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TANITH LEE FORESTA ELETTRICA (Electric Forest, 1979) Questo romanzo è dedicato, con riconoscenza e affetto, a Donald ed Elsie Wollheim. T.L. Premessa: Christophine del Jan (Registrazione-sonogramma archiviata) La documentazione che segue è stata compilata desumendola dai dati registrati sui nastri, e sistemata in forma narrativo-descrittiva nel tentativo di fare finalmente luce su ciò che accadde fra il 10-4-1 ed il 9-1-2 della Terza Zona, fra le stagioni di «Blue» e di «Fall» del pianeta Indigo. Chiedervi di leggere può essere, in questo modo, noioso. Vorrei chiedervi, tuttavia, di seguire l'intera sequenza del manoscritto, resistendo all'impulso di anticiparne la fine. Dopotutto, qui la motivazione soggettiva è l'elemento chiave, poiché sono l'emotività e la psicologia che provvedono a spiegare tale motivazione. Non si può imparare nulla senza un po' di rischio e, soprattutto, di pazienza. Tutto il resto del materiale è naturalmente reperibile nei nastri audiovisivi. Ma vorrei mettervi in guardia dall'usarli prima di aver assimilato il manoscritto. La storia è ora a vostra disposizione. C.d.J. Capitolo Primo: La preda e il cacciatore I Ugly, ritta e immobile, era al suo posto davanti alla macchina confezionatrice. La macchina stava sfornando alcuni tipi di stoffe leggere, ma Ugly, come al solito, dalla sua posizione non vedeva ciò che lei stessa aveva com-
missionato alla complessa apparecchiatura che le stava di fronte, non vedeva né il cotone sintetico prodotto in uno dei tubi superiori, né il crespo di seta ricamato che si stava formando più in basso. Nulla faceva trasparire all'esterno le metamorfosi che si andavano compiendo nelle viscere della macchina. Nello spazio ristretto, tre metri per due, Ugly era sola con quelle macchine, e faceva scorrere in fretta le dita tozze sul quadrante di tasti rossi e verdi, distrattamente ma con efficenza. Era facile far funzionare la confezionatrice. Era il tipo di lavoro che lasciava la mente libera di dedicarsi ad altri pensieri. Purtroppo, Ugly aveva ben poche cose piacevoli a cui pensare. Il suo turno di lavoro era di tre ore a giorni alterni — cinque giorni ogni Dek: il primo, il terzo, il quinto, il settimo ed il nono giorno del Dek. Ogni cinque Dek aveva un periodo di ferie. Per questo suo incarico — il lavoro di sorveglianza e di messa in funzione della macchina confezionatrice — guadagnava duecento astrad al mese (cioè ogni quattro Dek circa). Ne spendeva più o meno centocinquanta per l'alloggio, il vitto e gli altri generi di prima necessità. I cinquanta astrad restanti erano quelli che, in teoria, avrebbe dovuto destinare alle spese voluttuarie, vale a dire ai divertimenti. Purtroppo, anche in questo Ugly non era nella posizione ideale: aveva ben poche occasioni di spenderli, i suoi cinquanta astrad in più. Il suo nome, ovviamente, non era «Ugly», che poi significava «brutta». Quello era semplicemente il modo in cui la chiamavano quasi tutti. E non era nemmeno particolarmente crudele, quel soprannome, ma solo maledettamente azzeccato. Forse le prime volte, molto tempo addietro, era stato usato con malizia, ma poi quelli che continuavano a chiamarla così non pensavano neanche più al significato intrinseco della parola, la pronunciavano e basta, come fosse veramente il suo nome. Ugly stessa non aveva mai mostrato di farvi caso e non aveva mai protestato. Comunque, un nome l'aveva: si chiamava Magdala Cled. Su ogni pianeta del Concilio dei Mondi, il concepimento di un feto era sempre il risultato, rigidamente controllato, di selettive fecondazioni artificiali. Ciò assicurava la bellezza; infatti ogni bambino che nasceva era bello. Tuttavia, persino in materia di contraccezione a volte succedevano degli errori, e capitava — anche se assai di rado — che un feto venisse concepito 'biologicamente', alla vecchia maniera, insomma. Il seguito a questi 'errori', poteva a volte capitare che venissero alle luce bambini tutt'altro che perfetti. Si dava il caso che Magdala Cled fosse proprio uno di questi bambini.
Sua madre era una prostituta in regola, con licenza e tutto; nessuno era mai stato in grado di identificare suo padre. Troppo presa dal lavoro, la donna aveva dimenticato di abortire finché non era stato troppo tardi. Così aveva messo al mondo sua figlia e l'aveva affidata, con i cinquecento astrad richiesti, allo Stato. Magdala era cresciuta in un istituto statale. Un'intelligenza brillante ed una curisità innata erano state presto inaridite nel deserto di una vita scolastica regolata in modo rigido e meccanico, in cui non c'era né spazio per speculazioni teoriche, né tempo per risposte adeguate alle domande fondamentali dell'esistenza che un bambino avrebbe potuto porsi e porre agli altri. Questo potenziale intellettivo, inoltre, era stato anche sommerso dalla crudeltà spontanea dei compagni di scuola, i quali (forse in un inconscio moto di autodifesa) avevano un po' paura di Magdala e facevano fatica ad accettare la sua presenza fra di loro. Perché quella era una società fatta di schemi mentali predisposti e di gente bella, ed era molto raro trovarvi la bruttezza — o anche solo la diversità. «Ugly!», «Brutta!», gridavano i bambini alla piccola Magdala, mentre le tiravano i capelli o la picchiavano o le giravano attorno con aria di scherno. Quasi come se, con quei costanti assalti, avessero potuto trasformarla in qualcosa di meno spaventoso. Ma Magdala Cled, soprannominata «Brutta», diventava sempre più brutta man mano che cresceva. Finché, divenuta adulta, la sua bruttezza aveva raggiunto il culmine. Era alta meno di un metro e mezzo, e le naturali curve femminili in lei erano talmente inesistenti da far quasi balenare l'immagine di un gran macchinario che l'avesse schiacciata e piallata sia davanti che dietro. Sgraziata, storta, irreparabilmente scarna, Magdala camminava con un passo un po' strascicato e un po' saltellante. Dalle sue spalle sghembe uscivano braccia magre che terminavano in larghe mani a spatola. E dalla sua testa un ciuffo di capelli scuri e radi cadeva giù sul collo in ciocche moscie e scomposte. Perfino la forma del suo cranio dava adito a commenti ironici. In altre circostanze, avrebbe potuto essere la testa di una donna consapevole e geniale. Il viso avrebbe potuto essere interessante, anche se non grazioso. Ma anche definirla interessante si era rivelato impossibile: ci avevano pensato il naso sproporzionato e la palpebra sinistra che spesso ricadeva standosene semichiusa al contrario dell'altra. Solo la bocca era ben formata; tuttavia, i denti erano stati tolti da quella bocca molto tempo prima, e rimpiazzati dalla prima dentiera che era capitata sottomano e che era male in arnese come il destino che aveva reso necessaria la sua applicazione.
Insomma, obiettivamente, Magdala meritava il suo soprannome. E quel soprannome la seguì anche lontano dall'istituto e dall'infanzia; lei stessa sarebbe stata l'ultima persona a rifiutarlo. Solo dentro di lei, ben chiuso nel profondo, mai lasciato intravedere agli altri, il dolore infuriava; e col dolore, la rabbia. Cercava di nasconderli anche a sé stessa, quando poteva. In tutto il Concilio dei Mondi — e quindi, ovviamente, anche sul pianeta Indigo che ne faceva parte — un intervento di chirurgia plastica costava molti più astrad di quanti un addetto alle macchine confezionatrici potesse risparmiarne in sette anni. Persino se si trattava di un super-risparmiatore come Magdala. Siccome, in quella società di persone belle, gli interventi per migliorare l'estetica non erano molto richiesti, i chirurghi specializzati in tali interventi compensavano la scarsità di lavoro con il prezzo esorbitante. Inoltre, Magdala non doveva far altro che guardarsi in uno specchio per sapere che su di lei ci sarebbero volute operazioni molto più lunghe e complesse che su chiunque altro. Era un caso senza speranza. E se pensava a qualcosa, mentre spostava velocemente le dita sui tasti della macchina confezionatrice durante il suo ripetitivo lavoro, la brutta Magdala pensava a questo. Un pensiero solo, un pensiero abituale ed ossessivo, una spina nel cervello più che un pensiero. A volte, su quella sua nascosta disperazione di sempre, si sovrapponeva il ricordo degli sguardi degli altri, della pietà e della repulsione che trasparivano dalle occhiate fredde e disgustose dei conoscenti (no, non degli amici: non erano amici). Alle tredici — il mezzogiorno di Indigo — terminava il turno di lavoro di Magdala. Ed anche quel giorno, la ragazza che doveva sostituirla per il turno sucessivo era in ritardo; come sempre, del resto. Senza protestare, e senza nemmeno pensare a protestare, lei restò al suo posto e continuò a premere i tasti del quadrante, finché l'altra entrò nella 'stanza', cioè in quei tre metri per due di spazio che c'era davanti alla macchina. «Grazie, Ugly», disse la nuova arrivata, ed era chiaro che usava quell'epiteto solo per abitudine, come avrebbe usato qualunque altro nome, senza alcuna intenzione di ferirla. «Mi dispiace di essere in ritardo anche questa volta. Dovevo sistemarmi un po'.» La ragazza era attraente anche se indossava camice da lavoro. Si sistemò nel posto lasciato libero da Magdala e premette uno dei tasti del quadrante con un ditino dall'unghia di fragola. I suoi capelli avevano il colore dell'oro puro, capelli a diciotto carati, e gli occhioni fissarono la macchina con aria ostile. «Tre ore di questa noia.
Cristo. Spero che il prossimo Dek mi passino alle sfilate o almeno ai banchi-vendita.» Magdala si fermò sulla soglia della stanzetta, guardando l'altra con un'espressione pressoché impenetrabile in quella maschera clownesca che era la sua faccia. Le sfilate di moda ed i banchi di esposizione comportavano turni di lavoro di due ore soltanto, anziché tre, con un guadagno di cinquanta astrad in più al mese; ma, naturalmente, quei turni, dato il contatto col pubblico che richiedevano, erano riservati alle persone più belle. La ragazza dorata fece un gesto di saluto con le dita dalle unghie di fragola. «Vai pure, Ugly, vai. Non preoccuparti. Sto aspettando la visita di un supervisore ai banchi-vendita; arriverà fra un minuto... ed è una visita privata». Ugly lasciò in fretta la stanza della macchina, e si avviò col suo passo esitante lungo il corridoio. Alla sua destra, le stanze di altre macchine, tutte uguali, s'aprivano sulla parete in rapida successione. A sinistra invece torreggiava l'enorme mole dei generatori solari. Giunta al termine del corridoio, Magdala inserì la sua tessera di riconoscimento nel dispositivo di controllo che registrò l'uscita di fine turno, poi entrò in uno sgabuzzino che fungeva da spogliatoio, si cambiò in fretta e lasciò lì il camice da lavoro. Avviluppata nei suoi soliti abiti comodi e privi di eleganza, entrò nell'ascensore e poco dopo emerse nell'aria ozonizzata della città. Era Blue, cioè «Azzurro», la stagione che su Indigo precede Fall, «Pioggia». Nelle aiuole ben potate che costellavano i viali della città, l'erba ambrata dell'estate stava prendendo a poco a poco le fumose sfumature invernali; sugli alberi a ombrello lungo i marciapiedi, le foglie luccicavano a lapislazzuli. Sotto quelle fronde, alla base dei tronchi, i piccoli tappeti formati dalle rose erano anch'essi azzurri, di un azzurro intenso sfumato in una tonalità calda sotto il sole a picco. Una continua vibrazione di sottofondo veniva dalla città; il ronzio dei generatori solari in funzione sui tetti più alti delle case e sulle cime delle torri, l'incessante rombo in sordina dell'invisibile ed inarrestabile viavai dei veicoli che correvano lungo le ferrovie sotterranee. Eppoi c'erano, sommati e fusi, i mormoni indistinti delle tantissime piccole cose automatiche di cui si circondava la gente — macchine e macchinette di ogni genere funzionanti come punti di vendita per diverse mercanzie — e i battiti degli orologi, i sibili degli avvisi luminosi che si accendevano come gemme di luce sui muri dei palazzi, la sorda pulsazione regolare del pavimento rotante che occupava la corsia centrale del-
la larga strada, e le note sussurrate di migliaia e migliaia di ascensori, scale mobili, finestre automatiche, porte girevoli. C'era pochissima gente, nella strada. Il cambio dei turni di lavoro era passato da quasi un'ora: ormai, l'area commerciale della città, fino al cambio di turno successivo, sarebbe rimasta così, vuota o quasi. In quel vuoto, un uomo, giovane bello, che passava sulla sezione più lenta del pavimento mobile, gettò uno sguardo a Magdala. Aveva i capelli di seta pallida. Stava ascoltando qualcosa, forse della musica, da un dischetto d'argento che teneva appoggiato all'orecchio, ma i suoi grandi occhi luminosi si posarono sulla donna e vi rimasero. Una volta o due Magdala aveva udito un commento di qualcuno che aveva notato il suo aspetto. «È orribile. Se le assomigliassi, chiederei un lavoro negli impianti extraurbani per non dover girare in città». E qualcun altro aveva risposto: «Se fossi così inghiottirei abbastanza sonniferi da essere sicuro di non svegliarmi». Era abituata a tutto questo; agli sguardi, alle parole. Sembrava che non vi facesse caso. Sembrava. Il giovane dai capelli pallidi passò oltre, mentre il pavimento mobile continuava a scorrere portandolo un po' lontano, ma voltò la testa come per guardarla ancora. Si tolse dall'orecchio il minuscolo disco d'argento, che diffuse intorno le note lievi di una musica lenta prima di venire spento, e se lo mise in tasca. Con un movimento agile, balzò giù dal pavimento mobile, e si fermò a fissare Magdala con aria incredula. Lei non se ne accorse. Si era voltata ed aveva ripreso a camminare verso casa. Camminava anziché usare il pavimento mobile perché, con la suo andatura malferma, faceva fatica a salire sulla fascia rotante rimanendo in equilibrio. Ma, soprattutto, sapeva che molti non avrebbero avuto piacere di viaggiare assieme a lei e avrebbero addirittura aspettato che si srotolassero parecchi metri di strada prima di salire a loro volta. Per la stessa ragione evitava i mezzi di trasporto sotterranei, i teatri, e la stragrande maggioranza dei luoghi affollati. Camminava sola, sui marciapiedi di cemento solido e immobile che gli altri di solito non usavano, sola con la sua angosciosa bruttezza e con la sua andatura barcollante. A sei isolati dalla fabbrica di vestiti in cui lavorava come addetta alle macchine confezionatrici, il viale aperto finiva in due arcate che portavano alla zona della abitazioni. Quello poteva essere il momento più imbarazzante della giornata, per Magdala, che si inoltrava sotto i porticati cercando di tenersi il più possibile lontana dai punti affollati. A volte accadeva che qualcuno, scambiando
la sua bassa statura per quella di un bambino, le si avvicinasse chiedendole se aveva bisogno di una guida, retrocedendo poi subito disgustato quando vedeva il suo viso. Ma quel giorno c'era poca gente in giro; anche lì, sotto le arcate e i portici, non si vedevano capannelli di gente. Lontano, dall'altra parte della zona, oltre le ultime arcate, c'era un parco azzurrino sul quale volavano colombi addomesticati bianchi e neri. Oltre il parco si alzavano, torreggianti, i sette edifici 'Accomat', nel quinto dei quali abitava Madgala. Gli 'Accomat', enormi palazzi divisi in piccoli appartamenti tutti concepiti secondo lo stesso schema, erano uno dei tipi di abitazione più diffusi. Ogni appartamento era composto da una stanza principale di quattro metri per tre, alla quale era annessa una stanza da bagno quadrata grande circa la metà; il locale più grande era corredato di angolo-cottura, letto, schermo Tri-D, e dai pochi mobili che non potevano essere nascosti nelle pareti. Gli appartamenti che si trovavano dalle parti estreme dell'edificio avevano anche una finestra. Quelli più interni, no; e l'aria vi veniva fatta circolare tramite condizionatori inseriti nel soffitto. Magdala aveva appunto un appartamento di quest'ultimo tipo, senza finestre. La porta si spalancò appena premette il pollice sulla piastra che costituiva la serratura ad impronte digitali. Madgala entrò nella stanza semibuia priva di finestre, appena un po' più grande di quella in cui lavorava. La stanza-appartamento aveva ben poco di personale, c'erano ben poche tracce che potessero indicare il carattere e le preferenze di chi l'abitava... e quelle poche sembrava fossero costantemente cancellate con la massima cura. Senza esitare, se non per quel suo passo che esitante lo era per natura, Magdala attaversò la stanza verso l'angolo che fungeva da ufficio e sulla cui parete spiccava lo sportellino ermeticamente sigillato della cassetta inserita nella parete e collegata al condotto pressurizzato mediante il quale venivano convogliati ai vari appartamenti ia posta, il denaro, le fatture, i conti bancari ed ogni altra cosa personale indirizzata agli inquilini. Lo sportello era mimetizzato da una miniatura. Sotto la leggera pressione del suo indice, la miniatura si alzò e lo sportello si aprì. Era giorno di paga. Erano stati registrati a suo credito duecento astrad, dai quali il computer dell'Accomat aveva già dedotto l'affitto, la tessera per il cibo e le tasse sull'appartamento. Non erano grosse cifre, né in dare né in avere; tuttavia, l'ultimo estratto del conto aperto a suo nome presso la banca centrale della città, mostrava un totale sbalorditivo a suo
credito: possedeva più di cinquemila astrad. Non doveva far altro che appoggiare l'indice nella tacca di rilevamento delle impronte, ed in pochi secondi avrebbe avuto in mano tutto quel denaro sotto forma di un assegno che avrebbe potuto cambiare in qualsiasi filiale di banca o in qualsiasi terminal di computer bancario. Invece, lanciando, uno sguardo distratto all'estratto-conto, Magdala spiccò un assegno per dieci astrad soltanto. Una volta al mese, nel giorno di paga, Magdala andava a far colazione nel ristorante dell'Accomat. Una volta al mese, vale a dire trecidi volte all'anno, sgattaiolava nell'angolo meno illuminato di quell'illuminatissima ed affollata sala da pranzo, e si concedeva la carne arrostita, le verdure fresche e la frutta appena colta che il ristorante serviva. Per tutto il resto dell'anno, rimaneva nell'angolo-cucina del suo appartamento ed usufruiva dei dispositivi automatici che a richiesta mandavano agli inquilini contenitori di plastica con cibi liofilizzati, capsule di vitamine e fluidi vari. Entrare nella sala del ristorante e starsene seduta ad un tavolo, per quanto nella parte meno frequentata e più in ombra, per lei era sempre una dura prova. Di solito ogni ristorante serviva agli inquilini dello stesso edificio in cui era situata e soltanto a loro, che potevano entrarvi e mangiare pagando direttamente con gli assegni della paga forniti dallo sportello-cassa degli appartamenti. La maggior parte di coloro che abitavano nel quinto edificio conosceva Magdala di vista, e la evitava facendo finta di non notare la sua presenza. Tuttavia, a volte veniva a pranzo lì anche gente di altri palazzi: sconosciuti che vedevano Magdala per la prima volta e non nascondevano la sorpresa o il disgusto a quella vista, anzi li mostravano esplicitamente. L'ascensore si richiuse lentamente dietro di lei e salì leggero come un uccello su fino al ventesimo piano. Nella cabina che saliva, la faccia di Magdala aveva la solita espressione. Ma anche se il suo stomaco reclamava il cibo ricordandole costantemente che aveva fame, lei avrebbe voluto tornare indietro; strinse automaticamente la bocca, nello sforzo di non premere il pulsante per ridiscendere fino al suo appartamento. Aveva paura, l'aveva sempre; ma molto di rado la mostrava, istintivamente tesa a captare le reazioni di quelli che incontrava. Spesso si augurava, pur senza la sognante certezza di quand'era bambina, di diventare invisibile. Qualche volta la sua paura saliva fino ad uno spasimo di terrore estremo. Altre volte, viveva in sordina dentro di lei, come il continuo brusio di sottofondo della città. L'ascensore si fermò. La porta si aprì lentamente. Magdala si precipitò fuori, nel pianerottolo illuminato dal sole, e si mos-
se faticosamente verso l'ingresso del ristorante. I due camerieri erano appoggiati allo schermo su cui venivano indicati i menù della giornata. Uno di loro indicò Magdala all'altro: «Ecco la storpia. Te l'avevo detto. Viene sempre nei giorni di paga». Lei non fece fatica a udire quelle parole. In fretta, scelse il suo menu fra quelli indicati nello schermo, e il cameriere comunicò la sua scelta alla cucina meccanica. Lei abbassò gli occhi, che, così, con entrambe le palpebre socchiuse, sembravano quasi passabili. Il secondo cameriere aveva inserito nel meccanismo di cassa il suo assegno di dieci astrads e stava tornando con il resto. Glielo tese, senza toccarle la mano. Magdala aveva ventisei anni: da ventisei anni nessuno l'aveva mai toccata, o anche solo sfiorata, volontariamente, eccettuati l'imperturbabile medico dell'istituto statale in cui era cresciuta e i bambini che la picchiavano. Prese il resto, passò davanti ai camerieri, e si diresse verso il suo solito posto, nell'angolo meno illuminato. Il suo posto in ombra. Vi era quasi arrivata, quando si accorse che qualcuno l'aveva preceduta e si era seduto proprio lì, a quel tavolo riparato. Ebbe un momento di confusione. Il ristorante, in quel momento era pieno solo per due terzi, non di più: e nessuno sceglieva mai quel posto appartato quando erano disponibili tanti altri posti, tutti i migliori, vicino alle finestre spaziose ed alle porte della magnifica terrazza esposta al sole. Un momento dopo, al primo motivo della sua confusione se ne aggiunse un'altro, perché la figura seduta in quel posto lei l'aveva già vista... era il giovane dai capelli pallidi che le era passato accanto poco prima, laggiù nel viale. Il suo profilo, biondochiaro come i suoi capelli contro lo sfondo del muro in ombra, era così bello, così perfettamente modellato, da sembrare scolpito apposta. Sotto le lunghe ciglia, gli occhi brillavano come metallo traslucido. Sulla tavola, davanti a lui, una coppa piena di vetro di una bevanda rossa era circondata da una mano forte e snella, una splendida mano che sembrava animata da una volontà propria come un uccello bianco. Nel suo orecchio non c'era più il dischetto d'argento che diffondeva musica. Magdala si irrigidì, poi si drizzò di scatto cominciando a voltarsi con l'intenzione di effettuare una ritirata che l'avrebbe portata verso la sicurezza della sua solitudine abituale. «Non scappare.» Magdala si voltò a metà, aspettando di sentire ciò che sarebbe inevitabilmente seguito, le solite parole di delusione o di scherno. Parole che, questa volta, non arrivarono.
Magdala finì di voltarsi e fece un passo. «Perché continui a scappare, quando ti ho appena detto di non farlo?». La voce era fredda ed inespressiva. Magdala sussultò, un altro sussulto involontario. Ma non lo guardò. Lo sentiva più che vederlo, ancor prima di voltarsi e trovarselo di fronte, quel bellissimo giovane in attesa con la mano stretta attorno allo stelo della coppa. Non capiva perché la sua paura si stesse riacutizzando con tanta forza. La sorpresa, forse. Forse l'uomo era uno di quelli che si mettevano improvvisamente a parlare con lei, attratti dall'insano fascino dell'orrore, affastellando frasi senza senso. Ma lui non aveva detto per niente frasi senza senso. E l'autocontrollo non sembrava certo il suo problema, almeno per il momento. Aprì lo sportello accanto al tavolo e tirò fuori il vassoio coi cibi che aveva ordinato quand'era entrata nel ristorante. Le tremavano le mani. Poi sedette, e si riempì la bocca masticando lentamente. Stava mangiando da cinque minuti quando l'ombra dell'uomo si delineò sul vassoio. Si era spostato, per sedersi nel posto di fronte a lei. Questa volta, lei fermò lo sguardo sul suo viso. Non poté farne a meno. Poi abbassò la testa sul piatto. Riprese a mangiare, ma non sentiva più il sapore del cibo. Lui stava lì, immobile, a guardarla. Continuò a mangiare, facendo finta di nulla. Dopo avergli lanciato tre o quattro brevi occhiate, si era già impressa nella mente ogni particolare di quel viso. Il colore dei capelli, quel colore così strano, quel biondo chiaro con curiose sfumature d'argento, d'oro e di grigio, sembrava naturale. Gli occhi, come i capelli, erano pieni di sfumature, di strisce, di macchie, che viste da vicino, si amalgamavano formando due straordinarie lenti di splendente ottone chiaro con riflessi verdastri. La sua vicinanza la riempiva di terrore. Non per quella bellezza strana eppure perfetta. Non per le parole che le aveva rivolto. Ma per qualcosa... qualcosa di indefinibile e mortale. Come se fosse stato radioattivo. «Come ti chiami?» La sua voce non era cambiata. Ancora fredda, lenta e senza inflessioni. Magdala inghiottì un boccone, sempre fissando il piatto. «Ho detto, come ti chiami?» Magdala addentò un altro boccone, e si rese conto di non riuscire ad inghiottirlo.
«Che cosa succede? Hai paura di me? Non è il caso.» Cercò di riprendersi. Aveva ascoltato troppo. Voleva dire qualcosa. Disse: «Per piacere, lasciami sola.» «Voglio sapere il tuo nome,» ribatté lui. «Perché?», chiese Magdala. Ora che aveva parlato, sia pur per dirgli di andarsene, ora che in qualche modo avevano comunicato, era più difficile trincerarsi dietro il silenzio. «Non vuoi dirmi come ti chiami perché hai paura, è evidente. Ma, come puoi notare, ti ho seguita fin dall'area commerciale e non mi è stato difficile prevedere quando saresti entrata qui, e persino il posto che avresti scelto. Probabilmente posso individuare il tuo appartamento con altrettanta facilità. Quindi, nascondermi il tuo nome non mi impedirà di scoprire tutto ciò che voglio su di te.» Magdala spinse indietro la sedia e si alzò. Lasciando a metà la sua colazione, si diresse verso l'ascensore. Non poteva camminare in fretta. Ad ogni istante, ad ogni passo, si aspettava di vedere l'ombra dell'uomo affiancarsi alla sua, di udire la sua voce — quella voce fredda che aveva qualcosa di inesorabile — ripetere la stessa domanda, insistere nel chiedere ciò che voleva sapere. Camminava verso l'ascensore ben conscia che lui avrebbe potuto raggiungerla senza fatica. Ma lui non lo fece. Entrò nell'ascensore assieme a parecchia altra gente che stava uscendo dal ristorante. In mezzo alla folla, nelle pieghe dei vestiti, nei riflessi delle lenti degli occhiali da sole, nelle pareti liscie della cabina che scendeva, le sembrava di vedere ancora il viso dell'uomo, così bello e così terribile nella sua bellezza, che continuava ad osservarla attento. II Camminava nel parco, inoltrandosi nei sentieri che passavano in mezzo alla vegetazione, con preferenza per quelli fiancheggiati da alberi e cespugli talmente fitti da lasciar passare a malapena il sole. Le piante addossate l'una all'altra erano un nascondiglio e, quindi, una protezione. Da un tunnel d'ombra guardava fuori, oltre i rami e le foglie, verso la distesa del parco con la sua zona centrale soleggiata brulicante di gente che nuotava nel laghetto artificiale o che offriva da mangiare ai docili piccioni bianchi e neri. Uscita dal parco, proseguì attraverso le viuzze strette che passavano dietro i palazzi nei quali avevano sede i magazzini di antiquariato e le librerie:
stradine secondarie praticamente deserte. Entrò in una cabina della biblioteca elettronica, e lesse per due ore. Era abituata ad andare là, nella biblioteca, e nessuno faceva caso alla sua presenza. Ma quel giorno, vedeva appena le pagine che la macchina sfoggiava e mostrava sullo schermo. La calda giornata azzurra cominciava a trasformarsi in un tramonto di fiamma dietro le sagome snelle e lucenti delle torri di vetro che si alzavano in diversi punti della città. Come uno scoppio di fuochi artificiali sul limitare del cielo, milioni di minuscole scintille verdi si staccarono dai tetti alti e dai collegamenti sopraelevati dei generatori solari, che chiudevano i loro circuiti per proteggerli dalla notte incipiente. Sotto le lampade arancioni della strada e i riflessi incrociati delle luci bianche e gialle che filtravano dalle finestre, Magdala, una piccola ombra distorta e furtiva, si avviò verso casa percorrendo i viali ormai quasi vuoti. L'ascensore la portò al suo piano. La porta si aprì reagendo alla pressione del pollice. Prima di rendersi conto che qualcosa non andava, era entrata in casa. L'appartamento, privo di finestre, avrebbe dovuto essere nero come il carbone fino a quando lei non fosse entrata ed avesse acceso le lampade. Ma quella sera, era già illuminato, pieno di luce, con tutte le lampade già accese. E nel centro di quella luce, come ne facesse parte, anzi, come ne fosse la sorgente, il sole, c'era lui, l'uomo biondo. E lei si rese conto che, in qualche modo, se l'era aspettato. L'aveva sentito, già dall'inizo della giornata. Aveva 'saputo' che, assolutamente, lui sarebbe stato lì ad attenderla. Durante i vari spostamenti del pomeriggio, non aveva avvertito alcun pericolo vicino. Non una volta si era girata, per strada, per guardarsi alle spalle. Non una volta la sua paura aveva raggiunto la punta estrema, là fuori, nella strada. Adesso capiva. Aveva saputo che lui non era là fuori. Se l'era aspettato, di trovarlo lì ad attendere il suo rientro. Eppure, trovarvelo era impossibile, avrebbe potuto dire a se stessa. Nessun estraneo poteva aprire una porta regolata da una serratura a impronte, una serratura la cui funzione era proprio quella di reagire ad un'impronta sola: quella del suo proprietario. Il giovane le mostrò il rettangolo argentato che teneva in mano. «Non è magico,» disse, «e non è nemmeno tanto complicato. È composto di una fotocellula che mi è servita per rilevare i tratti della tua impronta dalla serratura, e di un interruttore col quale ho rimandato verso la serratura stessa l'impronta appena rilevata. E la serratura ha obbedito. Il governo del Concilio dei Mondi ha in dotazione questi aggeggi da anni. Non c'è
niente di strano, Magdala Cled. Credimi.» Dunque, era entrato in casa sua; e aveva anche scoperto il suo nome. Doveva essersi rivolto a qualcuno del personale dell'Accomat per entrare nell'ufficio del palazzo e guardare i registri, dai quali evidentemente aveva appreso il numero del suo appartamento. Era molto interessato e molto deciso, a quanto pareva. La porta si era richiusa automaticamente alle spalle di Magdala. Nel chiuso della piccola, anonima stanza, lui sembrava emettere luce propria come una stella, un astro brillante e incandescente. Non riuscì a distoglierne gli occhi e gli rimase davanti, immobile, quasi ipnotizzata dalla sua presenza. Finché fu lui a muoversi, a parlare. «Magdala,» disse, assorto, «Magdala Cled. Dunque. Fammi pensare. Cled è un nome composto, vero? Le iniziali di tua madre, o di tuo padre, o di entrambi, precedute dalla 'C, l'iniziale dell'Istituto di Stato nel quale sei cresciuta. Giusto? Magdala, però. Sì, questo, questo è interessante. Lasciami fare un'ipotesi. Tua madre era una prostituta, e l'Istituto di Stato 'C' qualcosa a mezza via fra un orfanotrofio religioso ed un riformatorio. Sì, può essere. Maria di Magdala, la prostituta pentita del Cristianesimo Modernista.» Magdala non aveva seguito bene il discorso: la sua attenzione era troppo concentrata su un pensiero, quello che lui fosse un assassino. Una parte di lei era francamente convinta che egli fosse giunto fin lì apposta per ucciderla e che ora stesse per farlo. E aspettava, con una sorta di rassegnazione disperata, senza poter far nulla per fuggire o per difendersi. Aspettava che lui le venisse vicino. Ma lui non le si avvicinò. Al contrario. Andò a cercare il pulsante per far uscire dalla parete un sedile, e quando una delle tre morbide poltrone fu al posto giusto ci si sedette. Giocherellava pigramente con un rettangolo d'argento che aveva usato per aprire la porta dell'appartamento, lo lanciava in aria e lo riafferrava, lo lanciava e lo riafferrava. «Immagino,» disse con voce morbida, e quella voce fu come una improvvisa pioggia gelida sul cervello della ragazza, «immagino che tu mi creda un orribile maniaco, deciso ad eliminare da Indigo l'ultima signora brutta e storpia che vi sia rimasta. Ebbene, no, mia spaventosa signora storpia, non lo sono, non sono niente di simile.» Magdala stava istintivamente arretrando. Le sue spalle toccarono la parete; vi si addossò tremando. «Per piacere,» disse, «per piacere, vattene.»
«Rilassati. Abbiamo passato entrambi dei momenti peggiori di questo. Naturalmente, non ho nessuna intenzione di andarmene. Dovresti aver capito che voglio qualcosa da te. Perché non provi ad immaginare di che cosa si tratta?» «Denaro,» disse lei. Il suo cuore stava riprendendo a battere. «Te lo prendo. Tutto quello che ho. Cinquemila astrads. Poi puoi andartene.» «Molto interessante. Sì, è una possibilità. Ma non preoccuparti per i tuoi soldi. Posso aprire la cassetta da cui ritiri la paga con la stessa facilità con cui ho aperto la porta di questo appartamento. Se avessi voluto i tuoi astrads li avrei già presi. Così, ciò elimina due possibilità, quelle del ladro e dell'assassino. Che altro potrei essere? Forse un maniaco sessuale che violenta le donne sole. Scusami, ma il tuo aspetto mi fermerebbe. Altra possibilità eliminata. Fai una nuova ipotesi.» «Per piacere...» cominciò lei, ancora una volta. «Ti suggerirei di smetterla di implorarmi perché me ne vada. Non ti piaccio? Non pensi che io sia piuttosto decorativo? Molti lo pensano.» Intanto lei si era mossa lungo la parete. Ora aveva raggiunto col piede destro la piastra sul pavimento mediante la quale la porta si apriva dall'interno. Spinse il piede sulla piastra, premendo forte. Ma la porta non si aprì. «Sì, ho lavorato un po' anche su quella. Sono intelligente quanto decorativo, sai.» Rapido, allungò una mano verso il pannello dei pulsanti vicino alla sua portai Tutti i mobili uscirono istantaneamente dalle pareti. Le altre due poltrone, il letto, la tavola, l'armadietto con le mensole magnetizzate. La stanza sembrò sovrappopolata, con quella ressa di mobili di plastica bianca; e, soprattutto, con le altre cose sparse in mezzo a quei mobili, le piccole cosa che esprimevano gli aspetti più nascosti della loro proprietà. Magdala intuì che lui aveva già fatto uscire dalle pareti i mobili, aveva già visto tutto, prima che lei entrasse. Aveva già visto i venti libri rilegati in brochure, e il piccolo registratore coi nastri di musica, e la conchiglia limpida proveniente dal fondale basso del Mare di Zaffiro, e la collana di giada terrestre. E, sul letto, l'oggetto più rivelatore di tutti, il gatto finto di pelliccia soffice — un giocattolo da bambini. Gli occhi dello sconosciuto avevano indugiato sui suoi segreti, avevano messo a nudo le impronte della sua anima e le avevano registrate allo stesso modo in cui il delicato congegno argenteo che si era portato appresso aveva registrato le impronte del suo pollice sulla serratura. E mentre Magdala rimuginava questi pensieri, lui si alzò dalla poltrona, si mosse agile
fra i mobili troppo fitti, raggiunse il gatto-giocattolo e lo sollevò tenendolo per le zampe. «Dunque è vero,» disse, «che tutti abbiamo bisogno di qualcosa da amare.» Magdala si mosse a sua volta. Passare fra tutti i mobili era piuttosto difficile per lei, ma ci riuscì. Raggiungendolo tanto in fretta da sorprendere non solo lui ma anche se stessa, alzò una mano per afferrare il gatto. L'altra mano gliela piantò fra le costole. Quand'era bambina, gli altri bambini non l'avevano torturata per niente: aveva imparato da loro, infatti, e il colpo calcolato della sua mano tozza gli fece male, e molto. Con un grido aspro, arretrò nello stretto spazio disponibile. Tuttavia, lei cominciava a rendersi conto in quel momento che l'uomo l'aveva provocata appositamente, per un qualche suo motivo, e che forse si era aspettato proprio quella reazione. Si bloccò col gatto-giocattolo in braccio, frastornata per la scoperta di aver fatto esattamente il gioco dell'avversario. «Congratulazioni,» mormorò lui, «sei umana.» Si passò ripetutamente una mano sul fianco, dove lei l'aveva colpito. «Stavo già cominciato a chiedermi se tu lo fossi. Naturalmente, non hai un aspetto umano. Credo che ti piacerebbe averlo. Ti piacerebbe?» Stavano accadendo troppo cose, e lei aveva già oltrepassato i limiti delle sue possibilità di comprensione. La voce le uscì dalla gola alta e stridula: «Mi piacerebbe che cosa?» Lui si voltò a metà e staccò un libro dalla mensola magnetizzata. Aprì una pagina, ed alzò davanti a lei la riproduzione di un ritratto della snella Venere col corpo bagnato avvolto nei capelli d'oro. «Ti piacerebbe,» disse scandendo le parole, «essere così bella?» Magdala ebbe la sensazione che il cuore le si fermasse. Poi cominciò a ridere. In tutta la sua vita, non aveva mai riso così prima di quel momento. E nel bel mezzo della risata, afferrò la conchiglia bianca dallo scaffale, la sollevò alta sulla testa e, brandendola come un coltello con l'estremità appuntita volta in avanti, si avventò contro il viso dell'uomo. Non le fu chiaro se si fosse aspettato anche questo secondo attacco. Lo scansò all'ultimo momento, alzando di scatto un braccio per proteggersi la faccia. La punta della conchiglia gli fece un taglio nella mano. L'impatto strappò dalle dita di Magdala la conchiglia, che volò di lato, colpì la parete e si ruppe in mille pezzi. La bocca di Magdala, ancora aperta nella risata, si chiuse e si contrasse.
La ragazza guardò la conchiglia rotta — uno dei suoi tesori ridotto in frammenti — e gli occhi le si dilatarono come se fosse sul punto di piangere, tuttavia non ne uscirono lacrime: l'abitudine a non piangere mai, ebbe il sopravvento. Quando lui alzò la mano non ferita e le diede uno schiaffo, vacillò e si raddrizzò simile ad una grottesca bambola di gomma. Aveva previsto quella reazione da parte di lui e ci si era preparata. Poi, un bizzarro senso di meraviglia bloccò la sua attenzione. Qualcuno, sia pure con violenza, l'aveva toccata; e quel contatto fisico l'aveva quasi sconvolta. La mano ferita sanguinava. La faccia dell'uomo era diventata cinerea. Il gesto improvviso della donna, il pericolo corso, gli aveva riportato una verità sepolta nel profondo: lui amava la propria bellezza, ed aveva una gran paura di venirne in qualche modo privato. «Deduco dalla tua reazione,» disse, «che l'idea di essere bella fa presa sulla tua immaginazione, qualche volta.» E la sua voce non riuscì più a rimanere dura e distaccata: era tremula, esitante. «Non puoi cambiarmi,» fu la risposta. «Nessuno lo può.» Quella voce tremante, quella gioventù (un po' più giovane, forse? quella stessa eccessiva perfezione, le avevano dato bruscamente una sensazione di superiorità. Dopotutto, fra loro due, era lei quella che non aveva niente da perdere. «Oltretutto,» aggiunse, «possiedo soltanto cinquemila astrads. Un'operazione di chirurgia estetica costa molto di più. Sei un medico? Si, vero?» Ma a quelle parole lui tornò a sorridere, e quella breve sicurezza la lasciò di nuovo. Il suo sorriso era una porta bianca che si socchiudeva su un mondo sconosciuto. «No, non sono un medico. E non ho intenzione di chiederti i tuoi patetici astrads. Sono ricco, carissima orrenda Magdala. E posso farti diventare bella.» «Sei pazzo,» disse lei. «Bella,» ripeté lui. «Bella. Bella.» Poi rimasero a guardarsi l'un l'altro, a lungo, in silenzio assoluto. III Fuori città, la nebbia mattutina azzurro-beige che precedeva il mattino della stagione di «Blue» di Indigo stava sospesa, densa e dolcemente profumata, su venti immense autostrade di acciaio compatto e brillante. Qui, durante il giorno, il traffico correva intenso, veloce, un incessante viavai di
autobus a guida automatica e di automobili scintillanti. La autostrade aspettavano l'alba, silenziose sotto la nebbia fragrante. Alle sei il sole cominciò a levarsi, e il primo autobus del mattino — ingioiellato da una miriade di luci ancora accese — scese per l'autostrada occidentale. Nella velocità della corsa, si vedeva solo l'azzurro del cielo filtrato dalla nebbia azzurra, e quell'unico colore sfumato dava l'illusione che l'autobus fosse fuggito via dal mondo. Banchi di nebbia in movimento ornavano gli alberi con frange di raggi solari e rapidi pennacchi fumosi. Più avanti, costruzioni squadrate e ciminiere, le raffinerie e gli stabilimenti chimici della zona industriale fuori città, con i canali dei loro impianti idrici simili a superfici vetrose gorgoglianti. E poi lo splendore di un aviorazzo dorato, un autobus volante che andava nella direzione opposta proiettandosi verso la città. La donna deforme, appoggiata ad un finestrino, osservò tutto questo. I suoi casuali compagni di corsa erano indifferenti a tutto, indifferenti persino alla sua presenza, sembrava. Qualcuno si era agganciato all'orecchio il miniricevitore collegato ai nastri musicali dell'autobus. Qualcuno dormiva. L'autobus si era fermato due volte nei primi cinquanta chilometri. La terza fermata regolamentare, a centoquaranta chilometri dalla città, apparve in lontananza, chiaramente solitaria, in fondo all'autostrada. Attorno alla fermata si stendeva soltanto un paesaggio incolto, con uno strano aspetto primitivo, anzi, primordiale quasi, che appariva fra il costante alzarsi del sole e l'evaporazione della nebbia. Un momento dopo che Magdala era scesa, l'autobus era ripartito, era già lontano, spariva in fondo all'autostrada, si fondeva con l'aria inghiottito dal vasto ombrello azzurro del mattino. La ragazza si diresse verso la panchina posta sotto la tettoia della fermata e vi si sedette. L'unica cosa che testimoniasse la presenza umana in quel posto era la strada stessa, nessun'altra opera dell'uomo era visibile — né fabbriche né case, nulla. Gli alberi erano cresciuti un po' dappertutto, disordinatamente, in spontaneo. Magdala, abituata agli incessanti rumori della città, ascoltava i sibili del vento e i canti sommessi degli uccelli sui rami. La novità di quei suoni si combinava, in una sintesi che per lei veniva a formare un'atmosfera spaventosa, con la novità e la stranezza della sua situazione. Poteva accadere qualsiasi cosa. E qualcosa accadde.
Un punto argenteo si materializzò ad est, sulla linea dell'orizzonte, divenne un rapido movimento di luce che correva sulla strada d'acciaio e si ingrandiva acquistando consistenza. Una grande automobile argentata che assomigliava ad un incredibile mostro acquatico, scivolò accanto a lei con una lunga frenata silenziosa. Lei restò dov'era, incapace di muoversi, fissando la macchina finché da questa le giunse un suono simile ad un grido impaziente emesso da un apparato vocale bronzeo. Allora si alzò e andò docilmente verso il lussuoso e inconsueto mezzo di trasporto. Non portava bagaglio, aveva le mani vuote, come le era stato detto di fare. Lui sedeva al volante, aveva disinserito la guida automatica. Pallido come ghiaccio, proprio come il ghiaccio le apparve freddo, senza amicizia, mentre lo guardava attraverso lo schermo del finestrino polarizzato del colore del vino scuro. «Sali,» le disse. Una sezione della carrozzeria accanto al sedile posteriore si alzò per lasciarla entrare. Goffamente, Magdala si issò all'interno del veicolo. «Quante persone ti hanno vista?» «La gente che era sull'autobus: nessuno che io avessi mai incontrato prima di oggi.» «E non hai portato niente con te? Nessun astrads?» «Nessuno.» «E nemmeno il tuo gatto-giocattolo, spero.» Lei non rispose. Poteva vederlo, che aveva seguito le sue istruzioni. «Dovremo far in modo che tu sia svanita,» le aveva detto, deciso, imperioso. «Magdala detta Ugly che svanisce nell'aria. Ti comporterai in modo che sembri proprio così, vero?» Così il suo conto in banca era rimasto intatto, e le poche cose che possedeva erano rimaste tutte nel suo appartemento. Nessun certificato di assenza era stato rilasciato dalla fabbrica di vestiti, nessun annuncio di appartamento resosi disponibile era stato notificato dall'Accomat. Nulla. Era uscita alla chetichella prima del sorgere del sole. Non aveva contraddetto l'insistenza di lui a questo proposito. Forse, dopotutto, lui voleva davvero ucciderla. Forse questa sua scomparsa improvvisa era proprio il suo scopo, in vista del delitto, una sorta di un gioco con la morte di lei come finale. Pensò alla conchiglia appuntita, a quando aveva cercato con quella di sfregiare la sua bella faccia. La voce di lui che era diventata più dolce, il proprio inconsulto breve momento di ribellione.
Oggi, lui indossava vestiti costosi. Oggi, lei poteva vedere che era ricco. Non c'era più nessun segno sulla bella mano bianca, dove la conchiglia l'aveva ferito: sì, lui poteva permettersi i migliori prodotti cosmetico-curativi esistenti sul mercato. Quella bella mano di nuovo intatta sfiorò un bottone sul pannello del cruscotto. La macchina rispose con un'avida vibrazione di vita, e scivolò in avanti sulla strada, silenziosa e senza scosse come se si muovesse sull'acqua. Ancora una volta il mondo divenne una linea confusa nella velocità e sembrò allontanarsi da lei. Con un insensato piacere misto alla paura, lei lo guardava allontanarsi. «Mi chiamo Claudio Loro. Mi sorprende che tu non me l'abbia ancora chiesto. Non hai proprio nessuna abitudine alla vita di società, vero, Magdala? Quando raggiungeremo il confine dello Stato, fra circa un quarto d'ora, dovrai entrare nel bagagliaio e lasciare che ti ci chiuda. Altrimenti, potrebbero chiedere per quale motivo passi di là dalla frontiera assieme a me, e tu in effetti non lo sai, vero?» Avevano viaggiato per tre ore, prima verso Ovest poi verso Nord. Non gli aveva ancora parlato, prima. Aveva il dischetto d'argento nell'orecchio; a tratti canticchiava seguendo l'inaudibile melodia che doveva entrargli in campo dal minuscolo apparecchio. La sua voce era bella, forte, intonata e morbida. Magdala, esausta, si era assopita cullata da quella voce e dal volo silenzioso della grande macchina. Il confine correva accanto al fiume, era là che finiva lo stato steso attorno alla città. Oltre il fiume, vecchie strade precoloniali si inoltravano e si perdevano in mezzo alle colline. Lo sviluppo industriale ed urbano non era ancora arrivato da quelle parti. Lontano, aldilà delle colline, c'era la Piana di Zaffiro, con le sue stazioni di ricerca indipendenti, e i suoi impianti balneari e le sue strutture per la pesca, e un mare nordico color degli zaffiri che ribolliva contro le sue coste. Quando l'uomo, premendo un pulsante, aprì il bagagliaio sotto il sedile posteriore, lei vi si calò goffamente e lui ve la chiuse dentro. Il luogo era scomodo, ma lievemente illuminato e fornito di aria condizionata; comunque non era un posizione piacevole per viaggiare. E tutto perché le era stato detto che lei faceva parte di un qualche piano di quell'uomo e che tale piano richiedeva molta segretezza. E lì, in quel bagagliaio sistemato apposta per accogliere un essere umano, c'era la prova tangibile del concepimento del piano e della sua accurata preparazione. Lei sarebbe stata il soggetto, o l'oggetto, del suo esperimento. Non voleva farle sapere nient'altro,
il che indicava che l'esperimento era insicuro, probabilmente illegale e con ogni possibilità anche mortalmente rischioso. Ma le lente note interne della sua paura si facevano sentire soltanto piano piano. Non era realmente preoccupata. No, non era realmente preoccupata né di doversene restar chiusa nel bagagliaio, né di essere in pericolo, e neppure per la pazzia di lui che riusciva a sentire chiaramente come sentiva l'ozono dell'atmosfera. L'uomo aveva bisogno di lei. Senza di lei, avrebbe potuto fallire. Lei era stata l'origine di tutto quel piano. E questo era il suo vero potere su di lui. Su Claudio. Quando si fermarono al punto di controllo della frontiera, udì voci lontane, poche parole, ma sembrava che nessuno avesse intenzione di perquisire l'automobile. Un colpo di fortuna per Claudio? O piuttosto, semplicemente il fatto che la macchina era indiscutibilmente una proprietà di un uomo ricco, un'estensione del suo proprietario, un aspetto di Claudio stesso. Solo la cosa umana nascosta sotto il sedile avrebbe potuto offuscare l'immagine d'insieme, se fosse stata vista. Il veicolo ripartì presto e superò la strada sotterranea sotto il fiume. Ma avevano già percorso dieci chilometri in mezzo alle colline prima che lui si decidesse a lasciarla uscire dal bagagliaio. Poco dopo averla liberata dal nascondiglio, le diede una pastiglia; una di quelle droghe che venivano usate nei casi di emergenza per evitare ogni necessità corporale ed il cui effetto durava circa venticinque ore. Lei soppesò incuriosita la compressa, senza capire perché dovesse prenderla. «Non ho intenzione di fermarmi ancora, per nessun motivo», disse lui. «Ho sprecato abbastanza tempo. Ho sprecato due anni, anche se tu non lo sapevi, mia laida passeggera.» Durante il pomeriggio, mangiarono ad una distribuzione di cibo e bevvero vino di un blu fluorescente come i grappoli coi quali era stato prodotto. L'automobile, affidata alla guida automatica, correva lungo le antiche strade d'asfalto nel suo intinerario programmato in precedenza. Lei non gli chiese nulla, nemmeno la loro destinazione. Lui non le disse nulla. Le parlò una volta o due, un commento sul paesaggio che turbinava oltre i finestrini, un'istruzione. Obbedì alle istruzioni. Tesa, avvertiva la tensione del suo compagno di viaggio, forte quanto la sua, che sembrava riempire la macchina. Mai prima d'allora, nella sua vita, aveva condiviso qualcosa con qualcuno. Perfino se lui l'avesse uccisa, avrebbe avuto qualcosa da condividere, lui avrebbe fatto parte della sua morte.
Non aveva alcun termine di paragone per giudicare sia il comportamento dell'uomo sia la propria reazione ad esso. Era qualcosa che la sconcertava, come la velocità a cui viaggiavano. Dopo un po', fece fatica persino a capire se aveva paura o se era felice. Avevano viaggiato per tredici ore quando la notte scese come una saracinesca nera abbassata lentamente. Non velate dalle luci della città, le stelle splendevano, innumerevoli fuochi bianchi contro il nero. La strada svoltò all'improvviso, le colline si aprirono davanti a loro. Nel cono di luce proiettato dai fari della macchina, Magdala vide una spiaggia azzurra che scendeva come una cascata gettandosi nelle fauci del mare. Era la prima volta che vedeva il mare. Solo in un teatro, molto tempo prima, l'aveva visto, aveva sentito i suoi odori portati dal vento, si era bagnata i piedi nella sua frescura. Ma l'ipnoteatro era una sensazione sbiadita. La realtà lo superava. Il mare era un cielo, ma un cielo in movimento. Uno scialle fluttuante di frangenti spumosi frantumava le immagini delle stelle disseminate sopra la riva. La macchina proseguì, correndo parallela alla baia. Un muro alto uscì dal buio oltre il raggio dei fari e la macchina rallentò fin quasi a fermarsi. Intanto Claudio aveva abbassato una leva sul cruscotto. Sette secondi, poi il muro si aprì e la macchina passò oltre. Si tuffarono lentamente in mezzo a un gruppo d'alberi, diretti verso qualcosa che luccicava. C'era una casa, all'interno del muro. Una vecchia casa, alta tre piani, costruita in metallo. Lievi come goccioline di pioggia, le luci delle stelle si riflettevano sul suo rivestimento di mercurio in cui non si vedevano finestre. Una casa senza facciata, che splendeva in mezzo agli alberi, in mezzo al lieve mugghiare rauco dell'oceano. «Scendi,» le disse Claudio, proprio come, tredici ore prima, le aveva detto, «Sali». Si fermarono su un viale, e la macchina si tuffò nell'apertura apertasi nella pavimentazione d'acciaio, e il fondo del viale la nascose richiudendosi. Era una notte di vento, ma gli alberti accanto alla casa di mercurio non muovevano una foglia. Non c'era alcuna serratura ad impronte. Aspettarono là che la casa si decidesse ad aprirsi da sola riconoscendo Claudio con i suoi meccanismi di fotocellule. L'aurora inondò la casa appena furono entrati. L'illuminazione cominciò con i toni delicati, lampi rosso-oro fluttuarono attraverso le pareti, si alzarono, si abbassarono, finché divennero un chiarore soffuso.
Claudio si tolse dall'orecchio il dischetto col quale fino ad allora aveva continuato ad ascoltare musica e lo gettò via. L'aria della casa sembrò catturarli calandoli in un'atmosfera sorprendente. Si sedettero a un tavolo del colore delle foglie cadute. «Raggi magnetici,» disse lui, «e in casa mia la luce è un'imitazione dell'aurora e dell'alba. Ti avevo detto che sono ricco. Vuoi vedere qualcosa di più?» Scostò un pannello, e le pareti svanirono. Il mare e la notte avvolsero la stanza nei suoi fuochi neri. Ogni parete era un'unica finestra reversibile, invisibile dall'esterno. «Ricco e — te l'ho detto? — intelligente. Non pensi che io sia intelligente, Magdala? Ma devi ancora vedere la cosa migliore di tutte.» Il suo costoso candore si rifletteva splendente nella casa. Era così adatto alla casa. La guidò fino a una scala mobile rivestita da un tappeto di velluto che li condusse al piano di sopra. Passando attivò vari congegni, che mostrarono parte della casa, ma il suo viso conservava un'espressione impenetrabile. Fece cadere neve rosata; una fontana scintillò senz'acqua. Parti delle pareti si aprirono e si richiusero come petali di fiori in una serra. «Due anni,» disse Claudio. «Perduti. Li ho usati in una caccia, in una ricerca. Cercando qualcuno come te, Magdala mia. Ma non sei molto comune, cara. Un mostro. Difficile da trovare. Eppure sapevo che ci doveva essere qualcuno come te. Un errore genetico. Un'atrocità che si trascinava attorno alla propria mancanza di speranze. Privo delle normali cautele dettate dall'istinto di autoconservazione. Piagnucolante, nel fondo della piccola anima contorta, per un'impossibile liberazione. Non del tutto umano. Siamo arrivati.» La scala mobile li aveva portati al terzo piano e poi ancora più in alto, fin sotto il soffitto. Afferrò la goffa mano simile a una zampa e la strinse nella sua bella mano gelida. Una porta ruotò davanti a loro. Entrarono in una stretta stanza bianca. Contro una parete era sistemato un pannello pieno di tasti e di lampadine spente. A metà strada fra il pannello e la porta, c'era una colonna di cristallo opaco alta due metri. «Preparati,» bisbigliò Claudio. Aveva gli occhi leggermente velati da qualcosa che potevano sembrare lacrime. Magdala non disse nulla. Le note acute del suo terrore avevano aumentato volume, eppure le giungevano come se si fossero distaccate da lei. L'effetto che provava, era quello di essere sola in un enorme spazio vuoto. Perfino la paura non poteva tenerle compagnia, in quello spazio. E l'uomo al suo fianco era come il preludio ad una voce di tempesta. Alla voce di Dio.
Lui si diresse verso la colonna, vi si accostò e mosse qualcosa sulla sua superfice. Il cristallo divenne trasparente. «Sì,» disse, «guardala fin che vuoi.» C'era una donna, nella colonna. Sembrava sui ventidue-ventitré anni. Sembrava viva, eppure non poteva esserlo. Era nuda, era simile ad una sostanza di fuoco lucente. I suoi occhi spalancati erano lampade bluscure. I capelli lucidi, spinti indietro sulla fronte, formavano una pesante cascata di un nero bluastro, ma più vicino al blu che al nero, quasi un colore di mare notturno. Quei capelli, tagliati all'altezza delle spalle, erano una massa pesante squadrata con precisione geometrica, davano l'idea di una cornice predisposta per quel viso. Ma lei non era né statua né robot né manichino. Aveva unghie affilate, e giù sotto l'ombelico un delicato colorito bluastro che sfumava via via nel nero. Sui suoi seni, i capezzoli rosei assomigliavano a piccole gemme chiuse. Era tutta cosparsa del polline di minuscole lentiggini fulve. Ed era bella. Bella. «Sì,» mormorò ancora Claudio, «guardala fin che vuoi, Magdala. Imprimiti la sua immagine nella memoria. Guarda ciò che stai per diventare.» Capitolo Secondo: La nascita di Venere I Alla luce del giorno, il rivestimento di mercurio della casa sembrava bruciare in un incessante fuoco bianco e freddo. I grandi alberi che vi si ammassavano intorno entro il muro di cinta sembravano sforzi vani per domare quel fuoco coi loro rami azzurri. Ma c'era qualcosa di sbagliato negli alberi. Solidi, fertili, odorosi di correnti di profumi sconosciuti, si sviluppavano sulla roccia priva di sostanze nutritiva che costituiva la costa, alta sui pendii pieni di salsedine che si tuffavano nel mare salatissimo. Quando le loro foglie azzurre cadevano, come talvolta succedeva, non cadevano in risposta al vento, e dopo Magdala non riusciva mai a trovare sul terreno quelle foglie cadute. E quando il bagliore della casa, o il sole stesso, era dietro di loro, gli alberi si dissolvevano, sparivano. Quegli alberi non erano reali. Magdala era ancora molto obbediente per quanto riguardava gli ordini di Claudio. Le aveva ordinato di dormire e le aveva dato delle pillole di sonnifero per aiutarla a prender sonno. Lei aveva inghiottito le pillole ed ave-
va dormito. Quella mattina, le aveva detto di camminare in mezzo ai suoi alberi. Lei era uscita ed aveva camminato. Fra poco l'avrebbe chiamata perché rientrasse, e lei l'avrebbe fatto. Poi il terrore sarebbe cominciato, ma avrebbe continuato ad obbedirgli. Attraverso tutti i terrori. Lui le aveva mostrato qualcosa. Allora il terrore era arrivato. Quando le aveva parlato del suo piano (senza spiegazioni), ecco: il terrore. Ma non solo terrore. L'angoscia compressa dentro di lei era sgorgata alla superficie, le aveva riempito il cervello, con la collera e l'amarezza e la disperazione. E dalle profondità del suo essere, nell'onda di queste emozioni, una corrente di esigenze appassionate e represse. Non aveva motivi per non credere all'impossibile. La disperazione è sempre pronta a pregare per un miracolo. Lui la chiamò. Attraverso qualche sofisticato sistema di trasmissione, le arrivò la sua voce, ne sentì il tono musicale e modulato, come se egli fosse al suo fianco. Tornò sui suoi passi, attraverso gli irreali, costosissimi alberi proiettati olograficamente, verso lo splendore chiaro della casa. La capsula di vetro era lunga un metro e tre quarti e larga un metro e mezzo. Era leggermente arretrata rispetto alla colonna, sistemata ad un angolo di trenta gradi con la posizione del supporto di acciaio flessibile che l'aveva portata attraverso la stretta stanza dalle pareti bianche. La capsula era stata aperta, poi chiusa, e sul suo coperchio trasparente era stato fissato il pannello con i tasti e le lampadine spente, precedentemente staccato tutto intero dalla parete. Un intrico di fili metallici e di conduttori collegati usciva dall'apparato di fondo della capsula e passava in questo pannello attraverso una serie di fori nel vetro. L'apparato stesso sosteneva la figura distorta di Magdala Cled. «Puoi sentirmi?» le chiese Claudio. Lei annuì. «Debbo dirti a quale quadro assomigli?» disse lui. «Un incubo di Bruegel. Hai mai sentito nominare Bruegel? Non importa.» L'interno della capsula era comodo, nonostante i tubi e le spirali, le cose che erano attaccate al suo corpo senza farle male, e la delicata gabbia che le imprigionava il cranio. Aveva osservato ogni cosa con assoluta indifferenza, conservando, tuttavia, il sapore di una crudele beffa abituale. Lui le descriveva dettagliatamente, meticolosamente, la sua bruttezza. E, incoerentemente, la rassicurava e le spiegava che non doveva sentirsi offesa. «Niente da toglier via o da sostituire,» le diceva con voce dolce. «Sono
uno scienziato, non un chirurgo.» La creatura nella colonna di cristallo, intanto, li guardava senza vederli con quelle lampade al neon blu che erano i suoi occhi. Quegli occhi, che non sbattevano, che non si chiudevano, rimanevano limpidi. Claudio aveva lasciato che Magdala la osservasse da vicino. Lei aveva visto i microscopici pori della pelle, la traccia delle vene. Poi aveva aperto la colonna ed aveva guidato la mano di Magdala su quella pelle e nel mare notturno che erano i capelli. «Te l'aveva detto, che sono intelligente,» aveva ripetuto ancora una volta. Ma la sua mano non aveva sfiorato la calda pelle satinata. «Potresti giurare che è viva,» aveva detto. «Immobile ma animata» Ma aveva subito spiegato a Magdala che la donna non era viva, non era animata. Ogni parte di lei era stata costruita, in un'apposita vasca, a mano e a macchina. Con le sue mani e le sue macchine. Ed ora potevano toccarla e guardarla ed aspirarne il personale profumo, e dimenticare tutto il resto. «No, mia cara Magdala, non un robot meccanico. Né uno di quegli esseri mitici, un androide. Decisamente non umana. Come te, brutta mia. Un mostro.» Dopodiché egli aveva chiuso di nuovo il cilindro di cristallo, sigillando la sua creazione come una preziosa orchidea sotto vetro. Magdala si stese nella capsula, e la donna-non-donna sembrava fissare un punto oltre di lei. Droghe e sedativi avevano rilassato interamente il suo sistema neurovegetativo come una spugna analgesica che allontanasse ogni dolore. Con la droga il suo terrore divenne qualcosa di teorico, senza significato. Fissava a sua volta gli occhi di neon blu scuro. «Sì,» disse lui. «Enumera le sue lentiggini, conta i capelli che ha sul capo». Poi tirò verso di sé la leva centrale del pannello. Tutti i tasti risposero, eccetto uno. Le lampadine esplosero in un arcobaleno di luci colorate. Magdala provò una sensazione nuova. Una sensazione che giungeva al suo corpo anestetizzato e insensibile dall'azione delle prese e dei fili sopra e sotto di lei. La capsula, la sua custodia, la sua culla, sembrava volesse nutrirsi di lei, svuotarla, respirare al suo posto, e ad un certo punto stimolare ed esercitare i suoi fianchi, la sua testa, tutto il suo essere dentro e fuori. I piccoli tubi scintillanti le fornivano cibo e bevanda, la vezzeggiavano, avrebbero mantenuto in perfetta salute la sua figura supina per un tempo indefinito. Vedeva se stessa sottoposta alle cure più tenere (come lui le aveva detto). La capsula, la sua culla, era una balia automatica che l'avrebbe trat-
tata meglio di quanto lei stessa avesse mai fatto. E meglio, molto meglio, di quanto potesse fare il mondo ostile. E adesso avrebbe potuto dire addio a se stessa. Al suo corpo piatto, contorto, deforme. Non ne sarebbe stata responsabile ancora per molto. Stava per lasciarlo. Stava per andar via da casa. «Sei pronta?» Chiese lui. Il suo viso pallido la guardava con ansia attraverso il vetro. Aveva paura, anche lui aveva paura, e probabilmente stava pregando Dio. Pregando per riuscire a fare meglio di quanto aveva fatto Dio. Annuì ancora una volta. (Senza dubbio, le sue promesse erano bugie. Era pazzo. Sarebbe morta. Lui, l'assassino; lei, la vittima consenziente, contagiata dalla sua pazzia). Lui sogghignò e premette l'ultimo tasto del pannello. L'aveva avvertita. Ma fu peggio di qualunque avvertimento. Piovvero fuochi attraverso il suo capo e se ne andarono e la trascinarono via. Catapultata nel nulla, fuggì per riprendere il suo equilibrio, fuggì per riprendersi il suo corpo. Era un bisogno istintivo. Nell'infinito oceano cieco della non-esistenza, gridò senza voce. L'aveva uccisa? Era quella la morte? Poi la voce di lui le giunse attraverso il rombo sordo degli interruttori. «No,» diceva quella. «No. Fai come ti ho detto. Fallo.» Lei lottò, per dirigersi verso la spiaggia, questa volta. Conosceva la spiaggia. L'aveva osservata, l'aveva accarezzata, vi aveva respirato. Ruppe la superficie del mare. Lui non aveva mentito. Come da una grande distanza, vide ancora il suo viso, livido e atterrito. Lo vide cambiare, diventare ancora più bianco, e rilassarsi, rilassarsi fino ad essere quasi flaccido, perdere ogni espressione. Lei sapeva perché. Controllando il corpo di donna nella colonna di cristallo, l'aveva visto sbattere le palpebre. Magdala sbatté le palpebre una seconda volta. Con attenzione, con un po' d'incertezza, mosse la mano destra verso la serratura interna del cilindro. La sua mano destra era bella, piena di grazia. Lentigginosa. Toccò l'impronta della serratura con la punta delle dita, la toccò nel punto esatto. La colonna si aprì. «Mio Dio,» disse lui. «Pigmalione.» Stava ridendo. Poi, bruscamente, si voltò e uscì. Lo udì fermarsi a vomitare prima che uno scroscio d'acqua corrente coprisse ogni altro rumore. Rimase immobile, aveva paura a fare un solo passo prima che lui tornas-
se. Dopo un po' lui rientrò, e si mise a sedere sul pavimento, appoggiando la schiena contro la parete. Aveva ancora l'aria sconvolta, ma anche divertita. «Dì qualche cosa,» le suggerì. Lei dovette pensare a come fare per aprire la bocca. Poi non ne uscì alcun suono. «Santiddio, calmati. Ti ho spiegato come devi fare.» Lei pensò all'atto di parlare. Lei poteva parlare. Trasse un respiro, fece giungere il fiato alle corde vocali. Mosse le labbra per formare una frase. Parlò. «Non è... non è facile.» Non aveva mai udito prima quella voce, quell'amabile voce dolce come cannella. Si riempì i polmoni che non erano polmoni con un lungo respiro. «Voglio vedere,» disse, «debbo vedere me stessa.» «Oh vanità,» replicò lui, «il tuo nome è donna. Allora scendi dal tuo piedistallo, e ti porterò fino allo specchio.» Cominciò a camminare verso di lui, vacillando. Stava penosamente tentando di camminare nel suo modo abituale, il vecchio modo, l'andatura sghemba, saltellante, strascicata, barcollante. «No!» le gridò lui. Saltò su dal pavimento. Corse in avanti. Gli occhi della donna arrivarono all'altezza della sua bella bocca. La sua mossa rapida, la sua vicinanza, la colpirono come prima l'aveva colpita la sensazione della serratura sotto le proprie dita, il pavimento sotto i propri piedi nudi. Pensò che lui stesse per strangolarla dopo aver esaurito la sua scarsa pazienza. Ma lui non lo fece. La prese per le spalle e la scosse. «Sei una donna adesso,» disse, digrignando i denti, «cammina come una donna.» Lei raccolse le proprie forze. Meditando su ogni passo, camminò. «Questo prova» disse lui, «che hai ancora molta strada da fare.» Le girò attorno e le piazzò una mano sotto il seno tenendole il braccio dietro la schiena. Quel tocco fu per lei il colpo definitivo; nessuna cosa inanimata poteva colpirla come quel palmo umano, quelle dita strette attorno a lei. «Il cuore batte regolarmente,» disse lui, «tutto cammina. Cammina anche tu.» Tirò via la mano e la guardò con un fremito. «E adesso, uno specchio.» Passarono dietro la capsula. Lei evitò accuratamente di guardarsi e si accorse che lui prendeva nota di quella specie di fuga. La guidò lungo un corridoio fino a una vasta camera. Era una stanza pentagonale, con una parete trasparente aperta sul panorama della baia e le altre quattro pareti che diventarono specchi al contatto della mano dell'uomo sul pannello accanto
alla porta. «Questa è la tua scuola,» disse. Esitò nel pronunciare il nume della donna, «Magdala. Imparerai qui dentro la maggior parte delle tue lezioni, col piacevole aiuto di uno specchio. Esercitati.» Mentre raggiungeva la porta, il suo tremito nervoso era molto evidente. Uscì, e la porta si richiuse piano lasciandola sola con se stessa. O meglio, con quella nuova se stessa che era diventata. II Imparava. Senza comprendere del tutto, ma imparava. Riusciva a cancellare il ricordo dell'altra se stessa, di quella che era stata prima, mentre di momento in momento diventava quella che vedeva negli specchi. Le ore passavano. Si muoveva in un sogno, un bellissimo sogno, simile a indefinite fantasie che aveva avuto nell'infanzia... Inconsciamente, si preparava a svegliarsi, perché il sogno sarebbe finito. Non si svegliò. Il sogno continuava. Stava scendendo la sera, il cielo colorato sopra l'acqua azzurra attraversava la parete-finestra. Il tramonto levigava la costa aspra, dipingeva di mille colori tutti gli specchi. Non si era svegliata dal sogno; si era addormentata in mezzo alle sue meditazioni. Aveva esaminato varie possibilità, ma ora, sorpresa dalla realtà, si rese conto che fra le altre cose quel corpo non-umano poteva dimenticare i propri sensi tuffandosi nell'oblio del sonno. Robot... macchine... simulacro sintetico... qualunque cosa fosse, come poteva dormire? Una voce uscì dalla parete: Ascoltami. Si voltò. Uno degli specchi era diventato opaco. Un disco d'argento emanava un lieve bagliore pulsante. Sono un nastro registrato. Ascoltami, ripeté la voce. Esaminando la stanza, aveva incidentalmente scoperto i vari trucchi che conteneva. Tutte le pareti, e anche ia finestra, potevano essere mutate in altre cose... drappeggi serici, schermi per la lettura di libri simili a quelli della biblioteca elettronica, ricevitori televisori tridimensionali, caleidoscopi multicolori. Un tubo inclinato le portò del cibo da un'unità di servizio della cucina sottostante. Un pannello si era spostato rivelando l'esistenza di una stanza da bagno dipinta del colore del mare... Ascoltami! ripeté il registratore.
Lo raggiunse per premere il tasto d'avvio del nastro. Ora i suoi movimenti di solito iniziavano in modo naturale, per poi cambiare a metà strada, quando il non sapere ciò che era la gettava nella confusione. Questa non sono io. Questa è... Ascoltami! Premette il tasto del registratore, e la voce di Claudio, calma e precisa come se anch'essa facesse parte di una macchina, uscì dal disco. «Ascolta, Magdala, e ascolta con attenzione. Ho registrato questo discorso per te. E per me. Non voglio darti spiegazioni di persona, faccia a faccia. Mi annoierei. E, lo ammetto, mi sentirei a disagio. Guardarti, e spiegare a te stessa che cosa sei. Perché tu sei te stessa, ora. Probabilmente non ci sarà più occasione per farti volgere gli occhi a ciò che tu eri prima, a quella che giace nella capsula di mantenimento. Quella cosa, puoi cercare di non ricordarla, puoi negarne l'esistenza, anche se non ti sarà mai possibile dimenticarla davvero. Mi ascolti? Non distrarti. Sto per rivelarti tutto ciò che penso tu debba sapere sulla tua eccezionale condizione. Concentrati. Questo riguarda la tua sopravvivenza.» Lei obbedì. L'obbedienza era quasi un modo per controbattere sia l'assurdità della situazione sia la follia dell'uomo che l'aveva prodotta. «Te lo spiegherò in modo semplice. Altrimenti non capiresti, vero? E devi capire. Non potresti sopravvivere senza capire. Per prima cosa, vedrò di spiegare il fenomeno in sé e per sé. Mio Dio, mi viene in mente che forse tu, Magdala, credi in una religione, il Cristianesimo Modernista o il Totalismo. Se ci credi, penserai che io abbia trasferito il tuo spirito... la tua anima... da un corpo all'altro. Bene, se lo pensi, sbagli. Non sei andata in nessun posto... né coll'anima, né semplicemente con la mente. In via di fatto, sei ancora imprigionata in quella massa informe, in quella oscena composizione casuale che era il corpo nel quale ti ho trovata. Che differenza c'è? È la tua consapevolezza che è stata trasferita. Quella e solo quella. «Ti farò un esempio. Un'analogia, È semplice. Può aiutarti a capire meglio. Un sogno. Giaci addormentata, muscoli, ossa, sangue, organi, cervello, sei tutta lì, tutta nello stesso posto. Ma la capacità di sognare della tua mente ti convince di essere altrove. Il tuo corpo resta dov'è, ma il tuo sogno insiste, e tu dove sei?... forse a nuotare in un mare freddo. Secondo paragone, migliore del primo... l'ipnosi. Entri in un ipnoteatro, ti ci sistemi, e la suggestione ipnotica ti sistema, tutt'a un tratto, in mezzo ad un deserto. Senti la sabbia sotto i piedi, odi i venti, la polvere. Sogno o ipnosi, quell'altro luogo sembra reale. Non lo è, ma lo sembra proprio. Ed ecco che cosa
ti sta accadendo ora, Magdala, la tua consapevolezza è stata trasferita tutta intera, attraverso un conduttore di cristallo, dalla tua brutta testa al cranio di una donna finta. È un sogno indotto, ma, Cristo, è il più fantastico di tutti i sogni, perché è reale. Hai un nuovo corpo che immancabilmente farà qualsiasi cosa tu voglia. Hai un nuovo corpo che seguirà i tuoi impulsi nervosi istintivamente e agevolmente proprio come li seguiva il tuo corpo naturale. Intanto quest'ultimo non eseguirà nessuna di tali azioni, ma continuerà a giacere tranquillo e immobile nella sua capsula. Non ti richiederà molto, ora, questo corpo naturale. È soltanto la centrale elettrica, il cervello che vivendo ti dà la consapevolezza. Ma non lo puoi spegnere in alcun modo, come si fa qualche volta con le altre centrali elettriche. Non puoi dimenticarlo. Non puoi abbandonarlo. È l'ultimo e l'unico peso che devi portare sulle spalle. È un simbionte, un parassita benefico. Non puoi vivere senza di lui. «Ecco le istruzioni. Una volta ogni otto giorni, ad ogni ottavo giorno a partire da oggi, dovrai andare a controllare la tua capsula. La capsula ha un proprio sistema di autofunzionamento, ma certi fluidi debbono essere reimmessi, e certi accumuli dispersi. Una volta ogni otto giorni. Troverai istruzioni complete a fianco della capsula. È un lavoro facile e senza complicazioni, si tratta semplicemente di premere pochi tasti. Tuttavia, è un lavoro inevitabile. Il tuo corpo nutre il tuo cervello. Mens sana in corpore sano, e ciò è innegabile. Se il corpo si deteriora, si deteriora anche il cervello, e senza il tuo cervello, la tua consapevolezza non può esistere. Da oggi, Magdala, tu sei una bella donna con un figlio subnormale. Un'infermiera se ne occupa, ma ogni otto giorni è richiesta la tua personale assistenza alla marmocchia. Oltre a questo, sei libera di fare quel che preferisci. Puoi persino viaggiare... la capsula è attrezzata per sopportare ogni tipo normale di trasporto, in modo che ti possa accompagnare in qualsiasi viaggio prolungato oltre gli otto giorni. È la sola parte del bagagliaio che non puoi lasciare a casa né perdere. Sono sicuro che ne terrai conto. «L'ultima parte delle istruzioni è probabilmente così ovvia da non richiedere spiegazioni. Tuttavia, te lo spiegherò. Io ho costruito questo miracolo. Può darsi che per questo io veda le cose troppo semplici. Per te invece potrebbero non esserlo. Dunque. Nel tuo nuovo corpo ci sono i duplicati di tutti gli organi di un corpo naturale... cuore, polmoni, intestini. I tuoi occhi si aprono e si chiudono automaticamente; allo stesso modo, il tuo cuore batte e tu respiri. Puoi anche mangiare e bere, ed evacuare, se la tua idea dell'aderenza perfetta alla natura te lo richiede... anche se potresti
farne a meno, perché il tuo meraviglioso non-corpo può eliminare internamente, senza dover ricorrere alle solite procedure, i cibi e le bevande ingeriti, dei quali, naturalmente, potresti ugualmente farne a meno perché non ne hai alcun bisogno. Possiedi qualsiasi altra funzione naturale. Puoi soffiarti il naso, starnutire, sudare, piangere, se te ne vien voglia. Hai un sistema circolatorio di pseudo-sangue. Puoi persino arrossire. Ma tutte queste dimostrazioni piuttosto fatue scatteranno in modo spontaneo soltanto di rado. Molto di rado. «Ci sono alcune limitazioni da tener presenti ed a cui prestare attenzione. Alcuni impulsi fisici naturali che potranno uscire dal tuo cervello fisico con tanta forza da provocare nel tuo corpo una reazione casuale non controllabile... il terrore, per esempio. Ora, lo confesso, non credo di essere riuscito a neutralizzare completamente gli impulsi di questo tipo. L'unica legge biologica a cui sarai sicuramente soggetta, tuttavia, è quella relativa al sonno. Il cervello umano non può operare con piena efficenza senza le sue razioni di sonno. I motivi di ciò sono numerosi e complessi, e te li risparmierò. In ogni caso, fisicamente avrai bisogno di poco altro, e quindi anche la necessità di dormire per te sarà adeguatamente bassa. Non dovrai preoccuparti per decidere quand'è il momento del sonno: la sua mancanza si farà sentire da sé. Ti stancherai come tutti gli esseri umani, e ti addormenterai allo stesso modo. Può darsi che tu non abbia ancora pensato molto a tutto questo, che tu non abbia ancora compreso perché sono necessari un sistema circolatorio di sangue quasi simile a quello naturale ed un meccanismo del sonno altrettanto simile; ma sono necessari. «Parlando di limitazioni, ecco, c'è un'altra restrizione, molto appariscente. Ed è un altro aspetto del tuo corpo che lo rende simile ad un corpo naturale. La morte. Se hai qualche idea di poter sottrarti alla nostra amica, la Mietitrice Implacabile, puoi scordartela. Il Trasferimento della Consapevolezza, non è una porta per l'immortalità o l'invulnerabilità. Non so per quanto tempo un corpo umano può sopravvivere in una capsula di mantenimento. Le teorie dicono indefinitamente... dopotutto, la scarsa usura è una salvaguardia, una protezione più o meno infinita. Forse, per contro, l'atrofia arriverà più in fretta a dispetto dell'estrema meticolosità dell'infermiera meccanica. Se ti prenderai cura della tua capsula, direi che in fin dei conti puoi aspettarti molto più di trent'anni di vita garantiti. Ma se il tuo cervello fisico muore, tu muori. La tua consapevolezza esce da lui, dal cervello, e così, Magdala mia, curalo ben bene, in qualsiasi condizioni sia il tuo corpo simulato. È per questo che ho insistito nel concentrare il tuo inte-
resse sulla capsula. La capsula è il tuo biglietto per la vita. «Ecco che cosa mi ha spinto a fare questa aggiunta riguardante la morte. Non provocare danni a te stessa, al tuo nuovo corpo, Magdala. Non intendo una caviglia rotta... anche se può capitarti, perché non sei invunerabile. Non intendo nemmeno un braccio graffiato. Queste non sono ferite mortali per gli altri e quindi nemmeno per te. Puoi sanguinare e puoi guarire. Ma non intendo nessun danno di lieve entità. Quello che voglio dire è; non annegarti, non buttarti sotto le ruote di un autobus, non saltar giù dal tetto di un palazzo. Persino una struttura come quella del tuo nuovo corpo non può uscire indenne da questo tipo di disavventure. In ogni caso, anche se ne uscisti illesa, lo choc potrebbe ucciderti. I tuoi pseudo-neuroni sono efficienti come quelli veri. Spediranno tutti i loro messaggi attraverso la tua coscienza al tuo cervello fisico che li rimanderà al tuo corpo simulato, attivando i suoi centri di reazione proprio come col corpo originale. Devono farlo, altrimenti non potresti vedere o udire, odorare o gustare o sentire al tatto, o nessun'altra delle cose che incredibilmente puoi fare. Ma questi pseudo-neuroni così perfetti, possono anche farti sentire il dolore, se il messaggio che portano ai tuoi centri cerebrali implica sensazioni di dolore. Tagliati un dito, e lo sentirai. Quindi, non fare pazzie. Un eccesso di dolore può ucciderti, anche se ciò che provoca tale dolore non succede al tuo vero corpo che è al riparo nella capsula ma a questo tuo pseudocorpo.» Ci fu una lunga pausa. Udì le vibrazioni del nastro che si ravvolgeva da una bobina all'altra. Poi, la voce tornò. Era diversa. Aveva perduto il suo tono clinico-didattico. Era diventata una voce quasi dolce, ma con una sottile percepibile punta di veleno. «Mi hai spaventato,» diceva. «Ed ecco che cosa ho fatto. Mi spaventi ancora. Forse finirò proprio per tornare alla tua capsula e ne strapperò i comandi.» Appena il nastro tacque, Magdala balzò in piedi; anzi, balzò in piedi il simulacro che era il suo nuovo corpo. Non più alieno, questo corpo era diventato improvvisamente, totalmente, lei stessa. Il suo era un terrore puro, animalesco e schiacciante, che la univa per sempre a quella nuova carne. Si lanciò verso la porta, e attraversò la soglia appena il pannello scorrevole si fu aperto. Corse, consapevole soltanto di dover raggiungere lo scintillare della sua bara, corse sui tappeti del corridoio verso la piccola stanza bianca. Il suo corpo correva veloce, agile come un gatto, aggraziato. Quel
corpo era lei. Lo conosceva. Lo amava. Se lui glielo avesse sottratto, l'avrebbe ucciso... Quella verità arrivò come un colpo allo stomaco. Smise di correre e si piegò sulle ginocchia, all'ingresso della stanza bianca. Poteva persino sentire la risata di lui, crudele e folle, nell'aria vuota. Guardò stranita la capsula. I comandi erano intatti. Era tutto intatto. Se lui avesse inteso fare ciò che aveva detto, l'avrebbe fatto ore prima, subito dopo aver finito di registrare il nastro. L'avrebbe fatto mentre lei si ammirava davanti agli specchi, ognuno dei quali le rimandava un microcosmo di pelle splendida che era quel suo corpo simile ad un gioiello. O mentre lei dormiva, come ultimo atroce scherzo, avrebbe potuto farlo. No, perfino quella minaccia l'aveva fatta con uno scopo, sapendo che la scossa l'avrebbe spinta all'unità col nuovo corpo ed all'autodifesa. E l'aveva indovinata, la cosa giusta da farsi. Lei era stata scossa e impaurita. Era stata la prima volta che la paura l'aveva raggiunta, da quanto si era ammirata nello specchio. Non aveva avuto paura per tutto il pomeriggio, fino a quel momento, lei, Magdala Cled detta Ugly il cui comportamento era sempre stato accompagnato dal basso pulsare della paura... Ma la paura rimase. Aveva capito l'aspetto secondario del gioco che l'uomo stava conducendo. Ora doveva affrontare la presenza della capsula, come avrebbe dovuto fare periodicamente in futuro. Perché, in questo che era l'aspetto meno piacevole di tutta la faccenda, lei doveva imparare a vivere con se stessa. Non aveva ancora assimilato l'intero scopo della lezione registrata; ma ne sapeva già abbastanza. Ironicamente, prese nota del fatto che la sensazione di gelo che l'assaliva mentre si rialzava ed avanzava era frutto del cervello dentro la capsula. Nella culla di vetro inclinata, percorso e avviluppato da fili e tubi luccicanti, incoronato dalla gabbia argentea che copriva il cranio, giaceva un raccapricciante nano storpio. Le si chiuse la gola, mentre pensava disperatamente che non era vero, non poteva esserlo, eppure sapeva che lo era. (Probabilmente avrebbe vomitato persino la bile chimica del suo nuovo corpo per la nausea, tanto forte fu lo stimolo di repulsione che le inviò il suo cervello. Ma era abbastanza facile da controllare, quell'impulso di seconda roano. La nausea del primo momento calò mentre il mostro anestetizzato che le stava davanti non dava segni di vita). Si piazzò davanti al mostro. Piena di repulsione. Una repulsione che po-
teva ammmettere di provare soltanto ora che era libera da quell'inferno. Mentre stava là, immobile, vide un'immagine sovrapposta alla cosa tremenda chiusa nella sua fantascientifica culla, l'immagine del suo splendore riflesso dal vetro della capsula, La Bella e la Bestia. Magdala rise. Aveva assorbito un po' della pazzia del suo inventore. Le ci volle un po' di tempo prima di rendersi conto che, a parte le due se stesse ed i macchinari, la casa era vuota. Fuori la notte era scesa col suo manto che levigava la spiaggia. Un chiarore d'aurora rosea e dorata si era acceso nella casa, si era sparso nelle stanze e nei corridoi. Lei aveva giocato con i giocattoli della casa. Aveva giocato con la casa stessa. Nuda, aveva gioito della strana sensazione della seta sotto le sue mani, del velluto sotto i suoi piedi, della plastica o dell'acciaio freddo contro le braccia, le gambe, il petto e le spalle. La sensualità era così nuova per lei che non sapeva con quale nome chiamarla. Era entrata in cucina, aveva premuto un tasto ricevendo toasts scuri ed una strana pietanza fatta di pesce e di frutti di mare. Guardò, incuriosita. Assaggiò un po' di tutto, masticando con i forti dentini bianchi, leccando il cibo con la lingua di fragola, inghiottendo, facendo scivolare i bocconi nella gola ben modellata. E allora... il cibo sembrava perdersi in qualche punto del suo corpo, nella zona delle costole, sembrava dissolversi, svanire. Veniva come digerito... ma in modo permanente; e lei non aveva più fame, sebbene potesse provare appetito. E poteva digerire perfettamente, senza una vera digestione. Un altro tasto. A un tocco, la musica uscì e si disperse per la casa. La televisione tridimensionale si accese. C'era un filmato televisivo sul dodicesimo canale, interpretato da una donna che si sarebbe potuto definire bellissima. Non era bella come Magdala. Per la prima volta, (era tutto per la prima volta), provò la delizia della vanità. Aveva pettinato con cura i suoi capelli blu-neri; aveva lavato quel suo bel corpo lentamente, lentamente. Ma aveva fatto ogni cosa con la crescente sensazione, inconscia, che mancasse qualcosa: perché Claudio non c'era. Alla fine, il senso di solitudine sembrò perforarla, simile ad un lieve interminabile rumore che le trapanasse i timpani. L'ansia crebbe pian piano, passo dopo passo. Poi, la paura esplose in lei, la sua solita pura in una nuova versione.
Claudio era il suo maestro, il suo difensore. Era il mago. E se n'era andato. Capì il motivo della sua paura. Aveva paura di essere sola, perché nella solitudine sembrava che nulla di quanto la circondava fosse concreto. Diventava tutto surreale. Senza un'altra persona a constatare la sua esistenza, lei stessa poteva diventare un fantasma; un fuoco fatuo, un miraggio. Tornò sui suoi passi, un locale dopo l'altro, fino a raggiungere la stanza dalle cinque pareti. Fece il giro degli specchi e vi si sedette in mezzo, lanciando occhiate all'uno e all'altro. E le sembrò che gli specchi esclamassero: Sei qui. Guarda! Esisti. Restò a lungo fra gli specchi. Ad un certo punto, dalla stanza accanto giunse il trillo dell'orologio elettronico che lei stessa aveva caricato. Il trillo si ripeté venticinque volte, ed ogni volta risuonò attraverso tutta la casa come un diapason. Era mezzanotte. Magdala si alzò. Il senso di irrealtà se n'era andato, e lei fu improvvisamente conscia della sua nudità. Prima, il suo corpo era stato un ornamento di per se stesso. Lui l'aveva abbandonata nella casa automatica, senza preparazione e senza vestiti. Alla fine, con una collera aspra e nello stesso tempo rassicurante, aveva esaminato la situazione da un altro punto di vista. Era possibile che lui non si fosse mai assentato dalla casa, ma che si fosse nascosto, spiandola. Giudicandola. Ora riusciva a muoversi in modo fluido, piacevole. Sono piacevole. Che lui la giudicasse, allora. Lei non era una macchina, non era un robot. (Sapeva che cos'era? Era la sua creazione). Si avvicinò al pannello accanto alla porta e premette i pulsanti che non aveva ancora toccato, per vedere che altro ancora le avrebbe mostrato la stanza degli specchi. L'ultimo pulsante le mostrò un accappatoio di cotone sintetico grigio, appeso al muro entro una nicchia. Un impeto di rabbia l'assalì. Lui stava ancora giocando con lei. Prendendola in giro. Sorprendendola. Si mise l'accappatoio e annodò la cintura. Si era aspettata un vestito di seta. Cominciava a pensare che il suo corpo richiedesse quel tipo di vestito. I suoi desideri, in quel breve tempo, si erano già adattati alla sua carne: La donna piacevole poteva aspettarsi vestiti altrettanto piacevoli. Forse non era proprio una novità. Il fatto era che la so-
cietà in cui viveva l'aveva abituata ad aspettarsi le cose adatte al suo corpo. (Le ragazze e i ragazzi della fabbrica, che all'uscita si affrettavano a riporre i loro camici da lavoro, per immettersi agghindati come pavoni nella luce della città.) Di sotto, nella casa, udì qualcuno fischiare. Un suono come di ghiaccio contro il cristallo, chiaro come campane attraverso il lago del silenzio. Scese con la scala mobile, poi irruppe, con mosse perfettamente coordinate, con leggerezza e con grazia, nella stanza. L'illuminazione simile all'aurora era meno intensa, come annebbiata, fumosa, ma non le impediva di vedere bene il locale nel quale era entrata. L'uomo che sedeva nella poltrona gonfiabile, non era l'uomo che lei si era aspettata di vedere. Non era Claudio. Ma la coppa ghiacciata, stranezza da uomo ricco, non di vetro ma di leggera cialda trasparente, che era di Claudio, tintinnò sommessamente, familiarmente, nella mano dell'uomo quando se l'avvicinò alle labbra quasi in un bacio. III Aveva i capelli neri, ma di un nero tendente al rosso piuttosto che al blu. Gli occhi, di marrone fulvo, erano intonati ai capelli. La sua pelle aveva un'abbronzatura uniforme, e gli abiti che indossava, i pantaloni chiari e il giubbotto a chiusura automatica, erano costosi. Un altro uomo ricco. Il suo primo impulso fu di correre sopra, nella stanza bianca, dove si trovava la capsula, esposta e vulnerabile. Resistette a quell'impulso immediato imponendosi un atteggiamento di tranquillità facilitato dal suo bellissimo corpo che le trasmetteva sicurezza. Tuttavia, per un momento fu di nuovo Ugly. Ebbe uno spasimo d paura, che però non durò a lungo, svanì mentre ricordava ciò che era diventata. Ogni superficie nella stanza, riflettendola, la aiutò a ricordarlo. «Chi sei?» chiese. «Come sei entrato?». Era stato un colpo di fortuna, per lei, quello spettacolo televisivo che prima aveva brevemente guardato: le aveva ispirato l'atteggiamento da tenere. Nel filmato, la protagonista aveva trovato un intruso nel suo appartamento. «Chi sei?» aveva gridato la donna. «Come sei entrato?» L'imitazione di Magdala fu perfetta. «Sono un amico,» disse l'uomo. Lasciò scorrere lo sguardo su di lei. «Immagino che anche tu sia un amico... un'amica. Come entrano gli amici? Bussano, e la porta sarà loro aperta.» Il suo sguardo non le causò un nuovo trauma. Anzi, la riscaldò, dicendo-
le chiaramente ciò che lui vedeva. E quel messaggio, lanciato dagli occhi fulvi sotto le ciglia folte e lunghe, la eccitò. Le venne in mente una frase. Una volta, la udiva dire dalle altre donne. «A quanto pare, ti interesso.» Lui scosse il capo, fissando gli occhi della donna, quegli occhi blu che sembravano due pennellate d'inchiostro sull'acqua. «Sì,» disse, «mi interessi. Sei davvero interessante.» Lei accettò quel complimento scontato. Non aveva nemmeno pensato che lui potesse non rispondere in quel modo: aveva già saputo in anticipo le sue parole. Ma l'uomo le disse ridendo un po'. E chiese: «Da dove vieni? Come ti chiami?» All'improvviso, lei si rese conto che non c'era alcuna necessità di fargli notare ciò che non riguardava la sua sontuosa immagine, resa ancor più bella dalla luce sfumata. «Dovresti chiederlo a Claudio.» «Ma per il momento, Claudio non è qui.» «Oh, penso invece che sia qui, da qualche parte. Ma se sei suo amico, non c'è dubbio che tu sia stato usato per uno dei suoi giochi preferiti.» «Dimmi,» chiese lo straniero, «qualcosa sui suoi giochi. Quali giochi fa con te, per esempio? Debbono essere affascinanti.» Per un attimo lei ebbe paura. Il sesso era un'area sconosciuta, e questo gioco di parole che ne sfiorava i confini le sembrò subito pericoloso e spiacevole. Nello stesso tempo, scoprì d'essere eccitata, e uno sciocco divertimento la raggiunse nel mezzo delle altre emozioni, quando pensò che ora era ben equipaggiata, perfino per il sesso. Il suo ritmo cardiaco accelerò, forse non per necessità, ma, presumibilmente, per un'azione complementare di adeguamento al ritmo fisico. Si chiese quanto fosse vicino Claudio, e se li stava spiando, anche. Si chiese se avrebbe potuto interessargli come lui cominciava ad interessarle. L'uomo era attraente. Avrebbe potuto sedurlo, come le protagoniste dei filmati in Tre-D facevano di solito. O come facevano i protagonisti. O come facevano le donne o gli uomini reali. Indigo era un mondo libero, dal quale, come aveva capito fin da piccola, per la sua bruttezza lei era esclusa. Ma adesso, non era più esclusa. Adesso lei era Venere, la dea dell'amore. «I giochi ti interessano, vero?». Si lasciò cadere in un delirio spaventato, mentre lo diceva. «Giochiamone uno.» Mentre parlava, notò che l'uomo non gettava ombra, e che dove le sue braccia erano state posate a lungo sui braccioli della poltrona, la morbida
plastica che si modellava sui corpi non aveva subito alterazioni nella forma, non aveva conservato impronte. Un panico incontrollato le chiuse la gola e il suo corpo si raggelò. Il freddo le raggiunse gli occhi e la gola. Era caduta, come cadeva sempre, in un'altra delle trappole di Claudio. Non riuscì a ritrovare la parola per mezzo minuto. Quando finalmente poté parlare, la voce le uscì alta e tagliente. «Quando le foglie cadono dagli alberi là fuori, spariscono. La foresta olografica di un milionario, che si può far apparire e scomparire girando una leva o premendo un tasto. Quanto ti è costato progettare e realizzare quell'uomo, Claudio? È abbastanza realistico da potermi abbracciare? O mi servirebbe un ipnosensore, per lui? L'uomo svanì come un lampo; perfino il bicchiere che aveva in mano, scomparve. Claudio entrò da una parete appena aperta, applaudendo. «Bene,» disse. «Bene.» Lei si voltò, ma lui la raggiunse e le si parò davanti. «Gli ologrammi hanno i loro limiti,» disse. «Gli alberi sono perfetti. Per loro basta lavorare soltanto a un pre-programma, senza variazioni. Ma una proiezione olografica che appaia in movimento, e con dei movimenti appropriati, deve essere controllata, e da una distanza non superiore ai dieci metri. E far in modo che quella cosa dannata riuscisse a parlare con te è stato ancor più diffficile, per quanto riguarda sia la programmazione sia il controllo. Ma tu. Tu te la cavi con molta grazia nel tuo corpo, no? Un'ottima esibizione. Devi aver preso da tua madre, Maria di Magdala. Una puttana purosangue.» La strana, anacronistica beffa, la colpì con il suo aspetto ridicolo. Gli gettò un'occhiata, e incontrò i suoi occhi, e l'ondata dentro di lei cambiò direzione, nonostante la tentazione di imitare ancora il film Tre-D. Si era ricordata di come le si era rivolto prima, il voyeur, mentre spiava la sua eccitazione; la scelta delle parole pronunciate dall'illusione olografica. «Bene,» disse, «Mi hai già pagata.» E aspettò risposta, col suo corpo emotivamente non offuscato. «Io?» sorrise lui, ad occhi spalancati. «Le mie scuse, Magdala. Ti assicuro che era soltanto una prova sulla tua reazione inconscia ad un evento inaspettato. Preparazione per il mondo esterno. Nient'altro. Dimentichi che io so a che cosa assomigli. Non ringraziarmi.» Sembrò aggrinzirsi. E sebbene indietreggiasse allontanandosi da lui, sentì la sua crudeltà, come un ago incandescente. L'aveva sentita un'altra volta, prima, quella crudeltà. Per la prima volta, cercò di indagare sui motivi
di coloro che l'avevano ferita in passato. «Non piangerci sopra,» disse lui. «Non troveresti facilmente le lacrime, così sui due piedi. Hai ancora bisogno di far pratica.» Ma lei non aveva mai pianto negli ultimi vent'anni. Lei era un deserto, e nel suo deserto ebbe agio di cominciare a odiarlo, un odio profondo e complesso, nuovo per lei come tutto il resto. La luce del tramonto si rifletté sui capelli dell'uomo e scese sul suo corpo alto, ben vestito, agile giovane. La sua bellezza era la lama tagliente di un rasoio. Persino adesso che lui aveva costruito per Magdala una bellezza pari alla propria, lei si sentiva inferiore, e fu confortata dall'odio per Claudio «Ti consiglio di tornare nella tua stanza,» disse lui. «Vacci e siediti fra gli specchi.» Poi si sistemò il dischetto d'argento nell'orecchio. Lei obbedì. Lesse sullo schermo elettronico per il resto della notte. La biblioteca era vasta. Fece una scelta a caso, lesse sezioni a caso, spegnendo lo schermo se qualcosa non la interessava, o se il tumulto dei suoi pensieri si intrometteva fra le righe; leggeva per ingannarlo, perché probabilmente egli stava registrando tutto ciò che lei faceva. La parete-finestra si affacciava a nord attraverso la baia. Il sole si alzò sul lato destro della casa, e il cielo e le onde agitate brillarono, distraendola. C'era un vetro opaco, attraverso il quale il mare sembrava di un azzurro latteo. Quando tornò a voltarsi verso lo schermo, la pagina che stava leggendo era sparita, ed al suo posto era apparsa un'immagine tridimensionale di Claudio. Affascinante e freddo, le disse: «Temo che tu non possa chiudermi fuori. La casa fa esattamente ciò che io le dico di fare. Non hai privacy. In ogni caso, ho pensato che tu dovessi saperlo. Il tuo incantevole tête-a-tête dell'altra notte, col nostro visitatore illusorio, non è una prova inutile. Fra un paio di giorni, viaggeremo insieme per un centinaio di chilometri lungo la costa, poi ci immergeremo nel bel mezzo della folla. Sono curioso di osservare il tuo comportamento. Non ti offro una scelta. Sei obbligata a venire con me.» «Sì,» disse lei. Stava tremando. Ma il tremito era più che altro psichico e non raggiunse il suo corpo. In qualche modo, riusciva ad evitare che quel
tremito si trasmettesse al corpo e che lui quindi potesse notarlo. «Ti parlerò dei dettagli più tardi,» disse lui. La sua immagine si oscurò, scomparve dalla pagina del libro che lei stava leggendo prima. La nuova sofferenza dell'odio non interferiva con la sua obbedienza. Odiandolo in silenzio, sedette e si rimise a leggere il libro. Capitolo Terzo: Terreno di prova I C'era ancora l'erba dell'estate a Sugar Beach, nonostante fosse la stagione di «Blue». Appena un tappeto leggero che giungeva ai primi pendii delle colline, simili a biscotti allo zenzero appena sfornati, che si alzavano dal vassoio di talco chiaro della spiaggia sabbiosa. Spiaggia che si stendeva per circa quattrocento metri lungo il mare ondeggiante color del cielo. Fra le colline e la spiaggia era sistemato il complesso alberghiero, con le grandi finestre di vetro che cominciavano ad illuminarsi dall'interno, centinaia di occhi d'oro rivolti verso l'oceano, con i tre moli massicci e incorruttibili lanciati verso il mare aperto. Il ristorante girevole trasparente, situato al centro del complessso, aveva iniziato il suo carosello serale. Nel parcheggio sotterraneo c'erano cinquecento automobili. Una cinquantina erano nei garage privati degli ospiti di riguardo, accessibili dai rispettivi appartamenti. In tutto, c'era posto per settecento veicoli. Ogni sera le macchine si riversavano nell'albergo. Arrivavano dai centri di ricerca, dai laboratori, dalle fattorie ittiche e dalle stazioni sperimentali che si trovavano nelle vicinanze, negli ottocentoquarantadue chilometri che costituivano la fascia costiera e nelle isole sparse nella baia della Piana di Zaffiro. C'erano altre zone residenziali, ma Sugar Beach era Sugar Beach, per chi poteva permetterselo. Verso l'alba, la maggior parte delle macchine usciva di nuovo, come la marea che si ritirava dalla spiaggia. Il tetto del ristorante girevole era stato aperto in segmenti che sembravano gli spicchi di un'arancia. La luce ne irrompeva verso l'alto, cancellando le stelle. In una specie di gabbia dorata, una sala da gioco oscillava fra il pavimento e il cielo. Erano iniziati i primi turni della notte, Baccarat, Roulette e Soleil Noir. Al di sotto, un anello circolare di tavoli digradava fino alla
sala da ballo dove una proiezione tridimensionale del mare, trasmessa da proiettori collegati alle cineprese sistemate nelle banchine dei moli, danzava con un effetto quanto mai realistico, un mare vivo che col fluire delle sue acque e con il via vai dei suoi pesci accompagnava i lenti movimenti sincopati delle coppie che ballavano. La danza di moda era il Cling, che consisteva in tre passi di base ed in alcune mosse dorso a dorso. Era la danza di una società che impiegava altrove forze e intelligenza, una danza riposante, rilassante, discreto preludio al sesso. Nell'enorme sala non c'era un solo viso imperfetto, né un solo corpo trascurato. L'alimentazione a calorie controllate e le tecniche dei massaggi e dei trucchi contribuivano a migliorare persone già favorite in partenza dalla selezione matematica dei geni. Eppure la generalità di forme attraenti produceva un effetto di appiattimento, rotto solo qua e là dalla presenza di quelli a cui la selezione prenatale aveva concesso una bellezza eccezionale. Questi ultimi, tuttavia, non erano molti; era chiaro che assai di rado la selezione dava origine ad una vera bellezza. Sembrava che la bellezza, come la bruttezza, fosse di solito un caso, qualcosa di non previsto, una collisione biologica non controllata di cromosomi. Le teste si voltarono quando l'uomo e la donna entrarono nel locale e si diressero al loro tavolo. Una causa degli sguardi che essi attiravano era la loro totale bellezza, la seconda causa poteva essere la loro eccezionale eleganza. Essere ricchi non era una cosa insolita. Ma essere così chiaramente ricchi come quei due, attirava l'attenzione. Il denaro sembrava aleggiare attorno a loro come le note dell'orchestra che si diffondevano nell'aria. Per prima cosa, i loro vestiti: tutti confezionati con materiali importati da altri pianeti. C'era una sciarpa di vera seta attorno al collo dell'uomo biondo vestito di bianco, le sue scarpe erano di pelle bianca con le mascherine di lucente argento flessibile. E catenelle d'argento chiudevano la sua camicia violetta, al posto della normale invisibile chiusura a pressione. Al polso sinistro dell'uomo c'era un leggero orologio di rame, antico e probabilmente lavorato a mano. Da parte sua, la donna dai capelli neri sembrava essersi tuffata in una nera notte stellata, nella notte stellata dello spazio stesso. Il vestito accompagnava il suo corpo, lo sottolineava, e le stelle erano diamanti di Venere. Non portava altri gioielli, a parte le proprie unghie, ciascuna delle quali era incapsulata in leggera ambra modellata. Né l'uomo né la donna avevano cosmetici sul viso, né ne avevano bisogno. Le loro facce avevano la pelle liscia e l'indefinibile maquillage delle loro espressioni as-
sorte. Uno dei maggiordomi in uniforme di Sugar Beach li scortò ai loro posti. Tre camerieri si avvicinarono. Una lampada sul tavolo dissolveva e lentamente ricomponeva i suoi colori, dal rosa al purpureo, dal purpureo al blu, dal blu all'azzurro, dall'azzurro al verde al giallo al rosa. Immersa in quella luce, la coppia scelse e ordinò cibi e bevande. L'uomo aveva un atteggiamento di indolente comando, la donna di sublime acquiescenza. Due bottiglie di antico vetro simile a smeraldo pallido, ricoperte da un lieve strato di ghiaccio, furono poste sul tavolo. Quelli seduti agli altri tavoli li osservavano di sottecchi. I ballerini, mentre entravano o uscivano dall'area del mare proiettato tridimensionale, lanciavano loro rapidi sguardi d'interesse. Da sopra, i giocatori nella gabbia a tratti guardavano giù, fra una mano e l'altra, durante un giro della roulette, fra uno scambio e l'altro di monete plastificate con gettoni di plastica per il gioco. «Ti stai comportando bene,» disse Claudio, mentre bevevano il vino verde ghiacciato. Il suo esame era come uno scalpello. Dissezionava tutto ciò che lei faceva, ogni movimento, ogni respiro. La tensione la irrigidiva, ma riusciva a fare ogni cosa, ogni gesto, con movimenti sciolti, fluidi mentre si sentiva la mente bloccata e gli istinti calcificati. Casualmente, ma deliberatamente, come se osservasse il mercurio salire o scendere in un termometro, lui le chiese: «Come ti senti?» «Come credi che mi senta?» A volte sembrava che le piacesse quel linguaggio di rimando, scarno e deviante, una caratteristica che diventava raan mano più pronunciata. «Sei impaurita,» disse lui. «Naturalmente. Sei lontana dalla casa in cui il tuo cervello incapsulato vive fra le sue protezioni di fili e di valvole e di lampadine. Ecco dov'è l'origine della tua paura. Non è visibile, qui, il tuo vecchio corpo, ma tu ne senti la presenza.» L'antipatia per lui aveva migliorato il suo equilibrio. L'obbedienza a sua volta rimuoveva le incertezze che avrebbero potuto minare l'effetto di questo equilibrio. Lei stava ripiegando su una rappresentazione perfetta. Ciò non lo rendeva perplesso, semplicemente lo toccava in qualche strano modo. «Le tue reazioni mi interessano. Specialmente quando ti sforzi di controllarle,» disse, con una calma pericolosa.
I camerieri portarono il cibo che avevano ordinato, e lei si mise a mangiare. Non faceva fatica a masticare e inghiottire, anche se si sentiva la gola chiusa. Bastava che lasciasse che quel suo corpo perfetto ed estraneo agisse da solo. Poteva rendersi conto che per lei quella era una fortuna. C'erano centinaia di occhi altrui puntati su di lei, occhi che non erano quelli di Claudio. Quegli occhi erano terrorizzanti. La osservavano, la scrutavano, la sezionavano, la controllavano, e la sua paura era diventata così forte da farle quasi dimenticare gli ultimi incredibili avvenimenti; ancora una volta, pensò a se stessa come a Ugly rintanata nell'angolo più buio del ristorante dell'Accomat. Ma non dimenticò. Le graziose mani con le unghie-gioielli la rassicurarono, assieme ai sandali morbidi annodati ai suoi piedi, assieme ai capelli di seta che le accarezzavano le guance e il collo. Si riprese. Anche le centinaia di occhi che l'avevano terrorizzata, ora potevano rassicurarla. Erano specchi, ciechi come specchi. Nessuno di loro sapeva dove giaceva il suo segreto, nessuno di loro aveva visto la ripugnante nana nella scatola di vetro. Solo Claudio sapeva. Solo Claudio si curava di ricordarglielo. Avevano ordinato quattro piatti. Mentre il secondo veniva sistemato sul tavolo da uno dei camerieri, si avvicinò una coppia, un uomo e una ragazza. Magdala lanciò loro uno sguardo, e il panico cominciò a salire dentro di lei. Al massimo della tensione, si accorse, e questo non contribuì certo a tranquillizzarla, che lei continuava, anche se non per la ragione di sempre ma per la ragione opposta, a fare un notevole effetto alla razza umana. La ragazza aveva i capelli di un soffice rosso di fiamma sintetica, e andò direttamente verso Claudio, come verso un oggetto perduto che avesse continuato a cercare in continuazione e ritrovato per caso. Magdala aveva invidiato agli altri la loro normalità, un tempo. La pena per non poter ottenere ciò che tutti avevano, era un impulso irresitibile verso l'invidia. Ma più che invidiarli, li aveva odiati. Adesso, con sorpresa, scoprì che in lei esisteva ancora quell'impulso ad odiare. «Claudio,» disse la ragazza. Lui si alzò, e quella gli mise sulle spalle le mani bianche. «Dove sei stato per tutta l'estate? Perché non mi hai chiamata?» «Mi sembra di vederlo, il perché,» commentò il suo accompagnatore, guardando Magdala. «Mia sorella,» disse Claudio. «Magda, cerca di diventare socievole.» L'uomo prese la mano di Magdala e le baciò il palmo.
«Dio mio, come sei bella!» esclamò. I suoi occhi sembravano aspettare che lei parlasse. Come poteva sapere che quella bellezza era così nuova e non totalmente di Magdala? «Io?» mormorò lei. «Sorella, ha detto?» chiese l'uomo. «Se lo dice lui.» Claudio si voltò verso Magdala, e la ragazza disse, guardandoli con aria sospettosa: «Bene, bene. Parenti.» Claudio, così biondo, vestito di bianco, con gli occhi d'oro chiaro sfumati di verde e grigio pallido, indicò la donna coi capelli neroblù, gli occhi blu, l'abito nero spolverato di stelle e la sua pelle luminosa spolverata di lentiggini. «Non vedi la rassomiglianza?» «Adesso che ne parli,» disse l'uomo, «posso anche vedere una certa aria di famiglia. Io sono Irlin. Balli il Cling, Magda?» «Non ballo» «Ma Claudio sì,» si intromise la ragazza. «Andiamo, balla con me, Claudio.» «Perché no?» fece Claudio. Se ne andò con la ragazza; scesero gli scalini, si immersero nel finto mare proiettato. Magdala vide che cominciavano a danzare insieme. I loro corpi si strinsero poi si separarono e fecero i tre passi con fluida noncuranza. I pesci finti tridimensionali nuotavano in mezzo a loro e agli altri ballerini. La ragazza dai capelli rossi fece una giravolta per poi fermarsi e incontrare Claudio bocca a bocca. Il mare li coprì, scomparvero. «Credo di aver perso la mia partner,» disse Irlin. «Davvero non balli?» «No.» Lui mise una mano su quella della donna. «Conosci il detto. Se danzi su un pavimento, puoi fare lo stesso su un letto.» Lei guardò la mano di lui sulla sua. Se tu sapessi come sei patetico, Irlin. «È davvero tuo fratello?» chiese Irlin, accarezzandole la mano. «Naturalmente. Se lo dice lui.» «Oh. Vuoi che ti lasci sola?» «No. Voglio che tu mi parli di Claudio.» Irlin ammiccò, e decise di stare allo scherzo. «Mi stai prendendo in giro. Di sicuro conosci tuo fratello meglio di chiunque altro.»
Magdala ritrasse la mano, aprì la borsetta ed estrasse una carta di identità. L'aprì e la posò sul tavolo. Il nome sulla carta era Magdala Loro. «Stiamo così poco insieme,» disse Magdala. Stava ancora usando i dialoghi appresi dallo schermo Tri-D, ogni volta che le frasi stereotipate del mondo della celluloide potevano adattarsi alle circostanze. «Mi piace sentirne parlare. Lui è così reticente per quel che riguarda se stesso. Spero che tu mi dica qualcosa.» «L'ho incontrato solo due volte,» disse Irlin. «La ragazza che è con me, Nada, lo conosce meglio, hanno passato un paio di notti insieme, lei e Claudio, prima dell'estate. Ma per me lui è uno schermo buio. Un uomo ricco... non lavora, non ha legami né capricci. Orchidee preziose; farfalle. E tu sei uguale. Che cosa fai al mondo?» «Vivo.» disse lei. «Gesù. Lo vedo, che vivi. Mi dispiace, scusami. Quel che intendevo, è che io resterò a Sugar Beach per sei o sette giorni, questo Dek. Vieni a nuotare con me. «Non nuoto.» «Quello che non sai fare non lo fai», enunciò Irlin con fare dogmatico. Poi, cambiando tono, aggiunse: «Potrei insegnarti.» «Il nuoto?» «Qualsiasi cosa. Tutto ciò che ti piacerebbe imparare. Sai, sei davvero bella.» Magdala si voltò verso di lui e provò ad osservarlo. Appariva simile a chiunque altro. Attraente, sano, normale. Il suo aspetto era piacevole ma non eccezionale, il tipo si poteva dimenticare nell'istante stesso in cui se ne andava, pensò lei. Dietro di lui, vide Claudio che tornava dalla pista da ballo simile al mare; la ragazza di nome Nada lo seguiva: aveva le labbra strette e la sua faccia, sotto la cipria perlacea, era bianca. Si fermò accanto al tavolo. «Andiamocene,» disse ad Irlin. L'uomo apparve irritato. I suoi occhi indugiarono su Magdala, ma Nada gli afferrò un braccio. «Ho detto andiamocene. Oppure resta tu, e io chiamerò un'automobile dell'hotel.» «Scusatemi,» disse Irlin, e seguì Nada fuori dal locale. Claudio sedette e i tre camerieri arrivarono in fretta con la terza parte del pasto ordinato. «Era divertente?» disse Claudio. «Dovresti averci visti.»
«Avevo altro da fare.» «Non sanno,» disse Magdala, «che sei uno scienziato.» «A loro non interessa. Il denaro può comprare l'anonimato tanto facilmente quanto una carta d'identità falsa per uno dei propri amici.» «Ho mostrato la mia carta d'identià falsa a Irlin. Non credeva che io fossi tua sorella.» «Mi stupisci.» «Vuole portarmi a nuotare.» «Vuole portarti a letto. Ti interessa?» «Che cosa mi dici di quella ragazza?». Magdala smise di mangiare. La sua paura era già passata, e una strana forma di tristezza ne stava prendendo il posto. Nella sua mente fluttuavano frammenti dei libri che aveva letto. Avrebbe voluto esser sola, nascondersi, dormire. «Le ho detto che era noiosa. Lo era. Lo è. Solo tu non sei noiosa, Magdala mia. Tu sei spaventosamente, orribilmente non noiosa.» Alcune grida vennero dalla gabbia d'oro dei giocatori appesa in alto. Qualcuno stava vincendo. O aveva perduto. L'appartamento di Claudio a Sugar Beach aveva cinque stanze e due bagni. Era dipinto di beige, d'azzurro e di giallo dorato e costava cinquecentotrenta astrads al giorno. Un ascensore privato lo univa al suo garage sotterraneo. Qui c'era la grande automobile argentea, avvolta in un trasparente schermo antipolvere. Nel telaio inferiore della macchina era stato ricavato un portabagagli supplementare, inserito nella fiancata sinistra, lungo due metri, alto e largo un metro e mezzo. Si entrava nell'ascensore e si andava giù per trenta piani. Si disinseriva lo schermo antipolvere. Sul fianco della macchina, un bottone poteva essere premuto, un pannello poteva essere aperto. Lo spazio, altrimenti invisibile, nel telaio, si mostrava gradualmente. Un secondo bottone, e il contenuto del vano segreto si illuminava: la vitrea capsula-culla stabilizzata, col suo contenuto. «Hai mai letto dei romanzi dell'orrore? Qualcosa sui vampiri?» aveva detto Claudio. «Un vampiro non poteva andare in nessun posto senza la sua bara. Tu non hai soltanto una bara viaggiante, Magdala, hai anche un corpo al suo interno.» Le aveva mostrato quel ripostiglio segreto ed il sistema per inserirvi la capsula, con la stessa espressione con cui le aveva mostrato poco prima gli abiti fatti confezionare in esclusiva per lei dalle più eleganti sartorie della
città e la falsa carta d'identità. La sua fotografia era su quel documento assieme al nome che lui le aveva scelto — il suo nome, e il cognome del suo inventore — che appariva a chiare lettere alla pressione del suo indice e del suo pollice... no, non più il suo indice e il suo pollice, ora, ma quelli del nuovo corpo, alieni. Lei non gli aveva chiesto come si fosse procurato quella carta d'identità... se la sua ricchezza poteva permettergli semplicemente di comprare la burocrazia del governo di Indigo, o se il suo genio di inventore aveva creato il documento identico a quelli autentici. Lui non le aveva dato spiegazioni, lasciandola come sempre nel tunnel delle incertezze e delle mezze verità che le annebbiava i pensieri. Non le aveva insegnato come evitare la follia. Magdala era convinta che lui fosse pazzo, dopotutto. E la continua tensione nervosa poteva farle seguire la stessa strada. Forse erano già pazzi entrambi. Perché no? Alle cinque di mattina, Magdala prese l'ascensore e scese nel sottosuolo. Entrò nell'area dei garages, raggiunse la macchina, premette il bottone e spinse il pannello, e si fermò davanti a se stessa. Dormire era necessario, ma nelle sue condizioni poteva esser sufficiente qualche ora di sonno. Claudio se n'era andato... a giocare d'azzardo nella sala aperta tutta la notte, o nella camera da letto di una delle tante donne che gli si erano avvicinate durante la serata. C'erano anche stati altri uomini a disposizione di Magdala, altri Irlin, attraenti, mediocri e tutt'altro che indimenticabili. L'uomo irreale, la proiezione olografica, per qualche ragione aveva avuto per lei una maggior consistenza di quegli uomini vivi. Poteva ricordare quell'uomo, i capelli nero-rossicci e gli occhi fulvi. Immaginò, infantilmente, la pelliccia del gatto finto che la aspettava nell'appartamento silenzioso dell'Accomat. Il suo pollice, ora, il pollice del suo corpo nuovo, non avrebbe più potuto aprire la serratura di quell'appartamentino. Si sforzò di guardare la brutta faccia gessosa oltre il vetro, avvolta dai suoi fili e dal suo copricapo luminoso, nella capsula. La capsula. La bara. II Alle dieci della stessa mattina, Irlin le telefonò. «È un meraviglioso giorno pieno di sole. I fiori attorno al laghetto stan-
no diventando blu. Ma non blu come i tuoi occhi, Magda.» Si guardarono l'un l'altro attraverso gli schermi del videotelefono. Il locale dietro di lui non era più grande di una delle cinque stanze dell'appartamento di Claudio. E lui... lui era ancora un tipo medio, di quelli che si dimenticano. A disagio, le disse, «Tuo fratello era con Nada la notte scorsa. Può darsi che fossimo entrambi soli, noi due. Possiamo vederci al laghetto?» «Non credo.» Alle tredici, Claudio entrò assieme a Nada. La ragazza indossava un vestito rosso, e i suoi capelli sembravano attingerne luce, e il suo arrivo sembrò il passaggio di una rossa fiamma sintetica. Entrarono in una delle stanze da bagno, e la porta si chiuse alle loro spalle. Si udì lo scroscio di una doccia, e una risata femminile. Mezz'ora dopo, Claudio bussò alla porta della camera da letto di Magdala. Aveva cambiato abito, e i suoi capelli bagnati si erano un po' scuriti coll'acqua della doccia, che si sentiva ancora scorrere in distanza. «Perché non inviti qui Irlin?» disse. «La vista di quest'appartamento gli farebbe bene, dopo la stanza in cui abita. Ma lo vedrai a pranzo. Potrete combinare allora.» «Combinare che cosa?» chiese lei. La sua voce suonò distratta. Stava guardando dalla finestra l'azzurro della spiaggia contro l'azzurro del cielo. Entrambi gli azzurri sembravano convulsamente percorsi da forme animate visibili come ombre chiare o scure. «Ho visto che cosa ti sta succedendo,» disse lui scandendo le parole. «È la seconda fase. Prima l'esaltazione, poi la ritirata. Queste erano cose prevedibili. E comprensibili. Ma adesso stai per scendere a far colazione e a metterti in mostra, che tu lo voglia o no. Quindi, controllati. E aspetta che io abbia finito quello che ti sto dicendo. Irlin è facoltativo, per te; ma immagino che il tuo istinto di femmina, Maddalena, ti guiderà irreparabilmente verso di lui. Sei stata costruita in modo completo, Magda. Fin nei minimi particolari.» Magdala si voltò lentamente e lo guardò fisso. Mise avanti la mano destra, a palmo aperto, le dita stese. «Costruita con che cosa?» «Oddio. Non possiamo discuterne adesso. La rossa è lì dentro, sotto la doccia.» «Io sento la pelle e i muscoli. La mia bocca contiene gli umori di una bocca normale, e così i miei occhi. I miei capelli sembrano proprio belli.»
«Non adesso.» «Adesso!» ribatté lei, e si accorse che la sua voce melodiosa stava gridando. «Adesso! Adesso!» Lui le afferrò la mano, la strinse, le torse il polso, e le fece male. Questo corpo, che poteva sentire il dolore, era il suo, era lei stessa. Questo corpo era tutto ciò che lei era. Aveva solo sognato la cosa nella capsula. «Pelle espansa e capelli espansi. Sviluppo cellulare che segue un programma di crescita in laboratorio, in una vasca. Organi interni costruiti ed inseriti come parti meccaniche in una macchina. Il tutto messo insieme nella costruzione di una bambola. Tu sei un orologio, Magdala. Un bell'involucro con un meccanismo all'interno. L'orologio-Magdala. Un meccanismo perfetto. Puoi fare tutto, Magdala. Puoi perfino urlare. Ma... non sporcarlo, nemmeno per me.» «Non sporcare che cosa?» chiese lei. Lui sorrise, torcendole la mano in una stretta ferrea e dolorosa. «Il mio esperimento. Il mio Deux-ex-macchina. Il mio Frankenstein. Non sporcarlo, mostro.» La lasciò andare proprio mentre la porta si apriva. La testa rossa attraversò la soglia come un lieve fuoco intenso che nessuna porta poteva spegnere. «Scendiamo, Claudio?» «Telefona a Irlin e digli di raggiungerci. La tavola numero quindici della terza darsena.» «Irlin?» disse la ragazza con voce aspra. «Chiamalo.» Lei uscì dalla stanza e andò a premere i tasti del videotelefono. «Sei pronta?» chiese Claudio a Magdala. «Sì.» «Tu e Nada scenderete insieme appena lei avrà parlato con Irlin, d'accordo? Io vi seguirò.» Lei si mosse senza rispondere, senza guardarlo. Lui le osservò i capelli e il vestito, la soppesò per un secondo. «Sei perfetta,» disse, «comportati bene.» Mentre scendevano con l'ascensore, Nada si ritoccò senza averne bisogno il trucco perlaceo, tenendo davanti alla faccia un minuscolo specchio tascabile, e non disse una parola. Irlin stava aspettando le due donne alla fine della spiaggia. Il molo della terza darsena finiva in una vasta piattaforma chiusa da una
cancellata. Nel centro della piattaforma c'era una delle piscine riscaldate dell'hotel, con l'acqua colorata di giallo tenue, in parte scoperta ed in parte fluttuante sotto il pavimento di plexiglas translucido. Un baldacchino sventolava al di là dei tavolini nel vento caldo della sera. Claudio si era sistemato nell'orecchio il dischetto d'argento che trasmetteva musica. Perciò, mentre mangiava, sembrava sordo. Ogni tanto sorrideva ai suoi compagni di tavolo con aria cortese ed assente. Non sentiva niente, e sembrava non interessarsi a niente che non fosse la musica del suo dischetto. Frustrata, la rossa fissava il baldacchino del colore dei suoi capelli, sempre più accigliata, e il suo mutismo sembrava rivaleggiare con la sordità di Claudio. Irlin era chiaramente imbarazzato. Cercava di dire spiritosaggini che immancabilmente cadevano nel silenzio. Avevano bevuto molto durante il pranzo, aperitivi schiumosi, poi parecchi bicchieri di bevande superalcoliche fra una portata e l'altra. Magdala aveva continuato ad ingurgitare quelle bevande, con noncuranza, tanto i liquori potevano avere effetto solo sul suo palato ma non sul sistema del suo nuovo corpo; lei non poteva ubriacarsi. Eppure, all'improvviso, ebbe la sensazione di stare oscillando. Quel disorientante ondeggiamento la terrorizzò. Non si era mai ubriacata in vita sua, nella sua attuale vita. Aveva creduto di non potersi ubriacare. Non aveva senso... Guardò Claudio. «Irlin,» disse lui, attraverso la musica che gli risuonava nell'orecchio, «mia sorella si sta sgelando sotto l'influenza del pranzo. Portala a pescare.» La paura di Magdala cercava di emergere e di monopolizzare la sua attenzione, ma l'euforia prodotta dall'alcol scacciò via quella paura. E lei stava brancolando nell'aspro sapore dell'ebrezza. Irlin sogghignò con aria sciocca. «A pescare?» «Ti sento,» disse Caludio. «Ti piacerebbe andare a pescare?» chiese Irlin a Magdala. Lei non riusciva a trovare la voce. Annuì, accigliata. Non capiva. E non si preoccupava di non capire. Irlin le prese un braccio; lasciarono il tavolo e tornarono indietro lungo il molo. Vicino alla spiaggia, un solido graticcio si stendeva verso occidente. Qui uomini e donne sedevano con canne da pesca e attorcigliavano lenze, godendosi un barbaro passatempo, col sole alle spalle. Raramente cattura-
vano una preda; il continuo movimento e il rumore sul molo facevano fuggire il pesce, lasciando le ombre che tingevano d'inchiostro blu l'acqua della baia. Magdala si appoggiò contro la balaustra metallica, al di sopra del graticcio. I suoi capelli svolazzavano e si intrecciavano al soffio del vento caldo. Poteva sentire la propria bellezza, il corpo snello, le curve premute contro la balaustra. Chiuse gli occhi, frastornata dall'immagine di quella nuova se stessa che le si rifletteva nella mente. «Magda,» disse Irlin con voce roca. Le accarezzò le spalle; quella mano maschile sul suo corpo le diede piacere, con la sua carezza lenta, lieve, che seguiva il tempo delle onde che le venivano incontro e delle maree che le si agitavano dentro. «Vorrei essere ricco. Te lo dico ancora, vorrei essere ricco. Sei una snob, Magda?«Lei si accorse, vagamente, che era un po' ubriaco. «Farfalla,» le diceva, «Scendi, posati su di me, farfalla. Bella farfalla lentigginosa.» Si sentì un rimescolìo d'acqua, un grido. Magdala sussultò. «Qualcuno ha preso un pesce,» disse Irlin distrattamente. C'era stata una cattura. Barcollando freneticamente, due uomini davano strattoni a una lenza tesa sull'oceano, finché il pesce fu trascinato verso la riva e andò a sbattere violentemente contro la griglia su cui stavano i pescatori. Era un merluzzo gigante a doppia coda, della qualità commestibile. Azzurro-argento chiaro, sfumato di mare, nuotò disperatamente lungo il cemento del molo. Un fiotto di sangue bianco sgorgava dalla sua bocca, attorno all'amo che lo teneva prigioniero. La folla sulla griglia rideva e applaudiva aspettando di vederlo morire. Magdala si voltò di scatto, nauseata da quello spettacolo, appoggiandosi alla balaustra con la schiena. Dall'altra parte del molo, a una distanza di circa dodici metri, un uomo si era fermato a guardarla. Lo riconobbe. I capelli nero-rossastri, la pelle abbronzata. L'uomo che Caludio aveva proiettato olograficamente per ingannarla. Ma quello non poteva essere un ologramma. Non lì, sul molo. Istintivamente, mosse lo sguardo per cercare un'ombra ai suoi piedi, e la trovò. Indossava un giubotto bianco a chiusura automatica e pantaloni di daino. Al polso sinistro portava un leggero braccialetto d'argento che le gettò negli occhi un riflesso di sole. Era reale. Venne verso di lei e si fermò a mezzo metro di distanza. «Che cosa fai qui?» disse decisamente.
Magdala non rispose. Al suo fianco, Irlin si agitò. «E questo chi è, Magda?» Lo sconosciuto rise mostrando i denti candidi. «Oh, Magda, eh? Bene, Magda, tu lo sai chi sono, vero?» «No,» disse lei. «No, Magda? Ma ho visto che mi hai riconosciuto,» disse l'uomo con aria innocente. Le sembrò uno spirito maligno, una cosa simile ad un incubo. «Comunque, posso immaginare che sia stata tu a spedire il fonogramma per incontrarti qui, no?» Lei lo guardava senza capire, e il molo sembrava ondeggiare davanti ai suoi piedi. Era ubriaca e l'uomo che le stava di fronte doveva essere il prodotto di qualche allucinazione; però anche Irlin lo vedeva. «Buttati a mare,» disse Irlin. «La signora non ti conosce.» L'uomo stese la mano e diede un buffetto alla guancia di Magdala. «Sei ubriaca, vero?» disse. «Ne parleremo quando avrai smaltito la sbornia. Qual è il numero della tua camera?» Irlin lo colpì. Un colpo solo, ben dosato, da manuale di lotta, infallibile e perfetamente calcolato. L'uomo si afflosciò ai loro piedi. «Cristo,» disse Irlin. Si allontanò inciampando attraverso il molo, trascinandosi dietro Magdala. III Irlin non fece domande. Ma era nervoso. Sembrava credere che l'uomo elegante che li aveva avvicinati sul molo fosse un qualche fantasma del suo passato di ragazza ricca. Nessun altro li avvicinò. Le discussioni in pubblico e le lotte parevano far parte dello scenario abituale di Sugar Beach, cose troppo banali per esser prese in considerazione dai presenti. «Dove andiamo ora?» chiese Irlin. Incautamente, lei rispose: «Non all'hotel. Prendi la tua macchina e portami da qualche parte.» «Dove?» «Fammi una sorpresa.» Stava cominciando a inventare anziché usare i dialoghi copiati dalla TriD, e la sua ubriachezza la rendeva deliziosa. Che importava l'uomo dai capelli neri?
Irlin la condusse a una piccola automobile. Vi si infilarono. Lui attivò la guida automatica e premette alcuni bottoni per stabilire l'itinerario. Quando la macchina partì a tutta velocità, si mosse inquieto e gettò un'occhiata al nastro grigio della strada che scorreva oltre il parabrezza. La velocità esaltava Magdala. Un pizzico di ebrezza aggiunta a quella provocatale dall'alcool. Lasciando la casa d'argento di Claudio, l'aveva visto spegnere gli alberi olografici nel parco. Esistevano, e il momento sucessivo non esistevano più. La sua paura era simile a quegli alberi. La sua paura, che era sembrata così reale, si era spenta ed era svanita. Si immersero nell'azzurro troppo intenso, fra le colline di pandizucchero, fino ad un bar isolato lungo la strada, sedettero sulla veranda trasparente, a bere vino sintetico. Lo stato di ubriachezza di Magdala non aumentò, ma non perché lei non ci si fosse messa d'impegno. Non veniva molta gente in quel localetto a buon mercato. Un'altra coppia era entrata nel bar, poi era salita in una stanza. L'impianto di condizionamento dell'aria evidentemente non funzionava, e le finestre erano aperte. Magdala udì i rumori soffocati di un orgasmo provenire dalla stanza di sopra. Solo con lei sulla veranda, Irlin sembrava diventare più inquieto e contemporaneamente aumentava il suo desiderio di toccarla. Le mise un braccio sulle spalle, ignorando volutamente la pressione del gomito della ragazza contro le sue costole nel tentativo di allontanare l'abbraccio. Poi Magdala si voltò verso di lui e gli permise di baciarla. Il bacio di lei fu come un colpo di vento... esitante, controllato, reale, e inesperto «Lasciati andare,» sussurrò Irlin sulla bocca della donna. «Seguimi, bambina, vieni con me.» La sua mano si mosse in una lunga carezza sulle spalle di lei. Le sue dita cercarono di slacciarle la camicetta, sfiorarono la pelle nuda del suo seno. «Sei così graziosa,» disse. Come ad un segnale, l'ubriachezza abbandonò Magdala, se ne andò via in fretta com'era venuta. Lei cercò di trattenerla, di conservare quel senso di euforia che le dava, ma non ci riuscì. Si ritrovò improvvisamente sobria e lucida. L'azzurro sulle colline divenne cupo, tetro, il giorno si bagnò di un umido caldo soffocante, la mano di lui divenne attaccaticcia e troppo insistente e insopportabile. Era impaurita. Sola con un estraneo, e impaurita. Lei era brutta, storpia, deforme, e un giovane uomo accarezzava il suo corpo e sospirava al suo orecchio.
Lo spinse via. «Basta.» «Ti prego, Magda...» «No.» Lui si ritrasse, rabbrividendo. La donna si alzò, uscì dalla veranda, si diresse verso il parcheggio. Lui la seguì subito, scuotendo la testa, con lo sguardo infiammato da un disgusto che non avrebbe potuto e voluto esprimere. «Eppure lo fai, con tuo fratello,» sbottò alla fine, mentre le apriva lo sportello della macchina. Tornarono all'hotel in silenzio. Il sole incendiava le onde ricamate dal mare e il cielo verso occidente. Dall'interno della macchina, lei gettava occhiate al sole e sulla gente che ancora affollava i moli e i dintorni dell'albergo. Non c'era traccia dell'uomo dai capelli nero-rossi. «Quello che ho detto prima,» borbottò Irlin, guardandola con imbarazzo, «non dovevo dirlo, è stato un errore.» Lei scese in fretta dalla macchina, entrò correndo nella hall dell'albergo, si precipitò nell'ascensore che la portò di sopra. Mentre la porta dell'appartamento si apriva, provò un momento di sollievo immediato. Poi vide Claudio. La sua figura si stagliò contro il vano della porta. Aveva un'aria allegra innocente. «Povero Irlin,» disse. «La bella signora non c'è stata, dopotutto.» Improvvisamente, gli ultimi effetti dell'alcol svanirono completamente, e in un lampo di razionalità lei riuscì a capire. «Non avrei potuto ubriacarmi,» disse. «Questi neuroni possono portare stimoli indotti da questo corpo al mio cervello e viceversa, come fanno i circuiti nervosi di chiunque; ma bere è diverso. È come mangiare... sentire i sapori, masticare, deglutire, e basta. A meno che il mio vero corpo fosse ubriaco. Tuttavia mi sentivo ubriaca... e non avrei potuto esserlo, no?» Si fermò, con un'espressione tesa e dura, sfidandolo. Poi aggiunse: «Che cosa hai fatto?» «Un po' di alcol distillato inserito nei contatti di alimentazione della tua capsula. Facile. In maniera da far coincidere l'effetto col procedere della tua pseudo-bevuta. L'ho fatto quando tu e la rossa siete scese alla darsena.» «Perché?» «Come sempre. Per manovrarti e divertirmi osservandone l'incantevole risultato.»
Non si agitò. Era consapevole di una grande cambiamento che stava avvenendo dentro di lei, che forse era già avvenuto. Era consapevole dell'ira, la sentiva, simile ad una miccia pronta ad accendersi, ira e odio ed energia, il tutto pronto ad esplodere. All'apparenza, era calma. «C'era un uomo sul molo,» disse, cambiando discorso. «Sembrava che mi conoscesse.» «Uno che cercava sfacciatamente di avvicinarti.» «Era l'originale dell'ologramma che tu hai proiettato a casa.» Claudio spalancò gli occhi e aprì la bocca in un'espressione di sorpresa infantile. Piegò le braccia, le ridistese, strinse i pugni in un gesto meccanico di incredulità. Il primo impulso inconscio fu quello di negarlo, di smentire ciò che lei aveva appena detto. Lei gli voltò le spalle e se ne andò in camera, si infilò nella propria stanza da bagno e aprì la doccia. Si svestì e offrì il suo corpo alla carezza dell'acqua, tiepida prima, poi calda, poi fredda. Lo sentì parlare attraverso la porta della camera. Stava dicendo: «Si chiama Paul Hovak. Apparentemente, è sul libro paga del governo del Concilio dei Mondi, come coordinatore di una ventina circa di progetti di ricerche chimiche sussidiarie su Indigo. È ricco, poco conosciuto, e quasi certamente ha collegamenti politici al di fuori del Concilio dei Mondi. Ha imparato un mucchio di termini del gergo di base della subchimica, e un mucchio di cose sui più grossi pasticci e su coloro che agiscono dietro le quinte... come lo sfortunato Irlin, che l'ha colpito, scoprirà quando lui vorrà vendicarsi di quel pugno, uno dei prossimi giorni.» Magdala non rispose. Ascoltava da sotto la doccia che le scorreva sulla pelle, senza pensare. Si sentiva spenta, come gli alberi elettrici della foresta olografica di Claudio. Lo sentì muoversi accanto alla porta. «Quando ti vesti, prendi il regalo che ti ho portato.» Lo sentì andar via. Sentì che l'appartamento era vuoto senza di lui, vuoto come se l'aria stessa se ne fosse andata. Attraverso quel vuoto, uscì dalla doccia, ed entrò nella camera. Sul letto era steso un vestito nuovo, ancora avvolto in un sottile strato di cellophan: di raso beige con riflessi di rame chiaro, con una frangia di diamanti azzurrini attraverso le spalle, un po' al di sotto della scollatura. Copriunghie di cristallo azzurri intonati alle pietre spuntavano simili a spini lucenti dalla loro scatola, posta accanto al vestito, sul quale era posato un braccialetto intrecciato di zaffiri neri.
Senza sapere perché, senza considerare i motivi del proprio comportamento, cominciò ad essere allarmata, inquieta, all'erta. Sollevò il braccialetto e vi fece scorrere sopra il pollice. Sul fermaglio sentì una vibrazione rivelatrice. Un micro-registratore, con un nastro miniaturizzato di quelli della durata di tre ore, già inserito, era nascosto nel fermaglio. Si vestì e si mise il braccialetto. Obbediente. Non le interessava nulla, non si meravigliava di nulla. Era ancora spenta, come gli alberi elettrici. Quando la corrente fosse stata reinserita, che cosa sarebbe accaduto? Scelse una boccetta e se la versò sulle mani. Con la fragranza del sandalo indiano, che si diffondeva come un motivo di accompagnamento, le giunse il ronzio del campanello della porta di ingresso dell'appartamento. Non era Claudio. Lei e Claudio avevano entrambi la riproduzione delle impronte che aprivano la porta dall'esterno. Forse Nada, oppure Irlin, pensò. Ma sapeva già chi era. Non avrebbe risposto. Sul suo polso, il registratore nel braccialetto frusciava... piano, piano. Sì, pensò che avrebbe fatto meglio a rispondere. Aprì la porta, e l'uomo dai capelli neri era lì. Paul Hovak. «Fammi entrare,» le disse. Lei si fece da parte per lasciarlo entrare. L'uomo fece lentamente il giro della stanza. «Grazioso posticino,» disse. «Naturalmente, avrai uno stipendio adeguato, immagino. O c'è qualcuno che ti mantiene?» «C'è qualcuno che mi mantiene,» disse lei. «Allora spero che sia via, in questo momento.» E, in modo spicciativo, raggiunse ogni porta dell'appartamento, l'aprì, guardò dentro, persino nelle due stanze da bagno. Magdala ricordò la conversazione nella casa d'argento, quando aveva creduto di star parlando con quest'uomo e invece non era vero. La sua vera voce, il suo vero atteggiamento, erano del tutto diversi da quelli dell'ologramma. L'attuale Paul Hovak aveva maniere incisive. Non aveva accennato alla scena avvenuta sul molo. La mascella ammaccata era stata curata bene e non mostrava alcun segno del colpo ricevuto. Finalmente convinto che erano soli in casa, e soddisfatto di ciò, si sedette. Il suo contegno dava l'impressione di un uomo convinto che ogni affare precedente fosse stato un errore al quale egli aveva rimediato e che avrebbe potuto ricominciare da capo e questa volta operando con efficienza. Simulando una perfetta noncuranza, Magdala, che presentiva un pericolo
e cercava un espediente per sottrarvisi e non riusciva a risolvere quella specie di complessa sciarada, disse, imitando ancora una volta lo stile televisivo: «Vuoi qualcosa da bere?» «No, non voglio bere, e penso che non lo voglia nemmeno tu. Veniamo al punto. Mi hai mandato un insinuante messaggio con un fonogramma anonimo. Un invito a incontrarci. Bene, sono qui. Quali sono le notizie che devi darmi?» Claudio, il mago. Aveva spedito il fonogramma a quell'uomo. Aveva proiettato l'ologramma somigliante a quell'uomo, in modo che lei fosse in grado di riconoscerlo. Claudio li stava manovrando, tutti e due; si stava servendo di loro, muovendoli a suo piacimento. Evidentemente, l'entrata in scena dell'uomo aveva lo scopo di scoprire come avrebbe reagito lei nella propria ignoranza della situazione (La deduzione fu casuale). Probabilmente, essendo stata informata del nome dell'uomo, lei avrebbe pensato di usarlo. E infatti lo usò. «Mister Hovak... o dovrei dire Paul,» disse. «Quali notizie?» «Mi sto stancando,» disse Hovak. «Non ho tempo da perdere. Hai qualcosa, o no?» «Direi... no.» L'uomo fece la faccia scura. C'erano rughe dure sulla sua fronte agli angoli della bocca, ora. Disse, «Che cos'hai?» e fece una pausa aspettando che lei rispondesse. Quando la risposta non arrivò, aggiunse: «Bene. Presumo che da parte tua questo sia stato solo un esercizio per acquistare sicurezza. Volevi essere sicura che sarei stato pronto a correre alla tua chiamata quando tu avessi avuto dei risultati da comunicarmi. Quando tornerai?» «Tornare dove?» «A Marina Azzurra. E dove diavolo, se no?» «È là che andrò?» L'uomo si alzò e attraversò la stanza per andarle vicino. Appena lo vide muoversi, la paura scattò in lei. Piombò in un terrore assoluto quando la mano di lui, reale pesante e viva, piombò sulla sua spalla e gli occhi fulvi la guardarono con espressione intenta e nemica. «Non sono in vena di pagliacciate,» disse. La sua voce risuonò dura mentre le sue dita giocavano con la frangia di pietre preziose sul braccio della donna. «Non scherzare con me. Non prendermi in giro, Christa. Limitati a consegnare la merce che hai promesso. La merce che avresti dovu-
to consegnare già da tempo, da un maledetto mucchio di tempo. Mi hai sentito? La prossima chiamata che mi arriverà da parte tua, dovrà essere la chiamata. Intesi?» Lei capì che doveva tenerlo buono. «Sì,» disse, «ho capito, farò come dici tu.» La forte mano maschile lasciò la sua spalla e le goccioline di diamanti che le adornavano la scollatura del vestito. Si allontanarono l'uno dall'altra col fiato corto. Paul Hovak scosse la testa come se fosse appena emerso dall'acqua. «Hai i nervi scossi,» disse. «È pericoloso. Non sfogarti su di me. Io voglio quello che sai; e ho scommesso su di te, Christa.» Si diresse alla porta. «Partirò fra mezz'ora. Quando hai detto che tornerai, di preciso, a Marina Azzurra?» Lei chiuse la mano sul braccialetto intrecciato e sul microregistratore che esso conteneva. «Tre giorni.» «Va bene. Prenditi un po' di riposo. E lascia stare gli alcolici.» La porta scivolò di lato; lui attraversò in fretta la soglia e se ne andò lungo il corridoio senza voltarsi indietro. Qualunque cosa Claudio avesse previsto, era presumibilmente accaduta, e le parole che lo confermavano erano state catturate dal nastro magnetico inserito nel braccialetto che lei aveva al polso. Gli zaffiri avevano una luce calda sotto i suoi occhi, ed erano diventati caldi sotto le sue dita. Con gestì rigidi e accurati, Magdala slacciò il braccialetto; e nel toglierselo, si tolse anche la maschera di impassibilità che aveva sfoggiato. Scese alla reception per accertarsi della partenza di Hovak, poi salì sulla scala mobile che la trasportò dentro la grande sala da gioco dorata sospesa in alto sopra il ristorante. «Posso avere dei gettoni addebitandoli sul conto di mio fratello?» «Certo, Miss Loro. Naturalmente.» Le portarono un migliaio di chips bianche tutte in una volta. Sotto, non era riuscita a vedere la testa platinata di Claudio, quando aveva passato in rassegna i tavoli sulle gradinate e la pista da ballo. Là, nel mare finto fluttuante, i motivi che uscivano dagli altoparlanti erano diversi ma le coppie stavano ancora ballando il Cling. Sopra, oltre il tetto trasparente, le stelle, velate dalla luce artificiale ma sostanzialmente sempre le stesse, sempre uguali, scandivano come sempre il ritmo della sala. Solo lei sembrava capace di una metamorfosi.
Le fecero posto a un tavolo circolare. Gli altri giocatori la osservavano. Si sistemò al tavolo, nel suo vestito dai riflessi di rame, illuminandoli colla sua luce, consapevole di come gli altri la vedevano. I loro visi erano i suoi specchi, come sempre. Spinse davanti a sé un centinaio di chips e chiamò il suo colore. Il croupier in uniforme spinse a fondo la leva e le venti palline argentate schizzarono dal loro contenitore per gettarsi contro le pareti curve del tavolo, si sparsero, corsero via, si fermarono. «Rien,» disse il croupier. Gettò un'occhiata intorno. «Encore?» Attorno a lei, diverse mani gettarono avanti mucchietti di chips colorate. Magdala ne mise altre cento bianche. La leva si abbassò, le venti palline corsero. Questa volta, tre di esse colpirono le calamite e vi aderirono. «Rose. Jaune. Et blanc.» Magdala aveva vinto. Un breve applauso si levò dal tavolo, un bizzarro e beffardo tributo/dei giocatori incalliti alla fortuna dei principianti. «Encore?» «Changer,» disse lei. Con la sua vincita, ora poteva raccogliere cento chips di altro colore dal tavolo. Le tese, e ne ritirò un pacchetto di quelle rosse. La leva si riabbassò ancora una volta, le calamite si misero in posizione, le venti palline schizzarono su come gocce d'acqua argentea dal cannello di una fontana. «Rouge et Rouge. Double remporte.» Aveva vinto parecchio di più, questa volta. Un uomo che sedeva al suo fianco disse: «Lady Fortuna in persona.» «Non proprio.» Era la voce di Claudio, proprio dietro di lei. Aggiunse soavemente: «Incassa le tue chips, Magda.» «Non ancora,» rispose lei, in tono altrettanto soave. «Même», disse subito dopo rivolta al croupier. La leva calò di nuovo. Distolse per un attimo gli occhi dalle palline luccicanti che giravano per gettare un'occhiata all'indietro, e si accorse subito del pallore dell'uomo che le stava alle spalle, un pallore innaturale, e gli occhi sembravano due gioielli di ghiaccio. E lei aveva entrambe le braccia scoperte, entrambe senza gioielli. Quattro calamite attrassero e trattennero cinque palline. Il giocatore al finco di Magdala lanciò un'esclamazione. Avevano vinto en-
trambi. «Regalatemi un po' della vostra fortuna!» l'uomo le sfiorò la spalla con un dito e si portò la mano alle labbra in un bacio silenzioso. «Rouge et Vert. Remporte et Remporte. Encore?» «Changer,» disse Magdala, e spinse alcune chips attraverso il tavolo. «Pas encore,» disse Claudio. Con un gesto elegante raccolse la vincita della ragazza, lanciando al mucchio di gettoni colorati uno sguardo noncurante; le strinse un braccio, le fece male. «Ti ho detto di raccogliere le tue chips.» «Oh, mio Dio, non portate via la mia fortuna,» protestò l'uomo che aveva vinto assieme a lei sul verde. Con la mano libera, Magdala scelse cento chips gialle e le spinse sul tavolo. «Même,» disse l'uomo al suo fianco. «Lo stesso gioco della signora.» «Dov'è il braccialetto?» le mormorò Claudio all'orecchio. La leva scattò. Claudio, stringendole il braccio, si guardò attorno, scrutando coloro che giocavano. C'era un'aria diffusa di eccitazione attorno al tavolo. Le palline si fermarono. «Rien,» disse il croupier. «La fortuna se ne va,» disse l'uomo che prima aveva vinto sul verde. «Encore?» chiese il croupier. Magdala infilò la mano nella borsetta per tirar fuori altre chips bianche, quelle che le erano rimaste, ma Claudio disse a voce alta: «Pas encore. Mia sorella sta giocando sul mio conto. Chiudo il credito. Mi deve già duecento astrads.» Al tavolo ci fu un mormorio. Claudio strinse ancor di più la mano che le teneva sul braccio e la trascinò via dal tavolo da gioco. Cambiò alla cassa le ottocento chips bianche rimaste, e guidò Magdala, con apparente dolcezza, su una scala mobile che stava scendendo. «Dov'è il braccialetto?» «Quale braccialetto?» Lui non era più tanto pallido come quand'era entrato nella sala da gioco; ma il suo viso era quello di una statua, senza espressioni e senza calore. «Questa è la terza fase, vero? Prima l'esultanza, seguita dalla ritirata, seguita a sua volta dall'idiozia. Dove hai imparato a giocare?»
«Leggendo i libri. Guardando la Tri-D. Non avrei mai giocato, prima,» rispose Magdala, ed anche lei era senza espressione. «Me lo immaginavo.» Solo con lei sulla scala, la attirò vicino a sé e si piegò a parlare in un orecchio, come un amante che le sussurrasse parole dolci. «Il braccialetto.» «Tu vuoi il nastro del microregistratore inserito nella chiusura del braccialetto, non il braccialetto,» disse lei. Lui si irrigidì un poco. «Stai diventando pedante. Sì, il nastro. Dov'è?» Lo sentì tremare leggermente, non capiva se per la rabbia o per qualcosa che assomigliava alla paura. Lei, sì, aveva paura: ma era la sua paura nuova, diversa da quella di un tempo. Scesero dalla scala mobile ancora vicini con la mano dell'uomo che era come una morsa ferrea sul suo braccio sebbene fosse ancora percorsa da un tremito che lei riusciva a sentire. «Adesso usciamo di qui. Prendiamo il primo ascensore libero, andiamo dritti nel nostro appartamento e tu tiri fuori il braccialetto.» «Forse il braccialetto non è nell'appartamento. Non ti ho detto di averlo lasciato là.» Erano arrivati alla porta del ristorante. «Magda,» sibilò lui, «per me sarebbe così facile ucciderti. Quei fili e quelle valvole... sei davvero molto vulnerabile, sai. Non metterti contro di me, stai rischiando te stessa.» Continuò a tenerla stretta mentre uscivano dalla grande sala e si dirigevano verso l'ascensore. «Potrebbe essere molto importante. Quello che Paul Hovak mi ha detto, intendo. Mi chiamava Christa.» La porta d'acciaio lucido si aprì. Entrarono nell'ascensore, che ripartì verso l'alto. «Perché,» chiese Magdala, «quell'uomo pensava che io mi chiamassi Christa? Assomiglio a qualcuna che si chiama Christa?» Si voltò a metà, per guardarlo in faccia. «Tu credevi, dato che ero brutta e deforme e disgustosa per quelli che mi guardavano... tu credevi che io fossi un'idiota.» L'ascensore si fermò. Ne uscirono e si avviarono lungo il corridoio. Claudio prese la targhetta ad impronte per aprire la porta dell'appartamento. Ecco, erano dentro; le luci dorate inondarono la stanza, splendide, e fluttuarono attorno ai loro cupi presentimenti, ai loro pensieri notturni. «Un'idiota,» disse lei. «Se tu potessi sapere,» aggiunse, «quanto ti odio. Ho odiato tutti. Ma soprattutto te, Claudio.»
Lui le diede uno strattone facendole fare un giro su se stessa. La cortina dei propri capelli le passò davanti agli occhi come un velo simmetrico blunero. Un'ombra scura li seguì. Il cuore le diede un balzo. Ebbe un capogiro, come qundo era stata ubriaca, ma questa volta senza la esaltante ebrezza che aveva accompagnato i capogiri di allora. Le mani di lui la afferrarono, ne sentì il contatto sulla pelle. Hovak l'aveva stretta allo stesso modo. Tuttavia, era diverso. «Per l'ultima volta,» disse Claudio. «Dove?» «Per l'ultima volta,» disse Magdala. «Cercalo.» Lui rabbrividì. (Irlin era rabbrividito, ma non allo stesso modo.) C'era una cupa luce vacillante negli occhi di Claudio. Era stato troppo sicuro del suo ascendente su di lei. Quella ribellione lo sconcertava, non sapeva che fare. Non le interessava sapere perché lui avesse quel disperato bisogno del nastro registrato. Solo opporsi a lui, riuscire ad opporsi, contava in quel momento, solo quello. «Direi,» disse lui, passando ad un tono più dolce che contrastava con le parole, «che non puoi procurarmi più danni di quanti io possa procurare a te. In quanto a uccidermi... bene, allora avresti potuto non prendere il braccialetto.» Una frase sibillina, questa, che lei non poté capire. «Che cosa vuoi, di preciso?» gli chiese. «Voglio vederti proprio come adesso... terrorizzata.» La spinse via e si mise a perquisire l'appartamento. Tolse i cuscini dalle sedie e li aprì, sgonfiò i sostegni pneumatici delle poltrone, aprì tutto ciò che poteva essere aperto e smontò tutto ciò che poteva essere smontato. Dopo aver frugato la stanza d'ingresso, passò nella camera da letto di Magdala, e tirò fuori tutti i vestitit dell'armadio e dalle custodie antipolvere. Tolse dalla scatola la boccetta di profumo e la versò sul pavimento. Guardò dentro le scarpe, rovesciò il cofanetto dei gioielli, scostò le coperte dal letto. Controllò le cuciture degli orli delle coperte, e sventrò il materasso facendone uscire candidi fiocchi di neve soffice. La sua ricerca fu sistematica, completa, e sadica. Ruppe tutto ciò che poteva e, come compiacendosi di un atto vandalico, distrusse, fece a pezzi tutto quello che le aveva regalato. Quando ebbe finito, si raddrizzò spolverandosi gli abiti spiegazzati e ravviandosi i capelli, e le disse, ansando, con una voce spezzata come le registrazioni che aveva tagliuzzato nella furia distruttrice di pochi attimi prima, «È possibile che tu sia stata abbastanza stupida da nasconderlo nella
mia camera?» «Oh, Claudio,» fece lei di rimando, «non hai pensato al meccanismo di eliminazione dei rifiuti?» Con un sussulto allarmato, cercò di spostarsi mentre lui allungava un braccio per afferrarla di nuovo; e si rese conto di quello che implicava ciò che aveva appena detto: il dialogo tipico della Tre-D aveva lasciato il posto al dialogo tipico di Claudio. Aveva persino usato il tono che di solito era quello di Claudio. Del suo inventore. Lui si mosse, calpestando i vestiti a brandelli sparsi sul pavimento. Con un movimento rapido, sinuoso, la raggiunse, l'afferrò e la sollevò in aria attirandola contro di sé. Si ritrovò ancora una volta fra le sue braccia, col corpo premuto contro quel corpo maschile. Spinse i comandi di aperture. I pannelli che chiudevano la finestra scattarono verso l'alto, e Claudio scattò alle sue spalle, la spinse verso l'apertura. L'aria fredda e umida le colpì il viso, il collo, le spalle, le braccia. Si ritrovò in bilico sul parapetto, dentro la stanza soltanto fino alle ginocchia mentre il resto del suo corpo era sospeso nel vuoto, non aveva attorno altro che l'aria. Sotto, il mare lambiva la costa. Fra lei e il mare, un muro verticale d'acciaio che scendeva liscio fin là sotto. Là sotto: sessanta metri più in giù. Sessanta metri di vuoto. Avrebbe potuto cadere nell'acqua. Avrebbe potuto sfracellarsi su uno dei poli o impigliarsi nei frangiflutti sommersi che rompevano la corsa della onde come barche invisibili. Era alla vita solo dalla stretta della mano di Claudio, che la teneva in equilibrio, come se reggesse una bambola. «Ricapitoliamo,» disse lui. «Un salto da qui è sufficiente per farti morire. Credo proprio che ti lascerò cadere giù, se non mi dici subito dov'è il nastro registrato. No, non credo che tu lo abbia distrutto. Ti stavi divertendo troppo in questo gioco per non essere in possesso della carta vincente.» Nel braccio che la teneva lì, sopra l'abisso, sentì il tremito provocato dalla collera o dall'angoscia. E, nello stesso tempo, una forza tremenda, dalla quale non sarebbe mai riuscita a liberarsi, ma che lui stesso non riusciva a controllare. Persino se l'avesse spinta nell'abisso, avrebbe continuato a tenerla stretta, ne fu certa. Se l'avesse spinta, sarebbe caduto con lei. «Lasciami andare, Claudio,» pregò, «lasciami e te lo dirò.» «No,» replicò lui, «oh, no.» Lei si rilassò improvvisamente, lasciando gravare il proprio peso su di lui. Fu un abbandono totale. «Su, lasciami andare.»
Poi rimase in silenzio. Se cado, pensò, sarà un attimo, solo un attimo, sarà come volare per un attimo. Quando lui la tirò indietro lentamente, con cautela, portandola lontano dal vano della finestra, nella sicurezza del pavimento sotto i suoi piedi e delle pareti attorno a lei, Magdala scoprì che i suoi occhi avevano imparato a produrre qualcosa che assomigliava alle lacrime. Lui era senza fiato. Barcollando, finì quasi in ginocchio di fronte alla ragazza. «Il braccialetto,» disse lei con calma, «l'ho infilato sotto la frangia del vestito che ho addosso.» Lui trasse alcuni respiri rapidi, come se quella frase avesse avuto il potere di immettergli una boccata d'ossigeno nei polmoni. Magdala scostò la superficie invisibile della chiusura pressurizzata del vestito, infilò una mano sotto la stoffa, all'attaccatura della frangia di pietre preziose, e ne estrasse qualcosa. Un luccichio. Il braccialetto. Glielo tese. Gli zaffiri splendevano nella mano di Claudio, ora, e lui sembrava non vedere altro. Quando alzò la testa, ia sua faccia apparve come spogliata da ogni espressione, o quasi; con un'aria stranamente indifesa. Solo la sua gioventù, la sua bellezza, erano rimaste in quel viso, come cose trascinate dalle onde della tempesta, cose non più importanti, né vive. «Magdala,» mormorò, esitando pigramente sul nome come se stesse facendo uno sforzo per ricordarlo. La finestra si era chiusa da sola, automaticamente, alzandosi come un baluardo contro il freddo della notte, con le sezioni trasparenti che si sovrapponevano una all'altra in un lento movimento categoricamente impresso dalle fotocellule inserite nel muro esterno. Con lo stesso movimento lento, Claudio si voltò a guardarla. Le sue dita toccarono quelle di lei, quasi timidamente, facendole salire un nodo alla gola, facendole fremere i nervi, facendole scorrere un brivido sulla schiena. Come se stesse esplorando qualcosa nascosto in un vuoto, qualcosa di invisibile e inimmaginabile la cui esistenza tangibile poteva esser provata al solo tatto, lui mosse la mano sulla superficie liscia della sua pelle, del suo vestito, fra i suoi capelli. Nel silenzio completo, i loro respiri si fondevano, sembavano emanati da una persona sola, era come se trattenessero il fiato per emetterlo all'unisono. E fra un respiro e l'altro, Magdala sentì in distanza il movimento ritmico del mare. Le finestre scomparvero, si fusero al mare che li attendeva là fuori. Le mani di lui l'accarezzavano, premevano sul suo corpo. Lei rispose, nuotan-
do con lui nell'acqua pigra di un mare senza fine, cadendo con lui in un abisso senza via di scampo. Si incontrarono; e raggiungerlo, ora, era come trovare un rifugio inviolabile. Sentì le sue mani che la cercavano, si sentì premere contro il suo corpo, sentì un brivido languido intenso, squisito e terribile, che andava e veniva, andava e veniva. Chiuse gli occhi per lasciarsi trasportare dal nulla, in un nulla dove c'erano soltanto lui e le sue mani impazienti. E quando incontrò la sua bocca, perse l'ultimo tenue contatto con la realtà. Diventò una forza scatenata e insaziabile e inconscia, un'onda alta dell'oceano, un'entità sorda e cieca, consapevole di esistere non più coi sensi normali ma attraverso ogni molecola; ogni atomo, ogni vibrazione del suo corpo. Un'eco del tocco dell'uomo raggiungeva le infinite profondità del suo essere. Una caverna si aprì fra i suoi lombi, e aprì un'altra caverna nel suo cervello. Si erano abbandonati così là, accanto alla finestra, si erano lasciati cadere sul pavimento, rotolandosi fra tutte le cose sparse che lui aveva rotto durante la sua ricerca. Qualcosa era caduto brillando al suo fianco... gli zaffiri. Aveva mosso la mano lentamente, cautamente, scoprendo pian piano il corpo di lui. La torre pulsante del suo sesso era ingrandita sotto quella mano femminile. Ne era rimasta affascinata e allarmata. Ma lui le spostò la mano, facendola girare su se stessa. Supina, aggrappata a lui, sentì il peso del suo corpo che la schiacciava, il suo fallo che entrava in lei. Si aprì a quell'invasione, istintivamente, ed una nota dorata risuonò attraverso di lei, un'ondata immensa salì dai suoi lombi e la sommerse in un nulla splendido senza tempo e senza dimensione. Aprì gli occhi, allora, cercando colui che aveva provocato quell'effetto. Erano volati in alto, in alto, erano caduti, avevano vagato insieme in uno stesso mare. Anche i loro visi erano probabilmente divenuti identici, con le stesse espressioni, i riflessi di uno stesso sogno. Le diede fastidio guardarlo sullo sfondo della stanza. Chiuse di nuovo gli occhi, per riportare quel viso nello scenario impresso nella sua memoria, e la marea la riprese, facendola fluttuare in una successione di frangenti tumultuosi. «Dentro la sua capsula, la sua bara di vetro, quell'orrenda cosa deforme ha appena fatto l'esperienza di un orgasmo, esperienza che tu gli hai inviato. I circuiti nervosi si sono messi in movimento, e il tuo cervello ha rinviato l'orgasmo allo pseudo-sistema nervoso del tuo attuale simulacro di corpo umano. Orgasmo per procura. Originale,» commentò Claudio a
mezza voce. «Non ho pensato nemmeno una volta che stavo facendo l'amore con quella cosa. Ma tu, Christa-Magdala, non potrai passar sopra al fatto che, per dirlo con le parole giuste, non sei né qui né là. Non preoccuparti. Non ti permetterò di dimenticare. Il diavolo nella capsula ha goduto, e i fili e le valvole cantavano.» Avrebbe voluto che lui tacesse. L'intento crudele delle sue parole, della sua descrizione chiara e tagliente, la colpì, le fece male. Ma l'orrore per quell'aberrazione, venne e se ne andò. Lui la controllava ancora, questo era tutto. Nonostante le premesse, anche in quest'occasione lui aveva preteso da lei, come sempre, la più vile obbedienza. Dopo un po', inoltre, dopo essersi ripresa dal dolore causatole da quelle parole e dopo essersi calmata, aveva pensato ad alcune cose. «In ogni caso,» disse, in un risposta un po' ritardata, rompendo il silenzio che era caduto fra di loro, «Christa, chiunque sia Christa, era quella che volevi e che hai avuto. Devo proprio assomigliare molto a Christa.» Lui si alzò in piedi, scarmigliato, esausto, e annoiato. Gli zaffiri luccicarono fra le sue dita. «Assomigliarle?» disse dolcemnte. «Molto di più. Sei la sua riproduzione genetica indotta. Letteralmente, e deliberatamente, il suo doppio.» Capitolo Quarto: Oltre il confine I È il settimo giorno del primo Dek del secondo mese del terzo quadrimestre, disse il calendario automatico. Oggi è il Giorno dell'Unione sui pianeti Cassandra, Cane e Pharo, del Concilio dei Mondi. È il Carnevale dell'Indipendenza sul pianeta Peace, fuori dal Concilio. E sulla Terra, inizia la settimana di Pasqua. Su Indigo, i fedeli del Cristianesimo Modernista si sarebbero recati nelle loro chiese rettangolari. La religione dell'istituto di Stato per i bambini nel quale era cresciuta Magdala era stata, appunto, il Cristianesimo Modernista, e al settimo giorno di ogni Dek i bambini venivano condotti in chiesa. La musica si alzava dai registratori, e le luci dorate irrompevano da false finestre. La lettera T, com'era uso del Cristianesimo Modernista che la usava come suo simbolo — un simbolo simile ad un altro molto più antico, e abbastanza simile, la croce — veniva proiettata sulle pareti e sul pavi-
mento. Mentre cantavano, gli altri bambini urtavano e pizzicavano Magdala, e in tal modo lei non riusciva mai a concentrarsi. Il Cristo sull'altare non ci faceva caso, forse non se ne sorprendeva, perché anche lui, in quell'immagine, era un uomo bellissimo. Claudio non c'era, e lei si chiese se fosse andato in qualche chiesa sulle colline, a pregare davanti alla lettera T. In realtà, non sapeva nulla di Claudio, ma poteva indovinare parecchi aspetti della sua personalità, e fra questi non avrebbe certo annoverato il fervore religioso. Non voleva pensare a lui. Poteva pensarlo soltanto in due modi... quel bel viso accanto al suo mentre facevano l'amore accanto alla finestra; quella voce che pronunciava le parole che vi avevano fatto seguito. Immaginava che lui avesse appena ascoltato il micronastro inserito nel braccialetto e ne avesse tratto le informazioni che si aspettava. Non voleva soffermarsi a pensare a ciò che avrebbe fatto, ai piani che avrebbe predisposto. (Forse aveva commesso un errore e qualche indicazione essenziale gli era stata fornita proprio da Paul Hovak. Claudio si era preoccupato molto di evitare un incontro faccia a faccia con Hovak. Tanto preoccupato, che aveva dato per scontato il servilismo e la presunta ignoranza di Magdala. E alla fine, non era proprio quello il risultato che aveva ottenuto? Quel servilismo, quell'obbedienza cieca da parte di lei.) La notte precedente aveva dormito sette ore, sonno eccezionalmente prolungato per le sue attuali necessità. E ciò le aveva dato un'idea deprimente: che avesse di nuovo manipolato il suo corpo nella capsula, questa volta somministrandogli non alcol ma narcotici. Ma allontanò dalla mente anche questo genere di domande. Ora non aveva voglia né di dormire né di mangiare; restò distesa sul suo letto pneumatico morbido e caldo, mentre tutt'attorno cominciavano a giungerle i suoni vaghi e soffocati della vita che riprendeva il suo ritmo col movimento umano e le attività meccaniche dell'albergo. Venne il pomeriggio. Accese lo schermo della Tre-D e guardò un dramma che veniva trasmesso. C'era un uomo che ne aveva ucciso un altro per appropriarsi delle sue ricchezze, ma il denaro che l'assassino si era ritrovato in mano non se lo era goduto perché era stato arrestato all'ultimo momento da un efficiente ufficiale della squadra investigativa, un uomo come tanti che guadagnava soltanto seicento astrads ai mese. Il significato intrinseco del dramma era fin troppo ovvio... l'impossibilità di godere i frutti di un delitto, la vittoria finale del cittadino medio che lavorava e rappresentava la legge.
Claudio entrò nell'appartamento, e le sembrò che assomigliasse al ricco assassino del dramma che aveva visto crollare le sue ambizioni e si era ucciso, per evitare il processo, con un delectro d'avorio intarsiato. Spense lo schermo. «Gli uomini ricchi devono morire,» commentò «Il primo assassinato da uno simile a lui, il secondo spinto all'autodistruzione da un onesto lavoratore mal pagato. Qualche volta, per morire è necessaria la ricchezza; qualche altra volta, la bellezza. Ti sarebbe piaciuto di più il secondo caso, vero, Magda?» Le si avvicinò e le sedette accanto, e quando lei si scostò con un movimento nervoso, tese le braccia e gliele serrò attorno al corpo. La reazione di Magdala fu immediata. Fu come se lui l'avesse frustata. Lo sentiva distaccato, indifferente, e cercò di sottrarsi a quell'abbraccio anche se il suo sangue... che poi non era sangue., sembrava incendiarsi dentro di lei. «E adesso,» disse lui, calmo, «posso farti fare tutto quel che dico. Qualsiasi cosa. Posso, vero?» Il cuore di Magdala, complemento della sua controparte fisica, batteva con violenza, in accordo col sangue in subbuglio e coi brividi che scorrevano nella mente. Lui le appoggiò una mano sul seno, solo per sentire il ritmo galoppante di quel cuore. Aveva una espressione assorta, interessata. Non la vedeva come Christa, ora, ma come qualcosa che lui stesso aveva costruito. Lei percepì tutto ciò, e ansimò come un animale braccato dai cacciatori, e si abbandonò contro di lui, incapace di spingerlo via o di allontanarsi in qualche modo. «Posso?» ripeté lui. «Sì, posso. Molto bene. Non c'è bisogno di un risposta. Tu stessa sei una risposta, sia che tu parli o no.» La lasciò andare all'improvviso, e sì avvicinò alla finestra. Lei ebbe l'mpressione di vacillare, si sentì in un equilibrio quanto mai precario, mentre l'uomo, con aria ironica e beffarda, le mostrava il baratro vuoto oltre i vetri. Quando riprese a parlare, lo fece con la stessa intonazione fredda e clinica che aveva usato per le lezioni registrate, nella casa d'argento in mezzo alla foresta proiettata. Sul momento, lei non capì che quella era un'altra lezione. «Suppongo che, fin dall'inizio, tu possa avere in qualche modo immaginato che il mio esperimento con te non era un atto d'altruismo, non era qualcosa che io avessi deciso di fare perché mi piacevi o perché avevo intenzione di farti felice. Ed ora, dopo esserti faticosamente aperta un varco
attraverso difficoltà d'ogni genere, forse speri di esserti guadagnata il diritto di avere finalmente da parte mia una spiegazione più o meno completa e inequivocabile della realtà. Forse speri che io ti spieghi tutti quegli oscuri misteri, che sembrano essersi riuniti per piombare tutti assieme nella tua vita come uno sciame di mosche su un vasetto di marmellata. Forse speri che ora io ti illumini su tutto. Ma io non lo faccio, Magda. Tenerti all'oscuro fa parte del mio piano, è una faccia dello schema che sto intessendo. Avrai già notato che tu, con la tua non conoscenza dei fatti, sei stata un'esca infallibile nel caso di Hovak. Che cosa volevo da Hovak? Vuoi che te lo dica? Forse puoi indovinarlo. No? Per prima cosa, è evidente il suo costante collegamento, o complicità se vogliamo, con la donna che egli crede che tu sia, e il fatto che era pronto a venire di corsa in risposta alla sua chiamata. E, mi chiedo, che altro ancora?» Si fermò, come aspettando una risposta. Magdala disse, faticosamente; «Qualcosa che ha detto e che il nastro ha registrato.» «Quasi, ma non esattamente.» Ecco, aveva fermato la sua risposta. Non l'avrebbe illuminata oltre su quella faccenda. Ma lei non se ne preoccupò. Improwisamnte, Claudio disse: «La cosa più interessante è stata la sua indignazione nel trovarsi di fronte ubriaca fradicia la donna che supponeva fosse Christophine. A proposito, il suo nome è Christophine. Non Christa. Christa è il diminutivo con cui la chiamano di preferenza i suoi colleghi e i suoi amanti. Il suo nome sulla carta d'identità è Christophine del Jan. Prova a pensare a questo nome come fosse il tuo. Potrà capitarti di doverlo usare.» «Qualsiasi cosa tu voglia farmi fare la prossima volta,» lo interruppe Magdala, «tieni presente che potrei rifiutare di farlo.» «No, non potresti.» si dondolò da un lato all'altro e le sorrise. «non potresti.» Lei gettò uno sguardo intento alla finestra dietro le sue spalle, lui interpretò il muto messaggio di quello sguardo e lo corresse: «In primo luogo, la capsula. Posso impedirti di andare a controllarla, se voglio. Attraverso il suo sistema di magnetismo, posso introdurvi alcol o droga riducendoti ad uno stato di incoscienza quasi completa. Posso anche ucciderti... no, non gettandoti da quella finestra, ma agendo sul corpo della capsula. Posso ucciderti in qualsiasi momento, Magdala. Questo è uno dei motivi principali per cui farai tutto ciò che ti dirò di fare. Ma c'è un altro
motivo, non ti sembra?» Mentre lo diceva, le andò vicino, l'abbracciò premendo il proprio corpo contro quello di lei. E lei cercò di spingerlo via, ma non ebbe la forza per farlo. La sua pelle, il suo odore, la sua bocca e le mani e l'intero corpo suscitarono in lei un coro di risposte inarrestabili, incontrollabili, come se lei fosse stata una macchina programmata per reagire alla pressione di una chiave. E lui era quella chiave. Dopo pochi attimi, stava già volando — un volo cieco e sofferente — in un vento di tempesta, stava precipitando giù in un abisso, i suoi sensi si erano risvegliati e riacutizzati in un'estasi sessuale, era pronta ad essere ferita a morte in uno schianto di luce alla fine di quell'estasi. Quando l'uomo la lasciò andare, cadde all'indietro e giacque ad occhi chiusi, immobile, nauseata dalla propria reazione. «Ecco perché farai quello che ti dirò,» rise lui. «Ed ora ti racconterò le poche cose che devi sapere, e quelle — e sono ancor meno — che devi capire.» Gliele disse in un paio di frasi, poi si mise il dischetto argentato nell'orecchio: ma lo tenne solo leggermente accostato, in modo che la musica si diffondesse per la stanza. Magdala rimase là ad ascoltare ed il dischetto insinuò dentro il suo cranio non umano un inno religioso del Cristianesimo Modernista che si suonava in occasione della settimana di Pasqua. II Capo Nord era una penisola che si spingeva per tre chilometri nel grembo dell'oceano. Un solida strada sopraelevata, fortificata con piloni d'acciaio dalla superficie incavata costruiti per resistere alla forza d'impatto dei frangenti, partiva da un tozzo molo squadrato che fungeva da sbarramento contro la furia dell'oceano. Più indietro, lungo le spiagge ad est e ad ovest, i piloni leggermente fosforescenti segnavano i confini dei fondali bassi, emettendo i loro impulsi notturni di raggi infrarossi visibili solo per i piloti-robot delle navi grandi e piccole che costituivano l'intenso traffico marittimo. In ogni altro punto, oltre il cono di luce proiettato dai fari anteriori della macchina, la notte era nera: nero il mare, nero il cielo col suo manto stagionale di nubi dipinto sopra le stelle. Avevano visto cinque o sei falò, di quelli che i seguaci del Cristianesimo Modernista accendevano in occasione della settimana di Pasqua, che arde-
vano sulle spiagge, mentre Claudio guidava la gossa macchina lungo gli ultimi seicentottanta chilometri della Piana di Zaffiro. Ma più avanti, contro l'orizzonte aperto oltre la Piana, nel tratto privo di alberghi e di attrezzature balneari, solo il segnale di una centrale idroelettrica isolata rompeva l'oscurità. I grossi piloni d'acciaio che sostenevano la sopraelevata, evidentemente lasciati per parecchio tempo senza manutenzione, erano arrugginiti. Il molo, sbrecciato e deserto, a quanto pareva veniva usato di rado. Tuttavia, quello era il punto d'imbarco per chi volesse dirigersi a Marina Azzurra. Claudio le aveva spiegato che cosa fosse Marina Azzurra, riferendole l'aspetto del luogo al quale aveva aggiunto alcune colorite immagini allegoriche. «Una Stazione, sovvenzionata dal governo centrale del Concilio dei Mondi, attrezzata per le ricerche oceanografiche. All'interno del complesso che costituisce questa stazione, c'è un altro complesso le cui funzioni non vengono specificamente dichiarate. Un Segreto di Stato, insomma. Ed anche un segreto di Christophine. Ma per me, Marina Azzurra, così come la conosco, come la 'sento', non è un avamposto scientifico ma un luogo di magia, di stregoneria. L'isola di Circe, dove l'incantatrice dai capelli blu trasformava gli uomini in bestie.» La macchina si fermò, con una fremata dolce, sulla corsia laterale della strada sopraelevata. «Adesso non dobbiamo far altro che aspettare,» disse Claudio, «fino all'arrivo dell'idrovolante. Nel frattempo, sarebbe il caso di ripassare un'ultima volta la tua lezione.» «Me la ricordo,» disse lei, sottovoce, nell'interno buio della macchina. «Lo spero bene, che te la ricordi! Ma ripeti tutto lo stesso, è meglio ripassare una volta in più. Dunque: chi sei?» «Sono Christophine del Jan.» «Che cosa farai quando arriverà l'idrovolante dall'isola?» «Scenderò dalla macchina e mi avvicinerò ai cancelli. L'ingresso riservato ai passeggeri, così come i portali dei magazzini situati sul molo, si aprirà appena i suoi meccanismi a fotocellule mi avranno riconosciuta ed avranno verificato la mia identità confrontandola con quanto è registrato nella loro memoria automatica. Tornerò alla macchine e inserirò la guida automatica col programma che mi porterà alla fine del molo e poi dentro l'idrojet. Non avrò problemi per arrivare all'isola. L'idrojet è completamente automatizzato.» «E questo ci fa comodo. Bene. E poi? Che cosa farai una volta sbarcata
sull'isola?» «Qualunque posto di controllo reagirà alla mia voce ed alle mie impronte. La macchina è pre-programmata per portarmi a destinazione.» «Per portarti nel castello della strega.» Claudio aveva richiesto a quelli dell'isola l'invio dell'idrojet, una grossa macchina aereo-acquatica che poteva trasportare persone e cose ed era guidata da un motore-robot programmato per la rotta che congiungeva Marina Azzurra a Capo Nord e viceversa, mediante un fonogramma inviato usando il nome di Chistophine. Come aveva fatto con Paul Hovak. Ma qui c'era comunque anche un codice, che lui però aveva riprodotto ed usato senza sforzo apparente. Era evidente che l'uomo conosceva bene Marina Azzurra, le sue caratteristiche geografiche, i metodi per entrarvi, e i segreti governativi che racchiudeva. Tuttavia intendeva viaggiare nascosto, e si sarebbe chiuso nel portabagagli supplementare della sua auto, in quello spazio ristretto nel quale aveva viaggiato Magdala parecchio tempo prima quando erano usciti dalla città ed avevano attraversato il confine presso il fiume. Aveva intenzione di entrare nell'isola senza esser visto e senza che il suo ingresso venisse registrato: furtivo come un demone nella notte. Attraverso la distesa scura e liscia del mare, la scia dell'idrojet ruppe il buio all'improvviso, emergendo come una forma di luce soffusa. «Ricorda soltanto che la tua capsula è chiusa nello scompartimento del quale io ho la chiave e tu no. Domani dovrai provvedere ad inserire le sostanze nutritive nel sistema di mantenimento. Ti ho detto che cosa succederebbe se tu non potessi farlo. E ricorda che non lo farei certo io. Te lo faccio notare, solo per il caso che tu dovessi metterti a fare i capricci decidendo di mandare all'aria il mio piano. Adesso, la tua vita dipende da te stessa.» Allungò la mano sul cruscotto, premette il tasto che faceva alzare il sedile posteriore, e si calò, facendo un gesto teatrale, nel portabagagli fornito d'illuminazione interna e d'aria condizionata del quale Magdala aveva già fatto l'esperienza. Lei ricordò quella esperienza, le sembrò di rivivere il momento in cui si era calata in quello spazio e le sensazioni che aveva provato mentre giaceva là dentro, la consapevolezza del potere di Claudio su di lei e del suo potere su Claudio. Ora chiuse il sedile sull'uomo, come lui l'aveva chiuso su di lei. Scese dall'automobile e si fermò ad aspettare sul limitare del molo, accanto al cerchio di luce proiettato dai fari. Dopo poco più di cinque minuti, le luci dell'idrojet incendiarono l'acqua cupa.
Quando questo si posò sulla rampa d'arrivo, con un sussulto dovuto alla improvvisa riduzione della velocità, lei inserì la guida automatica nell'auto, mandandola di fronte al portello-merci sulla fiancata del grosso mezzo acquatico-aereo, ed uscì. L'idrovolante era nero come la notte, ma aveva su entrambi i lati pannelli luminosi che mostravano le lettere I.D. scritte in rosso. Sotto risplendevano altre lettere, e formavano la sigla ECSORNI, una sigla di luce. I motori acquatici scesero di colpo a pochi decibels, un lieve ronzio che prese bruscamente il posto dell'assordante rumore di prima, e le due sezioni apribili sul davanti e sulla fiancata si spalancarono contemporaneamente. Ih un modo che le apparve inquietante, la mole metallica del traghetto accostò al molo e si fermò, aspettandola. L'idrojet automatico l'aveva riconosciuta. Era una cosa abbastanza normale, ma Magdala fu percossa da un brivido; non aveva riconosciuto lei ma quel corpo nuovo creato da Claudio, quel corpo che era il duplicato di quello di Christophine, che le apparteneva ma che non era il suo. Andò ad attivare la messa in moto della macchina, restando all'esterno dello sportello aperto mentre lo faceva. Delicatamente, la macchina scese lungo la rampa ed entrò nell'apertura laterale del gigantesco idrojet. Magdala si diresse allo sportello anteriore, entrò a sua volta e si sistemò nel sedile riservato ai passeggeri, accanto agli strumenti automatici di bordo. L'idrojet si chiuse, si allontanò dal molo e prese il largo con un tuono soffocato. L'ozono dell'aria condizionata permeò la cabina, i motori ronzarono e il veicolo si alzò su un cuscino d'aria disponendosi a prendere il volo. Un momento dopo, irruppe nel mare aperto, volando poco al di sopra della superfice d'acqua. L'ago dell'indicatore di velocità oscillò fra cinquanta, cento, poi duecento chilometri orari. Sul lato sinistro del pannello dei comandi automatici, c'erano delle lettere, scritte in rosso: le stesse lettere che facevano mostra di sé all'esterno del velivolo: I.D. — ECSORNI. Sapeva che quella sigla stava per «Earth Conciave Station. Oceanic Research, Northern Indigo» (Stazione del Concilio dei Mondi, Ricerche Oceaniche, Indigo Settentrionale). Pensò a Claudio. Il suo compagno, chiuso nel portabagagli supplementare della macchina. No, non più il suo compagno. Vagamente, si compiacque all'idea di Claudio chiuso in trappola in quel modo, impotente, alla mercé del suo senso di obbedienza. Ma, sola nel buio mentre l'idrojet come un mostro meccanico azzannava
la notte avanzando in un tunnel in cui fiaccava le resistenze dell'oscurità nemica, mentre gli schermi polarizzati riflettevano gocce di notte liquida, lei cominciò a pensare soltanto a Claudio, come se il suo spirito fosse stato divorato da quello di lui, come se la sua vita non potesse esistere se non attraverso lui. L'idrojet automatico si spinse sempre più a nord; era un fiotto di luce che si rifletteva sulle onde, un cupo rumore che fendeva la notte. A nord, la stagione di «Fall,» la Pioggia, aveva già raggiunto Indigo. Fall: quando tutte le foglie azzurre cadono, e il cielo sbiadisce, e le tempeste che preannunciano l'inverno arrivano soffiando come le balene scure che un tempo infestavano il mare azzurro, prima che il Concilio dei Mondi le catturasse dirottandole verso cinquecento zoo e cinquemila laboratori di ricerca. Non c'erano più balene sulla terra, e anche le altre specie erano ben poche ormai. Madre Terra. I suoi figli l'avevano lasciata per altri mondi: le mandavano regali e non tornavano mai a casa. Dopo due ore di viaggio, un temporale brontolò all'orizzonte, lontano, sul pavimento danzante del mare. Il mezzo di trasporto, raggiunto troppo in fretta dal ciclone, non riuscì a sottrarsi, ondeggiò e sussultò e proseguì con movimenti bruschi, sbattuto qua e là dalle onde e spinto dalle raffiche di vento, poi riprese la posizione stabile e tagliò la tempesta notturna come un coltello affondato nel burro nero. La tempesta andò a sfogare la sua rabbia altrove, e il viaggio proseguì indisturbato. Magdala per un momento aveva avuto paura; ma ora si accorse che la sua paura era stata mitigata da un impeto di ribellione e dal pensiero, vagamente consolante, che Claudio, il brillante scienziato, giaceva immobile e impotente chiuso nel portabagagli dell'automobile. L'isola emerse dal mare alle tre del mattino. La sua punta era una grande collina conica, immersa in una nuvola statica di foreste. Dalla base della collina, una pianura bassa e uniforme si stendeva per sei o sette chilometri fino alla spiaggia, rotta qua e là da edifici grandi e piccoli e da una fila di maestosi piloni a raggi infrarossi. Mentre si avvicinava alla costa, Magdala vide che la piana bassa era in realtà una piattaforma rinforzata di cemento armato, un pezzo di terra artificiale che l'uomo aveva aggiunto all'isola... isola che non era null'altro che la collina conica. A un chilometro dall'isola, l'idrojet si posò a pelo d'acqua ed iniziò la manovra d'ammaraggio, accostando a sinistra, poi girando accanto alla darsena del complesso, poi spingendosi verso nord lungo l'involucratura
del frangiflutti di cemento. In meno di un minuto, i massicci edifici furono fuori vista. La forma affusolata della collina boscosa torreggiava sul molo, che appariva semisommerso dalle onde turbolente. Grosse rocce, di fronte alla collina, emergevano dall'acqua rompendo la corrente in mille rivoli di spuma. L'idrovolante s'infilò in uno stretto porto-canale delimitato da due moletti bianchi, e si inerpicò su per una rampa di metallo levigato. I motori calarono di tono, il loro rombo diventò un ronzio in sordina prima si spegnersi del tutto. Ma a rompere quel sielnzio appena ristabilito ci pensò l'oceano, con le onde che gridavano forte contro le rocce semisommerse, gemevano contro la liscia banchina del porto, si tuffavano e tornavano a confondersi colla massa dell'acqua, riprendendo forza, si avventavano di nuovo gridando con furia. Una strada di metallo lucido usciva dalla rampa del porto e si arrampicava sul fianco della collina, perdendosi fra gli alberi. Magdala udì lo sportello laterale dell'idrojet che si apriva, poi l'automobile di Claudio che usciva ancora affidata alla guida automatica. L'automobile passò lentamente lungo la fiancata dell'idrojet e si immise sulla strada; lo sportello laterale dal quale era uscita si richiuse. Il mare urlava. La notte odorava d'oscurità e di salsedine e di minacce occulte, come se il fantasma di un grande mostro marino la attraversasse respirando forte. Magdala scese dalla cabina, varcò l'ingresso-passeggeri e si ritrovò all'aperto. Si diresse verso l'automobile. Appena fu fuori dalla rampa metallica, questa cominciò a ridurre la propria inclinazione, fino a diventare un nastro trasportatore orizzontale che portò l'idrojet all'interno di una qualche rimessa sotterranea. Mentre il veicolo che l'aveva portata fin lì svaniva sottoterra, la sua curiosità cominciò a svanire anch'essa, sopraffatta da un'altra sensazione. Qualcosa che le diceva di andarsene da lì al più presto. L'automobile si era fermata sulla strada, accanto ad una colonna di cemento che si alzava di fianco alla doppia corsia. Una luce si accese sulla colonna, e, mentre Magdala si avvicinava, ne uscì una voce quasi umana che disse dolcemente: Controllo della voce e delle impronte per piacere. Lei appoggiò la mano alla piastra per il rilevamento delle impronte. La voce, prego, disse la colonna. Ebbe l'impulso vago di dire il suo vero nome... il nome sbagliato, in quel caso. Represse quell'impulso. Disse: «Christophine del Jan.» La luce azzurra si spense. Controllato, disse la colonna. «Imbecille», pensò Magdala. «Imbecille.» Alla base della collina, proprio appena prima del punto in cui gli alberi
inghiottivano il nastro della strada, un animale selvatico, forse una lepre, saltò davanti alla macchina e schizzò via nascondendosi fra le rocce, ognuna delle quali era un invito inespresso all'oscurità. Nonostante la strada, la rampa, la colonna che costituiva il posto di controllo, non c'era altra traccia di civilizzazione in quella parte dell'isola. Era una terra selvaggia, fatta d'alberi, di rocce, di caverne, che spirava un'aura di decadenza e di ostilità. Entrò nell'automobile, che si rimise in moto coprendo lo strepito del mare. La macchina si avviò lungo la strada luccicante, risalendo il cono scuro che era la collina, anzi l'intera isola entrando nel tappeto degli alberi. Claudio, pensò. Claudio, che giaceva nel portabagagli, chiuso là dentro, Claudio che ora dipendeva da lei, dalle sue azioni, dalla sua obbedienza... e da un tasto sul cruscotto, il tasto che l'avrebbe liberato aprendo il nascondiglio-prigione. Poteva immaginare come si sentisse, Claudio, in quel momento. Se avesse voluto, avrebbe potuto parlargli; e lui avrebbe potuto udirla. Non gli parlò. La foresta appariva tranquilla, almeno fin lì. Ma più avanti, in alto sulla collina, un forte vento scuoteva gli alberi. Un violento vento autunnale, l'avanguardia del temporale che l'idrojet aveva superato in mare aperto. I bordi del temporale avrebbero potuto riversarsi sull'isola, e lei si chiese fino a che punto il controllo del tempo fosse operativo in quella zona, ed immaginò le misure da prendere per annullare gli effetti del temporale. Poco dopo, si accorse che gli alberi mitigavano la furia del vento, non muovevano i rami, e le foglie — le effimere foglie delle stagioni autunnali — non si staccavano. Poi, un po' più avanti, il suo sguardo cadde su un compatto blocco d'acciaio al lato della strada, sul quale c'era un'iscrizione: «Ologramma — Unità ricetrasmittente n. 9 — In attività.» Ologrammi proiettati da unità elettroniche. L'originale da cui Claudio aveva copiato il modello del suo parco? Ma rispetto a questa, la foresta di Claudio era il figlio neonato di un gigante. Il miraggio visivo e tattile di un'immensa foresta, una foresta che si stendeva per chilometri e chilometri, che copriva un'intera collina dai fianchi spogli. Un semplice ornamento, o una maschera per nascondere qualcosa; o aveva una sua funzione specifica, quella foresta? Proprio in quel momento, l'ala del temporale passò sull'isola. Ci fu il ruggito di un tuono, sottolineato da un lampo. Magdala gridò.
Fino a un momento prima il mondo era un intreccio arruffato di tronchi scuri immersi nella notte e di foglie azzurre che coprivano il cielo; un momento dopo, quando lo schiocco bianco del fulmine incontrò le cime inesistenti degli alberi, esse esplosero in mille e mille fuochi. La foresta elettrica agiva come un immenso parafulmine, attirando assorbendo ed immagazzinando l'elettricità del temporale. Quel processo aveva uno strano effetto collaterale che si manifestava nell'esplosione di una miriade di brillanti colori. Getti verdi e turchesi e luci rosso-rosa presero a scorrere, scendendo come zampilli di fontane sorrette dai tronchi scuri degli alberi; spirali color magenta divennero silenziosi fiocchi di neve purpurea; corolle blu sbocciarono e caddero in una pioggia verde-cedro. La macchina, ovviamente ignara di quanto accadeva intorno, proseguì la sua corsa lungo l'itinerario preprogrammato, immergendosi in quel fantasmagorico gioco di luci, mentre le mani di Magdala strette spasmodicamente contro il bordo del cruscotto, si rivestivano di trasparenti e impalpabili guanti violetti e cremisi, mentre sul parabrezza polarizzato si materializzavano, e svanivano subito dopo, fantasmi di rosai selvatici e di cotogni dai colori assurdi e sfalsati, simili ad apparizioni infernali. Fra i tronchi illuminati degli alberi, sul lato sinistro della strada, apparve un bungalow di cemento metallizzato che rifletteva lampi di giada, si tingeva di rosa, sfumava nell'azzurro e nel blu, acquistava il colore del mare. E poco più avanti, altri tre bungalows, simili al primo, si trasformavano via via in topazi splendenti, in occhi di pavone, in gemme vermigliate e blu scure. L'interno della macchina era completamente dipinto e ridipinto di un centinaio di colori variabili. Finalmente, quello spettacolo frenetico rallentò, vacillò, sbiadì. Non c'erano stati altri fulmini. I lucenti fiori infernali si rinchiusero e si ritirarono dentro la collina. L'esibizione si interruppe all'improvviso com'era cominciata. I colori si spensero. La notte cadde da ogni lato, e di nuovo si stagliarono nell'oscurità le sagome massicce degli alberi. Con ancora negli occhi le ultime immagini di quel terrificante splendore, Magdala raggiunse il quarto bungalow, che nella luce dei fari le mostrò i suoi muri squadrati, banali e rassicuranti. La tempesta, stremata dallo scontro violento col potenziale elettrico del campo olostatico, scivolò via con lenti tuoni lontani. Il vento cadde. Il quarto bungalow appariva del tutto uguale agli altri tre, mentre la notte riprendeva possesso della foresta. «A quanto pare, ti eri dimenticato qualcosa, Claudio,» disse Magdala ad alta voce. «Ma probabilmente, tutto questo tu l'avevi già visto prima.»
Le scintille del temporale avevano riacceso la scintilla della sua volontà, l'avevano spinta ad andare avanti. La sua paura, rinata, aveva abbattuto con un colpo solo la cortina di insicurezza che ancora l'avvolgeva. Lei aveva attraversato quell'arcobaleno di fiamme che non bruciavano, in mezzo agli alberi che non erano alberi, lei, viva, reale, autentica; lei, non la persona che sembrava, non la cosa che sembrava. Niente dev'essere affidato al caso, le aveva detto Claudio, all'inizio. Quella era diventato il ritornello costante della loro avventura. Cinque minuti dopo, i fari illuminarono un quinto bungalow; emerse dal buio come una costruzione su palafitte uscita da un tempo remoto. Ma era un edificio moderno, perfettamente inserito in quel luogo e in quell'epoca. La macchina rallentò dirigendosi verso il bungalow. Il bungalow di Christophine. Era abbastanza dissimile dalle altre strutture, dagli altri bungalows che aveva oltrepassato in precedenza, e non solo perché ora non c'era più il gioco di luci colorate ad illuminarlo come aveva illuminato gli altri. Gli edifici precedenti erano dei prefabbricati squadrati, simili ai capannoni stile scatola che si alzavano nella piana e che costituivano la Stazione di Ricerca. Questo bungalow era appollaiato sulle sue colonne d'acciaio, ad un'altezza di quattro metri e mezzo; il supporto centrale era un garage rotondo chiuso da un cancello rivestito di rame. La casa vera e propria lo sovrastava, un ottagono lassù in aria sormontato dalla cupola trasparente di una serra. I fanali anteriori della macchina mandarono un lampo giallo che si rifletté nelle finestre dei vetri a specchio, dalle quali forse avrebbe potuto risplendere, o forse no, un equivalente raggio d'oro opaco, se qualcuno fosse stato in casa. La macchina si fermò. Magdala restò seduta all'interno dell'abitacolo, concentrando la propria attenzione sul bungalow di Christophine. Si poteva entrare nel bungalow attraverso il garage. Ed entrare nel garage tramite una fotocellula attivante inserita nell'auto di Cristophine del Jan. Claudio il mago, tuttavia, poteva indubbiamente entrare in qualche altra maniera. Ecco, era arrivato il momento di premere il tasto per aprire lo scompartimento nascosto sotto il sedile posteriore, il momento di permettere al mago di tornare nel mondo. C'era un diavoletto che si aggirava in quel silenzio. Un diavoletto che le
penetrò nel cervello all'improvviso. Un bellissimo, seducente diavoletto che era un pensiero. O che era Satana in persona. Uno splendido senso di irresponsabilità, di irrazionalità, l'avvolse. «Puoi ancora sentirmi, Claudio?» chiese. «Non riesco a decidermi se è meglio farti uscire da lì. Oppure no. Naturalmente, suppongo di poterti lasciar chiuso lì dentro per un tempo indefinito. La cosa potrebbe metterti in imbarazzo, vero? Potrebbe persino sconvolgere i tuoi piani.» Chiuse gli occhi e immaginò il viso di Claudio sconvolto dal panico come l'aveva visto la notte precedente. Poi capì che Claudio non si sarebbe mai davvero affidato completamente a lei in un caso simile. Lo capì ancor prima di udire il lieve sibilo dell'aria condizionata che fuggiva dal portabagagli mentre il sedile posteriore si sollevava. Lui aveva riservato a sé stesso il compito di liberarsi dal nascondiglio quando fosse arrivato il momento di uscirne. Come poteva aver pensato che le cose stessero in un altro modo, che le avesse lasciato il compito di aprire il cubicolo invece di aprirlo da sé? Il soffio dell'aria condizionata e il lieve sentore di ozono che lo accompagnava svanirono in pochi attimi, come sempre. Evitò di voltarsi, di guardarlo. Da parte sua, lui non le disse nulla, ma le si mise al fianco e appoggiò la mano sul pannello che apriva l'altro spazio segreto, quello sul fianco della macchina, la tomba in cui stava rinchiusa la capsula col vero corpo di Magdala Cled. Lanciò uno sguardo significativo alla donna che gli stava al fianco, poi al pannello. Era un messaggio più eloquente di qualsiasi parola. Poi scese dall'auto. Lei lo guardò camminare fra le colonne d'acciaio che sostenevano il bungalow. Lo vide dirigersi verso il garage. Poteva raffigurarsi il rettangolo d'argento col quale aveva forzato la porta del suo appartamento all'Accomat. Questa volta, non vide se lo stesso rettangolo o qualcos'altro, ma in cancello scorrevole del garage scivolò di lato lasciandogli via libera. Poi lui tornò alla macchina, si mise al volante, e guidò fin dentro il garage. «C'è anche una serratura a impronte che può riconoscere il tuo pollice e lasciarti entrare,» le disse, col tono di chi partecipa ad una normale conversazione. Adeguandosi a quel tono, anche lei ebbe l'aria di conversare tranquillamente quando chiese: «Lascerai qui la macchina?» «No.»
Più che altro, lei si sorprese che si fosse preso il disturbo di risponderle. «Dove, allora?» La macchina ora era ferma, e il cancello del garage si stava chiudendo alle loro spalle. Un luce bianca risplendeva nel locale. Claudio si girò, le lanciò uno sguardo rapido. I suoi occhi avevano qualcosa di ipnotico. «Basta con le domande,» disse. «Vedi quell'ascensore? Collega il garage col bungalow. Adesso andremo di sopra. Poi farò l'amore con te sul suo letto.» Il cuore di Magdala fece un balzo nel suo pseudo-corpo, annebbiandole lo sguardo, fermandole per un attimo il respiro. Ancor prima che lui la toccasse si sentì fremere al suo tocco, sentì un brivido che percorreva tutto il suo essere fino al cervello. «La ricompensa per il mio atteggiamento servile?» gli chiese. «Bene, ti sentirai ricompensata. Non vuoi?» ribatté lui. «Il simulacro di Christophine nel letto di Christophine,» commentò lei. «Perché mi hai portata qui?» «Ancora domande? La disobbedienza cancella il tuo credito: niente ricompensa,» disse lui, freddamente. Ma lei vide il pulsare della sua gola, delle sue tempie. Anche il suo cuore batteva, sì: non forte come quello di Magdala, ma batteva, batteva. Lei scattò in avanti. I lunghi capelli nero-blu svolazzarono e ricaddero coprendo il viso ad entrambi. Gli sfiorò le labbra con le sue e gli disse: «Ma io sono Christophine, caro.» Gli fece scorrere le mani lungo il corpo. Lo fece con abilità. Aveva imparato da lui. «Sei già eccitato al pensiero del letto di Christophine. Non è così, caro?» Dieci minuti dopo, la scena era completata dalla presenza di uno strano divano oscillante, sospeso come un'amaca su quattro sostegni flessibili. Mentre il letto dondolava come un gigantesco pendolo, e lei fluttuava attraverso uno scintillante caleidoscopio di emozioni psichiche, si chiese quante volte lui avesse fatto l'amore con Christophine. Una sensazione di essere parzialmente fuori dal proprio corpo la sopraffece, in modo che l'orgasmo stesso fu quasi una cosa che non la riguardava direttamente, osservata con distacco. Udì la propria voce, che diventava tenera e appassionata, come fosse stata la voce di qualcun'altra che giungeva da un'altra stanza. Le sembrava che qualcosa l'avesse colpita e divisa in due. Questo, questa sensazione, la confondeva. Si perse in quello stato di confusione, e giacque nella stanza scura, dove solo una piccola lampada soffocata si era accesa, accanto al suo nemico.
Lui si era già inserito nell'orecchio il solito disco della musica, e non guardava né lei né la stanza. «E adesso?» gli chiese. Lui non poteva averla sentita, col disco funzionante, ma si accorse che gli aveva parlato. «Stai zitta,» mormorò, «stai zitta.» Cigolando, il letto di Christophine oscillò sotto di loro. III Il bungalow ottagonale aveva un diametro di circa quindici metri, e consisteva quasi tutto di un'unica locale. Una stanzetta da bagno di forma allungata occupava il lato dell'ottagono verso sud-est, e una minuscola cucina della stessa forma prendeva posto sul lato occidentale; la cucina era equipaggiata con oggetti per cuochi che Magdala non aveva mai visto prima se non nei film della Tri-D. Il letto sospeso era posto contro il lato meridionale del l'ottagono. Poteva essere abbassato fino al livello del pavimento imbottito, o alzato fino a due metri. L'ascensore di bronzo sbucava al centro della stanza, dando accesso al garage sottostante o alla serra sul letto. La serra era piena di piante estive e di piante blu-scure della stagione più avanzata. Poteva essere inondata dalla luce delle batterie solari o diventare umida e piovosa all'entrata in funzione di una valvola automatica già programmata per scattare secondo le esigenze delle piante. Nella cupola c'erano pannelli totalmente trasparenti ed altri di vetro variopinto. I colori predominanti dell'arredamento del bungalow erano scuri, con tutta una vasta gamma di sfumature che andava dal nero del caffè concentrato al marrone cremoso del caffellatte. Una serie di colori al caffè. In questo insieme di toni al caffè erano stati sparsi ninnoli blu, cuscini azzurri ricamati con uccelli dorati, preziosi vasi color del cielo. In un caminetto di vetro contro la parete est guizzavano decorative fiamme prive di calore... il loro calore era solo un riflesso psichico che emanavano, fiamme blu per l'estate, un rinfrescante blu acqueo, fiamme rosse per l'inverno, un caldo rosso uguale a quello del fuoco vero. Nel bungalow non c'era nulla che fosse puramente ispirato a criteri di funzionalità. Tutte le pareti-finestre guardavano fuori sulla foresta, ma potevano essere rese opache, come quelle della casa d'argento di Claudio. Nella sua i-
spezione, Magdala aveva trovato soltanto la parete rivolta a nord sistemata a finestra. Davanti a questa finestra c'era un massiccio mobile di mogano lucidato a specchio, a un lato del quale era appoggiata la sagoma nerastra di un prezioso antico strumento musicale: un contrachorda. Magdala aprì il pannello dei comandi di fianco al mobile e premette un bottone. La custodia del contrachorda si aprì. Lei si avvicinò allo strumento tentando di trarne qualche accordo. Note alte e basse esplosero insieme come una cascata di cristalli spezzati che invadesse la stanza. Inutile. Lei non sapeva suonare, nessuno glielo aveva mai insegnato. Quell'incrocio fra un'arpa, un pianoforte ed violoncello terrestre, sotto le sue mani emise soltanto qualche suono incoerente. Tutto ciò non sembrò toccare Claudio, che se ne stava ancora disteso sul letto, sveglio ma sordo e silenzioso. Lei lasciò stare il contrachorda e si mise ad esaminare i soprammobili girando da un angolo all'altro del bungalow. La colpì il confronto, chiaro e stridente, fra il modo in cui viveva la donna chiamata Christophine ed il modo in cui aveva vissuto Magdala Cled. Da un lato, quel bungalow pieno di oggetti preziosi. Dall'altro, un appartamento all'Accomat, quattro metri per tre, una minuscola stanza da bagno, e un angolo-mensa sul muro che le portava cibi in scatola sempre uguali. E un gatto finto per compagnia, su un letto che si mimetizzava nella parete. La donna che viveva nel bungalow, si addormentava in un letto che la cullava ondeggiando dolcemente e si svegliava mentre l'aurora filtrava attraverso la foresta. Claudio si alzò e sedette sulla sponda del letto, guardandola attentamente. Non aveva più il disco argentato nell'orecchio. La sua espressione era intensa. Assomigliava a Cristo tornato dal deserto per insegnarle la sua vita. No, non assomigliava a Cristo. Non gli assomigliava per niente. «Cominci già ad odiarla?», fu la prima cosa che le disse. «Voglio dire, odii Christophine del Jan? Tutte quelle cose che possiede e che tu non hai mai avuto. Tu odii me per quel che possiedo?». La sua voce aveva un tono indolente. Ancora una volta, sembrava che le leggesse nella mente. Poteva essere? La sua creatura... «Odiala, Magdala. Lei ha ciò che potresti desiderare più di tutto. L'originale del tuo corpo. A proposito di corpo, faresti meglio a scendere nel garage a sistemare un po' la tua capsula.» Lei lo guardò con diffidenza. «Bene, vai. Sai come aprire il vano nel fianco della macchina. È l'ottavo
giorno del ciclo, il giorno in cui bisogna accudire alla tua capsula, controllarne il funzionamento ed inserirvi i fluidi nutritivi. Le istruzioni sono sul lato della capsula.» Lei si voltò di scatto e si diresse verso l'ascensore. Quando tornò, venti minuti dopo, aveva gli occhi umidi e le mani che tremavano. Lui notò il suo malessere e reagì con pesante ironia: «Sale sulla ferita, eh?» Magdala, nonostante fosse preparata all'idea di accudire alla capsula, nonostante avesse avuto presente che il suo corpo attuale non era realmente il suo e che tuttavia lei si era ormai inserita definitivamente in quel nuovo corpo, laggiù nel garage aveva vomitato. Aveva vomitato mentre toglieva e reinseriva l'energia nel semplice sistema di mantenimento della capsula che puliva e nutriva il corpo chiuso all'interno. Aveva guardato se stessa appena tre notti prima, a Sugar Beach con una sorta di tenera derisione distaccata. Ma questa volta, il fatto di dover toccare la capsula e sistemarla le aveva fatto dimenticare quella specie di distacco, che allora le era stato possibile guardando il contenitore trasparente ed il suo contenuto da una certa distanza. Era disgustata dalla propria reazione. «Adesso puoi odiare davvero Christophine,» disse Claudio. «Il suo corpo è proprio il suo. Che cosa ne dici?» Lei scoprì che era vero, che odiava Christophine. Un terribile odio primitivo. Per eludere la domanda, disse: «Non sai dov'è ora. O lo sai?» «Non lo so. L'idea ti diverte?» «Ma sapevi che non sarebbe stata qui.» «Lo sapevo. Vuoi che ti dica come facevo a saperlo? Va bene, ti confiderò il segreto. A Christophine interessano molto i miei affari. Così le ho mandato un fonogramma, che diceva, testualmente: Claudio è a Saint Azoro. Non ci sono dubbi sul fatto che in questo momento Christophine sia a Saint Azoro, a darmi la caccia su e giù per i viali digrignando i denti come una tigre inferocita. Non chiedermi il perché.» «E quando non ti troverà, tornerà sull'isola.» «Non spremerti il cervello con le ipotesi.» «Claudio...» «Sì?». Le rivolse un sorriso radioso, e lei lasciò cadere ogni velleità. «Immaginavo di aver qualcosa da fare, qui,» mormorò, «ma che cosa devo fare, ora che sono qui?» «Sta allegra. Gioca con gli oggetti d'arte di Christophine. Divertiti.»
«Ma,» balbettò lei, «e tu che cosa farai?» «Io? Oh, niente di importante. Andare e venire, camminare su e giù, ecco che cosa farò. Non badare a me. Tutto quel che ti chiedo, è di non dimenticare mai, in qualunque posto io vada, che prenderò la macchina e la nasconderò da qualche parte, e nella macchina c'è la tua brutta-copia sotto chiave. È la mia assicurazione.» Magdala sedette sul pavimento accanto al contrachorda. Le parole dell'uomo continuavano a ferirla, sembravano pronunciate apposta per ricordarle tutto e per imporle l'obbedienza. Appoggiò la guancia sul legno liscio e freddo dello strumento. Claudio si alzò e le si avvicinò dall'angolo della finestra che filtrava una luce d'aurora. «Odiala,» disse. «I mondi sono stati conquistati sotto la spinta dell'odio. Odiami pure, Magdala, ma odia di più lei.» Le posò una mano sul capo in un gesto stranamente gentile che assomigliava ad una carezza. E con voce altrettanto gentile le disse: «Dividilo con me, Magdala, il mio odio per Christophine.» «Perché?» chiese lei. «Ti faccio notare che non puoi chiedere perché o per chi o per che cosa. Tu sei la mia marionetta. Danza per me, e tieni la bocca chiusa. O non sarò mai più carino con te.» L'idea che lui fosse, fra tutte le assurdità, carino, la fece ridere; ma la sua risata fu silenziosa. Il tocco leggero della mano di lui sul suo capo fu un breve sollievo. Poi lui la lasciò, e poco dopo si udì il rombo del motore che si perdeva in distanza mentre la macchina si inoltrava fra gli alberi nel mattino azzurroacciaio. Alle nove e mezzo il sole era alto sulle chiome degli alberi più bassi che circondavano il bungalow. Magdala aveva convertito in finestre le pareti a est e a nord-est dell'ottagono, perché la luce del giorno entrasse nella stanza. Gli ologrammi degli alberi più alti si stagliavano contro il sole ma non riuscivano ad offuscarlo. Si stagliavano al di là dei vetri, chiome translucide circondate da un alone brillante, e non gettavano ombre sul pavimento lucido. Ma lei aveva fatto un'altra strana scoperta: un albero genuino, un albero vero, reale, concreto, si alzava solitario sul lato nord del bungalow. Le sue foglie erano sbiadite e cedevano. Il suo tronco aveva assunto il pallido colore rossiccio dell'inverno. La sua ombra si allungava sul suolo. Gli
altri alberi — i falsi alberi — al suo confronto non erano che buie ombre cupe. Il generatore solare ronzava sul tetto-serra. Claudio se n'era andato. Aveva portato su i loro vestiti, tutti quei vestiti eleganti e costosi, tenendo separati quelli che aveva comprato per lei. Le aveva comprato quei vestiti scegliendoli come se avesse voluto vestire Christophine. Fece una doccia e si lavò i capelli. Nel bel mezzo dello shampoo, le sembrò di vedere il mostro nella capsula e se stessa in un corpo di robot. Pensò di tagliarsi i capelli: immaginò l'effetto di tutti quei capelli blu-neri galleggianti nella vasca. Ma non lo fece. Continuò invece ad insaponarsi la testa. Era una bambola che poteva lavarsi con saponi profumati. Era una bambola che poteva camminare e parlare, e mangiare e bere e dormire, e fare l'amore. Il guardaroba era nascosto fra la parete e il pavimento, vicino al letto, chiuso da una serratura inserita nel pannello accanto alla parete-finestra rivolta a sud. Premette il pulsante della serratura e il guardaroba si aprì. Lì c'erano gli abiti di Christophine, simile ad una fila di strani esseri fluttanti. Non voleva indossare gli abiti di Christophine. Voleva solo... Voleva strapparli. Voleva farli a pezzi... Non solo gli abiti, ma l'intero bungalow. E Christophine. Fu una rivelazione sconvolgente. Si era bruscamente fermata, evitando il più possibile qualunque tranello le avesse teso Claudio, qualunque obliquo dettaglio lui avesse predisposto. Claudio voleva che lei odiasse Christophine, che lei riflettesse il suo stesso odio come gli altri suoi sentimenti. Ma l'odio di Magdala era soltanto di Magdala. Li odiava entrambi, e i suoi motivi di odio erano personali, originali, non mutati da un odio altrui. Cautamente, tolse il vestito più vicino dalla custodia antipolvere trasparente. Era uno splendido vestito color terra di siena bruciata, di lana di pecora terrestre. Lo portò in cucina e lo lasciò cadere sul pavimento. Poi, afferrato uno degli antichi e taglienti coltelli da cuoco, tagliò in due il vestito. Mentre la lama tagliava l'ultimo pezzo del prezioso tessuto, una voce risuonò nella vasta stanza oltre la cucina. C'è qualcuno. C'è qualcuno. Magdala piegò i due pezzi del vestito e ripose il coltello, poi sgusciò
fuori dalla cucina. Una lucetta ammiccante si accendeva e si spegneva sulla porta bronzea dell'ascensore. Al di sopra della luce, in un piccolo schermo, si formò un disegno. Mostrava uno sconosciuto fermo fra le colonne d'acciaio del bungalow e le colonne scure della foresta. Guardava in su con aria tranquilla, aspettando di entrare. Capitolo Quinto: Il «doppio» I «Christophine,» disse l'uomo, guardando il bungalow, «Ciao, Christophine?» C'era una possibilità che quell'uomo se ne andasse, se lei avesse ignorato il suo richiamo. Il pulsante del videofono era abbassato, quindi il visitatore non poteva vedere l'interno del bungalow. Non poteva vederla, lì dentro, mentre lo fissava pietrificata attraverso lo schermo. Come poteva sapere che lei era in casa? Christophine non era in casa. «Oh, andiamo, Christa,» disse l'uomo con impazienza, ricorrendo all'abbreviazione di cui Claudio le aveva spiegato alcuni aspetti. «Christa» stava ad indicare un collega. O un amante. «So che sei lì dentro,» disse l'uomo. «Ho visto i fari della tua macchina la notte scorsa. Sei tornata più presto di quanto mi aspettassi. Ti eri stancata? O hai avuto un sospetto?» Sotto il pulsante dello schermo c'era un altro bottone con scritto voce. Magdala si accorse di averlo premuto. «Sei tu, vero, Christa?» «Sì,» disse lei. Era sconvolta. C'era caduta di nuovo, era stata di nuovo spinta nel precipizio o vi si era gettata volontariamente. Probabilmante era stata spinta. Era certa che Claudio avesse previsto quella visita, e forse vi avesse giocato sopra, per le proprie non ortodosse ragioni. «Scendi, o vuoi che salga io?» Non voleva che entrasse nel bungalow. Era una sensazione istintiva anche se irrazionale. «Dammi un minuto di tempo, poi vengo giù.» Lui scrollò le spalle. Facendo uno sforzo su se stessa, Magdala scelse capi del guardaroba di Christophine, la biancheria, le scarpe, e un vestito bianco senza bottoni. In
un angolo dell'armadio c'erano boccette di profumo, identiche a quelle che Claudio le aveva regalato. Le evitò. Claudio quando era uscito aveva rimandato su l'ascensore. Vi entrò e scese nel garage. La macchina argentata, naturalmente, non c'era più. La porta che dava verso l'esterno si aprì mentre lei vi si avvicinava. Fuori, il giorno era tiepido, avvolto nella cortina blu degli alberi L'uomo stava fumando, ritto nella luce del sole. Nell'insieme, non aveva nulla di notevole, il solito corpo ben fatto e il solito viso attraente, ma i suoi occhi erano piuttosto piccoli, freddi e duri. Lasciò cadere la sigaretta e le andò incontro. «È stato un sospetto?» «Che cosa?» chiese lei. Non sapeva il suo nome. «Qualunque cosa ti abbia fatto ritornare così in fretta. Ci sono cattive notizie.» «Davvero?» «Non capita spesso? Abbiamo dei problemi con Emilion.» «Oh,» disse lei, «oh, Emilion.» Improvvisamente trattenne un sorriso. Era buffo. Pensò se Claudio non fosse da qualche parte lì attorno, a spiarla da dietro un albero (le venne da sorridere di nuovo). Forse aveva installato qualche microspia, nell'interno del bungalow o anche lì all'aperto, attraverso la quale poteva vederla. Era incredibilmente bravo con quegli aggeggi meccanici. «Bene, immaginavo che sarebbe andata male di nuovo. E tu?» «Sì, suppongo che anch'io lo immaginassi,» rispose, lei rispettosamente. «Vuoi venire a controllare coi tuoi occhi, Christa? Ho detto che saresti venuta.» «Non credo,» cominciò lei. La paura le alterò bruscamente la voce. Procedendo alla cieca, non si era accorta di dove metteva i piedi; ed ecco che aveva fatto un passo falso. «Ho la macchina parcheggiata accanto alla strada», disse l'uomo. «Ho un mucchio di cose da fare qui,» disse Magdala. «Oh, andiamo Christa. Non essere dispettosa. Sei incaricata di queste cose e sai farle maledettamente bene. Vuoi essere la stessa del progetto C.T., e va bene. Ma il lavoro ha i suoi vari aspetti, e tu non puoi trascurarlo. Quando le cose si mettono male, non vieni ad aiutarmi a evitare il peggio. Gli altri li aiuti, forse. Ma non Val.» Lei rise stupidamente. L'uomo si era riferito a se stesso col proprio nome. Bene, e così adesso almeno sapeva come si chiamava il suo interlocu-
tore. Evidentemente, però, l'uomo chiamato Val non si era chiesto il motivo della sua risata. Gli occhietti freddi e duri erano diventati ancora più freddi e più duri. Storse la bocca, e disse: «Sì, adesso è divertente. Ma domani forse non lo sarà più.» I suoi modi, i suoi atteggiamenti, esprimevano trepidazione ed insicurezza. Aveva detto che Christophine era incaricata di un progetto a Marina Azzurra. Il progetto segretissimo al quale Claudio aveva accennato. «Non trattarmi male,» disse Magdala. Lo disse in un modo amichevole, il modo di Claudio. Funzionò. Val sembrò indietreggiare, anche se fisicamente non si mosse, in una sorta di pittoresca richiesta di scuse, ed accennò un inchino. «Va bene, va bene. Ritiro quello che ho detto. Debbo inginocchiarmi?» Sorrise, quasi a dimostrare che quello non era stato che un banale scambio di battute e non una divergenza d'opinione fra loro due. «La stessa Christa. Sempre la stessa.» Anziché ridere, questa volta lei rabbrividì. Pensò, incoerentemente, che il piano di Claudio dopotutto avrebbe potuto fallire. Sarebbe fallito se lei avesse scoperto il bluff. Se si fosse opposta a Claudio. Era una cosa importante, per lei. Così era sempre stato, così avrebbe potuto essere. Lei poteva odiare Christophine, sì. Ma a modo suo, per i suoi motivi. Non sapeva nemmeno quali fossero i motivi di Claudio. «Quello che ti stavo rispettosamente dicendo,» proseguì Val, «è che nella mia qualità di tuo subordinato, dovevo avvisarti di venire tu stessa a dare un'occhiata ad Emilion. Tutto qui.» Magdala fece scorrere lo sguardo fra i tronchi degli alberi fino al punto in cui si poteva intravedere la sagoma dell'automobile. Avrebbe potuto dire «no». Tuttavia era chiaro che Christophine non avrebbe detto «no». Un rumore ronzante arrivò dalla direzione in cui si trovava l'auto. «Oh Dio,» disse Val. Corse verso la macchina, e Magdala lo seguì senza fretta. Quando lo raggiunse, Val era seduto all'interno dell'abitacolo aperto e parlava in un microfono inserito nel cruscotto. «Sì,» disse, «sì.» Si voltò a guardarla. «È peggio di quanto credevo. Devo tornare subito là.» «Vengo con te.» Era stata spinta ciecamente a pronunciare quelle parole da una improvvisa agitazione, dalla curiosità, da un'inconfessata paura di Claudio e dall'avversione per la lunga solitudine nel bungalow. Da un impeto di potere frustrato, di indignazione e di collera. Dalla stessa paura di Christophine. Entrò nella macchina e lo sportello si chiuse.
Troppo tardi, ora, per scappare, per tirarsi indietro. Erano già sulla strada di metallo con la macchina regolata sulla guida automatica, superavano la cresta della collina, passavano sotto un'arcata di pietre naturali rinforzate d'acciaio, o il folto della foresta priva di ombre. La spianata di cemento apparve sotto di loro, una liscia e innaturale separazione fra l'alta distesa scura dell'isola e la bassa distesa azzurra del mare. Scesero correndo all'impazzata verso la stazione di ricerca, sembrò che vi cadessero dall'alto della collina. Val non aveva aperto bocca durante il tragitto, come intimidito dalla sua presenza. La calma dell'oceano sul quel lato dell'isola turbò stranamente Magdala, che ricordava il selvaggio dibattersi delle onde fra le rocce quand'era arrivata coll'idrovolante, la notte precedente. Da questa parte, il mare le sembrò morto, morto con tutti i suoi mostri, una vasta distesa morta. A un quarto di chilometro dalla Stazione, sorpassarono una colonna di controllo che li fotografò nonostante non avessero ridotto la velocità. Pochi momenti dopo, la macchina irruppe in mezzo agli alti edifici privi di tratti caratteristici. Non ebbe il tempo di osservare la funzionale piana di cemento, gli edifici, le strade fra di essi. Ogni cosa scorreva ai lati dell'auto, deformata dalla velocità, e fuggiva via alle loro spalle. La macchina cominciò a frenare, variando la barriera d'aria davanti ai suoi occupanti, in modo che essi non sentirono la decelerazione improvvisa ma videro soltanto gli effetti... una scarpata percorsa a duecento chilometri orari che bruscamente si fermava dietro di loro. La macchina era su una piattaforma d'acciaio davanti a un alto muro senza aperture. Un pannello su quel muro si illuminò di rosso, poi di azzurro, poi si spense. La piattaforma cominciò a scendere. Sopra, il pavimento si richiuse. Sulla piattaforma d'acciaio, la macchina scese in un sotterraneo con le pareti di cemento bianco. Attorno c'era il ronzio di molti generatori e di macchine ignote, e una intensa luce fredda irradiava da una lampada al fosforo. C'era l'inevitabile profumo dell'aria condizionata, un lieve sentore di ozono, e i forti odori d'alcol e di sostanze chimiche propri di un laboratorio. Una porta d'acciaio chiudeva l'estremità del sotterraneo. Si poteva supporre che al di là di quella porta una strada portasse dentro la collina. Gli sportelli della macchina si aprirono.
Accanto alla porta d'acciaio c'era una colonna di cemento, una replica esatta della colonna posta dove la strada partiva dal porto a cui era attraccato l'idrovolante. La stessa voce quasi umana li interpellò. Siete all'entrata dell'Unità Due. Solo il personale esecutivo appositamente classificato è ammesso. Controllo voci e impronte, prego. Val andò avanti in fretta, premette la mano sulla colonna e disse il proprio nome. Magdala lo imitò. Cominciava ad avere un'acuta consapevolezza della sua situazione, le parve di aver persino trasmesso il suo tremito all'ozono dell'aria. Ma la colonna, naturalmente, non si accorse di quel tremito, né del suo stato d'animo. La porta d'acciaio si aprì. Un corridoio rivestito di plastica color pesca, completamente illuminato dalle solite lampade al fosforo, era di fronte a lei; si sentì paralizzata, muta, con le mani gelate e gli occhi che non riuscivano a mettere a fuoco le cose che vedeva. Non voleva entrare nel corridoio e nei locali a cui esso conduceva. Non voleva camminare in quel santuario, in mezzo a cose che non avrebbe capito, a gente che non aveva mai visto, e apettare che la buttassero fuori. E loro avrebbero potuto buttarla fuori. Avrebbe sbagliato qualcosa, lo sapeva. Doveva sbagliare qualcosa. Lei non sapeva niente... niente. E questo era esattamente ciò che Claudio avrebbe voluto. Assieme a Val entrò nel corridoio, lo percorse fino ad una parete bianca con su scritto ECSORNI DEUX, che, riconoscendo le loro immagini, si aprì davanti a loro. Quell'area era molto simile a come se l'era immaginata... come il laboratorio visto nel film alla Tre-D. Un computer, occupava in tutta la sua lunghezza una delle ampie pareti, e andava dal pavimento ad una balaustra con uno stretto corridoio sospeso lungo la parte superiore. Macchinari per procedimento ed analisi erano collegati al computer. Piastre sterilizzanti, un giroscopio, cabine piene di strumenti, uno schermo per i libri, un monitor dell'impianto televisivo interno, e pannelli pieni di tasti accesi e spenti, completavano il quadro. E nel bel mezzo di quel quadrato stavano cinque uomini e due donne, che indossavano camici azzurro-indaco e mostravano facce preoccupate. La fissarono tutti con l'espressione di chi rende omaggio all'autorità. «Miss Del Jan,» disse uno degli uomini. «Lieto di rivedervi.» Lei non dovette far altro che guardarlo per scoprire come doveva comportarsi, che cosa ci si aspettava da lei o da quella che si credeva che lei
fosse. Distaccata ed implacabile, ecco com'era, ecco com'era Christophine. (Sì, avrebbe potuto comportarsi in quel modo per imitare Christophine, sperando di non sbagliarsi.) Chinò il capo verso l'uomo che le aveva parlato, rivolgendogli un rapido cenno che poteva essere di saluto o di assenso o di comprensione. Val stava attraversando la sala, camminando lentamente in modo da non lasciarla troppo indietro. Lo raggiunse, ed oltrepassarono una seconda porta. La stanza in cui entrarono era grande il doppio dell'altra. C'erano tubi flessibili che partivano dal banco del computer e arrivavano ad un terminal al quale era annessa una mensola-scrittoio. Il resto della stanza era occupato da cinque grandi monitors del sistema televisivo interno, ciascuno dei quali veniva regolato da una persona in camice che gli sedeva davanti. Magdala gettò uno sguardo in questo schermo, ma Val stava proseguendo verso un'altra porta mimetizzata nella parete, e la necessità di tenere il suo passo non le permise di osservare a sufficenza ciò che gli schermi riportavano, a parte il fatto che si trattava di un'attività ridotta ai minimi termini. In uno schermo, si vedeva un uomo che giaceva, apparentemente addormentato, su un lettino di plastica bianca. Un altro schermo mostrava una donna seduta per traverso su una sedia. Qualcuno stava cercando di persuadere la donna, o così sembrava, ad alzare un braccio. Una fosca aura da arcaico manicomio sovrastava quelle scene. Magdala e Val raggiunsero la porta verso la quale erano diretti. Il loro passaggio nel stanza non era nemmeno stato notato. Nessuno aveva parlato, le spalle erano rimaste rigide, gli occhi incollati agli schermi, i volti tesi nella loro attenta vigilanza. La porta immetteva in un ascensore, che scese per altri sei metri circa nelle viscere di roccia della collina. Uscirono in quello che appariva come un duplicato esatto della seconda delle stanze che avevano attraversato di sopra. Anche qui c'erano i conduttori flessibili che arrivarono dal computer, anche qui c'era un terminal; ma dei cinque schermi, solo uno era in funzione. Davanti allo schermo, in piedi, con l'aria cupa e perplessa e i movimenti nervosi dati da una emozione impotente, un gruppetto misto scrutava lo schermo. Si voltarono di scatto, tutti assieme, quando li sentirono arrivare. «Come va adesso?» chiese Val. «Male, Mister Valary.» La ragazza che aveva risposto si voltò verso Magdala. «Miss Del Jan, è cominciato presto questa mattina, circa alle sei. L'ho registrato. Fino alle otto abbiamo usato venti a.c.s. di 'paramyoten'
ogni ora per cercar di tenere sotto controllo il modello di comportamento, ma non ce l'abbiamo fatta.» Magdala aveva smesso di guardare la ragazza. La sua attenzione era stata attirata dallo schermo. Sullo schermo c'era un animale infuriato, che in origine era stato un uomo. Dall'ovale scuro della bocca spalancata uscivano grida soffocate assieme a un rivolo di saliva. E mentre urlava, l'uomo si catapultava da un angolo all'altro dell'anonima stanza in cui si trovava. «Cristo,» disse Valary, «è peggiorato.» «E questo non è tutto,» gli rispose la ragazza. «Guardate... là, vedete?» L'uomo sullo schermo si era fermato di fronte a una parete. Sistematicamente, cominciò a sbattere la testa contro il muro. «Chi c'è a controllare il monitor della capsula del soggetto?», chiese Valary. «Doramel.» «Ci sono ancora segni di vita? A quale livello?» «Basso. Sempre più basso.» «Christophine,» disse Val, continuando a guardare l'uomo sullo schermo, «aumentiamo le dosi del paramoyten?» «Miss del Jan,» disse un giovane in mezzo al gruppo. «L'originale di Emilion è già sotto l'effetto di sedativi molto forti. Il sistema di mantenimento è stato riempito con analgesici per tre giorni. Il corpo non riesce più a trarne alcun nutrimento.» «Dannazione,» disse Valery, «dobbiamo correre il rischio. Se continua così un altro po' entrerà in coma. Mio Dio, pensavamo davvero di farcela con Emilion. Trenta a.c.s. di parampyten, Christophine?» Magdala aveva la sensazione di essere in equilibrio su un sottile strato di ghiaccio sospeso sul baratro di una mostruosa cascata. Sentiva che al primo passo sarebbe caduta nel baratro. Parlò a Valary, incapace di resistere alla tentazione di saperne qualcosa. «Che cosa intendeva quando ha detto che il sistema di mantenimento è stato riempito con analgesici?» «Sono spiacente, Miss del Jan», disse il giovane. «La faccenda non piace neanche a me. Ma il transfer comincia ad essere piuttosto violento. E ciò con una dose di cinque a.c.s. di paramoyten nel sistema della capsula. Ho paura che il sistema nervoso sia compromesso. Dubito che ci sia la possibilità di rimedio, adesso, abbastanza in fretta per permettergli di riprendersi; dubito che ci si possa fare qualcosa, in ogni modo.» «Non abbiamo scelta,» commentò Valary. I suoi occhi freddi si erano inumiditi: lacrime trattenute. «Gesù... Christophine.»
«Volete ispezionare la capsula, Miss del Jan?» chiese la ragazza. Magdala ansimò come se stesse per affogare. «Perché no», riuscì a rispondere. La ragazza mosse qualcosa sulla scrivania accanto al terminal del computer, e una botola si sollevò. Magdala si rese conto che quanto aveva appena detto significava entrare nella cella là sotto. Nella cella, una cassaforte era stata spinta quasi a ridosso di una parete. Sul piano orizzontale della cassaforte giaceva un parallelepipedo trasparente. Una ragazza lo guardava, come in adorazione. «Doramel, Miss del Jan sta scendendo.» Doramel sobbalzò. Si alzò e si voltò verso i visitatori, rivolse a Magdala un brave inchino. Magdala entrò nella cella e abbassò gli occhi sulla capsula trasparente. Era proprio uguale alla sua stessa capsula, proprio uguale alla vitrea «bara» nella quale l'aveva messa Claudio quando lei era ancora Ugly. E la sistemazione era abbastanza simile, tanto da non poterne distinguere le differenze. Fili, tubi, valvole, un pannello di luci, (luci che ora guizzavano; non proprio uguali alle sue, dopotutto). Sì, e anche l'uomo nella capsula era diverso. Era giovane, ed era normale. Corpo snello, lineamenti regolari. Sul capo aveva una gabbia d'argento. Magdala mise una mano sul viso dell'uomo. Non sapeva perché. Il gesto non le rese le cose più facili. In quell'uomo aveva appena visto se stessa, e la vedeva ancora. Non poteva combattere quel che sentiva. Si accorse di essere prossima a svenire, pervasa dall'orrore. Il progetto speciale di ricerca dell'Unità Due era lo stesso identico progetto che Claudio aveva effettuato con successo su lei stessa. Il trasferimento della consapevolezza mentale da un corpo umano a un simulacro. E, al contrario di Claudio, l'Unità Due aveva fallito. «Sulla carta,» disse la graziosa Doramel, «funziona. Non è vero, Miss del Jan? anche secondo il computer, funziona. Ma in realtà, no. Effettuiamo il trasferimento. Qualcosa si blocca. Non possiamo riportarli nei loro corpi originali, e non riusciamo a farli agire nei nuovi corpi. Emilion era il nostro solo successo parziale. Attualmente, egli potrebbe mangiare e bere e contare fino a trentatré. Ammetto che mi è sembrato strano che riuscisse a contare fino a trentatré e non oltre. Ma ammiriamo tutti il lavoro che avete fatto, Miss del Jan. Mi dispiace.» In distanza, si sentiva un rumore di colpi soffocati. Da qualche parte, lì vicino, Emilion stava sbattendo il suo cranio d'ac-
ciaio contro una parete altrettanto dura. Mentre guardavano, le luci guizzanti sul pannello della capsula si affievolirono. Poi si spensero. Una serie di stimolatori d'emergenza presero a lavorare sulla capsula. La quantità s'ossigeno aumentò. L'aria fu spinta sul viso dell'uomo, i polmoni dovettero inspirare ed espirare, il cuore fu sottoposto a un massaggio. L'adrenalina eliminò gli analgesici dal sangue. Ma il pannello delle luci restò spento, Emilion inerte. Lentamente, il sistema che manteva in vita il corpo della capsula cessò di funzionare. Non c'era più nessuna vita da mantenere. Valary si volse verso l'uscita. «Autopsia,» disse al giovane con cui avevano parlato prima. «Codice X.6. Emilion 7. Diascopia e sezione ai raggi ics. Procedi con la sterilizzazione.» Non guardò in direzione di Magdala. «Bene, Christophine. Vuoi incidere le giunture, o lo faccio io?» Un fiotto amaro di bile le salì alla gola. Anche se ciò non avrebbe dovuto essere possibile. Ma c'era l'aspetto clinico che le impedì di sentirsi male. «Fallo tu,» disse. «Benissimo.» Era riuscita a notare un particolare: il vero corpo nella capsula ed il corpo finto erano perfettamente identici, gemelli, copie l'uno dell'altro. In quelle circostanze, per il soggetto non c'era uno sprone particolare a riuscire, pensò vagamente. Valary era venuto verso di lei, nella cella. Abbassando la voce, disse: «Naturalmente, contavi di diventare celebre con Emilion. Colpa della sfortuna, Christa. Non te la prendere troppo.» Magdala gli voltò le spalle e si diresse verso l'uscita della cella, lontano da quella capsula e da tutto ciò che la capsula le ricordava. L'uomo aveva avvertito il suo disagio, e senza conoscerne i veri motivi, l'aveva imputato alla delusione di un esperimento scientifico fallito, un esperimento sul quale evidentemente Christophine aveva puntato tutte le sue carte. A bassa voce, disse, alle sue spalle: «Sai di chi avremmo bisogno? Avremmo bisogno di Claudio Loro.» Magala si fermò di colpo, come se fosse andata a sbattere contro una barriera invisibile. Incapace di proseguire, si voltò verso di lui e chiese: «Che cosa?» Il viso di Valary impallidì, ma ormai si era spinto troppo lontano per far marcia indietro.
«Non avrei dovuto nominarlo? Le mie scuse, ma lui era il re, devi ammetterlo. Troppo dotato, e troppo intelligente. Potremmo averlo con noi, ora, se fosse stato d'accordo sul tuo progetto.» Nella stanza, l'aria sembrò essersi raggelata. «Aspetta un momento,» disse Magdala. Tornò indietro lentamente verso Valary. Ma, di nuovo, arrivò uno di quei collassi non-fisici che le toglievano ogni velleità. «Diavolo Christophine. Sono fuori fase. Dimentica quel che ti ho detto,» borbottò Val. «Voglio,» disse lei, «voglio che tu mi parli di Claudio, una volta o l'altra.» Stava uscendo troppo in fretta dal suo ruolo, dal ruolo che si era imposta, ma il suo modo di parlare restava ancora aderente a quello che sembrava essere il modo di Christophine in quanto a sarcasmo e minaccia. Valary cambiò tattica altrettanto in fretta. Si strinse le mani in un gesto di finto terrore, fece un'espressione esageratamente desolata, un sorriso ironico gli sfiorò le labbra e svanì subito mentre gli occhi restavano duri e gelidi. Perfino nella sua intollerabile situazione, Magdala riuscì a capire il sottinteso... la parodia di autodifesa con la quale l'uomo si opponeva a Christophine, cosa che nessun'altro aveva il coraggio di fare. «Val,» gli disse, «mi raccomando, segui bene quel lavoro. Io torno al bungalow. Se ti viene un'idea, puoi chiamarmi.» Si voltò di nuovo ed entrò nell'ascensore che risalì oltre la botola. Ricordava la disposizione delle successive stanze e le attraversò con passo sicuro, ed attraversò l'attenzione di cui i loro occupanti la facevano oggetto. Lasciò L'Unità Due e si ritrovò là, nell'enorme garage sotterraneo illuminato dalle lampade al fosforo e odoroso d'ozono, chiedendosi come si raggiungeva la superficie. Quando un camion venne verso di lei e le si fermò accanto aprendo lo sportello per lasciarla entrare, seguì l'impulso del momento e salì nella cabina di guida. Ma il camion rimase programmato per la sua precedente destinazione, che poteva non coincidere con la collina e i bungalows. Senza ulteriori istruzioni, la portò sulla piattaforma di metallo, salì alla superfice e procedette attraverso la Stazione. Magdala rimase seduta nella cabina, frastornata, mentre la vista di tutto quel cemento provocava in lei una forte repulsione. Aveva soltanto una curiosa percezione di azzurro: cielo azzurro, mare azzurro; azzurro ridotto al-
la mortificante funzione di orlare una grigia, incolore massa di cemento. Gridò, senza sapere perché. E mentre il camion usciva dalla spianata e si avviava verso la foresta olostatica, pensò all'appartamento all'Accomat, e in quell'appartamento rivide Magdala Cled, brutta e infelice, che coccolava il gatto finto e, adagiata nella barca della sua vita monotona, aveva paura persino mentre navigava in acque basse e tranquille che niente poteva coinvolgere. II Era mezzogiorno, il mezzogiorno di Indigo, la tredicesima ora del giorno, quando, usando l'impronta del suo pollice uguale a quella del pollice di Christophine, entrò nel bungalow sorretto dalle colonne d'acciaio. Non aveva nessun altro posto in cui andare. Aveva cominciato ad abituarsi all'insicurezza ed alla pazzia. Insicurezza e pazzia erano diventate familiari, normali. In un'esistenza dove nulla offriva sicurezza, non c'era nessuna cosa che sembrasse più pericolosa di qualsiasi altra. C'era stato un insistente impulso di fuggire, un impulso soffocato soltanto a metà, mentre percorreva la strada che risaliva la collina. Un impulso che aveva qualcosa a che fare con l'idea di allontanarsi dall'isola, tornare sul continente... rientrare in qualche modo in città, o in qualche altra zona popolata. Naturalmente, era un impulso assurdo. Non poteva fuggire, non senza la capsula trasparente e il suo contenuto. C'era stato un sogno, un tentativo di convincersi che lei, nella sua totalità, era quel corpo che sembrava occupare, che lei era... Christophine. Si sentì stanca, immensamente stanca, mentre saliva nel bungalow. Un lampo di sole che entrava dalla parete-finestra, proiettando una luce danzante sul pavimento, la confuse. Ma fatti quattro o cinque passi nella stanza, allontanandosi dall'ascensore, si accorse che il sole e la stanchezza non erano i soli responsabile di quella confusione. Le orecchie le si riempirono di rumori strani, i polmoni smisero di respirare. Fece un altro passo barcollando, e cadde sulle ginocchia. «No, Claudio,» gridò all'aria illuminata, alla stanza color caffè, al vuoto. Lo gridò con rabbia. «No». Gli occhi le si chiusero. Giacque sul pavimento, odiandolo, odiandolo, un impasto d'odio e d'amore, come amava il tocco delle sue mani, e far l'amore con lui sul letto
oscillante e sul pavimento imbottito e addormentarsi entrambi con la fragrante cortina dei capelli blu-neri stesa fin sul viso di lui. Sul suo viso... no, Magdala, non c'è altro che un... un albero vero che si muove nel vento e proietta attorno a te le sue ombre... La droga che lui doveva avere iniettato nelle vene del vero corpo nella capsula le avviluppò dolcemente il cervello in una fluttuante visione dai toni di caffè. Ma appena prima di essere sommersa da quella visione, ci fu una limpida scintilla di consapevolezza: Dovevo essere all'Unità Due quando l'ha fatto. Forse sapeva dov'ero? Sa dove sono adesso? Ha in qualche modo seguito le mie tracce per tutto questo tempo... mi ha sempre vista e sentita? Avrebbe potuto controllarmi, e non dirmi niente. E adesso, questo: perché l'ha fatto? Un semplice esperimento? Poi piombò nell'oscurità. Senza averne capito il motivo. O forse non c'era realmente un motivo. Si riprese lentamente. Si alzò in piedi. Si muoveva pian piano, un po' impacciata, ma si muoveva. Poi anche quella sensazione di esagerata lentezza svanì. Lo pseudocorpo in cui viveva non avvertiva i postumi della droga. Perché non c'erano luci? Ricordò che c'era una lampada che si accendeva subito, attivata automaticamente appena nel bungalow c'era una presenza umana di notte. La sua mano strisciò su qualcosa di ruvido, simile a carta da parati, leggermente umido. Guardò verso l'alto e vide, attraverso una cupola di vetro trasparente, un cielo nero ornato da strisce di stelle bianche che qua e là sfumavano nel rosso e nel verde-oliva sopra i petali di cristallo sporco. Era nella serra sopra il bungalow, e la serra era oscurata per la notte a beneficio delle piante che torreggiavano attorno a lei. Ma non era un buio completo, le stelle lontane splendevano oltre la cupola ed anche all'interno della serra, si specchiavano brillando sul bronzo lucido dell'ascensore al centro dell'ampio spazio ottagonale. Non ricordava di essere venuta nella serra con le proprie gambe. Anzi, non c'era venuta affatto. Qualcuno ce l'aveva portata. Solo Claudio avrebbe potuto predisporre le cose in tal modo. Portarla là sopra, nella serra. Per esser sicuro che a uno spavento si sarebbe aggiunto un altro spavento. Che altro pretendeva? Magdala esitò. Claudio era ancora nel bungalow? In ogni caso, lei non poteva scendere. Non sapeva quale dei moltissimi
tasti del pannello fosse quello che serviva per aprire l'ascensore. Premette uno di quei tasti, a caso, e nella serra cominciò a piovere. Con uno strano rumore scricchiolante, le piante si stirarono offrendo le foglie alla carezza dell'acqua. Magdala restò in piedi sotto la pioggia, intimidita e piena di paura. Come se la pioggia artificiale da lei stessa provocata e la rumorosa risposta delle foglie fossero simboli sinistri che annunciavano altre indefinite minacce. Finalmente, si riscosse e premette un altro tasto. La pioggia cessò da un momento all'altro. Questa volta le era andata bene. Provò con un terzo tasto, mentre la sua angoscia cresceva per qualcosa dentro di lei che aveva preso l'aspetto di un brutto presentimento. L'aver premuto quell'ultimo taso dette un risultato disastroso. La cupola si dissolse e, contemporaneamente, Magdala si sentì come se l'avessero sollevata in aria, si trovò a tre metri e mezzo dal pavimento. Questa volta, riuscì a rassicurarsi in fretta. Si accorse che il pavimento della serra era semplicemente un'altra finestra reversibile che poteva essere resa trasparente, offrendo, come in un panorama a volo d'uccello, la vista dell'appartamento sottostante. La cabina bronzea dell'ascensore scendeva sotto di lei fino al pavimento della sala. Da una parte, si distingueva la sommità della parete che chiudeva la stanza da bagno. Qualche altra cosa la si poteva intravedere perfino nel giallo crepuscolo tenue della lampada solitaria accesa nel bungalow: il letto sospeso sui sostegni flessibili, il contrachorda e il massiccio mobile accanto ad esso, la parete-finestra rivolta verso nord, ancora aperta, che costituiva un'altra sorgente di tenue luce. Si poteva vedere anche la cucina, la bella cucina lucida, il complesso apparato culinario, la raccolta di antichi coltelli. Uno di quei coltelli giaceva sul pavimento, dove lei l'aveva lasciato cadere. Accanto al coltello, un rotolo di stoffa: il vestito che aveva tagliato in due. Fu in quel momento, guardando quel vestito rovinato, che divenne consapevole di tutto il resto. In qualche modo, prima aveva guardato come in trance, non aveva notato le singole cose, come se la loro incongruità le avesse fatte diventare invisibili. O forse non aveva voluto vedere. Vedere gli altri vestiti strappati e sparsi senz'ordine attraverso la cucina, simili a folli disegni ornamentali di cui il pavimento s'era ricoperto. Vedere un vaso rotto, scheggiato, contro il legno scuro del contrachorda. Vedere i cuscini sventrati e privi dei ricami di uccelli d'oro. Uno dei sostegni flessi-
bili del letto era stato divelto, e questo particolare dava un'aria ancor più melodrammatica all'intera scena. Mentre lei giaceva priva di conoscenza, Claudio era tornato, aveva preso a sua volta quel coltello che le era servito per tagliare l'abito, e aveva devastato tutto quanto. Magdala ripensò alla notte in cui, a Sugar Beach, lui aveva setacciato la sua stanza alla ricerca del microregistratore... la coperta del letto fatta a pezzi, le sedie e le poltrone sventrate. E ricordò quando l'aveva tenuta sospesa sul davanzale della finestra, a sessanta metri d'altezza sulla spiaggia, quella stessa notte. Era pazzo; e lei l'aveva saputo fin quasi dal principio. Ma perché tutto questo, perché quel panorama di distruzione del bungalow, che sembrava esser stato ispirato da lei, dall'azione isolata (ma anche folle?) che lei stessa aveva compiuto infierendo su un vestito con quel coltello. Dividilo con me, aveva detto. Il mio odio per Christophine. Capì all'improvviso, e, nel momento in cui capiva, un'ultima conferma venne dalla notte e dalla foresta elettrica. Ci fu il rumore soffice di un'automobile, poi il rumore si spense. Ci fu una breve pausa. Giù nel garage, dove Claudio aveva lasciato l'ascensore quand'era uscito di casa, le porte si aprirono con un sibilo quasi impercettibile. Tanto lieve che avrebbe potuto esser frutto della sua immaginazione. Ma non era immaginazione il rumore dell'auto che entrava, o quello dello sportello che sbatteva. Né il suono dell'ascensore che saliva nel bungalow Né il ticchettio dei passi di Christophine. III Era il colmo dell'incubo. Stare distesa a terra, il corpo e il viso premuti contro un denso nulla trasparente. Ed ecco là la realtà: essere presa in trappola, irrimediabilamente presa in trappola. Ancora nascosta. Non vista, non conosciuta. Ma raggiungibile, vulnerabile. Raggiungibile in cinque secondi con l'ascensore. E nessun posto in cui nascondersi. Nessuna possibilità di fuggire. E ipnotizzata. Paralizzata dalla paura. Guardare in uno specchio. L'immagine nello specchio assume vita propria. Esce dallo specchio. Vive. Laggiù, nella vasca cristallina, il magnifico pesce nuota nel suo mondo,
pensando di essere unico. Magdala ansimava, stesa su quel solido trasparente nulla. Strinse le mani sul nulla. Era consapevole soprattutto del vestito di lana di Christophine, delle sue scarpe, della sua biancheria, insomma delle cose di Christophine che lei stessa indossava. E sul suo capo, quella cascata di seta nerobluastra che erano i capelli di Christophine. E sotto le palpebre, gli occhi di Christophine. Christophine del Jan, appena entrata nel bungalow, si era fermata di colpo. Vista dall'alto, faceva uno strano effetto; ma era lei, Christophine, riconoscibilissima fin dall'attimo in cui la sua figura si era stagliata sull'uscio dell'ascensore. La brusca pausa dimostrava come ella avesse immediatamente notato la distruzione avvenuta nella stanza. Poi riprese a muoversi; i suoi gesti e la sua espressione non mostravano paura; e nemmeno sorpresa. Andò direttamente verso la cucina, col suo passo agile e aggraziato, calpestando i cuscini sventrati ed aggirando i cocci del vaso rotto. La testa nero-blu si sporse oltre la porta della cucina, si girò da una parte all'altra poi si ritrasse. L'esame seguente fu riservato alla stanza da bagno. Christophine stava cercando l'intruso. ... le ho spedito un fonogramma. Claudio... è a Saint Azoro. Probabilmente era andata a cercarlo, come aveva previsto lui. Non avendolo trovato, era tornata indietro. Ed ora, avrebbe detto che quella era stata opera di Claudio? Claudio, il solo nemico in grado di fare irruzione nel bungalow eludendo la guardia della serratura ad impronte e di lasciare nella casa il suo marchio di distruzione, scomparendo poi come fumo... perché era scomparso. La donna aveva già cercato in cucina e nel bagno. Aveva cercato dappertutto, ed ora si fermò per un attimo, pensierosa. Il suo corpo non si mosse. Il suo sguardo non corse verso l'alto. Ma doveva aver pensato alla serra. Magdala non l'aveva ancora vista in faccia. La struttura del corpo le dava i brividi, ma la faccia... la faccia era l'ultimo terribile frammento dell'incubo. Finché Christophine non alzava la testa, Magdala poteva illudersi. Poteva immaginare, se voleva, che la donna che si aggirava là sotto avesse la faccia di chiunque altra. Christophine cominciò a camminare, adagio, con aria meditativa, verso l'ascensore. Entrò nella cabina, fuori di vista.
Magdala aspettò di sentire il sibilo sommesso dell'ascensore che saliva. Non riusciva, tuttavia, a muoversi dal pavimento della serra. Muoversi per andar dove, poi? Non poteva certo uscire. E nascondersi dove? Non credeva che le piante l'avrebbero protetta. Erano le piante di Christophine. Rimase distesa, incollata al pavimento trasparente, che si era asciugato dopo la pioggia fuori programma, distesa come uno scendiletto che aspettasse di essere calpestato da Christophine. Se Magdala l'avesse colta di sorpresa, si fosse mossa per prima, le avesse sbattuto la testa sul pavimento saltandole alle spalle... Christophine avrebbe potuto morire prima di vederla. O Indigo avrebbe potuto uscire dalla sua orbita, il che aveva le stesse probabilità di verificarsi. Troppo tardi. Christophine restava l'originale. L'alfa. E lei, Magdala, la copia, il «doppio». Alfa e Omega. Il sibilo dell'ascensore in salita non venne. Invece, Christophine riapparve nella sala di sotto. Questa volta portava con sé una valigia da viaggio, che appoggiò presso il guardaroba aperto accanto al letto. Con movimenti lenti e sicuri, cominciò a tirar fuori dalla valigia i suoi vestiti, infilandoli nel guardaroba, come se gli altri vestiti, quelli stagliuzzati, e i cuscini fatti a pezzi e i vasi rotti, non esistessero. Finì di vuotare la valigia, allineando nel guardaroba i vari capi man mano che li estraeva, poi si diresse verso la cucina. Premette un tasto e un mobiletto si aprì mettendo allo scoperto una fila di bottiglie di liquori. Si preparò un cocktail. Bevve, ma non abbastanza secondo la valutazione di Magdala, che per un attimo aveva sperato che Christophine si ubriacasse dimenticando il vestito che teneva in mano — un abito lungo di velluto — che non era uno dei suoi. Era uno dei vestiti che Claudio aveva portato per Magdala; Christophine lo aveva preso poco prima dal guardaroba, soppesandolo e guardandolo con attenzione. Il cocktail era simile ad una di quelle bevande che piacevano a Claudio, aveva un colore azzurrino e prezioso stranamente somigliante alla trasparenza azzurra dello splendido vaso rotto accanto al contrachorda. Poi, con un gesto improvviso e noncurante, Christophine scagliò il bicchiere vuoto contro la parete-finestra, mandandolo a fantumarsi in mille pezzi che si aggiunsero a quelli del vaso. Quel gesto era stato un messaggio, forse diretto a Claudio o a chiunque si fosse intrufolato nella casa: tu hai distrutto quindi anch'io posso distruggere, diceva quel messaggio. Un brivido corse lungo la spina dorsale non-umana di Magdala: il messaggio era chiaro, ed era diretto a lei.
Ancora stesa sul pavimento della serra, gettò un'occhiata a Christophine che si avvicinava al contrachorda e cominciava a premere i tasti e a saggiarne le corde. Lontane, come capane sospese sopra il mondo, le note dello strumento nacquero, si fusero, morirono nacquero di nuovo, Christophine si era seduta davanti al contrachorda ed aveva cominciato a suonare. Per uno strano caso, suonava qualcosa che Magdala conosceva. Le «Variazioni su un tema di Prokofiev» di Sadrés salirono dal pavimento come fili d'argento e tenui verghe cristalline. Si stesero nella serra, quelle note, si stesero dentro e fuori del corpo di Magdala. Le piante parvero tremare, come trapassate da invisibili aghi che lasciavano magicamente intatte le foglie. L'eco di una nota alta si ripercosse da una pareta all'altra, si moltiplicò, divenne una rete di note, e Magdala, farfalla presa in quella rete, anziché restarne paralizzata sentì l'impulso impellente di alzarsi in piedi, di muoversi. Raggiunse il pannello accanto all'ascensore, come in trance, e premette il quarto tasto. Christophine stava suonando, le spalle rivolte all'ascensore. Aspettava Claudio. Aveva scelto quella musica per Claudio. Magdala entrò nell'ascensore e scese. Cinque secondi dopo, fu all'interno della stanza ottagonale. In alto, il cielo era una piastra di cobalto opaco visto attraverso il doppio schermo trasparente del pavimento e del soffitto della serra; un cielo con grandi piante sospese al sotto delle stelle. In quello spazio aperto, Christophine, seduta al contrachorda, girata verso la parete-finestra, suonava ancora. Poi parlò in mezzo al pulsare ritmico delle note. «Contavi di farmi venire un collasso? Non sono facile ai collassi, mio caro. Dovresti saperlo. Ho risposto al fonogramma perché volevo farlo, ma non ho mai davvero creduto di poterti trovare in quel modo. Doveva succedere qualcosa di simile... una cosa infantile, sai, con l'astuzia e l'inventiva tipiche di un bambino piccolo. Ammetterò che mi hai preso di sorpresa su un punto: su come hai fatto ad attraversare i posti di controllo e tutti i miei sistemi di difesa senza un'impronta da mostrare e una voce da far sentire. Qualche nuovo aggeggio? Sei sempre così sorprendente, con tutti gli aggeggi che inventi. Ma sì, sei stato piuttosto sorprendente. Hai tutto fra le mani. Ma, davvero, Claudio, non puoi aspettarti di avere anche me fra le
mani.» Christophine si alzò, immergendosi nella tenue luce notturna, stagliandosi contro la finestra, ombra sulle ombre, e si voltò a guardare la soglia della cabina dell'ascensore. Magdala rimase immobile, come pietrificata, sentendo già l'attacco nella frazione di secondo prima che avvenisse, preparandosi già a ciò che doveva fronteggiare. La verità non fu così tremenda come si era aspettata. Non fece nulla, non disse nulla. Era come andare ad un appuntamento con se stessa, ed ogni altra cosa sembrava slittare via. Si era come trasformata in una statua di ghiaccio. Un urto, e avrebbe potuto rompersi, come il suo bicchiere. Gli iridescenti occhi di neon blu non mandarono lampi: un lampo li avrebbe spezzati e schegge di zaffiro scuro avrebbero perforato il pavimento. Sono io quella vera, pensò Magdala, ma quel pensiero le diede i brividi. Poi Christophine si mosse e sbatté gli occhi. E non si ruppe. Non sei un ologramma. Posso capirlo. Devi essere una cosa reale. L'articolo genuino. Dove è scritto? Stampato fra le tue costole? Dove è scritto: Claudio Loro mi ha costruita? Magdala sentì svanire la consapevolezza della sua identità. Svanì ogni cosa. Svanì il mondo. Tutto ciò che rimase fu Christophine. Capitolo Sesto: La notte nella foresta I «E lui dov'è?» Magdala non rispose. Christophine si era ripesa in fretta. Con calma, precisò: «Mi riferisco a Claudio. Dov'è Claudio?» «Da qualche parte dell'isola.» «Potresti esssere più precisa.» «Non posso.» Non che Magdala non volesse dirlo; non si sarebbe fatta scrupolo di tradire quell'uomo che odiava: era che non poteva dirlo, perché, anche in questo, lui aveva fatto conto sulla sua ignoranza. Non sapeva dove fosse. Ma la risposta non fece desistere quella donna che odiava. Odia Christophine. La odiava? Magdala cominciava a rendersi conto che
il suo viso aveva mutato l'espressione fredda e ordinata di Christophine... mentre i gesti di Christophine si comunicavano di riflesso alle sue spalle, alle sue mani, all'intero suo corpo. Non riusciva a distogliere lo sguardo da Christophine. Christophine dominava tutta la sua visuale. Cancellava il resto. L'angolatura del capo, la posizione delle spalle, i movimenti delle mani. Il collo bianco, spolverato di lentiggini, i capelli, le iridi blu. Copiarla era inevitabile. Era uno specchio. Era lei stessa. Ora poteva vedere quanto fosse vero. «E il tuo corpo originale,» disse casualmente Christophine; e lo disse apposta, con la stessa voce di Magdala, «dov'è?» Era difficile credere che vi fosse un altro corpo. Difficile pensarci. Era sempre stato difficile. «Con Claudio,» rispose. Non la sconvolgeva veramente, adesso. Era come se le avessero chiesto dove aveva messo la borsa, o la giacca, o qualcunque altro oggetto di sua proprietà. «Capisco. Un ostaggio. Non si fida completamente di te, dunque. Perché non si fida?» Magdala restò in silenzio, osservando attentamente Christophine. Osservando come le onde dei capelli le si posavano sulle spalle, richiamando, alla mente, onda per onda, un mare notturno. «Sì,» disse Christophine. Il suo tono era aspro. «È una cosa affascinante, vero? Uno potrebbe sentirsi minacciato, ma in qualche modo non lo è. Sublimazione, forse? Niente paura. È strano. Claudio sapeva che avrebbe potuto succedere, e si difende in questo modo. Ma è un modo sleale. Dimmi. Perché sei d'accordo?» «D'accordo?». Deliberatamente Magdala ripeté l'ultima parola pronunciata da Christophine, nello stesso momento in cui Christophine la pronunciava. Le due voci sembrarono sovrapporsi. La stessa voce, raddoppiata di volume. «D'accordo di gettar via la tua identità e prendere la mia. Denaro?» «Denaro? No.» Ancora una volta Magdala scagliava le parole direttamente contro le ultime parole di Christophine. Un effetto di eco. Era quell'effetto che rendeva piacevole quello strano dibattito? «Non farlo,» disse Christophine. «Non fare che cosa?» «Quello che stai facendo. Allungare le mie frasi volutamente e ripeterne le parole. Probabilmente lo fai senza accorgertene, in modo istintivo, ma Claudio ci si diverte. Sospetto che Claudio abbia reinventato il complesso
di Narciso a mio beneficio. Sì, potrebbe aver senso. Potrebbe credermi capace di ciò. Non conosci 'Narciso'? Un mito terrestre-europeo. Un ragazzo eccezionalmente bello si vide riflesso in un laghetto. Si stese sulla riva del lago e contemplò il riflesso, incapace di distoglierne lo sguardo. Non ne distolse mai più lo sguardo. Generalmente interpretato come un'allegoria d'amore omosessuale, o una spiegazione volgarizzata di egocentrismo. Perché sto parlando tanto? Naturale. Mi sembra di conoscerti. Ti conosco. Ma non hai risposto alla mia domanda. Mi fermo prima che tu dica 'quale domanda?' . Non ripetermi ancora.» Magdala disse: «La ricordo, la domanda.» Improvvisamente, Christophine le andò incontro. Magdala si accorse di avere automaticamente copiato anche quell'azione: stava andando incontro a Christophine. Quando arrivarono a circa mezzo metro di distanza l'una dall'altra, Christophine si fermò; ed anche Magdala si fermò. Senza preavviso e senza commenti, Christophine colpì Magdala su una guancia; uno schiaffo forte, calcolato. (Claudio l'aveva schiaffeggiata.) «Questo è perché continui ad imitarmi,» disse Christophine; ma la sua faccia era inespressiva. «Non riesco a trovare un sistema per convincerti. Non mi interessa molto, in realtà. Lui era bello, lui era ricco. Una cosa o l'altra, o entrambe, fai tu. Ma ti ha spiegato perché?» Questa volta, Magdala tacque, come l'altra le aveva chiesto di fare, con la guancia che le bruciava per lo schiaffo. «Per odio,» disse dopo un po'. «E per quale motivo?» «Non me l'ha mai detto.» «Allora te lo dirò io.» Christophine le diede una spinta. Magdala barcollò all'indietro, e cadde finendo sul letto sospeso semicrollato. (Strano, Christophine non aveva fatto commenti sulla stanza devastata, sui vestiti tagliati e stracciati, relegandoli probabilmente fra le ovvie manifestazioni dell'odio di Claudio, e relegando Magdala al ruolo di robot di Claudio.) Christophine rimase in piedi. Il suo comportamento era calmo e in un certo senso ammirevole. Aveva spiegato una fondamentale differenza di atteggiamenti fra loro due, per cancellare la suggestione della loro somiglianza totale. Seguirono altre spiegazoni. Ma prima, Chistophine si mosse per un po' in silenzio. Prese una lunga sigaretta azzurra da una scatola posta accanto ai bicchieri da cocktail. Con gesti lenti, misurati, chiuse la sca-
tola, si portò la sigaretta alle labbra e l'accese. Mentre parlava, fumando la sigaretta con rapide boccate nervose, senza inalare il fumo, camminava su e giù per la stanza col passo lungo e morbido di una tigre. «Io e Claudio,» disse, e le sue parole sembravano disegnarsi nell'aria, concrete, visibili fra le volute di fumo argenteo, «siamo stati favoriti dalla sorte, fin dall'inizio delle nostre vite. Tutti e due. Siamo nati belli e ricchi. Avevamo tutto, capisci. Compresa l'intelligenza. Tutto. Saremmo stati una coppia perfetta, non solo rientrante nel normale standard degli esami preconcezionali. I nostri figli, se ne avessimo messi al mondo, avrebbero avuto una bellezza eccezionale e un cervello eccezionale. Chi si sarebbe sottratto davanti a una simile prospettiva? Claudio si sottrasse. Lui aveva sviluppato un'altra qualità, non proprio positiva: l'eccentricità. Eccentricità che forse era un inizio di follia. Ti piacerebbe sapere dove ci siamo incontrati? Sì? Ti piacerebbe saperlo, naturalmente. Ci siamo incontrati qui, a Marina Azzurra, vale a dire proprio dove ebbe l'inizio l'intero progetto C.T. Prova ad immaginarci. Due persone piene di talento in un'isola squallida e monocolore. Fu un incontro simile ad uno choc. Un'attrazione magnetica. Lascia che ti sveli i segreti di quel misterioso genio che si chiama Claudio Loro. È così ricco che non ha mai avuto alcuna necessità di lavorare. La scienza era... è... il suo passatempo. Il motivo per cui è diventato uno scienziato è stato uno soltanto: tener lontana la noia. Quando ci siamo incontrati, era molto più ricco di me. Questo mi andava bene. Avrebbe potuto essere gentile e generoso con me. Avrebbe potuto darmi molte cose. Poi si convinse di avere non soltanto molto denaro ma anche poco cervello. Puoi accettare un discorso simile? No. No, certo. Come potresti? Claudio è la creatura più brillante, più dinamica, più interessante che tu abbia mai incontrato. Lo era anche per me. Mi ci vollero due anni al progetto C.T. con Claudio, due anni a far l'amore con lui e due anni a combattere con lui, per capirlo. Il bel Claudio odia tutto ciò che gli è superiore. Finché lui è appena un po' più ricco, un po' più bello, un po' più intelligente, ti amerà. Mi odia. Lo so e lo accetto. È logico. Sono troppo intelligente per lui. «Ho accennato al Progetto C.T. Le lettere significano Consciousness Transferal, trasferimento di consapevolezza... ciò che Claudio ha ottenuto con te. Ciò che L'Unità Due ha cercato disperatamente di ottenere per dieci anni. Ciò che io personalmente sto cercando di fare da tre anni. Claudio ti ha coinvolto in questo, ti ha fatto entrare all'Unità Due? Penso di sì. Allora
avrai visto il pasticcio che è successo. Emilion... sì, vedo dalla tua faccia che lo sai. Emilion è morto, no? Non voglio perdere tempo in commenti. È un altro gradino nella lunga scala di tentativi e di insuccessi. Dal che puoi dedurre che abbiamo fallito. Non abbiamo scusanti. Fin dall'inizio delle nostre ricerche e dei nostri esperimenti, abbiamo avuto il pieno appoggio del Concilio dei Mondi. Naturalmente, i vantaggi presentati dal trasferimento di consapevolezza sono abbastanza evidenti perché il Concilio non avesse altra scelta che quella di sostenerci. Alcuni dei pianeti che non fanno parte del Concilio dei Mondi, d'altronde, avrebbero potuto interessarsi alle nostre ricerche e finanziarci. All'inizio, il progetto C.T. sembrava avere tutte le probabilità di andare in porto. Cinque anni: ecco il tempo che si stimava necessario per pervenire ad un risultato definitivo. E questo risultato era urgente. Non c'erano problemi per quanto riguardava i terminal del calcolatore, le attrezzature tecniche e le strutture mediche. Il problema del rigetto era un'altra cosa. Il fattore-rigetto non è mai stato adeguatamente risolto. La chirurgia plastica e l'altra scienza ad essa connessa, la bionica, poi, tendono a degenerare. Perfino i successi che abbiamo ottenuto non sono andati al di là di quelli ottenibili in un normale routine ospedaliera. Non rimpiazzi meccanici che possono costituire un essere umano completamente normale. Il trasferimento attuato col nostro progetto potrebbe risolvere tutti questi problemi. Qualsiasi cervello intero potrebbe essere salvato indipendentemente dalle condizioni fisiche del corpo in cui vive. Non sarebbe più necessario alcun intervento chirurgico, alcun ricovero ospedaliero, alcuna cura medico-plastica. L'unico fattore limitante sarebbe il doversi prendere cura della capsule. Per tutto il resto, chi avesse beneficiato del Trasferimento sarebbe libero ed in condizioni fisiche migliori di quelle di ogni altro soggetto. Bene, vuoi sapere che ne ha fatto Claudio di tutto ciò? L'ha usato solo per se stesso, per i propri scopi personali. Ha usato l'idea della Unità Due per soddisfare le sue passioni teatrali. Proprio come sta usando te. E come vorrebbe usare me. No, anzi, come ha usato anche me.» II Christophine smise di parlare e di passeggiare per la stanza. Si fermò davanti alla finestra rivolta a nord-est. Sembrava rivolgersi solo alle linee perpendicolari della foresta. «Una notte,» disse agli alberi oltre la finestra, «io e Claudio stavamo lavorando, soli, nel laboratorio del computer, qui a Marina Azzurra. Era cir-
ca mezzanotte. Non eravamo ancora amanti, noi due, soltanto colleghi di lavoro. Una certa equazione fu risolta dal computer; apparve sul quadrante del terminal, quel risultato, alle ventiquattro in punto. E cominciarono a uscire altri risultati sorprendenti. Stavamo là in quella stanza dalle pareti bianche, bevendo caffè da contenitori di plastica, senza parlare, aspettando. E alla fine il computer diede la risposta. Il computer è Dio. Puoi avvicinarti a lui ma non eguagliarlo. Dio ha l'ultima parola. Quella volta, l'ultima parola fu quella per cui l'Unità Due aveva pregato. Era l'equazione definitiva, la parte finale del procedimento, quello di cui avevamo bisogno perché il Trasferimento fosse raggiunto. Capisci, vero? Non ti sto dando i particolari tecnici, dati che non potresti decifrare. Cerca di seguirmi. È importante. Voglio che tu sappia, Narcisa, in quale rete ti sei impigliata. «Il risultato era del computer. Ma la formulazione delle domande e delle prime equazioni, i dati qualificanti che avevano prodotto quel risultato, erano miei. Non di Claudio. Miei. Puoi immaginare che cosa significava questo, per Claudio? Dovresti conoscerlo, in un certo senso. Dovresti sapere bene che tutto deve procedere secondo l'ordine che Claudio ha stabilito. «Claudio ti è mai sembrato squilibrato? Addirittura pazzo? Quella notte, lo era.» Christophine distolse lo sguardo dalla finestra e si voltò, con gli occhi fissi su Magdala. «Claudio si avvicinò al terminal del computer. Strappò il nastro perforato e se lo nascose sotto la giacca. Intanto, si era messo in modo da togliermi la visuale del terminal. Poi, si spostò al fianco del computer stesso e fece qualcosa attorno al pannello. Non so che cosa. Claudio sapeva far di tutto sulle macchine, le conosceva perfettamente. Non c'era una sola macchina in tutti gli edifici del complesso che lui non fosse in grado di aggiungere o di manomettere. E quella volta manomise il computer. C'è un tasto che serve per cancellare i dati relativi agli esperimenti superflui, ma il computer analizza preventivamente qualsiasi cosa da cancellare e, nell'eventualità di un errore, non cancella ma trattiene il relativo materiale. Claudio in qualche modo alterò questo sistema di analisi. Spinse il computer in una posizione da cui avrebbe cancellato, senza preventiva analisi, non solo il risultato dei dati ma i dati stessi. Quando Claudio premette quel tasto, entrò in funzione la cancellazione automatica, per ogni cosa. Mesi e mesi di calcoli, di prove e riprove. Le risposte. E Claudio si portò via, sotto la giacca, il nastro perforato che conteneva la risposta e che ormai era rimasto l'unica copia esistente. Rise e disse: «Credi che lo inghiottirò, questo na-
stro?» Puoi provare a immaginartelo, mentre lo diceva. Proprio allora uno dei fili che uscivano dal pannello del terminal si ruppe. La manomissione operata da Claudio aveva avuto un esito drammatico. Sono sicura che si sia divertito, vedersi scintille e fumo tutto attorno come Lucifero. Io corsi verso il terminal e premetti il tasto dell'allarme in caso di emergenza, e in venti secondi la maggior parte delle scintille si spense. Intanto, Claudio se n'era andato. Pensai che si fosse trattato di un altro dei suoi folli giochi, ma non era così. Non era un gioco. Lui uscì dall'Unità Due, uscì da Marina Azzurra. Se ne andò con un idrojet che aveva riprogrammato lui stesso per dirigerlo verso chissà quale destinazione. Nessuno dei sistemi di sicurezza dell'isola lo fermò: sono macchine anche loro. Ci sono due cose che non fermeranno mai Claudio... le macchine e la coscienza. L'idrojet tornò indietro, ma Claudio no. Non aveva portato nulla con sé... vestiti, libri rari della Terra, quadri... tutte le sue cose erano rimaste nel suo appartamento alla Stazione di Ricerca. Prese solo la macchina, e il nastro perforato del calcolatore.» Chistophine infilò un'altra sigaretta in un accendino di bronzo posto alla finestra. La sua faccia sembrava nuotare nel buio che le si addensava alle spalle; il suo sguardo era freddo e controllato, tanto controllato da avere qualcosa di inumano. «Non rivelai quello che aveva fatto,» disse, senza enfasi. «Puoi crederci? Sì, certo che puoi. Correre fuori dall'area dei laboratori era abbastanza pericoloso per lui. Se avessero saputo che nascosta sotto la giacca aveva la chiave del Progetto C.T., lo avrebbero fermato a qualunque costo. Così, io non dissi niente. Pensarono che il computer avesse funzionato male per un fatalità. Non dissi quale risultato era uscito prima. Con tutti quei dati persi, nessuno si meravigliò della diserzione di Claudio, o del fatto che il Progetto stesso si fosse ritrovato al punto in cui era cinque mesi prima.» «Pensavo,» continuò Christophine, «che avrebbe usato quello che io avevo scoperto, i miei risultati. Mi aspettavo che la notizia del suo successo nel Progetto esplodesse da un momento all'altro. Diffusa da qualcuno dei pianeti che non fanno parte del Concilio dei Mondi, forse, o da Claudio stesso. Ma è passato un mucchio di tempo senza che si sapesse più nulla di lui. Tre anni. Pensai che potesse esser morto. Poi il fonogramma da Saint Azoro. E poi... poi, te. Vorrei sapere,» commentò Christophine, «che cosa intende fare, comportandosi in questo modo. Di sicuro, vuole farmi paura, impedirmi di fermarlo in qualche modo. Non sono più riuscita a riprodurre quella prima serie di dati che lui aveva distrutto. Erano stati il frutto di una
di quelle ispirazioni improvvise che a Claudio non vengono mai. D'altronde, ormai debbo continuare nel sotterfugio messo in piedi quella notte, continuare a sostenere che allora non abbiamo ottenuto una risposta dal computer; era ciò che avevo detto sul primo momento, per proteggerlo, per impedire che il governo del Concilio dei Mondi scatenasse contro di lui una specie di caccia alle streghe. Da parte mia fu una pazzia, suppongo. Proprio quello che lui voleva che facessi. È questo che sta cercando di dirmi, mandandomi te? Come può essere sicuro dell'esito del nostro incontro? Potrebbe osservarci, usando il tuo ex-corpo come una sorta di comunicatore naturale, oppure usando il tuo attuale corpo. Mio Dio, con la tua struttura interna di androide, potresti essere una televisione che cammina, una cinepresa ambulante. Ma no, non lo credo. Meccanismi di quel livello avrebbero attivato l'allarme in tutta la Stazione. Potrei pensare che il tuo corpo contenga qualche semplice apparecchietto per controllare dove sei... niente di più.» Magdala nuotava nel mare di informazioni che Christophine aveva riversato su di lei. Le onde di quel mare si alzarono componendosi in una superficie solida, la descrizione di Claudio accanto al terminal del Computer, che si infilava sotto la giacca il nastro perforato contenente le informazioni essenziali; e l'idea che lei poteva esser stata costruita in modo da contenere strani meccanismi utili a Claudio. Sopra ogni altra cosa, c'era quella dualità, quell'identità d'aspetto che spartiva con Christophine. C'era anche il ricordo di domande che non avevano avuto risposta e di domande che non aveva formulato: per esempio, una domanda sull'uomo chiamato Paul Hovak, e su quale potesse essere il ruolo di quell'uomo nel quadro sfumato che le si presentava. Christophine si accorse della sua confusione. Disse, calma: «Qualunque altra differenza ci sia fra noi, Narcisa, penso che siamo d'accordo su un fatto: Claudio ha avuto il predominio. Ha preso il sopravvento su di noi. Su entrambe. Io e te, siamo quelle che si sono perdute nel bosco.» Nel caminetto, in non-fuoco divampava, di un color rosso ciliegia. Fuori, gli alberi erano un'apparizione indistinta. Un lieve vento soffiava attraverso la foresta elettrica. «Narcisa,» disse Christophine. Stava accendendo un'altra sigaretta e si stava preparando un altro cocktail. Non offrì niente a Magdala. «A proposito, come ti chiami?»
Magdala aprì la bocca per rispondere. La sua voce non volle uscire, come le era già accaduto in precedenza. «Di una cosa sono sicura,» disse Christophine, «e cioè del fatto che non puoi avere il mio stesso nome. Non puoi usarlo, il mio nome. Qualsiasi cosa ti abbia promesso Claudio. Forse dovrei chiamarti Claudia: la versione femminile del tuo costruttore, semplicemtnte.» «Magdala,» disse Magdala, riuscendo finalmente a ritrovare la voce. E il suono di quella voce, che era la voce di Christophine, la depresse ancora di più. «Bene, Magdala, hai deciso che cosa vuoi fare? Cercherai di fare felice Claudio danneggiandomi in qualche modo?» Magdala la guardava fisso. Nient'altro sembrava reale... il fuoco, la stanza; e la foresta non era reale. Solo Christophine. «Lui non pensava che saresti arrivata qui così in fretta,» disse. Stava cercando di capire, da quel che sapeva, come avesse fatto Claudio, per mezzo di qualche non specificabile e non usuale mezzo scientificomeccanico... un sistema per captare immediatamente le informazioni dai posti di controllo, forse? ... a sapere subito che Christophine era tornata. Cosa che fra l'altro gli aveva permesso di mettere a soqquadro il bungalow distruggendo i vestiti e l'arredamento come in un'ultima esibizione di malignità. Cosa che gli aveva permesso inoltre di abbandonare l'isola, e Magdala, lasciandosi alle spalle il caos. «Poteva immaginarlo, invece. Sapeva bene che difficilmente sarei stata via a lungo,» la corresse Christophine. «Ed ora lui è qui nell'isola, da qualche parte dell'isola, che aspetta; probabilmente spera che a causa della mia comparsa tu ti senta abbastanza in pericolo da attaccarmi e uccidermi. Ci hai pensato?» «No.» «No. Ci credo. Stranamente, nessuna di noi due sembra abbia voglia di duellare con l'altra. Questo, in fin dei conti, per me è vero. E per te?» «Uguale.» «Perché no? Noi siamo Armageddon l'una per l'altra, senza dubbio.» «Non so perché no.» «Che sia semplicemente perché odii Claudio un po' di più di quanto tu sia preparata ad odiare me?» Magdala chiuse gli occhi. Non riusciva a pensare finché l'immagine di Christophine le stava davanti. Dal deserto devastato che aveva dentro, e dal mare di notizie che l'aveva sommersa, tirò fuori un nome.
«Paul Hovak.» disse. «Che cosa?» Senza guardarla, Magdala fu conscia dell'improvviso allarme che quel nome aveva suscitato in Christophine. «Intendevo chiederti qualcosa su Paul Hovak.» «Perché?» Come aveva fatto prima Magdala, ora Christophine stava cominciando a ripetersi ed a rispondere a una domanda con un'altra domanda. Lo faceva apposta, o era una cosa istintiva da parte sua? «Claudio mi aveva portata in un albergo, sul continente. Paul Hovak era là. Claudio voleva screditarti agli occhi di Hovak, e io non sapevo chi fosse Hovak.» «Mio Dio,» disse Christophine. «Oh, mio Dio.» Magdala riaprì le palpebre lentamente, con cautela, come se si aspettasse di dover fronteggiare una forte luce. Christophine si era spostata un poco: ora era di profilo, sia il corpo che il viso, e dal bicchiere stretto spasmodicamente fra le mani che tremavano alcune gocce si riversarono sul pavimento. «Sì, capisco,» disse. Lasciò cadere il bicchiere e, camminando avanti e indietro, ad un certo punto lo calpestò, Magdala non capì se l'avesse fatto inavvertitamente o di proposito. Poi le venne vicina. Si chinò e la sollevò dal letto rotto sul quale era appoggiata, poi la spinse sul pavimento e si lasciò cadere accanto a lei, le fu quasi addosso, come se avesse voluto prenderla fra le braccia. Ecco, ed ora Christophine la stava abbracciando, come un amante, come Claudio, l'abbracciava, la premeva contro di sé, con gli occhi e la bocca a pochi centimetri dai suoi. «Hovak,» bisbigliò. I suoi occhi erano dolci, un po' annebbiati dall'alcool e dal fumo. L'odore della sua pelle e dei suoi capelli era l'odore della pelle e dei capelli di Magdala, nessuna differenza salvo che per il lieve accenno di profumo di legno di sandalo che emanava dalle mani di Christophine. «Debbo sapere tutto quello che è successo fra. te e Hovak.» Magdala guardò se stessa riflessa negli occhi di Christophine. Blu su blu, immagine su immagine, specchio su specchio. Christophine sbatté le palpebre, Magdala sbatté le palpebre. Si mise a parlare a Christophine di tutto quanto riguardava Paul Hovak. Per prima cosa, l'ologramma. Poi la scena sul molo di Sugar Beach, il riconoscimento da parte di entrambi e la negazione di conoscersi, l'intromissione di Irlin e la lite. Le raccontò di quando Paul Hovak era venuto a cer-
carla nell'appartamento dell'hotel, più tardi, di come aveva osservato attentamente ogni angolo dell'alloggio, del suo umore variabile che passava dal calore umano alla crudeltà e qualcosa di simile all'incertezza o alla paura. Ma mentre parlava di tutto questo, le sue stesse parole le sembravano solo irreali. Solo Christophine era reale, solo Christophine. Dopo un po', cadde il silenzio. Magdala aveva finito di raccontare quello che sapeva di Paul Hovak. «E Claudio,» mormorò Christophine. Aveva gli occhi quasi chiusi, e Magdala si accorse che anche lei stava chiudendo gli occhi. Come Christophine, ancora. «Claudio?» «Avrebbe voluto molto di più di questo. Molto di più che semplicemente screditarti agli occhi di Paul. Posso provarlo. Claudio sa che posso.» «Claudio ha registrato la nostra conversazione nell'appartamento,» bisbigliò Magdala. Giacendo così accanto a Christophine, contro Christophine, non sentiva né eccitazione né stanchezza né paura. Era quasi come se stesse per addormentarsi. Un delizioso, infinito oblio senza sogni... Le mani appoggiate sulle sue braccia l'attirarono e la strinsero. Hovak l'aveva stretta nello stesso modo. E Claudio. Adesso Christophine. Non pensò che Christophine volesse farle male. Ma, spontaneamente, anche lei allungò le mani e le strinse attorno al corpo dell'altra. A quel corpo che era la copia del suo, o di cui il suo era la copia. Sentì che Christophine si rilassava, sentì la paura di Christophine passare ed entrare in lei come per osmosi. «Perché ha registrato la vostra conversazione?» chiese Christophine. «Avrebbe potuto ascoltare attraverso il citofono, udire direttamente quello che Paul ti diceva. Perché registrare? Cristo! Io lo so, il perché. Magdala, Magdala.» La sua faccia era diventata bianca come una pietra levigata dal mare sulla spiaggia di Sugar Beach, le pallide lentiggini d'oro sembravano diventate scure e livide in quel bianco totale. Magdala sentì che anche lei stava sbiancando, che il sangue abbandonava a ondate il suo viso. «Ascolta,» disse Christophine, «ti piacerebbe uccidermi? A Claudio piacerebbe. Non gli è bastato quello che già mi ha fatto. Vuole le mie ossa. Ma tu? Che cosa vuoi fare, tu?» «Io... non voglio farti del male.» «No?» «No. No.» «Perché ora posso dirti qualcosa che ti aiuterebbe a crocifiggermi. Che
aiuterebbe Claudio a crocifiggermi. Ti piacerebbe?» «No, Christophine.» «Ascolta, allora. Fra me e Paul ci sono diversi punti di contatto. Abbiamo un piano: quello di vendere i dati del Progetto C.T. al di fuori del Concilio dei Mondi. Non è una cosa brutta come sembra a prima vista. Pensiamo che una volta che il Trasferimento sia attuabile, potrebbe essere utile per tutti i pianeti, non solo per quelli che fanno parte del Concilio; per esempio, vi sono pianeti che con le loro vaste zone vulcaniche attive hanno alte probabilità di incidenti mortali o quasi. Dobbiamo aspettare ad aiutare la gente senza la speranza di una salvezza definitiva semplicemente perché... ma no, niente politica. Hai capito quello che voglio dire.» Magdala annuì. Ma lo fece perché Christophine era un fuoco splendente sopra di lei, le sue fiamme ardevano e penetravano sotto la pelle consumandole il cuore e il cervello. «Ma,» disse Christophine, «se il Concilio dei Mondi sapesse che cosa intendiamo promuovere io e Paul, noi due saremmo finiti. Finiti in tutti i sensi. Claudio lo sa. Sai che cosa farà? Userà il disco su cui ha registrato la tua conversazione con Paul per produrre una voce simulata che qualsiasi macchina di controllo scambierà per la voce di Paul... non ci sono altri metodi per costruire una voce simulata. Ancora il genio, come vedi. Poi potrà mandare un segnale a Marina Azzurra, facendolo passare, con un altro dei suoi trucchi meccanici, per una chiamata originaria dal continente; naturalmente, usando per il segnale la voce simulata di Paul. E questa voce potrebbe dire cose che scoprirebbero il nostro piano. Che cosa manderà a dire? Qualcosa come: "Christophine del Jan ha fatto il doppio gioco con me. Ha già venduto il segreto del progetto C.T. fuori dall'area del Concilio, tagliandomi fuori dalle trattative. Quindi, per vendetta, ho deciso di denunciarla dicendovi tutto." Questo ci metterà entrambi nei guai. Io sarò arrestata. Le macchine di controllo rintracceranno Paul e anche lui sarà arrestato. Le nostre attività saranno rapidamente scoperte. Saremo spediti verso la Terra per comparire davanti a un Tribunale dei Traditori. Che Dio ci aiuti.» «Claudio non ha macchinari con sé,» disse Magdala. «Se è sull'isola, come può...» «Ha la sua grossa macchina, immagino... vero? Quella macchina contiene vari scompartimenti segreti. Là dentro ci sarebbe posto per tutto ciò di cui potrebbe aver bisogno. Non sottovalutarlo. Non ti ha detto nemmeno dove sarebbe andato. Se solo te l'avesse detto.»
Si abbracciarono in silenzio. Ma io lo so, dov'è, pensò Magdala all'improvviso. C'è un solo posto in cui andrebbe a nascondersi. Si divertì al pensiero che Christophine non fosse giunta alla stessa conclusione. Su quell'isola, tutta roccie e cemento, completamente spoglia se non fosse stato per gli ologrammi che ne ricoprivano la parte alta. Come mai Christophine non c'era arrivata? Poteva dare a Christophine questa indicazione su Claudio. Poteva? Perché no. Claudio era il nemico. Christophine era... era... «Christophine,» disse, «Claudio e la macchina. Sono sul lato nord dell'isola. In una delle grotte ai piedi della collina.» Christophine aveva aperto la valigia. Ne aveva tolto un vestito colorato che aveva teso a Magdala, una stoffa fantasia su fondo rosa. «Mettiti questo. Claudio ha molta memoria per i particolari, e ha visto che cosa c'era nel guardaroba. Devi avere addosso un vestito che lui non ha osservato. Uno che io possa aver portato con me. Così crederà che io sono qui.» Magdala si tolse il vestito bianco, per indossare al suo posto quello rosa fantasia. Christophine la guardava, ma quello sguardo non la innervosiva più. All'improvviso Christophine citò una frase, qualcosa di appropriato alla situazione, qualcosa di vagamente familiare, e la citazione sembrò alzare entrambe in una sfera diversa. Suonò come un ritratto splendido e immanente della loro condizione: «L'una era così simile all'altra, da non poterle distinguere se non per il nome.» Quando Magdala si fu rivestita (c'era una nota di profumo di legno di sandalo che impregnava la stoffa), Christophine si cambiò a sua volta, mettendosi l'abito bianco che apparteneva a Magdala; poi raccolse un soprabito, ancora intatto, ed era quello che completava il vestito che lei aveva tagliato in cucina in quell'impeto di rabbia verso le cose dell'altra e di odio verso l'altra; glielo tese osservando: «Sembra che ci stia bene. Sei d'accordo? Faceva parte di un completo di cui l'abito è fra quelli finiti in pezzi.» L'ho fatto a pezzi io, col coltello, pensò Magdala. Ma era folle e ridicolo pensare a quel particolare, proprio a quello. Poi Christophine le offrì un drink. Non fece commenti sul fatto che un
drink, nel caso di Magdala, sarebbe stato superfluo. Lo offrì per cortesia, come lo avrebbe offerto a una donna interamente umana. Bevvero insieme. E questo sigillò, senza parole, il loro patto. Sarebbe andato tutto bene. Sarebbero tornate insieme, lungo la strada metallica, al lato nord dell'isola. Le carte in tavola sarebbero state splendidamente mischiate. Lo scenario deserto di Claudio non sarebbe più stato deserto. I preparativi, lo scambio dei vestiti e il drink simbolico che suggellava l'accordo, avevano portato via solo pochi minuti. Tutta la sequenza, dall'istante in cui si erano incontrate, non era stata molto lunga. E adesso, era il momento di agire. Prima di uscire dal bungalow, Christophine chiamò l'Unità Due, utilizzando, come difesa contro le possibili mosse di Claudio, un codice cifrato. In breve tempo, sullo schermo visivo apparve l'immagine di Doramel. «Com'è andata con l'autopsia di Emilion? Val ha scoperto qualcosa?» «Niente al di fuori del normale, Miss del Jan. Mi dispiace.» «Lascia perdere. Qualche chiamata?» «No, Miss del Jan.» «Benissimo. Doramel. Buonanotte.» «Buonanotte, Miss del Jan,» disse Doramel prima che lo schermo si spegnesse. Christophine si allontanò dal pannello del videofono. Appoggiò con gentilezza una mano sulla spalla di Magdala. «Per quanto mi riguarda, siamo a posto. Claudio crede di poter continuare all'infinito a giocare al gatto col topo, ma non è vero. Posso impedirgli di fare quella chiamata, col tuo aiuto. Non mi abbandonerai?» «No.» «E in seguito...» disse Christophine, lasciando la frase in sospeso. Magdala disse, calma: «Hai me. Il primo successo del Trasferimento. Puoi studiare me, per imparare il segreto di Claudio.» «Non se lui ti portasse via.» «Come potrebbe farlo?» Magdala avrebbe voluto dire qualcos'altro. Avrebbe voluto dire ti amo. Non un amore sensuale. Nemmeno un amore, forse. Una sensazione speciale, segreta, meravigliosa, che la pervadeva. Ma non occorreva esprimerlo a parole. Lo dicevano già i suoi occhi, il suo corpo. Non aveva mai sperimentato nulla di simile prima di allora. Lei e Clau-
dio avevano fatto l'amore sempre con un totale predominio da parte di lui, e sempre con un'esaltazione soprattutto fisica. Ma ora era diverso, era toccarsi non con le mani ma coll'anima. Morirei per lei. E non potrei morire finché lei vive. Siamo indivisibili. Siamo una. In macchina, mentre si dirigevano alla costa settentrionale dell'isola, Christophine, senza parlare, le diede un delectro in miniatura. L'avorio era intarsiato accanto al tamburo. Era uguale al delectro col quale il ricco assassino s'era ucciso nel dramma della Tri-D che aveva visto a Sugar Beach. III Ad ogni ondata che assaliva la roccia, una ogni undici secondi, si sentiva un rumore simile a quello di una stoffa lacerata. Ad ogni notte che stendeva sulla scena il suo mantello scuro, da ogni roccia la spuma bianca delle onde si alzava simile a quarzo verde polverizzato. Il molo di cemento che congiungeva la base della collina al mare schioccante era viscido e lucente, a causa delle onde che lo avevano spazzato con forza nel tentativo di sommergere la terraferma. Ai piedi della collina, in una linea rivelata dal fluorescente metallo della strada, le nove caverne (ora avevano potuto contarle) si spalancavano come nove enormi bocche scure contratte in uno sbadiglio. Erano appena un po' troppo alte per essere invase dall'oceano che tentava di raggiungerle. E troppo basse per essere mascherate dalla foresta. Sembravano bocche di osceni mostri sotterranei che cercassero di inghiottire il mare. La donna si fermò a una decina di metri dalla strada e dall'automobile chiusa e vuota. Era proprio all'altezza del pendìo roccioso che portava alla quinta caverna, quella di mezzo. Il vento che veniva dal mare, onnipresente e pieno di salsedine, si infilava fra i suoi capelli, scompigliava la veste grigiorosa. Solo la chiusura a pressione del corto soprabito non dava retta al vento. Il soprabito restava chiuso, irremovibile. La donna rimase ferma in quel punto, ad osservare l'entrata della quinta caverna, per circa quaranta secondi. Aspettava l'attimo di silenzio che scendeva fra un'ondata e l'altra. Quando arrivò quel breve silenzio, la donna gridò: «Claudio! L'ho uccisa, Claudio!» Il suono di un'altra ondata che si infrangeva sulle rocce la interruppe e
fece eco al suo grido. Quando il silenzio tornò, dopo altri undici secondi, la donna gridò di nuovo: «L'ho uccisa. Ho ucciso Christophine.» Un'altra ondata. Altri undici secondi. Un altro silenzio. «Claudio! Mi sono messa un vestito di Christophine. Io...» L'ondata. Di nuovo il grido: «L'ho accoltellata, Claudio. Il sangue...» L'ondata. Undici secondi ancora. Ottantaquattro secondi in tutto, da quando lei aveva raggiunto quel punto sulla caverna. Riprese a gridare: «Il sangue, Claudio. Tutto sul mio vestito bianco.» L'ondata. Novantacinque secondi. Poi: «Così ho preso un vestito dalla sua valigia, Claudio. Vieni a vedere...» L'ondata. Centosei secondi. «Vieni fuori e guardami, Claudio! Ho ucciso Christophine!» Centodiciassette secondi. L'ondata. Claudio uscì dalla settima caverna, alla sua sinistra. Era tutto vestito di nero; pantaloni neri, camicia nera. Avrebbe potuto non vederlo, mimetizzato nel nero della notte, se non fosse stato per la pelle troppo bianca del viso e delle mani e per il biondo pallido dei capelli. Aveva un'espressione un po' ironica e un po' sconvolta, il che significava che la sua voce, gridando attraverso la notte e il mare, l'aveva spaventato e lo spavento doveva essere mascherato dall'ironia. Non rispose al suo richiamo. Non le si avvicinò. «Vieni qui,» lo chiamò lei in un ultimo grido. Le onde gridarono, si ritirarono in silenzio, gridarono di nuovo. Alla fine, sempre senza risponderle, lui cominciò ad avvicinarlesi camminando sulle rocce. Claudio. Era stato con entrambe, sia con Christophine sia con Magdala. Le aveva fatte girare entrambe al suo comando come marionette, ed aveva giocato con loro, servendosi di loro, senza curarsi del male che faceva loro. Ma lei non era animata dall'odio, come Christophine. Lei non odiava Claudio, non lo odiava più. E non rimpiangeva l'ondata d'odio che aveva provato contro di lui. L'indifferenza che provava ora poteva salvaguardarla meglio dell'odio. L'indifferenza l'aveva resa invulnerabile. Christophine l'aveva resa invulnerabile. Lui raggiunse il molo di cemento. Ora poteva vederlo meglio. Aveva le labbra strette, bianche come la faccia. Gli occhi con le pupille dilatate, erano neri come la camicia. Non era ancora abbastanza vicino. Come se so-
spettasse qualcosa, si fermò. «Hai ucciso Christophine,» disse. Lei infilò una mano sotto il soprabito e strinse fra la dita il delectro, accarezzò l'intarsio d'avorio e tolse la sicura all'arma. «In effetti, no.» Lui deglutì; poté vedere il movimento convulso della sua gola. Ma... «Ah,» disse, con voce dolce, melodiosa, come se cantasse, «Avrei dovuto prevederlo, tutto questo, vero?» Alla destra di Magdala, ad una decina di metri di distanza, si sentì il rumore dell'auto di Christophine che sbatteva lo sportello. Claudio non si voltò a guardare. Guardava soltanto Magdala. «Non lasciarla entrare nella caverna», le disse. Magdala atteggiò la bocca e gli occhi in un'espressione interrogativa. «Oh,» disse soltanto. «Non lasciarla entrare là. Glielo impedirei.» «Ne sono sicura.» «Cristo. Parli perfino come lei.» «Bene, posso, no? Era quello che volevi.» Lui fece due passi in avanti, e lei strinse l'impugnatura del delectro, ed estrasse l'arma, mostrandogliela. «Non hai mai usato una di quelle cose,» commentò lui. «No. Ma a questa distanza, è difficile sbagliare, non ti sembra?» «Magdala...» disse lui. Balbettava leggermente. «Magda, c'è una ragione... per cui lei non deve entrare nella caverna...» «Naturalmente c'è. La tua automobile è là. Con i macchinari nascosti in uno degli scompartimenti del telaio... lo scompartimento che non mi hai mai mostrato. E la voce simulata uguale a quella di Paul. Non hai ancora avuto occasione di usarla. Hai rinviato a domani in attesa di sistemare bene la scena in modo che facesse più effetto, che ci fosse più gente a sentirla. È stata una cosa stupida, Claudio. Tu sei stupido.» «Sì, se vuoi. Ogni cosa. Ma, Magdala, devi impedire a Christophine di raggiungere la caverna.» In quel momento, Christophine si mosse sulle rocce dietro al punto in cui si trovava Claudio. Magdala, che osservava intensamente l'uomo, ebbe appena la percezione del mantello bianco di Christophine che si spostava dietro di lui, la vide con la coda dell'occhio. Ma qualcosa nel mezzo delle sue emozioni, della sua vitalità, cantò, vibrò, scintillò. «È già qui?» chiese Claudio. «Dimmelo, Magdala...»
Il mantello bianco spiccava contro la bocca nera della settima caverna. «Sì,» disse Magdala. Lui annuì. All'improvviso si mosse verso di lei, la raggiunse, le prese il viso fra le mani. Il delectro premette contro di lui. Lui lo ignorò. Il suo tocco era come lo ricordava. Il suo bellissimo, magico tocco di stregone. Ma ciò non aveva più alcuna importanza. Sensualità, gioia, agonia... droghe mentali. Poteva metterla in subbuglio, ma non ipnotizzarla... non ora. «Non è la voce simulata di Paul che vuole,» disse Claudio sottovoce. «Vuole me e te, morti. Tu non potresti risolverti ad ucciderla, ma lei ti ucciderà impunemente.» «Oh, no,» disse Magdala. Sorrise. Teneva ancora stretta l'arma, puntata contro il corpo di lui, e si sentiva indifferente. «Sì, Magda. Sì, può farlo. Quale storia ti ha raccontato? Posso immaginarlo. Ma non dimenticare che cosa c'è nello scompartimento sul lato sinistro della macchina. La tua capsula. Pensi che non le interessi?» Prima che lui potesse rendersene conto, le mani di Claudio si staccarono dal suo viso e le afferrarono i polsi. Contemporaneamente, lui si piegò di lato, mentre cercava di strapparle il delectro dalle dita. E nello stesso istante, automaticamente, lei fece fuoco. Claudio emise un suono inarticolato, un solo lamento quasi disumano. La freccia di energia lo scagliò a terra, ma non molto lontano. Cadde rotolando sul cemento del molo. La sua mano sinistra pendeva floscia, con le ossa spezzate. Si lamentò ancora, e fu esattamente come prima. Un rumore non di voce umana ma come di legno stridente contro altro legno, si contorse, si raddrizzò, si contorse ancora, e la freccia di energia finalmente uscì dal suo corpo, smise di scorrere dentro di lui. Con la mano destra, cercò di afferrare l'arma caduta. La sfiorò, non riuscì a stringerla, gli sfuggì dalla mano e cadde dal molo nell'acqua del mare. Magdala si sentì in preda a un capogiro. Il mare, la collina, il molo, tutto si alzò in un arcobaleno ruotante per poi ricadere brutalmente. Aveva la nausea. Poi Christophine ricomparve sull'imboccatura della caverna. Ne emerse come un demone dall'inferno, muovendo un braccio. Sotto l'altro braccio teneva qualcosa che aveva tolto dalla macchina, un pannello di metallo con le luci morte e i fili spezzati. «Bene!» gridò attraverso la notte, attraverso il rumore delle onde, e Magdala la udì. «Bene, Magdala. È stata una mossa intelligente.» Christophi-
ne splendeva nel mantello bianco. Era una stella. Corse sotto le rocce. «Stai lì, fagli la guardia. Aspetta solo che metta in moto la macchina...» In qualche modo, Magdala l'aveva perduta. Già perduta. La vide correre verso la propria macchina portando il pannello meccanico, fermarsi dietro il cofano. Vide lo sportello della macchina che si chiudeva e udì il rombo del motore. La macchina di Christophine corse su per la strada di metallo e si inoltrò nella foresta. Magdala rimase là sola. Non era sorpresa. Vuota, naturalmente. Si sentiva vuota. Ogni volta che fra un'onda e l'altra tornava il silenzio, udiva il rantolo di Claudio come uno stridere di legno. Capì che lui stava cercando di trascinarsi lungo la scarpata rocciosa, di tornare nella caverna. Dal mare, venne un rumore di tuono. Si sentiva vuota. Vuota. IV Dopo qualche tempo, forse tre quarti d'ora, Magdala cominciò a scendere lungo la scarpata, seguendo Claudio. L'indifferenza che la aveva avvolta stava svanendo. Sentiva una curiosità opprimente, il desiderio di sapere che cosa gli aveva fatto, che cosa ne era stato di lui. Seguendo quel suono di legno, che ora le dava un brivido ghiacciato, quel suono di fantasmi che era il lamento e il rantolo di un essere umano, si spinse fino alla caverna e vi entrò, non vista. Era buio completo. E l'eco del mare nella caverna copriva qualsiasi altro suono potesse esservi. La caverna aveva un odore stagnante, un odore di oscurità. Nonostante una luce fievole, proveniente dal soffitto, bucasse quell'oscurità spingendo via un po' di buio. Ma soltanto un po'. Era la luce semispenta di un faro d'automobile. La macchina di Claudio era nella caverna, un animale marino, un grande pesce d'argento arenato dopo l'arretramento di una grande ondata. Entrando, poté discernere solo il muso del pesce-macchina. Non c'era traccia di Claudio, ma le due sezioni di sinistra della macchina, davanti e dietro, erano aperte, con gli sportelli alzati. Mentre aggirava il cofano per allinearsi agli sportelli aperti, vide Claudio, silenzioso ora, crollato attraverso il sedile anteriore. La sua testa pendeva dal collo in una posizione innaturale, la stessa posizione in cui la mano maciullata pendeva dal
polso, come se anche il collo fosse rotto. Ma lui aprì gli occhi e la guardò. «Aspetta un momento,» le disse con voce atona. «Non che io pensi che tu non debba vedere quello che ha fatto. Sì, penso che tu te lo sia meritato. Ma non completamente, non ancora.» Lei esitò, contemplandolo con uno sguardo feroce. Non che avesse dimenticato il furto di Christophine, quello che la donna aveva preso dalla macchina, il pannello dalle luci spente che si era portata via sotto il braccio. Ma tutto ciò che riguardava Christophine, ora per Magdala si era ridotto ad una sola cosa: il vuoto. «Hai mandato giù la storia che ti ha propinato. Hai creduto che volesse il nastro con la voce simulata di Hovak,» disse Claudio, «Non hai capito che quello che ha preso da qui non aveva niente a che vedere con Paul o con qualsiasi nastro registrato? Te lo dirò io che cosa ha preso. Era il pannello inserito sul fianco della tua capsula. Era proprio quello, la cosa che cercava disperatamente di prendere. Il pannello porta la carica di energia durante il Trasferimento... ricordi? Non importa. Come ogni buon oggetto di meccanica, il pannello ha inserito un banco di dati memorizzati. Tutto ciò che deve fare ora, è inserirlo nel computer all'Unità Due, e il computer analizzerà i dati. In circa dieci ore, lei avrà la risposta per il Progetto C.T.. Sarà in grado di trasferire la consapevolezza di qualsiasi uomo o donna da lei scelto in qualsiasi corpo simulato da lei scelto, con una percentuale di successo del novantanove virgola nove per cento.» Claudio si spostò lentamente, mettendosi in una posizione più comoda, con la testa appoggiata contro lo schienale del sedile. «Sono stanco,» disse. «Non so se sia meglio spiegarti tutto prima, o lasciare che tu veda coi tuoi occhi e poi darti le spiegazioni. Qualunque cosa decida di fare, non c'è molto tempo per farla.» Fuori, il tuono ruppe la notte. Un lampo chiaro si stagliò contro il mare. «Accidenti a te,» mormorò Magdala. «Credi che io sia sempre pronta a fare tutto quello che dici?» Lui sbadigliò, e subito proruppe in un grido; poi, Magdala vide con orrore che si era messo a piangere. Le lacrime gli scendevano dagli occhi in due stretti rivoli. Lui non sembrava rendersene conto, ma per la ragazza quel pianto fu una scossa violenta. Terrorizzata, girò attorno alla macchina dirigendosi verso il lato aperto. L'intero vano nel telaio, tre comparti in tutto, era stato aperto e sollevato. La sua capsula di mantenimento fu la prima cosa che vide, e quasi vi cadde
sopra. Con le mani sul vetro, si fermò davanti al mostro drappeggiato nei suoi fili. Sembrava che non vi fosse nulla di rotto. Poi notò che i fili e i tubi che erano collegati al pannello laterale della capsula erano spezzati, e il pannello era stato asportato. Era quello, era davvero quello, ciò che si era portata via Christophine. E i fili rotti non riuscivano più a svolgere la loro funzione. E c'era qualcos'altro, nella capsula, qualcos'altro che non andava. Ebbe un capogiro. Sentì le ginocchia che le si piegavano. Riuscì a guardare dentro la capsula, e capì che cos'era quel qualcos'altro: c'era una siringa di plastica piena di una terzo di un fluido verdognolo. Forse aveva gridato. Non se n'era resa conto. Sentì la voce di Claudio che la chiamava da dentro la macchina. «Va tutto bene,» le disse lui. «È tossico, ma non può spargersi molto nel tuo sistema circolatorio perché io ho chiuso le valvole, prima che tu arrivassi. È stato un lavoro affrettato, da parte di Christophine. Avrebbe dovuto aspettare che facesse effetto. Ma, naturalmente, aveva altre cose importanti per la mente.» Magdala si era accasciata sulla capsula, appoggiata al vetro, sorretta dal vetro stesso. Ricollegò la nausea che l'aveva presa poco prima al taglio dei fili. Christophine. Christophine aveva avuto intenzione di ucciderla, dopotutto. Si riprese. Ricollegò alcuni fili vitali al pannello supplementare inserito nello scompartimento della macchina, percorsa da un tremito e con le mani sudate. Poi crollò di nuovo. E fu in quel momento, mentre ricadeva sulla propria capsula, che gettò uno sguardo dentro gli altri due compartimenti aperti nella fiancata della macchina. E la vide. Nello spazio accanto a quello che conteneva la sua capsula. La vide. Un'altra capsula. «Claudio,» mormorò. E non riuscì a dire altro. «Claudio, Claudio, Claudio.» Lui disse: «Hai visto. Adesso vieni qui.» «Claudio,» ripeté. Avrebbe voluto ridere, ma non trovò dentro di sé nessuna risata. Invece, sentì che anche lei stava piangendo, e socchiuse gli occhi sulle proprie lacrime, e gli obbedì. Le sue riserva di paura e di rabbia e di dolore si erano esaurite: Claudio aveva sperimentato il trasferimento anche su se stesso, e poi, nella macchina, assieme al suo corpo originale aveva messo il corpo originale di lei: due capsule, una accanto all'altra «È fantastico,» disse. «Possiamo piangere. Non trovi che sia fantastico, Magdala? Piangere come la gente vera. All'inizio, non sapevo che sarebbe
potuto accadere. Ma, Magdala, piangi sottovoce. Ascoltami. Ho guadagnato circa cinque minuti, non di più.» Le sue lacrime si erano asciugate. Sedette accanto a lui, con gli occhi fissi sul suo viso, l'attenzione concentrata sulla sua voce. Il mondo era crollato nei suoi occhi, nelle sue orecchie. Ci furono altri tuoni, altri lampi. Fuori, il caos infuriava. I lampi colpirono la foresta elettrica, ripetutamente. Mille colori si riflessero sulle ondate alte del mare, sgretolarono il muro nero della notte, danzarono fin dentro la caverna, dentro la macchina. Giallo, lilla, carminio; purpureo, turchese, verde. I fantasmi di antiche monete d'oro, di pesci dalle scaglie blu, di crepuscoli e di aurore, di fuochi, di sangue, di fiori e di bicchieri colmi d'arcobaleno, entravano e svanivano. «Non so che cosa ti ha raccontato Christophine,» disse Claudio, «ma adesso stai per sentire la verità. E questa versione ha il vantaggio che tu ne hai già vista la prova principale: la seconda capsula di mantenimento che hai scoperto, che è là accanto alla tua. La capsula che contiene me stesso, il me stesso che ero.» «Una volta, tre anni fa, quando io dirigevo il Progetto C.T. a Marina Azzurra, la bella Christophine mi fu assegnata come vice. Non ho dubbi sul fatto che lei odiasse essere alle mie dipendenze, ma era abbastanza intelligente da non mostrarmi quanto. Quello che mi mostrò fu il suo bel bungalow e il suo letto. Siamo stati sul punto di far andare in pezzi il Progetto C.T. Ecco cosa successe. Le prime due cavie per il Trasferimento saremmo stati io e Christophine, e per quello scopo erano state preparate le impronte dei codici genetici delle nostre strutture fisiche. Poi una notte Christophine mi proprose qualcosa che ci avrebbe procurato dei forti guadagni extra. Dubito che tu possa sapere qualcosa di politica planetaria, Magdala, ma cercherò di spiegarti le cose in termini comprensibili. La situazione è press'a poco questa. Il Concilio dei Mondi comprende cinquanta pianeti colonizzati dai terrestri. Dagli uomini, insomma. Fuori dal Concilio, c'è circa un centinaio di pianeti che hanno rotto i rapporti con la Terra formando una loro Federazione. C'è già una guerra commerciale, e quel che potrebbe succedere nessuno è in grado di prevederlo. La situazione è, come si suol dire, 'congelata': una situazione di stallo, insomma, ma un singolo vantaggio in qualsiasi campo può far pendere la bilancia da una parte o dall'altra. Il Trasferimento di Consapevolezza è, ovviamente, un forte vantaggio in campo medico. Ma presenta un altro interesse, che lo rende un punto-
chiave nell'area dello spionaggio interplanetario. Un esempio... una persona di estrema importanza in una delegazione commerciale può essere eliminata e rimpiazzata con un suo simulacro. Nessuno saprebbe distinguere il simulacro dall'originale. Perfino le impronte e la voce, le due cose che la chirurgia non può contraffare, identiche. E dentro il simulacro agirebbe l'essenza vitale di un sabotatore nemico. E i pianeti della Federazione, quando hanno saputo dalle loro spie del lavoro che si svolgeva qui attorno al Progetto C.T., hanno pensato bene di appropriarsene. Perciò, il topo chiamato Hovak ha preso contatto con Christophine, e le ha fatto balenare l'idea di vendere il Progetto C.T. al più alto offerente, con lui stesso come intermediario pagato. Ti chiedi perché Christa portò quel traditore da me? Perché doveva farlo. Perché se c'era qualcuno che stava per penetrare i segreti del Trasferimento, quel qualcuno ero io... non Christa, qualsiasi storia possa averti raccontato. «Scoprii il sistema per attuare il Trasferimento tre notti dopo. Ero solo all'Unità Due. Si trattava di una serie casuale di cui inserii il nastro perforato nel computer. La risposta arrivò in un minuto. Sessanta secondi. Era semplice. Perfino troppo semplice. «Non ho tempo per spiegarti quello che mi venne in mente in quel minuto, e nei dieci minuti che seguirono, Magda. Forse molte cose a cui durante le ricerche non avevo pensato mi balenarono davanti solo nel momento della risposta. No, forse non solo allora; ma prima cercavo di non pensarci. Ma per me...... le implicazioni, Magda, l'uso sbagliato della mia scoperta, il demone che potevo aver risvegliato. Non solo la sozzura delle solite reti di spionaggio. Gli individui decisi a comprare il segreto del Trasferimento, cercando di usarlo per i loro scopi privati... Potevo aver ragione o torto. Ero Dio in quel laboratorio, Magda. Per dieci lunghi minuti fui Dio. E mi comportai come un dio: presi da solo la mia decisione, ed annullai ciò che io stesso avevo creato. Distrussi il sistema automatico di analisi del computer e cancellai i dati. Cinque mesi di lavoro. I fonogrammi, le serie casuali. La risposta, il risultato. Tutto cancellato. Svanito. «Poi arrivò Christophine. «Aveva la faccia di chi sta per urlare, ma l'urlo non arrivò. Aveva avuto un presentimento, forse: aveva immaginato quello che avrei potuto fare. Ma non sapeva che l'avevo già fatto. Lo seppe solo quando entrò nel laboratorio. Con un attimo di ritardo, insomma. Non aveva bisogno di denaro, e non voleva il denaro. Era il potere che voleva. Voleva governare la galassia, Magda. Letteralmente. Non lo dico in senso allegorico. Voleva
muoverci tutti come marionette, coi fili raccolti nelle sue mani. Giocare con noi. Farci danzare e cantare e suonare come il contrachorda. E sembrava un angelo. Un angelo dai capelli nero-blu, Magda... «'Che cosa hai fatto?' chiese. Naturalmente, sapeva bene che cosa avevo fatto. Mi conosceva molto bene a quell'epoca. Ma io non riuscii a star zitto, Magda, ma nemmeno a dirle l'intera verità. La tentazione era troppo forte. Le spiegai, fin nei dettagli, come avessi distrutto tutti i dati in modo che nessun altro avrebbe più potuto usufruirne e batterci nelle nostre contrattazioni per la vendita del Progetto C.T. al di fuori del Concilio. C'erano un paio di nastri perforati sul tavolo accanto al terminal, serie casuali con calcoli privi di senso. Scherzi del computer, niente di più. Ma io le indicai. 'Quella è la risposta al C.T.' le dissi. E vidi la sua metamorfosi, Magda, la bella Christophine che si rivelava per quello che era in realtà. Prese il suo grazioso delectro d'avorio e sparò contro i fili di collegamento del computer. C'è un limite a quello che si può tollerare. Cercai di fermarla. Ma mentre la raggiungevo le scintille sprizzavano dai fili e dal terminal. Non ce la feci a raggiungerla. Aveva preso i nastri perforati e stava già correndo via. Il laboratorio era nel caos completo. E io... hai visto che cosa era rimasto di me, nella mia capsula. «Cristo, comincio a far fatica a... parlare, Magda. È meglio che te lo racconti in fretta. C'era una cassetta di pronto soccorso nella parete. Gli analgesici riuscirono ad assopire il dolore delle ferite e delle ustioni abbastanza da permettermi di trovare la forza per uscire dal laboratorio, prendere la macchina e guidare fino al porto degli idrojets. Mi resi conto che non potevo andare in nessun posto, qui. Dovevo allontanarmi dall'isola se volevo rimanere in vita. E io volevo vivere, Magda. Lo volevo con tutte le mie forze. Lei poteva stare ad aspettarmi per ore ed ore nel mio appartamento. Poteva cercarmi in tutti i punti dell'isola. Non poteva essere sicura che fossi morto. Non mi aveva sparato direttamente, chiunque avrebbe capito che si trattava di un assassinio se l'avesse fatto... ma un'esplosione di energia in un condotto che funziona male... è un incidente che può succedere. Alla fine, sarà tornata nel laboratorio, e non mi avrà più trovato; a quel punto immagino che abbia cercato di tirar fuori qualcosa dai nastri perforati che si era portata via, accorgendosi così del suo grosso errore. Ma aveva commesso un altro errore. Aveva lasciato nel laboratorio i codici genetici... il suo e il mio. E quelli me li ero portati via io. Il punto è che avevo cancellato la risposta necessaria per il Trasferimento dalla memoria del computer, ma nella mia memoria quella risposta c'era ancora. L'avevo impressa nel
cervello. E lei lo sapeva, Magda. E sapeva che cosa avrei fatto dopo. Ma non sapeva come, né dove. Né quando. «Tre anni. Ha dovuto vivere ogni giorno col terrore che accadesse questo, che tu varcassi la sua porta. Povera Christa. Forse per ironia della sorte si rendeva conto che... mentre io avevo tentato di rendere inutilizzabile il Progetto C.T., proprio lei mi avesse spinto ad... utilizzarlo.» La voce di Claudio diventava incerta. A volte pronunciava male le parole; in principio tentò di correggersi, poi, gradualmente, smise di tentare, per non sprecare tempo. «Essere ricco ha molti vantaggi. Documenti d'identità falsi quando le cose scottano. Graziosi regali che corrompono chi può farti uscire dai pasticci. Abbastanza soldi per comprarsi un buon posto in cui nascondersi. Sparire dalla circolazione. Preparare la capsula, attuare il trasferimento. Difficile. È stato... difficile. Senza alcun aiuto. Dover far ogni cosa da solo. E tutto mentre il dolore... appena sopito dalle forti dosi di analgesici. Riuscivo a malapena a ricordare chi ero. Ma ce l'ho fatta, Magdala. Il mio corpo nuovo. E dopo... tutto ciò che mi restava da fare, dopo, era trovare... qualcuno come te... che avrebbe fatto salti di gioia alla prospettiva di un... di un nuovo splendido corpo. Lo splendido corpo di Christophìne. Io... volevo mostrarglielo... mostrarle come un simulacro potrebbe essere usato male. Magda,» la voce di Claudio fu improvvisamente scossa dal terrore, «non ci vedo più, non riesco più a vedere niente. Sei ancora qui, Magda?» «Sì,» rispose lei. «Noterai che è stata fin troppo precisa con me. Ogni filo rotto. L'ossigeno tolto via. Quasi irreparabile. Poi ha inondato tutto con la pozione tossica verde. Pozione a effetto rapido e sicuro. L'aveva pronta nella sua macchina quando è andata a Saint Azoro a darmi la caccia. L'aveva a portata di mano stanotte. Magda, sei qui?» «Sì.» «Sapevo che vi eravate incontrate. Contavo che tu l'avessi uccisa... no, forse no. Ma questa volta... uccidila. Ha preso il pannello. Può estrarre la risposta al Progetto C.T. dal pannello. Potrebbe già avere... no, non andrebbe al laboratorio adesso. Lo farà domani, davanti a tutti. L'esibizione. La fama. Uccidila, Magda, mi senti?» «Sì.» «Magda, ho paura di morire. Non voglio morire. Uccidila, Magda. Seppellisci il suo corpo. Diventa Christophine. Poi vattene dall'isola. Chi ti fermerà? Tu sei lei. È facile. Facile per quanto macabro. Lei è ricca. Le tue
impronte sono le sue, la tua voce è la sua. Mi ascolti Magda? Uccidila per il suo denaro. Non per me. Per denaro. Mi ascolti?» «Claudio,» mormorò Magdala. «Oh, Dio. Ho paura,» disse lui. «Ho paura, Magda.» «Claudio,» ripeté Magdala. Lo prese fra le braccia, con delicatezza, nonostante fosse ormai inutile, lui non poteva più né vederla né sentire la sua stretta. E non era neppure Claudio che teneva fra le braccia. Non era veramente Claudio. E poi la cosa bruciata e anestetizzata nella capsula sarebbe morta, mentre quel corpo che stava stringendo si indeboliva e si accasciava. Non ci fu, naturalmente, nessun ultimo respiro. Magda risalì la strada metallica, fra gli enormi tronchi degli alberi fra i quali giocavano ancora gli evanescenti gioielli colorati del temporale. Camminava lentamente, con passo esausto. Nemmeno il pensiero che quel suo corpo, di per sé stesso, non poteva sentire la fatica, le recava conforto. Si sentiva stanchissima. Rosa e malva e ciliegia e verde, i gioielli scendevano giù dai tronchi degli alberi. Asfodeli, violette e fiordalisi in mezzo ai gioielli. D'un tratto, fiori e gioielli si spensero. La foresta divenne nera. Completamente nera. La foresta elettrica. Niente è reale. La foresta non è reale. I suoi colori non lo sono. Magdala non lo è. Né Claudio. Claudio. Niente è reale. Niente è ciò che sembra. Due ore dopo, raggiunse il bungalow retto dalle colonne, che, come la foresta, era ripiombato nel buio. Stai dormendo, Christophine? O sei ancora sveglia? Non puoi impedirmi di entrare. Le tue porte sono aperte per me. La porta del garage accettò l'impronta del suo pollice, e la fece entrare. Chiamò l'ascensore. L'ascensore rispose e la portò di sopra. Entrò nel bungalow, che non aveva luci, nemmeno una lampada solitaria. Esplorò cautamente. Sfiorò il caminetto di vetro le cui fiamme erano state spente, costeggiò il bordo del letto sul quale Claudio si era steso accanto
a lei, entrò nella cucina piena di coltelli... che non toccò. Guardò nella stanza da bagno. Era tutto deserto. Mi aspetta. Sente... in qualche modo... che forse non sono morta e che forse la cerco. O Claudio. Forse aspetta Claudio. Come prima. È nella serra. Raggiunse l'ascensore. L'ascensore salì. Cinque secondi. La serra. Buio. Finestre oscurate. In alto, solo una stella appesa al cielo, una stella simile ad una verde caramella di menta. Carta nera frusciante: le piante. Christophine. Christophine emerge dal buio. Un lampo verde, un lampo abbagliante sulla lama di un coltello. Il delectro è finito in mare. Che altro se non un coltello? Il coltello sibila nell'aria. Magdala lo scansa e riesce anche ad afferrarlo mentre ricade. Lo stringe in una mano. Coll'altra mano, fruga nella tasca della giacca, ne estrae la siringa, piena per un terzo di veleno. Raggiunge l'altra alle spalle, le pianta la siringa nel collo. Non il coltello. La siringa col veleno. E il veleno entra nel collo di Christophine, nelle vene che lo portano al cuore di Christophine. Poi rimane a guardare Christophine, adagiata in una posa scomposta fra le foglie nere simili a carta, la spinge col piede, Christophine ha un tremito poi non si muove più, è morta. E adesso io sono Christophine. E adesso io sono Christophine. Nel garage, di sotto, c'è la macchina di Christophine. Domani, caricherò il corpo di Christophine nella macchina. Inserirò la guida automatica, e la manderò in fondo al mare scintillante. Domani, e domani, e domani. Io sono Christophine. Scese al piano di sotto ed uscì dall'ascensore in mezzo al bungalow. Attraversò la vasta stanza ottagonale dirigendosi verso la parete-finestra esposta a nord, e prese posto davanti ai tasti del contrachorda. Seduta nel buio, piangendo, cominciò a suonare le «Variazioni su un tema di Prokofiev» di Sadrès. Sonogramma B: Annotazione Il progetto C.T. prese l'avvio sulla Terra dieci anni fa, e come spesso ac-
cade, gli aspetti etici di un programma di tale portata non furono presi in considerazione finché non furono quasi raggiunte le conclusioni. Durante questo tempo, il Concilio dei Mondi era ben consapevole che parecchi altri governi dei pianeti della Federazione stavano sviluppando progetti simili se non identici, e che quello che era cominciato come un passo verso un miracolo medico che avrebbe rappresentato la fine delle crudeltà di certi particolari tipi di rimedi chirurgici, stava diventando un affare dietro il quale si nascondevano gli interessi delle reti di spionaggio dei mondi non facenti parte del Concilio stesso. Fu quindi proposto un programma di studi riguardanti gli usi non-medici e gli effetti del Trasferimento. Un programma chiamato, con un nome in codice, Progetto Antipholus. Come direttore di questo progetto, cominciai subito a dubitare della validità di qualsiasi tipo di studio che non fosse basato su esperimenti reali in atto. Ero abbastanza convinta di questo da suggerire il gigantesco schema che, un anno più tardi, fu inserito nelle operazioni sul pianeta pre-coloniale Indigo Nove del Concilio dei Mondi. A prima vista, togliere dalle mappe un intero mondo, tenerlo al di fuori dei confini del traffico normale, e procedere ad utilizzarlo solo come un terreno di prova, sembrava una stravaganza senza limiti. E nessuno mette in dubbio che lo fosse. Tuttavia, Indigo Nove, nonostante fosse in apparenza un mondo delizioso, non era ancora aperto alla colonizzazione di massa. Piccolo, non fertile salvo esemplari di flora non commestibile, e povero di uranio e di altri minerali, senza nemmeno un satellite naturale per facilitare lo scalo delle navi spaziali, Indigo aveva poco da offrire a parte lo spazio e la segretezza... due qualità che per il progetto Antipholus erano più necessarie di qualunque altra cosa. La città e le fabbriche e le stazioni dei dintorni, parti di un piano di preparazione per la colonizzazione non ancora completato, erano l'ideale. Stabilirci su un mondo già completamente abitato sarebbe stato pericoloso, considerando anche il fatto che tutto il personale del Progetto Antipholus non superava le seicento unità. Stabilita la localizzazione, si doveva selezionare il soggetto — o il protagonista — dell'esperimento. A questo punto, causai un bel po' di trambusto proponendo me stessa. Vi furono le solite proteste... che il mio compito era quello di stare al timone della barca, di programmare e di guidare, ma non di diventare la cavia. Obiettai che fra tutti quelli che partecipavano al progetto Antipholus nessuno poteva venire distolto dai propri compiti per diventare il soggetto da studiare. Che con sole seicento persone a nostra
disposizione, non potevamo fare a meno del lavoro di nessuno di loro. E, in effetti, (questo va a suo merito) Paul sostenne il mio punto di vista, combinando il ruolo di direttore del Progetto che mi competeva con quello di protagonista del dramma stesso. Obiettai inoltre che io ero la persona più adatta a fare da cavia, nonostante non fossimo certo a corto di volontari. Un esperimento di quella natura, con un soggetto umano, è una cosa aleatoria. Dimostrai il buon senso della mia proposta, e andai dove intendevo andare, feci quello che intendevo fare, pur senza nessuna garanzia di riuscita in alcun momento. Credo che avessi il diritto e l'obbligo di ascoltare gli altri e conformarmi alle loro decisioni. Ma non volevo mettere nessun altro in una posizione così pericolosa. Che io sia sopravvissuta, è per la massima parte dovuto all'abilità degli altri, e in particolare di mio marito, che aveva lo snervante compito di torturarmi psichicamente come sistema per salvaguardare la mia intelligenza e la mia integrità mentale. Che Claudio, il più gentile e il più tranquillo degli uomini, si sia assunto questo orribile compito, è stato già un miracolo in sé. Non riesco a immaginare i suoi sforzi per portare a termine quello che doveva fare. So che pensava che io fossi già completamente impazzita quando ho proposto me stessa come soggetto dell'esperimento. Ha impiegato tre Dek nel tentativo di dissuadermi dal mio proposito. Quando si è accorto che non ci sarebbe riuscito, ha proposto se stesso come co-protagonista, impersonando l'essenziale ruolo di Pigmalione. E, naturalmente, in quel ruolo, Claudio è stato una benedizione. Non uno scienziato ma un perfetto attore professionista, poteva impersonare quell'onnipresente e terrificante personaggio con la genialità necessaria a provocare le risposte definitive. Dubito che se ci fosse stato chiunque altro a sostenermi in quelle circostanze, probabilmente sarei impazzita davvero, e il Programma sarebbe fallito. Fra l'altro, fu proprio Claudio a battezzare il progetto col nome «Antipholus»... tratto da un lavoro teatrale di un autore terrestre del sedicesimo secolo, Shakespeare, «La Commedia degli Errori. Un titolo veramente adatto, per una recita con due coppie di doppi, in cui i gemelli Antipholus erano «l'uno così simile all'altro da non poterli distinguere se non per il nome». Ora debbo anche parlare di ciò che stava dietro all'esperimento, della sua ragione d'essere insomma, e del modo in cui fu condotto. Le nostre informazioni ci portavano a supporre che i mondi non appartenenti al Concilio avrebbero potuto cercare di uccidere... o semplicemente di prendere in ostaggio... certe persone importanti del Concilio stesso, so-
stituendoli coi loro 'doppi'... i loro simulacri mossi dalla vitalità trasferita di spie dei mondi di fuori, di sabotatori e perfino di assassini. Per prepararci contro questa minaccia, dovevamo comprenderne i movimenti e i limiti, e dovevamo scoprirne i punti deboli, i collegamenti e gli stimoli emotivi. Ad essere onesti, avevamo bisogno anche di avere a disposizione una nostra personale versione della minaccia che si ipotizzava. E oltretutto dovevamo comprendere quali problemi psichici la gente potrebbe trovarsi a dover risolvere trasferendosi in un alieno corpo androide... trasferendovisi al completo, con i propri desideri e i propri scopi. E... ultima perplessità... come si reagirebbe di fronte alla possibilità di ritrovarsi faccia a faccia con la copia di sé stessi, con chi si sta impersonando: l'eterna questione dell'alter-ego, dell'immagine allo specchio e dell'autoadorazione di Narciso sulle acque del laghetto. L'unica soluzione, di fronte a quest'infornata di spaventosi e complessi problemi, era, o almeno io sostengo che fosse, quella di inventare un susseguirsi di eventi ragionevolmente plausibili, ciascuno dei quali avrebbe potuto, in modo diverso, illuminarci su quegli aspetti della questione che dovevamo studiare. In sostanza, inventare un dramma, poi mettere assieme una troupe che lo recitasse dall'inizio alla fine. Con, nel mezzo, una persona — il soggetto del C.T. sottoposto al Trasferimento — che deve credere che tutto ciò che sta accadendo sia vero, mostrando di conseguenza, con le sue reazioni, le risposte inequivocabili alle questioni poste all'inizio. I pianeti esterni hanno sviluppato ogni sorta di primitivi pregiudizi eticoreligiosi contro i sistemi di selezione prenatale vigenti nei mondi del Concilio. Aggiunti alle condizioni sfavorevoli esistenti in molti insediamenti di questi pianeti, i concepimenti lasciati al caso hanno causato la nascita di un'alta percentuale di bambini storpi e deformi. Ora risulta che sono proprio questi sfortunati ad essere avvicinati dalla rete delle spie, da cui si vedono offrire la liberazione da un corpo fisicamente non in buono stato. Non molti hanno la forza di rifiutare, di tirarsi indietro di fronte ad una simile allettante prospettiva. Oltretutto, spesso la deformità del corpo a lungo andare può provocare una deformità della mente, resa contorta dalle continue difficoltà e dalle angherie che subisce chi è diverso; e questo è un altro motivo per cui un'offerta del genere da parte dello spionaggio interplanetario può fare tanta presa facendo metter da parte tutti gli scrupoli. Cresciuti con la frustrazione, la gelosia, la mancanza di prospettive ed i maltrattamenti, gli impulsi di distruzione possono diventare potenzialmente qualcosa di estremamente inumano.
Inoltre, le nostre fonti di informazione ci hanno portato alla conclusione che in ogni caso dovrebbe essere usato un maestro, un 'mentore', un singolo uomo — o donna — dalla forte personalità e sessualmente attraente, in grado di contattare questi soggetti in uno stadio iniziale, quando ancora non si è operata in loro una trasformazione di mentalità irreversibile, e di restare accanto a loro nel ruolo, letterariamente parlando, di una sorta di demone che li sproni e li pungoli nei momenti cruciali. C'è anche il caso, possibilissimo, che il mentore in questione possa essere un traditore venuto dal Concilio dei Mondi, qualcuno che, per motivi personali, voglia danneggiare la vittima del simulacro. Il traditore, soffrendo egli stesso di un impulso di amore-odio nei confronti della sua vittima, lavorerebbe intensamente sul soggetto sottoposto al Trasferimento e divenuto la copia della vittima. In breve, sto descrivendo gli elementi fondamentali del rapporto Magdala-Claudio-Christophine. Invero, qui c'era una tendenza all'imitazione tanto quanto uno stimolo all'indipendenza. Il sadismo di Claudio, le esitazioni e l'insicurezza nevrastenica, erano tutte proiezioni della sua posizione nel ruolo di traditore afflitto da un complesso di amore-odio. L'effetto dei suoi capricci sul soggetto era sorprendente... obbedienza masochistica controbilanciata da lampi di ribellione intensa. La pazzia, a quanto pare, si cancella da sé, in un rapporto di questo tipo. Anche la seduzione era un ingrediente necessario nel rapporto. Il mentore deve sedurre il soggetto del C.T. per toccarne più agevolmente le corde emotive. Per ovvie ragioni, l'esperienza sessuale del soggetto, come quella di uno storpio dei mondi esterni, doveva essere assai ridotta. Altri ingredienti... l'elemento dato dall'intrigo interplanetario (l'accordo di Paul con Christophine, il microregistratore nascosto nel braccialetto, eccetera), l'ingresso in una zona sconosciuta (Marina Azzurra e l'Unità Due), sono stati introdotti nel modo più dettagliato possibile. Usando l'esempio del disastroso Progetto C.T. dell'Unità Due, potevamo inoltre determinare la reazione obiettiva del soggetto di fronte alle sue stesse condizioni. Dal momento che, nella sequenza finale (la scoperta della capsula di Claudio), crediamo di aver introdotto il maggiore stimolo emotivo che potesse essere usato nei confronti del soggetto. Tuttavia, questi ultimi punti possono anche essere suscettibili di obiezioni. Veniamo alla tecnica ipnotica dell'esperimento. Il sistema usato è quello della cancellazione della memoria conscia, accompagnato alla somministrazione di corroboranti per il richiamo mnemo-
nico. È un sistema piuttosto precario, aggiungo, perché ha dovuto essere interrotto, nel mio caso, e integrato da un trapianto di ricordi... l'istituto per bambini abbandonati e i ricordi di adulta di Magdala Cled. (Ancora debbo recuperare la piena memoria per quanto riguarda i miei personali ricordi d'infanzia, e mi ha spaventato la loro perdita nei miei processi mentali.) Sono stata inoltre dotata della capacità d'odio di Magdala, del suo livello di paura costantemente alto, della sua personalità invertita e privata delle esperienze sessuali e del suo animo devastato. Per ultimo, o quasi per ultimo, ho dovuto acquisire la necessaria conoscenza di Indigo, pianeta in via di sviluppo coloniale, Classe Terza, uguale a una ventina circa di pianeti del Concilio della stessa classe. Doramel ed Irlin si sono occupati di farmi apprendere tutto e di predisporre lo scenario con tutti i dettagli su Indigo. Le lodi che posso rivolger loro mi sembrano inadeguate a tutto ciò che sono riusciti a fare. Il loro estro creativo si è dimostrato prezioso in molti particolari... i settecento veicoli nel parcheggio di Sugar Beach, per esempio, e il mare olografico nella sala da ballo sotto il ristorante. O le tute di cotone sintetico nella fabbrica della Città. Tutto progettato tanto meticolosamente da far corrispondere ogni cosa che vedevo a qualche altra cosa che mi collegava ai miei falsi ricordi indotti, come la chiesa del Cristianesimo Modernista all'istituto per bambini. I particolari della folla, i suoi movimenti, anche, erano perfetti. Un ottimo aiuto sono stati anche i suoni registrati e le proiezioni olografiche. Circa seicento persone, utilizzate in modo da apparire un cast di diverse migliaia, è uno splendido risultato. Come regista e direttore delle proiezioni tridimensionali, Paul ha raggiunto l'apice della bravura. L'ultimo gradino di questa lunga scala è stata la mia breve esperienza personale del Trasferimento di Consapevolezza... tre giorni in tutto. Perché, naturalmente, in questo caso il corpo deforme di Magdala era la bambola artificiale dentro la quale ero stata trasferita all'inizio dell'esperimento, e dalla quale uscii... non per entrare in un corpo simulato, ma per tornare nella mia vera pelle. Per rendere più convincente la finzione, inoltre, cioè per darmi davvero la sensazione che il corpo nel quale vivevo fosse un simulacro androide, nel progetto Antipholus è stato introdotto un altro particolare. Durante il sonno mi furono somministrate iniezioni di 'eliminex' che sospendono le funzioni corporali, assieme a cibi concentrati e ad altre droghe che rendono il corpo indipendente da tutto ciò che è di solito necessario, come l'acqua e il cibo. La mia ubriachezza a Sugar Beach fu prodotta da un preparato superalcolico versato nei miei cocktails, mentre le
altre bevande apparentemente non alcoliche erano prodotti sintetici disintossicanti. Il mio svenimento fu causato appositamente per mezzo di una capsula di gas inodore, introdotto nel bungalow vuoto poco prima del mio ritorno dalla visita al laboratorio dell'Unità Due. In quell'occasione, la capsula col gas era stata inserita nel pavimento e si ruppe quando vi passai sopra. È un gas che non lascia tracce nell'organismo. L'esigenza che io pensassi ad un certo punto che Claudio mi avesse manipolato con qualche apparecchio-spia introdotto nel mio corpo androide fu un'idea di Paul. Aveva posto il problema che qualche meccanismo estraneo potesse essere inserito nel corpo nuovo del soggetto. E che cosa sarebbe successo quando il soggetto ne avesse appreso l'esistenza? Naturalmente, ogni cosa in questo esperimento fu usata come un sistema per controllare le relative reazioni, dalla seduzione del mio 'Pigmalione' alla vista di Emilion all'Unità Due. L'ultimo test fu il mio incontro con Christophine. Christophine merita un paragrafo esplicativo a parte. Per cominciare, la decisione, su cui tutti eravamo d'accordo, che io mi convincessi in tutto e per tutto di essere un simulacro di me stessa. Dopo la cancellazione della memoria, teoricamente quell'incontro non aveva importanza, finché tutti i collegamenti col mio io originale rimanevano cancellati. (In effetti, nessun nome fu alterato, né furono sostituiti con nomi finti considerati più adatti.) Tuttavia, proprio come erano state deliberatamente sottolineate le tendenze sadiche del mentore per controbilanciare i rapporti fra lui e il soggetto, così un profondo legame subconscio con Christophine — con me stessa — fu usato per controbilanciare la mia reazione a lei. Calcoliamo che, se ci fosse un incontro fra due persone che sono la copia perfetta l'una dell'altra (e non semplicemente gemelli di qualsiasi tipo, ma con neanche le minime differenze che si riscontrano fra i gemelli) si evolverebbe un legame psicofisico particolare. La completezza dell'ego, la sopravvivenza indotta e le caratteristiche autoprotettive, fanno parte delle più difficili sindromi note alla psichiatria. Siamo, se permettete, preprogrammati per mettere noi stessi al primo posto in otto situazioni su dieci, dal punto di vista psicoanalitico. I 'doppi' esatti, finora, non ci sono mai stati. In un caso simile, uccidere è commettere un suicidio davanti a uno specchio. Che Christophine fosse realmente me stessa, era un premio che faceva parte dell'intero gioco, un brandello della soluzione dell'enigma. Perfino il tradimento di Christophine non influenza sufficientemente Magdala. Ci vuole la scoperta che Claudio è un essere del suo stesso tipo (la scoperta della capsula) per superare
questo suo atteggiamento pregiudiziale nei confronti del proprio doppio. La morte di Claudio è servita a cementare il rivolgimento, il cambiamento emozionale di Magdala, mentre la scelleratezza di Christophine era un'appendice agli elementi di intrigo introdotti prima. «Christophine» era, ovviamente, un robot-androide, controllato e diretto da una zona a circa mezzo chilometro a ovest del bungalow. Una cosa non aderente alla realtà ipotizzata, ma non intendevamo mettere a repentaglio la vita di un secondo soggetto trasferendolo in un simulacro del mio corpo. La mia finta copia era sufficiente allo scopo. Rimane da fare una sintesi degli scenari. Per cominciare, l'abbondante uso di ologrammi. Ciò ha una precisa giustificazione: la spuria veridicità degli eventi doveva essere sostenuta ulteriormente da una miscela di simboli esterni chiaramente irreali. Forse conoscete la storia Cassandra, quella dalla faina e del cane. Il cane decide di prendere la faina, che regolarmente rubava i polli dal cortile. Ma la faina tutte le volte vedeva il cane arrivare e scappava. Così una notte il cane mise tre fagotti di penne nel cortile, e si travestì in modo da sembrare un quarto fagotto simile agli altri. Venne la faina e morsicò il primo mucchio di penne... non era buono. Allora addentò il secondo: stessa cosa. A questo punto la faina si fece furba. I fagotti non si muovevano, quindi non erano polli. Proprio allora il cane, coperto di penne, si scrollò. «Si muove,» disse la faina, «ergo, è un volatile». Si precipitò addosso al cane, e quella fu la sua fine. Gli alberi olografici sono stati inseriti nella messa in scena con una funzione simile. Anche così, l'analogia della foresta elettrica non ci è sfuggita. Ulteriori scenari e trucchi inseriti nella faccenda includevano la carica energetica del delectro di Christophine, che era ovviamente finta, e la 'riproduzione genetica' del corpo di Christophine racchiuso nella colonna in casa di Claudio, che era il robot-androide in seguito utilizzato per impersonare la 'vera' Christophine a Marina Azzurra. La lezione non-scientifica di Claudio relativa al Trasferimento di Consapevolezza era basata su accurati dati tesi ad ottenere una reazione costruttiva. I contenuti delle capsule di mantenimento erano fantocci (Claudio ha agito sempre nel proprio corpo originale, senza sottoporsi al Trasferimento). All'Unità Due, Emilion, sia dentro la sua capsula sia in movimento sullo schermo, era un fantoccio nel primo caso e un filmato della Tri-D nel secondo. Il pesce catturato a Sugar Beach era, per Magdala, il simbolo psichico dell'essere presi in trappola, ed era finto anche lui, costruito in plastica. Il tavolo rotante della sala da gioco era programmato apposta, per darle la sensazione della vincita...
ed anche della perdita. Marina Azzurra stessa è una stazione costruita in precedenza, destinata ad accogliere gruppi di studio che si occupano di ricerche oceaniche. Sugar Beach è un albergo, anch'esso esistente da prima, datoci in affitto dalla Danzig Corporation. Tutte le altre cose, dai libri agli autobus, ci sono stati dati in prestito dai vari dipartimenti del governo del Concilio dei Mondi. Un oscuramento e un ondeggiamento ipnotici, completati da un riallacciamento di 'ricordi', sono stati usati durante la permanenza di Magdala nella città, dal lavoro nella fabbrica di vestiti alla camminata lungo i viali, alle vicende svoltesi all'Accomat. E un oscuramento ipnotico simile, anche se molto più forte e rapido, è stato usato durante il Trasferimento di Magdala, cioè di me stessa, dal corpo-simulato storpio al mio proprio corpo. Le pastiglie di eliminex che Claudio mi diede durante la corsa in macchina quand'ero ancora nella fase 'ugly', non erano altro che innocue caramelle che avevano l'unico scopo di evitare che mi accorgessi che il mio corpo storpio di allora era il simulacro e perciò non aveva funzioni corporali normali. Ed ora un complicato dettaglio psicologico. Magdala, come simulacro di Christophine, esibiva una varietà di atteggiamenti più o meno distorti. Non solo non si curava delle personalità di tutti gli altri, tranne che della sua e di quella di Claudio, di quella di Hovak quando lui divenne una minaccia, e di quella di Christophine in quanto una specie di estensione di se stessa; ma riduceva la sorprendente bellezza degli altri a una cosa normale, dimenticabile senza sforzo, 'insapore' (questa parola, 'insapore', è registrata anche nei nastri). Per quanto riguarda gli occhi di Val Valary, sono occhi normalissimi. Magdala li vedeva diversi, piccoli e freddi e duri. È chiaro che anche i nostri processi visivi sono governati dai nostri atteggiamenti mentali. L'intero Progetto Antipholus fu preparato, recitato, registrato ed esaminato da una squadra affiatata e ingegnosa. Senza questa squadra, l'esperimento non avrebbe dato i risultati che ha dato. Tali risultati, con tutto il procedimento che ha portato a raggiungerli, possono essere verificati passo per passo; sono disponibili tutte le registrazioni complete di ciò che è accaduto nelle varie fasi del Progetto. Ma per gli scopi che si propone questo sonogramma, non ho molto altro da dire. Fino alla fine di questo esperimento, potevamo non dare troppo peso alla minaccia che può venire dai mondi estranei al Concilio. Ora, no. È una
minaccia che va considerata seriamente. Ora abbiamo sotto gli occhi quell'esperimento 'dal vivo' con tutte le dimostrazioni che ci ha fornito e le implicazioni che ha messo in luce. Abbiamo visto con chiarezza le possibili conseguenze. E forse anche di più. Per esempio, sappiamo, senza più ombra di dubbio, la risposta alla agghiacciante domanda... se il soggetto può, date certe circostanze, essere spinto ad uccidere la propria immagine. E questa è la domanda di fronte alla quale tutte le ulteriori domande non hanno più importanza. Come soggetto e protagonista, non posso rivendicare grandi meriti, dal momento che il mio contributo è stato inconscio e il peso della mia parte ha gravato sulle spalle degli altri. Per la parte importante che hanno svolto, voglio citare Irlin Vander Lis e Doramel Schur, Nada Millas e Val Valary, e Paul Hovak, che ha avuto una delle parti principali ricoprendo il ruolo del personaggio più importante e al tempo stesso coordinando gli attori fra le quinte. Infine, mio marito, Claudio Loro, senza il quale credo che l'intero progetto — e me stessa — sarebbe completamente affondato alla prima difficoltà. A costoro, e a tutti gli altri che hanno partecipato attivamente a questa esigente e spietata commedia, la mia riconoscenza ed i miei ringraziamenti. Un'ultima cosa. La scena della «morte» di Claudio, usata come ammonimento contro il cattivo uso del C.T., aveva l'intenzione di non interrompere il ritmo della sua parte. Benché, in termini allusivi, essa dà un forte colpo — nel mondo sottoposto all'esperimento — alla rete dei Pianeti fuori dal Concilio, e nessuno di quelli che hanno partecipato al progetto Antipholus è probabile che lo dimentichi. Forse, come base per una Carta dell'Etica, non è follia ricordare la presunta morte di un presunto soggetto in un luogo illusorio... l'inventore che distrusse la sua invenzione dopo aver previsto la sua capacità di distruggere. Nella nostra vita, difficilmente potremo tornare indietro, ma nessuno ignorerà la miseria dell'umanità prima dell'avvento del progresso. Abbiamo ancora molto da fare, e molto di più da imparare, per allontanarcene. Christophine Del Jan Loro Per il lavoro da loro svolto nell'esperimento 'dal vivo' su Indigo, all'intera squadra del Programma Antipholus fu tributato l'encomio solenne del
Concilio dei Mondi. Claudio Loro e Christophine del Jan furono entrambi decorati con la Stella d'Oro. Indigo ha iniziato la colonizzazione di massa, ed ora è un pianeta di Classe Quattro del Concilio dei Mondi. Nei confronti dei pianeti non appartenenti al Concilio, la vigilanza è mantenuta strettamente. FINE