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Gaetano Calenzo
I MOVIMENTI SINDACALI NEI PROCESSI DI DEMOCRATIZZAZ...
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Gaetano Calenzo
I MOVIMENTI SINDACALI NEI PROCESSI DI DEMOCRATIZZAZIONE: L’ESPERIENZA DI SUDAFRICA E NIGERIA
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Copyright© 2007 UNI Service – Trento Prima edizione: giugno 2007 – Printed in Italy
ISBN 978-88-6178-051-4
In copertina: Anti-apartheid posters, http://entertainment.webshots.com
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a mio zio Mimmo, in memoria
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Abbiamo il dovere di difendere le libertà democratiche e i diritti sindacali che sono legati alla questione del pane e del lavoro; abbiamo il dovere di difendere i diritti democratici dei cittadini e dei lavoratori, anche nelle fabbriche. Giuseppe Di Vittorio, 1952
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INDICE 11
1. Introduzione 1.1. I sindacati e la democrazia: alcune premesse 1.2. Movimenti operai e transizioni politiche: dibattiti teorici 1.3. Il sindacalismo africano 1.4. Sudafrica e Nigeria: due casi a confronto 1.5. Nota metodologica 2. Il sindacalismo anti-apartheid e la democratizzazione in Sudafrica 2.1. 2.2. 2.3. 2.4.
Razza e classe nella costruzione dell’apartheid Le origini del movimento sindacale Il SACTU tra impegno politico e repressione statale Gli scioperi di Durban e l’emergere dei «sindacati indipendenti» 2.5. Crescita e impegno politico negli anni ‘80 2.6. La transizione 3. Il movimento sindacale e la smilitarizzazione della politica in Nigeria 3.1. La struttura sociale della Nigeria post-coloniale 3.2. Tendenze pretoriane: i militari al potere 3.3. Le divisioni del movimento sindacale dalle origini alla fine della Prima repubblica 3.4. I sindacati sotto il governo militare 3.5. L’aggiustamento strutturale e le sue conseguenze per il sindacato 3.6. L’azione sindacale dall’interruzione della transizione alla sua ripresa
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4. Transizioni politiche e movimenti sindacali a confronto 4.1. Variabili esplicative per l’influenza politica dei movimenti sindacali 4.2. La posizione dei lavoratori nella società civile 4.3. Scelte strategiche 4.4. Continuità e discontinuità: i problemi del consolidamento 4.5. Osservazioni conclusive
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5. Bibliografia
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6. Abbreviazioni e sigle
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1. INTRODUZIONE
Questo saggio analizza il ruolo del movimento operaio e sindacale nel contesto delle mobilitazioni per la democrazia in Sudafrica e Nigeria, in prospettiva comparata. L’obiettivo è quello di ricostruire in chiave storica il rapporto tra il lavoro organizzato e i movimenti democratici nei due paesi, riconducendo tale tematica al più generale ambito degli studi sulle transizioni politiche. Ho cercato di individuare le connessioni esistenti tra i due casi, evidenziando le principali analogie e differenze sulla base delle rispettive peculiarità. Ho tentato inoltre di individuare il modello teorico che meglio corrisponde alla realtà empirica dei casi in esame. Al termine della ricerca propongo delle risposte per una serie di domande. In che modo il movimento operaio si inserisce nelle lotte per la democrazia? Quali strategie, a livello di alleanze e a livello di azione, producono esiti positivi, e quali invece sono inadeguate? Quali variabili sono rilevanti per tali esiti? Infine, in quali condizioni il sindacato può giocare un ruolo rilevante nell’ambito delle lotte democratiche ed esercitare un’influenza sul processo di transizione?
1.1. I sindacati e la democrazia: alcune premesse La maggior parte degli studi sui processi di democratizzazione ha generalmente trascurato il ruolo dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, nonostante l’enfasi che nella letteratura esistente viene posta sull’importanza della società civile. L’interesse prevalente per l’ingegneria costituzionale e per gli arrangiamenti istituzionali, per i partiti politici e per i processi elettorali, ha fatto sì che il lavoro organizzato rimanesse in secondo piano nell’attenzione degli studiosi, 11
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anche in quei casi in cui è stato effettivamente un attore cruciale nella lotta contro i regimi autoritari. In particolare, le teorie liberali sulle transizioni, delle quali il portavoce più significativo è sicuramente Samuel Huntington1, non accennano di solito a questo particolare attore sociale. Si può parlare di una tendenza generale degli studiosi di orientamento liberale a sottovalutare il peso dei sindacati nella vita politica. Sartori percepisce questa carenza: «Nella dottrina che ad un tempo disegna e riflette la costruzione di una libera società in un libero Stato», egli scrive, «i partiti risultano non solo un congegno essenziale, ma sono lo strumento, lo strumento per antonomasia, a) della aggregazione e b) della trasmissione delle domande espresse dalla società allo Stato. La dottrina non ne prevede o raccomanda altri. [...] Viene subito da chiedersi: e i sindacati? Dove stanno? Qual è il loro ruolo? E quale il loro peso?».2 Lo stesso Sartori tenta di offrire una spiegazione per una simile negligenza, sostenendo che «la dottrina tradizionale, o ancor oggi prevalente, non è che ignori l’organizzazione sindacale e la forza del lavoro organizzato; ma la assegna a un’altra sfera: all’economia più che alla politica. Secondo questa dottrina […] tra partiti e sindacati esiste – o dovrebbe esistere – una precisa divisione del lavoro, una precisa ripartizione di ruoli».3 Questa distinzione tra la sfera politica e quella economica è fuorviante se proiettata al di fuori della teoria, poiché nella realtà i due ambiti sono tutt’altro che separati, e al contrario interagiscono profondamente influenzandosi a vicenda. L’approccio che mi propongo di seguire è quindi in qualche modo riconducibile all’area disciplinare della political economy, che di queste interazioni fa il proprio specifico oggetto di studio. Tutti gli attori sociali, ad un certo punto, sono potenzialmente anche degli attori politici, e il movimento operaio è quello che maggiormente può aspirare a questo ruolo, vista la
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S.P. Huntington, The Third Wave. Democratization in the Late Twentieth Century, Norman, University of Oklahoma Press, 1993; trad. it. La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1995. G. Sartori, Elementi di teoria politica, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 367. Ibidem.
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sua capacità di mobilitare risorse numeriche ed organizzative difficilmente eguagliabili.4 Nel discorso sulla democratizzazione, il motivo principale per cui occorre occuparsi del movimento sindacale deve essere individuato nell’interesse strategico che questo ha nel promuovere la creazione e il consolidamento di un regime democratico. L’obiettivo primario del sindacato, la sua ragion d’essere, consiste nella salvaguardia degli interessi dei lavoratori, ma la condizione minima necessaria perché tale obiettivo possa essere perseguito è – ovviamente – che il sindacato possa esistere, e che possa godere di indipendenza politica e decisionale (anche se su quest’ultimo punto possono legittimamente esistere dei dubbi: in certe condizioni il corporativismo tutela questi interessi pur senza concedere autonomia ai sindacati). Queste condizioni, a loro volta, trovano reale garanzia solo in presenza di istituzioni pienamente democratiche, e dunque l’esistenza di sindacati indipendenti è, dal punto di vista della teoria politica, un indicatore abbastanza affidabile di libertà politica e di democrazia. Non a caso, il primo requisito che secondo Dahl un regime deve soddisfare per poter essere definito democratico è proprio la libertà di associazione e di unione.5 Proprio per questo interesse, i movimenti operai sono spesso disposti a correre rischi per sfidare regimi con una storica reputazione di corruzione, repressione e disprezzo per i diritti umani. In molti casi, il lavoro organizzato ha contribuito in maniera decisiva a creare uno spazio politico favorevole allo sviluppo di istituzioni democratiche (basti pensare al ruolo di Solidarnosc nel caso della Polonia). La posizione strategica nell’economia, la capacità di paralizzare le attività produttive per mezzo di scioperi in settori nevralgici come l’energia, i trasporti o le telecomunicazioni, e di mettere potenzialmente in crisi i regimi autoritari ne fanno un soggetto
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R.B. Collier & D. Collier, Shaping the Political Arena: Critical Junctures, the Labor Movement, and Regime Dynamics in Latin America, Princeton, Princeton University Press, 1991. R. Dahl, Poliarchy. Participation and Opposition, New Haven, Yale University Press, 1961; trad. it. Poliarchia. Partecipazione e opposizione, Milano, Angeli, 1980.
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anche più importante rispetto agli altri gruppi che costituiscono la società civile.6 A queste considerazioni se ne potrebbe aggiungere un’altra: molto spesso i regimi autoritari trovano la loro forza in una particolare struttura della società, in particolari condizioni economiche e sociali che sono un prodotto della storia. Si potrebbe ipotizzare che il mutamento politico sopraggiunga con il mutare di queste condizioni, cioè quando viene meno, o si trasforma, la struttura sociale su cui si fonda il sistema politico vigente. Importanti studi sulle società in via di sviluppo seguono questa linea: Cardoso, ad esempio, avanza l’idea che i regimi autoritari siano indeboliti dalla mobilitazione sociale che essi stessi producono (e che non possono impedire), rendendo perciò possibile la transizione alla democrazia.7 Assumendo questa ipotesi, osservare in un paese in via di sviluppo un alto livello di mobilitazione tra i lavoratori, e nella società in generale, può essere un’indicazione che il sistema è pronto per una trasformazione fondamentale a causa di profondi mutamenti nella struttura sociale che minano lo status quo. Ciò corrisponde, in un certo senso, alla teoria di Marx secondo cui «a un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti […] E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale […] in cui assieme alla base economica si sconvolge anche la sovrastruttura [politico-giuridica]».8 In contesti del genere, è ragionevole aspettarsi – evitando però di credere che ciò avvenga in modo deterministico – che i gruppi che hanno interesse al mutamento, nel nostro caso il lavoro organizzato, si impegneranno affinché si realizzino le condizioni ideali perché questo si verifichi. Determinare quali siano queste condizioni costituisce appunto uno degli obiettivi principali di questa ricerca. 6 7
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R. Hyman, Marxism and the Sociology of Trade Unionism, London, Pluto Press, 1971. F.H. Cardoso, «Transizione politica in America Latina?», in R. Scartezzini, L. Germani & R. Gritti (a cura di), I limiti della democrazia. Autoritarismo e democrazia nella società moderna, Napoli, Liguori, 1985, pp. 333-346. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, CriticaMente (www.criticamente.com), 2004 (1859), prefazione.
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1.2. Movimenti operai e transizioni politiche: dibattiti teorici Praticamente tutti gli studi sui processi di democratizzazione riconducibili alla scuola liberale fanno riferimento con particolare enfasi al concetto di «società civile», intesa come lo spazio nel quale individui e gruppi perseguono i loro interessi, le loro aspirazioni e le varie forme di libertà. Tale definizione ha origine in una particolare tradizione di pensiero che ha costruito un rapporto dialettico tra la società civile e lo stato, in cui quest’ultimo avrebbe il compito di garantire un ambiente favorevole alla realizzazione degli interessi delle varie componenti della società civile, inclusi i lavoratori: in termini pratici, questo ruolo è limitato all’efficienza delle istituzioni e del mercato, mentre è escluso l’intervento diretto nei processi economici e sociali. In questo schema il ruolo della società civile, ai fini della transizione da un regime autoritario ad una democrazia, è messo in relazione soprattutto ai suoi sistemi di credenze e valori e alla sua valorizzazione nel contesto di un’economia di libero mercato, nonché alla stipulazione di patti sociali.9 In questa prospettiva, una posizione preponderante è attribuita alle classi medie, e da ciò deriva la tendenza a sottovalutare o considerare secondaria l’importanza del lavoro organizzato. Ora occorre passare in rassegna gli approcci teorici che invece si occupano esplicitamente ed in maniera approfondita di questo aspetto. I primi tentativi di studiare il ruolo dei movimenti operai nelle transizioni democratiche risalgono al periodo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta, e sono da attribuire ad alcuni studiosi di orientamento socialdemocratico. In un articolo pubblicato nel 1989, Samuel Valenzuela getta le basi per un’analisi approfondita
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G. O’Donnell, P. Schmitter & L. Whitehead (a cura di), Transitions from Authoritarian Rule: Prospects for Democracy, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1986; L. Diamond, J.J. Linz & S.M. Lipset, Politics in Developing Countries. Comparing Experiences with Democracy, Boulder, Lynne Rienner, 1995.
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del fenomeno.10 Valenzuela riconosce che, dato il peso critico dei lavoratori nell’economia nazionale e il posto speciale che occupano tra le forze della società civile, nonché le reti di solidarietà internazionale in cui sono organizzati, essi non possono essere ignorati, e di fatto i regimi autoritari dedicano loro una notevole attenzione. Anche se molti regimi autoritari preferirebbero semplicemente eliminare le organizzazioni dei lavoratori, una politica puramente repressiva può essere controproducente, considerando anche l’esistenza di accordi e pressioni a livello internazionale. Per questa ragione, i regimi autoritari solitamente consentono l’esistenza di organizzazioni sindacali; ma queste sono sottoposte a restrizioni e controlli. Schematizzando, Valenzuela individua due tipi di strategie di contenimento messe in pratica dai regimi autoritari nei confronti dei sindacati: - quella «corporativa», che prevede la creazione di un’organizzazione sindacale ufficiale finanziata dallo stato, con iscrizione obbligatoria e delimitazione precisa dei settori di competenza. I leader sono nominati dallo stato o eletti dai lavoratori (in tal caso i candidati sono sottoposti ad esame di compatibilità politica). Il regime di contrattazione collettiva è estremamente centralizzato e il margine di autonomia dell’azione sindacale è alquanto limitato; - quella «di mercato», in cui la contrattazione collettiva è completamente decentralizzata; gli scioperi sono resi il più possibile inefficaci con vari accorgimenti, che vanno dal divieto di usare i fondi del sindacato per supportare lo sciopero alla possibilità di rimpiazzare i lavoratori in sciopero. L’adesione ai sindacati è resa volontaria, è incoraggiata la creazione di nuovi sindacati, le quote di adesione sono l’unica fonte di finanziamento e la leadership è esposta a ricambi continui grazie ad elezioni frequenti.11
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J.S. Valenzuela, «Labor Movements in Transitions to Democracy: A Framework for Analysis», in Comparative Politics, Vol. 21 No. 4, 1989, pp. 445-472. Ibidem, p. 448.
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In circostanze di crisi o di liberalizzazione del regime, la mobilitazione dei lavoratori aumenta di colpo. L’obiettivo primario delle leadership sindacali sarà di riguadagnare un ruolo di negoziatori per le rivendicazioni della base al cospetto dei datori di lavoro e del regime, in primo luogo la modifica delle leggi sul lavoro. Tuttavia, Valenzuela (la cui analisi, insieme a quella di Adam Przeworsky12, è abbastanza rappresentativa della scuola socialdemocratica) raccomanda che le rivendicazioni formulate non siano eccessive, che la leadership tenga nei confronti del regime un atteggiamento di moderazione – per evitare di allarmare i quadri dirigenti e di indurli perciò a riattivare la repressione – e che la mobilitazione si alterni a momenti di ripiegamento. In ogni caso, va tenuto conto di una serie di variabili, che Valenzuela elenca, le quali possono modificare il ruolo, l’influenza e l’esito dell’azione del movimento operaio nella transizione: 1. la forza o debolezza relativa del movimento operaio. Più forte è il movimento operaio, maggiori sono le sue possibilità di assumere un ruolo importante nella transizione; 2. la centralizzazione o decentralizzazione del movimento operaio e la sua unità o divisione politica. La sequenza mobilitazione/ripiegamento ha più probabilità di successo se la struttura dei sindacati e il regime di contrattazione sono centralizzati, e se la leadership è politicamente unita e non divisa in fazioni; 3. l’atteggiamento del regime nei confronti dei sindacati. Il tipo di atteggiamento del regime condiziona le rivendicazioni del movimento operaio e il suo modello organizzativo: maggiore è l’ostilità del regime nei confronti dei sindacati e la chiusura dello spazio politico, maggiori sono le probabilità di un’alleanza tra sindacati e partiti di opposizione; 4. le modalità della transizione e il rapporto tra il movimento operaio e le elite che guidano la transizione. La sequenza mobilitazione/ripiegamento è più plausibile nel caso di una transizione che segue un modello di reforma rispetto ad uno di 12
A. Przeworsky, Democracy and the Market: political and economic reforms in Eastern Europe and Latin America, Cambridge, Cambridge University Press, 1991.
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ruptura. Soprattutto, è importante il tipo di rapporto con i principali attori politici che guidano la transizione (coalizione di governo, partiti d’opposizione, etc.).13 Lo schema elaborato da Valenzuela ha ricevuto molteplici critiche da parte di un folto gruppo di studiosi, concentrati soprattutto su aree geopolitiche come il Sudamerica o l’Europa meridionale.14 Una delle principali critiche che fanno riferimento direttamente al caso sudafricano è quella proposta da Glenn Adler e Eddie Webster, che rimproverano a Valenzuela e Przeworsky di seguire un’impostazione «corporativista», di far dipendere il consolidamento della democrazia dalla concertazione, e tuttavia di considerare i sindacati troppo deboli e decentralizzati per influenzare i rapporti di potere nella società; ne criticano la visione elitista, cioè l’idea che la transizione e il consolidamento siano il risultato di «patti» tra le elite, che sottovaluta il ruolo del movimento operaio, considerato solo nella misura in cui riesce a coinvolgere la propria base in questi patti, la cui natura sarebbe quindi inevitabilmente moderata. A differenza di questa prospettiva, l’analisi di Adler e Webster enfatizza la capacità del lavoro organizzato di formare il carattere della democrazia attraverso un uso disciplinato e strategico del potere. Secondo i due studiosi, un movimento operaio potente e sofisticato dal punto di vista strategico ha il potenziale per riconfigurare la democratizzazione per mezzo della partecipazione dal basso ai compromessi istituzionali. Questi compromessi forniscono l’opportunità di ottenere concessioni dalla controparte, disciplinare il capitale ed assicurarsi che i costi sociali dell’aggiustamento non siano sostenuti solo dai lavoratori. Il «patto» non dovrebbe essere visto semplicemente come funzionale al consolidamento della democrazia, ma come un proces13 14
J.S. Valenzuela, «Labor Movements in Transitions to Democracy», cit., pp. 452-466. Si veda per esempio M.E. Keck, «The New Unionism in the Brazilian Transition», in A. Stepan (a cura di), Democratizing Brazil: Problems of Transition and Consolidation, New York, Oxford University Press, 1989; oppure R.B. Collier & J. Mahoney, «Adding Collective Actors to Collective Outcomes: Labor and Recent Democratization in South America and Southern Europe», in Comparative Politics, Vol. 23 No. 2, 1997.
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so conflittuale di compromesso tra le classi, dai cui risultati dipende la lealtà dei lavoratori alla democratizzazione.15 La strategia proposta non consiste esclusivamente nella mobilitazione di massa o nella partecipazione al «patto». La prima opzione può condurre ad una radicalizzazione della protesta che minerebbe alla base il processo di transizione, mentre la seconda potrebbe produrre invece risultati insoddisfacenti per i lavoratori. Si raccomanda, piuttosto, che il lavoro sia presente ed attivo ad entrambi i livelli. Combinando la protesta (condotta insieme ai movimenti sociali) e il coinvolgimento strategico nel processo decisionale, il movimento operaio rafforza la propria posizione politica attingendo alla propria riserva indipendente di potere – la base. Con un’espressione apparentemente contraddittoria, Adler e Webster hanno denominato questo approccio «riformismo radicale» (radical reform).16 Complementare alla critica di Adler e Webster, ma con implicazioni che vanno al di là della dimensione dei compromessi istituzionali, emergeva all’incirca nello stesso periodo, a partire dai New International Labour Studies, un approccio alternativo basato sul concetto di «sindacalismo dei movimenti sociali» (social movement unionism). Tale concetto è stato originariamente sviluppato negli anni ’80 da un gruppo di studiosi progressisti – tra cui ricordiamo Rob Lambert, Kim Scipes, Ronaldo Munck e Peter Waterman – nello sforzo di comprendere le dinamiche del sindacalismo militante emergente nei paesi di nuova industrializzazione, come il Brasile, il Sudafrica, la Corea del Sud e le Filippine. Questi studiosi hanno cercato di creare uno schema concettuale che permettesse di studiare quelle che consideravano forme innovative di sindacalismo, le quali rivelavano i limiti di una sociologia industriale concentrata prevalentemente sulle dinamiche sindacali dominanti nelle società industria-
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E. Webster & G. Adler, «Consolidating Democracy in A Liberalizing World» in G. Adler & E. Webster (a cura di), Trade Unions and Democratization in South Africa, 1985-1997, Basingstoke, Macmillan, 2000, p. 3. G. Adler & E. Webster, «Challenging transition theory: The labour movement, radical reform and transition to democracy in South Africa», in Politics and Society, Vol. 23, No. 1, 1995, pp. 75-106.
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lizzate.17 Essenzialmente, il concetto di social movement unionism riconosce che l’attività sindacale ha due dimensioni: una economica, l’altra sociale e politica. Esso si differenzia dal sindacalismo convenzionale proprio per la sua attenzione al lavoro come forza sociale e politica, non come semplice merce su cui contrattare. Mentre il sindacalismo «ortodosso» si concentra quasi esclusivamente sui luoghi di lavoro e non necessariamente incoraggia l’impegno politico dei suoi membri, l’approccio alternativo è una forma di organizzazione sindacale che tenta di collegare le proprie rivendicazioni alle lotte comunitarie e a questioni di carattere politico generale.18 A partire dalla seconda metà degli anni ’80, hanno fatto la loro comparsa «nuovi» movimenti sociali distinti sia da quelli sindacali sia da quelli nazionalisti: movimenti femministi, pacifisti, ecologisti, per i diritti umani, comunità religiose di base (che trovano la loro massima espressione nella cosiddetta «teologia della liberazione» sviluppatasi in America Latina), associazioni di vicinato, etc. In modi diversi, questi movimenti hanno allargato i confini della politica e, di fatto, hanno inventato un nuovo modo di «fare politica». Le relazioni sociali si sono progressivamente politicizzate e, di riflesso, la politica si è «socializzata». In questi nuovi movimenti si articolano nuove forme di lotta ed emergono invariabilmente le questioni di democraticità, partecipazione e responsabilità. Il movimento sindacale conosce quindi l’opportunità di integrare i suoi orientamenti tradizionali, concentrati sulle relazioni industriali e sulla politica parlamentare, con le nuove forme di soggettività sociale e le loro potenzialità per lo sviluppo di una cultura pienamente democratica.19 Waterman definisce il sindacalismo dei movimenti sociali come un modello di movimento sindacale che si allea, in una sorta di rete di solidarietà, con altre componenti della società civile, come i movimenti studen17 18
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K. von Holdt, «Social movement unionism: the case of South Africa», in Work, employment and society, Vol. 16 No. 2, 2002, p. 284. R. Lambert & E. Webster, «The Re-emergence of Political Unionism in Contemporary South Africa?», in W. Cobbett e R. Cohen (a cura di), Popular Struggles in South Africa, London, James Currey, 1988, pp. 20-21. R. Munck, The New International Labour Studies: An Introduction, London, Zed Books, 1988, pp. 212-4.
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teschi, femministi, civici e per i diritti civili, ne fa proprie le rivendicazioni e ne adotta le pratiche e le forme organizzative.20
1.3. Il sindacalismo africano Concentrando la nostra attenzione sulle realtà africane, dobbiamo rilevare alcune importanti caratteristiche che fanno delle organizzazioni operaie in questo continente un soggetto specifico da studiare. Innanzitutto, il sindacalismo africano è un fenomeno relativamente giovane. Sebbene vi siano state sporadiche esperienze di scioperi già negli anni ’20, le prime organizzazioni formali di lavoratori africani hanno iniziato ad apparire solo tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50. La nascita di questi embrioni di sindacato è stata largamente un prodotto delle prime forme di proletarizzazione generate dal colonialismo.21 Per lungo tempo, inoltre, si è trattato di un fenomeno di scarsa consistenza e limitato a settori ristretti della popolazione urbana, in un periodo in cui gli africani impiegati come operai o scaricatori di porto erano ancora una ristretta minoranza, e per di più visti come una sorta di elite se paragonati al grosso della popolazione rurale.22 A questo proposito, grande diffusione ha avuto negli studi condotti tra gli anni ’60 e ’70 il concetto di «aristocrazia operaia» (labour aristocracy), introdotto da Giovanni Arrighi e John Saul: esso suggeriva che i lavoratori sindacalizzati nei paesi africani costituissero una minoranza privilegiata le cui condizioni economiche e sociali erano migliorate a spese della grande maggioranza dei residenti nelle campagne e delle fasce povere urbane.23 Lentamente, con le migrazioni dalle zone rurali alle città motivate dalla ricerca di la20 21 22 23
P. Waterman, Globalization, Social Movements and the New Internationalisms, London, Mansell, 1998. F. Cooper, Decolonisation and African Society. The Labour Question in French and British Africa, Cambridge, Cambridge Univesity Press, 1996. I. Davies, African Trade Unions, Harmondsworth, Penguin Books, 1966. G. Arrighi & J. Saul, «Socialism and Economic Development in Tropical Africa», in G. Arrighi & J. Saul (a cura di), Essays on the Political Economy of Africa, New York, Monthly Review Press, 1973, pp. 18-19.
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voro, questa situazione iniziale si è modificata e la posizione del proletariato africano è cresciuta gradualmente di importanza nella società africana, come mostrano studi condotti in Kenya, Tanzania, Ghana, Nigeria e Sudafrica, tanto da indurre gli stessi Arrighi e Saul a riconsiderare la loro tesi.24 I sindacati africani hanno avuto una parte importante nella lotta per l’indipendenza dei rispettivi paesi, e hanno collaborato strettamente con i partiti nazionalisti. Così facendo, immaginavano che l’indipendenza avrebbe garantito maggiore libertà per l’azione sindacale ed avrebbe promosso lo sviluppo e, di conseguenza, migliori condizioni di vita e di lavoro per i propri membri. Tuttavia, una volta raggiunta l’indipendenza, i leader politici hanno iniziato a nutrire diffidenza nei confronti dei sindacati che, dal loro punto di vista, iniziavano ad avanzare troppe rivendicazioni. Così, quando hanno iniziato a mettere a punto i loro programmi di sviluppo, i governi africani, civili o militari che fossero, non hanno dato ai sindacati sufficienti spazi di partecipazione. Anche quando accettavano di farli partecipare, ciò avveniva in una cornice che relegava i sindacati ad un ruolo passivo di trasmissione di istruzioni alla forza-lavoro. I sindacati accettavano questo ruolo per evitare la repressione e per poter in qualche modo sopravvivere, con la speranza di trovare un margine di manovra e di autonomia. Kester e Sidibé osservano che, come risultato di questa scelta, i sindacati africani sono riusciti a mantenere un certo grado di indipendenza, benché questa variasse da paese a paese.25 Questa autonomia era estremamente limitata, o inesistente, nei regimi radicali come la Guinea di Sékou-Touré e in quelli apertamente autoritari come il Togo; era media in molti altri paesi (come Mali, Senegal e Nigeria) ed abbastanza ampia in pochi casi tra cui Burkina Faso e Zambia. Tuttavia, non vi erano istanze governative che mettessero completamente a tacere i sindacati o che ne control24
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R. Sandbrook & R. Cohen (a cura di), The Development of an African Working Class: Studies in Class Formation and Action, London, Longman, 1975. Altri studi di caso sono raccolti in P. Gutkind, R. Cohen & J. Copans (a cura di), African Labor History, London, SAGE, 1978. G. Kester & O.O. Sidibé, «Trade Unions, It’s Your Turn!», in G. Kester & O.O. Sidibé (a cura di), Trade Unions and Sustainable Democracy in Africa, Aldershot, Ashgate, 1997, p. 12.
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lassero le strutture. Anche se i vertici sindacali erano più o meno controllati dai governi, le strutture intermedie, e soprattutto la base, spesso avevano maggiore autonomia. Questa differenza potrebbe dipendere dal fatto che il controllo delle leadership sindacali sia reso più facile dai contatti diretti con i leader politici e dal frequente ricorso alla corruzione. La democrazia sindacale spesso è più forte alla base che al vertice, essendo le più alte sfere esposte a pressioni, influenze, o anche al commissariamento, da parte dello stato. Questo ha inevitabilmente provocato delle proteste dal basso a partire dagli anni ‘80: i lavoratori, quando vedono minacciato il loro tenore di vita o i loro posti di lavoro, sono irritati da un’eccessiva dipendenza organizzativa dallo stato, e ciò li porta a disapprovare certe decisioni dei vertici sindacali.26 Nigeria, Benin e Togo costituiscono buoni esempi di questo fenomeno. Molto spesso, le prese di posizione più decise contro i governi provengono da leader locali o di settore. I governi tentano a volte di indebolire le correnti percepite come ostili, promuovendo tendenze che consentano loro di prendere il controllo della leadership sindacale attraverso varie forme di manipolazione.27 Le difficoltà che i sindacati africani si trovavano ad affrontare sono aumentate sensibilmente a partire dagli anni ‘80 quando, con l’introduzione dei programmi di aggiustamento strutturale in tutti i paesi del continente, i governi hanno definitivamente rimosso la partecipazione dalla loro agenda politica, promuovendo il liberismo economico e la riduzione del ruolo dello stato. Questa svolta ha posto i sindacati nella necessità di intraprendere un nuovo percorso. La democrazia non può svilupparsi in un contesto di insicurezza economica e sociale poiché, come riconosce anche Huntington, essa è incompatibile con l’esistenza di disuguaglianze economiche molto 26
27
Queste proteste sono state spesso indirizzate contro le istituzioni finanziarie internazionali, responsabili in molti casi di gravi ristrettezze economiche e della scarsità di beni di prima necessità, che hanno anche fatto esplodere vere e proprie rivolte. Studi di caso sul tema sono raccolti in J. Walton & D. Seddon (a cura di), Free Markets and Food Riots: The Politics of Global Adjustment, Cambridge, Blackwell, 1994. G. Kester & O.O. Sidibé, «Trade Unions, It’s Your Turn!», cit., p. 13.
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accentuate.28 E se la coesione sociale e uno sviluppo socialmente sostenibile possono essere garantiti attraverso la partecipazione, il movimento sindacale è sicuramente un attore qualificato per promuoverla.
1.4. Sudafrica e Nigeria: due casi a confronto Con queste premesse, uno studio comparato dei casi sudafricano e nigeriano risulta particolarmente interessante. La presenza di importanti analogie, come la notevole consistenza numerica dei rispettivi movimenti operai e la capacità di mobilitare grandi masse e quindi giocare un ruolo di primo piano nelle lotte popolari per la democrazia, consente di osservare differenze la cui influenza ha determinato il raggiungimento di risultati profondamente diversi nei due paesi: in Sudafrica la transizione ha avuto successo e i sindacati sono riusciti ad imporsi come uno degli attori più forti sulla scena politica e nei processi decisionali; in Nigeria, per una serie di motivi, questo cambiamento si è verificato con ritardo e, malgrado l’adozione di una costituzione formalmente democratica, i militari hanno a lungo continuato a dominare il panorama politico, direttamente o indirettamente. Nello studio del caso sudafricano, che verrà esposto nel prossimo capitolo, è fondamentale tenere presenti le condizioni politiche di partenza, evidenziando come le caratteristiche assolutamente peculiari del regime razzista sudafricano, combinate con i rapporti economici dominanti nel paese, abbiano posto le basi ideali per la nascita di un forte movimento operaio in prima linea nelle lotte per la democratizzazione. Con la rapida proletarizzazione della maggioranza nera, il sistema di sfruttamento a questa imposto per quasi tutto il XX secolo ha generato un singolare modello di identificazione sociale basato sul binomio razza-classe, una miscela il cui potenziale non ha mancato di manifestarsi a più riprese per sfociare, dopo le 28
S.P. Huntington, «After Twenty Years: The Future of the Third Wave», in Journal of Democracy, Vol. 8 No. 4, 1997, p. 5.
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grandi ondate di scioperi degli anni ‘70 e ’80, nell’alleanza strategica dei sindacati indipendenti con l’African National Congress, con il South African Communist Party e con i movimenti sociali, le cui lotte hanno condotto alla fine dell’apartheid. Nel capitolo successivo verrà analizzato il caso nigeriano, il quale si presenta più problematico per via dell’assenza dell’elemento razziale, per la persistenza delle divisioni etnico-religiose, per la struttura dell’economia del paese e per il ruolo dominante delle forze armate nella vita politica. Questi ultimi due fattori sono strettamente connessi: l’economia nigeriana dipende dalle esportazioni di petrolio, risorsa che negli anni ’60 è stata tra le cause principali del primo intervento militare nella vita politica del paese e della devastante guerra civile del Biafra. I governi militari da allora succedutisi, interrotti solo da pochi brevi periodi di governo civile, sono stati abili nel tenere sotto controllo il sindacato, la cui struttura altamente istituzionalizzata facilitava questo compito, e di indebolirne così la capacità di mobilitazione. Nel frattempo prendevano avvio i programmi di aggiustamento strutturale che hanno contribuito ad indebolire la società civile nigeriana, nel complesso già fragile, riducendo drasticamente le speranze per una piena democratizzazione. L’esperienza di questi due paesi sembra essere parzialmente in contraddizione con l’impostazione socialdemocratica riguardo alle strategie d’azione e alle forme organizzative del sindacato, ed avallare invece la tesi del «riformismo radicale» ai fini del conseguimento di risultati soddisfacenti nel processo di transizione. Nel quarto capitolo metterò a confronto le due esperienze per verificare le ipotesi e per rispondere alle domande che ho posto; inoltre affronterò brevemente il problema del consolidamento democratico così come si sta svolgendo nei due paesi, e verrà fatto qualche accenno alle nuove problematiche poste dalla globalizzazione e dalla diffusione su scala mondiale dell’ideologia liberista, i cui effetti stanno rimettendo in discussione alcuni dei risultati raggiunti in Sudafrica, mentre lasciano la Nigeria in una situazione di sostanziale continuità con la sua storia recente.
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1.5. Nota metodologica L’approccio metodologico che ho seguito in questo lavoro comprende i normali strumenti della ricerca comparata utilizzati nelle scienze sociali, e in particolare nella teoria politica. Ho già illustrato e motivato la scelta del fenomeno da analizzare, ovvero l’influenza del movimento sindacale nella transizione alla democrazia. Ho preso le mosse da alcune ipotesi alternative, che più avanti verranno approfondite, in modo tale da sottoporle a controllo empirico ed individuarne i principali punti di forza e di debolezza, tentando ove possibile di proporre delle integrazioni. Ho individuato due casi nazionali (si tratta perciò di una comparazione binaria) considerando l’esigenza di soddisfare i seguenti criteri: - la relativa prossimità geopolitica dei due paesi, entrambi localizzati nell’Africa sub-sahariana e portatori di un comune retaggio storico, quale la passata appartenenza all’impero coloniale britannico; - la presenza di caratteristiche simili, quali l’elevato grado di conflittualità sociale, la consistenza numerica delle organizzazioni sindacali e l’alto livello di mobilitazione e militanza della loro base, che possono essere trattate come «costanti»; - l’esistenza, altresì, di importanti differenze, relative alle caratteristiche del regime autoritario e alla struttura sociale, etnica ed economica. Partendo dalle variabili già in parte accennate, si potranno utilizzare le differenze per individuare variabili intervenienti che contribuiscano a spiegare meglio il risultato, laddove esso non corrisponda alle previsioni dell’ipotesi di partenza, così da correggere ed integrare lo schema di analisi. Per quanto riguarda il materiale di riferimento, esso comprende fonti storiografiche che ricostruiscono lo sviluppo del movimento sindacale in Sudafrica e Nigeria; saggi lunghi e brevi tratti dalla letteratura esistente sui processi di democratizzazione; studi sull’Africa in generale e sul Sudafrica e la Nigeria in particolare, riguardanti le strutture politiche e le dinamiche della società civile e dei movimenti sindacali in rapporto al sistema politico; sporadicamente ho fatto ri-
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corso a dati statistici, estratti da fonti di analisi economica, a sostegno di alcune delle enunciazioni maggiormente problematiche.
Sudafrica: divisione amministrativa prima e dopo la transizione Fonte: http://www.rootsweb.com
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Sudafrica: mappa delle homelands Fonte: http://www.answers.com
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2. IL SINDACALISMO ANTI-APARTHEID E LA DEMOCRATIZZAZIONE IN SUDAFRICA
Non è possibile comprendere il contributo del movimento operaio al processo che ha condotto alla democratizzazione del Sudafrica, senza affrontare la condizione dei lavoratori nel regime che ha governato il paese per quasi tutto il XX secolo. Trattandosi di un regime razzista, ci si riferisce principalmente ai lavoratori neri (africani, indiani e coloured), in quanto componente discriminata di un sistema economico-sociale molto particolare. La storia sudafricana è, sin dalle origini, profondamente diversa rispetto a quella di tutti gli altri paesi del continente, e le sue contraddizioni si riassumono nel fatto che esso è stato l’unico paese dell’Africa che abbia mai conosciuto una vera industrializzazione e, per contro, quello in cui gli africani avevano in assoluto minori possibilità di intervenire nelle dinamiche politiche (vale a dire, minore soggettività politica).
2.1. Razza e classe nella costruzione dell’apartheid Agli inizi del XX secolo si consolidò lo sviluppo, iniziato nella seconda metà del secolo precedente, dell’industria mineraria, concentrata nel Transvaal e nel Witwatersrand (o semplicemente Rand). L’estrazione di oro e diamanti necessitava di forza-lavoro a basso costo, che veniva garantita con il sistema del lavoro migrante temporaneo. Già nel 1896 erano state introdotte le prime pass laws, leggi che richiedevano ai minatori un lasciapassare che permetteva loro di lavorare nelle miniere ma non di cambiare lavoro. Anna Maria Gentili spiega che queste leggi erano state originariamente concepite 29
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dalle compagnie minerarie come un mezzo per impedire che la competizione tra i diversi settori economici per ottenere manodopera potesse far aumentare i salari.1 Il lavoro migrante poteva essere facilmente tenuto separato dal resto della forza-lavoro interna, ed era particolarmente vulnerabile. Il Native Land Act del 1913 assegnava l’87% del territorio all’insediamento della popolazione bianca, mentre nel restante 13% venivano create delle riserve per gli africani. Queste sarebbero state in seguito trasformate in bantustan e poi ribattezzate homelands, governate da autorità locali assoggettate al potere bianco, ed erano funzionali all’espansione dell’industria mineraria. Espulsi dalle loro terre e confinati in riserve sovrappopolate e prive di risorse, gli africani non avevano altra alternativa che offrirsi sul mercato come lavoratori migranti. La cultura politica che nel frattempo andava diffondendosi tra i lavoratori afrikaner era una miscela di nazionalismo, razzismo ed elementi di socialismo che diede luogo anche ad episodi abbastanza paradossali: quando la Chamber of Mines (il cartello delle compagnie minerarie) nel 1922 decise di impiegare un maggior numero di lavoratori neri sottopagati e annunciò di voler ridurre i salari dei minatori bianchi, lo sciopero che seguì si trasformò in una vera e propria rivolta, repressa duramente dall’esercito, guidata da gruppi paramilitari nazionalisti insieme ad alcuni membri del partito comunista, con slogan improbabili come «Workers of the World Unite and Fight for a White South Africa».2 Nel 1923 la leadership del National Party (il partito nazionalista afrikaner) stipulò un patto con il Labour Party (il partito laburista a base anglofona), e le elezioni dell’anno seguente portarono alla formazione di un governo di coalizione laburista-nazionalista, che promosse una nuova politica denominata di civilized labour. Nel quadro di questa politica venne adottata una legislazione, fortemente sostenuta dai sindacati bianchi, che proteggeva i bianchi «poveri» e discriminava i lavoratori secondo il loro colore, la cosiddetta colour bar. Dopo il 1924 i sindacati 1 2
A.M. Gentili, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Roma, Carocci, 1995, p. 180. I. Davies, African Trade Unions, cit., p. 57.
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bianchi approfittarono della situazione per negoziare con i datori di lavoro accordi che precludevano ai neri i lavori qualificati. Nel 1925 fu approvato il Mines and Works (Colour Bar) Act, che riservava i lavori qualificati ai bianchi e fissava nuove tabelle salariali ancora più sfavorevoli agli africani. In queste condizioni nacque e si sviluppò un proletariato urbano africano sempre più numeroso, alloggiato in townships ai margini delle principali città bianche. Ai lavoratori africani era consentito di lavorare nelle città dei bianchi, non di risiedervi permanentemente. Le pass laws furono modificate nel 1922 su proposta della Commissione Stallard per servire ad una nuova finalità: gli africani sarebbero stati ammessi nelle città solo se necessari come lavoratori, e coloro che non possedevano un lasciapassare sarebbero stati obbligati a tornare nelle loro homelands. La rapida crescita dell’economia, specialmente nel periodo 193339, continuò a far aumentare la domanda di manodopera e, avendo il mercato già assorbito tutta la forza-lavoro bianca, il reclutamento di lavoratori neri aumentò in misura corrispondente. Si calcola che la popolazione nera stabilmente residente nelle townships, per via dell’aumento del numero di lavoratori impiegati nelle fabbriche, triplicò tra il 1921 e il 1946.3 Nel 1948 un’elezione riservata ai bianchi sudafricani sancì il trionfo del National Party (NP), le cui parole d’ordine promettevano la creazione di un regime di segregazione totale.4 A metà degli anni ‘40 iniziarono anche ad inasprirsi le pass laws, che di lì a poco si sarebbero evolute in un sofisticato sistema di controllo dei lavoratori. Il Black (Urban Areas) Consolidation Act del 1945 impediva agli africani di permanere in una città «bianca» per più di 72 ore senza autorizzazione. Gli unici africani a cui era con3 4
A.M. Gentili, Il leone e il cacciatore, cit., p. 382. «Die kaffir op sy plek en die koelie uit die land» («I kaffir al loro posto e i koelie fuori dal paese») era uno degli slogan preferiti dai nazionalisti afrikaner. Kaffir e koelie erano termini razzisti usati per indicare, rispettivamente, gli africani e gli indiani. Citato in J. Baskin, Striking Back. A History of Cosatu, London, Verso, 1991, p. 12.
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sentito vivere permanentemente nelle aree «bianche» erano quelli che vi erano nati, le loro famiglie e quelli che avevano lavorato per lo stesso datore di lavoro per almeno 10 anni senza interruzione. Per chi non rientrava in una di queste categorie era previsto un contratto annuale come migrante, e la sua famiglia non poteva seguirlo. Negli anni ’50 le restrizioni si fecero ancora più dure: fu introdotto un nuovo tipo di lasciapassare che riportava la foto e le impronte digitali del titolare e che fu imposto per la prima volta anche alle donne (Abolition of Passes and Coordination of Documents Acts, 1952). Inoltre, nelle aree rurali abitate da neri furono istituiti uffici per rendere più rapido il reclutamento di manodopera (labour bureaux), i cui funzionari decidevano a propria discrezione il tipo di impiego e il datore di lavoro cui assegnare coloro che vi si rivolgevano.5 A partire dagli anni ’60 questi uffici furono impiegati anche per facilitare ai datori di lavoro la sostituzione dei lavoratori licenziati per aver scioperato, e furono introdotte nuove misure che legavano il lavoratore ad uno specifico datore di lavoro e rendevano più rapida l’espulsione dei disoccupati dalle città.6 Il Black Labour Act del 1965 ed un regolamento del 1968 annullarono di fatto le clausole della legge del 1945 che consentivano ai neri di acquisire il diritto di risiedere permanentemente nelle città: per impedire che fossero impiegati stabilmente presso lo stesso datore di lavoro per 10 anni, i lavoratori migranti furono obbligati a rinnovare i contratti di anno in anno. Queste misure mettevano fine al flusso legale di africani nelle città e davano consistenza, come osserva Steven Friedman, all’insistenza ideologica del National Party sul fatto che gli africani soggiornassero solo temporaneamente nelle città, e che sarebbero ritornati nelle homelands una volta che il loro lavoro non fosse più stato necessario. Ciò è dimostrato anche dall’esistenza di un’altra restrizione all’accesso dei neri nelle città, l’Environment Planning Act del 1968, per il quale un datore di lavoro poteva impiegare al massimo cinque neri ogni due bianchi: questa legge, con il pretesto 5 6
S. Friedman, Building Tomorrow Today. African Workers in Trade Unions, 1970-1984, Johannesburg, Ravan Press, p. 34. Ibidem, p. 35.
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della salvaguardia ambientale delle città, aveva lo scopo di indurre le imprese a trasferire i loro stabilimenti nelle homelands.7 Tutte queste leggi costituivano l’oggetto principale della protesta dei neri sudafricani. In esse si può facilmente cogliere il complesso intreccio tra dinamiche razziali e di classe su cui si reggeva il regime. La discriminazione razziale non era il solo elemento rilevante di questa oppressione: al contrario, essa era piuttosto percepita dai neri come un riflesso, la manifestazione più immediata e visibile di qualcosa di più articolato. Si può osservare che dietro all’ideologia razzista vi erano determinati rapporti di produzione e il mantenimento al potere di un’elite costituita da gruppi d’interesse legati al capitalismo anglofono e afrikaner e, in parte, alla classe operaia bianca.8 L’apartheid si configurava come un sistema finalizzato allo sfruttamento economico. La retribuzione decisamente inferiore dei lavoratori africani, ad esempio, ne rendeva preferibile l’utilizzo per i datori di lavoro e tendeva a far diminuire anche i salari dei lavoratori bianchi (in un certo senso si trattava di dumping, ma in una variante razziale unica nel suo genere). È utile qui considerare la posizione palesemente contraddittoria dei lavoratori bianchi, in cui coesistevano due diverse identità tra loro incompatibili: l’identità razziale, da condividere con il capitale bianco, e l’identità di classe, da condividere con i lavoratori neri. La contraddizione consisteva nell’impossibilità di conciliare gli opposti interessi connessi a queste due identità. Se da un lato l’appartenenza al gruppo razziale dominante poteva offrire un minimo di protezione ed alcuni privilegi, dall’altro essa alterava la percezione che i lavoratori bianchi avevano del regime salariale differenziato: accentuando la loro ostilità verso i neri (visti come una minaccia per i salari e per i posti di lavoro dei bianchi), 7 8
Ibidem, p. 66. Su questo punto non tutti i pareri sono concordi. Per esempio M. Lipton, Capitalism and Apartheid: South Africa, 1910-1984, Aldershot, Wildwood Press, 1985, afferma l’esistenza di contraddizioni tra le politiche razziali e i requisiti del capitalismo, riducendo l’apartheid a fenomeno puramente «politico». La tesi tuttavia non appare convincente, dal momento che il potere politico in Sudafrica era di fatto monopolizzato dal business bianco.
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l’ideologia razzista nascondeva il fatto che gli interessi dei lavoratori bianchi avrebbero potuto essere difesi favorendo il miglioramento delle condizioni dei lavoratori neri. Ciò sarebbe stato forse possibile, se i sindacati bianchi non fossero stati ideologicamente orientati a favore della segregazione. In altre parole l’apartheid – attingendo nuovamente alla terminologia marxista – costituiva essenzialmente un apparato ideologico a difesa degli interessi di una classe dominante9: era cioè un fattore di divisione del movimento operaio in quanto creava ostilità tra i lavoratori bianchi e neri, riducendone la forza contrattuale, e da ciò la classe imprenditoriale traeva notevoli vantaggi. In effetti i lavoratori africani erano sfruttati sia come lavoratori sia come africani, e di conseguenza il movimento di liberazione insisteva sull’emancipazione di classe come requisito essenziale per il superamento dell’apartheid. Ken Luckhardt e Brenda Wall hanno scritto nel 1980: «Nella lotta per una società democratica libera da tutte le forme di sfruttamento e di oppressione, la classe operaia nera deve necessariamente essere la forza trainante della rivoluzione».10 Dunque il movimento operaio dei neri sudafricani assume inevitabilmente una forte connotazione politica, imponendosi come un pilastro particolarmente importante del movimento di liberazione.
2.2. Le origini del movimento sindacale La nascita di un movimento sindacale africano può essere datata al 1919, quando fu fondata tra i lavoratori portuali di Città del Capo la Industrial and Commercial Workers’ Union of Africa (ICU). Prima di allora, vi erano stati vari tentativi di organizzare i lavoratori afri9
10
«Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti». K. Marx, L’ideologia tedesca, CriticaMente (www.criticamente.com), 2004 (1846). K. Luckhardt & B. Wall, Organize or Starve. The History of the South African Congress of Trade Unions, London, Lawrence and Wishart, 1980, p. 36.
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cani, tra cui si può ricordare la Industrial Workers of Africa (IWA) creata da S.P. Butting e Ivan Jones nel Witwatersrand sul modello dell’americana Industrial Workers of the World (IWW), ma si trattò sempre di esperienze effimere. Invece la ICU, sorta nel pieno dello sviluppo industriale indotto dalla Prima Guerra Mondiale, divenne rapidamente il centro della lotta politica e industriale degli africani per il decennio successivo, per poi scomparire negli anni ’30. Fondata da un maestro del Nyasaland, Clemens Kadalie, la ICU fu la prima organizzazione e il primo movimento politico dei lavoratori neri a dimensione nazionale nella storia del Sudafrica. Grazie alla sua leadership carismatica, Kadalie in poco tempo trasformò quella che era una piccola unione di lavoratori portuali e ferroviari in un sindacato generale, raccogliendo adesioni in tutti i settori industriali. Il motivo di una crescita così rapida era probabilmente connesso al fatto che l’African National Congress (ANC), che guidava la resistenza politica degli africani, era allora dominata da una ristretta elite composta da capi e nobili tribali, sicché molti lavoratori guardarono al sindacato per portare avanti le loro rivendicazioni nella società come sul lavoro.11 Kadalie prometteva di migliorare le condizioni di vita degli africani, e in migliaia risposero alla sua chiamata. Nel 1920 vi fu il primo sciopero organizzato dalla ICU, al quale parteciparono circa 2.000 lavoratori, e furono approvate risoluzioni in cui si attaccavano le pass laws e il sistema del lavoro a contratto. Durante la prima metà degli anni ’20, la forza dell’ICU risedette principalmente nella provincia del Capo, da cui proveniva la grande maggioranza dei delegati dei vari settori. Tuttavia, nel 1927 tutte le province erano egualmente rappresentate, e in quell’anno fu raggiunto anche il considerevole traguardo di 100.000 iscritti. Da quel momento in poi il centro della forza della ICU divenne il Natal, sotto la leadership di A.W.G. Champion, che era stato reclutato da Kadalie nel 1925, quando era presidente della Transvaal Mine Clerks Association. Il Primo ministro Hertzog, che si era mostrato in qualche misura disponibile a dialogare con i leader della ICU, nel 1928 diede le di11
S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit. p. 12.
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missioni. Il sindacato divenne altamente burocratizzato al vertice, mentre alla base non esisteva un’organizzazione disciplinata. Inoltre, molti burocrati avevano poca o nessuna esperienza sindacale, e nel Natal vi erano almeno 58 funzionari retribuiti.12 Infine, il sindacato era ormai diviso al suo interno tra due fazioni contrapposte sulla linea da tenere nei confronti dei lavoratori bianchi e dei loro sindacati. Il contrasto era inasprito dal fatto che la maggioranza del Communist Party of South Africa (CPSA) era ancora dell’idea che fosse la classe operaia bianca a dover guidare la rivoluzione in Sudafrica. Kadalie, nei suoi momenti di maggiore radicalismo, parlava della necessità di lottare sia sul fronte economico che su quello politico e di lavorare con i comunisti bianchi che si dissociavano dalla linea del partito. I comunisti – dai cui ranghi provenivano 5 degli 11 membri del Consiglio Nazionale della ICU – contestavano alla leadership di non aver voluto organizzare seriamente la base e di aver perseguito una politica poco attiva. Invece, l’ala moderata del sindacato – sostenuta da consulenti bianchi e dal governo, che mirava ad annullare la forza della ICU – chiedeva maggiore cautela riguardo ai rapporti con il CPSA e, soprattutto, l’espulsione di tutti i comunisti dall’organizzazione.13 Fu quest’ultima linea a prevalere alla Conferenza del 1926 a Port Elizabeth. Kadalie, d’altra parte, cercava di rafforzare la ICU assicurandosi dei validi appoggi internazionali. Egli andò alla ricerca di contatti soprattutto con il Labour Party britannico. Iniziò anche a partecipare, come delegato non ufficiale del Sudafrica, ai convegni dell’International Labour Organization (ILO). Kadalie tentava di dimostrare che il suo non era un sindacato anti-bianco, ma quando chiese per la ICU l’affiliazione al South African Trade Union Congress (SATUC), la confederazione sindacale dei lavoratori bianchi, questa rispose negativamente, proponendo invece delle consultazioni periodiche. Kadalie era ormai isolato anche all’interno della stessa ICU, soprattutto perché il sindacato era egemonizzato, numericamente e finanziariamente, dal Natal guidato da Champion, che nel 1928 12 13
K. Luckhardt & B. Wall, Organize or Starve, cit. p. 43. I. Davies, African Trade Unions, cit., p. 60.
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si separò dalla confederazione, seguito a breve distanza da altre province in tutto il paese.14 Le cause del fallimento della ICU sono state a lungo oggetto di dibattito, e varie spiegazioni sono state proposte circa la sua debolezza. A parte l’ovvio fattore dell’inesperienza, le interpretazioni più frequentemente avanzate dagli studiosi chiamano in causa soprattutto elementi organizzativi e problemi di leadership. Tra le cause riconducibili al primo filone sembrano aver avuto un ruolo la mancanza di un adeguato controllo democratico; l’insistenza sul carattere di massa del movimento, quindi un modello di sindacato generale che non teneva conto della differente importanza strategica dei vari settori; e la casualità del reclutamento, gestito senza criteri adeguati. Quanto alla leadership, essa si era rivelata incapace di intraprendere un’azione decisa (l’arma dello sciopero fu effettivamente usata solo in tre occasioni), impegnata com’era a costruirsi appoggi esterni e ad intrattenere buoni rapporti con le organizzazioni bianche; inoltre, l’espulsione dei comunisti aveva privato il sindacato di alcuni dei suoi migliori dirigenti, e il culto della personalità ne consumò le ultime energie con le lotte di potere tra Kadalie e Champion.15 Resta il fatto, comunque, che senza questa esperienza non si sarebbero poste le basi per il successivo sviluppo di un movimento operaio nero sufficientemente organizzato. Ironicamente, notano Luckhardt e Wall, la disintegrazione della ICU in molte organizzazioni locali e regionali creò le condizioni che consentirono l’eliminazione delle principali debolezze della ICU e l’adozione di forme organizzative strategicamente più forti, i sindacati industriali.16 Nel frattempo, il settore manifatturiero nel 1930 superò per la prima volta quello agricolo per quanto riguardava il contributo al reddito nazionale e nel 1942 avrebbe brevemente superato anche il settore minerario. Questa crescita industriale significò un aumento senza precedenti del proletariato urbano, sia bianco che nero. Al po14 15 16
Ibidem. J. Baskin, Striking Back., cit., p. 8; S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit., pp. 14-15. K. Luckhardt & B. Wall, Organize or Starve, cit., p. 46.
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sto della tradizionale distinzione tra lavoratori qualificati e non qualificati, emerse una nuova categoria – quella dei lavoratori semiqualificati, figura-chiave del modello fordista affermatosi in quegli anni – che comprendeva lavoratori sia neri che afrikaner (soprattutto donne). Questa novità, venendo incontro agli interessi dell’industria, consentiva di assumere quote maggiori di manodopera nera il cui costo salariale era nettamente inferiore, e pertanto modificava la posizione dei lavoratori bianchi nella composizione della forza-lavoro. La percentuale di bianchi occupati nell’industria, infatti, sarebbe diminuita progressivamente dal 35,9% del 1933 al 24,4% del 1950.17 Con un tale mutamento di equilibrio, emersero inevitabilmente delle tensioni nei sindacati bianchi. Il SATUC, che era composto esclusivamente da lavoratori bianchi, cominciò a rivedere la sua politica nei confronti degli africani, e nel 1929 raccomandò ai suoi sindacati affiliati di arruolare «tutti gli occupati nei loro rispettivi sindacati, a prescindere dalla razza o dal colore» o di adottare, in alternativa, «una politica di settori paralleli nei sindacati».18 Molti sindacalisti progressisti del SATUC, che nel 1930 cambiò il proprio nome in South African Trades and Labour Council (SATLC), in generale riuscirono a mantenere il sindacato su posizioni progressiste, anche se la confederazione fece poco per favorire l’organizzazione dei lavoratori neri.19 Mentre l’avventura della ICU volgeva al termine, Jimmy La Guma e altri comunisti che erano stati espulsi da Kadalie diedero inizio ad una campagna intensiva per organizzare i lavoratori neri e formarono diversi sindacati di categoria nel Transvaal, il cuore industriale del Sudafrica. Nel 1928 il CPSA, che nel frattempo aveva abbandonato la vecchia impostazione favorevole alla supremazia bianca, creò una South African Federation of Non-European Trade Unions (SAFNETU), ma questa cadde presto vittima della Grande Depressione del 17 18 19
Ibidem, p. 48. Citato in I. Davies, African Trade Unions, cit., p. 61. J. Lewis, Industrialisation and Trade Union Organization in South Africa, 1924-1955: the Rise and Fall of the South African Trades and Labour Council, New York, Cambridge University Press, 1984.
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1929: la crisi causò una massiccia perdita di posti di lavoro, e i pochi disponibili vennero riservati ai «bianchi poveri», mentre le azioni di polizia contro i lavoratori neri rendevano impossibile la formazione di sindacati neri stabili. Un’altra organizzazione, l’African Federation of Trade Unions (AFTU), emerse nel Rand durante gli anni della Depressione, organizzando campagne contro la disoccupazione e le pass laws, ma la repressione statale e una purga nel CPSA la ridussero a due soli sindacati già agli inizi del 1932, e a ciò si aggiunsero le immancabili dispute interne riguardo alla scelta di registrare i sindacati dei lavoratori bianchi, coloured e indiani e di formare sindacati non registrati per i neri.20 Su un punto però vi era accordo: solo con dei sindacati neri forti sarebbe stato possibile costringere «l’aristocrazia operaia bianca» a riconoscere l’esistenza di interessi comuni a tutti i lavoratori.21 Contemporaneamente agli sforzi del CPSA, fecero la loro comparsa altri due gruppi. Il primo ruotava attorno alla figura di Gana Makabeni, un ex-membro del CPSA e della ICU, che guidava la African Clothing Workers Union (ACWU) e un nucleo di altri sindacati che nel 1940 avrebbero formato un Coordinating Committee of African Trade Unions. Il secondo, più importante, fu il risultato degli sforzi di Max Gordon, un trotzkista e dunque avversario del CPSA, che ricostruì dei sindacati scomparsi, ne creò di nuovi e nel 1939 formò con 20.000 lavoratori neri il Joint Committee of African Trade Unions. Nonostante il suo radicalismo, Gordon era un sindacalista cauto e pragmatico. I suoi sindacati non avanzarono rivendicazioni politiche, si servirono del supporto finanziario di istituti come il South African Institute of Race Relations (SAIRR) e riuscirono anche ad ottenere aumenti salariali e migliori condizioni nelle fabbriche parte20
21
L’Industrial Conciliation Act del 1924 consentiva solo agli africani muniti di lasciapassare di essere iscritti ai sindacati registrati. Questo comportava automaticamente l’esclusione delle donne, dal momento che le pass laws sarebbero state estese alle donne solo negli anni ‘50. S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit., p. 34. K. Luckhardt & B. Wall, Organize or Starve, cit. pp. 50-51.
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cipando ad una piattaforma governativa che, ironicamente, era stata creata per servire gli interessi dei bianchi. Si trattava del Wage Board, un braccio del Dipartimento del Lavoro che fissava i minimi salariali e regolava altri aspetti delle relazioni industriali. Il Wage Board era l’unico canale ufficiale che concedeva ai sindacati africani qualche possibilità di negoziare i salari dei loro iscritti, e il suo allora presidente, Frank MacGregor, li incoraggiava a prendervi parte, sperando così di poterne assorbire il potenziale politico e di sottrarli all’influenza dei comunisti. I sindacati sfruttarono quest’opportunità non solo per ottenere aumenti salariali, ma anche per crescere, basando le loro strategie di reclutamento sulle conquiste fatte nel Wage Board. Le conquiste del Joint Committee negli anni ’30 furono rese possibili dalla combinazione tra nuove strategie ed un clima più favorevole di quello incontrato dalla ICU. L’industria, superata la Depressione, era in forte espansione e i lavoratori neri andarono ad ingrossare le fila del proletariato urbano. Il basso tasso di disoccupazione nella seconda metà del decennio impediva ai datori di lavoro di usare i disoccupati per sostituire i lavoratori che scioperavano. In aggiunta a ciò, Gordon scelse di organizzare solo quei lavoratori che avevano qualche possibilità di ottenere dei risultati, scelta che favorì la crescita in termini di forza. Malgrado tutto, il Joint Committee si dimostrò fragile quanto gli altri movimenti sindacali africani. Nel 1940 il governo fece arrestare Gordon, che fu sostituito da David Gosani nel ruolo di Segretario Generale dal momento che gli iscritti preferirono non avere più bianchi alla guida del sindacato. Divenne presto evidente che era stata solo la leadership di Gordon a rendere forte il sindacato, e gli africani che lo rimpiazzarono mancavano dell’esperienza necessaria per mantenerlo tale. Occorre però sottolineare che a ciò aveva contribuito lo stesso Gordon negando a lungo ai neri l’accesso a ruoli di responsabilità, così che essi non potevano acquisire esperienza.22 D’altra parte, ciò era anche reso inevitabile dalla scelta di partecipare al Wage Board, che richiedeva la presenza di negoziatori esperti 22
S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit., p. 20.
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per poter avere un’influenza, in ogni caso assai limitata, sulle questioni salariali. Il massimo che i lavoratori di colore potevano ottenere in quella sede era qualche temporaneo aggiustamento dei salari, reso possibile dalla congiuntura economica. Avendo scelto di non intraprendere una strategia di militanza, i sindacati di Gordon credevano di poter usare la piattaforma governativa, e invece – poiché il Wage Board era pur sempre uno strumento di controllo creato dal governo – ne divennero prigionieri. Un discorso a parte merita un’altra esperienza che ebbe luogo nello stesso periodo nella provincia del Natal. Questa si caratterizzava per la presenza di una numerosa comunità indiana, di cui almeno l’80% era impiegato nell’industria dello zucchero e nelle manifatture. Il movimento sindacale indiano aveva iniziato a muovere i primi passi nel 1917-18, organizzando sindacati in svariati settori. Questi sindacati a base etnica indiana, combinati con il retaggio anticomunista della ICU di Champion, negli anni ’20 diedero al movimento sindacale del Natal un’impronta conservatrice e razziale. Ma negli anni ’30 la campagna contro le pass laws condotta dal CPSA fece di Durban il centro dell’attività politica progressista, e conseguentemente della repressione: durante una manifestazione, cui parteciparono 3.000 persone, la polizia bloccò una marcia di protesta per le vie della città e ferì a morte il leader Johannes Nkosi, dopodichè il governo bandì dalla provincia i membri del CPSA, compreso il sindacalista Makabeni, per un periodo di due anni.23 Durante lo sviluppo del movimento sindacale indiano nel Natal, due persone in particolare – George Ponnen e H.A. Naidoo – giocarono un ruolo di primo piano nella promozione del sindacalismo non razziale e della coscienza di classe tra i lavoratori indiani. Essi furono i primi sudafricani di origine indiana ad entrare nel CPSA. Ponnen e Naidoo resistettero alla tentazione di formare un sindacato separato per i lavoratori neri, al contrario, li mobilitarono per prendere il controllo del loro sindacato, riuscendo ad avere la meglio sulla leadership bianca nonostante il tentativo di quest’ultima di isolarli. 23
K. Luckhardt & B. Wall, Organize or Starve, cit., p. 54.
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Tra il 1936 e il 1945, furono organizzati nel Natal almeno 27 sindacati di lavoratori neri e indiani. Queste campagne di sindacalizzazione radicalizzarono gli indiani non solo come lavoratori, ma anche come cittadini oppressi, comportando il coinvolgimento attivo della comunità indiana nel movimento di liberazione. Possiamo quindi individuare già in questa esperienza prime forme embrionali di social movement unionism. Lo dimostrano anche le campagne di solidarietà che furono condotte sul fronte internazionale, combattendo contro ogni forma di oppressione ai danni degli africani: così nel 1935, quando l’Italia fascista invase l’Etiopia, i portuali di Port Elizabeth, Durban e Città del Capo si rifiutarono di servire le navi italiane, dando prova della consapevolezza di questi lavoratori che gli obiettivi della loro lotta non si limitavano alla dimensione economica.24 Fu tuttavia con lo scoppio della seconda guerra mondiale che si aprirono per il movimento operaio le maggiori opportunità di crescita. La partecipazione del Sudafrica al conflitto al fianco della Gran Bretagna ebbe due effetti importanti: da un lato, l’economia di guerra diede un forte impulso all’industria nazionale, facendo sì che la forza-lavoro industriale crescesse di numero; dall’altro, poiché non era consentito il reclutamento di soldati neri, migliaia di lavoratori bianchi furono spediti nei campi di battaglia europei e nordafricani, e per sostituirli moltissimi neri si ritrovarono impiegati in lavori qualificati. La domanda di manodopera era tale che le pass laws dovettero essere sospese, e molte barriere all’organizzazione sindacale dei neri furono rimosse. In questa situazione straordinaria, la forza dei lavoratori e dei sindacati ne risultò naturalmente accresciuta. Nel 1941, su iniziativa dell’African National Congress (ANC), fu costituito un sindacato di minatori, l’African Mineworkers Union (AMWU), e nello stesso anno membri dell’ANC e del CPSA formarono il Council of Non-European Trade Unions (CNETU), che sarebbe arrivato a contare circa 158.000 iscritti, ossia il 40% della forza-lavoro nera impiegata nel commercio e nell’industria. Temendo che gli scioperi potessero danneggiare lo sforzo bellico, il governo tentò di evitarli promulgando una legislazione speciale 24
Ibidem, p. 57.
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(War Measure Acts) con cui, accanto a misure anti-sciopero molto restrittive, introdusse un sistema di arbitrato per la fissazione dei salari. Questa politica fece aumentare i salari di oltre il 50% tra il 1941 e il 1946, e il CNETU poté organizzarsi, crescere ed ottenere dei diritti sindacali permanenti. Paradossalmente, i leader comunisti del sindacato non seppero sfruttare questa occasione, in quanto dopo l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica iniziarono a mostrarsi meno propensi ad usare l’arma dello sciopero, non volendo compromettere lo sforzo bellico che ora appoggiavano.25 Alla fine della guerra le misure anti-sciopero non furono cancellate ma addirittura rafforzate, il che provocò una grande mobilitazione dell’AMWU (1946), cui parteciparono quasi 100.000 minatori africani, repressa violentemente. Questo sciopero creò tuttavia le condizioni per una nuova alleanza progressista, che avrebbe unito le forze dei sindacati neri, dell’ANC e del CPSA, proprio mentre stava per insediarsi il regime del National Party.
2.3. Il SACTU tra impegno politico e repressione statale Nel 1950 il governo promulgò il Suppression of Communism Act, che ufficialmente aveva il solo scopo di mettere fuorilegge il CPSA ma il cui contenuto era tale da colpire duramente il movimento sindacale. La definizione di «comunismo» che veniva adottata in questa legge era sufficientemente ampia da comprendere qualunque attività mettesse in discussione, in qualche modo, l’ordine costituito.26 Molti sindacalisti furono rimossi forzosamente dalle loro posizioni, e divenne possibile mettere fuorilegge i sindacati africani semplicemente attribuendo loro la reputazione di «comunisti».27 Contemporaneamente, la legislazione razziale si intensificava e si estendeva ai 25 26 27
S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit., p. 24; J. Baskin, Striking Back, cit., p. 11. K. Luckhardt & B. Wall, Organize or Starve, cit., pp. 73-74. I. Davies, African Trade Unions, cit., p. 66.
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più svariati aspetti della vita sociale. Sempre nel 1950, l’esecutivo nazionale del SATLC decise di non ammettere sindacati africani; poco dopo la confederazione sparì dalla scena e sulle sue ceneri sorse il Trade Union Council of South Africa (TUCSA), che avrebbe oscillato negli anni tra il totale rifiuto dei sindacati africani e il tentativo di controllarli. I lavoratori bianchi più vicini all’ultra-destra nazionalista afrikaner, invece, andarono a costituire la South African Confederation of Labour (SACL).28 Tutti i canali ufficiali di contrattazione furono definitivamente chiusi ai sindacati africani. Il Native Labour (Settlement of Disputes) Act del 1953 fu introdotto con lo scopo dichiarato di escluderli dai meccanismi di determinazione dei salari, imponendo dei funzionari governativi, i Bantu Labour Officers, come unici rappresentanti dei lavoratori africani di fronte ai datori di lavoro e al Wage Board; furono dichiarati illegali gli scioperi e le varie forme di picchettaggio dei lavoratori africani, come pure gli scioperi di solidarietà, con pene fino a 3 anni di detenzione. Nel 1956 fu invece modificato l’Industrial Conciliation Act per rendere illegale la registrazione dei sindacati «misti» (cioè non-razziali) e per vietare agli africani di aderire ai sindacati registrati; tra le modifiche figurava anche la cosiddetta «Clausola 77» che autorizzava il Ministro del Lavoro a riservare qualsiasi tipo di lavoro ad un determinato gruppo razziale. Inoltre, i sindacati registrati del TUCSA ripresero ad utilizzare una vecchia strategia per dividere i lavoratori neri, basata sulla creazione di «sindacati paralleli», e nel 1959 sponsorizzarono la formazione della Federation of Free Trade Unions of South Africa (FOFATUSA), che propugnava un tipo di sindacalismo «non politico»: essa poteva appoggiarsi ai sindacati registrati per portare delle richieste nelle sedi ufficiali ma, in cambio, era sottomessa al loro controllo.29 Fu in questo contesto che alcuni sindacati registrati, che non condividevano la scelta di escludere gli africani, nel 1955 si separarono dal TUCSA e, unitamente a ciò che restava del CNETU, formarono una nuova confederazione, il South African Congress of Trade Unions 28 29
J. Baskin, Striking Back, cit., pp. 12-13. S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit., pp. 27-28.
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(SACTU). Questa fu la prima alleanza formale tra sindacati indipendenti rappresentativi dei diversi gruppi razziali sudafricani, in altre parole il primo vero sindacato multirazziale (o meglio, non-razziale), al quale aderirono anche alcuni bianchi (circa l’1% degli iscritti). Cosa ancora più importante, il SACTU scelse da subito di giocare un ruolo politico di primo piano in seno al movimento di liberazione. La scelta del SACTU di intraprendere un percorso di impegno politico era dettata dalla consapevolezza di non avere alternative se si volevano migliorare realmente le condizioni dei lavoratori. Trascurare l’attività politica avrebbe significato accettare implicitamente un regime che non consentiva di perseguire questo obiettivo. Nel suo discorso alla conferenza inaugurale, il presidente Pieter Beyleveld affermò esplicitamente che i sindacati «trascurerebbero gli interessi dei propri iscritti se non sapessero lottare per loro su tutte le materie che li riguardano. I sindacati devono essere attivi nella sfera politica come in quella economica, perché esse sono legate insieme e non possono essere isolate l’una dall’altra».30 Lo stesso principio fu poi ribadito in un documento politico adottato alla prima conferenza annuale del SACTU, che si diceva «consapevole del fatto che l’organizzazione dei lavoratori per salari più alti, migliori condizioni di vita e di lavoro, è inestricabilmente legata ad una lotta determinata per i diritti politici e la liberazione da tutte le leggi e pratiche oppressive».31 L’attività politica era quindi una scelta obbligata. A pochi mesi dalla sua nascita il SACTU entrò nella Congress Alliance, l’unione delle forze anti-apartheid guidata dall’ANC, il quale nel frattempo era divenuto il principale movimento di opposizione al regime. Oltre al SACTU, la Congress Alliance comprendeva 4 organizzazioni, ciascuna in rappresentanza di un gruppo razziale: l’African National Congress (ANC), il South African Indian Congress (SAIC), il Coloured People’s Congress (CPC) e il South African Congress of Democrats (SACOD), formato dai bianchi che si opponevano all’apartheid. Con-
30 31
Discorso del Presidente alla Conferenza Inaugurale, SACTU, 1955. Documento politico, 1a Conferenza Annuale, SACTU, 1956.
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seguente fu l’adozione della Freedom Charter, una dichiarazione di principi per la costruzione di un Sudafrica democratico. Il SACTU promosse numerose campagne di massa, la più conosciuta delle quali fu quella denominata «£1-a-day» (una sterlina al giorno). Richiedendo la fissazione di un salario minimo di 2 rand (l’equivalente di una sterlina) al giorno per tutti i lavoratori, la campagna toccava un punto nevralgico e denunciava direttamente la politica di bassi salari come causa dell’indigenza sofferta dalla maggioranza della popolazione. A fornire lo spunto per la campagna fu una spontanea manifestazione di massa esplosa nel Transvaal contro l’aumento delle tariffe degli autobus: tra gennaio e marzo 1957, circa 70.000 africani boicottarono i trasporti pubblici, rifiutandosi di salire sugli autobus per recarsi al lavoro. La protesta, cui il governo rispose con un’ondata di arresti, portò l’attenzione sull’inadeguatezza dei salari africani (in media 2 sterline e 15 scellini a settimana) in relazione al costo della vita: questo, a fronte di una crescita dei salari del 25% tra il 1948 e il 1957, era cresciuto del 44% nello stesso periodo.32 Il SACTU, intuendo che i lavoratori erano pronti alla mobilitazione, colse il momento per lanciare la su campagna e convocò un’astensione dal lavoro, supportata dall’ANC, cui aderì il 70-80% dei lavoratori. L’azione ottenne un risultato positivo, perché i datori di lavoro e il governo concessero per la prima volta di aumentare i salari reali. L’anno seguente la campagna fu intensificata con un’astensione di 3 giorni il cui ritmo fu scandito da slogan come «Forward to £1-a-day victory» e «The Nats must go». L’ANC diede nuovamente il suo supporto, ma questa volta i risultati non furono quelli sperati. Emersero anche delle tensioni con l’ANC quando questo decise di tirarsi indietro nel corso dell’azione, anche se questo non pregiudicò l’alleanza perché molti membri del SACTU erano anche membri dell’ANC, e d’altronde l’unità era resa necessaria dall’offensiva del governo contro entrambi i movimenti.33 La collaborazione tra il SACTU e l’ANC fu ribadita in maniera molto enfatica nel corso della conferenza del SACTU del 1959, quando 32 33
K. Luckhardt & B. Wall, Organize or Starve, cit., pp. 156-7. J. Baskin, Striking Back, cit., p. 14.
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Albert Lutuli, presidente dell’ANC, nel suo messaggio ai delegati dichiarò perentoriamente che «nessun lavoratore è un buon membro del Congresso se non è anche un sindacalista. Nessun sindacalista è un buon sindacalista se non è anche un membro del Congresso».34 Era questo un modo di affermare un’irrinunciabile complementarietà tra i due movimenti, che dovevano continuare ad organizzare le masse africane in modo da poter direttamente sfidare il regime. Il SACTU si sarebbe preoccupato di organizzare nuovi sindacati nell’industria mineraria e metallurgica, nei trasporti e nell’agricoltura, mentre l’ANC avrebbe creato una rete capillare di proprie cellule nelle townships. Il 1960 segnò una svolta. Il 21 marzo a Sharpeville, nel Transvaal meridionale, una manifestazione di protesta indetta dall’organizzazione rivale dell’ANC, il Pan-Africanist Congress (PAC), si risolse in un massacro, con la polizia che aprì il fuoco sui manifestanti uccidendo decine di africani. Il 30 marzo il governo dichiarò lo stato d’emergenza (che rimase in vigore per 5 mesi) e assunse poteri straordinari; l’8 aprile fu emanato l’Unlawful Organizations Act, che decretava la messa al bando dell’ANC e del PAC. L’ANC tentò ancora per qualche tempo la strada della resistenza legale, ma la repressione la rendeva ormai impossibile. Insieme al South African Communist Party (SACP), che dal 1953 aveva raccolto l’eredità del defunto CPSA, nel dicembre 1961 l’ANC lanciò l’organizzazione Umkhonto we Sizwe (MK) e intraprese la lotta armata contro il regime. Questa svolta ebbe pesanti conseguenze per il SACTU, perché l’intera leadership del sindacato, seguita da molti iscritti, prese parte attivamente alla lotta armata, e quando il governo riuscì ad infiltrare degli agenti nella rete di MK, il risultato fu l’arresto in massa di membri del sindacato. Colpito duramente dalla repressione, nel 1965 il SACTU era allo sbando e costretto all’esilio (avrebbe continuato la sua attività da una nuova sede a Londra).35 Molto dibattuto è stato il valore dell’esperienza del SACTU, tra chi come Friedman sostiene che il tentativo sia fallito essenzialmente 34 35
Citato in K. Luckhardt & B. Wall, Organize or Starve, cit., p. 357. J. Baskin, Striking Back, cit., p. 15.
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perché il sindacato era dominato politicamente dall’ANC, che lo trascinò nella lotta armata, e chi, come Baskin, afferma invece che questa non fosse una conseguenza inevitabile dell’alleanza.36 Importante, però, ai fini della nostra analisi, è il fatto che il SACTU abbia sperimentato per primo, in maniera consapevole, quella forma di sindacalismo che avrebbe costituito il modello di riferimento per i sindacati indipendenti negli anni ’70 e ’80. Lambert e Webster hanno osservato che l’impegno nell’alleanza facilitò il rapido sviluppo dell’organizzazione sindacale, specialmente in quelle regioni in cui fu perseguito consapevolmente il sindacalismo politico, o social movement unionism, anche se questo non ebbe il tempo di consolidarsi a causa della repressione statale.37
2.4. Gli scioperi di Durban e l’emergere dei «sindacati indipendenti» La seconda metà degli anni ’60 fu caratterizzata, oltre che dalla scomparsa dei sindacati africani, dall’introduzione di alcune delle misure più repressive nella storia del Sudafrica. Le forze di polizia furono dotate di poteri praticamente illimitati, migliaia di oppositori e sindacalisti furono imprigionati e molte furono le condanne a morte. Il TUCSA cedette alle pressioni del governo ed espulse i sindacati africani dai propri ranghi. Le homelands furono riorganizzate e la legislazione sul lavoro fu sottoposta a revisioni che riflettevano uno sforzo sistematico di impedire ai lavoratori migranti di acquisire il 36 37
S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit., pp. 31-32; J. Baskin, Striking Back, cit. p. 16-17. R. Lambert & E. Webster, «The Re-emergence of Political Unionism in Contemporary South Africa?», cit., p. 21; A. Bezuidenhout, «Towards global social movement unionism? Trade union responses to globalization in South Africa», in A.V. Jose (a cura di), Organized labour in the 21st century, Geneva, International Labour Organization (International Institute for Labour Studies), 2002, p. 374.
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diritto di residenza urbana permanente, mentre i salari reali dei neri diminuivano.38 Questi peggioramenti nelle condizioni di vita dei neri furono alla base di un vero e proprio boom economico: nel corso degli anni ’60 si registrò un massiccio flusso di capitali stranieri, una grande espansione dell’industria e una crescente concentrazione del capitale, con l’ingresso sul mercato di grandi compagnie monopolistiche; il PIL crebbe ad un ritmo del 6% annuo e i bianchi videro il loro tenore di vita aumentare sensibilmente.39 Ma con i lavoratori neri completamente esclusi dai frutti di questa crescita impressionante, si crearono le condizioni per una nuova ondata di resistenza operaia ed organizzazione sindacale. In particolare, si osserva in questo periodo l’aumento del numero di lavoratori neri semiqualificati, base organizzativa per il sindacalismo industriale.40 Il primo impulso all’inizio di una nuova stagione di proteste venne questa volta dai campus universitari, in parte sulla scia delle agitazioni studentesche che alla fine degli anni ’60 interessarono tutto il mondo industrializzato, in parte perché nel decennio appena trascorso, con il vuoto creato dalla scomparsa delle organizzazioni che guidavano la resistenza, l’attività studentesca aveva costituito la sola forma organizzata di protesta contro l’apartheid. Le due principali organizzazioni studentesche, la non-razziale National Union of South African Students (NUSAS), e la South African Students Organisation (SASO) formata da studenti neri usciti dalla prima, recepirono la proposta del politologo Richard Turner di interessarsi ai problemi dei lavoratori e crearono delle commissioni per studiare la situazione salariale degli africani. Questa iniziativa diede vita ad un’alleanza tra studenti e lavoratori, e pose le basi per la rinascita dei sindacati africani negli anni ’70. La SASO, in particolare, partecipò nel 1971
38
39 40
P. Bonner, «Strikes and the Independent Trade Unions», in J. Maree (a cura di), The Independent Trade Unions, 1974-1984. Ten years of the South African Labour Bulletin, Johannesburg, Ravan Press, 1987, p. 56. J. Baskin, Striking Back, cit., pp. 16-17. R. Lambert & E. Webster, «The Re-emergence of Political Unionism in Contemporary South Africa?», cit., p. 22.
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alla formazione di un sindacato generale, la Black Allied Workers’ Union (BAWU).41 Agli inizi del 1973 i lavoratori africani tornarono improvvisamente a scioperare in massa, dopo aver dato segni di «irrequietezza» l’anno precedente. Il salario medio degli africani di Durban era di 13 rand a settimana, ben al di sotto della soglia di povertà. Il 9 gennaio gli operai della Coronation Brick and Tile, alla periferia di Durban, si radunarono in un campo di calcio rivendicando una paga settimanale di almeno 30 rand (anche se finirono poi per accontentarsi di un aumento marginale). Nel giro di pochi giorni l’agitazione si estese a tutta la zona industriale di Durban e poi a tutto il Natal, e migliaia di lavoratori, occupati in tutti i settori, entrarono in sciopero per chiedere aumenti salariali; scioperi si ebbero anche a East London, a Johannesburg e nelle aree minerarie. Tra il 1965 e il 1971 gli scioperi avevano coinvolto meno di 23.000 africani; nei primi 3 mesi del 1973 scioperarono in 61.000, e alla fine dell’anno il totale sarebbe stato di circa 100.000.42 Quella di Durban fu la più grande ondata di scioperi registrata in Sudafrica nel dopoguerra ed ebbe un impatto traumatico sui datori di lavoro e sul governo, soprattutto per il fatto di essere completamente inaspettata. A quanto pare, furono alcune caratteristiche dei lavoratori di Durban a facilitare la loro mobilitazione. Essi erano quasi tutti zulu e pertanto condividevano lingua e tradizioni, il che rendeva più facile la comunicazione e la circolazione di informazioni necessarie per organizzarsi a livello informale. Inoltre, la città di Durban era poco distante dal KwaZulu, la homeland degli Zulu nel Natal, e questo aveva a sua volta importanti implicazioni. In primo luogo, le autorità del KwaZulu, specialmente il capo Mangosuthu Buthelezi, poterono intercedere in favore dei lavoratori per negoziare aumenti salariali. In secondo luogo, le maggiori townships intorno a Durban rientravano proprio nel territorio del 41 42
S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit., pp. 41-44. Ibidem, p. 40; E. Webster, «The Rise of Social-movement Unionism: The Two Faces of the Black Trade Union Movement in South Africa», in P. Frankel, N. Pines & M. Swilling (a cura di), State, Resistance and Change in South Africa, London, Croom Helm, 1988, p. 178.
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KwaZulu, e per questa ragione i lavoratori di quest’area erano meno esposti agli effetti delle pass laws: non potevano ottenere la residenza permanente in città, ma non potevano neanche essere costretti a lasciare la zona se perdevano il lavoro. Essi correvano quindi minori rischi nel partecipare ad uno sciopero, e questo dovette essere un forte incentivo all’azione.43 Gli scioperanti rifiutarono peraltro di eleggere dei portavoce per evitare che potessero essere identificati ed arrestati, e l’alto numero di lavoratori coinvolti nello sciopero e l’ampiezza dell’area interessata dalle agitazioni rendevano poco pratico per la polizia procedere ad arresti di massa. La risposta del governo agli scioperi fu piuttosto ambigua. Il Primo ministro John Vorster, che stava tentando di dare al regime un’impostazione più «liberale» (verligte), contraddisse le dichiarazioni del suo Ministro del Lavoro, Marais Viljoen, che si era scagliato contro gli «agitatori», e intervenne per convincere i datori di lavoro a migliorare il trattamento riservato ai lavoratori africani.44 L’aumento del minimo salariale determinato dal Wage Board – il primo aumento proposto da quest’organo dopo diversi anni – fu comunque irrisorio. Più importante fu invece l’introduzione di una nuova legge, il Black Labour Regulation Act del 1973, che concedeva un limitato diritto di sciopero (per la verità molto circoscritto) e istituiva degli organi di consultazione tra lavoratori e datori di lavoro chiamati «comitati di contatto» (liaison committees). Anche se all’apparenza queste misure accrescevano leggermente le possibilità d’azione dei lavoratori africani, esse miravano in realtà ad assorbirne il potenziale e a prevenire la formazione di sindacati forti. Che i lavoratori non fossero soddisfatti di questi «comitati di contatto» – la maggior parte dei quali furono creati su iniziativa dei datori di lavoro – è dimostrato dai molti scioperi che sarebbero scaturiti nelle fabbriche in cui esistevano tali organismi.45 In seguito agli scioperi di Durban si poté assistere ad una proliferazione di nuovi sindacati nei principali centri industriali del paese. 43 44 45
S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit., pp. 47-48. Ibidem, p. 50; J. Baskin, Striking Back, cit., p. 18. E. Webster, «The Rise of Social-movement Unionism», cit., p. 178.
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Nel corso del 1973 furono formate a Durban la Metal and Allied Workers Union (MAWU) e la National Union of Textile Workers (NUTW), mentre nel 1974 sorsero la Chemical Workers Industrial Union (CWIU) e la Transport and General Workers Union (TGWU); queste sigle confluirono poi tutte nel Trade Union Advisoy Coordinating Council (TUACC). A Città del Capo va segnalata la nascita del Western Province Workers Advice Bureau (WPWAB), che in seguito cambiò il proprio nome in Western Province General Workers Union (WPGWU) e fu il precursore della General Workers Union (GWU). Nel Witwatersrand su iniziativa dell’Urban Training Project (UTP) – formato da ex dirigenti del TUCSA – nacquero la Transport and Allied Workers Union (TAWU), la Sweet, Food and Allied Workers Union (SFAWU), la Paper, Wood and Allied Workers Union (PWAWU) e la Building, Construction and Allied Workers Union (BCAWU), le quali nel 1977 diedero vita al Consultative Committee of Black Trade Unions (CCOBTU).46 Questi nuovi sindacati, che furono presto definiti «indipendenti» dal momento che erano visti come separati dai sindacati esistenti dominati dai lavoratori bianchi e dallo stato, seguirono generalmente il modello inglese di organizzazione sul posto di lavoro. Imparando dall’esperienza del SACTU, essi fecero attenzione a non associarsi apertamente al movimento di liberazione e preferirono invece costruire delle strutture di rappresentanza basate sui consigli di fabbrica e sui rappresentanti sindacali, che avrebbero dato al movimento maggiori possibilità di sopravvivere alla repressione. Inizialmente il movimento dovette lottare per sopravvivere – specialmente per via della repressione che fece seguito alla rivolta di Soweto47 – ma alla 46 47
J. Maree, «Emergence of the Independent Trade Union Movement», in J. Maree (a cura di), The Independent Trade Unions, 1974-1984, cit., pp. 2-5. Il 16 giugno 1976 a Soweto, la principale township dell’area di Johannesburg, gli studenti protestarono contro la decisione di sostituire l’inglese con l’afrikaans come lingua di insegnamento nelle scuole. La polizia intervenne compiendo un massacro (centinaia di morti) e provocando così una rivolta generalizzata, alla quale presero parte milioni di lavoratori. I sindacati non ebbero un ruolo in questo episodio, ma furono ugualmente colpiti dai provvedimenti repressivi. J. Baskin, Striking Back, cit., p. 23.
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fine degli anni ’70 le iscrizioni aumentarono vertiginosamente; nell’aprile 1979 vari sindacati formarono la Federation of South African Trade Unions (FOSATU), con una base di partenza di circa 20.000 iscritti che nel giro di pochi anni sarebbe quintuplicata, arrivando a oltre 100.000 unità. I sindacati indipendenti iniziarono a sviluppare una strategia alternativa di contrattazione, ignorando il sistema ufficiale di esclusione e stipulando accordi di riconoscimento con le singole imprese. Questi accordi divennero col tempo una vera e propria consuetudine e diedero vita ad un sistema alternativo di contrattazione collettiva decentralizzata. Nel 1979 erano in vigore 5 accordi di riconoscimento; nel 1983 sarebbero stati 406, di cui 285 (vale a dire il 70%) siglati dalla FOSATU.48 Dovendo rispondere a questa sfida, il governo istituì nel 1977 una Commissione, presieduta dall’accademico Nicolaas Wiehahn, con l’incarico di esaminare tutta la legislazione sul lavoro vigente nel paese e di proporre una riforma del sistema. La Commissione consegnò il suo rapporto dopo due anni di lavoro, raccomandando di consentire, a certe condizioni la registrazione dei sindacati africani e misti. Basandosi sulle raccomandazioni della Commissione Wiehahn, il governo varò nel 1979 l’Industrial Conciliation Amendment Act. I lavoratori africani furono inclusi nella definizione legale di «dipendenti» e furono loro garantiti alcuni limitati diritti. Il nuovo sistema mirava ad incorporare i sindacati emergenti nel sistema dell’Industrial Council, basato sulla contrattazione collettiva centralizzata a livello di settori industriali, e fu istituito un organo tripartito, la National Manpower Commission, con funzioni consultive per il governo in materia di lavoro. Secondo Wiehahn i sindacati africani godevano di maggiore libertà d’azione rispetto ai sindacati registrati, in quanto non erano imbrigliati nel sistema ufficiale di relazioni industriali; pertanto, egli concludeva, sarebbe stato meglio riconoscerli, in modo da poterne tenere sotto controllo il ritmo di sviluppo.49 La risposta dei sindacati fu varia. Alcuni, come la GWU, ri48 49
J. Maree, «Emergence of the Independent Trade Union Movement», cit., p. 6-7. E. Webster, «The Rise of Social-movement Unionism», cit., p. 180.
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fiutarono di registrarsi affermando che ciò avrebbe concesso allo stato un controllo eccessivo e sarebbe stato il primo passo verso la cooptazione. Altri, come la South African and Allied Workers Unions (SAAWU), si opposero a qualsiasi tipo di «collaborazione» con il regime. La FOSATU ritenne invece che la registrazione avrebbe consentito di sfruttare le concessioni fatte dallo stato per creare ulteriori spazi di manovra.50 In particolare, la FOSATU utilizzò il concetto legale di unfair labour practice, introdotto dalla nuova legge, per sfidare con successo i datori di lavoro davanti all’Industrial Court. In seguito, quando si furono meglio organizzati a livello industriale, i sindacati accettarono la contrattazione collettiva a livello settoriale.51
2.5. Crescita e impegno politico negli anni ‘80 Le riforme del 1979 furono in effetti il primo, forse involontario passo verso la liberalizzazione del regime, ed aprirono la strada per una crescita spettacolare dei sindacati indipendenti. Gli iscritti ai sindacati, che nel 1979 erano circa 700.000, superarono il milione nel 1981 e continuarono costantemente ad aumentare negli anni successivi, fino a raddoppiare nel 1985.52 La nuova strategia organizzativa si rivelò vincente e i sindacati divennero presto abbastanza forti da poter sfidare il regime senza rischiare la fine subita dal SACTU negli anni ’60. Già nel 1980, parallelamente ad un boicottaggio delle scuole a Città del Capo, una serie di scioperi colpì tutti i principali centri industriali ed anche alcune zone rurali, e nel corso di questa mobilitazione iniziò ad emergere una nuova cultura politica. Le lotte 50 51 52
Ibidem. A. Bezuidenhout, «Towards global social movement unionism?», cit., pp. 375-6. I. Macun, «Growth, Structure and Power in the South African Union Movement», in G. Adler & E. Webster (a cura di), Trade Unions and Democratization in South Africa, 1985-1997, cit., p. 63.
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più significative furono le due ondate di scioperi che esplosero nell’East Rand nella seconda metà del 1981 e nei primi mesi del 1982, culminate nelle battaglie che si svolsero rispettivamente alla Colgate e alla Scaw Metal intorno alla richiesta dei lavoratori di negoziare a livello di fabbrica.53 Nel 1982 il paese entrò in una fase di recessione economica che provocò la chiusura di molte fabbriche e il conseguente aumento della disoccupazione. La crisi ebbe ripercussioni sul potere contrattuale dei lavoratori, i cui rappresentanti sindacali erano impotenti di fronte ai licenziamenti di massa ed ebbero spesso la peggio nei negoziati con i datori di lavoro. Nel caso della Scaw Metal – una fabbrica-chiave dell’East Rand, filiale della multinazionale AngloAmerican Corporation – per esempio, la MAWU fu costretta ad una «ritirata strategica» dopo che la polizia fu chiamata in causa, e nel 1983 decise di entrare nell’Industrial Council.54 La recessione tuttavia non impedì la crescita costante della militanza sindacale, al contrario, in questo periodo si osservarono livelli di mobilitazione senza precedenti intorno a questioni sia economiche sia politiche. Si registrarono i più alti livelli di adesione agli scioperi nella storia sudafricana, campagne di boicottaggio e altre forme di resistenza divennero elementi costantemente presenti sul terreno politico. L’azione più originale da questo punto di vista fu forse quella organizzata in collaborazione con il movimento sindacale internazionale, rievocata in anni recenti da Naomi Klein: in diverse occasioni durante l’anno, i sindacati di molti paesi proclamavano giornate di solidarietà durante le quali i portuali si rifiutavano di scaricare le navi mercantili provenienti dal Sudafrica, mentre gli addetti alle biglietterie delle linee aeree si rifiutavano di prenotare i voli da e per Johannesburg.55 Questa fase vide anche lo sviluppo di nuovi allineamenti organizzativi, ideologici e politici. All’interno del movi-
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J. Baskin, «The 1981 East Rand Strike Wave», in J. Maree (a cura di), The Independent Trade Unions, 1974-1984, cit., pp. 86-98. E. Webster, «The Rise of Social-movement Unionism», cit., p. 182. N. Klein, No Logo, Milano, Baldini & Castoldi, 2001, p. 408.
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mento sindacale ebbe inizio un dibattito sull’opportunità di un maggiore coinvolgimento nelle lotte comunitarie. Inizialmente i leader sindacali come Joe Foster, segretario generale della FOSATU, si mostrarono diffidenti verso forme troppo esplicite di attivismo politico e soprattutto verso l’affiliazione all’United Democratic Front (UDF), il raggruppamento di organizzazioni antiapartheid fondato nel 1983.56 A spingere i sindacati verso una ridefinizione delle strategie organizzative e politiche fu, nell’agosto 1984, l’invio dell’esercito nelle townships per demolire le case di coloro che, nel corso di un boicottaggio, si erano rifiutati di pagare l’affitto. I lavoratori iniziarono a premere per un coinvolgimento diretto nella lotta politica, e trovarono un buon alleato nel movimento studentesco organizzato nel Congress of South African Students (COSAS). Durante una mobilitazione di studenti, il COSAS chiese l’appoggio delle organizzazioni comunitarie e sindacali, e nel novembre 1984 vi fu una protesta di massa nel Transvaal. Questo episodio segnò la fine del sindacalismo puramente economico e l’inizio di una crescente collaborazione tra il lavoro organizzato, gli studenti e le organizzazioni comunitarie, collaborazione spesso guidata dai sindacati stessi.57 Riemergeva così il «sindacalismo dei movimenti sociali». Nel 1985 i sindacati affiliati alla FOSATU, insieme a molti altri tra cui la National Union of Mineworkers (NUM), diedero vita ad una nuova confederazione, il Congress of South African Trade Unions (COSATU). Con una base di partenza di oltre 460.000 iscritti, il COSATU rappresentava il 33% dei lavoratori iscritti ai sindacati registrati e si impose subito come la più grande confederazione sindacale sudafricana. La nuova organizzazione si mantenne fedele ai principi del sindacalismo indipendente, e diede vita a strutture nelle quali i rappresentanti sindacali avevano un ruolo centrale. Alla sua fondazione, il COSATU adottò i principi della Freedom Charter, ma non 56 57
D. Hindson, «Trade Unions and Politics», in J. Maree (a cura di), The Independent Trade Unions, 1974-1984, cit., p. 213. R. Lambert & E. Webster, «The Re-emergence of Political Unionism in Contemporary South Africa?», cit., pp. 27-30.
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volle affiliarsi ad alcun partito o organizzazione politica, e furono affermati 5 principi fondamentali: 1) sindacalismo non-razziale; 2) controllo operaio; 3) quote d’iscrizione; 4) solidarietà internazionale; 5) un’industria, un sindacato – un paese, una federazione.58 L’approccio del COSATU all’impegno politico è ben illustrato dalle parole pronunciate da Cyril Ramaphosa, segretario della NUM, al congresso inaugurale della federazione: il COSATU doveva avere un ruolo attivo nella politica nazionale alleandosi con le altre organizzazioni progressiste, ma queste alleanze dovevano essere impostate in termini favorevoli alla classe operaia.59 Il COSATU incontrò inizialmente molte difficoltà nel tentativo di mettere in pratica la politica delle alleanze: una forte opposizione interna; un prolungato dibattito tra i principali sindacati di categoria circa il contenuto preciso dei principi generali proposti dalla leadership; il fallimento dell’irrealistico obiettivo di realizzare un sindacato per settore entro 6 mesi; infine, i problemi posti dalla proclamazione nel luglio 1985 dello stato d’emergenza, con cui il regime tentò di resistere alle pressioni politiche internazionali culminate nell’imposizione delle sanzioni. Nel 1986 lo stato d’emergenza era ancora in vigore e il COSATU decise di organizzare una giornata di protesta il 14 luglio. La politica delle alleanze iniziò ad avere un contenuto più concreto dopo il marzo 1987, quando la leadership della NUM invitò Winnie Mandela, moglie del leader dell’ANC Nelson Mandela (che all’epoca era in carcere) e Murphy Morose, segretario dell’UDF, al proprio congresso. In quell’occasione il presidente della NUM dichiarò che era necessario «costruire solide, disciplinate ed efficaci alleanze con le or-
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A. Bezuidenhout, «Towards global social movement unionism?», cit., p. 376. E. Webster, «The Rise of Social-movement Unionism», cit. p. 192.
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ganizzazioni democratiche».60 Da quel momento la collaborazione con il movimento di liberazione in esilio si fece sempre più stretta e il COSATU, sostituendo apertamente le organizzazioni fuorilegge, divenne presto il principale attore dell’opposizione politica al regime, imprimendo al movimento anti-apartheid il proprio stile organizzativo basato su partecipazione e democrazia.61 A partire dalla metà degli anni ’80, i nuovi sindacati indipendenti decisero che i tempi erano maturi per inserirsi nel sistema degli Industrial Councils e trattare con i datori di lavoro a livello settoriale. In molti settori (automobilistico, siderurgico, tessile, etc.) gli Industrial Councils divennero centrali nelle strategie negoziali dei sindacati, anche se queste in generale continuarono ad essere basate principalmente sui consigli di fabbrica e sugli accordi di riconoscimento. Si era così sviluppato un sistema di contrattazione collettiva su due livelli – quello settoriale e quello dei singoli stabilimenti. Occorre notare che gli Industrial Councils furono istituiti nelle varie industrie solo quando il movimento sindacale ritenne di essere sufficientemente forte e rappresentativo: per usare le parole di Friedman, i sindacati iniziavano ad «usare il sistema».62 Verso la fine del decennio, con la crescita progressiva della forza dei sindacati e i numerosi scioperi generali, guidati principalmente dal COSATU, le opportunità che erano state create con le riforme del 1979 si rivelarono «scomode» per il regime, che presto iniziò a rivedere la propria politica. Nel 1988 il governo tentò di chiudere nuovamente lo spazio legale che esso stesso aveva aperto, con l’adozione del Labour Relations Act. La nuova legge modificava la definizione di unfair labour practice e consentiva ai datori di lavoro di fare causa ai sindacati per i danni causati da scioperi illegali. Ne ri60 61
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Citato in R. Lambert & E. Webster, «The Re-emergence of Political Unionism in Contemporary South Africa?», cit., p. 34. F. Barchiesi, «Beyond the State and Civil Society. Labor Movements and Economic Adjustment in African Transitions – South Africa and Nigeria Compared», in G.C. Bond & N.C. Gibson (a cura di), Contested Terrains and Constructed Categories. Contemporary Africa in Focus, Boulder, Westview Press, 2002, p. 161. S. Friedman, Building Tomorrow Today, cit., p. 314.
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sultò una protesta generalizzata dei sindacati, e gli scioperi che seguirono costrinsero i datori di lavoro a riconsiderare la loro posizione. I successivi negoziati tra il COSATU, il National Council of Trade Unions (NACTU) e il South African Consultative Committee on Labour Affairs (SACCOLA), un’organizzazione dei datori di lavoro, si risolsero con un accordo che condannava le modifiche apportate dal Labour Relations Act. Il governo dovette tornare sui propri passi ed accettare di coinvolgere i sindacati dei processi politici per poter cambiare la legislazione sul lavoro. Il risultato fu l’ingresso dei sindacati nella National Manpower Commission (NMC), l’organo istituito durante le riforme del 1979, all’interno del quale poteva avere luogo la concertazione.63 Quest’atto sancì il riconoscimento del movimento sindacale come forza sociale della quale non era più possibile non tenere conto.
2.6. La transizione Alla fine degli anni ’80 il regime dell’apartheid era ormai entrato in una crisi profonda, e divenne chiaro che stava per avere inizio una fase di transizione. Nel 1989, Friedrik W. De Klerk succedette al «falco» Pieter W. Botha nella carica di Presidente del Sudafrica e diede inizio ad una serie di riforme politiche che nel giro di pochi anni avrebbero condotto il paese alla democrazia. Il primo atto del nuovo Presidente in questa direzione fu la legalizzazione, nel febbraio 1990, delle principali organizzazioni del movimento antiapartheid e la liberazione dei prigionieri politici, tra cui Mandela. La rimozione del bando consentì l’avvio di negoziati tra il governo, l’ANC e molti altri partiti politici per una rapida liberalizzazione del regime. Il COSATU fu coinvolto molto da vicino in questi negoziati, e 63
D. De Villiers & M Anstey, «Trade Unions in Transitions to Democracy in South Africa, Spain and Brazil», in G. Adler & E. Webster (a cura di), Trade Unions and Democratization in South Africa, 1985-1997, cit., pp. 32-33.
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stipulò un’alleanza formale con l’ANC e il SACP; questa alleanza, come ampiamente documentato dagli studi compiuti al riguardo, ha svolto una funzione decisiva nel processo di democratizzazione, soprattutto rafforzando la posizione dei partiti d’opposizione nei negoziati.64 Nel frattempo si formò anche una nuova confederazione sindacale, allorché vari sindacati, composti per lo più da lavoratori del settore pubblico, che avevano fatto parte dell’ormai dissolto TUCSA, decisero di organizzare la Federation of South African Labour (FEDSAL); questa si sarebbe poi unita ad altri sindacati per formare, nel 1997, la Federation of Unions of South Africa (FEDUSA), che è attualmente la seconda confederazione sudafricana per numero di iscritti. Il processo di transizione ha avuto caratteristiche peculiari in termini di policy making. Il paese era ancora tecnicamente governato dal NP ma, con il progressivo rafforzamento del ruolo dell’ANC, la mancanza di legittimazione del governo a prendere decisioni divenne pressoché completa. Per esempio, nel 1991 il governo modificò il sistema di tassazione sulle vendite, trasformando l’imposta generale sulle vendite in un’imposta sul valore aggiunto: questa colpiva il prezzo dei generi di prima necessità, con implicazioni economiche non di poco conto per i poveri. Il COSATU lanciò una campagna di protesta contro questa decisione unilaterale e il governo, dopo un periodo di resistenza, si decise ad istituire un National Economic Forum (NEF), creando così un meccanismo di consultazione sulle principali decisioni di politica economica. Questo forum, insieme alla NMC, rappresentò uno spostamento verso un sistema di policy making di tipo corporativo. Nel corso degli anni ’90 furono istituiti sva-
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Un’analisi abbastanza dettagliata delle dinamiche di questa alleanza strategica è quella proposta in P.G. Eidelberg, «The Tripartite Alliance on the Eve of a New Millennium: COSATU, the ANC and the SACP», in G. Adler & E. Webster (a cura di), Trade Unions and Democratization in South Africa, 1985-1997, cit., pp. 129-157.
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riati altri forum, che rappresentavano altrettanti spazi di partecipazione, non solo per i sindacati ma per la società civile in generale.65 Tuttavia il movimento sindacale, pur vedendo crescere il proprio ruolo nella formulazione delle politiche pubbliche, era consapevole dei rischi che si potevano correre affidandosi unicamente a questi forum, che avevano natura temporanea e, dato che contemporaneamente il paese stava partecipando ai negoziati internazionali per l’ingresso nel General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), si presentavano piuttosto fragili e non sempre in grado di produrre risultati apprezzabili.66 I sindacati dovevano anche affrontare il problema di come ottenere il riconoscimento legale delle conquiste fatte nella forma di diritti acquisiti. Nel 1993 il COSATU adottò, nel corso di un congresso straordinario, un documento sui diritti dei lavoratori che, allo scopo di formalizzare i passi avanti fino ad allora compiuti, richiedeva che il governo sottoscrivesse le convenzioni internazionali (specialmente quelle dell’ILO) sui diritti dei lavoratori e sulla libertà di associazione; che fossero garantiti il diritto di sciopero su tutte le questioni sociali, politiche ed economiche e l’accesso dei lavoratori alle informazioni sia da parte del governo che dai datori di lavoro; che la nuova costituzione garantisse il coinvolgimento attivo della società civile, compresi i sindacati, nella formulazione delle politiche pubbliche; che fosse stabilita un’unica legislazione sul lavoro valida per tutti i lavoratori.67 Mentre i negoziati tra l’ANC e il NP erano in una fase di stallo, il COSATU e soprattutto il sindacato dei metalmeccanici ad esso affiliato, la National Union of Metalworkers of South Africa (NUMSA), iniziò anche ad elaborare una strategia di trasformazione sociale per il dopo-apartheid. Questa strategia prevedeva di assegnare un ruolo 65 66
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A. Bezuidenhout, «Towards global social movement unionism?», cit., p. 378. S. Friedman & M. Shaw, «Power in Partnership? Trade Unions, Forums and the Transition», in G. Adler & E. Webster (a cura di), Trade Unions and Democratization in South Africa, 1985-1997, cit., pp. 193-5. A. Bezuidenhout, «Towards global social movement unionism?», cit., p. 379.
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centrale allo stato nella ricostruzione della società sudafricana. Questo «Programma per la Ricostruzione» fu usato dai negoziatori dell’ANC per convincere la «sinistra» ad accettare alcune concessioni fatte dal governo, nel tentativo di sbloccare la situazione dei negoziati. La strategia fu inserita nel programma elettorale dell’ANC e divenne nota come il Reconstruction and Development Programme (RDP).68 Il COSATU riuscì in questo modo a dare un contributo sostanziale nella formulazione dell’agenda politica della ricostruzione; d’altra parte, l’ANC seppe sfruttare il sindacato ai fini della propria campagna elettorale. Nel 1994 si svolsero le prime elezioni libere nel paese e l’ANC risultò vincitore, emergendo come partito di maggioranza nel nuovo governo di unità nazionale. Forte dell’alleanza con l’ANC (e con il SACP), il COSATU riuscì ad esercitare una notevole influenza sulle riforme promosse nei primi anni successivi alle elezioni, raggiungendo buona parte degli obiettivi fissati nella campagna per i diritti dei lavoratori. In particolare, la NMC e il NEF furono rimpiazzati da un nuovo organo, il National Economic, Development and Labour Council (NEDLAC); il diritto di sciopero e quello di formare sindacati furono inseriti nella nuova costituzione; furono ratificate le convenzioni internazionali sul lavoro; infine, fu raggiunto un accordo in seno al NEDLAC per la riforma delle relazioni industriali mediante la promulgazione di un nuovo Labour Relations Act. Non furono soddisfatte le richieste per un nuovo sistema centralizzato di contrattazione collettiva, ma in compenso furono previsti nuovi meccanismi per la risoluzione delle dispute. In definitiva, si può affermare che il movimento sindacale sudafricano ha giocato un ruolo di fondamentale importanza nel superamento dell’apartheid e nella costruzione di un sistema politico democratico. Nell’ultimo capitolo torneremo sugli aspetti più puramente teorici del processo di transizione, per poterli meglio confron68
G.A. Götz, «Shoot Anything That Flies, Claim Anything That Falls: Labour and the Changing Definition of the Reconstruction and Development Programme», in G. Adler & E. Webster (a cura di), Trade Unions and Democratization in South Africa, 1985-1997, cit., pp. 163-8.
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tare con quelli relativi all’altro caso qui preso in esame, quello nigeriano, che verrà discusso nel prossimo capitolo.
Nigeria: divisione amministrativa attuale Fonte: http://www.globalsecurity.com
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Nigeria: principali gruppi etnici Fonte: http://www.uiowa.edu
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3. IL MOVIMENTO SINDACALE E LA SMILITARIZZAZIONE DELLA POLITICA IN NIGERIA
Nell’analisi del caso sudafricano abbiamo preso le mosse da una descrizione della condizione dei lavoratori neri nel sistema sociale, economico e politico dell’apartheid. Per discutere l’esperienza della Nigeria è necessario in primo luogo chiarire le dinamiche che hanno assoggettato questo paese ad un sistema politico altamente instabile dominato dall’elite militare, con il susseguirsi di colpi di stato e la continua frammentazione federale causata da rivalità etniche riconducibili in buona misura al problema della gestione delle risorse naturali di cui la Nigeria è ricca. Il movimento sindacale ha molto subito l’influenza di questi fattori strutturali, dovendo accettare il controllo dei governi militari e perdendo così parte della capacità di intraprendere iniziative di natura politica. Ad aggravare queste difficoltà, si aggiungono i numerosi programmi di aggiustamento strutturale dettati dalle istituzioni economiche internazionali che hanno imposto ulteriori restrizioni alla capacità d’azione del sindacato anche su temi eminentemente sociali.
3.1. La struttura sociale della Nigeria post-coloniale È un fatto noto che gli elementi fondamentali della politica nigeriana sono profondamente legati al passato coloniale del paese. Analogamente a molti altri paesi africani, la Nigeria come entità statuale è stata creata attraverso le pratiche tipiche dell’amministrazione co65
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loniale britannica. Ai fini della nostra discussione, è sufficiente ricordare che le dinamiche sociali, politiche ed economiche della Nigeria post-coloniale sono in larga misura un prodotto dei processi di state-building e di integrazione economica iniziati durante il dominio coloniale, in maniera assai simile a quanto è avvenuto nel resto del continente.1 Un primo importante aspetto cui si può fare riferimento nell’analisi della società nigeriana è la sua pluralità. La Nigeria appartiene infatti a quella categoria di paesi le cui società sono classificate come «divise» o «profondamente divise». Si contano oltre 250 gruppi etnici con proprie lingue e identità, e si rilevano alcune divisioni regionali e serie divisioni religiose, specialmente tra musulmani e cristiani. Alimentate per lungo tempo dall’amministrazione coloniale, queste fratture sono state e continuano ad essere uno dei principali fattori di crisi dello stato nigeriano, dal momento che prima e dopo l’indipendenza raggiunta nel 1960 hanno dovuto essere accomodate con una continua ridefinizione territoriale in senso federale: originariamente diviso in 4 regioni (1963), il territorio del paese è stato successivamente riorganizzato in 12 stati nel 1966, 19 nel 1976, 30 nel 1991, fino agli attuali 36 stati stabiliti nel 1996. Questo processo, che si ricollega alle divergenze e ai conflitti di interessi nello sviluppo economico del paese, non è stato sempre pacifico ed anzi ha avuto drammatici risvolti, come vedremo. La descrizione della complessa realtà etnica della Nigeria può essere semplificata facendo riferimento ai gruppi numericamente più consistenti, che dominano determinate aree geografiche e sono i principali protagonisti dell’arena politica. I due principali gruppi della regione settentrionale sono gli Hausa e i Fulani (a volte indicati anche come un’unica etnia, Hausa-Fulani), anche se un altro impor1
Allo sviluppo del sistema coloniale britannico è dedicato ampio spazio in A.M. Gentili, Il leone e il cacciatore, cit. (il caso nigeriano è riassunto alle pp. 225-30); sull’eredità politica del colonialismo nell’Africa indipendente faccio riferimento principalmente alla monografia di M. Mamdani, Citizen and Subject. Contemporary Africa and the Legacy of Late Colonialism, Princeton, Princeton University Press, 1996.
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tante fattore di identificazione sociale in quest’area è quello religioso, dal momento che l’Islam è il culto dominante in tutto il nord. Nel sud del paese, la zona ad ovest del fiume Niger è la patria degli Yoruba, mentre sulla sponda orientale si trovano gli Ibo (o Igbo, a seconda delle trascrizioni). Tra Ibo e Yoruba è sempre esistita un’accesa rivalità, acutizzata dalla marcata differenza di sviluppo socioeconomico: gli Yoruba hanno beneficiato di un maggiore accesso ad un’istruzione di tipo occidentale, e il fatto che la città di Lagos – centro delle attività politiche e capitale del paese fino al 1976, quando questo status fu attribuito ad Abuja con la creazione del Federal Capital Territory (FCT) – si trovi nello Yorubaland ne ha accelerato lo sviluppo politico; gli Ibo erano il secondo gruppo più sviluppato.2 Una conseguenza particolarmente negativa di tali rivalità etniche è stata e continua ad essere, secondo una prassi consolidata tipica delle realtà africane, la tendenza a fare del potere politico uno strumento per l’accesso alle risorse economiche. Le affiliazioni etniche sono cioè il principale criterio usato nella distribuzione delle risorse pubbliche ed innescano circuiti clientelari e forme di corruzione riconducibili al ben noto fenomeno del «patrimonialismo».3 Influenzata dall’elemento etnico, la struttura politica nigeriana assunse una configurazione peculiare, in primo luogo per quanto riguarda il sistema dei partiti. Nel 1954 era stata data al paese una costituzione federale, con un governatore generale, vicegovernatori nelle tre regioni (Nord, Sud-ovest e Sud-est) ed elezioni a suffragio universale. Fin dall’inizio, ogni formazione partitica attiva nel paese è stata essenzialmente l’espressione di un particolare gruppo etnico, e perciò tutti i principali partiti politici hanno organizzato le rispettive basi su scala regionale. Lo si vide già nelle elezioni del 1957, 2 3
E.E. Osaghae, Crippled Giant. Nigeria Since Independence, London, Hurst & Co., 1998, p. 9. Il concetto di «patrimonialismo» sviluppato da Max Weber è riassunto, con riferimento alle realtà africane, da N. Kasfir, «Relating Class to State in Africa», in N. Kasfir (a cura di), State and Class in Africa, London, Frank Cass, 1984, pp. 1-20. Nello stesso volume, R.A. Joseph, «Class, State and Prebendal Politics in Nigeria» (pp. 21-38), utilizza anche il termine «etnoclientelismo» applicandolo al caso nigeriano.
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quando in ciascuna regione si affermò chiaramente un forte partito a base etnica: nel Nord il Northern People’s Congress (NPC), che rappresentava le elite musulmane Fulani; nel Sud-ovest l’Action Group (AG), formato dalle autorità tradizionali dei ricchi produttori di cacao e dei professionisti; nel Sud-est il National Council of Nigerian Citizens, composto da giovani istruiti e funzionari.4 Fuori da questo schema si collocava un’altra organizzazione, la Northern Elements Progressive Union (NEPU), nella quale confluirono elementi radicali il cui orientamento politico era profondamente critico nei confronti della società del Nord. Esistevano poi diversi partiti minori, tutti legati ad interessi particolari, personali o locali, la cui preoccupazione principale era di contrastare l’egemonia politica del gruppo etnico dominante in ciascuna regione. Tra questi, uno dei più forti era lo United Middle Belt Congress (UMBC), punto di riferimento per i cristiani e i seguaci delle religioni tradizionali nel Nord.5 Nel 1959, in occasione delle elezioni preparatorie per l’indipendenza del 1960, il NPC e il NCNC si allearono contro l’AG, ma si trattava di un’alleanza atipica: essa univa i due partiti più forti contro quello più debole invece che i due più deboli contro il più forte, come vorrebbe la teoria dell’equilibrio di potere.6 Fu creata una quarta regione sottraendo una parte di territorio al Sud-ovest con lo scopo di indebolire ulteriormente l’opposizione, e la nuova regione chiamata Midwest andò sotto il controllo del NCNC. Ma la coalizione tra il NPC e il NCNC era instabile per il semplice fatto di non essere necessaria, e la geografia delle alleanze cambiò rapidamente dopo il censimento del 1962 che attribuiva al Nord la maggioranza assoluta della popolazione (che all’epoca ammontava a circa 55 milioni), e che fu respinto dal Sudest e dal Sud-ovest. Alle elezioni del 1964 si presentarono due nuove coalizioni: la United Progressive Grand Alliance (UPGA) che univa il NCNC e l’AG, e la Nigerian National Alliance (NNA), formata dal NPC insieme al nuovo Nigerian National Democratic Party (NNDP). Le 4 5 6
A.M. Gentili, Il leone e il cacciatore, cit. R. Cohen, Labour and Politics in Nigeria, London, Heinemann, 1974, p. 4. W. Zartman (a cura di), The Political Economy of Nigeria, London, Praeger, 1983, introduzione, p. 2.
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elezioni furono boicottate dall’UPGA e furono quindi vinte d’ufficio dalla NNA. Questa tentò poi di distruggere la base regionale dell’opposizione manipolando le elezioni regionali del Sud-ovest nel 1965, e i brogli fecero degenerare rapidamente la situazione: sciopero generale, ribellione, guerra civile. Nel giro di pochi anni le rivalità etnico-regionali avevano provocato così il collasso di un sistema politico estremamente instabile e, di lì a poco, la fine della cosiddetta Prima repubblica (1960-1966).7 Un altro elemento molto importante nella politica nigeriana è sicuramente la struttura economica. La grande abbondanza di risorse presenti nel paese – petrolio, gas naturale, risorse minerarie e agricole – offriva alla Nigeria, almeno in teoria, notevoli potenzialità di sviluppo. Malgrado queste potenzialità, il paese non si è mai avviato ad un vero sviluppo economico e, al contrario, ha vissuto una lunga stagione di declino che ne ha fatto uno dei paesi più poveri e indebitati del mondo. A questo declino hanno contribuito, in misura variabile, le stesse dinamiche che hanno reso debole il sistema politico: la cattiva gestione dell’economia nazionale, imputabile essa stessa all’instabilità del regime; gli ostacoli posti dalle spinte centrifughe all’impiego razionale delle risorse; l’inclinazione dei funzionari statali all’appropriazione delle risorse, in una sorta di «accumulazione primitiva»; in sostanza, le varie malversazioni dovute all’inefficienza delle istituzioni, alla corruzione e agli sprechi.8 Tutti questi fenomeni, però, sono ampiamente riscontrabili anche in quei paesi che hanno conosciuto, o stanno conoscendo, un certo grado di sviluppo e quindi, benché certamente costituiscano degli ostacoli, non sono sufficienti da soli a spiegare le difficoltà dell’economia nigeriana a decollare. Le cause più profonde di tali difficoltà giacciono piuttosto nella posizione periferica (o semiperiferica) del paese nel sistema economico globale. Un ruolo assolutamente preponderante è occupato nella struttura economica dal settore petrolifero, che con7 8
E.E. Osaghae, Crippled Giant, cit., pp. 41-47. J.O. Ihonvbere & T.M. Shaw, Towards a Political Economy of Nigeria. Petroleum and Politics at the (Semi-) Periphery, Aldershot, Avebury, 1988, p. 50.
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tribuisce alle entrate del governo federale, nella forma di tasse, royalties e guadagni da esportazioni, in proporzioni che superano il 90%. Ciò ha dato alla Nigeria le caratteristiche di uno stato rentier, la cui economia dipende in maniera fondamentale dalle relazioni commerciali con i paesi occidentali ed è estremamente vulnerabile alle oscillazioni dei mercati internazionali.9 Da ciò è derivata l’incapacità di avviare uno sviluppo autonomo, anche in periodi in cui le condizioni sembravano relativamente favorevoli. Anche la struttura di classe ha risentito pesantemente delle dinamiche fin qui descritte. Nella misura in cui il processo politico è dominato dalla dimensione etnica e dal patrimonialismo, e in quanto le classi hanno raggiunto molto tardi un grado di sviluppo tale da poter incidere significativamente sui rapporti di potere, gli interessi di classe sono stati a lungo definiti e promossi tramite canali politici. La principale attività dell’elite politica in Nigeria è stata, in sostanza, un tentativo di sfruttare i vantaggi del potere politico per consolidare la propria posizione economica e sociale. In questo tentativo, la classe politica ha cooptato professionisti ed elementi piccolo-borghesi come commercianti e proprietari terrieri, nonché un nutrito strato di funzionari statali e burocrati di medio livello, il cui interesse al mantenimento dello status quo ne faceva una classe abbastanza conservatrice; le banche erano usate per finanziare i maggiori partiti politici, mentre gli appalti pubblici erano normalmente gestiti in modo tale da favorire i sostenitori politici. La ricchezza ottenuta con l’esercizio delle cariche pubbliche era usata per acquistare terreni, case o piccole industrie, e le imprese pubbliche funzionavano come veicoli di arricchimento per gli amministratori.10 Si calcola che, dal 1960 ad oggi, oltre 110 miliardi di dollari siano stati sottratti all’erario nazionale per andare ad alimentare questi circuiti di corru-
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Ibidem, pp. 58-60; W.D. Graf, The Nigerian State: Political Economy, State Class, and Political System in the Post-Colonial Era, Portsmouth, Heinemann, 1988, p. 219. R. Cohen, Labour and Politics in Nigeria, cit., pp. 29-30.
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zione.11 Questa tendenza ad usare i benefici delle cariche pubbliche per consolidare interessi di classe è riscontrabile, in una certa misura, anche nelle forze armate, del cui ruolo politico ci occupiamo nel prossimo paragrafo. Per quanto riguarda la condizione della classe operaia, essa va messa in relazione allo sviluppo dell’industria petrolifera nella misura in cui questo ha generato il fenomeno dell’urban bias: da un lato, il declino rurale che si è accompagnato al boom petrolifero ha intensificato la pressione migratoria verso i centri urbani ed ha accresciuto la domanda di generi alimentari nelle città, facendo innalzare il costo della vita; dall’altro, lo stato si è mostrato incapace di soddisfare i bisogni crescenti della popolazione urbana, mentre si è preoccupato soprattutto di proteggere gli interessi dell’industria petrolifera.12 Ciò, a sua volta, ha generato un forte malcontento tra i lavoratori, accrescendone la militanza. Il limitato livello di proletarizzazione e la rilevanza dello stato come principale datore di lavoro, nonché l’influenza esercitata dall’ideologia «sviluppista» con le sue pretese di contenimento del lavoro organizzato, hanno però minato il potere contrattuale e la capacità d’azione dei sindacati.13 Questi hanno inoltre vissuto profonde divisioni interne che li hanno ulteriormente indeboliti.
3.2. Tendenze pretoriane: i militari al potere La storia della Nigeria post-coloniale è stata profondamente segnata dall’intervento militare in politica e dalle sue conseguenze. I militari hanno dominato il paese per gran parte della sua esistenza come stato indipendente (solo 10 anni di governo civile dal 1960 al 11
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R.C. Njoku, «Deconstructing Abacha: Demilitarization and Democratic Consolidation in Nigeria after the Abacha Era», in Government and Opposition, Vol. 36 No. 1, 2001, p. 89. J.O. Ihonvbere & T.M. Shaw, Towards a Political Economy of Nigeria, cit., pp. 45-7. F. Barchiesi, «Beyond the State and Civil Society», cit., pp. 151-2.
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1999), e ne hanno plasmato in buona misura le formazioni politiche, economiche e sociali. Per meglio specificare, si tratta di una delle più tipiche manifestazioni di quel fenomeno che tra gli studiosi di politica è chiamato «pretorianesimo»: questo termine designa la tendenza dei militari ad intervenire con lo scopo dichiarato di «salvare» il paese dal collasso, dalla disintegrazione e dalla cattiva gestione economica in cui è precipitato il regime civile.14 I militari avocano a se stessi il ruolo di «salvatori» o «guardiani» della nazione, e sono di fatto indotti a svolgere questo ruolo in situazioni di grave crisi istituzionale e disordine sociale, aggravate anche da divisioni etniche, regionali e locali.15 La legittimazione di interventi militari di questo tipo fa leva anche su un’idea di provvisorietà che vi sta alla base: quando l’intervento dei militari ha uno scopo dichiaratamente «correttivo», essi si propongono di «rientrare nelle caserme» e di restaurare un governo civile una volta cessata l’emergenza, attraverso un programma di transizione. Molto di frequente, tuttavia, i programmi di transizione si rivelano fallimentari e spesso le esperienze di governo militare si trasformano in regimi autoritari caratterizzati da una miscela di personalismo e corruzione. I regimi militari che non hanno un programma di transizione, o falliscono nel portarlo a termine, trovano poi delle giustificazioni pretestuose per il prolungamento dell’esperienza autoritaria: questo, con poche eccezioni, è esattamente il caso di molti regimi nigeriani.16 Il primo della lunga serie di pronunciamenti militari avvenne il 15 gennaio 1966, quando un gruppo di giovani ufficiali – i «cinque maggiori» – guidato dal maggiore Kaduna Nzeogwu tentò un colpo di stato motivato dalla volontà di eliminare tribalismo, nepotismo e 14
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A. Perlmutter, «The Praetorian State and the Praetorian Army: Toward a Taxonomy of Civil-Military Relations in Developing Polities», in Comparative Politics, Vol. 1 No. 4, 1969, pp. 382-404. Sulle caratteristiche del pretorianesimo nigeriano si veda K.N. Kalu, «The Praetorian orthodoxy: Crisis of the Nigerian military state», in Journal of Political and Military Sociology, Vol. 28 No. 2, 2000, pp. 271-292. R. Jackman, «The predictability of coups d’etat: A model with African data», in American Political Science Review, Vol. 81, 1978, pp. 405-423. E.E. Osaghae, Crippled Giant, cit., pp. 54-5.
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regionalismo e di combattere i nemici del progresso. Il golpe non ebbe successo, ma l’uccisione dei leader del governo federale e di quelli regionali del Nord e del Sud-ovest gettò il paese in una profonda crisi. Fu facile per il comandante dell’esercito, il generale Aguiyi Ironsi, «convincere» i membri sopravvissuti del governo federale a cedergli «volontariamente» il potere in via provvisoria per ristabilire l’ordine e la legalità.17 Ironsi sospese la costituzione e si impegnò in un programma di preservazione dell’unità nazionale, sradicamento di regionalismo, tribalismo, corruzione e disonestà nella vita pubblica, ed accelerazione dello sviluppo economico. Nel perseguire questi obiettivi, dichiarò fuorilegge 81 partiti politici e 26 organizzazioni tribali e culturali, ed istituì commissioni d’inchiesta sulle principali compagnie parastatali (elettricità, ferrovie, etc.) e sul consiglio comunale di Lagos. Inizialmente il golpe fu ben accolto nel paese, che sperava nel superamento della crisi iniziata nel 1964; ma ben presto sopraggiunse il risentimento della regione settentrionale, i cui leader interpretarono il golpe come un tentativo di stabilire un’egemonia Ibo nel paese, idea rafforzata da alcune circostanze, per esempio il fatto che nessuno dei politici e ufficiali uccisi fosse di etnia Ibo.18 Il 24 maggio 1966 Ironsi abolì il sistema federale e diede il via alla centralizzazione delle funzioni di governo e dei servizi pubblici. Quest’ultimo atto fu fatale al regime, rovesciato in luglio da un contro-golpe organizzato da ufficiali del Nord: Ironsi fu ucciso e il tenente colonnello Yakubu Gowon assunse le cariche di comandante delle forze armate e di capo dello stato. Gowon intendeva innanzi tutto ristabilire un sistema federale, e a tal fine convocò una «Conferenza Costituzionale Ad Hoc» nella quale le regioni furono rappresentate da delegazioni di politici, accademici, avvocati, burocrati e autorità tradizionali. Ma mentre si svolgevano i lavori della Conferenza emersero gravi contrasti legati alla scoperta di ricchissimi giacimenti petroliferi nell’area del delta del Niger. I conflitti di interesse sulle opportunità di sviluppo offerte da questa scoperta inasprirono le rivalità etnico-regionali, finché nel 17 18
Ibidem, pp. 56-7. Ibidem, p. 58.
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maggio il Sud-est proclamò la propria indipendenza con il nome di Repubblica del Biafra. La secessione scatenò una sanguinosa guerra civile, il cui bilancio finale fu stimato intorno a 3 milioni di morti.19 Dopo la guerra, Gowon tentò una riconciliazione nazionale e lanciò un programma di ricostruzione, servendosi delle nuove risorse finanziarie garantite dal boom petrolifero iniziato nei primi anni ‘70. Tuttavia dopo la guerra riemerse anche la questione del ritorno ad un governo civile e Gowon, malgrado le ripetute promesse fatte in questo senso, continuò a rinviare la transizione che, di fatto, non avvenne mai. Infine, nel luglio 1975, il regime fu rovesciato da un nuovo golpe, questa volta incruento, che portò al potere i generali Murtala Mohammed e Olusegun Obasanjo. Il primo assunse la carica di capo dello stato, il secondo divenne il suo vicario. Contrariamente a quello di Gowon, il regime di Mohammed e Obasanjo era fermamente intenzionato a ripristinare il governo civile, e avviò un percorso di disimpegno progressivo delle forze armate. Già ai primi di ottobre Mohammed annunciò un programma di transizione articolato in 5 fasi: 1. accomodamento della questione federale, con la creazione dei nuovi stati entro aprile 1976; 2. riorganizzazione dei governi locali, elezioni locali senza partiti e formazione di un’Assemblea costituente, con membri in parte eletti e in parte nominati, entro ottobre 1978; 3. rimozione del bando sull’attività dei partiti politici e abrogazione delle misure d’emergenza; 4. elezioni legislative statali e federali; 5. trasferimento dei poteri ad un governo civile il 1° ottobre 1979.20 Il problema degli stati rivestiva naturalmente un’importanza cruciale, poiché dalla sua risoluzione dipendeva essenzialmente la neu19 20
Ibidem, pp. 63-69. B. Onuoha, «Reflections on the transition programmes», in B. Onuoha & M.M. Fadakinte (a cura di), Transition Politics in Nigeria, 1970-1999, Ikeja, Malthouse Press, 2002, pp. 23-4.
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tralizzazione delle rivalità etniche e conseguentemente la stabilità del sistema politico. Altra questione estremamente delicata era posta dalla modifica del sistema elettorale e dal riassetto degli equilibri istituzionali che, fortemente sbilanciati nella Prima repubblica, avevano contribuito a radicalizzare la competizione politica e ad incoraggiare il ricorso alla violenza. In questo senso Mohammed riteneva opportuno che si formassero partiti politici veramente nazionali, il cui numero avrebbe dovuto essere limitato per evitare gli effetti deleteri della proliferazione.21 Mohammed portò avanti il suo programma con grande vigore, e quando fu assassinato nel febbraio 1976 in un tentativo di golpe che tuttavia fallì, Obasanjo prese il suo posto e proseguì con altrettanta determinazione, ribadendo più volte il suo impegno a condurre a termine la transizione. Questa fu completata nei tempi previsti: furono creati 19 stati e il 1° ottobre 1979, come da programma, avvenne il passaggio dei poteri e la proclamazione della Seconda repubblica (1979-1983). Questa seconda effimera esperienza democratica si rivelò ancora più fragile rispetto alla Prima repubblica, malgrado i numerosi accorgimenti istituzionali escogitati da Mohammed e Obasanjo e dai costituenti per neutralizzare le divisioni. La facilità con cui queste poterono esprimersi in forma violenta dimostrarono che una costituzione perfetta non era sufficiente di per sé a garantire la stabilità. La limitazione legale del numero di partiti ammessi alle elezioni si rivelò una misura inefficace rispetto allo scopo per cui era stata concepita, cioè impedire che il sistema dei partiti fosse una semplice espressione delle affiliazioni etniche, regionali e religiose. Di fatto, queste tornarono ad essere l’elemento dominante non appena riemersero i conflitti d’interesse. Il partito di maggioranza relativa, in termini di voti e di seggi all’Assemblea nazionale, fu durante questo periodo il National Party of Nigeria (NPN): dominato dall’elite Hausa-Fulani, esso proteggeva gli interessi politici degli stati settentrionali raccogliendo quindi l’eredità del NPC (nonostante fosse organizzato su tut21
T. Falola & J. Ihonvbere, The Rise and Fall of Nigeria’s Second Republic: 1979-84, London, Zed Books, 1985, p. 25.
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to il territorio nazionale) e si dichiarava favorevole all’introduzione della Sharia, la legge islamica.22 Alhaji S. Shagari, leader del NPN, fu eletto presidente. Ben presto emersero gravi tensioni sulle nomine politiche, sull’organizzazione del sistema d’istruzione e sull’allocazione delle entrate petrolifere in diminuzione; la corruzione del governo raggiunse livelli epidemici. I contrasti si inasprirono con l’esplosione di rivolte e Shagari si assicurò la vittoria alle elezioni del 1983 per mezzo di brogli massicci.23 I militari intervennero nuovamente con un colpo di stato che portò al potere il generale Mohammed Buhari. A questo punto il sistema politico nigeriano aveva mostrato un chiaro schema di alternanza tra periodi di governo civile e militare (di ben più lunga durata). Buhari lanciò una popolare campagna anti-corruzione e una politica, molto meno popolare, di austerità fiscale. Inoltre furono emanati vari decreti che limitavano la libertà di stampa. Dopo soli due anni, nel 1985, un nuovo golpe incruento depose l’impopolare Buhari e mise a capo del paese il generale Ibrahim Babangida. Babangida assunse il potere in un momento di grave crisi economica. A partire dal 1982 il boom petrolifero cedette il passo ad un drastico declino, dovuto all’aumento della produzione mondiale di greggio che ne provocò la caduta del prezzo. Tuttavia la spesa pubblica, malgrado il crollo delle entrate derivanti dal petrolio, continuava a crescere portando quindi un fortissimo indebitamento, mentre la corruzione rimaneva a livelli endemici. Fu proprio il regime di Babangida ad avviare la lunga stagione dei Programmi di Aggiustamento Strutturale preparati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Banca Mondiale per far fronte all’enorme debito che la Nigeria andava accumulando (ci occuperemo più avanti di questo specifico problema). Babangida si imbarcò in una politica di liberalizzazione economica combinandola con centralizzazione politica, riforme e repressione.24 L’aggravarsi della crisi economica diede 22 23 24
E.E. Osaghae, Crippled Giant, cit., pp. 118-125. R.B. Lloyd, «Nigeria’s Democratic Generals», in Current History, Vol. 103 No. 673, 2004, p. 217. Ibidem.
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presto luogo ad agitazioni e rivolte, cui il regime rispose con la repressione contribuendo esso stesso all’estensione del dissenso politico. Alla fine Babangida si decise ad avviare, manipolandolo, un processo di transizione alla democrazia instabile ed incerto che culminò con le elezioni del 1993, vinte da un imprenditore yoruba, Moshood Abiola; ma il governo di Babangida annullò i risultati delle elezioni prima che fossero formalizzati, stroncando sul nascere la Terza Repubblica.25 Nel novembre dello stesso anno, il ministro della difesa di Babangida, il generale Sani Abacha, mise in atto il proprio colpo di stato, ponendo fine ad ogni parvenza di democrazia. Egli instaurò un vero e proprio stato di polizia, reprimendo violentemente ogni forma di dissenso e di protesta e depredando le risorse dello stato. La dittatura di Abacha si protrasse fino alla sua morte, avvenuta nel 1998, dopodichè il suo successore, il generale Abdusalami Abubakar, fece ripartire il processo di democratizzazione, che analizzeremo dettagliatamente più avanti.
3.3. Le divisioni del movimento sindacale dalle origini alla fine della Prima repubblica Storicamente, a partire dalla formazione della prima organizzazione centrale nel 1943, il movimento sindacale è stato molto a lungo diviso in gruppi e fazioni, circostanza che ha causato una impressionante proliferazione di organizzazioni rivali in un continuo alternarsi di fusioni e scissioni. La generale assenza, nei primi tempi, di ingerenze governative o di partito ha favorito l’influenza di certi fattori di divisione del movimento, come le differenze di identità e le dispute ideologiche.26 Tuttavia, se fino alla metà degli anni ’70 si sono verificate poche intrusioni da parte dello stato nella politica in25
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E.O. Ojo, «The military and democratic transition in Nigeria: An in depth analysis of General Babangida’s transition program (1985-1993)», in Journal of Political and Military Sociology, Vol. 28 No. 1, 2000, pp. 1-20. R. Cohen, Labour and Politics in Nigeria, cit., p. 70.
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terna dei sindacati, in seguito ha iniziato a manifestarsi una marcata tendenza dei governi militari a limitare l’autonomia dei sindacati e ad incorporarli nell’apparato statale.27 Fin dalla nascita del lavoro salariato e delle prime forme di proletariato i lavoratori nigeriani hanno tentato di organizzarsi in sindacati, ma solo nel 1939 questi ottennero il pieno riconoscimento legale da parte del governo coloniale. Nel 1943 nacque la prima grande organizzazione centrale, formata da 31 sindacati e chiamata Trade Union Congress of Nigeria (TUCN). Forte di legami con il Dipartimento del Lavoro, il TUCN ottenne subito il riconoscimento ufficiale e riuscì ad esercitare una certa influenza nell’arena istituzionale non esitando a prendere apertamente posizioni politiche, richiedendo ad esempio che i lavoratori fossero rappresentati nel Consiglio Legislativo. Le difficoltà economiche che colpirono il lavoro salariato nel corso della seconda guerra mondiale spinsero ben presto il sindacato a reclamare misure (appoggiate attivamente dalla stampa nazionalista) che proteggessero i salari dall’inflazione, e nel 1945 fu proclamato uno sciopero generale. Fu questa la prima occasione in cui si resero manifeste le divisioni interne che contrapponevano i leader più conservatori a quelli più radicali, e che raggiunsero il culmine nel 1948 quando si pose la questione dell’affiliazione del sindacato al NCNC, che i conservatori riuscirono ad impedire. Questo provocò la scissione dell’ala radicale, che nel 1949 organizzò il proprio sindacato, la Nigerian National Federation of Labour (NNFL). La scissione rientrò presto, poiché nello stesso anno un evento drammatico riavvicinò le due fazioni: durante uno sciopero dei minatori di Enugu, la polizia aprì il fuoco ed uccise 25 dimostranti. L’incidente generò un’ondata di sentimento nazionalista a vantaggio dell’ala radicale del movimento. Con il TUCN che perdeva consensi e la NNFL che mancava ancora di un’organizzazione coerente, il Dipartimento del Lavoro prese l’iniziativa e promosse una fusione tra le due confede27
N. Van Hear, «Recession, Retrenchment and Military Rule: Nigerian Labour in the 1980s», in R. Southall (a cura di), Trade Unions and the New Industrialization of the Third World, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1988, p. 146.
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razioni, che ebbe luogo nel 1950 con la nascita del Nigerian Labour Congress (NLC).28 Ma la riunificazione non risolse i contrasti: dominato dalla leadership radicale, il nuovo sodalizio fu prima lacerato dal disaccordo sulla scelta di affiliarsi, in alternativa, all’International Confederation of Free Trade Unions (ICFTU), influenzata dai sindacati americani e britannici, o alla World Federation of Trade Unions (WFTU), che faceva riferimento al campo sovietico, inserendosi quindi nel contesto ideologico della guerra fredda; e fu poi disintegrato dal successo di uno sciopero proclamato da un sindacato indipendente, la Amalgamated Union of the United Africa Company African Workers (UNAMAG), al quale il NLC negò il suo supporto.29 Nel 1953 fu formato un nuovo sindacato centrale, la All-Nigeria Trade Union Federation (ANTUF), con una ventina di sindacati affiliati ed un programma che includeva alcune rivendicazioni portate avanti dai radicali, come la creazione di un partito politico che fosse espressione del movimento dei lavoratori e la nazionalizzazione delle principali industrie. Il governo rifiutò in un primo momento di riconoscere l’organizzazione. In seguito tentò di far accedere alla leadership gli elementi moderati, ma questi non riuscirono mai a prendere il controllo del sindacato poiché il suo orientamento radicale – che il governo e i moderati imputavano ad infiltrazioni di elementi comunisti – godeva di grande popolarità tra i lavoratori: nel 1956 l’ANTUF contava circa 181.000 iscritti, cioè oltre il 90% della forzalavoro sindacalizzata.30 Inoltre la leadership ebbe l’accortezza di non affiliare il sindacato né alla WFTU né all’ICFTU, rendendo la tesi dell’infiltrazione comunista difficile da sostenere. Ai rivali non restò alternativa alla scissione, che avvenne nel 1957 con la creazione del National Council of Trade Unions of Nigeria (NCTUN). Le due organizzazioni rivali sopravvissero per un paio d’anni, finché nel 1959 l’agitazione della base per l’intenzione del governo di rivedere i salari del settore pubblico raggiunse un livello tale da spingerle a fondersi nuovamente facendo rivivere il TUCN. 28 29 30
R. Cohen, Labour and Politics in Nigeria, cit., pp. 72-4. Ibidem, pp. 75-7. Ibidem, p. 78.
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Naturalmente, le differenze ideologiche erano tutt’altro che superate e riemersero subito con l’elezione dell’esecutivo del TUCN. Il candidato sostenuto dal gruppo dell’ANTUF, M. Imoudu, fu eletto presidente del sindacato vincendo di misura sull’avversario moderato N.A. Cole; ma alla carica di segretario generale fu invece eletto il candidato del NCTUN, L.L. Borha, e i delegati dell’ANTUF abbandonarono i lavori lasciando così che fosse eletto un esecutivo dominato dai moderati. Qualche mese dopo la rottura divenne definitiva a causa, ancora una volta, del disaccordo sull’affiliazione all’ICFTU. Imoudu, irritato dai legami finanziari del vicepresidente con l’ICFTU, convocò una conferenza a Lagos nell’aprile 1960; in risposta, il resto dell’esecutivo fissò un’altra conferenza contemporanea a Kano, intimando a Imoudu di partecipare, pena la sospensione. Le conferenze si svolsero entrambe, e tutti i delegati del gruppo ANTUF seguirono Imoudu a Lagos, dove diedero vita al Nigerian Trade Union Congress (NTUC). Occorre rilevare che al momento della scissione il TUCN contava 86.200 iscritti e il NTUC ne aveva 48.500, ma altri 197 sindacati per un totale di 142.000 iscritti rimasero fuori da entrambe le organizzazioni.31 Negli anni della Prima repubblica il movimento sindacale continuò ad oscillare fra tentativi di raggiungere l’unità e gli insanabili contrasti ideologici. Nel 1961 il governo federale promosse un’iniziativa di democrazia partecipativa, costituendo la All Nigeria Peoples’ Conference, che discusse tra le altre problematiche anche la ricerca di possibili soluzioni per riconciliare i sindacati. Questo condusse all’istituzione di un Labour and Reconciliation Committee, che riuscì ad organizzare una conferenza a Ibadan nel maggio 1962. Fu proposto lo scioglimento del NTUC e del TUCN la creazione di uno United Labour Congress (ULC), ma a causa di aspri disaccordi sulle procedure della conferenza i delegati del NTUC abbandonarono i lavori. Essi formarono poi un Independent United Labour Congress (IULC), con il risultato di restaurare lo status quo ante. Accanto alla tradizionale divisione tra radicali e moderati, inoltre, emersero anche nuove fazioni, che ripercorrevano sul fronte sindacale i cleavages 31
Ibidem, p. 82.
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etnico-religiosi del paese. Per esempio, nel dicembre 1962 alcuni sindacati, capeggiati da N. Anunobi e N. Chukwura, si distaccarono dall’ULC e costituirono il Nigerian Workers’ Council (NWC), di ispirazione cristiana, affiliato all’International Federation of Christian Trade Unions (IFCTU); contemporaneamente Ibrahim Nock annunciò la formazione della Northern Federation of Labour (NFL). Questa novità creò ulteriore confusione e contribuì ad accrescere l’insoddisfazione dei lavoratori nei confronti dei leader del movimento: questi, con le loro rivalità, perdevano di vista l’obiettivo principale di protezione degli interessi di classe. I lavoratori erano disillusi e frustrati da questa situazione.32 Un ultimo tentativo di unire le forze si ebbe nel settembre 1963 quando, dopo aver costituito un Joint Action Committee (JAC), i sindacati iniziarono un lungo scontro con il governo per una revisione generale dei salari. Infine nel 1964 uno sciopero generale paralizzò completamente l’amministrazione e i settori moderni dell’economia, e alla fine costrinse il governo a cedere. Nei mesi successivi il paese precipitò nel caos sociale e politico che, come abbiamo già visto, portò al collasso la Prima repubblica e inaugurò la prima fase di intervento militare.
3.4. I sindacati sotto il governo militare I pronunciamenti militari del 1966 e l’insediamento della giunta presieduta dal generale Ironsi misero in evidenza il fatto che tra i principali problemi della società nigeriana vi era quello dell’assenza di un movimento nazionalista sufficientemente radicato, essendo decisamente prevalenti le lealtà etniche e religiose. Di questo limite risentiva chiaramente il movimento operaio che, come si è appena visto, si presentava sin dalle origini profondamente diviso, e questo proprio perché al suo interno mancava una base di identità che ne rafforzasse la coesione; conseguentemente, anche la sua capacità di 32
W. Ananaba, The Trade Union Movement in Nigeria, London, Hurst & Co., 1969, p. 232.
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sfruttare le normali risorse di influenza politica ne risultava penalizzata. Ironsi fece un tentativo di unire i sindacati a sostegno del suo governo, ma le spaccature all’interno del movimento erano troppo profonde per poter essere sanate senza dover ricorrere alla coercizione.33 Il successivo colpo di mano filo-settentrionale di Gowon non apportò a sua volta grandi cambiamenti almeno fino alla fine della guerra civile. Gli unici sviluppi degni di nota durante questa prima fase di governo militare furono, da una parte, la formazione nel 1967 della Biafran Trade Union Confederation (BTUC) come conseguenza della secessione del Biafra e, dall’altra, la creazione nel 1968 di una piccola organizzazione chiamata Nigerian Federation of Labour (da non confondere con la Northern Federation of Labour, che aveva la stessa sigla), che fu il frutto di una scissione dal NTUC. I gravissimi danni all’economia causati dalla guerra crearono difficoltà enormi per i lavoratori, la cui capacità di soddisfare i propri bisogni diminuì drasticamente, anche a causa dell’accresciuta pressione fiscale sulle fasce di reddito medio-basse. L’agitazione dei lavoratori non si fece attendere, e vi furono alcuni scioperi; in risposta, la giunta militare di Gowon emanò un decreto, il Trade Disputes (Emergency Provisions) Decree No. 21 del 1969, che introdusse rigide restrizioni al diritto di sciopero. Le leadership sindacali, tuttavia, non si opposero seriamente a questo decreto, dichiarando in più occasioni di volersi mostrare «responsabili» al cospetto della situazione che richiedeva misure d’emergenza.34 Esse persero così la fiducia della base, che non condivideva la loro scelta, ed emersero gravi tensioni all’interno del movimento: nel NWC e nell’ULC furono eletti nuovi dirigenti, mentre molti sindacati affiliati al NTUC, tra cui la Shell-BP & Allied Workers’ Union, uscirono dalla confederazione. Queste pressioni dal basso spinsero le organizzazioni centrali a formare nell’agosto 1970 un coordinamento, lo United Committee of Central Labour Organizations (UCCLO), per presentare un fronte unito al cospetto dello stato, che era anche il principale datore di lavoro.
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R. Cohen, Labour and Politics in Nigeria, cit., pp. 217-8. Ibidem, pp. 226-27.
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Nel frattempo, il boom petrolifero che era appena iniziato, con la conseguente fase di industrializzazione (avviata con massicci investimenti statali), innescò trasformazioni radicali che un’elite emergente iniziò a sfruttare servendosi di canali patrimoniali, come le licenze per l’importazione che consentivano la vendita sovrapprezzo di beni di consumo sul mercato interno. Uno dei risultati della crescita senza controllo dell’economia fu la rapida espansione del mercato del lavoro: nel 1975 i lavoratori salariati erano circa 1,5 milioni, e sarebbero arrivati a 3 milioni nel 1980 (senza contare la forzalavoro non registrata attiva nel mercato informale).35 La classe operaia urbana, ingrossata dalle masse di migranti rurali, vide declinare il proprio tenore di vita, vittima dell’inflazione, del deterioramento dei servizi sociali e degli abusi della classe politica.36 Le tensioni sociali generate dall’industrializzazione spinsero il Governo Militare Federale ad istituire una Wages and Salaries Review Commission, presieduta da S.O. Adebo, per dare parziale risposta alle rivendicazioni dei sindacati riguardo ai livelli salariali più bassi. La commissione studiò la situazione nazionale per diversi mesi, ed infine raccomandò un aumento di 2 sterline al mese per i salariati che percepivano un reddito annuo inferiore a 500 sterline. Anche se l’oggetto specifico di studio assegnato alla commissione erano i salari del pubblico impiego, il suo rapporto conteneva anche la raccomandazione che i datori di lavoro privati di seguire le medesime indicazioni.37 Il governo approvò tutti gli aumenti sia per il settore pubblico che per quello privato, ma non li applicò alle compagnie straniere argomentando che queste, dal 1964, anno dell’ultima revisione generale dei salari, garantivano aumenti ai propri lavoratori sulla base del costo della vita. Secondo Adrian Peace, vi erano delle difficoltà nel distinguere tra gli aumenti motivati dalla crescita di produttività e quelli legati all’inflazione, e le incomprensioni tra sindacati e datori
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N. Van Hear, «Nigerian Labour in the 1980s», cit., p. 146. F. Barchiesi, «Beyond the State and Civil Society», cit., p. 153. First Report of the Wages and Salaries Commission, Lagos, Federal Ministry of Information, 1970.
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di lavoro erano dovute appunto ai diversi criteri adottati dalle parti.38 Il problema era perciò di interesse strategico e la disputa assunse un’importanza fondamentale, dal momento che il criterio scelto avrebbe condizionato le politiche future sui salari. Ne scaturì un aspro conflitto, che ebbe momenti particolarmente acuti nell’area industriale di Lagos, durante il quale i lavoratori lamentarono il fatto di aver dovuto sopportare un inasprimento della pressione fiscale durante la guerra civile e di non ricevere ora nessun beneficio.39 Le spinte alla mobilitazione vennero dal basso, segno evidente della sfiducia che i lavoratori nutrivano nei confronti dei dirigenti sindacali, percepiti come corrotti e collusi con la classe politica ed il capitale.40 Il conflitto fu radicalizzato ulteriormente dal mantenimento in vigore delle misure di guerra contro l’incitamento allo sciopero (Decree 53), che rafforzava la sensazione di un «complotto» per privare i lavoratori dei loro diritti.41 Nell’agosto 1971 la commissione Adebo presentò il suo secondo rapporto in cui, accanto ad indicazioni per la ristrutturazione dei sindacati secondo il modello industriale, si raccomandava di aumentare i salari di circa il 30%, pur tenendo conto delle differenze di costo della vita tra le varie zone del paese.42 Il governo accolse le raccomandazioni della commissione senza obiezioni, e agli inizi del 1972 le agitazioni rientrarono, dopo che i lavoratori avevano dato una sorprendente prova di forza. In ogni caso, questa fu solo una soluzione parziale e temporanea dei problemi relativi al costo della vita, che non sarebbero mai stati risolti in maniera completa e definitiva. Alcuni dati sulla situazione 38
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41 42
A. Peace, «The Lagos Proletariat: Labour Aristocrats or Populist Militants?», in R. Sandbrook & R. Cohen (a cura di), The Development of an African Working Class, cit., p. 292. A. Peace, «Industrial Protest at Ikeja, Nigeria», saggio presentato alla British Sociological Association, marzo 1972, p. 14. P. Lubeck, «Unions, Workers and Consciousness in Kano, Nigeria: A View from Below», in R. Sandbrook & R. Cohen (a cura di), The Development of an African Working Class, cit., pp. 139-160. A. Peace, «The Lagos Proletariat», cit., p. 295. Second Report of the Wages and Salaries Commission, Lagos, Federal Ministry of Information, 1971.
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economica e sociale del paese negli anni ’70 possono mostrare come, nonostante gli aumenti salariali e la generale espansione dell’economia, il tenore della vita dei lavoratori urbani continuasse ad essere estremamente basso e persistessero estese sacche di povertà. Nelle aree urbane, dato il loro tasso di crescita – in media, la popolazione dei principali centri industriali quadruplicò nel giro di pochi anni – il problema degli alloggi era molto serio: il governo destinò la maggior parte degli alloggi di nuova costruzione alle fasce di reddito medio-alte, con il risultato che, durante gli anni ‘70, dal 51% al 72% delle famiglie (tra cui molti migranti) vivevano in camere singole (per le quali spendevano dal 30% al 40% del loro reddito) o in insediamenti informali.43 Nella zona di Kano, tra il 1971 e il 1980, i prezzi di generi alimentari come miglio, riso e sorgo, che costituivano la base dell’alimentazione locale, conobbero aumenti rispettivamente del 605%, 562% e 376%, mentre nello stesso periodo i salari crebbero solamente del 342%.44 Dunque il costo della vita continuava ad aumentare più velocemente dei salari, con conseguenze per nulla trascurabili sul tenore di vita, già molto basso, delle classi popolari; ad esse il boom petrolifero non portò alcun vantaggio. Intanto, le quattro organizzazioni sindacali centrali, la cui competizione era impopolare agli occhi dei nazionalisti e dei militanti che prediligevano l’unità sindacale, tentarono di unirsi per formare una singola confederazione e nel 1975 questa iniziativa si stava concretizzando nella formazione di un Nigerian Labour Congress (NLC). Ma di fronte ad uno scenario di agitazione industriale che durava da 4 anni – mobilitazioni simili a quelle del 1971-72 circondarono gli aumenti della commissione Udoji nel 1975 – il governo militare intervenne per ristrutturare il movimento sindacale. Abbandonando il suo precedente approccio favorevole alla frammentazione dei sindacati, il regime di Obasanjo optò ora per la loro istituzionalizzazione
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44
M. Watts & P. Lubeck, «The popular classes and the oil boom: a political economy of rural and urban poverty», in W. Zartman (a cura di), The Political Economy of Nigeria, cit., p. 136. Ibidem, p. 139.
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ed incorporazione nelle strutture dello stato.45 Nel 1976 il NLC fu soppresso, tutte le organizzazioni internazionali ad eccezione dell’ILO e dell’Organization for African Trade Union Unity (OATUU) furono dichiarate fuorilegge nel paese e iniziò un periodo di persecuzione degli elementi radicali. Nel febbraio 1978 un decreto governativo ricostituiva il NLC con una grande sovvenzione di fondi pubblici, accorpando le centinaia di sindacati esistenti in un sistema di 42 sindacati industriali nazionali, non in competizione reciproca, riconosciuti dai datori di lavoro e con iscrizione obbligatoria per tutti i lavoratori (le quote erano detratte automaticamente dai salari). Il nuovo sindacato centrale ricevette così il compito di difendere i «veri» interessi dei lavoratori così come definiti dallo stato, che si riservava il diritto di redigere gli statuti dei sindacati.46 Il sistema così imposto era rigidamente corporativo, secondo una strategia già sperimentata dai regimi latinoamericani. Furono proibiti gli scioperi in determinati settori con il Trade Disputes (Essential Services) Decree no. 23 del 1976 e furono stabilite procedure per la risoluzione delle dispute e per la contrattazione collettiva in quella che il regime chiamò guided democracy.47 Molti studiosi e sindacalisti nigeriani ritengono che la soppressione del NLC indipendente fosse mirata precisamente a prevenire una minaccia agli interessi delle classi dominanti durante le elezioni per la restaurazione del governo civile.48 Comunque, benché l’intervento fosse percepito come un atto ostile – e in buona misura lo era – i leader sindacali cercarono di adattarsi, realizzando che la nuova struttura unitaria poteva essere usata in maniera fruttuosa. Lo stato aveva interdetto alcuni vecchi leader dal ricoprire cariche nel sindacato, ma non poteva prevenire l’elezione di nuovi leader radi45 46
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F. Barchiesi, «Beyond the State and Civil Society», cit., p. 153. C. Lado, «The state and civil society: Transition and prospects of labour geographies in an era of economic globalisation in Nigeria and South Africa», in Singapore Journal of Tropical Geography, Vol. 21 No. 3, 2000, p. 304. Ibidem. M. Watts & P. Lubeck, «The popular classes and the oil boom», cit., p.140.
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cali.49 E questo fu proprio ciò che accadde, poiché il comunista Alhaji H. Sunmonu fu eletto presidente del NLC, con il risultato che né il sindacato centrale né quelli industriali si mostrarono compiacenti nei confronti del governo militare uscente e di quello civile entrante. Infatti, al momento delle elezioni e dell’insediamento del governo di Shagari, erano già montate le pressioni per ottenere aumenti salariali a fronte dell’erosione del tenore di vita causata dall’inflazione. Il crollo delle esportazioni di greggio alla fine degli anni ’70 avevano portato all’adozione, nell’ultimo budget fissato da Obasanjo, di misure di austerità, tra cui il congelamento (e in alcuni casi il taglio) dei salari e la limitazione delle importazioni che aggravarono la crescita del costo della vita, malgrado i militari si preoccupassero di evitare lo scontro con i lavoratori durante il trasferimento dei poteri. Il NLC rispose richiedendo una revisione delle tabelle salariali e la fissazione di un salario minimo nazionale (per i dipendenti pubblici lo stipendio di base corrente era di 70 naira50 al mese); ma i negoziati si conclusero con un nulla di fatto e agli inizi del 1980 il NLC lanciò un ultimatum minacciando la nuova amministrazione civile di indire uno sciopero generale se non fosse stato raggiunto in tempi brevi un accordo. Dopo colloqui bilaterali il governo accettò di innalzare il salario minimo a 100 naira, ma i datori di lavoro si mostrarono prevedibilmente riluttanti ad attuare gli aumenti, causando numerosi scioperi. Nel febbraio 1981 si svolse intanto la conferenza dei delegati del NLC e l’elezione del nuovo esecutivo, che vide il candidato moderato David Ojeli sfidare il presidente Sunmonu nella speranza di mitigare le richieste del sindacato. Sunmonu riuscì comunque a conservare la presidenza e fu eletto un esecutivo formato interamente da suoi sostenitori. Una risoluzione unanime convocò lo sciopero generale per il mese di maggio, con la
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B. Beckman, «Trade unions and institutional reform: Nigerian experiences with South African and Ugandan comparisons», in Transformation, No. 48, 2002, p. 100. 1 naira equivaleva approssimativamente a 1 dollaro americano.
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richiesta di un salario minimo di 300 naira.51 Lo sciopero paralizzò completamente il paese: i trasporti si fermarono, l’elettricità fu tagliata, le banche ebbero grossi disagi, le scuole furono chiuse e vi furono problemi anche per la fornitura d’acqua e i servizi sanitari. Nel richiedere un minimo salariale di 300 naira, il sindacato stava mettendo in pratica una strategia negoziale che potesse indurre il governo a fare un’offerta più generosa di quella precedentemente proposta, nonostante dichiarasse perentoriamente che la richiesta era «non negoziabile».52 Infatti, dopo una lunga contrattazione, si giunse ad una sorta di compromesso: il NLC prima respinse un’offerta di 120 naira al mese, poi revocò lo sciopero in attesa che l’Assemblea nazionale discutesse una nuova offerta, infine accettò un minimo salariale di 125 naira; anche le pensioni furono aumentate da 33 a 50 naira. Lo sciopero generale mostrò che il movimento conservava una grande capacità di mobilitarsi in difesa dei suoi membri e di articolare più ampie rivendicazioni popolari. Tuttavia, la recessione economica avrebbe gradualmente costretto i lavoratori alla sottomissione: per esempio, un ostacolo alla militanza sindacale fu escogitato dal governo con l’espulsione, nel 1983, di circa 2 milioni di lavoratori stranieri, provenienti soprattutto dal vicino Ghana.53 La strategia dello stato per smobilitare la militanza operaia è un elemento cruciale per comprendere l’attuazione dei Programmi di aggiustamento strutturale che partirono negli anni ’80 dopo il collasso della Seconda repubblica. Infatti, la repressione del lavoro organizzato fornì la continuità necessaria per l’azione statale nello spostare l’orientamento economico dallo «sviluppismo indigenizzato» al neoliberismo.54
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N. Van Hear, «Nigerian Labour in the 1980s», cit., p. 147. T. Falola & J. Ihonvbere, The Rise and Fall of Nigeria’s Second Republic, cit., pp. 159-60. R. Munck, The New International Labour Studies, cit., p. 173. C. Lado, «The state and civil society», cit., p. 304.
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3.5. L’aggiustamento strutturale e le sue conseguenze per il sindacato Mentre si svolgeva la campagna per il salario minimo nazionale, il paese sembrò conoscere una fase di ripresa economica in seguito al rialzo del prezzo del petrolio sui mercati internazionali nel periodo 1979-81. Dopo essere crollato nel 1978, i prezzi internazionali del greggio risalirono vertiginosamente in conseguenza degli sconvolgimenti politici in Iran: così il prezzo di esportazione del petrolio nigeriano, dai 14 dollari al barile del 1978 aumentò rapidamente fino a raggiungere la punta di 40 dollari nel 1981. Gli accresciuti guadagni legati all’esportazione, insieme ai prestiti internazionali, fecero sì che le riserve di valuta estera superassero i 10 miliardi di dollari alla fine del 1980. La spesa federale fu raddoppiata e la spesa pubblica pianificata per il periodo 1981-85 fu triplicata rispetto alle previsioni originali.55 Tuttavia, il rialzo del prezzo del greggio su cui si basava questa rinnovata espansione economica era solo temporaneo, poiché nel 1981 si sviluppò un eccesso di offerta. La produzione nigeriana registrò un rapido calo, da 2 milioni di barili al giorno nel 1980 a meno di 1,4 milioni nel 1981 fino a 1,2 milioni nel 1982; conseguentemente, le entrate federali diminuirono da 15,2 miliardi di naira nel 1980 a 12,1 miliardi nel 1981 e poi a 11 miliardi nel 1982; il PIL scese del 5,9% nel 1981 e di un ulteriore 3,4% nel 1982.56 Nello sforzo di contenere la crisi, il governo di Shagari introdusse un programma di stabilizzazione economica nell’aprile 1982 con l’obiettivo prioritario di ridurre il debito, mantenendo sulla carta l’impegno alla gestione pubblica dei servizi sociali. Malgrado leggeri miglioramenti nella situazione dei paesi industrializzati e specialmente dei partner commerciali della Nigeria, con modesti aumenti di 55 56
D. Rimmer, The Economies of West Africa, London, Weidenfeld & Nicholson, 1984, pp. 129-31. S. Yahaya, «State versus Market: The Privatization Programme of the Nigerian State», in A.O. Olukoshi (a cura di), The Politics of Structural Adjustment in Nigeria, London, James Currey, 1993, p. 17.
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produzione ed un alleviamento della pressione inflazionistica, la situazione in Nigeria continuava a peggiorare. Il PIL registrò un ulteriore calo del 4,4%, l’inflazione aumentò del 23,2% e la produzione industriale perse addirittura l’11,8%; nonostante le misure restrittive riuscissero a ridurre le importazioni del 23%, l’export di greggio si ridusse del 14,7% e di conseguenza la bilancia commerciale riportava ancora un deficit di 2,1 miliardi di naira.57 Il governo riteneva comunque che il programma di stabilizzazione fosse sufficiente a ridare impulso all’economia, sperando che l’instabilità del mercato mondiale fosse temporanea e i prezzi risalissero. Per questa ragione e per la stretta dipendenza del governo dalle relazioni clientelari, esso si mostrò riluttante ad accettare le offerte di assistenza e consulenza da parte del FMI e della Banca Mondiale; scelse invece di chiedere agli investitori internazionali un prestito di 2 miliardi di dollari per coprire il debito estero. Quando questo prestito fu negato, il governo decise di prelevare dalle sue riserve presso il Fondo 314 milioni di naira più altri 170 milioni in Diritti Speciali di Prelievo, senza però chiedere al Fondo di partecipare al suo sforzo di ripresa. Il prelievo tuttavia era affatto insufficiente a sollevare l’economia che, nell’ottobre 1982, era in arretrato di 3 mesi sul suo debito abituale. Ciò indusse le banche estere a tagliare i crediti del paese, creando ulteriore pressione sul governo.58 Di fronte alle crescenti pressioni dei finanziatori occidentali, e sullo sfondo delle crescenti difficoltà dell’economia, il governo decise di invitare il FMI a mandare in Nigeria un team di studio per esaminare la natura e le dimensioni dei problemi economici del paese. Contemporaneamente, nell’aprile 1983 il governo chiese al Fondo un prestito EFF (Extended Fund Facility) di circa 2,5 miliardi di dollari, e si rivolse alla Banca Mondiale per un ulteriore prestito di 300-500 milioni di dollari. Il FMI, com’era prevedibile, insistette 57 58
Ibidem. A. Olukoshi, «The Politics of Structural Adjustment in Nigeria», in T. Mkandawire & A. Olukoshi (a cura di), Between Liberalisation and Oppression. The Politics of Structural Adjustment in Africa, Dakar, CODESRIA, 1995, p. 165.
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perché l’amministrazione Shagari portasse la sua politica di risanamento economico ben oltre le misure contenute nel Programma di stabilizzazione del 1982. Né il congelamento dei salari né le restrizioni alle importazioni stabilite dal governo erano sufficienti secondo il FMI, che pretese l’adozione di un Programma di aggiustamento strutturale basato principalmente sulla svalutazione della naira. Inoltre il Fondo chiese anche una drastica riduzione delle spese in conto capitale a non più di 4 miliardi di naira l’anno tra il 1983 e il 1986: tutti i progetti del governo che richiedessero più di 300 milioni di naira dovevano essere completamente rivisti o riclassificati sulla base delle priorità. Si raccomandava inoltre la privatizzazione delle imprese pubbliche e parastatali, la liberalizzazione del commercio, la deregolamentazione dei tassi di interesse e dei prezzi e la rimozione dei sussidi.59 Poiché il governo dichiarava di non essere in grado di mettere in pratica tutte le misure richieste dal FMI e soprattutto riteneva inappropriata la svalutazione, le trattative rimasero a lungo in una fase di stallo; questa, peraltro, bloccava anche la concessione di un rifinanziamento del deficit commerciale di circa 2 miliardi di dollari dalle banche occidentali, che il governo era riuscito ad ottenere da 30 banche occidentali ma che non si sarebbe reso disponibile prima che fosse raggiunto un accordo con il FMI. Dopo il golpe del 31 dicembre 1983 che infine depose Shagari, il governo del generale Buhari continuò a resistere alle richieste del Fondo, trovandosi in disaccordo sulle sue principali raccomandazioni sopra elencate. Come il suo predecessore civile, Buhari riteneva che la svalutazione fosse deleteria per il benessere del paese e pertanto la escluse come opzione politica. Mentre era preparato a ridurre – come in effetti fece – i sussidi e le sovvenzioni alle imprese pubbliche, il governo respingeva l’idea delle privatizzazioni tout court suggerite dalle istituzioni finanziarie internazionali, preferendo l’opzione della commercializzazione. Ne seguì una crisi nei rapporti con il FMI, anche se Buhari proseguì nel taglio della spesa pubblica e dei salari, imposto per mezzo di politiche puramente coercitive a danno di tutte le forze sociali, per esempio reprimendo brutalmente 59
Ibidem, p. 166.
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lo sciopero dei medici ed emanando decreti di limitazione della libertà di stampa, oltre che con arresti arbitrari.60 Questa svolta autoritaria, insieme al boicottaggio del paese da parte degli investitori occidentali, creò un clima favorevole al rovesciamento del regime di Buhari nell’agosto 1985 ad opera del generale Babangida. Questi scelse immediatamente di allineare il paese all’agenda del FMI, accettandone senza riserve il Programma di aggiustamento strutturale in nome dell’ emergenza economica nazionale. L’Emergency Powers Decree No. 22 diede al presidente i pieni poteri per attuare l’aggiustamento strutturale e per «correggere le distorsioni nell’economia della nazione».61 Il Programma di aggiustamento, che secondo le previsioni avrebbe avuto una durata di due anni, fu applicato pienamente in tutte le sue parti, comprese le misure di svalutazione, privatizzazione e rimozione dei sussidi. Nel budget per il 1988, il governo stese un elenco di imprese statali che avrebbero dovuto essere privatizzate o commercializzate in maniera totale o parziale, successivamente confermato nel luglio 1988 con il Privatization and Commercialization Decree No. 25. La privatizzazione totale era prevista per 13 compagnie di assicurazione, 10 aziende manifatturiere di dimensioni medie e grandi, 4 compagnie di trasporti e 15 aziende agricole, per un ammontare di 150 milioni di naira; tra le imprese da privatizzare parzialmente si annoveravano 23 grandi aziende manifatturiere e 27 banche commerciali, per un totale di 2,1 miliardi di naira. Verso la fine del 1989, furono aggiunti alla lista i 4 stabilimenti di assemblaggio di veicoli.62 L’aggiustamento strutturale ebbe effetti negativi sulle condizioni di vita dei lavoratori di tutti i settori. Il settore manifatturiero entrò rapidamente in crisi, vittima delle misure di austerità, del deterioramento dei termini di scambio e della svalutazione, cosicché la ristrutturazione e i tagli di spesa colpirono pesantemente la classe operaia industriale. Molti lavoratori, rimasti disoccupati, entrarono nei circuiti economici informali del lavoro sommerso. Ciò rafforzò i le60 61 62
Ibidem, pp. 169-71. F. Barchiesi, «Beyond the State and Civil Society», cit., p. 155. S. Yahaya, «State versus Market», cit., p. 19
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gami tra la classe operaia e le impoverite comunità rurali e urbane, ma ridusse questi rapporti ad un livello di pura strategia di sopravvivenza, in cui prevaleva l’auto-sfruttamento in attività a basso reddito. In questo contesto riemersero prepotentemente le reti etniche, religiose e regionali le quali, fornendo legami di solidarietà più stabili rispetto ai sindacati, minarono le capacità di organizzazione di questi ultimi.63 Al di là di questo aspetto, occorre tener presente che l’ideologia alla base delle politiche di aggiustamento strutturale, in Nigeria come in tutti gli altri paesi africani che le hanno poste in essere, tendeva a dipingere qualsiasi forma di opposizione a tali politiche come ostruzionismo irresponsabile. I lavoratori erano accusati di non voler fare i sacrifici necessari per il risanamento economico nazionale, e le loro richieste erano considerate irragionevoli ed irrealistiche. Il governo vedeva i lavoratori come un ostacolo all’aggiustamento strutturale, e fece di ciò una giustificazione per la sua politica repressiva di negazione dei diritti sindacali, peraltro senza troppe preoccupazioni in tal senso da parte delle istituzioni finanziarie internazionali.64 Oltre ad imporre condizioni estremamente difficili a livello economico, quindi, l’aggiustamento strutturale finì per compromettere seriamente la capacità dei lavoratori di intervenire, attraverso i sindacati, sui processi decisionali riguardo a questioni di loro interesse. La progressiva erosione delle libertà civili ad opera del regime militare si può considerare in larga misura una conseguenza dell’adesione all’ideologia neoliberista, tanto che Jibrin Ibrahim ha coniato un’espressione (sapping democracy) appositamente per indicare gli effetti di chiusura dello spazio politico causati dall’aggiustamento strutturale.65 63 64
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F. Barchiesi, «Beyond the State and Civil Society», cit., p. 155; C. Lado, «The state and civil society», cit., p. 305. Y. Bangura & B. Beckman, «African Workers & Structural Adjustment: A Nigerian Case-Study», in A.O. Olukoshi (a cura di), The Politics of Structural Adjustment in Nigeria, cit., p. 75. J. Ibrahim, «The Transition to Civil Rule: Sapping Democracy», in A.O. Olukoshi (a cura di), The Politics of Structural Adjustment in Nigeria, cit., pp. 129-39. L’espressione è il risultato di un gioco di parole in cui la sigla
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Ma l’aggiustamento strutturale, come strumento di controllo nei confronti della classe operaia mediante repressione e precarietà, non riuscì ad impedire la politicizzazione della resistenza dei lavoratori. I sindacati tentarono di proteggere se stessi e i propri iscritti dall’impatto della crisi economica e dell’aggiustamento sul posto di lavoro. Gli studi condotti sui lavoratori dell’industria nigeriana suggeriscono che vi fossero possibilità per la contrattazione collettiva e per un’azione industriale efficace, ma sottolineano anche le limitazioni a cui queste pratiche erano soggette e la necessità per i sindacati di affrontare l’aggiustamento strutturale sul terreno politico.66 Nell’aprile 1987, la lotta del NLC contro la politica economica imposta dal regime si intensificò con i preparativi per il 1° maggio. L’ufficio stampa del sindacato diffuse comunicati che attaccavano il rifiuto di aumentare i minimi salariali e le varie imposizioni e detrazioni previste dal programma di aggiustamento. La campagna era diretta contro il congelamento dei salari (si parlò di salario minimo e massimo sfruttamento): con l’aggiustamento strutturale – si sosteneva – i prezzi avrebbero dovuto trovare il loro «vero livello di mercato»; perché allora – si chiedevano i lavoratori – ciò non doveva valere anche per i salari?.67 I rapporti tra governo e sindacati divennero sempre più tesi con il paese percorso da una vasta ondata di proteste e scioperi finché, nel febbraio 1988, il Ministro del Lavoro annunciò lo scioglimento del NLC, che fu poi ricostituito e posto sotto la direzione di un amministratore unico nominato dal governo. In questo modo il sindacato fu completamente isolato dalle proteste popolari (structural adjustment programme) richiama il verbo inglese to sap, «indebolire». Y. Bangura, «Steyr-Nigeria: The Recession and Workers’ Strategies in the Vehicle Assembly Plant» e G. Andræ & B. Beckman, «Textile Unions and Industrial Crisis in Nigeria: Labour Structure, Organisation and Strategies», in I. Brandell (a cura di), Workers in Third-World Industrialization, London, Macmillan, 1991. B. Beckman, «The Politics of Labour and Adjustment: The Experience of the Nigeria Labour Congress», in T. Mkandawire & A. Olukoshi (a cura di), Between Liberalisation and Oppression. The Politics of Structural Adjustment in Africa, cit., p. 281. SAP
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che montavano nel paese. Queste proseguirono in maniera autonoma fino all’esplosione, nel maggio 1989, di una rivolta generalizzata contro il FMI e la politica economica del governo. Il regime si trovò in difficoltà crescenti e tentò di uscirne con una limitata apertura politica organizzando le elezioni del giugno 1993 – una competizione tra due partiti «ammessi», il Socialist Democratic Party (SDP) e la National Republican Convention (NRC) – dopo il cui annullamento instaurò un governo ad interim che rimase in carica per circa un anno, fino a cedere il posto al regime di Abacha.
3.6. L’azione sindacale dall’interruzione della transizione alla sua ripresa Dopo l’annullamento delle elezioni presidenziali del giugno 1993 ad opera della giunta di Babangida, l’esecutivo del NLC si riunì a Lagos e pubblicò una dura critica delle ragioni addotte dal regime per giustificare questa decisione. Nel comunicato il sindacato accusava il governo militare di far «deragliare» la democrazia in Nigeria, di gettare il paese nella confusione, di interferire con il programma di transizione e di tollerare gli eccessi e gli errori dei politici, inclusi i due candidati alla presidenza, solo per poi poterli usare come pretesto per creare una situazione di impasse politico. Si sosteneva che la crisi politica era destinata a generare «seri problemi economici» e che ogni speranza di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori nigeriani sarebbe stata disattesa. Pertanto la crisi politica doveva essere collegata a «crescente povertà, incertezza, insicurezza, minaccia alla pace e all’ordine, tutti temi di interesse diretto per i sindacati e per la classe operaia nigeriana».68 Con questa dichiarazione, il NLC mostrava di opporsi ai militari, di appoggiare le richieste dei movimenti per la democrazia e di essere pronto ad impegnar68
Nigerian Labour Congress, «Statement by the Central Working Committee on the Current Political Development in the Country Issued at its Meeting Held in Lagos on Monday 28th June», Lagos, NLC Secretariat, 1993.
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si direttamente in una lotta popolare per il disimpegno dei militari dalla politica e la restaurazione della democrazia. Altri comunicati diffusi in seguito ribadirono questa posizione: in luglio fu lanciato un ultimatum al governo in cui si chiedeva la cessazione degli arresti arbitrari e il rilascio dei prigionieri politici, in primo luogo del vincitore delle elezioni presidenziali Moshood Abiola, minacciando uno sciopero nazionale e precisando che la politica del NLC non era influenzata da divisioni etniche, tribali o religiose.69 Il 27 agosto Babangida fu costretto a dimettersi da presidente e da comandante delle forze armate, come risultato dell’azione politica di massa guidata dalla Campaign for Democracy (CD). Egli mise in piedi un «Governo Nazionale Provvisorio» che subito invitò i lavoratori in agitazione a tornare al lavoro nell’interesse della nazione. Il NLC rigettò il nuovo governo e proclamò uno sciopero generale ad oltranza, finché tutte le richieste economiche e politiche non avessero ricevuto risposta. I lavoratori di tutti i settori parteciparono in massa ma, poco dopo, con loro grande sorpresa, il presidente del NLC Pascal Bafyau annunciò la sospensione dello sciopero senza che nessuna delle rivendicazioni fosse stata accolta, argomentando che uno sciopero di natura politica era deleterio per il sindacato. La revoca dello sciopero da parte del sindacato centrale deluse profondamente i lavoratori e la loro frustrazione fu percepita da Frank O. Kokori, segretario della National Union of Petroleum and Natural Gas Workers (NUPENG), il sindacato del settore petrolifero. Questi espresse a chiare lettere il sospetto, largamente diffuso tra gli attivisti, che il presidente del NLC fosse stato corrotto con una grossa somma di denaro o con la promessa di una nomina politica.70 Da quel momento in poi, la NUPENG iniziò a portare avanti le proprie iniziative in maniera autonoma, ignorando le direttive del NLC, per mobilitare i lavoratori contro il regime. Nel novembre 1994, approfittando dei disordini sociali e del caos generalizzato in cui il paese era precipitato, il generale Abacha rove69 70
J.O. Ihonvbere, «Organized Labor and the Struggle for Democracy in Nigeria», in African Studies Review, Vol. 40 No. 3, 1997, p. 84. Ibidem, p. 86.
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sciò il governo provvisorio e si impadronì del potere. Il NLC era ormai diviso e aveva perso ogni credibilità presso i lavoratori e l’opinione pubblica, incapace di intraprendere azioni decise contro il regime dal momento che il suo presidente e i suoi principali dirigenti avevano mostrato di essere collusi con i vertici militari.71 Fu soprattutto questa la ragione per cui la guida del movimento operaio nella lotta per la democrazia fu assunta dalla NUPENG che, con i suoi 150.000 iscritti, era strategicamente avvantaggiata dal fatto di rappresentare il settore di gran lunga più importante dell’economia nigeriana. Nel giugno 1995 l’esecutivo della NUPENG diffuse un comunicato in cui, accanto alle rivendicazioni di natura economica, si richiedeva ai militari di restaurare le istituzioni democratiche e di consentire al vincitore delle elezioni del 1993 di formare un governo di unità nazionale.72 I lavoratori dell’industria petrolifera scioperarono spontaneamente per 6 settimane, prima di arrendersi alla repressione. Lo sciopero interruppe tutte le attività economiche che necessitavano di un apporto energetico ed impose alla popolazione grosse difficoltà economiche, ma ciononostante ricevette un grande sostegno popolare. Tutti i movimenti per la democrazia e i diritti civili, specialmente la CD e la National Democratic Coalition (NADECO), appoggiarono l’azione della NUPENG alla quale aderirono anche i «colletti bianchi» della Petroleum and Natural Gas Senior Staff Association (PENGASSAN) e i sindacati dei medici e degli infermieri; marce di protesta furono inoltre organizzate dall’Academic Staff Union of Universities (ASUU) e dalla National Association of Nigerian Students (NANS) in supporto allo sciopero.73 Lo sciopero favorì anche il collegamento della mobilitazione dei lavoratori con quella delle minoranze etniche colpite dall’impoverimento e dal degrado ambientale connessi allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi: è il 71
72 73
E.R. Aiyede, «The Dynamics of Civil Society and the Democratization Process in Nigeria», in Canadian Journal of African Studies, Vol. 37 No. 1, 2003, pp. 13-14. J.O. Ihonvbere, «Organized Labor and the Struggle for Democracy in Nigeria», cit., pp. 89-90. Ibidem, pp. 91-7.
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caso, ad esempio, della lotta del popolo Ogoni contro l’esproprio delle terre da esso abitate nel delta del Niger. La connessione tra la lotta dei lavoratori del settore petrolifero e quella per i diritti delle minoranze aprì in effetti nuove opportunità per l’opposizione democratica, nella misura in cui i vari gruppi acquisivano consapevolezza del progetto neoliberista di privatizzazione delle risorse collettive portato avanti dal regime.74 Le lotte per la democrazia iniziarono così a confluire in alleanze più vaste di quanto fosse stato fino a quel momento possibile, anche in direzioni del tutto nuove come nel caso della collaborazione tra sindacati e organizzazioni non governative in difesa dei diritti umani.75 La risposta del governo allo sciopero si articolò in varie forme: in primo luogo, esso tentò di screditare i sindacati e in particolare la NUPENG, accusandoli di aver aggravato la crisi economica, di essere «antipatriottici» e di avere deliberatamente inflitto inutili sofferenze alla popolazione; in secondo luogo, provò a dimostrare che i lavoratori erano stati usati dai politici del SDP e dai seguaci di Abiola, liquidando lo sciopero come un affare riguardante solo il Sud-ovest; tentò poi, ma senza successo, di sostituire i lavoratori in sciopero servendosi dei soldati; infine, impiegò la classica strategia fatta di intimidazioni, arresti e detenzioni arbitrarie di leader sindacali. In risposta alla repressione, la NUPENG escogitò un’abile mossa organizzando la temporanea «sparizione» del suo leader Kokori, di cui tutti accusarono la polizia, mettendo il governo sulla difensiva in una vicenda che ebbe un’ampia copertura mediatica.76 Ciò tuttavia non servì a fermare la repressione, che negli anni successivi avrebbe fatto vittime illustri: l’esecuzione del leader Ogoni, lo scrittore Ken Saro Wiwa, il 10 novembre 1995, il brutale assassinio di Kudirat, moglie di Abiola, avvenuto a Lagos nel 1996 e la morte in carcere 74 75
76
F. Barchiesi, «Beyond the State and Civil Society», cit., p. 158. E.R. Aiyede, «United we stand: labour unions and human rights NGOs in the democratisation process in Nigeria», in Development in Practice, Vol. 14 No. 1-2, 2004, pp. 224-233. J.O. Ihonvbere, «Organized Labour and the Struggle for Democracy in Nigeria», cit., pp. 97-101.
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dello stesso Abiola nel maggio 1998 suscitarono grande indignazione dentro e fuori dei confini del paese. Nell’ultima fase del suo regime, Abacha aggiunse anche ulteriori tensioni alla transizione. In primo luogo, egli rifiutò di riconoscere pubblicamente i suoi piani per «succedere a se stesso»; in secondo luogo, mantenne il silenzio sulla sorte del suo ex vice, il generale Oladipo Diya, e di altri ufficiali condannati alla fucilazione per aver tentato un golpe nel dicembre 1997. I vari partiti politici coinvolti nel programma di transizione ricevettero pressioni e intimidazioni perché appoggiassero Abacha come unico candidato alla presidenza, e gruppi e individui furono reclutati allo scopo di dare legittimità alla sua elezione.77 Mentre preparava la sua «autosuccessione», Abacha avviò anche nuovi negoziati con il FMI e la Banca Mondiale per ottenere una revisione del programma di aggiustamento strutturale in corso d’applicazione, ma la sua morte improvvisa, nel giugno 1998, pose fine ai suoi piani. Il generale Abubakar, che gli succedette con l’incarico di completare la transizione «guidata», fu costretto ad impegnarsi in un programma di smilitarizzazione e ad ammettere tutti i partiti alle elezioni generali del 27 febbraio 1999. Queste videro l’elezione a presidente dell’ex generale Obasanjo e la vittoria del suo People’s Democratic Party (PDP) contro la coalizione tra l’All People’s Party (APP) e l’Alliance for Democracy (AD). Il NLC fu liberato dal controllo governativo ed emerse una nuova leadership sindacale. Il nuovo presidente del NLC, Adams Oshiomhole, proveniva dal sindacato dell’industria tessile ed aveva avuto un ruolo importante nell’organizzare la resistenza contro gli sforzi di Abacha di porre sotto controllo il movimento operaio.78
77 78
R.C. Njoku, «Deconstructing Abacha», cit., p. 82. B. Beckman, «Trade unions and institutional reform», cit. p. 101.
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4. TRANSIZIONI POLITICHE E MOVIMENTI SINDACALI A CONFRONTO
Nei capitoli precedenti abbiamo ricostruito le fasi dell’impegno del movimento dei lavoratori sudafricani e nigeriani nel percorso dei rispettivi paesi verso la democrazia. A questo punto disponiamo di elementi sufficienti per poter mettere a confronto le due esperienze, evidenziarne meglio le analogie e le differenze ed affrontarle da un punto di vista teorico. Gli elementi raccolti consentono di rispondere alle domande proposte nell’introduzione, individuando variabili rilevanti, modalità di coinvolgimento dei sindacati nelle lotte per la democrazia, strategie d’azione e forme di alleanze appropriate allo scopo.
4.1. Variabili esplicative per l’influenza politica dei movimenti sindacali Con le informazioni raccolte è possibile costruire uno schema approssimativo per la spiegazione dei singoli casi circa il ruolo dei movimenti sindacali nelle transizioni democratiche e, almeno in parte, per la formulazione di alcune ipotesi sui fattori che sembrano influenzare maggiormente gli esiti di questi processi. Per cominciare, è utile prendere le mosse dalle variabili indicate da Valenzuela ed enumerate sommariamente nel capitolo introduttivo, commentandole in base a quanto osservato finora, per poi indicare ulteriori elementi che a loro volta influiscono sui risultati dei casi sudafricano e nigeriano. 101
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In primo luogo, la forza relativa del movimento sindacale è senza dubbio un fattore molto rilevante per la possibilità del lavoro organizzato di partecipare attivamente alla transizione. Se, per esempio, in un dato paese il tasso di sindacalizzazione della forza-lavoro è sufficientemente elevato, gli attori principali del processo di transizione, vale a dire il governo e i partiti d’opposizione, difficilmente potranno ignorare le posizioni e le richieste del sindacato senza provocare un diffuso malcontento. Viceversa, un basso tasso di sindacalizzazione renderà facile per il governo e i datori di lavoro non tenere conto delle rivendicazioni sindacali e mantenere un regime di relazioni industriali relativamente sfavorevole ai lavoratori. Conseguentemente, il mancato raggiungimento degli obiettivi economici e sociali del movimento sindacale comprometterà la disponibilità dei lavoratori a concedere la propria lealtà al nuovo regime, con la possibilità che si sviluppino tendenze antisistemiche.1 Le statistiche ci informano che in Sudafrica il tasso di sindacalizzazione nel periodo della transizione oscillava tra il 50% ed il 60%, mentre in Nigeria il livello si attestava tra il 10% ed il 20%.2 Poiché in Sudafrica il sindacato è stato effettivamente coinvolto nei negoziati per la transizione, mentre in Nigeria ciò non si è verificato, l’ipotesi di Valenzuela su questa prima variabile sembra essere confermata dai dati empirici. Naturalmente, possono esservi delle differenze nei tassi di sindacalizzazione tra i diversi settori dell’economia: se i settori economici strategicamente più importanti – come l’industria petrolifera in Nigeria – sono maggiormente sindacalizzati rispetto alla media generale, i loro sindacati possono costituire una sorta di avanguardia, come nel caso della NUPENG. Maggiormente controversa è la questione di come la centralizzazione o decentralizzazione dei sindacati influisca sulla loro capacità 1 2
J.S. Valenzuela, «Labor Movements in Transitions to Democracy», cit., pp. 452-4. I. Macun, «Growth, Structure and Power in the South African Union Movement», cit., p. 63; A.N. Isamah, «Labour response to Structural Adjustment in Nigeria and Zambia», in T. Mkandawire & A. Olukoshi (a cura di), Between Liberalisation and Oppression, cit., p. 338.
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di mobilitare i lavoratori in supporto alla democratizzazione. Da un lato appare convincente l’ipotesi di Valenzuela secondo cui esiste una significativa differenza tra i casi in cui prevale un modello di organizzazione sindacale e di contrattazione collettiva basato sulla singola fabbrica e quelli in cui, al contrario, le relazioni industriali si svolgono al livello di settore: nel primo caso, i leader locali e la massa dei lavoratori percepirebbero la loro mobilitazione come qualcosa di parziale e limitato, che non avrebbe grosse ripercussioni sulla situazione economica e politica generale; nel secondo caso, la mobilitazione di sindacati di grandi settori industriali o categorie occupazionali, la cui influenza è proporzionale alle loro dimensioni, potrebbe avere effetti economici e politici più significativi ed indurre le elite ad aprire maggiori spazi per la negoziazione.3 D’altra parte, però, dal confronto tra l’esperienza sudafricana e quella nigeriana, simili dal punto di vista della centralizzazione dei sindacati, si riscontrano risultati divergenti nella risposta del regime autoritario – maggiore apertura al negoziato nel caso sudafricano, minore in quello nigeriano – il che può indurci a credere che questa variabile sia importante ma non decisiva. Per quanto riguarda invece l’unità o divisione politica del movimento sindacale, appare corretta l’idea che una leadership sindacale politicamente unita e provvista di legami con un partito politico, nel quale si riconosca la grande maggioranza dei lavoratori, presenti maggiori probabilità di successo rispetto al caso di una leadership divisa in fazioni e non collegata ad una simile compagine politica.4 Come abbiamo visto, il Sudafrica rientra sicuramente nella prima tipologia, mentre la Nigeria è senz’altro un esempio della seconda. Per quanto riguarda l’atteggiamento del regime nei confronti del lavoro, il problema è decisamente più complesso, poiché non si riferisce solamente al tipo di strategia di contenimento usata verso i sindacati ma anche al grado di «durezza» o di «mitezza» del trattamento ad essi riservato. I regimi che impiegano una strategia corporativa 3 4
J.S. Valenzuela, «Labor Movements in Transitions to Democracy», cit., pp. 454-5. Ibidem, pp. 455-6.
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possono essere più o meno duri nei loro rapporti con i sindacati. Nei termini usati da Valenzuela, i regimi «duri» (harsh) sono più propensi ad escludere i sindacati ed a limitarne i canali d’espressione, mentre quelli «miti» (mild) tendono all’atteggiamento opposto.5 Strettamente connesso con questo fattore è il grado di apertura o chiusura dello spazio politico, ovvero la maggiore o minore tendenza del regime a tollerare le attività politiche dei gruppi d’opposizione, inclusi quelli collegati al movimento sindacale: Valenzuela ritiene, ad esempio, che una combinazione di durezza verso i sindacati e di chiusura politica produca una stretta alleanza tra leadership sindacali e politiche contro il regime, e che un regime più benevolo nei confronti del sindacato ma politicamente chiuso (o viceversa) tenda ad allontanare le leadership sindacali da quelle di partito generando tensioni tra esse.6 In effetti, nel caso sudafricano l’alleanza tra il COSATU, l’ANC ed il SACP fu sicuramente favorita e cementata, tra le altre cose, dalla storica tradizione di intolleranza del regime di apartheid sia nei confronti dei sindacati non razziali sia verso i partiti d’opposizione. In Nigeria, a prima vista, sembrerebbe di avere di fronte un caso in cui il sindacato poteva usufruire di canali di espressione e di una certa inclusione nella politica economica, mentre il regime militare limitava in maniera più evidente le attività politiche. Questo potrebbe spiegare la lunga assenza di alleanze tra sindacato e partiti, ma a ben guardare il sindacato era sottoposto a restrizioni molto maggiori di quanto l’apparenza poteva far credere – si pensi alla repressione degli scioperi ad opera di Babangida durante l’aggiustamento strutturale, ma anche all’amministratore unico imposto al NLC da Abacha – e quindi la relazione, posta in questi termini, non appare conclusiva. Una determinante significativa dell’attitudine del movimento sindacale nei confronti della transizione è, secondo Valenzuela, il rapporto che esso ha con i principali attori politici che guidano il cambio di regime. Egli afferma che, se il sindacato ed il partito o i partiti ad esso collegati fanno parte della coalizione che guida la 5 6
Ibidem, p. 457. Ibidem, pp. 459-62.
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transizione senza occupare formalmente posizioni di governo, lasciando queste ultime ad altri gruppi con cui esistono buoni rapporti ed una fiducia reciproca, sarà maggiormente garantita la stabilità del regime democratico ed anche i vantaggi di lungo periodo per il movimento. Ciò perché – si sostiene – in questo modo la leadership collegata al sindacato può evitare di essere identificata con misure economiche potenzialmente impopolari.7 In relazione alle due esperienze qui esaminate, tuttavia, quest’idea sembra essere stata smentita in maniera piuttosto evidente dal corso reale degli eventi: in Sudafrica il COSATU ha sfruttato in maniera ottimale i suoi collegamenti con l’ANC ed il SACP – protagonisti del governo di unità nazionale – per evitare nei primi anni l’attuazione di scelte impopolari e promuovere invece politiche di protezione sociale; in Nigeria, dove il movimento sindacale non ha preso parte direttamente alla coalizione democratizzante, non si sono compiuti passi significativi in questo senso. Una possibile correzione ed integrazione di questo schema potrebbe essere sviluppata considerando l’inserimento del movimento sindacale nelle lotte per la democrazia e la natura e le modalità dell’istituzionalizzazione cui esso è soggetto al momento del suo ingresso sulla scena come potenziale protagonista della transizione. In primo luogo, occorre soffermarsi su come il contesto sociale, politico ed economico del paese condiziona sia la capacità d’intervento del sindacato sia la risposta del governo di fronte alle sue iniziative. In secondo luogo, osserveremo in che modo le strategie d’azione e mobilitazione del movimento sindacale possono aumentare o diminuire le sue possibilità di successo.
4.2. La posizione dei lavoratori nella società civile In termini generali, come abbiamo già accennato nell’introduzione, l’analisi dei processi di transizione alla democrazia fa leva in 7
Ibidem, p. 464.
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maniera decisiva sul concetto di società civile. Il ruolo di quest’ultima, in un contesto di accettazione multilaterale delle strutture formali e delle procedure per consentire alle forze politiche di competere nelle elezioni e di alternarsi al governo, è codificato in termini di rafforzamento e controllo della responsabilità istituzionale, mentre i partiti hanno il compito di aggregare i diversi interessi e di assorbire il potenziale antisistemico di determinate forze sociali, tra cui è citato esplicitamente il movimento operaio. Questa è anche la posizione di Valenzuela, che enfatizza l’istituzionalizzazione del movimento dei lavoratori come condizione essenziale perché esso possa contribuire positivamente alla transizione, e così facendo egli identifica il movimento dei lavoratori quasi esclusivamente con le organizzazioni sindacali coinvolte in un sistema tripartito di concertazione.8 È l’irrisolta ambiguità tra il lavoro come organizzazione e il lavoro come movimento a consentire a questo paradigma della transizione di minimizzare la dimensione non istituzionale e le sue implicazioni, e a trasformarlo in un modello normativo di «sindacalismo responsabile» che non ammette molte alternative.9 Tuttavia, senza considerare le dinamiche non istituzionali del lavoro come movimento, è difficile comprendere la sua posizione all’interno della società civile, e ciò specialmente in un contesto quale quello delle realtà africane, dove gli studi sulle transizioni hanno indotto vari autori ad individuare lo sviluppo della società civile come fattore decisivo nella democratizzazione. Ciò conduce alla nozione della società civile come distribuzione del potere in una sfera pubblica non istituzionale e proliferazione della vita associativa.10 Occorre anche considerare che in Africa la società civile è caratterizzata da profonde disuguaglianze di influenza ed accesso al potere, e dall’esistenza di modelli informali di subordinazione legati ad elementi come personalizzazione della politica, classe, etnicità, religione, genere e lin-
8 9 10
Ibidem. C. Lado, «The state and civil society», cit., p. 302. A. Arato & J. Cohen, Civil Society and Political Theory, Cambridge, Massachussets Institute of Technology Press, 1995.
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gua.11 Dunque il potere della classe operaia nella distribuzione di cui sopra, identificato specialmente come il potere di realizzare interessi che possono essere molto diversi tra loro, è sicuramente influenzato da elementi di identificazione ed aggregazione diversi da quelli di classe.12 Emerge allora come centrale il ruolo dei movimenti sociali per comprendere i modi in cui un settore della società civile come il movimento operaio può riuscire a potenziare la propria capacità di articolare alleanze e di definire agende politiche con un’ampia base di supporto, eventualmente anche in aperto conflitto con lo stato. Andando a confrontare l’esperienza sudafricana e quella nigeriana sulla base di quanto detto finora, si può osservare in effetti che le modalità del coinvolgimento del movimento sindacale nella mobilitazione dei vari settori della società civile in favore della democrazia, grosso modo, hanno seguito le dinamiche del sindacalismo dei movimenti sociali, così come descritte sommariamente nell’introduzione. Soprattutto in Sudafrica, il movimento operaio non si è limitato ad una sporadica collaborazione, dettata dalla necessità di fare fronte comune contro il regime, con i gruppi comunitari e con i vari movimenti sociali, ma in un certo senso e in una certa misura – certamente più di quanto sia normalmente possibile nelle società sviluppate occidentali – è divenuto esso stesso un movimento sociale, in un certo senso il movimento sociale per antonomasia.13 Le origini del social movement unionism in Sudafrica risalgono ai primi passi del movimento operaio nero, essendosi manifestato in forma embrionale già negli anni ’30 nelle campagne del sindacalismo indiano del Natal e successivamente in quelle del SACTU negli anni ’50. Negli anni ’70 i movimenti della Black Consciousness, e in particolare le organizzazioni studentesche, ebbero un ruolo centrale nella riorganizzazione del movimento sindacale, e dopo la rivolta di Soweto 11 12 13
R. Fatton, «Africa in the Age of Democratisation. The Civic Limitations of the Civil Society», in African Studies Review, Vol. 38, 1995, pp. 275-86. I. Macun, «Growth, Structure and Power in the South African Union Movement», cit., p. 70. H. Marais, South Africa: Limits to Change. The Political Economy of Transition, London, Zed Books, 1988, pp. 222-34.
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si fece sempre più intensa la collaborazione dei lavoratori con le organizzazioni civiche e giovanili, il che fece emergere il «sindacalismo politico» o social movement unionism come modello dominante di attivismo sindacale negli anni ’80.14 Nel 1987 più di un terzo degli abitanti di Soweto faceva parte di un sindacato o di un’organizzazione civica. Gli scioperi generali nelle aree locali dimostrarono il livello di organizzazione raggiunto nelle townships attraverso la combinazione di gruppi comunitari, studenteschi e sindacali.15 Ad incentivare lo sviluppo di una così estesa mobilitazione contro l’apartheid fu, paradossalmente, l’apartheid stesso. Il senso di oppressione ed umiliazione generato dalla segregazione razziale servì a definire le risorse e le strategie che rendevano possibili nuove forme di resistenza che la feroce repressione degli anni precedenti non poteva più prevenire. Si iniziò ad attaccare alla base le condizioni reali di una società divisa per razze, piuttosto che cercare di realizzare un’inclusione razziale che nel sistema vigente era possibile solo a condizione di essere limitata ad un’elite. Inoltre cominciò ad emergere un modello di organizzazione dei movimenti che potesse essere, a un tempo, vincolato ai contesti locali e collegato ad una piattaforma di lotta estesa a livello nazionale.16 Un altro fattore estremamente importante nel coinvolgimento del movimento operaio in questa forma di opposizione al regime fu, naturalmente, la connessione tra oppressione razziale e sfruttamento economico, che dalla fine degli anni ’70 iniziò ad essere indicata con l’espressione «capitalismo razziale», con il significato che l’apartheid non era un semplice residuo di un’epoca pre-moderna ma era parte integrante della 14
15
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J.D. Brewer, After Soweto. An Unfinished Journey, Oxford, Oxford University Press, 1986, pp. 157-207; R.M. Price, The Apartheid State in Crisis. Political Transformation in South Africa, 1975-1990, Oxford, Oxford University Press, 1991, pp. 162-6. K.C. Schwartzman & K.A. Taylor, «What caused the collapse of apartheid?», in Journal of Political and Military Sociology, Vol. 27 No. 1, p. 119. A. Nash, «The Moment of Western Marxism in South Africa», in T. Bramble & F. Barchiesi (a cura di), Rethinking the Labour Movement in the ‘New South Africa’, Aldershot, Ashgate, 2003, p. 97.
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modernità sudafricana, la forma peculiare assunta dal capitalismo in quello specifico contesto.17 Questa connessione facilitò notevolmente la sovrapposizione delle dinamiche razziali e di classe, consentendo di sintetizzare le molteplici identità sociali e fornendo ai vari gruppi la base di interesse comune necessaria alla collaborazione. In Nigeria lo sviluppo di un modello analogo di collaborazione tra i diversi settori della società in una mobilitazione comune per la democrazia è stato più difficoltoso, rallentato da alcuni fattori molto importanti. Uno di questi è stato sicuramente l’assenza dell’elemento razziale poiché, come sappiamo, la Nigeria non ha vissuto l’esperienza dell’apartheid (essa non fu neppure una settler colony durante il dominio britannico18), cui abbiamo appena attribuito un’importante funzione unificatrice. D’altra parte il movimento operaio nigeriano ha vissuto per gran parte della sua storia una condizione di grave frammentazione, causata molto probabilmente dal mancato sviluppo di un forte e radicato movimento nazionalista (ruolo svolto in Sudafrica dall’ANC). Infatti, spiega Munck, il nazionalismo è il denominatore comune delle varie lotte sociali e politiche contro il capitalismo dipendente o il colonialismo diretto: esso è l’ideologia unificatrice che porta coesione in una coalizione variegata di classi subalterne e potenziali classi dominanti.19 Questa carenza, a sua volta, è alla base dell’assenza di un partito politico che facesse da punto di riferimento per la classe operaia, il che ha generalmente impedito che la mobilitazione politica dei lavoratori si esprimesse nella forma di una partecipazione elettorale omogenea che rafforzasse il potenziale politico del movimento sindacale, mentre il principale veicolo di mobilitazione è stato costituito dalle affiliazioni etniche.20 Solo negli anni ’90 le lotte sindacali e quelle delle 17 18
19 20
Ibidem, p. 98. L’espressione settler colony indica quelle colonie britanniche – come la Rhodesia del Sud (Zimbabwe) o lo stesso Sudafrica – nelle quali si era insediata una consistente minoranza bianca, la quale gestiva direttamente gli affari amministrativi. A.M. Gentili, Il leone e il cacciatore, cit. R. Munck, The New International Labour Studies, cit., p. 165. R. Cohen, Labour and Politics in Nigeria, cit., pp. 147-50.
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minoranze etniche minacciate dall’espropriazione delle terre hanno finito per convergere in un’alleanza che ha coinvolto i movimenti comunitari, civici, ecologisti e studenteschi e le coalizioni democratiche, in una forma che ha finalmente consentito anche in Nigeria l’emergere di un sindacalismo dei movimenti sociali. Ne è un esempio significativo lo sciopero spontaneo del 1994, che creò l’occasione giusta per il superamento delle reciproche diffidenze e per la definizione di una strategia di integrazione tra le lotte locali ed il contesto politico nazionale.
4.3. Scelte strategiche La visione convenzionale del lavoro organizzato nella sua relazione con i processi di democratizzazione postula alcune idee generali sulle strategie d’azione che i sindacati dovrebbero adottare per contribuire positivamente alla transizione. Nell’introduzione ho accennato sinteticamente al tipo di condotta che, secondo i rappresentanti di questa scuola, ottimizzerebbe tale contributo. Occorre ora vedere schematicamente in che modo, per valutare empiricamente la corrispondenza di questa visione alla realtà, alla luce degli elementi raccolti. Secondo Valenzuela, quando il regime autoritario entra in crisi o dà inizio ad un processo di liberalizzazione, mitigando la repressione, la massa dei lavoratori approfitterà del momento politico per presentare una lunga lista di rivendicazioni rimaste inespresse. Questo stimolerà la mobilitazione e la partecipazione dei lavoratori alle attività sindacali, mentre i leader, specialmente quelli che erano stati perseguitati dal regime, cercheranno di riaffermare il proprio ruolo di negoziatori. I sindacati vengono riorganizzati e stabiliscono nuovi collegamenti con i partiti politici. Le rivendicazioni dei lavoratori possono però superare le capacità dell’economia o la volontà dei datori di lavoro e dei responsabili economici dello stato di rispondere in maniera soddisfacente, e un’ondata di scioperi e proteste può condurre ad una crisi prolungata. Le richieste dei leader per la modi110
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fica delle leggi sul lavoro possono incontrare forti opposizioni da parte dei datori di lavoro, che da leggi repressive hanno tratto vantaggio e che potrebbero perciò riconsiderare il loro impegno (se vi è stato) in favore del cambiamento politico. Allo stesso modo, i politici conservatori ed anche moderati, i vertici militari ed altri attori importanti possono essere allarmati dal supporto popolare dei leader sindacali e politici che essi considerano troppo radicali, e possono premere per una nuova chiusura politica.21 Dunque, afferma Valenzuela, una strategia che preveda un’elevata mobilitazione in certi momenti critici per le istituzioni autoritarie, seguita da una diminuzione di tale mobilitazione e dalla volontà e capacità della leadership sindacale di mostrare moderazione quando l’agenda politica volge a favore della democratizzazione, costituirebbe la combinazione ideale in termini di contributo del movimento operaio al successo della transizione.22 Questo schema ha qualcosa in comune con le teorie più ortodosse della scuola liberale: ne condivide cioè l’idea che, nel processo di transizione, il prezzo imposto dal vecchio regime per la cessione del potere politico sia un’accezione riduttiva della democrazia e la conservazione dello status quo economico e sociale. Entrambe le correnti mettono in guardia contro le pressioni popolari per un cambiamento più radicale che indurrebbe i conservatori ad annullare del tutto la democratizzazione.23 È importante rilevare, tuttavia, che in situazioni di questo tipo i governi si trovano a dover scegliere tra due tipi di comportamento nei confronti dei movimenti sociali. Essi possono tentare di indebolirli, oppure cercare di collaborare con loro per ottenerne l’appoggio. Dove i movimenti sociali sono molto forti, la prima opzione può comportare rischi elevati, poiché minaccia di compromettere il carattere democratico della transizione. Di conseguenza, i governi tentano spesso di assorbire i movimenti sociali con accordi di tipo cor21 22 23
J.S. Valenzuela, «Labor Movements in Transitions to Democracy», cit., p. 449-50. Ibidem. E. Webster & G. Adler, «Consolidating Democracy in a Liberalizing World», cit., p. 6.
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porativo, basandosi sull’assunto che questi smobiliteranno i movimenti e li terranno a freno.24 Se si ripercorre l’evoluzione degli eventi in Sudafrica a partire dalla metà degli anni ’80, quando il regime di apartheid entrò in crisi, si può osservare che in realtà non vi erano molte ragioni per ritenere che il governo fosse in grado di conservare ad oltranza il sistema sociale esistente senza preoccuparsi dello scontro con i movimenti della resistenza nera. Il regime razzista, che nei decenni passati aveva garantito le condizioni materiali per l’accumulazione capitalistica – in sostanza, per l’espansione ed il consolidamento della grande industria – non era più in grado di proteggere efficacemente tali interessi, poiché le sue politiche erano giunte a generare un livello di conflittualità sociale tale da mettere seriamente a rischio il futuro del capitalismo sudafricano. Questa conflittualità si traduceva nei fatti in proteste e pressioni così forti che il governo non aveva più la capacità di reprimerle come in passato, non disponendo più di risorse sufficienti da destinare a questo scopo (conseguenza, oltre che del ristagno economico, anche della perdita di credito negli ambienti finanziari internazionali), e col tempo iniziava a mancare anche della volontà di farlo. L’azione di massa organizzata dai sindacati di concerto con i movimenti sociali intensificò ulteriormente l’ingovernabilità del paese, a fronte della quale il regime finì per non avere più alcuna alternativa se non dare adito alla liberalizzazione politica.25 Il movimento operaio sudafricano ha avuto la capacità di plasmare i movimenti democratici, oltre che per il suo rapporto con i movimenti sociali, in virtù di una consolidata tradizione di autonomia, forte democrazia interna, responsabilità dei leader e controllo da parte della base, tutti fattori che ne hanno consentito l’espansione e la resistenza alla repressione. Inoltre, il bisogno da parte del capitale e dello stato di controllare le lotte dei lavoratori entrava in contraddizione con la necessità di cooptare i sindacati allo scopo di evitare la 24
25
D. Ginsburg & E. Webster, «South Africa: A Negotiated Transition», in G. Kester & O.O. Sidibé (a cura di), Trade Unions and Sustainable Democracy in Africa, cit., p. 113. Ibidem, pp. 113-14.
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rottura; questo consolidò la presenza nelle fabbriche dei sindacati, che furono in grado di ottenere la protezione legale senza rinunciare alla militanza.26 Durante la transizione e nella prima fase democratica, i sindacati portarono questa cultura di pragmatismo e flessibilità nelle nuove aree di confronto. Riconosciuto come interlocutore paritario, il COSATU poté partecipare ai negoziati tripartiti con il governo ed il capitale sulle scelte di politica economica, ricostruzione sociale e ristrutturazione del mercato del lavoro. Le strategie di mobilitazione del sindacato e il suo programma radicale hanno così contribuito in maniera decisiva alla transizione, imponendo la realizzazione di riforme più audaci («radicali», appunto) rispetto a quelle che ci si sarebbe potute attendere seguendo un approccio più moderato.27 Sotto questo aspetto il caso nigeriano si presenta più problematico, principalmente a causa della storica frammentazione interna del movimento sindacale e delle strategie adottate dal regime per indebolirlo. In generale, la rilevanza dello stato come datore di lavoro ha posto molti limiti allo sviluppo di collegamenti tra sindacato e movimenti democratici. Per esempio, con il sopraggiungere della crisi economica negli anni ’80-’90, il corporativismo è degenerato in contenimento ed esclusione nelle relazioni tra stato e lavoratori. Il governo conteneva il movimento dei lavoratori assumendo il controllo dei sindacati, minando l’influenza ed il potere delle loro leadership e rendendo l’attivismo sindacale a tutti i livelli difficile, rischioso e costoso. Il controllo dello stato condusse all’inaffidabilità del sindacato per la base e trasformò l’organizzazione centrale in un autentico canale di patronage. I sindacalisti andarono facilmente soggetti alla cooptazione ed entrarono spesso in connivenza con il governo nel sovvertire i processi democratici all’interno del movimento sindacale.28 La mancanza di controllo dei lavoratori sui propri leader sindacali limitava quindi la capacità del movimento di porre in essere una strategia di azione simile a quella dei sindacati sudafricani, che in26 27 28
C. Lado, «The state and civil society», cit., pp. 306-7. G. Adler & E. Webster, «Challenging transition theory», cit. E.R. Aiyede, «The Dynamics of Civil Society and the Democratization Process in Nigeria», cit., p. 13.
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vece di questo controllo democratico, come abbiamo osservato, hanno da sempre fatto uno dei propri principi fondamentali. A ciò occorre aggiungere ovviamente che una coalizione democratica allargata ai movimenti sociali non si è sviluppata finché la politica economica del regime militare non è giunta a colpire settori molto vasti della popolazione, fatto che ha generato una profonda crisi di legittimità del regime stesso.29 È stato questo fatto che, in ultima analisi, ha scatenato l’esplosione delle rivolte e degli scioperi che hanno paralizzato il paese, senza che la repressione attivata da Abacha potesse più mettere a tacere il dissenso che era ormai generalizzato e che, dopo la sua morte, non diede altra scelta all’elite militare che ritirarsi dall’arena politica. Anche se non si può dire che in Nigeria la transizione abbia avuto i tratti di una «riforma radicale» come in Sudafrica, il movimento sindacale ha dimostrato una certa capacità di mobilitare la propria base in favore della democrazia.
4.4. Continuità e discontinuità: i problemi del consolidamento Ogni studio serio sui processi di democratizzazione deve comprendere almeno un rapido sguardo al modo in cui un paese affronta gli anni immediatamente successivi alla transizione. Si tratta sempre di una fase estremamente delicata, in quanto essa costituisce un banco di prova per la capacità della neonata democrazia di risolvere i problemi ereditati dal vecchio regime ed affrontare quelli posti direttamente dalle nuove condizioni politiche. A questo punto sarà perciò utile discutere brevemente le opportunità che si presentano al movimento sindacale, ma anche le sfide che esso deve affrontare nel nuovo contesto democratico in Sudafrica e Nigeria, tenendo presenti i tempi differenti in cui le rispettive transizioni hanno avuto luogo.
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B. Beckman, «Trade unions and institutional reform», cit., p. 101.
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In Sudafrica la transizione ha apportato nell’immediato notevoli miglioramenti alla posizione dei lavoratori, sia sul piano sociale sia su quello politico. In particolare, il movimento sindacale guadagnò una grande rilevanza nella ridefinizione del sistema di relazioni industriali, come in parte ho già accennato. Le richieste del COSATU per una maggiore giustizia sociale da ottenere tramite intervento pubblico, espansione della domanda interna e redistribuzione avevano avuto un’importanza centrale nel RDP come programma elettorale dell’Alleanza Tripartita nel 1994; i sindacati trovarono posto insieme a governo ed imprese nel nuovo tavolo di contrattazione sulla politica economica e di proposta legislativa costituito nel 1995 con il NEDLAC; infine, il Labour Relations Act del 1996 riconosceva i pieni diritti sindacali, l’accesso alla contrattazione collettiva ed il ruolo di consenso e concertazione nella definizione dei futuri assetti contrattuali.30 In aggiunta a ciò, il governo affrontò l’eredità del regime di apartheid con l’introduzione dello Skills Development Act per accelerare lo sviluppo di abilità e competenze lavorative, e dell’Employment Equity Act per offrire eguali opportunità ai settori della forzalavoro precedentemente svantaggiati. Le innovazioni istituzionali derivate dal regime in materia di lavoro crearono nuove e più ampie possibilità per il movimento sindacale, che dopo la transizione ha registrato una crescita costante in termini numerici: i 2,7 milioni di iscritti ai sindacati del 1995 sono diventati 3,6 milioni nel 2002, oltre la metà dei quali sono membri del COSATU.31 Questo ha allargato il suo impegno in nuove aree di responsabilità istituzionale e, trovando nel nuovo governo un interlocutore amichevole, ha gradualmente attenuato il proprio orientamento militante sperimentando un nuovo atteggiamento aperto al compromesso.
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F. Barchiesi, «COSATU e governo democratico tra istituzionalizzazione politica e marginalizzazione sociale (1994-1999)», in Afriche e Orienti, No. 2, 1999, p. 9. E. Webster & S. Buhlungu, «Between Marginalisation & Revitalisation? The State of Trade Unionism in South Africa», in Review of African Political Economy, No. 100, 2004, p. 231-2.
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Tuttavia, parallelamente a questi cambiamenti, il lavoro si è trovato ad affrontare una nuova serie di sfide emerse dalla globalizzazione. In particolare, vi sono state crescenti pressioni sull’economia sudafricana per competere sul mercato globale nel contesto di un nuovo paradigma del lavoro. Questo paradigma ha incoraggiato le imprese a distinguere tra un nucleo di lavoratori qualificati ed un crescente strato di lavoratori generici, precari e dunque vulnerabili. Così la transizione ha avuto risvolti paradossali per i lavoratori, perché se da un lato essa ha rafforzato i diritti sindacali, dall’altro ha iniziato ad intaccare proprio questi diritti e ad aggirare le nuove istituzioni.32 La filosofia del RDP, combinata con il potenziale impatto della riforma delle relazioni industriali basata sul black empowerment, forniva una forte alternativa al Normative Economic Model del NP che sosteneva un ruolo limitato del governo nella politica economica e di sviluppo. Nel 1993 un gruppo di ricercatori, il Macroeconomic Research Group (MERG), tentò di tradurre questa alternativa in un programma basato su un modello macroeconomico: essi usavano un approccio neo-keynesiano, che implicava un ruolo centrale per lo stato nel rettificare le condizioni strutturali create dall’economia dell’apartheid.33 Ma la maggior parte delle proposte del MERG non furono mai adottate. La leadership dell’ANC decise presto una serie di inversioni nella politica economica, adottando posizioni sempre più vicine all’ortodossia neoliberista. Infine, nel giugno 1996, il Ministro delle Finanze Trevor Manuel definì una nuova strategia, chiamata Growth, Employment and Redistribution (GEAR). La GEAR si proponeva obiettivi ambiziosi: un ritmo di crescita economica del 6% annuo e la creazione di 400.000 posti di lavoro ogni anno a partire dal 2000, da ottenere tramite riduzione del debito pubblico, riduzione delle tariffe, agevolazioni fiscali per incoraggiare gli investimenti privati ed un ampio programma di privatiz-
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Ibidem, p. 230. A. Bezuidenhout, «Towards global social movement unionism?», cit., p. 380.
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zazioni.34 In uno scenario di stagnazione economica e di crescente disoccupazione, il Sudafrica ha così sperimentato quello che è stato definito un «aggiustamento strutturale endogeno» (homegrown structural adjustment) che combina la promozione della posizione del paese nel mercato globale con dei patti sociali, mediante negoziati istituzionali che promuovono la cooperazione e la smobilitazione dei lavoratori.35 I rapporti tra sindacati e governo sono dunque complicati dall’incompatibilità tra le politiche economiche neoliberiste portate avanti dall’ANC e le posizioni contrarie del COSATU, il quale si trova nella difficoltà di dover risolvere le contraddizioni del suo duplice ruolo di forza di governo e rappresentante di interessi di classe.36 Per quanto riguarda la transizione nigeriana, essa si trova ancora ad uno stadio poco avanzato per poter parlare seriamente di «consolidamento», ma è comunque possibile fare alcune osservazioni. Occorre premettere che la costituzione stabilita nel 1999 con decreto della giunta militare uscente, poco prima dell’insediamento del governo civile, è stata oggetto di molte critiche per la sua natura «non democratica» e poco recettiva delle richieste popolari, e perciò poco adatta per affrontare la sfida del consolidamento della democrazia.37 Al di là di questo aspetto, ci interessa soprattutto rilevare che i sindacati hanno mantenuto una certa distanza dalle forze, sia interne sia esterne, che hanno cercato di rovesciare la dittatura di Abacha, e quindi hanno avuto poca influenza diretta sulla politica della transizione. La difesa dei diritti sindacali, tuttavia, ha contribuito a sostenere un certo livello di autonomia ed integrità organizzativa al livello della società civile. La lunga crisi ha esacerbato le rimostranze 34
35 36
37
E. Webster & G. Adler, «Towards a Class Compromise in South Africa’s “Double transition”: Bargained Liberalization and the Consolidation of Democracy», in Politics & Society, Vol. 27 No. 3, 1999, p. 367. F. Barchiesi, «Beyond the State and Civil Society», cit., p. 164. D.T. McKinley, «COSATU and the Tripartite Alliance since 1994», in T. Bramble & F. Barchiesi (a cura di), Rethinking the Labour Movement in the ‘New South Africa’, cit., pp. 43-61. J.O. Ihonvbere, «How to make an undemocratic constitution: the Nigerian example», in Third World Quarterly, Vol. 21 No. 2, 2000, pp. 343-366.
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settoriali ed ha minato l’impegno popolare al progetto nazionale. La stessa ricostruzione del movimento sindacale ha costituito una priorità nell’agenda della nuova leadership. In passato, la debole e casuale risposta dello stato alle crisi economiche e ai problemi delle riforme ha paralizzato l’economia e la società. Lo stato è profondamente screditato e necessita di coltivare le poche possibilità di legittimazione politica che ancora possono essere aperte.38 La capacità del nuovo NLC di intervenire nella politica e di raccogliere un vasto consenso popolare è stata dimostrata con lo sciopero generale del giugno 2000, indetto per protesta contro un aumento del 50% nei prezzi locali del petrolio. Il governo aveva firmato, alla fine di maggio, un accordo con la Banca Mondiale per un nuovo prestito, a condizione di un adeguamento ai prezzi del mercato mondiale. La decisione, tuttavia, non fu preceduta da una discussione parlamentare né da consultazioni con le parti sociali. Il NLC minacciò uno sciopero generale e rifiutò un compromesso che avrebbe limitato l’aumento al 25%. Il sindacato lamentava di non essere stato consultato e affermava che prima di avviare una discussione su un possibile aumento il governo avrebbe dovuto ripristinare il prezzo originale.39 Lo sciopero ricevette un vasto appoggio a livello nazionale e vi aderirono molti gruppi della società civile, causando una paralisi virtuale della vita economica del paese. I governatori di alcuni stati espressero solidarietà verso le ragioni del sindacato ed anche alcuni parlamentari del PDP si dissociarono dalla posizione del governo. Dopo cinque giorni di sciopero fu raggiunto un accordo per un aumento dei prezzi del 12,5%; il presidente Obasanjo si scusò con la nazione, riconoscendo che il drastico aumento deciso precedentemente era stato un errore. Il successo dello sciopero del 2000 può essere indicativo tanto della debolezza dello stato quanto della forza dei sindacati. Esso è servito, comunque, a rinvigorire l’immagine pubblica del movimento sindacale come forza determinante nel migliorare la capacità della società civile di mobilitarsi e di influenzare lo stato. Lo sciopero ha 38 39
B. Beckman, «Trade unions and institutional reform», cit., p. 102. Ibidem.
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accresciuto il peso della partecipazione sindacale e popolare al processo di riforma in generale. Il governo ha avviato un esteso programma di riforme in consultazione con le istituzioni finanziarie internazionali, e vivaci dibattiti stanno avendo luogo all’interno del sindacato. Sull’elettricità, per esempio, il presidente del NLC si è espresso a favore della privatizzazione, mentre il segretario generale della National Union of Electricity Employees (NUEE) si è detto contrario, pur prendendo parte al Power Sector Reform Implementation Committee accanto al rappresentante locale della Banca Mondiale.40
4.5. Osservazioni conclusive In questo saggio ho tentato di sviluppare un’analisi comparata ed una spiegazione del ruolo dei movimenti sindacali nei processi di democratizzazione verificatisi in Sudafrica e Nigeria. Grazie all’alleanza con altre forze sociali, il ruolo dei lavoratori si è dimostrato un fattore estremamente importante nella formazione di istituzioni democratiche. Contemporaneamente, abbiamo osservato la natura contraddittoria delle pressioni cui il movimento sindacale è andato soggetto. In entrambi i paesi, i lavoratori hanno avuto una forte influenza sulle lotte per la democrazia, in virtù della loro capacità, come movimento, di attivare mobilitazioni di massa in collegamento con altri attori sociali, bisogni e rivendicazioni. Nel caso sudafricano, i sindacati sono fortemente vincolati alla democrazia diretta di base, ed il controllo operaio ha catalizzato le richieste di cambiamento dei movimenti sindacali e sociali. Questi sindacati sono divenuti un attore di massa a sostegno di una coalizione di interessi. Ma dopo la transizione, essi si sono trovati a dover affrontare le sfide emerse dall’avanzare dell’ideologia neoliberista nella forma di programmi endogeni di aggiustamento strutturale promossi dall’elite politica ed economica. Questo ha contribuito ad una crescente istitu40
Ibidem, p. 103.
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zionalizzazione delle organizzazioni sindacali entro una cornice di restringimento delle opzioni politiche sociali progressiste. Nel caso nigeriano, le difficoltà e i ritardi della transizione democratica sono stati facilitati dalla capacità dei regimi militari di istituzionalizzare i sindacati e di intervenire nella loro vita interna, separandoli così dalla militanza della base. Ciò è stato ottenuto principalmente tramite l’attuazione di programmi di aggiustamento strutturale di stampo neoliberista, con conseguenze sociali decisamente negative. La mobilitazione sul lavoro ha catalizzato un’ampia gamma di rimostranze. Tuttavia, la distanza creata tra queste dinamiche di resistenza e le organizzazioni sindacali e politiche ha posto molti ostacoli di fronte alle forze democratiche nigeriane, che devono fare i conti con uno stato debole e soggetto a pressioni opposte. Una delle principali differenze tra i sindacati sudafricani e nigeriani riguarda, lo abbiamo visto, le basi legali dell’autonomia istituzionale. In Sudafrica, i sindacati hanno esercitato un ruolo di guida nella transizione, soprattutto negoziando la ridefinizione delle leggi fondamentali sul lavoro che regolano i diritti sindacali. Questo non è avvenuto in Nigeria, dove i sindacati hanno operato in una cornice legale che è il risultato dell’intervento e dell’imposizione statale. Benché siano riusciti parzialmente a difendere la loro autonomia, ciò ha reso i sindacati nigeriani vulnerabili all’ulteriore, ostile intervento statale, come dimostrato nel 1988 e nel 1994, quando il governo ne sciolse gli esecutivi eletti ed impose i propri amministratori-commissari. A conti fatti, comunque, appare possibile rilevare un’importante analogia tra le due esperienze: in entrambi i casi, l’istituzionalizzazione del movimento sindacale si è dimostrata funzionale all’adozione di politiche neoliberiste. Anche se i movimenti sindacali hanno avuto a che fare con differenti contesti istituzionali, sembra che l’egemonia del neoliberismo presenti loro le stesse alternative: la scelta è tra istituzionalizzazione e marginalizzazione. Se da un lato la mobilitazione è necessaria alla creazione dello spazio politico per la transizione, dall’altro le forze della società civile possono essere condizionate dal successivo riallineamento della coalizione sociale dominante su schemi di democrazia strettamente formale e politiche economiche e sociali di stampo conservatore. La visibilità dei lavo120
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ratori nella mobilitazione risulta perciò oscurata, e la democrazia diviene poco più che una strategia di contenimento e di legittimazione per varie forme di aggiustamento economico. Occorre sottolineare che il concetto di potere politico del lavoro sotto il neoliberismo si trova in contrapposizione al mito degli economisti, secondo cui l’imparziale «mano invisibile» della competizione globale ed il funzionamento del mercato del lavoro determinerebbero essenzialmente le condizioni dei lavoratori. Questa è la logica delle politiche di aggiustamento strutturale. In effetti, i livelli salariali in entrambi i paesi sono senza dubbio determinati automaticamente dalla produttività, dal mercato globale e dalla competizione; la distribuzione del prodotto sociale dipende dal potere contrattuale di capitale e lavoro. Esistono, tuttavia, spazi di manovra da entrambe le parti all’interno di ogni impresa, così come in ogni luogo del mercato globale. Una migliore o peggiore condizione dei lavoratori nel nuovo assetto politico e sociale, in fin dei conti, sarà determinata essenzialmente dall’esito di questo confronto.
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6. ABBREVIAZIONI E SIGLE
ACWU AD AG AMWU ANC ANTUF APP ASUU BAWU BCAWU BTUC CCOBTU CD CNETU COSAS COSATU CPC CPSA CWIU EFF FCT FEDSAL FEDUSA FMI FOFATUSA FOSATU GATT GEAR
African Clothing Workers Union Alliance for Democracy Action Group African Mineworkers Union African National Congress All-Nigeria Trade Union Federation All People’s Party Academic Staff Union of Universities Black Allied Workers’ Union Building, Construction and Allied Workers Union Biafran Trade Union Confederation Consultative Committee of Black Trade Unions Campaign for Democracy Council of Non-European Trade Unions Congress of South African Students Congress of South African Trade Unions Coloured People's Congress Communist Party of South Africa Chemical Workers Industrial Union Extended Fund Facility Federal Capital Territory Federation of South African Labour Federation of Unions of South Africa Fondo Monetario Internazionale Federation of Free Trade Unions of South Africa Federation of South African Trade Unions General Agreement on Tariffs and Trade Growth, Employment and Redistribution 135
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GWU ICFTU ICU IFCTU ILO IULC IWA IWW JAC MAWU MERG MK NACTU NADECO NANS NCNC NCTUN NEDLAC NEF NEPU NFL NLC NMC NNA NNDP NNFL NP NPC NPN NRC NTUC NUEE NUM NUMSA
General Workers Union International Confederation of Free Trade Unions Industrial and Commercial Workers' Union of Africa International Federation of Christian Trade Unions International Labour Organization Independent United Labour Congress Industrial Workers of Africa Industrial Workers of the World Joint Action Committee Metal and Allied Workers Union Macroeconomic Research Group Umkhonto we Sizwe National Council of Trade Unions National Democratic Coalition National Association of Nigerian Students National Council of Nigerian Citizens National Council of Trade Unions of Nigeria National Economic, Development and Labour Council National Economic Forum Northern Elements Progressive Union Northern Federation of Labour – Nigerian Federation of Labour Nigerian Labour Congress National Manpower Commission Nigerian National Alliance Nigerian National Democratic Party Nigerian National Federation of Labour National Party Northern People’s Congress National Party of Nigeria National Republican Convention Nigerian Trade Union Congress National Union of Electricity Employees National Union of Mineworkers National Union of Metalworkers of South Africa 136
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NUPENG NUSAS NUTW NWC OATUU PAC PDP PENGASSAN PWAWU RDP SAAWU SACCOLA SACL SACOD SACP SACTU SAFNETU SAIC SAIRR SASO SATLC SATUC SDP SFAWU TAWU TGWU TUACC TUCN TUCSA UCCLO UDF ULC UMBC
National Union of Petroleum and Natural Gas Workers National Union of South African Students National Union of Textile Workers Nigerian Workers’ Council Organization for African Trade Union Unity Pan-Africanist Congress People’s Democratic Party Petroleum and Natural Gas Senior Staff Association Paper, Wood and Allied Workers Union Reconstruction and Development Programme South African and Allied Workers Unions South African Consultative Committee on Labour Affairs South African Confederation of Labour South African Congress of Democrats South African Communist Party South African Congress of Trade Unions South African Federation of Non-European Trade Unions South African Indian Congress South African Institute of Race Relations South African Students Organisation South African Trades and Labour Council South African Trade Union Congress Socialist Democratic Party Sweet, Food and Allied Workers Union Transport and Allied Workers Union Transport and General Workers Union Trade Union Advisory Co-ordinating Council Trade Union Congress of Nigeria Trade Union Council of South Africa United Committee of Central Labour Organizations United Democratic Front United Labour Congress United Middle Belt Congress 137
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UNAMAG UPGA UTP WFTU WPGWU WPWAB
Amalgamated Union of the United Africa Company African Workers United Progressive Grand Alliance Urban Training Project World Federation of Trade Unions Western Province General Workers Union Western Province Workers Advice Bureau
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