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DEREK RAYMOND E MORÌ A OCCHI APERTI (He Dies With His Eyes Open, 1984) 1 Fu trovato dietro i cespugli di fronte alla Casa del Divin Verbo in Albatross Road, West 5. Era la sera del trenta di marzo, all'ora di punta. Faceva un freddo terribile, e un impiegato di ritorno a casa, appartatosi per un improvviso bisogno, era inciampato sul corpo. Quel punto alla confluenza di Albatross Road in Hanger Lane è orribilmente desolato: su un lato della strada c'è l'ingresso alla metropolitana, e ammuffiti edifici senza finestre sull'altro. Quella sera era in corso anche un ennesimo sciopero a singhiozzo dei trasporti e alle sette, quando arrivai io, c'era ancora parecchia gente in attesa di scendere a prendere uno dei rari treni. Sul posto trovai già Bowman della Omicidi. Era in piedi accanto al cadavere su cui puntava una torcia elettrica e parlava con i due poliziotti di pattuglia richiamati dal tizio incappato nel corpo. Tirava vento e pioveva a dirotto, l'acqua gocciolava dalla visiera del berretto di Bowman e dai caschi degli agenti, e si insinuava a rivoli nei loro colletti. Bowman mi passò la torcia senza una parola e io mi chinai sul cadavere. Aveva gli occhi aperti, uno appena dischiuso, le cornee tempestate dai granelli di polvere che il vento aveva spazzato dalle strade di Londra. Portava uno scadente abito grigio con bruciacchiature di sigarette sul davanti e un impermeabile liso. Era di altezza media, con radi capelli grigi e un naso da ubriacone, tra i cinquanta e i sessant'anni. Aveva entrambe le braccia spezzate, e anche una gamba, con l'osso che tendeva innaturalmente la stoffa del pantalone. Il cranio era stato sfondato sotto l'attaccatura dei capelli e materia cerebrale era scivolata lungo la guancia sinistra finendo nel fango. Nonostante tutte le ferite avevo la sensazione che non fosse morto sul colpo: negli occhi offuscati rimaneva il barlume di un ricordo che aveva voluto portarsi dietro là dove era andato. Mi rialzai dando un'ultima occhiata alla faccia, o meglio a ciò che ne era rimasto. Non era una faccia decisa, ma la faccia di uno che aveva visto tutto e non aveva capito se non quando era stato troppo tardi. Ne ho viste di morti violente, ma nessuna peggio di questa. Le lesioni erano multiple, ma non casuali, quindi inspiegabili con un investimento da parte di un pirata della strada o con una rapina (e poi, per chi sarebbe valsa la pena di rapi-
narlo?). No, era stato pestato sistematicamente da uno o più probabilmente due specialisti, che sapevano esattamente cosa fare. Professionisti, quasi di sicuro. Carogne di sicuro. «Che ne pensi?» chiese Bowman. «Che questi non scherzavano mica.» «Questi?» «Dovevano essere almeno in due: uno solo non ci sarebbe riuscito. E indubbiamente non l'hanno fatto qui, dato che sotto il corpo non c'è quasi sangue.» «Giusto, questo l'avevo notato anch'io,» borbottò uno dei due piedipiatti in tono condiscendente. Da bravo agente che avrebbe voluto diventare investigatore, ma che purtroppo non ci sarebbe mai riuscito, si era dato da fare per scoprire qualche indizio. «Per me l'hanno fatto fuori in macchina e poi lo hanno trascinato fin qui, le tracce sul terreno sono evidenti, e l'hanno mollato come se qualcuno l'avesse tirato sotto e abbandonato.» «Pensa per un attimo di essere un assassino,» disse Bowman freddamente, «un professionista che cura tutti i particolari per non essere preso. Ammazzi di botte un tipo in macchina e la smerdi tutta di sangue, così quando ti arrivo a casa io e ti chiedo di dare un'occhiata all'auto per un controllo di routine ci sia sangue dappertutto. Quanto sei fesso.» «Non l'avevo vista così.» «Lo so,» disse Bowman, «e per questo limitati a guadagnarti la paga di agente e lascia fare a noi il nostro lavoro. A meno che» aggiunse poi «tu non voglia usare ancora la sfera di cristallo e leggerci il movente.» «Nossignore.» «Comunque» mi intromisi «non è possibile ammazzare di botte un uomo in macchina, non c'è abbastanza spazio.» «E se fosse stato in un autocarro?» disse l'altro poliziotto. Nessuno gli prestò la minima attenzione. «È già passato il medico legale?» chiesi. «Sì, con tutta la squadra,» rispose Bowman. «Sono venuti e andati via subito. Noi invece siamo dovuti rimanere ad aspettare i tuoi comodi.» Nel buio si udì una risatina soffocata. Bowman si voltò verso il poliziotto intraprendente di cui aveva raffreddato gli ardori e lo redarguì: «Se hai qualcosa da dire, parla forte e fatti capire in modo che ti possa fornire la risposta, per conto tuo potresti non arrivarci.» Poi, rivolgendosi a me: «Per cosa pensi che l'abbiano ucciso? Per denaro?» «Non sembra il tipo che se ne porta mai molto addosso,» risposi. «A
proposito, sappiamo come si chiamava?» «Certo,» disse Bowman, «gli abbiamo trovato in tasca la tessera sanitaria. Charles Locksley Alwin Staniland, cinquantun anni.» «Ma chi ucciderebbe un uomo per una cinquantina di sterline?» dissi. «Guarda che ce ne sono in giro di disperati capaci di tutto,» replicò Bowman. «Comunque, adesso tocca a te, il caso è tuo. E cerca di non darmi seccature, che mi hai fatto già venire un diavolo per capello.» «Allora non si faranno molta compagnia,» ribattei, mentre gli puntavo la luce della torcia sulla testa calva. Non c'era simpatia nello sguardo che mi rivolse. Era stato promosso di recente ispettore capo, a soli trentadue anni; era solerte, abile e spietato, presuntuoso e spavaldo. «Dopotutto si tratta solo di un altro miserabile che si è fatto ammazzare,» riprese con un tono di sprezzante superiorità che sottintendeva che alla Omicidi avevano ben altre gatte da pelare. «Ce n'è quanti ne vuoi.» Guardò l'orologio. «Cristo, dovevo rientrare per le otto, sarà meglio che me ne vada.» Si avviò verso la strada, dove lo attendeva l'autopattuglia con la luce blu rotante e il gracchiare continuo della radio. «L'ambulanza dovrebbe essere qui tra poco, ma avrai sentito che...» «C'è uno sciopero anche degli ospedalieri.» «Comunque» concluse «ne ho abbastanza di stare qui a inzupparmi sotto questa pioggia di merda.» In realtà non era tanto la pioggia che lo infastidiva, quanto il fatto che questo era un caso senza prospettiva di avanzamenti, altrimenti sarebbe rimasto volentieri anche ventiquattr'ore filate sotto il diluvio. Era a lui che i poliziotti di quartiere segnalavano i delitti, e lui cercava in tutti i modi di rifilare a noi quelli più rognosi. Giunto all'uscita si girò verso di me, fronteggiandomi a gambe larghe, con le mani tranquillamente incrociate dietro la schiena. Come ho già detto, non andavamo d'accordo, e per fortuna eravamo in sezioni diverse così non ci imbattevamo spesso l'uno nell'altro. «Ma tu vuoi rimanere sergente per sempre?» «Voglio che sia fatta giustizia.» «Giustizia? Ma quanto sei fesso,» disse Bowman. «A quarant'anni sei ancora sergente e fai lo schizzinoso in fatto di promozioni.» «Non sono ambizioso quanto te,» ribattei. «Non in casi come questo.» «I giornali non ci faranno su neanche una riga.»
«Lo so, infatti, e una cosa del genere per te è determinante.» «È naturale.» «Purtroppo però lo dai troppo a vedere.» «Fai come ti pare,» disse Bowman. «Puoi restare a marcire ai Delitti Irrisolti, per quello che mi interessa. Io me ne vado, sono già in ritardo.» Calcò il mento nel colletto dell'impermeabile e fece cenno al conducente di avvicinarsi con la vettura. Mentre saliva in macchina si voltò ancora. «Comunque, è meglio se chiami la Factory,» aggiunse, «ti farò avere i suoi effetti. C'è parecchio materiale.» «Sei già stato a casa sua?» «Ci ho mandato qualcuno. Ti darò l'indirizzo.» Certo, era efficiente, ma questo non mi meravigliava. «Potresti lasciarmi la tua torcia finché aspetto l'ambulanza,» gli dissi, «non ne avrai certo bisogno alla Factory, con tutti quei neon.» Me la porse senza entusiasmo. «Non mi va come ti comporti,» disse. «Non sei che un sergente e fai lo smargiasso. Hai troppa considerazione di te stesso e credi di essere furbo.» Era ormai montato in macchina tirando su a metà il finestrino per ripararsi dalla pioggia. «Evidentemente il posto dove lavoro mi dà un certo spirito di indipendenza.» «Vedi di non esagerare.» «Puoi anche voltarmi le spalle,» gli dissi, «non ti fulminerò certo con la tua torcia.» Non vedevo l'ora che se ne andasse. Finalmente lo vidi allontanarsi, tra lampi di luce blu intermittenti nella pioggia e sbuffi di fumo dallo scarico e dal cofano della Rover, e allora spedii i due poliziotti all'ingresso e tornai a chinarmi accanto al cadavere, puntandogli la torcia in faccia. Volevo vedere se riuscivo a farmi un'idea sulla causa della morte prima che cominciassero a spiegarmela quelli che sanno sempre tutto. Dopo un po' mi trovai a rimuginare sulle frasi taglienti di Bowman a proposito della sezione Delitti Irrisolti. Il fatto che la sezione A14 sia di gran lunga la più impopolare ed evitata del corpo dimostra solo, dal mio punto di vista, che avrebbe dovuto essere creata molto prima. Non andiamo a genio agli intellettuali di sinistra, ai politicanti radicali e ai loro accoliti, ma ci vuole pure qualcuno che faccia i lavori che loro non farebbero mai. Non andiamo agli agenti in uniforme, né agli investigatori in borghe-
se del CID e tanto meno a quelli del Nucleo Operativo. Il nostro lavoro riguarda le morti oscure, apparentemente irrilevanti e senza motivo, di persone di cui non importa e non è mai importato niente a nessuno. Abbiamo il finanziamento più basso, siamo gli ultimi nella ripartizione delle risorse, e la carriera è talmente lenta che la maggior parte di noi non va oltre il grado di sergente. Qualcuno per disperazione chiede il trasferimento ad altre sezioni, ma non molti, e si tratta quasi sempre di gente arrivata da poco. Chiunque tra noi, quali che siano i suoi gradi, la sua paga e la sua pensione, saprebbe risolvere un caso di omicidio con abilità pari a quella di un Bowman, ma la differenza sta tutta nell'atteggiamento. Proprio come Bowman, non facciamo altro che scrutare facce di cadaveri, passare al setaccio le loro stanze, soppesare i possibili moventi di amici, se ce ne sono, amanti e avversari. Ma, diversamente dalla maggioranza dei poliziotti, non ci lamentiamo delle carenze di organico, non ci preoccupiamo se il caso su cui indaghiamo non compare sui giornali né diventa una caccia all'uomo di rilevanza nazionale. Così, quando il Sergente Macintosh, mio amico, venne ucciso dall'uomo che aveva preso in trappola dalle parti di Edith Grove non gli fu concesso alcun riconoscimento postumo, nessuna George Medal. Nessun omicidio è fortuito o trascurabile per noi, anche se in una città come questa avvengono omicidi uno dietro l'altro. Mentre esaminavo il corpo fecero ritorno i due poliziotti. L'entusiasta che era stato raggelato da Bowman si limitò a guardarmi. Questa volta fu abbastanza intelligente da non aggiungere parola e anche quando più tardi dovette parlare non fu precisamente sgarbato, si limitò a evitare la minima gentilezza. L'altro agente, che ancora non aveva fatto nulla per irritarmi, passò i limiti quando gli chiesi di sollecitare l'ambulanza con il walkietalkie e mi si rivolse chiamandomi ragazzo. «È così che ti rivolgi al tuo sergente?» «No.» Era un biondo sui vent'anni dall'aspetto brutale che si muoveva con una irrequietezza a stento trattenuta, consapevole dei propri pugni. Aveva l'aria di disprezzare chiunque non fosse come lui, perché più intelligente o più debole o in disaccordo con il suo punto di vista sulla società il cui bene contribuiva a tutelare. «Ho quasi il doppio degli anni che hai tu,» dissi. «Ti piacerebbe che ti chiamassi ragazzo, ragazzo?» «No.» Non era adatto a fare il poliziotto. Era troppo prevenuto, prevenuto verso
'il nemico' in una lotta sulla quale aveva idee troppo nette, non era il tipo d'uomo su cui fare affidamento per garantire la democrazia. E per giunta era lento di comprendonio. Ci sono troppi tipi del genere nella nostra polizia ed è perfettamente inutile che in alto loco si dica che bisogna accontentarsi di quello che si ha a disposizione, con tre milioni di disoccupati si potrebbe selezionare la forza di polizia che si vuole, come per l'esercito. Ma il lavoro del poliziotto è più duro di quello del militare, o almeno dovrebbe esserlo se fatto coscienziosamente. Non si tratta solo di obbedire agli ordini, perché, pur avendo delle regole, molte volte ci si ritrova soli (io lo sono sempre) e allora bisogna inventarseli, i propri ordini. «Non è da molto che sei nel corpo,» osservai. «Un anno.» «Prenditela calma,» gli suggerii, «non ha senso caricare come un toro infuriato.» «D'accordo,» rispose sottovoce, con un tono ostile e una freddezza misurata nello sguardo. Pensai a quello che poteva capitare, se lo avessero promosso detective, a chi avesse tentato di dargli filo da torcere negli interrogatori. «Va bene,» dissi mentre mi segnavo il numero che aveva sulla spallina. Faccio sempre attenzione a questi particolari. Si era creato un silenzio imbarazzante, così aggiunsi: «Giusto per passare il tempo finché aspettiamo l'ambulanza, uno di voi non avrebbe qualche suggerimento su questo caso? Non vi viene in mente niente?» «Non è compito nostro, sergente,» disse il più sveglio, con l'aria di chi ha imparato la lezione. «Coraggio, lo sto chiedendo a tutti e due.» «Non è facile.» «Per esempio, lo direste un drogato? Avete a disposizione tutti gli elementi che ho anch'io.» «Non saprei,» disse il biondo distrattamente, «dopotutto sono un semplice agente, con un anno scarso di servizio.» «Con questo atteggiamento non diventerai mai agente investigativo.» «E chi ha detto che mi interessa?» Mi rivolsi all'altro: «Perché un ubriaco di mezz'età va a finire su un terreno abbandonato, conciato come se gli fosse esplosa una granata in mano?» «Avrà avuto dei nemici.» «Chiunque se ne sarebbe sbattuto di un vagabondo come questo, al mas-
simo gli avrebbero dato una spinta o un paio di ceffoni. Perché invece un pestaggio così micidiale?» «Già, e per giunta premeditato, visto che l'hanno fatto fuori da qualche altra parte e poi sono venuti qui a scaricarlo.» «Esatto,» incalzai, «ma perché mai hanno voluto correre un rischio in più?» «Fin qui sono d'accordo,» continuò il poliziotto più sveglio. Aveva l'accento della parte meridionale di Londra, con una vibrazione in fondo alla gola come una fiamma in un camino spaccato. L'altro se ne stava da parte sotto la pioggia. «Allora, se sono arrivati ad ammazzarlo, forse era uno che sapeva troppo, magari un informatore.» «Può darsi,» dissi, «e potrebbe essere stato in galera, anche se non credo. Comunque si fa presto a verificare.» «O piuttosto una spia?» «No,» dissi, «né i servizi stranieri né i gruppi terroristici operano in questo modo. Avrebbero potuto farlo saltare in aria, o sparargli, o schiacciarlo sotto una macchina, ma non l'avrebbero ammazzato di botte per poi trasportare il corpo da tutt'altra parte, non hanno certo tempo da perdere.» «Può essere una questione di soldi.» «Non sembra però che ne avesse in abbondanza.» «Allora, sergente, io non riesco proprio a immaginare nient'altro.» «Neanch'io, per adesso,» risposi, «almeno finché non avrò esaminato la sua roba e parlato con i suoi amici, se ne aveva. Ad ogni modo mi sei stato utile, com'è che ti chiami?» «Marvell.» In quel momento apparve l'ambulanza. Arrivava a sirene spiegate, anche se a velocità moderata. Si fermò, l'ululato delle sirene strozzato in un lamento, senza che nessuno si precipitasse fuori. Solo dopo una discreta attesa due uomini discesero con flemma davvero britannica. Quello che era uscito dalla parte del passeggero aprì il retro del veicolo e ne estrasse una barella che riuscì ad aprire con un certo impaccio. Il conducente si avvicinò lentamente. «Siamo arrivati,» enunciò come se stesse rivelando una verità di fede. Osservò il corpo di Staniland e, con tono da esperto, chiese: «È lui?» «Non è più, ormai. Era,» risposi. «Spiacenti, ma sapevamo che era morto e l'abbiamo messo in fondo alla lista, siamo in agitazione sindacale.» «Ben fatto,» dissi io, «tanto lui non aveva più fretta di voi.»
«Mi perdoni la curiosità,» riprese il conducente, «ma ci sta prendendo per il culo?» «Senti, anche se fosse non ci potresti fare un cazzo. Ora sbrigatevi a caricarlo, o vi farò rapporto per aver intralciato il lavoro della polizia.» Dopo un lunghissimo silenzio, il conducente disse: «Come agente di polizia lei non può permettersi questo comportamento antisindacale.» «Infatti non mi sto permettendo un bel niente,» dissi, «vi ho solo detto di spicciarvi. Cosa ci trovi di antisindacale?» «Lo so io,» si lamentò il conduttore immusonito. «Dài, George, carichiamolo e torniamocene all'asciutto,» disse il suo collega, senza sollevare lo sguardo dal registro che stava compilando. Controllò l'ora per segnarla sul registro, che poi chiuse. Si girò verso i due agenti: «Arriveremo appena in tempo per il nuovo sceneggiato alla televisione. Si svolge molto tempo fa e tratta di un re che viene ucciso da dei tipi con pantaloncini a sbuffo e cappelli ridicoli, che vanno in giro sproloquiando e roteando le spade, e alla fine un altro tipo col mantello di pelliccia li fa processare e dopo un'altra tiritera fa tagliare la testa a tutti. È molto bello.» «A me non sembra,» disse il poliziotto biondo, «anzi mi pare proprio una stronzata.» «Perché lei è prevenuto contro la storia, agente, ecco perché,» disse il portantino, «se posso permettermi l'espressione.» Parlando, aveva spinto nel vano posteriore dell'ambulanza la barella con il cadavere ricoperto da un lenzuolo. Poi chiuse le portiere, passò davanti e montò al suo posto. Anche il conducente salì, ancora incupito, e avviò il motore. L'ambulanza si allontanò a velocità moderata. «Buonanotte, signori,» ci urlò il portantino. Nessuno rispose. All'interno dell'ambulanza il volto massacrato di Charles Locksley Alwin Staniland urlava muto contro il tetto che un operaio della British Leyland aveva verniciato di bianco un giorno in cui, non essendo in sciopero, gli conveniva fare lo straordinario. 2 Andai a parlare con il medico della polizia che per primo aveva esaminato il corpo. «Di che cosa è morto?» gli domandai. «Di tutto,» rispose in tono annoiato.
Anche quando chiesi la stessa cosa all'anatomo-patologo, mi rispose: «Non saprei, sarebbe più facile dire di cosa sicuramente non è morto.» «Ma come sarebbe a dire, non saprei!» sbottai. «È lei il patologo, è compito suo stabilirlo.» «Le ferite si sono susseguite così rapidamente una dopo l'altra che è difficile determinare quale sia stata la prima. Non è impossibile, ma non ci sono ancora riuscito. Si potrebbe supporre che prima gli abbiano spezzato le braccia, la gamba e anche le dita, e che il colpo di grazia sia stato quello al lobo frontale, portato con qualcosa di simile a un mazzuolo da muratore da un paio di libbre.» «Mi domando cosa abbia fatto per attirarsi un odio così accanito.» «Questo non venga a chiederlo a me,» disse il patologo. «Sono troppo giovane per riuscire a penetrare le orribili motivazioni dei criminali e mi auguro di non riuscirci mai. Del resto» aggiunse «non è il mio lavoro. Io sono tenuto a stabilire l'ora e la causa del decesso. Non faccio il poliziotto, lavoro per la polizia e nulla più.» Ci trovavamo all'interno dell'obitorio. Depose nello sterilizzatore una manciata di strumenti sporchi di sangue e lanciò un'occhiata al volto violaceo di Staniland mentre il suo assistente lo sospingeva nella cella frigorifera. «Forse era uno che sapeva troppo,» continuò, «come suol dirsi, uno che si era eccessivamente interessato a qualche soggetto che non gli competeva.» «E che parlava nel sonno,» continuò l'assistente, sbattendo il portello della cella frigorifera. «Cerchi di trovare il muratore,» disse il patologo con un risolino canzonatorio. «Oppure perché non prova a trovare il mazzuolo? Potrei confrontare il gruppo sanguigno e i capelli.» Non ci vidi più dalla rabbia. «Provi a immaginare di avere un giorno un'amichetta di cui sarebbe stato meglio fare a meno, dottore,» gli sputai contro, «e di essere mazzolato a morte da un amante geloso. Anzi, più che un'amichetta, direi un amichetto.» «Un momento, non vorrà insinuare...» «E ci immagini a scimmiottare Sherlock Holmes sui suoi resti, me e il suo assistente con l'indifferenza dell'eternità nello sguardo e la cicca spenta in bocca.»
3 Bowman mi aveva fatto arrivare gli effetti di Staniland in una vecchia valigia e dopo aver cominciato a esaminarli nel mio appartamento da scapolo, una casa della polizia a Earlsfield, andai finalmente a dormire. Sognai che mi trovavo in qualche fetido posto all'estero, in alto sulle mura di una fortezza diroccata che dominava un campo disseminato di sassi e bruciato dalla siccità. Ero seduto a gambe penzoloni su una terrazza e all'improvviso mi accorsi che non consisteva in altro che in un telo marcito, talmente distante dal suolo che mi formicolavano le piante dei piedi. A destra e a sinistra persone eleganti chiacchieravano distrattamente tra loro. A un tratto l'intera struttura si inclinò, oscillò e crollò rovinosamente, e io precipitai verso il campo urlando. «Si finisce sempre per farsi prendere,» osservò tranquillamente Staniland, precipitando insieme a me, «altrimenti non ci sarebbe limite all'insensatezza.» Mi svegliai fradicio di sudore. Mi ritrovai a pensare a me stesso. Non sono scapolo ma divorziato. Apparentemente in polizia ciò dovrebbe essere irrilevante, altrimenti al giorno d'oggi sarebbe impossibile riempire i ranghi. In realtà non facilita la carriera. I pezzi grossi non sono divorziati, nonostante ciò che combinano di nascosto (di quando in quando le cose, tra lo sbalordimento generale, si vengono a sapere). Rassegnandomi ancora una volta a rimanere sergente in eterno, cercai di concentrarmi su Staniland e, fissando il buio davanti a me, di immaginarmelo vivo e dritto sulle sue gambe, senza ferite. E continuai finché divenni impaziente che si facesse mattina. Alle cinque accesi la luce, tirai fuori uno dei nastri di Staniland e lo inserii nel registratore. Tutta questa gente gironzola per Battersea Park tra gli escrementi dei cani come se avesse tutto il tempo a disposizione. Potrebbero anche esserne davvero convinti... me lo auguro per loro. Vanno in giro per il parco e a un certo punto si voltano e rientrano nei loro appartamenti. Se ne stanno lì a rimuginare sui loro problemi aspettando l'apertura dei pub. Nonostante l'eleganza nel vestire, per la maggior parte si tratta di inquilini su cui incombe lo sfratto e che vivono del sussidio di disoccupazione. A chi gli dicesse di essere scrittore, risponderebbero che anche loro lo sono, benché non abbiano un briciolo di talento, solo rancore e animosi-
tà. Si presentano come persone di larghe vedute. Niente di più falso: non appena ti capita qualcosa di eccitante in casa, una discussione, una festa, una scopata, cominciano a battere disperatamente sul soffitto col manico della scopa come una vecchia suocera gelosa. Questi sono i miei vicini. La sera dopo li vedi al banco del Princess Caroline, giaccone di seconda mano ma alla moda, con i bottoncini dorati con l'ancora in rilievo, e cappello con visiera sulle ventitré, alla Lenin. Sembrano pronti a denunciare chiunque, ossessivamente tesi ad assumere la loro identità borghese fin nel minimo dettaglio, come il tenersi ai piedi, calzati di stivaletti di camoscio spelacchiati, un ringhioso bastardo come se fosse una bestia di pregio. Dopo aver bevuto qualche bicchiere vedo questa gente trasformarsi in avvoltoi, calabroni e vespe. Quando li critico, mi dicono che non ho compassione, ma se non lo faccio, mi accorgo che neanche loro ne hanno per me. Alle dieci e mezzo di sera, quando i guardiani chiudono i cancelli di Battersea Park, sotto le fronde premurosamente curate, mi ricordo di non essere in campagna, giacché neanche tre strade più in là scorrazzano rumorosamente i Rasta. Una legge non scritta gli vieta l'ingresso al pub, ma nelle strade hanno il loro dominio e le loro vittime negli asiatici e nei bianchi troppo indifesi per reagire, e in generale nelle persone dall'aria intelligente e perciò con buona probabilità danarose. I marciapiedi sono l'unica cosa di cui i neri senza lavoro possono dirsi padroni. Battersea è un esempio rappresentativo di una situazione disperata in tutta la nazione, in cui solo una successione di governi tipicamente britannici ha potuto cacciarci. Battersea mi fa talmente schifo che vorrei diventare pazzo. Girai il nastro, ma l'altro lato era vuoto. 4 Si fece mattina. Dalle finestre prive di tende la luce inondava la stanza, ma io continuavo ad ascoltare. Avevo trovato uno spietato resoconto che iniziava così: Francia. Non appena ritornai a Duéjouls dopo che se ne erano
andate la prima cosa che feci fu bruciare tutti i vestiti di mia figlia, tutti i libri e i giocattoli che erano rimasti lì. Non riuscivo a sopportarne la vista, così portai tutto nel cortile sul retro e ne feci un gran falò. Era agosto e faceva talmente caldo che ebbi paura che andasse a fuoco tutto, la casa, l'intero villaggio, persino il cielo. Guardavo consumarsi i suoi libri: L'ape e la formica, Una giornata molto, molto occupata, Il signor Pasticcione e Il signor Precisino. I suoi disegni di casette e di gatti e lumache avvampavano e si accartocciavano. La brezza serale che soffiava giù dai Causses aveva sollevato questi suoi lavori facendoli levitare verso il cielo come se fossero immateriali. Mentre attizzavo il fuoco mi sentivo una profonda debolezza interiore, come se una febbre mi avesse devastato il corpo, lasciandomi svuotato e abbrutito. Bruciando i suoi vestiti e le sue scarpe sentivo soltanto che era una cosa che andava fatta, il prezzo del mio fallimento di padre e di uomo. È necessario spiegare ogni cosa e pagare per tutto, ma stanotte no, adesso no. Adesso, vino: bevevo vino freddo direttamente dalla bottiglia anche mentre il fuoco distruggeva il nostro passato comune, di mia figlia e mio. Quando il fuoco parve ormai soffocare sotto le proprie ceneri, lo innaffiai con un po' di acquavite e lo ravvivai smuovendo i rimasugli carbonizzati con una pala che lì chiamano harpe. Quando tutto fu bruciato, mi convinsi che avevo fatto bene e, barcollando, mi allontanai. Charlotte non avrebbe potuto, né voluto, ritornare mai più. La vita non le aveva regalato illusioni, non certo con un padre come me, né gliene avrebbe concesse in futuro. Piansi di rabbia e disperazione e solitudine quando alla fine gettai nel fuoco le sue galosce e lo zainetto, con i quaderni su cui aveva disegnato fiori e rane e ricopiato le poesie che Madame Castan le aveva assegnato: "Jamais, jamais, tu ne le rattraperas!" Non riuscirei a spiegare quale enorme sofferenza abbia significato per me il perderla: era tutto il mio cuore, l'anima mia, un altro me stesso. Ma non sono mai stato capace di esprimerglielo, e così l'ho perduta. Non appena fu chiaro che ormai la stavo perdendo, immediatamente decisi che preferivo staccarmene subito del tutto e forzai il distacco, cacciandole e poi andandomene anch'io. Ah, l'esistenza è come l'acqua che si infiltra dovunque ep-
pure scorre sempre via. Credo di avere sangue polacco da parte di madre. Quando ritornai, come dovevo, bruciai tutto ciò che le apparteneva. Gli Inglesi non hanno umanità? Mentre ero in Inghilterra mio fratello mi ha detto che non avrei dovuto prendermela tanto a cuore. Ma cosa ci si può prendere a cuore più dell'amore? I soldi? Gli averi? Le proprietà? Alla sera lasciai spegnere il fuoco. Mi domando fino a che punto riuscirò a sopportare tutto ciò. Dopo una pausa di silenzio sul nastro, Staniland si dava una risposta: Sicuramente solo fino a un certo punto. Fino a quale, lo scoprirò quando sarà il momento. E infatti l'aveva scoperto. Appoggiai il nastro sul pavimento. Mi domandai quanto ne avrebbero potuto capire Bowman, o i due agenti, il medico legale o chiunque altro. Mi domandai quanto ne avevo veramente capito io stesso. 5 Bowman mi aveva dato l'indirizzo sbagliato. Quello di Battersea riportato sulla tessera della previdenza sociale che Staniland aveva con sé non era giusto, ma ce n'era un altro su una lettera che la banca gli aveva mandato spiegandogli che sarebbero stati molto lieti se avesse avuto la cortesia di presentarsi urgentemente a scambiare quattro chiacchiere a proposito dello scoperto del suo conto corrente. Era datata solo due settimane prima della morte ed era stata spedita a un indirizzo di Lewisham, in fondo verso la torre dell'orologio. Avevo trovato la lettera in mezzo alle altre carte. Ricapitolai tutto quello che fino a quel momento avevo appurato su Staniland, a cominciare da quando lo avevano fatto a pezzi. Aveva cinquantun anni e stava perdendo i capelli. Dopo che fu ripulito dal sangue, fu possibile dire che aveva belle mani, a giudicare dalla sola che ancora ne aveva la forma, e che forse le donne lo avevano considerato attraente. Magari troppo? Però non aveva l'aspetto del dongiovanni incallito. Le dita di quella mano, la destra, erano macchiate di nicotina. Inoltre, a giudicare dal naso e dai problemi che aveva rivelato nelle sue registrazioni, era un bevitore, non un alcolizzato, però: la sua grafia era troppo precisa, tutte le lettere appari-
vano tracciate regolarmente, per quanto velocemente avesse potuto scrivere, le righe ben spaziate, senza che le gambe di una si ingarbugliassero con le aste di quella sotto. Una grafia educata, riflessiva, intelligente, in stridente contrasto con i suoi abiti da quattro soldi. Ma che diavolo faceva quell'uomo? Bowman non gli aveva trovato denaro addosso. Aveva la tessera dell'assistenza sociale, ma questo non significava che fosse in bolletta; oggigiorno tanti sono costretti a fare carte false, per sopravvivere. Inoltre c'era la lettera che dimostrava che sicuramente, una volta, doveva aver avuto soldi in banca, anche se quando l'avevano ucciso aveva solo debiti. Restai a occhi chiusi, sforzandomi di visualizzare Staniland e di immaginare che vita potesse essere la sua, finché non si fece abbastanza tardi da poter uscire in cerca di informazioni. Un uomo che scriveva, che ammetteva il proprio fallimento ed era torturato dalla perdita della figlia. Uno che aveva vissuto all'estero, probabilmente a lungo (avrei dovuto ascoltare gli altri nastri per accertarlo, ma ce ne erano talmente tanti che ci sarebbe voluto parecchio tempo), una persona istruita. Chiamai Bowman a casa proprio nel momento in cui stava uscendo per andare alla Factory. «Staniland,» dissi. «E allora?» «Come mai mi hai dato un indirizzo di Battersea, se abitava a Lewisham?» «Non lo sapevo neanche.» «Ma avrai pur saputo dove i tuoi uomini avevano trovato la sua roba, voglio dire i nastri, le carte e tutto il resto.» «Perché? Avrebbe dovuto interessarmi?» «Sei un cinico bastardo,» dissi. «Potresti ascoltare quelle registrazioni per secoli senza provare alcuna pietà.» «Risparmiami il tuo Shakespeare,» rispose. «Alle dieci ho una riunione su un furto con scasso da un milione di sterline. Comunque non le ho ascoltate, quando avrei potuto trovarne il tempo? Vorrai scherzare.» «Ti farò rimpiangere di non esserci riuscito, se non otterrò un po' più di cooperazione da parte tua.» «Mi stai minacciando?» «Sì,» dissi, «meno battibecchi irresponsabili, meno smancerie e atteniamoci di più ai fatti, come ci hanno insegnato al corso, seconda settimana.» «Hai finito?»
«Per questa volta sì. Ma in teoria dovremmo far parte della stessa forza e operare solidalmente, perciò, se un'altra volta ti azzardi a fornirmi, senza verificarle prima, informazioni che poi si rivelano fasulle su un caso che sto trattando, potresti trovare qualche intoppo nel prossimo passaggio di grado.» «Ma come ti permetti di parlarmi così? A me, un ispettore capo?» ribatté incredulo. «Un omicidio prevale sulla gerarchia, perciò attento ai passi falsi.» «Attento tu, piuttosto, a non farti salire troppo la pressione, sergente,» disse, e riattaccò. Restai per un po' a guardare la cornetta muta. Prima di uscire, ripresi le mie riflessioni. Non era stato un assassinio ordinario, l'esito di una aggressione da parte di un nero o di uno skinhead a scopo di rapina. L'odio, la malvagità che Staniland aveva suscitato in qualcuno, era stata la causa di quelle percosse deliberatamente micidiali. Quella stessa mattina in una delle registrazioni di Staniland avevo sentito: Si può andare avanti tanto a lungo a spiegare agli altri il significato dell'esistenza, senza però rendersi conto che non se ne uscirà mai vivi? Quindi la questione fondamentale è in che modo presentarsi alla morte. Tutti dobbiamo affrontarla. Il problema è riuscire a farlo lucidamente, deliberatamente, predisponendo ogni cosa fin quasi all'ultimo istante e registrando tutto. L'ideale sarebbe riuscire a registrare anche ciò che succede all'ultimo istante e dopo. Ma questa lacuna dovrà essere colmata da qualcun altro, se ci riuscirà. Riascoltai questa parte. Per un attimo mi domandai se non prefigurasse un suicidio. Ma in ogni caso non era stato certo così che Staniland aveva trovato la morte. Pensandoci meglio, non era quello il senso del passaggio. Riesaminai il poco che sapevo: il punto essenziale era che non l'avevano ucciso nel posto dove era stato ritrovato. Suicida, non avrebbe potuto andarsene in giro, cosicché si ritornava sempre all'omicidio. Quasi per telepatia, telefonò il medico legale. «Ho concluso l'autopsia.» «Allora?» «Il gruppo sanguigno era 0 negativo... comunque ciò che è veramente importante è che le sue condizioni sono risultate anche peggiori di quanto
avevamo pensato inizialmente. Non una, ma tutte e due le gambe erano rotte: frattura della rotula sinistra, che già sarebbe bastata a impedirgli di camminare, e altrettanto si può dire della frattura multipla alla tibia destra. Presenta inoltre contusioni alla base dell'encefalo che dapprima mi erano sfuggite. Dislocazione della spalla destra, nonché terza e quarta costola spezzate sullo stesso fianco.» «Mio Dio, ma che gli hanno fatto? L'hanno buttato giù dal tetto o da un aereo?» «No, no, è stato proprio un pestaggio,» mi confermò il patologo. «Le direi ancora che dovrebbe cercare un mazzuolo, per quanto alle costole e alla rotula potrebbero essere stati anche calci. Qualcuno gli ha pure affibbiato una coltellata. C'è un lungo taglio sul braccio destro, e soltanto per quello sarebbero occorsi diversi punti di sutura. Cosicché, tra mazzuolo, coltello e calci devono essere stati come minimo in due, ci si può scommettere.» Fece una pausa per prendere fiato. «C'è ancora qualcosa?» chiesi. «Dunque,» tossicchiò all'altro capo del filo, «le analisi di laboratorio hanno stabilito che non è stata una morte rapida.» «Sto ascoltando.» «Hanno cominciato con le fratture agli arti, le dita e la mano, poi le gambe. Quindi lo hanno colpito all'occhio destro, che era quasi chiuso, come ricorderà; presentava un'estesa ecchimosi. In seguito lo hanno ferito con il coltello. Credo che il coltello sia stato lanciato. Probabilmente sarà stato un coltello a scatto, o anche da cucina, comunque piuttosto grosso, con la lama direi almeno di una dozzina di centimetri. Se lo sono davvero lavorato.» «Ma qual è stato il colpo fatale?» «Oh, senza dubbio quello al cranio, lobo frontale. Perdita di coscienza aggravata da abbondante emorragia. Collasso traumatico, poi il coma e il decesso. Questo è tutto. Adesso redigerò il rapporto per il magistrato.» «La ringrazio, mi è stato di grande aiuto.» «Non mi prenda in giro,» disse il patologo, «perché so che non è vero.» «Come non detto, allora.» «Si faccia vivo ogni volta che le pare che io possa di nuovo non esserle utile,» concluse. Era giovane, come aveva detto, e ridacchiò da solo, pensando di aver fatto una battuta eccellente. Riattaccai. Mi sentivo male, come se la batosta l'avessero data a me. Mi accucciai con la testa fra le ginocchia finché non smisero di ronzarmi le
orecchie e il velo grigio davanti ai miei occhi non scomparve. Avevo ascoltato centinaia di bollettini di medici legali, ma non mi avevano mai fatto un effetto simile, prima. Quando mi ripresi, mi resi conto che stavo fissando una pagina degli scritti di Staniland che era finita sul pavimento, e forse avevo spinto da parte col piede. Aveva scribacchiato in modo quasi indecifrabile con una penna a sfera: "Non voglio più vedere Barbara Spark, mi ha ferito a morte. Mi sento la testa vuota, il cuore vuoto, l'ultima volta che ho avuto un orgasmo mi ha riso in faccia." Il paragrafo seguente doveva essere stato aggiunto più tardi, o, se non altro, era stato scritto con un'altra penna. "Com'è possibile che una persona di tale bellezza sia così crudele? Com'è possibile che un amore ardente come il mio debba infrangersi contro questo blocco di ghiaccio?". C'era una postilla scarabocchiata in margine: Mi sento come se per scrivere così fossi diventato una donna, o Barbara stessa, una troia frigida per il senso di colpa o il terrore, nello stesso tempo bramosa e disgustata dal sesso. La mia passione mi ha trasformato in lei? Charlie, cosa stai cercando di fare? Vuoi annientarti? Non venirmi a dire che avevi programmato tutto! La morte, sì, ma non certo l'amore, la passione, la gelosia per i passi che si allontanano in strada, non certo questa consunzione del sangue. Cinquantuno, cinquantuno e dover fare il pagliaccio per mascherare l'angoscia e la rabbia. Non riesci a soddisfarla? Ma come potresti soddisfare una bellezza che svanisce non appena la penetri? Il pagliaccio sbatte la faccia per terra e le risa scrosciano. Conclusi che era ridicolo affermare che mostrava i sintomi di una personalità in via di dissoluzione. Anzi era sano di mente e perfettamente lucido. Perfino troppo, forse. Come tutte le persone sane di mente, aveva voluto conoscere la realtà della vita, commettendo l'errore più comune: non si era reso conto neanche per un istante che le condizioni dell'esistenza non autorizzano alcun assoluto. Così, quando aveva finito per ritrovarsi faccia a faccia con la realtà, aveva ceduto. L'uomo non è fatto per sopportare tutta la verità, se la affrontasse metterebbe fine ai propri giorni appena fuori dalla culla. Da sotto la pila di libri nell'angolo tirai fuori lo stradario Nicholson e localizzai l'indirizzo di Romilly Place a cui era stata spedita la lettera della
banca. Poi mi alzai e rovesciai sul pavimento la valigia malridotta che conteneva tutto ciò che restava di Staniland. Sotto il cumulo di carte c'erano altre otto cassette. Ne presi una a caso e la misi su. Una voce agitata e precipitosa, che riconobbi come quella di Staniland, diceva: "Mio Dio, ho voglia di scoparti!" E una voce di donna gli replicava in tono seccato: "Ma devi proprio usare quel termine? Perché sei così insopportabile, Charlie?" Si sentì uno stridio di nastro stropicciato e poi più niente su quel lato; prima di estrarre la cassetta, la riascoltai da capo più di una volta. Nonostante fosse angosciato e probabilmente non sobrio, la voce di Staniland era intelligente e diretta, come la sua grafia. Feci partire la cassetta dall'altro lato. Staniland raccontava: Ho passato un'altra brutta serata all'Agincourt. Il suo Cavaliere Sorridente era lì, come al solito. Ogni volta mi tormenta, ma io bevo finché non ci faccio più caso. Cosa ci troverà Barbara? Osservandola nello specchio mi accorgo che lo sta guardando; aspira una boccata dalla sigaretta e lo fissa da sotto le bianche palpebre pesanti, priva di espressione, seduta sullo sgabello con le gambe accavallate, sensuale e indifferente. Farei di tutto, davvero di tutto per impedirle di frequentare il locale, ma, se decide che vuole andarci, non c'è niente da fare, anche perché non si può persuadere una ragazza che lavora nei night club a evitare i pub. Più tardi, dopo una pausa di silenzio, riprendeva: Sono appena rientrato dall'Agincourt. Il Cavaliere Sorridente non mi ha toccato, anche se l'ho provocato coinvolgendolo in una discussione sulle differenze di classe. Se n'è infischiato come al solito, circondato dai suoi accoliti. Però non mi ha toccato, solo quella volta un mese fa, è successo che mi ha colpito con un manrovescio fuori nel cortile, dietro i gabinetti. "Adesso andrai a denunciarmi?" disse subito dopo, allontanandosi di un passo. "No," risposi, "torno dentro a bermi un'altra birra, se hai finito." "Uno di questi giorni la farò finita con te una volta per tutte," replicò andandosene. Quella sera, poco prima, Barbara era venuta con me al pub. Pe-
rò verso le dieci meno un quarto si era stufata e mi aveva detto che se ne andava in discoteca. Prima che uscisse il Cavaliere Sorridente le si era avvicinato e le aveva cinto ostentatamente la vita con un braccio, nonostante io fossi accanto a loro, per sfidarmi a dire qualcosa. Abbastanza spesso lo fa con noncuranza, invece, ma anche allora riesce a suscitarmi fitte di gelosia. Lo farà perché lei gli piace o semplicemente perché mi odia e vuole punzecchiarmi? Ha quarant'anni, più o meno, ed è un uomo orribile, corpulento e possente, con la faccia di un camionista cui non importi di travolgere chiunque gli si pari davanti, e fitti peli rossicci sulle braccia. La lascia andare ridendo, dopo averle tolto il braccio di dosso, facendo sempre come se non ci fossi, e le dà un'amichevole pacca sulla schiena. Lei scrolla le spalle, mentre tutti i suoi sgherri scoppiano a ridere, seguendo il suo esempio, come al solito. Poi qualcuno paga da bere e se ne vanno tutti a giocare alla slotmachine. Più tardi domando a Barbara perché si lascia abbracciare a quel modo e lei scrolla di nuovo le spalle, chiedendomi perché mai dovrebbe badarci. Perché a me secca, le rispondo. Suggerisce, soffocando una risata, che allora dovrei essere io a reagire, se la considero la mia ragazza. Ma più tardi, in camera, mi dice che le dispiace. "Vuoi dire che ti dispiace per me?" le chiesi. "Sì." "Pensi allora che potremmo fare l'amore?" dissi spogliandomi. "Dipende." "Da cosa?" "Ce la farai a fartelo venire duro?" "Non lo so," risposi. "Ho bevuto troppo, però potrei farcela domattina, la mattina mi viene sempre duro." "Invece io di mattina non ne ho mai voglia." "Adesso mi basterebbe un po' di tenerezza, Barbara." "Allora comprati un orsetto di peluche e stringitelo." "No, è da te che ho bisogno di essere stretto, soltanto da te. Ti amo, e in questo momento la vita mi fa davvero tremare." "Lo so, Charlie," disse lei, "si vede." Che bel corteggiamento, pensai. "Sono troppo vecchio per te, Barbara."
"Temo proprio di sì, povero Charlie. Con te mi piaceva solamente quando mi raccontavi qualcosa e ce ne stavamo distesi al buio uno accanto all'altra." "Ma a me non basta starti disteso accanto, Barbara. Ti amo troppo; ti amo con tutto il mio essere." "Va bene, vieni qui allora, vediamo cosa riesci a fare, chissà che così ti calmi." Poco dopo: "Insomma, Charlie, renditene conto, proprio non ce la fai." "Ma ci provo, ci provo, lasciami provare un'ultima volta." Pur insistendo, però, non riuscivo a penetrarla, mentre lei dapprima mi lasciò fare per un bel po' in silenzio, limitandosi solo a qualche sospiro, poi alla fine si stizzì: "Non c'è niente da fare, Charlie. Guarda in faccia la realtà e togliti di dosso." "È quel tipo del pub, Barbara." "Cosa c'entra lui?" "Non riesco a togliermelo dalla testa mentre cerco di farlo con te." "Ma hai paura di lui?" "Lui mi odia." "Allora non provocarlo, Charlie, così ti lascerà in pace." "Se smettessi di provocarlo, capirebbe che sono terrorizzato da lui." "Tanto lo sa già." "Non riesco a spiegarmi il perché, ma si intromette nel mio amore per te." "Dormi, Charlie, per piacere." Così faccio finta di addormentarmi, soffrendo atrocemente. Anche adesso, soltanto a parlarne così, è una sofferenza. Resto per tutta la notte con lo sguardo fisso nel buio, girato di schiena verso Barbara, l'uccello inerte nella mano, sforzandomi di non lasciare trasparire nulla. Spensi il registratore e riaprii lo stradario. Registrazioni. Che senso possono avere delle registrazioni in tribunale? 6
L'Henry of Agincourt si trovava verso la metà di Greenwich Lane; aveva davvero un aspetto antico, soprattutto rispetto ai casermoni del circondario. Qualche malinconica testa caraibica si affacciava alle finestre, avvolta nel turbante dei Rasta, e tre uomini in jeans se ne stavano a guardare un quarto che scavava un buco nell'asfalto, mentre una radiolina suonava a tutto volume. Sulla facciata del pub erano dipinti travi di legno per imitare gli edifici medioevali; sull'insegna l'effigie del monarca da cui prendeva il nome, raffigurato con un'enorme corona, un'armatura approssimativa e l'espressione di sicura baldanza o forse di ebbrezza, scrutava la strada come se avesse appena scorto un manipolo di francesi. In piedi accanto a lui una figura sottilissima con l'elmo a punta cercava di tendere l'arco per scagliare una freccia, con il piede metallico piantato sulla scritta BIRRA. All'interno invece tutto era in cemento e tuttavia si notavano i segni delle escandescenze di qualche cliente più turbolento. Dietro lo stretto bancone c'era un colosso dall'aspetto incredibilmente laido, che doveva essere il padrone. Nonostante fossero appena le undici e un quarto, si stava servendo una vodka doppia che, con ogni evidenza, non era la prima della mattina. Qualcuno doveva avergli sfregiato il volto di recente, visto che la cicatrice aveva ancora i punti di sutura. A parte me e lui, il locale era deserto. Non appena si accorse di me, cominciò a tremare violentemente, buttò giù la vodka in un sorso, sbattendo poi il bicchiere sul banco con un gesto incontrollato. «Cosa prende?» domandò stancamente. «Una pinta di Kronenbourg.» «L'ho finita.» «Allora quell'altra marca tedesca col nome che non finisce più, eccola lì.» «È calda.» «Non importa, la berrò lo stesso.» «No, se io non ho intenzione di servirgliela,» disse in tono minaccioso. Prese lo stesso un boccale, ma si trovò in difficoltà a tenerlo fermo sotto il rubinetto, tant'è vero che non lo riempì del tutto, e quando glielo feci notare, riaprì al massimo il rubinetto con un gesto rabbioso, cosicché un'intera altra pinta andò a finire spumeggiando giù per lo scarico. «È perché cala,» mi spiegò con soddisfazione estasiata e mi avvicinò il boccale, aggiungendo: «Sono ottantacinque pence.» «Mi sembra troppo,» commentai, dandogli una sterlina.
«Che cosa è troppo, maledizione,» disse squadrandomi, «è troppa la birra, è troppo il prezzo o la sua insolente faccia tosta?» «Il prezzo.» «Senta, se non le garba,» si infuriò, rimboccandosi le maniche per mettere in mostra i muscoli degli avambracci nodosi, «perché non se la scola e sparisce? Sarebbe la cosa più saggia da parte sua.» «Credo che lo farò, dato che tutta l'animazione di qui non mi entusiasma, ma dopo averti fatto qualche domanda.» «Qualche domanda?» ripeté incredulo. «Domande in questo pub?» «Esattamente.» «Gli unici che si azzardano a fare domande, in questo pub,» disse il gestore, «sono i poliziotti, e anche loro cercano di non esagerare.» «Davvero? Che combinazione,» gli mostrai la mia tessera. «Si dà il caso che io sia proprio un poliziotto.» «Oh, cazzo,» disse, portandosi una mano tremolante alla fronte. «L'avevo capito subito che qualcosa in lei non quadrava. Ci mancava solo questa. Di che si tratta stavolta? La rissa di sabato? Oltre a me, c'è stato soltanto un altro seriamente ferito, e neanche lui vuole sporgere denuncia.» «No, si tratta di tutt'altro. Un uomo è stato trovato morto venerdì sera e ci risulta che frequentasse abitualmente questo pub.» «E con questo? Non posso essere coinvolto soltanto per questo,» sbraitò il gestore, facendo un passo indietro. «Può darsi di sì come di no.» Strizzò e riapri subito gli occhi azzurri, che erano talmente arrossati da sembrare due bersagli da freccette. «Ho bisogno di bere qualcosa. Anche per lei?» Scossi la testa. «Si chiamava Charles Staniland,» dissi, non appena si riavvicinò col suo bicchiere. «Devo garantirmi un certo livello di incassi,» mormorò, dopo una lunga sorsata, «altrimenti si mette male con i fornitori. E per incassare in questo posto è meglio non conoscere i clienti per nome. Non qui,» aggiunse con un sorriso sinistro, «sarebbe veramente da pazzi.» Cominciava a farmi perdere la pazienza. «Non vedrai più incassi se non cominci a collaborare con me, per la semplice ragione che mi basta una parola ai colleghi qui a Lewisham e addio licenza. Un pretesto si fa presto a trovarlo.» «Oh, cazzo!» esclamò, poi si fece remissivo. «Va bene. Posso vedere
una foto?» Feci scivolare sul banco verso di lui una fotografia del cadavere di Staniland, sulla quale il gestore si concentrò svogliatamente, senza nessuna fretta. «Sì,» disse alla fine, tracannando la sua vodka, «questo è proprio Charlie. Lo hanno proprio conciato male. Però è un po' che non lo vedo, devono essere tre o quattro giorni.» «Per forza, è all'obitorio.» «Ah, già, così si spiega tutto.» «Hai proprio regione, non ci si può sottrarre a questa sorta di impegni. Era un gran bevitore, non è vero?» «Quello lì? Altroché!» Osservai al di sopra del registratore di cassa alle sue spalle una iscrizione fatta col ferro rovente. Diceva: "Ci batteremo quinci e quindi, per il Re e per la Corona ci batteremo. Non si scoleranno la Vecchia Inghilterra, fino alla morte resisteremo! " Il gestore si rivelava fedele almeno a questa verità, se non ad altre. «Hai idea di cosa facesse per tirare avanti?» domandai. «Sinceramente, se fossi così cretino da chiedere ai miei clienti cose del genere, tutto ciò che ne ricaverei sarebbe di finire all'ospedale per un mese.» «Aveva nemici?» «Nemici? Santo cielo, tutti in questo locale lo detestavano. Era insopportabile, non ho mai sentito nessuno discutere tanto quanto Charlie Staniland, perdio!» «C'è tanta gente che viene a discutere nei pub, sono fatti anche per questo. Perché se la sono presa proprio con lui? Tu cosa pensi?» «Io? Non è che io pensi così tanto,» disse, dopo un po' di riflessione. Mi voltò le spalle per riempirsi di nuovo il bicchiere. «Ah, maledizione, siamo di nuovo senza ghiaccio, ma non importa. No,» concluse, «non credo che in questo mestiere convenga pensare.» «Ma se ci dovessi provare.» «Se proprio dovessi pensarci, allora potrei dire che era la sua faccia che non andava. Non che ci fosse nulla di particolare nel suo aspetto, ma sembrava che sarebbe stato più nel suo ambiente in qualche posto raffinato del West End.» «Infatti è da quelle parti che è stato trovato, però molto più fuori, verso Acton, West 5.»
«Da una parte o dall'altra dovevano pur trovarlo, credo,» disse il gestore. «Che strano tipo era. Strana anche la voce, da classi alte, come si dice. Una voce come la sua era un pugno nell'orecchio. Comunque è assurdo che sia morto.» «Perché assurdo, se non andava giù a nessuno?» «In realtà non me ne sono mai reso conto, non ci ho mai pensato fino a poco fa, evidentemente. Una volta soltanto ho dovuto sbatterlo fuori, dato che era talmente sbronzo che ha cominciato a disturbare i clienti, in particolare un gruppo di signori che se ne stavano in quell'angolo a discutere tranquillamente per conto loro.» «Ci può essere stato qualcuno che lo detestava tanto da ucciderlo?» «Oh, andiamo, adesso,» supplicò il barista, «neanche lei può pretendere che possa rispondere a una domanda del genere.» «È una fortuna per lei non avere peli rossi, lì,» dissi, accennando alle sue braccia. «Ricorda qualche cliente che li abbia? Un tipo grande e grosso, sulla quarantina, che si dà da fare attorno alle gonnelle, soprannominato Cavaliere Sorridente, o qualcosa del genere?» «No, che io sappia.» Si era sforzato di rispondere con indifferenza, ma sembrava invece sull'orlo della disperazione. «Ho capito, sarà meglio che questa la metta da parte.» «La mette da parte? In che senso?» «Che sospendiamo qui per il momento. Non ho fretta. Posso sempre ritornare.» «Guardi, sergente, che qui siamo rispettosi della legge, glielo assicuro. Questo è un locale pulito.» «Quanto sia pulito lo vedo,» replicai, «ma circa il rispetto della legge, si potrebbe fare di più.» «Le giuro» implorò «che dirò tutto quello che so, se mi concede una possibilità.» «Allora proviamo a ricominciare. Con chi se la faceva?» «Se la faceva?» «La sua ragazza. Di solito veniva qui con una ragazza.» «Ah, la ragazza!» si affrettò a dire, notevolmente sollevato. «Quella! Come si chiamava, vuole sapere? Caspita, me la ricordo, bruna, magra, con i denti un po' in fuori, però il nome non lo so.» «Non ci siamo. Si dà il caso che io sappia, da registrazioni del morto, che era alta, ben fatta, con lunghi capelli biondi, e che gli rendeva la vita
impossibile.» «Ah, sì, mi scusi. Sì, adesso ho capito a chi si riferiva.» «Hai capito?» Mi aveva fatto uscire dai gangheri. «Meglio così, perché se non stai attento potresti ritrovarti davvero nei pasticci. Se cerchi di sviarmi, potrebbe venirmi voglia di strizzarti per bene, solo per vedere cosa succede, e sai cosa succederebbe, ciccione? Scoppieresti, e col botto, proprio così.» «Sì, sì, va bene.» «Come si chiamava, allora?» «Non lo so. Potrebbe essere Barbara e non so cosa?» «Hai proprio indovinato. Prova a dirmi anche il cognome, ora.» «Non ne sono sicuro, ma credo che sia Spark.» «Credo anch'io. Molto bene. Se continui così, andrà a finire che ti pagherò da bere. Quando veniva qui, dava confidenza a qualcun altro dei tuoi clienti, oltre che a Staniland?» «Non che io sappia,» rispose recisamente, increspando le labbra. «Non che io sappia.» «Attento, voglio fornirti in premio per la tua disponibilità una dimostrazione di logica poliziesca. Se qualcuno che sto interrogando enfatizza una risposta come hai appena fatto, io ho la certezza che sta mentendo. Allora mi limiterò a ricordarti quel discorsetto sul collaborare, d'accordo?» «Guardi, nessuno li avvicinava,» disse sconsolatamente. «Lo giuro. Non piacevano a nessuno, qui dentro, né lui, né lei.» «Strano, ma questo non corrisponde alle mie informazioni.» «E in cosa consistono?» «Non ti riguarda,» continuai. «Comunque, confermi ciò che hai detto? Che qui dentro tutti lo tenevano a distanza e si limitavano a sfotterlo. Saresti disposto a testimoniarlo?» «Certamente! Non è possibile indicare qualcuno in particolare. No, senz'altro.» «Strano, non sembrerebbe normale in un nido di vipere come questo.» «Invece è proprio così.» «E non hai la minima idea del perché fosse lo zimbello di tutti. Accento a parte.» «È la verità.» «Eppure qualcuno, forse più d'uno, doveva odiarlo al punto di arrivare a ucciderlo.» «Già, è davvero disgustoso.»
«A dir poco. Ma ti rendi conto che è un omicidio quello su cui sto indagando?» «Certo,» assentì con convinzione, «e mi auguro che prendiate i bastardi che lo hanno commesso. Povero vecchio Charlie.» «Li prenderemo.» Alle mie spalle il pub iniziava a riempirsi. I clienti entravano a gruppi di due o tre per volta, per lo più camionisti, e tutta la squadra dei solerti scavatori. Improvvisamente il gestore diede un balzo. «Se ne vada, adesso!» mi sollecitò, assordandomi con un bisbiglio. «Se quei due là sospettassero soltanto che ho parlato con lei, con la mia pelle si luciderebbero le scarpe.» «Va bene,» risposi, ma non mi affrettai. Terminai con comodo la mia birra tiepida. «Comunque, temo che sarò costretto a ripassare.» «Quando?» «Quando meno te lo aspetti. Ti farò una sorpresa.» «Un momento,» mi trattenne, mentre spalancava la cassa con una manata. «Mi sto chiedendo se potrei offrire un contributo al Fondo per gli orfani della polizia.» «Senza dubbio. Non devi far altro che inviare l'assegno al Fondo, a Scotland Yard. L'indirizzo è sull'elenco.» «Non intendevo questo,» piagnucolò il gestore. «Volevo dire, cerchi di non immischiarmi in questa faccenda, la prego.» «Vai a farti fottere.» Lo guardai scivolare all'altra estremità del bancone e poi mi allontanai, osservando attentamente i due che lo avevano messo in agitazione. Uno era abbastanza piccolo, senza che ciò lo facesse apparire innocuo. Portava jeans tagliati su misura, camicia sportiva e cardigan. Al polso sfoggiava un orologio d'oro, grosso quanto la smisurata considerazione che doveva avere di sé. Un portafogli ben gonfio spuntava a metà dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni, a tentare pericolosamente qualche sfortunato imbecille. Quello con cui stava parlando aveva i denti sporgenti e portava una cerata gialla, scarpe e pantaloni da ginnastica. Non erano rossi di pelo e nessuno dei due poteva dirsi grosso. Ma erano delinquenti. Lì per lì non ricordavo come si chiamavano, ma sapevo che lavoravano in coppia dedicandosi in particolare ai locali notturni: per una bella mazzetta puntuale a fine mese proteggevano il locale o in caso contrario lo sfasciavano. Si accorsero che li stavo squadrando; non me ne preoccupai. Quando uscii si stavano diri-
gendo distrattamente al banco. Fuori in strada, comperai una copia dell'unico giornale pomeridiano superstite, che era appena uscito. Un certo Lord Boughtham era stato nominato ministro degli esteri e aveva tenuto in Parlamento un lungo discorso in cui criticava tutti meno se stesso. Quello sì che era un modo di guadagnare sessantamila sterline l'anno. Niente riguardo a Staniland. Staniland non faceva notizia. 7 Me ne stavo seduto nel mio ufficio alla Factory e leggevo gli scritti di Staniland. Sono stati i delinquenti a chiamarla la Factory per la sua cattiva reputazione riguardo agli eccessivi maltrattamenti che i sospetti vi subiscono durante gli interrogatori; quelli che ancora sono convinti che i nostri poliziotti britannici siano meravigliosi dovrebbero trascorrere una notte alla Factory tenuti fermi con la luce in faccia o pestati da una squadra di tre agenti. Anche noi ormai la chiamiamo la Factory, ma, se vi interessa, è il grande, moderno edificio in cemento armato che si trova in Poland Street, proprio di fronte a Marks&Sparks, che ospita la stazione di polizia del West End, che tiene sotto controllo la zona da Tottenham Court Road a nord fino a Hyde Park Corner a sud, e da Marble Arch a nord-ovest fino a Trafalgar Square a est. Interruppi per un momento la lettura e ricominciai a pensare alla cassetta che mi aveva indotto ad andare all'Agincourt. A casa l'avevo riascoltata diverse altre volte da capo. Fuori nel corridoio la donna delle pulizie che passava lo straccio con la radio accesa, ascoltando una trasmissione in cui intellettuali alla moda protestavano su chissà cosa, cambiò finalmente canale. Che il gestore mi avesse mentito non mi sorprendeva affatto. Aveva mentito perché aveva paura: neanche questo mi sorprendeva. Per gestire quel locale ci voleva un uomo dai nervi più saldi e che non bevesse come una spugna. Avrei voluto sapere esattamente quanto duramente era stato picchiato Staniland dietro i gabinetti, probabilmente assai più di quanto lui stesso avesse lasciato capire. Il barista era stato sicuramente minacciato affinché tenesse la bocca chiusa, quasi certamente da quei due che quella mattina mi avevano incrociato dirigendosi verso di lui al banco. Prima o poi avrei dovuto ritornare là, ed ero indeciso se in vista dell'improvvisata fosse meglio premunirsi di un carro armato Chieftain o di un
cannone semovente. Inserii un altro nastro di Staniland: C'è un punto in cui il filo si spezza e il palloncino comincia a salire fino a un'altezza in cui gli è impossibile mantenere la forma e scoppia. Analogamente, l'essere animali in grado di travalicare col pensiero i limiti della propria esistenza ci pone un angoscioso problema. Accumuliamo conoscenza in una frenetica corsa contro la morte che la morte è comunque destinata a vincere. Vorremmo scoprire tutto nel poco tempo che ci è concesso, eppure, alla fine, ci domandiamo chi ce l'ha fatto fare, visto che tutto andrà perduto. Continuo a tentare di far capire tutto ciò a chiunque sia disposto a starmi ad ascoltare. Su quel nastro non c'era più niente, così passai al successivo. I nastri erano in uno stato di confusione spaventosa, con dei vuoti, pezzi cancellati o incomprensibili perché sovraincisi più volte. Gli scritti erano costellati di note in margine e appunti sul verso del foglio. Sembrava che non avesse mai adoperato una macchina per scrivere. In certi punti la grafia era regolare e ben spaziata, in altri frettolosa, tremolante, quasi illeggibile. C'era una lettera, scritta con una grafia che ricordava quella di Staniland, ma era molto più controllata, rigida. Non c'era alcuna intestazione, e neanche la data. Lessi: Caro Charles, ho riflettuto sulla nostra conversazione telefonica dell'altra sera e ho deciso a malincuore che adesso è del tutto inutile che tu venga fin qui aspettandoti di trovare comprensione da parte nostra. Sei stato tu a scegliere tutt'a un tratto di andare all'estero, restandoci anni senza scrivere neanche una volta, interrompendo ogni rapporto; e ora che la tua vita è andata a rotoli, cominci a telefonare o ti presenti a raccontare le tue disgrazie. Non si fa così, Charles. Betty e io abbiamo già abbastanza problemi per conto nostro. Ho capito che hai bisogno di soldi, anche se non lo hai detto esplicitamente, ma te lo si leggeva negli occhi l'ultima volta che sei venuto qui e lo si poteva sentire nella tua voce, non sono tuo fratello per niente. Mi spiace, ma è del tutto inutile. Anche se ti dessi del denaro lo scialacqueresti in bevute o con qualcuna di
quelle donnacce che ti fanno perdere la testa. No. Devi capire che nella vita ci sono delle regole e che nessuna folle sete di conoscenza e di esperienze potrà mai ripagarti dell'averle abbandonate. O si seguono queste regole oppure no. E tu non le hai seguite. Mi dispiace essere così drastico, ma non mi lasci altra scelta. Con profondo rammarico, credimi, e naturalmente con affetto, tuo fratello G. PS Ovviamente puoi fermarti a dormire una notte, quando vuoi; sono certo che Betty sarà felicissima di preparare per te la nostra camera degli ospiti. Ma questo è tutto. Mi dispiace che tu sia giunto a questo punto e vorrei davvero poter fare qualcosa per te, ma anche i miei affari non vanno molto bene, tant'è vero che a volte neanch'io so come cavarmela. Con un fratello simile, mi venne da pensare, niente di strano che Staniland bevesse. Rileggendo la lettera mi parve di cogliere una leggera sfumatura di invidia, come se 'G.' stesse cercando di punire suo fratello per qualche esperienza che lui invece rimpiangeva di non aver potuto fare. Girai il foglio. Dall'altra parte Staniland aveva scritto soltanto la parola STRONZATE. Mentre riordinavo i suoi scritti per chiuderli in un cassetto prima di andare a mangiare, mi cadde sul pavimento un foglietto più piccolo degli altri su cui era scritto: Ora capisco tutto, Barbara. Sono stato talmente stupido: non avrei mai dovuto cominciare a smascherare le falsità delle persone. Ho scoperto troppo tardi che se spogli qualcuno fino al suo nudo essere non gli dai alcuna possibilità di sopravvivere. Menzogne e sotterfugi sono necessari; ci danno la possibilità di scamparla. Un annuncio ritagliato da una autorevole rivista di economia era attaccato al foglio con uno spillo. Del tutto privo di originalità, mostrava un uomo d'affari in grisaglia e ventiquattrore che si stagliava sull'immagine di un orologio da polso in primo piano con la scritta: "L'uomo è fabbricato con la stessa perfezione dei migliori orologi svizzeri. Un capolavoro che neanche il tempo può sconfiggere!" E sotto Staniland aveva aggiunto BALLE. Sollevato il ritaglio, la lettera continuava:
Ogni volta che ti scrivo o parlo, Barbara, mi sento come se stessi sanguinando. Le parole mi escono dalla bocca come sangue che gocciola da un pugnale, dirette soltanto a te. Quando ho finito di parlare mi sento la testa confusa e fiacca. Ti prego, ritorna da me, a stare con me. Anche se per te è una condanna, non sarà lunga. Sento che mi sto dirigendo verso un evento conclusivo, anche un ingenuo mi capirebbe. Oh Barbara sei la sola... Non c'era più niente, se non un cerchio brunastro dove forse era stato appoggiato un bicchiere di whisky. Prima di uscire telefonai all'ufficio di Bowman, ma mi dissero di non essere ancora riusciti a rintracciare Barbara Spark. Ebbi l'impressione che grandi sforzi non ne avessero fatti né avevano intenzione di farne, e compresi che avrei dovuto riuscirci da solo. 8 La sera stessa, verso le sei, andai a interrogare il fratello di Staniland. Trovarlo non era stato difficile in quanto, a differenza di Barbara Spark, compariva nell'elenco telefonico come Grampian D. Staniland. Avrei potuto prima telefonargli, ma decisi di no e ci andai direttamente. Era proprietario di un'elegante casa di epoca vittoriana, in una via di palazzetti a schiera tutti sotto la tutela delle belle arti, alle spalle di Essex Street Market. Nella tiepida sera d'aprile la strada era satura di gas di scarico e la tranquillità era rotta solo da un gruppo di giovani neri che bevevano Coca appoggiati a una cancellata e se la ridevano alle spalle dei passanti; mi seguirono con uno sguardo senza espressione fino al portoncino violetto con il batacchio laccato. Bussai e, non ricevendo risposta, bussai di nuovo e mi accesi una sigaretta. Avevo appena dato la prima tirata che, con un gran scorrere di catenacci, la porta si socchiuse, trattenuta da una catenella. Non riuscivo a vedere null'altro che una mano, che pareva femminile, sullo stipite. «È la casa del signor Grampian Staniland?» «Sì,» rispose la donna, sempre invisibile. «Io sono la signora Staniland. Lei chi è?» «Polizia.» Intravidi l'ombra del suo viso che mi scrutava dalla fessura. Mostrai la
tessera e aggiunsi: «Posso parlare con il signor Staniland, per cortesia?» «Non so. Vado a vedere.» «È inutile. Mi dispiace, ma è indispensabile.» «Oh, in tal caso...» Staccò anche la catena e, aprendo a metà la porta, disse finalmente: «Si accomodi.» Passandole davanti mi infilai in un angusto ingresso cercando di aggirare due tavoli ingombri di soprammobili. L'ingresso era tappezzato di oggetti, tre orologi a pendolo, una civetta o una bestia del genere sotto una campana di vetro e alle pareti un'infinità di spade incrociate e dipinti in cornici dorate. Per evitare di sfondare col gomito una tela rappresentante un incollerito ufficiale in colbacco, finii per urtare un'armatura arrugginita che si accartocciò su se stessa sferragliando. «Ma questa cos'è, la bottega di un antiquario?» chiesi. «È la collezione privata di mio marito,» rispose gelidamente. «Non vorrei doverci pagare le tasse di successione.» Questa non le piacque proprio. Mi passò davanti e mi precedette con cautela nel salotto. Mi guardai attorno. C'erano più divani di quanti ne avessi mai visti in un'unica stanza, ben quattro e ovviamente non c'era posto per niente altro; nonostante ciò c'erano ancora quadri, o paesaggi con la boscaglia che sembrava fatta di broccoli stracotti, o altri sempre di carattere militare e inoltre otto tavolini sovraccarichi di pesanti paralumi, statuette, vari posacenere d'argento e sottobicchieri di perline. Le finestre erano nascoste per metà da spessi tendaggi tenuti scostati da lacci di seta. Faceva troppo caldo, là dentro. Riuscii finalmente a osservare la signora Staniland. Non era affatto attraente. La sua pelle la compensava delle scarse attenzioni ricevute con rughe in abbondanza. Aveva il didietro piatto, e anche davanti era una tavola. L'abito di tweed amaranto non le aggiungeva grazia, del resto neanche lei faceva niente per metterne in luce i pregi. Il bel filo di perle che aveva al collo finiva per sottolineare la mancanza di seno. Adesso che si era ripresa dalla scossa della parola polizia si era messa a parlare con una voce aspra da aristocratica, che suonava in qualche modo artefatta. Inizialmente si era sforzata di sorridere, ma senza grandi risultati. «Di cosa si tratta?» «Preferirei parlarne direttamente con il signor Staniland, se non le spiace.» «Capisco. Vado a chiamarlo. Aspetti qui, prego.»
Si diresse cupamente verso la porta in un agitarsi dei lembi della sottana. «Un momento,» la trattenni, «posso chiederle qual è la provenienza di tutta questa roba?» Mi guardò come se fossi qualcosa che non avrebbe dovuto trovarsi sul tappeto (uno Shiraz, notai mio malgrado). «La maggior parte apparteneva alla famiglia di mio marito e lui l'ha ereditata.» «Gli ci sarà voluto un castello per tenerci tutto.» «Infatti ne avevano uno.» Questa proprio non me l'aspettavo. «Le posso assicurare che non è stata rubata,» aggiunse rabbiosamente, «se è questo che voleva insinuare.» «Non lo intendevo affatto,» risposi. «Solo che contrasta notevolmente con il tenore di vita di suo cognato, tutto qui.» «Oddio,» gemette, «è a lui che dobbiamo la sua visita? Qualcosa me lo diceva,» aggiunse poi. «Allora, cos'altro ha fatto?» «Se vuole essere così gentile da condurre qui suo marito, lo saprà subito.» «È di sopra che collaziona alcuni incunaboli.» «Gli chieda di scendere, per cortesia.» Cominciò con riluttanza ad allontanarsi. «Vada pure tranquilla, non farò sparire nulla,» dissi. Se ne andò sbattendo la porta, lasciandomi solo con sette orologi, uno dei quali aveva un contrappeso che continuava ad andare su e giù, mentre un altro, giunto alla mezz'ora, sussultava senza riuscire a rintoccare. Avrei voluto che ci concedessero un aumento di stipendio in modo da potermi comprare abiti più dignitosi; mi sarei sentito meno a disagio. Sentii al piano di sopra un battibecco tra due voci, poi dopo un po' lo scalpiccio di due persone che scendevano frettolosamente le scale. La porta si spalancò e Grampian entrò stropicciandosi le mani, anche lui con un vestito di tweed, uno di buon taglio, da almeno duecentocinquanta sterline a Savile Row. «Buonasera a lei,» tuonò cordialmente. «Mia moglie mi ha detto che lei è qui per qualcosa che riguarda mio fratello Charles. Allora cosa ha combinato questa volta?» «È morto,» dissi. Ciò mise fine alla cordialità; nella piccola stanza soffocante cadde un improvviso silenzio.
«Morto?» ripeté Grampian. «Santo cielo, e come?» «A colpi di mazzuolo da muratore. È stato percosso a morte.» «Da chi?» «È ciò che sto cercando di scoprire.» Dopo un po' Grampian riprese: «Dubito fortemente che possiamo esserle di aiuto. C'erano ben pochi contatti tra noi e Charles, capisce.» «Davvero? In ogni caso devo seguire ogni traccia.» «Naturalmente, è ovvio.» «Comunque» intervenne la signora con voce rotta «proprio non ci sono dubbi sul fatto che sia stato assassinato?» «Nessuno,» risposi. «Ne siamo del tutto sicuri.» «Forse potrebbe essere più esplicito,» disse la signora Staniland. «Ma più esplicito di come è stato...» intervenne Grampian. «Non si è trattato di un incidente,» ripresi. «Non è caduto, non è stato travolto da un'auto che passava. Inoltre non è stato ucciso nel posto dove è stato trovato, che è all'altro capo di Londra rispetto a dove abitava.» «Poteva essere andato a fare qualcosa da quelle parti.» «Assai poco probabile. Per giunta non c'era quasi traccia di sangue sotto il corpo.» Tirai fuori la foto che avevo mostrato anche al gestore dell'Agincourt. «Visto come l'hanno ridotto?» Grampian diede una rapida occhiata, soffocò un conato di vomito portandosi la mano alla bocca e disse, sbiancando: «Per piacere, la metta via.» «Com'erano precisamente i rapporti con suo fratello?» «Mah, direi,» borbottò Grampian, stropicciandosi ancora le mani, «scarsi e assai poco frequenti.» «E tanto meglio se fossero stati ancora meno frequenti,» concluse la signora Staniland. «Capisco. E per quale ragione?» «Soldi,» risposero all'unisono. «Ve ne chiedeva spesso?» «Se gliene avessimo data la possibilità, ce ne avrebbe chiesti anche più spesso,» spiegò acida lei. «Credo però» continuai, indicando all'intorno, «che quando lei ha ereditato tutta questa roba qui, anche suo fratello abbia avuto qualcosa, vero?» «Mi dispiace, ma queste sono faccende private.» «Non c'è nulla che possa restare privato davanti a me,» affermai recisa-
mente. Cadde il silenzio. «Mi chiedo, Grampian,» riprese di colpo lei, «se non sia il caso di chiamare il nostro avvocato, visto che questo incontro si sta rivelando imbarazzante.» «Al vostro posto eviterei di disturbarlo per adesso. Non vi ho mica morso.» «No, infatti,» disse Grampian, e poi rivolgendosi alla moglie: «Sinceramente non ne vedo la necessità, Betty.» «A me semplicemente non va di rispondere a domande simili senza l'assistenza di un esperto,» ribatté brusca. «Tutto qui.» «Comunque nessun avvocato al mondo potrà impedirmi di rivolgervi queste domande.» «Ovviamente no,» riprese Grampian. «Sarebbero cinquanta sterline gettate al vento, Betty, renditene conto. In ogni caso» tornò a rivolgersi a me «noi non possiamo assolutamente risultare implicati nella morte del mio povero fratello, non le pare?» «Perfettamente,» dissi, «e dunque riprendiamo il filo: quando lei ereditò altretttanto fece suo fratello.» «Anche più di me, essendo il maggiore.» «Allora c'è stato un periodo in cui era abbastanza ricco.» «Non se la passava affatto male, per niente, anche dopo aver pagato le tasse di successione. Soprattutto proprietà. Aveva anche qualche bell'oggetto.» «Lei commercia in oggetti d'antiquariato?» «Oh, non lo definirei un commercio vero e proprio. Mi interesso di oggetti e occasionalmente mi capita di comprare e vendere, investendo qualcosa in certi dipinti e manoscritti, ecco.» «Dove sono finite le proprietà di suo fratello? Non aveva un soldo quando è morto, a quanto abbiamo potuto accertare.» «Dunque, la faccenda è in realtà alquanto complicata,» rispose Grampian, schiarendosi la voce, una, due volte. «Ma alla fine sono diventate mie.» «Spero che non avrà nulla in contrario a essere più chiaro su questo punto.» Avevo improvvisamente capito perché la casa di Grampian era così zeppa di cose. «Dunque, il problema di Charles era quello di essere perennemente in
giro. Non ha mai posseduto una casa, detestava l'idea di sistemarsi. Non era capace di amministrare i suoi soldi, era sempre in bolletta, cosicché, insomma, gli proposi...» «Gli ha offerto di acquistare la sua parte.» «Esatto,» borbottò, «e che fatica raccogliere tutto quel liquido, così, quasi su due piedi, con tassi di interesse stratosferici...» «Quanto tempo fa?» «Oh non so, deve essere stato più o meno cinque anni fa, credo.» «E qual era la somma in questione?» Si stizzì e sbuffò. «Oh, è parecchio difficile ricordarselo dopo tanto tempo,» tuonò, soffiando attraverso le labbra violacee. «Ci provi,» insistetti seccamente. Inspirò a fondo prudentemente. «Dunque, diciamo nell'ordine delle trentamila sterline.» Mi resi conto all'istante che Staniland era stato spaventosamente truffato, si capiva da quello che vedevo in quella stanza. Ma sfortunatamente una truffa di questo tipo non è perseguibile penalmente, a maggior ragione tra fratelli. «Che ne è stato del denaro?» «Come faccio a saperlo?» «Quello che sappiamo» interruppe la signora Staniland «è che è finito.» «Ma non sapete in che modo.» «Proprio così.» «Ed è stato allora che ha cominciato a chiedervi soldi in prestito?» «Sì, al suo ritorno dalla Francia.» «E cioè quanto tempo fa?» «Oh, un paio d'anni. Dopo che moglie e figlia lo avevano lasciato.» «Comunque nessuno di voi due gli ha mai prestato un soldo.» «Grampian glielo aveva detto dall'inizio che non era possibile!» gridò la signora Staniland. «Anche noi abbiamo la nostra carretta da tirare,» disse Grampian, «e al giorno d'oggi non è facile far quadrare i conti, sergente.» Me lo immaginavo. «E poi vederlo piombarci addosso così!» La voce della signora Staniland si affievolì per l'indignazione. «Ma non giunse mai a trattarvi male in qualche modo? Minacciandovi, per esempio?» «Oh no,» rispose Grampian. «Si limitava a telefonare qualche volta, una
o due volte è venuto qui...» «Ubriaco ogni volta,» si intromise lei. «E le domandò un prestito?» «Insomma, accennò all'argomento.» «Mi sembra abbastanza normale da parte di un fratello che passa un brutto momento.» «Non ne passava altri, lui, di momenti,» disse la signora, con una risata equina. «Ha mai cercato di aiutarlo?» «Insomma, cercai di consigliarlo, naturalmente,» rispose Grampian. «Che genere di consigli?» «Sergente, non vedo come ciò possa rientrare nell'ambito della sua indagine,» interruppe ancora lei. «Rientra sicuramente. Stiamo trattando di un omicidio, che voglia crederlo o no.» «Non sopporto i suoi modi,» replicò lei. «Li trovo davvero detestabili.» «Signora mia, la verità non si pulisce i piedi prima di entrare in salotto.» «Se mi permettete di aiutarvi a superare questo piccolo intoppo,» intervenne Grampian, «mi pare stessimo parlando dei consigli che gli davo. Gli dicevo di non esagerare con la bottiglia, di smetterla di andar dietro a quelle arpie, questo genere di cose. Se avesse avuto qualche soldo da parte avrei anche potuto dargli qualche suggerimento sulla Borsa, ovviamente, ma così come stavano le cose...» «Se almeno non fosse stato perennemente sbronzo!» esclamò lei. «Suvvia, Betty,» sospirò Grampian, «de mortuis... come suol dirsi. Povero Charles.» Era evidente che tutti e due avevano detestato enormemente Staniland, avendone persino timore; ma, come tutti gli egoisti, non potevano permettersi di ammetterlo per non sminuire davanti a un estraneo l'immagine che volevano avere di se stessi. «A proposito di defunti,» dissi, «ovviamente ci sarà il funerale, dopo l'inchiesta.» «Oh, certo.» «E le spese.» «Sì, ecco qual era il problema,» disse Grampian imbarazzato, facendo schioccare le grosse dita rosee. «Non vedo come potremmo parteciparvi,» affermò la signora Staniland decisamente. «Non finanziariamente.»
«Sì, bisognerà vedere,» disse Grampian col tono di chi ha già deciso. «Già che ci siamo, avete trovato indicazioni del fatto che fosse ubriaco per la maggior parte del tempo e non solo quando veniva qui da noi?» «Abbastanza.» «Ecco, era proprio quello contro cui cercavo di metterlo in guardia, come le ho detto.» «Infatti. Ma, nel parlargli, sicuramente vi sarete resi conto che aveva altri problemi, non è vero?» «Altri problemi?» disse Grampian. «Cosa intende? Problemi mentali? Non vorrà davvero dirmi che era matto? È così? Questa è proprio interessante!» «No, non voglio dire che fosse matto, al contrario. Volevo solo dire che ci sono prove di come le avversità della vita abbiano avuto la meglio su di lui.» «Di questo potremmo lamentarcene tutti,» disse sarcastica la signora Staniland. «Che genere di prove, comunque?» chiese Grampian. Visto che non avevo ancora finito di leggere tutti i suoi scritti, mi limitai a rispondere: «Una grande quantità, e pare che ci sia dell'altro.» «Pare sempre che ci sia dell'altro con qualcuno come mio cognato,» commentò amaramente la signora. «Uno di voi non saprebbe dirmi cosa ha fatto finché è stato in Francia?» «Non ne ho idea,» rispose Grampian. «Immagino che si limitasse a sopravvivere, vivendo alla giornata.» Limitarsi a sopravvivere. Questa lunga, noiosa serata londinese, trascorsa a interrogare i parenti più prossimi di Staniland improvvisamente mi disgustò. Mi immaginai Staniland che, come un angelo assetato, ogni sera alle sei faceva la sua comparsa al bistrot di un paese sperduto della Francia meridionale. «Cosa che non sarebbe stata insolita per lui,» stava dicendo la signora Staniland. «Si manteneva col denaro che lei gli aveva dato in cambio di... quello che vi aveva venduto?» «Credo di sì.» «Va bene. Adesso passiamo a sua moglie.» «Vuole dire Margo?» intervenne la signora. «Margo non era altro che una sgualdrina.»
«Eppure mi pare che abbia avuto anche una figlia da suo cognato.» «Charlotte? Un piccolo demonio pernicioso. L'unica volta che sua madre l'ha portata qui mi ha rotto uno dei miei vasi di Delft.» «Oh, con i bambini è così,» dissi. Mi balenò davanti la visione della mia bambina addormentata con il viso arrossato sul cuscino immacolato. Avrebbe avuto dodici anni adesso. «È così se non li si tiene d'occhio e se ogni tanto non gli si dà ciò che meritano. Grazie a Dio, io non ne ho avuti,» ribatté lei. «A proposito, come ha fatto a capire che la moglie di suo cognato era una sgualdrina, le è bastato guardarla?» Ci fu un silenzio imbarazzato mentre i due si guardavano di sottecchi; il sole andava e veniva in lenti sprazzi isterici di luce gialla attraverso le spesse tende. Il contrappeso del pendolo più piccolo continuava disperatamente a sobbalzare su e giù, come un'esca per distogliere la mia attenzione. «Ebbene il fatto risale a molto indietro,» cominciò Grampian, schiarendosi la voce, «a prima.» «Prima di che?» «Dunque.» Il silenzio adesso era veramente pesante. Era come la quiete che precede il primo scoppio di tuono. «Andiamo,» sollecitai. «Avevo incontrato Margo in un locale notturno,» disse Grampian. «Era una puttana, nient'altro che una puttana!» sbottò lei. «Batteva nei locali notturni!» Grampian divenne di porpora, un colore adattissimo a un tessuto di tweed, ma che risultava sgradevolmente allarmante sulla sua faccia. «E lui è un disgustoso vecchio caprone,» concluse roca la signora Staniland scostandosi. «Calma, calma, Betty mia cara!» Lei non gli rispose, ma si portò un pugno alla bocca e cominciò a inveire contro di lui, mentre Grampian mi lanciava occhiate disperate, a significare che tra uomini ci si capisce. Lo ignorai. Mi appoggiai a un tavolo coperto di bric-à-brac e lasciai che tentasse di calmarla. La fece distendere su un divano, corse in cucina a prendere uno strofinaccio umido con cui cominciò a schiaffeggiarle il viso. Lei urlò ancora più forte, gli strappò l'asciugamano e lo sbatté per terra. Grampian lo raccolse e glielo stese sul viso, chinandosi su di lei questa
volta per impedirle di alzarsi. Il tavolo al quale avevo appoggiato il mio posteriore scricchiolò sonoramente. Grampian lo sentì perfettamente e senza scomporsi alzò la voce al di sopra degli strepiti dalla moglie: «Non su quel tavolo, per favore! È di valore!» Mi rimisi in piedi, fissandoli senza vederli, pensando ancora a Staniland. La signora mi sbirciava di tanto in tanto da sotto l'asciugamano bagnato. Non appena le fu chiaro che la scena mi lasciava del tutto indifferente, ritornò in sé con una rapidità sorprendente e si rimise seduta, quasi per nulla provata. «Credo di dovermi scusare per tutto questo,» disse Grampian. «Scusarti?» urlò lei. «Vecchio sozzone!» «Calma, calma, Betty!» E mi confidò sottovoce: «Mia moglie è una corda di violino.» «Calma calma un corno!» esclamò lei. «Il nostro matrimonio arrivò vicino alla fine quando scoprii che aveva avuto rapporti con quella. Molto vicino!» Grampian avrebbe potuto trovarsi a Edimburgo, tanto poca attenzione lei gli prestava. Lui tutto mortificato andò a mettersi accanto alla porta, torcendo nervosamente lo strofinaccio tra le mani rosee. «Suo cognato era a conoscenza di questo fatto?» chiesi. «Bah, che importa? Non credo. Ma le dirò di più sergente. Sa come ho fatto a scoprirlo?» Puntò rabbiosamente un dito contro il marito: «Lui ne parlava nel sonno.» «Adesso basta, Betty!» intervenne Grampian. «Stai veramente...» «Oh sì, non negare!» strillò lei. «Non ricordi che mormoravi che quando la incontravi aveva addosso solo la pelliccia e pantofole dorate e ti apriva la pelliccia in faccia? E quanto ti piaceva? Non arrivasti a spendere per lei un migliaio delle mie sterline, vecchio sporcaccione?» Si girò verso di me e aggiunse con calma: «Naturalmente da allora dormiamo in camere separate.» «Era stato suo fratello a manovrarla?» chiesi a Grampian. «No, lei l'aveva fatto di sua iniziativa,» mormorò. «Sono sicuro però che passava a lui i soldi che le davo.» Fece schioccare le nocche torcendosi le dita. «Lo amava.» «Amore?» sbraitò sua moglie. «Quella lì?» «Comunque alla fine lei lo raggiunse in Francia con la figlia,» dissi. «Ma quello che mi interessa è sapere se avete idea di dove possa trovarsi adesso.»
«No, è una donna peripatetica,» rispose torva la signora Staniland. «Va bene, allora penso che sia tutto,» annunciai. «Almeno per il momento.» «Per il momento, in che senso?» domandò lei, irrigidendosi. «Devo interrogare altre persone e non si sa mai cosa può saltare fuori una volta che cominciamo a scavare sul serio.» «Nulla che possa tornare a nostro discredito, spero?» si preoccupò di assicurarsi Grampian. «Non credo che io e mia moglie riusciremmo a sopportare se... Voglio dire, le abbiamo fatto tra queste quattro pareti confidenze che...» «Finiranno sui giornali? Questo è quanto ci basta sapere,» lo interruppe lei. «Non posso darle alcuna certezza,» risposi freddamente. «Non lo so.» «Dio mio, se succedesse sento che impazzirei,» disse la signora Staniland. «Calma Betty, calmati!» Schiacciai la sigaretta che stavo fumando in uno degli undici posacenere d'argento. «Vi lascio. Se qualcuno di voi dovesse assentarsi vi prego di comunicarlo al comando di polizia della zona.» «Sì, certamente,» disse Grampian con un certo imbarazzo. Ammutoliti, mi seguirono con gli occhi mentre uscivo dalla stanza. Avevo raggiunto la porta principale quando udii alle mie spalle la signora Staniland lasciarsi sfuggire: «Maledetto Charles, che il diavolo se lo porti!» Quella era la maniera di parlare de mortuis. «In quanto a Margo,» continuò, «spero che finisca in galera, quella sgualdrina!» «Su, calma, Betty, non pensi che dovresti prendere un paio delle tue pillole?» «Grampian, se tu non fossi completamente impotente, non avrei affatto bisogno di pillole.» Sbattei la porta per far capire che me ne ero andato. Una volta in strada inspirai a fondo per riempirmi i polmoni di aria fresca che poi espirai lentamente a labbra socchiuse. 9
Tra le cose di Staniland avevo trovato una cartolina sbiadita scritta con grafia femminile che raffigurava il panorama di una spiaggia italiana, ma era affrancata con un francobollo britannico e dal timbro postale risultava spedita da Londra SW3. Cominciava: "Fammi sapere, Charles, quando ti sentirai davvero pentito. Allora, forse, potremo parlarne." Pentito? Un uomo che era una piaga ambulante, l'incarnazione della sofferenza. La richiesta di questa donna, chiunque fosse, non era soltanto fuori luogo ma addirittura assurda: pretendere che Staniland provasse rimpianto o rimorso per qualcosa era come dire a un malato terminale di cancro che non aveva un bell'aspetto. La cartolina continuava: "Si tratterà naturalmente solo di una discussione. Non è possibile, come tu stesso converrai, pensare a una qualsiasi forma di ritorno al passato". La cartolina era firmata con uno svolazzo insicuro che mi suggerì l'immagine di una matura zitella che cercava di scrollarsi dal didietro una impertinente mano morta. Staniland aveva aggiunto questo terso commento: "Che palle! Un ritorno al passato è tanto più improbabile in quanto del tutto privo di interesse. 'L.' non ha un passato, invece ha cercato di sfruttare il mio: una vecchia bagascia piena di sé che mi abbordò in spiaggia a Rimini; aveva in testa solo i suoi soldi, proprio per questo una sera dopo cena le tirai per bene le orecchie." Dal mucchio poi tirai fuori un cartoncino che pubblicizzava l'agenzia di autonoleggio Planet Cars in questi termini: "Auto di gran classe, senza limiti di percorrenza. Rappresentanza, matrimoni, ogni genere di cerimonia. Inoltre furgoni, autocarri fino a cinque tonnellate e autosnodati. Autisti a disposizione." In fondo al cartoncino era riportato l'indirizzo di una zona degradata del West End dalle parti di Euston Road, con tre numeri di telefono, e non vidi nulla in contrario a tentare con uno. 10 «Aveva moglie.» «Si, lo sapevo.» «E una figlia.» «Esatto.» Me la stavo prendendo comoda, invitato a rilassarmi un po' dal padrone della Planet Cars, i cui uffici si trovavano al secondo piano di uno squalli-
do edificio alle spalle di Charlotte Street, schiacciati tra un ristorante pakistano, l'Allahabad, Cucina Europea e Indiana, e una drogheria dove si potevano trovare manghi in lattina, spezie esotiche e biscotti di pasticceria. L'ampia finestra presso cui eravamo seduti si sporgeva con un'angolazione piuttosto inquietante su un gabinetto pubblico, permanentemente chiuso per impedire a checche e tossicomani di spompinarsi e bucarsi là dentro. Al di là della garitta del pisciatoio si vedeva il Quadrant, un pub sul quale la Factory manteneva un'attenzione costante. Attorno a noi nella stanza sedevano alle loro scrivanie tre ragazze dalla carnagione lattea, due delle quali sembravano in adorazione del capo mentre l'altra si curava le unghie leggendo lo Standard. C'era anche un contabile irlandese, il primo che avessi mai visto, intento a stendere i rendiconti degli autisti al terminale di un elaboratore. I telefoni di colore verdastro che erano disseminati dappertutto non suonavano di frequente, e comunque non appena uno accennava a squillare, la chiamata veniva intercettata da una delle adorataci e immediatamente dirottata all'indaffaratissimo ufficio per la regolazione del movimento, al piano di sotto, dal quale, attraverso il sottile soffitto; mi giungeva la voce congestionata del coordinatore di turno che continuava a maledire le manchevolezze da incompetenti dei suoi subalterni. Fuori dalla finestra vidi arrivare scivolando sui suoi pattini a rotelle il fattorino della ditta, con la scritta Planet 209 in giallo e nero sulla schiena, e fermarsi proprio davanti all'ufficio con una perfetta evoluzione, schivando il cofano di una SS 100. Lo osservai togliersi i pattini e avviarsi su per le scale con la cartella dei documenti a tracolla che gli sbatteva sulle natiche muscolose. «Un'altra grana oggi, Dave,» lo sentii urlare a qualcuno. «Venti sterline, per la miseria!» «Ci fa piacere ospitare le forze dell'ordine,» mi stava dicendo il padrone della Planet, «sì, non abbiamo nulla da nascondere.» Era un ometto a cui il sarto, prese le misure per un vestito della sua minuscola taglia, avrebbe potuto mettere in conto tranquillamente la stoffa per uno grande il doppio. Non mostrava di preoccuparsi minimamente di cose del genere, troppo interessato alla bottiglia che stava tirando fuori dal cassetto della scrivania. «Coraggio, sergente, solo un goccio,» disse con aria complice. «Chivas Regal, ha, ha, Chivas Illlegal, come dicono i ragazzi.» «Visto che ha cominciato scendendo giù dal pianale di un camion,» ri-
sposi, «tanto vale che continui a scendere giù per la sua gola. Non c'è niente da fare contro la terza legge di Newton. Ma per me no, grazie.» «Newton,» ripeté pensosamente, «Newton. Ho lavorato come autista per quel bastardo, molto tempo fa. Una piccola ditta dalle parti di Finsbury Park, dove si prende a sinistra per Seven Sisters Road, vicino alla metropolitana, hai presente la zona?» Avevo presente. Nonostante l'avessi rifiutato, aveva ugualmente versato un po' di liquore nel mio bicchiere, e allora lo presi. «Alla salute,» disse, e bevve. Mi guardò più attentamente. «Strano, proprio non sembri il solito piedipiatti testadura, mi sembri uno che ragiona. Mi chiamo Tony Creamley, ma chiamami pure Tony. Puoi venire tranquillamente a trovarmi per un lavoro, caso mai ti sbattessero fuori dalla polizia, dovresti cavartela bene con una bagnarola, ha, ha.» «Attento,» lo avvertii, «questo genere di battute mi stanca subito.» «Ma sì, d'accordo. Non intendevo offendere nessuno, sergente.» «Già scordato.» «Meglio così,» concluse. Il telefono alle sue spalle squillò e lui rispose, respingendo con un gesto una delle adoratoci. Rimase a fissare con aria assente fuori dalla finestra un barbone con un fiammifero spento tra i denti, che cercava di pisciare sul marciapiedi senza farsi vedere. Si spazientì presto e interruppe la voce che udivo blaterare al suo orecchio dicendo: «No, lei deve rivolgersi alla Creamley Cars, mio caro, al 50 13 344. Questa invece è Planet Cars, ragazzo mio.» Ascoltò ancora a occhi chiusi per tre secondi scarsi e riprese: «Senta, la smetta di seccarmi. Se ha qualcosa da ridire su come la Creamley l'ha trattata, deve discuterne con il loro direttore, che è pagato proprio per questo. Lo so bene, è mio figlio che lo paga, ogni tanto, ha, ha. Si arrangi, io la saluto.» Sbatté giù la cornetta e si girò verso di me, commentando: «Certa gente pare fatta per lamentarsi, non è vero? La Creamley Cars» aggiunse con orgoglio «è la creatura di mio figlio Clive. Ha tre Rolls in scuderia, tre Mercedes e un paio di BMW nuove fiammanti. Ha affittato un posto veramente niente male in Cannon Street.» Sospirò. «Ragazzo sveglio, il mio Clive, intelligente come pochi, ma indolente come una puttana il lunedì mattina, non pensa ad altro che a sparire in Grecia a sbattersi una specie di Shirley Temple locale. Del resto si ritrova questo gioiello di attività che gli dà soddisfazione, più di qualsiasi ragazza, e non lo rimbecca continuamente, si è trovato la strada spianata senza nessuna fatica, lo so bene, gliela ho messa su io. Lui si è preso la City, noi qui alla Planet ci
siamo tenuti il West End. Pensa che ha perfino cercato di farmi concorrenza, una volta. "Almeno," gli dissi solennemente, "lascia a tuo padre la zona dove ha avviato la Planet." No, lui crede di essere un duro.» Scosse la testa. Tremolava come un'ostrica sulla punta della forchetta di un ubriaco. «Intendiamoci, Clive sa bene quel che gli conviene, dove sta il suo interesse. Non è vero, Eileen?» concluse, rivolgendosi a una delle adoratrici. «Oh, certo, signor Creamley,» rispose quella, sfavillando adorazione da tutti i pori. «Ecco come lavoriamo qui alla Planet,» osservò Creamley con soddisfazione. «Un'unica grande famiglia, mi spiego?» «Si vede!» «Io, è un pezzo che non gioco più in modo pesante,» continuò, succhiandosi le labbra. «Non ne ho bisogno, mi spiego? Non al giorno d'oggi. Aspetto finché non vanno in fallimento. Non distruggerli, comprali, ecco il mio motto. Ed ecco perché non sono rimaste altre ditte oltre la Planet, da queste parti. Invece ricordo...» «Ricordati invece che stai parlando con un poliziotto.» «Cristo, è vero!» esclamò, battendosi la mano sulla fronte. «Ma è strano, in un certo senso non mi sembra di avere davanti un poliziotto; devi essere eccezionale oppure un fallimento. Comunque, il ragazzo per cui sei venuto l'ho riconosciuto dalla foto, era Planet 24.» Sorseggiò il suo scotch e guardò di nuovo la foto, con l'espressione di chi stia rievocando una fisionomia. «Riesco appena a riconoscerlo però,» proseguì, «Gesù se lo hanno massacrato.» Sospirò e annuì col capo più volte pensosamente. «Il mio tempo lo pagano i contribuenti,» feci notare, «perciò devo affrettarmi sempre. Non so il tuo chi lo paga.» «Ci pensano i clienti. Ho tutto il tempo che voglio, me lo sono guadagnato ancora prima di alzarmi.» «Tanto meglio per te, Tony. Possiamo ritornare a Due Quattro?» «Oh, certo,» rispose, accarezzando la lampada con il dito. «Non era granché come autista, Due Quattro, mai puntuale al lavoro né con il pagamento della sua quota. Non sapeva presentarsi per bene ai clienti e non capiva nulla del motore. E sono arrivato perfino a chiederglielo in ginocchio, ma ai matrimoni non ha mai voluto mettersi in sparato e cappello duro. Glielo ripetevo sempre, Due Quattro, sai come funziona, devi dire le lecco il culo, signore, portare la mano alla visiera, qualche salamelecco, buongiorno signora, le porto le valige, e poi porgere la mano per raccogliere la
mancia. Niente da fare, Due Quattro non era disposto a fare niente di tutto ciò, e diverse volte abbiamo ricevuto giuste lamentele nei suoi riguardi. All'inizio, mi ricordo, aveva preso una grossa vecchia carretta, una Renault 16, con cui faceva qualche corsa all'aeroporto. Si precipitava a Heathrow a centosessanta all'ora e il cliente arrivava mezzo morto di paura, comunque sempre in tempo per il volo, casomai con un anticipo esagerato per i suoi gusti. Li lasciava sempre senza fiato, Due Quattro. Ma non era disposto a ingraziarseli con quattro chiacchiere in cambio di una buona mancia. Si sa che di solito si tratta solo di stronzi, uomini d'affari e tipi del genere, ma vogliono sentirsi trattare da persone davvero importanti mentre vanno a prendere l'aereo; in fondo all'autista non costa un cazzo assecondarli un poco, anzi, al contrario, l'autista intasca e il cliente pensa, questa Planet però, che ditta di classe. E invece no, Due Quattro parlava solo ai clienti che non ne avevano voglia, e allora venivano fuori sempre le stesse storie sulla Francia. Sì, abbiamo perso degli ottimi clienti per colpa di Due Quattro, telefonavano direttamente a me per lamentarsi.» «Era un po' eccentrico.» «Non so bene cosa significa questa parola,» ammise francamente Creamley, «in ogni modo alla fine abbiamo dovuto licenziarlo. Era anche un pomeriggio pieno, doveva essere venerdì. Questa donna piomba come una furia nell'ufficio dei telefonisti in cerca di Due Quattro. "Dov'è?", chiede a Smitty, e quasi lo minaccia, Smitty è ancora un ragazzo, Brownie e la mia capo-coordinatrice, un mostro di donna con una voce da modella di Harper's Bazaar, avevano staccato per andare a farsi un goccio. "Dov'è chi?", risponde Smitty. "Il vostro Due Quattro, che sarebbe anche mio marito." Era in uno stato spaventoso, piangeva e la faccia era un disastro. Peccato, non doveva essere niente male, all'apparenza mi sarei fidato di lasciarla prendere a credito Uno Otto con la 220D, anche se non Tre Tre con la Rolls. "Se n'è andato con una puttana," sbraitava questa donna, "è una settimana che non si fa vedere da me e da sua figlia, mi ha lasciato senza soldi e non so più cosa fare." "Senta," risponde Smitty, "sto lavorando, ci sono quattro telefoni che squillano tutti assieme se per caso non li avesse sentiti, e tutti gli altri se la sono squagliata." Stava eseguendo gli ordini della ditta, capisci? Molti nostri conducenti usano nomi falsi, tanto qui alla Planet paghiamo tutto in contanti e l'ultima cosa che un autista desidera è di farsi il culo a beneficio del fisco. E poi, la gente più assurda viene qui a cercarli, ex fidanzate, creditori, ufficiali giudiziari e simili, e qualcuno non racconta neanche storie incredibili. Insomma, tornando al dunque, Smitty
mi fa chiamare: avevo comunque ascoltato tutto con l'interfono. Non avevo proprio voglia di avere a che fare con questa furia, avevo giocato tutta la notte a poker a Whipps Cross, mi sentivo due mattoni che mi schiacciavano la testa e la bocca come un formicaio. Allora mando a chiamare due autisti dei furgoni (qui alla Planet abbiamo un discreto servizio di furgoni), Uno Sette Uno e Uno Otto Cinque, che vengono da Mile End e sono piuttosto robusti, per togliermela di torno. Ma intanto era andata avanti a urlare che era sua moglie, e come poteva ritrovarlo, e che lui doveva far qualcosa per mantenere la figlia e così via.» «Lo avete più visto in seguito?» «Due Quattro? Neanche per sbaglio. Uno degli autisti, Quattro Nove probabilmente, marcò il suo cartellino e quella fu la fine della storia. Una storia che sentiamo spesso qui alla Planet. Non hai idea di quanti conducenti abbiano i loro piccoli problemi. E forse,» sospirò, «non ne abbiamo tutti?» «Va bene. Questo è tutto?» «Sì, questo è tutto,» ruttò con una certa difficoltà, massaggiandosi lo stomaco prominente. «Dovrei evitare di riempirmi di uova, sergente, ma sono la mia passione e non riesco a farne a meno.» «Dovresti cercare di fare più movimento.» «Per carità, camminare non mi va per niente. Che senso ha se si può andare in macchina? La carne non mi è mai andata troppo, da quando ho finito il militare. E da quando sono stato sotto i ferri per le emorroidi, l'anno scorso, anche la passeggiata più breve mi dà fastidio dove sai.» «Tutti abbiamo qualcosa che ci dà fastidio,» dissi. «Io ho questo caso.» «Eh già. Anch'io sono davvero dispiaciuto per Due Quattro. In fondo non era tanto male. Lo facevo venire a casa mia a Epping per insegnare a mia figlia più piccola a parlare bene. Lei non lo sopportava. Le ultime volte lo chiamavo, gli offrivo uno scotch, gli passavo dieci sterline e gli dicevo di andarsene. "Non avrai mai una casa così, Due Quattro," gli dicevo, "con la piscina e tutto il giardino attorno." E qui ai miei ragazzi piaceva, anche se aveva la tendenza a parlare a vanvera.» «La donna che venne a cercarlo,» domandai, «non ti ricordi come si chiamava?» «Meno male che me lo hai chiesto,» rispose, «perché mi pare proprio che mi abbia lasciato un recapito. Delia, tesoro,» chiamò una delle adoratrici, «portami l'indirizzo di quella donna dal fascicolo di Due Quattro.» Dopo un po' Delia arrivò con un foglietto di carta e si bloccò in mezzo a
noi incerta se darlo a me o al capo. «Coraggio, cara,» disse Creamley ammiccando impazientemente, «dallo al signore, non ti mangia mica.» Guardò il biglietto assieme a me. «Visto, c'è davvero l'indirizzo,» esclamò. «Pensa!» Mi alzai. «Molte grazie,» dissi. «Quando vuoi. È sempre un piacere incontrare i tutori dell'ordine. Un altro goccio di Illegal?» «Oggi no,» risposi. «Preferirei prendere un tassì, e subito. Puoi fidarti, il contribuente paga sempre in contanti.» «Come se non lo sapessi,» concluse Creamley con un'espressione sofferente. Lo lasciai a massaggiarsi lo stomaco con una mano lucida. Mi precipitai a verificare l'indirizzo che mi aveva dato, ma ovviamente la donna aveva traslocato. 11 «È veramente una spiacevole seccatura che sia morto proprio adesso,» stava dicendo il direttore della banca di Staniland. «Aveva contratto un prestito di millecento sterline, mi spiego, senza contare gli interessi passivi maturati.» «Un prestito senza garanzie?» «No, non esattamente, ci sono delle azioni ordinarie. Ma in questo momento le azioni hanno pessimi rendimenti, come lei probabilmente saprà.» «No, non possiedo titoli, perciò non ne so niente.» «La banca corre il rischio di rimetterci diverse centinaia di sterline in questo affare.» «Ma stiamo parlando di un omicidio.» «Me ne rendo conto, ma è ugualmente alquanto imbarazzante.» Era minuto e roseo, e a prima vista sembrava troppo giovane per essere un direttore di banca. Aveva un'espressione preoccupata e un sorriso che voleva essere simpatico e che faceva apparire con la destrezza di un prestidigitatore. «È stata la direzione centrale a sbloccare il prestito, nonostante il mio parere contrario.» «Dovuto a cosa?» «Non era un individuo molto equilibrato, il signor Staniland.»
«Le ha spiegato a cosa gli sarebbero serviti i soldi?» «No. O meglio, ha imbastito una spiegazione approssimativa, a cui però io non ho creduto, né penso che lui stesso ci sperasse.» «Ha prelevato l'intero importo tutto in una volta?» «No, in un primo momento aveva ritirato cinquecento sterline, poi altre cinquecento tre mesi dopo. Gli feci presente quanto sarebbe stato più difficoltoso il rimborso con la crescita attuale dei tassi, ma mi rispose che stava per ricominciare a guadagnare cosicché la cosa non lo preoccupava.» Tossicchiò. «Ma preoccupava me.» Aprì il fascicolo di Staniland e io sbirciai sopra la sua spalla. «La maggior parte degli assegni sono stati incassati sempre da lui personalmente, come vede. Una settimana fa con quest'ultimo prelievo di trecento sterline è arrivato al limite del prestito concessogli. Lo lasciammo passare nonostante in realtà fosse ormai oltre lo scoperto consentitogli, però allora gli scrissi...» «Sì, ho visto la lettera,» dissi, «era tra le sue carte.» Tirai fuori il mio blocco di appunti. «Vorrei segnarmi gli estremi di questi assegni. Penso che lei sia in grado di dirmi anche presso quali banche sono stati incassati, conoscendo i codici.» «Non siamo affatto tenuti a farlo, dovrebbe saperlo.» «Sì, lo so che non siete obbligati. Ma quest'uomo è stato assassinato, signor Bateson, e io intendo assicurare alla giustizia i colpevoli. Capisco che lei non voglia avere grane con i suoi superiori, ma capirà che la rapidità è cruciale in questi casi.» «Oh, sì,» disse il direttore. «Allora va bene.» 12 La stanza era una delle più schifose che avessi mai visto. Avrei dovuto passarci ben prima, e l'avrei fatto se non ci avessero pensato gli uomini di Bowman. Romilly Place era alla fine di Old Kent Road verso Lewisham, vicino alla torre dell'orologio. Gli edifici erano per lo più palazzi a tre piani di luridi appartamenti. Si trovava in un quartiere estremamente pericoloso, specialmente per un tipo come Staniland, in quella che viene chiamata zona mista, un terzo di skinhead disoccupati, due terzi di negri disoccupati. Era un cul-de-sac chiuso da una ventina di case, per lo più con i vetri rotti e i portoni sfondati. Nel tepore del pomeriggio primaverile l'aria risuonava delle grida di bambini e ragazzi che si rincorrevano attorno alle carcasse
d'auto che ingombravano il selciato. Qualche idiota del comune aveva avuto la brillante idea di piazzare all'angolo una cabina telefonica, che ormai non aveva più telefono, né vetri, né porte, solo gli ultimi fogli strappati dall'elenco telefonico svolazzavano ancora intorno desolatamente. Parcheggiai accanto a una casa devastata dal fuoco, con la facciata puntellata da travi e lamiera ondulata a chiudere quelle che una volta erano le finestre; il camino pendeva in maniera assurda sullo scheletro di mattoni anneriti. Un ragazzo mi notò e si avvicinò. Poteva avere sì e no diciassette anni, ma aveva la faccia raggrinzita e verdognola di un internato in campo di concentramento, con i capelli a spazzola così corti che un pidocchio non avrebbe saputo dove nascondersi. «Sei balordi sono finiti in cenere là dentro,» mi informò. «Comunque erano tutti negri.» «Sto cercando il numero sette,» dissi. «La casa è quella dietro di te,» rispose, «ma se la sono filata tutti quanti. Pare che uno dei vecchi che ci abitava lo abbiano fatto fuori dalle parti di Acton.» Avrei potuto chiedergli come faceva a saperlo, ma si sarebbe dileguato. Avrebbe fiutato il poliziotto e quello non era un quartiere dove la polizia potesse sperare in molta collaborazione. Mi limitai così a dire: «Ah, sì? Be', io stavo solo dando un'occhiata.» «Perché?» «Cerco una stanza.» «Proprio là? Devi essere completamente matto. Appena l'altro giorno brulicava di piedipiatti. Sei in macchina? È tua quella Ford? La Escort?» «Sì, è mia.» «Sono bidoni, le Escort. Almeno ce l'hai lo stereo e qualche cassetta decente? Portaci a fare un giro, a me e ai miei amici.» «E cosa ci ricaverei?» «Io saprei come farti entrare facilmente nel numero sette, se vuoi occuparlo.» «Sì, è proprio quello che volevo,» dissi. «Carino ed economico, come lo volevamo, per quattro persone.» Mentre parlavamo si erano avvicinati diversi altri ragazzi. Lo skinhead scelse tra loro gli altri partecipanti al giro. Li scarrozzai più volte avanti e indietro fino all'orologio di Lewisham. «Dove l'hai presa questa carretta?» chiese con invidia lo skinhead una volta smontato dalla macchina, girandole attorno. «Non è male. L'hai fre-
gata?» «E a te che cazzo interessa?» «D'accordo, d'accordo, paparino. Non c'è bisogno di scaldarsi tanto.» Uno dei ragazzi che ancora girava lì attorno, anche se non era stato prescelto per il giro in macchina, intervenne: «Potrei farti entrare io in quella casa, se vuoi.» Aveva i lineamenti asiatici, e nonostante ciò l'accento inconfondibile dei sobborghi meridionali di Londra. «Vuoi bucarti, paparino?» mormorò. «Vuoi erba? Un tiro di coca?» «Un buco, perché no?» risposi. «Ma non adesso. Più tardi, forse, quando fa buio.» «Perché quando fa buio?» domandò l'orientale. «Preferisco farlo quando è buio,» risposi. «Forse che è proibito dalla legge?» Scoppiarono a ridere, poi lo skinhead chiese: «Da dove vieni, paparino? Non sei di queste parti.» «Io non faccio domande del genere. Anzi non faccio mai domande di nessun tipo.» «Meglio,» commentò qualcuno, «è una brutta abitudine.» «Secondo me è venuto per qualche lavoro,» intervenne il ragazzo orientale, «non è così, paparino?» «Anche se fosse, non verrei certo a dirlo a te.» «Guarda qua,» fece lui tutt'a un tratto. In un battito di ciglia si ritrovò con un coltello in mano; in un altro battito lo lanciò piantandolo nel legno di un trave che puntellava la casa incendiata. Io detesto i coltelli, li ho sempre detestati, assai più delle pistole. Il ragazzo mi guardò per vedere se aveva suscitato qualche reazione, ma io annunciai: «Me ne vado al pub.» «Quale pub?» chiese lo skinhead. «Continui a fare domande,» risposi. «Proprio non riesci a farne a meno?» «Va bene, paparino,» mi stuzzicava. «Non scaldarti.» Cominciavo a essere stufo di sentirmi chiamare paparino. «E smettila di chiamarmi paparino,» dissi. «Non sono così vecchio da poter essere tuo padre.» «A me sembri vecchio,» replicò lo skinhead. «A te sembrerebbe vecchio chiunque.» «Di', vuoi provocarmi?» chiese incredulo lo skinhead. «Tu a me? Devi essere fuori di testa, paparino.»
«Lascia perdere, Scar,» s'intromise l'orientale, che non voleva perdere il cliente. «Allora, quale pub?» chiese un altro. «L'Agincourt.» «Allora sei proprio fuori di testa,» disse quello chiamato Scar. «Solo un vecchio deficiente può pensare di entrare lì, specie di sera.» «Io ci sto andando.» «Hai un appuntamento con qualcuno?» «Indovinato,» risposi, «Malcolm Muggeridge, è un vecchio amico.» Mi girai verso la macchina. «Adesso basta, paparino,» disse lo skinhead. «È inutile che tu salga in macchina, dacci le chiavi e senza fare storie, che non voglio essere costretto a farti male. La tua carretta non è da buttare.» «Se vuoi le chiavi, devi venire a prendertele.» «Andiamo, Scar, smettila,» disse l'orientale. «Perché non chiudi quella fogna,» lo zittì lo skinhead e, rivolgendosi a me: «Allora, le molli, paparino, o devo venire a prenderle?» «Temo proprio che ti toccherà venire a prendetele, piccolo imbecille.» Nel frattempo diverse teste si erano affacciate alle finestre e sulla strada non si sentiva più fiatare. Si stava aprendo un'ultima finestra quando Scar con una luce sinistra negli occhi partì all'attacco, con una mano protesa in avanti e roteando con l'altra una catena di bicicletta. Parai con il braccio sinistro la catena, che trapassò la giacca a vento e mi lasciò il segno sulla pelle. Gli pestai violentemente un piede. Adesso non vai più da nessuna parte, pensai, colpendolo con una testata sul naso. Afferrai la catena non appena la lasciò cadere, sentendo che aveva affilato i giunti e la lanciai sul tetto. Gli pestai anche l'altro piede e lo colpii a mani unite sotto il mento mandandolo a sfondare un portone. Dopo un po' riemerse tastandosi dappertutto e stringendo i denti per non lamentarsi del dolore ai piedi. «Qualcun altro si offre?» dissi. Nessuno fiatò. «Non sopporto questo genere di cose,» continuai, dirigendomi verso l'automobile, «specialmente quando ho troppi pensieri per la testa. Mi fa girare le palle.» «È una testa di cazzo, Scar,» disse l'orientale. «Dovresti fregartene di lui.» «Infatti, è quello che sto facendo.» Lo skinhead adesso si sforzava di non urlare mentre cercava di sfilarsi gli scarponi dai piedi gonfi.
«Non sembrava che il paparino ci sapesse fare così,» commentò qualcuno. «Non sembra mai, prima,» gli fece eco il ragazzo orientale. Poi si rivolse a me: «Se ne hai voglia, potrei procurarti una ragazza, se la pelle scura non ti crea problemi.» «Un'altra volta,» risposi, entrando in macchina. «Ma lasciati dire che hai davvero la stoffa dell'uomo d'affari, ne sono convinto.» «Be', devo procurarmi i soldi in qualche modo,» disse, con la testa al finestrino. «E per l'altra offerta? Il fumo? Il buco?» «Potremmo trovarci fuori dall'Agincourt verso l'ora di chiusura, se ti va. Cominciai ad allontanarmi a marcia indietro.» «Non resterai molto all'Agincourt, bastardo,» mi urlò dietro lo skinhead. «Troverò qualcuno per farti fuori là dentro.» «Ma stai zitto, coglione,» disse qualcuno. Era riuscito a togliersi uno scarpone, e si sentiva fetore di piedi. 13 Un nastro di Staniland: Barbara è rabbiosa come una vespa da quando è nata e lo rimarrà fino alla morte: la sua promiscuità è un'aggressione, si serve dei rapporti sessuali per annullare l'uomo, questa è la sua rivincita sull'esistenza. Mi spinge a fare il primo passo e poi mi annienta rifiutando l'amplesso, e mi rende schiavo. Ogni volta che riesco a fare l'amore con lei poi mi lascia, ben sapendo che quella è la peggiore punizione che possa infliggermi. A volte varia il trattamento. L'ultima volta che siamo andati all'Agincourt, per esempio, si è lasciata catturare dal suo Cavaliere Sorridente e se l'è portato a Romilly Place. Tutti mi guardavano sbellicandosi dalle risate mentre uscivano insieme. Lei disse che potevo andare con loro e stare a guardare, se volevo; l'idea mi disgustò a tal punto che dovetti uscire per vomitare. Per tutta la notte girovagai per Londra, sotto la luce dei lampioni che brillava nel gelo improvviso portato dal vento. Il suo comportamento mi aveva fatto di colpo ritornare sobrio, e tuttavia tempestai di pugni un muro fino a sanguinare. Due poliziotti di pattuglia mi immobilizzarono contro lo steccato che cingeva un lotto di terreno verso Rotherhi-
the, ma visto che avevo addosso abbastanza soldi e che potevo dimostrare di non essere un vagabondo, mi lasciarono andare dopo essere stati per un pezzo ad ascoltare senza dire assolutamente nulla, i volti del tutto inespressivi sotto gli elmetti, un discorso di cui non ricordo neanche una parola. Mi rendo conto che a letto non riesco a soddisfare Barbara. Credo che non ci possa riuscire nessuno. È una strana forma d'amore, costringersi a trasformare la donna che si ama in un essere umano. Lei afferma di odiare il mio amore, dice che è un sentimento servile, che la invoglia solo a prenderlo a calci e farlo a pezzi. Circa una settimana dopo l'episodio che ho appena riferito, ce ne stavamo un pomeriggio nella nostra stanza, con le tende tirate, e io le accarezzavo il corpo. Lei si scostò, infastidita, e osservò: "In tutta la mia vita non ho mai avuto un orgasmo, neanche masturbandomi. Non so proprio perché darmi pena per scopare." Ma io lo so. Lo fa per odio. Quel pomeriggio, più tardi, riuscii a penetrarla attraverso le mutandine. All'inizio, come al solito, cercò di spingermi via, poi di colpo scrollò le spalle e mi lasciò fare. "Dovrai comprarmene un paio di nuove," fu tutto ciò che disse quando ebbi finito. "Perché dopo devi sempre fare in modo che io mi senta peggio di prima?" le chiesi. Si distese sul nostro materasso e accese una sigaretta. "Ascoltami, Charlie," mi disse, "sto parlando sul serio. Perché non ti trovi un'altra?" "Io non voglio che te," risposi. "Cristo," replicò, "tu fai venire fuori veramente quello che ho di peggio. Fai in modo che io provi proprio piacere a odiarti." Mi rotolai sul materasso lontano da lei e piansi. Con la massima indifferenza lei si alzò, andò al fornello a prepararsi una tazza di tè, fischiettando Vincent. Trascorsi il resto del pomeriggio in uno stato di sofferenza e di rabbia. "Immagino che finirai per chiedermi soldi," le dissi. "Non servi a granché, altrimenti," rispose. Quella sera la picchiai. Era tutto il giorno che l'ira mi bolliva dentro, ma si scatenò quando disse:
"Mi sono stufata. Adesso mi alzo ed esco." "Esci? E dove vai?" "Vado fuori." "All'Agincourt?" "Non lo so. Semplicemente non voglio più avere la tua faccia davanti, sei capace di far piangere anche una scimmia. Dammi un po' di soldi, invece, una decina di sterline mi basteranno." "Sono senza soldi. Non sono riuscito a cambiare un assegno." "Vuol dire che me li guadagnerò io." "Vorrei che non dicessi cose simili e che non parlassi neanche di andare con altri uomini. Sai cosa ti dico, vengo con te." "Ho detto di no." Tutt'a un tratto la afferrai per i capelli. Non so neanche come mi ritrovai in mano una delle sue scarpe e la colpii alla testa. Non avevo mai fatto nulla di simile a nessuno in vita mia, prima. Non si mise a gridare, niente affatto: si ridistese sul materasso, voltata dalla parte opposta a me, con il sangue che le imbrattava il volto. "Ecco, ecco," continuava a ripetere, "ecco." Mi resi conto che erano andati perduti anche i pochi passi avanti che avevo compiuto con lei. "Adesso non andrai da nessuna parte! " urlai. "Ti sbagli," replicò. Si portò l'angolo insanguinato del lenzuolo alla testa, si alzò e trascinandoselo dietro se ne andò al lavandino, cominciando a ripulirsi. Era nuda, e quando si chinò sul lavandino, il suo sesso mi si spalancò davanti. Anche le tette mi sembravano enormi, come ogni volta che la vedevo senza reggiseno. "Ti voglio di nuovo," gemetti mio malgrado. "Vedi che non sono impotente." "Tu sei peggio che impotente, Charlie," mi disse guardandomi nello specchio al di sopra del lavello, "sei insopportabile. Ne ho avuto abbastanza di te. A chi interessano quelle stronzate da intellettuale cui stai dietro?" "Mi dispiace averti picchiato, davvero." "Non preoccuparti, sei tu che ci hai rimesso," ribatté, cominciando a vestirsi. "Sei sempre pronto a scusarti. Non dovresti. Mai scusarsi. Mai dare spiegazioni." "Dove stai andando?"
"In qualche discoteca. Magari una discoteca Afro. Ho voglia di africani, non hanno tante complicazioni." "Quei locali sono spesso violenti." "Lo so come sono. Ci ho lavorato da quando avevo quindici anni. Del resto, violenza e piacere, non si può avere l'uno senza l'altra. Dovresti saperlo." E poi aggiunse: "Puoi rimanere qui anche tutta la notte, se ti va, tanto io non porterò nessuno in questo letamaio. Non tornerò prima di domani, non so a che ora, o forse dopodomani, o il giorno dopo ancora." "Ecco, tieni le dieci sterline," dissi. "In culo le dieci sterline," rifiutò, e uscì, sbattendo la porta. Era una porta che in ogni caso bisognava sbattere perché restasse chiusa, ma a me suonò come un distacco definitivo. Mi faceva sempre questo effetto quando la sbatteva. Anche i suoi tacchi alti sulle scale suonavano irrevocabili. 14 Erano le nove quando arrivai all'Agincourt, e il locale era pieno. C'era anche il tipo con la faccia da serpente che chiacchierava con un individuo con gli occhiali dall'aspetto tranquillo, ma non vidi nessuno che potesse corrispondere al Cavaliere Sorridente. Non c'era neanche il gestore. Il barista, quando glielo chiesi, mi disse che aveva dovuto essere ricoverato in ospedale perché la ferita alla faccia aveva fatto infezione. Ordinai una pinta di chiara, che di nuovo mi arrivò tiepida, e mi appoggiai con la schiena al bancone. In un angolo poco distante era seduto un simpatico quartetto di membri del Fronte Nazionale, due dei quali erano mods e un altro rocker (solitamente acerrimi nemici); quest'ultimo aveva un giubbotto di cuoio trapunto di chiodi e al collo una catena d'argento da cui pendeva una croce di Malta. Per finire, un diavolo gli spuntava allegramente dal colletto, andando a sfiorargli l'orecchio sinistro: mi immaginavo le pazienti sedute di tatuaggio in cella a Wandsworth. Il quarto individuo, sulla trentina, portava un maglioncino elegante, i capelli biondi abbastanza lunghi pettinati accuratamente all'indietro e gli occhialetti con le lenti senza montatura da intellettuale, proprio come usavano i ragazzi di buona famiglia negli anni sessanta. Beveva una limonata ed era evidentemente lui a presiedere l'incontro. «Himmler, Heydrich e Goering sono stati i responsabili degli stermini,»
stava dicendo l'intellettuale, «non il Führer, che era impegnato a condurre la guerra. Il Führer era all'oscuro di tutto.» «Però hai appena detto che era Dio,» obiettò uno dei mods. «Se era come Dio, Dio sa sempre quello che succede, ne sono sicuro, a scuola ci hanno fatto un po' di Dio.» «Qualche domanda?» disse l'intellettuale, ignorandolo completamente. «Ma allora,» intervenne l'altro mod, «cosa rimarrà in pratica quando la rivoluzione Nazionalsocialista sarà finita?» «Esclusivamente il popolo britannico,» rispose l'intellettuale. «Puri britanni di razza bianca.» «Sì, e allora» si entusiasmò il rocker «perché, invece di parlare, non cominciamo a darci da fare? Sono stufo di stare qui. Perché non ce ne andiamo a vedere se peschiamo un negro nella loro discoteca qui di fronte.» Gli misi una mano sulla spalla proprio mentre si stava alzando. «Solo un istante, giovanotto,» dissi. «Mi unisco a voi per qualche minuto, non è gentile da parte mia?» L'intellettuale cominciò: «Nessuno...» «Nel 1944» lo interruppi «un soldato tedesco scattò una foto di una bambina di cinque anni, con la madre e le sorelle. Una scampagnata familiare, potreste dire, con anche un paesaggio ameno per sfondo: la strada per il campo di sterminio di Treblinka. Quel caro, amabile Hitler aveva pagato loro il biglietto del viaggio, chiusi al buio in un carro bestiame, sguazzando nella loro merda e in quella degli altri, amico mio. Non era una meravigliosa vacanza per loro? Ma il meglio, miei cari, fu che al termine della giornata gli dissero che li avrebbero portati a fare una doccia, ma questa era una frottola, sapete, perchè invece li portarono nelle camere a gas, compresa la piccola di cinque anni.» Ci fu un breve silenzio, poi il più polemico dei due mods si sforzò di sbadigliare con finta spontaneità e disse: «Tanto non abbiamo figli.» E l'intellettuale mi derise: «Dovresti fare l'oratore, simpaticone.» «Purtroppo no, faccio il poliziotto, e continuando a parlare di morte, ce n'è una veramente disgustosa su cui sto indagando.» Tirai fuori la foto di Staniland all'obitorio e la lasciai cadere sulla tavola, ma prima che qualcuno aprisse bocca una voce alle mie spalle chiese: «Posso dare solo un'occhiata?» Mi girai sulla sedia e mi trovai di fronte un uomo sulla quarantina, alto e
massiccio, con i capelli, e i peli sulle braccia, rossi. «Sono Harvey Fenton. Ho capito bene, lei è un poliziotto?» Gli porsi il tesserino. «Davvero è triste che quattro ragazzi non possano ritrovarsi in una bettola a chiacchierare tranquillamente senza che voialtri vi intromettiate.» «Oh, non direi. Invece gli è andata bene che li abbia interrotti prima che dicessero qualcosa di più, avrei anche potuto arrestarli per attività sovversiva.» «Sta diventando come in Sudafrica anche da queste parti.» «Sempre meglio della Germania nazista,» replicai, e poi, rivolgendomi agli altri: «Voi potete togliervi dai piedi e cercarvi un altro tavolo. Meglio ancora, un altro pub. Siediti, voglio parlare con te,» continuai con Fenton. Gli avvicinai la foto. «Prova a dare un'occhiata e non venirmi a dire che non lo conosci, perché so già che non è vero.» «Lo conosco di vista,» disse dopo aver esaminato l'orribile immagine. «Veniva qui spesso. Un rompicoglioni. Si chiamava Stan o qualcosa del genere. Che gli è successo? Sembra che gli sia passato sopra un camion.» «No, è stato finito a colpi di mazzuolo, dopo essere stato massacrato a calci e a coltellate.» «Sul serio? Doveva stare parecchio sui coglioni a qualcuno,» disse Fenton, rovistandosi distrattamente nel naso. «Comunque, cosa le fa credere che io possa esserle d'aiuto?» «Diciamo che tu corrispondi a una descrizione.» Mi guardò negli occhi. «Non cominciamo subito con le accuse,» disse, abbassando lo sguardo sul polpastrello per esaminare ciò che aveva estratto dal naso. «In questa fase mi limito a fare solo qualche domanda. Però abbiamo la certezza che si tratta di assassinio. Chi si augurava che lo prendessimo per un investimento doveva essere o un'imbecille o un maledetto sbruffone.» «In confronto a lei Starsky e Hutch sono due dilettanti,» ridacchiò Fenton. «Un'altra spiritosaggine del genere e ti sarai fatto un nemico di cui non hai proprio bisogno. Sei nell'edilizia, mi pare?» «Come fa a saperlo?» «Perché ho una buona memoria, e adesso che so come ti chiami, mi vengono in mente molte altre cosette su di te. Hai soci nel commercio dei rottami di ferro e nei trasporti, oltre che nei locali notturni. Mi viene da pensare che forse qualcuno non troppo lontano potrebbe aver ammazzato Sta-
niland a colpi di mazza, trasportandolo in auto fino ad Acton e scaricandolo lì dietro il primo cespuglio. Che ne pensi?» «Penso che fare domande è pericoloso, ecco cosa penso.» «Ed è quello che mi dico anch'io ogni volta che mi metto a scrivere le mie dimissioni. Però alla fine strappo sempre la lettera. Intanto, te la sei scopata la ragazza di Staniland? Si dice che ti dai parecchio da fare in quel senso.» «No,» rispose, sospirando astiosamente. «Non mi meraviglia. In realtà per me sotto sotto non sei altro che una vecchia checca.» Fenton strinse i pugni sul tavolo fino a far sbiancare le nocche. «Perdio, è davvero una benedetta fortuna che fa il poliziotto, altrimenti, dopo ciò che ha detto, poteva facilmente trovarsi conciato male.» «Questa puoi anche risparmiartela, con la fedina che ti ritrovi ti becchi come minimo sette anni solo se ti azzardi a schiacciare una mosca.» «Ci siamo già incontrati?» «Non ce n'è bisogno, con un fascicolo come il tuo: ogni poliziotto lo sa a memoria.» Rimase qualche istante perplesso, poi urlò al barista: «Ehi Joe, riempili. Offro io.» Il barista era già occupato, ma mollò tutto per affrettarsi a servire Fenton. «Bravo, ragazzo! Ottimo,» disse. Sollevò il suo bicchiere con una smorfia che voleva essere un sorriso. «Salute!» Io spinsi da parte la pinta che mi aveva fatto portare. «Sentiamo cosa avevi veramente contro Staniland,» insistetti. «Nulla, era soltanto un rompicoglioni.» «Ti limitavi a sfotterlo, allora? Sicuro che non ti sei scopato la sua donna?» «Ma chi me lo faceva fare, con tutte le donne che ho a disposizione. E poi, anche se l'avessi scopata, farebbe differenza?» «La situazione potrebbe essere degenerata. Voglio accertarmi che non sei implicato in questa faccenda. Una volta non lo hai picchiato, proprio qui fuori, dietro i cessi?» «No!» «Mi sono giunte all'orecchio alcune voci che mi fanno concludere che stai mentendo.» «Voci giunte all'orecchio non fanno concludere un cazzo, specialmente
in tribunale.» «Se non lo sai tu, con tutta l'esperienza di tribunali che hai accumulato.» «Basta, non ho più niente da dire.» «D'accordo, allora sai cosa ti dirò io? Che potresti venire con me alla Factory immediatamente a raccontare all'ispettore capo Bowman tutto quello che non ti va più di raccontare a me. Avrai tutta la sua attenzione, gli sono sempre piaciuti i tipi come te.» «A dire il vero, non sono un estimatore dello stile di Poland Street. Ci mettono troppo poco a cucirti addosso ciò che pensano dovrebbe starti a pennello.» «In tal caso è opportuno che tu faccia del tuo meglio per rispondere a qualche domanda. Ecco la prima: sai dov'è finito il gestore di questo pub? Il ciccione, quello che si è fatto sfregiare.» «Sembra che sia sparito. Ho sentito che non tornerà più.» «Infezione alla ferita?» «Questa è una versione. Ma io ho sentito che qualcuno gli aveva detto di cucirsi la bocca per non chiacchierare troppo e lui, purtroppo, non era riuscito a trovare l'ago.» «Di questa storia dovrebbero interessarsi quelli di Lewisham, direi che si tratta di lesioni aggravate.» «Adesso mi stia a sentire. Se la deve prendere proprio con me?» Sorbì una lunga sorsata del suo doppio scotch, ma si manteneva calmo. Sei proprio un bastardo pericoloso, pensavo. «Non avrà intenzione di incastrarmi per la faccia di quello stronzo?» «Non so,» risposi. «Ma se ti ritrovi con un mandato di cattura, attribuiscilo pure al fatto di non aver voluto collaborare con me in questo caso Staniland.» «Ma se gliel'ho già detto, era un rompicoglioni e basta.» «Cosicché tu non l'hai mai picchiato. Non hai scopato la sua donna. Ti divertivi alle sue spalle, ma da lontano. Non l'hai mai toccato. Si può dire che eravate quasi amici.» «Proprio così.» «Il gestore qui potrebbe crollare e affermare il contrario, se si sentisse abbastanza protetto.» «Non credo, oltre a tutto quello che si scola, adesso è anche sull'orlo di un esaurimento. Un testimone inattendibile, il pubblico ministero non riuscirebbe a cavarne nulla.» «Più vai avanti a parlare, più menti. È sorprendente. Adesso mi sono
convinto che Staniland è morto in un raggio di mezzo miglio da qui. Tuttavia è stato ritrovato ad Acton, proprio all'estremo opposto della città.» «Non conosco per niente la parte ovest di Londra,» disse Fenton, sbadigliando. «Non è un problema, c'è lo stradario.» «Attento,» urlò, «ne ho avuto abbastanza, ormai. Lei sta tentando di incastrarmi con una montatura.» «Sto tentando di scoprire chi lo ha ucciso, e comincio a credere di non essere sulla cattiva strada.» «Perché prendersela proprio con me? Tutto quello che posso dire è che un po' di clienti qui dentro, me compreso, lo ammetto, invitarono garbatamente questo tizio a frequentare qualche altro esercizio. Lui disse che gli piaceva venire qui e continuò a tornarci, e il più delle volte a sfondare i timpani a tutti, con la sua faccia di bronzo, anche se non si reggeva in piedi dalla sbronza. E questo è tutto ciò che so.» «Ti hanno mai chiamato il Cavaliere Sorridente?» chiesi. «Il che? Mai, nessuno.» «Strano, ma riesco a capire come a qualcuno potrebbe venire in mente.» Mi accesi una Palace col filtro. Hanno un gusto rivoltante, le fumo solo perché così spero di smettere più facilmente. «Va bene,» continuai, «visto che potremmo andare avanti così tutta la notte, è meglio lasciar perdere. Tornerò a cercarti quando avrò delle prove.» «Se riuscirà a trovarne. Glielo ripeto un'altra volta, con questa storia io non c'entro.» «Chissà che, se non riuscissi a trovare altri sospetti, non debba accontentarmi di incastrare te, Harvey. Del resto, non avrei bisogno di prove inconfutabili, con la fedina che ti ritrovi; lunga come le braccia che hai, sotto tutto quel pelo rosso.» Non replicò, si limitò a guardarmi. Cominciava ad apparire preoccupato, e non c'era da stupirsene. «A proposito,» ripresi, «tu e i tuoi amici vi dedicate alla tortura?» «Dio mio, no!» urlò. «Per chi ci ha preso, per delle bestie?» «Pressappoco,» risposi. «Dopo tutto, mi basta pensare a Wìlliamson, te lo ricordi, l'informatore; gli hai spezzato tutte e due le gambe con una sbarra di ferro e l'hai abbandonato sulla M20. Dieci anni ti sei beccato quella volta, se non sbaglio, solo che dopo sette ti hanno concesso, non capirò mai perché, la libertà condizionata.» «Aspetti, era una faccenda del tutto diversa,» disse ansiosamente. «Am-
metto che quella volta ero stato proprio io. Quell'infame mi aveva venduto dopo il colpo alla banca di Whitgift Street.» «Però io continuo a pensare che tu sia coinvolto nel caso Staniland.» «Sarà dura provarlo.» «Sei a corto di denaro, Harvey?» chiesi. Era una domanda imbarazzante per gente della sua risma. Se avesse detto di no, avrei cominciato a indagare su come se l'era procurato, se sì avrei tentato di scoprire cosa stava macchinando per ripianare le proprie finanze. Alla fine si decise: «E chi non è a corto?» «Qualche centinaio di sterline non ti avrebbero fatto comodo, allora?» «Staniland era a secco.» «No, tranne che proprio negli ultimi tempi.» «Come fa a saperlo?» «Voglio dirti solo questo: Staniland scriveva parecchio, lo sapevi?» «No, l'ho già detto. Non sapevo assolutamente niente di lui.» «Ha lasciato una quantità di appunti, e inoltre registrava delle cassette. Indovina chi ha in mano tutto adesso? Esatto, ce l'ho io, su alla Factory.» Impallidì. «Ci si trova il mio nome, lì in mezzo?» «C'è una descrizione che potrebbe corrispondere a te. Per i peli rossi sulle braccia, per esempio.» Li fissai incisivamente. «Con questo non andrai lontano,» osservò Fenton. «Migliaia di uomini hanno peli rossi sulle braccia. E poi, un vecchio ubriacone rincretinito che blatera a ruota libera su una cassetta in ogni caso non significa molto.» «Comunque non andartene a prendere la tintarella in Marocco senza avvisarmi.» Scribacchiai il numero della Factory e glielo porsi. «Va bene, puoi andare. Resti ancora pulito finché non riesco a provare il contrario.» Ci alzammo. «Ho apprezzato davvero questa chiacchierata.» «Purtroppo non posso dire altrettanto,» mormorò allontanandosi. Una volta in strada mi accorsi che qualcuno era in attesa accanto alla mia automobile. «Guarda un po'» dissi «se non è il mio trafficante.» «Ti va ancora il nostro affare?» chiese il ragazzo asiatico. «Certo, ritorniamo a Romilly Place.» Appena arrivammo uscì dall'auto e si arrampicò su un muro che dava sulla strada. Da lassù mi bisbigliò: «Aspetta lì.»
Uscii dall'auto ma non riuscii a percepire nulla finché il portone del numero sette si aprì cigolando. «Dai, entra,» sussurrò. Sprangò la porta alle nostre spalle. «La luce è stata tagliata.» «Non importa, ho una torcia elettrica.» La accesi e illuminai le scale luride. «Ho portato quello che volevi,» disse. «Un'altra volta, ho cambiato idea.» Gli allungai una banconota da venti. La esaminò alla luce della torcia; «Mi stai pagando così mi tolgo dai piedi?» «Dovresti essere contento.» «Vuoi sapere una cosa? Credo che tu sia un poliziotto.» Visto che non replicavo, continuò: «Adesso mi porti dentro?» «Per tua fortuna ho altri pensieri per la testa, ma devi stare attento quando spacci droga a sconosciuti, altrimenti non rimarrai a lungo sulla piazza.» «Forse riuscirei a rinchiuderti io qui dentro,» bisbigliò pensosamente. «Adesso non montarti la testa. I poliziotti si attaccano fra loro come la merda alla carta igienica, non puoi spuntarla, dovresti averlo capito da un pezzo.» «Comunque, che storia prendere soldi da un poliziotto. Normalmente è al contrario che funziona, bisogna comprarli.» «Non cominciamo a filosofare. Prendili e vai a farti fottere, sono soldi che puoi spendere come tutti gli altri.» «D'accordo, arrivederci.» Non appena se ne fu andato, diedi un'occhiata alle tre stanze al pianoterra. Apparentemente costituivano l'alloggio del padrone di casa. C'erano tutti i segni che lui e quelli che abitavano con lui se ne fossero andati in tutta fretta. Sul pavimento erano sparpagliati frammenti di carte strappate e vecchi registri d'affitto; c'era un letto zoppo con un mattone sotto una gamba, con un materasso al centro del quale si stagliava una macchia d'urina che ricordava l'ovale ingiallito di una vecchia foto; in un angolo era rovesciata una pila di fumetti dell'orrore. La stanza di fronte era in condizioni simili, la carta da parati si staccava a lembi e puzzava ancora di più perché il secchio che era stato usato per urinarci non era stato vuotato. «Ma perché ho voluto fare il poliziotto?» mugugnai. La camera sul retro era stata trasformata in stanza da bagno: quando aprii la porta un topo schizzò su per il muro, dimenando la grossa coda. Ero
sorpreso che ancora non vi si fosse installato abusivamente qualcuno; forse l'informazione non aveva ancora avuto il tempo di circolare. Salii velocemente le scale, ma facendo attenzione a mantenermi a ridosso del muro per evitare che scricchiolassero, dato che avrebbe potuto esserci ancora qualche ospite. La precauzione si rivelò superflua: al piano di sopra non ritrovai che la puzza di spazzatura. Alla seconda porta fui certo di aver trovato la stanza di Staniland ed entrai, puntando in giro la torcia: qualsiasi poliziotto sa dire dove sono passati i suoi colleghi, da come rivoltano tutto due volte. Ciononostante mi accinsi a un altro esame. Gli uomini di Bowman di solito erano piuttosto sbrigativi, avevano per le mani sempre troppo lavoro. Volevo cambiare l'aria aprendo la finestra, ma era inchiodata, e allora mi piazzai al centro del nudo pavimento di linoleum immaginando come doveva essere stata la convivenza di Barbara e Staniland, quando anche lei viveva in questa casa. Casa! Il fornello era nell'angolo accanto alla finestra, proprio come l'aveva descritto; c'era anche il lavello con lo specchio rotto dove si era data una sistemata con indifferenza dopo che lui l'aveva picchiata con la scarpa. Sul pavimento c'era il letto dove lui le aveva mormorato la sua passione e dove lei se ne stava distesa sfogliando le pagine di Playgirl mentre lui in preda ai fumi dell'alcool tentava di farle aprire le cosce. Non credo agli spettri, ma quella stanza era impregnata di morte che mi avviluppava nella semioscurità, e mi sembrava che il morto mi implorasse di vendicarlo. Anche questa stanza era in uno stato orripilante. In quel momento il tempo era bello, altrimenti avrei scommesso che ci pioveva dentro. Da vaste zone del soffitto si era staccato anche l'intonaco per l'umidità, mettendo a nudo i graticci; senza dubbio tutti i piombi del tetto erano stati strappati, e probabilmente anche la maggior parte delle tegole. In un angolo, vicino al materasso, c'era un armadio; quando cercai di aprirlo mi accorsi che era ancora chiuso a chiave. Lo aprii con un calcio. Dentro c'erano qualche vestito, soprattutto da donna, e un po' di biancheria e camicie sporche sul fondo. Nelle tasche non trovai nulla eccetto una moneta da 2p, ma nello scomparto sopra l'appendiabiti, sul fondo, c'erano sei cassette, su cui erano scritti nomi di gruppi di hard rock. Le presi. Rovistai di nuovo dappertutto, ma non saltò fuori più nulla. Me ne andai, con la speranza che la giunta si deciderà a demolire completamente Romilly Place, il giorno che la smetteranno di sbraitare l'uno contro l'altro di politica e cominceranno a fare quello per cui sono stati eletti dai contribuenti.
15 «Lei si chiama Spark? Arthur Spark?» «Sì, sono io, amico,» rispose indifferente l'uomo, senza sollevare gli occhi dal piatto. «Ho bisogno di parlare con lei.» «Cosa vuoi da me? Chi ti conosce?.» Gli mostrai la mia tessera, ma con discrezione, in modo che dagli altri tavoli nessuno riuscisse a vederla. Immediatamente posò coltello e forchetta. «Oddio. Sì, va bene, ma posso finire di mangiare un boccone? Devo riattaccare alle due.» «Mangi pure.» «D'accordo. Di che si tratta? Io faccio il camionista per guadagnarmi da vivere, e non credo di aver combinato nulla.» «Nessuno sostiene il contrario. Lei è stato sposato a una donna di nome Barbara Ethel, cognome da nubile Smith?» «E con questo? Siamo divorziati.» «Da molto?» «Quasi cinque anni ormai.» «Figli?» «Cosa, con lei? Vuole scherzare?» rise amaramente. «Per tutto il tempo che siamo stati assieme non ha mai smesso di prendere la pillola.» «Quando è stato che l'ha vista l'ultima volta?» Si fece diffidente. «Non saprei, non mi ricordo.» «Mi ascolti, sicuramente lei non è immischiato, allora perché andare in cerca di rogne tacendo informazioni?» Ci pensò su. «Se lei è nei guai, non voglio dire niente che possa peggiorare la sua situazione.» «Nessuno ha detto che è nei guai. Sto solo cercando di rintracciarla per farle qualche domanda. Già trovare lei qui è stata un'impresa.» «Cosa vuole chiederle?» Ci trovavamo in una tavola calda, non lontano dallo Hole in the Wall, vicino alla Waterloo Station. La luminosità dell'ora di pranzo della giornata limpida risplendeva anche all'interno, sui tavolini di formica affollati di
camionisti che mangiavano carne, purè e verdure, bevendo tè. Mi sporsi al di sopra del tavolo, chinandomi verso di lui, mentre addentava una fetta di pane di segale spalmata di margarina. «Si era messa assieme a un tipo che venerdì scorso è stato trovato morto dietro un cespuglio nel West Five. Massacrato.» «Omicidio?» «Esatto.» «Non posso pensare che sia stata Babsie. Non perdeva mai il controllo. Se proprio vuole saperlo, era anche troppo fredda. Un vero pezzo di ghiaccio, amico mio.» «In ogni caso stava assieme a questo poveraccio. Capisce perché ho bisogno di parlare con lei?» Gli mostrai la foto di Staniland. Quando si fu ripreso, ci ripensò. «Davvero, non ho idea di dove abiti, capo, se è questo che crede, ma ho sentito che bazzica i locali notturni da questa parte del fiume. Old Kent Road, l'Elephant, per esempio.» «Da chi l'ha saputo?» «L'hanno vista dei miei amici che ci conoscevano quando stavamo assieme. Io mi sono risposato, ho due figli e perciò non mi posso permettere di buttare via soldi in posti del genere, figuriamoci poi le scazzottate. Saprei anche difendermi, ma quando passano ai coltelli e alle bottiglie rotte va a finire che ti ritrovi con metà della faccia in meno.» «Qualche locale in particolare?» «Non siete tipi da mollare l'osso, voialtri?» sospirò. «È così che ci guadagniamo i soldi del contribuente.» «Ha provato in un pub che si chiama Agincourt, verso Greenwich?» «Sì.» «Non devono aver collaborato molto da quelle parti.» «L'avrebbero fatto, se li avessi strapazzati un po' di più, ma in genere preferisco non esagerare per evitare che ammutoliscano del tutto.» Con questo me lo accattivai un po'. «Di solito frequentava l'Hard Rock Club, verso i Surrey Docks, ma parecchio tempo fa. Potrebbe darci un'occhiata comunque. Non è un ambiente tranquillo ma, volendo, ci si può trovare compagnia se si è soli, mi spiego? Attenzione, glielo ripeto, io personalmente non l'ho più rivista. Mia moglie non me l'avrebbe fatta passare, com'è naturale, del resto.» Guardò l'orologio alla parete. «Cristo, mi resta soltanto un quarto d'ora, poi devo assolutamente andare. Con il lavoro, oggigiorno, è meglio non correre ri-
schi, con tre milioni di disoccupati a spasso.» «Non ci vorrà ancora molto. La sua ex bazzicava le discoteche anche quando eravate sposati?» Annuì. «Lo faceva sin da ragazzina. Ma non era questo che mi dava tanto fastidio, quello che mi faceva impazzire era con che faccia di bronzo la stronza si portava gli uomini a casa mentre io ero al lavoro. Anche più di uno alla volta, e proprio sotto gli occhi dei vicini. Cazzo, una volta l'ho perfino beccata e gliene ho date di santa ragione, ma non è servito a niente, e poi io non sono fatto per picchiare le donne. Tornando alle discoteche,» aggiunse, «è così che ci siamo conosciuti. Era un vero schianto a diciotto anni, Babsie, glielo garantisco... aveva classe. Cominciammo a stare assieme ma non riuscii mai a capirla fino in fondo. Era stata abbandonata, non aveva mai avuto né madre né padre. Era fatta tutta a modo suo. Non sto dicendo che le mancasse qualche rotella, ma non si riusciva a comunicare con lei. Per esempio, se le chiedevo dove fosse la cena, sbarrava gli occhi e mi fissava come se non mi avesse neanche sentito, questo genere di cose, che mi facevano perdere la ragione.» «Vada avanti.» «Comunque un giorno glielo chiesi. Di sposarmi, voglio dire. Caspita, si infuriò come una belva. Sai dove te lo devi mettere il tuo maledetto matrimonio, mi disse, io non voglio neanche sentir parlare di figli o di mutui sulla casa e tutte le altre stronzate. Ma se vuoi possiamo farci una scopata (mi perdoni il termine)... Non capisco perché non me l'hai chiesto prima, disse. Ebbene, avrebbe potuto raccogliermi col cucchiaino. Se c'è un uomo che non si tira indietro quando si tratta di scopare, quello sono io, ma quella volta, parola mia, mi passò tutta la voglia, non sarei riuscito a farmelo venire duro neanche se avessi avuto davanti Clodia Cardinal. Eppure alla fin fine ci sposammo sul serio, che fregatura tremenda, come ho già detto. Allora facevo il conducente d'autobus, la linea 137 che parte da Clapham. Per me quel lavorò si tramutò in un incubo; quando venni a sapere che continuava a farsela con altri uomini arrivai quasi a saltare le fermate perché stavo pensando a che diavolo stava combinando a casa... in conclusione fui costretto a dimettermi. Così, mi dissi, questa storia deve finire, Arthur, altrimenti rischi veramente di andare fuori di testa. Allora una sera la affrontai, era una domenica, e indovini un po' cosa mi rispose? Va bene, va bene, mi disse, datti una calmata, proprio non riesco a capire perché hai aspettato tanto. Allora, le dissi, sei proprio una troia, Babsie, non credevo.
Ah smettila, dice lei, e dopo aver riempito di vestiti solo una valigia, mi dice tienti pure il resto, coglione, e arrivederci. Dopo, per le prime settimane, è stato un inferno, ma una mattina di colpo mi svegliai e mi sentivo meglio, non so perché. Così mi alzai (ero rimasto a letto a commiserarmi la maggior parte del tempo), mi feci la doccia e la barba e andai fino al deposito più vicino di National Carriers dove ho trovato questo lavoro. Preferisco fare su e giù per la M1 ascoltando qualcosa alla radio che portare in giro tutto il giorno l'autobus per il centro di Londra. Non voglio dire che non si stesse bene alla London Transport, i dipendenti li hanno a cuore e cose del genere, ma oggigiorno ci sono troppe risse sugli autobus, soprattutto di sera tardi. Insomma, per concludere, non ho mai rimpianto il passato; ho ripreso moglie e abbiamo due bei bambini e una casa verso Plumstead. Di Babsie ho soltanto sentito parlare ogni tanto dai miei amici, come le ho già detto, ma non l'ho più vista da quel giorno, e questo è davvero tutto quello che posso dirle.» 16 «Mi dispiace darle tutto questo disturbo, signor Viner, e grazie di avermi invitato a pranzo. Non era necessario.» «Oh, nessun disturbo, e poi è così insolito, pranzare con un investigatore della polizia. Sediamoci e scegliamo qualcosa. Temo che in ogni caso sarà piuttosto scadente.» «Neppure la nostra mensa è segnalata nelle guide gastronomiche,» replicai. Ci trovavamo nella caffetteria della BBC a Wood Green. I tavoli intorno erano occupati da uomini dall'eterno aspetto giovanile. Alcuni erano veramente produttori, gli altri erano del tutto indistinguibili dai produttori. C'erano diverse belle ragazze che avevano tutte l'aria di essere adeguatamente inserite nell'organizzazione in una maniera o nell'altra. Tutti, ad ogni modo, sembravano fermamente sicuri del proprio talento. Viner ritornò con il nostro pranzo sopra un vassoio e assaggiò dubbioso la sua pietanza, carne salata e cetrioli sottaceto. Quando spiegai il motivo della mia visita disse: «Sono molto affezionato a Charles. Non si troverà nei pasticci, mi auguro?» «No, non più. Purtroppo è stato ammazzato venerdì scorso.» «Dio mio,» disse, restando a bocca aperta. «Perché?» «È ciò che devo scoprire. E da chi.»
«Ma perché venire da me? Sono due anni che non lo vedo.» «Sono venuto a cercarla perché ha lasciato scritto di lei. Abbiamo trovato numerosi suoi scritti e anche delle cassette che aveva registrato. Sto rintracciando tutte le persone che vi sono nominate, è tutto ciò che mi rimane per andare avanti. Parlerò con tutti quelli che lo conoscevano, cercando di racimolare quante più informazioni posso su di lui.» «Certo, certo, è naturale. Adesso capisco.» Era appena sulla trentina, però mi piaceva. Mi pareva che avesse cervello. «Secondo Staniland» ripresi «la BBC lo aveva assunto come sceneggiatore. Come mai, a quarantotto anni? Non era ormai troppo vecchio?» «Aveva proposto un soggetto televisivo,» rispose Viner, «Non lo accettarono, ovviamente, era troppo buono.» «Mi scusi, ma non capisco.» «Capirebbe solo se avesse lavorato qui. Aveva il difetto di ogni buon lavoro, colpiva troppo a fondo. Era ambientato nei quartieri sud di Londra, che lo affascinavano, e parlava di puttane, negri, locali notturni, droghe e teppisti; faceva anche a pezzi gli intellettuali che vanno a scoprirci le nuove tendenze. Si intitolava A Nasty Story, un titolo che aveva preso da Dostoevskij. Fu dato in lettura proprio a me, e io fui l'unico a sostenerne decisamente la realizzazione. Ovviamente non se ne fece nulla, però i suoi dialoghi lo fecero apprezzare abbastanza da fruttargli un contratto di prova come assistente sceneggiatore, e finì a lavorare con me su qualche serie. Mi piaceva molto. Riusciva a essere tremendamente divertente, e che talento aveva, per la scrittura! Veramente fuori dal comune. Riusciva a prendere una scena di dieci pagine e a sintetizzarla in cinquanta righe di dialogo facendone sprizzare fuori l'intero significato.» Esitò. «Quando era in forma, per lo meno.» «Vale a dire?» «Insomma, beveva, e intendo dire che beveva sul serio. Bere in ufficio, qui alla BBC, corrisponde al massimo a una birretta ogni tanto; per Charles significava una bottiglia di scotch al giorno. O due. Non perdeva mai conoscenza, solo che gli occhi gli si rovesciavano all'indietro. Una volta vomitò nel fazzoletto, mi ricordo, ma non arrivava mai a vaneggiare. Teneva la bottiglia bene in vista sulla scrivania, e se qualche pezzo grosso che passava per di là aveva qualcosa da ridire... be', Charles aveva una lingua piuttosto affilata.» «Tuttavia» intervenni «sono convinto che fosse piuttosto vulnerabile.»
«Sì, infatti. Aveva la scorza più delicata della maggior parte di noi. Le due cose che lo deprimevamo davvero erano la noia e i suoi rapporti con le donne.» «Sicuramente con loro non ha avuto fortuna.» «Oh, non so. Sua moglie Margo era in gamba, e anche attraente. Passava a prenderlo, ogni tanto.» «Il nome di Barbara Spark le dice niente?» «Temo di no. Chi è?» «Una donna che lo frequentava e con cui mi piacerebbe scambiare qualche parola. Ma non importa, prosegua.» «Dunque, con l'andare del tempo, Charles divenne sempre più insofferente. Il motivo è comprensibile, naturalmente: voleva scrivere qualcosa di suo, di più personale, il lavoro che faceva qui gli aveva confermato il suo talento. Ma da zia BBC questo è escluso. Invece... le è mai capitato di vedere uno di quegli spaventosi sceneggiati in costume, che da poco è stato replicato?» «Sì, l'altra sera ho dato un'occhiata alla televisione. Doveva essere la storia di un re.» «Infatti, la vita privata di Edoardo il Confessore. Charles lo aveva soprannominato il Puntaspilli perché i costumi erano talmente ridicoli. Tutti e due abbiamo dovuto scriverne la sceneggiatura, e ora è stato replicato, chissà perché poi, gli indici di ascolto sono stati disastrosi. Comunque, un giorno Charles mi disse: "Non ce la faccio più a sopportare questi disgustosi episodi del Puntaspilli che stiamo scrivendo, sono ancora più deprimenti di quella commedia che abbiamo dovuto sobbarcarci, Billy Ballpoint." Gli obiettai che non ci potevamo fare più nulla. "Non essere così rinunciatario," mi disse, "passami lo schema del soggetto." "È troppo tardi per riscriverlo," protestai, "è già stato approvato, gli farai venire un colpo a tutti." "Una ragione in più per riscriverlo da cima a fondo," concluse. Già l'indomani aveva pronto un episodio. "Ecco, leggi." Caspita, non avevo mai riso tanto. Povero Edoardo il Confessore, ne aveva completamente stravolta la figura, che per giunta non era mai stata propensa al divertimento, riducendo tutto a una colossale farsa. "Devi essere matto," gli dissi quando finii di leggerlo, "ma sei sprecato qui dentro, dovresti scrivere le battute per qualche comico famoso, faresti fortuna. Questo però non funzionerà mai," aggiunsi, restituendogli il manoscritto, "di sopra ti faranno a pezzi." "Tanto lo faranno lo stesso, prima o poi," mi rispose, "perciò tanto vale che si decidano." Dopo di che è davvero salito a depositarlo sulla
scrivania di qualche funzionario. Bisogna dire che qui niente procede in fretta, come probabilmente saprà: tutte le decisioni sono prese da comitati paralizzati dal timore di fare la mossa sbagliata. Tuttavia non molto più tardi lo chiamarono e quando ridiscese, dopo che ovviamente avevano fatto a pezzi il suo lavoro, rideva, tutto contento, fregandosi le mani. "Si sono decisi a farlo, mi hanno licenziato, grazie al cielo. Ma ne valeva la pena, anche solo per vedere scoppiare in lacrime quel disgustoso produttore, quell'intellettualino sinistrorso all'ultima moda, quando gli ho sbattuto in faccia ciò che pensavo della sceneggiatura approvata." "Ma cosa farai adesso?" gli chiesi. "Mi berrò tutta la liquidazione. Visto che non hai da fare, chiama un taxi e vieni con me al Dead Piano Club in Ken Church Street."» Viner sospirò. «Non riesco a ricordare granché dei due giorni seguenti,» concluse. «È quella è stata l'ultima volta che l'ha visto?» «Sì, precisamente vidi ciò che restava di lui trascinarsi a prendere il 22 in fondo a Greek Street. Mi è mancato, qui alla BBC.» Fece una pausa. «Per di più, una volta che mi sono trovato in difficoltà mi ha anche aiutato a cavarmela. La banca si rifiutava di prestarmi i soldi per le imposte e Charles si offrì di darmeli lui, trecento sterline. Era fatto così, avrebbe fatto tutto ciò che poteva, anche per chi se ne infischiava di lui o gli dimostrava apertamente antipatia. "Non ti preoccupare di restituirmeli," mi disse, "quando capiterà mi renderai il favore." Ovviamente non è mai capitato. Preferisce il gelato o la torta allo sciroppo?» «Prenderò il gelato.» «Scelta oculata,» osservò. «Spero perdio che prendiate chi l'ha ucciso.» «Non credo che avrò molte difficoltà nell'identificarli. Il problema sarà trovare le prove. Non si può impostare un processo solo sui nastri, un buon avvocato non avrebbe difficoltà a smontare la tesi dell'accusa. Senza contare che ci sto lavorando da solo. Non si tratta di dare la caccia allo squartatore dello Yorkshire.» «Io non riesco proprio a capire come abbia potuto inimicarsi qualcuno al punto dà essere ammazzato a quel modo,» disse Viner. Gli vennero gli occhi lucidi, ma si ricompose subito. «Si suppone che sia stato qualche squilibrato?» «Sì, è probabile. Però vorrei evitare che riuscisse a cavarsela con questa scusa.» «A parte i suoi problemi,» riprese Viner, «Charles era una persona ado-
rabile.» Versò un cucchiaino di zucchero nel suo caffè liofilizzato e mescolò. Il nero vortice ingoiò lo zuccherò. Bevve tutto d'un fiato e controllò l'orologio alla parete. L'intervallo del pranzo era finito, la mensa si era svuotata. Restammo entrambi silenziosi: non c'era altro da aggiungere. «Ora devo lasciarla,» bisbigliò Viner un attimo più tardi. Mi strinse la mano e si allontanò velocemente. 17 Feci partire un altro dei nastri di Staniland: Quasi tutti vivono a occhi chiusi, ma io ho intenzione di morire a occhi aperti. Tentiamo tutti di renderci la morte meno difficile. Personalmente io uso due metodi. Innanzitutto bevo. Bevo per arrivare all'oblio, e allora basterebbe una caduta o un urto qualsiasi, giunto ormai oltre coscienza e raziocinio. Così morirei a occhi chiusi. L'altro metodo è quello di razionalizzare la mia esperienza. Purtroppo, per quanto si cerchi di seguire la logica, presto ci si ingarbuglia. L'esistenza è cieca, né a tuo favore né contro. Questa imparzialità contraddice ogni esperienza umana: non c'è amore né odio, dolcezza o violenza, quando affronti la quotidianità. L'esistenza è una borsa valori, si può continuare a fare stupidaggini fino a rovinarsi con le proprie mani. Come a Duéjouls. Che colossale fallimento, comprare quel rudere enorme, completamente sperduto, con tutto quello che rimaneva dei soldi che mi aveva dato mio fratello, e poi aspettare come Micawber un miracolo per riuscire a restaurarlo e renderlo abitabile. Non approdavo a nulla con quel che scrivevo, Margo l'aveva sempre sostenuto che non ce l'avrei fatta. Ripeteva che ero troppo vecchio, troppo anacronistico e troppo ubriaco. Per questo nella cucina di Duéjouls scoppiavano spesso fra noi aspre liti, punteggiate dal ticchettio della pioggia che filtrava dalle travi del soffitto, regolare come un orologio. Eppure le cose non andavano male, finché lei e Charlotte sono state lì. La piccola mi tirava sempre su di morale, quando tornava da scuola diceva ogni volta: "Andrà tutto bene, papà," e poi gettava i libri sulla panca e saliva in camera sua ad ascoltare John Travolta. Ma dopo. Una volta che se ne furono andate. La solitudine in
campagna ti stravolge del tutto. Non cambiò niente. Nessuna entrata. Avevo esaurito le mie risorse, costretto a prendere i soldi per l'oggi da quelli messi da parte per l'indomani. Per cinque anni ho fatto il contadino, azzerandomi il pensiero. D'inverno sui Causses tagliavo gli alberi con la motosega. Lassù nell'aria grigia la neve era azzurra; a ottocento metri le nuvole ci piombavano addosso attraverso il fitto delle querce. D'estate prendevo una harpe e me ne andavo nell'arsura da un vigneto all'altro, dovunque riuscissi a farmi dare lavoro dai contadini. Guardandomi allo specchio ora, qui a Londra, faccio fatica a crederlo io stesso. Déchausser: liberare dalle erbacce le radici delle viti. Duemila viti, sempre in pendenza, un sorso di vino alla fine del prossimo filare (ottanta metri a filare), no, di quello dopo, posso resistere... debbo resistere. Lavoravo da solo e per scacciare la solitudine cantavo, a torso nudo nel vento che spazzava la vallata con vampate di calore che mi arrostivano il petto. Non riusciranno a farmi rinunciare, continuavo a ripetermi, anche se tutto attorno a me fosse crollato, io sarei andato avanti. Ero troppo vecchio per quel lavoro, i giovani che lavoravano con me continuavano a ripetermelo. Ma io continuavo a tirare avanti dalle sette del mattino alle sette di sera, con un'ora di pausa a mezzogiorno. Mi ritrovai i muscoli duri come corde tese, ma il cervello mi si ridusse a ovatta. Il ricordo del passato mi sfiorava soltanto superficialmente. La sera a letto esausto, con la sveglia puntata alle sei del mattino, e così sera dopo sera. Ogni tanto un bagno, e le gambe doloranti distese sul grezzo lenzuolo pulito. Pensare non serviva, e in tutto quel periodo neppure una scopata, neanche con Margo: solo la quiete profonda della notte, rotta in lontananza dal torrente, che sbuffava come una vecchia locomotiva in stazione. Posso farcela, mi dicevo, anche se sono davvero troppo vecchio. All'inizio le mani mi sanguinavano, ed ero lento, ma strinsi i denti inflessibilmente e mi intestardii, sa Iddio se avevo bisogno di quei soldi per dare da mangiare a tutti e tre, la paga minima era solo settantotto franchi al giorno quando cominciai. La casa aveva sedici stanze. Dopo che Margo e Charlotte se ne andarono, parlavo ad alta voce da solo tutto il giorno in cucina, dove avevo trasportato anche il letto e la mia roba. Le altre quindici rimanevano vuote (ora che avevo bruciato tutti i loro vestiti),
eccetto che per i pipistrelli. Avevo riparato il tetto nel tempo libero, cosicché non c'erano più infiltrazioni. Non chiesi nulla a mio fratello, per lo meno fino a quando non tornai in Gran Bretagna. E anche allora lasciai cadere solo un accenno o due. Lavorare la terra laggiù a Duéjouls mi aveva reso orgoglioso. Quando però capii che da mia cognata e da lui non avrei avuto niente, per un certo tempo mi mantenni con il sussidio di disoccupazione a Battersea, dove avevo trovato alloggio. Mi era restato in tutto un migliaio di sterline in azioni, che avevo destinato a Charlotte, ma avevo fame. Imbrogliai: non dichiarai le azioni alla previdenza sociale. Perché mai avrei dovuto? Avevo quasi cinquant'anni e in vita mia non avevo mai preteso nulla dallo stato, anzi, era sempre stato il contrario. Nonostante tutto, fu interessante venire interrogato alla previdenza sociale. Un impiegato di colore mi chiese se ero veramente britannico. Spinsi verso di lui il passaporto senza una parola, ma intanto pensavo: lo sono senz'altro più di quanto possa mai esserlo tu, ad ogni modo. Però non dissi nulla per paura che scrivesse 'Respinto' sulla mia domanda. Non potevo rischiare che ciò accadesse perché ero ormai senza un soldo, avevo dovuto dare un po' di denaro al mio figliastro Eric, e mi serviva qualcosa per l'affitto e le provviste. Avevo bisogno anche di bere un bicchiere, purtroppo però non ero più in Francia con il vino a due franchi al litro, qui era a due sterline. Fu allora che scrissi quel soggetto per la BBC e ottenni lavoro lì. In quel soggetto, cui diedi il titolo di "A nasty story" traendolo dal grande russo (Tolstoi potete tenervelo), mi chiedevo cosa è possibile fare a Londra con dieci sterline a settimana che è quel che resta del sussidio di disoccupazione dopo aver pagato l'affitto. Non rimaneva niente di mia proprietà in Francia; tramite un notaio locale avevo provveduto a intestare la casa a Charlotte, nel caso mi capitasse qualcosa. Per quel che riguarda il mio affitto a Battersea, ero obbligato a pagarlo immediatamente appena incassato l'assegno, altrimenti mi sarei ritrovato chiuso fuori, ma con tutta la mia roba dentro. Era già successo a qualcuno nella stessa casa. Il padrone non aspettava altro che una scusa, che bastardo! Deve avere accumulato una piccola fortuna in questo modo: gli bastava cambiare la serratura. Fu dopo essere uscito una sera ed essermi ubriacato invece di
pagare l'affitto che andai a lavorare per la Planet. Vidi il loro annuncio sul giornale del pomeriggio mentre me ne stavo al Princess Caroline in Battersea Park Road. Planet non faceva domande, voleva sapere solo se avevi una patente di guida valida, ed erano contanti. Invece di far domande, ti succhiavano il sangue, i Creamley. Quaranta alla settimana per il catorcio che ti noleggiavano, altri quaranta per i servizi di ufficio, e dovevi pagarti benzina, assicurazione, le riparazioni, ogni maledetta spesa. Quello che avanzava potevi tenertelo. E non era molto. L'annuncio prometteva che si potevano realizzare centocinquanta a settimana, però tralasciava di dire che erano lorde. Almeno, io non riuscivo a incassare più di centocinquanta lorde in una settimana buona. Una volta cominciata la recessione, c'erano due auto ogni mezzo cliente. Ai Creamley non interessava avere autisti in coda per un lavoro fino in fondo alla scala, dopotutto non incassavano quaranta sterline a settimana da ciascuno di loro, che lavorasse o meno? Quelli a cui non garbava potevano andare a cacare; non mancavano certo gli autisti disoccupati. Potevo racimolare quaranta sterline a settimana per tirare avanti quando ero fortunato, diciamo una settimana su quattro, purché non mi lasciassi andare a bere. Se andava male dovevo tentare di spillare qualcosa a Creamley: "Cosa c'è, Due Quattro? Di nuovo senza un soldo? Ecco, prendi queste venti, bevi alla mia salute". Andava bene per quegli autisti con disponibilità economiche, che investivano in Rolls o Mercedes, così riuscivano ad accaparrarsi le corse per l'aeroporto e i matrimoni, e anche ad accompagnare gli uomini d'affari pakistani fino alle loro fabbriche nel nord. Ma cosa ci si può aspettare di ottenere noleggiando una Maxi che cade a pezzi? Non certo i lavori più redditizi con una Maxi del 74, con il sedile posteriore sfondato. Con tali margini la rovina era perennemente incombente. Ricordo la notte in cui le sospensioni posteriori cedettero (sapevo che c'era ruggine), mentre ero diretto a Dollis Hill con a bordo tre camerieri turchi dell'Ef-Es Kebab. Furono gentili, dissero che ormai erano solo a dieci minuti a piedi da casa loro. Insistettero perfino per pagarmi la corsa, ma io non accettai, un po' perché erano stati gentili e un po' perché non li avevo portati a destinazione. In conclusione, alle tre del mattino se ne andarono con dei giornali
sopra la testa, sotto una pioggia davvero fitta e gelida, da inzupparsi, di quelle che sembrano cadere solo sul nord di Londra. Dovetti chiamare un'officina e farmi trainare. Creamley commentò: "Cristo, ancora tu, Due Quattro". Per l'ammortizzatore nuovo se ne andarono due settimane di paga. Erano soldi buttati per quel rudere. Creamley non si scomponeva: "Renditi conto, Due Quattro, se cominciassi anche ad accollarmi le riparazioni al posto degli autisti, dove finirebbero i miei profitti, amico mio?" E doveva anche farmi la predica: "Il guaio è che tu non lavori abbastanza, Charlie. Non puoi sperare che fare l'autista renda, se non te la sudi." Replicai: "Me la sto sudando, ma ho anche una vita privata." "Anch'io, ma so a cosa deve limitarsi." "Vale a dire?" "Al letto, o altrimenti a tenere i conti, è logico, Due Quattro." Certe volte anche i clienti, se ne trovavi, non erano niente di buono. Non come i turchi. Donne d'affari ebree a parte, i peggiori erano gli africani e i giapponesi. "Non sai neanche che strada fare, accidenti? Un bianco che non conosce neanche la propria città?" "Autista, possibile che non sappia come tagliare per Camden Square?" "Questo schifo di macchina non mi piace, puzza addirittura. Si fermi, autista, chiami alla radio e ne faccia mandare un'altra." Gli autisti più scorbutici li facevano scendere, li mandavano a farsi fottere e li lasciavano a piedi... Riavvolsi il nastro di Staniland e lo posai sulla pila sul tavolo della cucina, il cui piano di formica riluceva alla luce della lampada. Mi aprii una lattina di birra ghiacciata e, ripensai al castello che, aveva detto sua cognata, in passato avevano posseduto, e da lì cercai di ripercorrere le svolte dolorose del corso della sua vita, che lo avevano condotto a guidare una vecchia Maxi arrugginita cinque sere a settimana per la Planet, e quindi a quella donna, la Spark, e infine a quella sua morte atroce, torturato, poi preso a calci senza pietà e trascinato dai suoi assassini nel fango di quella macchia in Albatross Road. Ma dove mi identificavo con Staniland, quello che sentivo provenirmi direttamente da lui era l'interrogarsi sul perché. Voglio dire, me lo sono sempre chiesto per conto mio, ma questo perché non era quello che basta a un poliziotto. L'interrogarsi di Staniland era lo stesso che una volta avevo letto sulla lapide di una tomba eretta a una creatura di sei anni: "Se doveva essermi strappata così precocemente, a che
scopo mi è stata data la vita?" Nonostante Staniland fosse morto a cinquantun anni, conservava l'innocenza di un fanciullo di sei. E anche il coraggio incosciente, il desiderio di capire tutto ad ogni costo. Questa fragile dolcezza nell'intimo di una persona, se permettiamo che sia colpita, calpestata e sbriciolata, allora non rimarrà più niente di una società come quella che io sento di dover difendere. Anch'io ho commesso le mie colpe contro di essa, per momentanea debolezza. Ma non l'ho deliberatamente uccisa per quei quattro miseri soldi presi a prestito e per quel po' di sicurezza che ti danno, ed è questo il motivo per cui, mentre bevevo un altro sorso di birra e inserivo un'altra delle cassette di Staniland, sentivo di dover inchiodare gli assassini. Non solo scoprirli. Inchiodarli. Feci partire il nastro: Sulla terrazza a Duéjouls, venti metri più in alto della strada, seduto in una poltrona di vimini nel caldo torrido. Una farfalla, grande come non ne ho mai viste, mi si posa di fronte. È nera, d'oro e porpora, deve essere larga quasi dieci centimetri. Batte le ali contro il vento ruggente che annuncia la pioggia soffiando dal sud. La farfalla a fatica riesce a mantenersi sui sassi assolati, poi in un turbine è trascinata oltre il tetto, in un volo istintivo e nello stesso tempo preciso, come il piacere del canto. Una lucertola sbuca alle radici della vite che mi fa ombra. È un essere primitivo, tuttavia perfettamente adeguato alla sopravvivenza. Fa guizzare la lingua e si guarda attorno obliquamente, immobile ma pronta a scattare davanti al cibo o al pericolo. Sotto la pelle viscida palpita di eccitazione, si muove verso di me senza alcun timore, finché rimango immobile la sua esistenza è altrove. Ma tossisco per il fumo e la sua testa si drizza, occhi e lingua trasaliscono in un movimento indistinto, ed è scomparsa. Materialmente mi trovo a Lewisham, ma sto rievocando il periodo in cui lavoravo all'hotel di Duéjouls. È l'inizio di gennaio, le sei e mezza del mattino e il termometro segna dodici sotto zero, quando salgo sul mio ciclomotore per andare a lavorare. Sul retro dell'hotel, che è chiuso per l'inverno, ci ritroviamo in quattro per ammazzare un maiale. Nel porcile, in un filo di luce, ci sono otto maiali irrequieti. "Quella no," dice Jean, il patron, "è in calore. Un altro qualsia-
si, ecco, quello va bene, il maschio." Lo circondiamo e lo afferriamo; io passo il cappio della corda attorno alle zampe posteriori e stringo. Il maiale strilla: ha capito tutto. "Ti fa sentire un criminale, non ti pare?" dice Loulou, uno degli uomini. Qualche volta lavoro per lui, è giovane, bruno e tarchiato, con il naso rotto e mi ricorda una incisione che ho visto una volta, Napoleone dopo l'incidente di Tolone all'inizio della sua carriera. Sono d'accordo con lui, anch'io mi sento un carnefice. Dipende dall'atmosfera del porcile, l'oscurità, l'unica debole lampadina, il gelo paralizzante. Manca soltanto il sorso di cognac da dare alla vittima prima di abbatterla. "Mettiamolo sulla balla di paglia" dice Jean, stringendo un altro cappio alle zampe anteriori della bestia. Dobbiamo mettercela tutta; il maiale pesa centonovanta chili. Si dimena freneticamente sulla paglia mentre Loulou e io lo teniamo per le zampe di dietro che ho legato e gli altri per quelle davanti. Qualcuno lo tira per le orecchie costringendolo a esporre la gola al coltello. Chiusi nella stia vicina, al di là di un basso muro di mattoni, gli altri maiali girano in tondo e grugniscono di paura, hanno percepito l'avvicinarsi della morte. Il nostro ringhia e strilla. Se soltanto fosse stupido! Ma non è mai così. "Svelto adesso," dice Jean al macellaio. Posso sentire l'odore di morte mescolarsi a quello di sterco di maiale, un odore acre e penetrante, ma non netto. Il macellaio, un contadino con i reumatismi sui sessantacinque anni, si avvicina lentamente nel suo grembiule di gomma affilando un lungo coltello sull'affilatoio di acciaio. "Vai ora! " urla Jean impaziente. Il coltello penetra di punta, e affonda in un solo colpo nella gola, vicino alla clavicola; all'istante il sangue comincia a zampillare nella casseruola che la moglie del macellaio regge sotto la ferita. Vogliono raccoglierlo per preparare la sanquette, un sanguinaccio, con un pizzico d'aglio e di erbe aromatiche, delizioso. Dapprima il maiale grida più forte che mai, il sangue sprizza scarlatto, gorgoglia e fuma nell'aria fredda e opprimente; quindi, tra gli spasmi, mi caca sulle gambe e poi piscia sulla balla di paglia. Accanto a me Loulou si prende un calcio sul gomito e urla: "Ah, putaine
de merde!" Il sangue ora sprizza irregolarmente nella casseruola di stagno; gli scossoni dell'animale si indeboliscono, eppure ci vogliono altri dieci minuti perché muoia, e fino all'ultimo... "Puoi mollare adesso." Giro attorno al maiale che giace sul fianco per guardarlo negli occhi. Il grande corpo dissanguato è divenuto bianco. Nella morte le mascelle si sono socchiuse e si vedono i denti gialli. Guarda in su oltre le mie spalle con un'espressione di disgusto. "È ancora vivo." "No, no, è morto, Charles." La moglie del macellaio ha già cominciato a tagliare il muso; gliene restava ancora un altro da macellare prima di pranzo. Ma io ero sicuro che non era morto. "Sono solo i nervi," disse il macellaio. "Va bene, spingiamolo sulla scala e portiamolo fuori. Dai, forza." "Non sarebbe possibile fulminarli con una scarica elettrica?" chiesi, una volta fuori. Il sole finalmente spuntava, un bagliore giallo tra i rami spogli del giardino dell'hotel. "No, naturalmente," rispose il macellaio, "bisogna fare uscire tutto il sangue. Finché il cuore batte funziona da pompa e così spinge fuori il sangue, capisci? In questo modo è l'animale che fa il lavoro per te." Bisbigliai a Loulou: "È spaventoso." Non mi sentivo sul punto di svenire o di vomitare, ma avevo un gran freddo dentro. "Sì, è vero," rispose Loulou, "e con questo? Se non lo ammazzi, poi non lo mangi, quel cazzo di porco." Trasportammo la carcassa all'aperto e con rasoi da barbiere e acqua calda rasammo le setole. Poi Jean e il macellaio prepararono la charcuterie, e io portai tranci e fette di carne, braciole, costolette, polmoni e tutto il resto in cucina dove le donne stavano aspettando. Jean si dedicò a salare i prosciutti, estirpandone nervi e tendini e io mi fermai ad aiutare in cucina, dove c'era un bel fuoco su cui bollivano alcune marmites d'acqua. Ascoltavo le donne che chiacchieravano, spettegolando su tutto il paese mentre lavoravano. Prima di andarsene il macellaio mi diede una pacca sulle spalle. "È il primo maiale?" mi domandò. "Be', per pranzo avrete maiale fresco, so com'è fatto Jean. Tirati su."
Ammazzare il maiale non mi fece diventare vegetariano. A mezzogiorno infatti mi sedetti senza esitazione davanti alla mia braciola di maiale, gustandone tutta la bontà senza lasciarne neanche una briciola, raschiando l'osso con il coltello e succhiando coscienziosamente il midollo. Però continuavo a domandarmi cosa aveva provato nei dieci minuti che ci aveva messo a morire. "Ti sei difeso bene, lo sai," mi disse Jean quando all'una e mezza uscimmo a potare le viti. "Non quanto il maiale," risposi. "Lunedì prossimo ne facciamo un altro," disse Jean, allegramente. "Ce ne sono altri sette." Inverno a Duéjouls, da solo. Me ne sto alla finestra, alle mie spalle la stanza vuota: ho venduto tutti i mobili che Margo non si è portata via. Guardo la pioggia che infuria contro il versante opposto della valle, strappando le foglie dei pioppi lungo il torrente. Domani finisco la vendange dagli Champagnac, i grappoli neri e splendidamente ricoperti da una strato di brina che ti fa diventare le dita viola. Ieri mi sono tagliato alla mano con il coltello, non riuscivo a sentire né la mano, né il coltello. Mi sono disinfettato versando vino sul taglio, meglio della tintura di iodio. Sarà difficile caricare i tini colmi di grappoli sul rimorchio. Il rimorchio sarà un pezzo di ghiaccio. Il vino risulterà pessimo. Acqua. Gli Champagnac sono gli unici che rinviano la vendange fino a metà novembre. Ma questo freddo passerà. I porcellini di terra rispunteranno dai muri con la pioggia di primavera, le lumache scivoleranno lentamente sull'erba appena spuntata sul sentiero. Ci saranno mattinate tiepide e umide, incupite dalle nubi, e io uscirò con un sacchetto di plastica e un bastone per procacciarmi un pasto gratuito a base di lumache petit gris. Le lascerò a digiuno per nove giorni con un rametto di timo, poi le metterò a spurgare in aceto e sale, le bollirò per farle uscire dal guscio, pulendole per bene, poi, aromatizzato il burro freddo con aglio e prezzemolo, le mangerò su uno dei piatti che Margo aveva comprato al mercato. Le mangerò a lume di candela, facendo finta di festeggiare. Non accenderò la radio: non fa altro che parlare di guerre. Ascolto France Musique nelle rare occasioni in cui smettono di
suonare Mozart o Haydin o qualche concerto in Tè minore per cucchiaino e zuccheriera. Chiudo gli occhi ed è estate, Margo è ritornata ed è seduta con me fuori sulla terrazza. Si sta abbronzando, e ha sulla testa il cappello di paglia con i papaveri comprato alle Nouvelles Galeries. È successo? È mai successo qualcosa, prima di Barbara? Impossibile... è tutto impossibile. Iltempo gioca scherzi del genere, ma perché proprio a me? Una pausa di silenzio sul nastro, poi Staniland riprendeva su un altro tono: Come la metterò con il mio figliastro? Non posso continuare a passargli denaro, non ne ho più. Gli ho dato le cinquecento sterline che ho preso in prestito impegnando le azioni, e poi le altre trecento. Bisogna che pensi a Charlotte. A Margo, anche. Ho stabilito che la casa di Duéjouls resti a Margo finché vive. Se dovesse venderla, dovrà solo dividere il ricavato con Charlotte. In fondo Charlotte è la mia carne e il mio sangue, Eric no. Margo non avrebbe dovuto fare quella scenata alla Planet, credendo che me la fossi squagliata lasciandola nella merda. Invece no, io ho sistemato tutto meglio che ho potuto. Sono indebitato, e non riesco a ricavare nulla da ciò che scrivo. Non è colpa mia se nessuno vuol sentirsi dire le cose in faccia. Non posso fare miracoli. Inserii il nastro successivo, che cominciava: Eric mi considera un allocco arrendevole da sfruttare. Forse lo sono. Ma lui è implacabile. Capisco che non riesca a trovare un lavoro, ma lui si vede il mondo contro e se ne fa una giustificazione per restarsene a letto tutto il giorno. È anche tossicodipendente. D'accordo. Ma io non mi sento più responsabile per lui, ha ventitré anni, casomai tocca allo stato occuparsene ora, non spetta più a me e neanche a sua madre. Povera Margo, se non sta spremendo quattrini a me, allora tocca a lei. Ma anche lei se la passa male. È costretta a portarsi a casa uomini per arrivare alla fine del mese.
Il registratore tacque di nuovo. Pensai che sarei riuscito a rintracciare Margo alla fin fine, ovviamente, ma forse ci sarebbe voluto molto tempo. All'improvviso Staniland riprese: Mi sento in colpa verso di lei, credo che dovrei passare in Callow Street uno di questi giorni, ma temo una scenata come alla Planet. Vorrei riuscire a trovare qualcuno disposto ad ascoltarmi, non solo un nastro. Barbara? Con Barbara assolutamente niente da fare. Quando ho tentato di parlarle di Margo mi ha immediatamente interrotto, dicendomi, senti, visto che la tua ex vacca ha deciso di starsene per conto suo, allora perché non la lasci stare? Adesso c'ero anch'io ad ascoltare, sebbene, in verità, fosse troppo tardi. Spensi il registratore e guardai l'ora. Le sette meno dieci di sera, una bella sera. All'inizio del mio servizio avevo lavorato presso il distretto di Chelsea. Chiusi gli occhi e mi distesi davanti una mappa mentale di Chelsea. Callow Street era corta, correva da Fulham a nord fino a Elm Park Road a sud. Ma c'era una gran quantità di appartamenti; era composta quasi solo da caseggiati di appartamenti. Ma mi augurai di avere per una volta un po' di fortuna e di trovare semplicemente il nome su uno dei portoni. A quel punto ero già in strada. 18 «La signora Staniland? Margo Staniland?» «Sì, sono io.» Probabilmente era stata una donna attraente, con quei capelli rossi e il seno morbido, ma non lo era più: sembrava che i suoi lineamenti si fossero incupiti, perdendo nitore. Il sorriso appena accennato era stato seducente, una volta; ora appariva ambiguo. L'occhio destro era iniettato di sangue. Aveva un viso dolce, che ne rivelava l'intelligenza, anche se pareva che ormai l'avesse messa da parte. «Non mi pare di conoscerla.» «Sono della polizia, posso entrare?» le risposi e intanto pensavo: ma lo sa che è morto? E gliene importa? «Veramente stavo proprio uscendo,» disse, «ma è ovvio che se...» e mi indicò l'appartamento buio alle sue spalle. «Non le porterò via molto tempo.»
«Non si preoccupi, stavo andando a un appuntamento con un amico per bere un bicchiere, al Water Rat, dalle parti di World's End, sa dov'è? Un bicchiere, così, tanto per passare il tempo.» Mi fece strada nel salotto, buio anche in questa sera di prima estate. La stanza si affacciava a est. Sedette sul divano e mi indicò la poltrona; «Dunque? Cosa ho fatto?» «Nulla.» «E allora?» Visto che non le rispondevo subito, continuò: «È strano ormai, quasi più nessuno mi chiama signora Staniland. È parecchio che ho ripreso il mio cognome da nubile.» «Però lei è stata sposata con Charles Locksley Alwin Staniland?» «Sì, è esatto.» «Temo di doverle dare una brutta notizia. Cerchi di farsi forza.» «E' morto,» disse, apparentemente senza alcuna emozione. «Lo sapevo.» «Lo sapeva?» «In un certo senso. Lo avevo sognato. È stato un sogno orribile.» Cominciò a torcersi le mani spasmodicamente, poi si lasciò ricadere sul divano, senza piangere. Restò in silenzio per un momento che parve interminabile, quindi aggiunse: «È stato assassinato?» «Purtroppo è così.» «Me lo aspettavo. È tutto come nel mio sogno. Allungava una mano in cerca di me, come faceva sempre, poi all'improvviso i tratti del suo volto si sono dissolti. L'ho sognato venerdì notte e me ne stavo appena riprendendo.» «È morto proprio venerdì. È meglio che le porti qualcosa.» Scosse la testa. «No, continui pure e mi dica tutto quello che sa.» Le raccontai tutto e conclusi: «Forse lei può aiutarmi a prendere i colpevoli. Se la sente di parlarne adesso?» «Sì,» rispose, «il colpo si farà sentire in pieno soltanto più tardi, quando mi lascerà da sola.» «Aveva dei nemici,» suggerii. «Ne aveva davvero? Non ci posso credere,» mormorò, chinando il capo. Poi lo raddrizzò, fissandomi, e dichiarò: «Io lo amavo,» e poi, iniziando a parlare più velocemente, continuò: «Il guaio con Charles era che si allontanava da tutti. Sfrecciava come una meteora. Io cercavo in tutti i modi di dimostrargli che lo amavo, ma lui si staccava sempre più da me. Guardava
sempre avanti, sempre! Come farò a dirlo a mia figlia? Charlotte diceva sempre che sarebbe ritornato! Non avrei mai dovuto abbandonarlo, ma non mi ha lasciato scelta. Liti, continue liti, analisi e sempre senza soldi...» Scoppiò in lacrime, raschiandosi la gola con un suono impressionante, di un rastrello che passi sulla ghiaia. Quando si fu in po' acquietata, afferrò la borsa, ci frugò dentro e ne tirò fuori una foto sgualcita. Me la porse. «Quello è lui che tiene per mano Charlotte, quando eravamo ancora a Duéjouls, in Francia. Lei assomiglia tutta a suo padre, non è vero?» «Cerchi di tranquillizzarsi.» «È come la tragedia del mondo intero sul fondo di un bicchiere,» disse, «le cose più grandi sono ridotte in briciole, e di noi che restiamo, nessuno ha la forza di tirare avanti.» Non trovai nulla da dire. «Ho bisogno di parlare di lui,» continuò, come se io le avessi detto di non farlo. «Sento che devo parlarne. Tutto questo non sarebbe accaduto se non lo avessi lasciato. Una stupida lite. Sì, lo amavo. Era un uomo meraviglioso, anche se faceva di tutto per evitare che i suoi meriti venissero riconosciuti, questo è certo. Aveva intrapreso una sorta di... opera, e io avrei dovuto assecondarlo e cercare di capire, invece di provocare discussioni e liti. Ma ero in collera con lui perché mi pareva sprecato, a lavorare la terra.» Il suo volto si era deformato, era rosso e sgraziato. Ma i suoi occhi rimanevano belli, di un grigio intenso. «Ho un po' di soldi,» riprese, «avrei sempre potuto provvedere anche a lui. Non mi è mai importato quel che faceva o dove andava, purché ritornasse da me.» «Credo che rimase davvero annientato quando lei se ne andò con Charlotte,» dissi, anche se a rifletterci era una banalità, ma avevo la sensazione che avrebbe potuto rincuorarla, e infatti funzionò, almeno per un po'. «Sì, io ero perfetta per lui,» annuì, «nessuna altra donna avrebbe mai saputo come trattarlo, me lo diceva sempre. Non c'era nulla che non potessimo discutere assieme. Passavo sopra a tutte le volte che si ubriacava, purché badasse a non farsi male. La colpa è mia, ma soltanto dopo che ce ne eravamo andate ho capito quanto gli fossimo necessarie, io e Charlotte. È stato l'uomo più buono che abbia mai avuto, il più dolce. Ne ho avuti tanti, ma lui è stato l'unico per il quale abbia davvero provato qualcosa. Il miglior amante, l'uomo più buono e più dolce, e non permetta a nessuno di affermare il contrario, anche se ci proveranno in tanti. Ed era generoso,
perfino troppo. Neanch'io sono mai stata attaccata al denaro, ma non come lui.» «Le prometto che andrò fino in fondo sulla sua morte, signora Staniland.» «Sì, forse,» mormorò apaticamente, «ma questo non me lo restituirà. Io ti aspetterò sempre, Charlie. E tu non tornerai mai più, mai, mai, mai più.» Un attimo dopo aggiunse: «Vorrei pensare io a seppellirlo non appena sarà possibile.» «Lei non deve preoccuparsene,» dissi, «me ne interesserò io.» «Ma sono in grado di farlo io,» ribatté, agitandosi. «Ho dei soldi da parte, all'ufficio postale, posso provvedere alle spese del funerale. Vuol vedere? Le mostro il libretto postale. Ho la somma necessaria, posso dimostrarlo.» «Non è affatto necessario.» Dopo un'altra interminabile pausa nella stanza sempre più buia, riprese: «Bisognerà dirlo anche a mio figlio, Eric, e io non lo vedo più tanto. Non credo che ne sarei capace... potrebbe farlo lei?» concluse precipitosamente. «Lo farò di sicuro,» la rassicurai. «Mi dia solo l'indirizzo.» «È a Soho.» Mentre mi segnavo l'indirizzo che mi aveva dato, mi disse: «Non lo tratti troppo duramente, Eric ne ha già subite tante,» sbadigliò all'improvviso, sfinita. «Però Charles non si è mai comportato duramente con lui.» «È un figlio che ha avuto da un precedente matrimonio?» «Sì,» annuì, «e allora le cose non erano facili per me, con un figlio piccolo e senza marito. Mi dà la sua parola di poliziotto che ci penserà lei a dirglielo?» «Sì, glielo prometto.» «Non so come ringraziarla,» disse, con la voce che le si affievoliva. Quando, poco dopo, mi accorsi che, stremata, si stava addormentando, il volto accaldato sepolto tra i cuscini del divano, mi alzai e me ne andai. Fuori Callow Street era ancora illuminata dalla luce dorata del crepuscolo. Sbucai in Fulham Road, dove un filo di vento soffiava via i gas di scarico prodotti dal traffico congestionato. Ritornai alla mia auto e mi accorsi che qualcuno, nel tentativo di parcheggiare davanti, l'aveva ammaccata; la lasciai dov'era e me ne andai a piedi fino a un bar che conoscevo, non lontano da Hollywood Road. Quando arrivai c'erano dentro soltanto quattro ubriaconi e una piacente nana dalle tette enormi che qualche tempo prima era stata la causa delle di-
missioni di un ministro. Ordinai un ring-a-ding e lo sorseggiai lentamente, da solo, a un'estremità del bancone, lo sguardo fisso sul bicchiere. Quando riabbassai la testa dopo averlo vuotato, la barista si avvicinò, fasciata in quella che sembrava un'uniforme da paracadutista, e mi chiese se ne volevo un altro. Lo volevo. Il mio orologio segnava le nove. Quando mi sentii meglio, finii il mio secondo bicchiere e pagai, malgrado non volessero permettermelo, nella speranza infondata che avrei messo una buona parola con i colleghi di Chelsea, e ritornai in strada. Giovani coppie se ne andavano verso i ristoranti stringendosi l'uno all'altra, mentre nel cielo sopra il Tamigi la luna appena spuntata faceva compagnia a una nuvola solitaria. 19 In Old Compton Street parcheggiai sulla doppia linea gialla e mi infilai nel German Pub. Un angolo era gremito di giovanotti di buona famiglia, del genere che ritira il sussidio di disoccupazione e fa il muratore o l'idraulico in nero; grandi e grossi, in maglietta, jeans Falmer macchiati di pittura e scarpe da ginnastica, bevevano lager ed erano evidentemente i responsabili dello sbarramento di motociclette fuori sul marciapiedi. Gli altri clienti erano greci, italiani, orientali o maltesi. Tra questi, alcuni erano commercianti o proprietari di qualche gastronomia della zona, ma la maggior parte erano protettori delle puttane che stazionavano davanti ai due banconi; sapevamo che era un luogo di adescamento ma non avevamo mai fatto nulla in proposito. Ogni provvedimento sarebbe stato inutile, il pub era situato in una posizione strategica, con gli alloggi delle puttane, i sex shop e il cinema porno proprio di fronte. Inoltre i rischi di una reazione del gestore per un'azione incauta erano troppo forti e i padroni delle birrerie hanno sempre una buona assistenza legale, la migliore. Perciò lasciavamo correre, limitandoci a uno o due arresti ogni tanto, senza suscitare troppo clamore. Per ordinare una lager dovetti urlare. "Just like a butterfly does" e "Woman in love" venivano vomitate a volume assordante dal juke-box, che era circondato da ragazze per la maggior parte, anche se non tutte, nere, e da potenziali clienti per la maggior parte, anche se non tutti, titubanti; nessuno di loro mi sembrò davvero promettente. Allora sorseggiai un po' di birra e mi diressi verso il gruppo dei giovani, portandomi dietro il boccale. «Salve,» dissi affabilmente. «Qualcuno di voi ha visto Eric?»
«Vuole dire Eric l'Ingegno? No, stasera non c'è.» «Era a secco,» aggiunse un altro, «sarà in giro a rimediare qualcosa.» «Cosa vuoi che rimedi, non è capace di rimediare neanche quando gli si slaccia una scarpa.» «Peccato,» dissi, «avevo qualcosa per lui.» «Soldi?» «Forse.» «Allora può andare a cercarlo a casa sua. Siete amici?» «Quasi parenti. È come se fossi suo zio.» «Sta in Petworth Street, al 18, terzo piano. Da questa parte del mercato di Berwick Street.» «Lo so,» dissi, «ma mi sembra che l'edificio sia inagibile.» «Infatti è occupato abusivamente,» replicò il ragazzo che aveva risposto per primo. «Non è venuto per caso a notificargli un mandato del tribunale?» domandò quello che gli era seduto accanto. «No di sicuro.» «E non viene neanche da parte del municipio, vero?» «Neanche per sogno.» «Allora, se è venuto davvero per portargli dei soldi, Eric mi deve dieci sterline.» «E a me quindici.» «Dio, quanto mi piace quella negretta laggiù, quella con il vestito di lustrini,» se ne uscì improvvisamente uno degli altri. «Scommettiamo il prossimo giro che non te la senti di andare a dirglielo.» «Cosa? Niente da fare,» rispose quello che aveva adocchiato la ragazza, arrossendo violentemente sotto i corti capelli chiari. «Posso presentartela io,» proposi. «No, davvero. Ho detto solo che mi piaceva, e basta.» «Ma non si sa mai,» insistetti, «è il genere di incontro da cui potrebbe scaturire qualcosa.» «No, per carità.» La conoscevo di vista. Si faceva chiamare Gloria Lovely, e mi ero imbattuto in lei anni prima, quando ero alla Buoncostume. Speravo soltanto che non mi riconoscesse, ma era alquanto improbabile, ne doveva incontrare di facce, con il mestiere che faceva. «Salve, Gloria.»
Appoggiò il suo martini sul bancone. «Come fai a sapere come mi chiamo?» domandò sospettosa. «Tramite un amico. Conosci Eric l'Ingegno?» Era un po' sbronza. A occhio non era dotata di un fegato in grado di sopportare troppi martini, e per giunta aveva fumato qualche spinello. «Vuoi dire quello che non gli si rizza? Magro, con i denti rovinati?» «Pare proprio lui.» «Lo conosco,» mormorò, come rimuginando, «mi deve cinque sterline. Ha vomitato nel letto la sera che sono andata con lui, e alla fine non gli bastavano i soldi. Gli ho detto che per quella volta gli avrei risparmiato la rasoiata. Non so perché, non imparo mai,» concluse, con un profondo sospiro. «C'è uno di quei ragazzi là che impazzisce per conoscerti,» dissi. «Veramente?» rispose, inarcando le sopracciglia tinte, come i capelli, di arancione. «Quale? Uno di quei verginelli laggiù?» «Dovranno pur cominciare, presto o tardi.» «Certo, ma perché proprio con me?» disse amaramente. «Quelli sono tutti senza un soldo.» «Oh, andiamo. Non hai niente da perdere, come minimo ti offriranno da bere, mentre qui non stai concludendo nulla.» «Se proprio devo, credo che accetterò. Ma se si fa vedere un solo cliente serio, arrivederci e grazie.» «Lo sanno,» la rassicurai. «È nel contratto standard.» «Ma in quanti sono? Tutti quelli? Che intenzioni avrebbero, sbattermi tutti in gruppo?» Mi fissò. «Non sono sicura di non preferire te, invece.» «No, io no. Sono sposato con tre figli.» «Come quasi tutti.» «In ogni caso, non potrei permettermelo, ho un'ipoteca che mi strozza.» Un lampo le guizzò negli occhi. «Non sarai mica della polizia?» «No, accidenti. Come ti è venuto in mente?» «Non lo so. È che di solito riesco a riconoscerli.» «Niente paura, sono impiegato alla British Rail,» le dissi, prendendola per un braccio. «Andiamo, Gloria. Lo sai di avere un nome di origine latina?» Mi seguì riluttante. «Sono convinta che a voi uomini, più siete avanti con gli anni, più vi si rizza. Non che mi interessi molto, mi vanno bene anche loro, purché non
mi vomitino nel letto,» concluse. Raggiungemmo il gruppo dei giovani. «Questa è Gloria. Chi è che le offre da bere?» dissi. «Cosa prendi?» si precipitò a chiederle il ragazzo con i capelli chiari. «Un doppio brandy,» rispose, stiracchiandosi letargicamente. Mentre l'altro si allontanava verso il banco, si rivolse a me: «Aveva un tono che gli veniva dritto da dentro i calzoni, non è vero?» Dopo una pausa, aggiunse: «Ma davvero conosci Eric l'Ingegno?» «Ma certo.» «Non sono affari miei, ma hai amici proprio strani.» «Cos'ha di strano?» «Le donne devono stare molto attente con Eric. È un tipo pericoloso, è meglio stargli alla larga. Gli piace fare cose strane alle ragazze.» Si concentrò intensamente e poi proseguì: «Sai, è fuso, come un mangianastri che hai attaccato a una corrente troppo forte. Completamente partito.» 20 Petworth Street non era molto distante dal pub, e trovai subito il numero diciotto; era la porta che nel buio sbatteva al vento davanti a una pila alta tre piedi di spazzatura delle bancarelle. La porta sbatteva perché non si chiudeva, e non si chiudeva perché gli ambulanti adoperavano l'atrio al piano terra come deposito per i carretti e le casse vuote. Mi fermai un minuto ai piedi delle scale nell'oscurità, quindi estrassi la mia torcia elettrica (come si potrebbe farne a meno nella Londra di oggi?) Cercai un interruttore per illuminare le rampe di cemento che mi si spalancavano davanti; ce n'era uno, ma non funzionava. Dietro la porta d'entrata c'era un cestello di fil di ferro pieno di posta. Pareva posta sgradita, quella che arriva in buste gialle, e che evidentemente nessuno aveva mai letto, visto che doveva essere lì da un bel pezzo. La scorsi ugualmente, ma non c'era nulla per Eric. Dopo essere salito per tutte le rampe di scale - ad ogni piano una porta a destra, una a sinistra - raggiunsi il terzo piano. Sul pianerottolo si aprivano due porte sfondate, due cessi, uno dei quali senza più vaso e con la cassetta dell'acqua rotta. L'intero edificio puzzava. In fondo al ballatoio, una ringhiera verde correva lungo una ampia apertura priva di vetri. Mi ci sporsi sopra e guardai giù nel pozzo dell'edificio; sul fondo giacevano materassi marciti e una bicicletta arrugginita. In fondo c'erano le due solite porte, una
di fronte all'altra; sotto quella di sinistra filtrava un filo di luce, e risuonava musica rock. Andai a bussare a quella. Attraverso le sottili tavole di legno udii un respiro, e quando bussai di nuovo, una voce nasale urlò: «Chi è?» «Eric, sono io.» «Non ti conosco, la tua voce non l'ho mai sentita.» «Probabilmente no, ma è una visita che dovevi aspettarti.» «Non ho nessuna intenzione di aprire,» «Che seccatura. Vuol dire che dovrò ritornare con rinforzi.» «A quest'ora non puoi certo venire da parte del consiglio comunale. Allora, che cosa vuoi?» «Aprimi e lo scoprirai. Andiamo, prima o poi ti toccherà farlo, e più fastidi mi avrai dato, peggio te la caverai.» Afferrò la situazione. Sentii passi che si trascinavano verso la porta, e una mano che trafficava con la serratura Yale. Appena si aprì uno spiraglio, mi infilai dentro. «Grazie,» dissi, «ma quante storie.» Eric era alto, magro, messo male. Era sui venticinque anni e aveva davvero i denti rovinati. Non assomigliava molto a sua madre, se non per i capelli, quei pochi che gli erano rimasti, che avevano una sfumatura rossiccia. Alle sue spalle la musica tuonava: 'I like to rock all day! I like to rock all night!" «Spegni quella roba,» gli ingiunsi, «ho bisogno di parlarti.» Abbassò il volume e chiese: «Di che cosa?» «Del tuo patrigno, Charles Staniland.» «Che gli è successo?» «È morto.» «Sai quanto me ne fotte,» disse. «E tu chi sei, stronzo?» «Sono un poliziotto,» risposi, «perciò tieni a freno la lingua, perché se te ne lasci scappare un'altra come questa, te la strappo via.» «Vediamo il tesserino,» borbottò con voce annoiata. Quando glielo mostrai, riprese: «Oh, Cristo! Senta, sono a pezzi, non riesco neanche a reggermi in piedi.» Aveva una voce sottile come la sua figura, che andava su e giù di tono come un violino scordato.
«Sono troppo vecchio per la vita, troppo vecchio per spassarmela, amico,» continuò, «nessuno resiste in eterno.» «Mi sembra che tu non corra questo rischio,» gli dissi. Non era ancora in grado di ragionare; capii che la sua indifferenza a me, alla morte di Staniland, dipendevano dall'aver preso chissà quale droga, i cui effetti non erano ancora completamente svaniti. Ma non mi interessava; potevo aspettare tutto il tempo che ci sarebbe voluto. «Quanti anni hai?» «Ventiquattro. Li dimostro tutti, non è vero, nonno?» «In effetti, dai l'impressione di aver vissuto,» ammisi, «solo pare che il film sia stato proiettato al contrario.» «In fondo bisogna pur vivere. Alla mia età uno deve vivere, spassarsela, per sopportare in qualche modo questo inferno. Davvero è un inferno, ma è così che tutto va in malora, nonno.» «Ragazzo mio, tu avresti bisogno di una regolata alle rotelle. Io ho quarantun anni, ma potrei farti rimbalzare qua e là come una palla di gomma.» «È facile arrivare agli insulti o alla violenza,» ribatté tremante di sdegno, «soprattutto se si fa il poliziotto.» «Proprio così,» assentii distrattamente, mentre davo un'occhiata in giro per la stanza. C'erano due sedie e un letto sul quale erano ammucchiate in disordine coperte dell'esercito; una rivista pornografica ero posata sul cuscino da seggiola che fungeva da guanciale; sul tavolo c'erano gli avanzi repellenti di un pasto surgelato, una porzione di spezzatino con patate e una fetta di pane. Osservai Eric dalla testa ai piedi. Portava un'ampia tunica marrone, come quella di un monaco, che gli lasciava scoperte le lunghe gambe bianche e mollicce e i sandali del tutto consumati, forse sul ciglio di una strada mentre chiedeva un passaggio. Dalle pieghe della veste tirò fuori un sacchetto di plastica che aveva contenuto in origine tabacco olandese, legato da un elastico avvolto attorno a un accendino perché si tendesse; mentre mi fissava, continuò a rigirare l'accendino finché l'elastico si spezzò, spargendo una pioggia di frammenti brunastri sul pavimento. «Merda!» esclamò, chinandosi. «Vediamo un po', direi che è proprio merda,» dissi, raccogliendone un po'. Infatti era hascisc. Il povero disgraziato ridacchiò istericamente su un tono acuto, innaturale, ma non avevo intenzione di arrestarlo; non me la sarei sentita, a meno che non fosse indispensabile esercitare una pressione
per ottenere qualcosa d'altro. D'altronde era evidente che era già stato in galera, visto che lo proclamava con il tatuaggio 'Wandsworth I love you' sul braccio sinistro. Ma stavo indagando su una tragedia ben più grave di quella di Eric. Eric se la sarebbe cavata fino a quando se la può cavare uno con i suoi problemi. Avrebbe potuto persino stabilirsi in qualche posto sperduto in campagna, mantenuto da qualche ragazza impegnata a redimerlo, e passare le giornate a intrecciare vimini all'ombra di un albero, mentre lei zappa l'orto, senza lamentarsi, in un alone di martirio, sudore e minestre liofilizzate. Alla domenica il babbo e la mamma di lei sarebbero venuti a trovarli, da buoni genitori borghesi, e avrebbero trascorso l'intero pomeriggio a guardarli impotenti, lei che zappa mentre lui ridacchia, per ripartirsene poi nell'auto di famiglia, fissando ammutoliti il parabrezza per tutto il viaggio di ritorno, senza mai guardarsi negli occhi. Un giorno infine, per una qualsiasi ragione o più probabilmente senza la minima ragione, il loro rapporto, spezzatosi bruscamente, avrebbe forse prodotto, nel caso di un epilogo violento, una dozzina di righe in una pagina interna di News of the world, corredate da una foto sfocata con sfondo di erbacce e capanno degli attrezzi. «Devi dirmi tutto sui rapporti tra te e il tuo patrigno.» «Non c'è nulla da dire.» «Ma io non sono d'accordo,» insistetti. Lo osservavo mentre cercava di raccogliere disperatamente le briciole della sua roba dal pavimento; troppo indolente per inginocchiarsi, cercava di farlo chinandosi dalla sedia. «Vogliamo ritornare alla realtà? Il tuo patrigno è stato assassinato. Assassinato, ti rendi conto?» «Certo, certo, ho capito.» «È meglio che tu dia un'occhiata a questa,» gli dissi, porgendogli una foto di Staniland all'obitorio, «dato che sei un congiunto.» La osservò. «Dio mio,» esclamò, con voce incrinata, «è proprio lui?» «Era lui. Quelli come te evitano di pensare alla morte, ma questo è ciò che succede.» «Va bene, va bene,» disse. Sembrava essersi rattrappito. «Non ne sapevi proprio niente?» «Chi, io? Assolutamente no.» «Ti ha colto del tutto di sorpresa?» «Ma certo!» «Per tirarti fuori dai pasticci è stato necessario che un altro morisse?»
«Non è vero! Deve aver combinato lui qualche guaio. Era sconvolto dopo la rottura con mia madre! Era disperato per via della mia sorellastra. Io non gli davo nessun pensiero.» «Andiamo, Eric,» gli dissi recisamente. «non crederai di convincermi così. Adesso sarò meno tenero. Cosa ne hai fatto di quei soldi?» «Soldi? Quali soldi? Non ho idea di cosa stai parlando.» «Invece sì. Ti aveva dato dei soldi.» «Questi sono fatti miei.» «Invece no. Devi riferirmi tutto.» «Non mi ricordo.» «Va bene, allora aspetteremo insieme finche non riuscirai a ricordare. Di quale droga non riesci a fare a meno?» «Per un po' di merda che mi è caduta sul pavimento...» «Mi riferivo a una sostanza ben più costosa dell'hascisc. Di che si tratta? Cocaina? Eroina?» «Perché? Vuoi sbattermi dentro?» «Non voglio prendermi questo fastidio. Se ne avessi voglia, potrei passare tutta la vita a sbattere dentro fenomeni foruncolosi come te. Però potrei arrestarti con questa accusa, in attesa di poterne formulare un'altra, dipende da te. Come niente ti ritroveresti a Brixton in custodia cautelare, e tu non hai voglia di finire di nuovo in gabbia, non è vero? L'ultima volta è stato solo per furto, ma stavolta sarebbe ben più grave; la condanna sarà più pesante, Eric, ben più pesante.» «Guarda, se vuoi arrestarmi, arrestami. Ma io della morte del mio patrigno non so assolutamente nulla.» «Questa è la tua ultima parola?» «Sicuramente.» «Se mi hai detto la verità, sei a posto. Ma in caso contrario, Eric, ti stai comportando come un idiota di prima categoria; ti converrebbe, per la tua incolumità, dirmi la verità e saresti molto più al sicuro in gattabuia che in giro per le strade. A proposito, mi daresti una tua fotografia?» «Non ne ho.» «Invece ce l'hai. Hai il passaporto, ho controllato,» tesi la mano, «dammelo, mi serve la foto.» Rovistò in un cassetto stipatissimo e alla fine lo tirò fuori. Lo aprii per guardare la foto. Non era molto somigliante, ma poteva andare. Lo intascai. «Grazie,» dissi. «Allora, io sono convinto che mi stai mentendo, Eric;
sono convinto che mentire faccia parte della tua natura. Quindi farò girare questa foto tra certe persone, e se salta fuori che ti conoscono, che Dio t'aiuti, ragazzo mio. Capito?» Deglutì. «Ma io vado sempre in giro. Continuamente.» «Ciò che importa è dove vai,» replicai, «e con chi. Bazzichi anche la parte sud della città?» «No.» «Però qualche volta ci sei andato?» «Sono andato dappertutto, qualche volta. Ti ho già detto che sono continuamente in giro.» «Va bene, lasciamo perdere per il momento e ritorniamo piuttosto ai soldi del tuo patrigno. Li hai spesi per bucarti, non è vero, Eric? Qualche volta sarà stato anche fumo, ma più spesso un po' di eroina, se avevi bisogno di una botta più forte.» «Non mi sono mai bucato!» «Andiamo, non ho certo bisogno di cercare i segni delle punture per essere certo che ti buchi. I tuoi amici ti chiamano l'Ingegno, non è vero?» «Qualcuno mi chiama così.» «E con cosa ti ingegni, vorrei sapere, oltre che con la siringa? Proprio non riesco a immaginarlo. Escluderei che tu vada a donne di frequente, per esempio: mi è giunta voce che non sei affatto focoso a letto, ma ciò non mi meraviglia, se sei continuamente sotto gli effetti della droga. Grazie ai soldi altrui, non è così? Coraggio, ammettilo. Comincio a essere stufo di te, Eric, e, dal tuo punto di vista, questa è una notizia preoccupante.» «Mi lasci un attimo di respiro. Ammetto di essere confuso e disorientato. Lo psichiatra dice che è perché non ho mai conosciuto mio padre.» «Però non ti è andata affatto male col tuo patrigno, anzi, direi che te la sei cavata meglio di tanti altri ragazzi con il loro vero padre. Direi che hai avuto un'istruzione decorosa, a giudicare da quell'intonazione priva di accento che oggigiorno si acquista in scuole costose. Chi te le ha pagate? Che scuola era, Eric?» Me lo disse. Si trattava di uno di quegli istituti privati per fannulloni, purché di famiglia da benestante e ricca, rimasti indietro con gli studi. Sfornava falliti, rivoluzionari mancati, tossicodipendenti a dozzine; avevo avuto a che fare con i suoi prodotti in altre occasioni. «Tua madre contribuiva alla retta? Parla Eric, avanti. Faccio presto a controllare: mi basta contattare la scuola.»
«No, le dico. Ha pagato sempre tutto lui.» «E ti viziava, per giunta?» «Si potrebbe anche dire così.» «Dovresti farti sistemare i denti,» dissi soprappensiero, «Alla tua età non bisognerebbe trascurarsi così.» «In questo il mio patrigno non era certo un buon esempio, sempre ubriaco.» «Non ti piaceva molto, vero? Non gli volevi veramente bene, nonostante quello che aveva fatto per te.» «Neanche lui me ne voleva.» «Doveva volertene almeno un po', altrimenti perché ti avrebbe dato quelle cinquecento sterline?» «Come cazzo fa a saperlo?» «Sono dettagli che non ti interessano. Semplicemente so che te le ha date, come so che non ti ha dato solo quelle. Hai avuto due assegni, uno da cinquecento, l'altro da trecento. Fino all'ultima goccia lo hai spremuto, eh?» «Non è vero, non l'ho fatto.» «Invece sì che l'hai fatto.» «Se l'ho fatto, l'ho fatto senza saperlo.» «In che modo lo hai costretto a tirare fuori i soldi?» «Ma cosa dice, costretto! Gli ho detto che ne avevo bisogno e lui me li ha dati.» «Si è lasciato commuovere facilmente.» «Proprio così.» «Devi sapere, Eric, che talvolta la vita mi pare proprio strana, soprattutto quando parlo con un bugiardo. Quello che veramente gli hai detto è stato: "Dammeli, altrimenti..." Sapevi maledettamente bene che non possedeva una somma simile. Lo hai costretto a farseli prestare dalla banca. Gli hai reso la vita un inferno finché non si è deciso ad andare alla banca.» «Non è vero!» «Stai mentendo ancora,» insistetti, «sei davvero un bugiardo incorreggibile. Voglio sapere in che modo te li sei fatti dare.» Non aprì bocca. «Vediamo, proverò io a fare un'ipotesi,» continuai. «Io credo che tu ti sia detto: è un ubriacone, si spaventerà subito e non opporrà resistenza, sarà una preda facile, e che ti sia deciso ad agire spietatamente. Credo che tu abbia chiamato qualche altro ingegno par tuo, e voglio sapere chi era.»
«Io non ho chiamato nessuno!» «Invece penso di sì, per la semplice ragione che tu non hai fegato, non saresti capace di affrontare un alcolizzato cinquantenne senza chiedere aiuto. Ma sai come si definisce questa faccenda nella procedura penale? Un procuratore la definirebbe estorsione aggravata, con minacce, e comporta da cinque a sette anni di gattabuia, se ti inchiodano. Non avresti dovuto prendere gli assegni, ecco l'errore che hai commesso, perché gli assegni vanno girati e sarà semplice provare attraverso la grafia che la girata è stata fatta da te anche se hai usato un nome falso.» «Le assicuro che mi ha dato quei soldi di sua spontanea volontà.» «Nessuna giuria sarà disposta a crederlo. Si tratta di omicidio, Eric, e tu hai precedenti e un movente.» «Maledizione, sta cercando di incastrarmi.» «Ti sei incastrato con le tue stesse mani. E giacché stiamo parlando di quattrini, ci sarebbero altre trecento sterline mancanti. Ti ha dato anche quelle?» «No! Ottocento in tutto. Davvero.» «Non so se crederci. Scommetto che ti rivolgevi al tuo patrigno ogni volta che ti mancavano i soldi per una dose.» «Niente affatto, glielo garantisco.» «Io ne sono convinto. Non credo che saresti stato in grado di procurarti denaro se non dal tuo patrigno. Non sei capace di mantenerti, trovando un lavoro in un cantiere o qualcosa del genere. No. Però il nostro caro Eric deve ugualmente ottenere la sua dose. Peccato che alla fine il giocattolo con cui si ingegnava si sia spezzato. Non hai potuto dare un altro giro di vite: il vecchio era rimasto senza più quattrini. Scommetto che all'inizio ti dovevi sentire davvero in gamba, quando per esempio arrivavi al pub sfoggiando tutti quei soldi. Sarà stato allora che avranno cominciato a soprannominarti l'Ingegno. Non mi meraviglierebbe se ti fossi messo tu stesso il nomignolo. Perdio, mi sciolgo di ammirazione per te, Eric; sono quasi estasiato.» «Ma ho appena finito di dirle...» «Però non te la saresti sentita di esercitare il famoso ingegno su nessun altro, non è vero? No di certo, perché uno qualsiasi con le palle ti avrebbe mandato a farti fottere, e tu saresti scoppiato a piangere, esattamente come ti sta capitando adesso. Non sei altro che un ragazzino malvagio, Eric: ogni volta che crolla uno dei tuoi mostruosi castelli di sabbia ti metti a frignare e cerchi di vendicarti su qualcuno più piccolo di te. Probabilmente ti con-
sideri un rifiuto della società: è una buona scusa per crogiolarsi nell'autocommiserazione. Ma in fondo, Eric, sei solo un segaiolo. Tu e i tuoi compari inizialmente volevate soltanto malmenare un poco il tuo patrigno, e poi non siete stati più capaci di fermarvi. Non è andata così?» «No!» Si accasciò sulla sedia, uno spettacolo ridicolo nella sua stupida veste, e mi fissò con gli occhi offuscati dalle lacrime. Tremava irrefrenabilmente come se improvvisamente avesse sbattuto la faccia contro la propria malvagità. «Me li dava così facilmente le prime volte, senza farsi pregare.» «Ma le volte successive è stato più recalcitrante, tu hai perso la pazienza e hai voluto malmenarlo, e poi le cose vi sono sfuggite di mano e tutti hanno preso a colpirlo finché non lo avete lasciato morto.» «No, non è vero niente,» singhiozzò, «non l'ho ucciso, non è andata come dice. L'ultima volta non sono riuscito a fargli tirar fuori nulla. Ed ero da solo con lui e non l'ho neanche toccato. Ho intuito che gli avevo ormai spillato tutto quel che potevo.» «Forse l'ultima volta era sobrio,» osservai tetro, «cosicché è stata la seconda volta che hai usato la maniera forte.» «Be', in effetti, in un certo senso è caduto, sì.» «Vuoi dire che quella volta in un certo senso lo hai spintonato, finché in un certo senso è caduto.» «Va bene, lo ammetto. Ma la prima volta è stato davvero facile.» «Sì, la prima volta è stato facile perché era il tipo di persona che avrebbe dato a chiunque tutto ciò che possedeva. Me l'ha detto tua madre.» «Mia madre è solo una puttana!» gridò tra le lacrime. «Che sia vero o falso,» replicai, «tu sei l'ultimo che può permettersi di giudicare le persone. Io credo che tu non solo abbia ucciso il tuo patrigno, Eric, ma guarda che cosa sei arrivato a fargli. Guarda di nuovo questa foto.» «Non è vero!» «Quanto forte lo hai colpito, Eric? All'inizio, non appena ti ha detto che non ti avrebbe dato altri soldi?» «Solamente una sberla! Non lo so. Solo un paio di sberle!» «Non volevi altro che la tua dose, ed eri senza un soldo, e in ogni modo lo odiavi e disprezzavi profondamente.» «Sì, va bene, però non l'ho ucciso!» «Adesso mi sorge un dubbio.»
«Che dubbio?» «Che non sia il caso che io perquisisca la stanza, e poi probabilmente ti arresti per detenzione di droghe pesanti, altrimenti anche per lesioni aggravate, e ti porti fino alla Factory in modo che tu possa ripetere lì quello che mi hai appena detto.» «Cosa, alla Factory?» gemette, «In Poland Street? Maledizione, sarebbe stato meglio se mi fossi impiccato e l'avessi fatta finita.» «Oh, non è così terribile,» dissi, «anche se ovviamente se non collabori potresti prenderti qualche schiaffetto. Invece io non ho intenzione di toccarti, così ti resta quest'ultima occasione di raccontarmi quello che è successo veramente.» «Senta, non l'ho ucciso io, gliel'ho già ripetuto dozzine di volte. Lo giuro. Se solo non mi avesse sfottuto...» «E se non fossi stato sotto stupefacenti...» «No, è stato solo perché si è messo a prendermi in giro. Ecco perché l'ho colpito.» «In effetti, ho sentito che aveva la lingua pungente, e con te non gli mancavano certo gli spunti. Mi sono preso la briga di spulciare la tua fedina: pare che tu abbia avuto noie con la polizia sin da quando portavi ancora i pantaloni corti.» «Le ho spiegato che sono affetto da problemi psichici, avrei bisogno di uno psichiatra.» «Se è per questo, vedrai che Lord Longford te ne troverà uno abbastanza in fretta, non ti preoccupare. Ma sostieni che le tue magagne mentali non ti avrebbero fatto arrivare ad ammazzare il tuo patrigno, solo a prenderlo a ceffoni. Neanche sotto l'effetto dell'eroina? O in crisi di astinenza?» «No, maledizione! Non avrei mai potuto farlo.» «Non regge, Eric. Lo sai, potresti davvero finire dentro per questa faccenda, ragazzo mio.» «Ma io non avrei potuto fargli tutte queste ferite,» strillò. «Non capisce? Non ce l'avrei fatta fisicamente!» «Ma nessuno sta dicendo che eri da solo,» gli ricordai, tirando fuori il mio blocco per appunti. «Cominciamo a sentire come si chiamavano.» «Non posso! Mi ucciderebbero se li denunciassi.» «In tal caso ritengo che la cosa più opportuna per proteggerti sarebbe portarti in prigione.» «No! Stavo quasi per diventare pazzo, l'ultima volta che sono stato dentro. Sono sicuro che stavolta non avrei scampo.»
Misi via il taccuino, mi alzai e dissi: «D'accordo. Ti lascerò in sospeso, per il momento, e ciò vuol dire che non dovrai muoverti di qui. Se in qualsiasi momento torno a cercarti e non ti trovo qui, che Dio ti aiuti. Se esci di casa o, come è più probabile, ti sbattono fuori, chiami il numero che ti darò e lasci detto dove posso trovarti. È estremamente facile. Mi hai capito?» «Sì.» Gli scrissi il numero telefonico. «Sono molto, molto serio, Eric. Fai un solo tentativo di sparire, uno solo, e finisci dritto dentro.» Arrivato alla porta, mi colse un pensiero e mi voltai. «Un ultimo consiglio, Eric. Non andrei a raccontare ai tuoi compari di questo incontro; hanno l'aria di essere senza scrupoli. Anzi, non farei parola di questa chiacchierata con nessuno, non si sa mai. Dimmi, non ti pare che sia un buon consiglio?» Annuì. «Allora seguilo, mi raccomando.» Ma ero certo che non l'avrebbe fatto. 21 Si chiamava 84 Club perché si trovava a quel numero civico di Crispian Road, nei pressi del London Bridge sulla sponda meridionale. Magazzini falliti o abbandonati costeggiavano il fiume; tutta la zona era destinata a essere rasa al suolo dalle ruspe per far sorgere un nuova quartiere, e allora sarebbe diventata elegante. Ma mi chiedevo se sarebbe mai accaduto. L'84 era la quinta discoteca che provavo. Avevo passato in rassegna quelle della sponda sud andando verso est, a partire dall'Elephant. Non ero stato fortunato con le precedenti, e non avevo nessuna ragione di credere che con questa sarebbe andata diversamente. Tuttavia, bisognava verificare. Il posto era addobbato come una galleria degli orrori, con la scenografia fatta al risparmio. Ragnatele di plastica erano disseminate dove nessun ragno si sarebbe mai sognato di tesserle, diavoli e mostri rilucevano con lampadine da venticinque watt all'interno, lunghe ossa bianche pendevano dal soffitto, e così via. L'unica cosa che non era finta era l'umidità. La clientela era mista, black&white, come il whisky: una miscela esplosiva, e mi chiesi se i malavitosi che dirigevano il locale sapevano come trattarla. Avevo idea di sì.
Mi fermai sull'entrata a osservare. La pista era gremita. Sentivo nell'aria liquori forti e sesso, sudore, e anche qualcos'altro, come fumo di erba. Il gorilla mi interpellò dalla sua cabina: «Posso aiutarti, Jack?» «Sto solo guardando.» «Questo lo vedo, Jack, e allora proverò un'altra volta: posso aiutarti?» «Forse. Sto cercando una certa Babsie.» «Non mi interessa neanche se stai cercando una lama di rasoio da infilarti nel culo, Jack, qui l'ingresso è riservato ai soci.» «Peccato che all'Ente del Turismo non siano al corrente di come ti esprimi,» dissi, «perché secondo me ti riempirebbero di pullman qui fuori. Modi squisiti quali i tuoi, da vecchia Inghilterra, sono ormai quasi scomparsi in tutto il paese.» «Senti,» si infuriò quando finalmente la scintilla scoccò, «vuoi che venga lì fuori a farti assaggiare i miei modi sul muso?» «Vieni, perché no?» risposi. «Se a casa hai una faccia di ricambio.» Con un sol balzo uscì da dietro il suo bancone. «Va bene, un'altra sola parola del genere...» Tirai fuori un biglietto da cinque, ma non appena fece per prenderlo, lo afferrai per il mignolo. «Se ti muovi, te lo spezzo,» lo avvisai. «E ti assicuro che fa molto male.» «Ma sei una specie di sadico o semplicemente uno svitato in cerca di rogne? In ogni caso, qui ne troverai in abbondanza.» «Sono solo uno che si è seccato di come lo hai aggredito,» dissi. «Voglio essere un socio temporaneo, tutto qui, e senza tante chiacchiere.» «Bene, perché non l'hai detto subito? Puoi mollare il mio dito, allora?» «Tieni, tutto per te.» Gli diedi anche le cinque sterline. Stava per aprir bocca per dire che non bastavano, ma io lo anticipai: «Con quelle mi pago l'ingresso e una bottiglia.» «Ma che cazzo ti sei messo in testa,» sbraitò. «Cinque sterline?» «Se non bastano sarò costretto a parlare al tuo direttore a proposito della vostra licenza per gli alcolici, e sarà meglio che ti avvisi che sono un parlamentare laburista.» «Cazzo, Jack,» disse, indietreggiando, «non sapevo che a Westminster si dedicassero alle tecniche di combattimento a mani nude.» «Ci sono molte cose che non sai,» risposi. «Per esempio, non mi chiamo Jack.»
Presi il biglietto e mi feci strada fino al bar. Il barista doveva aver notato la scena alla porta, perché mi servì immediatamente. «Cosa prende?» urlò per sovrastare Joan Armatrading. «Un ring-a-ding.» Svitò il tappo di una bottiglia di Bell's, prese un bicchiere e del ghiaccio e sbatté tutto sul banco; poi, come in un ripensamento, ci fece scivolare accanto una bottiglia che sull'etichetta diceva Malvern Water, sebbene avessi appena visto che il suo contenuto proveniva dal rubinetto. «È solo?» «Già.» «Le sta bene così?» «Per il momento.» «Altrimenti potrei trovarle io una compagnia.» «Ti farò sapere.» Mi versai da bere e mi voltai, appoggiando la schiena al banco, a guardare l'infuriare delle danze. Un centinaio di coppie si dimenavano al frastuono della musica. Mi accorsi di avere accanto un tipo basso con un tale pancione che la sua cintura a stento riusciva a contenerlo. Doveva essere tra i quaranta e i quarantacinque ma pareva più vecchio per via delle borse che si ritrovava sotto gli occhi, come se gliele avessero cucite in sartoria. Il bianco degli occhi era rosso come tutto ciò che di lui spuntava dal vestito, che invece era nero, e la cravatta era blu, con un doppio nodo Windsor. «Sei in cerca di una ragazza?» mi chiese. «Io sempre.» «Anch'io. Lavoro qui, sai? Però questa è la mia sera libera.» «Allora le conosci tutte. Ma a me ne interessa in realtà una sola. Frequenta i locali qua attorno.» «Come si chiama?» «Babsie.» «Ah, lei. Sì, deve essere qui in giro, l'ho già vista stasera.» Mi squadrò con un'occhiata, come per classificarmi. «Ti piace proprio?» «Finora l'ho soltanto guardata. Perché?» «Niente.» Si concentrò a fondo, accigliandosi nello sforzo. Stava bevendo vodka e acqua tonica, ed era tutt'altro che sobrio. Alla fine si decise a chiedere: «Di' un po', te ne sei portata di grana?» «Potrei arrivare a venti sterline.» «Perfetto. Supponiamo che io ci metta altrettanto, recuperi Babsie e la mia amichetta e ci facciamo un doppio? Cosa ne dici?»
«Non mi sembra una cattiva idea.» «D'accordo, vado immediatamente a vedere se riesco a trovare Babsie.» Gli passai un biglietto da cinque, dicendogli: «Grazie, mi stai facendo un favore da vero amico.» Si cacciò la banconota in tasca, annunciandomi: «Passo all'azione. Incontrò qualche difficoltà nel farlo, ma alla fine sfrecciò attraverso la pista, urtando diversi ballerini.» «A proposito,» mi urlò voltandosi, «mi chiamo Tom.» «OK, Tom.» Saettò via, sbatté contro una ragazzona in jeans rimbalzando come una palla da biliardo e si infilò in una uscita di servizio. Aspettai. Dopo un po' una voce di donna mormorò al mio orecchio: «Non lo stai bevendo, il tuo scotch.» Mi voltai verso di lei. «No, è vero. Fammi compagnia.» Battei sul bancone per chiedere un altro bicchiere, lo presi e glielo riempii. «Allora, alla salute. Io sono Babsie,» disse, guardandomi circospetta, «ma non mi sembra proprio di conoscerti.» «Mi auguro di poter rimediare in fretta.» «Oh, dici davvero?» Aveva una sorta di magnetismo. Adesso che l'avevo davanti, capivo cosa aveva voluto dire Staniland. Se eri aperto e disponibile, qualcosa di ruvido e vellutato al tempo stesso balenava in lei e ti afferrava. Io mi sentivo alquanto aperto e disponibile. «Frequenti parecchio i locali notturni da queste parti?» mi chiese. «Abbastanza.» «Strano, ma non mi sembra di conoscerti. Quelli soliti li conosco quasi tutti.» «Non sono dei soliti.» «Ma allora dov'è che mi hai visto?» «All'Hard Rock.» «Quindi è stato un bel po' di tempo fa.» «Sei un tipo che non si dimentica facilmente.» «Sarei ricca se avessi una sterlina per ogni uomo che mi ha detto così.» Adesso riuscivo a immaginare cosa doveva aver passato con lei Staniland. Era alta e bionda, con due belle gambe e un didietro ancora meglio, tette abbondanti senza essere grottesche. Non era solo il viso con i denti
aguzzi e splendenti e le palpebre pigre; era l'ostentato disinteresse con cui guardava gli uomini, come se in ogni caso lei se ne infischiasse. «Vuoi ballare?» mi chiese. «Perché no?» Ci sapeva fare. Ballavamo stando abbastanza distanti, ma ogni tanto la stringevo alla vita, e la facevo dondolare seguendo la musica; si muoveva con disinvoltura, senza perdere il ritmo, come una macchina ben oliata. Ma una macchina non mi avrebbe dato una scossa elettrica ogni volta che ci toccavamo; notai però che lei invece sembrava protetta da un isolante. La pista mi parve svuotarsi, quasi che gli altri danzatori fossero svaniti. A un certo punto un bulletto tutto vestito di pelle nera si avvicinò tendendo un braccio verso di lei. «Adesso no, Dave.» «Dai, Babs, andiamo.» Mi aveva completamente ignorato, come se non esistessi. «Ti ho detto di toglierti dai piedi.» Osservai con interesse come si afflosciava. «Ci vediamo dopo,» disse con un tono di velata minaccia. «Cercati qualcun'altra,» gli disse lei, «io sono occupata.» Alle sue spalle uno dei suoi amici rise; di colpo mi sentii immedesimato in Staniland, che si chiedeva come comportarsi quando all'Agincourt Fenton lo trattava allo stesso modo. «Balliamo,» continuò rivolta a me. Il bullo ci voltò le spalle e si allontanò lentamente verso il bar con i suoi amici. Riprendemmo a ballare. «Balli bene,» mi urlò, al di sopra della musica. Non risposi. L'ho cercata e finalmente ora l'ho trovata, pensavo. Avevo capito come mai Margo o qualsiasi altra donna non avessero significato più nulla per Staniland da quando era entrata in scena Barbara. Alla fine ne avemmo abbastanza di ballare. Quando ritornammo al bar, Tom e la sua amica ci stavano aspettando. Stavamo bevendo tutti e quattro, quando lui si avvicinò a Barbara e le bisbigliò qualcosa all'orecchio. «Niente da fare,» gli rispose lei. Tom si fece da parte e rimase un po' a rimuginare. Adesso era completamente sbronzo. Poi si riavvicinò per mormorarle ancora qualcosa. La donna che era con lui non lo gradì. Aveva i capelli tinti di nero, e la fede che portava all'anulare quasi scompariva nel grasso del dito. Una fede che dimostrava la fragilità di qualsiasi decisione presa in stato di semiubriachez-
za davanti all'ufficiale di stato civile. «Senti Tom, non ne voglio sapere,» gli disse Barbara. «Vai a farti fottere.» Glielo disse brutalmente, e lo vidi sgonfiarsi esattamente come il bullo, quasi che l'avesse punto con qualcosa di acuminato. Dimostrava una certa pratica. Alla fine la donna lo trascinò via, ma prima di andarsene scaraventò il suo bicchiere vuoto sul pavimento. «Andiamo, vieni via,» disse la donna, strattonandolo, «vuoi farti ammazzare, coglione?» «Troia!» gridava all'indirizzo di Barbara. «Puttana!» «Certo che tu sai come si trattano gli uomini,» le dissi una volta che se ne furono andati. «In che senso?» replicò lei con un tono glaciale. «Cosa voleva da te?» «Ah, quello?» rispose sbadigliando. «Gli piacciono le partite di doppio, altrimenti non gli si rizza. Ma cosa crede?» Tom mi aveva fatto capire ciò che Staniland era arrivato a comprendere, che più un uomo supplicava Barbara, più lei godeva a non concedersi a lui. «Bene,» me ne uscii all'improvviso, «devo andare.» «Perché? Non hai ancora finito la tua bottiglia. È presto.» «È stato un piacere,» continuai, «ma debbo salutarti. Finisci tu la bottiglia.» Raccolsi il mio pacchetto di sigarette dal banco. «Guarda, lasciamo perdere la bottiglia,» propose lei, «e andiamocene a finire assieme qualcos'altro. Ce l'hai un posto?» Pensai al mio squallido appartamento a Earlsfield. «Ho uno squallido appartamento a Earlsfield.» «E una donna che ti aspetta alzata?» «Spero bene di no. Non sono sposato.» «Ma questo cambia tutto.» Si diresse con me verso l'uscita. «Senti, davvero mi piacerebbe,» dissi, «ma non posso proprio.» «Ma perché no? Non mi dirai che anche a te non ti si rizza.» «No, mi funziona tutto perfettamente.» «Qual è il problema allora? Credevo di piacerti.» «Infatti è proprio per questo,» risposi, scuotendo la testa. «Non vorrei lasciarmi coinvolgere troppo.» «Mi pare una scusa vergognosamente fiacca.»
«Pensa pure che sono fiacco anch'io.» «Potrei, solo che non ne sono convinta.» «Neanch'io.» «Ascolta, andiamo a casa mia. È più vicino, a New Cross.» «Hai una fretta infernale. Non sono abituato a fare conquiste così rapide.» «È probabile, ma ne hai fatto una lo stesso.» Una figura scimmiesca in giacca rossa ci si avvicinò. Aveva l'attaccatura talmente bassa che i capelli gli crescevano a partire dalla radice del naso. «Qualche problema?» domandò. «Sì, tu,» rispose lei senza distogliermi lo sguardo di dosso. «Sparisci.» «Calma, non vogliamo discussioni, qui.» «Perfetto allora: prima ti togli dai piedi, meno discussioni ci saranno.» Intanto si era avvicinato il buttafuori che prima era alla porta. «Stai attento,» borbottò verso il suo collega. Accennò a me con la testa. «Questo tipo dice di essere un deputato.» «È vero?» «Sì,» risposi, «sono uno tra i più combattivi.» «D'accordo, allora,» concluse lo scimmione in giacca rossa. «Purché non infastidisca la signora.» «Sei tu quello che mi infastidisce, Ernie,» intervenne Barbara. Quando l'altro si allontanò, mi spiegò: «Ha tentato di scoparmi, in passato. Il guaio è che non sopporto gli uomini con peli dappertutto, neanche se sono proprietari di una quota del locale. Eppure spera sempre di infilarsi a letto con me.» «Di chi altri è il locale?» le chiesi. «Harvey Fenton?» Mi fulminò con lo sguardo. «Perché? Lo conosci?» «Ne ho sentito parlare.» «E allora ti conviene stargli alla larga.» «Stavamo parlando di andare a letto.» «Sì e avevo voglia di farlo con te. Tu cosa hai deciso?» «Ci sto.» «Sono riuscita a convincerti?» «Non ce n'era bisogno.» «Ma sul serio sei un parlamentare?» mi chiese mentre uscivamo in strada. «No, non ci credo.»
22 «Siediti,» mi disse Barbara, una volta entrati. Il suo appartamento di New Cross era discreto, meglio di un alloggio del comune. «Bene,» dissi, abbandonandomi su una poltrona, «eccoci finalmente soli.» Certo, era un appartamento discreto, ma aveva un'atmosfera asettica, impersonale. I mobili, l'impianto stereo erano di quelli che si comprano a rate, e l'illuminazione era troppo forte e diretta. «Ti preparo qualcosa da bere?» chiese. «Sì, grazie. Non molta acqua e ghiaccio in abbondanza.» Ritornò dalla cucina con un paio di bicchieri di scotch e mi si sedette di fronte. «Allora? Che cosa mi racconti?» «Di me, vuoi dire?» «Ovvio.» «Non ho idea. Perché non spari una domanda? Ma non troppo insidiosa.» «D'accordo. Cosa fai per vivere?» «Già questa è insidiosa.» «Perché? Non sarai mica uno spiantato? O guadagni troppo?» «Circa cento sterline alla settimana, nette. Non mi dirai che è troppo?» «No. Te le guadagni onestamente?» «Questa è ancora più insidiosa, o lo sarebbe, ma non nel mio caso. Me le guadagno onestamente.» «Non intendevo indagare, in realtà. Solo che le mie esperienze mi hanno reso sensibile all'aspetto economico.» «D'accordo, allora diciamo pure che mi arrangio.» «Insomma mi sono innamorata dell'uomo del mistero.» «Non c'è nessun mistero, solo che è talmente noioso...» dissi. Preferivo non raccontarle troppo in quel momento, mi serviva tempo per imbastire una storia e volevo conservarmi aperte più opportunità. «Ad ogni modo, fai incredibilmente in fretta a innamorarti, tu.» «Troppo in fretta?» «Se ti senti in calore non vuol dire necessariamente che stai vivendo una grande passione.» «Stronzo!» urlò. Balzò in piedi gettandomi addosso il suo scotch, al quale tenne dietro immediatamente anche il bicchiere. Entrambi mancarono il
bersaglio, finendo nelle tende alle mie spalle. «Non si è rotto,» dissi, «così puoi prepararne subito un altro. Però il prossimo cerchiamo di non sprecarlo.» Quando ritornò con i beveraggi, si era calmata. «Sei uno strano tipo.» «Vuoi dire che non sono quello che credevi.» «Sì, qualcosa del genere.» «Anche tu hai dei lati nascosti.» «Questo significa che non ti fidi di me?» «Fidarmi di te?» scoppiai a ridere. «Ma neanche per sogno. E perché dovrei?» «Cosicché tutto si riduce al fatto che ci piacciamo semplicemente l'un l'altra.» Osservai quanto si sforzasse in tutti i modi di comportarsi come una ragazza innamorata. «Sono già stato deluso profondamente da una donna. Molto tempo fa, però...» «Scommetto che te lo meritavi.» «Forse sì e forse no. Comunque, adesso sai qualcosa di me.» «Bene, sembra che dovrò adattarmi. Almeno per il momento.» «Non voglio scottarmi le dita ancora una volta. Scommetto che ne hai bruciati di uomini in passato. Con quel fisico, te lo saresti senz'altro potuto permettere.» «Ascolta, perché non ce ne andiamo a letto e vediamo se funziona. Sono stufa di star qui a scambiare mezze verità.» «Ti dico io perché di no, perché comincio già ad averne abbastanza di te,» bluffai. Avevo deciso di darle una lezione. Urlai le ultime parole. Mi costò non poco, ma ci riuscii. Mi costava perché nel frattempo lei aveva leggermente divaricato le ginocchia e, standole seduto di fronte, riuscivo a vedere tra le cosce fino al bianco delle sue mutandine, e la cosa mi eccitava considerevolmente. «Tu lo sai come va a finire,» continuai. «Immediatamente dopo aver scopato con me una volta sola, tu non proverai più nessuna attrazione per me, pensaci. Non è così, Babsie?» «Non chiamarmi Babsie,» rispose in tono conciliante. «Mi faccio chiamare così solo dai clienti. Chiamami Barbara. E non mi stuferò di te dopo una volta sola. Di solito, è vero, mi comporto così, ma con te no, non credo.»
«Eppure, hai avuto molti altri uomini.» «È vero, e con ciò?» «Cosa ne è stato di ognuno di loro? Nessuno contava qualcosa per te?» «Non si sono rivelati all'altezza.» «Capisco. Cosa bisogna fare per dimostrarsi all'altezza?» «Tu niente, lo sei già.» «No. Non ho intenzione di perdere la testa per una donna per poi essere mandato a quel paese.» Mi alzai. «Piuttosto ti do la buonanotte e me ne vado subito.» «Siediti,» riprese, dopo una breve pausa. «Io ho bisogno di un uomo forte, proprio come te.» «Non sono forte. Sono semplicemente realista.» «È lo stesso. Tutto quel che so è che tu continui a colpirmi proprio dove sono più vulnerabile.» «Sarà bene che tu ne beva un altro, allora.» «Vado a prenderli.» Buttai giù anche quest'ultimo bicchiere, poi dissi: «Dunque? Si parlava di andarcene a letto, e allora?» Sapevo che, qualsiasi cosa facessi, dovevo trattarla quanto più possibile all'opposto di Staniland. Dovevo strapazzarla se volevo conservare le reclini nel nostro rapporto. Mi accorsi che non era affatto difficile quanto Staniland aveva creduto. Anche lei finì in fretta il suo bicchiere. «Va bene, andiamo allora,» disse. «Bisogna che non sia una cosa lunga,» precisai, «alle otto devo essere al lavoro.» Guardai l'ora: erano le cinque meno un quarto. «Dove ci mettiamo?» «Sei davvero romantico, non c'è che dire. Questi tuoi modi così galanti mi mandano al tappeto.» Era importante lusingarla un po', a questo punto. «Non invidio chiunque tentasse di mandarti al tappeto. Non sarebbe in grado neanche di strisciare fuori dal ring alla fine della prima ripresa.» Rise, senza riuscire a nascondere il proprio compiacimento. «Così va meglio,» dissi. «Ridere è importante, soprattutto quando si è innamorati.» «Non lo sapevo.» «Non sei riuscita a scoprire ciò che è veramente la passione, anche se hai avuto tanti uomini in realtà non ti è mai davvero piaciuto stare con nessuno di loro.»
«Non sei troppo lontano dal vero.» «Hai mai avuto un orgasmo?» «Ne ho sentito parlare, ma non credo di averne mai avuto uno.» «Se l'avessi avuto, te ne saresti accorta. Questa potrebbe essere la volta buona.» «Valla a raccontare a qualche altra.» «Staremo a vedere.» Al momento di andare a letto si fece ritrosa. Non era il tipo di donna che si lascia spogliare in un impeto di passione già sul tappeto del soggiorno. Quando cercai di slacciarle il reggiseno, mi interruppe dicendo: «Aspetta, cerchiamo di fare le cose per bene.» «Perché?» «Perché è la nostra prima volta.» Non le credevo. Stavamo recitando tutti e due, e mi sarebbe piaciuto sapere chi l'aveva aiutata a scrivere la sua parte. Era vero che anch'io la desideravo parecchio, eppure una parte di me non era affatto impaziente, la parte razionale. La brama che provavo per lei era dovuta anche al fatto che da tanto tempo non avevo avuto una donna. Mi facevo schifo. Non che ciò mi trattenesse, ma la stavo ingannando, e questo non mi piaceva. Adesso mi accingevo a completare l'inganno scopandola, la donna di un morto, per indurla a rivelare quel che sapeva della sua morte. Ma con ciò non mi sentivo il cavaliere dalla bianca armatura; mi domandavo che valore avesse la verità, se per ottenerla erano necessarie così tante falsità. Mentre aspettavo seduto in poltrona con un ultimo bicchiere di Bell's tra le mani che Barbara si preparasse per andare a letto, mi resi conto che se avessi agito per conto mio, se non fosse stato per Staniland, le sue cassette e i suoi appunti, avrei potuto sul serio perdere la testa per Barbara, e non sarebbe stato affatto difficile per me, oppure le avrei rivelato recisamente di essere un poliziotto e di stare svolgendo un'indagine su un omicidio, ricavandone insulti o silenzio. Mi sarei sentito meglio se lo avessi fatto, ma dovevo chiarire quel che era accaduto a Staniland, e il fatto che la interessassi fisicamente mi forniva un'alternativa favorevole. Nonostante ciò, mi sentivo viscido come uno che faccia il doppio gioco. Con tutta la capacità di autocontrollo e di simulazione che servono per fare il doppio gioco, la sensazione di viscido ti rimane sempre addosso. La sentii che usciva dal bagno, facendomi arrivare il profumo del sapone e vapori caldi, ed entrava nella stanza da letto. Poi sentii che nel buio scivolava sotto le lenzuola.
«Vieni,» mi chiamò. Mi ritrovai accanto al letto che mi strappavo i vestiti di dosso nella fretta di raggiungerla. Evidentemente, il mio corpo non condivideva i miei scrupoli. «Piano, piano,» sospirò dopo un po'. «Mi sta succedendo davvero.» «Ci troviamo da qualche parte anche domani?» mi chiese. «Andiamo a mangiare insieme qualcosa con calma, e poi decideremo.» «Credevo che avessi detto di dover andare a lavorare.» «Non oggi. Mi prenderò un giorno di ferie. Passerò in ufficio ad avvisare, tanto devo passarci, ho qualche cosa da sistemare. Possiamo trovarci all'ora di pranzo.» «Va bene,» rispose, ancora insonnolita. «Ti dirò io dove andremo a pranzo. Che ne dici di un ristorante indiano?» «Come hai fatto a indovinare che mi piace la cucina indiana?» «Non lo so, forse perché piace a me.» «Avrei quasi voglia di ucciderti, lo sai,» continuò. «L'ho avuto. Un orgasmo.» «Me n'ero accorto.» «Tu non sei come quei buoni a nulla che mi capitano di solito.» «Va bene, ma adesso non dire più niente. Parleremo più tardi.» «Sì, voglio dormire ora; ma non lasciarmi finché non mi sono addormentata.» 23 Quando mi alzai, alle sette e mezza, Barbara dormiva ancora, distesa sul fianco destro, con la testa sul braccio. Le lasciai sul cuscino un biglietto dandole appuntamento al Quadrant all'una, specificando l'indirizzo. Poi uscii nel freddo pungente della strada e presi un taxi per tornare all'84. Arrivai dove avevo lasciato la mia auto proprio mentre un vigile la stava multando. Era giovane, con appena un principio di barba e limpidi occhi azzurri. «Lascia perdere, ragazzo,» gli dissi, «è una macchina della polizia.» «Dicono tutti così.» «Ma qualche volta è anche vero.»
Gli mostrai la mia tessera. «Ormai ho già scritto la contravvenzione,» disse. «Una volta che ho cominciato a riempire il modulo, è troppo tardi. Mi dispiace, sergente.» «Scusati direttamente con il Cancelliere dello Scacchiere, perché sarà lui a trovarsi sei sterline in più da pagare alla fine dell'anno finanziario.» «Però il veicolo non era contrassegnato.» «C'è una semplicissima spiegazione per questo,» replicai, prendendo la contravvenzione. «Oggigiorno la maggior parte dei delinquenti sa perfino leggere.» Arrivai in Poland Street e lasciai la Ford nel parcheggio riservato alla polizia. Poi girai attorno all'edificio e feci irruzione attraverso l'ingresso principale come un criminale con un avviso di comparizione. Augurai a tutti il buongiorno mentre mi avviavo verso le scale, ma mi vedevano così di rado che nessuno, escluso il sergente di servizio, mi riconobbe. Stavo salendo di corsa al secondo piano, dove si trova il mio ufficio, quando andai a sbattere contro Bowman. «Cazzo, sei sempre tra i piedi,» brontolò. «Sei ancora su quel caso Staniland?» «Ancora? Ma se ci lavoro solo da quattro giorni!» «Quattro giorni? Avresti già dovuto pizzicare il tuo uomo in metà tempo. Andrà a finire che dovrai recuperare di sabato e domenica, se non decidi di spicciarti.» «Non essere ingenuo,» ribattei. «Se risolvi un caso così in fretta ti smontano pezzo a pezzo per capire come hai fatto.» «Ad ogni modo, come te la stai cavando?» «Non riesco a trovare prove,» risposi. «Sai come sono, un passo lento e uno veloce, uno veloce e uno lento, mi chiamano Foxtrot. Per questo io sono ancora sergente mentre tu ti stai preparando a diventare sovrintendente alla buoncostume. Posso solo consigliarti, quando sarà il momento, di non farti incastrare a guardare foto sconce a spese dei contribuenti.» «Lo sai che mi fai proprio ridere. Le tue battute sono meglio di quelle di un ergastolano. Adesso però,» continuò, «una volta tanto parliamo seriamente. Un buon poliziotto come te non può rimanere per sempre alla A14. Perché non lasci perdere e non passi alla Anticrimine con noi? Sarebbe nel tuo interesse. Io potrei farti ottenere il trasferimento.» «No,» risposi. «Solo perché non mi sopporti?» «Questo non c'entra affatto. Se tutti lavorassero solo con chi gli garba,
non esisterebbe una forza di polizia. No, te l'ho già detto, mi piace essere autonomo, lavorare a modo mio.» «Come se non lo sapessi...» riprese Bowman. «Staresti meglio nei Servizi Segreti o con il Nucleo Operativo, visto che ci tieni tanto alla segretezza, anche troppo. Non emergi abbastanza a lungo per ottenere non dico una promozione, ma neanche un aumento di paga.» «Ogni volta che parli di promozioni, ti si illuminano gli occhi come uno scribacchino alla moda che sogna l'Ordine dell'Impero Britannico.» Andava sempre a finire così tra me e Bowman. Cominciavamo cercando di mostrarci reciprocamente simpatici e poi, in men che non si dica, ci azzannavamo di nuovo. Per fortuna non ci imbattevamo troppo spesso l'uno nell'altro, come ho già detto; probabilmente sarebbe finita nel sangue. «Il sozzume di questo caso Staniland ti resta addosso,» commentò, tirando su col naso come per annusarmi. «Puzzi come se provenissi dritto dalla stanza da letto di una sgualdrina.» Non potevo spiegargli quanto fosse preciso questo esempio di deduzione investigativa. «Ti ripeto, chiedi il trasferimento da noi. Ti darò una mano, ma non posso far nulla se non ti dai tu da fare per primo.» «Non ne farò un dramma, se non riuscirò a essere promosso ispettore.» «E sarà meglio, perché non hai un briciolo di speranza alla A14. Non ricordo assolutamente nessuno che sia arrivato oltre il grado di sergente ai Delitti Irrisolti, e proprio non capisco perché continui a ostinarti così.» «Perché non sopporto che i vecchi ubriachi siano picchiati a morte.» «Al tuo posto, allora, afferrerei per il collo quelli che hai interrogato e comincerei a stringere fino a fargliela fare addosso. Ci deve essere qualcuno che non sta dicendo la verità, qualcuno che non dice la verità c'è sempre. Comincia a schiacciare qualche tasto, e vedrai come la musica si sentirà subito.» «Sì, ma il suono verrà fuori completamente stonato. Questo è un caso dove bisogna stanare la verità con l'astuzia, non estorcerla a bastonate.» «Stanare la verità?» Bowman scoppiò a ridere. «Ti ci vorranno novantanove anni. Per dimostrare una colpevolezza, io vado per le spicce. Ti pare che non ottenga risultati, sergente?» «Sì, ma voi siete in cinque.» Come al solito, ci separammo con astio. Entrai nel mio ufficio e chiusi sbattendo la porta. Mi sedetti alla mia scrivania nella stanza 205, un passatempo di cui non ero entusiasta. Ma là dentro si stava tranquilli, e io avevo bisogno di un po'
di tranquillità. Intorno a me percepivo il pulsare della Factory in attività. Urla da una stanza all'altra, il rimbombo dei passi degli addetti agli uffici lungo il corridoio. Passai un quarto d'ora con il mento tra le mani e i gomiti sulla tavola a pensare a Barbara, lo sguardo fisso sui manifesti della polizia che dalle pareti mi raccomandavano di stare in guardia perché c'era sempre un ladro nei paraggi e mi suggerivano cosa fare in caso di piena del Tamigi. Contemplai il calorifero del Ministero dei Lavori Pubblici verniciato dello stesso verde delle pareti delle infermerie, la sedia scomoda dove facevo sedere le persone da interrogare, e il vaso di fiori sul tavolo dove si sarebbe trovato un altro poliziotto per attestare quel che si fosse detto. Non si sarebbe detto nulla oggi nella stanza 205, e i fiori erano appassiti da settimane. Non sapevo neanche chi li avesse portati, probabilmente Brenda, l'agente che ogni tanto mi aveva lanciato qualche occhiata. Mi vennero in mente le sue gambe, che non erano niente male se si toglieva le scarpe regolamentari, ma su quelle gambe immediatamente si sovrappose il corpo di Barbara. Ripensai a Bowman con una certa amarezza. Dirigeva una sua squadra all'Anticrimine, e risolveva i suoi casi grazie a un lavoro coordinato. Ammettevo che gli spettasse un aiuto, la maggioranza dei suoi casi avevano grande risonanza sulla stampa nazionale. Ma nello stesso tempo ciò gli permetteva di assumersi individualmente minori responsabilità. Se Bowman prendeva un granchio, poteva di solito scaricare la colpa su qualcuno dei suoi sottoposti, e comunque alla fin fine la rogna toccava al Sovrintendente, o a qualche Comandante di Polizia di Contea se si trattava di un caso di provincia. Invece nei miei casi tutto il peso cadeva sulle mie spalle. Lo accettavo, ma talvolta la cosa mi irritava, soprattutto quando ero stanco, come quel giorno. Il pensiero dei giornali mi riportò in mente Staniland. Su di lui c'erano state in tutto otto righe sullo Standard del lunedì, poi basta. I quotidiani della domenica non l'avevano neanche menzionato, perché avrebbero dovuto? Non se ne potevano ricavare titoli sensazionali, niente del genere "Sono stato violentato, denuncia il cameriere spagnolo". Un ubriaco di mezza età trovato morto ammazzato tra i cespugli di un quartiere in estrema periferia. Niente che faccia presa? Niente spionaggio, niente bustarelle con il pizzo o la tangente? Nessuna mazzetta con migliaia di sterline in sozze banconote da cinque nelle tasche del suo impermeabile? Nessun particolare piccante? Niente fidanzata, o bambini, o una madre anziana in lacrime? Potevo quasi sentire i redattori che, appena arrivato il telex, lo ap-
pallottolavano per cestinarlo. Non come se ci fosse stato uno stupro, una strage commessa da un pazzo scatenato con un'antica ascia da guerra, un rapimento, una truffa economica su vasta scala o un intrigo politico con il coinvolgimento del SAS o del Nucleo Operativo. Ogni volta che mi veniva in mente il Nucleo Operativo risentivo l'amarezza della delusione, perché una volta avevo fatto richiesta per esservi ammesso. Ero stato dapprima accettato e poi improvvisamente scartato dopo il colloquio senza che mi venisse spiegato il perché (non si perdono mai in spiegazioni). Avevo avuto il sospetto che fosse stato a causa del mio divorzio. Bowman e gli altri colleghi non sapevano neanche di questa domanda, ma comunque era nel mio fascicolo da qualche parte, nel fascicolo personale va a finire proprio tutto, fino a quando è stata l'ultima volta che ti sei cambiato le mutande. Comunque, mi ero rassegnato. Ero divorziato. Proprio così. Non mi serviva l'aumento di paga che la promozione avrebbe comportato. Avevo il mio appartamento a Earlsfield, una macchina e una TV a colori, che cosa poteva desiderare di più un uomo solo? Inoltre, come avevo detto a Bowman, avevo una mentalità che mi faceva apprezzare il lavoro alla A14. Di quando in quando, per giunta, ci si imbatteva in una situazione delicata e interessante, incominciata nella maniera più banale. Ma Staniland non era uno di questi casi. «In confidenza» aveva detto Bowman «questo è uno dei casi più noiosi che io abbia mai sentito.» Non ero d'accordo con lui. Almeno due persone, la vedova e Viner alla BBC, non erano affatto indifferenti a quel che era capitato a Staniland; tre persone, volendo contare anche me. Per me Staniland non era soltanto un altro cadavere all'obitorio. Grazie ai suoi scritti e alle sue cassette continuava a essere vivo, per quanto mi riguardava. Avevo cominciato, di riflesso, a pensare, a sognare, quasi a essere Staniland, anche prima di incontrare Barbara. Adesso, in conseguenza del mio rapporto con lei, mi sentivo trasformato, come lo stesso Staniland, in una nuova figura più complessa. Capivo che era pericoloso, ma cominciavo a sentirmi ossessionato da Barbara; potevo ancora innamorarmi di lei se non ci stavo attento. Immaginai il titolo su Police News: "Sergente investigativo sposa entraîneuse conosciuta in un locale notturno", e trasalii. Peccato che non dovesse succedere, avrei chiesto a Bowman di farmi da testimone.
24 Studiavo con attenzione la folla dell'ora di pranzo nel Quadrant. I pubblicitari con capelli a spazzola, morbide flanelle e ventiquattrore si fermavano al bar più elegante; accanto a loro, ma senza scambiare parola, il contingente dalle case di moda di Great Portland Street. Entrambi gli eserciti erano assistiti da segretarie biondeggianti che cicalavano fra loro lasciando intiepidire i loro gin tonic. Di tanto in tanto ricevevano qualche pacca sui loro didietro unisex, altrimenti erano lasciate a elaborare le loro macchinazioni matrimoniali. Saltuariamente il volto acceso di un produttore, maschio o femmina, faceva capolino alla porta del bar come se fosse piantato su una molla; erano quelli della ITV che lavoravano poco lontano, in Wells Street. Poteva persino capitare che qualche conduttore di telegiornale attraversasse la scena, troppo remotamente assorbito in chissà quale cataclisma per rivolgersi a qualcuno. Se però capitava che questi personaggi si fermassero, ordinavano una democratica mezza pinta di birra chiara, e parlavano di lavoro, con gesti e sorrisi collaudati, che scimmiottavano L'alta società, una serie televisiva che veniva trasmessa dall'emittente controllata da Lord Boughtham, il Ministro degli Esteri. Dalla mia parte il pub mostrava il suo lato più dozzinale, con le slotmachine, il juke-box e clientela poco raccomandabile. In quel momento era stipato di autisti della Planet, che si trovava proprio di fronte; erano tutti li al bancone ristorante a buttar giù Guinness e salsiccia con purè e piselli. Riconobbi per caso un giovane del quale sapevo che si era fatto otto anni per omicidio: se ne stava tutto solo accanto a un videogioco spaziale sotto la finestra, senza bere, senza fare assolutamente nulla. Il viso era bianco, con i capelli rasati, ed era vestito completamente di nero. Si era persino tinto di nero le scarpe di tela. Non solo era un assassino, ma ne aveva anche tutto l'aspetto, cosa che dal mio punto di vista di poliziotto reputavo alquanto stupida da parte sua. Al medio della destra portava un massiccio anello d'argento a forma di teschio, con due finti rubini per occhi, caso mai qualcuno non avesse ancora avuto sufficienti elementi per inquadrarlo; tutte le altre dita, compreso il pollice, si piegavano verso l'anello. I suoi occhi scivolarono su di me e sugli altri avventori, senza soffermarsi su nessuno, passandoci velocemente in rassegna. Riuscivo a immaginare come la sua espressione non mutasse, che stesse ordinando una birra o premendo il grilletto; le due metà in cui era scissa la sua personalità non sapevano l'una dell'altra. Notai anche due notori scassinatori che do-
vevano presentarsi davanti al tribunale di Knightsbridge per essere processati. Stavano chiacchierando con un anziano omosessuale che allevava Dobermann Pinschers e abitava nelle case operaie di Gosfield Street. Il più basso dei due ladri aveva la faccia tutta tagliuzzata e, tra le lacrime, declamava da ubriaco. I tagli erano recenti, avevano ancora i punti di sutura, e facevano pensare a una bottiglia rotta. Probabilmente aveva fatto una soffiata su qualcuno, la cui vendetta aveva avuto appena il tempo di raggiungerlo prima che lo facessero scomparire in galera. All'improvviso arrivò Barbara. Quel che indossava non sarebbe stato consigliabile nel giro di quelli della televisione, e ancor meno per le loro segretarie. Eppure quando fece il suo ingresso calamitò ugualmente l'attenzione: perfino l'assassino si voltò lentamente per seguirla con lo sguardo. Il vestito arancione non era indicato per questa sponda del Tamigi e le scarpe con i tacchi a spillo sarebbero sembrate poco indicate dovunque, fatta eccezione per l'84 Club. Ce l'aveva messa tutta, esagerando in modo evidente. Ma nessuno sembrò scandalizzarsene; solo a vederla toglieva il fiato. «Sei in ritardo,» le dissi. «Hai ragione, ma cerchiamo di non cominciare alla rovescia questa giornata.» «Cosa prendi?» «Non mi dai nemmeno un bacio?» «Non qui dentro.» «Come vuoi. Berrò un Martini.» «Devi essere matta a bere quella roba. Le donne non hanno un fegato in grado di reggerli.» «Stai dicendomi quello che devo fare?» «Sì, se sei la mia ragazza.» «Non sono la ragazza di nessuno.» «Tanto meglio, in tal caso non c'è motivo per cui debba ordinare qualcosa da bere per te.» Divenne bianca dalla rabbia. «Hai una maledetta faccia tosta,» sibilò. Si precipitò fuori, seguita dagli sguardi di tutti. Uno dei produttori mi disse: «Lascia che te lo dica, vecchio mio, non dovresti far scappare via uno schianto come quella.» «Tienli per te i tuoi consigli,» gli risposi, «e cuciti la bocca.» Bevvi la mia birra, aspettando di vedere quando sarebbe ritornata. Ero sicuro che lo avrebbe fatto; stava solo interpretando una parte. Dietro la
sua interpretazione c'era il suo corpo, che reagiva solo se soggiogato con violenza, e che l'avrebbe sempre tradita. Ritornò dopo dieci minuti, fremente di rabbia sotto il trucco rifatto. «Perché mi tratti così da bastardo?» mi disse. «Un uomo non ha altra possibilità con te,» le risposi. «Se ti dessi corda, mi metteresti sotto i piedi, e non sono il tipo da sopportarlo.» «Spiegati meglio.» «Più tardi, a pranzo. Adesso ricominciamo: cosa prendi?» Scoppiò a ridere: «Sei incredibile... in ogni caso, di sicuro il Martini non mi va più!» «Bene, allora beviamo assieme una bottiglia di champagne,» le proposi. «Mi va di festeggiare, e non è possibile festeggiare a birra. Hai preferenze in fatto di champagne?» «È lo stesso, in fondo è sempre champagne.» «No, ti sbagli. So che l'ho letto nel Sunday Times, ma non riesco a ricordare altro.» «Allora neanche tu te ne intendi di champagne?» «Cosa vuoi che sappia di qualcosa che ho assaggiato solo due volte? Ad ogni modo» aggiunsi «tu non ti intendi di uomini.» «E ti meraviglia? Sono una donna.» A ciò non fui in grado di ribattere, quindi mi rivolsi alla ragazza dietro il bancone: «Una bottiglia di champagne. Di quello buono.» «Vuole dire il Cliccò?» chiese, sbalordita. «È costoso, quello, verrà ventotto sterline e venti.» «Proprio quello, allora.» L'arrivo dello champagne provocò il calare di una strana, quasi innocente atmosfera tra noi, come se, per un istante, fossimo davvero una coppia di innamorati che brindano assieme. Mi baciò al di sopra dei nostri bicchieri; io rabbrividii selvaggiamente dentro di me. La baciai a mia volta, ma fu un bacio assai casto; ero ossessionato dalla sensazione di venire riconosciuto da qualche agente in borghese della Factory, che fosse lì in un angolo a sorvegliare qualcun altro. «Di giorno non sei focoso quanto lo sei di notte, neanche lontanamente, se posso permettermi,» commentò Barbara. «Rendo meglio senza il pubblico.» «Strano, per la maggior parte degli uomini è tutto il contrario.» Bevve un po' del suo champagne e continuò:
«Non sarà che ti vergogni di farti vedere con me? Chi credi di essere?» «Un innamorato,» risposi, «e non mi è mai capitato di vergognarmi di niente in vita mia. Ho avuto un'infanzia felice.» «Come mai non ti sei mai sposato, allora?» «Lo sono stato,» le ricordai. «Ma non ne vale la pena, è sempre una delusione.» 25 Mangiammo al Light of India, in Fulham Road, la migliore cucina indiana della zona, anche se non era economico. «Per me ordinerò phal di manzo,» dissi, «ma per te no, è troppo piccante, per te prenderei dupiaza.» «Io prendo quello che mi va,» ribatté, e ordinò vindaloo. «Devi fare sempre a modo tuo?» «È proprio questo che ti stuzzica, di me. Questo almeno sono riuscita a scoprirlo.» «D'accordo. E allora, perché invece non prendiamo gamberi con contorno di spinaci? Sono ottimi e non costano molto.» «Questa sì che è classe. Da te non me lo sarei aspettato.» «La classe preferisco risparmiarla. Anche i soldi.» «E a cosa conduce questo discorso,» disse freddamente. «A un conto corrente in comune?» «No, a una bottiglia di vino. Te ne intendi di vino?» «Sul curry preferisco la birra.» «Al diavolo, li prenderemo tutt'e due.» Una volta arrivate le ordinazioni, mentre mangiavamo, cominciò: «Sarà meglio che ti dica subito una cosa, perché una volta che l'avrò fatto avrai un'ultima possibilità.» «Ultima possibilità per cosa?» Fece una pausa. «Mi sto innamorando di te. Anzi, mi sono già innamorata.» Io restai zitto. «Questo pranzo delizioso, potrebbe essere un addio in bellezza.» «Potrebbe,» risposi, «ma non lo sarà.» Ci fissavamo, seduti uno di fronte all'altra, mentre i camerieri restavano sullo sfondo nella penombra, con il tovagliolo sul braccio, annuendo con benevolenza, al suono della loro musica vellutata. A tutti fa piacere vedere
una coppia di innamorati. «Fino all'altra notte non ero che una verginella frigida, eppure ho avuto centinaia di uomini.» «Non è un delitto.» Immediatamente si fece guardinga. «Delitto? Che strano termine da usare.» «È solo un modo di dire. A me non importa se hai avuto migliaia di uomini. Fanno parte del passato.» «Non tutti.» «Da questo momento, tutti.» «Parli seriamente?» «Parlo seriamente. Anch'io ho avuto delle donne. Ma ci sei voluta tu per farmi capire che sono state sempre di quelle sbagliate.» «Ti amo,» disse, con grande intensità, mentre un brivido la faceva trasalire. «Anch'io. Mangia ora, altrimenti si raffredda.» «È colpa tua se non ho appetito.» «Ma io sono affamato.» «Mangia, allora. Un amante ha bisogno di molte proteine. L'ho letto sul Mirror.» Il cameriere si avvicinò. «Va tutto bene, signore? Signora?» Annuii. «Mi scusi, signore,» continuò, accigliandosi in uno sforzo di memoria, «ma lei non è già stato nel nostro ristorante?» Mi raggelai. «No, è la prima volta che ci vengo.» «Mi scusi, signore. Devo essermi confuso.» Si allontanò, e Barbara disse: «Mi chiedo per chi ti avrà preso.» «Non ne ho idea.» «Sembrava sicuro di averti riconosciuto. I camerieri in genere hanno buona memoria, gli è indispensabile.» La prima volta che ero entrato nel Light of India, era stato per arrestare un ubriaco che non voleva pagare il conto, ed ero un giovane poliziotto di servizio a Chelsea. In seguito, quando ero al CID di Chelsea, presi l'abitudine di mangiare lì qualche volta quando smontavo dal servizio. A quei tempi portavo i baffi, che poi da un pezzo mi sono tagliato; perciò il came-
riere era incerto. «Io penso che, stando così le cose, sarebbe meglio che mi raccontassi qualcosa di più su di te,» stava dicendo Barbara. «Per me sei ancora un mistero, e non mi va che sia così quando sto con qualcuno, non è normale? Una cosa che mi colpisce, per esempio, è che tu non sembri troppo il tipo che frequenta i locali notturni del sud di Londra. Riesci a cavartela, ma fondamentalmente non è nel tuo stile.» Potevo prevedere il seguito. «Allora, che lavoro fai? Andiamo.» Aveva parlato in tono monocorde. «Te l'ho già detto, è talmente noioso che ti deluderebbe.» «No, se è un lavoro fisso. Ne ho fin sopra i capelli di falliti che vivevano alla giornata. Ad ogni modo, vediamo se riesco a indovinare. Sei intelligente e non ti lasci mettere sotto i piedi. Ti piace comandare, ma non sei prepotente. E non sei ricco.» «Questo è sicuro.» «Non ricco,» continuò a riflettere, «ma neanche ridotto all'indennità di disoccupazione. No, perché tu hai questo lavoro, mentre ci sono in giro più di tre milioni di disoccupati. Da quanto sei con la tua ditta?» «Quindici anni.» «Quindici anni. Sempre la stessa ditta?» «Sempre la stessa.» «Certo che quando ti ci metti non c'è verso di farti sbottonare.» «Non lo faccio apposta.» «Me ne frego se lo fai apposta o no, il fatto resta.» Scosse la testa con aria dubbiosa. «Cristo, io non so... Se non fosse talmente incredibile, quasi quasi direi che mi sono innamorata di uno stronzo di poliziotto.» «Stai tranquilla, sei completamente fuori strada.» «Va bene, ma allora, coraggio!» «È talmente prosaico. Comunque va bene: lavoro per una ditta di sorveglianza, hai presente, trasportiamo grosse somme di denaro in furgoni blindati.» «Che ditta?» Sapevo che avrebbe controllato, così feci il nome della Ashley Security. Ci permettono di sfruttarlo, e anche noi, entro certi limiti, gli permettiamo di utilizzarci, e così il mio nome compare sul loro registro del personale. Si accese una sigaretta, chiudendo gli occhi per il fumo. «Però hai uno strano orario di lavoro. Eri libero ieri sera all'84, e non la-
vori neanche oggi.» «Oggi è un'eccezione. Anche stasera. Stamattina ho trovato un collega che mi ha sostituito; è per quello che sono passato in ufficio.» «Bene, bene,» disse, rilassandosi. «Ashley Security, pensa. Un mio vecchio spasimante, non molto tempo fa, fece un colpo a uno dei vostri furgoni.» «Non sapevo che fosse un tuo spasimante, ma hai ragione, me lo ricordo, è stato uno che si chiamava Lofty Walter, a Edgware nel 1980. E adesso, se con me hai finito, che ne dici di rispondere tu a qualche domanda?» «No, io non voglio.» «Ma perché? Io ho superato l'esame.» «Insomma, come tu avevi detto che il tuo lavoro avrebbe potuto deludermi, la stessa cosa vale anche per me.» «Così non va, devi assolutamente dirmelo. Dobbiamo avere fiducia l'uno dell'altra, altrimenti non c'è speranza.» «Ho frequentato persone poco raccomandabili.» «D'accordo, la cosa non mi scandalizza.» «E allora senti, sono stata in galera, va bene?» «Va bene. Per quale motivo?» «Uno piuttosto insolito per una donna: lesioni aggravate.» Fisicamente, ne era sicuramente capace, con le ampie spalle e le braccia solide. Bella, ma robusta. Le serviva solo l'innesco, uno dei suoi scatti di rabbia assassina. La maggior parte delle donne cercano di evitare lo scontro fisico, hanno troppa paura di ciò che potrebbe capitare al loro viso. Ma ci sono eccezioni. Continuai a tacere. «Ho fatto quattro anni a Holloway,» proseguì, «Hollywood la chiamavamo, e il resto ad Askham Grange Open. Sei ancora sicuro di volermi frequentare?» «Per me non cambia niente. Conosco diverse persone che sono state dentro. E con ciò? Una volta che ne sei fuori, ne sei fuori, e il discorso è chiuso.» «Venivo da un orfanotrofio,» cominciò a raccontare. «Nessuno aveva voluto adottarmi. Mi sono sempre fatta rispettare, sin da quando ero bambina, ed ero robusta. Non mi andava di fare un lavoro di merda, ed ero depressa. Rabbiosa, anche, mi rendevo conto che nonostante il mio aspetto, non mi si offriva alcuna opportunità. Insomma, una sera ero uscita con una banda di mod, era un pezzo che ero scappata dall'orfanotrofio, e successe che ci trovammo a fare a botte con dei rocker sulla spiaggia di Brighton
dopo la chiusura dei pub. Cominciò perché uno di loro mi aveva chiamato lurida puttana. Afferrai un sasso enorme e iniziai a sbatterglielo sulla testa; ci vollero tre poliziotti per staccarmi da lui, non capivo più niente. Ma quando riuscirono a separarmi da lui era già morto, capisci? Mi consigliarono di sostenere che era stata legittima difesa, ma durante il processo mi misi contro il giudice e anche la giuria per come replicavo, e mi condannarono a cinque anni. Allora ricorsi in appello, anche se l'avvocato mi aveva detto di non farlo, e mi aumentarono la pena a sette anni. Quei bastardi, ne feci quattro. Non mi piaceva, il penitenziario aperto, su al nord; scappai via, per farmi rimandare a Londra quando mi avessero ripreso. Holloway mi piaceva, praticamente ero io che comandavo la prigione, terrorizzavo anche i secondini.» «Quello che aveva detto il ragazzo, quello che ammazzai, faceva più male proprio perché era vero,» proseguì dopo una breve pausa. «La noia è stata sempre la mia peggiore nemica. La scuola la odiavo. Comunque, già alle medie ero io che comandavo in classe. Ero in una scuola dove gli insegnanti dovevano girare con il walkie-talkie, per chiamare aiuto se venivano aggrediti. Non che mi mancassero le capacità, lo ammettevano anche gli insegnanti. Ma non sopportavo la condiscendenza con cui ci trattavano, e non mi andava che stabilissero loro ciò che dovevamo conoscere, puoi imparare un pizzico di questo e un poco di quest'altro. Perciò non ero che noia e rifiuto. Ad ogni modo, iniziai a tirarmi giù le mutande non appena mi resi conto che era quello che i ragazzi volevano. Non che avessi grande considerazione di nessuno di loro, gli mostravo quello che avevo da mostrare e gli dicevo, d'accordo fammi vedere cosa sai fare adesso, e tutto quello che ottenevo era farli diventare mosci, il che mi fa perdere ogni rispetto. Ma pensavo che forse avrei potuto trovarci gusto, e invece niente. Finii così a farlo esclusivamente per guadagnarmi da vivere.» «Bene, questa storia è finita ormai,» le dissi. «Ho riflettuto mentre me la raccontavi, e adesso ascolta cosa dobbiamo fare secondo me. È chiaro che io debbo lavorare, abbiamo bisogno dei soldi che guadagno.» «Certo.» «Solo che non voglio ammattire pensando a cosa starai combinando mentre sono al lavoro, non fa per me. Del resto, che relazione sarebbe?» «Penosa.» «Giusto. Così dipende tutto da te. Di me non ti devi preoccupare, sul serio, io non mi do da fare in giro. Ma tu fai pure quello che ti pare quando non ci sono. Non mi aspetto certo che te ne resti a casa tutto il giorno ad
annoiarti. Voglio fidarmi di te perché, come ti ho detto, credo che se è qualcosa a cui teniamo, deve basarsi sulla fiducia.» «E se non funziona?» «Allora vuol dire che era destino che non dovesse funzionare.» «Cristo, stai correndo un bel rischio. Non ho mai sentito nessuno prima d'ora farmi simili discorsi. Sei davvero un tipo sbalorditivo, lo sapevi?» «Se ci rifletti seriamente, è l'unica soluzione.» «Va bene, proviamo. Se va, ti ripeto, sarà per me la prima volta.» «Allora ci vuole un brandy, come sigillo. Facciamo in modo di sentirci bene.» «Brandy? Oddio, ci diamo alla pazza gioia?» «Se non lo facciamo oggi, non lo faremo mai.» «Mi sento in imbarazzo,» esitò lei. «Di solito sono i clienti a pagarmi il brandy. Mi secca adesso che sia tu a pagarlo.» «Ti sbagli, ne vale la pena. Vuol dire che non sono un cliente.» Aprì la borsa e mi passò una banconota da dieci sotto la tavola. «Li pago io,» disse. «Il resto può essere un contributo per il pranzo. Visto che stiamo per condividere tutto, tanto vale cominciare subito.» Quando arrivarono i brandy, aggiunse: «A proposito, dove andremo a stare?» «Da me, no, senz'altro,» risposi. «È orribile.» «Ti piaceva da me, a New Cross? Sarebbero solo trentacinque sterline a settimana e c'è spazio a sufficienza per tutti e due.» «E me lo chiedi? Non puoi avere idea di quanto sia squallido un appartamento dove vive un uomo per conto suo.» «Ti meraviglierebbe sapere quanto lo so bene. Ho abitato in un posto del genere a Lewisham. Dio mio, che buco terrificante,» disse, scuotendo piano la testa. Sapevo esattamente a quale appartamento si riferiva, ma non era il momento di indagare. La guardavo, e cominciavo a chiedermi quando sarebbe arrivato questo momento. «D'accordo,» riprese, «cosa si fa adesso? Pare che sia tu a dare gli ordini in questi giorni.» «Questo è facile,» risposi, facendo cenno che mi portassero il conto. «Ce ne andiamo a letto, e più tardi usciamo di nuovo a bere qualcosa insieme.» Non disse di no. La baciai sporgendomi sopra la tavola. Le sorrisi, sentendomi pesante come piombo per il successo che arrideva al mio inganno: era come guardare un animale cadere nella trappola che gli avevi teso. Dovevo costringermi a tenere in mente Staniland.
Da quel giorno io e Barbara cominciammo a vivere assieme a New Cross. 26 «Solo il pensiero di una vita normale,» cominciò Barbara quella sera mentre eravamo a letto, «di un miserabile schifo di vita normale, quella che ho sempre odiato, mi fa venire voglia di vomitare. I bambini, la scuola, gli odori di casa, il papà con un lavoro statale, i pasti regolarmente alla stessa ora, la televisione alla sera, ma chi ne ha bisogno? Dove va a finire il tempo per vivere? Sì, finisce, ma quando te ne accorgi sei diventata una logora macchina per fare il bucato e rammendare. Poi, quando è ormai troppo tardi e hai cinquant'anni e ti è arrivata la menopausa, una sera ti spogli e ti accorgi che di te non resta un cazzo, solo un paio di flaccide tette che ti arrivano dappertutto e che nessuno vuole più vedere. Perfino i tuoi figli non ne vogliono più sapere di te, sono cresciuti, in fretta, devono pensare a se stessi. In quanto al padre, come al solito è al pub e si sta riempiendo gli occhi di qualche troietta minorenne, sbronzandosi, così quando tornerà a casa farà una scenata perché si sente ingannato. Per forza si sente ingannato, quello stupido bastardo.» Rabbiosamente raddrizzò di scatto le gambe nel letto. «A me non capiterà così,» aggiunse, «non mi capiterà assolutamente.» Fuori aveva cominciato a piovere, la stessa pioggia gelida della notte in cui avevamo trovato Staniland; il vento infuriava contro il telaio metallico della finestra, poi mutò direzione così bruscamente che le pareti vibrarono. «Però,» intervenni, «in qualche modo devi rassegnarti a invecchiare. Non si può fermare il tempo.» «Sì che si può, basta morire prima.» «Più facile a dirsi che a farsi,» replicai. Quando facevo il poliziotto di quartiere mi capitava di vedere anche troppo spesso nella nostra infermeria, negli ospedali, qualcuno che aveva voluto togliersi di mezzo, ma era riuscito solo a fare un maldestro tentativo e così forse sarebbe finito all'altro mondo e forse no, ma se fosse sopravvissuto sarebbe restato per sempre menomato. «No, se si è capaci di agire con decisione anche nei riguardi della morte,» riprese lei. «Tutto sta prima nello scegliere una strada ed essere poi decisi nel seguirla.» «Dipenderà da come mi hanno educato, ma io credo che non sia giusto.»
«Ma chi ha la faccia tosta di dire che non è giusto? Vecchi bastardi ipocriti che ti spremono a sangue. Quello che è male per loro non lo è per me. La tua vita è solo tua, non è affare di nessun altro ficcanaso. E poi io ho fatto sempre quello che non era giusto, sono sempre stata così.» La guardai e scorsi l'ombra che scendeva sul suo volto. «Fare ciò che non è giusto non è peggio che tenere prediche alla gente. Quando chi ha i soldi dice a chi non ce li ha cosa è giusto e cosa è sbagliato, questo è veramente ingiusto. A farti la predica sono sempre proprio le persone meno indicate. Lo so bene,» considerò amaramente, «ne ho sentite di prediche all'orfanotrofio, poi a scuola, e un'altra dose in galera.» «Io non riesco a immaginarmelo, noi due che invecchiamo assieme.» «Io non so,» rispose, alzando gli occhi al soffitto, arcuando la schiena, le mani dietro la nuca, in una posa che evidenziava le braccia vigorose e l'ampia curva morbida del seno. «Non mi sono mai trovata in una situazione simile prima.» Chiuse gli occhi. «Non so se ce la farò a reggerla o no.» «Perché non dovresti?» «Non mi piacciono le cose che vanno avanti troppo tempo.» «Significa che da una relazione vuoi tutto, tranne le responsabilità.» «Te lo dico io cosa significa,» ribatté, «significa che tu esageri con queste maledette domande.» «E tu rispondimi come avevi promesso.» «Ma tu hai la mania di fare domande.» «Ho una testa, io, e quindi la uso,» risposi. Tutt'a un tratto l'atmosfera si era fatta tesa. Il vento sibilava attorno alla casa e si infilava con un suono lamentoso attraverso gli spifferi dalla finestra. Un istante prima che lei mi colpisse con un pugno in faccia stavo notando stupidamente che la sveglia dietro di lei segnava mezzanotte e due minuti. «E adesso che cosa stai facendo?» Mi alzai dal letto. Sentii immediatamente il pulsare del livido, e succhiai sangue dall'angolo della bocca: l'anello che portava al dito mi aveva spaccato le labbra. «Me ne vado,» dissi. «È meglio così per tutti e due.» «Più semplice, vorrai dire.» «Più onesto.» Iniziai a rivestirmi. «La fine di un amore,» commentò. «Non ho mai pensato che durasse molto, ma questo deve essere un record.» «A te non interessa l'amore, ma solo l'odio,» replicai. «Ne sei piena zep-
pa, non l'avevo capito.» «Non è odio, è paura. Non appena qualcuno comincia a penetrare in me, ho paura e questo mi rende una strega pericolosa. Tu sei il primo uomo che mi abbia fatto provare qualcosa a letto, il primo che mi abbia toccato così nell'intimo. E te ne vai così?» «Se la metti così, andarsene mi sembra stupido.» «Perché allora non ci pensiamo su mentre beviamo un bicchiere d'addio? Il whisky è in soggiorno.» Quando ritornai con i bicchieri si era alzata dal letto. Mi posò le mani sul viso, tastando maldestramente il livido con le dita incerte. «Non ho mai fatto una cosa del genere a nessun uomo. Ti sto facendo male?» «No.» «Ci metto qualcosa sopra.» «Basta il whisky, funziona bene come la tintura di iodio.» Rise e si riallungò sul letto; più tardi facemmo l'amore. Dopo, quando lei mi spinse fuori di sé, il nostro amplesso si sciolse e mi ricordai una frase che Staniland aveva registrato: "Con Barbara ogni sforzo è inutile. Qualsiasi sforzo io compia, per lei non conta nulla, e nonostante ciò sono costretto, come un prigioniero alla catena, a ritentare continuamente. Restami vicino, Barbara! Ascolta! Non... " Barbara aveva spento la luce. Sveglio, mi tastavo il livido in faccia, sentivo il corpo appesantirsi e seguivo i miei pensieri librarsi in cerchio nell'oscurità scandita dal suo respiro. La guardai dormire, il suo corpo illuminato brevemente nella luce dei fari di un'auto che passava, il volto di pietra nell'alone bianco e in quel momento ne fui certo: sa chi sono e cosa faccio qui. Non riuscivo a prendere sonno. Era una notte afosa e nella stanza mancava l'aria. Cercavo inutilmente di dormire, ma mi ritrovavo come al solito a pensare a Staniland. In uno dei nastri aveva detto: Voglio morire, ma la morte mi fa paura. Devo rassegnarmi al fatto che quando sarò morto comincerò a enfiarmi e a puzzare, non posso concepirlo per il mio corpo che mi è così familiare. Ma nell'ultima estate che ho trascorso a Duéjouls, in una giornata torrida la morte è giunta al villaggio; il figlio più giovane della famiglia che abitava al castello morì di congestione facendo il bagno
nelle acque gelide del Tarn; aveva diciassette anni. A dispetto della differenza d'età, eravamo amici: insieme spalavamo lo sterco di pecora dagli ovili nei sotterranei a volta del castello, lo scaricavamo sul rimorchio di suo padre e andavamo a spargerlo sui campi. Non mi aveva mai domandato niente. Era troppo intelligente per fare domande. Il giorno in cui morì, salii al castello, la sera stessa. Non volevo andarci tre ore soltanto dopo che lo avevano riportato dal fiume, ma suo fratello me lo aveva chiesto. Salii al piano di sopra: i suoi genitori e qualche parente si trovavano nel salottino di pietra. Piangevano nel buio soffocante, con finestre e imposte sbarrate. Accesero le luci in modo che potessi vederlo per un momento; era stato composto su un catafalco, coperto da un velo di mussola, in camicia e pantaloni, con le mani incrociate sul petto. Il volto spigoloso e le mani affusolate erano diventate bluastre. Poi spensero di nuovo la luce. Mi ero tolto il cappello e me lo rigiravo tra le mani. Il padre e la madre si abbandonarono nelle mie braccia e ci stringemmo l'un l'altro, ci baciammo e piangemmo. "Perché Dio mi ha permesso di averlo," si lamentava la madre, "se doveva lasciarmelo per così poco tempo?" E un momento più tardi: "Non si è mosso, ancora non si è mosso." Non aveva ancora accettato che non si sarebbe mosso mai più. Nel frattempo nell'oscurità si diffondevano gli aspri bisbigli dei contadini. Una donna mormorò in occitano: "Non si è ancora gonfiato, ma lo farà presto, con questo caldo, fuori sono cinquanta gradi al sole." "Lo seppelliranno non appena completate le pratiche," borbottò rassicurante un uomo. "Dopodomani al massimo." Intanto il padre del ragazzo gemeva soffusamente. Non avevo mai udito un uomo solido come lui emettere un simile suono, e spero di non udirlo mai più. In quel periodo lavoravo occasionalmente al cimitero con un altro uomo, il becchino titolare era in malattia. Scavare da quelle parti è un lavoro pesante, soprattutto d'estate quando la terra è dura come il cemento, non il genere di lavoro per cui ti devi mettere in coda. Ma quella volta non ci toccò di scavare. Per seppellire il giovane nella tomba di famiglia bastò spostare una bara abbastanza recente da un'altra parte, perché non c'era rimasto spazio sufficiente. Ma all'interno di questa bara si era sviluppato tanto gas che
la pressione aveva mandato in frantumi diverse assi. Eppure erano assi solide, quercia di montagna che il mio vicino Espinasse aveva tagliato, messo a stagionare e poi portato alla segheria di Vayssières; poi le avevamo sagomate e piallate. Spostare quella bara fu il lavoro più atroce per tutti e due, ma ovviamente alla fine ci riuscimmo. Naturalmente da morto puzzerò. Mi enfierò come chiunque altro e di me non resterà niente. Solo, come tutte le verità che riguardano noi stessi, è difficile da credere, e io non ci sono riuscito per dieci anni. Ma adesso mi sento di nuovo lucido e ho riacquistato la forza di enunciarlo chiaramente in questo microfono. Chiunque concepisca lo scrivere come una piacevole passeggiata verso una placida vita di agi è destinato a non scrivere che merda. 27 La sera dopo eravamo a letto, svegli; da un po' di tempo Barbara se ne stava silenziosa. «L'altro giorno hai accennato a un uomo,» cominciai, «uno con cui hai vissuto.» «Sì?» Mi accorsi che si era fatta guardinga, anche se per nasconderlo sbadigliò. «Come mai ti interessa?» «Tutti quelli che hai conosciuto mi interessano, mi sembra naturale.» Si voltò nella penombra per guardarmi. «Non aveva proprio niente di particolare.» «Era giovane? Vecchio?» «Oh, piuttosto di mezz'età, sui cinquanta.» «Non mi pare quello che fa per te. No, se penso al povero Tom quella sera all'84 e a come lo hai strigliato.» Si chinò verso di me e mi affibbiò un buffetto sulla guancia, leggero, senza farmi male. «Sei un uomo tremendo, tu, proprio tremendo.» «In che senso?» «Sì, sei così dolce, e nello stesso tempo tremendamente duro.» «Non voglio metterti in imbarazzo con un mucchio di domande sul tuo passato.» «Eppure non fai altro.» Si accese una sigaretta, avendo trovato a tastoni
nel buio il mio accendino; «Basta che io faccia il minimo cenno a qualcosa che mi è capitata prima di conoscerti e tu immediatamente ti ci avventi sopra.» Mi stiracchiai nel letto, incrociando le braccia dietro la testa; «Se non ti va di parlare di questa persona, lasciamo perdere. Cerca di capire, mi interessa soltanto, non sono affatto geloso.» «Non era altro che un ubriacone noioso, e io avevo altre relazioni, ma adesso non mi spiego neanche come abbia potuto prenderlo in considerazione.» «Magari aveva testa? Ti piacciono gli uomini intelligenti, hai detto.» «L'intelligenza non gli mancava...» «Ma?» «Ma non gli serviva a concludere niente.» «Un fallito?» «Si, un fallito.» «Immagino che tutti corriamo il rischio di finire così.» «A me, lasciami pure fuori.» «D'accordo,» conclusi, «adesso però dormiamo, devo alzarmi presto domattina.» «Buona idea.» Mi girai dandole la schiena e finsi di addormentarmi, come una volta aveva fatto Staniland sul materasso di Romilly Place. Immediatamente mi tornò in mente una delle sue cassette, in cui aveva parlato di Shakespeare e ne aveva recitato dei versi. "Perché ci si dovrebbe prendere la briga di scrivere dopo Shakespeare?", aveva detto, "Come potrei esprimere ciò che provo per Barbara meglio di come Amleto ha espresso i suoi sentimenti per Ofelia?" Gli si era rotta la voce, quindi di lì a poco aveva proseguito, citando: "Ofelia, o cara, inetto sono io a comporre versi, non possiedo l'arte di scandire i sospiri; ma che ti amo al di sopra di tutto, o cara a me più d'ogni cosa, credilo. Addio! Tuo per sempre finché mia resterà questa macchina corporea, Amleto, principe di Danimarca.'' «Barbara, stai dormendo?» le chiesi nell'oscurità. «No.» «Quel tipo di prima...» «Oh no, ancora!» «Come si chiamava? Il nome solamente, vorrei sapere.» «Oh, smettila.» «Ho fatto un sogno. Appena adesso.»
«E cosa hai sognato?» Si sollevò sul letto come uno smorto serpente. «Non so, ma ho sognato che si chiamava Charlie e che aveva fatto una brutta fine.» Mentre lei ascoltava, nella stanza il silenzio era totale. «È ancora vivo, Barbara?» «No,» rispose sommessamente. «Ho sentito dire che è morto. Avevo già rotto con lui da parecchio tempo, quando nei locali corse voce che fosse morto.» «E questo tipo che ha fatto una brutta fine, si chiamava Charlie?» «Sì,» mormorò. Le sue parole erano come ghiaccio che si sciogliesse. «Immagino che adesso vorrai sapere anche il cognome.» «No, no, niente affatto.» «Ma allora cosa stai cercando di dimostrare?» «Niente. Forse che i sogni nascondono strani poteri. E sei venuta a sapere di che cosa è morto?» «No, ma sarà stato a causa del bere, credo.» Potevo sentire il suo corpo accanto a me, rigido come un pezzo di legno. «Ho l'impressione di averti turbato,» le dissi. «Nel mio passato ci sono certe persone che preferisco dimenticare, ecco tutto. Mi piacerebbe fare l'amore e che tu dimenticassi tutto quello che è successo prima.» Ma non ne ero capace: ci sono parti del tuo corpo cui ripugna quel che esigeresti da loro. Più tardi quella notte, dopo essere restati tesi l'uno a fianco dell'altra per quelle che a me parvero ore, Barbara riprese spontaneamente a parlare di Charlie. «Non credo che ti avrebbe fatto una grande impressione.» Sembrava inquieta. «Chissà. Da giovane avevo un amico, Jack, con una sorella più vecchia che si chiamava Ivy, che aveva pressappoco sessant'anni quando la conobbi. Sin da quando era arrivata da Wexlow con Jack si era mantenuta facendo pulizie. Frequentava il nostro stesso locale in Fulham Road, sempre di buon umore, pronta a scherzare e a offrirti da bere. Sapevamo che era troppo fragile per quel lavoro. Un giorno se ne stava al suo solito posto in quel piccolo bar che si affaccia direttamente sulla strada, e sembrava che non ce la facesse a finire la sua bottiglia di Guinness. Disse che non le andava, e ne lasciò metà. La cosa si ripeté finché Jack, il mio amico, la obbligò a fare degli esami al Chester Beatty, l'ospedale più vicino. Aveva un
cancro allo stomaco, ed era troppo tardi per intervenire. Quando i medici glielo spiegarono, lei rispose che sì, già da parecchio tempo sentiva dolore, ma che senso aveva andare a lamentarsene in giro?» La ricoverarono al St. Stephen, Jack ce l'accompagnò. Nessuno poteva fare più nulla per lei. Se ne stava distesa immobile in questa orrenda corsia, il volto incartapecorito, la morte addosso, senza più forze per lottare: per Ivy la fine sarebbe arrivata in fretta. Però continuava a sorridere, con la sua dolcezza di donna irlandese. Un giorno incontrai Jack al pub, ci bevemmo una birra. Alla salute, mi fa lui, e io gli rispondo, come sta Ivy? Mi dice che sta morendo, secondo il dottore può essere da un momento all'altro, però non ha più dolori. Mi mancherà, dice, mi ha fatto da madre. Gli risposi che sarebbe mancata anche a me. Se ti va potremmo andare a trovarla, mi propose, l'ospedale non era lontano. C'era già stato quella stessa mattina, e lei non desiderava nulla più di una pianta da tenere accanto al letto, così, per vedere un fiore che cresce. Il fioraio è proprio in fondo alla strada, gli dissi. Allora abbiamo finito le birre e siamo andati a comprarle un geranio in vaso, due sterline, e glielo abbiamo portato. Altro che contenta, ne è stata addirittura felice! Che cari che siete stati, aveva detto, che splendido colore. Sedetevi e stringetemi le mani, fa freddo qui dentro. Ma non faceva freddo per niente, era estate, una torrida giornata di luglio. Se ne stava distesa ad ammirare il fiore. Gli occhiali erano diventati troppo grandi per il suo viso, ma rimaneva sempre la stessa deliziosa Ivy. Poi si avvicinò l'infermiera a dire che era il momento della terapia e che perciò l'orario di visita era terminato, ma tanto a tutti e tre non era rimasto più niente da dire. La baciammo, stringendola tra le braccia, finché l'infermiera non fu di ritorno con la lettiga, e ce ne andammo; erano ormai le cinque e mezza, e i pub stavano riaprendo. Domandammo se potevamo tornare più tardi a portarle qualcosa da bere, ma la caposala ce lo proibì scandalizzata. Che cazzo di differenza può fare ormai, mi venne da pensare, e lo dissi a Jack che si trovava in tasca una bottiglia da un quarto di scotch, e gliene diede un goccio mentre la suora non guardava, ma le andò di traverso. Morì quella sera stessa, alle dieci, perciò non la vedemmo mai più. Ci dissero che potevamo riprenderci il geranio, ma lo lasciammo agli altri pazienti della corsia. «Se non altro, in questo assomigli a Charles,» commentò Barbara. «Vi interessate agli altri. Troppo, nel caso di Charlie. Tu sei un altro di questi che pensano troppo.» Sbadigliò. «Gli piaceva la poesia. Sai qual è l'unico brano che mi ricordo? "E ora riposati sull'ammirevole bianco mio seno,
eccetera."» Un istante dopo aggiunse: «Carino, non c'è che dire.» Sognai che Staniland aveva un terzo occhio e che Barbara diceva: «Potremmo ballare per sempre, ma una volta che la musica è finita, è finita per sempre.» 28 Quando mi svegliai, forse in seguito a qualcosa che avevo sognato ma che non riuscivo a ricordare, mi ritrovai a pensare a un episodio che Staniland aveva descritto in una delle cassette. Osservai Barbara, che dormiva ancora. Staniland aveva raccontato: Agosto 1940. Come bruciava quell'aereo tedesco! Giaceva di traverso, capovolto in un solco nel campo dietro la nostra casa. Era un Heinkel 110, grigioverde, con le insegne straniere. Erano le sette del mattino con il sole che già scottava, e il rombo che aveva prodotto cadendo e sollevando quella gran massa di terra mi aveva svegliato. Quando arrivai nei pressi, c'era puzza di carburante dappertutto perché era scoppiato un serbatoio. Gli uomini dell'equipaggio erano a bordo, un tenente e un sergente, riconoscevo le uniformi, con gli occhialoni che davano loro un aspetto severo e deciso. Fumavano, ma non sigarette. Fumavano da tutto il corpo, impregnati di benzina. I vapori tremolavano nel sole. Se ne stavano tranquillamente a fumare. Il poliziotto del villaggio arrivò dopo un po' in bicicletta, coperto di sudore e con il casco che gli era scivolato dietro la testa. Fu lui a rompere il silenzio: fino a quel momento non si era sentito alcun suono, quasi come in una chiesa. Il poliziotto cercò di avvicinarsi anche all'abitacolo, ma fu respinto dai vapori. I due all'interno non battevano ciglio, continuando a fumare esattamente come prima, e fissando il parabrezza davanti a sé. "Allontaniamoci da qui, ragazzo," mi disse l'agente, "è pericolosissimo, l'accensione è ancora inserita." Ci restò appena il tempo di scappare il più in fretta possibile prima che nell'abitacolo scoccasse una scintilla facendo esplodere l'apparecchio. Il poliziotto mi spiegò che la colpa era tutta dei politicanti. Era
un vecchio poliziotto di campagna, non badava a quello che gli usciva di bocca, soprattutto con un bambino. Sosteneva che se non fosse stato per i politicanti quell'aeroplano non sarebbe mai arrivato lì. Quando ripartì per andare a fare rapporto, io tornai indietro e mi impadronii di un pezzo di coda che era stata proiettata lontano e la tenni come trofeo. Era stato una giornata veramente avventurosa, eccitante. Ma l'aspetto strano è stato che, con gli anni, il passare del tempo ha modificato il senso di quelle due figure con i caschi di cuoio, tranquillamente assorte, tremolanti nei vapori, il tempo ha conferito un significato differente e più profondo a quell'esperienza. 29 Telefonai al mio capo e gli dissi: «Sarebbe meglio se potessi venire a parlarle.» «A che proposito?» «Il caso Staniland.» «E cosa c'è da dire? Risolvilo. Cosa ti trattiene? Non hai scoperto chi è stato?» «Sì, ma mi mancano le prove. Non riesco a dimostrare quello di cui sono certo. L'ufficio del Pubblico Ministero non sarebbe in grado di procedere, non mi concederebbero un mandato di cattura perché l'accusa in tribunale non reggerebbe. Le cassette non costituiscono una prova. Eppure è un caso in cui quasi tutti quelli che ho interrogato finora hanno contribuito, direttamente o indirettamente, a ucciderlo.» «Allora faresti meglio a torchiarli come si deve.» «Non cederebbero neanche se li mettessi sotto torchio per un anno. Perché dovrebbero? Non c'erano testimoni.» «Questa è una difficoltà,» sospirò. «Ma il lavoro della polizia è irto di difficoltà, dovresti saperlo. Specialmente al giorno d'oggi.» «E specialmente in questo reparto.» «Comunque venire qui a parlarne con me non cambierebbe nulla. Non ne vedo proprio l'utilità.» «Sto cercando di spiegarle che tengo troppo a questo caso, me ne sono lasciato coinvolgere eccessivamente.» «Non devi. Questo lo sai. Devi rimanere assolutamente obiettivo.» «Se non mi fossi lasciato coinvolgere profondamente, non sarei giunto
tanto avanti.» «Sì, capisco, è un problema.» «Sono deciso a far sì che i colpevoli paghino, ma come posso ottenerlo se non mi procuro prima le prove?» «Lascio l'intera questione al tuo discernimento.» «A volte i miei sentimenti prevalgono sul mio discernimento.» «È proprio per questa tua umanità,» disse con un filo di divertimento, «che lavori in questa sezione. Se fossi stato una macchina come Bowman ti avrei fatto trasferire da un pezzo all'Anticrimine.» «Questo non mi è d'aiuto.» «È ovvio, ed è per questo che è inutile discuterne. Te la devi cavare da solo. Non ho nessuno da affiancarti come aiuto.» «Preferirei essere sollevato da questa indagine.» La sua voce si fece dura. «Se abbandoni questa indagine, mi disferò di te. Per te sarebbe finita, mi sono spiegato?» «Mi dimetto,» replicai, «così potrò portare a termine l'indagine come privato cittadino, senza bisogno di mandati e senza preoccuparmi del Pubblico Ministero.» «Adesso calmati. Farò finta di non avere sentito quello che hai appena detto.» «Per lei è facile parlare. Non è toccato a lei raccogliere le testimonianze in questo caso, non è toccato a lei ricostruire ciò che quell'uomo sapeva, ciò che aveva appreso, chi era veramente! Non ho per le mani solo la morte di un alcolizzato.» «Io non mi limito a parlare, sergente. Se non fossi passato anch'io per situazioni simili sbrogliandomela da solo, non sarei arrivato dove mi trovo. Perciò non puoi dimetterti,» riprese, «ne va della considerazione che hai di te stesso. Ma queste conversazioni escono dalla norma. Fai ciò che è necessario per risolvere il caso. Sai chi sono i colpevoli, inchiodali. Ma non infrangere le regole, è chiaro?» «Più o meno.» «Almeno, grazie a Dio, le cose ovvie in qualche modo sono ancora chiare,» concluse riattaccando. 30 Arrivai a Earlsfield e parcheggiai. Acacia Road, una traversa della strada
principale che va verso il centro di Londra, sbuca in una rotonda chiamata Acacia Circus, dove abito io. Erano le tre e mezza del pomeriggio e si vedevano intorno pochissime persone. La giornata limpida faceva apparire l'edificio ancora più nuovo e più squallido: è una costruzione di tre piani in cemento, che d'inverno, quando il riscaldamento è acceso, trasuda umidità. Io sto al secondo piano. L'appartamento consiste di soggiorno, camera da letto, cucinino e bagno. Il soggiorno si affaccia su un balcone talmente stretto che d'estate non si può portare fuori neanche una sedia. Ci vengo il meno possibile, se non per dormire. Nelle vicinanze ci sono alcune case, tutte nuove, in cui gli uomini si dedicano al giardinaggio alla fine della giornata, potando la siepe con cesoie acquistate per corrispondenza. Borda la carreggiata qualche sparuta acacia che solo a guardarla non lascia eccessive speranze sulle sua possibilità di sopravvivenza, fornendo così il nome a questo sfregio aperto che è la mia strada. Uscii dall'auto e cercai la chiave di casa nella tasca posteriore dei calzoni. Salii ed entrai. Il soggiorno era eccessivamente caldo, inondato del sole pomeridiano. Non era una stanza accogliente. C'era qualche pezzo di mobilio, componibili comprati pronti da montare, sul pavimento un cuscino di cuoio a patchwork lasciato dall'inquilino precedente e un televisore. Andai ad aprire la finestra e mi trovai davanti un limpido cielo azzurro, i riverberi e baluginii del traffico sulla strada principale, e case, case, ancora e sempre case. Mi venne in mente che avrei anche potuto mangiare. Di solito c'è qualcosa nel congelatore: tirai fuori una confezione e iniziai a leggere le indicazioni sul dorso, ma il contenuto mi parve così disgustoso che lasciai cadere il pacchetto mandandolo a schiantarsi sul piano di formica del tavolo della cucina. Presi invece una lattina di birra e tornai in soggiorno. Mi sentivo a disagio e turbato dopo la conversazione con le alte sfere. Avevano capito che mi trovavo in una posizione disperata, e lasciavano che ci sprofondassi sempre più. Tirai fuori le cassette che avevo trovato in Romilly Place e ne misi su una che non avevo ascoltato, ancora non avevo avuto il tempo di ascoltarle tutte. Feci partire la riproduzione. Si udì dapprima un respiro rauco, e subito dopo Staniland iniziò a parlare. Si rivolgeva a sua figlia Charlotte. Mi sedetti ad ascoltare, bevendo un sorso di birra ogni tanto. Tesoro, mi basta parlarti anche solo in questo modo per sentirmi un po' più vicino a te. Riconosco che mi sono comportato ter-
ribilmente male nei tuoi confronti, e questo mi fa soffrire. Ho fatto del male anche a tua madre, quando sarai più grande devi chiederle di spiegarti tutto. Oh cara, lo so che adesso hai solo dieci anni, ma cerca sempre di ragionare e vedrai che tutto si chiarirà. Tutto quanto l'amore di cui sono capace è stato soffocato dalla sfiducia e dai dubbi che nutro su me stesso. Anche se attribuisco il massimo valore alla sincerità, mi è stato difficile essere spontaneo, credo perché la vita è così precaria, ed è per questo che non ti ho voluto bene e presa in braccio e baciata come avrei dovuto, lo capisco soltanto ora. Ti supplico di cercare di perdonarmi, io ti ho voluto davvero tanto bene, ma nello stesso tempo stavo cercando di compiere qualcosa di veramente difficile nella vita. Ci fu una pausa sul nastro e sorseggiai un po' della birra che ormai mi si stava intiepidendo in mano. Mi dissi che sarebbe stato giusto far avere il nastro alla madre della bambina, ma mi chiesi se non sarebbe servito solo a farla soffrire ancora di più. Staniland riprese, quasi a parte: Oh Dio ti prego, fa' che capisca, non posso sopportare di commettere altri sbagli... Va tutto bene, sto di nuovo parlando con te, tesoro. Voglio che tu sappia quanto malgrado tutto sono felice che io e la mamma ti abbiamo avuto. Tutti quanti a Duéjouls, i vicini, la tua maestra Madame Castan, proprio tutti mi ripetevano che ragazzina deliziosa, allegra, intelligente eri e quanto sentivano la tua mancanza. La casa di Duéjouls sarà tua e della mamma, amore mio, solo vostra: gli atti e il mio testamento che destinano tutto a voi sono depositati dal notaio Garlenc, a Rodez. Questo risolve ogni dubbio, pensai, spegnendo: la vedova deve avere il nastro. Dopo averci rimuginato su per un po', riaccesi il registratore. Mia cara, quando diventerai grande tu sarai una di quelle ragazze per cui le altre persone si diranno disposte anche a morire, e non sai cosa darei pur di potertelo dire io stesso. Ma litigavo troppo con tua madre e bevevo troppo. Tra di noi seminavo solo dolore e sventura, perché in un certo senso avevo capito troppo e volevo capire sempre di più. Ma non ci sono riuscito. Quello che ho fatto invece è stato distruggere la nostra vita familiare.
È stato tutto inutile, e ora quello che mi accadrà non mi interessa più. In realtà non sono stato che un buono a nulla, e di questo cerca di perdonarmi se puoi. Però non permettere che si parli male di me. Chi lo fa non conosce mai completamente i fatti e giudica solo per sentito dire, e per giunta malignamente. Tutto questa ossessione interiore è cominciata quando ero ancora bambino, dopo che il tuo prozio venne ucciso durante la seconda guerra mondiale. La sua nave, il Ceramic, venne silurata e affondò in Atlantico nel maggio del 1941; lui si trovava nella sala macchine ed è morto ustionato dal vapore nello scoppio delle caldaie. Dei millecinquecento dell'equipaggio fu tratto in salvo un solo superstite, un fuochista, che raccontò tutto a mio padre. Io adoravo mio zio, e fu allora che cominciai a interrogarmi sul senso di questa nostra esistenza. Figlia mia adorata, noi un giorno ci ritroveremo, ne sono certo. Ciò che ho fatto... Ma non avevo più la forza di ascoltare quello che Staniland aveva fatto, non in quel momento. Per adesso ne avevo abbastanza, e spensi il registratore. Guardai il nastro per vedere se ce n'era ancora molto da sentire, e ce n'era. Allora mi dissi che non c'era niente da fare, bisognava ascoltarlo. Ma era un'esperienza atroce, come ascoltare un uomo che sta morendo soffocato. Accesi una sigaretta, la gettai via, e mi forzai a riaccendere il registratore. La voce disperata di Staniland riecheggiò di nuovo nelle mie orecchie. Sono arrivato a sfiorare l'esperienza suprema, la verità... ma non ero all'altezza, mi mancava la forza di volontà, e ho rovinato tutto miserevolmente. Ho lasciato che desideri banali mi fuorviassero dai miei obiettivi. Mi sono giocato tutto, alla fine ho messo sul tavolo anche te e tua madre, e ho perso anche voi. Tua madre e io litigavamo troppo, tutti e due bevevamo troppo. Una sera a Duéjouls mi aveva detto che non sarei mai riuscito ad avere un'altra donna, e allora uscii e ne trovai una, e tua madre mi lasciò, portandoti con sé. Ma tutto ciò non ci causò che sofferenza, infatti tutti i nostri guai cominciarono proprio allora. Ma al diavolo i fatti. Sto tentando di ricominciare a scrivere di nuovo, usando il registratore. Mi sono deciso molto tardi, ma so che posso riuscirci, e
devo esprimere qualcosa di inaudito. Voglio che ciò che scrivo sia una boa che segnala uno scoglio: nessun altro dovrà sfracellarcsi contro. Barbara... non intendo parlarti molto di lei, tesoro. Se saremo capaci di mostrarci reciprocamente una buona disposizione d'animo, lei potrebbe rivelarsi per te un'amica in futuro. Ma potrebbe anche non esserlo. Seppur con sofferenze atroci, credo di aver compiuto qualche progresso con lei recentemente... Mi manchi disperatamente, mia cara Charlotte. Ho la sensazione di essere stato ucciso, come se i miei errori si fossero tramutati in un'arma e mi avessero sparato contro. Devo cercare di spiegare tutto nel tempo che mi resta, tutti gli errori, la pena e l'amore. Addio, piccola mia, addio, buonanotte, tesoro, e ricorda una cosa sola: tutto il male del mondo non può nulla contro l'intelligenza e il coraggio. Non fingere mai. Tutto, persino la morte, è preferibile piuttosto che fingere. Buonanotte, amore mio. Seguì una lunga pausa, si sentiva solo il fruscio del nastro che continuava a scorrere. In un'altra occasione avevo sentito Staniland lamentarsi: "Perché bisogna soffrire così? Tanti si sono comportati peggio di me e se la sono cavata impunemente. La testa mi duole come se avessi il cervello ammaccato. Ho ricevuto una solenne batosta dalla verità e mi sento sottomesso, rinsavito e disperato come se avessi trovato una scorciatoia per la saggezza al di là di uno specchio e mi fossi gravemente ferito nel passarci attraverso." Non ho idea di quanto rimasi immerso in questi pensieri, ma il sole non penetrava più nella stanza e le ombre si erano ormai allungate quando fui riscosso dal telefono che squillava. Sollevai la cornetta, immaginando che potesse essere Barbara. Invece era Bowman. «Che diavolo stai facendo ancora a casa a quest'ora?» disse. «Non seccarmi, proprio non è il momento adatto.» «Lascia perdere. Faresti meglio a precipitarti a Soho. Petworth Street. Cristo, perché i tuoi casi saltano sempre fuori proprio dove mi trovo io?» «Destino,» risposi. «Cosa è successo?» «Un altro dei tuoi disgraziati Staniland, e questo è stato veramente disgraziato.» «Morto da molto?»
«Circa dodici ore.» «Arrivo, giusto il tempo di fare la strada.» Riattaccai e pensai: "Che importa quanto tempo ci impiego? Tanto non è già morto?" 31 «Deve trattarsi senz'altro di suicidio,» affermò Bowman quando arrivai. Era solo e se ne stava davanti alla finestra della camera di Eric. L'aveva aperta, una buona idea con il caldo che faceva, perché il cadavere di Eric era là dentro da un pezzo. Mi venne incontro e tutti e due ci fermammo accanto ai resti coperti da un lenzuolo rosso, dal quale spuntavano le Doc Martens del morto. C'era polvere per le impronte digitali dappertutto. Bowman scostò il lenzuolo. «Certo che non è carino, no?» «Se è per questo, non lo è mai stato.» Bowman indietreggiò di un passo e mi guardò. «Va bene, perché l'ha fatto?» chiese semplicemente. Non risposi. Fissai il corpo. La gola era stata tagliata sotto l'orecchio sinistro. Bowman vide quello che stavo guardando e commentò: «A momenti si staccava la testa.» Tra il pollice e l'indice di Eric c'era una lametta da barba. Era stata recisa la carotide e lo spruzzo di sangue aveva lasciato sul muro una macchia densa a forma di zampillo. «Una maniera assurda per togliersi la vita, non riuscirò mai a capirlo,» commentò Bowman. «A quanto ci risulta, non c'è traccia della presenza di qualcun altro nella stanza al momento del fatto. Te lo ripeto, hai una qualche opinione al riguardo?» «Visto che tu e i tuoi uomini l'avete esaminato in tanti e affermate che si tratta di suicidio, perché dovrei avere io qualcosa da obiettare?» «Oh, andiamo,» replicò insofferente Bowman. «Guarda, qui siamo tra poliziotti. Ho già mandato dalla madre un agente, che mi ha riferito che tu eri andato a parlarle e che lei ti aveva dato l'indirizzo del figlio. Secondo la donna, tu le avevi promesso di comunicare al ragazzo la notizia della morte del patrigno. È vero?» «Sì, è vero.» «E dimmi, stavi facendo pressioni su questo tipo?» «Certo, l'ho interrogato per capire quanto sapeva riguardo la morte del
patrigno.» «Energicamente?» «Abbastanza. Non mi piace che mi si menta spudoratamente, esattamente come a te.» «Era in qualche modo coinvolto?» «Sì. Eric era uno spacciatore. Girava in tutti i pub e le discoteche di Londra. Era perennemente a corto di denaro, perché lui stesso si drogava. Non mi rimane nessuna probabilità di dimostrarlo ormai, ma sono convinto che conosceva gli assassini del patrigno. Sono convinto che si servivano di lui per estorcere denaro a Staniland. Poi, dopo che sono stato qui a parlargli, Eric ha perso la testa ed è andato a dirglielo. Tremava all'idea di doversi fare un altro soggiorno in gattabuia, e nonostante l'avessi messo in guardia è andato a parlare con loro per vedere se riuscivano a tirarlo fuori dai pasticci. E ci hanno pensato loro,» conclusi, abbassando lo sguardo sul corpo, «a modo loro.» «In conclusione mi stai dicendo che non credi che si tratti di suicidio, per te è un omicidio.» «Ma è chiaro, solo che non sono in grado di provarlo, come tutto il resto in questo caso. L'errore è stato mio, avrei dovuto arrestarlo per possesso di stupefacenti e trattenerlo. Ma ho preferito lasciargli corda.» «Gli hai lasciato abbastanza corda per impiccarsi,» disse Bowman, guardandosi attorno. «Ma che macello, Cristo, per un omicidio.» «D'accordo, ma non dimenticare che qualcuno di loro prova piacere nel fare una carneficina. Per questi pazzi bastardi il meglio sta proprio lì, è quello che li eccita. Alla Factory capiteranno un centinaio di casi all'anno, lo sai. È buio, il tipo lascia la macchina parcheggiata lì vicino, fa il lavoro in tuta e scarpe da ginnastica, appena finito si spoglia, sbatte tutto in un sacchetto di plastica, si cambia e una volta a casa brucia tutto. E chi verrà a sapere mai niente?» «Hanno usato la lametta?» «Perché no? Non c'è nessun'altra ferita. Sono tutti e due ben piazzati. Lo afferrano per i capelli, gli tirano indietro la testa, lo sistemano e si rimettono a posto.» «In due?» «Un uomo e una donna.» «Sarebbe giusto che i piccioncini trovassero il loro nido d'amore a Broadmoor,» disse Bowman. «Proprio quello che si meriterebbero. A tutti e due piace uccidere, e più
ci mettono e più è una carneficina, e più gli piace. E avevano un movente,» aggiunsi. «Ormai li incalzo così strettamente che mi vogliono impedire di avvicinarmi ancora di più.» Mi guardò con un'espressione assai prossima alla preoccupazione. «Sergente, mi auguro che tu sappia bene ciò che stai facendo. Ma secondo te c'è una pur minima speranza di provare tutto ciò?» «Una debolissima speranza.» «Non so,» riprese malinconicamente, «ma a me sembra proprio un bel casino. Grazie al cielo il problema non è mio ma tuo.» Si riprese la sua costosa giacca di tweed e se la infilò; intravidi l'etichetta di Savile Row cucita sulla tasca interna. «Hai bisogno di vedere ancora qualcosa?» «No, basta così.» «Dovrai fare un rapporto per l'inchiesta.» «Non me ne ero dimenticato.» «Lo faccio rimuovere, allora.» «Sì,» conclusi, «chiama l'ambulanza, se ne esistono ancora.» 32 Il nastro di Staniland che ascoltai in seguito cominciava: Ho sognato che stavo per varcare il portale di una cattedrale. Una figura indistinta mi avvertì: "Fermati! Non entrare! Ci sono gli spiriti! " Ma io entrai lo stesso e mi trovai a percorrere lentamente la navata verso l'altare. La volta dell'edificio era talmente alta da scomparire alla vista, i pilastri delle arcate si perdevano in una nebbia buia perforata dal bagliore aranciato delle lampade votive. L'unica luce filtrava dalle losanghe trasparenti delle vetrate, ed era debole e fredda. Attorno a questa massa in abbandono si estendeva un viluppo di ruderi. Ci ero stato tutta la notte, ci avevo vagato per secoli: un tempo erano stati la mia casa. Travi bruciate si protendevano simili a costole umane al di sopra di vuote, gelide gallerie, e grandi porte si aprivano su saloni sommersi da una pioggia implacabile. Spettri collerici avanzavano tenendosi sottobraccio tra i muri in rovina con il passo barcollante dei folli, schernendomi quando li incrociavo: "Gli Staniland non hanno più soldi? Bene! Benissimo! " Nella cattedrale non c'erano né banchi né seggiole, solamente
persone in piedi, in attesa. Non c'era nessuna funzione in corso. Uomini e donne di un'epoca passata si trattenevano in crocchi, parlando a bassa voce a vescovi che andavano e venivano tra la folla strascicandosi dietro le vesti annerite. Mi resi conto, paralizzato dall'orrore, che il posto era davvero popolato di spiriti. Tutti continuavano a guardare verso l'alto, come se aspettassero qualche avvenimento. Riuscii a vincere la mia paura e prosegui lungo la navata verso l'altare. Al mio passaggio gruppi di persone si segnavano e mi supplicavano, inquieti: "Non farlo!" Io aprii la transenna senza prendere in considerazione l'avvertimento e mi fermai davanti all'altare. Dietro, al posto del dossale, pendeva un arazzo con uno strano disegno a spirale di colore rosso cupo, che si perdeva verso il soffitto. Mentre lo guardavo, cominciò a oscillare, a incresparsi e a ondularsi, con un moto prima moderato e languido, poi sempre più vivace, fino a sollevarsi e a sbattere contro la parete con il rumoreggiare di un mare infuriato. Sentivo le figure alle mie spalle gemere e mormorare, pregando in preda all'angoscia e alla paura. Poi mi sentii afferrare alla cintola da mani invisibili che mi staccarono dal pavimento, sollevandomi fino al soffitto, e lentamente mi ruotarono lasciandomi poi andare parallelo al suolo, cosicché mi trovai a fluttuare a faccia in giù, sopra i volti intenti a fissarmi che dall'alto mi apparivano come macchie grigie nella penombra. Dopo essermi librato in lungo e in largo per l'edificio, lentamente discesi, di mia iniziativa, e mi posai lievemente nel punto da cui ero stato prelevato, dirigendomi subito fuori senza voltarmi indietro. Mentre mi allontanavo velocemente lungo un vialetto di ghiaia una figura ammantata di bianco che sembrava Barbara mi corse incontro, sbucando dalla fitta siepe che cingeva il cimitero. "Presto," diceva rivolta a qualcuno alle sue spalle, "non lasciatevelo sfuggire." Ma io mi infilai senza esitazioni in un bosco che mi si apriva davanti: più nessuno ormai mi avrebbe avuto in suo potere. 33 Avevo ormai ascoltato tutti i nastri di Staniland, ma c'erano alcuni passaggi che mi avevano lasciato un'impressione indelebile. Ne inserii uno nel
registratore dell'autoradio. La voce di Staniland esordiva: "Sulla terrazza di Duéjouls, vento di tramontana in pieno giugno. Registrato in un momento di estrema sofferenza spirituale." Mi trovai davanti un ingorgo stradale, che si estendeva per tutto il West End. Procedevo lentamente in coda, rallentando e ripartendo in modo automatico, ma mi trovavo in un universo differente, quello di Staniland. La situazione orribile in cui si era messo nei confronti di moglie e figlia, e il destino che incombeva su di lui, trasparivano dalla sue parole. Benché fosse morto, avevo cominciato grazie alle sue cassette ad alimentare la convinzione che fosse ancora in vita. Era come se per me si fosse già trovato all'obitorio prima ancora di arrivarci. Il passo che stavo ascoltando in quel momento continuava: Sciogli il delicato, meraviglioso merletto di carne, stacca il cuore con un taglio netto, strappa ai tessuti sotto la pelle la loro maschera, scardina le costole, metti a nudo la spina dorsale, spoglia le ossa del lungo vestito di muscoli che sostengono eretto. Una pausa per bollire il coltello, e poi con un gesto rapido e armonioso affondalo nel cranio che hai trapanato, immergilo nel cervello, e prova a estrarne l'arte se ci riesci. Ma ti sporcherai le mani di sangue, a meno che tu non lo abbia prima trasfuso in bottiglie, e potrai conservare tutta l'arte del morto, purché sotto sale, un piatto per ingrassarti in vista del tuo turno. Quale chirurgo migliore di un verme? Quale passione più grande di un cuore in formaldeide? La cenere della sigaretta dell'addetto dell'obitorio cade nella bocca del morto. Gli faranno radiografie delle ossa spezzate per il medico legale, prima di sbatterlo di nuovo dentro la cella frigorifera ad aspettare che il coroner dia l'ordine per la sepoltura. I responsabili della fine del suo essere misterioso la scamperanno o, alla meglio, una volta stabilita la loro follia, otterranno una sospensione della pena in base all'articolo sessanta. Spensi il registratore e senza alcuna apparente ragione mi misi a pensare a un amico che avevo da giovane. Era uno scultore che frequentava il mio stesso pub in Fulham Road, il suo studio era proprio di fronte. Portava sempre i sandali, ma senza calze, con qualunque tempo, ed era perennemente coperto di polvere di pietra, che gli si infiltrava sotto le unghie e gli
dava un aspetto grigio. Aveva lunghi capelli bianchi che gli coprivano le orecchie. Era comunista e non si preoccupava di chi venisse a saperlo, anche se lo diceva solo quando qualcuno glielo chiedeva. Ma quasi nessuno lo faceva. Era comunista per un atto di fede, come un Cataro. Seguiva la dottrina più pura, come facevano i comunisti prima di prendere il potere e di mandare tutto in malora. Ma era raro che parlasse di politica con qualcuno, c'erano tanti altri argomenti da trattare. Io e lui di solito ce ne stavamo al banco a bere birra e a chiacchierare. Però quelli che gli parlavano erano pochi e a lui stava benissimo così, la maggior parte delle persone non cercava neanche di rivolgergli la parola perché era completamente sordo e riusciva solo a leggere le labbra. Era rimasto sordo combattendo dalla parte dei repubblicani con la XII Brigata nella guerra civile spagnola. Aveva combattuto a Madrid, nell'Università, e in seguito a Huesca e a Teruel con la XV. Ma a Teruel una granata gli era scoppiata troppo vicino spaccandogli tutti e due i timpani. "Ne valeva la pena. " "Neanche un rimpianto?" "No, naturalmente." Una delle più grandi forme di coraggio sta nell'accettare il proprio destino, e io lo ammiravo proprio perché conviveva con la sua menomazione senza scaricarne la colpa su nessun altro. Si chiamava Ransome e aveva sessantacinque anni quando lo conobbi. Riceveva solo la pensione di vecchiaia, niente altro: il governo non ti paga un soldo per aver combattuto in una guerra civile straniera. Esseri simili vengono considerati alla stregua di infermiere, si presume che passino inosservati e rimangano senza ricompensa. Così Ransome era costretto a una vita frugale e austera, bevendo tè e mangiando porridge e crackers, e dedicandosi alla scultura. Per sua fortuna ci si adattava bene. Aveva sempre vissuto così. Tra quelli che contavano, la sua scultura non piaceva a nessuno. Quando visitai il suo modesto studio capii perché. Le sue figure mi facevano pensare a una via di mezzo tra Ingres e il primo Henry Moore; possedevano una grazia straordinaria, ed erano di gran lunga troppo sincere per significare qualcosa al gusto corrente pervertito dalle mode. Avevano una qualità che nessun artista di oggi sa più cogliere, esprimevano quelle virtù, la tenacia, l'idealismo, la determinazione, che erano già svanite da tempo con il dissolversi di una Gran Bretagna che io a stento ricordavo. Gli domandai perché, con il suo talento, non si avvicinasse a uno stile più moderno, ma mi rispose che era inutile: si sforzava ancora di rappresentare l'essenza di
ciò che aveva vissuto negli anni trenta. "Quello che tento continuamente di cogliere," mi spiegava, "è la luce, la visione interiore dell'uomo e la convinzione che questa luce comunica alle sue azioni, a tutto il suo corpo. Non hai mai notato come la struttura del corpo di un uomo si alteri quando lui è sospinto da una fede? L'ex impiegato di banca si erge come un atleta nel lanciare una granata... o potrebbe essere così, mi viene in mente quell'istante in cui un fante, un operaio con un fucile, è fermato da una pallottola durante un assalto: cerco di ricostruire nella pietra la tragedia di un uomo libero che passa dalla vita alla morte, dalla volontà al nulla, cerco di catturare l'attimo in cui si disintegra. È un obiettivo che per mia fortuna non mi abbandona." Prima di partire per la Spagna aveva davanti un promettente avvenire: rovistando in giro aveva tirato fuori qualche suo vecchio ritaglio di giornale. In uno di questi veniva citata una sua dichiarazione: "Il compito di uno scultore consiste nel trasmettere il senso della sua epoca attraverso la sua idea dominante. Se non riesce a comunicare questa idea, per quanta fama acquisisca e per quanto denaro guadagni, non vale nulla. L'idea è tutto." Sapevo quel che alla morte di Ransome sarebbe accaduto delle sue opere. Il comune, proprietario del locale che lo scultore aveva adibito a laboratorio, dopo aver visto quello che aveva lasciato, avrebbe ordinato di sgomberarlo. Avrebbero mandato un camion e due demolitori. L'intera raccolta sarebbe stata ridotta in frantumi a martellate e gettata via nella discarica comunale. Fra un millennio lo sguardo enigmatico di uno di quei volti di pietra sarebbe riaffiorato alla base di qualche edificio demolito. Nel frattempo, ai nostri giorni, autentica spazzatura, commissionata dagli ignoranti agli ambiziosi, continuerà ad ammassarsi nei parchi di Londra, con il senile beneplacito dell'Arts Council. ("Nella pietra, la più terribile responsabilità," ripeteva Ransome, "sta nel fatto che è eterna.") I sempre più esigui angoli dei parchi londinesi dove in un giornata di sole si può mangiare un panino in santa pace all'ombra dei platani saranno sempre più deturpati da schifezze in pietra, schifezze in marmo e in bronzo, schifezze eterne. Adesso Ransome mi ricordava Staniland. Dopo esserci conosciuti al pub da circa un anno mi invitò per la prima volta al suo studio. "Sono sposato, sai," mi informò prima di tuffarsi, sordo e incurante, nel traffico di Fulham Road. Quando entrammo nello studio lo trovammo vuoto, e gli domandai dove fosse sua moglie. "Oh, è fuori." "In visita?"
"Sì, diciamo pure in visita." Sua moglie era completamente pazza. Di tanto in tanto la dimettevano dall'ospedale psichiatrico e la mandavano a casa, ma queste parentesi non duravano mai a lungo. Ransome faceva di tutto per lei. "Sta molto meglio," mi bisbigliava in confidenza, "molto meglio davvero". Maisie sapeva che essendoci un ospite ci si attendeva qualcosa da lei, proprio come in occasione delle visite di Ransome, quando cercava di presentarsi al meglio nel parco del manicomio. Provava a prepararci il tè allo studio, ma a un certo punto Ransome era costretto a occuparsene lui perché lei nel cucinino cominciava a torcersi le mani davanti alle tazze, giudicandole inadatte e troppo ordinarie, per quanto potevamo capirne. Finiva di sistemare da solo il vassoio mentre lei andava a sedersi su una sedia di vimini in mezzo a due sculture, bianca quanto loro, una donna spaventosamente sottile dai bruni occhi spaventati, tremante di terrore. Se andava veramente male lasciava persino cadere il biscotto che aveva in mano e si metteva a cantare. "Serve a tener lontana la paura," mi spiegava tranquillamente Ransome all'orecchio, lui riusciva a capire cosa stesse facendo dall'espressione della faccia di lei. Ma il suo canticchiare stonato significava invariabilmente che lui doveva portarla a letto nell'angolo del laboratorio dove dormivano, farla coricare subito dandole il sedativo prescritto dal dottore. Se c'ero anch'io la mettevamo a letto insieme e Ransome diceva, rincalzando le lenzuola dal suo lato: "Lei ha costantemente davanti agli occhi la nuda esistenza, di cui noi ci rendiamo conto solo con i postumi di una pessima sbornia." Restavamo a guardare quel volto giallastro sofferente sul cuscino finché il canticchiare non si spegneva in un mormorio confuso e lei si addormentava. "Lei non si rende conto di quanto è bella," mi diceva Ransome, "Io le ripeto che niente può scalfire la bellezza, ma lei non si fida. Le dico che non c'è niente di cui debba aver paura, ma non mi crede; è troppo sensibile." La volta dopo, quando ritornavo lì con Ransome, lei era di nuovo andata via. Ci fu anche una volta tremenda in cui mentre prendeva il tè con i biscotti si mise a gridare, ruppe una tazza e tentò di uccidersi con una scheggia tagliente. Io e Ransome gliela strappammo via, ma lei nella lotta rovesciò la tavola. "Non crede di essere degna di vivere," disse Ransome più tardi. "Ma non si rende conto che per me lei è la vita. Io l'amo," aggiunse. "Non avrei mai potuto amare nessun'altra persona quanto amo Maisie. Tutta la mia opera è un tentativo di cogliere la sua essenza." (Finalmente avevo capito ciò che intendeva, grazie a Staniland, per
quanto allora mi fosse sembrato difficile da accettare. La scheletrica Maisie che si destreggiava tra le tazze da tè con l'apprensione disorientata dei folli, e quello che Ransome provava per lei, corrisponde a quel che provo nei riguardi di Staniland.) Ransome arrivava al pub per una birra all'ora di pranzo, se poteva concedersela, e mi parlava come se a casa andasse tutto bene, ma veniva presto fuori che Maisie aveva avuto un altro attacco; le ricadute stavano diventando sempre più gravi, ed era evidente per me che Maisie sarebbe finita definitivamente al St Anselm. Era evidente anche per Ransome, che però a lei non avrebbe rinunciato mai, non più di quanto avrebbe rinunciato alla sua scultura, e al perseguimento del suo ideale. Ransome era gentile, ma non cedeva mai. Non accettò mai soldi in prestito, nonostante talvolta gliene avessi offerti. "Per carità, da te proprio non posso," diceva inorridito. "D'accordo, bevi un'altra birra." "Certo, ma stavolta tocca a me." Se era senza soldi, non si faceva vedere al pub: "Un vero comunista non è uno scroccone," sosteneva. Io allora avevo appena deciso di entrare alla scuola di polizia e ricordo che quando glielo dissi mi fissò per un attimo e osservò: "Sì, ma forse avresti potuto anche diventare un artista." Non me la sentii di confessargli, nonostante gli dicessi quasi tutto, che non ne avrei avuto il coraggio. 34 Tirai fuori una cassetta per riascoltarla. Duéjouls: Mi ricordo che un mattino mentre me ne stavo a letto vidi un uccello attraversare in picchiata il riquadro della finestra. Era una calda giornata ai primi di giugno e l'uccello, verde e giallo come le foglie appena spuntate, piombò giù per un secondo ad ali chiuse, come un fazzoletto con un lembo annodato a un sasso. Si posò con agilità sulla vite selvatica della terrazza e rapidamente si gettò a far strage delle sue pulci col becco verde, emettendo liquidi versi di delizia: "Miladiou! Miladiou!" Più tardi: Ieri sera ho di nuovo trovato il Cavaliere Sorridente all'Agincourt. Non so se me la sentirò di tornarci ancora, malgrado tutta la mia determinazione. Barbara non era con me. Questo
spaventoso individuo mi odia. Emette onde di astio verso di me, persino quando mi dà le spalle. È strano sentirsi oggetto di un odio puro e scoperto, che rifulge negli occhi di qualcuno come la verità o una malattia, abbagliandoti. A parte la vistosa apparenza dovuta ai capelli rossi, è un uomo grande e grosso come un armadio, come suol dirsi, duro come un pilastro di cemento, senz'altro l'archetipo del farabutto. Sono anche convinto che ci sia qualche strano rapporto tra lui e Barbara. No, un rapporto è qualcosa di troppo chiaro, piuttosto un'intesa. Ne ho persino chiesto a Barbara, con i primi rimescolamenti di una nuova gelosia. È stato stupido, perché Barbara è capace di negare recisamente qualsiasi cosa, le parole sì e no per lei hanno lo stesso valore quando deve scegliere: "Sì, c'ero." "No, non c'ero." "Ma che cazzo di differenza fa?" e così via. Il Cavaliere Sorridente è diventato per me oggetto di interesse proprio perché mi detesta tanto. Dopo tutto, l'odio per una persona è una forma di interesse nei suoi confronti, e io ricambio tale interesse con la mia curiosità. Quando ho scoperto, grazie a una conversazione carpita all'Agincourt, che a trentotto anni vive ancora con la madre, ho intravisto un barlume di risposta al problema che era sorto in me. Il Cavaliere Sorridente si comporta come se gli piacessero le ragazze, un pizzicotto a questa, una pacca a quest'altra, sempre un sorriso, mai da perfetto gentiluomo, ma quando stringe il braccio attorno alle spalle di Barbara con una complicità inconscia, il modo in cui lei riceve il gesto rivela qualcosa, anche se ancora non ho capito cosa. Ma prima o poi lo scoprirò, e forse lui desidera che lo scopra, così avrebbe un buon pretesto per uccidermi. Nel frattempo c'è qualcosa di cui sono quasi sicuro e cioè che detesta le donne, e ne ha addirittura paura, a cominciare naturalmente da sua madre. Un uomo di trentotto anni non dovrebbe abitare con la madre, altrimenti in un modo o nell'altro si trasforma in una canaglia. Nel caso presente il figlioletto, dovendo dimostrare di essere cresciuto, diventa un rapinatore. Un'altra cosa di cui sono certo è che, nonostante io sia avanti con gli anni, fiacco e alcolizzato, non disprezzo le donne, anzi proprio l'opposto, ed è per questo che mi odia. Ogni volta che al bar racconto qualche mia vecchia storia con una donna, mi accorgo che si ferma ad ascoltarmi da lontano; è con i suoi amici, ma una curiosa immobi-
lità si impossessa di lui mentre parlo. Più tardi nella serata riesce sempre a trovare l'opportunità per deridermi, e anche, ma quella volta soltanto, di picchiarmi nel cortile sul retro. Però lo osservo con i suoi amici e mi convinco che è il classico compagno di spogliatoio. Non credo che riuscirebbe ad avere un'erezione con una donna neanche in un milione di anni; no, lui davanti a una donna avvizzisce, e più la donna è crudele, maggiore il piacere perverso che trae dal suo avvizzire. E Barbara? Barbara farebbe qualsiasi cosa a e per chiunque, perché quello che fa non le importa. È questa sua totale indifferenza che ho tentato di penetrare a costo del mio sangue, e ciò remotamente la incuriosisce, il vedermi lottare contro l'impossibile come una vespa in un boccale di birra. Più tardi: Barbara è uscita come al solito. In fondo, chi vorrebbe restare in questo orribile buco? Eppure io desidero e la imploro che rinunci a uscire per me, arrivando a umiliarmi pateticamente. Lei se ne infischia. Dio mio, che odioso destino innamorarsi (e per la prima volta!) di un frigido blocco di ghiaccio con gravi problemi psichici e la mentalità di un piccolo criminale! Mi ripeto continuamente che sono pazzo a non farla finita, ma ciò non modifica in alcun modo quello che provo per lei. Tutto ciò che posso fare quando rimango qui da solo è urlare: come può mettersi in mostra nei locali davanti a tutti quegli uomini visto che io la amo? Come può limitarsi a scuotere le spalle quando un uomo qualsiasi, me compreso, le mette una mano sulla coscia? Cosa c'è in me che non va? Tutta questa faccenda è uno scherzo atroce, un'abominevole insopportabile ingiustizia. Sono disteso sul nostro materasso sul pavimento. È il mio materasso, per la verità, lei lo usa talmente di rado. Sul tavolo della cucina è appoggiato un pacchetto di lamette da barba, aperto. Mi sento disperato, saturo del disprezzo e dell'odio altrui, di Barbara, del Cavaliere Sorridente. Funziono da vomitorio: ho l'effetto, semplicemente essendo così come sono (una cosa contro cui non posso fare niente), di tirar loro fuori tutto il male, divenendone l'oggetto. Mi risuonano in testa le parole che ho scritto: "Sciogli il delicato merletto di carne... poi con un gesto rapido e armonioso affonda nella gola e liberane la voce se puoi... " Mi sono alzato
dal letto e ho preso le lamette. Ne scarto una e la contemplo. Il suicidio? Questa potrebbe essere proprio la sera. Invece no. Non è la maniera giusta. Direbbero che sono stato un vigliacco, e allora tutta la mia vita sarebbe stata sprecata (ma ogni vita non è comunque sempre sprecata?). No, devo obbligarli a farsi carico della loro malvagità, questa è la maniera migliore, costringerli ad abbandonare le loro finzioni. A questo mi sento sacrificabile, come un topo di laboratorio la cui vita venga utilizzata per verificare una teoria. Ogni vita non serve che a stabilire la verità o la falsità di una teoria. Sì, mi dissi, eri proprio sacrificabile. Poi riaccesi il registratore e la voce di Staniland riprese: Mi torna in mente di nuovo quell'uccello. Stavolta lo vedevo posarsi sulla terrazza sotto il cielo scuro di un temporale imminente. Sembrava un minuscolo cameriere con la livrea verde e gialla che percorresse il mondo con le braccia protese come se attraversasse una sala da pranzo affollata di clienti in agitazione, pregando di mantenere la calma, che tutti sarebbero stati serviti. Ieri, dopo essermene stato su quel materasso per tre giorni e tre notti in attesa che Barbara tornasse a casa, non ne ho potuto più e così dopo essermi ubriacato all'Agincourt, ho preso un autobus per il centro di Londra. C'erano accanto a me sulla piattaforma superiore due ragazzi di buona famiglia che parlavano con l'accento di Wapping adesso tanto di moda. Probabilmente erano innamorati, ad ogni curva si sfioravano compostamente, un debole surrogato dell'atto reale. Uno dei due stava raccontando delle sue vacanze in Francia, e di come avesse visto per la prima volta uccidere degli esseri viventi, otto trote cui una contadina aveva dato una botta sulla testa, e l'altra osservò: "Ma davvero! Proprio come in un'aggressione per la strada, no?" Mi cadde addosso di colpo la disperazione più profonda. Questa era la nostra gioventù senza grilli per la testa, usciti da famiglie con idee aggiornate e un accento fasullo, il futuro della razza: erano a favore dei Palestinesi e votavano sempre per i candidati corretti. Non appartenevano più a nessuna classe sociale, non avevano più radici, erano cresciuti senza. Si aggiravano con sfac-
ciata esitazione per una Gran Bretagna che sostenevano persuasivamente di conoscere e che io non conoscevo più. Scesi dall'autobus a Trafalgar Square. Andai a piedi fino a Piccadilly Circus e scesi nel bar sotterraneo di O'Shaughnessy di fronte all'ingresso della metropolitana. L'ambiente era buio e sporco, però la Guinness era buona. La clientela era costituita da barboni e pervertiti, facce irritabili al di sopra di boccali e impermeabili stazzonati. Due massicci imbroglioni cercavano di rifilarsi l'un l'altro i diritti di un soggetto televisivo. Le luci tremolavano, i baristi irlandesi erano villani e continuavano a sputare nella segatura. Dalla porta socchiusa che dava sulle scale proveniva uno spiffero gelido. Bevvi sei pinte di Guinness, che mi tenni dentro fino alle tre meno dieci, quando affrontai il vento per spingermi fino ai gabinetti ed evacuai tutto. Avevo in testa le notizie che entrando avevo scorto sulla prima pagina dello Standard, sulla Polonia e Beirut Ovest, e mi facevano male i piedi. Quando alle tre sentii urlare "È ora!", pensai confusamente che era arrivato il momento di uscire e mettersi a cercare qualche idea per scrivere qualcosa che non avesse niente a che vedere con Barbara. Così me ne tornai per Piccadilly, ma non ricordo nulla tranne una ragazzina graziosa con due orecchie da assassino che aspettava alla fermata il 19 con una donna che doveva essere sua madre, con delle gambe che parevano due paraurti ammaccati e un cappello dalla tinta squillante, tossica. Dietro di lei c'era un vecchio frocio in abito elegante, con i capelli grigi scostati sotto la falda della sua bombetta; sorrideva specchiandosi nel vetro della tabella dell'orario, rivelando denti anneriti con otturazioni d'oro. Non ho voluto vedere più niente. Mi ritrovai di nuovo a Romilly Place, senza sapere neanche come c'ero ritornato, forse anche a piedi. Quando entrai non c'era nessun segno di Barbara; non ce n'è quasi mai stato nessuno. Mi accorgo che per me ormai la questione più importante è come abbandonare la scena. Deve essere stato abbastanza brutto entrarci, se potessimo ricordare la nostra venuta al mondo, ma sicuramente non così brutto come uscirne. L'esistenza è già disumana di per sé, e io ho commesso l'errore di reagire altrettanto male, offendendo o abbandonando tutti quelli che avrebbero potuto aiutarmi, affrontando superficialmente problemi gravi e, viceversa, rimuginando profondamente su assolute banali-
tà. Ora tutto ciò lo sto pagando, ma a cosa serve? La cosa migliore che posso dire di me stesso è che nel corso del processo avrò tolto di mezzo qualche stronzo, cosa non particolarmente difficile, tuttavia, visto che lo sono io stesso. Stasera avevo voglia di andare in qualche squallido pub di South Kensington, e così sono uscito. Ho una certa tendenza alla satira, e non ero dell'umore giusto per lasciar correre le chiassate di chi cerca di attirare l'attenzione su di sé senza averne l'aria. Stasera si trattava di un gruppo di giovani musicisti che uscivano dalla Royal Albert Hall. Entrarono badando a fare abbastanza rumore e posarono sul pavimento le custodie dei loro strumenti. Circondati da queste, che avevano più o meno la forma di coglioni di toro, cominciarono a pontificare in modo estremamente elaborato, guardandosi attorno per vedere se qualcuno li stesse ascoltando. A parte me, non gli dava retta nessuno, e si resero immediatamente conto che mi avevano sì colpito, ma in modo negativo. Perché individui simili mi disgustano così? Pagano le tasse, si guadagnano la vita suonando la cornetta, dimostrano la loro mancanza di opinioni votando liberale o socialdemocratico, e intenzionalmente non corrono mai un rischio. Zufolano e sfregano su Mozart con spaventoso accanimento e sono fastosamente accolti nei salotti sottosviluppati. Sono rientrato da mezz'ora. Barbara non è ancora tornata. Sto bevendo un altro bicchiere anche se non ne ho veramente voglia. Alzando lo sguardo al soffitto, dove l'umidità ha disegnato il profilo della costa dell'Europa Occidentale, tutt'a un tratto non lo vedo più. Mi trovo invece di nuovo in Francia, disteso sul letto nella mia stanza col soffitto a volta che si affaccia sulla terrazza, a guardare un calabrone entrato dalla finestra volando da un nido sulla collina oltre il ruscello. È lungo tre pollici e se lo schiacci con la mano sembra di colpire la carta moschicida, quella gialla. Sono talmente velenose queste bestiacce... Dio mio, quando sono ritornato in me stavo correndo su e giù per questa squallida stanzetta londinese con addosso solo una camicia, buttando tutto all'aria. Ha lasciato qui un cappotto che evidentemente non le piace, e sei cassette di hard rock che si era portata dietro da una discoteca. Ad ogni modo, sono ormai quattro giorni che non passa da casa, ho messo via il cappotto
in modo da non averlo sotto gli occhi, e ho cancellato la musica dalle cassette perché non sopporto che mi faccia pensare a lei, e le sto usando per parlarci sopra. Ho scoperto che quando sono troppo ubriaco per scrivere, sfogarmi a parole allevia i miei tormenti. La mia sofferenza non deriva dall'autocompatimento, ma dallo sfidare l'assoluto. Il travaglio cui lo scrittore si sottopone sta nello snidare l'esistenza e poi, messi a nudo reciprocamente, affrontarla in un corpo a corpo senza scampo. Tutti in un modo o nell'altro finiamo per fare un'esperienza simile, ma il più delle volte il confronto è breve e improvviso, i pochi secondi di un incidente d'auto, un attacco di cuore, la caduta da un tetto, un'aggressione per rapina in cui si viene pestati a morte in una via buia. Ma il tormento dell'amore non corrisposto che si tramuta nella morbosa dolcezza divorante della gelosia, mi chiedo se non sia di gran lunga il peggiore. Mi ricordo, all'inizio della nostra relazione, quando tutto era nuovo, quando ogni volta che mi baciavi era come fuoco e dicevi di amarmi per la mia intelligenza, che ti dissi: "Sembri provenire dai cieli come un vento, che scompaia poi in un'unica folata, senza lasciare nulla dietro di sé, una vuota desolazione. Dopo soltanto un ricordo ricadrà fluttuando, un frammento di ciò che era esistito, la memoria di un'esperienza, uno stato d'animo, un suono, musica, dei passi di danza, il mio sfiorarti la vita, o le cosce, qualcosa che possa rimanere a lungo dentro di me colmandomi di desiderio e tristezza." Ora i frammenti stanno fluttuando tutt'intorno, oscuri detriti che ricoprono tutto. A volte mi chiedo se non sarebbe meglio che uccidessi sia te che me. Ma non sono un assassino. 35 Il 44 di Copernicus Court faceva parte di un orribile caseggiato rossastro alle spalle di Eltham Road, non distante dal New Tiger. Era un complesso di edilizia comunale che risaliva agli anni trenta costituito da tre identici edifici: al centro una scala di cemento esterna per salire ai piani, lungo i quali correva una ringhiera di ferro. Il numero 44 era al terzo piano. Sui muri della scalinata abbondavano i frutti dell'arguzia locale, punteggiati da disegni esplicativi raffiguranti pudenda maschili e femminili: "Buttati avanti di testa e il culo ti verrà dietro." "La merda pulita non si è mai vista,"
e molte altre profonde riflessioni. Era stato devastato tutto ciò che era possibile devastare. La porta del locale della caldaia era stata sfondata e ne rimaneva solo qualche scheggia. Di traverso all'apertura era stata inchiodata un'asse con la tetra dicitura: "Fuori Servizio", ma un ottimista ci aveva aggiunto sotto col gesso: "Un buon posto per scopare." Mucchi di cartone sporco, vetri rotti, lattine schiacciate e altra spazzatura erano stati ammassati là dentro fino all'altezza di un metro e passa. Mentre mi avviavo su per le scale incrociai un gruppo di cinque Rasta che scendevano di corsa. Uno aveva un transistor acceso a tutto volume con Capital Radio che parlava dell'esplosione di una bomba nel West End. Quando bussai al numero 44 non ci fu nessuna risposta. Mi attaccai al campanello, ma non funzionava, così ripresi a bussare, finché alle mie spalle, dalla finestra della cucina del 46, non spuntò la grossa testa di un uomo, affacciandosi nell'andito scoperto tra i due appartamenti. Sotto la testa si vedeva una giubba da operaio di un'impresa di demolizioni. «Cosa stai cercando?» «La signora Fenton.» «Chi sei?» «Non sono venuto a rispondere a un quiz,» replicai. «È in casa?» «Non ne ho idea, e allora perché non vai avanti a bussare e finisci di rovinare quel po' di sonno che un disgraziato riesce a farsi?» «Perché mi fanno male le nocche.» «Cazzi tuoi,» disse l'uomo, e sbatté la finestra. Non avevo un mandato di perquisizione, e cominciai quasi per scommessa a infilare la mano nella cassetta della posta per vedere se c'era attaccato uno spago con la chiave. C'era, così non dovetti far altro che tirarlo fuori, strappare la chiave e infilarla nella serratura. Una volta dentro chiusi la porta e lasciai cadere la chiave sul pavimento. Ebbi l'impressione che si trattasse dell'appartamento più pulito in cui fossi mai entrato. C'erano un divano e due poltrone, un televisore con un centrino sopra, un tavolo con il ripiano di vetro, oche di plastica bianca che attraversavano in volo la parete di sinistra, al di sopra di una stufa elettrica sfolgorante di lucentezza per le amorevoli cure. Mi ci volle qualche secondo per capire cos'era che non funzionava mentre passavo dalla cucina alla prima camera da letto. Le finestre non venivano mai aperte, e nell'appartamento c'era aria viziata. Più che aria viziata, c'era proprio puzza, anche se leggera. Gli odori si sovrapponevano a strati: c'era dapprima il sentore
sgradevole di un appartamento a cui non viene mai cambiata l'aria; poi c'era la spazzatura che, per quanto regolarmente chiusa nella pattumiera sotto il lavello, emanava comunque il suo caratteristico effluvio, mescolato a quello di stoviglie lavate con Fairy Liquid. Tuttavia c'era ancora qualcosa. Mi fermai nel corridoio ad ascoltare. Non avevo intenzione di restare ancora per molto. Visto che la signora Fenton non si era fatta trovare in casa non avevo più voglia di incontrarla. Mi ero introdotto nel suo appartamento. Non avevo proprio nessuna ragione per trovarmi lì, e potevo essere radiato per questo. Comunque, valeva la pena vedere come vivevano Harvey e sua madre. Potevo scoprire ciò che Barbara aveva taciuto nei colloqui intimi che avevamo avuto. Per la verità, non erano affatto intimi. Barbara non era certo il tipo da rivelare i propri segreti. C'erano delle informazioni che da lei non avrei mai ottenuto. Grazie a Staniland, mi ero fatto l'idea che in buona parte riguardassero proprio Harvey. Lasciai l'austera camera da letto della signora Fenton e spinsi l'ultima porta che non avevo ancora aperto. Immediatamente mi trovai alla sorgente del cattivo odore. Una sensazione di disgusto non ha niente a che vedere con la logica. Anche per chi è abituato a trovarsi davanti di tutto, ci sono delle scene particolarmente disgustose che però non arrivano a suscitare una sensazione di nausea. Ma questa, sì. Nella stanza c'era un letto, adatto a un ragazzo di dieci anni, impeccabilmente rifatto con lenzuola immacolate e una coperta di lana a conigli azzurri, con il copriletto ripiegato, già pronto perché qualcuno ci si coricasse. Le tende alla finestra erano fresche di bucato, azzurro chiaro, con le figure dei personaggi delle filastrocche, Mamma Oca, il Gatto col Violino, e così via. Sul muro di fronte al letto era attaccato un foglio di cartoncino bianco, su cui era scritto a inchiostro nero col normografo: "Un bambino deve essere pulito e puro di cuore." In giro per la stanza c'erano altri biglietti, che riportavano, nella stessa nitida grafia, i giorni della settimana, e lo spazio corrispondente ad ogni biglietto era delimitato da una bella striscia di nastro adesivo bianco. L'odore veniva dal pavimento. Ogni spazio conteneva un vaso da notte da bambino. Era martedì, così quello del lunedì conteneva escrementi, e mi domandai che puzza si sarebbe sentita al sabato, visto che evidentemente il lavoro di svuotare e lavare i vasi era riservato alla domenica. Ai piedi del lettino, esattamente a metà strada tra questo e il muro, era sistemato un tavolo, a cui era accostata una dura sedia di legno. Sul tavolo si trovavano
diverse cose. C'era un elenco, tutto scritto in laboriose maiuscole a stampatello, diviso a metà da una linea. La parte sinistra dell'elenco era intitolata Cosa piace alla Mamma, e cominciava Alla Mamma piace un figlio che sia pulito. Alla Mamma piace un figlio che sia regolare. Era un lungo elenco. Le cose che piacevano alla mamma sembravano infinite. Tuttavia anche l'altra metà dell'elenco, intitolata Cosa NON piace alla Mamma, era altrettanto lunga e, tra l'altro, riportava: Alla Mamma NON piace la SPORCIZIA. Alla Mamma NON piacciono le RAGAZZE sozze. Le sole ragazze che la Mamma tollera sono quelle che puniscono i ragazzi sozzoni che NON RIESCONO AD ANDARE DI CORPO. Continuava ancora, ma avevo visto abbastanza. Guardando questo tavolino pulitissimo, mentre trattenevo i conati di vomito turandomi il naso, mi si presentò davanti l'immagine del grosso Harvey, violento ed estroverso, che andava a bere all'Agincourt con gli amici, e poi l'altro Harvey, coricato qui nel suo lettino, obbedientemente e patologicamente disteso negli effluvi dei propri escrementi con sua madre che ascoltava attraverso il muro sottile dalla stanza accanto, e che due volte al giorno lo controllava mentre faceva i suoi bisogni. Mi immaginavo in realtà che tutte e due le donne gli stessero addosso, pronte a castigarlo, orologio alla mano probabilmente, per controllare che non superasse il limite di tempo concesso alle derelitte viscere per espletare le proprie funzioni. Tutte e due le donne, visto che sulla tavola c'era una foto di Barbara in una grande cornice di metallo. Era vestita da infermiera, con i capelli accuratamente raccolti sotto la cuffia. La sua espressione era glaciale. Ma da sotto il ghiaccio trapelava un volto corrotto e spietato, un volto sadico. D'impulso afferrai il frustino che era appoggiato sulla tavola davanti al ritratto, spezzai in due il manico e gettai per terra i pezzi andandomene via. 36 «Barbara,» le chiesi, «Barbara, mi sento dannatamente incerto. Tu mi ami davvero?» «Che domanda stupida.» Eravamo a letto a casa sua. «No, non è stupida. C'è qualcosa di strano che ti sta capitando.» «Vorrai dire che è a te che comincia a venire qualche dubbio.» «Anche a te ne verrebbero se sapessi tutto, ma davvero tutto quello che
so io.» «Tu credi? Ma che cosa sarebbe davvero tutto?» «Quello che non si riesce a sopportare negli altri, la merda, il pus, le piaghe di ciascuno. Le zone infette che bisogna cercare di tollerare nelle persone che ami. La merda che vedi e che devi cercare di purificare col castigo, le tare dell'infanzia, della frustrazione, della vecchiaia... mi segui?» «Come per esempio lasciarsi battere da un vecchio invertito per denaro?» Trattenne uno sbadiglio. «Io l'ho fatto. Poi lo batti tu, lui gode, poveretto, poi è sempre problematico farsi dare i soldi, e alla fine tutti stanno male. È a questo che ti riferisci?» «A grandi linee, sì.» «Niente di tutto questo mi ha mai sfiorato, non è diverso dallo staccare i biglietti sull'autobus, è solo un servizio.» «Era quello che facevi per Charlie?» «Più o meno, ma lui non pagava. Qualcuno lo stava già spremendo, prima che io entrassi in scena.» «Chi era? Un parente?» «Guarda,» rispose, «il guaio con te è che anche tu a modo tuo sei un po' come Charlie. Quando ti fissi su qualcosa, non c'è verso di farti mollare, e invece io sono davvero stanca e mi andrebbe di scopare prima di crollare dal sonno.» Si voltò verso di me con un'espressione franca: «Non puoi sapere cosa significhi per me una scopata con un uomo che è un vero uomo, senza tante storie una volta tanto. Ti basta? È quanto di più simile a una dichiarazione d'amore mi sentirai mai dire.» «Mi basta.» «Sono contenta. Se tu riuscissi a metterti nei miei panni, capiresti che non ci sono persone buone o cattive.» «Mi ci sono messo, nei tuoi panni,» replicai, «e infatti lo capisco.» «Amami,» sussurrò lei cedendo alla sonnolenza, «anche se non sei affatto l'uomo che credevo di aver incontrato all'84.» «Forse non lo sono mai stato.» Nel bel mezzo della notte litigammo. Continuavo a pensare alla frusta sul tavolo di Harvey e le dissi: «Lo sai, credo che tu sia proprio depravata.» Ritenevo di avere ormai recitato anche troppo e aggiunsi: «Andiamo, tirati su e rispondi, troia, cosa hai a che fare con le fruste?» Lei iniziò a gridare:
«Ma come fai a credere che io possa averci qualcosa a che fare?» «Ma se sei un'esperta in materia!» «Ma vai a farti scorticare, tu e le tue fruste maledette!» Continuò a urlare e prese a tempestarmi di colpi in faccia. Si era fatta mattina, e non molto dopo lei aggiunse: «Te ne devi andare.» «Per sempre?» «Sì. Credo che sia meglio che stamattina stessa tu te ne vada di qui e ritorni a stare a Earlsfield. Non mi hai lasciato scelta. Vuoi sapere troppo.» «Gli innamorati sono sempre curiosi di sapere.» «Tanto peggio per loro, non dovrebbero. Dovrebbero limitarsi ad accettare. Comunque tu non sei mai stato innamorato di me, hai solo fatto finta di esserlo. Sei falso.» «Ti è facile capirlo perché lo sei anche tu.» «Su, vattene via. Vestiti. Muoviti, non sto scherzando.» Mi ero già alzato dal letto e cominciai a vestirmi. «Forse ci incontreremo di nuovo all'84.» «Non ci lavorerò più.» «Potremmo imbatterci l'uno nell'altra, così per caso. Dove lavorerai ora?» «Non sono affari tuoi. Vuoi sempre sapere troppo, sei insopportabile.» «Andiamo...» «Ma che ne so, qualche discoteca africana, probabilmente. In certi momenti, mi piace essere in mezzo agli africani. Non stanno sempre a rimuginare, parlano esclusivamente di loro stessi, e quel che conta non fanno mai domande come invece fai tu.» «Non ci vedremo proprio più? Non si potrebbe, quando ci saremo un po' calmati, bere qualcosa assieme, al pub per esempio, e magari finire a letto se capita, come amici, senza nessun legame.» Mi studiò, la testa chinata da un lato. «Non so, vedremo. Ma probabilmente no, non sarebbe affatto piacevole. Ti sei sbriciolato tra le mie mani come tutti gli altri, ho perso la considerazione che avevo per te, ma ci penserò su. Intanto è meglio se mi restituisci la chiave dell'appartamento che ti avevo dato.» «Mi dispiace, l'ho lasciata a casa mia.» «Va bene, ma la rivoglio indietro.» «La riavrai. Anzi, sai cosa ti dico, Barbara, te la riporterò. Ti telefono così mi dici quando.»
«Non potrai telefonare. Mi farò cambiare il numero di telefono oggi stesso.» «Oh, cerca di essere ragionevole.» Nella cucina dei vicini una voce di donna alla radio cantava: "Proprio come un tronco abbattuto, che cade sul fianco e rotola, mi sento così stanca, così pesante..." «Non posso crederci,» ripresi. «Dimentichiamo tutto e ricominciamo daccapo.» «No, faresti meglio ad andartene adesso.» «Sono quasi pronto. È stato quell'accenno alla frusta a scatenare tutto, non è vero?» Afferrò una scodella e me la scagliò addosso, ma la schivai facilmente. «Io non so un bel niente di queste fruste!» «Conosci Harvey Fenton?» le domandai. «Un pezzo d'uomo. Ce ne vuole per sottometterlo.» «Sei un bastardo.» «È proprietario di una parte dell'84.» Sospirò a fondo. «Vattene, e basta,» disse. «Vattene, sto aspettando una persona da un momento all'altro.» «Chi? Un altro uomo?» «Una persona che vuole offrirmi un lavoro.» «Che genere di lavoro?» «Lavoro, e basta. Ora vattene.» «È Harvey Fenton quello che deve arrivare?» «Ma non lo so! No. Sei un poliziotto?» «Sono un uomo con una missione, questo è certo.» «E allora fuori di qui, tu e la tua maledetta missione! E smettila di fare domande! Sempre con una dannata domanda dietro le tue moine da bastardo! Ma ora fuori di qui! Vattene via!» «Barbara, credi che ci sia mai stato qualcosa tra noi?» «No, maledizione! E se c'è mai stato qualcosa, è finito. Morto. Hai capito? Morto e sepolto.» «Lo fai sembrare davvero definitivo, mettendola così.» «È definitivo. Adesso sparisci. Hai capito cosa ti ho detto? Te ne devi andare via. Via, via!» 37
Quando più tardi nel pomeriggio rientrai in Acacia Circus, mi sedetti e misi su una cassetta di Staniland. Mentre l'ascoltavo non pensavo a niente, non c'era niente a cui pensare. Ieri sera Barbara mi ha chiesto: "Adesso per quale motivo stai piagnucolando come uno stupido?" Le ho risposto: "L'esistenza mi si presenta come un vasto tratto di terra che ha bisogno di essere lavorata." "Charlie," ha ribattuto lei, "lo sai, sei impazzito del tutto." "No," ho replicato, "l'equilibrio tra la logica e il desiderio va mantenuto in ogni modo." Più tardi all'Agincourt ho cercato di esprimerlo meglio. C'era come al solito il Cavaliere Sorridente e mi ascoltava girato a metà dall'altra parte. Aveva sul volto un ghigno beffardo. È strano, talvolta la saliva gli forma della schiuma ai lati della bocca, come una bottiglia di champagne aperta male. Mentre cercavo di esporre le mie teorie sull'esistenza a chiunque volesse ascoltare, lui stava raccontando ai suoi amici di come quattro suoi compari avessero violentato una ragazza sul treno per Pulborough: "Tolta lei tutta la carrozza era vuota, ci pensate? È stato facile, una cosa da niente. Dopo che i ragazzi se la sono passata tutti, è stato il turno di tutti i negri che erano sul resto del treno, e quanti ce n'erano! " Decisi di aspettare che facesse buio. Tanto valeva ascoltare ancora qualche altra cassetta. Ne scelsi una. Domenica a Duéjouls. Come si sta bene all'aria aperta dopo l'inverno! Me ne sto seduto nell'angolo riparato della terrazza con un vecchio quaderno di Charlotte sulle ginocchia. Anche se oggi non scrivo nulla, non importa. Si può scrivere e pensare troppo, esagerare a starsene da soli, e alla fine ci si ritrova il cervello a pezzi. Meglio per una volta distaccarsi dai problemi, distendersi per un po' al sole, guardare gli effetti del vento di tramontana sulla campagna e osservare il cielo, le nuvole che corrono a sud, elefanti che si tramutano in una donna innamorata, in un giullare con le braccia incrociate, in un dio, in niente. Lembi grigi a forma di teiera sfuggono da una nera coltre che annuncia la pioggia; contorti fantasmi, del colore di patata lessa, si scontrano con la mon-
tagna di fronte. Nel frattempo l'acqua limpida del piccolo affluente del Tarn che mormora scorrendo sui ciottoli venti metri sotto di me si è mutata in ardesia. Eppure fa caldo, malgrado l'arrivo del temporale. Con un bicchiere di vino fresco in mano guardo gli alberi rinverdire di foglie nuove. Che gioia! Per una volta osservare questo rinnovarsi della natura senza prendervi parte! Oggi non c'è nulla che abbia importanza, provo solo gratitudine. Tra poco tornerò dentro e preparerò un'insalata per pranzo; poi nel pomeriggio scriverò, quando il sole mi concederà un tratto d'ombra. Aspetterò che si sia fatto completamente buio e ancora di più, finché i pub non abbiano chiuso. Mezzanotte, o anche più tardi. Molto tardi. Scelsi un altro nastro. Qui a Duéjouls ci sono un clima e un'atmosfera che riesco a capire. Attraverso le stagioni tutti gli elementi si alternano con l'austerità propria del caldo o del freddo, il verde con il nero, la crescita con il declino. Come al solito, anche qui l'uomo ha tentato di sopraffare la natura, ma grazie a Dio la montagna gliel'ha impedito, qui regna ancora un cieco ma autentico equilibrio, e alla fine nulla va perduto. Come sarebbe facile per me chiudere il caso Staniland, lasciar perdere! Invece lo farò esplodere. Farò rimangiare ai colpevoli i loro alibi, glieli caccerò giù per la gola e ne strapperò fuori il cuore. Riprendo un altro nastro con Staniland che racconta: Mi sembra ieri che il mio vicino di Duéjouls è stato travolto e ucciso da un turista. Dico ucciso, ma in realtà è morto dopo essere stato in coma per tre giorni all'ospedale. Aveva appena quarantadue anni. Tutti al villaggio furono sconvolti dalla notizia. Era imparentato con metà di loro; inoltre aveva appena finito di costruirsi una casa nuova vicino alla chiesa e aveva impiegato solo mano d'opera locale. Nonostante il successo negli affari era sempre stato un ottimo vicino e aveva prestato soldi generosamente a molti abitanti del villaggio in difficoltà economiche. Eppure il funerale creò qualche imbarazzo, perché lui non apparteneva ad alcuna religione. Non poteva esserci una cerimonia liturgica a Santa Cate-
rina e tanto meno il prete, naturalmente, anche se la famiglia possedeva una cappella nel cimitero, cosicché alla fine toccò al sindaco officiare, con il nastro tricolore sull'abito grigio. I miei compatrioti di solito restano impassibili ai funerali, ma qui a Duéjouls tutti piangevano, la famiglia del morto, camionisti, contadini, il proprietario del bistrot, la gente del castello, tutti: anche i due rappresentanti della Banca Popolare si reggevano l'un l'altro. Anch'io mi sentivo profondamente commosso poiché solo quattro giorni prima dell'incidente ero andato a restituirgli cinquecento franchi che mi aveva prestato, e avevamo bevuto assieme un Old Crow al bar che aveva sistemato nella sala d'ingresso e parlato di caccia, dato che si era in ottobre. E ora eccomi dietro al sindaco a portare fiori sulla sua tomba. Ci saranno state trecento persone, qualcuna arrivata perfino da Rodez, mai viste tante facce tristi tutte assieme. Eppure, appena uscimmo di nuovo fuori dal cimitero ritrovandoci sotto le acacie di fronte alla chiesa, tutti assieme ci dirigemmo al bistrot per un bicchiere di vino, perché faceva ancora molto caldo. Il padrone era andato avanti per primo, in modo da poterci servire, e lo fece ovviamente con ancora addosso il vestito migliore. Ci fermammo a lungo tutti, con il vestito della domenica e il colletto della camicia sbottonato, a bere e a parlare del funerale, e anche di caccia. Soltanto la vedova, una gran bella donna, si era fermata con le sue due sorelle nel cimitero, la faccia bianca come un lenzuolo. Decisi di andare disarmato. Del resto, non avevo un'arma. Era ancora troppo presto, e allora un ultimo nastro. Duéjouls. Mi ricordo in che condizioni trovai la casa la prima volta che tornai laggiù da Londra, dopo che Margo e Charlotte se ne erano andate via. Sono stato costretto a imparare da capo come affrontare con calma la vita. Degli hippies si erano introdotti in casa. Non avevano lasciato un solo mobile e c'era merda dappertutto; qualcuno aveva scritto sul muro della cucina il numero della sveglia telefonica. Il telefono comunque era in frantumi, probabilmente perché erano rimasti da pagare millesettecento franchi. Quella volta pensai di essere proprio finito. Mi guardai attorno nelle rovine della nostra casa, ricordo che me ne andai a dormire
di sopra nel buio torrido tra lo squittire dei topi e lo stormire delle ali dei pipistrelli che svolazzavano da un trave all'altro o si precipitavano fuori dalle finestre rotte per una notte di caccia. I pavimenti spogli erano disseminati di vecchi mozziconi di spinelli; le assi del letto di mia figlia, un vecchio letto di quercia regalatole da un contadino che le era affezionato, erano state sfondate, e qualcuno aveva pisciato sul materasso, che era stato arrotolato in un angolo. Altri materassi bucherellati dalle sigarette dei marginaux erano sparsi dovunque in casa. Dio mio, proteggimi e salvami, da vero Dio! Corone, fiori e pace eterna per i defunti: bellezza e innocenza per i morti. Amen. Il nastro si fermò. Pian piano si stava facendo tardi. Mi avvicinai alla finestra e guardai al di là di quel balcone troppo stretto per servire a qualcosa. Avevo una strana sensazione, di essere arrivato dove era arrivato Staniland; anch'io adesso ero stato spinto al di là dei miei limiti, ma mi sentivo completamente lucido e calmo. Il buio era sceso su Acacia Circus. Guardai oscillare le cime degli alberi, le foglie arricciate in un sonno incompleto per la implacabilità delle insegne al neon, e piegate in una brezza irregolare e venefica. In lontananza, al di là di quello scorcio di campagna fasulla, si sentiva il mormorio del traffico incessante della città, e l'ululare di una sirena della polizia. Aprii la finestra e per un po' mi sedetti sul davanzale, rivolto verso l'interno della mia misera stanza che non aveva mai rincuorato nessuno. Pensai con tristezza al mio nuovo telefono a tastiera che raramente squillava, e a quella porta di qualità dozzinale che non veniva mai aperta. Riuscivo a intravedere il frigorifero di quella cucina costruita su ordinazione: era pieno della carne di esseri che erano stati allevati per morire: polli trattati, alimentati a forza, verdure preparate a macchina, una porzione di manzo al curry, una confezione per due di bastoncini di merluzzo dalla fabbrica numero tre. Ora, senza la voce di Staniland, la stanza era perfettamente silenziosa. Ma sentivo che ormai mi aveva dato le sue istruzioni definitivamente. Continuai a pensare a Staniland mentre aspettavo pazientemente che arrivasse l'ora adatta. Aveva fatto sì che mi proccupassi di ciò che ero in un modo che non avrei mai immaginato. Aveva formulato la domanda che alla fine conta di più in due versi che aveva citato in una cassetta. Li cercai e li ascoltai un'ultima volta:
"Cosa sarà di noi, Quando non saremo più quello che siamo?" Chiamai la Factory e lasciai un messaggio, ("Adesso vado") e l'indirizzo. 38 All'una meno un quarto decisi che era il momento di muoversi e scesi in strada. La luna illuminava direttamente, inargentandolo, l'anello d'asfalto di Acacia Circus. Andai fino alla macchina e controllai il mio equipaggiamento. Non che avessi molto - una torcia. In più avevo la chiave di casa di Barbara. Avviai l'auto e mi diressi verso New Cross, prendendo la strada lungo il South Bank attraverso Wandsworth e Battersea. Volevo sia Harvey che Barbara in un colpo solo, e li avrei presi. Non pensavo a niente guidando, provavo solo una vuota tristezza. Girai attorno alla rotatoria di Elephant e imboccai la New Kent Road. Era deserta. Incrociai un taxi (forse Planet?) che sfrecciava vuoto nella direzione opposta, con la lunga antenna inarcata; una pattuglia della volante; un vecchio rottame con i paraurti cromati e gli ammortizzatori scarichi che portava verso Peckham il suo carico di negri urlanti lasciandosi dietro una scia di denso fumo nero come un aereo abbattuto. Guardavo gli edifici sparire alle mie spalle, una facciata dipinta di violetto, Occult City, friggitorie, l'entrata di una discoteca sbarrata da due assi. Finalmente svoltai nella strada di Barbara e parcheggiai un po' oltre il suo portone. Uscii dall'auto, tornai indietro ed esaminai con attenzione la casa. Sul davanti l'appartamento al secondo piano era buio, e la strada era silenziosa e vuota; in lontananza si sentiva appena il traffico pesante degli autocarri sulla A20 che andavano al mercato di Nine Elms. Una tiepida brezza sollevava un po' di polvere dal marciapiedi. Sembrava una notte troppo tranquilla per un lavoro come quello, ma tanto un tempo valeva l'altro. La casa di Barbara era in un edificio basso, solo due piani, con un appartamento ciascuno. Volevo evitare di fare rumore se potevo, così attraversai il passaggio tra la sua casa e quella accanto e penetrai in giardino. Le erbacce arrivavano al ginocchio, rotoli di rete metallica erano sparpagliati in mezzo ai rampicanti che li avviluppavano insieme ad altre cianfrusaglie. Neanche sul retro della casa c'era luce. Mi avvicinai in silenzio alla parete dell'edificio e considerai per un istante la scala antincendio che vi era fissa-
ta. Poi spiccai un balzo verso il piolo più basso; era a quasi tre metri da terra ma riuscii ugualmente ad afferrarlo. Però cedette leggermente, la ruggine l'aveva corroso. Riuscii comunque ad attaccarmi al piolo successivo, puntai le suole delle scarpe contro il muro e mi tirai su con le braccia alzando gli occhi verso la finestra posteriore, quella della cucina. Visto che era tutto buio, poteva anche essere che non ci fosse nessuno. Non mi importava, avrei aspettato che qualcuno rientrasse. Mi arrampicai silenziosamente su per la scala e raggiunsi la finestra. Ero sicuro che si sarebbe aperta per la semplice ragione che sapevo che non si chiudeva mai bene, e in un batter d'occhio ero dentro, con i piedi ben piantati nel lavello. Avanzai adagio a tentoni nel corridoio e mi diressi verso la 'nostra' camera da letto. Da sotto la porta filtrava un filo di luce. Mi fermai ad ascoltare, ma non si sentiva nulla. Ad ogni modo indietreggiai di un passo e spalancai la porta con un calcio. Harvey e Barbara erano a letto. Notai che in un angolo c'era un vaso da notte che conteneva qualcosa, ma avevano ugualmente fatto all'amore, o quantomeno avevano cercato di farlo; la stanza era impregnata del fetore dei loro corpi sudati. Mi fissarono tutti e due insonnoliti, sollevandosi appena su un gomito. «In piedi,» intimai. Avevo parlato freddamente, con l'automatismo dell'abitudine. «Non abbiamo nessuna intenzione di alzarci,» rispose Barbara immediatamente; era stata la prima a riprendersi. «Devi essere completamente impazzito a venire qua.» Accennò un movimento sotto il lenzuolo. «Lascia stare quello che hai lì sotto, fica compresa,» dissi gelidamente. «Ascolta,» intervenne Harvey, «ce l'hai un mandato per piombare qua dentro così?» «No.» «Sei armato?» domandò lui con la patetica scaltrezza di un prestigiatore che chiede a un bambino in che giorno cade Natale. «No.» «E allora ti sei cacciato da solo in un guaio dannatamente grosso, direi,» riprese Barbara. «Non può essere da solo,» le obiettò Harvey. Mi guardò. «Sei venuto da solo?» «Prova a indovinare,» risposi. «Però voglio dirti una cosa, a vederti là sotto che cerchi di comportarti da uomo fai veramente pena.»
«Aspetta,» continuò in modo pressante, «aspetta, a che cosa è dovuto questo casino? A quella storia di Charlie Staniland?» Visto che non parlavo, aggiunse: «Hai qualche prova che siamo stati noi?» «No, è proprio per questo che sono venuto.» «Avrai voglia ad aspettare, coglione,» fece Barbara. «Ti sbagli.» Ci guardammo in silenzio per qualche istante, poi Harvey chiese: «Sei stato tu a spezzare il mio frustino, dalla mia mamma?» «Quanto sei stupido, è naturale che è stato lui,» intervenne Barbara. «Lo sai che rischi parecchio,» mi sentii dire da Harvey, «a rovistare in questo modo nella vita privata di uno?» «Come se me ne fregasse qualcosa,» risposi. «In ogni caso» riprese Barbara «rischi molto più di quanto ti aspetti.» «Oh calma, Barbara, calma,» continuò Harvey. «Non è detto, forse possiamo metterci d'accordo. Potremmo dividerci le trecento sterline che avevamo spremuto a Eric prima di farlo fuori e amici come prima.» Mi guardò. «No,» dissi. «Adesso andiamo,» cercò di blandirmi Harvey, «voi poliziotti siete tutti mele marce. Io non ne conosco nessuno che rifiuti di intascare un po' di quattrini senza fare domande.» «Io ne conosco uno. Sono io.» Ci fu ancora una pausa di silenzio, mentre tutti nella stanza consideravano la propria posizione. «Perché avete ucciso Eric?» chiesi. «Solo perché vi piace uccidere la gente?» «D'accordo, è vero che siamo un po' maniaci, lo ammetto,» rispose Harvey, «ma era stato lui a dirti di noi, no?» Visto che non dicevo niente, concluse: «In ogni caso, non potevamo correre il rischio.» «E poi eravamo un po' su di giri,» aggiunse Barbara. «Chi se ne frega di queste storie,» dissi. «Staniland, invece.» «Quello è stato quasi una commissione,» affermò Harvey. «Quasi.» «Voleva che lo ammazzassimo. Era cominciata prendendolo in giro all'Agincourt, ma alla fine era lui che ci pregava di ammazzarlo. Ci supplicava! È andata a finire che ha pagato per farsi ammazzare.» «Siete stati voi a volere che finisse così, e non ho mai visto un lavoro più accurato.» Afferrai una bottiglia di cosmetico sul tavolo dietro di me e
gliela scagliai contro; il vetro andò in frantumi e schizzi di cosmetico e schegge gli si sparsero sulla testa. «Un lavoro perfetto, bastardo assassino!» «Calma, calma,» intervenne Barbara agitando le mani come un pianista, «è successo che Harvey si è fatto prendere dal panico e ha scaricato il povero stronzo tra i cespugli anziché in mezzo alla strada. Volevamo che venisse preso per un incidente, è ovvio. Albatross Road? Glielo avevo detto, bastava lasciarlo là in mezzo per cinque minuti e gli sarebbero passati sopra un centinaio di volte, e dopo nessuno sarebbe più riuscito a stabilire la verità, soprattutto visto che era l'ora di punta.» «Va bene, va bene,» la interruppe Harvey irritato. Sembrava talmente assurdo che rimanessero ancora assieme nel letto. «Hai ragione, ho fatto un errore.» «Ti sei fatto prendere dal panico, vuoi dire,» lo rimbeccò, alzando gli occhi al cielo. «E dopo tutte quelle esercitazioni sul vaso da notte!» Harvey fece finta di non aver capito e quasi ci riuscì. «Andiamo, ragiona,» mi disse. «Prendi le cento sterline.» «La vita di Staniland per te vale cento sterline.» scossi la testa. «Ho capito bene? È questo che stai dicendo?» «Certo,» rispose Harvey affondando di nuovo nel cuscino e accarezzandosi i capelli rossi, «proprio così. Prenditi i soldi. Ce li abbiamo qui, in questa stanza, tutti in vecchi biglietti da cinque, nessuno potrà stabilirne la provenienza.» Mi strizzò l'occhio. «Sei uno stupido imbecille,» lo apostrofò Barbara. «Non ha nessuna intenzione di prendere i soldi. Di sicuro oggigiorno non bastano cento sterline per comprare la polizia.» «E nel mio caso non ne basterebbero neanche centomila.» «Visto?» rimarcò lei furiosamente, conficcandogli due dita tra le costole. «Visto?» «Per voi è finita,» gli annunciai. «Potete anche togliermi di mezzo a causa di Staniland, ma allora la polizia vi sarà addosso a causa mia.» «Non fare l'eroe del cazzo,» disse Harvey. Li osservavo da lontano, che valutavano la situazione. Era ben ora che si decidessero. Tutti e due avevano precedenti, e sapevano bene che c'erano ancora abbastanza giudici e giurie non solo per dichiararli colpevoli riguardo a Staniland, ma per condannarli anche al massimo della pena. E questo se non avessero eliminato anche me. Se fossero stati così stupidi da
farlo, per loro ci sarebbe stata una condanna a vita, da scontare dove l'ergastolo è veramente ciò che deve essere, da scontare insieme a Hindley, Brady, Sutcliffe, a Peter Manuel e allo strangolatore della corda di pianoforte delle Midlands. La loro prigione sarebbe stata un carcere di massima sicurezza; a Harvey sarebbero venuti a mancare i vasi da notte, i frustini, la mamma e la sua Babsie; se avesse chiesto un vaso da notte a un secondino avrebbe fatto morire dal ridere tutti quanti sull'Isola. «Alla Factory hanno già il mio rapporto.» «Prendi i soldi,» disse Harvey. «È la tua ultima possibilità.» «No.» «Cristo, ma sei tu che vuoi farti ammazzare.» «No, quello che voglio è che vi vestiate e veniate con me alla Factory a firmare una confessione. Vi conviene, ormai siete tutti e due finiti.» «Per l'ultima volta,» gridò Harvey, «ti dico che Staniland voleva morire.» «Anche se fosse vero, rimanete colpevoli di un genere di eutanasia che l'opinione pubblica non apprezza. E non siete stati affatto furbi. Per riuscire a cavarvela avreste dovuto distruggere tutte la sue cassette.» «L'avremmo fatto,» disse lui rabbuiandosi, «se solo avessimo immaginato cosa contenevano. Non ci siamo mai preoccupati del fatto che fosse un maledetto scrittore.» «Peccato. Quelli come voi commettono sempre qualche errore.» «Guarda,» intervenne Barbara rivolgendosi a Harvey, «credo proprio che ci tocchi togliere di mezzo un poliziotto.» «Lo so,» le rispose Harvey, «e non mi va, e ho fatto di tutto per evitarlo perché a fare una cosa del genere ti ritrovi nella merda, Babsie. Un vagabondo come Charlie è una cosa, ma questa è un'altra.» Barbara aveva smesso di prestarmi attenzione. Dandomi le spalle si rivolse a Harvey: «E allora dobbiamo andare avanti a blaterare tutta la notte?» «Ti dico che toglierlo di mezzo è troppo pericoloso, Babs.» «Il guaio con te è che sei un vigliacco.» Le loro voci mi giungevano sommesse; si erano messi a sedere sul letto e discutevano di me. Anche se avessi voluto, non sarei potuto uscire dalla stanza perché si trovavano tra me e la porta; io ero ai piedi del letto. Mi sentivo come un paziente affetto da una malattia mortale davanti a due medici che si consultano ad alta voce sul suo caso, perché ormai è inutile tenergli nascoste le sue condizioni. Tuttavia mi trovai a dire:
«Non capite che quando sarò morto avrete addosso tutta la polizia della città, e non riuscirete a scamparla neanche per una settimana.» Solo Harvey si voltò a guardarmi, allarmato. Barbara stava dicendo: «Quando avremo finito, bisognerà soltanto prendergli le chiavi della macchina e farla sparire. Un peccato, sul serio, una bella Escort come quella, quasi nuova. Purtroppo però non si potrà fare diversamente.» «Ti dico per l'ultima volta, Babsie, far fuori un poliziotto...» Lei gli si rivoltò contro avvolta nelle lenzuola. «Adesso non cadermi a pezzi tra le mani come un cacciavite da quattro soldi,» inveì contro di lui selvaggiamente. Gli puntò addosso un dito. «Io ti ho addestrato. Il mio Harvey deve essere duro, pulito e non deve farsela addosso.» Capii che era arrivato il momento cruciale. Non appena mi mossi lei mi si parò di fronte in piedi sul letto, e udii il fermo della sicura del suo coltello a serramanico che si apriva. Tutto ciò che posso dire è che fronteggiandoci ognuno sentiva il disprezzo dell'altro, e tuttavia allora non capivo il perché di tanta furia vendicativa, anche all'ultimo istante quando la lama spuntò fuori con uno scatto secco e saettò nell'aria, perché ormai l'aveva lanciata e la mano decisiva era stata giocata. Ero talmente concentrato sull'arma che me la vidi arrivare contro al rallentatore; riuscii persino a notare che l'impugnatura era nera. La mano di Barbara era adesso di nuovo immobile, l'indice ancora curvo, piegato a uncino, puntato in fuori verso di me. Riuscivo a distinguere l'unghia carminio di quel dito, e mi chiesi quando si fosse data lo smalto l'ultima volta. Odio e senso di sfida avvampavano sul suo volto, il suo sguardo mi divorava, riportandomi l'incongrua visione di quando nel cortile della scuola, circondato da facce similmente ostili, non mi restava nessun rifugio, non avevo più scampo. Harvey era rimasto immobile; il lancio del coltello lo aveva colto di sorpresa. Ma finalmente aveva capito che pericolo correva a vivere con una donna che andava a letto portandosi dietro un coltello. Era ancora appoggiato alla testiera del letto e mi fissava con negli occhi la stessa espressione di prima, ma era sbiancato in volto rimanendo a bocca aperta. Quando il coltello mi si piantò in gola, in un primo momento non provai affatto dolore, mi parve solo alquanto strano riuscire a vederne il manico che mi spuntava da sotto il mento. Feci un gesto come per estrarlo, ma in un modo che mi riuscì quasi ridicolo. Ma subito dopo mi sentii venir meno a causa dello shock, tutti gli oggetti nella stanza sembravano più luminosi, e le due figure si stagliavano più imponenti e compatte, circondate da un
nero alone ondeggiante. Feci un paio di passi ai piedi del letto, in un primo momento neanche troppo incerti, a sinistra e a destra, senza alcuna particolare intenzione, semplicemente muovendomi a caso. Tuttavia nello stesso tempo mi accorsi che non mi sentivo più i piedi. Abbassai lo sguardo e con stupore notai quanto erano assolutamente evidenti le mie scarpe da ginnastica; non mi ero mai accorto prima che le scarpe da ginnastica potessero essere così assolutamente evidenti. Mi sentivo inquieto perché questa così difficile conclusione pareva priva di senso, ma mentre le guardavo anche le scarpe da ginnastica cominciarono a offuscarsi. L'altra cosa che mi colpiva era il copriletto giallo che c'era sul letto. Su di esso veniva formandosi un disegno scarlatto, che probabilmente non sarebbe piaciuto a molti; a me ricordava di nuovo la mia infanzia, quando guardavo mia madre stendere la glassa su una torta. Ma questa glassa era rossa, e c'erano dei grumi che non avrebbero dovuto esserci, forse qualcosa uscito dalla mia bocca, cosa che mia madre di certo non avrebbe permesso. All'improvviso sentii un freddo atroce e caddi a sedere sul pavimento, con la schiena lungo la parete. Una spessa cornice nera delimitava ora i bordi del mio campo visivo; il coltello mi ostruiva dolorosamente la gola e nelle orecchie non sentivo che un cupo rombo continuo, come un treno nella galleria dello Swiss Cottage lungo la Bakerloo Line. «Lasciaglielo dentro,» sentii dire la donna, «finché non trovo qualcosa per raccogliere il sangue. Altrimenti schizzerà dappertutto.» Queste parole mi ricordarono qualcosa che Staniland aveva detto, ma non me lo sentivo più vicino. Tutte e due queste persone si erano alzate dal letto e questa donna dai lineamenti offuscati stava uscendo dalla stanza. Ma sulla porta si voltò... quale porta? Le sue parole e tutto ciò che la circondava sembravano distanti centinaia di miglia. Poi, di colpo, non vidi più niente. Quello che volevo dire era solo: "Me ne vado." Volevo dire a qualcuno che sapevo tutto, ormai. Mi sentivo tanto freddo e volevo dire a qualcuno che sapevo che tutto era diventato buio, che sarebbe diventato ben presto ancora più buio, troppo buio perché riuscissi a vedere ancora, o a sentire e forse a sapere, o perfino ad aver bisogno di vedere o di sapere dove stavo andando: ma forse, quando sarebbe diventato completamente buio, la pace dell'oscurità sarebbe stata come una luce, e la mia ultima esperienza sarebbe diventata tanto misteriosa e musicale quanto la prima, cosicché nella mia ultima oscurità non ci sarebbe più stata neanche la necessità di capire qualcosa di talmente remoto come il mondo.
39 Una figura era china su di me, sembrava un'enorme spilla da balia aperta. Ci misi molto tempo, ritornando da così lontano, per ottenere che la mia gola emettesse un suono qualsiasi. Anche quando finalmente ci riuscii, mi trovai ad articolare le mie prime parole con labbra gonfie e intorpidite da qualche droga che mi era stata somministrata. «Cristo, sei tu,» dissi. «Io pensavo di essere ormai lassù in compagnia degli angeli, ma tu mi sembri piuttosto un angelo della morte in abito di tweed.» Tacqui un istante e chiusi gli occhi, ma mi sentii come se stessi girando lentamente attorno a un sole nero, perciò li riaprii. «Pensavo di essere morto,» continuai, «ne ero proprio convinto.» «E io lo stesso,» replicò Bowman, «e anche gli uomini dell'ambulanza.» «Va bene, che sono in ospedale lo vedo. In quale?» «Però, a quanto pare non hai perso del tutto le tue capacità investigative! Sei a Westminster e ci sei da tre giorni. Sotto trasfusione.» «Mi piacerebbe sapere come ho fatto a cavarmela.» «Anche se non te lo saresti meritato affatto, non appena ho ricevuto il tuo rapporto su Staniland e quel tuo ultimo messaggio telefonico mi sono precipitato a raggiungerti con un'autopattuglia e due uomini svegli.» «E poi?» «Non ci siamo fermati a bussare,» continuò a raccontare Bowman. «Non avevo un mandato, non ce n'era il tempo, e così abbiamo forzato il portone di sotto, fatto di corsa le scale e sfondato la porta dell'appartamento. E vi abbiamo trovato tutti e tre, tu con il coltello ancora conficcato in gola, la donna completamente nuda che ti teneva sotto un secchio di plastica per raccoglierci il sangue, e sangue dappertutto nella stanza, e quell'idiota di Fenton che ridacchiava e godeva sul letto. Gode davanti alla morte, a quella altrui, ovviamente, e tanto più quanto più è cruenta. In breve, li abbiamo ammanettati, con lei che urlava e si contorceva come una pazza, lasciatemi bastardi e assurdità del genere. Li abbiamo sbattuti in macchina e chiamato un'ambulanza, per tua fortuna lo sciopero degli ospedalieri era finito, così è arrivata in meno di sette minuti, altrimenti saresti morto. Cristo, se ci penso...» Per mia sfortuna si mise a pensarci proprio in quel momento, le labbra strette per la rabbia al ricordo. «Solo un idiota rompiballe come te poteva andare là da solo e senza ne-
anche una pistola ad acqua per difendersi!» urlò. «Di cosa li hai accusati?» chiesi quando riacquistò la calma. «Per il momento di tentato omicidio, il tuo. Ma che diavolo credi? In seguito verrà il resto, ben prima che abbia finito con loro sputeranno tutto su Staniland ed Eric, vedrai. Gli servirò un caso pronto da portare in tribunale, il Procuratore dovrebbe darmi una medaglia.» «Perché a te?» sbottai. Ancora una volta l'atmosfera tra Bowman e me andava surriscaldandosi, come al solito: non era cambiato niente. «È a me che hanno tagliato la gola.» «Ma svegliati,» rispose Bowman. «Lo sai che alla A14 nessuno ha mai ottenuto niente. Ieri sera, però, c'era la tua foto al telegiornale, non riesco proprio a capire come mai. Deve essere un record per la A14.» «Hanno detto se me la caverò?» gli domandai. «È questo che mi interessa.» «Be', pare di sì,» rispose di malagrazia. «Ho appena parlato con l'aggiustaossi. Hai avuto la maledetta fortuna che il coltello non abbia leso l'arteria, non mi rendo conto di come abbia fatto a mancarla.» Poi aggiunse con sollievo: «Ma dovrai restartene a letto per un bel pezzo, così non ti avrò tra i piedi.» «E immagino che anche dopo la mia voce continuerà a suonarmi così strana.» «Di sicuro, se non smette immediatamente di parlare,» disse un'infermiera, entrando nella camera, e Bowman borbottò: «Non peggio di prima.» L'infermiera si voltò verso di lui e lo apostrofò: «Lei. Adesso se ne deve andare. Immediatamente. Ha superato i limiti concessi a una visita, la sua presenza non è più gradita.» «È sempre lo stesso con quelli come me,» replicò Bowman. «Deve avere a che fare con il mio lavoro.» Si alzò, mettendosi il cappello. «Sarebbe ora che buttassi via quell'orrore,» gli dissi, «e ti comprassi un feltro, così assomiglieresti a Bogart, calvizie a parte.» «Vede, pur essendo mezzo morto,» disse Bowman, rivolgendosi all'infermiera, «non riesce a fare a meno di mancare di rispetto ai propri superiori. Be', mi farò vivo,» si congedò sulla porta, guardandomi torvo. «Anch'io, e presto,» ribattei. «Non fare lo stupido!» urlò. «Intasca la tua indennità e vattene in pensione, al diavolo!»
«Oh no,» gracchiai, «non ti libererai di me così facilmente.» Solo quando ormai era andato via mi venne in mente che non avevo neanche accennato a ringraziarlo per avermi salvato la vita. Mi immersi nelle mie riflessioni. Ora Staniland poteva essere sepolto senza lasciare conti in sospeso. Fenton avrebbe scontato l'ergastolo, molto probabilmente a Rampton o a Broadmoor. Per un bel pezzo Barbara non avrebbe più ingentilito con la sua presenza i locali notturni di Londra, e neanche sedotto qualche poliziotto. Avrebbe prima dovuto farsi trent'anni. FINE