K. A. APPLEGATE SPADA E MAGIA EVERWORLD L'ALBERO DEI DUE MONDI (EverWorld 8: Brave The Betrayal, 2000) FUOCO! Le fiamme ...
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K. A. APPLEGATE SPADA E MAGIA EVERWORLD L'ALBERO DEI DUE MONDI (EverWorld 8: Brave The Betrayal, 2000) FUOCO! Le fiamme guizzavano, lingue di fuoco rosse, gialle, dorate si alzavano dal basso. Doppio tormento: il fuoco e la paura del fuoco. Stavo per bruciare vivo. Le fiamme avvolsero il tronco dell'albero in un lampo, un fuoco innaturale, troppo veloce, avanzava troppo rapidamente. Le fiamme salirono lungo il tronco e si fermarono proprio sotto a David. Si propagarono sui rami, come se qualcuno li avesse cosparsi di benzina. Sentii delle grida, alcune umane, altre no. I demoni danzavano tra le fiamme, felici nel loro elemento. Si riempivano le mani di fuoco e se lo gettavano sul viso, come se fosse acqua, e ridevano al vederci gridare, piangere, implorare. La voce di David era un grido roco. Continuamente ripetuto. O era la mia? Dalla gola mi usciva un suono agghiacciante, un suono che non avrei mai saputo produrre di mia volontà, un suono spremuto dagli angoli più oscuri e remoti della mia mente. Soffocavo nel fumo, nel vomito del demone, nel mio stesso terrore. Poi... un sibilo, un movimento velocissimo, un'ombra roteante e scintillante. Colpì il tronco e proseguì il volo. Il tronco scivolò giù, tagliato in obliquo a pochi centimetri dai piedi di David. Altri sibili, altri ancora. Una lama passò attraverso una delle creature, che non venne ferita, ma smise di ridere. CAPITOLO I «Miyuki. Si chiama Miyuki.» «Mi-iu-chi?» ripeté Christopher. «Esatto.» «E tu pensi di riuscire a dirlo in un momento di passione? "Oh, Miyuki, amore mio..."» «Significa "neve profonda". In giapponese» spiegai.
Sapevo che era una pessima idea dire a Christopher una cosa del genere, ma andai dritto per la mia strada e gliela dissi. «Neve profonda.» Annuì. «È la ragazza che fa per te, amico: profonda, ma fredda.» «Non credo che sia il caso di dare troppa importanza a un nome. Il tuo nome significa "colui che porta Cristo nel cuore". Il mio significa "divino".» «Mmm... Questa è una buona obiezione, Jalil. E poi, lei è una bellezza. La faccia, almeno. Il resto non lo vedo. Ce l'avrà pure un corpo, no? Sotto il tavolo, voglio dire... Forza, dammi i dettagli.» «Non ho nessuna intenzione di darti dettagli.» «Allora non mi lasci altra scelta: dovrò guardare il tuo Unico Vero Amore con occhi lascivi quando si alza per uscire.» «L'avresti fatto comunque.» Christopher ghignò. «Non posso negarlo. Se quella ragazza ti interessa, dovrà essere un genio di qualche specie, immagino.» «Guarda come mangia. Bocconcini minuscoli, eleganti. Riesce a mangiare senza sporcarsi e senza fare briciole.» Christopher mi guardò perplesso, come se non fosse sicuro di aver capito bene. «Be', ha la bocca piccola.» Eravamo a pranzo al Taco Bell vicino al campus. Il locale era pieno zeppo di studenti, più qualche operaio della squadra che stava asfaltando la strada, e bloccando il traffico. C'era chiasso al Taco Bell. Gente che ordinava, gente che prendeva le ordinazioni, carte appallottolate, cubetti di ghiaccio tintinnanti, vassoi di plastica che sbattevano, risate, brusio di sottofondo, urla, voci. E c'era caldo. È un dato di fatto: più freddo fa fuori, più caldo fa dentro. La gente sente il bisogno di girare al massimo il termostato e non pensa che se fuori fa freddo tutti avranno il cappotto, e dunque l'ultima cosa che serve è un locale a trenta gradi. Quel giorno le vetrate dove stavano appiccicate le offerte speciali del piatto del giorno gocciolavano condensa. I ragazzi si sfilavano i piumini imbottiti e cercavano di appenderli allo schienale della sedia. Il che non faceva che rendere il locale ancora più stipato. Miyuki non sudava. Neve profonda. Adesso sorrideva a una delle ragazze sedute al suo tavolo. Un bel sorriso. Dolce, ecco la parola giusta. Chri-
stopher aveva ragione: aveva davvero una bocca piccola piccola. "Se fossi uno normale, lo farei e basta" pensai. Lei sapeva chi ero. Eravamo gli unici due "giovani" a seguire un corso avanzato di calcolo con quelli dell'ultimo anno. Quindi, non c'era pericolo che lei non sapesse nemmeno chi fossi. Non ero un perfetto sconosciuto che le chiedeva di uscire. «Buttati!» mi disse Christopher, come se mi avesse letto nel pensiero. «Siete nella setta dei secchioni insieme. Vai là, le fai il segno di riconoscimento segreto e le dici qualcosa mettendoci dentro la parola "incipiente". E lei ti si butterà tra le braccia e inizierà a coniugare verbi latini.» Diedi un morso al mio panino. In quel preciso istante Miyuki guardò verso di me e sorrise. O magari guardò qualcuno alle mie spalle. Non potei ricambiare il sorriso. Avevo la bocca piena. Probabilmente non avrei sorriso comunque. Ce l'ho, un sorriso, sono capace di sorridere... solo che non è mai la prima cosa che mi viene in mente di fare. Non sono uno che sorride in automatico. La mia faccia più tipica prevede la fronte aggrottata e un'espressione vagamente infastidita. «Ti vuole» mi spronò Christopher, tamburellando le dita in un modo che esprimeva perfettamente il suo fastidio. «Il suo desiderio è così palpabile che lo potresti tagliare con un coltello. Uno di quei coltellini di plastica spuntati.» «Sai, con tutto quello che ci capita dall'altra parte, potresti pensare che poi con questi problemi da nulla dovrei avere più coraggio» riflettei. «In fondo è facile, no? "Ciao, Miyuki, mi chiedevo se ti piacerebbe uscire con me una di queste sere." Non è la cosa più difficile al mondo. Giusto?» «Sì, be'... dovresti lavorare un poco alla battuta iniziale.» Ci pensò su un attimo, poi schioccò le dita. «Adorabile Miyuki, il tuo nome significa "neve profonda", il mio significa "divino". I miei poteri divini sapranno sciogliere la tua neve, per quanto profonda sia...» «Sì... in effetti così è molto meglio» dissi. «Sono sicuro che non saprebbe resistere.» Christopher rise. Poi, con la risata ancora a mezzo, il suo sguardo si perse nel vuoto, diventò lontano. Conoscevo quello sguardo. Stava provando una sensazione vaga, indefinita, di "perdita". Di assenza. Assenza da se stesso. Guardai dentro di me. No, ero ancora qui. Forse. Non lo sapevo mai per certo, con sicurezza. Qualche volta ci azzeccavo, qualche altra no. «Sei andato?» chiesi a Christopher.
Si strinse nelle spalle. «Non lo so, Jalil, non ci capisco niente. Ma che importa? Io sono ancora qui, anche se lui si è svegliato.» Staccai un altro boccone. Guardai furtivamente Miyuki. Aveva delle mani delicatissime. Sembrava molto, molto pulita. «Come credi che saranno gli dei dell'Egitto?» chiese ad un tratto Christopher. «Ho letto qualcosa...» risposi. «Sono molto ambigui. Continuano a cambiare identità, come se si fondessero l'uno nell'altro. Cambiano i propri attributi divini. Ma Iside è una delle dee più promettenti. Dea della fertilità, della maternità, della magia. Forse non andrà a finire come al solito, con noi che urliamo di paura come pazzi.» Christopher annuì, malinconico. «Mi mancherà il vecchio Dioniso, quando ce ne andremo. Chissà se anche gli Egizi hanno un dio dei bagordi.» «Ehi, Christopher!» Chi mi chiamava era uno che non avevo mai visto prima. Forse era della nostra scuola, ma avevo l'impressione che non lo fosse. Era un ragazzo basso, sembrava uno tosto. Il mio primo pensiero fu: "Bianco razzista". Christopher non sembrava contento di vederlo. «Che cosa vuoi, Keith?» Keith mi fece un sorriso cattivo. «Pensavo che magari mi potresti presentare questo tuo amico.» Mi tese la mano, la lasciò sospesa a mezz'aria davanti alla mia faccia, aspettando che gliela stringessi. Feci per allungare la mia, ma vidi Christopher fare un rapido cenno negativo con la testa. «Allora avevo visto giusto, eh, Christopher?» disse Keith, ritirando lentamente la mano. «Già» rispose lui, con la voce piatta. «Pare di sì.» Keith sembrò un po' confuso dalla risposta, come se non fosse quella che si aspettava. Gli si vedeva chiaramente il cervello che lavorava, in cerca di una replica a tono. Ma non riuscì a trovare altro che questo: «Ricordati di tenere la bocca chiusa.» E a quel punto mi svegliai nel mio letto, o meglio, nel letto che ormai avevo preso a considerare mio. Un servitore si aggirava nella stanza. Aprì le tende. Luce del mattino. Cielo azzurro. Non c'erano vetri alle finestre. Ci mancavano ancora un paio di millenni prima delle finestre con i vetri. «Che succede?» chiesi al servitore.
Mi fece un inchino accuratamente calibrato, una specie di minimo assoluto di inchino e annunciò: «La saggia Atena ha richiesto la vostra presenza.» «Oh. Okay.» Entrò un secondo servitore portando una tale quantità di cibo che sarebbe bastata a far finire una carestia. Il mio primo pensiero fu che ero già sazio. Avevo appena finito di mangiare un panino al Taco Bell. Ma ovviamente quel Jalil e quello stomaco e quel panino in quello stomaco erano in un altro universo. E qui, questo Jalil e questo stomaco avevano fame. Christopher si affacciò alla porta. «Allora avevo ragione, eh? Ero andato.» CAPITOLO II Un incontro con Atena non era la cosa peggiore che ci potesse capitare a Everworld. Atena era la più "giusta" di tutte le divinità che avevamo incontrato finora. La più stabile e razionale. Rispetto agli altri dei, voglio dire. Di norma, gli dei non sono particolarmente brillanti e hanno il caratteraccio di un qualsiasi spregevole dittatore. Quasi tutti gli dei che avevamo incontrato di persona o di cui avevo letto erano assassini occasionali e spesso anche stupratori incalliti. Le loro storie mitologiche, greche, romane, irlandesi, azteche, inca, egizie, non faceva differenza, le loro storie erano zeppe di racconti di stupri e morti violente. Uccisioni di uomini, donne, bambini, uccisioni di rivali, di persone che si erano macchiate di colpe lievi, di persone che avevano un aspetto che non garbava loro, di persone capitate nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, cioè quando gli dei avevano la luna storta o strane voglie. Atena, dea greca della saggezza e della guerra, era diversa. Si dice che abbia inventato l'olivo, il carro, la ruota del vasaio. Atena aveva difeso i grandi eroi: Odisseo, Perseo, Bellerofonte. Difficile dire che ci piaceva. Dopotutto aveva pur sempre un'altezza minima di più di due metri. Se ne andava in giro con una lancia e uno scudo e il motivo decorativo sull'egida, lo scudo, era la testa mozzata di una donna che aveva serpenti al posto dei capelli. E da un momento all'altro, per puro capriccio, avrebbe potuto decidere di infilzarci tutti e quattro sulla sua lancia, a mo' di spiedino. Difficile che ti piaccia qualcuno così esageratamente più potente di te.
Ma c'era un ma. Atena aveva salvato la vita ad April. E si era schierata con noi più di una volta davanti a Zeus e ad Ares, due casi patologici irrecuperabili. E ce la metteva tutta. Ce la metteva tutta, e a volte era un triste spettacolo, e lei si rattristava, lo sapevo. Le cose stavano così: di tutti gli dei che avevamo incontrato, lei era l'unica a capire abbastanza da riconoscere i propri limiti. Sapeva di essere prigioniera del suo stesso mito. Facemmo colazione, io, Christopher, David, April e Senna, una colazione favolosa e strabiliante, ci vestimmo (i nostri abiti, lavati durante la notte, erano puliti) e salimmo su un carro che ci condusse lentamente al grande tempio di Atena, proprio in fondo al viale principale dell'Olimpo, una strada interamente pavimentata di marmo. Il motivo dell'incontro ci era ben noto. Dovevamo trovare il modo di riparare l'errore sconsiderato che proprio noi avevamo commesso: eravamo riusciti a prendere una brutta situazione e a trasformarla in una ancora peggiore. Avevamo introdotto la polvere da sparo a Everworld. Everworld è un universo separato e distinto dal nostro, creato dagli dei delle mitologie. Forse avevano intuito che le cose si stavano mettendo male in quello che loro chiamavano il Vecchio Mondo e noi chiamavamo il mondo reale. E così si erano inventati un altro universo tutto per sé. Si erano portati appresso un po' di gente: gli adoratori e le vittime senza i quali nessun dio potrà mai sentirsi completo. Odino, Zeus, il Daghdha, Quetzalcoatl e chissà chi altri fecero pace, per il tempo necessario a unire i loro poteri e a inventare questo posto. Everworld funziona secondo le loro leggi. Non so quando sia accaduto. Non so nemmeno se il concetto di "quando" possa avere un senso. Lo fecero. Questo è quanto. Gonfiarono questa bolla gigantesca e la lasciarono librarsi nell'aria, libera dal nostro vecchio universo e da tutte le sue leggi barbose di causa ed effetto, di moto costante del tempo, moto uniforme e in un'unica direzione, di reazioni uguali e opposte. Molte delle vecchie leggi sono rimaste. Ma invece di essere principi ferrei e inderogabili, sono come le leggi nella vecchia Chicago dei gangster: non valgono per i potenti. Non voglio nemmeno cercare di nascondere il fatto che tutto ciò mi disturba molto. Non mi piace l'idea di Everworld. È come se in qualche modo gli dei avessero imbrogliato l'umanità intera. Gli uomini si sono evoluti dai primati, si sono associati in piccoli gruppi, in seguito in villaggi e ancora più tardi in città e nazioni. Hanno acquistato sempre più controllo sull'ambiente, hanno imparato a costruire attrezzi e a
dominare il fuoco e infine a leggere e a scrivere. E gradualmente sono passati a un mondo in cui la ragione aveva uno spazio sempre più grande e la superstizione uno sempre più piccolo. Credo che sia per questo che gli dei hanno costruito Everworld. Credo che gli dei si siano resi conto che il buon vecchio Homo sapiens li stava scavalcando. E io? Io sono figlio dell'ultimo sospiro del ventesimo secolo e delle prime luci dell'alba del ventunesimo. Mi piace il ventunesimo secolo. Mi piace la luce della ragione. Non mi piace per niente essere costretto a tornare ai secoli bui. Ma i cosiddetti dei contemplarono la loro opera e furono contenti di ciò che avevano fatto. Finché non arrivarono degli altri immortali da "fuori" e rovinarono tutta la festa. Alieni. Più precisamente, gli dei di varie specie aliene scoprirono l'esistenza di Everworld e decisero di invaderlo. L'invasione aliena non richiedeva viaggi alla velocità della luce. Bastava solo scoprire il modo di attraversare la bolla. I due universi non sono lontani tra loro come due galassie. La distanza è irrilevante. Everworld e il mondo reale non sono "nello spazio". Gli dei alieni e i loro seguaci iniziarono a irrompere a Everworld. Non so quante specie diverse. Forse ne stanno ancora arrivando. Credo che non lo sappia nessuno. Ne abbiamo sentito nominare un certo numero, ma ne abbiamo incontrato solo due specie: i Coo-Hatch e gli Hetwan. Il problema vero erano gli Hetwan. Il loro dio, Ka Anor, possedeva un attributo divino che agli dei locali sembrava alquanto sgradevole: si nutriva di altri dei. Il Daghdha, dio padre dei Celti, era già stato divorato. Almeno, così ci aveva detto un drago. Altri dei avevano fatto la stessa fine, ma nessuno, probabilmente, sapeva quanti. Non si tengono archivi storici, a Everworld. Ganimede era stato divorato. L'avevamo visto con i nostri occhi e fu una tragedia. Terribile a vedersi. Terribile ora ricordarlo. Ma, in effetti, si potrebbe dire lo stesso di molte altre esperienze che abbiamo vissuto a Everworld. Ci sono momenti che vorrei raschiare via dalla memoria, annientare con il fuoco, se solo si potesse. E non lo dico a cuor leggero, perché io credo nella verità, in tutta la verità, anche quella che fa male. Ma sono successe delle cose, a Everworld... cose che non vorrei mai si insinuassero nei miei incubi peggiori. I Coo-Hatch sembravano più innocui degli Hetwan. Sono una razza strana, malinconica. Sembra che si aggirino in piccoli gruppi di poche de-
cine di membri, senza radici. Il loro grande talento sta nella lavorazione dei metalli. Sanno fare un acciaio così duro, così inossidabile, così affilato, che con una lama dei Coo-Hatch potresti entrare in un castello passando direttamente dal muro. Fu al nostro primo incontro con i Coo-Hatch che commettemmo quello che ora si rivelava come un errore fatale. Avevamo scambiato con loro una delle poche cose che possedevamo: un libro di chimica. In cambio, loro non ci avevano ucciso (pensavamo che avrebbero potuto farlo). E avevano sostituito la lama del mio coltellino multiuso con una in acciaio CooHatch. È un bel coltellino. Excalibur lo chiamiamo. Ma furono i Coo-Hatch a guadagnarci nello scambio, perché tra le pagine del nostro libro di chimica avevano trovato le formule di base per creare la polvere da sparo. Mettete insieme la polvere da sparo con i più grandi esperti di metallurgia mai esistiti, e in un batter d'occhio avrete fucili e cannoni. I Coo-Hatch avevano messo a disposizione degli Hetwan le loro armi primitive nella battaglia contro l'Olimpo. Era più un avvertimento che non un tentativo concreto di aiutare gli insettoni di Ka Anor a espugnare l'Olimpo. I CooHatch stavano mandando un messaggio. Così, almeno, avevamo intuito e ci avevamo azzeccato. I Coo-Hatch volevano qualcosa, e lo volevano con tutte le loro forze. E se non l'avessero ottenuto, i guerrieri greci con le loro armature di cuoio e di latta avrebbero levato le spade contro le palle di cannone. C'è solo un modo in cui questo tipo di cose può andare a finire. Il Coo-Hatch che era stato catturato aveva esposto le condizioni: la sua gente voleva uscire da Everworld. Pensavano di essere stati imbrogliati dai loro dei. Erano intrappolati qui a Everworld da un secolo, e adesso volevano tornarsene a casa. E volevano che a riportarli a casa fosse proprio Zeus. Zeus non era in grado di farlo. Senna forse sì. Senna veniva dal mondo reale, come noi. Solo che non era come noi. Non era semplicemente una compagna di scuola. Mi dà un fastidio tremendo doverlo ammettere, ma Senna ha dei poteri che non dovrebbero esistere nel mondo reale. In qualche modo lei incarna l'anello di congiunzione tra i due universi. I suoi poteri sono più forti qui a Everworld che non nel mondo reale, ma anche nel mondo reale Senna sembra capace di violare le leggi del nostro universo, anche se con minori danni. Può cambiare forma e aspetto. Può indurre il desiderio. Può guarire dal
male. Lo so per certo. Ha guarito anche me, sebbene solo per pochi momenti. Senna è una "porta". Una specie di anomalia trans-universale. È per questo che Loki l'ha rapita, trascinando anche noi con lei. Loki e altri dei sono spaventati a morte da Ka Anor e vorrebbero fuggire, tornare nel mondo reale. E per farlo vogliono servirsi di Senna. Ma Senna non ci sta. Non per motivazioni di tipo morale. No. Più semplicemente, vuole avere per sé il potere. Ma Senna sostiene di non avere i poteri per liberare i Coo-Hatch. Può passare tra il nostro universo e Everworld, ma non tra Everworld e l'universo dei Coo-Hatch. Così dice lei. Ma, dice anche, c'è qualcun altro che può farlo: sua madre. Ed è per questo che stavamo andando all'incontro con Atena. Perché a quanto pare dovevamo trovare noi la madre di Senna e convincerla ad aiutare i Coo-Hatch, che in cambio non avrebbero appoggiato gli Hetwan, rallentandone l'avanzata. E per quanto tutto questo possa sembrare già molto complicato, non va al di là della pura superficie. Avevamo Loki alle calcagna, che voleva catturare Senna e ammazzare il resto di noi. E c'era anche Merlino che ci dava la caccia. E anche lui voleva catturare Senna, ma non voleva ammazzare il resto di noi. E, come se non bastasse, eravamo riusciti a farci nemici anche Huitzilopoctli e Hel, un paio di divinità che, rispettivamente, ti potevano mangiare il cuore o seppellire vivo, usando il tuo cranio per pavimentare il vialetto di casa. Eravamo forze in gioco nella più grande delle battaglie che Everworld avesse mai visto. Quattro studenti di Chicago e una strega da chissà dove. E non dovevamo fare altro che trovare una donna che tutti pensavano morta e cercare nel frattempo di restare vivi, nonostante la regola numero uno di Everworld fosse: "Nel dubbio, uccidi". Finora, il nostro contributo al futuro di questa gabbia di matti era consistito nell'aiutare i Vichinghi a sterminare gli Aztechi, far ammazzare Galahad, costruire un telegrafo per i folletti e offrire la polvere da sparo a degli alieni su un vassoio d'argento. E la cosa peggiore era la sensazione terribile che qualunque cosa facessimo tornasse sempre e comunque a vantaggio di Senna. CAPITOLO III
L'incontro prevedeva la presenza di Atena e del Coo-Hatch prigioniero. Ebbe luogo nella casa di Atena, o tempio che fosse (non sapevamo mai come chiamare questi loro edifici). Più precisamente, ebbe luogo nella biblioteca, una stanza cavernosa le cui pareti erano tappezzate di cubicoli, tutti contenenti uno o più rotoli. In un posto del genere ci si aspettava un sacco di polvere, come in una tomba antica. Ma non c'era traccia di polvere: i servitori dell'Olimpo sapevano il fatto loro. Immagino che non avessero altra scelta. Eravamo noi cinque, più la grande dea dagli occhi grigi e il prigioniero Coo-Hatch. Non c'erano rinfreschi. Peccato. Mi sarebbe piaciuto vedere come, e se, i Coo-Hatch mangiavano. I Coo-Hatch sono strane creature. Sembrano un mostruoso uccello senza ali, dal corpo ricurvo come a formare una grande lettera C. La punta dei piedi arriva quasi alla stessa altezza della faccia, a forma di imbuto molto allungato. Hanno occhi blu cerchiati di rosso. Ipnotici, quegli occhi. Hanno quattro braccia, due fatte chiaramente per sollevare grossi pesi e altre due per i lavori più delicati. Quando parlano non si vede nessuna bocca, non si muove niente. Quando camminano assomigliano un po' a Groucho Marx, o forse a un comico che faccia la parodia di un vecchio piegato dagli anni. Questo Coo-Hatch non aveva con sé una delle loro lame rotanti. I CooHatch che avevamo incontrato fuori dalla città azteca invece le possedevano e ci avevano dato una dimostrazione delle loro possibilità. E il ricordo mi vietava di pensare ai Coo-Hatch come a esseri innocui o comici. In quell'occasione una manciata di Coo-Hatch avevano lanciato le loro lame e affettato un albero con la stessa facilità con cui il commesso del negozio di gastronomia taglia una porzione di pasticcio di lasagne. Eravamo tutti in piedi. Niente sedie. Atena non era una di quelle persone che ti mettono subito a tuo agio. Non era il nostro amico Dioniso, sempre pronto ad offrirti un bicchiere di vino, uno spuntino, una ninfa azzurra. Atena era una dea seria. E questa era una faccenda seria. Ma aveva appoggiato l'onnipresente lancia contro un tavolo grande come il mio garage. Immagino che fosse il suo modo di rilassarsi. Noi semplici mortali aspettammo finché lei non decise di parlare. Il Coo-Hatch camminava avanti e indietro, quattro passi da Groucho Marx avanti, giravolta, quattro passi da Groucho Marx indietro. Mi chiesi dove fosse il mini-Coo-Hatch, quello che noi chiamavamo Campanellino. Forse quelli stavano solo con il gruppo principale. Noi ave-
vamo pensato che fossero i piccoli dei Coo-Hatch, ma chi poteva dirlo? Le supposizioni erano pericolose, quando venivano applicate a degli alieni che si erano evoluti in un universo totalmente differente dal nostro. «Questi strumenti, questi congegni...» iniziò Atena, incerta. «Le armi che uccidono a distanza costruite dai Coo-Hatch. Come si chiamano?» «Fucili?» suggerì David. «Cannoni?» «Cannoni.» Atena provò a pronunciare la nuova parola. Dalla sua espressione sembrava che non la trovasse soddisfacente. «Davideus, mio generale, tu dici che se gli Hetwan avessero queste armi potrebbero sicuramente sopraffare le nostre forze.» David non arrossì nemmeno per il "generale". Si era abituato molto in fretta. «Sì, Atena, i cannoni, specialmente se i Coo-Hatch ne costruissero molti, renderebbero impossibile mantenere qualsiasi posizione.» E aggiunse: «Se voi dei partecipaste alla battaglia, le cose sarebbero diverse. Ma finché i tuoi fratelli e le tue sorelle lasceranno tutto nelle mani dei soldati mortali, ebbene sì, i cannoni potrebbero devastare le nostre schiere. È impossibile che dei soldati armati di spada sconfiggano dei soldati armati di cannone. Sarebbe una guerra lampo.» Sembrava che Atena avesse mandato giù un rospo che avrebbe volentieri sputato. Squadrò il Coo-Hatch, che smise di camminare avanti e indietro e le restituì lo sguardo. «Voi chiedete di fuggire da Everworld, chiedete di tornare al vostro vecchio mondo. Pensavate che mio padre, il Grande Zeus, avrebbe fatto questo per voi?» «Era la nostra speranza» disse l'alieno, allargando le braccia più deboli, nel gesto universale di supplica. «Coo-Hatch sono disperati. Ka Anor non ci può aiutare. Coo-Hatch pensavano che Zeus, che con gli altri grandi dei creò Everworld, potesse avere la chiave.» Atena scosse la testa protetta dall'elmo. «Egli non ha la chiave. Quando gli dei padri e le dee madri crearono Everworld, innalzarono alte muraglie contro il Vecchio Mondo. Solo di rado qualcuno attraversa la grande barriera. Solo quando nasce un anomalo mortale dai grandi poteri.» Guardò Senna. «Uno di questi mortali potrebbe aprire una "porta", potrebbe diventare il tunnel che collega i due mondi. Questa strega è una di loro.» Guardai Senna, cercai l'arroganza e l'ego smisurato che dovevano trasparire nonostante tutti i suoi sforzi per nasconderli. Sembrava piccola e insi-
gnificante davanti ad Atena. «Io non ho il potere di aprire un portale verso il mondo o l'universo dei Coo-Hatch» disse Senna. «Ma potrei conoscere qualcuno in grado di farlo.» «Così dici» rispose Atena. «Tua madre. Che tu sostieni essere a Everworld.» «Sì. Come già dissi davanti a Zeus, mia madre è una sacerdotessa di Iside. I suoi poteri sono più grandi dei miei.» Era una bugia? Nessuna prova, niente che potessi individuare concretamente. Ma lo sentivo. Senna stava mentendo. O almeno stava nascondendo qualcosa. Ma che cosa? Le sue personali motivazioni? Indubbiamente. Ma cos'altro? «Dunque, voi dovrete andare da lei e implorare il suo aiuto» disse Atena annuendo con fermezza. «Sarà un viaggio lungo e pericoloso.» «Chi l'ha detto che ci andiamo?» chiese Christopher, stizzito, dando le spalle alla dea per rivolgersi a noi. «Insomma, non è ora che cominciamo a pensare a che cosa ci facciamo qui? Che cosa crediamo di essere? Le Nazioni Unite? I Caschi Blu che corrono a risolvere i problemi di tutti? Mi sono ubriacato e mi sono arruolato nei Marine e nessuno me l'ha detto?» «L'abbiamo creato noi questo problema» disse April. «O meglio, alcuni di noi.» Fece un lieve cenno del capo nella mia direzione, riconoscendo che a suo tempo io ero stato contrario a cedere il libro di chimica ai CooHatch. «Non serve a nulla un cannone senza polvere da sparo, e loro non avrebbero la polvere da sparo se non fosse stato per noi.» «Io però non ricordo che qualcuno mi abbia chiesto se volevo venire in questo manicomio» esclamò Christopher. «Non mi sono imbucato io nella festa. Mi ci hanno trascinato. E a questo punto, qualsiasi cosa mi trovo a dover fare per tenermi la testa attaccata al collo è più che giustificata.» «Christopher, è debole come ragionamento» intervenni io. «È la vecchia storia del "non ho chiesto io di nascere". Tua madre ti dice: "Assumiti le tue responsabilità, porta fuori l'immondizia". E tu le rispondi: "Non ti ho chiesto io di mettermi al mondo". È un po' infantile, non trovi?» «No, non trovo» ribatté Christopher. «Io porto il peso delle responsabilità che accetto di assumermi. Non ricordo di aver mai accettato di salvare l'Olimpo.» Finse di cercare nella memoria. «No, no. Sono sicuro che me ne ricorderei, se l'avessi detto.» «Porti il peso delle responsabilità che hai con te dalla nascita» disse David duramente. «Il dovere non è qualcosa che puoi tranquillamente ignora-
re. O meglio, puoi farlo, ma se lo fai, che razza di uomo sei?» «Questo vale per te, David» rise in tono di sufficienza Christopher. «Tu porti quel peso. Tu ami portare il peso. Io sono un uomo libero. Decido io quali pesi portare. A meno che...» aggiunse, ora più riflessivo «a meno che non si tratti di un debito... d'onore. Voglio dire: uno mi salva la vita, e io gli sono debitore. Sì, ma quello è diverso.» Sapevo a che cosa stava pensando. Lo sapevamo tutti. Ganimede aveva salvato la vita a Christopher. E Christopher non aveva salvato la sua quando se ne era presentata la necessità, e Ganimede era morto di una morte orrenda, spolpato vivo da Ka Anor. Questo, più di qualsiasi altra cosa, aveva in qualche modo colpito Christopher. Personalmente, non lo capivo. Non aveva nessuna possibilità concreta di salvare Ganimede. David l'aveva confermato. Eppure, i cambiamenti di Christopher non erano in peggio. «Dobbiamo andare» dissi. Mi misi a elencare i punti sulle dita della mano, consapevole che questo gesto infastidiva praticamente tutti. «Primo: è colpa di Ka Anor se tutti vogliono la "porta" per scappare da Everworld. Quindi, se non ci fosse Ka Anor, non ci sarebbe più bisogno di Senna, e non ci sarebbe più bisogno della nostra presenza qui, come comparse nel piccolo psicodramma di Senna. Secondo: abbiamo creato noi questo problema introducendo a Everworld la tecnologia del mondo reale, nello specifico la polvere da sparo. Terzo: in qualità di esseri umani abbiamo l'obbligo morale di resistere al male, e Ka Anor è il male. Anche secondo i parametri del luogo, Ka Anor è il male.» «Che cosa dice la strega?» chiese Atena. Senna era apparsa del tutto indifferente alle nostre pose e ai nostri discorsi. Si riscosse leggermente, come una che interrompe un sogno a occhi aperti. «I Coo-Hatch vogliono fuggire da Everworld» disse. «E a voi torna utile che ci riescano. Ma c'è solo un modo per farlo e se falliamo, gli Hetwan prenderanno l'Olimpo. Perso l'Olimpo, tutti gli altri dei verranno rapidamente sconfitti, uno dopo l'altro.» Non so che cosa vedesse Atena nel modo di fare di Senna, nella sua espressione accuratamente annoiata. Ma fece scattare l'allarme rosso nel mio cervello. I miei sensori capta-guai erano in fibrillazione. Anche questa volta stavamo facendo il gioco di Senna. «Mi ripeto, ma la questione rientra nella categoria "problema non mio". Con il dovuto rispetto, signora» disse Christopher con un piccolo inchino nervoso ad Atena.
«Quattro a favore, uno contrario. Accettiamo» decise David. Christopher buttò in alto le braccia, con un gesto molto teatrale, ma non credo che si aspettasse qualcosa di diverso. Voleva solo poter dire "Ve l'avevo detto", quando ci saremmo trovati nel bel mezzo di una nuova tempesta di guai. «Dovrete viaggiare sulla terraferma» disse la dea. «Poseidone è in conflitto con me e con mio padre. Egli non vi permetterà mai di solcare le sue acque.» «Possiamo prendere Pegaso?» chiese David. «Pegaso e i suoi figli non porteranno mai una strega» disse pacatamente Atena, come se stesse parlando del peso massimo consentito per un bagaglio a mano su un volo aereo. «Nemmeno un qualsiasi cavallo. Vi dovrete servire dei cocchi per attraversare le linee nemiche e giungere fino ai confini delle nostre terre. Da lì dovrete proseguire a piedi in terre che sono molto, molto strane.» «Chiedo scusa. Volevo sapere...» intervenne Christopher «esiste un angolino in tutto Everworld che non sia proprio strano-strano?» Atena non sorrise. Scommetto che non aveva alcun senso dell'umorismo. CAPITOLO IV Prendere i cocchi e attraversare le linee degli Hetwan. Facile a dirsi. Prendi il quattordici. Chiama un taxi. All'incrocio gira a destra. Prendi la linea rossa. Salta su un cocchio e scendi dall'Olimpo. L'Olimpo è un monte che sorge un po' discosto da una catena di montagne altrettanto grandi, se non di più. Quello che pensavamo essere il fianco occidentale era il campo di battaglia tra i Greci e gli Hetwan. La guerra per ora era una guerra d'assedio. Il fianco meridionale dell'Olimpo era il più dolce. Da qui saliva una strada serpeggiante che portava fino a questo gigantesco parco dei divertimenti che gli dei chiamavano "casa". Verso la base del pendio, raccolto intorno alla strada, sorgeva un villaggio, o forse più di uno, non so. C'erano negozi e chioschi, venditori di armi e di vino e poi fabbri, fornai, bottai e via dicendo. Inizialmente gli Hetwan non avevano occupato questo fianco, né bloccato la strada. Ho una mia teoria a proposito degli Hetwan: sono votati alla causa, impavidi, spietati, astuti e intelligenti, ma non hanno nessuna esperienza nella guerra contro gli umani. La loro avanzata era stata in linea ret-
ta, dalla città di Ka Anor dritti all'Olimpo. Non capivano niente di strategie e manovre militari. Non capivano il vantaggio di arrivare da una direzione inattesa, o anche solo di un attacco di sorpresa. E non avevano colto completamente neppure il concetto di assedio, almeno all'inizio. Ma nelle ultime ore, a quanto pareva, avevano fatto grandi passi avanti: capire che forse era una buona idea bloccare la strada. Avevano attaccato, avevano incontrato solo una resistenza simbolica, avevano bloccato la strada e preso il villaggio. Si vedevano, gli Hetwan, nel villaggio. Come formiche brulicanti sulla strada. Grosse formiche sputafuoco. A migliaia. Atena ci condusse ai cocchi. I cocchi erano sostanzialmente dei carri aperti. Avevano due gigantesche ruote a raggi, beccheggiavano follemente avanti e indietro e altalenavano ogni volta che uno dei quattro cavalli che li tiravano scrollava la testa o si impennava. Cinque quadrighe. Venti cavalli in tutto. Nitrivano, mordevano il freno, scalpitavano, sbuffavano, seminavano grandi mucchi di fertilizzante sul lucido pavimento di marmo di quella che doveva essere l'unica stalla a cinque stelle mai esistita. Atena si aprì in un grande sorriso davanti a quello spettacolo, a tutta quella eccitazione. Saltò su una delle quadrighe, elettrizzata come una bambina il giorno di Natale. Strinse le redini tra le grosse mani, infilò la lancia nell'apposito anello e lanciò un grido di guerra, forte, folle, selvaggio. «Quanto vorrei poter venire con voi!» esclamò esultando. «Ci saranno pericoli! Ci saranno animali selvaggi e mostri e giganti e dei ostili. Ne verrebbe un tale massacro!» Scosse la testa, piena di rimpianto. «Spesso invidio i mortali.» Era una trasformazione impressionante, a dir poco. Ma in effetti, Atena era anche la dea della guerra, oltre che della saggezza. «Mmm... come si guida uno di questi cosi?» si chiese April. Me lo stavo giusto chiedendo anch'io. Niente volante, niente pedali. Niente freni, da quel che potevo vedere. Atena (cosa da non credere) strizzò l'occhio ad April. «Afferri le redini, fai schioccare la frusta e corri con la furia del vento!» Poi, con un tono di voce relativamente più savio, aggiunse: «Inoltre, potresti desiderare di aggrapparti a questa sponda con la mano libera.» «Vado io per primo» annunciò David.
Ma non era un'affermazione entusiastica. Osservava la quadriga, i quattro cavalli frementi, le due ruote malferme e provava, immagino, esattamente quello che provavamo noi. Stavamo per lanciare quattro cavalli quasi selvaggi e uno skate-board gigante giù dal fianco di una montagna, in mezzo a una marea di creature che avrebbero cercato di ucciderci. «Non ne avreste uno con gli air-bag?» chiese Christopher. Mi arrampicai sulla mia quadriga. Ero il terzo sulla linea di partenza. Non so perché fosse proprio quella la mia. Me l'aveva indicata lo stalliere. C'era una lancia infilata in un anello. Sarà stata alta un metro e ottanta. La punta era di bronzo affilato, lunga una trentina di centimetri. Restare in piedi sulla quadriga era un puro esercizio di equilibrismo. Se avessi spostato il peso indietro, la parte anteriore e il gancio al quale si fissavano i finimenti si sarebbero alzate di scatto e avrebbero spaventato i cavalli. Se avessi spostato il peso in avanti, il peso della quadriga si sarebbe scaricato direttamente sulla groppa dei cavalli, e nemmeno questo sarebbe loro piaciuto. Era come stare in equilibrio su un'assicella di legno sopra una palla. Con la destra presi le redini come lo stalliere mi mostrava. In teoria avrei dovuto essere in grado di comandare ciascun cavallo separatamente. Figuriamoci! Ammucchiai le strisce di pelle nel pugno e decisi che mi sarei limitato a tenerle strette. Con la sinistra ero aggrappato alla sponda decorata della quadriga, che mi arrivava all'altezza della vita. David era sulla quadriga numero uno. Senna veniva dietro di lui. Poi io, April e infine Christopher. «Immagino che si girerebbero a guardarci se entrassimo nel parcheggio del fast food così, eh?» blaterò April, che sembrava nervosa tanto quanto me. «Andate, con la benedizione di tutto l'Olimpo!» gridò Atena all'improvviso. «Andate, andate... eroi di Atena!» E d'un tratto le porte della stalla si spalancarono. Cieli azzurri, strada di marmo, imponenti edifici greci dai grandi colonnati. La quadriga di David eruppe dalla stalla come un'esplosione. Poi partì Senna, ma non li stavo più guardando, mi tenevo aggrappato, in ginocchio sul fondo della quadriga, arrancavo, cercavo di tirarmi su con la mano sinistra, tiravo le redini. Uno scarto violento e andai a sbattere con la faccia contro la sponda, i denti morsero le labbra e sentii in bocca il sapore del sangue. Urlai un'imprecazione e mi tirai su in piedi, se si poteva definire "in pie-
di" la mia posizione, mezzo inginocchiato, tremante, aggrappato con la forza della disperazione. Il caos. Ecco quello che vidi. David da qualche parte, davanti a tutti, Senna più o meno di fianco a me, nelle mie stesse penose condizioni (e la cosa mi diede una certa soddisfazione). Non ebbi la forza di guardarmi alle spalle. Devo ammettere che non avevo il completo controllo della situazione, come non lo avrebbe un uomo appeso con le unghie all'ultimo piano dell'Empire State Building durante una tempesta. I cavalli avevano deciso che doveva essere una gara. I miei cavalli, tutti bianchi, cercavano di raggiungere quelli neri di David e di spingere via quelli marrone di Senna. La gara si svolgeva lungo la strada principale dell'Olimpo. Colsi rapidi fotogrammi di persone che si scansavano all'ultimo momento. Di dei che osservavano la scena con interesse e apprezzamento. Avevo la sensazione che si facessero delle scommesse. Probabilmente puntavano sulle possibilità che cadessi dalla quadriga e facessi una fine alla Ben Hur, sotto le ruote di quello che veniva dietro di me. Correvamo sul marmo. Non so proprio come facessero gli zoccoli dei cavalli a fare presa. Le ruote sicuramente no. Il cocchio ondeggiava paurosamente, sbandava a destra e a sinistra anche di un metro e mezzo. E poi d'un tratto eccoci fuori dall'Olimpo, a rotta di collo verso la base del monte, quasi in linea retta. Era questa l'impressione, questo l'effetto. La forza di gravità ci faceva accelerare, e gli zoccoli dei cavalli erano ombre indistinte, ombre scalpitanti, in accelerazione costante verso il centro della terra. Sempre più veloci, sempre più veloci. Ora il cocchio non sbandava più: vibrava. Vibrava tanto che mi sembrava che i denti stessero per spaccarsi e cascarmi di bocca. E c'era chi riusciva a combattere stando in equilibrio su queste cose? Ma come facevano? Via, sulla strada che si faceva più piccola, sempre più giù. Una curva, così secca che la ruota destra uscì di strada. Poi, un contraccolpo, le ginocchia mi cedettero, ed eccoci di nuovo in carreggiata. «Più piano!» gridai ai cavalli, che, naturalmente, interpretarono il mio grido come "Più veloci! Più veloci!". Le redini mi avevano bloccato la circolazione del sangue, avevo le dita tutte intorpidite e formicolanti. Cercai di tirare le briglie. Insomma, li ho visti anch'io i vecchi film western. Tirai le redini, i cavalli diedero uno strattone e quasi mi staccarono il
braccio dal gomito in giù. Noi, poveri mortali patetici nei nostri cestini, non c'entravamo più nulla. C'erano venti stalloni tutti presi dalla furia della gara, in competizione tra loro per vedere chi riuscisse a far fuori per primo il proprio passeggero. Giù, ancora più giù. Non era normale. Un cavallo normale si sarebbe stancato. Un cavallo normale a questo punto avrebbe rallentato. Una curva! Aaah... Volavo! Tutto il cocchio era sospeso nell'aria, le ruote giravano a vuoto. Mi si staccarono i piedi dalla piattaforma, rimasi aggrappato alla sponda con una mano, l'altra mano stretta alle redini. Ricaddi. Il contraccolpo sembrava fatto apposta per staccarmi la spina dorsale dalla schiena. Mi rimisi in piedi. Sarei morto. Era impossibile resistere. Atena! Tutta colpa sua. E meno male che è la dea della saggezza! Era come mettere una Ferrari con il serbatoio pieno in mano a un bambino di due anni. E adesso... gli Hetwan! Più avanti, sulla strada, dieci, quindici, e altri ancora, molti altri che accorrevano per bloccarci la strada. Alcuni stavano agganciando gli stretti coni che noi chiamavamo "sputafuoco". Le sputafuoco sparavano una sostanza ustionante, sputi di una specie di napalm che ti entravano dentro bruciando. Vidi i cavalli di David travolgere la prima fila di Hetwan. Vidi un Hetwan uscire da sotto le ruote, tutto accartocciato su se stesso, null'altro che un "dosso artificiale" per le altre quadrighe. E anch'io mi scontrai contro il muro di Hetwan. Volavano meteoriti fiammeggianti. Uno dei cavalli venne colpito, e a quel punto fu follia allo stato puro. Il cavallo lanciò un nitrito altissimo, in preda al dolore e al panico. Si impennava, scalciava, scuoteva la testa con violenza, e intanto gli altri tre continuavano la loro corsa implacabile, trascinando con sé il compagno ferito. Venne colpito un altro cavallo e il panico diventò contagioso. Lasciai andare le redini e mi afferrai alla sponda con entrambe le mani, cercando di tenermi saldo sulle gambe. Caddi sul fondo del cocchio, provando dolore a ogni sobbalzo. Come essere bloccati nella centrifuga della lavatrice. Non sapevo più dov'era l'alto, il basso, la destra o la sinistra. Sapevo solo che quella quadriga mi stava massacrando. Poi un dolore lancinante: il fuoco si era scavato un foro circolare sul fianco, appena sotto l'ascella. Dolore. Dolore atroce. Non sentii il colpo che mi stese... mi ritrovai all'improvviso nel corrido-
io, nella pausa tra due lezioni. Stavo andando nell'aula di calcolo e mi guardavo in giro nervosamente, in cerca di Miyuki, e d'un tratto caddi addosso a un armadietto, mi scivolarono i libri di mano, e gridai un'imprecazione, proprio come non bisognerebbe fare mai se ci si trova a un metro di distanza da tre insegnanti. Per cinque secondi rimasi immobile, il fiato grosso, lo sguardo fisso. E i tre mi guardarono a bocca aperta, tre facce sorprese che si trasformavano in tre identiche espressioni di disapprovazione e indignazione. «Sherman!» esclamò uno di loro. CAPITOLO V Ma ero già tornato a Everworld. Lasciai il povero Jalil del mondo reale a scusarsi con i professori, mentre il Jalil di Everworld continuava la sua pazza corsa, stordito, sballottato sul fondo del cocchio, con le unghie piantate in una fessura tra due assi. Ripetei la parola, mi tirai su un'altra volta, e solo dopo qualche istante mi resi conto che la quadriga aveva rallentato. I cavalli ora si comportavano più o meno normalmente. Non c'erano più Hetwan. Mi girai: gli alieni erano molto più indietro, sul fianco della montagna. Li avevamo superati, avevamo superato il villaggio, avevamo lasciato la montagna alle nostre spalle. Cinque quadrighe tirate da cavalli ansanti, con la schiuma alla bocca, ma visibilmente felici. "È durato troppo" pensai. Ero tornato nel mondo reale solo un momento. Ma qui dovevo essere rimasto senza sensi almeno per cinque minuti. Che cos'era successo al tempo? Capivo che il tempo del mondo reale e il tempo di Everworld si muovevano in due modi diversi. Ma non mancava qualcosa? C'era una specie di "tempo di viaggio" tra i due universi? «Ottimo, Jalil» borbottai sottovoce. «Preoccupati del tempo di viaggio. È perfettamente logico.» Adesso la strada era quasi in piano. Un paesaggio piacevole di vigneti e campi coltivati delimitati da muretti di pietre ordinatamente disposte. Feci un rapido inventario. Un labbro rotto e sanguinante. Lividi su ogni centimetro quadrato del corpo. Una bruciatura profonda e dolorosa sul fianco. Mi aspettavo di vedere la costola, tanto era profonda. «Tutti okay?» gridò David con un tono di voce alto ma chiaramente tremante.
«Ah... io sto benone!» gridò Christopher di rimando. «Mai stato meglio. Non mi sono mai divertito tanto in vita mia. Una festa formidabile. Dai, rifacciamolo daccapo, però stavolta portiamoci anche degli omoni grandi e grossi che ce le suonino con una mazza da baseball. Perché, sai, è così divertente!» Senna era a fianco a me, appena un po' più avanti. Aveva l'espressione un po' sconvolta e del sangue sulla faccia, ma niente di grave, mi sembrava. Notai che si massaggiava il braccio destro. Non che fossi felice di vederla ferita. Ma era tutta colpa sua, dopotutto, e non mi sarebbe affatto piaciuto vederla tutta tranquilla e ordinata. Non mi sentivo per niente generoso, non ero in vena di perdonare. Mi girai come meglio potei, con quel dolore sul fianco che mi toglieva il fiato, e con gli arti irrigiditi dal terrore. Guardai April. I suoi capelli rossi erano tutti scarmigliati. Gli occhi erano allucinati. Pareva una appena colpita da un fulmine. Ma per il resto sembrava okay. Non felice, ma okay. «Scendiamo e proseguiamo a piedi» gridò Christopher da dietro. «Magari questi pazzi decidono di fare un'altra gara.» A quel punto udimmo una voce. «Abbiamo l'ordine della dea Atena dagli occhi grigi di condurvi sani e salvi fino ai confini di questa terra.» Noi cinque eravamo perfettamente muti. Dopo un po' April ruppe il silenzio. «Chi ha parlato?» «Credo che sia stato uno dei miei cavalli» annunciò David, cercando di non sembrare sorpreso. «I cavalli parlano» dissi io. «Naturale che parlino. Perché non dovrebbero parlare? Scusate, ragazzi» aggiunsi, rivolto alla mia quadriga «non mi avete sentito prima, quando vi imploravo di rallentare?» «Jalil, sbaglio o stai parlando con dei cavalli?» mi prese in giro Christopher. La strada si era allargata e avanzavamo quasi affiancati. «Sì, Christopher. Sto parlando con dei cavalli. E sai cosa ti dico? Che mi scoccia un po' che non mi vogliano rispondere.» «Benvenuto a Everworld, Jalil.» «Non manca molto, ormai» disse uno dei miei cavalli, evidentemente mosso a compassione. Christopher rise. E... be', risi anch'io. Tutto questo era impossibile, naturalmente. Tutto. Ma immagino che a
un certo punto non resti molto altro da fare, se non ridere. Eppure, anche quando tutti ci mettemmo a ridere, anche a scherzare (tipica reazione nervosa dopo una paura da morire), mi frullava in testa una domanda: dov'era la mia mente quando non era né qui né là? Che cosa c'era tra Everworld e il mondo reale? E perché nel passaggio dall'uno all'altro trascorreva del tempo? Ci volle un'altra ora a un ritmo più rilassato, a volte al passo, a volte al trotto, prima che i cavalli ci annunciassero che eravamo arrivati al capolinea. Io non vidi nessun capolinea. Ma comunque che potevo fare? Mettermi a discutere con un cavallo? «Io mi porto via la lancia» annunciò Christopher. "Buona idea" pensai. Tutti prendemmo la lancia, tutti tranne Senna. Immagino che nella sua mente prendere un'arma fosse un'ammissione di debolezza. La sua arma era la sua magia. Scendemmo dai cocchi. Ci tremavano le gambe. I cavalli invertirono la direzione e si scagliarono verso l'Olimpo, come gli operai di una fabbrica che sgomitano per uscire dal lavoro. Davano l'impressione che avrebbero anche potuto fermarsi per bere un paio di birre prima di tornare a casa. Le montagne incombevano in tutta la loro altezza alle nostre spalle e sparivano in lontananza verso quello che sembrava sud-est. L'Olimpo dominava il paesaggio, un alto monte dalle pareti scoscese con la cima che spariva tra le nubi. Da qui non si vedevano i templi, né la strada di marmo, né l'esercito degli Hetwan. Sentivo una sensazione strana... nostalgia. Nostalgia di casa. Come se volessi essere ancora là, ma non potessi più. April dovette cogliere questo mio sguardo malinconico verso l'Olimpo. «Bisogna riconoscere che hanno del cibo davvero eccezionale» commentò. «E un servizio in camera eccellente.» «Già. Potrebbe passare un bel po' di tempo prima di rivedere altri vestiti puliti, altre lenzuola pulite.» «Strano, vero? Sembrava di essere a casa. Come se quella casetta fosse nostra. Immagino che uno debba sempre avere un posto da chiamare "casa", pur sapendo che non ha senso.» Sorrisi. «Cominci ad ambientarti, April. Stai diventando una Everworldiana doc.»
L'avevo inteso come un complimento, o al massimo come una lieve canzonatura. Ma April sgranò gli occhi, poi li socchiuse severamente. Si morse il labbro come se l'avessi insultata e si allontanò da me impettita. CAPITOLO VI Camminavamo lungo una strada che diventava sempre meno "strada" a ogni passo. Quello che era iniziato sull'Olimpo come un grande viale pavimentato di marmo adesso non era che una stradina di fango secco. Il fango doveva essere piuttosto recente, ed era tutto segnato da infinite impronte di zoccoli. Mucche, probabilmente, anche se a Everworld era altrettanto facile che fossero unicorni. Arrivammo in cima a una piccola altura. La vista si apriva su un paesaggio sorprendentemente diverso da quello che ci eravamo lasciati alle spalle. Dietro di noi, macchie di ulivi e vigneti. Davanti a noi, erba alta fino alle ginocchia, del colore dei capelli di Christopher, e pochi alberi solitari che sembravano cresciuti fino a un'altezza prestabilita e poi livellati in orizzontale da un celestiale coltello da burro. Dietro di noi, una terra ben irrigata, nuvolette di ovatta, ruscelli, pietre bianche e maculate che spuntavano da una distesa d'erba rigogliosa ma non rasata. Davanti a noi, un paesaggio che già preannunciava il vicino deserto. Un vento caldo e secco che ci soffiava in faccia. «C'è da dire una cosa a favore di Everworld» commentò Christopher. «Non ci vuole mai molto per andare da un posto all'altro.» «È semplicemente ridicolo» dissi io. «Il clima non può cambiare così rapidamente. Non può essere temperato un minuto e semiarido il minuto dopo. Non ci si può girare dall'altra parte e trovare venti gradi di differenza. È impossibile.» «Già... be', immagino che nessuno l'abbia detto agli dei» osservò David. «È come un grande patchwork» mormorò April, che era ancora arrabbiata con me per qualche ragione, ma cercava di comportarsi in modo civile. L'analogia era perfetta. Mi sorpresi, non per il fatto che aveva ragione, ma per il fatto che un paragone tanto calzante non mi fosse ancora venuto in mente. «Esatto. Come un grande patchwork. È proprio così. Ogni dio ha ritagliato il suo pezzettino e poi li hanno cuciti tutti insieme senza preoccuparsi troppo dell'effetto finale. Il clima, la vegetazione, le caratteristiche del
territorio, tutto questo è coerente all'interno di ciascun ritaglio.» «Ma ci sono degli elementi che superano i confini» osservò David. «Animali, persone. Vari tipi di persone.» «Sì» confermai «e anche piante, ma quelle sono meno adattabili a climi diversi. Soprattutto in zone di confine come questa, dove si uniscono due ritagli radicalmente diversi. Se hai una foresta decidua fredda accanto a una foresta sempreverde fredda, hai un elemento di raccordo. Ma davanti a noi abbiamo la savana e dietro di noi i vigneti. Le viti non crescerebbero mai da questa parte.» «Decidua?» fece eco Christopher. «Ma che storia è, Jalil? Vorresti dirmi che stavi davvero attento alle lezioni di scienze del primo anno? Ehi, qualcuno ha visto delle gimnosperme in giro?» «E tu vuoi dirmi che sai davvero che cosa sono le gimnosperme?» gli chiesi. «C'è qualcosa che si muove laggiù» intervenne Senna. Un movimento scuro e sinuoso tra l'erba, lontano. Avrebbe anche potuto essere il tremolio del calore. Poi il branco cambiò direzione e venne verso di noi. Potevano essere cervi. Oppure antilopi. Ma strani. Avevano delle corna che si abbassavano ai lati della testa, come un orrendo parrucchino, e un po' di gobba. «Sembrano gnu» ipotizzò April. «Pensi che sia la strada giusta?» chiese David a Senna. Lei si strinse nelle spalle. «Un attimo fa eravamo in Grecia, adesso direi che siamo nell'Africa subsahariana. In un'altra situazione, più normale, penserei che ci siamo lasciati sfuggire l'Egitto, ma chissà... È qui che ci ha mandato Atena. Quindi questa dovrebbe essere la strada giusta.» «Oppure no» dissi io. David scosse la testa, non era molto sicuro, ma si avviò lo stesso e scese dall'altura, lasciandosi definitivamente alle spalle ogni traccia di clima mediterraneo, molto più gradevole di questo. David mi si affiancò. Era l'unico che non usava la lancia come bastone. La portava appoggiata alla spalla, come un soldato porterebbe il fucile. «Jalil, che cosa sai degli dei e via dicendo in Africa?» «Be'... buana, le solite cose. Più o meno quello che sai tu.» «Ehi, non te lo stavo chiedendo perché sei nero, te lo stavo chiedendo perché sei... perché sai cose che io non so.» «Sì sì.»
«Sta' a sentire, non è un insulto pensare che qualcuno sappia qualcosa delle proprie origini» argomentò David, cambiando posizione. «Tu quanto ne sai dei re dell'antica Israele? Che cosa sai dirmi di Abacuc? E del tempio di Salomone?» «Io so che ha delle bellissime decorazioni» si intromise Christopher. «Punto tuo» concesse David. «Ecco quello che so dell'Africa antica: non è un luogo. Non è il "popolo nero". Sono centinaia, forse migliaia di nazionalità diverse. Un sacco di lingue diverse. Naturalmente a Everworld anche i cavalli parlano la nostra lingua, quindi immagino che non avrai da preoccuparti, almeno per questo. Ma ci trovi un sacco di religioni diverse. Ci trovi gli allevatori di bestiame, i coltivatori, i guerrieri, gli hippy all'insegna del "vivi e lascia vivere", i cacciatori di teste... Ma ci trovi anche qualche grande impero stile antica Roma, con decine di migliaia di guerrieri e oro dappertutto. E poi ci sono piccole bande di uomini primitivi che se ne vanno in giro con un frisbee dentro il labbro o un osso infilato di traverso nel naso. Dire "Africa" è come dire "Europa". Hai presente? Un francese di Parigi alla corte di un re Luigi Qualche cosa non ha niente in comune con un ghiacciolo della Lapponia che si veste di pelli d'orso e mangia carne di renna.» «Ehi! Siamo permalosetti, eh?» osservò Christopher. «Mai fare a Jalil una domanda a cui non sappia rispondere. Jalil è assolutamente incapace di dire "non lo so". Chiedigli qualcosa che non sa, e ti darà una risposta due volte più lunga.» Lanciai un'occhiataccia a Christopher, ma la verità era che aveva colpito nel segno, e lo sapeva. Io pure. «Ho una domanda» riprese Christopher. «Tarzan. È un mito? E se è un mito, è possibile che incontriamo anche lui?» «Leoni» annunciò Senna. Mi ci volle un secondo per capire che cosa volesse dire. Sembrava quasi una risposta alla domanda di Christopher. Poi li vidi. I leoni. Un branco intero, dieci o dodici leoni, contando anche i cuccioli, tutti sdraiati all'ombra di una macchia di alberi. Solo una leonessa era seduta, la testa eretta, e osservava gli gnu. Gli altri, invece, erano sdraiati e dormicchiavano per ingannare il tempo. «Siamo sottovento» disse David. «Stiamo attenti a restare sempre sottovento. Tagliamo a sinistra, qui, teniamoci alla larga.» «Non avrai paura dei leoni, Davideus!» lo prese in giro Senna. «Sono più grossi di me, più veloci, più forti, e giocano in casa» rispose
David in tono pacato. «Su questo sono pienamente d'accordo con te» dissi. Tagliammo a sinistra, il che significava abbandonare la vaga illusione di una strada e mettersi a camminare nell'erba alta. La strada non era un granché, ma sempre meglio che camminare in mezzo all'erba, che ci impediva il passo e ci rallentava. E poi, nascoste dall'erba c'erano radici e tane che sembravano fatte apposta per farti cadere e slogarti una caviglia. Tenemmo il vento sulla guancia destra e ci allontanammo dal branco di leoni. Solo dopo averli superati da un pezzo, riprendemmo la direzione iniziale. Ma adesso l'erba era più alta, ci arrivava fino alla vita. E vaste distese di arbusti spinosi e ostili si infittivano sempre di più, prima da un lato, poi anche dall'altro. Le chiacchiere svanirono a mano a mano che iniziammo tutti a sentirci un po' incastrati, un po' in trappola. Non vedevamo più il branco di leoni. La vista era completamente occupata dagli arbusti spinosi, bruni e secchi. Ero sicuro che i leoni avrebbero potuto attraversarli senza farsi un graffio e aggredirci di sorpresa. Poi, un'ondata di adrenalina. Un uomo. Lì dove avevo guardato un attimo prima. Sembrava materializzatosi dal nulla, o sbucato dai rovi. Era nero, coperto da un semplice perizoma. Aveva una tasca di pelle appesa alla cintola. Era vecchio, magro, rinsecchito. Aveva i capelli bianchi, tagliati in modo strano: sembravano un cono che si allungava per quasi mezzo metro indietro e in alto dal cocuzzolo della testa. David ci fece cenno di fermarci. Ci fermammo, cinque ragazzi in mezzo a un fiume d'erba che scorreva tra alte sponde di cespugli spinosi. «Non vedo armi» disse David. «E sembrerebbe umano.» Christopher mi guardò. «Jalil, perché non provi tu a parlare con lui?» disse in tono deliberatamente provocatorio. «Chiedigli che cosa vuole. Io mi prendo il prossimo lappone mangia-renne che incontriamo.» L'uomo in perizoma continuò a fissarci per un po', senza espressione. Poi, il lampo di un sorriso e un cenno della mano. «Forse sa dirci dove siamo» disse April. «Chiedigli se ha visto delle piramidi qui in giro» disse Senna, acida. Mi rifiutai di parlare con quel vecchio. Non ci stavo a questo gioco. Non era detto che necessariamente toccasse a me per il semplice fatto che io e lui avevamo lo stesso tipo di pigmentazione.
David aspettò, poi si rese conto che passavo a lui la mano e finalmente si decise. «Salve!» Nessuna risposta. Solo il sorriso. «Come si chiama questa terra?» gridò David. Il vecchio rise. Sembrò che la trovasse una buona battuta. «Okay» borbottò David sottovoce. Poi, in tono più alto e amichevole: «Mi scusi, signore, so che le sembrerà un po' strano, ma... stiamo cercando l'Egitto.» «Come scendere dall'aereo a Chicago e chiedere al primo che passa: "Scusi, sa indicarmi la strada per il Montana?"» commentò April. «Magari lo sa» si difese David. «Sei capace di parlare?» intervenne Senna, chiaramente spazientita. «Come ti chiami, vecchio?» Il vecchio smise di sorridere. La guardò fisso. Guardò Senna. Aveva occhi vivaci, attivi. "Occhi astuti" pensai. «Eshu» rispose alla fine. «Il mio nome è Eshu.» «Salute!» esclamò Christopher. Il vecchio sorrise. «Dove siete diretti?» si informò cortesemente. «In Egitto» rispose David per noi. «Sai indicarci la via più veloce?» «State attenti quando viaggiate. Non abbiate fretta e non trascurate i vostri doveri» disse Eshu. «Si devono compiere sacrifici, si deve portare rispetto.» «Sì, e ogni soldo risparmiato è un soldo guadagnato e un punto in tempo ne salva cento» aggiunsi in tono aspro. Non so perché ero così sgarbato. In genere mi sarei comportato in modo quanto meno educato. Ma ora il vecchio sembrava rivolgere ciascuna delle sue osservazioni proprio a me, e io non volevo essere prescelto come suo interlocutore. Io ed Eshu avevamo in comune il colore della pelle, tutto qui. Se mi dava fastidio che gli altri mi trattassero come l'esperto in questioni africane, non mi piaceva di più che lo stesso trattamento mi venisse riservato da un vecchio sparasentenze in perizoma. «L'uomo mortale deve portare rispetto» dichiarò Eshu. «I miei rispetti» rispose Christopher, mentre ci rimettevamo in marcia per allontanarci dal vecchio. «Arrivano i leoni» disse Eshu.
«Cosa? Che ha detto?» Un'ombra. Nient'altro che un'ombra indistinta, vicino a terra, una palla di cannone sparata all'altezza dell'erba, un flash nella mente, una singola immagine fatta di velocità fulminea e potenza irresistibile. Aprii la bocca per gridare, ma la leonessa mi fu addosso prima ancora che riuscissi a respirare. CAPITOLO VII Di nuovo in me. Cosciente. Sdraiato, con gli occhi aperti. Ero sdraiato sull'erba, supino, ed era notte e c'erano più stelle di quante ne avessi mai viste, bianchi diamanti durissimi sparsi su un cielo nero. Sdraiato, accanto a un fuoco, ma non abbastanza vicino da riscaldarmi, e avevo tanto freddo. Ma c'era qualcosa di sbagliato. Anzi, era tutto sbagliato. C'era qualcosa che mi tirava, mi strattonava, mi spingeva. Sollevai a fatica la testa e guardai in basso. Il leone si era impadronito di uno dei miei organi e stava cercando di strapparmelo via, lo strattonava con i denti, con le zampe, cercava di staccare il cordone di viscere che me lo teneva attaccato al corpo. Ero svuotato. Lo vidi alla luce tremolante del fuoco. Vidi le costole bianche. Le mie. Vidi una cavità, un pasticcio schifoso e sanguinante dove prima c'era lo stomaco. Ero circondato dai leoni. I maschi, grandi animali dalla folta criniera, si accanivano sulla mia carne, me la strappavano a morsi e la trascinavano via nella terra. Le leonesse rosicchiavano quello che restava... le gambe. Mi strappavano la carne dalle cosce, come quando si mangia un pezzo di pollo. Una di loro staccò un lungo muscolo tremolante, rosso scuro, lo staccò di netto con uno strattone della testa. Ero morto. Dovevo essere morto, perché non sentivo dolore. Dov'era il dolore? Sentivo tutto, sentivo i denti, sentivo gli strappi, sentivo il freddo sulle ossa, ossa mai esposte all'aria prima di allora. Le iene si aggiravano appena fuori dal cerchio di luce, aspettando il loro turno. Era così che funzionava, no? I leoni mangiavano quello che volevano, poi arrivavano le iene, che con le massicce mandibole mi avrebbero spaccato le ossa e fracassato il cranio e succhiato il midollo che c'era dentro. E da ultimi gli avvoltoi. Un sogno? No. Troppo realistico. No, no.
Mi stavano mangiando. Ero ancora vivo e loro mi stavano mangiando, mi stavano facendo a pezzi, mi strappavano le budella. Aiuto! Aiuto! Terrore. Disperazione. Panico. No. Dovevo combatterlo, dovevo resistere. Ma perché? Ero morto, potevo anche permettermi una crisi di panico, se volevo. Le sensazioni però c'erano: vedevo quello che succedeva, sentivo i suoni, e sentii anche l'odore disgustoso quando un leone mi strappò gli intestini e sparse tutto in giro. Allora non ero morto! No. Impossibile. Non poteva essere vero. Perché non poteva essere vero? Questo non era il mondo vero e reale, questo era Everworld. Che cosa c'era di impossibile in questo posto? Che cosa era al di fuori delle leggi, qui? Un uomo che assisteva allo spettacolo del proprio corpo sventrato come un quarto di bue? Perché no? Poteva benissimo essere vero. Avevo già visto cose simili. Le vittime di Hel, per esempio. Morti ma vivi. Vivi in un tormento senza fine. Se quello era reale, perché questo non dovrebbe esserlo? Perché non è reale il fiato caldo del leone sulla mia faccia, la sua mole gigantesca, i suoi occhi dorati che mi guardano, perché non è possibile che mi stia mangiando la faccia, spaccando il cranio finché il cervello... Il cervello. Ecco perché. Everworld può essere Everworld, ma io sono io. Io sono Jalil. Io sono questo cervello in questa testa, in questo corpo, e le mie leggi sono le leggi del mondo reale. Non c'è pensiero senza cervello. Ecco perché è una menzogna. Perché il mio cervello sta filtrando come la pappa d'avena dal mio cranio spaccato. E non può essere vero. Quello sono io, quello è Jalil, quella pappa d'avena, quella poltiglia compressa in una cavità ossea senz'aria e senza luce, quello sono io. «Non è un sogno» dissi, parlando con mezza lingua, con una mandibola che non era più completamente attaccata al resto della testa. «Se fosse un sogno sarei nel mondo reale. E invece sono ancora a Everworld. Non sto dormendo. Sono cosciente. E questa è un'illusione.» Il leone smise di mangiarmi la faccia. Parlò. «Che cosa è un'illusione, Jalil? Che cosa non è reale?» «Tu non sei reale» dissi con fermezza. «Eppure, mi stai parlando. Dicendomi che non sono reale mi rendi reale.
Reale per te. Il che è tutta la realtà che potrà esistere.» Tastai in giro con la mano destra. Sembrava che avessi ancora una mano destra. Me la infilai in tasca e toccai il coltellino. Lo tirai fuori lentamente e con dita tremanti e intorpidite aprii la lama di acciaio Coo-Hatch. «Questa lama taglierà qualsiasi cosa reale» dissi. Affondai la lama. Il coltello incontrò solo aria. Il leone era svanito. Aprii gli occhi di scatto. Luce accecante. Mi toccai affannosamente la pancia, sentii il mio corpo ossuto. Tutto intero. Mi alzai a sedere. «Ehi, ehi, vacci piano con quel coltello» esclamò April. Era seduta accanto a me. Mi fece distendere di nuovo, premendomi una mano sul petto. «Prenditi cinque minuti, okay? Ci hai appena fatto prendere un colpo.» «Che cosa è successo?» chiesi, sudato, tremante. «Un leone ti ha aggredito. Ti ha gettato a terra. Secondo noi hai battuto la testa su quella pietra.» «E non mi ha mangiato?» chiesi ancora, incurante dell'assurdità della domanda. «No, grazie a Eshu» mi spiegò April. «Ha usato una specie di fionda. Ha colpito il leone con una pietra.» Spinsi via April, con fermezza ma non sgarbatamente, e mi rimisi a sedere. Il vecchio africano era accovacciato poco lontano, apparentemente indifferente. Guardava lontano, verso l'orizzonte. «Una pietra?» domandai. «Avete tutti una lancia, e David ha anche una spada.» «Ehi, scusa tanto, sai» disse David, stizzito. «Ma non è proprio così facile colpire con una lancia una leonessa in movimento senza infilzare questo ingrato amico.» Aveva ragione, ovviamente. «Scusate» dissi. «Grazie per non avermi infilzato.» «È Eshu che dovresti ringraziare» insistette April. Una pietra, eh? I leoni che mi avevano ucciso e divorato erano stati reali solo nella mia immaginazione. Ma tanto mi bastava per sapere una cosa: un leone non scappa per una sassata. Guardai Senna. Lei guardava in cagnesco Eshu, che restava l'immagine stessa della noncuranza. Poi Eshu rivolse gli occhi verso di me, solo un secondo. Nessuno se ne accorse, tranne Senna e me. Eshu mi guardò e sorrise: un sorriso divertito e maligno.
Non so perché non dissi niente agli altri in quel momento. Forse perché qualsiasi cosa avessi detto sarebbe sembrata paranoica. Avrebbero pensato che avessi subito un trauma cranico. Loro avevano visto quello che avevano visto, e quello che avevo passato io sarebbe stato liquidato in quattro e quattr'otto come un incubo, il logico effetto di una botta in testa sommata a un sacco di paura. Ma c'era un'altra ragione per stare zitti. Chiunque fosse questo Eshu, aveva giocato con la mia mente con una potenza straordinaria. Mi sentivo violentato, offeso. Ma sentivo anche di aver vinto una battaglia in una guerra più grande. La Magia contro la Ragione. E aveva vinto la Ragione. Forse non sarei riuscito a piegare tutto Everworld alle leggi che io sapevo essere vere, ma potevo vincere contro questo vecchio. CAPITOLO VIII Stavamo attraversando la savana africana, non c'era ombra di dubbio. Era l'Africa, o quantomeno un pezzetto d'Africa. Ma un'Africa che esisteva molto tempo prima dell'invenzione dei safari per i ricchi occidentali stipati nelle Land Rover, a caccia di animali selvatici da fotografare. Questa era l'Africa prima dei mercanti di schiavi e dei colonialisti e dei governi corrotti. Gli dei che avevano rubato questa terra e l'avevano portata a Everworld, chiunque essi fossero, volevano che restasse così per sempre. Eravamo usciti dagli arbusti spinosi, eravamo tornati al mare di erba gialla. Passammo non lontano da un villaggio dove le capanne di fango e paglia arrostivano lentamente sotto un sole implacabile, un triste punto nero nella savana. Ma un'ora dopo passammo vicino a un altro villaggio, più sofisticato, più grande, una vera e propria cittadina, circondato da campi ben curati e irrigati da un complesso sistema di canali e fossati. Si vedeva una piazza del mercato affollata da uomini e donne e da vari animali, mucche, capre, porci. La cittadina aveva basse mura di mattoni fatti di fango e paglia, sorvegliate da imponenti guerrieri coperti di pelli di zebra e armati di alti scudi e lunghe lance. Era evidente che i due villaggi appartenevano a due popoli nettamente diversi. Un'ennesima anomalia. Un'altra cosa che non aveva senso. Eshu ci fece superare il villaggio poverissimo e la prosperosa cittadina. Le sentinelle ci guardarono passare ma non si mossero. Eshu le salutò con
un cenno della mano, come se si conoscessero. Eshu era diventato la nostra guida. Come avrei potuto oppormi? Dopotutto, non era stato lui a spaventare i leoni che avevano cercato di uccidermi? Che cosa avrei potuto dire? Che era uno stregone di qualche specie? Christopher mi avrebbe tormentato intere settimane per un'affermazione del genere. E così seguii anch'io il vecchio, al passo con gli altri. Aspettavo l'occasione, mi preparavo al prossimo, inevitabile scontro. Quasi non vedevo l'ora. Avevo affrontato l'incubo e l'avevo superato. Avevo stravinto. Camminavamo distanziati. Notai che Senna teneva sempre la massima distanza da Eshu. Rallentai e mi affiancai a lei. Quando fui sicuro che nessuno ci potesse sentire, le chiesi: «Allora? Chi è il vecchio?» Senna mi studiò. Il primo impulso fu sicuramente quello di allontanarmi, ma poi dovette pensare che io e lei eravamo gli unici due a sapere che qualcosa non andava. Ero un potenziale alleato. «Non lo so» ammise. «Un dio?» Scosse la testa, dubbiosa. «Non so. Non credo. Qualcos'altro, forse. Che cosa ti ha fatto?» «Non lo sai?» Ero un po' sorpreso. «So che ti ha fatto qualcosa. Lo sentivo. Ti aveva avvolto un, una specie di... campo, una specie di... Non so come chiamarlo. Sentivo i suoi poteri, ecco tutto. Sentivo che erano concentrati su di te.» Inspirai profondamente. L'aria profumava di terra fertile e di fieno appena tagliato. «Ti voglio chiedere una cosa. Sei tu che hai paura di lui o è lui che ha paura di te?» Fece un lieve sorriso, ironico. «Dritto al punto. Ecco perché mi piaci, Jalil. Hai sempre pronta la domanda giusta.» «Sì. E tu sai sempre come evitare di rispondere.» «I Coo-Hatch ci stanno seguendo.» «Come?» Mi girai a guardare. «Non li puoi vedere, adesso. Sono un gruppetto. Ho visto uno di quelli
piccoli che svolazzava dietro di noi, lontano, ma senza perderci di vista.» Sentii un brivido sulla nuca. «Ci sorvegliano? Controllano che facciamo quello che abbiamo promesso di fare.» «Non chiedermi di spiegare i Coo-Hatch. Ci capisco tanto quanto te.» «Forse ce l'hanno un po' con te perché hai fatto fuori uno di loro» dissi. Senna guardò dritto davanti a sé. Una barriera di acciaio si innalzò tra di noi. Conversazione finita. Accelerai un po' il passo per raggiungere David, che apriva la fila con Eshu. «Senna dice che ci sono dei Coo-Hatch che ci seguono.» David annuì. «Sì. Lo so. Ma non credo che siano un problema.» «Potrebbe essere carino da parte tua tenerci un po' più informati, generale.» Sembrò sorpreso. «Scusa. Hai ragione.» Difficile prendersela con qualcuno che si scusa. Peccato, perché avevo proprio bisogno di prendermela con qualcuno, con chiunque, tranne Eshu. Mostrarmi infuriato con lui gli avrebbe dato potere su di me. «Perché non ci fermiamo in qualcuno di questi villaggi?» chiesi a David. «Ci farebbe comodo un po' d'acqua.» Mi indicò Eshu con il capo. «La nostra guida dice che questi non sono buoni posti per bere. Dice che più avanti troveremo dei pozzi.» E così continuammo a camminare. Gli otri d'acqua che ci aveva dato Atena erano quasi vuoti, e il sole picchiava, implacabile e abbagliante. Non c'era ombra e nessuno disponeva di occhiali da sole. Avevo l'impressione che sarei diventato cieco se non avessi trovato un po' d'ombra in fretta, un posto dove poter chiudere gli occhi. A un certo punto un branco di zebre attraversò il sentiero, un po' al passo, un po' al trotto, indifferenti a noi. Vidi alcune gazzelle e antilopi, altre zebre e un paio di elefanti in lontananza. Ero più interessato alle due o tre decine di alberi che sembravano spuntare dritti davanti a noi, proprio sul nostro sentiero. Fissavo quegli alberi e la loro ombra fresca. Volevo fermarmi, speravo tanto che ci saremmo fermati, ma ero deciso a non chiedere niente a Eshu. Finalmente raggiungemmo gli alberi. L'ombra non era fresca, ma era comunque ombra. E c'era un pozzo per l'acqua, un cerchio di mattoni di
fango e un otre di pelle appeso a una leva. «Questa è acqua buona» annunciò Eshu. «Dopo di te» disse David, cedendo il passo al vecchio. Poteva essere una forma di gentilezza, ma ero sicuro che David si stava servendo di Eshu per vedere se l'acqua era buona. Il vecchio sorrise, scosse la testa come per una segreta battuta di spirito e tirò su un otre pieno di acqua. Bevve una lunga sorsata, sostò, poi bevve di nuovo. «Dev'essere buona» disse Christopher. «Anche se venderei quello che resta della mia anima per una birra fresca.» Bevemmo tutti, poi ci sedemmo sotto gli alberi e mangiammo un po' del cibo che ci eravamo portati dall'Olimpo. La faccia di April era rossissima, tutta scottata. Si era riempita di lentiggini. «Non avevo mai notato che avevi le lentiggini» osservò Christopher. «Non le ho. Di solito. È questo sole.» Si toccò la fronte e il naso cautamente. «Dobbiamo procurarti un cappello, April» le dissi. Eshu fissò April con interesse. «Il sole ti brucia la faccia.» «Già. Temo che noi rossi non siamo fatti per il sole africano.» «Forse il sole non arderebbe tanto se tu gli chiedessi di nascondere il suo volto» suggerì Eshu. «Se glielo chiedessi?» ripeté April, divertita. «Solo questo? Basta chiedere?» Eshu strinse le spalle ossute. «Dovresti anche offrire un sacrificio, è naturale.» «Come? Che significa?» Eshu puntò il dito. «Uno di quei babbuini andrebbe bene.» C'era un branco di babbuini a un centinaio di passi dalla piccola oasi. Perfettamente visibili e udibili: li sentivo gridare e berciare. Non c'erano, un attimo prima. Li avrei sicuramente notati. Lanciai un'occhiata a David. Sì, era sorpreso quanto me. Strinse gli occhi con sospetto. Bene. Eshu si stava scoprendo. «Tu mi stai chiedendo di sacrificare un babbuino?» gli chiese April, più divertita che altro. «Oddio, non credo proprio.» Eshu alzò le spalle.
«È una tua scelta.» La conversazione si spostò su un altro argomento, poi scemò. Eravamo stanchi, assonnati con tutto quel sole, storditi. Immagino che ci sia un buon motivo se nei climi tropicali senza aria condizionata si usa fare la siesta. Notai che April si era già addormentata, buttata su un fianco; le palpebre vibravano come se stesse sognando. Eshu si dondolava lentamente, avanti e indietro, avanti e indietro, in silenzio. E all'improvviso capii. Senna? Sì, lei stava fissando intensamente il vecchio. Sì, Eshu lo stava facendo di nuovo. Ad April, questa volta. Mi alzai, mi avvicinai ad April e la scossi bruscamente. «Svegliati.» Si svegliò gridando. Gridava, gridava, si batteva sulla faccia con le mani. «Che diavolo...» disse David, saltando in piedi e sguainando la spada. «Maledizione, April! Mi hai fatto prendere un colpo» esclamò Christopher. April si stava calmando, ma piano. Si toccava la faccia, le braccia, si guardava le braccia e le gambe, si alzava la maglietta per guardarsi la pancia. Aveva gli occhi pieni di lacrime. La faccia stravolta. «Un incubo» sussurrò, quasi tra sé. «C'entravo anch'io, per caso?» chiese Christopher con aria innocente, poi rise malizioso. «Perché tu, April, qualche volta compari nei miei sogni...» April cercò di scrollarsi di dosso il ricordo orribile e insistente del sogno che non era un sogno. Cercò persino di rispondere per le rime a Christopher. «Se avessi sognato te, Christopher, avrei...» Perse il filo del discorso e guardò Eshu duramente. «Ma tu chi diavolo sei?» lo aggredì. È raro sentire April usare delle parole forti. Drizzammo tutti le orecchie. «Sono Eshu.» «Ah sì? È il tuo nome. E che cosa sei?» Sembrò assolutamente sconcertato, ma era una finta. Stava cercando di nascondere un ghigno cattivo. «Io sono quello che vedi.» «E hai un lavoro, Eshu?» gli domandò Christopher. «Sì. Sono un messaggero.» «African Express?»
Eshu allargò le braccia, un gesto di umiltà. «Sono un semplice messaggero. Quando qualcuno ha un messaggio da mandare, io lo porto a destinazione.» «E adesso che messaggio stai portando?» gli chiesi. Eshu si guardò le mani, le girò e le rigirò. «Le mie mani sono vuote.» «Toglietevelo di torno» disse Senna. «Perché?» volle sapere David. «Possiede dei poteri» rispose lei, in tutta semplicità. «Umilmente mi congedo» disse Eshu con una specie di inchino cortese. «Per raggiungere la vostra meta, continuate sempre in questa direzione. Ma dovrete anche essere pronti a fare i necessari sacrifici.» «È una minaccia?» ribatté David. Eshu sorrise, quasi con gentilezza. «È un messaggio.» Il vecchio si girò e si incamminò. Sembrava inerme, anche un po' solo e sconsolato. «Okay, rimettiamoci in marcia» disse David. Nessuno protestò. April si stava ancora toccando la faccia. Stava ancora cercando bruciature che non c'erano. CAPITOLO IX Mi affiancai ad April. «Ehi, mi è venuta un'idea! Prendi lo zaino, piegalo in due, tira giù le bretelle e legale insieme. Servirà da cappello. La roba puoi tenerla nella maglietta.» Provò. Ci vollero un paio di tentativi, ma alla fine funzionò. «Grazie.» «Non c'è di che. Vorrei averci pensato prima. Allora? Raccontami.» «Ti racconto che cosa?» «Tu lo sai che cosa. Tu mi dici il tuo, e io ti dico il mio.» Non aveva immaginato che anch'io avessi avuto un "incubo" come il suo. Quando glielo dissi ne fu sorpresa. «Il sole» disse. «Il sole mi stava bruciando viva. La pelle mi si riempiva di bolle, come la pelle di un pollo in forno. Si staccava. Brandelli di pelle che prendevano letteralmente fuoco. I capelli bruciati. Le sopracciglia. Gli
occhi... come due uova sode. Era incredibilmente vivido. Sembrava assolutamente vero.» Le raccontai il mio incubo. «Credi che sia Eshu?» mi chiese. «Tu no? Anche Senna pensa che sia lui. L'hai sentita. Secondo me ha una versione stregonesca del "sesto senso". Riesce a riconoscere quelli come lei.» «Sarà. Comunque, se n'è andato» disse April. Perlustrai l'orizzonte. Non c'era traccia del vecchio. Gli elefanti erano più vicini. E adesso si vedevano delle sorprendenti montagne arrotondate e verde scuro, che di punto in bianco si innalzavano dall'erba. Erano ancora molto lontane, ma questo passaggio così improvviso dalla savana ai pendii lussureggianti e coperti dalla giungla era inquietante. Camminammo ancora per due ore prima di trovare un altro posto dove fermarci a riposare. C'erano meno alberi, questa volta, ma eravamo vicini a un torrente che scendeva impetuoso dai verdi pendii. Ma questa volta vedemmo subito la colonia di babbuini. Erano più a valle, il che probabilmente era una cosa buona. A nessuno andava di bere l'acqua che avevano usato loro. «Che ci siano i germi qui a Everworld?» si chiese Christopher inginocchiandosi a raccogliere l'acqua con le mani. «Buona domanda» dissi. «Una domanda molto interessante. Chissà. Se gli dei hanno portato con sé, concretamente, dei pezzi del vecchio mondo, è probabile che abbiano importato anche i batteri e i virus e varie forme di vita microscopica. Se invece tutto questo è il prodotto di una specie di strana fotocopiatrice...» «Ricordatemi di non fare più domande interessanti» mi interruppe Christopher. «L'acqua è buona. Se mi viene qualche orrenda malattia africana, sapremo che ci sono i germi anche a Everworld.» «Potremmo averli importati noi» osservai. «Potremmo diventare dei pericolosissimi veicoli di qualche malattia... come quando gli europei portarono il vaiolo nel Nuovo Mondo e fecero morire centinaia di migliaia di indiani, che non avevano le difese immunitarie.» «Ho un'altra domanda per te» disse Christopher. «Com'è che solo gli uomini bianchi hanno portato le malattie in America? Tutti stanno sempre a parlare degli uomini bianchi che hanno portato il vaiolo e chissà che altro. E i neri non hanno mai portato niente? Ma andiamo! L'Africa ha delle malattie che il resto del mondo non vuole nemmeno pensare che esistano.»
«Christopher!» lo avvertì April. «No, è una buona domanda» dissi, un po' allarmato dal fatto che Christopher tutto d'un tratto mi portasse tanti argomenti di riflessione. Christopher fece il segno di vittoria. «Grazie. Grazie mille.» «Ehi!» esclamò David. «Ehi, ragazzi! April! April, vieni qui.» Sembrava agitato. Si era allontanato di poche decine di metri, seguendo il fiume verso monte. Noi tre lo raggiungemmo di buon passo. Fissava incerto una bambina coperta da una semplice veste. «Oh!» esclamai. Non molto intelligente, come osservazione, ma non mi venne in mente altro. «È una bambina» disse Christopher. David si rivolse allora ad April, visibilmente nervoso. «April?» April alzò gli occhi al cielo e scoppiò a ridere. Poi si inginocchiò vicino alla bambina, che se ne stava con i piedi in dentro, la pancina in fuori e il pollice in bocca. Doveva avere cinque o sei anni, pensai. «Ciao. Ciao, piccolina. Io sono April. E tu, come ti chiami?» «Che parli la nostra lingua?» si chiese David. «David» replicai «qui per qualche strana ragione tutti parlano la nostra lingua, compresi i draghi, i maiali e i cavalli alati. O quanto meno, noi lo sentiamo così.» «Buona osservazione.» «Non avere paura, tesoro» continuò April con la sua voce più suadente. «Sai dirmi come ti chiami?» «Mi chiamo Elegbara» rispose con un filo di voce la bambina. «Elegbara? Ma che bel nome!» disse dolcemente April. «Dove sono la tua mamma e il tuo papà?» Elegbara sembrò confusa. Poi alzò un dito. Indicò la direzione dove eravamo diretti. «Sono venuti gli spiriti cattivi e loro sono scappati. Il nostro villaggio è da quella parte.» «Gli spiriti cattivi?» ripeté David, già rientrato nel ruolo dell'eroico condottiero, scrutando l'orizzonte. «Gli Spiriti Cattivi? Una rock band spaccatimpani?» scherzò Christopher. «Io starei più sull'interpretazione letterale» borbottai.
«Anch'io» ammise Christopher. «Stavo solo cercando di aggrapparmi a una speranza per qualche minuto in più.» «Che cosa sono questi spiriti cattivi?» chiese David alla bambina. «Spiriti cattivi, malvagi» rispose lei con un'alzata di spalle, come se David le avesse chiesto dov'era il cielo. «E perché sono venuti qui a cercare i tuoi genitori?» La bambina sembrò pensarci su e si morse il labbro. «La nonna dice che tutti devono fare i sacrifici per mostrare rispetto ai grandi e sommi dei e agli Orisha. Se non si fanno i sacrifici, se non si mostra rispetto, poi arrivano i guai.» «Però! Che discorsetto, per una bambina così piccola» commentai. «E mi pare di sentir parlare di sacrifici un po' troppo spesso, qui... Senna!» Senna se ne stava per conto suo, in disparte come al solito. Adesso stava osservando i babbuini con interesse. Non aveva ancora visto la bambina. Quando la chiamai, si avviò lentamente verso di noi, giocando con un filo d'erba. Restò di sasso quando vide la bambina, che si mise a ridere allegramente. La risata passò dalla voce in falsetto di bimba a una voce roca da vecchio. Poi Elegbara si trasformò in Eshu. David imprecò e sguainò la spada. «Volevo darti il beneficio del dubbio, vecchio, ma sai che ti dico? Questa volta hai passato il segno. Vattene, se vuoi restare vivo. Se resti, ti staccherò la testa dal collo con un colpo solo.» Eshu rise e batté le mani, deliziato. «Oh, ti prego, non farmi del male, grande guerriero!» «Vattene e sta' lontano da noi» gli ordinò David. Eshu smise di ridere. «Voi entrate nella terra di Eshu e ordinate a Eshu di andarsene?» «Esattamente» confermò David, secco. Eshu fece un sorriso freddo e duro come acciaio. «Eshu se ne andrà. Ma i sacrifici si faranno. Si dovrà dimostrare rispetto. Questa non è la vostra terra. È la nostra.» Si girò e si allontanò, tornando a trasformarsi, mentre camminava, nella bambina. «Non sarà Loki, ma è comunque una spina nel fianco» disse Christopher. «Sacrificio. Sembra la parola chiave in questo mondo» osservai. «Come dicevo, la sento troppo spesso, questa parola. Lui vuole qualcosa da noi.
Vuole che...» All'improvviso un grido dall'alto. Un grido non umano. La chioma dell'albero sotto cui stavamo era piena di scheletri scuri, fosforescenti, denti insanguinati, lunghi artigli al posto delle mani. E d'un tratto cominciarono a cadere, a buttarsi dagli alberi, tutti addosso a noi. La lancia. Dov'era? Dove l'avevo lasciata? Due demoni urlanti ed esultanti mi furono addosso, afferrandomi con i loro artigli. Mi difesi a calci e a pugni. I miei colpi arrivavano a segno, ma non avevano effetto. Colpivo qualcosa di solido, ma le creature ridacchiavano e mi investivano di zaffate di alito fetido e mi afferravano, mi artigliavano la carne, mi tiravano le braccia verso la bocca, come se volessero mangiarmi. Tutti e cinque lottammo a colpi di spada e di lancia, a pugni e a calci, in una frenesia selvaggia, ma avemmo la peggio. Quattro demoni mi afferrarono e mi sollevarono da terra. Gridai, ma non c'era nessuno che potesse aiutarmi. Era un altro sogno? Stava succedendo a tutti quanti. Era reale? Le creature mi portarono via, ma non mi divorarono: mi pungolarono e mi pizzicarono, facendo il gesto di volermi mangiare, come per prendersi gioco di me. E continuavano a gridare e a strillare come scimmie sataniche. E d'un tratto spiccarono un balzo tutte e quattro e io, divincolandomi e urlando tra gli artigli che mi tenevano, volai su un lungo ramo basso. Corsero lungo il ramo e con grande facilità mi portarono più su, nelle ombre fitte e scure dell'albero. Udii le voci dei miei amici, grida, minacce. Anche loro venivano portati sull'albero, anche loro incapaci di difendersi. Una delle creature mi guardò con occhi lascivi e sputò un lungo filo vischioso che mi si avvolse intorno al collo, intorno al busto, intorno al corpo, mi avviluppò tutto, mi intrappolò le mani lungo i fianchi. Riuscivo a malapena a respirare, e ogni volta che respiravo la corda si stringeva di più. Altra corda vischiosa, come un filo di ragnatela. Ecco cos'era: gli scheletri erano diventati ragni a otto zampe, i musi ghignanti, bramosi, sbavanti. Ero completamente avvolto dal filo, immobilizzato, legato a un grosso ramo, quasi incapace di respirare. Un sogno? Dov'era l'incongruenza interna? L'altro sogno era meno sen-
sato. Nell'altro sogno non c'era il dolore a confermare i fatti. Qui sì. Sentivo tutto. Era tutto come doveva essere. Non c'erano falle. Non c'erano inconsistenze rivelatrici. Era tutto vero. Questa volta Eshu si era stancato dei sogni premonitori. Questa volta voleva ucciderci. I ragni celebravano la vittoria scorrazzando allegramente sul mio corpo, lungo i rami, su e giù dall'albero. Vidi David, legato al tronco a testa in giù, legato come me. Vidi i capelli rossi di April penzolare da un ramo più alto. Vidi una gamba di Senna, libera: scalciava, ma venne afferrata e stretta da corde che si muovevano con una volontà propria. Ci avevano in pugno. Uno dei mostri salì sopra di me, mi piantò il muso in faccia e vomitò. La materia appiccicosa e fetida mi inondò la faccia, mi bloccò il naso. Aprii la bocca per respirare, ma mi si riempì di quella roba orrenda. Cercai di sputarla, ma ce n'era ancora, ancora! Ero stordito, mi sfuggiva il pensiero, stavo per perdere conoscenza, mi girava la testa, poi... aria! La respirai, sputai ancora, respirai insieme l'aria e quella roba schifosa. Cercavo di infilare la mano in tasca, volevo arrivare al coltellino in acciaio Coo-Hatch, la lama che avrebbe tagliato qualsiasi cosa, ma ero legato troppo stretto. E le corde si muovevano come se fossero animate da un'intelligenza propria. Percepirono i miei sforzi e si strinsero di più per bloccarmi. Poi, un odore che portò con sé una paura atavica che mi toccò le corde più profonde e quasi mi fece svenire. Fumo. Fumo! E ora... calore. L'albero era in fiamme. CAPITOLO X Le fiamme guizzavano, lingue di fuoco, rosse, gialle, dorate si alzavano dal basso. Doppio tormento: il fuoco e la paura del fuoco. Stavo per bruciare vivo. Le fiamme avvolsero il tronco dell'albero in un lampo, un fuoco innaturale, troppo veloce, avanzava troppo rapidamente. Le fiamme salirono lungo il tronco e si fermarono proprio sotto a David. Si propagarono sui rami, come se qualcuno li avesse cosparsi di benzina. Sentii delle grida, alcune umane, altre no. I demoni danzavano tra le fiamme, felici nel loro elemento. Si riempivano le mani di fuoco e se lo gettavano sul viso, come se fosse acqua, e ridevano al vederci gridare,
piangere, implorare. La voce di David era un grido roco, continuamente ripetuto. O era la mia? Dalla gola mi usciva un suono agghiacciante, un suono che non avrei mai saputo produrre di mia volontà, un suono spremuto dagli angoli più oscuri e remoti della mia mente. Soffocavo nel fumo, nel vomito del demone, nel mio stesso terrore. Poi... un sibilo, un movimento velocissimo, un'ombra roteante e scintillante. Colpì il tronco e proseguì il volo. Il tronco scivolò giù, tagliato in obliquo a pochi centimetri dai piedi di David. Altri sibili, altri ancora. Una lama passò attraverso una delle creature, che non venne ferita, ma smise di ridere. Un altro sibilo, ed ecco che cadevo. Picchiai a terra violentemente. Tutto il grosso ramo si schiantò a terra e il momentaneo vuoto d'aria risucchiò le fiamme. I Coo-Hatch! La lama successiva arrivò con una precisione sbalorditiva. Era un vento sibilante e tagliò le corde che mi legavano il petto. Le tagliò con una precisione tale che nemmeno mi sfiorò la pelle, o la maglietta. Le corde si allentarono. Mi liberai con un paio di strattoni. C'era fuoco dappertutto, rami che cadevano, il cielo stesso, sopra di me, sembrava bruciare. I demoni, o qualsiasi cosa fossero, strillavano e danzavano come se tutto questo fosse fonte di ira funesta ma anche di immenso godimento. Ballavano tra le fiamme e poi formarono un cerchio e continuarono a saltare e a piroettare e a fare capriole, ridendo di gusto. Al centro del cerchio, Eshu. Di nuovo un vecchio, ma trasformato. Non più impolverato e curvo. Era alto e forte e rideva con evidente compiacimento. Aiutai April a slegarsi e a rimettersi in piedi. E insieme aiutammo Christopher. David si era arrangiato da solo. Adesso stava avanzando con la spada in pugno verso il cerchio degli spiriti. «David, no!» gridò April. «Sì, invece!» esclamò Christopher, che recuperò la sua lancia e corse a raggiungere David. David sollevò la spada e la calò con forza devastante su uno dei demoni. La lama di Galahad colpì la creatura dove il collo si univa alle spalle. La testa ghignante e sporca di bava rotolò sull'erba, senza smettere di sghignazzare. Rotolò finché non finì sotto un raggio di sole. Il demone lanciò un gridolino beffardo, divenne cenere e sparì. Il suo corpo continuò
a ballare. Christopher calibrò la lancia e la scagliò contro Eshu. Era troppo vicino per mancare il bersaglio. La punta di bronzo colpì il vecchio al petto, proprio sotto al cuore. Metà della punta penetrò. Eshu, con calma, sfilò la lancia. Sulla pelle fresca, ora giovanile, non c'era traccia di ferite. La scagliò in alto. La lancia si incendiò e divenne cenere prima di ricadere ai piedi di Christopher. «Perché attirate su di voi tanti guai?» ci chiese Eshu. Il fuoco era sparito. Il fumo veniva spazzato via da una brezza fresca. «A me sembra che sia tu quello che porta guai» dissi. Eshu scosse la testa, rammaricato. «Siete ciechi e rifiutate di vedere. Chi siete voi per ignorare gli dei? Chi siete voi per rifiutare di offrire agli dei ciò che è ad essi dovuto?» «Quali dei?» chiese Christopher. «I grandi e sommi dei. E noi, gli umili Orisha.» David sembrava combattuto tra la razionalità e la violenza. Avrebbe voluto provare la spada su Eshu. Ma aveva già visto il misero effetto della lancia su quest'uomo non più così vecchio. «Precisamente, che cos'è che vuoi da noi?» gli chiese. Il cerchio dei demoni si rimpicciolì. Non restarono che ragni, grossi come le tarantole. Sparirono nella terra. Mi sfuggì un sospiro. Alzai gli occhi e vidi che dall'albero mozzato e arso stavano già spuntando nuove foglioline verde tenero. Dai rami tagliati, dal pezzo di tronco caduto crescevano radici, vipere e lombrichi che entravano sinuosi nella terra. Eshu fece un sorriso conciliante. «È consuetudine offrire un sacrificio.» «Ma quale sacrificio? Di che cosa stai parlando?» Eshu sembrava perplesso. Come se pensasse che non potevamo essere così tonti. E alcuni di noi non lo erano affatto. «Vuole che noi offriamo un sacrificio» spiegò April. «Sai, come nella Bibbia: si sacrificava a Dio un agnello, un montone, un maiale, qualcosa.» «Magari non un maiale» osservò David, secco. «Almeno, non nel Vecchio Testamento.» E rivolto a Eshu: «È così? È tutto qui? Dobbiamo ammazzare una pecora o qualche altro animale?» «E offrirlo in sincero sacrificio ai grandi e sommi dei che crearono tutto questo mondo. E agli Orisha, che vigilano sulle bestie selvatiche e sul sole cocente e sugli spiriti malvagi.»
«E dove la troviamo una pecora?» si chiese Christopher. «Mostraci qualcosa da sacrificare, vecchio, e noi faremo il sacrificio» dichiarò David, assolutamente disgustato. «No.» Fui io a dirlo, e subito sentii un'eco. April. Avevamo parlato entrambi nello stesso momento. Mi sorpresi. Anche lei si sorprese. Sentii Senna sospirare. Era proprio alle mie spalle. «Dategli la sua pecora e andiamo avanti.» «No» ribatté April. «Io non faccio nessun sacrificio agli idoli. Mi dispiace tanto, ma non se ne parla nemmeno. "Non avrai altro Dio all'infuori di me." Niente idoli.» Tossì, con i polmoni ancora pieni di fumo. «Niente sacrifici agli idoli. Non ti so citare il passo a memoria, ma l'idea è questa. Primo e secondo comandamento, credo.» «Stai scherzando!» esclamò Senna con un sorriso ironico. «No. Voi fate quello che volete. Io non faccio sacrifici a falsi dei.» «Falsi? Che cosa ci vedi di falso?» rifletté Christopher. «Ce le stavano suonando di gusto, e se siamo salvi è solo grazie ai Coo-Hatch.» Si guardò in giro. «A proposito, dove sono i Coo-Hatch? Siamo in debito con quei ragazzi. E dai, decidiamoci! Diamo a questo pagliaccio la sua pecora morta e leviamo le tende. Io voglio essere il più lontano possibile dai suoi ragnidiavoli-ballerini prima di sera. È stato già abbastanza brutto alla luce del sole...» «Io sono con April» dichiarai. «Come dici?» fece Christopher. «Ma fammi il piacere, Jalil! Tu non credi nemmeno in Dio. Io ci credo e sono disposto a infrangere un comandamento, con tutte le conseguenze. Del resto, ho già infranto gran parte degli altri, e allora, uno in più o uno in meno, che differenza fa?» concluse ridendo. «Non mi importa dei comandamenti. Non è questo il punto. Eshu sta cercando di costringermi ad accettare lui e i suoi dei come reali. E io non ci sto.» Scossi la testa. «Non ho nessuna intenzione di inginocchiarmi davanti alla sua banda, né davanti a Loki o a Huitzilopoctli e nemmeno davanti ad Atena. Prima il nostro Eshu ha cercato di spaventarmi e non ha funzionato. Non funzionerà neanche adesso. Mi dispiace tanto, ma non ho nessuna intenzione di cadere in ginocchio ogni volta che un cretino immortale mi tira addosso un fulmine.» Christopher buttò in alto le braccia. «Finalmente abbiamo April e Jalil dalla stessa parte. Cioè dalla parte
dell'idiozia più totale. Giovanna d'Arco e Martin Luther King, finalmente insieme.» Senna si rivolse direttamente a Eshu. Sembrava un avvocato che cercava di trovare un compromesso in una vertenza. «Che cosa ci vuole per far contenta la tua gente? Tre di noi sarebbero lieti di partecipare, e offriranno qualsiasi sacrificio venga richiesto. Questi due hanno opinioni diverse, ma forse potremmo trovare un accordo.» Eshu adottò un tono simile. «Io sono un umile messaggero. Porto le parole dei sommi dei agli uomini. E ricordo agli uomini i loro obblighi nei confronti degli Orisha.» Allargò le braccia e sorrise. «Io non chiedo niente per me, pur essendo anch'io uno degli Orisha, e gran parte degli uomini... degli uomini ragionevoli... offrirebbero anche a me un sacrificio. Ma non posso rinunciare alle pretese dei miei fratelli e delle mie sorelle. E nessuno può parlare per i grandi e sommi dei.» Senna annuì. «Gli Orisha sono una specie di divinità minore?» Eshu rifletté, poi annuì. «Sì. Gli Orisha possono essere conosciuti e compresi e invocati dall'uomo mortale. I grandi e sommi dei sono oltre ogni capacità di comprensione.» «Perfetto. Quando andrò all'università, non avrò nemmeno bisogno di seguire le lezioni di Fondamenti di Mitologia Africana. So già tutto» commentò Christopher. «Voi siete venuti insieme in questa terra» disse Eshu. «Voi avete parlato contro gli dei di altre terre. Questo ci fa adirare. I mortali devono mostrare rispetto per gli dei. È saggio. È prudente.» «Aspetta un momento» disse David. «Adesso vuoi decidere anche quello che possiamo o non possiamo dire?» Christopher scoppiò in una risata amara. «Eccolo che arriva. Il Primo Emendamento della Costituzione americana.» «Un mortale saggio non parla in termini sprezzanti degli dei» chiarì Eshu, con gli occhi di ghiaccio. «Un mortale che manchi di saggezza può dover sopportare gravi calamità in questo mondo pericoloso.» Era chiaramente una minaccia e la mascella di David si contrasse. «Tu non mi dici quello che posso dire. Nessuno mi dice quello che posso dire.»
«Ehi, Primo Emendamento! Vieni, ti presento Secondo Comandamento e Charlie Darwin...» esclamò Christopher. Poi, rivolto a Senna: «È davvero penoso trovarmi schierato con te, Senna. Mi viene il sospetto di stare dalla parte del torto.» «Tre contro due. Niente sacrificio» disse David a Eshu. «Tu non puoi dirmi quello che devo dire, non puoi dire ad April chi deve pregare e a Jalil non puoi dire proprio niente.» A questo punto Senna esplose. Era quasi sempre la calma in persona ma, se le mettevi i bastoni tra le ruote, poteva diventare veramente violenta. «Idioti. Inguaribili idioti» gridò. «Ma dove vi credete di essere? Non siamo in chiesa. Non siamo in America. Non è una scuola di filosofia, Jalil. È Everworld, brutti stupidi asini ignoranti miopi testardi. Brutti cretini sprovveduti senza cervello, queste non sono divinità su cui stare a discutere. Le affrontate se ne avete il potere, ma se non l'avete, quel potere, allora fate ciò che vi dicono di fare!» «Okay, quattro contro uno» annunciò Christopher, scuotendo tristemente la testa. «È impossibile che sia giusto stare dalla sua parte.» L'esplosione di Senna aveva fatto trasalire David. Ma mentre lei snocciolava gli insulti, gli occhi di David erano diventati due temibili fessure. Fui contento di vederlo. Atena aveva costretto Senna a liberarlo dal controllo che esercitava su di lui. Era ancora innamorato di lei, povero sciocco, ma non era più il suo burattino. «No, Senna, questo è quello che pensi tu» le disse David, quando finalmente lei fece una pausa per respirare, rossa in faccia e tutta tremante. «Per te è solo una questione di potere. Ma non per me. Ovunque vada, ho i miei diritti. In Irak, in Cina, a Everworld, non importa dove, ma io ho il diritto di dire quello che voglio, ed April ha i suoi diritti e così pure Jalil. Anzi, ti dirò di più: sono contento che ci siamo chiariti su questo punto. Forse dovremo scendere a patti con questi dei, ma ciò non significa che dobbiamo piegarci alle loro leggi.» Feci un grande sorriso a Eshu, deliberatamente provocatorio, per essere sicuro che capisse di aver perso la partita. Ma lui sembrava perplesso, non sconfitto. «Le vostre parole non hanno significato» disse. «Niente pecora» spiegai. «Niente montone, niente babbuino, niente di niente. Sei un messaggero? Porta questo messaggio: siamo stufi di farci mettere i piedi in testa da qualsiasi imbecille con qualche potere magico.
Volete provare ad ammazzarci? Ehi! Ci hanno già provato degli esperti di prim'ordine e non ci sono riusciti. Va' a dire ai tuoi grandi dei e ai tuoi piccoli dei e ai tuoi dei così-così e a tutti gli dei che incontri in giro che noi non siamo i giocattoli di nessuno. Siamo uomini. E donne. Anzi, dirò di più: siamo americani. E combatteremo per i nostri diritti.» Bel discorso. Eravamo tutti contenti di noi, mentre guardavamo Eshu che si allontanava scuotendo lentamente la testa. La sfida è una cosa meravigliosa. Ci incamminammo verso l'Egitto, raggianti, sicuri di essere nel giusto. Tutti tranne Senna, che si mantenne prudentemente a un centinaio di passi di distanza da noi. Come notò Christopher, si teneva giusto fuori dal raggio d'azione di un possibile fulmine divino. CAPITOLO XI Camminavamo e il sole intanto volgeva al tramonto. Non successe niente, eravamo solo sempre più stanchi e più assetati. Anzi, no, una cosa successe: il sole scivolò giù dal cielo, verso l'incontro con la linea dell'orizzonte. Si stava facendo notte. La notte di Everworld, una notte senza le luci delle strade e delle auto, senza il bagliore azzurro degli schermi televisivi. Una notte nera-nera, di quelle che spaventarono centinaia di generazioni di uomini, che potevano solo stringersi insieme e ascoltare gli ululati dei lupi e il basso ruggito del leopardo. Cercammo di tenere viva la consapevolezza di essere nel giusto, ma era una causa persa. I principi morali sono una debole forza. La paura è acciaio temprato. I principi morali, una tendina di pizzo. «Io credo che faremmo meglio a fermarci» disse David. «Laggiù.» «Dove?» chiese Christopher. «Nella giungla?» Eravamo arrivati ai piedi delle montagne coperte di alberi. Restavano strane anche da vicino, così come ci erano parse strane da lontano. Mancava del tutto il passaggio graduale dal giallo dell'erba al verde della giungla che copriva i fianchi dei monti. Era come se qualcuno avesse colorato attentamente degli spazi definiti da un segno a matita. Giallo qui, verde là. Punto. «No, non nella giungla, ma vicino» precisò David. «Ci servirà della legna per il fuoco e qui non ce n'è. Dovremmo trovare dei rami secchi già all'inizio dei pendii. E poi, guardate, abbiamo due tipi di territorio totalmente diversi, giusto? Quindi forse anche gli animali saranno diversi. For-
se, se i leoni ci attaccano qui nell'erba alta, possiamo scappare nella giungla, e magari non ci seguiranno.» Era una teoria abbastanza credibile. Ma non ci avrei mai scommesso. Trovammo un rigagnolo che scendeva dal monte e decidemmo di fermarci lì, a un centinaio di metri dall'inizio della giungla. La linea degli alberi aveva su di noi un effetto deprimente. La nostra ultima esperienza tra gli alberi non era stata delle migliori. E questi erano boschi sinistri, bui, molto fitti. Il monte si ergeva ripido e nascondeva la luna, se c'era. Mi offrii volontario per andare a cercare legna. April venne con me. La psicologia della cosa era sin troppo evidente. Avevamo entrambi la sensazione che qualsiasi cosa ci fosse capitata, sarebbe stata per colpa nostra. Eravamo nella stessa padella. «Non pensi che forse avremmo dovuto tenere la bocca chiusa e basta?» le chiesi mentre ci chinavamo a raccogliere pezzi di legno crivellati dalle termiti, il più vicino possibile ai margini della foresta. «Eh sì» mi disse. «Stavo giusto pensando che sarebbe stata una grande idea. Che cosa succederà, secondo te?» «Qualcosa di molto brutto» dissi. «Eshu ha colpito due di noi con le allucinazioni. Poi, visto che non l'avevamo ancora capita, ci ha portato i demoni, gli spiriti cattivi, quello che erano. Aveva già alzato il tiro, e questo prima che lo liquidassimo definitivamente.» «Qualunque cosa succeda, tutti daranno la colpa a noi.» «E a David» aggiunsi. «Anche lui era con noi.» April sorrise. Mi raddrizzai e sentii le ginocchia che scricchiolavano. «Che c'è da ridere?» «Credo che David si sia comportato come un buon leader, forse. Ci ha visti molto determinati, e così si è preso una parte della responsabilità sulle sue spalle.» Non mi era venuta in mente questa cosa. «Davvero lo credi? Non sono bravo a leggere nell'animo della gente.» «Gran parte delle persone hanno difficoltà a prendersi le proprie responsabilità. David ha difficoltà a non prendersele. Cerca sempre di fare l'eroe.» «Tu lo ammiri.» «Tu no?» «Sì, immagino di sì» ammisi. «Ha paura. Me ne accorgo anch'io. Qual-
che volta lo guardo e mi aspetto di vedergli scoppiare la testa. Aspetto che crolli. Succederà, prima o poi. O forse non succederà mai, non lo so.» April annuì e continuò a raccogliere legna. Aveva le braccia cariche. Doveva chinarsi e raccogliere i rametti con le dita. Il buio, che si allungava sulla distesa erbosa come un'onda, già si infittiva dietro gli alberi. «Se proprio deve crollare, speriamo che non sia stanotte» disse April. «Già.» «E i Coo-Hatch? Che sta succedendo?» Alzai le spalle. «Credo che stiano tutelando il loro investimento. Hanno visto che eravamo nei guai, e a loro serviamo vivi. È la mia unica fonte di ottimismo. Probabilmente sono ancora qui, da qualche parte, e vogliono ancora vederci arrivare in Egitto.» Sentii un rumore di passi e mi girai di scatto, lasciando cadere tutta la legna. Il cuore si mise a battere a mille. Poi vidi che era solo Christopher. «Napoleone mi ha mandato a tagliare dei pali» annunciò Christopher puntando il pollice verso il nostro accampamento. «Mi serve Excalibur.» «Dei pali?» chiese April aggrottando la fronte. «Dei pali. Degli alberelli da appuntire e piantare in terra. Così possiamo nasconderci, mentre ce la facciamo addosso e preghiamo l'angelo custode che ci salvi la pellaccia.» Risi. Il quadretto era sin troppo realistico. Sin troppo probabile. Ma avevamo ancora un'ora di mezza luce, il che significava un'altra mezz'ora di spavalderia. Raccogliemmo la legna per il fuoco e tagliammo i pali e li piantammo nel terreno. Erano di diverse altezze, da quindici a sessanta centimetri da terra. Non così fitti come avremmo voluto, ma erano su due file, e nell'insieme formavano una palizzata piuttosto imponente, intorno a un accampamento di non più di tre metri di larghezza. Avevamo acceso un fuoco, e tutto intorno, come un muretto interno, avevamo ammonticchiato i vari pezzetti di legno mezzi marci che avevamo raccolto. Non c'era spazio per camminare. E spazio appena sufficiente per sdraiarsi, un po' ammassati. Le termiti mi facevano un brutto effetto. Ogni volta che buttavamo sul fuoco un pezzo di legno, scappavano a frotte, solo per finire in cenere. Immagino che, dal punto di vista delle termiti, fossimo noi gli dei indifferenti ed assassini. Avevamo la spada di David, le lance che ci restavano e il mio coltellino.
Avevamo il fuoco, e avevamo i pali appuntiti. E da qualche parte, nell'oscurità che si infittiva rapidamente, avevamo anche i Coo-Hatch, con le loro lame rotanti, straordinariamente affilate e precise. «Io ti battezzo Campo Porcospino» proclamò Christopher. «E propongo di metterci subito a dormire, tornare nel mondo reale e sperare in bene.» «Buona idea» disse David. Christopher si buttò per terra e con le mani batté sull'erba alla sua destra e alla sua sinistra. «April? Senna? C'è posto per tutte e due, qui. Voglio dire, se proprio dobbiamo morire, perché non concludere in bellezza? Una combinazione a tre? La buona e la cattiva, il dolce e l'amaro, la santa e la strega. David e Jalil promettono di non guardare.» Senna lo ignorò completamente. Era entrata nel nostro accampamento solo con estrema riluttanza. Ce l'aveva con noi, era evidente. E la cosa un po' mi confortava. Mi piaceva il fatto che avesse dovuto scegliere tra stare fuori tutta sola nella notte e rimanere con noi. «Non c'era molta scelta, vero, Senna?» le dissi. «O là fuori con gli animali selvatici, oppure qui dentro con questo branco di cretini...» Mi degnò di un'occhiata acidissima. Poi rise, in tono derisorio. «Va' a dormire, Jalil» esclamò. «Sarà bello per te passare dall'altra parte e darsi una bella ripulita.» Non dissi niente. Cercai di non lasciar trasparire niente. Senna sapeva che nel mondo reale soffrivo di un disturbo ossessivo-complusivo. Era la sua arma contro di me. La minaccia di dirlo agli altri, di mostrarmi a tutti come un essere debole e patetico era sempre presente. Era come una spada di Damocle. Ero deciso a non permettere a Senna di perseguitarmi. Ma, per quanto fingessi il contrario, temevo costantemente che gli altri lo venissero a sapere. Volevo dire qualcosa di provocatorio. Ma avevo esaurito tutte le scorte con Eshu. Senna ghignò. Sapeva che stavo bluffando. Sapeva che la sua minaccia funzionava, almeno un poco, ma le bastava, giusto per punzecchiarmi, per tormentarmi di tanto in tanto. Senna si sedette dando la piccola schiena a tutti, e si mise a guardare nella notte. O forse a dormire, chissà. Forse lei non aveva bisogno di dormire. O forse voleva solo farcelo credere. David, come sempre, fece il primo turno di guardia. Io avrei fatto il secondo. Dovevo addormentarmi al più presto.
Il fuoco era penosamente piccolo. Una minuscola fiammella rossa e gialla che tremolava in un mare di tenebre vasto e infinito, un mare che riempiva la foresta e le pianure e sommergeva ogni cosa vivente. April si sdraiò accanto a me. Mi chiesi se stesse pregando. Doveva essere bello avere il conforto della preghiera. Probabilmente era un po' meglio della semplice speranza, la speranza che i Coo-Hatch ci vedessero al buio, che fossero ancora interessati a tenerci vivi. «Stai pregando?» sussurrai. «Sì.» «Per che cosa?» «La stessa cosa per cui pregavo quando avevo nove anni. Un pony.» Rise, con un suono che iniziò sottovoce e poi crebbe in una risata argentina e un po' infantile. Assorbii quella risata, la trattenni dentro di me. Poteva essere la mia forma di preghiera, pensai: una ragazza spaventata che ride nel buio della notte. A volte, non troppo spesso però, la razza umana un po' mi piaceva... CAPITOLO XII Anche stavolta, però, quella confortante sensazione di calore umano non durò a lungo. La durata media dell'ottimismo è di circa otto minuti, a Everworld. David mi si accovacciò accanto, mi lanciò un'occhiata che mi fece sospirare senza sapere esattamente il perché. «Andiamo» disse a bassa voce. «Ho bisogno di te. Io e te dobbiamo fare quattro passi insieme.» «E perché?» Ero stanco. Non mi andava di bighellonare in giro. «Andiamo a fare una visita di cortesia ai Coo-Hatch. Ho bisogno che mi guardi le spalle.» Mi alzai con somma riluttanza, inciampando per raggiungere David che si era avviato con passo deciso nel buio, come se non ci fosse nulla da temere. Quando gli arrivai accanto, mi spiegò il motivo della missione. «Voglio dare un'occhiata ai nostri amici Coo-Hatch. Voglio ringraziarli. Scoprire che cos'hanno in mente. Ci hanno invitato.» «Invitato? E quando?» Si fermò. Indicò un punto con il dito.
«Vedi quel bagliore là in fondo? È il bagliore di un fuoco. Sono i CooHatch. Credi che non sapessero che avremmo potuto vederlo? Lo sapevano. Pensi che non avrebbero potuto nasconderlo, se avessero voluto? Avrebbero potuto. Ma volevano che lo vedessimo.» «Perché?» chiesi. «Non ne sono sicuro. Ma posso indovinare. Quando li incontrammo, la prima volta, Christopher disse che erano commercianti. Aveva ragione.» Non insistetti. Mi ero abituato a fidarmi dell'istinto di David in certi ambiti. Solo in certi ambiti. Avanzavamo in una notte così nera che provai veramente ad allungare una mano per controllare se riuscivo a vederla. La vedevo. Appena appena, però. Quello che non vedevo era il terreno. Avrei potuto pestare su uno scorpione, un serpente... avrei potuto incappare in un leone. Camminavo sospeso, aspettandomi di inciampare a ogni momento. All'improvviso, un soffro d'aria proprio accanto all'orecchio. Un uccello notturno o un pipistrello mi erano passati accanto, vicinissimi. Le parole "pipistrello vampiro" si accesero all'improvviso nella mia mente, illuminate al neon. Incassai la testa tra le spalle e cercai di ripararmi con le mani. «È uno di loro» disse David. «Uno di quelli piccoli.» Mi ci volle un momento per bloccare le immagini di minuscoli dentini di pipistrello piantati nel collo e capire che stava parlando dei piccoli di CooHatch. «È da un po' che ci segue» disse David, incapace di nascondere il tono compiaciuto della voce. «Ma come? Ci vedi anche al buio, adesso?» borbottai. Lui rise. Rise, come se stessimo rientrando a casa a notte fonda in punta di piedi per non svegliare i genitori. Niente di più pericoloso di questo. «Carote. Devi mangiare sempre tante carote. Comunque, sanno che stiamo arrivando. Meglio così. Non vorrei mai coglierli di sorpresa.» Il fuoco era più vivido adesso, facile da individuare. Ma avevo ancora la sensazione di vedere solo un riflesso della luce, non la luce stessa. Fu così, almeno, finché non ci fermammo, appena in tempo, sull'orlo di un basso precipizio. Il letto prosciugato di un fiume, immaginai. E sul fondo, in quello spazio ristretto, una dozzina di Coo-Hatch adulti, di "Groucho", come li chiamavamo ogni tanto. Undici erano intenti al lavoro intorno a un grande fuoco di carbone, che bruciava sviluppando alte fiamme in un anello ovale di pietre semisepolte. Il calore e la luce di quel fuoco mi ricordarono stranamente un filmato che avevo visto una volta,
una ripresa notturna del magma che scendeva dal pendio di una montagna su un'isola hawaiana. Due dei Groucho azionavano un grosso mantice per alimentare le fiamme. Gli altri cercavano di fissare un'imbracatura di corde intorno a un cilindro affusolato, tutto decorato, lungo quasi due metri. Il cilindro era un pezzo d'antiquariato. Ma un pezzo d'antiquariato nuovissimo, appena uscito dalla fucina, appena uscito da qualsiasi cosa i CooHatch usassero per temprare il metallo. Era un cannone. Uno di quelli che si potrebbero vedere in un museo delle guerre d'indipendenza americane. O anche prima, suppongo. Un cannone che avrebbe potuto stare su un galeone spagnolo. Le funi e la carrucola servivano evidentemente per sollevare il cannone su un carro di legno a due ruote, fresco di fabbrica anche quello. Il Coo-Hatch che non era impegnato nei lavori si avvicinò a noi con la tipica andatura alla Groucho Marx. Ci stava aspettando. Non sembrava molto comico, stagliato contro il fuoco della fucina. La "C" schiacciata del suo corpo, il naso allungato, gli occhi da insetto blu e rossi sembravano ancora più strani, ancora più ultraterreni della prima volta che avevamo visto una di queste creature. «Siete venuti» disse. «Noi siamo Coo-Hatch della Quinta Fornace. Siamo anche Coo-Hatch della Nona Fornace, ci siamo incontrati per caso in questo posto. Io sono Tashin.» «Tu non sei quello che era sull'Olimpo.» «No. Anche lui era della Quinta Fornace, ma non è con noi.» «Ci avete salvato la vita» disse David. «Vi ringraziamo.» «Vi abbiamo salvato la vita» confermò Tashin. «Voi siete in debito.» «Oh-oh...» mormorai. «Come posso ripagare il debito?» chiese David. Niente di tutto questo lo sorprendeva. Né lo impensieriva. Aveva qualcosa in mente. «Coo-Hatch hanno poca esperienza nel maneggiare grandi oggetti. Sono in difficoltà» ammise Tashin. «Sì, lo vedo. Quel cannone deve pesare mezza tonnellata. E le funi messe in quel modo si spezzeranno in un attimo. Volete che vi aiuti a montare il cannone sul carro?» «Questo ripagherebbe il debito» disse il Coo-Hatch. Mi scappò quasi da ridere. Era stupefacente a un certo livello. I CooHatch sapevano creare un acciaio di qualità infinitamente superiore a qual-
siasi cosa si potesse produrre nell'America del ventunesimo secolo - e lo sapevano fare in viaggio e in un ambiente assolutamente ostile - ma non riuscivano a fare un nodo decente? La tecnologia evidentemente non procede in modo lineare. «Vi capita di incontrare dei compatrioti, e così, su due piedi, decidete di fare insieme un cannone?» chiesi. Immagino che Tashin si rendesse conto di quanto potesse sembrare strano. «Ci incontriamo per caso, uniamo insieme i nostri saperi. E ciascuna Fornace se ne va più sapiente.» «Io vi posso aiutare a spostare il cannone» disse David. «A patto che le vostre funi siano buone. Posso insegnarvi a fare i nodi, posso insegnarvi a costruire una carrucola adatta.» «In questo caso tutti i vostri debiti sarebbero ripagati» disse il CooHatch con quella che probabilmente era cortesia. David non si mosse. «Avete intenzione di continuare a seguirci?» chiese. «Siamo interessati al buon esito della vostra impresa» disse Tashin, con diplomazia. «È toccato a questa coorte della Quinta Fornace seguire i vostri progressi.» «Mi sembra giusto. Sapete, è possibile che in futuro avremo ancora bisogno del vostro aiuto. E non vorrei trovarmi nelle condizioni di non potervi ripagare.» Tashin annuì e restò in attesa: un uomo d'affari che sapeva che stava per ricevere un'offerta. David mi guardò, come per chiedermi il permesso di procedere. Ma io brancolavo nel buio, non ci capivo nulla. Cosa aveva in mente? Voleva assicurarsi che i Coo-Hatch ci avrebbero aiutato se ne avessimo avuto bisogno? L'avrebbero fatto comunque. «Il cannone. L'anima è liscia?» Il Coo-Hatch piegò il lungo muso di lato, un po' perplesso. «È il massimo della levigatezza che riusciamo a ottenere. La palla che verrà sparata incontrerà pochissima resistenza.» «Male» disse David. «Perché, vedi, la palla volerà più lontano e volerà più dritta se la canna è rigata. Dovete incidere dei lievi solchi all'interno del cannone, a spirale. Una spirale molto larga. Forse un giro completo di trecentosessanta gradi. Non ci vuole molto. È sufficiente a far ruotare la palla su se stessa. E la rotazione la farà volare dritta come un fuso.»
Tashin esitò: non capiva se David lo stesse prendendo in giro, immagino. «Verificheremo questa idea. Se risulterà vera, noi saremo in debito con te.» David annuì. «È vera. Andiamo. Ti mostro come si fa un mezzo collo.» Per più di due ore David lavorò con gli alieni, senza maglietta per resistere al caldo terribile della fornace. Lui è un marinaio, e immagino che tutti i marinai siano esperti di nodi. Io ero praticamente inutile. Dovevo solo eseguire gli ordini: tiravo quando mi dicevano di tirare, issavo quando mi dicevano di issare. Era ancora notte fonda quando lasciammo i Coo-Hatch, con il cannone montato e fissato al carro. Tornammo indietro, stanchi e disidratati, oltre che pieni di sonno. «Okay, te lo chiedo. Perché?» gli dissi, non appena ci fummo allontanati a sufficienza dall'accampamento dei Coo-Hatch. «Come "perché"? Eravamo in debito con loro... no?» «No. Perché gli hai insegnato a rigare l'interno del cannone?» Per un po' sembrò che non volesse rispondere. Poi disse: «Preferirei che non ne parlassi con April o con Christopher o con Senna. Ma soprattutto con April. Lei lo vedrebbe solo come un'altra interferenza da parte nostra. Un portare altre armi a Everworld.» «È esattamente quello che stiamo facendo» dissi bruscamente. «La mia domanda è: perché?» David sorrise... denti bianchi nel nero d'inchiostro. «Dei cannoni senza rigatura non ce la farebbero mai, Jalil. Te la ricordi la città di Ka Anor? La torre-ago? Allora avevo detto che se avessimo avuto dell'artiglieria pesante, avremmo potuto sederci sul bordo del cratere e bombardare quel termitaio. Te lo ricordi? Ecco. Un cannone senza rigatura non arriverebbe tanto lontano, amico mio. Ma con la canna rigata, con dei proiettili cilindrici e rigati, allora sì che potremmo sederci sul bordo del cratere e far saltare in aria tutta la città degli insetti.» Rise. Una risata pericolosa. «Sai, immagino che dovrei ammirare la tua lungimiranza. E invece penso soltanto che tutta questa storia andrà troppo per le lunghe. Tu mi sfinisci, David. Io sono a terra, e tu stai pensando al D-Day.» «Siamo quasi arrivati. Fra poco potrai dormire. E dopo una bella dormita vedrai anche tu il lato positivo della cosa.»
Era allegro e ottimista. CAPITOLO XIII Ultime Notizie dalla CNN. "E adesso?" mi chiesi. Le fiamme dell'albero dei demoni furono come una scossa, un tremito fortissimo, fisico, vero. Strinsi insieme le mani sul banco per tenerle ferme. Ero a scuola, al corso di calcolo, tutto concentrato sulla nuca di Miyuki e di tanto in tanto anche sulla lavagna. La lezione era quasi finita. La campanella doveva suonare da un momento all'altro. Avevo deciso che era questo il posto giusto per proporre a Miyuki di uscire con me. Ci eravamo incontrati qui, era l'unico terreno in comune che avevamo. Mi stavo preparando psicologicamente per affrontare la grande prova. E proprio mentre mi stavo caricando, mentre ripetevo tra me e me le battute accuratamente spontanee e casuali che mi ero preparato e pensavo a un'uscita di scena dignitosa per quando mi avrebbe detto di no, ecco l'aggiornamento da Everworld. Mi ero addormentato, circondato da paletti appuntiti, braccato da un dio minore africano pieno di rancore nei nostri confronti, perché non volevamo prostrarci davanti a lui e ai suoi colleghi immortali. Grandioso. Un'altra tempesta di guai stava per abbattersi sull'altro Jalil. Ancora una volta si poneva il problema assillante di che cosa sarebbe successo se il Jalil di Everworld fosse morto. Ancora una volta, nessuna possibilità di scoprirlo per tempo. Tutto questo mi prosciugò le forze. Troppo stanco anche solo per pensare di invitare fuori Miyuki. Non era il momento giusto. C'era troppo in ballo di là, nella mia altra vita. "Bravo, Jalil! Molla tutto in questa vita. Perché cercarsi altri guai? Meglio infilarsi a letto e restare lì ad aspettare gli aggiornamenti!" Everworld stava corrodendo la mia vita nel mondo reale. Io vivevo qui, in questa scuola, a casa, al lavoro, in un mondo fatto di genitori, di amici, di compiti a casa, in un mondo in cui mi contavo i soldi in tasca per vedere se ne usciva un sabato sera decente. Ma c'erano queste immagini di un'altra vita, di un altro mondo, che mi inondavano il cervello. Immagini così sensazionali, così vivide, così elettriche, che a confronto il ricordo lontano sembrava essere proprio questa vita, la mia vita di oggi.
Suonò la campanella. Feci un salto sulla sedia. Il professore iniziò a urlare i compiti per casa mentre tutti ci precipitavamo come un'onda verso la porta. "Fallo, Jalil. Fallo!" mi imposi. Feci un bel respiro profondo e superai un paio di studenti dell'ultimo anno per raggiungerla. Mi affiancai a lei. «Ciao» le dissi. «Ciao.» «Mmm... io mi chiamo Jalil.» «Lo so.» Rise, con un tono un po' canzonatorio. Brutto segno. «Bella lezione, eh?» "E vai, Jalil! Questa è andata." Lei annuì, e mi guardò come se minacciassi di diventare un problema nella sua vita. "Lasciamo perdere. Vattene. No. No, aspetta." «Miyuki? Pensavo che... magari... una volta o l'altra... se ti fa piacere... potremmo studiare insieme. Oppure uscire insieme.» Ma come! Non era questo il discorso che mi ero preparato. «Quale delle due?» chiese lei. Mi strinsi nelle spalle, con una nonchalance che forse avrebbe ingannato un cieco. «Quale delle due?» ripetei. «O l'una o l'altra. Per me fa lo stesso.» Lei si fermò, mi guardò in faccia, si guardò rapidamente alle spalle. «Posso studiare con te, ma non posso uscire con te.» «Oh... okay.» «Non c'è niente di personale. È solo che... i miei genitori sono all'antica, capisci? Voglio dire, tu sai che non sono giapponese-americana, vero? Sono giapponese e basta. Siamo qui solo per un po'. Mio padre lavora per una banca giapponese qui in città. Casa mia, quella vera, è a Hiroshima.» Hiroshima. Ecco un nome che ti faceva drizzare subito le orecchie. «Uau. Allora è per via della bomba atomica... i tuoi non vogliono che tu esca con gli americani?» Sembrò divertita all'idea. «I miei genitori non erano ancora nati, allora. Fa' un po' di conti, Jalil. Non è questo che gli importa. È solo che non vogliono che esca con i ragazzi americani. Dicono che i ragazzi americani non sono abbastanza seri.»
Restai a bocca aperta. Poi scoppiai a ridere. «Miyuki, sono probabilmente la persona più seria di tutta la scuola. Gli altri mi prendono in giro perché sono troppo serio. Fidati, non c'è nessuno di più serio di me, per lo studio e per tutto il resto.» Lei alzò la testa per guardarmi. Quasi trenta centimetri di differenza. Lei non era alta. Io sì. «Potremmo studiare insieme» disse. «A casa mia. Forse i miei genitori cambierebbero idea.» «Davvero? Okay, va benissimo.» Sorrisi. «Ma se potessi, usciresti con me?» «Non lo so, Jalil. Sei terribilmente serio per me.» Mi stava prendendo bonariamente in giro, rideva, e in quel momento, per dirlo chiaro, mi innamorai perdutamente. Passai in mezzo al gregge di studenti levitando. In quel momento nessuno di loro poteva toccarmi, nessuno poteva darmi fastidio. Grande! Era disposta a provare a far cambiare idea ai suoi genitori. Grandissimo! Era chiaro che voleva stare con me. Bene. Ottimo. Sì-sì-sì. Grande. Aprii l'armadietto e iniziai a disporre rapidamente i libri e i quaderni secondo un mio ordine preciso, senza nemmeno cercare di combattere la compulsione. I libri perfettamente allineati uno sull'altro, il dorso verso l'esterno, il più grande in basso, il più piccolo in alto. Tre bloc-notes ciascuno con la spirale spostata indietro quel tanto che bastava per non toccare quella del notes inferiore. Presi una salvietta imbevuta di disinfettante dalla sua bustina e mi strofinai le dita, una per una, attento a non tralasciare nemmeno un centimetro di pelle. Dal mignolo della mano sinistra al pollice, poi un'altra salvietta per la mano destra. Rimisi le salviette usate nelle loro bustine, stando attento a infilarle nella busta dalla quale erano uscite. E adesso dovevo gettarle via senza toccare il cestino dell'immondizia. Richiusi l'armadietto con il gomito, mi diressi rapidamente al bagno dei maschi, calcolai i tempi al secondo in modo da infilarmi dietro a uno dell'ultimo anno prima che la porta si chiudesse. Buttai le salviette nel cestino e finsi di guardarmi allo specchio finché non ebbi l'occasione di uscire senza dovermi sporcare le mani. Disturbo ossessivo-compulsivo. Forse ero pazzo, pensai, ma sicuramente ero un ragazzo serio. Sì. Abbastanza serio anche per un banchiere giapponese.
Miyuki. Sembrava molto pulita. Mi chiesi se anche lei fosse come me. Sapevo che esistevano altre persone con il mio stesso problema. Sarebbe stato un bene o un male, se avessimo avuto in comune la stessa distorsione mentale? Mi diressi verso la mia aula e in corridoio incrociai David. «Hai avuto un aggiornamento di recente?» mi chiese. «Probabilmente più recente del tuo» gli dissi. «Tu sei di guardia. Io sto dormendo.» «Ah sì? Che cosa mi aspetta, quando arrivano le Ultime Notizie?» «Abbiamo rischiato di finire bruciati vivi su un albero in fiamme, per merito di una banda di demoni.» David fece un respiro profondo, assorbì quest'ultima follia, annuì con fare molto professionale. «Mi pare di capire che ne siamo usciti vivi...» osservò. «Forse» dissi. «Al momento siamo acquattati nell'oscurità più completa e aspettiamo di vedere se arriveremo vivi all'alba. Ma io sono riuscito ad avere un appuntamento, incredibile ma vero.» «Bene, finché la tua vita sociale non ne soffre...» commentò lui. «Ragazzi! Adesso ho la Jerden. Ce l'ha sempre con me. E a metà lezione mi arriveranno i demoni e le fiamme della CNN. Da uscirne pazzi.» «Lei si chiama Miyuki. A suo padre non piacciono i ragazzi americani perché non sono seri.» David sorrise, una cosa rara. «Già, questo è un bel problema per te, Jalil. Tu sei il prototipo del festaiolo sfrenato. Ci vediamo.» Mi resi conto di qualcosa che non avevo ancora realizzato: il David di qui era una persona diversa dal David di là. Era una diversità sottile. Minima. Niente che saltasse subito agli occhi. Ma il David di Everworld e il David del mondo reale si stavano allontanando, stavano maturando in due modi completamente diversi. E poi (e fu uno shock) capii che era così anche per me. Per forza era così. Era così per tutti. Era inevitabile. Noi, i due Jalil, stavamo vivendo esperienze diverse. Avevamo i ricordi in comune, e questo impediva ai cambiamenti di diventare radicali, ma non impediva che ci fossero. Dovevano esserci. Vivevamo due vite diverse, ci dovevamo adattare ad ambienti e circostanze diverse. Io cercavo di restare aggrappato a tutte le conoscenze e le convinzioni che avevo qui nel mondo reale, ma erano veramente importanti per il Jalil di Everworld?
Sarebbe stato così grave per me sacrificare una pecora? «Un po' tardi per porsi il problema, Jalil» mi dissi. E in quel preciso momento mi svegliai a Everworld, e mi trovai in un inferno. CAPITOLO XIV I fulmini erano un bombardamento aereo. Come nei vecchi filmati della seconda guerra mondiale, con le ondate di cacciabombardieri che dal cielo lasciavano cadere il loro carico di bombe, i tuoni rotolavano ed esplodevano in una serie di scrosci, alcuni più forti, altri più smorzati, tutti insieme o in rapida successione. La distruzione avanzava verso di noi, i fulmini si schiantavano al suolo dal nero del cielo, trafiggevano continuamente la terra, gli alberi trasformati in torce, gli animali ridotti in cenere, carbonizzati da un lampo di inimmaginabile potenza. «Questa sì che si chiama tempesta!» esclamò Christopher. I suoi capelli biondi erano tutti arruffati dal vento. Eravamo tutti in piedi, stretti gli uni agli altri nel nostro penoso fortino, tutti a guardare quell'impressionante manifestazione di forza. Un'onda di fuoco, una bocca affamata di aguzzi denti elettrici che divorava la savana. «Non è una tempesta» disse Senna. «No» confermai. «È troppo limitata. Cielo limpido e stelle a destra e a sinistra.» Il rumore era quello delle bombe che esplodono. Un'esplosione sull'altra, la terra tremava, il riverbero diventava parte dell'esplosione seguente, un'altra, un'altra ancora, finché non ci fu che un'unica, infinita esplosione. «Se ci sdraiamo a terra, non dovremmo correre rischi» disse David, molto dubbioso. «I fulmini prendono sempre la strada più breve, giusto? Quindi colpiranno i paletti. Se noi stiamo bassi...» Ci fu uno schianto. Sembrò che la terra stessa si spaccasse in due. «Questo presuppone che i fulmini di Everworld seguano le stesse regole» dissi. Christopher imprecò. «Nascondiamoci tra gli alberi» propose April. «In genere non si sta sotto un albero in mezzo a una tempesta. Gli alberi attraggono i fulmini» osservò Christopher. Senna rise.
«No, siamo noi ad attirare i fulmini. Non l'avete ancora capito? I fulmini sono per noi. Tutti per noi. Se ci trovano ci ammazzano. Se ce ne restiamo qui impalati, la tempesta ci calerà addosso e si scatenerà su di noi.» «Se Eshu ci voleva uccidere, perché farci sorprendere da una tempesta?» ragionò David. «Avremmo già potuto essere morti. Ho paura che voglia proprio farci spostare. Quella tempesta vuole farci scappare.» Stava gridando, per farsi sentire sopra il fragore. Il vento si faceva sempre più impetuoso, ci portava via le parole di bocca. «Il gatto e il topo» disse April, tenendosi indietro i capelli con entrambe le mani. «Forse si divertono a vederci scappare. Forse è lì il bello.» David scosse la testa, insicuro, indeciso. «David...» intervenni io «forse Eshu immagina che vincerà in un caso o nell'altro. Se stiamo fermi, ci frigge, se scappiamo, lui passa al Piano B.» «È vero!» esclamò annuendo e lanciandomi uno sguardo pieno di gratitudine. «Hai ragione. Il Piano A o il Piano B. Il Piano A non mi va molto a genio. Difficile poter fare qualcosa contro un fulmine. Corriamo in mezzo agli alberi.» «E lasciamo tutti i nostri paletti appuntiti?» si lamentò Christopher. «Andiamo!» Attraversammo cautamente la barriera di paletti, attenti a non infilzarci da soli sulle nostre misere difese. I fulmini ci coloravano di blu elettrico e disegnavano delle ombre nerissime. La faccia di Senna era luce e ombra, una maschera di Halloween. Un lampo, e i nostri paletti sembrarono sobbalzare, scuotersi follemente tra i lampi che sembravano luci stroboscopiche. La linea degli alberi era vicina. Non correvamo, non volevamo correre, perché correre alimenta il panico. Ma poi fu come se i fulmini si fossero accorti di noi. La tempesta accelerò di scatto, rapida sulla savana, scrosci e bagliori che si fondevano in un unico fenomeno, un'esplosione continua e incalzante. «Ci insegue!» urlò Christopher. «Scappiamo!» Scappammo. Corremmo verso gli alberi e la tempesta si lanciò all'inseguimento. Cento passi. Cinquanta. Dieci, e la tempesta fece saltare in aria il nostro accampamento con un'unica saetta dal cielo. I paletti presero fuoco, come una bustina di fiammiferi. Poi fu come se una diga in cielo improvvisamente cedesse. Miliardi di litri d'acqua si abbatterono su di noi. Grosse gocce di pioggia, che picchia-
vano e pungevano e martellavano e tormentavano. Tutto era fango, e ci faceva scivolare, ci imprigionava i piedi, ci avvinghiava. Raggiunsi un albero e in quel preciso momento un'esplosione assordante lo fece saltare in aria; saltò per aria in una miriade di schegge ardenti, e io finii a terra, assordato. Caddi, mi rialzai goffamente, mentre mi fischiavano le orecchie e mi usciva il sangue dal naso. In piedi, l'immagine di April e di un altro albero in fiamme. I tralci mi afferravano, il pendio stesso lottava contro di me, la gravità era implacabile, gli alberi in fiamme esplodevano, i fulmini sembravano venire dalla terra stessa. «Qui!» gridò David, la voce semisommersa da un'ennesima esplosione. Qui dove? Non lo vedevo. Vedevo solo delle macchie di luce, come se mi avessero scattato cento flash in faccia. Vedevo solo ombre e improvvisi profili, vividi, netti, di un blu accecante. «Da questa parte! Da questa parte! C'è una grotta!» Una grotta. Sì, sì, era quello che ci voleva. Ma dove? «Da questa parte!» continuava a gridare David. E d'un tratto gli finii addosso: i capelli neri davanti agli occhi, le palpebre che sbattevano, l'acqua che gli entrava nella bocca spalancata, e lui che mi gridava in faccia. «Qui! Quaggiù!» Mi diede una spinta, finii sulle ginocchia e rotolai giù, scivolai nel fango, e continuai a rotolare, a scivolare... dov'era l'alto? Dov'era il basso? Mi fermai. Addosso a Christopher. April arrivò subito dopo. Ma nel lampo di luce di un fulmine, vidi David, già nella grotta. David era già qui. Come faceva, David, a essere già qui? Chi mi aveva preso e spinto giù? «Eshu!» Arrivò Senna, scivolando e imprecando, e atterrò nel nostro groviglio di gambe e di braccia fradice e sporche, e subito dietro di lei una traboccante ondata di fango, che escluse completamente la luce e il frastuono e ci avvolse i piedi, le caviglie, le gambe, e ci salì fino alla cintura. Il fango saliva, saliva. Saremmo morti soffocati. CAPITOLO XV Il fango era una cosa viva, una forza assassina. Mi spingeva giù, premeva, rotolava su di me, mi copriva, mi soffocava, mi sollevava e mi spazza-
va via. Ce l'avevo nel naso, negli occhi, nelle orecchie, in bocca. Si accumulava sotto i vestiti, penetrava nelle scarpe. Pesavo una tonnellata. Mi muovevo come un sonnambulo, come in una scena al rallentatore, come uno che nuota nel budino. Trattenni il fiato, mi scoppiavano i polmoni, cercai di sputare il fango che avevo in bocca, ma altro fango premeva, me la riempì di nuovo, di più, minacciava di scendere nella gola, di ostruire i polmoni, di riempirmi lo stomaco. E di colpo eccomi in cima all'onda, affiorato, trasportato come un pezzetto di corteccia in un fiume impetuoso. Non affondavo, ma rischiavo a ogni momento di essere ingoiato dalle onde, dalle correnti, dai gorghi. Dentro a un tunnel. Nelle viscere della terra, veloce, sotto un basso soffitto di roccia. Poi, all'improvviso, la luce del sole! La terra mi vomitò fuori e venni trascinato via, confuso, frastornato, sottosopra. Avevo l'impressione che il fiume di fango fosse all'improvviso sopra di me, che volasse sopra la mia testa, anche se c'ero ancora invischiato dentro. Istintivamente cercai di aggrapparmi al fango, di tenermi stretto per non cadere, per non volare giù, nel cielo. E infine il fango mi gettò a riva, come un'onda di marea che alla fine si riduce a poco più che un ricciolo di schiuma sulla sabbia. Ero un surfista malconcio, mezzo morto, barcollante, stavo per cadere giù, no... stavo per cadere su... ma che cosa stava succedendo? Il cielo, così bianco che sembrava candeggiato, era cosparso di nuvole azzurre e si trovava sotto di me, sotto la mia testa. Ero in piedi, ma era impossibile che i miei piedi rimanessero attaccati al terreno, perché sapevo che era tutto sottosopra. Il cielo era sotto. Vedevo il sole, nero e tuttavia splendente, che brillava in un cielo bianchissimo, facendo capolino dietro alle nuvole azzurre. «Che caspita sta succedendo qui?!» urlò Christopher. Lo vidi, era come me, apparentemente incollato a un terreno che era diventato un soffitto. Mi accucciai, mi inginocchiai, cercai di combattere l'assurdo istinto di aggrapparmi alla terra, di stringere nelle mani grosse manciate di erba blu notte. Combattei l'istinto. Era impossibile. La terra doveva stare sotto, il cielo doveva stare sopra. "Non essere stupido, Jalil, non stai cadendo verso il cielo. La gravità è sempre verso il centro della terra, quella non è cambiata."
Ma tutto il resto sì. Correvo il rischio di precipitare in un cielo bianco come una pagina di quaderno. Avrei potuto cadere dentro a quel sole nero. Vidi gli altri. Tutti coperti di fango, tutti che strisciavano o camminavano gattoni o si accucciavano, tutti che guardavano timorosi il cielo sotto di noi, tutti che si aggrappavano, o volevano aggrapparsi alla terra stessa, per paura di volare via. Chiusi gli occhi. Era l'unico modo. L'unico modo per combattere l'illusione. Se non guardavo, riuscivo a trattenere i conati. Se non guardavo, riuscivo a convincermi che tutto stava dove doveva essere. «Chiudete gli occhi» gracchiai, sputando fango. «È meglio. Chiudete gli occhi.» «Ho gli occhi chiusi» disse Christopher. «E adesso qualcuno mi dica che diavolo sta succedendo qui. Che cos'è? Alice nel paese delle meraviglie? Dov'è il Coniglio Bianco? Dov'è il Bruco con il narghilè? Più strano di così si muore.» David, con la voce scossa, ma cercando di trasmettere tutta la stabilità e la ragionevolezza che poteva, mi chiese: «Jalil, tu ci capisci qualcosa?» «No, niente» risposi senza tanti giri di parole. «Mi pare di essere capovolto. Oppure è tutto il resto a essere capovolto. So che la gravità mi tiene attaccato alla terra, ma non riesco a liberarmi dall'impressione che la terra stia sopra e il cielo sotto.» Aprii a fatica gli occhi incrostati di fango ormai quasi secco e sbirciai di nuovo. L'illusione tornò in tutta la sua potenza. Sentii dei conati, ma quella era l'ultima cosa che volevo vedere: del vomito che cadeva nel cielo. Anche se... no, sarebbe caduto a terra. «È un'illusione ottica» dissi. «Voglio dire, sento che il sotto è sotto. Le mie braccia non tendono a rilassarsi verso il cielo.» Provai a fare un saltello, sentendomi molto idiota. Un saltello piccolo, giusto per vedere se per caso fossi caduto nel cielo. Invece ricaddi sulla terra. «È un'illusione ottica» ripetei con maggiore sicurezza, ma tenendo gli occhi chiusi, per non impazzire. «È un'immagine al contrario» osservò April. Sembrava vicina. «Non è solo una questione di sopra e sotto. Il cielo è del colore delle nuvole e le nuvole sono del colore del cielo. Il sole è nero. L'erba è blu. È tutto al contrario, tutto a rovescio.» «Cielo bianco non è il contrario di cielo azzurro» tenni a precisare, io stesso infastidito dalla mia pedanteria. «Sole nero non è il contrario di sole
giallo. Erba blu...» «Smetti di prendere tutto così alla lettera» mi interruppe April, infervorata. «Questa non è scienza, è... è poesia. Contrari poetici. Voglio dire, chiunque abbia creato tutto questo non ne sapeva nulla dei colori dello spettro. Ha pensato solo: "Che cosa potrebbe essere il contrario di questo o di quello?".» «Già» concordò David, ancora dubbioso. «È un mondo al contrario, qualcosa del genere.» "Credibile" pensai. Certo, non era l'idea dei contrari di uno scienziato. Ma di una mente più semplice. Meno crucciata dalle nozioni astratte di verità e precisione. Non una visione moderna, ma una visione più antica. «Sono gli dei» dissi con disgusto. «È esattamente al loro livello di pensiero. Primitivo. Irrazionale. Incoerente.» La risata di Senna mi sorprese. «Non impari mai, vero, Jalil? Ti pare un buon momento per insultare gli dei?» «Su questo devo dare ragione alla strega» borbottò Christopher. «La prossima volta che qualcuno ci dice di ammazzare una pecora per gli dei, la ammazziamo e basta. Qualche pazzo vuole una pecora morta? Va bene... diamogliela, e che sia finita!» «È un mondo allo specchio» rifletté Senna. «Un concetto sottile di aldilà, non vi pare? I dettagli non sono coerenti, ma l'idea di base è affascinante.» «Ehi, mettiamoci tutti a testa in giù e godiamoci il panorama» fece Christopher, con un tono di voce un po' stridulo. «Senna, Jalil, April! Voi tre aprite il dibattito. Per quel che mi riguarda, io me ne starò aggrappato all'erba, perché ho paura di cadere giù e volare nello spazio.» «Che si fa?» chiese April. «Non so» ammise David. «Questo è... nuovo. Non possiamo tornare da dove siamo venuti. Il tunnel o il buco o quello che era è completamente ostruito dal fango. Impossibile tornare da lì.» «Bene, bene» commentò Senna «finalmente una situazione in cui il Potente Davideus ammette di non sapere che pesci pigliare.» «Tu invece hai già un piano, Senna?» ribatté Christopher, schierandosi in difesa di David. «Sì. Cerchiamo un ruscello e laviamoci via il fango.» «E come facciamo a camminare?» chiese April.
Senna rise, una risata sorprendentemente allegra. «È dura per voi, vero? Per tutti e quattro, così normali e convenzionali.» Allargò le braccia. «Questa è magia, ragazzi! Magia! Benvenuti nel mio mondo.» Non girò su se stessa come una bambina felice, ma poco ci mancò. «Dobbiamo assolutamente toglierci via il fango prima che ci si cuocia addosso e solidifichi» dissi. «Ci sarà pure dell'acqua, o qualcosa di simile all'acqua.» «Sì, andiamo a farci un bel bagno» fu subito d'accordo Christopher. «E, per inciso, se qualcuno di voi vede una pecora, prendete i vostri Dieci Comandamenti e la vostra Costituzione americana, fateci un bel falò e poi sacrificate la pecora, capito?» CAPITOLO XVI Lo trovammo, il ruscello, ma non fummo per niente contenti di quello che ci si presentò davanti agli occhi. Finora un boschetto ci aveva impedito la vista del panorama: alberi stranamente identici agli alberi normali, tranne per il colore, che era arancio. Ma una volta superato lo schermo degli alberi, vedemmo le montagne. Molto simili a quelle che avevamo lasciato dall'altra parte di questo mondo allo specchio, ma con una differenza fondamentale. «Oddio!» gemette Christopher. Ci bloccammo, allibiti, combattemmo di nuovo l'impulso di vomitare il pranzo nel cielo. La vertigine era così scombussolante che in un primo momento non riuscii a trovare un senso a quello che vedevo. Le montagne erano a testa in giù. Erano approssimativamente triangolari, come tutte le montagne, ma con la punta appoggiata a terra, e la base, vastissima, protesa verso il cielo. La massa solida sembrava sul punto di ribaltarsi, era logico che dovesse cadere, logico che dovesse schiacciare tutto ciò che stava sotto, nell'impatto inimmaginabile di miliardi di tonnellate di terra. Eppure, nella mia percezione distorta la montagna sembrava perversamente dritta. Non era la montagna a essere capovolta. Era tutto il resto. Il mio cervello non mi diceva che la montagna era in bilico sulla punta, ma che la terra era il cielo e stava sulla punta della montagna. Dalla montagna scendeva un torrente. Scendeva al contrario, risaliva verso la punta, dalla base verso la vetta, e da qui proseguiva il suo corso
sul pavimento-soffitto pianeggiante di erba blu. «Immagino che sia inutile osservare che con questo tutte le leggi di gravità vanno a farsi friggere» dissi. «Infatti. Credo che più o meno l'abbiamo notato tutti» disse David. «Non fa ombra» osservò April. Aveva ragione. La montagna, una massa di cinquecento grandi piramidi in equilibrio come la trottola di un bambino, avrebbe dovuto coprire il sole. Ma non era così. «C'è una cosa da dire a favore di questi dei africani: come riescono bene a rendere le cose strane!» disse Christopher. «Hanno la mente libera» commentò Senna in tono ammirato. Non l'avevo mai vista tanto vicina al concetto di felicità. «Non sono frenati dai limiti del pensiero convenzionale. Sono come... non so. Così semplici da essere complessi. Così essenziali da essere geniali. Ma guardate questo mondo! Che cos'è il regno di Hel a confronto? Hel è una volgare assassina. Questa... è arte.» «Arte?» ripeté David. «Arte. Non scienza. Non tecnologia. Questa è la magia praticata da dei abbandonati a se stessi dagli inventori delle mitologie. Pura creazione, idee pure e semplici divenute realtà. Ho molto da imparare da tutto questo.» «Oh, benissimo!» esclamò Christopher. «È il Disney World delle streghe. Sono così contento di vedere Senna felice. C'è una montagna grande come il Michigan a testa in giù, rovesciata, in bilico precario sopra le nostre teste, e un delizioso torrente di disgustosa acqua viola, però va tutto bene. Spogliamoci, tuffiamoci e sdraiamoci al contrario sotto il sole nero.» In un modo o nell'altro, dovevamo lavarci via il fango. Non c'era scelta. Io riuscivo a malapena a muovermi. Ce l'avevo anche nelle mutande. Questo non era il disturbo ossessivo-compulsivo. Era una necessità. April si allontanò di dieci o quindici metri, muovendosi come tutti noi, come se camminare strisciando e piegati in avanti ci tenesse più incollati al terreno. Senna se ne andò nella direzione opposta. E noi ragazzi restammo in mezzo, un po' imbarazzati. Come avremmo fatto a non spiare, anche involontariamente, una o l'altra delle ragazze? Ma la verità era che avevamo ben altro per la testa. Persino Christopher. C'era la sensazione, impossibile da ignorare, che il torrente, pur essendo "giù", ai nostri piedi, fosse in realtà "su", sopra le nostre teste. Dovevo soffocare l'idea insistente che da un momento all'altro l'acqua avrebbe iniziato a cadere su di me, a pioggia. Nello stesso tempo, vedevo le sorgenti del
corso d'acqua quasi direttamente sopra la mia testa. Il torrente poi scorreva giù-su dalla montagna prima di piegare a destra in un impossibile angolo per scendere verso di noi. Una parte del torrente era in realtà sopra di noi, contro tutte le leggi di gravità, mentre il tratto più ampio del fiume era ai nostri piedi, e al nostro senso di percezione così distorto sembrava sfidare anch'esso tutte le leggi di gravità. «È un'allucinazione» mormorò David. Mi tolsi gli abiti pieni di fango e a questo punto dovetti decidere chi non guardare, Senna o April. Girai le spalle ad April. Non volevo assolutamente dare l'impressione di volermi nascondere da Senna. E allo stesso tempo cercai di annullare il mio campo visivo, concentrandomi sui vestiti da sciacquare nell'acqua. Christopher trovò la soluzione più logica: entrò nell'acqua viola fino alla cintura, poi si accucciò e si levò i vestiti sott'acqua. Lo seguii. David restò sulla riva a fare la guardia. «Ehi... David sbircia le ragazze!» sussurrò Christopher a mezza voce. «Non è vero» esclamò lui, arrabbiato. Christopher rise sciacquando i vestiti. Mi immersi sott'acqua e cercai di lavarmi i capelli. Mi sfregai la faccia e mi pulii le orecchie con le dita. Quanto era strano che bastasse questo. Quanto era strano che non arrivasse la compulsione. Che potessi lavarmi una volta sola. Non sette volte, una dopo l'altra, lottando contro questa assurda necessità, lottando per tornare ad avere il controllo della mia mente. Mi rialzai e scrollai la testa, spargendo spruzzi di acqua finalmente pulita (per quanto pulita possa essere dell'acqua viola). E in quel momento, a sorpresa, vidi Senna di profilo. Distolsi immediatamente lo sguardo, ma l'immagine era impressa nella mia mente. Era stato un atto deliberato? Aveva voluto lei che la vedessi come una ragazza vulnerabile e bellissima? Aveva voluto lei che reagissi automaticamente con il desiderio? Sicuramente. Logico. Niente succedeva mai per caso, con Senna. O no? Era inquietante. Potevo cercare di non reagire, ma non potevo restare indifferente. Non potevo fingere che fosse coinvolta solo la parte razionale di me. Cercai di concentrarmi su Miyuki. No. Non funzionò come volevo. Finì che immaginai Miyuki in piedi, di profilo, stagliata contro un impossibile sfondo di erba blu carezzata dal vento. Mi rimisi i miei vestiti zuppi e non molto puliti. Non fu facile. Nemmeno esattamente gradevole, ma meglio di prima. Ci saremmo portati appres-
so la terra per molto tempo. Alla fine entrò in acqua anche David. Lasciò la spada appoggiata a un albero. Mi misi a fissare ostinatamente la montagna assurda che incombeva sopra di noi. «Ehi!» esclamai. «Guardate!» C'erano tre canoe o piroghe o come-si-chiamano che scendevano lungo il torrente, dall'alto, sopra di noi. A testa in giù, anche se avevo più la sensazione di essere io quello che rischiava di cadere addosso a loro, e non viceversa. «Che cosa?» fece David. «Lassù. Delle canoe. Adesso sono più giù, vicino alla vetta della montagna... alla base... insomma, vicino alla parte a punta.» David seguì la direzione in cui puntavo il dito. Le canoe avanzavano rapidamente, portate dalla corrente e spinte dai rematori che fendevano l'acqua con i loro remi. «Altre buone notizie» si lamentò David e fece per uscire dall'acqua. Un grido. April! Non di dolore, ma di sorpresa, di paura. Guardai. Era vestita. Vestita e circondata da due dozzine di uomini alti e neri, guerrieri armati di lance corte e alti scudi decorati con macchie di colore bianco. David si precipitò per afferrare la spada. Christopher agguantò una delle lance. Un guerriero sbucò da dietro un albero, impugnò la lancia come una scopa e, menando un colpo da sinistra a destra a trenta centimetri da terra, colpì Christopher alle gambe facendolo cadere. Corsi verso Christopher, afferrai la lancia e mi fermai sopra di lui, faccia a faccia con il guerriero. Il guerriero era all'erta, sospeso, pronto, ma aspettava un segnale. David arrivò alla spada nel momento esatto in cui tre guerrieri gli puntarono le loro lance al petto. Forse in un'altra occasione avrebbe combattuto. Ma sono in pochi ad essere coraggiosi senza mutande. April e Senna, entrambe vestite, vennero sospinte verso di noi. Ci avevano circondato e radunato, ci pungolavano con le lance ma senza farci male. Era facile individuare il capo: non era il più alto né il più forte. Ma aveva una pelle di leopardo drappeggiata su una spalla e ripresa in cintura. Aveva un aspetto flemmatico, imperturbato, competente. Era un uomo che stava facendo il suo lavoro, e sapeva il fatto suo. Ci squadrò ad uno ad uno, osservò con particolare attenzione i capelli di April e il suo zaino. Ammirò la spada di David.
Non so bene che cosa mi aspettassi che succedesse. Ma quello che accadde mi sorprese non poco. «Vichinghi» dichiarò in tono sprezzante il capo dei guerrieri. «Come?» si lasciò sfuggire Christopher. Il capo lo ignorò e fece un breve sospiro. «Peccato che non si possano usare. Sono tutti forti. Sarebbero stati dei buoni schiavi. Sfortunatamente, i Vichinghi sono animali. Lui, lui e lei, uccideteli subito. Gli altri due li terremo per la morte lenta.» Io, David e Senna eravamo stati condannati a morte. April e Christopher erano stati scelti per la tortura. CAPITOLO XVII «Vi dispiace se prima mi rivesto?» disse David in tono calmo e ragionevole. Il capo sembrò sorpreso, ma no, non gli dispiaceva. David iniziò a infilarsi i vestiti. «Noi non siamo Vichinghi» dissi. «Ho visto altri Vichinghi» rispose il capo. «Ho combattuto contro molti di loro, molti li ho fatti prigionieri. Sono nuovi nella nostra terra, ma so riconoscere un Vichingo quando ne vedo uno.» «Noi non siamo Vichinghi» ripetei. «Tu forse non sarai un Vichingo» concesse il capo. «Ma viaggi con dei Vichinghi, quindi anche tu sei un Vichingo.» «Ci sono molte specie di uomini bianchi. Non tutti sono Vichinghi» obiettai, sperando che David si vestisse più lentamente. «Questi non sono Vichinghi. Questi sono Americani. Vengono da un altro mondo.» Ma questa notizia non sembrò toccarlo minimamente. «Molti giungono qui da un altro mondo, e quelli che sono qui vanno in quest'altro mondo. Perché tutte le cose hanno un proprio doppio, tutte le cose hanno due parti, una destra e una sinistra, un sopra e un sotto, una parte buia e una parte luminosa.» David aveva quasi finito di vestirsi. Sembrava calmo. In genere, quando David era in una situazione di crisi emanava un palpabile senso di pericolo, si sentiva che stava per esplodere. Ma questa volta era stranamente calmo. E anche Senna. Avevano visto qualcosa che a me era sfuggito? Colsi un'occhiata tra David e Senna. Uno "Sta' pronto" quasi impercettibile.
Le barche, le canoe! Ma certo. Evitai di guardare a monte del fiume. Era sfuggito il loro arrivo al capo dei guerrieri? O erano suoi alleati, o altri suoi uomini? Lanciai un'occhiata a Senna, nel momento esatto in cui si trasformò in leone. Proruppe in un ruggito che fece tremare le foglie degli alberi. I guerrieri sussultarono, colti di sorpresa. David si tuffò sulla spada, cadde a terra, rotolò e si rialzò in piedi. Qualcuno scagliò una lancia ma mancò il bersaglio. David rispose con un colpo orizzontale spezzando in due la lancia. Ed ecco di punto in bianco un altro ruggito, pari quasi a quello del leone-Senna. «Per il Possente Thor!» Un uomo gigantesco, la stazza di un giocatore di rugby, elmo di lamiera tutto ammaccato, gambali, camiciola e veste di pelle di capra, si scagliò sul capo dei guerrieri, roteando sopra la testa un'ascia dalla lama smangiata. Il Vichingo sbraitava, rosso in viso. Dietro di lui venivano diversi uomini, alcuni bianchi, altri africani, altri ancora asiatici. Forse una decina in tutto, non più di un terzo dei guerrieri. Ma il loro capo era stato colto di sorpresa, prima dal magico leone di Senna, poi dall'assalto improvviso. Il Vichingo scatenato abbatté la grande ascia, e una testa cadde a terra con un tonfo sordo. David gli si mise accanto e la battaglia si scatenò. Afferrai anch'io una lancia, una delle nostre lance lunghe e colpii il nemico più vicino. Il capo era stato colto di sorpresa, è vero, ma era un veterano. Radunò i suoi uomini che si stavano ritirando, li schierò compatti e tornò all'attacco contro i Vichinghi. Era violenza pura e incontrollabile. Colpi violentissimi, ferite mortali, grida altissime. E asce, spade, mazze, tutte a lavorare a pieno regime. Infilzai un uomo al ventre. Dovetti dare tre strattoni per liberare la lama, e a ogni strattone l'uomo lanciava urla disumane. Combattemmo, con il Vichingo e tutta la sua strana truppa, ma i numeri erano contro di noi. Arretrammo verso il fiume, dove non avremmo più potuto scappare. Sarebbe finita molto presto. Colpivo, paravo, soffocavo nella mia stessa paura. Non c'era salvezza, solo un rinvio. Non avevamo salva la vita, avevamo solo qualche secondo in più. Ma a quel punto... ecco Senna. Lei non aveva combattuto e i guerrieri africani l'avevano lasciata in pace, anche quando era tornata al suo solito aspetto.
Adesso fece qualche passo avanti e sollevò le braccia. Aveva gli occhi chiusi. Sembrava indifferente, quasi inconsapevole della carneficina che le stava accadendo intorno. Rimase immobile, inondata - mi parve - da una luce che toccava soltanto lei. L'aria intorno al suo corpo prese a girare, un tornado al rallentatore che increspava e distorceva la sua immagine, trasformandola in uno spettro, un fantasma. Il ricordo della bella ragazza nuda ora in qualche modo si confuse con i ricordi terribili delle carni putrefatte di Hel. Entrambi gli schieramenti la videro, arretrarono, smisero di combattere, stupiti, circospetti. Vichinghi e guerrieri africani si tenevano d'occhio a vicenda, pronti a riprendere la battaglia se gli altri avessero fatto la prima mossa, ma ora più attratti da questo nuovo fenomeno. In un lampo, il fiume uscì ribollendo dal suo corso. L'acqua scavò una trincea, si propagò sul terreno asciutto, un idrante ad alta pressione che lanciava il suo getto sulla polvere. L'acqua ingoiò l'erba, sconvolse le zolle di terra, divorò cespugli e arboscelli e si abbatté sui guerrieri africani in un'ondata potente e fangosa. Tutto il fiume aveva cambiato corso. Un secondo prima era dietro di noi, un secondo dopo ci scorreva rapido davanti. Alle nostre spalle, il letto del fiume non era altro che rocce umide e lisce in un canale. Il nuovo assalto colse alla sprovvista gran parte dei guerrieri. Il capo si allontanò dal pericolo con un balzo, forse una metà dei suoi uomini lo imitarono. Ma l'altra metà, uomini che fino a un attimo prima avevano i piedi ben piantati sulla terra insanguinata, ora si dibattevano nell'acqua che li investiva e li travolgeva, che saliva alle ginocchia, alla vita, al collo, e li trascinava via, tra le loro grida spaventate. Il fiume deviato riprese il vecchio corso. Dei quindici o venti uomini portati via dalla corrente ora ce n'erano al massimo cinque o sei che ancora si dibattevano nel disperato tentativo di tenere la testa sopra il pelo dell'acqua impazzita. Senna abbassò le braccia, aprì gli occhi e per un momento piegò le labbra nel sorriso più crudele che una bocca di donna potesse formare. Gli occhi erano dilatati, sfavillanti, eccitati. Adesso, tra noi e gli africani correva un fiume viola ora intorbidato dal fango. Il capo dei guerrieri rimase immobile per un lungo momento, poi sollevò la lancia corta e la scagliò con tutta la sua forza contro Senna. La spada di David scattò, colpì la lancia, ma invece di deviarla verso l'alto, fece quello che avrebbe fatto chiunque pensasse che il mondo fosse
capovolto: la deviò verso il basso. La punta graffiò la gamba di Senna, le tagliò la pelle, disegnò una linea rosso acceso sul polpaccio bianco. Il sangue le colò nella scarpa. Fece tre passi, poi, di botto, crollò a terra, svenuta. Il suo corpo rimase immobile, ammonticchiato in modo assai poco dignitoso, anzi ridicolo, assolutamente inerme. Il capo africano strappò la lancia a uno dei suoi uomini, ma non riuscì mai a scagliarla. Apparve dal suo petto una lunga lancia greca, la punta penetrata in profondità. L'avevo scagliata io, senza pensare, senza neanche sapere di averla in mano. Una reazione automatica. Il capo sembrò sorpreso. Confuso, come se non capisse perché mai una lancia di bronzo dovesse spuntargli dal petto. Barcollò e cadde, il corpo scosso da un tremito incontrollabile. Tanto bastò ai suoi uomini. Ruppero le file e scapparono, tutti tranne due, che si fermarono giusto il tempo di trascinare via il loro capo sofferente, con le mani premute su una ferita che l'avrebbe ucciso troppo lentamente, fra troppi dolori. Una mano gigantesca mi diede una pacca sulle spalle che per poco non mi fece finire per terra. «Nemmeno Baldur ha mai fatto un lancio simile! Per tutti gli dei dell'Asgard, proprio un bel lancio per un menestrello!» Ci volle un momento prima che il mio cervello scattasse. Il capo africano gridava di dolore e di furore mentre i suoi uomini spaventati lo trascinavano via rudemente. Guardai il Vichingo. Lo riguardai. «Thorolf?» CAPITOLO XVIII L'omone mi avvolse in un abbraccio e mi strinse fino a stritolarmi prima di lasciarmi andare. «Sono io, Thorolf!» «Ma è impossibile! Ehi, amico mio!» esclamò Christopher con un grande sorriso, scuotendo vigorosamente la mano dell'uomo. «Che diavolo ci stai facendo qui?» «Vorrei saperlo anch'io» disse Thorolf in tono improvvisamente sommesso. «In questo posto assurdo, in questo posto alla rovescia, niente è come dovrebbe essere. Non è posto per un nordico, questo. Per la barba di Odino, non c'è neve! E la birra di qui è un magro surrogato di quella ricca
e schiumosa che ci piace tanto, eh?» «Quanto mi piace la birra ricca e schiumosa!» confermò Christopher, ghignando felice. David era inginocchiato accanto a Senna che si lamentava piano, si muoveva, cominciava a riprendersi. «Thorolf, ci hai salvato la pelle» disse David. Il Vichingo fece un gesto imbarazzato con la mano. «Ad essere sinceri, non sapevo che foste voi. Sono venuto solo a cercare un'altra morte in battaglia, ma anche stavolta sono sopravvissuto.» Sembrava stanco, anche un po' disgustato. La parte riguardante "un'altra morte" non era facile da capire. «Thorolf, che cosa significa "un'altra morte"? E perché vuoi morire in battaglia?» chiese April. «Cani! Portate subito quell'orrenda birra da donnicciole per i miei amici» berciò bonariamente Thorolf al variegato assortimento dei suoi uomini. «Questi sono i menestrelli che sfuggirono a Loki e che ci salvarono da quegli immondi mangiatori di uomini. Quando ci canteranno il nostro inno, allora capirete.» E rivolto a noi, con un tono di voce più basso, soggiunse: «Ho cercato di ricordare la parole per spronare i miei uomini alla battaglia, ma solo il povero Lans le ricordava tutte, ed è morto.» Thorolf mimò una pugnalata all'inguine e fece una smorfia di dolore. Quella di Lans era stata una morte dura e atroce. Un uomo con un braccio solo e un occhio solo trascinò fino a noi un piccolo barile di legno. Thorolf aprì lo zipolo, sollevò il barilotto sopra la testa e bevve un lungo sorso. Poi lo passò a David, che però rifiutò. Thorolf scoppiò in una fragorosa risata. «Ma certo, ma certo! Voi bevete solo acqua! Ah-ah-ah-ah! Quanto ci fece ridere quello scherzo!» La sua risata era contagiosa. Nonostante tutto quello che avevo appena passato, mi trovai a ridacchiare. La prima volta che li avevamo incontrati, i Vichinghi ci avevano spaventato a morte. Quando era successo? Anni fa, sembrava. E in verità, averli come nemici significava trovarsi in un mare di guai. Ma se ti prendevano a benvolere, sapevano essere generosi, amichevoli ed esuberanti in una maniera che era quasi infantile. Thorolf era stato il primo Vichingo che avevamo conosciuto. Ci aveva ospitato a casa sua, avevamo incontrato anche sua moglie. Eravamo andati in battaglia insieme contro gli Aztechi. E per quella canzone che Christopher si era inventato alla meno peggio,
su due piedi, Thorolf era il nostro fan più appassionato. David rimase fedele ai suoi sani principi di astemio. Io invece bevvi qualche sorso di birra, e così pure April. Thorolf aveva ragione: era pessima. Senna si riprese del tutto, ma fece capire molto chiaramente di non avere alcuna voglia di parlare con nessuno. Restò seduta da sola, in disparte, a pensare e a rimuginare. Volevo chiederle che cosa era successo. Perché era svenuta? La ferita era solo superficiale, e David l'aveva fasciata con della garza che avevamo portato via dall'Olimpo. Volevo chiederle se fosse sorpresa di avere tanto potere da far cambiare corso a un fiume. Io ero molto sorpreso. Mi aveva spaventato. Anche adesso ero spaventato. Qualcosa attirò la mia attenzione. Un'anomalia. Tre chiazze di erba secca. Tre in fila, una dietro l'altra. Tutte della stessa dimensione, una ventina di centimetri di lunghezza per sette o otto di larghezza. Impronte. Le impronte di Senna. Poi un'altra chiazza, più irregolare, anche quella con l'erba secca, come se fosse stata bruciata. Registrai i dati, ma la mia attenzione venne distratta da una sghignazzata di Thorolf. Thorolf stava raccontando la sua storia, inebriato dalla birra. E intanto la sua ciurma poliglotta si era raccolta intorno a lui e ci osservava: guardavano April con desiderio, Senna con preoccupazione e infine la spada di David con interesse professionale. Potevano essere tutti Vichinghi, riflettei. Il ceppo nordico dai capelli biondi o rossi era quello predominante tra i Vichinghi, ma a Everworld si erano mescolati con altre razze. Conseguenza dei loro lunghi viaggi in giro per il mondo. Olaf Piediferro, un grande capo vichingo, era un nero. «Dunque, facemmo una carneficina nella città degli adoratori del sole, uccidemmo tutti gli Aztechi che riuscimmo a trovare e aah... che giorno glorioso fu quello! Ero già pronto a morire, quel giorno, a fare la morte vergognosa di un prigioniero condotto al macello. Il mio cuore stava per andare a nutrire quell'essere immondo e schifoso che è Huiztilopoctli.» Scosse la testa, poi si illuminò. «Ma voi» aprì il grosso braccio peloso per indicarci tutti quanti «voi avete salvato le sorti di quella giornata e dato che c'eravate avete anche recuperato il martello di Thor. E il mio buon amico Christopher era in cima alla scalinata del tempio e gridava: "Il martello di Thor! Avanti, mucchio di donnicciole, gonfiamoli di calci, questi brutti Aztechi!". Ah-ah-ah-ah!»
«Siamo stati fortunati» disse David quietamente. «Dunque, dopo quella magnifica carneficina, noi sopravvissuti del grande esercito del povero Olaf Piediferro (che ora beve nel Walhalla, che sia benedetto!) ci addentrammo tutti nella giungla. Vi ho cercati, menestrelli, ma non vi ho trovati. Bene. Bruciate le nostre navi, partimmo alla ventura, cercando il modo di tornarcene a casa.» Scosse la testa e la barba sporca e arruffata. «Tutto questo val bene una saga. Partimmo in non più di duecento, con qualche donna. Combattemmo lungo la via, prendemmo ciò che ci serviva dalle tribù. Alcune non erano più feroci degli agnelli, ma altre erano selvagge e pericolose come cinghiali impazziti! Ah, che battaglie abbiamo fatto nella giungla nera!» Sospirò al dolce ricordo. I Vichinghi sono guerrieri che combattono le loro battaglie in maniera piuttosto primitiva, non conoscono né tattica né strategia. Loro fanno la guerra. Punto e basta. Quello che amano di più è la guerra. Vincere o perdere, vivere o morire, non importa. Amano la guerra e, naturalmente, amano bere, ridere e fare i gradassi. «Allora ve la siete spassata» commentai. «Mi dispiace che vi siate persi tutto quanto» disse Thorolf. «Quando finalmente lasciammo la giungla, non restavano più di cinquanta dei nostri uomini... Tutti gli altri erano già stati portati via dalle Valchirie, portati a godere della gloria meritata nel Walhalla. E adesso vagavamo, assetati, sperduti, per lande desolate. Alcuni morirono di una morte che nessun uomo dovrebbe patire. E alla fine non eravamo che un manipolo di uomini, appena ventuno, e arrivammo alla terra dei leoni e dei grandi mostri grigi.» Fece un gesto con la mano che pensai volesse imitare la proboscide di un elefante. «E a quel punto, finalmente, trovammo carne per i nostri denti, e nemici degni delle nostre spade. Combattemmo, sempre alla ricerca di una via verso la nostra terra. Combattemmo, ma sempre... sempre la morte mi evitò.» Scosse la testa, rammaricato. «Poi ci trovammo circondati nei pressi di una stretta gola. Erano a centinaia, i grandi guerrieri alti e neri. Oh, che guerrieri! Erano ovunque intorno a noi, sulle colline, ci bloccavano ogni via di fuga. E noi, pochi com'eravamo, affilammo le nostre spade e ci preparammo a morire della morte dei veri uomini.» Si perse dietro ai suoi ricordi. Gli occhi erano sognanti, lontani. La bocca mormorava, silenziosa. «E siete scampati di nuovo?» chiese David. «No» rispose Thorolf. «Questo grande guerriero, grande e nero come il nostro valorose re, Olaf Piediferro, anzi più alto, anche se non così grosso,
mi trapassò il cuore con una lancia mentre io gli mozzavo la testa dal collo. Ah, era la morte che sognavo da quando ero un bambino con il moccio al naso e giocavo ancora con la spada di legno.» «Che cosa vorresti dire? Sei morto?» chiese April, incredula. «Cioè...» Thorolf annuì, riconoscendo la stranezza della sua storia. «Fu una ferita mortale. La lancia affondò in profondità, come la lancia di Jalil nel petto di quel guerriero, ma la mira era più precisa. Entrò proprio qui.» Indicò il cuore. «Sentii la morsa fredda e gelida della morte. E mentre cadevo, vidi le Valchirie...» I suoi uomini annuivano, rapiti. Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro. E Senna adesso era in piedi, abbastanza vicina da poter origliare. «Le vidi, sì, ed erano fiere e bellissime e cavalcavano dei magnifici destrieri, come gli uomini. Avevano i capelli raccolti in lunghe trecce bionde. Un'armatura d'oro copriva loro il petto, grandi elmi d'oro dalle ali d'aquila ornavano il loro capo. Brillavano della luce del sole. Le Valchirie arrivarono con un rombo di tuono, una visione che solo i morti in gloria possono contemplare. Io protesi la mano, pronto a essere afferrato e portato al Walhalla... Ma in quel momento la terra si aprì sotto di me. Io e diversi altri compagni morti fummo trascinati nelle viscere della terra. E sentii la voce di un vecchio che pronunciava delle parole che mai scorderò: "Questa è la nostra terra, ove vigono le leggi dei nostri dei. Nessun sacrificio è stato offerto, dunque un sacrificio verrà scelto".» Thorolf era profondamente amareggiato. «Le Valchirie non poterono raggiungermi. E quando riaprii di nuovo gli occhi, non ero più morto, ero solo a testa in giù, in questa strana terra.» Sospirò e bevve un altro sorso di birra. «Da allora ho fatto tutto ciò che ho potuto per morire una seconda volta di una morte degna. Speravo che in questo modo avrei placato gli dei di quel vecchio. E allora le Valchirie sarebbero sicuramente tornate a prendermi, per portarmi nel Walhalla. Ma sono ancora vivo. Siamo tutti ancora vivi, vichinghi veri e vichinghi onorari.» I suoi uomini annuirono cupamente. Avevano ascoltato tutta la storia di Thorolf e, immaginavo, ciascuno di loro ne aveva vissuto una propria versione più o meno simile. «Anche noi vorremmo andarcene di qui» disse David. «Anche se noi non ci siamo giunti dopo essere stati uccisi in battaglia.» «Appunto, siamo qui perché certa gente ha ficcato la testa sotto la sabbia e non ha voluto tirarla fuori a nessun costo» commentò Christopher. «Ti dirò, però, che da quanto mi dici del Walhalla, io voto per andare lì come
prossima tappa. I Vichinghi sanno come divertirsi. Non come il vecchio Dioniso, forse, ma il Walhalla mi ricorda molto una di quelle feste universitarie ad alto tasso alcolico.» David si sfregò la faccia, lanciò un'occhiata a Senna, sospirò. «Bene, Thorolf, noi siamo diretti in Egitto. È una lunga storia anche la nostra. Ma non mi dispiacerebbe se facessimo un po' di strada insieme. Forse voi potrete aiutarci a restare vivi. E noi...» «E noi possiamo cercare di farvi ammazzare» completò Christopher. «Volevo dire che forse noi potevamo aiutarvi a trovare il modo di andare dove volete andare» precisò David. «Eshu» disse Senna. Thorolf la guardò sorpreso. «Questa è la strega di Loki?» «È lei» borbottò April. «Ha grandi poteri» disse uno degli uomini di Thorolf. «Ma non è una vecchia megera orrenda.» «Sì, be'... la bellezza è solo esteriore» buttò lì Christopher. I Vichinghi annuirono pensierosi, come se avesse detto non solo qualcosa di profondo, ma anche di molto originale. «Abbiamo incontrato un dio locale, una divinità minore» spiegai. «Ha detto di chiamarsi Eshu. Si è presentato a noi come un vecchio e ci ha detto di essere un messaggero dei grandi e sommi dei. Voleva che offrissimo sacrifici a lui e ai suoi dei. Noi abbiamo rifiutato, ed eccoci qui.» «Perché avete rifiutato di sacrificare?» si meravigliò Thorolf. «Non potevate permettervi una capra o un agnello? Gli dei in genere sono comprensivi se vedono che non potete permettervi l'animale da sacrificare. E accettano un animale minore, se però promettete di fare offerte più ricche in futuro.» Era come se ci spiegasse come funzionano le carte di credito. Christopher mi lanciò un'occhiata che diceva: "Su, prova un po' a spiegarglielo, adesso". La presi come una sfida. «Thorolf, noi abbiamo certe convinzioni, certe credenze, che ci impediscono di offrire sacrifici. Io ed April, perlomeno.» Thorolf annuì come se capisse. «È giusto onorare gli dei di ogni nuova terra» disse dopo un attimo. «Soprattutto se ti minacciano. Nessun mortale potrà mai vincere in uno scontro con un dio.»
Io ed April ci avvicinammo, inconsciamente uniti in quella che a tutti gli altri sembrava la nostra comune, seppur diversa, follia. Ma la verità era che cominciavo a vacillare. Una cosa era difendere un proprio principio. Cosa tutta diversa era trascinare altra gente con sé. «Credo che dobbiamo trovare il modo di tornare nel mondo normale» dissi. «Voglio dire nel mondo normale di Everworld, quello che non sta a testa in giù. Là Thorolf è stato ucciso. Là è morto. Se riusciamo a riportarlo là, forse le Valchirie torneranno a prenderlo. E noi potremo proseguire per la nostra strada.» «E come facciamo esattamente a tornare?» chiese David. «Be'... dunque, questo non è un aldilà metaforico, una luna nel pozzo. Siamo in un posto reale, e ci siamo arrivati con mezzi reali. Siamo scesi da quel tunnel. Secondo me questa è una specie di immagine allo specchio, esattamente dalla parte opposta dell'Everworld normale. Cioè, secondo me il mondo normale è proprio sotto ai nostri piedi. Se potessimo scavare.» «Siamo caduti per almeno trenta metri» osservò April. «Come facciamo a scavare tanto?» «Non lo so» ammisi. Uno dei Vichinghi, o quasi-Vichinghi, quello nero, prese la parola. «C'è un grande albero che cresce in entrambi i mondi. Le radici si uniscono nella barriera che separa questo mondo dall'altro. L'albero cresce alto qui e là, in apparenza due alberi, ma in realtà un unico albero ma con due facce. Ciascun albero ha un tronco così spesso che venti elefanti non basterebbero a circondarlo.» «Scavare tra le radici non sarebbe certamente più facile che scavare nella terra» osservò David. «Non uscirete scavando» intervenne Senna, in tono disgustato. «Le barriere di questo tipo non possono essere attraversate senza un intervento soprannaturale. E no, non guardate me, non saprei come fare. Non ancora, comunque.» Ma un'idea aveva iniziato a prendere forma nella mia mente. Un'ideuzza molto meschina. Un'idea che non avrebbe lasciato altra scelta a Eshu. «Loro hanno bisogno di quest'albero?» chiesi all'uomo che aveva parlato. «Voglio dire, questi dei locali, è con l'albero che tengono uniti i due mondi?» «Sì, le radici si uniscono e il loro legame tiene insieme il tutto.» «Bene. Okay.» Annuii, incerto se rivelare l'idea.
«Jalil, stai per dire qualcosa o hai intenzione di startene lì seduto come se dovessi partorire da un momento all'altro?» Mi strinsi nelle spalle. «Ricatto. Loro hanno bisogno dell'albero. L'albero è vitale. Quindi noi minacciamo l'albero.» «Lo minacciamo di che cosa? Di incidere le nostre iniziali sulla corteccia? Hai sentito quanto è grande» obiettò David. «Non so» ammisi. «Ma mi sembra che, se l'albero tiene legate insieme le due metà di questo mondo africano, noi dovremmo andare lì dove cresce quest'albero.» «Sì, in linea di principio, sì» concordò David, annuendo. «Thorolf, tu sai dov'è l'albero?» Thorolf non lo sapeva. Ma Senna sì. «Lo sento. Sento le radici sotto i nostri piedi, e percepisco la loro direzione.» Fece una pausa, chiuse gli occhi, e quando li riaprì, puntò nella direzione opposta a quella dell'incombente montagna capovolta. «Da quella parte.» «E una piccola strega indicherà loro la via» borbottò Christopher. CAPITOLO XIX Ci incamminammo di buon passo nella savana capovolta di quel mondo al contrario, tra branchi di gazzelle che si muovevano pesantemente, di elefanti che correvano leggeri e di zebre a righe gialle e rosa. Camminammo sotto alberi colorati di arancio, pieni di scimmie che cantavano come uccellini e di uccellini che urlavano come le scimmie. Passammo vicino a branchi di leoni che ci guardavano torvo, senza nessuna evidente differenza dai leoni del mondo normale, con le femmine feroci che ci valutavano come un possibile pasto per i loro cuccioli. Noi eravamo quindici in tutto, una strana compagnia che vagava tra la savana e i monti africani, l'una e gli altri capovolti, almeno ai nostri occhi. Per non parlare dei colori, tutti sbagliati. Eravamo il campionario di esseri umani più bizzarro che fosse mai stato messo insieme. I Vichinghi e i quasi-Vichinghi erano uomini per i quali la fine del primo millennio non era ancora giunta, figuriamoci l'inizio del terzo. Non sapevano niente dei germi, delle patatine fritte, delle onde, dei fotoni, dei quanti, degli anni luce, dei milioni o dei miliardi. Poi c'eravamo io, David, Christopher ed April. Avevamo scarpe da gin-
nastica e magliette sbrindellate e altri indumenti assortiti del mondo reale o di Everworld. Avevamo una spada, qualche lancia e un minuscolo coltellino prodotto in società dagli Svizzeri e da una razza di alieni venuti da un altro universo. In testa avevamo tutte le teorie del nostro tempo e del nostro mondo. Sapevamo per esempio che i pianeti girano intorno ai soli, e che dentro ai nostri corpi imperversa una guerra furiosa e invisibile tra germi e virus e tutte le difese immunitarie del nostro organismo; sapevamo che la luce viaggia ad una velocità talmente alta che niente la può superare, che E=mc2. E poi c'era Senna. Lei era già una "porta", in un certo senso. Lei aveva entrambi i mondi dentro di sé. Sapeva spiegare che cos'è il DNA. Sapeva citare a memoria i primi articoli della Costituzione americana. Aveva quanto meno delle informazioni di base sulla Riforma, sul Rinascimento, sull'Illuminismo, sulla Rivoluzione Industriale, sull'Era dell'Informatica. Ma Senna sapeva anche spostare il corso di un fiume per uccidere i suoi nemici. E poteva sentire la presenza di un albero magico le cui magiche radici tenevano insieme due mondi gemelli e approssimativamente contrari, in un universo che non era il suo. "Smetti di odiarla, Jalil. Smetti di temerla. Se vuoi capire Everworld, devi prima capire lei. Se davvero speri di entrare nel software di questo universo, è lei il tuo modem." Ma come potevo non temerla? Lei possedeva un potere che io non comprendevo. La magia. Che cos'era la magia? Un'illusione, un trucco, David Copperfield che segava in due una modella. Senna aveva spostato il corso di un fiume. Senza una diga, senza una pala, aveva spostato il corso di un fiume. Come aveva fatto? "Non combatterlo, Jalil" mi dissi. "Accettalo. In questo posto è reale. Qui è reale tanto quanto le leggi che hai imparato nel tuo mondo. Non combatterlo: imparalo, comprendilo, controllalo. E poi portaglielo via." Accelerai il passo e mi avvicinai lentamente a Senna. Impossibile dimenticare l'immagine irritante di lei che usciva dal fiume. Anche questo era parte della sua pericolosità. Era una delle sue armi. Aveva stregato David, e l'aveva liberato solo su ordine di Atena. Ma io ero più forte? Ero immune? In ogni caso, dovevo evitare il contatto. I suoi poteri erano maggiori quando c'era un contatto diretto. Vicino, ma non troppo. Lei mi vide. Un lieve sorriso, un ghigno. «Ciao, Jalil.» «Senna...»
«Sei venuto a lavorarti la strega, non è vero?» Mi aveva già messo in una posizione di svantaggio. Negarlo avrebbe solo peggiorato le cose. «Sì.» «Hai delle domande.» «Sì.» «Ma vuoi mantenere le distanze.» «Sembrerebbe una buona idea» dissi. Sorrise di nuovo. Ebbe un fremito, un lieve tremore, niente di più, ma all'improvviso era nuda. Nuda e luminosa, come illuminata dall'interno, i capelli un alone di oro puro, gli occhi non più grigi ma di un vivido azzurro. Mi si fermò il cuore. Il battito sembrò congelarsi, sospendersi, poi il cuore riprese a martellare. Restai senza fiato. Ero allibito. Poi all'improvviso finì. Una secchiata di acqua fredda in faccia. Un interruttore spento. Senna era vestita. Normale. Normale, ma con una bocca ferina, crudele, e gli occhi trionfanti. «Adesso non mi serve più il contatto» mi rivelò. In quel momento le sue palpebre tremarono. Per un attimo i suoi occhi persero lucidità, diventarono piatti, vuoti, vacui. Fece un respiro profondo e cercò di non farmelo notare. Si ricompose. Ero tornato padrone del mio corpo. Mi sentivo senza vita, prosciugato. Mi sentivo come una persona mezza morta, che si trascinava senza uno scopo preciso. Ma avevo tenuto gli occhi fissi su di lei, l'avevo osservata, e ora sapevo una cosa che lei non avrebbe voluto farmi sapere: la magia la stancava. Spostare il corso del fiume le aveva fatto perdere i sensi. Questa piccola illusione che aveva lasciato delle tracce indelebili nella mia mente non le era costata così cara, ma le era comunque costata. «Sei diventata più forte» le dissi. «La gente cresce e cambia, Jalil.» Lo disse in tono leggero, scherzoso. Poi decise di cambiare approccio, credo. Passò a un tono più serio. «È come una qualsiasi altra capacità, un qualsiasi talento. Se lo usi, migliori. Accumuli esperienza. Impari come sentirti, come... come posizionare la mente.» «Prima, con il fiume, è stato molto impressionante.» «Sì, vero? Non ero sicura di riuscirci.» «Ci hai salvato la vita.»
«Ho salvato la mia vita» precisò. «E la nostra missione.» Lasciai cadere il discorso. Non volevo imporle la mia gratitudine. E poi ero distratto da un ricordo recente, di pochi momenti prima. «Non sei un po' preoccupata all'idea di rivedere tua madre? È passato così tanto tempo, giusto? Ma poi, l'hai mai conosciuta veramente?» Arrossì e strinse i denti. "Ahi, è un tasto dolente..." pensai. «È una persona potente, mia madre. Non vedo l'ora di rivederla. Supponendo che riusciamo ad andarcene dal parco giochi di Eshu e a tornare all'Everworld normale. Tu e quella cretina della mia sorellastra avete fatto proprio un bel pasticcio.» Scoppiai a ridere. «Siamo qui per causa tua, Senna. Io adesso potrei essere a casa mia a farmi gli affari miei, a fare la mia solita vita. E tu vorresti che mi mettessi a piangere perché ti ho complicato la vita?» «Se volessi vederti piangere, Jalil, ti farei piangere. I miei poteri stanno crescendo. Questo è il mio mondo. Questo è il mio tempo» esclamò felice, indicando soddisfatta il mondo che la circondava. «Hai molti nemici, Senna. E neanche un amico.» Volevo colpire basso. E ci riuscii, immagino. Colpii nel segno, almeno un poco. Perché la bella Senna, la Senna civile si fece da parte e rivelò la giovane donna crudele che si celava dietro l'illusione. «Tu credi di potermi battere, Jalil. È questo che ti rende divertente» sibilò. «Tu credi davvero di potermi sezionare, di poter sezionare tutto questo, tirare fuori la calcolatrice e il cacciavite e il manuale e controllare tutto, anche me. Mi prendi in giro perché pensi che io desideri solo il potere. E tu, Jalil, che cosa desideri? Tu vuoi prendere tutto questo universo e farlo tuo, farlo entrare a forza nella piccola scatola che hai per cervello.» Indicò David con il mento. «Lui, povero e semplice com'è, vuole solo essere coraggioso. Non è chiedere molto: essere il mio eroe, l'eroe di Atena, il tuo eroe. Ma tu, Jalil, tu vuoi un potere che nemmeno Zeus o Odino o AmonRa possono avere. Non mi stupisce che tu non creda in Dio o negli altri dei: non avrai altro dio all'infuori di Jalil.» Sì, l'avevo ferita. E lei aveva rivolto il coltello verso di me. Accelerai il passo e mi allontanai, disgustato da lei e da me stesso. Stava diventando tutto troppo personale. Non dovevo permetterlo. Non dovevo disprezzare Senna. Non dovevo vedere Eshu come un attacco personale. Non dovevo, ma era proprio quello che facevo.
Eravamo entrati in una terra di gole strette e profonde, come se molto, molto tempo fa qualcuno fosse passato di lì con un aratro gigantesco e avesse lasciato dietro di sé dei solchi ben distanziati. Gran parte di queste fenditure riuscimmo ad aggirarle, ma era impossibile evitarle tutte. Il che significava arrampicarsi, scivolare e sdrucciolare fino al fondo della valle ripida e stretta e risalire faticosamente dalla parte opposta, con la convinzione incessante di arrampicarsi verso il basso. Fu una vera faticaccia. Il sole intanto stava calando, un occhio rossonero e fiammeggiante che diventava più grande a mano a mano che si avvicinava all'illusoria linea dell'orizzonte. La discesa nelle gole era doppiamente problematica. Primo, perché non avevamo idea di quali creature potessero annidarsi laggiù. Secondo (e questo ci inquietava di più), perché avevamo la sensazione distorta di scendere nelle gole salendo verso l'alto. Continuavo a usare i muscoli per salire, mentre invece mi servivano quelli per rallentare la discesa. Cadevo spesso. Anche gli altri. I Vichinghi avevano il nostro stesso problema, anche se loro avevano iniziato ad adattarsi, essendo qui da più tempo di noi. David risalì per primo l'ultima delle valli, indicò con il capo verso l'orizzonte e annunciò: «Dev'essere quello.» Mi arrampicai accanto a lui, mi asciugai il sudore dagli occhi e sbattei le palpebre contro il sole. Non l'avremmo visto, se il sole non l'avesse illuminato alla perfezione da dietro. Impossibile dire quanto fosse grande. Non c'era niente fino all'orizzonte che vi si avvicinasse. L'albero si ergeva solitario, circondato dall'erba mossa dal vento, ora viola scuro con l'incedere della notte. «Quello è l'albero» proclamò Senna. «Ma è ancora molto lontano.» «Se ci fosse la luna piena, potremmo continuare a camminare per tutta la notte» disse David, per metà determinato e speranzoso, e per metà stanco e abbattuto. Nessuno, nemmeno Thorolf e i suoi uomini, voleva andare avanti. Ci sistemammo in un posto senza acqua e preparammo l'accampamento, arsi dalla sete. Questa volta c'erano più uomini per raccogliere i bastoni appuntiti. Peccato che non ci fosse legna da nessuna parte. Le valli erano ormai alle nostre spalle. Non c'era nulla tra noi e il grande albero: un vasto spazio vuoto e tre strane giraffe in miniatura che attraversarono il nostro campo visivo. Mi venne quasi da ridere: giraffe basse! La mente di questi dei non arrivava
più in là. Senna ammirava questi invisibili e innominabili dei per la loro semplicità e per la loro autenticità. Io pensavo che fossero degli scimuniti. David e il Vichingo asiatico fecero il primo turno di guardia. Tutti erano armati e tutti dormirono con l'arma in pugno e gli stivali ai piedi. Tutti tranne Senna, che non aveva armi, perché lei stessa era un'arma. Non pensavo che sarei riuscito a dormire. Ma dieci secondi dopo che mi fui sdraiato sulla terra ora più fresca, ero già dall'altra parte, in un mondo più accogliente, seppure più tedioso. CAPITOLO XX Lettore CD portatile in mano. Musica hip-hop nell'auricolare. Con la punta della scarpa da ginnastica urtai una sporgenza nel marciapiede e inciampai, allungai le mani per aggrapparmi a niente e crollai miseramente sul prato di qualcuno. Mi rialzai come una molla, cercai di darmi un contegno, ma l'erba era bagnata perché era appena piovuto e avevo tutte le ginocchia zuppe. Combattei il senso di nausea che mi travolse e per qualche secondo rovesciò il mondo a testa in giù. Mi strappai gli auricolari. Il mondo era nel suo verso giusto. Era tutto normale. Andava tutto bene. Feci un respiro profondo. Le Ultime Notizie dalla CNN non erano male questa volta. Non erano i soliti racconti dell'orrore. Solo la vertigine di una mente che cercava di far fronte a un mondo al contrario. "Okay, meglio lasciar perdere. In questo momento Everworld non m'interessa." Stavo andando a casa di Miyuki. Abitava due isolati dopo Christopher. E infatti... eccolo lì, mezzo isolato più avanti. Avevo parcheggiato a una buona distanza dalla casa di Miyuki. La mia macchina era in condizioni alquanto imbarazzanti: mi avevano distrutto i fanali anteriori sul lato sinistro, la lamiera si era tutta storta e i vetri incrinati erano tutti sghembi. Non era stata colpa mia: un imbecille aveva fatto retromarcia e si era fermato solo addosso alla mia macchina nel parcheggio della scuola. Ma era proprio il tipo di cosa cui il padre di Miyuki poteva attaccarsi. E non avevo alcuna intenzione di fornire al vecchio delle munizioni che avrebbe potuto usare contro di me. Naturalmente adesso avrebbe potuto notare che avevo le ginocchia bagnate. Avrei dovuto andare in giro per un po', nella speranza che si asciugassero. E avrebbero fatto meglio ad asciugarsi in fretta: avevo al massimo
tre minuti di anticipo. E non volevo certo arrivare in ritardo. Il ritardo avrebbe confermato al signor Kuninori che non ero altro che un americano pigro e poco serio che voleva corrompere la sua bambina. Il signor K. era diventato il mio nemico personale. Non l'avevo mai incontrato, ma già occupava gran parte della mia attenzione. Avevo detto che sarei arrivato alle sei e trenta, e alle sei e trenta sarei arrivato. Non alle sei e trentuno. Feci per chiamare Christopher, per buona educazione, forse, ma poi cambiai idea. Ci vedevamo già anche troppo spesso. Poi notai una scena che sembrava presa da un telefilm: due ragazzi scesero da un furgone parcheggiato, non appena Christopher li ebbe superati. Christopher non si accorse di niente. Due ragazzi, uno mi era familiare. Come se l'avessi già visto, ma non riuscivo a ricordare dove. Era piccolo, ma camminava con passo sicuro e arrogante. L'altro era più grosso. Un bel po' più grosso. La mia altezza, ma una struttura da giocatore di rugby. Christopher tagliò per un vicoletto. Era un vicolo che correva parallelo al viale. In genere vi si lasciavano i bidoni dell'immondizia e da lì si accedeva a gran parte dei garage. Christopher probabilmente voleva andare a prendere la macchina senza dover passare da casa sua. Lo persi di vista. I due ragazzi lo seguirono, e io mi misi a correre. Non credo nelle premonizioni e in tutte queste fesserie, ma credo nell'intuito, che non è altro che una rapida analisi di una serie di dati minimi. L'intuito mi diceva che tirava aria di guai. Corsi, arrivai al vialetto, girai l'angolo, e non vidi niente. Nessuno, né Christopher, né i due ragazzi. Ecco chi era! Quello del Taco Bell, come si chiamava... Kenneth o Kevin o qualcosa del genere... Keith, ecco. Si chiamava Keith. Rallentai, cauto. Guardai l'orologio. Oddio. Mi guardai le ginocchia. E pensare che avrebbe dovuto essere così semplice. Ci si trova a studiare insieme e io arrivo puntuale con i miei bravi libri e i vestiti puliti. Dove sta la difficoltà? Un grido. Un'imprecazione. Una minaccia. Poi il rumore sordo e sgradevole di qualcosa di duro contro il morbido della carne. Scattai. E dentro al garage, con la porta spalancata, nell'ombra, c'era Christopher addossato alla macchina di suo padre. Keith aveva un manganello o qualcosa di simile, non più di mezzo metro di lunghezza. Prima
non l'avevo notato. «Ehi!» gridai. Keith si voltò di scatto. Fumava di rabbia. Vidi il sollievo e l'umiliazione sulla faccia di Christopher. Il compare di Keith, l'armadio, rimase lì imbambolato, come un robot senza istruzioni. Keith mi mandò a quel paese. «Non credo proprio» dissi. E un attimo dopo, Keith aveva una pistola in pugno, puntata contro di me. Il foro della canna mi sembrò smisurato. Riempì tutto il mio campo visivo, come se il mondo intero fosse precipitato in quell'unico buco nero. «Ti ammazzo...» ringhiò Keith, aggiungendo una parola che avevo già sentito altre volte. Il ciccione ridacchiò, una risatina stridula, come quella di un bambino dispettoso scoperto a sgraffignare i biscotti. «Non voglio ammazzarlo, il fratello bianco» disse Keith. «Gli sto solo dando un piccolo avvertimento amichevole, dato che mi è capitato di vederlo parlare con un certo detective l'altro giorno. Ma a te invece, ti ammazzo.» «Non era un poliziotto, brutto idiota paranoico» saltò su Christopher. «Cioè, sì, è un poliziotto, ma è un amico di mio padre, e mi stava solo salutando.» Keith non batté ciglio. Mi teneva gli occhi addosso, pronto, in attesa di una scusa per tirare il grilletto. Con grande sorpresa ritrovai la voce. A me pareva chiaramente tesa, ma a Keith dovette sembrare abbastanza controllata. «Sei nel vialetto di un quartiere per bene. Ti hanno visto entrare. Ho chiamato casa e ho lasciato un messaggio in segreteria. Ho usato il cellulare.» Indicai lentamente la gobba che spuntava dai pantaloni. «Ho dettato il numero di targa del tuo furgone. Quindi, qualsiasi cosa mi succeda, la polizia ci metterà un attimo a rintracciarti.» Era tutto un bluff, naturalmente. Avevo un cellulare, solo questo era vero. Il resto, avrebbe potuto esserlo. Gli occhi cattivi del bullo si strinsero. «Qual è il numero di targa? Se l'hai dettato in segreteria, te lo ricorderai.» Sparai una sfilza di numeri. Lui batté le palpebre. «Tu sei uno di quelli furbi, eh?» mi disse, beffardo. «Esattamente. Sono uno di quelli furbi.»
Si morse le labbra, abbassò la pistola, se la infilò sotto il giubbotto, molto da gangster. L'aveva imparato dai telefilm. «Una parola agli sbirri e ti ritrovi con una pallottola in testa. E chi se ne frega se mi mettono dentro.» Annuì, fece un sorriso feroce a Christopher. «Vale anche per te.» Se ne andarono. Quello grosso non dimenticò di darmi una spallata quando mi passò accanto. Entrai in garage e Christopher schiacciò subito il bottone per far scendere la porta basculante. «Ti starai chiedendo che cos'è questa storia, immagino.» Non dissi niente. Ero solo contento di respirare ancora. Anche se adesso mi stava montando la rabbia. Cresceva geometricamente, raddoppiava di intensità ogni due o tre secondi. «Senti» iniziò Christopher. «È quello stupido lavoro che avevo, quello alla copisteria, ricordi? Quello dove mi hanno licenziato. Quei due ragazzi lavorano là. Sono una specie di nazisti ariani, qualcosa del genere. Deficienti.» «Perché ce l'hanno con te? Che cosa hai combinato?» Lui si strinse nelle spalle. «Non ho voluto entrare nel gruppo. E loro si sono offesi, l'hanno preso come un affronto personale.» Annuii, secco. «Ma loro pensavano che saresti stato contento di entrare?» «Ehi, non cominciare con queste storie, va bene, Jalil? È una brutta giornata.» Si passò la mano sulle costole ammaccate. «Già, e adesso la tua brutta giornata è diventata anche la mia brutta giornata. Quindi non credere di liquidarmi tanto facilmente. Quello psicopatico mi ha puntato addosso una pistola, quindi non dirmi che non ne vuoi parlare e non cercare di raccontarmi una balla qualsiasi.» Si morse il labbro, abbassò gli occhi, fissò il pavimento del garage. «Senti, non sono uno di loro, okay? Forse faccio delle battute che non dovrei fare. Ma non per questo sono uno di loro.» «Sì, sì. Però loro pensavano che avresti potuto diventarlo.» Questo sembrò farlo irritare. Stava per sparare una delle sue risposte caustiche. Aprì la bocca, poi la chiuse. Sospirò e scosse la testa. «Sì. Pensavano che forse ero come loro. Pensavano che forse ero pronto a firmare delle fesserie tipo "il potere ai bianchi" o roba del genere.»
«Okay.» «Non sono mai stato come loro, Jalil. Non ho mai odiato nessuno. Non sono mai stato così.» Stava cercando di rassicurare se stesso oltre che me. «Sono solo parole. E nemmeno più quelle. Quasi» aggiunse, mogio mogio. Gli credevo. Lo stavo pressando, ma fondamentalmente gli credevo. «Ho una domanda» dissi, più calmo, ora che l'adrenalina stava scendendo. «Che ne facciamo di questa storia? Come ci comportiamo con questa gente?» «Non possiamo prenderli a calci nel didietro. Cioè, sì, possiamo, ma quel Keith è un caso patologico irrecuperabile, uno di quelli che sparano nelle scuole. È fuori di testa e non ha paura di niente proprio perché è troppo fuori di testa per porsi il problema.» «Non è lui il cervello, giusto? Immagino che ci sia qualcuno più in alto di lui.» «Sì. Mr. Trent.» «Bene, secondo me questo Keith non ha nessuna paura di finire in galera. Sono sicuro che si vedrebbe come una specie di martire per la causa. Ma per gli stessi motivi immagino che il tuo amico Trent sia un po' più cauto. In genere sono i soldati che vanno a morire, mentre i generali stanno nelle retrovie a dare gli ordini.» Christopher mi seguiva, anche se con un po' di titubanza. «Quindi noi andiamo alla polizia e facciamo una denuncia. Loro arrestano Keith. Trent dirà a Keith di starsene buono, perché se Keith cerca di fare ancora qualcosa, sarà come buttare benzina sul fuoco, e Trent finirà per bruciarsi. Se non diciamo niente, diventiamo i burattini di Keith. E ci verrà a cercare ogni volta che gli salta il grillo per la testa.» Christopher vacillò. Era incerto, ma era troppo umiliato per opporsi. «Sì, be', probabilmente hai ragione. Trent si crede Adolf in persona. Non si esporrebbe mai per Keith. Keith invece è pronto a prendersi una fucilata al posto di Trent.» «Appunto» dissi. «È matematico, almeno per come la vedo io.» Fece un respiro profondo. «Quindi... chiamo la polizia, eh?» «Chiama l'amico di tuo padre. Così almeno abbiamo un punto di vista leale, prima che decidano di mettere in manette anche me, in via di principio.» Christopher sembrò più sollevato a questa prospettiva. «Sì, giusto. Chiamo lui. È uno in gamba. Giusto, Jalil, facciamo così.
Hai ragione.» Ricomparve il suo solito sorriso canzonatorio. «Ma, d'altro canto, tu sei uno di quelli furbi...» «Sì, sono proprio furbo. Ho appena mandato all'aria il mio primo appuntamento con Miyuki. Probabilmente anche l'ultimo. Ho perso quello che poteva essere il grande amore della mia vita per venire a salvare la pelle a te. Sono un genio, ecco cosa sono. Chiamiamo la polizia, prima che Keith si accorga che mi sono inventato il numero di targa.» CAPITOLO XXI Mi svegliai e mi trovai la faccia di David davanti al naso. «Che succede?» chiesi, pieno di sonno. «Tocca a te, Jalil. Non succede niente. È solo il tuo turno di guardia.» «Ah, sì.» Mi sfregai gli occhi con il dorso della mano. «Forse Christopher è disposto a fare cambio, se non te la senti» suggerì David, indicando con il mento Christopher che dormiva accanto al fuoco, praticamente abbracciato a un Vichingo. «No. Lo faccio io. Christopher sta già passando un sacco di guai.» «Nel mondo reale?» Mi alzai in piedi, mi stiracchiai, sbadigliai, resistetti all'impulso di buttarmi a terra, di aggrapparmi all'erba per non cadere nel cielo stellato. «Già. Siamo nei pasticci in due universi contemporaneamente. Si era fatto delle brutte amicizie.» Diedi a David una breve versione dei fatti. Se mi fosse successo qualcosa di brutto nel mondo reale, più gente sapeva come stavano le cose, meglio era. David mi sembrò irritato più che preoccupato. Mandò qualche insulto a Christopher. Non uno dei peggiori, ma nemmeno una parolina affettuosa. «Sta cambiando» dissi io, prendendo le sue difese. «Sta entrando a far parte della razza umana. Un poco per volta.» David annuì, ancora irritato. Per il generale era un altro fattore da valutare. Un'altra variabile imprevedibile. Gli dissi che poteva staccare, farsi una dormita. Ma non se ne andò. «Jalil, senti un po'... Tu non pensi che ci possa essere una... non so come dire... una specie di... osmosi tra i due universi? Come se qualcosa di questo mondo filtrasse nell'altro?» Lo guardai fisso. «Mi devi dire qualcosa?» gli chiesi.
Sembrò infastidito perché gli facevo pressione. Ma poi mi fece un mezzo sorriso. «Mi devo ricordare di non cercare di farti fesso» disse David. «Sì, qualcosa c'è. Una donna. L'ho incontrata per caso, una volta che mi sono dovuto fermare davanti a una delle ville lungo la Sheridan. Diceva qualcosa a proposito di una porta, che "bisognava chiudere la porta".» «Chi era?» «Non so. Io ho pensato che fosse una cameriera. L'aspetto era quello.» Alzò le spalle. «Ho cercato di convincermi che stava parlando del portone di legno, capisci? Chiudere il cancello del vialetto. Ma non aveva senso.» Sentii un brivido. La notte era molto più fredda di quello che avrebbe dovuto essere, visto il caldo che c'era stato. «Che cosa pensi, esattamente? Pensi che quella donna abbia qualche relazione con Everworld? Che altro? Aspetta un secondo! Tu stai pensando che anche questo Keith sia collegato a Everworld.» David fece un sorriso come per scusarsi. «Cosa vuoi che ne sappia, Jalil? Non sarò certo io a capire come funziona. Magari sto facendo due più due e mi risulta cinque. Dico solo che questo Keith sta troppo addosso a Christopher, visto quello che è successo. Perché lo sta minacciando? Se voleva farlo stare buono, sta sbagliando tutto. E infatti voi due in questo preciso momento lo state denunciando alla polizia.» «E la donna della porta?» «Non lo so. Sono paranoico, tutto qui. E pure stanco. Passo di là.» «Okay. Ehi, devo svegliare anche uno dei Vichinghi?» «No. Non sembrano molto intenzionati a stare svegli. D'altra parte, loro vogliono morire.» Si avviò, si girò e aggiunse: «Ehi, a proposito, i fruscii che sentirai nel buio sono le iene. Credo.» Mi sfregai le mani cercando di riscaldarle. Non vedevo il grande albero. Non vedevo niente. Il fuoco era basso e in ogni caso la sua luce non arrivava a più di un metro dal cerchio di uomini addormentati. Sentii i rumori degli animali nella notte. Bassi brontolii. Fruscii. Movimenti. Non vedevo niente, ma sentivo la presenza di creature che si muovevano nel buio, che ci giravano intorno incessantemente, attratte ma timorose. Avrei dovuto pensare al giorno dopo. Avrei dovuto pensare a un piano. Ma come potevo? Non sapevo come uscire da questo mondo al contrario. In un certo senso era la goccia che faceva traboccare il vaso. Non bastava
essere intrappolati in un altro universo? Dovevamo proprio essere intrappolati nell'immagine allo specchio di un altro universo? Come uscirne? Come scappare? Eshu era la chiave di tutto. Come avrei potuto vincere Eshu senza dargli ciò che voleva da me? Poteva essere facile. Che cos'era lui, dopotutto? Un semidio da nulla con la fissazione dei sacrifici. E all'improvviso, senza fanfare e senza annunci ufficiali, eccolo lì, accanto al fuoco, le spalle rivolte alla fiamma per riscaldarsi il fondoschiena, le mani allacciate dietro. Mi guardai intorno. Erano tutti addormentati. Molti russavano, chi piano, chi come una sega sul legno nodoso. Sperai che April fosse sveglia. «Che cosa vuoi?» chiesi a Eshu. «Sei molto ostinato» disse lui. «Forse.» «Perché non fare il sacrificio? Posso far apparire una pecora. È semplice. Gli Orisha e i sommi dei sono adirati con te, ma la loro ira si può placare.» Sembrava la quintessenza della ragionevolezza. Un uomo vecchio e saggio che parlava a un giovane stupido, una testa calda. «Ascoltami, vecchio, o vecchio dio, o qualunque cosa tu sia, non è solo una pecora. Tu vuoi farmi inginocchiare davanti a te e ai tuoi cosiddetti sommi dei. Non lo farò. Non finché avrò la capacità di usare la testa.» Mi guardò con curiosità. «Perché neghi agli dei ciò che è loro dovuto? Questa è la loro terra. La mia terra. Se tu entri nella mia terra, non è forse giusto che io possa disporre della tua vita come meglio credo?» «No, non è giusto.» «Ma tu sei un mortale. I mortali vivono o muoiono come piace agli dei. Come uno schiavo è per il suo padrone, così un mortale è per il suo dio.» «Lo dici tu.» Eshu appariva sinceramente perplesso. Non sembrava che provasse piacere nel minacciarci, nell'evocare incubi orrendi, nello scatenare i suoi demoni. Non vedevo in lui un sadico. Era solo un dio che agiva secondo le leggi che riteneva perfettamente logiche e ovvie. «Non lasci altra scelta agli Orisha se non ucciderti. I miei fratelli e le mie sorelle avranno la tua obbedienza o la tua vita.» «Ah sì? Tu e la tua combriccola non siete nemmeno riusciti ad ammazzare questi Vichinghi, e pensa che loro stanno cercando la morte...» Bene, questa era stata una mossa stupida. Una sfida. Lo sfidavo ad am-
mazzarci. Eshu scosse lentamente la testa, rammaricato. E un attimo dopo era sparito. Restai a fissare la notte e a chiedermi se era stato un sogno o realtà o se, in questa gabbia di matti, ci fosse poi una gran differenza tra l'uno e l'altra. Dopo un poco svegliai Christopher. Mi raccontò mugugnando che eravamo rimasti tre ore a fare dichiarazioni alla polizia e che poi era arrivato da Chicago uno dell'FBI ed era ricominciato tutto da capo. Mi chiesi se era stata la decisione giusta quella di andare alla polizia. Se il sospetto di David era giusto, forse Keith stava agendo a un livello completamente diverso. «Ho visto tanti di quegli sbirri che me ne starò buono buono per un bel po'» disse Christopher tra gli sbadigli. «Già» risposi. Ma poi mi venne in mente una cosa. «Però! Ci farebbe comodo averne un paio qui con noi in questo universo.» Christopher scoppiò in una risata fragorosa e Senna, che stava dormendo, si rigirò infastidita. «Gli sbirri solo per cominciare. Molto meglio i Marine. E se ancora non bastasse a dare una bella ripulita a questo posto, facciamo venire anche una squadra di vicepresidi.» CAPITOLO XXII La mattina dopo trovammo un candido agnellino che se ne stava calmo e tranquillo vicino al nostro accampamento. Pensai che David o Senna avrebbero cercato di prenderlo per sacrificarlo. Christopher sicuramente sì. Invece nessuno si mosse. Probabilmente il messaggio era un po' troppo diretto. E nessuno ormai era più disposto a chinare il capo. Anche lo stato d'animo di Christopher si poteva riassumere in un "al diavolo Eshu". Sapevo che era un errore, ed era questo il guaio peggiore. Sapevo che mi ero lasciato coinvolgere troppo sul piano personale, che prendevo delle decisioni dettate più dall'emozione che dalla ragione. E, con un po' d'aiuto da parte di April, ero riuscito a trascinare tutti in uno scontro che avevamo ben poche probabilità di vincere. Troppo tardi. Che cosa potevo fare? Annunciare a tutti che avevo cambiato idea? Avrei perso ogni mia credibilità. E poi, la verità era che non ci sarei mai riuscito. Non volevo che Eshu mi battesse.
Ci rimettemmo in marcia verso l'albero. Quattro ragazzi di Chicago che cercavano il modo di tornarsene a casa una volta per tutte e un manipolo di Vichinghi che cercavano un biglietto "last minute" per il Walhalla. E, naturalmente, la nostra strega. Volevo servirmi di lei, usarla. Non ero sicuro che me l'avrebbe permesso, non ero nemmeno sicuro di riuscire a costringerla. E non ero sicuro che Eshu non mi avrebbe fermato prima. Non mi piaceva quello che avevo in mente. Non mi piaceva dovermi chiedere se era meglio parlarne con Senna o cercare il modo di costringerla contro la sua volontà. "Be'... a questo punto" mi dissi "devo combattere con le armi che ho. Se avessi una motosega o un bulldozer o un lanciafiamme, li userei. Ma ho solo una strega. Quindi, uso la strega. Vinco la battaglia. Poi mi preoccupo di quello che è giusto o sbagliato". Lei d'altra parte se lo meritava. Anche lei ci aveva usato. Forse era una specie di compensazione. Una parte di me sogghignava malignamente, già pregustando l'umiliazione di Senna. Una parte di me rideva di lei, la scherniva, voleva farle quello che lei aveva fatto a me. "Troppi fattori emotivi" mi mise in guardia un'altra parte di me. "Sto cercando di saldare dei conti in sospeso. E questa non è mai una buona idea." L'albero era grande, più di qualsiasi albero normale. Come tre o quattro sequoie messe insieme, ma più largo e frondoso che alto. Però non era grande come altre cose che avevamo visto a Everworld. Non era grande nella misura in cui erano grandi il Serpente del Midgard o Nidhoggr. Era enorme, sì, ma a suo modo in misura modesta. Spiccava, solitario, in un mare di erba blu e arancio. Intorno non c'era che erba. Un branco di elefanti sembrava girare alla larga, evitare la sua ombra. Non emanava un senso di pericolo. Piuttosto, un'aria d'importanza. Gli elefanti non scappavano, non si allontanavano. Stavano a distanza, ecco tutto. La versione elefantesca del rispetto, forse. Noi invece puntavamo dritti sull'albero. E l'albero diventava sempre più grande. Sempre più vicino. E crebbe dentro di me la consapevolezza, la sensazione di vedere qualcosa di arcaico e vitale e magnifico. Un'antica opera d'arte. Un Colosseo, un Partenone, Notre Dame de Paris. L'albero univa le due metà di questo mondo africano. Quello a noi più familiare e questo, semplicemente alla rovescia. Senna aveva sentito a chi-
lometri di distanza la presenza delle sue radici, radici che formavano le arterie e le vene di questi due mondi gemelli e opposti. David rallentò un po' il passo e venne a mettersi di fianco a me. «Hai un piano?» Annuii. Lanciai un'occhiata significativa in direzione di Senna e mi allontanai da lei, subito seguito da David. Thorolf ci vide e si avvicinò. «Quello laggiù è il grande albero» annunciò. «Mi opprime il cuore.» «Be'... dovrebbe essere l'anello di collegamento tra questo mondo capovolto e il mondo normale.» Thorolf annuì. «Proprio come Yggdrasil porta il peso dei mondi sulle sue radici e sui suoi rami.» «Appunto. Proprio quello che stavo pensando anch'io» disse David, secco. «Allora, Jalil? Qual è il grande piano?» Thorolf mi guardò, sorpreso all'idea che stessi per formulare un piano. E io ero altrettanto sorpreso per il tipo di piano che stavo per proporre. «Senna. Prima, quando si è ferita, il sangue le ha bagnato il piede. Dove ha pestato, dove il sangue è caduto, l'erba è morta.» David alzò la testa di scatto, come se avessi detto qualcosa di offensivo. «Ma che stai dicendo?» «Il sangue di Senna. È tossico.» «Il sangue di strega è un veleno mortale» confermò Thorolf, con l'aria di ripetere un luogo comune, come dire che troppo zucchero ti rovina i denti. «Una strega deve essere strangolata o bruciata viva o annegata. Non si taglia mai la testa a una strega o il sangue versato renderà sterile la terra. Provate, voi, a coltivare la segale o il grano su un terreno dove sia stato versato il sangue di una strega.» Il suo sguardo si perse lontano. «Chissà come sarà il raccolto quest'anno. La mia brava moglie farà del suo meglio. È una gran lavoratrice. Ma mi sarebbe piaciuto poter guardare i miei campi un'ultima volta.» «Mi piaceva molto la tua fattoria» dissi. Annuì con gratitudine. «È una bella fattoria. Anche se mi sarebbe piaciuto accoppiare il toro e...» Sospirò scuotendo la testa mestamente. «Be'... ringrazio gli dei per non essere morto lavorando nei campi, come un vecchio inutile. In quel caso sarei finito nel regno di Hel. E le saghe dipingono Hel a tinte molto fosche.» «Le saghe non ne sanno nemmeno la metà» commentò David cupamen-
te. Gli diede una pacca sulla spalla. «Ti riporteremo nell'altro mondo. Non so se vedrai ancora i tuoi campi, ma di sicuro vedrai il Walhalla.» Thorolf si illuminò, sorrise, rise, gli occhi brillanti. «La birra più buona che mai si sia fatta, e le coppe non si prosciugano mai. Ma tu, naturalmente, potresti bere acqua! Ah-ah-ah!» Era impossibile non ridere quando Thorolf rideva. Era uno di quelli con la risata contagiosa. Sentii una fitta. Sapevo che mi sarebbe mancato, una volta morto davvero. Quei giorni frenetici e tremendi passati con i Vichinghi già mi sembravano i "bei tempi felici". Il Vichingo adocchiò uno dei suoi uomini che guardava April con occhi un po' troppo lascivi e ci lasciò per andare a dargli un amichevole avvertimento sotto forma di un manrovescio che a me avrebbe staccato la testa dal collo. La nostalgia se ne andò con lui. David mi stava fissando con gli occhi fiammeggianti, assassini. «Ne hai parlato con Senna?» mi chiese subito. Scossi la testa. «No. Potrebbe non essere d'accordo.» «Santo cielo, Jalil. Ma sai di che cosa stai parlando?» «Sto parlando di uccidere l'albero» dissi. «E forse di uccidere tutto il "lato B", di distruggere il collante di questo mondo tutto sbagliato. Forse di uccidere un po' di persone, di animali, o tutto un sistema di vita.» David restò sconcertato. Lui stava pensando solo a Senna. «È un prezzo un po' alto da pagare, non credi? E tutto per non doverti inginocchiare davanti a nessuno? Ti sei inginocchiato davanti a Loki. Ti sei inginocchiato davanti a Hel. E adesso all'improvviso sei diventato Mister Integrità?» «Con loro era diverso. Ho dovuto cedere a una forza superiore. Non avevo altra scelta. Questa volta non è così. Eshu vuole piegarmi, vuole che rinunci a quello in cui credo. Vuole che mi sottometta volontariamente.» Non riuscivo a convincere nemmeno me stesso. Sentivo che dovevo dire qualcos'altro, e così aggiunsi debolmente: «E poi, April non lo farebbe mai.» «Ah, ecco. Quindi è una questione personale, tra te ed Eshu. Ha attaccato briga lui, e adesso vuoi fargli vedere chi è che comanda. Tu e anche April, se è per questo.» «Io lo posso sconfiggere» ribattei.
David non rispose. «Lo imbroglieremo. Cederà» aggiunsi. «E se non cede? O se ti ferma?» «Stai con me o contro di me?» gli chiesi bruscamente. «Io sono sempre stato dalla tua parte, David. Sono stato dalla tua parte anche quando eri il cagnolino di Senna.» Non diede in escandescenze come mi aspettavo. Giocherellò con l'elsa della spada. Era in un vicolo cieco. Non aveva un piano suo. Ed era vero che l'avevo difeso in molte occasioni. E poi non voleva apparire di nuovo come il burattino di Senna. Contavo soprattutto su quest'ultimo fattore: era la sua occasione per dimostrare una volta per tutte che non era più uno strumento nelle mani della strega. «Va' al diavolo, Jalil» esclamò. «Ci sto.» Avrebbe dovuto essere un sollievo. Ma significava che il piano orribile che avevo covato dentro di me stava per diventare realtà. Con che occhi mi avrebbero guardato i miei amici, poi? Puntai dritto davanti a me, fissai l'albero. Avevo detto con arroganza che sarei riuscito a scoprire il funzionamento del software: sarei entrato nel sistema di Everworld, ne avrei trovato le leggi e le avrei usate ai miei fini. Bene. Adesso avevo l'occasione di farlo. La razionalità del mondo reale contro la magia di Everworld. CAPITOLO XXIII Il tronco dell'albero era un grattacielo. Non come la Sears Tower di Chicago, forse, ma non molto più piccolo. Grande abbastanza da ospitare una trentina di studi legali, varie sedi commerciali, una compagnia di assicurazione, un videonoleggio e una stazione della metropolitana al pianterreno. Certo, si poteva immaginare un albero ancora più grande, ma ciò non cambiava il fatto che questo fosse un albero veramente gigantesco. Era tutto in scala più grande. I rami più bassi erano grossi come un condotto fognario. La corteccia sembrava la corazza di un dinosauro, un muro di mattoni. Una persona robusta sarebbe stata in grado di arrampicarsi. Gli appigli c'erano, per le mani e per i piedi, sarebbe stata un'impresa strana e pericolosa, ma fattibile. Ci fermammo, un'armata di straccioni, tutti con il naso in su, ad ammirare quei rami che avrebbero potuto ospitare delle famiglie di scoiattoli gros-
si come rinoceronti. Mi aspettavo di vedere formiche delle dimensioni di un gatto arrampicarsi in fila indiana lungo il tronco. Guardai David. Era cupo, grigio. Ma mi fece un breve cenno d'intesa. Il mio cuore saltò parecchi colpi. Quindi era così che ci si sentiva ad avere il comando, a prendere le decisioni come faceva abitualmente David. Uno strano miscuglio di eccitazione e senso di potere e paura e vulnerabilità. Mi sentivo male. Presi Excalibur, il mio coltellino in acciaio Coo-Hatch, e feci scattare la lama. Salii sul dolce pendio di una radice cercando di mantenere l'equilibrio, combattendo contro la vertigine, chiudendo gli occhi di tanto in tanto per eliminare l'impressione di essere una formica che camminava a testa in giù su un'imponente radice che formava un soffitto. Avanzai fino a tre metri di altezza, dove le radici si univano al tronco. Iniziai a tagliare. Feci una lunga incisione verticale, dal punto più in alto che riuscii a raggiungere fino ai piedi. Mi rialzai e feci un altro taglio, parallelo al primo. «Ehi, Jalil, che stai facendo? Vuoi incidere sulla corteccia "Jalil ama Miyuki"?» scherzò Christopher. «No. Voglio uccidere questo albero.» «Uccidere l'albero?» Christopher rise. «E quando? Verso la fine del prossimo secolo? Hai una lama di cinque centimetri, e un albero che è grosso come...» David entrò in azione in quel momento. La spada uscì dal fodero. Colpì con l'elsa. L'oro e il metallo fecero un rumore ripugnante contro la nuca di Senna. La faccia di Senna registrò il colpo, poi rovesciò gli occhi e crollò a terra. «Ma che diavolo...» gridò Christopher. «David, che stai facendo?» esclamò April. Persino i Vichinghi erano sbalorditi. David si inginocchiò a controllare il bernoccolo che già si stava formando sulla testa di Senna. Ritirò le mani sporche di sangue. Se le pulì con una manciata d'erba. Poi mostrò l'erba ad April e a Christopher. I fili appassivano accartocciandosi. David li gettò via. Sembrava che avesse la morte nel cuore. Anch'io, probabilmente. Tornai al lavoro. Iniziai a incidere una serie di linee orizzontali più corte sulla radice e sulla parte inferiore del tronco. E tagliando, spiegavo, con
pedanteria, fingendo una calma che non avevo. «Questi tagli permetteranno al veleno di passare attraverso la corteccia e di entrare nelle vene dell'albero. In questo modo si diffonderà a tutto l'albero.» «No. Così è sbagliato, Jalil» disse April, la mia alleata. Mi fermai, mi girai cautamente, attento a non cadere. April era bianca come un lenzuolo, sconvolta, spaventata. «Non faremo del male a Senna» dissi. «Vuoi uccidere questo albero?» mi chiese April, incredula. «Sei impazzito? Non sai che l'albero tiene unito tutto quanto? Che ne sarà della gente che vive qui? Non sai quanti danni potrai provocare.» «Vieni, David» dissi con freddezza, ignorando April, ignorando la parte di me che era perfettamente d'accordo con lei. David passò le braccia sotto il corpo di Senna e la sollevò, la prese in braccio come uno sposo che porta la sua sposa oltre la soglia di casa. Thorolf si fece avanti e lo aiutò a sorreggerla. La prese per le gambe, David la tenne per le braccia. Senna penzolava come un cervo ucciso portato via dai cacciatori. Christopher sembrava incerto. I suoi occhi continuavano a spostarsi tra April e me, imploranti, alla ricerca di qualcuno che gli dicesse che cosa fare. Poi, con un ultimo sguardo impotente ad April, venne ad aiutare David e Thorolf che si arrampicavano sulla radice. Apparve Eshu. Lo stavo aspettando. Ma era diverso. Più giovane. Più forte. Non recitava più la parte dell'umile vecchio. Ora si rivelava come un vigoroso guerriero, di forse venticinque anni. I capelli non erano cambiati, ma adesso emanava energia, un'energia vitale. Poi, intorno all'albero, ai nostri piedi, si materializzarono altre figure. Creature terribili, maschi e femmine. Un uomo poderoso e massiccio con il fuoco nelle narici, che a ogni respiro produceva un rombo di tuono... un uomo giovane, non molto più vecchio di me, ma con il corpo diviso in due, in verticale, bianco da una parte, nero dall'altra... una donna che sembrava fatta di acqua, di liquido fangoso, le orecchie, il collo, le labbra, le braccia, tutti ornati da fantastici braccialetti e gingilli di ottone... una figura raccapricciante coperta di ferite aperte, sanguinanti e purulente... una figura con la testa di un leone... una figura con la testa di un demone... «Gli Orisha» mormorai. «Coloro che tu hai insultato» precisò seccamente Eshu. «Non vi fermate» gracchiai a David.
Il corpo inerte di Senna era più vicino alla corteccia incisa. «Scendete dall'albero» ci ordinò Eshu. David tirò su Senna senza tanti complimenti, la prese per il vestito e la spinse contro il tronco. La tenne ferma così e io le afferrai la gamba destra con una mano e avvicinai il coltello alla carne. La lama che avrebbe tagliato qualsiasi cosa era a due centimetri da una vena nella caviglia di Senna. «Lasciaci andare, Eshu» gli dissi con freddo trionfo. «Lasciaci andare o verserò il sangue di questa strega sull'albero.» Eshu esitò. "Ce l'ho in pugno" pensai. "Ce l'ho in pugno, il bastardo." Ma colsi negli occhi del dio una luce che riconobbi: sfida. Non si sarebbe lasciato sconfiggere. Non da me. A nessun costo. E di colpo, la sensazione che ci perseguitava tutti, la sensazione di essere a testa in giù, che il mondo intero fosse a testa in giù, che il cielo fosse sotto di noi e la terra sopra, diventò reale. La gravità invertì la sua forza di attrazione. Caddi verso il cielo. Senna, David, tutti cademmo su-giù, tra i rami dell'albero che erano sopra-sotto di noi. Caddi verso il cielo bianco e verso le nuvole azzurre. Colpii un ramo. Lo colpii con la schiena, una botta ai reni e ai muscoli, un dolore lancinante, come una frustata. Mi aggrappai, cercai di tenere la presa, scivolai, caddi ancora, urlai di terrore e di rabbia, caddi, andai a sbattere di nuovo, questa volta mi girai su me stesso, mi tenni stretto, mi avvinghiai con le dita, i piedi che scalciavano. Ero su un ramo, aggrappato con un braccio, il peso del corpo che tendeva oltre il ramo. Conati. Non respiravo, i polmoni vuoti, schiacciati. Risucchiai un filo d'aria. Guardai in su verso la terra. Gli Orisha erano là, implacabili, a testa in giù come se niente fosse. A testa in giù, incollati a un cielo di terra ed erba. Mi guardavano. Eshu era trionfante. Guardai in giù verso il cielo, verso i rami più alti dell'albero. Lontano, molto lontano, vidi tre figurine che si contorcevano, roteavano, gridavano senza voce precipitando nell'infinito. Uno di loro, il Vichingo asiatico, mi parve, cadde in una nuvola morbida e azzurra e sparì. Tra i rami, qua e là, gli altri. I Vichinghi. Thorolf. E, sperai, i miei amici. Non vedevo Christopher, ma lo sentivo imprecare con veemenza. Non vedevo né sentivo April.
David era proprio sotto di me. Si teneva aggrappato a un ramo con un braccio. Il corpo era sospeso per aria, e con l'altra mano teneva Senna, ancora svenuta, una bambola di pezza con i capelli arruffati dal vento. David stava scivolando dal ramo. Sapevo che non avrebbe mai lasciato andare Senna. Piuttosto, sarebbe caduto con lei. Dovevo raggiungerlo. Ma la vertigine, la confusione, il groviglio che avevo nella mente distorcevano le mie percezioni. Non riuscivo più a capire come mi dovevo muovere, in che direzione. Mi sforzai di concentrarmi, ignorai il dolore del mio corpo pesto. Verso il cielo. Su. Giù. No, dimentica queste parole, non significano niente. Distolsi gli occhi dall'albero. Mezzo chilometro più in là, delle gazzelle saltavano o si aggiravano tristemente a testa in giù, indifferenti al fatto che per noi la gravità era stata invertita, per volontà di un ossuto dio minore. Mi spostai verso il tronco, un centimetro alla volta. "Devo aggrapparmi alla corteccia, usarla come per arrampicarsi sulle pareti nelle esercitazioni di free-climbing." Solo che qui non c'erano le imbracature, le corde di sicurezza. Qui se fossi scivolato non sarei caduto da sei metri su un materasso imbottito. Sarei precipitato per sempre in un cielo vuoto. Chiusi gli occhi e gridai: «David, resisti. Arrivo.» Raggiunsi il suo ramo, cominciai ad avanzare strisciando. «Fa' presto» esclamò stringendo i denti. Non c'era tempo per la cautela. Non c'era tempo per strisciare. Feci un respiro profondo, sussultai per il dolore alle costole e mi misi a camminare sul ramo, come un equilibrista sulla fune. Un record olimpico sulla trave d'equilibrio. Cinque passi quasi di corsa, poi mi tuffai giù, abbracciai il ramo per un secondo, mi allungai e afferrai David sotto l'ascella. Lo tenevo, ma non avrei mai trovato la forza di tirarlo su. Non potevo far altro che impedirgli di cadere. «Lasciala andare» gli dissi. «No.» «Non ce la faccio a tirarvi su tutti e due, David.» «Non la mollo» ribatté quasi con un singhiozzo. «Christopher!» gridai. «Vieni qui. Ci serve aiuto!» «Dove siete?» «Senna! Svegliati!» implorò David. «Sotto... cioè, siamo... credo che siamo verso il cielo. Io non ti vedo.
Riesci ad arrivare fino al tronco? Forse da lì puoi vederci. Fa' presto.» Apparve Eshu. Si accucciò comodamente su un ramo vicino a David. «I mortali devono imparare a rispettare gli dei» disse compiaciuto. «Dovete offrire un sacrificio; dovete mostrare rispetto.» «Va bene» replicò David. «Maledizione, Jalil, arrenditi. È finita.» Eshu era gongolante e mi rivolse un sorriso deliberatamente provocatorio. «David è il nostro capo» dissi seccamente. «Se lui mi ordina di farlo, lo farò.» Era una vigliaccata. Mi arrendevo, mi sottomettevo, ma cercavo di dare la colpa a David. Non avevo mai considerato nulla di quello che diceva come un ordine. Era una bugia patetica, una misera giustificazione. Ma era tutto ciò che avevo. «Fallo!» esclamò David. «Porta la pecora» dissi a Eshu. Lui sorrise, con cattiveria, con durezza, con fredda ira. «Una pecora? No. È troppo tardi per sacrificare una pecora.» «E allora che diavolo vuoi?» mi infuriai. «Hai vinto tu, va bene? Che cosa vuoi?» «La strega» sibilò. «Uccidi la strega. Devi strangolarla e offrire la sua vita agli dei.» CAPITOLO XXIV Mi si gelarono le budella. «Che cosa?» Un movimento improvviso, il volo di una creatura grossa come un leone, ma con l'inconfondibile voce di un vero Vichingo. Thorolf si lasciò cadere, travolse Eshu, lo strinse tra le sue braccia poderose e precipitò verso il cielo con il messaggero degli dei. Caddero a vite verso le nuvole. «Ah-ah-ah, per il martello di Thor, ti ho preso!» esultava Thorolf, e la sua voce svaniva allontanandosi verso il basso, o verso l'alto. Eshu spingeva, si divincolava, dava pugni, ma Thorolf lo teneva stretto, lo avvolgeva tra le sue braccia simili a pitoni. «State pronti!» urlai. «Invertirà la gravità per salvarsi.» Fu questione di un istante. Il sopra divenne il sotto. Ebbi appena il tempo di spostarmi sul lato opposto del ramo, sotto il ramo, ed ero di nuovo
sopra il ramo, e la terra era sotto di me, anche se sembrava sopra, e il cielo era sopra di me anche se sembrava sotto. Eshu e Thorolf erano una palla di cannone che raggiungeva il punto massimo del suo arco. Rallentarono, si fermarono, e iniziarono a cadere giù, verso l'albero. Sentii Christopher che urlava. Sentii April che strillava. Tenni David, ci arrampicammo come dei matti, ci avvinghiammo a qualsiasi cosa con le mani e con i piedi, e poi, finalmente, ci fermammo, affannati, ma tutti e tre al sicuro sopra a un ramo, con la gravità che ci attirava verso il suolo. Eshu e Thorolf ci sfrecciarono accanto, rallentarono e atterrarono sull'erba con un impatto minimo. Thorolf teneva ancora stretto il dio. Sembrava volesse stringerlo fino a fargli saltare gli occhi fuori dalle orbite. Gli altri Orisha sembravano smarriti. Ma adesso Eshu si stava trasformando, stava diventando un leone. Nemmeno Thorolf avrebbe potuto trattenere un leone. «Siamo sopra le incisioni» sussurrai a David. «Diglielo!» mi ordinò. «Eshu! Eshu!» gridai. Afferrai la caviglia di Senna e avvicinai di nuovo il coltello. «Ora la taglio. E lei sanguinerà. È il tuo albero appassirà e morirà. Insieme a te e a tutta la tua compagnia di saltimbanchi.» Interruppe la trasformazione. Tornò il vecchio esile e curvo che avevamo conosciuto. Mi guardò con occhi fiammeggianti di temibile furia. Avrei giurato che non avrebbe mai ceduto. Vidi intransigenza in quegli occhi, ostinazione suicida. Ma poi la sua espressione si addolcì, lo sguardo si fece vago. Sembrò porsi in ascolto. Annuì lentamente e chinò il capo. Per un po' non disse nulla. Stava domando la propria rabbia. Rinunciando alla propria volontà. Esattamente quello che ero stato costretto a fare anch'io. Alla fine incontrò di nuovo i miei occhi, e adesso era perfettamente padrone di sé, calmo, ubbidiente a una volontà superiore. «I grandi e sommi dei hanno parlato» disse. «Potete lasciare questo mondo.» Il cambiamento fu immediato e totale. In un attimo il cielo non era più bianco ma azzurro. Le nuvole erano soffice ovatta. L'erba era verde e gialla e decisamente sotto di noi, ai piedi dell'albero. Sotto di noi, c'era anche Eshu. Tutti gli altri Orisha, spariti. Evaporati.
Erano mai esistiti veramente? Senna cominciava a muoversi, a riprendere i sensi lamentandosi sommessamente. Io e David la calammo giù nel modo più delicato possibile. April apparve alla base dell'albero e aiutò la sua mezza sorella ad adagiarsi tra l'erba. Arrivò anche Christopher, da dietro l'albero. I Vichinghi si radunarono, sembravano spaventati. «Siamo liberi di andare?» chiese David a Eshu. Non potevo esultare. Non era il caso, del resto. Ero stato pronto a sottomettermi. Eshu aveva perso, eppure mi aveva sconfitto. Eravamo due veterani profondamente segnati da cicatrici e ferite, sui due fronti opposti di una battaglia senza senso. «Potete andare» disse Eshu. «I sacrifici hanno placato i sommi dei.» «Quali sacrifici?» chiese April. Un impatto che scosse la terra. Mi girai di scatto e vidi il Vichingo rimbalzare. Un altro impatto, un terzo. I tre Vichinghi che erano precipitati nel cielo bianco ricaddero dal cielo azzurro e si schiantarono a terra. Non si mossero più. Eshu fece un sorriso soddisfatto. «I grandi e sommi dei posseggono tutta la saggezza. Io sono soltanto il loro umile messaggero.» «Ma vattene a quel paese!» esclamai. Eshu rise e si girò. «Non tornate più in questa terra» disse senza voltarsi indietro. «Sta' sicuro» risposi. E sparì. Rimasi a tastarmi le costole per controllare che non ce ne fossero di rotte. Ma tutti i miei lividi e le fitte di dolore non erano niente. Perché adesso i Vichinghi intorno a noi erano tutti sanguinanti, pieni di ferite aperte, le viscere di fuori. A uno di loro si staccò la testa dal collo. E mentre guardavo atterrito quella scena, una profonda ferita sanguinante si aprì sul petto di Thorolf. Lui chinò il capo, la guardò, sembrò per un attimo spaventato, poi sorrise ed esclamò: «Aah!» «È quella... è quella la ferita che ti ha ucciso?» gli chiese April con dolcezza. Lui annuì. «Sì. E c'è ancora. Già sento il freddo della morte che si avvicina.»
I Vichinghi cadevano a terra, stramazzavano tra i lamenti. Morivano intorno a noi per le vecchie ferite improvvisamente ricomparse. Erano i postumi della battaglia, condensati in pochi attimi, improvvisi. Tanto sangue e tuttavia un silenzio quasi assoluto. Thorolf barcollò, cadde in ginocchio. April corse da lui, gli mise una mano sulla spalla. Lui le sorrise, poi la spinse via. «Muoio da guerriero!» ruggì con il suo solito vocione. «Venite, Valchirie! Venite da Thorolf. Pretendo ciò che è nel diritto di ogni guerriero!» Poi cadde sulla faccia. David gli tastò il collo. Poi gli carezzò l'elmo di latta. «È morto.» «Sono morti tutti» disse Senna. Mi sorprese sentire la sua voce. Sapeva quello che le avevamo fatto? Quello che io le avevo fatto? Cercai di darmi un tono e la guardai. Oh, sì. Lo sapeva, eccome, e se voleva spaventarmi, stava facendo un ottimo lavoro. Niente rabbia, niente isterie, solo malevolenza, fredda, controllata, determinata malevolenza. Non mi era mai stata amica. Adesso mi era nemica. «Spero che le Valchirie lo vengano a prendere» disse Christopher. «Spero che arrivi al Walhalla.» E all'improvviso, come in risposta al suo augurio commosso, il cielo intero si squarciò. Quattro donne a cavallo di quattro possenti destrieri apparvero nel cielo, galoppando nell'aria, le lunghe trecce bionde al vento, le spade che sobbalzavano contro le cosce nude e muscolose. I loro volti erano severi, non tanto belli quanto perfetti. Avevano occhi azzurri ed esaltati, i denti digrignati, come squali pronti a chiudere le mandibole su un ignaro surfista. Erano armate, protette da un'armatura e da un elmo. Ciascuna di loro avrebbe potuto rompere un muro di mattoni con un pugno. Poi, fu come se il cielo azzurro diventasse il sipario di un teatro. Ogni Valchiria prese una manciata di azzurro e l'apri come una tenda, rivelando una scena stupefacente. Davanti a noi c'era una stanza indicibilmente grande. Le travi che sostenevano il tetto erano grosse come l'albero che ancora ci teneva all'ombra della sua chioma. C'erano lunghe file di alte finestre ad arco, così grandi che ci sarebbe passato un Boeing 747; c'erano tavoli lunghi centinaia di metri, ma stretti, tanto che si poteva toccare chi sedeva di fronte. E dappertutto migliaia di Vichinghi, decine di migliaia, tutti coperti da pellicce favolose o luccicanti armature d'oro, intenti a divorare pezzi di
carne grossi come prosciutti interi, a levare in alto grossi calici d'argento massiccio e a tracannare fiumi di birra chiara. Il chiasso era assordante, la confusione incredibile: risate, grida, ruggiti, esclamazioni, smargiassate, coppe sbattute, birra versata, pezzi di cibo strappato a morsi e lanciato addosso ai commensali... E lì, nel punto più vicino a noi, Thorolf. Non lontano da lui ecco Olaf Piediferro e Sven Mangiaspade, due dei Vichinghi che avevamo visto morire nella guerra contro gli Aztechi. Il Walhalla. «Okay, voglio entrare anch'io in questo club» esclamò Christopher con una risata stupita. «Ah! I miei menestrelli!» gridò Thorolf allegramente. «Ho raccontato ai miei compagni della vostra grandiosa canzone, amici menestrelli. E ora la vogliono sentire anche loro.» Svuotò d'un fiato una coppa traboccante di birra, si girò verso le tavolate e con una voce così tonante da far sanguinare le orecchie gridò: «Zitti! Zitti, cani bastardi! Adesso i miei amici menestrelli canteranno la loro canzone!» «La canzone?» ripeté April. «Per tutti quanti?» Ma che altro potevamo fare? Dire di no a centomila Vichinghi ubriachi, morti in battaglia? Dire di no al nostro amico Thorolf? Dire di no alle minacciose Valchirie? E così cantammo la canzone che avevamo inventato per Olaf e Thorolf tanto, tanto tempo prima. Iniziammo con voce incerta e tremante, cercando di azzeccare la melodia e di cantare intonati, cercando di ricordare le parole, già mezze dimenticate. Ma cantammo. «Gloria gloria a Re Olaf, gloria gloria ai Vichinghi, che i nemici vinceranno e in trionfo tutti andranno. Gloria gloria alleluia...» Alla seconda strofa ci eravamo scaldati e cantammo ridendo. «Gloria gloria alleluia, per Re Olaf che è il più grande, gloria gloria alleluia, tutto il mondo conquisterà, e il più potente diventerà!» Nella storia del mondo nessuno ebbe mai un applauso come il nostro. I Vichinghi non si limitarono a battere educatamente le mani. Esplosero in quella che sembrava una sommossa popolare in grande stile. Agitarono in aria le armi e urlarono a pieni polmoni, e le Valchirie non furono da meno, e lanciarono anch'esse orrende strida roteando le spade e le lance. Ricominciammo la canzone daccapo. E poi di nuovo. E solo quando tutta la folla ubriaca prese a cantare con noi, Thorolf ci
fece un cenno con il capo. «Grazie, amici menestrelli!» «Grazie a te, Thorolf!» sussurrai. «Ehi, Thorolf! Allora, com'è la birra del Walhalla?» gridò Christopher. Thorolf buttò indietro la testa e ridendo se ne versò in gola almeno tre litri. Le Valchirie richiusero il sipario del cielo, scivolarono dentro dai lembi accostati e sparirono. Per molto tempo nessuno parlò. Poi David sospirò. «I Coo-Hatch sono ancora con noi. Laggiù.» «E l'Egitto è da quella parte» disse Senna. FINE