley: aveva detto che alcune avrebbero potuto reprimere la loro sessualità pensando di proteggersi da predatori come Terence Payne. Sembrava che Claire si comportasse proprio così. Maggie si domandò se fare qualche commento, ma decise di no. «Latte e biscotti?» propose. Claire scosse la testa. «Che c'è, tesoro?» chiese Maggie. «Qualcosa non va?» «Non lo so» rispose la ragazza. «Non riesco a dormire. Continuo a pensare a lei. Resto sveglia tutta la notte a rimuginare su che cosa le hanno fatto, su come deve essersi sentita... Non riesco a sopportarlo. È orribile.» «Che cosa dicono i tuoi genitori?» Claire distolse lo sguardo. «Non posso parlare con loro. Ho... ho pensato, sai, che forse tu avresti capito meglio.» «Aspetta, vado a prendere lo stesso qualcosa da mangiare.» Maggie tornò dalla cucina portando due bicchieri di latte e un vassoio di biscotti con gocce di cioccolato, che posò sul tavolino. Dopo aver sorseggiato il latte, Claire sgranocchiò un biscotto. «Allora hai letto di me nei giornali?» si informò Maggie. Claire annuì. «E che cosa ne pensi?»
«All'inizio non riuscivo a crederci. Non tu. Poi mi sono resa conto che poteva capitare a chiunque, che non bisogna essere povere o stupide per subire dei maltrattamenti. Infine, mi è dispiaciuto per te.» «Be', non devi sentirti così» disse Maggie abbozzando un sorriso. «Ho smesso di dispiacermi per me stessa molto tempo fa, e adesso sto solo andando avanti con la mia vita. D'accordo?» «Okay.» «A che cosa pensi? Ti va di dirmelo?» «A quanto deve essere stato terribile per Kimberley, con il signor Payne, sai, che le faceva quelle cose. Sesso. La polizia non ha raccontato niente ai giornali, ma io so che le ha fatto delle cose orribili. Riesco persino a immaginarlo mentre lo fa, mentre le fa del male, e Kimberley è così indifesa.» «È inutile immaginare com'è stato, Claire. Non serve a niente.» «Credi che non lo sappia? Credi che lo faccia apposta?» Scosse piano la testa. «E continuo a rivivere quella sera nella mia mente. Io ho detto che sarei rimasta per un lento con Nicky e Kimberley ha risposto che andava bene, che probabilmente avrebbe trovato qualcuno con cui tornare a casa, ma comunque non era molto lontano e la strada era ben illuminata. Dovevo prevedere che le sarebbe successo qualcosa.» «Non potevi prevederlo, Claire. Come avresti potuto?» «Avrei dovuto. Sapevamo di quelle ragazze, quelle che erano scomparse. Dovevamo rimanere insieme, stare più attente.» «Claire, ascoltami: non è colpa tua. So che ti sembrerà crudele, ma, se c'è qualcuno che sarebbe dovuto stare più attento, forse quel qualcuno è Kimberley. Nessuno ti può condannare per aver ballato con un ragazzo. Se aveva paura, avrebbe dovuto farsi accompagnare da qualcuno anziché allontanarsi da sola.» «Magari non è andata così.» «Che cosa vuoi dire?» «Magari il signor Payne le ha dato un passaggio.» «Hai detto alla polizia di non averlo visto. Non l'hai visto, vero?» «No. Ma può darsi che stesse aspettando fuori, giusto?» «Suppongo di sì» ammise Maggie. «Lo odio. Sono contenta che sia morto. E odio Nicky Gallagher. Odio tutti gli uomini.» Maggie non seppe come reagire. Avrebbe potuto dirle che con il tempo l'avrebbe superato, ma non sarebbe servito a un bel niente. La cosa migliore da fare, concluse, era parlare con la signora Toth e cercare di persuadere
Claire a rivolgersi a uno psicologo prima che la situazione peggiorasse. Se non altro, pareva disposta a discutere dei suoi pensieri e sentimenti, il che era un buon inizio. «È rimasta cosciente per tutto il tempo?» domandò Claire. «Insomma, si è accorta che le stava facendo quelle cose?» «Claire, smettila.» Ma il telefono risparmiò a Maggie ulteriori discussioni. Ascoltò con la fronte aggrottata, pronunciò qualche parola e quindi tornò a concentrarsi su Claire, che dimenticò per un attimo la tragedia di Kimberley e le domandò chi fosse. «Era la stazione televisiva locale» rispose Maggie, chiedendosi se sembrasse sbalordita quanto si sentiva. Un fremito di interesse. «Che cosa volevano?» «Vogliono che compaia a una trasmissione di questa sera.» «Hai accettato?» «Sì» dichiarò Maggie, quasi non riuscisse a crederci nemmeno lei. «Tosto» osservò Claire con un debole sorriso. Molte stazioni balneari inglesi hanno l'aria di aver visto giorni migliori. Withernsea aveva l'aria di non aver mai visto un solo giorno buono. Il sole splendeva sul resto dell'isola, ma a Withernsea non l'avresti mai immaginato. Una pioggia fredda e dispettosa cadeva obliqua dal cielo di ferro, e onde che si sollevavano da un Mare del Nord color biancheria sporca gettavano ciottoli e sabbia lurida sulla spiaggia. Arretrata rispetto al lungomare, si allungava una striscia di negozi di souvenir, sale giochi e sale bingo, le luci dalle tìnte vivaci livide e abbaglianti nel pomeriggio cupo, il grido amplificato dell'annunciatore («Settantasette, sette-sette!») che riecheggiava patetico lungo la passeggiata deserta. Ogni cosa rammentava a Banks le vacanze di un'infanzia lontana a Great Yarmouth, Blackpool o Scarborough. Giornate di luglio o agosto in cui pareva piovere senza sosta per due settimane e in cui poteva soltanto gironzolare per le sale giochi infilando i suoi penny nei banditi con un braccio solo e osservando l'artiglio meccanico che lasciava cadere l'accendino luccicante poco prima che raggiungesse lo scivolo del vincitore. Non aveva mai giocato a bingo, ma aveva spesso sbirciato le donne dai lineamenti duri e dai capelli ossigenati sedere lì partita dopo partita, fumando una sigaretta dietro l'altra e fissando i numerini sulle cartelle. In giorni migliori, quando ormai era entrato nell'adolescenza, ammazzava il tempo perlustrando le librerie di seconda mano alla ricerca di storie
dell'orrore delle vecchie edizioni Pan Books o di best-seller spinti come L'uomo che non sapeva amare e I peccati di Peyton Place. Quando aveva tredici o quattordici anni, ritenendosi troppo grande per andare in villeggiatura con i genitori, vagabondava da solo tutto il giorno, bighellonando nei bar e dando una scorsa agli ultimi singoli da Woolworth o in un negozio di dischi locale. A volte conosceva una ragazza nella sua stessa situazione, e aveva vissuto i primi baci e i primi incerti palpeggiamenti proprio durante quelle vacanze. Parcheggiò sul lungomare e, senza nemmeno fermarsi a dare un'occhiata all'acqua, si avviò a passo spedito verso l'edificio di fronte, dove George Woodward, un ispettore in pensione, gestiva ora il suo bed & breakfast. Il cartello CAMERE LIBERE oscillava nel vento cigolando come la persiana di una casa infestata dai fantasmi. Quando suonò il campanello, Banks era ormai infreddolito e bagnato fradicio. George Woodward era un signore azzimato dai capelli grigi, dai baffi ispidi e dagli occhi vigili di un ex poliziotto. Aveva inoltre un'aria da cane bastonato, che si manifestò soprattutto quando scrutò il cielo sopra la spalla del visitatore e scosse piano la testa. «Avrei preferito Torquay» esordì «ma mia suocera abita qui a Withemsea.» Fece entrare Banks. «Oh, be', non è poi così male. È solo venuto in una giornata orribile, ecco tutto. E all'inizio della stagione, per giunta. Dovrebbe vederlo quando splende il sole ed è pieno di gente. Tutto un altro paio di maniche.» Banks si domandò in quale giorno dell'anno si verificasse quell'evento cruciale, ma tacque. Sarebbe stato stupido inimicarsi George Woodward. Si trovavano in un'ampia stanza con il bovindo e diversi tavoli, evidentemente la sala della colazione che i fortunati vacanzieri si affrettavano a raggiungere ogni mattina per consumare uova e pancetta. I tavoli erano apparecchiati con tovaglie di lino bianco, ma non c'erano coltelli né forchette, e il commissario si chiese se i Woodward avessero qualche ospite al momento. Senza offargli del tè né qualcosa di più forte, George Woodward sedette invitandolo ad accomodarsi di fronte a lui. «Così si tratta di Alderthorpe, giusto?» «Sì.» Durante il viaggio verso Withernsea, Banks aveva parlato al cellulare con Jenny Fuller, che gli aveva riferito le informazioni ottenute da Elizabeth Bell, l'assistente sociale. Ora voleva conoscere il punto di vista del poliziotto. «Ho sempre saputo che un giorno quella storia sarebbe tornata a perseguitarci.»
«Che cosa intende?» «Una ferita come quella. Non si rimargina. Continua a suppurare.» «Credo che abbia ragione.» Come Jenny aveva fatto con Elizabeth Bell, Banks decise di fidarsi di George Woodward. «Sono qui per Lucy Payne» annunciò studiando l'espressione del suo interlocutore. «Anzi, Linda Godwin. Ma che resti tra noi per il momento.» Woodward impallidì e fischiò tra i denti. «Mio Dio, non l'avrei mai immaginato! Linda Godwin?» «Esatto.» «Ho visto la foto sul giornale, ma non l'ho riconosciuta. Povera bambina.» «Ormai è cresciuta.» «Non penserete davvero che abbia qualcosa a che vedere con quegli omicidi?» «Non sappiamo che cosa pensare. È questo il problema. Afferma di soffrire di amnesia. Abbiamo alcune prove indiziarie, ma non molte. Sa a che genere di elementi mi riferisco.» «Che cosa dice il suo istinto?» «Che è più coinvolta di quanto voglia far credere. Non posso ancora pronunciarmi sull'eventuale complicità.» «Sa che aveva solo dodici anni quando l'ho conosciuta?» «Sì.» «Dodici che valevano per quaranta, data la responsabilità che aveva sulle spalle.» «Responsabilità?» Jenny aveva accennato al fatto che Lucy si era presa cura dei più piccoli; Banks si domandò se Woodward alludesse a questo. «Sì. Era la più grande. Cristo, amico, aveva un fratellino di dieci anni che veniva sodomizzato regolarmente dal padre e dallo zio e non ha potuto fare un accidenti di niente. Riservavano il medesimo trattamento anche a lei. Riesce anche solo lontanamente a immaginare come dovesse sentirsi?» Banks ammise di no. «Le spiace se fumo?» chiese. «Vado a prenderle un posacenere. È fortunato che Mary sia da sua madre.» Woodward ammiccò. «Non glielo permetterebbe mai.» Recuperò un pesante posacenere di vetro dalla credenza accanto alla porta e sorprese Banks estraendo un pacchetto spiegazzato di Embassy Regal dal taschino della camicia sotto il maglione a V beige. Lo sorprese poi ancor di più offrendogli un whisky. «Niente di sofisticato, intendiamoci. Soltanto Bell's.» «Il Bell's andrà benissimo» lo rassicurò Banks. Ne avrebbe bevuto uno
solo, perché il viaggio di ritorno sarebbe stato lungo. Dopo che ebbero fatto tintinnare i bicchieri, il primo sorso fu delizioso. Dipendeva tutto dalla pioggia fredda che sferzava i bovindi. «Ha conosciuto Lucy Payne?» domandò il commissario. L'altro sorseggiò il suo Bell's liscio e fece una smorfia. «Le ho parlato a malapena. Anche a tutti gli altri, se è per questo. Li abbiamo affidati agli assistenti sociali. Avevamo abbastanza da fare con i genitori.» «Può raccontarmi com'è andata?» Woodward si passò la mano tra i capelli, poi diede un lungo tiro alla sigaretta. «Buon Dio, bisogna tornare indietro di un bel po'» disse. «Quello che riesce a ricordare.» «Oh, ricordo tutto come se fosse ieri. È questo il problema.» Banks scosse la cenere dalla sigaretta in attesa che George Woodward riandasse con la memoria all'unico giorno che probabilmente avrebbe preferito dimenticare. «Era buio pesto quando siamo entrati» cominciò. «E faceva un freddo cane. Era l'11 febbraio 1990. In auto c'eravamo io e Baz, Barry Stevens, il mio sergente investigativo. Quel maledetto riscaldamento non funzionava, ed eravamo quasi congelati quando siamo arrivati a Alderthorpe. Tutte le pozzanghere erano ghiacciate. C'erano altre tre auto, più un furgone per gli assistenti sociali. Eravamo intervenuti dopo la soffiata di un'insegnante locale, che si era insospettita per alcune assenze, per l'aspetto e il comportamento dei piccoli e soprattutto per la scomparsa di Kathleen Murray.» «È quella che è stata uccisa, giusto?» «Esatto. Comunque, c'erano un paio di luci accese nella casa, ci siamo precipitati lì e abbiamo sfondato la porta (avevamo un mandato), ed è stato allora che... che l'abbiamo visto.» Tacque per un istante, fissando un punto oltre Banks, oltre il bovindo, addirittura oltre il Mare del Nord. Bevve poi un altro sorso di whisky, tossì e continuò. «Naturalmente, all'inizio non abbiamo avuto modo di distinguere le due famiglie. Vivevano tutti insieme, e nessuno sapeva chi fosse genitore di chi.» «Che cosa avete trovato?» «Dormivano quasi tutti finché abbiamo buttato giù le porte. Avevano un cane feroce, che ha dato un bel morso a Baz mentre entravamo. Poi abbiamo beccato Oliver Murray e Pamela Godwin (fratello e sorella) a letto con una delle piccole Godwin: Laura.» «La sorellina di Lucy.» «Sì. Dianne Murray, la secondogenita, era rannicchiata sana e salva in
una stanza con il fratello Keith, ma la sorella, Susan, era infilata tra gli altri due adulti.» Deglutì. «La casa era un porcile - da tutti i punti di vista -, e il tanfo era terribile. Avevano aperto un buco nella parete del salotto per andare avanti e indietro senza uscire ed essere visti.» Si interruppe un attimo per fare mente locale. «È difficile immaginare la sensazione di squallore, di depravazione, che regnava là dentro, ma era tangibile, qualcosa che potevi toccare e sentire in bocca. Non mi riferisco solo al puzzo, alle macchie, alla sporcizia, ma a qualcosa di più. Una specie di squallore spirituale, non so se mi spiego. Erano tutti terrorizzati, naturalmente, i bambini in particolare.» Scosse la testa. «A volte, ripensandoci, mi domando se non avremmo potuto farlo in qualche altro modo, in modo più delicato. Non lo so. Ormai è troppo tardi, comunque.» «È vero che c'erano tracce di rituali satanici?» «Sì, nella cantina dei Godwin.» «Che cosa avete trovato?» «Il solito. Libri, incenso, tuniche, il pentacolo e un altare, dove senza dubbio veniva penetrata la vergine. Altre cianfrusaglie occultistiche. Sa qual è la mia teoria?» «No. Quale?» «Queste persone non erano streghe o adoratori di Satana; erano soltanto pervertiti malati e crudeli. Sono certo che usavano il satanismo come pretesto per assumere droghe, ballando e cantando fino al delirio. Tutta quella messinscena - canti, musica, tuniche, candele, cerchi magici e così via serviva solo a farlo passare per un gioco agli occhi dei bambini. Gli condizionava la mente, impedendo a quei poveretti di capire se quanto facevano fosse normale - giocare con mamma e papà anche se qualche volta era doloroso ed essere punito se facevi il cattivo - oppure qualcosa di fuori del comune, qualcosa di esagerato. Era entrambe le cose, naturalmente. Non mi meraviglia che non abbiano capito. E tutte quelle cianfrusaglie avevano il solo scopo di trasformarlo in un gioco, in un girotondo, ecco tutto.» Oggetti satanici erano stati rinvenuti anche nello scantinato dei Payne. Banks si chiese se esistesse un legame. «Qualcuno di loro ha mai professato la fede in Satana?» «Durante il processo, Oliver e Pamela hanno cercato di confondere la giuria con qualche frase astrusa sul "Grande Dio con le corna" e a proposito del numero 666, ma nessuno gli ha dato retta. Cianfrusaglie, nient'altro. Un gioco per bambini. Scendiamo tutti in cantina, travestiamoci e giochiamo.»
«Dov'era Lucy?» «Chiusa in una gabbia (una di quelle che si usavano durante la guerra per proteggersi dai bombardamenti notturni) nella cantina dei Murray insieme con il fratello, Tom. Era lì che ti mettevano se disobbedivi o non rigavi diritto, abbiamo scoperto più tardi. Ma non abbiamo mai scoperto che cosa avessero combinato per finire lì dentro, perché non volevano parlare.» «Non volevano o non potevano?» «Non volevano. Non volevano parlare male degli adulti, dei loro genitori. Erano stati seviziati e suggestionati troppo a lungo per osare esprimerlo a parole.» Tacque per un istante. «A volte penso che, per quanto si sforzassero, non sarebbero riusciti a descriverlo comunque. Insomma, un bambino di nove o dieci anni dove trova il linguaggio e i punti di riferimento necessari a spiegare una cosa simile? Non stavano solo proteggendo i genitori o tacendo per paura... Era qualcosa di più profondo. A ogni modo, Tom e Linda... erano entrambi nudi e sporchi, e si trascinavano tra gli escrementi. Sembrava che non mangiassero da un paio di giorni. Ecco, la maggior parte dei bambini era denutrita e trascurata, ma loro erano nelle condizioni peggiori. Nella gabbia c'era un secchio, e la puzza... Linda, be', aveva dodici anni, e si vedeva. Era... insomma, non avevano pensato a... sa... alle mestruazioni. Non dimenticherò mai l'espressione di paura, sfida e vergogna sul viso di quella bambina quando io e Baz siamo entrati e abbiamo acceso la luce.» Banks bevve un sorso di whisky, attese che scendesse bruciando fino allo stomaco, quindi domandò: «Che cosa avete fatto?». «Innanzi tutto, abbiamo cercato delle coperte, sia per vestirli alla bell'e meglio sia per scaldarli, perché lì dentro faceva piuttosto freddo.» «E poi?» «Li abbiamo consegnati agli assistenti sociali.» Rabbrividì leggermente. «Uno di loro non ce l'ha fatta. Una ragazza piena di buoni propositi, pensava di essere una dura, ma non aveva fegato.» «Che cosa ha fatto?» «È tornata in auto e si è rifiutata di scendere. Si è limitata a restare rannicchiata lì, tremando e piangendo. Nessuno le ha prestato molta attenzione perché avevamo tutti da fare. Io e Baz ci siamo occupati soprattutto degli adulti.» «Hanno detto molto?» «No. Tipi burberi. E Pamela Godwin... be', aveva senz'altro qualcosa che non andava. Qualche rotella fuori posto. Sembrava non avere la più pallida
idea di che cosa stesse succedendo. Continuava a sorridere e a chiederci se volessimo una tazza di tè. Michael, però, il marito, non lo dimenticherò mai. Capelli unti, barba incolta e uno strano sguardo negli occhi scuri. Ha mai visto una fotografia di quell'assassino americano, Charles Manson?» «Sì.» «Uguale. Ecco chi mi ricordava Michael Godwin: Charles Manson.» «Che fine hanno fatto?» «Tanto per cominciare, li abbiamo arrestati tutti ai sensi della legge sulla protezione dei minori. Hanno opposto resistenza, naturalmente. Si sono beccati qualche livido e qualche bernoccolo.» Rivolse a Banks un'occhiata che diceva: «Mettimi alla prova, se hai il coraggio». Banks non lo fece. «In seguito, abbiamo steso una lista di accuse lunga un chilometro.» «Tra cui l'omicidio.» «Quello è stato più tardi, dopo che abbiamo trovato il corpo di Kathleen Murray.» «Quando l'avete trovata?» «Qualche ora dopo.» «Dove?» «Fuori, sul retro, in un vecchio sacco nel bidone della spazzatura. Immagino che l'abbiano buttata lì aspettando che il terreno si ammorbidisse un po' per seppellirla. Si vedeva che qualcuno aveva cercato di scavare una buca, ma avevano rinunciato, la terra era troppo dura. Era stata piegata in due ed era rimasta lì abbastanza a lungo da congelare, così il patologo ha dovuto attendere che si scongelasse prima di eseguire l'autopsia.» «Sono stati accusati tutti?» «Sì. Abbiamo accusato i quattro adulti di collusione.» «E poi?» «Sono stati tutti rinviati a giudizio. Michael Godwin si è suicidato in cella, e Pamela è stata giudicata incapace di intendere e di volere. La giuria ha condannato gli altri due dopo una mattinata di deliberazioni.» «Che prove avevate?» «In che senso?» «Può darsi che sia stato qualcun altro a uccidere Kathleen?» «Chi?» «Non lo so. Uno degli altri bambini, magari?» La mascella di Woodward si serrò. «Lei non li ha visti.» disse. «Se li avesse visti, non ventilerebbe un'ipotesi simile.» «Qualcuno l'ha ventilata all'epoca?»
Woodward scoppiò in un'aspra risata. «Che ci creda o no, sì. Gli adulti hanno avuto la sfacciataggine di scaricare la colpa sul ragazzino, Tom. Ma nessuno se l'è bevuta, grazie a Dio.» «E per quanto riguarda le prove? Com'è stata uccisa Kathleen, per esempio?» «Asfissia da strangolamento.» Banks trattenne il respiro. Un'altra coincidenza. «Con che cosa?» Woodward sorrise come se stesse tirando fuori il suo asso nella manica. «La cintura di Oliver Murray. Il patologo l'ha confrontata con la ferita. Ha anche rilevato tracce dello sperma di Murray nella vagina e nell'ano della bimba, per non parlare di alcune strane lacerazioni. Pare che quella volta si siano spinti troppo in là. Magari stava morendo dissanguata, non lo so, e l'hanno uccisa... Lui l'ha uccisa, sotto gli occhi degli altri, con il loro consenso e forse anche con il loro aiuto, non lo so.» «Come si sono dichiarati i Murray?» «Secondo lei? Non colpevoli.» «Hanno mai confessato?» «No. Tipi come quelli non confessano mai. Sono così al di sopra della legge, così al di sopra di quanto è normale per noialtri che non pensano neppure di aver fatto qualcosa di sbagliato. Alla fine, hanno ricevuto meno di quanto meritassero, perché sono ancora vìvi, ma almeno sono tuttora in gattabuia, incapaci di commettere altri crimini. E questa, signor Banks, è la storia dei Sette di Alderthorpe.» Woodward posò i palmi sul tavolo e si alzò. Sembrava meno azzimato e più stanco di quando Banks era arrivato. «Ora, se vuole scusarmi, devo fare le camere prima che la signora torni.» Era un'ora insolita per fare le camere, pensò Banks, soprattutto perché probabilmente erano tutte vuote, ma intuì che Woodward ne aveva abbastanza, che voleva restare solo e voleva, se possibile, sbarazzarsi del cattivo sapore dei suoi ricordi prima che la moglie rientrasse. Buona fortuna. Non gli vennero in mente altre domande, quindi lo salutò, si abbottonò la giacca e uscì sotto la pioggia. Prima di salire in auto, avrebbe giurato di sentire qualche chicco di grandine che gli punzecchiava la testa scoperta. Maggie venne assalita dai dubbi appena prese il taxi per raggiungere lo studio televisivo locale. A dire il vero, tentennava dal primo pomeriggio, da quando aveva ricevuto la telefonata che la invitava a partecipare a una tavola rotonda sulla violenza domestica durante il contenitore serale delle sei, dopo il telegiornale. Una ricercatrice aveva letto l'articolo di Lorraine
Temple e aveva pensato che Maggie sarebbe stata un'ospite preziosa. Non aveva nulla a che vedere con Terence e Lucy Payne, aveva sottolineato, e non erano autorizzali a discutere delle loro azioni. Dal punto di vista legale, era una situazione complessa, aveva spiegato, perché nessuno era ancora stato accusato degli assassinii e il principale indiziato era morto senza che la sua colpevolezza fosse stata dimostrata. Era possibile accusare di omicidio un morto?, si domandò Maggie. Mentre il taxi zigzagava lungo Canal Road, oltre il ponte e sotto il viadotto che conduceva verso Kirkstall Road, dove il traffico dell'ora di punta era lento e intenso, Maggie iniziò ad avere i crampi allo stomaco. Ripensò al servizio giornalistico, a come la reporter aveva distorto tutto quanto e si chiese di nuovo se stesse facendo la cosa giusta o se stesse soltanto tornando nella tana del leone. Aveva però ottimi e validi motivi per intervenire al programma, assicurò a se stessa. Se ne avesse avuta la possibilità, voleva anzitutto correggere, se non addirittura cancellare, l'immagine di persona malvagia e manipolatrice che il giornale aveva affibbiato a Lucy Payne. Lucy era una vittima, e il pubblico doveva rendersene conto. Voleva poi liberarsi dell'etichetta di donna nervosa e impacciata che Lorraine Temple le aveva appiccicato addosso, sia per la propria autostima sia per indurre la gente a prenderla sul serio. Non le piaceva che la considerassero nervosa e impacciata, e aveva tutte le intenzioni di smentire quell'opinione. Infine - e questa era la ragione che l'aveva spinta ad accettare -, c'era il modo in cui quel poliziotto, Banks, era andato a casa sua sbraitando, insultando la sua intelligenza e dicendole quel che poteva e non poteva fare. Al diavolo. Gli avrebbe fatto vedere lei. A lui e a tutti quanti. Adesso si sentiva forte e, se era destino che diventasse la portavoce delle mogli maltrattate, fosse pure; era all'altezza del compito. Lorraine Temple aveva comunque spifferato tutto riguardo al suo passato, quindi non c'era più nulla da nascondere; tanto valeva farsi avanti e sperare di dare una mano ad altre donne nella sua situazione. Altro che nervosa e impacciata. Julia Ford le aveva telefonato quel pomeriggio comunicandole che Lucy era in stato di fermo a Eastvale per nuovi interrogatori e che probabilmente vi sarebbe rimasta fino all'indomani. Maggie era indignata. Che cosa aveva fatto Lucy per meritare un simile trattamento? C'era qualcosa che non quadrava. Maggie pagò il tassista e conservò la ricevuta. L'emittente l'avrebbe rimborsata, le avevano detto. Si presentò alla reception, e la donna dietro il
banco chiamò la ricercatrice, Tina Driscoll, che si rivelò essere un'esile e allegra ragazza di poco più di vent'anni con corti capelli ossigenati e la pelle chiara tiratissima sopra gli zigomi alti. Come quasi tutti gli altri, notò Maggie mentre la seguiva attraverso il caratteristico labirinto di ogni studio televisivo, indossava jeans e camicetta bianca. «Andrà in onda dopo il tolettatore per barboncini» la informò Tina lanciando un'occhiata all'orologio. «Dovrebbe essere intorno alle sei e venti. Ecco qua la sala trucco.» La fece entrare in uno stanzino con sedie, specchi e un assortimento completo di polveri, pozioni e pennelli. «Qui, cara, così» disse Charley, la truccatrice. «Faremo in un lampo.» E cominciò a tamponare e spennellare il viso di Maggie. Alla fine, soddisfatta del risultato, aggiunse: «Torni quando ha finito e le toglierò tutto in un batter d'occhio». Maggie non vide una grande differenza, anche se una precedente esperienza televisiva le aveva insegnato che le luci e le telecamere riuscivano a cogliere le sfumature più tenui. «Sarà David a intervistarla» annunciò Tina consultando i suoi appunti mentre si dirigevano verso il salottino. «David» era David Hartford, il rappresentante maschile del duo che conduceva la trasmissione. La metà femminile si chiamava Emma Larson, e Maggie si era augurata che fosse lei a porle le domande. Emma aveva sempre dimostrato di avere a cuore i problemi delle donne, ma David Hartford assumeva un tono cinico e denigratorio quando l'intervistato teneva molto al tema in esame. Era anche famoso per le sue provocazioni. Visto il suo stato d'animo, Maggie era però del tutto disposta a farsi provocare. Gli altri ospiti attendevano nel salottino: l'austero e barbuto dottor James Bletchley di un ospedale della zona; l'agente investigativo Kathy Proctor dell'Unità violenza domestica; e Michael Groves, un assistente sociale dall'aspetto piuttosto trasandato. Maggie si accorse di essere l'unica «vittima». Bene, nessun problema. Avrebbe potuto spiegare che cosa significava trovarsi dall'altra parte. Dopo le presentazioni di rito, sulla stanza calò una sorta di silenzio teso, interrotto solo dal breve guaito che il barboncino emise all'ingresso del produttore, venuto ad accertarsi che tutti fossero arrivati e figurassero sulla scaletta. Per il resto dell'attesa, Maggie fece due chiacchiere con gli altri su argomenti generali, osservando l'andirivieni di persone che si urlavano domande nei corridoi. Come l'altro studio televisivo che aveva visitato, anche questo sembrava in uno stato di caos perenne. Poiché nel salottino c'era un monitor, poterono seguire l'apertura della
trasmissione, il bonario scambio di frecciate tra David e Emma e un riassunto delle principali notizie locali della giornata, tra cui la morte di uno stimato consigliere comunale, la proposta di una nuova rotatoria per il centro e una storia di cattivo vicinato nell'area di Poplar. Durante gli spot pubblicitari dopo il tolettatore per barboncini, un assistente di studio li mise tutti in posa sulle poltrone e sui divani, studiati per trasmettere l'idea di un soggiorno raccolto e accogliente con tanto di caminetto finto, e si dileguò dopo averli microfonati. David Hartford si mise comodo, in un punto da cui riusciva a vedere gli ospiti senza doversi muovere troppo e in cui le telecamere avrebbero inquadrato il suo profilo migliore. Quando il muto conto alla rovescia giunse al termine, David Hartford si raddrizzò la cravatta e sfoderò il suo sorriso più accattivante, ed eccoli in onda. In primo piano, pensò Maggie, la pelle di David assomigliava a plastica rosa, e immaginò che, al tatto, dovesse sembrare quella di una bambola. Anche i capelli erano troppo neri per essere naturali. Appena iniziò a introdurre il tema del dibattito, David tramutò il sorriso in un'espressione sena e preoccupata e si rivolse dapprima a Kathy, la poliziotta, per chiederle quante denunce ricevessero e come le gestissero. Poi fu il turno di Michael, l'assistente sociale, che parlò dei rifugi per le donne. Quando David la interpellò per la prima volta, Maggie senti il cuore che le si fermava nel petto. Aveva il fascino tipico dei conduttori televisivi, ma qualcosa in lui la irritava. Non pareva interessato tanto ai problemi e agli argomenti in discussione quanto a ricavarne qualcosa di drammatico e trascinante, qualcosa di cui essere il punto focale. Sapeva che, in sostanza, la televisione si riduceva a questo (rendere le cose drammatiche e fare in modo che i presentatori sembrassero belli), ma quel pensiero la infastidiva. David le chiese quando si fosse accorta che qualcosa non andava, e lei descrisse brevemente i segni, le pretese irragionevoli, le punizioni meschine, gli scatti di rabbia e, da ultime, le percosse, fino al momento in cui Bill le aveva rotto la mascella, facendole cadere due denti e mandandola in ospedale per una settimana. Quando Maggie ebbe finito, David lesse la domanda successiva sul suo foglio: «Perché non l'ha lasciato? Insomma, ha appena detto di aver tollerato questi maltrattamenti fisici per... quanto... quasi due anni? È chiaro che è una donna intelligente e piena di risorse. Perché non è scappata?». Mentre Maggie cercava le parole per spiegare come mai non era così semplice, l'assistente sociale interloquì sottolineando che moltissime donne restavano intrappolate nel ciclo della violenza e che spesso tacevano per
vergogna. Finalmente, Maggie ritrovò la voce. «Ha ragione» disse a David. «Avrei potuto piantarlo. Come ha detto, sono una donna intelligente e piena di risorse. Avevo un bel lavoro, amici devoti, una famiglia affettuosa. In parte, sono rimasta perché credevo che sarebbe cambiato tutto, che ne saremmo usciti. Amavo ancora mio marito. Non ero disposta a gettare via il matrimonio con leggerezza.» Fece una pausa, ma, vedendo che nessuno rompeva il silenzio, aggiunse: «Inoltre, non avrebbe fatto alcuna differenza. Anche dopo che me ne sono andata, mi ha trovata e ha ripreso a pedinarmi, molestarmi e aggredirmi. Anche dopo la diffida del tribunale». Le sue parole spinsero David a riportare l'attenzione sulla poliziotta e a constatare quanto i tribunali fossero incapaci di proteggere le donne maltrattate da coniugi violenti. Nel frattempo, Maggie ebbe l'opportunità di valutare il suo intervento: non era andata poi così male, decise. Faceva caldo sotto i riflettori, e sentiva la fronte imperlarsi di sudore. Si augurò che non lavasse via il trucco. David si rivolse quindi al medico. «La violenza domestica è inflitta esclusivamente dagli uomini alle donne, dottor Bletchley?» gli chiese. «Esistono alcuni casi di mariti che subiscono maltrattamenti fisici dalle mogli» rispose l'ospite «ma sono relativamente pochi.» «Secondo le statistiche» si intromise Michael «la violenza maschile contro le donne supera di gran lunga quella femminile contro gli uomini, tanto che quest'ultima appare quasi insignificante. È un fenomeno radicato nella nostra cultura. Gli uomini danno la caccia alle ex partner e le uccidono, per esempio, oppure compiono stragi familiari in un modo estraneo alle donne.» «Ma, a parte questo» proseguì David «non pensate che talvolta la moglie possa esagerare e rovinare la vita del marito? Insomma, una volta che simili accuse sono state formulate, è spesso molto difficile cancellarle, anche se un tribunale giudica l'uomo non colpevole.» «Ma non è forse un rischio che vale la pena di correre» obiettò Maggie «se salva le donne che hanno davvero bisogno di essere salvate?» David fece un sorriso affettato. «Be', è un po' come dire che non importa se impicchiamo qualche innocente purché becchiamo anche i colpevoli, giusto?» «Nessuno ha mai impiccato volontariamente degli innocenti» osservò Kathy.
«Ma, per esempio, se un uomo reagisce di fronte a una provocazione estrema» continuò David «non è sempre più probabile che sia la donna a essere vista come una vittima?» «È la vittima» precisò Maggie. «È come dire che è stata lei a chiederlo» aggiunse Michael. «Quale provocazione può giustificare la violenza?» «Non ci sono anche donne che amano le maniere forti?» «Oh, non sia ridicolo» ribatté Michael. «È come dire che le donne chiedono di essere stuprate vestendosi in un certo modo.» «Ma esistono personalità masochiste, vero, dottore?» «Si riferisce alle donne che amano fare sesso in modo violento, giusto?» volle sapere il medico. David parve un po' imbarazzato dalla schiettezza della domanda (evidentemente era abituato a chiedere, non a rispondere), ma annuì. Il dottor Bletchley si accarezzò la barba prima di parlare. «Be', se devo dare una risposta semplice: sì, esistono donne masochiste, proprio come esistono uomini masochisti, ma occorre tenere presente che si tratta di un minuscolo frammento della società e non della fetta di popolazione interessata dalla violenza domestica.» Senza nascondere di essere contento che quella parte dell'intervista fosse conclusa, David passò al quesito successivo, formulandolo con attenzione per Maggie. «Di recente è stata coinvolta in una sorta di cause célèbre legata ai maltrattamenti domestici. Ora, sebbene non possiamo discutere direttamente del caso per motivi legali, c'è qualcosa che possa dirci riguardo a quella situazione?» Sembrava impaziente di ricevere una risposta, pensò Maggie. «Un'amica si è confidata con me» spiegò. «Mi ha rivelato che il marito la picchiava. Le ho dato dei consigli, tutto l'aiuto e il sostegno possibili.» «Ma non ha denunciato il fatto alle autorità.» «Non spettava a me farlo.» «Che cosa ne pensa, agente investigativo Proctor?» «Ha ragione. Non possiamo intervenire finché la vittima non sporge denuncia.» «O finché la situazione non precipita, come in questo caso?» «Sì. Questo è spesso il triste esito di simili vicende.» «Grazie molte» disse David, sul punto di concludere. Maggie si rese conto di aver ceduto verso la fine, di aver divagato, così si buttò, interrompendolo, e disse: «Se posso aggiungere ancora una cosa,
vorrei evidenziare che le vittime non vengono sempre trattate con il rispetto, la tenerezza e l'attenzione che meritano. Proprio ora, una giovane donna è chiusa nelle celle di Eastvale, una donna che fino a questa mattina era in ospedale a causa delle lesioni riportate quando il marito l'ha picchiata lo scorso fine settimana. Perché viene perseguitata in questo modo?» «Ha una risposta?» chiese David. Era seccato per l'interruzione, ma sembrava entusiasta all'idea di un possibile scontro. «Penso sia perché suo marito è morto» affermò Maggie. «Credono che abbia ucciso delle ragazze, ma è morto, e non possono rendergli pan per focaccia. Ecco perché si accaniscono su di lei. Ecco perché si accaniscono su Lucy.» «Molte grazie» disse David voltandosi verso la telecamera e sfoderando di nuovo il suo sorriso. «Credo sia tutto per il momento...» Quando la trasmissione terminò e il tecnico tolse i microfoni agli ospiti, calò il silenzio, poi la poliziotta si avvicinò a Maggie e commentò: «Ritengo sia stato molto imprudente da parte sua dire quello che ha detto prima». «Oh, la lasci in pace» la rimproverò Michael. «Era ora che qualcuno si facesse sentire.» Il dottore se n'era già andato, e David e Emma non si vedevano da nessuna parte. «Le va di bere qualcosa?» chiese Michael a Maggie mentre uscivano dallo studio dopo essersi fatti struccare, ma lei scosse la testa. Voleva solo prendere un taxi e godersi un bel bagno caldo in compagnia di un buon libro. Se le sue dichiarazioni di quella sera avessero suscitato una reazione, forse sarebbe stato il suo ultimo scampolo di pace e tranquillità. Non pensava di aver violato alcuna legge. Dopo tutto, non aveva asserito che Terry era responsabile degli omicidi; anzi, non l'aveva neppure nominato. Ma era anche convinta che la polizia avrebbe trovato qualcosa di cui accusarla se avesse voluto. Sembravano molto bravi in quello. Non si sarebbe per niente stupita se fosse stato Banks a occuparsene. Facessero pure, pensò. La trasformassero pure in una martire. «È sicura? Solo qualche minuto.» Guardando Michael, intuì che voleva soltanto carpirle altre informazioni. «No» rispose. «Grazie mille per l'invito, ma no. Preferisco tornare a casa.» Capitolo 13
Il sabato mattina presto Banks notò una certa confusione davanti alla centrale di polizia della Divisione occidentale. Reporter e troupe armate di telecamere si accalcavano anche sul retro, all'ingresso del parcheggio, urlando domande su Lucy Payne. Imprecando tra sé e sé, Banks spense il CD di Dylan a metà di Not Dark Yet e si fece largo tra la ressa a passo cauto ma deciso. Dentro, era tutto più tranquillo. Dopo essersi infilato nel suo ufficio, il commissario guardò la piazza del mercato dalla finestra. Altri giornalisti. Furgoni delle stazioni televisive muniti di antenne paraboliche. Tutto l'armamentario. Qualcuno aveva vuotato per bene il sacco. Innanzi tutto, Banks entrò nella sala della squadra investigativa alla ricerca di risposte. Gli agenti Jackman e Templeton erano alle loro scrivanie, e Annie Cabbot, con indosso un paio di jeans neri attillati, era china sull'ultimo cassetto dello schedario: una visione capace di scaldarti il cuore, pensò Banks, rammentando che quella sera avevano un appuntamento. Cena, film e... «Che cosa diavolo succede là fuori?» domandò alla stanza in generale. Annie alzò gli occhi. «Non l'hai saputo?» «Saputo che cosa?» «Non l'hai vista?» «Di che cosa stai parlando?» Kevin Templeton e Winsome Jackman si limitarono a tenere la testa bassa. Annie si mise le mani sui fianchi. «Ieri sera, alla TV.» «Ero a Wìthemsea per interrogare un poliziotto in pensione riguardo a Lucy Payne. Che cosa mi sono perso?» Annie si avvicinò al proprio tavolo appoggiandosi al bordo con l'anca. «La vicina, Maggie Forrest, ha partecipato a un dibattito televisivo sulla violenza domestica.» «Oh, merda.» «Ben detto. Ha finito per accusarci di perseguitare Lucy Payne perché non possiamo vendicarci sul marito e ha pensato bene di informare gli spettatori che la tratteniamo qui.» «Julia Ford» mormorò Banks. «Chi?» «L'avvocato. Scommetto che è stata lei a riferire a Maggie dove tenevamo Lucy. Cristo, che casino.» «Oh, a proposito» proseguì Annie con un sorriso «il comandante di distretto Hartnell ha già telefonato due volte. Vuole che lo richiami al più
presto.» Banks si diresse verso il suo ufficio. Prima di contattare Phil Hartnell, spalancò la finestra e si accese una sigaretta. 'Fanculo le regole; sarebbe stata una giornataccia, ed era appena cominciata. Avrebbe dovuto intuire che Maggie Forrest era una mina vagante, che il suo avvertimento l'avrebbe solo spinta a comportarsi in modo ancora più idiota. Ma che cos'altro avrebbe potuto fare? Non molto, a quanto pareva. Maggie non aveva commesso alcun reato, e di certo tornare da lei per darle un'altra lavata di capo non sarebbe servito a niente. Però, se gli fosse capitato di vederla per qualsiasi ragione, gliene avrebbe cantate quattro. Quella donna non si rendeva conto di quanto fosse delicata la situazione. Quando si fu calmato, sedette alla scrivania e allungò la mano verso il telefono, ma l'apparecchio squillò prima che riuscisse a sollevare la cornetta per comporre il numero di Hartnell. «Alan? Sono Stefan.» «Spero che tu abbia qualche buona notìzia da darmi, Stefan, perché ne avrei davvero bisogno, visto come procede la mattinata.» «Va così male?» «Direi proprio di sì.» «Forse questo ti tirerà su di morale, allora. Ho appena ricevuto il confronto del DNA dal laboratorio.» «Dunque?» «Corrisponde. Terence Payne era lo Stupratore di Seacroft, senza ombra di dubbio.» Banks batté la mano aperta sulla scrivania. «Fantastico. Nient'altro?» «Solo dettagli secondari. I ragazzi che hanno esaminato tutte le ricevute e i documenti prelevati dalla villetta non hanno trovato traccia di sonniferi prescritti a Terence o Lucy Payne, e non ne hanno trovati neppure di illegali.» «Come pensavo.» «Però hanno scovato un catalogo di elettronica, spedito da una di quelle aziende che ti inseriscono nel loro elenco di indirizzi quando compri qualcosa.» «Che cosa hanno comprato?» «Non figura alcuna spesa con la carta di credito, ma ci rivolgeremo alla società e faremo in modo che qualcuno passi al setaccio le vendite, per vedere se hanno pagato in contanti. E un'altra cosa: sul pavimento della cantina c'erano dei segni che, a un esame più attento, assomigliano a quelli la-
sciati da un treppiede. Ho parlato con Luke, e lui non ha usato nessun treppiede, quindi...» «L'ha usato qualcun altro.» «Pare di sì.» «E allora dove diavolo è?» «Mah.» «Okay, Stefan, grazie per le belle notizie. Continua a cercare.» «Contaci.» Subito dopo aver riagganciato, Banks chiamò Hartnell, che rispose al secondo squillo. «Comandante di distretto Hartnell.» «Sono Alan» disse Banks. «Mi hanno riferito che volevi parlarmi.» «L'hai visto?» «No. L'ho scoperto solo ora. Questo posto brulica di giornalisti.» «Che sorpresa! Quella stupida donna. Come vanno le cose con Lucy Payne?» «Le ho parlato ieri, senza concludere niente.» «Altre prove?» «Nessuna degna di questo nome.» Banks gli raccontò della corrispondenza con il DNA dello Stupratore di Seacroft, della possibilità che una videocamera fosse ancora nascosta da qualche parte nella proprietà dei Payne e della sua chiacchierata con George Woodward riguardo agli oggetti satanici rinvenuti a Alderthorpe e all'asfissia da strangolamento di Kathleen Murray. «Non significa niente» osservò Hartnell. «Queste non sono certo prove contro Lucy Payne. Cristo, Alan, è stata vittima dei maltrattamenti più spaventosi. Ricordo il caso di Alderthorpe. Evitiamo di rivangare quella storia. Immagina che figura faremmo se ventilassimo l'ipotesi che abbia ucciso la sua maledetta cugina quando aveva solo dodici anni.» «Avevo pensato di sfruttare quell'episodio per farle qualche pressione, per vedere come avrebbe reagito.» «Sappiamo entrambi che il sangue e le fibre non sono sufficienti, e sono gli unici elementi che abbiamo. Le congetture sul suo passato le regaleranno solo altra solidarietà da parte del pubblico.» «Probabilmente ci sono anche persone indignate per quei crimini e convinte che forse Lucy Payne è più coinvolta di quanto voglia ammettere.» «Può darsi, ma fanno molto meno baccano delle persone che hanno già telefonato a Millgarth, credimi. Liberala, Alan.»
«Ma...» «Abbiamo acciuffato l'assassino, ed è morto. Lasciala andare. Non possiamo più trattenerla.» Banks guardò l'orologio. «Abbiamo ancora quattro ore. Potrebbe saltare fuori qualcosa.» «Nelle prossime quattro ore non salterà fuori un bel niente, dammi retta. Rilasciala.» «Che cosa ne dici della libertà vigilata?» «Troppo costosa. Di' alla polizia locale di tenerla d'occhio e ordina a Lucy di non allontanarsi; forse avremo bisogno di parlarle ancora.» «Se è colpevole, taglierà la corda.» «Se è colpevole, troveremo le prove e poi di certo troveremo lei.» «Prima fammi fare un altro tentativo.» Banks trattenne il respiro mentre Hartnell taceva all'altro capo del filo. «Va bene. Interrogala ancora una volta. Se non confessa, lasciala andare. Ma vacci piano. Non voglio accuse di tattiche da Gestapo.» Banks sentì bussare alla porta, posò la mano sul microfono e disse: «Avanti». Julia Ford entrò con un'espressione raggiante. «Non ha motivo di preoccuparsi, signore» disse Banks a Hartnell. «Il suo avvocato sarà sempre presente.» «È un manicomio là fuori, vero?» commentò il legale dopo che Banks ebbe chiuso la comunicazione. Le sottili rughe intorno agli occhi si incresparono quando sorrise. Quella mattina indossava un tailleur diverso (grigio con una camicetta color perla), ma professionale quanto quello del giorno prima. Aveva i capelli lucidi, come se li avesse appena lavati, e aveva applicato un trucco appena sufficiente ad apparire di qualche anno più giovane. «Sì» confermò Banks. «Pare che qualcuno abbia fatto una soffiata a tutti i media britannici rivelando dove si trova Lucy.» «Ha intenzione di lasciarla andare?» «Tra poco. Prima voglio fare un'altra chiacchierata.» Julia sospirò e gli aprì la porta. «Ah, bene. Di nuovo nella mischia.» Hull e dintorni erano parti dello Yorkshire che Jenny non conosceva per niente. La cartina mostrava il minuscolo villaggio di Kilnsea sulla punta meridionale dell'insenatura in cui l'estuario dell'Humber si congiungeva con il Mare del Nord, poco prima che una sottile striscia di terra, denomi-
nata Spurn Head e indicata come costa protetta, si allungasse nell'acqua, simile al dito nodoso e raggrinzito di una strega. Pareva un luogo così desolato che Jenny rabbrividì al solo pensiero, immaginando che vi avrebbe trovato soltanto un implacabile vento freddo e pungenti spruzzi salati. Si chiamava Spurn Head, si domandò, perché «spurn» voleva dire «respingere» e in quel punto un uomo aveva rifiutato una donna il cui spettro vagava ora sulle spiagge della zona gemendo nella notte o perché «spurn» era una corruzione di «sperm» e la regione assomigliava un po' a uno spermatozoo che si dimenava allontanandosi verso il mare? Probabilmente il nome aveva un significato molto più prosaico, come «penisola» in vichingo. Jenny si chiese se qualcuno andasse mai laggiù. Gli appassionati di bird-watching, forse; erano abbastanza pazzi da girare dappertutto alla ricerca dell'elusivo canapino levantino maggiore giallo o di qualche creatura simile. A quanto pareva, non vi erano località di villeggiatura in quell'area, a eccezione forse di Withernsea, che Banks aveva visitato il giorno prima. Tutti i centri alla moda erano molto più a nord: Bridlington, Filey, Scarborough, Whitby, fino a Saltburn e Redcar, nel Teeside. Era una bella giornata: ventosa ma limpida, con il cielo attraversato solo da qualche rara nuvola bianca. Non si poteva dire che facesse caldo (senza dubbio la temperatura era da giacca leggera), ma nemmeno che si gelasse. Quella di Jenny sembrava l'unica auto sulla strada oltre Patrington, dove la psicologa fece una breve sosta per bere una tazza di caffè e dare un'occhiata alla chiesa di San Patrizio, considerata una delle più belle mai costruite in un villaggio inglese. Era una campagna solitaria, composta per lo più di prati verdi, piatti terreni agricoli e qualche macchia di colza giallo brillante. I paesini che incontrò non erano altro che miseri gruppetti di bungalow, inframmezzati di quando in quando da una fila di case a schiera in mattoni rossi. Ben presto comparve il paesaggio surreale del North Sea Gas Terminal, con i suoi depositi e il suo groviglio di tubi metallici, e Jenny risalì la costa in direzione di Alderthorpe. Aveva pensato molto a Banks durante il viaggio e aveva concluso che non era un uomo felice. Non sapeva perché. A parte la gravidanza di Sandra, che era stata senz'altro una bella batosta per diversi motivi, aveva molte cose di cui essere contento. Tanto per cominciare, la sua carriera andava di nuovo a gonfie vele, e poi aveva una ragazza giovane e attraente. O almeno, Jenny supponeva che Annie fosse attraente. Era forse Annie a renderlo infelice? Quando gli aveva rivolto qualche
domanda sulla relazione, Jenny aveva avuto l'impressione che non fosse del tutto convinto. Aveva immaginato che dipendesse soprattutto dalla sua innata evasività riguardo alle faccende personali e sentimentali (una tipica caratteristica maschile), ma forse era davvero confuso. Non che lei potesse farci qualcosa. Ricordava la delusione dell'anno precedente, quando, dopo aver accettato un suo invito a cena, Banks non si era presentato e non l'aveva nemmeno avvisata. Jenny era rimasta seduta lì ad aspettare e aspettare, con indosso il suo abito di seta più sexy e con un'anatra all'arancia in forno, disposta a correre un altro rischio. Finalmente l'aveva chiamata. Era dovuto intervenire per liberare un ostaggio. Be', era senz'altro una scusa valida, ma non era servita ad attenuare la sensazione di amarezza e sconfitta. Da allora, erano più diffidenti l'uno verso l'altra, e nessuno dei due si azzardava a fissare un altro appuntamento per paura che saltasse, ma Jenny era ancora infatuata di Banks e, ammise con se stessa, lo voleva ancora. Il paesaggio continuava a essere squallido e monotono. Come diavolo faceva la gente a vivere in un posto tanto remoto e arretrato?, si chiese la donna. Vedendo la freccia puntata verso est (ALDERTHORPE 800 METRI), si avviò lungo l'angusto sentiero sterrato sperando con tutto il cuore che non arrivasse nessuno dall'altra parte. Eppure, lo sguardo poteva spaziare così lontano (non c'era neanche un albero) che avrebbe scorto con largo anticipo altri eventuali veicoli. Gli ottocento metri parvero durare un'eternità, come accade spesso con le brevi distanze sulle strade di campagna. Poi Jenny adocchiò un grappolo di case davanti a sé e, pur non distinguendo ancora il mare, ne avvertì il profumo attraverso il finestrino aperto. Svoltando a sinistra in una via lastricata con bungalow su un lato e file di case a schiera in mattoni rossi sull'altro, si rese conto che doveva essere arrivata a Alderthorpe: un piccolo ufficio postale/negozio di generi vari con una rastrelliera di giornali che sventolavano nella brezza, un fruttivendolo e un macellaio, una tozza chiesa evangelica e un misero pub chiamato Lord Nelson, nient'altro. Parcheggiò dietro una Citroën blu e, uscendo dall'auto, credette di intravedere tendine che si muovevano a scatti e di sentirsi occhi curiosi puntati sulla schiena mentre apriva la porta dell'ufficio postale. Qui non viene mai nessuno, immaginò pensasse la gente. Chissà che cosa vuole? Ebbe l'impressione di essere entrata in una di quelle storie di villaggi perduti, il luogo dimenticato dal tempo, e fu assalita dall'assurda sensazione che anche lei sarebbe andata perduta senza lasciare alcuna traccia nel mondo reale.
Stupida, si rimproverò, ma rabbrividì benché non facesse freddo. La campanella trillò sopra la sua testa, e Jenny si ritrovò nel genere di negozio che credeva scomparso ancor prima della sua nascita, dove vasetti di zucchero d'orzo si mescolavano a lacci per scarpe e specialità farmaceutiche sulle mensole più alte, mentre i bigliettini d'auguri facevano bella mostra di sé su un espositore accanto ai barattoli di latte evaporato e ai chiodi da un centimetro e venti. L'odore era un misto di muffa e frutta (caramelle alla pera, pensò Jenny), e la fioca luce che filtrava dalla via proiettava strisce scure sul banco. La signora dalla consunta giacca marrone in piedi davanti al piccolo sportello postale si voltò e fissò la sconosciuta. La direttrice scrutò l'aria intorno alla cliente sistemandosi gli occhiali. Era evidente che stavano facendo una bella chiacchierata e non erano per nulla entusiaste dell'interruzione. «Desidera?» domandò la direttrice. «Potrebbe indicarmi la vecchia bifamiliare dei Murray e dei Godwin?» disse Jenny. «Perché la cerca?» «Per un lavoro che sto sbrigando.» «È una giornalista, giusto?» «A dire il vero, no. Sono una psicologa criminale.» Quella frase prese la donna in contropiede. «Deve andare in Spurn Lane. Dall'altra parte della strada e giù per il vicolo verso il mare. L'ultima casa. Non può sbagliare. È disabitata da anni.» «Sa se qualcuno dei figli vive ancora nei paraggi?» «Da quando è successo il fatto non se ne vede neanche l'ombra.» «E l'insegnante, Maureen Nesbitt?» «Abita a Rasington. Qui non ci sono scuole.» «Grazie mille.» Uscendo, Jenny udì la cliente sussurrare: «Una psicologa criminale? Che cosa sarebbe in parole povere?». «Una ficcanaso» bofonchiò la direttrice. «Un avvoltoio, come tutti gli altri. Comunque, mi stavi raccontando del marito di Mary Wallace...» Jenny si domandò come avrebbero reagito quando i media fossero arrivati in massa, cosa che sarebbe certo accaduta di lì a poco. Non avviene spesso che un posto come Alderthorpe sia sotto i riflettori più di una volta nella vita. Attraversò High Street continuando a sentirsi spiata e individuò il vicolo non asfaltato che conduceva a est verso il Mare del Nord. Sebbene il vento
fosse gelido, il cielo sereno era di un azzurro così luminoso e accecante che si mise gli occhiali da sole, ricordando con un moto di rabbia il giorno in cui li aveva acquistati sul Santa Monica Pier insieme a Randy, quel bastardo traditore. Vicino a High Street, sorgevano cinque o sei bungalow su ciascun lato di Spurn Lane, ma una cinquantina di metri più in là vi era solo uno sterrato. Dopo un'altra cinquantina di metri, Jenny scorse una sudicia bifamiliare di mattoni. Era senza dubbio isolata dal villaggio, che era già abbastanza isolato di per sé. Suppose che, una volta dileguatisi i reporter e le telecamere di dieci anni prima, il silenzio, la solitudine e l'angoscia fossero stati intollerabili per la comunità, l'aria piena di domande e accuse assordanti. Persino gli abitanti della Collina, una via nel sobborgo di una grande città moderna, avrebbero faticato a comprendere che cosa era successo là dentro per anni, e molti di loro avrebbero avuto bisogno di uno psicologo. Jenny poté solo immaginare quale fosse l'opinione della popolazione di Alderthorpe sugli psicologi. Avvicinandosi alla costruzione, avvertì un odore salmastro sempre più intenso e si rese conto che il mare era là fuori, qualche metro oltre le dune basse e i ciuffi di arenaria. Aveva letto che le onde avevano inghiottito alcuni paesini della costa; il litorale sabbioso si spostava di continuo, e forse anche Alderthorpe sarebbe scomparsa sott'acqua nel giro di dieci o vent'anni. Era un pensiero inquietante. L'edificio era in condizioni disastrose. I tetti erano sfondati, le porte e le finestre rotte erano chiuse da assi. Qua e là qualcuno aveva lasciato delle scritte con le bombolette spray: MARCITE ALL'INFERNO, RIVOGLIAMO L'IMPICCAGIONE e il semplice, toccante KATHLEEN: NON TI DIMENTICHEREMO. Jenny provò una strana commozione, sentendosi al tempo stesso una guardona. Sebbene i giardini fossero invasi da arbusti ed erbacce, riuscì a farsi strada tra l'intrico della vegetazione. Non vi era granché da vedere, e le porte erano sprangate con tanta accuratezza che non sarebbe potuta entrare nemmeno volendo. Là dentro, disse a se stessa, Lucy Payne e altri sei bambini erano stati terrorizzati, violentati, umiliati, tormentati e torturati per chissà quanti anni prima che la morte di uno di loro (Kathleen Murray) spingesse le autorità a intervenire. Ormai la casa era soltanto una rovina silenziosa. Come era accaduto nello scantinato sulla Collina, Jenny ebbe l'impressione di essere una sorta di imbrogliona. Che cosa mai avrebbe potuto dire o fare per comprendere il senso degli orrori che si erano verificati
qui? La sua scienza, come tutto il resto, non era all'altezza. Tuttavia, si soffermò per qualche istante, quindi girò intorno alla bifamiliare notando che i giardini posteriori erano ancora più incolti di quelli sul davanti. In uno di essi, una corda da bucato vuota era appesa tra due pali arrugginiti. Allontanandosi, inciampò in qualcosa che giaceva tra la sterpaglia. All'inizio pensò che fosse una radice, ma, chinandosi e scostando rami e foglie, vide un orsacchiotto di pezza. Era così malconcio che sarebbe potuto essere lì da anni, sarebbe persino potuto appartenere a uno dei Sette di Alderthorpe, anche se Jenny ne dubitava. La polizia o gli assistenti sociali avrebbero portato via un oggetto come quello, quindi era più probabile che un bambino del posto l'avesse lasciato a mo' di tributo. Quando lo raccolse, si rese conto che era fradicio, e uno scarafaggio le atterrò sulla mano strisciando fuori da uno strappo sulla schiena. Jenny sussultò, lasciò cadere il pupazzo e tornò a passo spedito verso il villaggio. Si era riproposta di bussare a qualche porta e chiedere informazioni sui Godwin e sui Murray, ma Alderthorpe l'aveva turbata tanto che decise invece di andare a Rasington per parlare con Maureen Nesbitt. «Bene, Lucy. È pronta?» Banks provò i registratori che aveva acceso. Questa volta erano in una stanza degli interrogatori un po' più grande e salubre. Oltre a Lucy e a Julia Ford, il commissario aveva invitato l'agente investigativo Jackman: pur sapendo che non era stata assegnata al caso, voleva raccogliere le sue impressioni su Lucy in un secondo momento. «Credo di sì» rispose la donna in tono cupo, sottomesso. Sembrava stanca e scossa dopo la notte passata in cella, pensò Banks, sebbene le celle fossero la parte più moderna del commissariato. Il poliziotto di servizio gli aveva riferito che aveva voluto tenere sempre la luce accesa, quindi non aveva dovuto dormire granché. «Spero che abbia passato bene la notte» disse Banks. «Che cosa gliene importa?» «Non è mia intenzione causarle dei fastidi, Lucy.» «Non si preoccupi per me. Sto bene.» Julia Ford diede qualche colpetto all'orologio. «Possiamo procedere, commissario Banks?» Banks tacque, quindi guardò Lucy. «Parliamo ancora un po' del suo passato, d'accordo?»
«Che cosa c'entra?» interloquì l'avvocato. «Se mi permette di fare alcune domande, forse lo scoprirà.» «Se agitano la mia cliente...» «Se agitano la sua cliente? I genitori di cinque ragazzine sono molto più che agitati.» «È irrilevante» ribatté Julia. «Non ha niente a che vedere con Lucy.» Banks la ignorò e tornò a rivolgersi a Lucy, che sembrava indifferente alla discussione. «Mi descriverebbe la cantina di Alderthorpe, Lucy?» «La cantina?» «Sì. Non la ricorda?» «Era solo una cantina» rispose la giovane. «Buia e fredda.» «C'era qualcos'altro là dentro?» «Non lo so. A che cosa allude?» «Incenso, tuniche, un pentacolo, candele nere. Non andavate spesso laggiù per ballare e cantare, Lucy?» Lei chiuse gli occhi. «Non ricordo. Quella non ero io. Quella era Linda.» «Oh, forza, Lucy. Sa fare di meglio. Come mai, quando tocchiamo un argomento di cui non vuole parlare, perde sempre la memoria?» «Commissario» intervenne Julia Ford. «Non dimentichi che la mia cliente soffre di amnesia retrograda causata dallo shock post-traumatico.» «Sì, sì, lo so. Parole di grande effetto.» Banks riportò l'attenzione su Lucy. «Non rammenta di essere scesa nello scantinato sulla Collina, e non rammenta i canti e i balli nella cantina di Alderthorpe. Rammenta la gabbia?» Lucy parve chiudersi in se stessa. «La rammenta?» insistette Banks. «Una di quelle d'acciaio che si usavano come rifugio durante la guerra.» «Sì» bisbigliò Lucy. «Ci mettevano lì quando facevamo i cattivi.» «In che senso aveva fatto la cattiva, Lucy?» «Non capisco.» «Perché lei e Tom eravate nella gabbia quando è arrivata la polizia? Che cosa avevate fatto per essere rinchiusi là dentro?» «Non lo so. Non era mai niente di grave. Non c'era bisogno di fare qualcosa di grave. Se non pulivi il piatto (non che ci fosse mai granché da pulire) oppure se rispondevi male o dicevi di no quando... quando volevano... Era facile farsi chiudere nella gabbia.» «Ricorda Kathleen Murray?» «Certo. Era mia cugina.»
«Che cosa le è successo?» «L'hanno uccisa.» «Chi è stato?» «I grandi.» «Perché l'hanno uccisa?» «Non lo so. Hanno solo... È morta e basta.» «Hanno detto che era stato suo fratello Tom ad ammazzarla.» «È ridicolo. Tom non ucciderebbe nessuno. Tom è dolce.» «Può spiegarmi come è capitato?» «Non ero presente. Un giorno ci hanno detto che Kathleen era andata via e che non sarebbe tornata. Ho capito che era morta.» «Come faceva a saperlo?» «Lo sapevo e basta. Piangeva in continuazione, minacciava di raccontare tutto. Loro ripetevano sempre che ci avrebbero ammazzati al minimo sospetto.» «Kathleen è stata strangolata, Lucy.» «Davvero?» «Sì. Proprio come le ragazze che abbiamo trovato nella sua cantina. Asfissia da strangolamento. Ricorda, le fibre gialle che abbiamo rinvenuto sotto le sue unghie insieme con il sangue di Kimberley.» «Dove vuole andare a parare, commissario?» chiese Julia Ford. «Ci sono molte analogie tra i due crimini. Ecco tutto.» «Ma gli assassini di Kathleen Murray saranno sicuramente dietro le sbarre» ribatté Julia. «Non ha niente a che vedere con Lucy.» «Era coinvolta.», «Era una vittima.» «Sempre una vittima, eh, Lucy? La vittima dalla memoria corta. Come ci si sente?» «Adesso basta» disse Julia. «È terribile» rispose Lucy con un filo di voce. «Come?» «Mi ha chiesto come ci si sente a essere una vittima dalla memoria corta. È terribile. Mi sembra di non avere un io, di essere perduta, di non avere il controllo, di non contare niente. Ho dimenticato persino le cose brutte che mi sono successe.» «Lasci che glielo domandi ancora una volta, Lucy: ha mai aiutato suo marito a rapire una ragazza?» «No.»
«Ha mai fatto del male alle giovani che Terry portava a casa?» «Non ne sapevo nulla, non fino alla scorsa settimana.» «Perché si è alzata ed è scesa in cantina proprio quella notte? Perché non in una delle precedenti occasioni in cui suo marito intratteneva una ragazza laggiù?» «Prima non avevo mai sentito niente. Deve avermi drogata.» «Perlustrando la villetta non abbiamo trovato alcun sonnifero, e nessuno di voi due ha una ricetta per comprarli.» «Deve averli ottenuti illegalmente. Deve averli finiti. Ecco perché mi sono svegliata.» «Dove li avrà presi?» «A scuola. Nelle scuole circolano droghe di ogni tipo.» «Lucy, sapeva che suo marito era uno stupratore quando l'ha conosciuto?» «Sapevo... che cosa?» «Ha sentito bene.» Banks aprì il fascicolo davanti a sé. «Secondo i nostri calcoli, aveva già violentato almeno quattro donne prima di incontrarla in quel pub di Seacroft. Terence Payne era lo Stupratore di Seacroft. Il suo DNA corrisponde a quello rinvenuto nelle vittime.» «Io... io...» «Non sa che cosa dire?» «No.» «Come l'ha conosciuto, Lucy? Nessuna delle sue amiche rammenta di averla vista parlare con lui al pub quella sera.» «Gliel'ho detto. Stavo uscendo. Era un locale grande, con molte stanze. Siamo andati in un altro bar.» «Perché lei sarebbe dovuta essere diversa, Lucy?» «Non capisco che cosa intenda.» «Voglio dire, perché Terry non l'ha seguita fino in strada e non l'ha stuprata come aveva fatto con le altre?» «Non lo so. Come faccio a saperlo?» «Però ammetterà che è strano, vero?» «Gliel'ho detto. Non lo so. Gli piacevo. Mi amava.» «Eppure, ha continuato a violentare altre giovani dopo aver conosciuto lei.» Banks consultò di nuovo il dossier. «Almeno altre due volte, secondo il nostro rapporto. E sono solo quelle che hanno sporto denuncia. Alcune donne non sporgono denuncia, sa. Sono troppo sconvolte o si vergognano troppo. Vede, incolpano se stesse.» Banks pensò a Annie Cabbot e a quel
che aveva passato oltre due anni prima. «Che cosa c'entra tutto questo con me?» «Perché Terry non ha violentato lei?» Lucy gli lanciò uno sguardo indecifrabile. «Magari l'ha fatto.» «Non sia ridicola. A nessuna donna piace essere violentata, e di certo nessuna sposa il suo stupratore.» «Sarebbe sorpreso di scoprire quante cose si accettano quando non si ha altra scelta.» «Che cosa vuol dire?» «Quello che ho detto.» «È stata una sua scelta sposare Terry, vero? Nessuno l'ha costretta.» «Non è quello che intendevo.» «E allora che cosa intendeva?» «Non ha importanza.» «Forza.» «Non ha importanza.» Banks riordinò i fogli. «Com'è andata, Lucy? Terry le ha forse raccontato che cosa aveva fatto? Le sue parole la eccitavano? Suo marito ha riconosciuto in lei uno spirito affine? Eravate come un Dracula e un Mr. Hyde?» Julia Ford balzò in piedi. «Adesso basta, commissario. Ancora un'insinuazione come questa, e la denuncio.» Banks si passò la mano tra i capelli a spazzola. Erano ispidi. Winsome riprese l'interrogatorio. «Ha violentato anche lei, Lucy?» chiese con il suo ritmico accento giamaicano. «Suo marito l'ha violentata?» Lucy si voltò verso l'agente, e Banks ebbe l'impressione che calcolasse come trattare questo nuovo termine dell'equazione. «Certo che no. Non avrei mai sposato uno stupratore.» «Così non era a conoscenza di quel che aveva fatto?» «Naturalmente no.» «Non ha notato qualcosa che non quadrava in Terry? Insomma, io non lo conoscevo, ma mi pare che fosse un tipo abbastanza strambo.» «Sapeva essere molto affascinante.» «Non ha detto o fatto niente di sospetto in tutto il tempo che siete stati insieme?» «No.» «Però, chissà come, lei ha finito per sposare un uomo che non era solo uno stupratore ma anche un rapitore e un assassino di ragazzine. Come lo
spiega, Lucy? Riconoscerà che è molto insolito, molto difficile da credere.» «Non so che cosa dire. Non so spiegarlo. È andata così e basta.» «Gli piaceva fare dei giochi, giochi sessuali?» «Per esempio?» «Gli piaceva legarla? Gli piaceva fingere di violentarla?» «Non facevamo niente del genere.» Quando Winsome gli fece cenno di proseguire, Banks le lesse negli occhi i suoi stessi sentimenti: non stavano andando da nessuna parte, e con tutta probabilità Lucy Payne mentiva. «Dov'è la videocamera?» domandò Banks. «Non so di che cosa stia parlando.» «Abbiamo trovato dei segni sul pavimento della cantina. Era stata installata una videocamera ai piedi del letto. Crediamo vi piacesse filmare quello che facevate alle ragazze.» «Io non ho fatto niente a nessuno. Gliel'ho detto, non sono scesa laggiù, salvo forse quell'unica volta. Non possediamo alcuna videocamera.» «Non ha mai visto suo marito maneggiarne una?» «No.» «Terry non le ha mai mostrato dei video?» «Solo quelli che prendeva a noleggio o in prestito.» «Pensiamo di sapere dove ha comprato la videocamera, Lucy. Possiamo verificarlo.» «Fate pure. Non ne ho mai viste in casa, non ne so niente.» Dopo aver fatto una pausa, Banks cambiò argomento. «Ha detto che non faceva giochi sessuali, Lucy, allora che cosa l'ha indotta a travestirsi e a comportarsi come una prostituta?» le chiese. «Che cosa?» «Non ricorda?» «Sì, ma non è andata così. Voglio dire, non... Non ho battuto il marciapiede o cose del genere. Chi gliel'ha raccontato?» «Non ha importanza. Ha rimorchiato un uomo nel bar di un hotel per fare sesso?» «E anche se fosse? Era solo uno scherzo, una scommessa.» «Allora i giochi le piacevano.» «È stato prima che conoscessi Terry.» «E questo lo giustifica?» «Non ho detto questo. Era solo uno scherzo, ecco tutto.»
«Che cosa è successo?» Lucy gli rivolse un sorriso malizioso. «Quello che succedeva quasi sempre quando mi facevo abbordare in un pub. Solo che quella volta mi hanno pagato duecento sterline. Come ho detto, era uno scherzo, nient'altro. Vuole arrestarmi per prostituzione?» «Bello scherzo» commentò Banks. Julia Ford parve un po' sconcertata, ma tacque. Banks sapeva che stavano facendo un buco nell'acqua. Hartnell aveva ragione: a parte le fibre di corda, le minuscole macchie di sangue e l'estrema stranezza della relazione con Payne, non avevano alcuna prova concreta contro Lucy. Forse le sue risposte non avevano molto senso, ma, a meno che non avesse ammesso di aver aiutato e istigato il marito agli omicidi, sarebbe stata libera. La guardò di nuovo. I lividi erano quasi spariti; la pelle chiara e i lunghi capelli corvini la facevano sembrare graziosa e innocente, quasi come una Madonna. L'unico particolare che lo spingeva ancora a non crederle erano i suoi occhi: neri, riflessivi, impenetrabili. Il commissario aveva la sensazione che chiunque fissasse troppo a lungo occhi come quelli sarebbe impazzito. Ma questa non era una prova; era solo il frutto di un'immaginazione troppo fervida. A un tratto, Banks ne ebbe abbastanza. Cogliendo di sorpresa le tre donne, si alzò in modo così brusco da ribaltare quasi la sedia e si affrettò a uscire dalla stanza degli interrogatori dicendo: «Ora è libera di andare, Lucy. La prego solo di non allontanarsi troppo». Rasington costituiva una piacevole alternativa a Alderthorpe, pensò Jenny parcheggiando vicino al pub nel centro del villaggio. Pur essendo quasi altrettanto lontano dalla civiltà, il paesino sembrava almeno collegato al resto del mondo, sembrava essere parte delle cose. Dopo essersi fatta dare senza troppa fatica l'indirizzo di Maureen Nesbitt dalla barista, Jenny si trovò ben presto davanti alla porta di una donna sospettosa con lunghi capelli bianchi legati da un nastro azzurro, un cardigan marrone chiaro e pantaloni neri un po' troppo aderenti per qualcuno dai fianchi e dalle cosce così larghi. «Chi è? Che cosa vuole?» «Sono una psicologa» rispose Jenny. «Vorrei parlarle di quanto è accaduto a Alderthorpe.» Maureen Nesbitt scrutò la strada, quindi tornò a concentrarsi sulla sconosciuta. «È sicura di non essere una giornalista?»
«Non sono una giornalista.» «Quando è successo, mi si sono appiccicati addosso, ma io non ho aperto bocca. Sanguisughe.» Maureen si strinse il cardigan sul petto. «Non sono una giornalista» ripeté Jenny frugando negli abissi della borsetta alla ricerca di una qualche forma di identificazione. Il massimo che riuscì a trovare fu la tessera della biblioteca universitaria. Se non altro, la qualificava come dottoressa Fuller e membro del personale. Dopo aver esaminato la tessera senza nascondere che avrebbe preferito vi fosse anche una fotografia, finalmente Maureen la fece entrare. Una volta all'interno, subì una radicale trasformazione, passando da grande inquisitore a ospite squisita, e insistette per preparare un po' di tè. Il salotto era piccolo ma accogliente, arredato solo con un paio di poltrone, uno specchio sopra il caminetto e una vetrina colma di splendida cristalleria. Accanto a una delle poltrone vi era un tavolino su cui giaceva una copia in brossura di Grandi speranze vicino a una tazza piena fino a metà di liquido lattiginoso. Jenny si accomodò sull'altra. Quando tornò con il vassoio, su cui era posato anche un piatto di biscotti integrali, Maureen disse: «Le chiedo scusa per come mi sono comportata prima, ma sbagliando si impara. Sa, un po' di notorietà può cambiarti la vita». «Insegna ancora?» «No. Sono andata in pensione tre anni fa.» Picchiettò sul libro. «Ho promesso a me stessa che, quando avessi smesso di lavorare, avrei riletto tutti i miei classici preferiti.» Sedette. «Lasciamo il tè in infusione per qualche minuto, d'accordo? Suppongo che sia qui per Lucy Payne.» «E al corrente?» «Ho cercato di tenermi informata nel corso degli anni. So che Lucy (Linda, come si chiamava allora) viveva con i Liversedge vicino a Hull e che poi ha trovato lavoro in una banca e si è trasferita a Leeds, dove ha sposato Terence Payne. Al telegiornale dell'ora di pranzo ho sentito che la polizia l'ha appena rilasciata per mancanza di prove.» Era una novità per Jenny, che quel giorno non aveva seguito il notiziario. «Come fa a sapere tutte queste cose?» domandò. «Mia sorella lavora per i servizi sociali di Hull. Non lo dirà a nessuno, vero?» «Ha la mia parola.» «Allora, che cosa voleva chiedermi?» «Che impressione le ha fatto Lucy?»
«Era una bambina sveglia. Molto sveglia. Ma si annoiava con facilità, si distraeva con facilità. Era caparbia, ostinata e, quando si metteva in mente qualcosa, non riuscivi a smuoverla. Naturalmente, non dimentichi che all'epoca degli arresti frequentava le scuole medie locali. Io insegnavo solo alle elementari. È rimasta da noi finché ha compiuto undici anni.» «Ma gli altri erano ancora lì?» «Sì. Tutti quanti. Pare che da quelle parti non ci sia molta scelta in termini di scuole.» «Immagino di no. Ricorda qualcos'altro di Lucy?» «Niente di particolare.» «Aveva qualche amicizia al di fuori della famiglia?» «No, come tutti gli altri. Era una delle cose bizzarre. Formavano un gruppo misterioso e, quando li vedevi insieme, qualche volta ti si accapponava la pelle, come se parlassero una lingua tutta loro e avessero un piano segreto. Ha mai letto John Wyndham?» «No.» «Glielo consiglio. È molto bravo. Per essere uno scrittore di fantascienza, intendo. Che ci creda o no, incoraggiavo i miei alunni a leggere qualunque cosa gli piacesse, purché leggessero. A ogni modo, Wyndham ha scritto un libro intitolato I figli dell'invasione, che narra di alcuni strani bimbi generati da alieni in un ignaro paesino.» «Mi suona vagamente familiare» osservò Jenny. «Forse ha visto il film? Si intitola Il villaggio dei dannati.» «Esatto» confermò la psicologa. «È quello in cui l'insegnante piazza una bomba per far saltare in aria i bambini e deve concentrarsi su un muro di mattoni per impedire agli extraterrestri di leggergli nel pensiero?» «Sì. Be', non era proprio identico con i Godwin e i Murray, ma il modo in cui ti guardavano, in cui aspettavano che li oltrepassassi nel corridoio prima di riprendere un discorso, ti trasmetteva quel tipo di sensazione. E sembrava che parlassero sempre a bassa voce. Ricordo che Linda era molto addolorata quando è dovuta andare alle medie prima degli altri, ma la sua nuova insegnante mi ha riferito che si è ambientata in fretta. Nonostante quanto le è capitato, ha una personalità forte, quella ragazza, e sa adattarsi.» «Mostrava qualche fissazione insolita?» «Che cosa vuol dire?» «Qualcosa di morboso. La morte? Le mutilazioni?» «Che io sappia no. Era... come posso dire... precoce e possedeva una no-
tevole maturità sessuale per una bambina della sua età. In media, le ragazzine raggiungono la pubertà intorno ai dodici anni, ma Lucy aveva già superato la prepubertà a undici. Le si stava sviluppando il seno, per esempio.» «Era sessualmente attiva?» «No. Be', come ormai sappiamo, subiva abusi sessuali in casa. Ma, no, non nel modo che intende lei. Sessualmente, era arrivata e basta. Era una cosa che si notava, e a lei piaceva civettare.» «Capisco.» Jenny prese un appunto. «Ed è stata l'assenza di Kathleen a spingerla a chiamare le autorità?» «Sì.» Maureen distolse lo sguardo puntandolo verso la finestra, ma non sembrava che contemplasse il panorama. «Non sono stata molto tempestiva» continuò, chinandosi per versare il tè. «Latte e zucchero?» «Sì, grazie. Perché dice così?» «Avrei dovuto fare qualcosa prima, non crede? Sospettavo da tempo che qualcosa non andasse in quelle due famiglie. Anche se non avevo mai visto lividi o chiari segni di violenza, i bambini sembravano spesso affamati e impauriti. A volte... so che è terribile... ma puzzavano, come se non si lavassero da giorni. I compagni li evitavano. Sussultavano se li toccavi, anche se con delicatezza. Avrei dovuto intuirlo.» «Che cosa ha fatto?» «Be', ho parlato con gli altri insegnanti, ed eravamo tutti d'accordo sul fatto che qualcosa non quadrava nel comportamento di quei piccini. Abbiamo scoperto che anche i servizi sociali erano allarmati. In precedenza, avevano cercato di parlare con i genitori, ma non avevano mai superato la porta di ingresso. Non so se ne fosse al corrente, ma Michael Godwin aveva un rottweiler particolarmente aggressivo. Comunque, quando Kathleen Murray è rimasta assente senza spiegazioni plausibili, hanno deciso di intervenire. Il resto è storia.» «Ha detto di essersi tenuta informata sui ragazzi» le rammentò Jenny. «Mi piacerebbe davvero incontrarne qualcuno. È disposta ad aiutarmi?» Maureen tacque per un istante. «Se vuole. Ma non credo che le diranno granché.» «Sa dove sono, come stanno?» «Non nel dettaglio, no, ma posso fornirle un quadro generale.» Jenny bevve qualche sorso di tè e tirò fuori il suo block-notes. «Okay, sono pronta.»
Capitolo 14 «Allora, che cosa ne pensa di Lucy Payne?» domandò Banks all'agente investigativo Winsome Jackman mentre percorrevano North Market Street per andare a parlare con i genitori di Leanne Wray. Winsome non rispose subito. Camminando, Banks notò che molte persone la fissavano con aria sciocca. Durante il colloquio, la giovane gli aveva confessato che era consapevole di essere stata accettata solo per raggiungere la quota entrata in vigore dopo il caso Stephen Lawrence. Il regolamento imponeva un maggior numero di poliziotti appartenenti alle minoranze, anche nelle comunità in cui quelle minoranze erano del tutto inesistenti, come i nativi delle Indie Occidentali nelle Yorkshire Dales. Winsome aveva però aggiunto che non gliene importava niente di quella politica di concessioni e che avrebbe fatto comunque un ottimo lavoro. Banks non ne aveva dubitato neppure per un attimo. Winsome era la ragazza d'oro di McLaughlin, il vicecapo della polizia di contea, candidata alle promozioni accelerate e a tutti i relativi onori; probabilmente sarebbe diventata commissario prima di compiere i trentacinque anni. E a Banks piaceva: non se la prendeva mai, aveva un senso dell'umorismo eccezionale e non permetteva alla questione della razza di ostacolare il suo operato, nemmeno quando gli altri cercavano di trasformarla in un ostacolo. Banks non sapeva nulla della sua vita privata se non che le piacevano l'alpinismo e la speleologia (al cui solo pensiero veniva assalito da una grave forma di paura) e che abitava in un appartamento sul confine dell'area studentesca di Eastvale. Non aveva idea se avesse il fidanzato, o la fidanzata. «Credo che abbia protetto il marito» affermò Winsome. «Sapeva, o sospettava, ed è stata zitta. Magari non l'ha ammesso nemmeno con se stessa.» «Pensa che fosse coinvolta?» «Non lo so. Non credo. Penso che fosse attratta dal lato oscuro di Payne, soprattutto sul piano sessuale, ma ci andrei piano prima di ipotizzare che fosse coinvolta. Stramba, sì. Ma un'assassina...?» «Non dimentichi che Kathleen Murray è morta di asfissia da strangolamento» le rammentò Banks. «Ma allora Lucy aveva solo dodici anni.» «È curioso, però, vero? La casa non è in fondo a questa via?» «Sì.» Lasciarono la North Market svoltando in una griglia di stradine di fronte
al centro sociale dove un tempo lavorava Sandra. Vedendo l'edificio e ricordando i tempi in cui la andava a trovare o aspettava che smontasse per portarla al teatro o al cinema, Banks provò una fitta di nostalgia, che tuttavia passò subito. Sandra era ormai scomparsa, lontana, molto lontana, dalla moglie che aveva conosciuto. Trovarono l'abitazione, a due passi dall'Old Ship (forse dieci o quindici minuti a piedi, per lo più lungo il tratto trafficato e ben illuminato tra i pub e i negozi della North Market), e Banks bussò alla porta. La prima cosa che aggredì i suoi sensi quando Christopher Wray aprì fu l'odore di vernice fresca. Entrando con Winsome, Banks capì da dove arrivava. I Wray stavano imbiancando. Tutta la carta da parati dell'ingresso era stata staccata, e il signor Wray stava tinteggiando il soffitto del salotto di un color crema. I mobili erano coperti da lenzuola. «Mi dispiace per il disordine» si scusò. «Andiamo in cucina? Avete trovato Leanne?» «No, non ancora» rispose Banks. Lo seguirono fino all'angusta cucina, dove Christopher mise il bollitore sul fuoco senza nemmeno chiedere agli ospiti se gradissero una tazza di tè. Sedettero tutti intorno al pìccolo tavolo e, nel breve arco di tempo che l'acqua impiegò per bollire, il signor Wray continuò a blaterare della tinteggiatura come se fosse determinato a ignorare il vero motivo della loro visita. Finalmente, una volta che il tè fu pronto e servito, Banks decise che era ora di affrontare l'argomento Leanne. «Devo ammettere» cominciò «che siamo un po' perplessi.» «Oh?» «Come sa, ormai i nostri uomini lavorano da giorni a casa Payne. Hanno recuperato sei corpi, quattro dei quali sono stati identificati, ma nessuno dei sei appartiene a sua figlia. Stanno esaurendo i posti in cui cercare.» «Significa che Leanne potrebbe essere ancora viva?» domandò Wray, un barlume di speranza negli occhi. «È possibile» concesse Banks. «Anche se devo dire che, dopo tutto questo tempo senza contatti, io non sarei molto ottimista, visti soprattutto gli appelli nazionali alla televisione e sulla stampa.» «Allora... che cosa ne è stato di lei?» «È quello che ci piacerebbe scoprire.» «Non saprei come aiutarvi.» «Forse non può» replicò Banks «ma l'unica cosa da fare quando un caso giunge a un punto morto come questo è tornare subito all'inizio. Dobbiamo
ripercorrere il cammino compiuto prima e augurarci di vedere la situazione da una prospettiva diversa.» Victoria Wray si materializzò nello specchio della porta e parve sconcertata nel vedere Banks e Winsome che si godevano una chiacchierata e una tazza di tè con suo marito. Christopher si alzò di scatto. «Pensavo che stessi riposando, tesoro» disse, dandole un bacetto sulla guancia. Victoria si strofinò gli occhi assonnati, anche se Banks ebbe l'impressione che, prima di scendere, avesse dedicato almeno qualche minuto a impostare l'espressione da assumere. Gonna e camicetta erano in perfetto stile Harvey Nichols, e l'accento era studiato per sembrare aristocratico, sebbene il commissario vi riconoscesse qualche traccia di Birmingham. Era una donna avvenente che aveva appena superato la trentina, con una figura snella e folti capelli di un lucido castano naturale che le ricadevano sulle spalle. Aveva il naso leggermente all'insù, le sopracciglia arcuate e la bocca piccola, ma l'effetto d'insieme era molto migliore di quanto si possa pensare immaginando le singole parti. Wray aveva circa quarant'anni ed era un individuo standard sotto qualsiasi aspetto, a eccezione del mento, che gli scivolava verso la gola ancor prima di iniziare. Erano una coppia bizzarra, aveva pensato Banks la prima volta che li aveva visti: lui un conducente di autobus piuttosto semplice e senza pretese, lei un'affettata arrampicatrice sociale. Banks non aveva idea di che cosa li avesse spinti l'uno verso l'altra, a parte il fatto che chi, come Christopher Wray, aveva subito una grossa perdita, sbagliava spesso nel compiere la sua mossa successiva. Dopo essersi stiracchiata, Victoria sedette e si versò una tazza di tè. «Come ti senti?» le chiese il marito. «Abbastanza bene.» «Sai che devi stare attenta, nelle tue condizioni. L'ha detto anche il dottore.» «Lo so. Lo so.» Gli strinse la mano. «Starò attenta.» «Quali condizioni?» domandò Banks. «Mia moglie aspetta un bambino, commissario.» Wray sorrise, radioso. Banks guardò Victoria. «Congratulazioni» disse. La donna inclinò la testa con fare regale. Banks non riusciva a immaginare la signora Wray che affrontava le difficoltà e le sofferenze del parto, ma la vita è piena di sorprese. «Da quanto tempo?» volle sapere. Victoria si diede dei colpetti sulla pancia. «Quasi quattro mesi.»
«Dunque era incinta quando Leanne è scomparsa?» «Sì. A dire il vero, l'avevo appena scoperto quella mattina.» «Che cosa ne pensava Leanne?» Victoria abbassò lo sguardo sulla tazza. «Leanne sapeva essere cocciuta e capricciosa, commissario» rispose. «Non si è certo dimostrata entusiasta come noi avevamo sperato.» Banks rifletté sulle circostanze: la madre di Leanne muore di cancro dopo una lenta agonia. Il padre si risposa poco dopo, con una donna che la ragazza chiaramente non sopporta. Di lì a poco, la matrigna annuncia di essere in dolce attesa. Non c'era bisogno di essere uno psicologo per capire che una situazione del genere avrebbe potuto tramutarsi in un disastro da un momento all'altro. Pur non essendosi mai trovato nella posizione di Leanne, anche Banks si sentiva ferito. Che tuo padre avesse un figlio dalla nuova consorte o che la tua moglie disamorata ne avesse uno dal barbuto Sean, i sentimenti risultanti potevano essere simili, magari ancor più intensi nel caso di Leanne, dati l'età e il lutto per la madre. «Quindi non è stata felice della notizia?» «Non proprio» ammise il signor Wray. «Ma ci vuole tempo per abituarsi a una cosa come questa.» «Innanzi tutto, devi essere come minimo disposto a provarci» aggiunse Victoria. «Leanne è troppo egoista per farlo.» «Leanne era disposta a provarci» insistette il signor Wray. «Quando gliel'avete comunicato?» chiese Banks. «La mattina del giorno in cui è scomparsa.» Il commissario sospirò. «Perché non ce l'avete detto quando vi abbiamo interrogati dopo la sparizione?» Il signor Wray parve meravigliato. «Nessuno ce l'ha chiesto. Non ci è sembrato importante. Insomma, era una faccenda privata, una questione di famiglia.» «Inoltre» intervenne Victoria «porta male dirlo a degli estranei prima del terzo mese.» Erano davvero così tonti o facevano solo finta?, si domandò Banks. Rammentando che erano i genitori di una ragazza scomparsa, cercò di mantenere un tono il più possibile calmo e neutro quando chiese: «Che cosa ha detto Leanne?». I Wray si scambiarono un'occhiata. «Detto? Niente, vero, cara?» rispose il marito. «Ha solo fatto una scenata» ribadì Victoria.
«Era arrabbiata?» «Credo di sì» rispose Christopher. «Abbastanza arrabbiata da punirvi?» «Che cosa intende?» «Ascolti, signor Wray» spiegò Banks «quando ci avete segnalato che Leanne era sparita e non siamo riusciti a trovarla nel giro di uno o due giorni, eravamo tutti pronti a pensare al peggio. Ora, quanto ci avete appena detto cambia le cose.» «Sul serio?» «Se era arrabbiata con voi per la gravidanza della sua matrigna, è probabile che sia scappata per vendicarsi.» «Ma Leanne non scapperebbe mai» disse il signor Wray, sgomento. «Mi voleva bene.» «Forse è proprio questo il problema» commentò Banks. Non sapeva se si chiamasse complesso di Elettra, però stava pensando alla versione femminile del complesso di Edipo: la figlia ama il padre, la madre muore, ma, anziché dedicarsi alla figlia, il padre trova una nuova donna e, tanto per peggiorare la situazione, la mette incinta, minacciando la stabilità dell'intera relazione. Non faticava a credere che Leanne avesse tagliato la corda in circostanze come quelle. Restava tuttavia il problema che doveva essere una figlia davvero molto insensibile per non farsi viva dopo tutto il clamore riguardo alle ragazze scomparse e che non sarebbe andata lontano senza soldi e senza inalatore. «Probabilmente ne sarebbe capace» osservò Victoria. «Sapeva essere crudele. Ricordi la volta in cui ha messo l'olio di ricino nel caffè, la sera della prima riunione del mio circolo di lettura? Caroline Opley ha vomitato sulle poesie di Margaret Atwood.» «Ma quelli erano i primi tempi, tesoro» protestò il signor Wray. «Le ci è voluto un po' per abituarsi.» «Lo so. Dicevo per dire. E non dava alle cose il giusto valore. Ha perso quel bracciale d'argento...» «Pensate che fosse arrabbiata almeno quanto bastava per violare il coprifuoco?» la interruppe Banks. «Sicuro» rispose Victoria, impassibile. «Dovreste parlare con quel ragazzo. Quello Ian Scott. È uno spacciatore, sapete.» «Leanne faceva uso di droghe?» «Non a quanto ci risulta» disse il signor Wray. «Ma è possibile, Chris» continuò la moglie. «Ovviamente non ci raccon-
tava tutto, vero? Chissà che cosa combinava quando era con quella gentaglia.» Christopher posò la mano sulla sua. «Non agitarti, tesoro. Ricorda quello che ha detto il medico.» «Hai ragione.» Victoria si alzò con un leggero vacillamento. «Sarà bene che vada a stendermi ancora per un po'» disse. «Ma mi ascolti bene, commissario, è lui che dovete interrogare... Ian Scott. È un delinquente.» «Grazie» replicò Banks. «Non lo dimenticherò.» Dopo che fu uscita, il silenzio si protrasse per qualche istante. «Ci può dire qualcos'altro?» domandò Banks. «No. No. Sono sicuro che non farebbe... quello che avete detto. Sono sicuro che le è successo qualcosa.» «Perché ha aspettato fino al mattino per chiamare la polizia? Si era già comportata così in precedenza?» «Mai. Se avessi pensato che fosse scappata, ve l'avrei detto.» «Allora perché ha aspettato?» «Avrei voluto chiamarvi prima.» «Forza, signor Wray» lo incoraggiò Winsome, sfiorandogli il braccio con delicatezza. «Con noi può parlare.» L'uomo la guardò, gli occhi che supplicavano, che cercavano perdono. «Avrei voluto chiamare la polizia, ve lo giuro» disse. «Non era mai rimasta fuori tutta la notte.» «Ma avevate litigato, vero?» suggerì Banks. «Quando aveva reagito male alla notizia della gravidanza di sua moglie.» «Mi aveva chiesto come avessi potuto... così presto dopo... dopo sua madre. Era sconvolta, piangeva, diceva cose terribili sul conto di Victoria, cose che non pensava, ma... Victoria le aveva risposto che poteva andarsene, se voleva, e che poteva fare a meno di tornare.» «Perché non ce l'avete riferito subito?» chiese Banks, pur conoscendo già la risposta: l'imbarazzo, una grande paura sociale (qualcosa cui Victoria Wray era senza dubbio soggetta) e il desiderio di tenere la polizia fuori delle liti di famiglia. I detective avevano saputo della tensione tra Leanne e la sua matrigna solo tramite gli amici della ragazza, e chiaramente Leanne non aveva avuto il tempo né l'opportunità di parlare agli altri della gravidanza di Victoria. La signora Wray, pensò Banks, era il tipo di donna che avrebbe chiesto alla polizia di usare l'ingresso secondario, se ne avesse avuto uno, e probabilmente il fatto di non averlo era per lei un'intollerabile spina nel fianco.
Christopher aveva gli occhi pieni di lacrime. «Non ho potuto» disse. «Non ho potuto e basta. Abbiamo pensato che le cose fossero andate come ha detto lei, che forse era rimasta fuori tutta la notte per ripicca, per dimostrare quanto era in collera. Ma, sia come sia, commissario, Leanne non è una ragazza cattiva. Sarebbe tornata l'indomani mattina. Ne sono certo.» Banks si alzò. «Possiamo riesaminare la sua camera, signor Wray? Potrebbe esserci sfuggito qualcosa.» L'altro parve esitare. «Sì, certo. Ma... ecco... l'ho ritinteggiata. Non c'è niente lì dentro.» «Ha imbiancato la stanza di Leanne?» chiese Winsome. Christopher la guardò. «Sì. Non la sopportavamo più dopo la sua scomparsa. I ricordi. E adesso, con il nuovo bambino in arrivo...» «E i suoi vestiti?» volle sapere Winsome. «Li abbiamo regalati a un negozio di roba usata.» «E i libri, gli oggetti personali?» «Anche quelli.» Winsome scosse la testa. «Possiamo dare un'occhiata comunque?» Andarono al piano di sopra. Wray aveva ragione. Nulla indicava che la camera fosse mai appartenuta a un'adolescente come Leanne Wray. Il comodino, la minuscola toeletta e l'armadio abbinato erano tutti spariti, proprio come la piccola libreria, il letto con la trapunta e le poche bambole nmaste dall'infanzia. Era sparito persino il tappeto, e i poster delle pop star erano stati strappati dalle pareti. Non era rimasto nulla. Banks non credeva ai suoi occhi. Poteva capire che le persone volessero sfuggire ai ricordi spiacevoli, che non gradissero rievocare chi avevano amato e perduto, ma tutto questo poco più di un mese dopo la scomparsa della figlia, e senza che il corpo fosse stato ritrovato? «Grazie» disse, facendo cenno a Winsome di seguirlo giù per le scale. «Non è strano?» osservò l'agente dopo che furono usciti. «Fa pensare, vero?» «Pensare che cosa, Winsome?» «Che forse Leanne è rientrata quella notte. E che forse, quando ha saputo che stavamo scavando nel giardino dei Payne, il signor Wray ha deciso che la casa aveva bisogno di essere ritinteggiata.» «Hmm» disse Banks. «Forse ha ragione, o forse le persone hanno solo un modo diverso di esprimere il dolore. A ogni modo, credo che sarà opportuno tenere un po' più d'occhio i Wray nei prossimi giorni. Si può cominciare parlando con i vicini, domandando loro se hanno visto o sentito
qualcosa di insolito.» Dopo la chiacchierata con Maureen Nesbitt, Jenny decise di fare un salto a Spurn Head prima di tornare in città. Forse una bella passeggiata l'avrebbe aiutata a riflettere, a schiarirsi le idee. Forse l'avrebbe anche aiutata a liberarsi dell'inquietante sensazione di essere spiata o pedinata, sensazione che provava da quando era stata a Alderthorpe. Non riusciva a spiegarselo ma, ogni volta che si voltava all'improvviso per guardarsi sopra la spalla, sentiva - più che vedeva - qualcosa che scivolava nell'ombra. Era irritante, perché non capiva se fosse paranoica o se il semplice fatto di essere paranoica non escludesse che qualcuno la pedinasse davvero. Avvertiva ancora quella sensazione. Dopo aver pagato l'ingresso, percorse con lentezza il sentierino fino al parcheggio e, notando un vecchio faro per metà sommerso dall'acqua, ipotizzò che, da quando era stato costruito, la sabbia si fosse spostata lasciandolo in secca laggiù. Raggiunse la spiaggia a piedi. Era meno desolata di quanto avesse immaginato. Lì davanti, su una piattaforma non troppo lontana dalla costa, collegati alla terraferma mediante uno stretto ponte di legno, vi erano una darsena e un centro di controllo per i piloti dell'Humber, che guidavano le grandi navi cisterna in arrivo dal Mare del Nord. Alle sue spalle sorgevano il nuovo faro e alcune abitazioni. Dall'altra parte dell'estuario, Jenny scorse le gru e i moli di Grimsby e Immingham. Sebbene il cielo fosse sereno, soffiava una brezza piuttosto forte, e la donna rabbrividì girando intorno all'altura. Il mare era una bizzarra accozzaglia di colori: viola, marrone, lavanda, tutto fuorché azzurro, persino sotto il sole. Non c'era molta gente nei paraggi. Quasi tutti i visitatori di quell'area erano appassionati di bird-watching, e la zona era una riserva di fauna protetta. Jenny vide tuttavia una o due coppiette che passeggiavano mano nella mano e una famiglia con due bambini. Mentre camminava, non riusciva a sbarazzarsi della sensazione di essere seguita. La prima nave cisterna sbucò da dietro il promontorio facendola sussultare. Per via della curva brusca, l'enorme sagoma parve comparire all'improvviso, muovendosi a notevole velocità e riempiendo per qualche istante il suo campo visivo, poi uno dei battelli pilota la guidò oltre l'estuario verso il porto di Immingham. Un'altra nave cisterna la seguì a pochi minuti di distanza. Contemplando la distesa d'acqua, Jenny ripensò a quanto Maureen Ne-
sbitt le aveva raccontato riguardo ai Sette di Alderthorpe. Come Lucy, Tom Godwin aveva vissuto con i genitori adottivi fino a diciotto anni, poi si era trasferito da lontani parenti in Australia (persone su cui i servizi sociali avevano indagato con accuratezza) e ora lavorava nel loro allevamento di pecore nel Nuovo Galles del Sud. A detta di tutti, Tom era un ragazzo risoluto, taciturno, amante delle lunghe passeggiate solitarie e così timido da balbettare alla presenza di estranei. Spesso si svegliava urlando a causa di incubi che poi non ricordava. Laura, la sorella di Lucy, abitava a Edimburgo, dove studiava medicina all'università sperando di diventare psichiatra. Secondo Maureen, gli anni di terapia l'avevano aiutata a riprendersi abbastanza bene, ma la ritrosia e l'insicurezza avrebbero potuto impedirle di affrontare il lato pratico della professione che si era scelta. Era senza dubbio un'allieva capace e brillante, ma saper gestire le pressioni quotidiane della psichiatria era un altro paio di maniche. Dei tre piccoli Murray sopravvissuti, Susan si era suicidata a tredici anni, mentre Dianne si trovava in una specie di istituto per malati di mente, affetta da gravi disturbi del sonno e spaventose allucinazioni. Keith, come Laura, studiava, anche se Maureen calcolava che ormai dovesse essere prossimo alla laurea. Si era iscritto all'università di Durham per specializzarsi in storia e inglese. Andava ancora dallo psichiatra con regolarità e soffriva di periodi di depressione e attacchi d'ansia, soprattutto nei luoghi chiusi, ma riusciva a condurre un'esistenza normale e a studiare con profitto. Ecco tutto: la triste eredità di Alderthorpe. Una serie di vite infelici. Jenny si domandò se Banks volesse continuare le ricerche ora che aveva rilasciato Lucy. Maureen Nesbitt aveva detto che, chiaramente, avrebbe avuto maggiori possibilità di scoprire qualcosa parlando con Keith Murray e Laura Godwin e, poiché Keith viveva più vicino a Eastvale, Jenny decise che avrebbe cercato di rintracciarlo per primo. Ma sarebbe servito a qualcosa? Doveva ammettere di non aver trovato alcun elemento psicologico che rafforzasse in modo significativo i sospetti contro Lucy. Si sentiva addosso tutta l'incapacità che molti agenti della task force attribuivano ai profiler. Forse Lucy aveva subito un danno emotivo tanto grave da trasformarsi in una vittima sottomessa di Terence Payne, ma poteva anche non essere così. Individui diversi sottoposti ai medesimi orrori si muovono spesso in direzioni del tutto diverse. Poteva darsi che Lucy possedesse davvero una
personalità forte, abbastanza forte da buttarsi il passato alle spalle e continuare a vivere. Jenny riteneva che nessuno avesse una forza tale da sottrarsi completamente alle ripercussioni psichiche derivanti da fatti come quelli di Alderthorpe, ma con il tempo era possibile guarire, almeno in parte, e condurre un'esistenza più o meno normale, come avevano dimostrato anche Tom, Laura e Keith. Forse erano feriti che camminavano, ma almeno continuavano a camminare. Quando ebbe compiuto mezzo giro del promontorio, Jenny tagliò attraverso l'erba lunga in direzione del parcheggio e ripercorse l'angusto sentiero. In auto, notò una Citroën blu nello specchietto retrovisore ed ebbe la certezza di averla già vista da qualche parte. Ordinando a se stessa di smetterla di essere così paranoica, si allontanò dall'altura dirigendosi verso Patrington. Quando fu più vicina a Hull, chiamò Banks con il cellulare. Il commissario rispose al terzo squillo. «Jenny, dove sei?» «A Hull. Sto tornando a casa.» «Hai scoperto qualcosa di interessante?» «Sì, ma non so se ci sarà utile. Cercherò di condensare tutto in una specie di profilo, se vuoi.» «Te ne sarei grato.» «Ho appena sentito che hai dovuto rilasciare Lucy Payne.» «Esatto. L'abbiamo fatta uscire da una porta secondaria senza troppo clamore, e il suo avvocato l'ha accompagnata subito a Hull. Hanno fatto un po' di spese in centro, poi Julia Ford, il legale, ha lasciato Lucy dai Liversedge. L'hanno accolta a braccia aperte.» «Si trova lì adesso?» «A quanto ne so. Abbiamo chiesto alla polizia locale di tenerla d'occhio. Dove altro potrebbe andare?» «Sì, dove?» ripeté Jenny. «Significa che è tutto finito?» «Che cosa?» «Il mio lavoro.» «No» rispose Banks. «Non è ancora finito proprio per niente.» Dopo aver riagganciato, Jenny controllò di nuovo lo specchietto retrovisore. La Citroën blu si manteneva a una certa distanza, consentendo ad altre tre o quattro auto di infilarsi nel mezzo, ma senza dubbio le stava ancora alle costole. «Annie, hai mai desiderato avere dei bambini?» Banks la sentì irrigidirsi nel letto accanto a lui. Avevano appena fatto
l'amore e si godevano il «dopo»: le cascate che scrosciavano con dolcezza fuori, un animale notturno che di tanto in tanto lanciava il suo richiamo dai boschi e Astral Weeks di Van Morrison che saliva dallo stereo al piano di sotto. «Non intendo... be', non adesso. Insomma, non con me. Ma in generale?» Annie restò zitta e immobile per qualche istante. Banks la sentì rilassarsi un po' e strofinarglisi contro. Finalmente disse: «Perché me lo chiedi?». «Non lo so. Mi è venuto in mente. Questo caso, quei poveri bambini delle famiglie Murray e Godwin, tutte le ragazze scomparse, poco più che bambine, in realtà. E i Wray, il fatto che lei sia incinta.» E Sandra, pensò, ma non ne aveva ancora parlato con Annie. «Non posso dire di averlo desiderato» rispose la donna. «Mai?» «Forse ho preso una fregatura quando hanno distribuito l'istinto materno, non lo so. O forse dipende dal mio passato. A ogni modo, no, mai.» «Dal tuo passato?» «Ray. La comune. Mia madre che è morta così giovane.» «Ma mi hai detto di essere stata abbastanza felice.» «È vero.» Si alzò a sedere e allungò la mano verso il bicchiere che aveva appoggiato sul comodino. I piccoli seni brillarono nella luce fioca, la pelle liscia che scendeva verso le aureole marrone scuro, leggermente piegate all'insù in corrispondenza dei capezzoli. «E allora perché?» «Dio mio, Alan! Una donna non deve per forza mettere al mondo dei figli o analizzare il morivo per cui non vuole farlo. Non sono mica l'unica, sai.» «Lo so. Scusa.» Banks sorseggiò il vino tornando ad appoggiarsi ai cuscini. «È solo... be', l'altro giorno ho ricevuto una bella batosta, ecco tutto.» «Spiegati meglio.» «Sandra.» «Che cosa ha fatto?» «È incinta.» Ecco, l'aveva detto. Non sapeva perché fosse stato così difficile né perché avesse la netta e improvvisa sensazione che avrebbe fatto meglio a tacere. Si domandò anche perché l'avesse riferito subito a Jenny ma avesse tardato tanto a dirlo a Annie. In parte perché Jenny conosceva Sandra, naturalmente, ma c'era dell'altro. Annie sembrava non gradire l'intimità che si creava tra loro quando le rivelava qualche particolare della
sua vita e talvolta gli aveva dato l'impressione che condividere il suo passato fosse un peso per lei. Però non era riuscito a trattenersi. Da quando aveva rotto con Sandra, era diventato molto più introspettivo ed esaminava la sua esistenza con attenzione assai maggiore. Giudicava inutile avere una compagna se non poteva confidarle una parte di quelle riflessioni. All'inizio, Annie non parlò, poi gli chiese: «Perché non me l'hai detto prima?». «Non lo so.» «Chi ti ha dato la notizia?» «Tracy, quando abbiamo pranzato a Leeds.» «Quindi non è stata Sandra a dirtelo?» «Sai bene quanto me che non comunichiamo molto.» «Eppure, avrei pensato... una cosa così importante...» Banks si grattò la guancia. «Be', una bella dimostrazione, vero?» Annie bevve dell'altro vino. «Una bella dimostrazione di che cosa?» «Di quanto ci siamo allontanati.» «Sembri sconvolto, Alan.» «Non proprio. Non tanto sconvolto quanto...» «Turbato?» «Forse.» «Perché?» «Per quello che succederà. Per Tracy e Brian che avranno un fratellino o una sorellina. Per...» «Per che cosa?» «Stavo solo riflettendo» continuò Banks voltandosi verso di lei. «Insomma, è un fatto cui non pensavo da anni, un fatto che ho rimosso, suppongo, e tutto questo l'ha riportato a galla.» «Riportato a galla che cosa?» «L'aborto.» Annie si congelò per un attimo. «Sandra ha abortito?» «Sì.» «Quando?» «Oh, anni fa, quando abitavamo a Londra. I bambini erano piccoli, troppo piccoli per capire.» «Che cosa è successo?» «All'epoca lavoravo sotto copertura. Nella narcotici. Sai com'è, stai lontano per settimane di fila, non puoi metterti in contatto con la famiglia. Sono trascorsi due giorni prima che il capo mi informasse.»
Annie annuì. Banks sapeva che aveva provato in prima persona le pressioni e le tensioni della copertura; la conoscenza del lavoro e dei suoi effetti era uno degli elementi che li accomunavano. «Com'è andata?» «Chissà. I bambini erano a scuola. Ha cominciato a perdere sangue. Grazie a Dio avevamo una vicina disponibile, altrimenti non so che cosa sarebbe capitato.» «E ti senti in colpa per non essere stato lì?» «Sarebbe potuta morire, Annie. E abbiamo perso il bambino. Forse sarebbe filato tutto liscio se fossi stato lì come qualsiasi altro futuro padre, a darle una mano in casa. Ma doveva fare tutto Sandra, santo cielo: sollevare pesi, fare lavoretti vari, andare al supermercato, sbrigare le commissioni. Stava sostituendo una lampadina quando ha cominciato a sentirsi poco bene. Sarebbe potuta cadere rompendosi l'osso del collo.» Banks prese una sigaretta. Di solito, per non dare fastidio a Annie, non si concedeva «quella dopo», ma questa volta ne aveva davvero voglia. «Ti dispiace?» le chiese. «Fai pure. Nessun problema.» Bevve qualche altro sorso di vino. «Ma grazie per avermelo chiesto. Dicevi?» Banks accese la sigaretta, e il fumo si dissolse allontanandosi verso la finestra socchiusa. «Senso di colpa. Sì. Ma anche qualcos'altro.» «Cioè?» «Come ho detto, lavoravo nella narcotici e passavo la maggior parte del tempo nelle strade o in schifose case occupate abusivamente, cercando di stanare i pezzi grossi tramite le loro vittime. Per lo più ragazzini: fatti, tossici, flippati, sballati, impasticcati, chiamali come vuoi. Alcuni avevano solo dieci o undici anni. Tanti non riuscivano nemmeno a dirti come si chiamavano. O non volevano dirtelo. Non so se te lo ricordi, ma era più o meno il periodo in cui si è diffusa la paura dell'AIDS. Nessuno sapeva ancora con certezza quanto fosse grave, ma c'era parecchio allarmismo. E tutti sapevano che lo beccavi attraverso il sangue, attraverso il sesso non protetto (soprattutto anale) e scambiandosi gli aghi. Fatto sta che vivevi nella paura. Temevi che qualche piccolo spacciatore ti saltasse addosso con un ago infetto o che la saliva di un drogato sulla mano ti contagiasse.» «So che cosa vuoi dire, Alan, anche se è stato un po' prima che entrassi nella polizia. Ma non capisco. Che cosa c'entra con l'aborto di Sandra?» Banks aspirò un po' di fumo, lo sentì bruciare mentre scendeva verso i polmoni e pensò che avrebbe dovuto cercare di smettere. «Forse niente, ma sto tentando di darti un'idea della vita che conducevo. Avevo poco più di trent'anni, con una moglie, due bambini e un terzo figlio in arrivo, e tra-
scorrevo la mia esistenza nello squallore, frequentando la feccia. Probabilmente Tracy e Brian non mi avrebbero riconosciuto se mi avessero incrociato per la strada. I giovani con cui venivo in contatto erano morti o stavano per morire. Ero uno sbirro, non un assistente sociale. Insomma, qualche volta ci ho provato, sai: se pensavo che un ragazzino potesse ascoltarmi gli consigliavo di piantare quella vita e tornare a casa, ma non era quello il mio compito. Ero lì per raccogliere informazioni e snidare i boss.» «E allora?» «Be', è solo che ti lascia il segno, ecco tutto. Ti cambia, ti guasta, modifica le tue concezioni. Inizi pensando di essere un normale e rispettabile padre di famiglia che fa un lavoro duro e finisci per non sapere più chi sei davvero. Comunque, quando mi hanno detto che Sandra stava bene ma che aveva abortito, il mio primo pensiero... Sai qual è stato il mio primo sentimento?» «Sollievo?» chiese Annie. Banks la fissò. «Come hai fatto a indovinare?» Lei abbozzò un sorriso. «Logica. È quello che proverei io. Voglio dire, se fossi stata nei tuoi panni.» Banks spense la sigaretta. Il fatto che la sua grande rivelazione fosse stata tanto ovvia per Annie l'aveva un po' smontato. Si sciacquò la bocca con del vino rosso per lavare via il sapore del fumo. Van Morrison, che aveva cominciato da un pezzo a cantare Madame George, ripeteva il ritornello. Un gatto miagolò nei boschi, forse quello che veniva talvolta a bere il latte. «A ogni modo» proseguì il commissario «è quello che ho provato: sollievo. E naturalmente mi sono sentito in colpa. Non solo per non essere stato lì, ma anche per essere stato quasi contento che fosse successo. E sollevato perché non avremmo dovuto rivivere tutto quanto un'altra volta. I pannolini sporchi, le notti insonni (non che dormissi molto in ogni caso), la nuova responsabilità. Ecco qui una vita che non dovevo proteggere. Ecco qui una nuova responsabilità di cui facevo volentieri a meno.» «Non è una reazione tanto rara, sai» osservò Annie. «Non è nemmeno così terribile. Non fa di te un mostro.» «Era così che mi sentivo.» «È perché pretendi troppo da te stesso. Lo fai sempre. Non sei responsabile di tutti i mali e di tutti i peccati del mondo, e neppure di una parte. Dunque Alan Banks è umano; non è perfetto. Dunque prova sollievo quando pensa di dover provare dolore. Credi di essere l'unico à cui è capi-
tato?» «Non lo so. Non l'ho chiesto a nessun altro.» «Be', non lo sei. Devi solo imparare a convivere con i tuoi difetti.» «Come fai tu?» Annie sorrìse spruzzandolo con una goccia di vino. Per fortuna, il suo era bianco. «Quali difetti, bastardo insolente?» «Comunque, dopo quell'episodio abbiamo deciso di non avere altri bambini e non ne abbiamo più discusso.» «Ma non hai mai smesso di sentirti in colpa.» «No, credo di no. Insomma, non ci penso molto spesso, ma questo ha riportato tutto a galla. E sai un'altra cosa?» «Che cosa?» «Il lavoro ha cominciato a piacermi ancora di più. Non ho pensato nemmeno per un attimo di mollare tutto e diventare un venditore di auto usate.» Annie rise. «Meno male. Perché non sei proprio il tipo adatto.» «O di fare qualcos'altro. Qualcosa con orari normali, con meno probabilità di prendere l'AIDS.» Annie allungò la mano per accarezzargli la guancia. «Povero Alan» disse rannicchiandosi vicino a lui. «Perché non cerchi di non pensarci più? Non pensare più a niente, a niente tranne a questo momento, a me, alla musica, al qui e all'ora.» Appena Van attaccò con la voluttuosa e labirintica Ballerina, Banks avvertì le labbra di Annie, umide e morbide, che scivolavano giù indugiandogli sul petto e sulla pancia e, quando lei arrivò a destinazione, fece come gli aveva suggerito, ma, pur abbandonandosi alla sensazione del momento, non riuscì a cancellare del tutto il pensiero dei bambini morti. Maggie controllò porte e finestre per la seconda volta prima di coricarsi quel sabato sera e, solo quando fu. certa che fossero tutte sprangate, si diresse verso il piano di sopra con un bicchiere di latte tiepido. Non era ancora arrivata a metà strada quando il telefono squillò. All'inizio decise di non rispondere. Non alle undici di un sabato sera. In ogni caso, probabilmente era qualcuno che aveva sbagliato numero. Ma la curiosità ebbe la meglio. Sapeva che quella mattina la polizia era stata costretta a rilasciare Lucy, quindi poteva essere lei, in cerca di aiuto. Non era Lucy. Era Bill. Con il cuore che cominciava a batterle forte, Maggie ebbe l'impressione che la stanza si restringesse.
«Stai riscuotendo un bel po' di successo laggiù, vero?» commentò il suo ex marito. «Eroina e paladino delle mogli maltrattate di tutto il mondo. O si dice paladina?» Con un nodo in gola, Maggie si sentì rimpicciolire, contrarre. Tutta la sua spavalderia, tutta la sua forza, avvizzirono e morirono. Riusciva a malapena a parlare, a respirare. «Che cosa vuoi?» mormorò. «Come l'hai saputo?» «Sottovaluti la tua celebrità. Non sei solo sul "Globe" e sul "Post", sei anche sul "Sun" e sullo "Star". Sul "Sun" c'è persino una fotografia, anche se non è un granché, a meno che tu non sia cambiata parecchio. Stanno dedicando un bel po' di attenzione al cosiddetto caso Camaleonte, paragonandolo a quello di Bernardo e della Homolka, naturalmente, e pare che tu ci sia dentro fino al collo.» «Che cosa vuoi?» «Volere? Io? Niente.» «Come mi hai trovata?» «Dopo gli articoli sui giornali non è stato difficile. Avevi una vecchia agenda che hai dimenticato di portare via. C'erano gli indirizzi dei tuoi amici. Numero 32, la Collina, Leeds. Giusto?» «Che cosa vuoi da me?» «Niente. Per il momento, almeno. Volevo solo dirti che so dove sei e che ti sto pensando. Deve essere stato molto interessante vivere di fronte a un assassino. Com'è Karla?» «Si chiama Lucy. Lasciami in pace.» «Non sei molto gentile. Una volta eravamo sposati, ricordatelo.» «Come potrei dimenticarlo?» Bill rise. «Comunque, non devo far salire troppo la bolletta telefonica dello studio. Di recente ho lavorato sodo, e persino il mio capo ritiene che abbia bisogno di una vacanza. Ho solo pensato di comunicarti che presto potrei fare un viaggio in Inghilterra. Non so quando. Magari la settimana prossima, magari il mese prossimo. Ma sarebbe bello incontrarci per una cena o qualcosa del genere, non credi?» «Sei pazzo» replicò Maggie e, riagganciando, lo udì ridacchiare. Capitolo 15 Banks aveva sempre pensato che la domenica mattina fosse un buon momento per torchiare un po' gli ignari criminali. Anche la domenica po-
meriggio era un buon momento, dopo che i giornali, il pub, il roast beef e i panini al latte li avevano messi di buon umore e si erano sdraiati sulla poltrona, il quotidiano sopra la faccia, a gustarsi un sonnellino. Ma la domenica mattina, salvo che non fossero particolarmente religiose, le persone erano rilassate e pronte a godersi una giornata di riposo oppure soffrivano per i postumi di una sbornia. In entrambi i casi, avevano la lingua piuttosto sciolta. Ian Scott soffriva senza dubbio per i postumi di una sbornia. I capelli neri e unti gli si drizzavano in cima alla testa e gli si appiattivano sui lati, incollandosi al cranio nel punto in cui si era appoggiato al cuscino. Un lato del volto terreo era solcato dai segni delle pieghe. Aveva gli occhi iniettati di sangue e indossava solo gli slip e una canottiera sudicia. «Posso entrare, Ian?» gli chiese Banks spingendolo da parte con delicatezza prima di ricevere una risposta. «Non ci vorrà molto.» L'appartamento puzzava di birra stantia e della marijuana fumata la notte precedente. Le cicche degli spinelli erano ancora sparpagliate nei posacenere. Il commissario si avvicinò alla finestra e la spalancò. «Vergogna, Ian» lo rimproverò. «In una bella mattinata primaverile come questa dovresti essere fuori a fare una passeggiata lungo il fiume o a tentare di arrampicarti fino a Fremlington Edge.» «Balle» replicò Ian grattandosi gli organi in questione. Sarah Francis entrò incespicando nella stanza, tirandosi indietro i capelli arruffati e strizzando gli occhi impastati di sonno. Portava solo una T-shirt bianca con l'immagine di Paperino sul davanti, che non le arrivava più giù dei fianchi. «Merda» esclamò coprendosi con le mani come meglio poteva e tornando di corsa in camera. «Le è piaciuto lo spettacolo gratuito?» domandò Ian. «Non molto.» Banks spostò un mucchio di vestiti dalla sedia più vicina alla finestra e sedette. Ian accese lo stereo, a volume troppo alto, e Banks si alzò e lo spense. Ian sedette e mise il broncio, mentre Sarah rientrava con indosso un paio di jeans. «Cazzo, potevi avvisarmi» borbottò rivolta a Ian. «Stai zitta, stupida troia» ribatté lui. Adesso anche Sarah sedette e mise il broncio. «Okay» disse Banks. «Siamo tutti comodi? Posso iniziare?» «Non capisco che cosa vuole ancora da noi» osservò Ian. «Le abbiamo già raccontato tutto quello che è successo.» «Be', non farà male a nessuno riesaminare i fatti, non credi?»
Il ragazzo emise un gemito. «Non sto bene. Ho la nausea.» «Dovresti trattare il tuo corpo con maggiore rispetto» commentò Banks. «È un tempio.» «Che cosa vuole sapere? Togliamoci il pensiero.» «Innanzi tutto, c'è una cosa che mi lascia perplesso.» «È lei il segugio; sono certo che risolverà il mistero.» «Mi lascia perplesso che non mi abbiate chiesto di Leanne.» «Che cosa vuol dire?» «Non sarei qui a disturbarvi la domenica mattina se Leanne fosse stata ritrovata sepolta nel giardino di un serial killer, vero?» «Che cosa sta dicendo? Parli chiaro.» Sarah si era raggomitolata in posizione fetale sull'altra poltrona e ascoltava il colloquio con attenzione. «Sto dicendo, Ian, che non mi avete chiesto di Leanne. Questo mi preoccupa. Non vi importa di lei?» «Era un'amica e basta. Ma noi non c'entriamo niente. Non sappiamo che cosa le è successo. E poi, alla fine ci sarei arrivato. Il mio cervello è ancora in tilt.» «Non è una novità. Comunque, sto cominciando a pensare che sia così.» «Così come?» «Che sappiate qualcosa su quanto le è capitato.» «Stronzate.» «Davvero? Facciamo un passo indietro. Per prima cosa, ormai siamo quasi sicuri che Leanne Wray non sia una delle vittime del Camaleonte, come avevamo creduto all'inizio.» «Lo sbaglio è vostro, no?» replicò Ian. «Non venite a chiedere aiuto a noi.» «Ora, se non è così, è logico pensare che le sia accaduto qualcos'altro.» «Non bisogna essere Sherlock Holmes per capirlo.» «Il che, eliminando l'improbabile eventualità di un altro assassino, lascia tre possibilità.» «Ah sì? E quali sarebbero?» Banks le contò sulle dita. «Uno, che sia scappata di casa. Due, che sia rientrata in orario e che i suoi genitori le abbiano fatto qualcosa. Tre - ed ecco spiegato il motivo della mia visita -, che in realtà non sia rincasata dopo essere uscita dall'Old Ship. Che voi tre siate rimasti insieme e che sia stato tu a farle qualcosa.» Ian Scott non lasciò trapelare alcuna reazione a parte lo sdegno, e Sarah
cominciò a succhiarsi il pollice. «Le abbiamo raccontato che cosa è successo» ribadì il giovane. «Le abbiamo raccontato che cosa abbiamo fatto.» «Sì» concesse Banks. «Ma il Riverboat era così affollato che siamo riusciti a raccogliere solo testimonianze molto vaghe. Le persone con cui abbiamo parlato non erano sicure dell'ora, e nemmeno che fosse stato quel venerdì sera.» «Ma avete le telecamere a circuito chiuso. Cazzo, a che cosa serve il Grande fratello se non credete a quello che vedete?» «Oh, altroché se crediamo a quello che vediamo» disse Banks. «Ma vediamo solo te, Sarah e Mick Blair che entrate nel Bar None poco dopo le dodici e mezzo.» «Be', è inutile andarci prima. L'atmosfera non si scalda fino a dopo mezzanotte.» «Sì, Ian, ma questo lascia un buco di due ore. Possono capitare molte cose in due ore.» «Come facevo a sapere di dover dare una spiegazione per ogni singolo minuto?» «Due ore.» «Gliel'ho detto. Abbiamo girato un po' per la città, abbiamo fatto un salto al Riverboat, poi siamo andati al Bar None. Non so che cazzo di ora era.» «Sarah?» La ragazza si tolse il pollice di bocca. «Confermo.» «È così che funziona di solito?» chiese Banks. «Confermi quello che dice Ian. Non hai una tua idea?» «Confermo. Siamo andati al Riverboat, poi al Bar None. Leanne ci ha salutati poco prima delle dieci e mezzo fuori dell'Old Ship. Non sappiamo che cosa le è successo dopo.» «E Mick Blair è venuto con voi?» «Sì.» «Come ti è sembrata Leanne quella sera, Sarah?» «Eh?» «Di che umore era?» «Normale, credo.» «Non era turbata per qualcosa?» «No. Ci stavamo divertendo.» «Leanne non ti ha confidato niente?» «Per esempio?»
«Oh, non so. Qualche problema con la matrigna, magari?» «Aveva sempre problemi con quella stronza presuntuosa. Non ne potevo più di sentirne parlare.» «Ha mai detto di voler scappare?» «Non a me. Non che mi ricordi. Ian?» «No. Frignava per la vecchia e basta. Non aveva abbastanza fegato da scappare. Se fossi io a cercare il colpevole, andrei dritto dalla matrigna.» «Il colpevole di che cosa?» «Lo sa. Di quello che può essere capitato a Leanne.» «Capisco. Qual è stata l'idea per cui vi siete entusiasmati prima di uscire dall'Old Ship?» «Non so di che cosa parla» rispose Ian. «Oh, forza. Sappiamo che eravate entusiasti per qualcosa. Di che cosa si trattava? Riguardava anche Leanne?» «Abbiamo parlato di andare al Bar None, ma Leanne sapeva di non poter venire con noi.» «Tutto qui?» «Cos'altro ci può essere?» «Non ha accennato al fatto che forse non sarebbe tornata subito a casa?» «No.» «O che forse sarebbe scappata, per dare una lezione alla matrigna?» «Non lo so. Chi può dire che cosa passa davvero per la testa di una puttana, eh?» «Che razza di linguaggio! Hai ascoltato troppo hip-hop, Ian» osservò Banks alzandosi per andarsene. «Complimenti per la scelta del partner, Sarah» aggiunse mentre usciva, notando che la giovane sembrava davvero sconvolta e, cosa più naturale, persino un po' spaventata. Quella paura sarebbe potuta tornargli utile entro breve, pensò. «Avevo solo bisogno di uscire da quell'appartamento, ecco tutto» disse Janet Taylor. «Insomma, non volevo trascinarla dall'altra parte dello Yorkshire.» «Non si preoccupi» la rassicurò Annie con un sorriso. «Non vivo poi così lontano. E poi, è bello qui.» Il «qui» era un vecchio pub sgangherato ai bordi della brughiera sopra Wensleydale, poco distante dal cottage di Banks, un locale famoso per i suoi pranzi domenicali. La chiamata di Janet era arrivata poco dopo le dieci di quella mattina, proprio mentre Annie schiacciava un pisolino per recuperare il sonno perduto a casa del commissario. La conversazione l'ave-
va scombussolata, tenendola sveglia fino alle ore piccole; non le piaceva parlare di bambini. Se c'era qualcuno capace di toccare i tasti dolenti, quel qualcuno era Banks. Anche se non riusciva a confessarglielo, non le piaceva nemmeno che le sue rivelazioni personali la costringessero a rivangare il proprio passato e i propri sentimenti molto più di quanto fosse pronta a fare in quel momento. Desiderava che Alan prendesse le cose meno sul serio, come venivano. A ogni buon conto, un pranzo all'aperto era proprio quello che ci voleva. L'aria era pura, e in cielo non c'era neanche una nuvola. Dal punto in cui erano sedute, Annie vedeva le verdi e lussureggianti pareti della valle attraversate da un ricamo di muri a secco e punteggiate di pecore che vagavano qua e là belando come forsennate se qualche escursionista passava lì accanto. Giù, sul fondo, il fiume serpeggiava e un gruppo di villini si stringeva intorno allo spiazzo erboso al centro di un villaggio, la chiesa dal campanile quadrato leggermente spostata di fianco, il calcare grigio che luccicava sotto il sole di mezzogiorno. Credette di scorgere le minuscole sagome di quattro persone che passeggiavano in cima all'alta cicatrice sopra la valle. Cristo, sarebbe stato bello essere lassù, tutta sola, senza neppure una preoccupazione al mondo. Anche se l'ambientazione era ideale, Annie avrebbe però preferito una compagnia diversa. Nonostante fosse lontana da casa, Janet sembrava assente e continuava a gettare indietro la ciocca di capelli che le ricadeva sugli stanchi occhi marrone. Ci sarebbe voluto molto più di un pranzo nella brughiera per cancellare quel pallore malsano, pensò Annie. L'agente era già alla seconda pinta di panaché, e l'ispettore dovette mordersi la lingua per non fare commenti riguardo alla guida in stato di ebbrezza. Annie era alla prima mezza pinta di birra amara, forse ne avrebbe bevuta un'altra mezza, poi un caffè dopo mangiato. Essendo vegetariana, aveva ordinato quiche e insalata, ma era contenta che Janet avesse scelto l'agnello arrosto; sembrava proprio che avesse bisogno di mettere un po' di carne sulle ossa. «Come va?» le chiese. La poliziotta rise. «Oh, bene, tutto sommato.» Si massaggiò la fronte. «Non riesco ancora a dormire. Sa, contìnuo a rivivere quella scena, ma non sono sicura di vederla come si è svolta davvero.» «Che cosa intende?» «Be', quando la rivivo, vedo la sua faccia.» «Quella di Terry Payne?»
«Sì, tutta tesa e contratta. Piena di paura. Ma non ricordo di averlo visto con chiarezza in quel momento. Credo che la mia mente stia aggiungendo dei particolari.» «Può darsi.» Annie ripensò alla propria tragedia, allo stupro messo in atto da tre colleghi dopo la sua nomina a sergente. All'epoca, avrebbe giurato di rammentare ogni gemito e ogni grugnito, ogni ripugnante espressione facciale, ogni goccia di sudore e ogni movimento dell'uomo - quello che era effettivamente riuscito a penetrarla mentre gli altri la tenevano ferma che le aveva strappato i vestiti ed era entrato a forza dentro di lei nonostante la sua resistenza, ma si era meravigliata quando aveva scoperto che quelle immagini erano in gran parte sbiadite e che non era costretta a rispolverare quel ricordo notte dopo notte. Magari aveva la scorza più dura di quanto pensasse, o magari aveva suddiviso quell'esperienza in scomparti, come le aveva suggerito qualcuno una volta, chiudendo fuori il dolore e l'umiliazione. «Vuole modificare la dichiarazione, allora?» domandò. Sedevano abbastanza in disparte da evitare che qualcuno origliasse se parlavano a bassa voce. Non che gli altri clienti paressero interessati ad ascoltare; erano tutte famigliole che strillavano e ridevano cercando di tenere a bada i loro avventurosi bambini. «Non ho mentito» precisò Janet. «Voglio che sappia questo, innanzi tutto.» «Lo so.» «Ero solo confusa, tutto qui. I miei ricordi di quella notte sono un po' nebulosi.» «Comprensibile. Ma ricorda quante volte l'ha colpito?» «No. Sto solo dicendo che forse l'ho picchiato più di quanto pensassi.» Arrivarono le consumazioni. Janet si buttò sopra la sua come se non mangiasse da una settimana, cosa che probabilmente era vera, e Annie piluccò il cibo. La quiche era asciutta e l'insalata insipida, ma c'era da aspettarselo in un ristorante frequentato soprattutto da amanti della carne. Se non altro, poteva godersi il panorama. Un aereo lontano disegnò nel cielo un otto di vapore bianco. «Janet» proseguì Annie. «Quale parte della dichiarazione vuole correggere?» «Ecco, vede, il punto in cui ho affermato di averlo bastonato solo quante? - due o tre volte?» «Quattro.»
«Quello che è. E l'autopsia ha rilevato... quanti colpi?» «Nove.» «Giusto.» «Ricorda di averlo picchiato nove volte?» «No. Non sto dicendo questo.» Janet tagliò un pezzetto di agnello e lo masticò per un istante. Annie mangiò un po' di lattuga. «Allora che cosa sta dicendo, Janet?» «Solo che... Be', suppongo di aver perso la testa, ecco tutto.» «Vuol chiedere la seminfermità mentale?» «Non proprio. Insomma, mi rendevo conto di che cosa stava succedendo, ma ero spaventata e sconvolta per via di Dennis, così ho solo... non so, forse avrei dovuto fermarmi prima, dopo averlo ammanettato al tubo.» «L'ha picchiato anche dopo?» «Credo di sì. Una o due volte.» «E rammenta di averlo fatto?» «Ricordo di averlo colpito dopo averlo ammanettato, sì. E di aver pensato: questo è per Dennis, bastardo. Però non ricordo quante volte.» «Sa che dovrà venire al commissariato per rettificare la dichiarazione, vero? Dirlo a me qui e adesso va benissimo, ma è una cosa che va fatta ufficialmente.» Janet alzò un sopracciglio. «Certo che lo so. Sono ancora un poliziotto, vero? Volevo solo... Capisce...» Volse lo sguardo verso la valle. Annie pensò che capiva e che Janet era troppo imbarazzata per finire la frase. La giovane voleva un po' di compagnia. Voleva qualcuno che cercasse almeno di comprenderla in uno scenario incantevole durante una bella giornata, prima che il bailamme in cui la sua vita si sarebbe probabilmente tramutata per un po' raggiungesse il culmine. Banks e Jenny Fuller pranzarono insieme al Queen's Arms, un posto poco suggestivo. Il locale era zeppo di turisti della domenica, ma la coppia occupò un piccolo tavolo (così piccolo che vi era a malapena spazio per le bevande e i piatti del giorno a base di roast beef e panini al latte) poco prima che la cucina chiudesse alle due. Birra chiara per Jenny e una pinta di panaché per Banks, che quel pomeriggio doveva occuparsi di un altro interrogatorio. Aveva ancora l'aria stanca, pensò Jenny immaginando che il caso lo tenesse sveglio la notte. Quello e la naturale delusione per la gravidanza di Sandra. Jenny e Sandra erano state amiche. Non intime, ma entrambe avevano
attraversato esperienze atroci più o meno nello stesso periodo, e questo aveva creato una sorta di legame tra loro. Da quando era stata in America, Jenny non aveva però visto Sandra molto spesso, e ora supponeva che non l'avrebbe più incontrata. Se, come facevano tutti, doveva schierarsi dalla parte di qualcuno, allora pensava di aver scelto quella di Alan. Aveva creduto che quello di Banks e Sandra fosse un matrimonio solido (dopo tutto, il commissario aveva rifiutato le sue avances, e quella era stata un'esperienza nuova per lei), ma era evidente che si era sbagliata. Non essendosi mai sposata, sarebbe stata la prima ad ammettere di non capirci nulla, a parte il fatto che le apparenze celavano spesso un'agitazione interiore. Quello che era frullato per la mente di Sandra negli ultimi tempi era dunque un mistero. Alan aveva affermato di non sapere se la moglie avesse conosciuto Sean prima o dopo la rottura né se fosse stato lui il vero motivo della separazione. Jenny ne dubitava. Come la maggior parte dei problemi, anche quello non si era presentato tutto a un tratto o appena era entrato in scena qualcun altro. Sean era stato solo un sintomo e una via di fuga. Probabilmente la crisi maturava da anni. «L'auto» disse Banks. «Una Citroën blu.» «Sì. Per caso hai preso il numero di targa?» «Devo ammettere che non mi è nemmeno passato per l'anticamera del cervello la prima volta che l'ho vista. Insomma, perché avrei dovuto? Ero a Alderthorpe, e ho parcheggiato dietro quella macchina. Tornando da Spurn Head, è sempre rimasta troppo lontana perché riuscissi a leggere la targa.» «E dove l'hai seminata?» «Non l'ho seminata. Ho notato che ha smesso di seguirmi poco dopo che avevo imboccato la M62 a ovest di Hull.» «E non l'hai più rivista?» «No.» Jenny scoppiò a ridere. «Devo confessare di essermi sentita come se mi bandissero dalla città. Sai, come in quei film di cow-boy.» «Non sapresti descrivere il conducente?» «No. Non saprei nemmeno dire se fosse un uomo o una donna.» «E adesso?» «Devo rimettermi in pari con il lavoro per l'università e devo tenere alcune lezioni domani. Potrei rinviarle, ma...» «No, non è necessario» la interruppe Banks. «Lucy Payne è comunque a piede libero. Non c'è fretta.» «Be', martedì o mercoledì vedrò di parlare con Keith Murray a Durham.
Poi c'è Laura a Edimburgo. Sto ricostruendo un quadro di Linda... o meglio, di Lucy, ma manca ancora qualche tassello.» «Per esempio?» «È questo il problema. Non lo so con certezza. Ho solo l'impressione che manchi qualcosa.» Notando la faccia allarmata di Banks, gli diede una pacca sul braccio. «Oh, non preoccuparti. Non inserirò le mie sensazioni nei profili. Resteranno tra me e te.» «Okay.» «Credo si possa definirlo l'anello mancante. L'anello tra l'infanzia di Linda e la possibilità che Lucy sia coinvolta nei rapimenti e negli omicidi.» «Ci sono gli abusi sessuali.» «Sì, senza dubbio molti soggetti che hanno subito violenze diventano violenti a loro volta (è un circolo vizioso) e, secondo Maureen Nesbitt, Linda ha raggiunto la maturità sessuale già a undici anni. Ma questo non è sufficiente di per sé. Posso solo dire che potrebbe aver creato in Lucy una psicopatologia, inducendola a diventare la vittima arrendevole di un uomo come Terence Payne. Le persone ripetono spesso errori e scelte sbagliate. Basta guardare la storia delle mie relazioni per accorgersene.» Banks sorrise. «Un giorno troverai la persona giusta.» «Il mio cavaliere dall'armatura luccicante?» «È quello che vuoi? Qualcuno che combatta le tue battaglie per poi prenderti in braccio e portarti al piano di sopra?» «Non sarebbe una cattiva idea.» «E io che pensavo fossi femminista.» «Lo sono. Chi ti dice che il giorno dopo non sia io a combattere le sue battaglie, prenderlo in braccio e portarlo al piano di sopra? Penso solo che, se capitasse, non sarebbe male. Comunque, una donna non può avere le sue fantasie?» «Dipende da dove la conducono. Ti ha mai sfiorato l'idea che forse la vittima arrendevole non fosse Lucy Payne, ma suo marito?» «No. Non mi sono mai imbattuta in un caso simile.» «Ma non è impossibile?» «Nella psicologia umana, niente è impossibile. Solo molto improbabile, tutto qui.» «Ma ipotizzando che fosse lei quella che aveva il controllo, il partner dominante...» «E che Terence Payne fosse il suo schiavo sessuale, costretto a eseguire i
suoi ordini?» «Qualcosa del genere.» «Non so» disse Jenny. «Ma ne dubito molto. Inoltre, anche se fosse vero, non ci aiuterebbe a fare alcun passo avanti, giusto?» «Suppongo di no. Tutte congetture. Quando hai esaminato la cantina, hai accennato alla possibilità che Payne usasse una videocamera, vero?» «Sì.» Jenny bevve qualche sorso di birra e si tamponò le labbra con un tovagliolo di carta. «In un caso così ritualizzato di stupro, assassinio e inumazione, sarebbe molto strano che il colpevole non conservasse una testimonianza di qualche tipo.» «Aveva i corpi.» «I suoi trofei? Sì. E questo spiega probabilmente perché non vi erano altre mutilazioni, perché non ha avvertito l'esigenza di mozzare qualche dito della mano o del piede per ricordarsi di loro. Payne aveva tutto il corpo. Ma c'è dell'altro. Un individuo come Payne avrà avuto bisogno di qualcosa di più, qualcosa che gli permettesse di rivivere quei momenti.» Banks le raccontò dei segni lasciati dal treppiede e del catalogo di prodotti elettronici. «Allora, se possedeva una videocamera, dov'è?» chiese Jenny. «Bella domanda.» «E perché è sparita?» «Altra bella domanda. Credimi, la stiamo cercando dappertutto. Se è in quella casa, la scoveremo, anche se è sepolta tre metri sotto terra. Smuoveremo ogni mattone finché quel posto non rivelerà tutti i suoi segreti.» «Se è nella casa.» «Sì.» «E dovrebbero esserci anche dei nastri.» «Non me ne sono dimenticato.» Jenny spinse da parte il piatto. «Sarà meglio che vada a lavorare un po'.» Banks guardò l'orologio. «E sarà meglio che io vada da Mick Blair.» Allungò la mano sfiorandole il braccio. La donna si sorprese del brivido che la attraversò. «Stai attenta, Jenny. Tieni gli occhi aperti e, se rivedi quell'auto, chiamami subito. Capito?» Annuendo, Jenny notò una sconosciuta che si avvicinava con passo insieme deciso e aggraziato. Una giovane attraente, jeans attillati che mettevano in risalto le gambe lunghe e benfatte, quella che sembrava una camicia bianca da uomo aperta sopra una T-shirt rossa. I capelli castani le ricadevano sulle spalle in onde lucide, e l'unico difetto della pelle liscia era un
piccolo neo a destra della bocca. Anche quello non era tanto un'imperfezione quanto un vezzo naturale. Gli occhi seri avevano la forma e il colore delle mandorle. Una volta raggiunto il tavolo, prese una sedia e si accomodò senza essere stata invitata. «Sergente investigativo Cabbot» disse tendendole la mano. «Credo che non ci siamo mai presentate.» «Dottoressa Fuller.» Jenny gliela strinse. Una stretta energica. «Ah, la famosa dottoressa Fuller. È un piacere conoscerla finalmente.» Jenny si irrigidì. Questa tizia, senza dubbio quella Annie Cabbot, stava forse marcando il territorio? Aveva visto Banks che le toccava il braccio e aveva qualcosa da ridire? Era qui per esortarla nel modo più sottile possibile a tenere giù le mani da Alan? Jenny sapeva di cavarsela bene sul piano estetico, ma accanto a Annie non poteva fare a meno di sentirsi in qualche modo goffa e addirittura un po' sciatta. E anche più vecchia. Molto più vecchia. Annie sorrise a Banks. «Signore.» Jenny avvertì che c'era qualcosa tra loro. Attrazione sessuale, sì, ma anche qualcos'altro. Avevano litigato? All'improvviso il tavolo divenne scomodo, e la psicologa sentì di doversene andare. Raccolse la borsa e cominciò a frugarvi dentro alla ricerca delle chiavi dell'automobile. Perché finivano sempre in fondo, perdendosi tra spazzole, cosmetici e fazzoletti di carta? «Non volevo interrompervi» disse Annie sorridendo di nuovo a Jenny e rivolgendosi quindi a Banks. «Ma dopo pranzo sono andata al commissariato per mettermi un po' in pari con le scartoffie, e Winsome mi ha detto che l'avrei trovata qui e che aveva un messaggio per lei. Mi sono offerta di riferirglielo.» Banks sollevò le sopracciglia. «Mi dica.» «È da parte del suo amico Ken Blackstone di Leeds. Pare che Lucy Payne se la sia svignata.» Jenny trasalì. «Che cosa?» «La polizia locale ha fatto un salto a casa dei suoi genitori questa mattina per assicurarsi che fosse tutto a posto. È saltato fuori che il suo letto era ancora intatto.» «Maledizione» commentò Banks. «Un altro casino.» «Ho solo pensato che volesse saperlo il prima possibile» proseguì Annie alzandosi. Guardò Jenny. «Piacere di averla conosciuta.» Poi uscì con la medesima eleganza con cui era entrata, lasciando Banks e
Jenny seduti a fissarsi. Mick Blair, il quarto membro del gruppo la notte della scomparsa di Leanne Wray, abitava con la famiglia in una casa semindipendente a North Eastvale, abbastanza vicino al confine della città da godere di una bella vista su Swainsdale, ma anche abbastanza vicino al centro da raggiungerlo senza troppe difficoltà. Dopo la rivelazione di Annie, Banks aveva preso in considerazione l'idea di cambiare programma, ma aveva deciso che Leanne Wray era ancora una priorità e che, per la legge, Lucy Payne era ancora una vittima. Parecchi poliziotti avrebbero poi tenuto gli occhi aperti; era il massimo che potessero fare finché, e a meno che, non avessero trovato qualcosa di cui accusarla. A differenza di Ian Scott, Mick aveva la fedina penale pulita, anche se Banks sospettava che comprasse la droga dall'amico. Aveva un'aria un po' persa, come se non fosse del tutto presente, e sembrava non avere molto tempo da dedicare all'igiene personale. Quando Banks arrivò quella domenica dopo il pranzo con Jenny, i genitori del ragazzo erano andati a trovare dei parenti, e Mick oziava in salotto ascoltando i Nirvana a tutto volume e indossando jeans strappati e una T-shirt nera su cui spiccava una fotografia di Kurt Cobain con le date di nascita e morte. «Che cosa vuole?» chiese Blair abbassando lo stereo e lasciandosi cadere sul divano, le mani dietro la testa. «Parlare di Leanne Wray.» «Ne abbiamo già parlato.» «Parliamone di nuovo.» «Perché? Ha scoperto qualcosa di nuovo?» «Che cosa ci sarebbe da scoprire?» «Non lo so. Sono solo sorpreso di vederla, ecco tutto.» «Leanne era la tua ragazza, Mick?» «No. Non direi.» «Era bella. Ti piaceva?» «Forse. Un po'.» «Ma lei non era interessata?» «Eravamo solo all'inizio, tutto qui.» «Che cosa intendi?» «Alcune ragazze hanno bisogno di un po' di tempo, di un po' di lavoro. Non saltano tutte a letto con te la prima volta che le vedi.» «E Leanne aveva bisogno di tempo?»
«Sì.» «Fino a che punto eravate arrivati?» «Che cosa vuol dire?» «Fino a che punto? Vi tenevate per mano? Pomiciavate? Con o senza lingua?» Banks ripensò ai suoi palpeggiamenti adolescenziali e alle varie fasi da superare. Dopo gli sbaciucchiamenti, di solito potevi toccare sopra la vita, ma con i vestiti addosso, poi sotto la camicetta ma sopra il reggiseno. Dopo di che, il reggiseno spariva, poi ti avventuravi sotto la vita e così via finché riuscivi ad arrivare fino in fondo. Se eri fortunato. Con alcune ragazze sembrava volerci un'eternità per passare da uno stadio all'altro, e alcune ti lasciavano toccare sotto la vita ma non arrivare fino in fondo. L'intera trattativa era un campo minato in cui rischiavi di venire scaricato a ogni mossa. Be', almeno Leanne Wray non era stata una conquista facile e, per qualche strana ragione, Banks era contento di saperlo. «Ogni tanto pomiciavamo.» «E quel venerdì sera, il 31 marzo?» «No. Eravamo con gli altri, sa, con Ian e Sarah.» «Non hai pomiciato con Leanne al cinema?» «Può darsi.» «Sì o no?» «Credo di sì.» «Magari avete litigato?» «Dove vuole andare a parare?» Banks si grattò la cicatrice accanto all'occhio destro. «Ti spiego, Mick. Vengo qui per parlare ancora con te e sembra che ti dia fastidio, ma non mi chiedi se abbiamo trovato Leanne viva o se abbiamo rinvenuto il suo corpo. Ian ha fatto lo stesso...» «È stato da Ian?» «Questa mattina. Mi meraviglia che non sia corso subito al telefono per avvisarti.» «Non doveva essere molto preoccupato.» «Perché dovrebbe esserlo?» «Non lo so.» «Vedi, il fatto è che tutti e due avreste dovuto chiedermi se avessimo trovato Leanne viva, se avessimo rinvenuto il suo corpo o se avessimo identificato i suoi restì.» «Perché?» «Per quale altro motivo potrei venire a parlarti?»
«Che cosa ne so?» «Ma il fatto che tu non me l'abbia chiesto mi spinge a credere che mi stai nascondendo qualcosa.» Mick incrociò le braccia. «Le ho detto tutto quello che so.» Banks si piegò in avanti e sostenne il suo sguardo. «Che cosa sai? Penso che tu stia mentendo, Mick. Penso che stiate mentendo tutti quanti.» «Non può dimostrare niente.» «Che cosa dovrei dimostrare?» «Che sto mentendo. Vi ho raccontato che cosa è successo. Siamo andati a bere qualcosa all'Old...» «No. Ci hai raccontato che siete andati a prendere un caffè dopo il film.» «Esatto. Ecco...» «Questo è mentire, vero, Mick?» «E anche se fosse?» «Se l'hai fatto una volta, puoi farlo ancora. Anzi, con l'allenamento diventa più semplice. Come sono andate davvero le cose quella sera, Mick? Perché non me lo dici?» «Non è successo niente. Gliel'ho già detto.» «Tu e Leanne avete litigato? Le hai fatto del male? Forse non era tua intenzione. Dov'è, Mick? Lo sai, ne sono certo.» L'espressione di Blair indicava che lo sapeva, ma indicava anche che non intendeva confessare nulla. Non quel giorno, almeno. Banks si sentì insieme incazzato e responsabile. Era colpa sua se non avevano seguito a dovere questa pista. Si era fissato così tanto sull'idea di un serial killer che rapiva ragazzine da ignorare le regole fondamentali del lavoro investigativo e da non esercitare abbastanza pressioni su chi doveva per forza sapere che cosa era accaduto a Leanne: le persone che erano con lei al momento della scomparsa. Avrebbe dovuto insistere, sapendo che Ian Scott aveva precedenti penali per spaccio di droga. E invece no. Leanne era stata classificata come la terza vittima di un ignoto serial killer, un'altra vittima bella, bionda e giovane, punto e basta. Winsome Jackman aveva fatto qualche accertamento, ma anche lei aveva in gran parte accettato la storia ufficiale. Era tutta colpa di Banks, proprio come l'aborto di Sandra. Proprio come tutto il resto, sembrava qualche volta. «Dimmi che cosa è successo» incalzò il commissario. «Gliel'ho detto. Gliel'ho detto, cazzo!» Mick si rizzò a sedere di colpo. «Quando siamo usciti dall'Old Ship, Leanne è andata a casa. È stata l'ultima volta che l'abbiamo vista. Deve averla presa qualche maniaco. Va be-
ne? È quello che pensavate, vero? Come mai avete cambiato idea?» «Ah, così sei curioso» disse Banks alzandosi. «Sono sicuro che hai ascoltato il telegiornale. Abbiamo beccato il pervertito che ha rapito e ucciso quelle ragazze (è morto, quindi non può cantare), ma non abbiamo trovato traccia del corpo di Leanne nella villetta e, credimi, abbiamo rivoltato quel posto come un guanto.» «Allora deve essere stato qualche altro maniaco.» «Piantala, Mick. Le probabilità che esista un pazzo del genere sono poche, le probabilità che ne esistano due sono infinitesimali. No. Si riduce tutto a voi. A te, Ian e Sarah. Le ultime persone con cui è stata vista. Ora, ti darò del tempo per riflettere, Mick, ma tornerò, puoi contarci. Allora faremo una chiacchierata come si deve. Niente distrazioni. Intanto, non allontanarti troppo. Goditi la musica.» Dopo essere uscito all'aperto, Banks sostò accanto al cancelletto abbastanza a lungo da vedere Mick, controluce dietro le tendine di pizzo, saltare su dal divano e precipitarsi verso il telefono. Capitolo 16 Lunedì mattina, il sole inondava la cucina di Banks riflettendosi sui tegami dal fondo di rame appesi alla parete. Il commissario sedeva con marmellata, pane tostato e una tazza di caffè, il giornale aperto sul tavolo di pino e Vaughan Williams che suonava la Fantasia su un tema di Thomas Tallis alla radio. Non stava però leggendo né ascoltando. Era sveglio da prima delle quattro: un milione di dettagli gli frullava nella mente e, pur sentendosi ormai stanco morto, sapeva che non avrebbe chiuso occhio. Non vedeva l'ora che il caso Camaleonte venisse archiviato e che Gristhorpe tornasse in ufficio consentendogli di riprendere le sue normali mansioni di ispettore capo. Nell'ultimo mese e mezzo, la responsabilità del comando lo aveva stremato. Riconosceva i sintomi: incubi, sonno agitato, troppo alcol, troppe sigarette e troppo cibo-spazzatura. Era vicino al medesimo stato di esaurimento in cui si era ritrovato anni prima, quando aveva lasciato Londra per il North Yorkshire sperando in un'esistenza più tranquilla. Amava fare il detective, ma qualche volta aveva l'impressione che le moderne operazioni di polizia fossero roba per giovani. La scienza, la tecnologia e i cambiamenti nella struttura gestionale non avevano semplificato le cose; avevano
soltanto reso la vita più complicata. Quel mattino si accorse di essere probabilmente arrivato al limite della sua ambizione quando pensò di mollare il lavoro una volta per tutte, un'idea che non gli era mai passata per la testa prima di allora. Udendo arrivare il postino, uscì a raccogliere la corrispondenza dal pavimento. Tra la consueta collezione di bollette e circolari, vi era una busta proveniente da Londra e, esaminando l'indirizzo scritto a mano, Banks riconobbe subito la calligrafia chiara e piena di svolazzi. Sandra. Con il cuore che batteva un po' troppo forte, portò il plico in cucina. Era la sua stanza favorita, soprattutto perché l'aveva sognata prima di vederla, ma il contenuto della lettera di Sandra sarebbe riuscito a oscurare il più luminoso dei locali ancor più di quanto avesse già fatto il precedente umore del commissario. Caro Alan, Tracy mi ha detto di averti comunicato che io e Sean aspettiamo un bambino. Avrei preferito che non te lo avesse detto, ma ormai il danno è fatto. Ora ti renderai conto di quanto sia importante risolvere al più presto la questione del divorzio e, mi auguro, ti comporterai di conseguenza. Con affetto Sandra Tutto qui. Soltanto un messaggio freddo e formale. Banks doveva ammettere di aver tirato per le lunghe riguardo al divorzio, ma non aveva visto il motivo di affrettarsi. Era persino disposto a riconoscere che forse, nell'intimo, si aggrappava con ostinazione a Sandra e, in qualche parte oscura e spaventata della sua anima, si appigliava alla convinzione che fosse tutto un incubo o un errore e che una mattina si sarebbe svegliato nella bifamiliare di Eastvale con la moglie al suo fianco. Non che lo volesse, non più, ma era almeno pronto a confessare che forse nutriva sentimenti tanto irrazionali. E adesso questo. Posò il foglio avvertendone ancora il gelo. Perche non riusciva a lasciar perdere e ad andare avanti, come evidentemente aveva fatto Sandra? Dipendeva da quel che aveva detto a Annie sul senso di colpa, sul fatto di es-
sere stato contento dell'aborto? Non lo sapeva; pareva tutto troppo strano: quella che era stata sua moglie per oltre vent'anni, la madre dei suoi figli, stava ora per mettere al mondo il bambino di un altro uomo. Spinse da parte la lettera, prese la cartella e uscì dirigendosi verso l'auto. Nel corso della mattinata intendeva andare a Leeds, ma prima voleva fare un salto in ufficio per evadere qualche pratica e scambiare due parole con Winsome. Il tragitto da Gratly a Eastvale, aveva osservato quando l'aveva compiuto per la prima volta, era tra i più belli della zona: un'angusta strada più o meno a metà del versante, con viste spettacolari sul fondo della valle, i villaggi sonnacchiosi e il fiume sinuoso sulla sinistra, i ripidi prati punteggiati di muretti e pecore vagabonde sulla destra. Quel giorno, tuttavia, non notò neppure il panorama, in parte perché ormai vi era abituato e in parte perché i suoi pensieri erano ancora rattristati dal messaggio di Sandra e dalla vaga depressione dovuta al lavoro. Alla centrale, la situazione era tornata alla normalità dopo il caos del fine settimana; i reporter erano spariti, proprio come Lucy Payne. Non era troppo allarmato per la scomparsa di Lucy, decise Banks chiudendo la porta dell'ufficio e accendendo la radio. Con tutta probabilità, si sarebbe rifatta viva e, anche in caso contrario, non vi era ragione di preoccuparsi. A meno che non si imbattessero in qualche prova concreta contro di lei. Almeno per il momento, potevano seguirne le tracce mediante i prelievi Bancomat e le transazioni della carta di credito. Ovunque fosse, avrebbe avuto bisogno di soldi. Dopo aver sbrigato le pratiche, andò nella sala riservata alla squadra speciale. L'agente investigativo Winsome Jackman sedeva alla scrivania mordicchiando l'estremità di una matita. «Winsome» la chiamò, rammentando uno dei dettagli che l'avevano svegliato così presto. «Ho un altro incarico per lei.» Dopo averle spiegato che cosa avrebbe dovuto fare, uscì dal retro e partì verso Leeds. Anche se l'ora di pranzo era passata da poco, Annie entrò nel Dipartimento della pubblica accusa senza essere ancora riuscita a mettere qualcosa sotto i denti. Jack Whitaker, l'avvocato della Corona assegnato al caso, era più giovane di quanto si aspettasse: sulla trentina, calcolò, con una calvizie precoce e la «s» leggermente blesa. Aveva la stretta salda, la mano appena umida. Il suo ufficio era senza dubbio molto più ordinato di quello di Stafford Oakes a Eastvale, dove ogni fascicolo si trovava al posto sba-
gliato ed era macchiato da un simbolo olimpico di anelli di caffè. «Qualche novità?» chiese Whitaker dopo che Annie si fu accomodata. «Sì» rispose l'ispettore. «L'agente Taylor ha modificato la sua dichiarazione questa mattina.» «Posso?» Annie gli porse la nuova versione della testimonianza, e Whitaker lesse con attenzione. Quando ebbe finito, fece scivolare di nuovo i fogli sulla scrivania verso la donna, che gli domandò: «Che cosa ne pensa?». «Penso» affermò lui scandendo le parole «che forse accuseremo Janet Taylor di omicidio premeditato.» «Che cosa?» Annie non credeva a quanto aveva appena udito. «Ha agito come una poliziotta nell'esercizio delle sue funzioni. Avrei scommesso sull'omicidio per legittima difesa o, tutt'al più, preterintenzionale. Ma omicidio premeditato?» Whitaker sospirò. «Dio mio. Allora immagino che non l'abbia saputo?» «Saputo che cosa?» Annie non aveva acceso la radio durante il tragitto fino a Leeds, troppo assorta dai problemi di Janet e dai suoi sentimenti confusi verso Banks per concentrarsi su notiziari o interviste. «La giuria si è espressa sul caso John Hadleigh poco prima di mezzogiorno. Sa, l'agricoltore del Devon.» «Conosco il caso Hadleigh. Qual è stato il verdetto?» «Colpevole di omicidio premeditato.» «Gesù Cristo» disse Annie. «Ma le circostanze sono del tutto diverse, non crede? Insomma, Hadleigh era un civile. Ha sparato a un ladro nella schiena. Janet Taylor...» Whitaker sollevò la mano. «Il punto è che si tratta di un messaggio inequivocabile. Vista la sentenza Hadleigh, dobbiamo dimostrare che trattiamo tutti allo stesso modo. Non possiamo permetterci che la stampa ci incolpi di aver avuto un occhio di riguardo per Janet Taylor solo perché è una poliziotta.» «Quindi è una questione politica?» «Non lo è sempre? Dobbiamo far vedere che giustizia è fatta.» «Giustizia?» Whitaker alzò le sopracciglia. «Ascolti» continuò «capisco la sua posizione; mi creda, la capisco. Ma, secondo questa dichiarazione, Janet Taylor ha ammanettato Terence Payne a un tubo di metallo dopo averlo messo al tappeto, quindi l'ha colpito due volte con il manganello. Con forza. Ci pensi, Annie. È intenzionale. È omicidio premeditato.»
«Non è detto che volesse ucciderlo. Non c'è stato alcun dolo.» «Sta alla giuria deciderlo. Un bravo pubblico ministero potrebbe sostenere che sapeva bene quale sarebbe stato l'effetto di altre due bastonate violente alla testa dopo che gliene aveva già assestate sette.» «Non credo alle mie orecchie» commentò Annie. «Nessuno è più dispiaciuto di me» proseguì Whitaker. «A eccezione di Janet Taylor.» «Be', allora non avrebbe dovuto ammazzare Terence Payne.» «Che cosa accidenti ne sa lei? Non c'era lei, lì, in quella cantina, con un collega che moriva dissanguato sul pavimento e una ragazza morta su un materasso. Non è stato lei ad avere solo pochi secondi per difendersi da un uomo armato di machete. Questa è una maledetta farsa! È politica, nient'altro.» «Si calmi, Annie» la invitò Whitaker. Annie si alzò e prese a misurare la stanza a grandi passi, le braccia conserte. «Perché dovrei? Non sono calma. Questa donna sta passando un inferno. Sono stata io a chiederle di rivedere la dichiarazione, pensando che, più in là, le sarebbe giovato più che sostenere di non ricordare niente. Che figura farò?» «È solo questo che la preoccupa? La figura che farà?» «Certo che no.» Annie si risedette lentamente. Si sentiva ancora furiosa e rossa in volto, il respiro affannoso. «Ma passerò per una bugiarda. Passerò per una che ha voluto ingannarla. Non mi piace.» «Stava solo facendo il suo dovere.» «Solo facendo il mio dovere. Solo obbedendo agli ordini. Giusto. Grazie. Adesso sì che sto meglio.» «Ascolti, avremo una certa libertà d'azione, Annie, ma dovrà esserci un processo. Dovrà svolgersi sotto gli occhi di tutti. Alla luce del sole. Niente sotterfugi.» «Non era quello che avevo in mente, comunque. Quale libertà d'azione?» «Non credo che Janet Taylor si dichiarerebbe colpevole di omicidio premeditato.» «Certo che no, e io non le consiglierei nemmeno di farlo.» «Non è questione di consigliare. E poi non è compito suo. Di che cosa pensa che si dichiarerebbe colpevole?» «Omicidio per legittima difesa.» «Non è stata legittima difesa. Non quando ha superato il limite inflig-
gendo a Payne quelle ultime manganellate dopo averlo steso e immobilizzato.» «E allora?» «Omicidio volontario con attenuanti.» «Quanto dovrebbe scontare?» «Dai diciotto mesi ai tre anni.» «È comunque un bel po' di tempo, soprattutto per uno sbirro in carcere.» «Sempre meno di quanto dovrà restarci John Hadleigh.» «Hadleigh ha sparato a un ragazzo nella schiena con una doppietta.» «Janet Taylor ha colpito un uomo indifeso sulla testa con uno sfollagente della polizia, provocandone la morte.» «Era un serial killer.» «Lei non lo sapeva ancora.» «Ma l'aveva aggredita con un machete!» «E, dopo averlo disarmato, lei ha usato più forza del necessario per metterlo fuori gioco, provocandone la morte. Annie, non ha importanza che fosse un serial killer. Maledizione, non avrebbe importanza neppure se fosse stato Jack lo Squartatore!» «Payne le aveva accoltellato il compagno. Era sconvolta.» «Be', mi fa senz'altro piacere sentire che in quel momento non era fredda, distaccata e padrona di sé.» «Sa che cosa voglio dire. Non c'è bisogno di fare del sarcasmo.» «Scusi. Sono sicuro che il giudice e la giuria terranno conto della situazione, del suo stato d'animo.» Annie sospirò. Aveva la nausea. Appena questa farsa si fosse conclusa, avrebbe mollato la Sezione reclami e disciplina e sarebbe tornata al vero lavoro di polizia, ad acciuffare i cattivi. «Va bene» disse. «Che cosa faccio adesso?» «Sa che cosa fare, Annie. Trovi Janet Taylor. La arresti, la porti al commissariato e la accusi di omicidio volontario con attenuanti.» «C'è una persona che desidera vederla, signore.» Perché il poliziotto dal volto roseo che aveva infilato la testa nella porta del suo ufficio provvisorio a Millgarth sogghignava?, si domandò Banks. «Chi è?» «È meglio che lo veda da sé, signore.» «Non può occuparsene qualcun altro?» «Ha chiesto espressamente di parlare con qualcuno incaricato del caso
delle ragazze scomparse, signore. Il comandante di distretto Hartnell è a Wakefield con il vicecapo della polizia di contea, e l'ispettore capo Blackstone è fuori. Rimane solo lei, signore.» Banks sospirò. «Va bene. La faccia entrare.» Sogghignando di nuovo, l'agente si dileguò lasciando nell'aria la netta sensazione di un ghigno, proprio come il sorriso del gatto di Alice nel paese delle meraviglie. Di lì a qualche istante, Banks capì perché. Si materializzò davanti a lui dopo aver bussato pianissimo alla porta e averla spinta tanto adagio da farla cigolare sui cardini. Era alta un soldo di cacio, e così magra da sembrare anoressica. Lo scarlatto del rossetto e dello smalto per unghie si contrapponeva al pallore quasi traslucido della pelle; i lineamenti delicati parevano fatti di porcellana incollata e dipinta con cura sul viso rotondo. Stringeva una bustina di lamé dorato e indossava un top a fascia verde brillante che si fermava all'improvviso appena sotto i seni (poco più di bottoncini nonostante il reggipetto imbottito) mostrando una striscia di pancia bianca e un anello all'ombelico, sotto il quale vi era una minigonna di PVC nero. Non portava le collant, e le sottili gambe smunte si allungavano nude fino agli stivali dalle zeppe così spesse che la costringevano a camminare come se avesse i trampoli. Dalla sua espressione trapelavano paura e nervosismo, mentre gli splendidi occhi blu cobalto vagavano irrequieti per la stanza disadorna. Banks l'avrebbe classificata come una prostituta eroinomane, ma non vide buchi sulle braccia. Non significava che non fosse dipendente da qualcosa e di certo non significava che non fosse una prostituta. L'ago non è l'unico strumento con cui introdurre la droga nel proprio corpo. Qualcosa in lei gli rammentava Emily, la figlia di Riddle, ma quell'idea svanì in fretta. Assomigliava di più alle modelle emaciate di qualche anno addietro. «È lei?» «Chi?» «Quello che comanda. Ho chiesto di vedere quello che comanda.» «Sono io. Purtroppo.» «Come?» «Non importa. Si accomodi.» Sedette, lenta e sospettosa, gli occhi che guizzavano ancora qua e là senza sosta, come se temesse che qualcuno sbucasse fuori e la legasse alla sedia. Evidentemente, le ci era voluto un bel po' di coraggio per arrivare fin lì. «Gradisce del tè o del caffè?» domandò Banks. Parve sorpresa dell'offerta. «Ehm... sì. Grazie. Il caffè andrà bene.»
«Come lo beve?» «Che cosa?» «Il caffè? Come lo vuole?» «Latte e tanto zucchero» rispose, come se non conoscesse altri modi di consumarlo. Dopo aver ordinato due caffè al telefono (lui lo preferiva nero), tornò a concentrarsi su di lei. «Come si chiama?» «Candy.» «Sul serio?» «Perché? Che cosa c'è che non va?» «Niente. Niente, Candy. Non era mai stata in un commissariato prima d'ora?» La paura le attraversò i lineamenti delicati. «Perché?» «Curiosità. Sembra a disagio.» Abbozzò un sorriso. «Be', sì... Forse. Un po'.» «Si rilassi. Non la mangio mica.» Cattiva scelta di parole, si rese conto Banks scorgendo lo sguardo lascivo e malizioso nei suoi occhi. «Volevo dire, non le farò del male» si corresse. Arrivò il caffè, portato dall'agente di prima, che non aveva ancora smesso di sogghignare. Banks lo trattò con fare sbrigativo, offeso dall'arroganza compiaciuta che quel ghigno implicava. «Okay, Candy» proseguì dopo il primo sorso. «Le va di spiegarmi di che cosa si tratta?» «Posso fumare?» Aprì la borsetta. «Spiacente» rispose Banks. «Vietato fumare in tutto il commissariato; altrimenti le farei compagnia.» «Magari possiamo uscire?» «Non credo sia una buona idea» osservò Banks. «Andiamo avanti e basta.» «È solo che adoro fare due tiri con il caffè. Fumo sempre una sigaretta quando lo bevo.» «Non questa volta. Perché è venuta da me, Candy?» Accigliata, temporeggiò ancora per un istante, quindi chiuse la bustina e accavallò le gambe, urtando la parte inferiore della scrivania con la zeppa e facendo dondolare tanto il mobile che il caffè di Banks traboccò dalla tazza formando una macchia sulla pila di documenti davanti a lui. «Scusi» disse Candy.
«Fa niente.» Banks tirò fuori il fazzoletto e la asciugò. «Stava per spiegarmi come mai è qui.» «Davvero?» «Sì.» «Be', ascolti» replicò la ragazza chinandosi in avanti sulla sedia. «Per prima cosa, mi deve garantire l'immunizzazione, o quello che è. Altrimenti non dico una parola.» «Intende l'immunità?» Avvampò. «Se si chiama così. Non sono andata molto a scuola.» «Immunità da che cosa?» «Dalle accuse.» «Ma perché dovrei metterla sotto accusa?» Gli occhi di Candy si posarono ovunque tranne che su Banks, le mani che torcevano la borsetta sulle gambe nude. «Per via di quello che faccio» rispose. «Sa... con gli uomini. Sono una prostituta, una puttana.» «Accidenti» ribatté il commissario. «Non l'avrei mai detto.» Candy gli puntò addosso gli occhi luccicanti di lacrime rabbiose. «Non c'è bisogno di fare tanto lo spiritoso. Non mi vergogno di quello che sono. Almeno io non vado in giro a rinchiudere gli innocenti lasciando liberi i colpevoli.» Banks si sentì una merda. A volte non sapeva quando tenere a freno la lingua. Non si era comportato meglio del poliziotto sogghignante che l'aveva insultata con il suo sarcasmo. «Mi dispiace, Candy» si scusò. «Ma ho molto da fare. Possiamo arrivare al dunque? Se ha qualcosa da dirmi, lo dica.» «Me lo promette?» «Promettere che cosa?» «Che non mi sbatterà in galera.» «Non la sbatterò in galera. Parola d'onore. A meno che non sia venuta a confessare un grave crimine.» Candy balzò in piedi. «Io non ho fatto niente!» «Va bene. Va bene. Si accomodi, allora. Stia calma.» Candy tornò a sedersi lentamente, questa volta stando attenta alle zeppe. «Sono venuta perché l'avete lasciata andare. Non volevo venire. Non mi piace la polizia. Ma l'avete lasciata andare.» «A chi si riferisce, Candy?» «Alla coppia sui giornali, i due che hanno rapito quelle ragazzine.» «Che cosa sa di loro?»
«Solo che... una volta... sa, hanno...» «Hanno abbordato lei?» Candy abbassò lo sguardo. «Sì.» «Tutti e due?» «Sì.» «Com'è andata?» «Battevo il marciapiede, sa, e loro sono passati in macchina. È stato lui ad agganciarmi e, quando abbiamo stabilito il prezzo, mi hanno portata in una casa.» «Quando è successo, Candy?» «L'estate scorsa.» «Ricorda in che mese?» «Agosto, credo. La fine di agosto. Faceva caldo, comunque.» Banks cercò di calcolare le date. Gli stupri di Seacroft erano cessati più o meno nel periodo in cui i Payne avevano lasciato la zona, pressappoco un anno prima dell'episodio narrato da Candy. Restava così uno spazio di circa sedici mesi prima del rapimento di Kelly Matthews. Che in quell'arco di tempo Payne avesse tentato di soddisfare le sue esigenze con le prostitute? E quale ruolo aveva avuto Lucy? «Dov'era la casa?» «Sulla Collina. È la stessa che si vede in tutù i giornali. Io ci sono stata.» «Okay. Che cosa è successo dopo?» «Be', prima abbiamo bevuto un drink. Hanno chiacchierato con me, come per mettermi a mio agio. Sembravano una coppia davvero simpatica.» «E poi?» «Secondo lei?» «Vorrei che me lo raccontasse comunque.» «Lui ha detto: "Andiamo di sopra".» «Solo voi due?» «Sì. È quello che ho pensato all'inizio.» «Continui.» «Be', siamo saliti in camera, e io... sa... mi sono spogliata. Be', in parte. Ha voluto che tenessi addosso alcune cose. I gioielli. La biancheria. In un primo momento, almeno.» «E poi?» «Era buio, e si riusciva a vedere solo ombre. Mi ha fatta stendere sul letto, e subito dopo mi sono accorta che c'era anche la moglie.» «Lucy Payne?»
«Sì.» «Sul letto con lei?» «Sì. Nuda come un verme.» «Ha partecipato al rapporto sessuale?» «Oh, sì. Sapeva bene quello che faceva. Una vera porca.» «Non ha mai avuto l'impressione che fosse costretta, che fosse una specie di vittima?» «Mai. Per niente. Era lei a comandare. E le piaceva quello che facevamo. Ha persino tirato fuori qualche idea... Sa, modi diversi. Posizioni diverse.» «Le hanno fatto del male?» «Non proprio. Ecco, gli piacevano i giochetti, ma sapevano quando fermarsi.» «Che tipo di giochetti?» «Lui mi ha chiesto se poteva legarmi al letto. Mi ha promesso di non farmi male.» «Ha accettato?» «Pagavano bene.» «E sembravano simpatici.» «Sì.» Banks scosse la testa, sbalordito. «Okay. Prosegua.» «Non mi giudichi» disse Candy. «Non sa niente di me o di quello che sono obbligata a fare, quindi non si azzardi a giudicarmi!» «Va bene» replicò Banks. «Vada avanti, Candy. L'hanno legata al letto.» «Lei mi ha versato addosso la cera delle candele. Sulla pancia. Sui capezzoli. Bruciava un po', ma non più di tanto. Ha mai provato?» Banks non aveva mai usato la cera in ambito sessuale, ma se ne era rovesciato un po' sulla mano più di una volta e conosceva la sensazione, il breve lampo di caldo e dolore prima che la sostanza si raffreddasse, si indurisse e si seccasse, pizzicando e raggrinzendo la pelle. Una sensazione non del tutto gradevole. «Ha avuto paura?» «Un po'. Non molta, però. Ho visto di peggio. Ma lavoravano in tandem. Ecco che cosa volevo dirle. Ecco perché mi sono fatta avanti. Non riesco a credere che l'avete lasciata andare.» «Non abbiamo nessuna prova contro di lei, nessuna prova che la colleghi agli omicidi di quelle ragazze.» «Ma non capisce?» insistette Candy, supplichevole. «Lei è come lui.
Lavorano in tandem. Fanno delle cose insieme. Fanno tutto insieme.» «Candy, so che probabilmente le ci è voluto molto coraggio per venire a parlarmi, ma quello che mi ha raccontato non cambia la situazione. Non possiamo arrestare Lucy Payne sulla base...» «Sulla base della testimonianza di una puttana qualunque, intende?» «Non è quello che stavo per dire. Stavo per dire che non possiamo arrestare Lucy Payne sulla base di quanto mi ha appena raccontato. Lei era consenziente. È stata pagata per i suoi servizi. Non le hanno fatto più male di quanto fosse pronta a sopportarne. La sua è una professione rischiosa. Lo sa, Candy.» «Ma quello che le ho detto deve pur fare differenza.» «Sì, fa differenza. Per me. Ma noi ci occupiamo di fatti, di prove. Non metto in dubbio la sua parola, non metto in dubbio che sia successo, ma, anche se avessero filmato tutto, non farebbe di Lucy un'assassina.» Candy tacque per un istante, quindi aggiunse: «L'hanno fatto. L'hanno filmato». «Come fa a saperlo?» «Ho visto la videocamera. Era nascosta dietro un paravento, ma ho sentito qualcosa, un ronzio, e a un certo punto, quando mi sono alzata per andare in bagno, l'ho intravista. Nel paravento c'era un foro.» «Non abbiamo trovato nessun video in quella casa, Candy. E, come ripeto, anche se li avessimo trovati, le cose non cambierebbero.» Ma il fatto che la giovane avesse visto una videocamera aveva risvegliato il suo interesse. Fu costretto a domandarsi ancora una volta dove fosse l'apparecchio e dove fossero i nastri. «Allora sono venuta per niente?» «Non è detto.» «Sì, invece. Non avete intenzione di muovere un dito. Quella donna è colpevole quanto lui, e la passerà liscia.» «Candy, non abbiamo prove contro Lucy. Il fatto che abbia partecipato a un triangolo con lei e il marito non la rende un'assassina.» «Allora trovate qualche prova.» Banks sospirò. «Perché è venuta qui?» le chiese. «Sia sincera. Voi ragazze non vi fate mai avanti di vostra spontanea volontà per parlare con la polizia.» «Come sarebbe a dire, "voi ragazze"? Mi sta giudicando di nuovo, vero?» «Buon Dio, Candy... Lei è una puttana. L'ha detto lei stessa. Vende ses-
so. Non giudico la sua professione, ma le ragazze che la svolgono non sono molto disponibili verso la polizia. Quindi perché è qui?» Gli scoccò un'occhiata così colma di intelligenza e senso dell'umorismo che il commissario ebbe la tentazione di farle la predica e convincerla a iscriversi all'università e laurearsi. Ma si trattenne. Poi il volto di Candy si velò di tristezza. «Ha ragione riguardo alla mia professione, come la chiama lei» disse. «È piena di pericoli. Il rischio di beccarsi qualche malattia a trasmissione sessuale. Il rischio di incontrare il tipo sbagliato di cliente. Il tipo più schifoso. Cose del genere ci capitano di continuo. Corriamo il rischio. All'epoca, questi due non erano meglio o peggio degli altri. Meglio di alcuni. Se non altro, hanno pagato.» Si chinò in avanti. «Ma da quando ho letto di loro nei giornali, di quello che avete trovato in cantina...» Rabbrividì leggermente e si strinse le spalle scarne. «Delle ragazze scompaiono» proseguì. «Ragazze come me. E non gliene frega niente a nessuno.» Banks fece per dire qualcosa, ma lei lo fermò con un gesto della mano. «Oh, mi dirà che ve ne frega. Mi dirà che non importa chi viene stuprato, picchiato o ucciso. Ma se si tratta di una scolaretta tutta casa e chiesa, smuovete cielo e terra per scoprire chi è stato. Se si tratta di una come me... ecco... diciamo solo che non veniamo al primo posto. Okay?» «Se è così, Candy, ci sono dei motivi» ribatté Banks. «E non è perché non me ne freghi niente. Perché non ce ne freghi niente.» Lo studiò per qualche istante e parve concedergli il beneficio del dubbio. «Forse a lei gliene frega qualcosa» aggiunse. «Forse lei è diverso. E forse ci sono dei motivi. Non che questa sia una scusa valida. Il punto è, però, che non sono venuta solo... perché delle ragazze scompaiono. Delle ragazze sono scomparse. Be', una in particolare.» Banks sentì i peli che gli si rizzavano sulla nuca. «Una ragazza che conosce? Una sua amica?» «Non proprio un'amica. Non si hanno molte amiche in questa professione. Ma qualcuno che conoscevo, sì. Qualcuno con cui passavo del tempo. Con cui parlavo. Con cui bevevo qualche drink. A cui prestavo dei soldi.» «Quando è successo?» «Non lo so con esattezza. Prima di Natale.» «Ha sporto denuncia?» Il suo sguardo tagliente gli comunicò che era sceso molto nella sua considerazione. Strano a dirsi, gli importava. «Mi faccia il piacere!» rispose Candy. «Le ragazze vanno e vengono di continuo. Si spostano. Certe volte smettono persino di fare la vita, risparmiano abbastanza soldi, si iscrivono
all'università, si laureano.» Banks arrossì quando la sentì dire la stessa cosa che aveva pensato poco prima. «Allora che cosa le fa credere che questa ragazza scomparsa non si sia limitata a fare le valigie e ad andarsene come le altre?» domandò. «Niente» rispose Candy. «Forse è solo una perdita di tempo.» «Ma?» «Ma ha detto che quanto avevo da raccontarle non era una prova.» «È vero.» «L'ha fatta riflettere, però, giusto?» «Mi ha dato qualche spunto di riflessione. Sì.» «E se questa ragazza non si fosse solo spostata? E se le fosse capitato qualcosa? Non pensa di dover almeno tenere conto di questa possibilità? Non si sa mai, magari troverà qualche prova.» «Non ha tutti i torti, Candy, ma ha mai visto questa ragazza con i Payne?» «Non proprio, no.» «Ha visto i Payne nel periodo della sua scomparsa?» «Qualche volta li ho visti passare in auto. Non ricordo le date esatte.» «Ma più o meno in quel periodo?» «Sì.» «Tutti e due?» «Sì.» «Mi serve un nome.» «Nessun problema. So come si chiama.» «E non un nome come Candy.» «Che cosa c'è che non va in Candy?» «Non credo sia il suo vero nome.» «Bene, bene. Adesso capisco come mai è un detective così importante. Ha indovinato. Il mio vero nome è Hayley, che, se vuole un mio parere, è ancora peggio.» «Oh, non mi pare. Non è poi così male.» «Si risparmi i complimenti. Non sa che noi puttane non abbiamo bisogno di complimenti?» «Non volevo...» Candy sorrise. «So che non voleva.» Poi si piegò in avanti appoggiando le braccia sulla scrivania, il volto pallido a soli trenta o quaranta centimetri da quello di Banks. Il commissario avvertì l'odore di fumo e gomma da masticare nel suo alito. «Tornando alla ragazza scomparsa, so come si
chiama. Il suo nome da strada era Anna, ma conosco il suo vero nome. Che ne pensa, signor Investigatore?» «Penso che sarò molto lieto di ascoltarla» rispose Banks allungando la mano verso la penna e il block-notes. Candy tornò ad appoggiarsi allo schienale incrociando le braccia. «Oh, no. Non prima di aver fumato quella sigaretta.» «Che cosa c'è ancora?» domandò Janet. «Ho già modificato la mia dichiarazione.» «Lo so» disse Annie, la nausea che continuava ad attanagliarle lo stomaco. In parte dipendeva dall'appartamento soffocante di Janet, ma solo in parte. «Sono andata a parlare con l'avvocato della Corona.» La poliziotta si versò un gin liscio da una bottiglia quasi vuota. «E allora?» «Allora dovrei arrestarla e portarla al commissariato per metterla sotto accusa.» «Capisco. Di che cosa intende accusarmi?» Annie tacque, trasse un profondo respiro, quindi rispose: «All'inizio, il Dipartimento voleva incriminarla per omicidio premeditato, ma sono riuscita a farli accontentare dell'omicidio volontario con attenuanti. Dovrà discuterne con loro, ma sono sicura che, se si dichiarerà colpevole, ci andranno piano con lei». Lo shock e la collera che aveva previsto non arrivarono. Janet si attorcigliò invece un filo allentato intorno all'indice, aggrottando le sopracciglia e bevendo un sorso di liquore. «È per via del verdetto John Hadleigh, vero? L'ho sentito alla radio.» Annie deglutì. «Sì.» «L'avevo immaginato. Un agnello sacrificale.» «Ascolti» aggiunse l'ispettore «possiamo trovare una soluzione. Come ho detto, il Dipartimento della pubblica accusa accetterà un accordo...» Janet sollevò la mano. «No.» «Che cosa significa?» «Un no è tanto difficile da capire?» «Janet...» «No. Se quei bastardi vogliono incriminarmi, facciano pure. Non gli darò la soddisfazione di dichiararmi colpevole soltanto per aver fatto il mio lavoro.» «Non è il momento di fare giochetti, Janet.»
«Che cosa le fa pensare che voglia fare dei giochetti? Dico sul serio. Mi dichiarerò innocente di qualsiasi imputazione.» Annie si sentì raggelare. «Janet, per favore, mi ascolti. Non può farlo.» L'agente rise. Aveva un brutto aspetto, notò Annie: capelli sporchi e spettinati, pelle esangue punteggiata di foruncoli, un vago odore di sudore stantio e gin. «Non sia sciocca» ribatté. «Certo che posso. Il pubblico vuole che facciamo il nostro dovere, giusto? Vuole che le persone si sentano al sicuro nei loro bei lettini borghesi durante la notte e quando vanno al lavoro la mattina o escono per un drink la sera. Non è così? Be', insegniamo loro che c'è un prezzo per tenere gli assassini lontani dalle strade. No, Annie, non mi dichiarerò colpevole, nemmeno di omicidio volontario con attenuanti.» Annie si chinò in avanti per dare un po' di enfasi alle sue parole. «Ci pensi bene, Janet. Potrebbe essere una delle decisioni più importanti della sua vita.» «Non credo. Ho già preso la più importante in quella cantina la settimana scorsa. Ma ci ho pensato. Non penso ad altro da giorni.» «È sicura?» «Sì.» «Crede che lo faccia volentieri, Janet?» domandò Annie alzandosi. La giovane le sorrise. «No, certo che no. Lei è una persona onesta. Vuole fare la cosa giusta, e sa quanto me che questa faccenda puzza. Ma quando la mettono alle strette, fa il suo lavoro. Il maledetto lavoro. Sa, sono quasi contenta che sia successo, contenta di esserne fuori. Quei fottuti ipocriti. Forza, proceda.» «Janet Taylor, la dichiaro in arresto per l'omicidio di Terence Payne. Ha il diritto di non parlare, ma qualunque cosa dica potrà essere usata contro di lei in tribunale.» Quando Annie gli propose di vedersi per un drink in un luogo diverso dal Queen's Arms, Banks si sentì subito invadere dall'apprensione. Il Queen's Arms era il «loro» locale. Era il pub dove andavano sempre a bere qualcosa dopo il lavoro. Suggerendo un altro bar - il Pied Piper, un posto per turisti su Castle Hill -, Annie gli annunciava di avere qualcosa di grave da comunicargli, qualcosa che andava al di là della conversazione informale, o almeno così pensò Banks. Un'altra possibile spiegazione era il timore che Chambers venisse a sapere del loro incontro. Essendo in anticipo di dieci minuti, Banks ordinò una pinta al bancone e
sedette a un tavolo vicino alla vetrina, la schiena al muro. Il panorama era meraviglioso. I giardini all'italiana erano un tripudio di viola, indaco e scarlatto, e oltre il fiume gli alti alberi del Green, alcuni dei quali ancora in fiore, nascondevano gran parte dell'orrendo East End Estate. Anche se alcuni dei sudici villini si intravedevano comunque e le due torri a dodici piani si ergevano come se volessero fare il dito al mondo, lo sguardo spaziava fino alla rigogliosa pianura dai prati di colza giallo brillante, e il commissario credette persino di distinguere le protuberanze verde scuro delle Cleveland Hills in lontananza. Vedeva anche il dietro della casa di Jenny Fuller, di fronte al Green. Talvolta si preoccupava per Jenny. Pareva che non avesse granché nella vita a parte il lavoro. Il giorno prima aveva scherzato riguardo alle sue relazioni disastrose, ma Banks aveva assistito ad alcune di esse e non erano state uno scherzo. Rammentava lo shock, la delusione e, sì, la gelosia che aveva provato alcuni anni addietro, quando era andato a interrogare un perdente di nome Dennis Osmond e aveva visto Jenny infilare la testa fuori della porta della camera da letto, i capelli arruffati, una leggera vestaglia che le scivolava giù dalle spalle. L'aveva anche ascoltata mentre gli raccontava quanto avesse sofferto a causa dell'infedele Randy. Uno dopo l'altro, Jenny sceglieva falliti, imbroglioni e, in genere, partner inadatti. Il fatto triste era che ne era consapevole, ma capitava lo stesso. Annie arrivò in ritardo di un quarto d'ora (cosa che non era da lei) e senza il suo solito passo elastico. Dopo che fu andata a prendersi qualcosa da bere e lo ebbe raggiunto al tavolo, Banks intuì che era sconvolta. «Brutta giornata?» le chiese. «Puoi dirlo forte.» Banks pensò che anche lui avrebbe potuto averne una migliore. Anzitutto, avrebbe fatto volentieri a meno della lettera di Sandra. Pur essendo interessanti, le informazioni di Candy l'avevano inoltre esasperato perché non gli avevano fornito le prove concrete di cui aveva bisogno se voleva catturare Lucy Payne e arrestarla per qualcosa di diverso dall'aver abbordato una prostituta. Era quello il guaio: gli elementi bizzarri che emergevano pian piano (l'infanzia di Lucy, gli oggetti satanici di Alderthorpe, l'omicidio di Kathleen Murray e ora la dichiarazione di Candy) erano tutti allarmanti e indicavano l'esistenza di problemi più seri, ma, come aveva già sottolineato il comandante di distretto Hartnell, in sostanza non significavano nulla. «Qualcosa in particolare?» domandò il commissario.
«Ho appena arrestato Janet Taylor.» «Fammi indovinare: il verdetto Hadleigh?» «Sì. Sembra che lo sapessero tutti tranne me. Il Dipartimento della pubblica accusa vuole far vedere alla gente che giustizia è fatta. Tutta maledetta politica, nient'altro.» «Come succede spesso.» Annie gli lanciò un'occhiata stizzosa. «Lo so, ma non mi fa stare meglio.» «Arriveranno a un accordo con lei.» Annie gli ripeté quanto la poliziotta le aveva appena detto. «Sarà un processo interessante, allora. Come ha reagito Chambers?» «Non gliene frega niente. Fa soltanto il conto alla rovescia del tempo che gli manca alla pensione. Ho chiuso con la Sezione reclami e disciplina. Tornerò alla Divisione investigazioni criminali appena si libera un posto.» «E noi saremmo lieti di averti appena se ne libererà uno» la rassicurò Banks sorridendo. «Ascolta, Alan» aggiunse Annie contemplando il paesaggio attraverso la vetrina «volevo parlarti anche di qualcos'altro.» Proprio come aveva previsto. Si accese una sigaretta. «Okay. Di che cosa si tratta?» «È solo che... Non so... non funziona. Tra me e te. Penso che dovremmo mollare. Piantarla. Ecco tutto.» «Vuoi interrompere la nostra relazione?» «Non interromperla. Solo modificarne la natura, tutto qui. Possiamo sempre essere amici.» «Non so che cosa dire, Annie. Da che cosa dipende?» «Da niente in particolare.» «Oh, dai. Non vorrai farmi credere che hai deciso di scaricarmi all'improvviso, senza nessun motivo valido.» «Non ti sto scaricando. Te l'ho detto. Solo che le cose cambiano.» «Okay. Continueremo a uscire per delle cenette romantiche, per andare insieme a mostre e concerti?» «No.» «Continueremo ad andare a letto insieme?» «No.» «E allora che cosa faremo insieme con esattezza?» «Saremo amici. Sai, sul lavoro. Ci aiuteremo a vicenda e roba del genere.»
«Ti aiuto già e roba del genere. Perché non posso aiutarti e roba del genere e continuare a venire a letto con te?» «Non che non mi piaccia, Alan. Venire a letto con te. Il sesso. Lo sai.» «Pensavo che ti piacesse, ma forse sei solo un'attrice maledettamente brava.» Sussultando, Annie bevve un lungo sorso di birra. «Non è giusto. Non me lo merito. Sai, non è facile per me.» «Allora perché lo fai? Comunque, tra noi non c'è soltanto sesso.» «Devo farlo.» «No, non devi. È per via della conversazione dell'altra sera? Non cercavo di dire che dobbiamo avere dei bambini. È l'ultima cosa che vorrei in questo momento.» «Lo so. Non è per quello.» «Ha a che fare con l'aborto, con i sentimenti che ti ho detto di aver provato?» «Cristo, no. Forse. Ascolta, okay, ammetto di essere rimasta sconcertata, ma non nel modo che credi tu.» «In che modo, allora?» Chiaramente a disagio, Annie tacque, agitandosi sulla sedia e distogliendo lo sguardo, la voce bassa: «Mi ha solo fatto pensare a cose cui preferirei non pensare. Nient'altro». «Quali cose?» «Devi sapere proprio tutto?» «Annie, ci tengo a te. Ecco perché te lo chiedo.» La donna si passò le dita tra i capelli e tornò a guardarlo scuotendo la testa. «Dopo lo stupro» spiegò «oltre due anni fa, be'... Non aveva... Quello che l'ha fatto non aveva... Merda, è più difficile di quanto immaginassi.» Banks capì al volo. «Sei rimasta incinta. È questo che mi stai dicendo, giusto? Ecco perché questa storia di Sandra ti innervosisce tanto.» Annie abbozzò un sorriso. «Molto perspicace.» Gli sfiorò la mano sussurrando: «Sì. Sono rimasta incinta». «E poi?» Annie scrollò le spalle. «E poi ho abortito. Non è stato il mio momento migliore, ma nemmeno il peggiore. Dopo non ho provato alcun rimorso. Anzi, non ho provato quasi niente. Ma tutto questo... Non so... Voglio solo buttarmi ogni cosa alle spalle, e stare con te mi riporta indietro, mi sbatte tutto quanto in faccia.» «Annie...»
«No. Fammi finire. Hai un passato troppo ingombrante, Alan. Troppo perché io possa gestirlo. Pensavo che sarebbe diventato più semplice, che sarebbe sparito, magari, ma mi sbagliavo. Non riesci a liberartene. Non te ne libererai mai. Perché il matrimonio è stato una parte troppo importante della tua esistenza per troppo tempo. Ti hanno ferito e io non so consolarti. Non sono brava a consolare. A volte mi sento schiacciata dalla tua vita, dal tuo passato, dai tuoi problemi, e ho soltanto voglia di strisciare via e stare sola. Mi sembra di soffocare.» Banks spense la sigaretta e si rese conto che la mano gli tremava leggermente. «Non immaginavo che ti sentissi così.» «Be', ecco perché te lo dico. Non sono tagliata per la dedizione, per l'intimità emotiva. Non ancora, almeno. Forse mai. Non lo so, ma mi opprime e mi spaventa.» «Non possiamo trovare una soluzione?» «Non voglio trovare una soluzione. Non ho l'energia necessaria. Non è quello di cui ho bisogno adesso. È questo l'altro motivo.» «Quale?» «La carriera. Che tu ci creda o no, a parte il fiasco con Janet Taylor, mi piace lavorare nella polizia e ho la stoffa per farlo.» «Lo so.» «No, aspetta. Fammi finire. Il nostro comportamento è stato poco professionale. Non riesco a credere che metà del commissariato non sappia che cosa facciamo in privato. Ho sentito le risatine maliziose alle mie spalle. Di sicuro tutti i miei colleghi della Divisione investigazioni criminali e della Sezione reclami e disciplina ne sono al corrente. Penso che anche Chambers abbia buttato là un'allusione quando mi ha avvertita che eri un dongiovanni. Non mi sorprenderebbe se lo sapesse anche McLaughlin.» «Le relazioni tra colleglli non sono rare, e di certo non sono illegali.» «No, ma sono fortemente scoraggiate e viste di cattivo occhio. Voglio diventare ispettore capo, Alan. Maledizione, voglio diventare commissario, capo della polizia di contea. Chissà? Ho riscoperto la mia ambizione.» Era ironico, pensò Banks, che Annie avesse riscoperto la sua ambizione quando lui era arrivato ai limiti della propria. «E io sarei un ostacolo?» «Non un ostacolo. Una distrazione. Non ho bisogno di distrazioni.» «Il lavoro senza gioia fa della vita una noia.» «Allora sarò noiosa per un po'. Sarà un bel cambiamento.» «È finita, dunque? Così? Punto. Basta. Smettiamo di vederci perché io sono umano e ho un passato che qualche volta solleva la sua brutta testa e
perché tu hai deciso di investire di più nella carriera?» «Se vuoi metterla così, sì.» «In quale altro modo si potrebbe metterla?» Annie si affrettò a bere la sua pinta. Banks intuì che non vedeva l'ora di andarsene. Ma, dannazione, era offeso e arrabbiato e non le avrebbe permesso di cavarsela con tanta facilità. «Sei certa che non ci sia nient'altro?» le chiese. «Per esempio?» «Non lo so. Sicura di non essere gelosa?» «Gelosa? Di chi? Perché dovrei?» «Di Jenny, forse?» «Oh, santo cielo, Alan. No, non sono gelosa di Jenny. Se sono gelosa di qualcuno, quel qualcuno è Sandra. Non capisci? Ha più influenza su di te di chiunque altro.» «Non è vero. Non più.» Banks rammentò tuttavia la lettera, i sentimenti che aveva provato leggendo le parole spicce, distaccate. «C'è qualcun altro? È questo?» aggiunse subito. «Alan, non c'è nessun altro. Credimi. Te l'ho detto. Al momento non c'è spazio per nessuno nella mia vita. Non riesco a soddisfare le esigenze emotive di nessun altro.» «Che cosa mi dici delle esigenze sessuali?» «Che cosa intendi?» «Non deve essere emotivo, il sesso, vero? Insomma, se è troppo complicato andare a letto con qualcuno che tiene davvero a te, forse sarebbe più semplice rimorchiare uno stallone in un bar per una sveltina anonima. Nessuna esigenza. Non dovete neppure dirvi come vi chiamate. È questo che vuoi?» «Alan, non so dove vuoi arrivare, ma preferirei che ti fermassi qui.» Banks si massaggiò le tempie. «Sono solo frastornato, Annie, ecco tutto. Scusami. Anch'io ho avuto una brutta giornata.» «Mi dispiace. Non voglio ferirti.» La guardò dritta negli occhi. «Allora non farlo. A prescindere dalla persona cui ti legherai, dovrai affrontare le cose che vuoi evitare.» Notò le lacrime che le velavano lo sguardo. In precedenza l'aveva vista piangere solo quando gli aveva raccontato dello stupro. Fece per accarezzarle la mano sul tavolo, ma lei la ritrasse. «No. Non farlo.» «Annie...» «No.»
La donna si alzò con uno scatto così brusco da urtare forte il tavolo e rovesciargli addosso la birra, quindi corse fuori del pub prima che lui riuscisse ad aggiungere un'altra parola. Banks non poté far altro che restare seduto lì, con il liquido freddo che gli filtrava attraverso i pantaloni, consapevole del fatto che tutti gli occhi erano puntati su di lui, felice solo di non essere al Queen's Arms, dove lo conoscevano tutti. E pensare che si era illuso che la giornata non sarebbe potuta andare peggio. Capitolo 17 Dopo aver concluso l'ultima lezione e aver smaltito un po' di scartoffie, Jenny uscì dal suo ufficio di York nel primo pomeriggio di martedì e si diresse verso la Al per Durham. Il traffico era intenso, soprattutto camion e furgoni delle consegne, ma almeno era una piacevole giornata di sole, senza scrosci di pioggia. Dopo aver parlato con Keith Murray (sempre ammesso che accettasse di parlare con lei), avrebbe avuto ancora il tempo di proseguire fino a Edimburgo e rintracciare Laura Godwin. Si sarebbe dovuta fermare là per la notte (l'alternativa sarebbe stato un lungo viaggio in auto al buio), ma ci avrebbe pensato più tardi. Una vecchia amica con cui aveva frequentato la facoltà di psicologia abitava in quella città, e magari sarebbe stato divertente incontrarsi e raccontarsi le rispettive storie. Non che la sua vita recente contenesse particolari di cui vantarsi, pensò Jenny cupa e, ora che aveva conosciuto la ragazza di Banks, probabilmente non aveva molte speranze neppure su quel fronte. Ma ormai ci aveva fatto il callo; dopo tutto, lei e Alan si conoscevano da sette anni o più e non erano mai andati oltre i limiti della decenza, purtroppo. Non era ancora sicura che l'amichetta si fosse ingelosita quando li aveva raggiunti al Queen's Arms. Aveva senza dubbio visto Banks che le sfiorava il braccio e, benché si trattasse di un gesto premuroso e amichevole, poteva risultare ambiguo, come gran parte del linguaggio del corpo. Chissà se l'amichetta era un tipo possessivo? Le era parsa controllata e sicura di sé, ma qualcosa nel suo atteggiamento le aveva fatto provare un'inspiegabile preoccupazione per Banks, forse l'unico uomo per cui si fosse preoccupata nella sua vita, l'unico cui avrebbe voluto offrire protezione. Non sapeva perché. Banks era forte, riservato, indipendente; forse era più vulnerabile di quanto desse a vedere, ma non era certo il genere di persona che ti veniva spontaneo proteggere o coccolare.
Un furgone bianco le sfrecciò accanto sulla sinistra proprio mentre svoltava e, ancora assorta nelle sue riflessioni, per poco non lo urtò. Per fortuna, l'istinto intervenne, e Jenny ebbe il tempo di tornare bruscamente sulla sua corsia senza causare grossi problemi a nessun altro, ma mancò l'uscita che cercava. Suonando il clacson e gridando un'imprecazione (gesti vani, ma non le venne in mente altro), raggiunse lo svincolo successivo. Una volta lasciata la Al, cambiò la stazione radio passando da una melanconica sinfonia di Brahms a un'allegra musica pop, motivi che poteva canticchiare tamburellando a tempo con il dito sul volante. Aveva sempre giudicato Durham un luogo bizzarro. Pur essendo nata lì, non lo ricordava affatto, perché i suoi genitori avevano traslocato quando lei aveva solo tre anni. All'inizio della sua carriera accademica, aveva presentato domanda per un lavoro all'università, ma era stata battuta sul traguardo da un tizio con più pubblicazioni al suo attivo. Le sarebbe piaciuto abitare qui, pensò guardando il castello immerso nel verde in cima alla collina distante, ma York faceva al caso suo, e non aveva voglia di candidarsi per un nuovo posto in questa fase della sua vita professionale. Grazie alla cartina, aveva scoperto che Keith Murray viveva vicino al campo sportivo dell'università, quindi evitò l'importante zona turistica del centro, formata dal labirinto intorno ai college e alla cattedrale. Nonostante ciò, riuscì comunque a perdersi un paio di volte. Era probabile che Keith fosse a lezione, pensò, pur ricordando di non aver frequentato i corsi molto spesso quando era una studentessa. Se il ragazzo fosse stato fuori, avrebbe potuto aspettare, visitare la città, pranzare in un pub e avere ancora tutto il tempo per andare a Edimburgo e parlare con Laura. Sostando in un piccolo parcheggio davanti ad alcuni negozi, studiò di nuovo la cartina. Ormai c'era quasi. Sarebbe solo dovuta stare attenta ai sensi unici, altrimenti si sarebbe ritrovata al punto di partenza. Azzeccò al secondo tentativo e si allontanò dalla via principale per entrare in un'area di stradine anguste. Era così concentrata sulla ricerca dell'indirizzo che fino all'ultimo minuto non vide quasi l'automobile accanto a cui si era fermata. Quando la notò, ebbe un tuffo al cuore. Era una Citroën blu. Ripeté a se stessa di stare calma: non conoscendo la targa, non sapeva se fosse la stessa Citroën blu che l'aveva seguita per Holderness. Ma il modello era identico, e Jenny non credeva alle coincidenze. Che cosa doveva fare? Continuare comunque? Se la Citroën apparteneva a Keith Murray, perché era stato a Alderthorpe e a Spurn Head, e perché
l'aveva pedinata? Era pericoloso? Mentre cercava di decidere il da farsi, la porta della casa si aprì, e ne uscirono due persone: un giovane con le chiavi dell'auto in mano e una donna che assomigliava molto a Lucy Payne. Proprio quando Jenny stabilì di andarsene, l'uomo la scorse e, dopo aver detto qualcosa a Lucy, le si avvicinò e aprì di scatto la portiera del guidatore. Be', pensò la psicologa, questa volta l'hai fatta grossa, vero, Jenny? Secondo quanto Ken Blackstone gli aveva riferito al telefono quel mattino, non c'erano novità a Millgarth. Gli uomini della scientifica erano arrivati al punto in cui non era rimasto granché da fare a pezzi nella casa dei Payne. Avevano scavato entrambi i giardini fino a una profondità compresa fra due e tre metri e li avevano setacciati secondo uno schema a griglia. Avevano demolito i pavimenti della cantina e del garage con i martelli pneumatici. Avevano infilato nei sacchetti quasi mille reperti e li avevano etichettati. Avevano smontato e portato via l'intero contenuto dell'abitazione. Avevano perforato le pareti a intervalli regolari. Oltre agli esperti della scientifica che esaminavano tutto il materiale raccolto, i meccanici forensi avevano smantellato l'auto di Payne alla ricerca di tracce delle ragazze rapite. Forse Terry era morto, ma il caso era ancora aperto, e il ruolo di Lucy non era ancora stato accertato. Sapevano solo che la donna aveva prelevato duecento sterline da un Bancomat in Tottenham Court Road. Era ragionevole ipotizzare che, se fosse voluta scomparire, sarebbe andata a Londra, pensò Banks ricordando le ricerche di Emily Riddle nella capitale. Forse sarebbe dovuto andare a cercare pure Lucy, anche se questa volta avrebbe avuto a disposizione tutte le risorse della polizia di Londra. Forse non si sarebbe arrivati a tanto; forse Lucy non era coinvolta e si sarebbe semplicemente creata una nuova identità e un nuovo aspetto in un posto nuovo tentando di ricostruire la sua vita distrutta. Forse. Il commissario tornò a guardare i fogli di carta sparsi sulla scrivania. Katya Pavelic. Katya, la «Anna» di Candy, era stata identificata la sera prima tramite le radiografie dentali. Per fortuna, aveva avuto mal di denti poco prima di scomparire, e Candy l'aveva indirizzata dal suo odontoiatra. Secondo Candy, era sparita verso la fine del novembre precedente. O almeno, la testimone ricordava il freddo, la nebbia e le luminarie natalizie appena accese nel centro della città. Con tutta probabilità, Katya era dunque la vittima
ma aveva preceduto Kelly Matthews. Candy (o Hayley Lyndon, come si chiamava) era sicura di aver visto Terence e Lucy Payne gironzolare qualche volta nel quartiere con l'auto, ma non riusciva a collegarli direttamente a Katya. Le prove indiziarie cominciavano però ad accumularsi e, se l'indagine psicologica condotta da Jenny sulle vecchie ferite di Alderthorpe avesse rivelato qualcosa di interessante, forse avrebbero incastrato Lucy Payne. Per ora, che si godesse pure l'illusione della libertà. La quattordicenne Katya Pavelic era arrivata in Inghilterra dalla Bosnia quattro anni prima. Come tante altre giovani del suo paese, era stata stuprata da una banda di soldati serbi che poi le avevano sparato, e si era salvata soltanto fingendosi morta sotto un mucchio di cadaveri finché le forze di pace canadesi dell'ONU l'avevano trovata tre giorni dopo. La ferita era superficiale e il sangue si era raggrumato. L'unico problema era stata un'infezione, che aveva tuttavia reagito bene agli antibiotici. Diversi gruppi e individui avevano fatto in modo che Katya si trasferisse in Inghilterra, ma era una ragazza difficile e affetta da turbe psichiche e ben presto, a sedici anni, era scappata dalla casa dei genitori adottivi, che da allora avevano tentato invano di rintracciarla e mettersi in contatto con lei. A Banks non sfuggì il lato ironico della storia. Dopo essere sopravvissuta alle atrocità della guerra in Bosnia, Katya Pavelic aveva finito per essere violentata, uccisa e seppellita nel giardino posteriore dei Payne. Qual era il maledetto senso di tutto questo?, si domandò. Come al solito, non ottenne alcuna risposta dall'Ironista supremo del Cielo, soltanto una profonda risata sorda che gli riecheggiò nel cervello. Talvolta non riusciva a tollerare tutto quell'orrore e quella tristezza. Restava poi un'altra vittima non identificata, quella che era rimasta sepolta più a lungo: una donna bianca sulla ventina, alta circa un metro e sessanta, aveva detto l'antropologo forense, che non aveva ancora ultimato i test sulle ossa. Banks era quasi certo che fosse un'altra prostituta, il che avrebbe potuto rendere difficile il riconoscimento del cadavere. Il commissario aveva avuto un lampo di genio e aveva persuaso Geoff Brighouse, il collega di Terence Payne, ad aiutarlo a rintracciare l'insegnante di Aberdeen che avevano rimorchiato durante la conferenza. Per fortuna, la sua ipotesi era sbagliata, e la donna non si era trasferita. Pur manifestando una certa collera per l'episodio, aveva taciuto soprattutto per non compromettere la sua carriera e aveva cercato di dimenticare l'accaduto. Imbarazzata, aveva anche rimproverato se stessa per essersi sbronzata
ed essere stata tanto stupida da seguire due estranei in una camera d'albergo dopo tutto quello che aveva letto nei giornali. Era quasi svenuta quando Banks le aveva spiegato che il tizio con cui aveva fatto sesso anale contro la sua volontà era Terence Payne. Non aveva associato il volto dello stupratore alla fotografia pubblicata dai quotidiani e conosceva soltanto il nome di battesimo di quei due. Banks aprì la finestra su un'altra bella giornata nella piazza del mercato, i pullman turistici che si fermavano già vomitando le loro orde sui ciottoli scintillanti. Una rapida occhiata all'interno della chiesa, una passeggiata fino al Castello, pranzo al Pied Piper (si sentiva depresso al solo pensiero di quanto era accaduto là dentro il giorno prima), quindi sarebbero tornati a stiparsi sull'autobus, e poi via verso il castello Bolton o l'abbazia di Devraulx. Come gli sarebbe piaciuto partire per una lunga vacanza. Magari senza ritorno. Le lancette dorate sul quadrante azzurro dell'orologio del campanile segnavano le dieci e cinque. Accendendosi una sigaretta, Banks fece programmi per le ore successive, programmi che comprendevano Mick Blair, Ian Scott e Sarah Francis, per non parlare poi dei genitori affranti, Christopher e Victoria Wray. L'agente Winsome non aveva scoperto nulla di nuovo interrogando i vicini dei Wray, nessuno dei quali aveva visto o sentito qualcosa di insolito. Banks nutriva ancora qualche sospetto nei loro confronti, sebbene stentasse a convincersi che avessero davvero ucciso Leanne. Era reduce dall'ennesima notte insonne, questa volta in parte per colpa di Annie. Ora, più rifletteva sulla sua decisione, più gli sembrava giusta. Non avrebbe voluto perderla, ma, a essere onesto, anche lui pensava che sarebbe stato meglio così. Ricordando l'atteggiamento scostante della donna verso la relazione, il modo in cui si metteva sulla difensiva ogni volta che le rivelava altri aspetti della sua vita, Banks si rese conto che, nonostante tutto, il rapporto gli aveva procurato anche molto dolore. Se Annie non gradiva che i fatti del passato di Banks la costringessero ad affrontare episodi del proprio, come l'aborto, forse aveva fatto bene a troncare. Era ora che andassero avanti e fossero «soltanto amici», che lei si concentrasse sulla carriera e che lui cercasse di esorcizzare i suoi demoni personali. Proprio mentre stava finendo la sigaretta, l'agente investigativo Winsome Jackman bussò alla porta ed entrò, molto elegante in camicetta bianca e completo gessato su misura. La ragazza aveva buon gusto in fatto di abbigliamento, pensò Banks, a differenza di lui e a differenza di Annie Cabbot.
Annie aveva uno stile casual molto esclusivo (era senza dubbio tutto suo), ma nessuno avrebbe potuto accusarla di fare tendenza. A ogni modo, era meglio scordarsi di lei. Si rivolse a Winsome. «Entri. Si accomodi.» Winsome sedette accavallando le lunghe gambe e arricciando il naso con aria di rimprovero per l'odore di fumo. «Lo so, lo so» si giustificò Banks. «Ho intenzione di smettere presto, promesso.» «Quel lavoretto che mi ha chiesto di fare» esordì la poliziotta. «Pensavo le avrebbe fatto piacere sapere che il suo istinto aveva ragione. È stata rubata un'auto in Disraeli Street tra le nove e mezzo e le undici della sera in cui Leanne Wray è scomparsa.» «Davvero? Disraeli Street non è a un tiro di schioppo dall'Old Ship Inn?» «Sì, signore.» Banks sedette fregandosi le mani. «Continui.» «Il proprietario si chiama Samuel Gardner. Gli ho parlato al telefono. Pare che abbia parcheggiato lì per fare un salto al Cock and Bull in Palmerston Avenue, solo per una pinta di panaché, ci ha tenuto a specificare.» «Naturalmente. Dio non voglia che lo arrestiamo per guida in stato di ebbrezza a due mesi di distanza. Che cosa ne pensa, Winsome?» L'agente accavallò le gambe nell'altra direzione, raddrizzandosi l'orlo della gonna sopra le ginocchia. «Non so, signore. Sembra una coincidenza curiosa, vero?» «Che Ian Scott fosse nei paraggi?» «Sì, signore. So che molti ragazzi rubano auto, ma... be', l'ora corrisponde, e anche il luogo.» «Esatto. Quando è stato denunciato il furto?» «Alle undici e dieci di quella sera.» «E quando è stata ritrovata la vettura?» «Non prima del mattino successivo, signore. Uno dei poliziotti di ronda ha notato che era ferma in divieto di sosta accanto ai giardini all'italiana.» «Non sono molto lontani dal Riverboat, vero?» «Dieci minuti a piedi, non di più.» «Sa, forse siamo sulla strada giusta, Winsome. Voglio che vada a scambiare due parole con questo Samuel Gardner per vedere se riesce a scoprire qualcos'altro. Lo tranquillizzi. Gli faccia capire che non ce ne frega niente nemmeno se ha bevuto un'intera bottiglia di whisky, purché ci racconti tut-
to quel che ricorda riguardo a quella sera. E faccia portare l'auto nella rimessa della polizia per un esame forense completo. Dubito che troveremo qualcosa dopo tutto questo tempo, ma Scott e Blair non lo sanno, giusto?» Winsome fece un sorriso maligno. «Ne dubito molto, signore.» Banks guardò l'orologio. «Una volta che ha parlato con Gardner e che la vettura è al sicuro nelle nostre mani, faccia portare qui Mick Blair. Credo che una breve chiacchierata con lui in una stanza degli interrogatori potrebbe rivelarsi molto produttiva.» «Ben detto.» «E faccia portare qui anche Sarah Francis.» «D'accordo.» «Ah, Winsome.» «Signore?» «Si accerti che si incrocino in corridoio, per piacere.» «Come vuole, signore.» Sorridendo, la ragazza si alzò e uscì dall'ufficio. «Ascolta» disse Jenny «io non ho ancora pranzato. Invece di rimanere qui per la strada, non possiamo andare da qualche parte nelle vicinanze?» Benché i suoi timori istintivi si fossero un po' attenuati quando il giovane si era limitato a chiederle chi fosse e che cosa volesse senza mostrare alcuna intenzione di aggredirla, preferiva stare con loro in un luogo pubblico, non nell'appartamento. «C'è una tavola calda in fondo alla via» replicò lui. «Possiamo andare là, se vuole.» «Perfetto.» Jenny li seguì fino alla strada principale, attraversò sulle strisce ed entrò in un ristorantino d'angolo che profumava di pancetta. Sarebbe dovuta essere a dieta (sarebbe sempre dovuta essere a dieta), ma non resistette all'aroma e ordinò un panino e una tazza di tè. Gli altri due chiesero lo stesso, e Jenny pagò il conto. Nessuno obiettò. Gli studenti squattrinati non lo fanno mai. Ora che erano più vicini, seduti a un tavolo appartato accanto alla vetrina, Jenny si accorse di essersi sbagliata. Pur assomigliando molto a Lucy, pur avendo gli stessi occhi, la stessa bocca e gli stessi lucidi capelli neri, la ragazza non era Lucy. Vi era qualcosa di molto più dolce, più fragile, più umano in lei, e i suoi occhi non erano così neri e impenetrabili; erano intelligenti e sensibili, sebbene nei loro abissi si scorgessero paure e orrori che Jenny faticava a immaginare. «Laura, vero?» chiese quando si furono accomodati.
La ragazza sollevò le sopracciglia. «Be', sì. Come fa a saperlo?» «Non è stato difficile. Assomigli a tua sorella, e sei con vostro cugino.» Laura arrossì. «Sono soltanto venuta a trovarlo. Non è... Insomma, non voglio che si faccia un'idea sbagliata.» «Non preoccuparti» la rassicurò Jenny. «Non salto mai alle conclusioni.» Be', quasi mai, disse tra sé e sé. «Torniamo alla mia prima domanda» interloquì Keith Murray. Era più brusco di Laura e amava andare subito al dunque. «Ossia chi è lei e perché è qui. Già che c'è, mi dica anche che cosa ci faceva a Alderthorpe.» Laura parve sorpresa. «È stata a Alderthorpe?» «Sabato. L'ho seguita fino a Rasington e poi fino a Spurn Head. Sono tornato indietro quando ha preso la M62.» Guardò di nuovo Jenny. «Allora?» Era un giovanotto attraente, con i capelli castani che gli arrivavano poco sopra le orecchie e il colletto, ma che parevano scalati da una mano esperta, vestito un po' meglio della maggioranza degli studenti di Jenny, con una leggera giacca sportiva e pantaloni di cotone grigio, le scarpe lucidissime. Ben rasato. Senza dubbio un ragazzo orgoglioso del suo aspetto un po' all'antica. Laura, invece, indossava una specie di camicia informe che, avvolgendola in una massa di tessuto, nascondeva ogni eventuale traccia di una figura sexy. Mostrava una reticenza e un'esitazione tali che Jenny provò l'impulso di stringerle la mano e dirle che era tutto a posto, che non doveva preoccuparsi, non l'avrebbe morsa. Keith sembrava inoltre molto protettivo nei suoi confronti, e Jenny si domandò come si fosse evoluto il loro rapporto dai tempi di Alderthorpe. Spiegò chi era e che cosa faceva, raccontando delle incursioni che aveva fatto nel passato di Lucy Payne alla ricerca di risposte sul suo presente, ed entrambi la ascoltarono con attenzione. Quando ebbe finito, Keith e Laura si scambiarono un'occhiata, e Jenny intuì che comunicavano in una lingua per lei indecifrabile. Non capì che cosa si dicessero e non credeva si trattasse di una specie di trucco telepatico: l'esperienza condivisa tanti anni prima aveva probabilmente creato un legame così forte e profondo che andava al di là delle parole. «Che cosa le fa pensare che troverà delle risposte laggiù?» chiese Keith. «Sono una psicologa» replicò Jenny «non una psichiatra, e di certo non una freudiana, ma sono convinta che il passato ci plasmi, rendendoci ciò che siamo.» «E che cos'è Linda, o Lucy, come si chiama ora?»
Jenny allargò le mani. «È proprio questo il problema. Non ho ancora trovato una risposta. Speravo che poteste aiutarmi.» «Perché dovremmo?» «Non lo so» rispose Jenny. «Forse avete ancora delle questioni in sospeso riguardo a quel periodo.» Keith scoppiò in una risata. «Anche se campassimo cent'anni, avremmo sempre questioni in sospeso riguardo a quel periodo» ribatté. «Ma che cosa c'entra con Linda?» «Era con voi, giusto? Era una di voi.» Keith e Laura si scambiarono un'altra occhiata, e Jenny avrebbe tanto voluto sapere che cosa stessero pensando. Finalmente, come se avessero preso una decisione, Laura disse: «Sì, era con noi, ma in un certo senso era lontana». «Che cosa intendi, Laura?» «Linda era la più grande, quindi sì è presa cura di noi.» Keith sbuffò. «È così, Keith.» «D'accordo.» Il labbro inferiore della ragazza tremò, e per un attimo Jenny pensò che stesse per piangere. «Continua, Laura» la incoraggiò. «Per favore.» «Linda era mia sorella» proseguì l'altra strofinandosi la mano contro la coscia «ma ci sono tre anni di differenza fra noi, e sono parecchi quando si è piccoli.» «Spiegati meglio. Mio fratello ha tre anni più di me.» «Be', allora può capire. Non conoscevo veramente Linda. Per certi versi, era distante quanto un adulto, e altrettanto incomprensibile. Da bambine giocavamo insieme, ma più crescevamo più ci allontanavamo, soprattutto... sa... per come stavano le cose.» «Ma che tipo era?» «Linda? Era strana. Molto distaccata. Molto egoista, già allora. Le piacevano i giochetti e sapeva essere crudele.» «In che senso?» «Se non l'aveva vinta o se non facevi quello che voleva, mentiva e ti metteva nei guai con i grandi. Ti faceva chiudere nella gabbia.» «Sul serio?» «Oh, sì» confermò Keith. «Tutti l'abbiamo fatta arrabbiare prima o poi.» «Certe volte non capivamo se stesse dalla nostra parte o dalla loro» aggiunse Laura. «Ma sapeva essere gentile. Ricordo che in un'occasione mi
ha curato un taglio con dell'antisettico per evitare che si infettasse. Era molto dolce. E qualche volta prendeva persino le nostre difese contro di loro.» «Come?» «Piccolezze. Se eravamo, sa, troppo deperiti per... o soltanto... A volte le davano retta. E ha anche salvato i gattini.» «Quali gattini?» «La nostra gatta ha avuto i piccoli e p-p-papà voleva annegarli, ma Linda li ha presi e ha trovato una casa per tutti.» «Amava gli animali, allora?» «Li adorava. Da grande voleva fare il veterinario.» «Perché non l'ha fatto?» «Non lo so. Forse non era abbastanza intelligente. O forse ha cambiato idea.» «Ma anche lei era vittima degli adulti?» «Oh, sì» rispose Keith. «Lo eravamo tutti.» «È stata la loro preferita per molto tempo» soggiunse Laura. «O almeno, finché...» «Finché cosa, Laura? Fai pure con calma.» Avvampando, la giovane distolse lo sguardo. «Finché è diventata donna. Quando aveva dodici anni. Poi l'hanno lasciata perdere. Allora Kathleen è diventata la loro preferita. Aveva solo nove anni, come me, ma avevano una predilezione per lei.» «Com'era Kathleen?» Gli occhi di Laura brillarono. «Era... una santa. Tollerava tutto senza lamentarsi, tutto ciò che quelle... quelle persone ci facevano. Kathleen possedeva una specie di luce interiore, una specie... ecco... come dire... una specie di qualità spirituale che la distingueva dagli altri, ma era molto f-ffragile, molto debole, ed era sempre malata. Non era in grado di sopportare il genere di punizioni e di percosse che ci infliggevano.» «Per esempio?» «La gabbia. E digiunare per giorni interi. Era troppo gracile e delicata.» «Ditemi» domandò Jenny «perché nessuno di voi si è rivolto alle autorità?» Keith e Laura si scambiarono un'altra intensa occhiata. «Non abbiamo osato» rispose Keith. «Continuavano a ripetere che ci avrebbero ammazzati se l'avessimo detto ad anima viva.» «E poi erano... erano la nostra famiglia» aggiunse Laura. «Insomma, de-
sideravi che mamma e papà ti amassero, capisce, quindi dovevi fare... sa... quello che volevano, dovevi fare quello che ti ordinavano i grandi, altrimenti il tuo p-p-papà non ti avrebbe più voluto bene.» Jenny bevve qualche sorso di tè nascondendo il viso per un istante. Non sapeva se fosse stata la rabbia o la compassione a farle salire le lacrime agli occhi, ma non voleva che Laura le vedesse. «Inoltre» continuò Keith «non conoscevamo niente di diverso. Come facevamo a sapere che la vita era diversa per gli altri bambini?» «E a scuola? Vi sarete tenuti in disparte, vi sarete accorti di essere diversi.» «Sì, ci tenevamo in disparte. Ci dicevano di non parlare con nessuno di quello che accadeva. Erano questioni "di famiglia" e non riguardavano nessun altro.» «Che cosa ci facevi a Alderthorpe?» «Sto scrivendo un libro» spiegò Keith. «Un libro su quanto è capitato. In parte a scopo terapeutico e in parte perché ritengo che la gente debba sapere, così forse potrò impedire che accada di nuovo.» «Perché mi hai seguita?» «Dato che ficcanasava dappertutto in quel modo, pensavo fosse una giornalista o qualcosa del genere.» «Faresti meglio ad abituarti all'idea, Keith. Non ci metteranno molto a scoprire le vicende di Alderthorpe. Mi meraviglia che non siano già corsi laggiù in massa.» «Lo so.» «Dunque hai creduto che fossi una giornalista. Che cosa intendevi farmi?» «Niente. Volevo solo vedere dove fosse diretta, accertarmi che fosse andata via.» «E se fossi tornata?» Keith allargò le mani, i palmi verso l'alto. «È tornata, giusto?» «Vi siete resi conto che si trattava di Linda appena si è diffusa la notizia dei Payne?» «Io sì» disse Laura. «La foto non era un granché, ma sapevo che aveva sposato Terry. Sapevo dove viveva.» «Vi siete mai incontrati o tenuti in contatto con lei?» «Raramente. L'abbiamo fatto finché Susan si è suicidata e Tom è partito per l'Australia. Io e Keith andiamo a trovare Dianne tutte le volte che possiamo. Ma, come ho detto, Linda è sempre stata distante, più grande. Ecco,
ci riunivamo qualche volta, per i compleanni o occasioni simili, ma la consideravo stramba.» «In che senso?» «Non lo so. Era una cattiveria. In fin dei conti, aveva sofferto quanto noi.» «Ma sembrava che su di lei avesse avuto un effetto differente» aggiunse Keith. «Perché?» «Non la vedevo spesso quanto Laura» continuò il ragazzo «ma ho sempre avuto l'impressione che stesse combinando qualcosa di losco, qualcosa di malvagio. Dipendeva dal modo in cui si esprimeva, dall'aura di peccato che la circondava. Essendo riservata, non ci raccontava mai con esattezza che cosa faceva, ma...» «Le piacevano le cose strane» disse Laura arrossendo. «Sadomaso. Roba del genere.» «Te l'ha detto lei?» «Una volta. Sì. L'ha fatto solo per mettermi in imbarazzo. Non mi piace parlare di sesso.» Si strinse nelle braccia ed evitò lo sguardo di Jenny. «E Linda amava metterti in imbarazzo?» «Sì. Amava punzecchiarmi, suppongo.» «Non è stato uno shock per voi scoprire quello che aveva fatto Terry, con Linda così vicina, soprattutto dopo gli avvenimenti della vostra infanzia?» «Altroché se lo è stato» rispose Keith. «Lo è tuttora. Stentiamo ancora a crederci.» «È anche per questo che sono qui» spiegò Laura. «Dovevo vedere Keith. Discutere con lui. Decidere il da farsi.» «Come sarebbe a dire, il da farsi?» «Ma non volevamo che qualcuno ci mettesse fretta» osservò Keith. Jenny si chinò in avanti. «Di che cosa si tratta?» domandò. «Che cosa dovete decidere?» Si guardarono di nuovo, e Jenny attese quella che le parve un'eternità prima che Keith parlasse. «Faremmo meglio a dirglielo, non credi?» chiese, rivolto a Laura. «Penso di sì.» «Dirmi che cosa?» «Quello che è successo. Ecco che cosa cercavamo di decidere, vede. Se raccontarlo oppure no.»
«Ma capirà» proseguì Keith «che non vogliamo più i riflettori puntati addosso. Non vogliamo rivangare tutto quanto.» «Lo farà il tuo libro» replicò Jenny. «Me ne occuperò se e quando accadrà.» Il giovane si piegò in avanti. «Comunque, ci ha forzato un po' la mano, vero? Prima o poi l'avremmo raccontato a qualcuno, quindi tanto vale raccontarlo a lei adesso.» «Non ho ancora capito a che cosa vi riferiate» dichiarò Jenny. Laura la guardò, gli occhi pieni di lacrime. «Riguarda Kathleen. Non sono stati i nostri genitori a ucciderla, non è stato Tom a ucciderla. È stata Linda. Linda ha ucciso Kathleen.» Mick Blair aveva l'aria imbronciata quando Banks e Winsome entrarono nella stanza degli interrogatori alle tre e trentacinque di quel pomeriggio. Ne aveva tutte le ragioni, pensò il commissario. Due poliziotti in uniforme l'avevano trascinato via da Tandy, il negozio dello Swainsdale Centre dove lavorava come commesso, e attendeva da oltre un'ora in quello squallido locale. Era un miracolo che non stesse urlando come un forsennato. Al suo posto, Banks l'avrebbe fatto. «Solo un'altra breve chiacchierata, Mick» esordì, sorridendo mentre inseriva le cassette. «Ma questa volta la registreremo, così sarai sicuro che non facciamo niente di poco pulito.» «Davvero molto gentile da parte sua» lo rimbeccò Blair. «Ma perché diavolo mi ha fatto aspettare così tanto?» «Importanti questioni di polizia» rispose Banks. «I cattivi non si fermano mai.» «Che cosa ci fa Sarah qui?» «Sarah?» «Non faccia il finto tonto. Sarah Francis. La ragazza di Ian. L'ho vista in corridoio. Che cosa ci fa qui?» «Risponde solo alle nostre domande, Mick, come spero farai anche tu.» «Non so perché sprechiate tempo con me. Non posso dirvi niente che non sappiate già.» «Non sottovalutarti, Mick.» «Di che cosa si tratta questa volta, allora?» Il ragazzo lanciò a Winsome un'occhiata sospettosa. «Si tratta della sera in cui è scomparsa Leanne Wray.» «Di nuovo? Ma ne abbiamo parlato fino alla nausea.» «Sì, lo so, ma non siamo ancora arrivati alla verità. Vedi, è come sbuc-
ciare una cipolla, Mick. Finora abbiamo ottenuto solo uno strato di bugie dietro l'altro.» «Nessuna bugia. Leanne ci ha salutati fuori dell'Old Ship e se n'è andata. Non l'abbiamo più vista. Che cos'altro posso dirle?» «La verità. Su che cosa avete fatto voi quattro.» «Le ho detto tutto quello che so.» «Vedi, Mick» proseguì Banks «Leanne era sconvolta quel giorno. Aveva appena ricevuto una brutta notizia. La sua matrigna era incinta. Forse tu non capisci il perché, ma era sconvolta, credimi. Penso quindi che quella sera fosse in vena di ribellione, che fosse pronta a fregarsene del coprifuoco e a divertirsi. Anche per far soffrire un po' i genitori. Non so di chi sia stata l'idea, forse è stata tua, ma avete deciso di rubare un'auto...» «No, aspetti un attimo...» «L'auto del signor Samuel Gardner, per la precisione una Fiat Brava blu che era parcheggiata a due passi dal pub.» «È ridicolo! Non abbiamo rubato nessuna macchina. Non può dare la colpa a noi.» «Chiudi il becco e ascolta, Mick» intervenne Winsome. Blair la guardò, poi deglutì e tacque. L'espressione dell'agente era dura e irremovibile, gli occhi pieni di biasimo e disgusto. «Dove vi ha portati la vostra piccola scorribanda, Mick?» incalzò Banks. «Che cosa è successo? Che cosa è capitato a Leanne? Ti ha fatto delle avances? Hai pensato che sarebbe stata la tua sera fortunata? Ci hai provato e lei ha cambiato idea? Ti ha fatto girare un po' le scatole? Eri drogato, Mick?» «No! Non è così. Non è vero niente. Ci ha salutati fuori del pub.» «Ti stai arrampicando sugli specchi, Mick, e tra poco scivolerai giù.» «Sto dicendo la verità.» «Non penso.» «Allora lo dimostri.» «Ascoltami, Mick» interloquì Winsome alzandosi e percorrendo la stanzetta a grandi passi. «In questo momento l'auto del signor Gardner è nella rimessa della polizia, e gli uomini della scientifica la stanno setacciando centimetro per centimetro. Stai cercando di dirci che non troveranno niente?» «Non so che cosa troveranno» replicò Mick. «Come faccio a saperlo? Non ho mai neanche visto quella fottuta macchina.» Winsome smise di camminare e tornò a sedersi. «La nostra squadra
scientifica è la migliore sulla piazza. Non ha nemmeno bisogno delle impronte digitali. Se c'è anche un solo capello, lo troveranno. E se è tuo, di Ian, di Sarah o di Leanne, vi avremo in pugno.» Alzò l'indice. «Un solo capello. Pensaci, Mick.» «Ha ragione, sai» continuò Banks. «Sono davvero bravissimi, i nostri esperti. Io non so un cazzo di DNA e follicoli piliferi, ma loro riuscirebbero a individuare il punto esatto della tua testa da cui è caduto il capello.» «Non abbiamo rubato nessuna macchina.» «So che cosa stai pensando» osservò Banks. «Legge anche nel pensiero?» Il commissario scoppiò a ridere. «Non ci vuole molto. Stai pensando: quanto tempo fa abbiamo preso quell'automobile? Era il 31 marzo. E oggi che giorno è? Il 16 maggio. Fa un mese e mezzo. Ormai non può essere rimasta alcuna traccia. Qualcuno avrà lavato l'auto e avrà passato l'aspirapolvere. Ho indovinato, Mick?» «Gliel'ho detto. Non so niente di nessuna macchina rubata.» Incrociò le braccia cercando di assumere un'aria di sfida. Winsome emise un grugnito di disgusto e insofferenza. «L'agente investigativo Jackman sta perdendo la pazienza» commentò Banks. «Io mi guarderei bene dall'irritarla troppo, se fossi in te.» «Non può toccarmi. È tutto registrato.» «Toccarti? Chi ha parlato di toccarti?» «Mi sta minacciando.» «No, hai frainteso, Mick. Vedi, io voglio risolvere la faccenda, rimandarti al lavoro e farti tornare a casa in tempo per il telegiornale della sera. Non chiedo di meglio. Ma l'agente investigativo Jackman, be', diciamo solo che sarebbe felicissima di vederti in stato di fermo.» «Che cosa vuol dire?» «In cella, Mick. Al piano di sotto. Fino a domattina.» «Ma non ho fatto niente. Non potete arrestarmi.» «È stato Ian? Ha avuto lui l'idea?» «Non so di che cosa stia parlando.» «Che cosa è successo a Leanne?» «Niente. Non lo so.» «Sarah ci dirà che è stata tutta colpa tua, scommetto.» «Io non ho fatto niente.» «Vorrà proteggere il suo ragazzo, non credi, Mick? Scommetto che, in fondo, non gliene frega un cazzo di te.»
«Basta!» Winsome controllò l'orologio. «Mettiamolo dietro le sbarre e torniamocene a casa» disse. «Mi sono stufata.» «Che cosa ne pensi, Mick?» «Le ho detto tutto quello che so.» Banks guardò Winsome prima di rivolgersi di nuovo al giovane. «Allora temo che dovremo trattenerti come indiziato.» «Indiziato di che cosa?» «Indiziato dell'omicidio di Leanne Wray.» Mick balzò in piedi. «È assurdo. Io non ho ucciso nessuno. Nessuno ha ucciso Leanne.» «Come fai a saperlo?» «Ecco, non sono stato io a uccidere Leanne. Non so che cosa le è successo. Non è colpa mia se qualcun altro l'ha uccisa.» «Lo è se c'eri anche tu.» «Non c'ero.» «Allora dicci la verità, Mick. Dicci com'è andata.» «Ve l'ho detto.» Banks si alzò e raccolse le cartelline portadocumenti. «Va bene. Vedremo che cosa ha da dirci Sarah. Nel frattempo, voglio che tu rifletta su due cose mentre sei in cella, Mick. Certe volte il tempo non passa mai laggiù, soprattutto la notte, quando la tua unica compagnia è l'ubriacone di fianco a te che canta senza sosta ballate country; in quei momenti è bello avere qualcosa su cui riflettere per distrarsi.» «Quali cose?» «Innanzi tutto, se confessi, se ci dici la verità, se è stata tutta un'idea di Ian Scott e se quanto è successo a Leanne dipende solo da Ian, ci andrò piano con te.» Si rivolse a Winsome. «Potrei persino fare in modo che se la cavi con poco più di un rimprovero, senza denuncia, o con qualcosa di più lieve, è d'accordo, agente investigativo Jackman?» Winsome fece una smorfia, come se inorridisse al pensiero che Mick Blair scampasse l'accusa di omicidio. «Qual è l'altra cosa?» chiese Mick. «L'altra cosa? Ah sì, riguarda Samuel Gardner.» «Chi?» «Il proprietario dell'automobile rubata.» «E allora?» «Quel tizio è uno sporcaccione, Mick. Non pulisce mai l'auto. Né dentro
né fuori.» Jenny rimase senza parole dopo la rivelazione di Keith e Laura. Restò seduta con la bocca semiaperta e un'espressione sbalordita sulla faccia finché il suo cervello elaborò l'informazione consentendole di continuare. «Come fate a saperlo?» domandò. «L'abbiamo vista» spiegò Keith. «Eravamo con lei. In un certo senso, siamo stati tutti quanti. L'ha fatto per tutti noi, ma è stata l'unica ad avere abbastanza fegato.» «Ne siete sicuri?» «Sì» risposero. «Non è un fatto che vi è appena tornato in mente, vero?» Come molti suoi colleghi, Jenny non credeva alla sindrome delle memorie represse e voleva essere certa che non fosse ciò con cui aveva a che fare. Forse Linda Godwin aveva amato gli animali e non aveva mai bagnato il letto né appiccato incendi, ma, se aveva ucciso all'età di dodici anni, soffriva di gravi disturbi patologici e avrebbe potuto uccidere di nuovo. «No» dichiarò Laura. «L'abbiamo sempre saputo. L'abbiamo solo perso per un po'.» «Che cosa significa?» «È come quando riponi qualcosa dove puoi ritrovarlo con facilità, ma poi dimentichi dove l'hai messo» disse Keith. Jenny capiva alla perfezione; le capitava di continuo. «O come quando tieni in mano un oggetto, ti ricordi che devi fare qualcos'altro, allora lo appoggi lungo il tragitto e poi non lo trovi più» aggiunse Laura. «Avete detto che eravate presenti?» «Sì» confermò Keith. «Eravamo nella stessa stanza. L'abbiamo vista.» «E avete taciuto per tutti questi anni?» I due ragazzi la guardarono, e Jenny comprese che la risposta era affermativa. Come avrebbero potuto dire qualcosa? Erano troppo abituati al silenzio. E perché avrebbero dovuto? Erano tutti vittime dei Godwin e dei Murray. Perché infliggere ulteriori sofferenze a Linda? «È per questo che Linda era nella gabbia quando è arrivata la polizia?» «No. Era nella gabbia perché aveva le mestruazioni» spiegò Keith. Laura arrossì e distolse gli occhi. «Tom era nella gabbia con lei perché pensavano che fosse stato lui. Non hanno mai sospettato di Linda.» «Ma perché?» chiese Jenny.
«Perché Kathleen non ce la faceva più» aggiunse Laura. «Era così debole, aveva quasi esaurito le energie. Linda l'ha uccisa per s-s-salvarla. Sapeva che cosa significava trovarsi in quella situazione, e sapeva che Kathleen non l'avrebbe sopportato. L'ha uccisa per risparmiarle altri tormenti.» «Sei sicura?» domandò Jenny. «Sicura di che cosa?» «Che sia questo il motivo per cui l'ha ammazzata?» «Quale altro motivo poteva avere?» «Non hai pensato che forse l'ha fatto perché era gelosa? Perché Kathleen stava per usurpare il suo posto?» «No!» esclamò Laura con uno scatto che fece scricchiolare lo schienale della sedia. «È orribile. Come può affermare una cosa simile? L'ha uccisa per risparmiarle altri tormenti. L'ha uccisa per g-g-gentilezza.» Uno o due clienti del ristorantino avevano notato lo scatto di Laura e guardavano curiosi verso il tavolo. «Va bene» si scusò Jenny. «Mi dispiace. Non intendevo turbarti.» Laura la guardò, e una nota di provocatoria disperazione le si insinuò nella voce. «Mi creda, Linda sapeva essere gentile. Sapeva essere gentile.» La vecchia casa era senza dubbio piena di rumori, pensò Maggie, e lei cominciava a sussultare quasi ogni volta che ne udiva uno: il legno che strideva quando la temperatura calava dopo il tramonto, una raffica di vento che scuoteva le finestre, i piatti che si assestavano asciugandosi sulla rastrelliera. Era senz'altro colpa della telefonata di Bill, disse a se stessa, e ricorse ai metodi che usava di solito per calmarsi (respiri profondi, visualizzazione positiva), ma i suoni continuarono a distrarla dal lavoro. Introdusse un CD di classici barocchi nello stereo che Ruth aveva installato nello studio, e la musica coprì i fastidiosi cigolii aiutandola anche a rilassarsi. Nonostante l'ora tarda, cercava di concentrarsi su alcuni schizzi per Hänsel e Gretel, perché il giorno dopo avrebbe incontrato la sua art director a Londra per discutere l'andamento del progetto fino a quel punto. Avrebbe anche rilasciato un'intervista alla Broadcasting House: un programma di Channel Four sulla violenza domestica, naturalmente, ma essere una portavoce iniziava a piacerle e, se le sue parole potevano essere utili a qualcuno, valeva la pena di sopportare qualche piccola seccatura, come i conduttori ignoranti e gli ospiti sfacciati. Poiché Bill sapeva già dove trovarla, ormai non doveva più stare attenta
a non lasciarselo scappare. Non sarebbe fuggita. Non questa volta. Sebbene la chiamata l'avesse scossa, era decisa a non rinunciare al suo nuovo ruolo. A Londra avrebbe anche cercato di procurarsi un biglietto per una commedia che voleva vedere nell'East End e avrebbe trascorso la notte nel modesto alberghetto che l'art director le aveva raccomandato tempo prima. Uno dei vantaggi di un paese con un discreto servizio ferroviario, pensò Maggie, era che Londra distava solo un paio d'ore da Leeds, un paio d'ore che potevi passare in modo abbastanza piacevole leggendo un libro mentre il paesaggio ti sfrecciava accanto. Un elemento che la divertiva e la incuriosiva erano le continue lamentele degli inglesi riguardo al sistema ferroviario, anche se quest'ultimo sembrava efficientissimo a chi arrivava dal Canada, dove i treni erano considerali una sorta di piaga necessaria, tollerata malvolentieri. Maggie aveva concluso che le proteste contro i treni erano probabilmente un'istituzione britannica nata molto prima della British Rail, e forse ancor prima della Virgin e della Railtrack. Riportò l'attenzione sul disegno. Tentava di riprodurre l'espressione sui volti di Hànsel e Gretel quando, al chiar di luna, si accorgevano che gli uccellini avevano beccato la scia di briciole grazie alla quale avevano sperato di ritrovare la strada per fuoriuscire dai pericoli della foresta alla sicurezza del focolare domestico. Le piaceva l'effetto di mistero che aveva creato con i tronchi, i rami e le ombre degli alberi (che, con un po' di fantasia, potevano assumere l'aspetto di demoni e bestie selvatiche), ma i visi dei due protagonisti non andavano ancora bene. Erano solo bambini, rammentò Maggie a se stessa, non adulti; la loro paura doveva essere semplice e naturale - uno sguardo impotente negli occhi pieni di lacrime -, non complessa come la paura dei grandi, che si sarebbe mescolata alla rabbia e alla determinazione di tornare a casa. Espressioni facciali davvero molto diverse. Maggie aveva stracciato lo schizzo precedente perché Hànsel e Gretel parevano varianti infantili di Terry e Lucy, proprio come Raperonzolo era sembrata un facsimile di Claire. Adesso erano anonimi, volti che probabilmente aveva scorto tra la folla in passato e che, per qualche strana ragione, le si erano impressi nell'inconscio. Claire. Poverina. Quel pomeriggio Maggie aveva parlato con lei e sua madre, e avevano stabilito che la ragazza si sarebbe rivolta alla specialista raccomandata dalla dottoressa Simms. Se non altro, era un inizio, pensò Maggie, anche se forse ci sarebbero voluti anni prima che la giovane superasse la confusione psicologica causata dalle azioni di Terry Payne, dal-
l'omicidio dell'amica e dal senso di colpa e responsabilità. Con il sottofondo del Canone di Pachelbel, Maggie tornò al lavoro, aggiungendo un po' di chiaroscuro qui e un po' di argentata luce lunare là. Non era necessario che il disegno fosse perfetto, perché avrebbe solo funto da modello per un dipinto, ma aveva bisogno di piccoli appuntì che le indicassero il percorso compiuto una volta giunta alla versione definitiva. Naturalmente, quest'ultima sarebbe stata diversa sotto certi aspetti, ma avrebbe anche conservato molte delle ideuzze visive che le venivano in mente adesso. Quando dei colpetti sovrastarono la musica, Maggie credette che fossero un altro rumore inventato dalla vecchia casa per spaventarla. Quando cessarono per qualche secondo e poi ripresero a volume leggermente più alto e a ritmo leggermente più veloce, spense lo stereo e rimase in ascolto. Qualcuno bussava alla porta di servizio. Nessuno usava mai la porta di servizio. Si apriva su un misero reticolato di vicoli e stretti passaggi che conduceva alle case popolari dietro la Collina. Non poteva essere Bill, vero? No, assicurò a se stessa. Bill era a Toronto. Inoltre, la porta era sprangata con tanto di catenella e chiavistello. Si domandò se chiamare subito il 999, ma poi si rese conto della figura da sciocca che avrebbe fatto agli occhi della polizia se fosse stata Claire, o la madre di Claire. O magari la stessa polizia. Non poteva tollerare l'idea che Banks venisse a sapere quanto era stata stupida. Si spostò invece con estrema lentezza e senza far rumore. Nonostante gli scricchiolii anonimi, la scala era abbastanza silenziosa sotto i suoi piedi, in parte grazie alla spessa moquette. Prelevò una delle mazze da golf di Charles dall'armadio dell'ingresso e, brandendola, si avvicinò alla porta della cucina. I colpi continuavano. Solo quando si trovò a poche decine di centimetri, udì la familiare voce femminile: «Maggie, sei tu? Ci sei? Per favore, fammi entrare». Mollò la mazza da golf, accese la luce e armeggiò con le varie serrature. Quando finalmente aprì la porta, rimase sgomenta. Voce e aspetto non corrispondevano. La donna, che aveva corti e ispidi capelli biondi, indossava una T-shirt sotto una morbida giacca di pelle nera e un paio di jeans attillati. Portava una piccola borsa da viaggio. Soltanto i chiari lividi sopra lo zi-
gomo e l'oscurità impenetrabile degli occhi rivelarono a Maggie chi era, sebbene le fossero occorsi diversi secondi per elaborare l'informazione. «Lucy. Mio Dio, sei tu!» «Posso?» «Certo.» Maggie tenne la porta aperta, e Lucy Payne entrò in cucina. «Non so dove andare e mi chiedevo se potessi ospitarmi. Solo per un paio di giorni, finché trovo un'altra soluzione.» «Sì» disse Maggie, ancora confusa. «Sì, certo. Resta finché vuoi. Hai un look del tutto nuovo. Non ti ho riconosciuta subito.» Lucy fece una piccola giravolta. «Ti piace?» «È sicuramente diverso.» Lucy rise. «Bene» approvò. «Nessun altro deve sapere che sono qui. Che tu ci creda o no, Maggie, non tutti nei dintorni sono comprensivi con me quanto lo sei tu.» «Suppongo di no» replicò Maggie, quindi sprangò la porta con chiavistello e catenella e, dopo aver spento la luce, guidò Lucy Payne in salotto. Capitolo 18 «Volevo solo farti sapere che mi dispiace» disse Annie a Banks nell'ufficio di Eastvale il mercoledì mattina. Il commissario aveva appena dato una scorsa al rapporto della rimessa sulla Fiat di Samuel Gardner. Naturalmente, avevano rinvenuto numerosi peli, sia umani sia animali, all'interno della vettura, ma avrebbero dovuto raccoglierli, etichettarli e mandarli tutti al laboratorio, e ci sarebbe voluto del tempo per confrontarli con quelli degli indiziati o di Leanne Wray. Avevano trovato anche molte impronte digitali (l'auto di Gardner era senza dubbio un porcile), ma Vic Manson, l'agente incaricato dei rilevamenti, poteva sbrigarsi solo fino a un certo punto, e non era abbastanza per le esigenze immediate di Banks. Il commissario guardò Annie. «Ti dispiace di che cosa, esattamente?» «Mi dispiace di aver fatto una scenata al pub, di essermi comportata da stupida.» «Oh.» «Che cosa credevi che intendessi?» «Niente.» «No, dai. Che mi dispiaceva di aver detto quelle cose su di noi? Di aver troncato la relazione?» «Posso sempre nutrire una speranza, no?»
«Oh, smettila di autocommiserarti, Alan. Non ti si addice.» Banks aprì una graffetta. L'estremità acuminata gli punse il dito e una minuscola goccia di sangue cadde sulla scrivania. Che fiaba era? si ritrovò a domandarsi. La bella addormentata nel bosco? Ma lui non si era addormentato. Magari ci fosse riuscito. «Dimmi, possiamo essere amici o hai intenzione di tenermi il broncio e ignorarmi? Perché, se è così, vorrei saperlo.» Banks non poté fare a meno di sorridere. Annie aveva ragione. Si stava autocommiserando. E aveva ragione pure riguardo al rapporto. Anche se avevano trascorso dei bei momenti insieme e anche se lui avrebbe sentito nostalgia della loro intimità, la relazione era irta di problemi da entrambe le parti. Allora diglielo, lo incitò una voce interiore. Non fare il bastardo. Non scaricare tutta la colpa su di lei. Era difficile; non era abituato a parlare dei suoi sentimenti. Succhiandosi il dito sanguinante dichiarò: «Non ho intenzione di tenerti il broncio. Dammi solo un po' di tempo per abituarmi all'idea, okay? Quello che c'era tra noi mi piaceva». «Anche a me» replicò Annie con gli angoli delle labbra piegati in un accenno di sorriso. «Pensi che per me sia più semplice solo perché sono quella che ha preso la decisione? Vogliamo cose diverse, Alan. Abbiamo bisogno di cose diverse. Non può funzionare.» «Giusto. Ascolta, prometto di non tenerti il broncio, di non ignorarti e di non snobbarti a patto che tu non mi tratti come una gomma da masticare appiccicata alla suola della scarpa.» «Che cosa ti fa credere che lo farei?» Banks ripensò alla lettera di Sandra, che l'aveva fatto sentire proprio così, ma si rese conto di parlare con Annie. Sì, era come diceva lei; le cose si erano davvero incasinate. Scosse la testa. «Non farci caso, Annie. Amici e colleghi, okay?» Annie strizzò gli occhi e lo studiò. «Ci tengo, sai.» «Sì, lo so.» «E questo rende tutto più difficile.» «Si risolverà tutto. Con il tempo. Scusa, non riesco a dire altro che luoghi comuni. Forse è a questo che servono? A essere usati in situazioni come questa? Forse è per questo che ne esistono così tanti. Ma non preoccuparti, Annie, dico sul serio. Farò del mio meglio per comportarmi con la massima cortesia e rispetto nei tuoi confronti.» «Oh, accidenti!» esclamò Annie ridendo. «Non c'è bisogno di essere così maledettamente formali! Un semplice buongiorno, un sorriso e una chiac-
chieratina amichevole in mensa di tanto in tanto andranno benissimo.» Banks si sentì avvampare, quindi rise con lei. «Giusto. Come sta Janet Taylor?» «Testarda come un mulo. Io ho cercato di parlarle. Il Dipartimento della pubblica accusa ha cercato di parlarle. Il suo avvocato ha cercato di parlarle. Persino Chambers ha cercato di parlarle.» «Se non altro, adesso ha un avvocato.» «La Federazione gliene ha mandato uno.» «Di che cosa verrà accusata?» «Vogliono incriminarla per omicidio volontario con attenuanti. Se si dichiara colpevole, è molto probabile che se la cavi con omicidio preterintenzionale.» «Altrimenti?» «Chissà? Dipende dai giurati. O le infliggono la stessa pena di John Hadleigh nonostante le circostanze molto diverse oppure tengono conto del suo lavoro e della sua situazione e le concedono il beneficio del dubbio. Insomma, il pubblico non ci vuole intralciare quando facciamo il nostro dovere, ma non vuole nemmeno che esageriamo. Non gli piace che ci comportiamo come se fossimo al di sopra della legge. È un vero e proprio punto interrogativo.» «Si sta rimettendo in sesto?» «No. Beve e basta.» «Cazzo.» «Ben detto. Come va l'inchiesta Payne?» Banks le riferì quanto Jenny aveva scoperto su Lucy. Annie fischiò. «Che cosa intendi fare?» «Portarla dentro per interrogarla sulla morte di Kathleen Murray. Sempre ammesso che riusciamo a trovarla. Probabilmente sarà una dannata perdita di tempo (dopo tutto, è successo oltre dieci anni fa, e all'epoca era soltanto una ragazzina), quindi dubito che arriveremo da qualche parte, ma chissà, forse servirà ad aprire altre porte, se faremo la giusta dose di pressione.» «A Hartnell non piacerà.» «Lo so. Ha già spiegato con chiarezza come la pensa.» «Lucy Payne non sospetta che sappiate tante cose sul suo passato?» «Deve essere consapevole della possibilità che gli altri parlino o che lo scopriamo in qualche modo. In tal caso, potrebbe già essere uccel di bosco.»
«Niente di nuovo riguardo al sesto corpo?» «No» rispose Banks. «Ma scopriremo chi è.» Il fatto di non essere ancora riuscito a identificare la sesta vittima lo tormentava. Come le altre, era stata sepolta nuda e non erano rimaste tracce di indumenti od oggetti personali. Banks poteva solo supporre che Payne avesse bruciato i vestiti e si fosse sbarazzato in qualche modo di anelli e orologi. Di certo non li aveva conservati come trofei. Finora l'antropologo forense incaricato di esaminare i resti gli aveva detto che si trattava di una donna bianca tra i diciotto e i ventidue anni e che, come le altre, era morta per asfissia da strangolamento. Le striature orizzontali sullo smalto dei denti indicavano un'alimentazione poco costante nel corso dell'infanzia. La regolarità dei segni rivelava possibili oscillazioni stagionali nelle scorte alimentari. Forse, come Katya, era originaria di un paese dell'Europa orientale dilaniato dalla guerra. Banks aveva ordinato a una squadra di riesaminare tutti i casi di persone scomparse degli ultimi mesi, e i detective facevano gli straordinari studiando le denunce. Se la vittima era una prostituta come Katya Pavelic, le probabilità di scoprire chi fosse erano però scarse. Nonostante ciò, Banks continuava a ripetere a se stesso, doveva pur essere figlia di qualcuno. Da qualche parte qualcuno doveva pur sentire la sua mancanza. Ma forse no. Là fuori c'erano un sacco di persone senza amici né parenti, persone che sarebbero potute morire nel loro appartamento il giorno dopo senza che nessuno se ne accorgesse finché non dovesse essere riscosso l'affitto o il tanfo fosse diventato intollerabile per i vicini. Vi erano rifugiati dell'Europa orientale come Katya o ragazzini che erano scappati di casa per girare il mondo e che potevano essere ovunque tra Katmandu e il Kilimangiaro. Banks doveva abituarsi al fatto che, se mai avessero identificato la sesta vittima, avrebbero potuto non riuscirci subito. Eppure gli bruciava. Quella ragazza doveva avere un nome, un'identità. Annie si alzò. «A ogni modo, ho detto quello che avevo da dire. Oh, e forse molto presto ti riferiranno che ho presentato una richiesta formale per tornare alla Divisione investigazioni criminali. Pensi che abbia qualche chance?» «Puoi prendere il mio posto, se vuoi.» Annie sorrise. «Non dici sul serio.» «Credi? Comunque, non so se abbiano cambiato idea sul rinnovamento dell'organico, ma parlerò con Red Ron, se ritieni che possa servire. Attualmente non abbiamo un ispettore, quindi, con molta probabilità, è il momento giusto per fare domanda.»
«Prima che Winsome mi scavalchi?» «È in gamba, quella ragazza.» «È anche carina.» «Davvero? Non l'avevo notato.» Annie gli fece la linguaccia uscendo dall'ufficio. Pur essendo triste per la fine del loro breve idillio, Banks si sentiva anche sollevato. Non avrebbe più dovuto chiedersi ogni giorno se stessero ancora insieme oppure no; gli era stata restituita la libertà, e la libertà era un dono alquanto ambiguo. «Signore?» Alzando lo sguardo, Banks vide Winsome nello specchio della porta. «Sì?» «Ho un messaggio da parte di Steve Naylor, il responsabile delle detenzioni al piano di sotto.» «Problemi?» «No, anzi.» La giovane sorrise. «Riguarda Mick Blair. Vuole cantare.» Banks batté le mani e se le fregò. «Ottimo. Digli di farlo salire subito. Nella nostra migliore stanza degli interrogatori, direi, Winsome.» Il mattino dopo, quando ebbe finito di preparare i bagagli per il viaggio a Londra, Maggie portò a Lucy una tazza di tè a letto. Era il minimo che potesse fare dopo tutto ciò che quella poveretta aveva passato negli ultimi tempi. Avevano parlato fino a notte fonda, svuotando una bottìglia di vino bianco, e Lucy aveva accennato alla sua terribile infanzia e a come i recenti episodi le avessero riportato tutto alla mente. Le aveva inoltre confidato di avere paura della polizia, di avere paura che cercassero di fabbricare prove false contro di lei, e di non sopportare l'idea di finire in carcere. Una sola notte in cella le era bastata e avanzata. La polizia non amava le faccende in sospeso, aveva affermato, e lei era una faccenda in sospeso tutt'altro che trascurabile. Sapendo che la tenevano d'occhio, era sgattaiolata fuori della casa dei genitori adottivi dopo il calar del buio ed era salita sul primo treno da Hull a York, poi aveva preso la coincidenza per Londra, dove aveva cercato di modificare il proprio aspetto cambiando trucco, pettinatura e modo di vestire. La Lucy Payne che conosceva, aveva dovuto ammettere Maggie, non avrebbe indossato neanche morta gli indumenti casual che portava ora né avrebbe usato quel make-up da puttanella. Maggie aveva promesso di non raccontare a nessuno che Lucy era lì e, se i vicini l'avessero vista e le avessero chiesto chi fosse,
avrebbe risposto che era una lontana parente di passaggio. Entrambe le camere, quella padronale e quella degli ospiti, si affacciavano sulla Collina e, dopo aver bussato alla porta della più piccola ed essere entrata, Maggie vide che Lucy era già in piedi accanto alla finestra. Completamente nuda. L'altra si voltò sentendola arrivare. «Oh, grazie. Sei così gentile.» Maggie arrossì. Non poté fare a meno di notare che l'amica aveva davvero un bel corpo: i seni pieni e rotondi, la pancia soda e piatta, i fianchi dalla curva delicata, le cosce tornite e levigate, il triangolo scuro tra le gambe. Lucy non sembrava vergognarsi affatto della sua nudità, ma Maggie si sentì a disagio e distolse lo sguardo. Per fortuna, le tende ancora chiuse lasciavano filtrare solo una luce piuttosto fioca, ma Lucy le aveva scostate leggermente in cima, senza dubbio per osservare il trambusto dall'altra parte della strada. La confusione era diminuita un po' negli ultimi due giorni, aveva constatato Maggie, ma c'era tuttora un andirivieni non indifferente e il giardino davanti alla villetta continuava a essere sottosopra. «Hai visto che cosa hanno combinato laggiù?» le chiese Lucy facendosi avanti e prendendo la tazza di tè. Tornò a letto e si coprì con il sottile lenzuolo bianco, cosa per cui Maggie le fu riconoscente. «Sì» rispose. «È casa mia, e l'hanno rovinata tutta. Ormai non potrò più tornarci. Mai più.» Il labbro inferiore le tremò per la rabbia. «Ho sbirciato attraverso la porta quando è uscito qualcuno. Hanno strappato via la moquette, smantellato il parquet. Hanno persino fatto grossi buchi nelle pareti. L'hanno rovinata e basta.» «Suppongo che cercassero qualcosa, Lucy. È il loro lavoro.» «Cercassero che cosa? Che cosa vogliono ancora? Scommetto che hanno preso anche tutte le mie belle cose, tutti i miei gioielli e i vestiti. Tutti i miei ricordi.» «Sono certa che te li restituiranno.» Lucy scosse la testa. «No. Non voglio che mi restituiscano niente. Non più. Pensavo di volerlo, ma dopo aver visto che cosa hanno fatto, ho l'impressione che sia tutto contaminato. Ricomincerò tutto da capo. Con il poco che ho.» «Hai bisogno di soldi?» domandò Maggie. «No, grazie. Avevamo qualcosa da parte. Non so che cosa ne sarà della casa, del mutuo, ma dubito che riusciremo a venderla in quello stato.»
«Deve esserci qualche forma di risarcimento» disse Maggie. «Non possono prenderti la casa senza risarcirti.» «Non mi sorprenderebbe neanche un po'.» Lucy soffiò sul tè. Il vapore le si alzò intorno al viso. «Ascolta, come ti ho detto ieri sera» proseguì Maggie «devo andare a Londra, soltanto per un paio di giorni. Ce la fai a stare qui da sola?» «Sì. Certo. Non preoccuparti per me.» «Il frigo e il freezer sono pieni di roba da mangiare... Sai, se non vuoi uscire od ordinare qualcosa.» «Va bene, grazie» disse Lucy. «Penso proprio che resterò in casa e chiuderò fuori il mondo, guardando la televisione o cose simili e cercando di dimenticare quanto è successo.» «Ci sono tantissime videocassette nell'armadietto sotto il televisore in camera mia» aggiunse Maggie. «Sentiti pure libera di guardarle lì ogni volta che vuoi.» «Grazie, Maggie. Ne approfitterò.» Sebbene vi fosse un piccolo televisore in salotto, l'unico set TV e videoregistratore dell'intera casa era stato installato, chissà perché, nella camera padronale, quella di Maggie. Non che la donna non ne fosse contenta. Le era capitato spesso di non riuscire a prendere sonno e, in mancanza di qualche trasmissione interessante, aveva guardato uno dei film d'amore o delle commedie romantiche che sembravano piacere a Ruth, con attori come Hugh Grant, Meg Ryan, Richard Gere, Tom Hanks, Julia Roberts e Sandra Bullock; l'avevano aiutata a superare più di una notte lunga e difficile. «Sei certa che non ti serva nient'altro?» «Non mi viene in mente niente» rispose Lucy. «Voglio solo ricordare che cosa significa sentirsi sereni e al sicuro.» «Qui starai bene. Mi spiace di doverti lasciare subito, ma tornerò presto. Stai tranquilla.» «Non preoccuparti» la rassicurò Lucy. «Non sono venuta qui per scombussolarti la vita o cose del genere. Hai il tuo lavoro. Lo so. Ti chiedo solo ospitalità per un po' di tempo, soltanto finché mi sarò ripresa.» «Poi che cosa farai?» «Non ne ho idea. Forse potrei cambiare nome e trovare lavoro lontano da qui. Comunque, non pensarci. Vai a Londra e divertiti. So badare a me stessa.» «Sicura?»
«Sicura.» Scendendo di nuovo dal letto, Lucy posò la tazza sul comodino e tornò verso la finestra. Restò lì in piedi, offrendo a Maggie una vista del suo corpo tonico dal dietro e guardando quella che era stata la sua casa dall'altra parte della via. «Devo scappare, allora» annunciò Maggie. «Il taxi sarà qui a momenti.» «Ciao» la salutò Lucy senza voltarsi. «Divertiti.» «Okay, Mick» esordì Banks. «Mi hanno detto che vuoi parlarci.» Dopo la notte in cella, Mick Blair non assomigliava affatto al teen-ager strafottente che avevano interrogato il giorno prima. Anzi, sembrava un bambino terrorizzato. Evidentemente, l'idea di trascorrere diversi anni in un luogo analogo o peggiore aveva sortito il giusto effetto sulla sua immaginazione. Il responsabile delle detenzioni aveva inoltre riferito a Banks che il ragazzo aveva avuto una lunga conversazione telefonica con i genitori poco dopo l'arresto e che da allora i suoi modi erano cambiati. Non aveva chiesto un avvocato. Non ancora. «Sì» confermò il giovane. «Ma prima mi dica che cosa vi ha raccontato Sarah.» «Sai che non posso, Mick.» In realtà, Sarah Francis non aveva raccontato un bel niente; si era mostrata laconica, scontrosa e spaventata quanto nell'appartamento di Ian Scott. Ma non aveva importanza, perché l'avevano usata soprattutto per fare pressione su Mick. Banks, Winsome e Blair si trovavano nella stanza degli interrogatori più grande e confortevole della centrale. Era anche stata ritinteggiata da poco, e Banks avvertiva l'odore della vernice verde ospedale. Il laboratorio non gli aveva ancora comunicato nulla riguardo all'auto di Samuel Gardner, ma Mick non ne era al corrente. Si era detto disposto a parlare, ma, se avesse deciso di essere ancora evasivo, Banks avrebbe sempre potuto buttare qua e là allusioni a peli e impronte digitali. Sapeva che erano saliti su quella vettura. Era un dettaglio che avrebbe dovuto verificare all'epoca, perché Ian Scott aveva dei precedenti per furto di automobili. Visto l'altro reato commesso da Scott, il commissario aveva anche un'idea ben precisa di che cosa avessero combinato quei quattro. «Vorresti fare una dichiarazione, allora?» chiese Banks. «Per rendere tutto ufficiale.» «Sì.» «Conosci i tuoi diritti?»
«Sì.» «Okay, allora, Mick. Raccontaci che cosa è successo quella sera.» «Quello che ha detto ieri, riguardo al fatto di andarci piano con me...?» «Sì?» «Parlava sul serio, vero? Insomma, qualunque cosa abbia detto Sarah, avrebbe potuto mentire, sa, per proteggere se stessa e Ian.» «Giudici e tribunali hanno un occhio di riguardo per chi aiuta la polizia, Mick. È un dato di fatto. Sarò sincero. Non posso dirti con esattezza che cosa accadrà (dipende da parecchie variabili), ma posso dirti che cercherò di aiutarti a ottenere clemenza, e il mio appoggio dovrebbe servire a qualcosa.» Mick deglutì. Stava per fare la spia sui suoi amici. Avendo già assistito a momenti simili, Banks sapeva quanto fosse difficile e riusciva a immaginare le emozioni contrastanti che lottavano per la supremazia nell'anima di Blair. L'esperienza gli aveva insegnato che di solito era l'istinto di autoconservazione a spuntarla, ma talvolta a costo dell'odio verso se stessi. Anche lui, l'osservatore, era nella medesima situazione: quando aveva avuto bisogno di informazioni, aveva persuaso più di un sospettato debole e sensibile a vuotare il sacco ma, dopo che aveva raggiunto il suo scopo, il sapore della vittoria era stato spesso rovinato dalla bile del disgusto. Non questa volta, però, pensò Banks. Gli interessava molto di più scoprire che cosa fosse accaduto a Leanne Wray che togliere dall'imbarazzo Mick Blair. «Avete rubato quell'auto, vero, Mick?» cominciò Banks. «Abbiamo già raccolto molti peli e impronte digitali. Ci troveremo anche i tuoi, vero? E quelli di Ian, Sarah e Leanne.» «È stato Ian» affermò Mick. «È stata tutta un'idea di Ian. Io non c'entro niente. Cazzo, non so neanche guidare.» «E per quanto riguarda Sarah?» «Sarah? Ian dice salta, e lei salta.» «E Leanne?» «Leanne era d'accordo. Era un po' fuori di testa quella sera. Non so perché. Ha detto qualcosa sulla sua matrigna, ma non ho ascoltato bene. A essere sincero, non me ne fregava niente. Insomma, non mi interessavano i suoi problemi familiari. Abbiamo tutti dei problemi, giusto?» Altroché, pensò Banks. «Volevi solo scopartela, allora?» chiese Winsome. Blair parve sbalordito al sentire quella frase da una donna, e una bella
donna per giunta, dal dolce accento giamaicano. «No! Ecco, mi piaceva, sì. Ma non ci stavo provando, davvero. Non volevo obbligarla a fare niente.» «Come sono andate le cose, Mick?» incalzò Banks. «Ian ha proposto di fregare una macchina, prendere un po' di ecstasy, fumare un paio di canne e magari andare fino a Darlington e fare il giro dei night.» «Leanne non aveva il coprifuoco?» «Ha detto che era un'ottima idea e vaffanculo il coprifuoco. Come ripeto, era un po' fuori di testa quella sera. Aveva bevuto un paio di drink. Non molti, no, solo un paio, ma di solito non beveva, e sono bastati per farla sciogliere un po'. Voleva solo spassarsela.» «E hai creduto che ti sarebbe andata bene?» Ancora una volta, l'intervento di Winsome parve confondere Blair. «No. Sì. Insomma, se ne aveva voglia anche lei. Okay, mi piaceva. Ho pensato che magari... Sa... sembrava diversa, più menefreghista.» «E hai pensato che la droga le avrebbe fatto venire più voglia?» «No. Non lo so.» Mick guardò Banks, irritato. «Senta, vuole che vada avanti o no?» «Vai avanti.» Il commissario fece cenno a Winsome di lasciar perdere per il momento. Non era difficile immaginare la scena: Leanne, un po' brilla, ridacchiava flirtando con Blair, come aveva detto Shannon la barista; poi Ian Scott le offriva l'ecstasy in auto, forse la ragazza tentennava, ma Blair la incitava, la incoraggiava, sperando per tutto il tempo di portarsela a letto. Di questo avrebbero però potuto occuparsi dopo, se necessario, una volta appurate le circostanze della scomparsa. «Ian ha rubato la macchina» proseguì Blair. «Non so come si ruba una macchina, ma ha detto di averlo imparato da bambino nell'East Side Estate.» Banks sapeva che tutti i bambini dell'East Side Estate imparavano a rubare automobili. «Dove siete andati?» «A nord. Come ripeto, eravamo diretti a Darlington. Ian conosce tutti i night della zona. Appena siamo partiti, ha tirato fuori l'ecstasy e l'abbiamo presa tutti. Poi Sarah ha preparato una canna e l'abbiamo fumata.» Banks notò che era sempre qualcun altro a commettere l'azione illegale, mai Blair, ma accantonò quella riflessione per dopo. «Leanne aveva già provato l'ecstasy o la marijuana?» domandò. «Non che io sappia. Mi era sempre sembrata un po' bacchettona.»
«Ma non quella sera?» «No.» «Okay. Continua. Che cosa è successo?» Mick abbassò gli occhi sul tavolo e Banks si rese conto che stava arrivando alla parte difficile. «Non eravamo lontani da Eastvale, forse mezz'ora o giù di lì, quando Leanne ha detto che non si sentiva bene e che il cuore le batteva troppo forte. Faceva fatica a respirare. Ha usato quell'inalatore che si portava dietro, ma non è servito a niente. L'ha fatta stare peggio, se vuole un mio parere. A ogni modo, Ian ha pensato che avesse solo paura, le allucinazioni o roba del genere, così ha aperto i finestrini. Ma è stato inutile. Lei ha cominciato quasi subito a sudare e tremare. Voglio dire, era davvero spaventata. E anch'io.» «Che cosa avete fatto?» «Ormai eravamo in campagna, tra la brughiera sopra Lyndgarth, così Ian ha accostato e si è fermato. Siamo scesi tutti a fare quattro passi. Ian pensava che gli spazi aperti e una boccata d'aria fresca avrebbero fatto bene a Leanne, perché magari aveva solo avuto un attacco di claustrofobia in macchina.» «Si è ripresa?» Mick sbiancò. «No. Appena siamo scesi, ha vomitato. Ha tirato su l'anima. Poi è svenuta. Non riusciva a respirare, e sembrava che soffocasse.» «Sapevi che soffriva d'asma?» «Come ho detto, l'avevo vista usare l'inalatore in macchina quando aveva cominciato a stare poco bene.» «E non ti è venuto in mente che l'ecstasy sarebbe potuta essere pericolosa per un'asmatica o che avrebbe potuto reagire con il farmaco?» «Come facevo a saperlo? Non sono mica un dottore.» «No. Ma prendi l'ecstasy - dubito che fosse la prima volta - e devi aver sentito parlare delle controindicazioni. Soprattutto dopo la storia di Leah Betts, la ragazza morta circa cinque anni fa. Poi c'è stato anche qualche altro caso.» «Ho sentito qualcosa, sì, ma pensavo che bastasse tenere sotto controllo la temperatura corporea mentre si ballava. Sa, bere tanta acqua e stare attenti a non disidratarsi.» «Questo è solo uno dei rischi. Le avete ridato l'inalatore quando le sue condizioni sono peggiorate tra la brughiera?» «Non riuscivamo a trovarlo. Doveva essere rimasto in macchina, nella sua borsa. E poi l'aveva solo fatta stare peggio.»
Banks ricordò di aver dubitato che Leanne fosse scappata senza inalatore quando aveva esaminato il contenuto della borsetta e vi aveva scorto l'apparecchio tra gli altri oggetti personali. «Non ti è venuto in mente nemmeno che forse stava soffocando per il suo stesso vomito?» insistette. «Non lo so, non ho mai davvero...» «Che cosa avete fatto?» «Niente. Non sapevamo che cosa fare. Abbiamo solo cercato di lasciarle riprendere fiato, di farla respirare, sa, ma all'improvviso ha avuto una specie di spasmo, dopo di che non si è più mossa.» Banks lasciò che il silenzio si protraesse per qualche istante, consapevole solo del loro respiro e del tenue ronzio elettrico dei registratori. «Perché non l'avete portata in ospedale?» domandò. «Era troppo tardi! Gliel'ho detto. Era morta.» «Ne eravate sicuri?» «Sì. Le abbiamo controllato il polso, le abbiamo sentito il battito cardiaco, abbiamo cercato di capire se respirava, ma niente di niente. Era morta. È successo tutto così in fretta. Voglio dire, l'ecstasy cominciava a fare effetto anche su di noi: ci siamo lasciati prendere un po' dal panico, non pensavamo con lucidità.» Banks sapeva di almeno altri tre decessi verificatisi di recente nella regione a causa dell'ecstasy, dunque il racconto di Blair non lo sorprese più di tanto. L'MDMA, ossia la metilenediossimetamfetamina, era una droga popolare tra i giovani perché costava poco e ti teneva in piedi tutta la notte nei night e ai rave. Veniva considerata sicura, anche se Mick aveva ragione quando diceva che occorreva stare attenti all'apporto d'acqua e alla temperatura corporea, ma poteva essere molto pericolosa per chi soffriva di ipertensione o asma, come Leanne. «Perché non l'avete portata in ospedale quando eravate ancora tutti in auto?» «Ian ha detto che sarebbe stata bene se fossimo usciti e avessimo camminato per un po'. Ha detto di aver già visto quel tipo di reazione.» «Che cosa avete fatto poi, dopo aver scoperto che era morta?» «Ian ha detto che dovevamo tenere la bocca chiusa, altrimenti saremmo finiti in galera.» «Allora che cosa avete fatto?» «L'abbiamo portata più in là tra la brughiera e l'abbiamo sepolta. Ecco, c'era una specie di pozzo, non troppo profondo, vicino a un muretto tutto
diroccato, così l'abbiamo messa là dentro e l'abbiamo coperta con sassi e felci. Nessuno sarebbe riuscito a trovarla a meno che non fosse andato lì apposta per cercarla, e non c'erano sentieri pubblici nei dintorni. Neanche gli animali sarebbero arrivati fin lì. Era così sperduto, in mezzo al nulla.» «E poi?» «Poi siamo tornati a Eastvale. Eravamo tutti sconvolti, e Ian ha detto che dovevamo farci vedere in giro, sa, comportandoci in modo naturale, come se niente fosse.» «E la borsetta di Leanne?» «È stata un'idea di Ian. Insomma, ormai avevamo deciso tutti di raccontare che ci aveva salutati fuori del pub prima di andare a casa e che poi non l'avevamo più vista. Ho trovato la borsa sul sedile posteriore della macchina, e Ian ha detto che, se l'avessimo buttata in qualche giardino vicino all'Old Ship, forse la polizia avrebbe pensato che fosse stata rapita da un maniaco o qualcosa del genere.» Ed è proprio così che è andata, pensò Banks. Una semplice azione istintiva, aggiunta alle borse ritrovate vicino ai luoghi delle sparizioni di altre due ragazze, ed era stata creata l'intera task force Camaleonte. Ma non in tempo per salvare Melissa Horrocks o Kimberley Myers. Si sentì nauseato e furibondo. Il commissario sapeva che vi erano chilometri e chilometri di brughiera incolta oltre Lyndgarth. Mick aveva ragione anche riguardo alla posizione isolata. Ci passava solo qualche escursionista, e in genere soltanto sui sentieri segnati. «Ricordi dove l'avete sepolta?» chiese. «Credo di sì» rispose Blair. «Forse non il punto esatto, ma con un'approssimazione di duecento metri. Lo riconosci quando vedi il vecchio muro.» Banks guardò Winsome. «Raduni una squadra di ricerca, per favore, agente investigativo Jackman, e faccia in modo che il giovane Mick esca con loro. Mi avverta appena trovate qualcosa. E faccia andare a prendere Ian Scott e Sarah Francis.» Winsome si alzò. «Basta così per adesso» aggiunse Banks. «Che cosa ne sarà di me?» domandò Blair. «Non lo so, Mick» rispose il commissario. «Non lo so proprio.» Capitolo 19
L'intervista era andata bene, pensò Maggie uscendo su Portland Place. Alle sue spalle, la Broadcasting House assomigliava alla poppa di un enorme transatlantico. L'interno era un vero e proprio labirinto. Non capiva come riuscissero a orientarsi là dentro, anche quelli che vi lavoravano da anni. Grazie al cielo, la ricercatrice del programma l'aveva accolta nell'atrio per poi guidarla sana e salva fino alle viscere dell'edificio. Accorgendosi che cominciava a cadere una lieve pioggerella, Maggie si rifugiò nello Starbucks. Seduta su uno sgabello accanto al bancone che correva parallelo alla vetrina, tirò le somme della giornata sorseggiando caffellatte e osservando i passanti litigare con gli ombrelli. Erano passate le tre del pomeriggio, e pareva che l'ora di punta fosse già iniziata. Sempre ammesso che a Londra possa avere un inizio e una fine. L'intervista che aveva appena rilasciato si era incentrata quasi del tutto sulle informazioni generali riguardanti la violenza domestica (particolari cui stare attente, schemi di comportamento in cui evitare di cadere) anziché sulla sua storia personale o su quella dell'altra ospite, una moglie maltrattata che era diventata consulente psicologica. Si erano scambiate indirizzi e numeri di telefono con la promessa di tenersi in contatto, poi la donna era dovuta scappare per concedere un'altra intervista. Anche il pranzo con Sally, l'art director, era andato bene. Avevano mangiato in un ristorante italiano piuttosto costoso poco distante da Victoria Station, e Sally aveva esaminato gli schizzi fornendole preziosi suggerimenti qua e là. Avevano però parlato soprattutto dei recenti fatti di Leeds, e Sally aveva soltanto espresso una curiosità più che naturale verso la dirimpettaia di un serial killer. Maggie aveva dato risposte evasive alle domande su Lucy. Lucy. Quella poveretta. Si sentiva in colpa per averla lasciata sola nella grande casa sulla Collina, proprio di fronte al luogo in cui l'incubo della sua vita era appena terminato. Lucy aveva detto che sarebbe stata bene, ma forse aveva solo cercato di mostrarsi coraggiosa. Maggie non era riuscita a procurarsi i biglietti per la commedia che voleva vedere. Era così popolare da fare il pienone, persino di mercoledì. Pensò che avrebbe potuto alloggiare comunque al piccolo albergo e andare al cinema, ma più ci rifletteva e guardava le orde di estranei che sfilavano lì davanti, più si convinceva che sarebbe dovuta essere con Lucy. Pensò di attendere che la pioggia cessasse (sembrava solo un acquazzone passeggero, e si intravedeva già qualche sprazzo di azzurro nel cielo sopra il Langham Hilton dall'altra parte della strada) per poi fare un po' di
shopping in Oxford Street e rincasare nella prima serata facendo una sorpresa all'amica. Si sentì molto meglio dopo aver stabilito di tornare a Leeds. Dopo tutto, che senso aveva andare al cinema da sola quando Lucy aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, qualcuno che la aiutasse a dimenticare i problemi e a decidere che cosa fare del suo futuro? Quando ebbe smesso di piovere, Maggie finì il caffellatte e uscì. Avrebbe anche comprato a Lucy un regalino, niente di costoso o impegnativo, ma magari una collana o un braccialetto, qualcosa per festeggiare la libertà riconquistata. Dopo tutto, come aveva detto la stessa Lucy, la polizia aveva portato via tutte le sue cose, e lei non le rivoleva più; stava per voltar pagina. Era tardo pomeriggio quando Banks ricevette la telefonata e partì in direzione di Wheaton Moor, a nord di Lyndgarth, portando con sé Winsome. L'agente aveva lavorato abbastanza al caso di Leanne Wray da meritare di assistere alla sua conclusione. Gran parte delle giunchiglie era scomparsa, ma gli alberi erano punteggiati di boccioli rosa e bianchi, e le stelle d'oro brunito delle celidonie scintillavano sulle siepi d'arbusti. Il ginestrone fioriva tra la brughiera con il suo giallo brillante. Banks parcheggiò il più vicino possibile al capannello di persone, ma dovettero comunque percorrere quasi cinquecento metri a piedi tra i flessibili rametti dell'erica. Non si poteva certo dire che Blair e gli altri non avessero trascinato Leanne lontano dalla civiltà. Benché il sole splendesse e vi fosse soltanto qualche nuvola alta, il vento era freddo. Il commissario era contento di aver indossato il giubbotto. Winsome portava stivali di cuoio al polpaccio e una giacca spigata sopra il maglione a collo alto. Avanzava con grazia e sicurezza, mentre Banks incespicava di tanto in tanto quando la caviglia gli si impigliava nei fitti arbusti. Era arrivato il momento di fare un po' di moto, pensò. E anche di rinunciare alle sigarette. Raggiunsero la squadra che Winsome aveva mandato circa tre ore prima, Mick Blair ammanettato a uno dei poliziotti in divisa, i capelli unti che si agitavano nell'aria. Un altro poliziotto indicò il pozzo poco profondo, e Banks scorse parte di una mano, la carne quasi tutta consumata che esponeva l'osso ancora bianco. «Abbiamo cercato di alterare la scena il meno possibile, signore» lo informò l'agente. «Ho fatto chiamare la scientifica e il resto dell'unità. Hanno detto che sarebbero arrivati al più presto.» Banks lo ringraziò. Lanciando un'occhiata alla strada, vide un'auto e un
furgone che accostavano e delle figure che scendevano aprendosi un varco tra la spinosa vegetazione, alcune con indosso tute immacolate. Gli uomini in bianco delimitarono ben presto un'area di vari metri intorno al mucchio di sassi, e Peter Darby, il fotografo della scientifica locale, si mise al lavoro. Ormai mancava solo il dottor Burns, il medico della polizia. Con ogni probabilità, a effettuare l'autopsia sarebbe stato il dottor Glendenning, il patologo del ministero degli Interni, ma era troppo anziano e importante per arrancare ancora tra i campi. Banks sapeva che Burns era in gamba e aveva già effettuato esami sui luoghi di parecchi crimini. Trascorsero altri dieci minuti prima che il medico arrivasse. Peter Darby aveva ormai finito di fotografare la scena originale, ed era giunto il momento di scoprire i resti. La scientifica eseguì questa operazione con cautela e lentezza in modo da non inquinare le eventuali prove. Mick Blair aveva dichiarato che Leanne era morta dopo aver assunto l'ecstasy, ma avrebbe anche potuto mentire; magari aveva cercato di violentarla e l'aveva soffocata quando aveva opposto resistenza. In un caso o nell'altro, non potevano dare nulla per scontato riguardo a Leanne. Non questa volta. Lì, tra la brughiera, con il giubbotto che gli svolazzava intorno mentre agenti dalla tuta candida scoprivano un cadavere, Banks ebbe una sensazione di déjà vu. Poi ricordò Harold Steadman, lo storico della zona che avevano trovato sepolto accanto a un altro muro a secco sotto Crow Scar. Quello era stato solo il suo secondo caso a Eastvale, quando i bambini andavano ancora a scuola e lui e Sandra erano felicemente sposati, ma adesso gli sembrava che fossero trascorsi dei secoli. Si domandò che cosa diavolo ci facesse un muro a secco lassù, poi si rese conto che probabilmente, molto tempo prima, aveva segnalato il confine di una proprietà, proprietà ormai tramutatasi in un terreno incolto. Le intemperie avevano danneggiato il muretto, e a nessuno interessava aggiustarlo. Gli uomini rimossero le pietre una alla volta. Appena scorse i capelli biondi, il commissario ebbe la certezza che si trattava di Leanne Wray. Portava ancora gli indumenti che aveva addosso quando era scomparsa jeans, T-shirt, Nike bianche e una leggera giacca scamosciata -, elemento che deponeva a favore di Blair, pensò Banks. Benché vi fossero segni di decomposizione e dell'attività di insetti e piccoli animali (per esempio, mancava un dito della mano destra), il freddo le aveva impedito di trasformarsi in uno scheletro. Anzi, nonostante la lacerazione della pelle da cui si intravedevano il muscolo e il grasso della guancia sinistra, Banks riconobbe il volto delle fotografie che aveva studiato.
Quando il corpo fu del tutto scoperto, i presenti indietreggiarono come se, anziché a un'esumazione, fossero a un funerale, pronti a porgere l'ultimo saluto prima della sepoltura. La brughiera era immersa nel silenzio a eccezione delle raffiche di vento che gemevano e fischiavano tra i sassi come anime perdute. Blair piangeva, notò Banks. Oppure l'aria gelida gli faceva lacrimare gli occhi. «Hai visto abbastanza, Mick?» gli chiese. Il ragazzo singhiozzò, quindi si voltò all'improvviso, assalito da un rumoroso e violento attacco di vomito. Mentre il commissario tornava verso l'auto, il suo cellulare squillò. Era Stefan Nowak, che sembrava emozionato. «Alan?» «Che cosa succede, Stefan? Avete identificato la sesta vittima?» «No. Ma ho pensato che volessi saperlo subito. Abbiamo trovato la videocamera di Payne.» «Dimmi dove sei» replicò Banks «e ti raggiungo il più in fretta possibile.» Maggie era stanca quando il treno entrò nella City Station intorno alle nove di quella sera, con un ritardo di mezz'ora causato da una mucca ferma in una galleria alla periferia di Wakefield. Ora aveva una vaga idea del perché i britannici si lamentassero tanto del loro servizio ferroviario. Vi era una lunga fila al posteggio dei taxi, e Maggie aveva solo un borsone leggero, così decise di prendere l'autobus nella vicina Boar Lane. Ce n'erano tanti che si fermavano a un tiro di schioppo dalla Collina. Era una serata mite, non sembrava che avesse intenzione di piovere qui, e c'era ancora parecchia gente nelle strade. Quando il pullman arrivò di lì a poco, Maggie prese posto in fondo, al piano di sotto. Davanti a lei sedevano due anziane signore appena uscite dal bingo, una con i capelli che assomigliavano a nebbiolina azzurra spruzzata di lustrini. Il suo profumo le irritò il naso facendola starnutire, così si spostò ancor più verso il fondo. Ormai conosceva bene il tragitto, e ne trascorse la maggior parte leggendo un racconto del nuovo libro di Alice Munro che aveva acquistato in Charing Cross Road. Aveva comprato anche il regalo perfetto per Lucy. Era nascosto in una scatoletta blu all'interno del borsone. Si trattava di un curioso gioiello che aveva subito catturato il suo interesse. Era un dischetto d'argento più o meno delle dimensioni di una moneta da dieci penny, appeso a una catenina dello stesso materiale. All'interno del cerchietto, costituito da un serpente intento a mangiarsi la coda, era raffigurata una fenice che
risorgeva dalle sue ceneri. Maggie sperava che Lucy avrebbe gradito il pensiero. L'autobus svoltò l'ultimo angolo. Maggie suonò il campanello e scese vicino alla cima della Collina. Le vie erano silenziose, e l'orizzonte occidentale era ancora chiazzato dai rossi e dai viola del tramonto. L'aria si era fatta piuttosto fredda, notò Maggie rabbrividendo appena. Dopo aver salutato la signora Toth, la madre di Claire, che attraversava la Collina con pesce e patatine fritte avvolti in carta di giornale, si girò verso i gradini. Frugò nella borsetta alla ricerca delle chiavi brancolando su per i bui scalini invasi dalle erbacce. Era difficile vedere dove metteva i piedi. Il posto perfetto per un'imboscata, pensò, pentendosi subito di quella riflessione. Il ricordo della telefonata di Bill la tormentava ancora. L'edificio pareva immerso nell'oscurità. Che Lucy fosse uscita? Ne dubitava. Poi, oltrepassati i cespugli, notò una luce tremolante che proveniva dalla camera padronale. La televisione. Per un attimo, Maggie provò l'egoistico desiderio di avere ancora la casa tutta per sé. L'idea che ci fosse qualcuno nella sua stanza la infastidiva. Aveva tuttavia autorizzato Lucy a usarla e, per quanto fosse stanca, non poteva piombare lì e buttarla fuori a calci. Forse avrebbero dovuto scambiarsi i letti, così Lucy avrebbe potuto guardare la televisione per tutto il tempo. Maggie si sarebbe accontentata della camera degli ospiti per qualche giorno. Girò la chiave nella toppa ed entrò, poi posò la borsa e appese la giacca prima di salire da Lucy e annunciarle che aveva deciso di tornare prima. Scivolando sulla spessa moquette, udì i suoni del televisore ma non riuscì a capirne la natura. Sembravano urla. La porta era socchiusa, così la sospinse e varcò la soglia senza bussare. Lucy era stravaccata sul letto, nuda. Be', non c'era da meravigliarsi dopo lo spettacolo di quella mattina, osservò Maggie tra sé e sé. Ma quando si voltò verso lo schermo del televisore, non volle credere ai propri occhi. All'inizio pensò che si trattasse di un porno, pur non capendo perché Lucy guardasse un film simile e dove se lo fosse procurato, quindi notò la qualità amatoriale, la scarsa illuminazione. Era ambientato in una specie di cantina, e c'era una ragazza che pareva legata a un materasso. Accanto a lei, un uomo si masturbava e gridava oscenità. Maggie lo riconobbe. Una donna teneva la testa infilata tra le gambe della giovane e, nella frazione di secondo che Maggie impiegò per registrare il tutto, si girò leccandosi le labbra e facendo un sorriso maligno alla telecamera. Lucy.
«Oh, no!» urlò Maggie voltandosi verso Lucy, che ora la fissava con quegli occhi scuri, impenetrabili. Si portò la mano alla bocca. Si sentiva nauseata. Nauseata e atterrita. Fece per uscire, ma udì un movimento improvviso alle sue spalle, poi avvertì un dolore lancinante alla nuca e il mondo esplose. Lo stagno rifletteva ormai la luce della sera quando Banks arrivò dopo aver riaccompagnato Mick Blair a Eastvale, essersi accertato che Ian Scott e Sarah Francis fossero sotto chiave ed essere passato a prendere Jenny Fuller dirigendosi fuori città. Con Winsome e il sergente Hatchley, la situazione sarebbe stata sotto controllo fino al mattino successivo. I colori scintillavano sulla superficie dell'acqua come una macchia di petrolio, e le anatre, che avevano notato la presenza di tutti quegli uomini, si tenevano a una garbata distanza di sicurezza, domandandosi senza dubbio dove fossero finiti gli agognati pezzi di pane. La videocamera Panasonic Super 8 giaceva sopra uno straccio sulla sponda, ancora attaccata al treppiede. Il sergente investigativo Stefan Nowak e l'ispettore Ken Blackstone non si erano mossi di lì da quando l'avevano ripescata. «Sei sicuro che sia questa?» chiese il commissario a Blackstone. L'altro annuì. «Uno dei nostri giovani e solerti agenti investigativi è riuscito a rintracciare la filiale della società che l'ha venduta a Payne. L'ha pagata in contanti, il 3 marzo dello scorso anno. Il numero di serie corrisponde.» «Qualche nastro?» «Uno all'interno dell'apparecchio» rispose Stefan. «Rovinato.» «Nessuna possibilità di restauro?» «Quel che è rotto è rotto.» «Solo quello? Nient'altro?» Stefan annuì. «Credimi, gli uomini hanno setacciato questo posto centimetro per centimetro.» Fece un gesto che abbracciava l'intera zona. «Se qualche nastro fosse stato buttato qui, a quest'ora l'avremmo trovato.» «Allora dove sono?» domandò Banks a nessuno in particolare. «Se vuoi la mia opinione» rispose Stefan «chiunque si sia disfatto della videocamera li ha duplicati su VHS. La qualità peggiora un po', ma è l'unico modo per guardarli con un normale videoregistratore.» Banks annuì. «Può essere. Sarà meglio portarla a Millgarth e chiuderla nel deposito giudiziario, anche se ormai non so a che cosa possa servirci.» Stefan si chinò per raccogliere la videocamera avvolgendola con cura
nel panno, come se fosse un neonato. «Non si sa mai.» Banks notò l'insegna di un pub un centinaio di metri più in là: il Woodcutter. Non doveva essere un granché, lo si intuiva anche da lontano, ma era l'unico nei paraggi. «È stata una lunga giornata, e non ho ancora preso il mio tè» disse Banks a Blackstone e Jenny dopo che Stefan fu partito per Millgarth. «Perché non beviamo qualcosa e non facciamo il punto della situazione?» «Buona idea» dichiarò Blackstone. «Jenny?» La psicologa sorrise. «Non ho molta scelta, giusto? Sono venuta con la tua auto, ricordi? Ma sarò dei vostri.» Di lì a poco si erano accomodati a un tavolo d'angolo nel locale semivuoto. Scoprendo con gioia che la cucina era ancora aperta, Banks ordinò patatine fritte, un hamburger di manzo e una pinta di birra amara. Il volume del juke-box non era così alto da impedire di fare conversazione, ma abbastanza da proteggere i loro discorsi da orecchi indiscreti. «Dunque che cosa abbiamo?» chiese Banks quando gli ebbero servito l'hamburger. «Una videocamera fuori uso, si direbbe» rispose Blackstone. «Ma che cosa significa?» «Significa che qualcuno - molto probabilmente Payne - ha voluto liberarsene.» «Perché?» «Mah!» «Forza, Ken, possiamo fare di meglio.» Blackstone sorrise. «Scusa, è stata una lunga giornata anche per me.» «Però è una domanda interessante» osservò Jenny. «Perché? E quando?» «Be', deve essere stato prima che gli agenti Taylor e Morrisey entrassero nella cantina» ipotizzò Banks. «Ma non dimenticare che Payne aveva una prigioniera» obiettò l'ispettore capo. «Kimberley Myers. Perché diavolo si sarebbe sbarazzato della videocamera quando stava facendo proprio il genere di cose che, a quanto sembra, amava filmare? E, se Stefan ha ragione, che fine hanno fatto le duplicazioni su VHS?» «Non conosco la risposta a queste domande» intervenne Jenny «ma conosco un'altra prospettiva da cui analizzarle.» «Credo di sapere dove vuoi arrivare» disse Banks. «Davvero?»
«Ah-ah. Lucy Payne.» Il commissario addentò l'hamburger. Niente male, pensò, ma aveva così fame che avrebbe mangiato qualsiasi cosa. Jenny annuì piano. «Perché diamo ancora per scontato che la realizzazione dei video fosse tutta opera di Terence Payne quando indaghiamo su Lucy come possibile complice sin dall'inizio? Soprattutto dopo quanto Laura e Keith mi hanno raccontato sul passato di Lucy e dopo quanto quella giovane prostituta ha raccontato a Alan riguardo alle sue inclinazioni sessuali. Insomma, dal punto di vista psicologico, non è sensato credere che sia colpevole quanto il marito? Ricordate, le ragazze sono state uccise nello stesso modo di Kathleen Murray: asfissia da strangolamento.» «Stai dicendo che è stata lei a ucciderle?» chiese Blackstone. «Non necessariamente. Ma, se quanto affermano Keith e Laura è vero, Lucy avrebbe potuto considerarsi una liberatrice, come pare abbia fatto con Kathleen.» «Un'eutanasia? Ma prima hai detto che ha ammazzato Kathleen perché era gelosa.» «Ho detto che la gelosia può senz'altro essere stata un movente. Un movente cui sua sorella Laura non ha voluto credere. Ma Lucy poteva avere moventi di carattere diverso. Non c'è niente di semplice in una personalità come la sua.» «Ma perché?» insistette Blackstone. «Anche se fosse stata lei, perché avrebbe gettato via la videocamera?» Banks infilzò una patatina e rifletté per un istante prima di aggiungere: «Lucy ha il terrore del carcere. Se temesse una cattura imminente, possibilità cui deve aver pensato dopo la prima visita della polizia e il collegamento tra Kimberley Myers e la Silverhill, non sarebbe logico che tentasse di salvarsi?». «Mi sembra tutto un po' inverosimile.» «A me no, Ken» ribatté Banks. «Guarda la situazione dal punto di vista di Lucy. Non è stupida. È più sveglia del marito, direi. Terence Payne rapisce Kimberley Myers quel venerdì sera (è in preda al panico, non capisce più niente), ma Lucy è ancora lucida, sa che la fine non tarderà ad arrivare. Per prima cosa, si disfa di tutte le prove possibili, tra cui la videocamera. Forse è questo a scatenare la collera di Terry, a causare il litigio. Ovviamente, Lucy non può prevedere come andranno le cose, perciò deve improvvisare, deve vedere che aria tira. Se rileviamo tracce della sua presenza in cantina...» «Come è successo.»
«Come è successo» ripeté Banks «ha una spiegazione plausibile anche per quello. Ha sentito un rumore, è scesa a controllare e - sorpresa, sorpresa - guarda un po' che cosa ha trovato. Il fatto che il marito l'abbia colpita con un vaso non fa altro che giocare a suo favore.» «E i nastri?» «Non li getterebbe via» spiegò Jenny. «Non se fossero una testimonianza di quello che lei - di quello che loro - hanno fatto. La videocamera è niente, soltanto un mezzo per raggiungere un fine. Puoi comperarne un'altra. Ma i nastri varrebbero più dei diamanti per i Payne, perché sono unici e insostituibili. Sono i trofei di Lucy. Potrebbe continuare a guardarli rivivendo i momenti trascorsi con le vittime in cantina. È quanto di più vicino alla realtà possa avere. Non li butterebbe via.» «Allora dove sono?» chiese Banks. «E dov'è lei?» chiese Jenny. «Non è anche solo lontanamente possibile» azzardò Banks spostando da parte il piatto «che le due domande abbiano la stessa risposta?» Maggie si svegliò con una violenta emicrania e una sensazione di nausea alla bocca dello stomaco. Si sentiva debole e intontita; all'inizio non capì dove si trovasse o quanto tempo fosse trascorso da quando aveva perso i sensi. Le tende erano aperte, e si rese conto che fuori era buio. Mettendo pian piano a fuoco le cose, si accorse di essere ancora in camera. Un abatjour era acceso; l'altro giaceva in cocci sul pavimento. Lucy doveva averlo usato per colpirla, concluse Maggie. Avvertì qualcosa di caldo e appiccicoso tra i capelli. Sangue. Lucy l'aveva colpita! Quella rivelazione improvvisa la scosse facendola tornare in sé. Aveva visto il video: Lucy e Terry che facevano cose terribili a quella povera ragazza, Lucy con l'aria di divertirsi. Quando cercò di muoversi, Maggie scoprì di avere mani e piedi legati al letto di ottone. Era immobilizzata con gambe e braccia divaricate, proprio come la giovane del filmato. Si sentì invadere dal panico. Si dimenò nel tentativo di liberarsi, ma riuscì soltanto a far cigolare forte le molle. La porta si aprì e Lucy entrò. Aveva indossato di nuovo jeans e T-shirt. Scosse piano la testa. «Guarda che cosa mi hai costretta a fare, Maggie» disse. «Guarda che cosa mi hai costretta a fare. Mi avevi detto che saresti stata via per un paio di giorni.» «Eri tu» replicò Maggie. «In quel video. Eri tu. Era ignobile, disgustoso.»
«Non avresti dovuto vederlo» osservò Lucy sedendo sul bordo del letto e accarezzandole la fronte. Maggie si ritrasse. Lucy scoppiò a ridere. «Oh, non preoccuparti, Maggie. Non fare tanto la puritana. Non sei il mio tipo, comunque.» «Le hai uccise tu. Tu e Terry insieme.» «Ti sbagli» la contraddisse Lucy rialzandosi e percorrendo la stanza a grandi passi, le braccia conserte. «Terry non ha mai ucciso nessuno. Non aveva abbastanza fegato. Oh, gli piaceva averle lì nude e legate, d'accordo. Gli piaceva far loro certe cosucce. Anche dopo che erano morte. Ma ho dovuto ammazzarle tutte da sola. Poverine. Vedi, riuscivano a resistere solo fino a un certo punto, poi dovevo ucciderle. Sono sempre stata gentile. Il più gentile possibile.» «Sei pazza» urlò Maggie dimenandosi ancora sul letto. «Ferma!» Lucy tornò a sedersi, ma questa volta non la toccò. «Pazza? Non credo. Solo perché non mi capisci non significa che sia pazza. Sono diversa, è vero. Vedo le cose in modo diverso. Ho bisogno di cose diverse. Ma non sono pazza.» «Ma perché?» «Non so spiegarlo a te. Non so spiegarlo nemmeno a me stessa.» Rise di nuovo. «Men che meno a me stessa. Oh, gli psichiatri e gli psicologi ci proverebbero. Sezionerebbero la mia infanzia e formulerebbero le loro teorie ma, in fondo, anche loro sono consapevoli di non poter spiegare qualcuno come me. Sono così e basta. Non c'è niente da fare. Come le pecore con cinque zampe e i cani con due teste. Chiamami come vuoi. Chiamami demonio, se ti aiuta a comprendere. Ma la questione più importante ora è: come farò a sopravvivere?» «Perché non te ne vai? Scappa. Non aprirò bocca.» Lucy le rivolse un sorriso mesto. «Vorrei che fosse vero, Maggie. Vorrei che fosse così semplice.» «Lo è» disse Maggie. «Vai. Vai e basta. Sparisci.» «È impossibile. Hai visto il video. Sai tutto. Non posso permetterti di restare in vita. Ascolta, Maggie, non voglio ucciderti, ma penso di poterlo fare. E penso di doverlo fare. Ti prometto di essere gentile come con le altre.» «Perché proprio io?» piagnucolò Maggie. «Perché hai scelto me?» «Te? Facile. Perché eri tanto disposta a credere che fossi anch'io una vittima della violenza domestica. È vero, Terry era diventato imprevedibile e
mi aveva picchiata in una o due occasioni. È triste che uomini come lui non abbiano cervello, ma abbiano muscoli da vendere. Ora non ha più importanza, però. Sai come l'ho conosciuto?» «No.» «Mi ha violentata. Non mi credi, lo so. Come potresti? Chi mi crederebbe? Ma è così. Andavo alla fermata dell'autobus dopo essere stata in un pub con alcune amiche, e mi ha trascinata in un vicolo per violentarmi. Aveva un coltello.» «Ti ha violentata, e tu l'hai sposato? Non l'hai denunciato alla polizia?» Lucy rise. «Non sapeva a che cosa andava incontro. Gli ho regalato lo stupro della sua vita. Forse ci ha messo un po' ad accorgersene, ma io violentavo lui quanto lui violentava me. Per me non era la prima volta, Maggie. Credimi, so tutto sullo stupro. L'ho imparato dagli esperti. Non poteva farmi niente che non avessi già subito prima, una volta dopo l'altra, da più di una persona. Pensava di avere il controllo, ma a volte è la vittima ad averlo davvero. Presto abbiamo scoperto di avere molto in comune. Sul piano sessuale. E da altri punti di vista. Ha continuato a stuprare ragazze anche dopo che ci siamo messi insieme. Lo incoraggiavo. Mi facevo raccontare tutti i dettagli mentre scopavamo.» «Non capisco.» Maggie tremava e piangeva, ormai incapace di reprimere la paura e l'orrore perché sapeva che era impossibile ragionare con Lucy. «Naturalmente» disse Lucy con dolcezza sedendo sul bordo del letto e accarezzandole la fronte. «Perché dovresti? Ma mi sei stata utile, e vorrei ringraziarti per questo. Tanto per cominciare, mi hai offerto un posto in cui nascondere le cassette. Erano l'unica cosa che potesse incriminarmi a parte Terry, e dubitavo che lui avrebbe parlato. E poi, ormai è morto.» «Le cassette?» «Sono sempre state qui, Maggie. Rammenti che sono venuta a trovarti quella domenica, prima che scoppiasse l'inferno?» «Sì.» «Le avevo portate con me e le ho nascoste dietro alcune scatole su in soffitta quando sono andata in bagno. Mi avevi detto che non salivi mai lassù. Non ricordi?» Maggie ricordava, eccome. Durante la sua prima e unica esplorazione aveva scoperto che la soffitta era una stanza soffocante e polverosa, capace di metterle i brividi e aggravare le sue allergie. Doveva averne accennato a Lucy quando le aveva mostrato la casa. «È per questo che hai fatto amici-
zia con me, perché pensavi che avrei potuto esserti utile?» «Ho pensato che forse, in futuro, avrei avuto bisogno di un amico, sì, magari persino di un difensore. E tu sei stata bravissima. Grazie per tutto quello che hai detto sul mio conto. Grazie per aver creduto in me. Non mi piace tutto questo, sai. Detesto uccidere. È un peccato che debba andare a finire così.» «Ma non è detto» implorò Maggie. «Oh, Dio, per favore, non farlo. Vai via. Non parlerò. Te lo prometto.» «Oh, lo dici adesso, adesso che hai una paura tremenda di morire, ma se me ne vado, non ti sentirai più così e spiffererai tutto alla polizia.» «No. Te lo prometto.» «Vorrei poterti credere, Maggie, sul serio.» «È la verità.» Lucy si sfilò la cintura. «Che cosa stai facendo?» «Te l'ho detto, sarò gentile. Non c'è niente da temere, solo un po' di dolore, poi ti addormenterai.» «No!» Qualcuno bussò alla porta. Lucy si paralizzò e Maggie trattenne il fiato. «Stai zitta» sibilò Lucy mettendole la mano sulla bocca. «Andranno via.» Ma i colpi continuarono. Poi si udì una voce. «Maggie! Apra, è la polizia. Sappiamo che è lì dentro. Ce l'ha detto la sua vicina. L'ha vista entrare in casa. Apra, Maggie. Vogliamo parlare con lei. È molto importante.» Maggie lesse il terrore sul volto di Lucy. Cercò di gridare, ma la mano dell'altra donna le copriva la bocca togliendole quasi il respiro. «È lì con lei, Maggie?» continuò la voce. Era Banks, si accorse Maggie, il detective che le aveva fatto perdere le staffe. Se solo fosse rimasto, avesse sfondato la porta e l'avesse salvata, gli avrebbe chiesto scusa; avrebbe fatto qualunque cosa le avesse ordinato. «È lei?» proseguì Banks. «La ragazza bionda che la vicina ha notato. È Lucy? Ha cambiato aspetto? Se è lei, Lucy, sappiamo tutto su Kathleen Murray. Abbiamo un bel po' di domande da farle. Maggie, venga ad aprire. Se Lucy è lì, non si fidi di lei. Pensiamo che abbia nascosto le videocassette in casa sua.» «Stai zitta» intimò Lucy uscendo dalla stanza. «Sono qui!» gridò subito Maggie con quanto fiato aveva in corpo, senza sapere se riuscissero a sentirla. «C'è anche lei. Lucy. Vuole uccidermi. Per favore, aiutatemi!» Lucy tornò nella camera, ma non sembrò preoccuparsi delle urla di
Maggie. «Sono anche sul retro» annunciò incrociando le braccia. «Che cosa posso fare? Non posso andare in carcere. Non potrei sopportare di rimanere chiusa nella gabbia per il resto dei miei giorni.» «Lucy» disse Maggie con tutta la calma possibile. «Slegami e apri la porta. Falli entrare. Sono sicura che saranno clementi. Capiranno che hai bisogno di aiuto.» Ma Lucy non ascoltava. Aveva ricominciato a camminare e a borbottare tra sé e sé. Maggie riuscì a distìnguere solo la parola «gabbia» ripetuta di continuo. Quindi udì un forte schianto provenire dal piano di sotto quando la polizia abbatté la porta, poi il suono di uomini che correvano su per le scale. «Sono qui!» gridò. Lucy la guardò con aria quasi compassionevole, pensò Maggie, disse: «Cerca di non odiarmi troppo». Quindi prese la rincorsa e si buttò dalla finestra tra una pioggia di vetri. Maggie urlò. Capitolo 20 Per essere uno che detestava così tanto gli ospedali, nelle ultime due settimane aveva trascorso parecchio tempo al Leeds General Infirmary, pensò Banks quel giovedì mentre percorreva il corridoio verso la stanza privata di Maggie Forrest. Quando entrò dopo aver bussato, la paziente lo accolse con un «Oh, è lei». Il commissario notò che, anziché guardarlo negli occhi, preferiva fissare la parete. La fascia sopra la fronte teneva ferma la medicazione sulla nuca. La ferita era grave e aveva richiesto vari punti di sutura. La donna inoltre aveva perso molto sangue. Quando era arrivato Banks, il cuscino ne era inzuppato. Secondo il medico, tuttavia, era fuori pericolo e sarebbe stata in condizioni di tornare a casa nel giro di uno o due giorni. Ora la curavano soprattutto per lo shock ritardato. Osservandola, Banks ripensò al giorno non lontano in cui aveva visto per la prima volta Lucy Payne in un letto d'ospedale, un occhio bendato, l'altro che valutava la situazione, i capelli neri sparsi sul guanciale bianco. «Tutto qui il ringraziamento che ricevo?» chiese il commissario. «Ringraziamento?» «Per aver portato i rinforzi. È stata una mia idea, sa. È vero, stavo solo facendo il mio lavoro, ma certe volte la gente si sente in dovere di aggiun-
gere una o due parole di ringraziamento personale. Non si preoccupi, non mi aspetto una mancia o qualcosa del genere.» «È facile per lei essere insolente, vero?» Banks accostò una sedia al letto. «Forse non tanto facile quanto crede. Come sta?» «Bene.» «Davvero?» «Sto bene. Solo un po' dolorante.» «Non mi sorprende.» «È stato davvero lei?» «Sono stato davvero io a fare che cosa?» Maggie lo guardò negli occhi per la prima volta. I suoi erano annebbiati dai medicinali, ma Banks vi scorse sofferenza e confusione, oltre a qualcosa di più dolce, di più ineffabile. «A guidare la squadra di salvataggio.» Banks si appoggiò allo schienale con un sospiro. «Mi rimprovero solo di averci impiegato tanto» disse. «Che cosa intende?» «Avrei dovuto capirlo prima. Avevo tutte le tessere del mosaico. Solo che non le ho messe insieme abbastanza in fretta, non finché la scientifica ha ripescato la videocamera dallo stagno in fondo alla Collina.» «È lì che si trovava?» «Sì. Lucy deve avercela buttata durante quell'ultimo fine settimana.» «A volte ci vado per riflettere e dare da mangiare alle anatre.» Maggie tenne gli occhi puntati sul muro, quindi tornò a voltarsi verso di lui dopo qualche secondo. «Comunque, non è colpa sua, giusto? Non sa leggere nel pensiero.» «No? Qualche volta la gente si aspetta che lo faccia. Ma suppongo di non esserne capace. Non in questo caso. Abbiamo sospettato sin dall'inizio che ci dovessero essere una videocamera e dei nastri, e sapevamo che Lucy non si sarebbe separata volentieri dalle cassette. Sapevamo anche che lei era la sua unica amica e che era venuta a casa sua il giorno prima della lite domestica.» «Lucy non poteva prevedere che cosa sarebbe successo.» «No. Ma sapeva che la situazione stava precipitando. Cercava di arginare i danni, e nascondere i nastri era un modo per farlo. Dov'erano?» «In soffitta» rispose Maggie. «Sapeva che non salivo mai lassù.» «E sapeva che avrebbe potuto recuperarli senza troppe difficoltà, che probabilmente lei era l'unica persona dell'intero paese disposta a ospitarla.
Questo era l'altro indizio. Non aveva altri posti in cui andare. Prima abbiamo parlato con i suoi vicini, Maggie, e, quando la madre di Claire ci ha raccontato di averla appena vista rincasare e un'altra signora ha dichiarato di aver scorto una giovane bussare alla sua porta di servizio un paio di notti prima, abbiamo fatto due più due.» «Deve pensare che sia stata tanto stupida da accoglierla.» «Sciocca, forse, ingenua, ma non per forza stupida.» «Sembrava solo così... così...» «Così vittima?» «Sì. Volevo crederle, ne avevo bisogno. Forse non solo per lei, ma anche per me. Non so.» Banks annuì. «Lucy ha recitato bene il suo ruolo. Ci è riuscita perché in parte era vero. Aveva fatto parecchia pratica.» «Che cosa intende?» Banks le raccontò dei Sette di Alderthorpe e dell'omicidio di Kathleen Murray. Quando ebbe finito, Maggie sbiancò, deglutì e restò a fissare il soffitto in silenzio. Trascorse più o meno un minuto prima che riprendesse a parlare. «Ha ucciso sua cugina quando aveva solo dodici anni?» «Sì. Questo è uno dei motivi per cui abbiamo ricominciato a cercarla. Dimostrava almeno che era diversa da come sembrava.» «Ma molti vivono un'infanzia terribile» osservò Maggie, le guance che riprendevano un po' di colore. «Forse non così terribile, ma non si trasformano tutti in assassini. Che cosa aveva Lucy di tanto differente?» «Vorrei poterle rispondere» disse Banks. «Terry Payne era uno stupratore quando si sono conosciuti, e Lucy aveva ammazzato Kathleen. In un modo o nell'altro, le circostanze del loro incontro hanno creato una chimica particolare, hanno funto da fattore scatenante. Non sappiamo perché. Probabilmente non lo sapremo mai.» «E se non si fossero mai incontrati?» Banks scrollò le spalle. «Forse non sarebbe mai accaduto niente di tutto questo. Terry viene finalmente arrestato per violenza carnale e finisce in galera, mentre Lucy sposa un giovane simpatico, ha tre o quattro bambini e diventa direttrice di banca. Chissà?» «Mi ha confessato che era stata lei a uccidere le ragazze, perché Terry non aveva abbastanza fegato.» «È logico. Lei l'aveva già fatto in passato. Lui no.» «Ha detto di averlo fatto per gentilezza.» «Forse sì. O per autodifesa. O per gelosia. Non ci si può aspettare che
Lucy comprenda le proprie motivazioni meglio di quanto le comprendiamo noi né che dica la verità. Con un soggetto simile, probabilmente è stata una strana combinazione dei tre elementi.» «Ha anche detto che si erano conosciuti perché lui l'aveva violentata. Aveva cercato di violentarla. Non ho capito bene. Sosteneva di averlo stuprato tanto quanto lui aveva stuprato lei.» Banks si agitò sulla sedia. Avrebbe voluto avere una sigaretta, anche se aveva stabilito di smettere prima della fine dell'anno. «Non riesco a spiegarlo più di quanto ci riesca lei, Maggie. Sarò anche un poliziotto e avrò anche visto il lato oscuro della natura umana più spesso di lei, ma una faccenda come questa... Per una persona dal passato come quello di Lucy, chissà come possono diventare confuse le cose. Immagino che, dopo quanto aveva subito a Alderthorpe e visti i suoi peculiari gusti sessuali, Terence Payne deve esserle parso una specie di smidollato.» «Si è paragonata a una pecora con cinque zampe.» L'immagine riportò Banks alla sua infanzia, quando il luna park itinerante arrivava a Pasqua e in autunno e si fermava nel campo giochi locale. Vi erano giostre (la Ballerina, il Brucomela, gli autoscontri, i circuiti di terra battuta) e chioschi dove potevi colpire carte da gioco con freccette appesantite o sparare a sagome di latta con un fucile ad aria compressa per vincere un pesce rosso in un sacchetto di plastica pieno d'acqua; vi erano folle, luci lampeggianti e musica a tutto volume; ma vi era anche lo spettacolo dei mostri, una tenda montata sul bordo del parco divertimenti, dove pagavi sei penny per vedere i personaggi esposti. Alla fine, si rivelavano deludenti: il mongoloide, la donna barbuta, l'uomo elefante e la bambina ragno non erano veri. In seguito, Banks aveva visto quel genere di creature solo nel famoso film di Todd Browning. Anzitutto, nessuna di loro era viva; e poi si trattava di animali deformi, nati morti o uccisi alla nascita, intenti a galleggiare in enormi vasi di vetro colmi di liquido conservante (un agnello con la quinta zampa che gli sporgeva dal fianco, un gattino con le corna, un cagnolino con due teste, un vitello senza orbite oculari), la sostanza di cui erano fatti gli incubi. «Nonostante quanto è accaduto» proseguì Maggie «voglio sottolineare che non permetterò a questi fatti di rendermi cinica. So che mi considera ingenua, ma, se questa è l'alternativa, preferisco essere ingenua piuttosto che rancorosa e diffidente.» «Ha commesso un errore di giudizio che le è quasi costato la vita.» «Crede che mi avrebbe uccisa se non foste arrivati?»
«E lei?» «Non lo so. Ho molte cose su cui riflettere. Ma Lucy era... era prima di tutto una vittima. Lei non c'era. Non l'ha sentita. Non voleva uccidermi.» «Maggie, per l'amor del cielo, si rende conto di che cosa sta dicendo? Ha assassinato Dio sa quante ragazzine. L'avrebbe uccisa, mi creda. Al suo posto, smetterei di considerarla una vittima.» «Io non sono lei.» Banks trasse un profondo sospiro. «Fortunatamente per entrambi, vero? Che cosa farà adesso?» «In che senso?» «Resterà sulla Collina?» «Sì, penso di sì.» Maggie si grattò le bende, quindi lo guardò socchiudendo gli occhi. «Non ho un altro posto dove andare. E ho sempre il mio lavoro, naturalmente. Grazie a questa faccenda ho anche scoperto di poter fare del bene. Posso essere la voce di chi non ne ha o di chi non osa parlare. La gente mi ascolta.» Banks annuì. Non lo disse, ma temeva che la sua accanita difesa di Lucy Payne le avrebbe impedito di essere una portavoce credibile delle donne maltrattate. Ma forse no. In fondo, la volubilità era quasi l'unica caratteristica che si poteva attribuire con certezza al pubblico. Magari Maggie ne sarebbe uscita da eroina. «Senta, è meglio che riposi un po'» continuò Banks. «Volevo solo vedere come stava. Le rivolgeremo delle domande più avanti. Ma non c'è fretta. Non ora.» «Non è tutto finito?» Banks la guardò negli occhi. Intuì che voleva fosse tutto finito, che voleva prendere le distanze e meditare, ricominciare la sua vita: il lavoro, le buone azioni, tutto quanto. «Potrebbe ancora esserci un processo» le comunicò. «Un processo? Ma io non...» «Non l'ha saputo?» «Saputo che cosa?» «Avevo solo dato per scontato... Oh, merda.» «Non mi sono tenuta molto aggiornata, tra le medicine e tutto il resto. Di che cosa si tratta?» Banks si chinò in avanti posandole la mano sull'avambraccio. «Maggie» spiegò «non so come dirglielo, ma Lucy Payne non è morta.» Maggie si ritrasse strabuzzando gli occhi. «Non è morta? Ma non capi-
sco. Pensavo... Insomma, lei...» «Si è buttata dalla finestra, sì, ma la caduta non l'ha uccisa. Il vialetto è pieno di erbacce, e i cespugli hanno attutito il colpo. Sta di fatto, però, che è atterrata sullo spigolo di un gradino e si è spezzata la schiena. Le sue condizioni sono gravi. Molto gravi. Ha riportato seri danni al midollo spinale.» «Che cosa significa?» «I medici devono sottoporla ancora a molti esami perché non sono sicuri della vera portata delle lesioni, ma pensano che resterà paralizzata dal collo in giù.» «Ma non è morta?» «No.» «Sarà costretta su una sedia a rotelle?» «Se sopravvive.» Maggie tornò a guardare verso la finestra. Banks vide le lacrime che le luccicavano negli occhi. «Così è chiusa in una gabbia, dopo tutto.» Banks si alzò per andarsene. Trovava difficile condividere la sua compassione per un'assassina di adolescenti e temeva di dire qualcosa di cui si sarebbe pentito. Proprio quando ebbe raggiunto la porta, udì Maggie che lo chiamava con un filo di voce: «Commissario Banks?». Si voltò, la mano sul pomolo. «Sì?» «Grazie.» «Tutto bene, cara?» «Sì, perché?» rispose Janet Taylor. «Niente» disse il commesso. «Solo che...» Janet prese la bottiglia di gin dal banco, pagò e uscì. Che cosa gli era preso?, si domandò. Le era forse spuntata un'altra testa all'improvviso? Era sabato sera, e non usciva da quando l'avevano arrestata e rilasciata su cauzione il lunedì precedente, ma non pensava di avere un aspetto tanto diverso dall'ultima volta che era stata nel negozio. Risalì fino all'appartamento sopra la parrucchiera e, dopo che ebbe girato la chiave nella toppa e fu entrata, notò per la prima volta la puzza. E il disordine. Non ci facevi troppo caso quando ci vivevi in mezzo, pensò, ma di sicuro ci facevi caso quando stavi fuori per un po' e poi tornavi. I vestiti sporchi erano sparsi dappertutto, il caffè ammuffiva nelle tazze lasciate a metà, e la pianta sul davanzale della finestra era appassita e morta. La casa puzzava di gin, chiuso, sudore e cavolo marcio. Parte di quel tanfo, si rese
conto annusandosi l'ascella, proveniva dal suo corpo. Si guardò allo specchio. Non si meravigliò dei capelli aridi e flosci né delle occhiaie scure. Dopo tutto, non aveva dormito granché da quando era accaduto. Preferiva non chiudere gli occhi perché, quando lo faceva, pareva che tutto si ripetesse nella sua mente. Gli unici momenti di riposo erano stati quelli in cui, dopo aver esagerato con il gin, aveva perso i sensi per una o due ore. In quegli istanti non c'erano sogni, soltanto oblio, ma il ricordo e la depressione tornavano ad assalirla appena si risvegliava. Non le interessava che cosa le sarebbe accaduto, purché gli incubi del sonno e della veglia sparissero. Che la cacciassero pure dalla polizia, che la sbattessero pure in galera. Non le importava, purché cancellassero anche le immagini di quella mattina nello scantinato. Non esistevano farmaci e macchine in grado di farlo? O era solo qualcosa che aveva visto in un film? Eppure, stava meglio di Lucy Payne, disse a se stessa. Paralizzata dal collo in giù e, a quanto pareva, costretta su una sedia a rotelle per il resto della vita. Ma non meritava altro. Janet rammentò Lucy distesa nell'ingresso, la pozza di sangue intorno alla ferita sulla testa, rammentò la preoccupazione per la donna maltrattata, la collera per il maschilismo di Dennis. Apparenze. Ora avrebbe dato qualsiasi cosa per riavere Dennis e giudicava persino la paralisi una punizione troppo lieve per Lucy Payne. Allontanandosi dallo specchio, si spogliò e gettò i vestiti sul pavimento. Avrebbe fatto un bagno, decise. Forse l'avrebbe aiutata a sentirsi meglio. Prima, si versò un gin abbondante e se lo portò dietro. Inserì il tappo e aprì i rubinetti, regolò la temperatura e aggiunse una dose di bagnoschiuma. Guardò il proprio riflesso nello specchio a figura intera dietro la porta. I seni cominciavano a cedere e la pelle color lardo si raggrinziva intorno alla pancia. Era abituata ad avere cura di se stessa, a esercitarsi nella palestra della polizia almeno tre volte la settimana, a fare jogging. Ma non negli ultimi quindici giorni. Prima di immergere i piedi nell'acqua, andò a prendere la bottiglia e la appoggiò sul bordo della vasca. Sarebbe comunque dovuta tornare a recuperarla di lì a poco. Finalmente si sdraiò, lasciando che le bolle le solleticassero il collo. Almeno poteva lavarsi. Sarebbe stato un inizio. Nessun commesso le avrebbe più chiesto se stesse bene perché puzzava. Per quanto riguardava le borse sotto gli occhi, non sarebbero scomparse dall'oggi al domani, ma avrebbe iniziato a occuparsene. E a riordinare l'appartamento. D'altra parte, pensò dopo un lungo sorso di gin, le lamette erano nell'armadietto. Le sarebbe bastato alzarsi e allungare la mano. L'acqua era calda
e gradevole. Era sicura che non avrebbe provato alcun dolore. Solo un rapido taglio su entrambi i polsi, poi sarebbe stato sufficiente mettere le braccia sott'acqua e lasciare che il sangue uscisse. Sarebbe stato come addormentarsi, solo che non ci sarebbero stati sogni. Avvolta dal tepore e dalla morbidezza del bagnoschiuma, sentì le palpebre pesanti e non riuscì più a tenere gli occhi aperti. Rieccola in quella cantina puzzolente con Dennis che spruzzava sangue dappertutto e quel pazzo di Payne che la aggrediva con un machete. Che cos'altro avrebbe potuto fare? Era questa la domanda cui nessuno poteva o voleva rispondere al suo posto. Che cosa avrebbe dovuto fare? Si riscosse con un sobbalzo, boccheggiando, e all'inizio la vasca le parve piena di sangue. Fece per prendere il gin, ma urtò la bottiglia, che andò in frantumi sul pavimento rovesciando il suo prezioso contenuto. Merda! Sarebbe dovuta andare a comprarne un'altra. Raccolse il tappetino e lo sbatté forte per eliminare eventuali frammenti, quindi si trascinò fuori della vasca. Perse l'equilibrio e vacillò leggermente. Appoggiò il piede destro sulle piastrelle e sentì il vetro che le pungeva la carne. Fece una smorfia di dolore. Lasciandosi dietro una sottile striscia di sangue, raggiunse il salotto stando attenta a non ferirsi di nuovo, sedette ed estrasse due grosse schegge, quindi si infilò un paio di vecchie ciabatte e tornò in bagno alla ricerca di bende e acqua ossigenata. Seduta sul water, si versò il disinfettante sul taglio come meglio poté. Ci mancò poco che urlasse per il bruciore, ma ben presto le fitte si attenuarono, e pian piano il piede si intorpidì. Lo fasciò, quindi si spostò in camera e si vestì, indossando abiti puliti e calzini spessissimi. Doveva uscire di lì, pensò, e non solo per andare al negozio di liquori. Un bel giro in auto l'avrebbe aiutata a restare sveglia, i finestrini spalancati, il vento tra i capelli, la musica rock e le chiacchiere alla radio. Magari avrebbe fatto un salto da Annie Cabbot, l'unico poliziotto passabile del commissariato. O magari avrebbe trovato una pensioncina di campagna dove nessuno la conosceva o sapeva che cosa aveva fatto e sì sarebbe fermata per una o due notti. Qualsiasi cosa pur di fuggire da questo posto sporco e maleodorante. Avrebbe potuto acquistare un'altra bottiglia lungo la strada. Almeno adesso era pulita, e nessun commesso borioso avrebbe arricciato il naso vedendola. Esitò per un attimo prima di afferrare le chiavi dell'auto, poi se le mise in tasca. Che cos'altro avrebbero potuto farle? Aggiungere il danno alla
beffa e accusarla di guida in stato di ebbrezza? Fanculo tutti quanti, pensò, ridendo tra sé mentre scendeva le scale zoppicando. Quella sera, tre giorni dopo che Lucy Payne si era buttata dalla finestra della camera di Maggie Forrest, Banks ascoltava Thaïs nel suo accogliente salotto dal soffitto color brie fuso e dalle pareti blu. Era la prima pausa che faceva da quando era andato a trovare Maggie Forrest in ospedale giovedì, e se la stava gustando fino in fondo. Ancora incerto riguardo al futuro, aveva stabilito di partire per una vacanza e riflettere bene prima di prendere qualsiasi importante decisione lavorativa. Avendo molte ferie arretrate, ne aveva già parlato con Red Ron e si era procurato qualche brochure in un'agenzia viaggi. Ora doveva solo scegliere dove andare. Negli ultimi due giorni aveva trascorso parecchio tempo alla finestra dell'ufficio, contemplando la piazza del mercato e pensando a Maggie Forrest, pensando alla sua risolutezza e compassione, e pensava a lei anche adesso, a casa. Lucy Payne l'aveva legata al letto ed era stata sul punto di strangolarla con una cintura quando era arrivata la polizia. Maggie continuava però a considerare Lucy una vittima e riusciva a piangere per lei. Era una santa o una stupida? Banks non avrebbe saputo rispondere. Quando ripensava alle ragazze che Lucy e Terry Payne avevano stuprato, terrorizzato e ucciso (a Kelly Matthews, Samantha Foster, Melissa Horrocks, Kimberley Myers e Katya Pavelic), la paralisi non gli sembrava sufficiente; non faceva abbastanza male. Ma quando ripensava all'infanzia violenta e tormentata di Lucy a Alderthorpe, una morte rapida e indolore o una vita di segregazione gli parevano una punizione più adatta. Come al solito, la sua opinione non contava, perché non era lui a doversi occupare della faccenda, a dover emettere la sentenza. Forse il massimo che poteva sperare era dimenticare Lucy Payne, cosa che sarebbe riuscito a fare con il tempo. In parte, almeno. Sarebbe sempre stata lì (erano tutti lì, vittime e assassini), ma pian piano sarebbe sbiadita, diventando un'immagine più indistinta di quanto fosse al momento. Banks non aveva scordato la sesta ragazza. Aveva un nome e, a meno che la sua infanzia non fosse stata simile a quella di Lucy Payne, in passato qualcuno doveva averla amata e abbracciata, doveva averle sussurrato parole di conforto - magari dopo un incubo -, doveva aver lenito il suo dolore quando si sbucciava un ginocchio cadendo. Bisognava avere pazienza. Gli esperti della scientifica erano bravi nel loro lavoro, e alla fine quelle ossa avrebbero rivelato qualche indizio capace di condurli all'identità della
giovane. Proprio quando attaccò la famosa Meditazione alla fine del primo CD, il telefono squillò. Essendo fuori servizio, il commissario pensò di non rispondere, ma poi la curiosità ebbe la meglio su di lui, come sempre. Era Annie Cabbot e, dal baccano (voci, sirene, frenate di auto, gente che sbraitava ordini), si sarebbe detto che si trovasse in mezzo alla strada. «Annie, dove diavolo sei?» «Alla rotatoria sulla Ripon Road, poco a nord di Harrogate» rispose la donna, urlando per sovrastare il rumore. «Che cosa ci fai lì?» Qualcuno le rivolse la parola, anche se Banks non capì che cosa diceva. Annie rispose in tono sbrigativo, poi tornò in linea. «Scusa, qui c'è un po' di confusione.» «Che cosa succede?» «Ho pensato che dovessi saperlo. Si tratta di Janet Taylor.» «Che cosa ha fatto?» «Si è schiantata contro un'altra auto.» «Che cosa? Come sta?» «È morta, Alan. Morta. Non sono ancora riusciti a estrarla dalla macchina, ma sono sicuri che è morta. Hanno tirato fuori la borsetta e hanno trovato il mio biglietto da visita all'interno.» «Maledizione.» Banks era attonito. «Come è successo?» «Non lo so con esattezza» spiegò Annie. «Secondo il conducente della vettura dietro la sua, una volta giunta al rondò, ha accelerato anziché rallentare e ha centrato l'automobile che arrivava dall'altra parte. Una madre che era andata a prendere la figlia alla lezione di pianoforte.» «Oh, Gesù Cristo. Come stanno?» «La madre sta bene. Tagli e lividi. Shock.» «E la figlia?» «Non si sa. I paramedici sospettano la presenza di lesioni interne, ma non ne saranno sicuri finché non la porteranno in ospedale. È ancora bloccata nell'auto.» «Janet era ubriaca?» «Non lo so ancora, ma non mi sorprenderebbe se avesse bevuto. E poi era depressa. Forse ha cercato di suicidarsi. Se è così... è...» Banks sentì che la voce le moriva in gola. «Annie, immagino che cosa stavi per dire, ma, anche se l'avesse fatto apposta, non sarebbe colpa tua. Non sei stata tu a scendere in quella canti-
na, a vedere quello che ha visto e a fare quello che ha fatto. Tu ti sei limitata a condurre un'indagine imparziale.» «Imparziale! Cristo, Alan, ho fatto i salti mortali per essere comprensiva nei suoi confronti.» «Non importa. Non è colpa tua.» «Per te è facile dirlo.» «Annie, era senz'altro sbronza ed è finita fuori strada.» «Forse hai ragione. Non posso credere che Janet volesse suicidarsi ammazzando anche qualcun altro. Ma, da qualunque parte la guardi - ubriaca o no, suicidio o no -, dipende sempre da quanto è successo, vero?» «È capitato e basta, Annie. Tu non c'entri niente.» «La politica. Quella fottuta politica.» «Vuoi che ti raggiunga?» «No, sto bene.» «Annie...» «Scusa, adesso devo andare. Stanno estraendo la bambina dall'auto.» Riagganciò lasciando Banks con il ricevitore in mano e il respiro affannoso. Janet Taylor. Un'altra vittima dei Payne. Il primo CD era terminato, e Banks non aveva voglia di ascoltare il secondo dopo la notizia che aveva appena sentito. Dopo essersi versato due dita di Laphroaig, portò le sigarette nel suo punto preferito vicino alle cascate e, mentre le vivide sfumature viola e arancioni screziavano l'orizzonte occidentale, fece un brindisi silenzioso a Janet Taylor e alla ragazza senza nome sepolta nel giardino dei Payne. Ma era là fuori da meno di cinque minuti quando decise che sarebbe andato da Annie, che doveva andarci, nonostante quello che gli aveva detto. Forse la loro relazione sentimentale si era conclusa, ma aveva promesso di esserle amico e di offrirle sostegno. Se non ne aveva bisogno adesso, quando ne avrebbe avuto bisogno? Guardò l'orologio. Se si fosse sbrigato, avrebbe impiegato circa un'ora per arrivare, e probabilmente Annie sarebbe stata ancora lì. In caso contrario, sarebbe stata all'ospedale, e non sarebbe stato difficile rintracciarla. Appoggiò sul tavolino il bicchiere ancora semipieno e corse a prendere la giacca. Prima che potesse indossarla, il telefono squillò di nuovo. Ipotizzando che fosse Annie con qualche novità, rispose. Era Jenny Fuller. «Spero di non aver scelto il momento sbagliato» disse. «Stavo proprio per uscire.» «Oh. Un'emergenza?»
«Più o meno.» «Pensavo solo che avremmo potuto bere un drink e festeggiare, adesso che è tutto finito.» «È un'ottima idea, Jenny. Ma non posso farlo subito. Ti chiamo più tardi, d'accordo?» «È quello che mi dicono tutti.» «Scusa. Devo andare. Ti telefono. Promesso.» Banks avvertì la delusione nella voce di Jenny e si sentì un vero bastardo per essere stato tanto brusco con lei (dopo tutto, la psicologa aveva lavorato al caso con lo stesso impegno degli altri), ma non aveva voglia di raccontarle di Janet Taylor e non era in vena di festeggiare niente. Adesso che è tutto finito, aveva osservato Jenny. Il commissario si domandò se le conseguenze della follia dei Payne sarebbero mai finite, se avrebbero mai smesso di mietere vittime. Sei adolescenti morte, di cui una ancora da identificare. Kathleen Murray morta più di dieci anni prima. L'agente Dennis Morrisey morto. Terence Payne morto. Lucy Payne paralizzata. Ora Janet Taylor morta e una bambina gravemente ferita. Accertandosi di avere chiavi e sigarette, Banks uscì nella notte. Ringraziamenti Vorrei ringraziare Patricia Lande Grader, la mia editor, per avermi aiutato a dare nuova forma alle caotiche bozze iniziali, e Sheila Halladay, mia moglie, per le sue sagaci e preziose osservazioni. Mille grazie anche a Dominick Abel, il mio agente, per il duro lavoro svolto su mia richiesta, e a Erika Schmid per l'ottimo copyediting. Per le ricerche, mi sono avvalso del solito gruppo: il sergente investigativo Keith Wright, gli ispettori Claire Gormley e Alan Young nonché il comandante di distretto Philip Gormley. Gli eventuali errori sono imputabili soltanto a me e, naturalmente, sono stati commessi a beneficio della finzione letteraria. Grazie infine a Woitek Kubicki per i suggerimenti riguardo ai nomi polacchi. Alcuni libri si sono rivelati fondamentali per comprendere il fenomeno della «coppia di killer», e tra quelli con cui ho contratto il maggior debito di gratitudine figurano Beyond Belief di Emlyn Williams, She Must Have Known di Brian Masters, The Jigsaw Man di Paul Britton, Happy Like Murderers di Gordon Burn e Invisible Darkness di Stephen Williams.
FINE