Torey L. Hayden Una bambina Titolo originale: One Child Traduzione di: Silvia Piraccini 1980 by Torey L. Hayden 1993 Cas...
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Torey L. Hayden Una bambina Titolo originale: One Child Traduzione di: Silvia Piraccini 1980 by Torey L. Hayden 1993 Casa Editrice Corbaccio s.r.l. Milano L'Editore ringrazia la Casa Editrice Bompiani per l'autorizzazione a pubblicare i brani tratti da Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry Edizione CDE spa - Milano su licenza della Casa Editrice Corbaccio A Sheila R., naturalmente Molti mi hanno chiesto della poesia appesa nel mio ufficio. È giusto, allora, che conoscano la bambina che l'ha scritta. E spero di essere stata brava almeno la metà di quanto è stata brava lei. PROLOGO Per la parte migliore della mia vita di adulta ho lavorato con bambini emotivamente labili. Nell'autunno del mio primo anno di college prestai servizio volontario di assistenza ai bambini disturbati e disadattati in età prescolare. Da quel momento sono sempre stata profondamente interessata a certi aspetti sconcertanti della malattia mentale infantile. Da allora ho preso tre lauree; sono stata, per diversi anni, insegnante, supplente e in ruolo, assistente universitaria e ricercatrice psichiatrica; ho vissuto in cinque stati diversi; e ho lavorato in centri di accoglienza privati per bambini, scuole pubbliche, ospedali psichiatrici giudiziari e istituzioni statali, continuando a cercare, invano, le risposte giuste per questi bambini, la chiave magica che finalmente li aprisse alla mia comprensione. Ma dentro di me sapevo da tempo che quella chiave non esiste, e che per certi bambini nemmeno l'amore basterà mai. Ma la fiducia nell'animo umano non sente ragione e fugge al di là delle nostre fragili conoscenze. Spesso mi chiedono del mio lavoro. Forse la domanda più frequente è: Non è frustrante? Non è frustrante, mi chiede lo studente del college, vivere ogni giorno a contatto con la povertà, la tossicodipendenza, l'alcolismo, la violenza fisica e sessuale, la desolazione e l'apatia? Non è frustrante, chiede l'insegnante delle scuole normali, lavorare tanto per averne in cambio tanto poco? Non è frustrante, mi chiedono tutti, sapere che il massimo che potrai ottenere per i tuoi alunni sarà una normalità approssimativa; sapere che questi bambini piccolissimi sono stati condannati a una vita che, per i nostri standard, non sarà mai produttiva, utile agli altri, o normale? Non è frustrante? No. Non lo è, davvero. Sono soltanto dei bambini, frustranti come possono essere tutti i bambini. Ma sanno anche ricambiare l'affetto e dimostrare un'enorme sensibilità. Solo la follia sembra in grado di dar voce alla verità vera.
Ma in questi bambini c'è di più. C'è il coraggio. Mentre la sera siamo davanti al telegiornale, a sentire di nuove, emozionanti conquiste in qualche terra lontana, perdiamo i veri drammi che si vivono intorno a noi. È un peccato, perché lì c'è più coraggio che da ogni altra parte. Alcuni di quei bambini vivono con tali incubi e tali ossessioni, nella loro testa, che ogni loro movimento si carica di straordinario terrore. Alcuni vivono a contatto con una violenza e una perversione che le parole non possono descrivere. Ad alcuni non viene nemmeno concessa la dignità che si concede agli animali. Alcuni vivono senza amore. Alcuni vivono senza speranza. Eppure resistono. Quasi tutti accettano la loro vita, non conoscendo altro modo di vivere. Questo libro racconta di una sola bambina. Non è stato scritto per evocare pietà. Né per elogiare un'insegnante. E neppure per deprimere quelli che hanno trovato pace nel non sapere. Questo libro è una risposta a chi mi chiede se non è frustrante lavorare con i malati di mente. È un'ode all'animo umano, perché questa ragazzina è come tutti i miei bambini. Come tutti noi. È una sopravvissuta. Dovevo immaginarlo. L'articolo era breve: poche frasi a pagina sei, subito dopo i fumetti. Parlava di una ragazzina di sei anni che aveva rapito un bambino del vicinato. Quella fredda sera di novembre aveva portato il bimbo, di tre anni, in un giardinetto del luogo, l'aveva legato a un albero e gli aveva dato fuoco. Ora il piccolo era ricoverato in ospedale, in condizioni critiche. Lei era in stato di fermo. Lessi l'articolo distrattamente, come il resto del giornale, e provai soltanto quel vago senso di disgusto che induce a domandarsi: Dove andremo a finire? Poi, quel giorno stesso, mentre lavavo i piatti, mi tornò in mente l'articolo. Chissà che cosa ne aveva fatto, la polizia, della ragazzina. Si può mettere in carcere una bambina - che ha sei anni? Ebbi confuse visioni kafkiane, di lei chiusa nella vecchia, gelida prigione della nostra città. Ma ci pensavo in modo anonimo, impersonale. E invece dovevo immaginarlo. Dovevo immaginarlo, che nessun insegnante sarebbe stato disposto ad avere nella propria classe una bambina di sei anni con quella storia alle spalle. Nessun genitore l'avrebbe voluta come compagna di classe dei propri figli. Nessuno avrebbe mai voluto che rimanesse a piede libero. E dovevo immaginarmelo, che sarebbe finita nella mia classe. Io insegnavo in quella che, nel nostro distretto scolastico, veniva affettuosamente chiamata classe pattumiera. Era l'anno prima che iniziassero i tentativi di integrazione dei bambini difficili, l'ultimo anno in cui venivano raggruppati e incasellati nelle classi speciali. C'erano classi per i ritardati mentali, classi per i bambiini emotivamente labili, classi per gli handicappati fisici, classi per chi aveva disturbi del comportamento, classi per chi aveva difficoltà d'apprendimento. E poi c'era la mia classe. Io avevo gli otto bambini esclusi da ogni possibile classificazione. Ero
l'ultima tappa prima degli istituti speciali. Avevo la classe dei giovani rifiuti umani. La primavera precedente avevo lavorato come insegnante di sostegno, assistendo i bambini emotivamente labili e quelli con difficoltà di apprendimento che frequentavano per qualche ora al giorno i corsi regolari. Era da un po' che operavo in quel distretto con funzioni diverse; perciò non mi aveva sorpreso il fatto che in maggio Ed Somers, direttore della sezione delle classi speciali, mi avesse chiesto se mi interessava insegnare nella classe pattumiera, il prossimo autunno. Sapeva che avevo già avuto esperienza con bambini gravemente disturbati e che i piccoli mi piacevano. E sapeva anche che mi piacevano le sfide. Lo disse con una risatina imbarazzata, sapendo benissimo che quelle parole lusinghiere suonavano forzate. Ma era alla disperazione e perciò ci provava. Avevo risposto di sì, ma non senza riserve. Ci tenevo molto, a riavere una classe mia, con dei bambini miei. E volevo anche liberarmi di un direttore che, senza averne l'intenzione, risultava opprimente. Era un brav'uomo, ma non la pensavamo allo stesso modo. Aveva da ridire sul mio abbigliamento casuale, sul disordine che regnava nella mia aula, sul fatto che i bambini mi chiamavano per nome. Erano questioni di scarsa importanza, ma, come tutte le piccole cose, diventavano il motivo principale dei nostri scontri. Io sapevo che i miei jeans, il mio disordine e la mia familiarità con i bambini sarebbero stati tollerati meglio, se gli avessi fatto il favore di prendere quella classe. Così accettai, fiduciosa di superare tutti gli ostacoli che si sarebbero certamente presentati. Fra la firma del contratto e la conclusione del primo giorno di scuola, quella mia fiducia si affievolì non poco. Il primo colpo me lo dette la notizia che sarei stata sistemata nella stessa scuola in cui avevo lavorato prima, e con lo stesso direttore. Adesso lui si sarebbe dovuto preoccupare non soltanto per me, ma anche per otto ragazzini particolarissimi. Fummo messi subito nella stanza di una dependance nella quale, oltre a noi, c'era soltanto la palestra. Eravamo completamente isolati dal resto della scuola. Le dimensioni della mia aula sarebbero state adeguate, se gli alunni fossero stati più grandi e più autosufficienti. Ma per otto bambini piccoli e due adulti, più dieci banchi, tre tavoli, quattro librerie e una quantità di sedie che sembravano accoppiarsi e moltiplicarsi, di notte, la stanza era irrimediabilmente affollata. Così misi fuori la cattedra, due librerie, un classificatore, tutte le seggioline in sovrappiù e, alla fine, anche tutti i banchi. Per di più, la stanza era lunga e stretta, con una sola finestra sul fondo. Concepita come aula da destinare a esami e colloqui, aveva la moquette per terra e anche le pareti rivestite di legno. Io avrei rinunciato con piacere a tutto quel lusso per avere una stanza in cui la luce non dovesse rimanere accesa tutto il giorno, o che avesse avuto un pavimento di linoleum, che meglio avrebbe sopportato schizzi e macchie d'ogni genere. La legge dello stato richiedeva che mi fosse affiancato un assistente a tempo pieno, poiché mi era stato assegnato il numero massimo di bambini gravemente disturbati.
Avevo sperato di ottenere come assistente una delle due donne, due persone competenti, che avevano lavorato con me l'anno prima. E invece no: arrivò un giovane appena assunto. Nella nostra comunità, molto vicina a un ospedale e a un carcere statali e a un enorme campo di lavoratori stagionali, c'era una lista lunghissima di aventi diritto all'assistenza dello stato. Perciò, i posti di lavoro che non richiedevano una specializzazione venivano generalmente riservati agli iscritti alle liste dei disoccupati. A me, non sembrava proprio che quello del mio assistente fosse un lavoro non specializzato, ma evidentemente il Welfare lo considerava tale, e così il primo giorno di scuola mi trovai di fronte un messico-americano alto, dinoccolato, che parlava più spagnolo che inglese. Anton aveva ventinove anni e non era mai arrivato a prendere il diploma di scuola superiore. No, ammise, non aveva mai lavorato con i bambini. Be', per la verità, non ci aveva mai nemmeno pensato, a un lavoro del genere. Ma vedi, mi spiegò, bisogna pur prendere quello che ti offrono, altrimenti perdi l'indennità. Si lasciò cadere con tutta la sua mole su una delle seggioline dei bambini e mi spiegò che, se quel lavoro andava bene, per la prima volta sarebbe rimasto al nord tutto l'inverno, senza essere costretto a seguire in California gli altri lavoratori stagionali. Così eravamo in due. In seguito, cominciato l'anno scolastico, mi fu assegnata una studentessa delle superiori, una quattordicenne, che dedicava le sue due ore quotidiane di doposcuola a venire a lavorare nella mia classe. Così armata, affrontai i miei otto bambini. Non avevo aspettative particolari nei loro riguardi. Facevo quel lavoro da tanto tempo che avevo perso ormai tutta la mia ingenuità. E poi avevo imparato, da tanto tempo, che anche quando qualcosa mi scioccava o mi coglieva impreparata, la mia difesa migliore era quella di non farmene accorgere. Era più sicuro così. Il primo ad arrivare, quella mattina d'agosto, fu Peter. Otto anni, nero, ben piantato, con un'incolta capigliatura afro, Peter aveva un fisico robusto che nascondeva disfunzioni neurologiche in deterioramento, causa di gravi accessi di rabbia e di un comportamento sempre più violento. Piombò in classe urlando e imprecando, furibondo. Odiava la scuola, odiava me, odiava la classe e dichiarò che non sarebbe rimasto in quell'aula di merda, e che io non ce l'avrei fatta, con lui. Poi arrivò Tyler, e mi sorprese scoprire che era una bambina. Si rincantucciò dietro la madre, con la testina bruna e riccioluta ostinatamente chinata. Anche Tyler aveva otto anni, e aveva già tentato due volte di uccidersi. L'ultima volta l'acido muriatico che aveva ingoiato le aveva distrutto una parte dell'esofago. Adesso aveva in gola un tubo artificiale e un bel po' di cicatrici orlate di rosso mostruose testimonianze della sua abilità. Max e Freddie avevano entrambi l'irresistibile coazione a urlare. A Max - sei anni, biondo, grosso, robusto - avevano appiccicato l'etichetta di autismo infantile. Gridava gemeva e piroettava per la stanza agitando le mani. La madre lo scusò: sempre, di fronte a una novità, si comportava così, imprevedibilmente. E mi rivolse uno sguardo pieno
di stanchezza, lasciando che nei suoi occhi trapelasse anche troppo chiaramente il sollievo che provava all'idea di liberarsi di lui per qualche ora al giorno. Freddie aveva sette anni e pesava quarantatré chili. Rotoli di grasso gli traboccavano dal vestito e premevano tra i bottoni della camicia. Appena poté lasciarsi cadere a terra, smise di piangere: smise di fare qualsiasi cosa, in realtà, per giacere prostrato, senza vita. Una relazione dei medici diceva che era autistico anche lui. Un'altra, che era gravemente ritardato. Una terza ammetteva di non sapere che cosa aveva. Conoscevo Sarah da tre anni; adesso ne aveva sette. Avevo lavorato con lei quando era all'asilo. Vittima di violenze fisiche e sessuali, era collerica, insolente. Per tutto l'anno precedente, quando era stata in una prima classe speciale, presso un'altra scuola, si era votata al mutismo. Si rifiutava di parlare con tutti, tranne che con la madre e la sorella. Ci sorridemmo, quando ci vedemmo, grate entrambe di ritrovare una faccia nota. Una donna di mezza età vestita elegantemente portò in classe una bella bambina, una bambola. Sembrava uscita da una rivista di moda infantile, con quei capelli biondi e vaporosi, ben pettinati, e quel vestito immacolato e stirato di fresco. Si chiamava Susannah Joy, aveva sei anni e quello era il suo primo giorno di scuola. Provai una stretta al cuore. Essere assegnati alla mia classe fin dall'inizio del primo anno non era un buon segno. I medici avevano spiegato ai genitori che non sarebbe mai stata normale; era affetta da schizofrenia infantile. A quanto pareva, aveva allucinazioni sia acustiche sia visive e passava le giornate a piangere e a dondolarsi, avanti e indietro, avanti e indietro. Parlava raramente e, quando lo faceva, quasi mai le sue parole avevano un senso. Gli occhi della madre mi supplicavano di compiere la magia che avrebbe riportato la sua bimba stregata alla normalità. Mi doleva il cuore, al vedere quegli occhi imploranti, perché vi si leggeva il rifiuto della realtà. Conoscevo il dolore straziante che attendeva quei genitori, quando avrebbero capito che nessuno di noi aveva il genere di magia di cui avevano bisogno per guarire Susannah Joy. Gli ultimi ad arrivare furono William e Guillermo. Tutti e due avevano nove anni. William era un ragazzino alto, scarno e pallido, ossessionato dalla paura dell'acqua, del buio, dell'auto, dell'aspirapolvere e della polvere sotto il letto. Per proteggersi, si dedicava a complicati rituali, toccandosi compulsivamente e recitando formulette di scongiuro a fior di labbra. Guillermo era uno dei tanti stagionali messico-americani che venivano a lavorare nei campi ogni anno. Era collerico ma non incontrollabile. Era anche cieco, purtroppo. Sulle prime, non capivo perché era stato assegnato alla mia classe. Mi spiegarono che nelle classi per non vedenti e parzialmente vedenti non si sentivano attrezzati per affrontare il suo comportamento aggressivo. Be', pensai, siamo pari. Io non mi sento attrezzata per affrontare la sua cecità. Così, eravamo in dieci. E con Whitney, la studentessa,
undici. Quando mi vidi davanti, per, la prima volta, quell'insieme eterogeneo di bambini e l'altrettanto eterogeneo corpo insegnante, mi sentii per un attimo disperata. Come potevamo diventare una vera classe? Come potevo insegnare a quei bambini la matematica, come avrei fatto tutti gli altri miracoli che era necessario compiere in nove mesi? Tre di loro non avevano il controllo delle funzioni fisiologiche e altri due ne avevano un controllo soltanto parziale. Tre non erano capaci di parlare, una non voleva. Due non riuscivano a tacere. Uno non vedeva. Certo era più che una sfida, il contratto che avevo firmato. Ma ce la cavammo. Anton imparò a cambiare i pannolini, Whitney a pulire la moquette bagnata di urina. E io imparai il Braille. Il preside, il signor Collins, imparò a non mettere piede nella dependance. Ed Somers imparò a defilarsi. E così diventammo una classe. Quando arrivarono le vacanze di Natale, ci sentivamo ormai parti di uno stesso tutto e io cominciavo ad attendere serenamente ogni nuovo giorno. Sarah aveva ripreso a parlare regolarmente; Max stava imparando le lettere dell'alfabeto; Tyler a volte sorrideva; Peter non aveva più tanto spesso i suoi accessi di rabbia; William riusciva a percorrere il corridoio che portava alla mensa passando davanti a tutti gli interruttori della luce senza pronunciare scongiuri; Guillermo, anche se senza troppa voglia, stava imparando il Braille. E Susannah Joy e Freddie? Be', con loro ci stavamo ancora provando. Avevo letto l'articolo verso la fine di novembre e me n'ero dimenticata. Ma non avrei dovuto. Dovevo immaginarlo, che prima o poi saremmo stati in dodici. Ed Somers comparve nella mia classe il primo giorno di scuola dopo le vacanze di Natale. Arrivò di buon'ora, con il viso gentile avvolto in un'espressione contrita che, come cominciavo a capire, annunciava guai. Era la stessa espressione che assumeva quando doveva comunicarmi certe notizie, come l'impossibilità di avere un assistente speciale per Guillermo, oppure la nuova diagnosi senza speranza dell'ultimo medico scovato dai genitori di Susannah. Ed avrebbe voluto che le cose andassero diversamente; lo avrebbe voluto davvero, credo, e per questo non riuscivo ad arrabbiarmi con lui. Arriverà una bambina nuova nella tua classe, disse con un'espressione che rifletteva tutta la sua esitazione a dirmelo. Lo fissai a lungo, senza comprendere. Avevo già il numero massimo di alunni consentito dalla legge dello stato e non avevo previsto che ne sarebbe arrivato un altro. Ne ho già otto, Ed. Lo so, Torey. Ma questo è un caso particolare. Non sappiamo dove metterla. La sola possibilità che ci resta è la tua classe. Ma io ho già otto bambini, ripetei ottusamente. Più di tanti non è possibile. Ed pareva avvilito. Era un pezzo d'uomo, alto e muscoloso come un giocatore di football, ma ammorbidito da quella delicatezza che la mezza età sa conferire. Non aveva
quasi più capelli e i pochi che gli erano rimasti se li pettinava con cura in modo da nascondere un po il lucido cranio. Ma soprattutto, era una persona dolce e mi stupiva che fosse riuscito a raggiungere una posizione di rilievo nella scuola, un ambiente che non è famoso per il trattamento che riserva alle persone gentili. Ma forse era quello il suo segreto, visto che non mancavo mai di intenerirmi di fronte all'aria afflitta che aveva quando doveva dirmi qualcosa di spiacevole. Che cosa avrebbe di speciale, questa bambina? domandai, tanto per tastare il terreno. È la ragazzina che ha dato fuoco a quel bimbo in novembre. Non l'hanno mandata a scuola e stanno facendo le pratiche per farla ricoverare nell'ospedale statale. Ma nel reparto infantile non si è ancora liberato un posto. E così la bambina è a casa da un mese e ne sta combinando di tutti i colori. Adesso l'assistente sociale comincia a chiederci come mai non facciamo nulla per lei. Non possono assegnarle un insegnante a domicilio? domandai. Per diversi bambini si ricorreva all'insegnamento a ore, se, per un motivo o per l'altro, non potevano frequentare la scuola. Spesso i bambini più gravemente disturbati ricevevano questo trattamento finché non si trovava una sistemazione più adeguata. Ed abbassò la testa, aggrottando le ciglia. Non se la sente nessuno, di lavorare con lei. Ma ha sei anni, dissi incredula. Hanno paura di una ragazzina di sei anni? Si strinse nelle spalle, e quel suo silenzio, sul conto della bambina, fu più eloquente di ogni parola. Ma io ho già il numero massimo di alunni. Scegline uno da trasferire. Quella bambina deve venire qui, Torey. Sarà una sistemazione provvisoria, finché non si libera un posto all'ospedale. Ma devevenire qui. È l''unico posto con i requisiti necessari per accoglierla. È l'unico posto adatto a lei. Vorrai dire che io sono l'unica tanto idiota da prenderla con me. Puoi scegliere chi vuoi trasferire. Quando viene? L'otto. Intanto i bambini cominciavano ad arrivare e io dovevo prepararmi per il primo giorno di scuola dopo le vacanze. Ed capì che avevo da fare, fece un cenno di saluto e se ne andò. Sapeva che, dandomi un po' di tempo, io avrei accettato. Sapeva che, con tutta la mia aria bellicosa, ero facilmente addomesticabile. Riferii la novità ad Anton, e mi misi a considerare, uno per uno, i miei bambini. Per tutta la giornata continuai a chiedermi chi dovevo mandar via. La scelta più ovvia era Guillermo, per il semplice motivo che non avevo la preparazione necessaria per insegnare a lui. Ma perché non Freddie o Susannah Joy? Nessuno dei due stava facendo grandi progressi. E chiunque sarebbe stato in grado di trascinarseli appresso, qua e là, e di cambiargli le mutandine. Oppure Tyler. Le sue tendenze suicide non erano più così forti, quasi non ne parlava più, di uccidersi, e non faceva
più quei suoi disegni a carboncino. Forse un insegnante di sostegno bastava, per occuparsi di lei. Li guardavo uno a uno, e mi domandavo dove sarebbero andati e come se la sarebbero cavata. E come sarebbe stata la nostra classe senza di loro. Sapevo, in fondo al cuore, che nessuno di loro sarebbe sopravvissuto ai rigori di una classe meno protettiva. Nessuno era pronto. E nemmeno io ero pronta ad arrendermi, né a rinunciare a uno di loro. Ed? Strinsi forte il ricevitore perché continuava a scivolarmi dalla mano sudata. Non voglio far trasferire nessuno Andiamo così bene insieme. Non riesco a sceglierne uno. Torey, te l'ho detto, quella bambina deve venire qui. Mi dispiace molto. Detesto farti questo, ma non c'è altro posto. Fissavo avvilita la bacheca accanto al telefono, con gli annunci di manifestazioni e incontri ai quali i miei bambini non avrebbero mai potuto partecipare. Mi sentii usata. Posso tenerne nove? Vuoi tenerne nove? È contro la legge. Mi darete un altro assistente? Vedremo. Significa sì? Spero di sì, rispose Ed. Ma bisognerà aspettare. Hai bisogno di un altro banco? Ho soltanto bisogno di un altro insegnante. O di un'altra aula. Ma un altro banco ti serve? No. Non li uso. Non c'era spazio neppure per otto banchi, perciò ci sediamo sulla moquette o ai tavoli. No, non ho bisogno di un altro banco. Mandami la piccola. CAPITOLO PRIMO Arrivò l'otto gennaio. Dal momento in cui avevo deciso di accettarla fino alla mattina in cui arrivò, non mi era stato detto nulla sul suo conto, non avevo ricevuto nessuna documentazione, non sapevo nulla della sua storia passata. Sapevo soltanto quello che avevo letto sul giornale un mese e mezzo prima, un breve trafiletto a pagina sei, sotto i fumetti. Ma sarebbe stato lo stesso. Niente avrebbe potuto prepararmi adeguatamente a quanto stava per capitarmi. Fu Ed Somers a portarla in classe, tenendola stretta per il polso e trascinandosela dietro. Con lui venne anche Collins, il preside. Questa sarà la tua nuova maestra, spiegò Ed. E questa sarà la tua nuova classe. Ci guardammo. Si chiamava Sheila. Aveva sei anni e mezzo, poco meno - una creaturina con i capelli arruffati e gli occhi ostili; e puzzava. Fui sorpresa di vederla così piccola. Me l'ero aspettata un po' più grande. Aveva forse la statura di una bambina di tre anni. Con la salopette di jeans e una T-shirt da maschietto, ormai scolorita, sembrava uno di quei Bambini da salvare che si vedono nelle foto, sui giornali. Ciao, io sono Torey, dissi con la voce più affettuosa che una maestra possa avere, e le tesi la mano. Ma lei non
reagì. E così raccolsi il suo polso inerte dalla mano di Ed. Questa è Sarah. È lei ad accogliere chi arriva. Ti accompagnerà a fare un giro. Sarah le tese la mano, ma Sheila rimase impassibile, il suo sguardo saettava da una faccia all'altra. Andiamo, bimba. Sarah le afferrò il polso. Si chiama Sheila, dissi. Ma Sheila rizzava il pelo, a questi atti di familiarità; e liberò la mano con uno strattone, indietreggiando. Fece dietro-front, pronta a scappare, ma per fortuna Collins era sulla porta e lei finì addosso a lui. Io la presi per un braccio e la trascinai in classe. Noi andiamo, disse Ed, e nei suoi occhi apparve la solita espressione mortificata. Ti ho lasciato in ufficio la cartella con la documentazione che la riguarda. Anton fece scattare il chiavistello dopo aver chiuso la porta alle spalle di Ed e del signor Collins. Trascinai Sheila fino alla mia sedia, e la sistemai sul pavimento, di fronte a me. Gli altri bambini, con circospezione, si raccolsero intorno a noi. Adesso eravamo in dodici. Ogni mattina si cominciava con la discussione. La nostra era una scuola dove, prima delle lezioni, si usava recitare il giuramento alla bandiera e intonare canti patriottici. Il patriottismo non mi sembrava l'argomento più adatto a dei bambini che non riuscivano nemmeno a comunicare le loro necessità più elementari; eppure la direzione non vedeva di buon occhio chi non voleva saperne di fare sfoggio di patriottismo. C'erano altri argomenti, troppi, su cui era più importante, per me, battermi che non questo. Così arrivai a un compromesso e istituii la discussione. I bambini venivano da ambienti familiari talmente caotici e disgregati che ci voleva qualcosa che ci facesse riunire di nuovo, ogni mattina, dopo il distacco. E io volevo qualcosa che stimolasse la comunicazione e sviluppasse la capacità di comprensione verbale. Per prima cosa si recitava il giuramento, e io ne approfittavo per affidare a un bambino per volta il compito di fare da prima voce; e questo significava che doveva impararlo a memoria. Anche questo serviva, poiché le parole si presentavano in strutture organizzate, provviste di significato. Poi avviavo la discussione a tema. Di solito erano temi che esploravano i sentimenti: per esempio, bisognava parlare delle cose che ci fanno sentire felici, o si cercava di risolvere insieme qualche problema pratico, come stabilire le cose da fare quando qualcuno si faceva male. Il tema era un punto di partenza e si badava che ciascuno avesse la possibilità di partecipare. Inizialmente avevo sempre presentato io i temi, ma dopo un paio di mesi i bambini incominciarono a fare i loro suggerimenti, e ormai da un pezzo non ero più io ad avviare il dialogo. Conclusa la discussione, lasciavo a ogni bambino qualche minuto per raccontare che cosa gli era accaduto il giorno prima o il venerdì precedente, dopo la scuola. Questi due momenti della discussione mattutina si erano fatti sempre più vivaci e persino Susannah, a volte, partecipava e si faceva capire. I bambini avevano molto da dire, e c'erano giorni in cui facevo fatica a farli smettere. Poi comunicavo il programma della giornata e infine chiudevamo con un canto. Nel mio repertorio avevo canzoni da mimare che cantavo più con piacere che con buona intonazione, di solito muovendo uno dei bambini come fosse una marionetta. I piccoli si divertivano molto, e si finiva sempre
col ridere tutti insieme, anche quando la giornata non era cominciata in allegria. Così, quella mattina, raccolsi tutti intorno a me. Bambini, dissi, questa è Sheila. Farà parte della nostra classe. Da dove arriva? volle sapere Peter, diffidente. Non ci avevi parlato di una nuova compagna. Sì, Peter, ve ne ho parlato. Ti ricordi venerdì scorso, quando abbiamo fatto le prove di come potevamo far capire a Sheila che siamo contenti di averla con noi? Ti ricordi che cosa abbiamo fatto? Ma io non sono contento di averla con noi, replicò. A me piaceva com'eravamo prima. Poi si tappò le orecchie per non avere più a che fare con me e cominciò a dondolarsi avanti e indietro. Bisognerà abituarsi, credo. E ci abitueremo. Diedi una piccola pacca sulla spalla a Sheila, e lei si tirò indietro. Allora, chi ha un argomento da proporre? Erano tutti seduti per terra, intorno a me. Nessuno apriva bocca. Nessuno ha un argomento da proporre? Allora ne ho uno io. Come pensate che ci si sente quando si è nuovi e non si conosce nessuno, e magari uno vorrebbe entrare a far parte di un gruppo ma nessuno lo vuole? Come ci si sente, dentro? Male, disse Guillermo. Una volta mi è capitato. È stato brutto. Ce ne vuoi parlare? Improvvisamente Peter saltò in piedi. Puzza, maestra. E si allontanò da Sheila. Puzza da morire e io non la voglio seduta vicino a noi. Mi attacca la puzza. Sheila lo guardò rabbiosa, ma non parlò né si mosse. Si era rannicchiata su se stessa, con le braccia ben strette attorno alle ginocchia. Sarah si alzò e andò là dove Peter era andato a sedersi. è vero che puzza, Torey. Puzza di piscia. Le buone maniere non erano certo il nostro forte. La mancanza di tatto non mi sorprese; come sempre, però, mi demoralizzò. Impossibile far tacere quella percezione immediata del mondo che avevano i bambini. In fatto di buone maniere, per ogni passo avanti ne facevo due indietro e sei di lato. Che cosa si prova, secondo te, Peter, a sentirsi dire che puzzi? Ma lei puzza da morire, ribatté Peter. Non ti ho chiesto questo. Ti ho chiesto che cosa proveresti se qualcuno ti dicesse così. io non vorrei puzzare tanto da far scappare tutti quanti. Non ti ho chiesto questo. Mi seccherebbe, intervenne Tyler, saltando su in ginocchio. Qualsiasi dimostrazione di rabbia o di discordia la spaventava molto e le faceva assumere il ruolo di paciere: allora si mostrava materna, per avere solo otto anni, e si comportava maternamente con quelli che litigavano. E tu, Sarah? le chiesi. Che cosa proveresti?
Sarah si fissò le dita per non guardarmi. Non mi piacerebbe tanto. No, secondo me non piacerebbe a nessuno di noi. Come sarebbe meglio affrontare il problema? Potresti dirglielo in privato, che puzza, propose William. Così non si imbarazza. Si potrebbe dirle di non puzzare, aggiunse Guillermo. Potremmo tapparci tutti il naso, disse Peter. Ancora non voleva ammettere di essere stato inopportuno, con le sue parole. Non servirebbe, Peter, disse William. Non potremmo più respirare. Certo che potremmo, invece. Potremmo respirare con la bocca. Scoppiai a ridere. Provate tutti a fare come dice Peter. Anche tu, Peter. Tutti, tranne Sheila, si tapparono il naso e respirarono con la bocca. La esortai a fare come gli altri, ma lei non ne volle sapere. Dopo pochi minuti, tutti, compresi Freddie e Max, scoppiarono a ridere per le facce che facevamo. Tutti tranne Sheila. Cominciai a temere che prendesse quel gioco come uno scherzo a spese sue e mi affrettai a spiegare che non era così. Lei mi ignorò; non mi guardò nemmeno. Le dissi che era così che risolvevamo i nostri problemi. Che cosa ne pensi, di tutto questo? le chiesi alla fine. Ci fu un lungo silenzio, denso della nostra attesa. Gli altri bambini cominciavano a inquietarsi. Non parla? Neanch'io parlavo, te lo ricordi? intervenne Sarah. Quando ero matta non parlavo mai con nessuno. Abbassò lo sguardo su Sheila. Non parlavo mai, Sheila. So che cosa provi. Bene, per oggi abbiamo tormentato abbastanza Sheila. Lasciamole un po' di tempo per abituarsi a noi, va bene? Proseguimmo con la discussione del mattino e poi, per tirarci su, concludemmo cantando in coro You Are My Sunshine. Freddie portava il tempo battendo allegramente le mani; Guillermo dirigeva agitando le braccia; Peter cantava con quanto fiato aveva in gola; e io muovevo Tyler come fosse una bambola di pezza. Ma Sheila se ne stava seduta, buia in viso, il corpicino raccolto e irrigidito. Dopo, ci preparammo alle esercitazioni di matematica. Mentre Anton disponeva gli altri ai loro posti, io accompagnai Sheila a fare il giro dell'aula. O meglio, non l'accompagnai: dovetti prenderla in braccio e portarla da un punto all'altro della stanza, perché lei non muoveva un passo. Ringraziai il cielo di non avere alunni più grandi. Quando arrivavo in un punto dove volevo mostrarle qualcosa, lei si rifiutava di guardare e si copriva la faccia con le mani. Ma io continuavo a trascinarmela in giro, decisa a farla diventare parte integrante del gruppo. Le feci vedere il suo armadietto ,e il suo gancio per il cappotto. Le presentai Charles, l'iguana, Benny, il serpente, e Cipolla, il coniglio, che aveva l'abitudine di mordere chi lo stuzzicava troppo. Le indicai le piante che avevamo seminato prima di Natale e che avevo dovuto innaffiare io durante le vacanze; e i libri di racconti che leggevamo ogni giorno prima del pranzo; e le stoviglie che ci servivano per cucinare, ogni mercoledì pomeriggio. Le mostrai l'acquario e i giocattoli. E la
sollevai per farle vedere il panorama che offriva la nostra unica finestra. Tutto questo, trascinandola di qua e di là, chiacchierando come se lei fosse molto interessata alle cose che le dicevo. Ma se lo era, non lo mostrava affatto. Rimaneva un peso morto fra le mie braccia, rigida e tesa contro il mio corpo. E puzzava come una latrina pubblica in un afoso pomeriggio di luglio. Alla fine, la depositai su una sedia accanto a un tavolo e tirai fuori la scheda di un test di matematica. Fu questo a provocare la sua prima reazione. Mi strappò di mano il foglio, lo accartocciò e me lo tirò addosso. Ne presi un altro. Fece lo stesso. Ne presi un altro ancora. E di nuovo, il foglio mi arrivò in faccia. Sapevo che, prima che lei esaurisse le forze, io avrei esaurito i fogli. Allora me la presi sulle ginocchia e con un braccio strinsi quel suo corpicino teso, in modo che non potesse muovere le mani. Posai sul tavolo un'altra scheda. Si trattava di addizioni: due più uno, uno più quattro, niente di difficile. Con il braccio libero tirai verso di me un vassoio con i cubi e li sparsi sul tavolo. Bene, ora si fa matematica, annunciai. Problema numero uno: due più uno. Presi due cubi e ne aggiunsi un terzo. Quanti sono? Contiamoli. Lei girò di scatto la testa, tenendo il corpo irrigidito contro il mio. Sai contare, Sheila? Nessuna risposta. Forza, ti aiuto io. Uno, due, tre. Due più uno fa tre. Presi una matita. Ecco, adesso lo scriviamo. Per ogni cosa una lotta. Dovetti prenderle una mano, aprirle a forza le dita e farle impugnare una matita. Di colpo allentò le dita, la matita scivolò via e cadde a terra. Mentre mi chinavo a raccoglierla, lei afferrò due cubi con la mano libera e li scagliò lontano, attraverso la stanza. La bloccai, tentai di chiuderle le dita intorno alla matita e le serrai la mano nella mia perché la matita non cadesse a terra di nuovo. Ma lei aveva un vantaggio: poiché ero mancina, dovevo usare il braccio sinistro per tenerla ferma sulle mie ginocchia. E, dovendo usare la destra per compiere tutti quei movimenti, non ero abbastanza veloce. Forse non lo sarei stata nemmeno avendo la sinistra libera. Lei era abilissima, in quella piccola guerriglia, e la matita cadde ancora. Dopo un'altra battaglia mi arresi. A quanto pare non hai voglia di fare matematica. D'accordo, puoi rimanere seduta. Devo dirti che qui dentro ciascuno fa il proprio lavoro e tutti cercano di farlo come meglio possono. Ma non voglio litigare per questo. Vuoi startene seduta? Stattene seduta. La trascinai all'angolo dove isolavo i bambini quando erano sovraeccitati e avevano bisogno di riprendere l'autocontrollo, o quando si comportavano male tanto per attirare l'attenzione. Scostai una sedia e ci feci sedere Sheila. Poi tornai dagli altri bambini. Dopo qualche minuto alzai gli occhi. Sheila, se vuoi, puoi venire qui con noi. Rimase seduta, immobile, con la faccia rivolta verso il muro. La lasciai stare. Poco dopo, ci riprovai. E ancora una volta, dopo qualche minuto. Era chiaro, non aveva
nessuna intenzione di fare quello che le chiedevo. Allora andai da lei e trascinai la sedia verso il centro dell'aula con lei sopra. Poi ritornai dagli altri. Se voleva, poteva stare seduta. Ma non le avrei consentito di isolarsi da noi. Se voleva rimanere seduta, doveva sedere in mezzo a noi. La mattinata proseguì col solito ritmo. Sheila non partecipò a nessuna attività. Una volta piazzata su quella sedia, non si mosse più, se non per rannicchiarsi, piegando le ginocchia sotto il mento e abbracciandole. Si alzò soltanto una volta, per andare in bagno, ma poi ritornò al suo posto e riprese la stessa posizione. Se ne rimase seduta anche durante la ricreazione; ma questa volta sul cemento gelido del pavimento. Non avevo mai visto una bambina tanto capace di starsene immobile. Ma con gli occhi mi seguiva sempre, dappertutto. Occhi che covavano rabbia e rancore, che non si staccavano mai dalla mia faccia. Quando venne l'ora di pranzo, Anton aiutò i bambini a prepararsi per lo spostamento dalla dependance alla mensa. Sheila si era messa in fila, ma io andai a tirarla fuori dal gruppo, prendendola per uno dei suoi polsi scarni. Aspettammo che gli altri si allontanassero. Poi abbassai lo sguardo su di lei e lei guardò in su, verso di me. Per un attimo, mi sembrò di vedere nei suoi occhi il lampo di un sentimento che era diverso dall'odio, diverso dalla collera. Paura, forse? Vieni qui. La trascinai verso il tavolo e la misi a sedere su una sedia di fronte a me. Io e te dobbiamo chiarire alcune cose. Mi lanciò un'occhiata minacciosa, sollevando le sue spallucce sotto la maglia logora. In questa classe non ci sono molte regole. Ne abbiamo soltanto due, per la verità, a meno che non ci sia bisogno di qualche regola speciale nei momenti speciali. La prima è che non si può far male a nessuno, qui dentro. E neppure fuori. E nemmeno a se stessi. La seconda è che ognuno deve cercare di dare il meglio di sé. Questa è la regola che forse non ti è ancora ben chiara. Abbassò appena la testa, ma continuando a fissarmi. Sollevò le ginocchia e cominciò a raggomitolarsi. Vedi, una delle cose che devi fare, qui, è parlare. So che è difficile, se non ci sei abituata. Ma qui si parla. Questo fa parte di quello che intendo, quando dico dare il meglio. La prima volta è sempre difficile, e capita che si abbia voglia di piangere. E qui si può anche piangere; però devi parlare. Vedrai che prima o poi lo farai. E prima lo farai meglio sarà. La guardai, cercando di sostenere il suo sguardo fermo. È chiaro? Si fece rossa di rabbia. Avevo paura di quello che poteva succedere, se tutto quell'odio esplodeva, ma cercai di soffocarla, la mia paura, perché non trapelasse dai miei occhi. Lei era molto brava, a leggere negli occhi degli altri. Ero sempre stata fermamente convinta che fosse giusto far sapere ai bambini che cosa mi aspettavo da loro. Alcuni colleghi, pensando alla loro fragilità emotiva, si mostravano scettici nei confronti dei modi diretti che usavo con
loro. Ma io ero di parere diverso. È vero che erano tutti bambini dalla personalità disgregata, ma nessuno di loro era fragile. Anzi, il fatto che fossero sopravvissuti tanto a lungo dopo quello che avevano passato era una testimonianza della loro forza. Tutti, comunque, vivevano una vita caotica e, a causa dei loro disturbi, portavano il caos anche fra gli altri. Io capivo di non avere il diritto di aggiungere altro disordine a quello in cui già vivevano, lasciando loro il compito di indovinare quali progressi mi aspettassi. Mi pareva che, per tutti loro, tracciare uno schema da seguire fosse utile e produttivo, poiché cancellava qualsiasi ombra nei nostri rapporti. Naturalmente avevano già dimostrato di non essere in grado di affrontare da soli i propri limiti, altrimenti non sarebbero stati lì, in quella classe. Non appena fossero stati in grado di affrontarli, avrei cominciato il processo di trasferimento del potere dalle mie alle loro mani. Ma all'inizio volevo che non ci fossero dubbi su ciò che mi aspettavo da loro. Così, Sheila e io eravamo sedute lì, in un silenzio gelido, mentre lei ancora digeriva le mie parole. Non insistetti a fissarla per costringerla ad abbassare lo sguardo, né sentii il bisogno di farlo. Poco dopo mi alzai e andai a raccogliere le schede di matematica per correggerle. Non ce la fai, a farmi parlare. Continuai a rovistare tra i fogli in cerca della penna. Essere una buona insegnante significa, per il settantacinque per cento, calcolare ritmo e tempi giusti. Ho detto che non ce la fai, a farmi parlare. Non ce la fai. La guardai. Non ce la fai. No, non ce la faccio, a costringerti a parlare. E sorrisi. Ma tu parlerai. È uno dei compiti che devi fare, qui. Non mi piaci. Non devo piacerti per forza. Ti odio. Non risposi. Avevo imparato che quella era una delle dichiarazioni alle quali, generalmente, è meglio non rispondere. Così continuai a cercare la penna, chiedendomi chi se l'era portata via, questa volta. Tu non riuscirai a farmi fare niente, qui. Non riuscirai a farmi parlare. Forse no. Lasciai le schede e mi avvicinai a lei. Andiamo a mangiare? Le tesi la mano. Un po' della sua rabbia si era dissipata e aveva lasciato il posto a un sentimento meno intelligibile. Poi, senza che avessi bisogno di insistere ancora, si alzò dalla sua seggiolina e mi seguì, badando a non toccarmi. CAPITOLO SECONDO Dopo aver accompagnato Sheila fino in sala da pranzo, mi ritirai nel mio ufficio per dare un'occhiata al suo fascicolo. Volevo sapere che cosa avevano fatto gli altri con una bambina tanto difficile. Osservandola, era chiaro che non soffriva di quei disturbi inspiegabili, paralizzanti, manifestati da Max e Susannah. Era sorprendente, invece, la sua capacità di autocontrollo, superiore a quella di qualsiasi altro mio allievo. Dietro quegli occhi colmi di odio, vedevo una ragazzina ricca di intuito e quasi certamente intelligente. Una bambina in grado di gestire il proprio mondo
con tanta consapevolezza non poteva non esserlo. Volevo sapere quali tentativi erano stati fatti prima, con lei. Il fascicolo era stranamente sottile, in confronto a quelli che mi arrivavano di solito. I miei bambini avevano, generalmente, dossier voluminosi, zeppi di fogli, pieni di verbose opinioni emesse da dozzine di medici, terapisti, giudici, assistenti sociali. Ogni volta che leggevo uno di quei fascicoli capivo chiaramente che gli autori non avevano mai lavorato giorno per giorno, ora per ora, con il bambino di cui parlavano. Erano scritti pieni di dottrina, ma non aiutavano un'insegnante disperata o dei genitori terrorizzati. Mi sembrava impossibile che si potessero scrivere parole come quelle. Nella realtà, quei bambini erano tanto diversi tra loro e crescevano in modo tanto imprevedibile che l'esperienza diretta e quotidiana era l'unico punto di riferimento possibile per programmare il giorno successivo. Non esistevano manuali o corsi universitari per specializzarsi in Max o William o Peter. Ma il fascicolo di Sheila era sottile, due o tre fogli in tutto: la storia della sua famiglia, i risultati degli esami e i moduli standard dei servizi d'assistenza. Sfogliai il rapporto sulla famiglia, preparato dagli assistenti sociali. Come tanti altri rapporti analoghi conservati nel mio ufficio, era pieno di dettagli sinistri che, nonostante tutta la mia esperienza, la mia mentalità borghese non riusciva a capire fino in fondo. Sheila abitava col padre, in un prefabbricato del campo degli stagionali, una casupola senza riscaldamento né acqua corrente né elettricità. La madre aveva abbandonato Sheila due anni prima, ma si era portata via il figlio più piccolo. Adesso, diceva il rapporto, viveva in California, ma non si sapeva dove. Aveva soltanto quattordici anni quando, due mesi dopo un matrimonio obbligato, era nata Sheila; il padre, invece, ne aveva trenta. Adesso la madre aveva soltanto vent'anni: anche lei poco più che una bambina. Il padre aveva trascorso in carcere gran parte dei primi anni della vita di Sheila, per aggressione e percosse. Dopo il rilascio, due anni e mezzo prima, era stato ricoverato all'ospedale dello stato, per alcolismo e tossicodipendenza. Sheila intanto passava da un parente all'altro, soprattutto tra quelli materni, e da un amico all'altro, finché era stata abbandonata in autostrada, dove era stata trovata aggrappata al guard-rail tra le carreggiate. All'istituto dei minori a Sheila, che allora aveva quattro anni, erano state riscontrate numerose abrasioni e fratture, dovute tutte ad atti di violenza. Tolta alla tutela del padre, era stata affidata all'assistente sociale. Da una dichiarazione del tribunale, allegata al fascicolo, risultava che secondo il giudice la bambina doveva essere lasciata alla sua famiglia naturale. Un medico nominato dalla contea aveva scribacchiato in fondo alla pagina che la causa probabile della piccola statura della bambina era probabilmente la denutrizione, ma che per il resto si trattava di una femmina di razza bianca sana, che presentava cicatrici di ferite ben rimarginate e fratture risolte. Alle
due dichiarazioni si aggiungeva un foglietto scritto di pugno del consulente psichiatra della contea, con una sola frase: disadattamento cronico infantile. Non potei trattenere un sorriso. Che acuta conclusione aveva tratto quest'uomo ! Quanto ci era di aiuto, a tutti quanti! L'unica reazione normale a un'infanzia come quella di Sheila non poteva essere che il disadattamento cronico. Chi si fosse mai adattato all'oscenità di una esistenza del genere, quello si sarebbe dimostrato infermo di mente! I risultati dei test erano ancora più avvilenti. Accanto a ogni voce, c'era scritto, con una formula tanto concisa quanto scoraggiante: rifiuta il test. Nella diagnosi finale si concludeva semplicemente che la bambina non era valutabile e la frase era sottolineata due volte. Il questionario dei Servizi Speciali conteneva soltanto dati di rilevanza demografica. Il padre aveva compilato il modulo ed era stato in prigione per tutti quegli anni cruciali. Sheila era nata in un ospedale locale e, almeno alle apparenze, senza alcuna complicazione. Dei suoi primi anni di vita non si sapeva nulla. Nella sua breve carriera scolastica aveva frequentato tre scuole diverse, esclusa quella in cui si trovava ora. Ogni provvedimento preso nei suoi confronti era stato motivato dal suo comportamento incontrollabile. Si riferiva che a casa mangiava e dormiva regolarmente, ma bagnava il letto ogni notte e si succhiava il pollice. Fra i bambini del campo non aveva amici; né risultava che avesse alcun rapporto stabile con adulti. Il padre aveva scritto che era selvaggia, intrattabile e ostile, anche a lui. In casa parlava senza regolarità, in genere quando era arrabbiata. Non piangeva mai. Mi fermai e rilessi la frase. Non piangeva mai? Non riuscivo a immaginare una creatura di sei anni che non piangesse. Ma forse il padre aveva sbagliato. Forse intendeva dire che piangeva raramente. Sì, doveva esserci un errore. Ripresi a leggere. Il padre riferiva che era una bambina capricciosa e che spesso la castigava, di solito con le botte o togliendole alcune concessioni. Mi domandai quali concessioni ci potessero essere, da toglierle. Oltre che per l'episodio del bambino, era stata punita per aver appiccato più volte il fuoco nel campo e per aver sporcato di escrementi il gabinetto di una stazione d'autobus. A sei anni e mezzo, Sheila aveva avuto a che fare con la polizia già per tre volte. Fissavo il fascicolo e quelle scarse, disordinate osservazioni. Non sarebbe stato facile amare quella bambina; perché faceva di tutto per non farsi amare. E non sarebbe stato facile nemmeno insegnarle qualcosa. Ma non era del tutto irrecuperabile. Nonostante le apparenze, probabilmente Sheila era meno irraggiungibile di Susannah Joy o di Freddie, poiché nulla lasciava supporre che fosse impedita da uno sviluppo mentale ritardato, da una disfunzione neurologica o da qualche altro mistero del cervello umano. Dalle notizie che ero riuscita a racimolare, Sheila era una bambina normale, da quel punto di vista. E questo rendeva ancora più dura la mia futura lotta, poiché sapevo che l'esito dipendeva soltanto da noi. Quando si fallisce con bambini come Sheila, non ci si può trincerare dietro diagnosi elaborate o coperture quali l'autismo o le lesioni cerebrali. Potevamo contare solo su di noi. Nel profondo di
quegli occhi ostili c'era una bambina, una creatura piccolissima che aveva già imparato che la vita non è un gran divertimento, per nessuno; e che il modo migliore per evitare di essere ancora una volta rifiutati è rendersi quanto più possibile sgradevoli. Dopodiché non ci si può più stupire, se si scopre di non essere amati. Semplice. Mentre stavo sfogliando il fascicolo entrò Anton. Accostò una sedia alla mia e cominciò a prendere i fogli man mano che finivo di leggerli. Nonostante le incertezze degli inizi, ormai Anton e io eravamo diventati una squadra ben affiatata e funzionante. Sapeva lavorare con quei bambini. Avendo sempre vissuto nei campi, prima di allora, e vivendo tuttora fra gli stagionali, in una baracca, con la moglie e i due figli, conosceva molto più a fondo di me il mondo dal quale provenivano i miei bambini. Io avevo il mio addestramento, la mia esperienza e i miei studi, ma Anton aveva l'istinto e il buon senso. Certi aspetti della loro vita io non li avrei mai capiti, perché, nella mia esistenza, una casa riscaldata e la libertà dalla violenza, dalla fame e dagli scarafaggi erano tutte cose scontate. Non avevo mai avuto motivo di pensare il contrario. Adesso che ero adulta, avevo imparato che altre persone vivevano in modo diverso dal mio, e che, per loro, quel modo era perfettamente normale. Tutto questo riuscivo ad accettarlo, ma non a capirlo. Credo che nessuno lo possa, a meno di viverlo in prima persona. Chiunque altro pretenda di capire qualcosa di più o mente a se stesso o è un illuso presuntuoso. Ma Anton suppliva alle mie carenze e insieme eravamo riusciti a costruire un rapporto di sostegno reciproco. Senza che nessuno gli dovesse dire nulla, ormai capiva come, quando e chi aiutare. Il fatto che Anton parlasse lo spagnolo - lingua che io non conoscevo - costituiva un vantaggio in più: Mi salvava in tutte le innumerevoli occasioni in cui Guillermo si spingeva con l'inglese al di là delle proprie capacità. Adesso Anton era seduto accanto a me a leggere in silenzio il fascicolo di Sheila. Come si è comportata a pranzo? Fece un cenno di approvazione senza distogliere lo sguardo dal foglio. Bene. Mangia come se non avesse mai toccato cibo. E forse è proprio così. E, oh, ha certe maniere! Ma se n'è stata seduta con gli altri senza dare fastidio. Conosci suo padre, al campo? No, abita all'altro lato del campo, dove stanno i bianchi. Lì ci sono tutti i tossici. Non ci andiamo mai. In quel momento entrò Whitney, che si appoggiò al ripiano. Era carina, a modo suo: alta, sottile, occhi color nocciola e capelli lunghi e lisci, biondo pallido. Benché fosse una studentessa brillante e provenisse da una delle famiglie più importanti della comunità, era tormentata da una timidezza enorme. Per un po', subito dopo l'arrivo, aveva fatto i suoi compiti in gran silenzio e senza mai guardarmi negli occhi, sempre sorridendo nervosamente, anche nei momenti di difficoltà. Le rare volte in cui parlava, era per criticare il proprio lavoro, sminuirsi o scusarsi di fare tutto male. Purtroppo, all'inizio tutto sembrava darle ragione. Whitney commetteva ogni errore possibile. Aveva
rovesciato sul pavimento della palestra due litri di tempera verde appena miscelata; aveva dimenticato Freddie ai gabinetti del campo giochi; e un pomeriggio, dopo la scuola, se n'era andata lasciando socchiusa la porta dell'aula, così che il nostro boa aveva potuto fuggire e far visita alla signora Anderson, l'insegnante della prima. Per me, avere Whitney era come avere un'altra bambina. Se in quel periodo non avessi avuto tanto bisogno di un altro paio di mani per tirare avanti, forse non avrei avuto tanta pazienza con lei. In quelle prime settimane dovevo sempre spiegare e rispiegare tutto, sempre ripulire il pavimento di qualche disastro, e dire sempre Non importa, anche quando non era vero. Whitney piangeva in continuazione. Ma, come per Anton, anche per Whitney ne era valsa la pena, perché ai bambini voleva bene. Whitney ci era molto legata. Sapevo che a volte saltava le sue lezioni per rimanere un po' di più con noi, e spesso veniva ad aiutarmi durante l'ora d'intervallo per il pranzo o dopo la scuola. Portò da casa dei giocattoli che non usava più. E a me riferiva delle idee trovate sulle riviste di didattica che leggeva nel tempo libero. Sempre con quello sguardo avido di apprezzamento. Whitney parlava di rado della vita che conduceva al di fuori della scuola. Ma, nonostante l'agiatezza e il nome importante della sua famiglia, avevo il sospetto che lei non stesse poi tanto meglio dei bambini ai quali insegnavo. Perciò tolleravo la sua goffaggine e inettitudine, e cercavo di farla sentire come una componente preziosa della nostra squadra. Perché lo era. È arrivata la nuova bambina?, chiese Whitney piegandosi sul tavolo, e coprendo così con i lunghi capelli il foglio che leggevo. Sì, dissi, e le raccontai in breve gli avvenimenti della mattinata. Fu allora che udii il grido. Sapevo che si trattava di uno dei miei bambini. Nessuno di quelli delle classi normali aveva note di disperazione tanto acute e vibranti nella propria voce, quando urlava. Guardai interrogativamente Anton. Whitney andò a guardare, fuori dalla porta. Tyler arrivò di gran carriera, ansimante. Con le mani ci faceva segno di uscire, ma la spiegazione rimaneva soffocata nei singhiozzi. Poi fece dietro-front e corse via. Noi tre ci lanciammo dietro di lei, verso la porta che portava alla dependance. Durante l'ora di pranzo, di solito, responsabili dei bambini erano i sorveglianti della mensa. Nei mesi più freddi i bambini giocavano nelle aule e i sorveglianti passeggiavano avanti e indietro nei corridoi per mantenere l'ordine. Io continuavo a ripetere che i miei bambini non potevano mai essere lasciati incustoditi, ma i sorveglianti non avevano nessuna voglia di badare alla nostra aula e, per non farlo, se ne stavano fuori dalla porta che portava alla dependance, con le orecchie aperte per cogliere i segnali di un eventuale disastro. I miei bambini avevano l'ultimo turno alla mensa, e questo voleva dire che la vigilanza effettiva si riduceva a venti minuti. Eppure
i sorveglianti protestavano e si rifiutavano di rimanere nella nostra aula. Di solito li ignoravo: avevo faticato per instillare nei bambini la capacità di cavarsela da soli, senza la mia presenza. L'ora del pranzo diventava, così, un modo per saggiare quotidianamente questa loro capacità d'indipendenza. E poi tutt'e due, Anton e io, avevamo un gran bisogno di quella mezz'ora di intervallo. A volte, tuttavia, capitava ancora che la situazione ci sfuggisse di mano. Mentre correvamo, Tyler biascicava qualcosa tra le lacrime, qualcosa di cui si capiva soltanto occhi e bambina nuova. Entrai come una furia in un'aula che era in pieno caos. Sheila, con aria di sfida, se ne stava in piedi vicino all'acquario. A quanto pareva, aveva preso i pesciolini rossi e a tutti, uno per uno, aveva trafitto gli occhi con una matita. Sette o otto pesciolini, a terra, si dibattevano disperatamente intorno a una sedia, con gli occhi devastati. Sheila ne serrava forte uno nella mano destra e se ne stava in piedi, minacciosa, impugnando la matita con la sinistra. Vicino a lei, una sorvegliante saltellava nervosamente qua e là, troppo spaventata per tentare di disarmarla. Sarah gemeva, Max strillava e volteggiava per la stanza agitando le braccia. Mettilo giù! urlai, con il tono più autoritario che seppi trovare. Sheila mi guardò feroce e agitò la matita eloquentemente. Non dubitavo che, provocata, avrebbe attaccato. I suoi occhi avevano l'infocata ferocia dell'animale minacciato. I pesci si dimenavano invano, lasciando macchiette di sangue sul pavimento quando lo toccavano con le loro orbite cave. Max ne schiacciò uno correndo per la stanza. Di colpo, uno strillo acuto punse l'aria. Dietro di noi era entrata Susannah. Aveva una fobia psicotica del sangue, così come di ogni liquido rosso, e quando lo vedeva nella realtà o in una allucinazione - entrava in un delirio di urla agghiaccianti, schizzando senza senso qua e là. Adesso, vedendo i pesci, attraversò a razzo la stanza. Anton fece per rincorrerla e io ne approfittai per cogliere di sorpresa Sheila e disarmarla. Ma lei non si era distratta come credevo. Mi ficcò la matita in un braccio con tanta violenza che per un attimo rimase lì appesa, oscillando, prima di cadere. Ero troppo confusa per sentire un vero e proprio dolore. Anche Freddie, come Max, aveva preso a volteggiare per la stanza. Tyler piangeva; Guillermo si era rifugiato sotto il tavolo; William singhiozzava, in piedi in un angolo. Whitney era impegnata a cercare di catturare Max e Freddie mentre loro, urlando, vorticavano per tutto il perimetro della stanza. Il chiasso era insopportabile. Torey! fu l'urlo che arrivò da William. Peter ha un attacco! Mi girai e vidi Peter piombare a terra. Affidai Sheila alle mani di Whitney, corsi da Peter e scostai le sedie in mezzo alle quali era caduto. Sheila diede a Whitney un calcio negli stinchi, che si udì distintamente, e si conquistò così la libertà. Dopo qualche secondo era fuori dalla porta. Io mi gettai sul pavimento accanto a Peter, che ancora si contorceva in preda all'attacco, e sentivo su di me tutto il peso di quanto stava succedendo. Erano bastati pochi minuti. Avevamo perso tutti quel tenue controllo che avevamo faticato tanto a ottenere. I piccoli piangevano, tutti tranne Peter. Sarah, Tyler e William gemevano, standosene ai margini della scena,
appiccicati l'uno contro l'altro per far scudo contro la catastrofe. Guillermo singhiozzava, dal suo rifugio sotto il tavolo. Teneva le mani sopra la testa per proteggersi e invocava la madre in spagnolo. Susannah si agitava freneticamente nelle braccia di Anton. Max e Freddie, in delirio, continuavano a correre per tutta la stanza, urtando mobili e bambini per poi riprendere la corsa. Peter era fra le mie braccia, incapace di connettere. Mi guardai attorno. Whitney era scomparsa dietro a Sheila. La sorvegliante se n'era andata via da tempo. Era tutto a pezzi. Dopo mesi e mesi di fatiche, di attenzioni, non restava più niente. Sulla porta comparvero il signor Collins e la segretaria della scuola. In condizioni normali, sarei inorridita all'idea che Collins vedesse la mia classe così sottosopra. Ma ormai era tutto fuori controllo e io avevo bisogno di aiuto. Dovevo ammetterlo. In tanti anni di lavoro, tra lui e me, ero riuscita a domare i miei piccoli matti e non avevamo mai fatto grandi passi falsi. Ma ora avevo fallito. Proprio come lui aveva sempre predetto. I miei matti, alla fine, si erano slegati. Sapevo che lui stava ringraziando Dio per aver deciso di metterci nella dependance, dove nessuno poteva vedere. La segretaria portò Peter in infermeria per farlo accompagnare a casa: aveva sempre bisogno di dormire, dopo un attacco grave. Collins mi aiutò a raccogliere Freddie e Max e a metterli a sedere sulle sedie. Trascinai fuori da sotto il tavolo il povero Guillermo e me lo tenni tra le braccia. Chissà cosa doveva essergli sembrato tutto quel chiasso, a lui che non vedeva. Anton stava ancora cercando di calmare Susannah Joy. Una volta riconquistata la parvenza di un qualche equilibrio, Tyler e Sarah vollero sedersi nell'angolo della discussione per confortarsi a vicenda. Ma William rimaneva incollato dov'era, tremando e singhiozzando. Collins fece di tutto per calmarlo, ma non riuscì a spingersi fino ad abbracciarlo. Noi continuavamo a pestare pesci morti e a scivolarci sopra, tritando scaglie rosso-dorate che s'infilavano nella moquette. E le nostre scarpe, quando ci camminavano sopra, provocavano uno stridore soffocato. Finalmente, mentre i singhiozzi cominciavano ad attenuarsi, riuscii a radunare tutti i bambini. Whitney e Sheila non c'erano più, ma in quel momento non potevo pensarci. Collins aveva avuto il buon gusto di non domandare che cos'era successo. Con una faccia imperscrutabile, aveva fatto soltanto quello che gli avevo chiesto. Quando tutti i bambini furono sistemati, lo ringraziai sulla porta per l'aiuto e gli chiesi se poteva mandarmi Mary, un'assistente di ruolo, che l'anno prima mi era stata di valido aiuto. Ne avevo ancora una a piede libero, gli spiegai, e il pomeriggio si annunciava difficile. Con un adulto in più, avremmo potuto tenere occupati, individualmente, più bambini e tentare di rimetterci in sesto.
Arrivò Mary e iibambini l'aiutarono a scegliere una storia da raccontare e io andai in cerca di Sheila. Quando era scappata via, il labirinto di porte e corridoi che ci collegavano all'edificio principale doveva averla confusa. Whitney era riuscita a bloccare le uscite prima che Sheila le trovasse, e la piccola era rimasta intrappolata dirigendosi verso la palestra, più per caso che intenzionalmente. Whitney si trovava sulla porta di una stanza enorme, cavernosa, e Sheila era all'estremità opposta. Whitney, immobile al suo posto, aveva la faccia rigata di lacrime. Mi si strinse il cuore, a vederla così. Era troppo per una ragazza di quattordici anni. Non avrei mai dovuto metterla in una situazione come quella. Ma la mia scorta di miracoli si era esaurita. Due adulti, da soli, non potevano controllare tutti quei piccoli malati. Avevo tirato avanti con un po' di fortuna, e adesso la fortuna si era esaurita. Entrai nella palestra, diedi a Whitney un buffetto d'incoraggiamento e mi avvicinai a Sheila. Era chiaro che non aveva alcuna intenzione di farsi prendere. Gli occhi avevano un'espressione selvaggia e la faccia era accesa di terrore. Ogni volta che mi avvicinavo un po' di più, lei si spostava rapida in un'altra direzione. Io cercavo di parlarle con dolcezza, con toni miti e persuasivi. Ma la voce mi tremava per la concitazione. Piano piano scivolavo verso di lei, ma non c'era niente da fare: lei sarebbe sempre riuscita a sfuggirmi, in quell'enorme palestra. Mi fermai e mi guardai intorno, cercando disperatamente di farmi venire un'idea. Dovevo prendere Sheila. Nei suoi occhi si rifletteva il panico incontrollato che la possedeva. Si era spinta oltre i limiti della sua stessa comprensione e ormai reagiva soltanto con l'istinto di un animale. In quelle condizioni era molto più pericolosa per se stessa e per gli altri che non in classe, coi pesci rossi. Non sapevo cosa fare. La testa mi pulsava. E mi pulsava anche il braccio, nel punto in cui si era conficcata la matita. La manica della camicia si era impregnata di sangue. Se le si fosse avvicinata più d'una persona, si sarebbe certamente terrorizzata ancora di più. Se fossimo riusciti a chiuderla in trappola, la sua irrazionalità si sarebbe acuita. Doveva rilassarsi e riprendere un po' di autocontrollo. Era troppo pericolosa così com'era. Nonostante la sua statura e la sua età, sapevo per esperienza che, in quelle condizioni, era davvero una minaccia: se non per me, almeno per se stessa. Tornai da Whitney e le dissi di rientrare in aula e di riferire ad Anton che doveva cavarsela come poteva con Mary. Poi chiusi la porta della palestra. Feci scorrere il pesante divisorio che separava la stanza in due settori, poiché ricordavo che aveva una porta con serratura. Non potevo permettermi di farla scappare di nuovo. Poi, chiuse insieme nella metà più discosta della palestra, mi avvicinai a lei quanto più osai e mi sedetti. Ci guardammo. Nei suoi occhi brillava un terrore folle. La vedevo tremare. Non ti farò del male, Sheila. Non ti farò del male. Voglio solo aspettare che tu non abbia più paura, e poi torneremo in classe. Non sono arrabbiata. E non voglio farti del
male. I minuti passavano. Mi spinsi un po' più avanti. Lei mi guardava fisso. Il tremore la scuoteva tutta, vedevo le sue spallucce scarne vibrare. Ma non mosse un passo. Mi ero arrabbiata con lei. Dio mio, come mi ero arrabbiata. Mi ero inferocita, quando avevo visto i nostri pesciolini a terra, con le orbite cave. Non tolleravo la crudeltà nei confronti degli animali. Ma ora la rabbia era svanita e, guardando Sheila, mi sentivo piena di pietà. Si stava comportando molto coraggiosamente. Per quanto spaventata, stanca e inquieta, rifiutava di arrendersi. Il suo era sempre stato un mondo infido e ora lo affrontava nell'unico modo che sapeva. Non ci conoscevamo; non poteva essere certa che non le avrei fatto del male. Non c'era motivo per cui dovesse fidarsi di me, e infatti non si fidava. Una creaturina così coraggiosa che affrontava tutti noi, tanto più grandi e forti e potenti, senza battere ciglio, senza parole né lacrime. Mi avvicinai impercettibilmente. Eravamo lì ad aspettare da mezz'ora almeno. Ormai ero a tre metri da lei e cominciava a vedere i miei avvicinamenti con sospetto. Mi fermai. Intanto parlavo con dolcezza, le assicuravo che non volevo farle male, che saremmo tornate insieme in classe, che non sarebbe successo niente. Le parlai anche d'altro, di quello che ai bambini piace fare in classe, di quello che ci piaceva fare tutti insieme, di quello che avremmo fatto. Passarono minuti interminabili. L'immobilità mi faceva sentire indolenzita. A lei tremavano le gambe per lo sforzo di stare in piedi tanto a lungo senza muoversi. Ormai era una gara di resistenza. Su quei tre metri che ci separavano si allungava un'eternità. Aspettammo. Il delirio se ne stava andando dai suoi occhi. La stanchezza la sopraffaceva. Mi chiesi che ora era, ma avevo paura di muovere il braccio per guardare l'orologio. Aspettammo ancora. Poi la sua salopette si scurì sul davanti e intorno ai suoi piedi si formò una pozza di urina. Lei la guardò, levando per la prima volta lo sguardo da me. Si morse il labbro inferiore. Quando alzò gli occhi, vi apparve chiaramente tutto l'orrore provato per ciò che era appena successo. Sono cose che capitano. Non potevi andare in bagno, quindi non è proprio colpa tua, dissi. Mi meravigliai che, dopo la rovina seminata in classe, fosse questa la cosa di cui si pentiva. Possiamo pulire, suggerii. In classe tengo degli stracci per quando capitano queste cose. Spostò lo sguardo ancora a terra e poi su di me. Rimasi in silenzio. Indietreggiò cauta di un passo per esaminare meglio la situazione. Mi frusterai? chiese aspra. No. Io non frusto i bambini. Corrugò la fronte. Ti aiuterò a pulire. Non lo saprà nessuno. Sarà il nostro segreto, perché so che è stato un incidente. Io non volevo. Lo so. Mi frusterai? Esasperata, lasciai cadere le spalle. No, Sheila, io non
frusto i bambini. Te l'ho già detto. Lei si guardò la salopette. Papà mi frusta forte quando faccio così. Per tutto il colloquio ero rimasta immobile dov'ero, temendo di spezzare quel debole legame. Adesso ci pensiamo noi, vedrai. Abbiamo ancora un po' di tempo prima che sia ora di andare a casa. Si asciugherà, intanto. Si strofinò il naso, guardò la pozza e poi guardò me. Per la prima volta da quando era arrivata, sembrava incerta. Molto lentamente mi alzai in piedi. Lei indietreggiò di un passo. Le tesi un braccio. Su, adesso andiamo a prendere qualcosa per pulire. Non preoccuparti. Mi guardò per un lungo istante. poi venne cautamente verso di me. Non volle darmi la mano ma mi seguì, standomi al fianco, fino in classe. Nell'aula era tornato tutto più tranquillo. Anton e i bambini cantavano. Whitney teneva in braccio Susannah e Mary cullava Max. I pesci morti erano spariti. Alcuni bambini si voltarono a guardarci, ma io feci segno ad Anton di tenerli occupati. Sheila prese gli stracci e il secchio dalle mie mani e insieme tornammo alla palestra e pulimmo il pavimento senza parlare. Poi mi seguì ancora fino in classe. Stranamente, il resto del pomeriggio trascorse tranquillo. I bambini erano come frenati, timorosi di spezzare di nuovo il proprio fragile equilibrio. Sheila si ritirò sulla sedia che aveva occupato per tutta la mattinata, ci si rannicchiò sopra e si mise il pollice in bocca. Non si mosse per il resto del pomeriggio. Però ci osservò tutto il tempo. I suoi occhi erano imperscrutabili. Andai da tutti i bambini, a uno a uno, per coccolarli e parlare, tentando di acquietare quei sentimenti che non sapevano esprimere. Infine arrivai da Sheila. Sedendomi a terra accanto alla sua sedia, alzai gli occhi su di lei. Mi guardò seria, col pollice ancora in bocca. Su di lei si leggeva tutto il peso degli eventi del pomeriggio. Non feci nessun tentativo di toccarla. Anton stava aiutando gli altri a fare gli esercizi e nessuno ci guardava. Non volevo spaventarla con qualche gesto troppo intimo, però volevo che sapesse che tenevo a lei. È stato un pomeriggio un po' pesante, vero? dissi. Lei non reagì, se non fissandomi. Dalla posizione in cui ero, potevo beneficiare di tutto il suo odore. Domani andrà meglio, credo. I primi giorni sono sempre i più duri. Cercai di leggere i suoi occhi per avere un'idea di quello che le passava per la testa. L'aperta ostilità era svanita, almeno per il momento. Altro non vedevo. I pantaloni sono asciutti? Si raddrizzò e si alzò in piedi per ispezionarli. Erano passabilmente asciutti, con il perimetro della macchia umida appena distinguibile dal resto della sozzura. Annuì debolmente. Basterà per non metterti nei guai? Di nuovo, annuì quasi impercettibilmente.
Lo spero. A tutti capita di avere incidenti come questi. E in questo caso non è stata colpa tua. Non potevi proprio andare in bagno. Io tenevo a scuola dei vestiti di scorta, perché cose del genere capitavano fin troppo spesso nella nostra classe. Non ne avevo parlato, per non spaventarla con un'eccessiva familiarità. Ma volevo farle sapere che, lì dentro, problemi di quel genere erano del tutto accettabili. Il pollice ruotò nella sua bocca e lei distolse lo sguardo da me per guardare Anton. Le rimasi accanto fino alla fine della giornata. Quando i bambini furono usciti tutti, Anton e io ripulimmo l'aula in silenzio. Né lui né io accennammo a quello che era successo. E non dicemmo molto d'altro. Quella non era stata di certo una delle giornate migliori. Quando tornai a casa, mi lavai la ferita sul braccio e ci misi sopra un cerotto. Poi mi sdraiai sul letto e piansi. Che io volessi riconoscerlo o no, nella mia classe la vita era una continua battaglia. Non soltanto con i bambini ma anche con me stessa. Per cavarmela, giorno per giorno, con quelle piccole pesti, mettevo sotto chiave i miei sentimenti in vari modi, perché avevo constatato che, se non lo facevo, finivo per sentirmi troppo scoraggiata, avvilita, delusa per risultare efficiente. Le mie giornate trascorrevano nello sforzo costante di ricacciare in un angolo le mie paure. Il metodo funzionava, ma di tanto in tanto arrivava un bambino a far vacillare le mie difese. Così venivano fuori tutte le incertezze, le frustrazioni e i dubbi che con tanta cura avevo cercato di ignorare e venivo sopraffatta da un senso di sconfitta. Eppure, in fondo, ero una sognatrice. Al di là del comportamento incomprensibile dei bambini e della mia stessa fragilità, al di là dello sconforto e dei dubbi personali, aleggiava il sogno che le cose potessero cambiare. E poiché ero una sognatrice, il sogno era duro a morire. Questa volta non fece eccezione. Le lacrime ebbero vita breve e mi addormentai. Più tardi, con un panino al tonno in mano, mi sistemai nella poltrona a guardare Star Trek. Non vedevo molto spesso la televisione e non avevo mai visto Star Trek, quando era ancora un programma di successo. Ma ora, a distanza di anni, lo davano sulle televisioni locali ogni sera alle sei. All'inizio dell'anno scolastico quando il processo di armonizzazione all'interno della classe procedeva ancora lentamente e le mie delusioni erano molte, avevo cominciato a vedere quella trasmissione all'ora di cena: era diventato il mio rituale. Divideva la mia giornata di lavoro da tutto il resto, e quell'ora costituiva il mio momento di recupero, il momento in cui mettevo da parte tutti i problemi e le frustrazioni che la scuola mi dava. Spock, meravigliosamente freddo, divenne il mio Martini dopo il lavoro. Così, alle sette, quando arrivò Chad, mi ero ormai ripresa. Chad e io ci vedevamo regolarmente da diciotto mesi. All'inizio la nostra relazione aveva seguito i canoni classici del corteggiamento: innumerevoli inviti a cena, film, balli e conversazioni superficiali. Ma questo genere di cose non
faceva né per lui né per me. Così ci lasciammo scivolare in una calda e comoda alleanza. Chad era socio giovane di uno studio legale del centro e svolgeva, per la maggior parte del tempo, la funzione di avvocato d'ufficio dei barboni e dei vagabondi che si trovavano in carcere. Non aveva alle spalle molte cause vinte, e perciò potevamo trascorrere le nostre serate a confortarci l'un l'altro pensando ai miei bambini e ai suoi clienti. Una volta o due avevamo parlato di matrimonio, ma era finita lì. Eravamo entrambi dei socievoli solitari, soddisfatti dello status quotidiano. Quando arrivò Chad, con due chili di gelato al cioccolato con caramello, preparando le porzioni gli parlai di Sheila. Avevo conosciuto qualcuno capace di tenermi testa, dichiarai con fermezza. La bambina era una selvaggia, e non credevo che sarei stata io a civilizzarla. Prima si fosse liberato un posto all'ospedale, meglio sarebbe stato. Chad rise affettuosamente e mi suggerì di telefonare all'ex insegnante di Sheila. Dopo l'orgia di gelato, sentendomi sazia e un po' raddolcita, cercai sull'elenco il numero della signora Barthuly. Santo cielo, disse la signora quando sentì chi ero e perché chiamavo. Pensavo che l'avessero sistemata da qualche parte. Le spiegai che ancora non si era liberato un posto all'ospedale dello stato e le chiesi che cosa aveva fatto, con Sheila, quando l'aveva avuta nella sua classe. Mi arrivarono quegli indescrivibili schiocchettini della lingua contro i denti con cui si esprime la sconfitta. Mai visto una bambina come quella. Che carica distruttiva! Santo cielo, ogni volta che le toglievo gli occhi di dosso, distruggeva qualcosa. I suoi compiti, i compiti degli altri, le bacheche, i lavoretti artistici, tutto. Una volta prese i cappotti dei compagni e li ficcò nei water dei gabinetti delle bambine. Il seminterrato si allagò. Sospirò. Ho fatto di tutto per fermarla. Ma lei distruggeva il suo compito prima che potessi metterci gli occhi sopra. Allora cominciai a plastificare le sue schede, in modo che non potesse strapparle. Sa che cosa fece? Le buttò nell'impianto di raffreddamento e bloccò il sistema di condizionamento. C'erano trentacinque gradi, e per tre giorni siamo rimasti senz'aria condizionata. E la signora Barthuly si mise a raccontare, uno per uno, tutti gli episodi accaduti. Parlava in fretta, come se non avesse mai avuto prima l'occasione di raccontare il ciclone che si era abbattuto su di lei in quel primo trimestre dell'anno scolastico. Ma poi il ritmo rallentò. Nonostante tutto, Sheila le piaceva. Anche lei era stata attratta dalla stessa forza misteriosa che aveva attratto me. La bimba sembrava tanto vulnerabile, eppure tanto coraggiosa. Avrebbe voluto fare qualcosa per lei, ma non c'era stato verso. Sheila si rifiutava di parlarle. Non voleva essere toccata, né essere aiutata, né piacere. Dapprincipio la signora Barthuly aveva cercato di essere gentile. Aveva tentato di mostrare dell'affetto per quella bambina sgradevole, di coinvolgerla in attività speciali, di offrirle qualche attenzione in più. Lo psicologo della scuola aveva preparato dei programmi di controllo del comportamento intesi a premiare la buona condotta di Sheila. Ma sembrava che la piccola provasse gusto
a non fare mai le cose che era stato deciso di premiare. La Barthuly era convinta che facesse apposta a mandare per aria i programmi, arrivando persino a smettere di fare qualcosa che aveva fin lì fatto bene quando quella cosa veniva inclusa nel programma. E allora l'insegnante aveva cercato di frenare le sue bizzarrie ricorrendo alla severità. Le aveva tolto alcune concessioni, l'aveva confinata nell'angolo delle punizioni e alla fine l'aveva mandata dal direttore per farla sculacciare. Ma Sheila continuava a terrorizzare la classe, aggredendo i compagni, distruggendo le suppellettili e rifiutandosi di lavorare. Alla fine, la Barthuly si era arresa. Quella bambina assorbiva troppa parte del tempo che doveva essere dedicato agli altri. Così era stata lasciata sola: in classe, per la prima volta, si respirò. Quando le lasciavano fare quello che voleva, Sheila se ne stava per gran parte del tempo a gironzolare per l'aula o a sfogliare riviste. Se invece la contrariavano, si metteva a gridare e a scorrazzare qua e là, distruggendo tutto ciò che le arrivava a tiro. Ma se la lasciavano stare, diventava tollerabile, e se gli altri la ignoravano, lei ignorava loro. Però non parlava mai, non faceva i compiti, non partecipava a nessuna delle attività di classe. Poi c'era stato l'episodio del novembre e, per le proteste e le preoccupazioni espresse dai genitori degli altri bambini, era stata allontanata dalla scuola. All'altro capo del filo, la voce era triste e pessimista. Alla signora Barthuly dispiaceva che si fosse fatto tanto poco. Non si sapeva nemmeno se riconosceva le lettere dell'alfabeto e i numeri. Non si sapeva quanto aveva imparato, non si conoscevano i suoi sentimenti. Fra tutti i bambini che aveva avuto, ammise la Barthuly, Sheila era la più vicina alla categoria di quelli non educabili. Ammesso che si potesse fare qualcosa per Sheila, lei non aveva la pazienza, le capacità e il tempo necessari. Mi augurò buona fortuna, poi si corresse e disse che sperava che presto si liberasse un posto all'ospedale. E riagganciò. Quelle notizie accrebbero il mio sconforto, perché non sapevo che cosa tentare, ancora, che non fosse già stato tentato. Con il mio gruppo, non avevo maggiori possibilità della signora Barthuly di assicurare a Sheila una cura particolare. Ne discussi con Chad e capii che non c'era altro da fare se non aspettare. CAPITOLO TERZO La mattina dopo, prima della scuola, Anton e io ci sedemmo a discutere i nostri piani. Era chiaro che quanto era accaduto il giorno prima non doveva ripetersi. gli altri bambini non potevano trovarsi di nuovo di fronte a una situazione del genere. Qualche sconvolgimento, in classe, poteva anche essere utile, poiché insegnava ai bambini come reagire in un ambiente protettivo quando qualcosa non andava; ma non potevamo permetterci di vivere nel caos dal primo giorno all'ultimo. Una quindicina di minuti prima che le lezioni cominciassero, entrò l'assistente sociale trascinandosi dietro Sheila. Ci spiegò che l'unico autobus di collegamento fra la casa di Sheila e la scuola era quello delle scuole superiori. Perciò Sheila sarebbe arrivata ogni mattina con mezz'ora di anticipo e non avrebbe preso l'autobus del ritorno se non due ore dopo la fine delle lezioni. Inorridii. Anzitutto, Sheila non mi pareva adatta a stare su un autobus pieno di
ragazzi delle scuole superiori: e del resto nutrivo seri dubbi che si potesse mandarla con fiducia su qualsiasi autobus. In secondo luogo, che cosa avrei fatto per due ore con lei, dopo la scuola? Al solo pensiero sentii un nodo allo stomaco, freddo e pesante. L'assistente sociale sorrideva, pagaa. Dovevamo accettare l'idea, perché il distretto scolastico non avrebbe pagato un trasporto speciale, visto che si potevano usare gli autobus già esistenti. Occorreva soltanto organizzare la permanenza a scuola della bambina. C'erano altri autobus, diretti verso la campagna, che arrivavano tardi e altri bambini che dovevano aspettare a scuola. Sheila avrebbe potuto aspettare insieme a loro. Trasferì nella mia mano il polso floscio di Sheila, girò sui tacchi e se ne andò. Io abbassai lo sguardo su Sheila e mi sentii sommersa da tutta l'angoscia del giorno prima. Lei mi guardava, gli occhi tondi e vigili, l'ostilità più nascosta del giorno prima. Sorrisi debolmente. Buon giorno, Sheila. Sono contenta di averti di nuovo qui con noi. Nei pochi momenti che avevamo prima che arrivassero tutti i bambini, portai Sheila a uno dei tavolini e scostai una sedia per lei. Mi seguì fin dalla porta senza protestare e si sedette. Mi sedetti accanto a lei: Senti, dissi, adesso ti dirò che cosa succederà oggi, qui dentro, così non passeremo un'altra giornata come quella di ieri. Non è stato un gran divertimento per me, e non dev'esserlo stato nemmeno per te. Corrugò la fronte, interrogativamente, come se non capisse quello che stavo facendo. Non so come fosse l'altra scuola, ma voglio che tu sappia che cosa troverai qui. Ieri, credo, ti abbiamo spaventata un po', perché non conoscevi nessuno e perché forse non sapevi chiaramente che cosa ci aspettavamo da te. E così, adesso te lo dico. Cominciò a ingobbirsi sulla sediolina, tirando le ginocchia al mento e raccogliendosi su se stessa. Notai che indossava ancora la stessa tutina di jeans e la stessa maglietta gualcita. Né l'una né llaltra era stata lavata, dal giorno prima, e la bimba puzzava orribilmente. Non ti farò del male. Non voglio far del male ai bambini. Nemmeno Anton, o Whitney, e nessun altro. Non devi aver paura di noi. Teneva il pollice in bocca. Sembrava intimorita da me ed era così piccola e così vulnerabile che faticavo a ricordarla com'era stata il giorno prima. Tutta la spavalderia se n'era andata; per il momento, almeno. Ma il suo sguardo era dritto e fermo, mentre mi guardava. Vuoi sederti in grembo a me mentre ti parlo? Scosse la testa, quasi impercettibilmente. Come vuoi. Ecco, il programma è questo. Voglio che tu partecipi a quello che facciamo. Devi soltanto stare insieme a noi. Anton o Whitney o io ti aiuteremo a capire quello che succede, finché non ti sarai abituata. Poi le illustrai il programma della giornata. Le dissi che, per il momento, poteva fare a meno di partecipare, se voleva. Ma doveva stare con noi; su questo non si discuteva. O si univa a noi spontaneamente, oppure uno di noi l'avrebbe aiutata a farlo. E se qualche volta, conclusi, ti capiterà di perdere
il controllo, voglio che tu vada a metterti là, nell'angolo del silenzio. Le indicai la nostra sedia nell'angolo. Andrai là e te ne starai seduta finché tutt'e due, tu ed io, penseremo che avrai ripreso il controllo. Ti siedi nell'angolo, tutto qui. È chiaro? Se anche era tutto chiaro, non me lo fece sapere. Intanto gli altri stavano arrivando. Mi alzai e le feci una carezza sulla spalla, prima di salutare gli altri. Non si ritrasse al contatto, ma nemmeno reagì in qualche altro modo. Al momento della discussione mattutina Sheila era ancora seduta sulla sedia. Le indicai un punto accanto a me sul pavimento: Sheila, vieni qui, per favore, così possiamo cominciare la discussione. Non si mosse. Ripetei l'invito. Ma lei rimaneva raggomitolata sulla sedia. Sentii lo stomaco contrarsi, in previsione degli eventi. Lei mi osservava, il pollice in bocca e gli occhi spalancati. Guardai Anton, che stava mettendo a sedere Freddie. Anton, puoi aiutare Sheila a venire qui con noi? Quando Anton fece per avvicinarsi a Sheila, lei si animò e saltò giù dalla sedia. Si lanciò disperatamente verso la porta, cadendovi pesantemente contro quando la serratura non si aprì. Torey, falla smettere, disse Peter, preoccupato. Gli altri guardavano Anton girare in tondo per acchiapparla. Aveva di nuovo negli occhi quell'espressione da animale braccato e saltava di qua e di là per non farsi prendere, come impazzita. Ma la stanza era piccola e la fuga vana. Tentò di distrarre Anton scaraventando a terra i libri dai ripiani, ma dopo pochi minuti lui l'aveva bloccata al lato opposto di uno dei tavoli. Per farla breve, i due saltellarono per un po' avanti e indietro, ma all'improvviso Anton spinse il tavolo verso di lei e la tenne incollata alla parete il tempo necessario per afferrarle il braccio. Per la prima volta fece sentire la sua voce. Levò un urlo che ci fece tutti sobbalzare. Susannah scoppiò a piangere, mentre gli altri se ne stavano seduti in silenzio, spaventati, a guardare Anton che lottava per riportare Sheila nel gruppo. Senza alzarmi, indicai il punto che avevo indicato prima. La tolsi ad Anton prendendola per un braccio e la costrinsi a sedere. Lei continuava a urlare, un urlo rauco, senza lacrime, ma si sedette, senza far resistenza. Bene, dissi con finta allegria. Chi ha un argomento da proporre? Io, disse William, alzando la voce per superare le grida di Sheila. Qui dentro sarà sempre così? C'era paura nei suoi occhi scuri. Sarà sempre così, lei? Gli altri mi guardavano con ansia, e io mi resi conto, sebbene non per la prima volta, di quanto fosse fasulla la mia posizione, visto che ero spaventata quanto loro. Eravamo insieme da mesi e avevamo imparato le nostre reciproche differenze e i nostri problemi. Sapevo che Sheila, anche se fosse rimasta calma e avesse collaborato, avrebbe portato scompiglio in classe, se non altro perché era nuova e stava mettendo alla prova la nostra precaria conquista dell'ordine. Ma non era certo una bambina facile da accettare e ci scuoteva tutti profondamente. Così, quel giorno l'argomento di discussione fu Sheila.
Io cercai di spiegare come meglio potevo che Sheila si stava appena abituando alla nuova situazione e che stava passando dei momenti difficili, proprio come noi. Aveva bisogno soltanto della nostra pazienza e comprensione. Mentre parlavamo di lei, Sheila non ci ignorava del tutto. Le sue urla si erano ridotte a sporadici stridii, che inseriva fra le pause della nostra discussione quando diventavano troppo lunghe, o quando uno di noi la guardava e lei se ne accorgeva. Altrimenti era silenziosa. Lasciai che i bambini facessero domande ed esprimessero le loro paure e la loro inquietudine. E io cercai di rispondere con onestà. Tutti, tranne Peter, ebbero tanta sensibilità da evitare critiche troppo dure nei confronti di Sheila. Peter no. Come era accaduto il giorno prima, quando si era lamentato dell'odore, anche ora, con rabbia, dichiarò di volere che la bambina se ne andasse da quella stanza. E che lei rovinava tutto. Non tentai di proteggere Sheila dai suoi commenti, perché sapevo che, comunque, Peter glieli avrebbe riferiti più tardi. Questo rientrava nei problemi personali di Peter, e io preferivo essere presente quando parlava. Così discutemmo, invece, dei vari modi possibili di affrontare gli inconvenienti creati da Sheila in quel periodo di adattamento. Tyler propose di mandarla nell'angolo del silenzio perché ci fossero risparmiati i timpani, Sarah di fare intervallo ogni volta che Sheila cominciava a creare scompiglio. E Guillermo, che evidentemente si sentiva molto magnanimo, spiegò che, mentre Sheila urlava, i bambini si sarebbero potuti sedere a turno accanto a lei: così le avrebbero fatto compagnia e lei non si sarebbe sentita sola. Sospettai che Guillermo stesse dando voce ai propri sentimenti piuttosto che a quelli di Sheila. Alla fine decidemmo che ogni volta che Sheila si fosse messa a gridare o avesse richiamato in altri modi l'attenzione mia o di Anton, portando confusione all'interno della classe, gli altri avrebbero dovuto tenere d'occhio Max Freddie e Susannah. Spiegai ai bambini che, se tutti avessero collaborato, avremmo fatto una festicciola alla fine della settimana. Dopo una breve discussione decidemmo che venerdì avremmo fatto il gelato, se tutto fosse andato bene. I bambini avevano mille idee. Se tu ti devi occupare di Sheila, e Freddie comincia a piangere, io posso leggergli una storia, suggerì Tyler. Potremmo cantare una canzone per conto nostro, aggiunse Guillermo. Io prenderò per mano Susannah Joy, così lei non correrà e non si farà male. Io sorrisi. Avete tutti delle belle idee. Andrà tutto bene, ne sono certa. Vi rimane soltanto da decidere che cosa ci volete, sul gelato, venerdì. Guardai giù verso Sheila, che stava ancora emettendo dei gorgoglii di rabbia. Fissavo una bretella della sua tuta, ma sedeva tranquilla. Ti piace il gelato? Strinse le palpebre. Ne mangerai un po' anche tu, vero? Ti piace il gelato? Lei annuì, cautamente.
Sheila cooperò di più durante l'ora di matematica, quando le fu chiesto di spostarsi. Si inerpicò su una sedia e vi si rannicchiò per poi osservarmi con sospetto mentre passavo da un bambino all'altro. Il resto della mattinata trascorse tranquillamente. Non osai lasciare che il pranzo si svolgesse ancora come il giorno prima, non soltanto perché non volevo che si ripetesse il disastro di quel pomeriggio, ma anche perché gli addetti alla mensa avevano fermamente rifiutato di occuparsi di lei finché il suo comportamento non fosse stato più prevedibile. Così, presi il mio pranzo e mangiai coi bambini. Mi sedetti accanto a Sheila, e lei piano piano si scostò da me scorrendo sulla panchina della mensa. Anton andò a sedersi dall'altra parte, e lei, piano piano come prima tornò verso di me. Trangugiò il pranzo in pochi minuti, macinando tutto in bocca a gran velocità. I suoi modi erano atroci, ma riusciva a manovrare la forchetta, e questo era molto più di quanto ci si potesse aspettare da altri bambini. Dopo pranzo la riaccompagnai in aula, mi sedetti a uno dei tavolini e corressi i test mentre i bambini giocavano. Sheila riprese posto sulla sedia, si mise in bocca il pollice e mi fissò. Per tutto il pomeriggio andò dove le fu chiesto di andare, ma ogni volta che poteva se ne tornava alla stessa seggiolina accanto al tavolo e ci si rannicchiava sopra. Rispetto al giorno prima, sembrava molto più docile, quasi depressa, e io non provai a farle domande. Sembrava troppo impaurita da me, e non capivo perché: così non volli aggravare la sua agitazione imponendomi a lei. Gli altri bambini, adesso, sembravano delusi che non accadesse nulla, e Peter, finiti gli esercizi, venne a chiedermi se avrebbero avuto il gelato anche se Sheila non si fosse più comportata male. Con un gran sorriso gli assicurai che, se fossimo arrivati fino a venerdì senza problemi, il gelato ci sarebbe stato, sicuramente. Quando gli altri se ne furono andati, rimanemmo in tre, Anton, Sheila e io. Di solito, in quelle due ore del doposcuola mi preparavo per il giorno dopo, ma pensai che forse, almeno per i primi giorni, potevo utilizzarle per conoscere meglio Sheila. Lei se ne stava ancora seduta sulla sedia e non si era nemmeno alzata quando gli altri si erano infilati le giacche a vento per andare a casa. Mi avvicinai al tavolo e mi sedetti di fronte a lei. Mi guardò diffidente. Hai fatto un buon lavoro oggi, piccola. Mi sei proprio piaciuta. Lei girò la testa dall'altra parte. La guardai. Sotto la sporcizia e il groviglio di capelli c'era una bella bambina. Il corpicino era diritto e ben fatto. Avrei voluto prenderla in braccio e coccolarla, e togliere un po' di quel dolore che era tanto evidente nei suoi occhi. Ma ci separava un tavolo, e poteva anche essere un universo intero. Con me tanto vicina, lei non voleva nemmeno incrociare il mio sguardo. Ti ho spaventata, Sheila? le chiesi, dolcemente. Se è così, io non volevo. Deve far paura venire in una scuola nuova e stare con persone che non conosci. Lo so che fa paura. Farebbe paura anche a me. Con una mano si coprì un lato della faccia per escludermi totalmente dallo sguardo.
Vuoi che ti legga una storia o che facciamo qualche altra cosa mentre aspettiamo il tuo autobus? Scosse la testa. D'accordo. Allora io vado all'altro tavolo a preparare il programma per domani. Se cambi idea, ti leggerò volentieri qualcosa. Oppure puoi giocare coi giocattoli, o fare qualcos'altro, se vuoi. Mi alzai. Mi ero appena messa al lavoro, quando lei abbassò la mano e si girò verso di me, studiandomi mentre scrivevo. Alzai gli occhi un paio di volte, ma nel suo sguardo fisso non ci fu nessuna reazione. Avrebbe fatto delle operazioni facili con i cubi. Così li tirai fuori e le dissi di venire da me. Rimase lì dove se n'era stata la mattina. Sheila, per favore, vieni qui. E le indicai una seggiolina. Era quella alla quale era tanto affezionata. Dài, vieni qui. Non si muoveva. Anton cominciò a spostarsi con circospezione in modo da acchiapparla al volo, se fosse scattata via mentre mi avvicinavo. Lei capì immediatamente il nostro piano e fu presa dal panico. Quella bimba aveva la fobia di essere braccata. Schizzò dalla sedia strillando come impazzita, urtando i compagni, nella fuga. Ma Anton era troppo vicino e l'acciuffò quasi subito. Io andai a prenderla dalle sue mani. Tesoro, quando veniamo a prenderti non è per farti del male. Non lo sai? Mi sedetti con lei, tenendola stretta mentre lottava per liberarsi e ascoltando il suo respiro, stridulo di paura. Sta' calma, piccola. Fate tutti i bravi adesso!, gridò Peter, deliziato. Le testoline si piegarono zelanti sui fogli e Tyler si alzò sollecita per tener d'occhio Susannah e Max. Sheila riprese a gridare, la faccia sempre più paonazza. Ma non pianse. Tenendola seduta in grembo, rovesciai sul tavolo i cubi. Li allineai ordinatamente in attesa che si calmasse. Ecco qua. Voglio che mi conti dei cubi. Strillò ancora più forte. Su, contamene tre. Lottò per liberarsi dalla mia stretta. Ti aiuto io. Guidai una sua mano recalcitrante verso i cubi. Uno, due, tre. Ecco. Adesso prova tu. Inaspettatamente afferrò un cubo e lo scagliò in mezzo alla stanza. Un attimo dopo ne scagliò un altro, che colse Tyler proprio in mezzo alla fronte. Tyler emise un gemito. Io incollai il braccio di Sheila al suo fianco e mi alzai, trascinandola a fatica verso l'angolo del silenzio. Qui dentro non facciamo queste cose. Nessuno deve farsi male, qui. Voglio che tu te ne stia qui finché non ti sarai calmata. Poi potrai tornare a lavorare. Feci segno ad Anton di avvicinarsi. Aiutala a rimanere seduta, se ce ne fosse bisogno. Ritornai dagli altri, mi occupai della ferita di Tyler e lodai tutti perché avevano continuato a lavorare. Appiccicai un memo alla lavagna per rammentare che ci si avvicinava al gelato di venerdì e poi mi sistemai accanto a Freddie per aiutarlo a contare i cubi. Intanto, nell'angolo, si era scatenato il finimondo. Sheila strillava come impazzita, tirando calci al muro con le sue scarpe da tennis e sballottando la sedia. Anton, cupo e silenzioso, la teneva ferma al
suo posto. Il putiferio continuò per tutta la lezione di matematica. Mezz'ora dopo, avviata l'ora dei giochi, Sheila cominciava a stancarsi di lottare e tirar calci. Mi avvicinai. Sei disposta a fare matematica con me? le chiesi. Mi guardò di sotto in su e gridò di rabbia, un grido senza parole. Anton non le stava più addosso, si limitava a tener ferma la sedia, e io gli feci cenno di andare a badare agli altri. Quando sarai pronta a fare matematica, puoi venire. Intanto voglio che tu te ne stia seduta. Mi girai e andai via. Per un attimo, il fatto di essere lasciata completamente sola la confuse, e smise di gridare. Quando si convinse che né Anton né io eravamo lì a costringerla a stare sulla sedia, si alzò. Sei disposta a fare matematica? le domandai, dall'altro lato dell'aula, dove stavo aiutando Peter a costruire una strada con i cubi. Si rabbuiò. No! No! No! No! Allora torna a sedere. Lei emise uno strillo acuto, rabbioso, e l'improvviso mutamento di volume immobilizzò tutti quanti. Ma lei rimase accanto alla sedia. Ti ho detto di sederti, Sheila. Non ti puoi alzare fino a quando non sarai disposta a fare matematica. Per un lunghissimo momento inveì così forte da rintronarmi. Poi, d'un tratto, stranamente, tutto ritornò tranquillo e lei mi guardò minacciosa. Quell'odio così evidente nei suoi occhi diede una bella scossa alla poca fiducia che avevo in ciò che stavo facendo. Sta' seduta su quella sedia, Sheila. Si sedette. Girò la sedia in modo da potermi sorvegliare, ma si sedette. Poi riattaccò a urlare. Dentro di me, tirai un profondo sospiro di sollievo. Peter mi guardò. Sai, Torey, penso che ci meritiamo due punti in più di buona condotta, per questo che è successo. Non è facile ignorarla. Sorrisi. È vero, Peter, hai ragione. Vale due punti. Sheila continuò a strillare per tutta l'ora della ricreazione. Ormai quel chiasso andava avanti da più di un'ora e mezzo. Batteva i piedi sul pavimento e faceva rimbalzare e oscillare la sedia, si tirava i vestiti e agitava i pugni. Ma rimaneva seduta. All'ora della merenda la voce le si era ormai fatta rauca e per tutto il tempo arrivò dall'angolino un gracchio strozzato. Ma la rabbia non era scemata e il gracchio continuava, furioso. Mentre Anton era fuori con gli altri, per la ricreazione, io rimasi in classe. Per qualche istante la mia presenza accrebbe l'agitazione di Sheila, che lanciò qualche altro strillo e prese di nuovo a sbatacchiare la sedia. Ma cominciava a essere stanca. Alla fine della ricreazione, dall'angolo non veniva più alcun rumore. La testa mi doleva. Non le ripetei le condizioni per venir via dall'angolo. La facevo abbastanza intelligente per aver capito, ormai. E non intendevo dedicarle ancora un'attenzione particolare. Gli altri rientrarono dalla ricreazione intirizziti, con le guance rosse e tante cose da raccontare sulle gare fatte a
rincorrersi sulla neve con Anton, che finiva sempre per essere acchiappato. Cominciammo l'ora di lettura tranquillamente, mettendoci tutti al lavoro come se quel fagottino sulla sedia nell'angolo non esistesse. Verso la fine dell'ora, mentre lavoravo con Max, mi sentii sfiorare lievemente la spalla. Mi girai e vidi Sheila in piedi dietro di me, con la pelle madida per l'ansia e il viso contratto in quell'espressione di diffidenza che tanto spesso si rifletteva nei suoi occhi. Sei disposta a fare matematica? Per un momento serrò le labbra, poi, lentamente, annuì. Bene. Aspetta solo che dica a Sarah di aiutare Max. Tu intanto va' a raccogliere i cubi che hai scagliato via e prendi gli altri che sono nell'armadietto vicino al lavabo. Parlai con naturalezza, come se fosse normale che lei obbidisse, mentre avevo il cuore serrato. Mi fissò, attenta, ma poi fece ciò che le avevo chiesto. Ci sedemmo insieme sul pavimento e io sparpagliai a terra i cubi. Prendi tre cubi. Con circospezione, ne prese tre. Prendine dieci. Ancora, dieci cubi vennero allineati sul tappeto di fronte a me. Brava. Sai contare, vero? Alzò gli occhi, e mi guardò, ansiosa. Adesso, qualcosa di più difficile. Contane ventisette. Dopo pochi secondi apparvero ventisette cubi. Sai fare l'addizione? Non rispose. Fammi vedere quanto fa due più due. Senza un attimo di esitazione prese quattro cubi. La studiai un momento. E tre più cinque? Prese otto cubi. Non avrei saputo dire se conosceva veramente le risposte o se stava risolvendo un problema alla volta. Una cosa, in ogni modo, era certa: capiva che cosa significava sommare. Ero riluttante a tirare fuori carta e penna, conoscendo la sua propensione a distruggere la carta. Non volevo rovinare il fragile equilibrio che si era appena creato nel nostro rapporto. Ma ci tenevo a sapere come procedeva a risolvere quelle operazioni. Così decisi di passare alla sottrazione, che mi avrebbe fatto capire qualcosa di più. Fammi vedere quanto fa tre meno uno. Sheila prese due cubi. Sorrisi. Era evidente che sapeva risolvere il problema senza bisogno di prendere tre cubi e toglierne uno. Fammi sei meno quattro. Ancora, due cubi. Ehi, sei proprio brava. Ma adesso fa' attenzione. Questa volta non ce la farai. Fammi vedere dodici meno sette. Mi guardò, e un sorriso appena accennato le guizzò negli occhi, senza tuttavia arrivare alle labbra. Poi impilò uno, due, tre, quattro, cinque cubi uno sull'altro. Lo fece senza nemmeno guardarli, i cubi. Che diavoletto, pensai. Ovunque avesse passato quegli ultimi anni e qualsiasi cosa avesse fatto, di certo aveva anche imparato. Aveva capacità superiori a quelle dei suoi coetanei. Non aveva esitazioni,
nel prendere i cubi. Il mio cuore fece un balzo all'idea che dietro tutta quell'ostilità e quel sudiciume si nascondesse una ragazzina brillante. Risolse qualche altra operazione e poi le dissi che poteva bastare e che poteva riporre i cubi. Adesso era l'ora di lettura e io le avevo detto, la mattina, che poteva fare a meno di partecipare. Mi alzai per seguire gli altri bambini e Sheila si alzò con me. Mi seguì, con la scatola dei cubi ancora stretta in mano. Tesoro, le dissi, puoi metterla via. Non c'è bisogno che tu la tenga in mano. Ma Sheila aveva qualche altra cosa in mente: si era seduta sulla sua sediolina preferita con i cubi sparpagliati ai suoi piedi. Era tutta indaffarata a spostarli qua e là, a fare qualcosa che non capivo. Il pranzo la rese di nuovo docile e tornò a raggomitolarsi sulla sua sedia. Ma quando fu il momento di cucinare, con un leccalecca alla banana la convinsi facilmente ad alzarsi. Ogni mercoledì ci cucinavamo qualche cosa. Avevo inventato quella attività per varie ragioni. Per i bambini che avevano un maggiore autocontrollo era un buon esercizio di matematica e di lettura. E per tutti era un buon incoraggiamento all'attività sociale, alla condivisione delle esperienze, alla conversazione e al lavoro di gruppo. E poi, cucinare era un divertimento. Una volta al mese ripetevamo una delle ricette preferite dai bambini, e quel pomeriggio era la volta delle banane al cioccolato, un dolce laborioso: si infilava una banana in un bastoncino, la si immergeva nel cioccolato, la si guarniva e congelava. Per facilitare le cose avevo deciso di non affrontare una ricetta nuova il primo giorno che Sheila rinunciava al suo isolamento e le banane al cioccolato erano un ripiego ben accolto dai bambini. Quasi tutti erano in grado di svolgere da soli le varie operazioni. Persino Susannah riusciva a fare quasi tutto, e così soltanto Max e Freddie dovevano essere seguiti più da vicino. Inutile dire che c'era cioccolato dappertutto e le guarnizioni finivano in buona parte in bocca prima di trovare una banana cui attaccarsi; ma ci divertivamo tanto, tutti quanti. Sheila esitò prima di unirsi al gruppo: si teneva stretta la sua banana, guardando gli altri che chiacchieravano allegramente. Ma non mostrava ostilità, e Whitney riuscì ad attirarla verso la cioccolata quando gli altri ebbero finito. Una volta preso il via, Sheila si lasciò completamente assorbire da ciò che stava facendo e cominciò col provare a guarnire la sua banana appiccicosa con tutt'e quattro le guarnizioni possibili. io l'osservavo, dall'altro lato del tavolo. Non diceva una parola, ma di certo aveva le idee chiare sul modo di far aderire le guarnizioni alla banana, che tornava a tuffare nel cioccolato subito dopo averla guarnita. Uno per uno i bambini si fermarono per osservarla mentre sperimentava la sua idea. La curiosità ebbe la meglio e le voci, a poco a poco, si spensero. Dopo aver rotolato l'enorme massa appiccicosa nell'ultimo piatto di guarnizioni, Sheila la sollevò con cura. Alzò gli occhi per
incontrare i miei e lentamente comparve un sorriso, che si fece sempre più ampio e aperto scoprendo, in basso, i vuoti lasciati dai denti che erano caduti. Alla fine di ogni giornata facevamo alcuni esercizi che, come la discussione della mattina, avevano lo scopo di unirci e di prepararci al distacco. Una di queste attività era stata battezzata Scatola del Coboldo. Mi piaceva molto inventare delle storie da raccontare ai bambini e una volta, all'inizio dell'anno, avevo spiegato ai bambini che i coboldi erano come le fate, ma vivevano nelle case della gente e si prendevano cura di chi ci abitava, badando che, durante il sonno, non accadesse niente di male. Peter aveva suggerito che forse nella nostra classe c'era un coboldo che si prendeva cura di tutte le nostre cose e teneva compagnia a Benny, a Charles e a Cipolla, l'irascibile coniglio. Questa storia aveva fatto proliferare vari racconti sul nostro coboldo. Così, un giorno portai una grande scatola di legno e spiegai ai bambini che lì il coboldo avrebbe lasciato i suoi messaggi. Li assicurai che era stato a osservarci, mentre lavoravamo, e che era stato felicissimo di vedere che tutti, in classe, stavamo diventando gentili e premurosi. Perciò, ogni volta che avesse visto qualcuno compiere una buona azione, avrebbe lasciato un messaggio nella scatola. Così, ogni giorno, durante l'ultima ora di esercitazioni leggevo i messaggi pescandoli nella Scatola del Coboldo. Dopo qualche giorno comunicai ai bambini che il coboldo aveva avuto il crampo dello scrittore e che gli serviva il nostro aiuto, dal momento che i bambini buoni erano tanti: perciò dovevano stare attenti a notare ogni buona azione, scrivere un bigliettino e metterlo nella scatola; chi non sapeva scrivere poteva venire a farselo scrivere da me. Eravamo arrivati, dunque, a una delle nostre attività più amate e più produttive. Ogni sera trovavamo una trentina di messaggi scritti dai bambini per segnalare gli atti di bontà notati negli altri. Questo serviva a incoraggiare non solo l'osservazione dei comportamenti positivi degli altri ma anche il comportamento positivo stesso dei bambini per il desiderio e la speranza di veder comparire il proprio nome nei messaggi lasciati per il Coboldo. C'erano messaggi, tra gli altri, che rivelavano una particolare capacità di osservazione, in quanto elogiavano un bambino per certi progressi piccoli ma significativi, e talvolta per cose che erano sfuggite anche a me. A Sarah, per esempio, una volta era stato riconosciuto il merito di non avere usato, durante una lite, un'espressione volgare fra le sue preferite, e Freddie era stato lodato per essersi soffiato il naso in un fazzoletto di carta invece che nella camicia. Mi piaceva molto aprire quella scatola, la sera, perché solo di rado contribuivo anch'io a riempirla, ed esclusivamente perché volevo essere sicura che ognuno avesse almeno un messaggio. Leggere quello che i bambini avevano notato era sempre emozionante. E devo ammettere che mi faceva piacere anche trovare un bigliettino col mio nome. Gli esercizi con cui, dopo aver cucinato, chiudemmo quel mercoledì furono particolarmente divertenti, perché per la prima volta il nome di Sheila comparve scritto da
una mano che non era la mia. Mentre gli altri applaudivano per quel biglietto, lei se ne stava ancora in disparte, a testa bassa. Ma fu pronta ad accettare il biglietto, quando glielo consegnai. CAPITOLO QUARTO Finite le lezioni, Anton accompagnò i bambini all'autobus. Sedetti al tavolo per correggere i compiti e aggiornare alcuni grafici di comportamento che riguardavano due bambini. Sheila era andata in bagno a ripulirsi la faccia degli ultimi residui di banana al cioccolato. Era già via da un po' di tempo e io ero concentrata sul mio lavoro. Sentii il rumore dello sciacquone e lei uscì. Non alzai gli occhi, perché stavo completando un grafico a penna che non volevo sbagliare. Lei si accostò al tavolo e restò a guardarmi per un momento. Poi si fece più vicina, si appoggiò con i gomiti al tavolo e si chinò a guardare, lasciando solo pochi centimetri fra lei e me. Alzai gli occhi. Lei studiava, assorta, la mia faccia. Perché gli altri non vanno al gabinetto? Eh? Mi raddrizzai sulla sedia, presa alla sprovvista. Ho detto, perché gli altri, quei bambini grandi, se la fanno nei pantaloni invece di andare al gabinetto? Be', non hanno ancora imparato. Perché? Loro essere grandi. Più grandi di me. Non hanno ancora imparato. Ma tentano di imparare. Tutti tentano. Guardò il grafico che stavo tracciando. Dovrebbero già saperlo fare, ormai. Pa', lui mi frusta forte se io faccio come loro. Non tutti sono uguali e nessuno qui prende botte. Rimase a lungo assorta. Con un dito tracciò un piccolo cerchio sul tavolo. Questa qui essere una classe di matti, vero? Ma no, Sheila. Pa', lui dice di sì. Dice che io essere matta e che mi mettono in una classe di bambini matti. Dice che questa qui essere una classe di bambini matti. Non è vero. Corrugò per un attimo la fronte. Non mi importa molto. Questo posto va bene come quel posto dove sono prima. Va bene come tutti gli altri posti. Non mi importa di essere in una classe di matti. Non riuscendo a negare l'evidenza, non seppi cosa dire. Non avevo mai pensato di dover affrontare un argomento simile con uno dei miei bambini. In genere, o la loro capacità logica era inadeguata a percepire il problema, oppure non erano capaci di parlarne. Sheila si grattò la testa e mi guardò, pensierosa. Tu essere matta? Risi. Spero di no. Perché lo fai? Cosa? Perché faccio questo lavoro? Perché mi piacciono molto i bambini e perché penso che insegnare è divertente. Perché tu essere con i bambini matti?
Mi piace. Essere matti non è un male. Vuol dire soltanto essere diversi. Scosse la testa, senza sorridere, e si raddrizzò. Penso che anche tu essere matta. Sheila, vieni qui, per favore. Le indicai una sedia accanto alla mia. Ho una cosa per te. Sheila era dall'altra parte della stanza, sulla sua sedia preferita. La mattinata, fino a quel momento, era filata liscia. Come facevo già da due giorni, prima che cominciassero le lezioni le avevo spiegato che cosa avremmo fatto nelle prossime ore. Durante la riunione del mattino, senza che ci fosse bisogno di chiederglielo, lei si era seduta con noi, e poi anche durante l'ora di matematica. Non interveniva ancora, ma sembrava molto più rilassata. Adesso, dalla sua sedia, mi stava guardando. Vieni qui, Sheila. Voglio che tu faccia una cosa. Le feci cenno di avvicinarsi. Lei si raddrizzò sulla sedia, esitante. Mi ero fatta prestare dallo psicologo della scuola il test lessico-figurativo di Peabody, O TLFP, come tutti lo chiamavamo. Anche se non gli davo mai troppo peso, serviva a dare un'idea generale del quoziente d'intelligenza verbale di un bambino in modo rapido e senza che il bambino dovesse parlare. Dopo l'esperienza del giorno precedente - quella con i cubi - volevo assolutamente saperne di più sul conto di Sheila. Data la gravità dei suoi disturbi psichici, era logico che fosse rimasta indietro nell'apprendimento; ai bambini di questo tipo non rimane molta energia per imparare. Così, quando aveva manifestato una capacità normale nelle operazioni matematiche, mi ero subito incuriosita. Inoltre, mi sorrideva l'idea che potesse avere un'intelligenza superiore alla media. Mentalmente mi stavo già abituando ad averla in classe e mi chiedevo se non fosse meglio evitarle l'ospedale di stato. Di tutte le cose di cui aveva bisogno in quel momento, quella era senz'altro l'ultima. Adesso io e te facciamo una cosa insieme. Dovetti alzarmi e portarla di peso al mio tavolo. Ecco. Siediti. Adesso ti farò vedere delle figure e ti dirò una parola. E tu mi indicherai la figura che la parola ti fa venire in mente, va bene? Hai capito? Annuì. Le mostrai il primo gruppo di quattro figure e dissi frusta. Che bell'inizio, pensai, amaramente. Lei studiò i quattro disegni, mi guardò e poi, cautamente, ne indicò uno. Brava, dissi sorridendo. È proprio quella giusta. Rete!. A ogni parola che leggevo, Sheila mi indicava una figura, dapprima esitando, studiando attentamente a una a una le quattro immagini, poi con sempre maggiore disinvoltura. Dopo sei o sette tavole, un lieve sorriso le illuminò il visino. Alzò gli occhi. Essere facile, sussurrò, per non farsi sentire dagli altri. Ne sbagliò una soltanto, thermos, una parola che probabilmente non aveva mai incontrato nella sua breve,
povera vita. Ma per quella successiva scelse la figura giusta. Il test si considera concluso quando il bambino ne sbaglia sei su otto, e lei sembrava ancora lontana da quel risultato. Proseguimmo. Le parole incominciavano a diventare difficili e Sheila ci metteva di più a guardare le figure. Ogni tanto ne sbagliava una, a volte due. Quando le capitava, i suoi occhi tradivano preoccupazione; capiva di aver sbagliato anche senza che glielo dicessi. Del resto, da un po' ero rimasta senza parole. Avevo avuto il sospetto che avesse un'intelligenza superiore alla media, magari anche brillante, ma ormai aveva superato di gran lunga le mie aspettative. Stavamo entrando in una fase del test alla quale nessuno dei miei bambini era mai arrivato. Affrontavamo parole come illuminazione e concentrico. Sheila sbagliava, ogni tanto, ma mai sei parole su otto. La tensione cresceva. Si concentrava al massimo per non sbagliare e il suo impegno mi commuoveva. Ma ormai eravamo arrivate alla parte del test destinata agli adolescenti; c'erano parole che nessuna normale bambina di sei anni poteva conoscere. Lei continuava a sforzarsi, mordendosi le labbra e stringendo i pugni. Tesoro, sei davvero brava, dissi. Non avevo immaginato che avrebbe preso il test tanto seriamente, che si sarebbe impegnata tanto e così a lungo. E non riuscivo a credere che conoscesse tutte quelle parole. Alzò lo sguardo su di me. Aveva gli occhi sbarrati, e la delicata pelle del collo si era arrossata per l'agitazione. Non sto facendo tutto giusto. Ma va bene così, cara. Non ci si aspetta che tu faccia tutto giusto. Queste sono parole per i ragazzi grandi e non puoi conoscerle tutte. Volevo soltanto vedere quali conosci. Non importa se ne sbagli qualcuna. Sono molto orgogliosa di te. Fece una smorfia; sembrava sul punto di piangere. Essere difficili queste parole qui. Si guardò le mani. Prima sono facili, ma queste qui essere difficili per me. Non le conosco tutte. Quella vocina incerta, quelle esili spalle sotto la maglietta lisa: tutto questo mi dava una stretta al cuore. Quanta innocenza, anche nel peggiore di quei bambini. In fondo, erano solo bambini. Tesi un braccio. Vieni qui, Sheila. Lei mi guardò e io mi chinai su di lei e la presi in grembo. Sotto le mie mani, il suo corpicino era rigido, mentre l'onnipresente odore di urina stantia aleggiava nell'aria. Stai facendo del tuo meglio, lo so. È questo che conta. Davvero, non m'interessa sapere quali sono le parole che sai e quelle che sbagli. Non importa. E poi queste sono proprio difficili. Scommetto che nessuno dei bambini che sono qui potrebbe far meglio di te. La tenevo stretta, scostandole dal viso i capelli arruffati. Mentre aspettavo che si rilassasse, diedi un'occhiata al punteggio del test, sottraendo mentalmente gli errori. Avevo l'impressione che Sheila si fosse spinta quasi al limite delle sue possibilità. Ora ne sbagliava tre o quattro alla volta. Ma anche così superava tutti gli altri bambini che avevo sottoposto al test.
Come fai a conoscere tutte queste parole? chiesi, incapace di resistere alla curiosità. Si strinse nelle spalle: Non so. Ce ne sono di quelle che usano i ragazzi grandi. Volevo soltanto sapere dove le hai sentite. L'altra maestra mi lascia leggere le riviste. Qualche volta leggo lì le parole. La guardai. La sentivo ancora rigida contro di me; era leggera come un uccellino. Sai leggere, Sheila? Annuì. Dove hai imparato? Non so. Ho sempre letto. Scossi il capo, meravigliata. Che strana creatura era quella? In un primo momento avevo accarezzato il pensiero che fosse particolarmente dotata, perché gli altri bambini, per quanto mi fossero cari, erano generalmente lenti nell'apprendere ed era sempre difficile stabilire dove finisse il disturbo psichico e incominciasse il ritardo mentale. Alcuni, come Sarah e Peter, erano nella norma, ma non avevo mai avuto un alunno che fosse al di sopra della media. Lei andava molto al di là della padronanza data da una normale capacità di apprendimento. Sheila entrava dritta dritta nel mondo pressoché ignoto del talento naturale. E temevo che il mio compito sarebbe stato ancora più difficile. Sul TLFP, la scala per misurare il punteggio di Sheila non bastava. Per il suo gruppo di età terminava a 99, il che si traduceva in un quoziente d'intelligenza di 170. Sheila aveva totalizzato 102 punti. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla scheda. Un concetto che sia in grado di definire un tale grado di intelligenza non esiste nemmeno. Le statistiche dicono che ci arriva meno di una persona su diecimila. Ma che cosa significa questo? In un mondo che venera l'uniformità, significa devianza, anomalia. Una simile intelligenza l'avrebbe isolata, proprio come i disturbi psichici di cui soffriva. Guardai verso Sheila, all'altra estremità della stanza. Era l'ora dei giochi e lei aveva preso possesso della sua sedia preferita. Si stava succhiando il pollice, tutta rannicchiata come per proteggersi. Osservava Tyler e Sarah che giocavano alle bambole nell'angolo della classe che rappresentava la casa. Mi fermai un istante a pensare. Sotto quei lunghi capelli arruffati, dietro quegli occhi impauriti, che bambina c'era? Mi sentivo molto più coinvolta, adesso; se non altro, le cose erano più complicate di quanto pensavo. Dopo l'intervallo del pranzo mostrai il test ad Anton. Lui scosse il capo: non poteva crederci. Ci dev'essere un errore, brontolò. Dove potrebbe avere imparato queste parole? Deve aver tirato a indovinare, Torey. Nessun bambino del campo conosce queste parole. Nemmeno io riuscivo a crederci. Così chiamai Allan, lo psicologo della scuola. Non era in ufficio, ma lasciai un messaggio alla segretaria, dicendo che avevo una bambina da esaminare. C'era una cosa che mi aveva colpita durante il test. Più
Sheila mi parlava, e più diventava evidente che usava un dialetto del tutto particolare. Non aveva parlato tanto a lungo da consentirmi di distinguere con precisione tutte le caratteristiche del suo linguaggio, ma certamente usava delle strutture grammaticali bizzarre. I bambini del campo appartenevano, in gran parte, a famiglie di lingua spagnola e spesso non padroneggiavano l'inglese come gli altri bambini della loro età. Grammaticalmente, tuttavia, rientravano nella norma. Inoltre, nei dintorni non c'erano altre comunità linguistiche importanti. Sheila non apparteneva a una famiglia di lingua spagnola, e il test provava che non aveva problemi di linguaggio. Non riuscivo a capire perché parlasse in modo tanto strano. Il suo dialetto mi sembrava simile a quello usato dai neri della città vecchia con cui avevo lavorato a Cleveland. Forse usava strutture tipiche del suo ambiente familiare. Decisi di fare delle indagini, perché il fenomeno mi lasciava perplessa. Il resto della giornata passò normalmente. A Sheila chiedevo ancora pochissimo. Volevo lasciarle il tempo di ambientarsi, senza penalizzare troppo gli altri bambini. Dopo l'agitazione dei primi giorni, ora finalmente tiravamo un respiro di sollievo. Lei accettava di sedersi insieme a noi, anche se interveniva di rado e soltanto se costretta. Non parlava né con gli altri bambini né con Whitney, e, di solito, neppure con Anton o con me, a meno che non fosse del tutto isolata dagli altri. Ma era tranquilla; appena poteva, andava a mettersi sulla sua sedia, e da lì ci guardava con cauto interesse. Il passo più importante che occorreva fare con Sheila riguardava la pulizia personale. Tutti i giorni arrivava con la stessa salopette e la stessa maglietta. Evidentemente nessuno le aveva mai lavato i vestiti dal primo giorno in cui li aveva indossati, e puzzava di urina. Avevo il sospetto che bagnasse il letto e che poi, ogni mattina, si rivestisse senza lavarsi. Perciò era estremamente sgradevole starle vicino, anche solo per pochi momenti. Sia Anton che io eravamo abituati agli odori forti, dal momento che Max, Freddie e Susannah se la facevano spesso addosso. Ma Sheila era molto peggio. Per non dire degli strati di sudiciume che le incrostavano il viso e le braccia. Il giorno prima, quando l'avevo mandata a ripulirsi dal cioccolato di cui si era sporcata durante l'ora di cucina, sugli avambracci le si erano formate delle strisce che indicavano fin dove si era lavata. Oggi, quelle strisce erano ancora visibili. Aveva i capelli lunghi che le cadevano in ciocche attorcigliate fino a metà schiena. Il primo giorno avevo controllato se avesse i pidocchi o gli acari. Avevamo già dovuto lottare due volte contro i pidocchi e non avevo intenzione di affrontare un'altra battaglia. L'ultima volta avevo finito col prenderli anch'io, e la cosa non mi era affatto piaciuta. Sheila sembrava immune, ma intorno alla bocca aveva un'impetigine e speravo che non l'attaccasse agli altri bambini. Un pomeriggio alla settimana a scuola c'era un'assistente sanitaria, e io avevo provato a mandarle i bambini con malattie tipiche della povertà. Ma finì che mi feci dare lo shampoo contro i pidocchi e le pomate e che mi presi cura io stessa dei bambini, perché un pomeriggio alla settimana
spesso non bastava a far fronte a tutti i problemi. Terminate le lezioni, quando gli altri se ne furono andati, affrontai le esigenze igieniche di Sheila. Mentre i compagni si preparavano per uscire, lei era rimasta seduta sulla sua sedia. Ed era ancora seduta quando presi dall'armadietto pettine e spazzola. La sera prima mi ero fermata al drugstore a comprare una bustina di fermagli per capelli. Sheila, vieni qui, dissi. Ho una cosa per te. Lei si alzò e mi venne vicino, accigliata, curiosa e però diffidente. Le diedi la bustina. Lei la tenne in mano per qualche istante, guardandomi con aria interrogativa. Le dissi di aprirla e Sheila tirò fuori i fermagli. Sembrava più perplessa che mai. Sono per te, cara. Pensavo di pettinarti e di metterti qualche fermaglio. Come quelli che ho io, dissi mostrandole i miei capelli. Con grande attenzione, estrasse i fermagli dalla bustina di plastica. Poi mi guardò, aggrottando le sopracciglia. Perché lo fai? Faccio che cosa? Essere buona con me. La guardai incredula. Perché tu mi piaci. Perché? Io essere una bambina matta; faccio male ai vostri pesci. Perché tu essere buona con me? Sorrisi, incerta. L'ho fatto perché avevo voglia di farlo, Sheila. Solo per questo. Pensavo che ti facesse piacere avere qualcosa di carino da mettere nei capelli. Continuava a strofinare i fermagli attraverso l'involucro lisciando con la punta delle dita le sagome coperte dalla plastica. Nessuno mi dà mai niente prima. Nessuno è buono con me apposta. La guardavo stupita. Nella mia esperienza non trovavo niente che mi aiutasse a capire. Piccola mia, per quanto mi riguarda, le cose stanno così. E fu tutto quanto riuscii a dire. Con la spazzola le sciolsi con cura ogni nodo. Ci volle molto più tempo del previsto, perché non volevo farle il minimo male. Avevo paura di rovinare quel rapporto che stavamo instaurando, di incrinarlo per colpa dell'enorme distanza che esisteva fra i nostri mondi. Lei se ne stava seduta pazientemente, stringendo in mano i fermagli ma senza toglierli dall'involucro. Aveva quei capelli soffici, sottili e straordinariamente lisci che per fortuna non si arruffano mai troppo. Una volta pettinati, le scendevano folti folti fin sotto le scapole. Poi le pettinai la frangetta, che era troppo lunga e le copriva gli occhi. Era una graziosa bambina e con un po d'acqua e sapone sarebbe stata ancora più bella. Ecco fatto. Adesso passami i fermagli, così te li metto. Lei se li strinse al petto. Dammi qua. Te li metto nei capelli. Scosse la testa. Non vuoi? Papà poi me li toglie. No se li dici che te li ho dati io.
Lui dice che io rubati. Nessuno mi dà mai niente. Stringeva forte i fermagli, e guardava gli uccellini azzurri e le ochette attraverso la plastica. Per ora potresti lasciarli a scuola finché non riesco a parlare con tuo padre e a dirgli che te li ho dati io. Va bene? Mi pettini bene ancora? Annuii. Ti pettino domattina quando arrivi. Guardò per un lungo istante i fermagli, poi, esitando, me li consegnò. Ecco. Tienili tu per me. Li presi, con una stretta al cuore. Era così evidente lo sforzo che le costava privarsene. In quel momento entrò Anton a portare delle fotocopie, e mi ricordò che fra poco avrebbe dovuto accompagnare Sheila a prendere l'autobus davanti alla scuola superiore. Il tempo era volato. Non ero neppure riuscita a lavarla, e puzzava tanto... Sheila, le chiesi, hai modo di lavarti a casa? Scosse la testa. Non abbiamo vasca. Il lavandino, lo puoi usare? Non abbiamo neanche lavandino. Pa' va a prendere acqua con un secchio al distributore di benzina. Qui fece una pausa, gli occhi fissi al pavimento. La dobbiamo solo bere. Pa' fa il pazzo, terribile, se la sporco. Hai degli altri vestiti? Scosse il capo. Allora domani vedremo che cosa si può fare, d'accordo? Annuendo se ne andò a prendere il suo giubbotto di cotone appeso al gancio. La seguii con lo sguardo, e sospirai. C'era ancora tanto da fare, pensai. Un mucchio di cose da cambiare. Ciao Sheila. Buona serata. Ci vediamo domani. Anton la prese per mano e aprì la porta che dava nel buio di quel gennaio ventoso. Proprio mentre Anton stava richiudendo la porta dietro di sé, Sheila si fermò, sbirciandomi da sotto il braccio di lui. Sorrise lievemente. Ciao, maestra. iIl giorno dopo ero pronta a entrare in azione. Arrivai a scuola armata di tre asciugamani, sapone, shampoo e bagnoschiuma. Prima passai in ufficio a vedere che cosa c'era nella cassa degli abiti smessi. Anche se la scuola si trovava in un quartiere signorile, con l'autobus arrivavano parecchi bambini come quelli che c'erano nella mia classe così faceva comodo avere una riserva di abiti smessi. Io ne tenevo un po', in aula, ma erano soprattutto indumenti intimi, e poi era tutto troppo grande per Sheila. Riuscii a trovare un paio di calzoni di velluto a coste e una maglietta, e andai in classe. Così, quando Sheila arrivò, stavo facendo scorrere l'acqua nel lavandino sul retro dell'aula. Era un lavandino molto grande, da cucina, e pensavo che, in mancanza di una doccia, potevo lavarla lì. Non appena mi vide, Sheila si tolse subito il giubbotto e mi saltellò incontro. Da quando era arrivata, non l'avevo mai vista muoversi così rapidamente. Con gli occhi sgranati si sporse per vedere che cosa
stavo facendo. Adesso mi metti i fermagli? Certo. Ma prima facciamo un trattamento completo di bellezza. Adesso ti laverò da capo a piedi. Come ti pare l'idea? Farà male? Ma no, sciocchina. Credo proprio di no, dissi ridendo. Aveva tirato fuori il bagnoschiuma dal secchio. A che serve questo? Si mangia?, chiese svitando il tappo. La guardai, stupita. No, è per lavarsi. Si passa sul corpo. Un'espressione di improvviso piacere la illuminò. Sa proprio di buono, maestra. Senti. Sa di buono e si mette su per sapere di buono. Ora gli occhi erano animati. Adesso quel bambino non dirà più che puzzo, eh? Le sorrisi. No, penso proprio di no. Guarda un po' qui. Ho trovato degli abiti che potrebbero andarti bene. così questo pomeriggio Whitney, appena arriva, potrà portare la tua salopette alla lavanderia. Sheila studiò i calzoni di velluto, prendendoli in mano con circospezione. Pa' non me li fa tenere. Non vogliamo cose di carità. Sì, capisco. Li terrai soltanto finché gli altri non saranno asciutti. Va bene? Sollevai Sheila, la misi a sedere sul ripiano del lavandino e le tolsi scarpe e calze. Mi guardava attenta mentre le slacciavo gli abiti, ma non cercò di aiutarmi. Dovevo sbrigarmi, perché gli altri sarebbero arrivati tra una mezz'ora e, anche se sapevo che erano abituati a lavarsi nel lavandino e a vedere i compagni farlo, temevo che Sheila fosse ancora troppo vulnerabile per esporla a quel modo. Glielo chiesi, e lei rispose che non le importava, ma io pensai ugualmente che fosse meglio finire prima che arrivassero gli altri. Era una bimbetta scarna, con tutte le costole bene in vista. Notai che aveva diverse cicatrici sul corpo. Che cosa ti sei fatta qui? le chiesi lavandole un braccio. Sulla parte interna c'era una cicatrice lunga cinque centimetri. Essere dove una volta mi sono romputa il braccio. Come è successo? Cadendo mentre gioco. Il dottore me lo ingessa. Sei caduta giocando? Annuì, tranquilla e concreta, ispezionando la cicatrice. Cado sul marciapiede. Pa' dice io essere un impiastro. Mi faccio male tante volte. Nella mia mente stava prendendo forma la domanda che avevo imparato a fare ai miei alunni; una domanda che mi faceva paura. Tuo papà non ti fa mai niente che ti lasci cicatrici come queste? Per esempio sculacciarti forte o cose così? chiesi. Mi guardò, e i suoi occhi si rabbuiarono. Il suo sguardo e il suo silenzio mi fecero pentire di averglielo chiesto. Era una domanda personale e forse era ancora troppo presto per una simile confidenza. Mio papà non lo farebbe mai. Non mi farebbe mai così tanto male. Lui mi vuole bene.
Mi batte un poco poco, qualche volta, ma per farmi bene. Bisogna fare così, con i bambini, qualche volta. Ma mio papà mi vuole bene. Ho tutte queste cicatrici perché io essere un impiastro. C'era una nota di sfida nella sua voce. Annuendo, cominciai ad asciugarla. Non parlò per diversi minuti. La tenevo in braccio e le stavo strofinando le gambe, quando bruscamente si girò per guardarmi negli occhi. Sai però che cosa ha fatto mia mamma? No. Ecco, guarda. Sollevò l'altra gamba e indicò una cicatrice. Mia mamma mi porta sulla strada e mi lascia lì. Mi spinge fuori dalla macchina e io cado così una pietra mi taglia la gamba. Qui, vedi? Passò il dito sul segno bianco. Papà, lui, mi vuol bene. Non mi lascia su una strada. Non si fanno queste cose ai bambini piccoli. No, certo che no. La mamma non mi vuole bene. In silenzio, incominciai a pettinarla. Non volevo più sentire; faceva male ascoltarla: il suo tono così calmo e concreto mi faceva sentire indiscreta. Era come leggere il diario di qualcuno, dove la regolarità delle righe rende le parole ancora più commoventi. Mia mamma si prende Jimmie e se ne va in California. È là che abitano, adesso. Jimmie essere mio fratello e ha quattro anni, ha soltanto due anni quando mia mamma se ne va via. Non vedo Jimmie da due anni interi. Fece una pausa per riflettere. Ho un po' voglia di Jimmie. Vorrei poterlo vedere ancora. Essere proprio un bambino simpatico. Si girò di nuovo verso di me e mi guardò. Jimmie ti piacerebbe. Essere un bambino simpatico e non urla e non essere cattivo né niente. Essere simpatico da avere in questa classe di bambini matti. Solo che non credo lui matto come me. Ti piacerebbe Jimmie. A mia mamma piace. Le piace più di me; ecco perché prende lui e lascia qui me. Dovresti avere Jimmie in questa classe qui. Lui non fa le cose brutte che faccio io. La accarezzai. Sei tu la bambina che voglio qui, Sheila. Non Jimmie. Anche lui avrà la sua maestra un giorno. A me non importa quello che fanno i bambini; a me piacciono e basta. Appoggiò la schiena alla parete e mi guardò, incerta. Proprio strana maestra. Anche tu, credo, essere matta come noi. Quel venerdì, il suo quinto giorno, ancora non parlava con gli altri bambini, sebbene rispondesse a tutte le domande che le rivolgevamo noi adulti. Al termine della giornata, dopo che tutti avevano mangiato il gelato e finito i compiti, eravamo in fila ad aspettare gli autobus. Ci eravamo preparati un po' prima e i bambini, con indosso le tute da neve, cominciavano a diventare irrequieti. Così suggerii di cantare qualcosa. Max gridò che voleva Se sei felice e lo sai, batti le mani, una delle poche canzoni che accettava
di cantare con noi. Era un motivetto da mimare, molto semplice, e i bambini dovevano battere prima le mani, poi i piedi e infine scuotere la testa. Guardai Sheila che se ne stava un po' in disparte senza cantare, ma era attenta a quello che facevamo. Finimmo la canzone, e gli autobus non erano ancora arrivati. Allora chiesi ai bambini quali altre azioni potevamo mimare. Tyler suggerì: Se sei felice e lo sai, salta su e giù. Così cantammo saltando tutti insieme. Poi chiesi di proporre un'altra azione. Dal suo angolino, Sheila alzò timidamente la mano. Era una cosa che non avevo mai preteso dai miei bambini - pochi di numero, mentre i problemi non si contavano - a meno che non si trattasse di un momento di particolare confusione. Vedere quella bimbetta - che fino ad allora non aveva mai parlato con i compagni e che aveva già dimostrato di essere poco malleabile - starsene lì con la manina alzata mi stringeva il cuore. Sheila, hai un'idea? Girarsi? disse, esitante. Così cantammo il nostro motivetto facendo una giravolta. La prima settimana si era conclusa con un successo. CAPITOLO QUINTO Nelle settimane che seguirono, Sheila si animò. Incominciò a parlare - prima con qualche riserva, poi più liberamente. Aveva idee su ogni cosa e quando si sentiva a suo agio riusciva a spiegarsi alla perfezione. Ero felicissima di avere in classe una bambina capace di esprimersi. I compagni erano contenti di stare in sua compagnia e io ero entusiasta della sua capacità di dirmi tante cose. Sheila non accennò mai all'episodio del bambino a cui aveva dato fuoco, né durante le prime tappe del nostro rapporto, né in seguito, né mai. Nella mia classe, quasi tutti i bambini con capacità logiche normali erano coscienti delle ragioni per le quali erano stati mandati in quella scuola, e ne parlavano regolarmente quando ci riunivamo per fissare le mete da raggiungere nel corso della settimana o a più lungo termine; oppure occasionalmente, durante la riunione del mattino o in altri momenti: quando eravamo fuori, al campo-giochi e, tutti intirizziti ma troppo presi dalla conversazione per rientrare, ci riparavamo contro il muro della scuola; oppure durante il pranzo, o nell'ora d'arte, o in quella di cucina; oppure a tu per tu, sui cuscini, nell'angolo isolato dove c'erano le gabbiette degli animali. I bambini sembravano quasi tutti ansiosi di intavolare l'argomento. Le conversazioni si svolgevano in chiave minore, con spontaneità: ormai sapevo come affrontare argomenti quali il suicidio o i gatti bruciati vivi, e ne parlavo con la stessa disinvoltura con cui preparavo la lista della spesa o chiedevo i risultati delle partite di baseball. I bambini non avevano bisogno di sentirsi dire che quelle loro azioni erano sbagliate o che spaventavano o disgustavano gli altri - lo sapevano già. Altrimenti non sarebbero stati mandati in quella classe. Avevano bisogno, invece, di esplorare la portata e la profondità di quei loro atti, ciò che avevano provato nel compierli e ciò che avrebbero dovuto provare, e tutta la miriade di particolari insignificanti che accompagnavano ogni singolo episodio. Per lo più ascoltavo, limitandomi a una domanda o due se qualcosa non era chiaro
e facendo lunghi mormorii di assenso per dimostrare il mio interesse. E intanto facevo in modo che fossimo occupati in vari lavoretti, come colorare o progettare figure di cartapesta, per non essere obbligati a guardarci e a riconoscere che stavamo parlando. Sheila sapeva perché si trovava lì. Dal secondo giorno in poi, continuò a riferirsi a noi affettuosamente come alla classe di matti. E lei era una bambina matta che faceva cose brutte. Si univa spesso alla conversazione. Eppure non accennò neppure una volta a quell'episodio di violenza. Non ne parlò con i compagni né con me. Con nessuno, mai. Io, da parte mia, evitai sempre l'argomento. Di solito non mi comporto così, ma in questo caso sapevo per istinto di doverlo fare - non che ci fosse una ragione particolare: mi sembrava semplicemente giusto. Così non ne discutemmo mai. Non scoprii mai che cosa fosse passato nella mente di Sheila quella fredda sera di novembre. Le strutture grammaticali che Sheila usava continuavano a sconcertarmi. Più parlava, più risultava evidente la discrepanza fra il suo modo di esprimersi e quello di tutti noi. A quanto risultava, suo padre non parlava nessun dialetto. Era nato lì e doveva per forza parlare come noi. Le variazioni principali nel linguaggio di Sheila riguardavano la coniugazione del verbo essere e l'assenza del tempo passato. Essere sostituiva tutte le persone del verbo. Per Sheila, il tempo passato non esisteva se non con qualche rara eccezione. Tutto era espresso come se appartenesse al presente o al futuro. E questo mi disorientava, perché invece Sheila mostrava di avere una buona padronanza di modi verbali più difficili, come il condizionale, e di riuscire a formare frasi complesse, al di là della portata di un normale bambino di sei anni. Trascrissi vari esempi del suo modo di esprimersi e li mandai agli esperti perché li analizzassero. Nell'attesa, la lasciai parlare come voleva. Allan, lo psicologo della scuola, diede a Sheila un test per il QI e uno di lettura. Il test del QI, Sheila lo fece saltare, arrivando al punteggio massimo. Allan era sbalordito e uscì dal suo stanzino scuotendo la testa. Non aveva mai visto un risultato simile, e di certo non se lo sarebbe mai aspettato da una bambina che era stata mandata nella mia classe. Sheila leggeva e capiva come un'alunna di quinta elementare, sebbene nessuno le avesse mai insegnato a leggere. Allan quel giorno mi promise che avrebbe cercato un test che riuscisse a misurare il quoziente di intelligenza di Sheila. Ogni mattina, prima delle lezioni, Sheila e io ci dedicavamo alla pulizia. Comperai un catino di plastica al supermercato e ci misi dentro un pettine, una spazzola, una manopola di spugna, un asciugamano, una saponetta, il bagnoschiuma e uno spazzolino da denti. Di solito Sheila si lavava e si spazzolava i denti senza farsi pregare, a patto che la pettinassi. Andava matta per i fermagli. Gliene comperai degli altri, simili a quelli che portavo io, e Sheila li conservava come un tesoro. Tutte le mattine, prima di scegliere quale mettere, li faceva passare a uno a uno e li contava; e tutte le sere se li toglieva dai capelli e li infilava ordinatamente nelle pieghe dell'asciugamano. E li contava ancora, per accertarsi che nessuno li avesse toccati. Il suo
abbigliamento, invece, era un problema. A scuola tenevo diverse paia di mutandine pulite e insistevo perché lei se le cambiasse ogni mattina. Ma non ne discutemmo mai, perché, fin dal primo giorno, avevo capito che quello era un terreno particolarmente delicato. Comunque, la pregavo sempre di cambiarsi. Il lunedì, Whitney portava di corsa salopette e maglietta alla lavanderia dietro l'angolo. Non era una soluzione ideale, ma almeno Sheila non puzzava più tanto. Del resto, una volta ripulita, era una bella bambina. Aveva i capelli lunghi e biondi, occhi luminosi e un sorriso che piaceva a tutti e che scopriva, in basso, tre spazi vuoti che attendevano i dentini nuovi. Un problema che temevo ma che, con mio grande sollievo, finora non si era mai presentato, riguardava il tragitto che Sheila faceva sull'autobus dal campo alla scuola. Con quella terribile storia alle spalle, non potevo pensare che Sheila, messa su un autobus senza vigilanza, se ne stesse sempre buona buona. I miei timori, tuttavia, si dimostrarono infondati. Forse, la compagnia di quaranta studenti delle scuole superiori bastava a intimidire persino lei. Anton o io l'accompagnavamo dall'autobus alla scuola e viceversa e, una volta salita, lei si sistemava su un sedile delle ultime file. L'unica volta che accadde qualcosa fu verso la fine di gennaio. La sera l'avevamo accompagnata alla fermata e lei era salita. Ma quando, dopo aver raccolto i ragazzi delle superiori, l'autobus arrivò al campo, lei non c'era più. Il conducente guardò dappertutto, ma non c'era nessuno. Allarmato, dato che l'autobus faceva soltanto due fermate prima di arrivare al campo e lui non l'aveva vista scendere a nessuna delle due, l'uomo mi chiamò a casa per avere la conferma che fosse effettivamente salita. Passai dei momenti terribili. Quando mi richiamò mi disse che, a quanto pareva, Sheila si era seduta ai piedi di un sedile vicino a una delle ruote posteriori, dove entrava aria calda, e si era addormentata. Da quando lo aveva scoperto, si rannicchiava regolarmente in quel posticino caldo e vibrante e dormiva per tutta l'ora del tragitto, sia all'andata che al ritorno. Dopo quell'episodio, il conducente controllò sempre che fosse sveglia per scendere alla sua fermata. I ragazzi più grandi, che in principio non facevano nemmeno finta di vederla, cominciarono a tenerle libero quell'angolino, ammucchiandovi anche le borse dei libri e i maglioni per farle da cuscino; qualcuno di loro, poi, l'accompagnava a casa quando aveva l'aria troppo assonnata perché ci si potesse fidare a mandarla sola. Un problema apparentemente insolubile era invece il padre di Sheila. Avevo cercato in ogni modo di mettermi in contatto con lui. Poiché non aveva il telefono, diedi a Sheila un biglietto in cui gli chiedevo di venire a scuola. Nessuna risposta. Mandai un secondo biglietto. Ancora nessuna risposta. Così gli mandai un terzo messaggio, per comunicargli che quella sera stessa sarei andata da lui. Quando, al tramonto, Anton e io arrivammo al campo, in casa non c'era nessuno. Avevo la netta sensazione che non
volesse vedermi. Alla fine contattai l'assistente sociale di Sheila. Andammo là insieme, ma ad accoglierci c'era soltanto Sheila. Suo padre se n'era andato. Avevo urgente bisogno di vederlo. Soprattutto volevo fare in modo che Sheila avesse dei vestiti adatti. Di questo avevo già parlato all'assistente sociale. Sebbene Sheila avesse soltanto una salopette e una maglietta, la mia preoccupazione maggiore era ciò che indossava sopra. Aveva soltanto un leggero giubbotto maschile di cotone, a vita, come quelli da baseball. Eravamo in gennaio, e lei non aveva né guanti né cappello né stivali. Quasi ogni giorno la temperatura scendeva a sei gradi sotto zero, a volte anche più giù, e Sheila doveva farsi una lunga camminata per arrivare a scuola, dato che l'autobus la lasciava davanti alle superiori, due isolati più in là. Nei giorni più freddi, per la disperazione, l'avevo accompagnata io in macchina. Durante l'intervallo le davo qualcos'altro da mettersi, ma l'unica volta in cui le mandai a casa della roba, Sheila me la riportò in un sacchetto di carta, dicendomi tutta imbarazzata che si era presa una sculacciata per aver accettato la carità. L'assistente sociale mi spiegò che avevano cercato ripetutamente di mettersi in contatto col padre per parlargli di questo problema, e una volta l'avevano persino accompagnato in centro a comperare degli abiti per Sheila con il suo sussidio. Ma evidentemente in seguito li aveva riportati al negozio. Non si poteva obbligarlo, disse con un'alzata di spalle. Non voleva mettere Sheila nei guai insistendo troppo, perché sapeva che l'uomo avrebbe sfogato la sua rabbia sulla figlia. Quella non era forse violenza sui minori?, avevo domandato. Tecnicamente no. Sheila non aveva nessun segno di violenza. Quando l'assistente sociale era uscita, per lo sconforto avevo sbattuto con violenza la porta. Non aveva nessun segno, eh? E allora che cosa ci faceva nella mia classe? Se quello non era un segno, quali erano i segni? In classe, durante le lezioni, cercavo di aiutare Sheila a recuperare tutte le esperienze di cui la vita l'aveva crudelmente privata. Lei rinasceva. Ogni momento della sua giornata era ricco di scoperte e di dialogo. Nelle prime settimane mi seguiva tutto il giorno. Ovunque andassi, quando mi giravo, lei era lì, che si stringeva al petto un libro o una scatola di cubi. Quando i nostri sguardi s'incrociavano, lei sorrideva, un sorriso un po' vacuo, pronta a coinvolgermi e incurante del fatto che io dovevo dedicarmi anche agli altri bambini. A volte, in piedi alle mie spalle, aspettava pazientemente che avessi finito; altre, con un coraggio dettato dal desiderio di stabilire un contatto fisico, si afferrava con una manina incerta alla mia cintura. Anton diceva che quando giravo per la classe con Sheila dietro, appesa alla mia cintura come un pendolare nelle ore di punta, sembravo un convoglio della metropolitana. In quelle prime settimane di intensa dedizione, ero felice e allo stesso tempo seccata per le due ore che passavamo da sole a scuola. Il tempo per programmare le lezioni non c'era più. Con grande dispiacere di Chad, ogni sera dovevo portarmi a casa il lavoro. Anton brontolava che
non si riusciva più a discutere di niente a meno di non arrivare tutti e due alle sette e mezzo del mattino. Ma per Sheila questa situazione era l'ideale, Sheila aveva bisogno di tutta la mia attenzione. Per tutti i sei anni della sua vita era stata indesiderata, ignorata, respinta. Gettata fuori dalle automobili, gettata fuori dalla vita delle persone. Adesso c'era qualcuno ad abbracciarla, a parlarle, a coccolarla. Sheila assorbiva ogni istante di intimità che potevo darle. La perdita delle due ore dedicate alla programmazione aveva come risvolto positivo il fatto che ora non mi preoccupavo più molto quando, trascinandomela dietro tutto il giorno agganciata alla cintura, a volte dovevo ignorarla per lavorare con gli altri, perché sapevo che poi mi avrebbe avuta tutta per sé. Vedere Sheila fiorire ci faceva felici tutti: Anton, me, gli altri bambini. La Scatola del Coboldo era piena di bigliettini vergati da mani infantili. I bambini erano quasi tutti contenti che Sheila, ora, non puzzasse più tanto; e furono pronti a notare anche i suoi primi, timidi tentativi di essere gentile. Era chiaro che Sheila non aveva mai avuto molte possibilità di imparare le buone maniere. Aveva dovuto lottare per sopravvivere, e in queste condizioni rimane ben poco tempo per l'altruismo. Perciò, tutte le volte che aveva desiderato qualcosa, aveva dovuto conquistarla battendosi. Se qualcuno prendeva il posto che lei s'era scelto, lo strappava di lì con la forza; in classe, se un compagno aveva il giocattolo che lei voleva, glielo strappava di mano e lo metteva al sicuro, soffiando rabbiosa a chiunque tentasse di intromettersi. In quei momenti riusciva a essere addirittura più brusca e sgradevole di Peter, ma la sua era un'aggressività animalesca, priva di malignità. Mi rendevo conto che non sarebbe stato facile convincerla che si poteva agire diversamente, dopo che aveva passato tutti e sei gli anni della sua vita in questo modo. I miei rimproveri, i miei ammonimenti e le marce forzate verso l'angolo del silenzio non scalfivano - non apparentemente, almeno - il suo comportamento. Ma la Scatola del Coboldo sì. Ogni sera, quando leggevo i bigliettini e mi complimentavo con i bambini che se li erano guadagnati, Sheila pendeva dalle mie labbra. Alla fine contava avidamente i suoi e, se poteva, anche quelli dei compagni per vedere se ne avevano ricevuti più di lei. Io cercavo di evitare che lei lo facesse. Gli altri bambini non erano in competizione fra loro e non sentivano il bisogno di misurare il proprio valore sulla base dei bigliettini ricevuti. E non volevo che iniziassero a farlo. Ma Sheila non resisteva. La magra porzione di fiducia in se stessa che le era toccata non le dava pace. Voleva continuamente dimostrare di essere la migliore della classe, la più brava, la più diligente, la mia preferita. Quando vide che non mi prestavo a questo gioco, lei si dispose a ottenere questa dimostrazione dai bigliettini della Scatola del Coboldo. Ma la Scatola del Coboldo non l'accontentava. Se per dimostrarmi quant'era brava nella lettura o in matematica non doveva far altro che prendere un libro o fare un esercizio, non riusciva a capire in che modo poteva essere tanto gentile, o educata, o premurosa con gli altri da guadagnarsi dei messaggi.
Un pomeriggio, terminate le lezioni, era accanto al tavolo dove stavo studiando un esperimento scientifico. Perché Tyler riceve tanti bigliettini? chiese. Ne riceve più di tutti gli altri. Li scrivi tu? No, lo sai. Li scrivono tutti gli altri. Perché lei ne ha di più? disse sollevando di scatto la testa, bellicosa. Che cosa fa per piacere a tutti così tanto? Ci pensai su un momento. Vedi, anzitutto è gentile. Quando vuole qualche cosa la chiede e dice quasi sempre per favore. E anche grazie. Questo invoglia gli altri ad aiutarla e a cercare la sua compagnia, perché così rende tutto più piacevole. Sheila aggrottò la fronte, osservandosi le mani. Dopo una lunga pausa, mi guardò con aria di rimprovero. Allora perché non dici che vuoi che io dico per favore e grazie? Io non so che lo vuoi. Perché lo dici a Tyler e non a me? La guardai, stupita. Io non gliel'ho detto, Sheila. Tutti fanno così. A tutti piace che gli altri siano gentili. Ma io non lo so. Nessuno me lo dice, disse, accusatoria. Non so che tu vuoi che io faccio così. A pensarci, aveva ragione. Probabilmente non gliel'avevo mai detto. Era una di quelle cose che davo per scontate, soprattutto se avevo a che fare con una bambina intelligente come lei. Avevo supposto, semplicemente, che lei lo sapesse già. Ma avevo sbagliato, e tanto. Forse Sheila, nel suo ambiente, quelle parole non le aveva mai neppure sentite. O forse, prima di allora, non avevano avuto alcun significato per lei. Scusami, Sheila. Pensavo che lo sapessi. No, non lo so. Ma posso dire quelle parole, se vuoi. Annuii. Sì, sono belle parole, perché fanno sentire bene gli altri. E questo è importante. Agli altri piaci di più se le dici. Mi diranno che sono simpatica? Aiuteranno gli altri a capire che lo sei. E così, a poco a poco, incominciò a osservare ciò che gli altri facevano per essere gentili e premurosi. Quando non capiva, domandava. Altre volte, quando pensavo che le fosse sfuggito qualcosa, gliene parlavo a tu per tu nei nostri momenti di tranquillità. Provai con i quaderni. Ma costavano troppo e mi faceva rabbia vederli distrutti in una sola seduta. Provai anche la tecnica Barthuly, la plastificazione, visto che non avevamo l'aria condizionata. Ma era un'alternativa costosa e portava via molto tempo. E poi, quando si presentava a Sheila una scheda plastificata, lei, lì sulla sua sedia, si rifiutava di fare qualsiasi cosa. Provai a scrivere gli esercizi alla lavagna. Ma lei cancellava tutto non appena distoglievo lo sguardo. Sembrava che non ci fosse niente da fare. Il rifiuto di Sheila era totale. Se il compito richiedeva di scrivere, lei non lo guardava nemmeno. Questo accadeva sia per le schede degli esercizi che per quelle da colorare, persino per i lavoretti creativi. Non aveva nulla contro le esercitazioni orali, né contro il fatto che Anton o Whitney o io stessa riempissimo le schede al posto suo. Ma da sé non lo faceva.
Inutile dire che questo era motivo di notevoli conflitti fra noi. Feci di tutto per venirne a capo. La mandai nell'angolo del silenzio. Ma lei aveva la capacità di starsene seduta zitta e immobile così a lungo che mi pareva di non risolvere nulla. Non volevo che perdesse troppe lezioni. Durante la prima settimana, l'angolo del silenzio le era servito per imparare a controllarsi, ma adesso era diverso. L'angolo del silenzio non doveva essere un castigo. Perciò non mi preoccupavo quando un bambino seduto nell'angolo piangeva o si ribellava. Sapevo che aveva perso il controllo e che stava cercando di recuperarlo. Ma quando un bambino se ne stava lì seduto a far niente per troppo tempo, allora quello diventava un castigo vero e proprio. Di tanto in tanto, un castigo di pochi minuti ci voleva, ma non troppo lungo. Così, visto che dopo essere stata nell'angolo del silenzio per venti minuti si rifiutava ancora di lavorare sulle schede, lasciai perdere. Era senz'altro più importante che Sheila partecipasse al lavoro di classe che non vincere con la forza. E poi mi preoccupava il fatto che, dietro al suo rifiuto, si nascondesse qualcos'altro. A meno che non fosse in collera, non erano molte le cose che Sheila si rifiutava ostinatamente di fare. Già da tempo avevamo messo in chiaro chi comandava in classe e non mi pareva che stesse cercando di mettere in discussione questo punto. In altre cose arrivava persino a eccessi ridicoli, pur di compiacermi, perciò ero sicura che non si ostinasse al solo scopo di farmi dispetto. Invece mi indispettiva, eccome. Dopo la terza settimana ne ero ossessionata: finite le lezioni, entravo come una furia nella sala professori e me la prendevo con i colleghi. La sera, toccava a Chad sopportare il peso della mia frustrazione. Alla fine, in preda alla disperazione, un giorno fotocopiai una scheda su un'intera risma di fogli. Presi Sheila di peso, la portai a un tavolo e la feci sedere per fare matematica. Ero pronta a rimanere lì all'infinito e a consumare se necessario, tutti e cinquecento i fogli. Oggi facciamo questo compito di matematica, Sheila. Voglio soltanto che tu faccia questo compito, i problemi non sono difficili. Mi guardò con diffidenza. Non lo voglio fare. Oggi non sei tu che decidi. Con un dito tamburellavo nervosamente sul tavolo. Forza, si comincia. Aveva lo sguardo fisso su di me. Si capiva che era confusa da quella situazione. Non l'avevo mai costretta a un confronto così diretto e sembrava che non sapesse cosa aspettarsi da me. Io ero agitatissima, con lo stomaco contratto e il cuore che mi batteva forte. Per una frazione di secondo provai il desiderio di arrendermi, ma la rabbia per tutte quelle settimane di rifiuti ebbe la meglio. Fa' il compito. La mia voce suonava più alta e più acuta di quanto non volessi. Mi chinai per prendere una matita e gliela misi in mano. Ho detto di fare il compito e adesso lo fai, Sheila. Lei accartocciò il primo foglio. Io lo lisciai con cura e lo
fissai al tavolo col nastro adesivo. Lo strappò con la biro. Lottammo con accanimento, io che le mettevo davanti altri fogli e lei che li strappava. L'ora di matematica passava e, ai nostri piedi, i fogli strappati aumentavano. Gli altri bambini si alzarono per la ricreazione. Sheila si guardò intorno preoccupata. L'ora della ricreazione era il suo momento preferito e già vedeva Tyler che si impossessava dei suoi giocattoli preferiti. Finisci questo compito e poi potrai andare, dichiarai attaccando un'altra scheda al tavolo. Ero più calma, ora, ma mi rimaneva ancora una specie di ansia soffocata, che mi accelerava i battiti del cuore. Sheila stava perdendo la pazienza. Respirava affannosamente, con dei piccoli brontolii di rabbia. Via via, le misi davanti un'altra mezza dozzina di fogli. Spostando la mia sedia verso la sua, la bloccai contro il tavolo. Poi attaccai un altro foglio. Tenendo abbassata la sua mano libera, presi l'altra nella mia. Se non sei capace da sola, ti aiuto io, Sheila, dissi, ostinata. Avevo la camicia zuppa di sudore. Sheila incominciò a urlare così forte che mi ferì le orecchie. Per fortuna era mancina come me, così potevo guidare la sua mano. Le chiesi di risolvere il primo problema. Dapprima non volle dirlo, ma poi urlò la soluzione con rabbia. Le spinsi la mano sul foglio e le feci scrivere un 3. Sheila lottava con violenza per liberare la sedia dalla mia presa, tentando di mordermi. E ora, secondo problema. Di nuovo, le tirai fuori a forza la soluzione e la costrinsi a scriverla. Lottammo per tutto il resto dell'ora di ricreazione e terminammo il compito con lei che urlava e io che le guidavo la mano. Non appena allentai la presa, strappò la scheda dal nastro adesivo e la fece a pezzi, senza darmi il tempo di fermarla. Rabbiosa, mi buttò i pezzi di carta in faccia e si liberò rovesciando la sedia a terra. Correndo verso l'altro lato della stanza, si voltò verso di me e mi guardò torva. ti odio! urlò con quanto fiato aveva in gola. Gli altri bambini, che stavano finendo la merenda, si fermarono a guardarci. Ti odio! Ti odio! Ti odio! Poi, sopraffatta dalla frustrazione, continuò a gridare frasi incoerenti, in piedi nell'angolo delle gabbiette degli animali. Anton portò fuori gli altri bambini per l'intervallo, ma io rimasi seduta al tavolo. Aspettandomi che esplodesse in una delle sue ire distruttive, mi tenevo pronta a fermarla. Ma non successe niente. Dopo qualche minuto si ricompose e smise di gridare, ma rimase in mezzo alla stanza a guardarmi con aria di rimprovero. Pareva sul punto d¡ piangere, gli angoli della bocca all'ingiù e il mento tremante. Cominciavo a sentirmi spregevole. Nei suoi occhi traspariva tutta la sua delusione nel vedermi agire in modo tanto ostile. Mentre la guardavo, capivo di aver sbagliato. Ero stata presa dalla disperazione, e l'istinto didattico di farle fare il compito aveva travolto il mio buon senso. Ma non avrei dovuto permettere che accadesse. Avevo sbagliato. Mi detestavo per essermi lasciata andare a quel modo per una cosa così poco importante.
La guardai. Dentro di me si agitavano sentimenti sgradevoli: rammarico, dubbi su me stessa. Avevo distrutto il nostro rapporto? Da quando era arrivata, tre settimane prima, avevamo fatto tanti passi avanti. Avevo rovinato tutto in una sola mattina? Lei mi osservava. Per lunghi, interminabili momenti ci guardammo in silenzio. Poi, lentamente, Sheila mi venne vicino. Teneva ancora gli occhi su di me: occhi grandi, accusatori. Si fermò dall'altra parte del tavolo. Con la punta delle dita tracciò un disegno invisibile e prima di rialzare lo sguardo su di me lo studiò attentamente. Tu non essere molto buona con me. La voce era carica di emozione. No, credo di non essere stata buona con te. Di nuovo il silenzio. Mi dispiace, Sheila. Non avrei dovuto farlo. Non dovresti essere cattiva con me. io essere una delle tue bambine. Scusami. Mi irritava soltanto il fatto che tu non volessi fare i compiti. Volevo che tu facessi i compiti come tutti gli altri. Il fatto che tu non li faccia mi fa infuriare, perché per me è importante che tu li faccia. Ero arrabbiata. Mi studiò a lungo. Sporgeva il labbro inferiore e gli occhi avevano un'espressione ferita, ma, seppure esitando mi si accostò. Ti piaccio ancora? Certo che mi piaci ancora. Ma ti arrabbi con me e mi sgridi. A volte ci si arrabbia. Anche con le persone che ci piacciono molto. Questo non vuol dire che non ci piacciano più. Siamo soltanto arrabbiati. E dopo un po' la rabbia se ne va e gli altri tornano a piacerci. Tu mi piaci ancora, come sempre. Lei strinse le labbra. Non ti odio veramente. Lo so. Eri soltanto arrabbiata con me. Tu mi sgridi. Non mi piace che mi sgridi così. Mi fa male alle orecchie. Senti, Sheila, ho sbagliato. Mi spiace. Ma ormai è successo. Scusami. Per ora non pensiamo più ai compiti. Li faremo un'altra volta, quando avrai voglia. Io non avrò mai voglia. Mi sentii cadere le braccia. D'accordo, allora non ne faremo mai. Mi lanciò uno sguardo interrogativo. Ma i compiti bisogna farli. Sospirai, stanca. No, non credo. Ci sono cose più importanti. E poi un giorno, magari, ti sentirai di farli. Allora li faremo. E così abbandonai la guerra dei compiti. O, almeno, la battaglia. Non riesco a capire quel lato della natura umana che permette a una persona di impuntarsi su questioni senza importanza fino a pensare che il mondo crollerà se le cose non vanno nel modo esatto in cui si vuole che vadano. Una volta liberatami dall'idea della lotta, non riuscivo più
a capire perché me la fossi presa tanto. Eppure, in quelle prime settimane, era successo. CAPITOLO SESTO Il secondo problema di Sheila era molto più serio e molto più difficile da risolvere. Sheila aveva sviluppato un senso della vendetta senza limiti. Se veniva contrariata o ingannata, ricambiava con una forza devastante. La sua intelligenza rendeva tutto ancora più terribile, perché le dava modo di capire rapidamente quali fossero le cose cui una persona teneva di più ed era proprio su queste che faceva leva. Se durante l'intervallo, Sarah la prendeva a palle di neve, Sheila distruggeva sistematicamente tutti i lavoretti della bambina esposti nell'aula. Per Sarah, che era molto creativa, era il peggior dispetto. Una volta Anton rimproverò Sheila perché correva nell'atrio per andare a pranzo, e lei, una volta tornata in classe, soffocò tutti i topolini appena nati che quella mattina Anton si era fatto prestare dal figlio per portarli a scuola. Quella fredda capacità di vedere chiaramente dove colpire per fare più male mi dava i brividi. Ma si spinse anche oltre la distruzione dei compiti e dei topolini. La vendetta era calcolata e duratura, e spesso per incidenti non intenzionali. Sheila doveva essere sorvegliata continuamente. Riusciva a sfuggirci anche quando pensavamo di vigilare su di lei. Il momento più pericoloso della giornata era l'ora del pranzo. Né Anton né io volevamo rinunciare alla nostra unica pausa per vigilare costantemente su Sheila. Le donne addette alla mensa avevano chiaramente ancora paura di lei, benché ora le badassero di più. Un giorno, mentre Anton e io eravamo nella sala insegnanti a finire i nostri panini, una sorvegliante venne da noi urlando frasi sconnesse in cui era chiaro solo il nome di Sheila. Temendo che si ripetesse l'incubo del primo giorno, ci precipitammo dietro di lei. Sheila era andata nell'aula di un'altra insegnante. Nel giro di nemmeno un quarto d'ora aveva seminato la distruzione. I banchi erano tutti fuori posto o rovesciati a terra, gli oggetti personali sparpagliati dappertutto. Le veneziane erano state strappate, i libri scaraventati a terra, lo schermo del proiettore a pezzi. In pochi minuti, aveva distrutto quanto più poteva. Spalancai la porta con violenza. Sheila! Lei si voltò di scatto, gli occhi incupiti e minacciosi. In mano stringeva una bacchetta. Mettila giù! Mi fissò a lungo, ma alla fine posò la bacchetta. Era con noi da tre settimane. Ormai sapeva quando facevo sul serio. Se fossi riuscita a farla smettere e a convincerla a venirmi vicino, avrei potuto farla uscire di lì con calma. Sapevo bene che non dovevo spaventarla, altrimenti sarebbe scappata. Se fosse corsa via avrebbe fatto altri danni e si sarebbe agitata al punto che non sarebbe stato più possibile ragionare con lei. Negli occhi aveva già l'espressione terrorizzata dell'animale braccato e io mi resi conto che le ci voleva poco per perdere il controllo. Dinanzi a quello spettacolo di distruzione, non sapevo
che cosa fare. Mi prese un grande sconforto nel vedere che Sheila si comportava in quel modo e che io avevo lasciato che accadesse. Farla sedere nell'angolo del silenzio non sembrava un adeguato risarcimento per dei danni di centinaia di dollari. E poi quella non era nemmeno la mia aula. La faccenda non era più di mia competenza. Quando ebbi persuaso Sheila a venire alla porta, il signor Collins e la signora Holmes, l'insegnante di quella classe, erano già dietro di me. Dopo che finalmente ebbi afferrato la mano di Sheila, Collins attaccò a tuonare. Credo che avesse tutte le ragioni di farlo. Ma sapevo anche che cosa comportava la sua soluzione al problema. Lui era della vecchia scuola, dove per certi sbagli si ricorreva per lo più al battipanni. Agguantò il braccio di Sheila. Io la stavo già tenendo per una bretella della salopette e non la lasciavo andare. Ci scambiammo un'occhiata senza parlare. La tenevamo tutti e due. E io non potevo lasciargliela. Non potevo, dopo tutto quel tempo passato a rassicurarla che nessuno le avrebbe fatto del male. Ne aveva già prese tante, di botte, in passato. E troppe persone non avevano mantenuto le promesse che le avevano fatto. Non potevo permettere che questo accadesse ancora una volta. Nessuno di noi aveva aperto bocca. Ma questo non toglieva nulla alla violenza della sfida. Sotto la mano, sentivo la tensione di Sheila. Quando alla fine il signor Collins parlò, gli uscì un bisbiglio rauco, a denti stretti, con cui chiarì non soltanto che Sheila doveva scendere nel suo ufficio a prendersi una dose di sculacciate, ma che anch'io sarei andata con loro. Dio mio, pensai mentre tiravamo Sheila da una parte e dall'altra come due cani che si contendono un osso. Non avrei dovuto litigare. Ma come fare altrimenti? Non potevo essere d'accordo con lui. E certamente non volevo che Sheila pensasse il contrario. Ci soffiavamo addosso, parlando a scatti. Stava perdendo la pazienza. Per l'amor di Dio, signorina Hayden, adesso lei viene subito con me, altrimenti da domani si ritrova senza lavoro. Di questo può star sicura. È chiaro? Lo guardai fisso. In quel momento mi vennero in mente diverse cose. Avevo un incarico. Ero iscritta al sindacato. Lui non aveva il potere di licenziarmi. Pensavo a tutte queste cose, ma emergevano soltanto al livello professionale della coscienza. Ciò che sentivo nelle viscere era paura. Che cosa sarebbe stato di me se fossi stata licenziata? Sarei riuscita a trovare un altro incarico d'insegnamento in città? Chi si sarebbe occupato della mia classe? Avevo alle spalle una serie di atti impulsivi e sconsiderati. Anche questa volta sarebbe andata così? E per che cosa, poi? Per una bambina destinata all'ospedale di stato? Stavo per perdere il lavoro per una ragazzina che conoscevo appena
da tre settimane, che prima o poi sarebbe comunque andata via e della quale, a quanto pareva, non si faceva carico nessuno. Che cosa avrebbero pensato di me tutti quanti, se avessi perso il posto? Chad mi avrebbe voluta ancora? Come l'avrei spiegato a mia madre? Che cosa avrebbe pensato la gente? Con la peggiore scusa di tutte, lasciai andare la bretella. Il signor Collins si voltò e portò Sheila giù nell'atrio. Io li seguivo a distanza, sentendomi un giuda. Ma forse avevano ragione. Per due volte in tre settimane non ero riuscita a controllare quella bambina. Forse aveva davvero bisogno di un posto all'ospedale. Forse. Avevo perso ogni sicurezza. Nell'ufficio del signor Collins mi lasciai cadere su una sedia. Sheila era tranquilla. Molto più di me. Entrò al fianco del signor Collins e rimase in piedi remissiva, in silenzio e senza guardarmi. Il signor Collins chiuse la porta. Estrasse una lunga bacchetta dal cassetto della scrivania. Quando la sollevò verso Sheila, lei rimase impassibile. Ero furiosa. Perché doveva avere certi metodi educativi antidiluviani? Che uomo era? Mi prese un odio smisurato. Come poteva farmi questo? E io come potevo permetterglielo? Dopo aver detto tante volte a Sheila che non frustavo i bambini, ora che cosa avrebbe pensato di me? E che cosa potevo pensare io stessa di me, ora che sapevo che quando il gioco si faceva pesante badavo solo a salvarmi la pelle? All'improvviso, in mezzo a quei pensieri confusi, fui profondamente colpita dall'innocente coraggio di Sheila. Lei mi diede una breve occhiata e poi tornò a guardare il signor Collins. In quel momento sembrava una qualsiasi bimba di sei anni. Le labbra semiaperte scoprivano i vuoti lasciati dai dentini caduti. Gli occhi erano enormi, sgranati, e chi la conosceva poco non poteva scorgervi la paura. Vidi, fra i suoi capelli, i fermagli con le papere bianche e arancione e pensai a quanto le piacevano. Erano i suoi preferiti, il suo portafortuna, mi aveva detto un giorno. Ma questa volta di fortuna non ne hai avuta, piccola, pensai. Come tante altre volte prima d'allora. I fermagli con le papere mi parvero osceni, in quella circostanza. Lei rimaneva impassibile; nessuna bambina di sei anni sarebbe stata capace di fare lo stesso. Mi chiesi quante volte aveva visto un bastone. Eppure in lei persisteva una tale innocenza: i fermagli con le papere, i capelli lunghi e incredibilmente lisci che i codini trattenevano a stento, la vecchia salopette. Avevo voglia di piangere. Ma per me stessa, perché scoprivo, adesso, di non avere la sua forza. Mi venne un crampo allo stomaco. Non avrebbe mai dovuto succedere. Ma stava succedendo. E il signor Collins era lì, pronto. Capiva che cosa aveva fatto? le chiese. Nessuna risposta. Poteva anche essere sospesa, disse lui. Sapevo che la lezione era destinata tanto a Sheila quanto a me. Ci stava mettendo a posto tutt'e due. Disse a Sheila che avrebbe ricevuto tre bacchettate. Lei, sempre con le labbra strette, risucchiate tra i denti, lo guardò senza batter ciglio. Chinati e afferrati le caviglie. Lei lo fissò senza muoversi. Chinati e prenditi le caviglie, Sheila. Non si mosse. Se dovrò ripeterlo un'altra volta aggiungerò una quarta bacchettata. Chinati.
Sheila, ti prego, dissi. Fa' come ti dice, per favore. Ancora nessuna reazione. Per un attimo, dai suoi occhi mi arrivò un lampo. Il signor Collins la spinse bruscamente in giù e la bacchetta la colpì, rumorosamente. Dopo quel primo colpo, lei cadde sulle ginocchia, ma il viso rimase inalterato. Il signor Collins la risollevò in piedi. E giù un altro colpo. E di nuovo lei cadde sulle ginocchia. Dopo il terzo e poi il quarto colpo rimase in piedi. Ma non emise un gemito, non una lacrima spuntò nei suoi occhi. Era stato questo, sono sicura, a mandare il preside su tutte le furie. Io stavo seduta a guardare, come tramortita. Dopo tutte le mie promesse, eravamo arrivati a questo. Avevo faticato tanto, maledettamente, per quella bambina. Di solito non permettevo a me stessa di rendermi pienamente conto di quanto investivo nei bambini. Così come ripetutamente scacciavo tutte le piccole paure e le piccole delusioni quotidiane, mi nascondevo anche ciò che i bambini significavano per me. Perché sapevo che, se ne fossi stata consapevole, avrei provato uno sconforto ancora più grande se i miei bambini non ce la facevano. O se io non ce la facevo. Era questo che bruciava molti miei colleghi: sapere di tenerci troppo. Così cercavo di non vedere. Ero una sognatrice. Ma il mio sogno costava troppo. A tutti. Il signor Collins mi fece firmare una testimonianza dove dichiaravo di avere assistito alla punizione. Poi, cautamente, presi Sheila per mano e uscimmo nell'atrio. Non sapevo che cosa fare. La testa mi girava. Quando arrivai sulla porta dell'aula sbirciai dal vetro. Anton aveva iniziato le attività pomeridiane e Whitney era in classe. Tutto sembrava tranquillo. Guardai Sheila. Dobbiamo parlare, piccola. Bussai e attesi che Anton aprisse. Quando arrivò gli spiegai che volevo rimanere sola con Sheila per un po', che erano successe troppe cose e che avevo bisogno di sistemare alcune questioni. Gli chiesi se pensava che lui e Whitney se la sarebbero cavata durante la mia assenza e lui annuì con un sorriso. Così li lasciai, lui stagionale senza istruzione e lei ragazzina di quattordici anni, a tenere a bada otto piccoli matti. Fui colpita dal ridicolo della situazione e per poco non scoppiai a ridere. Ma la risata, in quel momento, non arrivò. Finii col portare Sheila nello stanzino dei libri; era l'unico posto dove non ci avrebbe disturbato nessuno. Trascinai dentro due sedie, accesi la luce e mi sedetti, chiudendomi la porta alle spalle. Per alcuni lunghi momenti ci guardammo fisso negli occhi. Perché fai queste cose? chiesi, con una voce carica di sconforto. Non ci riesci, a farmi parlare. O Dio, Sheila, basta con questa storia. Non ho voglia di giocare. Non farmi questo. Non saprei dire se era arrabbiata o cos'altro. Dentro di me volevo scusarmi con lei per essermi arresa e per averla lasciata nelle mani di Collins. Ma non lo feci. Era, più che altro, una mia necessità.
Volevo essere perdonata. Ci guardavamo senza parlare e il silenzio parve prolungarsi all'infinito. Alla fine scossi il capo e sospirai. Ero molto stanca. Senti, le cose non sono andate come dovevano. E mi dispiace. Ancora silenzio. Non voleva parlare con me. I suoi occhi mi fissavano, e io dovetti guardare altrove. Di là, i bambini si stavano preparando per l'intervallo con la solita allegra confusione; ogni tanto, si sentiva qualche colpo sordo contro la porta. Nello stanzino invece c'era un silenzio così profondo che nessuno avrebbe potuto immaginare la nostra presenza. La guardai. Distolsi lo sguardo. Poi la guardai ancora. Aveva gli occhi spalancati. In nome di Dio, Sheila, che cosa vuoi che faccia? Aveva le pupille dilatate. Sei arrabbiata con me? Be', direi di sì. In questo momento sono un po' arrabbiata con tutti. Mi picchierai? Mi caddero le braccia. No. Ti ho già detto un milione di volte che non picchio i bambini. Perché? La guardai incredula. Perché dovrei farlo? Non serve a molto, ti pare? A me serve. Dici davvero, Sheila? Quello che ti ha appena fatto il signor Collins ti serve? Mio papà, disse, piano, lui dice essere l'unico modo per farmi diventare buona. Mi frusta per farmi diventare più migliore, perché lui non mi lasciata mai su una strada come fatto mamma. Il cuore mi si sciolse. Mi ero tanto arrabbiata con lei, per tutti i guai che aveva combinato. Ma quando parlò, il cuore mi si sciolse. Dio mio, pensai, che cosa poteva mai aspettarsi questa bambina dagli altri? Allungai un braccio. Vieni qui, Sheila, fatti prendere in braccio. Venne senza farselo ripetere, salendomi in grembo in modo goffo, gattoni. Mi abbracciò e mi strinse forte. La premetti contro di me. Lo facevo più per me stessa che per lei, perché non sapevo che altro fare. Dio mio, com'era doloroso. Che cosa si poteva fare? Inutile dire che bisognava arginare quell'ansia di distruzione. Ma come? E che cos'erano poi, un po' di banchi rovesciati e qualche veneziana rotta in confronto a una bambina? Se anche avesse fatto danni per un milione di dollari, la sua vita non valeva di più? Se l'avessero espulsa dalla scuola, o sospesa, non sarebbe più ritornata. Ne sapevo abbastanza della scuola per esserne sicura. Prima o poi, come previsto, sarebbe andata all'ospedale di stato. E poi? Quali possibilità aveva una bambina di sei anni di uscire da un ospedale di stato e vivere una vita normale? Dubitavo che fosse mai successo. L'avremmo persa, e quasi nessuno si sarebbe accorto della sua esistenza. Quella ragazzina intelligente e creativa, che non aveva mai avuto un'opportunità nella vita, avrebbe continuato a non averne. Qualche vecchio banco valeva tanto? Che cosa facciamo, Sheila? le chiesi, cullandola fra le braccia. Non puoi continuare a fare queste cose. E io
non so come farti smettere. Non lo faccio più. Lo vorrei tanto. Ma non facciamo promesse che per ora non riusciremmo a mantenere, d'accordo? Voglio soltanto che tu mi dica perché l'hai fatto, tanto per cominciare. Voglio capirlo. Non so. Io essere arrabbiatissima con lei. Lei mi sgrida, al pranzo, ma non essere colpa mia. Essere colpa di Susannah e invece lei sgrida me. Io essere arrabbiatissima. La voce le tremava. Mi mandano via? Non so, tesoro. Non voglio che mi mandano via. La voce si acuì improvvisamente, fino a diventare un sottile squittio che tradiva l'avvicinarsi delle lacrime. Non lo faccio mai, mai più. Voglio rimanere. Voglio rimanere in questa scuola qui. Non lo faccio più. Promesso. Premette il visino contro di me. Le accarezzai i capelli, fra le papere. Sheila, le chiesi, non ti vedo mai piangere. Non hai mai voglia di piangere? Io non piango mai. Perché? Così nessuno mi può fare del male. Era terribile il tono freddo della sua dichiarazione. Che cosa vuoi dire? Così nessuno mi fa del male. Se non piango, gli altri non sanno se soffro oppure no. Così non possono farmi del male. E nessuno mi può far piangere. Nemmeno pa', quando mi frusta. Nemmeno il signor Collins. L'hai visto. Non piango nemmeno quando mi bastona. Hai visto, vero? Sì, ho visto. Ma non hai mai voglia di piangere? Non ti faceva male? Rimase a lungo in silenzio, poi mi prese una mano fra le sue. Un po' sì. Guardò in su. Uno sguardo imperscrutabile. Certe volte piango un pochino, di notte. Pa' arriva a casa moltissimo tardi e io devo rimanere da sola e mi viene paura. Certe volte piango un pochino e sento che si bagna qui, sugli occhi. Ma io me lo faccio passare. Piangere non serve a niente, e mi fa pensare a Jimmie e mamma. Mi fa sentire la loro mancanza. A volte serve, invece. A me non serve mai. Non piangerò mai. Mai. Si era messa a cavalcioni sulle mie ginocchia, col viso rivolto verso di me. Con le braccia le cingevo la schiena. Parlando giocherellava con i bottoni della mia camicetta. Tu piangi? chiese. Annuii. Qualche volta. Quando provo dolore, di solito piango. Non posso farci niente: piango. Ma mi fa sentire meglio. Fa bene piangere, in un certo senso. Lava via le ferite. Lei alzò le spalle. io non piango. Sheila, che cosa facciamo per rimediare a quello che hai fatto nella classe della signora Holmes? Alzò di nuovo le spalle. Finse di essere impegnata a rigirare uno dei miei bottoni. Voglio che tu mi dica che cosa ne pensi. Non ho intenzione di picchiarti e non credo che la sospensione sia una buona idea. Ma dobbiamo fare qualcosa.
Potresti mandarmi a sedere nell'angolo del silenzio per il resto della giornata e magari vietarmi per una settimana di giocare alla famiglia. O non farmi toccare le bambole. Non voglio punirti. L'ha già fatto il signor Collins. Voglio fare qualcosa per la signora Holmes. Voglio rimediare a quello che è successo là dentro. Seguì una pausa. Forse potrei mettere in ordine. Questa mi pare una buona idea. E dire che ti dispiace? Non potresti anche scusarti? Lei tirò forte il bottone. Non so. Non ti dispiace? Annuì lentamente. Mi spiace per quello che essere successo. È bene imparare a scusarsi. Rende più facili i rapporti con gli altri. Potresti esercitarti con me a chiedere scusa e a offrirti di rimettere tutto a posto, così poi sarà più facile. Io sarò la signora Holmes e ci eserciteremo insieme. Sheila mi abbracciò forte, premendo il viso sul mio petto. Prima però voglio che tu mi tieni stretta per un po'. Ho molto male al culetto e voglio aspettare che mi passa un po'. Adesso non voglio pensare. Con un sorriso la strinsi a me e rimanemmo sedute nella penombra dello stanzino: lei ad aspettare che passasse il dolore e le venisse il coraggio di affrontare la situazione; io ad aspettare che il mondo cambiasse. CAPITOLO SETTIMO Aveva il diritto di proteggersi a una minaccia con una precisa identità, come quella bambina, non si doveva permettere di aggirarsi a piede libero in una scuola pubblica. Doveva essere ricoverata nell'ospedale di stato. Perché non si trovava già là? Cercai di spiegargli i progressi che Sheila aveva fatto. Gli dissi che c'erano voluti solo tre giorni per insegnarle la disciplina e farla lavorare in classe in modo produttivo. Gli parlai del suo quoziente d'intelligenza, del suo passato di violenze e di abbandono. Implorai Ed di lasciarmela. Era stato soltanto un incidente, dissi. L'avrei sorvegliata meglio. Avrei rinunciato alla pausa del pranzo, se fosse stato necessario. Ma datemi la possibilità di riprovare, chiesi. Lasciatemi tentare un'altra volta. Sarei stata più attenta. L'atmosfera era opprimente. Ed mi spiegò che dovevano tenere in considerazione le forti pressioni da parte dei genitori. Quando i bambini della classe della signora Holmes avrebbero sparso la notizia, si sarebbero fatti sentire. E il tribunale aveva stabilito il ricovero di Sheila prima ancora che io entrassi in scena. La mia classe era una specie di anticamera. Non dovevo immischiarmi, disse Ed, cortese ma risoluto. La vicenda stava pregiudicando la mia capacità di giudizio. Sorrise tristemente. Che Sheila stesse facendo dei progressi lo rendeva felice, ma non era quello il motivo per cui era stata mandata nella mia classe. Era stata mandata lì in attesa che si liberasse un posto all'ospedale di stato. Solo per questo.
Mentre lo ascoltavo, mi venne un nodo alla gola e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Non volevo piangere di fronte a loro. Non volevo che sapessero quanto mi stavano facendo male. Ma già sentivo spuntare le lacrime. Razionalmente, mi esortavo a stare calma. La loro crudeltà non era intenzionale; anzi, forse non erano nemmeno crudeli. Ma a me lo sembravano. Che cosa mi stavano facendo, quei due maledetti? Io ero un'insegnante. Il mio lavoro era insegnare. Non ero una carceriera. O era proprio questo che Ed si era aspettato da me dandomi una classe così? Avevo mille recriminazioni da fare. Che cosa pensavano di Sheila? Era soltanto una bambina - una creatura di sei anni, impaurita, ferita e maltrattata. Che cosa aveva di tanto terribile? Ora mi dicevano che non dovevo preoccuparmi di lei, che era lì soltanto temporaneamente. Poteva anche rimanere seduta per mesi su una sedia, in attesa che si liberasse un posto all'ospedale, e poi se ne sarebbe andata. Evidentemente non avevo capito bene. Avevo creduto di dover essere la sua insegnante. Ed si sporse in avanti, puntando i gomiti sul tavolo e soffiandosi nelle mani. Cercò di rassicurarmi, mi disse di non prendermela. Era imbarazzato nel vedermi piangere, e per un attimo ne fui contenta. Volevo che tutti fossero infelici quanto me. Ma quell'attimo passò e di nuovo ci prese lo sconforto. Piangevo ancora quando uscii e mi misi in macchina per tornare a casa. Ero troppo risentita e amareggiata, quella sera, per calmarmi davanti al solito Star Trek. Il mio idealismo aveva subito un grave colpo. Avevo imparato che alcune persone non valevano nemmeno settecento dollari. Come sempre, Chad dimostrò di essere per me l'occhio del ciclone, là dove c'è calma. Ascoltando la mia esplosione di rabbia, scosse la testa bonariamente. Va' a letto, mi suggerì: non era grave come sembrava. Nonostante quello che provavo, non era una lotta fra me e il mondo. Come tutte le cose, anche questa si sarebbe risolta. Ma non ero dell'umore giusto per farmi placare, perciò mi chiusi in bagno e feci una doccia di tre quarti d'ora, piangendo tutto il tempo. Quando riemersi, Chad era ancora in salotto a far giocare il gatto con uno spago. Sorrise. Sorrisi anch'io. Ma non finì così male come avevo previsto. Tutti i bambini dovevano ricevere un'istruzione e in quel momento io ero l'unica fonte di istruzione per Sheila. Trovando un compromesso, Ed disse al signor Collins che avrebbe potuto incaricare qualcuno di sorvegliare la mia aula durante il pasto, per assicurarsi che Sheila non si allontanasse per nessun motivo, se non sotto il mio diretto controllo. La questione era sistemata, almeno per il momento. Nonostante lo scompiglio provocato dall'arrivo di Sheila in classe la situazione era tranquilla. I bambini si erano
abituati a lei e ora stavamo ridiventando un gruppo. Febbraio si era annunciato freddo e frizzante, e la Candelora prometteva altre sei settimane di gelo. Sheila si stava inserendo nel gruppo e tutti e dodici, insieme, eravamo abbastanza contenti. Apprezzai quegli inaspettati giorni di pace, che erano tanto rari nella nostra classe. Dal punto di vista scolastico, Sheila si era buttata a capofitto nel lavoro. Quasi non riuscivo a trovare materiale sufficiente per tenere occupata la sua mente vorace. Avevo abbandonato del tutto l'idea di farle fare i compiti scritti sebbene dovessi ammettere che ogni tanto ci pensavo ancora. Whitney, Anton e io la interrogavamo e discutevamo con lei di quello che faceva. Era una lettrice avida, consumava i libri prima ancora che gliene trovassi degli altri. Ero felice di questo nuovo interesse, perché senza le risposte scritte ai testi, che occupano gran parte delle ore di scuola, lei finiva rapidamente il lavoro assegnato. Quanto a socializzare, i progressi di Sheila erano più lenti, ma costanti. Lei e Sarah erano diventate amiche e stavano cominciando a condividere i tipici piaceri dell'amicizia fra bambine. Inoltre dissi a Sheila di aiutare Susannah Joy a imparare a distinguere i colori. Questo incarico ebbe molteplici effetti: mi assicurava un aiuto di cui avevo grande bisogno; occupava il tempo libero di Sheila; le attribuiva delle responsabilità e infine l'aiutava a capire gli aspetti più sottili dei rapporti interpersonali. Senza contare la spinta che la sua fiducia in se stessa ricevette. Era entusiasta di essere lei, una volta tanto, dalla parte di chi dava, e che qualcuno avesse bisogno di lei. Qualche volta, quando le lezioni erano finite, si fermava a preparare del materiale su cui lavorare il giorno dopo e parlava a lungo con Anton o con me di quel che poteva fare per aiutare Susannah. Quando la guardavo mi veniva da ridere: mi domandavo se agli occhi degli altri anch'io apparissi come lei. Ma Sheila prendeva quel lavoro con tale innocente serietà che mi guardavo bene dal prenderla in giro. Ormai cominciava a non sentire più il bisogno di venirmi dietro tutto il giorno. Mi osservava ancora molto e, se poteva, si sedeva accanto a me, ma non aveva più bisogno di un contatto fisico costante. Nei giorni più difficili, quando qualcosa era andato storto prima di arrivare a scuola, o quando i compagni la facevano arrabbiare, oppure quando io la rimproveravo, mi capitava ancora di sentirla aggrapparsi alla mia cintura, e per un po' mi seguiva in giro per la classe. La lasciavo fare; sapevo che voleva sentirsi sicura che non l'avrei abbandonata. Il confine fra dipendenza e assuefazione era molto sottile, ma avevo notato che all'inizio quasi tutti i bambini attraversavano un periodo di attaccamento e di coinvolgimento emotivo intensi. Sembrava, questa, una fase naturale; se tutto procedeva per il meglio, il bambino poi la superava, e nei rapporti con gli altri diventava abbastanza sicuro da non avere più bisogno di prove tangibili d'affetto. Lo stesso accadde con Sheila. Ci fu un risvolto positivo nell'incidente nell'aula della signora Holmes: riuscii a rintracciare il padre di Sheila. Una
sera dei primi di febbraio, dopo la scuola, Anton e io salimmo in macchina e andammo al campo degli stagionali. Sheila e suo padre abitavano accanto alla ferrovia, in una piccola baracca. Lui era un omone massiccio, alto quasi due metri, con un ventre enorme che gli straripava sulla cintura, un solo dente e un alito orribile. Quando arrivammo aveva in mano una lattina di birra ed era già ubriaco. Anton entrò nella baracca per primo. C'era un solo ambiente, diviso in due da una tenda. Da una parte c'era un divano marrone tutto ammaccato e dall'altra un letto. Nient'altro. Su tutto aleggiava il solito puzzo di urina. Il padre di Sheila ci venne dietro e ci fece cenno di sederci sul divano. Sheila era accovacciata nell'angolo accanto al letto, con gli occhi pieni di rabbia. Aveva finto di non vederci, ma sedeva raggomitolata su se stessa, come aveva fatto a scuola i primi giorni. Cominciai col dire che forse sarebbe stato meglio che Sheila uscisse, giacché dovevo parlare di alcune cose che avrebbero potuto farle male. Ma lui scosse il capo e con una mano accennò a Sheila. Lei deve rimanere in quell'angolo. Non c'è da fidarsi a lasciarla sola, quella ragazzina. L'altra sera ha cercato di dar fuoco a qualcosa giù per la via. Se non la tengo in casa, la polizia torna di sicuro. Poi continuò con altri particolari. Non è mia figlia, in realtà, ci spiegò, offrendo ad Anton una birra. E di quella puttana di sua madre. È sua, la bastarda. Non è mia figlia e si vede. Basta guardarla. Quella ragazzina non ha un osso buono in tutto il corpo. In vita mia non ho mai visto una bambina tanto brava a combinare guai. Anton e io ascoltavamo, ammutoliti. Ero mortificata per Sheila, per le cose che doveva ascoltare. Se le parlava a quel modo tutti i giorni, non c'era da meravigliarsi se pensava di valere così poco. Ma almeno, riflettei, rimaneva un fatto privato. Dirlo a noi in sua presenza, invece... Mi faceva orrore soltanto il fatto di trovarmi lì. Sembrava la scena di un romanzaccio da quattro soldi. Anton cercò di dire la sua, ma riuscì soltanto a far arrabbiare l'omaccione. Allora lo lasciammo parlare, temendo che la sua collera si riversasse su Sheila. Invece Jimmie... Lui sì era figlio mio. Mai visto un ragazzino migliore del mio Jimmie. E quella puttana se l'è portato via. Si alza così lo porta via, proprio sotto il mio naso. Ecco quello che ha fatto. E che cosa mi lascia? Mi lascia questa bastarda. Sospirò. Io l'avevo avvertita che se veniva anche una sola persona dalla scuola a parlarmi di lei non l'avrei dimenticato. Non sono venuta a lamentarmi di Sheila, mi affrettai a dire. Se la sta cavando bene in classe. Lui sbuffò. Per forza. In una classe piena di matti saprà bene come comportarsi. Cristo, non so più cosa fare con questa bambina, signora. La conversazione non progrediva. L'orrore mi aveva raggelato e avrei voluto farmi tanto piccola da infilarmi in
una crepa del pavimento per salvare Sheila dall'umiliazione. Ma non potevo, né potevo dire a suo padre di smettere. Cercai di dirgli che Sheila aveva il dono naturale di una prodigiosa intelligenza. Ma, di questo, a lui non importava nulla. Che bisogno ne aveva, chiese, se le serviva soltanto per combinare guai? Alla fine tornò a parlare del suo amato e perduto Jimmie. Incominciò a piangere: i lacrimoni gli rotolavano giù per le guance grassocce. Dov'era Jimmie? Dove l'avevano portato? E perché lui era rimasto con quel piccolo demonio, che secondo lui non era nemmeno sua figlia? Pur con un certo distacco, provavo dispiacere per quell'uomo. Penso che davvero amasse il figlioletto, e perderlo doveva essere stato duro. Confuso e immaturo com'era, vedeva in Sheila la causa della perdita di Jimmie. Se Sheila non fosse stata tanto intrattabile, forse la sua donna sarebbe rimasta. Non sapeva che cosa fare di Sheila, né di se stesso. Così beveva birra fino a ubriacarsi e piangeva davanti a due perfetti sconosciuti su trent'anni di vita trascorsi alla deriva. Nonostante l'estremo degrado delle condizioni di vita di Sheila, sapevo che sarebbe stato difficile toglierla alla tutela del padre. Non mancavano certo gli emarginati, nella comunità. Gli stagionali, il penitenziario, l'ospedale di stato: tutto insieme formava una città nella città, talmente estesa che la comunità madre non riusciva a far fronte a tutto. Non c'erano abbastanza operatori sociali, istituti per l'infanzia e fondi d'assistenza per porre rimedio a quelle sciagure umane. Soltanto i bambini più gravemente maltrattati venivano tolti alle famiglie; per gli altri non c'erano posti a sufficienza. Ma chiesi lo stesso al padre di Sheila se aveva preso in considerazione di darla in adozione, dal momento che stava passando momenti tanto difficili. Sbagliai a fare quella domanda. Dalle lacrime passò alla rabbia. Si tirò su agitando minacciosamente le braccia. Chi ero io per consigliargli di dar via la sua bambina? Che razza di persona ero? Non aveva mai accettato aiuto da nessuno prima d'allora; era abbastanza uomo da risolvere i problemi che aveva senza il mio aiuto, grazie tante. Detto ciò, ci invitò, Anton e me, ad andarcene immediatamente. Infilammo la porta pieni di delusione, dolore e rabbia, sperando solo di non aver messo Sheila nei guai. Fu una visita penosa, e avrei voluto non averla mai fatta. Poi attraversai il campo fino alla casa di Anton. Anche la sua era poco più di una capanna. C'erano tre ambienti che divideva con la moglie e i due bambini. A una persona come me, cresciuta in un ambiente borghese, sembrava misera da far pietà, però era linda e ben tenuta. I mobili erano ridotti al minimo indispensabile, ma c'erano dei tappeti fatti a mano e dei cuscini ricamati, e un grande crocifisso su una parete della stanza principale. La moglie di Anton era allegra e ospitale, sebbene non parlasse l'inglese né io lo spagnolo. I figli erano due ragazzini vivaci e ciarlieri, che mi vennero in braccio a farmi ogni sorta di domande sulla classe dove lavorava il loro papà. Piccoli com'erano, si muovevano e si
esprimevano con tanta animazione che mi sembrarono dei geni, abituata com'ero, ormai, a considerare normali i miei bambini. Dividemmo in cinque tre coche e una scatola di biscotti, mentre Anton mi parlava, con pochissima convinzione, della possibilità di tornare sui banchi di scuola per prendere il diploma. Non mi aveva mai parlato dei suoi sogni segreti. Malgrado la diffidenza iniziale, si era affezionato ai bambini e sperava, un giorno, di insegnare in una classe sua. Era un sogno commovente, soprattutto perché temevo che non avrebbe mai potuto realizzarlo. Certo non si rendeva conto di quanto tempo e denaro sarebbero occorsi per arrivare al diploma. Non dissi nulla, però: la moglie era troppo felice di sentir fare questi progetti e i bambini facevano salti di gioia al pensiero che il loro papà sarebbe diventato un insegnante vero e che un giorno forse sarebbero vissuti in una casa vera e avrebbero avuto delle biciclette. E poi non mi ero ancora ripresa dall'emozione della visita dall'altra parte del campo, e mi chiedevo che cosa stesse accadendo nella baracca accanto ai binari della ferrovia. Nelle due ore che passavo da sola con Sheila dopo la scuola, avevo cominciato a leggerle dei brani ad alta voce. Era perfettamente in grado di leggere da sé la maggior parte dei libri, ma io volevo starle vicino il più possibile e dividere con lei alcuni dei miei libri preferiti. Inoltre aveva sempre bisogno di qualche spiegazione perché, con un'infanzia povera come la sua, c'erano molte cose che non capiva. Non perché non conoscesse il significato delle parole, ma perché non aveva idea di come si collegassero alla vita reale. Ad esempio, in Charlotte's Web, Sheila si domandò a lungo perché mai la bambina volesse tenere Wilbur, il maialino. Dopo tutto era un maialino nano. Nella mente di Sheila era del tutto comprensibile che il padre non lo volesse tenere. Le spiegai che Fern lo amava perché era piccolo, e perché non c'era nulla da fare se era nano. Ma Sheila non riusciva ad afferrare il concetto. La sua vita si basava rigorosamente sulla legge della sopravvivenza del più forte. Così, sedute nell'angolo destinato alla lettura e circondate di cuscini, leggevo per lei, tenendola in grembo. Quando non capiva una parola o un passo ne parlavamo, spesso avventurandoci in lunghe discussioni su ciò che accadeva. Ero affascinata da questa ragazzina che ragionava con l'innocenza e la spontaneità di un bambino e la comprensione di un adulto; e mi spaventava la percezione immediata che aveva delle cose, perché il più delle volte coglieva la nuda verità. Ma il modo infantile con cui collegava le cose mi faceva sorridere. Una sera le portai Il piccolo principe. La chiamai: Sheila, ho un libro da leggere con te. Attraversò di corsa la stanza e mi si sedette in grembo; poi mi,strappò il libro di mano ed esaminò con cura tutte le figure. Quando cominciammo a leggerlo, si aggrappò ai miei jeans e non si mosse più.
Il piccolo principe è un libro breve, e dopo mezz'ora ero già a metà. Quando arrivammo al punto in cui si parla della volpe, lei si fece ancora più assorta. Mentre si dimenava per mettersi comoda, sentivo contro di me le sue piccole anche ossute. Vieni a giocare con me, le propose il piccolo principe, sono così triste... Non posso giocare con te, disse la volpe, non sono addomesticata. Ah! scusa, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: Che cosa vuol dire 'addomesticare'? È una cosa da molti dimenticata. Vuol dire creare dei legami... Creare dei legami? Certo, disse la volpe. Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo... La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio, perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me, è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticata. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano... La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: Per favore... addomesticami, disse. Volentieri, rispose il piccolo principe, ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose. Non si conoscono che le cose che si addomesticano, disse la volpe. Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami! Che bisogna fare? domandò il piccolo principe. Bisogna essere pazienti, rispose la volpe. In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino... Sheila posò una mano sulla pagina. Leggilo ancora. Rilessi il brano. Lei si rigirò sulle mie ginocchia per
guardarmi e mi fissò a lungo. Questo essere quello che fai tu, vero? Che vuoi dire? Essere quello che tu fatto con me, no? Addomesticarmi. Sorrisi. Essere proprio come dice il libro, ti ricordi? Io sono tanto spaventata e corro nella palestra e poi tu entri e ti siedi per terra. Ti ricordi? E bagno i pantaloni, ricordi? Ho tanta paura. Penso che tu mi dai un sacco di botte, perché quel giorno io combinato molti guai. Ma tu rimani lì seduta per terra. E a poco a poco mi vieni più vicino, più vicino. Mi stavi addomesticando, vero? Sorrisi, incredula. Sì, forse ti stavo addomesticando. Mi addomestichi. Proprio come il piccolo principe addomestica la volpe. Proprio come tu addomestichi me. E adesso io essere speciale per te, vero? Proprio come la volpe. Sì, sei proprio speciale, Sheila. Fece ancora un giro su se stessa per accomodarsi di nuovo in grembo a me. Leggi il resto. Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: Ah! disse la volpe ...piangerò. La colpa è tua, disse il piccolo principe, io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi... È vero, disse la volpe. Ma piangerai! disse il piccolo principe. È certo, disse la volpe. Ma allora che ci guadagni? Ci guadagno, disse la volpe, il colore del grano. Poi soggiunse: Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto. Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose. Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente, disse. Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo. E le rose erano a disagio. Voi siete belle, ma siete vuote, disse ancora. Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa.
E ritornò dalla volpe. Addio, disse. Addio, disse la volpe. Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi. L'essenziale è invisibile agli occhi, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante. È il tempo che ho perduto per la mia rosa... sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa... Sheila scivolò giù dalle mie ginocchia e si accoccolò in modo da potermi guardare dritto negli occhi. Tu essere responsabile di me. Mi addomestichi, quindi ora essere responsabile di me. Per alcuni istanti guardai nel fondo dei suoi occhi insondabili. Non ero sicura di che cosa mi stesse chiedendo. Si protese verso l'alto e mi mise le braccia attorno al collo senza levarmi lo sguardo di dosso. Anch'io ti addomestico un pochino, vero? Tu addomestichi me e io addomestico te. E adesso anch'io essere responsabile di te, vero? Annuii. Lei mi lasciò andare e si sedette. Per un attimo si svagò a tracciare col dito un disegno sul tappeto. Perché lo fai? domandò. Che cosa, Sheil? Addomesticarmi. Non sapevo cosa dire. I suoi occhi color acquamarina si alzarono su di me. Perché ci tieni? Non riesco a capirlo, questo. Perché vuoi proprio addomesticarmi? Frugai veloce nella mia mente. A lezione di didattica o di psicopedagogia non mi avevano mai detto che avrei avuto dei bambini come lei. Ero impreparata. Mi pareva uno di quei momenti in cui se solo fossi riuscita a trovare le parole giuste... Piccola mia, non c'è una vera ragione, credo. Mi sembrava soltanto la cosa più giusta da fare. Essere come per la volpe? Adesso io essere speciale perché mi addomestichi? Io essere una bambina speciale? Sorrisi. Sì, tu sei la mia bambina speciale. È come dice la volpe: ora che ti ho fatto diventare amica mia, tu sei unica al mondo. Credo di avere sempre voluto che tu fossi la mia bambina speciale. Credo che sia questo il motivo per cui ti ho addomesticata. Mi vuoi bene? Annuii. Anch'io ti voglio bene. Tu essere la mia persona speciale migliore al mondo. Sdraiata sulla moquette con la testa posata sulle mie gambe, Sheila giocherellava con un pezzetto di garza che aveva
trovato per terra. Mi preparai a riprendere la lettura. Torey? Sì? Tu non mi lascerai mai? Le toccai la frangetta e gliela scostai dal viso. Be', immagino che un giorno succederà. Quando sarà finita la scuola e tu cambierai classe e maestra. Ma non prima di allora, e di tempo ce n'è ancora molto. Lei scattò in piedi. Tu essere la mia maestra. Non avrò mai un'altra maestra. Adesso sono la tua maestra. Ma un giorno non lo sarò più. Scosse il capo; gli occhi si erano incupiti. Questa qui essere la mia classe. E io rimarrò qui per sempre. C'è ancora molto tempo. Quando sarà il momento, sarai pronta. Nossignore. Tu mi addomestichi; tu essere responsabile di me. Non mi potrai mai lasciare, perché responsabile di me, per sempre. Dice così, lì, ed essere quello che tu fatto con me. Quindi essere colpa tua se sono stata addomesticata. Senti, tesoro, dissi prendendola in braccio, non pensarci. Ma tu mi lascerai, disse in tono accusatorio, sottraendosi alle mie braccia. Proprio come fatto mamma. E Jimmie. E tutti quanti. Pa', anche lui lo farebbe se non lo mettessero in prigione. Questo detto lui. Tu essere come tutti gli altri. Anche tu mi lascerai. Anche dopo avermi addomesticata e anche se non ti avevo chiesto di farlo. Non sarà così, Sheila. Non ti lascerò. Rimarrò qui. Quando la scuola sarà finita, è vero, cambierà qualcosa, ma non ti lascerò. Sarà come dice il libro: il piccolo principe ha addomesticato la volpe e ora non c'è più, ma in realtà continuerà a essere con la volpe, perché ogni volta che la volpe vedrà i campi di grano, penserà al piccolo principe. Si ricorderà quanto il piccolo principe l'amava. Per noi sarà lo stesso. Ci ameremo sempre. Allora lasciarsi sarà più facile, perché ogni volta che ci si ricorda di una persona che ci ama, si sente un po' del suo amore. Non è vero. Si sente solo la sua mancanza. L'attirai verso di me. Non si voleva convincere. Vedi adesso è un po' troppo difficile pensarci. Non sei ancora pronta per andartene, e io non ti voglio lasciare. Ma un giorno sarai pronta, e sarà tutto più facile. No. Non essere mai pronta. La stavo cullando tra le braccia, stringendola forte. In quel momento l'idea le faceva troppa paura. Non sapevo come affrontare la questione, perché prima o poi sarebbe successo: o per andare all'ospedale di stato o al termine dell'anno scolastico. Avevo ragione di sospettare che l'anno dopo la mia classe non sarebbe più esistita, quindi non c'erano proprio speranze di averla con me, in seguito. Così, il momento si stava avvicinando, e dubitavo che di lì a soli quattro mesi lei si sarebbe sentita tanto diversa da come si sentiva ora. Sheila si lasciava cullare. Studiava la mia faccia. Piangerai?
Quando? Quando te ne andrai. Ti ricordi che cosa dice la volpe? Se ci si lascia addomesticare si corre il rischio di piangere. E ha ragione. Un po' si piange. Ogni volta che qualcuno se ne va si piange un po'. L'amore fa male, a volte. A volte fa piangere. Io piango per Jimmie e per la mamma. Ma la mamma non mi ama per niente. Non lo so. è successo tutto prima che ti conoscessi e non ho mai conosciuto la tua mamma. Ma non posso credere che non ti amasse almeno un po'. è molto difficile non amare i propri figli. Ma mi ha abbandonata su una strada. È una cosa che non fai se ami tuo figlio. Me l'ha detto papà. Ti ripeto, non lo so. Non so chi ha ragione. Ma non è sempre così. Io non ti abbandonerò mai in quel modo. Quando la scuola sarà finita e tu andrai da qualche altra parte, noi saremo ancora insieme, anche se non ci vedremo. Perché, come diceva la volpe, ogni volta che vedeva un campo di grano, pensava al piccolo principe. Così, in un modo un po' speciale, il piccolo principe era con lei. Lo stesso sarà per noi. Io non voglio campi di grano. Voglio te. Ma anche questo è speciale, Sheil. All'inizio sarà un po' triste, ma poi andrà meglio, e alla fine sarà bello. Ogni volta che penseremo a noi, ci sentiremo bene dentro. I chilometri di distanza non saranno mai abbastanza per farci dimenticare quanto siamo state felici. Niente ti può portare via i ricordi. Premette il visino contro di me. Non ci voglio pensare. No, hai ragione. Non è il momento di preoccuparsene. C'è n'è ancora di strada da fare. Nel frattempo penseremo ad altro. CAPITOLO OTTAVO Anche se non ne ero più ossessionata, la guerra del compito scritto non era uscita del tutto dai miei pensieri. In primo luogo era molto faticoso tenere Sheila occupata senza un adulto che lavorasse costantemente con lei. Inoltre temevo che nessuna insegnante delle classi regolari l'avrebbe accettata se si fosse rifiutata di scrivere. Nella nostra classe potevamo anche chiudere un occhio, ma un'insegnante di una classe regolare, con altri venticinque bambini e un programma scolastico da rispettare, non si sarebbe mai potuta permettere simili capricci. Infine, temevo che lei si stesse rendendo conto di quanta attenzione attirava, da parte degli adulti, con il suo comportamento. Sheila era perfettamente in grado di rispondere a quasi tutte le domande che riuscivamo a escogitare per lei, ma ci teneva moltissimo ad avere sempre a sua disposizione Anton o Whitney o me, e a recitare le risposte. Questo era inaccettabile persino nella nostra classe. Non avevo ancora un'idea precisa del motivo per cui si ostinava a non voler scrivere. Sospettavo che, in parte, la spiegazione stesse nel timore dell'insuccesso. Non affidando nulla alla carta, sarebbe stato impossibile provare che
aveva commesso un errore. E Sheila si affliggeva sempre quando sbagliava e quando veniva corretta, per quanto delicatamente lo si facesse. Un giorno, con noncuranza, era uscita fuori a dire che suo padre l'aveva trattata male una volta che lei aveva portato a casa un compito, e questo mi aveva fatto venire un terribile sospetto. Ma era stata maltrattata chi sa quante volte da lui, e dubitavo che proprio quel fatto potesse essere la causa della sua fobia. Forse, più semplicemente, era tanto intelligente da capire che il suo metodo, oltre a farle risparmiare un bel po' di lavoro, le consentiva di ricevere l'attenzione che desiderava tanto. Era un aspetto che non avevo preso in considerazione, dato che una bambina intelligente sa come raggiungere lo stesso scopo in molti altri modi, e fu Anton, dopo una giornata particolarmente faticosa, a dar voce a questa impressione. Ma c'era una cosa cui Sheila resisteva sempre meno. In classe incoraggiavo molto la scrittura creativa. Ciascun bambino teneva un diario dove registrava impressioni, avvenimenti e altro. Spesso, quando avevo delle discussioni con un bambino e uno di noi o entrambi ci arrabbiavamo, lui aveva imparato che era nel diario che poteva sfogare i suoi sentimenti. Così, i bambini scribacchiavano sui loro quaderni per buona parte della giornata. Ogni sera li esaminavo e lasciavo annotazioni e commenti su ciò che avevano scritto. Si trattava di un dialogo privato, che consentiva di scoprire quel che l'altro provava. Allo stesso modo, quasi ogni giorno assegnavo dei compiti scritti, temi o altro. Avevo visto che, una volta appreso a scrivere con facilità e ad associare le parole ai sentimenti che riuscivano a evocare, tutti i bambini, persino Susannah, erano in grado, in certi casi, di esprimersi meglio per iscritto che a voce. Così, nella nostra classe girava una gran quantità di corrispondenza. Inutile dire che Sheila, con il disgusto che provava per la carta, non scriveva nulla. Ma questo doveva dispiacerle almeno un pochino. Durante l'ora di scrittura creativa, invece di andare nell'angolo della lettura o da qualche altra parte a giocare - come avrebbe dovuto - allungava il collo per vedere quello che i compagni stavano scrivendo, oppure gironzolava dall'uno all'altro. Alla fine, venne il giorno in cui non poté più trattenere la curiosità. Dopo la distribuzione dei fogli mi venne vicino. Se mi dai un foglio potrei scrivere qualcosa. Abbassai lo sguardo su di lei. Mi venne in mente che forse, con un po' di psicologia del rifiuto, avrei potuto ribaltare a mio favore tutta la battaglia. Così scossi il capo. No, questo è un compito scritto. Tu non fai mai compiti scritti, ricordi? Questo lo potrei fare. Non credo. Non voglio rischiare di sprecare altra carta con te. E comunque non ti piacerebbe. Va' a giocare., è più divertente. Si allontanò per qualche istante. Poi tornò indietro. Io ero china su William per aiutarlo a scrivere una parola. Sheila si attaccò alla mia cintura. ;Torey, lo voglio fare. Scossi il capo. No, non è vero.
Sì, invece. Ignorandola, tornai da William. Non sprecherò la carta. Sheila, scrivere è per i bambini che fanno i compiti scritti. Tu questo non lo fai, perciò scrivere non fa per te. Ma qualcosa potrei scrivere. Un pochino, magari, se solo posso avere un foglio. Scossi il capo. No, non ti piace scrivere. Me l'hai detto tu stessa. Non occorre che tu lo faccia. Va' a giocare adesso, così posso aiutare William. Rimase in piedi accanto a me. Poco dopo, visto che non otteneva alcun risultato, andò da Anton. E Torey che ha i fogli, disse lui indicandomi col dito. Devi chiedere a lei. Non me li vuole dare. Lui si strinse nelle spalle e roteò i grandi occhi marroni. Be', allora mi dispiace. Non ho fogli da darti. Sheila ritornò da me. Cominciava a arrabbiarsi e cercava di non darlo a vedere. Voglio che tu mi dia un pezzo di carta, Torey. Dammelo subito. Aggrottai le sopracciglia, con un'occhiata ammonitrice. Indispettita, pestò i piedi e sporse il labbro inferiore. Tornai a chinarmi su William. Allora cambiò tattica. Per favore, per favore. Non lo rovinerò. Non lo strapperò. Te lo giuro, possa morire. Per favore. La guardai. Non ti posso credere. Forse, se domani mi farai qualche scheda senza strapparla, allora domani pomeriggio ti darò dei fogli per l'ora di scrittura creativa. Li voglio adesso, Torey. Lo so. Ma dimostrami che mi posso fidare di te e domani potrai averli. Oggi ormai non c'è quasi più tempo. Mi guardò attentamente, cercando di escogitare un modo per farmi arrendere. Se mi dai un pezzo di carta scrivo una cosa che non sai di me. Ti scrivo un segreto. Me lo scriverai domani. A queste parole mandò un grugnito di rabbia e attraversò a gran passi la stanza fino all'altro tavolo. Scostò rumorosamente una sedia e vi si lasciò cadere, sbuffando e lanciandomi di quando in quando un'occhiata torva. Dentro di me sorrisi. Cominciava a essere astuta quando si arrabbiava, ora che aveva imparato a controllarsi. Poco dopo mi diressi verso di lei. Forse, se scrivi velocemente, potrei darti un foglio oggi. Alzò lo sguardo verso di me, in attesa. Però non lo strapperai. Non lo strapperò. E che cosa faremo se invece lo strapperai? Ho detto che non lo strapperò. Lo prometto. Farai altri compiti scritti se ti darò questo foglio? Annuì vigorosamente. Farai le schede di matematica? lei aggrottò la fronte, esasperata. Non avrò più tempo se continui a parlarmi tutto il giorno. Sogghignai, e le tesi un foglio. Sarà meglio che sia un bel segreto.
Stringendo il foglio con tutt'e due le mani, si precipitò verso l'altro tavolo e prese un pennarello. Già da un po' di tempo aveva messo gli occhi sulle penne, e ora, con il suo foglio tanto sudato, corse in fondo alla stanza, si infilò sotto la gabbia del coniglio e incominciò a scrivere. Velocemente. Siccome non scriveva da tanto tempo, mi aspettavo che avrebbe avuto qualche difficoltà. Ma, come tante altre volte, Sheila mi sorprese. Nel giro di pochi minuti era già di ritorno, col suo foglio ripiegato in un quadratino minuscolo. Mi venne vicino, esitante, mentre non guardavo e me lo mise in mano. Questo qui essere un segreto. Non farlo vedere in giro. Essere soltanto per te. Va bene. E cominciai ad aprire il foglio. No, non leggerlo adesso. Tienilo per dopo. Annuendo feci scivolare in tasca il quadratino di carta. Me ne dimenticai fino a tarda sera, quando mi spogliai per andare a letto e mi cadde dalla tasca. Lo raccolsi e lo lisciai con cura. Col pennarello blu c'era scritto ciò che per Sheila, riservata com'era, doveva essere un messaggio molto personale. Una cosa speciale voglio che tu sapia, ma non dirla a Nessuno. Tu sai che certe volte i bambini mi prendono in Giro e mi dicono brutte parole e che prima non mi mettevo Vestiti puliti. Ma qualche volta non li metto perche sai cosa succede ma perfavore non dire in giro che bagno il letto. Non lo faccio a posta Papà mi pesta quando lo viene a sapere ma di solito non lo viene a sapere. Non so propio perche Torey e cerco di non farlo più. Tu non ti arrabbi con me vero. Mio papà si ma io non lo faccio a posta davvero. mi da propio fastidio ma mi Vergogno. Papà dice che sono una bambina piccola ma presto compirò 7 anni quando succede non ci sono mutandine pulite e i bambini mi prendono in giro. Perfavore non dirlo a nessuno dei bambini va bene. E non dirlo neanche al signor Colinz. o ad Anton o a Whiteney o a nessuno va bene. Voglio che solo tu lo sapia. Ero commossa dalla sincerità di Sheila e stupita della sua capacità di scrivere. Fatte le debite proporzioni, si poteva dire che il biglietto era corretto, con la punteggiatura e l'ortografia quasi a posto. Mi sorprese che avesse usato solo, perché non ricordavo di averglielo mai sentito dire. Sorrisi tra me e le scrissi la mia risposta. Così, eravamo alla prima svolta nella guerra della carta. Il giorno dopo, con un po' di aiuto, riuscì a fare una scheda di matematica. Era corretta, e suggerii di esporla nella bacheca dei lavori ben fatti. Per Sheila questo era troppo e in seguito trovai la scheda stracciata nel cestino. Dopo di ciò feci più attenzione. Sheila imparò a fare due o tre compiti scritti senza il nostro aiuto. A volte capitava ancora che distruggesse il foglio quando era a metà del compito, o anche dopo averlo completato, soprattutto se era troppo difficile per lei. Ma se le davo un secondo foglio riprovava.
Non le sottolineavo mai gli errori, vista la sua riluttanza a mettere nero su bianco. Invece di farle delle osservazioni, sia pure a buon fine, Anton o io la tenevamo sempre d'occhio per aiutarla a trovare delle soluzioni alternative tutte le volte che stava sbagliando. Oppure non mi sbilanciavo troppo sui suoi progressi. Non era poi una questione tanto importante, malgrado ciò che mi diceva il mio istinto d'insegnante, e non volevo che pensasse che io misuravo le sue capacità in base al numero di schede fatte. Qualcun altro doveva averle già fatto capire una cosa del genere, e volevo che fosse chiaro che nella nostra classe questo non valeva. Indipendentemente dai problemi creati dalla sua diffidenza per la carta, doveva sapere che per noi valevano più i bambini delle schede. Fu interessante notare il grande sfogo che Sheila trovò nella scrittura creativa, dove pareva dimenticarsi delle antiche paure. Scriveva spontaneamente e a lungo; una dopo l'altra, le righe riempivano la pagina in quella sua grafia diseguale e un po' disordinata, a esprimere cose che spesso sembravano troppo intime da dire a voce. Ogni sera potevo contare su cinque o sei pagine in più depositate nel vassoio dei compiti da correggere. Non ho mai capito quale fosse il motivo della fobia che Sheila provava per la carta. Alcuni colloqui che in seguito ebbi con lei e alcuni suoi commenti al riguardo mi rafforzarono nell'opinione che la fobia fosse legata al timore dell'insuccesso. Ma non lo seppi mai con certezza. Né sentivo l'urgente necessità di saperlo, visto che sono rari i comportamenti umani riducibili così semplicemente in termini di causa-effetto. C'erano cose più importanti di cui occuparsi, cose più importanti che non scovare un misterioso e, in fondo, accademico perché. Allan, lo psicologo della scuola, ritornò poco dopo San Valentino con una serie completa di test per Sheila, compreso il test intellettivo Stanford-Binet. Con mia grande soddisfazione, sapevo che Sheila era una bambina dotata; lo dimostrava ogni giorno. Che cosa cambiava se il suo quoziente d'intelligenza era di 170, 175 o 180? Sarebbe stato, comunque, tanto al di sopra della norma che i numeri non avrebbero più avuto alcun significato. Nemmeno una variazione di trenta punti sarebbe stata significativa. Che il suo QI fosse 150 o 180, in ogni caso non avrei saputo come comportarmi con lei; era troppo diversa. Ma immagino che ad Allan facesse piacere esaminare un caso tanto interessante e che volesse sottoporre Sheila ad altri test più per imparare qualcosa che per aiutarla. Ero titubante, perché sapevo che presto sarebbe giunto il momento in cui avremmo dovuto affrontare le autorità che l'avevano destinata all'ospedale di stato. Di certo, quello non era il suo posto; ormai non avevo più dubbi. E speravo che, alla fine, i gloriosi punteggi dei test ci sarebbero tornati utili. Come era accaduto con gli altri test, Sheila fece saltare anche lo Stanford-Binet. Un risultato estrapolato le diede 182 punti di QI. Leggendo questa cifra, fui colpita da una sorta di fervore mistico; 182 è un punteggio al di là della
comprensione umana. Arriva tanto vicino al genio quanto un QI di 18 si avvicina al ritardo mentale. E tutti sanno quant'è diverso dal resto della popolazione un bambino con un QI di 18. Ma, al contrario, generalmente non ci si rende conto che un bambino con un QI di 182 è altrettanto diverso. Ciò che più mi commuoveva era pensare al modo in cui era giunta in possesso di una simile sapienza. Mi pareva quasi che ci dovesse essere una qualche anomalia, una lesione cerebrale all'inverso. Il padre di Sheila - ammesso che fosse suo padre - aveva un'intelligenza normale; e, da quanto potevo capire, anche la madre. Sheila aveva solo sei anni, e per sei anni era stata solo maltrattata, e allora dove aveva imparato il significato di parole come beni mobili? Come era potuto accadere? Mi sembrava quanto di più impossibile avessi mai visto. Fui addirittura presa dall'idea che potesse essere la prova vivente della reincarnazione. Non vedevo altra spiegazione per quella creatura straordinaria. Prima ancora di rendermi conto di che cosa stavo pensando, fui sopraffatta da un'altra emozione. Da un recesso della mia mente udii il motivetto di una pubblicità televisiva che avevo visto tanto tempo prima: E terribile sprecare un cervello. Sentii le viscere contrarsi. Rimaneva tanto da fare per quella bambina, e il tempo era così poco. Non sapevo se ci sarebbe bastato. L'ultima settimana di febbraio dovevo parlare a un convegno in un altro stato. Avevo preso quell'impegno ancor prima che cominciasse la scuola, in autunno, e periodicamente ricordavo a Ed Somers che avevo sempre in progetto di parteciparvi. Ora che il momento si avvicinava, chiamai di nuovo Ed per combinare una supplenza. I bambini avevano già avuto una supplente in novembre, quando ero andata a un seminario di studi. Ero stata via solo un giorno, e avevo preparato i bambini, così era andato tutto liscio. Mi sembrava molto importante mettere alla prova la loro autonomia. Qualsiasi progresso avessero fatto con me durante l'anno sarebbe stato inutile se si fossero comportati in modo affidabile soltanto in mia presenza. Avevo visto molti validi insegnanti fallire in questa prova, più difficile di qualsiasi altra, ed ero terrorizzata al pensiero di fallire anch'io. Quel che più mi preoccupava era forse la mia tendenza a stabilire con i bambini un rapporto più intimo e più intenso di quanto facessero altri insegnanti nel mio stesso campo. Quando, coi loro modi più distaccati, li vedevo generare dipendenza, temevo di essere nei guai. Finora di guai non ce n'erano stati, ma facevo di tutto perché i miei bambini se la cavassero senza di me. Sheila però mi preoccupava. Era con noi da poco tempo ed era ancora molto dipendente. In quel momento, la vedevo come una tappa naturale per lei, ma temevo che una separazione, anche breve, potesse spaventarla. Il lunedì prima del convegno - sarei stata via giovedì e venerdì - accennai ai bambini, senza dar peso alla cosa, che sarei partita. Lo dissi ancora martedì. Né in un caso né
nell'altro Sheila parve badare alle mie parole. Ma il mercoledì, dopo pranzo, feci sedere i bambini e spiegai che per i due giorni successivi non sarei venuta a scuola. Sia Anton che Whitney sarebbero rimasti, e ci sarebbe stata una supplente. Tutto si sarebbe svolto come sempre e non c'era niente di cui preoccuparsi. Sarei ritornata il lunedì successivo, giorno in cui saremmo andati tutti in gita alla caserma dei pompieri. Parlammo di come dovevano comportarsi con la supplente, delle cose che potevano fare per aiutarla e di ciò che non dovevano fare. Ci esercitammo su come parlarle e su come affrontare le piccole crisi che saltavano sempre fuori con le supplenti. Tutti diedero il loro contributo alla discussione. Tutti tranne Sheila. Quando il significato delle mie parole le fu chiaro, mi guardò ansiosa. Alzò la mano. Sì, Sheila? Te ne andrai? Sì. È proprio questo il punto. Domani e venerdì non ci sarò, ma lunedì sarò di nuovo qui. Stiamo parlando proprio di questo. Te ne andrai? Cavolo, Sheila, disse Peter, sei sorda o cosa? Ne abbiamo parlato tutto il tempo. Te ne andrai? Annuii. Gli altri guardavano Sheila con aria stranita. Non ci sarai? Tornerò lunedì. Soltanto due giorni, poi sarò di nuovo qui. Si rannuvolò, e gli occhi si colmarono di ansia e diffidenza. Si alzò e indietreggiò verso l'angolo del gioco della famiglia, senza smettere di guardarmi. Continuai a rispondere alle domande e alla fine, quando tutti mi sembrarono soddisfatti, sciolsi il gruppo. Era quasi il momento dell'intervallo e poi dell'ora di cucina. Sheila rimase nell'angolo della famiglia a gingillarsi con i pentolini. Anton la chiamò e le disse di mettersi il cappotto per andar fuori con gli altri, ma lei rifiutò, fissandolo con aria di sfida e infilandosi il pollice in bocca. Feci cenno ad Anton di uscire e le andai vicina. Girai una sedia, mi ci sedetti e appoggiai il mento allo schienale. Sei arrabbiata con me, vero? Non mi dici mai che vai via. Sì che l'ho detto, Sheila. L'ho detto lunedì e ieri, durante la riunione della mattina. Ma a me non l'hai detto. L'ho detto a tutti quanti. Scaraventò a terra un tegamino di latta, che fece un gran fracasso. Non è giusto che mi lasci. Non voglio. Lo so che non vuoi e mi dispiace per te di dover partire. Ma ritorno, Sheila. Starò via soltanto due giorni. Non mi piacerai più, mai più. Non farò mai più quello che mi chiederai. Tu essere tanto cattiva con me. Mi addomestichi per piacermi e poi mi lasci. Così non si fa, lo sai? Mia mamma fatto lo stesso e non è una bella cosa da fare
ai bambini. Ti mettono in prigione se abbandoni i bambini. Lo dice papà. Sheila, non è così. Non voglio sentirti. Non voglio sentirti mai più. Mi piacevi e tu essere cattiva con me. Te ne andrai e mi lascerai e mi avevi detto che non l'avresti fatto. Essere una cosa cattivissima da fare a una bambina che addomestichi. Non lo sai? Sheila, ascoltami... Non ti ascolterò mai più. Capito? La sua voce si udiva appena, ma era carica di emozione. Ti odio. La guardai. Teneva il viso rivolto altrove. Per la prima volta da quando era arrivata la vidi portare il dito a un occhio per fermare una lacrima che non voleva cadere. In preda al panico, si premette forte le tempie, cercando d'imporre alle lacrime di tornare indietro. Guarda che cosa mi fai fare, mormorò in tono accusatorio. Mi fai piangere e non voglio. Lo sai che non mi piace piangere. Ti odio più di ogni altro e qui dentro non starò mai più bene. Qualsiasi cosa accada. Per un istante le lacrime le brillarono negli occhi. Ma non caddero. Mi sfrecciò davanti, agguantò il suo giubbotto e corse in cortile. Presi anch'io la giacca e raggiunsi i bambini. Sheila era seduta da sola nell'angolo più lontano. Curva contro il gelido vento di febbraio, sedeva con la faccia nascosta fra le braccia. Non la stiamo prendendo tanto bene, vero? disse Anton. No, purtroppo. Dopo l'intervallo, mentre i compagni si preparavano all'ora di cucina, Sheila rimase nell'angolo della famiglia a rovistare rumorosamente fra i pentolini. La lasciai fare. Era sconvolta, e aveva ragione di esserlo. Isolata dagli altri, stava affrontando bene la propria angoscia. Niente collera, niente disastri, niente corse pazze. Ero sorpresa e compiaciuta per il modo in cui se la stava cavando. In due mesi ne aveva fatta di strada. Gli altri bambini cercarono di convincerla a unirsi a loro. Tyler, sempre materna, la soffocò di premure finché Whitney le disse di tornare ai suoi dolci. Peter continuava a chiedere come mai non veniva lì con noi. Gli spiegai che in quel momento Sheila era un po' arrabbiata e che cercava di dominarsi. Quando i dolci furono pronti e tutti si sedettero in cerchio a mangiare, andai da William e Guillermo. Tyler aveva portato alcuni dolci a Sheila, che se ne stava nell'angolo della famiglia, fra bambole e piattini. Guillermo mi fece vedere il nuovo orologio Braille che gli aveva regalato il nonno, e con William mi mise alla prova per vedere se ero capace di leggere a occhi chiusi. Torey, gridò Sarah dall'altro capo della stanza, vieni qui, Sheila sta male. Peter, deliziato, si precipitò a raggiungerla. Sheila ha vomitato dappertutto! Peter adorava i disastri più raccapriccianti. Anton andò a chiamare il bidello e io tornai a vedere che cosa era successo. Gli altri bambini si disposero a cerchio, formando tre anelli. Presi Sheila per mano e la feci sedere accanto a me. Le
scostai la frangetta dal viso e le misi una mano sulla fronte. Non scottava. Avrà un virus, disse Peter. Una notte,l'anno scorso, avrò vomitato un milione di volte sul letto e dappertutto, e mia mamma ha detto che avevo un virus. No, risposi. Non penso che Sheila sia malata. Penso che sia soltanto un po' nervosa per quello che è successo oggi, e che le abbia fatto male allo stomaco. E capitato anche a me una volta. Stava per arrivare mio zio, e io ero molto emozionato, disse William. E per questo sono stato male. Mi doveva portare a pescare. Peter sbuffò. Scommetto che sono stati i dolci di Tyler. Sarebbe meglio che andaste tutti a sedervi da qualche altra parte, dissi. Quando Anton tornò, portai Sheila in bagno a ripulirsi. Lei mi lasciava fare, ma non voleva saperne di guardarmi e di parlare. Così le lavai in silenzio il viso e i vestiti. Pensi che potresti rimettere ancora? chiesi. Nessuna risposta. Sheil, smettila. Adesso rispondi. Ti ho chiesto come ti senti. Rimetterai ancora? Non l'ho fatto apposta. Lo so. Ma volevo sapere se credi di rimettere ancora. Così, se è il caso, ci possiamo preparare. È quasi ora di andare a casa. Il mio autobus non arriva prima delle cinque. Penso che sia meglio che tu vada a casa appena finita la scuola. C'è una specie di regola, qui, per quando si vomita. Sull'autobus non ti farebbero salire. E poi penso che sia meglio per te andare a casa. Ti può accompagnare Anton. Ma non l'ho fatto apposta. Non lo farò più. Tesoro, non è questo il punto. Tu mi odi. Mi odi e non mi tratti bene neanche quando sto male. Tu essere tanto cattiva. Cominciavo a sentirmi esasperata. Sheila, non ti odio. Davvero, come posso convincerti che tornerò ancora? Starò via soltanto domani e venerdì. Solo due giorni. Poi tornerò. Non capisci? Mi prese lo sconforto. Sheila era una bambina intelligente e sapeva quanto duravano due giorni. Eppure rimaneva lì, in piedi, a non capire. Dubitavo che il suo vomito fosse qualcosa di più di una reazione fisica a una difficoltà emotiva, ma non sapevo che cosa fare per lei. Non voleva neppure ascoltarmi. Scuotendo il capo, mi rialzai. Poi mi strinsi nelle spalle. Vuoi che ti tenga un po' in braccio prima che venga l'ora di andare a casa? Forse servirà a rimettere a posto il tuo stomaco. Fece cenno di no. Il bidello stava uscendo in quel momento e i bambini cominciavano a prepararsi per andare a casa. Anton mi guardò con aria interrogativa. Allargai le braccia, sentendomi impotente. Gli altri bambini si stavano infilando i cappotti e Sheila, in piedi sulla porta del bagno, li osservava. Mi sembrò un po' pallida. Forse il mio giudizio era stato troppo avventato, forse era davvero un virus. Ma non lo credevo. Avevo troppa esperienza di stomaci ansiosi. In fondo, era un osso
duro quello contro cui stava lottando. Mi sedetti sulla sedia a dondolo e la guardai. Era ancora sulla porta. Sembravamo tanto distanti. Com'era fragile il filo che ci legava. Ero piena di sconforto per la mia incapacità di convincerla che, al contrario di tutti gli altri, io non l'avrei abbandonata. Ma sotto lo sconforto provavo un'enorme ammirazione per quella bambina. Era tanto forte, tanto coraggiosa. Non aveva nessun motivo di credere che non l'avrei tradita. Nulla, del suo passato, poteva indurla a pensare che sarei ritornata, e si stava comportando di conseguenza. Eppure, mentre mi guardava dalla porta, sul suo volto vedevo agitarsi dubbi, paura, dolore. Si stava sforzando di credermi, e nei suoi occhi si leggeva la lotta tra i sogni e la realtà della sua povera vita. Ero piena di rispetto per lei, un tormentoso e indicibile rispetto per lo sforzo che stava facendo. Era uno di quei momenti che rendono tutti gli altri degni di essere vissuti. Le nostre anime si stavano toccando. Tesi una mano. Vieni qui, Sheila. Fatti cullare. Lei esitò, poi si avvicinò lentamente. Senza dire una parola mi salì in grembo. È stata una giornata dura, vero? Si premette le dita sulle tempie. So che non capisci quello che sta accadendo, Sheila. Non capisci come posso farti questo pur continuando a volerti bene. La cullai, accarezzandole la frangetta di capelli morbidi come la seta. Devi solo fidarti di me. Il suo corpo era rigido contro il mio, come all'inizio. Non si lasciava andare. Tu mi hai addomesticata. Io non te l'ho chiesto, ma tu l'hai fatto. E adesso mi lasci. Non è giusto. Tu essere responsabile di me. L'hai detto tu. Mi meravigliai che avesse usato, all'improvviso, il tempo passato. Non l'aveva fatto quasi mai. Per favore, micetta, abbi fiducia in me. Ritornerò. Non sarà brutto come pensi. Anton rimarrà qui, e anche Whitney. E la supplente sarà simpatica, vedrai. Ti divertirai, se vorrai. Non rispose; sedeva premendosi forte le tempie con le dita. Non c'era nient'altro da dire. Non mi credeva, oppure non poteva spingersi tanto in là da ammetterlo. Ero troppo abituata alla sua abilità verbale. Certe volte dimenticavo che aveva solo sei anni. Dimenticavo che aveva tanti problemi e che era con noi da così poco tempo. Desiderare che capisse significava aspettarsi troppo da lei. CAPITOLO NONO Il convegno si teneva in uno stato della costa occidentale, dove in febbraio il clima era più mite. Chad venne con me e trascorremmo gran parte del tempo sulla spiaggia a passeggiare. Fu un bellissimo diversivo. Finché non mi capitavano momenti come quelli, in cui me ne andavo, raramente mi rendevo conto di quanto fossi legata ai bambini. Con loro avevo un rapporto intenso e logorante. Sul lavoro non riuscivo mai ad avvertire tutta la tensione che quel coinvolgimento mi causava. Ora, sulla spiaggia assolata, sentivo che la stanchezza se ne andava. Il convegno fu piacevole e la vacanza lo fu ancora di
più. Non pensai mai ai bambini se non di notte, a letto. Anche in quei momenti il ricordo era vago. Sapevo che durante la mia assenza avrebbero saputo badare a se stessi. Per Chad e per me fu come una rinascita spirituale. Dall'arrivo di Sheila, che si era dimostrato una vera sfida e che mi aveva costretta a portarmi il lavoro a casa, lo avevo trascurato. Ritornai lunedì mattina, ansiosa di rimettermi al lavoro. Per il pomeriggio c'era in programma la gita alla caserma dei pompieri e dovevo fare qualche telefonata per gli ultimi accordi e sentire i genitori che avevano promesso di collaborare. Quando ebbi finito, mentre andavo in classe, incontrai Anton nell'atrio. Sgranò gli occhi. Ne sono successe di cose, mentre eri via. Dal tono della sua voce era chiaro che le cose non erano state piacevoli e avevo paura di fare domande. Che cosa è successo? Sheila si è scatenata. Si rifiutava di parlare. Ha strappato tutto quello che c'era alle pareti e ha buttato giù tutti i libri dagli scaffali. Ha dato un pugno sul naso a Peter, gli è uscito il sangue. Non ha mai lavorato. Non riuscivo nemmeno a tenerla seduta sulla sedia. Giovedì ha rotto il giradischi. E venerdì pomeriggio ha cercato di spaccare il vetro della porta con una scarpa. Stai scherzando? No, certo che no. Gesù, vorrei che fosse uno scherzo, Torey. Era una furia scatenata. Santo cielo, mormorai, pensavo che avesse finito di fare disastri. Era un pezzo che non la vedevo così. Ha passato tutto il tempo nell'angolo del silenzio, e dovevamo tenerla lì incollata ogni momento. Si è comportata anche peggio di quando è arrivata. Ebbi un tuffo al cuore. Un grande pozzo nero di emozioni mi gorgogliava malinconicamente dentro. Avevo creduto davvero di potermi fidare di lei durante la mia assenza. Faceva male constatare di aver sbagliato. Mi sentii insultata personalmente. Mi ero fidata di lei, avevo contato sulla sua buona condotta, e lei mi aveva tradito. Avrei voluto parlarle subito, ma il suo autobus era in ritardo. Gli altri incominciavano ad arrivare, e tutti avevano qualcosa da raccontare. Dovevi vedere che cosa ha fatto Sheila, disse Sarah tutta eccitata. Ha distrutto tutta quanta l'aula. Sì, trillò Guillermo. La supplente, la signora Markhan l'ha sculacciata e l'ha mandata a sedere nell'angolo del silenzio e Whitney ha dovuto tenerla tutto il pomeriggio, perché lei non ci voleva stare. Peter mi saltellava attorno, con gli occhi neri che brillavano di piacere. E poi è stata molto cattiva con Whitney e Whitney ha pianto, e poi, indovina un po'? perfino la signora Markham si è messa a piangere. E Sarah piangeva, e Tyler piangeva. Tutte le bambine piangevano perché Sheila era così cattiva. Ma io no. Io gliele ho date. L'ho picchiata perché era stata cattiva. Sì, cattiva, confermò Max, volteggiandomi intorno.
Il mio cupo scoramento si tramutò in rabbia. Come aveva potuto farmi questo? A quanto pareva, si era comportata peggio di quanto non avesse mai fatto in mia presenza. Pensavo che avesse sufficiente autocontrollo da cavarsela per due giorni senza che io stessi a badarle tutto il tempo. Ero profondamente delusa, non sapevo più come prenderla. Mi si stava rivoltando contro; aveva fatto apposta a comportarsi così, e tutto il tempo che le avevo dedicato e tutti gli sforzi fatti per lei non erano serviti a nulla. Sheila arrivò dopo che avevamo già cominciato la discussione del mattino. Si sedette, guardandomi sospettosa, mentre tutt'intorno si diffondeva l'ormai familiare odore di urina stantia. Da quando ero partita non si era nemmeno preoccupata di lavarsi. Vedendola, il mio dispiacere non si attenuò. Stavo sulla difensiva, convinta che il suo comportamento fosse stato un attacco diretto alla mia credibilità d'insegnante. Aveva capito quali erano le cose che mi premevano di più e le usava per vendicarsi, come faceva con tutti gli altri. Più ci pensavo e peggio mi sentivo. Mi era più difficile accettare tutto questo che non l'incidente del primo giorno, o anche quello dell'aula della signora Holmes, perché in questo caso Sheila aveva puntato dritto contro di me. Dopo la discussione la chiamai. Ci sedemmo lontano dagli altri. Ho sentito che non ti sei comportata molto bene. Come puzzava. Impossibile leggerle dentro. Torno e non sento altro che le brutte cose che hai fatto. Adesso mi spieghi. Non disse nulla, ma mi guardava dritto negli occhi. Sono arrabbiata con te, Sheila. Da tanto tempo non ero così furiosa. Adesso voglio proprio sentire perché l'hai fatto. Ancora nessuna risposta. Dentro mi montava una gran rabbia nel vedere quello sguardo freddo e distante. In un attimo di disperazione l'afferrai per le spalle e la scrollai in malo modo. Dimmi qualcosa, accidenti! Parla! Ma chissà quali emozioni aveva dentro, e digrignò i denti. Inorridita per aver perso il controllo, la lasciai andare. Dio, quel lavoro cominciava a essere troppo per me. Lei rimase in un silenzio di pietra a guardarmi di traverso. La mia aggressività aveva fatto venire a galla la sua rabbia, ed eravamo ad armi pari, o forse lei era più armata. Questo era il suo mondo, il regno della forza fisica. Lo padroneggiava meglio di me e capivo che era stato un errore aggredirla a quel modo. Pensai che, prima di decidersi a parlare, avrebbe potuto sopportare ogni tipo di violenza fisica di cui fossi stata capace. Il mio disappunto cresceva. Ti avevo dato la mia fiducia, dissi, con una voce debole che non mascherava lo scoramento. Ti avevo dato la mia fiducia per due miseri giorni, Sheila. Mi ero fidata di te, non lo capisci? E sai come mi sento adesso che torno e mi dicono che ti sei comportata in quel modo?
Sheila esplose con una veemenza alla quale non ero preparata. Non ti ho mai detto di fidarti di me. Non te l'ho mai detto. L'hai detto tu! Non ho mai detto che potevi fidarti di me. Non puoi! Nessuno si può fidare di me! Non ti ho mai detto che ti potevi fidare! Fuggì via sbandando freneticamente per tutta l'aula prima di rifugiarsi sotto il tavolo delle gabbie. Era in preda a un'ansia così forte che dalla gola le uscivano dei piccoli rumori strozzati, che non erano né singhiozzi, né grida, né parole. Ma i sentimenti erano abbastanza chiari. La sua reazione mi aveva tanto sorpresa che rimasi immobile sulla sedia. Gli altri bambini si erano bloccati a guardarci, e a guardarsi l'un l'altro, turbati. Sempre seduta, io osservavo lei nel suo nascondiglio sotto il tavolo. Non sapevo che cosa fare. Bene, Sheila, questo pomeriggio tu non verrai con noi, dissi infine. Non porto in giro nessuno di cui non ci si possa fidare. Starai qui con Anton. Strisciò fuori da sotto il tavolo. Posso venire anch'io. No, mi spiace. Non posso fidarmi di te. Sembrava terrorizzata. Sapevo che la gita significava molto per lei. Le piaceva andare a spasso con noi. Posso venire anch'io. Scossi la testa. No. Sheila urlò, con quanto fiato aveva in gola. Era ancora vicina alle gabbie, e prese a saltare su e giù battendo l'aria con le mani. Sheila, smettila, altrimenti vai nell'angolo del silenzio. Subito. Era chiaro che aveva perso il controllo. Si gettò a terra e sbatté violentemente la testa contro il pavimento. Anton balzò rapido verso di lei per frenare quell'impeto autodistruttivo. Non aveva mai fatto nulla di simile prima d'allora; mi ero aspettata che venisse presa da uno dei suoi accessi distruttivi, e lo stesso dovevano aver pensato gli altri bambini, che di nascosto stavano togliendo di mezzo le loro cose. Ma prima d'allora non aveva mai tentato di far del male a se stessa. Altri lo facevano - Max e Susannah, in particolare - ma Sheila mai. Anton la teneva ben stretta fra le braccia. Lei lottava selvaggiamente, continuando a urlare, mentre io non riuscivo neppure a connettere. Poi smise di colpo, come di colpo aveva cominciato, e la stanza piombò in un silenzio mortale. Mi lanciai verso di lei, temendo che si fosse fatta male. Anton allentò la stretta e lei scivolò giù dalle sue braccia come burro fuso, raggomitolandosi sul pavimento. Teneva le braccia sopra la testa e la faccia contro la ruvida moquette. Stai bene, Sheila? domandai. Mi guardò. Per favore, lasciami venire, mormorò. Credo che sia meglio di no. Quello che era successo sotto i miei occhi mi aveva spaventato e ora temevo, se era
così che si comportava, che fuori da quella stanza non sarei riuscita a controllarla. Mi dispiace tanto per quello che ho fatto. Lasciami venire. Ti puoi fidare di me. Per favore, disse con un filo di voce. Mettimi alla prova. Ti farò vedere come so essere brava. Per favore. Voglio venire. La guardai. Mi stavo riprendendo e cominciavo a pensare che tutta quella violenza fosse stata solo una finta, vista la velocità con cui era passata. E questo rinnovò in parte la mia rabbia. Meglio di no, Sheila. Magari la prossima volta. Lei riprese a urlare, con il viso tra le mani, ma non si alzò. In quella posizione sembrava una bambola di pezza. Le voltai le spalle e tornai dagli altri bambini. Lei se ne stette tutta la mattina rannicchiata sul pavimento. Mandò ancora qualche grido, ma poi non aprì più bocca, non si mosse né alzò lo sguardo. Dapprima fui tentata di portarla nell'angolo del silenzio, ma cambiai idea. Mi sentivo sconfitta; non volevo litigare con lei. All'ora di pranzo, la mia forza d'animo era ormai svanita. Cominciavo a rendermi conto che mi ero arrabbiata perché lei aveva fatto venire a galla ciò che ritenevo fosse una mia carenza d'insegnante. Ero furiosa perché non potevo lasciarla sola, e perché aveva fatto a me ciò che le avevo visto fare a tanti altri. Non so come, ma avevo creduto, onestamente, che contro di me non si sarebbe mai vendicata. Prima d'allora non l'aveva mai fatto e avevo un'opinione di me stessa abbastanza alta da credere che non sarebbe mai accaduto. Ora che ero stata posta sullo stesso piano di tutti gli altri, mi sentivo ferita. Mi resi conto, con grande imbarazzo, che togliendole la gita le avevo reso pan per focaccia. Mi aveva fatto del male, e io avevo voluto che se ne pentisse. Tra tutte, avevo scelto consapevolmente proprio la punizione che l'avrebbe maggiormente ferita. Rendermene conto mi fece ancora più male. Che razza di egoista ero. Odiavo me stessa e odiavo il mondo, ma ero come svuotata e non vedevo come avrei potuto uscire da quella situazione assurda. All'ora di pranzo, mi scaricai la coscienza con Anton. Ragazzi, questa volta l'ho fatta grossa, borbottai al mio panino. Per quale motivo avevo voluto diventare un'insegnante se dominavo così male i miei sentimenti? Anton cercò di consolarmi. Sheila si era comportata molto male, mi ricordò. Ora avrebbe imparato a distinguere ciò che non doveva fare. Ma io mi sentivo una nullità. Povera piccola. Quello doveva essere un giorno felice per tutti e invece, appena tornata, avevo urlato come un'ossessa. Quello che lei aveva fatto non era poi tanto imprevedibile. Era sconvolta e lo stava dimostrando come meglio poteva. Diavolo, in fondo era proprio per questo che si trovava lì. Ma io? Per questo mi trovavo lì anch'io? Quel giorno avrebbe dovuto essere la gioiosa conferma del fatto che si poteva fidare di me; ero tornata, come avevo promesso. E invece mi ero infuriata con lei. E le avevo tolto qualcosa che lei nemmeno sapeva fosse in gioco. Dio, come potevo fare l'insegnante? Per tutto l'intervallo del pranzo mi sentii un mostro.
Non sapevo come rimediare. Anche scusandomi, non avrei potuto cancellare la mia esplosione di rabbia di quella mattina. Sbocconcellai l'ultimo panino, sempre più infelice. Sheila aveva ragione. Non aveva mai detto che avrei potuto fidarmi di lei. Ritornata in classe, le sedetti accanto. Gli altri bambini si stavano preparando a uscire, attesi dai genitori. Sheila era seduta in un angolo, sola. Tesoro, ti devo parlare. Questa mattina ho commesso un errore. Mi sono arrabbiata con te quando in realtà ero arrabbiata con me stessa. Ti ho detto che non potevi venire alla gita, ma ho cambiato idea. Puoi venire. Mi dispiace di essermi arrabbiata con te. Senza rispondere, senza nemmeno guardarmi, Sheila si alzò e andò a prendere il giubbotto. Più tardi, quando gli altri se ne furono andati, tra noi rimase ancora quel silenzio carico di tensione. Per tutto il pomeriggio avevo tentato di spezzarlo, superando me stessa nel far divertire e ridere tutti quanti. Ma Sheila se n'era rimasta in disparte, tenendo stretta la mano di Whitney. Rinunciai. Come in tutte le cose, il tempo sarebbe stato la medicina migliore. Ora stavo un po' meglio, sapendo di avere sbagliato ma sapendo anche, come aveva osservato Anton, che ero un essere umano. Incominciai a correggere i compiti. Avevo chiesto a Sheila se voleva che le leggessi qualcosa, ma lei aveva rifiutato e si era messa a giocare con le automobiline. Dopo un'ora, si alzò per andare alla finestra a osservare le ombre che si allungavano sulla neve. Quando alzai di nuovo gli occhi era ancora alla finestra, ma ora guardava me. Come mai ritorni? chiese con un filo di voce. Dovevo soltanto andare a un convegno. Non intendevo star via per sempre. Il mio lavoro è qui, con voi bambini. Ma come mai torni? Perché ho detto che sarei tornata. Qui mi piace. Lentamente si avvicinò al tavolo dov'ero seduta. I suoi occhi erano pieni di dolore. Non credevi proprio che sarei tornata, vero? Scosse il capo. Ci guardammo, in un tremendo abisso di silenzio. Cipolla, il coniglio, frusciò nella sua gabbia. Osservavo gli occhi di Sheila: grandi e fluidi, del colore dell'acqua profonda dove amavo tuffarmi. Mi chiesi che cosa stesse pensando. E mi resi conto con tristezza che non riusciamo mai a metterci nei panni degli altri. Né ad accettare fino in fondo questa verità, perché ci sentiamo onniscienti, nonostante i limiti imposti dalla carne. Soprattutto nei riguardi dei bambini. Ma come si sentono gli altri, non lo sappiamo davvero mai. Lei era lì in piedi, a torcere una bretella della salopette. Mi leggeresti ancora quel libro? Quale libro? Quello del ragazzino che addomestica la volpe.
Sorrisi. Va bene. CAPITOLO DECIMO Arrivò marzo, con il suo venticello tiepido: un sospirato sollievo per la terra stanca dell'inverno. Finalmente la neve si sciolse, e dall'acqua emerse, fra l'erba, un fango fresco e bruno. Quell'anno aspettavamo tutti con ansia la primavera. Era stato un inverno rigido, con più neve e freddo del solito. Anche a scuola fu un mese tranquillo, per quanto potesse essere tranquilla una classe come la mia. Non ci furono vacanze né interruzioni, sempre causa di tensione, e neppure cambiamenti imprevisti. Gli stagionali ritornavano dal sud; il campo si preparava a ricevere il grande afflusso. C'era grande agitazione, nella sala professori, per l'arrivo a scuola dei figli degli stagionali. Di questo, io non mi preoccupavo. Ma su Anton, il loro ritorno ebbe un effetto strano, dolce-amaro. Quando incominciarono ad arrivare i primi camion, Anton non vi fece cenno, ma diventò più taciturno e distratto. Fui io a parlarne. Volevo sapere se provava nostalgia per quella vita più libera. Alla mia domanda aveva sorriso, guardandomi con la compassione che riserviamo a chi non potrà mai capire. Poi prese una seggiolina e ci si lasciò cadere sopra con tutto il suo peso. No, mi spiegò, non provava nostalgia per la vita nomade. Non c'era niente, in quella vita, di cui avere nostalgia. Sorrise ancora, più a se stesso che a me. Ciò che lo colpiva, disse, era constatare quanto era cambiato da quando i camion, in autunno, se n'erano andati via; com'era diverso, ormai, da tutti gli altri; e come finora non si fosse accorto del cambiamento. Proprio così doveva sentirsi Rip van Winkle al suo risveglio, disse; poi rise, non credendo alle proprie orecchie. L'anno prima non sapeva neppure chi fosse, Rip van Winkle, e ora aveva più cose in comune con lui che con la propria gente. Lo osservai mentre parlava. Ne studiai i tratti latini, le ossa squadrate, le stigmate di una vita che troppo presto si era fatta dura. Tutt'e due eravamo cambiati; non sapevo dire come, ma certo eravamo cambiati radicalmente. Mi spaventava l'idea che si potesse influire tanto sulla vita degli altri: e per di più senza rendersene conto quasi mai, e mai, questo era certo, mentre accadeva. Per alcuni minuti rimanemmo seduti a guardarci: apertamente, con ammirazione, senza falsi pudori. Quante differenze: l'ambiente, il sesso, l'istruzione, tutto quanto. Eppure, non so come, eravamo riusciti ad avvicinarci. Questo lampo d'intesa ci ammutolì. Non c'era bisogno di parlare. Come le giunchiglie, Sheila sbocciò nonostante il rigido inverno. Ogni giorno arrivava a scuola con un nuovo miglioramento. Si può dire che ormai fosse sempre abbastanza pulita, tenuto conto della vita che faceva. La mattina entrava in classe saltellando e andava a lavarsi il viso e i denti. Le stava molto a cuore il suo aspetto, e si scrutava
attentamente allo specchio. Provammo delle nuove pettinature. A volte, finite le lezioni, giocavamo all'istituto di bellezza. Io la lasciavo affaccendarsi coi miei capelli lunghi e lei, in cambio, mi lasciava provare nuove acconciature per i suoi. Si era fatta davvero una bella ragazzina, e lo notavano anche gli altri insegnanti. Sarah e Sheila erano diventate grandi amiche, e più di una volta le sorpresi a scambiarsi bigliettini durante le lezioni. Finita la scuola, prima che arrivasse l'autobus, Sheila andava spesso a giocare a casa di Sarah. Al campo, giocava con Guillermo. Tyler faceva un po' troppo la smorfiosa per i suoi gusti, e Sheila snobbava le sue attenzioni materne. In generale, era un piacere vedere il successo che riscuoteva fra i compagni. Dal punto di vista scolastico, Sheila andava a gonfie vele. Faceva quasi tutto quello che le dicevo senza protestare. Capitava ancora che un foglio andasse distrutto, ma solo ogni tanto. E quando succedeva, aveva imparato a chiedermi un altro foglio. La facevo lavorare su brani di lettura per la terza elementare e su problemi di matematica per la quarta. In tutti e due i casi, il livello era forse troppo basso per le sue capacità, ma considerando il suo ambiente di provenienza e il suo timore di non farcela, preferivo darle dei compiti che, oltre a costituire un ripasso di quanto aveva già imparato, rafforzassero la sua fiducia in se stessa. Avrebbe voluto non sbagliare mai: ogni volta che dovevamo correggerla, si faceva prendere da lunghe crisi di mutismo, oppure si metteva a sospirare penosamente. Certi giorni andavano peggio di altri; Sheila, allora, passava tutto il tempo con la testa nascosta tra le braccia, disperata per non aver saputo risolvere un certo problema di matematica. Ma complessivamente le tragedie erano rare. Un po' di coccole e qualche parola di incoraggiamento di solito le davano la forza di riprovare. La scenata successa al mio ritorno dal convegno, per strano che potesse sembrarmi, non ebbe effetti negativi sulla sua stabilità emotiva. Aveva ripreso ad aggrapparsi alla mia cintura, ma solo per pochi giorni. E da allora non lo fece mai più. Parlammo molto di quell'episodio: evidentemente aveva bisogno di riviverlo, ancora e ancora. L'avevo lasciata. Ero tornata. Lei, furibonda, aveva distrutto tutto. Io, come lei, avevo perso la testa. Mi ero scusata e avevo ammesso di aver sbagliato. Sheila voleva ritornare su ogni scena del dramma, anche la più piccola, per discuterne con me, per dirmi quello che aveva provato, perché aveva vomitato e quanta paura aveva avuto. Ripeté quella storia tante di quelle volte che credevo non dovesse smettere mai. Nelle sue parole doveva esserci un qualche significato nascosto che non capivo fino in fondo, e la ripetizione rituale sembrava rassicurarla. Certo, era importante che io fossi ritornata, ma c'erano altre cose su cui si soffermava. Altrettanto significative, per lei, erano la rabbia e la risoluzione della crisi. Forse vedermi nel mio aspetto peggiore la rassicurava. Di me si poteva fidare, adesso che sapeva che cosa facevo quand'ero sconvolta e ce l'avevo con lei. A ogni modo, stava imparando a risolvere verbalmente i suoi problemi. Non aveva più bisogno del contatto fisico; bastavano le parole.
Stranamente, dopo il mio ritorno, quell'ansia di distruzione scomparve. Adesso, quando si arrabbiava (e accadeva ancora, con grande regolarità) non si faceva più trasportare dall'ira, gettando ogni cosa per terra e sbattendo di qua e di là come impazzita. E la vendetta non era più tanto importante. Avrei voluto capire meglio l'importanza di quell'incidente, visti i grandi mutamenti che portò nel comportamento di Sheila. Ma il quadro completo della situazione rimase sempre un mistero. Di problemi, Sheila ne aveva ancora tanti, anche se ora cominciava a essere più facile affrontarli e, in certi casi, risolverli. C'era una cosa, in lei, che ancora mi sconcertava, ed era il suo modo di parlare. L'incontro con suo padre aveva confermato che nel suo linguaggio la frequente mancanza del tempo passato e l'uso scorretto del verbo essere non avevano un'origine familiare. Non capivo proprio come mai con tutta la sua intelligenza, si ostinasse a parlare in un modo tanto strano, anche se col passar del tempo il suo linguaggio si andava sempre più normalizzando. In marzo decisi che era arrivato il momento di parlargliene, e le feci notare che, quando si riferivano al passato, alcune parole cambiavano. Sheila ebbe una reazione straordinariamente ostile: disse che, insomma, io la capivo, no? Quando risposi di sì, mi chiese se, allora, era tanto importante il modo in cui parlava. Fui presa alla sprovvista, perché mi divenne chiaro che il suo comportamento era più premeditato di quanto immaginassi. Nessuno sapeva darmi una spiegazione. Tutti gli esperti ai quali avevo mandato le registrazioni risposero che quello era un dialetto, e spesso mi chiedevano se la ragazzina era nera. Quando rispondevo che non era nera, no, e che quello non era un lessico familiare, loro non riuscivano a farsi venire in mente altre idee. Una sera ne discussi con Chad, e lui suggerì che forse, non usando il passato, lei stava tentando di ancorare ogni cosa al presente, per avere meglio il controllo della situazione. Più ci pensavo, più mi sembrava plausibile. Conclusi che era un problema psicologico e lasciai perdere. In fondo capivamo quello che diceva, e forse, un giorno, avrebbe raggiunto la serenità necessaria per voler cambiare. Per ora, non voleva. L'idea che ancora ossessionava Sheila era l'abbandono. Pensava continuamente alla madre e al fratello, e chissà dov'erano e che cosa stavano facendo. Spesso, di qualsiasi cosa parlasse, se ne veniva fuori con certe osservazioni su come la sua sarebbe stata ancora una vera famiglia, se lei non avesse fatto la tal cosa, o la tal'altra. Dentro di me, pensavo che questo dipendeva dalla sua grande paura di non riuscire. Sheila era bravissima in matematica e la amava molto. Quando era arrivata fra noi, sapeva già risolvere i problemi a base di moltiplicazioni e divisioni. Insieme, poi, avevamo affrontato tecniche più complesse. Un giorno, durante l'intervallo, aveva scovato nel cestino della carta un problema per l'esame di quinta elementare, e si era messa
a lavorarci su, dopo le lezioni. Quando ebbe finito, venne a mostrarmelo. Si trattava di frazioni. Era un argomento che non avevamo ancora affrontato, perciò, non avendo invertito il divisore, aveva sbagliato tutto. Ecco fatto. È giusto?, mi chiese, consegnandomi il foglio. Rimasi a guardarlo, non sapendo che cosa era meglio fare, se indicarle o meno l'errore. Sheila, adesso ti spiego una cosa. Girai il foglio, disegnai un cerchio e lo divisi in quattro. Ora, per sapere quanti ottavi ci sono qui... Lei capì immediatamente che il modo in cui aveva risolto il problema non era quello giusto. Ho sbagliato, vero? Non potevi sapere come si faceva. Nessuno te l'ha mai detto. Si lasciò cadere accanto a me e si coprì la faccia con le mani. Volevo fare tutto giusto e farti vedere che ero capace di farlo da sola. Sheil, non è una cosa grave. Rimase seduta per qualche istante con la faccia nascosta. Poi, lentamente, fece scivolare le mani sul foglio che aveva accartocciato e cominciò a lisciarlo. Lo so, se avessi fatto bene i compiti di matematica, la mia mamma non mi avrebbe abbandonata su una strada. Se fossi stata capace di risolvere dei problemi di quinta, lei sarebbe fiera di me. I problemi di matematica non c'entrano niente con questa storia, Sheila. Non possiamo sapere perché la tua mamma se n'è andata. Probabilmente aveva un sacco di problemi suoi, problemi personali. Se n'è andata perché non mi voleva più bene. Se vuoi bene a un bambino non lo lasci sull'autostrada. E, guarda, mi sono anche fatta un taglio sulla gamba. Mi fece vedere quella cicatrice per la centesima volta. Se fossi stata più brava non l'avrebbe fatto. Forse mi vorrebbe ancora bene, se fossi stata più brava. Questo non possiamo saperlo, Sheil. È stato brutto, ma è passato. Non credo che essere brava o no avrebbe cambiato molto le cose. La tua mamma aveva i suoi problemi da risolvere. Secondo me, ti voleva molto bene; le mamme, di solito, vogliono bene ai propri figli. Ma in quel momento, credo, non ce la faceva proprio a tirare avanti con una ragazzina. Con Jimmie però ce la faceva. Perché si è portata via Jimmie e ha lasciato me? Non lo so, tesoro. Mi guardò. Negli occhi aveva ancora quell'espressione ferita, tormentata. Dio mio, pensai, riuscirò mai a riempire quel vuoto? Si attorcigliò distrattamente una treccina. Jimmie mi manca. Lo so.
La settimana prossima essere il suo compleanno. Fa cinque anni, e io non lo vedo da quando ne aveva due. Essere un sacco di tempo. Mi voltò le spalle e andò alla finestra; era marzo, ma quel pomeriggio sembrava di essere ancora in pieno inverno. E Jimmie, forse, che mi manca più di tutto quanto. Non riesco a dimenticarlo. Lo so. Poi si girò verso di me. Possiamo festeggiare il suo compleanno? Essere il dodici marzo. Potremmo fare una festa come quella che facciamo per Tyler in febbraio. Non credo, Sheila. Si smontò. Tornò verso di me, strascicando i piedi. Perché no? Perché Jimmie non è qui, Sheil. Jimmie abita molto lontano, in California, non qui con noi. Potevamo fare una festicciola piccola piccola. Magari soltanto tu, io e Anton, subito dopo la scuola. Scossi la testa. Ma io voglio farla. Lo so. E allora, perché no? Solo una festicciola, piccola piccola. Ti prego. La faccia tutta corrugata, la voce implorante. Sarò la bambina più brava della classe. Non sbaglierò più neanche un problema. Non è questo, Sheila. Se ti dico di no, è perché Jimmie non è più qui. Jimmie se n'è andato. E forse non tornerà più, anche se fa male pensarci. Lo so che ti manca da morire, ma sarebbe meglio non pensarci così tanto. Ti fai solo del male, così. Si coprì la faccia con le mani. Vieni qui, Sheil, fatti prendere in braccio. Mi venne vicino senza scoprirsi la faccia, e io la presi sulle ginocchia. So che è terribile quello che provi. Persino da qui si capisce che soffri. è dura, lo so. Mi manca. La voce le si ruppe in un singhiozzo senza pianto. Poi mi afferrò la camicia e nascose il visino contro il mio petto. Lo voglio qui con me. Solo questo. Lo so, tesoro mio, lo so. Perché è successo, Torey? Perché ha prenduto lui e ha lasciato qui me? Che cosa ho fatto di male? Per un momento gli occhi le si riempirono di lacrime. Ma, come sempre, non vennero fuori. Tesoro mio, tu non hai fatto niente. Credimi. Non è stata colpa tua. Se la tua mamma se n'è andata, non è stato perché ti sei comportata male. Il fatto è che aveva già tanti problemi da risolvere. Non è stata colpa tua. Pa' dice che è colpa mia. Dice che se io ero più brava lei non se ne andava. Ebbi una stretta al cuore. Sarebbe stata difficile, la lotta. Perché avrebbe dovuto credere a me e non a suo padre? Come potevo farle capire che, in quel caso, era lui a sbagliare? Ero scoraggiata. Qui si sbaglia, il tuo papà. Neanche lui sa che cosa è successo, e poi non sa che cosa significhi essere una bambina. Si sbaglia, su questo. Credimi, ti prego, perché è vero. Restammo sedute in silenzio per qualche minuto. La tenevo stretta, e sentivo il suo respiro caldo e irregolare sulla mia pelle. Avevo il cuore ferito. Lo sentivo, nel petto, e mi
faceva male. Il dolore di Sheila mi oltrepassava la camicia, la pelle, le ossa, per assorbirsi nel cuore. Dio, come faceva male. Alla fine alzò gli occhi. Mi sento proprio sola, certe volte. Annuii. Non cambierà mai? Annuii di nuovo, lentamente. Sì. Un giorno o l'altro cambierà. Sheila fece un sospiro e si alzò. Quel giorno non arriverà mai, vero? Nonostante i momenti di tristezza, Sheila era una creatura piena di gioia. Lavorare con bambini dalla vita tanto tragica e caotica mi confermava, giorno per giorno, nell'idea che gli esseri umani sono creature felici per natura. Sheila era molto instabile, e le devastazioni emotive che aveva subito in passato erano in qualche modo incancellabili. Eppure, nello stesso tempo, non si poteva dire che, per lei, la felicità fosse tanto lontana. I più piccoli avvenimenti riuscivano ad accenderle negli occhi una scintilla di allegria, e non passava giorno che non si sentisse la sua risata squillante. La aiutava, in questo, il fatto che, dopo una vita tanto vuota, ogni cosa le appariva nuova. Non si stancava mai di scoprire le meraviglie sconosciute che il mondo le offriva. Forse la scoperta più importante, in marzo, furono i fiori. Ogni anno, in marzo, in quella zona dello stato la terra si copre letteralmente di crocus e di giunchiglie. Sheila ne era affascinata. Non crescevano fiori, nel campo degli stagionali, e lei non aveva mai visto una giunchiglia da vicino. Una mattina portai in classe un enorme mazzo di giunchiglie colte nel giardino della mia padrona di casa. Sheila arrivò strillando, col dentifricio ancora in bocca. Era in maglietta e mutandine, e i piedi nudi, nella corsa, sbattevano rumorosamente sul pavimento. Che roba è? gorgogliò tra le bolle di dentifricio. Sono giunchiglie, sciocchina. Non ne hai mai viste? Scrutandole, fece di no con la testa. No, no. Solo sui libri. Essere fiori veri? Certo che sono veri. Toccali. Posò lo spazzolino da denti, tese cautamente una mano e con la punta delle dita toccò l'estremità di un fiore. Ooooooh! strillò incantata, spruzzando dentifricio dappertutto. Cominciò a saltare per la gioia. Poi, bloccandosi improvisamente, con esitazione ne sfiorò un altro. E, di nuovo, fu una danza di gioia. Finisci di lavarti i denti e di vestirti, prima. Poi potrai aiutarmi a metterli nel vaso. Si catapultò verso il lavandino a sputare il dentifricio che le rimaneva in bocca, ma non riuscì a contenere la felicità tanto a lungo da potersi infilare la salopette. Tornò di corsa. Essere così delicati. Fammeli toccare. Senti il profumo. Quello delle giunchiglie non è buono come il profumo di altri fiori, come le rose, per esempio. Ma è particolare.
Li annusò intensamente. Voglio abbracciarli. Sorrisi. Ai fiori non piace molto che li si abbracci. Ma hanno un odore tanto buono, ed essere così carini. Mi fanno venir voglia di abbracciarli. Hai ragione. Avevo preso il vaso che un bambino aveva fatto per me qualche anno prima: I fiori erano troppi e non ci stavano tutti. Sheila, accanto a me, saltellava di gioia, prima su un piede e poi sull'altro. Sprizzava gioia da tutto il corpo. Sheil, ti piacerebbe avere un fiore tutto per te? Guardò in su, verso di me, gli occhi che sembravano dilatarsi fino a occuparle tutto il viso. Posso prenderne uno? Sì, non ci stanno tutti, nel vaso. Potremmo metterne uno in un cartoccio del latte e appoggiarlo sul tavolo dove ti siedi di solito. Sarebbe proprio mio? Annuii. Per me? Sì, sciocchina, per te. Il tuo fiore personale. Improvvisamente si rabbuiò. Pa' non me lo lascia tenere. Sorrisi. Per i fiori è diverso. Non durano molto, neppure un giorno, a volte. Per il tuo papà, un fiore non sarebbe niente. Delicatamente, tese una mano e accarezzò una giunchiglia. Ti ricordi il libro della volpe e del piccolo principe? Il principe aveva un fiore, e lo addomesticò. Ti ricordi? Mi guardava con gli occhi sgranati. Secondo te potrei addomesticarne uno? Sarebbe il mio fiore speciale, e io sarei responsabile di lui. Potrei addomesticarlo io, da sola. Sì, ma ricordati che i fiori non durano a lungo. Però sono facili da addomesticare. Sì, ci riusciresti. Quale vuoi? Indicai i fiori che non avevo messo nel vaso. Li esaminò tutti, uno per uno, poi scelse un fiore che, a me, non sembrava diverso dagli altri, ma che evidentemente a lei diceva qualcosa di particolare. Forse l'addomesticamento era già incominciato, perché, come il piccolo principe con la sua rosa, anche la giunchiglia era la giunchiglia di Sheila, e per lei era diversa da tutti gli altri fiori del mondo. Tenendola delicatamente in mano e sfiorandone il calice dorato, lei sorrideva. Ero andata a prendere la sua salopette e adesso, china su di lei, la esortavo a infilarci dentro le gambe. Si sentivano già gli altri bambini che arrivavano strepitando, curiosi di sapere che cosa stava succedendo. Ma Sheila non li guardò neppure e rimase lì in piedi a farsi vestire, persa nei suoi pensieri. Teneva le labbra strette per trattenere un sorriso. Ho il cuore così pieno, mormorò. Essere tanto pieno e sento che io essere la bambina più felice al mondo. Le baciai le tempie delicate e sorrisi. Poi presi il vaso di giunchiglie gialle e lo misi sul tavolo. Ridevamo parecchio. Non sempre ci divertivamo in classe. Spesso, ripensando dopo alle cose che lì per lì trovavo divertenti, capivo
che, in fondo, erano tutte tragedie. La capacità di ridere è forse la più grande magia dell'animo umano. Ridere di noi, degli altri, delle situazioni disperate in cui a volte ci troviamo. Ridere ci normalizzava la vita. CAPITOLO UNDICESIMO Era Whitney, più di tutti, a tenerci nei confini della normalità. La amavo con tutto il cuore per questa sua qualità, per il suo rifiuto di farsi convincere fino in fondo, da Anton, da me o dai bambini, che quella fosse una classe diversa da tutte le altre. Nonostante la timidezza, a volte il suo senso dell'umorismo non aveva limiti. Ogni tanto, soprattutto quand'era sola con me e Anton, ci sorprendeva con le sue battute caustiche, da adulta. Ma erano gli scherzi il suo forte. Forse questo lato del suo carattere non mi avrebbe sorpresa tanto, se lei non avesse avuto quell'aspetto mite di ragazza pasticciona. O se la nostra classe mi fosse sembrata un luogo più adatto agli scherzi. Comunque sia, Whitney mi sorprese. Non mancavo mai di trasalire, colta da genuino spavento, davanti ai serpenti a molla che saltavano fuori dall'astuccio di Susannah, o al finto vomito che ricopriva il tavolo mentre Peter, William e Guillermo simulavano un improvviso mal di stomaco. Nel periodo in cui arrivò Sheila, Whitney stava dando il meglio di sé, in questa sua arte. I bambini amavano i suoi scherzi ed erano sempre pronti a partecipare. Sheila però era abbastanza intelligente per capire subito quello che Whitney aveva in mente, e le dava sempre suggerimenti fantasiosi, riuscendo a cogliere il lato umoristico di ogni situazione. Era anche tanto ingenua da accettare di fare certe pazzie che Whitney le suggeriva. Ormai eravamo quasi alla fine di marzo e ancora non era successo nulla. La cosa mi insospettiva. Ogni mattina controllavo i cassetti, le tazze di ceramica e tutti gli altri oggetti nei quali regolarmente si nascondevano gli scherzi. Per prevederli, di solito potevo contare sulla incapacità di Sheila di mantenere un segreto. Non era molto brava a nascondere le tracce, nemmeno quando ci provava. E invece, non succedeva niente. Una volta, in effetti, le sorpresi, lei e Whitney, a ridacchiare insieme, tanto che rimasi in guardia tutto il tempo; ma i giorni passavano e non succedeva niente. Forse perché Whitney si era presa un gran raffreddore ed era rimasta a casa quasi una settimana. Verso la fine del mese, dopo la scuola, venne a parlarmi la signora Crum, la madre di Freddie. Piccola, capelli castano chiaro, timidissima, sgusciò dalla porta e si scusò subito per il disturbo. Io ero per terra a giocare alle macchinine con Sheila, e le assicurai che non disturbava affatto. Potevo ascoltarla? A testa china, si torceva nervosamente le mani. Le dispiaceva tanto di seccarmi coi suoi problemi. Dissi a Sheila di correre giù ad aiutare Anton a preparare gli stampi per i ciclostili. Rimaste sole, invitai la signora Crum a sedersi.
Era venuta a chiedermi se i bambini, per caso, non avevano mangiato niente di strano a scuola, ultimamente. Ci pensai su. Era mercoledì, perciò avevamo da poco cucinato insieme. Avevamo mangiato una frittatina dolce, le dissi. Nient'altro. Oltre al pranzo, ovviamente. La fronte le si increspò. Freddie aveva vomitato tre volte, quella settimana, dopo la scuola. La cosa che la sorprendeva di più, disse, era la roba che vomitava: palline dai colori accesi - rosse, verdi, azzurre, gialle - di mezzo centimetro di diametro. Una ventina alla volta. Non sapevo davvero che cosa pensare. Non mi veniva in mente niente che corrispondesse a quella descrizione. Non solo non mangiavamo caramelle e non ne tenevo in classe, ma non tenevo neppure oggetti non commestibili piccoli come quelli, perché c'erano in classe dei bambini come Freddie, Max e Susannah, che se li sarebbero messi in bocca. No, a scuola non poteva di certo averli ingoiati, le assicurai. Ma promisi di tener d'occhio suo figlio. Nei giorni seguenti non accadde niente di speciale. Whitney era ancora a casa e io avevo le pagelle di fine trimestre da compilare. Perciò sfruttavo le ore dopo le lezioni per lavorare, mentre Sheila giocava da sola. Passarono sabato e domenica. Venne lunedì. Di pomeriggio, dopo aver accompagnato gli altri bambini all'autobus, trovai Sheila inginocchiata di fronte all'armadietto sotto il lavandino. Per i momenti di maggiore sconforto, aveva riservato un intero repertorio di espressioni colorite. Quando qualcosa non andava per il verso giusto, infilava un'imprecazione dietro l'altra, e non c'era modo di farla smettere. Quel giorno, entrando, la sentii che imprecava a mezza voce. Che cosa hai, Sheil? Lei balzò in piedi e si girò di scatto. Niente. Che cos'erano tutte quelle parolacce? Niente. Non mi sembrava che non fosse niente. Che cosa c'è? Mi hanno rubato una cosa. Che cosa? Una roba. Aggrottò la fronte. Serve per un progetto artistico. La cerco ma qualcuno l'ha prenduta. Non essere più dove l'ho messa. E perché l'avevi messa lì? Sai che le tue cose devi tenerle nel tuo armadietto. Nessuno può immaginare che quello che c'è lì dentro è roba tua. Che cos'era? Niente, una roba. Che roba? Scosse le spalle. Una roba. Roba mia. Be', vai a vedere nella scatola del materiale artistico. Lì troverai degli avanzi che ti potranno servire. Dopo circa un'ora si ripresentò la signora Crum. Oh, mi perdoni, cominciò a scusarsi, ma Freddie ha vomitato ancora. Ancora palline colorate. Questa volta ne aveva portate un po' da mostrarmi, avvolte in un fazzoletto di carta. Nonostante la sua timidezza, insistette che io le guardassi e la convincessi che non provenivano dalla mia classe.
Stringendo i denti, aprii il fazzoletto umido. Dentro c'erano otto, dieci sfere irregolari dai colori accesi, fosforescenti. Presi una matita e ne infilzai una. Subito si spappolò per mostrare un centro scuro, grigio-bruno. Non avevo idea di che roba fosse. Ritornò Anton, che era rimasto giù, nell'aula degli insegnanti. Gli feci cenno di avvicinarsi. Hai mai visto cose del genere, qui in giro. gli chiesi. Si piegò sopra di me per guardare più da vicino. Che razza di roba è? Mi prese la matita di mano e schiacciò un'altra pallina. Anche quella si spappolò facilmente. A quanto pare Freddie le ha trovate in giro, le ha mangiate e poi, tornato a casa, le ha vomitate. Secondo la signora Crum le avrebbe trovate qui a scuola. Che cosa sono? domandò Anton senza mascherare il suo scetticismo. Non ne ho la più pallida idea. Sheila, incuriosita, si era avvicinata. Con una mano mi tirava per i jeans. Fammi vedere. La allontanai. Aspetta un attimo. Andò a prendere una sedia, la trascinò verso di noi e ci montò sopra in piedi per alzare la visuale. Fammi vedere. Sai una cosa, disse Anton, che ora teneva in mano il fazzoletto col suo strano contenuto, sembrerà stupido, ma a me sembra sterco di coniglio. Anton, sono palline rosse, verdi e azzurre, replicai. Lo so. Ma guarda in mezzo. Non ti sembra sterco? Senza volerlo cominciai a ridere, cogliendo il lato umoristico della situazione. Sheila, vicino a me, si teneva in precario equilibrio sulla sedia, una mano appoggiata al mio braccio e l'altra aggrappata al colletto della mia camicia. Fammi vedere, Torey. Anton allungò un braccio per mostrarle il fazzoletto. Quando Sheila vide quello che c'era dentro, di colpo fece un balzo indietro, perdendo l'equilibrio. E cadde insieme alla sedia. Tutto bene? le chiesi mentre si rialzava. Annuì. Il modo in cui mi guardava mi insospettì. O meglio, il modo in cui non mi guardava. Sheila, tu ne sai qualcosa? Sai che cos'è, questa roba? Facendo un passo indietro, si strinse nelle spalle, con enfasi. Anton aggrottò le ciglia come per dire: Guarda che faccio sul serio. Sheila, hai dato a Freddie qualcosa che non avresti dovuto dargli? Guardò in su, verso di noi. Sprizzava innocenza da tutti i pori. Gli occhi grandi, enormi, tondi come piatti, i capelli sfuggiti alla coda di cavallo che, a ciuffetti, le aureolavano il viso. Mordendosi il labbro inferiore, continuava a rinculare. In lei, un comportamento apparentemente tanto innocente significava colpa. Sheila, sto aspettando che tu mi dica qualcosa, dissi. Ancora nessuna reazione. Sappiamo che tu sai, aggiunse Anton. Ci guardammo fisso.
Sheila. La mia voce era più seria che mai. Ma non era facile usare quel tono. Lei sembrava così maledettamente innocente, quando la sua colpevolezza era invece tanto ovvia. Non sapevo proprio come facesse ad apparire così e a tradirsi tanto facilmente. Alla fine mi accostai a lei, piano piano, perché ora le si leggeva in faccia la paura, e capitava ancora che si spaventasse, quando ci si avvicinava in modo troppo precipitoso. Le misi una mano dietro le spalle e la feci avanzare verso il tavolo. Stavo dietro di lei, con le dita appoggiate alla sua schiena, in modo che non potesse più fuggire. Adesso mi dici che cos'è questa roba, piccola. Voglio saperlo. E subito. Lei fissò il fazzoletto umido, pieno di palline colorate, che la signora Crum aveva messo sul tavolo. Sentii Sheila premere contro la mia mano, all'indietro. La spinsi avanti per le spalle. Comincio a perdere la pazienza, Sheil. Non farmi arrabbiare. Questa roba potrebbe aver fatto male a Freddie e dobbiamo sapere che cos'è. Dimmelo. Cacca di coniglio, disse con un filo di voce. E tutti questi colori? L'ho dipinta con la tempera. Anton non si trattenne e cominciò a ridacchiare. Con una mano sulla bocca, soffocava la risata. Per l'amor del cielo, Sheila, dissi, spiegami perché hai dipinto la cacca di coniglio. Per Whitney. Dalle informazioni che riuscii a strapparle, seppi che quello scherzo era stato architettato da lei e Whitney. Per Pasqua, stavamo facendo un grande mosaico che poi avremmo appeso nell'atrio dell'edificio scolastico principale e che avremmo mostrato ai genitori. Il titolo sarebbe stato Sulle orme del coniglietto. Stando al racconto di Sheila, Whitney aveva pensato che sarebbe stato divertente dipingere dello sterco di coniglio e sostituirlo ai tasselli del mosaico. Vero umorismo adolescenziale. Sheila aveva avuto l'ingrato compito di raccogliere lo sterco dalla gabbia di Cipolla, il quale non sopportava che, per qualsiasi ragione, gli si gironzolasse intorno. Doveva dipingerlo e poi farlo seccare sotto il lavandino, dove nessuno andava a ficcare il naso. Evidentemente Freddie aveva scoperto questa loro attività segreta e, pensando che le palline di sterco colorato fossero dei canditi, o qualcosa del genere, le aveva mangiate. Dal modo in cui Sheila raccontò tutta la storia, intuii che per lei quella settimana doveva essere stata una gran delusione. Cipolla non collaborava, Whitney era a casa ammalata, e le sue scorte di cacca dipinta continuavano a scomparire misteriosamente. Non c'era da sorprendersi se l'avevo trovata davanti all'armadietto a imprecare. Per tutto il racconto, Anton si trattenne a stento. Alzava ripetutamente gli occhi al cielo e tossiva in una mano. La
signora Crum non colse il lato divertente di tutta quella storia. Anch'io forse mi sarei sentita come lei, se si fosse trattato di mio figlio. Non sapevamo se quella sostanza era tossica. La tempera non lo era di certo, ma dello sterco di coniglio non sapevo nulla. Anton andò a telefonare al centro antiveleni. Ma io non mi preoccupavo, visto che per tutta la settimana Freddie aveva mangiato quella roba senza risentirne, a parte il vomito. E poi il bambino aveva rigettato le palline integre, senza digerirle. Puntai il dito verso l'angolo del silenzio e invitai a Sheila ad andare a sedersi là fino all'ora dell'uscita. Ci andò senza protestare, ma i sospiri profondi, patetici, che mandava erano tanto frequenti che temevo le conseguenze di un'iperventilazione. Anton tornò con le notizie avute dal centro antiveleni e assicurò alla signora Crum che Freddie non correva pericoli. Mi scusai con lei per la sventatezza dei bambini e l'accompagnai alla porta. Ne discussi con Anton e decidemmo di dire a Whitney di venire subito a scuola. Abitava lì vicino e mi sembrava meglio occuparsi subito della faccenda, quando i bambini non c'erano. Anche se era nata come uno scherzo, quella faccenda avrebbe potuto avere gravi conseguenze. Perciò preferivo parlarne con Whitney e capire meglio come stavano le cose. Anton uscì per telefonare a Whitney. Io andai alla sedia del silenzio. Sheila guardò in su. È ora di andare. Prendi il giubbotto e vai. Anton e io abbiamo troppo da fare, stasera, per accompagnarti. Quindi dovrai comportarti in modo responsabile. Non voglio sentirmi dire che, da qui alla fermata, hai combinato qualche guaio. È chiaro? Sheila annuì. Allora ciao. Ci vediamo domani. Mi dispiace. Non fa niente. Ne abbiamo parlato e adesso è passata. Essere arrabbiata con me? Sopravviverò. So che tu e Whitney volevate soltanto fare uno scherzo e che non avevate intenzione di far del male a nessuno. E adesso hai capito che è stata una sciocchezza. Quindi non pensiamoci più; è passata. Lei si alzò ma rimase accanto alla sedia. Sbrigati o perderai l'autobus. Essere arrabbiata con me? No, Sheil, non sono arrabbiata con te. Ma adesso fila. Allora perché non sorridi, se non essere arrabbiata? Dai suoi occhi si capiva chiaramente che era preoccupata. Con una risatina, mi abbassai sulle ginocchia e l'abbracciai. Le detti un bacio sonoro sulla guancia. Non ti fidi ancora molto, vero? Le scostai la frangia dalla fronte. Adesso, quando arriverai a casa, non preoccuparti, perché non sono più arrabbiata. E non ero molto arrabbiata neanche prima, perché so che non l'hai fatto apposta. Più che altro ero preoccupata per Freddie, e quando sono così
preoccupata sembro arrabbiata. Ma adesso è passata. D'accordo? Siamo intese? Annuì. Bene. Allora corri o perderai l'autobus. Con Whitney non fu così semplice. Arrivò con la madre dopo che Sheila era uscita da dieci minuti. Non volevo che diventasse una questione tanto seria. Volevo soltanto parlare con Whitney. Non ero arrabbiata. Come avevo spiegato a Sheila, non mi ero mai arrabbiata veramente. Ero preoccupata, piuttosto, e avevo provato anche un po' d'imbarazzo, di fronte alla signora Crum. Ma lo scherzo poteva diventare pericoloso, e volevo che Whitney lo sapesse. La madre, invece, ne fece un caso da corte marziale. Al telefono aveva risposto lei, la madre, e Anton aveva dovuto riassumerle i fatti. Irruppe come una furia, trascinando la figlia per un braccio, come fosse una bimbetta. Alta, i capelli biondi incollati in una messa in piega ben laccata, entrò con passo marziale e volle sapere che cosa era successo. Le spiegai tutto come meglio potei. Alle mie parole, si girò verso la figlia sfoderando una rabbia di cui io non sarei mai stata capace, neppure se Freddie fosse morto, dopo aver ingoiato quella roba. Signora Blake? Signora Blake ? Cercavo continuamente di interromperla. Se mi lascia parlare... Signora Blake? Anche Anton si era buttato nella mischia e cercava di distrarla. Vuole un caffè, signora Blake? Intanto Whitney se ne stava seduta su una seggiolina a piangere. Non ricordo come, ma alla fine riuscimmo a zittire la donna, e Anton l'accompagnò nella sala degli insegnanti a prendere un caffè. Pensai che quel caffè era la sua giusta punizione: ormai doveva essere nella caffettiera da più di otto ore. Rimasi sola con Whitney. Era stato imbarazzante assistere alla scena, con la madre che le parlava a quel modo. Whitney doveva sentirsi umiliata. Ero imbarazzata a tal punto che non sapevo cosa dire. Presi una scatola di fazzoletti di carta e la misi sul tavolo, davanti a lei. Per un attimo esitai, chiedendomi se era il caso di scusarmi. Le farfugliai che poteva riprendersi mentre io dividevo i compiti dei bambini e li mettevo nei loro armadietti per il giorno dopo. Quando tornai, le sedetti accanto e le misi un braccio attorno alle spalle. Lei si girò di scatto e mi abbracciò. Il suo gesto inaspettato mi fece barcollare sulla sedia, sotto il suo peso, ma la strinsi fra le braccia; aveva tanto bisogno di conforto. Non è tanto grave come sembra, Whitney. Le accarezzai i capelli scostandoglieli dal viso. Non siamo arrabbiati con te, né Anton né io. Non sono arrabbiata, assolutamente. Si raddrizzò sulla sedia e prese un ennesimo fazzoletto. Era solo uno scherzo. Lo so. Non sono arrabbiata. Non volevo metterti nei guai. Volevo solo dirti di stare un po' più attenta, qui dentro. Questi non sono bambini normali, Whitney. Con loro
bisogna stare più attenti. Lei annuì e si asciugò ancora qualche lacrima. I bambini come Freddie non sanno se una cosa è commestibile o no. E Sheila è troppo piccola per sapere che non dovrebbe fare questo genere di scherzi. Non pensavo di fare del male a qualcuno. Non credevo che sarebbe successo tutto questo. Lo so, tesoro mio. E per questa volta non è stato fatto del male a nessuno. Però ci siamo andati molto vicino. È stata solo una stupidaggine, che hai fatto senza pensare. Mi piace il tuo senso dell'umorismo, Whitney, e mi piace il modo in cui insegni ai bambini a ridere. Ma questi sono bambini speciali. Dobbiamo stare molto più attente. Appoggiò la testa alle mani e fissò la superficie del tavolo. Non ne faccio mai una giusta. Rovino sempre tutto. Adesso ti sembra così. Ma lo sai che non è vero. Mia madre mi ammazzerà. Tua madre non c'entra per niente. C'entriamo soltanto io e te. Anton si occuperà di tua madre. Altrimenti le parlerò io. Mi dispiace, Torey. Lo so. E adesso, che cosa mi succederà? Niente. Whitney non mi guardava; continuava a fissare il tavolo. Tenevo ancora una mano sulla sua spalla e sentivo il calore che passava attraverso la sua camicia. Rimanemmo sedute in silenzio per molto, molto tempo. Posso dirti una cosa, Torey? Dimmi. Ancora non riusciva a guardarmi. Questo è l'unico posto al mondo in cui mi piace stare. Mi prendono tutti in giro, per questo. Continuamente. Mi dicono: Perché te ne stai lì tutto il tempo con un branco di matti? Pensano che anch'io sia matta. Non un po' strana, ma matta davvero. Altrimenti, perché mi piacerebbe tanto stare qui dentro? Be', replicai, allora penseranno lo stesso di Anton e di me. Anche noi, allora, siamo matti. A te non lo dicono? Per la prima volta mi guardò. Non direttamente. Ma ho il sospetto che non siano in pochi a pensarlo. Perché stai qui? Sorrisi. Forse perché mi piacciono i rapporti molto franchi. Finora, le uniche persone molto franche che ho trovato sono i bambini e i matti. Perciò questo posto fa proprio al caso mio. Whitney annuì. Sì, forse è quello che piace anche a me, di questo posto: tutti manifestano esattamente quello che provano. Così, se qualcuno ti odia, lo sai subito. Accennò un sorriso. La cosa buffa è che, a volte, questi bambini mi sembrano meno matti della gente normale. Voglio dire che... La voce si spense.
Io annuii. Sì, ho capito che cosa vuoi dire. Quando arrivai a casa, Chad mi stava aspettando, ed era un po' spazientito. Aveva preso un paio di porzioni di spaghetti di soia al take away cinese. Ma dove diavolo sei stata? Sono già le sette. Aveva cercato di tenere in caldo il cibo mettendo le scatole di cartone, così com'erano, in una padella, con sotto il fuoco. La cucina puzzava di carta bruciacchiata. A scuola. Fino a quest'ora? Gesù, sono qui da un'ora. Che cosa hai fatto? Be', da un po' di tempo un mio allievo vomitava delle strane palline colorate e sua madre pensava che le trovasse a scuola. Così ha messo quella roba in un fazzoletto e ce l'ha portata a scuola per farcela vedere. Chad cominciò a ridacchiare. Si era girato per agitare la padella con dentro le scatole. Vedevo le sue spalle sussultare. Così Anton e io abbiamo cominciato a sezionare queste palline, e alla fine è venuto fuori che era sterco di coniglio. Chad passò dalla risatina alla risata aperta. E contagiosa. Cominciai a ridere anch'io. Sheila, di volta in volta, prendeva lo sterco dalla gabbia di Cipolla e lo colorava con la tempera. Chissà quando trovava il tempo di farlo. Comunque, evidentemente Freddie aveva scovato le palline e se le mangiava. Forse pensava che fossero canditi, o roba del genere. Ridevamo tutt'e due. Quasi non riuscii a pronunciare l'ultima frase. Intorno a noi si levò l'odore di cartone bruciato, ma ormai le lacrime ci rotolavano giù dalle guance. Mi faceva male un fianco dal ridere. E ridemmo ancora. Mi dispiace averti fatto quella domanda, disse alla fine Chad, boccheggiante. A me no, replicai. CAPITOLO DODICESIMO La telefonata che avevo tanto temuto arrivò la terza settimana di marzo. Sentii la voce di Ed Somers rimbombare nel ricevitore. Quando quella sera, dopo la scuola, la segretaria mi aveva telefonato in classe per dirmi che c'era una chiamata per me, avevo avuto una premonizione. E ancora prima di sentire la voce di Ed, sapevo già di che cosa si trattava. Torey, oggi ha telefonato il preside. Si è liberato un posto all'ospedale dello stato. A quelle parole, il cuore cominciò ad accelerare. Il battito mi arrivava così forte nelle orecchie che facevo fatica a sentire. Ed, non dovrà andarsene per forza, vero? Tor, ti ho già spiegato che sarebbe stata una soluzione provvisoria. Il tribunale aveva deciso di farla ricoverare all'ospedale dello stato appena si fosse liberato un posto. Noi non abbiamo voce in capitolo. La tua classe era soltanto una sistemazione temporanea. Ma è molto cambiata. Non è più la stessa bambina. Ed, non ce la farà mai, all'ospedale. Senti, era già tutto deciso prima che arrivasse qui. Lo sai, ne abbiamo già discusso. E poi sarà solo un vantaggio,
per lei. Guarda come vive, nella sua famiglia. Comunque non potrà mai farcela, Tor. Lo sai. Cristo, ci lavori ogni giorno, con questi bambini. Tu dovresti capirlo meglio degli altri, quando un bambino è senza speranze. Ma per lei ce ne sono, Ed, urlai. Questa bambina ha tante risorse. Potrebbe farcela. Non può andare in ospedale proprio adesso. Dall'altro capo del filo, ci fu un lungo silenzio, mentre Ed si accendeva una sigaretta. Tor, hai fatto un ottimo lavoro con quei bambini. Davvero non capisco come fai, a volte. Ma questa volta hai esagerato. Ti sei lasciata coinvolgere troppo. Avrei dovuto prevederlo, pensando all'incidente di gennaio. Per questa bambina era già stato deciso tutto prima che arrivasse qui. Allora annulla le decisioni. Non ho il potere di farlo. Dopo l'episodio del bimbo di tre anni, il tribunale l'ha condannata. Era l'unico modo di placare i genitori del bambino, l'unica alternativa possibile. Ed, è ridicolo. Dio santo, quella ragazzina ha sei anni. Non si può farle questo. So che cosa provi, Torey, davvero. Mi dispiace molto per come stanno andando le cose, perché so quanto tu abbia investito in quella bambina. Ma si tratta di un caso giudiziario. Sappiamo tutt'e due come andrebbe a finire. Mi spiace. Scesi nell'aula degli insegnanti, non avendo il coraggio di tornare in classe, dove Sheila stava giocando. Mi sedetti a prendere un caffè, che di solito non bevevo, cercando continuamente di trattenere le lacrime. Ed aveva ragione. Mi ero lasciata coinvolgere troppo; lei significava troppo per me. Non riuscivo ad esprimere a parole la mia frustrazione; non riuscivo a trovare le parole giuste. Mi arrivarono alle orecchie i discorsi dei colleghi sui programmi scolastici, sui progetti artistici e sui festeggiamenti del carnevale. Alla fine ritornai in classe per non sentir più parlare di tutti quei progetti di divertimento. Quando Anton mi vide non fece domande. Sapeva già tutto. Fece spostare Sheila al tavolo dove lui stava preparando un lavoro per il giorno dopo e le chiese di aiutarlo. Io ero in piedi sulla porta a guardare la stanza. Non era un granché, come aula. Troppo lunga e stretta e troppo buia, piena di gabbie puzzolenti e di cuscini rotti, da cui uscivano pezzi d'imbottitura che rimanevano sulla moquette. Nemmeno lo spazio per la cattedra. Se almeno ce ne fosse stata una, avrei avuto qualcosa dietro cui nascondermi, qualcosa che urlasse a tutti Lasciatemi in pace! senza che io dovessi aprir bocca. Ma non c'era. Mi trascinai fin dietro le gabbie e mi lasciai sprofondare nei cuscini. Dopo qualche secondo Sheila era di fronte a me, e mi scrutava. Tu non essere felice, dichiarò pacatamente. Teneva le mani nelle tasche della salopette. Com'era cresciuta, pensai. Tra le scarpe e i pantaloni dovevano esserci almeno cinque centimetri. O forse c'erano sempre stati e non me n'ero mai accorta. No, non sono felice.
Come mai Sheila, vieni qui, le urlò Anton. Sheila rimase immobile, gli occhi fissi nei miei, a scrutarmi dentro. Forse mi ero davvero lasciata coinvolgere troppo. Mi sembrava una bambina tanto bella. A chiunque l'avesse vista per strada, sarebbe sembrata sicuramente una bambina qualunque, come centomila altri bambini. Ma per me, lei era più importante di tutti gli altri messi assieme. Le volevo bene, anche se non avevo fatto niente perché succedesse. E il fatto di volerle bene l'aveva resa così importante, ai miei occhi. Adesso ero responsabile di lei. Sentii le lacrime salirmi agli occhi. Sheila s'inginocchiò vicino a me, il viso contratto per la preoccupazione. Perché piangi Non sono molto felice. Anton venne da noi e sollevò Sheila in piedi. Su, tigre, vieni ad aiutarmi a mettere via i fogli. No. Si divincolò per sfuggire alla presa e si mise in salvo lontano da Anton. Gli feci un cenno con la mano. Lascia stare, Anton. Lui annuì e ci lasciò. Sheila mi guardò a lungo, gli occhi colmi di preoccupazione. Le lacrime, dai miei, non volevano cadere, ma non se ne andavano via. E non riuscivo nemmeno a guardare la bambina. Mi imbarazzava mostrarmi così scossa, e temevo di spaventarla. Ma lei se ne stava in disparte a osservarmi. Poi si avvicinò lentamente e si sedette vicino a me. Mi sfiorò incerta la mano e mi parlò. Forse, se ti tengo la mano, ti sentirai meglio. Qualche volta funziona, con me. Le sorrisi. Lo sai, piccola, che ti voglio bene. Non dimenticarlo mai. Se mai dovesse succederti qualcosa, e sei sola, o hai paura, o dovesse capitarti qualsiasi altra cosa brutta, non dimenticarti che ti voglio bene. Perché è vero. Questa è l'unica cosa, veramente, che si può fare per un'altra persona. Corrugò la fronte. Non capiva quello che dicevo. Forse perché era così piccola. Ma dovevo dirglielo. Dovevo dirle, per essere in pace con me stessa, che avevo fatto tutto il possibile per lei. Mi rigirai nel letto per guardare Chad. Eravamo stati davanti alla televisione tutta la sera, senza parlare. Ero troppo preoccupata per concentrarmi nella conversazione. All'inizio gli avevo raccontato quello che era successo senza entrare nei particolari; ma col passare del tempo cominciavo a riprendermi dal torpore iniziale e a rianimarmi. Chad? Guardò verso di me. Non c'è una via legale per contestare le decisioni che hanno preso riguardo a Sheila? Che cosa intendi dire? Be', voglio sapere se esiste una via legale per impugnare la sentenza. Una come me potrebbe farlo? Una persona che non sia il suo tutore. Tu, impugnare la sentenza?
Qualcuno deve pur farlo. Credo che il distretto scolastico mi appoggerebbe. Forse. Potresti tentare. Aggrottai la fronte. Il problema è che non saprei proprio da dove cominciare. A chi devo appellarmi? I tribunali l'hanno condannata, e non si può portare un tribunale in tribunale, no? Non so proprio che cosa dovrei fare. Dovresti chiedere un'udienza perché siano ascoltati il padre di lei, i genitori del bambino che ha subìto violenza, gli assistenti sociali, e tutti quanti. Ci sarebbe un normale processo. Ma questo lo sai già, vero? No, non lo sapevo. Capivo il sistema giudiziario come potevo capire la teoria della relatività. Ma non volevo che Chad lo sapesse. Potresti occupartene tu, Chad? Alzò di colpo le sopracciglia. Io? Annuii. Ma io non ne so niente, di queste cose. Dovresti rivolgerti a qualcuno specializzato nel campo. Dio mio, Torey, io non ho mai fatto altro che tirar fuori di galera gli ubriaconi. Sorrisi. La tua esperienza nel campo e il mio conto in banca più o meno si equivalgono. Se prendessi un avvocato dovrei pagarlo, immagino. Chad alzò gli occhi al cielo. Un'altra causa per la beneficenza, eh? Rise a denti stretti. Nessuno mi ha mai promesso che sarei diventato ricco. Oh, un giorno o l'altro lo diventerai. Ma non quest'anno. Appena l'ispettore scolastico scoprì che avevo assunto un avvocato per riaprire il caso, venne indetta una riunione. Così conobbi personalmente la signora Barthuly, l'ex insegnante di Sheila. Era una donna minuta, sui quarant'anni, con un sorriso gentile. Dominandola dal mio metro e settantacinque di altezza, in jeans e scarpe da tennis, capivo bene le difficoltà che poteva avere avuto con Sheila. Aveva al collo un foulard di Anne Klein e ai piedi delle scarpe piatte; sembrava la modella di uno spot di Chanel N.5. Con Sheila, così concreta e puzzolente, la lotta doveva esserle sembrata molto dura. Alla riunione c'erano anche Ed Somers, Allan (lo psicologo), Collins, Anton, l'ispettore e l'insegnante di sostegno, che era stata la maestra di Sheila all'asilo. L'inizio non fu affatto promettente. Non sapendo della relazione fra Chad e me, l'ispettore riteneva che aver consultato un avvocato senza parlarne prima con lui fosse stata una prevaricazione. Forse aveva ragione. Gli spiegai che ne avevo discusso con Ed e che, secondo lui, noi due non avremmo potuto far niente per Sheila. Così avevo tentato il ricorso legale. Nonostante i problemi iniziali, l'incontro prese poi un'altra piega. Io mostrai dei compiti fatti in classe da Sheila e delle riprese con la telecamera che Anton aveva girato in classe. E Allan riferì i risultati dei test. Le due ex maestre di Sheila ammisero di esserne molto colpite. Persino Collins, che temevo si sarebbe arrabbiato per questa mia ennesima dimostrazione di impulsività, parlò, in generale, dei miglioramenti nella condotta di Sheila. Alle sue parole, provai per lui un inaspettato moto di affetto.
L'ispettore non era altrettanto entusiasta; disse che, comunque, rimaneva sempre da considerare l'episodio di violenza. Però trovava incoraggianti i progressi di Sheila e il suo inconsueto QI. Cautamente, concordò con me che l'ospedale dello stato non sarebbe stata la sistemazione più adatta e che, secondo lui, avrebbero potuto continuare a tenere la bambina all'interno del sistema scolastico pubblico senza che questo costituisse un pericolo per gli altri alunni. Poi fece entrare Chad e gli parlò. Nonostante il tentativo dell'ispettore di contenere gli umori, me ne andai euforica. Mancava ancora una figura importante da trascinare nell'impresa: il padre di Sheila. Anton andò al campo in avanscoperta. Quando vide che c'era mi telefonò, e Chad e io ci precipitammo là. L'uomo aveva bevuto di nuovo, ma questa volta di più, ed era un po' più alticcio. Sheila non deve andare all'ospedale di stato, gli dissi. Sta andando molto bene a scuola, e l'anno prossimo forse potrebbe inserirsi in una classe regolare. Lui piegò un po' la testa. Che cosa importa, a lei, di quello che gli altri fanno a Sheila? Quella domanda mi rimandava l'eco di un'altra domanda, quella che Sheila mi aveva fatto tante volte. Già, perché m'importava tanto? Lei ha una figlia speciale, replicai. Mandarla all'ospedale dello stato non sarebbe la mossa giusta. Non vorrei che questo accadesse, perché sua figlia può vivere una vita normale. Quella ragazza è matta completa. Le hanno detto quello che ha fatto, vero? Per poco lo ammazzava, quel bambino. Questo non significa per forza che sia matta. Non è matta. O almeno, adesso non lo è. Ma lo diventerebbe, se finisse all'ospedale. E col tempo peggiorerebbe. Lei non vuole che vada all'ospedale, vero? Tirò un gran sospiro. Non mi capiva. Per tutta la vita aveva avuto tutti contro. Si era messo nei guai, e anche Sheila si era messa nei guai. Aveva imparato a non fidarsi di nessuno, e così aveva fatto Sheila. Nel loro mondo era più sicuro così. E adesso non mi capiva. Parlammo fino a tarda sera. Chad e Anton bevvero con lui della birra, mentre io prendevo appunti. Sheila, che come al solito ci osservava da lontano, seduta nell'angolo, si addormentò per terra mentre noi parlavamo. Non so se capiva perché ero lì e che cosa succedeva. Non le avevo spiegato esattamente la situazione, per non spaventarla e per non darle false speranze. Ma dopo quella sera, forse avrebbe saputo tutto. In fondo era meglio così. Alla fine suo padre si dichiarò d'accordo con noi. L'avevamo convinto che non si trattava di carità o beneficenza, e nemmeno di un brutto tiro. Cominciava a capire le nostre vere ragioni. Ero certa che, con la nostra tenacia, ci sarebbe riuscito, perché sapevo che, sotto quella scorza
dura, si nascondeva un po' di istinto paterno. A modo suo, voleva bene alla figlia, e aveva bisogno di compassione tanto quanto lei. Fu una serata strana. Eravamo tutti un po' brilli. Chad, abituato a difendere gli ubriachi e i vagabondi, sembrava intendersi col padre di Sheila meglio di noi altri. Quando cercavo di riportare la conversazione sull'argomento, loro si davano delle gran pacche sulle spalle, con un cameratismo da ubriachi, e insistevano perché Anton e io bevessimo ancora. In un certo senso, ero quasi contenta che si fosse presentato il problema dell'ospedale, perché ci costrinse a riconoscere qual'era il posto che ognuno di noi aveva nella vita di Sheila; e per tutti fu meglio così. CAPITOLO TREDICESIMO L'udienza si tenne l'ultimo giorno di marzo. Il buio, il freddo e il vento promettevano neve. Non era certo una di quelle giornate che mettevano di buon umore. Dovetti chiedere un pomeriggio di permesso, e lo stesso fece Anton. Con noi c'era anche il signor Collins. Fui sorpresa dell'appoggio morale che mi dette, delle parole affettuose e paterne che mi disse quella mattina in classe. Fra tutte le persone che avevo conosciuto, era l'unica da cui mai mi sarei aspettata una tale trasformazione, perché, dal giorno dell'incidente nell'aula della signora Holmes, mi ero fatta di lui un'immagine a una dimensione, un po' infantile. Sulle prime il suo atteggiamento mi aveva insospettita; non riuscivo a capire che cosa l'avesse spinto a cambiare e pensavo che forse stava solo difendendo i propri interessi. Ma poi, man mano che mi liberavo di certe mie chiusure mentali, capivo che, a modo suo, ai bambini teneva quanto me. Anche a Sheila. L'udienza si svolse a porte chiuse. All'altro lato della stanza c'erano i genitori del ragazzino e il loro avvocato. Gruppi di funzionari dello stato e della contea si spostavano confusamente di qua e di là. Con noi c'erano Anton Allan, la signora Barthuly, Ed e l'ispettore. Il padre di Sheila arrivò in ritardo, ma alla fine arrivò, ed era sobrio. Nel vederlo mi si strinse il cuore. Il vestito che aveva doveva essere un fondo di magazzino. Le cuciture erano sfilacciate, la giacca logora e macchiata, i pantaloni rammendati. La giacca si tendeva sul suo ventre enorme e si apriva fra i bottoni. Era chiaro, però, che aveva cercato di curare il proprio aspetto. Si era rasato e puzzava di dopobarba da quattro soldi. Sheila era seduta fuori dall'aula, su una panca di legno. Chad aveva pensato che era meglio così e che forse poteva aver bisogno di lei, se le cose non andavano per il verso giusto. Era arrivata in maglietta e salopette. Avevo sperato tanto di poterla vestire meglio, ma non ce n'era stato il tempo. Così, durante l'intervallo del pranzo, l'avevo lavata da capo a piedi nel lavandino e l'avevo pettinata finché i capelli non erano diventati lisci e splendenti. Almeno era pulita. Dovendo lasciarla lì da sola, le avevamo portato dei libri con cui ingannare il
tempo. Ma quando il giudice si accorse che la bimba in questione era in corridoio senza assistenza, mandò un impiegato del tribunale perché le stesse accanto. L'udienza andò molto diversamente da come mi ero aspettata. Non ero mai stata a un processo, e tutto quello che sapevo, lo sapevo dalla televisione. Ma non fu come alla tv. Gli avvocati parlarono con calma, e ogniuno di noi fece la propria deposizione. Io avevo portato le videocassette per illustrare i cambiamenti di Sheila nell'arco dei tre mesi in cui era stata con noi. Allan ripeté i risultati dei test. Ed parlò dei possibili programmi di lavoro per Sheila nel caso in cui avesse avuto ancora bisogno di assistenza speciale dopo le lezioni con me. Poi i genitori del bambino furono interrogati sull'episodio di novembre. Al padre di Sheila fu chiesto quanto si occupasse della figlia e se, secondo lui, la piccola avesse manifestato dei miglioramenti negli ultimi mesi. Si svolse tutto tranquillamente. Nessuno alzò la voce. Nessuno dette l'impressione di essere emotivamente coinvolto. Fu tanto diverso da come mi aspettavo. Poi ci chiesero di lasciare l'aula perché gli avvocati e il giudice terminassero di discutere il caso. Ero così orgogliosa di Chad. Anche se la nostra era una relazione lunga e stabile, non l'avevo mai visto esercitare la sua professione. Adesso, davanti a me, c'era un uomo diverso da quello che vedevo sul letto, davanti alla televisione. Sembrava così sicuro di sé, così a proprio agio nell'aula del tribunale. Ero tanto orgogliosa che avesse accettato un caso come quello, dal quale non avrebbe ricavato un soldo, e che avesse trasformato i miei confusi interrogativi in una vera opportunità di tenere Sheila con noi. Seduti nel corridoio c'erano i genitori del ragazzino. Le facce tirate, le labbra strette in una smorfia severa, gli occhi fissi che non vedevano. Chissà che cosa pensavano. Dalle loro facce non lo capivo. Avevano abbastanza compassione per perdonare Sheila? O avevano il cuore ancora troppo colmo di paura e di dolore? Nei muti recessi del cuore, nutrivano ancora la speranza che la vita di Sheila venisse rovinata, come lei aveva rovinato quella del figlio? Guardandoli, non riuscivo a capirlo. Il padre si girò e ci guardammo negli occhi per un momento. Poi tutt'e due distogliemmo lo sguardo. Non era cattiva gente. Non il tipo di gente che sarei riuscita a odiare. Durante le deposizioni avevano usato toni tranquilli, privi di rabbia. Tristi, semmai. La tristezza di vedere il caso riaperto. Di tornare in un'aula. Di vedere ancora la propria vita turbata da quella bambina. In un certo senso, avrei voluto odiarli; mi avrebbe reso più semplice accettare la sentenza, qualunque fosse stata. Ma non ci riuscivo. Avevano fatto soltanto quello che gli sembrava più giusto. Se avevano una colpa, era soltanto la loro ignoranza in fatto di infermità mentale. E la paura. Adesso sarebbe stato un giudice a decidere, un uomo che non conosceva né me
né loro né i due bambini: e a decidere di una questione in cui non era tutto bianco o tutto nero. Chissà che cosa provavano. Avrei voluto avere il coraggio di alzarmi e andare a chiederglielo. Avrei voluto che ci fosse un altro modo di far andare le cose. Sheila era seduta sulle mie ginocchia. Prima che uscissimo dall'aula aveva fatto un disegno, e adesso stava cercando di parlarmene. Le seccava che pensassi ai fatti miei. Sollevò una mano, mi prese la testa e me la girò verso di lei. Guarda il mio disegno, Tor. Essere Susannah Joy. Guarda, ha su quel vestito che mette spesso per venire a scuola. Guardai in giù. Sheila invidiava Susannah Joy da tanto tempo. Susie era l'unica bambina, in classe, che veniva da una famiglia ricca. Indossava sempre vestiti immacolati e aveva uno splendido guardaroba di abitini con pizzi e trine. Sheila era spudoratamente invidiosa. Ogni giorno sfogliava le riviste di moda e selezionava i vestiti che le sarebbe piaciuto avere. E ogni giorno, nel diario, comparivano nuove annotazioni sull'argomento. Proprio la settimana prima, avevo trovato nel cesto delle correzioni questo suo compito di scrittura creativa: Dora in poi faro del mio meglio per scrivere bene Torey essere più brava e farò bene i compiti prometto. Voglio dirti che cosa faccio ieri sera. Vado ad aspettare mio padre dall'ottico che fa gli occhiali. Così me ne vado un po in giro e guardo le vetrine. Qualche volta mi piacerebbe comprare le cose nelle vetrine. Qualche volta essere cosi belle. Visto un vestito che essere rosso e azzurro e anche bianco e a il pizzo e essere lungo e bellisimo. Non ho mai avuto un vestito come qello ed era proprio bello torey. Mi piacerebbe averlo. Essere delle mia misura credo. Chiedo a pa' se me lo compra ma lui di no. Mi dispiace proprio perché essere tanto bello e io non ho mai avuto un vero vestito. Potevo metterlo a scuola come Susannah Joy. Lei a un sacco di vestiti. Ma non potevo comprarlo e allora siamo tornati a casa e pa' mi compra un pachetto di M&Ms e mi ha detto di andare a letto Sheila allora cosi ho fatto. Questo compitino mi ferì in modo strano, inspiegabile. Mi sembrava una delle cose più tristi che avesse mai scritto. Lei non si arrendeva; pur sapendo che non avrebbe potuto avere un vestito, e accettando il fatto, continuava a sognare. Sheila continuava a borbottare qualcosa sul disegno che aveva in mano e a mostrarmi i suoi pasticci. Ma capiva che i miei pensieri erano altrove. Non era stata chiamata in aula, e questo mi sembrava un buon segno, ma lei percepiva tutta la nostra tensione. Poi, finalmente, si aprirono le porte. Appena vidi la faccia di Chad capii subito qual era stata la sentenza. Si fermò a un paio di metri da noi, sulla faccia un sorriso sicuro. Poi scoprì i denti: Abbiamo vinto. Fu un'esplosione di gioia; cominciammo a saltare e ad abbracciarci. Abbiamo vinto! Abbiamo vinto! Abbiamo vinto! strillava Sheila, saltando fra le gambe degli altri.
Tutti ridemmo delle sue grida di giubilo, pur dubitando che lei si rendesse pienamente conto della portata delle sue parole. Qui bisogna festeggiare, non vi pare? chiese Chad. Si stava infilando il suo trench. Cosa ne dite di andare da Shakey a ordinare la pizza più grande che hanno? Gli altri cominciavano ad andarsene. Gettai un'occhiata nel corridoio, verso i genitori del bambino, che si stavano mettendo il cappotto. Di nuovo, avrei voluto avere il coraggio di fare quei pochi metri che ci separavano e di parlargli. Chad mi parlava della pizza, Sheila mi saltellava intorno alle gambe, tirandomi per la cintura per attirare l'attenzione, gli altri della scuola si salutavano rumorosamente l'un l'altro. Allora, cosa volete fare? chiese di nuovo Chad. Volete andare o ce ne stiamo qui tutta la sera? E mi dette una gomitata scherzosa. Mi girai verso di lui e annuii. E tu? disse Chad a Sheila. Vuoi venire con noi a mangiare una pizza? Spalancò gli occhi e annuì. Mi piegai e la sollevai perché tutti potessimo guardarci in faccia. Il padre di Sheila se ne stava in disparte. Solo. Le mani ficcate nelle tasche del suo vestito troppo stretto. Fissava il pavimento. Mi sembrava solo, solo e dimenticato. Non era la sua battaglia, quella che avevamo appena vinto, e Sheila non era corsa da lui. Lei aveva aspettato nel corridoio insieme a noi e ora era con noi che festeggiava. Era la nostra vittoria, quella, non la sua. Finora, per lui, i tribunali erano sempre stati luoghi di sofferenza, luoghi da temere. Con quel suo vestito sdrucito e il dopobarba del supermercato sembrava fuori posto, vicino agli uomini del governo e del distretto scolastico. E con grande tristezza, capii che nemmeno sua figlia era veramente sua. Lei era una di noi; lui no. Chad doveva aver capito la solitudine di quell'uomo. Viene con noi? Per un attimo credetti di vedere un lampo di piacere sul suo viso. Ma poi scosse la testa. No, devo andare. Non ha niente in contrario se Sheila viene con noi, vero? chiese Chad. La portiamo a casa più tardi. Lui annuì e guardò la figlia sorridendo appena. Era ancora in braccio a me, e continuava a dimenarsi per la gioia, senza curarsi del padre. È sicuro di non voler venire con noi? No. Ci guardammo per un lungo istante, i nostri due universi che non riuscivano a toccarsi. Poi Chad si mise una mano in tasca e tirò fuori il portafoglio. Prese un biglietto da venti dollari e glieli dette. Ecco, prenda. Per divertirsi un po' anche lei. Esitò, e non pensavo che li avrebbe accettati, conoscendo il suo disprezzo per la carità. Ma poi, con incertezza, distese la mano e prese il denaro. Farfugliò un grazie, poi si volse e s'incamminò per il lungo corridoio. Sheila, Chad e io ci pigiammo nella piccola macchina straniera di Chad e ci lanciammo verso la pizzeria. Ehi, Sheila, che pizza ti piace? chiese Chad da sopra la spalla a
Sheila, seduta dietro. Non so. Non ho mai mangiato la pizza. Non hai mai mangiato la pizza? esclamò Chad. Be', allora dovremo farlo più spesso, eh? Da come si comportò, nessuno avrebbe mai detto che non aveva mai mangiato la pizza. Quando arrivò il piatto, aveva gli occhi sgranati, che brillavano, e afferrò la pizza da professionista. Chad le ordinò quella più grande e più farcita che trovò sul menu, e anche una bottiglia di acqua tonica. Fu un momento magico. Sheila era allegra e animata; parlava in continuazione. Era incuriosita da Chad, e alla fine andò a sedersi sulle sue ginocchia, mentre ascoltavamo la musica al pianoforte. Chad commentò che non aveva mai visto una bambina mangiare così tanto in una sola volta. Sheila lo stuzzicò dicendo che, di pizze, poteva anche mangiarne cento, se lui aveva i soldi per pagarle, e ruttò rumorosamente per provarglielo. A parte il breve incontro che aveva avuto con lei la sera in cui eravamo andati a parlare col padre, Chad non la conosceva. Ma si capì molto presto che per lui era una persona speciale. Naturalmente il sentimento era reciproco. Risero e si presero in giro per tutta la cena. Ormai era tardi, e cominciava a entrare la folla della sera. Avevamo finito le nostre pizze gigantesche, più l'acqua tonica e il gelato. Avevamo ascoltato la musica per tanto tempo che alla fine il pianista trascinò Chad al piano a suonare con lui Heart and Soul. Ma si capiva che Chad e Sheila non erano ancora pronti per lasciarsi. Chad si piegò sul tavolo per guardare Sheila da vicino. Qual è la cosa che ti piacerebbe di più al mondo, se potessi averla? le domandò. Ebbi un balzo al cuore, perché sapevo che avrebbe risposto che voleva di nuovo con sé la mamma e Jimmie, e questo avrebbe rattristato la serata. Sheila ci pensò su per un bel pezzo. Davvero o per finta? Davvero. Rimase ancora pensierosa. Un vestito, credo. Che genere di vestito? Come quello di Susannah Joy. Uno col pizzo. Vuoi dire che, fra tutte le cose al mondo, vuoi solo un vestito? Chad spostò gli occhi dalla testa di Sheila alla mia. Sheila annuì. Non ho mai avuto un vestito. Una volta una signora della parrocchia ci ha portato della roba e in mezzo c'era anche un vestito. Ma pa' non mi lascia nemmeno provarlo. Dice che noi non accettiamo la carità da nessuno. Aggrottò la fronte. Io non ci vedevo niente di male, a provarlo, ma pa' ha detto che mi prendevo una sculacciata se lo facevo, e allora non l'ho provato. Chad guardò l'orologio. Sono quasi le sette. Credo che i negozi sul viale non chiudano prima delle nove. Guardò me e poi Sheila. E se ti dicessi che questo è il tuo giorno fortunato?
Sheila mi guardò interrogativamente. Non capiva ancora che cosa stava succedendo. Che cosa vuoi dire? Se ti dicessi che fra poco saliremo in macchina e andremo a comprarti un vestito? Il vestito che vuoi. Gli occhi di Sheila diventarono tanto grandi che pensavo le avrebbero squarciato la faccia. Poi la bocca le si piegò all'ingiù e mi guardò. Improvvisamente era avvilita. Pa' non me lo lascerebbe tenere. Credo di sì, invece. Basterà dirgli che fa parte del festeggiamento. Entrerò in casa con te quando ti riaccompagneremo. Glielo dirò io. Sheila non stava più nella pelle. Balzò dalla sedia e cominciò a ballare fra un tavolo e l'altro, urtando contro ignari avventori. Mi abbracciò. Abbracciò Chad. Se non fossimo usciti subito, sarebbe certamente esplosa. L'ora dopo fu da capogiro. Percorremmo i corridoi dei due grandi magazzini del viale mentre Sheila, aggrappata alle nostre mani, altalenava fra noi due. Trovati i vestiti per bambine, lei di colpo si fece timida; spinse la testa contro le mie gambe e non li guardò neppure. Com'è difficile, a volte, afferrare i sogni quando sono a portata di mano. Alla fine ne scelsi alcuni carini, col pizzo, e trascinai Sheila in un camerino di prova. Quando fummo sole si rianimò. Dopo essersi strappata di dosso maglietta e salopette ed essere rimasta in mutandine, prese i vestiti per esaminarli attentamente. Era una creaturina così scarna, col ventre sporgente da bambina che metteva in risalto la sua magrezza. Adesso, lì da sola, lei e i vestiti, era troppo emozionata per provarseli, e danzava in tondo nello stanzino. La presi per la vita e gliene infilai uno. Fu un momento magico. Sheila si pavoneggiò davanti al triplo specchio e poi corse fuori perché Chad la vedesse. Avremo passato almeno un'ora, chiuse in quello stanzino, ad aspettare che Sheila decidesse fra tre vestiti. Li provò ciascuno almeno quattro volte. Alla fine ne scelse uno bianco e rosso, col collo e le maniche orlati di pizzo. Lo metterò a scuola tutti i giorni, disse con entusiasmo. Ti sta proprio bene. Lei mi guardava nello specchio. Posso metterlo a casa? Se vuoi. Sì che voglio! Poi il suo sorriso d'improvviso si spense e si girò verso di me. Si arrampicò sulle mie ginocchia e mi sfiorò il viso con la mano. Sai che cosa vorrei? Tutti e tre i vestiti? Scosse la testa. Vorrei che tu eri la mia mamma e Chad il mio papà. Sorrisi. Adesso sembra quasi vero. Stasera, dico. Sembra quasi che voi siete veramente i miei genitori, eh? Siamo qualcosa di più dei tuoi genitori, Sheil. Siamo amici. Gli amici sono meglio dei genitori: significa che ci amiamo perché lo vogliamo, non perché dobbiamo. Gli amici si scelgono. Mi guardò a lungo, seduta in grembo a me, con gli occhi fissi nei miei. Alla fine sospirò e scese dalle mie ginocchia. Vorrei che noi eravamo tutt'e due le cose. Una famiglia e degli amici. Sì, sarebbe bello. La sua fronte si corrugò. Non potremmo far finta?
chiese un po' titubante. Solo per questa sera, non potremmo far finta? Far finta che tu e Chad eravate mamma e papà e che tu stavi portando la tua bambina a comprare un vestito? Anche se aveva tanti vestiti a casa, tu la portavi a comprarne un altro perché lei lo voleva e tu le volevi tanto bene. Tutte le lezioni di psicologia del mio addestramento mi spingevano a rispondere di no. Ma guardando i suoi occhi, non ne ebbi il coraggio. Forse, per questa sera, possiamo far finta. Ma devi ricordarti che è solo per finta, e solo per stasera. Lei fece un gran salto e sfrecciò fuori dal camerino, ancora svestita. Vado a dirlo a Chad! Chad fu divertito a scoprire che, mentre eravamo nel camerino, era diventato padre. Entrò perfettamente nella parte. Era una sera incantata, piena di muta magia, per tutti e tre. Sheila si addormentò tra le mie braccia mentre tornavamo al campo; dopo che Chad ebbe parcheggiato la svegliai. Su, Cenerentola, disse Chad aprendo la portiera, è ora di andare a casa. Lei gli sorrise ancora mezza addormentata. Forza, adesso ti porto in casa e dico a tuo papà che cosa abbiamo combinato. Per un momento lei esitò. Non voglio andare, disse piano. È stata una bella serata, vero? replicai. Lei annuì. Ci fu un momento di silenzio. Posso darti un bacio? Sì. La abbracciai forte e la baciai. Sentii le sue labbra morbide toccarmi la guancia. Poi baciò Chad mentre lui la sollevava dalle mie ginocchia per portarla dentro casa. Tornammo in silenzio. Quando arrivammo davanti a casa mia, rimanemmo seduti in macchina, senza parlare. Alla fine Chad si girò verso di me, gli,occhi che brillavano nel bagliore pallido dei lampioni. E una ragazzina straordinaria. Annuii. Sai, disse, forse sembrerà stupido, ma io sono stato al gioco tutta la sera, con lei. Anch'io avrei voluto che fossimo una famiglia. Era così facile fingere. E anche giusto. Io sorrisi nel buio, sentendo con piacere, intorno a noi, un quieto torpore. CAPITOLO QUATTORDICESIMO Con l'aprile, arrivò anche una tempesta di neve. Benché tutti si lamentassero di quell'ultima raffica d'inverno, i fiocchi di neve erano tanto bianchi e soffici che era un piacere guardarli. Ma la neve era così alta che la città si bloccò, e così la scuola venne chiusa per due giorni. Quando riaprì, Sheila annunciò, durante la discussione mattutina, che zio Jerry si era trasferito a casa sua. Raccontò che era stato in prigione, ma non si ricordava perché, e adesso stava cercando lavoro. Sembrava molto emozionata
per quel nuovo arrivo, e ci disse che zio Jerry, per non farla annoiare, aveva trascorso tutt'e due le giornate a giocare con lei, durante la tempesta di neve. Riprendemmo presto i soliti ritmi. Della vittoria in tribunale rimaneva ancora qualche traccia di euforia. Anche se i bambini non si rendevano pienamente conto di quello che era successo, Anton e io avevamo mantenuto il nostro buon umore. E se noi due eravamo felici, Sheila era addirittura raggiante, col suo vestito nuovo. Lo metteva ogni giorno, quel vestitino bianco e rosso, e sfilava davanti ai compagni col chiaro intento di provocare in loro la stessa invidia che lei aveva provato per Susannah. Raccontò a tutti che il giorno del processo aveva vinto, era uscita a cena con Chad e me e poi, tutti insieme, eravamo andati a comprarle quel bel vestito. Non passò molto tempo che tutti vollero anche loro il proprio processo, così dovetti dire a Sheila di non dilungarsi sull'argomento. Ma, mentre coi bambini ne parlava sempre meno, con me, dopo la scuola, quello divenne l'unico argomento di conversazione. Come l'episodio successo in febbraio durante la mia assenza, anche quello doveva essere ripetuto nei minimi dettagli: eravamo andati da Shakey, avevamo ordinato una pizza fantastica e Sheila aveva mangiato a crepapelle; poi avevamo comprato il vestito e avevamo finto di essere una famiglia. Continuava, ininterrottamente, a ripetere sempre gli stessi dettagli, e il viso le si animava a quei ricordi. Io la lasciavo fare, perché mi sembrava che la ripetizione avesse su di lei un qualche effetto terapeutico, proprio com'era stato per l'incidente di febbraio. Jimmie era stato dimenticato, completamente. Erano giorni che non le sentivo pronunciare il suo nome. Era stata una serata felice, perfetta, e sembrava che Sheila non riuscisse mai ad assaporarla fino in fondo. Ma forse, quando si allontanano nel tempo, i momenti come quelli diventano tesori ancora più preziosi. Così, pazientemente, ascoltavo e riascoltavo. Una mattina, verso metà aprile, Sheila arrivò a scuola abbattuta. Anton era andato a prenderla alla fermata, ma l'autobus era in ritardo e lei entrò in classe che la discussione era già cominciata. Aveva addosso la vecchia salopette e la vecchia T-shirt, ed era pallida. Si sedette ai margini del gruppo e ascoltò, ma senza partecipare. Durante la mezz'ora di discussione si alzò due volte per andare in bagno. Temevo che non stesse bene, tanto era pallida e inerte. Ma gli altri, coi loro schiamazzi, richiamavano la mia attenzione e mi distraevano. Distribuendo i test di matematica, non vidi più Sheila, e alla fine scoprii che era di nuovo in bagno. Non stai bene, tesoro? No, no, è tutto a posto, rispose, prendendo i fogli dalle mie mani e andando a sedersi al suo tavolino. La guardai mentre camminava. Adesso parlava di più e usava i verbi giusti, e ne ero contenta. Un po' più tardi, poco prima dell'ora dei giochi, mi sedetti accanto a lei per spiegarle certi nuovi problemi di matematica. Me la presi sulle ginocchia. La sentii rigidissima. Le misi una mano sulla fronte per sentire se scottava.
Ma era fresca. Eppure si comportava in modo strano. Qualcosa non va, Sheil? Scosse la testa. Sei tesa. Sto bene, replicò, e ritornò ai problemi di matematica. Finita la lezione, la sollevai dalle mie ginocchia e la rimisi a terra. Su una gamba dei miei jeans c'era una macchia rossa, che si stava allargando. La fissai, senza capire cos'era. Sangue? Guardai Sheila. Che cosa succede? Lei scosse la testa, la faccia inespressiva. Sheila, stai perdendo sangue! Sulla gamba destra dei suoi pantaloni, all'interno della coscia, c'era una chiazza rossa. La presi in braccio, corsi in bagno e chiusi la porta dietro di noi. Il sangue aveva macchiato le mutandine e correva giù da tutt'e due le gambe. Sotto i pantaloni si era fatta un'imbottitura di fazzoletti di carta. Era quello, evidentemente, il motivo di tutti quei viaggi in bagno. Aveva cercato di tamponare il flusso perché il sangue non uscisse e non si vedesse. Dio mio, Sheila, ma che cosa ti succede? gridai, la voce che mi usciva più acuta e più allarmata di quanto avrei voluto. La paura montava, dentro di me, mentre tiravo via l'ultimo fazzoletto d'imbottitura. Dalla vagina le gocciolava giù del sangue rosso fuoco. Ma Sheila rimaneva impassibile. Dal suo viso non trapelava nessuna emozione. Mi guardava con occhi vuoti, senza vedermi. Nella luce più fioca dell'aula sembrava ancora più pallida. Dio, com'era pallida. Chissà quanto sangue aveva perso. Nel tentativo di scuoterla da quella sua apatia, le afferrai le spalle e gliele scrollai. Sheila, che cosa ti è successo? Devi dirmelo. Non è il momento di giocare. Che cosa è successo? Sbatteva le palpebre, come chi si sveglia da un sonno profondo. Si stava sforzando di cancellare il dolore e le emozioni. Zio Jerry, cominciò, con un filo di voce, ha cercato di infilarmi dentro il suo coso, stamattina. Ma non ci riusciva. Così ha prenduto un coltello. Diceva che io non lo lasciavo entrare, allora mi ha messo dentro un coltello. Rimasi come paralizzata. Ti ha infilato un coltello nella vagina? Annuì. Un coltello da cucina. Diceva che me ne sarei pentita, se gli impedivo di infilarmi dentro il suo coso, e che mi avrebbe fatto più male e me ne sarei pentita. Dio mio, Sheila, perché non me l'hai detto subito? Perché non hai detto niente? Temendo che avesse già perso troppo sangue, l'avvolsi in un asciugamano e la presi in braccio. Avevo paura. Zio Jerry mi ha detto di non dirlo a nessuno. Ha detto che se lo dicevo a qualcuno, lui me lo faceva di nuovo. Ha detto che se ne parlavo era peggio per me. Uscii di corsa dal bagno, con Sheila in braccio, e dissi ad Anton di badare lui ai bambini. Cercai di spiegare brevemente alla segretaria che stavo portando Sheila all'ospedale e che bisognava cercare il padre e dirgli di raggiungerci là. Come sempre, quando c'è un'emergenza, il tempo, misteriosamente, sembrava rallentare il passo. Intorno
a me, tutti sembravano muoversi come in un film proiettato alla velocità sbagliata. Che cosa succedeva? I sorveglianti delle superiori sbirciarono dalla porta. Che cosa c'era? Sentivo ancora, sul braccio, il calore del sangue di Sheila che mi aveva impregnato la camicia mentre la tenevo in grembo. Era ancora più pallida, adesso. Con addosso soltanto la maglietta, le scarpe e l'asciugamano in cui l'avevo avvolta per proteggerla, Sheila cominciava a perdere lucidità; teneva gli occhi chiusi e si appoggiava a me con tutto il suo peso. Corsi verso la macchina. Sempre tenendola in braccio, avviai il motore e ingranai la marcia indietro. Sheila? Sheila? Stai sveglia, sussurravo, guidando con una mano e tenendo Sheila con l'altra. Avrei dovuto farmi accompagnare da qualcuno, pensai, ma non ce n'era stato il tempo. Non c'era stato il tempo nemmeno di avvertire gli altri di quello che era successo. Io essere sveglia balbettò Sheila. I ditini aggrappati alla mia camicia, che mi tiravano dolorosamente la pelle delicata del seno. Ma mi fa male. Lo so, piccola, risposi. Ma continua a parlarmi, d'accordo? Il viaggio sembrava interminabile. Il traffico impossibile. Forse avrei dovuto chiamare un'ambulanza. Non avevo idea di quanto sangue aveva perso, né di che cosa significava perderne troppo, né di quello che si doveva fare, in casi come quelli. Mi maledissi per non aver concluso il mio addestramento alla Croce Rossa. Zio Jerry mi ha detto che mi avrebbe amata. Ha detto che mi avrebbe fatto vedere come si amano i grandi. La sua voce era sottile, infantile. Ha detto che bisognava sapere come si amano i grandi. E quando ho gridato lui ha detto che nessuno mi avrebbe amata, se non imparavo come si fa. Tuo zio Jerry non sa niente, tesoro. Non sa quello che dice. Si morse le labbra, singhiozzando senza lacrime. Ha detto che essere così che tu e Chad vi amate. Ha detto che se volevo farmi amare da te e Chad, dovevo imparare come si fa. Ci stavamo avvicinando all'ospedale. Oh, tesoro mio, si sbaglia. Chad e io ti amiamo già. Lo diceva soltanto per poter farti del male. Non aveva nessun diritto di farti quello che ha fatto. Ha sbagliato a dirti quelle cose e a farti quello che ha fatto. Due giovani inservienti corsero giù dalla rampa di emergenza, portando una barella. Evidentemente Collins aveva avvisato l'ospedale del nostro arrivo. Mentre mettevo Sheila sulla barella, per la prima volta lei manifestò il suo dolore e la sua angoscia. Cominciò a lamentarsi e a piangere, a voce alta, ma senza lacrime. Non voleva lasciarmi la camicia, e lottava con i due uomini che cercavano di aprirle le dita. Non andare via!, gemeva. Rimango con te, Sheila. Ma stai giù. Su, lasciami andare la camicia. Non andartene! Non farmi portar via. Tienimi abbracciata. La barella si mosse verso la porta, e noi quattro anche, in una massa confusa. Sheila, terrorizzata, stringendo ancora la mia camicia nelle mani, strappò un taschino. Non so dove prendeva tutta quella forza. Forse era la paura che la lasciassi con quegli sconosciuti; o forse solo
adesso cominciava a sentire tutto il dolore della ferita. In ogni modo, lottò tanto valorosamente che alla fine fu più semplice riprendermela in braccio, piuttosto che cercare di staccarmela di dosso con la forza e ascoltare le sue urla. Al pronto soccorso il dottore la visitò rapidamente, senza togliermela dalle ginocchia. Il padre non era ancora arrivato, così dovetti firmare una dichiarazione con la quale mi assumevo la responsabilità delle cure d'emergenza, fino all'arrivo del padre. Poi venne un'infermiera con una siringa in mano. Sheila era tornata calma e docile, e non si mosse neppure quando entrò l'ago. Poco dopo sentii le sue dita rilassarsi la portai sul lettino. Un'altra infermiera le introdusse l'ago nella vena, mentre un medico interno, un giovane messico-americano, appese sopra il tavolo la fiala con il sangue per la trasfusione. Il dottore mi fece cenno di uscire con lui. Dopo un'ultima occhiata a Sheila, lo seguii fuori, passando per le porte girevoli. Mi chiese che cosa era successo e io gli dissi tutto quello che sapevo. In quel momento vedemmo il padre di Sheila che veniva avanti per il corridoio, inciampando continuamente. Era ubriaco fradicio. Il dottore ci spiegò che Sheila aveva perso un'enorme quantità di sangue, e quella era la prima cosa cui pensare. Dalla visita risultava che il coltello aveva perforato la vagina, trapassando il retto. E questo era grave, sia per l'estensione della ferita sia per il rischio di un'infezione. Una volta che il livello del sangue fosse tornato ai valori normali, forse la piccola avrebbe dovuto subire un intervento. Il padre di Sheila, accanto a noi, barcollava, mentre il dottore parlava. Io non potevo fare nient'altro, all'ospedale. La mia classe era sicuramente piombata nel caos. Se Susannah aveva visto il sangue, Anton non ce l'avrebbe fatta, da solo, e neppure con l'aiuto dei sorveglianti. E i bambini si erano certamente allarmati, vedendomi uscire così a precipizio. Era meglio che tornassi a scuola. Mi guardai i vestiti. La camicia, sul davanti, era tutta macchiata. Sui pantaloni, il sangue era già una chiazza secca e scura. La fissai. Portavo addosso parte della vita di un altro, un liquido rosso più prezioso dell'oro. Quella vista mi turbò: mi ricordava la fragilità della vita e il mio stesso essere mortale. Arrivai a scuola alle undici. Quando guardai l'orologio mi stupì che fosse passato così poco tempo. Non era trascorsa nemmeno un'ora, da quando mi ero messa Sheila sulle ginocchia, durante la lezione di matematica, e avevo visto il sangue. Tutta la tragedia era durata soltanto cinquanta minuti, forse meno. Ed ero anche passata da casa a cambiarmi, prima di tornare in classe. Non mi capacitavo. A me, quei cinquanta minuti erano sembrati cent'anni. Ero invecchiata molto di più. Quella sera non tornai all'ospedale. Avevo telefonato al dottore, dopo la scuola, e da lui seppi che l'avevano appena portata a medicare e che non era ancora uscita. Nonostante le trasfusioni, le sue condizioni non si erano ancora normalizzate, e rimanevano critiche. Disse che probabilmente non sarebbe uscita fino a tardi. Era rimasta in stato
di semincoscienza quasi tutto il giorno, e lui dubitava che la bambina riconoscesse le persone presenti. Dopo la medicazione sarebbe stata sottoposta a cure intensive, per garantire che le sue condizioni si normalizzassero, prima di essere ricoverata nel reparto infantile. Chiesi se potevo entrare anch'io, spiegandogli che probabilmente ero la persona più vicina a lei, dopo il padre. Lui mi consigliò di aspettare fino al giorno dopo. La piccola non sarebbe stata in grado di riconoscermi, e io avrei intralciato le cure. Mi assicurò che avrebbero fatto il possibile per farla sentire a suo agio. Domandai se il padre era ancora lì, ma rispose di no. L'avevano mandato a casa subito dopo il mio arrivo. Non era abbastanza sobrio per ragionare. Il fratello, Jerry, era stato arrestato. In un certo senso, fui sollevata all'idea di non dover tornare. Era successo tutto troppo in fretta, e non riuscivo a capire tutta la gravità della situazione. Sheila mi aveva parlato. Aveva percorso tutta la strada fra le superiori e la nostra scuola, ed era rimasta in classe per un'ora. Poi, in macchina, mentre la portavo all'ospedale, mi aveva parlato ancora. Non poteva essere tanto grave. Non volevo credere che fosse tanto grave. La camicia e i jeans sporchi di sangue erano ancora ammucchiati dove li avevo lasciati quella mattina, prima di tornare a scuola. Misi i jeans a bagno, nella vasca, ma tenni in mano la camicia, e guardai il taschino che Sheila aveva strappato mentre opponeva resistenza agli inservienti. La piegai con cura e la misi in fondo all'armadio. Non avevo il coraggio di buttarla via. Né di lavarla. C'era troppo sangue, e l'acqua si sarebbe colorata di rosso. In quel momento non avrei sopportato di vedere l'acqua rossa scomparire giù dal lavandino, come se fosse stata sporcizia qualunque. Non ne sarei stata capace. Dopo cena, Chad venne a casa mia e gli raccontai quello che era successo. Fu lì lì per esplodere. Cominciò a passeggiare nervosamente per la stanza, dapprima senza dire nulla, scuotendo la testa incredulo. Provava angoscia non tanto per la gravità delle ferite, quanto per il modo in cui si era svolto il fatto. Era roso dalla rabbia, dall'odio, e minacciava di prendere a botte Jerry. Non provava compassione per uno che aveva fatto una cosa simile a una bambina tanto piccola, e un tale cambiamento, in lui, mi faceva paura; non l'avevo mai visto così furioso. Pur essendo afflitta per l'incidente, c'era uno strano sentimento che mi tormentava. Cinque mesi prima, era stata Sheila a commettere violenza, e qualcun altro a esserne la vittima. Senza dubbio i genitori del bambino avevano provato sentimenti molto simili a quelli che ora Chad provava per Jerry. Anche se questo non scusava affatto l'enormità del crimine, mi faceva capire che il dolore e il danno subiti da Sheila erano gli stessi che si potevano vedere in Jerry. Nessuno dei due era innocente, ma nessuno dei due era soltanto malvagio. Mi faceva male constatare che anche Jerry, sicuramente, era una vittima, proprio come Sheila. E questo rendeva tutto molto più complicato. Più tardi, quella sera, telefonò la polizia, per chiedermi di andare a fare una deposizione. Chad mi accompagnò. In una stanza dalle pareti grigie, seduta a un tavolo grigio,
riferii a un ufficiale quello che era successo in classe quella mattina. Gli ripetei le parole di Sheila e quello che avevo fatto. Fu il triste rapporto di eventi ancora più tristi. La mattina dopo, durante la ricreazione, telefonai all'ospedale per avere notizie. Questa volta la voce del dottore era più distesa. La bambina aveva tollerato bene le medicazioni; di notte era stata sottoposta a una terapia intensiva, e le sue condizioni si erano normalizzate. La mattina dopo era sveglia e lucida, così l'avevano trasferita al reparto infantile. Potevo vederla in qualsiasi momento. Gli chiesi se il padre era andato a trovarla. Disse di no. Per favore, dica a Sheila che arrivo subito dopo la scuola, lo pregai. Lui assentì, la voce cordiale. La piccola aveva la scorza dura, disse. Sì, risposi, erano in pochi ad averla dura quanto lei. CAPITOLO QUINDICESIMO Forse il compito più difficile fu spiegare ai bambini che cosa era successo a Sheila. Avevamo già parlato, in classe, di violenza, sia fisica che sessuale. I miei alunni venivano da un gruppo sociale ad alto rischio di violenza, e mi sembrava importante che sapessero che cosa fare, se si fossero trovati, o se avessero visto qualcun altro, in una situazione come quella. Rimaneva il fatto che la violenza sessuale era un argomento difficile da affrontare. In un distretto dove l'educazione sessuale, nelle scuole, non aveva fatto grandi passi avanti, la violenza sessuale era tabù. Io avevo inventato una lezione informale, in cui discutevamo, con semplicità, i modi giusti e sbagliati di essere toccati. Un adulto che ti tiene in braccio e ti stringe a sé va bene. Un adulto che ti prende il pene e ti accarezza non va bene. Discutevamo le cose da fare in casi come questi, perché nessuno ha il diritto di toccare un bambino o una bambina in certe parti del corpo. E neanche loro dovevano chiedere di essere toccati lì. Avevamo fatto una di queste lezioni in ottobre, e da allora eravamo tornati sull'argomento qualche altra volta. Ai bambini dava un po' di sollievo poter parlare di queste cose, esprimere la paura che provavano quando non sapevano che cosa fare, se qualcuno li toccava e la cosa gli sembrava divertente. Ma il caso di Sheila non sapevo come affrontarlo. Sesso e violenza, insieme, non sono un bell argomento per bambini disturbati e così piccoli. Ma dovevo pur dire qualcosa. Ci avevano viste andare via precipitosamente, e avevano visto anche il sangue. Poi mi avevano vista tornare senza Sheila. Avevo spiegato, brevemente, che Sheila si era fatta male in casa e che perciò avevo dovuto portarla all'ospedale. Non avevo detto altro. Il pomeriggio dopo, quando dissi loro che Sheila era al reparto infantile e stava meglio, i bambini le scrissero per augurarle una pronta guarigione. Corressi una pila di messaggi commossi, dipinti a colori vivaci. L'evento, però, turbò i bambini più di quanto mi fosse sembrato. Prima dell'uscita, William scoppiò in lacrime. Che cosa c'è? gli chiesi, seduta per terra. Eravamo riuniti intorno alla Scatola del Coboldo. Anche William era lì con noi, ma improvvisamente era scoppiato a piangere. Ho paura per Sheila. Ho paura che muoia, in ospedale. Mio nonno, una volta, è andato in ospedale ed è morto, proprio lì. All'improvviso, anche Tyler cominciò a singhiozzare.
Mi manca. Voglio che torni. Ehi, ragazzi, dissi. Sheila se la sta cavando benone. Ve l'ho già detto dopo pranzo. Sta meglio. Non morirà. Anche Sarah piangeva, ma silenziosamente. Max cominciò a gemere, più per spirito di emulazione che altro; dubitavo che capisse perché gli altri piangevano. Perfino Peter, quasi sempre nemico giurato di Sheila, aveva gli occhi pieni di lacrime. Ma tu non ce ne lasci parlare, disse Sarah. Per tutto il giorno non hai nemmeno fatto il nome di Sheila. E questo fa paura. Sì, concordò Guillermo. Io, per tutto il tempo, ho pensato a lei e tu ti comporti come se non fosse mai stata in questa classe. Mi manca. Li guardai. Tutti, tranne Freddie e Susannah, erano in lacrime. Dubitavo di tutto quell'attaccamento manifestato per Sheila, ma sicuramente quello che era successo li aveva spaventati. E aveva turbato anche me. Ero preoccupata, e non avevo detto niente per cercare di mantenere calma la classe. In quei sette mesi e mezzo di scuola avevamo imparato a parlare liberamente e a metterci nei panni degli altri. Forse avevano imparato troppo bene, perché non riuscivo a ingannarli. Così saltammo le ultime esercitazioni, e la Scatola del Coboldo rimase chiusa, mentre spiegavo ai bambini che cosa provavo e perché non ero stata franca com'ero di solito. È difficile parlare di certe cose, dissi. E quello che è successo a Sheila è una di queste cose. Perché? chiese Peter. Pensi che non siamo abbastanza grandi? È quello che mi dice sempre la mamma quando non vuole parlarmi di certe cose. Sorrisi. Più o meno. E anche perché è difficile parlarne. Non so nemmeno perché. Forse perché ci fanno paura. Anche a noi grandi. E quando i grandi hanno paura di certe cose, non ne vogliono parlare. Ecco, questo è uno dei problemi che hanno i grandi. I bambini mi guardavano. Io guardai loro. Uno per uno. Tyler, con quelle lunghe, sinistre cicatrici sulla gola. Peter, dalla bellissima pelle nera. Guillermo, con gli occhi che non guardavano mai veramente da nessuna parte, nemmeno quando era attento. Max, che si dondolava e si torceva le dita. Sarah. William. Freddie. E la mia bimba fatata, Susannah. Vi ricordate quando ho detto che Sheila si era fatta male in casa? E quando abbiamo parlato dei modi in cui vi si può toccare? Vi dicevo che a volte qualcuno vorrebbe mettere le mani addosso a un bambino, mentre non deve toccarlo. Sì, per esempio, qui in basso, nelle parti intime, vero? disse William. Annuii. Be', nella famiglia di Sheila qualcuno l'ha toccata dove non avrebbe dovuto, e quando lei si è lamentata, lui le ha fatto del male. Corrugarono la fronte, gli occhi animati. Max smise persino di dondolarsi. Che cosa le ha fatto?
Un taglio. Sentendo le mie parole, mi domandai se facevo bene a dirle. D'istinto, mi sembrava di sì. Il nostro rapporto era fondato sulla verità, per quanto dolorosa potesse essere. E poi non credevo che sapere fosse peggio che non sapere. Il fatto che non c'era niente, nella loro vita, che fosse tanto doloroso da non poterne parlare era una pietra angolare, nella nostra classe. Eppure, dentro di me, mi tormentava il sospetto che, ancora una volta, stessi venendo meno alle regole che mi avevano insegnato, che stessi trasgredendo alla pratica didattica e psicologica accettata. E come sempre, in casi come questi, cominciai a temere che quello fosse il mio fallimento, e che forse facevo soltanto del male, invece di essere d'aiuto. Di nuovo, si scatenò il conflitto fra l'onestà e la necessità di proteggere gli altri. Chi è stato? chiese Guillermo. Suo padre? No. Suo zio. Lo zio Jerry? chiese Tyler. Annuii. Per un minuto ci fu silenzio. Poi Sarah scrollò le spalle. Be', almeno non è stato suo padre. Non è che questo aggiusti le cose, Sarah, replicò Tyler. Sì, invece, rispose Sarah. Quando ero piccola, prima di andare a scuola, mio padre, qualche volta, veniva in camera mia, quando mia madre era al lavoro, e... S'interruppe. Distolse lo sguardo da Tyler per posarlo su di me, poi l'abbassò a terra. Be', faceva quelle cose lì. È peggio se è tuo padre, credo. Non parliamone più, d'accordo? disse William. Aveva la fronte increspata per la paura. Si torceva le mani. No. Io voglio parlarne, disse Sarah. Voglio sapere come sta Sheila. No, disse William, di nuovo. Le lacrime tornarono a salirgli agli occhi. Tu hai paura, William, asserì Guillermo. Di che cosa hai paura? Tesi una mano. Perché non vieni a sederti qui, vicino a me? Lui si alzò e venne da me. Gli misi un braccio attorno alle spalle. Fa paura parlarne, vero? Annuì. Qualche volta c'è della polvere, sotto il letto. se la mamma non passa l'aspirapolvere. William, questo non c'entra niente, disse Peter. Quella polvere mi fa paura. A volte penso che forse, prima, erano uomini. Forse ci sono dei morti, sotto il letto. Che stupidaggine. Ma no. E così che dice la Bibbia: polvere sei e polvere tornerai, dopo morto. Dice così. Me l'ha fatto vedere la mamma. Chiedilo a Torey.
Non credo che nella Bibbia si intenda questo, William, dissi. Quella polvere, lì sotto, forse era gente, prima. Forse era mio nonno, dopo essere stato in ospedale. Adesso lui potrebbe essere sotto il mio letto. Forse è Sheila. No, non è Sheila. Sheila non è morta, Will. è in ospedale, e guarirà, replicai. Torey, mi chiamò Tyler. Perché lo zio di Sheila ha fatto così? Proprio l'altro giorno ci aveva detto che era simpatico e che giocava con lei. Perché le ha fatto un taglio? La fissai. Non sapevo che cosa rispondere. Rimasi un bel pezzo ad aspettare, ma la risposta non venne. Non so, Ty. Aveva qualche problema? chiese Sarah. Come mio padre. L'hanno mandato all'ospedale dello stato perché aveva dei problemi. Me l'ha detto la mamma. Non è più tornato. Sì, potremmo dire che ha dei problemi. Non sa come si tocca una bambina. O forse lo sa, ma a volte si fanno delle cose senza pensare. Si fa quello che in quel momento si ritiene giusto. Andrà all'ospedale dello stato, come mio padre? Non lo so. Far del male a qualcuno è contro la legge. Quando torna Sheila? chiese Peter. Appena starà meglio. Sarà la stessa di prima? Che cosa intendi dire? gli chiesi. Peter aggrottò la fronte. Be', se si è fatta un taglio lì sarà come prima? Continuo a non capirti, Peter. Spiegami che cosa vuoi dire. Esitò; lanciò qualche rapida occhiata agli altri e poi guardò di nuovo me. Posso dire delle parole sconce? Devo dirle, se voglio farti capire quello che intendo. Devo usare delle parole sconce. Annuii. In questo caso non è come quando si urlano agli altri. Non sono sconce, se significano qualcosa. Parla pure. Di nuovo, esitò. Be', qui, in basso, le ragazze hanno la fica, vero? Sì. E qui, in basso, è lì che le ragazze vanno in bagno, vero? Allora che cosa succede, se si fanno un taglio lì? E da lì che escono i bambini. Che cosa succede, se lui l'ha tagliata lì? Ancora non capivo esattamente la sua domanda. Decisi di rigirargliela, per vedere se riuscivo a strappargli qualche altra informazione. Che cosa succede, se l'ha tagliata lì Peter? Che cosa potrebbe succedere, secondo te? Gli occhi s'ingrandirono, colmi d'ansia. Che cosa succederà, quando diventerà grande, se avrà dei bambini? Che cosa può succedere? Aveva le lacrime agli occhi. Potrebbe rovinarli mentre
stanno nascendo. La bocca gli si piegò in un singhiozzo. È quello che mi ha fatto la mia mamma. Ecco perché sono matto. Oh, Peter, non è vero, dissi. Mi si avvicinò, camminando a quattro zampe. Ero seduta per terra, a gambe incrociate, William appoggiato a un mio fianco. Peter mi mise la testa in grembo. Sì, è vero. No, non è vero. Non so perché ti sia fatto quest'idea ma è sbagliata. Peter, tu non sei matto, disse William. Nessuno è matto, in realtà. È solo una parola. Vero, Torey? Solo una parola. E nessuno è una parola. Parlammo per molto tempo. Suonò la campanella dell'uscita, arrivarono gli autobus, ripartirono, e noi continuammo a parlare. Di violenza sessuale. Di Sheila. Di noi. Poi li caricai tutti e otto in macchina e li portai a casa. Non abbandonammo mai la serietà, nella discussione. Anche adesso, in macchina, continuavano a fare domande. Non si scherzò, non ci furono battute, né sciocchezze d'altro genere. Le cose di cui parlavamo non erano divertenti, per nessuno. Il bisogno di parlarne superava ogni altro bisogno, quel pomeriggio. E ogni nostra diversità. Dopo aver lasciato i bambini alle rispettive case, raccolsi i loro biglietti di auguri, presi alcuni dei libri preferiti di Sheila e mi avviai all'ospedale. L'avevano messa in osservazione, di fianco alla stanza delle infermiere. Entrai. Era sola, in una grande stanza con un'intera parete di vetro, come una gabbia dello zoo. Era sdraiata su un lettino con le sponde alte, di metallo. Sopra di lei, appesi a un sostegno, c'erano la fleboclisi e la fiala del sangue per la trasfusione. Il braccio in cui erano infilati gli aghi era legato a una sponda del lettino, in modo che non si muovesse. Sembrava tanto piccola. Gli occhi mi si riempirono di lacrime prima che potessi trattenerle, e mi bagnarono le guance. Riuscivo soltanto a pensare: perché l'avevano messa in un lettino con le sponde? Per essere una bambina così piccola, Sheila aveva molta dignità. Sapevo che quello l'avrebbe umiliata. Sapevo che l'avrebbe imbarazzata farsi vedere da me in quel lettino. Perché non le avevano dato un letto adatto a una bambina di quasi sette anni? Non un lettino. I lettini con le sponde sono per i bambini piccoli. Quando entrai, Sheila girò la testa verso di me. Mi osservò in silenzio. Non piangere, Torey, disse, dolcemente. Non mi fa tanto male. Davvero. La fissai, umile di fronte a tanto coraggio. Perché ti hanno messa in un lettino? le chiesi, confusa. Abbassai una sponda e le toccai la mano libera. Non dovresti essere in un lettino. Non fa niente, davvero, disse. Sapevo che non era vero. La conoscevo abbastanza bene per sapere quanto riusciva a controllarsi. Sorrise dolcemente, come se fossi io ad avere bisogno di conforto, e tese il braccio verso l'alto, per toccarmi il viso. Non piangere, Torey. Non m'importa. Mi fa bene piangere. Mi hai fatto così tanta paura, ed ero così preoccupata per te, Sheil. Mi fa bene piangere un po', e comunque non riesco a smettere.
Non fa tanto male. Gli occhi avevano perso un po' della loro espressività. Forse era l'effetto della cura, a renderli vitrei. Però, qualche volta, ho un po' paura. Solo un pochino. Come ieri sera: non sapevo più dov'ero. Allora ho avuto paura. Ma non ho pianto. E l'infermiera è arrivata subito, ed è rimasta a parlare con me. Lei essere proprio gentile con me. Ma ho ancora un po' paura. Volevo papà. Certo. Vedrò di fare in modo che ci sia sempre qualcuno con te, quando avrai ancora paura. Voglio papà. Lo so, tesoro. Verrà appena potrà. No. A lui gli ospedali non piacciono. Be', vedremo. Voglio che tu rimanga qui con me. Annuii. Rimarrò il più possibile. Qualche volta verrà anche Anton. E sicuramente anche Chad vorrà venire. È tutto il giorno che mi chiede come stai. Faremo tutto il possibile. Non voglio che tu abbia paura, amore mio. Farò tutto il possibile per aiutarti. Per un attimo girò la testa in su, verso la fleboclisi. Il braccio mi fa un po' male. Spostò di nuovo gli occhi su di me; improvvisamente si erano animati, di dolore e di paura. Contorse il viso. Voglio che mi abbracci, gemette. Il braccio mi fa molto male e io mi sento tanto sola. Voglio che tu rimanga qui ad abbracciarmi. Non voglio che tu vada via. Piccola, non credo che sarebbero contenti se ti abbracciassi. Combineremmo un disastro, con tutta questa roba che hanno appeso per te. Posso tenerti la mano, se vuoi. No, piagnucolò. Voglio che tu mi tenga abbracciata. Mi fa male. Le accarezzai i capelli e mi piegai su di lei. Lo so, tesoro mio, vuoi che ti abbracci. Anch'io lo vorrei. Ma non si può. Mi guardò per un lungo istante, poi quella patina di autocontrollo tornò a velarle gli occhi. Si limitò a tirare un sospiro, profondo, tremulo. E tornò alla sua apatia, cacciando dalla mente l'ennesimo sentimento insostenibile. Ti ho portato dei libri. Vuoi che ti legga qualcosa? Potrebbe distrarti un po'. Annuì, lentamente. Leggimi quello della volpe, del piccolo principe e della sua rosa. Sheila rimase in ospedale fino alla fine di aprile. Intanto suo zio fu chiamato in giudizio e processato per violenza sessuale. Ritornò in prigione. Il padre non andò mai a trovare Sheila, con la scusa della sua fobia per gli ospedali. Annegò le sue paure, invece, al Bar Joe. Io andavo da lei ogni sera, dopo la scuola, e di solito rimanevo fino a dopo l'ora di cena. Chad andava tutti i pomeriggi, e stava con lei a giocare a dama anche dopo che me n'ero andata. Anton la visitava regolarmente, e a Whitney fu concesso un paio di volte di entrare, nonostante la minore età. Stranamente, anche Collins andò a trovarla, e un sabato lo sorpresi a
giocare con lei. Con stupore di tutto il personale, Sheila si rivelò la più ben voluta, fra i bambini del reparto, con tutti quei visitatori che andavano e venivano, ogni giorno. Ero felice dell'interesse che le dimostravano, perché, con tutta la mia buona volontà, non riuscivo a rimanere con lei più di un paio d'ore a sera. Ma sapevo che sarei rimasta di più, se nessuno fosse andato a trovarla. In un certo senso, il ricovero le fece bene. Per una bambina così bella e con una esperienza tanto straziante alle spalle, non fu difficile diventare la prediletta di tutte le infermiere. La coprivano di attenzioni. E Sheila se ne deliziava. Era quasi sempre allegra, collaborava e, inutile dirlo, non piangeva mai. Soprattutto, mangiava regolarmente tre pasti al giorno, e finalmente cominciava a mettere su qualche chilo. Soltanto negli ultimi giorni di ricovero cominciò a farsi irrequieta: non voleva stare a letto e s'irritava con chi insisteva perché ci rimanesse. I suoi problemi emotivi sembravano completamente cancellati, dopo quell'evento. Di certo, in ospedale non diede mai prova dei gravi disturbi che aveva avuto. Anzi, le infermiere non facevano che parlare del suo comportamento esemplare. La cosa mi preoccupava. Se è vero che questo rendeva la sua presenza più piacevole per tutti, sapevo anche che il motivo del ricovero e il ricovero stesso non erano altro che gravi traumi, per lei. Temevo che così come riusciva, insensatamente, a trattenere il pianto, ora stesse sublimando l'evento doloroso, facendo come se non fosse mai successo. Per me era questo, più di ogni altra cosa, il segno della gravità del suo disturbo. Nel frattempo, gli altri bambini si erano abituati a vivere senza Sheila. Ci godemmo il sole d'aprile e la generale rinascita della terra. Tutto tornò tranquillo e, tranne che per le lettere che le scrivevano ogni settimana, Sheila smise di essere il principale argomento di conversazione. Fu in questo periodo che seppi per certo che la mia classe sarebbe stata definitivamente sciolta. Varie cose avevano contribuito a creare questa situazione, e di tutte ero sempre stata consapevole. In primo luogo, al distretto si tergiversava, e si cominciava a pensare che a molti bambini disturbati, come Freddie e Susannah, si poteva provvedere senza dover formare un'altra classe separata, come si era fatto quell'anno. In secondo luogo, gli altri bambini avevano fatto abbastanza progressi perché, realisticamente, si potesse pensare a provvedimenti meno restrittivi. Ma soprattutto si parlava di un nuovo progetto di legge, discusso al Congresso, per l'integrazione dei bambini handicappati nelle classi normali. In conseguenza di questa legge federale si stava smantellando un certo numero di classi speciali, in modo che gli insegnanti con la preparazione richiesta potessero lavorare come consulenti nelle classi regolari. Poiché io avevo i bambini più gravi, le autorità che presiedevano all'organizzazione delle classi erano interessate, a maggior ragione, a smantellare completamente la mia. Ultimo e importante motivo, i soldi scarseggiavano. Mantenere classi come la mia era molto costoso. La bassa proporzione di alunni rispetto ai docenti, il lungo addestramento degli insegnanti, che così potevano contrattare
stipendi più alti, l'attrezzatura speciale: tutto questo costava molto. Il distretto non poteva permettersi, in futuro, di mantenere tutte le classi speciali che aveva mantenuto quell'anno. La notizia mi rattristò, ma non mi sorprese. Era la tristezza che provavo ogni anno, quando la scuola stava per finire e io avrei voluto ricominciare tutto da capo. In realtà, avevo i miei progetti. Il distretto scolastico mi aveva offerto un altro posto; e comunque, avevo fatto domanda presso una scuola di specialità e mi avevano accettata. Avevo già un master che mi abilitava all'insegnamento nelle scuole speciali, ma non una piena qualifica per insegnare ai bambini difficili. Anche se lo stato non la richiedeva ancora, sapevo che presto sarebbe stata necessaria. Avevo visto troppi insegnanti, anche validi, perdere il lavoro soltanto perché non erano riusciti a tenersi al passo con le richieste di sempre nuovi certificati. Non volevo rischiare di trovarmi a corto di certificati, il giorno in cui avessi trovato un posto che non sarei stata disposta a lasciare per tornare a scuola. Il mio lavoro, lì, era praticamente finito; e comunque non ce l'avrei fatta, in autunno, a tornare nella stessa classe, con gli stessi bambinie quel momento andava bene come qualsiasi altro, per tornare a scuola. Avevo anche una mezza intenzione di seguire un dottorato. L'anno prima mi ero appassionata sempre di più alla ricerca, ed ero rimasta sconcertata da quanto rimaneva ancora da fare, nel campo dell'autismo e della depressione infantile. Anche se mi piaceva insegnare, negli ultimi mesi mi ero fatta molte domande sul mio futuro. E poi, Chad aveva ripreso a premere perché ci sposassimo e ci sistemassimo. Era rimasto colpito dalla serata con Sheila, il giorno del processo, e ora riconosceva apertamente di volere una famiglia sua. Ma io cominciavo a essere irrequieta. Il sei aprile, quando mi era arrivata la lettera di accettazione dall'università, avevo deciso di andare; questo significava che in giugno, dopo la fine della scuola, mi sarei trasferita all'altro lato del continente, lontano da Chad, da Sheila e dai luoghi che mi avevano regalato tanti degli anni più belli della mia vita. Sheila tornò a scuola ai primi di maggio. Tornò espansiva ed entusiasta, come l'avevamo vista in ospedale, quasi come se tornasse da una lunga vacanza. Quando, in classe, la vidi riprendere il suo solito posto, m'inquietai più che mai. Non si poteva ingoiare tanto dolore e cavarsela così. Temetti che il suo disturbo fosse ancora più grave di quanto avessi creduto; che si stesse lasciando scivolare in un suo mondo fantastico, per proteggersi dagli orrori della realtà. Ma quel giorno e i due successivi, niente faceva credere che ci fossero dei problemi. Agli occhi di tutti sembrava una bambina normale, una che si fosse fermata lì per partecipare alle attività di classe. Alla fine della settimana quella patina di normalità cominciava ad assottigliarsi. Si ripresentarono le vecchie questioni. Io cominciai a esigere di più da lei, e lei commetteva degli errori. Così, il giovedì tenne il broncio per
qualche ora. Gli altri bambini si stavano ancora adattando al suo ritorno, e non le offrivano tutta l'attenzione che era abituata a ricevere in ospedale. Questo le dava un po' di rabbia e d'inquietudine, quando le cose non andavano come voleva lei. Ma la cosa più importante fu che ricominciò a parlare con me. Capii che era stato proprio questo a mancare. Con quel continuo chiacchierare che finora aveva fatto, a scuola e dopo, Sheila non aveva mai detto niente, in realtà. Erano soltanto considerazioni prive di importanza, sulla situazione immediata. A differenza di prima, quando esprimeva apertamente e spontaneamente i suoi sentimenti, da tempo non rischiava più, nella scelta degli argomenti. A poco a poco, però, nei suoi discorsi cominciarono a insinuarsi frasi che riflettevano quello che si nascondeva sotto l'apparente spensieratezza. Era tornata a scuola con la solita salopette e la solita T-shirt. Le macchie di sangue erano ancora visibili, e dopo che Sheila ebbe messo su qualche chilo, in ospedale, i suoi vestiti le erano diventati troppo corti e troppo stretti. Ero curiosa di sapere dov'era finito il vestito rosso e bianco così il venerdì sera, dopo la scuola, glielo chiesi. Sheila mi stava aiutando a ritagliare delle figure da appendere in bacheca; eravamo sedute a un tavolo, i fogli sparpagliati fra lei e me. Rifletté un momento sulla mia domanda. Non lo metterò mai più. Perché? Quel giorno... s'interruppe, concentrandosi su quello che stava facendo. Quel giorno, quando zio Jerry... Be', insomma, lui mi dice che essere proprio un bel vestito. E ci mette le mani sotto. L'aveva già fatto prima, ma quella volta non voleva smettere. Continuava a mettere le mani lì sotto. Perciò non lo metterò mai più. Non voglio che nessuno mi metta le mani lì sotto. Oh. E poi, era tutto sporco di sangue. Pa' l'ha buttato via, quando me ne sono andata. Ci fu un lungo, opprimente silenzio, fra noi. Non sapevo più che cosa dire, così continuai il mio lavoro. Sheila guardò in su. Torey? Tu e Chad non fate mai quelle cose, insieme? Quello che zio Jerry ha fatto a me? Quello che ti ha fatto tuo zio non dovrebbe farlo nessuno. Ha sbagliato. I rapporti sessuali sono cose per adulti. Non per bambini. E nessuno usa mai un coltello. È sbagliato. Lo so che cosa essere. Pa' porta in casa delle donne, qualche volta, e lo fa. Lui pensa che io dormo, ma non dormo. Fa un sacco di rumore, così mi sveglio. Li ho visti. Lo so che cos'è. Aveva gli occhi velati. Quello è amore per davvero? Tirai un profondo sospiro. Non sei abbastanza grande per capire, Sheil. Qualche volta lo chiamano amore. Ma non è esattamente così. È sesso. Di solito due persone lo fanno quando si amano, e allora è bello e piacevole. Ma a volte qualcuno obbliga un altro a farlo. E questo è sempre
sbagliato. Io non amerò mai nessuno, se dovrò farlo. Sei troppo piccola, adesso. Il tuo corpo non è ancora pronto per fare questo genere di cose, perciò ti fa male. Ma non è amore, Sheil. L'amore è un'altra cosa. L'amore è un sentimento. Quello che è successo è stato un errore. Nessuno dovrebbe comportarsi così, con una bambina. Ti ha fatto male perché era una cosa che non ti sarebbe mai dovuta su‡cedere. Sei troppo piccola. Perché l'ha fatto, Torey? Posai le figure che stavo ritagliando e mi sollevai all'indietro i capelli. Mi stai facendo delle domande molto difficili, tesoro. Ma io non capisco. Zio Jerry mi piaceva. Giocava con me. Perché mi ha fatto del male? Non lo so, davvero. Qualche volta si perde il controllo. Ti ricordi, per esempio, quello che ci è successo in febbraio, quando sono andata alla conferenza? Ci siamo fatte del male anche noi, quella volta. Capita. Sheila interruppe il suo lavoro, aprì le dita e lasciò cadere sul tavolo i fogli e le forbici. Per un lungo istante non si mosse, e rimase in silenzio, a fissare i fogli e le forbici e le sue mani aperte e immobili. Il mento le tremava. Non va mai come si vorrebbe che andasse, vero? Non mi guardava. Non risposi, non sapendo cosa dire. Appoggiò il viso sul tavolo, in un gesto di sconfitta. Non voglio più essere me. Non voglio. A volte è dura, risposi, non sapendo ancora che cosa dire, ma sentendo il bisogno di dire qualcosa. Lei girò la testa per guardarmi, ma tenendola sempre sul tavolo, fra i ritagli di carta. Aveva gli occhi cupi. Voglio essere qualcun altro, come Susannah Joy, e avere tanti bei vestiti. Non voglio stare qui. Voglio essere una bambina normale e andare in una scuola per bambini normali. Non voglio più stare qui. Non ne posso più. Ma non so come fare. La osservai. Ogni volta penso di aver perso la mia ingenuità. Ogni volta penso, Dio mio, questo è il peggio che possa succedere, e la prossima volta non soffrirò più così tanto. E invece, mi riscopro sempre a soffrire. CAPITOLO SEDICESIMO Stabilii che, per concludere l'anno scolastico, avremmo organizzato la festa della mamma. Una delle più grandi tragedie, nelle scuole speciali, è che i bambini non riescono quasi mai a partecipare alle tradizionali attività ricreative delle classi regolari. Per questi bambini, tirare avanti giorno per giorno sembra già un gran risultato. Ma io ho sempre detestato che loro, semplicemente, tirino avanti giorno per giorno; non è questo che rende una vita degna di essere vissuta. Tutti sappiamo che è la glassa, non la torta, a invogliare i più a mangiare la torta. Così, cercavo di rimediare organizzando per la mia classe alcune delle attività più popolari tra quelle previste dai programmi scolastici regolari. In ottobre avevamo avuto una riunione dei genitori, ed
era andata... non troppo male. Così pensai che era proprio quello che ci serviva, per ravvivare il maggio. Inventare un'attività alla quale potessero partecipare anche bambini come Susannah, Freddie e Max non era impresa facile. Ma con l'aiuto dei genitori riuscimmo a mettere insieme qualche canzone, un paio di poesie e una piccola recita piena di quei tradizionali funghi e fiori primaverili che sembrano sempre sbocciare nelle recite dei più piccoli. C'era grande emozione per l'evento, fra i bambini; se non che Peter voleva fare qualcosa di più ambizioso. Quasi tutti avevano visto Il mago di Oz, quando era passato in televisione per l'ennesima volta, e volevano recitare quello a tutti i costi. Spiegai loro che, potendo contare soltanto su quattro attori che fossero affidabili, la cosa sarebbe stata un po' difficile, soprattutto perché nessuno, tranne Sheila, leggeva bene. Peter, in particolare, fu inflessibile: non voleva fare il fiore di bosco; voleva fare il Taglialegna di Latta. Sarah era d'accordo. In cortile avevano giocato al Mago di Oz e l'aveva trovato divertente. Alla fine mi arresi, dichiarando che gliel'avrei lasciato fare a patto che Peter e Sarah riuscissero a mettere in piedi uno spettacolo che includesse una parte per Freddie e per tutti gli altri, compreso Guillermo, nonostante il suo handicap. Così, cominciammo a provare. In realtà avevamo già cominciato in aprile a lavorare alle canzoni, ma il copione non venne toccato fino al ritorno di Sheila, in maggio. Ovviamente eravamo in ritardo, con la recita, per la festa della mamma. Sarò eternamente grata a Sheila per la sua memoria pronta. Cantava discretamente e riusciva a memorizzare qualsiasi cosa le assegnassi. Così lavorai al programma con lei e Max, il cui disturbo gli aveva dato la capacità di ripetere enormi quantità di materiale, anche se non necessariamente su richiesta. Domandai a Sheila se voleva che suo padre assistesse alla recita. Ci sarebbero stati molti papà, perché, anche se lo spettacolo era stato annunciato per la festa della mamma, quella era una delle rare occasioni in cui i genitori potevano vedere i figli partecipare a un'attività scolastica felice e spensierata. E poi volevo che i genitori si sentissero liberi di intervenire a qualsiasi nostra iniziativa. Così chiesi a Sheila di suo padre, sapendo che, se lei lo avesse voluto a scuola, avremmo dovuto organizzarci per portarlo lì. Lei fece una smorfia, pensandoci su. Tanto non verrebbe. Anton può andare a prenderlo, se vuole venire. Basta saperlo prima; non sarebbe tanto difficile. Non penso che viene, in ogni caso. Non gli piace molto la roba che si fa a scuola. Ma potrebbe vederti recitare e cantare. Sono certa che sarebbe orgoglioso di te, se ti vedesse fare tutte quelle cose. Mi sedetti su una seggiolina, per adeguarmi alla sua statura. Sai, Sheil, qui ne hai fatta molta di strada, da gennaio. Sembri un'altra bambina. Non ti metti più nei pasticci come prima. Scosse energicamente la testa. Una volta distruggevo sempre tutto. Ma adesso non lo faccio più. E quando mi infuriavo non parlavo. Ero cattiva.
Sei molto migliorata, sì. E sai una cosa? Scommetto che a tuo papà piacerebbe vedere tutti i progressi che hai fatto. Credo che sarebbe orgoglioso di te, perché forse non si rende conto dell'importanza che hai in questa classe. Sheila ci rimuginò un po' su, studiandomi con gli occhi socchiusi. Magari viene. Magari sì. Il giorno dello spettacolo Chad arrivò in classe portando un grande scatolone. Anton stava disponendo gli oggetti di scena e Sheila si stava lavando i denti. Che cosa ci fai qui? gli chiesi, stupita. Sono venuto a vedere Sheila. Sheila, che era in piedi su una sedia, saltò giù entusiasta e corse da lui. Sputa fuori il dentifricio, prima, Chad l'ammonì. Lei si precipitò di nuovo al lavandino e tornò dopo pochi secondi, col dentifricio ancora sulle labbra. Ho saputo che oggi c'è una recita. Sì! strillò, saltellandogli attorno emozionata. Io faccio Dorothy e Torey mi farà le trecce. E canterò una canzone e reciterò una poesia, e mio papà verrà qui e mi vedrà! Disse tutto rapidamente, e non aveva più fiato, dopo quella tirata. Verrai anche tu? No. Ma ti ho portato un portafortuna per il tuo debutto. Sgranò gli occhi. Per me? Sì, per te. Per la felicità, gli abbracciò le ginocchia con tanta forza che Chad barcollò. Sapevo che cosa c'era, nella scatola: un vestito lungo, rosso bianco e azzurro, con il pizzo sul davanti, tutt'intorno all'apertura. Un vestito bellissimo, costoso, che Chad aveva portato da un recente viaggio a New York. Gli avevo spiegato che cosa era successo all'altro, e come i vestiti facessero sentire Sheila troppo vulnerabile. Per questo le aveva comprato un vestito lungo, invece che corto. La sera in cui era venuto a mostrarmelo, gli occhi gli luccicavano, come quelli di un bambino. Me lo immaginavo, nei negozi di New York, alto, il fisico da giocatore di football, abbassarsi sulle rastrelliere in miniatura piene di vestitini per bambine; le braccia aperte, per tentare di descrivere alla commessa la ragazzina speciale, giù nell'Iowa, per la quale voleva un vestito speciale. Chad era certo di aver trovato proprio quello che Sheila sognava: avrebbe cancellato gli orrori di quel mese e recuperato almeno un po' della magia che avevamo trovato la sera dell'udienza. Sheila strappò la carta e sollevò il coperchio della scatola. Per un momento esitò, fissando la carta velina che ancora nascondeva in parte il contenuto. Poi, lentamente, molto lentamente, tirò fuori il vestito dalla scatola, gli occhi tondi, enormi. Guardò Chad, che era in ginocchio sul pavimento, accanto a lei.
Poi fece ricadere il vestito nella scatola e abbassò la testa. Non metterò mai più un vestito, mormorò rauca. Chad si girò verso di me, sconcertato, la delusione che traspariva chiaramente dal suo viso. Mi avvicinai e mi inginocchiai accanto a loro. Non credi che questa volta andrebbe diversamente? Lei scosse la testa. Guardai Chad. Scusa, ma penso che dovremmo parlare lei e io da sole, per un momento. Mi alzai e portai Sheila all'altro lato della stanza, dietro le gabbie. Immaginavo in che stato di confusione doveva trovarsi Chad. Ma immaginavo anche il tormento di Sheila. Amava i vestiti carini, e quello che le aveva portato Chad era un vestito che mozzava il fiato, infinitamente più bello dell'abito bianco e rosso che le aveva preso in marzo. Ma era successo tutto troppo di recente, la ferita era troppo viva. Quando fummo dietro le gabbie, la sua faccia era contratta in una smorfia di dolore, gli occhi colmi di lacrime. Nello sforzo di trattenerle, si premeva le dita alle tempie, ma per la prima volta da quando era arrivata in quella classe, non ci riuscì. Rivoli di lacrime le caddero giù, lungo le guance, e scoppiò in singhiozzi. Finalmente, era arrivato il momento. Il momento che avevo aspettato tanto e che sapevo che, prima o poi, sarebbe arrivato. E adesso, era arrivato. Rimasi seduta con lei, dietro le gabbie, per un bel po' di minuti. Mi aveva sorpresa talmente vederla piangere davvero, che per un momento non feci altro che guardarla. Poi la presi tra le braccia e la strinsi forte. Si aggrappò alla mia camicia, così che sentivo il dolore sordo delle sue dita conficcate nella mia pelle. Quando fu chiaro, ormai, che aveva perso completamente il controllo e che non sarebbe riuscita a riprenderlo, la sollevai e uscii dal nostro rifugio. Volevo andare dove i bambini, che stavano entrando, e i preparativi per la recita non potessero interromperci. Che cosa ho fatto? chiese Chad, preoccupato, il viso dolce contratto per l'ansia. Io non volevo... Scossi la testa. Non preoccuparti. Metti lì il vestito. Sarò da te fra poco, d'accordo? Mi girai verso Anton. Puoi badare tu a tutto per un po'? L'unico posto che mi venne in mente, dove potessimo rimanere completamente sole e indisturbate, era lo stanzino dei libri. Cercando di trascinare una seggiolina, mentre tenevo in braccio Sheila, entrai nello stanzino, richiudendo la porta a chiave alle mie spalle. Misi una sedia contro uno scaffale di libri e mi sedetti, spostando Sheila perché stesse più comoda. Singhiozzava forte, ma non nel modo isterico in cui aveva cominciato. Però pianse, pianse tanto. Io le tenevo la mano, nient'altro, e facevo dondolare la sedia avanti e indietro; sentivo le braccia e il petto bagnarsi delle sue lacrime e del suo fiato caldo, in quello stanzino stretto. Avevo la mente ingombra di pensieri: pensavo ad Anton, chissà come se la stava cavando, con i bambini, tutti in grande
agitazione per la festa; pensavo allo spettacolo e a come sarebbe andato; e rimuginavo su Sheila. Ma poi la mia mente si svuotò, e rimasi seduta a dondolarmi, senza pensare a niente, se non al fatto che cominciavo a sentire le braccia stanche. Alla fine, le lacrime cessarono. Sheila era ridotta a un fagottino zuppo e tremante. Lo sfinimento aveva rilassato ogni suo muscolo. Lo stanzino si era fatto umido e caldo, e tutt'e due eravamo in un bagno di saliva e lacrime e muco, che il pianto porta sempre con sé. Le accarezzai i capelli umidi, scostandoglieli dal viso; avrei voluto capire che cosa era successo, nella sua testa, perché il regalo di Chad diventasse il punto di rottura. Stai un po' meglio? le chiesi, dolcemente. Non rispose, ma si appoggiò a me, il corpo scosso dai singhiozzi, dall'affanno e dai brividi, che seguono sempre le lunghe crisi di pianto. Sto per rimettere. I miei riflessi di maestra entrarono subito in azione, la portai fuori dallo stanzino e andammo ai servizi delle ragazze, poco più in là. Quando uscì dal gabinetto era prostrata, la faccia rossa e gonfia, il passo incerto. Sul mento, si vedeva ancora qualche lieve traccia di dentifricio. La sollevai. A volte capita, dissi, mentre tornavamo al nostro rifugio, nello stanzino. Qualche volta, quando si piange molto forte, si sta male. Annuì. Lo so. Avevamo soltanto una sedia in due, ma lei tornò volentieri sulle mie ginocchia, appoggiandosi con tutto il peso contro la mia camicia fradicia. Rimanemmo sedute per un po', senza dir niente. Sento il tuo cuore che batte, disse alla fine. Le sfiorai il capo. Pensi che dovremmo tornare in classe? La lezione di matematica dovrebbe essere già cominciata, ormai. Di nuovo, tornò il silenzio. Un milione di pensieri mi vorticavano in testa, ma per nessuno trovavo le parole. Tor? Sì? Perché mi ha comprato quel vestito? Mi si affacciò un sospetto: forse Sheila pensava che Chad glielo avesse comprato per lo stesso motivo per cui a suo zio Jerry piaceva il vestito bianco e rosso. Che pensiero orribile doveva essere stato, per lei; Chad, tanto gentile, affettuoso, affidabile, che la voleva con quel vestito per poter accedere a lei come aveva fatto quello zio Jerry. Era soltanto una congettura, da parte mia, ma mi convinse a trattenermi dal rispondere che Chad gliel'aveva regalato per amore. Perché gli ho detto che l'altro si era rovinato. Pensava che ti sarebbe piaciuto avere qualcosa di carino da metterti, per la recita. Le passai le dita fra i capelli di seta. Mi ero dimenticata di dirgli che non metterai più i vestiti. È stata colpa mia. Non rispose.
Lo sai, vero, che Chad non ti farebbe mai quello che ti ha fatto tuo zio. Lui sa che queste cose non si fanno, alle ragazzine. Non ti ha portato il vestito per farti del male. Non ti farebbe mai del male. Lo so. Non volevo piangere. Oh, tesoro, non fa niente. Chad sa che hai passato dei momenti difficili. Non importa se piangi. Qualche volta è l'unico modo per migliorare le cose. Nessuno se la prende, se piangi. lo volevo quel vestito, disse piano, interrompendosi. Lo volevo. Solo che avevo paura. E non riuscivo a smettere. Non importa. Davvero. Chad sa come sono le ragazzine. Tutti lo sappiamo. Non so perché piangevo. Non so che cosa è successo. Non preoccuparti. Il fatto di essere rimasta via così tanto tempo, mentre i bambini erano in agitazione per la recita, cominciava a preoccuparmi. Sheil, devo tornare in classe. I bambini sono tutti lì e Anton è solo. Ho due soluzioni per te. Puoi tornare in classe con me oppure, se non te la senti, puoi andare giù in infermeria e riposare un po'. Dovrò andare a casa, perché ho rimesso? No. Non sei ammalata. Scivolò giù dalle mie ginocchia. Posso riposare un po'? Sono stanca. Spiegai alla segretaria che Sheila aveva bisogno di sdraiarsi un po', ma che non c'era bisogno di mandarla a casa; io sarei tornata mezz'ora dopo, durante la ricreazione, per vedere come stava. La segretaria ci diede una coperta e io sistemai Sheila su una brandina. Torey? mi chiese, mentre le rimboccavo le coperte. Pensi che potrei ancora avere quel vestito? Mi piacerebbe metterlo. Annuii e sorrisi. Sì. Chad te l'ha lasciato. Tornai in infermeria durante la ricreazione; Sheila dormiva. Dormì per il resto della mattinata, finché andai a svegliarla per il pranzo. Quel pomeriggio di maggio L. Frank Baum e Judy Garland ebbero di che rigirarsi nelle loro tombe. Oltre al titolo e ai personaggi della storia famosa, lo spettacolo dei bambini aveva ben poco in comune con il libro o il film. A Sheila toccò il ruolo di Dorothy, soprattutto per la sua rapidità nel pensare e nel recitare i dialoghi. Poiché sia Tyler che Sarah avrebbero voluto quella parte, ci furono alcune discussioni, non troppo tranquille, e si arrivò quasi alla rottura fra Sarah e Peter, il team produttivo. Ma Peter sembrava avere autorità, nella scelta del cast, e selezionò Sheila. A Tyler fu assegnato l'odioso compito di rappresentare tutte le streghe cattive. Sarah venne trasformata in Spaventapasseri. William fu il Leone Codardo e Guillermo il Mago. Stranamente, Peter scelse Susannah per la parte di Glinda, la Strega buona, altro ruolo molto ambito. L'unico motivo di questa scelta poteva essere, secondo me, la delicata bellezza di Susie, che la rendeva credibile
come fata, anche senza costume; ma Peter aveva le sue ragioni, che non volle rivelare. Freddie era il Munchkin solitario e Max la solitaria scimmia volante. Peter, naturalmente, era il Taglialegna di Latta. Soltanto genitori, insegnanti e parenti che provassero un amore incondizionato per dei bambini dalla comicità involontaria avrebbero potuto apprezzare la nostra messa in scena del Mago di Oz. Sheila si era ripresa completamente dalla crisi e si era messa il vestito che le aveva portato Chad, rifiutandosi di indossare il costume che Whitney aveva preparato per lei. Ritemprata dalle due ore di riposo, recitava saltando di qua e di là, urtando contro le quinte e gli oggetti di scena. Freddie, invece, non si muoveva. Rimaneva seduto al suo posto, con quel ridicolo cappello da Munchkin calato sulla fronte, e agitava la mano per salutare la madre, fra il pubblico. Sheila, una volta, inciampò nelle gambone grassocce di Freddie, cadendogli addosso. Alla fine, quando la sua parte fu conclusa, Anton dovette trascinarlo via. Il personaggio del Leone Codardo sembrava fatto su misura per William e, forse perché conosceva così bene la paura, lo interpretò con grande realismo, fremendo e tremando. Con nostra grande sorpresa, Susannah Joy recitò molto bene la parte di Glinda. Fluttuava e ondeggiava sul palcoscenico, staccata dalla realtà come sempre, emettendo fra sé e sé dei sottili e acuti squittii. Ma dalla platea sembrava sorprendentemente naturale. Il problema principale, che si presentò nel corso dello spettacolo, furono le verbose digressioni in cui Sheila a un certo punto si lanciò per spiegare al pubblico le parti che, secondo lei, potevano essergli sfuggite. E mentre Sheila si esibiva nei suoi lunghi monologhi, gli altri rimanevano muti e immobili sul palcoscenico. Alla fine, dopo uno di quei soliloqui, Peter salì sul palco e le disse di andarsene. Il resto della festa fu incantevole. Nessuno dimenticò i versi delle poesie, e tutti cantarono con una gioia trascinante, nonostante le stonature. Dopodiché ci furono i dolci e le bevande, mentre i bambini mostravano ai genitori i lavori che avevano fatto in classe. Venne anche il padre di Sheila. Con il suo vestito sdrucito, che si deformava sul ventre enorme, e la solita puzza di dopobarba da quattro soldi, accomodò su una seggiolina la sua mastodontica mole. Per tutta la festa pregai che la sedia non si spaccasse, sentendo i suoi sinistri scricchiolii ad ogni spostamento di peso. Per la prima volta lo vidi sorridere alla figlia, quando lei gli si avvicinò saltellando, dopo la recita. Aveva avuto la cortesia di presentarsi sobrio, e sembrava contento di essere con noi. Non fece commenti sul vestito nuovo di Sheila, finché, verso la fine della festa, andai da lui e gli dissi che gliel'aveva comprato Chad. Lui allora guardò attentamente sua figlia e poi si girò verso di me, tirando fuori dalla tasca un portafoglio logoro. Non ho molto, qui, disse con calma. Io ero terrorizzata al pensiero che si stesse offrendo di pagare il vestito, e sapendo che, evidentemente, era un capo costoso. Ma lui aveva qualcos'altro in mente. Se le do dei soldi, potrebbe portare Sheila a comprarsi dei vestiti da mettere tutti i giorni? Lo so che ha bisogno di qualcosa e, be', ci vuole
una donna per queste cose... La voce gli si spense, e distolse lo sguardo. Se riuscissi a non spendere i soldi... be', sa, ho qualche problema. Magari lei... Aveva in mano dieci dollari. Annuii Sì, va bene. Andremo la prossima settimana, dopo la scuola. Strinse le labbra e mi rivolse un sorriso triste, quasi impercettibile. Poi, prima che me ne accorgessi, se ne andò. Fissai la banconota. Non c'erano molti vestiti da comprare, con dieci dollari. Ma almeno ci aveva provato. A modo suo, aveva cercato di mettere al sicuro dei soldi, in modo che andassero dove dovevano, prima di essere spesi in una bottiglia. Quell'uomo mi piaceva, nonostante tutto, e provai una grande pietà. Sheila non era l'unica vittima; senza dubbio suo padre aveva bisogno di affetto quanto lei. Una volta c'era stato un ragazzino, con le sue pene e le sue sofferenze che nessuno aveva mai lenito. Adesso c'era l'uomo. Se soltanto ci fossero abbastanza persone disposte a dare il proprio affetto, ad amare senza condizioni, pensai tristemente. CAPITOLO DICIASSETTESIMO Ed ecco, all'improvviso, che mancavano soltanto tre settimane alla conclusione dell'anno scolastico. La testa mi girava, per tutte le cose che restavano ancora da fare. Ed erano molte. Stavo anche cominciando a organizzare il mio trasloco, che sarebbe avvenuto poco dopo la fine della scuola. Passavo le serate a fare pacchi e a buttar via le cianfrusaglie che avevo accumulato nel corso degli anni. Non avevo ancora detto ai bambini che la classe sarebbe stata sciolta. Alcuni sapevano già che l'anno dopo avrebbero avuto una sistemazione meno restrittiva. William avrebbe frequentato una quinta regolare, assistito da un insegnante di sostegno. Negli ultimi tre mesi aveva seguito le lezioni di lettura e di matematica in una quarta, in quella stessa scuola. Anche Tyler avrebbe avuto una nuova sistemazione. Avrebbe frequentato per la maggior parte del tempo una classe speciale, ma la sua vita sarebbe stata più vicina a quella di un alunno regolare. Per Sarah non avevamo ancora preso una decisione: Anche se nella nostra classe riusciva a reagire bene, in un gruppo più numeroso tendeva ancora a estraniarsi. Forse avrebbe avuto bisogno di un altro anno di classe speciale, ma era quasi pronta, ormai. Purtroppo, Peter non avrebbe forse mai lasciato la scuola speciale. La continua degenerazione neurologica era causa di un costante peggioramento del suo comportamento, e lo rendeva troppo violento e troppo impulsivo perché si potesse pensare di inserirlo in una classe meno rigidamente strutturata. La famiglia di Guillermo aveva deciso di trasferirsi. E Max, Freddie e Susannah avrebbero seguito corsi speciali. Freddie sarebbe andato in una classe per i ritardati gravi, e l'insegnante sperava che non avrebbe dato troppi problemi. Max andava benissimo. Parlava molto di più e ricorreva all'ecomania sempre meno. Sia lui che Susannah avrebbero seguito un
corso per bambini autistici. E Sheila? Sheila. Non le avevo ancora parlato dell'imminente scioglimento della classe. Avevo rimandato l'argomento perché non sapevo come avrebbe reagito, a quella notizia. Insomma, avevo paura. Era molto diversa, ormai, da quel fagottino impaurito che avevamo trascinato in classe in gennaio, e da quella bimba senza autonomia, che si attaccava alla mia cintura, in febbraio. Di Jimmie si era dimenticata, e quasi non accennava più alla volta in cui era stata abbandonata sull'autostrada. Ma era fragile. Non credevo che avesse ancora bisogno di una classe speciale. Anzi, temevo che lì sarebbe stata ignorata, tanto era autonoma e capace di esprimersi; e questo poteva indurla ad assumere di nuovo un comportamento negativo, per attirare l'attenzione di cui aveva bisogno. Le serviva soltanto avere accanto qualcuno che le volesse bene. Stavo quasi pensando di proporre a Ed di mandarla in terza, anche se era così piccola; in quel modo sarebbe stata più vicina agli altri alunni, sia scolasticamente che socialmente. Nonostante la sua fragilità emotiva, era matura, per la sua età. E poi avevo una buona amica che insegnava in una terza, dall'altra parte della città. Il distretto avrebbe provveduto al trasporto, se ne fosse stata fatta richiesta, perché quella scuola era più vicina della mia al campo degli stagionali, e perché mantenere una bambina in una classe regolare era meno costoso che mantenerla in una classe speciale. E poi Sandy si sarebbe presa cura di lei. Quest'ultima garanzia serviva a me. Nel tentativo di vedere Sheila inserita in una classe regolare, decisi di mandarla a seguire le lezioni di matematica in una seconda della nostra scuola. Nancy Ginsberg, che insegnava in una seconda, era una persona piacevole e appassionata al suo lavoro, ed era stata tra le prime a invitare la mia classe a lavorare con il suo gruppo. Così, un pomeriggio, nella sala degli insegnanti, andai a chiederle se era disposta a tenere Sheila durante le lezioni di matematica. Le spiegai che aveva nozioni di matematica avanzate, rispetto ai bambini di seconda, ma che volevo che per qualche ora al giorno lasciasse la mia classe e cominciasse a riabituarsi alle difficoltà che si possono incontrare in una classe regolare. La matematica era la materia in cui Sheila si sentiva più sicura, così era meglio cominciare da lì. Nancy acconsentì. Sai una cosa? dissi a Sheila, mentre riponevamo i giocattoli dopo l'ora di ricreazione. Cosa? D'ora in poi farai qualcosa di interessante. Andrai in una classe regolare per qualche ora al giorno. Eh? Ho parlato con la signora Ginsberg e mi ha detto che potrai andare ogni giorno nella sua classe a fare matematica. Come William? Proprio così. Tornò a piegarsi sui giocattoli che stava mettendo via. Non voglio andarci.
Non ti sei ancora abituata all'idea. Ma vedrai che ti piacerà. Pensa, sarà una classe regolare. Ti ricordi? Una volta mi hai detto che avresti voluto essere in una classe regolare. E adesso potrai andarci. Io non ci vado. Perché? La mia classe essere questa qui. Non voglio andare nella classe di nessun altro. Ma è solo per matematica. Arricciò il naso. Ma quella è la lezione che preferisco, qui. Non è giusto che tu mi faccia andar via di qui per la mia lezione preferita. Potrai fare matematica anche qui, se vorrai. Ma la farai anche nella classe della signora Ginsberg, e comincerai lunedì. No. Sheila non era affatto entusiasta dell'idea. Controbatteva ogni mia ragione. Per tutto il giorno continuò, alternativamente, a mettere il muso e a infuriarsi, senza mai lasciarmi parlare d'altro. Quando fu pomeriggio ne avevo abbastanza, e dichiarai senza mezzi termini che non ero più disposta a sentire altre obiezioni. Ci sarebbe andata. Aveva due giorni per prepararsi e io avrei fatto il possibile per rendere tutto più semplice; ma ci sarebbe andata. Sheila picchiò i piedi rabbiosamente, e se ne andò a grandi passi verso la gabbia di Cipolla, che per fortuna era vuota, a far sferragliare le sbarre. Il fracasso continuava; così mi avicinai e la trascinai a un tavolo, dicendole che poteva scegliere: o si comportava meglio o andava a sedersi nell'angolo del silenzio. A queste parole scattò in piedi e marciò spavalda verso l'angolo del silenzio. Sbatté la sedia e ci si sedette. La lasciai lì. Tornai ad aiutare William col suo progetto artistico e la ignorai. Rimase seduta per tutto il resto del pomeriggio, anche quando Anton e io le dicemmo che, se si era calmata, poteva alzarsi, e anche quando Sarah le chiese se voleva la merenda. Poiché, evidentemente, la sua intenzione era quella di farmi soffrire, dopo la scuola la lasciai con Anton e andai giù nella sala insegnanti a preparare le lezioni. In quei momenti di umor nero la miglior cosa da fare era lasciarla sola. Quando tornai, appena prima delle cinque, era seduta pigramente su un cuscino, a leggere un libro. Hai finito di arrabbiarti? le chiesi. Annuì, con aria indifferente, senza alzare gli occhi dal libro. Ti pentirai di avermi fatta andare. E con questo che cosa vorresti dire? Non farò la brava, se dovrò andare. Sarò cattiva così mi manderà indietro. Così non potrai più farmi andar via. Sheila, dissi, esasperata, pensaci per un momento. Tu non vuoi far questo, vero? Sì, rispose, ancora senza alzare gli occhi.
Diedi un occhiata all'orologio. Il momento in cui sarebbe dovuta uscire era pericolosamente vicino. La detestavo quando faceva così. Andai a inginocchiarmi accanto a lei. Che cosa succede, piccola? Perché non vuoi andare? Pensavo che ti sarebbe piaciuto tornare in una classe normale. Scrollò le spalle. Le presi il libro di mano perché mi guardasse. Sheil voglio che tu ci pensi. Sai che non ti ci posso mandare, se hai intenzione di combinare dei guai. Qui colpisci nel segno, perché non voglio causare dei problemi alla signora Ginsberg. Ma non può essere che tu voglia questo. Invece sì. Sheil... Alla fine mi guardò in faccia, gli occhi azzurri, fluidi. Come mai non mi vuoi più in classe? Non ho mai detto questo. Io ti voglio in classe. Certo che ti voglio, in classe. Ma voglio anche che tu veda quello che succede in una classe vera, in modo che tu possa tornarci. So già com'è una classe vera. È lì che sono stata prima di venire qui. Io voglio rimanere in questa classe di matti. Le lancette segnavano quasi le cinque. Sheil, senti, non abbiamo più tempo. Già dovrai correre, per prendere l'autobus. Ne riparliamo domani. Sheila dichiarò che non ne voleva più discutere, e mantenne la parola. Lunedì mattina la mandai nella classe della Ginsberg per trentacinque minuti. Dopo quindici minuti Anton dovette andare a riprendersela. Aveva strappato fogli, scagliato matite e fatto lo sgambetto a dei poveri e ignari alunni di seconda, che erano grandi il doppio di lei. Anton la trascinò in classe fra calci e urla. Nel momento esatto in cui la porta si chiuse e loro furono nell'aula, al sicuro, Sheila si bloccò. Un sorriso compiaciuto le salì alle labbra. Io sprofondai in una sedia, accanto a Max, e mi coprii gli occhi, mentre Anton accompagnava Sheila alllangolo del silenzio. Furibonda per il suo comportamento e incapace, almeno per un po', di fidarmi di me stessa, e sapendo che ormai era arrivato il momento di spiegarle che cosa sarebbe successo l'anno dopo, non affrontai subito il problema della sua condotta nella classe della Ginsberg. Quando mi fui calmata le dissi che poteva lasciare l'angolo del silenzio e tornare con noi; poi ce ne tornammo alle nostre normali attività. Evidentemente, lo scontro diretto con me la spaventava. Per tutto il resto della giornata mi colmò di premure, cercando di mostrarmi com'era buona. Il fatto, poi, che non avevo reagito alla sua trasgressione, se non mandandola nell'angolo del silenzio, era una novità, e la cosa la turbava ancora di più. Mi chiese quando mi sarei arrabbiata con lei. Io sorrisi, non volendo che la mia improvvisa indifferenza le sembrasse un altro segno del mio desiderio di sbarazzarmi di lei. Così le dissi che ne avremmo discusso in un altro momento, quando avremmo avuto più tempo. Ma lei rimase nervosa per il resto della giornata, seguendomi a distanza.
Dopo la scuola accompagnai a piedi i bambini alla fermata. Quando tornai in classe Sheila era in piedi, appoggiata alla parete in fondo, vicino alle gabbie, gli occhi grandi e colmi di paura. Con un cenno della testa le indicai un tavolino. Vieni qui, piccola. è venuto il momento di parlare. Si avvicinò, esitante, e si sedette al tavolo, di fronte a me. Un'espressione circospetta in viso, gli occhi dilatati. Sei arrabbiata con me? Per questa mattina? Stamattina ero arrabbiata, certo, ma adesso non lo sono più. No, voglio solo sapere che cosa ti sta succedendo. Non riesco proprio a capire perché non vuoi andare. La settimana scorsa non ne hai voluto parlare. Così adesso voglio saperlo. Di solito hai delle buone ragioni per quello che fai; in questo mi fido di te. Lei mi studiava. Allora? Questa qui essere la mia classe, replicò, tornando a usare essere, che quasi non usava più. Sì, è la tua classe. Non sto cercando di cacciarti fuori. Si tratta solo di trentacinque minuti al giorno. E poi credo che per te sia ora di pensare di tornare in una classe regolare, l'anno prossimo. Non voglio andare in una classe regolare. La mia classe essere questa qui. La osservai per un lungo istante. Sheil, siamo a maggio. L'anno scolastico finirà fra qualche settimana. Penso che sia ora di pensare all'anno prossimo. L'anno prossimo sarò ancora qui. Provai una stretta al cuore. No, risposi piano. I suoi occhi lampeggiavano. Sì, invece! Sarò la bambina più cattiva del mondo. Farò delle cose terribili, così mi metteranno con te. Non lasceranno che mi mandi via. Oh, Sheil, gemetti. Io non andrò da nessun'altra parte. Farò di nuovo la cattiva. Non è così, piccola. Non ti sto mandando via. Dio, Sheila, ascoltami, per favore. Aveva le mani sulle orecchie. Sollevò su di me gli occhi furiosi. C'era rabbia e dolore in quegli occhi, e dentro brillava la vecchia fiamma della vendetta. Questa classe non ci sarà più l'anno prossimo, dissi, a voce tanto bassa che quasi non si sentiva. Ma lei sentì, anche con le orecchie coperte. L'espressione del suo viso cambiò, come un'onda, e lei abbassò le mani. La rabbia se ne andò, lasciandola pallida. Che cosa vuoi dire? Dove la manderanno? Non ci sarà più. Il distretto scolastico ha stabilito che non ce n'è bisogno. Possono andare tutti in altre classi. Non ce n'è bisogno? urlò. Ma sì che ce n'è bisogno! Io ne ho bisogno! Io sono ancora matta. Io ho bisogno di una classe di bambini matti. Anche Peter. E Max. E Susie. Siamo ancora matti, tutti. No, Sheil, tu no. Forse non lo sei mai stata. Di certo adesso non lo sei. È ora che smetti di crederlo.
Allora lo diventerò. Farò di nuovo un sacco di cose brutte. E non andrò da nessuna parte. Sheil, neanch'io sarò più qui. La faccia le si impietrì. In giugno mi trasferirò. Finita la scuola andrò via. È dura dirtelo, perché siamo diventate tanto amiche. Ma il momento è arrivato. Non ti voglio meno bene, e non parto per qualcosa che hai fatto o che non hai fatto. è una decisione che ho preso indipendentemente da tutto questo. Una decisione da grande. Continuava a guardarmi. I gomiti sul tavolo, le dita intrecciate e una guancia appoggiata alle mani. Gli occhi, color del mare, mi studiavano la faccia senza vedere. Tutto finisce, Sheil. Io sono una maestra, quindi finisco in giugno. Abbiamo trascorso dei momenti bellissimi insieme, e non li cambierei per niente al mondo. Tu sei molto diversa, adesso. E anch'io, sicuramente. Siamo cresciute, insieme, e adesso è il momento di vedere se siamo cresciute bene. Siamo pronte, credo. Anche tu. Penso che tu sia pronta per provare da sola. Sei abbastanza forte per farcela. Improvvisamente le lacrime le riempirono gli occhi e subito cominciarono a scorrere in rivoli sulle guance tonde, fino al mento. Ma rimaneva immobile, senza mai sbattere le palpebre, il viso ancora appoggiato sulle mani. Non sapevo più che cosa dire. Spesso mi dimenticavo che aveva solo sei anni. Ne avrebbe compiuti sette in luglio. Me ne dimenticavo perché aveva gli occhi tanto vissuti. Lentamente, appoggiò le mani sul tavolo e abbassò la testa. Rimase seduta per un momento, ancora senza asciugarsi le lacrime, che continuavano a scorrere. Poi si alzò, si girò dall'altra parte, andò all'altro lato dell'aula e si sedette per terra, in mezzo ai cuscini. Lì si coprì la faccia con le mani. Ancora, nessun rumore. Rimasi seduta, sentendo il dolore intenso che s'irradiava da lei e che, credo, era anche il mio dolore. Mi ero lasciata coinvolgere troppo? Nonostante i suoi evidenti progressi, l'avevo fatta diventare troppo dipendente da me? Avrei fatto meglio a lasciarla come l'avevo trovata in gennaio e limitarmi a farle da maestra, piuttosto che sottoporla ogni giorno alle prove che l'amore sempre comporta? Ero sempre stata uno spirito indipendente, fra i miei colleghi. Appartenevo alla scuola dei meglio aver amato e perso, un'idea che non aveva molto seguito, nel campo dell'educazione. I corsi, i professionisti, tutti predicavano contro il coinvolgimento personale. Be', io non ci riuscivo. Non riuscivo a essere un'insegnante efficiente, se non mi lasciavo coinvvolgere; e nel mio cuore, poiché appartenevo davvero alla scuola degli ama e perdi, quando si arrivava alla fine, riuscivo ad andarmene. Era sempre doloroso, e più amavo il bambino più era doloroso. Ma quando arrivava il momento di lasciarci, o quando riconoscevo di dovermi
arrendere perché non potevo fare di più, riuscivo ad andarmene. Ci riuscivo perché ogni volta portavo via con me i ricordi preziosissimi di noi due, convinta che, agli altri, non si possa dare altro che bei ricordi. io non potevo far niente per assicurare a Sheila la felicità, nemmeno essere la sua insegnante per tutta la sua carriera scolastica. Soltanto lei poteva fare qualcosa. Quello che io potevo darle era il mio amore e il mio tempo. Quando sarebbe arrivato il momento, lasciarsi sarebbe stato ugualmente doloroso. Alla fine i miei sforzi si sarebbero ridotti ancora una volta a ricordi. Eppure, osservandola, temetti che non ci fosse stato abbastanza tempo per guarire le sue ferite, che lei non fosse abbastanza forte per sopportare il mio modo sofferto d'insegnare. Anche se io lo ritenevo un modo giusto, forse era scorretto non lasciarle la possibilità di scegliere. Ma che cosa avrei dovuto fare? Avevo il cuore straziato dal timore che, alla fine, mi avessero dato la bambina sbagliata, quella che avevo ferito, invece che guarito. Per un accademico va bene essere uno spirito indipendente. Ma per un operatore è meno rischioso essere conformista. Lentamente, mi alzai e andai da lei, che se ne stava ancora seduta in silenzio, a tirar su col naso. Vai via, intimò, calma ma decisa, parlando fra le mani. Perché? È perché stai piangendo? Abbassò le mani e mi guardò per un momento. No. S'interruppe. Perché non so che cosa fare. Mi sedetti davanti a lei, sistemando un cuscino al quale appoggiarmi. Per la prima volta non provai il desiderio di abbracciarla e di mitigare il suo dolore. La sua dignità era tanto evidente che la si poteva quasi toccare. In quel momento eravamo alla pari; non eravamo un'adulta e una bambina. Io non ero più, fra le due, la più saggia, la più intelligente, la più forte. Eravamo alla pari, due esseri umani. Perché non rimani, per farmi buona? mi chiese, alla fine. Perché non sono io a farti buona. Sei tu. Io sono qui soltanto per farti capire che c'è qualcuno a cui importa, se sei buona o no. Che c'è qualcuno a cui importa quello che ti succede. E dovunque io sarò m'importerà sempre. Sei come la mamma, disse. La voce era sommessa, senza accenti accusatori, come se lei avesse già stabilito come stavano le cose e perché. Non è vero, Sheil. La guardai. O forse sì. Forse per la tua mamma è stato difficile lasciarti come lo sarà per me. Forse anche lei ha sofferto così tanto. Lei non mi ha mai voluto veramente bene. Voleva più bene a mio fratello. Mi ha lasciata sull'autostrada come un cane. Come se non fossi stata nemmeno sua figlia. Questo non lo so. Non so niente di tua madre, non so perché ti abbia fatto quello che ha fatto. E in realtà, Sheila, non lo sai neanche tu. So solo quello che hai provato tu. Ma la tua mamma e io siamo diverse. Io non sono tua madre, per quanto tu lo voglia.
Le lacrime aumentarono. Lei giocherellava con la cintura dei pantaloni. Lo so. So che lo sapevi. Ma so anche che sognavi. Come ho fatto anch'io, a volte. Ma erano soltanto sogni. Io sono la tua maestra, e quando la scuola finirà sarò soltanto la tua amica. Ma sarò tua amica. Lo sarò finché vorrai. Lei guardò in su. Quello che non riesco a capire è perché le cose belle finiscono sempre. Tutte le cose finiscono. Alcune no. Quelle brutte no. Quelle non se ne vanno mai. Sì, anche quelle se ne vanno. Se le fai andare se ne vanno. Non tanto presto come qualche volta vorremmo, ma anche quelle finiscono. La cosa che non finisce è quello che proviamo gli uni per gli altri. Anche quando sarai grande e sarai da qualche altra parte, potrai ricordare come ci siamo divertite insieme. Anche quando ti capiterà qualcosa di brutto e ti sembrerà che quel momento non passerà mai, potrai ricordarti di me. E io mi ricorderò di te. Inaspettatamente, lei sorrise, un sorriso debole e un po' triste. Sì, perché ci siamo addomesticate. Ti ricordi quel libro? Ti ricordi com'era arrabbiato il ragazzino, perché aveva faticato tanto per addomesticare la volpe e adesso la volpe piangeva perché lui doveva andarsene? Sorrideva, al ricordo, guardando dentro di sé, quasi senza accorgersi della mia presenza. Le lacrime si erano asciugate, sulle guance. E quella volpe disse che comunque era stato bello, perché si sarebbe sempre ricordata dei campi di grano. Ti ricordi? Annuii. Noi ci siamo addomesticate, vero? Sì. Addomesticare qualcuno fa piangere, vero? In quel libro continuavano a piangere e non capivo bene perché. Pensavo che si piangesse soltanto quando qualcuno ti fa del male. Annuii di nuovo. Quando lasci che qualcuno ti addomestichi rischi di piangere. Credo che faccia parte dell'addomesticamento. Sheila strinse le labbra e si asciugò dal viso le ultime tracce di lacrime. Però fa ancora molto male, vero? Sì, fa ancora molto male. La mattina dopo Sheila tornò nella classe della signora Ginsberg e riuscì a starci per tutti i trentacinque minuti senza combinare troppi guai. Ma i nostri problemi non erano ancora risolti. Pur riconoscendo che l'anno scolastico stava per finire e che non saremmo più state insieme, non riusciva ad accettare il fatto con serenità. Dubitavo che ci sarebbe riuscita, in quelle due settimane che rimanevano. I suoi sentimenti oscillavano tra la rabbia nei miei confronti e la paura di non vedermi più, e questo portò a
un lieve peggioramento del suo comportamento. Non riusciva a distinguere nettamente fra quello che sarebbe successo e quello che era già successo fra lei e la madre. Dovemmo discuterne più volte, e più minuziosamente di quanto avevano richiesto le sue precedenti ossessioni per la ripetizione. Si aggrappava al Piccolo principe per avere una prova letteraria del fatto che, effettivamente, ci si lasciava, si soffriva e si piangeva, ma che ci si continuava ad amare. Teneva sempre il libro a portata di mano, e ne conosceva dei brani a memoria. Poiché erano stampate in un libro, ai suoi occhi quelle parole sembravano avere più autorità delle mie. Una cosa è certa: Sheila imparò a piangere. Nei giorni che seguirono la trovai spesso in lacrime, o sull'orlo delle lacrime. Per un po' i suoi occhi sembrarono dei rubinetti sempre aperti; le lacrime le rigavano le guance anche quando sorrideva, o mentre giocava. Quando le chiedevo spiegazioni, spesso non sapeva neanche lei perché piangeva. Io la lasciavo piangere e non mi preoccupavo. Non piangeva da così tanto tempo che credevo si sarebbe dovuta riabituare, ritrovando il respiro di quell'emozione; e se questo l'aiutava a prepararsi per il futuro, meglio così. Poi, a poco a poco, le lacrime cominciarono a scomparire. Sotto, luccicava il cuore meraviglioso della gioia e del coraggio. Era questo il compito più difficile. Tutto il resto che le era successo nella vita non era dipeso dalla sua volontà, e lei non aveva potuto far altro che lasciarlo succedere, e cercare poi di sopravvivere alle conseguenze. Ma adesso sapeva che cosa sarebbe successo e lottava coraggiosamente per mantenere l'autocontrollo. Vedendola affrontare le sue lacrime e stringere al petto la copia ormai logora del Piccolo principe e farmi incessanti domande su quello che sarebbe successo e perché, sapevo che ce l'avrebbe fatta. Era forte; forse più forte di me. I bambini emotivamente labili con cui avevo lavorato mi avevano colpita profondamente per la loro resistenza. Nonostante quello che generalmente si pensa, non sono affatto fragili. La loro sopravvivenza ne è una prova. Dando loro gli strumenti che per gran parte di noi sono scontati, dando loro l'amore, l'appoggio, la fiducia e la stima di sé che tanto spesso non notiamo quando non ci mancano, loro non solo sopravvivono, ma trionfano. In Sheila, tutto questo era evidente. Non smetteva mai di tentare. CAPITOLO DICIOTTESIMO Il mio compleanno cadeva proprio nel pieno del trambusto per la fine della scuola. Nella nostra classe si facevano dei gran festeggiamenti in occasione dei compleanni, un po' perché spesso i bambini non potevano festeggiarlo da nessun'altra parte, un po' perché a me piacevano le feste. Così, mi sembrava giusto che i bambini festeggiassero anche il compleanno di Anton e di Whitney; e anche il mio. Dopo tutto, anche noi eravamo nati, e io non ero tanto modesta da far finta che non m'importasse. Così, il giorno del mio compleanno arrivai con una grande torta gialla, a forma di elefante, e con del gelato al cioccolato.
La giornata non andò bene. Non successe niente di terribile, in realtà; ci furono solo quelle piccole seccature per le quali i bambini si distinguono sempre. Peter aveva fatto a botte, sull'autobus, e arrivò pieno di rancore e col naso sanguinante. Durante la ricreazione Susannah s'infuriò con Sheila, che a sua volta s'infuriò con Tyler, che pianse. L'angolo del silenzio fu un continuo andirivieni, per tutto il giorno. Ma soltanto nel pomeriggio persi la pazienza. Quando Whitney andò nella sala insegnanti a prendere il gelato, scoprì che uno della quinta l'aveva preso per sbaglio, pensando che fosse della sua classe. Comunque, rimaneva ancora la torta. Mentre noi ci preparavamo, Peter e William perdevano tempo in sciocchezze. Con un paio di cubi in mano fingevano di fare dei giochi di prestigio. Gli chiesi di smetterla ma loro continuarono. Un altro mi tirava per un braccio, e io mi distrassi per un momento. Poi, casualmente William aveva lanciato un cubo a Peter, e lui, indietreggiando per prenderlo, aveva urtato contro Sheila, seduta per terra. Le cadde addosso e tutt'e due si rialzarono barcollando. Prima che potessi accorgermene, Sheila aveva già in mano un cubo, pronta a scagliarlo contro Peter. Lui sollevò una seggiolina e la agitò rabbiosamente verso di lei. La sedia urtò il tavolo, poi Max, poi la torta. Il mio elefante giallo andò in mille pezzi. Va bene, ragazzi, adesso basta ! urlai. Tutti seduti sulle vostre sedie, testa sul tavolo. Ma non è stata colpa mia, protestò Guillermo. Io non ho fatto niente. Tutti. Tutti, anche Max e Freddie, andarono a sedersi sulle loro sedie. Tutti, tranne Sheila. Non essere colpa mia. Quello scemo di Peter ha inciampato e mi è venuto addosso. Era seduta per terra, dove Peter l'aveva urtata. Siediti su una sedia e metti giù la testa come tutti gli altri. Ne ho abbastanza di voi, tutti. Non avete fatto altro che dar fastidio, tutto il giorno. Be', adesso vi meritate questo. Tutti seduti, con la testa giù. Sheila rimase per terra. Sheila, alzati. Con un grande sospiro, si alzò e prese una sedia. La trascinò accanto a Tyler, si sedette e abbassò la testa. Li guardai. Che razza di marmaglia. Whitney e Anton stavano raccogliendo da terra i pezzetti di torta. Quando mi avvicinai ad Anton, lui alzò gli occhi al cielo. Sorrisi stancamente. Ma avevo soltanto voglia di piangere. Non per un motivo preciso; semplicemente, volevo che fosse una giornata speciale e invece era stata come tutte le altre. E poi volevo piangere per il mio elefante giallo, che mi aveva portato via tanto tempo, e che era finito in pezzi sulla moquette. Quando mi girai per guardare i bambini, Peter sbirciava con un occhio da sotto il braccio. Gli puntai contro un dito e gli diedi un'occhiataccia. Lui si coprì di nuovo la faccia. Guardai l'orologio, seguendo con gli occhi la lancetta dei secondi.
Va bene, ragazzi, se riuscite a comportarvi come esseri umani, potete alzarvi. Abbiamo ancora dieci minuti. Aiutatemi a raccogliere gli ultimi pezzi di torta e poi trovatevi qualcosa di tranquillo da fare. E non voglio più sentir parlare di zuffe. Sheila era ancora al suo tavolino, con la testa abbassata. Sheil, puoi alzarti. Rimase immobile, la testa tra le braccia. mi avvicinai e mi sedetti su una sedia accanto a lei. Non sono più tanto arrabbiata. Puoi alzarti e andare a giocare. Ah, ah! disse. Questo è il mio regalo di compleanno. Oggi non combinerò più guai. Dopo la scuola Whitney accompagnò fuori Sheila, e Anton e io andammo nella sala insegnanti. Ero seduta comodamente su una sedia, la testa all'indietro, i piedi sul tavolo, un braccio sugli occhi. Che giornata d'inferno, dissi. Non sentendo Anton rispondere, mi raddrizzai e aprii gli occhi. Non c'era più. Non l'avevo nemmeno sentito uscire. Oh, be', e mi rimisi comoda. Mi stavo quasi addormentando. Tor? Guardai in su. Anton era di nuovo lì, in piedi vicino a me. Buon compleanno. Mi diede una grossa busta. Ehi, non avresti dovuto farlo. È questo il patto, qui. Fece un sorrisino. Aprila. Dentro c'era un biglietto con una vignetta folle e un serpente verde. Uscì un foglio piegato. Che cos'è? gli chiesi. Il mio regalo per te. Aprii il foglio. Era la fotocopia di una lettera. Egregio Sig. Antonio Ramirez, è con grande piacere che il Community College della Contea di Cherokee Le comunica che Le è stata assegnata una borsa di studio Dalton. Le nostre più vive congratulazioni. Contiamo di averla con noi il prossimo autunno. Alzai gli occhi verso di lui. Ci provò, ma non riuscì a trattenere un sorriso. Sorrideva da orecchio a orecchio. Volevo congratularmi con lui. Dirgli quanto mi faceva piacere quella lettera. Non dissi niente. Rimanemmo soltanto a fissarci. E a sorridere. Avevo chiamato Ed per discutere la futura sistemazione di Sheila, e avevamo fissato un incontro di gruppo. Io insistevo che Sheila doveva andare nella classe della mia amica Sandy McGuire, alla scuola elementare Jefferson. Sandy era un'insegnante giovane e sensibile, e sapevo che si sarebbe presa cura di lei. Avevamo parlato di Sheila più di una volta, quando avevo cominciato a pensare che fosse In un primo tempo, Ed non aveva approvato il mio progetto. Era contrario a mandare i bambini in classi più avanzate rispetto al loro gruppo di età. Per di più Sheila era bassina e minuta, per gli anni che aveva. Dei bambini di otto, nove anni l'avrebbero superata quasi tutti di una spanna. Studiammo a fondo il caso. Era avanti di almeno due classi rispetto agli alunni di seconda, ed era più piccola anche di loro. Non esisteva una soluzione ideale, nel suo caso. Secondo me era più importante avere la certezza che
la sua insegnante avrebbe continuato a favorire il suo sviluppo emotivo, piuttosto che preoccuparsi della sua statura o del suo QI. Era chiaro, Sheila non sarebbe mai stata normale, dal punto di vista scolastico; perciò non c'era motivo di alimentare altri problemi. Temevo che la sua vivacità intellettiva non avrebbe avuto stimoli adeguati, in una seconda, e che lei avrebbe avuto difficoltà anche soltanto a tenersi occupata. Alla fine, il gruppo decise di provare a mandarla nella classe di Sandy. Avrebbe trascorso due ore al giorno in una classe di sostegno, perché venissero affrontati anche i suoi problemi emotivi. La penultima settimana di scuola dissi a Sheila che l'anno dopo sarebbe andata alla Jefferson. Le spiegai che conoscevo molto bene la sua futura insegnante e che eravamo amiche da molto tempo. Le chiesi se un giorno, dopo la scuola, voleva andare a trovare Sandy nella sua classe. La prima volta che le proposi questa visita, le dissi anche dove sarebbe andata l'anno prossimo. Sheila non accettò subito il fatto, e dichiarò risolutamente che non avrebbe conosciuto Sandy, né ora né mai. Ma più tardi, quello stesso giorno, quando gli altri seppero la novità e manifestarono il loro entusiasmo perché Sheila avrebbe saltato una classe, lei pensò che dopo tutto non le sarebbe dispiaciuto conoscere Sandy. Mercoledì pomeriggio, appena suonò la campanella, Sheila e io salimmo sulla mia macchina per andare alla Jefferson, dall'altra parte della città. Avendo ancora una mezz'ora di tempo, prima che Sandy finisse di lavorare, alle tre e mezzo, mi fermai a prendere due coni di gelato. Sheila scelse la liquirizia. Il mio errore fu di non prendere dei tovagliolini di carta, prima di tornare in macchina. Quando arrivammo alla Jefferson, Sheila sembrava aver cambiato razza. Aveva gelato nero dappertutto, sulle guance, sul mento, sui capelli e sul davanti della maglietta. La guardai sbalordita, visto che solo un quarto d'ora prima era pulita. Non avevo neanche un fazzoletto di carta con me, così la pulii alla meglio, con la mano. Con Sheila attaccata a me, andammo alla scuola. Sandy scoppiò a ridere, quando la vide. Non potevo darle torto. Sheila sembrava una bimba di quattro anni, con tutto quel gelato in faccia, e aveva l'aria spaurita. Se ne stava premuta contro la mia gamba. Ragazzi, doveva proprio essere buono, disse Sandy, sorridendo. Che cos'era? Sheila la fissava, con gli occhi spalancati. Gelato, sussurrò. Chissà che cosa pensò Sandy, in quel momento. L'avevo convinta a prendere Sheila in classe soprattutto lodando il suo incredibile talento e la sua straordinaria capacità di esprimersi. In quel momento Sheila sembrava tutt'altro che intelligente. Avrei dovuto aver più fiducia in Sandy. Portò delle sedie, si sedette con noi e volle sapere tutti i particolari della passione di Sheila per il gelato. Poi ci portò a fare il giro dell'aula. Era un'aula tipica. La Jefferson occupava un antico edificio di mattoni, massiccio, con delle stanze enormi. Nell'aula ci stavano comodamente ventisette banchi e varie basi didattiche, lungo il suo perimetro. E c'era una gran confusione, come sempre, nell'aula di Sandy. Pile
di libri, sull'angolo di un tavolo, sfidavano la gravità; ritagli di cartoncino erano sparpagliati per terra, tra le file di banchi. Io non mi ero mai distinta per l'ordine, ma la confusione di Sandy superava anche la mia. I suoi alunni dovevano avere una mezza dozzina di progetti avviati, tutti a diversi stadi di lavorazione. In fondo all'aula c'era una libreria ben fornita e una gabbia con un gerbillo. Lentamente, Sheila cominciava a sciogliersi e a rianimarsi. I libri le interessavano, e alla fine ebbero la meglio sulla sua timidezza. Andò anche da sola a fare un sopralluogo. Mentre la osservavamo in silenzio, Sandy mi lanciò un sorriso a trentadue denti, come chi la sa lunga. Ce l'avrebbe fatta. Sulla punta dei piedi, per vedere le copertine dei libri di esercizi, Sheila ne prese uno dall'ultimo scaffale e lo sfogliò. Tenendolo in mano, venne da me. Questo qui è diverso da quello che hai tu, Torey, disse. Probabilmente è quello che si usa qui. Continuò a scorrerlo. Poi si girò verso Sandy. Non mi piacciono molto i libri di esercizi. Sandy increspò le labbra e annuì lentamente. Ho sentito degli altri bambini dire la stessa cosa. Non sono libri molto divertenti, vero? Sheila la guardò per un momento. Però io faccio gli esercizi. Torey me li fa fare. Prima non li facevo, ma adesso sì. Questo qui non sembra male. Probabilmente io farei questo. Ne esaminò attentamente una pagina. Questo bambino qui ha fatto uno sbaglio. Guarda, c'è un segno rosso. Me lo fece vedere. A volte si fanno degli sbagli, disse Sandy. Dovevo ricordarmi di parlarle dell'allergia di Sheila agli errori. Questo sarebbe stato uno dei compiti del prossimo anno: ridurre la sua ansia per gli errori. Che cosa gli fai? Quando fanno degli errori? disse Sandy. Oh, gli chiedo solo di rifare l'esercizio. Se non lo capiscono, li aiuto. Tutti sbagliano, una volta ogni tanto. Non è una tragedia. Tu frusti i bambini? Con un sorrisetto, Sandy scosse la testa. No. No di certo. Sheila fece un cenno con la testa verso di me. Neanche Torey. Rimanemmo con Sandy per quasi quarantacinque minuti, mentre Sheila si faceva sempre più audace, con le sue domande. Alla fine proposi di andarcene, in modo che Sheila facesse in tempo a prendere l'autobus. Sandy disse che forse a Sheila sarebbe piaciuto tornare un'altra volta prima che finisse la scuola, per vedere come si stava in una terza quando c'erano anche i bambini. Io la ringraziai per il tempo che ci aveva dedicato e tornammo alla macchina. Sheila rimase silenziosa per gran parte del viaggio di ritorno. Solo quando svoltai nel parcheggio della scuola si girò verso di me. Non è tanto male, mi pare. Bene. Sono contenta che ti sia piaciuta. Scendemmo dalla macchina. Sheila prese la mia mano, mentre andavamo verso l'edificio. Tor, pensi che potrei andare nella classe della signorina McGuire, una volta?
Vuoi andarci? Non mi dispiacerebbe. Annuii. Mi tesi verso l'alto, per cogliere un fiore da un corniolo che si piegava sull'entrata della scuola, e le misi il fiore tra i capelli. Sì, Sheila. Si può organizzare. Il lunedì dell'ultima settimana Anton accompagnò Sheila in macchina alla scuola di Sandy. Aveva deciso di rimanerci tutto il giorno, anche se io le avevo consigliato di restare solo la mattina. Ma lei voleva mangiare alla mensa, pagarsi il pranzo e andare a scegliere i piatti come tutti gli altri bambini. Nella nostra scuola, la mia classe aveva l'ultimo turno alla mensa, e quando i bambini arrivavano i vassoi erano già pronti sui tavoli. Sheila voleva sapere che cosa si provava a essere una bambina normale. Il cuore mi batté più forte nel vederla andar via, la sua manina nella grande mano di Anton. Era arrivata indossando il vestito rosso bianco e azzurro che le aveva comprato Chad, invece dei jeans e della maglietta di tutti i giorni che avevamo comprato con i soldi dati dal padre. Mi chiese di farle la coda di cavallo e di legargliela con un filo che aveva trovato nella scatola dei ritagli. Sembrava così piccola vicino ad Anton, mentre andavano via, e così vulnerabile. Quando ritornò, nel pomeriggio, era ormai esperta e soddisfatta. La giornata era trascorsa tranquillamente, e lei sorrideva con orgoglio, raccontando come avesse portato il vassoio col pranzo fino al tavolo senza rovesciare niente, e come una ragazza, di nome Maria, con i capelli neri più lunghi, più luminosi e più belli che avesse mai visto, le avesse tenuto il posto per mangiare insieme. Qualche piccolo problema c'era stato. Si era persa tornando dai gabinetti delle ragazze. Dal tono di voce con cui raccontò l'episodio, capii che doveva essersi spaventata molto a trovarsi in quella situazione. Ma alla fine era riuscita a tornare. E, disse orgogliosamente, non aveva fatto capire a nessuno che si era persa. A ricreazione aveva scoperto che il vestito lungo, pur essendo tanto bello, era d'impiccio quando si giocava. Correndo, era inciampata e si era sbucciata le ginocchia. Sollevò il vestito per farmi vedere. Le abrasioni non si vedevano molto, ma facevano male, mi informò. Non aveva pianto, per quello. Sandy aveva visto il fatto e l'aveva confortata. Raggiante, Sheila mi disse che Sandy aveva un buon odore, quando ti teneva vicino, e che, per toglierti il dolore, ti soffiava sulle ginocchia. Tutto sommato, era stata una giornata positiva. Sheila affermò che sarebbe andata bene, come classe, anche se sperava che Maria fosse bocciata, così sarebbe rimasta in terza e sarebbero potute diventare amiche. Io mi affrettai a dire che sarebbero potute diventare amiche anche senza che lei augurasse alla povera Maria tutta quella sfortuna. Per la prima volta, Sheila non fece la solita espressione abbattuta nel dire che avrebbe lasciato la mia classe; non ne parlò nemmeno. La sua conversazione era piena di La signorina McGuire dice che l'anno prossimo posso... o La signorina McGuire mi lascerà... quando sarò nella sua classe, l'anno prossimo. Fu un momento dolceamaro per
me, perché sapevo che non le servivo più. L'ultimo giorno di scuola facemmo un picnic. Contattai tutti i genitori e m'incontrai con alcuni di loro nel parco, a qualche isolato dalla scuola. Noi comprammo dei panini alla mensa e delle confezioni di gelato, mentre i genitori comprarono i biscotti e altre cose buone. Era un vecchio parco, enorme, su cui si stendeva uno zoo e un grande stagno con le anatre. C'erano giardini pieni di fiori, che luccicavano al sole di giugno. I bambini correvano da tutte le parti, ognuno con un genitore alle calcagna. Il padre di Sheila non venne; in realtà non ci aspettavamo che venisse. Ma quella mattina, quando Sheila comparve, indossava uno smagliante prendisole bianco e arancio. Sembrava imbarazzata a esporre tanta nudità, e per la prima mezz'ora andò in giro tenendosi stretta a noi. Ma Anton andava pazzo per quei bei colori, e scherzò minacciandola di rubarle il vestito, se ci fosse riuscito. Lei fu presa dalla ridarella, al pensiero di Anton con il suo prendisole, e cominciò a danzare per noi, in classe, mentre aspettavamo gli altri. Suo padre le aveva comprato il prendisole la sera prima, al discount, ed era la prima cosa che lui le comprava, da quanto riusciva a ricordare. Traboccava di gioia, e non riusciva a star ferma. Andando al parco non smise un attimo di piroettare sul marciapiede, con i capelli biondi che turbinavano ad ogni giro. Al parco la sua gioiosa agitazione continuò, e dopo il picnic Anton, Whitney e io ce ne stemmo seduti al sole vicino allo stagno delle anatre, a guardarla. Lei era sulla passeggiata che circondava lo stagno, a dieci, dodici metri da noi. Danzava al tempo di una sua musica interiore, a passo strisciato, sul marciapiede. Le persone che passavano la evitavano, le facce divertite. Un saltello, una piroetta, poi qualche piegamento ritmico. Sembrava quasi irreale vederla danzare, sola, la grande ruota gialla dei capelli che brillava al sole. Dimentica di chi le passava accanto, degli altri bambini, di Anton, di Whitney, di me, lei realizzava, con la danza, qualche sogno segreto. Anche gli altri devono aver provato lo stesso fascino misterioso che provai io. Anton osservava senza parlare. Whitney drizzava la testa come per carpire la musica che nessuno di noi sentiva. Anton si girò verso di me. Sembra uno spirito, vero? Sembrerebbe di vederla sparire da un momento all'altro, a un battito di palpebre troppo forte. Annuii. È libera, disse Whitney, piano. Ed era proprio così. L'ora di andarsene arrivò troppo presto. Raccogliemmo le nostre cose e tornammo in classe per la distribuzione degli ultimi compiti e per scambiarci gli ultimi saluti. La stretta aula dalle pareti foderate di legno era quasi vuota, ormai. I disegni e le storie erano stati staccati dai muri. Gli animali erano stati trasferiti a casa mia. Dagli armadietti erano stati tolti i nomi. Adesso Sheila percepiva l'ineluttabilità di quanto stava per succedere, e perse la sua allegria. Distribuiti i fogli,
mentre aspettavamo che suonasse la campanella, Sheila si rifugiò nell'angolo, dove i cuscini e le gabbie ormai non c'erano più. Così dovette rannicchiarsi sul pavimento. Gli altri bambini chiacchieravano tutti, emozionati per le vacanze estive e per i cambiamenti futuri. Così, mentre Anton li faceva cantare, io scappai da Sheila. Le lacrime scorrevano sulle sue guance abbronzate. Non avendo un fazzoletto, usò i capelli per asciugarsele. Gli occhi erano colmi di dolore e sofferenza. Non voglio andare, piagnucolò. Non voglio che finisca. Voglio tornare, Torey. Ma certo che tornerai, tesoro. Me la presi in grembo. Adesso ti senti così. Ma fra poco avrai davanti un'estate intera, e poi andrai in terza, come alunna regolare. È adesso il momento più duro. Non voglio andare, Torey. E non voglio che tu te ne vada. Le scostai la frangia. Ti ricordi? Ti ho detto che ti avrei scritto. Sapremo che cosa ci succederà, perciò non sarà proprio come stare lontano. Vedrai. No. Voglio rimanere qui. Si stava sforzando di riprendere il controllo, e il suo corpicino teso tremava, tra le mie braccia. Sarò cattiva. Non farò la brava, per niente, nella classe della signorina McGuire, così dovrai tornare. Ehi, non voglio sentire queste cose. Questa è la vecchia Sheila che parla. Non farò la brava. No. E tu non riuscirai a farmi fare la brava. No, Sheil. Devi essere tu a decidere. Ma sai che non cambierà niente. Non potrai tornare indietro, e non potrai riavere questa classe. O me. Anch'io andrò a scuola, te l'ho detto. Quello che farai di te stessa lo puoi decidere soltanto tu. Ma non potrà comunque restituirti quest'anno. Lei fissava il pavimento, sporgendo il labbro inferiore. Sorrisi. Ti ricordi? Mi hai addomesticata. Sei responsabile di me. Questo significa che non dimenticheremo mai di amarci. Significa che forse piangeremo un po' adesso. Ma presto ricorderemo soltanto com'eravamo felici insieme. Scosse la testa. Non sarò mai felice. Proprio in quel momento suonò la campanella e l'aula si riempì di urla. Mi alzai e andai dagli altri bambini. Esitante, Sheila mi seguì. Ci furono i saluti. Tyler e William avevano le lacrime agli occhi. Peter urlava di gioia. Ci scambiammo baci e abbracci, e tutti se ne andarono, correndo fuori nel tepore di giugno. Sheila doveva prendere l'autobus delle superiori per tornare al campo degli stagionali. Quell'ultimo giorno rimaneva poco tempo, dopo l'autobus, per i bambini delle elementari. Calcolai che, dopo aver salutato Anton e Whitney e aver raccolto le sue cose, Sheila avrebbe avuto giusto il tempo di percorrere i due isolati e prendere l'autobus. Lasciare Anton fu difficile, per lei. Si coprì la faccia e non volle neanche guardarlo. Lui cercava di farla sorridere, dicendo qualche paroletta in spagnolo, che io non capivo ma Sheila sì. Dopo tutto, le ricordò, si sarebbero visti al campo. Le promise di andare a prenderla per portarla a giocare con i suoi due figli. Alla fine le diedi un ultimatum.
Io l'avrei accompagnata alla fermata, ma lei sarebbe dovuta andarsene immediatamente. Così si girò verso Anton e lo abbracciò, i braccini che lo serravano con una forza incredibile. Poi, con la mano, fece a Whitney un cenno di saluto e mi prese la mano. Sulla porta si fermò, scappò via e tornò ad abbracciare Anton. Lo baciò sulla guancia e poi tornò di corsa da me. Le lacrime luccicavano, mentre prendeva le sue cose, qualche foglio e la copia logora del Piccolo principe, ricordo tangibile di quello che era stato. Scendemmo le scale e percorremmo il marciapiede fino alle scuole superiori. Lei non parlò per tutto il tragitto. E io neppure. Non avevamo bisogno delle parole. Parlare avrebbe rovinato quello che avevamo dentro di noi. L'autobus stava aspettando nel vialetto semicircolare della scuola, ma non aveva ancora caricato gli studenti. Il conducente ci salutò sventolando la mano e Sheila corse su a mettere sul sedile le sue cose. Poi ridiscese dall'autobus, tornando verso di me. Mi guardò, da sotto in su, riparandosi gli occhi dalla luce. Io guardai lei. Fu un attimo di eternità nella luce splendente del sole. Ciao, disse con un filo di voce. Mi lasciai cadere sulle ginocchia e l'abbracciai. Sentivo il cuore rimbombarmi nelle orecchie e un nodo in gola che non mi permetteva di parlare. Poi mi alzai e lei corse verso l'autobus. Corse fino ai gradini, ma poi, quando cominciò a salire, si fermò. Adesso c'erano i ragazzi più grandi, e lei doveva aspettare, per salire. Mi guardò. Poi, improvvisamente, tornò indietro di corsa. Non era vero, disse, senza fiato. Non era vero quando ti ho detto che sarei stata cattiva. Farò la brava. Guardò in su, solennemente. Per te. Scossi la testa. No. Non per me. Farai la brava per te stessa. Lei sorrise appena, in modo strano. Un secondo dopo se n'era già andata; salì in fretta le scale dell'autobus e scomparve. A momenti vedevo la sua faccia al finestrino posteriore, schiacciato contro il vetro. Il conducente chiuse le porte e l'autobus cominciò a rombare. Ciao, si leggeva sulle sue labbra, il naso appiattito contro il vetro. Non saprei dire se stesse piangendo. L'autobus girò e percorse il vialetto. Una manina si agitava, prima freneticamente, poi più lentamente. Io sollevai la mano e sorrisi, mentre l'autobus svoltava e scompariva dalla vista. Ciao, ciao, dissi, le parole quasi impercettibili che premevano per uscire dalla mia gola strozzata. Poi mi girai e tornai indietro. EPILOGO Un anno fa trovai fra la posta un foglio di quaderno, spiegazzato e macchiato d'acqua, scritto con un pennarello blu. Non era accompagnato da nessuna lettera. A Torey con tanto Amore Vennero tutti gli altri Cercarono di farmi ridere Giocarono ai loro giochi con me
Alcuni giochi per svago altri sul serio E poi se ne andarono Lasciandomi tra le rovine dei giochi Senza sapere quali erano sul serio e Quali erano per svago e Lasciandomi sola con gli echi di Una risata ahe non era la mia. Poi venisti tu Coi tuoi modi strani Non proprio umani E mi facesti piangere E non t'importava il pianto Dicesti solo il gioco è finito E aspettasti che tutte le mie lacrime diventassero gioia.