K. A. APPLEGATE SPADA E MAGIA EVERWORLD GUERRA SULL'OLIMPO (EverWorld 7: Gateway To The Gods, 2000) I DESTRIERI DEGLI DE...
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K. A. APPLEGATE SPADA E MAGIA EVERWORLD GUERRA SULL'OLIMPO (EverWorld 7: Gateway To The Gods, 2000) I DESTRIERI DEGLI DEI Atena, con le vesti gonfiate dalla brezza gagliarda e temperata, alzò al cielo la testa protetta dall'elmo. «Vieni a me, destriero di Bellerofonte. Vieni a me, o Pegaso, e porta i tuoi figli!» ... Puntai il dito in alto. A prima vista poteva sembrare uno stormo di gabbiani, bianchi contro l'azzurro del cielo. Ma l'illusione che fossero uccelli svanì non appena si avvicinarono. Erano cavalli, in tutto e per tutto. Cavalli bianchi con grandi ali bianche e piumate. «Be', so che dovrei essere stanco di dirlo, ormai, ma... è assolutamente impossibile» commentò Jalil, in tono quasi disgustato. «Non si può sollevare in aria un cavallo con ali da uccello. E poi, come fa a cambiare direzione? Ha una coda, non delle penne. Non potrebbe cambiare direzione... E invece sì.» «Benvenuto a Everworld» gli rispose David. «Già. Benvenuto a Everworld, lo so» si arrese Jalil. Quattro cavalli alati scesero velocemente verso di noi, gli zoccoli raccolti vicino al corpo, le code al vento, le teste alte, senza alcun riguardo per le leggi dell'aerodinamica, le ali lente e possenti. Avevo mai visto qualcosa di più bello? In tutta la mia vita, qui a Everworld o nel mondo reale, avevo mai visto qualcosa che potesse reggere al confronto? Compiangevo quegli universi dove non esistevano creature simili, né potevano esistere... CAPITOLO I L'Olimpo. Lasciatemelo dire: dopo tutta la sporcizia, le pulci, il fango, la fame, la sete ardente, i sonni mai una volta decenti, tutto questo era okay. Era più che okay. Era il Ritz-Carlton di Everworld. Era l'Holiday Inn di Everworld. Era il Club Med di Everworld.
E una volta messo bene in chiaro e ripetuto che non la gradivi proprio una coppa di vino o di sidro o di birra... e che non desideravi i "servizi" di un giovane e aitante dio, o di un dio vecchio e sporcaccione, o di un dio effeminato, o di un dio palestrato, o di un dio sotto forma di toro, aquila, ariete, cavallo o montone... e che davvero avresti preferito dormire, solo dormire, e nient'altro... una volta chiarito tutto questo, la cosa diventava decisamente piacevole. Avevano dei letti che... come posso descriverli? Dire che erano nuvole immense, imbottite del più soffice piumino d'oca e avvolte in un magico tessuto che era liscio e fresco come la seta ma anche confortevole come il più puro cotone egiziano non basta nemmeno a dare una vaga idea della meraviglia profonda e ristoratrice che si provava a tuffarcisi dentro. Dormivo per terra da un sacco di tempo. E passare dalla nuda terra, in genere corredata di qualche radice che mi martoriava la schiena, a questo... era come andare in paradiso. La versione pagana del paradiso... San Pietro, nel paradiso vero, avrebbe avuto il suo bel daffare per impressionarmi, dopo una cosa del genere. La colazione venne servita da una creatura giovane e aggraziata e inevitabilmente poco vestita. Di sesso maschile, nel mio caso. Portava un vassoio d'argento delle dimensioni di un tavolo da biblioteca, carico di arance dalla polpa rossa, mele verdi e gialle e rosse, ciliegie rosso chiaro, meloni verdi e arancio già tagliati e sei diversi tipi di uva. Poi c'era il pane: pane azzimo, trecce di pane, pane nero, pane bianco a forma di fungo con i semini in cima. E, naturalmente, i dolci: dolci fatti con il miele e i semi di papavero e l'uva sultanina, alcuni a forma di scarpetta e ripieni di crema al mascarpone, altri rotondi con una ciliegina in mezzo. Le uova? Certo che c'erano le uova: uova di gallina, di anatra, di oca, di rondine, di aquila, di colibrì... piccolissime quelle di colibrì. E poi c'erano i tocchi più chiaramente mediterranei: olive, almeno di sei tipi diversi, da quelle quasi dolci a quelle dal sapore molto intenso, vongole e ostriche crude, cozze al vapore e gamberetti così grossi che con una sella sopra uno poteva andarci a fare una cavalcata, bocconcini di polpa bianca di pesce infilzati su spiedini d'argento e ancora sfrigolanti. E non finiva qui: c'erano ciotoline riempite di sei tipi diversi di miele, due tipi di burro, cremine varie e un intero assortimento di formaggi, fatti con il latte di capra, di vacca, di pecora e... di unicorno. Formaggio di unicorno. È una cosa che non si vede spesso, nemmeno sul
menù dei ristoranti più esclusivi di Chicago. E tutto intorno a queste delizie c'erano decorazioni e guarnizioni: fiori, tralci di erbe odorose, ghirigori di fili d'oro che formavano minuscoli idoli pagani. E ogni singolo dolcetto, ogni singola pagnotta, ogni ciotola di crema, ogni acino di ogni grappolo d'uva era perfetto. Non era "una" fragola, era "la" fragola. Le arance erano così buone che quasi mi commossi. C'era abbastanza cibo per tre settimane. E invece era solo la colazione. Avevamo passato la notte sull'Olimpo. Mi ero fatta un bel bagno caldo nell'acqua pulita e fumante di una vasca di marmo grande come una piscina olimpionica. Avevo scambiato i miei stracci pieni di pidocchi e così sporchi che stavano in piedi da soli con un'elegante tunica con due profondi spacchi laterali, ma molto castigata per gli standard dell'Olimpo. Mi ero goduta una cena abbondante e squisita, una notte di sonno meraviglioso. E adesso mi stavo godendo una colazione fantastica che aveva abbastanza calorie per correre tutta la maratona di New York. Non avevo altro desiderio se non quello di fuggire per sempre da Everworld e tornare a casa. Ma forse non in questo preciso momento. Bussarono alla porta. «Sì?» risposi, piena da scoppiare di amore e benevolenza per tutte le creature grandi e piccine. La porta si aprì. Era Christopher, in toga. «Avrei una domanda...» esordì. «Sogno o son desto?» «Hai già fatto colazione?» gli chiesi, estasiata. «No. No, non ho fatto colazione. Mi sono sbafato un intero buffet. Non si può chiamarla semplicemente "colazione". Sarebbe un insulto. Era una COLAZIONE tutta maiuscola, a lettere smaglianti e cubitali come quelle sulla collina di Hollywood. Caspita! Che bell'hotel mandano avanti questi dei!» Feci un sorriso a trentasei denti. Lui pure. La testa di Jalil fece capolino da dietro l'angolo. Anche lui stava sorridendo. Ci sono pochi piaceri nella vita più intensi del piacere di un essere umano sporco, assetato, affamato e stanco cui vengano offerti un bagno caldo, una bibita fresca, un pasto eccellente e dieci ore di sonno profondo e indisturbato. (Anche se, a dire il vero, durante le mie ore di "sonno" ero andata a scuola, avevo studiato per un compito in classe ed ero andata a trovare i nonni alla casa di riposo, dove avevo letto qualche pagina zuccherosa di un romanzo d'amore a un paio di vecchiette.)
«Dico solo questo, e lo dico qui, davanti a tutti» attaccò Jalil. «Io di qui non me ne vado, non me ne andrò mai. Dovranno cacciarmi via a calci, inseguirmi con una mazza da baseball, e neanche allora me ne andrò.» «Dov'è David?» chiesi. Christopher alzò le spalle. «Non so. Non lo vedo da ieri sera a cena. Ma sono disposto a scommettere cinque dollari che lui avrà già trovato il rovescio della medaglia. Chi ci sta?» Risi. «Io no. È troppo facile. Volete qualcosa da mangiare? Ho...» Guardai il vassoio della colazione: sembrava che non l'avessi ancora toccato. «Credo che mi siano avanzate ancora alcune centinaia di migliaia di calorie.» «Hai ancora i dolcetti con il miele e i semi di papavero?» mi chiese Jalil. «Oh, quanto sono buoni! Li hai provati con quella crema bianchiccia?» Ci appollaiammo tutti e tre sul mio letto e riprendemmo a mangiare, anche se nemmeno dieci minuti prima avevo giurato che ero già piena da scoppiare. E dopo una mezz'ora, finalmente, ecco arrivare David. Aveva la toga d'ordinanza, la spada di Galahad e uno sguardo molto insoddisfatto. Io e Christopher scoppiammo a ridere, con la bocca piena. «Che c'è di tanto divertente?» chiese David. «Niente, niente» risposi. «Vuoi qualcosa da mangiare?» «Ho già fatto il pieno» disse. Non sembrava contento della cosa. «Ho fatto il pieno di cibo, di succhi di frutta, di sonno. Sono anche pulito. Ma sembra che nessuno sappia darmi qualche risposta, in questo posto. I servi non sanno dire altro che: "Non saprei, io sono qui solo per soddisfare ogni tuo desiderio". Non fanno altro che offrirmi da mangiare e portarmi qualcosa da bere e propormi di tutto, un massaggio, o magari un po' di balsamo sulle ferite o... mi capite, no?» Sollevò le sopracciglia in modo allusivo. «Qualunque cosa volessi fare e con chiunque volessi farla...» «Depravati! Questo è veramente intollerabile!» lo prese in giro Christopher. «Simpatico» commentò David. «Un massaggio, eh?» Considerai il fatto che avevo ancora la schiena rotta, per via dello zaino con i nostri miseri averi, che mi portavo sempre in spalla. Christopher allargò le braccia, indicando la perfezione di marmo e alabastro della stanza.
«Io sto come a casa mia. Ma dico, un posto come questo? Avete idea dei guadagni potenziali, se potessimo affittarlo alla gente del mondo reale? Voglio dire, cosa sarà questa? Una suite da cinquemila dollari a notte?» All'improvviso si spalancò la porta. Balzammo tutti in piedi, David già pronto a sguainare la spada. Ma era una donna. Ancora piuttosto giovane, sulla trentina. Capelli scuri, occhi scuri, gli uni e gli altri selvaggi. Si fermò, stralunò gli occhi, come se le stesse venendo un accidente, e poi con voce bassa e lamentosa intonò: «Orde di Hetwan l'Olimpo assedieranno, gli dei della Grecia Ka Anor nutriranno, se gli stranieri mortali non interverranno e del fabbro alieno il bisogno segreto dalla strega non verrà soddisfatto.» Pronunciate queste parole, la donna sbatté le palpebre, poi ci fissò con gli occhi sgranati, come se fossimo stati noi a fare irruzione nella sua stanza. «Chi sei?» le chiese David. «Io sono Cassandra» rispose la donna. «Ma per favore!» esclamò Jalil. «Cassandra era la profetessa, mmm, come si chiama... l'oracolo. Sì, Cassandra era l'oracolo che diceva sempre la verità ma era condannata a non essere mai creduta.» «È così» confermò la donna con un'espressione di petulante rassegnazione che prese il posto della follia selvaggia di qualche attimo prima. «Lo so.» «Un momento» intervenne David, aggrottando la fronte. «Dunque, lei dice sempre la verità, ma nessuno le crede. Allora... allora noi dovremmo crederle. Giusto?» «Ma tu le credi?» gli chiesi. David scosse la testa. «No.» «Non è Cassandra» disse Jalil. «E tu come fai a saperlo?» gli chiese Christopher. «Cioè, io so che non è lei, ma tu come lo sai?» La domanda mise in difficoltà Jalil. Strizzò gli occhi come per mettere a fuoco qualcosa. «Non... okay, aspetta, se è Cassandra, allora ci ha appena detto qualcosa di importante, giusto? E quello che ci ha detto è che... che...» «Cos'è che ha detto?» chiese David. «Mi sfugge.» «Scusa... cos'è che hai detto?» chiesi alla donna. «Non importa» disse Cassandra e se ne andò bruscamente, così come era
arrivata. «Credo che abbiamo appena vissuto una tipica esperienza da Everworld» disse Jalil. «Se solo riuscissimo a ricordare quello che ha detto. E le credessimo...» «Non ha detto niente che valesse la pena ricordare» tagliò corto Christopher. «Perché, sapete, erano tutte fesserie.» «Hai ragione.» CAPITOLO II Everworld. Un altro universo. Non un altro pianeta o un altro posto: un altro universo, dove la magia era reale. Dove le figure mitologiche erano esseri viventi. Dove il tempo non sempre procedeva lento e inesorabile e sempre uguale a se stesso. Dove le leggi della fisica potevano essere alterate, avendo i poteri necessari. Dove tutti sembravano parlare ovunque la stessa lingua. Vivevo in due universi. Simultaneamente? Non proprio. Il tempo di Everworld e il tempo del mondo reale non erano in sincronia. Sembravano procedere in avanti tutti e due ma per la April di Everworld era come se il tempo del mondo reale avesse qualche problema alle marce: accelerava, sobbalzava, qualche volta sfrecciava via veloce, altre volte avanzava alla solita velocità. Io, la April O'Brien di Everworld, vivevo a Everworld. Quando dormivo, riattraversavo (o erano solo i miei ricordi a farlo?) la barriera che separava i due universi e tornavo a essere la April del mondo reale. Ci sono due April. Tranne quando quella di Everworld dorme. Allora resta solo quella del mondo reale. Anche se il mio corpo di Everworld resta fisso a Everworld. Un po' di confusione? Eh, sì. Molta, molta confusione. Quale delle due sono, io? Tutte e due. Tutto insieme. Ho una vita intensa e attiva nel mondo reale, esco con gli amici, vado a scuola, faccio volontariato, chiacchiero con mia mamma, do un bacio a mio padre quando torna dal lavoro, vado in giro a fare le solite commissioni, faccio le prove per lo spettacolo teatrale, faccio i compiti, dormo, mi faccio la doccia, mangio... Sono quella che sono sempre stata. Tranne il fatto che, di tanto in tanto, nei momenti più imprevedibili, ricevo questi improvvisi aggiornamenti quando irrompe la April di Everworld con le ultime notizie. Notizie che sono quasi sempre brutte.
Magari sono al Blind Faith Café, il mio locale vegetariano preferito, e mi sto facendo un bel piatto di riso integrale alle verdure o una bella insalatona o una semplice fetta di torta alle carote, chiacchierando tranquillamente con le mie amiche, e tutto d'un tratto... Ultime Notizie dalla CNN! Fresche di agenzia: l'altra te stessa, la April di Everworld si è appena addormentata nonostante abbia passato le ultime otto ore in uno stato di terrore assoluto e molto probabilmente l'aspetti la morte certa. "Salve, April. Come va? L'altra April è su una nave vichinga e sta andando ad ammazzare un dio azteco che si nutre di cuori umani. Ti auguro una buona giornata." Le immagini di tutto quell'orrore... Magari sono fuori con un ragazzo, quasi pronta per il Grande Bacio, e tutto d'un tratto ecco che nella mente impreparata mi si riversano fiumi di immagini, incredibilmente fresche, spaventosamente reali, di uomini agonizzanti, di mostri, di orrori che la mente più perversa non riuscirebbe a pensare. Non è come guardare un film. Non è come leggerlo in un libro. Sono ricordi di eventi reali, cose reali accadute a una April in carne ed ossa. E risento il dolore. E risento la paura agghiacciante. È una situazione che sta avvelenando la April del mondo reale, quasi quanto avvelena la April di Everworld. Forse anche di più. È la April del mondo reale che voglio salvare. È questa la mia vita, la mia vita vera. E questi assalti di panico e follia la stanno appestando. E poi, più sottili, ma quasi altrettanto distruttive, a modo loro, ci sono le seduzioni di Everworld. I ricordi della bellezza, i ricordi delle emozioni forti, dei batticuori, dell'indipendenza, dell'autonomia, del successo di imprese impossibili, dei pericoli miracolosamente scampati. Ricevo anche tutto questo. Nel mio mondo quotidiano all'improvviso mi rendo conto che un'altra me stessa ha affrontato un drago, ha sfidato un dio, è stata ardita e coraggiosa. Non sono una di quelle persone che stanno male nel proprio mondo. Io ci sto benone, sono felice. Nella maggior parte dei casi, almeno. Ho un mio posto nel mondo reale. Ne faccio parte e sono felice di farne parte. Ma Everworld è di più. Più luminoso, più assordante, più dolce, più duro, più strano, più interessante, più stimolante, follemente pericoloso, terrificante. Più... tutto. Le amiche che ho nel mondo reale sono il centro del mio universo. Le mie amiche significano tutto per me. Io sono parte di loro, e loro sono parte di me e, spero, saremo insieme per sempre, se non fisicamente, almeno
con lo spirito, con i sentimenti. Abbiamo le stesse speranze, gli stessi interessi, le stesse ambizioni. Gli amici che ho a Everworld? Be', si possono definire "miei amici" David, Jalil e Christopher? Mi fermai a guardarli mentre piluccavano la mia colazione e discutevano di questo e di quello. Mi colpì quanto a fondo fossi arrivata a conoscerli. Quanto mi fidassi di loro, in misure diverse. E anche quanto fossi stanca di stare con loro. E quanto mi condizionassero la vita. Non eravamo mai stati amici, prima. Avevamo qualcosa in comune, ma non lo sapevamo. A scuola, nel mondo reale, le mie amicizie erano quasi tutte del gruppo di teatro. Quasi tutte ragazze, un paio di maschi. David e Christopher erano due ragazzi che salutavo se li incontravo per strada, ma niente di più. Jalil lo conoscevo un po' meglio, ma non molto. Christopher, prima, e poi David uscivano con la mia sorellastra, Senna, ma la cosa non me li rendeva certo più simpatici. Non mi induceva a pensare che fossero ragazzi con cui costruire un buon rapporto. Anzi, era più vero il contrario. Se si erano innamorati di Senna, doveva esserci qualcosa di molto sbagliato nel loro cervello. E avevo ragione. C'era qualcosa di sbagliato in David e in Christopher. Ma così è la vita, no? Tutti i personaggi interessanti hanno dei difetti. Chi fa l'attore lo sa bene: non sono solo le virtù, ma anche e soprattutto i difetti e le debolezze, le deviazioni, le malattie, le malvagità a creare un ruolo interessante. Ma saperlo non significava spianare i rapporti con loro. David era un bel ragazzo. Potevo capire perché Senna l'avesse scelto. Non era particolarmente grande e grosso. Nella media, diciamo. Era un tipo scuro, un po' alla Raul Bova, ma meno scimmiesco. Anche meno bello. Da quello che ho capito, qualcosa nella vita di David deve essere andato storto quando era ancora bambino e questo qualcosa adesso lo costringe a dover continuamente dimostrare quello che vale. Forse è per via di suo padre, un ufficiale di non so che tipo in pensione. Non lo so, e David non è il tipo di persona che parla dei suoi sentimenti o del suo passato. La verità è che, qualunque sia il motivo che ha reso David così insicuro e così determinato a volersi dimostrare forte e coraggioso, qui a Everworld è tornato a vantaggio di tutti noi. Forse tutti gli eroi, o almeno una buona parte, hanno la mania dell'"uomo vero". Chissà. Fatto sta che quando le cose si mettono male, noi ci affidiamo a David e lui non si tira mai indietro. Non è leale da parte nostra, soprattutto da parte mia, perché so nel pro-
fondo del cuore che David è in trappola. Non può permettersi di fallire, non può permettersi di scappare, di nascondersi. Lui si sente in dovere di essere forte e coraggioso, e noi altri, come dire, accettiamo la cosa e ne approfittiamo. C'è qualcosa in questo che mi fa sentire un po' in colpa. È come mettere un'anoressica di guardia alle scorte di cibo, o chiedere a una persona affetta da disturbo ossessivo-compulsivo di pulirti la casa. Funziona, ma sarà giusto? Christopher è una persona che si fa presto a trovare simpatica e altrettanto presto a trovare odiosa. È un tipo affascinante, divertente, rilassato e assolutamente onesto riguardo alle sue emozioni. Quando Christopher ha paura, lo capisci subito. Quando ha fame, o è arrabbiato o depresso, non c'è verso che riesca a nasconderlo. È più alto di David, biondo, a metà tra il bamboccio imbranato e il bulletto spaccone, dipende dalla situazione. Nel novanta per cento dei casi mi piace. Per l'altro dieci per cento è un cretino sessista e razzista, uno che ha in odio tutta l'umanità. Non credo che sia felice. I comici raramente lo sono. E lui è un tipo molto divertente. So che queste sue posizioni retrograde derivano da qualche sua debolezza, da un luogo buio e triste dentro di lui. Infatti il razzismo non è esattamente un sintomo di serenità ed equilibrio mentale, giusto? A complicare ulteriormente le cose, temo che Christopher sia un alcolizzato, oppure sulla buona strada per diventarlo. Da alcune osservazioni che ha fatto ho scoperto che entrambi i suoi genitori bevono, probabilmente troppo. Eppure, nonostante tutto, mi piace. Forse sbaglio. Forse dovrei semplicemente allontanarlo, rifiutare di avere a che fare con le sue idee idiote. Ma non ci riesco. Ci siamo in mezzo tutti e quattro, in questa storia. E poi, ci sono delle speranze per lui. Delle buone speranze, credo. È stato colpito duramente dalla morte di Ganimede, l'unico maschietto con cui Zeus amava sollazzarsi, tra le migliaia di fanciulle. Il fatto è che Ganimede aveva salvato la vita a Christopher, ma Christopher non ha salvato la vita a Ganimede. Credo che sia stato un brutto colpo per lui, un bruttissimo colpo. Perché? Non lo so di preciso. Deve entrarci il fatto che gli restava un debito che non avrebbe più potuto ripagare. Questo, almeno, ho colto dal suo confuso farfugliare nei vari giorni di sbornia ininterrotta. Da ultimo c'è Jalil. Jalil l'enigma. Jalil l'impenetrabile. Non c'entra la storia del bianco e del nero. Non c'entra che il colore della
sua pelle sia diverso dal mio, e nemmeno il fatto che lui sia, mi pare di capire, più intelligente di me. Jalil è ermeticamente isolato. Rivestito di teflon. Corazzato. Mimetizzato. Cerchi di guardargli dentro, e il tuo sguardo viene deviato. Le domande eluse. La tua curiosità sembra scivolare via, senza lasciare traccia su di lui. Nasconde qualcosa? O è solo arroganza? È esageratamente insicuro o esageratamente sicuro di sé? Non lo so. Mi piace, mi fido di lui, lo rispetto. Prima pensavo che stavo cominciando a conoscerlo, ma mentivo a me stessa. Lui è più furbo di me, non riuscirò mai a metterlo nel sacco, a entrare nella sua testa, a ridurlo a qualche etichetta chiara e semplice. Jalil mi spaventa un po'. Non lo ammetterei mai davanti a lui. Ma vive una vita senza fede, senza mai fare appello a forze che non siano le sue. Come può una persona vivere in un mondo in cui manca la speranza in Dio? È come conoscere qualcuno che vive senza mai mangiare. È una cosa che mi affascina, che mi preoccupa, che mi fa dubitare di me stessa. Naturalmente c'era anche un'altra persona del mondo reale qui con noi a Everworld: Senna. Senna è la mia sorellastra. Abbiamo un padre in comune. A quanto pare, il mio caro e irreprensibile paparino non è stato sempre così irreprensibile. Un bel giorno ha incontrato la mamma di Senna. E qualche anno dopo, la mamma di Senna è semplicemente sparita dalla circolazione. Si diceva che fosse in questo o in quel posto, ma mai nessuna prova concreta. E così Senna è venuta a vivere con noi. Con mio padre e mia madre. Era un po' che non la vedevamo, Senna. Ma era lei la ragione per cui eravamo qui. Era lei l'anello di collegamento tra David, Jalil, Christopher e me. I miei sentimenti verso i miei compagni d'avventura erano complessi. I miei sentimenti verso Senna invece no. La odiavo. CAPITOLO III Passò circa un'altra ora, poi ci mandarono a chiamare. Il servitore, un giovane bellissimo, ci annunciò: «Avrete l'onore di essere ricevuti in udienza dal Grande Zeus in persona.» Il servitore sembrava molto colpito. Sentii un piccolo brivido di paura. Non sapevamo molto di Everworld e dei suoi vip, ma sapevamo, o almeno
ci pareva di aver capito, che Zeus fosse uno dei fondatori. Una delle principali potenze. Qualcuno da temere, pur non volendo che morisse. «Dobbiamo andare da Zeus?» chiese, stupito, Jalil. «E quando?» «Non appena sarete pronti.» «Non sarebbe sufficiente» intervenne Christopher «parlare con il suo segretario personale? Con il suo braccio destro, o qualcosa del genere?» Nessuna reazione da parte del servitore. Ma io avevo una domanda più importante. Di importanza vitale. «Ehi, che cosa ci mettiamo? Dico, è Zeus! Ci vorrà qualcosa di formale. E che cosa gli diciamo? Come... come ci dobbiamo rivolgere a lui? Come lo dobbiamo chiamare?» Questa volta il servitore capì. «Vi saranno portate delle vesti adeguate. Dovrete rivolgervi al Grande Zeus chiamandolo Grande Zeus, o Padre degli dei, o Signore dell'Olimpo. A meno che egli non vi conceda i suoi divini favori e vi conduca al suo talamo, nel qual caso potreste desiderare di chiamarlo semplicemente Zeus.» «Aah...» Perfetto. Ecco un'altra buona ragione per essere in ansia. «Quindi, sostanzialmente, non vogliamo arrivare a dare del tu al nostro Zeus» osservò Christopher. «O forse tu sì, April» aggiunse, sollevando più volte le sopracciglia, in un modo che indubbiamente gli sembrava molto allusivo. «Mmm... sono quasi sicura di non aver voglia neanch'io di godere dei favori del Grande Zeus, Christopher. Ho come la sensazione che se raccontassi una cosa del genere in confessione, a padre Mike verrebbe un accidente. È già abbastanza duro decidere che cosa fare con questa storia dell'immortalità.» A Christopher, e forse anche a noi altri, era stata offerta l'immortalità, per aver salvato il dio del vino Dioniso dalle fauci di Ka Anor. Nonostante le ripetute rassicurazioni, avevo la sensazione che il vecchio ubriacone si fosse tenuto un certo margine di movimento. Però, almeno per Christopher, l'offerta era sul tavolo. L'immortalità. La vita eterna. A meno che qualcuno non ci ammazzasse. Ma niente vecchiaia, niente malattia. Una cosa troppo grande da immaginare. E poi, avrebbe riguardato solo la April di Everworld, e io speravo che quella April non restasse in circolazione tanto a lungo da trarre beneficio dall'immortalità. «Okay» disse David in tono da manager, rivolto al servitore. «Se ci sono
delle vesti particolari, portacele. Se ci sono delle cose particolari da dire, sai cosa intendo... quella che si chiama... mmm... come si chiama...» Schioccò le dita. «Etichetta. Ecco, se l'etichetta prevede qualcosa di particolare, come fare l'inchino o cose del genere, mandaci qualcuno che ci istruisca. Saremo pronti dieci minuti dopo che ci avrai dato tutto ciò che ci serve.» Il servitore annuì e si allontanò. «David, sei nato per impartire ordini ai subordinati» commentò secco Jalil. «E magari a te viene voglia di chiamarlo "buana", eh, Jalil?» sparò Christopher. Poi arrossì. Noi tre sgranammo gli occhi. Un po' per la battuta di pessimo gusto, ma soprattutto per il rossore. L'idea di Christopher imbarazzato ci era completamente nuova. «Scusa» disse brusco, poi si girò. Non so se ce l'avesse più con noi o con se stesso, o se volesse solo evitare un'altra condanna di massa. Ma era strano. Proprio strano, per Christopher. Il servitore tornò rapidamente in compagnia di una donna più anziana. Avevano con sé delle toghe nuove e di gran classe per i maschi e una bellissima veste per me: azzurra, lunga fino alla caviglia, con due profondi spacchi laterali, fissata sulle spalle con fili d'oro, con una scollatura a pieghe piuttosto casta, se stavo attenta a non chinarmi in avanti. La donna ci aveva portato anche dei sandali con i lacci. Li rifiutai e mi tenni le mie scarpe da ginnastica. «Mi dispiace tanto, ma a volte un buon paio di scarpe tecnologicamente avanzate sono l'unica arma a nostra disposizione» spiegai. La donna non ebbe alcuna reazione. La verità è che ci era rimasto ben poco delle cose che avevamo all'inizio. Ci era rimasto il nostro lettore di CD, quasi mai usato, il nostro preziosissimo flacone di analgesici, qualche soldo, delle chiavi, un libro, un notes che Jalil usava per fare schizzi e disegnare mappe, qualche rimasuglio dei vestiti con cui eravamo arrivati e scarpe da ginnastica di varie fogge e marche. Per fortuna era mattina presto quando Senna ci aveva attirati al lago. Fosse stato più tardi, probabilmente avrei avuto addosso un paio di stivali. E su questo non ci piove: quando scappi per salvarti la pelle, corri molto più veloce con un paio di scarpe da ginnastica che non con un paio
di stivali. Ben vestita, pulita, ben pasciuta e nella mia forma migliore, considerate le circostanze, tornai dai ragazzi. «Ehi!» esclamò Christopher. «April è una ragazza!» Scoppiammo tutti a ridere. Poi notai: «Sì, anche voi, però...» «Molto divertente» mugugnò Jalil. «Preferisco non pensare di avere la gonna. Diciamo che è più come un paio di pantaloncini molto larghi.» «O magari un kilt?» suggerì David. «Sai, una cosa tipo Braveheart?» «Ragazzi, sono toghe. E non toghe lunghe. Oserei dire che sono minitoghe. Mostrate le gambe. Mostrate le ginocchia e anche cinque o sei centimetri di coscia.» «Sì, però stiamo per diventare immortali» si consolò Jalil. «Secondo voi la toga è prevista dal contratto?» chiese David. «A proposito di questa faccenda, dell'immortalità, sapete...» iniziò Christopher. Ma fu interrotto dall'arrivo della banda. Sì, la banda. Quattro suonatori con un liuto, un flauto, un piccolo tamburo e una specie di corno, tipo una tromba o una cornetta. «Ma bene, passeremo inosservati...» esclamò Jalil, gridando sopra la musica. La banda ci accompagnò sulla strada. Non era una strada lastricata d'oro, ma era tutta pavimentata di un marmo dalle venature che sembravano d'oro. Aveva lo strano effetto di farmi pensare di essere al centro commerciale più lussuoso di Chicago, il Marshall Fields. Sopra di noi il cielo era limpido e azzurro. L'aria era meravigliosamente pulita e fresca. C'era un bel tepore, senza la minima traccia di afa. Un clima irreale, troppo perfetto per chiunque non fosse di San Diego, California. Su entrambi i lati della strada di marmo si affacciavano edifici di granito e pietra calcarea e marmo. Più avanti, gli edifici diventavano più imponenti e le colonne più numerose e più alte. Ma restavamo ancora tra le case più modeste. E per "modeste" intendo, ovviamente, costruzioni almeno due o tre volte più grandi di quelle ville pretenziose da vicepresidente che spuntano qua e là nelle migliori zone residenziali delle città. Più avanti, le dimensioni dei palazzi crescevano in modo esponenziale. Ne risultava uno strano effetto ottico. Le cose più lontane, anche se sostanzialmente uguali per struttura, erano sei, otto, dodici, cinquanta volte più grandi di quelle vicine. E questo rendeva paradossalmente la strada molto
corta. Ma non lo era affatto. «Allora ci hanno sistemato in un quartiere popolare» si lamentò Christopher. «È un po' umiliante, a pensarci. Voglio dire, era tutto molto bello, ma guardiamo in faccia la realtà: eravamo in una pensioncina a due stelle. E la cosa mi dà un po' fastidio.» Il quartetto ci precedeva, ripetendo un ingenuo motivetto musicale, come quello che un musicista potrebbe strimpellare su un pianoforte cercando di arrivare a un'idea veramente valida. Mi venne da pensare che, per quanto fossero dei, gli abitanti dell'Olimpo non sapevano scrivere la musica. Letteralmente. Niente note. Niente chiavi di violino. Superammo un buon numero di persone a passeggio. Quasi tutti sembravano esseri umani, anche se appartenenti a una fascia di umanità eccezionalmente attraente, sana e forte. Ogni tanto, però, incontravamo degli esemplari più luminosi, alti due metri, forse anche di più, che si muovevano in mezzo ai mortali come i Kennedy in mezzo alla gente comune al mercato. L'Olimpo, o per lo meno la versione di Everworld dell'Olimpo, era una montagna con la punta tagliata via di netto, come un vulcano, ma tutto pavimentato di pietre luccicanti. Non era una città; era troppo tranquilla e troppo deserta per essere una città. Da quello che si poteva capire, c'era soltanto questo grande viale. Era quasi un museo. Un'enorme parco pieno di sculture e di tutte le meraviglie dell'architettura dell'antica Grecia. Fu una camminata lunga e faticosa, dalla nostra pensioncina fino ai quartieri alti, anzi sommi. E cominciai a diventare nervosa. Sì, avevamo salvato Dioniso che, come almeno due terzi di tutti gli dei maggiori, era figlio di Zeus. Quindi, almeno teoricamente, eravamo i benvenuti. Ma finora le specie immortali che avevamo conosciuto non mi avevano mai fatto una buona impressione. Tra gli immortali avevamo incontrato degli psicotici, degli assassini, dei folli (di entrambi i sessi). Non esattamente la razza di persone che vorresti al governo del tuo universo. E quello che sapevamo di Zeus, dai racconti di Dioniso, era che gli piaceva bere, che gli piaceva dare la caccia a qualunque cosa portasse una gonnella e che, quando era arrabbiato, o ubriaco o di luna storta, scagliava uno dei suoi fulmini e inceneriva tutti. Sapevo anche che la dimora personale di Zeus era l'edificio in fondo alla strada. Era come le fotografie che si vedono del Partenone. Ma questo non
era una rovina. Era tutto nuovo e tirato a lucido. Una doppia fila di colonne sulla facciata, tetto a punta, una scalinata, persino una cupola, come San Pietro. Immaginavo che fosse molto grande. Ma dopo venti minuti di cammino continuava a farsi più grande. Sempre più grande! Era ancora più grande del Campidoglio, a Washington. Era più grande di qualsiasi cosa avessi mai visto. Più grande della Casa Bianca. Tutto il castello di Loki sarebbe passato dalla porta d'ingresso. Che razza di creatura viveva in un palazzo del genere? Come poteva restare umile qualcuno che viveva in una casa simile? «Be'... April, immagino che l'umiltà non sia una delle virtù più apprezzate, qui» mormorai. Avevo l'impressione di diventare sempre più piccola. Come se fossi partita nelle mie dimensioni normali e ora fossi grande più o meno come una formica. Mi sentivo letteralmente schiacciata. Passammo accanto alla statua di una donna. In testa aveva un elmo, come uno di quegli elmi romani che si vedono qualche volta in TV, la domenica pomeriggio, quando danno Ben Hur. La statua sorgeva alla base di una scalinata che si innalzava diciamo per cinque piani. In cima alla scalinata c'era un tempio, non grande come quello di Zeus, ma decisamente grande. La statua arrivava quasi al tetto. La guardai sbalordita. La femminista che era in me si sentiva oscuramente gratificata. Non sapevo che ruolo avessero le donne in questa società, ma chiunque fosse questa donna, di certo godeva del rispetto di tutti. Aveva una veste sobria, non molto diversa dalla mia. Ma portava un enorme scudo oblungo che le copriva tutto il fianco sinistro. Nella mano destra teneva una lancia e, la protendeva in alto, sulla strada. Un miracolo di scultura. Quella lancia sporgente doveva pesare tonnellate. L'espressione scolpita sul volto era intelligente. Rapace. Una donna che non si sarebbe mai fatta mettere nel sacco da nessuno. Una donna che era sempre tre passi avanti. Una donna che ti guardava dritto negli occhi e vi leggeva tutte le cose che volevi nascondere. Poi, e fu come una scossa elettrica, vidi la donna che aveva fatto da modella per la statua. Una donna. Una donna imponente, ma non molto più alta di una giocatrice di pallacanestro. Era senza ombra di dubbio l'incarnazione vivente della statua, scudo e lancia compresi, anche se teneva la lancia lungo il fianco. «Chi è quella? E... dite che mi darà una sculacciata?» sussurrò Christo-
pher. «È Atena» risposi. Il nome mi uscì di bocca prima ancora che mi rendessi conto di sapere la risposta. Ma come facevo a sapere la risposta? Non lo so. Qualche lontana memoria della mia infanzia, profondamente sepolta. Un'informazione spigolata da qualche libro di mitologia per bambini, dimenticato da molti anni. «Atena» ripeté Jalil, annuendo come se non dubitasse che lo sapessi. Atena ci guardò. Non disse nulla. Non si mosse. Ci guardò semplicemente passare. Prima mi sentivo piccola come una formica. Adesso, sentendo il suo sguardo sulla mia schiena, non mi sarebbe dispiaciuto essere ancora più piccola. Atena. Dea della saggezza. Dea della guerra. Quale società poteva unire in un'unica divinità questi due attributi? CAPITOLO IV Ci vollero un paio d'ore di cammino, sempre con l'accompagnamento musicale di quella fastidiosissima banda, prima di arrivare ai piedi della scalinata della dimora di Zeus, o tempio, o quello che era. Ci vollero altri quindici minuti per arrivare in cima alle scale. E a quel punto eravamo arcistufi di essere tanto onorati e cominciavamo davvero a irritarci. Eravamo quattro ragazzetti americani in cerca di un bagno. Arrivammo tutti con il fiatone. Merito di una colazione troppo pesante. Mi feci l'appunto mentale di stare più attenta al prossimo pasto. Subito dopo mi feci un altro appunto mentale, e cioè di scordare il primo appunto. Se c'era una cosa che sapevo per certo, era che inevitabilmente qui a Everworld avremmo di nuovo sofferto la fame e la sete. Onore al merito, Zeus sapeva come accogliere gli ospiti in casa sua. Non lui personalmente, ovvio, ma alcuni suoi servitori di aspetto particolarmente gradevole, che ci condussero in una stanza laterale e ci offrirono dell'acqua per rinfrescarci, qualcosa da bere e uno spuntino veloce. E un angolino riparato da tendaggi per fare quello che tutti avevamo bisogno di fare. «Sembriamo dei provinciali in visita alla Casa Bianca» commentò Christopher. «Siamo qui per cercare di aiutare il vecchio» ribatté David, cercando di rassicurare se stesso. «E se non altro lui non mangia cuori umani.»
«Ah sì! Questo è proprio un buon criterio di valutazione» replicò Jalil. «A quanto vedo, sono piuttosto bassi i parametri per giudicare gli dei...» «Venite da questa parte» ci interruppe un servitore. «Il Grande vi attende.» Christopher sorrise. «Che sia il Grande Fratello...» «Christopher!» lo rimproverai. «Quando salta la corrente e ti perdi le telenovelas, cosa fai per sopravvivere?» Avevamo già provato l'esperienza dell'impressionante e smisurata sala del trono di Loki. E quella volta ci eravamo spaventati a morte. Così, la scena che ora si presentò ai nostri occhi non ebbe l'effetto sconvolgente che avrebbe potuto avere. Era comunque sbalorditiva. Tanto per cominciare, Zeus sembrava avere il primo tetto a cupola apribile di tutto Everworld. Il tempio, o qualunque cosa fosse, non era tanto uno spazio chiuso, quanto piuttosto un teatro aperto. Gli spazi e le distanze erano molto grandi. Ma nonostante la forma esterna dell'edificio fosse rettangolare, l'interno, o almeno questa sala mostruosa, era piuttosto di forma ovale. Le pareti erano file di colonne su più livelli, che formavano una serie di gallerie, come a teatro. La forma di quelle colonne mutava di piano in piano. Le più basse erano semplici pilastri scanalati. Più in alto i pilastri erano statue. Dei e dee, immagino. L'effetto complessivo era che ci sentivamo degli insetti minuscoli nel bel mezzo di un palcoscenico vuoto e fortemente illuminato, circondati da migliaia e migliaia di spettatori accigliati, dei quali soltanto alcuni avevano ritenuto opportuno coprirsi con qualcosa. Oltre al tetto, anche l'estremità più lontana dell'ovale era aperta. Il cielo azzurro formava una specie di L capovolta, una striscia orizzontale in alto più una striscia verticale. Non proprio al centro dell'ovale, ma più spostata verso l'estremità aperta, c'era una piattaforma. Non particolarmente alta, solo pochi gradini, e gradini normalissimi, da piedi umani. Sulla piattaforma, con tutto lo spazio che c'era, erano ammassate due o tre decine di divinità, mentre alla base della piattaforma, o anche in mezzo agli dei, forse un centinaio di servitori efficientissimi distribuivano bevande e portavano vassoi carichi di cibo. Altri sembravano proprio il tipo di persone che circondano tutte le star: parrucchieri, guardarobieri, truccatori, galoppini e ruffiani. Si poteva quasi indovinare chi o che cosa fossero alcuni degli dei dalle
persone e dalle cose che li circondavano. Una giovane donna, atletica e slanciata era mollemente adagiata su una specie di sedia con i braccioli, piuttosto scomoda, si sarebbe detto. Dietro di lei c'era una ninfa che reggeva un arco. Un'altra teneva una faretra colma di frecce.' Due giovani donne distribuivano bocconcini prelibati a un trio di enormi levrieri. Gli dei e i loro servi ci ignorarono quando ci avvicinammo. A dire il vero, sembravano tutti intenti a discutere animatamente (senza per questo smettere di poltrire e di bere). C'era un assiepamento di magnifici corpi maestosi verso il centro della piattaforma. Alcune divinità erano sedute un po' in disparte, come la dea con l'arco, oppure formavano dei capannelli di due o tre persone. Si aveva la netta sensazione che ci fosse qualcuno di speciale al centro del gruppo impegnato nella discussione, ma non riuscivamo a vederlo. Un servitore finalmente si accorse di noi e si tuffò in mezzo agli dei, intrufolandosi tra una dea bisbetica e chiassosa e un bruto arcigno e visibilmente adirato, che la guardava con occhi fiammeggianti da sotto due sopracciglia così cespugliose da far invidia all'uomo di Neanderthal. Notai con spavento che teneva in mano una spada sguainata. Dalla lama gocciolava del sangue. Lentamente. Goccia a goccia. Ma il marmo non si macchiava mai, non si formava alcuna pozza. Ed ecco uscire barcollando dalla ressa degli dei il nostro vecchio amico Dioniso. Dioniso sembrava un tipo piuttosto comune in mezzo a questa straordinaria assemblea. Si presentava come era sempre apparso ai nostri occhi: come un essere umano, di mezza età ma invecchiato da una vita di stravizi. «Ah, miei buoni amici!» esclamò. «Ehilà, vecchio...» rispose Christopher agitando la mano. «Dovete pazientare finché Zeus non avrà mutato la sua forma» ci spiegò Dioniso. «Nessun mortale può guardarlo in tutta la sua gloria senza restarne ucciso. Come la mia povera madre, Semele, ha provato in modo sin troppo raccapricciante.» «Tu hai una madre mortale?» gli chiesi. «Allora sei solo un semidio, come Eracle» osservò Jalil. Dioniso si incupì. La sua espressione sembrava dire che, se fosse stato sobrio, avrebbe anche potuto offendersi. «Un semidio? Sciocchezze. Io non nacqui da una donna mortale, venni solo concepito da lei. Quando Era convinse con l'inganno mia madre a chiedere a Zeus di apparirle nella sua vera forma, mia madre, ovviamente,
arse e bruciò finché non ne rimase che cenere. Io sopravvissi soltanto perché Zeus, mio padre, mi prelevò dal grembo di Semele e mi tenne nascosto nella sua coscia finché non nacqui.» Nessuno di noi aveva nulla da dire, davanti a una rivelazione tanto bizzarra. «Okay» disse David alla fine. «Quindi, essendo nato dalla coscia di Zeus, sono chiaramente un dio.» Sorrise compiaciuto e svuotò il bicchiere. «Però...» obiettai, esaminando l'assemblea degli dei «tu sembri... diverso. Voglio dire, senza offesa, ma tu sei più vecchio, più piccolo, come dire... più normale rispetto a gran parte di loro.» Dioniso non si offese. Rise. E all'improvviso al suo posto apparve un giovane bello e sorridente, i soliti due metri abbondanti. «Sono come la gente si aspetta che io sia» spiegò. «Come altro dovrebbe apparire il dio del vino e della dissolutezza?» Tornò al suo stile più rilassato. Ci strizzò d'occhio. «C'è un aspetto di intrattenimento, di teatro, nel nostro essere dei, sapete. Guardate Artemide, per esempio, là seduta con i suoi cani. Si presenta esattamente come deve apparire la dea della caccia e protettrice della castità.» «A dire il vero, non è brutta, ha un suo fascino particolare...» osservò Christopher. «Esattamente» disse Dioniso. «Che senso potrebbe mai avere una protettrice della verginità brutta come Medusa? Uno deve essere desiderato, perché il suo rifiuto abbia un significato. Non c'è nessuna virtù in una vecchia megera che resta vergine per tutta la vita, dopotutto.» La coppa che teneva in mano si riempì e Dioniso bevve un lungo sorso di vino. Mi guardò, dubbioso. «Le piaceresti, immagino. E anche tu le piaceresti» aggiunse, rivolto a Jalil. Quella fu probabilmente la prima volta che vidi Jalil confuso. «E perché mai dovrei piacerle?» volle sapere. Christopher ghignò. David sembrava infastidito. «Dioniso, che sta succedendo qui? Perché ci avete mandato a chiamare?» «Perché? Non sapete che l'Olimpo è assediato? Non sapete che gli Hetwan si sono raccolti a migliaia, a decine di migliaia? Sono l'esercito più grande che si sia mai radunato in un unico luogo, dopo l'assedio di Agamennone a Troia.» «Aah... E noi saremmo tanto felici di dare una mano, ma che cosa po-
tremmo fare, secondo voi?» Dioniso ammiccò. «È per via della promessa di immortalità che feci a tutti voi. Per Christopher non c'è alcun problema, poiché è a lui che feci inizialmente la promessa. Ma voi altri... be', temevo che il Grande potesse pensare che avessi esagerato un po'. Quindi come prima cosa dovevo fare in modo che vi concedesse udienza. E così gli ho detto che siete dei potenti guerrieri e che avete combattuto e vinto contro gli Hetwan.» «Gli hai detto cosa?» gli chiese David con la voce un po' stridula. «Sì. Ho detto al Grande Zeus che voi potete dargli la vittoria sugli Hetwan e su quella bestia immonda che è Ka Anor. E voi potete, oh, sì che potete, ragazzi miei! È sicuramente il momento ideale per un brindisi...» «Eppure» disse una voce nuova «a guardarvi, nessuno di voi è un Ettore o un Achille.» Mi girai, e lei era lì. La dea della statua. Seria ma non arcigna. Scettica ma non ostile. Mi piacque istintivamente. E sperai che non mi costringesse a cambiare idea. Schiacciandomi come una formica, per esempio. Poi una voce possente, che fece tremare la terra disse: «Ah, Atena, figlia mia. Adesso possiamo iniziare!» Atena alzò gli occhi e guardò alle nostre spalle. Sorrise: un sorriso di sincero piacere. «Sì, Padre. Sono qui.» CAPITOLO V Gli dei si fecero da parte, alcuni in buona grazia, altri con fare cordiale, altri ancora brontolando, e formarono un corridoio. Tutti tranne Ares, che rimase fermo al suo posto, con la spada gocciolante, che sembrava non esaurire mai il sangue. Ed eccolo, finalmente visibile. Zeus. O almeno, un'aquila grandissima. Non un'aquila dalla testa bianca, né altri tipi di aquila che sapessi riconoscere. Questa aveva un piumaggio liscio e lucido, grigio e nero, il becco giallo brillante e le zampe gialle. Sarebbe potuta calare dall'alto e risalire con un furgone tra gli artigli. Ma non era grande come Nidhoggr. Stavo diventando un'esperta sulle cose giganti. Questa era un'aquila molto, molto grande. Ma niente a confronto di Nidhoggr. «Avvicinati, figlia» disse Zeus in versione aquilina.
Atena avanzò rapidamente. Cadde in ginocchio davanti all'aquila. «Padre» disse. «Trovo che la mia ira contro di te si sia placata, figlia» disse Zeus. Quando parlava muoveva il becco. Come se un'aquila potesse veramente produrre quelle note così basse che scuotevano la terra. Atena si alzò. «Sì, sospettavo che in seguito alla sconfitta dell'esercito di Ares avresti potuto riconsiderare l'ira che nutrivi nei miei confronti.» L'aquila non mostrò alcuna reazione a questa risposta piuttosto sarcastica. La faccia di Ares divenne ancor più scimmiesca. Quel dio non mi piaceva per niente. Non avrei voluto trovarmi da sola con lui. Aveva lo sguardo dell'assassino incallito. «Chi sono questi mortali?» chiese Zeus. Tutte le facce si rivolsero verso di noi. Quanti dei? Un sacco. Chi aveva uno sguardo truce, chi indifferente, chi risentito, chi di valutazione fredda e analitica. «Li ha portati Dioniso» spiegò Atena. «Quindi presumo che siano degli sciocchi, degli ubriaconi o dei dissoluti.» L'aquila ci soppesò. I suoi occhi erano come due laser. Forse è sempre così, quando un'aquila ti guarda fisso. Ma percepivo un'intelligenza più profonda, dietro quello sguardo. Avevo la sensazione che Zeus non fosse uno sciocco. E la certezza assoluta che Atena non lo fosse. «Questi sarebbero i guerrieri che ci hai promesso, Dioniso?» chiese, scettico, Zeus. «Non sono un granché in apparenza» ammise Dioniso «ma sono grandi assassini di Hetwan. Questo...» e cinse le spalle di David «questo ne ha abbattuto almeno due dozzine.» Un'esagerazione, ma non di molto. «Persino questa fanciulla ha ucciso potenti guerrieri Hetwan.» Gli sguardi non mutarono espressione. Intervenne Ares. «Io ho guerrieri che hanno ucciso cento Hetwan. Ho i figli di Aiace, di Ettore, dello stesso Achille. Molti miei valorosi guerrieri hanno ucciso molti Hetwan.» «Io da solo ne ho sterminati più di mille» disse una voce proveniente da dietro una falange di dei. Un uomo si fece largo a spintoni. Aveva la corporatura di un troll. Gli arti erano tozzi, tozzo il torace muscoloso, tozzo il collo. Aveva una specie di scamiciato, stretto in cintura da una pelle di animale che avrebbe scalda-
to il cuore a un camionista texano. La veste sfortunatamente metteva in mostra sul suo petto dei ciuffi di pelo degni di King Kong, moltiplicato per due. «Però! Sarebbe perfetto con una palla da rugby sotto il braccio» sussurrò Christopher. Ares alzò gli occhi al cielo. «Sì, sì, il potente Eracle ha ucciso una grande quantità di Hetwan. Ma i miei mortali ne hanno abbattuti di più! Abbiamo fatto delle enormi cataste con i loro corpi.» Eracle? Ercole? Non assomigliava per niente all'attore del film. «Eppure» osservò Atena «ora gli Hetwan stringono d'assedio l'Olimpo. Ci hanno già circondati su tre fianchi e presto ci isoleranno completamente. Stiamo ripetendo le scene della guerra di Troia, Padre, ma questa volta i Troiani siamo noi.» L'aquila alzò una mano, sì... proprio una mano, zittendola gentilmente. Le zampe si stavano trasformando in gambe. E quella mano era apparsa tra le penne di una delle ali gigantesche. Zeus stava gradualmente tornando alla sua forma. «Chi siete, mortali? Parlate, e siate rapidi.» Ecco apparire la seconda mano. E in quella mano un fulmine. Non era come quello dei cartoni animati. Crepitava e guizzava come un fulmine vero. Sentii i capelli arricciarsi. Sentii il calore sulla faccia. Era un fulmine di sei metri, una lancia seghettata, sfrigolante e guizzante di elettricità. Deglutimmo tutti e quattro contemporaneamente. Ero quasi sicura che non spettasse a me rispondere a nome di tutti. David annuì leggermente, come accettando la nostra silenziosa richiesta di fare da portavoce. Dioniso si avvicinò e sussurrò: «Su, parlate, siate arditi. Egli non chiede mai due volte.» «Noi veniamo dal vecchio mondo» iniziò David. L'aquila sollevò un sopracciglio. «Come avete fatto a venire tra noi?» David esitò. «Digli la verità, David» gli sibilò Jalil. «Se cerchi di coprire Senna, quello ci frigge come le patatine.» «Siamo stati portati qui contro la nostra volontà quando Loki...» David si interruppe. «Conoscete Loki?» «È un dio minore dei barbari nordici» disse Zeus con un certo disprezzo. Stavano iniziando ad apparire i tratti del viso, come un'ombra sulla fac-
cia dell'aquila. «Okay. Dunque, Loki si è servito di suo figlio, il lupo Fenrir, per rapire una ragazza di nome Senna. Senna era... è... un'amica nostra.» Atena l'interruppe. «Perché mai Loki l'ingannatore dovrebbe portare via una giovane del mondo reale?» «Lei è... una strega» rivelò David con gli occhi incollati sul pavimento. Sembrava uno che avesse appena commesso un alto tradimento e fosse stato colto in flagranza di reato. David si era messo contro Senna, almeno fino a un certo punto. Ma era ancora in suo potere. Anche qui, anche ora, molti giorni dopo la sua ultima apparizione. Decisi di intervenire. «Sentite» dissi «tutti dicono che è una strega. E Loki è convinto che sia una specie di "porta" per il mondo reale. Loki vuole usare Senna per aprire un varco verso il mondo reale per poi scappare. Vuole fuggire da Ka Anor.» «Così si dice in giro» commentò un giovane dio con piccole ali ai piedi e l'elmo in testa. Zeus a questo punto era a metà umano. Era un curioso miscuglio di aquila e uomo. Scoprii che facevo fatica a guardarlo. Era come fissare il sole. Ci riuscivo per qualche secondo, ma poi dovevo distogliere lo sguardo, con gli occhi che lacrimavano. E il fulmine non aiutava. Crepitava rumorosamente e mi faceva sobbalzare. Atena continuò l'interrogatorio. «Quindi ora Loki ha questa strega?» «No» risposi io. «Loki se l'è lasciata sfuggire. Da allora l'abbiamo vista diverse volte. Era nel tempio di Huitzilopoctli. Merlino le sta dando la caccia, per impedire che venga usata come "porta" tra i due universi. E anche Ka Anor la vuole.» «Conosciamo Merlino, il mago» disse Atena. «La sua saggezza è profonda.» Prima che potessi replicare, mi incalzò. «Voi siete passati dalla città di Ka Anor. Che cosa avete visto?» «Abbiamo visto Ganimede divorato da Ka Anor» sbottò Christopher. Un fremito. Il gelo. La sensazione che qualcuno avesse detto l'indicibile. Un'azione di disturbo nella recita degli dei dell'Olimpo. Paura, vera paura. Una sensazione non molto frequente, qui, immagino. Ma Atena non si lasciò turbare. «Sentiremo la mancanza di Ganimede. Ma che cosa avete visto dell'e-
sercito degli Hetwan?» Fu Jalil a rispondere. «Sono decine di migliaia. È impossibile farne una stima più esatta. Ma io credo che il vero problema sia che gli Hetwan si riproducono molto rapidamente. Ganimede ci ha spiegato che un solo accoppiamento, pur costando la vita alla femmina, può generare otto o dieci figli. E non ho notato bambini o giovani tra gli Hetwan, il che mi fa pensare che diventino adulti altrettanto rapidamente.» «È facile ucciderli» intervenne David. «In un corpo a corpo, voglio dire. Hanno delle armi che usano per sparare una specie di veleno ustionante. Nel corpo a corpo, però, possono essere sconfitti.» Fece un cenno con il capo verso Ares ed Eracle. «Non dubito che voi possiate uccidere una grande quantità di Hetwan. Ma li potete fermare? È un'altra cosa.» «È una questione di matematica» precisò Jalil, con una certa pedanteria. «Se supponiamo che loro facciano scendere in campo cinquantamila Hetwan, e che ciascuno si riproduca dieci volte, allora bisognerebbe ucciderli a un ritmo superiore a quello con cui si riproducono. Il che è alquanto improbabile.» «Annienteremo chiunque si schieri contro di noi!» ruggì Ares. «Inzupperò i campi del loro sangue!» «Io ne ho uccisi mille. Ne ucciderò altri diecimila!» gli fece eco Eracle, con pari entusiasmo. «Più e più volte li abbiamo attaccati. Più e più volte abbiamo respinto i loro assalti.» «Il problema non è quanti Hetwan ucciderete...» spiegò Jalil con calma «ma in che proporzione. Se ciascuno di voi ne uccide uno, perdete voi. Ma anche se ne uccideste due, o cinque a testa, perdereste sempre voi. Quanti dei vostri uomini sono morti finora, e quanti dei loro?» «Molti coraggiosi giacciono senza vita sui campi di battaglia» disse con calma autorità un dio alto e bello, che in qualche modo lasciava trasparire una grande sensibilità. «Apollo» ci suggerì Dioniso fuori campo. «Il coraggio dei nostri guerrieri ci umilia» continuò Apollo. «Ares ed Eracle ci conducono in un ardito assalto dopo l'altro. Ma ogni volta fa ritorno un numero sempre più esiguo di uomini sempre più vacillanti. E ora ci sono innumerevoli migliaia di Hetwan. E non più di un migliaio di guerrieri dalla nostra parte.» «Come?» strillò Christopher. «Sono... quanto? Cinquanta volte più numerosi di voi? Oddio. E io che credevo di potermi fermare qui per sempre.
Tempo una settimana, e Ka Anor si farà un bel fritto misto di dei!» «Io non temo Ka Anor!» esclamò Ares. «Ah no? Be'... io l'ho visto mangiarsi il vostro caro ragazzo, Ganimede. E lascia che ti dica una cosa, tu che fai tanto il duro: se non hai paura di Ka Anor, allora sei ancora più scemo di quello che sembri.» CAPITOLO VI Vidi il sangue nelle vene di Christopher diventare di ghiaccio. Letteralmente. Aveva appena insultato un dio che aveva la faccia di uno che ti stacca le braccia giusto per il gusto di farlo. «Volevo dire...» cominciò debolmente. Ares mise in mostra un sacco di denti dietro la barba nera. «Bene, bene. La mia spada ha proprio bisogno di un po' di carne fresca.» Avanzò verso Christopher. David iniziò a sguainare la sua spada, ma Atena all'improvviso gli fu accanto e lo fermò posandogli una mano sul braccio. Dioniso si mise in mezzo, sorridendo a Zeus. «Questo mortale mi ha salvato la vita, Padre. E io in cambio gli ho promesso l'immortalità.» Adesso Zeus aveva l'aspetto di un uomo anziano e solenne. Tipo Sean Connery, con più capelli e una grande barba grigia. Ma nel suo corpo c'era luce. Come se sotto la pelle scorresse acciaio fuso. Come se toccandolo ti potessi scottare le dita. Anche adesso riuscivo a guardarlo solo per pochi secondi, prima di sentire uno sgradevole senso di calore e un malessere, una smania. Zeus rise. «Oh... Dioniso! L'ultima volta che hai offerto l'immortalità a qualcuno è stato a quella fanciulla, la bionda. Quella che aveva ricevuto in eredità delle vigne speciali.» Dioniso allargò le braccia. «Era bella, Grande Zeus, era disponibile, e possedeva i più bei grappoli d'uva che abbiano mai adornato una vigna. E quel volto! Quel corpo! Quel vino!» Ci fu qualche risatina soffocata tra gli dei. Poi Zeus rise e la risata si propagò apertamente. Ares si rese conto che la tensione della sua furia omicida si era dissolta. Lo capì anche Christopher, e quasi svenne per il sollievo.
«Se immortalità tu hai promesso, immortalità egli avrà» dichiarò Zeus. «Ci rallegriamo che tu sia riuscito a sfuggire a Ka Anor, Dioniso. Cosa sarebbero state le nostre feste senza di te? Vieni avanti, mortale.» Christopher fece un passo avanti. Ci pensò su e ne fece altri due. «Mmm... no grazie» disse, e fece tre passi indietro. Zeus sbatté le palpebre, stupito. «Rifiuti l'immortalità?» «Esatto. Cioè... sì, signore. Vostra... vostra divinità.» «Nessuno rifiuta l'immortalità!» esclamò Zeus. «Giusto?» «Giusto, Grande Zeus!» rispose un coro di voci deluse. «Non è che non mi piaccia come idea» spiegò Christopher. «È solo che non me lo merito. Ganimede mi ha salvato la vita. Ma quando avrei potuto salvare io la sua, sono scappato. Quindi, diciamo che questo è il mio modo di saldare il debito che ho con lui. È una questione d'onore.» Zeus sembrava non capire. Nessuno degli dei e dei loro servitori sembrava capire. David e Jalil erano stupefatti. «Che cosa hai detto?» mormorò Jalil. «Sentite, non è una gran cosa da capire. Io pago i debiti che ho con la gente, okay? Bene, non ho pagato il debito che avevo con Ganimede. E questo è il mio modo di saldare i conti.» Solo Apollo sembrò cogliere vagamente il concetto. «Tu ti senti in debito.» «Sì, esatto, signore.» «Sì. Be'... è una cosa molto stupida da fare» commentò Apollo. «Bene...» disse Zeus, chiaramente sconcertato. «E adesso?» «Siamo stati insultati!» gridò Ares. «Getta giù dall'Olimpo questo mortale. Fallo precipitare per una settimana, poi sprofondalo negli abissi del mare!» «Oh, ma sta' un po' zitto, Ares...» borbottò Artemide. Ares scattò verso di lei, la spada alzata. Mi ritrassi istintivamente. Artemide era in piedi, la freccia incoccata, la corda dell'arco tesa all'altezza dell'orecchio, prima ancora che io muovessi un passo. Le due divinità si fissarono trucemente. Una spada insanguinata contro la grazia di un arco vibrante. Una bella dea di una certa età, che in seguito mi dissero chiamarsi Era, iniziò a strillare, principalmente contro Artemide, come se fosse tutta colpa sua. Apollo, senza nessun motivo palese, prese a rimproverare aspramente Dioniso. In un attimo due dozzine di dei erano lì a urlare, strillare, ruggire,
minacciare. Il frastuono scuoteva il pavimento di marmo. Si formarono in cielo nubi scure e minacciose che coprirono il sole. Era come se qualcuno avesse girato un interruttore. In pochi secondi gli immortali si erano trasformati in un branco di pazzi furiosi e scatenati. Dei pazzi con il potere di alterare la realtà che li circondava con la sola forza delle loro emozioni. Si stava formando una tromba d'aria, un tornado che prese a ruotare vorticosamente sulla scena. Rombarono i tuoni. L'elettricità crepitava nell'aria. Almeno tre degli dei se ne andarono furiosi, travolgendo brutalmente gli incauti servitori che si disperdevano davanti a loro o venivano schiacciati sotto i loro piedi. Mi coprii le orecchie con entrambe le mani. Ero nel bel mezzo di una tempesta. Il vento mi portava via la veste, mi sbatteva in faccia i capelli, mi pungeva gli occhi. La sua forza mi faceva barcollare. Ero la giornalista d'assalto aggrappata a un lampione nella furia dell'uragano tropicale che grida nel microfono: "I venti sono fortissimi, qui!". Pura follia. Un minuto prima erano tutti lì a parlare e a ciondolare in giro come a una infelice riunione familiare, un minuto dopo erano un branco di cani rabbiosi. Solo Atena se ne stava in disparte, osservava la scena con una piega di disgusto sulle labbra. Lei era in un'isola di calma. Il vento non la toccava. Ebbi l'impressione che scrosci ed esplosioni di fulmini e tuoni non potessero arrivare fino a lei. «Dobbiamo allontanarci da questa stanza senza dare nell'occhio» disse David urlando per farsi sentire nel vento e nel frastuono. «Questi sono tutti matti! Piano piano, senza voltargli le spalle.» Ero perfettamente d'accordo. Queste creature erano matte da legare. Queste creature erano pericolose. Cominciammo a indietreggiare, tenendoci stretti gli uni agli altri per resistere alle folate di vento. «Fermi!» gridò Zeus con la voce che spaccava i muri. Grida e litigi non si fermarono. Noi invece sì. Di colpo. «Non riesco più a muovermi» esclamò Jalil. Mi guardò con la disperazione negli occhi. Nemmeno io riuscivo più a muovermi. Avevo i piedi incollati a terra con la colla universale. Potevo agitarmi, potevo piegarmi in avanti, lottare, ma i piedi non si muovevano di un millimetro. Zeus si erse torreggiando sopra gli altri dei. La sua figura crebbe ancora. Era interamente un "umanoide" adesso. Credo che sia quella la parola. Sean Connery con la barba lunga. Sean Connery molto, molto arrabbiato e
con un fulmine guizzante e crepitante stretto in pugno. Fece un passo avanti, spostò Dioniso con il piede calzato in un sandalo d'oro e lo mandò a gambe all'aria. Poi calò una mano grossa come la porta basculante di un garage e sollevò Ares dai piedi. Ares si divincolò inutilmente, la testa a poche decine di centimetri da terra. Zeus lo scagliò via. E Ares volò per aria ruotando come una palla e andò a sbattere con la schiena contro una delle statue del terzo piano, che somigliava a Era. Cadde a terra. Restò immobile per un paio di secondi, come un calciatore che ha subito un fallo, poi si rialzò in piedi, senza riuscire a respirare. «Ares è furioso!» gridò il dio della guerra, cercando di riprendere fiato. «Zeus è furioso!» tuonò Zeus, alzando un fulmine crepitante, pronto a scagliarlo. «Non combatterò più per l'Olimpo!» urlò Ares, con il tono di un bambino di cinque anni, ma molto più grosso e molto più pericoloso. Detto questo, uscì come una furia dalla sala facendosi largo tra due colonne, e le ruppe entrambe. A quel punto finalmente i bisticci si placarono un poco. A uno a uno gli dei, molti rossi di rabbia in viso, si calmarono. La tempesta era passata. Ero alquanto scossa. Allarmata. Lasciai la mano di Christopher, mi spostai indietro i capelli e mi sistemai la veste che si era tutta attorcigliata. «Ho un'idea» sussurrò Christopher. «Che nessuno dica più niente che gli possa far saltare la mosca al naso.» «Abbiamo perso Ares» disse Eracle tetramente. «Non abbiamo perso molto, allora» ribatté Atena, sprezzante. Alcuni degli dei rimasti nella grande sala ripresero posto sulle loro sedie, altri restarono in piedi. Il turbine di vento si era dissolto. Il tuono taceva. Il cielo si schiarì. «E poi si meravigliano se gli Hetwan riescono a prenderli a calci nel didietro» commentò David a bassa voce. Ma non così bassa da sfuggire ad Atena. «Che cosa hai detto, mortale?» «David, non ti ricordi già più quello che si diceva prima? "Niente che gli faccia saltare la mosca al naso"» bisbigliò Christopher con tono lamentoso. «Ma insomma. Sai che ti dico? Al diavolo tutte le bizze e i capricci. Ne ho le tasche piene. È ora che anche gli dei guardino in faccia la realtà.» In quel momento ci sentimmo tutti e tre molto orgogliosi di David. E tutti e tre ci allontanammo lentamente da lui.
CAPITOLO VII «Fantastico, adesso si ricomincia» disse Christopher. Ma David fece un passo avanti. Era furioso. E si vedeva. Non stava nemmeno provando a nasconderlo. Né a noi, né a loro. La verità era che la nostra naturale deferenza verso qualsiasi tipo di immortale dai due metri in su stava iniziando a sgretolarsi. Ci stavamo proprio stancando degli dei. «Ho detto: non c'è da sorprendersi se gli Hetwan ve le suonano» ripeté David. Atena accennò a un sorriso. «Sta deridendo gli dei!» esclamò quello con le ali ai piedi. Atena abbassò lentamente la lancia e premette la punta sul petto del dio alato. «Silenzio, Ermes. Fintanto che costui dice la verità, è sotto la mia protezione.» E rivolta a David: «Continua.» David fece per infilare i pollici nelle tasche posteriori, poi si rese conto che la toga non aveva tasche. «Sentite, gli Hetwan sono uniti. Un solo dio. Un solo capo. E tutti i maschi sono sostanzialmente sacerdoti-soldati. Assolutamente leali. E pronti a tutto. Ka Anor dice "Morite" e loro muoiono. Ka Anor dice "Uccidete" e loro uccidono. E Ka Anor non litiga mai con Ka Anor.» Atena annuì soddisfatta. «Lo capisce anche un mortale!» esclamò. «Uno sciocco mortale del vecchio mondo riesce a vedere quello che gli dei dell'Olimpo non vedono. Non possiamo combattere un nemico unito se anche noi non siamo uniti.» «E, naturalmente, dovremmo tutti essere uniti agli ordini di Atena» disse Era, velenosa. «Dovremmo tutti piegarci in ginocchio davanti a lei.» «Questa non è la guerra di Troia» replicò Atena. «E non è nemmeno una delle grandi guerre cui abbiamo assistito da quando esiste Everworld. Ci siamo sempre schierati dalla parte che più ci piaceva, scegliendo di proteggere questo o quel mortale. Ci battiamo tra di noi, usando i mortali come pedine. E...» «È sempre stato così» l'interruppe Apollo, con un lieve tono di critica. «In quale altro modo i mortali potrebbero conoscere il nostro potere? In quale altro modo i mortali possono sapere che vegliamo su di loro?» «Questa volta è diverso» spiegò Atena. «Questa non è una guerra tra
mortali. Questa è come le guerre antiche, quando il Potente Zeus alla testa di tutti gli dei sconfisse i Titani e divenne padrone del mondo. Ancora una volta dobbiamo unirci tutti, accantonare tutte le nostre gelosie, tutte le meschinità, unire i nostri poteri e...» «E poi ubbidirti ciecamente» concluse una languida voce femminile. Era una dea che prima non avevo notato. E infatti era sdraiata su una specie di divano dietro la folla. Adesso si avvicinò ancheggiando mollemente come una top model. Aveva una veste quasi interamente trasparente che aderiva a tutte le curve del suo corpo da Miss Universo. Era l'equivalente femminile di Ganimede: era di una bellezza impossibile. Così bella da attrarre anche le donne, anche me. Così bella che Atena ed Era, che erano entrambe stupende, al confronto sembravano due sguattere. Alle sue spalle, un po' più in alto, svolazzava un esile giovanetto. Poteva avere quattordici anni. O magari sedici. Naturalmente, in realtà era vecchio di secoli. Ma si presentava come un adolescente esile e femmineo, circa la metà delle dimensioni normali. Muoveva lentamente un paio di ali da angioletto e teneva in mano un piccolo arco. Accanto a questa dea voluttuosa sembrava un cherubino. «Chi altri dovrebbe condurre la guerra?» chiese provocatoriamente Atena. «Tu, Afrodite?» Guardai i miei amici. Fosse stato per loro, avrebbero dato ad Afrodite le redini del mondo intero, non solo di quella guerra. Non avevo mai visto tre facce più rincretinite, più inebetite di quelle. Jalil si stava inconsciamente sistemando la toga. La giusta ira di David era svaporata, rimpiazzata da un mezzo sorriso ebete, il pomo d'Adamo continuava a scendere e a salire, gli occhi sembravano due scanner. Christopher arrivò a sollevare una mano e a dire debolmente: «Salve!» «Ares è il dio della guerra» disse Afrodite con la sua voce seducente. «È lui che conduce i nostri guerrieri. E poi...» e qui si passò lentamente la lingua sulle labbra facendo sfuggire a David un piccolo gemito «... è un amante favoloso.» Il ragazzo alato ridacchiò e fece un gesto osceno. Poi mi strizzò l'occhio. «E allora va' da lui, Afrodite» esclamò Atena, disgustata. «Corri da Ares, e portati dietro il piccione.» «Piccione?» ripeté il ragazzo alato facendole il verso. «Mi hai ferito. Che triste sorpresa scoprire che la vergine dea della saggezza non ha un briciolo d'amore per Eros.»
«Lei non sa niente dell'amore» commentò Afrodite in tono di compatimento, rivolta a Eros. «Lei ama gli uomini solo se sono logorroici filosofi o guerrieri micidiali. Strano come riesca ad amare tanto la lingua e la spada...» fece una pausa ad effetto, come una consumata attrice di Hollywood «pur non eccellendo né nell'una né nell'altra.» La frecciata suscitò una rauca risata in Eros e un risolino in Ermes. Detta la sua battuta, fatto scordare a David, Jalil e Christopher dov'erano, che cosa facevano e come si chiamavano, Afrodite si ' allontanò soddisfatta ondeggiando sui fianchi come se fosse a una sfilata di moda. Zeus sembrava depresso. Atena seguì Afrodite con lo sguardo furente. Anche Artemide la seguì con lo sguardo, ma con una cert'aria di apprezzamento. «Che cosa dobbiamo fare?» si chiese Zeus lamentosamente. Sparita la dea dell'amore, David sembrò risvegliarsi e tornare a una parvenza di realtà. Ma solo a una parvenza. «Mostrateci le vostre difese» disse, con gli occhi ancora puntati verso Afrodite. «Mostrateci il campo di battaglia.» Questo richiamò Christopher alla realtà. «Come dici?» «Sta' a sentire, questa gente è senza speranza» disse David, senza nemmeno tentare di abbassare la voce. «Guardali. Sta arrivando Ka Anor, hanno Hetwan dappertutto, e ancora non riescono a mettere insieme un piano d'azione. Non riescono a fare una democrazia. E non riescono a fare una dittatura. È come avere una stanza piena di gatti e cercare di farli collaborare.» "Esattamente" pensai. Come i gatti. Gli dei non erano deliberatamente stupidi: si comportavano secondo la loro natura. Erano così e basta. Bambini di due anni dai poteri straordinari. «Sono tutti così, gli dei» dissi senza pensare. «Tutti. Loki, Hel, Huitzilopoctli. E adesso anche questi.» Guardai Atena. «Non ci riuscite, vero? È questo il vostro limite. Non potete cambiare. Letteralmente, voi non potete cambiare. Dioniso sarà sempre un ubriacone, Afrodite sarà sempre donna di facili costumi e Ares sarà sempre assetato di sangue. Sempre e comunque.» Udendo queste parole, Atena si infiammò d'ira tanto che temetti di essermi spinta troppo oltre. Aveva detto a David di dire la verità, non a me. Ma l'ira fu solo un'ombra passeggera. Subito dopo arrivò la tristezza. «È il triste destino degli dei» ammise a bassa voce. «Siamo così e basta.
Solo i mortali sanno cambiare.» Intervenne David. «Sentite, voi dovete vincere questa battaglia. Punto e basta. Voi dei dell'Olimpo siete una delle più grandi potenze di Everworld. O almeno, questo si dice in giro. Siete i più numerosi, i più organizzati. Avete questa montagna, ed è un punto a vostro favore. Se perdete la guerra contro Ka Anor, chi altri lo potrà fermare?» «Noi non perderemo mai!» gridò Eracle, battendosi letteralmente i pugni sul petto. «I nostri guerrieri sono i più valorosi tra tutti i mortali. E il Grande Zeus è il più potente di tutti gli dei!» A questo punto, per la prima volta, prese la parola Jalil. Non era arrabbiato come David, né disgustato come me. Era calmo. Ragionevole. Quasi indifferente. «Non conta quanto siate coraggiosi. Agli Hetwan non importa niente di quanto siete coraggiosi. Anzi, se il coraggio vi spinge a fare delle sciocchezze, gli Hetwan saranno contenti di avere degli avversari coraggiosi. Questa non è Troia. Non è un soldato con la spada contro un altro soldato con la spada. Se li volete battere, dovrete essere più furbi di loro.» «Lo so» annuì Atena. «Eppure...» Batté le palpebre, incerta. «Sono sempre stata la protettrice di guerrieri saggi e valorosi: Perseo quando uccise Medusa, Bellerofonte, Giasone, Diomede e, naturalmente, il grande e incomparabile Odisseo, che sconfisse Troia non con la forza bruta, ma con l'astuzia.» Il pensiero di Odisseo, o Ulisse che dir si voglia, le strappò un sorriso, un'espressione nostalgica, lontana. E per un momento si perse dietro ai ricordi. «Ma non c'è nessun Odisseo nei nostri eserciti. Nessun Giasone, né un Perseo. Chi sarà il mio grande guerriero? Chi sarà saggio nella guerra? Chi volgerà contro agli Hetwan le sorti della battaglia?» Sollevò la mano e puntò il dito verso David. «Tu?» Non ebbi il minimo dubbio sulla risposta che David avrebbe dato. «Sì. Da' a me il comando... a noi» si corresse, indicando con un cenno del capo anche noi. «Da' a noi il comando. Noi sconfiggeremo gli Hetwan per te.» CAPITOLO VIII «Dunque adesso sei diventato Odisseo...»
Stavamo seguendo Atena, avevamo lasciato il palazzo di Zeus e tutto il suo serraglio di matti immortali. Noi quattro, quattro fessacchiotti dietro a una dea grande, bella e potente, la dea della saggezza e della guerra. Christopher aveva il coraggio di prendere in giro David, ma nemmeno lui aveva il coraggio di rivolgere la parola ad Atena. Stavo diventano un'esperta di immortali. Cominciavo a tirare qualche conclusione. Gli immortali erano sempre molto permalosi. Erano sempre strani, difficili, rigidi e inflessibili, immorali. O forse "amorali" era la parola più adatta. Però, a pensarci bene, qual è la differenza tra il non avere un codice morale e l'avere un codice morale contrario alla morale comune? In fin dei conti si ha comunque la libertà assoluta di fare ciò che si vuole. Mi chiedevo se gli dei non fossero una specie a sé stante. Come gli esseri umani, o le scimmie o, per riprendere l'esempio di David, i gatti. In genere si presentavano come degli umani. Più grandi. Più potenti. Qualche volta brillavano di una luce innaturale. Sembravano tutti in grado di cambiare forma, di trasformarsi in creature diverse, di ingigantirsi o rimpicciolirsi. Ma forse era solo un'illusione. Che fossero semplici esseri umani con qualche potere magico in più? Oppure, nonostante le apparenze, erano diversi dagli uomini quanto gli uomini sono diversi dai gorilla? Erano anche loro definiti da un DNA specifico, come tutti gli animali del mondo? Erano anche loro semplici esseri umani con qualche cromosoma in più o in meno? Avrei voluto parlarne con Jalil. Di sicuro lui aveva una sua teoria. Anzi, gli vedevo sulla faccia quell'espressione accuratamente vuota che fa sempre quando pensa di aver capito qualcosa. Un fatto era sicuro: non avevo mai incontrato una divinità come Atena. Non era come Hel, non era come Huitzilopoctli, o come Loki o come Dioniso. Dopotutto, Atena era la dea della saggezza. Forse era questo che faceva la differenza. Era la divinità più vicina all'idea di salute mentale che avessi mai conosciuto. Eppure, lei stessa ammetteva di non poter cambiare. Ci fece strada in un corridoio che non finiva mai. In fondo in fondo, un rettangolo perfetto di cielo azzurro. Rimase in silenzio mentre camminava e, per rispetto o per paura o semplicemente per prudenza, restammo in silenzio anche noi. Tranne Christopher, che sparava le sue battute sottovoce.
«Che ne dite di Davideo?» propose. «Tipo Odisseo, Perseo, e chi altri?» «Diomede» suggerì Jalil. «Oppure Bellerofonte, Giasone.» «Davideo. Anzi, no, Davideus» continuò imperterrito Christopher. «Davideus Levineus. Il primo eroe greco-giu... il primo eroe grecoamericano.» Gli stava per scappare "greco-giudeo". Si era fermato appena in tempo. Si era fermato e aveva trovato lì per lì una conclusione balbettante e per niente spiritosa. «Insomma, io ci provo...» borbottò. «Christopher, non me la prenderei, se mi definissi il primo eroe grecogiudeo» lo consolò David. «Suona bene, mi piace. Sono solo mezzo ebreo, naturalmente, ma va bene lo stesso.» «Ma santo cielo, come faccio a sapere quello che vi va bene e quello che invece no?» esplose Christopher. Jalil aveva una soluzione. «Che ne dici di un sistema di razionamento? Ti concediamo zero parole di quelle che ci fanno veramente venir voglia di prenderti a calci nel didietro, un "ebreo" e un "fradello" al giorno, con relativa pronuncia da ebreo e da negro. Nelle occasioni speciali hai diritto a un "fradello" extra.» Ci fece ridere tutti e Atena si girò e ci lanciò un'occhiata severa. Sembrava la maestra che porta dal preside i pagliacci della classe. Ma non cercò di ucciderci. Il che, rispetto all'andazzo generale degli dei, era un bel punto a suo favore. Uscimmo nel rettangolo di cielo e restai senza fiato. Eravamo sul ciglio del niente più assoluto. Eravamo sopra le nuvole. Pareva di stare su un aereo. Guardai giù. Tra gli squarci nelle nuvole, si vedevano campi e vigneti, ruscelli argentei e villaggi bianchi. Da cartolina. E su tutto quanto, pennellate e pennellate di marrone. Era come se ci fosse stata un'inondazione di liquami o qualcosa del genere. L'onda scura riempiva le strade, macchiava i campi, penetrava tra le case e le fattorie. Gli Hetwan erano dappertutto. Arrivavano a lambire i ripidi fianchi del monte Olimpo. Atena, con le vesti gonfiate dalla brezza gagliarda e temperata, alzò al cielo la testa protetta dall'elmo. «Vieni a me, destriero di Bellerofonte. Vieni a me, o Pegaso, e porta i tuoi figli!» «Ha detto Pegaso?» chiese Christopher.
Lo tirai per un braccio e puntai il dito in alto. A prima vista poteva sembrare uno stormo di gabbiani, bianchi contro l'azzurro del cielo. Ma l'illusione che fossero uccelli svanì non appena si avvicinarono. Erano cavalli, in tutto e per tutto. Cavalli bianchi con grandi ali bianche e piumate. «Be', so che dovrei essere stanco di dirlo, ormai, ma... è assolutamente impossibile» commentò Jalil, in tono quasi disgustato. «Non si può sollevare in aria un cavallo con ali da uccello. E poi, come fa a cambiare direzione? Ha una coda, non delle penne. Non potrebbe cambiare direzione... E invece sì.» «Benvenuto a Everworld» gli rispose David. «Già... Benvenuto a Everworld, lo so» si arrese Jalil. Quattro cavalli alati scesero velocemente verso di noi, gli zoccoli raccolti vicino al corpo, le code al vento, le teste alte, senza alcun riguardo per le leggi dell'aerodinamica, le ali lente e possenti. Avevo mai visto qualcosa di più bello? In tutta la mia vita, qui a Everworld o nel mondo reale, avevo mai visto qualcosa che potesse reggere al confronto? Compiangevo quegli universi dove non esistevano creature simili, né potevano esistere. Mi vedevo camminare nel cortile della scuola con le amiche, alzare gli occhi al cielo e scorgere... Mi immaginavo davanti a una finestra, a casa o a scuola, a guardare fuori e vedere... Narici nere, zoccoli neri, occhi di un marrone così scuro che sembrava nero, dettagli che definivano per contrasto un biancore così intenso, così luminoso da non poter essere naturale. Il più grande dei cavalli rallentò la corsa proprio come un qualsiasi uccello, aprendo le ali contro il vento. Magnifico. Quali altre parole potevo usare? Era ma-gni-fi-co. Atterrò agilmente di fianco a noi, e gli zoccoli scalpitanti ammortizzarono con grazia l'arresto. «Quando Atena chiama, Pegaso accorre» disse il cavallo. «Parla!» costatò Jalil. «E non ne sono neanche sorpreso.» Gli altri tre destrieri disegnavano ampi e lenti cerchi sopra di noi. Una giostra di cavalli nel cielo. Atena lo accarezzò affettuosamente sul collo. «Ho bisogno di te e dei tuoi figli, Pegaso. Ti prego di portare in groppa questo mortale e di comandare ai tuoi figli di portare i suoi compagni. Conduceteli dove vogliono. Mostrate loro gli eserciti che si sono raccolti ai piedi del monte. Portateli e ubbidite al loro volere, per amore di Atena.»
Pegaso annuì prontamente, come un bravo subordinato che riceve gli ordini. Poi Atena si rivolse a David. «Va', cavalca Pegaso e vedi più che puoi delle armate degli Hetwan e dei loro schieramenti» gli disse. «Poi giudica come fare per salvare l'Olimpo.» Atena non aspettò che David si mettesse sull'attenti e facesse il saluto. Scomparve. Letteralmente. Un secondo era lì, il secondo dopo non c'era più. La sua persona mi aveva fatto da scudo contro la brezza intensa, e all'improvviso quello scudo sparì. «Bene, Davideus Maximus, ora mostraci come si fa» disse Christopher spingendo David verso il cavallo alato. «Non ha la sella...» osservò David, con un tono che non era propriamente da eroe mitico. «Nessun uomo potrà mai sellare Pegaso» disse Pegaso. «Okay» fece David. Poi, rivolto solo a noi: «Sto parlando con un cavallo.» «Saltagli in groppa» suggerì Jalil. «Sì, sì. Saltagli tu in groppa. Sei forse un provetto cavallerizzo, tu, Jalil?» «Mmm... no. Decisamente no. Ed è appunto per questo che sto aspettando di vedere da te come si fa.» David sembrava raccogliere il coraggio per saltare in groppa a Pegaso alla Zorro, quando il cavallo semplicemente si abbassò e allungò un'ala verso il basso. David ci posò cautamente un piede. Le scarpe da ginnastica lasciavano lievi impronte sul bianco immacolato delle penne. Ma ogni traccia spariva in pochi secondi. Salì sull'ala con passi malfermi, poi si sistemò goffamente sulla groppa. «Okay» disse, poco convinto. Pegaso si rialzò, ripiegò l'ala, si girò, si impennò come un cavallo della TV e spiccò un balzo nel vuoto. David strillò. Uno strillo poco eroico. Corsi sull'orlo del precipizio, quasi aspettandomi di vedere David e cavallo cadere a vite e schiantarsi sulle rocce. Ma Pegaso allargò le ali e si lasciò sollevare da una corrente ascensionale. Si allontanò con un volo lento e aggraziato. Volava. Un cavallo. Con un ragazzo in groppa. «A quest'ora dovrei averci fatto l'abitudine» osservò Jalil. «E invece no. Giusto per la cronaca, mi ripeto: è tutto impossibile.»
Ad uno ad uno i figli di Pegaso, tutti più o meno identici a lui, anche se lievemente più piccoli, scesero a terra e portarono via Christopher, Jalil e da ultimo anche me. Da ultimo, perché non ero affatto entusiasta dell'idea. I cavalli? Nessun problema. Ma i cavalli alati erano tutta un'altra storia. Erano sì stupefacenti e belli da morire, ma questo non significava che volessi cavalcarne uno. Eppure era evidente che Christopher, David e Jalil non se la passavano male. E un cavallo alato non era la cosa più impossibile che avessi visto a Everworld. Dopotutto, avevo visto volare anche Nidhoggr. E tuttavia, quando il mio cavallo mi venne a prendere, dovetti costringermi a salirgli in groppa. Non fu una cosa facile. A differenza dei cavalli normali, su cui puoi lasciare le gambe penzoloni lungo i fianchi, oppure infilare i piedi nelle staffe, su un cavallo alato devi stare seduto o con le gambe distese in avanti oppure piegate sotto il corpo, in ginocchio. Altrimenti i piedi cadono giusto sulle ali. E, oltre a intralciare il volo, è ridicolo avere le gambe che si aprono e si chiudono a ogni battito d'ali. Jalil l'aveva fatto per un po', e sembrava una marionetta. Bene. Salii sull'ala, con la tensione che cresceva a ogni passo, mi misi in ginocchio e il cavallo spiccò tranquillamente un balzo dall'orlo del precipizio. A quel punto strillai. CAPITOLO IX Puro, indicibile terrore. Non avevo niente a cui aggrapparmi, non sapevo dove mettere i piedi... Questo non era un cavallo che correva su un prato: era un cavallo che volava nell'aria. Ero in equilibrio precario sulla groppa. Strinsi le ginocchia per tenermi salda, ma non c'era da fidarsi. Era come stare su un aeroplano. Non dentro, ma sopra. Fuori. Il cavallo si muoveva con un'andatura che sembrava un galoppo lungo. Come se fosse il vincitore del Palio ripreso al rallentatore. Le ali si alzavano e mi spostavano indietro i capelli, le ali si abbassavano e sentivo la groppa del cavallo sollevarsi sotto di me. «Non farmi cadere» gli dissi. «Non ti farò cadere» mi rassicurò. «Come ti chiami?» gli chiesi, fermandomi un attimo prima di aggiungere un paternalistico "figliolo" o qualcosa del genere.
«Pelia. In onore di re Pelia.» «Ah, re Pelia. Naturalmente. Non lasciarmi cadere, Pelia.» E Pelia disegnò lentamente un ampio arco discendente, avvicinandosi a suo padre e ai suoi fratelli. Quattro cavalli con quattro cavalieri estremamente nervosi si unirono in una formazione approssimativamente a V, con Pegaso davanti. Avevamo la stessa velocità della brezza, il che dava l'impressione che non ci fosse alcuna brezza, tranne il risucchio delle ali di Pelia. «Altri morti di paura?» gridai agli altri. «Presente!» esclamò Christopher. Eravamo in un sogno. Il tipo di sogno che è meraviglioso ed emozionante, dopo, quando uno si è già svegliato. Noi quattro in uno squarcio di cielo calmo e sereno, sospesi nel vuoto, come le figurine appese a un filo sulla culla di un bebè. La vista si apriva all'infinito. Alle nostre spalle l'Olimpo bloccava la visuale in quella direzione, ma in lontananza (e tuttavia non lontano abbastanza) vedevo un vuoto tra gli alberi, una cavità circolare: il cratere della città di Ka Anor. Poi Pegaso ci fece scendere di quota volando in ampi cerchi, calando come avvoltoi su una carogna. Ci tuffammo nelle bianche nuvole di ovatta. Mi si inumidì la pelle e non riuscii a vedere più nulla, tranne il mio corpo. Il cavallo sembrò sparire, aveva lo stesso colore delle nuvole. Restai con il fiato sospeso. Apparve Jalil, emerse per un attimo dalle nuvole, ma la sua visione sparì con la stessa rapidità con cui era comparsa. Più avanti intravidi David, come me, come Jalil, una figura umana che volava in ginocchio a gambe larghe su una cavalcatura invisibile. Finalmente scendemmo sotto le nuvole, nel cielo limpido. Il cavallo riprese forma e consistenza tra le mie ginocchia. Per un poco, mentre continuavamo la nostra lenta discesa, mi trovai a scavare solchi con la testa nelle nubi che ci stavano sopra. Poi le nuvole divennero un tetto. E finalmente tornarono a essere soltanto nuvole. E ci ritrovammo in una macchia di azzurro, con l'Olimpo che si stagliava nella sua imponenza molto più in alto, sopra di noi. Non riuscivo più a vedere la sfavillante città che si nascondeva sulla cima piatta. Impossibile, da questa prospettiva. Nessuno da terra sarebbe mai riuscito anche solo a intravedere uno scorcio della città di Zeus. Le pareti del monte Olimpo erano per la maggior parte a picco, rocce
grigie ripidissime in certi punti, imponenti frane di pietre in altri. Ma non era inaccessibile da ogni lato. Noi, dopotutto, eravamo saliti a piedi e a dorso di mulo. Il monte faceva parte, pur restandone separato, di una catena che si estendeva a sinistra e a destra, forse da est a ovest, o forse da nord a sud... non ne avevo la più pallida idea. Decisi in modo assolutamente arbitrario di dare ai monti una direzione nord-sud, con l'Olimpo un po' spostato verso ovest. La catena montuosa aveva un profilo frastagliato, da cui si distaccava l'Olimpo. Un lato dell'Olimpo era collegato alla catena montuosa da un crinale alto e stretto. Così stretto che sembrava poter accogliere non più di dieci uomini o donne affiancati. Entrambi i fianchi erano ripidi, precipizi rocciosi che sembravano teatro di frane quotidiane. Nel senso della lunghezza, il crinale sembrava un ponte sospeso, più basso al centro, più alto alle due estremità, dove toccava l'Olimpo e la catena senza nome. Noi eravamo arrivati da sud-sud-ovest, salendo da una stradina sinuosa fiancheggiata nei tratti più bassi da villaggi, negozi, chioschi e stalle. Quella era probabilmente la via d'accesso più facile. Ma avevamo percorso quella strada soltanto il giorno prima e non avevamo incontrato nemmeno un Hetwan. Anche adesso la strada pareva sgombra, e gli abitanti dei villaggi sembravano tranquilli. Vidi un carro trainato da buoi salire lentamente. Vidi degli uomini che spingevano aratri tirati da muli nei campi in forte pendenza. Vidi delle donne che facevano il bucato battendo i panni sulle rocce di un ruscello montano impetuoso e velocissimo. Niente Hetwan. Perché? Perché non salire direttamente dalla strada? Pelia seguì Pegaso dietro il monte e finalmente avvistammo il campo di battaglia. Era il lato occidentale della montagna. Quel fianco era particolarmente impervio, ripidissimo, ma segnato da un certo numero di piccoli e strani pianori, come se una creatura inconcepibilmente grande vi avesse scavato dei gradini. Ne contai sei, di dimensioni variabili da quelle di un campo da calcio a quelle di un parcheggio di un centro commerciale. I fianchi della montagna erano poveramente coperti da radi alberi contorti, mentre invece i pianori sembravano essere stati deliberatamente coltivati. C'erano filari di alberi, forse alberi da frutto. E c'erano vigne. Ma c'erano anche spiazzi erbosi e persino delle piccole e rudimentali casupole di pietra, forse dei granai. Gli Hetwan avevano evidentemente conquistato la più bassa delle sei
piattaforme. E si vedeva con chiarezza anche un reticolo di gradini di legno, già finiti o in fase di costruzione, grazie ai quali l'esercito alieno si preparava a superare i cento metri che li separavano dal pianoro superiore. I Greci, chiaramente visibili nelle armature leggere che luccicavano al sole, occupavano il pianoro superiore. Forse erano davvero i mille uomini dichiarati da Ares. Ma non sembravano così numerosi. Avevano eretto molte tende dai vivaci colori sulla parte più arretrata della piattaforma, in un frutteto di un'ottantina di piante, forse un centinaio. Tutto il pianoro era lungo forse seicento metri e largo la metà nel suo punto più ampio. Molti Greci erano raccolti intorno a fuochi da campo, intenti a mangiare e a bere, e ridevano così forte che il suono delle loro risate arrivava fino a noi, molto più in su, nel cielo. Se erano uomini sconfitti, non sembravano rendersene conto. Vidi parecchie facce alzate verso il cielo per vederci passare. Uomini scuri, dalla carnagione olivastra, capelli neri, occhi neri, alcuni barbuti, altri rasati. Sorvolammo il campo di battaglia, diretti verso il lato nord del monte. «Perché non costruiscono almeno delle barricate, o qualcosa di simile?» chiese Jalil. «Questi uomini combattono con la spada e la lancia» disse David. «Difficile ammazzare qualcuno, se c'è di mezzo una barricata. Combattono corpo a corpo, spada contro... contro i pungiglioni degli Hetwan, suppongo.» «Hanno soldati armati di archi e frecce, però» osservò Christopher. «Loro almeno potrebbero coprirli.» «Sì, potrebbero» concordò David. «Sai, quella che vediamo qui è una guerra senza gli ultimi duemila anni di esperienza e progresso.» «È questo che siamo riusciti a ottenere in questi duemila anni? Progressi nell'arte della guerra?» chiesi, acida. «Abbiamo imparato a uccidere più gente e più rapidamente?» «Guardate là!» osservò David in tono critico, mentre ci allontanavamo. «Gli Hetwan stanno costruendo dei gradini fino al loro pianoro, e loro li lasciano fare. Potrebbero bruciarli senza troppo sforzo. O almeno ostacolare i lavori, rallentarli.» Il lato nord della montagna era scosceso e accidentato, profondamente scavato dal letto di un torrente che scendeva tra le rocce formando salti e cascate spettacolari. «Okay, immagino che abbiamo visto tutto quello che c'era da vedere» disse David.
Io, però, avevo notato qualcos'altro. «Andiamo avanti ancora un minuto» gridai. Proseguimmo il volo sulla fiancata settentrionale del monte, ed eccolo lì: un canyon, una gola profonda che scendeva quasi dalla cima del monte fino a un punto appena più in basso degli schieramenti più avanzati degli Hetwan. «Guardate là» gridai agli altri mentre i cavalli volavano lentamente in cerchio in senso orario. «La gola. Probabilmente l'ha formata il fiume, e poi ha cambiato corso. O forse era un altro fiume che poi si è prosciugato. Guardate.» «La vedo» disse David, perplesso. «E allora?» Ero un po' sorpresa. Possibile che David non capisse che cosa significava? Forse mi sbagliavo io. O forse no. «Si potrebbe scendere dalla gola, senza essere visti dagli Hetwan. Si potrebbe scendere paralleli agli Hetwan, e loro non se ne accorgerebbero nemmeno. Si potrebbero portare giù i "buoni", farli uscire dalla gola là in fondo, farli avanzare lungo quella pista tra i monti e attaccare i "cattivi" sul fianco. Il problema è» aggiunsi «che gli Hetwan potrebbero fare il contrario. Potrebbero risalire dalla gola, scavalcare i Greci e colpirli alle spalle, intrappolarli.» David mi passò davanti sul suo destriero. Era rosso come un pomodoro. «Sì» ammise. «Sì, è vero.» «O mio Dio!» esclamò Christopher, che non si sarebbe certo lasciato sfuggire un'occasione così bella per punzecchiare David. «Il generale spiazzato dalla recluta. Il grande stratega battuto... da una ragazza!» Ma David, superato il momentaneo imbarazzo, seppe cavarsela bene. «Lei ha occhio per il territorio. Ha ragione. Hai ragione, April. Se i Greci avessero sfruttato la gola quando erano in tanti, avrebbero potuto isolare l'avanguardia degli Hetwan, farla fuori e poi svignarsela prima che arrivassero i rinforzi.» Ero compiaciuta, ma dentro di me sapevo che non avevo ragione di esserlo. Stavo elaborando un piano per aiutare della gente a uccidere altra gente. Però... che forza! Avevo "occhio per il territorio". Ma anche Pegaso aveva occhio, e migliore del mio. «È iniziata la battaglia!» gridò, e i quattro destrieri alati tornarono di gran carriera verso il fianco occidentale. «Noi non entriamo subito in azione, vero?» chiese, allarmato, Christopher.
«Sembrerebbe di sì» rispose Jalil. «David?» dissi io. «Non ci buttiamo nella mischia così su due piedi, vero? Voglio dire, non dovremmo limitarci a elaborare dei piani d'attacco o cose del genere?» Si girò appena e mi rispose con un grande sorriso troppo sicuro, quasi esultante. «April, siamo almeno a mille anni di distanza dalle guerre dove i generali comandano dalle retrovie. È uno di quei "progressi" su cui prima facevi del sarcasmo.» «Ritiro tutto. Facciamo i progrediti. Comandiamo dalle retrovie. Evviva il progresso!» Lui rise. «La prossima battaglia. Non questa. Questa volta ci sporchiamo le mani.» CAPITOLO X Giù in picchiata, come aerei da combattimento, in perfetto stile Barone Rosso, come se volessimo mitragliare gli Hetwan a terra. Naturalmente non era così. Stavamo solo correndo ad arruolarci tra i combattenti greci. «Dove sono gli dei?» chiesi. «Dove sono i cosiddetti dei? Perché non danno una mano anche loro?» C'erano solo uomini sotto di noi, o almeno, così mi sembrava. Vidi degli uomini grandi e forti, con armature favolose e lunghe piume sugli elmi, ma nessuno degli dei dell'Olimpo. Apollo non c'era. Artemide con il suo arco non c'era. Non c'era Ares e nemmeno Zeus. E non c'era Atena. Gli Hetwan avevano finito la loro ragnatela di scalette e piattaforme e gradini. Era facile capire perché avevano costruito quella struttura: i loro corpi non erano adatti a camminare in salita. Avevano le ali. Dovendo salire da una ripida collina, avrebbero potuto volare. Questi, però, non volavano. Salivano come un nugolo di insetti, a centinaia, forse migliaia, in file disciplinate, seguendo ordinatamente il capo, e senza mai dare spinte. Impossibile non pensare alle formiche. Gli Hetwan all'attacco erano in numero nettamente superiore rispetto ai difensori greci, almeno quattro o cinque volte più numerosi. Ma non crediate che ci fosse tutto l'esercito hetwan. Assolutamente no. Molti altri,
moltissimi altri, brulicavano più in basso, sul primo pianoro. E infiniti altri occupavano le campagne circostanti, apparentemente indifferenti. Eravamo a non più di sei metri di distanza da terra quando i due schieramenti, i Greci e gli Hetwan, si scontrarono con un boato di voci umane e un frastuono di spade e di scudi. Sfrecciammo sopra la scena senza che riuscissi a metterla a fuoco. Pelia atterrò più dolcemente di un jet di linea. Un secondo prima volava nell'aria, il secondo dopo gli zoccoli martellavano follemente sull'erba e sulle pietre. David saltò giù dal suo destriero prima di tutti e corse verso le tende. Sembrava che volesse scappare, che cercasse di mettere più distanza possibile tra sé e la battaglia. «Venite, aiutatemi!» gridò girandosi verso di noi. I guerrieri greci correvano verso la battaglia, ridendo come dei folli dietro le barbe folte, calcandosi l'elmo sulla fronte, sguainando le spade, ingollando l'ultimo sorso di vino. Noi, in mezzo ai soldati, ci facevamo largo nella direzione opposta, ignorati da tutti. Ed eccoci soli tra le tende, trafelati, affannati, confusi. Tutti tranne David. «Cominciate a strappare le tende. Sradicate da terra i pali che le sostengono. Avanti!» Era come se gli avessero assegnato il compito di smantellare il campo e lui avesse deciso di farlo a tempo da record. Alzai gli occhi e vidi Pegaso e i suoi figli allontanarsi in volo, belli, puri, al sicuro. Stavano tornando alle altitudini degli dei. Quanto avrei voluto essere con loro! Avevo il vestito delle feste, correvo come una matta in un accampamento militare e cercavo di sradicare dal terreno dei pali di due metri. Jalil aveva Excalibur, il coltellino multiuso con la lama in acciaio CooHatch, una lama che avrebbe tagliato qualsiasi cosa. Adesso stava tagliando a strisce la tela colorata delle tende. David prese la prima lunga striscia, la arrotolò in cima al mio palo e ne annodò i capi con la perizia di un bravo marinaio. «Ecco qua. Olio d'oliva, credo» disse Christopher trascinando un grosso orcio di terracotta verso il fuoco più vicino. O David gli aveva detto a che cosa gli serviva, oppure Christopher l'aveva capito da solo. «Non so se brucia bene.» David annuì e infilò nell'orcio la punta del palo infagottata nella tela. Poi
la tirò su grondante d'olio e la mise sul fuoco. Ci volle qualche secondo, ma poi la tela iniziò a bruciare, liberando un denso fumo nero. David strinse la torcia e mi rivolse un ghigno che non era molto diverso da quello dei guerrieri greci. «Continuate voi!» gridò, e partì di corsa, come un atleta del salto con l'asta, verso il cuore della battaglia. «Al lavoro» disse Jalil con calma. Iniziammo a lavorare ad altre due torce. Ci volle meno tempo, adesso che sapevamo quello che stavamo facendo. Ne finimmo una in un minuto. La afferrai. «La porto io» si affrettò a dirmi Jalil. «Non c'è bisogno. Ce la faccio» risposi... non con astio, era semplicemente la verità; forse non ero abbastanza forte da fare danni in un corpo a corpo con la spada, ma questo lo potevo fare. Mi misi a correre, con il palo in fiamme bilanciato sulla spalla, che dopo venti passi era già tutta scorticata, con la carne viva. I guerrieri greci mi davano le spalle, erano tutti ammucchiati, spingevano per arrivare a colpire gli Hetwan. C'erano spade e lance dappertutto. Era come cercare di farsi largo in una folla di porcospini. «Pista! Fate largo!» gridai. Un giovane ufficiale mi notò e iniziò a spintonare e pestare i suoi uomini perché mi aprissero un corridoio. Avanzai nella mischia. Il frastuono del massacro era un muro di rumore e mi avvolgeva interamente. Uomini che gridavano, uomini che vociavano, uomini che invocavano gli dei, uomini che minacciavano, uomini che esultavano in trionfo. Poi, all'improvviso, ero là, in prima linea. I Greci colpivano con violenza inaudita gli Hetwan che sparavano con le loro sputafuoco. Questa non era una battaglia finta, come nei film. Questa non era Hollywood. Questi erano pazzi furiosi che menavano colpi a destra e a manca con tutta la loro forza, che affondavano lame vere nella carne viva degli Hetwan. C'erano pezzi di Hetwan dappertutto. Ma gli alieni sapevano come difendersi. I soldati greci urlavano come animali inferociti quando il veleno degli Hetwan trapassava le armature e bruciava loro la pelle, penetrando nella carne. Un Greco girò su se stesso, coprendosi la faccia. Una palla di fuoco grossa due centimetri bruciava nell'orbita sinistra e penetrò sfrigolando dentro l'occhio. L'altro occhio era strabuzzato, il dolore doveva essere a-
troce. Vidi David. Mi feci largo verso di lui. Volevo chiudere gli occhi davanti alla violenza che mi circondava. Un omone mi cadde addosso, cercò di aggrapparsi a me, mancò la presa. Cadde. Niente fuoco. Vidi un foro netto che gli trapassava l'elmo. Un paio di centimetri di diametro. C'era solo un rivolo di sangue che gli scendeva dalla fronte sudata. Cadde a faccia in giù, morto, morto senza ombra di dubbio. Un identico foro nella parte posteriore dell'elmo. Solo che questo era ostruito. Da materia cerebrale, grigiastra e rossa. «April!» urlò David. «Guardalo!» esclamai. «È morto» replicò duramente David. «Passami la torcia.» Me la prese di mano. Registrai il fatto come se stesse succedendo a qualcun altro. Un buco, un buco che trapassava un elmo da parte a parte, forando il cranio. Una pallottola? Qualcuno aveva delle armi da fuoco? Cos'altro poteva essere? Corsi da David. Doveva vedere anche lui, doveva capire. C'era qualcosa di molto sbagliato. David era circondato da cinque o sei Greci che avevano formato intorno a lui una specie di barriera umana per proteggerlo mentre si spingeva nelle linee nemiche. David impugnò saldamente la torcia e la scagliò con tutte le sue forze come una lancia giù dal pianoro. Adesso i Greci avevano capito. Comparve Jalil con un'altra torcia e David la lanciò. Tornai di corsa all'accampamento e incrociai Christopher lungo la strada. «Funziona?» mi chiese, senza fiato. «Non so.» Quante volte feci quel tragitto? Quante volte arrotolai strisce di tela, le annodai, le inzuppai di olio, vi appiccai il fuoco e mi slanciai di corsa lungo il corridoio che adesso i Greci tenevano aperto per noi? Persi il conto. Centinaia di volte, mi sembrava. Mi pareva di non aver mai fatto altro in tutta la mia vita, se non correre avanti e indietro portando torce ardenti e fumiganti. Tenevo aperto un occhio alla volta, perché il fumo e il sudore mi facevano lacrimare. Mi ero messa una pezza di tela sulla spalla, nel misero tentativo di impedire che il legno mi scorticasse ancora di più. Ma, nonostante i nostri sforzi, gli Hetwan continuavano ad avanzare e i Greci, un centimetro alla volta, e versando sangue per ogni centimetro, ar-
retravano. «Puoi fermarti, adesso. Non riesco più ad arrivare al bordo del pianoro, non riesco più ad avvicinarmi abbastanza per lanciare le torce» mi disse David alla fine. Era tornato dal corridoio dei Greci ed era praticamente crollato a terra bevendo acqua a garganella da una giara tenuta alta da un servitore. «Non ha funzionato?» chiesi. «Sì, ha funzionato bene» rispose. «Tutti i gradini che hanno costruito gli Hetwan stanno bruciando. I rinforzi non possono più arrivare. Non ci resta che fermare questi qui. E ce la faremo.» «David, hanno delle armi da fuoco! Dei fucili, dei cannoni, qualcosa.» «Come?» «Ho visto un Greco con un buco che gli trapassava la testa da parte a parte. Elmo compreso. Non ho mai visto il foro di una pallottola, ma quello era sicuramente il foro di una pallottola.» «Stanno combattendo con le sputafuoco» disse David, dubbioso. «Perché lo farebbero, se avessero dei fucili? E poi, non abbiamo sentito gli spari.» «Io sì» intervenne Jalil. Era arrivato sbuffando e ansimando, con un'ennesima torcia. «Non avevo capito che cosa fosse. Come un'esplosione, molto forte. Una volta sola.» David fece una risata forzata. «Speriamo che vi sbagliate tutti e due. Se hanno delle armi da fuoco, siamo morti... Accidenti!» Seguii la direzione del suo sguardo. Una trentina di Hetwan si erano alzati in volo e si stavano avvicinando alla nostra destra, cercando di raggiungere i loro battaglioni ormai gravemente compromessi. «Arcieri!» urlò David con tutto il fiato che aveva in gola. «Arcieri sul fianco destro!» Cinque o sei Greci passarono di corsa, sfilando una freccia dalla faretra e incoccandola sull'arco. Le frecce volarono, gli Hetwan caddero. Ecco perché non volavano quando combattevano: erano troppo grossi, troppo lenti, bersagli impossibili da mancare per un arciere allenato. Un guerriero, grande e grosso forse il doppio di David, arrivò di corsa. Era protetto da un'armatura, e tutto sudato. Aveva del sangue sulla barba nera. «I nostri uomini sono stanchi, Davideus.»
"Davideus"? Per Christopher era stata solo una battuta, ma ora non faceva più ridere nessuno. «Sì, Alceo. Gli Hetwan sanno che siamo stanchi» gli rispose David. «Ritira un terzo degli uomini dal fronte di battaglia. Ma prima, raduna i feriti. Se riescono ancora a camminare, a reggersi in piedi, sono in gioco. Un terzo più i feriti, è chiaro? Schierameli qui. Presto! Scaglieremo un contrattacco, da sinistra. Li aggireremo e cercheremo di prenderli alle spalle. Vai!» Gli diede una pacca sulla schiena. «Ehi... sei diventato il capo?» gli chiese Christopher. Era appena arrivato, sfatto anche lui, come noi. Come se il riposo e il relax dell'Olimpo non fossero mai esistiti. «Come hai fatto?» «Ho detto semplicemente che Atena mi aveva dato il comando» spiegò David, sorpreso quanto noi che fosse bastato dirlo per essere creduto. «Ha giocato in mio favore il fatto che non c'era nessun altro al comando. Prima erano Ares ed Eracle a dirigere l'orchestra, ma come sapete, Ares se n'è andato sbattendo la porta. Ed Eracle con lui, immagino. Comunque, io non l'ho visto. Questa gente era abbandonata a se stessa.» «Credevo che fossero nemici, quei due» rifletté Christopher. «Ares ed Eracle? Con tutte le scene che hanno fatto...» «Credo che con quella gente le alleanze cambino ogni cinque minuti» disse Jalil. David annuì, ma non stava più ascoltando. Stava guardando i suoi uomini che si radunavano. Si avvicinavano barcollando alle retrovie. Sembravano tutti feriti. Rosse bruciature spiccavano su tutte le braccia, su tutte le gambe nude. Gli uomini non si reggevano più in piedi, tanto erano stanchi. I feriti erano ancora peggio in arnese. Uno di loro aveva perso tutto l'avambraccio da pochi minuti. Il moncherino era tenuto stretto da una striscia di pelle, rozzamente fasciato. Le bende erano inzuppate, gocciolavano sangue. David scosse la testa con aria critica e severa, come un maestro davanti a una classe di alunni scalmanati. «Non funzionerà, non per molto. Gli Hetwan non hanno alcuna intenzione di ritirarsi. Dovete ucciderli. A uno a uno. Ma non in questo modo. Così non va. Portate altre torce. Christopher e Jalil, voglio dire.» «Jawohl, mein General» esclamò prontamente Christopher, cercando di battere i tacchi. Mi ci volle meno di un secondo per capire che David mi stava tagliando
fuori. «Ce la faccio a portare le torce!» gli dissi. Lui mi prese per un braccio, ma con gentilezza, con la mano tutta sporca di sangue. «Senti, April, questa non è una discussione teorica sulle donne soldato. Questa è una guerra vera.» Mi liberai con uno strattone. Ero furiosa. Non perché mi voleva lasciare fuori. Ero furiosa perché volevo disperatamente essere lasciata fuori. Fin dove volevo spingermi con il mio femminismo? Ne avevo abbastanza. Avevo già fatto la mia parte. «Ehi, l'ho fatto fino a un attimo fa. Vado a prendere una torcia» scattai, cercando di usare la rabbia per mascherare la paura. «Okay. Non amano molto il fuoco. O forse è il fumo. In ogni caso, a loro non piace.» «Davvero consolante» mugugnai tra i denti correndo a preparare una torcia. «A chi piace trovarsi con un palo infuocato in faccia?» Quando tornai con la torcia trovai trecento uomini già ordinatamente schierati. Alceo era con loro. Christopher e Jalil erano in prima fila, tenevano alte delle lunghe torce, uguali alla mia. David stava parlando con i soldati, con tutta la voce che aveva. «Non fermatevi nel corpo a corpo. Andate avanti, avanti, avanti! Vogliamo prenderli di sorpresa, vogliamo far credere loro che siamo un intero esercito appena arrivato in campo. E soprattutto vogliamo prenderli alle spalle, intrappolarli tra il nostro battaglione e lo schieramento principale. Tutto chiaro per tutti?» Mi feci largo tra omoni grossi il doppio di me e mi misi a fianco di David e di Jalil. «Hai sentito quant'è bravo a caricare i suoi uomini, il generale Custer?» mi chiese Christopher. «Già.» «Quel ragazzo ha trovato il suo ruolo nella vita» disse, in un tono a metà tra l'ammirato e l'ironico. «Nel caso ti interessasse, stiamo per "incastrare il nemico".» Alzò gli occhi al cielo. David sguainò la spada e la tenne alta sopra la testa. «Carica!» E tutto d'un tratto, eccomi a correre. A correre più veloce che potevo, perché non appena avessi rallentato anche solo un poco, circa trecento
Greci mi avrebbero travolto e calpestato. Corremmo nelle retrovie fino in fondo al pianoro. Poi David tagliò bruscamente di lato, e si tuffò nelle file ormai scarne dei Greci. Esitai, non volevo rischiare di piantare la torcia nella schiena di uno dei nostri. «Maledizione, non rallentare!» gridò David, rivolto proprio a me, la sua faccia una maschera di ghiaccio nel caos più totale. Alcuni dei Greci che travolgemmo caddero e vennero calpestati. Altri si misero a correre con noi e si unirono nell'assalto. Sfondammo le linee, arrivammo al fronte e d'un tratto c'erano Hetwan dappertutto. Cominciai a gridare. Non grida di paura, ma grida selvagge, furiose. Gridavo e correvo, la torcia nella piega del gomito destro, tenuta alta con la mano sinistra. "Non fermarti. Corri! Corrigli addosso, uccidili, uccidili!" Qualcosa scattò nel mio cervello. L'urlo di un folle, che mi annebbiò tutti i pensieri. Una sirena dentro la testa. Un ululato che era tutto, tutto quello che il mio cervello poteva produrre. Poi una scarica da diecimila volt. I piedi volavano. La torcia non pesava più nulla. Non avevo più bisogno di respirare. Ero trasformata. Ci scagliammo addosso agli Hetwan senza rallentare. Puntai l'estremità in fiamme della torcia dritta alla faccia dello Hetwan più vicino. Lo colpii, spappolai le piccole chele intorno alla bocca. Cadde indietro, annaspando nell'aria con le deboli braccine. Spinsi la torcia, spinsi con tutte le mie forze, grugnendo, gridando, strillando, tutto insieme. Poi uno dei nostri mi venne addosso da dietro, mi spinse avanti. Mantenni l'equilibrio. Sì! Avanti! Avanti! Colpii un altro Hetwan. Stavamo penetrando in mezzo agli alieni, entravamo in mezzo a loro come i denti di un forcone nella paglia, dividendoli e lasciandoli agli uomini che venivano dopo di noi, perché li finissero. I nostri sul fronte principale adesso capirono che cosa stavamo facendo, e iniziarono a gridare, a gridare, a urlare, a incitare. Anch'io incitavo, urlavo e piantavo la mia torcia nelle facce e nei corpi di tutti gli Hetwan che mi si paravano davanti. Sentii il bruciore nello stomaco. Il veleno hetwan aveva trapassato il tessuto della mia veste, l'aveva bruciato in un istante e adesso intaccava la carne viva, a due centimetri dall'ombelico. Cercai di spegnerlo con la sinistra, e mi bruciai anche il palmo della mano. Presi un lembo della veste e cercai di soffocare il fuoco. La fiamma sfri-
golante morì, ma il dolore era appena cominciato. Una sensazione stranissima. In seguito, avrei voluto riuscire a ricordare quell'emozione. Avrei voluto recuperarla, ripeterla. Era il genere di cosa che poteva tornare utile a un'attrice. Ma in quel momento non ci pensavo proprio. Anzi, proprio non pensavo. Ero stata travolta da un'ondata di rabbia, di furia, correvo per uccidere, correvo più veloce della paura. Ma in quel momento qualcosa di nuovo e terribile scattò dentro di me. Qualcosa di così cupo che era come un buco nero. La paura era svanita. Il dolore era svanito. Io stessa ero svanita, annullata. Niente cervello, niente pensiero. Una macchina. Una macchina alimentata da un'energia sepolta così nel profondo, sotto strati e strati di civilizzazione, che nessuno più sapeva che esistesse. Attaccai con la torcia lo Hetwan più vicino. Lui sparò il suo veleno. Mancò il bersaglio. Io no. Gli spinsi la punta fiammeggiante del palo nel corpo, gli sputai addosso, digrignando i denti, ridendo selvaggiamente. Spinsi il palo, lo ritirai e glielo piantai di nuovo in faccia. E gridai: «Muori! Muori, carogna!» Lo Hetwan lanciò un grido e io sentii un'onda indecente di trionfo. Sollevai la torcia sopra la testa e urlai cose senza senso al cielo. Poi, rotolai giù dal pianoro. CAPITOLO XI Rotolai, caddi, caddi ancora, sbattendo contro le pietre, ruzzolando nella terra. Giù, tra scalette e gradini in fiamme o già carbonizzati. Rotolavo nella distruzione provocata dalle nostre torce. Cenere in bocca, cenere lieve nell'aria. Giù, verso le migliaia di Hetwan che aspettavano, bloccate più in basso dal disastro che avevamo creato noi. Mi aggrappai alla terra, mi si ruppero le unghie, grattai sul terreno con la faccia, rallentai. Mi fermai. Per un lungo momento restai immobile, respirando a fatica, tossendo per tutto quel fumo. Poi alzai gli occhi, occhi velati di lacrime, che mi bruciavano. Il pianoro era molto più in alto, sopra di me. Riuscivo a vedere gli Hetwan e i Greci che combattevano. Vedevo il baluginare delle spade. Ma era tutto molto lontano. Tutto quel rumore... d'un tratto così lontano. Ero tra due scalette che ancora fumavano. Avevo perso la torcia. Non
avevo armi. Niente. E quella furia nera era sparita, svaporata. Mi faceva male dappertutto. Guardai giù e vidi gli Hetwan. Mi fissavano con i loro maligni occhiacci da insetto, le chele intorno alla bocca in perenne movimento. Ero a metà strada tra gli Hetwan bloccati in basso e gli Hetwan che stavano morendo più in alto. Ma la forte pendenza del fianco della montagna teneva a bada quelli di sotto. Non potevano arrampicarsi per venirmi a prendere, non riuscivano ad affrontare una salita così ripida. Ed ero fuori dalla portata delle loro sputafuoco. Cominciai ad arrampicarmi. Più salivo, più scivolavo. Piantai la punta delle scarpe da ginnastica nella terra friabile e cercai di fare presa. Cercai di tirarmi su con le dita rotte e sanguinanti. Poi gli Hetwan si alzarono in volo. Dieci, dodici, forse di più. In volo! Spiegarono le ali e iniziarono a salire verso di me. Non potevo scappare. "Aiuto... mi uccideranno, come io ho ucciso loro!" «Aiuto!» gridai. «Aiuto! Aiuto! David!» Gli Hetwan erano lenti, ma non dovevano andare lontano. Si raccolsero sopra di me, alla mia altezza, poi si prepararono a colpire. Rotolai sulla schiena, nell'assurda speranza di poterli respingere a calci, ma quando mi mossi, scivolai giù di altri tre metri. Li vedevo in faccia, vicini, vicinissimi, pronti a sparare i loro sputi di fuoco che mi avrebbero martoriata, mi avrebbero bruciata viva. "Dio mio, salvami, ti prego!" Ed ecco apparire una freccia, sullo Hetwan più vicino. Apparve, semplicemente: d'un tratto eccola spuntargli dalla schiena, tra le ali. Cadde. L'alieno cadde e si schiantò al suolo, proprio accanto a me. Afferrai il corpo, presi un debole braccio e un'ala malconcia e con la forza della disperazione lo feci rotolare sopra di me. Appena in tempo. Gli Hetwan spararono il loro veleno. Molti colpi centrarono l'alieno morto che mi faceva da scudo. Si sentì odore di insetto bruciato. Avevo le sue piccole chele schiacciate sulla faccia. Si muovevano ancora, lente, flebili. Mi feci piccola piccola, cominciai a farfugliare, a pregare... Altre frecce volarono. Altri Hetwan caddero. Ma poi, niente più frecce. Niente più frecce, e ancora quattro Hetwan sopra di me, le sputafuoco puntate, e scendevano ancora più vicini, per essere sicuri di colpirmi schivando il loro compagno morto. Ma ecco una nuova pioggia di frecce. Qualcuno, in alto, aveva incoccato
altre frecce. O forse era arrivato un nuovo arciere. «April, sta giù» sentii David che gridava a un milione di chilometri di distanza. Piegai la testa, girai gli occhi più che potei per riuscire a vedere l'inizio della scarpata. C'erano tre arcieri greci in piedi sul ciglio. Lassù la battaglia era finita. Adesso iniziava una nuova battaglia. Per salvare me. Gli Hetwan sapevano che non avrebbero potuto portare abbastanza soldati sul secondo pianoro per cambiare le sorti della battaglia, non ora, almeno. Però avrebbero potuto, sacrificando altri loro soldati, uccidere me. Un secondo stormo si alzò in volo. Un'altra decina di Hetwan. Laggiù erano fuori tiro: le frecce non arrivavano così lontano. Gli arcieri potevano colpirli solo quando erano vicinissimi a me. Guardai gli Hetwan, tutti quegli Hetwan che pullulavano sul pianoro inferiore. Tanti, tantissimi. Più numerosi di tutte le frecce dei Greci. Quanto potevo resistere, nascosta dietro a un cadavere? Fu allora che vidi qualcosa... non tanto un oggetto, quanto piuttosto un movimento, un movimento strano, qualcosa che avevo già visto prima. Era importante. Mi sforzai di vedere. Sì, eccolo! Confuso tra i ranghi infiniti degli Hetwan ondeggianti, un movimento diverso. Una camminata alla Groucho Marx. Alieno, almeno quanto gli Hetwan, ma non un Hetwan. Una creatura fatta come una spropositata lettera C grigia, con un muso lungo e appuntito sormontato da un paio d'occhi strani e belli, rosso scuro con l'iride di un bel blu profondo. Quattro braccia, due più grandi e scure e due più piccole, appena sotto gli occhi. Non Hetwan. No, decisamente no. Coo-Hatch. Non vidi quelli piccoli che dovevano essere la loro fase giovanile, quelle creature svolazzanti delle dimensioni di un uccellino. Ma vidi almeno due adulti. Due Coo-Hatch. E combattevano fianco a fianco con gli Hetwan. I Coo-Hatch stavano trasportando qualcosa. Un tubo di metallo grigio, più grasso a una estremità, più magro all'altra. Un tubo cavo, con un'apertura di un paio di centimetri di diametro. I Coo-Hatch usarono un ramo lungo e sottile per spingere nella canna una pallina di carta. Poi ci infilarono una pallottola. Un fucile. Avevano un fucile. E l'avrebbero usato per ammazzarmi. Gli Hetwan si alzarono in volo. Si avvicinarono. Le frecce greche saettarono nel cielo. Gli Hetwan caddero. E i Coo-Hatch in fondo alla scarpata passarono l'arma carica a una squadra di quattro Hetwan che con quelle braccia così deboli a malapena riuscivano a tenerla sollevata. La tennero
ferma come meglio poterono. Un quinto Hetwan si inginocchiò dietro al fucile. Vidi l'occhio da insetto avvicinarsi alla canna, mettere a fuoco. Vidi la linea retta tra l'occhio dello Hetwan, la bocca del fucile e me, il bersaglio. Apparve un sesto Hetwan, con un fiammifero acceso. Pochi secondi e mi avrebbero sparato. "Aspetta, April. Aspetta. Aspetta." Muscoli tesi come cavi d'acciaio. "Aspetta." Il fiammifero che si avvicina... Scartai a sinistra, rotolai via da sotto il mio scudo hetwan. L'esplosione fu soffocata, non così forte come dovrebbe essere quella di un fucile. Il proiettile colpì al petto lo Hetwan morto. Vidi uno sbuffo di terra. L'aveva trapassato da parte a parte. Avrebbe trapassato anche me da parte a parte. Più sotto, il caos. Il rinculo del fucile aveva ucciso almeno uno della squadra di artiglieri. I Coo-Hatch si stavano avvicinando per caricare di nuovo. Altri Hetwan volarono incontro ad altre frecce. Era solo una questione di tempo. Non potevo arrampicarmi. Il fucile sarebbe stato ricaricato, avrebbe sparato di nuovo. Per quante altre volte potevo schivare i proiettili? Impossibile. «David! Tirami fuori di qui!» strillai. «Credo che siano già stati presi dei provvedimenti» rispose David, sempre urlando, ma in tono stranamente smorzato. Guardai in alto... e la vidi. Si librava nell'aria, grande, grandissima, grande come la sua statua. Non un'apparizione spettrale, l'effetto speciale di un film, ma una creatura vera, immortale, in carne ed ossa, semplicemente librata nell'aria. Allungò la mano, me la richiuse intorno alla vita e mi sollevò. Avrebbe potuto mangiarmi in un solo boccone. «Ti batti bene» mi disse Atena e la sua faccia riempì tutto il mio campo visivo, un primissimo piano sul megaschermo di un cinema. «Grazie. Ma adesso non potremmo toglierci di torno e sparire, per favore?» CAPITOLO XII Sabato. Il mondo reale. Finita la battaglia, dopo che Atena mi aveva salvata e portata via, ero
tornata in cima all'Olimpo, a quella che ormai consideravamo come casa nostra. C'erano anche Christopher e Jalil. David, invece, era ancora in giro. Era Davideus, adesso. Era il generale David. Doveva preparare i Greci alla prossima battaglia. Aveva dato da fare qualcosa anche a me: scoprire perché gli dei non partecipavano direttamente alla battaglia. Ma non avevo voglia di giocare al detective. Non mi sentivo molto bene. Mi misi a letto (le lenzuola erano fresche di bucato, naturalmente) e rimasi a fissare le pareti per un po'. Non sentivo niente. Non ancora. Ma capivo che dentro di me, molto, molto in fondo, qualcosa stava crescendo. Qualcosa di grande. Un'onda che prima o poi mi avrebbe travolto e spazzato via. Dopo un po' mi addormentai. Il sonno dovrebbe portare l'oblio. Io, invece, attraversai la barriera e mi ricongiunsi all'altra me stessa, alla vera April, nel mondo reale. Ero in chiesa. Non c'era la messa, stavo seduta in un banco, aspettavo il mio turno per la confessione. Nel banco davanti c'era una ragazza più grande di me di nome Rebecca Burnside, più di vent'anni, un vestito all'antica e un taglio di capelli non adatto alla forma del suo viso. Era girata verso di me e mi stava parlando. Persi il filo del discorso quando l'aggiornamento mi travolse con immagini che avrei tanto voluto aver già dimenticato. Uomini che gridavano. Spade. Torce fumiganti. Hetwan che morivano. E immagini di me stessa, come se mi fossi vista dall'esterno. Immagini di una April fuori di sé, scatenata, assassina, con la veste stracciata e le scarpe da ginnastica infangate. Non ne sapevo ancora niente. L'ultimo aggiornamento da Everworld mi dava sazia e appagata dopo una cena gloriosa e sprofondata in un letto di piume. Da allora, l'altra April, la ragazza che stava a Everworld, aveva conosciuto Zeus, Apollo, Ares, Era, Eracle, Artemide e Atena. La April di Everworld aveva volato in groppa a un cavallo alato. Si era buttata in una battaglia disperata per salvare... Per salvare che cosa? Gli dei dell'Olimpo? Quella massa di creature egoiste, miopi e ottuse? O per vendicare Ganimede? O semplicemente per fermare Ka Anor, per impedirgli di raggiungere il suo obiettivo? Perché? Perché avevo combattuto? E perché, combattendo, avevo perso me stessa in modo così totale? «Non credi?» mi fece Rebecca, insistente. «Cioè, magari per te non è co-
sì.» Aggrottai la fronte. Mi sforzai di ricordare... Di che cosa stavamo parlando? Qual era la questione? Di quale argomento minuscolo e insignificante stavamo discutendo? La questione era la seguente: chi era quella ragazza con la torcia, quella ragazza colma di rabbia, più rabbia di quella che sapeva esistere al mondo? Chi era quella April? «Sì» tirai a indovinare. «Hai ragione.» Rebecca annuì. Lei passava un sacco di tempo in chiesa. Era in una mezza dozzina di gruppi parrocchiali: nel gruppo delle catechiste, nel gruppo del volontariato, nel gruppo delle animatrici. Lavorava anche con il coro. Non cantava (non aveva la voce per farlo), ma aiutava nella parte organizzativa, ordinava le tuniche nuove, distribuiva gli spartiti. Avrei giurato che si confessava tre volte la settimana. Che cosa confessasse proprio non riuscivo a immaginarlo. Per quel che ne sapevo, la sua vita trascorreva interamente tra la chiesa e il lavoro, in un ufficio di assicurazioni. Ma di che caspita stavamo parlando? «Voglio dire, per me la scuola superiore è stata un periodo magico. Gli amici che avevo allora sono stati i migliori amici che abbia mai avuto.» Ah! Ecco di che cosa stavamo parlando. Certo! Ero già annoiata e distratta prima ancora che l'aggiornamento spazzasse via anche le ultime briciole di concentrazione. "Come posso andare avanti così?" mi chiesi, arrabbiata con nessuno in particolare, ma prendendomela con la povera Rebecca. Come potevo recitare simultaneamente in due film così diversi? Era tutto sbagliato. Era questa la mia vita. Ed Everworld era il mio incubo. «Li vedi ancora, i tuoi ex compagni di classe?» le chiesi, sforzandomi di essere gentile, sforzandomi di concentrarmi. «Oh, qualcuno. Be'... qui, per esempio. Ne vedo qualcuno in chiesa. Alcune ragazze dei vecchi tempi.» «Ma non esci con loro? Non andate a casa di questo o di quello per... che so? Per uscire insieme, andare al cinema, andare a cena fuori, qualcosa...» La sua espressione compiaciuta crollò e io mi sentii immediatamente in colpa per la domanda. Ero stata stupidamente scortese. Ma avevo la mente da un'altra parte. E poi, ripensandoci, era proprio quello che volevo sapere. «Li vedo in giro. Qui in chiesa. Oh, proprio ieri ho visto Ellen, la mia migliore amica, al supermercato, al banco dei formaggi. Ma, sai com'è, in
genere hanno tutti un lavoro, o una famiglia.» Mi resi conto che la stavo guardando con gli occhi sgranati. Un lieve rossore le salì dal collo. Non volevo metterla in imbarazzo, ma all'improvviso quello che diceva mi parve terribilmente importante. Perché continuava a parlare di come era bella la scuola, perché continuava a raccontare di quelle amicizie così profonde, quando era evidente che quelle "amicizie" erano svanite a pochi minuti dal diploma? Adesso toccava a me dire qualcosa. Rebecca lanciò un'occhiata alla consunta tendina del confessionale di legno intagliato. «Io ho un sacco di amicizie» le dissi, non riuscendo a trovare niente di meglio. «A scuola, intendo. Ho un sacco di amicizie.» «Tu sei nel gruppo di teatro, vero?» mi chiese, come se fosse aggiornata su tutti i gruppi e le compagnie del momento. «Sì. Sai, lo so, so quanto suona stupido dire che voglio fare l'attrice, adesso che sono ancora a scuola. Ma è proprio quello che voglio fare.» Lei annuì. I suoi occhi divennero opachi. Stava alzando un muro tra di noi. Si stava difendendo. Volevo chiederle perché aveva perso tutti gli amici. Volevo sapere se era per qualcosa che aveva fatto o per quello che era diventata o se era semplicemente inevitabile. Volevo chiederle se il suo sogno era quello di fare l'impiegata in un ufficio di assicurazioni. E che cosa raccontava al confessore tre volte la settimana. «Ah, tocca a te» mi disse sorridendo con sollievo e indicandomi con il capo il confessionale, ora libero. «Puoi andare tu se...» «No, no, non ho fretta, io» rispose e poi mi lanciò un'occhiata velenosa, come se l'avessi accusata di qualcosa. «Grazie.» La lasciai lì e attraversai la chiesa con il "passo del banco", un movimento strascicato laterale in cui si rischia di cadere a ogni momento. Mi inginocchiai nel silenzioso confessionale e tirai la tendina. Vedevo padre Mike dalla grata. Stava facendo qualche tiro veloce da una sigaretta, respirando voluttuosamente il fumo. Poi, con riluttanza, la spense in un invisibile posacenere. «Scusa» borbottò. «Pensa che ho anche il cerotto. Vedi come funziona!» «Ego te absolvo» gli dissi. «Quella è una mia battuta, mi pare» disse, secco. Attaccai con la solita litania di peccati veniali: avevo mancato di rispetto
ai miei genitori, mi ero arrabbiata, forse, e comunque senza intenzione, avevo imbrogliato, in quanto avevo visto per caso una risposta nel test di un mio compagno, che era diversa da quella che volevo dare io, e avevo usato la sua. «Volevi copiare?» «No. Ma ho usato la sua risposta.» «Era la risposta esatta?» «Veramente no.» «Allora credo che questo peccato abbia già avuto la sua punizione. Va' avanti.» Esitai. Avevo confessato tutti i peccati che ricordavo di avere commesso nel mondo reale. Ma i peccati dell'altra? Della April di Everworld? «Avrei un problema ipotetico» dissi. «Ah sì?» Si accomodò meglio sulla sedia. Era annoiato? O questa novità gli interessava più di tutta la mia sfilza di peccati di poco conto? «Dunque... mmm... ha a che fare con una storia che ho letto. Un racconto breve. Ha tempo?» «Ho tempo. Spara.» «Okay. In questa storia, il personaggio, il protagonista è una specie di... di dottor Jekyll e Mr. Hyde. Sa cosa intendo, vero? Ha una doppia personalità. E la sua metà buona va a confessarsi e confessa tutto quello che ha fatto. Che ha fatto lui, però, non l'altra metà.» Sospirai. Sì, sembrava credibile. «Allora, il dottor Jekyll confessa i peccati del dottor Jekyll. Ma è anche Mr. Hyde, giusto? Cioè, Hyde è una parte di lui, ma solo una parte, quindi sembra una persona diversa. Come se esistesse in un universo parallelo. Quello che voglio sapere è questo: che succede dei peccati di Mr. Hyde? Il dottor Jekyll dovrebbe confessarsi anche per Mr. Hyde? E se non lo fa, può comunque fare la comunione?» «È questa la domanda?» «Sì. Ipoteticamente.» «Mmm... non so. Tutto dipende da questo: se Jekyll e Hyde sono una persona sola o due persone distinte. Se Hyde è una persona diversa, come può Jekyll confessarsi per lui? Ma se Hyde è veramente Jekyll, allora Jekyll deve confessare anche i peccati commessi come Hyde. Santo cielo! Se vuoi saperne di più, dovrai chiedere al vescovo. Oppure al direttore del dipartimento di teologia, all'università.» «Grazie» gli dissi. «Di nulla. C'è altro?»
«C'è ancora una cosa. Ho mentito.» «L'hai già confessato.» «Potrei aver mentito di nuovo, da allora» risposi. CAPITOLO XIII Incontrai Magda e Alison da Barnes and Nobles, la libreria dell'Old Orchard Mall. L'Old Orchard Mall è un centro commerciale all'aperto. È come un normalissimo centro commerciale, solo che non ha il tetto sopra ai corridoi. Ogni tanto pioveva, una pioggerellina sottile su un cielo di grigi sovrapposti e stratificati. Per questo, una volta tanto, nonostante fosse sabato, riuscii a trovare un posto libero al parcheggio, magari lontano. Eravamo "in missione": dovevamo comprare dei maglioni per me (c'erano i saldi in un negozio) e delle scarpe per Alison. Uscivamo da un negozio e ci precipitavamo nel successivo, cercando di schivare le gocce di pioggia, cercando di non ammettere che ormai eravamo in pieno autunno e che c'erano già le prime avvisaglie dell'ineluttabile (e ineluttabilmente triste) inverno di Chicago. La April di Everworld stava dormendo. Presumibilmente. Non ne ero mai del tutto sicura. In genere mi pareva (a volte era solo una vaga impressione) di accorgermi del momento in cui quella parte di me si svegliava e "io" passavo di là dalla barriera. Ma, sia che quella April dormisse, sia che fosse sveglia, io sarei rimasta qui comunque. Avrei continuato a fare shopping, avrei continuato a chiacchierare con le amiche. Avrei continuato a notare che le aiuole erano piene di terra bagnata e non di fiori, che a mezzogiorno il sole era più basso del solito, che l'estate era finita e che anche l'autunno stava passando, e troppo, troppo in fretta. «Sei così esuberante e radiosa, oggi, April. Sembri Miss Raggio di Sole» commentò Magda mentre seguivamo Alison in un negozio di scarpe. «Fai del sarcasmo?» le chiesi. «Sì.» «Sono esuberante e radiosa» dissi. «Non è vero. Sei tetra, triste, oppressa, preoccupata.» «Ehi, sono un po' giù, ma non sono ancora diventata un mostro. C'è ancora qualcuno che si mette dei tacchi del genere?» «Certo. Le mogli ventiduenni di mariti miliardari e cinquantenni, quando vogliono movimentare la loro vita notturna.»
Scoppiai a ridere. Magda è una persona deliberatamente, calcolatamente provocatoria. L'aveva detto con un tono di voce abbastanza alto da farsi sentire da una moglie-trofeo sulla ventina, con gli occhi di acciaio e il cappotto lungo di pelliccia. Magda e Alison sono tutte e due nel gruppo di teatro. Alison è una bionda esile e sinuosa, che sembra scampata per un pelo all'anoressia. Ha una faccia che sembra fatta per le copertine dei giornali di moda e begli occhi castani e umidi, come se fosse sempre sul punto di scoppiare in lacrime, o se avesse appena smesso di piangere. Non sarà mai capace di recitare in un ruolo comico. È quello che mi dico sempre, quando mi vengono gli attacchi di rabbia al vederla mangiare a tutto spiano panini, ciambelle, hot dog e pizzette senza ingrassare di un grammo. «Che tatto!» commentai mentre passavamo accanto alla bellona impellicciata. «Direi! Allora perché sei giù di morale oggi? Dimmi! Entra in contatto con l'Ibsen e il Dostoevskij che ci sono dentro di te, con l'Ingmar Bergman più cupo e più profondamente nascosto nel tuo intimo.» Magda potrebbe entrare in qualsiasi ruolo. Anche adesso stava recitando. Da quando la conosco non fa che recitare. Aveva fatto la parte della donna cinica e stanca del mondo, che ha già visto tutto ma che ha ancora una gran voglia di fare. Quando però voleva dei modelli di depressione e tristezza, sfoderava Dostoevskij e Ibsen. Eppure non sembrava mai finta, mai costruita. Ecco quanto era brava: poteva recitare un ruolo, mostrarti che stava recitando, e tuttavia sembrare autentica. Nel frattempo Alison aveva acciuffato un commesso e gli stava mostrando le tre scarpe che teneva in mano. A un certo punto vide qualcuno che conosceva, un ragazzo; ci lanciò un'occhiata che significava "mi allontano un attimo" e volò via come un'allegra farfallina con i capelli al vento. «Chi è quello? Lo conosci?» chiesi a Magda. «Mmm... no. Non è il mio tipo. Alison adora questi ragazzi femminei, non è vero? Ma non cercare di cambiare discorso. Cos'è questa storia dell'ansia esistenziale?» «Ho visto una ragazza, oggi» sospirai «una più grande di noi, ed era triste, credo, perché ha perso tutte le amicizie che aveva a scuola. O forse ha perso tutte le amicizie perché era triste.» «Uau! E tu hai capito tutte queste cose soltanto guardandola in faccia? Che ne dici di questi?» Magda prese un paio di stivali e me li mostrò. Le risposi facendo una faccia disgustata e Madga li rimise a posto.
«Dov'è successo, il fatale incontro con la donna solitaria?» «Davanti al confessionale.» «Ah, la confessione settimanale di April! Scommetto che i preti non aspettano altro. Lo sai cosa pensano? "Ah, santo cielo, non c'è mai un po' d'azione nella vita di questa ragazza!" Hai confessato i pensieri impuri su Leo DiCaprio? O avevi da confessare solo il tuo vizio cronico e perverso di non buttare mai tutti gli avanzi nella spazzatura prima di mettere i piatti nell'acquaio?» «Non cominciare nemmeno, Magda. Non ho nessuna intenzione di darti corda.» Rise. Contenta di sé, ovviamente. «E così adesso stai pensando: "Sto investendo tutte le mie energie nei miei amici e forse tra qualche anno, quando mi sarò diplomata, spariranno tutti".» «Esatto» dissi. «Esattamente questo. E aggiungici che è autunno e non c'è più sole e fra poco ci saranno dieci gradi sotto zero e il vento a cinquanta all'ora e mucchi enormi di neve sporca dappertutto e io avrò i piedi gelati e la pelle tutta screpolata.» «C'è il Giorno del Ringraziamento. E c'è Natale. E poi un sacco di gente resta in contatto con gli ex compagni di scuola. La migliore amica di mia mamma è ancora quella che aveva alle superiori.» «È stupido preoccuparsi di una cosa del genere» ammisi. «Basta con i malumori.» Riapparve Alison. «Dov'è quel commesso?» «Forse ti ha visto sbavare dietro a quel ragazzo ed è corso a vomitare il pranzo» ipotizzò Magda. «Era carino, vero?» «Assolutamente sì» rispose Magda con entusiasmo. «Adoro quelli che hanno un sacco di peli nelle orecchie.» «Non parlavo del commesso» precisò Alison. «Dio, sei sempre gelosa se nessuno ti guarda.» «Oh, mi ha guardata bene, se è per quello» disse Magda tutta compiaciuta. «No, non è vero.» Alison si girò verso di me, in cerca di conferma. «Gli ho fatto così» spiegò Magda e inarcò la schiena mettendo in mostra le curve del reggiseno imbottito. «Ti dico che ha guardato!» Alison scoppiò a ridere. Quando ride strizza gli occhioni tristi e le si tra-
sforma la faccia. Forse un giorno sarebbe riuscita a recitare anche in una commedia. E sentii un'onda di... di che cosa, esattamente? Tanti sentimenti diversi, tutti insieme. La tristezza che provi quando ti rendi conto che sei felice, ma sai che non durerà. Una specie di nostalgia. Che stupida. E tutto per una ragazza troppo sola che avevo incontrato in chiesa. Io non ero così. Non sarei mai diventata così. "Bell'obiettivo" dissi a me stessa, acida. "Punti in alto, April! Non diventare Rebecca Burnside. Uau, questo sì che sarebbe un bel successo." Uscimmo dal negozio, sotto una pioggerellina sottile e monotona. Ci mettemmo a camminare a braccetto, strette insieme contro l'umidità e il freddo, rasente ai muri, sotto le tende dei negozi. Scherzammo e spettegolammo e ridemmo. Era questa la mia vita. Era questo che temevo di perdere, questa "intimità". Questa era stata la definizione della mia vita fino ad ora, e mentre seguivo distrattamente il flusso continuo dei commenti di Magda sulla gente che incrociavamo, mi ritrovai a pensare: "Chissà che cosa sta succedendo laggiù. Chissà che cosa mi sta capitando adesso, a Everworld". CAPITOLO XIV «Svegliati! Forza, svegliati!» Aprii gli occhi. David mi stava scuotendo. «Sembri un gatto caduto in acqua» gli dissi, sbattendo le palpebre per svegliarmi. Aveva bisogno di un barbiere, il che non era una novità. Solo che l'ultima volta che l'avevo visto era sbarbato. Quanto tempo era passato? Era sporco, sudato. La toga era sparita. Era tornato ai suoi soliti stracci. «Che succede?» gli chiesi mettendomi a sedere. «Che succede? Niente, per ora, ma succederà. Ho mandato in giro della gente a reclutare chiunque sia in grado di camminare. Ci sono migliaia di sfollati nascosti nelle grotte dietro il monte che se ne stanno là seduti a non fare niente. E poi ci sono gli abitanti dei villaggi sul fianco meridionale. Bene, adesso sono tutti nel mio esercito. E poi io ed Efesto abbiamo qualcosa che bolle in pentola.» Lo guardai attentamente. Era esausto, questo sì. Ma era anche gasatissimo. C'era una luce esaltata in quegli occhi gonfi, cerchiati di rosso. Non so esattamente quanto avevo dormito, ma lui era sicuramente rimasto sveglio
per tutto quel tempo. «Okay. Va bene. Sono sveglia. Adesso ti do una mano anch'io. Scusa, mi sono addormentata.» «Non ti preoccupare, ho tutto sotto controllo. Ho della gente che mi pare affidabile che si sta occupando dei dettagli. Nessun aiuto da parte degli dei, ovviamente, tranne Efesto. Lui è uno in gamba. Gli altri... non prenderebbero mai ordini da un mortale.» Uscii dal mio letto soffice soffice. Avevo ancora addosso la veste stracciata. C'erano delle macchie sul davanti. Rosso scuro e giallo-verdastro. Sangue. Sangue umano e hetwan. «Dove sono Christopher e Jalil?» «Si stanno vestendo. A quanto pare ci sono altri tipi di indumenti, oltre alle toghe. Hanno una specie di parastinchi, da legare lungo la gamba. E poi ci hanno lavato le nostre cose. Ai Greci forse non darà fastidio combattere in minigonna, ma a me invece sì.» Apparve una coppia di servitori. Lui portava un gigantesco vassoio carico di cibo. Lei, vari tipi di indumenti asciutti e ordinatamente ripiegati e impilati. «Gli Hetwan vogliono parlamentare. Stanno arrivando i loro ambasciatori e nel frattempo siamo in tregua. Non possono volare così in alto, perciò li stiamo portando dai campi di battaglia. Bendati. Non voglio che quei bastardi poi vadano a raccontare ai loro superiori come ci stiamo muovendo.» Parlava a se stesso più che a me. Correva a cento all'ora. Un sacco di adrenalina. Un sacco di potere. «Dai, andiamo!» Mi fece fretta. «Che ne diresti di girarti dall'altra parte mentre mi cambio?» «Oh... certo, scusa.» Scivolai velocemente fuori dai miei stracci insanguinati e con l'aiuto dell'ancella mi vestii. Avevo un look più da Artemide, adesso. Avevo le gambe coperte, la scollatura non era più così precaria. Mi ero rimessa la mia biancheria intima, pulitissima. Un lusso, anche se non riuscivo a scacciare dalla mente l'immagine di noi tre, io, Magda e Alison, a spasso per i grandi magazzini, con tutti quei vestiti nuovi, così normali, così puliti. «Okay, andiamo» dissi. Lanciai un'ultima occhiata al mucchietto di stracci che lasciavo lì. Cercai di non pensare a che cosa significassero quelle macchie. E cercai anche di non ammettere a me stessa quanto fossi fiera di aver combattuto e di essere
ancora viva. Questa volta non dovemmo ripetere quella lunga scarpinata fino al palazzo di Zeus. Pegaso, Pelia e gli altri cavalli alati ci stavano aspettando. Christopher e Jalil erano già in groppa. «Ehilà, Pelia!» lo salutai. Montammo anche noi due, un po' meno goffamente, questa volta. I cavalli partirono al galoppo, poi iniziarono a muovere le ali. Arrivammo alla grande sala aperta del palazzo di Zeus in pochi minuti. I destrieri scesero in lenti cerchi e atterrarono poco lontano dalla piattaforma degli dei. Questa volta c'era meno gente: Artemide, Apollo, Atena, Era, Dioniso, Ermes e uno strano dio che la volta prima non avevo notato. La parte superiore del suo corpo era enorme, aveva due braccia che sembravano i cavi di un ponte sospeso, il torace che sembrava fatto di blocchi di cemento armato. Ma le gambe erano mingherline, rinsecchite. Sembravano quasi le gambe di un bambino. Sicuramente non avrebbero mai potuto sostenere tutto quel peso. La faccia era scura, molto abbronzata, come di uno che ha passato tutta la vita sotto il sole. Quando mi guardò, vidi il fuoco, fuoco vero, che bruciava nei suoi occhi, al posto delle iridi. «Lui è Efesto» mi disse David. «Il dio del fuoco. È l'unico di tutti questi dei, a parte Atena, che ci possa essere di una qualche utilità. Lui è pratico di armi. L'ho messo a fare spade e scudi per i nuovi arruolati. È uno in gamba. Anche se è storpio. Zoppo.» «Non sarebbe meglio dire che è "disabile"? O "diversamente abile"?» chiese ironicamente Christopher sottovoce. «Efesto si definisce zoppo, e tanto mi basta» rispose David. «È l'unico tra tutta questa gente che abbia qualcosa da fare, oltre a starsene qui a oziare, a bere, a spassarsela e a combinare guai.» «Ecco: hai descritto esattamente le mie massime aspirazioni per il futuro» disse Christopher. «Avrei dovuto accettarla, l'immortalità.» Il rispetto di David nei confronti degli dei era evidentemente crollato a livelli minimi mentre dormivo. La frequentazione alimentava il disprezzo. Zeus non era in forma di aquila in quel momento. Non era nemmeno un saggio vegliardo. Era un toro mostruoso dal manto lucente, con un paio di corna che sarebbero state perfette per appenderci la corda del bucato. «Non capisco. Che cosa c'entra il toro?» chiese Christopher. «Credo che sia il suo modo di presentarsi» spiegò Jalil. «È per via della faccenda che i mortali altrimenti verrebbero inceneriti. Si deve rivelare lentamente. Benvenuto a Everworld» aggiunse come commento finale.
I cavalli volarono via non appena ci ebbero depositato all'interno del palazzo. Artemide mi lanciò una languida occhiata. Ebbi l'impressione che fosse un po' infastidita dal fatto che mi ero vestita come lei. Un paio di ninfe le offrivano acini d'uva e dolcetti a forma di cervo, portandoglieli direttamente alla bocca. Entrarono quattro uomini grandi e grossi in armatura, accompagnati da due servitori. A loro volta, i quattro soldati accompagnavano due Hetwan bendati. Sentivo un'avversione viscerale per quegli alieni. Difficile evitarlo. Avevano cercato ripetutamente di uccidermi. E poi c'era sempre Ganimede, un ricordo che bruciava ancora vivo nella mia mente. «Togliete le bende» ordinò Atena. La dea della saggezza e della guerra si mise a metà strada tra Zeus e gli Hetwan. I due alieni attendevano pazientemente, senza mostrare la minima traccia di inquietudine o paura. Le bende caddero. Gli Hetwan non sbatterono le palpebre su quei loro occhi enormi da libellula. «Riferite il vostro messaggio, Hetwan. Fatelo subito, prima che la nostra pazienza venga meno e vi facciamo precipitare dalla cima di questo monte» disse Atena con tutta l'alterigia di una donna che non ha nulla da temere. «Potete ucciderci o lasciarci vivere, a vostro piacere» rispose uno dei due, con la voce flautata, morbida e musicale degli Hetwan. «La nostra morte è irrilevante. Noi siamo al servizio di Ka Anor.» «Riferite il vostro messaggio» ripeté Atena, abbandonando il tono minaccioso e i modi formali. «Io vengo a portare le parole di Ka Anor agli dei dell'Olimpo. Questo dice Ka Anor: il trattato di pace tra di noi può essere ripristinato, ma a certe condizioni.» Zeus si stava trasformando lentamente. Atena rimase impassibile, una faccia da perfetto giocatore di poker. «Quali condizioni?» «Zeus continuerà ad avere l'Olimpo come sua dimora e sarà al sicuro nella fortezza del suo monte. Potrà tenere con sé per sua compagnia cinque dei di sua scelta. Tutti gli altri dei dell'Olimpo e tutti gli dei che risiedono nelle terre intorno all'Olimpo dovranno essere consegnati a Ka Anor.» Lo Hetwan tacque. Atena fece per parlare, ma Zeus la bloccò con un gesto.
«Quali garanzie offre Ka Anor?» «A prova della sua sincerità, Ka Anor ordinerà la morte di cinquemila Hetwan davanti all'Olimpo.» Mi veniva da ridere. Era assurdo. Era mostruoso. Ka Anor stava chiedendo che gli dei dell'Olimpo gli venissero consegnati in massa? Stava chiedendo a Zeus di tradire i suoi stessi figli per poter sopravvivere? «Cinquemila morti? È un'offerta sostanziosa. Ma solo cinque dei a farmi compagnia?» Zeus ripeté scettico. «Sono troppo pochi. Ka Anor mi chiede troppo. Dovrei comprare la mia salvezza sacrificando i miei figli? E la mia solitudine quassù? Solo cinque compagni? No. Sono troppo pochi.» Stava contrattando! Vidi un lampo cupo e assassino negli occhi di Atena. Ma vi lessi anche la sconfitta. Era evidentemente un imbroglio, ma lei già prevedeva che avrebbe funzionato. Sapeva, nel profondo del cuore, che Zeus era pronto anche a vendere i suoi figli. Tra gli altri dei serpeggiava il nervosismo. Si guardavano intorno, si osservavano di sottecchi. Anche loro pensavano già alle prossime mosse. Non si aspettavano che Zeus mandasse al diavolo lo Hetwan, anzi, si preparavano a piazzarsi bene nella classifica dei favoriti. «I cinque saranno sicuramente prescelti tra i dodici dei maggiori» disse Apollo. «E sicuramente coloro che si sono già allontanati e che siedono imbronciati nei loro templi (come Ares), sicuramente, non saranno tra i prescelti.» Era stupefacente. Era orribile, ma mi veniva da ridere. Gli Hetwan avevano inquadrato bene questi immortali deboli e viziati. Ka Anor, con assoluto disprezzo, aveva diviso il nemico in fazioni. Gli dei si sarebbero ammazzati tra loro pur di rientrare tra i cinque eletti. «È un imbroglio» esclamò Atena con voce roca. «Non vedi che è un imbroglio, Grande Padre? Ka Anor spera di dividerci. Vuole che tu ceda tutte le tue armi e che poi speri nella sua misericordia.» «Hai paura, Atena?» fu la sprezzante risposta di Zeus. «Temi forse di non avere il mio favore? Temi forse di non essere tra i cinque eletti?» Follia. Pura follia. Solo un pazzo, oppure un completo imbecille poteva cadere in questa trappola. «Il cavallo di Troia» mi sussurrò Jalil. Sapevo che cosa intendeva. Sin dal nostro arrivo a Everworld avevamo scoperto che gli indigeni erano un po' carenti quanto a scetticismo. In genere tendevano a credere subito a qualsiasi cosa, e a dubitare solo molto
più tardi. Jalil aveva fatto l'esempio del cavallo di Troia. Odisseo-Ulisse aveva nascosto i soldati greci nella pancia di un cavallo di legno, che poi i Troiani, con una ingenuità strabiliante, avevano portato dentro le mura inespugnabili della loro città. Di notte i Greci erano usciti dal cavallo di legno, avevano aperto le porte della città e avevano fatto entrare l'esercito greco. E l'esercito greco aveva sterminato i Troiani. Gli dei dell'Olimpo erano capricciosi, egoisti e crudeli. Ed erano ingenui come un bambino seduto sulle ginocchia di Babbo Natale. Sentii un ringhio. Era David. «Non essere idiota» esplose. «Come puoi essere così stupido?» Stava sgridando Zeus. Stava insultando una delle divinità più potenti di Everworld. «Pensi che starebbero qui a trattare, se potessero sconfiggerci? Ka Anor è preoccupato. Vuole sacrificare cinquemila Hetwan? Bella fatica! Ne morirebbero molti di più per scalare questa montagna, e Ka Anor lo sa.» Mi feci piccola piccola, aspettandomi il fulmine. Ma si intromise Jalil e distrasse l'attenzione di Zeus. «Grande Zeus, Padre Zeus, non vedo alcuna ragione per cui tu debba fidarti di Ka Anor. Non ha appena violato l'ultimo patto che avevi concluso con lui?» «Silenzio, mortali!» tuonò Zeus, e un fulmine crepitante gli apparve in mano. «Questa non è cosa che vi riguardi. È una questione che devono decidere gli dei.» «Su, forza, colpiscimi con il tuo fulmine!» gridò David, avanzando verso la piattaforma e agitando le braccia come un matto. «Ma finché non mi avrai fritto, io continuerò a ripeterti come stanno le cose. Ti stanno facendo fare la figura del fesso. Ka Anor ucciderà e si mangerà fino all'ultimo dio di Everworld. Questo patto è una fregatura totale. Vuole solo far ammazzare a te quelli che altrimenti dovrebbe ammazzare lui. Ti terrà vivo finché non gli avrai offerto su un vassoio d'argento tutti i tuoi figli, tutti i tuoi cosiddetti compagni, uno alla volta, e alla fine verrà a prendere anche te.» Questo sembrò quasi far breccia nella testa di Zeus. Quasi. Lanciò un'occhiata intensa al portavoce degli Hetwan. «È vero? Ka Anor mi vuole ingannare?» «Oh santo cielo!» borbottò Christopher, disgustato. «Ma vi pare possibile?» «Ka Anor manterrà la sua parola» rispose l'ambasciatore hetwan. A quel punto, per la prima volta, intervenne l'altro Hetwan. Ma la sua
voce non era quella flautata e sussurrata degli Hetwan. Era una voce da ragazza. Una voce che fu per me come una scossa. Reagii in due tempi. Guardai, distolsi lo sguardo, tornai a guardare allibita. Lo Hetwan stava cambiando. «Ka Anor pensa che tu sia sciocco e debole, Grande Zeus. È proprio come ha detto questo mortale: Ka Anor mangerà anche te. E presto.» Gli dei sgranarono gli occhi. Anche noi. Conoscevo quella voce. Anche David la conosceva, e sembrava congelato, la rabbia che prima l'aveva fatto agitare come una marionetta si mutò in uno stato di confusione paralizzante. Poi, più lentamente, anche Christopher e Jalil capirono, e a quel punto lo "Hetwan" era quasi sparito, e al suo posto si stava materializzando una ragazza bella, se non bellissima: capelli biondi, labbra carnose e freddi occhi grigi. «Senna!» esclamò Christopher. CAPITOLO XV Lo Hetwan vero, sobbalzò di sorpresa. Non sapevo che gli Hetwan sapessero sorprendersi. «Senna» sussurrò David, quasi con un singhiozzo. Lei gli rivolse un lieve sorriso. «Generale David. Te l'avevo detto. Ti avevo avvertito che sarebbe venuto il giorno. Ed eccoti qua.» «Già» disse lui debolmente. Sembrava rimpicciolirsi davanti ai miei occhi. Un uomo di cera dentro a un forno. Il grande Davideus era tornato a essere un adolescente ferito. «Chi è?» chiese Zeus sospettoso. «Chi è quella creatura dalle parvenze di una mortale, che sa cambiare aspetto come un dio?» «La strega, naturalmente» rispose Atena. Era interessata, ma non impressionata. Come se una strega, pur essendo qualcuno da trattare con rispetto, non potesse costituire per lei una minaccia reale. «Ti eri nascosta tra gli Hetwan, strega?» «Il mio nome è Senna Wales.» «E il mio è Atena, strega. Attenta a non farmi adirare.» Senna ebbe un'esitazione. Una titubanza che nessuno tranne me fu in grado di cogliere. Ma intuii che aveva capito che Atena era un avversario troppo forte per lei.
«Sì, Atena. Mi ero nascosta tra gli Hetwan. Da molto tempo sto cercando di riunirmi a questi miei... amici.» Allargò la mano per indicare noi quattro. Christopher ridacchiò a bocca chiusa. Abbastanza forte, però, da farsi sentire da tutti. Senna digrignò i denti. Un muscolo nella mascella le si contrasse. Non era calma, non era in perfetto controllo della situazione, come al suo solito. Non doveva essersela passata bene, con gli Hetwan. «Ho cercato di riunirmi ai miei amici, ma loro si spostavano sempre in fretta. Quando hanno incontrato Dioniso e Ganimede, li ho seguiti a distanza di sicurezza. Ma li ho persi di vista nella città di Ka Anor, dove sono stata scoperta e imprigionata. Sono riuscita a fuggire, ma i miei amici si erano già allontanati dalla città. Sono rimasta intrappolata quando l'esercito degli Hetwan ha iniziato a consolidare le sue posizioni ai piedi dell'Olimpo. Da allora passo per uno di loro.» «È una storia di grande coraggio» commentò Apollo. «Il coraggio di un uomo, di un maschio» osservò Artemide. «Il coraggio che i maschi credono sempre di essere gli unici a possedere. Credo che tu mi piaccia, strega. Sei bella e coraggiosa. E pericolosa, suppongo» aggiunse con un sorrisetto. «Spero di essere pericolosa per i nemici dell'Olimpo» rispose Senna, con la soavità di un diplomatico delle Nazioni Unite. «Qual è il tuo gioco?» le chiese bruscamente Jalil. Lei rispose con un'alzata di spalle. «Sono venuta ad avvisare il Grande Zeus che l'offerta di Ka Anor è una trappola.» «Ah sì, ci voleva un genio a capirlo» commentò Christopher con una risata. «Ci sarebbe arrivata anche una scimmia!» Lo vidi sbiancare mentre si rendeva conto di quello che aveva detto. Ma Zeus non colse l'insulto, oppure era troppo preoccupato per lasciarsi prendere da uno dei suoi scoppi d'ira. Il padre degli dei squadrò lo Hetwan autentico. Si levò in tutta la sua altezza, un gigante tra i giganti. E all'improvviso ecco riapparire il fulmine nella mano destra. Grossi nuvoloni neri cominciarono ad accumularsi sopra le nostre teste. «Va', Hetwan. Ritorna dal tuo padrone. E digli che Zeus non è uno sciocco. Di' questo a Ka Anor: io sono Zeus, colui che uccise i Titani. Io sono Zeus, colui che domina su tutti gli dei dell'Olimpo. Io sono Zeus, colui che prese e tenne questo monte contro gli assalti di quel romano, di
quel Giove, e di tutta la sua stirpe.» Un movimento repentino e il fulmine si schiantò. Proprio ai piedi dello Hetwan. Il marmo esplose in una pioggia di schegge. Lo Hetwan indietreggiò barcollando e proteggendosi gli occhi dalla luce accecante. «Io sono Zeus!» tuonò, con un tono di voce tale che sicuramente lo udì anche Ka Anor, a chilometri di distanza, sepolto com'era nella torre aghiforme al centro del suo impenetrabile cratere. «Io sono Zeus, colui che nelle oscure nebbie del tempo riunì tutti i grandi dei di tutte le grandi nazioni per creare Everworld dal nulla. Di' a Ka Anor che il Grande Zeus non si lascerà intimorire. Di' a Ka Anor che il Potente Zeus regna ancora sulla cima dell'Olimpo e continuerà a regnarvi finché le fondamenta del mondo non crolleranno e non ne rimarrà che polvere. E adesso va'.» Scagliò un altro fulmine che bruciacchiò lo Hetwan e fece tremare la vasta sala con il rombo dei tuoni. Lo Hetwan rimase fermo. Immobile. Assolutamente tranquillo. Quasi annoiato. E poi, lentamente, si girò e si allontanò con la sua andatura ondeggiante. Zeus si placò. Le nubi nere recedettero lasciando spazio a un cielo azzurro e terso. Era stato uno spettacolo magnifico. Impossibile non sentire un'ondata di determinazione, di rinnovata energia. Impossibile non sentire un'ondata di ottimismo. David si raddrizzò. Apollo sorrise. Ermes sorrise. Anche Artemide fece un sorriso, un po' sardonico, forse. La grande Era osservava tutto, in attesa, sembrava chiusa in un mondo tutto suo. Solo Atena non si lasciò impressionare. La cosa mi disturbò. Ma ancora di più mi disturbò quello che accadde subito dopo. «E adesso che facciamo?» chiese Zeus, quasi piagnucolando. «Che facciamo, adesso?» Era prese la parola. «E l'eroe di Atena? Questo Davideus? Non dovrebbe spettare a lui salvarci? O continuerà solo a scodinzolare e a sdilinquirsi per la strega?» David sentì pronunciare il suo nome e si guardò intorno come uno sorpreso a pisolare a una conferenza importante. Scosse lievemente la testa, perplesso. Ermes rise. «Un vero peccato che non sia qui Afrodite. Avrebbe potuto mettere alla
prova i suoi poteri d'incantatrice contro quelli della strega. Povero mortale, fa quasi compassione: un eroe preso in trappola dalle malie di una strega.» Senna assorbì l'apprezzamento indiretto. Mascherò l'espressione compiaciuta e furba, nascose la soddisfazione. «David... voglio dire, Davideus fermerà gli Hetwan. Sarà lui il vostro eroe. Se io vorrò. Ho i miei poteri. La mia saggezza» disse Senna. Atena annuì. «Hai un prezzo?» «Sì» rispose Senna senza il minimo imbarazzo. «Dillo.» «Due cose. La prima: asilo e protezione finché sarò sull'Olimpo.» Atena si rivolse con sguardo interrogativo verso suo padre. «Accordato» disse Zeus. «E un'altra cosa» aggiunse Senna. «Da molto tempo fuggo da Loki. Ma ho anche un altro nemico, più pericoloso perché più paziente. Un mago. Mi dà la caccia, ma non è solo: si fa aiutare da animali e uccelli, che gli sono amici. Il prezzo per il mio aiuto è la sua prigionia o la sua morte, se mai dovesse giungere sin qui.» «E chi è questo mago?» «Il suo nome è Merlino.» «Accordato» disse Atena, senza nemmeno aspettare Zeus. «Ma anch'io aggiungo la mia condizione: Davideus è il mio eroe. E io sono una dea gelosa. Non lo dividerò con nessuno. Dunque, liberalo. Liberalo completamente, strega, e non tentare di raggirarmi. Non è facile ingannare i miei occhi. Io ti proteggerò finché resterai qui e imprigionerò questo mago se mai si presenterà. Ma tu dovrai liberare Davideus. E sappi questo, strega: se rifiuterai, sarai tu a finire in catene, come finì in catene Prometeo. Incatenata a un muro, con un'aquila che ogni giorno verrà a strapparti gli organi vitali, senza mai lasciarti morire, rinata ogni giorno e ogni giorno dilaniata.» Senna deglutì. Lo sguardo compiaciuto era sparito. Lanciò un'occhiata a David. «È libero» disse alla fine. CAPITOLO XVI Non avevo fatto niente. Non avevo detto niente. Me ne ero stata in silenzio, impotente, mentre prima Zeus e l'ambasciatore hetwan, poi la mia so-
rellastra e Atena si palleggiavano le nostre vite. Adesso era finita. Ci avevano congedato. Gli dei avevano bisogno di folleggiare un po'. Zeus già chiedeva a gran voce vino e idromele e le migliori prelibatezze, oltre a ninfe e satiri e musici e danzatori. Dioniso impartiva allegramente ordini a Ebe, la giovane dea che sostituiva Ganimede come barista quando lui non era presente. Adesso Ebe aveva un lavoro fisso. Senna camminava davanti a tutti. Come se fosse lei a guidarci. Come se fosse lei il capo. Ma Atena aveva avuto la meglio e vedevo il lieve rossore della gelida ira di Senna. Ancora una volta aveva dovuto riconoscere di non essere all'altezza degli dei. E la cosa non le piaceva affatto. Senna aveva sempre avuto un'alta opinione di sé. Ma mi sembrava che Everworld l'avesse resa apertamente arrogante, una qualità che non avevo visto maturare in lei nel tempo. Pegaso, Pelia e gli altri destrieri ci aspettavano per riportarci a quella che temporaneamente era la nostra casa. Ma nessuno di loro volle portare Senna. Noi tornammo a casa in volo. Lei venne dalla strada, su una biga. Arrivati alla nostra pensioncina, i servitori ci portarono del cibo nel cortile esterno pentagonale. Io stavo morendo di fame. Tutti gli incontri con gli dei sono snervanti. E lo stress dà appetito. Portarono anche del vino e Christopher se ne scolò due coppe prima che David o chiunque altro potessero sollevare qualche obiezione. «Non era tutto già abbastanza difficile? Ci mancava anche Senna, adesso!» attaccò Christopher. Poi si aprì in un grande sorriso. «Anche se, a ripensarci, la vecchia Atena le ha dato una bella lezione, no? Comincia a piacermi, quell'Atena. Per essere una dea, non è proprio una schifezza.» «Sono tutti una schifezza» commentò Jalil. «Che siano con noi o contro di noi, sono comunque una schifezza. Il potere corrompe. Non riescono a smettere di sconvolgere la vita della gente, non sanno fare altro. Non contare su Atena, Christopher. È pur sempre una dea, e tutti gli dei sono marci.» «Non sono dei» tenni a precisare. «C'è un solo Dio. Loro possono definirsi dei, se vogliono, ma non lo sono. Saranno immortali, chiamateli come volete, ma queste creature non hanno niente a che vedere con Dio.» Proprio allora arrivò Senna. Sembrava un po' arruffata, ma probabilmente lo eravamo anche noi. Lanciai un'occhiata a David. Anche Senna. La sua espressione era imperscrutabile. Le sue emozioni accuratamente nascoste.
David la guardò meravigliato. Non stupito dalla sua presenza, ma da qualche ricordo. Imbarazzato, mi parve. E anche un po' arrabbiato. Era veramente libero dall'incantesimo di Senna? Forse. Forse era libero dalla parte che era magia. Ma dietro ai trucchi del mestiere, c'era ancora la sua faccia, c'erano ancora i suoi occhi, il suo corpo e la sua mente, la sua mente strana, forte e affascinante. C'era ancora il vincolo di una cotta senza speranza. Lei incarnava la causa persa, la promessa di futilità e delusione e frustrazione che credo attragga certi maschi. Senna era ancora la donna di ghiaccio che mai si sarebbe sciolta. Mai. «Bene, generale David» esordì bruscamente Senna. «Sono ai tuoi ordini anch'io, a quanto sembra. Che cosa vuoi sapere?» Christopher sorrise, piuttosto compiaciuto nel vedere Senna almeno temporaneamente umiliata. «Ehi, Senna, fatti un dolcetto. David e Senna lo ignorarono.» «Dimmi dei Coo-Hatch» le disse David. «Ah! Sai anche di loro.» Intervenni io. «Li ho visti io. Ho visto una squadra di Coo-Hatch che caricavano una specie di fucile pesante o di cannone leggero. Poi lo hanno passato agli Hetwan perché sparassero. Credo che abbia ucciso uno degli Hetwan che hanno fatto fuoco, ma aveva già ucciso almeno uno dei guerrieri greci, e poi ha quasi ucciso me.» Senna annuì. «Sì, i Coo-Hatch non vogliono sparare. Non vogliono uccidere per Ka Anor. Non lo amano molto, Ka Anor, o almeno così mi dicono.» «E allora perché mettono a disposizione degli Hetwan delle armi tecnologicamente avanzate?» chiese Jalil. Senna sollevò un sopracciglio. «Non leggo nel pensiero, Jalil. Dammi una di quelle pagnottine di pane. Passamela tu, per favore. So che le tue mani sono pulite.» Jalil aveva già allungato la mano. Esitò, si bloccò per un attimo quando Senna disse che le sue mani erano pulite. Strinse i denti e prese la pagnotta. Lei fece un sorriso cattivo, come se, in qualche modo, avesse appena segnato un punto a suo favore. Che cosa c'era tra quei due? Qual era il potere che Senna aveva su Jalil? Senna spezzò il pane e ne strappò un morso.
«Non so per quale motivo i Coo-Hatch siano qui. Forse dovreste chiederlo ad Atena. Sa più cose di quante non ve ne dica, statene pur sicuri.» «Forse è vero» disse Jalil. «Ma anche tu, se è per questo. Tu menti. Imbrogli. Anche quando dici la verità sai come mascherarla, come girarla in modo da renderla nient'altro che un'ennesima bugia. Dovresti entrare in politica.» Se Senna aveva intimidito Jalil, l'effetto non era durato molto. «Siamo in guerra, qui» disse David. «Gli Hetwan stanno attaccando l'Olimpo con tutto quello che hanno. E hanno tanto. I Greci sono ridotti a un pugno di uomini. Gli Hetwan non sono bravi guerrieri, non hanno esperienza, si vede da come attaccano il primo obiettivo che vedono. Ma non hanno paura. E per qualche ragione che non riusciamo ancora a capire, questi idioti di dei o non possono o non vogliono entrare in battaglia.» «Combattono per procura» disse Jalil. «Se ripensi alla mitologia, gli dei hanno sempre usato gli uomini. Prendiamo la guerra di Troia, per esempio. Una manciata di dei greci dalla parte di Troia, un'altra manciata di dei greci dall'altra parte. Ciascuno difende il suo eroe e gli dà una mano a complicare la vita al pupillo di qualche altro dio.» «Ma almeno Atena ha capito che questa volta non può funzionare così» osservai io. «Perché nessuno di questi dei sta dalla parte degli Hetwan, giusto?» Guardai Senna, non so perché. Forse perché ai miei occhi lei sembrava almeno a metà strada tra il mortale e l'immortale. E non era un complimento. «Credo che non possiamo capire» rifletté Jalil. «Loro sono immortali. Vivono per sempre. La politica, la calunnia, l'imbroglio... sono questi i giochi che sanno fare. Quello che non sanno fare è sopravvivere. Quella è una cosa che riguarda solo gli umani. Se sai che vivrai per sempre, non perdi molto tempo a pensare a come restare vivo.» Senna annuì. Fece per dire qualcosa, esitò, ci guardò uno per uno, poi immagino che decise di andare avanti. «Sentite, voi pensate che io sia solo affamata di potere o qualcosa del genere, vero? Pensate che soffra di manie di grandezza. Io lo sapevo, lo sentivo, lo immaginavo che mi avrebbero portato a Everworld. Avevano bisogno di me. O di qualcuno come me. E perché? È perché gli dei sono onnipotenti?» Scosse la testa, in risposta alla sua domanda. «Perché mai Loki dovrebbe avere bisogno di me, se gli dei sono onnipotenti?» All'improvviso sollevò le mani e le chiuse a pugno, due pugni piccoli e stretti, la
parodia di un dittatore pazzo. «Sono deboli! Sono lenti, sono stupidi, rigidi. È vero, hanno i poteri, ma non hanno idea di come usarli.» Puntò il dito verso Jalil. «Tu che sei così intelligente, Jalil, dimmi: chi è il più potente a Everworld? Zeus? Odino? Quetzalcoatl? Amon-Ra? Hel? Quel pagliaccio di un drago, Nidhoggr?» «Non saprei» ammise Jalil. «Ah no? Be'... te lo dico io, Jalil: tu l'hai incontrato, il più potente di Everworld. E non è un dio.» «Merlino?» chiesi io. Senna mi fissò, gli occhi socchiusi, cattivi. «Sì. Merlino. Il vecchio mago. Il vecchio mago con il buffo cappello. Merlino. E perché? Perché possiede la magia? Sì, ma la sua magia non è niente a confronto del puro potere di Zeus. Merlino ha l'ingegno dell'uomo. Ha la flessibilità dell'uomo.» Si toccò la tempia con il dito. «Merlino ha immaginazione.» «Come te» le dissi, capendo dove stava andando a parare. «Anche tu hai la magia. E l'immaginazione. E hai anche l'ambizione.» «Già» disse lei, sorridendo come la ragazza che conoscevo da quasi una vita intera. «Vedi? Non sono così pazza, sorellina. Nel mondo reale i miei poteri esistono appena. Sono solo l'ombra di quello che posso fare qui. Di là, che cosa potrei mai diventare? Quale potrebbe essere la mia massima ambizione, di là, nel mondo reale? Trovare un buon lavoro?» Rise. «Qui posso essere Merlino. Posso essere più di Merlino. Io ho un vantaggio, anche sul vecchio maestro Merlino il Magnifico.» Diede qualche altro morso al suo pezzo di pane, gli occhi bassi, in attesa. In attesa di che cosa? Che capissimo da soli qual era il suo vantaggio? Lo capii di colpo. Come un'illuminazione, improvvisa, chiarissima, inconfutabile. «Noi! Siamo noi il tuo vantaggio. Ecco perché ci hai attirati al lago! Speravi che avremmo fatto esattamente quello che abbiamo fatto: abbiamo cercato di salvarti, e siamo stati trascinati dall'altra parte della barriera con te. Ma hai fatto male i conti, giusto?» le dissi con orgoglio. «Noi non abbiamo ubbidito ai tuoi ordini.» Jalil rise, non sgarbatamente. «Non aveva bisogno che ubbidissimo ai suoi ordini, April. Sapeva già che non l'avremmo fatto. Eccolo il suo punto di forza. Sapeva che avremmo cercato di restare vivi, e sapeva che cercando di restare vivi avremmo fatto molti danni. Avremmo creato disordini. Avremmo mandato all'aria
piani. Siamo i jolly in un mazzo di carte. Ma per Senna, almeno in parte siamo prevedibili. Invece siamo assolutamente imprevedibili per Merlino o per gli dei.» «Come i dadi truccati» osservò stupito Christopher, annuendo. «Non che lei sappia esattamente come rotoleremo, ma conosce le probabilità di come potremmo rotolare. Merlino e Loki e tutti gli altri, invece, non ne hanno la minima idea.» Senna si stava godendo i nostri sguardi di ammirazione e ira. Mandò giù il boccone, posò il pane e si pulì le mani. «E vedete un po' cos'è successo finora» disse. «Il piano di Loki è andato a monte, Huitzilopoctli è più debole rispetto a prima, Merlino ha perso per sempre Galahad, il suo impareggiabile braccio destro, e adesso Ka Anor è bloccato alle porte dell'Olimpo.» Prima che qualcuno di noi potesse fare qualcosa (soffocarla, per esempio) un servitore si precipitò nel cortile. «Ti chiedo perdono, potente Davideus. Dal campo di battaglia è giunto un messaggio portato da Pegaso: gli Hetwan si preparano a un nuovo attacco.» CAPITOLO XVII In un batter d'occhio ecco di nuovo il generale Davideus. Il David umiliato e stregato dall'incantesimo era sparito. «Okay. Le cose stanno così: i miei ragazzi hanno reclutato tutti gli uomini dei villaggi sul fianco meridionale dell'Olimpo. Quindi dovremmo avere altri mille, millecinquecento soldati. Non addestrati alla guerra, ma fa lo stesso. Nemmeno gli Hetwan sono un granché come soldati. Ed Efesto ha armi pronte per tutti. Ha anche costruito due catapulte che ho progettato io. Non saranno proprio all'avanguardia, ma possono lanciare cinque chili di pietre vulcaniche in fiamme al di sopra delle teste dei nostri soldati e bruciare un'altra volta le piattaforme degli Hetwan per impedire l'arrivo dei rinforzi. E questo è il primo atto.» «Stai dicendo che hai fatto lavorare un dio?» chiese incredulo Jalil. «È quello storpio, quello che vi ho mostrato prima. Non cammina» spiegò David. «E così ho fatto un patto con lui, aiutandomi con un po' di tecnologia avveniristica per Everworld. Comunque, questo è solo l'inizio: blocchiamo l'attacco degli Hetwan, proprio come ieri, ma meglio. Però non basta. Voglio tutti gli Hetwan giù dalla montagna. Il che significa... con-
trattacco.» Indicò me. «Significa la gola che ha visto April. Guiderò personalmente un esercito di trecento uomini, tutti veterani questa volta, giù dalla gola. Attaccheremo dritti al cuore delle forze hetwan e li scalzeremo via anche dal pianoro più basso. Con un po' di aiuto dalle forze aeree.» «Le forze aeree?» fece eco Christopher. «Esatto» confermò David, con un sorriso compiaciuto alla John Wayne. «Vale a dire voi tre. Ho avuto un'idea. Una specie di toccata e fuga. Pericolosissima, ma Pegaso dice che si può fare.» «Com'è possibile che sia un cavallo l'essere più affidabile che abbiamo incontrato sull'Olimpo?» si meravigliò Christopher. «E io?» chiese Senna. «Qual è il mio incarico, generale Davideus?» «Tu? Tu ti sei già fatta passare per un Hetwan una volta. Rifallo. Vai e portami qui uno dei Coo-Hatch. Dobbiamo scoprire che cosa vogliono.» «Quindi presumi che vogliano qualcosa.» «Esatto. Sono dei geni con la metallurgia, ma non sanno nulla di chimica. O non ne sapevano nulla, finché non abbiamo scambiato con loro il nostro libro di chimica. Adesso hanno la polvere da sparo. Ma non la vogliono usare come potrebbero. Pensate che quel fucile giocattolo sia tutto quello che riescono a fare? Se sei capace di fare un fucile, sei capace anche di fare un cannone. E invece di proiettili di piombo, potrebbero sparare acciaio Coo-Hatch. Quello passa dappertutto. No, i Coo-Hatch non stanno cercando di vincere una guerra. Stanno cercando di mandare un messaggio. Quindi, ascoltiamoli.» Annuì brevemente, ponendo fine alle chiacchiere. «E adesso mettiamoci in moto.» Ci mettemmo in marcia dietro di lui. Anche Senna. Trovai gratificante vederla ridotta a obbedire agli ordini. Ma in fondo al cuore sapevo che l'armistizio non sarebbe durato a lungo. Senna aveva ragione: qui poteva sognare in grande. Aveva ragione su tutto. E per la prima volta me la figurai non come la ragazzina sveglia che ronza intorno alla tavola dei grandi cercando di fare bella figura, ma come una delle parti in gioco. A Everworld c'erano delle potenze molto più grandi di lei. Ma non molte avevano la stessa combinazione di intelligenza e spietata ambizione. Se David poteva essere il generale dei Greci, l'eroe di Atena, allora forse Senna sarebbe potuta diventare un nuovo Merlino. Anche di più. Aveva dimenticato una cosa nella litania dei suoi successi: anche quando era in difficoltà, anche quando era in balia di Zeus e di Atena, era riuscita a tendere una trappola a Merlino, una trappola di cui lui non avrebbe mai so-
spettato l'esistenza. Merlino era astuto, ma se fosse arrivato all'Olimpo impreparato, si sarebbe trovato assolutamente indifeso in un confronto diretto con tutta la potenza di Zeus. Sarebbe venuto aspettandosi un'udienza leale, sperando magari di riuscire a convincere Zeus a unirsi al fronte comune contro Ka Anor. E invece l'avrebbero incatenato a un muro, da qualche parte. «Be'... forse non arriverà del tutto impreparato» mormorai sottovoce. Come avrei fatto a metterlo in guardia, non lo sapevo ancora. Non vedevo il mago dalla battaglia con Loki nel castello di Galahad. Repressi la forte impressione dell'inutilità di tutti i nostri sforzi. Senna finora si era sempre mostrata più furba di noi. E ogni volta che cadeva, si rialzava più forte di prima. Uscimmo a passo di marcia. Sentii subito una fitta di nostalgia di casa. Non della mia casa vera (quella mi sembrava davvero troppo lontana) ma di questa, della nostra casa temporanea. Sarebbe stato così bello poter restare a letto a mangiare. Infinitamente preferibile a quello che ci aspettava là fuori. I cavalli erano in attesa, sbuffavano e scalpitavano sulle strade di marmo, pronti a partire. C'era anche la biga con cui era venuta Senna. «Senna, sei sola» le disse David. «Be'? Niente bacio di buona fortuna?» gli chiese lei. David si mosse verso di lei, si bloccò e arretrò, a disagio. «Saltate su e seguitemi» disse invece a noi. «Vi mostrerò quello che dovrete fare per me.» Mi arrampicai sull'ala di Pelia e mi sistemai sulla groppa. Non che mi ci fossi esattamente abituata, ma adesso, perlomeno, mi fidavo del cavallo alato, e sapevo che non mi avrebbe fatta cadere. «Alle fucine di Efesto» gridò David, e partimmo, noi quattro sui nostri destrieri, in volo nell'infinità del cielo. Ci dirigemmo verso nord, dietro alla montagna, ma questa volta restammo in quota. Arrivati quasi all'altezza del fianco settentrionale dell'Olimpo, vidi quello che poteva essere il cono laterale di un vulcano, il vulcano che anticamente doveva essere stato l'Olimpo. Era un cratere piccolo, non più grande di un tendone da circo. Brillava di un rosso profondo. Scendemmo verso il bagliore rosso volando in tondo. Al centro del cratere ardeva una pozza fumante di magma giallo. Avrebbe potuto essere un lago di oro fuso. Il calore era intenso quando ci passammo sopra, molto più in alto. I cavalli cambiarono rapidamente rotta e restarono lontani dai
vapori bollenti per il resto della discesa. Tutto intorno al lago di oro liquido c'erano delle fucine, non molto diverse da quelle che avevamo visto nei villaggi ai piedi della montagna. Erano rozze strutture di legno e pietra con tetti di paglia sconnessi, aperte ai lati. All'interno si vedevano delle figure illuminate dal fuoco, tutte al lavoro, alcuni correvano di qua e di là, altri erano fermi sopra fosse rettangolari dove ardeva una luce di fuoco, rossa in contrasto con l'oro del cratere. Scendemmo sempre più giù e all'improvviso eccoci a terra, in uno dei pochi spiazzi liberi. Il nostro arrivo non interruppe le attività. Non zittì minimamente l'incessante clangore di mazze che picchiavano e picchiavano, il soffio dei grossi mantici e lo sfrigolio del metallo arroventato immerso nell'acqua. Era una specie di versione medievale dell'inferno: fuoco e vapore e creature nere e arrossate in viso di forme e dimensioni diverse che, a un'occhiata distratta, avrebbero potuto essere scambiate per diavoli. Ma questo era il posto più felice di tutto l'Olimpo. Vidi nani, folletti, anche qualche troll e altre creature che non avevo mai visto prima. Sembravano tutti bruciati dal sole, erano tutti seminudi e sudavano da tutti i pori, erano coperti di fuliggine, i capelli bruciacchiati, le sopracciglia andate. Senza distinzione di razza o di specie, tutti avevano mani enormi con dita che sembravano fatte di grosse radici d'albero. Mentre lavoravano cantavano. Scherzavano. Si gridavano a vicenda gli insulti peggiori con le loro voci roche. E ridevano mentre sollevavano le mazze grosse come le loro teste, mentre spostavano fasci di spade ancora fumanti o trascinavano grosse ceste di vimini cariche di carbone o azionavano giganteschi mantici che alimentavano il fuoco. «Davideus!» ruggì una voce, la voce di un dio, non c'era dubbio. «Funziona! Per la barba muffita di Poseidone, funziona!» Efesto, che avevo appena intravisto una volta sola, si avvicinò a tutta velocità, correndo su una sedia a rotelle d'oro massiccio. La sedia era fantastica, tutta decorata con teste di cavallo in oro e argento, raggi di sole e quello che assomigliava molto a un soldato che scagliava una lancia, sul fianco. Doveva pesare come un'utilitaria, ma Efesto la spingeva quasi senza sforzo. «Hai fatto delle migliorie al mio schizzo» disse David con la faccia seria, ammirando le decorazioni. Efesto gettò indietro la testa e rise. Il suo corpo, dalla cintola in giù, era
di proporzioni decisamente umane, minuscole se confrontate con le spalle, così larghe che avrebbero intimidito un gorilla gigante. «Tutto è pronto, Davideus. Le armi sono già state consegnate, ma come vedi, ci teniamo occupati e ne prepariamo delle altre.» «E il nostro progetto speciale?» «Tutto pronto» annunciò l'immortale strizzandogli l'occhio. Indicò con il mento barbuto una squadra di fabbri che stavano attaccando una strana bardatura a Pelia e ai suoi due fratelli. «Ottimo. Allora io vado. Gli Hetwan sono in marcia» disse David. «Mostri tu ai miei amici quello che devono fare?» Senza aspettare risposta, David si rivolse a noi e disse: «Jalil, Christopher, April! Efesto vi spiegherà quello che dovrete fare. Ma il difficile è capire esattamente quando colpire. Io sarò sul campo, nella gola. Dobbiamo colpire in rapida successione, tictac. Io e i miei ragazzi attacchiamo. Poi, non appena entriamo in battaglia, non appena gli Hetwan si girano per affrontarci, voi colpite le retrovie.» «Le colpiamo con che cosa?» chiese con stizza Jalil. «Vedrai» gli rispose David, sibillino, mentre già si allontanava chiamando Pegaso. «Non vedremo mai David più felice di così» osservò Christopher. «È in contatto simultaneo con Napoleone, Alessandro Magno e il generale Custer, in diretta dall'oltretomba.» «Venite» esclamò allegramente Efesto, e girò la sua assurda sedia a rotelle. Dieci minuti dopo, sapevamo. E non ne eravamo per niente contenti. «Oh, questa sì che è una bella pensata» borbottò Christopher mentre salivamo in groppa ai nostri destrieri. «Ricordate!» ci gridò Efesto. «Le funi devono essere tagliate in sequenza. Prima la numero uno, poi la numero due e la numero tre esattamente nello stesso momento, o il peso vi trascinerà giù.» «Sì, credo che ci siamo fatti un'idea abbastanza precisa» disse Jalil. «È assolutamente magnifico» grugnì Christopher. C'erano un sacco di possibilità che il piano di David fallisse. Possibilità che avrebbero provocato la nostra morte, o la morte dei nostri alleati. E una sola possibilità che il piano funzionasse. Efesto aveva costruito un pentolone enorme e molto capace. Un pentolone che sarebbe bastato a cuocere sei mucche tutte intere. Il pentolone era sostenuto da un anello di ottone. Tre grosse funi collegavano l'anello alla bardatura speciale dei nostri tre cavalli.
Era ovviamente impossibile che i cavalli riuscissero a sollevare il pentolone. Del resto, era impossibile anche che riuscissero a volare. E in un modo o nell'altro, Efesto aveva calcolato con assoluta certezza, diceva lui, che i tre cavalli alati sarebbero riusciti a portare quel carico, ma non un chilo di più. Se il peso del pentolone si fosse sbilanciato, avrebbe trascinato giù i cavalli. E noi con loro. Poteva finire con cavalli e cavalieri che precipitavano a vite, senza più controllo, con il pentolone e il suo contenuto. Il pentolone era pieno di fuoco. Rossi tizzoni ardenti di tutte le fucine del cratere. Carboni ardenti, rossi e neri che sarebbero bastati per mille barbecue. Stavamo per sganciare sugli Hetwan una bomba incendiaria. CAPITOLO XVIII Ci alzammo in volo. Non so come, ma riuscimmo a prendere quota. I cavalli davano fondo a tutte le loro forze, in un bagno di sudore, le ali che battevano veloci, molto più del solito. Pelia non aveva fiato da sprecare con le chiacchiere. E la sua tensione si trasmise sin troppo facilmente anche a me. Un po' più in basso, in mezzo a noi tre, il pentolone gigante oscillava piano. I cavalli mantenevano rigidamente la posizione, precisi come le Frecce Tricolore a un'esibizione aerea acrobatica. Se uno solo di loro si fosse abbassato anche solo di pochi centimetri, il peso si sarebbe spostato, e tutto il nostro bel castello di carte aereo sarebbe crollato. Nessuno di noi parlava. Nessuno voleva distrarre i cavalli. Nessuno cercava di nascondere che era morto di paura. Uno dei nani di Efesto, che come scoprimmo in seguito era originario delle terre dei Vichinghi, mi aveva fissato in cintura una spada corta con il suo fodero. Doveva servire per tagliare la fune e far cadere la bomba. Formavamo un triangolo, con Christopher davanti. Lui avrebbe tagliato la fune per primo. In questo modo il pentolone si sarebbe inclinato in avanti, sbilanciandosi. Avrebbe anche trascinato giù me e Jalil: troppo pesante per due soli cavalli. Quindi noi due dovevamo tagliare le nostre funi con un tempismo perfetto. Il pentolone si doveva piegare in avanti, ma appena un poco, perché se aspettavamo troppo, le ali dei nostri cavalli non avrebbero retto e saremmo precipitati tutti verso la morte certa.
E inoltre dovevamo tagliare le funi esattamente nello stesso momento. Avevamo stabilito un segnale. Christopher avrebbe gridato "Ora!" nel momento in cui avrebbe tagliato la sua fune. A quel segnale, io e Jalil avremmo immediatamente reciso le nostre funi. Ci sarebbe stato un lievissimo ritardo dal momento in cui il nostro cervello percepiva e assorbiva il grido di Christopher e quello in cui reagiva. C'era solo da sperare che io e Jalil avremmo reagito con lo stesso ritardo. E, ovviamente, tutto questo doveva succedere sopra le teste degli Hetwan, non dei Greci. Intanto sotto di noi, a terra, quella terra che ora ci sembrava così lontana e così sicura, la battaglia era iniziata. Gli Hetwan si stavano arrampicando sul loro reticolo di scale e gradini verso il secondo pianoro. I Greci li attendevano al varco: ferro contro veleno ustionante. Ma un paio di catapulte montate su ruote erano state portate alle spalle dello schieramento greco. Le catapulte erano alte tre volte un uomo. Una struttura a forma di A sosteneva il braccio che era lungo la metà della struttura stessa e terminava con due ceste alle due estremità: una piccola e leggera da un lato e una grossa, di legno e piena di pietre, dall'altro. Alcuni soldati nerboruti giravano una ruota chiodata per sollevare il contrappeso e abbassare il cestino. Quando il cestino arrivava all'altezza del petto, veniva riempito di pietra vulcanica porosa, precedentemente inzuppata nell'olio combustibile. Un attimo prima del lancio un soldato buttava una torcia nel cestino. Le pietre prendevano fuoco e, al via, il contrappeso veniva liberato. Il missile infuocato disegnava un arco rosso e nero nel cielo e precipitava verso i gradini degli Hetwan. Vedemmo tutto questo da lontano. Il nostro obiettivo era più in basso, sul pianoro inferiore. Era da lì che gli Hetwan lanciavano i loro attacchi. I cavalli iniziarono a scendere di quota. Lentamente. Con la massima cautela. Giravano in cerchio e scendevano e giravano e scendevano, ogni muscolo teso, la schiuma alla bocca, gli occhi spalancati, spiritati. Giù. Giù, finché non fummo all'altezza del fronte di battaglia, e adesso i missili delle catapulte sembravano puntati proprio su di noi. Disegnavano un arco in alto nel cielo, e poi cadevano verso di noi. E noi non avevamo la minima possibilità di scansarli. Digrignai i denti. David aveva fatto un errore. Aveva trascurato questo "dettaglio". Comprensibile. Non era esattamente uno che veniva dall'accademia militare, non era un generale vero. E in guerra si commettono errori,
è sempre stato così. Ma ero comunque furiosa. Non mi sentivo per niente comprensiva e non ero nello stato d'animo giusto per perdonare. Capivo solo che i missili delle catapulte potevano scendere sibilando e fumigando addosso a uno di noi. E farci precipitare tutti verso la morte. Eccone uno in arrivo! Eccolo! Un arco alto nel cielo, poi giù... addosso a me! Dritto su di me! Stava per colpirmi, oh Dio, stavo per morire! L'ammasso infuocato mi sfrecciò accanto, passò tra me e il pentolone ardente. Mancò la fune, mancò anche me. Ma il fumo mi investì e cominciai a tossire, a rantolare, a boccheggiare in cerca di aria, cercando però di non muovermi di un millimetro per non alterare l'equilibrio di Pelia. Mandai degli insulti irripetibili a David, sottovoce, ma con una furia terribile. Dovevo pure prendermela con qualcuno! Ma adesso eravamo al sicuro, oltre la gittata dei missili di fuoco. Ora cadevano alle nostre spalle e noi continuavamo la nostra discesa lungo il fianco del monte, al di sotto del principale teatro di battaglia. Eravamo ormai all'altezza degli Hetwan che si arrampicavano sul reticolo di gradini. Si vedevano chiaramente i danni provocati dalle catapulte. Molti incendi si stavano già propagando. Ma si vedeva anche che questa volta gli Hetwan si erano preparati. C'erano squadre di "vigili del fuoco" in fila indiana che si passavano di debole mano in debole mano dei piccoli recipienti colmi d'acqua e li versavano sul fuoco. Troppo poco, ma sempre meglio di niente, per loro. Ci provavano, almeno, e magari sarebbero riusciti a rallentare la propagazione dell'incendio. Più sotto si apriva il pianoro inferiore, il primo gradino di quella montagna. Era coperto fino all'ultimo centimetro di Hetwan, fitti fitti. Avevano imparato anche questa lezione: il giorno prima non erano preparati a mandare in battaglia i rinforzi. Ora invece sì. Tutti questi Hetwan erano pronti a buttarsi nella mischia, pronti a rinnovare l'attacco a oltranza, indifferenti alle perdite. «Imparano» mormorai tra me. «Sono dei novellini, come dice David, ma imparano, e in fretta.» La mia attenzione fu attratta da un movimento. Dietro la montagna, la gola invisibile agli Hetwan iniziò a vomitare uomini in assetto di guerra. Distinsi chiaramente David, senza elmo in testa, ma con la spada di Galahad levata in alto. Gridava, correva alla testa di tutti i suoi uomini, tra le rocce, tra i ceppi degli alberi, via, con un esercito sempre più numeroso al-
le sue spalle. Gli Hetwan reagirono lentamente. Fu solo quando gli uomini di David toccarono il margine del pianoro e iniziarono a fare strage, che gli alieni, colti di sorpresa, finalmente si girarono ad affrontare questa minaccia inattesa. Ci saranno stati almeno cinquemila Hetwan sul pianoro. L'esercito di David appariva ridicolo, patetico, al confronto. Gli Hetwan erano dieci volte, quindici, forse anche venti volte più numerosi dei Greci. Li avrebbero schiacciati semplicemente con il peso del loro numero. A meno che... Il cavallo di Christopher era davanti a noi. Ci avvicinavamo dall'alto, seguiti da terra, ma non minacciati. Disegnammo un ultimo cerchio nel cielo e passammo sopra le teste degli uomini di David. Adesso eravamo proprio sopra gli Hetwan. Ogni singolo muscolo del mio corpo era teso come una corda di violino. Sguainai la spada corta. Il palmo della mano era sudato, rendeva scivolosa l'impugnatura. Se mi fosse caduta la spada... La strinsi con forza. «Pronti!» urlò Christopher e quasi non capii che cosa volesse dire. Il cervello mi ronzava, stranito, tutti i sensi accelerati, rallentati, scombussolati. Alzai la spada. Guardai Jalil. Lui non mi guardò. «Ora!» Troppo presto! Non ero pronta! Giù. Taglia, taglia. Sentii la lama colpire la fune. Vidi la fune di Christopher allentarsi, improvvisamente libera. Vidi il lieve sbilanciamento in avanti del pentolone. Vidi la fune di Jalil spezzarsi come il cavo di un ponte sospeso sotto una pressione eccessiva. La mia lama... rimbalzò! Colpì la fune, la tagliò, ma non del tutto, non del tutto. Uno strappo violento, come se fossimo stati investiti da un treno. Tutto il peso era su Pelia. Trascinato giù da un lato. L'ala destra cedette, la sinistra batteva nell'aria inutilmente. Precipitammo. Non ero più sulla groppa. Ero a gambe all'aria. Non avevo niente cui aggrapparmi, niente. Solo l'aria. CAPITOLO XIX Volavo nel vuoto, in caduta libera. Le gambe che scalciavano e non col-
pivano niente. La corda tesa mi sbatté addosso, e fu come una frustata. Mi prese sul petto. Un dolore che fu come una scossa. Non riuscivo più a respirare. Su e giù e giù e su, niente intorno, colpivo con la spada, colpivo alla cieca, senza tagliare niente, colpivo per disperazione, per panico, forse pensavo che la spada avrebbe toccato qualcosa di solido. Sentii la resistenza quando la lama centrò la fune tesa. E il taglio netto e la lama improvvisamente libera. Il pentolone fumante era già lontano, precipitava spargendo intorno una pioggia di tizzoni ardenti, un fuoco d'artificio di scintille luccicanti. Poi un'ala mi colpì sulla schiena. Cercai di afferrare qualcosa. Niente. Le mani si chiusero sull'aria. Qualcosa mi sfiorò la gamba. E per un puro caso di tempismo perfetto o di fortuna sfacciata o per la provvidenziale risposta alle mie balbettate preghiere, la caviglia mi si impigliò alla fune recisa che risaliva verso l'alto. La fune era attaccata a Pelia e Pelia riprese quota sulle sue ali impossibili e all'improvviso non stavo più precipitando. Mi piegai su me stessa e afferrai la fune proprio mentre si scioglieva dalla caviglia. Restai appesa con una mano sola. Una trapezista idiota. Una pazza spericolata che non solo sfidava il destino, ma gli sputava in faccia e lo provocava a ucciderla. Dondolavo, le scarpe da ginnastica a pochi centimetri dalle teste degli Hetwan, gli Hetwan che ora correvano e si contorcevano e gridavano quei loro urli disumani mentre il fuoco caduto dal cielo li bruciava. Persi la presa. La mano scivolò giù dalla fune. L'attrito mi bruciò il palmo. Ma incontrai un nodo, e quel nodo mi salvò. Mi ci aggrappai, dondolavo all'impazzata, non più sopra gli Hetwan, adesso, ma in mezzo a loro, un pendolo che passava veloce tra schiere di alieni impazziti dal dolore. Dappertutto facce sfocate, chele, strida, mani protese. Un Hetwan, davanti a me, fermo! Stavo per scontrarmi con lui, stavo per travolgerlo. Mi avrebbe fatta cadere e sarei bruciata come bruciavano tutti quanti intorno a me. Toccai terra. Un po' correndo, un po' trascinata dalla fune, le gambe contro il terreno, addosso agli Hetwan che morivano, sopra i carboni ardenti. «Dio mio, aiutami!» gridai. Ancora più in basso. Pelia, esausto, si sforzava inutilmente di sollevarmi. Due Hetwan mi si buttarono addosso, pronti anche a soffocarmi, se fosse stato l'unico modo per uccidermi. Mi corsero addosso e io colpii alla
cieca con la spada corta, mentre i carboni che io avevo lasciato cadere ora bruciavano le mie ginocchia e io gridavo di dolore e sapevo che stavo per morire e nella più totale disperazione gridai: «Atena! Aiutami!» Gli Hetwan spiccarono il balzo, ma io non ero più lì. Ero nell'aria, scivolavo via dalla loro presa. Volavo. Pelia mi aveva sollevata. Con l'aiuto di Dio. O di Atena. CAPITOLO XX Pelia mi sollevò, mi portò lontano, più veloce, adesso, e Jalil mi si avvicinò dal basso. Il suo cavallo salì verso di me ed ecco le braccia benedette di Jalil stringermisi intorno alla vita, tirarmi giù, tenermi stretta. Tremavo. «C'è mancato un pelo» disse Jalil. «L'hai vista?» gracchiai. «È stata lei? È stata Atena?» Lo sentii scuotere la testa. «Non ho visto niente. A un certo punto è sembrato che il tuo cavallo prendesse una corrente giusta, forse, e si è sollevato.» "Naturalmente" pensai. Naturalmente. La risposta logica. La risposta ragionevole, americana, del ventunesimo secolo. Niente Dio. E niente dei. Non importava che avessi invocato lei, che in quel momento di terrore avessi affidato la mia vita ad Atena, e non al mio Dio. Logico, era semplicemente logico. Atena mi aveva già salvata una volta. Mi aveva salvata dal pericolo. Per forza avevo chiamato lei, per forza. Non era una bestemmia, non stavo dicendo che Atena era una divinità vera, non stavo scambiando il Dio che avevo pregato per tutta la vita con un'immortale di due metri con l'elmo in testa. "Atena, aiutami." «Andiamo» disse con dolcezza Jalil. «Torniamo a casa.» «No. Non è ancora finita.» Guardai giù. Eravamo alti sopra il pianoro inferiore, ma ancora troppo bassi per riuscire a vedere che cosa stava accadendo su quello superiore. Ai nostri piedi, gli Hetwan bruciavano vivi. Sembravano smarriti. Correvano, urlavano, cercavano di spegnere con le mani le fiamme che li dilaniavano. La parte spietata della mia anima pensò che stavano assaggiando la loro stessa medicina. Sentivo ancora il dolore del giorno prima, del ve-
leno dello Hetwan che mi bruciava nello stomaco, che faceva sfrigolare il grasso, che mi scavava dentro, un ratto di fuoco che mi mangiava viva. La parte spietata di me pensò: "Bruciate. Bruciate, insetti schifosi, assassini". Ma un'altra parte di me era sbigottita e agghiacciata. Sembravano stranamente inermi. Come se a loro questo problema non si fosse mai presentato prima. Alcuni battevano le mani sul fuoco, altri lo spazzavano via. Ma la carne degli Hetwan, se di carne si trattava, bruciava bene. Alcuni erano completamente avvolti dalle fiamme, vere colonne di fuoco che si muovevano barcollando. Sembravano incapaci di organizzarsi, incapaci di decidere la prossima mossa. E gli uomini di David stavano facendo strage, senza quasi incontrare resistenza. All'improvviso, come piovuto dal cielo, Christopher piombò sull'orda di Hetwan a volo radente. Con una voce che arrivò fino a me e a Jalil, si mise a gridare: «Scappate! Scappate via, stupidi idioti! Scappate via!» Era assurdo, naturalmente. Stupido, persino. Umorismo fuori luogo. Jalil iniziò a ridere. Poi si fermò e sussurrò: «No, ha ragione. Ha ragione. Guarda!» E in quel momento come un'onda d'urto si propagò tra gli Hetwan. Un'increspatura, come se fossero un lago di fuoco e qualcuno vi avesse lanciato un sasso nel centro. All'improvviso, tutti insieme, si misero a scappare. Giù dal pianoro, con la loro andatura dondolante, più veloci che potevano, incespicando sui gradini e le scale e ancora più giù, sui più agevoli pendii. Non era panico. Non era che fossero terrorizzati. Era, come Christopher in qualche modo aveva intuito, che fino a quel momento non avevano saputo che cosa fare. Non avevano saputo come reagire quando si erano trovati tra due fuochi, bruciati dall'alto e assaliti dal fianco. Non era nel loro schema d'azione, e loro non avevano saputo che fare, ed erano rimasti lì, confusi e sperduti, finché qualcuno non glielo aveva detto. Finché Christopher non gli aveva detto di scappare. E scapparono. A gambe levate. Una scena di panico, ma dove gli alieni non sembravano vivere un solo momento di vera paura. Ci sollevammo su una colonna d'aria calda creata dai corpi in fiamme degli Hetwan. Ci sollevammo finché non riuscimmo a vedere oltre il bordo del secondo pianoro. Qui gli Hetwan erano circondati, intrappolati tra due
ali dell'esercito greco. Vinta la battaglia di sotto, gli uomini di David stavano risalendo il fianco della montagna, lottando contro la gravità e il fumo delle scale carbonizzate degli Hetwan, per colpire alle spalle i nemici che ancora restavano sul secondo pianoro. Tra gli Hetwan accerchiati scorsi due Coo-Hatch adulti. Erano accanto al loro fucile, lo sorvegliavano. Loro, almeno, erano visibilmente spaventati. «Guarda! Guarda quell'Hetwan» dissi a Jalil indicandoglielo con il dito. Un Hetwan si stava facendo strada tra i suoi compagni con insolita determinazione. E teneva in mano un pugnale. Molto, molto umano, come stile. «È Senna» disse Jalil. «Sta cercando di tirare fuori di lì i Coo-Hatch.» «No, sta cercando di ucciderli.» «Come?» David le aveva chiesto di portare all'Olimpo almeno uno dei Coo-Hatch, vivo. Erano questi gli ordini. Non le aveva chiesto di assassinarli. «No!» gridai. Senna spostò indietro il braccio, tenendo il coltello basso e nascosto, e pugnalò uno dei Coo-Hatch. La lama penetrò solo di pochi centimetri, lei la spinse dentro con forza e il Coo-Hatch gridò e vacillò. «Giù!» ordinò Jalil al suo cavallo, e scendemmo in picchiata. Il Coo-Hatch cadde, cercando di toccare la ferita con una delle braccia più grandi. L'altro Coo-Hatch restò a guardare, allibito e confuso. Ma non vide altro che Hetwan. Senna teneva il coltello dietro la schiena. La persi di vista per un momento nella calca, ma poi eccola di nuovo, quasi all'altezza dell'altro CooHatch. I Greci stavano rimontando, penetravano nelle linee nemiche con rinnovato vigore ora che erano sopraggiunti David e i suoi uomini. Ma Senna avrebbe raggiunto l'altro Coo-Hatch prima dei Greci. «Lo vedi quell'Hetwan? Quello con il coltello?» chiese Jalil al cavallo. «Sì.» «Riesci a colpirla... a colpirlo in testa con uno zoccolo?» Il cavallo non rispose. E io dovetti reprimere un'improbabile ma istintiva preoccupazione per la salute della mia sorellastra. La odiavo. La disprezzavo. Ma non volevo che venisse ferita seriamente. Piombammo giù, in volo radente, veloci come un'aquila sulla sua preda.
Sentii un colpo ripercuotersi sul corpo del cavallo. Sfrecciammo via, virammo bruscamente e vidi che lo Hetwan con il coltello era sparito. Al suo posto c'era Senna, svenuta, e il coltello per terra, molto più in là. Pochi momenti dopo i Greci respinsero gli Hetwan lontano da Senna, lontano dal Coo-Hatch morto. Vidi tre rudi guerrieri far prigioniero l'altro Coo-Hatch, che non oppose resistenza, e tenerlo fermo sotto la minaccia delle loro spade. Subito dopo, ecco David, fermo sopra Senna. Si inginocchiò, fece per sollevarla. Poi, senza toccarla, si rialzò in piedi e fece un passo indietro. «Bravo, David» sussurrai. CAPITOLO XXI Questa volta non fummo ricevuti da Zeus. Zeus, ci informarono, aveva passato la mattina a bere come una spugna e adesso, sotto forma di aquila e ubriaco fradicio, stava volando verso sud a caccia di fanciulle. Dioniso aveva organizzato una festa in piena regola. Un party nel tempio di Zeus. «Ah, è così!» disse Christopher. «La sua gente è lì di sotto che si fa ammazzare, che combatte tutto il giorno per salvargli la pellaccia, e lui intanto è fuori a spassarsela. Perfetto.» Nessuno prese le difese di Zeus. Arrancammo esausti verso la nostra pensioncina a due stelle, ci trascinammo alle nostre stanze e stramazzammo sui letti. Senna venne chiusa a chiave in una stanza. David consegnò la spada a uno dei servitori e gli ordinò di usarla contro Senna, se avesse tentato di uscire. Credevo di addormentarmi all'istante. Ma la testa mi ronzava. Ero troppo stanca per dormire. Domande. Nient'altro che domande. Perché Senna aveva ucciso il Coo-Hatch? Come avrei fatto a mettere in guardia Merlino? Perché me ne importava tanto? Era stata Atena a salvarmi? Era stato Dio a salvarmi? C'era bisogno di chiederselo? Non era forse vero che Dio vegliava su tutto, e dunque anche sulle azioni di... di qualunque cosa fosse Atena? Ma non era questo il punto, e lo sapevo. Non era questo il problema. Il problema era: perché avevo invocato lei? Perché avevo invocato Atena? La risposta mi faceva male. Ma era ovvia. Avevo invocato Atena perché l'avevo vista. Perché era reale. Non serviva la fede: Atena era reale. Scivolai nel sonno. Passai dall'altra parte. Ma anche lì, nel mondo reale, c'erano David e Jalil e Christopher. Eravamo noi quattro, fuori dalla caffet-
teria, tutti raggomitolati contro il vento gelido. Vedevo i ragazzi che mangiavano nel locale. Ma David mi aveva fatto cenno di raggiungerlo fuori, e dunque, eccomi lì. Fuori, dove potevamo avere un po' di privacy. E tanto freddo. «Dobbiamo pensare a che cosa dire ad Atena riguardo a Senna e al CooHatch» esordì David. Jalil e David erano lì già da qualche minuto. Christopher era arrivato subito dopo di me. Stavo ancora cercando di raccapezzarmi, stavo ancora assorbendo le ultime notizie da Everworld. Le immagini e le emozioni, i ricordi così reali, così vividi che mi scoprii a controllare le ferite che mi ero fatta dall'altra parte, su quel corpo diverso eppure lo stesso. «Atena potrebbe già saperlo» ci mise in guardia Jalil. «Se lo sa già e noi le mentiamo, potrebbe reagire molto male.» «Potrebbe far del male a Senna» disse David, cercando di tenere un tono neutrale, senza riuscire a ingannare nessuno. «Tutto questo non ha molto senso, non vi pare?» riflettei. «Per quel che ne sappiamo, potremmo essere già svegli a Everworld. Magari noi di là siamo già svegli e noi di qua siamo i soliti noi del mondo reale, e magari l'altro Jalil e l'altro David e l'altra April hanno già preso una decisione.» David non reagì, sembrava seccato. A Jalil scappò un sorriso, ma sparì subito. «Che c'è di divertente?» gli chiesi con durezza. «Siamo diventati un sottoinsieme» disse. Sapevo che cosa intendeva. O credevo di saperlo. «Cosa vorrebbe dire?» chiese David. Jalil scrollò le spalle e si tirò su il colletto per difendersi dal vento. «All'inizio i noi di Everworld erano una parte dei noi del mondo reale. Noi eravamo reali e loro... non so. Meno reali. Noi eravamo la vita vera e loro erano dei personaggi della TV. Loro, di là, si preoccupavano di come tornare di qua. Adesso invece siamo noi, di qua, a chiederci che cosa starà succedendo di là. Aspettiamo gli aggiornamenti. Più cose succedono di là, più piccine ci sembrano le nostre vite di qua. Loro stanno diventando sempre più grandi, e noi sempre più piccoli.» Il mio cuore sprofondò mentre Jalil parlava. Volevo negarlo. Ma come potevo? E che senso aveva negare la verità? «Non ha molto senso prendere delle decisioni qui, April ha ragione» intervenne Christopher. «Qui giochiamo alla guerra, mentre magari di là le decisioni sono già state prese.»
«E allora che cosa dovremmo fare?» chiese David. «Torniamo dentro a mangiare quello schifo di pasticcio alle verdure? Qui siamo in mezzo a una guerra.» Jalil scosse la testa. «No, David. Là siamo in mezzo a una guerra. Qui, niente guerra. Niente dei. Non hai nemmeno una spada. Siamo solo April O'Brien e David Levin e Jalil Sherman. E Christopher Hitchcock, che oggi deve aver marinato le lezioni. Vedi, tu sei stato il primo a capirlo, David. Tu sapevi per istinto che Everworld ci avrebbe divorati. E ti sei tuffato nell'avventura. Ammiro questo tipo di intuizione. Lo sapevi già quando eravamo sulla nave vichinga e ti chiedevi che cosa c'era di così bello nel mondo reale, che cosa ci poteva dare. Tu hai accolto a braccia aperte l'inevitabile.» «Al diavolo, Jalil» esclamai. Feci per rientrare. Ma poi mi fermai. «Sono così stufa di queste tronfie tirate da so-tutto-io. Tu sei sempre superiore, non è vero? Sempre due passi avanti, mai veramente coinvolto. È tutto un bello spettacolo per te. Tutto molto interessante. Applaudi educatamente quando succede qualcosa di degno di nota. Ma non entri mai in scena di persona.» «Io sono fatto così» mi rispose. Solo il tono più basso della voce mi fece intuire che avevo colto nel segno. «E anch'io!» urlai. «Anch'io sono fatta così. E voglio restare così, questa qui. Questa persona, con questo cervello, con questo cuore, con queste idee, i miei amici, la mia famiglia, anche questa scuola deprimente. Le mie speranze e i miei sogni, che tra parentesi non mi vedono a fare la Giovanna d'Arco per un branco di cosiddetti "dei", pazzi furiosi. Non permetterò che Everworld mi cambi.» Jalil non rispose. Tenne gli occhi bassi. Come se avessi detto qualcosa di imbarazzante, come se, in qualche modo, mi fossi resa ridicola e lui non volesse essere testimone del mio imbarazzo. Ero rossa come un peperone. Lo sentivo. Ma non mi importava. Avevo ragione. «Bene» disse David «è stato tutto molto interessante, ma dovremmo comunque pensare a che cosa raccontare ad Atena.» Alzò una mano per bloccare la mia obiezione. «Magari siamo già tornati di là, ma magari no, e questa è una faccenda grossa. Che cosa dobbiamo raccontare di Senna e del Coo-Hatch?» Dalla finestra vidi Magda e Suela e Alison che ridevano e mangiucchia-
vano. Parlavano di ragazzi, di teatro, di vestiti, di film, di musica, di TV, di professori. Mi stavano tenendo un posto. «Non possiamo mentire» disse Jalil. «Non se Atena può già sapere la verità.» Dovevo rientrare. Le mie amiche mi stavano aspettando. E invece... «È giusto» dissi. «Jalil ha ragione. E poi non è quello che Senna si aspetta da noi, per cui è ancora più giusto. Lei ha ancora in testa che in qualche modo siamo suoi alleati. Come se fossimo nella stessa squadra. Dobbiamo...» Fu questo l'ultimo ricordo, le ultime parole che mi rimasero impresse nella mente mentre mi svegliavo e buttavo via le coperte, frustrata. «Che c'è?» aggredii il servitore che mi aveva svegliata. «La dea Atena richiede la vostra presenza.» CAPITOLO XXII Il tempio di Atena, o il palazzo o quello che era, era un po' meno imponente di quello di Zeus. Atena ci ricevette in una specie di biblioteca. C'erano grandi rotoli manoscritti allineati in piedi sugli scaffali o stipati uno sopra l'altro in cubicoli che dall'altezza della cintura arrivavano fino al soffitto affrescato, molto più in alto. Migliaia di libri, immagino. E massicci tavoli in pietra disposti esattamente come ci si aspetterebbe di vederli in un'antica versione di una biblioteca pubblica. C'eravamo tutti, noi quattro più Senna. E il Coo-Hatch sopravvissuto. Questa volta c'era anche uno dei mini Coo-Hatch, che schizzava a destra e a sinistra come se avesse bevuto mille caffè. Atena era seduta su una sedia molto sobria, senza piattaforma e, per la prima volta, non era armata. Ai suoi piedi c'era un grande sacco di canapa. «Mio padre è occupato» disse, asciutta. «Compete a me interrogare la creatura Coo-Hatch. E sentire il vostro racconto della grande vittoria. Parla, Coo-Hatch. Perché avete venduto la vostra magia agli Hetwan? Perché vi siete messi contro l'Olimpo, che non vi ha mai fatto nulla di male?» Il Coo-Hatch mi lanciò un'occhiata. Che fosse lo stesso al quale avevo consegnato il libro di chimica? Secoli fa, mi sembrava. «Coo-Hatch non fanno guerra all'Olimpo» disse. Atena si chinò e con una mossa delle dita strappò il sacco. Dentro c'era il fucile dei Coo-Hatch.
«Questo è un ingegnoso strumento per uccidere a distanza. Neghi che sia vostro?» «Coo-Hatch lo hanno costruito» affermò con orgoglio l'alieno. «CooHatch potrebbero costruirne molti altri, e molto più potenti. Abbastanza potenti da far crollare anche le mura dell'Olimpo.» «Tu menti!» l'aggredì Atena. «Dice la verità» si intromise David. «Potrebbero costruire dei cannoni. E potrebbero usarli per sparare palle di cannone... come grossi massi, per dire. Veloci come i fulmini di Zeus. E potrebbero scagliarli altrettanto lontano. Ovviamente» aggiunse «potrebbero anche posizionare gli stessi cannoni intorno al cratere della città di Ka Anor e far saltare in aria tutti quanti.» Il Coo-Hatch non disse nulla. Atena annuì. «Capisco. L'amico Coo-Hatch è qui per trattare. Ci mostra la sua forza e ci offre la sua lealtà, in cambio di qualcosa.» «Coo-Hatch non servono Ka Anor» disse l'alieno. «Coo-Hatch non servono Olimpo. Coo-Hatch servono Coo-Hatch.» «Dunque sono stati i vostri immondi dei a mandarvi ad attaccarci?» concluse Atena. «Il dio del fuoco e la dea dei minerali non ci hanno mandati. Il dio del fuoco e la dea dei minerali ci portarono qui, contro la nostra volontà, in questo universo, lontani dalle nostre fucine e dalle nostre famiglie. CooHatch renderanno onore al dio del fuoco che insegnò loro a trattare i metalli, Coo-Hatch renderanno onore alla dea dei minerali che per prima mostrò loro i sacri metalli. Ma non li serviranno più.» «Vi ribellate contro gli dei?» Atena era indignata, come se i Coo-Hatch fossero Greci e si ribellassero contro di lei. «Coo-Hatch, liberi» disse l'alieno. «Noi torniamo a casa. In pace, se possiamo. Ma se sarà impossibile trovare una maniera pacifica per tornare alle nostre fucine e alle nostre miniere, noi Coo-Hatch minacceremo tutti gli dei di Everworld finché uno non ci lascerà andare.» Vidi Jalil annuire. Osservava l'alieno con palese apprezzamento. «Questo Coo-Hatch sta minacciando tutti gli dei» si intromise Senna, prendendo la parola per la prima volta. «Se si permette che semplici mortali abbandonino i loro dei, che siano liberi di temere o non temere i loro giusti dei, che cosa potrà succedere?» L'argomento fece breccia nel pensiero di Atena. Era evidente. La sua espressione si indurì. I suoi occhi erano furenti.
«Chi oggi tradisce i propri dei, domani tradirà tutti gli dei» incalzò Senna. «Se i Coo-Hatch torneranno al loro universo, non saranno più una minaccia per nessuno» ragionò Jalil. Guardai la mia sorellastra. Lei fissava Atena. L'argomento di Jalil non aveva sortito alcun effetto sulla dea della saggezza e della guerra. Sapevo che cosa dovevo dire. Ora sapevo perché Senna aveva assassinato l'altro Coo-Hatch. Ma come avrebbe reagito Atena? Avrebbe anche potuto uccidere Senna. Lì su due piedi. Davanti ai miei occhi. Il problema era questo: Atena era veramente intelligente e pragmatica come sembrava? O era soltanto un'altra pazza assetata di potere? David aveva ragione. Avremmo dovuto usare il nostro tempo nel mondo reale per decidere sul da farsi. «Forse quello che dice Senna è vero» dissi. «Ma ha motivazioni tutte sue. Saggia Atena, questa strega, mia sorella, ha ucciso l'altro Coo-Hatch e stava per uccidere anche questo.» Senna non riuscì a controllarsi. Ardeva di rancore, puro rancore. «Senna è una "porta"» continuai. «O almeno, Loki pensa che lo sia. Forse lei potrebbe davvero aprire un varco per permettere ai Coo-Hatch di andarsene, di tornare al loro universo. Lei non vuole farlo. Ma forse potrebbe.» Il Coo-Hatch iniziò a tremare. Furia contro Senna che aveva ucciso il suo compatriota? O emozione alla possibilità di aver trovato una via di fuga? «Io ho ucciso l'altro Coo-Hatch» ammise Senna, con freddezza. Ora la sua rabbia era arginata, controllata. Ma ancora presente. «Ma io non posso aiutare i Coo-Hatch. Dando la vita, diventando un semplice strumento, sì, potrei aprire un varco verso il vecchio mondo. Ma non ho il potere di fare da ponte verso un universo che non ho mai abitato.» «E allora perché hai ucciso il Coo-Hatch?» le chiesi. «Sii cauta nella risposta, strega» aggiunse Atena. «La tua vita è appesa a un filo di ragnatela, e io tengo in mano la lama.» Senna non le rispose in modo diretto. Rise mestamente, scosse la testa e disse tra sé: «Doveva succedere. Impossibile evitarlo. Non sul lungo periodo.» «Parla!» ruggì Atena con un tono di voce che fece tremare le pareti. «C'è qualcun altro che ha questo potere» rivelò Senna. «Una strega con poteri più grandi e più antichi dei miei. Una strega che serve Iside. Qui a
Everworld. Ha giurato che non userà mai i suoi poteri se non... Ha giurato che non userà mai i suoi poteri. Ma potrebbe essere in grado di fare ciò che vogliono i Coo-Hatch.» «Dicci il suo nome» comandò Atena. «È mia madre» rispose Senna. FINE