WHITLEY STRIEBER WOLFEN (The Wolfen, 1978) Per Anna Poiché tutto va bene, lascia le cose come stanno: non svegliare il l...
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WHITLEY STRIEBER WOLFEN (The Wolfen, 1978) Per Anna Poiché tutto va bene, lascia le cose come stanno: non svegliare il lupo che dorme. - SHAKESPEARE Enrico IV, Parte 2 CAPITOLO PRIMO A Brooklyn le auto abbandonate vengono depositate nel recinto automobili di Fountain Avenue, adiacente alla discarica. Il recinto e la discarica occupano un'area che sulle carte topografiche è segnalata con il nome di "Parco del ruscello e della fonte". Ma non c'è nessuna fonte, nessun ruscello e nessun parco. Di solito nel recinto regna il silenzio, disturbato solo da qualche zuffa tra i branchi di cani randagi che vagano da queste parti, o magari dalle grida dei gabbiani che volteggiano sopra i mucchi di rifiuti maleodoranti della discarica lì accanto. Gli agenti della Polizia stradale che si recano al recinto per segnalare le auto più malridotte, da sfasciare, non lo considerano un posto pericoloso. Ogni tanto i ratti lunghi due spanne si fanno aggressivi, diventando così vittime del tiro al bersaglio. Anche i piccoli e malandati cani randagi attaccano spesso, ma di solito basta un colpo per inchiodarli stecchiti a terra. Il lavoro al recinto auto consiste nel tracciare delle grosse X bianche sulle automobili più sgangherate, e nello scattare delle istantanee per provare che erano irrecuperabili nel caso in cui il proprietario dovesse farsi vivo. A nessuno verrebbe mai in mente di associare questo genere di lavoro al pericolo, o addirittura alla morte: Hugo Di Falco e Dennis Houlihan vi avrebbero riso in faccia se gli aveste detto che avevano ancora tre minuti da vivere quando udirono quel primo rumore dietro di loro. "Cos'è stato?" chiese Houlihan. Si stava annoiando, e non gli sarebbe dispiaciuto sparare un paio di colpi a un ratto. "Un rumore."
"Geniale. Che fosse un rumore l'avevo immaginato anch'io." Risero. Poi ci fu un altro rumore, un ringhio isolato, che terminò in un brontolio piuttosto acuto. I due uomini si guardarono. "Sembra mio fratello quando canta sotto la doccia," disse Di Falco. Dalla direzione opposta vennero altri rumori — fruscii e ancora quell'insolito ringhio. Di Falco e Houlihan si fermarono; non scherzavano più, ma non avevano neanche paura: erano solo curiosi. Quelle auto bagnate e mezzo distrutte non parevano nascondere nessun pericolo in quel piovoso pomeriggio autunnale. Eppure là vicino c'era qualcosa di strano. Ora si sentivano al centro di una serie di leggeri movimenti fruscianti; quando si resero conto che qualcosa li aveva circondati, ebbero la prima fitta di preoccupazione. Ormai rimaneva loro solo un minuto da vivere; avevano sempre convissuto con la verità fondamentale di chi lavora in polizia: può succedere in qualunque momento. Ma che diavolo stava succedendo adesso? Poi qualcosa sbucò da due auto, con cautela, e si fermò davanti alle vittime. I due non avevano paura, ma intuirono il pericolo. Com'era accaduto altre volte nei momenti difficili, Hugo Di Falco pensò brevemente a sua moglie, e a quella frase che le piaceva ripetere: "Noi siamo una cosa sola." Dennis Houlihan sentì una specie di formicolio corrergli addosso, come se gli si rizzassero tutti i peli del corpo. "Non muoverti" disse Di Falco. Al suono della voce rispose un ringhio. "Ce ne sono altri, dietro di noi, amico." Parlavano con una voce bassa e controllata, con il tono dei professionisti in pericolo. Si fecero più vicini, fino ad essere spalla contro spalla. Sapevano che uno dei due doveva girarsi, mentre l'altro continuava a guardare avanti; non c'era bisogno di dirselo, avevano lavorato insieme troppo a lungo per dover pianificare le mosse. Di Falco cominciò a girarsi, e fece per tirar fuori la pistola. Fu quello l'errore. Dieci secondi dopo venivano sgozzati. Venti secondi dopo le ultime pulsazioni vitali lasciavano i corpi. Trenta secondi dopo venivano sistematicamente sbranati. Nessuno dei due uomini aveva emesso un suono. Houlihan aveva visto l'essere che gli stava di fronte strizzare spasmodicamente gli occhi, ma prima di poter seguire i suoi movimenti sentì un dolore secco alla gola, e improvvisamente si trovò ad annaspare, cercando disperatamente l'aria in
mezzo al sangue che scorreva a fiumi. La mano di Di Falco aveva appena afferrato il calcio di legno zigrinato del suo revolver d'ordinanza quando un violento strattone gliela strappò via. Nella sua mente attonita si impresse per un attimo l'immagine di ombre che si muovevano con una velocità impossibile, poi sentì un colpo al petto e subito il sangue sgorgò; si protesse automaticamente la gola, mentre in realtà il corpo si afflosciava a terra e la mente sprofondava nell'oscurità. Gli aggressori si mossero con rapidità quasi esagerata, eccitati dalla vista di quelle giovani vittime. Lacerarono le camicie, strapparono via le budella dai toraci bianchi, divorando subito gli organi vitali. Poi abbandonarono il resto. In meno di cinque minuti era tutto finito. I corpi sbudellati e maciullati giacevano nel fango: due vite interrotte, che adesso sarebbero state preda degli animali da carogne della zona. Per molto tempo nulla si mosse nel recinto automobili di Fountain Avenue. Le grida dei gabbiani riecheggiavano tra le carcasse arrugginite delle macchine; intorno ai cadaveri il sangue si raggrumava e diventava nero. Con l'avanzare del pomeriggio, la nebbiolina autunnale diventò pioggia, ricoprendo i poliziotti morti di rivoletti d'acqua, mentre il sangue ricominciava a scorrere. Scese la notte. I ratti tormentarono i cadaveri fino all'alba. I due uomini furono considerati assenti dal lavoro per quattordici ore, un fatto piuttosto insolito per due tipi come loro. Entrambi, infatti, erano ragazzi di famiglia, posati e affidabili. L'assenteismo non era nel loro stile. Eppure, cosa poteva mai essere successo a due poliziotti esperti mentre prestavano servizio al recinto auto? Era una domanda a cui nessuno poteva rispondere finché non si iniziarono le ricerche. Per quanto il lavoro di poliziotto possa essere pericoloso, nessuno credeva che Di Falco e Houlihan fossero in un guaio serio. Forse c'era stata un'emergenza in famiglia, e i due non avevano potuto presentarsi al lavoro. Forse tante altre cose. Forse era successo davvero qualche guaio. Nessuno si rese conto che il mondo era appena diventato un posto molto pericoloso, e non l'avrebbero capito per molto tempo. Ora si stava solo cercando un paio di agenti scomparsi. Il mistero era cominciato, e fini con quattro poliziotti che setacciavano il recinto auto, cercando tracce dei loro amici. "Guai a loro se stanno dormendo in qualche dannata macchina." Tutti e
quattro speravano segretamente che i due poliziotti assenti stessero facendo baldoria, o qualcosa del genere. Era meglio pensare a questo che all'altra possibilità. Uno di loro urlò. Quel suono fece ammutolire gli altri tre, che non lo avevano sentito spesso. "Di qua", la recluta chiamò con voce strozzata. "Arriviamo, amico." Gli altri tre lo raggiunsero, mentre le sue grida risuonarono più volte. Quando arrivarono, la recluta si accasciò contro una macchina. I tre poliziotti più anziani imprecarono. "Chiamate subito, maledizione... Chiamate la Squadra Omicidi. Chiudete la zona. Cristo!" Coprirono i cadaveri con gli impermeabili, e misero i loro berretti su quel che era rimasto delle facce. La rete di comunicazione della polizia rispose rapidamente; erano morti dei compagni, e nessuno perse tempo. Una decina di minuti dopo l'invio dei primi allarmi, il telefono cominciò a squillare nella stanza semivuota della direzione della Divisione Omicidi di Brooklyn. L'investigatore Becky Neff alzò il ricevitore. "Neff," disse la voce rauca dell'Ispettore, "affido a te e a Wilson un caso nel 75° Distretto." "Il... che cosa?" "È la discarica di Fountain Avenue. Le vittime sono due poliziotti: omicidio, mutilazione, probabile aggressione sessuale, cannibalismo. Andate là maledettamente in fretta." Quindi la comunicazione fu interrotta. "Svegliati, George, abbiamo un caso," brontolò Neff. "Un brutto caso." Era riuscita a comprendere a stento quel che aveva detto l'ispettore — mutilazione e cannibalismo? In nome di Dio, che cosa era successo laggiù?: "Qualcuno ha ucciso due poliziotti e li ha cannibalizzati." Wilson, che si stava riposando su di una poltrona dopo essersi dedicato per quattro ore ad uno snervante lavoro di scartoffie, si alzò in piedi. "Andiamo. Dov'è il luogo del delitto?" "Discarica di Fountain Avenue. 75° Distretto." "Un dannato posto fuori dal mondo." Scosse la testa. "Quei ragazzi devono essere stati raggirati." Scesero a prendere la vecchia Pontiac azzurra di Becky Neff, e misero il faro lampeggiante sul cruscotto. Becky uscì dal parcheggio e si immise nel traffico del centro di Brooklyn. Wilson accese la radio e comunicò con la centrale. "La sirena funziona," commentò mentre sollevava la levetta del-
l'interruttore. La sirena rispose con un trillo elettronico, e lui emise un grugnito soddisfatto; era stata rotta per più di un mese, e nessuna risposta era venuta dal reparto riparazioni. A causa dei tagli al bilancio, quest'équipe, un tempo efficiente, era stata ridotta ad esattamente dodici uomini per tutto il complesso di veicoli della polizia. Le auto non contrassegnate erano in fondo alla lista di precedenza, per ciò che riguardava le riparazioni del faro lampeggiante e della sirena. "L'ho aggiustata io," disse Becky Neff, "e adesso sono proprio contenta di averlo fatto." La corsa al recinto auto sarebbe stata molto facilitata grazie alla sirena, e non c'era tempo da perdere. Wilson alzò le sopracciglia. "L'hai aggiustata tu?" "Mi sono fatta prestare il manuale e ho visto come si faceva. E stato facilissimo." In realtà aveva fatto fare il lavoro a un tipo del suo quartiere che aveva il pallino dell'elettronica, un ragazzo che teneva un computer nel soggiorno. Ma non c'era motivo di dirlo a Wilson. "L'hai aggiustata tu," disse ancora Wilson. "Ti stai ripetendo." L'altro scosse la testa. Quando l'auto si immise nell'autostrada Brooklyn-Queens lui azionò la sirena, manovrando l'interruttore in modo da creare una serie di urla allarmanti che aprirono loro un varco. Ma quando si avvicinarono al raccordo di Battery Tunnel trovarono un traffico ancora peggiore, e la sirena non poté fare molto nella confusione di camion e autobus. "Sbrigati, Becky." "Mi sto sbrigando. Ma sei tu che azioni la sirena." "Non m'importa quello che fai, ma muoviti!" Quello scoppio d'ira le fece venir voglia di rispondergli male, ma capì come si sentiva. Condivideva le sue stesse emozioni, e sapeva che quella rabbia era diretta alla strada. L'uccisione di un poliziotto fa odiare il mondo, e in particolare quella dannata città. Wilson si sporse dal finestrino e urlò contro il conducente di un camion fermo in mezzo alla corsia. "Polizia! Fai muovere quel maledetto coso, o ti arresto!" Il camionista fece un gesto volgare col dito, ma mosse il veicolo. Becky Neff pigiò l'acceleratore a tavoletta, ora slittando tra il traffico lento, ora trovando spazio libero, e talvolta bloccandosi di nuovo. Quando le lancette dell'orologio sul cruscotto segnarono che era ormai passata un'ora, i due erano vicini alla meta. Scesero lungo la B-Q-E e si diressero verso Flatbush Avenue, e verso le strade a volte sporche e a volte
ben ordinate che si trovano al di là di essa. Passarono attraverso il 78°, il 77° e il 73° Distretto. Finalmente entrarono nel 75°, e si immisero nella Flatlands Avenue, una strada fiancheggiata da negozi di vario genere, in un quartiere a popolazione razziale mista e dal reddito medio-basso. Il 75° era un quartiere come tanti altri a New York. Contava circa centomila abitanti, né molto poveri né molto ricchi, e divisi più o meno equamente tra neri, bianchi e ispanici. Il 75° era il tipico distretto di cui non si parla mai sui giornali, il tipico posto in cui i poliziotti concludevano la loro brava e sicura carriera senza mai sparare a un uomo, e non certo un posto in cui invece venivano uccisi, o addirittura mutilati e cannibalizzati. Finalmente si immisero in Fountain Avenue. In lontananza, si poteva distinguere un gruppetto di fari lampeggianti — sicuramente appartenenti ai veicoli della polizia fermi davanti al recinto automobili. La scena del delitto. E, a giudicare dalle altre macchine che sopraggiungevano dalla strada, il 75° Distretto non sarebbe rimasto per molto un posto semisconosciuto. "Chi è il capo del distretto?" Neff chiese al suo superiore. Wilson era l'agente di grado più elevato della squadra, un fatto che lui faceva sempre in modo di non farle dimenticare. Aveva anche un'eccezionale memoria per i particolari. "Gerardi, credo, un certo Gerardi. Un agente piuttosto in gamba. In questa zona è tutto sotto controllo, non succede granché. Non è Midtown South, per intenderci." "Già." Wilson voleva dire che si trattava di un distretto pulito — senza cattivi poliziotti, né bande di delinquenti, né corruzioni politiche. A differenza di Midtown South, non se ne presentava nemmeno l'occasione. "Per me è un caso di maniaci psicopatici," disse Neff. Stava sempre ben attenta nella scelta delle parole, quando formulava teorie in presenza di Wilson. Diventava molto caustico quando pensava che le idee fossero frutto di scarsa riflessione, e non aveva la minima tolleranza per le persone dotate di minore abilità di quanta lui stesso ne possedesse. Era intollerante, quindi, nei confronti di quasi tutti i membri delle forze di polizia. Era probabilmente il miglior investigatore della Squadra Omicidi, e forse il migliore di tutta la polizia. Era anche pigro, venale, tendente ad una visione delle donne piuttosto vittoriana, nonché un gran disordinato. A parte l'abilità nell'arte dell'investigazione poliziesca, Becky pensava di non avere niente in comune con lui. Mentre Wilson era disordinato, Becky tendeva invece all'ordine; era sempre lei a tenere dietro alle carte, e a organizzare la
loro vita professionale fin nei particolari più noiosi. Non si poteva dire che lei e Wilson si odiassero — era più di questo, era odio puro mischiato a riluttante rispetto. Neff pensava che Wilson fosse un maschilista dell'età della pietra, ed era disgustata dal ruolo di segretaria che spesso la costringeva a svolgere; lui, dal canto suo, la considerava una piccola femmina arrivista in una professione in cui le donne sono, nella migliore delle ipotesi, delle frane. Comunque erano entrambi investigatori eccezionali, e questo li univa. Neff non poteva fare a meno di ammirare il lavoro del suo socio, e lui era costretto ad ammettere che Becky era uno dei pochi agenti alla sua altezza. Anche il fatto che Becky fosse una trentaquattrenne niente male era stato d'aiuto. Wilson era uno scapolo sopra i cinquanta, e non era più attraente, fisicamente, di un frigorifero scassato (a cui assomigliava per la corporatura e per l'altezza). Becky si rese subito conto di piacergli, e stette al gioco: pensava fosse più importante progredire nella carriera che farsi dei problemi se Wilson le faceva un po' di corte. Ma la cosa non ebbe seguito. Anche il marito di Becky, Dick, lavorava in polizia; era un capitano della Narcotici, e Wilson non avrebbe mai imbastito una relazione con la moglie di un altro poliziotto. In ogni caso, già il pensare a Wilson in una relazione con chicchessia era ridicolo; era rimasto scapolo in parte per scelta e in parte perché poche donne avrebbero sopportato la sua arroganza e la sua sciatta indifferenza verso le buone maniere, anche le più elementari: per esempio, era solito togliere l'hamburger dal panino e mangiarlo separatamente, ma questa non era nemmeno tra le cose peggiori che faceva. "Stavolta andiamoci piano con le ipotesi, dolcezza," borbottò Wilson. "Non sappiamo che diavolo è successo quaggiù." "Il cannibalismo farebbe pensare..." "Non lo sappiamo. I ragazzi sono in preda all'agitazione, forse si tratta di qualcos'altro. Cerchiamo di vedere solo quello che troviamo." Becky fermò l'auto in mezzo agli altri veicoli, e tirò fuori dalla borsa l'ombrello pieghevole. Lo aprì per ripararsi dalla pioggia, e fu infastidita dal vedere Wilson che camminava faticosamente nel fango, disdegnando le comodità. "Se il bastardo vuol beccarsi una polmonite, faccia pure," pensò mentre avanzava tutta rannicchiata sotto l'ombrello. Wilson teneva molto a questo genere di apparenze — arrivare sulla scena bagnato, indifferente a tutto quanto non fosse il problema imminente, mentre la sua piccola, delicata collega lo seguiva sotto l'ombrello, ben attenta a evitare le poz-
zanghere. Cercando di ignorarlo il più possibile, Becky si diresse verso i riflettori che illuminavano il luogo del delitto, una cinquantina di metri più avanti. Non appena vide quella scena, si rese conto che non si trattava di un caso normale: a quegli uomini era successo qualcosa di talmente terribile da farvi sudare anche con quel tempaccio. Guardò Wilson, e fu strano constatare che anche lui aveva gli occhi sbarrati dalla sorpresa. "Gesù," disse, "Ma... che cosa?" Il capo del distretto si fece avanti. "Non sappiamo, signore," disse a Wilson, dimostrando di riconoscere la sua superiorità e fama all'interno del corpo di polizia; guardò anche Becky Neff, piuttosto conosciuta, a sua volta, come una delle donne poliziotto più in vista di New York. La sua foto era comparsa varie volte sul Daily News, in relazione ad alcuni degli spettacolari casi risolti da lei e da Wilson. Lui scansava i fotografi — o erano loro a evitarlo, non si capiva bene. Ma Becky li accoglieva volentieri, assolutamente conscia del proprio ruolo di prova vivente ed evidente del fatto che le donne agenti possono lavorare in prima linea, esattamente come i colleghi maschi. Tirando un profondo respiro, si inginocchiò vicino ai cadaveri, mentre Wilson era ancora visibilmente scosso. Ogni fibra del suo corpo avrebbe voluto scappar via, fuggire da quell'incredibile orrore che era lì di fronte, e invece guardò tutto attentamente, scrutando le ossa spezzate, ricoperte di cartilagine, e i brandelli di carne scura, che sembravano quasi luccicare sotto i riflettori messi là dagli agenti della Squadra Omicidi. "Dove accidenti è il medico legale?" disse Wilson dietro di lei. Qualcuno rispose. Wilson non si avvicinò; Becky sapeva che non l'avrebbe fatto perché non era in grado di sopportare quel genere di cose. Stringendo i denti, nonostante il disgusto, continuò a osservare i corpi, notando la loro caratteristica più straordinaria: le lunghe raschiature sulle ossa e, in generale, i segni di rosicchiamento. Si alzò in piedi e gettò uno sguardo su quel luogo desolato. Circa un quarto di miglio più in là si poteva vedere la discarica, con i grandi stormi di gabbiani che roteavano sui mucchi di rifiuti; nemmeno il baccano delle voci riusciva a coprire lo stridio di quegli uccelli. Un oceano di vecchie auto e camion di ogni genere, per lo più nude carcasse prive di valore, separavano quella scena dalla discarica dei rifiuti. Alcune auto lì vicino avevano delle X bianche sul parabrezza o sul tetto: una traccia del lavoro che Di Falco e Houlihan stavano facendo quando c'era stata l'aggressione.
"Sono stati rosicchiati dai topi," disse Becky, cercando di mantenere un tono più calmo possibile, "ma quei segni più grandi indicano qualcos'altro — forse cani?" "I cani randagi che girano qui intorno sono solo dei bastardi rinsecchiti," disse il capitano del distretto. "Da quanto tempo mancavano, questi uomini, prima di iniziare le ricerche, capitano?" chiese Wilson. Il capitano gli lanciò uno sguardo tagliente. Neff era stupita; nessuno che avesse un grado inferiore a quello di Ispettore aveva il diritto di fare al capitano una domanda simile, e comunque mai al di fuori della commissione d'inchiesta. Era una domanda pertinente in una seduta riguardante una negligenza di servizio, e inadatta alla scena di un crimine. "Dobbiamo saperlo," aggiunse Wilson a voce un po' troppo alta. "Allora chieda al medico legale da quanto tempo sono morti. Noi li abbiamo trovati due ore fa. Il resto se lo deve immaginare lei." Il capitano voltò le spalle, e Becky Neff seguì il suo sguardo, diretto verso il lontano Atlantico, dove si poteva distinguere un elicottero che si avvicinava. Era della polizia, e presto fu sopra di loro, con l'elica che sbatteva rumorosamente, mentre cercava un posto adatto per atterrare. "Ecco il commissario e l'ispettore capo," disse Wilson. "Devono aver sentito odore di giornalisti." In gennaio, infatti, sarebbe entrato in carica un nuovo sindaco, e gli alti funzionari della città si stavano dando da fare per mantenere il loro posto. Perciò questi uomini, che di solito restavano anonimi, ora si precipitavano sulla possibilità di comparire sul notiziario delle undici. Ma questa volta sarebbero rimasti delusi: data l'insolita e spaventosa natura del delitto, la stampa era stata tenuta fuori il più possibile. Non era permesso scattare foto finché il luogo non fosse stato sgombrato dei corpi. Mentre l'ispettore capo e il commissario scendevano dall'elicottero, il medico legale camminava frettolosamente tra il fango, tenendo un giornale sopra la testa per ripararsi dalla pioggia. "E proprio Evans," disse Wilson. "Non l'ho mai visto fuori dagli uffici in vent'anni." "Sono contenta che sia qui." Evans era il capo dei medici legali della città; un uomo noto per i suoi brillanti risultati in fatto di investigazione legale. Avanzava con passi incerti, piccolo e con l'aria dimessa: sembrava molto vecchio dietro agli occhiali spessi. Aveva lavorato di frequente con Wilson e Neff, e li salutò con un cenno
del capo. "Cosa ne pensate?" chiese prima ancora di esaminare i cadaveri. Trattava con una certa gentilezza quasi tutti i poliziotti, ma rispettava particolarmente quei due. "Avremo dei problemi nella ricerca della causa di morte," disse Wilson, "per le condizioni in cui si trovano." Evans annuì. "La Omicidi ha finito con i cadaveri?" La Squadra Omicidi aveva terminato, il che significava che i corpi si potevano toccare. Il dr. Evans si infilò i guanti di gomma nera e si chinò. Era così assorto che non si accorse nemmeno dell'arrivo dei superiori. Il gruppo stette a guardare Evans mentre esplorava i corpi con cautela. Più tardi, nel suo laboratorio, avrebbe fatto un'autopsia molto più accurata, ma queste prime impressioni erano importantissime, essendo l'unica ispezione delle vittime sul posto. Quando si allontanò dai corpi, gli si poteva leggere in faccia una totale confusione. "Non ci capisco nulla," disse lentamente. "Questi uomini sono stati uccisi da... qualcosa che aveva artigli, zanne. Una specie di animali. Ma quel che non torna è... perché non si sono difesi?" "Non hanno nemmeno tirato fuori le pistole," disse Becky, con le labbra secche. Era stata la prima cosa che aveva notato. "Forse non è stata quella la causa della morte, dottore," disse Wilson. "Voglio dire, magari sono stati prima uccisi e poi divorati dagli animali qui intorno. Ci sono topi, gabbiani, e anche dei cani randagi, a quanto dicono i ragazzi del distretto." Il dottore aggrottò la fronte, e poi annuì. "Lo scopriremo quando faremo l'autopsia. Forse hai ragione, ma a un primo esame direi che si tratta invece di ferite mortali." Quelli della Squadra Omicidi scattavano foto e tracciavano segni sul terreno, raccogliendo i resti sparsi qua e là e setacciando la zona al meglio possibile, il che non era facile, considerato il fango. Presero anche le impronte delle molte orme di zampe che circondavano i corpi. Finalmente il capitano del distretto ruppe il silenzio. "Sta dicendo che questi ragazzi sono stati uccisi da cani randagi, e che non hanno nemmeno tirato fuori le pistole? No, non può essere così. I cani non sono che bestiole sparute, non possono neanche dar fastidio." Si guardò intorno. "Si è mai sentito di qualcuno ucciso da cani randagi in città? Qualcuno ha mai sentito una cosa del genere?" Il capo e il commissario stavano in piedi lì vicino, avvolti nei loro pesanti cappotti, e protetti dagli ombrelli. Nessuno parlò o strinse la mano a
qualcun altro. "Provvederemo a tutto il necessario per risolvere il caso" disse il commissario, non rivolgendosi a nessuno in particolare. Vista da vicino, la sua faccia aveva un'espressione inerte, con la pelle come staccata dagli zigomi. Godeva di una buona reputazione, per il proprio passato di lavoratore onesto; a differenza di molti suoi predecessori, si era guadagnato il rispetto del dipartimento per il suo interesse nelle questioni di polizia e per il disinteresse negli affari politici. E proprio per questi motivi, la sua posizione era adesso in pericolo. Gli venivano rivolte critiche, su basi presunte, per il fatto di dar spazio alla corruzione, di prendere i poliziotti dalla strada, di ignorare i quartieri neri e ispanici, per tutte le cose, insomma, che mettono nei guai i commissari di polizia. Il capo degli investigatori Underwood, invece, era roseo, grasso e piuttosto allegro. Era un politico nato, ed era pronto ad arredare di nuovo l'ufficio del commissario secondo il proprio gusto. Aveva gli occhi umidi e una tosse nervosa. Batteva i piedi e lanciava rapide occhiate intorno a sé, vedendo appena i cadaveri; era ovvio che volesse tornare alle comodità dei suoi uffici appena possibile. "Qualche indizio?" egli disse, guardando Wilson. "Nessuno." "Per ora sembra che gli sia stata squarciata la gola," disse il medico legale, "ma aspetteremo l'esito dell'autopsia." "Una teoria riguardante i cani non mi sembra plausibile," mormorò Wilson. "Non ho detto questo," si inalberò il medico legale. "Ho solo detto che la probabile causa di morte è stata una grave aggressione alla gola, per mezzo di denti e artigli. Non so niente di cani e non m'interessa fare ipotesi sui cani." "Grazie, dottor Evans," disse Wilson con voce distaccata. Evans non faceva parte dei pochi amici di Wilson, nonostante il rispetto professionale. Il commissario stette a lungo a guardare i cadaveri. "Copriteli," disse alla fine, "portateli via. Forza, Herb, fa' in modo che questi uomini svolgano il loro lavoro." I due superiori tornarono faticosamente verso l'elicottero. "È una questione di tirar su il morale," disse il capo del distretto appena il motore dell'elicottero fu avviato, "una visita di quei due ridà la carica". Il medico legale era ancora irritato per il battibecco con Wilson. "Se fossero stati cani," disse con prudenza "avrebbero dovuto pesare trentacinque, quaranta chili o più. Ed essere veloci, molto veloci." "Perché tanto veloci?" chiese Becky.
"Guarda il polso di Di Falco. È lacerato. Stava prendendo la pistola quando un qualcosa munito di denti lo ha colpito violentemente alla mano. Ciò vuol dire che qualsiasi cosa fosse, era maledettamente veloce." Becky Neff pensò immediatamente ai cani coi quali suo marito Dick lavorava alla Squadra Narcotici. "Cani da combattimento," disse la donna, "stai descrivendo un'azione di cani da combattimento." Il medico legale strinse le spalle. "Descrivo solo lo stato in cui si trovano i corpi. Come ciò sia capitato è affar tuo, Becky — tuo e di Sua Eccellenza." "Va' a farti fottere, Evans." Becky cercò di ignorare Wilson — era abituata al suo carattere litigioso. Finché le persone come Evans continuavano a lavorare con lui, non aveva molta importanza. A volte, però, era piacevole vedere che anche gli altri non lo potevano soffrire. "Se riusciamo a dimostrare che sono stati dei cani da combattimento a far questo," disse lei, "allora potremo restringere considerevolmente le ricerche. La maggior parte dei cani da combattimento non uccide." "Se il bravo dottore dice che sono stati capaci di fare... questo, allora potresti avere un po' di ragione. Parliamo con Tom Rilker, facciamoci una cultura sull'argomento." Rilker addestrava cani per il dipartimento. Becky annuì. Come avveniva sempre quando si mettevano in moto, lei e Wilson iniziarono a pensare all'unisono. Tornarono indietro, verso l'auto. Adesso era chiaro quale fosse il primo passo da compiere: scoprire se c'entravano i cani da combattimento. E se così fosse stato, si sarebbe trattato di un precedente assoluto: nessun poliziotto era mai stato ucciso da cani prima d'allora. I cani, infatti, sono un'arma poco comune, perché, per addestrarli ad uccidere gli esseri umani, è necessario il lavoro di un abile professionista. E gli abili professionisti non addestrano cani per chicchessia. L'uomo che ha insegnato a un cane a uccidere si ricorderebbe sicuramente chi è il padrone. Molti dei cosiddetti "cani da combattimento" non fanno molto di più che abbaiare rumorosamente e magari dare un morso. Quelli che saltano veramente alla gola non sono molto comuni. Un cane di quel genere non è mai totalmente controllabile, e costituisce sempre un investimento rischioso, a meno che non sia necessario nel modo più assoluto. Una volta in macchina, Wilson iniziò a ricordare i casi in cui erano implicati cani-killer. "Nell'ottobre del 1966, un pedone fu ucciso da un cane a Queens. Il cane non era addestrato, e si credette a un incidente. Io mi oc-
cupavo di quel caso, e ho sempre pensato che fosse sospetto, ma non sono mai riuscito a trovare un indizio soddisfacente. Nel luglio del 1970, un cane da combattimento scappò dal magazzino della Willerton Drug Company a Long Island, e uccise un ragazzo di diciassette anni. Un altro incidente. Nell'aprile del 1973, l'unico delitto accertato da parte di un cane; un teppista di nome Big Roy Gurner fu sbranato da tre cani, i quali poi risultarono appartenere al calzaturificio Thomas, che non era altro che una copertura della famiglia di Carlo Midi. Quella volta andai molto vicino a intrappolare Midi, ma fui allontanato dal caso per ordini superiori. Quei bastardi corrotti. Ho finito il mio inventario sui cani. Tu hai qualcosa?" "Beh, io non ricordo casi di cani, da quando lavoro come investigatrice. Ovviamente mi ricordo della storia di Gurner. Ma alla fine, mi pare proprio che ti pagarono, per lasciare il caso." A quelle parole, lo vide affondare il mento nel collo — era il suo caratteristico gesto di rabbia. Ma si rese conto che non avrebbe dovuto stuzzicarlo; Wilson era un poliziotto onesto, questo era sicuro. Odiava la corruzione negli altri, e certamente lui non ci si sarebbe mai piegato. Era stata una battuta di cattivo gusto, e le spiaceva; perciò, cercò di scusarsi, ma lui non accettò le sue scuse. Aveva commesso un errore, e non aveva senso continuare a parlarne. "Mio marito lavora continuamente con i cani," disse allora per cambiare argomento. "Alcuni sono cani da combattimento, ma la maggior parte sono solo da fiuto. Lui li considera la sua miglior arma, me lo dice spesso." "Ho sentito parlare dei suoi cani. A quanto pare, sono tutti addestrati per uccidere, nonostante quella stupidaggine del 'fiuto'. Ho sentito delle storie su quei cani." Lei aggrottò le sopracciglia. "Quali storie?" "Oh, niente di speciale, veramente. Solo che a volte quei cani, quando 'sniffano' un po' di droga, si eccitano talmente che gli viene da uccidere l'uomo addosso al quale la trovano... a volte. Ma immagino che tuo marito ti abbia già raccontato tutto." "Lasciamo perdere, Wilson. Non c'è nessun bisogno di stuzzicarsi l'un l'altro in questo modo. Mio marito non mi ha detto niente sui cani che uccidono individui sospetti. E se proprio vuoi saperlo, questa storia mi sembra un po' inverosimile." Wilson sbuffò, e non disse nient'altro. Ma Becky era al corrente delle voci alle quali lui si riferiva, e cioè che la squadra di Dick a volte usasse i cani contro le persone sospette difficili da prendere. "Almeno non lo fa per guadagnarci su," pensò Becky. "Spero con tutta l'anima che non lo faccia
per quello." Poi pensò a un certo problema che avevano avuto per pagare la cllnica per il padre di lui, un problema che pareva essere svanito — ma si rifiutò di pensarci. La corruzione era l'unico aspetto del lavoro in polizia che Becky odiava. Molti agenti consideravano il denaro come una parte normale del loro ruolo; si mettevano a posto la coscienza pensando che le loro vittime erano comunque dei criminali, e che le liquidazioni ricevute non erano niente di più che multe abbondantemente meritate. Ma secondo Becky Neff, quelle erano porcherie. Uno svolge il proprio lavoro e viene pagato, e questo dovrebbe bastare. Si sforzò di non abboccare all'esca che Wilson le aveva buttato riguardo a suo marito, perché altrimenti era molto probabile che si sarebbero messi a urlare. "A parte queste storie, ho sentito molto parlare di Tom Rilker; Dick ha un'altissima opinione di lui. Dice che, se volesse, potrebbe insegnare a un cane a camminare sulla corda." Thomas D. Rilker era un borghese che lavorava spesso come addestratore di cani per il Dipartimento di Polizia di New York, l'FBI e i Servizi doganali statunitensi. Ma aveva anche contratti privati. Era bravo, probabilmente il migliore in città, e forse nel mondo. La sua specialità era addestrare cani da fiuto. Aveva cani che fiutavano droga, incendi, tabacco, alcolici, qualsiasi cosa, insomma, e che lavoravano principalmente per la Squadra Narcotici e per gli agenti doganali. Il loro uso aveva rivoluzionato la tecnica investigativa in questi settori, ed aveva ampiamente ridotto le quantità di droga che passavano per il porto di New York. Becky sapeva che Dick aveva moltissima stima di Tom Rilker. "Fa' muovere questa dannata macchina, tesoro. Non stiamo facendo una sfilata!" "Guida tu, Wilson". "Io? Io sono il capo. Anzi, dovrei star seduto dietro." Lei si fermò vicino al marciapiede. "Se non ti piace come guido, fallo tu." "Non posso, cara, la mia patente è scaduta l'anno scorso." "E cioè quando è iniziata la nostra collaborazione, caro." "Grazie. Prenderò nota." Becky si immise bruscamente nel traffico, e pigiò l'acceleratore a tavoletta. Non voleva più sentire critiche. Il motivo per il quale lui agiva così era parzialmente dovuto al fatto che lei gli si era imposta. Suo marito Dick e suo zio Bob avevano esercitato parecchie pressioni perché fosse assunta nella Omicidi, e trovasse un socio una volta là. C'era voluta tutta l'influen-
za di suo marito capitano e di suo zio ispettore per farla uscire dalla sindrome della segretaria, e per farla arrivare al lavoro esterno. Aveva ottenuto buoni risultati come poliziotto di pattuglia, ed era stata promossa a sergente investigatore quando lo aveva meritato. La maggior parte delle donne che conosceva in polizia avevano avuto la promozione con almeno due o tre anni di ritardo, e poi avevano dovuto lottare per non finire in qualche lurido posto come la Squadra Dispersi, dove l'unica azione che poteva capitare di vedere era una gomma a terra di una sgangherata auto da pattuglia. Così, Becky Neff era arrivata proprio quando l'ultimo socio di Wilson si era trasferito alla Sezione Depositi di Sicurezza, dopo avergli dato un pugno in faccia. Wilson doveva perciò accontentarsi di chiunque, e nel caso specifico gli era capitato un pivello di investigatore, e per giunta donna. L'aveva guardata come se fosse affetta da lebbra contagiosa. Nelle prime sei settimane insieme non le aveva rivolto più di una parola alla settimana — sei parole in sei settimane, e tutte erano parolacce. Aveva tramato per farla sbattere fuori dalla divisione, addirittura mettendo in giro oscure voci riguardanti la commissione d'inchiesta, quando lei si fece sfuggire un importante indizio in un caso che sarebbe stato facile. Ma gradualmente Becky incominciò a migliorare sul lavoro, finché anche lui non fu costretto ad ammetterlo. Presto iniziarono a mettere parecchie manette, e acquistarono una certa fama. "Le donne, per lo più, sono pessimi poliziotti," furono le sue ultime parole sull'argomento, "ma tu sei unica. Invece d'essere pessima, sei solo scadente." Venendo da Wilson, si trattava di un complimento, forse il miglior complimento che avesse mai fatto a un collega. Dopodiché, il suo borbottare diventò inarticolato, e lui lasciò che la loro collaborazione procedesse a tutta birra. Lavoravano come se fossero due parti di una stessa persona, completandosi i pensieri a vicenda. E gente come il capo dei medici legali iniziò a chiedere il loro aiuto nei casi più difficili. Ma quando la loro fama iniziò a raggiungere, i giornali, era invariabilmente l'attraente, insolita donna poliziotto Becky Neff a conquistare la pagina centrale del Daily News. Wilson era solo uno dei tanti abili poliziotti, ma Becky faceva notizia. Ovviamente, Wilson dichiarava di odiare la pubblicità, ma lei sapeva che odiava ancor di più il fatto di non riceverne per niente. "Stai sbagliando strada, Becky. Dobbiamo fermarci nel Settantacinque-
simo per prendere le foto dei cadaveri e le impronte delle zampe da far vedere a Rilker. Diamogli qualcosa su cui lavorare." Becky girò l'auto e salì per Flatlands Avenue, verso la caserma. "Dobbiamo anche chiamarlo, prima" disse lei, "avvertirlo che stiamo arrivando." "Sei sicura che ci si possa fidare di lui? Voglio dire, se per caso lui stesse facendo un lavoro un po' losco, se stesse lavorando per qualche malintenzionato... Chiamare prima gli darebbe il tempo per pensare." "Rilker non sta lavorando per la mafia. Credo che un pensiero del genere non sia nemmeno degno d'esser preso in considerazione." "Allora non lo considererò." Wilson si sprofondò nel sedile, e spinse le ginocchia in alto, con la testa piegata avanti sul petto. Sembrava stare scomodissimo, e invece chiuse gli occhi. Becky accese una sigaretta e guidò in silenzio, ripassando mentalmente in esame il caso. Sebbene tutto facesse pensare d'essere sulla pista giusta, aveva la vaga sensazione che qualcosa non tornava. C'erano degli elementi che non collimavano. Passò in rassegna i fatti più e più volte, ma non riusciva a trovare la risposta. La cosa che la preoccupava di più era la mancata resistenza; tutto era successo così in fretta da non sembrare pericoloso fino all'ultimo momento. I cani da combattimento potevano tendere agguati? Potevano anche muoversi abbastanza in fretta da uccidere due poliziotti in buona salute ancor prima che avessero il tempo di estrarre le pistole? Parcheggiò l'auto in doppia fila davanti al 75° Distretto. Mentre Wilson continuava a russare leggermente, Becky salì in fretta i gradini consumati del tetro edificio di mattoni rossi, e si presentò al brigadiere di servizio. Questi chiamò il tenente Ruiz, responsabile del materiale di cui aveva bisogno. Era alto circa un metro e ottanta, coi baffi neri e ben curati, e un leggero sorriso. "Lieto di fare la sua conoscenza, Investigatrice Neff," disse con molta formalità. "Abbiamo bisogno delle foto e delle copie di impronte che avete fatto." "Nessun problema, abbiamo tutto quello di cui avete bisogno. E un maledetto pasticcio." Un'affermazione ricorrente, ma Becky non la raccolse. Quella parte d'investigazione sarebbe venuta dopo. Prima di trovare un movente per gli assassini, dovevano trovare la causa di morte. Il tenente Ruiz tirò fuori undici foto della scena, e una scatola di stampi di plastica delle impronte trovate intorno ai corpi. "Non c'è una sola impronta chiara, in quella scatola," disse lui, "è tutta una confusione. Se vuol
saperlo, per me quelle impronte non hanno niente a che fare col delitto. Solo i cani randagi che divoravano quelle carogne. E chiaro come il sole che quelle bestie non possono essere le responsabili della morte di quei ragazzi: sono solo venute a prendersi la loro parte, dopo che il peggio era già accaduto." "Perché dice questo?" disse lei mentre esaminava le foto. E perché mai le aveva passato una delle inquadrature meno spaventose? "I cani — io li ho visti. Sono piccoli, come dei 'cocker', o qualcosa del genere, e poi sono paurosissimi. E... a proposito, posso chiederle di firmare un autografo su quella foto per mia figlia?" Esitò per un attimo, e poi aggiunse timidamente: "La ammira moltissimo." Becky era talmente compiaciuta dalla sua ammirazione che non si accorse della presenza di Wilson dietro di sé. "Pensavo che non avremmo concesso più autografi," disse lui bruscamente. "Quando lo abbiamo deciso? Io non mi ricordo di averlo fatto." "Adesso. L'ho deciso ora. Non stiamo mica giocando." E mosse la mano verso la foto, ma Ruiz fu più rapido. "Grazie, Miss Neff," disse, sempre sorridendo. "Mia figlia ne sarà entusiasta." Becky raccolse le altre fotografie e la scatola delle impronte da trasportare in macchina. Sapeva già, senza bisogno di chiederlo, che Wilson non l'avrebbe toccata, e non sapeva con certezza se voleva che lei lo facesse. "A proposito, mi chiami Sergente Neff," disse prima di andarsene a Ruiz, che stava ancora lì in piedi a guardarla. "Mi permetta di aiutarla," egli disse. Becky era già fuori dalla porta, e stava mettendo la scatola sul sedile posteriore dell'auto. Wilson, che la seguiva, salì e chiuse con forza lo sportello. Becky si sistemò alla guida e accese il motore. "Non voglio che trasformiamo questa faccenda in un circo," disse mentre si dirigevano verso Manhattan. "Questo sarà il caso più sensazionale di cui ci siamo mai occupati. Ci troveremo i cronisti anche nella camicia da notte, al mattino." "Io non porto la camicia da notte." "In ogni caso, li avremo sempre intorno. Il fatto è che si tratta di un caso serio, e dobbiamo occuparcene seriamente." Per quanto Wilson fosse stato sentenzioso, quel che aveva detto era ridicolo. Becky si sforzò di non dire che sapeva quanto era serio quel caso. Se
lo avesse fatto, lui si sarebbe lanciato in una tirata sulle donne poliziotto, e avrebbe terminato col mettere in dubbio la sua competenza o con qualche nuova critica sul suo operato. Decise di ignorarlo e di farlo tacere. Perciò si mise a guidare come una pazza, sbandando lungo le strade, prendendo curve strettissime, e correndo a zig-zag in mezzo al traffico a ottanta chilometri all'ora. Dapprima Wilson rimase seduto con la testa incassata nelle spalle e le mani strette in grembo, poi iniziò ad azionare la sirena. "Rilker ti ha dato un appuntamento?" "No." Si era dimenticata di telefonare a Rilker, maledizione. Se per caso non c'era, avrebbe dovuto sorbirsi un altro po' di rimproveri da parte di Wilson. Accese un'altra sigaretta. Aveva cominciato a gustare davvero il piacere del fumo nel momento in cui Wilson aveva smesso, per ordine del medico. La sua reazione fu immediata. "Stai inquinando." "Mettiti la maschera a ossigeno se ti dà fastidio. Te l'ho detto già altre volte." "Grazie per avermelo ricordato." Becky ebbe l'improvviso desiderio di fumare un sigaro. CAPITOLO SECONDO Tom Rilker osservò le foto che i due investigatori gli mostrarono. Sulla sua faccia c'era incredulità e, almeno così sembrò a Becky Neff, qualcosa di simile alla paura. Era la prima volta che lo vedeva, e fu sorpresa dal fatto che fosse così anziano: aveva forse settantacinque anni. Dalla descrizione di suo marito aveva immaginato che fosse giovane. Rilker aveva capelli bianchi e sottili come lana sfilacciata; teneva le foto nella mano destra, che gli tremava un po'. Aggrottò le sopracciglia brizzolate, accentuando così l'espressione sul suo volto. "È impossibile," disse alla fine. Quando parlò, Becky capì perché Dick lo aveva sempre descritto come un giovane — aveva la voce molto più giovane del suo aspetto. "E assolutamente incredibile." "Perché?" chiese Wilson. "Beh, perché un cane non potrebbe far questo. Bisognerebbe addestrarlo. Questi uomini sono stati sbudellati, per l'amor di Dio! Si può addestrare un cane a uccidere, ma per riuscire a fargli fare una cosa del genere alle vittime ci vorrebbe un addestramento molto, molto complicato." "Ma si potrebbe fare."
"Forse, scegliendo la razza e il cane giusti. Ma non sarebbe facile. Per essere sicuri dei risultati bisognerebbe far lavorare il cane su... modelli umani." "E se invece gli si facesse semplicemente patire la fame?" "Un cane mangerebbe il tessuto muscolare — se la cosa non gli dà fastidio..." "No," rispose bruscamente Becky. "Dunque, stava dicendo che un cane mangerebbe il tessuto muscolare?" "Sì, ma non potrebbe... non potrebbe realmente sventrare qualcuno. Perché non è il modo in cui si nutre, nemmeno allo stato selvaggio." Poi prese le impronte delle zampe e scosse la testa. "Sono tutte qui le impronte?" "Quanto avrebbe dovuto essere grosso il cane?" chiese Wilson. Becky notò che le sue domande stavano diventando insistenti; doveva aver intuito che la vista di quelle foto aveva provocato a Rilker una notevole tensione nervosa. Il volto dell'uomo era tutto rosso, e la fronte coperta di gocce di sudore. Ogni tanto scuoteva leggermente la testa, come per ricacciare indietro un ciuffo di capelli. La mano gli tremava sempre di più. "Un mostro. Un qualcosa di abbastanza grosso, rapido e feroce da accettare questo tipo d'addestramento. Non tutte le razze lo farebbero." "Quali razze?" "Solo quelle più vicine allo stato selvaggio: gli 'huskies' e i pastori tedeschi. Non molte; e, se devo essere sincero, in tutta la mia vita non ho mai visto una cosa simile fatta da dei cani. Credo sia..." Afferrò un calco di una delle impronte e lo scrutò, poi armeggiò con la lampada che si trovava sul suo tavolo, per vederlo meglio sotto la luce. "Queste non sono orme di cani." "E allora cosa sono?" "Non so. Qualcosa di molto strano." "Sarebbe a dire?" Tom Rilker fece una pausa, poi parlò in un tono esageratamente calmo. "Queste impronte hanno creste epidermiche circolari, come le mani e i piedi umani. Ma sono chiaramente orme animali." "Qualche specie d'animale, diversa dal cane?" "Mi spiace doverle dire che nessun animale ha impronte simili. In realtà niente ha impronte simili. Niente di cui io abbia sentito parlare, cioè, in cinquant'anni di lavoro con gli animali." Becky sentì di doverlo dire: "Lupi mannari?" E si rassegnò all'inevitabile derisione di Wilson.
Stranamente, Rilker rifletté un po' prima di confutare la domanda. "Non credo che queste cose siano possibili," disse con prudenza. "Beh — sono o non sono lupi mannari?" Rilker sorrise impacciato. Becky si rese conto che cercava d'essere gentile, e scorse una luce ironica negli occhi di Wilson; era chiaro che si stava sforzando parecchio per non sghignazzare come un matto, maledizione. "Neanch'io credo nei lupi mannari, Mr. Rilker," disse Becky. "Francamente, volevo solo sapere se lei ci credesse." "Perché?" "Perché se ci avesse creduto, noi non avremmo avuto fiducia in quel che dice. Ma se le cose stanno così lei è senz'altro un esperto degno di credito, che ci ha semplicemente dato un brutto problema." "In che senso, un brutto problema?" Ora Wilson rise — ma lo scherno era diretto a Rilker. "Beh, innanzitutto dobbiamo partire dal presupposto che questi due poliziotti armati di tutto punto, siano stati uccisi da animali. Questo già non quadra granché. Ma dobbiamo anche supporre che gli animali siano di una specie sconosciuta; e questo è proprio strano. Poi, per finire in bellezza, dobbiamo credere che questa specie sconosciuta di animali che ammazzano gli esseri umani stia circolando libera per Brooklyn, e nessuno ne sa niente. E questo proprio non posso accettarlo." Nella mente di Becky i pensieri si rincorrevano rapidamente — questa nuova teoria colmava delle lacune, ma d'altro canto apriva voragini in altri punti. "Se questo è vero, dobbiamo muoverci in fretta. Brooklyn è un posto molto affollato." "Dài, Becky, falla finita. Andiamo via di qui. Abbiamo cose più serie da fare." "Un momento, investigatore. Non credo proprio che il suo tono mi piaccia." Rilker si alzò in piedi e buttò uno dei calchi in faccia a Wilson. "Quelle orme animali sono state prodotte da esseri che mi sono totalmente sconosciuti. Assolutamente ignoti. Non possono nemmeno essere state fatte da qualche specie di scimmia — perché ho pensato anche a quello." Cercò affannosamente il telefono. "Chiamerò un amico che lavora al Museo di Storia Naturale. Lui vi dirà che queste impronte non sono state lasciate da nessun animale conosciuto. Avete a che fare con qualcosa di molto insolito, questo è maledettamente certo." Becky ebbe un tuffo al cuore. Wilson aveva fatto arrabbiare Rilker, che parlava a voce alta e concitata, mentre faceva il numero con dita incerte.
"Forse la mia parola non vale abbastanza per voi, poliziotti che vi credete tanto furbi: ma questo tipo del museo è un vero esperto. Lui vi dirà che ho ragione, bastardi!" Wilson si mosse nervosamente verso la porta. "Non ci serve l'aiuto di nessun museo," borbottò. Becky lo seguì, portando con sé le foto, ma lasciando lì le impronte di animali, perché Rilker sembrava essersi impossessato della scatola. La porta dell'ufficio sbatté dietro di loro con un rumore assordante, mentre la sua voce divenne stridula per la frustrazione, e poi tacque bruscamente. "Spero che non gli venga una trombosi coronarica," disse Becky quando furono in strada. "Hai fatto bene, piccola," disse Wilson. "Se non gli avessi fatto quella domanda sui lupi mannari, l'avrebbe fatta ancora più lunga." "Stento a credere che quello sia il Tom Rilker di cui mi parlava Dick. Immagino che sia un po' rimbambito." "Penso anch'io. Dove sono i calchi?" "Su nell'ufficio. Li vuoi?" Becky depose la borsa sul sedile dell'auto. "Sì. Ci potrebbero servire." "Bene, allora vai a prenderli." Wilson sbuffò. "Ne prenderemo altri al Settantacinquesimo Distretto. Sai una cosa?" "Cosa?" "Ti sta colando il rimmel. Stai sudando." Becky rise e accese il motore. "Devo proprio dirtelo, George, sei speciale per fare i complimenti alle ragazze. Questa è la cosa più carina che mi hai detto in un anno." "Beh... quando... sai, quando hai qualcosa in disordine io me ne accorgo." "Buon per te. E il primo segno che stai diventando umano." Si avviò nel traffico, dirigendosi automaticamente verso la loro tappa successiva, e cioè l'ufficio del capo dei medici legali. Le autopsie sarebbero iniziate entro mezz'ora, ed era importantissimo essere presenti. Se l'autopsia non fosse riuscita a stabilire un'altra causa di morte si sarebbe dovuto concludere l'impossibile — e cioè che il delitto era stato compiuto dai cani. E questa è una morte piuttosto improbabile per un poliziotto. Becky non riusciva a scacciare la sensazione di paura che questo caso le provocava. Continuava a immaginare i due agenti sotto la pioggia autunnale, di fronte a chissà che cosa, Dio solo sapeva... ed erano morti col segre-
to. In momenti come questi desiderava di poter lavorare a più stretto contatto con Dick. Lui avrebbe capito cosa provava molto meglio di quanto potesse farlo Wilson. Becky si faceva coinvolgere molto dai casi che le venivano affidati, e questo era uno dei suoi punti più deboli, (ma probabilmente anche una delle ragioni per cui riusciva spesso così bene, pensava) e ogni caso le faceva un effetto diverso. Questo, con i suoi risvolti spaventosi, sarebbe stato molto duro, lo sentiva. Quel che era successo ai due poliziotti era roba da incubi... "Stai borbottando." "No." "Parli da sola, stai diventando pazza." "Non è vero! Faresti meglio a tenere la bocca chiusa." "Come vuoi. Ma ti dico che questo caso ti distruggerà." E si girò improvvisamente verso di lei. Quel movimento le fece sbandare l'auto, ed ebbe l'assurda impressione che stesse per baciarla. Ma invece aveva una specie di smorfia di dolore sul volto. "Sta distruggendo anche me. Voglio dire, non so cosa sia successo a quei due, ma è una cosa che mi sconvolge veramente." "Vuoi dire che ti dà fastidio, ti fa paura, o cosa?" Egli rifletté per un attimo, poi disse in tono calmo, "Mi fa paura." Wilson non aveva mai detto una cosa del genere. Becky continuò a tenere lo sguardo rivolto verso la strada, con la faccia priva d'espressione. "Anche a me," disse, "devo ammetterlo. È uno strano caso." Sentì che quella conversazione richiedeva un'estrema cautela: Wilson forse era sincero, o forse stava cercando di farle rivelare le sue sensazioni più intime, di costringerla ad ammettere che si lasciava coinvolgere troppo dal lavoro, in modo poco professionale. Sebbene si sentisse abbastanza sicura della loro collaborazione, non poteva avere mai l'assoluta certezza che Wilson non stesse architettando qualche piano per sbarazzarsi di lei. Non che avesse molta importanza, visto che ormai c'era una lunga lista di persone che volevano lavorare insieme a lei, ma ad ogni modo voleva mantenere in piedi quella collaborazione. Wilson aveva un carattere difficile, ma insieme formavano una coppia vincente che valeva la pena di salvare. "È difficile ma funziona," disse lui all'improvviso. "Di che stai parlando?" "Di noi. Stavi pensando a noi, non è vero?" Dal modo in cui lo diceva, sembrava che fossero amanti. "Sì." "Vedi, ecco perché funziona bene. Se non funzionasse così bene, non lo
avrei mai potuto sapere." Becky respirò profondamente. "Siamo arrivati. Forse scopriremo che sono stati avvelenati, e questo diventerà un caso normale." "Non è possibile." "Perché no? Non credo che possiamo presumere... ah, certo, i cani hanno mangiato le viscere, e non ci sono cani morti, quindi nelle viscere non c'era veleno, e perciò eccetera eccetera." "Ci sei, dolcezza. Andiamo su a guardare quella razza d'idiota che fa finta d'essere un investigatore eccezionale." "Oh, Wilson, ma perché non lasci in pace quel poveretto! E bravo nel suo campo quanto noi lo siamo nel nostro. L'unico problema è che i vostri caratteri non vanno d'accordo." "Non può essere, perché lui non ha carattere." L'ufficio del capo dei medici legali si trovava in un edificio moderno e luccicante, di fronte al Bellevue Hospital. L"'ufficio" era in realtà un'industria di patologia legale, dotata di ogni genere di attrezzatura e di tutti i farmaci che possano servire in un'autopsia. Senza esagerazioni, in quest'edificio si poteva scoprire tutto quello che c'era da sapere di un cadavere. E il medico legale era riuscito a risolvere molti delitti grazie alla sua attrezzatura e alla sua notevole esperienza. Particelle di capelli, tracce di saliva, frammenti di smalto per unghie: tutti elementi che avevano avuto un'importanza fondamentale nei processi per omicidio. Una volta era stata ottenuta una condanna basata sul lucido da scarpe presente sulle contusioni mortali di una donna che era stata uccisa a furia di calci. Il capo dei medici legali eccelleva nel fare questo genere di scoperte. E se in questo caso c'era qualcosa da svelare, lui l'avrebbe sicuramente trovato. Insieme ai suoi collaboratori avrebbe analizzato i corpi centimetro per centimetro, non lasciando niente al caso. Eppure, c'era quella paura... "Speriamo che trovino qualcosa, altrimenti questo caso mi farà diventare pazza," disse Becky, mentre salivano con l'ascensore, che era nuovo e silenzioso al punto che non si aveva alcuna sensazione di movimento. "Odio quest'ascensore. Ogni volta che ci salgo sopra mi spavento a morte." "Immagina che effetto farebbe rimanere intrappolati qui dentro, Wilson, nessuna via d'uscita..." "Sta' zitta! Non è per niente gentile." Wilson era leggermente claustrofobico, tanto per nominare una delle sue svariate nevrosi. "Scusa, era solo per farti ridere."
"Mi accusi di essere tanto antipatico, ma tra noi due sei tu la peggiore. Mi hai fatto proprio un pessimo scherzo." Le porte si aprirono e subito furono invasi dall'odore di disinfettante di cui era impregnato l'ufficio del medico legale. La segretaria li conosceva, e fece un cenno di saluto mentre le passavano davanti. L'ufficio incredibilmente disordinato del dottor Evans era aperto, ma lui non c'era. Secondo le regole dell'edificio non si poteva andare oltre senza una scorta, ma come al solito non c'era un'anima viva in giro. Si diressero verso la sala operatoria, quando la segretaria gridò il nome di Wilson. "Sì?" "C'è un messaggio per lei," urlò. "Chiami Underwood." "O.K.!" Wilson fissò Becky. "Underwood vuole parlarmi? Perché diavolo Underwood vorrà parlare con me? Non ricordo di aver cercato di farti licenziare, ultimamente." "Magari l'hai fatto e te ne sei dimenticato." "Meglio chiamare, meglio chiamare." Sollevò il ricevitore nell'ufficio di Evans e fece il numero del capo degli investigatori. La conversazione durò circa un minuto e si limitò ad una serie di sissignore e di grazie da parte di Wilson. "Voleva solo dirci che ora noi siamo in missione speciale, facciamo capo direttamente a lui, e abbiamo a disposizione le attrezzature del dipartimento. Dobbiamo trasferirci in un ufficio dei Quartieri Generali della Polizia, a Manhattan." "Gentile, da parte sua. Ci dà carta bianca e un po' dei soldi che gli restano, mentre il Commissario rimane nella sua torre d'avorio." Wilson sbuffò. "Sentimi bene: finché questo caso sembrerà risolvibile ogni possibile parassita da qui ai Servizi Segreti bulgari cercherà di approfittare di quei quattrini. Ma aspetta e vedrai. Se non lo risolviamo, ci troveremo da soli." "Andiamo nella sala autopsie. Non ce la faccio più ad aspettare." La sua voce aveva un tono amaro; Wilson aveva detto la sacrosanta verità. "Forza, avvoltoio". Mentre si dirigevano verso la sala operatoria, Becky avrebbe dato chissà cosa perché Wilson tirasse fuori una bottiglia di un alcolico qualsiasi. Purtroppo, però, lui beveva raramente, e di certo mai mentre era in servizio — a meno che gli eventi non lo richiedessero, il che accadeva spesso alle sei di sera circa. Ma ora era più tardi delle sei. "Pensavo che non sareste tornati se non su esplicito invito, voi," brontolò Evans. Stava andando nell'ambulatorio. Puzzava di sapone chimico, e i
suoi guanti di gomma gocciolavano. "Oppure queste regole non valgono per voi?" "Questo è l'uomo che ci invita ai suoi casi. Che carino." "Vi invito solo ai casi che non meritano la mia attenzione, perché sono troppo facili. Entrate pure, se ne avete voglia, ma non servirà a niente. È vi avverto, profumano in modo delizioso." Becky pensò immediatamente alle famiglie. Da bambina, era stata a un funerale dove si sentiva l'odore di cadaveri — ma oggi questo si poteva evitare, no? E in ogni caso, le bare non sarebbero state aperte. Eppure... oh, mio Dio. I due corpi giacevano sui tavoli chirurgici, sotto una luce impietosa. La scena non aveva più niente dello stravolgimento e della confusione che avevano trovato al recinto auto; qui tutto era pulito e ordinato, tranne che i corpi stessi, che portavano ancora intatti i segni della violenza e dell'orrore. Becky fu colpita da quella pura devastazione. L'aggressione era stata incredibilmente selvaggia. Ma in un certo senso si sentì rassicurata: niente in natura avrebbe potuto far questo. Era sicuramente opera di esseri umani, era troppo terribile per essere qualcos'altro. "Il laboratorio della Omicidi non ha trovato nient'altro che peli di cane e di topo, e piume," disse il dottor Evans con un tono mite. Si riferiva ai risultati dell'ispezione della zona in cui aveva avuto luogo il delitto, al recinto auto. "Nessuna traccia umana che non appartenesse alle vittime." "OK," disse Wilson, ma quell'informazione fu per lui come un colpo allo stomaco. Non era affatto una buona notizia. Evans si rivolse a Becky. "Beh, noi stiamo per cominciare. Cosa si deve fare per mandare Wilson fuori di qui?" "Non puoi. Ci potrebbe essere qualcosa," rispose lei. "Qualcosa che mi sfuggirebbe?" "Qualcosa che noi vedremmo." "Non lui. Non sarà in grado di sopportarlo." "Io starò bene. Pensa solo a fare il tuo lavoro, dottore." "Che non si ripeta il pasticcio che hai fatto nel caso Custin, Investigatore Wilson." Durante l'autopsia di Maude Custin, Wilson aveva vomitato il pranzo. Il riferimento a quella situazione imbarazzante lo ferì, ma era troppo orgoglioso per ammetterlo di fronte a Evans. "Se mi sento male, uscirò," disse, "ma solo se mi sento male. Noi dobbiamo stare qui, e tu lo sai bene."
"Stavo solo cercando di aiutarti, d'essere compiacente." "Grazie. Perché non cominci?" "È quel che sto facendo." Evans prese un bisturi e cominciò a prelevare una serie di campioni tissulari. Poi un assistente preparava i vetrini di quei tessuti, a un tavolo vicino, e li mandava in laboratorio. L'autopsia procedeva rapidamente — visto che purtroppo c'era rimasto poco da esaminare. "La cosa che più c'interessa è trovare tracce di veleno, di soffocamento, di qualsiasi cosa, insomma, che ci possa indicare una causa di morte più plausibile," disse Evans continuando a lavorare. "Va bene per voi due?" "Sì, per noi va bene." "Bene, sapremo tutto dopo l'analisi di laboratorio. Guardate questo," disse sollevando un dente bianco e aguzzo. "Conficcato in quel polso lacerato. Sapete cosa significa — o meglio cosa conferma?" "Che l'uomo era vivo quando fu morso al polso. Altrimenti il dente non sarebbe stato strappato via." "Esatto; insomma, si tratta di una conferma che questo ragazzo era sicuramente vivo quando i cani lo hanno aggredito." Nella stanza ci fu un lungo silenzio. Wilson sembrò sprofondare in se stesso, diventando ancor più basso e quadrato di quanto non fosse già. Becky provò una sensazione di sorda impotenza. Man mano che la situazione si andava delineando, anche se ancora in modo vago, vedeva tutta la serie di gravi problemi, e non ultimo quello del semplice controllo di massa. Che cosa fa la gente quando scopre che una cosa del genere sta avvenendo proprio vicino a sé? La tranquilla vita di ogni giorno viene improvvisamente sconvolta da un nuovo terrore, del tipo più pericoloso — l'ignoto. E se questo mostro sconosciuto può uccidere due poliziotti in buona salute, svegli e armati, l'uomo della strada non ha alcuna possibilità di cavarsela. "Credo sia meglio andare giù in città non appena abbiamo i risultati del laboratorio," disse Becky. "Perché aspettare?" "Per la conferma; così non avremo il benché minimo elemento in sospeso." Il fatto di convincere Underwood di quel che era accaduto non si prospettava particolarmente facile. Becky non voleva lasciare nessuna domanda senza risposta, perché ciò gli avrebbe magari offerto una scusa per rimandare l'inevitabile decisione — quella, cioè, di riconoscere cosa aveva ammazzato i due agenti, di chiudere la zona e uccidere qualsiasi cosa che
assomigliasse vagamente a un cane, selvaggio o ammaestrato che fosse. I due investigatori tornarono nell'ufficio del medico legale prima che le autopsie fossero completate; non dedicarono all'osservazione più tempo del necessario. Wilson era visibilmente contento di andarsene, e Becky lo seguì volentieri. Wilson sembrava insolitamente calmo e silenzioso, come se qualcosa lo tenesse a freno. "Cosa pensi che farà Underwood?" chiese lei tanto per rompere il silenzio. Wilson si strinse nelle spalle. "Due poliziotti vengono uccisi da qualche specie di cani. È una storia che non sta molto in piedi, se vuoi la mia opinione. Nonostante le conferme che abbiamo avuto, credo che dovremo continuare le ricerche. In un modo o nell'altro scopriremo il vero movente e il vero delitto." Becky sentì una fitta di preoccupazione: Wilson non credeva forse all'evidenza? "Ma se sono stati dei cani e non agiamo abbastanza in fretta, ci potrebbero essere altre morti. Penso che dobbiamo partire da quest'ipotesi, perché è proprio questo che i fatti ci fanno credere." Wilson annuì. Becky sospettò quasi che Wilson sapesse qualcosa, riguardo a quel caso, di cui lei non era a conoscenza, ma era sicura che non potesse essere così; fin dall'inizio, infatti, non si erano mai separati, neanche per un minuto. Qualsiasi informazione lui potesse avere, ce l'aveva anche lei. "Tu" egli disse con voce bassa e irritata, "non smetterai mai con quelle dannate sigarette. Se non fossi armata ti rapinerei immediatamente le sigarette." Lei non rispose; il suo sguardo era diretto alla porta dell'ufficio. Evans entrò, con in mano una cartellina. "Secondo le analisi di laboratorio, l'avvelenamento da ossido di carbonio potrebbe essere un fattore secondario," disse, "ma la causa principale di morte è costituita dalle ferite. Soprattutto quelle alla gola, in entrambi i casi." "Ossido di carbonio? Questo ha potuto forse stordirli?" "Normalmente non direi. I livelli sono molto bassi, si tratta appena di residui. Voi due ne avete probabilmente livelli più alti, per aver guidato fin qui. Ma questa è l'unica cosa anormale che abbiamo trovato in questi uomini, nel modo più assoluto. "Può essere stato più alto al momento dell'uccisione, e poi essersi dissolto?" "È improbabile. Questi uomini erano in condizioni normali quando sono
stati colpiti. E stato solo questo." Wilson sembrava molto sollevato; sul momento Becky non capiva esattamente perché. Il medico legale depose la cartellina. "Sono anche strane le condizioni in cui li hanno trovati," egli disse, "il caso più strano a cui mi sia mai capitato di lavorare in tutta la mia carriera." "E perché?" Wilson cercò di sembrare distaccato, ma non ci riuscì. "Beh, secondo le supposizioni sono stati uccisi da dei cani, no?" Gli investigatori annuirono contemporaneamente; dentro di sé, Becky trovò divertente la somiglianza di quel gesto. Si domandò che cosa li unisse tanto l'uno all'altro. Quasi le venne il dubbio che si potesse chiamarlo amore. "Quei cani dovevano essere ben eccezionali. Il loro modo d'attacco è stato estremamente intelligente: infatti, hanno aggredito Di Falco solo quando lui ha tirato fuori la pistola." "E allora?" "Allora, avete forse sentito parlare di un cane tanto scaltro da colpire il polso di un uomo per impedirgli di sfoderare la pistola? Mai, questa è la risposta. I cani sono incapaci di fare questo ragionamento. Non sanno che diavolo siano le pistole." "Forse sì e forse no." "Oh, per favore: non lo sanno per niente. Puntate una pistola alla testa di un cane, e non succederà un accidente. Sicuramente non cercherà di difendersi. Chi ha mai sentito parlare di cani che si comportano così?" "È stata solo una coincidenza; il cane è scattato per il semplice movimento della mano, e non per impedire all'uomo di prendere la pistola. Penso che quest'ipotesi possa essere valida." Wilson sollevò la cornetta del telefono. "Chiamo Underwood per dirgli che stiamo arrivando. Sua Altezza ci aspetta." "Su, non parlare sempre male di lui, Wilson. Pare che sia sulla strada giusta per arrivare al posto d'onore. Il tuo prossimo commissario." Wilson faceva il numero. "Sai quanta differenza può fare per me! Sto aspettando la promozione da almeno dieci anni." Becky fu sorpresa che il suo socio ammettesse una cosa del genere. La sua totale inettitudine in fatto di politica interna non gli aveva mai permesso di avanzare oltre il grado di tenente investigatore. E questo nonostante i buoni risultati ottenuti; se era vero che i meriti sul lavoro avevano un certo peso nella corsa alle cariche più alte, le spinte e i servilismi contavano di
più. Wilson, però, non solo non adulava nessuno, ma la gente aveva persino paura che provasse a farlo. A un tipo così non si può permettere d'immischiarsi nelle delicate faccende politiche del Dipartimento di Polizia. Oltretutto, lui avrebbe involontariamente scoperto qualche scandalo, e messo tutti in posizione difficile. Tutto questo lo rendeva un partner non proprio ideale. I superiori, infatti, avrebbero esitato a promuovere Becky al posto di Wilson; una cosa del genere avveniva soltanto se il socio superiore era completamente incompetente, e questo non era il caso. Lei sarebbe rimasta un sergente investigatore fino a quando uno dei due non fosse ormai incapace di svolgere il lavoro, oppure nel caso in cui fosse stata allontanata da lui, e questa era una cosa che il dipartimento non avrebbe mai permesso. Soltanto lo stesso Wilson poteva concepire un'idea del genere. Il solo pensiero d'essere trasferita la faceva star male: molto probabilmente, infatti, questo significava venire allontanata dall'azione, per essere ricacciata nell'oscurità di un lavoro ritenuto più adatto a una donna poliziotto. Wilson bisbigliò qualche monosillabo al telefono. Aveva informato il capo degli investigatori del loro arrivo con la stessa buona grazia con cui avrebbe avvertito il supervisore dell'edificio che c'era un cesso otturato. Quando uscirono dall'edificio, un vento umido da nord li fece rabbrividire; l'insistente pioggerella dei giorni precedenti aveva lasciato il posto al primo freddo veramente invernale. Erano le sette e mezzo, ed era già buio. La Trentesima Strada era tranquilla, mentre il vento sbatacchiava i rami scheletriti degli alberi che fiancheggiavano l'isolato. I pochi pedoni camminavano frettolosamente; sulla Quinta Strada si vedevano molte più figure umane passare tra le luci lampeggianti delle insegne e tra le ombre di auto che si muovevano lentamente verso il centro. Andavano verso la macchina, Becky guardava le persone, e osservava le loro facce grigie e inespressive, pensando alle vite che si nascondevano dietro a quei volti, e a come lei e Wilson avrebbero detto al capo degli investigatori quel che stava per colpire quelle vite. Lavorando in polizia si acquista gradualmente una certa distanza dai non poliziotti. La gente al di fuori ha un concetto talmente limitato di quel che si fa realmente in polizia, che è come se non ne sapesse niente; legge solo i titoli dei giornali, e l'incessante propaganda fatta dai mass media, che parlano dei delitti, ma non di come vengono risolti. Di conseguenza, la gente che s'incontra al di fuori del corpo vi vede come un'incompetente. "Lei è un poliziotto? Perché non ripulisce la strada dai rapinatori? Non vedo mai
un poliziotto per strada. Credevo che vi pagassimo per questo." Poi vi potrebbe capitare di vedere quella persona assassinata, vittima di quello stesso crimine dal quale diceva che non l'avreste protetta. Fa un certo effetto rendersi conto che non è possibile proteggere tutti, e che il proprio lavoro non renderà il mondo granché più sicuro. Il compito di un agente di polizia è quello di cercar di salvare delle vite, e non di portare l'era di pace e di prosperità. Quando si vedono le incredibili sofferenze e le umiliazioni, si comincia a capire quanto questo sia vero. Prima o poi i malfattori e le vittime si fonderanno in una sola infelice massa sanguinosa di corpi gementi e contorti, con gli occhi vitrei di paura. E delitto dopo delitto sfileranno davanti a voi, ognuno col suo sordido racconto di vite fallite... E poi succede una cosa come questa. Non ha senso, vi spaventa. Sentite un brivido freddo al pensiero che è successo qualcosa che non va, ma non sapete cos'è. Volete a tutti i costi risolvere quel delitto, perché le vittime sono gente come voi. I corpi contorti provengono dall'interno, dal mondo reale del dipartimento, e non dal caos che turbina al di fuori. Di solito la morte di un poliziotto non nasconde nessun mistero. Lui bussa a una porta e un drogato gli fa saltare le cervella. Oppure urla di fermarsi a un ragazzino che sta correndo fuori da un negozio di liquori e si becca un proiettile in faccia. Ecco come viene ucciso un poliziotto, improvvisamente e senz'alcun mistero. La morte nell'orario di servizio — è rara, ma succede. "Ecco la macchina," disse Wilson. Becky l'aveva oltrepassata: era troppo assorta nei suoi pensieri. Tuttavia salì e guidò meccanicamente nella pioggia sempre più forte, mentre ascoltava il tamburellare sul tetto, e il vento che fischiava fuori dai finestrini chiusi, sentendosi avvolta dalla sudicia umidità pomeridiana. L'edificio che ospitava i quartieri generali era scuro e grigio, simile a un monumento che si erge nella tempesta. Entrarono nel garage sottostante, e furono improvvisamente inondati dalle luci fluorescenti; lo stridio dei freni e delle gomme riecheggiò mentre facevano manovra nel garage, alla ricerca di un parcheggio nell'area destinata alla divisione omicidi. Underwood non era solo nell'ufficio. Insieme a lui c'era un giovane che portava un abito di poliestere e degli occhiali tondi non cerchiati. A Becky ricordò per un attimo John Dean, poi lui alzò lo sguardo e l'impressione infantile scomparve: l'uomo aveva occhi freddi, un viso più magro del normale, con le labbra chiuse che formavano una linea decisa. "Buona sera," disse Underwood con tono austero, alzandosi a metà da
dietro la scrivania, "vi presento il vice procuratore distrettuale Kupferman." Quindi presentò Neff e Wilson. I due investigatori si sedettero: si trattava di una seduta di lavoro, e non c'era tempo da perdere in formalità. Becky si rilassò nella comoda poltrona di pelle che Wilson le aveva indicato. L'ufficio del capo era tutto fatto di pelle e rivestimento a pannelli; sembrava una costosa biblioteca privata senza libri. Alle pareti erano appese scene di caccia, e un lampadario di peltro pendeva dal soffitto. L'impressione generale era quella di un pacato cattivo gusto — una specie di sottile e completamente involontaria presa in giro di sé. "Procediamo," disse Underwood. "Ho detto ai giornali che stasera faremo una dichiarazione. Ho fatto bene?" "Sì," disse Wilson. Poi guardò il vice procuratore. "Sta masticando. Per caso ha una gomma?" L'uomo gli porse un pacchetto di gomme senza zucchero. "Grazie. E che non posso fumare." "Vorrei sapere se avete trovato qualcosa su quei due ragazzi che potrebbe giustificare il nostro intervento," disse il vice procuratore. Ecco perché era venuto qui: il piccolo cane da guardia del procuratore distrettuale, mandato qui per fiutare eventuali infrazioni dipartimentali. Forse i due agenti morti erano corrotti, e si pensava che fosse questo il motivo per cui erano morti. "Non c'è niente del genere," disse Wilson. "Quei ragazzi appartenevano alla Polizia Stradale, non alla Narcotici. Non erano implicati in nessun affare losco." Nella mente di Becky balenò il pensiero di suo marito Dick, e della Squadra Narcotici. Ma altrettanto immediatamente ricacciò via questi pensieri, concentrandosi di nuovo sulla conversazione. Cos'era che la faceva preoccupare tanto riguardo a Dick, in specie ultimamente? Non poteva permettersi di pensarci adesso. Con la maggior decisione possibile, dedicò i propri pensieri alla questione imminente. "È sicuro?" "Non abbiamo fatto ricerche su quest'aspetto," s'intromise Becky. "Abbiamo appena stabilito quale sia la causa di morte." Questa era chiaramente la parte a cui Underwood era interessato. Si sporse in avanti e con le mani fece un gesto come per tirar fuori qualcosa. "Sono stati i cani," disse Wilson con voce atona. "Ah, no, non puoi dirmi questo! Questa non la bevo!" "Per quel che sappiamo, è la verità. Sono stati uccisi da cani." "No, maledizione. E assolutamente inaccettabile. Non dirò niente del
genere nelle dichiarazioni alla stampa. Sarà il dannato commissario a farlo, la responsabilità è sua." Il modo in cui cominciava a tirarsi indietro poteva esser buffo, se non fosse stato tanto triste. Li aveva chiamati là sperando di ottenere un po' di gloria per sé, una volta risolto il caso; ma ora che le cose stavano così, non era più tanto ansioso di partecipare. Che fosse il commissario a dire al mondo che due poliziotti ben armati erano stati uccisi da un branco di cani; Underwood non l'avrebbe fatto, questo era poco ma sicuro. "Noi stessi non potevamo crederci," disse Becky, "ma Evans è sicuro. L'unica cosa fuori dal normale era un residuo di ossido di carbonio." "Ossido di carbonio! È questo che li ha storditi! Ora questa storia comincia ad aver senso, i ragazzi stavano male. Adesso va meglio, perché non mi raccontate tutto per bene?" Per un momento guardò Wilson di traverso. "Questo è il pezzo fondamentale che mancava, per quanto mi riguarda. Il medico legale ha detto da dove provenisse?" "Dall'atmosfera circostante," intervenne Wilson. "Non ha molta importanza. Probabilmente tu ne hai livelli più alti nel sangue, in questo momento." "Qualcuno ha controllato la macchina, e ha visto se il sistema di scappamento era difettoso?" Wilson rise, con un piccolo rumore di scherno in fondo alla gola. Becky avrebbe dato chissà che cosa perché non avesse fatto quel suono. "La quantità di ossido di carbonio non era abbastanza elevata." "Ma è un pretesto, caro mio! Se posso usarlo, non dovrò attribuire questo caso a motivi inspiegabili. Pensa soltanto a quel che abbiamo per le mani! Due poliziotti uccisi dai cani. È stupido. E negativo per il dipartimento, fa sembrare i nostri uomini degli idioti che si fanno uccidere da un branco di cani bastardi. Non si può dire ai giornali che, beh, sì, ecco un paio di stupidi che si sono fatti fregare da qualche cagnaccio, e non hanno avuto neanche il buon senso di difendersi. Non posso fare una dichiarazione del genere." "Ed ecco il motivo per cui cercherai di far fare la dichiarazione al commissario. Non vuoi essere associato a questo caso." "La responsabilità è tua, investigatore. E non credo che mi piaccia il tuo atteggiamento!" "Grazie." Il capo piantò gli occhi nel volto impassibile di Wilson. "E questo cosa significherebbe?"
"Grazie. Né più né meno. Ti ho detto tutto quello che so di questo caso. Con qualche altro giorno e un po' di fortuna vedrò di saperne di più. Per quanto riguarda la causa di morte, pare proprio che siano stati i cani. Non piace neanche a me, non più di quanto piaccia a te, devo dirtelo. Ma questi sono i fatti. Se vuoi una dichiarazione per la stampa, dev'essere questa." "All'inferno! È stato l'ossido di carbonio. Deve essere stato così. Ed è esattamente questo che dirò." "Ha considerato le conseguenze, signore?" disse Becky. Lei lo aveva fatto, e una dichiarazione come quella che Underwood progettava di fare costituiva un grave errore, e pericoloso, per di più. "Quali, ad esempio?" "Beh, se gli uomini erano coscienti — e sappiamo tutti che probabilmente lo erano — significa che abbiamo a che fare con qualcosa di veramente pericoloso. Qualcosa di cui la gente dovrebbe essere al corrente, e che la polizia dovrebbe prendere delle misure per eliminare." "Sì, ma non è un problema, perché io ho intenzione di far piazza pulita di cani randagi, in quella dannata discarica. Manderò la Pattuglia Tattica e la farò setacciare. Non ci saranno altri problemi, nonostante non sappiamo come diavolo quei cani abbiano fatto fuori Di Falco e Houlihan. Non fa alcuna differenza se quegli uomini fossero effettivamente coscienti, perché entro domani i cani saranno morti. Dirò che gli agenti erano intossicati dall'ossido di carbonio e che sono stati aggrediti dai cani mentre erano in uno stato d'incoscienza o di semincoscienza." Si schiarì la voce. "Va bene così?" "La dichiarazione è tua, capo," disse Wilson. "Okay, allora, non fare e non dire niente per contraddirla. Tieniti i problemi per te. E da questo momento considerati deposto dal caso." Becky era stupefatta. Una cosa del genere non era mai successa prima d'allora; la gente aveva sempre tollerato Wilson, aveva sempre fatto buon viso a cattivo gioco. Essere rimosso da quest'incarico era un colpo per il prestigio di tutti e due. L'avrebbe preso a calci per la sua stramaledetta testardaggine. "Non durerà, Underwood," disse tranquillamente Wilson. "Ci puoi cacciar via e fare tutte le dànnatissime dichiarazioni che vuoi, ma alla fine ti troverai nei pasticci. Non ti libererai così facilmente di questo caso." "All'inferno se non mi libero. Vedrete." "In quella discarica è accaduto qualcosa di maledettamente strano." "Niente che la Pattuglia Tattica non possa sistemare." Sulla sua faccia
erano comparse delle chiazze rosse: era segno che stava passando il limite di sopportazione. "Niente che non possiamo sistemare! Al contrario di voi! Pare proprio che non stiate cavando un ragno dal buco, voi! I cani - ah! E proprio ridicolo. Non è nemmeno una buona scusa, figuriamoci se può essere una soluzione. Tutta la città mi sta addosso perché trovi una soluzione, e voi mi date delle stupidaggini!" Improvvisamente si rivolse a Becky. "E un'altra cosa, dolcezza. Ho sentito delle voci riguardo al tuo caro maritino. Il procuratore distrettuale qui presente dovrebbe fare delle ricerche a proposito della famiglia Neff, invece che cercar di scoprire qualche collegamento con la criminalità organizzata come movente per l'omicidio di Di Falco e Houlihan. Davanti a noi c'è la moglie di un poliziotto corrotto — o è una caratteristica di famiglia, mia cara?" Il vice P.D. rimase con la bocca ermeticamente chiusa, fissando il tappeto orientale, impassibile come una statua. A quelle parole, tutta la stanza sembrò ondeggiare; Becky sentì il sangue salirle alla testa, mentre un cerchio le opprimeva la fronte e il cuore le batteva all'impazzata. Che cosa stava insinuando, in nome di Dio! Dick era forse nei guai? Lei era consapevole d'essere un poliziotto onesto. Anche Dick doveva esserlo. Doveva. Come Wilson, onesto come Wilson. "Se pensi che siamo incompetenti," disse Wilson in tono calmo, "perché allora non convochi una commissione d'inchiesta? Così potrai presentare le tue prove." "Sta' zitto e vattene. Da questo momento saranno i vostri superiori ad occuparsi del caso." "Questo significa che ci sarà una commissione?" "Chiudi il becco e va' fuori di qui!" Uscirono, visto che anche Wilson aveva intuito che la riunione era finita. "Vado a casa," disse Becky al suo capo mentre l'ascensore scendeva giù nel garage. "Vuoi un passaggio?" "No. Io vado verso Chinatown, vedrò di cenare da qualche parte. Ci vediamo domattina." "Sì, ci vediamo." Ed era tutto per quel giorno. Un'altra giornata deliziosa della vita di una donna poliziotto. Il traffico era intenso, e una volta a casa Becky avrebbe ormai perso il notiziario della sera. Poco male, tanto la dichiarazione del capo non sarebbe stata mandata in onda prima delle undici. Arrivata nel piccolo appartamento della East Side, Becky fu delusa dal
fatto che Dick non fosse in casa. Meccanicamente inserì la segreteria telefonica. La voce di Dick la informò che sarebbe tornato per le tre del mattino. Magnifico. Una serata solitaria era proprio quel che ci voleva in quel momento. Alle undici il capo comparve con la sua dichiarazione ben formulata: ossido di carbonio, cani randagi, retata dei cani da parte della pattuglia Tattica, caso chiuso in un giorno. Caso chiuso un accidente, pensò Becky, un accidente. CAPITOLO TERZO Mike O'Donnel odiava questa parte del suo tragitto quotidiano. Le strade intorno erano vuote, ostili e pericolose. I buchi degli edifici in rovina emanavano un tanfo di umido marciume e d'urina. Gli piaceva invece il tramestio della gente alcuni isolati più in là; ma purtroppo, con i pochi soldi che aveva, un cieco come lui non poteva permettersi un taxi per attraversare quella zona: bisognava farsela a piedi. Col passare degli anni quell'immobilità mortale si era allargata a macchia d'olio, come un cancro, rimpiazzando gli allegri schiamazzi che Mike ricordava dalla sua infanzia. Ora qui era tutto silenzio, tranne l'isolato dove Mike viveva con sua figlia e la zona vicina alla stazione della metropolitana, che distava una ventina di minuti a piedi. Quei venti minuti non gli piacevano affatto, ed era sempre peggio. Lungo il percorso aveva incontrato drogati, ladri, pervertiti — ogni genere di rifiuto umano. Ed era sopravvissuto. Aveva lasciato che lo buttassero a terra. D'altronde che cosa aveva da perdere, se non qualche dollaro? Solo una volta era stato picchiato: erano ragazzacci, bambini, addirittura. Lui aveva fatto appello al loro coraggio, e quelli per la vergogna avevano abbandonato l'idea di torturarlo in uno degli edifici vuoti. Mike era robusto e agile. Del resto non poteva che essere così, per un cieco sopravvissuto sessant'anni nel Bronx. Lui e la sua adorata figliola vivevano dei fondi dell'assistenza sociale. Lei era una buona ragazza, con una certa propensione, però, per i mariti sbagliati. Dio solo sa che genere d'uomini... puzzavano d'acqua di colonia e di brillantina, e si muovevano per l'appartamento come gatti, con voci che sogghignavano a ogni parola... attori, affermava sua figlia... Anche lei era un'attrice, così diceva... Procedette a tentoni, aiutandosi col bastone; cercava di liberarsi la mente da quei pensieri spiacevoli: non voleva arrivare a casa col sangue amaro, e magari
iniziare una discussione. Poi udì un leggero suono che gli fece venire i brividi per tutta la schiena. Non sembrava proprio umano, eppure che altro poteva essere? Non un animale — era troppo simile a una voce, e troppo poco simile a un ringhio. "C'è qualcuno lì?" Il suono si ripeté, proprio di fronte a lui, solo più in basso. Intuì una presenza. C'era sicuramente qualcuno, che apparentemente stava accovacciato a terra. "Posso aiutarti? Sei ferito?" Qualcosa scivolò lungo il marciapiede. All'improvviso quello strano rumore cominciò a provenire anche da altri punti: da dietro, dagli edifici abbandonati lì vicino, dalla strada. Sentì come un movimento leggero che gli girava intorno. Mike O'Donnel sollevò il bastone, e cominciò ad agitarlo avanti e indietro, davanti a sé. La reazione fu immediata. La sua morte fu talmente rapida che non ebbe il tempo di provare altro che stupore. Procedettero con esperta efficienza: trasportarono il corpo nell'edificio abbandonato, mentre il sangue usciva ancora a fiumi dalla gola. Era un corpo vecchio e pesante, ma gli altri erano in sei, e ben determinati. Fecero tutto coi minuti contati, consapevoli del costante pericolo d'essere scoperti in un momento in cui erano vulnerabili. Mike O'Donnel non aveva capito quanto questo quartiere fosse stato completamente abbandonato, negli ultimi anni, lasciato da tutti tranne che dai drogati e dagli altri derelitti, e da quelli che erano attratti dalla loro debolezza. E ora Mike O'Donnel aveva raggiunto gli innumerevoli cadaveri che marcivano nei sotterranei abbandonati e tra le macerie di quel quartiere vuoto. Ma in questo caso c'era una piccola differenza. Lui aveva una casa e qualcuno lo aspettava. La figlia di Mike era in uno stato di grande agitazione. Telefonò di nuovo all'Associazione Ciechi; no, non avevano visto Mike, non si era nemmeno presentato per svolgere le sue solite mansioni. Erano le sei e non c'era più tempo da perdere. La telefonata successiva fu alla polizia. Dato che le persone scomparse di solito ricompaiono da sole o non si fanno mai più vive, e che ce ne sono così tante, il dipartimento di polizia non reagisce immediatamente a questo tipo di chiamate. A meno che non si tratti di un bambino o di una giovane donna che non aveva alcun motivo di andarsene di casa, oppure ancora, come nel caso di Mike, di qualcuno che non abbandonerebbe mai volontariamente la poca sicurezza e il con-
forto che ha al mondo. Perciò il caso di Mike O'Donnel era speciale, e ottenne un po' d'attenzione. Non una quantità esagerata, ma abbastanza perché se ne occupasse un investigatore. Venne fatta circolare una descrizione di Mike O'Donnel, e l'attenzione dedicatagli fu maggiore del solito. Qualcuno interrogò persino la figlia abbastanza a lungo da ricostruire una piantina del probabile percorso di Mike dal suo appartamento alla stazione della metropolitana. Ma non ci furono altri sviluppi; non fu trovato nessun cadavere, e la polizia disse alla figlia di aspettare, di non disperare. Una settimana dopo le dissero che non c'erano più speranze, che non sarebbe più stato trovato. Probabilmente il suo cadavere in putrefazione giaceva in qualche angolo della città, ed era stato ben nascosto da chiunque l'avesse ucciso. La figlia di Mike O'Donnel imparò col tempo ad accettare l'idea della sua morte, per cercare di sostituire il terribile vuoto dell'incertezza col conforto della certezza. Fece del suo meglio, ma tutto quel che riuscì a capire fu che suo padre era stato in qualche modo inghiottito dalla città. In quelle settimane Neff e Wilson lavorarono ad altri incarichi. Non ebbero nessuna notizia riguardante il caso O'Donnell; stavano facendo ricerche su un altro delitto, bloccati dalle pastoie dell'interminabile e sordida routine della Divisione Omicidi. La maggior parte dei delitti non è meno banale della gente che li commette, e a Wilson e Neff non venivano affidati i casi interessanti o drammatici, in quel periodo. Non si poteva dire che venissero messi da parte, ma si era diffusa la voce che il rapporto tra loro e il capo degli investigatori non fosse esattamente idilliaco. Underwood sapeva che i due non approvavano il suo modo di affrontare l'assassinio Di Falco/Houlihan, e non voleva che glielo ricordassero, soprattutto perché a lui stesso non piaceva, non più di quanto piacesse a loro. Lui era molto più pratico di quei due, e molto più interessato alla propria potenziale nomina all'incarico di commissario di Polizia che a seguire bizzarre teorie su quello che sinceramente gli pareva un incidente ancor più bizzarro. Perciò i due investigatori furono tenuti lontani dai casi importanti, e sepolti tra le pareti del Dipartimento di Polizia di New York City. Le prime parole che Becky Neff sentì a riguardo al caso O'Donnel furono quelle del medico legale. "Pensavo che voi due foste andati in pensione," egli disse al telefono, "Avete un caso difficile?" "Le solite cose. Non molta azione." Accanto a lei Wilson alzò le sopracciglia. Il telefono sulla scrivania non aveva squillato spesso; una conversazione prolungata come questa doveva essere interessante. "Ho un problema, qui da noi, e vorrei che voi due ci deste un'occhiata."
"Il capo..." "Fate una pausa per il caffè, allora. Venite qui subito. Magari si tratta di quel che stavate aspettando." "Che cos'ha?" chiese Wilson non appena lei ebbe messo giù il telefono. "Ha un problema. Pensa che possa interessarci." "Ma il capo..." "Ha detto allora di fare una pausa per il caffè, e di andare a trovarlo. Penso che sia una buona idea." Si infilarono il cappotto; fuori li avrebbe accolti un luminoso e burrascoso pomeriggio di dicembre, con un vento gelido che sbucava da dietro i palazzi e faceva rabbrividire. Negli ultimi tre giorni, infatti, il freddo era stato talmente intenso che non c'erano nemmeno molte auto per la strada. Erano finiti i soliti ingorghi, c'era rimasto solo qualche autobus o tassi con dietro grossi pennacchi di gas di scappamento condensato. Il medico legale aveva parlato con circospezione, al telefono, sicuramente assaporando l'effetto che il suo tono teatrale avrebbe avuto su di loro. Percorsero la Terza Avenue in silenzio. Nelle ultime settimane Wilson era diventato più taciturno del solito; a Becky andava bene: avendo già abbastanza problemi, era contenta di non dover ascoltare le sue lamentele. L'ultimo mese con Dick era stato burrascoso, pieno di dolore e di rivelazioni inaspettate. Ora sapeva che Dick riceveva denaro sottobanco. Stranamente, quei soldi non provenivano dai narcotici ma dal gioco d'azzardo. Circa un anno prima aveva scoperto un traffico d'eroina in una casa da gioco clandestina. Il padre di Dick era in una clinica per anziani, e lui era stanco di dover pagare tutti quei conti, era stanco del lavoro, noioso e opprimente; aveva arrestato gli spacciatori ma aveva chiuso un occhio sulla bisca — in cambio di qualche migliaio di dollari. "E solo gioco d'azzardo," si era difeso; "che diamine, non dovrebbe neanche essere un crimine." Ma poiché lo era, tutto sommato ciò gli permetteva di pagare i seicento dollari al mese che suo padre gli costava. E magari chissà, gli avrebbe consentito anche di mettere da parte abbastanza denaro per un appartamento decente, un giorno o l'altro. Le faceva male constatare che questo stava succedendo proprio a Dick. E poi in realtà lei lo aveva rimproverato aspramente per questo, senza però cercare di fermarlo né di denunciarlo. E non pensava di farlo in futuro. Però Dick era un poliziotto corrotto, l'unica cosa che si era giurata di non permettere mai a nessuno dei due. Bene, in ogni caso lui non le aveva chiesto il permesso.
Era sempre stata sicura che non avrebbe mai ceduto alle tentazioni così comuni per chi lavora in polizia — e anche lui l'aveva giurato. Ora litigavano, entrambi incapaci di affrontare la vera causa della loro rabbia. Invece di avere il coraggio di fermarsi, lasciarono accadere le cose. Si erano reciprocamente delusi, e questo aveva creato un'amara ostilità nel loro rapporto. Erano tanto ostili da passare sempre più tempo ognuno per conto suo. Spesso passavano giorni tra una serata insieme o una colazione fatta di monosillabi. Prima cercavano di far combaciare gli or ari di lavoro; ora facevano in modo che non s'incontrassero. Oppure, almeno per quanto riguardava Becky, non si preoccuparono più degli orari. Lei lavorava tutto il tempo che c'era da lavorare, ed era contenta di fare gli straordinari. Alla fine ci sarebbe stato un confronto, ma non ora, non oggi — oggi stava andando nell'ufficio del medico legale, che l'avrebbe impegnata in un nuovo caso, forse qualcosa d'interessante per la prima volta dopo un periodo maledettamente lungo. Evans li stava aspettando nella sala d'attesa. "Non toglietevi i cappotti," disse, "andiamo nella cella frigorifera." Significava che i resti erano in uno stato di decomposizione avanzata. L'ufficio del medico legale era dotato di un compartimento claustrofobico, in cui entravano a malapena tre tavoli chirurgici e qualche persona. Wilson vagò con lo sguardo intorno a sé, mentre scendevano giù per la scala che odorava di disinfettante, diretti verso la cella frigorifera; la sua claustrofobia stava per subire un duro colpo: più di una volta aveva confessato a Becky che quella cella era apparsa nei suoi incubi. "Sarà di nuovo una vista scabrosa," disse il medico legale in tono familiare. "Ragazzi, io vi chiamo solo quando c'è un bello scempio. Spero non vi dispiaccia." Poteva darsi che Evans mancasse di buon gusto oppure si trattava di un tentativo di scherzo. Becky non si disturbò a ridere; fece invece una domanda. "Che cosa stiamo per vedere?" "Tre cadaveri, in stato d'avanzata decomposizione." Li fece entrare nella cella frigorifera illuminata da una luce livida, e chiuse la porta dietro di loro. Non c'era bisogno di dire altro; i corpi erano chiaramente stati aggrediti nello stesso modo in cui lo erano stati Di Falco e Houlihan. La vista dello stesso tipo di scorticature sulle ossa e degli stessi segni di rosicchiamento aveva qualcosa d'agghiacciante. Becky era terrorizzata, troppo terrorizzata per capire a fondo quel che provava. Ma nel momento in cui vide quei cor-
pi capì che il capo degli investigatori aveva commesso esattamente l'errore che temevano — non si trattava di un comune caso d'omicidio, e nemmeno di una coincidenza. "Dannazione," disse Wilson. Il medico legale sorrise, ma questa volta senza allegria. "Non so come spiegarmi questi cadaveri. Lo stato in cui sono non ha senso." "Ha senso, invece," disse Becky, "se solo pensi che non sono stati uccisi da esseri umani." "E da cosa, allora?" "Questo è ancora da scoprire. Ma stai perdendo tempo, con noi: Underwood ci ha deposto dal caso." "Bene, allora ve lo riaffiderà." "Ci sono molti investigatori in questo dipartimento," intervenne Wilson. "Sono certo che ne troverà altri. Ed è probabile che gliene serviranno altri ancora. Questo sarà un bell'impiccio per lui." Wilson scosse la testa. "Un maledettissimo impiccio. Usciamo da questa ghiacciaia. Abbiamo visto tutto quel che c'era da vedere." Evans aprì la porta. "Tornerete al vostro incarico," disse, "farò in modo che ci torniate. Perciò iniziate a lavorare. Vi serve una soluzione." Non si preoccuparono di chiedere al medico come fossero arrivati i cadaveri; chiamarono invece la centrale e si fecero dire l'esatto distretto in cui aveva avuto luogo il delitto. Non appena conclusa la telefonata alla centrale, Wilson chiamò il 41° Distretto nel South Bronx, e chiese di parlare col Capitano. Sicuro che potevano venire, ma c'erano già altri investigatori che si occupavano del caso. "Potrebbe trattarsi di un collegamento con un altro caso, uno dei nostri." Posò il ricevitore. "Muoviamoci." Attraversarono faticosamente la città fino all'FDR Drive. Nonostante che il maltempo avesse ridotto il traffico in centro, andare da una zona all'altra della città era ancora un'impresa difficile. "Ho letto da qualche parte che ci vuole più tempo ad attraversare la città in auto oggi di quanto ce ne volesse un tempo in carrozza." "È ancora peggio quando guido io, non è vero?" "Beh, se lo dici tu..." "Dannato capoccia," brontolò Becky. "Ehi, stai perdendo la pazienza, cara mia." "E ho ragione, accidenti. Ci sono due poliziotti sepolti e dimenticati, e sapevamo benissimo che c'era qualcosa che non andava — che vadano all'inferno quei bastardi di politicanti. Se il Dipartimento di Polizia di New
York non organizza un'inchiesta come si deve quando vengono uccisi degli agenti, vuol dire che le cose vanno proprio male. Seedman non l'avrebbe mai fatto." Wilson sospirò, esprimendo così tutti i sentimenti che non poteva o non voleva esprimere riguardo al dipartimento di Polizia, che tanto gli piaceva odiare. Il dipartimento lo aveva ferito, ma anche aiutato; negli ultimi anni aveva visto dare minore importanza al fatto di risolvere delitti rispetto alla prevenzione. I cittadini chiedevano protezione nelle strade; i prodi investigatori di un tempo diminuivano, mentre le squadre di pattuglia a piedi aumentavano. I membri della vecchia guardia si riducevano sempre di più; Wilson era uno di loro, attento e con la vista acuta. E il fatto che il suo socio più giovane fosse una donna era un altro segno del degrado subito dal dipartimento. Guardava fuori dal finestrino. Becky non lo vedeva in faccia, ma sapeva cosa significasse la sua espressione. Sapeva anche che ora non aveva senso parlare con lui, perché non c'era possibilità di comunicazione. Si fecero strada a fatica attraverso le strade devastate del 41° Distretto, oltre i lotti di terreno sfitti cosparsi di mattoni, gli edifici vuoti, le case in rovina, bruciate e abbandonate, le carcasse di auto, e gli sporchi mucchi di rifiuti che il vento spostava qua e là nella strada. E Becky pensò: "Da qualche parte, qui, c'è qualcosa. È qui." Lo sapeva. E dal cambiamento di Wilson, dal modo in cui s'irrigidì e il volto gli diventò scuro, con gli angoli della bocca all'ingiù, vide che anche lui provava la stessa sensazione. "Ogni volta che vengo qui, questo posto ha un aspetto peggiore." "Che strada era, George?" "La Centoquarantaquattresima Est. La vecchia Unoquattroquattro. Adesso è proprio uno sfacelo." Era il quartiere della sua infanzia, e Wilson guardava le rovine del luogo in cui aveva vissuto da ragazzo. "Era un posto abbastanza piacevole, allora, non era il massimo, ma certo non era così. Gesù." "Già." Becky cercò di lasciarlo solo coi suoi pensieri. Considerando che la cittadina dell'interno dello stato di New York in cui era cresciuta era esattamente come un tempo, e apparentemente sarebbe rimasta tale per sempre, non poteva immaginare cosa provasse Wilson vedendo quello spettacolo desolante. "Dio, non posso credere che ho cinquantaquattro anni," disse lui. "Giurerei che fino a ieri sera ero seduto sotto quel portico." Sospirò. "Eccoci qua," disse, "il vecchio Quarantunesimo." L'edificio del distretto era una tetra fortezza, un improbabile bastione moderatamente fatiscente rispetto
alle rovine circostanti. Intorno c'era un gruppo di case non abbandonate, rimaste intatte nonostante che un po' più in là regnasse il pericolo e la distruzione. Grazie alla strana fecondità del Bronx, infatti, questi due isolati mostravano segni di relativo benessere. C'era traffico nelle strade, marciapiedi puliti, tende alle finestre e all'angolo una chiesa cattolica ben tenuta. La gente per strada era poca a causa del freddo, ma Becky poté facilmente immaginare come fosse quella zona quando il tempo era bello — coi ragazzini sui marciapiedi e i loro genitori nelle verande — piena di vivacità e schiamazzi, e con la tipica esuberanza che trasmettono i quartieri periferici di una città. Il capitano del 41° Distretto alzò lo sguardo da dietro la scrivania, quando Neff e Wilson entrarono. Fu subito chiaro che non sapeva con esattezza perché fossero lì. Normalmente, degli investigatori provenienti da un altro distretto amministrativo non avrebbero avuto niente a che fare con un caso come questo — e a suo parere non si trattava di un caso poi tanto speciale. Un altro paio di putridi cadaveri di drogati e un povero vecchio. Rientrava nella media del South Bronx, di questi tempi. Istintivamente, Becky capì che doveva lasciare che fosse Wilson a parlare col capitano. Era lui l'esperto, il professionista interno della politica dipartimentale. E sì che la sua abilità politica non l'aveva portato molto lontano. Il miglior investigatore di New York City in un vicolo cieco. Aveva raggiunto il Primo Grado, è vero, ma non gli era mai stata affidata una divisione, una circoscrizione per sé soltanto. "È stato Evans a consigliarci di venire qui," disse Wilson come spiegazione della loro presenza. "Evans ha fatto pressioni sul Medico Legale del Bronx e si è portato quei cadaveri a Manhattan. Non sappiamo perché l'abbia fatto." La voce dell'uomo aveva un tono acido. Non gli piaceva che un caso gli venisse tolto senza una buona ragione. Ed era chiaro che fino ad allora nessuno gliene aveva date. "Lo ha fatto perché i segni trovati su di loro erano simili a quelli rilevati sui cadaveri di Di Falco e Houlihan." Il capitano del distretto sbarrò gli occhi. "Quel caso è ancora aperto?" "E stato riaperto ora. Abbiamo una nuova traccia." "Gesù. Ecco perché ci state tanto intorno, ragazzi." Si alzò dalla scrivania. "La scena del delitto si può ancora visitare," egli disse. "Volete andarci?" Wilson annuì. Mentre seguivano il capitano fuori dell'ufficio, Becky e-
sultò dentro di sé. Quell'uomo non aveva neanche pensato di chiamare giù in centro per fare controlli riguardo a Neff e Wilson. Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che non dovevano più occuparsi del caso. Ma perché avrebbe dovuto? Probabilmente non gli era neanche passato per la testa. La zona del ritrovamento dei corpi era stata delimitata dai cordoni, e disseminata di adesivi con la scritta "Scena del delitto". Due agenti facevano la guardia. "I corpi sono stati trovati da un tassista zingaro, che si era fermato là per cercarsi un posto dove stare, e ha sentito una puzza strana. È venuto da noi, ed è stata una fortuna. Di solito quei tipi se ne fregano." I corpi erano stati trovati nel sotterraneo di un condominio abbandonato. Becky estrasse dalla borsa la lampada elettrica portatile ed entrò dal portico in rovina. Il sudicio locale era stato illuminato, ma il resto dell'edificio era immerso nel buio, perché le aperture verso l'esterno erano chiuse con le assi. Il fascio di luce della pila vagò per il pavimento, negli angoli bui, e su per le scale che conducevano al primo piano. "La porta è chiusa a chiave?" domandò Wilson mentre Becky ne esplorava la superficie annerita. "Non siamo stati lassù," disse il capitano. "Ve l'ho detto, pensavamo che si trattasse di ordinaria amministrazione fino a quella mattina, quando il medico legale del Bronx ci disse che Evans gli aveva soffiato i cadaveri." "Ah ah, divertente," disse Wilson con voce atona. Il capitano lo guardò in cagnesco. "Andiamo su, socia. Possiamo iniziare la perquisizione." Lo udirono tutti; un rumore di passi sulle scale. Guardarono il loro capo. I peli gli si rizzarono, e la stessa cosa accadde agli altri. Le emozioni, le volontà e i cuori funzionavano all'unisono. Che cosa significavano quei passi? Evidentemente quelli che si trovavano nel sotterraneo avevano deciso di salire di sopra. E avevano qualcosa di familiare. Il ritmo dei passi, l'odore, le voci ricordavano quelle conosciute giù alla discarica. Come avevano temuto i più anziani, l'uccisione di giovani esseri umani aveva causato un'inchiesta. E ora erano qui, chiaramente sulle loro tracce. L'odore divenne più forte man mano che si avvicinavano: si trattava di un vecchio e di una giovane donna. Non c'era nessun pericolo, sarebbe stato facile ucciderli. Il capo emise un suono che mise in moto il branco. Erano affamati, i piccoli avevano freddo e fame. C'era bisogno di cibo. Oggi si sarebbero messi di nuovo a caccia. Ma forse non era necessario, magari quest'uccisione avrebbe allontanato il pericolo e contemporaneamente procurato la carne. Ma la donna giovane e forte doveva essere sepa-
rata dall'uomo vecchio e debole. Come fare? Dal loro odore si capiva anche che erano una coppia, e dal modo in cui le voci si parlavano s'intuiva che avevano lavorato insieme per molto tempo. Come fare per separare gente simile anche solo per un momento, specialmente quando entrambi sentono il pericolo? Dai due umani che brancolavano nell'oscurità si sprigionò improvvisamente il forte odore della paura. Questo fece fluire i succhi gastrici e aumentò i battiti del cuore per lo sfrenato desiderio di sangue. Il capo avvertì di trattenersi, trattenersi... Intuiva pericoli nascosti, in questa situazione. Tutt'a un tratto provò disgusto per quel posto. Lo odiava, lo disprezzava. Era troppo denso di umanità. C'erano esseri forti e giovani, fuori, questi due all'interno e un altro vecchio nel sotterraneo. E prima ce n'erano stati addirittura molti di più. "I nostri giovani non devono uccidere i loro giovani," pensò furiosamente. Si trovò a strisciare lentamente verso la porta della stanza, muovendosi nonostante la ragione gli dicesse di non farlo, spinto dal bisogno di uccidere quei due che erano a conoscenza del branco, tanto da seguirlo fin qui. Ora gli altri si muovevano dietro di lui, furtivi, agili, con passi felpati e rapidi giù per la stanza buia, giù per la scala annerita, verso il meraviglioso odore, troppo vicini agli esseri umani eppure vicini solo quel tanto che bastava per prendersi ciò di cui avevano bisogno. "Dobbiamo trovare un modo per dividerli," pensò il capo. Poi si fermò. Tutto il suo corpo bruciava dal desiderio di andare avanti, di terminare l'aggressione, di sentire la morte della preda in bocca. Ma pensò attentamente, girando e rigirando mentalmente il problema finché non arrivò a una soluzione. Certi suoni attiravano gli umani; questo trucco veniva usato spesso durante la caccia. Un piccolo grido, come quello che emettono i loro piccoli, avrebbe fatto avvicinare anche la persona più paurosa entro il raggio d'attacco. E il grido di un bambino veniva udito in particolare dalle donne. "Shh!" "Che c'è?" "Ascolta." Si udì ancora l'inconfondibile lamento di un bambino. "Lo senti?" "No." Becky si avvicinò alla tromba delle scale. Lo sentì più chiaramente: proveniva da sopra. "Wilson, c'è un bambino lassù." E diresse la lampada verso l'oscurità. "Ti dico che ho sentito un bambino." "E allora vai a indagare. Io non salgo lassù." Si udì di nuovo quel suono, che esprimeva un imperativo bisogno.
Becky si fermò al primo gradino: si era trovata a salire quasi contro la propria volontà. Sopra di lei, colui che produceva il richiamo stava mettendo tutto se stesso in quei suoni, rendendoli più lamentosi e irresistibili possibile. Immaginava d'essere una piccola e indifesa creatura umana, che giaceva piangendo sul pavimento freddo, e il suono era proprio come quello di un bambino. Gli altri si mossero rapidamente verso la scala opposta e iniziarono a scendere. Intuivano la posizione della preda: la donna giovane e forte stava salendo le scale, il vecchio debole era in piedi nell'atrio, dietro di lei. "Vieni su, vieni su," invocava mentalmente l'altro, mentre emetteva quel debole suono. Doveva essere ben imitato, perfetto tanto da attirarla, e da non farle decidere ciò che lei voleva decidere — e cioè che si trattava del vento, di un'asse che scricchiolava, o di qualcosa di pericoloso. Quando lei arrivò sul primo pianerottolo, i cacciatori raggiunsero il loro capo sul lato opposto dell'atrio. Via via che saliva verso il richiamo, loro scendevano verso Wilson. Ma quando gli furono vicini si fecero più cauti. C'era una forza nascosta sotto l'odore della paura e della vecchiaia. Avrebbero dovuto colpire quell'uomo con forza devastante per averlo, con la stessa violenza con cui avevano colpito i due giovani alla discarica. Ma la preda ne valeva la pena: era pesante e ben nutrito, a differenza di quelli che avevano trovato tra quegli edifici abbandonati. Non era deperito dalla fame, e non aveva nessuna malattia che lo rendesse pericoloso da mangiare. Spasimavano per lui, intensamente, e gli si avvicinarono ancora, fino a vedere la sagoma incerta del suo corpo lento e pesante in piedi nel buio. Poi una fiammella tremolante lo illuminò. "Che stai facendo, George?" "Sto accendendo una dannata sigaretta." Becky scese verso di lui, illuminandogli la faccia con la lampada. "Stai veramente accendendo una sigaretta, accidenti a me! Dove diavolo hai trovato una sigaretta?" "L'ho conservata per un'occasione speciale." "E adesso è un'occasione speciale?" Egli annuì, con la sua faccia di pietra. "Sarò sincero con te, Becky, io ho la pelle d'oca. Ho una paura da morire. Non me ne andrò di qui senza di te, ma credo proprio che dobbiamo andarcene — adesso." "Ma c'è un bambino..." "Adesso! Forza, andiamo." Le afferrò il polso, e la spinse verso la porta del sotterraneo.
"C'è qualcosa di sopra," disse al capitano del distretto, che se ne stava in piedi nel mezzo del sotterraneo come se fosse indeciso se seguire o meno i due investigatori al piano superiore. "Non mi sorprende. L'edificio è probabilmente pieno di drogati." "Sembrava un bambino," disse Becky. "Sono sicura che lo fosse." "È possibile anche questo," disse il capitano in tono calmo. "Ordinerò una perquisizione, se credete che sia necessario. Ma non andate soltanto in due. Ci vorranno dieci uomini con le carabine: penso che così potrà bastare." Becky ammise che quel piano era saggio. Sicuramente c'era un branco di gentaglia, lassù in cima alle scale, che non aspettava altro che d'assalirla. O forse c'era davvero un bambino. In tal caso, i dieci minuti che ci volevano per riunire il gruppo di perlustrazione non avrebbero fatto molta differenza. Uscirono e salirono sull'auto del capitano. Quando se ne furono andati, i due agenti che sorvegliavano il luogo del delitto si mossero rapidamente verso la loro macchina, e salirono per ripararsi dal freddo. Poi accesero la radio per essere avvertiti in anticipo di eventuali visite dal distretto, restandosene al caldo. Per questo, non sentirono l'ululato di rabbia e di frustrazione che provenne dalla parte superiore del casamento, né videro l'esodo che ebbe luogo: una fila di sagome grigie che saltarono, una dopo l'altra, i due metri che separavano l'edificio da quello vicino. Non ci volle molto tempo per riunire la squadra di perlustrazione. Erano le quattro, e stavano per entrare in servizio gli uomini del turno serale. Tre auto di pattuglia ritornarono verso l'edificio. C'erano esattamente dieci agenti per la perlustrazione, compresi i due agenti di guardia, più Becky e Wilson. Naturalmente era molto probabile che, all'arrivo delle auto di fronte alla casa, qualsiasi teppista che si fosse trovato là dentro sarebbe fuggito dal retro. Ma in quel posto era stato commesso un assassinio, e finora il distretto non aveva ancora ordinato una vera e propria perlustrazione. Erano state scattate foto delle vittime, ed erano state frettolosamente prese delle impronte, ma questo era tutto. In questa parte della città un omicidio non era altro che un dato statistico. Nessuno si preoccupava di scoprire le circostanze che avevano causato la morte di qualche povero disgraziato. E nessuno dubitava del fatto che il cieco fosse stato rapito e poi trascinato via dalla strada prima di morire. E nessuno aveva compreso quel che era
accaduto. Durante la perlustrazione, Becky e Neff rimasero in silenzio. Nelle stanze del vecchio casamento c'erano ancora tracce degli ultimi inquilini — graffiti sulle pareti, brandelli di tende alle finestre, qua e là rimasugli di carta da parati ingiallita. E perfino, in una stanza, i resti di un tappeto. Ma non c'era nessun bambino e nessuna traccia di recente abitazione umana. Nonostante la riluttanza degli agenti, Wilson e Neff fecero raccogliere parte della materia fecale trovata sul posto, e la fecero mettere in una busta di plastica. "Di sopra è vuoto," gridò una voce, mentre un gruppo di cinque uomini scendeva dopo la perlustrazione sotto il tetto. "Non c'è nessuna traccia sospetta." Ma che diavolo significava? Quegli uomini non avrebbero saputo distinguere una prova da un cavolfiore. "Fateci andare su," brontolò Wilson. "Dobbiamo vedere anche noi." Gli agenti andarono con loro, e così l'intero gruppo perlustrò ogni piano. Becky vide le stanze vuote sotto una luce migliore, ma la sua mente non riusciva a cancellare quelle grida lamentose. Quassù c'era qualcosa soltanto qualche minuto fa, qualcosa che era scomparso senza lasciare traccia. Guardarono attentamente in tutte le stanze, ma non trovarono niente. Quando tornarono nel seminterrato, Wilson scosse la testa. "Non capisco," disse, "so che hai sentito qualcosa." "Lo sai?" "L'ho sentito anch'io, credi che sia sordo?" Becky era sorpresa, non si era resa conto che anche lui avesse sentito quel suono. "E allora perché non sei salito con me?" "Non era un bambino." Lei lo guardò, e scorse un'espressione di fredda paura sulla sua faccia. "D'accordo," disse, frenando il desiderio di polemizzare, "non era un bambino. Che cos'era?" Wilson scosse la testa e tirò fuori le sigarette. "Portiamo quella merda al laboratorio, per le analisi. Per adesso non possiamo fare altro." Lasciarono l'edificio insieme all'orda scalpicciante degli agenti di pattuglia; quindi si diressero verso Manhattan, col misero indizio ben chiuso nelle buste di plastica. "Pensi che questo farà riaprire il caso Di Falco?" domandò Becky. "È probabile." "Bene, allora non dovremo più lavorare di nascosto."
"Se mi ricordo bene ci hanno deposto da quel caso. Oppure a te non risulta?" "Beh, sì, ma in vista di..." "In vista di niente. Adesso saremo i capri espiatori. A Neff e a Wilson viene affidato un caso. Ossido di carbonio e cani randagi. Neff e Wilson chiudono il caso. Poi arrivano altri indizi. Il caso viene riaperto. Neff e Wilson capri espiatori per averlo chiuso la prima volta." E soffocò la tosse nella gola. "Dannati vigliacchi," disse. "Maledizione, lo sai che potrei dimettermi presto." "Tu non ti dimetterai." "No, non volontariamente. Ma dipende da quanto Underwood userà la mano pesante nell'appiopparmi la colpa di aver capito male il caso." "Ma è solo un unico dannato caso." "Però si tratta di agenti di polizia uccisi mentre erano in servizio. Se si viene a sapere che è stato lo stesso Underwood a chiuderlo, perderà l'opportunità di diventare commissario. Perciò la colpa sarà veramente attribuita a te e a me. Tanto vale che ci rilassiamo e ci godiamo lo spettacolo." Una risata senza allegria gli scrollò le spalle. "Forse verrà fuori qualcosa che possa portare a una conclusione. Allora la situazione sarà un po' diversa." Becky fece una pausa. Il silenzio diventò più pesante. "Chi pensi che stia facendo questo?" domandò. "Non chi — che cosa. Non è umano." Ora aveva pronunciato quelle parole, le parole che prima non avevano voluto affrontare. Non umano. Non poteva essere umano. "Come fai ad esserne così sicuro?" chiese Becky, pur conoscendo già in parte la risposta. Wilson la guardò sorpreso. "Ma è chiaro, quel suono. Non era umano." "Che cosa vorresti dire? A me sembrava perfettamente umano." Oppure no? Becky adesso lo ricordava come se fosse accaduto in un sogno, una voce di bambino... o qualcos'altro. A intervalli di pochi secondi si svegliava e lo udiva di nuovo — un'orribile parodia disumana piena di ringhiose minacce... e poi di nuovo il bambino, tenero, ferito, morente. "Attenta!" Becky schiacciò i freni. Aveva rischiato di uscire dalla corsia, e di andare a sbattere contro le auto della Third Avenue. "Scusa. Scusa, George, io..." "Fermati. Non stai bene." Gli obbedì. Nonostante si sentisse bene, era innegabile ciò che era stata sul punto di fare. Le era sembrato di sentire ancora quelle piccole grida,
ma come in sogno. "Mi sento a posto, non so cosa mi sia successo." "Sembravi ipnotizzata," disse lui. Becky sentì di nuovo quei suoni: bestiali, ringhiosi, mostruosi. Tutto il suo corpo si ricoprì di sudore. Aveva freddo, e le venne la pelle d'oca. Ritornò mentalmente a quella scala, al terribile pericolo che era lì ad attenderla, lo stesso che aveva sbudellato e insanguinato quei corpi e aveva spaccato e raschiato le ossa e i crani. Si tappò la bocca con le mani, sforzandosi di non urlare, di non abbandonarsi completamente al terrore. Wilson si avvicinò a lei, come se si fosse aspettato tutto questo. La prese tra le braccia, col corpo tremante contro le sue spalle robuste. Becky affondò la faccia nel caldo odore della vecchia camicia di lui e come in lontananza sentì che le baciava i capelli, l'orecchio, il collo, mentre delle ondate di benessere cacciavano via il panico. Voleva staccarsi da lui, ma nello stesso tempo voleva anche fare ciò che fece, e cioè sollevare il viso. La baciò con forza e lei accettò il bacio, dapprima passivamente e poi abbandonandosi a quel sollievo, e ricambiandolo. Poi si separarono bruscamente, consci del fatto di trovarsi in un'auto riconoscibile da qualsiasi poliziotto. Becky appoggiò le mani sul volante. Si sentiva debole e triste, come se avesse appena perduto qualcosa. "Dovevo togliermelo di dosso," disse Wilson in tono burbero. "Io dovevo..." Poi la voce gli si affievolì. Si aggrappò al cruscotto e mise la testa sul braccio. "Oh, all'inferno, io ti amo, maledizione." Lei stava per dire qualcosa. "No, non dire niente. So cosa stai per dire. Ma non c'è bisogno che tu lo dica: lasciamo le cose come stanno. Sarà tutto come prima. Non morirò per un amore non corrisposto." Lei lo guardò, sorpresa di sentirlo parlare di un argomento così... estraneo. Si era sempre chiesta se lui l'amasse. Lei lo amava, in un certo senso. Ma non era importante: la cosa era stata accettata molto tempo fa. E il loro rapporto era stato tacitamente stabilito, e di sicuro l'amore non poteva disturbare quell'equilibrio, adesso. Quando girò la testa verso di lei, Wilson le vide un'espressione sconvolta sul viso. Lei sapeva che il rimmel le era colato via insieme alle lacrime, e che aveva la faccia stravolta dalla paura. "Che cosa mi è successo?" domandò. Quella voce non era più la sua, distorta com'era dall'ondata di emozioni. "Che cosa stava succedendo laggiù?" "Non lo so, Becky. Ma credo che faremo meglio a scoprirlo." Lei rise. "Oh, questo è sicuro! Non so proprio se ce la farò. Abbiamo dei
seri problemi, stavolta." "Già. E uno di questi problemi sei tu. Non voglio essere scortese, ma sto per infrangere una mia regola fondamentale. Cambiamo posto, guido io." Becky cercò di nascondere la sorpresa. In tutti gli anni in cui avevano lavorato insieme, questo era un precedente assoluto. "Devo essere a pezzi," disse mentre si accasciava nel posto che di solito occupava Wilson. "Dev'essere grave." "No, non è grave. Sei solo scossa. Però non dovresti esserlo. Voglio dire che non eri tu in pericolo, ma io." "Tu! Ma se cercavano di attirare me, di sopra!" "Per allontanarti da me." "Ma come fai a dire una cosa del genere? Tu sei un uomo, molto più pesante di me. Non sei un bersaglio tanto facile." "Ho sentito dei rumori sulle scale dall'altro lato dell'atrio. Respiri ansimanti, come di qualcosa che ha fame e sbava pensando al cibo." Il tono della sua voce la terrorizzò. Come autodifesa scoppiò a ridere, in modo talmente rumoroso da far sussultare visibilmente Wilson. Lui la guardò con la coda dell'occhio, continuando a guidare. "Scusa. È solo che tu sei l'ultima persona a cui penserei, tra le loro possibili vittime." "Perché?" "Beh, le mangiano, no? Non è questo il punto? Tutti quelli che sono stati uccisi sono stati anche mangiati." "Vecchi, drogati e due poliziotti in un dannato posto fuori dal mondo. I deboli e gli isolati. Sono stati questi i due fattori a cui ho pensato, in quella casa: un uomo più anziano, isolato da tutti eccetto che da te. E infatti ti avevano quasi attirato di sopra. Vai mai a caccia?" "No, mai. Non mi piace." "Quand'ero bambino andavo a caccia con mio padre. Inseguivamo gli alci, su nel nord. A volte seguivamo le loro tracce per giorni. Un'estate per una settimana addirittura. E finalmente arrivammo vicino al nostro alce, era un grosso, vecchio animale, che zoppicava, a giudicare dalle sue orme. Un animale ferito. Debole, pronto per essere macellato. Non me lo dimenticherò mai. Eravamo pronti a sparare quando dei lupi sbucarono dall'ombra che ci circondava. Ci passarono davanti e si diressero verso la radura dove l'alce stava pascolando. Mio padre imprecò sottovoce — quei lupi ci stavano facendo scappare il nostro trofeo. Ma non andò così; l'alce abbassò gli occhi verso quei lupi tutti pelle e ossa e non fece altro che sbuffare.
Quelli si avvicinarono e lui smise di pascolare e li fissò. Non ci crederai: i dannati lupi scodinzolarono! Poi l'alce fece un gran muggito, e loro gli saltarono addosso. Lo sbranarono e lo dissanguarono a morte. Noi guardavamo la scena affascinati, incapaci di muoverci: era come se tutti fossero d'accordo su quell'uccisione. I lupi e l'alce erano d'accordo. Lui non ce la faceva più, e loro avevano bisogno di carne. Così si lasciò prendere. E sì che quei cani lupo erano magri magri, sono come pastori tedeschi. Dal loro aspetto non si direbbe mai che riuscirebbero ad abbattere un alce maschio adulto; e non l'avrebbero fatto, se lui non fosse stato d'accordo." Lui la guardò ancora, tenendo appena d'occhio il traffico. Oggi non guidava meglio di lei. "E tutto questo cosa significherebbe?" "In questa versione della storia, io ero l'alce maschio. Non avevo paura, ma sapevo che stavano scendendo giù per quella scala. Se si fossero avvicinati un po' di più, credo che ora sarei finito." "Ma tu non volevi che ti uccidessero! Noi non siamo come gli animali, noi vogliamo sopravvivere." "Non so a cosa stavo pensando in quel momento," disse. Ma dal tono soffocato e rauco della sua voce capì che se non fosse stato Wilson si sarebbe messo a singhiozzare. "So solo che se si fossero avvicinati ancora, io forse non avrei neanche cercato di fermarli." CAPITOLO QUARTO Becky Neff si svegliò di soprassalto da un sonno agitato. Ebbe la sensazione d'aver udito un rumore, eppure ora non sentiva altro che il vento e il leggero fruscio della neve sui vetri. Il bagliore dei lampioni giù in strada si rifletteva sul soffitto. In lontananza, un camion se ne andò con un rumore di ferraglia lungo la Seconda Avenue. Le lancette dell'orologio segnavano le tre e quarantacinque. Aveva dormito quattro ore. Ricordò vagamente il sogno che stava facendo — il bagliore rosso del sangue e una nauseante sensazione di pericolo. Forse era stato questo a svegliarla. Il respiro regolare di Dick, che dormiva accanto a lei, la rassicurò. Un rumore insolito avrebbe svegliato anche lui. Lo toccò delicatamente, pensando a come erano cambiate le cose tra loro in così poco tempo, e a come gli avvenimenti della vita possano incrinare anche l'amore più forte. Fu presa dalla tristezza e dalla paura. Faceva freddo, e il tepore del mattino era ancora lontano. "Dick," disse piano.
Non ebbe risposta. D'altronde non l'aveva chiamato abbastanza forte da svegliarlo; non riprovò. Poi si sporse verso il comodino per prendere le sigarette, e le si gelò il sangue nelle vene. C'era un'ombra sul soffitto. La vide muoversi lentamente, era una massa che pareva strisciare sul ventre lungo il terrazzo della stanza da letto. In una frazione di secondo pensò alle porte scorrevoli — erano chiuse a chiave? Non ne aveva idea. Poi l'ombra sparì e lei si trovò ancora sdraiata, nella stessa posizione di prima. Come spesso accade con i brutti sogni, questo era continuato anche dopo il suo apparente risveglio. A questo pensiero il cuore smise di martellarle nel petto. Ma certo, era stato un brutto sogno. Niente riuscirebbe ad arrampicarsi su per sedici piani, fino al terrazzo di un appartamento. Eppure non riusciva a liberarsi della sensazione che là fuori c'era davvero qualcosa. Dopotutto, quel sogno doveva esser stato causato da qualcosa, che l'aveva anche svegliata. Mentalmente rivide per un attimo i volti mutilati di Di Falco e Houlihan. Pensò ai loro occhi sbarrati, mentre giacevano in mezzo al fango. E pensò a Mike O'Donnel, il vecchio cieco che era passato a un'altra oscurità, eterna questa volta. Che aspetto avevano gli assassini? Aveva immaginato che fossero simili a lupi, ma forse non era così. Sapeva che i lupi non sarebbero mai stati i responsabili di un'uccisione umana. In genere non sono più pericolosi dei cani, per l'uomo. I lupi erano interessati agli alci e ai cervi. E probabilmente avevano più paura dell'uomo di quanto l'uomo non ne avesse di loro. Un piccolo rumore fuori le diede un senso di vertigine alla testa, mentre un brivido freddo le correva per tutto il corpo. Era un brontolio molto basso e confuso. Erano veramente qui! Chissà come, erano riusciti a fare l'impossibile, l'avevano seguita fin qui. Probabilmente avevano sentito il suo odore in quella casa del Bronx, seguendone poi la scia. Le stavano dando la caccia! Si sentì raggelata, senza poter parlare né muoversi. Era paura, lo sapeva, una paura così intensa che la sua mente vagava in un mondo tutto suo e guardava il corpo come in lontananza. Riuscì a muovere la mano e iniziò a scuotere suo marito, dall'altra parte del letto. Sentì la propria voce pronunciare il suo nome più volte, sussurrandolo con urgente intensità. "Cosa..." "Non far rumore. C'è qualcosa fuori." Egli estrasse il revolver d'ordinanza dal cassetto del comodino. Solo allora anche a lei venne in mente di fare lo stesso. La confortò sentire la propria pistola in mano. "Sul terrazzo," disse.
Dick si alzò lentamente e andò verso la porta. Quindi aprì con gran rapidità le tende e uscì fuori. Il terrazzo era vuoto. Si girò verso di lei, stringendosi nelle spalle. "Qui non c'è niente." "Prima c'era qualcosa." Dicendo questo, si convinse ancora di più. Qualche attimo prima aveva visto l'ombra, sentito il ringhio — ed erano sicuramente reali. "Che cosa?" "Non lo so. Qualche specie d'animale." "Un gatto?" "No, non credo." Egli tornò a letto, infilandosi accanto a lei. "Sei molto coinvolta in questo caso, non è vero tesoro?" La delicatezza della sua voce la colpì, facendola sentire più sola che mai. Nonostante sentisse il bisogno di abbracciarlo rimase dalla sua parte del letto. "È uno strano caso, Dick." "Ma non ti far prendere troppo, cara. E solo un caso come un altro." A causa di quell'affermazione, la sensazione di paura che provava si trasformò in rabbia. "Non mi criticare, Dick. Se tu stessi lavorando su delitti come questi ti sentiresti esattamente così — se fossi onesto con te stesso." "Io non mi agiterei così." "Io non sono agitata!" Dick rise, con un risolino di condiscendenza. Il grande poliziotto forte come una roccia, con la sua fragile mogliettina. "Non prendertela, piccola," disse lui tirandosi la trapunta sopra la testa. "Prenditi un Valium, se sei sconvolta." Quell'uomo era capace di farla infuriare. "Ti dico, George, che sono sicurissima di quel che ho visto!" Lui fissava l'altro lato della stanza, dove c'era la finestra dai vetri appannati. Pur non essendo ancora previsto che si occupassero ufficialmente del caso, era stato assegnato loro un ufficio appartenente alla Divisione Investigatori di Manhattan South. "È abbastanza difficile da credere," disse Wilson. "Sedici piani sono tanti." Quando la guardò, i suoi occhi avevano un'espressione di supplica — doveva sbagliarsi, oppure voleva dire che si trovavano di fronte a una forza di proporzioni assolutamente incontrollabili. "Posso dire solo questo: è successo. E anche se tu non mi credi non farà male prendere delle precauzioni."
"Forse sì e forse no. Sapremo meglio cosa abbiamo di fronte quando avremo parlato col tipo che stiamo per andare a trovare." "Quale tipo?" "Il tizio a cui Tom Rilker ha dato un po' di quei calchi di impronte animali. Ti ricordi di Tom Rilker?" "Certo, quello strano tipo dei cani." "Bene, Rilker ha dato le impronte che avevamo lasciato nel suo ufficio a un'altra persona che vuole vederci. Così magari lui ci dirà che cos'era quel che hai visto." "Maledizione, hai un modo talmente spregevole di insinuare le cose. Quando andiamo da questo genio?" "Alle dieci e mezzo, al Museo di Storia Naturale. E un impagliatore di animali o qualcosa del genere." In macchina non parlarono. Il fatto che stessero tentando anche questa via testimoniava la loro crescente disperazione. Ma almeno stavano facendo qualcosa per questo problema, invece di lasciar passare ancora del tempo. E pareva proprio che il tempo fosse terribilmente importante. "Per fortuna non ci stanno caricando di lavoro, in questi giorni," disse Becky per rompere il silenzio. Da quando il caso era stato "chiuso", a lei e a Wilson non erano più stati affidati lavori grossi. Prima o poi sarebbero stati trasferiti in qualche posto preciso, invece di rimanere nel limbo, dipendenti direttamente dal capo degli investigatori. Magari tornavano a Brooklyn, che differenza faceva? Almeno non sarebbero stati vittime della politica interna d'alto livello. "Underwood è al corrente di ciò che stiamo facendo." "Credi davvero?" "Certo. Perché pensi che non ci stiano affidando altri casi? Underwood sta osservando come vanno le cose. Se scopriamo qualcosa che possa tornargli utile, bene. Se invece facciamo qualche errore possiamo sempre essere rimproverati per insubordinazione." Rise. "Sa esattamente quel che stiamo facendo." "Gliel'ha detto Evans, suppongo." Wilson sorrise. "Certo. Probabilmente ha telefonato ad Underwood e gli ha detto che faceva meglio a lasciarci fare. Forse Underwood non ne è stato molto contento, visto che è stato lui stesso a chiudere il caso Di Falco, ma ha paura di Evans, e quindi il risultato è che noi siamo tra due fuochi, qualsiasi decisione prendiamo." "Ecco il dannato museo."
Salirono l'ampia scalinata di pietra, passarono oltre la statua di Teddy Roosevelt e si trovarono nell'immenso salone mal illuminato che costituiva l'atrio del museo. "Dobbiamo vedere un certo dottor Ferguson," disse Wilson alla donna seduta dietro al banco delle informazioni, che, dopo aver parlato un attimo al telefono, rivolse loro un sorriso. Nei laboratori del museo regnava un'incredibile baraonda. C erano mucchi di ossa, scatoloni pieni di piume, becchi, crani, animali e uccelli in vari stadi di ricostruzione sui tavoli e nelle casse. Nel caos generale erano sparsi qua e là colla, vernici, attrezzature e ossa varie. Un uomo alto con indosso un camice grigio apparve da dietro uno scatolone pieno di gufi impagliati. "Sono Carl Ferguson," disse con una voce possente e allegra. "Stiamo preparando gli uccelli del Nord America, ma ovviamente non è per questo che vi ho chiamato." Per un istante Becky vide un brivido attraversargli la faccia, subito sostituito però da un sorriso. "Andiamo nel mio ufficio, anche se è in disordine. Ho qualcosa da mostrarvi." Quel qualcosa era sulla scrivania dell'ufficio, sopra un pezzo di plastica. "Mai visto qualcosa di simile?" "Che diavolo è?" "Una ricostruzione che ho fatto basandomi sui calchi di orme che Tom Rilker mi ha dato. Qualunque animale abbia lasciato quelle orme aveva zampe molto simili a questa." "Mio Dio. Sembra talmente..." "Letale. È esattamente questo. Un'arma efficace. Una delle migliori che io abbia mai visto in natura, veramente." Poi disse, sollevandola: "Queste lunghe dita dotate di articolazioni sono capaci di afferrare piuttosto bene, credo. E gli artigli sono retrattili. In modo stupendo e molto strano." Scosse la testa. "C'è solo una cosa che non va." "E cioè?" "Non può esistere. E una mutazione troppo perfetta. Non ha nessun difetto. Inoltre, rispetto ai suoi antenati canini ha subito un'evoluzione almeno tre volte superiore. Se si trattasse di un'unica mutazione sarebbe ancora accettabile, ma qui abbiamo riscontrato le orme di cinque o sei animali: devono essere un branco." Si rigirò in mano il calco di gesso. "Le possibilità che questo esista sono una su un miliardo — un milione di miliardi." "Non è impossibile, però?" Egli porse il calco a Wilson, che lo guardò senza toccarlo. "Abbiamo qui la prova. Voglio saperne di più sulle creature che hanno prodotto queste
impronte. Rilker non è riuscito a darmi la benché minima informazione. Ecco perché vi ho chiamato. Non volevo essere coinvolto in questa storia, ma francamente sono curioso." Wilson sorrise debolmente. "Lei è curioso," disse. "Carino da parte sua. Siamo tutti curiosi. Ma non possiamo aiutarla. Lei ci ha appena detto molto di più di quanto ne sappiamo noi, ed è l'unico che possa rispondere alle domande." Lo scienziato sembrò perplesso e un po' triste. Si tolse gli occhiali, e poi si lasciò cadere sulla sedia e rimise il calco sulla scrivania. "Mi dispiace sentirvi dire questo. Speravo che mi poteste dare maggiori informazioni. Ma credo che non vi rendiate conto di quanto poco io sappia. Da dove provenivano quelle orme — questo potete dirmelo?" "Dal luogo di un delitto." "Oh, andiamo, George, non dire le cose col contagocce! Provengono dalla scena del delitto di Di Falco e Houlihan, a Brooklyn." "I due poliziotti?" "Esattamente. Sono state trovate tutt'intorno ai corpi." "E che cosa si sta facendo per risolvere il caso?" "Proprio niente," rispose bruscamente Wilson. "Al momento il caso è ufficialmente chiuso." "E queste orme, allora? Voglio dire, ci sono prove certe che sta succedendo qualcosa fuori dall'ordinario. Questa non è una zampa di cane o di lupo, ve ne rendete conto? Sicuramente qualcuno deve fare qualcosa in proposito." Wilson scoccò un'occhiata a Becky, e continuò a guardarla con un'aria di sorpresa. Lei provò un misto di confusione e compiacimento — non per ciò che quell'occhiata le aveva comunicato, ma per il modo in cui lo sguardo aveva indugiato nel suo. "Nessuno sta facendo niente, dottore," disse. "Ecco perché siamo qui. Siamo gli unici due poliziotti di New York a occuparci di questo caso, che stanno per riaffidarci." "Rendetevi conto che questi artigli appartengono ad un terribile assassino." Lo disse come se si trattasse di una rivelazione. "Lo sappiamo," rispose Becky con pazienza. E ancora una volta rivide mentalmente i volti dei morti. Il dottor Ferguson sembrò ritirarsi in se stesso. Le mani gli penzolavano lungo i fianchi e il capo era chino. Becky aveva visto altre volte questo tipo di reazione allo stress, di solito in coloro che si trovavano inaspettatamente in presenza di assassini. "Quante persone sono morte?" domandò.
"Finora cinque, che noi sappiamo," rispose Wilson. "Probabilmente ce ne sono stati altri," disse Ferguson debolmente, "forse molti altri, se i miei sospetti sono giusti." "Sarebbe a dire?" Egli aggrottò la fronte. "Non posso dirlo adesso. Non ne sono sicuro. Se dicessi qualcosa di sbagliato danneggerei la mia carriera. Potremmo avere a che fare con qualcuno che ha organizzato una terribile messinscena. Non voglio cadere in qualche tranello." Wilson sospirò. "Ha una sigaretta?" chiese. Ferguson gli porse un pacchetto. Wilson ne prese una, strappò via il filtro e l'accese. Fece tutto molto in fretta, in modo che Becky non avesse il tempo di fermarlo. "Vede, lei non dovrebbe nasconderci nulla. Se non ci dice cosa pensa noi non saremo in grado di aiutarla." Lo scienziato la guardò fisso. "Senta, se io cado in una trappola — se io mi butto a capofitto in questa faccenda e poi dovesse venir fuori che è tutto un trucco — perderei la mia reputazione. Non so cosa ne sarebbe di me. O forse lo so. Finirei a insegnare in qualche oscuro istituto, senza nemmeno riuscire a diventare di ruolo." Scosse la testa. "Non è una carriera molto interessante." "Lei non sta presentando una dissertazione, in questo caso. Sta parlando in tutta riservatezza con due agenti della Polizia di New York City. C'è una certa differenza." "Anche questo è vero. Forse sto esagerando." "Allora ci dica la sua teoria. Per l'amor di Dio, ci aiuti!" Wilson urlò queste parole, interrompendo improvvisamente la rumorosa confusione nel laboratorio adiacente al piccolo ufficio. "Mi scusi," disse con tono più sommesso, "credo d'essere un po' agitato. Le uniche persone ad avere un lontano sospetto di quel che abbiamo di fronte siamo io e la mia socia qui presente. E abbiamo avuto delle brutte esperienze." Becky s'intromise. "Questi esseri non si limitano a uccidere, ma danno letteralmente la caccia alle loro vittime. Qualche giorno fa, nel Bronx, stavano per prenderci. Erano nascosti al piano superiore. Uno di loro ha cercato di attirarmi con le grida di un bambino, mentre gli altri..." "Mi facevano la posta. Cercavano di separarci." "E io credo che fossero fuori dal mio appartamento, la notte scorsa." Entrambi avevano parlato precipitosamente, spinti da una crescente sensazione d'isolamento. Ora lo sguardo di Ferguson era pieno d'orrore, quasi come se vedesse su di loro un marchio ripugnante.
"Probabilmente vi sbagliate. Non possono essere tanto intelligenti." Becky sbatté le palpebre per la sorpresa: non aveva mai pensato a questo. Non solo erano letali, erano anche intelligenti! Dovevano essere dannatamente astuti per attirare lei e Wilson in quella scala, e per essere andati a scovarla nel suo appartamento. Conoscevano di certo il loro nemico e l'importanza di distruggerlo prima che rivelasse la loro presenza al mondo. Wilson si muoveva come in sogno; si toccò lentamente la guancia, poi seguì con le dita il ruvido contorno della gola, fino alla cravatta logora. Quindi ripose di nuovo la mano. Via via che questa nuova realtà prendeva forma anche nella sua mente, le sopracciglia gli si aggrottavano scavando un solco profondo, e la bocca si aprì in modo quasi sensuale, come se si fosse addormentato e stesse sognando l'amore. "Anch'io cominciavo a sospettare che fossero intelligenti. Dica pure quel che vuole, dottor Ferguson, quel che è successo è realtà. Sa una cosa? Scommetto che non sono saltati fuori dal nulla neanche ieri. Se sono intelligenti sanno come nascondersi bene — e sanno anche quanto sia importante farlo. Questa è la mia opinione." "Beh, è molto simile alla teoria che non volevo dirle. Però dovete procurarmi un cranio o una testa. Allora potrò darvi un'idea della loro intelligenza. Ma non vi preoccupate, sono sicuro che noi siamo molto più astuti." "Dottore, come sarebbe uno scimpanzé dotato delle capacità sensoriali di un cane?" "Letale... Oh, Dio, capisco quello che vuole dire. Se i loro sensi sono molto sviluppati non hanno bisogno della nostra intelligenza per avere la meglio su di noi. Credo sia così. L'idea di percezioni canine abbinate a un cervello da primate è molto inquietante." "E c'è di più." "Cosa vuole dire?" "Cristo, pensavo che avesse capito quando Becky ha detto di sentirsi inseguita!" Quella veemenza la sorprese. Sotto lo strato di calma professionalità appariva un Wilson che non aveva mai visto. Davanti a lei c'era un uomo capace di grande intensità e sentimento, protettivo, arrabbiato, pieno di violenza. La superficie di cinismo era scomparsa, rivelando un dolore bruciante. "Per favore, non alzi la voce. Non vorrei confusione, qui. Va bene, ammettiamo che fosse inseguita. Siete voi che dovete fare qualcosa, la polizia siete voi." "Stronzate. Non sappiamo che diavolo abbiamo di fronte."
"E io non posso aiutarvi se non ho ulteriori informazioni. Non farò supposizioni che potrebbero venir riportate dai giornali. In ogni caso sta a voi proteggere la società, perciò proteggetela. Il mio interesse è strettamente scientifico. Quindi portatemi una testa. Se volete che risponda alle vostre domande devo avere una delle loro teste." Wilson teneva il mento incassato nel collo, e le spalle curve. "All'inferno, conti pure su di noi! Portarle una testa — non possiamo assolutamente portarle una testa e lei lo sa. Nessuno ha mai preso uno di quegli esseri. Anche se si sono evoluti con una velocità assoluta, da quanto tempo esistono?" "Come minimo — e una cosa del genere sembra molto vicina all'impossibile — diecimila anni." "Risalgono a un tempo più remoto delle prime testimonianze storiche umane e lei vuole che le portiamo una testa! Andiamo via di qui, Investigatore Neff, abbiamo delle cose serie da fare." Si alzò e uscì. "Solo un'ultima cosa," disse Becky uscendo, "vorrei che pensasse solo a una cosa. Se ci stanno seguendo probabilmente sanno che siamo venuti qui da lei." Poi seguì Wilson e lasciò lo scienziato a fissare la porta. Wilson non parlò più finché non ebbero attraversato il museo semivuoto e furono in macchina. "Hai detto cose inutili a quell'idiota," disse. "Non ci crederà, anche se cerchiamo di metterlo di fronte all'evidenza." "Può darsi di no. Comunque il fatto di avere un professore come lui dalla nostra parte ci aiuterebbe di certo. Pensa a cosa succederebbe se quel tipo andasse da Underwood e gli dicesse: quei due poliziotti sono sulla buona strada." "No, Becky. Non andrà così." Guidarono in silenzio per qualche minuto. "Forse siamo ossessionati," disse Wilson. "Forse era solo la nostra immaginazione, ieri notte." "La nostra?" "Anch'io ho visto qualcosa." Lo disse come controvoglia. "Qualcosa mi guardava da una scala di sicurezza, mentre stavo andando a casa. Era un cane dall'aspetto maledettamente strano. L'ho visto solo di sfuggita e poi è sparito. Non ho mai visto un muso simile in un cane — così intenso. A dir la verità, non ho mai visto una faccia del genere, tranne che una volta, quando arrestai un maniaco. Mi guardava nello stesso modo; il motivo era che il bastardo stava per darmi una coltellata a tradimento." "Perché non ne hai parlato prima?" "Speravo che fosse la mia immaginazione. Credo che siamo nei guai,
Becky." Disse l'ultima frase in tono sommesso, come se avesse timore di pronunciare quelle parole. Entrambi sapevano qual era la posta in gioco. Becky provò un senso di nausea. Wilson, che sedeva accanto a lei solido come una statua, non le era mai parso così fragile. Sentì il desiderio di proteggerlo. Riusciva a immaginare quell'essere sulla scala di sicurezza — ne immaginava gli occhi vogliosi, intenti, e il senso di frustrazione che doveva aver provato verso tutta quella folla che riempiva i marciapiedi; immaginava la rabbia silenziosa che lo invadeva mentre Wilson camminava tranquillo per la sua strada, protetto da tutti quei testimoni ignari. "George, non posso crederci. Sembra tutto così lontano dalla realtà. E se non è del tutto reale non sono sicura che sarò in grado di affrontarlo." "È già accaduto prima, Becky. Ci sono persino delle leggende su questa faccenda." Attese con ansia che l'altro aggiungesse qualcosa, ma evidentemente a lui non sembrò necessario continuare. Era tipico di Wilson, sprofondare nel silenzio dopo aver fatto un'affermazione di quell'importanza. "Su, va' avanti. Dove vuoi arrivare?" "Stavo solo pensando... ricordi quello che hai detto a Rilker a proposito dei lupi mannari? Magari non ti sbagliavi di molto." "Questo è ridicolo." "Non direi. Mettiamo che siano esistiti sin dai tempi delle prime testimonianze storiche. Se sono davvero intelligenti come crediamo, la gente del passato potrebbe aver creduto si trattasse di uomini che si trasformassero in lupi." "E poi cos'è accaduto? Perché le leggende sono scomparse?" Wilson sollevò il ginocchio contro il cruscotto e sprofondò nel sedile. "Forse il motivo sta nel fatto che la popolazione mondiale è cresciuta. Nel passato le loro aggressioni venivano notate perché c'era così poca gente. Man mano che la popolazione è aumentata, però, hanno iniziato a concentrarsi sulla feccia, sulla gente isolata, dimenticata — gente che non aveva nessuno. Tipici predatori, da questo punto di vista: attaccano solo i deboli." Gli lanciò un'occhiata mentre guidava. "Penso che sia un'idea assurda," disse. "Non credo che questa sia una buona notizia per te e per me, comunque." Egli rise. "Noi non siamo deboli. Ciò significa che staranno molto attenti. Inoltre di loro non si sa nulla, il che vuol dire che coprono le loro tracce con molta accuratezza."
Vuol dire che danno la caccia a gente come noi, pensò Becky mentre guidava l'auto nel traffico. Era come un brutto sogno, questa sensazione d'essere perseguitati. La sua mente continuava a ritornare all'ombra sul soffitto, l'ombra sul soffitto... la paziente ombra che aspettava quell'unico, perfetto istante in cui poter distruggere la donna che conosceva il suo segreto. Il mondo girava vorticosamente intorno a lei e a Wilson, un mondo di luci e voci e calore — eccetto che per quella sagoma guizzante, quell'ombra pronta a balzare all'inseguimento. "È assurdo che nessuno ci creda," disse Wilson. "Voglio dire, è assurdo che quegli... esseri stiano perdendo tempo a darci la caccia, visto che non potremmo rivelare la loro esistenza neanche volendolo." Si strofinò la faccia con le mani. "Tranne che forse a Rilker ed Evans. Anche a Ferguson, se smettesse di preoccuparsi di quel che diranno su Science News. Però potremmo riuscire a convincere Rilker ed Evans — maledizione, non m'importa che cosa pensano ci stia dando la caccia, basterebbe convincerli che siamo in pericolo e che ci serve aiuto!" Si girò e la guardò con un'aria smarrita. "Sai una cosa? Quel Ferguson è un'idiota di prima categoria. Penso che fosse attratto da te." È geloso, pensò Becky, e non se ne rende neanche conto. "Mi sono accorta che era un idiota dal primo momento che l'ho visto," disse lei; "ne aveva tutta l'aria." Ecco, ora Wilson sarà contento. Come previsto, lui allungò il braccio sul sedile. "Mi piace quando metti quel profumo." "Non ho nessun profumo addosso." "Allora dev'essere il tuo deodorante. E molto buono." "Grazie." Poveretto, i suoi sforzi erano davvero terribili. Provò una fitta di compassione per lui; la sua solitudine le saltava sempre di più agli occhi. "Sei molto carino a dirmi questo," si sentì dire, ma le parole suonavano false. Dovettero suonare false anche a lui, perché non disse più niente. Quando raggiunsero i Quartieri Generali della Polizia Becky fermò l'auto in un'affollatissima strada vicina, piuttosto che avventurarsi nel grande garage vuoto sotto l'edificio. "Dobbiamo cercare di convincere Underwood a darci un reparto di inviati in missione speciale," disse Becky quando furono nel loro ufficio. Wilson annuì. Sedette e sfogliò le carte ammucchiate sulla scrivania: una copia del Times del giorno prima, coperta di cerchi lasciati dalle tazze di caffè, i cruciverba del New York Magazine e una mezza dozzina di pro-
memoria dal dipartimento. "Nessuno ci chiama mai," disse. "Allora chiamiamo noi Underwood. Dobbiamo far qualcosa, non possiamo stare qui a marcire." "Non dire così! Mi fa uno strano effetto alle budella. Perché non chiami tu Underwood? Pronto, parla l'Investigatrice con la I maiuscola. Capito quale? Dunque, per favore assegnatemi una squadra di protezione speciale. Vede, ci sono i lupi mannari che mi danno la caccia. Così avremo sicuramente un po' d'azione." "Sì, un invito dei Servizi Psichiatrici e una nota riservata nell'archivio del personale. Lo so. Ma noi non vogliamo protezione, vogliamo eliminare la minaccia!" "Credi che sia possibile, Becky?" "Dobbiamo provarci." "Perciò chiameremo Evans e Rilker e cercheremo di portarli dalla nostra parte. E forse anche lo scienziato parlerà a nostro favore, se Rilker lo convince. Sono successe cose anche più strane. Magari riusciremo ad avere almeno una squadra speciale temporanea, con abbastanza uomini da riuscire a scoprire qualche prova decisiva." Becky non si sentiva particolarmente fiduciosa, ma prese ugualmente il telefono. Wilson non si offrì nemmeno di dare una mano, in quel caso; entrambi sapevano che il suo intervento sarebbe stato quantomeno controproducente, nel cercare di convincere qualcuno ad aiutarli. Evans ascoltò il racconto. Rilker disse che aveva sospettato qualcosa di simile. Ferguson si dichiarò disposto a partecipare alla riunione purché niente giungesse agli orecchi della stampa. Becky pensò di proporgli in prestito una barba finta e degli occhiali neri, ma poi lasciò perdere. "Hai fatto centro tre volte," disse Wilson, "sei irresistibile." "Su, adesso non diventare geloso. Ora tu non devi fare altro che ottenere un appuntamento con Underwood." Nonostante la sua mancanza di abilità nel trattare con la gente, Wilson non poteva assolutamente esimersi dal compito di chiamare Underwood. Era l'uomo col grado più alto della squadra, e già il semplice fatto d'essere in contatto diretto col capo degli investigatori rappresentava una rottura della gerarchia. Ufficialmente, Neff e Wilson non appartenevano a nessuna divisione in particolare, per il momento. Il capo li stava tenendo in fresco finché non fosse stato sicuro che il caso Di Falco non nascondesse ulteriori
sorprese. Ovviamente non era del tutto convinto d'aver fatto bene a chiudere velocemente il caso. Lasciando che Wilson e Neff apparentemente se ne occupassero, avrebbe potuto impedir loro di scoprire nuove prove imbarazzanti, e contemporaneamente coprirsi le spalle qualora le cose fossero andate diversamente: poteva sempre dire d'aver fatto in modo che una squadra speciale si occupasse della faccenda per tutto il tempo. Non voleva che quell'inchiesta fosse riaperta, ma era comunque preparato a quest'evenienza. Per lui questa era un'ottima soluzione del problema. Per Neff e Wilson era un'agonia — non sapevano da chi dipendessero esattamente, né lo sapevano gli altri. Ciò significava non poter fare niente di concreto. Non potevano utilizzare le risorse di Manhattan South — a parte uno squallido ufficio. E la divisione di Brooklyn li considerava degli estranei. Così avevano solo loro stessi, e l'aiuto che potevano ottenere al di fuori del dipartimento. Era ormai chiaro che ciò non sarebbe bastato. Quando Wilson ottenne finalmente la comunicazione, Underwood fu gentile. Fissò una riunione per le tre e non chiese nemmeno di cosa si trattasse. Perché avrebbe dovuto, d'altronde — sapeva benissimo che c'erano solo due argomenti di conversazione: uno era riaprire il caso Di Falco, e l'altro riaffidare loro quel caso. E lui aveva una sola, semplice risposta per entrambe le richieste: no. "Abbiamo un paio d'ore, potremmo benissimo andare a mangiare a Chinatown." Wilson guardò fuori dal finestrino. "Sembra che ci sia parecchia gente per strada. Credo che possiamo andarci." Presero un taxi. Malgrado la folla, sembrava il mezzo più sicuro per spostarsi. Pell Street, il centro di Chinatown, era pieno di gente e d'allegria. Scesero dal taxi, e Becky si sentì un po' più a suo agio, mentre Wilson studiava attentamente le scale di sicurezza e i vicoli. Becky decise per un ristorante che non le ricordasse i tempi in cui era fidanzata con Dick, ma che non fosse neanche una delle squallide trattorie che Wilson avrebbe scelto. A lui piaceva spendere meno di due dollari, per mangiare. E quando offriva cercava di spendere ancora meno, se la sua vittima non stava bene all'erta. Becky stette molto all'erta. Durante il pranzo parlarono poco, perché lui faceva il muso, a causa del conto salato. O almeno lei pensava fosse per quello, finché non parlò. "Mi chiedo che effetto farà."
"Perché diavolo stai dicendo una cosa del genere?" "Niente. Stavo solo pensando." Becky vide che aveva il volto terreo. Nella sinistra aveva il tovagliolo, che teneva premuto in mezzo al petto come per stagnare il sangue di una ferita. "Non riesco a togliermi dalla testa quella maledetta zampa." Le labbra si ritirarono fino a scoprire i denti e il sudore gli imperlò le guance e la fronte. "Continuo a immaginarmela mentre mi strappa la camicia, mi afferra. Dio solo sa se è possibile far qualcosa, una volta che un affare del genere ti ha preso." "Ehi, aspetta un momento. Ascoltami. Ti stai facendo prendere dalla paura. Posso capirti, George, ma non puoi permettertelo. Non puoi permetterti di impaurirti! Non possiamo lasciare che questo accada. Perché in tal caso ci sarebbero subito addosso. Ho la sensazione che l'unica cosa che li abbia trattenuti dal farlo prima sia il fatto che non avessimo paura." Lui sorrise debolmente, come spesso faceva. "Non fare così, voglio che tu mi prenda sul serio. Ascoltami — senza di te non ho alcuna speranza." Le proprie parole la sorpresero. Fino a che punto era sincera? In modo profondo, quanto la sua vita, fu l'immediata risposta. "Ce la faremo, vedrai." "In che modo?" Era una domanda piuttosto innocente, ma in quelle circostanze indicava una debolezza che lei sperava non ci fosse. "In qualsiasi dannato modo ci sarà possibile. Ora taci e lasciami finire il pranzo in pace." Mangiarono meccanicamente. A Becky sembrava che il cibo avesse un sapore di metallo. Aveva un disperato desiderio di girarsi, per vedere se la porta dietro di sé portava in cucina o nel seminterrato. Ma non lo fece, per il bene di Wilson. Non aveva senso aggiungere la propria paura alla sua. "Forse l'artiglio è quello di cui abbiamo bisogno. Quando il capo lo vedrà, magari comincerà a convincersi che abbiamo ragione." "Non mi sono nemmeno ricordata di chiedere a Ferguson di portare quel maledetto aggeggio." "Lo farà, non preoccuparti. È molto orgoglioso di quell'artiglio." "Non gli do torto. Lo può usare come un coltello." Wilson ridacchiò e finì di sorseggiare il tè: apparentemente la paura era scomparsa. Ma teneva ancora il tovagliolo stretto convulsamente sul petto. Non appena raggiunsero i quartieri generali, si diressero verso l'ufficio di Underwood. Si trattava in realtà di una "suite" di uffici, e in quello più esterno c'era il tipo di donna poliziotto che piaceva di meno a Becky: la
dattilografa in divisa. "Lei è Becky Neff," disse la donna quando i due entrarono; "il capo degli investigatori aveva detto che sarebbe venuta. Sono molto lieta di conoscerla." "Molto lieta, tenente," bisbigliò Becky. "Le presento il mio socio, l'Investigatore Wilson." Wilson guardava oltre, con aria dubbiosa. Ma sulla parete che stava fissando non c'era altro che una scena di caccia. "Wilson — ti sto presentando." "Oh! Già, certo, come va? Ha una sigaretta?" "Non fumo, al capo non piace che si fumi." "Già. Che cosa sta facendo? Dobbiamo vederlo alle tre." "Sono solo le due e tre quarti. È ancora nell'altra riunione." "È ancora a pranzo, vuol dire. Perché non mi fa schiacciare un pisolino sul divano del suo ufficio? Devo smaltire quasi un chilo di pollo alla chow mein." Il tenente lanciò un'occhiata a Becky, ma continuò senza fare pause: "No, veramente c'è lui nell'ufficio. Ha qualcuno dal Museo di Storia Naturale e il dottor Evans..." Entrarono. "Scusate il ritardo," borbottò Wilson. "Siamo stati fermati dal genio della casa." "Beh, non siete in ritardo. Siete in anticipo di un quarto d'ora. Ma dato che queste persone erano già qui ho pensato che si potesse cominciare. Vi conoscete tutti?" "Sì, li conosciamo," disse Wilson. "Qualcuno fuma, qui?" "Io non ho portaceneri, " disse Underwood in tono deciso. Wilson prese una sedia, accavallò le gambe e sospirò. Ci fu un silenzio. Il silenzio continuò. Lo sguardo di Becky si spostò da un volto all'altro. Erano rigidi, privi d'espressione, e quello di Evans un po' imbarazzato. Si lasciò cadere su una sedia. Questo silenzio poteva solo significare che non credevano; evidentemente pensavano che ai due investigatori fosse dato di volta il cervello. Due famosi investigatori diventati un po' picchiati. Erano successe cose peggiori, cose più inverosimili. "E chiaro che lorsignori non sappiano cosa significhi essere perseguitati," disse Wilson. Becky era stupita: quando era alle strette era capace di sfoderare doti nascoste. "E dato che non lo sapete, non potete immaginare in che stato siamo io e Neff. Ci stanno dando la caccia. Certo, proprio così. Degli esseri che possiedono grinfie come queste." Con un rapido movimento, sollevò il calco. "Vi immaginate che effetto farebbe essere colpiti
al petto da una di queste? Vi squarcerebbe il cuore in un attimo. Maledizione, ora voi guardate il tramonto e pensate quant'è bello. Anche per noi era così, fino a ieri notte. Ora non guardiamo più il tramonto nello stesso modo. Lo guardiamo come fanno gli alci e i cervi: con paura. Come pensate che sia, eh? Qualcuno di voi lo sa?" "Investigatore Wilson, lei è in uno stato di sovraeccitazione." "Chiudi il becco, Underwood. Questo potrebbe essere l'ultimo discorso che faccio, e voglio essere ascoltato." Mentre parlava, agitava il calco, e misurava le parole con insolita cura. "Qualsiasi cosa possieda questi artigli ci sta dando la caccia. Questi esseri esistono, non dimenticatelo! Sono esistiti per migliaia di anni. Li abbiamo visti, signori, e hanno un aspetto davvero terribile. Sono anche molto veloci, e molto astuti. Nel passato, la gente li chiamava lupi mannari. Ora non li chiama più in nessun modo, perché sono diventati talmente bravi a nascondere le proprie tracce che non esistono più nemmeno leggende su di loro. Ma ci sono. Quant'è vero Dio, ci sono ancora." I due che dovevano essere uccisi erano difficili da scovare. Li avevano fiutati chiaramente, mentre vagavano per la casa in cui c'era la tana del branco. Avevano visto la loro auto, mentre se ne andavano, e poi l'avevano vista di nuovo qualche giorno dopo, questa volta giù a Manhattan, vicino al mare. Bisognava avere pazienza. Avevano spiato l'uomo mentre camminava per le strade, e alla fine avevano scoperto dove abitava. Anche la donna era stata seguita, e il suo odore li aveva portati fino a un edificio con molti piani; l'avevano tenuto d'occhio finché non si erano accertati che la camera da letto dietro a uno dei balconi era il luogo in cui lei abitava. Non erano una preda legittima, ma dovevano essere uccisi. Se avessero divulgato ciò che sapevano del branco tutta la loro razza ne avrebbe sofferto. Per primi ne avrebbero sofferto i molti branchi della città, poi quelli che si trovavano nelle vicinanze, e infine quelli di tutto il mondo. L'uomo non doveva sapere dell'esistenza dei branchi. Se le innumerevoli orde di uomini si fossero rese conto che molti branchi prosperavano grazie alla loro carne, avrebbero di certo opposto resistenza. Era essenziale che l'uomo non sapesse. Ogni volta che l'uomo si avvicinava avveniva la stessa cosa. Era sempre stato così, era la prima regola di prudenza. Per molti anni avevano girovagato liberi nel mondo, e avevano prosperato. C'era talmente tanta umanità, che i branchi crescevano in tutto il mondo, in ogni città degli umani. Ogni tanto capitava che l'uomo li vedesse di sfuggita, ma li scambiava sempre
per un branco di cani randagi. Di solito andavano a caccia di notte. Di giorno dormivano in covi talmente ben nascosti — sotterranei, case abbandonate, dovunque trovassero un posto adatto — che l'uomo non si rendeva mai conto della loro presenza. Neanche i cani costituivano un problema. Per loro l'odore dei branchi faceva parte della vita della città, e lo ignoravano. Ora questi due umani dovevano morire, altrimenti sarebbero andati in tutte le città ad avvertire la gente della presenza della morte in seno alla società. Perciò avevano fiutato la scia dei due umani, l'avevano fiutata per le strade, ne avevano seguito la traccia finché non era entrata in un edificio grigio della parte bassa di Manhattan. Quando l'odore uscì di nuovo, e si separò, essi si divisero e si dettero al loro inseguimento. La tana dell'uomo fu facile da trovare. Era vicina al terreno, in una casa con porte esterne dalla serratura cedevole e un sotterraneo facilmente accessibile. Ma la stanza dell'uomo era chiusa a chiave, e aveva sbarre alle finestre. In quel luogo c'era puzza di paura dappertutto. Quest'uomo viveva in una fortezza. Anche la canna fumaria del suo caminetto era stata bloccata da molto tempo. Faceva pietà vedere un uomo così malato di paura, che passava le nottate seduto su una sedia, con tutte le luci della stanza accese. Una persona del genere meritava di morire, e il branco desiderava ardentemente di prenderlo non soltanto perché rappresentava un potenziale pericolo, ma perché era nelle tipiche condizioni della preda. Costui meritava la morte, e tutti loro speravano di dargliela. E avevano trovato un modo per attaccarlo. La donna viveva in uno dei piani più alti dell'edificio. Non tutti nel branco erano bravi ad arrampicarsi, ma alcuni lo erano, e ne fu scelto uno tra questi. Salì di balcone in balcone, afferrando la presa con le zampe anteriori e issando poi tutto il corpo, più e più volte. Gli altri del branco rimasero giù nel vicolo buio, desiderando con tutto il cuore di ululare di gioia per quel gesto d'eroismo, per quell'amore sincero nei confronti di tutta la specie. Ma stettero in silenzio. In ogni caso era lo stesso — anche mentre si arrampicava riusciva a fiutare il rispetto e la gioia di quelli rimasti giù in basso. E saliva verso l'odore della donna umana. Era là, sempre più vicina. Arrampicandosi, desiderava ardentemente raggiungerla, sentire il suo sangue scendergli giù per la gola, strapparle la carne e poterla gustare in bocca, sentire il suo corpo che moriva e la fine del pericolo per la propria ra2za.
Tutto il branco era felice che si arrampicasse lassù e lui era contento di farlo per il branco! Quando giunse al suo balcone, cercò di muoversi senza fare il minimo rumore. Ma non fu possibile. Una delle unghie sbatté contro la porta a vetri, mentre esaminava la serratura. Quel suono gli sembrò forte come il rintocco di una campana. Gli umani all'interno della casa lo avevano sentito? La donna lo aveva sentito? L'odore di lei cambiò: dal torpore del sonno, era passato all'aspro odore della paura. Quella maledetta creatura lo aveva sentito! Pian piano si spostò lungo il balcone. Lei sapeva della sua presenza. Ora il rumore del suo respiro era cambiato. Era talmente terrorizzata che desiderava aiutarla a morire, sebbene non fosse abbastanza debole per essere preda. Questa situazione era molto pericolosa. Se avessero aperto quella tenda lui sarebbe stato visto. Non si può esser visti da coloro che vivranno! Per evitarlo era pronto a gettarsi dal balcone. Oppure no? Morire, per questo? Il cuore incominciò a battergli forte. Lei emise un piccolo grido — aveva visto la sua ombra sul soffitto. Il suo istinto gli gridava: ringhia, lanciati, uccidi; ma tutto quello che emise fu un piccolo rumore. Un rumore che lei udì. Ormai era troppo tardi! Si stavano alzando. Gettò un'occhiata all'impianto della luce sul soffitto del balcone. Bastava girare un interruttore perché la sua presenza venisse rivelata! Si arrampicò disperatamente fino al piano superiore, e fece appena in tempo. Sentì stridere la porta scorrevole, e poi il tonfo di un passo sul balcone. Il suo compagno maschio si guardò intorno, muovendosi in mezzo al denso odore del proprio corpo e, grazie alla meravigliosa cecità umana, non sentendolo affatto. Queste povere creature erano cieche in tutto, tranne che nel senso della vista. Cieche per l'olfatto, per l'udito, per il tatto. Erano le migliori prede del mondo. Quando l'uomo tornò dentro, e tutto ricadde di nuovo nell'oscurità, ritornò nel vicolo. Il suo cuore era pieno di dolore. Di fronte al branco aveva fallito, la donna era ancora viva. Ma loro avevano trovato un modo per attaccare anche lei, ed ora erano pronti. CAPITOLO QUINTO Carl Ferguson era tornato nel suo ufficio. La sua lampada costituiva l'ultimo barlume di luce nei laboratori vuoti del piano seminterrato del museo.
Al di là della porta aperta le ombre della sera si allungavano lentamente sui banchi da lavoro, trasformando i modelli non finiti in strane forme indistinte, spigolose. Ferguson osservava sotto la luce il modello che aveva costruito della zampa. La zampa. La rigirò in mano, considerandone per la centesima volta l'agilità e l'efficacia. La depose sulla scrivania, poi la prese di nuovo in mano e si fece scorrere gli artigli sulla guancia. Avrebbe fatto un buon lavoro, quella zampa. Le lunghe dita con le articolazioni in maggior numero del normale. I cuscinetti carnosi ampi e sensibili. Gli artigli aguzzi come aghi. Quasi... come quelli di un essere umano, se le persone avessero avuto gli artigli. Aveva la stessa funzionale bellezza di una mano, una mano letale. Improvvisamente aggrottò la fronte. Che cos'era quel rumore? Balzò in piedi, in direzione della porta - poi vide che un movimento d'aria stava scompiglianclo le piume contenute in una scatola. "Sto impazzendo," disse a voce alta. Dallo spazio vuoto oltre il suo ufficio gli rispose un'eco stonata. Ferguson gettò uno sguardo all'orologio. Le sette di sera. Era buio, il sole invernale era tramontato. Era stanco, esausto per quell'atroce riunione giù in città, e per l'attività febbrile nel lavoro. La nuova esposizione sarebbe stata un gran successo, e gli avrebbe sicuramente permesso di mantenere la propria carica al museo. Un'idea splendida, gli uccelli del Nord America. Non più soltanto statici oggetti in vetrina, ma un'intera stanza di ricostruzioni meticolose, di creature meravigliose sul punto di librarsi nell'aria... guardò alcune di esse, con le ali distese nel buio, appena visibili, cui dovevano ancora essere aggiunte le piume, una per una. Ma che cosa c'entrava questa... cosa, in mezzo alle creature del Nord America? Che diavolo era, dannazione? Quegli investigatori avevano blaterato qualcosa a proposito di lupi mannari... sciocchi superstiziosi. Ma sicuramente avevano messo a nudo un problema. La polizia di certo poteva catturarne uno, e permettergli di esaminarlo in modo più accurato. A giudicare da quella zampa, doveva essere di dimensioni piuttosto grandi, forse più grosso di un lupo. Forse ottanta chili. Anche da sola, una creatura del genere poteva essere estremamente pericolosa, figurarsi un intero branco. Era improbabile che si trattasse di lupi mutanti, perché erano adattati in modo troppo radicale alle loro prede abituali. Dei coyotes... no, la differenza di dimensioni era troppo grande. Qualsiasi animale possedesse una zampa come quella, si era staccato dalla
linea canina principale, e aveva raggiunto un alto, altissimo livello di evoluzione. Veniva quindi da domandarsi perché non esistessero ossa, né esemplari di nessun genere. Era strano e agghiacciante pensare che un'intera sottospecie di carnivori canini esistesse senza che la scienza ne avesse nemmeno una vaga idea. Sussultò di nuovo - questa volta aveva sentito un rumore stridulo. Ora lo prese sul serio. "Luis," disse, sperando si trattasse del guardiano notturno, sceso a controllare quella luce, "sono io, Carl Ferguson." Il rumore stridulo continuò, in modo insistente, paziente... era qualcosa che cercava di forzare le finestre del seminterrato. Guardò la zampa. Sì, era in grado di fare una cosa del genere. Spense la lampada, chiuse gli occhi per abituarli più in fretta al buio. Si alzò dalla scrivania ondeggiando, con la pelle formicolante. Il rumore raschiante cessò, seguito da un leggero cigolio. Una folata d'aria gelida scompigliò di nuovo le piume della scatola nel corridoio. Poi si udì qualcosa che scivolava e un rumore sordo, proveniente dalla finestra; il suono si ripeté, identico. Quindi ci fu un silenzio. Carl Ferguson stava in piedi, col calco di gesso in mano, e con la gola e la bocca dolorosamente secche. "C'è qualcuno là?" Un fascio di luce investì gli occhi dello scienziato. "Ehilà, dottore," disse una voce rauca. "Ci scusi se l'abbiamo spaventata." "Aspetti un momento, non si arrabbi prima del tempo. Siamo poliziotti, questa è un'investigazione." "Che diavolo significa entrare qui in questo modo? Mi — mi avete fatto paura! Pensavo..." "Che fossero loro?" Wilson schiacciò una fila di interruttori, e la stanza fu inondata da una forte luce al neon. "Capisco che abbia paura, dottore. Questo posto ha un che di spettrale". Becky Neff chiuse la finestra. "Il fatto è che, dottore, la stavamo cercando. Immaginavamo che fosse qui, è per questo che siamo venuti." "E perché diavolo non siete passati per la porta principale? Il cuore mi sta battendo ancora forte, Cristo! Credo di non aver mai avuto tanta paura prima d'ora." "Pensi a come ci sentiamo noi, dottore. Noi ci sentiamo costantemente in questo stato. Perlomeno io mi sento così, non so l'Investigatore Wilson."
"Beh, potevate entrare dalla parte giusta. Non credo che questo sia chiedere troppo." Provava un misto di rabbia e dolore: non avevano il diritto di far questo proprio a lui! Erano dei tipici poliziotti, senz'alcun rispetto per la legge. Non avevano neanche il diritto d'essere lì! "Penso che dovreste andarvene." "No, dottore. Siamo venuti per parlare con lei." Becky aveva parlato in tono gentile, ma il modo in cui lei e Wilson avanzarono verso di lui lo fece indietreggiare involontariamente di un passo. A quel movimento, Wilson tirò un lungo sospiro, ruvido e triste e Ferguson intuì per un istante quanto fosse stanco quell'uomo, stanco e spaventato. "Venite nel mio ufficio, allora. Ma non vedo cosa sperate di tirar fuori da me." Arrivati nel minuscolo ufficio, Ferguson notò che Wilson esitava sulla porta, mentre Neff si era seduta in modo da poter guardare fuori. Dalle loro posizioni, potevano dominare quasi tutto il laboratorio. "Queste finestre cedono come niente," mormorò Wilson, "basta proprio un niente." "Già, ce lo eravamo immaginato." "Va bene, che cos'è che volete? Non crediate però che la faccenda sia finita qui. Domattina telefonerò all'Ufficio Reclami della Polizia." "Non c'è un ufficio reclami al dipartimento di polizia." "Beh, chiamerò qualcuno comunque. Non è ammissibile che i poliziotti se ne vadano in giro a sfondare finestre senza che un povero cittadino possa lamentarsi. È già tanto che ve la caviate nella maggior parte dei casi." Wilsono tacque. Fu Becky a parlare. "Non saremmo qui, se non fossimo disperati," disse con voce sommessa. "E sappiamo bene che lei ci ha raccontato tutti i fatti di cui è a conoscenza. Ma non vogliamo questo. Noi vogliamo le sue teorie, dottore, le sue ipotesi." "Qualsiasi cosa che possa aiutarci a sopravvivere, dottore," aggiunse Wilson. "E sarà dura sopravvivere, visto come stanno le cose adesso." "Perché?" Becky socchiuse gli occhi, ignorando quella domanda. "Provi a immaginare, dottore," disse, "che cosa potrebbero volere queste creature, di cosa potrebbero aver bisogno, se sono come pensiamo che siano." "Intende dire esseri intelligenti, predatori, e così via?" "Esattamente." "Non è che un'ipotesi." "Investigatore Neff, non posso dirvelo. E meno di un'ipotesi, è pura fantasia."
"Per piacere, dottore." "Ma... e se mi sbaglio? E se poi vi confondo le idee ancor di più di quanto ve le siate già confuse da soli? Non capite il rischio che sto correndo? Non posso procedere su fantasie infondate, sono uno scienziato! Io voglio sinceramente aiutarvi. Voglio farlo davvero! Ma non posso. So che questa dannata zampa è qualcosa di molto speciale, ma non so in che direzione applicare questo dato di fatto! Non capite?" Becky lo guardava, con gli occhi pieni di disperazione. Wilson stava all'erta, alle loro spalle; prestava attenzione a ogni parola, ma al tempo stesso guardava la lunga fila di finestre nere, all'altro capo del laboratorio. Dal suono della sua voce, Becky si rese conto che Ferguson stava dicendo la verità. Non si stava più tirando indietro per proteggere la sua reputazione. In quel momento, nel'cuore della notte, mentre erano tutti e tre soli e non c'era più la frenetica attività nel piccolo regno intorno a lui, aveva smesso di preoccuparsi della reputazione, ed era costretto ad affrontare la cruda realtà: due poliziotti avevano bisogno del suo aiuto, e lui non poteva darglielo. Oppure poteva? Spesso il problema degli scienziati è che non si rendono conto di quanto poco gli altri realmente sappiano. "Qualsiasi cosa lei dica potrebbe esserci d'aiuto, dottore," disse Becky cercando di usare un tono calmo e gentile. "Perché non dirci qualcosa che lei ha capito e noi no?" "Per esempio?" "Beh, per esempio riguardo al senso dell'odorato. Quanto è sensibile, e cosa possiamo fare per coprire le nostre tracce?" "Può variare molto. Un segugio può averlo sette, otto volte più sensibile di un fox terrier." "Prendiamo il segugio," disse Wilson, in piedi sulla porta. "Prendiamo il migliore, il più sensibile." "Il naso di un segugio è un organo veramente straordinario. Sostanzialmente, è costituito da una concentrazione di terminazioni nervose che riempiono l'intero muso, e non solo la punta, benché la punta sia la più sensibile. Un segugio ha circa cento milioni di cellule nella mucosa olfattoria, mentre un fox terrier ne ha venticinque milioni." Guardò Becky con aria interrogativa, come per chiedere se fosse questo il genere d'informazioni che poteva aiutarli. "Se noi conoscessimo le loro capacità, potremmo fargli perdere le nostre tracce," disse Becky. Sperava che quell'uomo le spiegasse come diavolo funzionasse il senso dell'odorato — se fosse riuscita a capirlo avrebbe e-
scogitato qualcosa, oppure l'avrebbe fatto Wilson. Wilson. L'istinto gli aveva detto che Ferguson era seduto li a tormentarsi con quella zampa di gesso. Wilson aveva delle ottime intuizioni. In quel momento, poi, era oppresso da un senso di disperazione, dalla certezza che qualcosa li stava seguendo adesso. Visto il modo in cui cominciò a torcere il margine della carta assorbente sulla scrivania, probabilmente anche Ferguson stava pensando la stessa cosa. Se era così, non lo ammise però direttamente. "Volete che vi dica come distogliere quei... quegli animali dalle vostre tracce?" Becky annuì. "Dammi una sigaretta," borbottò Wilson. "Non credo che mi piacerà quel che il dottore sta per dire." "Beh, ho paura di no. Un sacco di gente ha cercato di trovare dei modi per seminare un segugio. Ma non c'è molto che possa farlo, tranne che la pioggia e un vento molto forte." "E la neve? Adesso sta nevicando." "Una volta, in Svizzera, un segugio seguì una traccia che era rimasta sepolta sotto la neve per quarantasette giorni. Sotto un grosso strato di neve. Una fortissima tormenta, a dir la verità. La neve non può fermare un segugio." "Dottore," disse Becky, "forse dovremmo considerare la questione da un altro punto di vista. Perché niente può impedire a un segugio di seguire una traccia?" "A parte il vento e la pioggia? Beh, a causa della sua sensibilità e della natura molto durevole degli odori." "Fino a che punto sono sensibili?" "Vediamo se riesco a esprimermi in termini quantitativi... Il naso di un segugio è forse cento milioni di volte più sensibile di quello di un uomo." "Non mi dice niente." "Non mi sorprende, Tenente Wilson. E una quantità molto difficile da comprendere. Facciamo un esempio." Andò fuori e tornò con un pizzico di polvere oleosa tra le dita. "Questo è circa un milligrammo di pigmento di vernice antiruggine. Ora visualizzate cento milioni di centimetri cubi d'aria — all'inarca la quantità d'aria che copre Manhattan. Un buon segugio riuscirà a scoprire questo milligrammo di pigmento in tutta quell'aria." Becky sentì come un colpo allo stomaco. Erano sensibili fino a quel punto! Prima d'allora non si era mai resa conto fin dove potesse arrivare l'odorato di un animale. Si sforzò di rimanere calma, continuando a lanciare occhiate verso le finestre, che riflettevano soltanto le immagini dell'in-
terno del laboratorio. Wilson accese la sigaretta e aspirò una boccata di fumo, quindi fece un sospiro. "E se l'odore venisse neutralizzato, per esempio mascherato con l'ammoniaca?" "Non fa assolutamente nessuna differenza. Al cane non piacerebbe, ma sarebbe ancora capace di distinguere l'odore. Sono stati tentati parecchi metodi per confondere i cani da fiuto, ma pochissimi funzionano. Uno potrebbe funzionare: nuotare in un fiume, completamente sott'acqua, col vento che va nella stessa direzione della corrente. Se riesci a nuotare per più di mezzo chilometro senza tirar fuori la testa dall'acqua, potresti confondere le tracce. Dico potresti, perché anche un solo respiro fuori dall'acqua potrebbe bastare per far ritrovare la pista al cane, se il vento non è troppo forte." "Un respiro?" "Non conosciamo l'esatto meccanismo del fiuto di un cane, ma pensiamo che seguano la pista per mezzo dei corpi oleosi e delle esalazioni del respiro. Possono anche prendere come riferimento l'odore dei vestiti." "Non si può far niente per annullare il proprio odore?" "Certo. Puoi fare un bagno. Sarai al sicuro per un po', sempre che non ti metti addosso i vestiti." Wilson sollevò le sopracciglia. "Per quanto tempo?" "Per tre o quattro minuti buoni. Finché gli oli della pelle non vengono rimpiazzati." "Fantastico! Questa sì che è una trovata, allora." Nella voce di Wilson c'era un sarcasmo amaro che a Becky non piacque. "Dev'esserci qualcosa, qualcosa che lei non ci ha detto ma che potrebbe aiutarci. Se non possiamo sbarazzarci del nostro odore, non si può neutralizzare il loro olfatto?" "Domanda interessante. Si può provocare l'osmoanestesia con una sostanza come la cocaina, anche se non ho mai sentito di un cane che l'abbia inalata volentieri. Si può anche usare la fenamina: anche così potrebbe avere una temporanea paralisi dell'olfatto, e sarebbe anche un po' più facile somministrarla. Quella roba può essere camuffata nella carne. Non dev'essere inalata, basta mangiarla." "Ehi, cagnetto, fatti uno spuntino!" "Chiudi il becco, George. Potremmo imparare qualcosa se solo chiudessi quella boccaccia!" "Oh, la Signorina Tu mi Turbi è diventata una Draghessa. Mi peldoni, signolina!" Si inchinò, con le mani incrociate sul petto, e gli occhi beffar-
damente socchiusi, come un orientale. Poi si irrigidì, agghiacciato. Subito portò la mano alla Colt che teneva sotte la giacca. "Ma cosa..." Becky era balzata in piedi, con la pistola in mano. "Santo Cielo, mettete via quegli aggeggi." "Sta' zitto, figliolo! Ho visto qualcosa in quella finestra, Becky." Non aveva più il tono sarcastico di prima: ora la sua voce era seria e un po' triste. "Stava contro la finestra, e aveva il pelo grigio. Come se avesse sbattuto contro il vetro, e poi è sparito nella notte." "L'avremmo sentito anche noi." "Può darsi. Quanto è spesso il vetro di quelle finestre?" "Non ho idea. È un semplice vetro." Becky ripensò alla loro entrata. "Sarà spesso circa mezzo centimetro," disse. D'un tratto, Wilson rimise la pistola nel fodero. "L'ho visto di nuovo. È un cespuglio che sbatte contro il vetro. Scusate il falso allarme." "Datti una calmata, investigatore," disse Becky. "La prossima volta mi verrà un colpo." "Scusa. Meno male che mi sono sbagliato." Non parlarono però del fatto che erano già rimasti lì per troppo tempo, e quel posto non era ormai più sicuro. Bisognava stare sempre in macchina, continuare a muoversi. Così almeno avrebbero reso più difficile l'inseguimento. Ora che ci pensava, chissà se potevano essere fiutati una volta in auto, chiese Becky. "Le gomme. I pneumatici di ogni auto hanno un odore caratteristico. I cani da fiuto possono seguire biciclette, auto e addirittura carrozze con ruote di ferro. In certi casi è persino più facile che seguire le persone a piedi. Sprigionano un odore più forte." "Ma in città ci sono centinaia di migliaia di macchine... sembra quasi impossibile." Ferguson scosse la testa. "È difficile ma non impossibile. E se la vostra sensazione di essere stati seguiti dal Bronx è giusta, allora i nostri esemplari sono sicuramente capaci di fare una cosa del genere." "Insomma, ricapitoliamo. Non possiamo liberarci del nostro odore. Non possiamo neutralizzare i loro nasi senza andargli maledettamente più vicino di quanto possiamo permetterci. Ci sono altre brutte notizie?" "E sempre così acido, Miss Neff?" "Mrs. Neff. E la risposta è 'sì' ". Ferguson soffermò lo sguardo nel suo per un attimo, come se stesse per
chiederle qualcos'altro. Lei lo fissò a sua volta. Egli distolse subito gli occhi, leggermente confuso per quella sfida. A Becky non piaceva che gli uomini la spogliassero con gli occhi, e quando lo facevano rispondeva nello stesso modo. Alcuni lo trovavano eccitante, altri invece si spaventavano o s'irritavano. A lei non importava un bel niente come reagivano; comunque Ferguson sembrò eccitato e spaventato al tempo stesso, a giudicare dal modo in cui accavallò le gambe e si strofinò la guancia con la mano. Era spaventato da un sacco di cose, quello scienziato. Aveva un volto energico, e solo gli occhi tradivano le sue emozioni più intime. Eppure aveva qualcosa, una sorta di competenza segreta, che Becky considerò un lato positivo del suo carattere. Peccato, significava probabilmente che non avrebbero potuto ottenere migliori informazioni da nessun altro. "Mi chiedo come sia," disse Wilson, "avere un senso dell'olfatto del genere." La faccia di Ferguson s'illuminò. "Trovo che quest'argomento sia estremamente interessante, tenente. Penso di poterle dare un'idea. L'intelligenza canina mi interessa moltissimo. Abbiamo studiato i cani, qui al museo." "E i gatti." Becky sussultò. Il Museo di Storia Naturale era stato al centro di una vivace polemica riguardante alcuni esperimenti in cui erano stati utilizzati gatti vivi; era nello stile di Wilson tirar fuori storie del genere. "Questo non c'entra," disse prontamente Ferguson, "era un altro dipartimento. Io allestisco mostre. Il mio lavoro sui cani finì nel 1974, quando si esaurirono i fondi Federali. Ma fino a quel momento avevamo fatto grandi passi avanti. Lavoravo a stretto contatto con Tom Rilker." Sollevò le sopracciglia. "Rilker se la cava magnificamente in fatto di cani. Cercavamo di accrescere la loro sensibilità a certi odori. Droga, armi, in modo che fossero già presenti negli animali, senza necessità di ammaestrarli." "Ci siete riusciti?" Ferguson sorrise. "È un segreto. Informazioni riservate, con gli ossequi dello Zio Sam. Purtroppo non posso neanche pubblicare uno studio su quest'argomento." "Ci stava dicendo dell'intelligenza canina." "Già. Bene, penso che i cani sappiano molto di più del mondo umano di quanto noi ne sappiamo del loro. E questo perché il loro sistema sensoriale è molto diverso; l'olfatto e l'udito: sono questi i loro sensi principali. La vista è molto più debole, solo al terzo posto. Per esempio, se vi mettete i vestiti di un amico, il vostro cane non vi riconoscerà, finché non parlate. E
poi sarà confuso. La stessa cosa succede se vi fate un bagno e poi uscite senza parlare: il cane non riconoscerà chi o cosa voi siate. Vedrà una sagoma che si muove, e sentirà l'odore dell'acqua. Potrebbe perfino attaccarvi. Quando sentirà la vostra voce si tranquillizzerà. I cani non sopportano le situazioni sconosciute, non familiari. Ricevono un'enorme quantità d'informazioni attraverso il naso e le orecchie, e in certe circostanze queste informazioni superano la loro capacità d'elaborazioni. Seguendo una traccia, ad esempio, un segugio si stancherà molto prima che se stesse correndo libero. È stanchezza psichica. Di solito più un cane è intelligente e meglio riesce a comprendere i dati che gli provengono dall'olfatto. Per un lupo, ad esempio, queste informazioni hanno molto più significato che per un cane. "Un lupo?" "Sicuro. Sono molto più intelligenti e sensibili dei cani. Un buon segugio avrà un olfatto cento milioni di volte più sensibile di un naso umano. L'olfatto di un lupo sarà duecento milioni di volte più sensibile. E i lupi sono proporzionalmente più intelligenti nell'elaborazione dei dati. Ma anche così la quantità di dati è enorme, più di quanto le loro menti possano assimilare." Wilson si spostò dalla porta e prese in mano il modello di gesso. "E questo fa pensare più a un lupo o a un cane?" "A un lupo, direi. Veramente sembra la zampa di un lupo gigante - tranne che per le lunghe dita. Quelle dita sono qualcosa di meraviglioso: una stupenda evoluzione. Mi sembra che abbiano oltrepassato il genere canino; ecco perché insisto nel chiedervi una testa. Non posso dire di più riguardo a queste creature, se non mi date altre parti del corpo. E tutto troppo nuovo, troppo straordinario. Per ora, qualsiasi essere abbia lasciato quelle impronte è sconosciuto alla scienza: per questo vi chiedo maggiori elementi." "Non possiamo darglieli, dottore," disse Becky, e le sembrò la centesima volta che lo diceva. "Lei sa in che guaio ci troviamo. Sarebbe già una fortuna poter fare una foto." "È impossibile, se vogliamo anche restare vivi," s'intromise Wilson. "Queste creature sono troppo perverse per permettercelo." Fece un cenno con gli occhi a Becky. Voleva muoversi di lì. Wilson era inquieto, da quando era scesa la notte. Ufficialmente, il loro orario era dalle otto alle quattro, ma nessuno dei due si ricordava dell'orario di servizio, in questa situazione. Non avevano più responsabilità verso la divisione, la squadra o l'ufficio: dovevano occuparsi da soli di questa faccenda. Nessu-
no segnava la loro presenza al lavoro su un taccuino, o li chiamava per telefono. Si occupavano del caso perché il capo aveva la remota sensazione che potesse veramente succedere qualcosa di insolito. Non era sufficiente per una decisione concreta, ma bastava per continuare a far girare gli ingranaggi lentamente, molto lentamente. Il che equivaleva a un'unica squadra, da sola, che investigasse meglio che poteva. E che fosse disponibile a far da capro espiatorio se necessario. "Dobbiamo andare," disse Becky a Ferguson. "Credo che la cosa migliore da fare sia continuare a muoverci." "Probabilmente avete ragione." Wilson lo fissò. "Ci scusi per come siamo entrati. Non c'era altro modo di raggiungerla, il museo era chiuso." Ferguson sorrise. "E se io non fossi stato qui?" "Impossibile. Anche a lei interessa questa cosa. Ormai ce l'ha nel sangue. Sapevo che era qui." Ferguson li accompagnò per i corridoi quasi bui, fino a un'uscita di servizio, dove una guardia fece loro un cenno, sotto una luce incerta. "Esco con voi," disse. "È dall'ora di pranzo che non metto niente sotto i denti, e non credo che arriverei a qualche conclusione standomene seduto qui a guardare quella zampa." La neve scricchiolò sotto i loro passi, mentre attraversavano il terreno silenzioso intorno al museo. Becky vide che la loro auto, parcheggiata sulla Settantasettesima Strada, era ora ricoperta da un sottile strato di neve. Dovevano camminare a piedi per una ventina di metri lungo un viale d'accesso deserto, prima di essere al sicuro nella macchina. Tutto sembrava immobile tra le ombre degli alberi che circondavano il museo, e non c'erano orme visibili sulla neve fresca. Il leggero rumore del vento si aggiungeva allo scricchiolio dei rami nudi e al sibilare della neve che scendeva. La cappa di nuvole basse rifletteva le luci della città, e copriva tutto di un bagliore verdastro più forte del chiaro di luna. Nonostante questo, il tragitto fino alla macchina parve a Becky molto lungo, e dal modo in cui Wilson teneva la mano sul calcio della pistola sotto la giacca si rese conto che anche lui provava la stessa sensazione. Quando raggiunsero la macchina, Ferguson si separò da loro per prendere l'autobus numero 10, che da Central Park West lo avrebbe portato verso casa. Lo lasciarono andare. "Mi chiedo se abbiamo fatto bene," disse Becky mettendo in moto l'auto.
"A far cosa?" "A lasciarlo andare da solo. Non sappiamo assolutamente fino a che punto sia in pericolo. Se ci stavano spiando, ci hanno visto con lui. E allora cosa potrebbero fare? Uccidere anche lui, magari? Penso che sia più in pericolo di quanto non creda." "Muoviti. Accendi quella dannata radio. Sentiamo come va il traffico." "Accendila tu, amico, non stai facendo nient'altro." Lui girò la manopola, e si accomodò col ginocchio contro il cruscotto. "E troppo freddo perché la gentaglia da strada se ne vada in giro. Sarà una notte tranquilla." Alla radio, un poliziotto giovane e inesperto chiamò col segnale 13, e poi immediatamente lo annullò, verso la 72° e Amsterdam. Ma una richiesta d'aiuto per un compagno poliziotto non si può annullare così. I ragazzi l'avrebbero raggiunto comunque, e poi gli avrebbero dato una bella lavata di capo. "Che cosa l'avrà fatto saltare, dici?" domandò Wilson. Non si aspettava una risposta, e Becky non parlò. Cosa diavolo gliene importava, di un pivello e del suo 13 sbagliato! Becky attraversò Central Park in direzione est, sulla traversa della Settantanovesima Strada. Era diretta verso un ristorante cinese del suo quartiere, dall'altra parte del parco. Non aveva particolarmente fame, ma dovevano mangiare. E non aveva idea di quel che avrebbero fatto dopo, di come avrebbero passato la notte. E i giorni e le notti seguenti, e il futuro? "Che diavolo ci faranno?" "Cosa ci faranno, Becky? Un bel niente. Ci lasceranno semplicemente rosolare a fuoco lento. Ehi, dove stai andando — tu abiti qui, no?" "Non ti porto a casa mia, non ci sperare. Ci fermiamo qui per una cenetta. Abbiamo bisogno di mangiare, ricordatelo." "Già. Comunque, i capoccia non muoveranno un dito per aiutarci. Sono troppo occupati con le scartoffie — di chi è quella divisione, di chi è quell'altro distretto, chi sale in alto, chi invece fa fiasco. Tutta la loro carriera consiste in questo, e poi gl'interessa chi ha il potere in mano, o meglio chi è il potere in persona. Lo sai che è così. Al paese del commissario funziona più o meno così." "Che ragazzo cinico che sei! Invece io penso che Underwood voglia seriamente che ci occupiamo del caso. Ci rispetta." "Ma chi si può occupare di un caso chiuso? Oh, Cristo, Becky, questo è un ristorante di lusso — io non posso mangiare qui." Becky parcheggiò l'auto in doppia fila e tolse la chiave. "Sì che puoi
mangiarci. Basta che chiedi al cameriere di risparmiare sulla salsa piccante del chow mein." "In un posto del genere non mi daranno nemmeno il chow mein," rispose lui scontroso. Scesero dall'auto, e Wilson la seguì riluttante. Entrarono nel ristorante, illuminato da luci soffuse, e si scrollarono la neve di dosso. "Sta nevicando forte?" chiese la ragazza del guardaroba. "Già, nevica forte," disse Wilson. "Becky, questo posto ci costerà una fortuna. C'è anche la ragazza 'guardacappelli'. Io non mangio mai nei posti dove c'è gente del genere." La seguì all'interno della sala, continuando a lamentarsi; ma quando fu portato il menù le sue lamentele si trasformarono in un borbottio di suoni incomprensibili. Gli si potevano quasi veder girare le rotelle del cervello, mentre calcolava se potesse mangiare per meno di due dollari. "Ordinerò io per tutti e due, dato che sono già stata qui altre volte," disse lei, togliendogli di mano il menù. "Te la caverai con cinque dollari." "Cinque!" "O magari sei. Spero che tu non abbia molta fame, però, perché ci sarà un solo piatto." "Cosa?" Il cameriere arrivò al tavolo, e Becky ordinò gamberetti in salsa all'aglio per Wilson e Tang di pollo per sé. Almeno si sarebbe goduto quello che poteva essere il suo ultimo pasto. Ma s'impose di smetterla con quel genere di pensieri — a volte ciò che si pensa diventa realtà. Ordinò anche un drink, mentre Wilson prese della birra. "Un dollaro per una birra," brontolò. "Dannati cinesi." "Su, ora mettiti tranquillo, così ti potrai godere la tua cena. Parliamo." "Di quello che ha detto Ferguson?" "Sì, esatto. Ti ha fatto venire qualche idea?" "Beh, che potremmo stabilirci nello scomparto per la carne del frigorifero di Evans." "A me è venuta un'idea migliore. È una cosa che penso dobbiamo fare, se riusciamo a sopravvivere. Ovviamente non passerà molto tempo prima che i nostri amici capiscano di che si tratta e comincino a darsi da fare. Prima o poi io e te raggiungeremo Di Falco e Houlihan. E allora il dipartimento si dedicherà seriamente a questa faccenda. Ma per noi ormai non farà più nessuna differenza." "Insufficienza di prove, ecco cos'è che blocca l'ingranaggio. Abbiamo
fornito ipotesi, dicerie, supposizioni, e un buffo pezzo di gesso fatto dal dottor Comesichiama." "E allora perché non gli portiamo delle fotografie? Una foto non è un cadavere, ma sicuramente ci darà maggior credibilità." "Come fai a fotografare quello che non vedrai mai? Se c'è abbastanza luce per fare una foto, allora vuol dire che ce n'è troppa. Quegli esseri non si avvicineranno mai a noi, se c'è luce. D'altronde, però, potremmo usare un dispositivo infrarosso. Magari i Servizi Speciali ce lo potrebbero prestare. Ma è roba voluminosa — difficile da maneggiare." "Ho un'idea migliore. La Narcotici sta sperimentando un'attrezzatura a intensificazione d'immagine computerizzata, messa a punto durante la guerra in Vietnam; con quell'aggeggio possiamo ottenere una foto veramente super anche nel buio più totale. Il gruppo di Dick la sta usando a livello sperimentale." "C'è anche da usare un trabiccolo di supporto, o qualcosa del genere?" "Assolutamente no. Il tutto ha l'aspetto di un binocolo, solo più grande del normale. La macchina fotografica sta all'interno. Si deve soltanto guardare attraverso quest'aggeggio, e quello che vedi viene fotografato." "Quello che vedi? C'è qualcosa che non quadra. Dobbiamo essere abbastanza vicini per vederli." "Non tanto vicini. La macchina è dotata di una lente da cinquecento millimetri." "Accidenti, questa è la cosa più maledettamente straordinaria che abbia mai sentito. Potremmo stare a una distanza di trecento metri." "Ad esempio potremmo fargli la posta dal tetto del mio palazzo, e guardare in quel vicolo, aspettando che tornino." "Già, potremmo fare così. Possiamo scattare le foto e scappare prima che comincino ad arrampicarsi su per i balconi." "C'è solo una piccola difficoltà. Dobbiamo convincere Dick ad aiutarci. E lui che deve darci l'attrezzatura, che è vincolata da segreto." Wilson aggrottò la fronte. Si trattava di un'infrazione dipartimentale, una cosa che preferiva evitare. Aveva già troppi nemici per poter permettere che cose di questo genere venissero segnate sulla sua scheda. "Maledizione, quelli del dipartimento vincolerebbero le matite meccaniche, se avessero tempo. Non mi piace immischiarmi in queste storie, non mi aiuterebbe di certo." "Dick ti deve un favore, George." "Perché?"
"Sai benissimo perché." Lo disse in tono leggero, ma non poté far a meno di provare rabbia. Per farla restare nella sezione investigatori era stato necessario trovarle un posto in un gruppo di quattro uomini, e per far questo le si doveva trovare un socio tra uno di loro. Wilson l'aveva presa con sé, e così non era stata ricacciata in amministrazione, come era successo a molte donne poliziotto. E Wilson l'aveva presa perché Dick Neff glielo aveva chiesto. "Lui potrà pensare che sia stato un favore, ma non è così." "Gesù. Ti senti bene, Wilson? Mi hai appena fatto un complimento sul mio lavoro in polizia." Egli rise, e la sua faccia per qualche istante divenne una massa di rughe allegre; poi ritornò bruscamente alla sua solita espressione torva. "Hai delle buone qualità," disse, "ma penso che tu abbia ragione. Quando ti ho preso, l'ho fatto come favore a Dick. Forse adesso me lo ricambierà." Becky si alzò per andare a telefonare a Dick. Voleva assicurarsi che ci fosse; non voleva rimanere da sola in casa con Wilson. Non sarebbe stato conveniente, specialmente se Dick fosse tornato. Era lì, e la sua voce suonava rauca. Gli voleva chiedere se avesse qualche problema, ma si trattenne. Quando gli disse che portava con sé Wilson, l'unico suo commento fu un grugnito. Finirono il cibo in silenzio; Wilson sprofondato nel suo con gelida indifferenza. Se fosse stato del mangime per animali, probabilmente l'avrebbe mangiato nello stesso modo. Becky era eccitata dall'idea di fotografare quegli esseri, e nello stesso tempo preoccupata. Tutta la situazione costituiva una minaccia, da qualsiasi punto di vista la si considerasse. Il modo in cui queste creature uccidevano: la loro estrema violenza, rendeva impossibile smettere di pensarci, anche solo per poco. Becky continuava a girare e rigirare il problema nella mente... e spesso pensava al loro aspetto: immaginava le lunghe dita, coi delicati polpastrelli e con gli artigli aguzzi, i denti affilati come rasoi, e i corpi massicci. Ma com'erano i musi? Gli esseri umani hanno facce molto complesse, molto diverse dall'espressione più o meno rigida degli animali; anche queste creature avevano facce simili, piene di emozioni e d'intelligenza? E in tal caso, che cosa provavano le loro vittime, nel guardarli? "Senti, noi andiamo da Dick e glielo chiediamo, va bene? Glielo chiediamo senza tanti giri di parole?" "Niente sottigliezze diplomatiche?" "Non sono il mio forte."
"Allora chiediamo e basta. Tutti hanno sentito parlare dell'apparecchio ottico che usano i Servizi Speciali. È logico che uno che lavora alla Narcotici ci possa metter sopra le mani, no? Non dobbiamo dirgli che sappiamo che è roba vincolata. Magari lui non ne parlerà nemmeno; ci dà quel dannato aggeggio e non ci pensa più. Almeno spero che vada così." Ma non andò così. Non appena aprì la porta dell'appartamento, Becky sentì che c'era qualcosa di strano. Lasciò Wilson nell'ingresso, e raggiunse Dick nel soggiorno. "Perché hai portato qui quel vecchio stronzo proprio stasera?" disse appena la vide. "Dovevo, tesoro. È una faccenda urgente." "Mi hanno bruciato." Ecco, l'aveva detto. In tre parole. Per un poliziotto che si fa passare per un bandito, come nel caso di Dick, essere "bruciato" voleva dire che i sospettati avevano riconosciuto la sua vera identità. "E una cosa seria?" "Molto seria. Qualche figlio di puttana mi ha fatto la commedia. Potrei darmi al cinema adesso, vaffanculo." "Dick, è terribile! Come..." "Non importa, dolcezza. Diciamo solo che sono due anni di lavoro buttati nel cesso. E penso anche di avere una spia attaccata addosso." Becky si chinò e gli baciò i capelli. Lui stava sprofondato nel divano, con lo sguardo fisso alla TV. "Tu sei pulito, no?" Ma si sentì mancare dentro: sapeva che c'era qualcosa di storto. E anche gli ispettori della Divisione Affari Interni lo sapevano, altrimenti non gli avrebbero messo dietro un uomo o una spia, come si diceva nei casi in cui un poliziotto faceva indagini su un altro poliziotto. "Lo sai benissimo che non sono pulito." Lo disse con infinita stanchezza, tanto che lei ne fu sorpresa. Dick aveva un aspetto invecchiato e depresso che non gli aveva mai visto prima d'ora. "Senti, dopo ci ubriachiamo o qualcosa del genere, celebreremo il mio pensionamento anticipato; e adesso fai venire Wilson, vediamo che vuole." "Non è una cosa lunga, ci vorrà un attimo." Becky chiamò Wilson, che era rimasto in piedi nell'ingresso. Si strinsero la mano, e Dick gli offrì una birra. Si sedettero nel soggiorno, con la televisione accesa, ma col volume al minimo. Becky chiuse le tende. "Che c'è?" domandò Dick. "Abbiamo bisogno del tuo aiuto," rispose Wilson. "Devo fare delle foto, ho bisogno di quella vostra macchina che funziona di notte."
"Quale macchina?" "Quella che puoi prendere ai Servizi Speciali, con la lente da cinquecento millimetri, e il sistema d'intensificazione dell'immagine. Lo sai qual è." "E perché non la chiedi tu stessa?" disse guardando Becky con aria interrogativa. "Non abbiamo l'autorizzazione, tesoro," rispose lei. "Ci serve per quegli strani esseri." "Oh, Cristo onnipotente, ancora quelle stronzate! Ma quando la smetterete? Ma siete matti, o cosa? Non posso ottenere quella dannata macchina fotografica, non mentre ho quelle fottute spie attaccate al culo. Su, piantatela. Perché non pensate a guadagnarvi lo stipendio, invece di andare in giro a combinar guai con queste idiozie!" "Ci serve il tuo aiuto, Neff." Wilson stava seduto sulla sedia, con la schiena curva; aveva gli occhi luccicanti, come due puntini sotto i folti cespugli delle sopracciglia. "Io ti ho aiutato." "Oh, Cristo." Poi sorrise, e girò la testa dall'altra parte. "Oh, Cristo, il favore. Il grande favore. Fammelo dire, Wilson, non me ne frega un cazzo del tuo grande favore. Non conta niente." "Quella macchina fotografica può risolvere il caso, caro, cerca di mettertelo in testa! Ci serve solo per una notte, più o meno." "Non vi serve solo la macchina, vi serve anche che io ve la faccia funzionare. Ed è maledettamente complicata, devi già sapere come usarla." "Ce lo puoi insegnare." Dick scosse la testa. "Mi ci sono volute settimane per imparare. Se non la usi bene, non ti scatta nessuna foto." Becky lo fissò dritto negli occhi. "Dick, per favore, ti chiediamo una notte soltanto." La guardò di traverso, come per chiedere 'E proprio necessario?' Becky annuì con aria molto seria. "Una notte, allora," disse lui, "magari ci faremo due risate." Così, alla fine, aveva accettato. Becky non sentì altro che semplice gratitudine, anche se avrebbe voluto provare qualcosa di più per lui. La rabbia e la stanchezza di Dick le facevano desiderare tutto fuorché passare il resto della serata con lui. Accompagnò Wilson alla porta. "Ci vediamo in ufficio," disse mentre lui si metteva il soprabito. "Alle otto?" "Va bene, alle otto." "Dove vai ora, George?"
"Non a casa. Tu sei pazza a restare qui, secondo me." "Non saprei dove altro andare." "Affari tuoi." Egli uscì nell'atrio e se ne andò. Becky cominciò a chiedersi se l'avrebbe mai rivisto vivo, e poi s'impose di smetterla. Proibito pensare a queste cose. Si girò, tirò un profondo respiro, e si preparò ad affrontare il resto della notte con suo marito. CAPITOLO SESTO Erano affamati, avevano bisogno di carne. Di solito preferivano le zone più buie e desolate, ma la necessità di seguire i nemici li aveva portati nel cuore della città. Qui l'odore dell'uomo era pesante, come una nebbia densa, e non c'erano molti nascondigli. Ma anche i posti più illuminati hanno parti in ombra. Si mossero in fila, dietro al muro che separa Central Park dalla strada. Non avevano bisogno di guardare dall'altra parte per sapere che poche delle panchine disposte lungo il muro erano occupate — lo avevano capito attraverso il fiuto. Ma fiutarono anche qualcos'altro: il succulento odore di un essere umano, a circa trecento metri di distanza. Un uomo stava dormendo su una panchina, un uomo che trasudava alcol da tutti i pori. Quella puzza significava per loro che la preda sarebbe stata uccisa senza fatica. Quando si avvicinarono, sentirono il suo respiro. Era lungo e agitato: il respiro di un vecchio. Si fermarono dietro di lui. Non c'era bisogno di discutere su cosa fare: ognuno conosceva il proprio ruolo. Tre di loro saltarono sopra il muro, mantenendosi perfettamente in equilibrio sul bordo di pietra aguzza. L'uomo era sulla panchina là sotto. La femmina più vicina alla vittima abbassò le orecchie all'indietro: doveva colpire alla gola. Gli altri due dovevano intervenire solo nel caso di una lotta. Trattenne un momento il respiro per schiarirsi la mente. Poi esaminò la vittima. La carne non era in vista, era coperta da uno spesso strato di indumenti. Doveva balzare avanti, infilare le fauci nella stoffa e squarciare la gola, tutto quasi allo stesso tempo. Se la preda avesse reagito con più di qualche convulsione, il branco sarebbe stato deluso. Aprì il naso, e lasciò entrare i vivaci odori del mondo lì intorno. Ascoltò i rumori della strada. Solo traffico di automobili, non c'era nessuno a piedi per almeno cinquanta metri. All'interno di una casa dall'altra parte della strada c'era un uomo, seduto nel soggiorno ben illuminato; drizzò le orecchie: l'uomo stava ascol-
tando la radio. Vide che girava la testa: guardava nel corridoio. Ora! Era balzata giù infilando il muso nella stoffa. Ecco la carne calda, succulenta. Sentì la reazione dell'uomo, che vibrò in qualche mugolio inarticolato; i muscoli gli si irrigidirono, al peso dell'animale su di lui. Poi aprì la bocca contro la carne, e affondò i denti, raschiando; sentì la pelle così gustosa e salata, e squarciò con tutta la forza delle fauci, del collo e del petto, balzando indietro verso il muro, con la gola lacerata in bocca. Il corpo morente sulla panchina si mosse appena, mentre il sangue scorreva via a fiumi. L'uomo sulla porta guardò di nuovo nella strada: non aveva visto niente. Sempre all'erta, lo fiutò e lo ascoltò. Il respiro era regolare, e l'odore normale. Bene, non si era accorto di niente. Ora che aveva compiuto il suo dovere, tornò dietro al muro per mangiarsi il trofeo. Era buono e grondante di sangue. Intorno a lei, il branco lavorava soddisfatto. Tre di loro sollevarono il corpo oltre il muro e lo lasciarono cadere con un tonfo. Gli altri due, esperti in quest'arte, lo spogliarono dei vestiti; poi portarono gli indumenti dalla parte opposta del parco, li fecero a pezzi e li nascosero nei cespugli, prima di tornare al loro pasto. Una volta spogliato, il corpo fu squarciato: ne annusarono attentamente gli organi interni. Un polmone, lo stomaco e la parte bassa dell'intestino furono messi da parte, perché erano marci. Poi il branco mangiò, rispettando l'ordine. La madre prese il cervello. Il padre una coscia con la natica. La prima coppia mangiò gli organi sani. Quando tornarono, i due della seconda coppia mangiarono il resto. Poi fecero a pezzi gli avanzi e li gettarono nel lago vicino. Le ossa affondarono: in caso di ricerche, le avrebbero trovate solo a primavera. I vestiti erano già stati ridotti a brandelli e sparsi qua e là, a un miglio di distanza. Ora ammucchiarono tutta la neve che poterono sopra il sangue del loro banchetto. Infine andarono in una grande distesa ricoperta di neve fresca, che avevano già visto prima. Si misero a correre e a ballare nella neve, sentendo la gioia del proprio corpo, il piacere di correre a perdifiato in quel grande spazio; dato che nessuno poteva sentirli, emisero un gioioso ululato pieno del ritmo che pulsava in loro dopo la caccia. Quel suono riecheggiò in tutto il parco, rimbalzando sui palazzi là intorno. Dentro a quelle case, i pochi che non dormivano rabbrividirono per l'antico e freddo terrore che quel suono comunica all'uomo. Poi raggiunsero la tana in cui avevano dormito nelle ultime quattro notti
e si stesero a terra. Secondo un'antica abitudine, dormivano durante le prime ore del mattino, e cioè quando gli uomini sono normalmente immersi nel sonno più profondo. Durante il giorno, quando l'uomo è più forte, rimanevano svegli e all'erta, e uscivano di rado dai nascondigli, se non era proprio necessario. Di sera andavano a caccia. Questo schema di vita risaliva alla notte dei tempi. Prima di dormire i due della seconda coppia fecero l'amore, sia per divertire gli altri che per prepararsi alla primavera. Dopodiché il padre e la madre li leccarono, e tutto il branco si addormentò. Ma non dormirono a lungo, non fino all'ora prima dell'alba come era loro costume. Questa notte avevano qualcosa da portare a termine, e invece di dormire lasciarono il nascondiglio e si mossero verso le strade deserte. Becky ascoltò il telefono squillare una, due, tre volte, dall'altro capo del filo. Finalmente Wilson tirò su la cornetta. Era tornato a casa, dopotutto. "Pronto?" "Stai bene?" "Sì, Mamma." "Su, dai, non essere sarcastico. Volevo solo darti la buonanotte." Wilson riattaccò. A lei venne in mente per un attimo di sbattere giù il telefono, ma a cosa serviva? Posò il ricevitore e tornò nel soggiorno. Dick non l'aveva sentita, e Becky si fermò un momento dietro di lui. Così sprofondato nella poltrona sembrava più piccolo di quanto fosse in realtà, come sminuito. Doveva fare tutto quel che poteva per aiutarlo a vincere quell'inchiesta. Era suo dovere; era implicata nella faccenda per il semplice fatto d'esser sua moglie. "Sapevi che riceveva del denaro extra," l'avrebbero accusata. "Da dove credevi che provenisse?" E a quella domanda poteva esserci solo una risposta. Non è che le dispiacesse aiutarlo, questo no. Era stato un buon marito per molto tempo, e quel che era accaduto tra di loro, pensava Becky, era molto triste. Il guaio era che non le importava. La trascuratezza aveva ucciso a poco a poco l'intimità che li aveva uniti. Se prima c'era stato un grande amore ora non c'era che noia mortale. Non provava nemmeno una sensazione di perdita. O magari non ne era sicura: c'era una sensazione d'aver perso qualcosa: un amore che non era mai stato reale. Ma se un amore può morire così le venne da chiedersi: è mai stato vero amore? Ricordò la lunga felicità del passato, quella felicità che sembrava così eterna, Quando erano andati a correre con la slitta su a Catskills, cin-
que Natali fa, l'amore che provavano l'uno per l'altra era stato reale. E nei momenti difficili, prima che lei entrasse in polizia, quell'amore era stato veramente un grande amore. Dick non era solo un buon amante, era stato anche un partner e un amico in modo profondo e speciale. "Sei bella," le diceva allora, "sei meravigliosa." E non intendeva solo in senso fisico. Forse era inevitabile che quell'entusiasmo diminuisse, con l'arrivo della mezza età. Ma il problema non era l'entusiasmo di lui, ma di Becky. Per quanto si sforzasse, non riusciva più ad amare Dick. Wilson attese cinque minuti per essere certo che non avrebbe richiamato. Il telefono non squillò più. Evidentemente la sua scortesia l'aveva fatta infuriare abbastanza da ignorarlo per il resto della notte. Benissimo. Andò in camera da letto e aprì la cassa che teneva chiusa a chiave nell'armadio. Conteneva una serie di armi decisamente illegali: un fucile a canne mozze, un modello WWII BAR vecchio ma ben funzionante e una pistola automatica Ingram M-11. Tirò fuori dalla custodia la pistola automatica e prese una scatola di cartucce; la mise in funzione con cautela, e poi la soppesò. Era un piacere toccarla: era indiscutibilmente il miglior modello di pistola automatica che fosse mai stato ideato: leggero, dotato di silenziatore e con la capacità di sparare proiettili da 20 metri al secondo. Non era fatta per spaventare, rallentare o confondere, ma per il puro e semplice scopo di uccidere. Un solo proiettile poteva far saltare le cervella a un uomo. La miglior arma automatica mai creata. La più veloce. La più micidiale. Aprì la scatola delle munizioni e inserì nell'arma un caricatore di proiettili speciali. 380 a velocità subsonica. Ora pesava di più, ma l'equilibrio non era cambiato. Solo tre libbre e mezzo, si poteva maneggiare facilmente. La mira era perfetta. Per essere una pistola aveva una gittata quasi incredibile: con quest'arma si poteva sparare a un uomo da una distanza di centocinquanta metri. Con tre o quattro proiettili lo si poteva colpire anche in fuga. Appoggiò la pistola sul letto e si mise un soprabito che indossava raramente. Quindi infilò la M-11 in una tasca creata su misura per la pistola da nove pollici. Dopo aver acquistato l'arma, Wilson aveva fatto modificare quel cappotto: ora la M-11 era perfettamente nascosta nella tasca. Nonostante la pistola fosse di peso o dimensioni notevoli, solo un attento osservatore si sarebbe accorto che la portava addosso. Toccò l'arma nella tasca, sollevando col pollice la sicura: era pronta per far fuoco. Ora bastava semplicemente premere il grilletto per sparare un colpo o un intero caricatore nel giro di pochi secondi. Molto bene. Poi tirò fuori il cappello invernale,
vecchio e spiegazzato ma perfetto per proteggere la testa e nascondere la faccia. Quindi le scarpe: nere e con la suola di gomma; con due paia di calze gli tenevano molto caldo e gli permettevano una grande agilità di movimenti anche nella neve. Le aveva fatte ricoprire di un rivestimento di poliuretano, e le suole erano state rigate per aderire meglio al terreno. Con quelle scarpe poteva fare movimenti silenziosi e rapidi, un grande vantaggio in una gelida notte invernale come quella. Da ultimo indossò un paio di guanti: erano fatti della miglior pelle marocchina, più morbida e sottile del capretto, e gli consentivano di impugnare perfettamente la M-11, come se non avesse indossato niente. Come precauzione finale, estrasse la pistola e cancellò le impronte. Neanche un poliziotto decorato poteva andare in giro a lasciar impronte su una pistola come la Ingram. Se nei regolamenti non ci sono divieti sul fatto che i poliziotti portino pistole mitragliatrici è solo perché non ce n'è nemmeno bisogno. Serve un permesso speciale per possederne una e per spostarla da un luogo all'altro. Il fatto poi di portarla per strada completamente carica è illegale sia per i poliziotti che per i civili. Ripose la M-11 nella tasca e stette in piedi per un po' in mezzo alla stanza, per fare mente locale. Era pronto a muoversi. Peccato che il piano di cancellare il proprio odore non si potesse attuare. Ora il suo unico punto di forza era la M-11. Questo e il fatto che i cacciatori non sono abituati ad essere cacciati. O almeno sperava che non lo fossero. La sua logica sembrava non fare una piega: un cacciatore umano si aspetterebbe mai che un cervo gli si rivolti contro, o un leone che una gazzella lo attacchi? Benché si rendesse conto del pericolo, sentiva di dover agire se voleva dare a Becky una possibilità di sopravvivere. Meritava di vivere, era giovane e forte; lui, invece, aveva poche probabilità. E ora stava correndo un rischio maledettamente grosso. Il pensiero d'essere ucciso da degli animali, per giunta, lo fece sudare freddo. Ma sapeva anche che lui e Becky dovevano ottenere un aiuto perché uno di loro due potesse vivere ancora. E per il genere di appoggi di cui avevano bisogno dovevano presentare una prova. Una dimostrazione inconfutabile e innegabile che costringesse Underwood ad agire, e ad affidare il problema a tutti gli uomini necessari per risolverlo. Wilson avrebbe fatto di tutto per impossessarsi di quella prova. E se mentre tentava di farlo fosse stato ucciso... Oddio, no, lui voleva vivere! Ma in ogni caso avrebbe cercato di procurarsi quella carcassa. Doveva farlo.
Lasciò l'appartamento, dopo essersi assicurato che tutte le luci fossero accese. Chiuse la porta a tripla mandata e si diresse rapidamente verso il retro dell'ingresso buio, dove c'era una scala di sicurezza chiusa da un cancello. Lo aprì, poi alzò il vetro della finestra e uscì nella notte fredda. Estrasse dalla tasca un pezzo di stucco che aveva portato appositamente con sé e lo appiccicò sul meccanismo di chiusura, in modo che, quando il cancelletto si fosse richiuso, il chiavistello sarebbe tornato a posto, ma si sarebbe rialzato se lo si fosse scosso leggermente. Se invece fosse stato tirato o scosso con violenza lo stucco avrebbe ceduto e la serratura si sarebbe chiusa con lo scatto. Poi chiuse la finestra e mosse il corpo massiccio giù per la scala coperta di ghiaccio, fino alla strada. La neve scendeva più fitta. Era un male, perché intralciava la sua vista ma non il loro olfatto. Forse quell'effetto ovattato avrebbe ridotto un po' il loro senso dell'udito. Mise la mano nella tasca, e infilò il dito nel grilletto della M-11. Era un'arma maligna, creata per la lotta contro la guerriglia: un tipo di lavoro in cui un poliziotto poteva sparare a vista e uccidere. Ora andava proprio bene. Era la pistola giusta per questo tipo di caccia: i proiettili potevano uccidere un uomo alto due metri, perciò un animale di un centinaio di libbre non avrebbe avuto scampo. Si mise all'inseguimento della preda. Secondo i suoi calcoli, Becky sarebbe stata la prima a essere colpita, perché era più giovane e presumibilmente più forte, e quindi più pericolosa. Invece Wilson, essendo lento, vecchio e debole, sarebbe stato il secondo bersaglio. La sua teoria era confermata dal fatto che erano arrivati così lontano per scovare Becky, mentre avevano lasciato lui abbastanza in pace. Ovviamente erano entrati dalla finestra del seminterrato, Wilson se ne era accorto. L'aveva lasciata socchiusa, quasi per invitarli a entrare. La notte prima, con la polvere speciale, aveva poi scoperto due serie di impronte, diverse tra loro come le impronte umane. Avevano salito le scale dal seminterrato fino alla porta; sulla serratura c'erano ancora i segni: avevano cercato di forzarla con gli artigli. Ma il maggior sforzo era riservato a Becky, di questo era piuttosto sicuro. Se si sbagliava, se invece erano intorno a lui, adesso... con un po' di fortuna ne avrebbe portato qualcuno con sé. Si mise a camminare per le strade deserte, a quell'ora di notte, con la mano stretta alla M-11 nella tasca. Malgrado la pistola, si teneva vicino al marciapiede, lontano dai bidoni dell'immondizia, dai vani bui e dalle scale di sicurezza. Ogni tanto si voltava a guardarsi dietro le spalle. Solo una
volta vide un'altra sagoma umana, un uomo imbacuccato che si affrettava nella direzione opposta, sotto la neve fitta. Quando raggiunse le luci della Ottava Avenue si sentì molto meglio. Era più al sicuro qui, sotto i lampioni al neon, le auto che passavano e i pedoni più frequenti. Pensò che sarebbe passato inosservato se avesse preso l'autobus, perciò attese alla fermata, invece di chiamare un taxi; ma passarono dieci minuti prima che arrivasse. Finalmente salì sull'autobus, che lo portò verso nord, in direzione della Ottantaseiesima e di Central Park West. Ora non rimaneva che da attraversare il parco, e poi si sarebbe trovato nel quartiere di Becky. Un quartiere di casermoni, nella Upper East Side... beh, se a lei piaceva questo... Pensò che non fosse il caso di attraversare il parco a piedi: in realtà non prese nemmeno in considerazione quest'idea. Al pericolo rappresentato da quelle creature si sarebbero aggiunte le insidie del parco; sarebbe stata un'azione fin troppo avventata. Dopo un'oretta circa, apparve un autobus che avanzava lentamente nella neve sempre più alta. Wilson salì, e fu confortato dal tepore che lo accolse a bordo. Una volta seduto si rilassò, ma non tolse mai la mano dalla tasca. Quando scese, riconobbe immediatamente l'edificio dove abitava Becky. Contò i balconi. Bene, aveva lasciato le luci accese: una precauzione intelligente. Probabilmente sarebbe andata su tutte le furie nel vederlo sopraggiungere lì da solo, ma non c'era altra soluzione. Non poteva coinvolgere altre persone in una simile pazzia. Si diresse verso il vicolo in cui quegli esseri dovevano essersi riuniti. La neve aveva coperto le loro tracce. Prima o poi sarebbero tornati, questo era poco ma sicuro. Ma se il loro olfatto era sottile come lo aveva descritto Ferguson, sapevano che Wilson era lì molto prima che lui potesse vederli. Dunque lo avrebbero attaccato per primi. Rigirò un attimo la M-11 nella tasca, e poi si sistemò dietro a un bidone dell'immondizia, in attesa. L'una. Si sentivano i gemiti del vento da nord. Le due. La neve soffiava a grandi raffiche, sotto la luce dei lampioni. Le tre. Wilson si sgranchì le dita dei piedi, si strofinò forte il naso e ascoltò i battiti del cuore. Verso le tre e un quarto lo assalì un colpo di sonno. Si pizzicò forte la guancia: il dolore lo fece sussultare, e fu di nuovo all'erta. Poi fu tutto tranquillo. Smise di nevicare. Sobbalzò affannosamente: si era addormentato davvero, stavolta. Che ora... le quattro e venti. Dannazione, più di un'ora di incoscienza. E dall'altra parte della strada, nel vicolo
sotto la luce, c'erano sei esseri orribili, i più terrificanti che avesse mai visto. Non mosse neanche un muscolo, soltanto gli occhi. Erano grandi, grossi come lupi. Avevano il pelo grigio-marrone, e il collo molto più lungo di quello di un lupo. Avevano grandi orecchie a punta, drizzate verso il vicolo. Poteva sentire che lo stavano ascoltando. La sua mente cominciò a gridare: Scarica quella dannata pistola, spara! Ma non riusciva a muoversi, non riusciva a staccare gli occhi da quei musi. Guardavano nella stessa direzione in cui erano puntate le orecchie. Erano... quasi sereni nella loro implacabilità. E avevano le labbra, strane labbra sensibili. Non c'era niente di umano, in loro, ma era chiaro quanto fossero intelligenti. Erano peggio dei musi delle tigri, erano ancor più spietati, più malvagi. Spara! Lentamente estrasse la pistola dalla tasca. Gli sembrò fosse passata un'ora, prima di riuscire a sollevarla, ma alla fine il lungo tamburo ruotò e... senza il minimo rumore quelli sparirono. Neanche una traccia, non avevano nemmeno sfiorato la neve con le zampe. Accidenti, se erano stati veloci! Maledizione, non aveva previsto una simile rapidità. Poi anche lui si mise a correre più forte che poteva fuori da quel vicolo, poi in mezzo alla strada coperta di neve: correva freneticamente sentendosi vecchio, vecchissimo, mentre arrancava col fiato corto, correndo verso una vetrata illuminata: era un bar aperto tutta la notte, e si precipitò all'interno. "Gesù, mi fai prendere un colpo, amico!" "Scusa... ehm, scusa. Io... ho freddo. Hai del caffè?" "Certo, arriva subito. Stavi correndo come un dannato, là fuori. Sei nei guai, amico?" "Cercavo solo di riscaldarmi un po', ecco tutto. Già, cercavo di scaldarmi." Il barista gli porse la tazza col caffè, ma la trattenne con la mano. "Hai cinquanta cents, paparino? Sono cinquanta cents, anticipati." "Oh, già, sicuro." Wilson pagò, prese la tazza tra le mani, la portò alla bocca e bevve. Cristo, sono vivo! Ho tirato fuori quella pistola in un a-t-t-i-m-o! Un secondo di più e mi avrebbero steso, quei figli di puttana! Era buffo, sembrava che ci avesse messo tanto, e invece l'aveva tirata fuori maledettamente in fretta. Abbastanza in fretta da salvarsi, e loro erano più veloci di quanto si potesse immaginare.
Bevve un altro sorso, e notò che gli tremava la mano. Basta, doveva smetterla. Molto tempo fa aveva imparato a superare quel particolare tipo di paura che assale quando si sente la vicinanza della morte. Doveva fare quell'esercizio: glielo aveva insegnato il suo primo socio, negli anni quaranta, quando lui era ancora un pivello di poliziotto. Poveraccio, morto stecchito, gli aveva sparato il figlio maggiore nel '52. Ehi, un momento, pensò Wilson, stai divagando. Sei sotto choc. Su, forza, poliziotto, dacci un taglio! Rilassati. Tira fuori la trippa. Allenta le labbra. Respira profondamente... uno... due... e non pensare a niente, devi solo rilassarti. Bevendo il caffè, stavolta ne sentì il sapore, e notò che era nero e senza zucchero. "Ehi, avevo detto leggero, questo è una bomba." "Ti ci vuole qualcosa di forte, amico. Non ti fa niente il caffè leggero. Beviti quello, che poi te ne do uno leggero." "Grazie, dottore, ma non sono ubriaco." Il barista ridacchiò, e poi guardò Wilson negli occhi. "Non ho detto che sei ubriaco. Hai paura. Sei il più spaventato figlio di puttana che ho visto da parecchio tempo. Magari il caffè ti rimette un po' a posto, amico." "Beh, adesso sono a posto, vecchio mio. E voglio un caffè leggero. Non riesco a bere questa roba." "Sicuro, se mi dai i soldi ti faccio anche il caffè al bicarbonato, se lo vuoi. Non me ne frega niente. Ma non dire che non riesci a bere quello." "Ma che cazzo.. Sei rincoglionito, forse? Ti ho detto che lo volevo leggero. Non riesco a bere questa robaccia." "Guarda nella tazza, amico." Era vuota. Non si era neanche accorto di averlo bevuto! Stette zitto, e ritornò ai propri pensieri, a quanto quegli esseri erano stati incredibilmente veloci. Pareva quasi che fossero svaniti; ma ricordava di aver colto un balenio di corpi in fuga. Poi gli venne in mente che, se erano tanto veloci, avrebbero potuto disarmarlo ancor prima che lui si rendesse conto della loro presenza. Perché non lo avevano fatto? Per qualche oscuro motivo a questo poliziotto decorato era stato concesso di vivere. Aveva ancora la M-11 nella tasca, e gli dava un senso di sicurezza, ma non l'aveva affatto protetto. Per niente. Sicuramente non era stata la velocità con cui aveva estratto la pistola a farli scappare. Allora qualcosa... era come un ricordo, ma non proprio. Gli sembrava quasi di sapere perché erano corsi via, ma subito dopo non lo
sapeva. "Merda." "Pronto per andartene, mister?" "No." "Beh, avrai notato che non ci sono sedie, qui. Questo è un bar notturno, non una sala da tè. Devi consumare e andartene, in un posto come questo: è la regola." "E se non me ne vado che succede?" "Niente. Ho solo la sensazione che sei nei guai, e che se resti te li porti qui con te." Wilson rifletté un momento se fosse meglio andarsene o esibire là tessera. Che diavolo, probabilmente andar fuori non era il modo più sicuro per salvare la pelle. Qualsiasi cosa li avesse fermati prima, questa volta magari non sarebbe servita. Perciò mostrò la tessera. "Polizia," disse con voce piatta. "Io resto qua." "Sicuro, come vuoi." "C'è una stanza nel retro, dove posso dormire alla meglio? Sono stanco, ho appena fatto delle brutte esperienze." "Sono d'accordo, a giudicare dal tuo aspetto. Abbiamo un ripostiglio. Non è male: c'è parecchio posto per stendersi, è abbastanza caldo." Condusse Wilson in una stanza dal soffitto basso; si trattava chiaramente di un capanno aggiunto al retro del vecchio edificio di pietra in cui si trovava il bar. C'era una finestra, con tanto di sbarre, e una porta chiusa a tripla mandata. Era perfetta, così comoda e sicura, per restarci fino al mattino, quando, con le strade di nuovo piene di gente, lui sarebbe potuto andar fuori senza rischi. Una volta disteso, ripensò al suo strano, terrificante insuccesso. Evidentemente erano davvero molto superiori a lui, veloci, astuti, e avevano il completo controllo della situazione. C'era un'unica ragione per cui era ancora vivo: loro volevano che sopravvivesse ancora un po'. Chiudendo gli occhi li rivide, col loro sguardo fermo, voglioso, e con la crudele bellezza dei musi... e si ricordò dell'alce e dei lupi. Che cos'aveva provato quel vecchio alce esausto nei confronti dei lupi affamati? Era amore, o una paura talmente grande da assomigliare all'amore? Quando si resero conto chi c'era lì, nascosto nel vicolo, furono pieni di gioia. Era venuto a proteggere la femmina, proprio come aveva detto il padre. Il padre conosceva l'uomo molto bene, e riusciva a fiutare delle sfumature che i più giovani potevano a stento immaginare. Lui aveva scoperto che l'uomo che li aveva visti amava la donna con cui lavorava. Il padre a-
veva detto: "Possiamo attaccarli nello stesso tempo, perché il maschio cercherà di proteggere la femmina." E il padre aveva scelto il luogo e l'ora: nel momento in cui la femmina era più indifesa, più vulnerabile. Andarono, e lui era là. E dormiva! La seconda coppia si preparò all'attacco, mettendosi in posizione dall'altro lato della strada. Erano proprio sul punto di balzare in avanti quando l'uomo sollevò la testa e li guardò. Il branco s'irrigidì, e nello stesso tempo fiutò: c'era sudore nella mano che teneva la pistola. Fu una decisione difficile, presa dalla madre di punto in bianco: "Ce ne andiamo; non possiamo ancora rischiare di muoverci contro la pistola, lo prenderemo un'altra volta." E il branco si mise a correre, precipitandosi per le strade finché non arrivarono all'edificio abbandonato in cui avrebbero passato la giornata. In ogni cuore c'era lo stesso atroce pensiero: sono vivi, sono vivi, sono vivi. E sanno di noi. Quando sorgerà il sole, lo diranno agli altri, spargendo quella paura di cui parlano le vecchie leggende; la paura che avrebbe reso la vita difficile tra gli uomini, e pericolosa per loro e per le generazioni future. La seconda coppia era particolarmente angosciata: in primavera la femmina avrebbe figliato, e non volevano che i piccoli nascessero se l'uomo sapeva della caccia. Non che temessero niente dai singoli individui, o dai gruppi. Ma un numero infinito di uomini poteva distruggerli, o comunque costringerli a una vita furtiva e tormentata, che non valeva la pena d'essere vissuta da esseri liberi. Mentre si muovevano con cautela lungo le strade deserte, erano tutti divorati dallo stesso pensiero: uccidere quegli esseri pericolosi, ucciderli presto. E fu di questo che parlarono quando raggiunsero il loro rifugio; una conversazione lunga e intensa, e alla fine rabbrividirono per un bisogno furioso di sangue, tutti eccetto il padre, che disse: "Noi abbiamo vinto. Presto si darà a noi come facevano gli uomini del passato, perché il desiderio di morte si sta impossessando di lui." Wilson aprì gli occhi. Dalla finestra entrava una luce grigio-giallastra. Il regolare ticchettio sui vetri indicava che stava nevicando di nuovo. "Chi diavolo sei?" Sopra di lui stava in piedi un uomo; era un tipo grasso, con dei pantaloni grigi e una camicia bianca. Era calvo, con la faccia contorta in un'espressione di avidità rimasta insoddisfatta per molto tempo. "Sono un poliziotto. Mi chiamo Wilson."
"Oh, Cristo, perché hai fatto entrare questo dannato vagabondo, Eddie? Buttalo fuori, questo figlio di puttana, sennò ci troveremo i suoi vermi perfino nel pane." "E decorato con la stella d'oro, amico. Non posso dire di no a una stella d'ora." "Una dannata stella d'oro si può comprare sulla 42° strada. Butta fuori quest'idiota..." "Non ti preoccupare, tesoruccio, me ne stavo andando. Grazie, Eddie, da parte del Dipartimento di Polizia di New York." Wilson uscì, accompagnato da una risataccia di scherno del tipo bianco, e da uno sguardo disgustato del negro. Dormire nei ripostigli, in effetti, era un comportamento non molto ortodosso, per un poliziotto. Ma che diavolo, chissenefrega, pensò. Le strade erano ancora piuttosto deserte, maledizione. Deserte e piene di neve, per giunta. Era una tormenta, ce ne dovevano essere ormai cinque o sei metri. Si avviò verso casa di Becky, ma poi si fermò. Questo pensiero lo colpì come un pugno: erano venuti a quell'ora perché sapevano che lui era lì. Erano cacciatori, Cristo, e sapevano maledettamente bene dove sarebbe andato. Oh, quanto erano intelligenti! Avevano previsto le sue mosse da lontano. Anche perché, probabilmente, era esattamente quel che avrebbe fatto uno di loro: proteggere l'essere amato. Accidenti, quella donna era proprio bella. Anche brava, come poliziotto — ma talmente bella! Becky aveva la pelle vellutata, e il colorito da irlandese. Wilson andava pazzo per quel tipo di carnagione. E aveva quegli occhi dolci, eppure penetranti. Immaginò di guardarla negli occhi. "Becky, ti amo," avrebbe detto, e lei avrebbe socchiuso la bocca, invitandolo al primo lungo bacio. Ma non adesso. Ora faceva freddo e lui aveva fame. Si trascinò fino alla metropolitana di Lexington Avenue, per andare giù ai quartieri generali. Il suo orologio segnava le sei e mezzo. Il Merit Bar doveva essere già aperto, e servivano una buona colazione. Poi si ricordò della M-11, sentendosela in tasca. Non si può entrare negli uffici centrali di Polizia con una M-11 carica, no, non si può proprio. Doveva fermarsi prima a casa, e sostituirla col revolver d'ordinanza. Nel metrò non faceva molto più caldo che per strada, ma almeno l'interno era ben illuminato e c'erano persone. Non molte, data l'ora, ma abbastanza perché quegli esseri gli stessero alla larga. Davano la caccia a lui e a Becky perché erano stati visti da loro, e di sicuro avrebbero attaccato solo
quando si fossero trovati da soli. Ma bastava essere soli anche per pochi secondi: doveva ricordarsene. Scese e tornò a casa sua, entrando questa volta dalla porta d'ingresso. In cima alle scale tolse con cura lo stucco che aveva lasciato nella serratura della scala di sicurezza, e ritornò nella sua stanza. Si tolse il cappotto che conteneva la M-11 e mise addosso quello con la 38. Questo fu tutto. Il suo appartamento era talmente ben sprangato che non temeva che un ladro gli rubasse la pistola o qualsiasi altra cosa. Chiuse la porta a doppia mandata, verificò che fosse solida, e lasciò l'edificio altrettanto rapidamente e silenziosamente di quando era venuto. E mentre camminava rise dentro di sé; in realtà, non c'era nessun bisogno di essere così furtivi, ma ormai era diventata una seconda natura. Tranne che nei casi in cui recitava la parte del cittadino indifferente, era sempre cauto e guardingo. Fece il breve tragitto da casa sua all'ufficio nello stesso modo; come un ladro o qualcuno che insegua un ladro. Percorse i corridoi dei Quartieri Generali di Polizia, ben illuminati e silenziosi, finché non arrivò nel piccolo ufficio suo e di Neff. Quando aprì la porta, sbarrò gli occhi per la sorpresa. C'era Evans, seduto lì. "Ehilà, Doc, ti devo per caso dei soldi?" Evans evidentemente non era interessato a un battibecco con Wilson. "Ne abbiamo un altro," disse semplicemente. "Com'è la storia?" "Telefona a Neff. Dille di incontrarci sul posto." "Ci sono novità?" Domandò Wilson mentre componeva il numero al telefono. "Parecchie." "Perché non hai telefonato tu a Neff?" "Tu sei il capo, in questo caso. Perciò mi rivolgo prima a te. Visto che non rispondevi, sono venuto qui; ho immaginato che stavi arrivando". "Era un caso d'emergenza, dottore. Potevi chiamare Neff, quando non mi hai trovato." "Io non ho mai casi d'emergenza. Il mio genere di lavoro riguarda le emergenze, ma solo dopo che si sono concluse." Da qualche parte il telefono stava squillando. Dick bofonchiò un'imprecazione diversa ogni volta che la suoneria rompeva il silenzio. Uno squillo e una maledizione, e così via. "Potrebbe essere per te," disse Becky.
"Nah. Io sono bruciato, non ti ricordi? Non è per me." "Quindi è per me." "E allora rispondi a quel fottuto aggeggio. Uno di noi due deve farlo." Becky tirò su il ricevitore. Wilson non si sprecò nei saluti. "Oh, Cristo. Okay, ci vediamo lì." Riattaccò. "Devo andare. Omicidio nel parco." "E da quando sei di servizio in centro?" "È stato Evans ad avvertirci. Dice che, a quanto pare, i nostri amici hanno avuto fame di nuovo." "I lupacci cattivi." Dick si sollevò sul gomito. "E per la nostra spedizione fotografica, la facciamo ancora?" "Spero. Ti telefono." "OK, tesoro." Si stava vestendo più in fretta possibile, ma quella tenerezza nella sua voce la fece fermare. Si guardarono. Sul volto di Dick si poteva ancora leggere la delirante, inaspettata intensità della notte prima. Becky lo vide con chiarezza: lui le era riconoscente. Questo la commosse, e le fece pensare che magari c'era rimasto ancora qualcosa, dopotutto. "Io..." Le parole sembrarono morirle in gola. Erano così estranee, e non erano state pronunciate per così tanto tempo... Dick le si era avvicinato senza parlare, al buio, proprio mentre lei stava per addormentarsi. L'aveva abbracciata, col corpo caldo e tremante, e aveva risvegliato in lei una dolorosa ondata di sentimento. Forse gli voleva ancora bene tanto da non riuscire nemmeno ad affrontare la cosa. E forse era questo il motivo per cui tra loro si era innalzato un muro. Rendendosi conto di questo, Becky aveva risposto alla sua intensità con passione, e aveva goduto dell'insistente violenza del suo corpo, finché aveva gridato per il piacere. "Cosa, Becky?" "Non so. Volevo solo dirti addio." Ma non 'ti amo', non quello, non ancora. Si sentì una persona spregevole per essersi tirata indietro, spregevole ed egoista. "Da come lo dici, sembra così definitivo," ridacchiò lui. "Il peggio che mi può capitare è un pensionamento anticipato. Se le spie se la cavano bene, potrebbero darmi gli otto giorni. Non ti preoccupare, tesoro. E comunque ho da dirti qualcos'altro prima che tu te ne vada." Si girò sulla schiena e tirò via le coperte, scoprendo il corpo nudo e il pene eretto con simpatica immodestia. "Sei sempre una delle grandi scopatrici d'America, cara." Lei si avvicinò e si chinò su di lui, baciandogli la faccia sorridente.
"Dick, sei proprio matto, ma guardati un po'. Non ti basta mai." "A me viene voglia di mattina." "E di notte e di pomeriggio. Vorrei non dover andar via! Ti chiamo appena posso." Si allontanò da lui, piena di confusione e di emozioni. Perché non riusciva a decidersi: amava Dick oppure no? E quanto a Wilson, che sentimenti provava per lui? Scese con l'ascensore fino al garage e salì in macchina. Non appena cominciò a guidare, la sua mente si concentrò di nuovo su quel caso. La notte con Dick perse d'importanza, così come il tumulto di sentimenti che aveva provato. Il caso si alzò intorno a lei come una nebbia densa e sporca, e la catturò di nuovo. Wilson non aveva detto molto al telefono, non molto. Ma le era sembrato turbato, in un modo diverso dal solito. Evans era lì con lui, ai Quartieri Generali. Guardò l'orologio: le sette di mattina. Molto presto, per il dottor Evans. Premette l'acceleratore, correndo per la Sessantanovesima Strada tra la neve, diretta al luogo dell'appuntamento: Central Park West e la Settantaduesima. Quando girò l'angolo tra la Sessantanovesima e CPW, le strade erano ancora deserte. Si trovava nel 20° Distretto. Davanti a sé vide le luci intermittenti, e il triste gruppetto di veicoli d'emergenza che caratterizzano sempre il luogo del delitto. Parcheggiò dietro a un'auto della radio. "Sono Neff," disse al tenente che si trovava lì. "Abbiamo uno strano caso," cominciò. "I ragazzi della squadra anticrimine hanno trovato questa panchina coperta di sangue ghiacciato, circa un'ora fa. L'abbiamo portato al reparto di patologia, ed è sicuramente umano. 0-negativo, per la precisione. Ma non c'è cadavere né altro." "Come fa a sapere che si tratta di un omicidio?" "Ci sono prove sufficienti. Per prima cosa c'è troppo sangue: chiunque l'abbia perso è morto di sicuro. Secondo, è visibile il punto in cui il corpo è stato trascinato al di là del muro." Becky rivolse lo sguardo verso le incavature della neve lungo il muro. Dal momento del delitto era caduta altra neve, ma non abbastanza da cancellare i segni. "A proposito, Investigatore Neff, perché lei è qui, se permette la domanda?" "Beh, ho un incarico speciale insieme al mio socio, l'Investigatore Wilson. Stiamo investigando; quando il medico legale ha un caso che fa per noi, ci dà un colpo di telefono." "Lei prende gli ordini dal medico legale?"
"No, dal commissario." Non voleva tirar fuori i grossi nomi, ma intuì che lui stava punzecchiando. L'altro sorrise impacciato e se ne andò. "Tenente," gridò Becky, "a parte il sangue, non avete niente? Niente cadavere o vestiti?" "Aspetta, Becky," disse una voce dietro di lei. Era Evans, seguito da Wilson. I due uomini si avvicinarono, e tutti e tre iniziarono a parlare sotto gli occhi curiosi degli uomini del 20° Distretto e di quello di Central Park. "C'è dell'altro," disse Evans, "ci sono dei peli". "Ha esaminato dei peli mischiati al sangue." "Esatto. Ti presento il mio interprete, l'Investigatore Wilson. "Ho trovato dei peli... Che corrispondono a quelli trovati nel luogo del delitto Di Falco." Evans aggrottò la fronte. "Dai, Wilson, piantala. I peli corrispondono a quelli trovati in ogni scena del delitto." "Sono piuttosto voraci, per aver lasciato solo il sangue," disse Becky. "Non è andata così. Non capisci quello che è successo? Hanno nascosto i resti. Hanno capito che gli stiamo alle costole, e stanno cercando di metterci i bastoni fra le ruote. Sono molto furbi." "Questo è sicuro," disse Wilson. Becky notò che aveva un'aria stanca: la faccia bianca come la cera, e non si era fatto la barba. Aveva dormito? Non sembrava, dal suo aspetto. Wilson si schiarì la voce. "Stanno cercando il cadavere?" domandò al tenente, che stava in piedi là vicino. "Sì. Ci sono segni come di qualcosa che sia stato trascinato, ma la neve ha ricoperto gran parte delle tracce. Non siamo sicuri di quello che è successo." Becky si mosse verso Wilson ed Evans, che la seguirono in macchina. "Qui fa più caldo," disse, "e nessuno ci sente." Evans fu il primo a parlare. "È chiaro che stavano nascosti dietro il muro, quando qualcuno si è seduto sulla panchina. A giudicare dal sangue, tutto è successo cinque o sei ore fa. Devono aver saltato il muro, ucciso rapidamente e trascinato via il corpo." "Non tutto intero," disse Wilson. "Ci sarebbero più segni. Penso che lo abbiano fatto a pezzi e portato via così." "Gesù. Ma... i vestiti?" "E quello che dovremmo essere in grado di scoprire. E anche le ossa: se è per questo, non ci sono molti posti dove possono averle nascoste." "Che ne dici del laghetto?" "Vuoi dire perché è gelato? Dubito che abbiano pensato di rompere il
ghiaccio del laghetto, sarebbe troppo astuto." "Dobbiamo trovare i vestiti, o comunque qualsiasi tipo di identificazione." "Già. Ma dove cerchiamo? Questa dannata neve..." "Mi bastano quei peli. Non mi serve nient'altro per convincermi. La notte scorsa sono venuti qui e hanno ucciso questa persona. Sono sicuro di questo. Sono stati loro. I loro peli sono unici, unici come un'impronta digitale." "Quindi uccidono parecchio. C'era da aspettarselo, da un animale carnivoro." Becky corresse il suo socio. "Umanoidi carnivori." Wilson rise. "Da quel che ho visto, è un po' difficile definirli degli umanoidi." "E cos'hai visto?" "Loro." Becky e il medico legale lo guardarono sbalorditi. "Li hai visti?" riuscì finalmente a dire Evans. "Proprio così. La notte scorsa." "Che diavolo stai dicendo?" domandò Becky. "Ne ho visti sei fuori di casa tua, stanotte. Gli facevo la posta, cercavo di procurare un esemplare per Ferguson." Sospirò. "Sono veloci, comunque. Li ho mancati di un chilometro. Per fortuna sono ancora vivo." Becky era stupefatta. Guardò la faccia stanca del suo socio, i suoi occhi umidi, invecchiati. Era stato là a farle la guardia! In quel momento le sembrò di scorgere un Wilson segreto, nascosto, e di vederlo per la prima volta. Voleva quasi baciarlo. CAPITOLO SETTIMO Carl Ferguson era inorridito e al tempo stesso eccitato da quello che stava leggendo. Gli sembrò di scivolare via, in un mondo tranquillo e sicuro. Ma tornò alla realtà. Intorno gli si imposero di nuovo all'attenzione tutti i prosaici particolari della Sala di Lettura Principale della Biblioteca Pubblica di New York. Di fronte, una studentessa fin troppo carina faceva scoppiare il pallone di chewing-gum. Un vecchio lì accanto, col respiro lungo e lento, sfogliava un libro altrettanto vecchio. Intorno a lui c'era tutto un vociare sommesso, un raschiare di penna sulla carta, e la gente tossiva e bisbigliava; e poi c'era il ronzio degli impiegati che chiamavano i numeri
dall'altra parte della sala. Dato che non si poteva entrare nel deposito e non era possibile entrare o uscire da quella sala con un libro, la raccolta della biblioteca non aveva subito furti ed era ancora una delle migliori del mondo. L'estrema paura che Carl Ferguson provava era dovuta proprio a quel libro, finalmente ottenuto dalla magnifica raccolta. Ciò che leggeva, che gli stava davanti agli occhi in quel momento, era quasi troppo fantastico e orribile da credere. Eppure le parole erano proprio lì. "In Normandia," Ferguson lesse perla terza volta, "la tradizione racconta di alcuni esseri fantastici, conosciuti come lubini o lupini. Essi trascorrono la notte conversando tra loro e ciarlando in un linguaggio sconosciuto. Vagano spesso vicino alle mura dei cimiteri di campagna e ululano in modo tetro e inquietante alla luna. Poiché temono l'uomo, fuggono spaventati al suono di un passo o di una voce in lontananza. In alcune regioni, tuttavia, essi sono feroci, e appartengono alla razza dei lupi mannari, poiché si dice che grattino via con le zampe la terra delle tombe e rosicchino le povere ossa dei morti che vi giacciono." Una storia antica, ripetuta da Montague Summers nella sua opera classica, Il lupo mannaro. Summers presupponeva che i racconti sui lupi mannari non fossero altro che folklore, dicerie inventate per terrorizzare gli sciocchi. Ma Summers si sbagliava nella maniera più incredibile e totale. Le antiche storie e leggende erano vere. C'era solo un piccolo elemento d'inesattezza: nel passato si credeva che, data la loro intelligenza e astuzia, si trattasse di uomini trasformatisi in animali. Ma non lo erano. Non erano affatto questo, bensì una specie diversa di creature intelligenti. Ed erano vissuti sul pianeta Terra insieme a noi per tutti quei millenni senza che nessuno se ne rendesse conto. Che creature straordinarie dovevano essere: una vera e propria intelligenza aliena qui in mezzo a noi! Era una scoperta spaventosa, ma per Ferguson rappresentava anche una terribile meraviglia. Qui c'erano leggende, storie, racconti che risalivano a migliaia d'anni prima, e che riconfermavano ogni volta il mito del lupo mannaro. E poi improvvisamente, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, il silenzio. Le leggende erano sparite. Le storie non venivano più raccontate. Ma perché? Nella mente di Ferguson la risposta era semplice: i lupi mannari, tormentati per generazioni dalla vigilanza e dalla paura degli umani, avevano trovato un modo per nascondersi. Ora lo facevano in modo
perfetto. Vivevano tra noi, si nutrivano della nostra carne viva, ma erano sconosciuti da tutti, tranne che da chi non viveva abbastanza a lungo da poter raccontare quel che aveva visto. Una genia di spiriti viventi, invisibili ma diffusi in gran parte del mondo. Erano riusciti a comprendere la società degli uomini abbastanza da aggredire solo coloro che erano abbandonati, deboli o isolati. E verso la fine del diciannovesimo secolo tutto il mondo aveva conosciuto un'esplosione demografica, e la povertà e la degradazione si erano diffuse ovunque. Enormi masse di persone erano ignorate e abbandonate dalle società in cui vivevano, ed erano il cibo di questi lupi mannari, che adesso vagavano nell'ombra divorando i mendicanti, i vagabondi e la gente senza nome né tetto. Sicuramente la popolazione di lupi mannari era esplosa insieme a quella umana. Ferguson immaginò centinaia, migliaia di queste creature alla ricerca di prede umane nelle grandi città della terra; raramente qualcuno li intravedeva, poiché usavano il naso e le orecchie, sensibilissimi, per tenersi ben lontani da tutti, tranne che dai deboli e dagli indifesi, approfittando della crescita di popolazione e della crescente povertà. Le loro facoltà, insieme all'intelligenza, ne facevano degli esseri veramente spaventosi — ma quale straordinaria opportunità rappresentavano per la scienza, per lui — in quanto esseri che potevano essere oggetto di studio, e capaci forse di comunicare! Ma c'era qualcos'altro nel libro di Summers, qualcosa di ancora più inquietante, ed erano i continui accenni alla comunicazione tra uomini e lupi mannari. "Due signori che attraversavano un bosco dopo il tramonto si imbatterono improvvisamente in una radura, dove videro un vecchio taglialegna, che conoscevano bene; egli stava in piedi e faceva dei movimenti in aria, formando strani segnali. I due amici si nascosero dietro un albero, e da lì videro arrivare tredici lupi. Il capo era un enorme lupo grigio, che andò verso l'uomo, e facendogli le feste si fece accarezzare da lui. Poco dopo, il boscaiolo intonò una cantilena e scomparve nel bosco, seguito dai lupi." Una storia semplice, ma terribilmente interessante nel contesto delle informazioni che gli avevano fornito i due investigatori. Ovviamente le allusioni ai segni e alla "cantilena" si riferivano ai tentativi dell'uomo di mimare il linguaggio dei lupi mannari, per poter comunicare. Ma per quale motivo un tempo gli uomini si aggregavano ai lupi mannari? Summers diceva che i vampiri erano spesso associati ai lupi mannari. I vampiri — i divoratori di sangue, in altre parole, cannibali. A una persona
meno perspicace di lui, un'idea del genere sarebbe sembrata pura fantasia, ma Ferguson conosceva la vecchia Europa abbastanza a fondo da comprendere la probabile verità celata dietro la leggenda. Era vero che gli uomini si aggregassero coi lupi mannari, e che questi uomini fossero chiamati vampiri perché si nutrivano di carne umana come gli stessi lupi. Il cannibalismo doveva essere comune nell'Europa medievale, quando l'opprimente povertà era il destino di tutti, tranne che di una minuscola minoranza. A quei tempi, il fatto che gli uomini fossero le creature più deboli e numerose dovette tentare chi aveva fame... ad andare a cercare i lupi mannari, a stabilire in qualche modo un rapporto con loro, per vivere nutrendosi dei loro avanzi. Tanto peggio per l'immagine del conte-vampiro, col castello e lo smocking. La realtà era più simile alla descrizione di Summers — un vecchio sporco boscaiolo che se ne va in giro con un branco di lupi mannari per racimolare gli avanzi dei loro mostruosi festini. L'uomo che si cibava di carogne aveva quindi lo stesso ruolo che hanno i cani tra gli uomini! E la preda umana, che oggi non sospetta niente, allora sapeva. All'avvicinarsi della sera, la gente sentiva il cuore spezzarsi per il terrore. E quando scendeva la notte solo i pazzi e i disperati rimanevano all'aperto. Qual era allora il ruolo dello spazzino da carogne umano, il vampiro che seguiva i lupi mannari? Perché lo tolleravano? Semplice: per persuadere la gente a uscire dalle case, per attirarli verso le tenebre, dove potevano sbranarli. Ciò era terribile, ma voleva anche dire che in passato c'era stata una comunicazione di qualche sorta tra l'uomo e i lupi mannari, e che quindi poteva esserci ancora. E la comunicazione tra quella specie straordinaria e la scienza moderna avrebbe potuto essere incommensurabilmente più ricca. Non esisteva paragone tra la promessa del futuro e i sordidi errori del passato. Nei secoli più recenti la vita era stata sempre più facile per i lupi mannari. Non c'era più bisogno di vampiri umani: oggi potevano farcela da soli. Bastava andare a vivere in una qualsiasi grande città, in una delle migliaia di case abbandonate che c'erano in quelle città, e far razzia tra i vagabondi umani. L'uomo e il lupo. Era un'inimicizia di lunga data. L'immagine del lupo che ulula alla luna in una notte invernale causa ancora terrori primitivi nel cuore dell'uomo. E non senza motivo, a parte il fatto che l'innocente cane lupo, con il suo
acuto ululato e la massiccia presenza di un tempo, non era il nemico reale. In agguato nell'ombra, magari sul sentiero che portava al pozzo, c'era il vero nemico, nascosto, paziente, letale oltre ogni immaginazione. Quell'essere dall'aspetto di lupo, con i suoi lunghi artigli simili a dita umane, era l'altra specie intelligente con cui l'uomo condivideva il pianeta. Gli uomini uccidevano l'innocente cane lupo e non scoprivano mai il vero pericolo. Mentre il cane lupo abbaiava alla luna indifferente, il reale nemico saliva furtivamente i gradini, su dalla cantina, e usava quelle abili zampe per aprire il chiavistello della porta. Ferguson si passò le dita tra i capelli, cercando di accettare mentalmente la spaventosa verità appena scoperta. Quel dannato investigatore — Wilson, si chiamava — aveva avuto un'intuizione assolutamente straordinaria riguardo a tutta la faccenda. Era stato Wilson a parlare per primo di lupi mannari, le due parole che avevano indotto Ferguson a riflettere seriamente su quella strana zampa. E sempre Wilson aveva affermato che i lupi mannari stavano dando la caccia a lui e alla donna. Adesso capiva quanto avesse ragione! Se il segreto fosse stato divulgato, la vita di quelle creature sarebbe diventata enormemente più difficile, come lo era stata molti secoli prima in Europa, quando gli uomini chiudevano porte e finestre coi catenacci, o nelle Americhe, dove gli indiani sfruttavano la propria conoscenza della foresta per giocare a quel mortale gioco a nascondino commemorato ancora oggi con le danze tradizionali di molte tribù. Sicuramente il lupo mannaro aveva seguito l'uomo nel continente americano attraverso il ponte di terraferma di Bering, nei tempi preistorici. Ma sempre e dovunque si era tenuto nascosto meglio che poteva. E ne aveva sicuramente motivo: non avrebbe mai potuto aggredire i barboni che dormivano sui marciapiedi, se tutti avessero saputo dei lupi mannari. La città e il mondo intero sarebbero stati investiti da un'ondata di terrore, come mai era successo dai tempi del Medio Evo in poi. In nome della sicurezza umana si sarebbero fatte cose indescrivibili. L'uomo avrebbe dichiarato al suo avversario una guerra senza quartiere. E alla fine avrebbe combattuto una lotta ad armi pari. Con tutta la nostra tecnologia, non abbiamo mai avuto di fronte a noi un'intelligenza aliena, una specie la cui tecnologia incorporata è molto superiore alla nostra. Ferguson non riusciva a immaginare come fosse la mente dietro al naso e alle orecchie del lupo mannaro. La quantità d'informazioni che essa riceveva doveva essere milioni di volte maggiore di quella che raggiungeva il cervello dell'uomo attraverso gli occhi. Una mente che riusciva a dar signifi-
cato a tutti quei dati doveva essere veramente un miracolo. Forse anche di più della mente dell'uomo. E stavolta l'uomo doveva reagire in modo responsabile. Se davvero quegli esseri erano intelligenti, allora ci si poteva ragionare, e alla fine le due specie nemiche avrebbero imparato a convivere in pace. Se mai Carl Ferguson aveva un ruolo in questa storia, si trattava senz'altro di quello di missionario della ragione e della comprensione. L'uomo poteva scegliere tra dichiarare guerra a questa specie o cercare di raggiungere un accordo. Ferguson sollevò la testa, chiuse gli occhi e sperò con ogni fibra del suo essere che una volta tanto prevalesse la ragione. Notò con stupore che qualcuno stava in piedi accanto a lui. "Deve portare questo talloncino di richiesta alla sezione libri rari. Non abbiamo questo libro qui in sala di lettura; i libri che ci sono qui sono stati tutti pubblicati dopo il 1825, mentre questo risale al 1957." L'impiegato depose la tessera sul tavolo e se ne andò. Ferguson si alzò e si diresse verso la collezione di libri rari, con la tessera stretta in mano. Percorse le sale vuote e riecheggianti della grande biblioteca, arrivando finalmente alla sezione dei libri rari. Una donna di mezza età stava seduta a una scrivania, studiando un catalogo sotto una lampada dalla luce verdastra. L'unico rumore della stanza era il lieve ticchettio dei tubi del termosifone e il mormorio ovattato dalla neve della città al di là delle finestre. "Sono Carl Ferguson del Museo di Storia Naturale. Vorrei dare un'occhiata a questo libro." Le porse la tessera. "Noi abbiamo questo libro?" "È nel catalogo." La donna si alzò e scomparve dietro una porta blindata. Per un po' Ferguson attese ansiosamente in piedi, poi prese una sedia. Dalla porta non proveniva nessun rumore; era solo nella stanza. Quel posto odorava di libri. Egli era impaziente che la donna tornasse, per portargli il libro che serviva urgentemente. Era di Beauvoys de Chauvincourt, uno scrittore tuttora considerato un'autorità in fatto di lupi mannari e, cosa ancor più interessante, un loro frequentatore. Ciò che aveva incuriosito Ferguson era il modo in cui era morto: significava che quell'uomo aveva veramente fatto una conoscenza diretta di quelle creature. Beauvoys de Chauvincourt era uscito una notte alla ricerca dei suoi amici lupi mannari, ed era scomparso. Nonostante gli oscuri sospetti di quel tempo, Ferguson era sicuro che avesse trovato la morte mentre osservava gli antenati di quelle stesse creature che i due poliziotti avevano scoperto. "Se ne intende di libri, Mr. Ferguson?"
"Dottore, prego. S-sì, certo. So come maneggiare i libri antichi." "È proprio questo che non si deve fare." Lo squadrò. "Girerò io le pagine," disse in tono risoluto. "Andiamo da quella parte." Mise il libro su un tavolo di fronte a lui ed accese una delle lampade schermate di verde. "Discours de la Lycanthropie, ou de la transformation des hommes en loups" era il titolo. "Giri." La donna aprì il libro, girando le pagine spesse. Ferguson sentì il sudore colargli giù per le tempie. Quello che vedeva era talmente straordinario che non riusciva quasi a trattenersi dal gridare. Sul frontespizio di quell'antico libro, infatti, c'era una stupefacente incisione. Essa raffigurava una brulla radura, illuminata da una luna piena. Un uomo attraversava quella pianura, circondato da esseri rassomigliami a dei lupi, che però non erano lupi. L'uomo sembrava a suo agio, e camminando suonava una cornamusa che portava a tracolla. E i lupi mannari lo seguivano. L'artista ne aveva fatto un ritratto fedele, immaginò Ferguson. La testa, con l'ampia scatola cranica e i grandi occhi, le zampe delicate e minacciose, i musi voraci e intelligenti: tutti quei particolari combaciavano con l'immagine che Ferguson si era fatto dell'aspetto di quelle creature. E l'uomo che era con loro — incredibile. A quel tempo c'era una comunicazione tra gli umani — alcuni esseri umani — e i lupi mannari. Lo stesso Chauvincourt doveva averli... conosciuti. E alla fine l'avevano ammazzato. "Giri la pagina." Ferguson provò un desiderio maledetto di saper meglio il francese. C'erano elenchi di nomi — no, erano invocazioni di demoni. Qui non c'era niente da imparare. "Giri." Altre invocazioni. "Continui a girare." La donna sfogliò le pagine finché qualcosa non catturò lo sguardo di Ferguson. "Il loro linguaggio." Seguiva una descrizione di un complesso linguaggio fatto di movimenti della coda e delle orecchie, di ringhi, di cambiamenti dell'espressione facciale, di movimenti della lingua, perfino di schiocchi di unghie. Era come se il linguaggio umano fosse consistito non solo di parole ma anche di una miriade di gesti che enfatizzavano le parole. Ferguson imparò così qualcosa che non sapeva. Quelle creature avevano corde vocali inadeguate per le esigenze di un vero e proprio linguaggio verbale. Con quanta velocità doveva essersi evoluto il loro cervello! Forse
ci erano voluti solo cinquanta o centomila anni, ed eccoli qui, questi strani esseri intelligenti che vagavano per il mondo all'inseguimento dell'uomo, tuttora impegnati in quella caccia eterna. "Volti pagina." Qui c'era un'altra incisione: si trattava di movimenti delle mani. "Posso fare una fotocopia di questa pagina?" "No, questo libro non si può fotocopiare." Si era portato carta e matita, e disegnò degli schizzi approssimativi delle posizioni, annotando il significato di ognuna: fermati, corri, uccidi, attacca, fuggi. Fermati — le punte delle dita richiuse sul palmo della mano. Corri — i pugni chiusi contro la gola. Attacca — le mani che afferravano lo stomaco come artigli. Fuggi — i palmi contro la fronte. Ma questi erano segnali umani. Ovviamente i lupi mannari non utilizzavano questi gesti tra loro perché erano quadrupedi. Doveva esserci un linguaggio reciproco composto da segnali come questi tra i lupi e... "Les vampires." Il libro lo diceva. E parlava della fonte di un'altra leggenda, ancora quella dei vampiri. Probabilmente quello era il linguaggio che usavano per comunicare coi lupi mannari. I vampiri, e cioè gli uomini che seguivano i lupi e divoravano i loro avanzi, servivano ai lupi per convincere le persone a uscire dalle loro case ben chiuse. Com'era diverso il mondo, in quei tempi! Lupi mannari e vampiri in agguato nella notte, coi vampiri che attraevano le persone per divorarle. Non c'era da sorprendersi che il Medio Evo fosse un'epoca così oscura e crudele. I terrori della notte non erano affatto immaginari, ma brutali realtà che ognuno doveva affrontare sin dalla nascita. Soltanto quando la popolazione cominciò ad aumentare la minaccia sembrò scomparire. Gli uomini divennero così numerosi che i delitti dei lupi mannari non si notarono più. Ai tempi di de Chauvincourt gli aiutanti umani probabilmente non erano più necessari, nella maggior parte dei casi... e perciò quando il vampiro s'indeboliva per la vecchiaia i lupi mannari lo sbranavano. La bibliotecaria voltò la pagina. Ferguson sobbalzò. Cercò di trattenersi, ma fece un involontario passo indietro e rovesciò la sedia. "Signore!" "Io — Mi... mi dispiace!" Afferrò la sedia e la rimise a posto. Ora si sentiva un idiota. Ma l'incisione che copriva entrambe le pagine di fronte a lui
era talmente terribile che quasi non riusciva a guardarla. Si trovava faccia a faccia con un primo piano del lupo mannaro. Era una fedele riproduzione dei suoi lineamenti. Anche in quest'incisione vecchia di trecentottant'anni era visibile la ferocia, la terribile voracità di quella creatura. Gli occhi lo fissavano come se provenissero da un incubo. Ed erano veramente un incubo. Tra i pensieri che gli giravano vorticosamente in testa, si affacciò il ricordo di un incidente che gli era capitato quando aveva non più di sei o sette anni. Era con la famiglia sui Catskills, per trascorrere l'estate vicino a New Palz, nel nord dello Stato di New York. Stava dormendo nella sua stanza da letto, al pianterreno. Qualcosa lo svegliò. La luce della luna inondava la stanza, attraverso la finestra aperta. Un mostruoso animale si sporgeva in avanti, col muso ben visibile nel chiaro di luna. Lui aveva urlato, e quella cosa era scomparsa in un batter d'occhio. Gli dissero che aveva avuto un incubo. E ora quel muso lo fissava di nuovo. La bibliotecaria richiuse il libro. "Adesso basta," disse. "Credo che lei sia sconvolto." "Quei disegni ..." "Sono orribili, ma non credo che ci sia proprio bisogno di... isterismi." Ferguson fu sorpreso da quella reazione. Come osava accusarlo in quel modo! "Che cosa ne direbbe, signora, se quelle fossero figure di animali reali?" "Ma questi sono lupi mannari, Mr. Ferguson." "Dottore. E le assicuro che quegli animali sono assolutamente reali. Lei può immaginare lo shock che ho avuto quando li ho visti raffigurati su un libro così antico, mentre pensavo che la scoperta fosse avvenuta solo qualche settimana fa." La lasciò a risolvere quel mistero da sola. Peccato, perché era una donna attraente, non gli sarebbe dispiaciuto conoscerla meglio. Ma non ora. Andò giù nel guardaroba e prese il suo cappotto. Fuori aveva smesso di nevicare, e il passaggio dei pedoni aveva ricoperto il marciapiede di una fanghiglia grigia. Si alzò il bavero del cappotto contro il vento che si stava alzando e si diresse verso la Sesta Avenue. Voleva vedere Tom Rilker, e chiedergli di aiutarlo a determinare il raggio d'azione di quelle creature in città. Ci doveva essere una zona in cui si radunava una moltitudine di senzatetto. Non la Bowery, circondata com'era da zone densamente popolate. Rilker probabilmente aveva qualche idea. Poi si fermò. "Mio Dio," pensò, "quei due poliziotti potrebbero aver ra-
gione: e se stessero dando la caccia anche a me?" Lo avevano visto coi poliziotti, la notte precedente? Chissà, era impossibile dirlo. Ma se l'avessero davvero collegato a loro, in questo momento era in pericolo mortale, anche qui, nel mezzo della Quarantaduesima Strada. Infilò i pugni in tasca e si mise a camminare più svelto. E gli tornò in mente il muso dell'incubo nella finestra illuminata dalla luna. Dick Neff andò in cucina a prepararsi ancora qualcosa da bere. Gettò un'occhiata all'orologio della cucina: era quasi mezzogiorno. Un raggio di sole entrò dalla finestra, affilato come una lama argentea. Non nevicava più, e le nuvole erano state spazzate via. Ora si sentivano i gemiti del vento che sbucava dall'angolo del palazzo, e un sottile strato di neve brillava nella luce solare. Quel bagliore ferì gli occhi di Dick, mentre armeggiava per prepararsi il terzo Bloody Mary. La sua mente lavorava, in una nebbia angosciata che non riusciva a scacciare. Becky, le spie, l'essere stato bruciato, il dolore. Bevve un lungo sorso del drink e andò nel soggiorno. Maledizione, non riusciva a capacitarsi di quello che era quasi successo, di quanto era andato vicino alla morte. Era stato bruciato e non se ne rendeva neanche conto. Aveva lavorato con Andy Jakes per sei mesi, ci aveva dato veramente sotto. Vaffanculo, quel tipo era il più grosso spacciatore del Nord Est. Il più grosso fottuto spacciatore. E Andy Jakes aveva giocato con Mr. Poliziotto della Narcotici. Cristo Santo! Se avesse arrestato Andy Jakes le spie avrebbero girato al largo, per rispetto. Meglio chiudere un occhio. Ma ora non era che un'altra vittima della mente astuta di quell'imbroglione. Era stato sul punto d'entrare nell'appartamento di Jakes, stava per salire nell'ascensore quando i suoi compagni di squadra l'avevano raggiunto. Aspetta, Dick, ci sono guai in vista. Bobby dice che il microfono segnala parecchio movimento, là dentro. Jakes dovrebbe essere solo? — Sì, è solo. Ha la roba in casa. Dieci chili, fatemi andare. — Non da solo. Non andarci. C'è della gente là dentro, un sacco di gente che si muove, ma non sta parlando. — Non parlano? Merda, allora vuol dire... — Sospettano che ci siano i microfoni. E sospettano di te. Ti stanno aspettando, Dick. — Oh, merda, merda, merda. E si era fermato. Non era entrato. Da' retta all'istinto, ragazzo. Non entrare. Un altro magari se ne sarebbe fregato, e sarebbe entrato. Ma non
Dick. Stavano cercando un mandato di perquisizione e d'arresto, quando ricevettero un'altra comunicazione. Se ne stavano andando. Cristo! Se n'erano già andati! La vigilanza li aveva seguiti all'aeroporto di Teterboro: andavano in Guadalupa, Honduras, Brasile. Merda. Ottennero il mandato ed entrarono nell'appartamento. Era vuoto, ovvio, completamente vuoto, a eccezione del dannato messaggio. Un messaggio scritto su un grazioso biglietto a disegni stampati, proprio carino. "Scusa, Richard," diceva il messaggio. "So quanti guai ti stiamo causando. Adesso starai attento. Cordialmente, Andy." Quando videro quel messaggio, i ragazzi cacciarono un urlo. "Ehi, Richard, Andy è proprio un gran figlio di puttana! Cristo, che stronzo." Gli altri erano quasi contenti che Dick non l'avesse arrestato. Robin Hood. Sam Bass. Il grandioso truffatore. E poi c'era anche quell'altra cosa; ogni poliziotto con la stella d'oro nella divisione sbavava per prendere Andy Jakes, e adesso la stagione di caccia era riaperta. Altri potevano provarci, adesso che Neff aveva mancato il bersaglio. "Dick, tu lo sai cosa ti aspettava là dentro," aveva detto il Capitano Fogarty. Caro vecchio Fogarty, sembrava sempre piuttosto sveglio. "Un maledetto arsenale. Secondo i microfoni, c'erano sei o sette persone, che si muovevano silenziose come gatti. Ti aspettavano, Dick. Ti avrebbero fatto saltare per aria. Non so se ti avremmo ancora visto intero, amico." Magari sarebbe stato meglio così. Perché un altro capitano, il Capitano Lesser della Divisione Affari Interni, stava mettendo Dick alle strette. Un altro lavoro che saltava in aria. In qualche modo, alla Divisione Affari Interni erano arrivate voci riguardo a quel patto di Dick con Mort Harper. Ma che diavolo era mai, si trattava solo di una piccola e pulita casa da gioco. La miglior clientela, anche il fottuto Lesser c'era stato una volta. Il fottuto Lesser che giocava a blackjack, e gli piaceva anche. Mort era protetto! Ma aveva puntato il dito contro Neff, si era fatto una serie di amicizie, al punto che non aveva più bisogno del silenzio di Neff. "Ehi, signor procuratore distrettuale, ho questo pidocchio sulla schiena, questo stronzetto che mi vuole spremere..." "Che diavolo, questo è un posto onesto." Stelle del cinema. Politici. Agenti di borsa. Il bar di marmo. Tappeti di velluto. Tavoli onesti. "Ci tira fuori un bel po' di soldi al mese, signor procuratore." "Oh, lascia stare, Morty. Ci penso io." Ah sì, anche Morty era grande. Più furbo di Dick Neff. Tutti erano più
furbi di Dick Neff. Anche quel capitano che gli stava alle costole, con le sue strane domande. "Quanti conti hai in banca? Tua moglie? Bene, possiamo vedere la tua dichiarazione dei redditi? E solo ordinaria amministrazione. Qualcuno ha pescato un po' nel torbido, Dick. Niente d'importante. Solo ordinaria amministrazione. Devo solo esaminare le istanze, ecco tutto." Esaminare le istanze un cazzo! Lo aspettava la commissione d'inchiesta, a Dick Neff. Pensionamento anticipato — e si poteva considerare fortunato se non finiva in galera! "Hai il diritto di non parlare. Hai diritto a un avvocato." Non parlare, un dannato diritto. Un avvocato, un altro dannato diritto. Trangugiò il resto del Bloody Mary, si avvicinò alla porta scorrevole e guardò la neve luccicante che copriva il balcone, là fuori. E rimase a bocca aperta per quel che vide. Impronte nitidissime di zampe. Le guardò confuso e incredulo. Delle orme? E sulla porta di vetro ce n'era un'altra. Si chinò a esaminarla. Sembrava proprio... una sbavatura d'impronta nel punto in cui avevano cercato di forzare la porta. Dovevano esser state lasciate di prima mattina, dopo che aveva smesso di nevicare. Merda, dopotutto Becky non s'inventava le cose. Queste dannate orme erano reali. Era impossibile negarlo, e poi cosa ci facevano qui? Si sentì improvvisamente indifeso nella sua nudità, e tornò in camera da letto a vestirsi. Scosse la testa, cercando di liberarsi fisicamente di quel tumulto di pensieri che chiedevano attenzione. Mentre si vestiva con gesti automatici, cercava affannosamente di chiarirsi le idee. Quei due pazzoidi allora avevano ragione? Quel vecchio stronzo di Wilson non era poi tanto rimbambito. Sembrava impossibile che un particolare così banale acquistasse tanta importanza da fargli improvvisamente prendere coscienza di tutto. Forse lei era in pericolo! Se Becky era in pericolo e lui non l'avesse aiutata si sarebbe ucciso. Sì, le cose stavano così; avrebbe tirato fuori la dannata 38, si sarebbe cacciato la canna in bocca e poi avrebbe premuto il fottuto grilletto. Il Dipartimento se la doveva sbrogliare, dopo. Si mise un abito serio e tradizionale, e si spazzolò i capelli finché non ebbe un'aria abbastanza presentabile. Doveva ottenere da Yablonski quella macchina Starlight, nella sezione fotografica. Doveva essere credibile per quella parte. Le buone notizie su Dick Neff avevano forse raggiunto Yablonski? Probabilmente no. È solo ordinaria amministrazione, dammi quella macchina. Ordini? Merda, dai, amico, devo usarla stanotte. Tranquillo, è tutto a posto.
Lasciò l'appartamento, poi tornò. Non appena arrivato nell'atrio, infatti, aveva sentito la mancanza della pistola. Come se non avesse le mutande addosso, o qualcosa di simile. La sua arma. Si tolse il soprabito e la giacca, e tirò fuori dal cassetto della scrivania la fondina contenente la .32. Lasciò lì la .38, più grossa. Sistemò ben bene la pistola in una fondina proprio sul fondo della schiena: era facile da prendere per lui, ma difficile da distinguere per gli altri. Non era molto comodo se ci si sedeva su una sedia dura, ma a parte questo il fondo della schiena era un magnifico nascondiglio per un'arma. Poi gettò un'altra occhiata alle orme. Erano orrende, spaventose. Verificò la chiusura della porta e chiuse le tende. Poi uscì, e stavolta non tornò. Fuori, il vento lo colpì con la forza di un violento spintone. Gli morse la carne attraverso il cappotto, e gli fece irrigidire i muscoli per il freddo. Aveva bisogno di bere qualcos'altro, meglio fare una puntatina in un bar. Che diavolo, fallo subito. Dall'altra parte della strada c'era il locale di O'Faolians, dove di solito si fermava prima di andare a casa. Entrò. "Ehilà, Frenchie," disse avvicinandosi al bancone, "dammi un Bloody." Il barista lo preparò e glielo mise davanti. Invece di continuare con le altre faccende, però, rimase lì ad armeggiare coi bicchieri. "Che c'è, vuoi qualcosa?" domandò Dick. Frenchie non era un tipo amichevole, non il tipo da chiacchiere inutili. "Nah. E venuto un tizio, ecco tutto. Un tizio che voleva sapere di te." "Allora?" "Allora non ho detto niente." "Bene. Altre novità?" "Non vuoi sapere su cosa faceva domande?" Frenchie sembrava sorpreso, un po' deluso. "Posso benissimo immaginarmelo," disse Dick in tono cordiale. "Voleva sapere se fossi mai stato visto qui con un tipo basso, coi capelli neri e unti, gli occhiali cerchiati di metallo, che si chiama Mort Harper. E tu hai detto di no." "All'inferno, non ho detto niente. Né si né no." Guardò Neff con aria di supplica. "Quel tipo mi ha fatto delle foto. Che altro potevo fare? Non vengono a far foto se non è una faccenda seria." Dick ridacchiò. "Grazie, Frenchie," disse. Mise cinque dollari sul banco e uscì. Molto carino da parte del piccolo idiota, dirgli che il Capitano Lesser era stato lì, e aver confermato che quello era il posto dove Dick s'incontrava con Mort Harper per mettersi d'accordo. Quanto era durata, tutta
quella faccenda? Dick non si ricordava esattamente. Dio, però, dovevano esser stati anni. Tutti quei soldi che andavano diritti alla Clinica per Anziani. Dritti lassù, per dare al vecchio anche qualche sfizio. Il suo vecchio. Provò una fitta d'affetto al pensiero di quell'uomo vecchio e un po' rimbambito, che un tempo era stato così forte e determinato. Guidava l'autobus per la Red and Tan Line. La pensione più la previdenza sociale facevano in tutto 177.90 dollari ogni lurido mese. Il deperimento senile, il morbo di Parkinson e il senso d'impotenza l'avevano reso violento, con raptus periodici: un problema da mille dollari al mese, insomma. E non vai ad affidare il tuo vecchio allo Stato, quando hai visto di persona quel che succede in quei posti. "Ti faccio andare in giro nudo tutto il giorno, vecchio stronzo, se non la smetti di tremare in quel modo. Piantala, mi dai sui nervi. Okay, vaffanculo, dammi quella vestaglia!" Questo era il genere di cose che succedevano. Una manica di mostri che rendevano un inferno la vita di quei poveri vecchi indifesi. "Forza, maiale, accendimi la sigaretta! Vecchia merda fottuta." Dick aveva visto com'era l'andazzo in quegli ospedali di Stato: luoghi dove dei pervertiti travestiti da infermieri davano sfogo alle loro manie sadiche. No, quelli non erano posti per il suo vecchio. Tutt'a un tratto si trovò a tremare in maniera incontrollabile, là in piedi sulla porta del bar. Si aggrappò alla maniglia per stare in equilibrio, e poi tornò dentro, barcollando. Si accasciò a uno dei tavoli. "Merda, Frenchie," disse, "dammi qualcosa da mangiare. Mi sento proprio di merda." Frenchie gli portò un hamburger e delle patate fritte stantie; quando cominciò a mangiare, Dick si accorse d'avere una fame terribile. Divorò l'hamburger, e ne ordinò un altro. Poi si rilassò, grazie al leggero annebbiamento prodotto dall'alcool e al sollievo della pancia piena. Che cazzo doveva fare? Ah, già, stava andando a prendere quella dannata macchina per Becky, la sua bambina. Bambina un corno, era più giovane solo di un anno, e lui non era certo un bambino. Però era ancora grandiosa a letto, specialmente quando veniva. Come un dannato treno merci. Ti faceva sentire che valevi qualcosa. Nessuna delle altre era mai riuscita a dargli quella sensazione. Fingevano tutte quante, volevano scopare con un poliziotto per motivi che non avevano niente a che fare con l'amore. Erano per lo più prostitute che avevano bisogno di un amico. Che diavolo, te lo gettavano in faccia. Becky non sapeva niente, e non l'avrebbe mai saputo; Dick non gliel'avrebbe mai detto. Quello che c'era tra loro era qualcosa di speciale, qualcosa che nessuna prostituta gli poteva mai portare via.
E poi, all'inferno, se non sapeva niente non sarebbe stata male. "Frenchie! Portami un altro Bloody." Frenchie gli si avvicinò. "Nossignore," disse, "non posso." "Perché cazzo no? Che cos'è questo, un ricovero dell'Esercito della Salvezza?" "Sei in servizio. Non ti faccio ubriacare qua dentro. Sei venuto già mezzo ubriaco. Ora te ne vai a fare le tue cose. Non voglio far ubriacare dei poliziotti proprio qui. Sono brutti guai col dipartimento, e lo sai bene. Va' da qualche altra parte." "Non sono in servizio. Mi hanno ucciso, questa settimana." "Hai una pistola addosso, Tenente Neff. Non posso più servirti da bere." "Cristo santo, Signor Merda Calda — OK, sposto le chiappe. Ma non dire che non ti ho avvertito, Frenchie. Sta' attento, ascoltami bene. Stai molto attento, non sai mai cosa può succedere quando meno te l'aspetti." Frenchie si allontanò scuotendo la testa. "Dick uscì, sentendo dentro di sé il desiderio di tranquillizzare Frenchie; da un lato gli dispiaceva d'aver detto quelle cose sgradevoli, ma al tempo stesso sentiva il bisogno di dirne di peggiori, di far del male a qualcuno. Prese un taxi per andare ai Quartieri Generali. L'ufficio di Yablonski era ingombro di attrezzature fotografiche, moduli di verbali, foto attaccate alle pareti e tazze di caffè mezzo vuote. "Ehi, Dick," disse quell'ometto quando lo vide. "Perché sei venuto qui?" "Per la tua bella faccia. Ho bisogno di una certa macchina fotografica notturna." "Ah sì? Nell'ufficio in periferia hanno la macchina a infrarossi. Se ti serve un fotografo, non ci contare fino alla prossima settimana, i miei ragazzi sono..." "Impegnati. No, non ci serve un fotografo." "Voi mi fate perdere tempo. Non posso usare i miei uomini per stare seduti per giorni e giorni in macchina a fare quel che qualsiasi idiota ..." "Come me sa fare." "Già. E allora, perché non usi la tua macchina a infrarossi e mi lasci in pace, maledizione?" "Perché non mi serve la macchina a infrarossi; mi serve quella ad alta intensità e a lungo raggio. Lo sai che quella a infrarossi non va bene oltre i cinquanta metri." "No, non lo sapevo. All'inferno, Dick, è il mio lavoro, non usare quel tono con me."
Neff chiuse gli occhi. Perché era così difficile trattare con quel vecchio stronzo? Pareva sempre che volesse litigare, quando si parlava con lui. "Mi serve la macchina Starlight." "Scordatelo." "Per una notte soltanto." "Te lo ripeto: scordatelo. Quella macchina non esce dall'ufficio senza un operatore specializzato, e cioè senza di me. E io non la porto fuori senza una lettera firmata da qualcuno a cui non posso dire di no." "Su, andiamo, adesso non arrabbiarti. Mi serve solo per una notte. Pensa come sarebbe se tu non me la dessi e per questo io non potessi arrestare un pezzo da novanta. Pensa un po' come ci rimarresti." "Non ci rimarrei in nessun modo. Ufficialmente tu non sai neanche che quella macchina esiste." "Oh, piantala con le stronzate. L'abbiamo vista nel 1975, e da allora è sempre entrata e uscita dalla Narcotici." "Beh, non lo sapevo." Yablonski lo guardò in cagnesco, con aria battagliera, rendendosi conto che Dick lo stavo mettendo con le spalle al muro. "Come sta la mogliettina?" "Che c'entra questo? È lei che sospettate?" "Cercavo solo d'essere gentile. Senti, sarò sincero con te. Ho un importante arresto in vista, ma abbiamo bisogno di prove. Dobbiamo presentare delle foto." "Ah, e allora? Usate la pellicola ad alta velocità. C'è un sacco di luce per strada." Dick sospirò, fingendo d'essere sul punto di svelare un segreto. "Penso che dovrò dirti più di quel che avresti bisogno di sapere. Abbiamo una grossa faccenda per le mani. Non possiamo proprio mancarla. Dobbiamo avere quella macchina." Yablonski lo guardò di traverso. Non gli piaceva che la sua preziosa Starlight non fosse sotto il suo controllo personale. D'altra parte non aveva intenzione di perdere una nottata per qualche pericoloso agguato della Narcotici. Si alzò, tirò fuori le chiavi e si avvicinò a una fila di armadietti che ricoprivano una parete dell'ufficio. "Sto per fare un'idiozia," disse, "ti lascio portar via questa cosa, e magari tu me la fracassi. Sai quanto costa quest'aggeggio alla Città di New York?" "Niente." "Circa centomila bigliettoni. Non sono noccioline." "È un residuato della CIA riguardante il Vietnam. Sai benissimo che
l'abbiamo avuta per niente." "Beh, comunque non sono sicuro che ce ne daranno un'altra se la perdiamo o la rompiamo." Tirò fuori dall'armadietto una custodia di metallo, e la posò delicatamente sulla scrivania. "L'hai mai usata?" "Lo sai che l'ho usata." "Beh, comunque ti dovrò spiegare lo stesso come funziona!" Aprì la custodia e tirò fuori un oggetto a forma di scatola, fatto di metallo grigio e lucido. Aveva all'incirca la forma e le dimensioni di una scatola da caffè da un chilo; da un lato lucente. Per il resto, l'oggetto era completamente liscio, a eccezione di un'incavatura appena visibile, chiaramente fatta per appoggiarvi il pollice. "Così si apre il quadro di comando," disse Yablonski premendo sull'incavatura. Una superficie di metallo scorrevole, di circa dieci centimetri per ogni lato, si aprì rivelando un quadro contenente due pomelli neri e una piccola fessura. "Si inserisce la pellicola." Spinse un rettangolino nero nell'apertura. "Con questo hai duecento foto. E il numero in basso che vedrai nel quadrante inferiore di destra, quando guardi attraverso l'obiettivo. Sopra c'è il numero che indica la luce nell'ambiente. Devi regolare il pomello superiore in modo che risulti lo stesso valore. Ecco!" Gli porse la macchina. Dick la prese e se la portò agli occhi. L'immagine era sfuocata, ma i tre numeri si leggevano chiaramente. "Leggi dal basso verso l'alto." "Il numero in basso è duecento. Quello in mezzo uno sessantasei, quello in alto punto zero sei." "Significa che hai duecento inquadrature, che il livello di luce ambientale è sessantasei e che stai puntando la macchina a un oggetto che sta a punto zero sei metri di distanza. Ora dai qua." Riprese la macchina. "Si regola la manopola in alto su sessantasei e quella in basso a punto zero sei. Ora guarda." "Che diavolo è?" "L'angolo in alto dell'armadietto, stupido. È talmente ingrandito che non si riesce a distinguere che cosa si vede. Punta la macchina fuori dalla finestra." Dick girò su se stesso. I due numeri in alto guizzarono e cambiarono mentre la macchina veniva mossa, poi vide improvvisamente i rami di un albero giù in basso, al livello della strada. Si vedevano i punti in cui i cristalli di ghiaccio aderivano ai rami e dove invece il sole li aveva sciolti. Yablonski gli guidò la mano sull'incavatura per il pollice. "Tiralo indietro." Ci fu uno scatto. Si era chiuso lo sportellino su un lato della macchina, e si era accesa una luce rossa sopra i tre numeri verdi. "Vedi una luce?"
"Sì." "Pronto a scattare. Spingi in avanti." La macchina fece cinque scatti in rapida successione. L'indicatore della pellicola segnava ora 195. "Gli scatti sono sempre a gruppi di cinque. Ora premi all'interno dell'incavatura." La scena ritornò e si vide il marciapiede giù in basso. "Scendi a cinquanta millimetri. Cinquanta a cinquecento, è la lente. Se spingi in avanti e in basso contemporaneamente la macchina scatterà una serie di foto mentre la lente si muove. Non c'è problema. Ricordati solo di chiudere il pannello di controllo prima di scattare." Dick allontanò la macchina dagli occhi. Yablonski indicò il pannello di controllo. "Questo mette in funzione la macchina. E se cambi posizione controlla sempre la, messa a fuoco. Quando è in funzione non è molto importante, ma ricordati che la macchina raggiunge la massima messa a fuoco quando l'oggetto che stai fotografando è esattamente alla stessa distanza che si può leggere sul piccolo indicatore. Se vuoi cambiarla, devi solo regolare la manopola." "E tutto? Mi ricordavo di ogni cosa." "Beh, siamo bravi, no? Cerca solo di non riportarmela tutta rotta, per l'amor di Dio. E fammi riavere quel fottuto aggeggio domani prima di mezzogiorno, altrimenti ti starò addosso fin quando non me l'avrai ridato." "Oh, sissignore, Mr. Commissario, farò come lei dice." "Dai, Dick, rilassati. Quanta pellicola ti serve?" "Un altro paio di rullini. Questa roba sembra piccolissima. Sei sicuro che ci siano duecento foto?" "Certo. Credi che la macchina dica bugie?" Dick rimise la macchina nella custodia e la soppesò. Lasciò Yablonski a fissarlo mentre usciva. Non appena se ne fu andato, Yablonski prese il telefono. "Capitano Lesser," disse in tono deciso, "mi ha detto che dovevo chiamarla se Dick fosse venuto qui per qualsiasi motivo. Beh, è venuto. Ha preso la macchina fotografica Starlight." CAPITOLO OTTAVO Le squadre di perlustrazione continuavano a tornare a mani vuote. Sembrava proprio che il parco non volesse cedere nessun indizio di una qualche importanza. Una panchina coperta da uno strato di ghiaccio rosso: sangue umano. Un po' di stracci sbrindellati, che forse erano i vestiti della
vittima. Ed era tutto. Niente cadavere, nessun documento, nessun testimone. E fino ad ora nessuno aveva reclamato la scomparsa di una persona. I poliziotti aspettavano l'ordine di sgomberare. Il distretto non avrebbe dedicato altro tempo a questa faccenda: d'altronde non era che uno dei tanti misteri che il ventre della città rigurgitava. Ovviamente qualcuno era morto qui, ma in assenza di qualsiasi prova, se si eccettuava il sangue, non c'era molto da fare per trovare l'assassino. "Forse potrà rivelarci qualcosa," disse il medico legale mentre un poliziotto gli consegnava una busta di plastica trasparente piena di brandelli di vestiti. Becky Neff non disse niente. Ancora prove vaghe. Anche l'esperienza di Wilson, la notte precedente, non era altro che una diceria. All'inferno, magari era stato spaventato da un gruppo di cani. Il guaio era che la centrale non si sarebbe mossa sulla base di un'ipotesi. Chiunque approvasse un'inchiesta sui lupi mannari in città era destinato al pensionamento anticipato, se non saltavano fuori delle prove a giustificare quell'inchiesta. "Mi credi?" disse Wilson nel silenzio dell'auto. "Sì," replicò Becky, sorpresa di quella domanda. "Non tu, stupida. Il genio. Voglio sapere se lui mi crede." "Se non si è trattato di delirium tremens, credo che hai visto davvero quel che hai visto." "Grazie." Dopo aver raccontato la sua storia, Wilson era caduto nel silenzio. Becky non sapeva se stesse meditando o se si fosse semplicemente fatto prendere dalla depressione. Sembrava addirittura più cupo del solito. Quando Wilson voltò di nuovo lo sguardo fuori dal finestrino dell'auto, Evans alzò le sopracciglia. "Senti," disse rivolto alla schiena di Wilson, "se questo può far qualche differenza, io ti credo davvero. Solo che vorrei poter fare qualcosa di più per te, con tutta l'anima." "Anche le piccole cose aiutano," disse Becky in tono acido. "Ne sono sicuro. Dev'essere un inferno." "Già," disse Wilson, "proprio così." Poi ci fu un'improvvisa confusione. Un paio di poliziotti del parco saltarono sugli scooters; dei ragazzi del 20° Distretto si ammassarono nelle auto di pattuglia. Becky accese la radio per sapere che cosa stesse succedendo. — "tredici, ripeto, tredici a Bethesda Fountain." "Cristo!" Becky avviò l'auto e seguì gli altri dentro il parco. Slittarono in mezzo alla neve, diretti verso la chiamata d'emergenza. Un segnale 13 era il più grave che un poliziotto potesse emettere: significava che un agente si
trovava in pericolo. Causava una risposta immediata da parte di tutte le unità vicine — e a volte anche da quelle più lontane. Era la chiamata che i poliziotti odiavano di più ricevere, e a cui si affrettavano di più a rispondere. La zona intorno a Bethesda Fountain un tempo era elegante. D'estate c'era un ristorante all'aperto dove si poteva bere vino guardando la fontana. Poi erano venuti gli anni sessanta, e la droga, e Bethesda Fountain era diventata un mercato degli spacciatori. Il ristorante aveva chiuso. La fontana si era ostruita per la sporcizia, ed era stata ricoperta di scritte. C'erano stati dei delitti. Adesso quel posto, un tempo allegro e pieno di vita, era uguale sia d'estate che d'inverno: vuoto, abbandonato e distrutto. Ricurva sulla spianata di fronte alla fontana, c'era una divisa blu: l'uomo che la indossava se ne stava ripiegato su se stesso, con la fronte quasi a toccare la neve. I poliziotti sugli scooter furono i primi a raggiungerlo. "Gli hanno sparato," gridò uno di loro. Si sentiva già urlare la sirena di un'ambulanza, proveniente dal Roosevelt Hospital. Becky fermò la Pontiac dietro agli scooters, e i tre balzarono fuori. "Sono un medico," gridò inutilmente Evans. Tutti quanti nei Dipartimenti di Polizia di New York sapevano che il medico legale era un dottore. Seguito da Becky, Evans si avvicinò al ferito. Era un agente di mezza età, uno di quelli che avevano partecipato alla perlustrazione nel parco, alla ricerca di prove. "Quel fottuto cane," disse quasi ridendo, "quel fottuto cane mi ha fatto un buco nelle budella." La voce era angosciata e confusa. "Fottuto di un cane!" "Oh, Cristo," disse Evans. "È grave, Doc?" disse l'uomo con le lacrime agli occhi. Evans distolse lo sguardo. "Non ti faccio muovere di qui finché non arriva la barella, amico. Non stai perdendo sangue dalla ferita, per quanto sia grave." "Oh, accidenti, mi fa male!" urlò. Poi strabuzzò gli occhi e la testa gli ricadde sul petto. "Fasciatelo, è svenuto," disse Evans. Due colleghi dell'agente applicarono una fascia allo squarcio che aveva nel cappotto. "Dov'è quella maledetta ambulanza!" gridò Evans con voce stridula. "Quest'uomo non ce la farà se non arrivano in fretta." Proprio in quel momento arrivò l'ambulanza, e i medici uscirono fuori con l'attrezzatura. Tagliarono via la stoffa, e per la prima volta la ferita fu visibile.
Era devastante. Si poteva vedere la protuberanza nero-bluastra dell'intestino dell'uomo pulsare in mezzo al sangue. Becky cercò di soffocare i singhiozzi che la scuotevano. Loro avevano fatto questo! E tutto solo qualche minuto fa. Erano proprio qui, nei paraggi! Mise una mano tremante sulla spalla del medico legale. "Lasciami stare." Stava esaminando la ferita. "Portatelo via," mormorò agli infermieri. Guardò Becky. "Non vivrà," disse semplicemente. Misero l'uomo sulla barella e lo introdussero nell'ambulanza; poi si diressero verso l'ospedale più in fretta possibile. A bordo c'era un chirurgo, perciò Evans tornò verso l'auto di Becky. Gli altri poliziotti stavano ancora lì in piedi, in un gruppetto, fissando le striature di sangue nella neve. Per un momento nessuno parlò. Che cosa si poteva dire? Un uomo era appena stato sventrato, con le budella in vista, ed affermava che era stata opera di un cane. Il capitano del distretto arrivò ansimando pesantemente. Per qualche motivo non era riuscito a salire in nessuna macchina. "Che cazzo - che cazzo è successo?" "Baker è stato ferito." "Da che cosa? Chi l'ha ferito è scappato?" "Qualcosa gli ha morso via venti centimetri di carne dal fianco. Lo ha sventrato, si vedevano le budella." "Ma che diavolo". "L'ha detto lui, signore. E stato un cane." Becky sentì la mano di Wilson afferrarle la spalla. Una dolorosa fitta di paura le corse per tutto il corpo. "Senti, bambina," disse lui con una calma innaturale, "vai verso quei due scooter, facendo finta di niente." Le bisbigliò nell'orecchio. "Sai guidare uno scooter?" "Penso di sì." "Bene, perché devi farlo comunque. Vai, e fa' finta di niente." "Ma la nostra macchina?" "Stai lontana dalla macchina, accidenti! E quando sei sullo scooter, schizza via." Non fece domande, anche se non capiva bene perché lui volesse far questo. Viene naturale fidarsi di un buon socio, e Becky si fidava di Wilson abbastanza da fare quello che le chiedeva senza chiedere il perché. Lui avrebbe fatto lo stesso. All'inferno, il più delle volte lo faceva. Poi notò che anche lui camminava nella stessa direzione con aria indifferente, avvicinandosi sempre più agli scooters senza darlo troppo a vedere. "Ora, Becky!"
Saltarono e misero in moto i veicoli, e poi slittarono sul selciato coperto di neve; Becky ondeggiò, si raddrizzò e si diresse verso il viale, che si estendeva da Park East Drive fino alle strade più frequentate e sicure. Sentì gridare dietro di sé: un urlo d'incredulità da parte di uno dei poliziotti degli scooters, che vide i due investigatori portargli via improvvisamente il suo mezzo di trasporto. Poi si accorse che c'era qualcos'altro: una sagoma grigia che si muoveva con la velocità del vento, una massa furiosa e vibrante di pelo e muscoli. E capì che cos'era successo. "Oh Dio Dio Dio," disse piano mentre continuava a guidare. Accellerò al massimo e lo scooter schizzò via in mezzo alla neve, a sobbalzi e scossoni, minacciando di scaraventarli a terra da un momento all'altro. Cinquanta chilometri all'ora. Settanta. Ottanta. Era riuscita a seminare quell'essere? Si azzardò a dare un'occhiata. Dio, era ancora lì. Aveva i denti scoperti, e la sua faccia: qualcosa di incredibile, contorta com'era dall'odio, dalla furia e dallo sforzo animale; uomo, mostro. Soffocò un gemito e tenne duro. Si udì chiaramente il suo respiro ancora per un attimo, poi quell'essere rimase indietro, si ritirò emettendo piccole grida acute, suoni di rabbia pura. Se n'era andato, e gli scooter rimbalzarono lungo il viale, investendo cespugli nudi e graffianti, s'immisero a gran velocità nel traffico e passarono a razzo davanti all'entrata del parco, sulla Quinta Strada. Si trovarono davanti l'Hotel Plaza e l'edificio della General Motors; ecco la statua del Generale Sherman, perennemente incappucciato di escrementi di piccione. Videro le carrozzelle tirate dai cavalli che aspettavano in fila, col fiato dei cavalli che si condensava. Spensero le moto davanti all'entrata affollata dell'hotel. "Siamo al Plaza," borbottò Wilson dentro la radio dello scooter, "venite a prenderci." Apparve un'automobile della polizia. "Qual è il problema, tenente?" chiese l'uomo alla guida. "Ci è stato appena comunicato che avete rubato due scooter." "All'inferno. Quelli erano gli ordini. Pensavamo di aver visto un sospetto." "Già. Salite su. Vi portiamo al Ventesimo." Lasciarono gli scooter agli uomini del distretto del parco, che stavano arrivando in un'altra macchina. Mentre si dirigevano verso il distretto, Wilson e Neff non parlarono; Wilson perché non aveva niente da dire, Becky perché non ci sarebbe riuscita, anche volendo. Le sembrava strano essere ancora viva, come se fosse penetrata, sfondando un muro, in un tempo che non era previsto che vedesse mai. Guardò il suo socio. Lui l'aveva capito giusto in tempo - una trappola. Dio, che trappola astuta! E per fortuna era-
no riusciti a sfuggire appena prima che scattasse. "Lo sai cos'è successo," domandò Wilson. "Già." Lui annuì, e tacque per qualche minuto. L'auto passava davanti a Central Park West. Wilson toccò la sicura dello sportello; i finestrini erano chiusi. "Sono molto scaltri," disse. "Questo lo sapevamo." "Ma è stata una trappola molto ben concepita. Ferire quel ragazzo... sapendo che avremmo reagito... tendere un agguato. Tutto molto astuto." "Ma come sei riuscito a capirlo? Devo confessare che io c'ero completamente cascata." "Devi cominciare a pensare stando sulla difensiva. Hanno ferito quel tipo, ma non l'hanno ucciso. È stato questo a insospettirmi. Perché ferire, quando uccidere è più facile? Il motivo doveva essere lo stesso per cui il cacciatore ferisce. Per attirare in una trappola. Quando ho capito questo, ho deciso che dovevamo prendere quelle moto. Francamente mi sorprende che ce l'abbiamo fatta." L'auto si fermò davanti all'edificio del distretto. Dopo aver dato una lunga occhiata su entrambi i lati della strada, i due investigatori uscirono e salirono in fretta i gradini. Il sergente all'entrata sollevò lo sguardo dalla scrivania. "Il capitano vi sta aspettando," disse. "Dev'essere maledettamente nervoso," borbottò Wilson mentre entravano nell'ufficio del capitano. Era un uomo elegante e ben vestito, coi capelli grigio acciaio e la faccia segnata da rughe profonde. Ma per il modo in cui si muoveva sembrava più giovane della sua età. Si era appena tolto il cappotto, e stava seduto alla scrivania. Ora li guardava, sollevando le sopracciglia. "Sono il Capitano Walker," disse. "Che diavolo sta succedendo?" "Abbiamo visto un sospetto." "Lasciate perdere le stronzate. Tutti hanno visto quei cani sbucare da sotto alla vostra macchina e inseguirvi per un bel tratto, prima che arrivaste alla Grand Army Plaza. Che diavolo significa tutto questo?" "Cani?" Wilson non era un buon attore. Il fatto che stesse nascondendo qualcosa risultava perfettamente chiaro a Becky. Ma forse lo sottovalutava. "Già, proprio cani. Io li ho visti. Tutti li abbiamo visti. E Baker ha detto che era stato un cane a sbudellarlo in quel modo." Wilson scosse la testa. "Questa mi giunge nuova." "Sentite, io non capisco bene cosa stia succedendo qui, voglio dire, voi
due siete una specie di squadra speciale, e questo mi va bene - ma hanno ferito gravemente un ragazzo giù a Roosevelt, e lui dice che è stato un cane. Ho visto voi due che schizzavate via come se vi stesse inseguendo la morte in persona. Ed eravate inseguiti da due cani. Ora vorrei sapere che accidenti sta succedendo." Il telefono squillò. Il capitano borbottò qualche parola, un'imprecazione, e poi riattaccò. "Anche il New York Post vorrebbe saperlo. Hanno mandato un fotografo e un giornalista che mi aspettano fuori e vogliono vedermi subito. Che cosa gli dico?" Becky fece un passo avanti. Wilson aveva affondato il mento nel petto, drizzato le spalle, e stava per mandarlo al diavolo. "Ditegli quello che probabilmente è successo. Il vostro agente è stato ferito non si sa come. Voglio dire, se uno ha il colon sparpagliato sul marciapiede, è facile che si metta a delirare. È svenuto subito dopo quella dichiarazione, non è vero? E per quanto riguarda i cani che ci inseguivano, può anche essere che sia andata così, ma era una completa coincidenza." L'uomo li fissò. "State dicendo delle stronzate. Non so perché, ma non vi credo. Adesso aprite bene le orecchie: io non vi devo un bel niente. Ora tagliate la corda. Andatevene dove vi pare." "E cosa dirà al giornalista?" domandò Becky. Questo era importante. Non si poteva far trapelare questa notizia alla stampa, almeno fino a quando il problema non potesse essere risolto. "Dirò ai giornalisti quello che ha detto Baker. E gli dirò che stava delirando. E sufficiente?" "Cosa vuol dire, sufficiente? Come facciamo a saperlo?" "Siete voi a voler tenere questa cosa avvolta nel mistero, no? Siete voi a far in modo che nessuna storia strana di cani arrivi ai giornali, no?" Wilson chiuse gli occhi e scosse la testa. "Andiamocene di qui," disse. "Abbiamo cose migliori da fare." Lasciarono il distretto e presero un taxi. Ovviamente era inutile chiedere al distretto di farsi accompagnare a Bethesda Fountain, dov'era la macchina. Quando furono vicini alla loro auto, Wilson allungò il collo fuori dal finestrino, per assicurarsi che sotto non ci fosse niente. Ma non c'era bisogno di disturbarsi a farlo. Quell'auto non sarebbe andata da nessuna parte. Gli sportelli erano aperti. L'interno era stato ridotto a brandelli. Ed era pieno di sangue raggrumato. "Cristo," sbottò il tassista, "è questa la vostra macchina?" "Già. Lo era." "Dobbiamo chiamare un poliziotto." Accese il motore. "Chi c'è là den-
tro? Che maledetto bordello!" "Siamo noi la polizia." Becky esibì il distintivo contro il vetro antiproiettile che separava il sedile dei passeggeri dal posto di guida. Il tassista annuì e si diresse verso la caserma del distretto di Central Park, sulla Sessantanovesima Strada. Pochi minuti dopo arrivarono. Neff, Wilson e il tassista uscirono, passarono oltre la vecchia doppia porta dell'edificio, e raggiunsero il sergente seduto alla scrivania. "Eccovi qui," disse lui guardandoli di sotto in su. "Voi due. Ho sentito che siete quel paio di figli di puttana sullo scooter." "Rimandate i vostri agenti giù alla fontana," disse Wilson con voce stridula. "Il capo dei medici legali è stato appena ammazzato." Becky sentì il sangue defluirle dal viso. Naturalmente, ecco chi era stato in quella macchina. Doveva essere lui. Povero Evans. Era un uomo dannatamente a posto! "Maledizione," disse Becky. "Siamo stati stupidi," disse Wilson in tono sommesso. "Avremmo dovuto avvertirlo in tempo." Rise, con una piccola risatina amara. "Hanno mancato la preda principale. Quindi si sono presi il premio di consolazione. Cerchiamo di telefonare a Underwood." Wilson chiamò Underwood. Becky lo guardò, irritata dal vedersi usurpare il suo solito ruolo. "Ascoltami," disse Wilson al telefono, "hai dei seri problemi. Un agente del Distretto Roosevelt è stato sbudellato. Dice che sono stati dei cani. Hai capito bene? Cani. Inoltre c'è un giornalista del Post che vuol sapere di più su questa storia, ma c'è dell'altro. Perciò ascoltami, idiota. Il capo dei medici legali è stato appena ammazzato vicino a Bethesda Fountain. E come vedrai, ancora una volta si troveranno le unghiate e i morsi sul suo corpo. Se vuoi concludere le cose per il meglio..." "Oh, mio Dio, Ferguson!" "Rimani pure seduto là ad aspettare." Sbatté giù il telefono con violenza. "Hai ragione! Andiamo!" Si diressero verso il parcheggio dell'auto. "Dateci una macchina," Becky disse bruscamente all'agente addetto allo smistamento. "Beh, dovete..." "È una questione di vita o di morte, sergente. Che numero?" "Vediamo - due-due-nove. La Chevy verde, la troverete contro il muro giù vicino alle pompe di benzina." Si avviarono verso la macchina. A sud le sirene spiegavano il loro lamentoso canto funebre per Evans. "Non serviranno a un bel niente," disse Wilson piano. "Quell'uomo è stato ridotto a una gelatina."
"Sei sicuro?" "Di cosa?" "Che fosse lui." "Pensa a guidare, Becky." Dio, che bastardo presuntuoso. Anche se a Wilson sembrava così evidente, Becky sperava ancora. Evans era un grande uomo, un'istituzione pubblica a New York per quarant'anni. Probabilmente il miglior professionista di medicina legale del mondo. Inoltre era un buon amico. La sua perdita lasciava un grande, stramaledetto vuoto. E il modo in cui era morto sarebbe arrivato anche agli orecchi del Times. "Questa storia verrà fuori." "Ma davvero? A proposito, Ferguson sarà al museo." "Senti, non me ne frega niente se le cose vanno così male, non è una buona scusa per far finta che io sia una specie di idiota. So benissimo dov'è." "Già, beh." "Beh niente, tieniti per te le tue stupide opinioni sulle donne poliziotto e fa' il tuo dannato lavoro." "Su, dai, Becky, non volevo offenderti." "Volevi, invece, ma non m'importa. Penso d'essere solo nervosa." "È strano. Non riesco a immaginarmi il perché." Arrivarono al museo, fermarono l'auto davanti all'entrata principale e corsero dentro più in fretta possibile. Al pianterreno fu necessario sbrigare tutte le formalità per vedere Ferguson. Finalmente presero l'ascensore, che sembrò impiegare alcune ore prima di giungere al piano sotterraneo. La stanza era piena di gente che lavorava alla mostra degli uccelli. C'era odore di colla e vernice, e un'atmosfera di serena alacrità. La porta dell'ufficio di Ferguson era chiusa. Becky la aprì e sporse la testa all'interno. "Voi! Ho cercato di telefonarvi per tutta la città!" Entrarono e richiusero la porta dietro di loro. Wilson vi si appoggiò. "Vorrei che questa cella avesse un soffitto," disse Becky, "sarebbe più sicura." "Sicura?' "Sarà meglio che la informiamo. Credo che lei sia in grave pericolo, dottore. Evans, il medico legale, è stato appena ammazzato a furia di morsi." Ferguson reagì come se avesse ricevuto un pugno. Sollevò le mani tremanti verso il volto. Poi le abbassò lentamente, guardandosele. "Ho scoperto un sacco di cose sui lupi mannari, stamattina," disse con voce quasi impercettibile. "Sono stato giù alla biblioteca pubblica." Sollevò lo sguar-
do, nascondendo sotto l'espressione impassibile il fermo proposito di cercare di comunicare con quelle creature. "C'era scritto tutto, proprio come pensavo. Le prove che questa specie sia intelligente sono piuttosto evidenti. Canis Lupus Sapiens. I Wolfen. Ecco come voglio chiamarli." Wilson non disse niente. Becky non volle dire niente. Fissava lo scienziato. Wolfen, infatti. Erano assassini. L'espressione di Ferguson tradì la sua innocente eccitazione per la scoperta. Era ovvio che non capisse ancora in quale estremo pericolo si trovasse. Becky provò compassione per lui la stessa compassione distaccata e professionale che provava per i parenti rimasti in vita dopo l'assassinio di una persona cara. La parte residua, come li chiamava Wilson: le mogli dagli occhi arrossati e i mariti istupiditi dal dolore, che di solito venivano trovati a piangere sul corpo della vittima. La maggior parte delle persone assassinate viene rimpianta dalla famiglia. Ma erano ancora peggiori i casi in cui si doveva telefonare a un'anima terribilmente in pena, che stava aspettando il ritorno del proprio amato, di qualcuno che non sarebbe tornato mai più. "Buongiorno, Signor X, siamo investigatori. Possiamo entrare? Ci dispiace molto doverle comunicare che la Signora X è stata trovata assassinata a bla bla," il resto veniva detto in mezzo a una nebbia di dolore indescrivibile. "Venga a raggiungere le altre probabili prede," disse Wilson, "e benvenuto. Magari formeremo un'associazione." Quella battuta era forzata, ma sembrò ottenere una reazione positiva da parte di Ferguson. "Sapete," disse, "la cosa peggiore è che queste creature sono talmente crudeli! È questo che le rende così insolite. I Canini sono notoriamente una razza amichevole. Prendete il cane lupo - tutte le leggende, le storie di Jack London, sono in gran parte stupidaggini. Voglio dire, sapete cosa succede se minacciate un lupo? Si stenderà sul dorso come un cane. Non sono pericolosi." Rise. "L'ironia della sorte. La scienza si è resa conto del vero carattere del lupo solo negli ultimi anni. Eravamo così sicuri che il grande predatore della razza canina fosse solo un mito - e ora è successo questo. Ma penso che in questo caso abbiamo un'opportunità straordinaria: ci devono essere dei punti di comunicazione tra noi e loro." "Per un cervo, dottor Ferguson, il lupo è incredibilmente pericoloso. Nessun lupo si capovolgerà sulla schiena se viene minacciato da un cervo. Il lupo non è pericoloso per l'uomo perché non lo conta fra le sue possibili prede. Ma guardi un cervo: per lui il lupo è un flagello del demonio." Ferguson annuì lentamente. "Perciò queste... creature sono per noi quello che i lupi sono per i cervi. Sono d'accordo. Inoltre, sono una specie in-
telligente, e come tale rappresentano un'opportunità straordinaria." Wilson rise forte. Quel suono provocò a Becky un brivido per tutta la spina dorsale. Non era la risata di un normale essere umano, ma di qualcuno profondamente terrorizzato, sull'orlo di una crisi isterica. Si domandò per quanto tempo ancora le sarebbe stato d'aiuto. E che ne sarebbe stato della sua mente? Grazie a lui si erano salvati nel parco, per una questione di pochi secondi. Quante altre volte l'avrebbe fatto? E poteva farlo ancora? Oppure le trappole sarebbero diventate sempre più astute, finché non fossero stati presi, prima o poi? Per quanto riguardava Ferguson, invece, pensò che le sue idee sulla comunicazione erano da scartare. Lui non aveva visto le cose terribili che quelle creature facevano alle persone. "Pianifichiamo le nostre prossime mosse," disse lei. "Dobbiamo stare maledettamente attenti se quel che è successo è un esempio di quel che sta per avvenire." Ferguson domandò maggiori particolari sulla morte di Evans. Wilson raccontò in maniera molto pratica, molto fredda, come i lupi mannari avessero ferito un agente di pattuglia alla ricerca di prove, come questo li avesse tratti in un'imboscata, la fuga sugli scooters proprio nel momento in cui Wilson aveva ricostruito tutti i pezzi della storia, e la successiva scoperta del cadavere del medico legale nell'auto. "Quindi hanno mancato voi, e hanno preso lui al posto vostro." Wilson tacque per un momento che sembrò lunghissimo. "Già", disse alla fine, "vorrei tanto essermene reso conto prima ma non l'ho fatto. Proprio non pensavo che lui fosse in pericolo." "Perché no?" "In retrospettiva penso che sia ovvio. Ma in quel momento non ci ho pensato. Questa è la dannata verità." Tirò un sospiro addolorato. "Quel vecchio figlio di puttana era una buona persona. Un professionista maledettamente bravo." Considerato lo stile di Wilson, si trattava di un epitaffio sublime. "Pianificare che cosa! Non abbiamo niente da pianificare!" "Oh, andiamo, Wilson, prenditela calma. Possiamo sempre provare. Pensavo che stanotte avremmo fatto quelle foto. Programmiamo questo." "Che ne dici di programmare come sopravvivere fino a stanotte? Non ti pare migliore, come programma, visto che sembra una cosa piuttosto difficile da realizzare?" Becky scosse la testa e non disse niente. Era un bastardo petulante. Fino ad ora aveva fatto affidamento su di lui, aveva sempre dato per scontato
che se la sarebbero cavata grazie a lui. E infatti era andata così. Quella mattina ne aveva avuto un esempio. Ma ora stava crollando, si stava avvicinando sempre di più all'orlo della crisi. Wilson aveva sempre avuto paura della vita, ora aveva paura della morte, avendola vista in faccia. E lei, Becky, come si sentiva? Sentiva che non aveva nessuna intenzione di morire. Aveva paura e non era sicura che uno di loro sarebbe riuscito a sopravvivere - lei ancora di meno, ma non voleva cedere. Wilson si era fatto carico del caso fino ad ora, e i risultati erano stati buoni. Ma adesso era stanco. Pareva proprio che ora toccasse a lei prendere le redini, in tutta quella storia. "Wilson, ho detto che avremmo pianificato le nostre mosse. Ora ascoltami. Per prima cosa, dobbiamo far sapere a Underwood come stanno le cose: abbiamo delle prove maledettamente difficili da ignorare. Voglio dire, il fatto che Evans sia stato assassinato è una notizia internazionale; devono pur dire qualcosa su questa faccenda. E puoi star sicuro che le stazioni televisive e i giornali saranno già lì sulla scena del delitto. Come la prenderanno? Il medico legale sfigurato in maniera tale da essere irriconoscibile. Ci vorrà per lo meno una buona spiegazione." "Non dite una parola su questa storia ai giornali," disse Ferguson, comprendendo improvvisamente l'importanza delle affermazioni di Becky. "Provochereste ogni genere di guai: panico, paura, sarebbe un inferno. E i Wolfen verrebbero minacciati proprio come non si deve fare: in maniera grossolana, da degli idioti armati di fucili da caccia. Magari qualcuno di loro verrebbe anche ferito, ma si adatterebbero rapidamente, e in tal caso sarebbero ancora più difficili da scovare. Un errore imperdonabile, forse per molte generazioni a venire." "Fino a che punto sono difficili da scovare, adesso?" chiese Wilson in tono pungente. "Beh, molto, ovviamente. Non volevo dire che sia facile trattare con loro. Ma lei forse non si rende conto, Investigatore Wilson, che se quelle creature si mettono in testa di scomparire completamente, riescono a farlo." "Vuol dire diventare invisibili?" Wilson stava alzando la voce. Sembrava che stesse sul punto di scagliarsi addosso allo scienziato. "Da ogni punto di vista. In questo momento sono molto incauti, come testimonia il fatto che si siano fatti vedere da lei. E un segno di sconsideratezza, da parte loro; e c'è un motivo. Sanno che è stato un rischio lasciarsi vedere, ma è comunque un rischio limitato, perché sanno anche che con
ogni probabilità lei non vivrà abbastanza a lungo da descriverli ad altri." "Forse sì e forse no." "Sono predatori, investigatore, e hanno l'arroganza dei predatori. Non si aspetti che temano l'uomo. Forse noi temiamo i maiali o le pecore? Li rispettiamo, forse?" "Noi non siamo affatto delle pecore, dottore! Siamo persone, abbiamo un cervello e un'anima!" "Anche le pecore hanno il cervello. Quanto all'anima, non ho gli strumenti per misurarla. Ma conosciamo ogni possibile mossa che una pecora potrebbe fare. Una pecora non ha alcuna possibilità di ingannare un uomo. Penso che l'analogia sia valida anche in questo caso." "Fantastico. E allora cosa ci faccio qui, ancora vivo? Non avrebbero dovuto uccidermi la notte scorsa, nel vicolo sotto casa di Becky? Non sarebbe stato più logico? Ma non l'hanno fatto. Non sono stati abbastanza veloci. Ho tirato fuori la pistola prima che avessero il tempo di muoversi." Becky lo interruppe. "Spero che siano davvero arroganti, francamente. È la nostra unica possibilità." Ferguson alzò le sopracciglia e sorrise. "Già," disse, "a meno che non stiano facendo un giochetto con voi." "Un gioco," disse Wilson, "cosa intende per un gioco?" "Beh, abbiamo visto che sono intelligenti, sono cacciatori, creature d'azione. Nella maggior parte dei casi la loro caccia dev'essere dannatamente facile. Voi invece siete diversi, rappresentate una sfida. Potrebbero anche tirarla in lungo per divertimento." Wilson aveva l'aria di voler strangolare lo scienziato. "Bene," disse, "se stanno giocando con noi, facciano pure. Ma forse nel frattempo noi riusciremo a sfuggire alle loro fottute trappole." Sputò. "Chi diavolo può saperlo?" Correvano, alla disperata ricerca di un nascondiglio. Un'enorme quantità di essere umani si stava riversando nel parco: centinaia di poliziotti che sciamavano nei sentieri, sorvolavano la zona in elicottero, o sfrecciavano via rombando in automobili o in moto. L'aspro odore di carne umana esposta all'aria fredda si mescolava col tanfo dolciastro e soffocante dei gas di scappamento; odori che provenivano da ogni parte. Per tutto il parco urlavano le sirene, e il loro suono lacerante provocava un'atroce agonia alle orecchie del branco in fuga. Le voci si rincorrevano sulle radio; gli uomini si chiamavano gridando. E poi c'era quel nuovo odore, denso e putrido:
una parodia del loro profumo. Erano i cani. Il branco si fermò, drizzando le orecchie: erano tre cani, a giudicare dal rumore delle zampe che sbattevano sul ghiaccio; dato l'ansimare eccitato del loro respiro, erano ansiosi d'essere sguinzagliati. Tre cani pesanti, forti, eccitati. Fiutandoli, il branco poteva praticamente sentirli struggersi ai guinzagli, soffocati dal desiderio di gettarsi all'inseguimento. Molto bene, che li lasciassero pure venire verso la morte. I cani non avevano maggiori possibilità di dar la caccia al branco di quanta non ne avessero gli scimpanzé nei confronti dell'uomo. Il metodo di difesa contro quegli animali era basato su procedimenti prestabiliti, visto che la loro strategia d'attacco non variava mai. C'era un unico problema: questo significava sprecare altro tempo in quel maledetto parco - tempo prezioso in cui lo sciame di poliziotti si sarebbe avvicinato ancora, e la loro dose di fortuna si sarebbe magari esaurita. Adesso il branco si era diviso: da una parte cerano i due vecchi e la seconda coppia. Dall'altra la terza coppia. Erano stati questi due, i più giovani, a rincorrere i due umani che erano sfuggiti appena un istante prima del dovuto, e a rinunciare all'inseguimento qualche attimo prima. Un altro respiro, un altro passo e la preda sarebbe stata abbattuta. Quel piano così ben congegnato era andato sprecato — o quasi; erano riusciti a uccidere solo quel vecchio nella macchina. Molto bene. Sicuramente lui sapeva del branco. L'avevano sentito nell'auto, con la sua vecchia voce cupa che borbottava quelle parole umane alla radio... parole come lupo... lupo... lupo... Era difficile seguire il linguaggio umano, così complesso e veloce, ma tutti loro conoscevano certe parole, tramandate di generazione in generazione. Una di queste era "lupo". Nel tragitto da una città all'altra il branco a volte incontrava quelle gentili creature della foresta. Avevano musi miti e graziosi, e gli occhi dolci, con l'espressione vuota tipica degli animali. Eppure veniva quasi voglia di parlare con loro, di agitare la coda o di dargli una pacca con la zampa, ma non avevano l'intelligenza di rispondere. Trotterellavano dietro al branco per giorni, agitando gli sciocchi musi sorridenti - e si accucciavano impauriti quando il branco sbranava un uomo. Dopodiché i lupi se la svignavano e non si facevano più vedere, affascinati e terrorizzati delle usanze del branco. I lupi erano selvaggi, e non accompagnavano mai i branchi dentro le città. Solo i branchi erano al sicuro tra gli uomini - e come, se erano al sicuro! Nelle città c'era una quantità così enorme di umani di cui cibarsi, e tutti così ottusi, così ciechi: erano facili da cacciare come se fossero stati alberi, invece che creature animali.
L'aspetto del lupo non era molto diverso da quello del lupo mannaro. E in quell'auto la parola era stata pronunciata più e più volte — lupo... lupo. Quindi quel piccolo vecchietto era contaminato dagli altri due, i due che sapevano. Era morto sul colpo. Loro si erano avvicinati furtivamente alla macchina nel momento in cui le altre auto erano partite alla ricerca di quei due sugli scooter. Si erano fatti sempre più vicini, e uno di loro aveva aperto lo sportello. L'uomo aveva agitato un po' le mani davanti alla faccia, poi se l'era fatta addosso. Questo era tutto. Poi gli erano balzati sopra, avevano strappato, lacerato, squarciato con tutta la rabbia che avevano in corpo, mordendo e sputando via i pezzi insanguinati, furiosi per aver mancato i due importanti, furiosi perché anche quest'ometto aveva osato affrontarli con la sua scienza malefica. Gli avevano fracassato la testa, e affondato gli artigli nel cervello: avevano rimestato e maciullato tutto, per distruggere completamente e totalmente quella sudicia conoscenza. E nella furia avevano anche fatto a pezzi l'interno della macchina, lacerando i sedili per puro odio, sentendo traboccare e pulsare la frustrazione per la rossa sete di sangue insoddisfatta, mentre sembrava loro quasi di avere in bocca il gusto pungente di quei due che dovevano essere uccisi. Sfondarono completamente l'interno della macchina, e avrebbero fatto di peggio se solo avessero saputo in che modo. In qualche maniera gli umani facevano muovere quegli aggeggi, come erano capaci di far volare nell'aria dei macchinari simili. E ci volavano anche dentro. E ora uno di loro provocò un rumore in quell'ordigno. Lo abbandonarono immediatamente, temendo che si potesse mettere in moto con il branco ancora al suo interno. L'uomo aveva due facce: nudo e debole, vestito e forte. Lo stesso uomo che non aveva difese di per sé poteva essere completamente invulnerabile in un'auto con una pistola. Per proteggersi, il branco possedeva la velocità, l'udito e la vista, ma soprattutto l'olfatto. L'uomo aveva il metallo e le armi. Invidiavano all'uomo quelle grosse spatole piatte, che riuscivano a fare tante più cose delle loro zampe. Quelle specie di palette sembravano goffe, ma erano invece flessibili. Era con le spatole, o mani, che l'uomo costruiva quegli oggetti misteriosi che giravano sulle ruote o volavano, e le armi che sparavano. Sempre grazie ad esse, l'uomo era capace di abitare le città. Nessun branco sapeva come quelle città fossero potute sorgere, ma l'uomo le abitava, standosene al caldo d'inverno, e all'asciutto, tanto che nemmeno la pioggia più violenta lo poteva bagnare. Mentre dal cielo cadeva forte la pioggia o la neve, l'uomo se ne stava comodamente seduto nelle città. Come queste co-
se si fossero formate e perché fosse l'uomo a possederle nessuno poteva dirlo. Comunque faceva lo stesso: questo permetteva alle orde degli uomini di stare vicino, strette le une alle altre, e così era più facile cacciare. Ma la caccia poteva anche essere divertente se, ad esempio, ci si allontanava dalla città e ci si addentrava nella foresta durante la stagione delle foglie morte. Allora si trovavano uomini armati di fucili, uomini che tendevano agguati ai cervi e agli alci, e che potevano diventare pericolosi se li si lasciava fare. Era un gioco divertente: si emetteva un rumore in più e l'uomo si accorgeva di una strana presenza. Poi gli si dava la caccia, facendogli vedere appena qualcosa, che però era abbastanza perché cercasse di fuggire. E ci provava con tutte le sue forze! Quegli uomini si mettevano a nuotare nei fiumi, si arrampicavano sugli alberi, si coprivano di foglie. Usavano ogni genere di stratagemma, cambiando direzione, superando con un balzo i precipizi, saltando da un ramo all'altro tutti gli alberi della foresta. E il loro odore li seguiva sempre, come un fortissimo rumore. Ma il branco stabiliva delle regole, durante queste cacce. Se l'uomo arrivava fino a un determinato punto, gli si dava un vantaggio di cento battiti di cuore. Se arrivava fino a un altro punto, il vantaggio era di duecento battiti. Perciò, più lui era in gamba, più rendevano difficile la caccia a se stessi. Alla fine, se l'uomo era veramente in gamba, la caccia terminava con un lungo inseguimento disperato prima che raggiungesse la macchina: lui tentava invano di tirare su i finestrini, armeggiando disperatamente con le chiavi. Ma la morte sopraggiungeva sempre: veniva sbranato, mentre il sangue pulsava ancora nel suo cuore esausto. Ma spesso non era divertente cacciare. Per lo più era una caccia monotona, come lo sarebbe stata con quegli stupidi cani impazienti. Era vero che gli umani si stavano avvicinando, ma era molto difficile credere che un uomo non racchiuso nel metallo fosse una minaccia. Il fatto di uccidere i tre cani avrebbe comportato una certa perdita di tempo, ma alla fine il branco sarebbe sfuggito all'inseguimento. Gli umani potevano rappresentare un pericolo solo se tutta la città avesse saputo. Ognuno di essi era consapevole di questa possibilità: i due nemici potevano contaminare tutti gli uomini della città con quella sporca notizia. E allora il branco sarebbe stato in pericolo, e sarebbe dovuto fuggire. Ma non era ancora necessario. I cani furono sguinzagliati. Abbaiavano forte, comunicando l'eccitazione frenetica e incauta tipica della razza. Il ritmo del loro respiro aumentò, le zampe cominciarono a muoversi sempre più rapidamente, nella folle corsa
verso il branco. Avevano scelto attentamente la loro posizione. Un albero sovrastava il sentiero, che era inoltre soffocato da un fitto sottobosco. L'unica via per raggiungere il branco era una salita che passava attraverso quegli arbusti. La seconda femmina scese fino alla base del monticello. Si accovacciò in attesa di andare verso la trappola, non appena i cani l'avessero vista. Erano animali stupidi, e bisognava fargli vedere cosa dovevano fare se si voleva che lo facessero. I cani sciamarono su per il sentiero ululando, quindi videro la femmina, che ringhiò e balzò per rendersi ancor più evidente e poi corse nel sottobosco. I cani l'avevano quasi raggiunta quando gli altri del branco balzarono giù dagli alberi e furono loro addosso. I cani si contorsero e si dimenarono, mentre i mugolii di eccitazione si trasformavano in acute grida d'agonia, e poi ci fu il silenzio. Le carcasse furono scagliate in mezzo agli arbusti, fuori dalla vista, e il branco se ne andò rapidamente. Presero la direzione in cui l'odore dell'uomo era meno forte, e sbucarono in una strada coperta di neve, muovendosi lungo il muro di pietra che circondava il parco. Percorsero un breve tratto lungo quel muro, finché non giunsero al punto in cui la notte scorsa avevano ucciso quell'uomo. Era già pomeriggio, e i loro pensieri andarono al cibo. Ma non avrebbero ucciso vicino a dove si era svolta l'ultima caccia — in quel modo l'uomo si sarebbe potuto insospettire. Era meglio mettere la maggior distanza possibile tra un delitto e l'altro. Tutt'a un tratto si fermarono. Sollevarono i musi e inspirarono profondamente. Dall'altra parte della strada c'era un grande edificio, con una statua di fronte. E nell'aria c'era un leggerissimo odore di... quei due. Erano passati di qui da poco oppure erano dentro a quell'edificio? Era difficile stabilirlo in base a quell'odore, era troppo debole. Appena una traccia, non abbastanza per sapere se il corpo fosse caldo o freddo, all'interno o all'esterno. Attraversarono la strada innevata, finché furono nel terreno circostante l'edificio. Sì, l'odore adesso era più forte. Attenzione! Quelle creature non erano stupide, e sapevano d'essere inseguite. Meglio procedere molto lentamente e con cautela. Girarono attorno all'edificio, tre in una direzione e tre nell'altra, saltando con facilità le piccole balaustrate che circondavano quel posto. In tal modo, in base al fiuto, identificarono quali erano le porte in uso e quali non lo erano. Senza che ci fosse nemmeno bisogno di comunicare, si trovarono di nuovo insieme, e poi si separarono per far la posta
alle porte che potevano essere usate. Si nascondevano ovunque fosse possibile, accovacciati lungo le siepi, acciambellati nei piccoli gruppi di cespugli, o sdraiati dietro ai muretti di sostegno. E l'odore continuava ad aleggiare, quel caratteristico odore dolce che accompagnava la donna, insieme all'odore più forte dell'uomo. E poi ce n'era un altro familiare, più leggero e pungente: un odore che avevano già sentito insieme a quei due. Un odore caratteristico separava ogni essere umano da tutti gli altri, e il branco distingueva questi tre dall'enorme massa di odori che lo circondavano. E si misero in attesa. Per loro era facile aspettare: li eccitava ancor di più, mentre pregustavano la preda. Sam Garner fermò la macchina di fronte al Museo di Storia Naturale. Entrò, contando di mostrare il proprio tesserino di giornalista all'entrata per tener lontana la squadra di buttafuori. Si fermò per un attimo di fronte all'imponente edificio, e guardò la statua di Teddy Roosevelt. Il Grande Cacciatore Bianco malato di un complesso di colpa. Un bravo ragazzo. Sam salì in fretta le scale. Là dentro c'erano due investigatori che lui voleva incontrare. Non sapeva esattamente perché volesse farlo; non aveva una particolare simpatia per gli investigatori, e non era stato facile rintracciare quei due. Ma adesso era lì, e c'erano anche loro: voleva a tutti i costi scoprire come avrebbero reagito all'informazione che stava per dargli. Aveva programmato tutto. Avrebbe detto: "Sicuramente sapete che il Medico Legale Evans è stato ammazzato nel parco, stamattina." Loro avrebbero risposto di sì. Poi lui avrebbe continuato: "L'incidente è avvenuto nella vostra auto." Gli interessava molto la loro reazione a questa notizia. Tutta questa storia nascondeva qualcosa, e forse si trattava di qualcosa di grosso. Questi due magari avevano qualche idea di cosa fosse. CAPITOLO NONO Il telefono di Carl Ferguson squillò. Lui sollevò la cornetta, e poi la porse a Wilson. "È per te. Underwood." Wilson prese il telefono. "Gesù, Herbie, come hai fatto a sapere che ero qui?" "Ho indovinato giusto. Veramente ho fatto già sei telefonate. Questo era l'ultimo tentativo." "Molto diligente, da parte tua. Che cosa ti preoccupa?"
"Evans. Che cosa l'ha ucciso?" "Lo sai benissimo, Herbie, ragazzo mio." "Lupi?" "Lupi mannari. Come gli altri sei delitti." "Sei?" "Certo. La panchina insanguinata che abbiamo trovato stamattina era tutto quel che rimaneva del numero sei. Gruppo sanguigno 0-positivo. Finora non c'è nessun tipo di identificazione, oltre a questo." "Senti, devo informarti che ci sono un sacco di cronisti che scalpitano per saperne di più. Ce li troviamo dappertutto, e anche il parco brulica di stampa. Giornalisti di ogni testata, maledizione — Evans era un uomo famoso. Finora nessuno ha fatto il collegamento con gli' altri omicidi. Voglio dire, ovviamente ci sono dei punti in comune. Perciò non dire niente, hai capito?" "Oh, non lo farò. Non ho prove sufficienti, quindi non è il caso che ti preoccupi, per ora. C'è una torta, ma mi mancano le ciliegine." "Che cosa significa?" "Significa che mi mancano prove sufficienti da convincere anche te. Quando le avrò andrò dai giornali, ma non prima. Almeno su questo puoi contarci." "Va' a farti fottere, George. Se non fosse per la vecchia Centoquarantasette firmerei subito i tuoi dannati documenti per la pensione." "Beh, Herbie, che cosa ti aspettavi? Eri scemo da bambino e sei scemo anche da grande. Dovevi darmi retta molto tempo fa, la prima volta che hai capito che avevo ragione." "E quando?" "All'inizio, quando ti ho raccontato la mia storia. Ho ragione in pieno, e tu lo sai. Sei solo troppo maledettamente testardo per ammetterlo, o troppo stupido. Probabilmente tutt'e due le cose." Seguì un silenzio dall'altro capo del filo, tanto prolungato da far pensare a Wilson che Underwood avesse riattaccato. Finalmente l'altro parlò. "Investigatore Wilson," disse, "hai mai considerato, se questa storia è vera, che genere di reazione pubblica provocherebbe?" "Panico, confusione, sangue per le strade. E cadranno delle teste. Le teste di chi non ha fatto niente quando si poteva ancora fare qualcosa." "La mia testa. Sacrificheresti la città per questo? Riesci a immaginare il disastro economico, la distruzione che questo provocherebbe? Migliaia di persone lascerebbero la città. Un esodo di massa. Lo sciacallaggio, poi.
Questa è una grande città, Investigatore Wilson, ma credo che una cosa del genere la metterebbe in ginocchio." "Già. E tu insieme a lei. La gente tornerà indietro quando si renderà conto che i lupi mannari non sono solo un'attrazione locale. Ma tu non tornerai, Herbie. Tu sarai andato in pensione per sempre." La voce di Underwood era amara. "Ad essere sincero, spero con tutta l'anima che ti sbagli. Ora come ora niente mi farebbe più piacere che mandarti via dalla polizia a calci in culo. Ah, questo sì che mi piacerebbe." Questa volta Wilson fu sicuro che aveva riattaccato, perché sentì il colpo della cornetta. "Buon Dio," disse Becky, "che diavolo ti ha preso per parlargli in quel modo!" "È un idiota. È sempre stato un fottuto idiota. Accidenti, era un idiota quando se ne andava in giro in un lurido costume da bagno a metà dell'estate. Un fottuto piccolo idiota." "Questo non ti dà il diritto... Voglio dire, lo so che siete cresciuti insieme e tutto il resto... ma santo Dio, così ci distruggerai, tutti e due!" "Di che diavolo state parlando?" Si voltarono, sorpresi per il suono di quella voce estranea. Un ometto con indosso un impermeabile da quattro soldi se ne stava lì in piedi, con uno stupido sorriso stampato in faccia. "Mi chiamo Garner. New York Post. Voi due, ragazzi, siete gli Investigatori Neff e Wilson?" "Ritorna un'altra volta. Ora non abbiamo tempo." "Oh, andiamo Wilson, lascialo..." "Adesso non abbiamo tempo!" "Solo una domanda — come mai il dottor Evans è stato assassinato nella vostra auto? Avete qualche commento in proposito?" Mentre parlava teneva d'occhio la loro espressione. Ovviamente non si aspettava una risposta diretta. Quello che contava era la faccia che facevano. In un modo o nell'altro, avrebbe saputo se c'era sotto una storia oppure no. "Vattene subito di qui! O per caso sei sordo? Muoviti!" Quello corse via, attraversò l'atrio e via, su per le scale, con un sorriso da un'orecchia all'altra. Fantastico! Là sotto c'era qualcosa di maledettamente grosso! Non appena raggiunse la macchina, chiamò un fotografo. Un paio di foto di quei due mentre lasciavano il museo non avrebbero fatto male. Delle belle foto, sarebbero tornate sicuramente utili in seguito. "A volte penso che forse dovremmo dire qualcosa alla stampa," disse Ferguson quando il giornalista se ne fu andato. "Penso che ci aiuterebbe, il
fatto che altra gente ne fosse al corrente." "Diglielo tu." "Oh, non potrei farlo. Non ho abbastanza ..." "Prove. Neanche noi ce le abbiamo, è per questo che non possiamo dir niente. Dobbiamo aspettare finché non abbiamo quell'aggeggio per fare foto. Quando lo avremo, potremo sbandierare tutta la storia da qui a Mosca, per quanto mi riguarda, ma di certo io non lo farò prima. Te lo immagini — investigatore asserisce che i lupi mannari hanno ucciso medico legale? A Underwood piacerebbe un mondo." Wilson si sentì improvvisamente molto stanco. Davanti a lui c'era una lunga notte da passare, che si avvicinava implacabilmente; si sentiva crescere un nodo allo stomaco. La luce nella stanza era già cambiata; in questo periodo dell'anno le giornate erano molto brevi, e le notti lunghe. E questa notte la luna sarebbe sorta tardi. Nonostante le luci della città, nel giro di qualche ora le ombre sarebbero state ovunque. Il mondo intorno sembrava guardarlo con occhi malvagi, incombendo sopra di lui con una ferocia che non aveva mai sospettato esistesse dietro all'aspetto mite e familiare delle cose. Uno pensa che il mondo sia in un certo modo, e invece poi risulta essere tutt'altra cosa. Quello che sembrava un fiore è in verità una ferita aperta. Il fatto che il tempo passasse gli rodeva il cuore, e lo avvicinava sempre di più alla... verità, e la verità era che stavano per morire. Presto anche lui avrebbe provato quella sensazione, lo sapeva. Avrebbe sentito ciò che Evans aveva provato prima di lui, la sensazione di quegli esseri che gli squartavano il corpo con i denti. E anche Becky, anche quella pelle meravigliosa sarebbe stata strappata via — solo il pensiero gli pareva insopportabile. Wilson aveva sempre avuto un certo dono per la profezia — ed ora aveva una premonizione. Stava in piedi in mezzo alla stanza da letto di Becky quando uno di quegli esseri sbucava da dietro le tende e gli cacciava la testa nello stomaco. Mentre moriva, ucciso da un dolore acutissimo, lo vide agitare la coda. Poi qualcosa lo colpì. "Forza! Cristo santo, ragazzo, che diavolo ti ha preso?" Becky? Becky lo stava scuotendo. "Su, su, calmati, adesso, fallo sedere. E una reazione allo stress, nient'altro. Chiamalo, dì il suo nome, non deve svenire." "Wilson!" "Cos..."
"Chiama un dottore, idiota! Che diavolo gli sta succedendo, sembra fatto di gomma!" "È la tensione, un'estrema tensione nervosa. Continua a chiamarlo, sta tornando in sé." "Wilson, vecchio bastardo, svegliati!" Come reazione, lui la tirò giù sulla sedia e l'abbracciò goffamente, tenendola stretta a sé. Si udì un rumore soffocato provenirgli dal petto. Becky sentì la barba ruvida contro la guancia, e poi le labbra secche di lui sul collo. Lo sentì tremare per tutto il corpo, mentre l'odore aspro della sua giacca spiegazzata le penetrava nelle narici. Un istante dopo gli spinse via le spalle con le mani, e si liberò immediatamente dall'abbraccio. "Dio, mi sento malissimo." Ferguson gli porse un po' d'acqua in un bicchiere di carta, che lui rovesciò subito. "Maledizione, io ..." "Ora calmati. Ti sei sentito male." "Era una reazione allo stress," disse Ferguson. "A volte succede. La subisce chi si trova in un incidente aereo, o in mezzo agli incendi, oppure chi viene intrappolato. Se la situazione non è disperata, è una cosa che passa." Ferguson si sforzava di sorridere, ma aveva una faccia troppo pallida per essere credibile. "L'ho letto da qualche parte, ma non l'avevo mai visto prima," aggiunse in tono poco convincente. Wilson chiuse gli occhi, chinò la testa e si mise i pugni contro le tempie. Sembrava qualcuno che volesse proteggersi da un'esplosione. "Maledizione, come vorrei essere fuori da tutto questo!" Aveva urlato tanto forte che il leggero vocio al di là del piccolo ufficio si arrestò. "Per favore," disse Ferguson, "potresti causarmi dei problemi." "Mi dispiace, Dottore, scusami tanto." "Beh, deve ammettere ..." "Già, già, te lo puoi risparmiare. Becky, mi dispiace." "Sì, dispiace anche a me." I suoi occhi la supplicavano, e lei li ricambiò con quello che sperava fosse uno sguardo rassicurante. "Non pensare alla morte. Tu stavi pensando alla morte. Pensa... alla nostra macchina fotografica. Stanotte faremo quelle foto e poi le cose cominceranno a muoversi. Tutte le prove, più le foto — nessuno potrà più negare l'evidenza." "E ci daranno qualche tipo di protezione?" "Puoi contarci. Qualsiasi cosa succeda, sarà sempre una buona cosa. Meglio di adesso, speriamo."
Per la prima volta Becky permise a se stessa di pensarci. Sotto quale forma avrebbero ottenuto protezione? La risposta la colpì come una fredda pugnalata: l'unica cosa che poteva davvero proteggerli era una totale reclusione. La prima notte forse significava un sonno tranquillo, ma poi la prigione sarebbe diventata soffocante, e alla fine insopportabile, e lei avrebbe ceduto, mentre là fuori il pericolo era in agguato in ogni momento, e ogni ombra poteva celare un potenziale assassino. Era difficile distogliere la mente da questo genere di pensieri. E in testa le balenava l'immagine di quella morte: l'agonia sarebbe stata atroce e disperata oppure qualche meccanismo del cervello avrebbe provveduto al sollievo finale? Non riusciva a pensare neanche a questo. Pensa al momento imminente, non pensare al futuro. Pensa alla macchina fotografica. Gli uomini in guerra sicuramente facevano così: tenevano il pensiero fisso al prossimo buco di granata; impedendosi di sentire il sibilo mortale dei proiettili, i lamenti dei più sfortunati, finché anche loro stessi... Distolse di nuovo la mente da quei pensieri e disse con voce stanca: "Probabilmente Dick è ormai in possesso della macchina. Sono quasi le tre. Che ne pensate di andare lì a progettare l'appostamento? Sarà una notte molto lunga." Ferguson fece un debole sorriso. "Francamente, penso che sarà eccitante. Ovviamente è pericoloso; ma Dio mio, pensate alla grandezza di questa scoperta! Per tutta la storia l'umanità è vissuta in un sogno, e improvvisamente stiamo per scoprire la realtà. E un momento straordinario." I due investigatori lo guardarono sbalorditi. Il loro genere di vita e di abitudini tendevano a mettere in risalto il pericolo dell'inchiesta, e non la sua bellezza. Le parole di Ferguson facevano scorgere anche il lato meraviglioso di quella storia. Una volta dimostrata la presenza del lupo mannaro, la vita dell'uomo sarebbe completamente cambiata. Ci sarebbero stati panico e terrore — ma anche una nuova sfida. L'uomo, la preda — e il suo cacciatore, così abile, dotato di strumenti talmente perfetti da farlo sembrare quasi sovrannaturale. L'uomo aveva sempre affrontato la natura sicuro di sconfiggerla. Ma questo caso richiedeva un atteggiamento nuovo: il lupo mannaro avrebbe dovuto essere accettato. Probabilmente non si sarebbe rassegnato a una sconfitta. Becky sentì che nel suo intimo stava acquistando una maggior risolutezza. Conosceva bene quella sensazione. Le capitava spesso di provarla quando si trovavano di fronte a un caso particolarmente difficile, quel tipo di caso in cui si vuole davvero trovare l'assassinio. A volte veniva fatto
fuori uno spacciatore di droga o qualche altro rifiuto della società: nei loro confronti non si sentiva un reale interesse. Ma quando si trattava di un innocente, un bambino o un anziano, allora si provava quella sensazione: voler a tutti i costi mettere le manette al responsabile. Vendetta, ecco cos'era. E le parole di Ferguson le provocarono quest'effetto: era davvero un momento straordinario. L'umanità si trovava già in questa situazione e non lo sapeva, ma aveva il diritto di saperlo. Magari non c'era molto da fare, forse non subito, ma almeno le vittime avevano il diritto di vedere in faccia il loro aggressore. "Chiamiamo Dick, per essere sicuri che sia pronto. Non ha senso girare per le strade finché non ne abbiamo la necessità." Prese il telefono. "Assicurati che abbia i walkie-talkie," brontolò Wilson. "Dei modelli da civili. Non voglio che siano sintonizzati sulla lunghezza d'onda della polizia." Dick rispose al primo squillo. Sembrava di cattivo umore. Rispose alle domande di Becky con voce forzatamente pacata. Anche se non ne parlarono, era chiaro che gli era giunta notizia della morte di Evans e che sapeva cosa lo aveva ammazzato. Becky concluse la breve conversazione e mise giù il telefono. "Ha la macchina fotografica. Oggi pomeriggio procurerà le radio. Un paio di CB tascabili." Becky aveva provato una sensazione nuova, al suono della voce di Dick. Le aveva comunicato un forte calore, una sensazione di intimità che non ricordava d'aver mai provato, nemmeno quando erano appena sposati. Se fosse stato lì l'avrebbe abbracciato, solo per sentire la solida presenza del suo corpo. Peccato per lui, era migliore come essere umano che come poliziotto. Troppo buono per resistere alla dura vita in polizia, ecco qual era il problema di Dick. Ma per la commissione d'inchiesta ciò non avrebbe fatto nessunissima differenza, eppure c'era molta giustizia nel fatto di estorcere denaro alla criminalità organizzata per aiutare un vecchio in un'onesta clinica per anziani. Il suo vecchio. Sarebbe stato duro essere esaminati dalla commissione, maledettamente duro. Ora Wilson aveva lo sguardo fisso nel vuoto, uno strano sguardo che oscillava tra il coinvolgimento più totale e il torpore. "Forza," George, riprenditi! Sembri lontano mille miglia da qui. Se vogliamo organizzare quell'appostamento, è meglio cominciare al più presto. Dobbiamo studiare le inquadrature, con quella macchina, stabilire quali siano i punti d'osservazione più riparati, e così via. Sarà meglio che andiamo là a preparare tutto prima che faccia buio." Becky si era impedita di pensare a tutto il da farsi perché ciò significava
lasciare la sicurezza temporanea del museo ed affrontare le strade. Ma pareva proprio che nessuno ci avrebbe pensato, se non lo faceva lei. Di certo era meglio che Wilson risparmiasse le forze per dopo, quando si sarebbero giocati il tutto per tutto. "Non mi ero reso conto che fosse arrivato il momento di andarcene," disse Ferguson. "Ci sono alcune cose che vorrei sapere da voi due. Un paio di cose che non ho ben capito. Vorrei che mi fossero chiarite, prima di muoverci. Potrebbe essere importante." Becky alzò le sopracciglia. "D'accordo, sputa il rospo." "Beh, non capisco bene la sequenza degli avvenimenti di stamattina. Com'è stato ucciso esattamente Evans?" Becky non lo disse, ma anche a lei sarebbe piaciuto ascoltare la spiegazione di Wilson. Era chiaro che i lupi mannari fossero cacciatori eccezionali, ma aveva ancora le idee confuse riguardo alla successione esatta delle loro azioni di quella mattina. Wilson si mise a raccontare, con voce monotona. "Tutto dev'essere cominciato quando ci trovavamo a Central Park West, e stavamo investigando su uno dei loro delitti. È chiaro che già allora eravamo sotto osservazione." Un brivido gelido percorse la schiena di Becky, al ricordo di quella mattina: la folla di uomini e auto e la panchina inzuppata di sangue. Quello che li aveva salvati era stato solo la presenza di tutti quegli altri poliziotti. Wilson continuò. "Sapevano che non sarebbe stato facile prenderci, a meno che non ci fossimo trovati in una posizione più isolata. Perciò hanno organizzato una trappola. È una tecnica che i cacciatori umani utilizzano da secoli. E in questo caso ha funzionato alla perfezione. Si sono inoltrati all'interno del parco, hanno trovato un agente isolato che ispezionava i cespugli alla ricerca di prove e lo hanno ferito. Il fatto che sarebbe morto in seguito non faceva alcuna differenza, per loro. In Africa, i cacciatori legano degli gnu per attirare i leoni. Magari sembrerà ingiusto per gli gnu, ma non è previsto che sopravvivano. Né questa doveva essere la sorte del nostro agente. Non appena abbiamo fermato la macchina, loro devono esserci strisciati sotto. Al nostro ritorno, loro sarebbero balzati fuori e... due investigatori morti stecchiti. Penso di averlo capito giusto in tempo." Wilson si frugò nelle tasche. Becky gli porse una sigaretta. Qualcosa gli attraversò il volto, che diventò sempre più terreo, poi tirò un lungo, pesante respiro e continuò. "Ho avuto fortuna, ma certo il fatto di lasciare quel ragazzo mezzo morto non li ha aiutati. Allora ho capito. Eravamo cascati nella trappola. È stato in quel momento che ho detto a Becky di scappare sugli
scooter." "Ed Evans ..." "L'ultima volta che l'ho visto era seduto nella macchina. Verrebbe da immaginare che avesse chiuso le sicure degli sportelli. Credo non ci abbia pensato in tempo." "Hanno aperto gli sportelli?" domandò Becky. Wilson si strinse nelle spalle. "Perché, la cosa ti stupisce?" Aveva ragione. Era arduo da accettare, malgrado tutto quello che lei aveva visto. Risultava difficile immaginarsi degli animali che si comportassero in quel modo. Eppure, eppure quelli non erano affatto animali, o lo erano? Avevano la capacità di pensare, che li rendeva... qualcosa di diverso. Non li si poteva nemmeno definire come parte dell'umanità. Ne erano fondamentalmente i nemici. Era qualcosa che avevano nel sangue — come noi, del resto. Benché fossero intelligenti, non si potevano chiamare umani. Oppure sì? Avevano forse diritti e doveri civili, obblighi? Era assurdo perfino domandarselo. Nonostante avessero una natura intelligente, non c'era posto per loro nella società umana. Tranne che come cacciatori. Nella società degli gnu c'era un posto ben preciso per la iena, e anche il leopardo aveva un simile ruolo nelle comunità dei babbuini. La loro presenza era rispettata e accettata perché non c'era scelta. Gli gnu e i babbuini, infatti, non sarebbero mai riusciti a sconfiggere i loro predatori, la cui esistenza si rifletteva nell'ordinamento sociale. I babbuini proteggevano i piccoli e abbandonavano a se stessi i deboli. Detestavano farlo, ma dovevano. E anche l'uomo, col tempo, si sarebbe adattato a questo. Ferguson fu il primo a parlare, dopo l'avvincente spiegazione di Wilson. "Tutto quadra," disse. "É un piano molto ingegnoso. Devono essersi stupiti che voi ce l'abbiate fatta a scappare." "A meno che non stiano giocando con noi." "È poco probabile. Voi siete troppo pericolosi. Vi immaginate come ci si deve sentire, sapendo che il proprio modo di vivere sta per essere distrutto da due esseri umani? Accidenti, loro probabilmente si mangiano una o due persone al giorno. Darvi la caccia dev'essergli sembrato facile, all'inizio. No, non credo che stiano giocando con voi. Siete maledettamente difficili da prendere, ecco tutto. Come tutti i predatori, anche loro provano confusione quando incontrano esemplari forti della specie che di solito è preda. Non sono abituati a fronteggiare una resistenza decisa: tra gli animali, questo scatena una prova di forza. Il giovane alce stordisce il lupo a furia di
calci. In questo caso, si tratta della nostra prontezza di spirito... contro la loro." Wilson annuì. Becky notò che le parole di Ferguson sortivano un buon effetto su di lui. E anche su di lei, a dir la verità. Non cancellavano la paura, ma rendevano la situazione più chiara. Veniva da pensare che i lupi mannari fossero quasi onnipotenti, e che giocassero con gli umani come il gatto col topo, prolungando l'attesa di divorarli finché non si fossero stancati del gioco. Ma forse Ferguson aveva ragione. Dopotutto, fino a quel momento loro due avevano sempre sconfitto i lupi mannari. E potevano continuare a sconfiggerli. Ma poi le venne in mente un altro interrogativo, che non aveva mai osato porsi prima. "Per quanto tempo," domandò, "continueranno a darci la caccia?" "Per molto tempo," disse Ferguson. "Finché non vincono — oppure non vengono messi fuori combattimento." Becky tentò di scacciar via quel pensiero, e ci riuscì. Non potevano permettersi un atteggiamento ambivalente. "Forza, ragazzi, mettiamoci in moto. Abbiamo del lavoro da fare." Herbert Underwood era inquieto. Era seduto nell'ufficio esterno a quello del commissario; aveva in tasca l'ultimo sigaro della giornata, ma resisté all'impulso di fumarlo. Al commissario non piaceva l'odore dei sigari. Per l'ennesima volta Herb riesaminò il caso, analizzandone ogni aspetto, e cercando di immaginare come poteva usarlo per rafforzare la propria posizione e per indebolire quella del commissario. Secondo Vince Merillo, il nuovo futuro vicesindaco, il commissario aveva ancora un asso nella manica per la rielezione. Ciò significava che Herbert Underwood sarebbe andato in pensione prima di raggiungere la carica suprema. E lui voleva ottenere quella carica a tutti i costi. Per lui raggiungere il gradino superiore era più che un'abitudine. Meritava quella promozione, era un poliziotto eccellente. E anche un'ottima persona, nonché un buon amministratore. Che diavolo, era senz'altro migliore del commissario. Non gli serviva altro che un brutto guaio per il commissario, e allora Merillo avrebbe cominciato a parlare del capo degli investigatori come nuovo successore. Era sicuro dell'appoggio di Merillo: quel tipo glielo doveva, era implicato in una brutta faccenda di banche, e il capo degli investigatori lo sapeva. Il procuratore distrettuale non lo sapeva ancora — e non lo avrebbe mai saputo finché Merillo avesse continuato a reggergli il gioco. "Entra pure, Herb," disse il commissario dalla porta dell'ufficio interno.
Underwood si alzò ed entrò. Il commissario chiuse la porta. "Spie dappertutto," disse con la sua voce cantilenante. "Ci sono due sindaci che sbraitano contro di me. Ho dei cronisti nascosti nell'armadietto dell'archivio, e un'équipe televisiva nel bagno. Per non parlare del pubblico." Poi aggiunse, in tono più secco. "Dimmi cos'è successo ad Evans." "Oh, andiamo, Bob, lo sai che sono ancora in un vicolo cieco." "Ah sì? Mi dispiace sentirti dire questo, mi dispiace molto. Perché potrebbe significare che dovrò sostituirti." Underwood avrebbe voluto ridere forte. Il commissario si agitava rumorosamente qua e là come un elefante ferito. Le pressioni dall'alto dovevano essere enormi. Terribili per lui, davvero terribili. "Dici davvero? Sarebbe un sollievo." Ridacchiò. Il commissario lo guardò di traverso. "Vedi, il nostro nuovo sindaco è un uomo molto intelligente." "Lo so." "E anche Vince Merillo, il tuo buon amico." Underwood annuì. "Bene, ecco quello che il sindaco e il suo futuro vice pensano di questo caso. Lo vuoi sapere?" "Certo." "Hanno in testa la teoria di Wilson. Grosso modo, voglio dire, la teoria di Wilson. Lo scempio di Di Falco, quello del Bronx, la panchina insanguinata, l'agente sbudellato ed Evans..." "Pensano che tutto questo sia opera di lupi ibridi. Lo so. Ho parlato con Merillo." "E qual è la tua posizione?" "Questa teoria è una grandissima stronzata. Conosco Wilson da quando eravamo bambini, e penso che ci stia giocando un tiro mancino: sta cercando di darci da bere delle stupidaggini per poi farci fare la figura degli idioti. Specialmente a me. Di te, credo che non gl'interessi niente." "D'accordo. E tu, invece, cosa stai facendo?" "Ho appena organizzato una squadra speciale. Sarà agli ordini del Comandante Busciglio, della Quinta Sezione Omicidi. È un tipo maledettamente intelligente, davvero in gamba. Faranno indagini sui tre incidenti che hanno avuto luogo oggi a Central Park. Partiremo dall'ipotesi che questi incidenti non abbiano niente a che fare col caso del Bronx e di Brooklyn. Penso che così abbia molto più senso. Non è detto che questi casi non siano collegati, ma è una teoria molto azzardata. È abbastanza perché
non mi licenziate?" "Lo sai che non ti licenzierò, Herb. All'inferno, hanno deciso che tu dovrai aiutarli a sbarazzarsi di me. Se ti licenzio, al sindaco sembrerà che voglia rifarmi su di te." Rise. "Non posso lasciare che questo accada." Mentre parlava, stava in piedi di fronte a Underwood, in mezzo alla stanza. Poi si sedette in una poltrona di pelle, facendo cenno al capo di imitarlo. "Herb, tu ed io siamo amici da molto tempo. Però devo dirtelo: ho sentito delle voci su di te che mi hanno rattristato molto. Per esempio, che stai cercando di farmi le scarpe, per dirla senza mezzi termini. Perché lo fai, Herb?" Il capo sorrise. Bisognava ammettere che il commissario non usava giri di parole. "Nossignore, non sto cercando di fare niente del genere. Al contrario, tento in tutti i modi di rafforzare la tua posizione, e questo caso ne è un esempio. Penso che troveremo una soluzione valida molto presto: sarà d'aiuto a te, e di conseguenza aiuterà anche me. La mia ambizione non va al di là di questo." Ora fu il commissario a sorridere. Le labbra gli si incresparono in un sorriso allegro, che durò alcuni secondi, poi annuì, apparentemente soddisfatto. Aprì le braccia, in un gesto di mite approvazione. "D'accordo," disse, "continua a fare un buon lavoro. Mi fa piacere che tu sia ancora dei nostri." Underwood lasciò la stanza, non senza ulteriori affermazioni di lealtà, il tutto coronato da una solenne stretta di mano. Il commissario lo guardò uscire. Che diamine, con una capacità tecnica come quella, il ragazzo sarebbe stato un ottimo commissario, se riusciva a vincere. Una perfetta imitazione di sincerità. Si sa vendere bene. Ma non mi fotterà. Probabilmente pensa che sono una specie di pivello. Chiuse la porta dietro a Underwood e vi rimase per un po' a riflettere. Presto il capo avrebbe fatto fiasco davanti a tutti, in modo così eclatante che ogni carriera futura gli sarebbe stata pregiudicata. Dunque quel figlio di puttana voleva fare le scarpe a Bob Righter. Bene, che ci provasse pure! Poi la faccia del commissario si ricompose. Si mise a sfogliare un fascicolo sulla scrivania. Era intitolato "Progetto Werewolf (Lupi mannari). Strettamente riservato." Era stato visto solo da Merillo, dal nuovo sindaco e dal sindaco attuale. L'aveva scritto Bob Righter, di suo pugno. Questa era l'unica copia esistente. Lo aprì, e si mise a rileggerlo. L'aveva scritto tre ore prima, l'aveva portato al sindaco e poi al futuro sindaco. Si erano riuniti, e si erano accordati sul fatto che neanche una parola di quella relazione sarebbe stata resa pub-
blica, se non ve ne fosse stata l'assoluta necessità. Il commissario cominciò a esprimere i propri pensieri ad alta voce, poi si fermò, e le parole non ancora dette gli morirono in gola. Si chiese quante altre volte aveva parlato da solo. Stava diventando vecchio. Ma non era stanco, dannazione. Herb Underwood doveva capirlo, una volta per tutte. Non era stanco. Underwood si era messo in un'impresa assurda; quel maledetto Wilson aveva capito molte più cose fin dall'inizio. Era un tipo geniale, anche se strambo; un buon poliziotto, a modo suo. Un buon poliziotto con una buona socia... Becky Neff... anche a uno anziano come lui, sarebbe piaciuto combinare qualcosa con una tipa come quella. Ehi, rimani lucido. Suo marito era corrotto — magari anche lei lo era... Smise di pensare a loro, e ritornò all'argomento del fascicolo. Era la prima volta, in tutta la sua carriera, che gli capitava di scrivere una relazione così segreta, e di non farne parola che con i personaggi più importanti. Un uomo nella sua posizione si abitua a confidarsi con consiglieri, consulenti e assistenti amministrativi. Finisce col diventare un ufficio, invece che un individuo, e col pensare in termini di "noi". Non in questo caso, però. Questa faccenda scottava troppo per affidarla ai membri dello staff. Non si trattava solo di crimini orrendi, ma anche di un'occasione unica per distanziare Underwood, per schiacciarlo. "Herbie mi adorerà," disse, stavolta senza rendersi conto che aveva parlato a voce alta. Ora che aveva l'appoggio di entrambi i suoi capi, quello attuale e quello futuro, poteva iniziare a mettere insieme la squadra che avrebbe risolto il vero caso Lupi Mannari. Tirò fuori un blocchetto di fogli di carta gialla e lo posò accanto al fascicolo. In alto disegnò una casella, con una C all'interno. Questo sono io, pensò. Poi tirò una linea tratteggiata fino al capo degli investigatori, e nella casella scrisse una U. Non arriverà mai più in là di così, tutto solo con la sua U. Ora un'altra casella, unita da una linea continua con quella del commissario. Lo chiamerò vice assistente degli Affari Interni. VAAI. Okay, adesso diamogli uno staff. Altre tre caselle sotto di lui, tutti comandanti di Polizia. Ora un'equipe. Tre squadre per i tre comandanti, tutti dotati di alti poteri. Adesso bisognava assegnare al vice assistente un gruppo della Forza di Pattuglia Tattica, un dipartimento che svolgesse tutti i lavori più duri, dimodoché tutti quegli agenti non dovessero sporcarsi le mani. Molto bene. Circa duecento uomini. Il Mad Bomber aveva avuto ai suoi ordini un equipaggio di duecentocinquanta uomini. Il Son of Sam ne aveva utilizzati trecento. Il Werewolf Killers sarebbe stato più economico, con soli duecento uomini.
Poi tirò fuori dal cassetto della scrivania un piccolo registratore. Riavvolse la cassetta e la ascoltò di nuovo. Voci, confusione, poi una parola sussurrata, incomprensibile. E poi altre ancora. "O mamma... ehi, sta' attento (un gemito)... eccolo qui... (Voce: che cosa, Jack?) Un cane... una cosa strana... non riuscirete, non lo prenderete... ehi... oh, Dio cos'era — oh, mi ha strappato, strappato la divisa... ahi...aaaAAHH! (Voce: Jack, te ne serve ancora? Il dottore ti dà un altro analgesico.) Si... D'accordo, c'era un cane... un grosso figlio di puttana... strano, aveva come una faccia umana... ce n'erano un altro paio lì vicino... una faccia, diversa da una persona... non lo prenderete mai..." Quindi seguivano altri bisbigli (Seconda voce: il paziente sta spirando.) Fine della cassetta. Quell'agente non gli aveva fornito granché, ma era più di quanto avessero in mano prima. Abbastanza per un buon inizio; c'era anche un'approssimativa descrizione. Egli lesse la prima frase della propria relazione: "I Werewolf Killers sono un gruppo di individui dalla mente distorta, molto abili nell'arte del travestimento..." Ecco dove Underwood si sbagliava: non aveva capito che ce n'era un intero gruppo, e che fossero travestiti. Fuori dal museo la tensione aumentava. Il sole era sceso giù di parecchio, nel cielo. Nell'aria pomeridiana si sentivano già i primi leggeri odori di cucina. Quando i treni della metropolitana si fermavano, sotto la strada, si sentiva il tonfo di un numero sempre maggiore di piedi che scendevano. Era cominciato il rito pomeridiano dell'uomo che tornava al suo nido. Un rito che avrebbero compiuto anche i due odiati esseri all'interno dell'edificio. Non era necessario correre il rischio di avventurarsi lì dentro al loro inseguimento. Presto avrebbero sentito il bisogno di cibo e di riposo, e sarebbero usciti. Quel momento non era molto lontano. L'attesa rendeva il cuore leggero, sapendo che quella pazienza sarebbe stata premiata col sollievo e il successo. Presto sarebbero usciti, molto presto. Garner era tornato sulla scena del delitto di Evans a prendere Rich Fields, il fotografo che il giornale gli aveva mandato in aiuto. "Faremo qualche fotografia a un paio di poliziotti," egli disse a Fields. "Per fare che?" "Niente. Non sprecare neanche la pellicola. Bastano i flash. Mi servono i flash." "Grandioso. Ha proprio molto senso. Continua così, che forse mi convinci." "Chiudi il becco, Fields, sei troppo stupido per capire."
Salirono sull'auto di Garner e lasciarono il parco, diretti verso il Museo di Storia Naturale. Garner si sentiva pieno d'energia; là sotto c'era una storia dannatamente interessante, e quei due investigatori erano proprio nell'occhio del ciclone. Ah, doveva essere proprio una magnifica storia. Che il Times mandasse pure cinquanta signori giù in città, a scocciare il commissario di Polizia: Sam Garner invece sarebbe rimasto appiccicato addosso a questi due investigatori, finché non gli avessero raccontato la storia. Parcheggiò l'auto di fronte al museo e si mise comodo, in attesa. "Vuoi che inizi a scattare?" "Sta' zitto, scemo. Te lo dico io quando. E recita bene la parte, per piacere. Voglio dire, devi correre lassù e far funzionare il flash, devi farli arrabbiare." "Poi lo paghi tu il conto dell'ospedale, tesoro?" "Ci penserà il Post a te, caro. Fa' solo quello che ti dico." Fissò l'enorme edificio. Presto i due poliziotti sarebbero apparsi sulla porta, iniziando a scendere le scale. Fields si sarebbe lanciato verso di loro con la macchina fotografica. Basta con le parole e con le domande. Quei due poliziotti erano già spaventati, e questo li avrebbe gettati nel panico. Se nascondevano qualcosa d'interessante, la finta scena di scattare foto gli avrebbe fatto pensare che il Post era al corrente di tutto. Perciò, la prossima volta che Sam Garner li avesse avvicinati, loro avrebbero cercato disperatamente di salvarsi cantando quello che sapevano. Era successo altre volte. Le pressioni generano informazioni: è la prima regola del cronista investigativo. Fagli pensare che sai abbastanza da inchiodarli, e loro ti daranno quello che ti serve. Nella sua mente si rincorrevano le immagini di titoli deliziosi. Non sapeva esattamente cosa dicessero, ma erano lì, belli grandi. Aveva la sensazione che la settimana ventura sarebbe stata esplosiva come la dinamite. Al boss sarebbe piaciuta un mondo, tutta quella storia. Doveva essere qualcosa di veramente orribile. Qualsiasi cosa stesse succedendo, qualcuno aveva pensato bene di fare a pezzi il corpo del medico legale. Avevano persino tirato via la pelle dal cranio, e quasi staccato la testa dal corpo. La gola era partita, lo stomaco era stato squarciato e il corpo dilaniato in maniera così completa che le gambe erano rimaste sul fondo della macchina, quando gli infermieri avevano cercato di portar via il cadavere. Era un omicidio effettuato in maniera particolare, insolitamente feroce. Un delitto mostruoso. Una storia maledettamente sinistra. Tutt'a un tratto si sentì rabbrividire; si sentì male, come se gli venisse da vomitare. "Sbrigatevi," mormorò sottovoce. Dopo
questa piccola missione si sarebbe fatto un drink: ne aveva un maledetto bisogno. "Ho scattato dell'ottimo materiale su Evans," disse Fields. "Voglio dire, quello sì che era un disastro." "Stavo proprio pensando a questo. Non ha molto senso, non credi? Chiunque l'abbia fatto doveva odiare quel tipo con tutta l'anima. E proprio in pieno giorno, là in mezzo al parco. È una strana faccenda, dannatamente bizzarra, se vuoi la mia opinione." "Ehi, capo, guarda là. Non sono loro, la pupa con il vecchio?" "Sì, sono loro. Muoviti." Fields aprì lo sportello e raggiunse il piedestallo della statua di Teddy Roosevelt, davanti all'entrata del museo. Da quella posizione Neff e Wilson non l'avrebbero visto fino a quando non gli fossero stati accanto, dopo aver sceso i gradini. Stavano andando di fretta. Un altro uomo, alto e curvo, con le mani intrecciate davanti a sé, camminava dietro di loro. Il modo in cui si muovevano gli ricordava qualcosa. E Fields si rese conto che cos'era: in Vietnam, la gente sotto tiro si muoveva in quel modo. Man mano che si avvicinavano, riusciva a sentire i loro passi scricchiolare sulla neve. Uscì dalla posizione in cui si trovava, vicino alla statua, e iniziò a scattare. I flash lampeggiarono nella grigia luce invernale, e le tre figure balzarono via allarmate. Prima che potesse rendersene conto, vide una pistola in mano al vecchio. E anche la donna gli stava tenendo una pistola puntata addosso. Era avvenuto tutto con la stessa strana, lenta sequenza tipica degli attacchi in guerra. Più l'azione era vicina, e più gli eventi si scindevano in singole componenti. Poi veniva la conclusione, di solito violenta, il boato di una bomba che saliva, le sagome nere che s'inarcavano contro il cielo, le grida e il fumo... "Dannazione, sono armati, e io ho solo la macchina fotografica." Qualcos'altro si mosse e la pistola del vecchio emise un boato. "Non sparate!" Ma vi fu ancora un boato, e delle scintille. L'uomo alto urlò. Ora anche la pistola della donna rombò, rinculandole in mano, una, due, tre volte. Ma lì tra la neve qualcosa sgattaiolava via: erano in due. Ecco a cosa stavano sparando, non a lui. Poi tutti e tre fecero uno scatto verso la macchina di Sam. "Forza," gli urlò la donna da dietro la spalla, "muoviti o sei morto!" Rich si mosse velocissimo, gettandosi nel sedile posteriore, sulle ginocchia della donna poliziotto. Lei chiuse lo sportello e si districò. "Sbrigati!" ringhiò il vecchio a Sam, "sbrigati, dannazione!"
Ma Sam non aveva intenzione di sbrigarsi. Si girò verso il vecchio investigatore, che stava seduto nel posto accanto a lui. "Che cazzo," disse con voce acuta, e con un'espressione stupida sul volto. L'investigatore gli puntò la pistola addosso. "Muovi questa carretta," disse, "o ti faccio saltare le cervella." Sam si immise velocemente nel traffico. Né lui né Rich avevano voglia di fare altre domande, in quel momento. "Ne abbiamo preso uno," disse Becky. "Non è morto," rispose Wilson. Becky si girò verso Rich, che era interamente turbato dal suo odore pungente e profumato, e dal caldo contatto con la sua gamba. "Grazie," disse lei, "ci avete appena salvato la pelle." "Che diavolo è successo?" Sam riuscì a dire con voce tremolante. "Niente," rispose Wilson. "Non è successo niente. Il tuo amico ci ha innervositi con quel flash." "Oh, andiamo, Wilson, diglielo," disse Ferguson. "Chiudi il becco, dottore!" disse Becky. "Me ne occuperò io. Non vogliamo la stampa tra i piedi, ne abbiamo già parlato." Wilson si girò indietro; aveva la faccia contorta e a chiazze, come una tragica maschera di se stesso. "Se questo si viene a sapere," disse, "possiamo già da ora dire addio alla nostra pellaccia! Non abbiamo prove, tesoro, e senza prove sembreremmo un paio di pazzi. Sta' a sentire come andrebbero le cose: quello stronzo giù in città ci farebbe andare in pensione come malati mentali. E allora sai cosa succederebbe? Che quei bastardi ci sarebbero addosso immediatamente!" Rise, ma quello che uscì assomigliava più a un ringhio che a una risata. Poi si rimise a guardare avanti. Ferguson aveva un'espressione cupa, dietro di lui. "Portaci all'Uno Quindici, Ottantottesima Strada Est," disse Becky, "e gira ben alla larga dal parco. Vai giù per Columbus fino alla Cinquantasettesima, e continua per di là." "E muovi il dannato catorcio," disse Wilson con voce rauca. "Sei un maledetto cronista, sai guidare, no?" Poi ridacchiò, con un rumore secco e soffocato. "Cosa scriverai sul verbale, riguardo agli spari?" le domandò lui. "Un incidente mentre pulivo la pistola. Ho sparato tre colpi per sbaglio." Wilson annuì. "Maledizione, ho il diritto di sapere," disse Sam, "ne ho il diritto. Sono stato l'unico giornalista in tutta la città a capire che voi due eravate quelli che ne sapevano di più, di questa storia. Gli altri stronzi sono giù ai Quar-
tieri Generali di Polizia, e cercano di strappare qualche dichiarazione al commissario. Ditemi solo che cosa è successo a Evans. Su quanto è avvenuto prima non vi farò neanche una domanda." Nel frattempo, Becky si era sporta in avanti. Wilson non era in grado di parlare. "Evans" è stato ammazzato. Se ne sapessimo di più, avremmo già messo le manette a qualcuno." "Oh, immagino che quella sparatoria non fosse niente. Se volete sapere come la penso, voi due siete due strani poliziotti. Non ho mai visto un poliziotto sparare in quel modo solo per un cane. Accidenti, questa è già una notizia di per sé." "Puoi starne certo. Ora chiudi il becco e pensa a guidare, per piacere." "E questo il modo di parlare a un cittadino!" "Tu non sei un cittadino, sei un cronista. C'è una certa differenza." "Cosa?" Becky non rispose. Durante quella conversazione, Ferguson era rimasto immobile, inclinato verso Becky in mezzo al sedile posteriore, ben lontano dal finestrino. Sam notò che anche Wilson manteneva una certa distanza dal finestrino, e stava seduto quasi nel mezzo del sedile anteriore. Sembrava quasi che avessero paura di qualcosa che potesse aggredirli proprio da lì... se non fosse stato che i finestrini erano chiusi. CAPITOLO DECIMO Quella luce del giorno era una maledizione. Il capo del branco, che gli altri chiamavano Vecchio Padre, era in attesa dietro alla siepe che separava la gradinata del museo dal prato circostante. Si era appostato lì perché sapeva che i due avrebbero probabilmente lasciato il museo da quella porta. Stava per compiere un lavoro pericoloso, difficile, e triste. Quella di uccidere gli esseri umani era la fortuna della sua razza, ma in casi come questi, in cui si trovava costretto a sbranare gente giovane e forte, metteva molto in discussione il proprio ruolo nel mondo. I suoi figli pensavano all'umanità semplicemente in termini di cibo, ma la sua lunga esperienza gli aveva insegnato che anche l'uomo era un essere pensante, che godeva come loro delle bellezze del mondo. Anche l'uomo aveva il linguaggio, il passato e la speranza. Ma il fatto di sapere queste cose non cambiava il bisogno — o meglio l'irrefrenabile impulso — di uccidere e divorare la preda. Per abitudine, soppesava mentalmente ogni essere umano che vedeva. Gli piaceva
sentire la loro carne che gli scoppiava tra le fauci, e sentirsi scorrere il sangue caldo giù per la gola. Vivendo nella grande città, poteva bearsi dell'inebriante poesia degli odori. Il branco viveva nell'opulenza, perché nel suo territorio c'erano molti umani. Il padre amava quella ricchezza, che aveva conquistato a così caro prezzo quando, insieme a tutto il branco, era migrato verso questa città. Il capo dei tempi della sua gioventù aveva preferito l'isolamento della vita rurale al compito più difficile di mantenersi un territorio in città. Così nessun altro branco avrebbe mai cercato di portar via a quel vecchio codardo il povero territorio che possedeva. I suoi abitanti soffrivano la fame d'inverno e se ne stavano rintanati d'estate, sempre guardinghi e diffidenti a causa del rischio continuo d'essere scoperti. Quando era diventato adulto, egli aveva preso con sé sua sorella e si era diretto verso sud, verso quel mitico posto in cui abitava un'innumerevole orda umana. Spesso erano stati sfidati da altri branchi, ma ogni volta erano riusciti ad avere la meglio. A volte avevano combattuto per una giornata intera, bruciati dall'odio rituale sotto cui si celava l'amore per la razza. Ma quegli scontri si erano sempre conclusi con la ritirata del capo dell'altro branco. Poi loro due erano soliti festeggiare, con un lungo ululato, e quindi si rimettevano al lavoro. Avevano continuato così finché lui e sua sorella non si erano conquistati un grande spazio tutto per loro. Avevano delimitato i loro confini e dato alla luce la prima figliata. Erano tre, una femmina e due maschi. Avevano ucciso il primo maschio, troppo debole, e la sua carne tenera era stata data in pasto ai due più forti. Era una sfortuna non poter generare una perfetta figliata di quattro, ma due erano sempre meglio di niente. Due anni dopo avevano ancora ingrandito il loro spazio, e dato vita a un'altra figliata. Questa volta erano nati solo un maschio e una femmina, ma entrambi sani. La prossima primavera il primo paio si sarebbe accoppiato, e così avrebbero fatto di nuovo anche lui e sua sorella. Avendo fortuna, sarebbero nati due coppie di cuccioli. Con una fortuna ancora maggiore, avrebbero dato vita a tre o anche quattro coppie. E l'anno prossimo il secondo paio si sarebbe accoppiato e ci sarebbero stati altri figli ancora. Fra non molti anni lui sarebbe stato a capo di un bel branco, in un territorio ampio e opulento. Pur essendo nato tra quelle misere colline, era infine giunto a tutto questo, e ne era contento. La sua unica preoccupazione erano adesso quei due umani, che sapevano cose proibite. Se quella notizia fosse stata divulgata tra gli esseri umani, i branchi avrebbero dovuto essere ridotti di numero, e anche in mezzo a tutta
quell'abbondanza sarebbero stati costretti a sgattaiolare via come stupidi animali... sarebbe stato il cacciatore a essere cacciato... questo poteva essere il destino per sé e per i suoi figli. Per secoli tutta la razza si sarebbe ricordata di quel fallimento, e del suo nome come di una maledizione. E la sua discendenza, che egli stesso aveva creato con grande coraggio, si sarebbe inaridita e poi estinta. Altri avrebbero detto di lui: "Faceva meglio a restare sulle montagne." Sospirò, e si concentrò di nuovo sul problema imminente. C'era ancora molta luce, e l'odore di quei due si faceva più forte. Sì, stavano uscendo da quella porta. Ancora qualche momento e sarebbero stati sulla scalinata. Fece schioccare la mandibola: a questo segnale gli altri si appostarono davanti all'entrata principale. La seconda coppia attraversò la strada e si nascose sotto alle auto ferme. In quel modo, anche se i due gli fossero sfuggiti non sarebbero andati lontano. La terza coppia, la più giovane, si avvicinò e aspettò insieme a lui. Sua sorella, col pelo rilucente nella sua piena femminilità, col bel muso che brillava di coraggio e di gioia dell'attesa, e con le movenze calme e regali, si appostò sul muro di fronte. Questa volta non sarebbero sfuggiti. Finalmente la caccia era giunta al termine. E c'era anche un premio extra — quell'uomo alto con il quale i due passavano così tanto tempo, anche lui sarebbe stato distrutto. Tutto bene, però era una faccenda brutta e sporca. Non si può togliere la vita ai giovani. Neanche le belve della foresta li uccidevano. Nella pratica era difficile, ma c'erano ragioni di forza maggiore: affinché il branco potesse vivere, dovevano essere distrutte altre vite, sebbene far questo gli ripugnasse. Quando uno di loro diventava vecchio, i giovani gli davano la morte, ma prima che venisse la sua ora egli provava un desiderio feroce di continuare a vivere. Doveva essere così anche per la preda. Quelle poche volte che era stato costretto a uccidere giovani vite, aveva sentito la loro lotta frenetica, il ritmo furioso di una vitalità che era difficile placare... e si era detestato, dopo, quando aveva la pancia piena e il cuore triste. Apparvero sulla porta, mentre il loro odore li precedeva a fortissime zaffate. L'odore della donna era chiaro e acuto: non era quello del cibo, e così era anche per l'uomo giovane. Solo l'odore del più vecchio gli ricordava la preda: era dolce e pungente, tipico di un corpo indebolito. Eppure fluiva e pulsava ancora di vitalità. I tre odori, messi insieme, sprizzavano scintille. Egli sospirò e gettò un'occhiata alla terza coppia, che era con lui. I loro musi esprimevano paura. Egli aveva voluto che stessero con lui proprio per questo motivo: da quest'esperienza avrebbero imparato a non uccidere i
giovani, e anche a non permettere mai di essere visti. Loro videro il dolore dipinto sul volto del padre: non l'avrebbero mai dimenticato. Egli lasciò che vedessero, udissero e fiutassero le sue emozioni fino in fondo, per poi constatare con soddisfazione che quella caccia, fino ad allora eccitante, era adesso diventata proprio quel che doveva essere: un'occasione di dolore e di sconfitta. I loro corpi s'irrigidirono, e improvvisamente cambiarono odore; egli sentì il cuore battergli più forte, quando fiutò quell'attesa. Le tre vittime stavano scendendo i gradini, trasmettendo un'evidente diffidenza coi loro movimenti e con l'odore — eppure continuavano ad avvicinarsi, ignari della trappola in cui stavano per cadere. Nonostante l'umanità gli fosse ormai familiare, il fatto che gli uomini entrassero proprio in mezzo all'odore del pericolo non cessava di stupirlo. Avevano piccoli rigonfiamenti sulla faccia per respirare, ma erano semplici appendici, cieche e inutili per qualsiasi altra cosa che non fosse far passare l'aria dentro e fuori dal corpo. I tre giunsero ai piedi della scalinata — e la terza coppia balzò oltre la siepe. Simultaneamente un uomo che era rimasto nascosto saltò davanti ai tre e iniziò a scattare dei lampi. Il vecchio padre imprecò contro se stesso: sapeva che quell'uomo era lì, ma non l'aveva degnato neanche di un pensiero! Ma certo, certo... e ora i suoi due giovani si fermavano — no, andate avanti! — troppo tardi, ora tornavano indietro, confusi, con un turbine di interrogativi sul volto: che cosa facciamo? E intanto erano state estratte le pistole, mentre ognuno correva verso il parco. Ecco le detonazioni che rimbombavano nell'aria, il branco che saltava oltre il muro di pietra, e si disperdeva nel sottobosco. Si riunirono non molto lontano, incuranti del pericolo di quella vicinanza. Lo avevano fiutato tutti: qualcuno nel branco stava perdendo sangue. Mancava il maschio più giovane. Il padre toccò col muso i musi degli altri; lo rassicurarono tutti, tranne che la femmina più giovane. Lei gli espresse con gli occhi: "Perché hai mandato noi?" E intendeva, "Eravamo i più giovani, i più inesperti, e avevamo così tanta paura!" Presa dalla collera, gli disse che non sarebbe più stata sua figlia, se suo fratello fosse morto. La sua rabbia era profonda, lo sapeva, e non avrebbe ceduto alle suppliche del resto del branco. Adesso che tali sentimenti erano stati comunicati, nessuno poteva più cancellarli. Mentre si dirigevano verso il luogo dove si era nascosto il giovane ferito, il padre continuò a scuotere la testa per il dolore. "Ma guardati," disse sua sorella con gli occhi e le orecchie, "stai di-
menando la testa come uno stupido lupo! Sei tu il padre, oppure sei un figlio?" Si sentì umiliato da quel disprezzo, ma cercò di non farlo vedere. Si sforzò di mantenere perfettamente liscio il pelo del collo, mentre l'impulso glielo faceva rizzare. L'ano gli rimase chiuso grazie a uno sforzo consapevole: non voleva permettere al suo istinto di diffondere in quel luogo l'odore muschiato del pericolo. Mantenne la coda tesa in alto, non a mezz'asta né umilmente nascosta tra le zampe. No, coda tesa e niente scondinzolamenti: questa era una posizione dignitosa e neutra, che indicava solennità. Malgrado i suoi sforzi, sua sorella disse: "Lascia andare quell'odore, dimostra ai figli la tua pena. Non hai nemmeno il coraggio di far questo!" Non riuscì a trattenersi più a lungo: il fetore esplose con violenza, e impregnò l'aria intorno. Egli imprecò contro se stesso, mentre le grosse zaffate lo tradivano, rivelando la debolezza che si sentiva dentro. "Io sono vostro padre," disse, questa volta agitando la coda in un ampio gesto d'orgoglio, con le orecchie dritte e gli occhi lucenti. Ma l'odore era quello della paura: si era tradito completamente. Il suo primo figlio fece un passo in avanti. "Lasciami cercare mio fratello," segnalò facendo schioccare le mascelle, e agitando la coda in modo irriverente. I quattro — la sorella, le figlie e il figlio — si diressero verso l'odore emanato dal giovane ferito. Quando scomparvero dalla vista, il padre si lasciò andare all'impulso che l'opprimeva, e si rotolò sul dorso. Stette lì disteso, scalciando leggermente con le zampe posteriori, lasciandosi sopraffare da una calda ondata di sottomissione: vi si rilassò, rinunciando al proprio ruolo di capo. Ma il branco non era lì a vederlo, suo figlio non poteva saltargli alla gola e sbranarlo. No, lui era là da solo, col cielo ignaro sopra di sé. Anche se il figlio lo avesse sostituito, non avrebbe mai visto suo padre col ventre all'aria. Poi udì un ululato sommesso. Era talmente pieno di dolore da farlo tremare. Sua sorella aveva emesso il suono della morte! Le ferite del loro figlio più giovane erano mortali. Scuotendo la coda egli si sforzò di mantenere il controllo, e si preparò ad eseguire il compito più terribile. Sebbene suo figlio maggiore o sua sorella l'avrebbero presto sostituito alla guida del branco, era pur sempre il Vecchio Padre, e doveva essere lui a far questo. Smise di correre e sollevò la testa. Voleva che gli umani lo udissero mentre emetteva il suo lamento funebre! Esso risuonò alto e pieno d'orgoglio. Subito dopo sentì gli spaventosi gemiti del suo secondo figlio maschio, e si rimise a correre. Poco dopo giunse nel luogo vicino al muro, dove la famiglia era riunita intorno a una sagoma grigia, tutta raggomitolata. I musi e-
rano contorti dall'angoscia, mentre la saliva colava dalle fauci. Lo ignorarono, sebbene in apparenza lo trattassero ancora con rispetto. Al termine di questa funzione finale il suo ruolo di guida si sarebbe concluso. Egli andò verso suo figlio, e lo annusò: stava tremando, aveva freddo, e teneva gli occhi strabuzzati verso l'alto. Il Vecchio Padre provò dolore del figlio fin dentro le proprie ossa. Ma nonostante l'angoscia, si sentì fiero di lui, che si era trascinato così lontano, con quelle tremende ferite, per nascondersi alla vista degli esseri umani. Il giovane maschio tirò un sospiro e fissò a lungo suo padre. Poi sollevò leggermente il muso da terra e chiuse gli occhi. Il Vecchio Padre non esitò; uccise il figlio con un unico, feroce morso. Il giovane corpo reagì scalciando furiosamente, con la bocca spalancata. Era già morto quando il padre finì d'ingoiare i tessuti lacerati dalla sua gola. Immediatamente gli altri si fecero intorno, e lui capì chi avrebbe assunto il comando: sua sorella. Adesso ci sarebbe stato un confronto, e lui poteva scegliere tra la lotta o la sottomissione. Se avesse combattuto, tutti e quattro gli si sarebbero scagliati contro, pieni di rabbia. Con un rapido sguardo, si rese conto che avrebbe vinto lui quella lotta. Ma a quale prezzo — il branco sarebbe marcito nell'odio, seguendo un padre che disprezzava. Per il bene di tutto ciò che aveva costruito, decise perciò di prostrarsi davanti a sua sorella. Lei disdegnò la sua offerta, e si allontanò a grandi passi, con la coda alta. Fu invece la sua figlia più giovane, ancora tremante per il dolore della perdita subita, ad accettare l'offerta di prostrazione. Quando gli afferrò la gola, egli chiuse gli occhi, in attesa della morte. A volte coloro che erano troppo giovani per quest'usanza si facevano sopraffare dall'emozione e uccidevano chi si umiliava davanti a loro. Gli sembrò che fosse passata un'eternità prima che lei allentasse la presa. Ora l'intero branco teneva la coda spavaldamente alzata, mentre lui la ripiegò tra le zampe. Adesso che aveva perso il comando, la sua vita sarebbe stata irta di pericoli e di rischi. Il minimo gesto di superiorità, e loro l'avrebbero azzannato. E finché sua sorella, sua figlia e lui stesso non avessero trovato nuovi compagni, l'equilibrio del branco sarebbe stato turbato in modo molto spiacevole. C'era ancora un compito da svolgere prima che il branco riorganizzato riprendesse il cammino. Voltarono sul dorso il corpo del fratello e si misero a mangiarlo, frantumandone anche le ossa tra i denti, e consumandolo fino all'ultimo pezzo, ad eccezione di qualche ciuffo di pelo. Fu divorato per necessità e per rispetto; ora l'avrebbero sempre ricordato, per la sua
morte coraggiosa e per la sua vita esemplare. Il sapore della sua carne s'impresse nella memoria di ognuno, come un prezioso ricordo. Poi ulularono, esprimendo col loro grido l'idea che i morti sono ormai in pace, e che la vita continua. Quindi si misero in circolo, toccandosi coi nasi, mentre la gioia di essere insieme superava il dolore e il disaccordo; infine aprirono la bocca e respirarono reciprocamente gli aliti, col cuore reso leggero da quell'intimità. Eppure, il vecchio padre e sua sorella non erano più una coppia. Ora lei aveva bisogno di un marito, un sostituto di fratello che fosse disposto ad accettarla come capo. Molti dei maschi che giravano liberi, essendosi macchiati di una colpa tanto grave da essere cacciati dal branco, sarebbero stati felici di una posizione del genere. E anche la figlia che aveva perso suo fratello doveva trovarsi presto un marito. Le due femmine stavano già diffondendo il profumo del desiderio; ciò provocò una reazione del corpo dei due maschi, mentre il padre spasimava penosamente per la sua stupenda sorella. Ma il tempo di accoppiarsi era probabilmente finito, a meno che non avesse incontrato una femmina sventurata come lui. Bisogna lasciar passare del tempo, pensò, e poi diffonderò il mio odore per una nuova compagna. Far passare del tempo... e guarire le ferite. Sua sorella lo guardava mentre lui se ne stava lì confuso, incapace di decidere cosa fare di se stesso ora che aveva perso il comando. Il cuore le chiedeva di confortarlo e di partecipare al suo dolore, ma continuò a tenere la coda alta e non lo guardò in faccia. Avevano creato insieme il branco, ma i loro figli non potevano accettare gli ordini da un padre che aveva fatto un piano talmente mal organizzato da causare l'uccisione di uno dei suoi figli. Era giusto così, e dovevano accettare tutti questa situazione. Ma lei non poteva sopportare di vederlo in quel modo! Se ne stava acquattato, gettando a tutti occhiate impaurite. Era svanita la sua bellezza, il suo infinito orgoglio per il piccolo branco. Dovevano costruirlo insieme, e lei non sopportava l'idea di farlo con un altro. Non ricordava un tempo in cui non fosse stata innamorata di lui. Erano stati i loro stessi genitori ad accoppiarli, in una figliata di quattro, e sin dalla prima volta si erano amati. Finché sul branco non si era abbattuta questa maledizione, non avevano provato altro che felicità. Diventavano sempre più ricchi, e potevano permettersi di scartare molte prede, scegliendo solo le migliori e le più comode. Potevano sceglierne una su dieci! E la caccia era abbondante, e sempre facile in quel ricco territorio. Il giorno in cui era avvenuta la catastrofe si stavano di nuovo preparando
a cacciare. Possedevano un riparo al caldo e molte potenziali vittime. Avevano anche un buon posto per figliare, il migliore che avessero mai trovato. Gli si prospettava davanti un inverno sereno e una primavera fortunata. Poi era arrivata la notizia. L'avevano fiutata per la prima volta in una luminosa giornata d'autunno. Quell'odore era stato lasciato sul confine del territorio dal branco vicino. E così il Vecchio Padre si era incontrato col padre dell'altra tribù, ed era stato informato del tremendo errore commesso da due cuccioli alla loro prima caccia. Avevano preso due giovani maschi umani, il più tabù dei tabù; li avevano presi in un momento di sconsiderata eccitazione. E gli umani se n'erano accorti: erano venuti a investigare in molti, e si erano portati via i resti il giorno seguente a quello in cui era stato commesso l'errore. E così l'uomo sapeva qualcosa, più di quanto dovesse. Poi era giunta l'orribile sfortuna per il suo branco, l'incidente che aveva provocato l'attuale situazione. Avevano in qualche modo provocato essi stessi le indagini. E, cosa fantastica e impossibile, gli umani erano giunti fino alla loro tana e portato via i resti di alcune uccisioni. Quanto si erano maledetti per non aver consumato anche le ossa! Ma ormai era troppo tardi. Potevano solo sperare che l'uomo fosse confuso al riguardo, ma non lo era. I due a cui ora stavano dando la caccia erano saliti fino alla tana, avevano ficcato il naso qua e là, rischiando d'essere uccisi già allora. Quei due sapevano tutto, ecco perché erano venuti fino lì. E da allora continuava quella caccia disperata, che aveva sconvolto la vita del branco, costringendolo a seguire la preda fin nel cuore della città, dove c'erano pochi edifici abbandonati, e quindi buoni nascondigli. Ora quella caccia aveva distrutto anche la loro felicità. Lei avrebbe voluto rovesciare la testa all'indietro e ululare tutto il suo dolore, ma non poteva. Sarebbe stato un capo migliore di suo fratello? Ne dubitava molto! L'alternativa era di dare il comando a quel suo primo figlio, così testardo, che certamente non avrebbe eguagliato le prodezze di suo padre. Non si fidava di questo figlio. Lo osservò mentre rivendicava con aria soddisfatta la sua nuova posizione nei confronti del padre. E il suo amato fratello si piegava davanti al giovane — era talmente coraggioso da fare anche questo per preservare l'unità del branco. Ma un giovane che esigeva un simile atto meritava una lezione. Andò verso di lui, e lo annusò sotto la coda. I peli del collo le si rizzarono, e gli diede una spinta. Era un maschio grosso e robusto di tre anni — e gli occhi gli scintillarono d'allegria mentre la madre gli imponeva la disciplina. Ma bene, che ridesse pure! Gli ordinò di stendersi sul dorso. Egli fu pronto a farlo, troppo pronto. Quella fu l'ul-
tima goccia: gli azzannò la carne del collo e gli diede un forte morso. Lui boccheggiò, colto di sorpresa — probabilmente pensando che la madre volesse ucciderlo. Molto bene, lasciamogli pensare che una madre possa uccidere suo figlio. Doveva capire a cosa l'aveva portata il suo atteggiamento insolente verso suo padre! Gli ordinò di alzarsi ed egli si tirò su, con aria contrita. Aveva gli occhi sbarrati, e sul muso un'espressione addolorata. Il sangue gli colava giù dal collo. Sua sorella gli andò vicino, e rimase lì a fissare la madre. Bene, era leale. Poi la madre si girò e si allontanò. Gli altri capirono che voleva star sola coi suoi pensieri e non la seguirono. Nel suo cuore ferito c'erano molti conflitti che richiedevano attenzione. Suo figlio minore era morto, e suo fratello era stato umiliato. Lei stessa si trovava costretta ad assumere il comando in un momento disperato. L'ordine del branco ne risultava gravemente indebolito. Era duro accettare che suo figlio fosse veramente morto, così allegro e vivace, pieno d'energia. Ed era anche veloce e forte, il cucciolo più veloce che avesse mai visto! A dire il vero, però, non aveva una mente veloce come il corpo. Quando il branco si riuniva per godere delle bellezze del mondo, nei suoi occhi leggeva una grande confusione. E quando andavano a caccia, suo padre a volte gli cedeva il comando, ma finiva sempre per prenderlo sua sorella. In ogni caso era un bel maschio forte, e amava la vita! Si udì un rumore là vicino. Si girò per vedere, senz'alcun timore. Essendo vicino, non poteva trattarsi di un pericolo, altrimenti l'avrebbe fiutato molto prima. Vide suo fratello che la fissava dai cespugli. Ma perché faceva questo? Era proprio da lui, infischiarsi spavaldamente delle regole. Come osava star lì a fissarla? Cercò di rizzare il pelo del collo, ma non ci riuscì. Tentò anche di emettere un ringhio d'avvertimento, ma invece le vennero fuori delle fusa. Egli si avvicinò, tenendo sempre lo sguardo fisso negli occhi di lei. Poi si divincolò dai cespugli e rimase là, col suo bel pelo marrone ricoperto di neve. Le faceva male vederlo, fiutarlo così da vicino, sentire il rumore tanto familiare del suo respiro. Abbassando le orecchie all'indietro, andò verso di lui, e si strofinarono i musi. Provava un ardente desiderio di essere confortata per il suo dolore, ma fece un violento sforzo per trattenersi. Gli occhi di lui erano pieni d'amore e di una sorta di calma allegria, che fu sorpresa di vedere in una creatura così sfortunata. "Prendi la guida del branco," disse, "i nostri guai te lo hanno affidato." E lei ebbe paura.
Lui intuì subito quella paura, e batté rapidamente la coda a terra, un gesto che comunicava il pensiero: "Abbi fiducia." Era affascinata dal modo in cui i suoi occhi sembravano scintillare; non pareva neanche triste. Come se le stesse leggendo nel pensiero, egli alzò gli occhi ed emise un ringhio sommesso, che significava, "Mi sento sollevato di un pesante carico." Poi chinò il capo verso di lei, chiudendo gli occhi. "Devi prenderlo tu." I tre colpi di coda e il sorriso con la lingua a penzoloni, immediatamente sostituiti da un'espressione di calma riposante. "Abbi fiducia in te stessa. Io ce l'ho. Io credo in te." Queste parole la commossero profondamente. Sapeva che stava rinunciando al suo orgoglio, alla sua vera e propria vita, per evitare la discordia tra i membri del branco. E le stava comunicando la sua fiducia non solo perché lei ne aveva bisogno, ma anche perché mosso da vera sincerità. Mentre parlava, il suo odore era leggermente cambiato: ciò indicava che dietro alle sue parole c'era amore e una certa eccitazione, difficile da definire, che rivelava quanto lui fosse realmente soddisfatto della sua ascesa al comando. Lei rispose facendo una serie di gesti con la zampa destra, e schioccando le unghie. Il padre rispose a sua volta, e annuì. Lei accentuava le sue affermazioni con piccoli suoni acuti; gli diceva che aveva accettato la sua prostrazione unicamente perché, se lui non avesse lasciato il comando, i loro figli maggiori se ne sarebbero andati dal branco. Egli fu d'accordo. Poi si strofinarono muso contro muso per un bel pezzo, con gli occhi chiusi, e gli aliti che si confondevano, toccandosi delicatamente con la lingua. Non c'era bisogno d'altro per esprimere i loro sentimenti, del resto avevano trascorso lunghi anni insieme: da quando erano cuccioli fino alla giovinezza e all'età adulta. Questa era la prima separazione, in cui si decideva di non condividere più totalmente la loro vita. E non c'era modo di sapere quanto sarebbe durata. Magari poteva succedere che si accoppiassero di nuovo in futuro, ma non sarebbe più stato come prima, quando la partecipazione alla guida del branco aveva tanto aumentato il piacere di essere insieme. Tutt'a un tratto lei si voltò e si allontanò. Non poteva più stargli vicino, altrimenti non sarebbe mai stata capace di allontanarsene di nuovo. Piena di tristezza, tornò dai tre figli, che stavano quasi immobili sotto l'ombra degli alberi; trasudavano l'odore della paura. Ora la verità aveva incominciato a insinuarsi in loro: non osavano fidarsi del padre — e non erano sicuri di potersi fidare della madre. Lei li raggiunse, ostentando un'espressione di affabilità e fiducia che non
sentiva. Si strofinarono i musi e poi tutti e tre le si misero di fronte. Solo qualche ora prima anche lei era stata in quella posizione insieme a loro, di fronte a suo fratello. Usando il linguaggio dei movimenti, dei brontolii e dei gesti, un linguaggio capace di comunicare così tante cose senza bisogno di parole articolate, spiegò loro il piano per la prossima notte. Non era un piano particolarmente originale: consisteva nel tornare a casa della donna e aspettare una buona occasione. Tuttavia non c'erano alternative migliori. Le idee brillanti e astute di suo fratello avevano avuto come risultato la morte di un membro del branco, senza nessun vantaggio. Un piano semplice e diretto sarebbe stato accettato meglio dagli altri. Sapeva che il tempo stringeva. Presto avrebbero dovuto lasciare il centro della città e tornare in periferia, dove c'erano più zone in ombra e più edifici abbandonati. Non rimaneva molto tempo. La verità era che stavano per perdere quella caccia; l'uomo avrebbe saputo della loro esistenza e il maggiore di tutti i tabù sarebbe stato infranto. Quali erano le conseguenze? Guai infiniti per tutta la razza: sofferenze, privazioni e morte. Il branco si trovava adesso costretto a portare un mostruoso fardello! Se solo... però il passato era passato. Bisognava accettare il fallimento, se ci fosse stato. Ma il cuore le diceva invece che no, non dovevano fallire. Non dovevano. Sam Garner guardò i due investigatori e il loro amico precipitarsi all'interno del palazzo, passare velocemente davanti al portiere e scomparire. Il pomeriggio era diventato eccezionalmente mite, per quella stagione, e loro si erano inzaccherati con la fanghiglia di neve sciolta, non essendosi neanche preoccupati di evitare le pozzanghere. "Incredibile. Che cosa ne pensi?" "Del fatto d'inzaccherarsi nelle pozzanghere?" Garner chiuse gli occhi. Fields era un tipo simpatico, ma non aveva certo un'intelligenza eccezionale. "Facciamoci venire qualche idea su quel che sta succedendo a questa gente." "Beh, hanno sparato a un cane, laggiù al museo." "Era un cane, quello in mezzo alla neve? Sei sicuro?" "A me è sembrato un pastore tedesco. E correva come un demonio, anche se si dev'essere beccato almeno un paio di pallottole." "Io non l'ho visto." "Cosa posso dirti, ancora? Era velocissimo." Garner si lanciò di nuovo
nel traffico. Voleva tornare al museo, a esaminare il prato coperto di neve. Se avevano davvero colpito qualcosa, ci doveva essere del sangue. Percorsero di nuovo le strade in senso inverso, finché non raggiunsero il punto in cui aveva avuto luogo lo scontro. "Vieni con me, e porta la macchina fotografica." I due uomini si aiutarono l'un l'altro a scavalcare il recinto che separava il prato del museo dal marciapiede. C'erano ancora dei segni perfettamente chiari: benché la neve si fosse sciolta distorcendone la forma, era evidente che si trattava di orme di zampe. E in un punto c'erano schizzi di sangue e grumi di carne. Più in là, verso la strada, c'erano altre gocce di sangue, e altre ancora erano visibili oltre il recinto. I due giornalisti scavalcarono di nuovo la staccionata, tra le imprecazioni di Fields. Sam Garner attraversò la strada a lunghi passi e camminò su e giù lungo il muro di pietra che delimitava il confine di Central Park. Quindi vide ciò che sperava di vedere, cioè una lunga striscia di sangue in cima al muro. "Da questa parte," egli gridò a Fields, tutto preso dal tentativo di scrollarsi la fanghiglia di neve dalle scarpe; nell'attraversare la strada, infatti, era scivolato in una pozzanghera melmosa. "Mi si geleranno i piedi," si lamentò. "Sbrigati! Aiutami a scavalcare questo muro del cavolo!" Il fotografo gli diede volentieri una mano a salire. Sam si arrampicò, stette per un attimo ginocchioni in cima al muro, e poi si lasciò cadere nel parco. Il paesaggio era improvvisamente cambiato. D'inverno, Central Park è silenzioso come un deserto. Il silenzio era ancora maggiore nella parte vicino al muro, lontano dai sentieri, soffocata dai cespugli coperti di neve. Garner si guardò le spalle: Fields non lo seguiva. "Bene," pensò, "così mi terrò questa storia per me. Meglio che non ci siano fotografie." Si fece strada tra i cespugli. Là in mezzo faceva freddo ed era tutto bagnato; tra l'altro, non era vestito per una passeggiata nel sottobosco. Poi la vide di nuovo: una sottile traccia rossa sulla neve. E c'erano anche le orme, almeno di tre di quegli animali, che dovevano averle lasciate mentre correvano a tutta velocità, non molto tempo prima. Un branco di cani sfuggivano a due investigatori dal grilletto facile? Che diavolo, questa storia stava diventando interessante. Seguì le tracce per qualche altro metro, poi si fermò. Davanti a lui c'era una grossa pozza di sangue, da cui si dipartivano grossi schizzi che era impossibile non vedere. Quella scia conduceva fino a un monticello, e poi si perdeva in una macchia di arbusti ancora più fitta. Garner la seguì impre-
cando. Dai rami più bassi e sporgenti gli cadeva addosso la neve, ogni volta che li sfiorava curvando la schiena. Da uno schizzo all'altro, Garner continuò a seguire la traccia, e arrivò in un punto in cui c'erano rami spezzati, molti segni di zampe nella neve sciolta, e sangue dappertutto. "Oh, Dio," sussurrò. Pezzi di carne e pelliccia mezzi congelati erano sparsi tutt'intorno, per terra o attaccati ai rami più bassi. Era una vista spaventosa, e Garner si sentì improvvisamente molto solo e spaventato. Scrutò tra i cespugli che lo circondavano. C'erano forse delle sagome che si muovevano, nascoste talmente bene da essere al limite della visibilità? In quel luogo regnava un silenzio pauroso, e la cupa atmosfera di una scena del delitto; un posto in cui era stato commesso un atto di violenza, e gli assassini era fuggiti. E poi puzzava. Dappertutto c'era un odore animale sgradevole e nauseante. Una puzza stantia, che gli ricordava... un odore di femmina, mischiato al fetore del sangue. "Che diavolo è?" disse piano. Tornò con la mente ai due investigatori, agli strani avvenimenti di mezz'ora prima. Che cosa diavolo stava succedendo? Tornò indietro lentamente, con cautela. Il sudore gli colava abbondante per tutto il corpo. Digrignò i denti, lottando contro l'impulso di mettersi a correre come un pazzo tra gli alberi. Invece continuò a camminare facendo meno rumore possibile. Riusciva a sentire il frastuono del traffico di Central Park West, non molto lontano da lì. Eppure sembrava che ci fosse una distanza infinita, tra il mondo esterno e quel luogo selvaggio, disumano. Era proprio quello il termine giusto per descriverlo: disumano. Lì intorno aleggiava una presenza mostruosa e potente: il sangue, i grumi di carne, il tanfo spaventoso contribuivano a provocare in Sam Garner un terrore opprimente, che sembrava salire su dalla parte più oscura di sé e minacciava di farlo correre in preda a un panico cieco e disperato. Si mosse più in fretta, ma senza correre. "Ehi, Sam," gridò una voce in lontananza. "Sam!" Garner la sentì, ma aveva paura di rispondere, di alzare la voce, persino. C'era qualcosa vicino a lui, ne era sicuro, qualcosa che lo spiava passo dopo passo, mantenendosi nascosto dietro ai cespugli. Si mise a camminare un po' più in fretta, per poi prorompere in una corsa sfrenata. I rami gli frustarono e graffiarono la faccia, facendogli perdere il vecchio cappello di pelo; le mani sanguinarono mentre cercava di divincolarsi. Poi si trovò davanti al muro, troppo alto da scavalcare, da quella parte. "Rich," urlò, "Rich!" La testa del fotografo fece capolino. Aveva gli occhi sbarrati, e si fece
sfuggire un grido acuto. "Aiutami!" strillò Garner. Sollevò le braccia, cercando freneticamente di afferrare le mani del fotografo, tese verso di lui. Lentamente riuscì ad arrampicarsi con fatica su per il muro; quindi Fields lo aiutò ad atterrare su di una panchina. "Cristo santo, cos'era quel coso?" balbettò Fields. "Non so." "Forza, dobbiamo andarcene di qui!" Fields corse verso la macchina, attraversò in fretta e furia la strada ignorando lo stridio dei freni e le auto che sbandavano per causa sua. Sam Garner lo seguì debolmente. Si sentiva male dalla paura. Nel parco era successo qualcosa d'indescrivibile, e, mentre se ne andava, lo aveva pedinato una specie di segugio infernale. Saltò in macchina, chiuse con forza lo sportello, mise la sicura e appoggiò la faccia tutta graffiata contro il volante. "Che cos'era?" bisbigliò. Poi rivolse lo sguardo verso Fields, strizzando gli occhi tra le lacrime. "Che cos'era!" Fields era imbarazzato, e distolse lo sguardo. "Non so. Era un bel po' più grosso d'un cane." Stava borbottando. "Aveva una specie di... faccia. Buon Dio." "Descrivilo! Devo sapere." "Non posso... L'ho visto per un secondo soltanto." Scosse lentamente la testa. "Non mi sorprende che quei due poliziotti abbiano il grilletto facile. Quel coso veniva dritto dall'inferno, qualsiasi roba fosse." "Stronzate," rispose Garner. Sporse il mento in avanti, si stava riprendendo. Tirò qualche profondo respiro. "Stronzate, qualsiasi cosa fosse, era reale. Un coso di carne e ossa. Un demonio della Tasmania, o che so io. Ma una cosa è sicura: sta girando libero per New York City, e questa sarà una notizia davvero sensazionale." "Scappa una belva selvaggia. Seconda pagina." "Ah! Pensa un po'. Omicidio e mutilazione nel parco. Poliziotti spaventati a morte da un animale somigliante a un cane. Poi, a guardar bene, non c'era nessun cane a terrorizzarli." Si fermò, fulminato dalla potente immagine di quel coso in mezzo ai cespugli: il suo atteggiamento combattivo fu sopraffatto da quel ricordo. Non l'aveva visto chiaramente, ma riusciva a immaginarselo. "Rich, c'era un fottuto bagno di sangue, laggiù. Cioè, in un punto ho visto tanto di quel sangue che sembrava un mattatoio. È successo qualcosa di orribile, vecchio mio, non molto tempo fa. E la puzza, Cristo santo!"
"Puzza?" "Era oscena. Tutti i cespugli ne erano ricoperti, come se qualcuno ce l'avesse spruzzata sopra. Non si vedeva ma si sentiva. Era come ..." "Come cosa?" "Non so. Non importa." "Con la coda dell'occhio gli parve di vedere una faccia feroce, disumana che lo scrutava da sopra il muro, perciò mise in moto la macchina e partì. Si allontanò in fretta da quel luogo, diretto verso il centro della città. Grazie alle credenziali stampa, non fu difficile trovare un parcheggio, quindi si fermarono al Biltmore per un drink. "È tranquillo, qui," borbottò Sam, "e non ci sono cacciatori di notizie in giro. Voglio solo riprendermi un poco." Fields non protestò, limitandosi a seguirlo. "Beh, allora che ne pensi?" chiese non appena si furono seduti su due alti sgabelli accanto al lussuoso bar di mogano. Sam non rispose. "Un buon Manhattan, come Dio comanda," disse al barman. "Qui sanno come si fa un Manhattan," brontolò. "Questo sì che è un bar come si deve, secondo me." "Che cosa succede, Sam?" Fields stava diventando insistente. Voleva sapere. Era una storia interessante, e lui era deciso a ricavarne delle foto grandiose. Di certo non poteva dirglielo, ma aveva guardato ben bene quell'animale che aveva seguito Sam. Era uscito dai cespugli proprio mentre il giornalista aveva raggiunto il muro; poi s'era accovacciato e l'aveva guardato scappare. Quindi aveva puntato le orecchie in direzione di Rich Fields e di colpo era scomparso. Era rimasto lì un secondo, quindi un lampo grigio e poi più nulla. Sarebbe stata una foto perfetta, in quel secondo prima che la bestia se ne andasse. Ma Rich Fields non aveva scattato quella foto. Era rimasto agghiacciato, con lo sguardo fisso all'essere vivente più orribile che avesse mai visto. E tutto era accaduto così in fretta. Non si può mai essere sicuri di niente, in momenti come quelli: magari non era che un effetto della luce sul muso di un cane. Squadrò Garner. "Che cos'era?" domandò. "Come diavolo faccio a saperlo! Piantala di scocciarmi, non sei mica il direttore. Era un qualcosa di molto strano. Fuori dall'ordinario." "Beh, questo è ovvio. Ha ucciso Evans?" Garner alzò le sopracciglia e guardò il fotografo. "Sicuro. Ed era anche il responsabile di quella panchina insanguinata che gli agenti hanno trovato stamattina. È un mostro che vive nel parco." Fissò per un attimo il drink
che aveva davanti a sé. "Mostro in agguato nel parco. È una storia che va bene per il National Herald, piuttosto, non credi? Non ci sono prove, tranne che quello che potremmo aver visto. Non funzionerebbe con il Post." Fields annuì, lentamente. Sorseggiò il suo Martini. Garner aveva ragione: quel posto era fantastico. Quando uno passa metà della sua vita nei bar di quinta categoria, si dimentica il sapore di un Beefeater Martini fatto a regola d'arte. Era proprio quello che ci voleva, in quel momento. "La mettiamo agli atti, questa storia?" "Non ancora. Ci sono troppe cose che non quadrano. Penso che con un po' di fortuna potremmo sistemare tutto per bene. Quei due investigatori se la fanno sotto dalla paura. Tu sai quel che hanno fatto, hanno sparato a uno di quegli animali, davanti al museo. Avevano paura d'essere aggrediti. Te lo dico io cosa succede: c'è un mostro spaventoso che gira libero in città, e la polizia non ha il coraggio di rendere pubblica la notizia." Fields sorrise. "Sarà una storia magnifica, Sam. Se riusciamo a sbrogliare la matassa, voglio dire. E sarà molto difficile sbrogliarla. Di certo non possiamo catturare una di quelle bestie. E non vedo come possiamo costringere quei due poliziotti a dirci tutto quanto. Penso che sia una faccenda molto complicata." "Geniale intuizione, dottor Freud. È una faccenda parecchio ingarbugliata, ma riusciremo a venirne a capo — se viviamo abbastanza." Fields rise, ma senza troppa convinzione. L'uomo era venuto a ficcare il naso, seguendo la traccia di sangue del figlio morto. Il Vecchio Padre si era accorto dell'intruso umano non appena questi era sceso giù dal muro. Era piccolo, con movimenti leggeri e rapidi. Aveva un'espressione di intensa curiosità sul volto. Però avanzava in modo esitante e confuso, come se avesse difficoltà a seguire la traccia. Era chiaro che fosse difficile: l'uomo andava avanti servendosi della vista, scorgendo una goccia di sangue dopo l'altra. Per tre volte il Vecchio Padre pensò che l'uomo avesse perso la traccia, ma ogni volta l'aveva ritrovata. E aveva continuato ad avanzare in fretta tra i rami, ignaro del fatto che il Vecchio Padre non fosse mai a più di due metri di distanza. Il resto del branco se n'era andato lontano dalla scena del disastro di quel pomeriggio. Solo il Vecchio Padre vi si era attardato, spinto dal dolore a rimanere nel luogo dove era morto suo figlio. Anche lui era sul punto di andarsene, per adeguarsi al suo ruolo, all'ultimo posto nel branco, quando aveva udito quell'uomo strisciare sul muro e poi cadere dentro il parco.
L'aveva fiutato quasi immediatamente; era un odore fresco, soprattutto dei vestiti in cui era avvolto. Ma nonostante questo, la carne sotto gli indumenti aveva un odore ben preciso: si trattava di un uomo sano, che fumava molto ma respirava bene. Veniva avanti scricchiolando e acciottolando, mentre l'aria passava rumorosamente dentro e fuori dai polmoni. Man mano che si avvicinava al luogo in cui suo figlio era morto, il padre si sforzò di reprimere l'intenso impulso di ucciderlo. Ecco un altro essere umano che s'immischiava nelle faccende del branco: un'ulteriore prova del fatto che la notizia dell'esistenza del loro clan si stava diffondendo. L'uomo s'inerpicò su per la salita che conduceva proprio al punto ancora ricoperto dal sangue del giovane maschio. Ed entrò in mezzo ai cespugli in cui era avvenuta la morte. L'uomo emise un rumore soffocato. Il Vecchio Padre corse fino ai cespugli, e poi rimase immobile mentre l'uomo usciva da lì. L'essere umano non lo vide, ma parve intuire ugualmente la sua presenza. La paura si era impossessata di lui; qui c'era qualcosa di misterioso, che gli fece venir voglia di tornare tra i suoi simili. L'uomo correva, mentre il Vecchio Padre lo seguiva depresso. Provava un desiderio febbrile di uccidere quell'umano, tanto da dover tenere la bocca spalancata. Fu costretto a impiegare fino all'ultimo grammo di forza, per lasciar fuggire l'uomo. Il suo istinto gli gridava: uccidilo, uccidilo ora! Ma razionalmente sapeva che sarebbe stato un errore. Non poteva rischiare tanto, e dopotutto l'uomo non aveva visto altro che del sangue. La neve sciolta ne avrebbe lavata via una gran parte, prima che altri uomini potessero esser condotti in quel luogo. Inoltre gli altri membri del branco non erano lì per aiutarlo a disfarsi di un cadavere. Probabilmente non sarebbero accorsi al suo segnale, benché la sua voce potesse essere udita a chilometri di distanza. Non era più il capo del branco, avrebbe dovuto correr da loro se voleva un aiuto. E mentre lui era lontano, altri uomini avrebbero potuto scoprire la carcassa, peggiorando ancora la situazione in cui si trovava il branco. Eppure la mente lottava contro i suoi istinti. Sentiva dentro di sé le forti correnti istintive della sua razza, che adesso lo dilaniavano, ordinandogli di uccidere l'intruso, di squartare quella creatura, e di porre fine alla minaccia. Poi l'uomo raggiunse il muro, gridando aiuto. Una faccia pallida apparve al di sopra del muro. Per un istante gli occhi del Vecchio Padre e quelli dell'umano s'incontrarono; il guardare negli occhi umani era un po' come incontrare lo sguardo di un vecchio nemico, oppure di una sorella amata.
Non doveva restare là — corri! E si mise a correre, infilandosi di nuovo nel sottobosco in un batter d'occhio. Poi fiutò l'aria, localizzò il branco e partì al suo inseguimento. Nella sua mente turbinava l'orribile consapevolezza che un altro intruso era venuto a ficcare il naso, e in lui si alternavano due sentimenti contrastanti: il sollievo e il senso di colpa per non averlo ucciso. Quel conflitto lo rese rabbioso, e la rabbia alimentava la sua disperazione. Nel suo cervello s'inseguivano pensieri pazzi e feroci. Voleva porre fine al pericolo: il branco doveva continuare a prosperare. Questa battaglia contro l'umanità andava vinta, e presto. La comparsa di quel nuovo fattore — l'estraneo che cercava la tana del branco — testimoniava che la notizia proibita si stava diffondendo. Bisognava soffocarla alla fonte, prima possibile. "Stanotte," pensò mentre camminava, "prima che sia troppo tardi." CAPITOLO UNDICESIMO Al calar della notte il vento si alzò. Soffiava gelido e violento dal nord, trasformando la fanghiglia del pomeriggio in un manto di ghiaccio tagliente. L'aria tiepida che aveva aleggiato sopra la città si convertì in una serie di nuvole, che furono spinte verso sud; nel cielo rimasero solo le poche stelle che riuscivano a sfidare il mare di luci elettriche della città, e una falce di luna che sorgeva al di sopra dei grattacieli. Il vento sferzante spazzava le strade di Manhattan, portando con sé un'antica, selvaggia impetuosità che raramente giungeva fino al cuore più intimo e sacro della città; era come se la stessa anima minacciosa del nord fosse stata sguinzagliata e ora corresse libera lungo le strade. Gli autobus schricchiolavano lungo le vie scivolose per il ghiaccio, tra il rumore di ferraglia delle ruote munite di catene e l'ansimare affannoso dei motori. Dalle grate fumanti della metropolitana usciva il frastuono dei treni. Qua e là si aggirava un taxi, in cerca di quei pochi coraggiosi che avessero deciso di avventurarsi nel freddo. I portieri stavano accoccolati vicino agli atri scintillanti dei palazzi lussuosi, oppure in piedi nei corridoi a guardare il vento. All'interno di quegli edifici i radiatori, di solito silenziosi, sibilavano e scoppiettavano, mentre le caldaie del riscaldamento, sottoposte a uno sforzo eccessivo, tentavano di mantenere il tepore contro quel gelo. Quando Becky aprì gli occhi, dal cielo era scomparsa anche l'ultima traccia di luce. Oltre la porta della camera da letto si sentiva il borbottio
confuso del notiziario della sera. Dick, Wilson e Ferguson erano di là a guardare la televisione. Si girò sul dorso e guardò il cielo, oltre i vetri. Non c'erano stelle, in quel campo visivo; solo la punta inferiore della luna tagliava l'oscurità, mentre la metà superiore era nascosta dalla finestra. Sospirò e andò in bagno. Erano le sette di sera: aveva dormito per due ore. Le sembrò d'essere investita dalle immagini sconnesse dei sogni che aveva fatto; si lavò la faccia e si spazzolò i capelli. Poi scosse la testa: erano stati incubi, o semplici sogni? Non riusciva a ricordarsene. Si guardò allo specchio: aveva il viso color della cera; tirò fuori il rossetto e se ne mise un po', poi si lavò le mani. Quindi tornò in camera da letto e indossò la biancheria termica; vi mise sopra i jeans, una camicia di flanella e un maglione pesante. Fuori il vento fischiava e gemeva, scuotendo con violenza gli infissi delle finestre. Sui vetri iniziarono a comparire lunghe dita di ghiaccio, lievemente scintillanti man mano che aumentavano di volume. Becky entrò nel soggiorno. "Benvenuta nel mondo della realtà," disse suo marito. "Ti sei persa lo spettacolo." "Quale spettacolo?" "Il commissario ha annunciato che Evans è stato ucciso da una banda di pazzi. Un omicidio rituale." Senza parlare, Wilson sventolò una copia del News. Becky scosse la testa, evitando i commenti. "Assassini-Lupi Mannari in Agguato nel Parco — Due Morti." Era tutto così confuso, così stupido. Il commissario non era riuscito a capire la verità, nessuno di loro l'aveva compresa. Prese una sigaretta e l'accese, poi si lasciò cadere pesantemente sul divano, in mezzo a suo marito e a Wilson. Accasciato in una poltrona, Ferguson non aveva detto una parola. Aveva la faccia tirata; sembrava che la pelle si fosse ritirata sulle ossa, e questo gli conferiva un aspetto cadaverico. Teneva le labbra strette, e lo sguardo fisso nel vuoto, in direzione del televisore. L'unico movimento che fece fu quello di sfregare lentamente le mani sui braccioli della poltrona. Becky voleva scuoterlo da quel torpore. "Dottor Ferguson," disse, "qual è la sua opinione su tutta questa faccenda?" Egli sorrise appena e scosse la testa. "Penso che dovremmo avere in mano una prova." Frugò nella tasca, e si sentì un fruscio di carta; gli appunti sui segnali gestuali di Beauvoy erano ancora lì, pronti per essere consultati nel caso che la memoria lo avesse tradito. "Vuol dire che non abbiamo più tempo," disse Wilson.
"Beh, che altro c'è di nuovo? Avete fame, ragazzi?" Tutti avevano una gran fame. Ordinarono due pizze da un locale giù in strada. Nel frigo c'erano birre e Coca-cola. Becky fu contenta dell'idea: non aveva per niente voglia di cucinare per quattro persone. Si appoggiò all'indietro sul divano, e accavallò le gambe, sentendo il peso dei due uomini accanto a lei. "Abbiamo tutto?" domandò. "Due radio e la macchina fotografica. Che altro c'è da prendere?" "Nient'altro, credo. Qualcuno è già andato di sopra a vedere?" Il piano consisteva nell'appostarsi sul tetto a turno. Uno di loro sarebbe rimasto lassù con la macchina fotografica, mentre gli altri tre aspettavano di sotto. Avevano stabilito di non andare a coppie perché speravano così di ridurre al minimo la possibilità di essere fiutati. I tre giù nell'appartamento sarebbero rimasti in contatto con il quarto appostato sul tetto mediante le radio portatili che avevano comperato. Dick le aveva acquistate in un negozio di articoli elettronici: due walkie-talkie CB. Avrebbero potuto prendere in prestito un paio dei modelli usati sul lavoro, ma non volevano che la loro comunicazione venisse ascoltata sulla frequenza della polizia. Non c'era motivo di attirare l'attenzione. Fino al mattino seguente non aveva importanza; dopo, sarebbero stati in possesso delle foto necessarie. Lo sguardo di Becky si soffermò sulla macchina: un oggetto nero appoggiato sul tavolo del soggiorno. Sembrava un pallone da football appiattito alle estremità, piuttosto che una macchina fotografica. Soltanto l'obiettivo, che riposava come un grosso occhio di animale ben coperto dal suo cappuccio, ne rivelava la funzione. Tutti e quattro avevano già imparato a usarla, abituandosi alla sua strana forma e ai comandi ipersensibili. Era possibile scattare delle foto senza quasi rendersi conto di averla accesa, e il meccanismo di messa a fuoco poteva essere molto difficile da usare se la profondità del campo visivo cambiava rapidamente. Non si riusciva a capire come potessero averla usata dei soldati in guerra. Inoltre era delicatissima: c'era il pericolo che si rompesse al minimo urto, o che il computer incorporato andasse in "tilt" se le pile si scaricavano un po' troppo. Ma se usata bene, era capace di far meraviglie. "Qualcuno ne ha già verificato il funzionamento?" chiese Becky. "Sarai tu la prima." Becky annuì. L'accordo era che lei avrebbe svolto il primo turno di guardia sul tetto, dalle otto alle dieci e mezzo. Avevano diviso le ore di buio in quattro parti di due ore e mezzo ciascuna, ed avevano poi assegnato i turni. A Becky toccava il primo, a Ferguson il secondo. Questi aveva
protestato, affermando di voler svolgere il proprio turno giù nel vicolo, dove avrebbe potuto affrontare di persona i Wolfen, come lui li chiamava. Ma la sua proposta era stata bocciata. Il terzo turno di guardia, dall'una alle tre e mezza, toccava a Dick. L'attacco sarebbe avvenuto con maggior probabilità in queste ore, durante le quali quegli esseri erano venuti altre volte. Dick aveva insistito perché gli affidassero quel turno, affermando di essere il più adatto, perché il più forte e in forma. Becky non poteva negarlo; lei e Wilson erano esausti, Dio solo sapeva quanto, e Ferguson stava mostrando i segni di un crollo nervoso. Dick era il più forte, ed era giusto che andasse lassù nel momento più pericoloso. Eppure, lei non voleva che andasse. Si sentiva attratta verso di lui in modo strano e privo di passione, che non si sentiva di associare all'amore coniugale. C'era qualcosa, nella sua vulnerabilità, che la spingeva a volerlo proteggere. Non provava una vera e propria attrazione fisica: era piuttosto una qualità dello spirito ad attrarla in modo viscerale: lui era stato capace, dopotutto, di mettere a repentaglio tutta la sua carriera pur di tener fuori suo padre da un ospizio statale. Era sempre stato buono e gentile con lei — ma c'era qualcosa che gli cresceva dentro, una specie di muro che la escludeva dal suo cuore, e la teneva lontana dai suoi pensieri più segreti. Lei voleva entrare, ma Dick glielo impediva, e forse lo impediva anche a se stesso. Egli metteva nel loro rapporto tenerezza e intimità fisica ma non metteva niente di sé. Il vero Dick Neff le era tanto estraneo adesso quanto la prima volta che si erano incontrati. E il suo animo, dopo aver bramato e cercato il suo amore per tutti quegli anni, aveva semplicemente desistito. Ora sapeva che cosa mancava nel loro rapporto, e aveva iniziato a cercar di fare il possibile per riparare al danno. Ma adesso toccava soprattutto a Dick fare qualcosa. Desiderava tanto che si aprisse a lei, che le desse di più che una sottile patina di se stesso, di più che la sua pressante sessualità, ma sentiva che alla fine non ce l'avrebbe fatta. Non sapeva esattamente perché, ma lo sentiva. Forse dipendeva dalla freddezza che gli vedeva negli occhi, e dalla libidine di cui erano pieni quando invece lei voleva disperatamente vedervi l'amore. Dick portava nell'anima le stesse cicatrici che hanno tanti poliziotti. Aveva visto troppo, delle miserie della vita, per potersi aprire a un altro essere umano, compresa sua moglie. Quando erano appena sposati, Dick tornava a casa con gli occhi infossati, pieni d'angoscia, incapace di esprimere ciò che sentiva riguardo a quel che aveva visto. Descriveva i fatti in maniera rigida, con la voce priva di qualsiasi emozione. Aveva visto un suicidio infantile: una ragazzina di dodici anni che gli
era morta tra le braccia, per le ustioni che si era provocata da sé. Aveva premuto il corpicino contro una stufa a gas, e poi, tutta in fiamme, si era lanciata da una finestra, cadendo giù in strada. Poi una madre, una donna incinta decapitata da una banda di delinquenti minorenni. Lui era stato il primo ad accorrere, e aveva assistito all'aborto spontaneo e all'espulsione del feto di sette mesi. Negli anni trascorsi in servizio nelle strade, aveva visto tanti altri orrori, tutti collegati in un modo o nell'altro alla droga. Queste esperienze, sommate al periodo passato alla Narcotici, ne avevano fatto un uomo ossessivo, consumato da un unico desiderio: distruggere gli spacciatori che distruggevano la gente. Ma nonostante quest'ossessione, era dovuto scendere a tanti di quei compromessi che il suo odio per il crimine si era trasformato in una ripugnanza verso se stesso, una specie di schermo per il proprio valore personale. Gli uomini come Dick reagivano ai problemi con una lenta chiusura del cuore, escludendo dall'anima la vita, finché non rimaneva altro che rabbia e lussuria animale e un vago, oscuro dolore a cui non riusciva a dar voce. Becky sapeva queste cose di suo marito, e desiderava tanto potergliele dire. Ma ormai era un caso disperato, e questa disperazione l'allontanava sempre più da lui. Stava rapidamente raggiungendo il punto in cui, se non riusciva ad aiutarlo, avrebbe dovuto lasciarlo. E poi c'era Wilson. George Wilson, una creatura burbera e poco attraente, ma col cuore in mano. Magari brontolava e minacciava, ma gli si poteva aprire l'anima ed entrarci dentro. E lui l'amava con una disperazione adolescenziale. Quando le sue effusioni venivano accettate, era stupito e riconoscente. Aveva per lei un desiderio vivo e pressante, che lo possedeva fino in fondo al cuore. Becky sapeva che lui la sognava, di notte, e che aveva sempre la sua immagine in mente quand'era sveglio. E tra loro c'era una strana e soddisfacente armonia. Quei pensieri erano pericolosi. Quale persone sana di mente avrebbe scambiato il giovane e vitale Dick Neff per un uomo vecchio e malandato come Wilson? Beh, lei ci pensava sempre più spesso, di recente. Suonarono alla porta, e qualche momento dopo stavano già mangiando la pizza. "Sei ancora di cattivo umore, Doc?" Becky chiese a Ferguson. Era più meditabondo del dovuto, e lei cercava di scuoterlo. "Non sono di cattivo umore. Stavo solo riflettendo." "Come un soldato prima di una battaglia importante," disse Wilson,
"Come me questo pomeriggio." "Non saprei, non mi sono mai trovato in una battaglia. Diciamo soltanto che il fatto di star seduto su quel tetto per metà della notte non corrisponde all'idea che ho del mio vero ruolo." "La tua idea è di andar giù nel vicolo a farti ammazzare." "Non conosciamo le loro capacità, ma io penso di avere i mezzi per comunicare con loro. Sul tetto vi troverete in pericolo non appena gli sembrerà una minaccia." "E saliranno tutti i trenta piani per ucciderci, immagino." Ferguson la fissò. "Ovviamente." "Carl, avremo la Ingram con noi, lassù. Hai mai visto che cosa può fare una Ingram M-11?" "No, e non voglio neanche vederlo. Sono sicuro che sia molto letale. Ma voi non riuscirete a pensare ad altro che a uccidere o essere uccisi. E che cosa mi dite di tutti gli altri edifici? C'è un mare di finestre, qua intorno. Davvero inizierete a sparare in giro proiettili ad alta velocità? Ne dubito." Poi affondò con aria depressa nella poltrona. E aveva anche ragione. Nessuno di loro si sarebbe sentito in diritto di usare quella pistola su di un tetto nel bel mezzo di Manhattan. Che diavolo, non verrebbe da usare nessuna pistola in circostanze come quelle, circondati com'erano da tante vite innocenti. Ma quell'arma era l'unica vera protezione che avevano. Il suo pregio consisteva nel fatto che assicurava una copertura ampia e precisa, ed era veloce. Anche un fucile da caccia aveva queste prerogative, ma temevano che i pallini non avrebbero ucciso sul colpo. Invece un solo proiettile della Ingram poteva abbattere un uomo massiccio, alto due metri. Volevano quel tipo d'impatto, se dovevano affrontare i lupi mannari. "Quante probabilità hanno di individuarci?" domandò Wilson all'improvviso. Fino ad allora non aveva fatto altro che ingoiare bocconi di pizza; non pareva affatto che stesse seguendo la conversazione. Ferguson rifletté un attimo prima di rispondere. "Le probabilità salgono a seconda della sensibilità dei loro sensi. Se avessero soltanto il fiuto, avremmo qualche possibilità. Purtroppo hanno anche l'udito e la vista." "Potremmo evitare di far rumore." "E come? Smettendo di respirare? E più che abbastanza perché ci scoprano." "Allora dobbiamo sperare di vederli per primi, no? Li vediamo, scattiamo qualche foto, e poi torniamo dentro in fretta e furia."
Ferguson annuì. "Questo sempre che li vediamo per primi... ma se al contrario non li vediamo?" "Senti, abbiamo già parlato di questo. Non saliranno certo all'interno dell'edificio, e non si arrampicheranno neanche per i balconi che danno sull'Ottantaseiesima Strada. Perciò non gli resta che attaccare dai balconi che danno sul vicolo. Quindi se ognuno di noi terrà la macchina puntata su quel vicolo non potrà di certo mancarli. Perché loro saranno là, questo è poco ma sicuro." L'espressione sconsolata sul volto di Ferguson non cambiò. Non credeva nella teoria di Wilson, almeno non abbastanza per migliorare la propria disposizione d'animo. "Vi immaginate come sarebbe se noi stessimo là a perder tempo con quella macchina mentre loro si arrampicano su per i balconi? Io me l'immagino, e vi assicuro che non è un pensiero molto confortante." "Avremmo trenta secondi buoni prima che raggiungano il tetto," disse Becky. Ferguson si chinò in avanti sulla poltrona, e li guardò con aria sprezzante. "Mettiamo che non riusciamo neanche a vederli arrivare." "Ma è proprio a questo che serve la macchina, santo Cielo! Illumina tutto a giorno. Li vedremo benissimo." "I sensi umani contro quelli dei lupi mannari," rispose in tono amaro. "Con o senza tecnologia, non c'è assolutamente paragone. Lasciatemi dire una cosa. Chiunque di noi sarà lassù quando loro verranno si troverà di fronte a un enorme pericolo. E lo ripeto: un enorme pericolo. A meno che non ci rendiamo conto di questo sempre, ad ogni secondo che passa, è molto probabile che uno o più di noi venga ucciso." "Cristo, non abbiamo bisogno che tu ci dica queste cose!" sbottò Dick. "Voglio dire, che cazzo..." "Dick, lui non può capire. Non è un poliziotto." Quando si lavora in polizia non si vedono le cose in quel modo. Magari è la verità, ma rimuginarci sopra non migliora certo l'efficienza personale. "Sta svolgendo un lavoro da poliziotto. Ah, no, aspettate un attimo. A nessun agente di polizia è mai stato affidato un compito del genere. Ma almeno noi ci siamo preparati — mentre questo ragazzo ovviamente non lo è." "Permettetemi di ricordarvi che il mio posto non è qui, ma giù nel vicolo." Dick fece per dire qualcosa. Becky lo conosceva abbastanza da sapere
che stava per arrabbiarsi, per inveire — ma avevano bisogno di tutti, compreso Ferguson. "Dick ha ragione," disse in fretta, "non parliamone più. In ogni caso, io devo salire di sopra tra dieci minuti, perciò non c'è altro da aggiungere." "D'accordo," disse Dick dopo una pausa. Ferguson gettò un'occhiata nervosa all'orologio e tacque. Becky andò in camera da letto e indossò un "cardigan" sopra al pesante maglione, quindi si avvolse una grossa sciarpa di cachemire intorno al collo, e poi mise una giacca impermeabile. Si infilò i guanti foderati di pelliccia e introdusse nella giacca uno scaldino elettrico tascabile. Aveva già addosso tre paia di calzettoni e gli stivali da neve. Infine si calcò fin sotto le orecchie un berretto di lana, e vi aggiunse un cappello di pelliccia. "Santo Gelo," disse Wilson, "sembri uno scalatore d'alta montagna, vestita così." "Devo passare due ore e mezzo in tutto quel vento." "Lo so, e non discuto. Proviamo le radio." Il suo sguardo preoccupato la commosse profondamente. Egli accese il primo pulsante, poi il secondo, ed entrambi gli apparecchi emisero un suono stridulo: significava che erano in funzione. "Tutto a posto," disse. "Io starò qui vicino al terrazzo. Dovremmo ottenere un buon segnale, se io non mi inoltro troppo nell'appartamento e tu stai vicino al bordo del tetto. Hai capito bene i segnali?" "Un punto ogni cinque minuti. Due se voglio parlare. Tre se ho bisogno d'aiuto." Invece di parlare, decisero di usare il più possibile il pulsante del microfono, per fare i segnali. Ciò avrebbe ridotto al minimo i rumori. "Giusto. Ma dacci una voce appena arrivi lassù e un'altra quando sei pronta a scendere." Poi gettò uno sguardo dietro di lei. Dick stava regolando la macchina fotografica, e Ferguson guardava verso il televisore. "Avvicinati," disse Wilson sottovoce. Si trovarono faccia a faccia, e lui la baciò a lungo sulla bocca. "Ti amo come un pazzo," le disse. Lei gli sorrise, si portò il dito sulle labbra, quindi si voltò e tornò nel soggiorno. Era contenta — pareva proprio che Wilson avesse ricuperato un po' della sua solita energia. "La macchina funziona bene," disse Dick. "Solo ti chiedo per favore di non farla cadere giù dal tetto. Mi staccheranno la testa se non gli riporto quell'aggeggio intatto." Becky la prese e la tenne con tutt'e due le mani. Sotto il braccio portava il thermos di caffè bollente.
"Aspetta un secondo, piccola," le disse lui. "Non manca qualcosa?" "Se intendi la Ingram, non voglio prenderla." "Tu invece te la prendi, e come." Dick andò nel soggiorno e la tolse dal contenitore in cui l'aveva portata Wilson. "Starà alla perfezione sotto la giacca impermeabile, proprio giusta giusta. Prendi." "Ho già la trentotto. Non voglio la Ingram." "Prendi questa fottuta pistola, Becky!" Lei la prese. Le labbra gli tremavano, mentre gliela porgeva. Non dissero niente; non c'era nient'altro da dire. I tre uomini l'accompagnarono all'ascensore. Sembrava piuttosto improbabile incontrare qualcuno mentre salivano, ma se così fosse stato, la presenza di quattro persone avrebbe distolto l'attenzione dallo strano equipaggiamento di Becky. L'ascensore salì senza scosse fino al trentesimo piano. Uscirono tutti e quattro, e passarono alle scale attraverso una porta dipinta di grigio. Sopra di loro, il vento rimbombava contro la porta che conduceva al tetto. Becky salì quell'unica rampa di scale, seguita da Wilson e da Dick. Ferguson rimase di sotto. "Okay, piccola," Wilson disse, aprendo la porta. Era esposta a nord, e non appena lui la spalancò furono investiti da una violenta raffica di vento gelido. Becky lo sentì a malapena, sotto i vari strati di indumenti. Uscì sul tetto — e mancò poco che cadesse lunga distesa. La neve si era sciolta, lassù, e la melma si era trasformata in uno strato di ghiaccio. Si aggrappò con tutte le sue forze allo stipite della porta aperta, guardando giù verso i due uomini rannicchiati sulla scala, dietro di lei. "Fa un freddo cane," disse Becky, gridando per superare il rumore del vento. "Ce la fai?" "A quattro zampe." "Cos'hai detto?" "A quattro zampe." Poi chiuse la porta. All'improvviso si trovò immersa in un mondo buio ed estraneo. Le raffiche di vento le facevano perdere l'equilibrio sul ghiaccio ad ogni movimento. Il tetto era una distesa piatta, interrotta soltanto da quella porta e da una rimessa che ospitava i motori dell'ascensore, a circa tre metri di distanza. L'edificio era grande — forse trenta metri per ogni lato — e l'ampia area del tetto, più o meno quadrata, era ricoperta di ghiaia, che rendeva lo strato di ghiaccio accidentato e quindi più difficile da camminarci sopra. Se stava ferma, era il vento a muoverla, facendola piegare e inciampare finché non si ritrovava a terra, bocconi. Gli
occhi le lacrimavano, e le lacrime si ghiacciavano sulle guance. Le luci turbinavano a gran velocità. Si rannicchiò contro la porta, con la schiena rivolta verso il vento. Tirò fuori lo scaldino tascabile e accostò alla faccia quel calore intermittente. Il calcio della Ingram le premeva contro il seno sinistro, il thermos del caffè minacciava di rotolare giù da sotto il braccio, il walkie-talkie e la macchina fotografica le intralciavano ulteriormente i movimenti. Si guardò intorno. Le luci rosseggiavano sui tre lati dell'edificio: erano i lati che davano sulle tre strade. Il quarto lato, che scompariva tra le fauci dell'oscurità, dava sul vicolo. Rimise a posto lo scaldino, raccolse le forze e camminò carponi verso l'orlo buio del tetto. Per sicurezza si appoggiò sul ventre e strisciò meglio che poteva con tutta l'attrezzatura. Il margine si profilava sempre più vicino, e il vento le scuoteva il corpo disteso a pancia in giù. Il freddo la investiva con violenza, penetrandole sotto la giacca: era così tagliente da morderle la pelle come fuoco. Continuava a ripetersi che era una pazzia, che doveva tornare indietro, che era impossibile sopportare tutto questo per più di qualche minuto. Ma andò avanti, trascinandosi sempre più vicino al bordo del tetto. Almeno il vicolo dava sul lato sud dell'edificio, e così avrebbe avuto la schiena rivolta contro il vento. Raggiunse il margine, toccò l'orlo di cemento del tetto con le dita guantate e si fermò. L'orlo era spesso circa sette centimetri: costituiva a malapena un appiglio. Fece metodicamente l'inventario degli oggetti che aveva con sé: thermos, radio, macchina fotografica, pistola. Bene, ora mettiti in posizione. Si trascinò ancor più vicino al bordo, tirando con le dita irrigidite dal freddo finché non ebbe la faccia giusto sull'orlo. Davanti a lei si estendeva il vuoto, inghiottito dal buio. A sud dell'edificio c'era un mare di palazzi in pietra arenaria e alcuni condomini più vecchi e più bassi. Al di là di essi si poteva vedere tutto incentro di Manhattan, con le luci che scintillavano nel vento, e la luna che adesso era alta sopra la città. Nel cielo lampeggiavano gli stroboscopi anti-collisione degli aerei di passaggio. A ovest, in lontananza, un confuso chiarore rosso scarlatto indicava che il giorno era giunto al termine. Ma qui la notte era totale, e il vicolo sotto di lei non era illuminato, se si eccettuava la debole luminosità proveniente dalle finestre delle abitazioni giù in fondo all'edificio. Con movimenti impacciati manovrò la macchina fotografica davanti al viso, cercò il pulsante e l'accese. Immediatamente apparvero i numeri nel mirino, e Becky premette la levetta della messa a fuoco. Come per magia il
vicolo comparve nell'obiettivo, luminoso e limpido fin nei minimi particolari. Si vedevano i bidoni della spazzatura, e la neve gelata di cui erano ricoperti. Le case di pietra scura dall'altra parte del vicolo avevano tutte un giardino, e Becky poteva guardare tra quelle ombre e distinguere i resti congelati dei fiori estivi, e i rami secchi degli alberi scheletriti. Le finestre delle case erano fin troppo luminose per guardarle, ma una volta che l'occhio si era abituato si potevano vedere le persone all'interno, molte delle quali erano sedute come statue davanti ai televisori. Una giovane famiglia stava cenando attorno a un tavolo dietro a una porta a vetri. Erano in quattro, due adulti e due bambini. Si potevano distinguere chiaramente le facce. Poi Becky ripose la macchina fotografica, mettendosela contro il petto, e avvicinò il walkie-talkie alla bocca. Prima lo teneva assicurato dietro la schiena per mezzo di una cinghia. Lo accese con un movimento goffo, e lo tenne vicino all'orecchio, in modo che il microfono le stesse proprio sotto le labbra. Questa sarebbe stata l'unica trasmissione vocale, e non voleva che durasse neanche un secondo più del dovuto. Per quanto ne sapeva, adesso loro potevano benissimo essere là intorno a spiarla, in attesa del momento migliore per attaccare. "Mi senti?" domandò a bassa voce. La risposta di Wilson fu immediata: "Ti sento." Becky descrisse brevemente la situazione. "Mi sono sistemata, la macchina è in funzione, fa un freddo infernale." "All'inferno fa caldo." "Giusto. Proviamo i segnali." Lasciò il pulsante del microfono, poi lo pigiò una volta, tenendolo premuto per circa tre secondi. Di sotto, Wilson fece lo stesso. Il risultato fu un cambiamento del sibilo proveniente dall'altoparlante. Lei rispose premendo due volte il pulsante del microfono. Wilson fece immediatamente lo stesso. Non provarono il segnale di emergenza, costituito da tre sibili: doveva essere usato unicamente se c'erano guai. Se l'uno e il due andavano bene, anche il tre avrebbe funzionato. "Per me è Okay," disse Becky. "Okay," fu la risposta. "Ti farò il primo segnale tra cinque minuti." Poi ci fu un silenzio. Cinque minuti dopo Wilson avrebbe premuto una volta il pulsante del microfono, e lei doveva rispondere nello stesso modo. Avrebbero continuato così per le due ore e mezzo seguenti; rinnovando il contatto ogni cinque minuti, avrebbero fatto in modo che Becky non si addormentasse, intorpidita dal freddo. Se per caso non avesse risposto, loro sarebbero saliti in pochi minuti. Poi pensò a quei tre, che erano insieme giù nell'appartamento, e si augurò che mantenessero le distanze l'uno dall'altro. Wilson e Dick non erano proprio amici, a dir poco, e Ferguson era così
nervoso che il minimo accenno di tensione pareva gettarlo nel panico. Il vento le diede un'altra scrollata, e lei si aggrappò con la mano libera al bordo del tetto. Lasciando il walkie-talkie contro l'orecchio, estrasse lo scaldino tascabile e se lo mise proprio sotto al torace, ottenendo così una piccola zona di relativo tepore che le evitasse il congelamento del collo, mentre il gelido vento artico le avvolgeva il corpo. Rimise la macchina fotografica in posizione, e scrutando attraverso l'obiettivo fece una panoramica del vicolo. Niente. Chiuse gli occhi e piegò il viso verso l'alone di tepore sotto il mento. Il vento continuava a scuoterla, e la costringeva a tenere il corpo irrigidito e la mente nella massima tensione. Le si parava davanti una veglia lunga e brutale. Giunse il primo segnale, e lei rispose, poi fece un'altra panoramica e chinò di nuovo la testa verso il caldo. Continuò così durante tutta la prima ora, poi si ritirò dal bordo del tetto, appoggiò a terra l'attrezzatura e si alzò. Batté i piedi finché non fu sicura che il sangue circolasse bene, quindi fece una corsetta sul posto per qualche istante. Soffiò nei guanti, contenta del tepore prodotto dal suo fiato, e bevve alcuni sorsi di caffè. Nel complesso era in buone condizioni. Attraversò faticosamente il tetto e scrutò giù in fondo ai tre lati illuminati dell'edificio. Ognuno presentava la stessa scena: tre strade deserte, ricoperte dal ghiaccio che emanava un bagliore bianco-giallastro sotto la luce dei lampioni al neon. A parte qualche macchina ferma, non c'erano segni di vita umana. Poi soffermò lo sguardo su una delle auto. Era parcheggiata in doppia fila, e assomigliava molto a una macchina non contrassegnata del Dipartimento di Polizia di New York. Perché diavolo era lì? Doveva trattarsi senz'altro di un appostamento. Ma come si faceva ad esserne sicuri, da quell'altezza? Poi il vento la investì con violenza, e Becky dovette rimettersi carponi, e tornare a strisciare con difficoltà attraverso il tetto. Che stessero pure là a fargli la posta, magari sarebbero tornati utili, in un modo o nell'altro. Maledetti, stavano spiando Dick. Di sicuro erano investigatori della Divisione Affari Interni. Era quasi buffo, a pensarci bene. Si accoccolò di nuovo e fece un'altra panoramica. "Hai finito, piccola," gli disse la voce di Wilson. Lei rispose con il solito segnale, e andò immediatamente verso la porta. Sembrava che fosse passata un'eternità, lassù in cima al tetto. Le doleva ogni parte del corpo, a parte i piedi, che erano minacciosamente intorpiditi.
La stavano aspettando sulla scala. Adesso era Ferguson ad essere imbacuccato. Becky gli passò l'attrezzatura e gli raccontò della sua esperienza con il vento. Egli annuì, con un'espressione cupa e taciturna. Dick sostituì tutte le pile — scaldino tascabile, macchina fotografica, walkie-talkie, e poi infilò sotto il braccio di Ferguson un thermos caldo. Quindi lo scienziato uscì dalla porta, che sbatté rumorosamente con una folata di vento gelido. Le brutali condizioni in cui si trovava lo colpirono più di quanto si fosse aspettato. Cercò faticosamente di mantenersi in equilibrio, poi scivolò e cadde contro la porta. Tutta questa storia era una tale farsa! Invece di starsene nascosti lassù, avrebbero dovuto essere giù nel vicolo sotto i riflettori, e fare il gesto d'amicizia con le braccia aperte, come negli schemi di Beauvoy. Il vento gli penetrava nelle ossa, scuotendogli violentemente i muscoli. Come facevano mai quei poliziotti a sopportare quel castigo? Cercò di muoversi, ma cadde di nuovo all'indietro. Ora gli occhi lacrimavano, e le lacrime si ghiacciavano oscurandogli la vista. Si alzò in piedi e fece qualche passo in avanti, barcollando. Le gambe gli scivolarono e lui atterrò dolorosamente su un fianco, sbattendo con violenza l'assurda, ingombrante pistola sul ghiaccio. Si sforzò di girarsi a pancia in giù, tirò fuori la radio e iniziò a chiamarli. Rimanere su quel tetto era una cosa al di sopra delle sue capacità; adesso voleva provare a comunicare con quegli esseri giù nel vicolo, e che gli altri fossero d'accordo o meno non aveva importanza. Tornata nell'appartamento, Becky andò in camera da letto e iniziò a togliersi i vari strati di indumenti. Controllò i piedi: non mostravano segni di congelamento. Ancora tremante, andò in bagno, chiuse la porta e s'infilò sotto la doccia. Quando i caldi rivoli di vapore le caddero sul corpo nudo, si mise letteralmente a ridere per il piacere. Mentre l'acqua le inondava il corpo, non riusciva a pensare ad altro che al calore, al delizioso calore. Quelle due ore e mezzo erano state brutali, pesantissime, e adesso era terribilmente stanca. Dopo la lunga doccia, si asciugò e si cosparse di talco, poi indossò di nuovo la calzamaglia, i jeans e un pesante maglione. Durante quella notte poteva succedere di tutto, e quindi era possibile che sarebbe uscita di nuovo, magari in fretta e furia. Quando andò nel soggiorno, Wilson era curvo sulla radio, e Dick si stava dirigendo di sopra, molto lentamente, però. Restò confusa per un attimo — per quanto tempo era rimasta nella doccia? — ma poi si rese conto di quel che stava accadendo. "Tieni duro ancora un po', amico," disse Wilson, "Neff sarà di sopra tra un attimo, e tu potrai scendere."
La risposta giunse confusa. Becky ebbe un accesso di rabbia. "Quel piccolo verme! Lasciatelo dov'è." "Io non ho fretta, tesoro," disse Dick in tono calmo. "Ha iniziato a piagnucolare da quando è salito lassù." "È vicino alla porta," gridò Wilson dalla sua posizione accanto alla finestra del soggiorno. "Un corno!" disse Becky. "Abbiamo bisogno di quel piccolo bastardo. Noi tre non possiamo fare anche il suo turno." "Dobbiamo. Dick farà un'ora, io un'altra ora, e tu mezz'ora. Poi Dick svolgerà tutto il suo turno di guardia, e io il mio. Ecco cosa dobbiamo fare." Lo disse in modo conciso, ma aveva la voce stanca. Tutti sapevano quale inferno li aspettava, lassù. "Non c'è da stupirsi. Non ci si può aspettare che un uomo non addestrato possa sopportare quel genere di castigo. Comunque io non ho nessuna fretta." "Come se noi fossimo in condizioni migliori. Che diavolo, nessuno di noi è un poliziotto addestrato." "Parla per te, cara. Io sono in ottima forma. Tu e Wilson siete un disastro, ma ..." "D'accordo, allora perché non fai anche il suo turno? Cinque ore, che te ne pare?" "Ti piacerebbe, non è vero, tesoro?" Aveva parlato in un tono calmo e controllato. Che cosa voleva dire, in nome di Dio? Non poteva assolutamente sospettare che tra lei e Wilson ci fosse qualcosa. Non c'era niente — o comunque c'era molto poco! Decise di non raccogliere quell'apparente provocazione. Di nuovo i tre salirono con l'ascensore fino al tetto, e trovarono Ferguson seduto sulle scale, con un'aria desolata. Nessuno gli parlò, presero semplicemente l'attrezzatura e la passarono a Dick. La porta sull'inferno si aprì e poi si richiuse, e Dick sparì dietro di essa. La discesa in ascensore fu silenziosa ma piena di tensione. Una volta arrivato in casa, Ferguson iniziò a raccogliere in silenzio le cose che non aveva portato sul tetto: un libro, il portafoglio e le chiavi. "Quel tetto era troppo per me," borbottò. "Ma stavolta farò esattamente quello che avrei dovuto fare sin dall'inizio." E scivolò fuori. Prima che la porta si richiudesse con uno scatto dietro di lui, gli videro sul volto un'espressione di paura e determinazione insieme, con gli occhi sbarrati e vitrei.
"Non lasciarlo andare," mormorò Wilson. "Sì, non lasciarlo andare." Ma nessuno dei due si mosse. Forse sarebbe morto, laggiù nel vicolo, o forse no. Il rischio era suo, l'aveva scelto lui. "Avremmo dovuto fermarlo." "E in che modo? E un uomo determinato. Anche coraggioso, sebbene non sia riuscito ad affrontare quel tetto. Fa' il segnale a Dick, incominciamo." Si avvicinarono alla radio. "Un uomo bianco di circa trentacinque anni sta uscendo dallo stabile," disse uno dei due uomini in borghese seduti nell'auto davanti all'edificio. "No, non è Neff." L'altro agente in borghese non aveva neanche aperto gli occhi. Dentro l'auto si stava caldi e tranquilli, e i due agenti si muovevano appena durante le lunghe ore del turno. Altre quattro ore e ci sarebbe stato il cambio; che diavolo, in una notte come quella poteva anche capitare un lavoro peggiore. Probabilmente il Capitano Neff non sarebbe andato da nessuna parte fino al mattino seguente. Tuttavia, doveva pur avere qualche progetto, con quella strana macchina fotografica. I due agenti in borghese non osservarono Ferguson correre oltre l'entrata principale e girare l'angolo. Se l'avessero fatto, avrebbero notato i suoi movimenti furtivi e il modo in cui lanciava occhiate disperate intorno a sé. Ma non avrebbero potuto vedere comunque ciò che accadde quando girò dietro a quell'angolo. I lupi erano in attesa sotto le auto ferme. Si erano sistemati giusto all'interno del vicolo, così da poter sentire i rumori provenienti sia dalla porta principale che da quella sul retro, e da poter contemporaneamente sorvegliare l'appartamento. Quando udirono quei passi familiari scricchiolare sulla neve, furono colti da una grande impazienza. Il branco aveva subito una grave perdita, e adesso provava rabbia e desiderio di uccidere. Quando sbucarono da sotto le macchine, Ferguson si fermò. Fiutarono un denso odore di paura intorno a lui: sarebbe stata una preda facile. Egli distese le mani coi palmi verso l'alto, come aveva visto in quell'antico testo. Impiegarono un po' di tempo per mettersi in posizione d'attacco, cosicché lui poté osservare le loro facce. Nonostante la paura, ne rimase affascinato: erano crudeli, enigmatiche, stranamente belle. Si mossero verso di lui, poi si fermarono di nuovo. "Io posso aiutarvi," egli disse con voce sommessa. Tre di loro eseguirono l'aggressione, mentre il quarto continuava la sorveglianza. Era morto, e il suo cadavere rotolò sotto una macchina cinque secondi dopo. Uno gli saltò al petto per stordirlo, un altro lo colpì alle
gambe per farlo afflosciare, da dietro, e il terzo gli strappò via la gola nel momento in cui cadde al suolo. La loro razza si era dimenticata da molto tempo degli antichi rapporti con l'uomo. I gesti di Ferguson non significavano nulla per loro, assolutamente nulla. Tutti e quattro lo squartarono letteralmente, in preda alla furia, e poi lo dilaniarono colti da una sorta di rabbia frenetica. Erano la madre, la seconda coppia e la femmina della terza coppia. Il Vecchio Padre era sparito, e non sapevano esattamente il perché. Forse era troppo addolorato o aveva troppa vergogna per prendere il suo nuovo posto al di sotto di quello del più giovane del branco. Ma non era lontano. Essendo più vecchio, più astuto e più sensibile degli altri, sapeva meglio di loro quanto la situazione si fosse fatta disperata. Era deciso a riparare il male causato al proprio branco — anche a costo di perdere la vita. Benché non li potesse vedere, udì l'aggressione. "Agiscono per paura," pensò. "Hanno bisogno di forza e di coraggio." Ed era deciso ad aiutarli. Per alcuni attimi si era accorto di una presenza umana sul tetto dell'edificio, ed ebbe l'accortezza di stare vicino al muro, fuori dalla vista di quelli là sopra. Si avvicinò rapidamente alla facciata principale dello stabile, scivolò sotto una macchina e attese. Pochi minuti dopo arrivò una donna a piedi, e aprì il portone che dava nell'atrio del palazzo. Lui vi corse dentro. "Ehi!" "Un cane — accidenti, Charlie, ho fatto entrare un cane!" "Adesso lo prendo — Gesù, come corre veloce!" Si precipitò su per le scale: sapeva esattamente dove stava andando e perché. Si augurò che quelle fossero le scale giuste; le grida degli umani si affievolirono a poco a poco, di sotto. Forse avrebbero razionalizzato la sua presenza, o forse no. Ammise tra sé e sé il pericolo di ciò che stava facendo, e sapeva come sarebbe probabilmente finita. Ma tutto questo lo doveva al branco che amava. Dick Neff imprecò ad alta voce quando senti il freddo e la sferza del vento. Becky era proprio una ragazza eccezionale, per aver sopportato tutto questo per due dannatissime ore! Era fiero di lei, non si era lamentata neanche una volta. Una persona del genere ti umilia, ti suscita una sorta di timore misto a rispetto. Era una donna tutta pregi, non c'era alcun dubbio. Dick era più pesante di sua moglie, quindi il vento non lo costrinse a scivolare sul ventre. Però strisciava carponi, lentamente e con cautela; non gli piaceva il modo in cui quelle raffiche lo colpivano da dietro, facendolo
slittare. Trenta piani significavano una lunga, dannata caduta. Un sacco di tempo. Odiava i posti così in alto; dall'appartamento si godeva una bella vista, che però gli dava le vertigini. Negli incubi cadeva sempre, e ultimamente ancora più spesso. Il subconscio prese il sopravvento, comunicandogli uno strano déjà vu. Era come se fosse già stato lì, strisciando verso quel precipizio, mentre quello stesso vento lo spingeva e lo scuoteva. Stava per mettere alla prova ogni particella di coraggio e di resistenza di cui disponeva. Non c'era da meravigliarsi che Ferguson fosse crollato così presto, questo era uno scontro diretto contro la forza selvaggia della natura — e oltre a ciò c'era da affrontare un pericolo ancora maggiore. Riconobbe dall'incavature nella neve, il punto in cui Becky si era distesa e si mise all'incirca nello stesso posto. Per prima cosa controllò l'attrezzatura, poi fece una panoramica con la macchina fotografica. Non c'era niente. Quindi fece il controllo radio. La voce di Wilson giunse nitida. Entrambi pigiarono il pulsante del microfono, e poi Dick si sistemò come meglio poté. Stava facendo un'altra panoramica quando udì un rumore sordo dietro di sé. La porta? Si girò: quell'essere era a tre metri da lui. Aveva il respiro affannato, come se fosse appena corso su per le scale. Dick balzò in piedi, afferrando la macchina fotografica, e a un suo movimento gliela gettò addosso. La macchina rimbalzò e rotolò via. L'animale non lo stava attaccando, forse perché era così vicino al bordo che un'aggressione diretta li avrebbe fatti cadere giù tutti e due. Si muoveva rapidamente, sul margine del tetto, e ora era in posizione parallela alla sua. Dick stava estraendo la Ingram quando l'altro gli balzò contro. Dick barcollò lateralmente, scivolò sul ghiaccio e si trovò per metà oltre il bordo. Ma anche il lupo mannaro si trovava nella stessa posizione, ad appena un metro di distanza, così vicino da poterlo guardare in faccia. Pendevano entrambi nel vuoto, l'animale tenendosi per le zampe anteriori al bordo ghiacciato, e Dick con le braccia. Il lupo gli conficcò gli occhi nei suoi, con lo sguardo più terribile, più pieno di odio che avesse mai visto. Si guardava intorno calcolando la situazione e cercando il vantaggio cruciale che avrebbe ucciso Dick Neff e avrebbe permesso a lui di sopravvivere. Con cautela, senza guardare il vuoto sotto ai suoi piedi, Dick porta una mano alla 38 che aveva in una tasca. Era la sua sola, unica possibilità; voleva a tutti costi vivere, e non cadere giù. Il margine di cemento spesso alcuni centimetri era l'unica cosa che lo tratteneva; e adesso vi si teneva at-
taccato soltanto con un braccio. Quella creatura cercò di risalire sul tetto, non ci riuscì, e rimase immobile. Scoprì i denti ed emise un rumore sordo e terribile. Seguiva con gli occhi i suoi movimenti, e improvvisamente Dick vide che aveva capito. Cominciò a scivolare verso di lui, coprendo centimetro dopò centimetro la distanza che li divideva. Tenendosi solo con un braccio, Dick ora non aveva altra scelta che rimanere fermo dove si trovava, ed era già difficile riuscirci. Emise un gemito ad alta voce; iniziò a sentire lunghe fitte di stanchezza al braccio da cui pendeva la sua vita. Ora quell'essere era talmente vicino da poterne fiutare il fetido tanfo animale, e vederlo digrignare i denti feroci. Afferrò la 38, la sollevò, sparò, poi sentì un dolore atroce al braccio e tentò di premere ancora il grilletto. Ma non c'era niente da premere; si guardò il braccio e - vide che la mano non c'era più. Il sangue scorreva via, fumante nell'aria gelida. E cogli occhi pieni di orrore vide la propria mano, ancora stretta alla 38, che penzolava dalle fauci della creatura. Poi iniziò la sua morte. Quando cominciò a cadere provò paura, poi qualcos'altro: fu sopraffatto da un'enorme tristezza, così grande da assomigliare a una specie di esaltazione. Il suo corpo rimbalzò sul duro manto di ghiaccio che ricopriva il vicolo, e morì sul colpo. Qualche istante dopo la sua mano schiaffeggiò il suolo accanto a lui. Lassù in alto il Vecchio Padre lottava a sua volta contro la morte. Era riuscito a tagliar via quella mano appena in tempo, mentre era stato sparato il colpo. Il proiettile gli aveva sfiorato l'occhio e la fronte. Le zampe con cui si teneva erano stanche, e non sarebbe riuscito a sollevarsi sul tetto senza rischiare di cadere. Ma non aveva intenzione di sollevarsi. Non lontano di lì, aveva visto il balcone più alto; poteva spostarsi fin là e caderci sopra. Quando atterrò, rimase per un attimo stordito, scuotendo la testa. Pareva proprio che l'occhio non funzionasse più. Poco male, egli avrebbe ugualmente portato a termine il suo compito con un solo occhio. Avrebbe salvato la sua famiglia e il segreto della sua razza. Ora sapeva che stava per vincere. Scese giù con cautela di balcone in balcone, tutto dolorante per la ferita, che era più grave di quanto immaginasse, finché non giunse al terrazzo che gli interessava. Stette là accucciato, inspirando il sudicio odore di quei due che ancora vivevano, dall'altra parte del vetro. CAPITOLO DODICESIMO
"Ehi, Becky, qui c'è qualche problema." Lei lo raggiunse. "Non risponde al segnale." "Un'interferenza?" "Non credo." Pigiò due volte il pulsante del microfono. Nessuna risposta. Provò con la voce. "Sveglia, Dick. Devi farmi il segnale di risposta, altrimenti non posso sapere se ci sei ancora." Rispose solo il brusio dei disturbi atmosferici. "Magari c'è qualche interferenza," disse lui. "Andrò sul balcone, lì forse la linea si prende meglio." "Meglio andare sul tetto. Ci vorrà solo un minuto." "Senti, io vado un attimo fuori e..." "Andiamo di sopra adesso. Mettiti il cappotto." Wilson la assecondò. Ora che era Becky a prendere il comando, lui sembrava aver riacquistato un maggior equilibrio. Tutto bene, per lei: poteva benissimo scambiare i gradi superiori di Wilson con i propri ad ogni momento. Quando raggiunsero la porta che dava sul tetto, entrambi avevano la pistola nella tasca della giacca. Becky sentiva un immenso freddo dentro, gelido come la notte là fuori. "Coprimi le spalle," disse. "Tira fuori la pistola. È meglio non correre rischi." Aprì la porta e uscì, rivolgendo subito lo sguardo verso il punto in cui doveva trovarsi Dick. Ma lui non c'era. Una fitta di paura le fece martellare il cuore nel petto. Cercò di reprimerla, trasse un profondo respiro e lo chiamò. Nessuno rispose, tranne il vento. Poi vide un oggetto non molto lontano, una sagoma nera sul tetto ghiacciato. "Cristo, la macchina fotografica è qui!" Tra uno scivolone e una caduta, la andò a prendere. Buona parte dell'involucro esterno era mancante. La lente era incrinata. Indietreggiò verso le scale e chiuse la porta, lottando contro il vento. Sentì le viscere rimescolarsi, le veniva da vomitare. "Gli è successo qualcosa," disse. "Andiamo di sotto." "Nel vicolo?" "Accidenti, no! Se lo hanno preso sarà là - e ci saranno anche loro, aspettando che andiamo a cercarlo. Ti ricordi stamattina - la trappola? Non possono riuscire a farci quello scherzo più di una volta al giorno." Era la ragione a parlare per lei, mentre il cuore le gridava di andare nel vicolo, a salvare suo marito. Se lui era là, in ogni caso, doveva essere ormai impos-
sibile salvarlo. Aveva voglia di piangere, ma invece continuò. "Torneremo nell'appartamento, e guarderemo dal balcone. Forse quella dannata macchina fotografica funzionerà abbastanza da permetterci di vedere che cosa c'è per terra, laggiù." L'appartamento si era già trasformato, per Becky: non lo sentiva più come casa sua. Tutto era esattamente come prima, tranne il fatto che Dick... se n'era andato. Se era caduto, il suo corpo doveva essere passato proprio davanti a quelle finestre, mentre loro cercavano di mettersi in contatto con lui via radio. Appoggiò la macchina fotografica sul tavolo del soggiorno, si asciugò con rabbia le lacrime ed esaminò i danni. Attraverso l'obiettivo non si vedeva altro che una luce diffusa e sfuocata, bianco-perla. "È rotta irrimediabilmente," disse. "Ma almeno la pellicola è intatta." Gettò il rullino a Wilson. "Sei foto. Ha scattato sei foto." Mentre parlava, si sentiva un nodo alla gola. Rimase in silenzio, incapace di rispondere, mentre cercava mentalmente un modo qualsiasi per convincersi che Dick fosse ancora vivo. Desiderò che la macchina fotografica non si fosse rotta; così avrebbe potuto usarla per guardare dal balcone nel vicolo, e almeno avere la conferma che il peggio era avvenuto. Fece di nuovo un elenco delle possibilità; numero uno: era stato aggredito da un lupo mannaro sul tetto ed era caduto. C'era una seconda possibilità, molto più remota: e cioè che fosse in qualche modo sfuggito all'attacco saltando sul balcone più alto. Molto improbabile. Se lui era stato capace di saltare anche il lupo mannaro lo avrebbe fatto. Wilson le andò vicino, e le mise la mano sul braccio. "Lo hanno preso, piccola," disse in tono burbero. Aveva gli occhi umidi, e pareva furioso. "Vorrei saperlo con certezza." "Lo sai." "Oh, Dio, magari è giù in quel vicolo, e si sta dissanguando a morte!" Sapeva che l'idea che un uomo potesse sopravvivere a una caduta come quella era irrazionale, ma erano accadute cose ben più strane. "Vado a vedere, Becky, ma così non scopriremo niente più di quanto non sappiamo già." Si avvicinò al balcone, e si fermò sulla porta. Scostò le tende. "Una semplice ricognizione," disse. Non vide la sagoma accucciata contro il vetro, quasi vicino ai suoi piedi. Aprì la porta scorrevole. Gli balzò addosso attraverso le tende, squarciando la stoffa con le fauci rabbiose. Wilson cadde all'indietro nel soggiorno, rotolò su se stesso, e poi si diresse verso la porta della camera da letto. Becky si muoveva dietro di
lui; intanto, il lupo si trovava avviluppato in mezzo alle tende, che gli erano cadute addosso, quindi si divincolò ed entrò nell'appartamento. Becky e Wilson raggiunsero la camera da letto, e lei riuscì a chiudere la porta a chiave dietro di loro. Ci fu un attimo di silenzio, poi si udì il rumore di un corpo che spingeva contro la porta. Il legno compensato scricchiolò e s'incrinò, ma la porta resistette. Improvvisamente la maniglia venne scossa furiosamente, quasi come se stesse per essere divelta del tutto. Becky si portò il pugno alla bocca. "Hai visto?" sussurrò mentre cercava di tenere a freno il panico. "Ha il cervello di fuori, tutto spappolato. È ferito in maniera orribile." La porta scricchiolò paurosamente. Ora la bestia vi si stava gettando contro. I cardini tremavano, e la maniglia della porta, ormai divelta, sbatteva ad ogni colpo. "Sparagli. Sparagli attraverso la porta." "La mia pistola è nel cappotto." E il cappotto era in cucina. Becky trovò la sua 38 e prese la mira verso il punto in cui pensava si trovasse il petto dell'animale, tolse la sicura e premette il grilletto. Ci fu una detonazione assordante, e sulla porta comparve un buco piendo di fumo. "E fatta," disse con voce tremante. Si diresse verso la porta, ma Wilson le afferrò il braccio. "L'hai mancato," disse. "Come avrei potuto mancarlo, era proprio lì." "Guarda." Attraverso il buco nella porta, largo circa quattro centimetri, vide un qualcosa di grigio - del pelo. E sentì il rumore di un respiro basso e profondo. "Non l'ho neanche ferito." Sollevò di nuovo l'arma. Tutt'a un tratto si vide della luce filtrare attraverso il buco. Quella creatura si era spostata. "Sono maledettamente intelligenti. Deve aver sentito il movimento, e si è spostato per evitare lo sparo. Non serve a niente riprovare, non lo beccherai. E alla porta non fa bene di certo." Dall'altra parte il Vecchio Padre si muoveva con cautela. Era balzato di lato appena in tempo e sentiva ancora la sensazione di caldo nel punto in cui il proiettile gli aveva sfiorato il muso. La testa gli pulsava terribilmente, e lui si sforzava con tutto se stesso per non gridare a causa di quell'agonia, e per conservare l'autocontrollo. Lo ritrovò in qualche modo, e s'impose di pensare a quella situazione. La cosa più importante era esser riuscito ad entrare in casa. Aveva sentito quell'uomo avvicinarsi alla porta del balcone e si era nascosto giusto in tempo. L'uomo aveva aperto la porta, e alla fine ce l'aveva fatta.
Ora doveva far venire lassù anche il resto del branco. Non era sicuro che sarebbero venuti se li avesse chiamati, ma sapeva che il rumore di una lotta li avrebbe sicuramente fatti salire su per i balconi, fino lì. Molto bene: doveva produrre quel genere di rumori. Si lanciò nel soggiorno, sfogando nella distruzione dell'appartamento il suo odio contro quei nemici che li tormentavano. Buttò a terra le lampade, sfasciò i mobili, fece insomma tutto quel che poteva per produrre un gran fracasso. Ma solo per qualche istante, non abbastanza a lungo da allarmare gli abitanti degli appartamenti vicini. Poi si fermò, e stette ad ascoltare con le orecchie dritte. Ed eccoli là! Il rumore delle zampe, i grugniti di fatica. Stavano salendo. Quanto li amava! Pensò al loro futuro e al proprio passato, e provò un sentimento di speranza non soltanto per il suo branco, ma anche per tutta la razza. L'ultimo dei nemici se ne stava acquattato dietro a una fragile porta, pronto per il macello. Presto tutti i branchi della terra sarebbero stati liberi dall'ingerenza umana. E lui stava per sacrificare la propria vita per loro, non per se stesso. Entrarono di corsa, pieni della brama di vittoria. Quando lo videro si fermarono. Bene, che provassero pure quello shock. Sapeva d'essere ferito a morte; la loro espressione piena d'orrore non lo stupì. Era contento di dar la vita per il branco, e adesso tutti lo sapevano. Un velo d'angoscia discese su quei volti; benissimo, c'era da aspettarselo. Non permise a se stesso di condividere il dolore. I ricordi gli turbinavano nella mente, ma ora non c'era tempo per queste cose. C'era molto lavoro da fare e poco tempo. Usando il linguaggio fatto di gesti, movimenti della coda e suoni, egli comunicò rapidamente alla sua famiglia che i due dietro la porta possedevano una pistola, e che occorreva sfondare quella porta. Sapevano tutti, senza bisogno di dirlo, che sarebbe stato lui a lanciarsi per primo nella stanza, per coprire l'impatto della pistola. La sua compagna lo guardò con aria di supplica. Lui le ricordò che era comunque mezzo morto. Quest'ultima azione, quella di lanciarsi contro l'arma da fuoco, sarebbe stata utile al branco. Non potevano permettere al dolore di lei, o al proprio, d'interferire in quella situazione. In camera da letto Wilson e Becky stavano attentamente in ascolto; udirono una serie di rabbiosi brontolii di varia intensità, poi il rumore delle zampe sul pavimento. "Ora sono tutti qui," sussurrò Wilson. "Gli altri devono essere saliti su
dal vicolo. Quanti colpi ti sono rimasti?" "Cinque." "Cerchiamo di usarli bene." Aveva la voce strozzata. Risultava ovvio ad entrambi che cinque colpi non sarebbero bastati. "Il telefono!" Becky lo afferrò, e compose il 911. Nulla. "La cornetta nel soggiorno dev'essere stata sganciata." "Non ce la faremo," disse lui piano. Becky si girò rapidamente e lo guardò in faccia. "Ce la faremo, bastardo. Se non abbandoniamo le speranze, voglio dire." "Sono soltanto realistico, Becky." "Parla per te." Lei teneva la pistola con tutt'e due le mani, puntandola direttamente verso la porta. Non si mosse neanche quando Wilson cercò di baciarla sulla guancia. "Non è proprio il momento adatto," disse lei. "Probabilmente è l'ultima occasione che ho per farlo." "Chiudi il becco e sorveglia la porta." Il Vecchio Padre aveva riunito il branco in modo da poter vedere la porta senza però essere nel raggio di tiro. Disse loro che cosa dovevano fare, assumendo il suo solito ruolo. Nessuno gli fece domande, nessuno ebbe il coraggio di farlo. Lui li aveva portati fin là, non potevano far altro che ascoltarlo. Dovevano avvicinarsi a testa bassa, e poi sfondare la porta. Poi lui si sarebbe lanciato. L'avrebbe fatto da solo, sperando che gli scaricassero addosso tutti i colpi. Poi gli altri potevano distruggerlo, consumarne il corpo, non lasciando alcuna traccia di una creatura della loro razza. L'uomo non avrebbe capito come fossero avvenute quelle tragedie, e il segreto del branco sarebbe ancora una volta rimasto tale. Fece schioccare la mandibola, e a quel suono si misero tutti in ascolto, preparandosi all'attacco. Tremavano tutti per il desiderio di parlare, ma non dissero niente. Non c'erano parole per ciò che il branco doveva ora affrontare, per il dolore che tutti provavano. Nonostante la perdita del diritto al comando, era stato pur sempre lui il fondatore del branco, lo aveva creato con coraggio e con fatica. Nell'ora della morte riceveva il rispetto che gli era dovuto. "Senti qualcosa?" domandò Becky. Wilson stava in piedi accanto alla porta. "Sono nel soggiorno. Forse possiamo coglierli di sorpresa." "Non riusciremmo a fare più di un metro. Stai buono dove sei e fa' lavo-
rare il cervello." Il telefono era per terra, mentre una vocina ripeteva senza sosta che qualche ricevitore era rimasto sganciato su quella linea. A Becky venne voglia di strappar via quel maledetto apparecchio, e di buttarlo dalla finesta. "Ehi, aspetta un attimo." Andò alla finesta e guardò giù. "Stanimi a sentire, perché non buttiamo quel fottuto letto dalla finestra? Così qualcuno verrà di sopra a fare indagini." "Così quel poveraccio apre la porta e viene sbranato. Nel frattempo, noi saremo già morti." "Hai una penna?" "Sì, ma cosa ..." "Scriviamo sul lenzuolo. Dammi." Prese la penna, tirò via le coperte dal letto e iniziò a tracciare grosse lettere sul lenzuolo ben teso. Qualche attimo dopo ebbe finito di scrivere un messaggio conciso, "INVIATE POLIZIOTTI ARMATI AL 16G. OMICIDIO. GRAVE PERICOLO. FATE IRRUZIONE. ATTENZIONE ALL'IMBOSCATA!" Spalancarono la finestra, e videro che non era abbastanza grande per farci passare il materasso. Becky mise Wilson di sentinella alla porta con la 38, e si avvolse la coperta attorno al braccio destro. Guardò giù per assicurarsi che non ci fosse nessuno, quindi mandò in frantumi la finestra col pugno. "Bene, adesso dammi una mano a far uscire quest'affare." Insieme lo spinsero faticosamente, finché il materasso non cadde giù ruzzolando e rivoltandosi, e colpì con un tonfo il marciapiedi. La caduta doveva aver prodotto un certo rumore, che però si perse nel vento. Poi si udì un raspare alla porta. "Stanno di nuovo cercando di forzare la serratura," disse Wilson. Aveva la voce stridula per la tensione. Guardò disperatamente verso Becky. "Mettici davanti l'armadio - spostalo adesso!" Lui obbedì, spostando l'armadio contro la porta, mentre lei teneva la pistola. Un momento dopo si udì un colpo tremendo, e i cardini della porta esplosero. Al centro si era aperta una fessura. "Appoggiati contro l'armadio," disse Becky a Wilson, che si era ritirato verso il bagno. Egli venne avanti di nuovo, e premette la schiena contro l'armadio. La porta era squassata dai furiosi assalti. Dall'altro lato della strada, i due agenti in borghese avevano udito il tonfo del materasso che era caduto sul marciapiede. Entrambi sbirciarono fuori dai finestrini chiusi dell'auto, in direzione del rumore. "Qualcosa ha colpito il marciapiede." "Già."
Ci fu un attimo di silenzio. "Vuoi andare a dare un'occhiata?' "No. Vacci tu, se sei curioso." "Non sono curioso." Si rimisero ad aspettare pazientemente la fine del turno. Un'altra ora d'attesa, e poi la prossima squadra gli avrebbe dato il cambio, e loro si sarebbero potuti fare una bella doccia calda. Nonostante il riscaldamento dell'auto, in tutte quelle ore uno s'infreddoliva parecchio. "Che cosa pensi che stia facendo Neff?" disse uno di loro per rompere la monotonia. "Starà dormendo nel suo letto, come tutta la gente furba, a quest'ora della notte." Poi non aggiunsero nient'altro. La porta si fracassò in tre pezzi, che volarono sopra l'armadio. Uno di quegli esseri stava penetrando attraverso lo spazio al di sopra dell'armadio. Becky gli sparò mentre stava per balzarle addosso. Il proiettile lo colpì alla testa, e lui stramazzò sul pavimento. Wilson era caduto in terra nel momento in cui la porta era stata sfondata, e ora si stava alzando faticosamente in piedi. Nonostante la ferita alla testa e il sangue che gorgogliava fuori da un nuovo buco di cinque centimetri nel petto, la creatura gli si scagliò addosso, afferrandogli la carne con i mostruosi artigli. Wilson boccheggiò, con gli occhi sbarrati, e cacciò un urlo agonizzante. Lei sparò di nuovo. Doveva essere morto, ormai, ma le grinfie lavoravano ancora, mentre i denti aguzzi penetravano nel collo di Wilson, che urlava in modo agghiacciante. Poi la creatura si accasciò, liberando la presa. L'unico rumore che si udiva nella stanza era il respiro affannoso di Wilson; egli si alzò vacillando, con la fronte completamente lacerata e inondata di sangue. Lei fece per aiutarlo - e una zampa le afferrò la caviglia. Sentì un dolore atroce invaderle la gamba, mentre gli artigli aguzzi penetravano nella carne. Si portò le mani alla testa e urlò, scalciando freneticamente col piede libero. Nonostante i calci lo colpissero ripetutamente, l'animale non mollava la presa. Con tutto il suo essere Becky desiderava sparargli di nuovo, sparargli ancora e ancora, ma non lo fece. Bisognava risparmiare i proiettili. Poi la presa si allentò. Becky ricadde a sedere sulla rete del letto e puntò la pistola verso la porta rotta, verso gli esseri che si erano riuniti lassù. Erano in quattro, evidentemente piuttosto intimoriti dalla pistola. Le rimanevano due colpi. Wil-
son, accoccolato e gemente vicino al cadavere del lupo, non poteva aiutarla. Era sola e agonizzante dal dolore, e si sforzava con tutta se stessa di non svenire. Di sotto, il portiere guardò stupito in direzione di un'auto di pattuglia che si era fermata di fronte all'edificio. Ne scesero due agenti, i quali, coi colletti dei pesanti cappotti invernali rialzati contro il vento, entrarono nell'atrio. "Posso aiutarvi?" "Sì. Dobbiamo fare un controllo; ci hanno chiamato per degli schiamazzi notturni. Le risulta?" "No. È tutto tranquillo." "Sedicesimo piano. Qualcuno ha chiamato il distretto. Hanno sentito urlare e sfasciare mobili. Lei ha ricevuto qualche reclamo?" "Questo è un palazzo tranquillo. Siete sicuri di esser venuti nel posto giusto?" I due agenti annuirono, dirigendosi verso l'ascensore. Pareva proprio una tipica situazione di lite in famiglia — nessun arresto, si trattava solo di un sacco di discussioni e forse di menare un po' le mani per farli smettere. Uno passava metà della vita a far controlli sugli schiamazzi notturni, e l'altra metà tra le scartoffie. I veri delitti, uno poteva scordarseli. "Vediamo un po', sedici." Uno degli agenti premette il pulsante, e l'ascensore cominciò a salire. Dopo un po' la porta scorrevole si aprì, rivelando un lungo corridoio illuminato appena. I due poliziotti guardarono da entrambi i lati: non si vedeva nessuno. A parte il rumore di un paio di televisori accesi, tutto era tranquillo. Avanzarono nel corridoio; la fonte degli schiamazzi era l'appartamento 16G: avrebbero suonato il campanello. Gli esseri guardavano Becky, sollevando brevemente la testa al di sopra dell'armadio nel vano della porta. Sebbene tenesse la pistola puntata, non era abbastanza veloce da colpire una di quelle teste guizzanti. Non comparvero per qualche istante. Potevano balzare di sorpresa al di sopra dell'armadio e sgozzarla, ne era sicura. Zoppicò fino alla finestra, desiderando di poter proteggere in qualche modo Wilson, che era svenuto. Ma non poteva. Se quelle creature le si fossero scagliate contro si sarebbe buttata giù. Era un tipo di morte mille volte migliore che essere sbudellati da quei mostri. Una testa comparve al di sopra dell'armadio, vi restò per un momento, poi sparì. Si era fermata molto più a lungo del solito. Becky si fece forza; non succedeva ancora niente. Stavano molto attenti, sapevano di cosa fosse
capace una pistola. Il campanello della porta squillò. Una delle crature si lanciò sopra l'armadio, coi denti scoperti e gli artigli protesi verso la sua gola. Becky gli scaricò le ultime due pallottole nel muso, e quello stramazzò ai suoi piedi. Si portò gli artigli alla testa, col corpo inarcato e i muscoli in evidenza come corde attorcigliate, poi crollò in mezzo a una pozza di sangue che si allargava. Becky lo guardava con un misto di orrore e di tristezza. La caviglia era quasi inservibile, e lei riusciva a malapena a sorreggersi tenendosi con le mani al davanzale della finestra. Il vento le frustava i capelli sul viso, mordendole la schiena; guardò la carneficina nella stanza. C'erano tre facce mostruose che la osservavano da sopra l'armadio, che bloccava ancora il vano della porta. Con mani tremanti sollevò verso di loro la 38; senza l'appoggio delle mani al davanzale, il suo equilibrio era precario. Il vento continuava a tormentarla, minacciando di farla cadere ad ogni momento che passava. Ma le creature esitavano davanti alla pistola; poi una di loro emise un suono profondo, bizzarro... quasi d'angoscia, poi chiuse gli occhi, tese i muscoli - e improvvisamente se ne andò dalla camera da letto. Ora tutti e tre scomparvero sotto al margine dell'armadio. Quindi bussarono alla porta. "Polizia," disse una voce giovane. "No! Non aprite quella porta!" Bussarono di nuovo, più forte, questa volta. "Polizia! Aprite!" "Restate fuori! Restate ..." Con uno schianto la porta crollò. I due poliziotti che erano là in piedi non ebbero neanche il tempo di gridare. Becky udì soltanto una serie di tonfi. Poi ci fu il silenzio. Becky adesso piangeva. Avanzò lentamente, tenendo ancora la pistola con tutt'e due le mani. Ma dovette fermarsi, e si accasciò sul letto; la pistola cadde sul pavimento. Da un momento all'altro i lupi mannari sarebbero tornati per ucciderla. "Ehi, che succede qua dentro?" Lei sollevò gli occhi annebbiati di lacrime. Due agenti stavano in piedi dall'altra parte dell'armadio, con le pistole in mano. Becky sedeva sbalordita, e quasi non riusciva a capacitarsi di ciò che vedeva. "Io, c'è un uomo ferito, qui," si sentì bisbigliare. I poliziotti spostarono l'armadio di lato. Ignorando i due lupi, uno di loro andò verso Wilson. "Respira ancora," disse mentre l'altro chiamava l'am-
bulanza via radio. "Com'è la storia, signorina?" "Sono Neff, il sergente Investigatore Neff. Lui è l'Investigatore Wilson." "Già, bene. Ma che diavolo sono quei..." "Lupi mannari." Becky sentì la sua voce pronunciare quella parola come da una grande, enorme distanza. Si sentì avvolta da braccia forti, che la distesero sul letto, ma lei continuava a sforzarsi di non perdere coscienza. C'era ancora da fare, non c'era tempo per dormire. In lontananza si udirono delle sirene, e poi delle voci nell'atrio. E infine la luce, i flash che lampeggiavano mentre i fotografi della polizia scattavano foto della scena. Sollevò la testa quel tanto che bastava per vedere Wilson che veniva portato in barella. "Gruppo sanguigno 0-positivo," disse debolmente. A un certo punto vide qualcuno accanto a sé, che la guardava con un sorrisetto sulla faccia stanca. "Salve, Mrs. Neff." Egli si spostò da una parte mentre gli infermieri la facevano scivolare su di una barella. "Mrs. Neff, vuole fare una dichiarazione per la stampa?" "Lei è quello del Post, non è vero?" "Sono Garner, signora." Lei sorrise, e chiuse gli occhi. Ora la stavano muovendo, e le luci del corridoio le passavano sopra al viso. Sam Garner si affrettava dietro di lei, cercando di tenerle un microfono di registratore vicino alla bocca. "È qualcosa di grosso, non è così?" disse lui col fiato corto. "Qualcosa di grosso," rispose lei. Garner sorrise di nuovo, ed entrò a gomitate nell'ascensore già pieno degli infermieri e della sua barella. La gamba le pulsava, con un dolore atroce, si sentiva esausta, voleva chiudere gli occhi e dimenticare. Ma raccontò a Garner tutta la storia. EPILOGO La madre si era lanciata non appena la pistola era stata scaricata nel corpo del padre. Dopo aver ucciso i due umani, tutti e quattro ne avrebbero distrutto il cadavere. Poi accadde l'incredibile. La pistola produsse ancora lo schianto, e anche la madre fu uccisa. Gli altri rimasero a guardare quella sagoma senza vita, troppo storditi per potersi muovere. Tutti e tre provarono un grande dolore, e una rabbia quasi soffocante contro il mostro che aveva ucciso i loro genitori.
Stava seduta là, agitando l'arma, e la pistola aveva un odore di caldo e di morte. Continuarono a osservare la scena, non sapendo ancora cosa fare. Poi ci fu un rumore fuori dalla porta - altri umani che si avvicinavano, se ne poteva udire chiaramente il respiro e i passi che calpestavano il tappeto del corridoio. Inoltre avevano addosso l'odore pungente, mortale delle pistole. I tre giovani Wolfen si girarono per affrontare questa nuova minaccia. Con un gran fragore, la porta fu sfondata tra le grida umane, e loro si prepararono a uccidere qualsiasi cosa dovesse comparire. Ma erano due giovani maschi, vestiti come quelli laggù alla discarica. Tutta quest'agonia era cominciata quando erano stati uccisi due uomini come quelli: il branco non doveva ripetere quell'errore. Si precipitarono verso il corridoio, passando davanti ai due poliziotti. Avevano lasciato dietro di sé i corpi dei loro genitori, e gli umani li avrebbero visti - ma non c'era altro da fare. Aprirono con una spinta la pesante porta del corridoio e corsero giù per le scale. Schizzarono via attraverso l'atrio del palazzo, frantumarono col peso dei corpi il portone di vetro e continuarono a correre, incuranti delle urla, dello schianto dei vetri e dei tagli che si erano procurati. Fuggirono attraverso la città deserta, ancora avvolta nell'oscurità che precede l'alba, diretti a nord, al di là delle file di palazzi lussuosi, attraverso le strade in rovina, e ancora più a nord, oltre le moltitudini di senzatetto, accalcate intorno ai falò, e non si fermarono finché non giunsero alle rive buie e infestate dai topi di fogna del fiume Harlem. A oriente, il cielo era illuminato da un bagliore irregolare, mentre la luce faceva risaltare le intelaiature nere dei ponti sopra il fiume. I tre si fermarono; erano giunti in un posto ben nascosto, sicuro, come indicava l'odore del branco che vagava in quella zona. Tutti provavano un orribile senso di perdita. I genitori erano morti, il loro branco era stato definitivamente smembrato. E, cosa ancor peggiore, i cadaveri di due Wolfen erano stati lasciati in mano agli uomini. Si sentivano deprivati, ma non sconfitti. Non sentivano ardere nel cuore un senso di paura, ma di sfida: dura, determinata, insaziabile. Emisero un ululato, che riecheggiò su e giù per le rive del fiume, attraversò le acque gelide e limacciose, e riecheggiò di nuovo tra i lontani edifici. Molto al di sopra di loro, sul ponte della Terza Strada, una squadra di operai stava tirando fuori gli strumenti di lavoro. Quando udirono quel
suono, gli uomini si guardarono l'un l'altro senza parole. Uno di loro si sporse dal parapetto, ma non riuscì a veder nulla, nel buio là sotto. Poi altri ululati si levarono nel vento: branco dopo branco, sollevando il capo dalle tane situate negli anfratti della città, rispondeva così al profondo senso di fatalità che quel suono risvegliava nella razza. FINE