TAICHI YAMADA ESTRANEI (Ijintachi To No Natsu, 1987) 1 Ero andato ad abitare nell'appartamento che prima del divorzio us...
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TAICHI YAMADA ESTRANEI (Ijintachi To No Natsu, 1987) 1 Ero andato ad abitare nell'appartamento che prima del divorzio usavo come ufficio. Dal momento che mi guadagnavo da vivere scrivendo sceneggiature per la televisione, trascorrevo gran parte della giornata da solo nell'appartamento. Per un po' di tempo una signora era solita venire a tenermi compagnia, ma si era allontanata quando ero rimasto invischiato nelle pratiche del divorzio. Non m'importava; avevo speso così tanta energia emotiva nel divorzio, che ero felice di essere libero da vincoli, compresi quelli che comportavano piaceri di natura puramente fisica. Una sera, all'incirca tre settimane dopo l'inizio della mia nuova vita da scapolo, restai colpito da quanto l'edificio fosse silenzioso. Troppo silenzioso, pensai. Non che fosse un eremo di montagna; al contrario, la palazzina di sette piani si affacciava direttamente sulla movimentata statale 8 di Tokyo, dove il traffico non conosceva interruzioni in nessun momento della giornata. Quando avevo cominciato ad abitarci a tempo pieno, in effetti, il rumore incessante mi aveva tenuto sveglio di notte. Grossi camion che sceglievano le ore notturne per viaggiare, quando il traffico non era troppo pesante, filavano uno dietro l'altro, e il rombo fragoroso pareva sgorgare dal profondo della terra. Disteso sul letto in balia di quel frastuono, mi sentivo mancare il fiato. Grazie al semaforo un centinaio di metri più in là, il rumore cessava a intervalli, per squarciare il silenzio con intensità ancora maggiore dopo qualche istante, quando i camion si rimettevano in moto. L'implacabile frastuono ricominciava, il cuore mi batteva sempre più forte, le pareti mi si stringevano intorno e scattavo in piedi, boccheggiando. Mi occorse una decina di giorni per abituarmi al martellamento continuo. Quando avevo considerato la possibilità di passare la notte in quell'appartamento, ai tempi in cui era ancora soltanto il mio ufficio, avevo scartato l'idea senza pensarci due volte, sapendo che non sarei mai riuscito a dormire. Ma, con il conto in banca prosciugato dopo il divorzio, non pote-
vo permettermi di traslocare da nessun'altra parte; non avendo scelta se non stabilirmi lì, presto scoprii che davvero ci si può adattare perfino a condizioni simili. Alla fine, il rombo incessante del traffico era sprofondato nei recessi più remoti della mia coscienza, come pure il ronzio del condizionatore, e, a volte, mi accorgevo, sorpreso, che il tic tac della lancetta dei secondi sull'orologio alla parete era ormai l'unico suono di cui fossi consapevole. Così giunsi al punto di pensare che l'edificio fosse veramente troppo silenzioso, e fui costretto a domandarmi dove mi stessero conducendo i miei stessi sensi. Quella sensazione di silenzio eccessivo mi colse per la prima volta una notte, verso la fine di luglio, mentre lavoravo seduto alla scrivania, poco dopo le undici. Un brivido mi corse lungo la spina dorsale e mi sentii come sospeso nel mezzo di un enorme abisso buio, completamente solo. «C'è un silenzio terribile», mormorai. Per un poco, ignorai la sensazione e continuai a lavorare. Dopo un po' allungai la mano verso il dizionario per controllare un carattere kanji che proprio non ricordavo e, mentre sfogliavo le pagine, mi resi conto che quella stessa inquietudine mi opprimeva già da diverse sere. Smisi di cercare e ascoltai. Attraverso il rombo del traffico, mi sforzai di cogliere altri suoni riconoscibili. Non riuscivo a sentire nulla. Mi domandai se il divorzio non mi avesse lasciato addosso un'ansia irrisolta di qualche tipo. Quale persona sana di mente avrebbe pensato che un edificio affacciato su una grande arteria di comunicazione fosse troppo silenzioso? Ero stato io a chiedere il divorzio. E anche se all'inizio mia moglie aveva sollevato ogni genere di obiezioni, presto aveva ammesso che l'indifferenza era diventata l'unico legame emotivo tra noi. In realtà, anche lei avvertiva un vuoto nel nostro matrimonio e, dopo aver avuto un po' di tempo per rifletterci, aveva aderito incondizionatamente all'idea di separarci. Certo, c'erano stati momenti spiacevoli nella fase dell'accordo finanziario, ma nessuno avrebbe definito spinoso quel divorzio. Se non altro, rispetto al tirare avanti all'infinito in un matrimonio senza vita, esibendo le solite facce benevole giorno dopo giorno, trascinando le nostre esistenze insieme ma divisi, l'azione decisiva aveva risvegliato in me un gusto tutto nuovo per la vita. «Sono proprio contenta che tu l'abbia proposto», aveva ammesso mia moglie alla fine.
Non ero tanto stupido da prendere quel commento completamente alla lettera, ma doveva contenere almeno qualche elemento di verità. In ogni caso, dal momento che ero stato io a chiedere il divorzio, ora non potevo proprio lamentarmi della solitudine. Era troppo silenzioso, e allora? Mi alzai, andai alla finestra e scostai le tendine. Lasciai la finestra chiusa. Non era sigillata, quindi avrei potuto aprirla, ma sapevo che sarebbe servito soltanto a far entrare il calore implacabile della notte estiva, insieme con le dense esalazioni e il rombo accentuato del traffico che sfrecciava su e giù lungo la statale 8. Lo sguardo mi cadde sul parcheggio. Dal mio punto di osservazione non riuscivo a vedere l'intero spiazzo, ma già sapevo quante auto potevo aspettarmi di trovare. Una soltanto. A eccezione del furgoncino rosa parcheggiato tutto solo, c'era un'ampia desolazione d'asfalto, interrotta soltanto da una griglia di linee bianche. Durante il giorno tutti gli spazi si riempivano, ma al c'alar della sera i veicoli cominciavano a svanire uno dopo l'altro, lasciandosi alle spalle soltanto il furgoncino rosa. L'avevo visto lì anche la sera precedente. Anche la sera prima? Già, mi resi conto. Anche la sera prima ero rimasto dietro la finestra così, a fissare l'asfalto vuoto, in basso. Soffrivo forse per la mancanza di mio figlio, che era al secondo anno di università? Era improbabile. Dopotutto, mi ero già ritirato nel mio piccolo mondo privato prima del divorzio. Se mi stava bene non vedere mio figlio quasi mai, perché ora, all'improvviso, avrei dovuto cominciare a sentire la sua mancanza? Presi le chiavi dal portamatite sulla scrivania e me le misi in tasca mentre andavo alla porta. Uscendo nel corridoio del settimo piano, lasciai le luci accese. Non volevo credere che la sensazione di eccessivo silenzio che avevo avvertito fosse il frutto di un mio indebolimento mentale, e avevo intenzione di appurarlo una volta per tutte. Volevo dimostrare che l'edificio era silenzioso davvero, poiché era effettivamente vuoto. In realtà, nessuno voleva abitare in alloggi così orribili, bombardati giorno e notte dal frastuono e dalle esalazioni del traffico sfrecciante. L'unico impiego accettabile di quel posto era per uso ufficio. Le finestre sul corridoio degli altri quattro alloggi del mio piano erano tutte buie. Premetti il pulsante dell'ascensore. Sapevo già che alcuni appartamenti venivano utilizzati come uffici, ma non mi ero aspettato che fossero così tanti. Evidentemente, la maggior par-
te degli occupanti l'edificio andavano via all'imbrunire. Se ricordavo bene, gli alloggi erano quarantuno in tutto; probabilmente, di notte erano tutti vuoti eccetto uno o due per piano. Le porte dell'ascensore si aprirono. La cabina era vuota. Ho sempre odiato il momento in cui le porte dell'ascensore si aprono in edifici come quello. L'idea di trovarmi di colpo faccia a faccia con un perfetto estraneo mi repelle. Constatato che la cabina era vuota, trassi un sospiro di sollievo. Entrai e l'ascensore scese al pianterreno. Quando uscii nell'atrio senza aria condizionata, fui investito da un calore denso e opprimente. Riuscii ad attraversare l'atrio semibuio e mi spinsi fuori del portone. All'esterno, l'aria era più che mai carica di rumore e gas di scarico dei veicoli di passaggio, ma il calare delle tenebre aveva un poco allentato la morsa del caldo della giornata. Mi diressi verso il parcheggio. C'erano altre due berline parcheggiate in spazi non visibili dalla mia finestra. Il furgoncino rosa che avevo visto dall'alto aveva tre scoiattoli sorridenti dipinti sulla fiancata, e capii che apparteneva a una ditta di abbigliamento per bambini. Gettai indietro la testa per esaminare la facciata sudest dell'edificio. Da questo lato, ogni appartamento aveva almeno una finestra. Potevo ragionevolmente aspettarmi di vedere una luce, dove ci fosse qualcuno in casa. C'era un'unica finestra illuminata: la mia, al settimo piano. Tutte le altre erano di un nero assoluto. «Caspita», esclamai, sorpreso. Rimasi lì a contemplare le file di finestre oscurate. Altro che uno o due per piano: non c'era proprio nessuno che restasse lì per la notte. A quell'ora, le undici passate, soltanto la mia finestra era illuminata. Non ero io a essere nevrotico; l'edificio era davvero silenzioso. Poteva darsi che alcune finestre fossero buie perché i residenti erano già andati a dormire, ma dubitavo che quella spiegazione potesse valere per più di tre o quattro alloggi. Tornai lentamente verso l'ingresso, sentendomi discolpato. Entrare nell'edificio non era semplice quanto uscirne. Occorreva inserire la chiave del proprio appartamento nel quadro di sicurezza sulla parete accanto al portone. Un giro di chiave sbloccava la serratura per circa venti secondi. Purché ci fosse qualcuno in casa, si poteva entrare senza chiave usando il citofono. Anche in quel caso, avevi all'incirca venti secondi per aprire il portone ed entrare nell'atrio. Dal momento che il custode andava sempre a casa, di notte, evidentemente si riteneva che quella fosse tutta la
sicurezza di cui l'edificio avesse bisogno. Sicché ci sono soltanto io, qui, pensai entrando. Sono l'unico rimasto in tutto il palazzo. Anche se non potevo ancora esserne assolutamente certo, parte di me voleva davvero crederlo. Attraversai l'atrio raggiungendo un divano accostato alla parete e mi ci lasciai cadere di schianto. In effetti era un po' inquietante pensare di trovarmi tutto solo in un edificio così grande di sera tardi, ma era anche liberatorio, come fossi tornato all'infanzia e al suo innocente, emozionante senso di libertà. Non ero seduto lì da più di un minuto, quando udii qualcuno avvicinarsi all'ingresso. Ebbi un tuffo al cuore e istintivamente mi accartocciai sul divano. Il rumore di passi arrivò al portone e cessò. Voltando piano la testa, vidi attraverso il vetro che era una donna. La studiai mentre rovistava nella borsetta in cerca della chiave. Non sembrava particolarmente giovane, forse sui trentacinque. Inserì la chiave nel quadro di sicurezza come avevo fatto solo un paio di minuti prima, e io mi irrigidii un poco. Temevo potesse trasalire, dal momento che non si sarebbe certo aspettata di trovare qualcuno seduto nell'atrio a quell'ora. La serratura scattò e il portone si aprì. Abbassai la testa. I tacchi ticchettavano rapidi sul pavimento mentre lei si affrettava a raggiungere l'ascensore. Un paio di scarpe bianche e di gambe ben fatte sfilarono lungo il margine del mio campo visivo. Non vi fu esitazione nel ritmo dei passi, sicché a quanto pareva non si era accorta di me. Se era così, tanto meglio. Senza indugio entrò nell'ascensore in attesa e le porte si chiusero scorrendo con il consueto rumore meccanico. Levai gli occhi verso l'ascensore, quindi mi alzai in fretta. La luce sopra le porte si arrestò sul terzo piano. 2 Quattro o cinque giorni dopo ricevetti una telefonata da Mamiya, produttore di una delle emittenti televisive per cui collaboravo. Era sera. «Ti dispiace se passo a casa tua?» domandò. Mamiya aveva la mia età, quarantasette anni. Avevamo lavorato insieme saltuariamente per quasi dieci anni, collaborando a sei diversi progetti. Tra questi, uno speciale di due ore e due serie di telefilm erano tra i miei lavori più importanti, titoli che inserivo sempre, anche nel curriculum più succin-
to. Sebbene avesse anche altre doti, gli ero affezionato e grato per quei successi. Persino il riserbo un poco rigido che mi dimostrava sembrava armonizzarsi con il mio temperamento. Dopo tutti gli anni trascorsi a lavorare insieme, non mi aveva mai parlato della sua vita privata e con me si manteneva sempre educato e corretto. «Scusa se ti disturbo con un preavviso così breve», disse, con la solita formalità. «Di nulla. Prego, entra.» Ero contento di rivederlo, anche perché non ci sentivamo da quasi un anno. Di solito accettavo gli incarichi seguendo il criterio del «chi primo arriva», man mano che venivo contattato. Se c'era spazio nella mia agenda, quasi mai rifiutavo un'offerta, sebbene sapessi che, in teoria, se mi fossi tenuto più libero, avrei potuto trovare un lavoro più allettante. Perciò, pur avendo sperato di lavorare ancora con Mamiya, avevo già il piatto pieno per i mesi a venire. Certo te la sei presa comoda, avrei voluto lagnarmi; ma, se c'era la possibilità di concludere, ero disposto ad accettare qualunque lavoro mi avesse proposto, anche se ciò avesse significato rompere con le abitudini. C'era un attore - che entrambi consideravamo tra i migliori - che quando beveva tendeva a diventare un po' «turbolento». Una sera, mentre eravamo a bere in un club ad Aoyama con altre quattro o cinque persone, questi aveva addirittura improvvisato uno spogliarello. Non era certo il locale adatto per fare certe cose e le facce scioccate degli avventori ai tavoli vicini suggerivano chiaramente che qualcuno avrebbe dovuto farlo smettere. Io avevo esitato a intervenire per paura di fargli perdere le staffe, ma all'improvviso Mamiya si era alzato. Come tutti gli altri al nostro tavolo, avevo pensato che avesse intenzione di interrompere lo spogliarello... Invece Mamiya si era messo a ballare con lui. E, ballando, anche lui aveva iniziato a lanciar via i vestiti. In breve, i due avevano cominciato a cantare a squarciagola canzoni sconce, e per tutto il tempo Mamiya era sembrato a proprio agio. Ero rimasto assolutamente allibito nello scoprire che poteva lasciarsi andare così. In realtà, quella non era stata né la prima né l'ultima volta che mi aveva completamente spiazzato, e ogni volta avevo la sensazione di esplorare una nuova sfaccettatura del suo carattere. Viveva solo, o almeno così diceva a tutti. Correva voce che possedesse un piccolo aeroplano e che trascorresse gran parte del suo tempo libero sulla pista di Chofu, ma non avevo mai sentito Mamiya parlare di un simile hobby. Quando ci vedevamo, parlava soltanto di lavoro. Dato che la cosa mi andava bene,
anch'io evitavo scientemente di parlare dei miei affari privati. E Mamiya, dal canto suo, non mi chiedeva mai niente. Di conseguenza, quella particolare sera, mentre Mamiya sedeva al mio tavolo, guardandomi prendere dal frigorifero una bottiglia grande di birra, e mi chiedeva come mi arrangiavo con i pasti, mi sembrò che il suo interesse rischiasse di guastare il nostro rapporto. Non era il genere di cose che volevo discutere con lui. «Ho visto il tuo speciale di due ore l'altro giorno», dissi, cercando di cambiare argomento, parlando di uno dei suoi progetti recenti. «Ho sentito che non ti fai più vedere», replicò Mamiya. Ignorai quell'osservazione e commentai che lo speciale mi era davvero piaciuto. «Mi fa piacere», disse, mentre gli versavo la birra, ma si rifiutò di abbozzare un sorriso. Mandò giù soltanto un sorso e posò il bicchiere. «Non mi dire che questa è una visita di cortesia.» «Oh, niente affatto.» Finalmente mostrò un'ombra di sorriso. «Per un momento mi sono chiesto se la faccia cupa fa parte del protocollo, quando si va a trovare un divorziato.» «Certo che no.» «Cosa c'è, allora?» «Be'...» Mamiya distolse lo sguardo. «Qualche brutta notizia?» Quando un produttore televisivo si presenta all'improvviso a casa di un autore, si può star certi che non sono buone notizie: lo spazio della serie che stavamo sviluppando è stato ceduto a un quiz; gli indici di ascolto sono bassi quindi la nostra serie viene tagliata; il protagonista è stato arrestato per detenzione di stupefacenti; la protagonista si è appena sposata e si rifiuta di baciare chiunque tranne suo marito, perciò potresti riscrivere la scena senza baci? Cose di questo genere, insomma. Ma, dato che non avevo progetti in corso con Mamiya, non avevo idea del perché di quell'aria tanto preoccupata. Poi parlò. «Non credi che dovresti vedere tuo figlio più spesso?» Arrivò come un fulmine a ciel sereno, come la sferzata di un rimprovero immeritato. La mia mente tentò invano di trovare il nesso tra Mamiya e mio figlio. Cercai di nascondere il disagio. «Come mai questa domanda?» «L'altro giorno ho visto tua moglie.» Evidentemente l'aveva incontrata per caso da qualche parte. Repressi
una smorfia al pensiero di quello che poteva avergli detto del nostro divorzio. Quello era l'uomo con cui mi ero tanto sforzato di lasciare da parte le faccende private. «Sei qui per una qualche ambasciata da parte sua?» «No, è solo che... Mi chiedevo se non sarebbe meglio stabilire certe regole, tipo vedere tuo figlio una volta al mese e cose del genere. Non è affatto un'idea sua. Me lo stavo solo chiedendo.» Mentre un vago rossore gli saliva alle guance, la serietà del suo tono mi prese alla sprovvista. «Credo che avrebbe senso se mio figlio fosse ancora un ragazzino delle medie», replicai. «Ma ha diciannove anni. È perfettamente in grado di venire qui da solo ogni volta che vuole.» «E tu? Non ti capita mai di avere voglia di vederlo?» «Non posso negarlo, ma lui probabilmente alzerebbe gli occhi al cielo al solo pensiero di un incontro obbligatorio. Se ripenso a quando avevo diciannove anni, so che mi sarei arrabbiato se qualcuno mi avesse detto che avrei dovuto starmene seduto a cenare una volta al mese tutto solo con mio padre.» Mamiya annuì. «Comunque la cosa mi fa piacere», continuai. «Per un momento mi hai colto di sorpresa, ma sono lusingato. Non mi sarei mai aspettato che ti preoccupassi tanto per me, per una cosa del genere. Cioè, ti avevo preso per uno che preferisce restare alla larga da tutte queste faccende.» Sollevai la bottiglia e gli riempii il bicchiere fino all'orlo. «Ma a dire il vero, gli intrighi familiari mi appassionano come chiunque. Per tutto questo tempo ho pensato di voler evitare la scena della gente che si preoccupa per me, ma, ora che sei venuto, devo dire che ne sono contento. Anche se sono un po' deluso del fatto che tu non voglia discutere di lavoro.» «In realtà sono qui anche per questo.» «Oh!» Ero saltato troppo in fretta alle conclusioni. «Be', è naturale! Sarebbe stupido da parte tua fare tutta questa strada solo per chiedermi di mio figlio. Che tipo di progetto avevi in mente?» «Non è questo che intendevo.» «Cosa, allora?» «Sono venuto a dirti che non potrò più lavorare con te.» «Vuoi abbandonare la produzione?» «No.» Mamiya sedeva perfettamente immobile, continuando a guardare altro-
ve. «Non capisco», dissi con un sorriso forzato. «Spero che tu non ti voglia liberare di un autore per via del divorzio.» Mamiya non rispose. «Penso di meritare una spiegazione», insistei. Senza qualche elemento in più, tutta quella storia non aveva senso. Mamiya sembrò sul punto di dire qualcosa e schiuse un poco le labbra, ma tornò immediatamente a serrarle. La mascella prese a tremare, quasi stesse lottando per impedire alle parole di uscire. Quando infine riaprì la bocca, lo fece con grande determinazione, come ad avvisare: ora ascolta molto attentamente, perché lo dirò una volta sola. «Voglio che tu sappia che ho intenzione di frequentare Ayako.» Ayako era la mia ex. Avevo capito le parole che aveva pronunciato, ma non mi suonavano per nulla reali. Erano troppo distanti da qualsiasi cosa avrei potuto aspettarmi. «Frequentare Ayako?» La mia voce tradì lo stupore. «Ora che siete divorziati, non voglio più reprimere i miei sentimenti. Spero di sposarla.» Sentire un altro uomo esprimere un tale interesse per la donna con cui avevo deciso di tagliare i ponti era decisamente bizzarro. Per un verso, mi domandavo se non avessi dovuto prendermi a calci per la mia stupidità; per l'altro, sapevo che la persona seduta di fronte a me stava per fare un errore madornale e che, tuttavia, non avrei mai potuto fargli cambiare idea. «Capisco.» Non mi venne in mente altro da dire. «Bene.» Fu tutto quanto concesse Mamiya. Non riuscivo a ricordare il minimo indizio di un interesse del genere da parte di Ayako. Poi, quasi mi avesse letto nel pensiero, Mamiya alzò gli occhi e disse: «Ayako non lo sa». Che faccia tosta, buttar lì il nome di Ayako con tanta leggerezza! D'accordo, forse gli sarebbe parso un po' strano riferirsi a lei con un «tua moglie», date le circostanze. Ma avrebbe potuto almeno mostrare un po' di sensibilità e attenersi a un semplice «lei». E pensava davvero che gli avrei creduto? «Bene. Certo che no», replicai. Dovevano essersi messi d'accordo. Altrimenti Ayako come avrebbe potuto giustificare la sua intransigenza durante il periodo del divorzio? Poi ecco qua Mamiya, neanche un mese dopo, a dirmi che non poteva reprimere l'amore per lei. Nessuno sarebbe riuscito a convincermi che davvero
lei non sapesse niente. «Forse penserai che la cosa non ti riguarda, visto che ora sei divorziato, ma credo che la situazione non sia così semplice», stava dicendo Mamiya. In altre parole, siccome avevo divorziato da Ayako, non erano affari miei quello che lui faceva con lei. E dato che lui era stato comunque tanto cortese da venire a chiedere la mia benedizione, per così dire, avrei dovuto prendere atto dei suoi desideri e non immischiarmi. Era questo che intendeva, in realtà. «Perciò, fino a questo momento, non le hai mai accennato ai sentimenti che provi per lei?» «Già», fece, con una nota di ambiguità. «Quindi è possibile che lei non voglia avere niente a che fare con te?» «Esatto.» «In tal caso, venire a chiedere la mia benedizione in questa fase è un po' prematuro, non ti pare?» «Tu sei stato una persona molto importante per me.» Parole pompose e vuote. Frasi fatte che si gettavano via come monetine, nel mondo dello spettacolo. A volte erano utili, sicché non avevo nulla in contrario a usarle in un contesto lavorativo, ma bruciava come uno schiaffo sentire una battuta del genere da Mamiya, a proposito di una faccenda strettamente privata. Ero tanto «importante» per lui che voleva rinunciare a lavorare con me per portarsi a letto Ayako. Stava seduto lì con quell'aria tanto angosciata, ma in realtà non provava alcun dolore. Non aveva rimpianti nel tagliarmi fuori. Per lui era tutto un gioco: era un divertimento piombare lì e dirmi quelle cose. E per di più, non capiva quello che in realtà stava facendo. Tra tutti, proprio Mamiya era venuto a dirmi di aver messo sui piatti della bilancia i miei testi e la mia ex moglie, e che contava di più lei. Mi assalì un profondo senso di disperazione e sentii un singhiozzo montarmi in gola. Ruotai all'indietro la testa e fissai l'angolo della stanza, fingendo di osservare qualche ragnatela che avevo trascurato. «Anche se lei mi respingerà di sicuro», dichiarò Mamiya, con un tono da sottotitolo artificioso. «Non vedo perché dovresti crederlo.» Doveva aver già calcolato tutto con Ayako. Diceva di averla vista, in fondo, e ovviamente era saltato fuori qualcosa su nostro figlio. In altre parole, Ayako aveva taciuto la sua relazione con un altro uomo in modo da spremermi fino all'ultima goccia. Ma mettermi a piagnucolare per questo,
adesso, sarebbe stata la cosa peggiore, e anche uno scatto d'ira avrebbe lasciato l'amaro in bocca. Dovevo trovare un altro modo per mostrargli che avevo capito i loro sporchi giochetti. «Lascia che ti esprima la mia più profonda gratitudine per tutto quello che hai fatto per me in passato», disse Mamiya, sempre molto formale. «Figurati», replicai meccanicamente. Fu tutto quello che riuscii a dire per non esplodere. «Mi dispiace moltissimo», riprese Mamiya, con un profondo inchino. Quindi aggiunse: «Forse è meglio se vado. È troppo doloroso...» Sembrava sull'orlo delle lacrime. Caspita! Mentalmente, alzai gli occhi al cielo. Stava diventando una vera e propria soap opera. Che ne è stato di tutti i nostri sforzi, sullo schermo e fuori, per evitare una simile melassa strappalacrime? Ma Mamiya era passato dall'altra parte, era immerso nel mondo del melodramma fino al collo. «Addio, allora.» Si alzò e si esibì in un altro profondo inchino. «Buona fortuna», mi sentii dire stupidamente. Di questo passo, presto avrei raggiunto Mamiya dall'altra parte. «Spero che potrai perdonarmi», si lasciò sfuggire Mamiya, scappando verso la porta. Tutto pareva seguire le regole del melodramma convenzionale. Adesso si stava mettendo le scarpe. Fatto ciò, si sarebbe raddrizzato, esitando come se avesse un'ultima cosa da dire. Ma il nodo in gola gli avrebbe impedito di parlare, quindi si sarebbe limitato a un altro piccolo inchino e si sarebbe voltato verso la porta, come scrollandosi di dosso le emozioni intrappolate dentro di lui. Era così che si faceva in quel mondo scontato che avevamo sempre disprezzato. Osservai Mamìya comportarsi esattamente come avevo previsto. La porta si chiuse alle sue spalle. Dopo quanto era successo, quella sera non ero proprio in vena di compagnia. L'appartamento rimase esattamente come quando Mamiya se n'era andato. Non avevo afferrato il suo bicchiere per gettarlo a terra in un accesso di stizza, e tantomeno mi ero messo a preparare la cena. Ero semplicemente andato in camera - l'unica altra stanza dell'appartamento oltre a quella che faceva da soggiorno e studio - ed ero crollato sul letto. Stavo ancora lì, ad ascoltare un po' di musica alla radio, quando suonò il citofono. Lanciai un'occhiata alla sveglia sul comodino e vidi che erano le 22.24.
Chi poteva essere a quell'ora? I responsabili delle emittenti con cui lavoravo non passavano mai senza preavviso. Il sistema di sicurezza all'ingresso principale in genere bloccava i venditori porta a porta e, anche se di tanto in tanto uno riusciva a sgattaiolare dietro un inquilino che entrava, di solito venivano respinti quando si annunciavano al citofono dei singoli appartamenti, perciò non credevo che facessero grandi affari. Naturalmente c'erano altre persone che conoscevano il mio indirizzo e, in teoria, chiunque di loro avrebbe potuto decidere di passare, ma nessuno lo avrebbe fatto senza avvertire prima. L'unica eccezione, forse, era la donna che era venuta a trovarmi ogni tanto, ma, visto come ci eravamo lasciati, dubitavo che l'avrei mai rivista. Non eravamo una gran bella coppia, neppure come amanti. Sollevai la cornetta del citofono. «Sì?» «Salve.» Era una voce di donna, che però non riconoscevo. «Chi è?» «Sono davanti alla sua porta. Abito nel palazzo.» Il citofono suonava allo stesso modo, sia che la chiamata arrivasse dal quadro di sicurezza all'ingresso principale, sia che giungesse dal corridoio, appena fuori della porta. Ecco perché aveva dovuto precisare. «Un momento, per favore.» Sospirai stancamente. Non sapevo se volesse spillarmi dei soldi o chiedermi di firmare una petizione, ma non ero proprio in vena di sentire sproloqui. Neppure la nota giovanile nella sua voce riuscì ad attenuare il mio fastidio. Ma non potevo neanche lasciarla lì. Aprii la porta. «Oh.» Era la donna che avevo visto attraversare l'atrio qualche sera prima. «Spero di non disturbarla», disse. Indossava un abito da casa di cotone verde chiaro con un grande fiore sgargiante sul davanti. Certo che mi disturbava, ma ovviamente non potevo dirlo. «Che c'è?» Il suo viso era di un bianco innaturale. Il trucco era un po' troppo pesante per una donna vestita in modo così semplice. «Lo sapeva?» chiese, come cercando di incuriosirmi con un succulento pettegolezzo su qualcuno. «Sapevo cosa?» «Che quasi sempre, a quest'ora di sera», riprese, distogliendo gli occhi,
«lei e io siamo le uniche persone nel palazzo?» Gli occhi tornarono a fissarsi nei miei. Ebbi un brusco sussulto, come fossi stato morso da una scolopendra. Quando una donna si rende conto di essere sola in un palazzo con un estraneo, la sua reazione più normale non dovrebbe essere quella di chiudersi in casa a doppia mandata? «No», risposi, lasciando intendere con il mio tono che non poteva importarmene di meno. Distolse nuovamente gli occhi, come a ripararsi dal gelo della mia voce. In condizioni normali, mi sarei forse affrettato ad aggiungere un qualche commento più affabile, per scusarmi, ma quella sera ero di pessimo umore. Stavo lì fermo senza dire una parola. «Tutto qui», disse infine, con un tono improvvisamente desolato, e mi tese un sacchetto di carta contenente una bottiglia non meglio identificata. «Un pensierino per ricordare la serata», fece, con un risolino ironico e imbarazzato. Poi, rapidamente, come per dissipare quel risolino, aggiunse in tono assai più vivace: «È champagne. Una bottiglia mezza vuota di champagne. L'ho aperta, ma non ce l'ho fatta a berla tutta, così ho pensato che magari avrei potuto dividerla con lei. Se lo conservo fino a domani si sgasa». Ridacchiò allegramente. «È molto gentile da parte sua, ma...» Mi sforzai di sorridere, ma non mi mossi. «Oh, non sto festeggiando niente. Nulla del genere.» Per la prima volta mi sembrò un tantino ubriaca. «È solo una bottiglia che mi hanno regalato un paio d'anni fa. L'ho trovata per caso l'altro giorno e l'ho messa in frigorifero pensando che mi sarei decisa a berla, e stasera finalmente l'ho aperta. Sono ubriaca, è vero? Divento subito brilla. Un po' di champagne, e sono completamente sbronza.» Ridacchiò ancora. «Altrimenti non avrei osato fare una cosa del genere. Comunque, le dispiace?» «Mi scusi?» «Le dispiace se entro?» Certo che mi dispiaceva. Era una donna piuttosto attraente, ma la sua sfacciataggine mi irritava: chiedere una cosa del genere, senza la minima preoccupazione di essere inopportuna. Stavo ancora annaspando in cerca di una risposta quando riprese a parlare. «Non sono riuscita a trattenermi», proruppe, con quello che pareva essere il suo ultimo respiro. «Non ho idea di che cosa mi sia preso, ma stasera,
mentre me ne stavo sola nella mia casa vuota, di colpo non sono più riuscita a sopportare la solitudine; così, non so quante volte ho cambiato idea, ma alla fine ho deciso di venire. Cioè, ci pensi. In piena notte, in tutto l'edificio siamo soltanto uno o due. Fa paura. Io sto al terzo piano. Può venire lei da me, se preferisce.» L'alcol sembrava renderla un po' folle. «Ho un lavoro urgente da finire.» Il mio pessimo umore era tornato a imporsi. Che faccia tosta, quella donna! Non la donna che avevo di fronte adesso, ma quella che avevo chiamato mia moglie fino ad appena una trentina di giorni prima. «Sta lavorando?» «Mi scusi?» «Sta lavorando, in questo momento?» «Sì, sto cercando di concludere un lavoro urgente.» Dopo aver preteso la nostra casa di sei anni e il terreno su cui era costruita, come pure i titoli che avevo commesso l'errore di intestarle e tutti i nostri risparmi, Ayako aveva fatto mostra di gran generosità di fronte al giudice, dicendo: «Credo che lui vorrebbe una separazione civile, dunque non chiederò il pagamento delle spese per gli studi di nostro figlio». Ma guarda un po', e Mamiya era rimasto nascosto nell'ombra per tutto il tempo. «Capisco.» La donna di fronte a me stava annuendo. «Eh?» «Se deve lavorare, immagino che questo non sia un buon momento.» «Temo di no.» «La prego di perdonarmi.» «Non è il caso.» Allungai la mano sulla maniglia della porta. «Oh!» esclamò, ma chiusi la porta prima che potesse dirmi che voleva comunque lasciarmi lo champagne. Mentre ancora vedevo la sua immagine svanire, la mia mente era già altrove. Un nuovo moto di rabbia verso Ayako e Mamiya si gonfiava dentro di me come un'onda gigantesca. Feci scattare la serratura con un sonoro clac. Tornai a letto e riaccesi la radio. Quasi subito provai un senso di disagio. I pensieri si misero a galoppare. Forse avrei dovuto invitarla a entrare, dopotutto. Visto che una persona si era presentata all'improvviso parlando a quel modo, non mi sarei dovuto sincerare che non le fosse successo qualcosa di grave? O forse ero soltanto io a preoccuparmi, mentre per lei non era altro che uno scherzo? D'altra parte, però, aveva anche detto di aver
cambiato idea chissà quante volte. E se avesse commesso un gesto avventato a causa della mia freddezza? E se si fosse uccisa per l'opprimente solitudine? Oh, piantala! mi dissi. Non morirà. Non aveva certo la faccia di una suicida. Mi alzai e andai ad aprire la porta. Il corridoio era vuoto. Mi misi in ascolto, ma non sentii altro che il rombo del traffico di fuori. Mi dispiace, ma in questo momento non ho proprio tempo per i problemi altrui. Ne ho già troppi di miei. Con queste deboli scuse, tornai sui miei passi verso la camera da letto. Non riuscivo a dormire. Mi versai un dito di whisky. Il pensiero di quella donna continuava ad assillarmi mentre l'alcol, lentamente, faceva effetto, ma buona parte della mia mente era impegnata a combattere contro lo shock infertomi da Mamiya e dalla mia ex moglie. Venne il mattino. I rumori del giorno a poco a poco riportarono alla vita l'edificio: il sordo ticchettio di tacchi sui pavimenti, prima in una direzione, poi nell'altra; scatti di porte che si chiudevano; telefoni che squillavano; voci di persone. Alla fine, la marea crescente raggiunse l'appartamento di fianco al mio, che cominciò ad animarsi dell'attività degli impiegati che riprendevano come nulla fosse il tran tran quotidiano. Poi mi accorsi che era quasi mezzogiorno. Dovrei proprio accertarmi che quella donna stia bene, mi dissi. Ma ero troppo debole per fare qualcosa. 3 Incontrai quella donna due giorni dopo, nell'atrio. Era un pomeriggio piovoso e la vidi entrare nel palazzo mentre uscivo dall'ascensore, diretto a una riunione presso un'emittente TV. Aveva un ombrello in una mano e una borsetta e due o tre sacchetti della spesa che pendevano dall'altra. Mi vide. «Salve», mi feci avanti. Mi sentivo in colpa e volevo scusarmi. «Mi spiace tanto per l'altra sera», disse, con un garbato inchino, la voce un po' stridula. «Sono stata proprio maleducata, a un'ora simile.» Quando il capo si fu risollevato, le vidi negli occhi un'esitante sfumatura di imbarazzo e mi parve molto più graziosa di prima. «Neppure il mio comportamento è stato ineccepibile.» «Mi spiace di averla disturbata quando aveva fretta di finire un lavoro.» «Si figuri, non è niente. Se non le dispiace, vorrei invitarla a bere qual-
cosa un giorno di questi.» «È molto gentile da parte sua. Sono talmente imbarazzata...» Ci salutammo e ciascuno andò per la sua strada. Mentre la oltrepassavo diretto all'ingresso, alcune foglie di insalata in uno dei sacchetti della spesa attirarono la mia attenzione. Trassi un piccolo sospiro di sollievo, ma allo stesso tempo mi sentii un po' come se fosse caduto il vento, afflosciandomi le vele. La sera prima, poco dopo le dieci, ero uscito per vedere se ci fossero luci accese a qualcuna delle finestre del terzo piano. Pioveva. Avevo scoperto una finestra illuminata al primo piano, una al terzo e una al quinto. Non era apparsa nessuna sagoma dietro la finestra del terzo piano. Naturalmente, mi ero reso conto che una finestra illuminata non significava niente. Lei poteva benissimo stare a terra stecchita con tutte le luci accese. Ero rimasto lì sotto la pioggia a guardare la finestra per un po'. Alla fine ero rientrato nel mio appartamento senza ulteriori controlli, ma pensieri spaventosi su quella donna e la sua profonda solitudine avevano continuato a pesarmi sulla coscienza. Finalmente, dopo essermi caricato d'ansia e sensi di colpa, un sacchetto di plastica da cui spuntavano foglie di insalata mi riportò alla realtà. È ovvio, pensai con un sorrisetto storto, mentre mi dirigevo alla stazione. La gente non ha tutta questa voglia di farsi fuori, di solito. Poi venne il giorno fatale: un giorno di inizio agosto. Continuavo a non uscire molto. Non andavo a feste né facevo il giro dei bar con gli amici. Non ero mai stato un tipo socievole, ma ora le pratiche del divorzio e lo shock della faccenda di Mamiya mi avevano reso decisamente asociale. Quando avevo incrociato la donna nell'atrio, le avevo detto che l'avrei invitata a bere qualcosa, ma i giorni passavano e non me la sentivo mai di chiamarla. Neppure lei mi chiamò. Naturalmente, gli inviti come quello spesso non significavano altro che: Mi ha fatto piacere vederti o È stato bello parlare con te. Nell'ambiente dello spettacolo, le promesse a cuor leggero e le affermazioni vuote sono abituali come respirare e tutti sanno che non vanno prese sul serio. Uno di questi giorni dobbiamo andare a bere qualcosa, lasciando da parte il lavoro, solo per divertirci. Per l'opportunità di lavorare a un tuo progetto, rifiuterei subito tutte le ,altre proposte.
Su questo non si discute: se non si fa qualcosa in fretta, la televisione giapponese andrà in malora. Un giorno noi due dovremmo lavorare insieme e inventarci qualcosa. Di' un po', com'è che non ho mai avuto una parte in nessuna delle tue serie? L'ho avuta? Oh, giusto, il soggetto era tuo, vero? Che stupido, dormo proprio in piedi. Quella parte l'ho a-do-ra-ta. È stato grandioso. Non ero mai entrato tanto profondamente in un personaggio, non in TV. Dopo essermi guadagnato da vivere facendo lo sceneggiatore per diciotto anni, avevo imparato a non mettere alla prova la sincerità di simili carinerie. La mia vicina del terzo piano non lavorava nell'industria dello spettacolo, certo, ma in fondo apparteneva alla stessa cultura. Dubitavo che conducesse un'esistenza del tutto esente da vuoti complimenti. Inoltre, mettiamo che l'avessi invitata. Di che cosa mai avremmo parlato? Non mi interessava affatto sentirla cianciare del suo lavoro, della sua vita privata o del suo passato. Una relazione sessuale avrebbe potuto essere piuttosto gradevole, se ci si poteva limitare a quello, ma mi dava i brividi il pensiero di rimanere invischiato in tutte quelle fastidiose emozioni. E così eccoci a quel giorno fatale di inizio agosto: il 4, per la precisione. Quel pomeriggio sul tardi stavo scegliendo una cravatta in un grande magazzino di Ginza. «È per un regalo», spiegai alla commessa, sulla trentina. Tirò fuori quattro o cinque cravatte dalla teca di vetro e le dispose sul banco. Mi parevano tutte un po' troppo scure e spente, e glielo dissi. «Ha detto che questa persona è sui quarant'anni?» «Sì, ma più verso i cinquanta.» «In questo caso, non credo che le troverebbe troppo spente, ma vediamo...» Scelse rapidamente altre quattro o cinque cravatte e le appoggiò sul banco. Stavolta erano così sgargianti che quasi mi facevano male agli occhi. «Che ne direbbe di una via di mezzo?» Evidentemente non aveva capito che genere di cravatta avessi in mente. «Cioè?» domandò. «Qualcosa che non sia troppo dimesso, ma nemmeno troppo appariscente», risposi, cominciando a passare in rassegna tutto l'assortimento nella teca di vetro. Presto capii che cercavo l'impossibile. Chiedevo qualcosa che non avevano. Allora mi colpì il parallelo con i miei sforzi di godermi in qualche modo l'indipendenza appena conquistata. Mi arrovellavo, inca-
pace di individuare esattamente quello che volevo, insoddisfatto di ciò che mi appariva troppo sobrio, contrario a ciò che sembrava troppo trasgressivo, in cerca di qualcosa che, semplicemente, non esisteva. Alla fine, anche se dubitavo che l'avrei mai indossata, comprai una sgargiante cravatta color crema a strisce arancione, giallo e verde. Ero disgustato di me stesso per aver detto che era un regalo. Un uomo della mia età che si regala una cravatta per il compleanno... Davvero patetico! Quando ero più giovane, un sentimentalismo del genere non mi avrebbe mai sfiorato la mente, e di certo non era il genere di cosa che avrei voluto far sapere in giro. Certe volte, viaggiando all'estero, avevo pensato a quanto i miei orizzonti avrebbero potuto espandersi se avessi conosciuto la lingua del posto. Avrei potuto parlare facilmente con chiunque. Avrei potuto sedurre le donne. Ma in realtà sapevo che, se pure fossi riuscito a parlare bene la lingua, mi sarei comunque trovato intrappolato nella camicia di forza del mio carattere, troppo reticente tanto per attaccare discorso con gli estranei quanto per conquistarmi le simpatie delle donne. Per lo stesso motivo, era improbabile che il divorzio avrebbe aperto nuovi mondi a un autore televisivo ultraquarantenne. Quello lo sapevo. «So che è così, eppure...» mormorai piano tra me. Calò la sera. Il caldo opprimente che aveva stretto la città nella sua morsa fin dal mattino pareva aver lasciato una sottile patina di sudiciume su tutto ciò che aveva toccato. Mentre camminavo sul marciapiede, immerso nell'aria appiccicosa, mi resi conto che mi stavo opponendo alla volontà dei miei piedi di dirigersi verso casa. Mi vedevo tornare all'appartamento e fare una doccia, poi mettermi seduto a lavorare nel comfort ad aria condizionata per due o tre ore. Così avrei ridotto il carico di lavoro per il giorno seguente. Dopo mi sarei sdraiato sul divano a sorseggiare un whisky guardando un film di Fellini o qualcosa del genere. In altre parole, la mia serata sarebbe stata esattamente identica alla precedente. Avevo una gran voglia di qualcosa di un po' diverso, e non soltanto perché era il mio compleanno. Capii di essere sprofondato in una specie di depressione. In qualche modo, dovevo tirarmene fuori. Dovevo andare avanti con la mia nuova vita. Da quel punto di vista, regalarmi una cravatta per il mio compleanno rappresentava la peggior condizione di spirito possibile. Mi bloccai. Qualcosa aveva catturato il mio sguardo, anche se non capii
subito bene che cosa fosse. Mi ritrovai di fronte all'ingresso della stazione della metropolitana di Ginza. Il cartello sopra la scala in discesa recava scritto: «Per Shibuya e Omotesando. Per Asakusa e Ueno», le due direzioni di quella particolare linea. Asakusa. Ecco che cosa mi aveva bloccato i piedi. Mi sembrava di non vedere quel nome da secoli. Asakusa era il posto dov'ero nato. Ecco! decisi lì per lì. Andrò a vedere Asakusa. Ora che finalmente sapevo dove volevo andare, trotterellai veloce giù per le scale. Erano trascorsi un bel po' di anni, molto probabilmente più di una decina, dall'ultima volta che ero stato ad Asakusa. Ero nato lì nel 1939, figlio primogenito di un sushi chef e un'aiutante di cucina che lavoravano nello stesso ristorante. Abitavamo in un appartamento vicino alla stazione della metropolitana di Tawara-machi. Mio padre fece due volte il servizio militare, una volta prima del mio arrivo e una dopo. Verso la fine della guerra, quando mio padre era ancora via, mia madre e io andammo a stare dai miei nonni nella casa della sua infanzia a Tochigi, a nord di Tokyo. Finita la guerra e rimpatriato mio padre dalle Filippine nel 1946, tornammo subito ad abitare ad Asakusa. I miei genitori raccattavano tutti i generi commestibili su cui riuscissero a mettere le mani e li vendevano al mercato nero come «Stufato Vitaminico». All'epoca ero alle elementari, ma spesso davo una mano anch'io. Ricordo che guardavo mia madre addensare lo stufato mescolando farina e acqua in una grossa ciotola e rimestandola nel pentolone ribollente. Il vapore dal pentolone le fluttuava attorno al viso giovanile. Alla fine mio padre trovò nuovamente un lavoro stabile come sushi chef nel periodo in cui scoppiò la guerra di Corea, nel 1950. Il locale si trovava a Nihonbashi, ma a entrambi i miei genitori piaceva vivere ad Asakusa, sicché rimanemmo in affitto lì. Il nostro appartamento era al primo piano sopra la casa di un lattoniere dietro il tempio Honganji. Fu lì che mia madre rimase incinta del suo secondo figlio. Purtroppo, però, non scoprii mai se sarebbe stato un fratellino o una sorellina. A gennaio dell'anno seguente, mio padre stava andando in bicicletta con mia madre dietro il sellino, quando un'auto piombò loro addosso di fronte al Teatro Internazionale. Entrambi morirono sul colpo. Il pirata della strada non fu mai rintracciato.
Mio zio a Nagoya ipotizzò che fosse una jeep appartenente all'Occupazione Americana, e per questo la polizia non poteva cercarla, ma all'epoca dell'incidente mi fu detto che erano stati investiti da una berlina nera. Avendo perduto entrambi i genitori all'età di dodici anni, andai a vivere con il mio nonno vedovo ad Aichi, il paesino agricolo non lontano da Nagoya dove era cresciuto mio padre. Con i nostri pochi ettari, non producevamo un raccolto sufficiente da vendere al mercato, quindi per lo più mangiavamo quello che coltivavamo. A mio nonno facevo pena, credo; raramente mi chiedeva di aiutare nei lavori della fattoria. Ma lavoravo sodo per diventare un ragazzo di campagna fatto e finito. Sapevo che era meglio spazzar via ogni traccia della mia educazione cittadina il più in fretta possibile, se volevo superare indenne la scuola media locale. Restai nuovamente orfano quando morì mio nonno, a metà del mio primo anno scolastico. Mio zio venne a disfarsi della fattoria, e in seguito andai a vivere con lui a Nagoya nell'ultimo anno e mezzo di liceo. Per l'università, tornai a Tokyo. Mio zio mi disse di non preoccuparmi di nulla, mi avrebbe mandato il denaro che mi occorreva per completare gli studi. Quando morì, alcuni anni più tardi, un lontano parente venuto per il funerale insinuò che mi avesse imbrogliato, mandandomi molto meno di quanto mi spettasse, ma mi era difficile immaginare che il misero terreno di mio nonno fosse stato venduto per una cifra particolarmente alta, sicché non ho mai messo in dubbio la generosità di mio zio. A Nihonbashi i passeggeri si ridussero parecchio e altri scesero a Kanda e Ueno. Quando il treno arrivò al capolinea, ad Asakusa, in ogni carrozza erano rimaste soltanto tre o quattro persone. Salii le scale in direzione della porta Kaminarimon e sbucai nel crepuscolo che si addensava. Al contrario di quanto mi ero aspettato per via del treno semivuoto, strade e vicoli della zona erano illuminati a giorno e brulicanti di pedoni. Dopo aver varcato la massiccia porta, passeggiai tra i negozi che fiancheggiavano la via d'accesso al tempio Sensoji. Mi stava bene visitare il tempio e il quartiere dei divertimenti immediatamente a ovest, ma continuavo a esitare a estendere il giro a quelle zone di Asakusa più intimamente legate ai miei ricordi d'infanzia. In tutte le mie visite precedenti, mai una volta avevo fatto un passo in direzione del Teatro Internazionale o delle vie circostanti il tempio Honganji o della stazione di Tawara-machi. Trattandosi di Tokyo, sapevo che per quanto distanti dal centro di Asakusa, quei paraggi non potevano certo somigliare molto a com'erano stati oltre
trent'anni prima, eppure continuavo ad aver paura all'idea di avventurarmi laggiù. Per esempio, mi terrorizzava l'idea di trovare ancora in piedi la casa del lattoniere dove i miei genitori e io avevamo trascorso gli ultimi giorni e mesi insieme. Le emozioni che avevo arginato dentro di me per tutti quegli anni sarebbero probabilmente straripate in un'alluvione incontrollabile. Mi ero concesso poche lacrime, dalla morte dei miei quando avevo dodici anni. Ma se mi fossi ritrovato a passeggiare lungo vie e vicoli che avevo conosciuto da bambino e mi fossi imbattuto in qualcosa che mi avesse ricordato nitidamente momenti vissuti lì con i miei, avrei rischiato di spezzare anche l'ultimo filo che teneva insieme la corazza che mi aveva protetto; rischiavo di ritrovarmi nudo e crollare in un mare di gemiti e pianti. Cresci, e smettila di frignare! mi rimbrottai. E poi sai benissimo che il Teatro Internazionale ha lasciato il posto a un grande albergo moderno, secoli fa. Dopo aver gettato una moneta da cento yen nella cassetta delle offerte all'ingresso del tempio, giunsi le mani e chiusi gli occhi. Un lampo di luce mi avvolse, e quando mi voltai a guardare vidi un anziano straniero abbassare la macchina fotografica, guardandomi un po' nervoso, come preoccupato di avermi offeso. Gli sorrisi e gli feci un cenno di saluto, e parve sollevato. Disse qualcosa in inglese e agitò la mano. Uscii da una porta laterale accanto alla sala principale del tempio. Lì i pedoni erano molto più rari, come pure le luci. Mentre mi incamminavo verso i cinema, un uomo mi si affiancò e adeguò il suo passo al mio. «Ha voglia di divertirsi, signore?» domandò con voce gracchiante. «No, grazie, sono qui per affari.» Svoltai verso la strada di fronte all'ufficio della circoscrizione e mi fermai per cena in un ristorante dove servivano anguille. Erano le sette e mezzo passate quando finalmente misi piede nel quartiere delle sale cinematografiche. Nella zona aleggiava un'aria di desolazione. Sette o otto sale erano ancora attive, ma la strada era quasi deserta. Forse c'era da aspettarselo, data l'ora, visto che gli ultimi spettacoli diurni dovevano essere già cominciati. Ma ricordavo anche quanto erano vuote le strade, perfino a mezzogiorno, l'ultima volta che ero venuto, il che mi portò a domandarmi se il posto avesse sempre quell'atmosfera da vecchia stradina dimenticata. Di colpo un edificio alto, bene illuminato, mi si stagliò davanti. Aveva
di fronte una piazzetta che lo arretrava rispetto alla strada e parve materializzarsi dal nulla. L'ultima volta che ero venuto, non c'era. Ospitava svariati negozi di specialità; sarebbe stato bene a Shibuya, a Kichijoji o in qualsiasi altro affollato quartiere commerciale, ma sembrava abbastanza fuori posto nel suo ambiente reale. Faceva a pugni con le vecchie, squallide costruzioni vicine; l'impressione era che un edificio appartenente a una dimensione del tutto diversa fosse, chissà come, piombato lì per errore. Per me, quel palazzo luminoso e asettico era una cicatrice sul paesaggio urbano, ancor più grande dei cinema chiusi e sprangati o dei lotti spogli che restavano al posto degli edifici abbattuti. Sospettavo, però, che quell'impressione fosse destinata a dissiparsi quando l'intera zona si fosse trasformata in armonia con lo stile del nuovo edificio. Mi si affiancò un altro ruffiano. «Ho una vera bambolina, signore. Soltanto diciott'anni. Gran culo.» «Ho appena finito.» «Ah, benissimo, signore. Torni presto.» L'inattesa cortesia della risposta mi costrinse a voltarmi a guardarlo. Mi sorprese vederlo rivolgermi un sorriso cordiale mentre si allontanava. Quasi sempre, quando dicevi ai ruffiani che ti avvicinavano in questo modo di non essere interessato, quelli si voltavano senza degnarti di un'altra occhiata, perciò non mi aspettavo che mi guardasse ancora. Non solo: il suo sorriso, che non recava traccia di quel sarcasmo alla «sì, figuriamoci» tipico di uomini del genere, mi disarmò e mi ritrovai a ricambiare istintivamente il sorriso. Un attimo dopo mi arrestai. Mi resi conto che se fossi arrivato sino in fondo alla strada, là dove arrivava al cinema Toei, avrei visto alla mia sinistra, in lontananza, il Teatro Internazionale. O meglio, avrei visto la torre dell'albergo per far spazio al quale il Teatro Internazionale era stato abbattuto. Questo, volevo evitarlo. Decisi di fare dietrofront. Da bambino, in realtà, non avevo visto spesso la famosa compagnia di ballo in linea del Teatro Internazionale, naturalmente, ma l'imponente sagoma dell'edificio aveva fatto da sfondo al mio quotidiano andirivieni fino all'età di dodici anni. E l'ultimo ricordo della mia infanzia ad Asakusa era l'immagine del sangue dei miei genitori che macchiava il lastricato dell'ampio viale di fronte al teatro, a poca distanza dalla stazione della metropolitana di Tawara-machi. Quando mi fermai di nuovo, mi trovavo di fronte al Teatro di Varietà di
Asakusa. Il monologo comico in corso veniva diffuso all'esterno da un altoparlante accanto all'ingresso. Le porte erano ancora aperte, ma nessuno entrava; io ero l'unico anche a essersi fermato davanti all'ingresso. Immaginai che il pubblico, all'interno della sala, fosse scarso. Poteva essere divertente assistere a un paio di numeri, prima di tornare verso casa. Data la tarda ora, l'ingresso era stato ridotto da 1500 a 1000 yen. Con mia notevole sorpresa, la sala era gremita. Perfino gli sgabelli aggiunti per i posti extra erano quasi tutti occupati e c'era un certo numero di persone in piedi. Non mi sarei mai aspettato un'atmosfera tanto vivace e intensa, dall'aspetto che aveva il posto all'esterno. Dal pubblico prorompevano grandi scoppi di risa mentre il giovane affabulatore spremeva dal suo racconto ogni possibile sfumatura comica. Il monologo proseguì ancora per quattro, cinque minuti prima di concludersi con una crepitante ovazione. Quando l'applauso cominciò a scemare, dagli altoparlanti si udì un annuncio. «I signori dell'Associazione Esercenti e il gruppo della Dove Tours sono pregati di tornare subito ai loro pullman.» Di colpo, la stragrande maggioranza del pubblico si alzò in piedi e cominciò ad affollare i corridoi, dirigendosi verso le uscite. In qualità di autore televisivo, in effetti anch'io mi esibivo per un pubblico, ma non avevo mai dovuto assistere a un esodo di quel genere. Vedere il pubblico andarsene come se nulla potesse fermarlo era come veder avverarsi il mio incubo peggiore. L'orchestra attaccò un po' di musica per annunciare l'inizio del prossimo numero, e apparve un nuovo narratore. Anche dopo che ebbe preso posto sul cuscino al centro del palco, gli spettatori in uscita continuavano a ingombrare i corridoi, premendo per raggiungere le porte. «Molte grazie di essere venuti», gridò loro l'artista, tra i cinquanta e i sessant'anni, con voce acuta. Il pubblico ancora seduto si mise a ridere. «Sì, certo, quella è l'uscita, gente, quindi forza, forza, veloci, ai vostri pullman. Molte grazie di essere venuti.» Quasi crollando bocconi, ripeté con finti singhiozzi: «Molte grazie di essere venuti». L'esodo continuò senza tregua. «Da quella parte, gente. Quella è l'uscita, per quanti desiderano lasciarci.» Mise su una scena fatta di pianti e smorfie contrariate. «Io adoro la Dove Tours!» gridò. «Quando tornate a casa, per piacere, vantatevi con i vostri amici di aver dato un'occhiatina anche a me.» Finalmente tornò a calare il silenzio in sala. Il pubblico restante era scarso.
«La Dove Tours può essere così crudele», sospirò l'artista. «Che resti tra noi», disse, abbassando la voce con tono cospiratorio, «ma la Dove Tours fa entrare quella gente a metà prezzo. 750 yen a persona. Perciò, prima di entusiasmarvi troppo per il numero dei presenti, dovete ricordarvi che, di quelli, ce ne vogliono due per fare un biglietto intero. E poi saltano su e ti mollano così... senza un attimo di esitazione o di rimpianto. Sentono la chiamata ai pullman e, bum bum bum, tutti in fuga verso l'uscita. Non lo sopporto. Mi dispiace, ma, per dirvi la verità nuda e cruda, non sopporto la Dove Tours.» Naturalmente l'intento era scherzoso, ma risultò un tantino troppo serio e l'aria si colmò di una tensione imbarazzata. Poi, una voce ruppe il silenzio. «Sono ancora qui, sai.» Ebbi un tuffo al cuore. L'attore si mise in agitazione. «No! Mi stai prendendo in giro, giusto? Non è vero!» «Scherzavo», disse la stessa voce. Il pubblico scoppiò a ridere. «Insomma, razza di mascalzone! Questa è una crudeltà. Il mio fegato ha smesso di battere. No-o-o, volevo dire il cuore, non il fegato. Io vado pazzo per la Dove Tours, dovete sapere. Sinceramente, sono il loro fan numero uno. Santo cielo! Non dovresti star lì a prendere in giro la gente su questioni di vita o di morte. È la Dove Tours che mi mette i viveri in tavola.» Il preludio del monologo si stava trasformando quasi in una chiacchierata di gruppo. «Non credo che dovrei essere scortese con quelli di voi che sono rimasti, ma è una gran rottura arrivare qua sul palco e vedere tre quarti del pubblico che prendono la porta. Ti fa venir voglia di fare fagotto e andartene a casa pure tu.» Mi alzai dal mio sgabello in fondo alla sala e mi trasferii in un posto diverse file più avanti. «Ehilà, amico, non mi spaventare così», disse l'attore guardando dritto verso di me. «Dovevi alzarti proprio quando pensavo di essere riuscito a tappare la falla nella diga? Stavo quasi per correre laggiù, prenderti per la manica e supplicarti di non andar via... Poi mi sono accorto che in realtà stavi venendo avanti, molte grazie. Comunque, per piacere, vieni qui in prima fila. Non occorre che ti fermi lì. Vieni quaggiù, dove puoi sentir volare la saliva.» Il pubblico rideva di nuovo, alcuni osservando l'uomo sul palco, altri guardando me.
A quel punto, l'attore indirizzò il suo chiacchierio ininterrotto su un nuovo argomento. Cominciò a prendersi gioco di certi divi della TV. Non avevo cambiato posto per godere di una visuale migliore. In realtà, non avevo affatto un buon motivo per cambiare posto. Era una cosa sciocca. Anche se non guardai subito verso di lui, avevo cambiato posto per poter vedere meglio l'uomo che aveva detto: «Sono ancora qui, sai». Dal punto in cui ero prima, riuscivo a vedergli soltanto la nuca. La voce e la sagoma posteriore dell'uomo mi avevano ricordato in modo inquietante mio padre. Mio padre morto. E per questo, un impulso improvviso si era impadronito di me: spostarmi dove avrei potuto vedere quell'uomo di profilo. Ma se anche mi ricordava mio padre, e allora? Che c'era di tanto strano? Mio padre era morto a trentanove anni, quindi, se fosse stato vivo oggi, ne avrebbe avuti settantacinque. Se un uomo di quell'età me lo avesse ricordato in qualcosa, forse il mio comportamento sarebbe stato più logico, ma questo tipo non sembrava ancora quarantenne. C'era qualcosa di leggermente sfasato nella mia reazione. Per evitare di attirare ulteriore attenzione su di me, mi facevo un dovere di ridere insieme col resto del pubblico, ma non sentivo quasi niente di quanto stava dicendo l'attore. Avevo un disperato desiderio di voltarmi e guardare quell'uomo. La sua voce mi era parsa straordinariamente simile a quella di mio padre. E la figura, vista da dietro, somigliava in modo straziante alle immagini di mio padre che mi erano rimaste scolpite nella mente. Ecco perché desideravo tanto vedere il suo volto: volevo vederlo per assicurarmi che, in fin dei conti, non somigliava poi tanto a mio padre. Dopotutto, nessuno poteva essere identico a mio padre in ogni dettaglio. Ero in cerca di quella sana dose di delusione che avrebbe tranquillizzato il mio cuore impazzito. Il monologo giunse al termine. Mi voltai a guardare l'uomo. Era mio padre. O meglio, era un uomo il cui profilo era il ritratto sputato di mio padre all'epoca della sua morte. Caspita! pensai, distogliendo rapidamente lo sguardo. Non avrei mai creduto che due persone diverse potessero somigliarsi tanto. L'orchestra segnalò l'inizio del prossimo numero e una coppia di giocolieri, marito e moglie, fece il suo solenne ingresso sul palco. Non riuscivo a trovare il coraggio di guardare di nuovo verso l'uomo. L'avevo visto per non più di un secondo, feci presente a me stesso. Inoltre,
non ero poi così vicino. Come potevo, in base a un'occhiata, giudicare quanta somiglianza ci fosse? Probabilmente quell'uomo avrebbe avuto un aspetto completamente diverso se lo avessi visto di fronte. Sono cose che succedono di continuo. Ora sentivo di doverlo assolutamente vedere di fronte, e riuscivo a malapena a controllarmi. Ma sapevo benissimo che sarebbe stato inutile. Era impossibile che mio padre se ne andasse in giro per Asakusa oggi. Sul palco, il marito teneva in equilibrio una palla in cima a un bastone, che a sua volta stava in equilibrio sulla sua fronte. Fece un passo a sinistra, poi diversi rapidi passetti a destra per impedire alla palla e al bastone di cadere. Mentre lo seguivo con gli occhi lungo il palco, gettai un altro rapido sguardo all'uomo. Mi stava guardando anche lui. Il cuore mi si fermò. L'uomo sorrise e inchinò lievemente il capo. Mi venne la pelle d'oca. Distolsi lo sguardo e fissai il pavimento cercando di contenere l'estrema agitazione. Perché avrebbe dovuto guardarmi? Perché sorridermi e annuire come se mi conoscesse? Ma certo, era perché l'attore mi aveva stuzzicato in quel modo poco prima, quando avevo cambiato posto. Probabilmente qualcosa glielo aveva ricordato e lo aveva portato a domandarsi come se la passava il tipo che era stato punzecchiato, e i nostri occhi si erano incontrati quando aveva guardato dalla mia parte. Quel sorriso non significava altro che un estemporaneo: «Ti stai divertendo?» Era un tipo cordiale, ecco tutto. Anche il ruffiano che mi si era avvicinato fuori sembrava una persona affabile. È questo il bello di Asakusa. Si possono ancora incontrare persone del genere, da queste parti. In ogni modo, ora che avevo visto bene il volto dell'uomo, qual era il verdetto? Be', come facevo a saperlo? Mio padre era morto quando avevo dodici anni. Non potevo certo affermare di avere un ricordo preciso di ogni minimo tratto del suo volto. Certo, somigliava a mio padre, ma quanto? Questo era ancora da vedersi. Una cosa sola potevo dire con certezza: era il ritratto sputato di mio padre così come il mio ricordo sempre più vago, con l'aiuto di alcune vecchie fotografie, lo aveva dipinto nel corso degli anni. Era un sosia perfetto. Anche quando i nostri sguardi si erano incrociati, avrei potuto giurare che stavo guardando mio padre. Tuttavia, questo non cambiava il fatto che in realtà non poteva assolutamente essere mio
padre. Il numero di giocoleria si concluse con un tiepido applauso. Perché, allora, mi stavo agitando tanto per niente? Ormai probabilmente anche lui stava pensando che fossi un tipo strano. Mi aveva offerto un sorriso e per tutta risposta avevo distolto gli occhi. Forse, chissà, lo avevo anche un po' offeso. «Ehilà», udii una voce molto vicina. Alzai gli occhi e vidi l'uomo fermo nel corridoio in fondo alla mia fila. «Usciamo di qua, che ne dici?» disse. «Sta parlando con me?» Mi tremava la voce. Era proprio il ritratto vivente di mio padre. Si avviò verso la porta senza aspettare la mia risposta. Mentre si allontanava, la sua figura non tradiva il minimo dubbio che lo avrei seguito. L'orchestra segnalò l'inizio di un altro numero. Mi alzai dal mio posto e corsi dietro all'uomo. 4 Il quartiere dei teatri era praticamente deserto. L'uomo era fermo ad aspettare che uscissi dall'edificio. «Non lo sopporto, questo qui», disse, dando un colpetto alla locandina sul cartellone appoggiato di fianco all'ingresso. Proprio in quel momento, la voce di quell'attore cominciò a gracchiare dall'altoparlante. «Nemmeno a me piace molto», risposi. «Certo che no.» L'uomo cominciò a camminare. «Non è tagliato per chiudere una serata, questo è certo.» Andavamo in direzione dell'International Boulevard. «Vuoi fare un salto?» «Mi scusi?» «Ti va di passare a casa?» L'uomo agitò leggermente le anche tirandosi su i pantaloni. «È sicuro che vada bene?» «Certo che va bene. Di che stai parlando?» Valutai che fosse di almeno dieci anni più giovane di me, ma faceva a meno di ogni formalità, come se si stesse rivolgendo a un ragazzino. «Il problema di Asakusa, al giorno d'oggi, è che tutto quanto chiude prestissimo. Non si riesce più a trovare un po' di vita dopo le dieci.» Sbucati sull'International Boulevard, restammo in attesa che cambiasse il
semaforo. La via era ancora un'arteria di grande traffico, ma non sembrava ampia come la ricordavo. Il traffico era rado. «Ci vieni spesso?» «Prego?» «Ad Asakusa, dico.» «Ogni tanto.» «Ah, sì?» Attraversò le strisce con passo svelto. Lo seguii. Di solito le persone di quel tipo mi davano sui nervi, ma non riuscivo a decidermi a separarmi da lui. Si frugò in tasca mentre attraversava la strada. «Voglio prendermi un pacchetto di cicche», mi disse voltandosi. «Poi si va da quella parte. Tu aspetta qui, d'accordo?» Dopo avermi ordinato di stare lì fermo vicino al semaforo, trotterellò con le gambe un po' arcuate sul marciapiede in direzione del Teatro Internazionale, dove si trovava una volta. C'era un distributore automatico di sigarette rivolto verso il marciapiede e osservai l'uomo mentre cominciava a inserire le monete. Indossava una camicia bianca con il colletto a fascetta, lasciata fuori dei pantaloni bianchi di cotone. I capelli tagliati cortissimi gli conferivano un'aria affilata, netta. Questo mi dava un certo sollievo; forse perché non volevo che un uomo tanto somigliante a mio padre avesse un aspetto trasandato. Tornò verso di me. «Allora, che ne pensi?» «Prego?» «L'albergo. È enorme, non ti pare?» «Ah, sì», convenni, anche se, da dove eravamo, la fila di edifici vicini mi bloccava la visuale, e in effetti non riuscivo a vedere l'albergo che, come sapevo, aveva sostituito il Teatro Internazionale. Evidentemente non preoccupato di simili dettagli insignificanti, l'uomo tornò a incamminarsi nella direzione opposta. Mi adeguai, seguendolo a mezzo passo di distanza. Mi ritrovai a passeggiare con disinvoltura in una zona della città dove non mettevo piede da quando avevo dodici anni. Ora che ero lì, sembrava un qualunque sobborgo consumato dal tempo dove una volta si trovavano gli animati quartieri dei mercanti di Tokyo. Secondo ogni indizio, ci stavamo recando a casa di quell'uomo e mi pareva strano seguirlo senza la minima esitazione. Certo, sarebbe stato comprensibile se fossi stato in avanzato stato di ubriachezza; ma non lo ero.
Che cosa mi era preso, mi domandai, per lasciare che questo estraneo appena incontrato mi portasse a casa sua? La risposta era semplice, naturalmente: somigliava in maniera straordinaria a mio padre. Tale somiglianza aveva annullato la mia consueta cautela, rendendomi incapace di opporre resistenza. Eppure, perché poi quell'uomo si era messo in testa di portarmi a casa sua? Ero evidentemente molto più vecchio di lui, perciò non potevo certo ricordargli suo figlio o chissà chi altro. «Ti va una birra?» «Come, prego?» Sembrava tanto mio padre, che risposi istintivamente con formale cortesia, anche se in realtà il più vecchio ero io. «Fa caldo, ho pensato che forse una bella birra gelata è quello che ci vuole», disse, fermandosi a contare gli spiccioli che aveva in mano. Stavamo davanti a un altro distributore automatico, di lattine di birra, stavolta. «Posso tenere soltanto una bottiglia, in frigo. Se ne ho, la bevo, sai com'è.» «Lasci che offra io.» «Non dire stupidaggini.» Clic-clac-tong. Una lattina da mezzo litro venne giù all'interno del distributore e apparve sotto di esso. «È ghiacciata. Tienila con un fazzoletto o qualcosa», mi raccomandò porgendomi la lattina. «Va bene.» Vidi che aveva intenzione di comprarne un'altra. «Crede che ne berremo così tanta?» «Che stai dicendo? È un paio di misere lattine.» Clic-clac-tong. Apparve un'altra lattina da mezzo litro. «La tieni col fazzoletto?» «Sì.» Prese la seconda lattina e ricominciò a camminare. «Lei non ha bisogno del fazzoletto?» domandai. «No, non mi dà fastidio.» Pareva piuttosto compiaciuto. Be', nemmeno a me darebbe fastidio, mi venne voglia di replicare, ma un'inspiegabile allegria mi montava dentro, e tenni la lingua a posto. Non sapevo esattamente da che cosa fosse causata quell'allegria. Ma mi resi conto di gustare ogni momento che trascorrevo con quell'uomo, che
aveva un atteggiamento di assoluta autorità. Mi crogiolavo nell'illusione di andar dietro a mio padre. Mi beavo di una calda sensazione di sicurezza che non avevo conosciuto più da moltissimo tempo. A me non dà fastidio, ma è meglio che tu usi un fazzoletto, dice. Che tipo! Frenai l'impulso di dargli una vigorosa pacca sulle spalle e ululare di gioia. «Ecco, ci siamo. Di sopra», disse. Svoltò in un vicolo e cominciò subito a salire una scala metallica lungo il fianco di una casetta a due piani. Saliva rapido ma silenzioso, attento a non far rumore. Istintivamente lo imitai. Una passerella esterna correva lungo tutto il primo piano, e c'erano tre porte. L'uomo avanzò verso l'ultima, sul retro. «Sono io», disse, bussando alla porta con il piede. Indugiavo, con il corpo ancora una volta percorso dai brividi. Era sposato! Ma certo. Poco prima aveva detto: «Posso tenere soltanto una bottiglia, in frigo», vale a dire che qualcuno, presumibilmente sua moglie, non gliene avrebbe lasciate tenere di più. Quelle parole, vagamente, avevano lasciato una traccia. All'improvviso sentii che non volevo conoscere la moglie di quell'uomo. Vederla avrebbe significato cancellare all'istante la gioia paradisiaca di quei momenti dovuta all'inquietante somiglianza dell'uomo con mio padre: sarei dovuto tornare di schianto alla realtà. No, un momento. Non era questo. O almeno non era tutto. Una parte di me, in realtà, stava coltivando una speranza segreta, vivendo un segreto terrore. Non poteva essere, no? Certo che no. «Che cosa fai là dietro? Avanti, entra», disse l'uomo, e scomparve all'interno. Rimasi lì immobile, congelato. Una donna fece capolino alla porta. «Su, vieni», disse con un sorriso allegro prima di tornare a svanire all'interno. Per poco non svenni. Non stava succedendo davvero. Doveva esserci qualcosa che non andava, in me. Non era possibile che stessi dormendo: nessun sogno poteva essere tanto vivido e realistico. «Ehi! Sei rimasto incollato?» mi chiamò l'uomo. «Su, entra», ripeté la donna. Era la voce di mia madre. La donna che avevo intravisto sulla soglia era mia madre. Tremavo tutto. I miei piedi si rifiutavano di muoversi. Ricacciando le la-
crime in gola, riuscii a spremere soltanto un debole: «Uh». L'uomo sporse la testa fuori della porta. «Che cosa aspetti? Ti ho detto di entrare.» «Sì...» «E smettila di fare il timidone.» «Sì...» Mi sforzai di ricompormi. Sapevo di non poter semplicemente fare dietrofront e andarmene. Non ero pronto a troncare tutto e non vedere mai più quei due. Però mi ci volle fino all'ultima riserva di energia, per placare l'agitazione. Grazie al cielo, essere solo al mondo mi aveva permesso di fare parecchia pratica nel reprimere le emozioni. Varcai la soglia e dissi: «Grazie. Mi dispiace di incomodarvi a quest'ora». «Oh, lascia stare», fece mia madre. Mia madre era morta a trentacinque anni. Ma stavo fissando il ritratto sputato di mia madre a trentacinque anni. «La notte è giovane. Su, siediti qui.» Era un vecchio appartamentino logoro con soltanto un cucinino e una stanza di otto tatami, ma era pulito e ordinato. Tenevano bene la casa, notai, cercando di proposito di occupare la mente con osservazioni concrete. Il frigorifero non sembrava particolarmente vecchio. Il thermos era moderno, di quelli con l'apertura a pressione. E, sopratutto, avevano un calendario di Rox, quel nuovo centro commerciale. Quelle persone non potevano assolutamente essere mia madre e mio padre. «Ehi, guarda un po' qua», disse l'uomo. «Che cos'è?» «Un radiocomando. Questa citrulla va matta per le macchinine radiocomandate.» Tre modellini di auto da corsa di dimensioni ragguardevoli erano appoggiati fianco a fianco su un foglio di giornale nell'angolo della stanza. «Davvero?» Non riuscivo proprio a guardare la donna. «Ci crederesti? Alla sua età? Appena ha un momento libero la trovi a giocare con le sue macchinine. Ne ha già fatte fuori quattro o cinque, oltre a quelle che vedi lì.» La donna rise. Mi costrinsi a guardarla e vidi mia madre, minuta, di carnagione chiara, con le labbra un po' grosse, che rideva esattamente come ricordavo. Ma quella donna giocava con le macchinine radiocomandate. Non pote-
va proprio essere mia madre. 5 Presi un taxi sull'International Boulevard poco dopo le undici. L'uomo e sua moglie mi accompagnarono insieme fino all'orlo del marciapiede. «Non sparire, adesso.» «Sì, torna a trovarci.» Mi sentivo come un ragazzotto di campagna che dice addio ai suoi genitori alla stazione, diretto a Tokyo per la prima volta. Non volevo salutarli. Le lacrime mi velavano gli occhi mentre osservavo le loro sagome rimpicciolire. «Certi parenti che non vedevo da secoli», spiegai al tassista. Quello non replicò. «È stata una cosa veramente speciale», aggiunsi infine, nonostante il suo evidente disinteresse. Le lacrime mi bagnavano le guance. Forse il tassista pensava che fossi ubriaco. Be', su quello aveva ragione. Avevamo bevuto whisky, dopo aver finito la birra. Era bello piangere. «È stata una cosa veramente speciale», ripetei sottovoce. «Molto speciale, ritrovarmi con la mia famiglia dopo tanto tempo.» Ma, in realtà, l'uomo e la donna con cui avevo trascorso la serata non erano né miei parenti né conoscenti. Non so quante volte avevo dovuto trattenere la domanda che continuava a spingere per uscirmi dalle labbra: «Voi siete mamma e papà, vero?» Certe volte ero perfino arrivato a tapparmi la bocca. Due persone non ancora quarantenni non potevano in alcun modo essere i genitori di un quarantasettenne... anzi, diciamo pure quarantottenne, a partire da quel giorno. Ma stare con loro mi aveva fatto sentire di nuovo bambino. Naturalmente un bambino non avrebbe bevuto whisky, ma in un momento di distrazione indotta dall'alcol mi ero effettivamente rivolto all'uomo chiamandolo «papà» e lui aveva risposto: «Sì?», proprio come fossi davvero il suo bambino. Anche la donna si era comportata come la proverbiale mamma chioccia che si dà un gran daffare per i suoi pulcini. «Tieni, stenditi il tovagliolo sulle gambe, così non ti sporchi.» «Non mi rovescerò addosso le capesante in scatola solo perché sono un po' brillo», avevo replicato. «Visto? Ecco qua», aveva detto lei, neppure un istante dopo. «Non hai
ancora finito di dirlo e già ne hai fatta cadere una.» «Non sparire, adesso.» «Sì, torna a trovarci.» «Caspita! Scrivi per la televisione? Sei un pezzo grosso, allora! Si vede anche, che sei in gamba.» Sono ben lungi dall'essere in gamba, mamma, e di certo non sono un pezzo grosso. Sto solo campando come posso, tutto solo, cercando di tirare avanti alla meno peggio la mia deprimente esistenza. «Non sparire, adesso.» «Sì, torna a trovarci.» Alla fine, il tassista perse la pazienza. «Ehi, signore, la vuole smettere? Se continua a strillare in quel modo, dovrò chiederle di scendere.» Poteva punzecchiarmi quanto gli pareva, per quel che mi riguardava, ma non volevo essere scaricato sul ciglio della strada, sicché tenni la bocca chiusa. Però continuai a ripetermi mentalmente le cose che la coppia aveva detto. Le luci della città scintillavano tutto attorno, e perfino i semafori sembravano bellissimi. Il giorno seguente, nell'appannamento del doposbornia, dubitai che una sola di quelle circostanze potesse essersi realmente verificata. Mi convinsi di aver sognato tutto, dopo essermi ubriacato e addormentato su una panchina da qualche parte. Ma lievi tracce della dolcezza che avevo provato ancora persistevano. In ogni caso, dovevo tornare alla realtà. I quattro giorni successivi, li trascorsi, con il produttore e il regista di una nuova serie televisiva per la quale avevo accettato di scrivere, a battere Tokyo da cima a fondo per imparare tutto il possibile su quanto accadeva nei circoli del tennis e nelle sale da biliardo. Il piano originario consisteva nel mettere insieme un programma sul biliardo approfittando dell'esplosione di popolarità di quel gioco, ma il produttore era preoccupato per tutte le scene in interni bui che questo avrebbe comportato. Per fare da contraltare a quelle scene con esterni più luminosi, gli era venuto in mente di usare il tennis come coprotagonista. Non ero in una posizione tale da mettermi a discutere: il mio carico di lavoro era a zero e non potevo permettermi di mettere a repentaglio la possibilità di assicurarmi una serie di lunga durata. Alla fine del quarto giorno, salutai lo staff di produzione in un bar di Ryudo-cho e arrivai a casa poco dopo le dieci. Mi ero impegnato a mettere
insieme una proposta formale (nomi dei personaggi, abbozzo della trama, individuazione del target e modalità con cui il programma l'avrebbe conquistato) e sottoporgliela due giorni dopo. Accesi il condizionatore e andai difilato alla doccia. Dopo, asciugandomi, ascoltai i messaggi sulla segreteria telefonica. Il primo mi informava che un telefilm di due ore per cui ero in attesa era stato cancellato. Poi c'era un messaggio di un giovane attore che conoscevo. «Ehm, mi spiace di averti tenuto in sospeso così tanto, ma Ami e io abbiamo finalmente deciso di saltare il fosso. Già, vivremo per sempre felici e contenti. Ami parla di sposarci verso novembre, alle Fiji. Pensi di farcela? Saremmo davvero felici se potessi esserci. Vieni a festeggiare con noi, sensei!» Com'era consuetudine tra attori giovani e autori più anziani, mi aveva sempre chiamato sensei anche se non ero mai stato il suo insegnante o il suo mentore. Non mi prendevo la briga di correggerlo perché sapevo che lo avrei messo in imbarazzo e avrei soltanto fatto la figura dello snob. Però sembrava piuttosto presuntuoso da parte sua credere che avessi voglia di andare fino alle Fiji per festeggiare con loro. Forse è così che funziona la testa delle giovani star di oggi, pensai. La successiva era una voce di donna: «Sono Fujino, la sua vicina del terzo piano. Ho solo pensato di sentire se era in casa. Arrivederci». L'aria condizionata stava finalmente cominciando a fare effetto. Andai in camera da letto a prendere il pigiama. Non erano passati molto più di dieci giorni da quando ero rimasto sotto la pioggia a fissare la finestra della donna, eppure, ascoltando ora la sua voce, avevo la sensazione di sentire una lontana conoscente che avevo quasi dimenticato. Dopo quel giorno di pioggia, ero stato ad Asakusa. La mia esperienza laggiù - o forse era stata solo l'allucinazione di un ubriaco, o qualunque cosa mi fosse successa quella sera - a quanto pareva aveva lasciato in me un'impressione così potente che tutto quanto l'aveva preceduta sembrava ormai storia antica. No, un momento, non la sto dicendo tutta. Anche quella sera ad Asakusa mi sembrava ormai storia antica. Il vortice degli ultimi quattro giorni aveva spazzato via tutto quanto c'era stato prima, e il racconto totalmente immaginario che mi stavo preparando a scrivere si era impadronito di ogni recesso della mia mente. Quella donna aveva forse trascorso le giornate accanto al telefono, in at-
tesa che la chiamassi? Aveva trascorso le serate tremando di paura nel silenzioso abisso che questo edificio diventava ogni notte? La risposta era sì, senza dubbio. Nulla era cambiato, dopotutto, e pensai a quanto il silenzio dell'edificio aveva pesato anche su di me. Ma negli ultimi giorni avevo completamente dimenticato quella quiete. Ora la mia unica preoccupazione era il primo lavoro a lungo termine che fossi riuscito ad assicurarmi dopo il divorzio. Perché? Che cosa era stato a fare la differenza? La risposta doveva essere Asakusa. Gli avvenimenti di quella sera avevano completamente trasformato il mio stato d'animo. Quella straordinaria coppia mi aveva strappato all'oscura solitudine nella quale mi ero così disperatamente impantanato. Eppure eccomi, dopo nemmeno cinque giorni, a pensare a quei fatti come fossero storia antica. Che cosa mi era preso? Mi sentivo un figlio ingrato, capriccioso, che trascurava i suoi genitori e perseguiva soltanto i propri egoistici interessi. Mi rimproverai. A che cosa si riduceva, comunque, questa mia vita? Dedicarmi a occupazioni casuali che si presentavano una dietro l'altra, godere dei momenti di emozione che ogni piccolo sommovimento recava prima di scomparire in lontananza, senza però conservarne alcuna durevole riserva di saggezza. Ogni nuovo giorno trascorreva pressoché identico. Non avevo mai raggiunto la maturità, e intanto l'età mi rendeva sempre più debole. Come avevo potuto respingere tanto lontano dai miei pensieri quella serata straordinaria in così pochi giorni, come nulla fosse stato? Un uomo e una donna, che somigliavano in modo stupefacente a mio padre e mia madre morti, mi avevano accolto in casa loro, mi avevano confortato, si erano rallegrati insieme con me e mi avevano trattato con la gentilezza e l'affetto che ci si può attendere soltanto dai propri genitori. Quanta parte di quell'esperienza era stata una creazione della mia fantasia? Non era quella la prima cosa che qualunque persona normale avrebbe voluto sapere? Devo essere fatto di acqua e indifferenza, pensai. Un irresistibile desiderio di tornare di corsa ad Asakusa e bussare alla porta della coppia mi crebbe dentro. Ma raffreddai quell'impulso febbrile. Mi sforzai moltissimo di raffreddarlo. Razza di scribacchino bizzoso e scriteriato, mi rimbrottai. È troppo tardi per andare ad Asakusa, stasera. Che ora pensi che sia, comunque? C'è stato qualcosa di miracoloso in ciò che hai vissuto quella notte. Non
puoi tornare indietro di corsa, per capriccio, e aspettarti di trovare risposte su cose del genere. Al momento, la domanda più pressante era: che fare con la telefonata della donna del terzo piano? In effetti l'avevo invitata. Le avevo detto di passare a bere qualcosa. O forse era soltanto per parlare. Sollevai la cornetta, ma subito mi resi conto di non conoscere il suo numero. Presi l'elenco e mi misi a cercare un Fujino corrispondente a questo indirizzo. Il nome completo risultava essere Katsura Fujino. Un nome così potrebbe anche essere maschile, ma pensai che fosse il nome della donna. Rispose al secondo squillo. «Pronto, casa Fujino», fece in tono sbrigativo. «Sono Harada, del settimo piano», dissi. «Oh, salve.» «Mi scusi se la chiamo così tardi.» «Si beve?» «È libera?» «È venerdì.» Sarebbe stata pronta tra dieci minuti, no, cinque, disse, senza ombra di malinconia nella voce. Non era proprio il tono di una persona che passava le notti a tremare di paura. Avendo pensato di tendere una mano incoraggiante a una donna oppressa dalla solitudine, il suo buonumore mi colse un tantino di sorpresa, ma subito mi resi conto che era meglio così, piuttosto che vederla arrivare con una faccia da funerale. Esatto, annuii tra me. È venerdì. Perdevo facilmente il conto dei giorni della settimana, quando non andava in onda una mia serie. «Kei», rispose la donna quando le domandai come dovevo chiamarla. Si buttò sul divano e cominciò a tirar via il coperchio da un recipiente di plastica che aveva portato con sé. All'interno c'erano un coltello e diversi pezzettini di formaggio. «Ufficialmente, all'anagrafe, sarebbe Katsura. Ma dato che katsura e fuji sono entrambi alberi, metterli insieme evocherebbe qualche strano esperimento di innesto, no? Quindi ho deciso di usare la variante cinese di katsura e farmi chiamare Kei. Oppure può semplicemente considerarla come la lettera K, o il nome inglese Key; come preferisce.» «Ha una bella varietà di formaggi, lì.» «Ho continuato a tagliuzzarli tutti, ormai sono proprio minuscoli.»
«Forse prenderò questo qui, con la muffa scura.» «È sicuro?» Sembrava divertita. «È tanto cattivo?» «La gente di solito fa beee!» «In tal caso, meglio che me ne dia una fettina piccola piccola.» «In realtà, questi formaggi per me sono una specie di test della personalità. A seconda di quello che sceglie, capisco che genere di persona è.» «Allora una fetta di quella roba muffosa che cosa le dice?» «Che lei è giovane dentro.» «E aveva bisogno del formaggio, per saperlo?» «Be', nel suo caso, lei è giovane anche fuori, ma certe volte ho visto adolescenti che si rifiutano di mangiare qualsiasi cosa che non sia roba industriale piena di conservanti.» «Non si può dire che siano vecchi solo per questo.» «Ma sono vecchie, le persone così.» «Shochu con ghiaccio», annunciai, posando il bicchiere di fronte a lei. «Una fetta di formaggio con venature di muffa», disse lei, spingendo un piattino dall'altra parte del tavolo. Ridemmo entrambi e bevemmo un sorso dei nostri drink. Io mi ero versato del brandy. Lei aveva chiesto espressamente lo shochu. Era tutta allegra e gioiosa. Indossava una maglietta gialla e blue jeans. Eppure qualcosa in quella figura di trentenne dolcemente tondeggiante pareva in lieve contrasto con i suoi frizzi e buonumore. «Si è accorto di essermi passato proprio davanti, l'altroieri mattina nell'atrio?» domandò. «Mi è parso di no. È uscito dall'ascensore con una faccia di un'intensità spaventosa ed è andato dritto verso la porta senza neppure un'occhiata verso di me. A che cosa pensa in quei momenti?... Oh, davvero? Che genere di programma, un giallo o qualcosa del genere?... Oh, allora è sullo sport. Adesso che ci penso, ho visto un sacco di atleti che avevano la sua stessa espressione.» C'era qualcosa di artificiale nella sua allegria. Forse per lei era un punto d'orgoglio non mostrare la sua depressione, anche se, essendosi presentata la prima volta alla mia porta ubriaca e con la scusa della solitudine, ormai era un po' tardi per cominciare a nascondere la malinconia. «Oh, be', ci rinuncio», mormorò all'improvviso con una voce che era appena più di un sospiro. «Rinuncia a cosa?»
«È troppo faticoso.» «Scambiamoci i posti, permette? Quel divano può distruggerti, se non sei un pelandrone.» «Prima di venire, ho giurato a me stessa di mantenere la conversazione gaia e spensierata.» «Non occorre che imponga a se stessa un peso del genere.» «Me ne sono liberata.» Sorrise dolcemente. Per la prima volta, le sue parole e il suo atteggiamento sembravano in armonia. «Anche le banali chiacchiere richiedono tanto sforzo. Ora che ho passato i trent'anni, devo abbassare la tonalità di un'ottava, più o meno.» «Posso attirare la sua attenzione su un po' di brandy, ora?» «Ho ancora un po' di questo.» Restammo entrambi in silenzio per qualche istante, e il rumore del traffico di fuori risaltò. «Metto un po' di musica?» «No, grazie», sorrise. «Ascolto parecchia musica quando sono sola.» «Mi dispiace, ma credo che non ce la farò a finire nemmeno questa fettina piccola.» «Deve immaginare che a certa gente quella roba piace davvero, però, giusto? In altri paesi, almeno.» «Altrimenti non continuerebbero a produrlo.» «Mi piace acquisire gusti nuovi. Anche quando all'inizio non sopporto il sapore, continuo a provare e riprovare, sinché alla fine improvvisamente capisco cosa ci trova la gente di tanto straordinario. Allora ho la sensazione di aver imparato qualcosa di nuovo sugli europei.» «A quanto pare lei è una vera secchiona.» «Esatto. Non sono capace di divertirmi e basta.» «Ma in fin dei conti si diverte, no?» «Sì, credo di sì. Mi ci vuole soltanto un po' di tempo.» Be', spero che anche con me ti prenderai un po' di tempo, così un giorno capirai cosa ho di tanto straordinario. Formulai la battuta mentalmente, senza pronunciarla ad alta voce. Volevo evitare di farmi coinvolgere troppo. Era una donna di notevole bellezza. La prima impressione era stata di una fronte un po' troppo ampia e labbra spesse, ma, studiandola mentre parlavamo, scoprii che gli occhi emanavano un fascino potente. Varie volte mi sorpresi a fissare soltanto quegli occhi. Mi facevano passar sopra ai
suoi difetti. «Non ha un assistente o qualcosa del genere?» domandò. «Nossignore.» «Sa, quando i personaggi televisivi danno l'impressione di vivere davvero come si vede in TV? Be', quando scopro che quei comici che fanno sempre i pagliacci, che mi fanno ridere, in realtà fanno parte di un affare molto serio, con un sacco di apprendisti che trattano come schiavi, in un certo senso mi sento presa in giro.» «Sono completamente solo», dissi. «Immagino che la cosa richieda una spiegazione.» «Oh, no, non avevo intenzione di impicciarmi.» «Nemmeno lei ha detto niente sul perché è sola.» «Ho una brutta ustione.» Lo disse senza la minima esitazione. «Proprio qui», aggiunse, posandosi la mano sul petto. «Mi hanno fatto degli innesti di pelle, ma la cicatrice è ancora brutta e i colori non vanno proprio d'accordo.» Inghiottì l'ultimo sorso di shochu. «Non è il genere di cose di cui ti va di parlare con i vicini, ma dove abitavo prima c'era gente che non mi lasciava in pace, continuava a tormentarmi per sapere come mai fossi ancora single. Alla fine è diventato soffocante.» Cercai una risposta. «Quindi, per una volta, ho qualcosa di buono da dire su questo posto», dissi infine. «Potrei avere un po' di brandy?» «Ecco, tenga un bicchiere pulito.» Versai da bere. «Questo postaccio ha fatto andare via tutti gli altri, e così abbiamo potuto incontrarci», ripresi. «Sa, è stato rinfrescante... il modo diretto in cui ha parlato di sé. In realtà ho ammirato la sua schiettezza fin dalla prima volta che si è presentata alla mia porta. Non capita spesso che un uomo a un passo dai cinquant'anni possa trascorrere una serata così rilassante con una donna giovane e bella come lei.» «E, ciliegina sulla torta, ora sa che la donna ha un handicap, perciò perché tirarsi indietro, giusto?» «Non è questo che intendevo. Non parlavo di sesso.» «Avrei voluto che parlassi di sesso», replicò lei, passando improvvisamente al tu. «Niente mi impedisce di divertirmi, finché la stanza è buia. E di dietro sono perfettamente normale, perciò se ti avvicinassi da dietro andrebbe benissimo anche alla luce.» Per un istante, non si mosse. Io non riuscivo a muovermi. Poi posò il
bicchiere del brandy sul tavolo attenta a non fare il minimo rumore. Ero di nuovo in cerca delle parole giuste. «Succede sempre così», disse piano. «Rovino sempre tutto. Ti dispiace se prendo un bicchier d'acqua?» Fece per alzarsi. «Te lo prendo io», dissi, correndo al lavandino della cucina. La donna si rimise a sedere, con le mani appoggiate sulle ginocchia. «Ecco. Ti prendo un po' di ghiaccio?» «No, va bene così.» Ne bevve un sorso. «Forse è meglio che vada.» «Ti prego, resta. Beviamo ancora un po', ubriachiamoci.» «Non sopporterei di ubriacarmi adesso. Sarebbe la cosa peggiore», dichiarò. «Oh, ma perché? Non sarebbe la cosa peggiore, e poi non hai rovinato niente. È un piacere sentire una persona parlare così, a cuore aperto.» In verità, le sue parole non mi avevano ispirato traccia di lascivia. Mi avevano invece autenticamente commosso, anche se esitavo a dirlo per paura di sembrare insincero. «Allora vuoi baciarmi?» domandò. Continuava a non guardarmi. «Certo», mi affrettai a rispondere, per evitare ulteriori imbarazzi. Ma se l'avessi baciata subito, sarebbe sembrata un'elemosina. Prima dovevo mettermi su un piano di parità. «Secondo me sei bellissima.» «Lo dici soltanto perché non hai visto.» Crollò in avanti come se le forze l'avessero improvvisamente abbandonata. Scivolai sul divano accanto a lei e le toccai la spalla. «No, davvero. Ti trovo bellissima», ripetei. «No, ti prego.» Forse lodare la sua bellezza equivaleva a rimproverare la sua bruttezza nascosta. Ma non mi erano venute in mente altre parole. Non essere sciocco! mi ammonii. In momenti come questo, una donna non vuole parole. Giusto? Inoltre, il vero significato di un bacio sa come farsi conoscere, in un modo o nell'altro. Le mie labbra rimasero premute contro le sue. Fu un bacio lungo, protratto, un bacio che sembrava un preludio all'atto d'amore. Ma quando portai la mano al suo seno, si divincolò e mi voltò le spalle.
«Non è colpa tua, l'ustione», dissi. Era un'osservazione sciocca. Non mi ero mai trovato ad affrontare niente del genere durante un incontro intimo. «Vorrei andare in bagno», sussurrò. «Ho bisogno di prendere in prestito un asciugamano per coprirmi il petto.» Si alzò e scomparve nel bagno. Mi sembrava che facesse tanto rumore per nulla. Quale che fosse la natura delle sue cheloidi, per quanto fossero brutti i segni lasciati dagli innesti di pelle, non riuscivo a immaginare che potessero darmi fastidio. In effetti, sapere delle avversità che aveva patito mi colmava di una dolce tenerezza. Ritenevo che avrei semplicemente dovuto guardarle il petto e non pensarci più. Si stava comportando in modo irragionevole. Perché doveva insistere che mi avvicinassi a lei da dietro? Non ci stavo. Sentii l'acqua scorrere nella doccia. Se le fossi piombato addosso in quel momento, l'avrei terrorizzata. Non volevo certamente forzare la situazione a quel modo. No, avrei trovato l'occasione di scoprirle lentamente il petto sfregiato, e poi l'avrei rassicurata che non mi infastidiva per niente. Da questo, occorreva cominciare. Ma quando riapparve di fronte a me nuda tranne che per un asciugamano blu stretto al petto, mi trapassò con uno sguardo acuminato. «Devi promettere», pretese. «So che puoi facilmente tirar via questo asciugamano in qualsiasi momento, ma devi promettermi di non farlo.» «So che non mi darà fastidio, qualunque tipo di cicatrici tu abbia. Non cambierà quello che provo per te», affermai. «No, non devi vedere», ripeté. Non intendeva cedere. Dalla sua voce d'acciaio capii che non si sarebbe avvicinata di un passo finché non avessi fatto la mia promessa. «Be', se per te significa così tanto», assentii con un cenno. «Prometti?» «Prometto.» Ancora non si mosse. «Forse penserai che sto gonfiando tutto in maniera sproporzionata, ma è come uno di quei miti antichi», spiegò. «La donna dice all'uomo che non deve guardare, lui lo fa ugualmente, e nulla può riparare il danno provocato tra i due.» «Nei miti antichi, forse, ma esistono anche altre storie», ribattei. «Per esempio?»
«Una ragazza è convinta di essere disperatamente brutta. Agli occhi degli altri è bella in tanti modi diversi, ma vuole uccidersi perché, mettiamo, pensa di avere le gambe grosse. O un brufolo che ci mette un'eternità ad andar via, sicché crede che sia inutile continuare a vivere.» Per alcuni istanti Kei rimase immobile con gli occhi a terra. Era arrabbiata? Si era pentita di aver fatto la doccia, ora che sapeva di non potersi fidare di me? Quando infine rialzò la testa, nei suoi occhi c'era un'evidente ombra di stanchezza. «Ti stai prendendo gioco di me.» «Hai ragione. Era fuori luogo.» «Promettimi che non guarderai. Qualunque cosa accada.» «Non guarderò, qualunque cosa accada. Lo prometto.» Venne lentamente verso di me. Il bianco delle sue spalle occupò interamente il mio campo visivo mentre si avvicinava, e un lieve senso di ebbrezza mi sopraffece. Ora era di fronte a me. Goccioline d'acqua brillavano sulla sua fronte ampia. Mentre la prendevo tra le braccia, ruotò agilmente su se stessa per voltarmi la schiena. Sul bianco intenso della sua spalla sinistra scoprii un piccolo neo scuro. «Che grazioso neo hai», dissi toccandolo con il dito. «Anche sulla vita e sul fianco», fece lei. Scrollando i capelli come per allentare i nervi tesi, si lasciò sfuggire un risolino a malapena udibile. «Hai ragione. Anche quello sulla vita è grazioso.» Era come se un minuscolo spruzzo di inchiostro di china fosse caduto in quel punto, lasciando la pelle perfettamente liscia com'era sempre stata. Mi inginocchiai. «E anche quello sul fianco.» Carezzandole dolcemente le natiche bianche e rotonde con la punta delle dita, cominciai premendo le labbra contro il minuscolo neo nero alla sinistra del sedere. 6 Trascorsi i due giorni seguenti lavorando alla mia proposta. Il terzo giorno decisi di andare ad Asakusa. Era passato da poco mezzogiorno. La parentesi con Kei aveva dissolto il potentissimo impulso che mi ave-
va stretto quella sera: il bisogno di buttarmi a capofitto fuori della porta e andare ad Asakusa. Come la serata ad Asakusa aveva eclissato le mie precedenti preoccupazioni riguardo allo stato d'animo di Kei, così questa nuova svolta nel mio rapporto con Kei aveva accantonato Asakusa. Ma non potevo semplicemente dimenticare quegli avvenimenti e passare oltre. Nel profondo del mio cuore risuonava ancora la tenerezza delle loro voci che mi raccomandavano: «Non sparire, adesso» e «Sì, torna a trovarci». Anche se non desideravo più così ardentemente il genere di conforto emotivo che avevo trovato in loro presenza, sapevo che la notte può giocare strani scherzi alle percezioni e desideravo appurare quanta parte del mio straordinario incontro con loro potesse essere il prodotto delle ore notturne. Ecco perché ero uscito nel bel mezzo di quella torrida giornata estiva: avevo bisogno di guardare negli occhi la realtà sotto la luce del sole che tutto rischiara. In parte, la scelta del momento era anche motivata da una certa paura: la paura di incontrare nuovamente quella coppia sotto il velo dell'oscurità. In fondo, la loro somiglianza con la madre e il padre che avevo portato nei miei pensieri negli ultimi trentasei anni era veramente incredibile. Naturalmente, le immagini scolpite nella memoria all'età di dodici anni non potevano, da sole, fornire una riproduzione affidabile di ogni loro caratteristica. Eppure, in qualche modo, il sorprendente senso di tranquillità che mi aveva avvolto mentre ero con loro mi aveva quasi convinto che fossero realmente i miei genitori. Tra i ricordi più dolci della mia infanzia c'era quello del ritorno a casa da una lunga e faticosa escursione a piedi coi compagni di scuola, gettare in terra la cartella che mia mamma mi aveva fatto con un vecchio zaino dell'esercito imperiale, levarmi in gran fretta camicia, pantaloni e calzini, buttarmi sul tatami in mutande e, totalmente libero dall'esigenza di badare alle apparenze o di tenere alta la guardia, abbandonarmi pigramente al sonno mentre mia madre andava su e giù per la cucina preparando la cena. Qualcosa di molto simile al meraviglioso senso di sicurezza che avevo provato da bambino in momenti come quello era disceso su di me quella sera ad Asakusa. Non riuscivo a ricordare altri momenti del genere, in tutti quegli anni dopo la morte dei miei genitori. Naturalmente, in un'occasione, avevo goduto di molte ore di relax e riparo dalle preoccupazioni terrene, con la mia ex moglie, ma il senso di completa sicurezza che avevo sperimentato da bambino era un'altra cosa.
Forse una certa mia rigidità, derivante dalla sensazione che un uomo non dovrebbe approfittare troppo delle premure di una donna, aveva frustrato gli impulsi protettivi di mia moglie. Credevo che l'istinto materno della donna dovesse essere esercitato unicamente sui figli, e che cercare simili qualità nella propria moglie significasse distorcere il rapporto tramutandolo in qualcosa che non dovrebbe essere. Nel corso degli anni, mi è capitato spesso di sentir dire cose come: «Non sa fare niente da solo, devo fargli tutto io» o «L'ho conquistata facendo appello alla madre che c'è in lei». Ma quanto a me, mi era stato impossibile abbandonarmi incondizionatamente all'abbraccio materno di mia moglie e lasciarmi adorare da lei. Ripensandoci ora, il perpetuo stress al quale ero stato sottoposto dall'età di dodici anni mi aveva reso tristemente incapace di accettare la benevolenza altrui. Quelli che hanno trascorso un'infanzia sana imparano che esibire un giusto grado di dipendenza è un modo di conquistarsi l'amore degli altri. Ma un'adolescenza sfortunata mi aveva sottratto questo segreto, e quella mancanza aveva gradualmente raffreddato il rapporto con mia moglie. Capivo che per mia moglie L'assenza di calore nel nostro rapporto risultava sempre più difficile da sopportare. Eppure si rifiutava di affrontare l'argomento del divorzio, e alla fine mi resi conto che dovevo essere io a rompere il ghiaccio. Questa, in ogni modo, era la posizione che mantenni durante le pratiche. Per parte sua, mia moglie continuò a ripetere sino alla fine che non aveva mai smesso di amarmi... Ora però, a quanto pareva, era già finita a letto con Mamiya. Be', andava bene così. Andava tutto a meraviglia. Il punto importante era che, in ultima analisi, anche nel divorzio, mi era stato negato il ruolo passivo. Avevo dovuto prendere l'iniziativa personalmente, avevo dovuto portare personalmente il peso della colpa e, anche se la cifra in sé non era affatto irragionevole, avevo anche dovuto rinunciare alla maggior parte dei nostri beni, compresa la casa in cui eravamo vissuti e il terreno sul quale sorgeva. Tutta quell'esperienza aveva fatto sentire il suo peso su di me, lasciandomi emotivamente sfinito. Desideravo tornare a un ruolo passivo, alla gioia spensierata di fare semplicemente quello che dicevano mia madre e mio padre. «Tieni, stenditi il tovagliolo sulle gambe, così non ti sporchi.» «Visto? Non hai ancora finito di dirlo e già ne hai fatta cadere una.» Forse, in qualche profondo recesso del mio cuore, avevo anelato proprio alla tranquillità che simili parole potevano portare.
E il mio desiderio si era cristallizzato nell'illusione di una sola notte. Era sembrato tutto troppo reale per essere un'illusione, ma per me era più semplice accettare che ne fosse stato responsabile un temporaneo disturbo emotivo, piuttosto che cercare un'altra spiegazione. Certo, non era particolarmente piacevole dover ammettere una debolezza mentale capace di innescare turbe del genere, ma sembrava il modo più plausibile di spiegare la mia esperienza di quella notte. Stavolta scesi dalla metropolitana alla stazione di Tawara-machi invece di arrivare fino al capolinea di Asakusa. Ricordai quanto me l'ero presa una volta, quando avevo sentito un giornalista in TV leggere Tawara-cho, usando l'altra comune interpretazione del carattere finale. «È Tawara-machi, idiota», avevo sbottato contro il televisore. Anche se non ero quasi mai tornato laggiù, un pizzico di fedeltà mi era rimasto nel sangue. Ora, tornato in quel mio vecchio quartiere, salii le scale della metropolitana e uscii sul marciapiede. Il sole incandescente di piena estate batteva implacabile su quel paesaggio squallido e scolorito. Stavo di nuovo per incontrare quella coppia straordinaria, eppure, per via dei dubbi assillanti che mi portavo dietro, il sole mi pareva ugualmente implacabile e il paesaggio ugualmente squallido. Cominciai a sentire i piedi pesanti. La sensazione di perdermi in una ricerca sbagliata si faceva più forte a ogni passo. Sapevo che i fatti che ricordavo non potevano assolutamente essere stati reali, perciò sapevo anche benissimo che tornare lì per apprendere la verità, qualunque essa fosse, non poteva portare altro che delusione. Perché, allora, mi stavo recando proprio là dove tutti i dolci ricordi di quella sera sarebbero certamente andati in pezzi? Avevo comprato dei biscotti e una bottiglia di sakè lungo la strada, a Jiyugaoka. Ne sentivo il peso nel sacchetto al mio fianco. Già, ricordai a me stesso. Dato che hanno diviso con me cibo e bevande, è più che giusto portare qualcosa in cambio. E poi, comunque, probabilmente non saranno a casa in pieno giorno. Mi limiterò a lasciare i doni al loro vicino o a qualcun altro. Non faticai a trovare il vicolo dove dovevo svoltare. Non ero ancora ubriaco quando l'uomo mi aveva portato lì, perciò ricordavo bene i dintorni. Una scala metallica si inerpicava lungo il fianco dell'edificio, esattamente come ricordavo. Seguii l'esempio dell'uomo, cercando di fare meno rumore possibile nel salire. Mentre arrivavo lì, l'idea - non saprei dire se fosse più una paura o una
speranza - che l'appartamento potesse essere scomparso, che forse non sarei più stato in grado di ritrovarlo malgrado ogni sforzo, si era intrecciata all'aspettativa. Ma la passerella del primo piano su cui ora mi trovavo appariva tanto reale quanto l'altra volta, e vidi l'ultima porta sul retro, dove abitava la coppia, spalancata. Un secchio dei rifiuti di plastica blu era appoggiato alla porta, presumibilmente per impedirle di chiudersi. Non era possibile che mi stessero aspettando, perciò sapevo che la porta non era stata aperta a mio beneficio. Probabilmente serviva a fare un po' di corrente. Malgrado il tentativo di soffocare il rumore dei passi, sapevo che il suono delle mie scarpe sulla scala metallica doveva essersi propagato almeno un po' a tutti gli appartamenti dell'edificio. Se fossi rimasto fermo in cima alle scale troppo a lungo, gli inquilini avrebbero potuto cominciare a sospettare. Avviandomi con passo spedito lungo la passerella come se qualcuno all'improvviso mi avesse spinto da dietro, mi fermai all'ultimo alloggio e bussai alla porta aperta. «Ehilà?» chiamai, sporgendomi a guardare all'interno, con notevole trepidazione. «Oh, sei venuto.» Era mia madre. O meglio, era la donna che somigliava sotto ogni aspetto percepibile a mia madre quando era giovane. In ginocchio davanti a un tavolino basso nel mezzo del tatami, stava girando una manovella collegata a un recipiente di plastica non meglio identificato. «Mi dispiace di piombare qui così, senza preavviso.» «Oh, non pensarci. Non abbiamo il telefono, perciò tutti vengono senza preavviso.» Continuava a girare la manovella. «Fa proprio caldo, vero?» osservò. «Ogni giorno di più.» «Già, proprio così.» Non capivo che cosa fosse l'aggeggio che stava girando. «Quello cos'è?» domandai, togliendomi le scarpe ed entrando in casa. Spesso mi rimproverano di essere troppo esitante, ma lì, per qualche ragione, mi ritrovai subito dentro senza neppure chiedere il permesso, come se fosse casa mia e fosse la cosa più naturale che potessi fare. «Sto facendo il gelato.» «Oh.» «Ciccio dice che quello confezionato che vendono nei negozi è troppo dolce.»
«Non avevo mai visto un arnese come questo.» «Fanno la pubblicità in televisione.» Non poteva proprio essere mia madre, macchinette per il gelato come quella non esistevano nel 1950 o nel 1951. Non poteva esserci dubbio che quella donna appartenesse al presente. «Togliti i pantaloni e mettiti comodo», disse. «Come?» Quell'invito mi lasciò esterrefatto. «Non vorrai spiegazzarti i pantaloni.» «Oh, nessun problema.» Eccomi qua, in visita a persone che avevo appena conosciuto, e la moglie era sola in casa. Non era una grande idea, togliersi i pantaloni. «Allora togliti la camicia, almeno.» «Non credo che sia il caso.» «Perché no?» «Resterei in canottiera.» «Oh, guarda quante arie!» «Non è questo, ma...» «Gira un momento tu, ti dispiace?» «Eh?» «Ecco, guarda, giralo così. E così. E così.» L'istante dopo, mi ritrovai a girare la manovella della gelatiera al posto della donna. «Ti prendo una bella salvietta fresca per sciacquarti.» Prese da una scatola di cartone appoggiata contro la parete una salvietta piegata con cura e andò al lavandino della cucina. «Oh, ho portato dei biscotti e una bottiglia di sakè, lì in quel sacchetto», ricordai. «Be', grazie. Non dovevi.» «Sì, lo so, ma l'altra sera ho mangiato e bevuto talmente tanto, che...» «Ci siamo divertiti un sacco, no?» «Sicuro. Allora, dov'è papà?» La parola mi era scivolata via dalla lingua con naturalezza. Chiamare «papà» un uomo sposato senza figli sembrava un po' strano, ma la donna non batté ciglio. «Oggi fa il primo turno. Smonta verso le sette, quindi penso che arriverà verso le otto.» «Fa il primo turno e arriva a casa alle otto?» «Funziona così, quando si lavora in un posto che rimane aperto fino alle
due del mattino.» Mentre parlava, si avvicinò al mio viso con la salvietta che aveva inumidito. Mi scostai istintivamente. «Stai fermo», mi ordinò, quasi stesse rimproverando un bambino. Lasciai che mi pulisse il viso mentre continuavo a girare la manovella. Passò la salvietta anche attorno al collo. «Allora vuol dire che certe volte non arriva a casa prima delle tre.» «Si sta già indurendo?» «Come?» «Il gelato.» «Oh. Non ancora.» «Allora non c'è bisogno di girare così forte.» «Dove lavora esattamente?» «In un posto a Shintomicho.» «È un bel po' di strada.» «Fino a non molto tempo fa lavorava qui ad Asakusa, ma non dura mai molto, sai. Si stanca del posto, o c'è qualcosa che gli dà sui nervi, così se ne va.» «Capisco.» «È veramente bravo nel suo lavoro, sai. Non spreca mai i condimenti o il riso, il suo sushi viene sempre perfetto e tiene sempre pulita la sua superficie di lavoro. E poi si presenta abbastanza bene, no? Ci sa fare con i clienti. E non si comporta come un signor So-tutto, quindi tutti i suoi capi gli vogliono bene.» «Già.» La donna tornò al lavandino per sciacquare la salvietta. «Ma non riesce a starsene tranquillo. Dopo un po' prende e se ne va.» «Capisco.» Mi ero creato di mio padre un'immagine idealizzata, sicché venire a sapere di questo suo difetto di carattere mi prese lievemente alla sprovvista. A parte il fatto che non sta veramente parlando di mio padre, mi rammentai. Sta parlando di suo marito. Dovevo smetterla di confonderli. «Ci sono così tanti ristoranti sushi, sai», continuò. «Se fai parte dell'associazione chef, in pratica puoi trovare un nuovo lavoro quando vuoi. È questo a renderlo tanto sicuro di sé. Non sopporta gli chef che parlano come se il sushi fosse più importante della vita stessa, perciò non vuole avere niente a che fare con i ristoranti più raffinati.» «Be', fintanto che riesce ad avere il piatto pieno in tavola, immagino.»
«A mangiare ce la facciamo, ma un appartamento come questo è praticamente il massimo a cui potremo mai aspirare. Ma non mi lamento. Se si comincia a desiderare di più, non si finisce mai. Finché possiamo continuare a vivere insieme così, nel nostro modo spensierato, non chiedo di meglio.» «Mmm.» «Ti porto un po' di birra?» «No, grazie.» Non sarebbe proprio stato il caso di mettersi a bere, visto che ero piombato lì in pieno giorno e il padrone di casa non c'era. «Oh, ecco che ricominci, sempre a fare tutti questi complimenti. Come l'altra sera: continuavi a dire no grazie, basta così, grazie, e intanto continuavi a bere tutto quello che ti offrivamo.» Mentre parlava, stava già stappando una bottiglia di birra. Dopotutto, pareva che avrei bevuto qualcosa. Mentre mi sentivo riscaldare il corpo dalla prima ondata di ebbrezza, cominciai a pensare che in realtà non c'era niente di tanto straordinario in quel che era successo. Semplicemente, mi ero imbattuto in un tipo piuttosto socievole che aveva deciso di invitarmi a tornare a casa sua. Anche sua moglie era un tipo alla buona, e tutti e tre ci eravamo ubriacati insieme, dopodiché ero andato a casa. C'è gente a cui cose del genere succedono di continuo. Il mio sentimentalismo mi aveva portato a sovrapporre ricordi dei miei genitori a quest'uomo e sua moglie. Se eliminavo dal quadro le mie proiezioni personali, non era accaduto nulla di così insolito da farmi venire fino ad Asakusa per scoprire «la verità». La donna indossava un abito lindo senza maniche a righe rosa, e su entrambe le braccia potevo vedere i segni di recenti punture di zanzara. Se quella era davvero la mia mamma morta, come poteva mostrarsi di fronte a me così palpabilmente viva, con tanto di imperfezioni della pelle? E poi, se l'uomo era realmente il mio papà morto, di sicuro non sarebbe rimasto al lavoro sino alla fine del suo turno a Shintomicho quando io ero venuto a trovarli. Non potevo che concludere di avere un temperamento fragile, che si lasciava trascinare da strambe fantasie. «Mi sono divertito tantissimo, l'altra sera», dissi. «Dovevo proprio tornare a ringraziarvi.» «In realtà pensavamo di rivederti qui un po' prima.» Mi versò ancora un po' di birra nel bicchiere. Alzai gli occhi a sbirciare
il suo profilo mentre inclinava la bottiglia e il cuore mi balzò di nuovo in gola. Somigliava davvero tanto a mia madre. Mi colpì anche la stranezza di trovarmi da solo con una donna sui trentacinque anni e non avvertire la minima traccia di tensione sessuale nell'aria. Ma poi mi resi conto che non era strano affatto. Quando una donna somiglia tanto a tua madre, è naturale che gli impulsi sessuali siano rimossi. Ma se suo marito fosse tornato a casa e ci avesse sorpreso così? Se la sarebbe bevuta, quando gli avessi detto che sua moglie somigliava tanto a mia madre che nessun pensiero sconveniente mi era passato per la testa? Poco probabile. Dovevo andarmene. Trattenermi lì a bere birra non era decisamente una buona idea. Non volevo essere causa di attrito per una così bella coppia. Ero sul punto di dire che era meglio che andassi, ma ricacciai le parole in gola. Se mi fossi congedato allora, sarei rimasto con gli stessi dubbi di prima. Una parte di me trovava ancora difficile credere che la strabiliante somiglianza tra questa coppia e i miei genitori fosse puramente accidentale. Avevo fatto tutta quella strada. Dovevo chiederle almeno una cosa, porle una delle domande che mi avevano ricondotto lì. «Ti affetto qualche cetriolo o qualcosa da spiluccare?» domandò lei. «Grazie, ma temo che adesso dovrò avviarmi.» «Di già?» «Sì, bisogna che vada.» «Ma sei appena arrivato.» «Mi dispiace. Ho un appuntamento. Tornerò un'altra volta. Porga i miei saluti, per favore.» «Davvero devi andare via così presto?» «Purtroppo sì...» «Un'emittente televisiva, immagino?» «Esatto, ad Akasaka.» «E io che pensavo che potessimo cenare tutti insieme.» «In realtà ero venuto soltanto a portare un simbolo della mia gratitudine per l'altra sera. E invece eccomi qui a bere di nuovo la vostra birra.» «Oh, smettila di comportarti come un estraneo.» Mi inchinai con calcolata formalità e mi alzai. «Papà sarà deluso», disse. «Tornerò un'altra volta.» Sapevo che era il momento di porre quella domanda, ma ancora esitavo
a formularla ad alta voce. «Le previsioni dicevano che sarebbe arrivato un tifone, ma a quanto pare erano sbagliate.» Parlava alle mie spalle mentre mi infilavo le scarpe sulla soglia. Anche la sua voce era indistinguibile da quella di mia madre. Sapevo di non poter lasciar passare quell'occasione. «Penserà che è strano da parte mia chiederlo dopo tutto questo tempo, ma...» «Cosa?» «Non so come vi chiamate. Cioè, dato che non avete la targhetta accanto alla porta.» «Diamine! Di che stai parlando? Harada, naturalmente.» La donna pronunciò il mio cognome senza ombra di disagio, poi scoppiò a ridere. «Questo caldo deve veramente averti dato alla testa. Un figlio che chiede come si chiamano i suoi genitori!» Per una frazione di secondo mi sentii impotente sotto il pesante maglio pronto ad abbattersi sul mio cranio. Poi il maglio mi assestò il colpo. «Credo che tu abbia ragione. Ah, ah, ah. Dev'essere il caldo.» Riuscii a riprendere fiato quanto bastava a buttar fuori quelle parole. Non riuscivo a voltarmi a guardarla. «Ci vediamo, allora», dissi con un inchino. «Ti aspettiamo.» «Uh-uh.» «Riguardati.» «Arrivederci.» Cercai con tutte le mie forze di mantenere un'andatura normale mentre mi allontanavo dalla porta, ma l'ondata di terrore si stava gonfiando rapidamente. Quando cominciai a scendere la scala metallica, i miei piedi acquistavano velocità a ogni passo e quando mi trovai fuori dal vicolo sulla via dei negozi stavo ormai decisamente correndo. Ogni organo del mio corpo pareva esplodere di frenetico orrore. Dio! Oh, Dio! gridavo in silenzio. Non ero religioso, ma in quel momento provavo un disperato desiderio di rivolgermi a qualunque divinità potesse ascoltarmi. Chiamai un taxi, ma quando accostò gli feci cenno di proseguire. «Lasci stare. Mi scusi.» Al pensiero di restare chiuso in un piccolo abitacolo senza nessun altro tranne l'autista, un brivido di terrore mi aveva attraversato. E se l'autista si fosse voltato a guardarmi e il suo viso fosse stato quello di mio padre?
«Hai visto troppi vecchi film dell'orrore», mi rimproverai. Quando mi accorsi che la gente mi lanciava strane occhiate, capii di aver parlato ad alta voce. Mi guardai alle spalle con ansia, affrettandomi a raggiungere la stazione della metropolitana di Tawara-machi, terrorizzato di poter vedere mia madre che mi seguiva. Con mio grande sollievo, non c'era. 7 Quella sera, un violento temporale passò sulla città. Guardavo l'acquazzone e i lampi da un bar all'ultimo piano di un alto albergo. La pioggia batteva a torrenti contro il vetro, offuscando la finestra. Le saette frastagliate dei lampi che scendevano a pugnalare la terra parevano niente più che guizzi indistinti, e questo mi irritava un poco. Avevo una voglia matta di infrangere quel vetro massiccio e veder scendere le saette in tutto il loro lacerante fulgore. Desideravo prendere le distanze da qualsiasi cosa ambigua, non trasparente, qualsiasi cosa che appartenesse alle tenebre. Volevo stare in un mondo dove tutto era luminoso, pulito, ben definito. Proprio per questa ragione mi ero tenuto alla larga dai locali in seminterrati o al pianterreno ed ero andato in cerca di ambienti più luminosi, alti nel cielo, ma grazie alle nubi temporalesche, complice il crepuscolo imminente, da un momento all'altro il regno delle tenebre era sconfinato nel mio mondo anche quassù. Tremavo al pensiero di andare a casa e dover affrontare da solo il mio appartamento vuoto. Non che avessi qualcosa da temere dall'appartamento in sé, naturalmente. Era me stesso che dovevo temere. Lo sapevo benissimo. Non avevo la più pallida idea di come spiegare le mie allucinazioni, i miei genitori morti da tanto tempo che all'improvviso mi ricompaiono di fronte con l'esatta immagine che avevo di loro quando morirono. La visita di quel giorno, neppure per il più fuggevole degli istanti, era sembrata un'allucinazione. Mia madre era apparsa davanti ai miei occhi come una persona ben distinta, vivida e fisicamente reale come il bicchiere di whisky che stavo fissando ora. Come potevo credere che fosse stata soltanto una creazione della mia fantasia? Mi aveva perfino offerto la birra, grazie alla quale una calda e piacevole sensazione di ebbrezza aveva perdurato nel mio corpo fino a poco prima.
Eppure, nulla di tutto ciò poteva essere stato reale. Dovevo essermi immaginato tutto. E, per di più, sembravano mancarmi la capacità o il potere di liberarmi da quelle allucinazioni, di guarire da ciò che le causava, qualunque cosa fosse. Un senso di impotenza mi rodeva alla bocca dello stomaco. Non dubitavo che perdere i genitori alla tenera età di dodici anni mi avesse lasciato delle cicatrici emotive. Ma sapevo che anche quanti raggiungono l'età adulta con entrambi i genitori sani e salvi si portano appresso ferite infantili di un tipo o dell'altro, sicché avevo sempre ritenuto di essere pressoché uguale a tutti gli altri, rispetto ai vecchi fardelli con cui fare i conti. La differenza, a mio modo di vedere, stava nel modo in cui si controllavano le infelici eredità dell'infanzia man mano che si procedeva nella vita adulta, e, per parte mia, credevo di aver risolto da tempo quei problemi ed essermeli lasciati alle spalle. Mai avevo previsto che potessero all'improvviso tornare a fare capolino in quella forma. Potevo soltanto supporre che queste allucinazioni rappresentassero una fame inconscia di qualcosa che era rimasto a lungo inappagato per il fatto di aver perduto i genitori in così giovane età. A livello cosciente, certo, mi ero considerato per lo più libero da simili desideri, eppure, quando pensavo al tranquillizzante senso di sicurezza che provavo in presenza della coppia, potevo trarre un'unica conclusione: da qualche parte, nel profondo di me stesso, avevo continuato a desiderare disperatamente il caldo abbraccio dell'amore genitoriale. Sarebbe stato quindi ragionevole dedurre che questo desiderio nascosto era emerso in superficie sotto forma di allucinazioni nei giorni di solitudine seguenti al mio divorzio. Tuttavia, a dire il vero, avevo una grande difficoltà ad accettarla come spiegazione soddisfacente di quanto avevo vissuto. Davvero un'allucinazione poteva sembrare così nitidamente reale? Se la mia immaginazione aveva creato gli eventi accaduti ad Asakusa, allora anche quel bar, l'intero albergo e persino i tuoni, i lampi e la pioggia fuori di quella finestra dovevano esserne il prodotto. Ero tanto certo della presenza di mia madre insieme con me in quell'appartamento quel pomeriggio quanto lo ero delle persone e dell'arredamento che mi circondavano in quel momento in quel bar, e lo stesso valeva per mio padre l'altra sera. Era impossibile negare la palpabile realtà. Qualunque fosse la verità della questione, occorreva che l'affrontassi con calma. Non volevo crederlo possibile, ma temevo che questa esperienza potesse
preludere a un imminente collasso nervoso, un esaurimento innescato da una debolezza profondamente radicata in me. Se era così, dovevo trovare un modo per prevenirlo. L'ultima cosa di cui necessitavo in quel momento era un altro drink, mi resi conto. Ciò di cui avevo bisogno era andarmene a casa e rimettermi al lavoro. Molto probabilmente il sistema migliore per scacciare le allucinazioni era attenermi alla normale routine e impedire che venisse turbata. Presi un taxi per tornare al mio appartamento. Quando accostammo di fronte all'ingresso, la tempesta era passata. Una luna brillante splendeva sul parcheggio semivuoto. Mentre salivo in ascensore decisi che per prima cosa avrei acceso tutte le luci dell'appartamento, non soltanto quelle sul soffitto, ma anche quelle sulla scrivania, sul comodino e nel bagno. In qualche modo dovevo allontanare il terrore che mi aveva seguito fin lì da Asakusa. Ancora mi sentivo smarrito al ricordo delle parole: «Un figlio che chiede come si chiamano i suoi genitori!» Aprii la porta dell'appartamento e accesi l'interruttore della luce del soggiorno. Quindi passai alla luce della camera da letto, poi alla lampadina sul comodino, alla lampada della scrivania e alla luce del gabinetto. Poi mi raggelai in preda al panico. La luce del bagno non si accese. Premetti ripetutamente l'interruttore, ma l'oscurità persisteva. All'improvviso avvertii una presenza misteriosa lì in agguato. Il terrore mi prese mentre aspettavo una grottesca mano che sarebbe spuntata lentamente dalla vasca, seguita da un braccio, poi da un viso e infine dalla figura intera di un orrido mostro che mi guardava minaccioso. La bocca spalancata, ansimante, chiusi con violenza la porta. Non potevo fare altro per impedirmi di urlare. Smettila, sei ridicolo! È soltanto una lampadina bruciata. Ecco tutto. Perché dovrei starmene qui a tremare di paura? Ma mentre cercavo di rassicurarmi, restavo pietrificato dal terrore. Pietrificato, ma sentivo qualcosa. Il suono di... Cosa poteva essere? Oh, il citofono. Il campanello del citofono. Niente di strano. C'è qualcuno alla porta e sta suonando. Niente di male. Ma chi? Mettiamo che sia mio padre. O mia madre. Andai a rispondere. Mi resi conto che mi stavo lasciando sopraffare dal terrore, un'ondata dopo l'altra, agitandomi impotente, e mi odiai per questo. «Controllati!» sibilai, e sollevai il ricevitore.
«Ciao, sono io», disse Kei. Non avrei potuto sentirmi più sollevato. Aprii la porta e la vidi lì, con una camicetta verde chiaro e una gonna gialla. «Posso entrare?» domandò, inclinando la testa da una parte. Decisi di non parlare a Kei degli avvenimenti della giornata. Non sapevo bene che cosa facessero normalmente le persone in momenti come quello. Mi domandai se forse non fossi paranoico, e diverse volte fui sul punto di confidarmi con lei, ma ogni volta mi tiravo indietro. Non era come se fossi stato aggredito e rapinato per strada. Le allucinazioni potevano essere attribuibili a una mia debolezza personale e non volevo che Kei mi vedesse acquattato in preda alla paura di fronte a qualcosa che non riuscivo a capire. «Ho visto dalla finestra che entravi, poco fa», mi spiegò. «Avevi un'aria così pallida ed esausta, ero preoccupata.» «Probabilmente è solo per via della luna così luminosa», risposi, sdrammatizzando. «Non mi sento per niente stanco.» Lei aveva trentatré anni, e con i miei quindici anni di più, istintivamente cercavo di nascondere qualunque segno di calo della vitalità. «Sei sicuro?» Era tra le mie braccia. «Non sembravi del tutto normale, in un certo senso.» «Uuh», feci con voce lugubre, per canzonarla, «ed ero anche circondato da un'aura spettrale, per caso?» Il tono era scherzoso, ma in realtà avevo preso la sua osservazione più che seriamente. L'acume dell'intuito femminile è leggendario. «A dire il vero, sì», rispose Kei. «Può sembrare sinistro, ma pareva quasi che ti trovassi in un'altra dimensione o qualcosa del genere.» «O magari come fossi un'apparizione?» «Sì, come se fossi un'apparizione. Per questo quasi non mi aspettavo di trovarti in casa quando ho suonato il campanello.» «Allora, ti sembro ancora un'apparizione?» «Non proprio, non con quel pelo che ti spunta fuori del naso.» Ridemmo entrambi e ci stringemmo in un abbraccio appassionato. Insistette di nuovo che non toccassi o vedessi il suo petto, così per la seconda volta diedi inizio al nostro atto d'amore stringendo le braccia attorno alle sue natiche bianche e armoniose con quel grazioso piccolo neo sulla sinistra.
Quella sera seppi che Kei lavorava al reparto contabilità di una ditta di imballaggi e che era nata e cresciuta in un paesino agricolo a un'ora di autobus da Toyama sulla costa del mar del Giappone. Il giorno seguente, da poco dopo mezzogiorno fin quasi a mezzanotte, passai il tempo a osservare quello che succedeva in una sala da biliardo che avevo già visitato una volta per circa un'ora. Il programma era ancora in attesa della luce verde ufficiale, ma il produttore mi aveva chiesto di mettermi al lavoro sul primo episodio perché forse non ci sarebbe stato il tempo di girare, se avessi aspettato che la proposta fosse formalmente libera da tutti gli intralci. Era molto ottimista riguardo all'approvazione e affermava che in pratica era cosa fatta, a meno che uno degli sponsor non piantasse una grana per qualche dettaglio. Se la società di produzione fosse stata un appaltatore esterno, avrei comunque aspettato il via libera ufficiale prima di cominciare, dal momento che non era insolito per un'emittente televisiva rifiutare quello che sembrava cosa certa nella fase finale delle trattative. Ma in quel caso la serie era prodotta dall'emittente stessa e tutti gli uffici competenti avevano già controfirmato il progetto. La visita alla sala da biliardo era la mia ultima occasione di osservarne gli habitué in azione prima di prendere in mano la penna. Cominciai a scrivere il mattino seguente. Poco dopo le nove, squillò il telefono. Kei disse che si era procurata un po' di lische d'anguilla da accompagnare ai drink e si domandava se poteva venire su. Era il primo giorno di lavoro e avevo riempito 53 pagine da 200 caratteri, il che mi aveva messo di ottimo umore. Bevemmo e parlammo fino alle undici, poi ci salutammo con nient'altro che baci. Avevo voglia di fare l'amore, ma Kei disse di no. «Non voglio che pensi che ti chieda sesso ogni volta che chiamo», spiegò. «Non l'ho pensato», ribattei, ma sapevo che alla mia età, probabilmente, avrebbe influito sulla mia capacità di lavorare il giorno dopo, sicché non ero propenso a insistere. Quando ci demmo la buonanotte, la baciai una volta prima di aprire la porta, e un'altra volta dopo. Poi la guardai finché le porte dell'ascensore non si furono chiuse dietro di lei. Il mattino seguente mi alzai alle sette e mi misi alla scrivania alle otto. A sera, avevo riempito altre 68 pagine. In totale erano 121 pagine in due
giorni, che, a seconda del carattere del programma, potevano essere sufficienti per un intero episodio. Ma il nostro obiettivo era uno show con dialoghi particolarmente vivaci. I personaggi dovevano essere sia loquaci sia veloci nel parlare, e l'istinto mi diceva che avevo bisogno ancora di una quarantina di pagine, considerato anche il tempo consumato dalle scene di biliardo e tennis prive di dialogo. Esausto per la fatica, andai a cena in un ristorante italiano lì vicino, poi, tornando a casa, passai in videoteca a noleggiare l'ultimo film con Eddie Murphy. Mi versai un po' di birra e feci partire la videocassetta, ma presto caddi in un sonno profondo sul divano. Quando mi svegliai in piena notte, raggiunsi barcollando il letto cercando di impedire ai pensieri di mettersi in moto. Fortunatamente mi riaddormentai in fretta. Avevo riempito la giornata intera di lavoro e attività di routine ed ero riuscito a tenere alla larga i miei genitori. Il terzo giorno conclusi l'episodio. Con 165 pagine, mi domandai se forse non era perfino un po' lunghetto, ma la sceneggiatura del primo episodio di una serie solitamente comprende didascalie extra sui personaggi, come pure sulle ambientazioni e gli edifici dove si svolge l'azione. Tenuto conto di questo, probabilmente il dialogo netto assommava a poco meno di 160 pagine. Il lavoro era proceduto a un ritmo che di rado potevo sperare di tenere. A volte lottavo una giornata intera soltanto per riempire tre pagine e poi, alla fine, gettar via anche quelle il mattino dopo. Quando andavo avanti così per più di un giorno o due, mi domandavo seriamente se fosse il momento di cambiare professione. Per il momento, però, traboccavo di energìa. La storia stava prendendo forma bene. Tutti i personaggi avevano preso vita velocemente e cominciavano a procedere ciascuno per la propria via verso il prossimo episodio. Non erano neppure le tre del pomeriggio e avevo già finito. Dovevo ancora rileggere e correggere la bozza, ma questo poteva aspettare fino al giorno dopo. Lasciando riposare il manoscritto per un giorno, sarebbe stato più semplice individuare eventuali errori. Questo significava che avevo un po' di tempo libero a disposizione, e sembrava un peccato trascorrerlo in casa tutto solo. Purtroppo, Kei doveva essere ancora al lavoro e non conoscevo nessun altro che potessi chiamare alle tre del pomeriggio sperando che mi facesse compagnia. In momenti come quello, un tempo, chiedevo a mia moglie di venire con me al cinema, ma l'euforia di un lavoro portato a termine con successo ap-
parteneva, in fin dei conti, soltanto a me, e presto mi resi conto che mia moglie non se ne sentiva realmente partecipe. Avevo imparato a non esprimere il mio piacere tanto apertamente. Ora avrei dovuto stare attento a quelle cose anche con Kei. Che il primo episodio mi fosse sgorgato dalla penna così spontaneo era di buon auspicio per il futuro della serie, perciò la mia gioia non riguardava soltanto la mia ultima creazione; era un piacere di tipo diverso rispetto a quello di un copione per uno speciale in un'unica puntata realizzato con facilità. Ero convinto che quanto avevo scritto sarebbe andato al di là delle aspettative del produttore e del regista. Anche se all'inizio non ero stato molto entusiasta della serie, dopo essermi messo concretamente a scrivere l'avevo rapidamente fatta mia. Ero stato capace di far prendere alla storia e ai personaggi la direzione che più mi solleticava la fantasia. Presi la metropolitana per Ginza ed entrai in una birreria. A metà pomeriggio, i clienti erano molto rari. Mentre sorseggiavo una pinta di lager, gradualmente i pensieri tornarono a mia madre e mio padre. Li avevo respinti dalla mia mente in quegli ultimi giorni, ma ora finalmente mi sentivo pronto a dare un'altra occhiata, molto lenta e consapevole, alle mie spalle. Quando lo feci, trovai mia madre e mio padre a rispondermi con un sorriso radioso. Non che si trovassero veramente dietro di me in birreria, naturalmente, ma me li figurai a vegliare affettuosi su di me. «Ti aspettiamo. Riguardati», diceva mia madre. Ero fuggito terrorizzato da quell'incontro, ma, a ripensarci, né lei né mio padre avevano mai fatto nulla per farmi del male. Se avessi raccontato a mia madre quanto mi sentivo esaltato per aver finito così in fretta il copione, ero sicurissimo che avrebbe condiviso il mio entusiasmo. Quello che mi era successo ad Asakusa non si poteva certo definire normale, ed era anche altamente probabile che fosse avvenuto tutto nel mio cranio. Ma riflettendo ora su quei fatti, mi ritrovai a domandarmi se potesse esserci qualcosa di tanto terribilmente sbagliato nell'abbandonarmi a quelle fantasie, di tanto in tanto. Naturalmente, se fossi stato tormentato da allucinazioni frequenti anche a casa e al lavoro, la terapia sarebbe stata d'obbligo, per bandire le visioni dalla mia testa una volta per tutte. Ma quelle erano allucinazioni piacevoli, confortanti, che mi facevano visita soltanto quando andavo ad Asakusa, e mi colmavano di sollievo e forza. Che bisogno c'era di respingerle? Avevo appreso che la donna era mia madre soltanto da allusioni. Non
avevamo ancora avuto occasione di parlare come genitore e figlio. Un padre e una madre più giovani del proprio figlio non potevano appartenere alla realtà, ovviamente, ma se un mondo immaginato poteva far esistere un rapporto del genere, allora ero pronto ad abbracciare quel mondo. Il terrore che avevo provato era scomparso; di fronte a me fluttuavano i sorrisi gioiosi dei miei genitori che mi accoglievano in casa loro. I sorrisi gioiosi di persone care felicissime di vedermi non mi erano ignoti - ne avevo goduto per breve tempo con mia moglie, e anche quando mio figlio era piccolo -, perciò non avevo la sensazione di aver vissuto un'esistenza particolarmente manchevole rispetto agli altri, sotto questo aspetto. Il fatto che, tuttavia, il desiderio di vedere i volti sorridenti dei miei fosse tanto potente da produrre quelle allucinazioni andava attribuito, pensavo, all'eterno bambino che è in me. Se avessi soffocato quell'eterno bambino, non avrei forse spento anche i suoi genitori tornati a vivere nella loro amata Asakusa? Erano lì per me, e anche se apparentemente in mia assenza trascorrevano le giornate con il loro lavoro e i loro giochi, era possibile che tutto il tempo passato senza di me fosse per loro un vuoto abisso in cui nessuno dei due esisteva realmente. Li immaginai congelati nel bel mezzo di un gesto, come figure in un museo delle cere. Non ero forse io l'unico a poter insufflare in loro la vita? Mi alzai, uscii a grandi passi nella luce abbagliante del pomeriggio e chiamai un taxi. 8 Svoltando dalla via piena di negozi nel vicolo, e cominciando a salire la scalinata metallica più silenziosamente che potevo, sentii di nuovo formarsi un nodo di terrore alla bocca dello stomaco. Mi fermai prima di arrivare in cima. Chi erano esattamente quelle persone, in fin dei conti? Erano un po' come quelle volpi o quei tassi mannari di cui narrano le antiche leggende? Nell'anno della loro morte, mio padre aveva trentanove anni e mia madre trentacinque. Gli stessi padre e madre non potevano abitare in quella casa trentasei anni più tardi senza essere invecchiati di un giorno. Per quanto casuale e capricciosa appaia a volte la nostra realtà, vi sono pur sempre cose che possono essere e cose che non lo possono. Che un uomo di quarantotto anni perdesse di vista la differenza stava certamente a
indicare un gravissimo esaurimento di qualche tipo. Quando avevo deciso con tanto entusiasmo di abbracciare l'irreale ed ero corso lì in taxi, stavo forse dicendo che in effetti non mi importava più nulla della mia vita? Certo non la vedevo così. Avevo appena terminato, con rara concentrazione, il primo episodio di una serie. Sapevo che la bozza non era male e mi restava energia in abbondanza per rallegrarmi del mio successo. Dal mio punto di vista, non era una fuga dalla realtà dettata dalla disperazione ad avermi riportato in quel luogo. Eppure, dubitavo ben poco che, arrivato in cima a quelle scale e all'ultimo appartamento in fondo alla passerella esterna, avrei trovato i miei genitori... O, almeno, due persone che si comportavano come tali, e praticamente identiche a loro. La loro presenza era sembrata più vera del vero, e il tempo passato con loro era stato di una tale indimenticabile dolcezza che non avevo avuto la forza di resistere alla loro attrattiva. Sapevo che forse mi stavo avventurando, passo dopo passo, in un territorio sempre più terrificante, eppure non vedevo che cosa avrei potuto salvare di prezioso, facendo marcia indietro ora. Un uomo più sano di mente avrebbe rinunciato a quelle scale. Ma cosa potevo sperare di guadagnare tornando indietro per salvaguardare la mia psiche vacillante? Dubitavo che mi attendesse un futuro particolarmente brillante, nella vita a cui sarei tornato. Salii gli ultimi scalini per il primo piano. Mia madre e mio padre erano ora a una decina di passi da me. Questa consapevolezza portò con sé un disagio imbarazzato e le mie gambe parevano ritrarsi un po' a ogni passo. Come sarebbe stato, mi domandai, vederli e parlare con loro per la prima volta davvero come miei genitori? C'erano tante cose che desideravo dir loro. Tante cose che volevo sapessero, degli anni trascorsi da quando ero un dodicenne: tutto quello che avevo vissuto, provato e trascorso. «Hideo.» Era la voce di mio padre, alle mie spalle. Mi raggelai e non riuscii a voltarmi subito. «Cosa stai facendo lì impalato?» La voce si spostava rapidamente verso di me, quindi sentii un leggero tocco sulla spalla mentre mio padre mi sorpassava raggiungendo la porta. Senza voltarsi, disse: «Facciamo un po' di prese a baseball?»
«Dove?» domandai, ma lui era già sparito all'interno. Lo seguii in fretta. Come l'altra volta, la porta era stata bloccata aperta per fare corrente. «C'è un posto adatto da queste parti?» domandai, dalla soglia. «Santo cielo! Quando sei arrivato?» Mia madre mi rivolse un sorriso radioso dal lavello di cucina. «Se ne stava lì spaesato sulla passerella», riferì mio padre ridendo. Si sedette sul davanzale basso dall'altra parte della stanza e strappò l'involucro di cellophane di un pacchetto di sigarette. Evidentemente era appena andato a comprarle. «Ciao!» feci, accorgendomi subito dopo di aver usato un tono un po' da dodicenne. «Avanti, entra», mi invitò mia madre. «Entra, entra», ripeté mio padre. «Soltanto una volta ci abbiamo giocato, nello spiazzo davanti al Teatro Internazionale. Ti ricordi, papà?» «Dobbiamo averlo fatto più di una volta.» «No, una volta sola. Per questo me ne ricordo così bene. Ho sempre desiderato che potessimo rifarlo. Ma non ne abbiamo mai avuto l'occasione.» «Andiamo a fare un po' di lanci, allora?» «Perché no?» ci esortò mia madre. «C'è ancora un parco da queste parti, oggigiorno?» «Possiamo anche giocare in strada qui davanti. Andrà benissimo.» «Credi davvero?» «I negozi sono tutti chiusi, comunque. L'intera città è praticamente deserta fino al 17.» Ah, giusto, era agosto, il mese in cui mezza Tokyo se ne va in campagna per le feste dell'O-Bon, a salutare il ritorno degli spiriti dei defunti. Non era solo per via dell'ora che la birreria era così insolitamente tranquilla. Mio padre si mise a rovistare nella metà inferiore del ripostiglio e ben presto ne emerse con due guantoni da baseball. Erano entrambi molto sciupati, non ricordavo di averli mai visti. «Hai dei guantoni davvero d'epoca», commentai. «Ora che ci penso, con te usavo soltanto una palla di gomma, vero?» domandò. Giusto, ricordai. Una volta aveva una palla da baseball regolamentare, ma sosteneva che per i bambini era troppo pericolosa e non voleva usarla con me. Avevo una voglia matta di giocare con lui con quella palla, ma lui usava sempre la scusa che era troppo occupato, sinché, finalmente, quel-
l'unica volta, non aveva accettato di giocare con me con una palla di gomma. Era tutto preso dal campionato con i suoi colleghi del ristorante e fare un po' di prese con suo figlio non aveva per lui una priorità molto alta. «Allora andiamo un po' fuori», dissi a mia madre. «Divertitevi», ci gridò dietro mentre uscivamo. Arrivati sulla via dei negozi, capimmo immediatamente che giocare lì era impossibile. Mio padre aveva ragione, i negozi erano tutti chiusi e il traffico era notevolmente inferiore al solito, ma comunque non così tranquillo da permetterci di restare in mezzo alla strada a tirarci una palla. «Uff!» fece lui. «Oh, be', andiamo di qua, allora.» Si incamminò di buon passo e io lo seguii. Sorridevo. Da bambino, ritenevo che mio padre fosse uno che combatteva duro, che aveva sempre il controllo delle situazioni, ma ora pensai che in realtà era stato più il tipo spensierato da cui mi stavo lasciando trascinare: quello che dà fiato alle trombe quando prevede che tutto vada per il meglio e poi mantiene la calma quando vien fuori che aveva torto e riparte col petto in fuori a cercare un'alternativa. Quella scoperta mi mise allegria. E pur avendola assaporata a quarantotto anni, mi ritrovai trasformato in un dodicenne nel momento in cui arrivammo alla strada di fronte al tempio Honganji e il primo lancio di mio padre mi si stampò nel guantone. Bel lancio, pieno di energia. «Hai un buon braccio, papà.» «Cosa credevi?» Fermandoci di tanto in tanto per far passare un pedone o un'auto, ci tirammo la palla avanti e indietro per quasi un'ora. Esultavo per la sensazione che ogni schiocco forte o smorzato della palla mi riportasse qualcosa in più del padre da tanto tempo perduto. Ogni volta che un'auto di passaggio mi costringeva a scostarmi, osservavo con soddisfazione che era inequivocabilmente un modello recente. E con uguale soddisfazione notavo che anche mio padre doveva scostarsi con me, quando l'auto passava. «Macchina in arrivo, macchina in arrivo.» «O-kappa.» Un'infinità di volte interrompemmo il gioco con uno scambio di battute come quello e scavalcammo l'alta recinzione che circondava il tempio. Assaporavo ogni singolo istante. «Forse è meglio chiudere qua», disse infine mio padre. «Mamma mi farà una testa così, se ti tengo lontano troppo tempo.»
Persino osservazioni come quella erano meravigliose. Mi stavo rendendo conto che, per certi versi, i miei non corrispondevano affatto alle mie impressioni di dodicenne. Vedevo il vezzo di un raffinato artigiano nel modo in cui mio padre dondolava le braccia e camminava con sussiego, e lo trovavo molto tenero. In casa, la tavola era apparecchiata con una ciotola di semi di soia e un piatto di tofu guarnito da spiluccare, più tre bicchieri di birra. «Vorrei che potessimo offrirti una doccia», disse mia madre. «Sì, proprio», ribatté mio padre. «E dove diavolo la mettiamo, secondo te, una roba così?» Si spogliò fino alla vita davanti al lavello di cucina e cominciò a strofinarsi con una salvietta fresca. Pur essendo piuttosto pallido, aveva un fisico saldo, muscoloso. Quando ebbe finito, mi spogliai restando in canottiera davanti al lavello e lo imitai. Mio padre accese il televisore. Trasmettevano il torneo estivo di baseball dei licei. Accanto al televisore, un ventilatore piegava il collo di qua e di là. «Siediti qui, Hideo», mi fece cenno mia madre. Sedetti in mezzo a loro al tavolo basso e tesi il bicchiere mentre mi versava la birra. «Fai l'ultimo turno oggi, papà?» domandai. «Naa, ho mollato.» «Proprio così, ha preso e ha di nuovo mollato il posto», confermò mia madre. «E basta, va bene? Ti ho mai fatto soffrire la fame?» «No, ma...» «Era ridicolo. Quel posto aveva un bancone più cinque tavoli, e io ero l'unico in grado di preparare un sushi decente. Il padrone dovrebbe uscire dall'ospedale a settembre, perciò mi hanno supplicato di restare fino alla fine di agosto, sai, ma ne avevo avuto abbastanza. Bisogna pensare a quello che fai per i clienti, intanto. Cioè, non potevo proprio pensare io a tutti gli ordini, quindi ai clienti finivano per arrivare immonde porcherie di ogni genere e, naturalmente, nessuno ne era contento. Fortunatamente, oggigiorno i clienti sono piuttosto mansueti e non si mettono a dare in escandescenze, ma questo non significa che tutto funzioni alla grande.» «Va bene, caro. Non ha senso rovinare la visita di Hideo con questa solfa, ora.» «Sei stata tu a cominciare.»
Ero al settimo cielo. I miei genitori non avevano il televisore, quando morirono. Cose come birra, semi di soia e tofu erano molto più difficili da trovare di quanto lo siano oggi. Anche il ventilatore era nuovo. Sono tanto felice per te, mamma. Sono davvero contento che adesso tu possa vivere così, papà. «Smettila di fare tanto il tirchio con la birra», disse mio padre. «Da come la sorseggi, si direbbe che sia whisky.» «È vero», aggiunse mia madre. «Bevila tutta. Ce la possiamo permettere.» Inghiottii in un solo sorso il resto del bicchiere e lo tesi a mia madre perché me ne versasse ancora. Forse potrei comprar loro una doccia. Anche un condizionatore non sarebbe una cattiva idea. E potrei far consegnare casse di birra. Ma sarebbe stato tutto inutile, pensai. Come sul set di un film, per quanto tutto vi apparisse normale e reale, dovevo supporre di trovarmi in un luogo molto lontano dalla realtà. Dovevo supporre che, nel momento in cui me ne fossi andato, i miei genitori avrebbero smesso di muoversi, avrebbero perduto ogni colore e sarebbero rimasti privi del soffio vitale. «L'altro giorno ci hai detto che scrivi, per vivere.» «Scrive copioni per la televisione, caro», lo interruppe mia madre. «Fantastico, no?» «Cosa c'è di tanto eccezionale? Se vuoi il mio parere, la maggior parte degli scrittori ne sa meno di chiunque altro, su come funziona davvero il mondo. Sono un mucchio di ipocriti e vigliacchi, e a dirla tutta non mi piacciono un granché.» «Ma cosa stai dicendo, caro? Proprio a tuo figlio?» «Non sto parlando di Hideo. Sto soltanto dicendo che, nel complesso, quasi tutti sono fatti così. Fondamentalmente, gli scrittori non hanno una gran sensibilità per come viviamo noialtri.» Anche se mi dava una gran gioia vedere mio padre, tanto più giovane di me, pontificare con tanta presuntuosa sicurezza, un senso di sconforto cominciò a insinuarsi nella mia coscienza. Mio padre stava dicendo esattamente il genere di cose che mi sarei aspettato da lui, e come potevo essere sicuro che non gli stavo mettendo ogni parola in bocca io stesso? Dopotutto, la madre e il padre che erano con me ora non potevano realmente essere mia madre e mio padre di trentasei anni prima; dovevano essere un prodotto della mia mente, poiché i miei veri madre e padre morti da tutti quegli anni non potevano davvero essere riportati indietro, per
quanto io urlassi e scalciassi. Prima avessi messo fine a questa illusoria caccia alle consolazioni emotive da tempo perdute, meglio sarebbe stato per me. D'altro canto, tornando a guardare le due figure sedute di fronte a me, prive della benché minima aura di falsità, mi ritrovai a domandarmi: come ho mai potuto credere che queste persone esistessero soltanto nella mia fantasia? «Papà, stringiamoci la mano», dissi. «Stringerci la mano?» «E anche tu, mamma.» «Non vuoi andare già via, vero, tesoro?» «Resta a cena. È inutile andare tanto di corsa.» Che tristezza, pensare che anche queste parole potevo averle concepite io stesso. «Tranquilli, non me ne vado, voglio solo stringervi la mano.» «Mettila qua», fece mio padre allungando la mano. La afferrai con forza e sentii distintamente la sua mano rispondere alla stretta. Non era la mia mano che stavo stringendo. «Adesso tocca a me», disse mia madre, tendendo la mano. Anche se aveva la pelle un po' ruvida in certi punti, la sua mano era più morbida di quella di mio padre e notevolmente più piccola. Cercai di imprimermi nella memoria tutte le sensazioni provocate dal contatto della sua mano con la mia. Poteva quell'impressione di carne viva essere un'allucinazione? Non lo credevo. «E ancora una cosa, papà», aggiunsi, in cerca di un ulteriore segno tangibile, qualcosa che non potesse provenire da me stesso. «Tu giochi alle carte floreali, giusto?» Mi ero ricordato che i suoi amici venivano spesso a giocare. «Certo. Perché?» «Pensi che possa essercene un mazzo in casa, mamma?» «Naturalmente. Anche se è un bel pezzo che non ci giochiamo.» «Mi piacerebbe imparare.» Non avevo la più pallida idea di come si giocasse. Se mio padre poteva insegnarmi un gioco che non conoscevo, e se fossi stato in grado di ricordarlo una volta tornato a casa, avrei saputo per certo che non era un prodotto della mia immaginazione. «Pretendi di essere uno scrittore e non sai neanche giocare alle carte floreali?»
«Una volta mi sono parecchio appassionato al mah-jongg.» «A che cosa giochiamo, allora? A Rischio?» «Non ha importanza. Non c'è un gioco che si chiama Ottantotto, per tre giocatori?» «Allora lo sai.» «Praticamente la mia conoscenza finisce qui.» «Forse il migliore è il ramino floreale», suggerì mia madre. Non avevo idea di quali differenze ci fossero. «Benissimo», dichiarai. Se i miei mi avessero insegnato il gioco, non ci sarebbero più stati dubbi che esistevano indipendentemente da me. Avrei saputo una volta per tutte che le mie non erano soltanto allucinazioni, che loro esistevano sul serio. Mia madre andò a prendere le carte e le diede a mio padre. Lui le tolse dalla scatola e cominciò a mescolarle con destrezza. «Bene, dunque. Sai che le carte sono divise in mesi, giusto?» «Mesi?» «Santo cielo, vuoi dire che non sai neanche questo? Su, togliamo di mezzo questa roba.» Spinse bruscamente da una parte il tavolo al quale stavamo bevendo. Una delle bottiglie di birra si mise a traballare, ma la afferrai giusto in tempo e la tenni mentre mia madre spostava ancora più in là il tavolo, con prudenza. «Ora, a proposito del ramino floreale che suggeriva la mamma, non ti dispiacerà sapere che lo chiamano anche cretino floreale, visto che qualsiasi fesso è in grado di giocarlo. Sei pronto?» Seduto sul tatami con un ginocchio su e l'altro ripiegato a terra, il mio aggraziato padre cominciò a insegnarmi il gioco, evidentemente molto compiaciuto di sé. 9 Avevo combinato un incontro con il produttore della mia nuova serie in un caffè, a Shibuya, la sera dopo. Arrivai per primo e notai che, quando entrò e mi riconobbe, impallidì. Si affrettò a dissimulare rivolgendomi un ampio sorriso mentre mi veniva incontro, ma sospettai subito che qualcosa non andasse. Ormai sembrava essere diventata una regola, nei miei lavori più recenti: potevo sempre contare su un intoppo di qualche genere. Il copione del primo episodio era andato molto liscio. Non soltanto la
bozza iniziale aveva proceduto a un ritmo inconsueto, ma nel rileggerla avevo anche trovato pochissime correzioni da fare. In effetti, tutto aveva funzionato un po' troppo bene. Doveva esserci qualcosa di sgradevole in agguato dietro l'angolo. «Lavori in fretta», disse, asciugandosi il sudore dal viso con la salvietta fresca portata dalla cameriera, venuta a prendere la sua ordinazione: un bicchiere di latte ghiacciato. «Dovevo essere particolarmente in vena.» «Di questo non mi posso lamentare», commentò, evitando il mio sguardo mentre apriva la cerniera lampo della sua sottile valigetta di pelle estraendone una grossa busta marrone. «Avrei dovuto chiederti al telefono di ricordarti di portare con te il tuo sigillo personale.» «Perché?» «Secondo le nuove politiche dell'emittente, dobbiamo avere tutte le carte in ordine prima di accettare qualsiasi manoscritto», spiegò, estraendo un documento dalla busta. «È un contratto standard. Identico agli altri, eccetto per l'ammontare del tuo compenso come autore. Devi apporre il tuo sigillo in tre punti. Dove ho fatto tre cerchietti a matita.» «Significa che abbiamo via libera?» «Esatto. Tutti gli sponsor hanno dato l'okay. La messa in onda è prevista per la seconda settimana di ottobre, e il primo episodio sarà uno speciale. Ieri sono andato giù a Osaka per un incontro con la Società Farmaceutica R. e appena tornato sono andato dritto dalla stazione di Tokyo a un appuntamento alle cinque con la M. Cosmetici. Stamattina alle dieci, K. Automobili. Oh, gente! Un produttore non dovrebbe lavorare tanto di gambe. Qualcuno del marketing potrebbe dirgli tutto quello che hanno bisogno di sapere, ma quelli insistono per sentirlo dal produttore. Credimi, sono stremato. Scusa se ti ho lasciato in sospeso tanto tempo. Avremo un programma molto intenso, bisogna cominciare a girare in esterni la prima settimana di settembre. Perciò tutti noi apprezzeremo quanto riuscirai a fare per far procedere le cose.» «Ecco il primo episodio», dissi porgendogli il mio manoscritto. «Grazie. Lo leggerò immediatamente e ti chiamerò per eventuali domande.» «Certo.» La cameriera tornò con il bicchiere di latte ghiacciato.
E così dopotutto non c'erano stati intoppi almeno per il momento. O forse la mazzata era in arrivo adesso? È venuto fuori che la protagonista è incinta di tre mesi e non sa chi sia il padre. Ma è decisa ad avere il bambino. Dal momento che le riprese durano tre mesi, alla fine sarà incinta di sei mesi e ovviamente si vedrà. Certo, per buona parte del tempo possiamo nasconderlo sbizzarrendoci con il suo guardaroba, ma temo che dovremo evitare le scene in cui gioca a tennis. Siamo anche un po' preoccupati per la reazione del pubblico, con una ragazza madre in quel ruolo. Se si dimostrano solidali andrà tutto per il meglio, ma, insomma, potrebbe benissimo succedere il contrario. Trovare un rimpiazzo a questo punto potrebbe essere dura, ma, se così dovrà essere, è meglio che ci muoviamo in fretta. Sarebbe stato qualcosa del genere, senza dubbio. Sapevo di aver sciolto le briglie alla fantasia, ma meglio essere pronti al peggio. Così, il colpo sarebbe stato meno duro. «Oh», fece, come ricordando qualcosa all'improvviso. Ecco, ci siamo, pensai. «C'è qualcosa che devo sapere in anticipo, sul primo episodio?» «Penso che abbiamo vagliato tutti gli elementi fondamentali, quando abbiamo fatto la ricerca insieme.» «Bene.» «Ti basterà leggere il copione.» «Ne sembri piuttosto soddisfatto.» Avevo la sensazione che volesse dire qualcos'altro. Lo sguardo era inquieto, sembrava che avesse in mente qualcosa. «Ti comporti come se avessi qualcos'altro da dirmi», insinuai con un sorriso nervoso. «Eh?» «È successo qualcosa, vero?» «Cosa te lo fa pensare?» «La faccia che avevi quando sei entrato, non la definirei proprio serena.» Più precisamente, era la faccia che aveva quando era entrato e mi aveva scorto. Già, ricordai. È stato quando mi ha visto, che ha cambiato espressione. «Penserai che non sono affari miei», disse con una risatina nervosa. «Cosa?» «E magari te la prenderai con me, perché mi agito per niente, ma...» «Si tratta di me?»
«Sei in buona salute, non è vero?» «Perché me lo chiedi?» «Be', sai, i produttori sono fatti così. Sempre sui carboni ardenti, a chiedersi che cosa può andare storto.» «Per quanto ne so, sono in forma perfetta.» «Allora sarà soltanto la luce, immagino.» «Ho un brutto aspetto?» «Mi sembri un po' pallido, tutto qui. Nel mio incubo peggiore, l'autore stramazza nel bel mezzo di una serie, sai. In ogni modo, riguardati più che puoi finché non avremo finito. Dopo, naturalmente, puoi anche tirare le cuoia, per quello che me ne importa, ma...» Ridemmo, facemmo ancora due chiacchiere e poi ci salutammo. Mi guardai nelle vetrine dei negozi mentre camminavo lungo la via, ma il riflesso non era mai tanto chiaro da mostrare la tonalità della pelle. Di sicuro non mi sentivo strapazzato. La sera prima, ero tornato dalla cena con i miei genitori a un'ora ragionevole, e alle undici ero a letto. Al mattino, mi ero seduto a rileggere il manoscritto alla solita ora, le nove, e all'incirca un'ora e mezzo dopo avevo finito. Tutta quanta la storia sembrava ridicola. Eppure, mi infastidiva. Mia madre e mio padre appartenevano al mondo dei morti, dopotutto, e non sembrava inverosimile che una persona entrata in contatto con la loro specie si ritrovasse privata della linfa vitale. Nella tradizione si trovano molti esempi del genere, dalle antiche leggende ai romanzi moderni. Non avevo notato alcun cambiamento nella mia carnagione quando mi ero rasato prima di uscire, ma non sarebbe stato particolarmente sorprendente se davvero avessi perso un po' di colore. Ero ansioso di trovare uno specchio per osservarmi meglio. Non avevo paura di quello che avrei potuto scoprire. Al contrario, mi sentivo stranamente in pace. Malgrado la loro bonaria nonchalance, i miei genitori dovevano aver compiuto sacrifici di proporzioni inaudite per ritornare a stare con me in questo mondo. Se questo significava che, in cambio, dovevo rinunciare a parte della mia linfa vitale, ero più che disposto a pagare quel prezzo; anzi, in realtà mi sarei tolto un peso dal cuore. Vedere io stesso che ero più pallido del solito mi avrebbe permesso di respirare più liberamente. Nel complesso, quello che i miei genitori mi avevano dato era troppo.
Mi ricordai di un ristorante indiano dove avevo mangiato diverse volte, che aveva un grande specchio sulla parete accanto alla cassa. Era un po' presto, ma forse potevo cenare lì prima di tornare a casa. Se il nuovo programma doveva andare in onda la seconda settimana di ottobre, volevo scrivere almeno altri tre episodi prima della fine di agosto. Quindi occorreva tenere un ritmo di cinque giorni a episodio. Alt! Ci stiamo dando dentro un po' troppo, eh? Le labbra mi si curvarono in un sorriso storto. Nessun segno di calo di vitalità, da quelle parti! E neppure il colorito del mio viso appariva minimamente giallognolo, quando lo esaminai nello specchio del ristorante. «Hai un aspetto terribile», disse Kei nel momento in cui entrò, poco dopo le nove di quella sera. «Che vuoi dire?» reagii io, preso alla sprovvista dalla sua rudezza. Tornato a casa mi ero di nuovo controllato allo specchio e non avevo trovato nulla di strano. «Vorrei che non mi stuzzicassi. Che tu ci creda o no, in realtà sono piuttosto sensibile per quanto riguarda il mio aspetto.» Mi avvicinai allo specchio del bagno, dove potevo esaminarmi nello splendente biancore soffuso delle due lampadine da cento watt. «Ammetto che l'età si vede, ma non penso di avere un aspetto così terribile.» Kei mi venne vicino e restammo a fissare i nostri riflessi fianco a fianco. I nostri occhi si incontrarono nello specchio. «La pelle cede un po' sotto gli occhi, ma niente di nuovo, e mi pare che il colorito sia esattamente quello che puoi aspettarti da un signorile quarantottenne di città.» «No-no», disse Kei. «Ti ho osservato quando sei entrato l'altra sera. Quando sei arrivato a casa.» «Mi pareva di aver controllato la tua finestra.» «Ed era buia, vero?» «Ho pensato che non fossi in casa.» «Mi piace stare a guardare dalla finestra, ma non voglio che mi vedano così e pensino che mi sento a terra, perciò di solito spengo le luci.» «Avresti dovuto chiamarmi.» «Avevo paura.» «Di me?» «Eri pallido come un morto.» «Ehi, aspetta un momento. Voglio che mi guardi bene nello specchio.
Dici che ho un brutto aspetto. Certo, magari vicino a un surfista sembro pallido. Ma questo è né più né meno il mio aspetto di sempre, e non mi sento affatto stressato o stanco. Non c'è assolutamente nulla per cui ti debba preoccupare. Gradirei che la smettessi di spaventarmi.» «Se riesci a dirlo e a rimanere serio, allora c'è davvero qualcosa che non va», obiettò Kei guardandomi con occhi di fuoco. «Mi stai dicendo che non vedi quanto sei sbattuto?» «Io ho l'aria sbattuta? Ma cosa stai dicendo? A dire il vero, ho l'aria molto più sana di te!» protestai guardando Kei nello specchio, e alzando la voce di un tono. «E mi vedo benissimo, grazie tante. Sto alzando il braccio destro, adesso lo sto abbassando. Lo sto mettendo sulla tua spalla. Mi sto pizzicando il naso con la mano sinistra e sto tirando fuori la lingua. Se non vedo me stesso, allora che diavolo sto vedendo?» «Smettila di fare lo strafottente!» Aveva uno sguardo così accigliato che quasi sobbalzai. «Non volevo, ma mi è anche difficile prendere sul serio questa storia. In realtà, in questo momento mi sembra di avere tutta l'energia del mondo. E ogni briciolo di quell'energia è qui a desiderarti.» Premetti le labbra sulle sue. Cercò per un momento di scostarsi, come se volesse dire qualcosa, ma poi si arrese. Quando le nostre labbra si staccarono, parlò di nuovo. «Ti è successo qualcosa di buffo, recentemente?» «Ti sembra che stia ridendo?» ribattei, anche se avevo capito benissimo cosa intendeva. Se ora le avessi detto dei miei genitori, ne avrebbe tratto conclusioni affrettate e li avrebbe bollati come spiriti maligni. Non volevo sentir parlare dei miei genitori come di un male da esorcizzare. «Dimmelo», insisté Kei. «No. Non mi viene in mente nulla.» «Stai mentendo.» «Perché dici questo?» «Perché sei uno schifoso bugiardo.» «Quando mi guardi così male, mi viene voglia di scusarmi per le bugie che non ho detto.» «Smettila di scantonare. Penso che stia succedendo qualcosa di molto grave. Ho un presentimento.» «Com'è emozionante!» «Smettila di scherzare con me, ti spiace?» «Non mi ero mai reso conto che avessi tanto a cuore la mia salute.»
«Non dovrebbe essere ovvio? O forse mi sono illusa?» «Su cosa?» Kei esitò per un momento, distogliendo impercettibilmente gli occhi. Poi, quasi subito, tornò al suo sguardo penetrante. «Pensavo che noi due stessimo insieme, sai.» «Anch'io. Solo che...» «Solo che, cosa?» «Non sono in condizione di darlo per scontato.» «Perché no?» «Ci sono quindici anni di differenza, tra noi.» «È bello per una donna di trentatré anni sentirsi dire che è troppo giovane, ma anch'io ho un handicap, sai. Quindi smettila di essere tanto a disagio. Siamo amanti o no?» «Certo che lo siamo.» «Allora continuiamo a sbaciucchiarci da un'altra parte che non sia il bagno?» Ci scambiammo un altro lungo bacio prima di spostarci in soggiorno. Pensai che ci fossimo lasciati alle spalle la questione della mia salute. Ma quando sedemmo sul divano e feci per prenderla di nuovo tra le braccia, attento a non toccarle il petto, Kei all'improvviso si irrigidì. «Devi smetterla di nasconderlo, qualunque cosa sia», disse. «Non sto nascondendo nulla.» «Allora rispondi a una sola domanda.» «Te lo assicuro, non devi preoccuparti per me.» «Davvero, sul serio non ti sei visto stanco?» «Non c'è uomo al mondo che non mostri qualche segno di cedimento, a quarantotto anni.» «Hai borse scure e profonde sotto gli occhi», disse, guardandomi in faccia. «Hai le guance scavate.» La guardai a mia volta, in silenzio. «È così che sei, in questo momento. E così eri nello specchio.» Una volta avevo letto un romanzo in cui un uomo perfettamente sano si ammala gravemente quando tutti quelli che conosce cominciano a dirgli che ha un brutto aspetto, ma non riuscivo a immaginare perché Kei dovesse farmi uno scherzo del genere. Eppure, il volto che avevo visto nello specchio non aveva borse scure e profonde sotto gli occhi né guance scavate. Casomai, avrei detto che sembravo un po' troppo in carne. Questo significava che uno di noi doveva vedere male. Se la maggioranza vince, pa-
reva che Kei fosse in vantaggio, dal momento che anche il mio produttore mi aveva trovato smunto. Restai seduto immobile, mentre i pensieri galoppavano. Anche Kei rimase ferma e silenziosa, a osservarmi. Un nodo di terrore prese a pulsarmi alla bocca dello stomaco. Se l'immagine che vedevo allo specchio non era il mio vero riflesso, allora non avevo modo di diagnosticare il mio male. Poteva esserci nulla di più insensato? Eppure, ripensando alle altre cose insensate accadute di recente, non potevo certo scartare qualcosa soltanto perché non concordava con le mie percezioni. «D'accordo, te lo dico», decisi. «Ti racconto tutto, ma devi promettere di non pensare che mi faccia del male.» Kei annuì in silenzio. «È stato soltanto un dono del cielo. Immagino sia vero che ho l'aria sbattuta e deperita, anche se io non riesco a vederlo. Ma ti assicuro che non c'è ragione di preoccuparsi, in questo caso; è diverso da qualsiasi altra cosa che possa influenzare il mio aspetto. Ho avuto un'esperienza meravigliosa. Irreale, sì, non posso negarlo, ma anche veramente meravigliosa.» Cominciai a raccontarle della sera in cui avevo incontrato mio padre al Teatro di Varietà di Asakusa. Non diede alcun segno di incredulità, ascoltandomi. Pensai che forse nascondeva la sua vera reazione, per timore che mi fermassi nel bel mezzo del racconto, ma anche questo avrebbe significato che desiderava sinceramente sapere. Pur essendo della stessa opinione sul fatto che la nostra relazione fosse più che casuale, in realtà non eravamo stati insieme così tanto. Mi commosse profondamente vedere che mi ascoltava con tanta serietà, sforzandosi così tanto di scoprire la causa della mia spossatezza. Qualcuno forse ne riderebbe, ma devo dire che pensai fosse amore. Mentre parlavo, mi resi conto che da tantissimo tempo nessuno si curava di me. Non era risentimento; non potevo certo aspettarmi che gli altri si curassero di me, quando in tutti quegli anni mi ero curato così poco degli altri. Solo, mi sentii colpevole pensando che la genuina preoccupazione di Kei avesse interrotto una prolungata siccità. Soltanto il giorno prima, infatti, avevo goduto del caldo abbraccio dell'amore incondizionato dei miei genitori. In qualche angolo della mia testa, sembravo avere accettato come irreale l'esperienza con i miei genitori, considerando invece reale il mio amore per Kei, e mi vergognavo di me stesso.
E questo, nonostante avessi riesaminato tutto quello che mio padre mi aveva insegnato sul ramino floreale, appena tornato a casa la sera prima; nonostante avessi cercato sull'enciclopedia le «carte floreali» e verificato che si dividevano in mesi. Eppure, più parlavo con Kei, più sentivo che l'Asakusa di mia madre e mio padre non poteva assolutamente essere reale. 10 Durante i miei anni di matrimonio, tutto quel che facevo era influenzato in un modo o nell'altro da mia moglie. Anche quando non provava a dirmi che cosa potevo o non potevo fare, in un qualche angolino della mia testa avevo sempre presente il pensiero di come spiegarle le mie azioni. Avevo continuato a percepire quella costrizione per un certo tempo, anche dopo il divorzio, e ricordo ancora l'incredibile senso di emancipazione provato un giorno, quando all'improvviso mi ero reso conto che quanto decidevo di fare erano solamente affari miei. Il giorno dopo aver raccontato a Kei i fatti di Asakusa, mi ritrovai di nuovo tra le grinfie di quella vecchia costrizione. Sperimentai daccapo la sensazione di muovermi furtivamente alle spalle di qualcuno. Stavo meditando una scappata segreta ad Asakusa. «Promettimi che non ci tornerai mai più», aveva insistito Kei il giorno prima. Non la finiva più di supplicarmi, e non ero riuscito a trovare obiezioni sensate. Per quanto le intenzioni dei miei fossero esenti da cattiveria e malevolenza, era innegabile che fossero entrati da lungo tempo a far parte del mondo dei morti. Il ritorno dei morti mina radicalmente l'ordine dei vivi, e io condividevo con tutto il cuore la convinzione di Kei, secondo cui il contatto con esseri del genere era una cosa da evitare. Tuttavia, trattandosi di mia madre e mio padre, non riuscivo a considerarli un male da combattere. «Non hai modo di affermare che siano completamente benigni, però», aveva ribattuto Kei. «Voglio dire, il tuo corpo si sta consumando! Hai un aspetto sconvolgente, gli occhi così scavati!» Eppure, quando quella mattina tornai a specchiarmi, ancora non vedevo la spossatezza di cui parlava. «Devi credermi», ripeté. «Non sei altro che pelle e ossa.» È vero, a volte la gente non riesce a vedere il proprio decadimento anche
quando agli altri è chiaro come il giorno. Forse avrei dovuto far tesoro di quella verità, ma non ero dell'umore adatto per accettare dallo specchio un ammonimento del genere. «Fammi vedere!» gridai allo specchio. «Mostrami il mio vero aspetto!» Lo specchio continuò semplicemente a riflettere il solito volto robusto e rubicondo. E fintanto che così stavano le cose, non potevo fare a meno di desiderare di tornare a vedere i miei genitori un'ultima volta. «Torna a trovarci!» «Presto!» «Potete scommetterci!» È questo che avevo promesso, e sembrava troppo crudele non farsi più vedere e basta, senza spiegazioni. Forse avrebbero potuto venirmi a trovare qui a casa mia, se ne avessero avuta l'intenzione, ma, a causa di quanto avevo detto l'ultima volta che ci eravamo salutati, avrebbero invece continuato ad aspettare impazienti nella loro casa ad Asakusa. Abbandonarli freddamente in nome dell'autoconservazione senza nemmeno una parola di commiato sarebbe stato un atto di grossolano egoismo. Cos'era un po' di infiacchimento, poi? Davvero la mia vita valeva tanto da giustificare il tradimento dei miei genitori per preservarla? Forse il mio rapporto con Kei costituiva un argomento a favore, ma francamente non sapevo più quanto capitale fossi disposto a investire sull'amore tra un uomo e una donna. La mia fede nell'amore dei genitori non era meno tenue, eppure, nella loro attuale incarnazione, pareva che mia madre e mio padre fossero venuti in questo mondo unicamente per amor mio. E non solo: immaginavo la loro come un'esistenza assai precaria, destinata a svanire una volta per tutte da questo mondo nel momento stesso in cui il mio cuore avesse cessato di rivolgersi a loro. Volevo almeno dir loro addio. E così, al calar della sera, venni meno alla promessa fatta a Kei. Una volta finito di abbozzare la trama del secondo episodio della serie, avevo consumato buona parte del pomeriggio. Chiamai a casa di Kei per assicurarmi che non ci fosse, poi mi preparai in fretta per uscire. Malgrado questa precauzione, avevo la sgradevole sensazione che lei osservasse ogni mia mossa da vicino, sensazione che cercai di scacciare, uscito nel corridoio, dicendo a voce alta: «Dunque, vediamo, dove posso trovare qualcosa di veramente buono da mangiare?» Avevo ogni motivo di credere che Kei fosse a Tsukiji, seduta davanti allo schermo di un computer nel reparto contabilità della ditta di imballaggi dove lavorava. Non le sarebbe stato facile prendersi permessi dal lavoro
soltanto per tenere d'occhio me. Dato che mi ero spinto al punto di chiamare per accertarmi che non fosse in casa, avrei dovuto poter guardare le porte dell'ascensore che si aprivano senza provare quella contrazione allo stomaco, e non avrei dovuto sentire il bisogno di nascondermi dalla finestra di Kei quando uscii dal portone, di sotto. Invece, fu proprio con questi sentimenti che sgattaiolai fuori del palazzo e raggiunsi la grande strada trafficata. Mi sorprese che mi ci volesse tanta forza di volontà per mancare alla promessa fatta a Kei. Significava forse che l'amavo più di quanto mi fossi reso conto? Sul taxi diretto ad Asakusa, mi tornarono in mente gli occhi che mi avevano perforato mentre mi estorceva la promessa; mi tornò in mente anche il luminoso biancore delle sue natiche armoniose. «C'è Hideo, caro.» Arrivato ai piedi della familiare scala metallica, udii la voce di mia madre gridare dall'alto. Alzando gli occhi, la vidi sulla porta di casa con una cesta della spesa attorno al braccio. Mi fece un cenno con la testa e un gran sorriso, e sparì all'interno. Poi la sentii gridare ancora. «Hideo è venuto a trovarci, caro.» Farai innervosire i vicini urlando così, pensai. Ma in realtà non sapevo se qualcun altro, a parte me, potesse davvero sentire la sua voce. Quando fui in cima alle scale, vidi che mia madre era riapparsa. Stava di fronte alla porta aperta e mi accolse con un ampio sorriso. «Ciao, caro.» «Ciao, mamma.» Il suo sorriso era contagioso. «Sto andando a comprare un paio di cose», spiegò. «Ma papà è dentro.» Passammo uno davanti all'altra, poi sbirciai all'interno e vidi mio padre che si rizzava a sedere. Aveva in mano un ventaglio di carta. «Ehilà», fece. «Ciao, papà.» «Un po' di birra?» Si alzò agilmente e andò ad aprire il frigorifero. «Forse è meglio se teniamo la birra per la cena.» «Oh, avanti, non fare il guastafeste. È tutto il pomeriggio che mi trattengo. Non volevo sentire le lamentele di mamma, così ho bevuto acqua fingendo che fosse birra, ma mi fa sentire gonfio e basta.» Alla TV davano ancora il torneo liceale di baseball. Sedemmo a gambe incrociate davanti all'apparecchio versandoci la birra a vicenda.
«Hai già giocato con qualcuno?» «A cosa?» «A ramino floreale.» «Non ne ho avuto il tempo.» «Sei troppo vecchio per dire che hai troppo da fare, sai. Se non cominci a divertirti adesso, tra poco sarà troppo tardi.» «Pensavo che magari, oggi, noi tre potremmo provare a giocare a Nove.» «Ti farò da balia. Me la sono cercata, credo. Almeno in parte è anche colpa mia, se adesso scopro che il mio unico figlio è arrivato alla piena maturità senza aver imparato a giocare ai fiori.» Quindi si lanciò in una lezione su come barare. Costretto a fargli da spettatore, lo osservai mentre mi illustrava metodo dopo metodo, e al ritorno di mia madre avevamo scolato, in due, tre bottiglie grandi di birra. Un po' alticcio, sorrisi a mia madre, rosso in viso. «Facciamoci portare qualcosa di pronto, mamma», suggerii. «Ma sono appena andata a comprare tutta questa roba», protestò lei. Sì, figuriamoci. So benissimo che è tutta una messinscena a mio favore. «Prenditi la serata libera, mamma. Adesso ordiniamo qualcosa e tu potrai giocare a Nove con noi.» «Caspita! Stai diventando proprio come papà!» «Che diavolo c'è di male in un figlio che prende da suo padre?» intervenne lui. «Proprio così», concordai. «Ordiniamo l'anguilla. Offro io. Magari non si vede, ma me la passo piuttosto bene. Meglio della media, comunque.» «Be', allora forse dovrei andare a ordinare.» «Non qui dietro l'angolo», disse mio padre. «Vai in quel posto davanti a Katsumasa.» «E non dico le semplici ciotole di riso e anguilla. Prendi un po' di fegatini alla griglia, il loro miglior teriyaki d'anguilla e un po' di zuppa di fegato d'anguilla, con riso a parte.» Cercavo di scimmiottare lo stesso tono smorfioso che aveva usato mio padre. «Cosa devo fare con voi due?» sospirò mia madre. «Vi siete coalizzati contro di me.» Ma si vedeva che era contenta. Quando ritornò dopo aver ordinato la cena, giocammo tutti insieme a Nove. I miei erano entrambi giocatori provetti e velocissimi con le carte. «Deciditi, forza!»
«Avanti, lumaca.» «Devi imparare a sbatterle giù con un po' più di stile!» «Parla! La vuoi o no? Stai rovinando tutto il ritmo del gioco!» Anche se era soltanto una partita amichevole con il loro figlio, erano ferocemente competitivi e soprattutto mi sorprese il modo in cui i termini gergali usati per i diversi punteggi uscivano di bocca a mia madre con assoluta naturalezza. Sputava fuori quei termini secca e spiccia, una vera signora. Più tardi, mentre gustavamo la nostra cena a base di anguilla, mio padre si fece riflessivo: «Sai, se ci fossimo stati, non ti avremmo permesso di venir su tanto ignorante. Ma per certe cose, a questo mondo, non ci si può fare proprio niente». «Non è che potessimo insegnare le carte floreali a un ragazzino di dodici anni, ti pare?» «Ma sia come sia, la mia filosofia di vita, o forse dovrei dire la mia visione della condizione umana, è sempre stata...» «Santo cielo, tutto a un tratto te ne esci con queste frasi complicate», lo interruppe mia madre. «Oh, piantala, va bene? Un paio di libri seri, ai miei tempi, li ho letti anch'io. Solo che non ho bisogno di libri per distinguere il bene dal male.» «Allora perché non ce lo spieghi con parole tue?» «Non vedi che sto solo cercando di parlare la sua lingua? Passo le giornate a parlare con persone di ogni genere dall'altra parte del bancone, sai. Se non imparassi la loro lingua, non arriverei da nessuna parte. Per noi sushi chef non è mica facile come per quei cuochi francesi. Non possiamo nasconderci in cucina tutti tronfi per i piatti raffinati che prepariamo, senza mai dare al cliente la possibilità di ripensarci. Dobbiamo lavorare sotto gli occhi del cliente, tutti i santi giorni. È come essere sempre su un palco. Dobbiamo essere attori e dobbiamo essere chef, e oltretutto siamo in prima linea a promuovere i nostri prodotti, perciò dobbiamo essere anche venditori. Con tutti questi lavori, puoi farmene una colpa se qualche volta mi va di divertirmi un po'? Se c'è un lavoro davvero stressante, è questo.» «Non saprei», ribatté mia madre. «Sentila. È questo il problema delle donne: si mettono lì col naso in su e sbuffano di fronte a tutti i travagli e le tribolazioni che i loro mariti devono sopportare.» Non perché dicessero qualcosa di particolare per mostrarmi quanto tenevano a me, ma piuttosto perché sembravano gustare così di cuore il tempo
che passavamo insieme, e perché si prendevano in giro tanto bonariamente, alla fine non riuscii a dir loro che quella sarebbe stata la mia ultima visita. L'argomento non era stato sfiorato quando mi accompagnarono fin sul marciapiede dell'International Avenue e mi congedarono con il solito allegro invito. «Torna a trovarci!» «Ti aspettiamo!» 11 Nel taxi, tornando a casa, mi stupii del senso di moderazione dei miei genitori. Dicevano tutto quel che volevano, ma mai avevano neppure insinuato che gli sarebbe piaciuto venirmi a trovare. Mi rattristava un po', e mi pesava perfino sulla coscienza l'aver approfittato di loro senza offrire un invito. Ma forse stavamo soltanto ammettendo, implicitamente, che esisteva una linea di separazione tra l'illusione e la realtà, e che non andava violata. Dopo un po', mi ricordai di mio figlio Shigeki. Dire che mi ricordai di lui mi fa certamente apparire assai freddo, ma in effetti, più o meno dal periodo in cui sua madre e io avevamo cominciato a parlare di divorzio, mio figlio si era staccato da me quasi completamente. In parole povere, aveva preso le parti di sua madre. Quando gli parlavo mi ignorava, mentre con lei continuava a comunicare con la stessa disinvoltura e familiarità di sempre. Non potevo davvero fargliene una colpa, dal momento che sapeva che avrebbe dovuto vivere con lei dopo il divorzio; se è per questo, se un ragazzo di diciannove anni poteva stabilire un legame più stretto con sua madre a causa dell'antipatia nei confronti del padre, forse per me la cosa migliore era abbandonare ogni sforzo di conquistare il suo affetto. Se questo significava che sarebbe stato un figlio migliore per sua madre, allora che mi odiasse pure. In sostanza, decisi che avrei cercato di dimenticare mio figlio. Ormai, però, era probabile che Shigeki avesse saputo della relazione di sua madre con Mamiya. E in tal caso, anche se forse un ragazzo al secondo anno di università era abbastanza grande da non essere soggetto a simili insicurezze emotive, mi sorpresi a domandarmi se forse in questi momenti non sentisse il bisogno dell'amore di un padre. Dopotutto, avevo cominciato a crogiolarmi nell'amore dei miei genitori, e potevo ricambiarli offrendo la stessa cosa a Shigeki.
«Scusi, potrebbe invece portarmi ad Akasaka?» domandai all'autista. Gli diedi il nome di un albergo. Stare ad Akasaka mi avrebbe salvato dal dover mentire a Kei, almeno per quella sera. Avrei chiamato Shigeki e gli avrei chiesto di venirmi a trovare in albergo l'indomani, magari per pranzo. Gli avrei dato un po' di soldi extra per le sue spese. Non sapevo bene, però, come Shigeki avrebbe accolto un simile inaspettato approccio da parte di suo padre. «Casa Imamura», fece la voce della mia ex moglie dall'altro capo del filo. Aveva ripreso a usare il suo nome da ragazza. «Ciao, sono io.» Esitò un momento. «Shigeki?» «No, non Shigeki. Hideo.» «Cielo», disse, con un sorriso forzato nella voce. «Sembrava un po' strano che fosse Shigeki, ma non mi aspettavo di sentirti, così...» «Già.» Ora toccava a me, un sorriso forzato. Era la prima volta che ci parlavamo al telefono dopo il divorzio. «Voi due avete una voce così simile che mi fa venire la pelle d'oca», disse lei. «Mi dispiace.» Mi ero preparato a uno scambio di battute acide, ma per qualche ragione la conversazione non era tesa. «Non è in casa?» «È in America. Un suo amico frequenta un college in Arizona, in un programma di scambio di un anno. Shigeki passa le tre settimane di vacanze estive con la famiglia che lo ospita.» «Fa un caldo infernale in Arizona in questo periodo, no?» «È giovane.» «Volevi togliertelo dai piedi, vero?» «Cosa vorresti dire?» «Lo sa?» «Sa cosa?» «Di te e Mamiya.» «È ancora troppo presto per dirglielo.» «Stai con Mamiya, giusto?» «Non sono obbligata, sai.» «Obbligata a far cosa?»
«A dirti niente.» «Be', forse no, ma un po' di cortesia non fa male a nessuno. Mamiya e io siamo stati colleghi per tanto tempo, ma ora non possiamo più lavorare insieme.» «Certo che potete. Non occorre che la vostra vita privata vi sia di intralcio.» «Non è così semplice.» «Ah, davvero? Be', sei stato tu a volere il divorzio, perciò, qualunque cosa succeda tra me e il signor Mamiya, non hai il diritto di essere geloso.» «Non sono geloso.» «Allora non dovresti farla tanto lunga.» «Forse no, ma scommetto che anche Mamiya lo trova imbarazzante.» «Mi ha detto la stessa cosa, ma non è come se stesse commettendo adulterio! Non vedo perché debba sentirsi imbarazzato, visto che siamo già divorziati.» «Ma vi vedevate già prima che ci separassimo, vero?» «Come fai anche soltanto a immaginare una cosa del genere?» «Altrimenti sarebbe successo tutto troppo in fretta. Neanche un mese dopo il divorzio, eri già tra le sue braccia.» «Sei disgustoso. Noi due siamo stati distanti per moltissimo tempo, prima che il divorzio andasse in porto. Se qualcuno mi avesse sussurrato all'orecchio due stupidaggini romantiche dopo un giorno soltanto, gli sarei caduta tra le braccia all'istante.» «Hai intenzione di sposarlo?» «Te l'ho detto, non sono affari tuoi.» «Shigeki è anche mio figlio. Ho il diritto di essere preoccupato dell'effetto che potrebbe avere su di lui.» «Perché, di punto in bianco, dovresti essere tanto preoccupato per quel ragazzo? Non gli hai mai prestato la minima attenzione.» «Ho chiamato perché volevo vederlo.» «Sei veramente disgustoso. Mi dispiace, ma devo riattaccare. Parlare con te mi fa venire la nausea.» La linea cadde con un clic. Se davvero mi trovi tanto disgustoso, allora che ne diresti di mostrarmi un po' più di gratitudine per esserti liberata di me? Che ne diresti di restituirmi un po' di quella grana che mi hai spremuto? Se non avesse già riattaccato, avrei potuto benissimo andare avanti con osservazioni di questo genere. Aveva ragione: ero disgustoso. Non potevo
farci niente. Il mio lato stizzoso schizzava in superficie a quel modo ogni volta che parlavo con lei. E lei, allo stesso modo, teneva fede alla sua parte. A un certo punto, era diventato uno schema inevitabile. Avevo una singola al nono piano dell'albergo. Dalla mia finestra vedevo le luci alle finestre di un altro alto albergo e il fluire delle auto serpeggianti su e giù per Aoyama Boulevard. Non era colpa di Shigeki se non avrei potuto vederlo. Ma mentre fissavo il fiume ininterrotto di fari bianchi e fanalini di coda rossi, riflettevo su quanto mi era diventata familiare la delusione nel mio rapporto con il ragazzo. All'incirca da quando aveva cominciato le scuole medie, sembrava deciso a deludermi in ogni occasione. Questa mia percezione era probabilmente dovuta per buona misura alle mie stesse aspettative fuorvianti, sicché nella maggior parte dei casi non potevo realmente attribuire a lui la colpa. Tuttavia, pur sapendo che la personalità di un giovane non necessariamente si sviluppa sulla falsariga dei desideri di un genitore, mi incollerivo quando ignorava i miei sentimenti o mi rimbeccava su questioni futili. Ma perdere la pazienza con lui si era dimostrato vano, poiché riusciva soltanto a logorarmi, senza produrre nel suo comportamento la correzione desiderata. Più o meno nel periodo in cui Shigeki aveva cominciato le superiori, finalmente avevo imparato ad accettare l'inevitabile e a non dargli peso. In seguito, nell'affrontare qualsiasi scambio con lui, mi preparavo sempre a una lieve delusione. Ero arrivato al punto che, se gli chiedevo di prendere il caffè con me e lui rispondeva serenamente: «Certo, papà», come accadeva a volte, in effetti mi sentivo frustrato. La colpa era mia, naturalmente. Del mio fallimento sia come padre sia come marito, la colpa era interamente mia. Non che lo credessi davvero... Ma trovavo una certa soddisfazione nel dipingermi di nero, continuando a fissare le luci della città da una finestra d'albergo. Il mattino dopo lasciai l'albergo poco dopo le dieci. Mentre attraversavo l'atrio diretto all'ingresso dopo aver pagato il conto alla reception, scorsi Mamiya che entrava. Sapendo che sarebbe sembrato strano se avessi cambiato direzione all'improvviso, ma non sapendo che altro fare, semplicemente mi fermai e lo guardai entrare a gran passi dalle porte automatiche. Forse non si sarebbe accorto di me, e, in tal caso, tanto meglio.
Una volta entrato, Mamiya si guardò attorno per un attimo prima di dirigersi verso il bar. Poi di colpo si irrigidì e voltò il capo di scatto, guardandomi dritto in faccia. Sorridendo, lo salutai con un cenno del capo. Era bello vederlo. Ayako ha ragione, pensai. Non c'è davvero motivo perché la vita privata debba interferire con il nostro rapporto di lavoro. «Ciao», disse, aprendo a malapena la bocca, molto esitante. Rimase immobile, continuando a guardare da sopra le spalle, fissandomi con gli occhi di chi ha visto un'apparizione. Non stai esagerando un pochino? avrei voluto dire mentre mi avvicinavo, ma lui si affrettò a sorridere per dissipare la sorpresa. «Bene, bene», fece. «Che succede, al mattino così presto?» domandai. Alle dieci era presto, per la gente che lavora in televisione. «Devo vedere una persona», rispose lanciando un'occhiata verso il bar. Un uomo salutò con la mano e lo riconobbi, era un mio collega autore, di diversi anni più vecchio e molto più richiesto di me, al momento. Mamiya rispose sollevando una mano, e anch'io feci un piccolo inchino. Dopo averci fatto cenno di fare pure con calma, l'uomo tornò ad accomodarsi al suo posto. Ma non avevo niente da dire a Mamiya. Se non fosse stato un incontro inatteso, senza dubbio avrei ritrovato rapidamente la lingua. Dovevo essere cauto prima di insinuare che avremmo potuto ancora lavorare insieme. «Quasi non credevo ai miei occhi quando ti ho riconosciuto, un attimo fa», disse. «Come sarebbe? Anche a me capita di fermarmi in albergo, di tanto in tanto.» «No, è per come sei cambiato, dico. E in così poco tempo.» «Cambiato?» «Non è trascorso poi così tanto tempo da quando sono venuto a trovarti a casa tua. Sembra che tu abbia perso un bel po' di chili, da allora.» «Ti sembra?» «Scusami, non sono affari miei. Solo che è stato proprio uno shock.» «Ti sembro pelle e ossa?» «Be', non so se sia il caso di dire così, ma cosa è successo?» «Devo essermi dato un po' troppo da fare, credo.» «Devi stare più attento.» «Adesso che sono solo, non so quando fermarmi, credo.»
«Sei stato dal medico?» «No, dal momento che non ho nessun genere di dolore.» E dal momento che quando mi guardo allo specchio non mi vedo per nulla cambiato, aggiunsi tra me. «Credo che dovresti.» «Adesso non cercare di spaventarmi.» «No, davvero, dico sul serio. Bisogna che tu vada da un medico. Perdonami, ma perdere tanto peso così velocemente non è proprio normale.» «Probabilmente hai ragione. Lo farò. Arrivederci», dissi con un cenno della mano, e mi avviai verso la porta. «Dove vai, adesso?» «A casa.» Sembrava che Mamiya avesse qualcos'altro da dire, ma me lo lasciai alle spalle e uscii. L'incontro confermò quanto avevo segretamente sospettato. A quanto pareva, il tempo trascorso con i miei genitori la sera prima mi aveva reso ancor più emaciato agli occhi di chi mi circondava. Mi avviai verso la fermata dei taxi. Forse ero destinato a continuare a consumarmi, senza mai poter vedere la devastazione con i miei occhi, finché un bel giorno sarei rimasto secco. E così sia, dunque. Uno a cui è stata data la possibilità di trascorrere del tempo con i suoi parenti defunti non dovrebbe chiedere molto di più. Come al solito, ogni singola finestra del mio palazzo rimaneva stoicamente chiusa di fronte al rombo dei motori e ai gas di scarico provenienti dai veicoli che facevano la spola sulla statale 8. La finestra di Kei non sembrava diversa dalle altre. Il bagliore riflesso del sole della tarda mattinata impediva di capire se all'interno ci fosse qualcuno. Girando la chiave nel quadro di sicurezza, aprii con una spinta lo spesso portone di vetro ed entrai. Un giovane alto stava facendo la guardia a sette o otto scatole di cartone nuove di zecca ordinatamente accatastate contro una parete. Gli diedi un'occhiata passando, ma quello mantenne lo sguardo vitreo e non reagì. Entrai nell'ascensore aperto e premetti il pulsante del mio piano. Mentre le porte cominciavano a chiudersi, lanciai un'altra occhiata al giovane e, con mia sorpresa, vidi che mi fissava con aria strana. Anche se distolse lo sguardo non appena i nostri occhi si incontrarono, riconobbi all'istante u-
n'espressione di curiosità. Di certo il mio aspetto era ormai così avvizzito da attirare l'attenzione di chiunque. Perché ancora non riuscivo a vederlo? Era una specie di trucco messo in atto dai miei genitori? L'ascensore si fermò prima di quel che mi aspettavo, troppo presto per essere al settimo piano. Alzai gli occhi e vidi il numero tre illuminato sopra le porte. Il piano di Kei. L'ascensore si aprì. Lei era là. «Oh. Ti sei presa la giornata libera?» domandai, sorpreso. Rimase ferma a guardarmi senza una parola. Un vestito bianco senza maniche le scivolava lungo il corpo, fino alle caviglie. Dal momento che non entrò subito nell'ascensore, tenni premuto il pulsante aperto e sorrisi. «Be'?» Uno sguardo colmo di compassione si impossessò lentamente del viso addolorato, come se quello che vedeva le spezzasse davvero il cuore. «Dove sei stato?» domandò, sempre immobile. «Sono andato in un albergo a lavorare un po'. Avevo bisogno di cambiare ambiente.» «Stai mentendo», disse, con voce bassa ma ferma. Senza staccare gli occhi dai miei, entrò nell'ascensore, avvicinandosi tanto che in realtà pensavo mi avrebbe baciato. «Stai mentendo», sibilò ancora. Avvertii un dolce profumo. Le porte si chiusero alle sue spalle. «Dev'essere la prima volta», le dissi dolcemente, ricambiando lo sguardo. La attirai a me, ma la sentii irrigidirsi al mio tocco. «La prima volta che ti sento addosso il profumo.» «Stavo guardando dalla finestra. Ti ho aspettato tutta la notte. Ora finalmente sei venuto a casa.» Lo disse con molta calma, quasi stesse leggendo le parole da un libro. Avvertii una nota di rabbia. «Stai marinando il lavoro?» Prima che potesse rispondere, le porte si aprirono. Mi precedette lungo il corridoio del settimo piano. Mi frugai in tasca in cerca della chiave. Arrivata alla mia porta, Kei si fece da parte, diritta e rigida, osservando ogni mia mossa. Aprii la porta. «Lascia che entri prima io», dissi. «Apro le tende e accendo il condizionatore. Questo caldo non vuole proprio mollare, vero?» Lo sguardo truce di Kei confermava che il mio pallore era davvero peggiorato, ma non avevo motivo di comportarmi da debole, di conseguenza. Parlavo con tono esageratamente allegro mentre correvo ad accendere il condizionatore e aprire le tende. La porta d'acciaio si chiuse con un pesan-
te suono metallico. «È quasi ora di pranzo, Kei. Ci facciamo un po' di tagliolini freddi? L'altro giorno ho comprato un'intera cassetta di confezioni di tagliolini pronti, e abbiamo anche prosciutto, cetrioli e uova.» Mentre ero in piedi su una sedia a regolare le stecche del condizionatore, Kei mi si avvicinò silenziosa e mi strinse le braccia attorno alla vita. «Perché sei dovuto andare? Perché hai dovuto infrangere la nostra promessa?» domandò. Riflettei prima di rispondere, incerto su cosa dire, ma sapevo che mentire non mi sarebbe servito a nulla. «Volevo salutarli un'ultima volta. Non volevo che finisse così, con me che scompaio all'improvviso e basta.» «E l'hai fatto? Vi siete detti addio?» Sorrisi imbarazzato, ancora in piedi sulla sedia. «Lasciami andare, ti dispiace? Voglio scendere.» Ma non mi lasciava. «Rispondimi», insistette. «Dimmi se vi siete detti addio.» «Cominci a somigliare a mia madre.» «Smettila di essere evasivo. Hai spiegato che non potrai più andare?» «Non ho potuto.» «Me lo sentivo.» «Non hanno fatto niente», li difesi io. «Non hanno fatto niente per meritare una notizia del genere dal loro figlio.» Kei mollò la presa. «Scendi», ordinò. «Non ce l'ho fatta a dirglielo, tutto qui.» Scesi dalla sedia. «Vieni con me.» Mi fece cenno di seguirla, gli occhi fiammeggianti fissi nei miei. «Dove?» Impaziente, mi afferrò per il braccio destro come stesse tirando una fune e mi trascinò verso il bagno. Aprì la porta e accese l'interruttore. Ci piazzammo fianco a fianco davanti allo specchio come avevamo già fatto una volta. «Vedi?» «Certo che vedo.» «E che aspetto hai?» Il riflesso nello specchio mostrava il mio solito colorito rubicondo. «Forte. Il colore è buono.» «No!» Kei mi gettò le braccia al collo, stringendomi. «Qualcuno aiuti
quest'uomo! Vi prego, oh, vi prego, vi prego!» Kei probabilmente non era religiosa, ma stava implorando qualcuno, e non ero io. Stava supplicando chissà quale potenza perché mi salvasse. L'evidente sincerità della sua invocazione mi lasciò del tutto senza parole. Mi meravigliava la scoperta che esistevano persone, a questo mondo, capaci di pregare tanto ardentemente per il bene di un altro. «Vi prego», Kei continuava a scongiurare al mio orecchio. «Oh, vi prego, vi prego, aiutatelo.» Stava piangendo. Kei stava pregando in lacrime. Provai un impeto d'amore e la strinsi forte. «Grazie», dissi. Kei continuò con le sue suppliche. «Aiuto, vi prego. Vi prego, aiutate quest'uomo.» Si aggrappava al mio collo con tutte le sue forze. Di colpo, fui sopraffatto da una terrificante stanchezza. Il peso di Kei sulle mie spalle era opprimente. Riuscivo a malapena a tenermi in piedi. «Scusami», dissi, con le gambe che vacillavano sotto il suo peso. «All'improvviso mi sento terribilmente debole.» Le gambe mi cedettero e non riuscii più a sorreggerla. Crollai a terra di schianto, ansimando. «Stai bene?» Si accovacciò accanto a me. «Non so. Chissà perché, tutt'a un tratto mi sento assolutamente sfinito.» «Devi guardare nello specchio.» Che stava dicendo? Anche soltanto sollevare la testa mi richiedeva uno sforzo sovrumano. «Ti prego! Credo che adesso riuscirai a vedere. Devi guardare nello specchio.» Vedere che cosa? Non riesco nemmeno a tenere gli occhi aperti. Tutto ciò che voglio è stare sdraiato. «Devi guardare nello specchio!» Si alzò e cominciò a tirarmi per il braccio. «Non posso.» «Ti prego! Devi farlo!» Riuscii a tirar su la testa e Kei si sforzò di sollevarmi fino all'altezza dello specchio. Mi infilò una mano sotto il braccio destro, si strinse a me e tirò con tutte le sue energie. Infine mi issò a un'altezza appena sufficiente e scrutai lo specchio attraverso la nebbia del mio sfinimento. Vidi un vecchio. Il mio cuore perse un colpo. Ero io. L'uomo con gli occhi sprofondati nelle orbite, le guance cavernose e la
pelle incolore come un pallido spettro, ero io. «Ah!» gridai. Ma non produssi altro che un suono flebile, poco più di un sospiro. «Aaaa...» Mi trascinai sulle mani e le ginocchia dal bagno al soggiorno e rotolai sul pavimento. Lo sforzo mi aveva svuotato di tutte le energie residue. Kei venne a sdraiarsi al mio fianco come una madre che protegge il suo bambino. Chiusi gli occhi e riposai, mentre impercettibili tremori mi scuotevano il corpo. Il terrore mi rodeva lo stomaco. La mia spavalderia di prima, pronto a morire per i miei genitori, era svanita. Namu Amida Butsu, Namu Amida Butsu, Namu Amida Butsu. Oh, Budda benedetto! Oh, Budda benedetto! Oh, Budda benedetto! 12 Le forze mi tornarono all'incirca dopo un'ora. Sentii la vita rifluire nelle membra, montare come la marea fino alla punta delle dita di mani e piedi. Presto mi sentii così colmo di energia che quasi mi pareva impossibile essere stato tanto debole da non riuscire a stare in piedi, fino a poco prima. Aprii gli occhi e mi voltai lentamente a guardarmi le mani. Quando l'avevo fatto, poco prima, con apprensione, avevo scorto pelle cinerea grottescamente tesa su poco più che vene e ossa, ma stavolta scoprii le mie mani normali, bene in carne. A quella vista, una nuova ondata di energia mi attraversò e non riuscii più a stare fermo. Mi alzai a sedere con calma. «Cosa c'è?» domandò Kei, con voce tenera di apprensione. «È davvero strano. All'improvviso, mi sento di nuovo normale. Ho ancora l'aspetto di prima?» Kei annuì. «Certo non mi sento più così. Ho voglia di saltare in piedi e ballare per la stanza.» I suoi occhi si colmarono di orrore. E capii immediatamente. Lo spettro d'uomo seduto di fronte a lei ora non sarebbe stato in condizione di far salti di gioia e ballare, se non per virtù di una qualche potenza soprannaturale proveniente dal mondo a cui appartenevano mia madre e mio padre. «Non posso fare niente per te?» domandò Kei, con una mesta supplica negli occhi.
«Vorrei che restassi con me... Se non hai ribrezzo.» «Come puoi dire una cosa simile?» «Scusa.» Aveva ragione, naturalmente. Dopo che si era aggrappata a me e aveva pregato per me, dopo che era rimasta distesa con me prostrato com'ero, l'avevo trattata come un'estranea. Eppure sembrava impossibile che qualcuno potesse sentirsi a proprio agio con quello spettro d'uomo macilento e pallido come la morte che avevo visto riflesso nello specchio, figurarsi stringerlo tra le braccia. Specialmente un uomo che, per cominciare, aveva quindici devastati anni più di lei. Fossi stato al suo posto, probabilmente avrei cacciato un urlo da far gelare il sangue e sarei scappato a gambe levate. Vedere quanto si era fatto profondo il suo affetto per me, non in anni e neanche in mesi ma sulla base di poche notti, era per me un aspro rimprovero. Mi ero sbagliato sulla gente. Anche sulle donne. «Grazie», dissi. Ma non riuscivo a decidermi a guardarla. Mi sarebbe piaciuto rivolgerle il mio sorriso più grato e stringerla fra le braccia, ma sapevo che curvare le labbra spettrali sarebbe servito soltanto ad amplificare l'orrore del mio aspetto. «Mi sta venendo fame», dissi. «Preparo qualcosa.» Si alzò e andò in cucina. Ora mi sentivo di nuovo così pieno di energia che avrei voluto darle una mano, ma decisi che probabilmente era meglio lasciarla sola per un po'. Dopo aver finito il pranzo ed esserci un poco attardati a prendere il caffè, erano le due passate. Avevamo trascorso tutto il tempo parlando d'altro. Kei aveva sempre immaginato che gli autori televisivi avessero una vita sociale sfrenata. Le dissi che per alcuni era così, ma per la maggior parte lo scrivere richiedeva lunghi periodi di solitudine. Le descrissi un racconto di Paul Theroux sulla vita sociale degli scrittori a Londra, che in toni spiccatamente comici svela quanto siano tutti soli e isolati malgrado le bisbocce. Quanto a me, non ero affatto incline a mettere in ridicolo l'isolamento degli scrittori. E neppure soffrivo la solitudine. «Davvero?» domandò Kei. «Comunque ti voglio qui con me», mi affrettai ad aggiungere. «La tua presenza è stata un aiuto incredibile.» Ma, dentro di me, dovetti ammettere che la sua domanda aveva toccato un nervo scoperto. Forse non mi sentivo così a mio agio con la mia solitudine quanto mi piaceva pensare. Forse avevo desiderato di stare di nuovo
da solo soltanto per liberarmi dai ceppi di moglie e figlio, e ora che avevo davvero riconquistato la mia indipendenza scoprivo di non essere affatto così indipendente, dopotutto. Non mi ero consapevolmente sentito solo, ma poteva benissimo essere stata la mia solitudine inconscia a richiamare mia madre e mio padre dal mondo dei morti. Le nostre tazze di caffè erano vuote quando finalmente la conversazione tornò sull'argomento. Kei ammutolì. E anch'io. Per tutto il tempo in cui avevamo parlato d'altro, avevo continuato a chiedermi che cosa fare. All'improvviso, dalla strada giunse il lungo, sonoro stridio di un automobilista preso dal panico che frena bruscamente. Presagendo il botto, istintivamente mi voltai verso la finestra. Kei fece lo stesso. Ma il botto non arrivò, soltanto il solito frastuono del traffico, il rombo continuo. «Stasera», dissi. «Sì?» «Devo andare ad Asakusa un'ultima volta.» «Potrebbe ucciderti.» «Morirò comunque, di questo passo.» «Lo pensi davvero?» «Tu sostieni che queste mie mani sono pelle e ossa, ma non è quello che mi dicono i miei occhi. Non posso semplicemente decidere di non vedere più i miei genitori e aspettarmi che la cosa finisca qui.» «Ma forse dovresti prenderti un po' di tempo. Magari il loro potere su di te diminuirà, e allora può darsi che la cosa finisca.» «Sento che è sbagliato, in un certo senso. Potrebbe tenerli confinati nel limbo, impedir loro di passare dall'altra parte in pace. È questo che mi preoccupa. Non voglio che finisca con me che li abbandono e basta. Sono brave persone.» «Ti stanno succhiando via la vita.» «Non credo che ne abbiano mai avuto intenzione. Credo che sia semplicemente l'effetto del rapporto tra i nostri diversi mondi. Probabilmente i miei genitori non hanno idea che io stia morendo. Probabilmente non possono vedermi deperire più di quanto lo possa io. In realtà, ne sono certo. Altrimenti avrebbero detto qualcosa, a quest'ora.» «Sei tanto comprensivo.» Non intendeva in senso buono. Cosa piuttosto insolita, il tono era sarca-
stico. Dissi: «Spero non mi considererai un caso disperato, ma...» «Cosa?» «Devo andare ad Asakusa un'ultima volta, e proprio perché penso che tra noi due ci sia qualcosa di prezioso.» «E la tua morte, di che aiuto ci sarà?» «Non credo proprio di poter andare alla polizia per una cosa come questa.» «Ma che ne dici di un prete, magari uno sciamano?» «È dei miei genitori che stiamo parlando. Non ho intenzione di pagare un esorcista per liberarmi di loro.» «Sei troppo idealista. Le famiglie vere non sono così belle, sai.» «Ho perso i miei genitori quando avevo dodici anni. Scusami se vedo tutto rosa.» «Dammi un giorno. Mi farò consigliare.» «Dove?» «Non ho ancora deciso. In chiesa. Dovunque.» «Ne sono sicuro.» «Sicuro di cosa?» «Che capiranno.» «No, è quello che speri. Sei davvero disposto a rischiare la vita solo su queste basi?» «Non preoccuparti. Starò bene. Tornerò per le dieci o le undici.» Kei si alzò. «Dammi tempo almeno fino alle quattro.» «No.» «Le tre e mezzo, allora.» Mi commosse il suo disperato desiderio di aiutarmi. «Non andare da nessuna parte fino alle tre e mezzo, d'accordo? Promettimelo.» Corse alla porta. «Promettimi che non andrai da nessuna parte.» La porta pesante si spalancò, quindi tornò a chiudersi. Per lei, i miei genitori erano spiriti vendicativi da sfuggire a ogni costo. Sapere che li considerava tali mi rattristava e provai pena per loro. Chi avrebbe preso le loro parti, se non lo facevo io? Mi avvicinai alla finestra. Kei sarebbe apparsa presto. In quel momento, probabilmente l'ascensore stava ancora salendo. O forse era appena arrivato al mio piano e si stava aprendo. Sì, ora lei stava entrando. Le porte si chiudono. L'ascensore inizia la sua discesa.
D'improvviso, Kei uscì di corsa dal palazzo, molto prima di quanto mi aspettassi. Con indosso soltanto il suo lungo abito bianco da casa e un paio di sandali aperti, correva verso la strada. L'esilità delle sue spalle mi rimase negli occhi dopo che fu scomparsa alla vista. Potrei non vederla mai più, pensai, poi mi voltai lentamente verso la porta. 13 «Ehilà! Ti fai vedere due giorni di fila!» Mio padre mi salutò con un luminoso sorriso dall'acquaio della cucina, dove si era tirato su le maniche della yukata per lavarsi con una salvietta fresca. «Spero che tu non stia prendendo da tuo padre e trascurando il lavoro», mi rimproverò mia madre, occupata a risistemare l'armadio del futon. «Ho portato mezzo cocomero», dissi, appoggiando il sacchetto di plastica sul pavimento della cucina. «Ho pensato che forse uno intero era troppo.» «Meglio che lo metti nel frigo», consigliò mio padre. «È già gelato», dissi togliendomi le scarpe. «Erano in ghiaccio.» «In tal caso, forse dovremmo mangiarlo subito», fece mio padre, rimettendosi a posto le maniche della yukata mentre passava davanti a mia madre diretta nell'altra stanza. «Ah, il cocomero... Bella pensata!» «Che ondata di caldo», disse mia madre aprendo il rubinetto per lavarsi le mani. «Credo che mi stia venendo uno sfogo sul collo.» «Ehilà, non startene lì così, Hideo. Togliti la camicia. Mettiti comodo», gridò mio padre. «Ho pensato che magari stasera potremmo mangiare fuori. Che ne pensate?» domandai, raggiungendolo. «Fuori?» Mia madre si voltò a guardarmi. «Non mi pare che abbiamo mai mangiato il sukiyaki al ristorante», osservai. «A quei tempi non potevamo assolutamente permetterci una cosa del genere», puntualizzò mio padre. Stava regolando la posizione del ventilatore dopo averlo impostato in modalità oscillante. «Ecco perché speravo che stasera mi permetteste di portarvi fuori», dissi. «Invece di mangiare qui?» Riconobbi una nota di tensione nella voce di
mia madre. Mio padre aveva smesso di fare quello che stava facendo. «Preferite mangiare qui e basta?» domandai, preparandomi già a ritirare la proposta, ma mio padre pareva cominciare a entusiasmarsi all'idea. «No, certo», disse. «Ma caro...» obiettò mia madre, rimasta rigida e immobile in cucina. L'altro giorno mio padre e io ci eravamo spinti fino in strada a lanciare la palla da baseball, e avevo pensato che anche arrivare un po' più lontano, fino a un locale specializzato in sukiyaki nei pressi della porta Kaminarimon, non sarebbe stato un problema. Ma stavano reagendo come se avessi chiesto loro di oltrepassare una barriera sconvolgente. «Lasciamo perdere, allora. Era solo un'idea.» Non volevo proprio congedarmi da loro in quella casa. Ritenevo che sarebbe stato più facile intavolare l'argomento in un posto come la sala principale di un ristorante sukiyaki, per esempio, dove saremmo stati circondati da una folla di altri clienti e personale. Ma avrei scartato il piano, se ai miei non stava bene. «Non è proprio la stagione giusta per il sukiyaki, comunque», disse mio padre. «Possiamo mangiare qualcosa qui.» «Sì, facciamo così», convenni. «Pensavo solo che poteva essere divertente fare un allegro banchetto insieme con lo stufato, tutto qui.» «Non so se sia il caso di fare lo stufato qui, senza aria condizionata», disse mia madre. «No, hai ragione. Davvero. Lasciamo perdere. Non avrei dovuto neanche parlarne.» «Non startene lì impalata. Corri a tagliare il cocomero», papà rimproverò mamma. La mia proposta era stata una doccia fredda su quella che era cominciata come una situazione perfettamente lieta. Mi resi conto di quanto in realtà fosse fragile il nostro piccolo mondo tranquillo. Quel giorno, però, non potevo lasciarmi condizionare. Dovevo dar loro la notizia, per quanto duro potesse essere il colpo. «Ho avuto voglia di tornare presto.» «Certo, perché no? Vieni tutte le volte che vuoi», disse mio padre. «Naturalmente», convenne mia madre. «Cosa ne dite di un giro a carte?» propose mio padre. «D'accordo, ma prima mangiamo il cocomero», replicai. Una parte di me temeva che mia madre e mio padre potessero tramutarsi in mostri terrificanti e cominciassero ad assalirmi ferocemente nel momento in cui avessi dichiarato di non poter più tornare. Ero restio a considerare
quella prospettiva, tuttavia credevo anche che, se una cosa simile fosse avvenuta, l'avrebbero considerata con lo stesso mio orrore; non sarebbe stata una cosa che avevano desiderato. Finimmo il cocomero e tirammo fuori le carte. Mia madre scacciò rapidamente l'ombra che era calata su di lei prima e giocò la sua mano con la solita grinta. Si fecero le quattro, poi le cinque. Continuavo a pensare che avrei dovuto darci un taglio, ma sembravano godersi tanto il gioco che non me la sentii. Il crepuscolo cominciò a insinuarsi nella stanza. All'improvviso mi coprii di sudore freddo. Dovevo parlare, finché c'era ancora luce. Una volta scese le tenebre, forse mi sarebbe mancato il coraggio e quella sera non potevo assolutamente andar via da Asakusa senza dar loro l'ultimo addio. «Forse è il caso di fare un po' di luce», disse mio padre, alzandosi e allungando la mano verso l'interruttore. «Che ora è, comunque?» «Le sei e qualcosa», rispose mia madre. La luce riempì la stanza e il rossore del crepuscolo svanì dalla finestra. «Meglio che vada a comprare qualcosa per cena», fece mia madre. «È un po' tardi per pensarci adesso, non ti pare? Arrangiamoci con gli avanzi di ieri.» «È tutto finito. Li abbiamo mangiati a pranzo, ricordi? A parte un po' di semi di soia fermentati.» «Non essere ridicola. Non possiamo servire a Hideo una cena del genere.» «Papà», dissi. «Mamma.» «Sì?» «Non preoccuparti, caro. Ti preparo la cena in un batter d'occhio. Mi inventerò qualcosa mentre tu e papà prendete un po' di birra.» «C'è una cosa che devo dirvi.» «Una cosa che devi dirci?» «Che cosa?» «Mi dispiace. Posso? È un buon momento?» «Non so se sia particolarmente buono, ma spara.» Disgiunsi le gambe e mi misi in ginocchio in posizione formale, poi abbassai il capo in un profondo inchino. «C'è qualcosa che non va?» Mia madre sembrava preoccupata. «Che storia è questa?» fece mio padre, mettendosi anche lui in ginoc-
chio. «Non potrò più venirvi a trovare, dopo oggi.» «Perché no, caro?» «Che significa?» Le loro voci si levarono in una protesta incredula, come se avessi detto qualcosa di tristemente assurdo. Come avevo sospettato, non sapevano nulla del mio deperimento. «È stato bellissimo venire qui, e non potete immaginare quanto mi abbia fatto felice rivedervi. Quindi in un certo senso mi piacerebbe continuare a venire, anche se mi uccide.» «Ti uccide? Di che cosa stai parlando?» «Sì, caro. Come puoi dire una cosa simile?» Riferii loro quanto il mio produttore e Mamiya avevano detto della mia salute e descrissi l'immagine devastata che io stesso avevo visto nello specchio. Tralasciai Kei. Questo richiese una certa dose di invenzione, ma sembrava la via più sicura da seguire. Anche se i miei genitori non avessero mostrato ostilità nei suoi confronti, una persona che desse l'impressione di cercare di separarmi da loro poteva essere la potenziale vittima di un castigo da parte di forze sconosciute del mondo dei morti. Naturalmente, ero ben lungi dall'essere sicuro che non dire nulla di Kei sarebbe servito a proteggerla, ma mia madre e mio padre parvero credere alla mia storia. Quando ebbi finito di raccontare, tornai a inchinarmi profondamente in segno di scusa, con il palmo delle mani a terra. Nessuno dei due disse una parola. Le carte rimasero sparse sul cuscino che stavamo usando come superficie di gioco. Non riuscivo ad alzare la testa. Avevo l'agghiacciante sensazione che i miei avessero già assunto un nuovo terrificante aspetto e fossero pronti ad avventarsi su di me. Tremavo da capo a piedi. Ma le mie paure erano ingiustificate. «Capisco», disse dolcemente mio padre. «Devo ammetterlo», sospirò mia madre, con voce colma di tristezza, «me lo sentivo, che non poteva continuare per sempre.» Ancora non riuscivo a decidermi ad alzare la testa. Avrei voluto semplicemente evaporare nel nulla. «Se non si può, non si può», sospirò mio padre. «Giusto, ma anche se è stato così breve, non sappiamo dirti quanto ci ha
fatto felici averti con noi», dichiarò mia madre. «Dov'è che ce ne andiamo, allora?» si rianimò all'improvviso mio padre. «Come?» Alzai la testa, sorpreso per il cambiamento di tono. «Sai, per il sukiyaki. Che importa se siamo in piena estate? Se andiamo al ristorante, possiamo comodamente rimpinzarci di sukiyaki nell'aria condizionata.» «Siete sicuri che vada bene?» domandai. «Certo che va bene», disse mia madre, ricacciando in gola un singhiozzo. «Ci diciamo addio, no? Certo che va bene.» Al calar della sera, tutti e tre ci incamminammo lungo il marciapiede verso la porta Kaminarimon. Dopo aver attraversato la International Avenue, passammo davanti a un locale che serviva lamprede, dove un uomo stava cuocendo fegatini allo spiedo davanti ai clienti. «Prendiamone uno per ciascuno», propose mio padre, arrestandosi. Sentirlo parlare fece sì che mi rendessi conto che nessuno di noi aveva pronunciato una parola da quando eravamo usciti di casa. «Buona idea», dissi, con un supplemento di slancio nella voce. «Tre, per piacere», disse mio padre al cuoco. «Ma stiamo andando a mangiare il sukiyaki», protestò mia madre. Aveva ancora la voce un poco strozzata. «Non fare la guastafeste. Questo ragazzo ha bisogno di tutto il nutrimento possibile. Lo sai.» «Ti piacerà moltissimo, mamma», assicurai, porgendole uno spiedino. «Grazie, caro.» Restammo tutti di nuovo in silenzio, mentre procedevamo lungo il marciapiede mangiando. Come per disperdere la malinconia, mio padre all'improvviso fece: «Ehi!» E si arrestò di nuovo. «Cosa?» dissi, con la faccia più allegra che mi riuscì di metter su. «Laggiù stavano vendendo i dolcetti statuine. Che ne dite se ne prendiamo un sacchetto?» «Certo. Voialtri andate avanti. Vi raggiungo tra un minuto.» Tornai sui miei passi per comprare un sacchetto di dolcetti a forma di tempio Sensoji, delle sette divinità della buona sorte e simili. Mentre aspettavo il resto, mi voltai per vedere dove fossero arrivati i miei, e li vidi in attesa esattamente nel punto in cui li avevo lasciati. Comprare qualcosa mentre i miei genitori trentenni mi sorvegliavano mi fece sentire come un
ragazzino delle medie. Giusto, capii. Per i miei, separarsi da me significava anche separarsi da Asakusa. Quel giorno avrebbero detto addio anche alla loro adorata città. Mio padre voleva i dolcetti perché stava cercando di approfittare al massimo del suo ultimo viaggio lungo il viale dei ricordi. Mi affrettai a raggiungerli. «Papà», esclamai trotterellando, «i cracker di riso tostato di quel posto nel vicolo dei ristoranti sushi!» «Splendida idea!» «Ci vorrà solo un minuto, mamma», dissi, schizzando via. Trovai il negozio in un corto vicolo in direzione del quartiere dei cinema, ma per quel giorno avevano esaurito i cracker. Proprio un bel momento per finirli! Quando tornai indietro di corsa, i miei avevano un'aria piuttosto derelitta, lì in mezzo all'andirivieni dei pedoni sul marciapiede. «Li hanno finiti tutti, uffa!» esclamai. Andavo per i cinquanta e mi lagnavo come un ragazzino delle medie. «Oh, be'.» Mio padre scrollò le spalle, cercando di mostrarsi allegro per nascondere la delusione. Mia madre rimase semplicemente ferma a fissarmi. «Andiamo su al tempio a offrire una preghiera alla Dea della Misericordia, prima di cena?» domandai. «Possiamo sgranocchiare i nostri dolcetti mentre diamo un'occhiata ai negozi lungo la via.» «Vorrei proprio che potessimo», disse mio padre, evidentemente infelice di dover rifiutare l'invito. «Vorrei proprio che potessimo, ma non siamo liberi di fare tutto quello che ci fa piacere.» «Già, non sarebbe bello se potessimo?» fece mia madre con gli occhi traboccanti di lacrime. Aveva le spalle così curve, difficile credere che fosse la stessa persona che soltanto un'ora prima aveva giocato a carte tanto animatamente. Dovetti letteralmente ricacciarmi in gola le parole che cercavano di sfuggirmi di bocca: Non ci pensate più, scordatevelo. Dimenticate quel che ho detto sul fatto che questa era la mia ultima visita. Tornerò ancora, mamma. Tornerò. Questo era ciò che desideravo dire e non dissi. Quando mio padre domandò se fosse meglio andare, risposi: «Sì! Andiamo a mangiare un bel sukiyaki. Facciamo un vero banchetto». «Entrate, prego!» ci accolse all'ingresso la donna sui settant'anni a cui lasciammo in custodia le scarpe, con voce profonda e sonora.
«Vorremmo un tavolo per tre», dissi. «Sì, signore», rispose, quindi gridò: «Tavolo per tre persone, per favore». «Arriva», udimmo dall'interno, e dopo qualche istante una cameriera paffuta dalla carnagione chiara, apparentemente sui quarant'anni, venne con passettini strascicati a salutarci. «Benvenuti. Da questa parte, prego.» File di tavoli bassi muniti di fornelli a gas incorporati occupavano un'ampia sala. Paraventi decorativi alti all'incirca un metro circondavano ciascun tavolo da tre lati, garantendo la privacy agli avventori. C'erano parecchi tavoli liberi. A una rapida occhiata, mi parve che da meno della metà dei séparé salisse vapore. Praticamente perfetto, pensai. Un locale tanto pieno che i bisboccioni ubriachi del tavolo accanto potevano sfondare il paravento e crollarti addosso andava bene d'inverno, ma una sala affollata d'estate sarebbe sembrata troppo soffocante anche con l'aria condizionata. La cameriera ci condusse a un tavolo a ridosso della parete posteriore e io sedetti di fronte ai miei genitori. Chiedemmo della birra, insieme con la più costosa cena di sukiyaki per tre. «E ordineremo ancora parecchia carne e verdure, man mano», aggiunsi. «Basta che mi diciate quando», rispose la cameriera. «Torno subito con la birra.» Era in ginocchio e quando si rialzò mi accorsi che aveva la fronte imperlata di sudore. «Non c'era bisogno di dire così», fece mia madre, abbattuta. «Non ti agitare», le disse mio padre, irritato. «Per favore, non ti agitare.» «Ma cosa ci faremo con tanta roba?» «Nessuno ha detto che devi mangiarla tu. Non dimenticare che questo ragazzo si è logorato un po' di più a ogni visita. Forse noi non siamo in grado di vederlo, ma è veramente deperito.» «Lo so.» «Allora smettila di assillarlo quando sta solo cercando di rimettersi in forze.» «Non pensate a me», intervenni. «Voglio che mangiate finché vi va.» «Smettila di parlare come a una lezione di educazione civica su onora-igenitori», sbottò mio padre. «Senti, non posso dirlo troppo forte, ma mangiare una montagna di manzo tagliato a fettine non farà crescere la carne sulle ossa di un morto. I dolcetti statuine erano più che abbastanza per
me.» «Ma puoi ancora assaporarne il gusto, vero?» «Certo, gusterò ogni boccone.» «Allora mangiamo tutti a sazietà, dico io.» «Oh, be', tanto vale. Soltanto quando siamo con te possiamo mangiare.» Arrivò la birra. «Di' un po', sorellina: che cosa ti sembriamo?» domandò mio padre alla cameriera. «Marito e moglie, direi.» «Oh, certo, questo va da sé. Ma non intendevo noi, intendevo lui. In che rapporti siamo?» «Un assiduo, forse?» «Assiduo? Cosa vuoi dire?» «Be', insomma, lei probabilmente è uno chef o qualcosa del genere in un ristorante.» «Caspita, che occhio!» «E lui è un suo cliente fisso, che oggi vi ha invitati a cena fuori.» «Centro!» La cameriera rise e se ne andò. «Non è il momento di mettersi a giocare con la cameriera», disse mia madre con aria decisamente infelice. «Senti chi parla. Io sono qui che cerco di fare del mio meglio per ravvivare la festa e tu continui a gettare acqua fredda su tutto quanto.» «Come puoi startene seduto lì e fare tanto lo spensierato?» «Non parliamone più, mamma», intervenni. «Non c'è ragione perché tu debba costringerti a essere allegra, ma posso capire anche come si sente papà; perché allora non cerchiamo di stare sereni e non beviamo?» Presi una bottiglia dal tavolo e riempii di birra i loro bicchieri. «Nessuno mai indovinerebbe che sei nostro figlio», fece mio padre con un sorriso desolato mentre mi versava da bere. «Ne succedono, di cose strane.» Pensai che «Alla salute!» non fosse proprio adatto all'occasione, e qualsiasi altro brindisi avrebbe probabilmente fatto scoppiare in lacrime mia madre, sicché mi limitai a sollevare il bicchiere e dire: «Be', allora», e ci facemmo tutti il primo giro. La cameriera tornò. Appoggiò il tegame apposito sul fornello al centro del tavolo e lo unse, poi cominciò a preparare il sukiyaki. «Lascia che ti dica una cosina su questo giovanotto», le disse mio padre.
«Santo cielo! È sicuro di volerlo chiamare così?» «Oddio, hai ragione.» «Va bene, va bene. Mi piace che mi chiami così», intervenni. «Ha perso i genitori a dodici anni, sai.» «Mi dispiace tanto!» «E dopo, ha passato i suoi bravi guai. Ma se l'è cavata bene. Davvero bene. Ha parecchio di cui andar fiero.» «Sicché ha dovuto cavarsela da solo fin da quando era piccolo?» La cameriera si rivolse a me. «Niente affatto», risposi. «Prima mio nonno mi ha preso con sé, poi, quando se n'è andato, mia zia e mio zio si sono occupati di me.» «Comunque fondamentalmente è stato quasi sempre solo», insisté mio padre. «Ha dovuto far succedere tutto quanto da sé. E guardalo adesso: è un uomo affermato. Può venire in un posto come questo e ordinare tutta la carne di manzo che vuole.» «Cielo, non sarà mica già ubriaco?» esclamò la cameriera, sorpresa dal fervore di mio padre. «Grazie, va bene così», disse mia madre. L'improvvisa vivacità della sua voce mi fece quasi sobbalzare. Quando mi voltai a guardarla, continuò a parlare alla cameriera con un luminoso sorriso. «Il resto posso farlo io. Se avremo bisogno d'altro, la chiameremo.» «Oh, grazie», replicò la cameriera senza perdere un colpo. «In effetti siamo un po' a corto di personale in questo momento, due dei nostri giovani sono tornati a casa per le feste dell'O-Bon e non sono più tornati.» Si inchinò educatamente e si ritirò. Mio padre la indicò con il mento. «Ricordati di lasciarle una mancia, quando usciamo.» «D'accordo», risposi. «Non si fa più, caro. È americano.» «Sì, che si fa. A certi piace ancora mostrare il proprio apprezzamento, sai. Basta solo una mancia piccola. Un biglietto da cento yen. No, no, non li fanno nemmeno più, i biglietti da cento yen. Oggigiorno il piccolo taglio è da mille. Non posso crederci! Mille yen per una mancia. Accidenti! Bei tempi, questi tuoi, Hideo! Dove sta andando il mondo?» «Forse non occorre che lo dica dopo tutto questo tempo, ma...» Mia madre parlò di nuovo a voce alta, guardandomi dritto negli occhi. «Non ci scommettere», interloquì mio padre, punzecchiando con i bastoncini la carne che sobbolliva nel tegame. «Se c'è qualcosa che vuoi dir-
gli, ora è il momento di farlo.» «Ancora non riesco a credere che tu abbia quarantotto anni!» «Capisco cosa vuoi dire», annuii. «Da parte mia, sono stato felicissimo di vederti così giovane e graziosa.» «Lo dice un figlio a sua madre?» Mio padre sembrava un po' imbarazzato. Forse non avrei fatto a mia madre un complimento così banale, se avessi avuto l'età di mio padre. Ma in quel momento mi pareva che la banalità fosse esattamente quello che la situazione richiedeva. Sembrava il modo migliore di esprimere i miei sentimenti. «Non riesco a capacitarmi di come te la sia cavata tutto da solo per trentasei anni», disse mia madre. «Non dimenticare che ha avuto una moglie, per un bel po'», fece notare mio padre. «I bambini trovano la maniera di cavarsela in un modo o nell'altro anche quando i genitori non ci sono, credo.» «Se i genitori non ci sono, in effetti non hanno scelta, no?» «Ti spiace stare zitto un momentino, caro?» «Perché mi parli in questo modo?» «Non ti rendi conto? Resta troppo poco tempo per le tue spiritosaggini.» La voce di mia madre cominciò a tremare. Sembrava sull'orlo delle lacrime. «Come sarebbe, troppo poco tempo?» domandai, guardando prima lei, poi lui. «Avete fretta, per caso?» «Sì, dobbiamo affrettarci», rispose mia madre, con le lacrime che ora le gocciolavano dagli occhi. «È per questo che ho mandato via la cameriera.» Mi voltai verso mio padre, che aveva l'aria di uno che si è preso uno schiaffo in faccia. «Che storia è questa?» domandai. «Non è niente», rispose lui, scuotendo la testa in un diniego appassionato. Ma l'espressione sul suo viso diceva qualcos'altro. «Ora ascolta», riprese mia madre, raddrizzandosi sulla sedia in posizione più formale. «Mi sento pressata e non riesco a dirlo come vorrei, ma entrambi ti vogliamo tanto bene.» «Non andrete già via, vero?» Ebbi la sensazione che fosse così. «È stato davvero bello rivederti. Sei un bravo figlio», asserì mio padre. «Sì, sei un bravo figlio.» «No, non lo sono», protestai. «Non sono affatto l'uomo che voi due
sembrate pensare che io sia. Ho fallito come marito, e nemmeno come padre sono stato un granché. Voi due siete brave persone, non io. Siete affettuosi, tanto affettuosi da avermi stupito. Tutti dovrebbero avere genitori come voi, compreso mio figlio. E anche se con voi ho recitato la parte del figlio devoto, è impossibile dire come avrei potuto trattarvi se foste vissuti per tutti questi anni. La mia carriera? Non ho mai prodotto nulla di veramente grande. Sono solo uno scribacchino in concorrenza per...» Mi interruppi a metà frase. A mia madre stava succedendo qualcosa. Vedevo piuttosto chiaramente la forma delle sue spalle, ma mi accorsi che riuscivo anche a vederci attraverso. Sconcertato, mi voltai a guardare mio padre. Anche le sue spalle e il busto stavano cominciando a svanire. Era questo che intendeva mia madre. Era così che mi avrebbero lasciato. Lo shock fu talmente grande che restai seduto li, incapace di parlare. «Va tutto bene, figlio. Non dire nient'altro», fece mio padre. «Siamo tanto orgogliosi di te», aggiunse mia madre. «Tanto orgogliosi», fece eco mio padre. «Facci un favore e smettila di essere così duro con te stesso. Un uomo deve difendersi, sai. Nessun altro lo farà.» «Vi prego, non ve ne andate», supplicai, con la voce che all'improvviso era quella di un bambino piccolo. «A quanto pare non spetta a noi decidere. Speravo che avremmo avuto almeno un altro po' di tempo...» disse mio padre. «No!» «Abbi cura di te.» «Non credo che ti rivedremo ancora.» Le spalle di mio padre erano svanite e il viso di mia madre si stava offuscando. Sapevo di non poter fare nulla per fermarlo. Non osavo distogliere lo sguardo. Mio padre stava per andarsene. «Grazie», dissi. «Grazie! Grazie, mamma e papà!» aggiunsi sottovoce. L'ultima cosa di cui avevo bisogno, ora, era attirare l'attenzione della cameriera o degli altri avventori. «Addio», fece mia madre. La vedevo a malapena. «Arrivederci», fece mio padre. Non lo vedevo affatto. Ero troppo distrutto perfino per piangere. «Addio», mormorai. Così in fretta, mia madre e mio padre erano svaniti senza una traccia, la-
sciandosi dietro soltanto i bastoncini e le ciotole del sukiyaki e bicchieri di birra mezzi vuoti, un sacchetto di dolcetti statuine, un tavolo sporco e due cuscini sgualciti. Una nuvola di vapore si levò sopra il sukiyaki che sobbolliva nel tegame. «Ma non avete quasi mangiato», protestai lamentosamente. «Neanche un boccone.» D'improvviso mi sentii esausto. Desideravo soltanto lasciar cadere la testa sul tavolo, ma puntai i gomiti di fronte a me e appoggiai la faccia sulle mani a coppa. «Oh, spero che abbiano trovato la toilette», sentii che diceva la cameriera. «Se ne sono andati.» Abbassai le mani, ma le nascosi il viso. Temevo che il mio aspetto fosse ancora peggiore di prima e non volevo spaventarla. «Sono andati via tutti e due?» Ovviamente pensava che qualcosa fosse andato storto. Che altro avrebbe potuto pensare? La cena era rimasta praticamente intatta. «Per favore, mi porti il conto», dissi. «Non vuole mangiare?» «No.» «Mi devo scusare. Temo di non essermi neppure accorta che si sono alzati. Be', torno subito con il suo conto, allora. Spengo il fornello?» «Sì, grazie.» «Che cosa è successo? Sembrava che si stessero divertendo.» Non riuscivo a nasconderle la mia angoscia. La cameriera spense il gas e se ne andò a preparare il conto. Non avevo tempo di stare a piangere. Volevo qualcosa che me li ricordasse. I bastoncini. Facendomi strada disperatamente con le unghie attraverso la coltre plumbea della spossatezza, raccolsi le due paia di bastoncini che avevano usato. Poi mi levai di tasca un fazzoletto e concentrai tutte le mie forze per avvolgerli con cura. «Scusi se l'ho fatta aspettare», disse la cameriera tornando con il conto. Mi occorse uno sforzo enorme per trovare il totale, tirar fuori il portafoglio e contare il giusto numero di banconote. «Non si sente bene?» domandò la cameriera con voce tremula. Evidentemente si era accorta del mio aspetto stremato. «Ecco.» Le porsi il denaro e lei tornò subito alla cassa.
Lentamente, mi alzai. Dopo aver fatto quattro o cinque passi lungo il passaggio verso l'ingresso, mi voltai a dare un ultimo sguardo. Il nostro tavolo stava là come un guscio vuoto di cicala, desolato. Pensai che forse potevo prendere anche i dolcetti, ma non avevo la forza di tornare indietro. Arrivato all'ingresso, aspettai che la cameriera mi portasse il resto. Come disposto da mio padre, le diedi di mancia un biglietto da mille yen e qualche monetina. «Il cliente del 23 sta uscendo», avvertì la custode delle scarpe mentre mi avviavo all'atrio. Mi domandai se le scarpe dei miei genitori sarebbero state ancora lì con le mie, ma erano scomparse. L'anziana signora recuperò il mio solitario paio di scarpe e me le preparò come se non ci fosse nulla di strano. «Torni presto!» disse con la voce profonda che ricordavo dal nostro arrivo. Non poteva sapere quello che avevo appena passato. 14 Dall'oscurità giunse l'aroma delicato di un profumo da donna. Nel profondo, l'aroma occultava un tenue odore di carne, che ero invitato a discernere, per così dire, sotto la maschera. Le maschere sono fatte per nascondere, ma quella pareva una pura e semplice ostentazione, ora, invitandomi a cercare quello che celava. Mentre lentamente mi riavevo, l'aroma del profumo si fece via via più fioco e presi coscienza dell'odore dolce e del calore di un corpo di donna che mi cingeva. Socchiusi gli occhi e vidi pelle bianca. La consapevolezza di esservi avvolto era molto piacevole. «Come ti senti?» udii Kei domandare. «Mmm», grugnii. «Non ti senti un po' meglio?» Mi chiesi che ore fossero. Avevo la sensazione di aver dormito per milioni di anni. Quando ero arrivato in taxi da Asakusa, Kei si era precipitata da me nell'atrio per offrirmi una spalla d'appoggio. Ma l'avevo respinta bruscamente. Avevo cercato di camminare da solo. Però sapevo che meritava una spiegazione. Mi mancava la forza di parlare. Avevo appena detto addio ai miei genitori e mi sembrava sbagliato cascare dritto tra le braccia di una donna in attesa. Volevo prendere le di-
stanze da qualsiasi implicazione sessuale. Kei non poteva leggermi nel pensiero, naturalmente, e i suoi occhi tradivano il dolore causatole dalla mia ripulsa. Ma mi rimase vicina, come a formare un cerchio protettivo attorno a me mentre camminavo, ed entrò nell'ascensore con me. Per quanto strano sia parlare di una sola persona che forma un cerchio attorno a me, la sensazione era precisamente questa: Kei sembrava pronta ad afferrarmi, in qualunque modo fossi caduto. Sapevo di doverle gratitudine, ma irragionevolmente provavo il sentimento opposto. Respinsi nuovamente il suo aiuto quando le gambe cominciarono a cedere, mentre uscivo dall'ascensore nel corridoio del settimo piano. Non avrei dovuto farlo. Perché essere crudele con lei? Non aveva fatto niente di male. Tuttavia rifiutai il suo aiuto ancora una volta quando crollai sulle ginocchia in preda alla debolezza davanti alla mia porta dopo non essere riuscito a infilare nella serratura la chiave che mi ero levato di tasca. Ora ero sdraiato sul mio letto. Non ricordavo come ci fossi arrivato. E nemmeno ero in grado di dire se alla fine fossi riuscito ad aprire la porta di casa. Ricordavo soltanto la mia testarda opposizione ai tentativi d'aiuto di Kei. Ma ora che giacevo nel suo abbraccio, quel sentimento era soltanto un ricordo. Pareva che non m'importasse affatto. «Come ti. senti?» tornò a domandare Kei. «Mmm.» «Ti senti ancora debole?» Be', vediamo un po'. Non credo. No, decisamente non mi sento più così stanco e fragile. Aprii la bocca per dirglielo, ma invece le mie labbra premettero sulla bianca pelle che avevo davanti agli occhi, come attratte da una forza irresistibile. Era quella piccola superficie di pelle appena al di sotto dell'osso del collo di Kei e sopra l'ampia benda elastica bianca che continuava a celare quello che c'era sotto. Arrivai rapidamente alla benda muovendo le labbra sulla sua tenera pelle e allungai le mani per rimuovere quell'irritante impedimento. «No», fece Kei, secca. «Te l'ho già detto. Nessuna cicatrice potrà mai cambiare quello che provo per te», insistei. «Mi dispiace, ma non devi. Mai.» Tremava. Incrociò le braccia sul petto e rotolò a pancia in giù, le bianche spalle delicate rigide per la tensione.
Va bene così. Perché non riesci ad avere più fiducia in me? Le posai le mani sulle spalle. «Va bene così. Rilassati. Non ti devi preoccupare», dissi. Carezzai dolcemente il biancore delle sue spalle, quindi vi accostai le labbra. Lo toccai con la lingua. Il liscio pendio bianco della sua schiena era coperto dallo stesso tessuto che le nascondeva il petto, ma non cercai più di toglierlo. La mia mano discese lentamente il pendio della schiena e staccò le pieghe aggrovigliate di coperta che le nascondevano il sedere. Le bianche natiche nude si sollevarono in due globi tesi, leggermente piegate da una parte. Deliziato dalla loro bellezza, le toccai, le carezzai, le baciai, vi annegai. Durante l'abbandono che seguì tra noi, Kei ansimò: «È finita?» «Sì, è finita. Se ne sono andati.» Negli ansiti spezzati con cui le assicuravo che mia madre e mio padre se n'erano andati, non c'era che una flebilissima traccia di dolore per quel distacco. Uscimmo per pranzare poco dopo le tre. Il caldo del pomeriggio era torrido. Essendo l'aria tanto intrisa dei gas di scarico di auto e camion, avevo preso l'abitudine di controllare il respiro. Ma quella passeggiata mi faceva piacere. Apparentemente Kei non condivideva tale piacere. Mentre scarpinavamo verso il ristorantino spagnolo, distante un chilometro buono lungo la statale 8, protestò velatamente: «Perché non hai la macchina?» «Ce l'avevo, ma l'ho data a mio figlio», risposi. «Quando avrò finito la nuova serie che ho appena cominciato, dovrei potermi permettere di nuovo qualcosa tipo una Accord.» «Promesso?» supplicò Kei. «Sicuro. E potremo anche cercare un nuovo appartamento.» «Un posto senza tutto questo rumore costante.» «E con più spazio.» «Ma nella casa nuova saremo sempre solo tu e io, di notte.» Arrivati al ristorante, ci dissero che servivano soltanto caffè fino alle cinque e mezzo. «Abbiamo anche qualche pasticcino», aggiunse la proprietaria con un sorriso. Ormai a nessuno dei due era rimasta abbastanza energia per lasciare il ristorante con l'aria condizionata e girovagare sul marciapiede rovente in cerca di un pasto sostanzioso. Decidemmo di accontentarci di caffè e dolci.
Il ristorante era vuoto, fatta eccezione per un'altra coppia, e scegliemmo un tavolo lontano dal loro. Mentre ci accomodavamo al nostro posto, la vista della statale 8 picchiata dal sole fuori della finestra sembrava una scena di un altro mondo. Era silenzioso, lì dentro; anche la solita musica di sottofondo era stata spenta. Un gatto attraversò a passo felpato il locale avvolto nella tranquillità del pomeriggio. Mia madre e mio padre non avrebbero mai visto questa scena, pensai, quando finalmente il dolore cominciò a imporsi. «Non ti basterà, te lo dico io», ridacchiò Kei. «Cosa non mi basterà?» «Il dolcetto. Insomma, è da ieri sera che non mangi niente.» «Non mi è mai passato per la mente», replicai senza sorridere. L'incurante buonumore di Kei mi irritava. Quando i miei avevano sacrificato il loro stesso essere, per me! Ma in realtà non l'avevo ancora ragguagliata sugli avvenimenti della sera precedente. Sentivo di avere ancora bisogno di tempo, prima di poter rivivere l'accaduto nei suoi dettagli strazianti. Perciò non potevo proprio biasimare Kei se gioiva come se certi spiriti pericolosi e vendicativi fossero stati esorcizzati in quattro e quattr'otto. Non era Kei a irritarmi, in effetti: mi sentivo in colpa per l'ansia di cominciare una nuova vita insieme con lei. Avevo scacciato i miei genitori e il giorno dopo me ne stavo seduto lì a godere della compagnia di una donna incantevole. «C'è una cosa che devo dirti», feci. «Oh-oh. Credo di aver paura», ribatté lei con un sorriso. «Ho già fallito una volta come marito. E credo di non essere stato nemmeno un buon padre. Non sono sicuro di meritare l'amore di una persona come te.» «Allora?» «Preferirei che non ti facessi illusioni su di me.» «Del tipo?» «Non so, ma a volte mi domando che cosa ci trovi, in me. Temo che tu non abbia visto come sono realmente.» «Tutti quanti si illudono.» «Certo. E io non sono un granché, te lo assicuro.» «E immagino tu voglia sentirti dire che va benissimo così.» «Credo di sì.» «Be', nossignore. Se non sei un granché, allora migliorati. Non ho intenzione di approvarti incondizionatamente così come sei. Non te la caverai
tanto facilmente, eh!» Aveva ragione, naturalmente. I miei genitori mi avevano accettato com'ero, per quanto io mi rifiutassi, anche mentre stavano svanendo nel nulla; ma era sciocco aspettarsi lo stesso da un'amante. «Non vorrei che pensassi...» cominciò Kei con un debole sorriso, ma si interruppe quando arrivarono i nostri caffè con i dolci. Godevo della sua bellezza mentre aspettava con gli occhi lievemente abbassati che la proprietaria se ne andasse. «Stavi dicendo?» la incoraggiai a continuare. Kei annuì e ricominciò: «Non vorrei che pensassi che mi ritengo speciale o altro, ma...» «Certo che lo sei», interloquii. «Sei brillante, sei bellissima, sei affascinante e hai una forte consapevolezza di quel che sei.» «Ma probabilmente ti ho mostrato soltanto il mio lato migliore. Il fatto che ti nascondo il petto ne è una prova evidente.» «Non sono un patito dell'autolesionismo, ma non sarei degno di te nemmeno se ce la facessi a mettere insieme fino all'ultima briciola delle mie forze.» «Ma i miei difetti sono particolarmente orribili. Sono una grottesca accozzaglia.» «Anch'io.» «Nei momenti peggiori, la mia deformità mi nausea talmente che vorrei soltanto...» cercò le parole, «farla finita.» Quell'espressione mi toccò un nervo scoperto. Avevo l'orribile presentimento che anche Kei potesse cominciare a svanire proprio sotto i miei occhi, senza che potessi far niente per fermarla. «Non dire queste cose», la pregai. Ripetei: «Non dire queste cose». Kei annuì. Non percepii alcun appannamento della sua figura. Mentre continuavo a fissarla, mi sentivo sempre più felice che lei, in effetti, esistesse. Mentre tornavamo a piedi a casa, dissi: «Mi piacerebbe vedere il tuo appartamento». «D'accordo», convenne subito, ma poi rimase in silenzio per un certo tempo. «Hai lasciato la casa in disordine o qualcosa del genere?» domandai infine. «No, no.»
«Se ti mette a disagio, non occorre che lo veda oggi.» «Cosa ti fa pensare che sia a disagio?» «Sei diventata così silenziosa all'improvviso.» «Stavo ripassando mentalmente l'appartamento. La tua casa può rivelare tante cose su di te.» «Io voglio sapere tutto di te.» «Mi domando se sia necessariamente un bene. Non credi che a volte le persone potrebbero essere più felici insieme se lasciassero semplicemente sopravvivere qualche falsa impressione?» «Allora aspetterò fuori nel corridoio mentre tu semini false impressioni.» «No, va bene. Mi diverto un mondo a potarmi, ma oggi ho più voglia di lasciarmi andare.» Il numero 305 era accanto al grande appartamento con tre camere da letto in fondo al corridoio, e da fuori avevo immaginato dovesse essere un alloggio piccolo, con una sola stanza e una minuscola zona cottura e pranzo. Anche per un alloggio simile, l'affitto in quella zona di Tokyo era esorbitante. Forse i suoi le davano una mano mandandole un po' di soldi extra ogni mese. Che cosa pensavano del fatto che la loro figlia, a trentatré anni, non era ancora sposata? Sapevano della sua ustione? Presumevo di sì, però dopotutto i suoi abitavano in un lontano villaggio agricolo a un'ora dalla città più vicina, e probabilmente lei avrebbe potuto nasconder loro molte cose, se avesse voluto. Magari aveva deciso di tacere il fatto per paura che cominciassero a intromettersi nella sua vita. Non che avesse una qualche particolare importanza, per me, che i suoi genitori sapessero. «Dopo di te», disse Kei quando ebbe aperto la porta. «Sei sicura che non ti dà fastidio che ti piombi in casa così?» «Te l'ho già detto, va benissimo. Al condizionatore ci vorrà un po' prima che tu senta qualcosa, ma qui fuori in corridoio fa altrettanto caldo, perciò tanto vale andare dentro.» Entrando, fui sorpreso di scoprire che l'appartamento era in stile giapponese tradizionale, con il pavimento in tatami. «Non sapevo ci fossero appartamenti con il tatami, in questo palazzo.» «Credo sia l'unico rimasto. Una volta ce n'erano di più.» «Non sarebbero stati affittabili per uso ufficio.»
«Esatto. Per questo gli altri sono stati tutti convertiti.» «Mi ero immaginato una stanza di stile occidentale, con un letto che prende metà dello spazio», dissi. Quando cominciai a osservare più attentamente la stanza con il tatami, Kei allargò le braccia a indicare lo spazio cucina e pranzo appena oltre la porta. «Questa è la mia sala da pranzo piccina piccina.» «La tieni molto in ordine.» Al centro del pavimento in vinile marrone della zona pranzo stava un piccolo tavolo in laminato bianco fiancheggiato da due sedie bianche. L'antiquata stoffa indaco dei sottili cuscini rotondi sui sedili delle due sedie gemelle pareva in qualche modo fuori posto. «Ho dell'orzata in frigorifero. La prendiamo qui o di là?» domandò. «Andiamo di là, se non ti dispiace.» «Certo.» Nella stanza col tatami, un armadio e un cassettone dozzinali in laminato bianco erano posti fianco a fianco contro la parete e al centro della stanza c'era un semplice tavolo rustico pieghevole. Inconsciamente mi ero figurato un appartamento arredato secondo la mia sensibilità di età più matura; nel vedere quella mobilia disarmonica, in un certo senso giovanile, mi fu chiaro che Kei era ancora solo una ragazza. La scoperta mi intenerì molto. Ma forse stavo traendo conclusioni affrettate. Era difficile che una donna senza molti soldi potesse permettersi di disfarsi dei mobili che aveva comprato a vent'anni; non poteva facilmente riarredare secondo i nuovi gusti acquisiti a trent'anni. Il fatto che sensibilità da ventenne e da trentenne coesistessero in una stanza non indicava necessariamente che l'occupante avesse una vena fanciullesca. Mentre osservavo lentamente il resto della stanza, due riproduzioni di notevole grandezza appese alla parete opposta mi catturarono l'occhio. «Erano soprattutto quelle a rendermi nervosa», confessò Kei nel momento in cui mi vide guardare le stampe. Mi stava osservando dalla cucina mentre versava l'orzata. Il tono di voce era più scherzoso che nervoso. Entrambe erano riproduzioni di dipinti giapponesi di stile nihonga. «Mi piace il nihonga», disse. «Pare che a tutti gli altri piacciano gli impressionisti europei o i modernisti americani. Io preferisco decisamente il nihonga.» «Seison Maeda?» «Lo riconosci?»
«C'è il suo sigillo.» «E sei riuscito a decifrarlo?» «Questo l'ho già visto.» «Il quadro originale è grande così», disse Kei, allargando le braccia e sorridendo. Il dipinto ritraeva un guerriero samurai disteso in una bara di pietra. Ma l'atmosfera non era cupa. L'artista aveva dipinto l'interno della bara di un cremisi brillante e carico, e questo, insieme con l'armatura decorata indossata dal guerriero, creava un effetto piuttosto abbagliante. «E questo, chi l'ha fatto?» domandai, indicando il secondo dipinto. «È un Seison anche quello.» «Di che cosa dovrebbe trattarsi?» «Questo è quello che mi imbarazzava di più.» Alcuni uomini in abito tradizionale giapponese, presumibilmente del periodo Edo, stavano in piedi attorno alla sagoma nuda di una giovane donna distesa sulla schiena. Gli uomini che la guardavano dal lato dell'osservatore nascondevano alla vista tutto tranne il seno della donna. Kei mi raggiunse con due bicchieri d'orzata su un vassoio. «Cosa pensi che stiano facendo?» domandò. «Vedo che due degli uomini hanno le mani giunte, come se stessero pregando.» «È un'autopsia.» «Capisco. Quindi la stanno dissezionando.» «Mi piace molto. Ma avevo un po' paura di quello che avresti pensato.» Forse la composizione del dipinto (una donna nuda circondata da un gruppo di uomini) diceva qualcosa sulle inclinazioni sessuali di Kei. Ma non era niente, paragonato alle fantasie lascive che avevano gli uomini. Il fatto che il dipinto mostrasse soltanto il seno della donna, proprio la parte del corpo che Kei così testardamente nascondeva, mi parve più rivelatore. Il quadro non mi dava la minima impressione di oscenità; era pervaso da un senso di compostezza e tensione ed era genuinamente bello. Pensai che ci fosse qualcosa da dire sul fatto che entrambi i dipinti ritraevano cadaveri come oggetti di bellezza, ma non mi andava di mettermi a fare lo psicoanalista. Sedetti a prendere l'orzata che Kei aveva posato sul tavolo pieghevole. Mentre mi chinavo su un cuscino coperto di fiori stampati su un cielo blu estivo, mi sentii nuovamente un uomo di mezza età che invade il regno privato di una semplice ragazza.
Notai che aveva un piccolo stereo. Un po' a disagio, le domandai piuttosto goffamente se anche nei gusti musicali fosse nativista. «Puccini.» «Ah.» «Ho un debole soprattutto per una canzone.» «Opera, eh?» «'O mio babbino caro'.» «Non la conosco.» «Te la faccio sentire.» Kei si alzò. Una trentina di CD erano ordinatamente disposti in una teca sopra il cassettone. «L'opera si chiama Gianni Schicchi, ma non mi interessa particolarmente. È solo questa aria, che mi piace. «'O mio babbino caro, non mi compri l'anello? Se il mio amore è vano, mi butterò nell'Arno'.» «È ambientata a Firenze?» «Risposta esatta, hai vinto.» L'aria cominciò. Era incantevole. Eppure... I quadri, e ora quell'opera. Pur non essendo un patito di psicoanalisi, non potei fare a meno di notare una certa idea fissa di morte. Forse l'attrazione che provava per un uomo più vecchio, come me, derivava da un qualche sordido impulso autodistruttivo? «O mio babbino caro», era così? All'improvviso, si stava gettando su di me. Con le labbra saldate, cademmo sul tatami dimenticando presto la musica. Più tardi, quella stessa sera, tutto giunse alla fine. 15 Bisognava che mi mettessi al lavoro sul secondo episodio della serie. Ero riuscito a buttar giù il primo con una facilità soprannaturale, e mi aspettavo che anche il secondo venisse senza grandi difficoltà. Ma quando mi misi seduto a scrivere poco dopo le sette, dopo aver diviso con Kei una cenetta leggera - un po' di pizza scaldata al microonde, una ciotola di zuppa liofilizzata e una semplice insalata, nel caldo riverbero dei nostri esercizi amorosi -, scoprii di non riuscire a formulare una singola frase. Un'ora passò apparentemente in un lampo.
Kei mi aveva per un poco distratto dalla vicenda di Asakusa, ma ora questa tornò a impadronirsi di me e nessuna scena drammatica che potessi evocare sembrava abbastanza vivida, al confronto. Mi era impossibile mettere da parte quell'esperienza indimenticabile e rivolgere l'attenzione a una commedia di costume su uomini e donne che trascorrevano un'infinità di tempo a giocare a biliardo e a tennis. «Così non va.» Non sembrava il genere di impasse che avrei potuto spezzare semplicemente mettendoci più impegno. Alla storia che si era sviluppata praticamente da sé, ora sembrava non valesse nemmeno la pena di pensare, e i personaggi che avevo creato mi davano l'impressione di essere totalmente vuoti. Di questo passo, non era impensabile che non riuscissi a consegnare il copione in tempo. Per un autore di grido e molto richiesto, forse questo non era un problema, ma per uno meno conosciuto come me poteva rivelarsi fatale. Che fare? Se avevo bisogno di un coautore, prima lo richiedevo meglio era. Ma che tipo di spiegazione potevo fornire? Nessuno avrebbe creduto alla storia dei miei genitori. Dovevo fingermi malato? No, i soldi mi servivano. Avevo già promesso a Kei di comprare una macchina. Suonò il citofono. Altro che comprare una macchina, altro che traslocare in un nuovo appartamento: presto mi sarei trovato al verde anche per le necessità quotidiane, se non mi davo una mossa per rimettermi in forma. Ancora il citofono. Chi poteva essere? Il produttore della mia serie? Non mi aveva più richiamato per dirmi del primo episodio. O forse sì, e non ero in casa? Sollevai il ricevitore e fui sorpreso nell'udire la voce di Mamiya. «Posso salire un momento?» Non avevo alcun desiderio di sentire cosa combinava con la mia ex, ma sapevo che presto tutta la faccenda avrebbe cominciato a pesarmi sull'animo, se l'avessi respinto. «Certo», dissi, premendo il tasto che apriva la serratura di sicurezza. Di sicuro non potevo chiedere aiuto a Mamiya per un lavoro che stavo facendo per un'altra emittente, ma forse conosceva un giovane autore emergente che avrebbe potuto rimpiazzarmi. Potevo indagare con diplomazia su qualcuno del genere. Il campanello del citofono squillò ancora una volta. Quando aprii la porta, Mamiya mi guardò intensamente negli occhi.
«Stai bene?» domandò. Oh, ci risiamo, pensai con un sorriso. Si è preoccupato per la mia salute dalla volta che ci siamo incrociati in quell'albergo. Se è venuto qui per questo, la faccenda è già risolta. «Come vedi, sto a meraviglia.» Mamiya entrò in casa senza una parola e si chiuse la porta alle spalle. Proseguii: «Quando mi hai visto in quell'albergo, ero veramente stravolto per un fatto in cui ero rimasto invischiato. Ma è tutto risolto. Ora sto bene. So che dev'essere sbalorditivo vedermi tanto sbattuto un giorno e tanto rubicondo il giorno dopo, ma, davvero, non è più il caso di preoccuparsi». «Avevi un aspetto orribile, allora.» Rimase fermo, senza staccarmi gli occhi di dosso. «Come ho detto, adesso è diverso.» «Adesso è ancora peggio.» Sentii un brivido, ma mi costrinsi a sorridere. «Ancora peggio?» domandai, per metà a me stesso. Sollevai con disinvoltura la mano destra ed esaminai il palmo. Poi la girai di scatto per ispezionare il dorso. Sembrava perfettamente normale, non ossuta e cinerea come l'avevo vista prima. «Sono tanto malconcio?» domandai, curvandomi su una sedia. «Non ti guardi mai allo specchio?» «No, da quando sono tornato a casa poco fa. No, aspetta. Mi sono dato un'occhiata quando sono andato in bagno.» «Allora vai a darti un'altra occhiata.» Si sedette di fronte a me. «Non posso credere che tu te ne stia seduto lì come se niente fosse.» Le sue parole facevano eco a quelle di Kei. Ma ora mia madre e mio padre se n'erano andati. Li avevo visti svanire coi miei occhi. Avevano ancora qualche tipo di potere su di me? «Dimmi una cosa», feci, abbassando di nuovo lo sguardo sulle mie mani. Certo non potevo affermare che fossero il ritratto della giovinezza, ma neppure si potevano definire pelle e ossa. «Come ti sembrano le mie mani?» «Come sarebbe a dire?» replicò, evidentemente sconcertato dalla domanda. «Sono ossute e vizze?» Rispose affermativamente con un semplice cenno del capo. Forse significava, allora, che i miei genitori si aggiravano ancora da qualche parte nell'ombra, dandomi un'illusione di vitalità mentre continua-
vano a succhiarmi la linfa vitale? No, non i miei genitori in sé, ma piuttosto il potere ignoto che in primo luogo aveva permesso loro di tornare a farmi visita. Quel potere si rifiutava ancora di lasciarmi Ubero? «C'era una donna con te.» «Una donna?» «Ieri sera, avevi una donna qui con te.» «Sei passato ieri sera?» Ero arrivato barcollando a casa, e avevo perso conoscenza, ma sapevo che Kei era rimasta al mio fianco. Se Mamiya fosse venuto, Kei sarebbe andata alla porta, ma non mi aveva detto niente. «Quando ti ho incontrato in albergo eri così malconcio che ho deciso di passare più tardi nel pomeriggio, quando avevo un momento libero. A quanto pare non eri in casa.» Doveva essere successo mentre ero ad Asakusa. «Poi, mentre sbrigavo certi altri lavori, ho cominciato a preoccuparmi. Forse dopotutto eri in casa, ma ti eri messo a letto. Forse eri troppo debole anche per venire alla porta. Sicché sono tornato verso le nove. Stavolta ho visto una luce alla tua finestra. Ho digitato il tuo numero al portone, di sotto, ma non hai risposto. Fortunatamente c'era un tizio che usciva proprio in quel momento, così ho fermato il portone quando l'ha aperto e mi sono infilato dentro. Sono venuto quassù e ho suonato alla porta. Ancora non hai risposto. A quel punto ero preoccupato sul serio, così ho cominciato a battere contro la porta e a chiamarti. Dopo qualche istante, una donna ha aperto la porta e mi ha detto che stavi dormendo.» Stavo dormendo davvero, credo. «Quando le ho detto di essere preoccupato perché in albergo ti avevo visto così emaciato, mi ha assicurato che eri solo un po' stanco... E mi ha chiuso la porta in faccia.» Avvertivo una nota di ostilità nella voce di Mamiya ogni volta che menzionava la donna, e la cosa aveva cominciato a irritarmi. Ma se Kei gli aveva sgarbatamente sbattuto la porta in faccia, potevo capire come doveva essersi sentito. «Mentre mi allontanavo, ho avuto la strana sensazione che qualcosa non quadrasse. Non perché avevi con te una donna, niente del genere. Ma qualcosa sembrava bizzarro, in un certo senso. Quando l'ascensore ha cominciato a scendere, all'improvviso mi è venuto in mente che ero riuscito a vedere all'interno di casa tua dallo stretto spiraglio della porta. Avevo visto attraverso lo spiraglio, come se la donna non ci fosse! La porta era appena
socchiusa e lei ostruiva completamente la stretta apertura, perciò non sarei dovuto riuscire a vedere un granché, all'interno. Ma era come se avessi visto attraverso di lei, al di là del suo corpo.» Non reagii visibilmente, ma in me cominciò a montare la rabbia. Non contro Mamiya. Non contro Kei. Era indignazione contro il potere sconosciuto che aveva fatto svanire nel nulla i miei genitori sotto i miei occhi. Ora quel potere voleva forse togliermi anche Kei? Mamiya continuò: «Sapevo che era assurdo. Gli occhi dovevano avermi giocato un brutto scherzo. Tuttavia, non pensavo fosse saggio lasciarti nelle mani di quella donna. In albergo sembravi uno spettro ambulante, però lei ha insistito che stavi benissimo. Qualcosa mi diceva che non dovevo crederle. Quindi sono tornato oggi, subito dopo mezzogiorno». Pur sapendo che Mamiya era dispiaciuto per me - in effetti, proprio per questa ragione -, non mi sarei mai aspettato che mostrasse tanto interesse per la mia salute. «Mentre smontavo dal taxi sul marciapiede, ti ho visto arrivare. Quella donna era con te. Ho esitato a chiamarti... Non perché eri con lei, ma perché eri un'altra persona. Sembravi il ritratto della salute e, anzi, avrei detto che avevi messo su un po' di peso. D'accordo, magari ti eri fatto una bella nottata di sonno. Eppure, come era possibile che un giorno fossi così malridotto e così in forma il giorno dopo? Ero sbalordito. «Proprio in quel momento, ho notato un uomo accanto all'ingresso che stava potando dei cespugli. 'Era il signor Harada quello che è appena uscito, vero?' gli ho chiesto; sembrava uno del posto e anche lui ti stava fissando. «'Esatto', ha annuito. In effetti era il custode. Poi ha aggiunto: 'Che cosa sinistra!' L'ho guardato e gli ho chiesto che cosa intendesse: 'La donna assieme a lui sembrava proprio quella che stava al 305', ha detto.» Certo. Il 305 era l'appartamento di Kei. «'Vuol dire che non abita più qui?' gli ho chiesto. Non ci vedevo niente di strano, nel fatto che fossi assieme a qualcuno che aveva traslocato da poco. Ma poi me l'ha detto.» Mamiya tacque per un momento, come per accrescere la suspense. «Mi ha detto che quella donna si era uccisa verso la fine di luglio.» Non dire sciocchezze. Dev'esserci un errore. L'appartamento 305 è casa di Kei da diversi anni, ormai. Dire che l'inquilina del 305 si era uccisa equivaleva a dire che Kei si era uccisa. Mamiya mi guardava fisso in volto in cerca di una reazione, ma non
gliene offrii nessuna. Non era tanto che volessi nascondere a lui la mia reazione; stavo cercando di nasconderla a me stesso. Non volevo reagire affatto a un'allusione tanto assurda. «Non avevo motivo di dare particolare importanza alla cosa, a quel punto», riprese Mamiya. «Cioè, tanti somigliano a tanti altri. Ma volevo parlarti. Forse mi stavo preoccupando inutilmente, ma la tua ripresa è stata davvero troppo improvvisa. Mi è sembrata irreale. Allora ho chiesto al custode di lasciarmi aspettare nell'atrio. Nessuno di voi due portava nulla con sé, perciò ho pensato che non potevate andare lontano. D'altra parte, non avevo idea di quando sareste tornati, in effetti, e di nuovo ho cominciato a chiedermi se non mi stessi preoccupando per niente. Poi il custode mi ha invitato nel suo ufficio. Ha detto che lì sarei stato meglio perché c'era l'aria condizionata. «Mentre ti aspettavo nel suo ufficio, mi ha raccontato qualcosa di più sul suicidio. La donna si era pugnalata sette volte al petto con un coltello. Così gli aveva detto la polizia, almeno. Erano venuti i suoi parenti. Tutta la faccenda è stata gestita in maniera discreta e silenziosa. «La donna che avevamo visto con te le somigliava talmente che non è riuscito a trattenersi, ma prima era stato bene attento a non farne parola. L'appartamento è stato ristrutturato immediatamente e affittato a una ditta di alimenti biologici che ne ha fatto la sua sede a Tokyo.» Che cosa c'entrava tutto questo con Kei? In silenzio, continuavo a opporre resistenza alle implicazioni del racconto di Mamiya. «Poi il custode ha accennato con lo sguardo all'atrio, io ho sbirciato dalla finestrella della guardiola e ho visto te e la donna entrare nell'ascensore. Sono uscito di corsa e ho visto l'indicatore del piano fermarsi sul tre, così mi sono lanciato su a piedi fino al terzo piano e ho aperto la porta che dalla tromba delle scale dà sul corridoio, cercando di non fare il minimo rumore. La donna aveva appena aperto una delle porte e tu stavi per entrare. 'È il numero 305', ha sussurrato alle mie spalle il custode. 'È impressionante la sua somiglianza con la donna che si è uccisa.' «Tutto questo succedeva alla piena luce del giorno, perciò sembra quasi sciocco, ma sapevo che dovevo tirarti fuori di lì. Ho fatto una corsa per il corridoio fino all'alloggio dove eri entrato, ho suonato il citofono e ho cominciato a battere alla porta. C'era anche il custode, con me. «Un giovane è venuto ad aprire immediatamente e gli ho detto che volevamo vedere le due persone che erano appena entrate, ma lui ha negato che fosse entrato qualcuno. 'È pazzesco. Tutti e due li abbiamo visti entrare
proprio adesso!' ha detto il custode. 'Allora accomodatevi e guardate voi stessi', ha replicato quell'altro, scostandosi per lasciarci passare. Era un piccolo ufficio di una sola stanza e abbiamo visto subito che non c'era nessun altro. Per sicurezza abbiamo controllato anche la toilette e il bagno, ma non abbiamo trovato traccia di te o della donna.» Dopo aver raccontato fino a quel punto con un fiume di parole, Mamiya mi guardò di nuovo negli occhi. «Dov'eri?» mi domandò. «Questa donna che si è uccisa, perché l'ha fatto?» domandai a mia volta. «A quanto pare aveva una brutta ustione sul petto. La chirurgia plastica non era servita a molto, immagino, neppure dopo diverse operazioni. Quindi se ne stava quasi sempre per conto proprio e pensano che probabilmente non ce la facesse più a sopportare la solitudine.» Chiusi gli occhi. «Si chiamava Katsura Fujino», proseguì Mamiya. «Ma sul contratto d'affitto dell'appartamento aveva fornito Kei come lettura del carattere katsura. Senti, ho preso in prestito una chiave di scorta dal portiere. Perché non andiamo a controllare insieme il 305? Puoi vedere se è l'appartamento in cui sei stato oggi pomeriggio.» «Non sarà necessario», risposi. «Penso proprio che dovresti. Ti darà la forza per resistere.» Resistere a cosa? A Kei? «Non so se questi serviranno a qualcosa», disse Mamiya, estraendo due rosari dalla tasca della giacca che teneva piegata sul braccio, «ma voglio che tu ne prenda uno.» «Lascia perdere.» «Non possiamo lasciar perdere. Ti prego.» «È già abbastanza imbarazzante esser stato fatto fesso. Non farmelo verificare.» «Sei di una tranquillità paurosa. Non sembra proprio da te. Perché non mi dici che sto dicendo delle assurdità? Che cosa può essere, se non un'assurdità?» Mamiya non sapeva nulla di mia madre e mio padre, perciò il fatto che accettassi subito la sua storia dell'orrore lo colse comprensibilmente di sorpresa. Ma io avevo già accettato l'inevitabile. Da così poco avevo allegramente cominciato a programmare una nuova vita con Kei; così all'improvviso avevo capito che non mi sarebbe mai stato possibile. «D'accordo, allora», disse Mamiya. «Usciamo di qui. Dobbiamo portarti via da questo posto al più presto. Puoi stare a casa mia. Oppure, se non
vuoi, ti troviamo una stanza in albergo.» Mi esaminai le mani. Dovetti dedurre che non ero ancora in grado di vedere il loro reale stato. Non sembravano pelle e ossa. Sembravano le mani bene in carne che avevo sempre conosciuto. Chiaramente, Kei continuava a esercitare potere su di me. Sapeva di essere stata scoperta? Desideravo avere almeno l'occasione di dirle addio. Kei aveva ragione. La falsa impressione mi faceva più contento. Sarei vissuto felice con Kei, credendo, erroneamente, che fosse viva. «Avanti, penseremo al da farsi quando ti avremo portato via di qui.» Annuii una volta sola e mi alzai. Probabilmente, comunque, Kei non sarebbe apparsa mentre Mamiya era con me. Non che volessi liberarmi di Mamiya, o che non gli fossi grato della sua apprensione per me. «Devo spegnere il condizionatore», dissi. «Faccio io.» Pensai che forse gli sarebbe occorso qualche istante per capire come funzionavano i comandi, ma spense subito e venne rapidamente alla porta ad aspettarmi. Presi soltanto il portafoglio da un cassetto e me lo infilai nel taschino posteriore dei pantaloni. Quando cominciai a mettermi le scarpe, Mamiya spalancò la porta e uscì. Lo sentii irrigidirsi. Alzai gli occhi. Mamiya era paralizzato con la porta aperta alle spalle e guardava fisso verso l'ascensore. È lei, pensai. Kei era lì. «Non uscire», mi sibilò Mamiya. Ignorando il suo avvertimento, uscii nel corridoio. Kei era di fronte all'ascensore, a una decina di metri, con gli occhi puntati verso di noi. Indossava l'abito bianco da casa senza maniche che le arrivava fin quasi alle caviglie. «Kei.» «Non parlare con lei!» gridò Mamiya. Dubitavo che quel suo ammonimento avesse basi profonde. Forse pensava all'antico tabù che vieta di comunicare con i morti. Kei mi stava guardando. I suoi occhi parevano quelli di una seria scolaretta. Mamiya mi raccomandava di non parlarle. Per quanto potessimo essere stati intimi, ora che sapevo che era un fantasma dovevo considerarla ostile. Eppure, una volta che ci ritrovammo faccia a faccia, mi fu insopportabile pensare a lei in quei termini. Questa era la donna che mi si era aggrappata
al collo e aveva disperatamente pregato per me. Che cosa avrei ottenuto respingendola e scacciandola come una creatura maledetta, oltre a condannarmi a un futuro vuoto e privo di gioia? «Kei, ho sentito la tua storia», dissi. «Non farlo!» strillò Mamiya. Sollevando il rosario con le mani giunte gridò, scagliando le parole contro Kei: Namu Myoho Rengekyo! Gloria alla legge suprema del Sutra del Loto! Nella speranza di annullare il potere dell'incantesimo, anch'io alzai la voce: «Kei, staremo insieme! Non mi importa di quello che mi succederà! Mia cara Kei!» «Sei impazzito?!» urlò Mamiya, le mani con il rosario ancora tese verso Kei. Kei fece un passo verso di noi. Rapidamente, Mamiya fece un passo indietro e cantilenò ancora una volta: Namu Myoho Rengekyo! Kei fece un secondo passo. «Harada-san! A quale setta appartiene?» domandò Mamiya, frenetico. «Non credo sia religiosa.» «La sua famiglia, allora? Devono pur fare parte di qualcosa!» «Non ne ho la più pallida idea.» «Ti dispiace non essere così placido? Sta succedendo veramente!» I miei occhi rimasero fissi in quelli di Kei, e i suoi nei miei. Senza mai distogliere lo sguardo, continuò a fare un passo, poi un altro, accorciando lentamente la distanza tra noi. «Si sta avvicinando», gridò Mamiya, tremando da capo a piedi. «Arriva! Arriva!» «Sta' indietro, Mamiya-san», dissi, continuando a guardare Kei. «Ma ho già la schiena contro il muro!» In effetti, il corridoio del settimo piano terminava poco oltre la mia porta. «Non preoccuparti. Non ti farà del male.» Kei continuava la sua avanzata. Certo che no, pensavo. Non farà del male a nessuno. Non c'era un qualche modo per risolvere la situazione? Non c'era un modo per poter vivere insieme? Continuava ad avvicinarsi. Ancora cinque passi e mi sarebbe stata proprio di fronte. Passo.
Rimanevo immobile. Perché? Passo. Perché restavo lì impalato? Passo. Perché non ero corso da lei e non l'avevo presa tra le braccia? Passo. Era di fronte a me, a un solo passo di distanza. «Kei...» dissi. I suoi occhi erano freddi come la morte. Mentre si avvicinava avevo cercato qualche segno di vita in quegli occhi, ma anche ora, anche a distanza così ravvicinata, non riuscivo a trovarvi il più piccolo raggio di calore. Restavano fissi su di me in uno sguardo gelido, glaciale. Le labbra senza rossetto si mossero, dischiudendosi impercettibilmente, come preparandosi a parlare. Quindi cominciarono a formare delle parole: «Sono sicura che ti ricordi». Una voce profonda. Una voce colma di disprezzo. «Ricordo che cosa?» La malignità delle sue parole mi fece tremare la voce. «La notte dello champagne.» «Eh?» Doveva essere la notte in cui l'avevo bruscamente scacciata dalla mia porta. Dopo l'intontimento per il colpo inflittomi da Mamiya, non ero proprio dell'umore adatto per socializzare. Mi ero pentito quasi immediatamente della mia freddezza. Non credevo davvero che si sarebbe uccisa, ma il pensiero mi aveva sfiorato e mi ero anche spinto a cercare una luce alla sua finestra in una notte piovosa. Ora sapevo. Quella stessa notte, Kei si era pugnalata al petto, sette volte. «Ti trascinerò giù con me», sibilò, avanzando di un altro passo. Indietreggiai istintivamente, ma lei subito tornò a colmare il vuoto. Per quanto cercassi di mantenere la mia posizione, mi ritrovai ancora spinto indietro dall'odio violento che emanava dai suoi occhi, che mi guardavano torvi da pochi centimetri di distanza. Era come se fossi stato fisicamente spinto. Significava che era stata tutta una recita, una farsa che aveva inscenato esclusivamente per distruggermi? Quello che era sembrato vero amore era tutto motivato dall'odio? Dunque non era stato l'amore a far sì che mi implorasse di smettere di far visita ai miei genitori per timore che ne morissi? Come se mi avesse letto nel pensiero, i suoi occhi si fecero beffardi.
«Ingenuo», soffiò. No, questo non era giusto! Un perfetto estraneo rifiuta il tuo invito a bere qualcosa insieme, e per questo lo trascini all'inferno con te? Che follia! Anche se la vita è sempre così, più o meno. Avevo la schiena contro la parete. Non potevo indietreggiare più di così. «Continua a vivere, allora», ringhiarono i suoi occhi. O, per la precisione, le sue labbra, ma ora era così vicina che le vedevo soltanto gli occhi. «Tieniti pure la tua adorata misera vita.» Allora non vuoi trascinarmi giù con te, alla fine? «Non è che non voglia», dissero quegli stessi occhi. «Non posso. Nel momento in cui sei uscito di casa, con il cuore non eri più con me. Anche mentre declamavi quelle belle frasi fatte sullo stare insieme, il tuo cuore era distante.» Anche se non ero stato consapevole di quella separazione, in qualche modo le sue parole sembravano sincere. Sicché era così che funzionava: non poteva succhiarmi la linfa vitale a meno che io non la amassi dal profondo del cuore. Le leggi dell'altro mondo erano difficili da penetrare. «Adesso me ne andrò, senza prendermi la tua vita... Ma non perché mi importi qualcosa di te.» Mi sentii girare la testa. All'improvviso cominciò a muoversi all'indietro: la sua sagoma recedeva come scivolando sul ghiaccio. Nel venirmi incontro, aveva frazionato il suo cammino passo per passo, ma la ritirata avvenne in un unico rapido movimento che la portò in un sol colpo a quasi quattro metri di distanza. Sembrava fosse già a buon punto sulla strada di ritorno al regno dei morti. Poi notai qualcosa sul davanti del suo vestito bianco. Una macchia nera le apparve sul petto e cominciò a crescere. No, non nera, capii mentre il colore si spandeva rapidamente sulla stoffa bianca, ma rossa. Il rosso del sangue versato di fresco. Da quello stesso petto che si era presa tanta pena di nascondere, sangue di un rosso brillante sgorgava come da una creatura viva. Il sangue zampillava pulsando a un ritmo come di cuore che batte e formava rivoletti scorrendo sul davanti del vestito. Guardai Kei negli occhi. Stava immobile, come sopportando in silenzio il sangue versato. Poi la sua sagoma cominciò a svanire. Come per i miei genitori, la fine fu rapida. Di momento in momento si faceva più trasparente, finché all'improvviso non mi resi conto di guardare soltanto un'immagine residua. Ri-
mase brevemente sospesa come il tremolio dell'aria calda, poi svanì anche quella. Il corridoio fiocamente illuminato del settimo piano stava di fronte a me, vuoto. Non una sola goccia di sangue macchiava il pavimento. Udii Mamiya trarre un respiro profondo. Non riuscivo a muovermi. Malgrado le sue parole d'addio, pronunciate con tanta malignità, mi pareva di aver avvertito una nota di tristezza negli occhi di Kei, un genuino dolore per la separazione, nell'ultimo istante prima che svanisse definitivamente. Ero incorreggibile. 16 Trascorsi i successivi ventidue giorni all'Ospedale Nazionale di Tokyo, a Komazawa. Ero diventato estremamente debole, metà dei miei capelli erano imbiancati e anche la vista era danneggiata. Un giorno dopo l'altro di alimentazione per via endovenosa fece, pian piano, il suo lavoro, ma non mi rimisi completamente. Quando mi provai i pantaloni cinque giorni prima di essere dimesso, dovevo ancora stringere la cintura di due buchi in più. Anche il colletto della camicia mi ballava attorno al collo, e il colorito restava giallastro. Chi veniva a farmi visita cercava di consolarmi dicendo che avevo un'aura da mistico. Ovviamente non ero in condizione di scrivere per una serie televisiva. Vedendomi sospeso tra la vita e la morte, il mio produttore si rese immediatamente conto che non sarebbe servito a nulla tormentarmi o punirmi; senza fare storie, accettò di convincere un giovane autore di sua conoscenza a rimpiazzarmi a partire dal secondo episodio. «È giovane e ha un vero fiuto per le novità», disse il regista della serie quando venne a trovarmi in ospedale. «Forse è davvero la scelta migliore per l'argomento. Senza offesa.» Stava cercando di offendermi, naturalmente, ma, essendo stato per loro fonte di problemi extra, un po' di cattiveria era inevitabile. Uscii dall'ospedale a metà settembre e mi trasferii direttamente in un appartamento che Mamiya mi aveva trovato vicino alla stazione di Kyodo sulla linea Odakyu. Con un affitto più o meno uguale, avevo un po' di spazio in più rispetto al mio vecchio appartamento. Mamiya, Ayako e Shigeki avevano traslocato lì le mie cose.
Quella sera chiamai Ayako per ringraziarla dell'aiuto. Chiesi di parlare anche con Shigeki, per ringraziarlo personalmente. «Sì, fallo, ti prego. Ha davvero sfacchinato come un matto.» Sentii che lo chiamava all'apparecchio. Mi figurai mentalmente la casa che un tempo era anche la mia. «Come ti senti?» domandò all'improvviso la voce di Shigeki. «Me la cavo», risposi. «Bene.» «Volevo ringraziarti di aver aiutato a traslocare la mia roba.» «Non è stato un granché.» Il suo modo di parlare era quello di sempre, ma non ebbi la sensazione che volesse chiudere la conversazione il più in fretta possibile. Forse i suoi sentimenti nei miei confronti si erano ammorbiditi un po', adesso che non vivevamo più sotto lo stesso tetto. «Che ne diresti di andare a cena fuori una volta, solo noi due?» proposi, sfidando la sorte. Vi fu una breve pausa prima della risposta: «Un giorno di questi». Probabilmente era la reazione migliore in cui potessi sperare. Due giorni dopo decisi di andare ad Asakusa con Mamiya. «Sei sicuro che starai bene?» insisté, preoccupato che la gita potesse rivelarsi penosa per me. Ma avevo già chiuso definitivamente la questione emotiva durante il mio soggiorno in ospedale. Né i miei genitori né Kei sarebbero più riapparsi. Mentre uscivamo dalla metropolitana a Tawara-machi e passeggiavamo lungo l'International Boulevard, mi accorsi con nostalgia che l'estate era al termine. Anche tra le esalazioni che salivano dal traffico intenso, riuscivo a sentire nell'aria l'odore dell'autunno e il passo dei pedoni sul marciapiede era più scattante che nel pieno del caldo estivo. Una stagione era passata, e così pure i miei genitori e Kei. «Harada-san», mi si rivolse Mamiya nel suo modo formale, mentre camminavamo. «Cosa?» «Quando eri ancora in ospedale, hai parlato di voler tornare a fare un giro quaggiù.» «Sì, è vero.» «Be', forse avrei dovuto dirtelo prima, ma sono venuto qui a dare un'occhiata quattro giorni fa.» «Ah, sì?»
«Non che mi aspettassi di trovare davvero qualcosa, ma ho pensato che forse avrei dovuto controllare, prima.» «Capisco.» «In quel punto c'era un lotto di terreno vuoto.» La notizia mi fece sentire solo, come se stessi cadendo, muto, in un baratro infinito. «A quanto pare hanno buttato giù una palazzina a maggio, e ora si preparano a togliere di mezzo alcune strutture circostanti per fare spazio a una nuova costruzione.» «È stata abbattuta a maggio?» «Esatto.» Dall'International Boulevard svoltammo a sinistra sulla via contornata di negozietti e ben presto fu visibile il vicolo in cui si era trovata la palazzina. Fino a quel punto, tutto sembrava esattamente uguale a com'era stato durante le mie visite precedenti. Ma quando arrivammo al vicolo, della scala metallica e della palazzina non c'era traccia, come aveva scoperto Mamiya. Racchiuso tra le pareti annerite degli edifici vicini, il piccolo appezzamento di terreno era vuoto e desolato, invaso dalle erbacce di un'intera estate. A suo modo, quell'abbondanza di vegetazione in una zona altrimenti priva di verde faceva quasi pensare che fossimo capitati in un luogo ultraterreno. «Mi pare tu abbia detto che abitavano nell'ultimo appartamento sul retro, giusto?» «Già.» «Sono andato a naso e ho immaginato che dovesse essere laggiù, da quelle parti. Ho levato di mezzo un po' di erbacce.» Mamiya mi guidò nel lotto di terreno. Le erbacce mi arrivavano alla vita, ma qui e là erano state spianate o calpestate e apparivano polverose e stanche della lunga estate calda. Alcuni detriti non rimossi e lattine vuote sparse in terra rendevano un po' difficoltoso camminare. «Ecco», fece Mamiya fermandosi. «Ho pensato che potrebbe essere stato all'incirca qui.» La sua intuizione era stata giusta. Esattamente sotto il punto dove si era trovato l'appartamento in cui ero stato, aveva strappato le erbacce formando un piccolo spiazzo e aveva collocato due mattoni di cemento, dritti, a mo' di pietre tombali. «Li ho trovati laggiù e ho deciso di farne buon uso», spiegò.
«L'appartamento era al primo piano, ma questo è proprio il punto dove sarebbe stato», osservai. «Sei stato bravo a capirlo soltanto da quello che ti ho raccontato.» Mamiya posò a terra il sacchetto del supermercato che aveva in mano e ne estrasse un pacchettino avvolto in carta di giornale. «Ho portato un po' di incenso e un incensiere», disse. «A dire il vero, anch'io», replicai. «Forse avrei dovuto dirti che lo portavo.» «Va bene così. Possiamo sistemarli fianco a fianco. Accenderò un po' di incenso in tutti e due.» Aprii l'involto di tela che avevo portato e tirai fuori anch'io incenso e incensiere, assieme a un mazzetto di crisantemi avvolto in carta di giornale. Erano passati due anni dalla mia ultima visita alla tomba di famiglia ad Aichi, dove erano sepolte le ceneri dei miei genitori. Acceso l'incenso con l'accendino, lo divisi tra i due incensieri, poi giunsi le mani in preghiera. Mamiya fece lo stesso. Oh! pensai. La prossima volta porterò i bastoncini che i miei hanno usato per il loro ultimo pasto. Li brucerò e dirò un'altra preghiera per loro. Ora ho una scusa per ritornare, mamma, papà. «Immagino sia un momento strano per parlarne, ma sto pensando che mi piacerebbe sposare Ayako ai primi dell'anno prossimo.» «Capisco.» «Forse potrà risultarti sgradevole, ma...» «No, no, niente affatto. È vero, all'inizio mi sono sentito tradito, ma adesso spero sinceramente che voi due siate felici.» «Credi che tu e io potremo ancora lavorare insieme, qualche volta?» «Mi piacerebbe.» «Facciamolo, allora. Metteremo su qualcosa di veramente speciale.» «Vorrei che tu sapessi quanto sono autenticamente commosso dalla premura che mi hai dimostrato. Non me lo sarei mai aspettato.» «Dev'essere solo che ti sono sempre stato molto affezionato, credo», rispose Mamiya. «Una cosa ha tirato l'altra, e mi sono affezionato anche a tua moglie.» «Ecco, direi che qui hai un tantino superato i limiti. Ma, seriamente, vi auguro il meglio.» «Non posso fare a meno di pensare che debba avere proprio qualcosa che non va, uno che voglia separarsi da una donna così meravigliosa.» «Davvero? Quanto a me, direi che debba avere qualcosa che non va, uno
che voglia sposare una donna come lei.» «E dev'essere sempre un po' così, credo. Quando si viene al dunque, probabilmente tutti abbiamo qualcosina che non va. Nel tuo vecchio palazzo ho assistito a qualcosa di decisamente incredibile, ma quando tutto è finito, nel corridoio non era rimasta una sola goccia di sangue. Perciò non poteva essere successo davvero. È così che la vedo io. Quella notte mi è preso qualcosa e non avevo la testa a posto, tutto qui.» «Già.» «Non pensiamoci più, okay? Altrimenti, non so come potrei continuare a vivere. Quella notte non avevo la testa a posto. E anche tutta la faccenda dei tuoi genitori... Ti prego, non farti invischiare troppo. Nemmeno tu avevi la testa a posto, tutto qui.» «Immagino che tu abbia ragione.» «Senz'altro. Davi i numeri.» Decisi di non contraddirlo. Ma sinceramente non pensavo affatto di aver avuto qualcosa che non andava. Addio, mamma. Addio, papà. Addio, Kei. Vi ringrazio tanto. FINE