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RICHARD MATHESON SHOCK 4 (Shock Waves, 1970) Indice UNA VISITA A BABBO NATALE DITA IN MOVIMENTO DEUS EX MACHINA LA COSA IL CONQUISTATORE UN SORSO D'ACQUA UN UOMO SCOMPARSO COMMIATO D'AUTORE PAGLIA UMIDA THERESE PREDA VENITE OMBRE, VENITE SIMULACRI TOCCO FINALE UNA VISITA A BABBO NATALE Mentre attraversavano il parcheggio buio, e per tutto il tempo, Richard fece la lagna. — Adesso basta! — scattò Helen quand'ebbero raggiunto la macchina. — Andremo a vederlo martedì. Quante volte debbo dirtelo? — Io lo voglio vedere adesso — protestò Richard con un singhiozzo. Ken s'infilò una mano in tasca per prendere le chiavi, attento a non far cadere pacchi e pacchetti. — E va bene — disse irritato. — Ora ce lo porto. — Che vuoi dire? — chiese sua moglie, bilanciando meglio i suoi pacchi e rabbrividendo al vento freddo che sferzava il parcheggio. — Voglio dire che ce lo porto — ripeté lui, trafficando con le chiavi intorno alla portiera. — Adesso? Ma è tardi. Perché non ce l'hai portato quand'eravamo nel magazzino? C'era un mucchio di tempo, allora. — Non fa niente, ce lo porto adesso. Che differenza fa? — Voglio vedere Babbo Natale — s'intromise Richard guardando inten-
samente sua madre. — Voglio vedere Babbo Natale adesso! — No, adesso no, Richard — rispose Helen scuotendo la testa. Scaricò i pacchetti sul sedile anteriore e allungò le braccia con un gemito. — E basta. — L'avvertimento voleva servire a placare i nuovi lamenti di Richard. — Mamma è troppo stanca per tornare al negozio. — Non c'è bisogno che tu venga — disse Ken, accatastando i suoi pacchetti accanto a quelli di lei. — Ce lo porto io. — Accese la luce interna. — Mamma, mamma, per favore. Helen si fece largo tra i pacchetti e sedette con un sospiro. Lui notò la ciocca bruna che le pendeva sulla fronte, la linea dura delle labbra. — Be', ma cosa ti ha fatto cambiare idea? Mentre eravamo là dentro ti avrò chiesto di portarcelo almeno cento volte. — Per l'amor di Dio, che differenza fa? — scattò Ken. — Vuoi tornare qui martedì solo per vedere Babbo Natale? — No. — E allora... — Quando lei girò le gambe, Ken notò la smagliatura nelle calze e pensò che sembrava vecchia e brutta. Gli si strinse lo stomaco. — Per favore, mamma! — Richard la implorava come se Helen fosse la sola autorità, come se lui, il padre, non contasse un accidente. E forse era proprio così. Helen guardò imbronciata davanti a sé, poi spense la luce. Due ore di frenetiche spese di Natale, a contatto coi commessi sgarbati, con Richard nelle orecchie che chiedeva di vedere Babbo Natale e Ken che rifiutava come un mulo. Non ne poteva più. — E io che cosa farò, qua dentro? — Ci metteremo pochi minuti, perdio! — Ken era stato nervoso per tutta la sera, assorbito nei suoi pensieri. Era stato sgarbato sia con lei che con Richard. — E va bene, andate — disse Helen, sistemandosi una coperta sulle gambe. — E per piacere, tornate presto. — Babbo Natale, Babbo Natale! — gridò Richard, tirando tutto contento il cappotto di suo padre. — Va bene! — esplose Ken. — Ma smettila di tirarmi, per l'amor di Dio! — Letizia al mondo: è venuto il Signore — disse Helen con un sospiro di disgusto. — Già, proprio così — fece Ken amaro. Poi afferrò Richard per mano. — Vieni.
Helen chiuse lo sportello e Ken notò che non metteva la sicura. Tuttavia, poteva pensarci dopo... "Le chiavi!" pensò all'improvviso, come fulminato, e frugò la tasca con le dita sudate finché non le ebbe trovate. Deglutì a fatica, mentre il cuore cominciava a battere come un maglio. "Rilassati" disse a se stesso. "Rilassati." L'aria che respirava era sempre più fredda. Sapeva che non doveva voltarsi. Sarebbe equivalso a guardare una bara. Puntò gli occhi, deliberatamente, sulla grande insegna al neon del magazzino e si accorse che a stento sentiva la manina di Richard. Con l'altra mano stringeva le chiavi nella tasca del cappotto. Non doveva voltarsi, non dove... — Ken! Era la voce di lei, squillante nell'immenso parcheggio. Il cuore di Ken perse un colpo. Si girò e la vide in piedi accanto alla Ford. Li fissava. — Lasciami le chiavi! — gridò Helen. — Porterò la macchina davanti all'ingresso principale, così non dovrete rifare la strada! Ken impallidì, i muscoli dello stomaco tesi in una morsa. — Non... — Si schiarì la gola, quasi furioso. — Non importa! Non è così lontano! Si girò prima che lei potesse rispondere. Richard lo guardava, adesso. E il suo cuore picchiava come una mazza contro le pareti del petto. — Mamma ti chiama — disse Richard. — Vuoi vedere Babbo Natale o no? — domandò Ken, aspro. — S-sì. — Allora chiudi il becco! Deglutì a fatica, poi affrettò il passo. Ma perché doveva succedere? Provò un brivido, poi alzò gli occhi all'insegna, ma ciò che vide fu ancora Helen, Helen in piedi accanto alla macchina, nel cappotto verde a coste, col braccio alzato e lo sguardo su di lui. Ne sentì ancora la voce: "Così non dovrete rifare la strada!". Una voce sottile, un po' lamentosa, portata dal vento sgradevole della sera. Il vento batteva sulle guance, ora; le sue scarpe e quelle di Richard facevano un rumore sinistro sul terreno coperto di ghiaia. C'erano settanta metri fino al magazzino: be', circa settanta metri. Cos'era quello? Il rumore dello sportello sbattuto? Probabilmente era furiosa, e se avesse abbassato la sicura sarebbe stato più difficile farle... L'uomo dal cappello floscio, appostato nel buio, stava in fondo al viale. Ken finse di non vederlo, ma gli sembrò di respirare un'aria più rarefatta, come se si trovasse al di là dell'atmosfera, in una regione di buio e gelo che
era quasi il vuoto. Era la morsa sul cuore a farlo sentire così; era l'apparente incapacità dei suoi polmoni a trattenere il fiato. — Ma mi vuole bene Babbo Natale? — chiese Richard. Il petto di Ken lottava per respirare. — Sì, sì — rispose. — Lui... ti vuol bene. — L'uomo si limitava a guardare il cielo, con le mani infilate nel cappotto logoro, come un qualunque cliente che aspettasse la moglie davanti al magazzino. In realtà non aspettava nessuna moglie. Le dita di Ken si contrassero sulle chiavi. Man mano che si avvicinava all'uomo, le gambe gli diventavano più dure, dure come il legno. "No, non lo farò" disse a se stesso. E invece sarebbe passato accanto all'uomo, avrebbe portato Richard da Babbo Natale, sarebbe tornato al parcheggio e a casa. E avrebbe dimenticato. Ma si sentiva incapace, senza forze... Helen era sola nella Ford, contornata di pacchetti di Natale, e aspettava il ritorno del marito. A quel pensiero Ken si sentì rabbrividire. "Non posso farlo": come se una voce estranea gli parlasse nel cervello. "Semplicemente io non..." La mano che stringeva le chiavi si era intorpidita: come se, inconsapevolmente, l'incertezza dei suoi pensieri si fosse trasmessa alle dita. Ma doveva farlo: era l'unico modo. Non poteva tornare alla snervante frustrazione che era il suo presente, alla prospettiva d'incubo che era il suo futuro. Il risentimento lo avvelenava. Doveva farlo per il suo bene, per quel che restava della sua vita. Giunsero alla fine del viale e superarono l'uomo. Richard piagnucolò: — Papà, ti sono cadute le chiavi! — Muoviti! — Diede uno strattone al figlio, costringendosi a non guardare indietro. — Ma ti sono cadute! — Ho detto...! Ken s'interruppe bruscamente. Richard si era svincolato ed era andato nel punto dov'erano cadute le chiavi. Ora guardava incerto l'uomo col cappello, che non si era mosso dalla sua posizione. L'uomo sembrò stringersi nelle spalle, ma Ken non avrebbe potuto dire quale fosse la sua espressione. Richard tornò con le chiavi. — Eccole, papà. Ken le rimise in tasca con mani tremanti, e la stretta allo stomaco aumentò ancora. "Non funzionerà mai" pensò. Provava due sentimenti contrastanti: un terribile disappunto e un terribile senso di colpa. — Dimmi grazie — fece Richard, riprendendo la mano di suo padre.
Ken rimase immobile per un attimo, rigirando le chiavi fra le dita. Provava l'impulso di andare dall'uomo e consegnargliele, ma questo era impossibile: Richard avrebbe visto. — Andiamo, papà — insisté il bambino. Ken si avviò rapidamente verso il magazzino. Il suo viso era una maschera. Si sentiva sconvolto, svuotato. "È finita" pensò amareggiato e furioso. "È finita!" — Dimmi grazie, papà. — Vuoi star zitto? — Il suo tono isterico lo fece trasalire Imprigionò i suoi sentimenti dietro le labbra strette, tremanti. Richard rimase in silenzio e guardò la faccia tirata del padre. Erano a metà strada dalle porte del magazzino quando l'uomo dal cappotto logoro superò bruscamente Ken. — Mi scusi — borbottò, sfiorandogli bruscamente, come per sbaglio, la tasca delle chiavi. Dunque le voleva. Dunque era pronto a ritentare. L'uomo si diresse a grandi passi verso il negozio. Ken si sentiva compresso fra due mani ed era come se entrambe gli schiacciassero la testa. "Non è finita" pensò, e non sapeva se rallegrarsene o meno. L'uomo si fermò accanto a una delle porte di vetro e si girò. "Adesso" pensò Ken "devo dargliele adesso." Prese di nuovo le chiavi. — Voglio andare di là! — disse Richard, tirandolo verso la porta girevole che immetteva gruppi di clienti nel magazzino o li spingeva fuori, nella notte gelida. — È troppo affollato — si sentì rispondere Ken, ma in realtà era qualcun altro che parlava. "È per il mio futuro" pensò "Il mio futuro." — Non è affollato, papà! Non si mise a discutere. Trascinò Richard verso la porta laterale e mentre l'apriva, con le chiavi in mano, sentì le dita dell'uomo che gliele rubavano. Poi, in un attimo, lui e Richard si trovarono nel caos rutilante del magazzino, e tutto fu fatto. Ken non si voltò a guardare, ma sapeva dov'era diretto l'uomo. Era diretto al parcheggio, alla sua Ford. Per un orribile momento ebbe la sensazione che non sarebbe riuscito a trattenere un urlo. Sentì un profondo senso di malessere e desiderò uscire nella notte, urlare all'uomo: "No, no, ho cambiato idea, non voglio!" In quell'attimo tutto ciò che odiava di Helen, della sua vita, sembrò svanire, mentre persisteva il ricordo di ciò che lei aveva detto: "Guiderò la macchi-
na davanti alla porta principale, così non dovrete rifare la strada". Ormai, però, il freddo e la notte del parcheggio erano lontani; Richard si era già immerso fra i banchi di vendita e la folla, e lui lo seguiva come ubriaco, inoltrandosi sempre più nel magazzino. Dalla terrazza del secondo piano veniva un festoso scampanio: Letizia al mondo, è venuto il Signore. Anche Helen l'aveva detto. Ken si sentiva frastornato, confuso; aveva la fronte imperlata di sudore, ma ormai non poteva tornare indietro. Si fermò in mezzo al salone, appoggiandosi a una colonna. Le gambe gli si stavano trasformando in acqua. "È troppo tardi" pensò "troppo tardi. Non c'è niente da fare." — Voglio vedere Babbo Natale, papà. Ken aprì le labbra e sospirò. — Sì, andiamo. Cercava di non pensare, ma era impossibile. I pensieri si presentavano sotto forma di vivide immagini, e lampeggiavano. L'uomo che percorreva il viale e arrivava alla Ford. L'uomo che controllava il numero di targa in miniatura inciso sulle chiavi per esser certo di non sbagliare macchina. La faccia dell'uomo, così come l'aveva vista quella sera nel bar di Main Street: sottile, pallida, corrotta. Ken sentì un gemito salirgli alla gola. Lo represse. "Helen" dicevano i suoi pensieri con angoscia. DA QUESTA PARTE PER LA CASA INCANTATA DI BABBO NATALE! Si diresse rigidamente verso la scala mobile in discesa. Richard, accanto a lui, non faceva altro che dire, tutto eccitato: — Babbo Natale, Babbo Natale. Che cosa avrebbe provato, Richard, quando sua madre fosse... "E va bene! Sì" disse Ken, nel tentativo di domare l'angoscia sempre più forte. Se proprio doveva pensare, avrebbe pensato al futuro, non a quello che stava per accadere. Non aveva studiato il piano solo per sentirsi male al momento buono. Dietro il suo gesto c'erano delle ragioni, non era insensata malvagità. Salirono sulla scala mobile. La mano di Richard era stretta nella sua, ma a stento la sentiva. Il Sudamerica e Rita: ecco ciò a cui doveva pensare. E i venticinquemila dollari dell'assicurazione da spendere con la ragazza che gli piaceva fin dai tempi dell'università, che non aveva mai smesso di piacergli. Un futuro libero dai creditori, la libertà, i piaceri semplici della vita e una relazione che la routine e lo squallore non avrebbero mai sciupato. Incrociarono la scala mobile in salita e Ken guardò le facce dei clienti: stanche, irritate, felici, vacue. A mezzanotte d'una chiara notte... cantavano i cori natalizi. Ken fissò lo sguardo davanti a sé, pensando a Rita e al Su-
damerica. Così era molto più facile. Finito lo scampanio, una lieta brigata cominciò a cantare Jingle Bells. Richard era più impaziente che mai, perché erano scesi dalla scala mobile, e Ken ricominciò a pensare a Helen. Jingle all the way! — Eccolo là! — gridò Richard, tirandolo per mano. — Là! — Va bene, va bene! — borbottò Ken fra i denti mentre si accodavano per vedere Babbo Natale. L'avrà già fatto? Di nuovo la contrazione ai muscoli dello stomaco. Era già nella macchina, l'uomo? Ed Helen, era già priva di sensi sul sedile posteriore? Poi l'uomo doveva guidare in qualche vicolo buio nelle vicinanze e là... "Non si preoccupi." Le ultime parole che l'uomo gli aveva rivolto erano come una fiamma che gli bruciava nella mente. "Non si preoccupi, sarà un bel lavoro." Un bel lavoro, un bel lavoro, un bel lavoro. Parole che risuonavano nel cervello di Ken mentre avanzava lentamente verso la Casa di Babbo Natale. Cento subito, novecento a cose fatte. Il prezzo di una moglie di taglia media. Ken chiuse gli occhi e si sentì rabbrividire: come se nel magazzino facesse freddo, invece che un caldo soffocante. La testa gli doleva, gocce di sudore gli scendevano dalle ascelle come insetti. "È troppo tardi" pensò, rendendosi conto che gran parte della tensione era dovuta all'impulso di inseguire l'uomo e annullare l'ordine. Ma, come si dice, una vocina dentro la testa continuava a sussurrargli: "È troppo tardi". — Papà, che dirò a Babbo Natale? — chiese Richard. Ken dette un'occhiata apprensiva al figlio di cinque anni e pensò: "Con la madre di Helen starà meglio. Molto meglio. Io non posso...". — Che gli dirò, papà? Ken cercò di sorridere, e per un attimo gli riuscì perfino di immaginare se stesso come un uomo dall'animo nobile a cui il destino avesse consegnato un terribile fardello. — Gli dirai... quali regali vuoi per Natale. Gli dirai che sei stato un bravo bambino e quali regali vuoi per Natale. Questo è tutto. — Ma come? L'immagine nobile era già svanita: Ken sapeva perfettamente che cos'era, che cosa aveva fatto. — Come faccio a saperlo? — gridò a suo figlio. — Guarda, se non vuoi
vederlo, nessuno ti costringe. Un uomo che faceva la fila davanti a loro si girò e sorrise, come a dire: "Amico, so quali sono le tue pene". Ken rispose con un sorriso anemico, appena un'incurvatura delle labbra. "Devo uscire di qui" pensò in preda all'angoscia. "Come posso restare qui mentre..." Respirava con difficoltà, ma non c'era scelta. Il piano era quello e bisognava rispettarlo. Non l'avrebbe rovinato per una stupida crisi d'isterismo. Ma se solo avesse potuto essere con Rita. Nel suo appartamento, accanto a lei... Impossibile. Avrebbe bevuto qualcosa, magari qualcosa di forte. Tutto, pur di alleggerire la tensione. Spinsero il cancelletto bianco e automaticamente riecheggiò una forte risata. Ken trasalì e si guardò intorno: gli sembrava la risata di un pazzo. Cercò di non ascoltarla, ma lo circondava, gli esplodeva nelle orecchie. Poi il cancelletto si chiuse e la risata cessò. Gli altoparlanti diffusero una vocina che diceva: — Buon Natale a tutti voi! Felice anno nuovo! — Come le voci dei bambini, s'inceppava un po' sulle parole. "Sarà un bel lavoro." Ken lasciò la mano di Richard e si sfregò il palmo sudato sul cappotto. Richard tentò di prendergliela di nuovo, ma lui lo respinse con tanta violenza che il bambino lo guardò stupito, terrorizzato. No. No, non devo comportarmi in questo modo, si ripeté Ken recitando le sue stesse istruzioni. A Richard potrebbero fare delle domande, cose tipo: "Come si comportava tuo papà mentre eravate nel magazzino?". Prese la mano del bambino e riuscì a fargli un sorriso forzato. — Ci siamo quasi — disse. La calma della propria voce lo stupì. "Vi dico che non so come abbia perso le chiavi. Sono sicuro di averle avute in tasca quando sono tornato nel magazzino. È tutto quello che so. Volete forse insinuare...?" "No! Tutto sbagliato." Qualunque cosa insinuassero, non doveva mai far capire che se ne rendeva conto. Lui doveva sembrare shoccato, stupefatto, a stento in grado di connettere, ecco come. Un uomo che portava il figlio a vedere Babbo Natale e a cui dicevano, il giorno dopo, che sua moglie era stata trovata morta nell'auto. "Sarà un bel..." Oh, ma perché non la piantava? Babbo Natale sedeva su una sedia dall'alto schienale nel portico della Casa magica. Magica perché cambiava colore ogni quindici secondi. Era un uomo grasso, di mezz'età, che prendeva i bambini in braccio per qualche attimo, diceva le parole di rito e poi li metteva giù, regalandogli un
lecca-lecca. Naturalmente, augurava a tutti Buon Natale. Quando spuntò Richard, Babbo Natale lo prese in braccio e se lo mise sulle gambe larghe, vestite di rosso. Ken aspettava alla base della piccola scalinata. Si sentiva confuso, e adesso il calore dell'ambiente gli dava fastidio. Fissava, privo di espressione, la faccia rubizza dell'omaccione dai baffi spaventosamente falsi. — Be', ragazzo — disse Babbo Natale. — Sei stato buono, quest'anno? Richard tentò di rispondere, ma non trovò il coraggio. Ken lo vide annuire e arrossire nervosamente. Sì, con la madre di Helen sarebbe stato meglio. "Io non sono in grado di allevarlo. Io..." Poi si rese conto che l'omone aveva parlato. Mise a fuoco la faccia rubizza, baffuta. — Come dice? — Ho chiesto se il ragazzo è stato buono, quest'anno. — Oh, sì. Sì, molto buono. — Bene — disse Babbo Natale. — Sono lieto di sentirlo. Molto lieto. E dimmi, ragazzo, che cosa ti piacerebbe avere per Natale? Ken ascoltava, immobile, la vocetta di suo figlio che snocciolava i regali preferiti. Ken sudava copiosamente, mentre il portico della Casa magica pareva ondeggiargli intorno. "Sto male" pensò. "Devo uscire di qui e prendere una boccata d'aria fresca. Helen, mi dispiace. Mi dispiace. Io... non potevo fare in altro modo, capisci?" Poi Richard scese i gradini della Casa magica, munito del suo leccalecca. Si diressero alla scala mobile. — Babbo Natale dice che avrò tutto quello che ho chiesto — annunciò il bambino. Ken annuì rigidamente, poi si frugò le tasche in cerca del fazzoletto. Forse la gente avrebbe creduto che fosse sudore. O che era felice, e per questo piangeva. Era Natale. — Lo dirò anche a mamma — proseguì Richard. — Sì. — Ken aveva parlato con un fil di voce. "Usciremo e torneremo nel punto dov'era parcheggiata la macchina. Ci guarderemo intorno per un po'. Poi chiameremo la polizia." — Sì — ripeté. — Che cosa, papà? — Niente. La scala mobile li riportò al pian terreno. La lieta brigata aveva ripreso a cantare Jingle Bells. Ken stava dietro a Richard e guardava i suoi capelli biondi. "Ora viene la parte più importante" si ripeté. "Finora ho dovuto so-
lo ingannare il tempo." Al telefono doveva sembrare sorpreso, irritato. Un po' preoccupato, forse, ma non troppo. Un uomo non si abbandona al panico in frangenti del genere. Di solito, il fatto di non trovare la moglie non viene associato immediatamente a... Alle loro spalle la risata meccanica scoppiò di nuovo, fondendosi col canto della brigata. Cercò di cancellare le preoccupazioni come se la sua mente fosse una lavagna. Ma le parole continuavano a formarvisi: "Devi sembrare un po' irritato, un po' preoccupato, un po'...". "... Noi non vogliamo insinuare niente, signor Burns." Eccoli di nuovo addosso. "Stiamo solo dicendo che venticinquemila dollari sono una bella somma." "State a sentire!" avrebbe risposto lui, duro. "Noi avevamo fiducia nelle assicurazioni: anch'io sono coperto per venticinquemila dollari. Non dimenticatelo." Era il punto essenziale a suo vantaggio. La polizza era stata stipulata meno di un anno prima, ma perlomeno l'avevano fatta entrambi. Arrivò in cima alla scala e s'immerse di nuovo nel magazzino affollato, diretto alla porta girevole che avrebbe catapultato lui e Richard nella notte. Una leggera corrente d'aria gli agitava i lembi dei calzoni. Sentì il freddo sui polpacci e pensò: "Ci guarderemo un po' intorno, poi...". All'improvviso il terrore lo attanagliò. Non sapeva perché, ma non poteva abbandonare il negozio; si era diretto improvvisamente a uno dei banconi e si era messo a esaminare fazzoletti e cravatte. Si rese conto che Richard lo guardava e disse a se stesso: "Non devo sembrare sconvolto! Non ho fatto tanti progetti per rovinarli all'ultimo minuto!". Rita. Il Sudamerica. I soldi. Era bello pensare al futuro. Sapeva benissimo queste cose, eppure permetteva a se stesso di dimenticarle. Il futuro era la sola cosa importante; lui e Rita, insieme, in Sudamerica. Ecco, così andava meglio. Respirò a fondo l'aria calda del magazzino. Le mani, strette disperatamente nelle tasche del cappotto, si rilassarono. — Vieni — disse al bambino, questa volta compiaciuto della sua calma. — Andiamo. Mentre prendeva la mano di Richard, l'organo cominciò a suonare Silent Night, Holy Night. "Tempismo perfetto" disse a se stesso. "Sono le nove di sera, è lunedì; andremo alla Ford, non la troveremo e io chiamerò la polizia." "Ma doveva proprio chiamarla?" Fu riassalito dal panico. In circostanze
normali, non sarebbe stato logico supporre che Helen si fosse infuriata e... "Ho pensato che si fosse stufata di aspettare e fosse andata a casa senza di noi. No, non l'ha mai fatto prima. Comunque mio figlio e io siamo tornati a casa in autobus, e mia moglie non c'era. Sì, ho controllato da sua madre, è la nostra unica parente in città. Non ho idea di dove sia." Avevano spinto la porta girevole ed erano di nuovo all'esterno. Ken guardò il parcheggio zeppo di vetture e non sentì più la mano di Richard. Tutto ciò che sentiva era il battito del suo cuore, simile a un animale imprigionato che saltasse contro il muro del petto. "Mi domando dove sarà andata tua madre" immaginò di dire a Richard quando avessero raggiunto il posto. E Richard avrebbe risposto: "Dov'è la mamma?". Poi ci sarebbe stata l'attesa, e infine la chiamata alla polizia. "No, non l'ha mai fatto prima" ripeté la sua mente, incapace di controllarsi. "Ho pensato che fosse arrabbiata e fosse tornata a casa ma, quando mio figlio e io siamo arrivati, non ce l'abbiamo trovata." Poi, per un attimo, pensò di essere morto. Che il suo cuore avesse cessato di battere. Si sentì trasformato in pietra, e il vento continuava a battergli in faccia. — Dai, papà — disse Richard, tirandolo. Lui non si mosse. Rimase immobile a guardare la macchina, ed Helen seduta all'interno. — Ho freddo, papà. Camminava, ora, ma era il passo dell'ubriaco, del sonnambulo. La coscienza si rifiutava di tornare in lui. Poteva solo guardare la macchina, ed Helen, e sentire una contrazione dolorosa allo stomaco. Si sentiva la testa leggera e fragile, come se dovesse volare da un momento all'altro. Il contatto dei piedi col terreno stimolò la coscienza; tramite il contatto, le parti del suo colpo rimasero insieme. Gli occhi erano fissi sull'auto, e un gran senso di sollievo fluì improvvisamente in lui. Helen lo guardava. Ken aprì lo sportello. — Era ora che tornassi — disse lei. Ken non riuscì a parlare. Tremando, alzò il sedile anteriore e Richard scivolò dietro. — Andiamocene, andiamocene. Via di qui — disse Helen. Suo marito infilò le mani in tasca in cerca delle chiavi: con quel gesto, ricordò. — E allora? — disse Helen. — I... Io non trovo le chiavi. — Si batté debolmente le tasche. — Le a-
vevo con me quando... — Oh, no. — Il tono di lei era stanco, disgustato. Ken deglutì. — Se le avevi con te, adesso dove sono? Perderesti anche la testa, se non fosse attaccata alle spalle! — Non... non lo so — balbettò Ken. — Devo averle fatte cadere. — Va bene, allora vai a raccoglierle — scattò Helen. — Sì — rispose lui. — Sì. — Aprì lo sportello con disperazione e rimase solo nella notte fredda. — Torno subito. Helen non rispose, ma Ken poté sentire la sua ostilità. Chiuse lo sportello e si allontanò dalla macchina. La sua faccia cominciava a indurirsi. Quel bastardo, prendersi i suoi soldi e...! All'improvviso, immaginò se stesso che tentava di giustificare la mancanza di cento dollari dal conto in banca. Helen non avrebbe mai creduto che fossero spariti: avrebbe indagato, fatto domande, scoperto il suo insolito prelievo. "Oh Dio" pensò Ken "sono perduto. Perduto." Guardò in alto, sebbene gli occhi non vedessero là dove splendeva l'insegna al neon del supermercato. Al centro dell'insegna grandi lettere bianche si accendevano a intermittenza. Di colpo mise a fuoco lo sguardo. BUON NATALE... buio. BUON NATALE... buio. BUON NATALE... buio. Titolo originale: A Visit to Santa Claus. (1970) DITA IN MOVIMENTO Salii sul bus e vidi le due donne sedute nella terza fila a destra. Quella sul sedile esterno era piccola e si guardava le mani, che riposavano inerti in grembo; l'altra guardava fuori dal finestrino. Era quasi buio. C'erano due posti liberi alla loro altezza, così misi la valigia sulla reticella e mi accomodai. Le pesanti porte si chiusero e il bus uscì dalla stazione. Per un po' mi accontentai di guardare dal finestrino e di sfogliare una rivista, poi cominciai a osservare le due donne. Quella piccolina aveva capelli secchi e biondi, un po' opachi. Sembravano la parrucca di una bambola che, caduta a terra, avesse accumulato chissà quanta polvere. La pelle aveva il biancore della cera e la faccia sembrava modellata, nella cera, con due sole dita: un pizzico per il mento, uno per
le labbra, uno per il naso, uno ciascuno per le orecchie e due spinte scriteriate per gli occhi bovini. Parlava con le mani. Non l'avevo mai visto far prima. Ne avevo letto, naturalmente, e avevo visto i disegni con le varie posizioni che usano i sordomuti, ma era la prima volta che mi capitava di osservare un dialogo di quel genere. Le dita corte, prive di colore, si muovevano energicamente nell'aria come se la mente fosse compresa degli importanti soggetti che intendeva comunicare e che temeva le sfuggissero. Le mani si aprivano e si chiudevano, e in pochi secondi erano in grado di assumere una dozzina di posizioni diverse. La donna continuava a gesticolare, disegnando nell'aria il suo monologo silenzioso. Guardai la sua compagna. Aveva una faccia stanca e sottile e teneva la testa appoggiata allo schienale, gli occhi fissi spassionatamente sulle mani parlanti. Non avevo mai visto occhi come i suoi. Non si muovevano mai, mancavano del più piccolo bagliore di vita. Guardava la donna muta e annuiva di continuo, con un movimento automatico che ricordava un dondolo. Ogni tanto faceva per girarsi e guardare dal finestrino, oppure chiudeva gli occhi; ma quando questo accadeva, la muta allungava la mano grassoccia e le tirava il vestito, finché lei era costretta di nuovo a seguire le figure bianche create dalle mani. Per me era del tutto straordinario come si potesse capire qualcosa da quei gesti; le mani si muovevano così rapidamente che a stento riuscivo a vederle, ed erano una traccia confusa di carne in movimento. L'altra donna, tuttavia, seguitava ad annuire. Pur senza emettere un suono, la sordomuta era una chiacchierona. Non smetteva un momento di agitare le mani, pareva che ne andasse della vita. Si arrivò al punto che mi parve di udire ciò che diceva, e l'immaginazione mi aiutò a figurarmi un insensato torrente di chiacchiere e pettegolezzi. Ogni tanto pareva toccare un argomento molto divertente, divertente per lei stessa, in primo luogo, e questo la induceva a ritirare le mani, i palmi all'insù, come se la battuta spassosissima le ripugnasse, o piuttosto temesse, insistendovi, di morir dal ridere. Devo averle osservate per un bel po', perché a un tratto se ne accorsero e mi guardarono. Non so decidere quale di quei due sguardi fosse il più repellente.
La piccola sordomuta mi guardava con i duri occhietti neri, il naso, simile a una patata, tutto vibrante e la bocca piegata ad arco in quello che voleva essere un sorrisetto. In grembo, le dita bianche pizzicavano il vestito a fiori come altrettanti becchi di uccelli malati. Lo sguardo era quello di una bambola a grandezza naturale che, in un modo o nell'altro, fosse giunta alle soglie della vita. L'altra donna pareva osservarmi con una strana bramosia. Gli occhi cercarono la mia faccia, poi il mio corpo; sotto il vestito nero le si gonfiarono i seni, e fu allora che voltai la testa verso il finestrino. Fingevo di guardare i campi, ma sapevo benissimo che mi stavano osservando. Poi, con la coda dell'occhio, vidi che la sordomuta aveva ripreso ad agitare le mani, a intessere silenziosi arazzi di comunicazione. Dopo qualche minuto detti loro un'occhiata. La donna sottile aveva ripreso a fissare le mani in stolido silenzio. Sì, annuiva stancamente, sì, sì, sì. Caddi in una specie di dormiveglia e vidi le mani bianche, la testa a dondolo. Sì, sì, sì... Mi svegliai all'improvviso, al tocco di dita furtive che mi tiravano la giacca. La sordomuta si era alzata e gesticolava sopra di me. Da come mi tirava la giacca, capii che intendeva farmi alzare, la fissai, assonnato e stupefatto. — Ma che cosa fa? — domandai, dimenticando che non poteva sentirmi. Continuava a tirare, e ogni volta che il bus passava sotto un lampione vedevo la faccia pallida e gli occhi neri incastonati come gioielli nella pelle di cera. Dovetti alzarmi: ero così assonnato che non riuscii a combattere i suoi sforzi insistenti. Quando fui in piedi lei si accomodò al mio posto, anzi tirò su le gambe e occupò entrambi i sedili. La fissai senza capire, poi, dato che pareva essersi addormentata, mi girai e guardai la sua compagna. Sedeva tranquilla al suo posto, e guardava dal finestrino. Con movimenti letargici mi sedetti accanto a lei. Visto che non diceva niente, chiesi: — Perché la sua amica ha fatto così? Si girò e mi guardò. Era ancor più magra di quanto mi era parso, e la gola ossuta si contrasse: — È stata un'idea sua. Non gliel'ho chiesto io. — Quale idea? — insistei. Mi guardò più da vicino, e di nuovo con brama. Era intensa, bruciava in lei come fuoco. Il mio cuore perse un colpo.
— Siete sorelle? — domandai, per nessun'altra ragione che interrompere quell'imbarazzante silenzio. Per un attimo non rispose, poi la sua faccia s'indurì. — Sono la sua accompagnatrice. Vengo pagata, per questo. — Oh — dissi — immagino che... — Poi dimenticai ciò che stavo per dire. — Lei non è obbligato a parlarmi — disse la donna. — È stata un'idea sua, non gliel'ho detto io. Restammo in silenzio, imbarazzati, io che la guardavo a disagio e lei che fissava la strada buia. Poi si girò e la luce di un fanale le fece brillare gli occhi. — Parla continuamente — disse. — Come, prego? — Parla continuamente. — È buffo — feci io, impacciato. — Voglio dire, è buffo chiamarlo "parlare". Io... — Alla sua bocca non penso più — proseguì la donna. — Le mani sono la sua bocca. E con le mani parla. Ha una voce che sembra una macchina pigolante. — Respirava più in fretta, ora. — Dio, quanto parla. Io non dissi niente, ma guardai la sua faccia. — Io non parlo mai — riprese. — Sto sempre con lei ma non parliamo, perché lei non può. Vivo nel silenzio, e quando sento una voce trasalisco dalla sorpresa. A volte mi sorprendo perfino alla mia voce. Sto dimenticando come si fa a parlare. Sto disimparando. Aveva una voce rapida e automatica, di cui non era facile stabilire il tono. Passava dal basso gutturale a un esile falsetto, come se cercasse di parlare trattenendo il fiato. Un'altra caratteristica del suo modo di esprimersi era l'inquietudine, che ormai anch'io provavo: pareva che dovesse esplodere da un momento all'altro. — Non mi lascia mai sola. È sempre con me. Le dico che me ne andrò, anch'io so parlare con le mani, così le dico che me ne andrò, ma lei comincia a lamentarsi e a piangere, e giura che si ucciderà se me ne vado. Dio, è spaventoso quando mi implora. Mi fa star male. "Allora provo pietà di lei e non l'abbandono. Lei è felice, felice come un'allodola, e suo padre mi dà un aumento, e puntualmente ci spedisce a fare un viaggio per andare a trovare qualcuno dei suoi parenti. Suo padre la odia ed è contentissimo quando può sbarazzarsene. Anch'io la odio, ma è come se avesse una sorta di potere su tutti noi: non riusciamo a discutere
con lei. Con le mani non si può urlare; quanto a chiudere gli occhi o girare la testa, non serve a niente." La sua voce era diventata più pesante e notai che si premeva con forza le mani in grembo. E più spingeva, più mi riusciva difficile non guardarla. Dopo un po' non ne fui più capace: pur sapendo che mi fissava, continuavo a guardare le mani, in uno stato d'abbandono molto simile a quello che si prova nei sogni, quando ogni desiderio diventa possibile. Lei, intanto, parlava. La voce tremava appena un pochino. — Naturalmente, sa che vorrei sposarmi. Ogni ragazza lo vuole, ma lei non me lo permetterà. Suo padre mi paga bene e non devo pensare ad altro; d'altronde, anche nei momenti in cui la odio maggiormente non so resistere alle sue preghiere e implorazioni. Il suo è un pianto diverso, un lamentarsi diverso: è dolore muto, e tutto quello che si vede sono le lacrime che scendono lungo le guance. Continua a pregarmi finché non cedo. Erano le mie mani, ora, a tremare in grembo; in un modo che non comprendevo, le parole di quella donna significavano qualcosa di più di ciò che appariva in superficie. Forse intuivo ciò che stava per accadere, ma comunque ero ipnotizzato: c'era solo il buio, e le luci sulla strada di quando in quando, ed era come vivere nell'incubo di un pazzo. — Una volta mi promise che avrei avuto un ragazzo — disse la donna. Io rabbrividii. — La pregai di non burlarsi di me, ma lei promise che me ne avrebbe trovato uno. Così, una volta che eravamo dirette a Indianapolis, andò al sedile accanto e invitò un marinaio a tenermi compagnia. Era un ragazzo: mi disse di avere vent'anni, ma scommetto che erano solo diciotto. Comunque fu carino, si mise a sedere e parlammo. Dapprima ero imbarazzata e non sapevo cosa dire, ma lui fu carino e fu molto piacevole parlare con lui. A parte il fatto che lei ci guardava, dall'altra parte. Mi voltai istintivamente, ma la sordomuta pareva dormisse. Avevo l'impressione, tuttavia, che non appena avessi girato la schiena i suoi occhi bovini si sarebbero aperti e si sarebbero puntati su di noi. — Non pensi a lei — disse la donna che mi stava accanto. Mi girai. — Pensa che tutto ciò sia male? — mi chiese all'improvviso, e io rabbrividii perché aveva stretto le mani calde e sudate sulle mie. — I... Io non lo so. — Il marinaio fu veramente carino — riprese lei con voce roca. — Veramente. Che me ne importa se lei guarda? Faccia pure, tanto è buio e non può vedere quasi niente. Quanto a sentire, è sorda.
Forse tentai di ritrarmi, perché le sue dita si strinsero alle mie. — Sono una ragazza pulita — sussurrò lei, pateticamente. — Non lo faccio tutte le volte, c'è stata solo quella volta col marinaio. Lo giuro, solo quella volta. Non è una bugia. Mentre parlava, sempre più eccitata, la sua mano scivolò dalla mia e si posò sulle mie gambe. Provai una contrazione allo stomaco, ma non riuscivo a muovermi. Suppongo che neanche lo volessi. Ero paralizzato dal suono rauco della sua voce, dalle sensuali carezze della sua mano che risaliva lungo la coscia. — La prego — disse, quasi in un gemito. Cercai di dire qualcosa, ma non venne fuori niente. — Sono sempre sola — ricominciò. — Non mi permetterà mai di sposarmi perché ha paura e non vuole che la lasci. È tutto a posto, non ci vedrà nessuno. Ora mi stringeva la gamba con forza, scavando con le dita. Mi mise l'altra mano sull'inguine e, alla luce di un lampione improvviso, vidi la sua bocca aperta e cavernosa, gli occhi famelici che scintillavano. — Lei deve — mormorò, facendosi più vicina. All'improvviso si gettò sopra di me, la sua bocca cercò la mia. Aveva l'alito caldo e le mani fremevano sulla mia pelle nuda. Le membra fragili, bollenti, parevano avvinghiarsi a me come tentacoli, e il calore del suo corpo mi sottomise. Non so come gli altri passeggeri continuassero a dormire, ma fu proprio quello che accadde. Dormivano tutti, meno una. All'improvviso la notte divenne più fredda; era finita, e lei si ritirò in fretta, rivestendosi. La veste frusciò antipaticamente come quella di una vecchia signora che ha inavvertitamente mostrato le gambe. La donna si girò e cominciò a guardare dal finestrino, come se nemmeno esistessi. Guardai stupidamente la sua schiena, svuotato, con la sensazione che i muscoli mi si fossero trasformati in acqua. Poi, tremando, mi sistemai i vestiti e attraversai il corridoio. La sordomuta saltò su all'istante e mi passò accanto di malagrazia, perfettamente sveglia. Un'occhiata mi rivelò la sua espressione eccitata. Mentre prendevo posto nel mio sedile, guardai le due donne e vidi le dita bianche e tozze tessere avide domande nell'aria. La donna magra annuiva, annuiva, e la sordomuta non lasciava nemmeno che si voltasse. Titolo originale: Finger Prints. (1962)
DEUS EX MACHINA Tutto cominciò con un taglio da rasoio. Fino a quel momento, Robert Carter era stato un uomo come tanti. Aveva trentaquattro anni, faceva il contabile presso una società ferroviaria. Viveva a Brooklyn con sua moglie, Helen, e con due figlie, Mary e Ruth. Mary aveva dieci anni, Ruth cinque e non era abbastanza alta da arrivare al lavabo da sola. Per questo, in bagno, avevano messo una scatola su cui montare per lavarsi. Carter stava radendosi, e nello spostare il peso del corpo da un piede all'altro inciampò nella scatola e cadde. La mano si strinse istintivamente al rasoio, il ginocchio batté sul pavimento. Carter grugnì, perché la fronte aveva battuto sul lavabo e il rasoio gli aveva fatto un taglio alla gola. Per un attimo rimase a gambe aperte sul pavimento. In corridoio, sentì dei passi in corsa. — Papà? — chiese Mary. Non rispose, perché guardava la propria immagine riflessa dallo specchio. E la ferita alla gola. Non aveva la vista chiara, ma come formata da strati separati. In uno vedeva del normalissimo sangue. Nell'altro... — Papà? — La ragazza sembrava allarmata. — Sto bene — disse. Gli strati si erano divisi, ora. Carter sentì sua figlia tornare in camera da letto, mentre lui restava a guardare l'olio brunastro che usciva dalla ferita e si spandeva sul pavimento. All'improvviso, con un brivido, prese una tovaglia dalla rastrelliera e la premette sulla ferita. Non sentiva nessuna specie di dolore. Tolse l'asciugamani, e prima che l'olio gorgogliante tornasse a impedire la visione, scorse nella ferita una serie di tubicini rossi sottili come cavi. Robert Carter tremò, gli occhi sgranati dallo shock. Per reazione gettò via l'asciugamani, e ciò che vide furono cavi e metallo. Si guardò intorno con la testa che girava; tutto sembrava ordinario, nella stanza da bagno, tutto reale: il lavabo, l'armadietto dello specchio, il recipiente del sapone con la schiuma che ancora orlava il bordo, il pennello bagnato, la lozione verde. Con la faccia contratta, si premette di nuovo la ferita e si mise in piedi. La faccia che vedeva allo specchio era la stessa. Si fece più vicino, in cerca di eventuali differenze; si tastò le guance, fece correre un dito lungo la mascella, si toccò la gola ancora insaponata. Era quello di sempre. Quello di sempre? Si allontanò dallo specchio e fissò la vuota parete dietro una
cortina di lacrime. Lacrime? Si toccò l'angolo di un occhio e sul dito rimase una macchia d'olio. La reazione fu violenta, cominciò a tremare senza controllo. Al piano di sotto Helen sfaccendava in cucina, in camera loro le ragazze chiacchieravano. Era una mattina come tutte le altre, la famiglia si preparava a un altro giorno. Eppure non era un altro giorno. Solo la sera prima Carter era un normale impiegato, un padre, un marito, un uomo. Oggi... — Bob? Era Helen che lo chiamava, e lui trasalì. Le labbra si mossero come se stesse per rispondere. — Sono quasi le sette e un quarto — disse Helen, poi tornò in cucina. Prima di riprendere le sue faccende, gridò un avvertimento analogo a Mary. Fu allora che Robert Carter capì ciò che doveva fare. Si mise in ginocchio rapidamente e pulì ogni traccia d'olio con un altro asciugamani. Quando il pavimento fu immacolato, pulì la lama del rasoio, quindi aprì l'armadietto della biancheria e mise l'asciugamani in fondo alla pila. Le sue figlie picchiarono alla porta. Carter trasalì. — Papà, dobbiamo entrare! — Aspettate un secondo. — Si guardò allo specchio e si tolse il sapone dal mento. C'era ancora l'ombra bluastra della barba. Ma era barba, o che altro? — Papà, farò tardi — disse Mary. — Va bene — disse con voce calma. Infilò la veste da camera e tirò su il collo, in modo da nascondere la ferita e l'improvvisata medicazione che aveva fatto. Respirò a fondo - ma si poteva chiamarlo respiro? - e aprì la porta. — Devo lavarmi prima io — disse Mary, precipitandosi al lavabo. — Devo andare a scuola! Ruth fece una smorfia. — Be', io ho un sacco di lavori importanti in casa. — Basta così — disse Carter. Erano parole che appartenevano al passato, quando era il loro padre umano. — Comportatevi come si deve. — Be', io devo lavarmi per prima — disse Mary, aprendo il rubinetto dell'acqua calda. Carter guardò le sue bambine. — Questo cos'è, papà? — chiese Ruth. La sorpresa lo fece trasalire. La bambina aveva visto delle gocce d'olio
sulla vasca da bagno: non se n'era accorto. — Mi sono tagliato — rispose Carter. Se le avesse pulite abbastanza in fretta, non si sarebbero accorte che non era sangue. Le eliminò con un pezzo di carta igienica e buttò il tutto nel water, tirando l'acqua. — Era un brutto taglio? — chiese Mary, insaponandosi le guance. — No — rispose lui. Non sopportava la vista delle figlie. Si avviò in fretta in corridoio. — Bob, la colazione! — Arrivo — borbottò. — Bob? — Vengo subito! Helen, Helen... Robert Carter si guardò allo specchio della camera da letto. Il suo corpo era diventato un mistero: eppure si era tolto le tonsille, l'appendice, si era curato i denti e aveva fatto vaccinazioni, iniezioni, esami del sangue, raggi X. Tutte quelle cose formavano lo sfondo contro cui aveva recitato un'apparente commedia umana; uno sfondo fatto di sangue, tessuti, muscoli, ghiandole e ormoni, vene... Mistero. Si vestì con movimenti rapidi ma poco coordinati, cercando di non pensare. Al posto della medicazione fatta con l'asciugamani mise un largo pezzo di cerotto. — Bob, spicciati! — gridò Helen. Finì di annodarsi la cravatta come aveva fatto centinaia di volte in precedenza. Era pronto, e assomigliava a un uomo. Guardò la propria immagine riflessa e si ripeté che somigliava proprio a un uomo. Si fece forza e andò al piano di sotto, in cucina. Ormai aveva deciso: a Helen non avrebbe detto niente. — Eccoti, finalmente — disse lei, poi gli dette un'occhiata. — Dov'è che ti sei tagliato? — Cosa? — Le ragazze dicono che ti sei tagliato. Dove? — Sul collo, ma ora sono a posto. — Fammi vedere. — Helen, sono a posto. Helen lo guardò incuriosita. — Cosa c'è, Bob? — Niente. Ho fatto tardi, questo è tutto. Lei sbirciò di sopra al colletto, dove spuntava un lembo di cerotto. — Sanguina ancora — osservò. Carter trasalì, ma allungò una mano e si toccò la ferita: il cerotto era in-
zuppato d'olio. Diede un'occhiata a Helen, senza sapere cosa fare. Poi si decise: doveva andarsene subito. Uscì dalla cucina e andò a prendere il cappotto nell'armadio a muro di fronte alla porta d'ingresso. Lei aveva visto sangue, non olio. Mentre lasciava la casa, di corsa, si rese conto che era un mattino grigio e nuvoloso, e che di lì a poco sarebbe piovuto. Rabbrividì, stretto in una morsa di gelo. Era assurdo far differenza fra il caldo e il freddo, ora che sapeva cos'era; ma rabbrividì lo stesso. Lei aveva visto sangue. In un certo senso ciò lo atterriva più ancora di aver scoperto la propria identità. Il fatto che lui perdesse olio, stando come stavano le cose, era triste ma ovvio; e tuttavia lei aveva visto sangue. Perché? Il sangue non somiglia all'olio, non puzza come l'olio. Senza cappello, coi capelli biondi scompigliati dal vento, Robert Carter correva e cercava di ragionare. Lui era un robot, e questo era il punto di partenza. Se mai era esistito un Robert Carter umano, era stato rimpiazzato. Ma perché? Perché? Scese i gradini della metropolitana, immerso nei suoi pensieri. La gente sciamava intorno a lui, gente fatta di carne e sangue, che non aveva bisogno di porsi il problema. Gente con vite spiegabili. Passò davanti a un'edicola e lesse i titoli dei giornali del mattino: TRE MORTI IN UNO SCONTRO FRONTALE. Il testo era accompagnato dalla fotografia di due auto contorte, con alcuni cadaveri coperti da un telo sul margine della strada. C'erano chiazze di sangue. Con un brivido Carter immaginò se stesso in una pozza d'olio. Si piazzò sul bordo del marciapiede e guardò i binari. Era possibile che il suo alter ego umano fosse stato rimpiazzato da un robot? Ma chi si sarebbe preso un tal disturbo? Inoltre, pur ammettendo che un qualcuno del genere esistesse, perché gli avrebbe permesso di scoprire il segreto con tale facilità? Un taglio, un'escoriazione, perfino un po' di sangue dal naso, e il trucco era svelato. A meno che la vera causa non fosse un'altra: il colpo in testa. Se, tagliandosi, non avesse battuto la fronte, forse avrebbe visto sangue e tessuti come al solito. Pescò automaticamente un soldino e lo fece scivolare nella macchina del chewing-gum. Tirò la manopola e la gomma venne giù. Aveva quasi rotto l'involucro quando lo colpì l'assurdità della situazione: masticare gomma, adesso? Fece una smorfia, immaginando una serie di ingranaggi che dalla testa erano collegati alle mascelle meccaniche e ai denti artificiali. E tutto
si muoveva in risposta a un impulso sinaptico. Rimise la gomma in tasca. La stazione tremava per l'arrivo del treno, e gli occhi di Carter si spostarono a sinistra. In distanza vide l'occhio verde e l'occhio rosso del Manhattan Express. Si preparò a salire. Rimpiazzato quando? La sera prima, quella prima ancora, l'anno addietro? No, era difficile crederlo. Il treno sfrecciò davanti a lui in una confusione di porte e finestrini. Sentì il fiotto d'aria calda, stantia, che veniva dall'interno, percepì gli odori del treno. E chiuse gli occhi per evitare la nuvola di polvere. Il tutto in pochi secondi: per essere una macchina, aveva reazioni così umane da rasentare l'incredibile. Finalmente il treno si fermò. Robert entrò nel vagone col resto della folla, aggrappandosi a un sostegno per non perdere l'equilibrio. Le porte si chiusero di nuovo e il treno riprese la marcia. Dove gli conveniva andare? si domandò. Non certo al lavoro. Dove, allora? Pensare, si disse, doveva pensare. Fu in quel momento che si accorse dell'uomo accanto a lui. Era un tizio con una mano fasciata, e la fascia era chiazzata d'olio. Di nuovo provò un senso di gelo, di shock violentissimo che gli pietrificò il cervello. Si sentiva rigido, intorpidito. Dunque non era l'unico. La scritta al neon sulla porta diceva: PRONTO SOCCORSO. La mano di Robert Carter tremò, poi girò la maniglia ed entrò. Gli ci volle appena un attimo per scoprirlo. C'era stato un incidente d'auto: un uomo che andava al lavoro in macchina, una ruota a terra, un camioncino. Carter dette un'occhiata all'uomo sul lettino. Lo stavano fasciando sull'occhio, aveva un brutto taglio. Dal taglio scorreva l'olio, e gli bagnava la guancia e chiazzava il vestito. — Vada in sala d'aspetto — disse una voce. — Cosa? — fece Carter. L'infermiera ripeté: — Vada in sala... Ma non poté continuare, perché lui girò sui tacchi e uscì dall'infermeria. Era una mattina d'aprile e Carter passeggiava lentamente, quasi incapace di udire i rumori della città. C'erano altri robot, dunque: Dio solo sapeva quanti. Si aggiravano fra gli uomini e nessuno lo sapeva. Anche se restavano feriti, il segreto era salvo, e quella era la parte peggiore; l'uomo che aveva visto al pronto soccorso era coperto d'olio, ma nessuno tranne lui se n'era accorto.
Robert Carter si fermò, assalito da un'improvvisa pesantezza. Doveva sedersi e riposare un po'. Nel bar c'era un solo cliente, un tizio seduto all'estremità opposta del banco. Beveva birra e leggeva il giornale. Carter si issò su uno sgabello e incrociò i piedi stancamente. Aveva le spalle ingobbite e non era capace di far altro che fissare il legno lucido del bancone. Dolore, confusione, paura: questi i sentimenti che si agitavano in lui. Esisteva una soluzione, o era destinato a vagabondare come un disperato? Gli sembrava un secolo da quando era uscito di casa: e, d'altra parte, non era più la sua casa. O forse sì? Si tirò su lentamente. Se esistevano altri robot come lui, non poteva darsi che Helen e le bambine appartenessero alla schiera? L'idea lo affascinava e gli ripugnava al tempo stesso. Desiderava disperatamente il loro affetto, ma come poteva nutrire gli stessi sentimenti se scopriva che anch'esse non erano che un mucchio di fili, metallo e corrente elettrica? Come poteva affrontare il problema con loro? Se erano robot, lo erano inconsciamente. Batté la mano sul banco. Con forza. Dio, era così stanco. Se solo avesse potuto riposare. Il barista uscì dal retrobottega. — Che cosa prende? — Scotch con ghiaccio — disse Robert Carter automaticamente. Poi, mentre il barista preparava il suo drink, gli venne un'idea poco piacevole. Era in grado di bere, oppure no? Il liquido poteva rovinare il metallo, mandare i fili in corto circuito. Carter osservò il barista che versava il liquore. Aveva paura, e quando l'altro gli mise davanti la bevanda, la paura si trasformò in terrore. No, non gli avrebbe fatto niente. Non questo. Mentre il barista si allontanava per portargli il resto di 5 dollari, Robert Carter guardò il bicchiere e rabbrividì. Olio. Gli venne voglia di urlare. Un bicchiere d'olio. — Oh, mio Dio... — Scivolò dallo sgabello e barcollò verso la porta. Fuori, la strada ondeggiava intorno a lui. "Ma che mi succede?" pensò. Si appoggiò a una vetrina, con la testa che gli girava. Mise a fuoco lo sguardo. In una cafeteria un uomo e una donna mangiavano tranquillamente. Carter li fissò a bocca aperta: il cibo era grasso per macchine. Le bevande, olio. La gente sciamava intorno a lui. Si sentiva un'isola nella corrente umana. Quanti erano? Mio Dio, pensò, quanti erano?
In un quadro simile, che fine faceva l'agricoltura? E i campi di grano, e i frutteti, e gli appezzamenti coltivati? Che fine facevano le industrie alimentari, i cibi in scatola, il semplice pane? No, doveva fare marcia indietro; doveva scoprire che cos'era successo, ma un'ipotesi verosimile era che, battendo la testa, avesse perso il contatto con la realtà. Le cose erano come erano sempre state. Lo sballato era lui. Robert Carter avvertì l'odore della città. Era odore d'olio e di grasso, l'odore di un'immensa, invisibile fabbrica. Il suo volto era diventato una maschera di terrore. "Mio Dio, quanti sono?" Cercò di correre, ma non vi riuscì: poteva a stento camminare. E allora cominciò a piangere. Evidentemente si stava scaricando. Attraversò lentamente l'ingresso dell'hotel. I suoi movimenti erano impacciati, meccanici. — Camera — chiese. L'impiegato gli dette un'occhiata sospettosa: Carter aveva i capelli arruffati, gli occhi spiritati. Gli fu data una penna per firmare il registro. Robert Carter, scrisse lentamente, come se avesse dimenticato l'ortografia. In camera, Carter chiuse la porta e si afflosciò sul letto. Non si mise coricato, ma seduto, e si guardò le mani. Si stava scaricando come un orologio. Un orologio non sa mai chi lo ha costruito, né qual è il suo destino. C'era un'ultima possibilità, pazzesca, fantastica, ma era l'unica a cui riuscisse a pensare. Qualcuno si stava impadronendo della Terra, qualcuno stava rimpiazzando gli uomini con duplicati meccanici. I medici sarebbero stati i primi, poi i becchini, i poliziotti e chiunque avesse frequenti contatti coi corpi della gente. I robot-sostituti erano condizionati a ignorare la realtà. In quanto contabile, lui sarebbe stato fra i primi della lista. Faceva parte del sistema commerciale, ne era parte vitale. Era... Robert Carter chiuse gli occhi. "Com'è stupido" pensò "com'è stupido, e impossibile." Impiegò diversi minuti solo per alzarsi. Con movenze letargiche prese dal cassetto una busta e un foglio di carta; nel cassetto c'era una Bibbia, su cui indugiò per un momento. Anche quella scritta dai robot? L'idea gli ripugnava. No, a quell'epoca la gente era umana. L'orrore a cui stava assistendo era un orrore contemporaneo. Doveva esserlo. Estrasse la stilografica e tentò di scrivere una lettera a Helen. Infilò in
tasca la mano tremante, in cerca della gomma: era un'abitudine. Stava per metterla in bocca quando capì che non era gomma. Era una tavoletta di grasso. Gli cadde di mano. La penna scivolò fra le dita e finì sul tappeto, e Carter capì che non avrebbe mai trovato la forza di raccoglierla. La gomma, la bevanda nel bar, il cibo nella cafeteria. Alzò gli occhi d'impulso. Cominciava a piovere. Ma che cosa pioveva? La verità lo schiacciò come una morsa. Un attimo prima di cadere, gli occhi indugiarono un'ultima volta sulla Bibbia. E Dio disse: "Sia fatto l'uomo a nostra immagine". Poi, calarono le tenebre. Titolo originale: Deus ex machina. (1963) LA COSA — Non mi piace — disse la signora Lee con fermezza, e posò la tazza nel piattino. — Non mi piace che Billy debba vedere quell'affare. — Io voglio che lo veda — replicò suo marito. — È abbastanza grande. Erano in quattro e sedevano intorno al tavolo in camera da pranzo. La scarsa illuminazione traeva scintille dai bicchieri sbreccati, punteggiava la tovaglia e i tovaglioli sfilacciati, e sull'argento vecchio mandava un cupo bagliore. Il vassoio al centro del tavolo era quasi vuoto: c'era qualche magra fettina di carne e qualche macchia di sugo. Il signor Tomson raccolse l'ultima crosta di pane e spazzolò il sugo. Accompagnò il gesto con un sospiro, e quando inghiottì chiuse gli occhi. — Ah, Dio — si lagnò. — Certe delizie par quasi di dimenticarle. E le papille si atrofizzano. — Aprì gli occhi e guardò gli altri tre. — È stato un pranzo magnifico — disse compiaciuto. — Una delizia degna dei vecchi tempi. Il signor Lee finì il caffè e posò la tazza con soddisfazione. — Be', così è la vita. D'ora in poi... pillole, banchetti chimici e altri incubi concertati in laboratorio. È la scienza che ci mostra la via. La signora Lee piegò nervosamente il tovagliolo consunto. — Vorrei che tu non parlassi a quel modo. Sai che non è legale. — Sta solo scherzando — disse la signora Tomson. — Harry fa lo stesso. — Dette un'occhiata divertita al marito. — Agli uomini piace essere
blasfemi in presenza delle adorate metà. Harry Tomson ridacchiò. — Le donne sono gli scienziati ideali. Il mondo femminile è altrettanto rigido di quello programmato dal Comitato Governativo. Kathryn Lee si alzò con un movimento nervoso, poi disse in fretta: — Sbrighiamoci a sparecchiare, prima che venga qualcuno e ci veda. — Già — acconsentì Myra Tomson. — Sai che bello essere spediti in un Campo Governativo solo perché mangiavamo un po' di vecchia carne. — Cara moglie — disse Harry senza indirizzarsi, in realtà, a nessuno in particolare. Si alzò e prese il bicchiere, in fondo al quale si distingueva ancora qualche goccia di vino rosso. — Cari amici — riattaccò. — Questa è un'occasione solenne. La vostra ghiacciaia clandestina, come la nostra, è finalmente vuota. Le ultime vestigia dell'autentico cibo sono sparite. Dobbiamo tornare alla triste e sordida prospettiva di non assaggiare più quelle oneste pietanze. La scienza dice pillole, e noi, come pecore, mangiamo pillole. Non più malattie, proclamano i crociati della provetta, non più bacilli, non più microscopici mostri. Sia messa al bando la fetta di carne! Fece un gesto col bicchiere. — Bevo al privilegio dell'indigestione, al defunto, ma non meno glorioso, diritto umano di farsi venire, con mezzi propri, un sano mal di pancia. Ralph Lee ridacchiò. — Mi associo al tuo brindisi. Signore, i vostri bicchieri. Myra sorrise alla signora Lee e le dette di gomito. Kathryn si leccò le labbra, ma fu un gesto automatico. — Assecondiamoli, cara — disse Myra. — Inoltre, è davvero l'ultima volta. Kathryn, tirata per i capelli, alzò il bicchiere e scolò le ultime gocce. I suoi occhi incrociarono quelli del marito. Ralph sorrideva, pareva che facesse l'occhiolino. Lei posò il bicchiere e disse: — Ancora non capisco perché dobbiamo andare a vedere quell'affare stasera. E perché ci debba venire Billy. — Scosse la testa e cominciò a raccogliere i piatti. — Sai come sono i mariti — disse Myra, possessiva. — Cari ragazzi che detestano crescere. — Ehi, perché non andiamo a casa a prendere Lilly? — intervenne Tomson. — Vorrei che venisse anche lei. — Per niente al mondo — fece Myra, alzandosi. — Non ho intenzione di tirarla fuori dal letto. — Non capisco perché Billy debba andarci — riattaccò Kathryn. — Non
vedrà che una stupida... — Kate! Lei squadrò il marito con una certa belligeranza, e fu la prima a meravigliarsene. — Non c'è nessun bisogno che tu alzi la voce. — Era seccata che lui la riprendesse davanti ai Tomson. — Poche cose mi fanno arrabbiare, e tu lo sai — disse Ralph, scagliando il tovagliolo sulla tavola. Poi, rivolgendosi a tutti: — Non dobbiamo mai chiamare "stupida" quella cosa. Essa rappresenta, nella nostra pietosa società, tutto ciò che non è stupido. — Amen — disse Harry. Myra si strinse nelle spalle. — Mi sembrate ancora due ragazzini — sentenziò. — Forza, forza, forza! Piegare il sistema per non esserne piegati. — Sarà meglio sparecchiare — intervenne suo marito. — E sbrighiamoci, nemici dello stato che non siamo altro. — Facciamo noi — disse Kathryn. — Voi uomini andate in biblioteca a parlare. — Già, come desideravate fare fin dall'inizio del pranzo, Ma mi raccomando, niente urla — disse Myra. — Andiamo — fece Ralph con un sorriso. — Qui non ci vogliono. E poi ho una sorpresa per te. — Sì? — Harry alzò le sopracciglia. — Bene, in questo mondo è rimasto ben poco che mi sorprenda. — Se ne vanno — commentò Myra andando nello sfaccendario con un mucchio di piatti e posate. Kathryn toccò il braccio di suo marito. — Dobbiamo proprio portarcelo, Billy? Sai che vedere la "cosa" è contro la legge. Ralph le batté un colpetto rassicurante sulla spalla. — Non preoccuparti. Harry e io ci siamo andati un mucchio di volte e non ci hanno mai arrestati, giusto? Lei scosse la testa. — Eppure, non mi piace. — Sbrigatevi a fare i piatti — disse Ralph. — Non voglio che arriviamo in ritardo. Con un sospiro, lei andò nello sfaccendario. Al di là del pannello girevole Myra disse: — Non so proprio come faremo a lavarli. Nelle case d'oggi non c'è niente che serva allo scopo: è semplicemente un'operazione proibita. Nell'altro ambiente, Ralph disse: — Be', andiamo in biblioteca. — Sali-
rono un breve passaggio inclinato e munito di ringhiera. — Voi cosa ne farete, delle stoviglie? — chiese Harry. — Le terrete per ricordo? — Tu e Myra che farete? — Oh, Myra le ha nascoste da qualche parte, una specie di ripostiglio segreto. Le terremo per souvenir di un passato struggente. — Immagino che Kate farà lo stesso. Entrarono nella piccola biblioteca: gli scaffali antipolvere erano ricavati nella parete e colmi fino all'orlo di plastilibri. Con le mani sui fianchi, Harry dette un'occhiata ai titoli: Astronomia categorica, Principi della fisica assoluta, L'universo immutabile, Il modello contiguo. Strinse i denti e disse: — Cielo, dopo un po' cominci a domandarti se non hanno ragione loro. Se quei libri non contengano veramente tutta la verità. — Sarei d'accordo con loro se non fosse per la "cosa" — disse Ralph. — Già, la "cosa". La cosa meravigliosa. — Harry centellinava le parole. — Una chiazza di luce nell'eterna tenebra. — Scosse la testa, come per scacciare il senso d'irritazione. — Be' — chiese in tono festoso — dov'è questa sorpresa? Con un lampo di malizia Ralph prese un libro dallo scaffale più alto. Lo volse dalla parte di Harry, che così poté leggerne il titolo: In questa prigione. La copertina del volume si apriva. — Sigari! Harry era esultante, aveva la bocca spalancata. — Buon Dio, uomo. Ma sono veri? — Annusali — disse Ralph con sicumera. — E prendine uno grosso. Harry si piegò sulla scatola e annusò l'aroma di tabacco. Arricciò il naso, deliziato. — Oh, devo essere morto e mi stanno portando in paradiso. Dove li hai trovati? — Reliquie storiche. Prendine uno. Harry prese un sigaro con avidità, lo fece rotolare fra le dita grassocce. Poi, dopo averlo annusato un'altra volta se lo accostò alle labbra e staccò la coda. — Magnifico! — E ora preghiamo che questo venerabile fiammifero sappia fare ancora il suo dovere. — Ralph sfregò il fiammifero sul tacco della scarpa e ne scaturì una fiamma gialla. Una nuvola di fumo avvolse la testa di Harry come un velo.
Questi aspirò una boccata, poi disse deliziato: — Sono tornato ragazzo. Sedevano sulle poltrone informi davanti allo schermo TV. Le poltrone si modellavano al corpo. — È stata una serata meravigliosa — disse Harry. — Un sogno, un desiderio fantastico divenuto realtà. — Aspirò una delle ultime boccate del sigaro. — È triste che tu debba dir questo — osservò Ralph, scrollando la cenere. — Ma è appropriato ai tempi in cui viviamo: tempi nei quali il più semplice dei piaceri assurge al rango di delizia. — Già, infatti è proprio così — acconsentì Harry con un'occhiata malinconica al mozzicone. — Ma in fondo è colpa nostra. Ci siamo fregati con le nostre stesse mani, costruendo una società d'acciaio, una società di puritani che si è trasformata in una gabbia. — Qua, prendine un altro — disse Ralph offrendo i sigari. — E avanti, prendilo. Ne restano solo due, quindi perché prolungare la tortura? Fumiamoceli e scordiamo che un vizio così delizioso sia mai esistito. — Mi domando — fece Harry accendendo il sigaro — se questo tipo di filosofia non finirà col permearci completamente. La filosofia della rassegnazione, capisci? Vi sprofondiamo ogni giorno di più, e forse arriverà il tempo che perfino la "cosa" verrà dimenticata. La "cosa", ultimo barlume di coscienza votato all'estinzione. Che ne pensi Ralph? — È possibile — disse Ralph, cupo. — È indubbiamente, orribilmente possibile. Abbiamo già dimenticato molte cose: la capacità di lottare, di innalzarci ad altezze vertiginose e immergerci in abissali profondità. Non aspiriamo più a niente e abbiamo perso la capacità di disperarci. Non siamo più conquistatori: siamo gente che si lascia trasportare, che si lascia impiegare, e che il giorno dopo ricomincia daccapo. Viviamo negli stretti confini che la scienza ha delimitato per noi. Quanto stretti? Oh, il metro per misurarli è corto e dolce; la vita, nel complesso, è un breve, ombroso continuum che sfuma dal grigio al più grigio ancora. L'arcobaleno ha perso la tinta. Non sappiamo più dubitare. Harry Tomson si girò e guardò i libri. — L'hai detto, amico. Viviamo all'ombra dei logaritmi. E i logaritmi sono arroganti, e le parole stampate trasudano dogmatismo e proclamano la fine della novità. Non c'è più niente di strano, niente che si sottragga al modello. Il nostro Sistema è il Vero Sistema. — Sospirò e guardò l'amico. Ralph ricambiò il sorriso. — Be', c'è pur sempre la "cosa". Finché esiste,
non tutto è perduto. — Ralph? Era Kathryn. Lui si alzò e andò alla soglia. — Sì, cara? — Per l'ultima volta: dobbiamo proprio portarcelo? — Sì, Kathryn. Voglio che veda. Non voglio che continui a vivere ignorando l'esistenza della "cosa". — Ma se ne parlasse ad altri? È solo un ragazzo. — Non sarebbe il solo ad averla vista. E ora, smettila di preoccuparti. Lei intrecciò le dita nervosamente, poi guardò il marito senza parlare. — Ora vai a prepararlo — disse Ralph. Kathryn si girò lentamente e scomparve giù per la rampa delle scale. Ralph dette un'occhiata ad Harry: — Tu credi che sia giusto che io ce lo porti, non è vero? — Cielo, sì — esclamò Harry. — Vorrei solo averci pensato prima e aver portato Lilly. Vorrei che anche lei vedesse. Poi sbadigliò, tese i muscoli e alla fine si rilassò, mentre un piacevole torpore si diffondeva nel suo corpo. — Ancora qualche boccata, poi ci mettiamo in marcia. Billy stava rannicchiato nel grembo di Kathryn; era tutto insonnolito, e ogni tanto spingeva lo sguardo al di là del finestrino. — Dove andiamo, mamma? — chiese per la quinta volta. — A fare una passeggiata — rispose lei. Poi, con un'occhiata accusatrice al marito: — Avrà tanto sonno che non capirà niente. — Capirà — disse Ralph. — Mio padre mi ci portò quand'ero un ragazzo, e anch'io ero mezzo addormentato. Però vidi e ricordai; ho sempre ricordato. Teneva gli occhi incollati sulla strada, una grande arteria che si stendeva come un nastro inamidato fra le corsie pedonali. In alto, torreggiavano i grattacieli del centro commerciale. La macchina superò uno dei tanti cartelli luminosi che punteggiavano la strada: LA SCIENZA È LA VERITÀ. Seguivano altri cartelli, altri messaggi: SE LA SCIENZA DICE NO, È NO! TUTTO È PREORDINATO. IL NOSTRO SISTEMA È IL VERO SISTEMA. — È proprio come hai detto tu, Harry — disse Ralph di sopra la spalla. — Dopo un po' ti convinci che gli slogan sono veri. E ci fai l'abitudine. È terribile, ma vale per qualunque cosa ti venga ripetuta all'infinito; finisci
col credere ciò che non è, tutto si capovolge. — Già — disse Harry. — Troppo vero. — Ma dovete brontolare tutto il tempo? — intervenne Myra. — È come aver sposato due politicanti. Harry ridacchiò. — Che farei senza di te, amor mio. Sei la mancanza di passione che fa girare il mondo. — Imbecille — disse lei. — Guarda, Billy! — esclamò Ralph all'improvviso. — Guarda lassù! — Kathryn trasalì. — Che cosa, papà? — Una stella cadente — disse Ralph. — Proprio sopra di noi. — E con la mano destra girò dolcemente la testa del ragazzo. — Oh, la vedo! — disse Billy. — Ma che cos'è, papà? — Una stella cadente, piccolo. Papà te ne ha parlato. — E chi l'ha fatta cadere? Risero tutti. — Nessuno l'ha fatta cadere — spiegò Kathryn. — È un sasso che si è avvicinato troppo alla Terra e ha preso fuoco. A quest'ora tutti gli scienziati lo staranno osservando. — Perché, mamma? — Perché? Ma perché l'aspettavano e vogliono vedere che cosa accade. Vedi, loro sapevano che sarebbe caduta già da molto tempo. Lo sapevano da prima che tu nascessi. Ralph strinse le labbra. — Non dirgli cose del genere. Sai che non è vero. Kathryn respirò a fondo. — Gli sto dicendo la verità. Gli scienziati del governo non sbagliano. L'universo è ordinato. Vuoi insegnare a tuo figlio che non lo è? — Voglio che mio figlio si faccia le sue idee da solo. — Dovevamo portare Lilly — incalzò Harry. — Già, per te quello sarebbe stato il massimo, vero? — disse Myra. — Oh, povero me — replicò Harry divertito. — E non ricominciare le tue brillanti dissertazioni sulla "cosa" — ammonì Myra. — Tutto si riduce a una constatazione molto semplice cara: la "cosa" infrange l'ordine. Ergo, non esiste ordine. — Sciocchezze. — Logica irrefutabile, temo — disse Harry con un sorriso.
La macchina di Ralph, un modello di superficie, fece una curva e imboccò una rampa laterale che portava a una stradina solitaria alla periferia della città. — Supponi che la Polizia Governativa faccia un'irruzione nel... posto in cui stiamo andando — disse Kathryn. — Non lo farà — rispose Ralph. Dette un'occhiata a Billy, la cui testolina bionda si era appoggiata alla spalla di sua madre. Guardava dal parabrezza con occhi semichiusi, e Ralph sorrise. — È una cosa che non dimenticherai, Billy. — Sì, papà. Kathryn gli baciò la fronte e lisciò i capelli biondi. — Mi sento come una sovversiva — disse Myra. Si trovavano nel vicolo scuro, avevano bussato e aspettavano che qualcuno aprisse. Kathryn si guardò intorno nervosa, tenendo Billy stretto al seno. — Per favore, Ralph, andiamo a casa. Verremo un'altra sera. — No — disse Ralph cocciuto. — Ora siamo qui, non ha senso tornare. Nella porta si aprì una finestrella. Un raggio di luce colpì Kathryn in pieno viso, poi venne spento. Lei ansimava. Al posto della luce si distinguevano due occhi sospettosi. — Sì? — chiese una voce baritonale. — Noi, ecco... — incespicò Ralph. — Vorremmo vedere la "cosa". Vorrei che mio figlio la vedesse. Gli occhi si spostarono su Billy, che si teneva aggrappato alla madre, poi ispezionarono il vicolo deserto alle spalle dei visitatori. — Mi passi la sua carta d'identificazione — disse la voce. Ralph prese il portafogli e ne trasse un rettangolo di plastica; lo porse all'uomo, che lo fece scomparire dietro la finestrella. Aspettarono. — È veramente una sciocchezza — disse Myra. — Cos'è, un gioco da bambini? — Zitta, cara, o comincerò a fare la mia dissertazione — avvertì Harry. Myra gli lanciò un'occhiataccia. Dopo un attimo si sentì un lucchetto scorrere e la porta fu aperta. — Entrate, ma fate presto — disse l'uomo. Era alto, di mezz'età, vestito di grigio. Appena furono passati, sbarrò la porta. Li guidò giù per una scalinata consunta; l'aria era fredda e umida.
— Se si ammala... — minacciò Kathryn, alzando il bavero di Billy. — Il nostro Ordine non prevede la malattia — commentò Ralph, amaro. Poi guardò sua moglie con un senso di colpa: — Non staremo troppo a lungo. Entrarono in una grande stanza dalle pareti di pietra. Sembrava una specie di auditorium, con le sedie disposte a intervalli irregolari e una piccola pedana rialzata sul fondo. A notevole distanza gli uni dagli altri sedevano, in penombra, i pochi spettatori: qualche vecchio e un'unica giovane coppia. Sulla pedana, occultata da un panno nero, si scorgeva il profilo di una grande scatola semisferica. Presero posto a loro volta, accompagnati dal cigolio delle scarpe. Myra si schiarì la gola e l'eco volteggiò nella stanza come uno sciame di pipistrelli. Si guardò intorno frettolosamente, imbarazzata. Harry sogghignò e le dette un colpetto affettuoso sulla nuca. Lei ricambiò con un'occhiata di sconcerto e irritazione. Finalmente si accomodarono sulle sedie traballanti. — Lo tengo io — disse Ralph, sottraendo Billy alle braccia di sua moglie. Kathryn strinse le labbra e serrò le mani in grembo. Tremava. Rimasero tutti in silenzio per qualche minuto. Alla fine Myra non ne poté più. — Ma quando cominciano, per l'amor di Dio? — chiese al marito in tono petulante. Lui si strinse nelle spalle. — Non ho idea. Sei nervosa? — Sì — disse lei fra i denti. — Sono spaventata a morte. Harry sorrise. — Non mi piace — disse Kathryn a Myra. — È contro la legge essere qui. Myra le strinse la mano. — Si tratta solo di un gioco, Katie. Non essere così sconvolta. L'uomo in grigio salì sulla pedana e si mise accanto alla scatola coperta. Fece un colpetto di tosse, poi guardò in fondo alla sala. — Signore e signori — cominciò in tono solenne, diverso da quello che avevano udito prima. — Forse alcuni di voi sono venuti qui stasera per divertirsi. È possibile. Tuttavia, io credo e spero che la maggior parte dei presenti sia stata attratta dallo stesso motivo che spinge noi, i membri del Comitato Fenomeni Fuorilegge, a rischiare la vita per salvaguardare la "cosa". — Dovete credermi, signore e signori, quando vi dico che il fenomeno a
cui state per assistere, uno dei pochi rimasti, è per noi di incalcolabile importanza. "Perché, vi chiedete?" Fece una pausa drammatica, poi allungò le mani verso il drappo nero. "Date la risposta voi stessi." Ciò detto, tolse il drappo. Tutti gli spettatori si sporsero istintivamente. Le sedie di legno vecchio cigolarono, gli occhi frugarono inquieti la penombra; la gente tratteneva il fiato. Sotto la copertura di plastica a forma di semisfera si vedeva una macchinetta luccicante, i cui meccanismi giravano con lentezza e senza far rumore. Al centro luccicava qualcosa che faceva pensare a pietre preziose. Un unico fascio di luce illuminava il meccanismo dal soffitto. — Questa è la "cosa" — disse il presentatore con voce pacata. — La macchina dal moto perpetuo. Ralph si chinò sul figlio e disse: — Hai visto, Billy? — Sì, papà — rispose con buona grazia il ragazzino. — E sai che cosa vuol dire? — Uh, no, papà. Kathryn prese fra le sue la mano sinistra di Billy. Ralph disse: — Vuol dire che non tutte le cose che t'insegnano a scuola sono vere. — Ralph! — scattò sua moglie. Lui l'allontanò con un gesto: la donna era scossa, impaziente, e Billy guardò prima lei e poi suo padre. — Non è necessario che tu capisca tutto, Billy — continuò Ralph. — Ma ricordati questo: la scienza, e il governo con essa, sostiene che quella macchina non può funzionare. Lo comprendi? — Sì, papà. — E invece funziona, e tu lo vedi! Gira e gira da più di cinquemila anni. Prima che tu nascessi, prima che io nascessi, prima di mio padre e di suo padre. — Continuerà a girare quando tu sarai cresciuto e ci porterai i tuoi bambini. E quando lo farai dovrai dirgli, come io faccio ora, che la macchina girerà sempre. Anche se tutti i governi del mondo sosterranno il contrario. Billy guardò i meccanismi in movimento, a bocca aperta. Aprì e chiuse gli occhi, poi fissò lo sguardo ancora più intensamente, abbeverandosi letteralmente a quella vista. Kathryn lo guardava in silenzio, la faccia tesa dalla paura. Gli tirò la mano involontariamente e una lacrima le corse giù per la guancia.
Billy fece per dir qualcosa e Ralph si chinò ad ascoltare; anche Harry si chinò, passando sulle gambe della moglie. — Cosa c'è? — disse Ralph. — Non si fermerà mai, papà? — chiese Billy. Le labbra di Harry si piegarono in un profetico sorriso. Si tirò su e strinse protettivamente la mano di Myra. Ralph diede un colpetto sul braccio del figlio e rispose con grande tranquillità, guardando la moglie. — No, Billy. Noi non permetteremo che si fermi. Titolo originale: The Thing. (1951) IL CONQUISTATORE Quel pomeriggio la diligenza per Grantville aveva due soli occupanti, il giovanotto e io, ed entrambi venivamo sballottati nei suoi polverosi, roventi confini, sotto il sole spietato del Texas. Il giovanotto mi sedeva di fronte, una mano avvinghiata al cuoio essiccato del sedile, l'altra stretta intorno a una valigetta nera. Poteva avere diciannove o vent'anni, di costituzione alquanto delicata. Indossava un abito di flanella a scacchi e una cravatta nera con fermaglio al centro. Si vedeva subito che era un ragazzo di città. Fin da quando avevamo lasciato Austin, ed erano passate due ore, mi ero interrogato sul contenuto della valigia. Il ragazzo la teneva ben stretta in grembo, e ogni tanto gli occhi azzurri le scoccavano un'occhiata. L'occhiata era accompagnata da un movimento della bocca, ma se fosse un sorriso o piuttosto una smorfia non avrei saputo dire. Sul sedile, accanto a lui, aveva depositato una valigia nera di poco più grande, ma a questa non prestava nessuna attenzione. Sono un uomo anziano, e benché non sia un pettegolo, ammetto che mi piace far conversazione; eppure, sebbene fossimo gli unici passeggeri, quel giorno né io né il giovanotto avevamo mostrato la minima intenzione di parlare. Per circa un'ora e mezzo avevo tentato di leggere il giornale di Austin, ma ora l'avevo posato sul sedile, fra la polvere. Detti un'altra occhiata alla valigetta e notai quanto sottili fossero le dita del giovanotto strette sull'impugnatura d'osso. Devo ammettere che ero curioso. Forse c'era qualcosa, nella faccia di quel ragazzo, che mi ricordava Lew o Tylan, i miei figlioli. A ogni modo
presi il mio giornale e glielo porsi. — Lo vuol leggere? — chiesi nel frastuono dei ventiquattro zoccoli scatenati e fra i mille scricchiolii della carrozza. Lui scosse la testa una volta, senza cortesia. La sua bocca si fece ancora più sottile e divenne una riga amara e risoluta. Non capita spesso di vedere un'espressione simile sul viso di un ragazzo. È troppo duro, a quell'età, attaccarsi all'amarezza o alla decisione, è troppo facile sorridere, dimenticare i mali della vita. Forse per questa ragione m'incuriosiva. — Comunque io l'ho finito, e se vuole... — ritentai. — No, grazie — rispose brevemente. — C'è un articolo interessante — continuai, incapace di tenere a freno la lingua. — Dei messicani affermano di aver ucciso il giovane Wesley Hardin. Il giovanotto alzò un attimo gli occhi e mi fissò intensamente, poi li abbassò sulla valigetta. — Naturalmente non credo a una parola — dissi. — Non è ancora nato l'uomo che può far fuori John Wesley. Il ragazzo non voleva parlare, questo era chiaro. Mi appoggiai di nuovo al sedile e osservai con quanta cura evitasse il mio sguardo. Tuttavia non volevo arrendermi. Per quale ragione i vecchi sentono il bisogno di specchiarsi negli altri? Forse perché temono di consumare gli ultimi anni nel vuoto. — Lei deve avere dell'oro, in quella valigia — osservai. — La sorveglia con tale attenzione... Stavolta sorrise, benché senza allegria. — No, non è oro — e a questo si fermò, ma io notai che il pomo d'Adamo saliva e scendeva nervosamente. Gli sorrisi e cercai di approfondire la nostra conoscenza. — Va a Grantville? — Sì — rispose, e all'improvviso capii che non era del Sud. C'era qualcosa nel suo accento che lo tradiva. Per un po' non parlai. Girai la testa e guardai rigidamente la piatta, interminabile distesa che si svolgeva all'esterno, l'alone di polvere che inghiottiva tutto e i cespugli riarsi che punteggiavano la desolazione. Per qualche tempo mi comportai con la freddezza che noi sudisti esibiamo in presenza dei conquistatori. Ma c'è qualcosa di più forte dell'orgoglio, ed è la solitudine. Fu la solitudine a farmi guardare di nuovo il giovanotto, a farmi pensare come somigliasse ai miei due ragazzi che avevano dato la vita a Shiloh. Nel profondo
del mio essere non riuscivo a odiare un uomo soltanto perché veniva da un'altra parte della nazione. Per quanto imbevuto d'orgoglio confederato, l'odio non era il mio forte. — E ha deciso di vivere a Grantville? — domandai. Gli occhi del giovane s'illuminarono. — Solo per un po'. — Strinse la borsa ancora più forte, poi d'un tratto attaccò: — Lei vuol sapere cosa c'è in... Si fermò, come adirato con se stesso per ciò che aveva detto. Non sapevo cosa dire: la sua offerta era monca, incompleta. Il giovanotto colse la mia indecisione e la sfruttò. — Be', non ha importanza. Tanto non le interesserebbe. Io avrei protestato volentieri il contrario, ma sentivo che a quel punto non sarebbe stato saggio. Il giovanotto si appoggiò al sedile, e poiché la diligenza aveva ripreso a ondeggiare (eravamo su un pendio, e c'erano sassi) si attaccò con la mano libera al bordo del sedile. Dal finestrino entravano ondate di vento caldo e carico di polvere. Il giovanotto aveva tirato le tendine dalla sua parte subito dopo Austin. — Viene per affari, nella nostra città? — domandai, dopo essermi scrollata la polvere dal naso e intorno agli occhi. Si chinò leggermente verso di me: — Lei vive a Grantville? — Dovette quasi gridare, perché Jeb Knowles, il guidatore, si sgolava a gridar ordini ai cavalli, e lo schiocco della frusta sulle bestie sudate non era da meno. Io annuii. — Sì, ho una drogheria. — Feci un sorriso, poi: — Una volta ho visitato il Nord col... con mio figlio maggiore. Lui non prestò attenzione a ciò che avevo detto, ma un'espressione intensa gli apparve sul viso; la più intensa che abbia mai visto, e rapidamente come si era disegnata così scomparve. — Può dirmi una cosa? — cominciò. — Chi è il pistolero più veloce in città? La domanda mi colse di sorpresa, perché non nasceva da pura e semplice curiosità. Anzi, il giovanotto aspettava la risposta con eccezionale interesse, e le dita erano strette più che mai sul manico della valigia. — Pistolero? — chiesi. — Sì, chi è il più veloce a Grantville? Hardin? E, dica, ci viene spesso? O Longley? Vengono mai da quelle parti? Mi resi conto che nel ragazzo c'era qualcosa che non andava. Mentre parlava gli appariva sul viso l'ombra di un'ansia innaturale, di una tensione
insolita. — Temo di non saperne molto, di queste cose — risposi — La città è abbastanza violenta, sono il primo ad ammetterlo, ma io e la gente come me badiamo ai fatti nostri e così non ci cacciamo nei guai. — Comunque, che mi sa dire di Hardin? — Anche qui, temo di non poterla aiutare. Però ho sentito dire da qualcuno che se n'è andato nel Kansas. La faccia del giovane mostrava un acuto, genuino disappunto. — Oh — disse, e tornò ad affondarsi nel sedile. Poi, all'improvviso, alzò lo sguardo. — Ma ci saranno altri pistoleri. Uomini pericolosi, voglio dire. Lo guardai per un attimo e desiderai aver continuato a leggere il giornale. La troppa loquacità mi aveva giocato un brutto tiro. — Uomini come quelli — risposi — esistono un po' dovunque, nel nostro Sud devastato. — C'è uno sceriffo, a Grantville? — domandò il giovanotto. — C'è — ammisi, ma per qualche ragione non spiegai che era poco più di un fantoccio, un uomo che temeva la sua ombra e che manteneva il posto solo perché le autorità della contea erano troppo distanti per controllare il suo operato. Come ho detto, non gliene parlai. Non gli dissi nient'altro, perché ero un po' a disagio, e il silenzio ci divise di nuovo. Io tornai ai miei pensieri, lui ai suoi: e chissà di che strane, contorte preoccupazioni si trattava. Guardò la valigetta e tornò a stringere il manico; aveva il respiro irregolare, e il petto stretto e incassato tremava. La diligenza scricchiolava, le ruote cigolavano, tutt'intorno si alzava il polverone: e in lontananza, ormai, si addensavano gli edifici di Grantville. Un giovanotto stava arrivando in città. Nel periodo postbellico, Grantville era la tipica città texana che lottava per emergere dal limbo fuorilegge e per definirsi come comunità. Nelle sue strade polverose si aggiravano uomini rosi dall'ira: ira per la sconfitta, ira nei confronti delle forze d'occupazione, ira verso i nordisti in cerca d'affari e di speculazioni e infine, come sempre accade negli uomini tormentati, ira verso se stessi e quelli della propria razza. La morte era in agguato dappertutto; spesso la polvere si arrossava di sangue. In una simile città io vendevo cibo a della gente che, il più delle volte, moriva prima di poterlo digerire. Dopo che Jeb ebbe fermato la diligenza davanti al Blue Buck Hotel non
vidi il giovanotto per parecchie ore: aveva attraversato la strada ed era scomparso nell'albergo con le due valigie. Alcuni amici erano venuti a prendermi e così mi dimenticai di lui, e chiacchierando mi diressi al negozio. Tutto era in buon ordine, e dopo aver parlato con Merton Winthrop, il giovane a cui avevo affidato la ditta nelle tre settimane di assenza, andai a casa, mi lavai e indossai abiti freschi. Erano circa le quattro, più o meno, quando spinsi il cancelletto del Nellie Gold Saloon. Non sono un bevitore accanito, ma per anni ho avuto la piacevole abitudine di sedere in un tavolo d'angolo, in penombra, a godermi il fresco e a sorseggiare un whisky. È il mio modo preferito di far passare il tempo. Quel particolare pomeriggio avevo chiacchierato un po' con George P. Shaughnessy, il barista del pomeriggio, poi mi ero ritirato al solito tavolo a centellinare la bevanda dei sogni, che oltretutto mi avrebbe messo di buon appetito. Era piacevole ascoltare il ronzio delle conversazioni e, nella sala sul retro, il tintinnio dei gettoni da poker. Fu a quel punto che arrivò il giovanotto. Dico la verità, al primo apparire non lo riconobbi nemmeno: il suo aspetto, infatti, era straordinariamente cambiato, com'era cambiata la natura del suo carico. Gli abiti di città erano spariti; invece del vestito di flanella portava un'ampia camicia con le perle al posto dei bottoni, pantaloni attillati infilati negli stivali e un cappello a tesa larga che gettava un'ombra sui lineamenti cupi. Gli stivali dai tacchi alti l'avevano quasi portato al banco prima che lo riconoscessi, prima che mi rendessi conto di che cosa avesse custodito tanto gelosamente nella valigetta nera. La vita stretta era fasciata da un cinturone alle cui estremità pendevano due Colt 44. Confesso che la trasformazione mi lasciò a bocca aperta. Poca gente portava due pistole, a Grantville, e men che meno gli esili giovanottelli che venivano da fuori. Mi tornarono alla mente le sue domande, e siccome la mano mi tremava, dovetti posare il bicchiere. Gli altri clienti del Nellie Gold dettero una breve occhiata al forestiero, poi tornarono alle rispettive occupazioni. George P. Shaughnessy alzò gli occhi, sorrise, poi dette la tradizionale lucidata al banco di mogano, benché non ce ne fosse alcun bisogno. Infine chiese allo sconosciuto che cosa desiderava.
— Whisky — rispose il giovanotto. — Preferisce un tipo in particolare? — Qualunque tipo. — Nel dir questo il giovanotto spinse indietro il cappello con studiata noncuranza. Quando il liquore ebbe raggiunto l'orlo, il forestiero fece la domanda che mi ero aspettato fin dal momento in cui l'avevo riconosciuto. — Dica, chi è il pistolero più veloce in città? George alzò gli occhi. — Prego, signore? L'altro ripeté la domanda, senz'ombra di emozioni. — Ma perché un simpatico giovanotto come lei vuol sapere una cosa del genere? — fece George in tono paterno. La pelle sul volto dello sconosciuto si tese: pareva rigida come quella di un tamburo. — Le ho fatto una domanda — disse, con voce sgradevolmente piatta. — Mi risponda. I due clienti più vicini smisero di parlare per godersi la scena. Le mie mani diventarono fredde: c'era della malvagità nella voce del ragazzo. George, al contrario, mantenne l'aria scherzosa che ha quasi sempre. — Ha intenzione di rispondermi? — disse il giovanotto, ritirando le mani e abbassandole in maniera allusiva verso i fianchi. — Qual è il suo nome, figliolo? — replicò George. La bocca del ragazzo s'indurì e gli occhi divennero freddi. Poi, un sorriso calcolato gli aleggiò sulle labbra. — Mi chiamo Riker — disse, come se quel nome sconosciuto dovesse gettarci nel terrore. — Bene, signor Riker, posso chiederle perché vuol conoscere il pistolero più veloce in città? — Mi dica solo chi è. — Riker non sorrideva più: la bocca era diventata una linea scura e sottile. Notai che uno dei tre giocatori di poker, nella sala sul retro, aguzzava gli occhi oltre le porte per vedere ciò che accadeva nel saloon. — Be' — disse George, sorridendo. — C'è lo sceriffo Cleat. Dire che lui... Ma all'improvviso perse l'allegria. Una pistola era puntata contro il suo petto. — Non mi racconti le bugie — disse il giovane Riker, soffocando la rabbia. — So che il vostro sceriffo è un fellone, me l'hanno detto all'albergo. Voglio la verità. — Sottolineò queste parole con un pugno sul banco. — Signor Riker, sta facendo un grosso sbaglio — disse George, la cui
faccia era divenuta bianca. Ma la canna della pistola gli affondò ancor di più nel petto. La bocca di Riker tremava dalla rabbia. — Ha intenzione di rispondermi? — Nel mezzo della frase la voce si spezzò, come quella di un adolescente. — Selkirk — rispose George rapidamente. Il giovanotto abbassò la pistola e per un momento il sorriso gli tornò sulle labbra. Poi gettò un'occhiata dalla mia parte, ma non mi riconobbe. Di nuovo fissò George coi freddi occhi azzurri. — Selkirk — ripeté. — E di nome? — Barth — rispose George, senza rancore né paura. — Barth Selkirk. — Il giovanotto ripeté il nome come per imprimerselo nella mente. Alla fine si piegò di nuovo sul banco, le narici tremanti, la bocca indurita. — Gli dirà che voglio ucciderlo — ordinò. Inghiottì in fretta, poi riprese l'espressione dura. — Gli dirà che è per... stasera. Qui al saloon, alle otto. — Esibì di nuovo la canna della pistola. — Glielo dirà. George non disse niente e Riker si allontanò dal banco camminando all'indietro. Si girò una volta sola per vedere dov'erano le porte. Mentre si ritirava, con la schiena voltata all'esterno, un tacco lo fece inciampare e per un attimo perse l'equilibrio. Il colore gli affluì in volto rapidamente, mentre gli occhi nervosi scrutavano ogni angolo buio. La canna della pistola seguì la linea dello sguardo. Poi raggiunse le porte, il petto che si muoveva rapidamente. Prima che riuscissimo a sbattere le palpebre, la pistola tornò nella fondina, come volando. Il giovane Riker fece un sorriso incerto, quasi a convincersi che era il padrone assoluto della situazione. — Ditegli che non mi piace — buttò là, come per giustificare la sua intenzione di uccidere Selkirk. Deglutì di nuovo, abbassando il mento sottile per nascondere il movimento nervoso della gola. — Ditegli che è uno sporco ribelle — aggiunse, senza fiato. — Ditegli... ditegli che io sono uno yankee e che odio tutti i ribelli! Per un attimo ancora rimase in vista, con aria di sfida, poi scomparve. Fu George a rompere l'incantesimo. Si versò un bicchiere di vino, e il rumore del vetro contro il vetro ci ridestò. Lo bevve tutto d'un fiato, poi borbottò: — Piccolo pazzo. Mi alzai e andai al banco.
— Che te ne sembra? — mi chiese George, facendo un gesto generico in direzione delle porte. — Dipende da quello che hai intenzione di fare — replicai, accorgendomi che due avventori si avviavano all'uscita con studiata noncuranza. — Che ho intenzione di fare? Dirlo a Selkirk, immagino. Parlai a George della mia conversazione con Riker e della sua trasformazione da ragazzo di città in pistolero omicida. — Be' — disse George quando ebbi finito di raccontare — e questo in che modo mi aiuta? Non posso permettere che un giovane pazzoide come quello se la prenda con me. Ti rendi conto che c'è mancato un pelo che mi sparasse? Hai visto come rinfoderava la Colt? — Scosse la testa. — È un pazzo, ma un pazzo pericoloso. Non si possono correr rischi con tipi come quello. — Non dire niente a Selkirk — proposi io. — Andrò dallo sceriffo e... George agitò una mano: — Adesso non metterti a scherzare, John. Sai benissimo che Cleat va a nascondersi sotto il cuscino appena c'è odor di sparatoria. — Ma questo sarà un massacro, George. Selkirk è un killer incallito, lo sai meglio di me. George mi dette un'occhiata curiosa. — Perché ti preoccupi tanto? — Perché è un ragazzo — risposi. — Perché non sa quello che fa. George si strinse nelle spalle. — Sarà un ragazzo, ma è venuto qui spontaneamente e ha fatto una richiesta. E poi, anche se io non fiato, Selkirk lo saprà lo stesso, puoi esserne certo. Hai visto i due che sono usciti? Quelli spargeranno la voce. Shaughnessy fece un sorriso amaro. — Il ragazzo avrà il suo duello. E che Iddio abbia pietà della sua anima. George aveva ragione: la notizia della sfida si diffuse in città come il vento. L'inadeguato simbolo della nostra giustizia, lo sceriffo Cleat, ci rise sopra: o forse, più praticamente, decise d'ignorarla. Fatto sta che si rintanò nel santuario della propria dimora. Ma se lo sceriffo ignorava la tempesta, cionondimeno essa era in arrivo. La gente oziosa, che trovava mille scuse per indugiare sulla piazza, lo sapeva benissimo; i bevitori del Nellie Gold, a cui si era sviluppata una sete eccezionale, lo sapevano benissimo. La morte è una cosa affascinante e agli uomini piace vederla in azione, specie se la vittima è qualcun altro. Io mi fermai davanti alle porte del saloon, nella speranza di poter parlare a Riker; il ragazzo si era ritirato nella sua camera e da quel momento era
rimasto solo. Alle sette e mezzo Selkirk e i suoi ruffiani arrivarono al galoppo, legarono i cavalli agli staccioli ed entrarono nel saloon. Gli avventori li salutarono e quelli risposero con schiamazzi e risate. Erano eccitati, non era difficile vederlo; gli ultimi mesi erano stati particolarmente noiosi per quella gente. Cleat non opponeva nessuna resistenza ai loro soprusi, e in assenza di altri pistoleri disposti a misurarsi con lui, Barth Selkirk e la sua ghenga si trascinavano nell'ozio. Per uomini come quelli la violenza è essenziale: il gioco, le donne e il bere non bastavano affatto ai loro appetiti. Perciò quella sera erano al massimo dell'eccitazione. Mentre aspettavano sul marciapiede di legno controllando l'orologio di quando in quando, udii la cagnara nel saloon farsi sempre più intensa; solo Selkirk non parlava, solo lui non rideva e schiamazzava con gli altri. D'altra parte non ne aveva bisogno: la sua logica agghiacciante la dettava a colpi di Colt, e in città tutti lo sapevano. Per questo, a Grantville, la sua ombra incombeva come quella di un demonio. Il tempo passava: era la prima volta che la morte mi sfiorava così da vicino. I miei ragazzi erano caduti a migliaia di chilometri da me, mentre io, del tutto ignaro, vendevo farina alla moglie del fabbro ferraio. Mia moglie era morta lentamente, passando in pace all'oblio, senza un gemito o un lamento. Ora, invece, l'angoscia mi coinvolgeva in pieno: perché avevo parlato con Riker, perché - sì, finalmente me ne rendevo conto - quel ragazzo mi ricordava Lew... Per tutte queste ragioni me ne stavo lì nel buio a rabbrividire, le mani sudate in tasca e lo stomaco stretto in un nodo di paura. Poi il mio orologio segnò le otto. Alzai gli occhi e sentii il rumore degli stivali di Riker giù per la scala dell'hotel. Passi regolari, non frettolosi. Uscii dall'ombra e mossi verso di lui. La gente nella piazza si era fatta silenziosa, e quando avanzai verso Riker sentii tutti gli occhi puntati su di me. So che dev'essere stato uno scherzo dei nervi, o del buio, ma mi sembrò più alto di prima, e nell'avanzare con passo fermo teneva le piccole mani tese sui fianchi. Mi fermai davanti a lui. Per un attimo mi guardò con irritazione e confusione. Poi sulla faccia tesa aleggiò il sorriso senza allegria che conoscevo. — Il nostro droghiere — disse, con voce secca ma fragile. Deglutii, sforzandomi di sciogliere il nodo freddo che mi stringeva la gola. — Figliolo, stai facendo un bruttissimo errore. Veramente brutto.
— Togliti dalla mia strada — replicò brevemente, con un'occhiata al saloon dietro di me. — Figliolo, credimi. Barth Selkirk è troppo duro per... Lo sguardo che posò su di me, illuminato di riflesso dalle luci del saloon, era azzurro, freddo e senza vita. Non riuscii a continuare, e senza una parola mi feci da parte per lasciarlo passare. Quando un uomo vede negli occhi di un altro uomo l'implacabile decisione che avevo visto in Riker, deve togliersi di mezzo. Non ci sono parole che possano fermare un uomo come quello. Mi guardò un momento ancora, poi raddrizzò le spalle e riprese a camminare. Non si fermò finché non ebbe raggiunto il cancelletto del Nellie Gold. Mi avvicinai, scrutando le luci e le ombre della sua faccia rivelate dall'illuminazione interna. E mi sembrò che per un attimo la maschera crudele che portava sul volto cedesse il posto al puro terrore. Ma fu solo un attimo, non potei esserne sicuro. All'improvviso gli occhi di Riker si accesero, la bocca sottile si strinse, e con un lungo passo il giovane entrò nel saloon. All'interno regnava il silenzio, il più completo, palpabile silenzio. Mi avvicinai alle porte cautamente e mi sembrò che i tacchi facessero un rumore infernale. Il silenzio fu rotto dal fruscio e dallo scalpiccio tipici dei due avversali che prendono le distanze. Guardai con prudenza. Riker mi volgeva la schiena, la faccia rivolta al banco. Di fronte a lui era rimasto un solo uomo, Barth Selkirk. Era alto, e sembrava ancora più alto per via del vestito nero. Aveva capelli lunghi e biondi che piovevano a riccioli sotto il cappello a falda larga; la pistola gli pendeva bassa sul fianco destro, il calcio rovesciato e la fondina legata strettamente alla coscia. La faccia era lunga e abbronzata, gli occhi azzurro-cielo come quelli di Riker, e la bocca altrettanto immobile sotto i baffi ben curati. Non ho mai visto Hickok, quello di Abilene, ma ho sentito dire che Selkirk poteva essere il suo gemello. Mentre i due rivali si studiavano, gli altri uomini presenti nella stanza cessarono virtualmente di esistere: il respiro paralizzato, i corpi pietrificati, solo gli occhi continuavano a spostarsi da un pistolero all'altro. Pareva una sala di statue, tale era il silenzio con cui ognuno seguiva la scena.
Poi il petto di Selkirk si allargò per prender fiato, e la sua voce ruppe il silenzio con l'effetto di una martellata. — E allora? — disse, abbassando il piede dalla ringhiera del banco. Un attimo di pausa, poi un grido di meraviglia che parve salire dalla gola di un sol uomo invece che da tutti i presenti. Le dita di Selkirk, che a stento avevano sfiorato il calcio della Colt, si erano pietrificate: a bocca aperta fissava ora le due pistole nelle mani di Riker. — Tu maledetto... — cominciò, ma il resto si perse nel fragore assordante degli spari. Il corpo di Selkirk fu scaraventato verso il banco come se l'avesse colpito una mazza. Si aggrappò a esso per un momento, il viso stravolto dalla sorpresa, e allora cantò la seconda pistola di Riker. Selkirk si afflosciò in un mucchio scomposto. Guardai stupefatto il cadavere, mentre il sangue usciva a fiotti dal petto dilaniato. Poi i miei occhi si posarono su Riker, ancora avvolto dal fumo, e vidi che si rivolgeva agli uomini. Deglutì convulsamente, e a dispetto dei suoi sforzi la voce tremò. — Mi chiamo Riker. Ricordatevelo: Riker. Indietreggiò nervosamente, rinfoderando la pistola che teneva con la sinistra e puntando la destra sulla folla dei ruffiani. Poi uscì dal saloon, la faccia stravolta da un misto di paura ed esultanza. E vide me davanti alla porta. — Hai visto? — fece, con voce tremante. — Hai visto? Piegò la testa di lato e dette un'occhiata all'interno del saloon, le mani veloci come uccelli sul calcio delle pistole. Ma non notò nulla che lo preoccupasse, o così gli parve. Posò di nuovo lo sguardo su di me. Aveva gli occhi di un esaltato, con le pupille dilatate. — Quelli non mi dimenticheranno, vero? — Deglutì. — Non dimenticheranno il mio nome. Lo temeranno. Fece per incamminarsi, poi si piegò in due e s'appoggiò, come vinto da un'improvvisa debolezza, alla parete dei saloon. Il petto si allargava come un mantice in cerca di fiato, ma l'aria sembrava sfuggirgli, come stesse soffocando. Deglutì a fatica. — Hai visto? — chiese di nuovo, come se avesse un disperato bisogno di condividere il suo trionfo assassino. — Non ha fatto in tempo a estrarre... nemmeno a estrarre. — Il petto era squassato dalle difficoltà di respiro. — Così si fa — ansimò. — Così si fa. Gliel'ho fatta vedere. Gli ho fatto vedere com'è che si fa. Sono venuto dalla città e gliel'ho
fatta vedere. E ho preso il migliore che avessero, il migliore. — La gola si muoveva con tale rapidità che pareva di sentirla raschiare. — Gliel'ho fatta vedere. Si guardò intorno, sbattendo gli occhi. — Ora io... Negli occhi apparve la paura, come se un esercito di killer silenziosi l'avesse appena circondato. I muscoli della faccia si allentarono e con uno sforzo cercò di stringere la bocca tremante. — Togliti di mezzo — ordinò, spingendomi di lato. Lo seguii con lo sguardo mentre si avviava all'hotel; ogni tanto guardava di lato o di sopra la spalla, con bruschi movimenti della testa. Le mani sfioravano le pistole. Cercavo di capirlo, ma non ci riuscivo. Era venuto da una grande città, questo lo sapevo. Una città fra le tante l'aveva generato, poi era venuto a Grantville con la deliberata intenzione di trovare il pistolero più veloce e ucciderlo. Mi sembrava una cosa senza senso. Un desiderio inutile. Che cosa avrebbe fatto, adesso? Mi aveva detto che si sarebbe trattenuto a Grantville poco tempo: morto Selkirk, quel tempo era scaduto. Dove sarebbe andato, il giovane Riker? A ripetere la scena in un'altra città? E poi in un'altra, e un'altra? Il giovane cittadino che arriva, cambia aspetto, chiede chi è il più veloce pistolero nei paraggi e lo sfida...? Sarebbe andata avanti per sempre? Ma quanto poteva durare quella follia? Quanto, prima che incontrasse uno più svelto di lui? Avevo il cervello pieno di domande. Una, soprattutto, mi tormentava: Perché? Perché si comportava in quella maniera pazzesca? Quale calcolata follia l'aveva portato, dalla metropoli, a cercare la morte in terra straniera? Mentre così m'interrogavo, gli uomini di Selkirk portarono fuori il cadavere del loro dio. Era inzuppato di sangue e lo issarono a cavallo. Io ero così vicino che sentivo i capelli di Selkirk frusciare nel vento, e il sangue zampillare nella strada buia. Poi i sei uomini guardarono il Blue Buck Hotel, e nei loro occhi lampeggiò la vendetta. Parlavano a bassa voce, tanto che non riuscii a capire una parola, ma dal tono e dal modo in cui guardavano l'hotel capii quale fosse l'intenzione. Mi ritirai nell'ombra, temendo che mi vedessero e che andassero a parlare altrove. Li spiavo dalle tenebre, e in un modo o nell'altro indovinai perfettamente i loro piani, anche prima che uno di essi battesse la mano sulla pistola e dicesse ai compagni: — Andiamo. Ora tacevano, e si muovevano in silenzio verso l'hotel. Lo guardavano intensamente.
Poi di nuovo un pensiero sciocco; dev'essere un marchio di fabbrica, a una certa età. Uscii dalle ombre e girai intorno al saloon, imboccando il vicolo che separa il Nellie Gold dal negozio di selle di Pike. Passavo dall'oscurità più fitta ai rettangoli di luce formati dalle finestre del saloon, e correvo. Non avevo idea del perché corressi, ma un unico impulso dominava i miei pensieri: dovevo avvertirlo. Ero quasi senza fiato, e le code del soprabito battevano furiosamente contro le mie gambe; a ogni passo mi sembrava di ricevere un pugno di ferro in mezzo al petto, e il rumore degli stivali ne sembrava l'eco. Non so come, ma riuscii ad arrivare prima di loro: forse perché quelli si muovevano furtivamente e invece io correvo lungo Vera Street, la via che portava sul retro dell'hotel. Entrai nell'albergo deserto e vidi che al banco era seduto Maxwell Tarrant. Vedendomi arrivare di corsa alzò gli occhi, sorpreso. — Oh, signor Callaway. Che cosa...? — In che stanza si trova Riker? — ansimai. — Riker? — fece il giovane Tarrant. — Svelto, ragazzo! — gridai, dando un'occhiata all'ingresso principale. Sul portico risuonava un rumore di passi. — Stanza 27 — disse Tarrant. Lo supplicai di trattenere un momento gli uomini che fossero venuti a cercare Riker e volai su per le scale. Ero al secondo piano quando li sentii nell'atrio. Feci di corsa il corridoio in penombra e picchiai alla fragile porta della stanza 27. All'interno sentii un fruscio: senza stivali, ma con le calze, Riker si avvicinò alla porta e domandò chi era. Aveva una voce debole, tremante. — Sono Callaway, il droghiere. Fammi entrare, ragazzo, sei in pericolo. — Vattene di qui — mi ordinò, e la sua voce era ancora più sottile. — Che Dio t'aiuti, ragazzo! Gli uomini di Selkirk sono venuti a cercarti. Emise un gemito, rauco e involontario. — No! E quanti... — Cercò di riprendere fiato. — ...Quanti sono? — Sei — risposi, e dall'altra parte mi parve di sentire un singhiozzo. — Non è leale! — scoppiò, in un misto di rabbia e di paura. — Non è leale, sei contro uno! Maledizione, no! Rimasi immobile per un altro momento, fissando la porta, e immaginai il ragazzo sconvolto dall'altra parte che, col cuore in gola e la morte a pochi passi, non riusciva a pensare ad altro che a un astratto principio morale. Lealtà: ero sicuro che i sei assassini non ne avevano mai sentito parlare. — Che devo fare? — mi chiese all'improvviso, con tono implorante.
Non lo sapevo, e i sei cominciarono a salire le scale. All'età che avevo, povera cosa inutile e spaventata, non mi restò che allontanarmi nel corridoio e nascondermi nell'ombra. Fu come un sogno vedere quei sei emergere dal basso, con la faccia truce, il passo pesante, nel sinistro tintinnio degli speroni. E in mano, le Colt. No, non un sogno, un incubo. Sapendo che si dirigevano alla stanza di Riker, la stanza in cui Riker aspettava, provai un nodo gelido allo stomaco. Non ero in grado di aiutarlo, e non mi ero mai sentito tanto inutile. Per una ragione che ignoro, immaginai che in quella stanza ci fosse il mio Lew, il mio Lew che aspettava di essere ammazzato. Cominciai a tremare e non riuscii a smettere. Gli stivali si fermarono. I sei uomini circondarono la porta, tre da una parte e tre dall'altra. Sei uomini giovani, dalle facce spietate e le mani bianche, contratte sulle pistole. Poi uno di essi ruppe il silenzio: — Vieni fuori, yankee bastardo! — Era Thomas Ashwood, che una volta, quand'era bambino, avevo visto giocare per le strade di Grantville. Quel bambino era diventato un uomo bacato, un assassino con la pistola in pugno e nessun'altra intenzione che quella di uccidere e vendicarsi. Per un attimo ci fu silenzio. — Ho detto vieni fuori! — ripeté Ashwood, poi scartò di lato e l'hotel parve tremare nel fragore degli spari. Le pallottole crivellarono la parete del corridoio, un riquadro della porta volò in pezzi. Ashwood sparò due volte nella serratura, e per due volte il lampo della pistola gli illuminò la faccia come una folgore. Nelle orecchie avevo ancora il rumore delle esplosioni, e in quel momento una pistola rispose al fuoco dall'interno della stanza. Ashwood abbatté con un calcio la porta frantumata e scomparve all'interno. Lo scambio di pistolettate che seguì mi inchiodò al muro. Poi, nel silenzio calato all'improvviso, sentii il giovane Riker con voce lamentosa: — Non spararmi più! La successiva esplosione mi colpì come un calcio allo stomaco. Mi rannicchiai contro la parete, senza fiato, e uno dopo l'altro gli uomini entrarono nella stanza e spararono. Era tutto finito in meno di un minuto. Mentre mi appoggiavo al muro, incapace di tenermi in piedi, vidi due uomini di Selkirk aiutare Ashwood a uscire dalla stanza. Era stato ferito, e gli altri tre venivano dietro e parlot-
tavano fra loro eccitati. Uno disse: — L'abbiamo conciato per le feste. In un attimo il rumore degli stivali si dileguò e io rimasi solo nel corridoio vuoto, intento a fissare la nuvola di fumo che aleggiava dalla stanza. Non ricordo per quanto tempo rimasi immobile, lo stomaco serrato in una morsa e le mani ciondoloni, gelate lungo i fianchi. Solo quando apparve il giovane Tarrant, bianco in volto e spaventato in cima alle scale, trovai la forza di attraversare il corridoio e di andare nella stanza di Riker. Era steso nel suo sangue. Gli occhi sbarrati dal dolore fissavano il soffitto senza vederlo, le pistole erano ancora fumanti. Aveva indossato di nuovo l'abito a scacchi, la camicia bianca e le calze nere. Era grottesco vederlo steso a quel modo, gli abiti di città chiazzati di sangue e le lunghe pistole nelle mani bianche, rigide. — Oh, Dio — fece il giovane Tarrant in un sussurro. — Ma perché l'hanno ucciso? Scossi la testa senza dir niente. Dissi al giovane Tarrant di andare dal becchino e mi offrii di pagare le spese. Fu molto lieto di allontanarsi. Sedetti sul letto, perché mi sentivo stanco. Guardai la valigia del giovane Riker, era aperta, e all'intero vidi camicie e biancheria, cravatte e calze. Fu nella valigia che trovai i ritagli. E il diario. I ritagli provenivano da riviste e giornali del Nord: parlavano di Hickok, Longley, Hardin e altri famosi pistoleri delle nostre terre. Certe frasi erano sottolineate a matita, per esempio: WILD BILL PORTA DI SOLITO DUE PISTOLE A CANNA CORTA SOTTO IL SOPRABITO e PARECCHI UOMINI HANNO PERSO LA VITA A CAUSA DELLA COSIDDETTA "SCIVOLATA", UN TRUCCO APPLICATO DA HARDIN. Il diario completava il quadro: parlava di una mente distorta che aveva eletto a propri idoli un branco di assassini. Parlava di un ragazzo cresciuto in città che aveva acquistato un paio di pistole e si era allenato nella doppia arte di estrarle alla massima velocità e di colpire, nel contempo, qualsiasi bersaglio. Parlava della progettata odissea che avrebbe dovuto fare il pistolero più famoso del Southwest. Alla fine spiccava la lista delle città che il giovanotto si era proposto di conquistare. La nostra era la prima. Titolo originale: The Conqueror. (1954) UN SORSO D'ACQUA
Il film finì all'una e dodici del mattino. Quando uscirono dal cinema, il caldo di agosto era ancora opprimente. — Ho sete — disse George. — Perché non hai bevuto prima che uscissimo? — chiese Eleanor. — Perché lì l'acqua fa schifo. Ragazzi, che sete — Che hai mangiato? — domandò lei. — Popcorn salati. — E...? — E sto crepando. — Che altro hai mangiato, coi popcorn? — Quei cioccolatini gelati ripieni. — Che altro? — Un lecca-lecca. — E ti meravigli se hai sete. Lui si leccò le labbra. — Capisco come devono sentirsi, in quei film ambientati nel deserto... — Arriveremo presto all'oasi — disse Eleanor. L'avviso era attaccato alla porta. Quando Eleanor lo lesse, scoppiò a ridere. — Be', devi ammettere che ci ha avvertiti. Sarà un anno che ci lamentiamo delle tubature. — E lui che fa, chiude l'acqua in una notte come questa? — George aprì la porta e la spinse con irritazione. Andò in cucina e accese la luce. Provò ad aprire i rubinetti, ma invano. — Oh, Cristo! — Uscì dalla cucina, furioso. Prese l'avviso dalle mani di lei e lo rilesse: L'ACQUA MANCHERÀ FINO A DOMANI POMERIGGIO. — Ma che bello! — Dev'esserci qualcosa da bere — disse Eleanor. Andò in cucina e aprì il frigorifero. George la seguì. — Latte in polvere. — Vai avanti. — Succo d'arancia. Oh no, è finito tutto a colazione. — Dammi qualche cubetto di ghiaccio,allora. Lei estrasse il contenitore, poi lo guardò con aria colpevole. — Avrei giurato... — disse. — C'è della frutta?
— Dovevo far provvista domani. — Ma che bello — commentò George. — Veramente bello. Lei lo guardò contrita. — Be'... — Be', cosa? — Credo che dovrai uscire e andare a bere qualcosa. — Dove? — In un bar... — Oh, Cristo. — Sospirò. "Vediamo" pensò dirigendosi verso l'arteria principale. "Dov'è un bar da queste parti?" Ne ricordò uno e annuì. — Oh, ragazzi! — Accelerò l'andatura. Se non era un record questo: uscir di casa all'una e mezzo di un mattino feriale in cerca di un sorso d'acqua. Respirò profondamente e attraversò la strada. Strano, pensò, come gli altri aspetti della vita venissero oscurati dal desiderio d'acqua. Ci si dimentica quanto è importante l'acqua. Ci vuole un episodio del genere per rammentarlo. Sospirò, camminando sempre più in fretta. Gli sembrava di non avere più saliva. Si leccò le labbra. Ragazzi, se faceva caldo! Raggiunse l'arteria principale. Adesso, dov'era il bar? L'isolato era questo, giusto? No, non questo, il prossimo. Cominciò a correre. "Ragazzi" pensò "eccomi che arrivo. Preparate l'acqua." Immaginò di entrare nel bar e di dire al barista: "Amico, mi è successa una cosa veramente stupida! Arrivo a casa morto di sete e che ti scopro? Che il portiere ha chiuso l'acqua! Già, in una notte come questa!". Parlando, naturalmente, avrebbe bevuto. Grandi bicchieri d'acqua fredda, limpida come cristallo, coi cubetti di ghiaccio che galleggiavano sul bordo. Quel tipo di cubetti con un forellino in mezzo, sei o sette, tintinnanti contro il bicchiere gelato. E l'acqua fredda, umida, che scendeva in gola... Il bar era chiuso. Rimase paralizzato. Chiuso? Così presto? Ma che stupidaggine! Guardò l'insegna al neon e pensò: "Ma perché la lasciano accesa, se il posto è chiuso?". Era furibondo. Brontolò e riprese la marcia. Uno di quei bar doveva essere aperto. Cominciò a correre, poi rallentò il passo. L'unico rumore che riusciva a udire era quello dei suoi passi.
Pochi isolati più avanti c'era un altro bar, la cui insegna al neon proclamava: LA CAPANNA IRLANDESE. C'era stato diversi anni fa, ricordava ancora il barista che gli porgeva un boccale di birra gelata. Cominciò a correre di nuovo, il caldo che lo colpiva con ali di fuoco. "Ehi, barista, un bel bicchierone d'acqua!" Ma la Capanna Irlandese era chiusa. Si fermò un attimo ansimante, poi vide una cascata. Era la pubblicità di una birra: DAL PAESE DELLE CASCATE... Un trucchetto elettrico la faceva sembrare vera. Come se, nella vetrina, ci fosse un'autentica cascata. Fresche onde azzurre si abbattevano sulle rocce sollevando nuvole di spuma. George si sentì prossimo a una crisi di pianto. Si girò e pensò: "Non essere ridicolo. Berrai. Ma non perdere tempo davanti a una stupida cascata finta". Guardò la strada da una parte e dall'altra. In distanza vide un filobus e pensò di salirvi: là, forse, avrebbero saputo dirgli dove trovare un bicchier d'acqua. Oh, assurdo. Stava facendo un dramma per una sciocchezza. Non poteva avere tanta sete. Dopotutto, aveva mangiato solo... No, non voleva pensarci. Cercò di concentrarsi sul problema dell'acqua, ma la mente, ormai libera di torturarlo, lo fece riandare al sapore dei popcorn, e a quant'erano salati e grassi. Anche il sapore dei bonbon tornava ad affliggerlo: vero che erano freddi, ma sopra erano coperti di dolce, viscido cioccolato, e il cioccolato gli aveva asciugato la gola. — Finiscila — mormorò. Poi c'era stato il lecca-lecca. Uno di quegli affari zuccherosi con le nocciole e il caramello, e cioccolato, altro cioccolato che si fondeva nella sua bocca. — Finiscila! — Ma il suo grido venne soffocato dal filobus, che in quel momento lo superava. Guardò la gente seduta all'interno: che gliene importava, a quelli, se lui moriva di sete? Rabbrividì, in un guizzo di pura emotività. Così è la vita: i piccoli aspetti dell'esistenza quotidiana formano, potenzialmente, una costante minaccia. Basta la combinazione di pochi particolari, non occorre andare a pescare eventi sensazionali; basta una soffocante notte d'agosto, una busta di popcom salati, dei bonbon, un lecca-lecca e il fatto che il portiere ti abbia chiuso l'acqua. Piccoli, terribili eventi quotidiani che... Si fermò, il fiato mozzo dall'eccitazione. All'altezza del prossimo isolato
c'era una stazione di servizio, e là c'era senz'altro la macchina della CocaCola con annessa fontanella. Si mise a correre, senza perdere di vista la stazione. La macchina della Coca-Cola c'era! Un ultimo sprint, era quasi arrivato. Entro pochi secondi avrebbe bevuto e quella maledetta avventura sarebbe stata dimenticata. Superò le pompe silenziose e si fermò davanti alla fontanella. Schiacciò il pulsante con dita tremanti. Niente acqua. Fissò la fontanella come se temesse di avere le traveggole. No, così non andava. Schiacciò il pulsante una seconda volta. Niente. Di nuovo. Non c'era acqua. — No! — urlò, e la sua voce echeggiò nella stazione deserta. Colpì il pulsante con un pugno e si fece male. E all'improvviso, incredibilmente, cominciò a piangere. Cercò di controllarsi e pensò: "Non fare lo sciocco. Tra poco riuscirai a bere". Si guardò intorno. In fondo alla strada c'era il cinema in cui era andato con Eleanor. Lo guardò con lampi malevoli, poi gli venne un'idea e si rilassò: e se ci fosse stato qualcuno, là dentro? Se la cassiera, o l'operatore, o il proprietario, fossero ancora intenti a chiudere? Attraversò di corsa la strada, eccitato, balzò sul marciapiede e passò sotto la pensilina del cinema. Cominciò a picchiare sulle porte di vetro, ma erano tutte chiuse. Non rispose nessuno. Guardò la fontanella all'interno. Immaginò se stesso che si chinava e girava la chiavetta, ed ecco l'acqua fresca gli gorgogliava in gola. Una furia malefica, terribile, si impadronì di lui. La gente che dirigeva quello sporco cinema lo voleva assetare. — Sì, voi! — gridò, e la sua voce rimbombò sotto la volta cavernosa. All'improvviso sferrò un calcio alla porta e gridò di dolore. Si girò e attraversò il pavimento di marmo. "Voglio bere!" pensò furibondo. "Io voglio bere!" Tornato sul marciapiede, coi denti stretti dalla rabbia e il respiro affannoso, guardò la strada silenziosa da una parte e dall'altra. E adesso? Doveva bere un sorso d'acqua, doveva. Ma tutto era chiuso, sprangato, sbarrato. Girò la testa in tutte le direzioni, il fiato corto. Abitava in una città che nuotava nell'acqua e non era in grado di procurarsi da bere! Già, non era in grado di procurarsi da bere! E se avesse bussato alla porta di qualcuno? E se avesse suonato un campanello e chiesto un bicchier d'acqua? Sì, questo doveva fare, questo doveva fare. Si incamminò. Faceva caldo, maledettamente caldo! La sete lo
bruciava, lo sfiancava, gli annebbiava il cervello. E all'improvviso esplose in lui la paura. Cominciò a correre pazzamente, senza direzione. Acqua. Doveva bere un bicchier d'acqua prima che fosse troppo tardi. Sì, a questo si era ridotto: prima che fosse troppo tardi. Acqua. Acqua! Abbandonò l'arteria principale, ridotto a un pupazzo di stracci; aveva gli occhi sbarrati, la bocca aperta, le braccia come rami contorti. Il caldo lo avviluppava, lo essiccava, consumava i suoi umori e alla fine l'avrebbe trasformato in un ammasso scricchiolante di cenere! Poi si arrestò, incerto se credere ai propri occhi. Un isolato più avanti qualcuno aveva lasciato aperto un aspersorio. Alla luce dei lampioni vedeva distintamente un velo d'acqua che innaffiava il prato sottostante. Le gambe si mossero prima lentamente, poi più in fretta. Ora correva, borbottando fra sé i suoni incoerenti ed eccitati che preludono alla risata del pazzo. Correva sempre più in fretta. Il mondo era scomparso: non esisteva più, non esisteva la gente, non esisteva l'universo, a parte l'aspersorio che dispensava il suo velo d'acqua fresca, fresca... Si tuffò negli spruzzi e scivolò sull'erba bagnata. Non tentò di rialzarsi. Si trascinò verso l'aspersorio mentre le gocce d'acqua gli rigavano la faccia come pioggia, gli riempivano la bocca aperta e scendevano deliziosamente nella gola. Barcollò verso casa con l'espressione paga dell'animale saziato. Giunto all'appartamento si tolse gli abiti bagnati, indossò il pigiama e s'infilò a letto. Si svegliò di soprassalto alle quattro e sedici per lo scoppio di un tuono. Si guardò intorno confuso, la mente ottusa dal sonno. Fuori, era un diluvio. Borbottò qualcosa, si mise in piedi e andò alla finestra. Il davanzale era coperto da un velo d'acqua. George abbassò la finestra e tornò a letto. — Maledetta pioggia — imprecò. Titolo originale: A Drink of Water. (1967) UN UOMO SCOMPARSO Il locale, una scatola di legno e mattoni con annesso capannone, si trovava alla periferia della città. In un primo momento lo superarono e conti-
nuarono per la loro strada. Ma alla prospettiva del deserto, e in quel calore abbacinante, Bob disse: — Forse è meglio se ci fermiamo. Dio sa quanto è distante il prossimo. — Già, forse è meglio — convenne Jean senza entusiasmo. — Magari è un lurido buco, ma dobbiamo mangiare qualcosa. Sono più di cinque ore da che abbiamo fatto colazione. — Va bene. Bob si portò al margine della strada, frenò e si guardò alle spalle. Non c'era nessuna macchina in vista: fece una rapida curva a U e puntò verso il locale, davanti al quale si fermò. — Dio, muoio di fame. — Anch'io — disse Jean. — Morivo di fame anche ieri, prima che la cameriera portasse quella robaccia... Bob si strinse nelle spalle. — Che possiamo fare? Non vorrai morire sul serio e lasciare le tua ossa bianche nel deserto. Lei fece una smorfia e uscirono dalla macchina. — Ossa bianche... Camminare al sole equivaleva a mettersi sotto una cascata torrida. Si affrettarono verso il locale: la terra, sotto i sandali, scottava. — Fa veramente caldo — osservò Jean, e Bob borbottò qualcosa. Quando la spinsero, la porta con zanzariera emise una specie di lamento. Poi si richiuse, e si trovarono in un ambiente che sapeva di grasso e polvere. C'erano tre uomini, all'interno, e alzarono gli occhi su di loro. Uno, in tuta e berretto sporco, stava afflosciato in una specie di séparé e beveva birra; un altro sedeva su uno sgabello, al banco, intento a mangiare un sandwich e a bere birra. Il terzo, che stava dietro il bancone, li fissò da sopra il giornale; portava una camicia bianca a maniche corte e pantaloni di tela bianca spiegazzati. — Ed eccoci al Ritz-Carleton — disse Bob. — Ah-ah — fece lei. Si diressero al banco e sedettero su due sgabelli. I tre ancora li guardavano. — Il nostro arrivo dev'essere un avvenimento — osservò Bob a bassa voce. — Siamo celebrità — disse Jean. L'uomo in pantaloni bianchi prese un menù da dietro un elaborato portatovaglioli e lo allungò sul banco. Bob lo aprì e cominciarono a scorrerlo. — Avete tè ghiacciato? — chiese Bob.
L'uomo scosse la testa: — No. — Limonata? — tentò Jean. L'uomo scosse la testa. Guardarono il menù di nuovo. — Ma cos'avete di freddo? — disse Bob. — Aranciata Hi-Li e Doctor Pepper — rispose l'altro con voce stanca. Bob si schiarì la gola. — Vorremmo dell'acqua, prima di ordinare. Siamo... L'uomo si allontanò e aprì il rubinetto. Riempì due bicchieri coperti di ditate e li depositò davanti alla coppia. L'acqua era sgocciolata sul bancone. Jean prese il suo bicchiere e ne assaggiò un sorso. Per poco non la risputò, tanto era calda e ferrosa; mise giù il bicchiere. — Più fresca non ce l'ha? — Siamo nel deserto, signora. Siamo già fortunati ad avere dell'acqua. Era un tipo sulla cinquantina, i capelli secchi color del ferro, con la scriminatura in mezzo. Il dorso delle mani era coperto di riccioletti di pelo nero, e al mignolo della mano destra portava un anello con una pietra rossa. Li guardò con occhi inespressivi e attese l'ordinazione. — Per me un sandwich con l'uovo fritto e pane di segala tostato. — Non abbiamo pane tostato — disse l'uomo. — Va bene, pane di segala semplice. — Non abbiamo pane di segala. Bob alzò gli occhi. — Che specie di pane avete? — Bianco. Bob si strinse nelle spalle. — E allora bianco. E tu, tesoro? Lo sguardo piatto dell'uomo si spostò su Jean. — Non lo so — disse lei. Guardò l'uomo e poi: — Deciderò mentre prepara per mio marito. L'uomo la guardò un attimo ancora, poi andò via e si diresse ai fornelli. — È spaventoso — disse Jean. — Lo so, cara — ammise Bob. — Ma che possiamo fare? Non sappiamo quant'è lontana la prossima città. Jean respinse il bicchiere con le ditate e scese dallo sgabello. — Vado a rinfrescarmi un po'. Forse dopo mi verrà appetito. — Buona idea — disse Bob. Dopo un attimo anche lui si diresse alla toilette. Aveva messo la mano sulla maniglia quando il tizio che mangiava al banco disse: — Quella lì è chiusa, mister. Bob spinse la porta: — No, non lo è. — Ed entrò nel gabinetto per gli
uomini. Jean uscì dalla toilette e tornò al banco. Bob non c'era. "Sarà andato a rinfrescarsi anche lui" pensò. Il tizio che mangiava era andato via, e l'uomo in pantaloni bianchi si allontanò dai fornelli e chiese: — Vuole ordinare, adesso? — Cosa? Oh. — Prese il menù e gli dette un'occhiata. — Prendo anch'io un sandwich all'uovo. L'uomo tornò ai fornelli e preparò un altro uovo. Jean sentiva lo sfrigolio delle uova e desiderava che Bob fosse con lei. Non era piacevole sedere da sola in quel posto squallido e soffocante. Senza rendersene conto prese il bicchiere d'acqua e bevve un sorso. Il sapore era così sgradevole che fece una smorfia e lo mise da parte. Passò un minuto. L'uomo nel séparé la guardava, e la gola di Jean si contrasse; cominciò a tamburellare le dita nervosamente, lo stomaco chiuso, e quando una mosca si posò sulla mano destra, Jean trasalì. Poi la porta del gabinetto degli uomini si aprì e un improvviso senso di sollievo la pervase. Ma durò poco. L'uomo non era Bob. Il cuore cominciò a batterle furiosamente; il tizio che mangiava al banco tornò al suo posto per finire il sandwich. Jean si sentì guardata e abbassò gli occhi, poi, impulsivamente, scese dallo sgabello e andò alla toilette. Finse di esaminare le cartoline scolorite che facevano mostra di sé in una rastrelliera, ma in realtà teneva d'occhio la porta brunastra su cui era dipinta la scritta UOMINI. Passò un altro minuto, e Jean si rese conto che cominciavano a tremarle le mani. Respirò a fondo, rabbrividendo, mentre l'impazienza con cui teneva d'occhio la porta aumentava sempre più. L'uomo nel séparé si alzò e attraversò il locale con passo strascicato. Portava il cappello all'indietro e le scarpe tacevano parecchio rumore. Quando le passò accanto, Jean si irrigidì, stringendo in mano una cartolina. La porta della toilette si aprì e si chiuse. Silenzio. Jean fissava la porta, cercando di mantenere il controllo. La gola si mosse di nuovo, e con un sospiro rimise a posto la cartolina. — Il sandwich è pronto — disse l'uomo al banco. Al suono di quella voce, Jean trasalì. Fece un cenno col capo ma rimase dov'era. La porta della toilette si aprì di nuovo e lei lasciò andare il fiato. Stava
già per farsi avanti, d'impulso, quando uscì l'altro uomo, la faccia florida e sudata. Jean si scansò, poi disse: — Scusi. L'altro continuò a camminare e Jean gli corse dietro. Quando gli toccò il braccio, tremò: il tessuto era bollente, umido di sudore. — Mi scusi. L'uomo si girò e la guardò con occhi inespressivi. Aveva un alito da far rivoltare lo stomaco. — Ha visto mio... mio marito, là dentro? — Eh? Lei strinse i pugni lungo i fianchi. — Mio marito è nel bagno? L'altro la guardò come se non capisse, poi fece: — No, signora. — E se ne andò per i fatti suoi. Faceva veramente caldo, ma a Jean sembrava di essere immersa in un bagno ghiacciato. Osservò istupidita l'uomo che prendeva posto nel séparé, poi corse al banco e interpellò il secondo avventore. In quel momento era intento a tracannarsi una birra. L'uomo mise giù la bottiglia e la guardò. — Mi scusi, ma prima lei non ha visto mio marito? Non era nella toilette? — Suo marito? Lei si morse il labbro. — Sì, mio marito. L'avrà visto quando siamo entrati. Non era nella toilette quando ci è andato lei? — Non ricordo, signora. — Vuol dire che non l'ha visto là dentro? — Non ricordo di averlo visto. — Oh, ma è... ma è ridicolo. — Aveva paura ed era furibonda al tempo stesso. — Dev'esserci per forza. Per un attimo si guardarono. L'uomo non parlava, aveva un viso inespressivo. — È proprio sicuro? — chiese lei. — Signora, non ho motivo di mentirle. — Va bene, grazie. Sedette rigida sullo sgabello e fissò le uova e i frullati. Cercava disperatamente una soluzione, e pensò: "Questo è uno scherzo di Bob". Ma non era tipo da scherzi, e inoltre non le sembrava il posto adatto. Eppure, non c'era altra spiegazione. Nel bagno doveva esserci un'altra porta e... No, non era uno scherzo. Che stupida a non averci pensato! Bob non era
andato in bagno, ma siccome quel posto era orribile era uscito e aveva deciso di aspettarla in macchina. Corse alla porta, sentendosi una sciocca. Potevano anche dirglielo, che era uscito... Chissà i commenti di Bob. Strano, ma a volte si perde la calma per una cosa da nulla. Nell'aprire la porta a zanzariera si domandò se Bob avesse pagato. Certo sì, e comunque il proprietario non le venne dietro. Si avviò alla macchina con gli occhi quasi completamente chiusi: il riverbero sul parabrezza era accecante. Le sue assurde paure la fecero sorridere. — Bob, figurati che... Una paura irragionevole le strinse un nodo dentro. Il cuore batteva forte e la macchina era vuota. Ebbe voglia di urlare. — Bob... Corse sul fianco del locale in cerca di un'altra uscita. Forse il gabinetto era troppo sporco; forse Bob aveva imboccato una porta laterale ed era finito nel capannone annesso. Guardò da una delle finestre del capannone, ma era ostruita da un foglio di carta impeciata. Corse sul retro del locale e non vide che il grande, vuoto deserto. Allora si girò e guardò il terreno in cerca di impronte, ma il suolo era duro come smalto cotto. Un lamento le salì alla gola e capì che entro pochi secondi avrebbe cominciato a piangere. — Bob — mormorò. — Bob, dove sei? Nel silenzio si aprì la porta a zanzariera. Lei cominciò a correre, eccitata, lungo il fianco del locale. Il cuore le batteva all'impazzata e il caldo l'avvolgeva in torride ondate. Si fermò all'estremità dell'edificio. L'uomo con cui aveva parlato al banco guardava nella macchina. Era un tipo piccolino, sui quaranta, con un cappello floscio e una camicia verde a strisce. I calzoni erano tenuti da bretelle nere, ed erano macchiati di grasso. Come l'altro avventore, aveva scarpe pesanti. Lei fece un passo e il sandalo frusciò sulla terra secca. Immediatamente la faccia magra e barbuta dell'uomo la fissò. Aveva occhi azzurro pallido che spiccavano come macchie di latte sulla faccia di color del cuoio. L'uomo sorrise, come se niente fosse. — Pensavo che fosse venuta a cercare suo marito. In macchina, magari. — Si toccò la tesa del cappello sporco e tornò nel caffè. — Lei... — cominciò Jean, ma quando l'altro la guardò s'interruppe. — Signora? — Lei è sicuro che non fosse nella toilette?
— Non c'era nessuno quando ci sono andato io. Entrò nel locale e la porta a zanzariera si chiuse. Jean rabbrividì al sole, la paura che scorreva sul corpo come acqua gelata. Finalmente si riprese. Doveva esserci una spiegazione. Cose del genere, semplicemente, non accadono. Tornò nel locale e si fermò risoluta davanti al bancone. L'uomo in pantaloni bianchi guardò di sopra il giornale. — Per favore, vuol controllare nella toilette per uomini? — chiese Jean. — La toilette? La rabbia assalì di nuovo Jean. — Sì, la toilette. So che mio marito è là dentro. — Signora, non c'era nessuno là dentro — disse l'uomo col cappello floscio. — Mi dispiace — replicò lei a denti stretti. — Ma mio marito non può essere scomparso. Quei due la innervosivano, la guardavano e non dicevano niente. — Allora vuol andare a dare un'occhiata o no? — Non riuscì a nascondere l'incrinatura nella propria voce. L'uomo in pantaloni bianchi dette un'occhiata a quello col cappello e storse la bocca. Jean chiuse i pugni dalla rabbia. Finalmente si mosse e lei lo seguì. L'uomo abbassò la maniglia di porcellana e aprì la porta della toilette; Jean trattenne il fiato. Lo stanzino era vuoto. — È soddisfatta, ora? — L'uomo sbatté la porta di colpo — Aspetti. Mi faccia guardare ancora. La bocca dell'altro si indurì. — Non ha visto che è vuoto? — E io voglio guardare di nuovo. — Signora, le dico... Jean spinse la porta, che batté contro il muro. — Là! — disse. — C'è un'altra porta! Sul fondo della stanza da bagno c'era effettivamente una porta. — Quella è chiusa da anni, signora — disse l'uomo. — E non si apre? — Non c'è ragione di aprirla. — E invece c'è. Mio marito è entrato qui dentro e non è più uscito. Vuol dire che è scomparso?
L'uomo la guardò cupamente, senza parlare. — Che cosa c'è dall'altra parte? — Niente. — Dà all'esterno? L'altro non rispose. — Allora? — Dà nel capannone, signora, un capannone che nessuno usa più da anni. — Aveva una voce irata, adesso. Jean fece qualche passo avanti e afferrò la maniglia. — Le ho detto che non si apre. — La voce dell'uomo era più acuta. — Signora? — Dietro di lei Jean sentì la voce querula del tizio col cappello. — In quel capannone non c'è altro che immondizia. Se vuole, ce la porto. Il suo tono non le piaceva. Jean si rese conto all'improvviso che nessuno di sua conoscenza sapeva dove lei si trovasse. Non c'era modo di cercarla, se... Uscì rapidamente dalla toilette. — Mi scusi — disse all'uomo col cappello. — Prima devo fare una telefonata. Si avviò rigidamente al telefono; il pensiero che la assalissero la fece rabbrividire, ma alzò la cornetta e constatò che mancava la linea. Aspettò un momento, poi si girò e fronteggiò i due uomini. — Funziona oppure no? — Chi ha intenzione... — cominciò l'uomo in calzoni bianchi, ma l'altro lo interruppe. — Deve girare la manovella, signora. — Aveva parlato lentamente, e l'altro gli lanciò un'occhiata. Quando si girò verso l'apparecchio, li sentì parlottare animatamente. Girò la manovella con dita tremanti. "E se mi saltano addosso?" Quel pensiero non l'abbandonava. — Sì? — disse una voce sottile all'altro capo del filo. Jean deglutì. — Vuol darmi il commissariato, per favore? — Il commissariato? — Sì, il... Abbassò la voce, nella speranza che i due non la sentissero. — Il commissariato — ripeté. — Ma qui non c'è, signora. Di nuovo ebbe voglia di urlare. — E a chi devo rivolgermi, allora?
— Probabilmente allo sceriffo. Jean chiuse gli occhi e si passò la lingua sulle labbra aride. — Mi dia lo sceriffo, allora. Si udì un rumore gracchiante, un segnale sordo e poi il rumore della cornetta sollevata. — Ufficio dello sceriffo. — Sceriffo, la prego, può venire a... — Un attimo, le chiamo lo sceriffo. Lo stomaco di Jean si irrigidì e i muscoli della gola si tesero. Mentre aspettava, sentì gli occhi dei due uomini puntati su di lei. Uno dei due si mosse e le sue spalle tremarono impercettibilmente. — Parla lo sceriffo. — Sceriffo, per favore, può venire al... Di colpo si rese conto che non sapeva il nome della località. Le labbra le tremavano, ma si voltò. Quando vide i due uomini che la guardavano freddamente, il cuore perse un colpo. — Come si chiama, questo posto? — Perché vuole saperlo? — chiese l'uomo in pantaloni bianchi. "Non ha intenzione di dirmelo" pensò lei. "Vuole che esca a guardare l'insegna, così..." — Insomma, vuol... — cominciò, poi la voce dello sceriffo la fece trasalire. — Pronto? — Non riattacchi — disse Jean in fretta. — Mi trovo in un caffè alla periferia della città, al confine col deserto. È la periferia occidentale, credo. Ci sono venuta con mio marito e adesso lui è scomparso. Già, proprio così, scomparso. Le sue stesse parole la fecero rabbrividire. — Il posto si chiama Aquila Azzurra? — I... io non lo so — confessò Jean. — Non conosco il nome, e loro non vogliono dirmelo... Di nuovo s'interruppe, sopraffatta dal nervosismo. — Se è il nome che vuole sapere, signora, — intervenne il tipo col cappello floscio — è Aquila Azzurra. — Sì, sì — si affrettò a dire lei nella cornetta. — Sono all'Aquila Azzurra. — Arrivo subito — disse lo sceriffo. — Ma perché gliel'hai detto? — fece il tizio in pantaloni bianchi, arrabbiato.
L'altro rispose: — Figliolo, noi non vogliamo guai con lo sceriffo. E poi, non abbiamo fatto niente. Che abbiamo da temere, se viene? Per un lungo momento Jean tenne la fronte sul ricevitore e respirò profondamente. "Adesso non possono farmi niente" si ripeteva. "Ho parlato con lo sceriffo, quindi devono lasciarmi in pace." Sentì che uno dei due si dirigeva alla porta, ma non l'aprì. Era il tizio col cappello: teneva d'occhio l'esterno, mentre l'altro teneva d'occhio lei. — Cerca di crearmi dei guai? — chiese il gestore. — Non cerco di crearle guai, ma rivoglio mio marito. — Signora, noi non abbiamo niente a che fare con suo marito! L'uomo dal cappello si guardò intorno con un sorrisetto sardonico. — A quanto pare il maritino se l'è squagliata. — Non è così! — protestò Jean, furente. — Allora mi dica, dov'è la sua macchina? Una morsa le strinse lo stomaco. Jean corse alla porta con zanzariera e l'aprì. L'auto era scomparsa. — Bob! — Sembra proprio che l'abbia scaricata, signora — disse l'uomo. Lei gli lanciò un'occhiata di terrore, poi con un singhiozzo si girò e si diresse barcollando verso il portico. Rimase immobile nell'ombra, ma anche all'ombra faceva caldo come in un forno; piangeva e guardava il punto in cui avevano parcheggiato. La polvere non aveva ancora coperto le tracce delle ruote. Era ancora immobile nel portico quando arrivò l'auto azzurra e polverosa dello sceriffo. Frenò davanti al locale e ne uscì un uomo alto, rosso di capelli, in camicia e pantaloni grigi, con una stella metallica appuntata al petto. Jean si mosse rigidamente verso di lui. — È lei la signora che ha chiamato? — disse l'uomo. — Sono io. — Cosa c'è che non va? — Gliel'ho detto. Mio marito è scomparso. — Scomparso? Gli raccontò in breve quanto era successo. — Quindi lei non crede che se ne sia andato di sua iniziativa. — Non mi avrebbe abbandonata. Lo sceriffo annuì. — Va bene, continui. Quando ebbe finito, lo sceriffo annuì di nuovo ed entrarono nel locale.
Si diressero al banco. — Il marito della signora è andato alla toilette, Jim? — chiese lo sceriffo all'uomo in pantaloni bianchi. — Come faccio a saperlo? — replicò l'altro. — Stavo cucinando. Lo chieda a Mi, era dentro anche lui. — Indicò il tizio col cappello floscio. — E allora, Mi? — chiese lo sceriffo. — La signora non le ha detto che il marito se l'è squagliata in macchina? — Non è vero! — gridò Jean. — L'hai visto tu partire, Mi? — Ma certo che l'ho visto. Perché lo direi, sennò? — No. No. — Jean ripeteva quell'unica sillaba con un leggero scuotimento della testa, terrorizzata. — Perché non l'hai chiamato, se l'hai visto? — chiese lo sceriffo. — Questi non sono affari miei, sceriffo. Se un uomo vuole squagliarsela... — Non se l'è squagliata! L'uomo col cappello floscio si strinse nelle spalle, con un sogghigno. Lo sceriffo si rivolse a Jean: — Ha visto suo marito che entrava nella toilette? — Ma sì, certo, io... be', non l'ho visto entrare, ma... L'uomo col cappello cominciò a ridacchiare e lei s'interruppe, furiosa. — So che ci è andato — ricominciò. — Quando sono uscita dalla toilette delle donne sono andata fuori e ho visto la macchina vuota. Dove avrebbe potuto essere? Questo posto non è poi tanto grande. Nella toilette c'è una seconda porta. Lui dice che non viene usata da anni. — Indicò il gestore in pantaloni bianchi. — Ma io so che non è così. Conosco mio marito e so che non mi avrebbe lasciata qui. Non l'avrebbe fatto. Lo conosco, e non mi avrebbe abbandonata. — Sceriffo — disse l'uomo in pantaloni bianchi — quando la signora me lo ha chiesto, le ho mostrato la toilette: dentro non c'era nessuno e lei non ha nessun elemento per affermare che ci sia mai stato. Jean scrollò le spalle con irritazione: — È passato da quell'altra porta. — Signora, quella porta non viene usata da anni! — disse il gestore a voce alta. Jean si ritrasse. — Va bene, Jim, ma prenditela calma — consigliò lo sceriffo. — Ora, signora, se lei non ha visto suo marito entrare nella toilette, e se non ha visto qualcun altro alla guida della sua auto, non vedo a che scopo continuare questa discussione. — Cosa?
Non riusciva a credere alle proprie orecchie. Quell'uomo voleva dirle, per caso, che non c'era niente da fare? Per un attimo, al pensiero che lo sceriffo volesse difendere a tutti i costi i suoi concittadini contro la forestiera, una rabbia incontrollata la accecò. Poi si rese conto di essere sola, indifesa, e guardando lo sceriffo con grandi occhi terrorizzati da bambina si sentì mancare il respiro. — Le ripeto, signora, non vedo che cos'altro posso fare. — Così dicendo lo sceriffo scosse la testa. — Non può... — Jean fece un gesto timido. — Non può dare un'occhiata alla toilette, per cercare un indizio, qualcosa? Non può aprire quella seconda porta? Lo sceriffo le dette un'occhiata, poi si morse un labbro e si diresse alla toilette. Jean gli si tenne vicina, timorosa di restar sola coi due uomini. Mentre lo sceriffo provava la porta chiusa, lei esaminò la toilette. A un tratto l'uomo in pantaloni bianchi le venne vicino e Jean rabbrividì. — Le ho spiegato che non si apre — disse il gestore allo sceriffo. — È chiusa dall'esterno. Come poteva usarla, il marito? — Qualcuno può averla aperta da quell'altra parte — disse Jean con nervosismo. L'uomo fece un verso disgustato. — Si è visto qualcuno, nei paraggi? — domandò lo sceriffo a Jim. — Solo Sam McComas; è venuto a farsi un paio di birre, ma è tornato a casa verso... — Voglio dire nel capannone. — Sceriffo, sa benissimo che là non ci va mai nessuno. — E Lou il grosso? Jim rimase in silenzio per un attimo. Jean notò che deglutiva a fatica. — Non lo vedo da mesi, sceriffo. Se n'è andato al Nord. — Jim, datti da fare e apri questa porta — disse lo sceriffo. — Ma, sceriffo, là dentro non c'è niente. È solo un capannone vuoto. — Lo so, Jim, lo so. Voglio solo dare soddisfazione alla signora. Jean se ne stava impietrita e a occhi sbarrati, di nuovo in preda all'orribile sensazione di essere indifesa, di essere sola e senza aiuto. Le girava la testa, come se il mondo le sfuggisse da sotto i piedi. Teneva un pugno chiuso nell'altro, e le dita contratte erano bianche. Jim uscì dal locale per fare il giro del capannone. Si sbatté la porta alle spalle con un verso disgustato. — Venga qui, signora — disse lo sceriffo con voce morbida, in fretta.
Jean entrò nella toilette e il cuore cominciò a batterle più forte. — Riconosce questo? Guardò il lembo di stoffa nella mano dello sceriffo, e il fiato le mancò. — È il colore dei suoi calzoni! — Non così forte, signora. Non voglio che si accorgano che ho scoperto qualcosa. Si udì un rumore di passi nel locale principale. Lo sceriffo uscì dalla toilette. — Vai da qualche parte, Tom? — No, no, sceriffo — rispose l'uomo col cappello. — Venivo a dare un'occhiata per vedere come procede. — Mmm. Bene, Tom, ma adesso piazzati da qualche parte e rimanici per un po'. — Sicuro, sceriffo, sicuro — disse Tom a voce alta. — Non vado da nessuna parte. Nella toilette si sentì lo scatto di una serratura. Un attimo dopo, la porta interna era aperta. Lo sceriffo superò Jean e varcò la soglia: il capannone era scarsamente illuminato. — Non c'è una luce? — chiese a Jim. — Nossignore, non ho alcun motivo di tenercela. Questo posto è abbandonato. Lo sceriffo provò a girare un interruttore, ma non successe niente. — Non mi crede, sceriffo? — chiese Jim. — Ma certo. È che sono curioso. Jean stava sulla soglia e fissava il capannone che puzzava d'umido. — C'è un po' di disordine, vedo — disse lo sceriffo indicando un tavolo rovesciato e una sedia. — Le ripeto, sono anni che nessuno ci mette piede — disse Jim. — Non c'è ragione di far pulizia. — Anni, eh? — disse lo sceriffo fra sé mentre avanzava nel capannone. Jean lo seguiva con lo sguardo, e le dita contratte erano diventate insensibili alle estremità. Tremava. Perché non scoprivano dov'era suo marito? E com'era possibile che un pezzo dei suoi pantaloni fosse rimasto nella toilette? Strinse i denti, con forza. "Non devo urlare" ordinò a se stessa. "Non devo mettermi a urlare. So che sta bene. Ma certo, sta benissimo." Lo sceriffo si fermò e raccolse un pezzo di giornale da terra. Gli diede un'occhiata casuale, poi lo ripiegò e lo batté contro il palmo. — Anni, eh? — Be', io parlavo per me — disse Jim in fretta, leccandosi le labbra. —
Magari Lou o qualcun altro è venuto a rintanarsi qui, qualche volta. Sa, non tengo chiusa la porta esterna. — Credevo che Lou fosse andato al Nord — disse lo sceriffo, senza enfasi. — Infatti, infatti. Però, durante l'ultimo anno potrebbe... — Questo è il giornale di ieri, Jim. Jim impallidì e aprì la bocca per dir qualcosa, ma non ne uscì alcun suono. Jean tremava senza riuscire a controllarsi, non sentì né la porta con zanzariera che si chiudeva piano, né i passi furtivi nel portico. — Be'... non ho detto che Lou fosse l'unico a rifugiarsi qui dentro — disse Jim rapidamente. — Magari è stato un barbone qualsiasi che cercava un tetto per la notte. Si interruppe, perché lo sceriffo aveva cominciato a guardarsi intorno: — Dov'è Tom? Jean voltò la testa di scatto, poi fece qualche passo indietro. Lo sceriffo le passò accanto e corse nel locale. — Tu resta dove sei, Jim! — intimò l'uomo della legge di sopra la spalla. Jean lo seguì sui gradini del portico, all'esterno del locale. Lo sceriffo si faceva ombra agli occhi con la mano e scrutava la strada. Gli occhi di lei scattarono nella stessa direzione e vide l'uomo col cappello correre verso un altro uomo, un tipo grande e grosso. — Quello dev'essere Lou — borbottò lo sceriffo fra sé. Cominciò a correre poi, dopo pochi passi, tornò indietro e balzò in macchina. Lo sceriffo aprì la portiera e Jean scivolò accanto a lui, quindi partirono in una nuvola di polvere in direzione della strada. — Che cosa succede? — chiese Jean senza fiato. — Suo marito non l'ha abbandonata — è tutto ciò che disse lo sceriffo. — Dov'è, allora? — chiese lei con terrore. Ma ormai avevano raggiunto i due uomini e stavano correndo fra la sterpaglia. Lo sceriffo frenò a lato della strada e uscì dalla macchina, estraendo in fretta la pistola. — Tom! — gridò. — Lou! Smettetela di correre! Ma quelli continuarono. Lo sceriffo puntò e fece fuoco. L'esplosione fece trasalire Jim, mentre uno sbuffo di polvere si alzava a pochi passi dai due. I fuggitivi si bloccarono all'istante, si girarono e alzarono le mani. — Tornate indietro! — gridò lo sceriffo. — E sbrigatevi.
Jean stava in piedi accanto alla macchina, con le mani che tremavano. Teneva gli occhi puntati sui due uomini che avanzavano verso di loro. — Va bene, ora diteci dov'è — disse lo sceriffo appena si furono avvicinati. — Ma di chi sta parlando? — chiese l'uomo dal cappello floscio. — Adesso basta, Tom — disse lo sceriffo, furibondo. — Non mi incantate più. La signora rivuole suo marito, e voi ci direte... — Marito! — Lou dette un'occhiataccia al compare. — Pensavo che quella categoria fosse esclusa! — E chiudi il becco! — replicò l'uomo col cappello, ora del tutto privo delle sue maniere affabili. — Ma mi avevi detto che non avremmo... — riattaccò Lou. — Vediamo che cosa nascondi in quelle tasche, Lou — disse lo sceriffo. Lou gli dette un'occhiata inespressiva. — Nelle tasche? — Avanti, avanti. — Lo sceriffo agitò la pistola con impazienza. Lou cominciò a vuotarsi lentamente le tasche. — Mi avevi detto che non ci saremmo cacciati nei pasticci — borbottò all'uomo col cappello. — Me l'avevi detto. Stupido imbecille. Quando Lou si sfilò il portafogli Jean trasalì: — Quello è di Bob! — Si riprenda la sua roba, signora — disse lo sceriffo. Lei si chinò nervosamente e raccolse il portafogli, le monete, le chiavi della macchina. — Va bene — disse lo sceriffo. — Adesso dimmi dov'è. E non farmi perdere altro tempo! — Si era rivolto all'uomo dal cappello. — Sceriffo, davvero non so che cosa... Lo sceriffo per poco non gli saltò addosso. — Facciamola finita! — Tom alzò un braccio per difendersi e fece un passo indietro. — Le dico una cosa, sceriffo — intervenne Lou. — Se avessi saputo che quel tizio era con una donna, non l'avrei mai preso. Jean fissava l'uomo alto, brutto, e si mordeva il labbro inferiore. "Bob, Bob." Continuava a ripetere quel nome. — Ho chiesto dov'è — disse lo sceriffo. — Glielo faccio vedere, glielo faccio vedere — disse Lou. — Come ho detto, se avessi saputo che aveva una donna non l'avrei mai preso. Si girò di nuovo verso il tizio dal cappello. — Perché l'hai fatto andare là dentro? — domandò. — Perché? Me la vuoi dare una risposta? — Non sa di che parla, sceriffo — disse Tom blandamente. — Io giuro
che... — Andate sulla strada — tagliò corto l'uomo della legge. — Tutti e due. Ci porterete da lui, o saranno guai sul serio. Io vi seguo in macchina, e attenti a non fare una mossa falsa. Non una. L'auto procedeva lentamente dietro i due uomini appiedati. — Tengo d'occhio questi galantuomini da un anno — disse lo sceriffo a Jean. — Hanno escogitato un sistema per derubare la gente che sosta nel locale: dopo averli ripuliti li abbandonano nel deserto e vendono le macchine al Nord. Jean a stento lo ascoltava. Continuava a guardare la strada davanti a sé, lo stomaco contratto, le mani premute l'una contro l'altra. — Finora non avevo capito come facessero — continuò lo sceriffo. — Non avevo pensato alla toilette. Suppongo che la tenessero sempre chiusa, salvo quando si presentava un uomo solo. Oggi hanno fatto un'eccezione. Lou, quello grosso, saltava addosso a chiunque mettesse piede là dentro. Non è un tipo molto intelligente. — Crede che lo abbiano... — cominciò Jean, esitante. Lo sceriffo non rispose subito. — Non lo so, signora. Ma non credo, non sono così sciocchi. Sono già successi casi del genere e le vittime se la sono sempre cavata con una botta in testa. Suonò il clacson. — Avanti, sbrighiamoci! — sollecitò. — Ci sono serpenti, nella zona? — chiese Jean. Lo sceriffo non rispose. Si limitò a stringere la bocca e a schiacciare l'acceleratore, così che i due pedoni dovettero mettersi a trottare. Dopo un centinaio di metri Lou imboccò una strada polverosa. — Dio mio, dove l'hanno portato? — chiese Jean. — Credo che ci siamo, ormai — disse lo sceriffo. Lou indicò un gruppo di alberi e Jean vide la macchina. Lo sceriffo fermò la sua auto e uscirono. — Va bene, dov'è l'uomo? Lou attraversò la spianata deserta. Jean sentì il bisogno di mettersi a correre e solo con uno sforzo continuò a camminare accanto allo sceriffo. Le scarpe scricchiolavano sul terreno arido del deserto, e l'intensità con cui guardava davanti a sé le impediva di sentire i sassi che s'infilavano nei sandali. — Signora — disse Lou — spero che non vi accanirete contro di me. Se sapevo che non era solo, non lo toccavo nemmeno. — Piantala, Lou — disse lo sceriffo. — Ci siete dentro fino al collo, tutti e due, così è meglio se risparmi il fiato.
In quel momento Jean vide il corpo sulla sabbia. Il cuore cominciò a batterle più forte e si mise a correre. — Bob... Gli prese la testa in grembo, e quando gli occhi di lui si aprirono ebbe l'impressione che le avessero tolto il mondo dalla schiena. Bob cercò di sorridere, ma fece una smorfia di dolore. — Mi hanno colpito — borbottò. Senza una parola, le lacrime cominciarono a scorrere lungo le guance di lei. Lo aiutò a raggiungere la macchina, si mise al volante e seguì la coupé dello sceriffo. Per tutto il tragitto verso la città Jean tenne stretta la mano di suo marito. Titolo originale: Dying Room Only. (1953) COMMIATO D'AUTORE Caro Don, la festa è finita. Temo che dovrai trovarti un altro ragazzo, io non riesco a scrivere più. Come mai?, ti domandi; hai ragione, ti avrò ripetuto mille volte che potevo sfornare racconti per vent'anni. E, invece, è tutto finito. Sei l'ultimo a esserne informato perché sei il mio agente e prima di scriverti volevo esserne sicuro. Adesso, maledizione, sono sicuro. Tutto è cominciato un mese fa, all'incirca. Ma prima di venire ai fatti devo citarti un brano dal mio schedario: 3-B-5 Le astronavi marziane appaiono per la prima volta sotto forma di luci ammiccanti intorno alla luna. Rimangono visibili per dieci minuti con intervalli di un quarto d'ora fra un'apparizione e l'altra. Fine della citazione. Dunque, un mese fa... sono seduto nel mio studio e mi spremo le meningi per mandare avanti una storia. È una di quelle mattine che vorresti fondere la macchina per scrivere, ricavarne una mazza e darti una botta in testa una volta per tutte. Il racconto che sto macinando ha un dialogo che fa vergogna, una trama che fa pena e un tratteggio dei personaggi, diciamola tutta, che mi fa vomitare. Strappo un altro foglio e lo butto nel cestino, che stamattina è particolarmente ben nutrito. Sono d'umor plumbeo e comincio a meditare il suicidio.
Per completare la scena, Ava è in cucina e prepara una torta. Nella culla il piccolo Hoagy la sta facendo nel pigiammo. Incapace di sopportare il silenzio, che è poi il mio cervello ridotto a un ammasso di gelatina, accendo la radio e capto la fine di un notiziario. Lo speaker dice che frumento e granoturco sono saliti di due punti, ma che gli scambi sono irregolari. Lo terrò a mente per un prossimo racconto: per il momento cambio stazione. C'è un altro notiziario, anche questo sul finire. "Le luci ammiccanti" intona lo speaker "sono rimaste visibili per periodi di dieci minuti. Ulteriori indagini sull'inconsueto fenomeno vengono condotte da numerosi osservatori in tutto il paese. Per quanto riguarda le vendite di granoturco..." Basta, spengo l'apparecchio. Proprio così, Don: non faccio caso alla notizia. A un altro potrà sembrare sorprendente, ma tu mi conosci e sai che se anche un camion mi viene addosso dev'essere qualcun altro a dirmelo. E resto nell'ignoranza fino all'ora di colazione. Mentre ingoio la minestra e cerco di leggere un "Sunday Times" vecchio di due settimane, il piccolo Hoagy comincia a fare un macello con l'aiuto di due soli ingredienti: la pappina e un normalissimo cucchiaio. Rinuncio alla lettura, butto il giornale nel cestino e accendo la piccola radio bianca sullo scaffale. La Sesta di Ciaikovskij muore lentamente, ed ecco arriva il successivo notiziario. Lo speaker dice: "Gli scienziati e le autorità governative stanno ancora indagando sulle misteriose luci viste la scorsa notte intorno alla luna. Si tratta di luci ammiccanti apparse a intervalli di un quarto d'ora e rimaste visibili ogni volta, per dieci minuti. Le autorità hanno fermamente smentito le voci secondo cui il fenomeno sarebbe prodotto da velivoli interplanetari. "Simultaneamente all'apparizione delle luci sono registrati, a terra, segnali radio emessi a intervalli di mezz'ora e che è stato impossibile decifrare secondo i codici conosciuti." Lascio a metà il sandwich e mi precipito in studio. Apro immediatamente il mio schedario su Marte. Te ne ho parlato, Don: sai che ho passato un anno a costruirmi questa specie d'archivio, e sai anche che è tutto inventato. Apro lo schedario alla Sezione 3, Sottosezione B, Paragrafo 5. E quale gemma ne traggo? Quella che ho citato all'inizio. È veramente incredibile: chi sono, mi chiedo, il Nostradamus di East Flatbush? Inquieto, continuo la lettura de 3-B-5:
I segnali radio marziani vengono ricevuti a intervalli di trenta minuti nello stesso periodo in cui le luci ammiccanti restano visibili intorno alla luna. Leggo e rileggo il paragrafo, e non riesco a digerire. Il cuore mi sembra una porta che sbatte e risbatte. Mi do un pizzicotto e grido: indubbiamente è tutto reale. Dico a me stesso: Ecco un povero, sfruttato scrittore di fantascienza che mette insieme uno pseudo-archivio riguardante Marte. Tutta roba inventata, tutta farina del mio sacco. E quando l'archivio è completo so di poter contare su almeno vent'anni di idee. Scriverò un'epopea marziana e questo mi fa felice. I miei editori sono felici, Don è felice. Siamo tutti felici e contenti, battiamo le mani e balliamo intorno al palo. Piccola nota stonata: la roba che ho inventato si sta verificando nella realtà! Rimango seduto un momento, poi rimetto a posto lo schedario. Torno in cucina e finisco di far colazione, ripensando alla stranissima coincidenza. E allo schedario. La Sezione 3 è intitolata: "Marte dichiara guerra agli altri Pianeti". La Sottosezione A è intitolata: "Dichiarazione di guerra contro Venere". Come ricorderai, è la sottosezione B quella che ti ho citato. Capito il punto? Lo shock è come il fuoco: devi aggiungere combustibile, sennò si spegne. Trascorro alcune notti insonni, chiamo la New York University, la Columbia, il Brooklyn College e qualche altro. Domando regolarmente dei professori d'astronomia. Non so perché lo faccio, ma devo informare qualcuno. Dirlo al presidente non servirebbe: è troppo indaffarato col Vietnam. Così interpello i professori. Non che siano di grande aiuto. Tre di loro sostengono che si tratta di meteore. Altri tre di comete. Uno, non ci crederai, afferma che è tutto un fenomeno isterico. Mah, chi lo sa. Se dicono che i segnali radio sono provocati da eruzioni sono dispostissimo a berla. Non ho voglia di diventare un profeta. Decido di dimenticarmene. Rimetto i piedi sulla terra e tutto è più concreto. Nella settimana successiva scrivo due nuovi racconti marziani e te li mando. Tu riesci a venderli. Poi, una mattina, rieccomi impantanato nel Mar dei Sargassi della creatività. C'è tanto silenzio che l'aria sembra scoppiettare. Sono nel vortice del
nulla. Ancora una volta cerco consolazione nella radio. C'è un uomo che parla con la bocca piena e, a quanto pare, sta sorbendo un caffè istantaneo. "Ehi, Bella" comincia l'uomo, e io capisco di aver preso uno di quei programmi mattutini in cui una coppia stereotipata finge di discutere i fatti del giorno. "Ehi, Bella" ripete l'uomo. Bella dev'essere ancora addormentata, ammenoché non sia morta per via di un panino avvelenato. "Eeh?" sospira finalmente. "Mi pare che quelle stupide voci sui marziani stiano attaccando di nuovo. È l'eredità di Orson Welles?" "Ah" risponde Bella. Conversatrice d'alta classe. "Già" continua l'uomo, interrompendosi per sorbire un sorso di caffè (e fa tanto rumore che mi pare di sentirne il sapore in bocca). "Già, dicono che quelle luci sono sicuramente, bada, sicuramente astronavi. Nel suo editoriale Walt Sempliciotti declama: 'Cos'altro potrebbero essere le Luci Lunari che la stazione Air Force del Wyoming ha avvistato sul suo schermo radar e ha visto procedere a ben ottomila chilometri l'ora?' Di', Bella, che te ne pare?" "Wow!" disse Bella. "E non è tutto" continua la voce maschile. Un professore d'archeologia della Muffa University afferma che i segnali radio sarebbero interpretabili alla luce di un codice... che lui ha scoperto in un'antica tomba egiziana! — No! Questa non è Bella. Questo sono io che schizzo allo schedario e comincio a sudare. Perché? Stai a sentire: 3 B. Caratteristiche salienti. 1. Le astronavi da guerra marziane sono capaci di velocità che oscillano fra una velocità di crociera di trecentocinquanta chilometri orari e una massima di tredicimilacinquecento. Il che include gli ottomila chilometri menzionati dalla radio. Non è poi così sorprendente, vero? Ma c'è dell'altro, caro agente. Tieniti forte. 5-D-7 Alcune spedizioni marziane atterrarono sul nostro pianeta, in missione esplorativa, durante e subito dopo l'anno 1600 a.C. In vari luoghi piazzarono le tavolette in base alle quali era possibile decifrare i loro messaggi
radio; durante il regno di Thothmes III, per esempio, le tavolette furono poste nelle tombe di cento diversi notabili egiziani. I corsivi sono miei. Tombe egiziane! Dio mio, comincio ad aver paura di me stesso. Per diversi minuti rimango seduto in una passabile forma di coma. Nell'Altrove sento Ava che mi dice di portare qualcosa da qualche parte per farci nonsoché. Ma non le presto attenzione. Dopo un po' lei, che è quasi diventata rauca, entra nello studio con le mani sui fianchi e chiede gentilmente: — Sei diventato sordo, per caso? — Vieni qui — rispondo, ed è la voce di un profeta. — Siediti vicino a me. Sta succedendo qualcosa di molto brutto. — Ho da fare. Ma io insisto. Lei siede, le racconto tutto, le leggo i passaggi più significativi. — E allora? — Come, allora? — esplodo. — Sei diventata sorda, per caso? Non ti rendi conto di ciò che significa? Tutto quello che ti ho letto era roba inventata. E adesso sta accadendo nella realtà! Nella realtà! — Come può accadere nella realtà se è inventata? — Non lo so — rispondo con un sussurro. Mi guardo di sopra la spalla. — Forse sono stati i marziani a dettare i racconti al mio subconscio. Forse ogni singola parola che ho venduto corrisponde alla verità. Forse, perdio, sono una specie di public-relations man senza esserne consapevole! — Abbassa il tiro, ragazzo — mi risponde lei. — Stanno dichiarando guerra alla Terra! Stanno per distruggerci! Si alza e si allontana: — Mi raccomando, non scordarti di andare in lavanderia. Sono passate diverse settimane da quando il mio sistema è andato in tilt. Mi trovo nell'ascensore del Palazzo Shill e sto andando a trovare Mike, che è il tuo curatore preferito. E anche il mio. Mi fa accomodare in ufficio e, dopo esserci stretta la mano, ci sediamo e restiamo a guardarci. — Ho delle grosse novita per te. — È così che esordisco. — Truci Avventure Spaziali non ha pubblicato che fatti veri negli ultimi dieci anni. Apre e chiude gli occhi. Poi, indignato: — Stai tentando di insultarmi? Di calunniare me e la redazione? — Gli faccio segno di sedere e lui si abbandona di nuovo nella poltrona di cuoio. — Di che diavolo stai parlando allora?
Gli espongo i fatti, e lui perde il caratteristico pallore editoriale. Mentre gli racconto che il mio rappresentante alla Camera non m'ha nemmeno degnato di una risposta, e che la difesa civile ha classificato la mia segnalazione sotto la voce "Puttanate", Mike si gonfia come un uomo delle nevi. Ma intanto ho finito: — C'è veramente di che ridere. Che cosa succederà, adesso? Che la tua rivista diventerà concorrente di Storia Illustrata? Siede in silenzio e si mangiucchia le nocche delle dita. Io sprofondo in un'analoga trance. All'improvviso mi guarda. — Dobbiamo affrontare la situazione. Abbiamo sempre ripetuto ai lettori che Truci Avventure offre il meglio in fatto di fantasia. Ora, d'un colpo, risultiamo bugiardi: secondo me, la miglior cosa è prenderla di petto; faremo una serie di articoli e spiegheremo com'è andata in realtà. Consulta l'agenda. — Puoi far avere i primi articoli a Don entro mercoledì? Elimineremo un racconto di Matheson e ci metteremo il tuo pezzo. E io: — Mi sembra che tu non capisca una cosa. Siamo in guerra. — Sì, come no? — risponde Mike. — Tu buttami giù i dettagli. Così torno a casa, dove mi ritrovo solo. Ava è andata allo zoo di Prospect Park con Hoagy: mi ha lasciato un biglietto sulla macchina per scrivere. L'idea mi fa paura, ma accendo la radio. Spero di trovare della musica, e infatti capto le ultime note del Don Giovanni di Cluck. E l'ora del notiziario: mi viene un nodo alla gola. "Gli astronomi hanno accertato un deciso concentramento delle luci misteriose intorno alla luna. Esse sono visibili ormai anche alla luce del giorno. Le autorità governative indagano accuratamente." Spengo e fisso la parete. Indagano accuratamente, ma che bella notizia. Prendo lo schedario e sfoglio la Sezione 15. Non serviranno a molto, le loro indagini. 15-B-3 Per un periodo che si aggirerà fra le 50 e le 500 ore, tempo terrestre, le navi marziane si concentreranno in prossimità della luna finché saranno pronte. Pronte a che cosa? ti domanderai. Tremo nel dirlo, ma questa Sezione è intitolata "L'invasione della Terra da parte dei Marziani".
Ed eccomi qui, scrittore maledetto. Stando ai miei appunti, che fino a ieri credevo ricavati dal niente, un bel giorno le astronavi circonderanno la Terra ammantandosi di un impenetrabile schermo di energia. Quindi verranno calate le truppe d'assalto, le quali saranno fornite di armi tali da disintegrare qualunque cosa entro il raggio di un chilometro. La Sezione 15 è quella che ho compilato per ultima. Pensavo di servirmene nel ventesimo anno di carriera, ma intanto mi sono immaginato il titolo di quello che doveva essere l'ultimo racconto. Il titolo è: "Fine del mondo". Be', Don, la mia storia è quasi finita. Il punto è che non riesco più a scrivere. Non una parola. Siedo alla macchina e rimugino, tutto qua. Quindi, come ti dicevo, trovati un altro ragazzo. Perché? Dio santo, ora che le mie idee narrative si sono avverate, che altro mi resta? Sai benissimo che non sono tagliato per la saggistica. Mi dispiace, Burt Titolo originale: Advance Notice. (1959) PAGLIA UMIDA Cominciò pochi mesi dopo la morte di sua moglie. Si era trasferito in una pensione e lì aveva trovato una certa protezione. La vendita delle obbligazioni di lei gli aveva fornito denaro sufficiente. Leggeva un libro al giorno, andava ai concerti, mangiava da solo, visitava qualche museo: più che sufficiente. Ascoltava la radio, schiacciava un pisolino di quando in quando, pensava molto. La vita era abbastanza buona. Una sera mise via il suo libro e si svestì. Spense le luci, aprì la finestra e rimase a guardare il pavimento. Si era seduto sul letto, e gli occhi gli dolevano un pochino; finalmente decise di coricarsi e intrecciò le mani dietro la nuca. Dalla finestra veniva un alito d'aria fresca, così tirò le coperte fin sopra la testa e chiuse gli occhi. Era tutto molto silenzioso. Sentiva il fruscio del suo respiro regolare, e il tepore cominciò ad avvolgerlo. Circondava il suo corpo, lo blandiva. Sospirò stancamente, ma sorrise. Un attimo dopo, aprì gli occhi. Una brezza sottile gli alitava sulla guancia, e a parte quello c'era un odore di paglia umida. Non era possibile sbagliarsi.
Allungandosi, riusciva a toccare il muro e a sentire la brezza che veniva dalla finestra. Ma sotto le coperte, dove fino a poco prima c'era soltanto il tepore, soffiava un alito diverso. Ed era quello che portava l'odore di paglia umida. Metteva freddo nelle ossa. Allontanò le coperte e rimase sdraiato sul letto, respirando a fatica. Poi gli venne da ridere: un sogno, un incubo. Aveva letto troppo. E mangiato troppo. Tirò su di nuovo le coperte e chiuse gli occhi. Stavolta tenne fuori la testa e si addormentò. La mattina dopo aveva dimenticato tutto. Fece colazione e si recò al museo, dove trascorse mezza giornata. Visitò tutte le sale, guardò tutto quel che c'era da guardare. Stava per uscire quando provò il desiderio di esaminare meglio un quadro che aveva visto solo di sfuggita. Si fermò davanti a esso. Dipingeva un paesaggio rurale. In fondo alla valle si vedeva un grosso granaio. Cominciò a respirare nervosamente, tormentandosi la cravatta. "Che sciocchezza" pensò "che una coincidenza del genere debba rendermi nervoso." Si allontanò, ma sulla porta si girò di nuovo a guardare il quadro. Dopo cena tornò in camera sua. Appena aprì la porta si ricordò del sogno. Si accostò al letto, alzò coperte e lenzuola e le scosse. Non c'era nessun sentore di paglia. Si diede dello sciocco. Quella notte, quando andò a coricarsi, lasciò chiusa la finestra. Spente le luci, si infilò a letto e si tirò le coperte fin sopra la testa. Sulle prime provò le solite sensazioni: il silenzio, l'immobilità, il tepore che si diffondeva. Poi cominciò la brezza, e i suoi capelli ne furono scompigliati; c'era odore di paglia umida. Si mise a sedere nel buio e respirò con la bocca per non essere costretto a sentire l'odore. Da qualche parte, nelle tenebre, si apriva un quadrato di luce grigiastra. Dapprima pensò: è la finestra. Guardò con maggiore intensità e nella finestra balenò un raggio di luce. Il cuore perse un battito, perché sembrava un lampo. Rimase in ascolto, e di nuovo percepì il sentore di paglia.
Cominciò a piovere. Era spaventato, adesso, e si scoprì la testa. Intorno a lui c'era la stanza accogliente, e fuori non pioveva affatto. A causa della finestra chiusa, faceva fin troppo caldo. Egli fissò il soffitto e si chiese: "Come ho potuto ingannarmi?". Volle mettere alla prova l'illusione: si coprì fino alla testa e tenne gli occhi ben stretti. L'odore di paglia era percepibile di nuovo. E la pioggia batteva con violenza alla finestra. Aprì gli occhi e rimase a guardarla, e alla luce dei lampi distinse gli scrosci d'acqua. Poi la pioggia cominciò a battere sopra di lui, a picchiettare sul tetto di legno. Si trovava in un luogo che aveva un tetto di legno. E c'era della paglia bagnata. Si trovava in un granaio. Ecco perché il quadro l'aveva spaventato. Ma, poi, perché spaventarsi? Cercò di toccare la finestra, ma non riuscì a raggiungerla. La brezza soffiava sul suo braccio e sulla mano. Voleva toccare la finestra: forse (il pensiero lo deliziò) voleva aprirla e sporgere la testa, e alla fine scostare le coperte e vedere se i capelli erano bagnati. Ebbe la sensazione di trovarsi in un grande spazio: come se il letto non avesse confini. Sentiva il materasso, ma per quanto lo riguardava potevano averlo spostato in uno spazio aperto. La brezza soffiava su tutto il corpo, e l'odore era più pronunciato. Rimase ad ascoltare: udì uno squittio e poi il nitrito di un cavallo. Ascoltò ancora. E alla fine si rese conto di non sentire più il materasso. Dalla cintola in giù, gli pareva di giacere su un freddo pavimento di legno. Allarmato, allungò una mano e toccò l'orlo delle coperte. Le tirò via. Era coperto di sudore e aveva il pigiama incollato al corpo. Uscì dal letto e accese la luce, poi aprì la finestra. Un alito d'aria fresca entrò nella stanza. Le gambe gli tremavano, e per non cadere dovette appoggiarsi all'armadio. Nello specchio vide la sua faccia pallida di paura. Alzò una mano e la guardò tremare. Aveva la gola secca. Andò nella stanza da bagno e bevve un sorso d'acqua, poi tornò in camera e guardò il letto. Non c'erano altro che le coperte e le lenzuola aggrovigliate, e una macchia di sudore. Le scosse alla luce e le esaminò minuzio-
samente, ma non trovò niente. Infine prese un libro e lesse per il resto della notte. Il giorno dopo tornò al museo a guardare il quadro. Cercò di ricordare se fosse mai stato in un granaio. E in caso affermativo, vi era stato in un giorno di pioggia, coi lampi che saettavano alla finestra? I ricordi vennero. Era accaduto durante la luna di miele. Erano usciti per fare una passeggiata, la pioggia li aveva sorpresi e si erano riparati in un granaio. Nella stalla annessa c'era un cavallo, e un topo squittiva nella paglia umida. Ma che senso aveva? Perché doveva venirgli in mente proprio adesso? Quella sera la prospettiva di andare a letto gli mise paura. Cercò di rimandare, e quando non gli riuscì più di tenere gli occhi aperti si coricò vestito, lasciando chiusa la finestra. Non usò la coperta. Dormì pesantemente e non fece sogni. Si svegliò alle prime luci dell'alba: senza pensarci raccolse la coperta dalla sedia e se la buttò addosso. Non ci fu transizione. Si ritrovò immediatamente nel granaio. Non si udivano suoni, e non pioveva più. Oltre la finestra si vedeva una luce grigiastra. Forse era venuto mattino anche nel granaio immaginario? Sorrise, assonnato. Era fin troppo affascinante: doveva appisolarsi nel pomeriggio e scoprire se, a quell'ora, il granaio era illuminato a giorno. Fece per liberarsi della coperta, ma al suo fianco avvertì un fruscio improvviso. Trattenne il fiato e gli parve che il cuore si fermasse. Qualcuno aveva sospirato, vicinissimo a lui. Qualcosa di caldo e umido gli sfiorò la mano. Con un urlo tirò via la coperta e balzò sul pavimento. Rimase a fissare il letto con la coperta nelle mani, il cuore che batteva furiosamente. Alla fine, col sole che spuntava all'orizzonte, si sdraiò di nuovo. Per una settimana dormì su una sedia, ma alla fine dovette concedersi una notte di riposo decente e si mise a letto, completamente vestito. Non avrebbe mai più usato coperte. E venne il sonno, nero e senza sogni. Quando si svegliò non sapeva che ora era, ma un singhiozzo gli salì alla gola. Era di nuovo nel granaio. I lampi saettavano oltre la finestra e la pioggia batteva sul tetto.
Tastò lo spazio intorno a sé, terrorizzato, ma non c'era nessuna coperta. Le mani afferrarono l'aria, disperatamente. All'improvviso guardò la finestra. Se riusciva ad aprirla, poteva fuggire! Allungò la mano per quanto poteva. Vicino... più vicino... Ce l'aveva quasi fatta. Un altro centimetro e l'avrebbe toccata. — John. Sfondò il vetro per riflesso meccanico. Sentì la pioggia che gli bagnava il dorso della mano e il polso che gli bruciava terribilmente. Ritirò la mano e fissò il punto da cui era giunta la voce. Qualcosa di bianco si mosse al suo fianco e una mano calda gli carezzò il braccio. — John — ripeté la voce in un sussurro. — John. Lui non riuscì a parlare. Tastò intorno a sé in cerca della coperta, ma le dita incontrarono soltanto l'alito della brezza. Sotto di lui c'era un freddo pavimento di legno. Emise un gemito di terrore. La voce ripeté il suo nome, poi il lampo balenò di nuovo ed egli vide sua moglie stesa accanto a lui, sorridente. All'improvviso le dita trovarono l'orlo della coperta: vi si aggrappò e rotolò dal letto, sul pavimento. Qualcosa gli scorreva sul polso, e il braccio gli doleva. Si alzò, accese la luce, e la stanza fu rischiarata cordialmente. Aveva il braccio coperto di sangue. Sul polso era ancora infissa una scheggia di vetro, che raccolse e buttò a terra con orrore. Sull'altro braccio, il sinistro, si vedevano le impronte delle dita di lei. Rosse. Egli strappò le lenzuola e si precipitò in bagno. Lavò il sangue, mise della tintura di iodio sulla profonda ferita e la fasciò. Bruciava talmente che gli girò la testa. Gocce di sudore freddo gli colarono sugli occhi. Uno dei pensionanti entrò in bagno e John gli disse che si era tagliato accidentalmente. Quando l'uomo vide il sangue che colava, corse al telefono a chiamare un dottore. John rimase seduto sul bordo della vasca; il sangue correva sulle mattonelle. Il giorno dopo la ferita venne disinfettata di nuovo e medicata. Il dottore dubitava della spiegazione di John: questi gli aveva detto di essersi ferito con un coltello, ma in giro non c'era traccia di coltelli, e il sangue inzuppava le lenzuola e la coperta. John ricevette l'ordine di restare in camera e di tenere il braccio a riposo.
Passò quasi tutto il giorno a leggere; a leggere, e a domandarsi come fosse possibile ferirsi in sogno. Il pensiero di sua moglie lo eccitava. Era ancora molto bella. E i ricordi divennero vividi. Si erano stesi nella paglia, l'una nelle braccia dell'altro, ad ascoltare la pioggia. Non riusciva a ricordare quel che si erano detti. John non temeva i fantasmi: aveva una visione realistica della vita e sapeva che sua moglie era morta e sepolta. Quello che gli stava accadendo era frutto di un'aberrazione mentale. Un disturbo che si era tenuto in disparte fino a quel momento. Poi si guardò il polso e vide la fasciatura. Comunque, non era stata colpa di sua moglie. Non gli aveva chiesto lei di sfondare il vetro. Forse poteva godere di lei su di un piano, e dei suoi soldi su un altro... Ma qualcosa gli diceva che non era così semplice. L'esperienza era stata veramente spaventosa: la paglia umida e il buio, il topo e la pioggia, il soffio freddo che gelava le ossa... E allora elaborò un piano. Quella sera spense la luce più presto, poi s'inginocchiò accanto al letto. Mise la testa sotto le coperte: se qualcosa andava storto gli bastava tirarla via in fretta. Attese. Ben presto avvertì l'odore di paglia e sentì la pioggia. Con lo sguardo cercò sua moglie, ne chiamò il nome dolcemente. Ci fu un fruscio, e una mano tiepida gli carezzò la guancia. Dapprima egli trasalì, poi sorrise: apparve la faccia di lei, che appoggiò la guancia contro la sua. Il profumo di quei capelli lo stordiva. Gli parlò nella mente: "John, siamo sempre stati una cosa sola. Ricordi la promessa? Non ci divideremo mai. Se uno di noi morirà, l'altro dovrà aspettarlo. Se io fossi morta tu mi avresti aspettata, perché avrei trovato il modo di tornare. E di portarti con me. "Ora io sono morta. Tu mi hai dato la bevanda avvelenata e io sono morta. Poi hai aperto la finestra perché la brezza potesse entrare. Eccomi, sono tornata." Egli cominciò a tremare. La voce di sua moglie divenne più rauca, e i denti battevano gli uni contro gli altri. Respirava velocemente, mentre le dita toccavano la faccia di
lui. Gli passarono fra i capelli, accarezzarono il collo. John cominciò a gemere. Le chiese di lasciarlo andare, ma non ci fu risposta. Lei respirava più in fretta ancora. Egli cercò di svincolarsi: sotto i piedi sentiva il pavimento della stanza familiare. Cercò di tirare la testa di sotto le coperte, ma la stretta di lei era inesorabile. La donna cominciò a baciarlo. Aveva la bocca fredda e gli occhi sgranati. John non poté che fissarli, mentre il loro fiato si mescolava. Poi lei buttò la testa all'indietro e cominciò a ridere, e i lampi saettarono dietro la finestra. La pioggia batteva sul tetto, il topo squittiva e il cavallo pestava gli zoccoli, e il granaio sembrava che tremasse. Le dita di lei si strinsero intorno alla sua gola. John cercò di tirare la testa con quanta forza aveva, a denti stretti, per sfuggire alla morsa. Provò un'improvvisa sensazione di dolore, poi rotolò sul pavimento. Quando l'affittacamere entrò per far pulizia, due giorni più tardi, lo trovò nella stessa posizione. Aveva le braccia spalancate e giaceva in una pozza di sangue raggrumato. Il corpo era freddo e rigido, e la testa non fu mai trovata. Titolo originale: Wet Straw. (1953) THERESE 23 aprile. Finalmente ho trovato il modo di uccidere Therese! Dio, sono così felice che potrei urlare! Metter fine a quel crudele dominio dopo tanti anni! Com'è la frase? La consumazione di un atto a lungo agognato. Ebbene, l'ho agognato abbastanza. Adesso è tempo di agire. Distruggerò Therese e riconquisterò la pace dell'anima. Lo farò! Quel che mi turba è che il libro era in biblioteca da anni: Dio mio, avrei potuto liberarmi di lei molto prima, ed evitare le sofferenze e le crudeli umiliazioni che ho dovuto sopportare. Ma non è così che devo pensare; devo esser grata, invece, di averlo trovato. Grata e divertita: com'è buffo, Therese era in biblioteca con me quando ho scoperto il volume. Lei, ovviamente, era intenta a sbirciare uno dei libri pornografici lasciati da nostro padre. Li brucerò tutti, dopo aver ucciso Therese! Grazie a Dio nostra madre è morta prima che lui cominciasse a collezionarli. Per quanto fosse un uomo volgare, Therese lo ha amato fino alla fine. Si capisce, lei è il suo ritratto: è volgare, sensuale e disgustosa. Non sarei sorpresa di sco-
prire che condividevano lo stesso letto, oltre che gli stessi interessi. Oh, Dio, il giorno che morirà canterò un inno di gloria! Sì, era con me in biblioteca, ammantata di morbosa sensualità, mentre io, cercando di eluderne la vista, perlustravo la balaustra dove teniamo i volumi più antichi. Qui, su uno dei più alti scaffali, coperto da una patina di polvere grigia, ho trovato Voodoo: uno studio approfondito, opera del dottor William Moriarity. È un'edizione privata, e solo Dio sa come nostro padre ne sia venuto in possesso. La cosa stupefacente è che l'ho sfogliato, annoiata e dopo un po' l'ho rimesso a posto! Solo dopo essermi allontanata, quando già adocchiavo altri libri mi è venuta l'idea. Mediante il voodoo, potevo uccidere Therese! 25 aprile. Scrivo queste note con mano tremante. Ho quasi finito la bambola che rappresenta Therese. Sì, quasi finita! L'ho fatta col panno di un vestito che non mette più, e che ho trovato nell'attico. Per fare gli occhi ho usato due bottoncini neri. C'è ancora del lavoro da fare, ma per grazia di Dio il processo è avviato. Mi diverte immaginare ciò che penserebbe il dottor Ramsay se scoprisse i miei piani. Quale sarebbe la sua prima reazione? Che sono pazza perché credo nel voodoo? O che devo imparare a convivere con Therese, se non proprio ad amarla? Amare quella porca? Mai! Dio, quanto la odio! Se potessi, credetemi, cederei volentieri la mia metà di patrimonio, purché non fossi costretta a vedere quella faccia viziosa, a sentire quelle bestemmie da ubriacona, e tutte le lepidezze che si diverte a raccontare! Ma non è possibile. Non mi lascerebbe andare mai. Non mi resta che una soluzione: distruggerla. E lo farò, lo farò. Le resta un sol giorno da vivere. 26 aprile. È tutto pronto, finalmente! Tutto pronto! Prima di uscire, stasera, Therese ha fatto il bagno, e chissà a quali scelleratezze si prepara. Dopo il bagno si è tagliata le unghie. Io le ho raccolte e le ho cucite alla bambola con del filo. Ho messo insieme laboriosamente i capelli rimasti nella spazzola di Therese e con essi ho fabbricato la testa della bambola. Adesso il simulacro è veramente Therese. Questa è la bellezza del voodoo. Tengo la vita di Therese nelle mie mani, libera di scegliere il momento che più mi aggrada per distruggerla. Aspetterò e gusterò appieno questa deliziosa onnipotenza.
Che dirà il dottor Ramsay quando Therese sarà morta? Che potrà dire? Che sono pazza a credere nel voodoo? (Ma io non gli svelerò il segreto...) Eppure il voodoo funziona! E uccide! Non la toccherò nemmeno con un dito, anche se mi farebbe piacere strozzarla, troncarle il fiato in gola. Ma no, io sopravviverò: questo è il bello. Ucciderò Therese volontariamente e non sconterò nessuna pena. Quale estasi! È per domani sera. Che si goda pure la sua ultima avventura. Non tornerà più in casa barcollando, con l'alito che sa di whisky, per raccontarmi in sozzi dettagli tutte le porcherie che ha combinato. Non farà più... Dio, non posso aspettare! Conficcherò uno spillone nel cuore della bambola! Mi libererò di lei per sempre! Maledetta Therese, maledetta in eterno! La ucciderò adesso. Dal taccuino del dottor John H. Ramsay. 27 aprile. La povera Millicent è morta. La governante l'ha trovata stamane sul pavimento della camera da letto, le mani strette al cuore, un'espressione di shock e sofferenza raggelata sul volto. È attacco cardiaco, senza dubbio. Non c'è traccia di lesioni esterne. Accanto a lei, sul pavimento, c'era una piccola bambola di stoffa con uno spillone piantato nel cuore. Povera Millicent, pensava forse di uccidere me? E per farlo voleva servirsi del voodoo? Speravo che almeno di me si fidasse. D'altra parte, perché avrebbe dovuto? Non avrei mai potuto aiutarla. Era in una situazione disperata: Millicent Therese Marlowe soffriva di una delle più gravi forme di dissociazione della personalità che mi sia capitato di osservare... Titolo originale: Therese. (1968) PREDA Amelia arrivò a casa verso le sei e un quarto. Appese il soprabito nell'armadio che si trovava nell'ingresso, portò il pacchetto in soggiorno e sedette sul divano. Si sfilò le scarpe e cominciò a disfare il pacchetto, tenendolo in grembo. La scatola di legno sembrava una bara: Amelia ne alzò il coperchio e sorrise. Era il pupazzo più brutto che avesse mai visto: alto circa diciotto centimetri, scolpito nel legno, aveva un corpo scheletrico e un testone sproporzionato. Sul volto c'era un'espressione di ferocia maniacale, i denti appuntiti erano messi a nudo e gli occhi brillanti sembravano
uscire dalle orbite. Con la mano destra impugnava una lancia lunga più di venti centimetri e una bella, lunga catena d'oro gli avvolgeva il corpo dalle spalle alle ginocchia. Un rotolino sottile di carta era incuneato tra il pupazzo e la parete interna della scatola. Amelia lo prese e lo srotolò; c'era scritto qualcosa, a mano: QUESTO È COLUI CHE UCCIDE, cominciava. È UN TERRIBILE CACCIATORE. Amelia sorrise, e continuò a sorridere mentre leggeva le altre parole. Ad Arthur sarebbe piaciuto. Il pensiero di Arthur la fece girare e guardare il telefono, sul tavolo dietro di lei. Dopo un po' sospirò e depose la scatola di legno sul divano. Mettendosi il telefono in grembo, sollevò il ricevitore e fece un numero. Sua madre rispose. — Ciao, mamma — disse Amelia. — Non ti sei ancora mossa? — chiese sua madre. Amelia cercò di farsi animo. — Mamma, lo so che è venerdì sera... — cominciò. Non riuscì a finire. Dall'altro capo del filo c'era silenzio. Amelia chiuse gli occhi: "Mamma, ti prego" pensò, cercando di inghiottire. — C'è un uomo — disse. — Si chiama Arthur Breslow. È un professore di liceo. — Insomma, non vieni — disse sua madre. Amelia rabbrividì. — Oggi è il suo compleanno — continuò. Aprì gli occhi e guardò il pupazzo. — Gli ho praticamente promesso che avremmo... passato la serata insieme. Sua madre taceva. "E comunque non ci sono buoni film, stasera" continuò Amelia tra sé. — Possiamo andarci domani sera, al cinema — propose. La madre taceva. — Mamma? — Ora anche il venerdì sera ti pesa troppo. — Mamma, ci vediamo due, tre volte la settimana... — Sì, vieni a farmi visita — disse la madre. — Quando la tua stanza è ancora qui. — Mamma, ti prego, non ricominciamo ancora con questa storia — disse Amelia. "Non sono una bambina" pensò. "Smettila di trattarmi come se fossi una bambina!" — E da quanto tempo vedi quell'uomo? — chiese sua madre. — Un mese, più o meno. — Senza dirmi niente.
— Avevo tutta l'intenzione di dirtelo... — La testa di Amelia cominciava a pulsare. "No, non mi prenderò un mal di testa" si disse. Guardò di nuovo il pupazzo: sembrava che anche lui la guardasse. — È un uomo affettuoso, mamma — disse Amelia. Sua madre non parlò, e lei sentì i muscoli dello stomaco irrigidirsi: "Stasera non potrò mangiare niente" pensò. Si accorse all'improvviso di essersi raggomitolata sul telefono, e si impose di sedere eretta. Aveva trentatré anni, in fondo. Allungandosi, estrasse il pupazzo dalla scatola di legno. — Dovresti vedere che cosa gli ho preso, per il compleanno — divagò. — L'ho trovato in un negozio di curiosità della Terza Avenue. È un pupazzo, un autentico feticcio Zuni, una cosa molto rara. Arthur ha il pallino dell'antropologia, ed è per questo che gliel'ho comprato. Ma dall'altro capo del filo c'era ancora silenzio. "E va bene, non parlare" pensò Amelia. — È un feticcio della caccia — continuò, sforzandosi di sembrare calma. — Si crede che dentro di lui si nasconda lo spirito di un cacciatore Zuni, e c'è una catena d'oro intorno al corpo per impedire allo spirito di... — (Non riusciva a trovare la parola. Fece correre un dito tremante sulla catena) — ...fuggire, suppongo. Si chiama Colui Che Uccide, e dovresti vedere che faccia. — Sentì lacrime calde scenderle lungo le guance. — Passa una buona serata — disse sua madre, e riattaccò. Amelia fissò il ricevitore, ascoltando il segnale della linea. Ma perché doveva essere sempre così? Rimise il ricevitore sulla forcella e spinse da parte il telefono. La stanza che andava oscurandosi le appariva confusa. Mise il pupazzo sull'orlo del tavolino da caffè e si alzò in piedi. "Adesso farò il bagno" si disse. E poi lo incontrerò e passeremo una bellissima sera insieme. Attraversò il soggiorno. Una bellissima sera, le ripeteva a vuoto la sua mente: ma sapeva che era impossibile. "Oh, mamma!" Serrò i pugni per la furia impotente ed entrò in camera da letto. Nel soggiorno, il pupazzo cadde dall'orlo del tavolo. Atterrò a testa in giù e la punta della lancia, conficcandosi nel tappeto, gli fece mantenere quella posizione. La catena d'oro cominciò a scivolare verso il basso. Era quasi buio quando Amelia ritornò in soggiorno. Si era tolta i vestiti e indossava l'accappatoio. In bagno l'acqua scorreva nella vasca.
Sedette sul divano e si mise il telefono in grembo. Per vari minuti lo guardò; infine, con un profondo sospiro, alzò il ricevitore e formò un numero. — Arthur? — disse quando lui rispose. — Sì? — Amelia conosceva il tono: gentile ma sospettoso. Lei non riuscì a parlare. — Tua madre — disse finalmente Arthur. Quel freddo, insopportabile senso di vuoto allo stomaco. — È la sera che passiamo sempre insieme — gli spiegò. — Ogni venerdì... — Si fermò e attese, ma Arthur non disse nulla. — Te ne ho già parlato — fece lei. — Sì, me ne hai già parlato. Amelia si sfregò le tempie. — È ancora lei che comanda nella tua vita, vero? — disse Arthur. Amelia si tese. — È solo che non voglio ferire oltre i suoi sentimenti — disse. — Quando me ne sono andata via di casa ha avuto un duro colpo. — Nemmeno io voglio ferire i suoi sentimenti — replicò Arthur — ma quanti compleanni all'anno festeggio? Avevamo deciso, per stasera. — Lo so. — Lei sentiva i muscoli dello stomaco stringersi di nuovo. — Hai veramente intenzione di permettere che ti faccia questo? — chiese lui. — Per un venerdì in tutto l'anno? Amelia chiuse gli occhi, e con le labbra pronunciò alcune parole silenziose: "Non posso ferire ancora i suoi sentimenti". Deglutì. — È mia madre — si decise infine. — Benissimo, mi dispiace. Avevo aspettato questo momento, ma... — lui fece una pausa. — Mi dispiace. — Riattaccò senza enfasi. Amelia rimase immobile per un pezzo, ascoltando il segnale della linea. Trasalì quando la voce registrata disse: — Per favore, riattaccate. — Allora rimise giù il ricevitore e posò il telefono sul tavolo. "Tanto peggio per il mio regalo" pensò: sarebbe stato inutile darlo ad Arthur adesso. Allungandosi, accese la lampada sul tavolo. Domani avrebbe restituito il pupazzo. Ma il feticcio non era più sul tavolo da caffè, e guardando verso il basso Amelia vide la catena d'oro caduta sul tappeto. Spinse indietro il bordo del divano e la raccolse, facendola scivolare nella scatola di legno. Il pupazzo non era nemmeno sotto il tavolo, e piegandosi Amelia frugò sotto il divano. Urlò, ritraendo di colpo la mano. Si rimise in piedi, si volse verso la luce ed esaminò l'indice. C'era qualcosa, incuneato sotto l'unghia, e lei tremò quando l'estrasse. Era la punta della lancia del pupazzo. La depose nella
scatola e si mise il dito in bocca, poi, piegandosi nuovamente, frugò con più attenzione sotto il divano. Non riuscì a trovare il feticcio e, rialzandosi, con un sospiro affaticato scostò un'estremità del divano dal muro. Era terribilmente pesante. Si ricordò la sera in cui lei e sua madre avevano comprato i mobili: a lei sarebbe piaciuto arredare l'appartamento in stile danese, ma sua madre aveva insistito per questo pesante divano in legno d'acero. Amelia grugnì mentre lo scostava dal muro, poi si ricordò dell'acqua che in bagno scorreva sempre e pensò che avrebbe fatto meglio a chiuderla al più presto. Guardò la sezione di pavimento che aveva scoperto scorgendo l'asta della lancia. Il pupazzo comunque non c'era. Amelia raccolse il piccolo cimelio e lo depose sul tavolo da caffè. Il feticcio doveva essersi incastrato sotto il divano, decise: perciò quando lo aveva spostato aveva mosso anche il pupazzo. Pensò di aver sentito un suono, dietro di lei: esile, quasi beffardo. Amelia si girò, ma il suono non si udiva più. Sentì un brivido salirle dalla parte posteriore delle gambe. — È Colui Che Uccide — si disse con un sorriso. — Si è tolto la catena e se n'è andato... S'interruppe all'istante. C'era stato sicuramente un rumore, in cucina: un suono metallico, stridente. Lei deglutì nervosamente. "Ma che sta succedendo?" pensò. Attraversò il soggiorno e raggiunse la cucina, accendendo la luce. Guardò all'interno: tutto sembrava normale. Mosse gli occhi con incertezza dalla cucina, con la pentola piena d'acqua sui fornelli, al tavolo e alla sedia, i cassetti e gli sportelli degli armadietti chiusi, l'orologio elettrico, il piccolo frigorifero su cui giaceva il suo libro di ricette, il quadro al muro, la rastrelliera dei coltelli attaccata a un lato della credenza... il coltello più piccolo mancava. Amelia guardò di nuovo la rastrelliera. "Non essere sciocca" si disse. Evidentemente aveva messo il coltello in un cassetto, questo era tutto. Entrò nella stanza e tirò il cassetto delle posate: ma il coltello non c'era. Un altro rumore la indusse a guardare verso il pavimento, e allora proruppe in un'esclamazione soffocata, presa dal panico. Per vari secondi non riuscì a reagire; poi, dirigendosi verso la porta, lanciò un'occhiata in soggiorno col cuore che le martellava. Era stata solo immaginazione? Era sicura di aver visto qualcosa muoversi. — Oh, andiamo — disse, in tono di disprezzo verso se stessa. Non aveva visto niente. E allora in soggiorno la lampada si spense.
Amelia fece un balzo così violento che batté il gomito destro contro lo stipite della porta. Urlò, e si strinse il gomito con la sinistra, chiudendo gli occhi per un momento. La faccia era una maschera di dolore. Riaprì gli occhi e scrutò il soggiorno buio. — Andiamo — si ripeté sempre più severamente. Tre rumori strani e una lampadina fulminata non aggiungevano proprio niente a una cosa idiota come... Scacciò via il pensiero. Doveva chiudere l'acqua in bagno; uscì dalla cucina e si diresse verso l'ingresso. Si sfregava il gomito, con smorfie di dolore. Ci fu un nuovo rumore. Amelia si sentì gelare: qualcosa si stava muovendo sul tappeto, verso di lei. Guardò in basso senza emettere alcun suono. "No" pensò. E allora lo vide: un rapido movimento a pochi centimetri dal pavimento. Ci fu un luccichio di metallo, poi una fitta lancinante nel polpaccio destro. Amelia emise un grido soffocato scalciando alla cieca. Ancora dolore. Sentì il sangue caldo colarle sulla pelle, si girò e si precipitò verso l'ingresso. Il tappeto la fece scivolare, e lei cadde contro il muro, mentre il dolore le trapassava la caviglia destra. Si aggrappò al muro per non cadere, poi finì lunga distesa su un fianco. Si dibatté disperatamente, singhiozzando dalla paura. E ancora movimento, buio nel buio. Dolore al polpaccio sinistro, poi di nuovo al destro. Amelia urlò, e qualcosa le passò accanto a una coscia. Lei si scansò, poi barcollò nel tentativo di rialzarsi, alla cieca, e rischiò di cadere di nuovo. Lottò per trovare l'equilibrio, muovendosi convulsamente. Il palmo della mano sinistra premeva contro il muro, sostenendola. Arrancando corse nella camera da letto, ormai oscura. Sbatté la porta e vi si appoggiò contro, ansimando. Qualcosa vi urtò con violenza dall'altra parte: qualcosa di piccolo, a poca distanza dal pavimento. Amelia ascoltò, cercando di non respirare troppo rumorosamente. Tirò la maniglia, per assicurarsi che la porta fosse ben chiusa. Quando non si udirono più rumori fuori dalla stanza, si diresse verso il letto, sobbalzando all'urto contro l'orlo del materasso. Crollò esausta, ma prese il telefono addizionale e se lo mise in grembo. Chi poteva chiamare? La polizia? Avrebbero pensato che era pazza. Mamma? Era troppo lontana. Stava formando il numero di Arthur alla luce che veniva dalla stanza da bagno, quando la maniglia della porta cominciò a girare. Improvvisamente le sue dita non poterono più muoverei: guardò attraverso la stanza oscura e sentì la serratura della porta scattare. Il telefono le cadde di mano, e lei lo
sentì picchiare sul tappeto mentre la porta si spalancava. Qualcosa si lasciò cadere dalla maniglia, dalla parte esterna. Amelia si ritrasse istintivamente, sollevando le gambe. Un'ombra correva sul tappeto verso il letto; lei la fissò sbalordita e pensò: "Non è vero". Si irrigidì quando sentì che qualcosa tirava la coperta del letto: si stava arrampicando per raggiungerla! "No" si disse di nuovo "non può essere vero." Non riusciva a muoversi, e rimase a fissare inebetita l'orlo del materasso. E allora le apparve qualcosa che assomigliava a una piccola testa. Amelia si tolse con un grido isterico, si precipitò attraverso il letto e balzò sul pavimento. Si rifugiò in bagno, si girò e sbatté la porta, gemendo per il dolore alla caviglia. Aveva appena premuto il bottone sulla maniglia quando qualcosa si abbatté violentemente contro la base della porta. Amelia udì un rumore simile al grattare di un ratto, poi anche quello cessò. Lei si piegò sulla vasca da bagno, dove l'acqua quasi debordava. Quando chiuse i rubinetti vide gocce di sangue cadere nell'acqua. Si levò e si diresse al mobiletto dei medicinali con lo specchio, sopra il lavandino. Trattenne il respiro dall'orrore quando vide il taglio che aveva sul collo, e vi premette contro una mano tremante. E improvvisamente divenne conscia del dolore che provava alle gambe, e guardò verso il basso. Era stata colpita a tutti e due i polpacci, e il sangue le scorreva sulle caviglie, sgocciolando dall'orlo dei piedi. Amelia cominciò a urlare, e il sangue scorse attraverso le dita della mano premuta sul collo, gocciolando lungo il polso. Guardò la sua immagine riflessa attraverso un velo di lacrime. Qualcosa nel volto che vedeva la scosse: quella miseria, quell'aspetto di atterrita rassegnazione. Si protese verso lo sportello dell'armadietto dei medicinali e, aprendolo, ne trasse tintura di iodio, garza e cerotto. Abbassò il coperchio del water e vi si accasciò, cautamente. Fu una lotta togliere il tappo dalla bottiglia di tintura di iodio: dovette sbatterlo tre volte, duramente, contro il lavandino prima che si aprisse. Il bruciore dell'antisettico sui polpacci la fece gemere. Amelia strinse i denti mentre si avvolgeva la garza intorno alla gamba destra. Poi un rumore la fece girare di soprassalto, e vide la lama del coltello scattare sotto la porta, furibonda. "Sta cercando di colpirmi ai piedi" pensò "crede che io sia sempre lì." Provava un senso d'irrealtà a considerare i piani di quella cosa. Questo è Colui Che Uccide: le venne improvvisamente in mente il rotolino di carta nella scatola. È un terribile cacciatore. Fissò la lama che sbucava continuamente sotto la porta. "Dio" pensò.
Si bendò in fretta entrambe le gambe, poi, guardandosi allo specchio, si pulì il sangue dal collo con un asciugamani. Mise un po' di tintura di iodio sugli orli della ferita, gemendo per il dolore. Si girò di soprassalto al nuovo rumore, col cuore in gola. Si avvicinò alla porta, si chinò e ascoltò. C'era come un suono debole, metallico, dentro la maniglia. Il pupazzo stava cercando di aprirla. Lei arretrò lentamente, osservando la porta. Cercò di visualizzare il pupazzo: stava appeso alla maniglia per un braccio, usando l'altro per lavorarsi la serratura col coltello? Era un'immagine folle, e Amelia sentì un brivido gelato dietro il collo. "Non devo permettere che entri" pensò. Un urlo rauco le sfuggì dalle labbra tirate mentre il pulsante sulla maniglia veniva spinto verso di lei. Agendo d'impulso, Amelia strappò una tovaglia da bagno da dov'era appesa. La maniglia girò e la serratura scattò libera. Immediatamente il feticcio si lanciò dentro, muovendosi così rapidamente che la sua figura apparve come una macchia agli occhi di Amelia. Lei scaraventò la tovaglia con forza, come per schiacciare un insetto che le venisse incontro. Il pupazzo finì sbattuto contro il muro, e lei gli premette addosso la tovaglia, poi attraversò il bagno, gemendo per il dolore alla caviglia. Spalancò la porta e si precipitò in camera da letto. Aveva quasi raggiunto la porta quando la caviglia cedette. Cadde sulla moquette con un urlo isterico, mentre già avvertiva un rumore alle sue spalle. Girandosi per guardare indietro vide il feticcio attraversare la porta del bagno come un velocissimo ragno, e vide anche la lama del coltello che mandava lampi di luce. Poi il pupazzo piombò nell'ombra, avvicinandosi a lei rapidissimo. Amelia si scansò istintivamente, diede un'occhiata di sopra la spalla e vide l'armadio: allora riparò nella sua oscurità, cercando di richiuderne le ante. Ma prima che vi riuscisse provò ancora dolore: una stilettata, come di ghiaccio, al piede. Amelia urlò, si buttò indietro, e cercando di risollevarsi abbrancò un cappotto, facendolo cadere sul pupazzo. Lei buttava per aria tutto ciò che le capitava a tiro, e il pupazzo finì sepolto sotto un mucchio di bluse, gonne e vestiti. Amelia si tuffò oltre quella pila di abiti animati, sforzandosi di restare in piedi e zoppicò nell'anticamera più velocemente che poté. Il rumore di colui che si agitava sotto i suoi abiti svanì dalle sue orecchie, e lei si trascinò fino alla porta d'ingresso. La porta era bloccata: Amelia si protese verso il chiavistello, ma era sta-
to manomesso. Cercò di tirarlo, ma non riuscì a smuoverlo. Lo afferrò con mani che dalla disperazione sembravano artigli: era stato ritorto, non aveva più la sua forma originaria. — No! — mormorò. Era in trappola. — Oh, Dio! — Cominciò a battere i pugni sulla porta. — Ti prego, aiutami! Aiutami! Un rumore in camera da letto: Amelia si girò e barcollò in soggiorno. Si mise in ginocchio dietro il divano cercando il telefono, ma le dita le tremavano tanto che non riuscì a comporre il numero. Cominciò a singhiozzare, poi si voltò con un grido strozzato: il pupazzo le si precipitava addosso dall'ingresso. Amelia afferrò un portacenere dal tavolo da caffè e lo scagliò contro il feticcio. E poi scagliò un vaso, una scatola di legno, una statuetta. Ma non riuscì a colpire il pupazzo, che la raggiunse e cominciò a colpirla alle gambe. Lei arretrò ciecamente e cadde sul tavolo da caffè. Rotolando sulle ginocchia si rimise in piedi e vacillò verso l'ingresso, scaraventandosi indietro tutti i mobili che le capitavano a tiro per fermare il feticcio: ribaltò una sedia, un tavolo, prese una lampada e la scagliò al suolo. Tornò nell'ingresso e s'infilò rapidamente nell'armadio, sbattendo la porta. Impugnava la maniglia con dita rigide, mentre ondate del suo stesso respiro bollente le avvolgevano il viso. Urlò, quando il coltello s'infilò sotto la porta e la sua punta aguzza le ferì un dito del piede. Istintivamente si tirò indietro, allentando la presa sulla maniglia. L'accappatoio le pendeva addosso aperto e sentiva un filo di sangue scorrerle tra i seni; le gambe erano intorpidite dal dolore, e chiuse gli occhi. Si irrigidì mentre la maniglia cominciava a girare nonostante la sua stretta e sentì la carne diventarle gelata: non poteva essere più forte di lei... Non poteva! Amelia strinse più forte. "Ti prego" pensò. Batté la testa contro l'orlo anteriore di una valigia che sporgeva da uno scaffale, e allora l'idea esplose nella sua mente. Tenendo sempre la maniglia con la mano destra, si allungò verso la valigia con la sinistra. I lucchetti della valigia erano aperti. Con un movimento improvviso lei girò la maniglia, spalancando la porta dell'armadio con tutta la forza che aveva: sentì sbattere contro il muro e il pupazzo finì a terra. Amelia afferrò la valigia e, tenendone il coperchio aperto, si inginocchiò nell'armadio, davanti all'apertura spalancata. Teneva la valigia come un libro aperto dinanzi a sé. Cercò di farsi coraggio, gli occhi sgranati, i denti stretti. E poi sentì tutto il peso del pupazzo mentre quello colpiva il fondo della sua trappola. Allora chiuse immediatamente il coperchio e mise la
valigia in orizzontale; poi, chinandosi su di essa, la tenne chiusa finché con le mani tremanti non riuscì ad assicurare i lucchetti. Lo scatto delle serrature la fece singhiozzare di sollievo. Amelia scaraventò via la valigia, che scivolò sul pavimento dell'ingresso e picchiò contro il muro. Lei lottò per mettersi in piedi, sforzandosi di ignorare il parossismo di calci, il raspare furioso all'interno di quella prigione improvvisata. Accese la luce e cercò di far scorrere il lucchetto della porta d'ingresso, ma era inesorabilmente bloccato. Si girò e zoppicò in soggiorno, guardandosi le gambe. Le fasciature pendevano libere ed entrambe le gambe erano striate di sangue raggrumato, mentre alcune ferite continuavano a sanguinare. Si tastò la gola: il taglio era ancora umido. Amelia strinse le labbra tremanti e pensò che ci sarebbe voluto un dottore, subito. Prese la pinza del ghiaccio da un cassetto in cucina e tornò in ingresso, ma il suono di qualcosa che veniva tagliato le fece trattenere il fiato. Guardò in basso: la lama del coltello spuntava dal coperchio della valigia, muovendosi su e giù come una piccola sega. Amelia ebbe l'impressione che il suo corpo fosse diventato di pietra. Zoppicò fino alla valigia e vi si inginocchiò accanto, fissando con repulsione la lama che sembrava una sega: era macchiata di sangue. Cercò di afferrarla con le dita della mano sinistra, di tirarla, ma la lama le offrì di colpo il taglio, scattò, e lei urlò ritirando la mano. C'era un taglio profondo nel pollice e il sangue le correva attraverso il palmo. Amelia si premette il dito sull'accappatoio e le sembrò di svenire. Si costrinse ad alzarsi e a trascinarsi alla porta d'ingresso, e cominciò a forzare il lucchetto, ma non riusciva a sbloccarlo. Il pollice le doleva adesso fortemente. Spinse la pinza del ghiaccio sotto la cavità del lucchetto, cercando di scardinarlo; la punta della pinza si ruppe, Amelia scivolò e quasi cadde. Si tirò su, mugolando. Non c'era tempo, non c'era tempo... Si guardò intorno, disperata. La finestra! Doveva buttare la valigia dalla finestra! Se l'immaginò che cadeva nelle tenebre, e depose immediatamente la pinza per dedicarsi a quel compito. Poi si bloccò, raggelata: il feticcio aveva già insinuato la testa e le spalle nello squarcio che aveva aperto nella sua prigione. Amelia lo guardò lottare per liberarsi e il pupazzo, divincolandosi, ricambiò lo sguardo. "No" cercò di convincersi lei "no, non è vero." Ma il pupazzo, con un ultimo scatto, si era liberato le gambe ed era balzato sul pavimento. Lei scattò verso il soggiorno, ma il piede destro finì su un coccio del va-
so spaccato, e lo sentì entrare profondamente nel tallone, finché perse l'equilibrio. Cadde su un fianco, dibattendosi. Il pupazzo avanzò a balzi verso di lei e la lama gli scintillò in mano. Amelia scalciò violentemente, colpendolo con un piede. Si rimise in piedi e riparò in cucina, spingendo la porta dietro di sé. Ma qualcosa le impedì di chiuderla: Amelia ebbe l'impressione di udire un urlo riecheggiarle direttamente nel cervello. Guardando in basso vide il coltello e una sottile mano di legno: il braccio del pupazzo era incastrato fra la porta e lo stipite! Amelia fece forza sulla porta con tutto il suo peso, atterrita dalla resistenza con cui essa veniva respinta nel senso opposto. Poi ci fu il rumore di qualcosa che si spezzava e un sorriso feroce le tirò le labbra. Spinse selvaggiamente la porta e l'urlo che le era già risuonato nel cervello si ripeté più forte, sommergendo il rumore del legno che si frantumava. La lama del coltello s'inclinò, Amelia si inginocchiò e le diede il colpo finale. Poi tirò il coltello in cucina, contemplando lo spettacolo della mano e del polso di legno che si staccavano dall'impugnatura. Con un conato si costrinse ad alzarsi di nuovo e buttò il coltello nel lavandino. Nello stesso momento la porta al suo fianco sbatté violentemente e il pupazzo si precipitò all'interno. Amelia si scansò per evitarlo, prese una sedia e la lanciò verso il feticcio. Quello scartò di lato", poi corse intorno alla sedia caduta. Amelia abbrancò la pentola d'acqua sul fornello e gliela buttò addosso: la pentola finì fragorosamente al suolo, inzuppando il feticcio. Lei lo fissò: non cercava più di venirle dietro, ma di arrivare al lavandino con grandi salti, tenendosi aggrappato con una mano al contatore. "Vuole il coltello" pensò Amelia. "Ha bisogno della sua arma." E allora seppe improvvisamente ciò che doveva fare. Si diresse verso la cucina economica e aprì lo sportello della griglia del forno, poi regolò la manopola al massimo. Udì il rumore sordo del gas che cominciava a uscire, si volse e fece per afferrare il pupazzo. Urlò quando il feticcio cominciò a torcersi e a scalciare, dibattendosi follemente e facendola barcollare. L'urlo riempì ancora la sua mente, e allora capì che era lo spirito all'interno del pupazzo che gridava. Amelia scivolò e urtò contro il tavolo, ma riuscì a riprendere l'equilibrio, si inginocchiò davanti al forno e vi cacciò dentro il feticcio. Chiuse di colpo lo sportello e vi si accasciò contro. Poco ci mancò che lo sportello venisse scardinato, ma Amelia lo spinge-
va con tutta la forza delle spalle e per aumentare la spinta si girò e puntellò le gambe contro il muro. Cercò d'ignorare i colpi e il raspare furibondo del feticcio nel forno. Guardò il sangue vermiglio che le scorreva dal tallone, poi l'odore di legno bruciato cominciò a giungerle alle narici, e lei chiuse gli occhi. Lo sportello stava facendosi caldo, e Amelia se ne scostò un poco, cautamente. Lo scalciare e il battere disperato le riempivano le orecchie, e le urla le attraversavano il cervello. Sapeva che si sarebbe scottata la schiena, ma non osava muoversi. L'odore di legno bruciato aumentò e il piede cominciò a darle fitte insopportabili. Amelia guardò l'orologio elettrico appeso al muro. Mancavano cinque minuti alle sette. Guardò la lancetta dei secondi muoversi lentamente e un minuto passò. Ora le urla nella sua mente cominciavano ad affievolirsi. Si mosse a disagio, stringendo i denti per il calore violento che le bruciava la schiena. Passò un altro minuto. I calci e il picchiare forsennato cessarono, le grida si affievolirono sempre più. L'odore di legno bruciato permeava adesso tutta la cucina e una cortina di fumo grigio aleggiava nell'aria. "Ecco come ci troveranno" pensò Amelia. "Ora tutto è finito, qualcuno verrà e mi aiuterà. Succede sempre così." Lentamente si scostò dallo sportello del forno pronta a buttarcisi di nuovo contro se ce ne fosse stato bisogno. Si girò e si mise in ginocchio; la puzza di legno carbonizzato le dava la nausea, tuttavia doveva sapere: si piegò verso lo sportello e lo aprì. E allora qualcosa di oscuro e soffocante le si precipitò incontro, e lei udì ancora una volta l'urlo mentale, mentre il calore fluiva su di lei e dentro di lei. Adesso era un urlo di vittoria. Amelia spense il forno, prese dal cassetto un paio di pinze per il ghiaccio e sollevò il pezzo di legno annerito. Lo mise nel lavandino e vi fece scorrere sopra l'acqua finché non cessò di fumare. Poi andò in camera da letto e compose il numero di sua madre. — Sono Amelia, mamma — disse. — Mi dispiace di essermi comportata come una sciocca, prima. Voglio che passiamo la sera insieme, naturalmente, ma si è fatto un po' tardi. Puoi passare tu di qui? Arriveremo prima al cinema. — Ascoltò la risposta, poi: — Bene, ti aspetto. Riattaccò e andò in cucina, dove sfilò dalla rastrelliera il più lungo dei coltelli. Poi, alla porta d'ingresso, spinse facilmente indietro il lucchetto, che adesso si muoveva normalmente. Portò il coltello in soggiorno, si tolse l'accappatoio e danzò una danza della caccia, della gioia della caccia, della
gioia per l'uccisione imminente. Poi si sedette, a gambe incrociate, in un angolo. Colui Che Uccide sedeva, a gambe incrociate, in un angolo, nel buio, in attesa della sua prossima preda. Titolo originale: Prey. (1969) VENITE OMBRE, VENITE SIMULACRI Quella che segue è la parte iniziale del romanzo a cui sto attualmente lavorando. Il progetto che ho in mente si concreterà in tale romanzo o, se necessario, in più romanzi (probabilmente una trilogia) e costituirà uno studio approfondito, almeno spero, dei fenomeni extrasensoriali e medianici. Essi verranno esaminati nei loro aspetti più ingenui e primitivi, in quelli fraudolenti, sfortunatamente ne esistono, e in quelli seri e scientifici, che a mio avviso ne dimostrano l'inconfutabile validità. La materia verrà presentata sotto forma di resoconti delle esperienze di tre ragazzi, i Nielsen, e del loro coinvolgimento nei vari fenomeni. R.M. Ma quelle non eran che ombre e simulacri di cose di là da venire. IGNOTO (1526) 1 Stando ai suoi ricordi, cominciò un pomeriggio d'estate del 1921, quando lei aveva tre anni. Può darsi che fosse capitato in altre occasioni, prima di quel giorno, ma in tal caso non se ne ricordava. Papà aveva chiesto in prestito la macchina di zio Alec e aveva deciso di portare la Mamma, Vera e lei alla spiaggia. Claire ricordava la lunga scarrozzata per Flatbush Avenue, oltre i binari del tram e al di là del campo d'aviazione Floyd Bennett; ricordava il trasbordo in ferry-boat sul Marine Basin e infine l'ultimo tratto verso la spiaggia vera e propria. Ricordava esattamente dove avevano parcheggiato e come si fossero incamminati sulla sabbia bianca e bollente che luccicava al sole. Siccome la sabbia le bruciava i piedi, Papà se l'era cari-
cata sulle spalle. Con loro era venuta una donna anziana, probabilmente una cliente di Mamma. Claire non ricordava granché di lei, a parte i riccioli grigio-topo e gli occhi lucidi, alieni, come quelli di un uccello. La donna vestiva di nero, probabilmente era vedova; Claire vedeva una veste nera, un maglione nero e piccole scarpe dello stesso colore. Doveva essere molto vecchia per portare un maglione con quel caldo. Claire era intenta a scavare nella sabbia quando la vecchia sì avvicinò, venendo dal mare. Reggeva un grosso guscio di conchiglia, si chinò e le accostò all'orecchio l'estremità aperta. — Ascolta, piccolina — disse la vecchia. Claire ascoltò il mormorio per un poco, poi cercò di sottrarsi. Ma la vecchia allungò il guscio e glielo tenne appiccicato all'orecchio. — Ascolta ancora. Ascolta, e i morti ti parleranno. Papà strinse le labbra: pareva che stesse per dire qualcosa di antipatico alla vecchia signora. La Mamma alzò gli occhi dal giornale e corresse: — Quelli che ci hanno lasciato, cara, non i morti.. — Quelli che ci hanno lasciato — ripeté la vecchia, con un sorriso che mostrò i denti falsi. Guardò Claire di nuovo. — Ascolta bene. Ascolta meglio che puoi, e a poco a poco una voce ti parlerà dall'Aldilà. È sicuro. Claire ascoltava ma nella conchiglia c'era solo il rumore del mare, e alla fine la vecchia signora rinunciò. Più tardi, mentre gli altri sonnecchiavano, Claire si mise a sedere e, dopo aver giocato un po' con la sabbia, si premette la conchiglia all'orecchio. Ascoltò a lungo, trattenendo il fiato, e all'improvviso una voce sussurrò: — Claire! — Spaventata, buttò via la conchiglia, e il cuore cominciò a batterle così furiosamente da farle male. Claire fissò la conchiglia ma non fu capace di toccarla più. E in questo modo, stando ai suoi ricordi, cominciò la Paura. La Paura c'era sempre. A volte era minore, ma non la lasciava mai, sempre nascosta sotto la superficie. Da bambina se l'immaginava come un pesce nero e gigantesco che nuotava sotto il pelo dei suoi pensieri, e da un momento all'altro poteva emergere e divorarla. A volte era così violenta che la testa le doleva, e provava un senso di nausea, e aveva la sensazione che le stringessero il petto con una fascia di ferro, fino a impedirle di respirare. A cinque anni aveva avuto la difterite e la febbre reumatica nello spazio di pochi mesi:
ma quei mali erano nulla se paragonati alle sofferenze, anche fisiche, della Paura. A quattro anni, quando scoprì che le persone hanno un'aura, la Paura fu con lei. Ogni aura era simile all'altra per forma, ma non per contenuto. La prima cosa visibile era una banda scura spessa poco più di mezzo centimetro che seguiva i contorni del corpo: Mamma lo chiamava il doppio eterico. Poi veniva una striscia lattiginosa, semiluminosa, spessa parecchi centimetri e che costituiva l'aura intema. Infine c'era un'aura esterna, più ampia ma meno definita. Guardando quelle chiazze nebulose, osservando il modo in cui fluttuavano, ora splendenti di colori, ora scure e maculate, ora opache e plumbee, Claire si sentiva invasa dalla Paura, da una minaccia sotterranea. Era affascinante guardare le aure, eppure era tremendo. Quella che più l'atterriva era t'aura della Mamma: un nembo grigio che pulsava e si gonfiava come un'eterica ameba. Quando Mamma parlava con Papà, l'aura si espandeva e pareva rompersi, mentre apparivano chiazze scure simili a quelle della polvere; tali chiazze ondeggiavano da un'estremità all'altra, come se in qualche modo respirassero. Nel frattempo l'aura di Papà si contraeva e gli rimaneva attaccata addosso come un sudario. A quella vista la Paura invariabilmente si scatenava e scuoteva il sistema nervoso di Claire. A tempo debito imparò a controllare le sue visioni, ma il sapere che, se avesse allentato le difese, lo spettacolo dell'aura si sarebbe presentato di nuovo bastava a tener vivo il fuoco della Paura. Sapeva di essere sempre vulnerabile. La Paura fu con lei, fredda e dolorosa, la volta che si ammalò e, svegliandosi, vide una replica ombrosa di se stessa volteggiare a mezz'aria, e infine ritrarsi e occupare di nuovo il suo antico posto; fu con lei, fredda e dolorosa, quando a sei anni assisté alla morte di un cane, il quale era corso in strada ed era stato investito. Dal corpo rannicchiato e sanguinante Claire vide uscire una sostanza grigia simile a fumo liquido. E fu con lei, fredda e dolorosa, quando parlò del cane nella sua classe, la I B della Scuola Pubblica n. 90, e i compagni risero così forte da farla star male. La Paura fu con lei quando, per istigazione di Vera (avevano rispettivamente sette e cinque anni), tentarono di far ballare il tavolo e rimasero paralizzate dal terrore, le lacrime che correvano giù per le guance, mentre il grosso tavolo da pranzo tremava e si alzava sotto le loro dita intorpidite. La Paura fu con lei quando, camminando per la strada con Mamma o Papà, imparò a leggere i sentimenti che la circondavano: l'odio, il risentimento, la furia, la bramosia della gente, che lei era costretta ad assorbire fino a es-
serne impregnata e a star male. In seguito creò una barriera protettiva anche contro questo fenomeno, ma se la resistenza veniva meno un sol momento, se permetteva che una sola crepa si aprisse nel muro, allora esso la sopraffaceva. La Paura fu con lei, come un artiglio di ghiaccio che serra il cuore e gli organi vitali, quando riconobbe la musica funesta che preannunciava inevitabilmente la morte di un familiare. La musica cominciava quando meno te l'aspettavi, e a lungo, da piccola, pensò che qualcuno la suonasse dentro casa, tanto era chiara e inconfondibile. Dopotutto, nella stanza delle sedute c'era un pianoforte... Di nuovo la Paura, a otto anni, quando Vera e lei s'intrufolarono nella casa deserta che era appartenuta a un gangster; costui era impazzito e aveva ucciso la madre con un coltello da cucina, aveva violentato la figlioletta di nove anni e fatto a pezzi la moglie. Quando Claire era entrata, da sola, nella stanza da letto al piano superiore, aveva visto al posto del letto una mostruosa escrescenza fungoide che pulsava e tremava come fosse viva. L'aveva guardata in preda all'orrore, incapace di muoversi e perfino di respirare, finché Vera era entrata in camera e l'aveva liberata. In seguito, la Mamma parlò di "noduli psichici", che si creano là dove il male si è concentrato più pesantemente. Fu con lei, la Paura, con tanta violenza che pensò di morire, una sera d'inverno, a nove anni, quando vide zia Evelyn, la sorella della Mamma, immobile sul portico e intenta a fissarla dalla porta a vetri. Claire si trovava sulle scale: le scese in fretta e chiamò la zia per nome, perché le era affezionata e voleva farla entrare. Claire sorrise di piacere e pensò che la zia si fosse nascosta per gioco, come spesso faceva; uscì sul portico a cercarla, ma tutto era buio e c'era un freddo che gelava il sangue. Claire non dimenticò mai più quei momenti: lei immobile sulle assi del portico, il vento gelido che le soffiava in volto e il sorriso ormai dimenticato mentre ripeteva il nome di zia Evelyn; poi all'improvviso si rifugiò in casa, chiuse la porta dietro di sé come a proteggersi da un freddo superiore a quello dell'inverno e corse dalla Mamma per raccontare ciò che aveva visto, la Mamma si recò a casa di zia Evelyn e scoprì che era morta quella mattina per attacco cardiaco. Quello che spaventò Claire, più ancora dell'apparizione, fu il sorriso di soddisfazione sulla faccia della Mamma. Era soddisfatta dei poteri di Claire, e questo, a quanto pareva, faceva impallidire perfino la morte della sorella. Claire aveva i poteri, e naturalmente le venivano dal ramo materno. Il
giorno dopo, mentre la bambina giaceva sul letto con le membra di piombo, Mamma la coccolò e disse che Dio aveva posto in lei un dono meraviglioso. La Paura l'accompagnò, tenace e nera compagna, per quasi tutta la vita. Anche adesso era con lei, anche adesso che era sdraiata sul letto e guardava il soffitto dipinto della propria stanza. Aveva diciotto anni, e a quell'età pensava di dover dominare la Paura. Invece, era peggio che mai. Al pensiero di ciò che l'aspettava quella sera si erano scatenati tutti i sintomi: mal di testa accompagnato da un sordo bruciore alla fronte; contrazioni di stomaco che trasformavano in veleno quel po' di cibo che era riuscita a mandar giù; respiro faticoso e irregolare, come se qualcuno stesse pompando via l'aria della stanza. Se Papà fosse stato a casa! Se avesse potuto abbracciarlo, ascoltare la sua voce calma, gentile, e dimenticare ciò che sarebbe accaduto quella sera! Ma oggi Papà non sarebbe venuto, e nemmeno poteva andarlo a trovare nella sua camera ammobiliata, perché era nel New Jersey per lavoro. Non c'era nessuno a cui potesse parlare. Alcestis le mostrava comprensione, ma non poteva capire fino in fondo: il suo mondo era quello della gente comune. Né poteva parlare a Vera, anzi, si evitavano il più possibile; certe volte aveva l'impressione che Vera non capisse niente. Chi restava: Ranald? Era dolce e riflessivo, ma aveva solo dieci anni. La sua situazione non era alla portata del ragazzo. Quanto alla Mamma, era l'ultima dalla quale poteva sperare comprensione; la Mamma, che le aveva fatto lasciare l'Erasmus High School all'ultimo anno per cominciare l'Opera; la Mamma, per cui l'Opera era tutto ciò che contava; la Mamma, che non sapeva niente del malessere che lei provava quando doveva esibirsi fra la gente, essere sondata e criticata dalla gente, e infine prosciugata dalla gente. Anche nelle migliori circostanze, Claire temeva la compagnia dei gruppi. Ma essere posta in mezzo a loro, diventare il centro dell'attenzione e dover evocare il nucleo stesso dei suoi terrori, era un pensiero che l'agghiacciava. Nondimeno quella sera, per la prima volta in vita sua, doveva partecipare a una seduta in qualità di medium. — Claire. Si tirò su in fretta e si girò verso la porta. Era la Mamma. Le dette un'occhiata scrutatrice, poi disse: — Credevo dormissi. Claire deglutì. — Ho dormito un poco. — Aveva paura di confessarle
che stava troppo male per dormire. — Più tardi riposerai un altro po' — disse la Mamma. — Ora, prima che Vera e Ranald tornino da scuola, berremo una tazza di tè. Claire fece un sorriso involontario. In circostanze come questa sorrideva sempre: era il suo modo di manifestare un consenso che non provava. Era un'abitudine, un riflesso che si era profondamente radicato in lei. Spesso recitava questa parte per la Mamma: la parte di una brava ragazza che non dubita delle convinzioni di sua madre. A volte sentiva l'impulso quasi irresistibile di manifestare i suoi veri sentimenti; ma anche nei momenti in cui la tentazione era più forte, il ruolo artificiale s'imponeva automaticamente. Di quando in quando, si rendeva conto di non essere una persona sola, ma due. Ed era la seconda, quella più familiare alla Mamma, che ora sorrideva e rispondeva senza esitazione: — Sì, Mamma. — Non hai mangiato niente, dopo colazione? Claire sentì un nodo allo stomaco. La Mamma aveva un modo tutto suo di porre le domande: le faceva sembrare accuse. Non aveva mangiato niente, dopo colazione: e anche allora era riuscita a stento a mandar giù qualche boccone. Tuttavia si sentiva in colpa e sulla difensiva, e disse: — No, Mamma. La Mamma annuì. — Come sappiamo, il corpo è un tempio. È nostro compito purificarlo: niente fumo, niente alcolici, niente eccessi della carne e della gola. Ora andremo al piano di sotto. Claire la seguì in corridoio, mentre il suo vero io implorava: "Per favore, non costringermi a fare la seduta. Ho paura". Ma per quanto fossero parole semplici, sapeva che non le avrebbe mai pronunciate ad alta voce. Tranne per il fruscio dei loro passi, la casa era immersa nel silenzio. Claire scese la stretta scalinata, osservando i capelli tinti della Mamma, respirando il profumo eccessivo che lei emanava. Cominciava già a mancarle il fiato: si tenne forte al corrimano e scese un po' più lentamente. La Mamma aprì la porta della sala ed entrò. Claire giunse in fondo alla scalinata, esitò un momento e poi entrò nella stanza, superando il piano superiore alla sua sinistra. In ogni altra casa, pensava a volte, quello sarebbe stato il salotto. Nella loro era la stanza delle sedute. — Chiudi la porta — disse la Mamma. Si era già sistemata sulla sedia a dondolo e stava versando il tè. Claire chiuse la porta, appoggiandovi contro la spalla perché la serratura scattasse; negli anni l'intelaiatura della porta si era distorta e non combaciava più. Il drappeggio che divideva la stanza delle sedute da quella da
pranzo vibrò impercettibilmente, e Claire, che si era appena girata, trasalì. "È lo spostamento d'aria provocato dalla porta" pensò ma non ne era sicura. Non lo era mai. — Siediti — disse la Mamma. Claire sedette su una sedia dall'altra parte del tavolo. Era un tavolo pesante, circolare, e occupava il centro della stanza. Intorno c'erano otto sedie, e in mezzo un fascio di violette fresche. A quella vista, Claire si sentì mancare. La stanza la opprimeva, era il punto di raccolta di tutto ciò che aveva imparato a temere. — Prendi — disse la Mamma. Claire si allungò e per un attimo le tremò la mano: la tazza che Mamma le porgeva era del servizio buono, in pallida, delicata porcellana di Worcester con un disegno a fiori. Per la Mamma era un giorno speciale, quello, e Claire provò una fitta d'angoscia. Mamma si aspettava grandi risultati, e mentre lei rabbrividiva la tazza sfregò il piattino. "Fa freddo, qui dentro" pensò. La Mamma accendeva la stufa a gas solo durante le sedute. Ma non era il freddo a farla tremare, e lei lo sapeva. La Mamma si abbandonò nella sedia a dondolo e bevve un sorso di tè; gli occhi azzurri al di sopra dell'orlo della tazza non la perdevano di vista un momento. — Bevilo finché è caldo — disse. Claire bevve un sorso. Il tè scottava e scese in lei, che si sentiva gelata, come un solco di fuoco. Era ancor più annacquato del solito, perché la Mamma detestava gli eccitanti, so prattutto prima delle sedute. — La medianità — cominciò la Mamma — è il manifestarsi di Dio nell'uomo. Questo sappiamo, perché è scritto. Essa è un dono del Signore, e il medium in trance è esattamente ciò che il nome sta a significare: un mezzo attraverso cui vengono trasmessi i fenomeni divini. La maggior parte dell'umanità è ferma a uno sviluppo sensoriale infantile. Noi siamo i prescelti, Claire, i prescelti. — La pelle diafana della Mamma s'irrigidì. — Non ha importanza quello che proclamano i cosiddetti studiosi del paranormale. Nella stanza regnò il silenzio per parecchi minuti, e fu così completo che Claire poté sentire la Mamma che deglutiva. Notò che si toccava il seno sinistro, con una smorfia: forse avvertiva di nuovo il dolore. Quando la guardò, Claire abbassò lo sguardo. — Allorché, stasera, le luci si spegneranno, e solo quella rossa rimarrà accesa — disse la Mamma — allorché i raggi malefici saranno eliminati, sentirai una pulsazione nel plesso solare, che come sappiamo è il centro
psichico del corpo. Ben presto cadrai sotto controllo, e due saranno i mezzi: un raggio di pensiero incrocerà la tua aura, e il corpo astrale si staccherà dal tuo corpo, mentre la tua guida ne assumerà il controllo... La Mamma continuava a parlare, ma Claire non l'ascoltava. Aveva udito queste cose tante volte che le sapeva quasi a memoria. Pure, la Mamma le ripeteva, come se temesse che Claire, privata dell'esercizio quotidiano, potesse dimenticarle. Lei fingeva di ascoltare, ma ciò che udiva era solo un gracchiare confuso. "Perché dev'essere buio?" pensava. Era una vecchia domanda, e sebbene conoscesse la risposta non ne era mai stata soddisfatta. Gli spiriti hanno paura delle onde luminose, la Mamma l'aveva spiegato tante volte. Ma se nell'altro mondo è tutta luce, le aveva chiesto Claire una volta, perché gli spiriti la temono? E la Mamma: quella luce è di un'altra natura. Claire tuttavia temeva il buio, e non c'era spiegazione che tenesse. Lei temeva il buio e gli spiriti temevano la luce. Come potevano andare d'accordo? Se l'era chiesto parecchie volte. Le tenebre nascondono, e non si è mai sicuri che cosa. Le tenebre rappresentano tutto ciò che è nascosto e segreto. Malvagità e peccato venivano covati nelle tenebre, nutriti dalle tenebre. La magia di segno negativo si ammanta di tenebre, e infatti la chiamano "nera". Sguardi oscuri e atti oscuri, eclissi, notte, drappi e vesti funebri, liste nere, libri neri, malvagità e ignoranza, cupezza e desolazione, minaccia e sporcizia... tutto ciò apparteneva alle tenebre. La morte stessa era tenebra, fredda e insondabile tenebra. — ...spero naturalmente che produrrai una materializzazione — stava dicendo la Mamma, con voce che tornava udibile. — È la speranza di ogni medium. — Tornò al suo tè. — Ma essendo la prima volta, non è probabile. Claire nascose il moto nervoso della gola mandando giù un sorso di tè. La materializzazione era l'aspetto della medianità che temeva di più. Già il pensarci le dava il voltastomaco. La Mamma, da giovane, aveva prodotto parecchie materializzazioni, e per lei non c'era risultato più grande: in campo medianico ma anche, in assoluto, nella vita. "La materializzazione" aveva detto più di una volta "è il dono più grande." La Mamma finì il tè e mise sul tavolo tazza e piattino. — Ciò in cui puoi sperare ragionevolmente è la ricezione di qualche messaggio atemporale; il diventare la luce a cui gli spiriti oseranno avvicinarsi. Ma anche per questo devi dimenticare te stessa, devi perdere ogni falsa coscienza del tuo io. Devi sgomberare la mente, essere passiva, docile, in attesa. Non puoi far
niente da sola, sono gli spiriti che compiranno ogni cosa; essi vedranno scene lontane, essi udranno voci distanti, e alla fine le imprimeranno nella tua mente. "Gli spiriti, Claire, sono sempre con noi. Ricordalo. Sempre. Pronti a comunicare ogni volta, purché tu non faccia mai domande, non opponga mai resistenza. Se lo facessi, li offenderesti e rovineresti la loro manifestazione. Esser semplici nel cuore, questa è la regola fondamentale. Ha detto Ezechiele: 'Quando parlerò con te aprirò la tua bocca e tu dirai loro: Così disse il Signore'. Ricorda, tutto ciò che gli spiriti ci dicono è vero. Bisogna fidarsi di loro completamente... con l'eccezione degli spiriti maligni, si capisce" aggiunse con noncuranza "ma quelli si riconoscono facilmente." La Mamma si versò una seconda tazza di tè e guardò Claire in maniera interrogativa. — No, grazie — disse lei. La Mamma appoggiò la teiera sul tavolo. — Bevi — disse. — So che abbiamo discusso questi argomenti tante volte, ma tu tendi a dimenticarli. Non fare domande, Claire. Non attenderti sensazioni inconfondibili: raramente ne riceverai. Lascia che impressioni, sensazioni, impulsi, passino attraverso di te senza incontrare ostacoli. Se opponi resistenza, se strozzi il flusso, disturbi le vibrazioni di pensiero che servono da orientamento alla tua guida... e agli altri. E agli altri. Claire aveva freddo, tanto freddo. La Mamma stava dicendo qualcos'altro, ma lei non ascoltava. — Cosa... — farfugliò. — Facciamo un breve riepilogo dei simboli — ripeté sua madre. — Nuvole bianche. Claire respirò col petto tremante, poi rispose: — Felicità. — E prosperità — aggiunse la Mamma. — Non dimenticare la prosperità. — No, Mamma. — "Per favore, non farmi fare quella seduta!" — Nuvole che si allontanano. — Ehm... un viaggio. — Le nuvole che si allontanano indicano un viaggio, sì. Nuvole che si avvicinano. — Ehm... — Claire tossì. — Buone notizie... in arrivo? — Me lo stai chiedendo? Claire deglutì a vuoto. — Buone notizie in arrivo. — Nuvole nere che si avvicinano. — Mala... — Claire esitò. — Malasorte?
— Le nuvole rosse denotano la malasorte — disse la Mamma. La voce era calma, ma come al solito Claire avvertiva la tensione sottostante. — Mi spiace, Mamma — disse lei... o meglio, disse la figliola obbediente. — Nuvole nere che si avvicinano. — Cattive notizie — ricordò Claire. — Il nero — disse la Mamma. Claire la fissò: poteva sentire il battito del suo cuore. — Il nero. — Ehm... disturbi cardiaci? — Il nero indica disturbi cardiaci — convenne la Mamma. — Ma non chiedere, afferma. Chiazze di luce in movimento. Di nuovo la guardò, incapace di ricordare. — Chiazze-di-luce-in-movimento. — Io... La Mamma chiuse gli occhi e inalò dalle narici. Lo sguardo paziente, che non era paziente, aveva contratto la sua faccia in una maschera rigida. — Le chiazze di luce in movimento indicano progressi favorevoli in campo psichico — recitò con lentezza. — Chiazze d'ombra in movimento, al contrario, denotano la presenza di influenze malevole. — Aprì gli occhi e fissò Claire con ostinazione, quindi concluse: — Come tutti sappiamo. — Sì, Mamma. — È nostro compito rammentare queste cose. Rammentare le nostre responsabilità. — Sì, Mamma. — Claire stava rannicchiata sulla sedia, in attesa della prossima domanda, e fissava il grigiore pulsante dell'aura di sua madre e le chiazze d'ombre che danzavano al suo interno. 2 A ore prescritte e nei giorni prescritti, questa era la regola. Mamma insisteva su questo punto. Due ore la mattina e due il pomeriggio, quattro in tutto, per sette giorni la settimana. Esercizi nella stanza delle sedute. Svolgimento. Prima di tutto, respirazione. In piedi davanti alla finestra aperta, d'estate e d'inverno, a espirare forzatamente fino a svuotarsi i polmoni. Quindi, piegare il corpo e rilassare i muscoli. Rimettersi dritta e piazzare entrambe le mani sull'addome, respirando profondamente; tendersi sotto la pressione
delle mani usando solo i muscoli dell'addome. Fornire aria al plesso solare, energizzare il centro psichico. Qual è il significato letterale della parola inspirazione se non "mandar dentro il fiato"? Respirare è mandare la Verità dentro di noi. Premere le mani sulle costole e sui fianchi e respirare nonostante la pressione. Ripetere l'esercizio con la parte superiore del petto. Utilizzare le mani per limitare il lavorio dei polmoni ad aree specifiche. Respirare col solo naso, i denti schiusi, le labbra serrate, la parte inferiore della mascella allentata. Ricominciare. Inspirare nell'atmosfera di Dio. E Dio soffiò nelle nari dell'uomo l'alito della vita, e l'uomo divenne un'anima vivente. Espira, inspira. Quattro ore al giorno, sette giorni la settimana. — Il primo respiro fu quello di Dio, Claire. Il resto dipende da noi. Poi la posizione. Seduta su una sedia dallo schienale rigido, ma senza sfiorare lo schienale. Eretta, coi piedi premuti l'uno contro l'altro sul pavimento, senza mai incrociare le gambe, con le mani sulle ginocchia. In armonia con la respirazione: lenta, regolare, forte, regolare. Dirigere ogni respiro al plesso solare; convogliare l'inspirazione verso il centro psichico. Ripetere e aspettare, ed essere passive. Siedi. Inspira. Aspetta. No, non è consigliabile che tu faccia esperienza in un circolo; i circoli hanno scarso valore. — Tua madre sa ciò che è bene per te. Fidati di tua madre. — Non preoccuparti mai, non aver paura. La preoccupazione è tenebra che nasconde la Luce. La paura è una nuvola che annebbia la Vista (verso scritto dalla Mamma, in Inghilterra, agosto 1903). Siedi con serena aspettativa. Le entità sono sempre con noi, Claire, e sono ansiose di comunicare. Aspetta, rilassati. Il potere verrà, il respiro si farà pesante, il cuore si affaticherà. E allora comincerà l'esaltazione: uno stato che in parte è sogno, in parte è veglia. Le tue impressioni, non più trattenute, saliranno alla superficie. Non farti mai domande, non porre ostacoli. Acconsenti. Accetta. Presto verrai guidata. Sii docile e paziente. Quattro ore al giorno, sette giorni la settimana. Siedi. Inspira. Aspetta. Niente alcol e niente tabacco, niente eccitanti a parte un po' di tè annacquato: il corpo è un tempio. Niente cibo per almeno un'ora prima delle sedute. Molta acqua. Evitare con cura ogni pensiero che riguarda il corpo: la carnalità distrugge. Sradicare il male, rafforzare i legami con lo Spirito, realizzare unità di propositi con gli esseri dell'Aldilà. Proteggiti, sii padrona del tuo tempio. Prega contro l'ossessione. Gli spiriti del Male aleggiano sempre intorno a noi. È facile identificarli, ma devi combatterli con forza, e senza paura. Non stringere la mano a nessuno
prima di esserti accertata quale sia il suo stato psichico; non permettere che qualcuno prosciughi la tua forza. Siedi, inspira, aspetta. Tu sarai un recipiente e verrai riempita d'acqua santa: questa è la nostra missione. Vista interiore, sapienza interiore. Noi siamo i prescelti, Claire, i prescelti. Quattro ore al giorno, sette giorni la settimana, per più di sette anni. Lei aveva tentato. Aveva tentato con ogni sforzo, sola nel silenzio minaccioso della sala, gli occhi chiusi... in attesa. Aveva tentato con tutto il cuore di accettare la marea crescente del potere; aveva permesso al buio opprimente di avvolgere la sua mente e aveva resistito alla tentazione di urlare, di spalancare gli occhi, sebbene a volte fosse stata forte. Non solo per obbedienza, non solo per un senso del dovere nei confronti della Mamma: lo spiritismo diceva la Verità, Claire ne era convinta. La medianità era un dono fondamentale. Se solo non avesse avuto tanta paura... Ogni volta che scivolava nel vuoto sonnolento che preludeva alla trance, ogni volta che perdeva il controllo e cedeva alla debolezza, accadeva qualcosa di terribile. Una volta, sulla parete della sala, aveva visto l'ombra mostruosa di una piovra che la fissava con occhi neri e maligni. E un'altra volta, in mezzo al tavolo, le era apparsa un'escrescenza fungoide, giallo-biancastra, che fremeva e pulsava... una versione in scala ridotta dal "nodulo" che aveva visto da ragazzina nella casa vuota. Poi c'era stata la volta dell'urlo: lontano e agghiacciante, e nessun altro l'aveva udito; e la volta, ma il fenomeno si era ripetuto, che aveva pizzicato le corde del pianoforte, pur senza muoversi dal suo posto e pur tenendo gli occhi chiusi. E le volte che la sedia si era messa a ondeggiare da una parte e dall'altra, o avanti e indietro. E la volta che aveva sentito qualcosa di freddo e umido raccogliersi all'interno della sua vagina. E tutte le volte, le infinite volte che non aveva visto e sentito niente, tranne il gelo e l'orrore incombente, e la sensazione che i morti erano vicini. Tutte queste cose tenevano viva in lei la Paura. Non osava entrare in trance per il terrore che accadessero cose anche peggiori. Su Il mondo degli spiriti c'era una rubrica mensile in cui venivano reclamizzate le attività della Mamma. Nell'annuncio, dove la madre si presentava col nome da signorina, si leggeva: M. Bristol, occultista, medium e chiaroveggente; in possesso del Sesto Senso. — Un giorno anche tu avrai la tua pubblicità sul giornale — le ripeteva spesso la Mamma. Claire si limitava a sorridere, ma il solo pensiero era come una coltellata. E adesso era arrivato il gran momento. Stasera.
— Sarà meglio che tu mangi qualcosa — disse la Mamma. Claire trasalì e la guardò con una mezza domanda sulle labbra. La pelle intorno agli occhi e alla bocca di sua madre si tese: così pure lo stomaco di Claire. — Sarà meglio che tu mangi qualcosa — affermò la Mamma. Claire prese con la forchetta una fettina di patata lessa e se la spinse in bocca. Era calda e secca, e aveva un gusto che le dava il voltastomaco, ma masticò obbediente, augurandosi di non vomitare. Mancava un quarto alle sei: fra meno di tre ore cominciava la seduta. — Essere parchi è una cosa buona — disse la Mamma, versandole dell'altra crema di granoturco — ma bisogna pur mantenere le forze. — Sì, Mamma. Diede un'occhiata a Vera, di fronte a lei, che la guardava divertita e con un po' di invidia. Vera era amareggiata per quella sera: per anni aveva desiderato fare lei gli esercizi imposti a Claire, e non aveva mandato giù che la Mamma avesse scelto la sorella. Vera si riteneva più dotata di Claire: non aveva provocato, forse, un fenomeno di poltergeist? Claire bevve un sorso di latte tiepido. Se solo Vera avesse potuto prendere il suo posto! Sarebbero state più contente tutt'e due. — Posso andare a vedere L'ebbrezza dell'oro, sabato? — chiese Ranald. — Penso di no — rispose la Mamma. — Ma è la storia dell'uomo che possedeva la terra dove trovarono l'oro! In California. L'abbiamo letto a scuola, è tutto vero — disse Ranald. — Se l'hai già letto, non hai bisogno di vederlo. — Ma lo desidero. — Ranald mangiucchiava controvoglia. Vera fece una risatina e lui alzò la testa di scatto, furente. — L'ebbrezza dell'oro — rise Vera. — Che ne sai, tu? — scattò Ranald. — Adesso basta — intervenne la Mamma. — Sta ridendo di me! — Ranald gettò un'occhiata furiosa alla sorella. — Basta, ho detto. Tutti e due. Claire fissò il fratello che mangiava: povero Ranald, Vera si divertiva a punzecchiarlo! Indugiò sul suo viso con affetto, e infine sul ciuffo di capelli biondi. Era l'unico membro della famiglia che sembrasse in salute. Vera era troppo sottile, come la Mamma, e aveva la tendenza ad apparire grave, come il Papà: nessuno dei due era veramente attraente. Ranald, invece, era ben fatto e sorprendentemente bello, se si considerava che i genitori non lo erano affatto. Aveva un aspetto scandinavo più che anglosassone, e sarebbe stato meglio che avesse ricevuto il nome di Papà o di uno dei
suoi fratelli, anziché quello dello zio scozzese della Mamma. Ma a quell'epoca la Mamma sperava di ricevere un'eredità da zio Ranald, e in questa convinzione era sostenuta da zio Alec, il quale, del resto, era sempre pronto a scherzare su tutto. Pensava a questo, Claire, quando suonò il campanello. — Vera — disse la Mamma. — Sto mangiando — rispose Vera. — C'è Claire... — Vera. — Claire non mangia per niente, perché non ci va lei? La terza volta la voce della Mamma suonò calmissima, inflessibile, tale da non ammettere obiezioni. — Vera. Vera mise giù la forchetta e scostò la sedia con una mossa irata. — Raccogli la forchetta e mettila come si conviene — disse la Mamma senza alzare gli occhi dal piatto. Claire vide che Vera fissava prima la madre e poi il fratello, il quale si vendicò con una smorfia. Vera raccolse la forchetta e la depositò nel piatto con precisione, e mentre si allontanava Ranald le ridacchiò dietro. — Stasera i piatti li laverai tu — disse la Mamma. Ranald la guardò sbalordito. — Cosa? La Mamma continuò a masticare regolarmente, stolidamente, scrutando Ranald coi pallidi occhi azzurri. Il ragazzo resse lo sguardo per alcuni secondi, poi deglutì, e abbassò gli occhi sul piatto. Claire sentiva un nodo allo stomaco: ma perché ogni volta che sedevano a tavola doveva finire così? Comunque cominciasse o procedesse la conversazione, invariabilmente degenerava in liti e tensione. Girò la testa e sentì la voce di zio Alec in corridoio. Si sentì meglio, perché lo amava, sebbene la Mamma lo definisse "un irrecuperabile cinico". I suoi passi veloci si mescolarono a quelli di Vera, e infine, come un personaggio di Dickens, spuntò nel soggiorno-pranzo con la faccia rubizza e il corpo asciutto: era perfino più magro della Mamma! Su ciascun orecchio gli cresceva un cespuglio di capelli bianchi, ma per il resto era completamente calvo. — Signori, calma — esordì. Dietro gli occhiali ottagonali, senza cerchiatura, gli occhi simili a more brillavano sornioni. — Sono in tempo per il dessert? — chiese zio Alec. Claire sorrise e notò la smorfia complice di Ranald: anche a lui piaceva lo zio Alec; solo a Vera era antipatico. A volte Claire si domandava se ci fosse qualcuno che le era simpatico.
— Immagino che tu sia qui per l'affitto — disse la Mamma. Claire si sentì a disagio: la Mamma non riusciva a dimenticare che la casa apparteneva a suo fratello. Se zio Alec ci rimase male, non lo diede a vedere. — Ti ho mai fatto fretta, Morna? — La Mamma non rispose. — Sono qui per una tazza di caffè e per fare quattro chiacchiere. La Mamma borbottò qualcosa, si alzò e andò in cucina, che era divisa dal soggiorno da uno scalino. Per un attimo, mentre guardava la sorella, zio Alec parve turbato, poi si sistemò fra i nipoti con aria allegra. Aveva occupato la sedia dove un tempo sedeva Papà. — E allora, che cosa offriva il vostro menù? — Ispezionò il piatto di Ranald con esagerata attenzione. — Salsicce e fagioli. Crema di granturco. Patate. Ci sono tanti amidi da irrigidire le camicie di mezza Brooklyn. — Zio Alec era un rigido salutista. Guardò la fetta di pane in mezzo al tavolo e alzò le sopracciglia. — Ma quello è Silvercup! — esclamò impressionato. — Il pane a fette del Lone Ranger. Oddio, oddio. Ranald sghignazzava. — Cosa c'è di tanto divertente? — domandò lo zio Alec, fingendosi serio. Ciò provocò in Ranald altre risate. — Non riesci affatto a controllarti. Ridi tutto il tempo. Diventerai un pessimo medium, ragazzo. — Io non diventerò un medium — disse Ranald. — No? — Zio Alec simulò un sincero sbalordimento. — E che farai, allora? Sfiderai Jimmy Braddock per il titolo mondiale? — Già. — Ranald sembrava compiaciuto. — E lo stenderò secco. — Quella sera ci sarò, al Madison Square Garden, sta' sicuro. — Zio Alec puntò un dito verso Ranald. — Mi metterò in prima fila. — Benissimo, così ti darò un bel pugno sulle... — Ranald s'interruppe bruscamente: era tornata la Mamma con una tazza di caffè. — ...sulle tasche — finì il ragazzo a mezza voce. — E io te lo restituirò — disse zio Alec. — E non dimenticare che più tardi voglio farmi un voletto con te. — Si riferiva all'aeroplano finto che Papà aveva costruito per Ranald nell'attico. — Okay — disse Ranald con un sorriso. Lo zio gli diede un colpetto sul braccio e fissò la tazza di caffè. — Grazie, sorellina. — Poi la guardò con aria di rimprovero, perché accanto al caffè erano comparsi i soldi dell'affitto. — Morna, per l'amor del cielo... — Non è ancora la mia casa. Zio Alec alzò una mano e fece un gesto di resa. Infilò il denaro nel por-
tafogli e passò a Vera. — Con te come va, signorina Nielsen? — Bene — rispose Vera con freddezza e una punta di noia. — A sentirti non si direbbe. — Zio Alec la esaminò di sopra gli occhiali. — Questa settimana hai visto qualche bel dentone? — Ranald esplose in una risata, perché Vera era attratta dai denti degli uomini, ma solo ultimamente, grazie agli scherzi dello zio, ne era divenuta cosciente. Lei lo guardò piena di vergogna e non rispose. — Ti sto solo stuzzicando, signorina — disse lo zio. Poi si rivolse a Claire: — E tu come stai, signorina Nielsen senior? — Bene, zio — rispose lei con un sorriso. Era un uomo così cordiale che quando gli stavi vicino potevi sentirne materialmente il calore. Nonostante il suo amore per gli scherzi, non c'era che bontà nella sua aura. Claire si abbandonò a contemplarla: era un morbido alone splendente. Zio Alec notò che la sorella faceva una smorfia di dolore e si portava la mano al petto. — Soffri di nuovo? — domandò. — Sto benissimo — rispose lei. — Oh, sorellina, quando la smetterai di ingannarti e andrai da un dottore? — Mai. — Morna. La Mamma sbuffò, disgustata. — Un dottore. Ciò che intendi è un medicastro. — Posò la tazza di tè con irritazione. — E poi dicono che siamo noi, i ciarlatani. — Morna, tu devi andare dal medico. — C'è chi si prende cura di me — rispose la Mamma. — E chi sarebbe? — domandò zio Alec. — Il Dottore Fantasma? La Mamma respirava con rabbia. — Non fai altro che mostrare la tua ignoranza. — Poi, a Ranald: — Mangia. Zio Alec sospirò, come se fosse stanco. — Un giorno o l'altro arriverò qui con un medico e... — E io lo caccerò fuori dalla porta — l'interruppe la Mamma. — L'influsso degli spiriti ha sempre vegliato su di me; non permetterò che la mia casa venga profanata dalla medicina materialista. Dovrei forse tradire il potere che si manifesta in noi? — La Mamma fissava il fratello con aria di sfida. — I sacerdoti vennero scelti — citò — ma i profeti si proclamarono tali da soli. Il Signore disse: Se c'è un profeta tra di voi, mi rivelerò a lui mediante una visione. Noi abbiamo avuto quella visione, Alec. E non la tradiremo.
Zio Alec borbottò a mezza voce, come sconfitto: — Ecco ciò che mi rispondi, se appena apro bocca. Una quantità di citazioni dal Manuale dello spiritista. — Ranald cominciò a ridacchiare, ma la madre lo guardò e lui smise. Rimasero seduti per un po' mentre Alec sorseggiava il caffè. A un tratto lui posò la tazza e disse: — Come sta Bjorn? — Non lo vediamo mai — rispose la Mamma, liquidando l'argomento. Claire sentì una penosa contrazione al petto. In fondo al cuore aveva sempre sperato che, un giorno o l'altro, Papà tornasse a vivere con loro; tuttavia, ogni volta che la Mamma parlava in quei termini quel giorno pareva allontanarsi. Al momento Claire pensava che forse non sarebbe mai venuto. — Ma che cosa fa? — insisté lo zio Alec. — Non ne ho idea — disse la Mamma. Claire si sentì tremare le labbra. — Ha... ha trovato un lavoro in New Jersey, zio. — Davvero? — Sì. — Claire si sentì sondata dagli occhi della Mamma. — Sembra un'ottima cosa — commentò lo zio Alec. — Ma non mi meraviglio: vostro padre è un falegname di prim'ordine, non ne ho mai visto uno migliore. Claire provò un brivido di piacere. Le dava gioia sentire lo zio che elogiava Papà, e ancora più gioia perché la Mamma era presente: poteva restarne colpita, cambiare idea... Se solo Papà fosse tornato a casa, e si fosse aggirato fra loro col suo dolce sorriso, chiamando Claire "la sua nysseguldet"! Nel volume degl'inni della Scienza Cristiana ce n'era uno intitolato O Presenza Gentile: da quando l'aveva letto, Claire aveva sempre pensato al Papà in quei termini. Era così immersa nel sogno di Papà e del suo ritorno che si dimenticò di ciò che l'aspettava quella sera; fu sua madre a riportarla alla realtà: — Sarà meglio che tu vada su e ti riposi. Lo zio si girò verso di lei: — Sei malata? — No. — Si sforzò di sorridere. — Devo solo... — Non riuscì a finire. — Claire deve fare una seduta, stasera — disse la Mamma come se zio Alec potesse minacciare il progetto. — Una seduta professionale? — La medianità non è una professione, è una missione — disse la Mamma.
Zio Alec fissò Claire per alcuni istanti, senza espressione particolare. Poi sorrise: — E così la gran sera è arrivata, finalmente! — Burlarsi è facile — disse la Mamma. — Ma chi si sta burlando, per l'amor del cielo? — Lo zio Alec fece l'occhiolino alla nipote. — Promettimi solo di non fare come tua madre, quando vai in trance. Niente gemiti e mugolii alla maniera della signora Piper, niente fremiti né convulsioni. — Noi facciamo ciò che dobbiamo. — La voce della Mamma era fredda e disgustata. — Non abbiamo controllo su noi stessi. Qualunque cosa produciamo, qualunque sia il messaggio che impartiamo... è opera dello Spirito. Se il mio metodo è simile a quello della grande signora Piper, è solo una coincidenza. — Però lei è la numero uno, vero? — chiese lo zio Alec con faccia impassibile. — Non esistono numeri uno fra i medium — disse la Mamma con affettata pazienza. — Lo spirito ci rende tutti uguali. Se qualcuno di noi sembra dotato di poteri superiori, ciò non si deve a lui, ma a Chi comunica con lui, e a coloro che partecipano alla seduta. La Palladino ha detto una volta: "Sono come un pianoforte. Se mi suonate bene otterrete della buona musica, se mi suonate male l'effetto sarà deludente". Chi si sognerebbe di biasimare il telefono per il contenuto del suo messaggio? Lo stesso avviene con noi. Non siamo che cavi conduttori sui quali operano gli spiriti. — Capisco. — Zio Alec annuì, come se le parole di Morna l'avessero impressionato. — Sei un pianoforte, un telefono e un cavo conduttore. Sei un circo regolamentare a tre piste, sorellina. — Ranald dovette soffocare la risata nel palmo della mano. — Ci hanno già derisi altre volte — disse la Mamma con solennità. — Ci derideranno ancora. Non ha importanza. — Oh, santi numi — disse zio Alec con una smorfia. — Ma chi ti deride? Come sai, mi oppongo solo alle frodi e alle illusioni della tua religione. — Non c'è niente di fraudolento né di illusorio nella nostra religione. Solo in questo paese le chiese spiritiste contano quasi duecentomila membri. Sono tutti illusi, Alec? Io credo di no. — E questo vale anche per la tua chiesa? — domandò asciutto zio Alec. La Mamma fece finta di non sentire. — La comunicazione con gli spiriti è esistita in tutte le civiltà, fin dall'inizio dei tempi. La vita è forse l'ombra creata da una fiamma, che scompare quando la fiamma viene spenta? No,
non lo è. C'è un mondo dello Spirito del quale siamo tutti cittadini, qui come nell'Aldilà. Non può esserci separazione fra spirito e spirito. Come dice san Paolo: Se i morti non risorgono dalla tomba, allora la nostra religione è vana. Zio Alec la fissò per qualche istante, poi girò la testa e si guardò intorno, come se cercasse qualcosa. — Che cosa cerchi? — domandò la Mamma. — Il piattino della questua. Ranald stava quasi per soffocare. La Mamma fece un verso sdegnato e, raccogliendo il suo piatto, si diresse in cucina. — Vera, occupati della stanza delle sedute. Claire, vai di sopra e riposa. Claire si alzò: si sentiva improvvisamente stanca. — Scusatemi — borbottò. Si voltò a guardare lo zio Alec: le sorrideva. — Non preoccuparti, cara, andrà tutto bene. Cercò di restituirgli il sorriso, ma non ci riuscì. Lasciando il soggiorno e attraversando il corridoio, il petto le tremò. Era tutto freddo e immobile, e mentre raggiungeva le scale si sforzò di guardare per terra e di non fissare la vetrata della porta d'ingresso. Poi cominciò a salire. A mezza strada emise un gridolino e si volse a guardare, sbalordita, ai piedi della scalinata. La pelle le si accapponò, e benché non ci fosse nulla da vedere le parve che una presenza gelida la seguisse. Rimase immobile, il volto contratto in una maschera di terrore. Se i morti non risorgono dalla tomba... Con un singhiozzo disperato si precipitò in camera sua. Là, sdraiata sul letto, le gambe rannicchiate, avvolta nella coltre, cominciò a tremare, mentre il freddo le scendeva fino al cuore. — Per favore, Papà, torna a casa — sussurrò. — Per favore. Per favore. Non vedeva Papà dal giorno del suo diciottesimo compleanno, e ormai erano passati due mesi. Dopo quello che era successo, forse lui aveva paura di tornare a casa. L'aveva aspettato tutto il pomeriggio, scostando ogni tanto le tende per vedere se era in arrivo. La Mamma l'aveva rimproverata, per questo, e man mano che passavano le ore il suo umore era peggiorato. A cena era decisamente furiosa: — Hai ragione, non stare a preoccuparti di me, io servo solo a sfamarti e a vestirti.
Quando il campanello suonò, poco prima delle sei, Claire balzò dalla sedia e si precipitò in corridoio, senza nemmeno ascoltare l'ingiunzione materna (— Stai seduta! —) Corse alla porta e l'aprì. — Oh! — disse, incapace di nascondere il proprio disappunto. — Sono una tal delusione, dunque? — chiese lo zio Alec. — No, zio. — Claire sorrise imbarazzata e gli diede un bacio sulla guancia. — Mi dispiace. — Questa è una cosina per la festeggiata — disse lui, porgendole un pacchetto. — Oh, non dovevi. — Allora me lo riprendo — disse zio Alec, fingendo di volerlo riagguantare. Poi abbassò le mani. — Be', penso che te lo lascerò. — Si tolse il cappello e lei lo aiutò con il soprabito. — Pensavi che fosse il tuo Papà, vero? — chiese lo zio. Claire non sapeva che cosa dire. Alec le diede un bacio sulla guancia. — Sono certo che arriverà presto. Buon compleanno, Claire. — Grazie, zio. — Oh, sei tu. — La voce della Mamma li fece girare. Stava immobile in fondo al corridoio inquadrata nel rettangolo della porta. Anche lei, si rese conto Claire, aveva pensato che fosse Papà. — Il tuo caldo benvenuto ristora queste vecchie ossa, sorellina — disse lo zio Alec. La Mamma borbottò qualcosa e tornò nella stanza prima che Claire potesse mostrarle il regalo. — Hai già tagliato la torta? — chiese zio Alec. — Non ancora. — Bene! Voglio la fetta più grossa. — Le mise una mano intorno alla spalla e l'accompagnò in sala da pranzo. Quando entrarono, Claire mostrò il pacchetto: — Guarda che cosa mi ha regalato lo zio Alec, Mamma. — Può permetterselo. — Sorella mia, sorella mia — disse Alec scuotendo la testa. Salutò Ranald e Vera mentre Claire metteva il regalo sulla credenza insieme agli altri due: solo Vera non le aveva regalato niente. Lo zio le offrì una sedia e lei sedette. — Il compleanno della Piccola Lady — disse zio Alec. Aveva appena fatto in tempo a sistemarsi sulla sedia di Papà che suonò il campanello. Fece un sorriso e un gesto in direzione della porta, come a dire: "Vedi?". Claire si alzò tutta eccitata.
— Vado io — intervenne la Mamma. — Ma no, lascia... — La Mamma era già in corridoio, e zio Alec, esasperato, lasciò cadere la frase. Dette un'occhiata a Claire e si strinse nelle spalle. — Be', comunque è arrivato. Claire, immobile, seguì i passi di sua madre, il rumore della porta aperta. — Buona sera. — La voce di Papà! Claire tremò, tutta eccitata. Papà! — Spero che non vorrai entrare in quelle condizioni — disse la Mamma. Una fitta di dolore nel cuore di Claire; senza rendersene conto, gemette, poi si alzò e s'incamminò verso il corridoio. Zio Alec la raggiunse, le mise una mano sulla spalla e disse: — Rimani qui. Vado a vedere io. — Ma... — Vado a vedere io. Claire lo seguì con lo sguardo, e il suo stomaco si strinse. Si guardò intorno, mentre Vera faceva un versacelo. — Ubriaco di nuovo — disse Vera. — Non lo è. — Claire si avviò in corridoio, incapace di aspettare. Dietro di lei, Ranald disse furente: — Ma perché non chiudi il becco? E Vera replicò: — Perché non lo chiudi tu? Claire si fermò in corridoio, fissando la porta d'ingresso. Di nuovo il dolore, così forte che il viso si contrasse. Papà era ubriaco: l'espressione flaccida del volto, gli occhi spenti, l'ondeggiare del corpo lo rendevano fin troppo chiaro. Claire lo guardò tra le lacrime mentre zio Alec diceva: — Bjorn, vecchio mio, perché proprio stasera, fra tutte le sere? — Spiacente — biascicò Papà. — Non volevo disturbare... Lo zio Alec guardò la sorella. — Morna, non possiamo...? — Qui non entra — tagliò corto la Mamma. — Andiamo, Morna. Dopotutto, è... La Mamma lo interruppe di nuovo, stavolta quasi furente. — In quelle condizioni non mette piede qui dentro. — ...Venuto a vedere mia figlia il giorno del suo compleanno — disse Papà, difendendo la sua dignità. Fece un passo avanti. — Mi dispiace se ho disturbato, ma... S'interruppe, perché la Mamma lo spingeva indietro. — Ho detto no! — sibilò a voce bassissima. — Morna... — Papà cercava di essere autoritario, ma non ci riusciva. Guardò sua moglie con aria impotente. — Bjorn, perché l'hai fatto? — chiese zio Alec.
— Spiacente — ripeté Papà. — Non volevo disturbare. Volevo solo... S'interruppe e guardò Claire alle spalle della Mamma. Claire sentì gli occhi che le bruciavano e lacrime calde cominciarono a scendere lungo le guance. — Ciao, Papà — riuscì a mormorare. — Claire. — La voce di lui sembrava venire dal centro dell'essere, e squarciare gli organi per liberarsi. Era colma di disperazione, di colpa. — Tu torna dentro — ordinò la Mamma. Claire cominciò a tremare. — M-ma Papà non viene? — No, non viene — disse la Mamma. — Sorella! — Sono qui per vedere mia... Papà s'interruppe. Mamma ripeté a Claire: — Torna dentro. — Non posso...? — Mi hai sentita? Claire si morse il labbro e tornò in sala con le gambe intorpidite. Andò a sbattere contro la sedia di Vera. — E fai attenzione! — Mi spiace. — Claire si diresse alla finestra a passi malfermi e guardò in cortile, ma non vide altro che il velo delle sue lacrime. Ranald si materializzò accanto a lei e le strinse un braccio. — Non piangere — mormorò, ma anche lui era prossimo alle lacrime. — Bah! — imprecò Vera. — Sta' zitta, tu! — gridò Ranald. Vera stava per rispondere, ma la voce di Papà esplose in corridoio. — Lo sai perché bevo! Morna... Morna... — Piangeva, ed era terribile sentirne i singhiozzi. — Riesci a farmi sentire come una cosa indegna, come una cosa... indegna. — Ma sei indegno — disse la Mamma. — Lo sei sempre stato. Nient'altro che un marinaio ubriacone che... — Fanken! — Non bestemmiare in casa mia, Bjorn Nielsen. Fuori! Va' fuori! Claire si premette entrambe le mani sulla faccia. In corridoio si sentivano voci agitate, tese, parole incomprensibili. — Forse è meglio che tu vada, Bjorn — disse lo zio Alec. Altre parole incomprensibili, poi Papà disse, con voce rotta: — Non ho niente da regalarle per il suo compleanno... niente. — Non importa, Bjorn — disse lo zio Alec. — Claire capi... — Importa, invece, importa eccome — disse la Mamma. — Quest'uomo
pensa di potersela cavare... — Morna, ti prego — disse Alec. — Non roviniamo il compleanno di tua figlia più di quanto... — Non l'ho rovinato io — disse la donna ad alta voce, come se stesse parlando a Claire invece che a suo fratello. — Non sono io l'ubriacona disgustosa. — Sorella. — Non sono io quella che ha dimenticato le sue responsabilità di genitore! Non ho abbandonato io i miei figli! Non sguazzo io in un disgustoso mare di alcol! — Morna, per l'amor di Dio! Silenzio per qualche secondo, poi la voce della Mamma: — Lascerai la mia casa in questo preciso momento. Silenzio di nuovo prima che Papà tentasse, una volta ancora, di rispondere con dignità. — Le darai questo? — chiese. — È tutto ciò che ho... — Sarebbe quello il tuo regalo? — chiese la Mamma con aria di scherno. — È tutto ciò che ho, Morna. — Glielo darò io, Bjorn — disse zio Alec. — Takk. Takk. La Mamma sbuffò disgustata, poi tornò in sala. Entrò coi suoi passi ticchettanti e sedette a tavola con un movimento brusco. — Sedetevi — ordinò, poi fece una smorfia e si toccò il petto. Claire e Ranald tornarono a tavola e presero posto. — Il vostro prezioso padre — commentò Morna. Claire non riusciva a parlare, si sforzava di non piangere. Nell'ingresso la porta a vetri si richiuse e zio Alec tornò. Sedette in silenzio e rimase a fissare Claire; finalmente, senza una parola, le mise davanti due monete. Claire le guardò: un quarto di dollaro e dieci centesimi. — Ecco il regalo di compleanno del tuo generoso padre — disse Morna. Zio Alec sorrise dolcemente alla ragazza. — Ti dona anche il suo affetto. E quello vale molto di più di trentacinque centesimi. — Davvero? — disse la Mamma, alzandosi per prendere la torta. 3 La Mamma fece un sorriso benigno. — Quando alle nostre sedute ci sono nuovi partecipanti — disse rivolgendosi alla coppia spagnola — è abi-
tudine familiarizzarli col nostro lavoro. Perciò, se lo desiderate, potete fare delle domande. La spagnola la guardò senza capire, ma il marito tradusse ed ella chiese: — Queremos no mas... nuestro... — Vogliamo solo — ripeté il marito — che nostro... La Mamma alzò una mano per interromperlo. — Non diteci niente sui vostri desideri. Lo farete se e quando il messaggio arriverà. In caso contrario, potreste dubitare della sua provenienza. L'uomo ripeté il discorsetto in spagnolo: aveva una voce svelta, gutturale. La donna annuì e fece un debole cenno con la testa. Aveva gli occhi umidi, e questo tradiva i suoi sentimenti. Il viso dell'uomo, invece, era impassibile, e le labbra sottili erano premute in una riga. Claire si rese conto che non approvava tutto questo, che si trovava lì solo per far contenta la moglie. Lo spagnolo si guardò intorno, e i sorrisi del signor Marshall e delle sorelle Coulter sembrarono innervosirlo. — Forse vorrete sapere qualcosa sulle caratteristiche della stanza — disse la Mamma. — Essa... — Qué? — interruppe la spagnola. Il marito s'irrigidì, ma continuò a tradurre. La madre di Claire ripeté: — Forse vorrete sapere qualcosa sulle caratteristiche della stanza. Non viene usata mai, tranne che per le sedute. In tal modo rimane costantemente "carica", col che intendo dire che il potenziale generato in ogni seduta vi permane e aggiunge energia alla seduta successiva. Per usare il nostro linguaggio, perfino l'arredamento è "energizzato", e le sue molecole sono sintonizzate sulle frequenze spirituali. — Qué? Il marito cercò di rendere la spiegazione "molecolare" della Mamma e la spagnola si limitò ad annuire vagamente, persa nella sua tristezza e nella sua scarsa ricettività. Claire sapeva che era impaziente, che la sua unica preoccupazione era comunicare coi morti; a quel pensiero provò un senso di nausea e chiuse gli occhi. Oh Dio, se si fosse sentita male qui, adesso... Il solo pensiero costituiva una tortura. — Se ci sono domande... — disse la Mamma. I due spagnoli la guardarono; la donna mosse le labbra come per dir qualcosa, ma poi tacque. — Allora fra una attimo cominceremo — disse la Mamma, controllando l'orologio attaccato alla veste. — Manca solo un altro membro.... — La signora Schaefer? — chiese Elizabeth Coulter. La Mamma la guardò e disse: — Sì, perché?
— Stasera è andata a casa del signor Wade — rispose acida Elizabeth Coulter. Claire vide immediatamente il pulsare di una vena sul collo della madre. — Capisco. — La Mamma strinse le labbra e grattò la superficie liscia del tavolo con l'indice della mano destra. Infine si schiarì la gola, alzò gli occhi e con il volto composto intonò: — Erreranno da un mare all'altro, e dal nord si spingeranno all'ovest; correranno, in cerca della parola del Signore, e non la troveranno. Il signor Marshall annuì gravemente: — Amen. — Qué? — chiese la spagnola. — No comprendo — rispose il marito irritato. Morna fece un sorriso forzato. — Vede — disse al marito che fu costretto a tradurre — la signora in questione è stata mia cliente per anni. Ora va da un altro medium. — Fece un gesto che voleva significare indifferenza. — Non che io, personalmente, me la prenda: ma non è saggio mescolare le vibrazioni. Ora, il... medium dal quale si è recata emana vibrazioni particolarmente negative, se afferra ciò che voglio dire. — Negative è la parola giusta — disse Elizabeth Coulter. — Capisce, in queste cose occorre aver fede — disse la Mamma. — Amen — concluse il signor Marshall. La Mamma sorrise. Si strofinò un pochino la camicia, poi alzò gli occhi rassegnata. — Va bene, se non ci sono altre domande cominciamo. — Si girò verso Claire: — Questa è... La spagnola fece un'interruzione e Morna si girò dalla sua parte. — Come ha detto, cara? La donna parlò con fare minaccioso, e nel tradurre il marito impresse alle parole ancor più veemenza: questa, almeno, fu l'impressione di Claire. — Lei crede davvero che i morti ritornino? — Lo spagnolo non perdeva d'occhio sua moglie, e stavolta, oltre alla rabbia, Claire avvertì una nota di dolore. La Mamma guardò la donna per più di dieci secondi prima di rispondere: — E lei crede nella Sacra Bibbia? — Si, si, la Biblia — disse in fretta la spagnola quando il marito ebbe tradotto. — Tutti i fenomeni descritti nella Bibbia, e dico tutti, continuano a ripetersi anche al giorno d'oggi — disse la Mamma. — Che si tratti di luci o di suoni, di tremiti delle mura o di presenze che arrivano a noi attraversando le porte chiuse, di frullar d'ali o di lievitazione, di scrittura automatica o
della capacità di parlare in altre lingue: tutto ciò accade frequentemente nelle moderne sedute spiritiche. Fenomeni che si ripetono e si rinnovano, vengono studiati secondo i parametri richiesti dalla scienza e vagliati dai cosiddetti studiosi del paranormale... non sono certo le testimonianze, che mancano. Fece un sorriso fiducioso. — La nostra non è una teoria, non è un sogno o una speranza, ma una realtà. Non solo l'uomo sopravvive a ciò che chiamiamo morte, ma è in grado di comunicare con i viventi. La spagnola aveva le lacrime agli occhi, che, fattesi strada fra le ciglia, rotolarono sulle guance color oliva. — Sí Dios quiera — mormorò. La Mamma guardò il marito, che tradusse con riluttanza: — Se Dio vuole. — Lo vuole sempre — disse la Mamma. — Sta a noi trovare il modo. — Guardò la spagnola per qualche attimo ancora, poi si volse a Claire: — Questa è mia figlia. Condurrà lei la seduta. Tutti la guardarono: a Claire sembrò che il suo stomaco fosse diventato un pozzo senza fondo e le guance e la fronte avvamparono. Le sorelle Coulter si scambiarono un'occhiata di disapprovazione e perfino il benevolo signor Marshall aggrottò le sopracciglia. — Lei scoprirà, credo, che i risultati sono al tempo stesso grati ed edificanti — disse la Mamma, guardando la spagnola. — La guida di mia figlia, Chin Lu Chang, è una delle forme più avanzate di vita spirituale. Forse dovrei soffermarmi un momento su questo punto: possiamo dire che la guida sia una sorta di secondo medium, con la differenza che agisce sull'Altra Sponda. È lui, o lei, a seconda dei casi, che inizia la comunicazione col medium su questa sponda. Nel caso di mia figlia, il personaggio è un mandarino cinese che risponde al nome di Chin Lu Chang. È lui, ne siamo certi, che porterà qui stasera il vostro caro congiunto. Quando il marito ebbe finito di tradurre, la spagnola emise un gridolino e, per un attimo, parve sul punto di mettersi a piangere. Vedere i partecipanti a una seduta che scoppiavano in lacrime, sia per il dolore sia per la contentezza, era una cosa che sgomentava terribilmente Claire. — Bene, penso che ora siamo pronti — disse la Mamma, alzandosi. — Accenderò questa luce rossa sul tavolo, quindi spegnerò l'altra lampada. Dapprima vi sembrerà che la stanza sia completamente buia, ma in breve scoprirete di essere in grado di vedere tutto chiaramente, e ciò grazie alla lampadina rossa. Il rosso, naturalmente, è la sola frequenza luminosa che gli spiriti possano tollerare.
— Qué? — sussurrò la spagnola. Quando la Mamma spense la lampada sul tavolo vicino, la poveretta fece un gemito strozzato; nel frattempo il marito le spiegò ciò che era stato detto e lei si acquietò, respirando pesantemente. La Mamma, nel frattempo, era andata al pianoforte, si era sistemata sullo sgabello e aveva tolto il panno che copriva la tastiera. — È abitudine che si cominci con un po' di musica rilassante — annunciò. — Sedete in serena contemplazione, in pacifica attesa... Cominciò a suonare il "Largo" del Serse. Claire sedeva fra Margaret Coulter e il signor Marshall. Quando gli occhi si abituarono alla luce, guardò il mazzo di violette al centro del tavolo e avvertì lo sguardo scuro della spagnola fisso su di lei. Chi aveva perduto, si domandò? Un figlio, una figlia? Quando le clienti si comportavano come questa, all'apparenza vaghe e distratte, ma tutte concentrate sul proprio dolore, era perché avevano perso un bimbo. Quasi sempre. Ora si aspettavano che lei comunicasse col bambino morto, o chiunque altro fosse, e il pensiero la fece rabbrividire, nonostante il calore della stanza. Durante le sedute la Mamma teneva sempre la stufa al massimo, e questo, unito al particolare delle finestre chiuse, creava nell'ambiente un'atmosfera opprimente. Il profumo delle violette, mescolato a quello della Mamma e all'incenso aromatico che bruciava sul camino, le aveva già fatto venire il mal di testa. Sentiva le gocce di sudore che scendevano lungo i fianchi e lo stomaco era chiuso e le bruciava. Non aveva quasi toccato cibo, quel giorno, eppure aveva la nausea. Chiuse gli occhi e deglutì. La spagnola la guardava con avidità, un'avidità che aveva visto molte volte sulle facce dei partecipanti. Era l'espressione dei disperati che cercavano di non perdere il controllo aggrappandosi alla speranza di comunicare con chi avevano perduto. L'attesa li snervava. Era la prima volta, tuttavia, che uno sguardo simile era puntato su di lei, e l'atterriva. Faceva compassione, e al tempo stesso pretendeva e comandava. Claire aprì gli occhi e fissò le violette finché non fu in grado di distinguere le bollicine nel vaso. La Mamma riempiva il vaso fin quasi all'orlo, sostenendo che nell'acqua c'era un elemento benefico per i medium. "Molti miracoli di Gesù Cristo si sono compiuti in virtù dell'acqua" diceva spesso. Quanto alle viole, erano i fiori che prediligeva: erano luci, secondo lei, da cui gli spiriti erano attratti. Aveva un conto aperto da Pelswick, il fiorista, ed era l'unico lusso che si concedeva. Claire alzò gli occhi e il cuore cominciò a batterle più forte: la musica
era cessata. La Mamma sistemò il panno sulla tastiera, si alzò e tornò al suo posto, muovendosi un poco finché non fu comoda. Poi chiuse gli occhi e si buttò all'indietro, le mani aggrappate al tavolo. Come alunni che imitassero la maestra, il signor Marshall e le sorelle Coulter lecero altrettanto; anche Claire, senza pensarci, li imitò. La spagnola, a quella vista, si comportò nello stesso modo; solo il marito rimase immobile e non fece niente, Claire riusciva quasi a sentirne la resistenza. Sulla stanza calò il silenzio, a parte lo scricchiolio delle sedie e il debole ritmo dei diversi respiri. Claire sentì una goccia di sudore colarle dalla tempia destra come un insetto, e fece per alzare una mano e scacciarla. Si trattenne, stringendo le dita ancora più forte. La goccia scese lentamente lungo la guancia. — O, spirito d'Amore e Tenerezza — disse la Mamma. — Siamo qui riuniti, stasera, per meglio comprendere le leggi che governano il nostro Essere. Per capire il vasto mondo dello Spirito popolato dalle moltitudini che hanno abbandonato questa terra. Dacci, o Divino Precettore, il modo di comunicare con quelli che si trovano Aldilà. Guarisci le sofferenze di cuore e le solitudini di tutti i presenti manifestando la Luce sempiterna che scaturisce dalle Sfere Superiori. Concedici di colmare l'abisso della morte, di asciugare gli occhi di coloro che piangono in lutto, così che il nostro lavoro trasformi il dolore in gioia, e il pianto in felicità. Questo ti chiediamo nel nome del Padre Infinito. Amen. — La Mamma guardò Claire e fece un cenno col capo. Claire deglutì a vuoto, restituendo lo sguardo. Non si era mai sentita più sola e impotente. "Che cosa devo fare?" pensò. Tutti gli anni d'esercizio sembrarono vanificarsi: si sentiva impreparata, inutile. Deglutì di nuovo, aveva una sete terribile, e sentì se stessa dire, come la Mamma sempre diceva: — Dovremmo cantare... — Ma nella sua voce non c'era alcuna autorità: sembrava piuttosto una supplica. — Hai qualche preferenza? — chiese sua madre. Claire esitò, cercando di pensare, ma finalmente scosse la testa e mormorò: — No. Immediatamente la Mamma cominciò a cantare nella sua voce acuta, un po' gracchiante: — Il mondo ha sentito l'alito improvviso / Che vien dall'eterno Paradiso / Trionfan l'anime sopra la Morte / Tornan sulla terra, sono risorte. — Il signor Marshall e le sorelle Coulter si unirono alla melodia: — Per questo lieti giubiliamo / Per questo in letizia cantiamo / O Tomba, dov'è la tua vittoria? / O Morte, è questa la tua gloria? Claire cominciò a cantare senza rendersene conto come se fosse la
Mamma a guidare la seduta, come al solito. Si riprese in tempo, chiuse gli occhi e si riempì i polmoni con l'aria fragrante e chiusa della stanza. La Mamma, il signor Marshall e le sorelle Coulter continuavano a cantare. — Guardateci dall'alto, occhi immortali / Guardate nostre gioie e nostri mali / Anime d'amor che non perisce / Questo canto a voi ci unisce. Poi fu il silenzio e Claire pensò: "Adesso". Adesso si aspettavano che andasse in trance, che inspirasse l'atmosfera di Dio, energizzasse il centro psichico e piombasse nel sonno spiritico. Si aspettavano che entrasse in contatto col mondo delle ombre, con Chin Lu Chang, e che gli permettesse di parlare per tramite suo. Non era mai successo prima, eppure Claire non dubitava affatto della sua esistenza. Il pensiero di uno spirito cinese che aspettava di parlare per suo tramite, come se lei fosse un microfono, sarebbe stato divertente se non fosse stato così agghiacciante. Quando lo visualizzava (e non poteva dire fino a che punto fosse immaginazione e fino a che punto lo vedesse realmente) non le appariva come un tranquillo e pacato gentiluomo, ma come una creatura volpina, famelica, che le avrebbe fatto del male. E questo era il guaio, nel suo modo di concepire il mondo degli spiriti: poteva venirne a contatto ma non poteva far nulla per modificarlo. I suoi pensieri si concentravano quasi esclusivamente sugli aspetti sinistri di quel mondo: gli aspetti che le mettevano paura e l'allarmavano. E a poco servivano i discorsi della Mamma sulla Terra dell'Eterna Gloria: per Claire l'Aldilà restava un mondo di tenebre e di costante minaccia. In breve, aveva concluso, la Paura ruotava intorno a quest'unico concetto: che il mondo delle tenebre l'avrebbe divorata all'istante se lei gli avesse ceduto anche per un attimo. Come per effetto di uno strano meccanismo, si concentrò di nuovo sulla realtà. Sulla stanza. Era tutto silenzio, tranne per lo scricchiolio delle sedie e il respiro dei presenti intorno a lei. Le mani di Claire diventavano pesanti, parevano incollate al grembo, e le braccia le pizzicavano come per effetto di aghi e spilli. Cominciava: stava scivolando via. Deglutì rapidamente, consapevole di fare ogni sforzo per restar sveglia. L'appesantimento delle mani e il pizzicore delle braccia cessò, e lei si sentì in colpa e lanciò un'occhiata a sua madre. Se solo fosse stata capace di imitarla, di respirare velocemente e ritrarsi nelle tenebre, abbandonandosi senza esitazioni! La Mamma non subiva nessun danno, quando andava in trance: perché, dunque, non le riusciva di fare altrettanto? Ma era inutile porsi la domanda, lo sapeva. Non doveva permettersi di andare in trance, o sarebbe accaduto
qualcosa di orribile. Ne era convinta. Eppure gli altri non aspettavano che quello. Le sorelle Coulter aspettavano di parlare con il loro padre, che apparteneva al mondo degli spiriti da sette anni, la Mamma non aveva mai mancato di mettersi in contatto con lui, ed egli avrebbe elogiato la loro condotta e la vita futura che questa prometteva. Le avrebbe incoraggiate a mantenere il celibato, a non sottomettersi ai dolori del parto e dell'educazione dei bambini, ma a rimanere fedeli a Cristo e dedicarsi al compito di diffonderne la Parola, e di consacrarsi alla Verità piuttosto che alla carne, la quale in definitiva si trasforma in polvere. Il signor Marshall aspettava di parlare, una volta ancora, con sua moglie e con la figlia Gladys. Anch'esse comunicavano facilmente attraverso la Mamma, e avrebbero fornito nuovi particolari sul Grande Aldilà, sulla sua geografia, la sua flora e fauna, e avrebbero parlato della sua organizzazione sociale. Il signor Marshall ne avrebbe preso nota scrupolosamente, annuendo, e avrebbe mormorato un "Amen" occasionale, tutto contento e soddisfatto, e così sarebbe andata avanti finché fosse giunto il momento di accomiatarsi e tornare alla minuscola casa di Albemarle Road, dove passava il tempo a fare parole incrociate e a coltivare il giardino. Fino al prossimo incontro con le sue care. Ma l'insidia peggiore veniva dalla donna spagnola, che in silenzio e in angoscia aspettava... chi? Aspettava, affranta, e il suo controllo minacciava di crollare da un momento all'altro. Claire ne avvertiva la tensione, avvertiva l'attesa spasmodica del momento in cui la creatura amata avrebbe parlato e lei, finalmente, avrebbe potuto dar sfogo al fardello insopportabile della tensione, del dolore, abbandonandosi al pianto e ai singhiozzi, o forse al riso... Un genere di riso che atterriva Claire, perché era così prossimo alla follia... I suoi quattro compagni aspettavano tutto ciò: e lei era incapace di soddisfare anche uno solo di quei bisogni. Non erano serviti gli anni d'esercizi, non era servito nutrirsi di quelle idee fin dalla nascita. Non serviva credere nella realtà di ciò che stava facendo, perché il suo istinto le ordinava di resistere, pena la distruzione. Claire si schiarì la gola e si agitò sulla sedia. Le mani le tremavano in uno strano modo, e le orecchie ronzavano come se ci fosse stato uno sciame d'insetti. Si sentiva oppressa, e il suo corpo era pesante e letargico. Stava per accadere. Vi si ribellò con un gemito, tirandosene fuori come da un pantano di sabbie mobili. Rabbrividì, poi aprì gli occhi. Tutti la guardavano, e l'espressione di sua madre era fredda e indecifra-
bile. "Mi dispiace!" gridò Claire mentalmente. "Non posso! Ho troppa paura!" La Mamma piegò la testa e controllò l'orologio: quanto tempo era passato? Poi alzò gli occhi e si schiarì la gola. — Come tutti sappiamo, non sempre i canali di comunicazione possono essere aperti al primo tentativo. — Dette un'occhiata a Claire e si morse le labbra. — Mia figlia tenterà in un'altra occasione; per oggi, sarò io a cercare la via. — Ah — disse il signor Marshall con soddisfazione. Le sorelle Coulter si scambiarono un sorriso freddo, debole. Lo spagnolo dette un'occhiata sospettosa a Morna, e quando sua moglie chiese spiegazioni le riassunse l'accaduto dando, ovviamente, un'impronta personale ai fatti. Claire si afflosciò contro lo schienale. Senza esserne conscia si era mantenuta eretta, la schiena rigida. Aveva la faccia madida di sudore, la sottoveste inzuppata. Deglutì a fatica, aveva la gola più secca che mai, e, tratto un fazzoletto dalla tasca della gonna, se lo passò debolmente sul viso. Continuò a fissare le viole, temendo di alzare gli occhi. Era finita, eppure non provava alcun sollievo. L'avrebbero obbligata a provare di nuovo, a fare tante sedute finché la Mamma non fosse stata soddisfatta. Prima di allora, la Mamma non l'avrebbe lasciata andare. Morna aveva preso il suo cuscino, che fino a quel momento era rimasto sulla sedia a dondolo, e l'aveva piazzato sul tavolo di fronte a sé. Ripreso posto, guardò di nuovo la spagnola. — Ogni medium ha il suo sistema — spiegò, mentre il marito traduceva. — Alcuni si preparano a entrare in trance in totale silenzio: è questo il caso di mia figlia, e per la verità anche il mio fino a qualche anno fa, quando producevo materializzazioni. Altri, come me al giorno d'oggi e come la famosa signora Piper, preferiscono parlare informalmente ai propri compagni, senza concentrarsi su qualcosa di specifico, ma consentendo alle parole di sgorgare liberamente, e alle associazioni di formarsi in libertà. Mentre parlava cominciò a passarsi le mani sul viso. — Ciò che sto facendo adesso — spiegò — ha lo scopo di rivitalizzare il sistema, di prepararlo al suo compito. — Prese a sfregarsi le mani sulle cosce, sullo stomaco, i seni, le braccia e le spalle. Lo spagnolo sembrava stupito. — Rivitalizzare — disse la Mamma. — Rivitalizzare costantemente. Allontanare con lo sfregamento il magnetismo negativo. Toccare la Corda d'Argento. Consentire totale accesso alle forze spirituali. Respirava più lentamente, adesso; tra una frase e l'altra il fiato s'insinuava come un fischio rauco. — Sto diventando fredda — disse la medium.
— Fredda, fredda, sempre più fredda. — Le braccia e le gambe tremarono convulsamente, gli occhi divennero fissi. Emise un gemito, poi un altro. — L'energia è in arrivo — borbottò. — In arrivo. In arrivo. — Tremò di nuovo. — È così freddo, così freddo. Ecco, è giunta la Presenza. Claire non riusciva a distogliere lo sguardo dai lineamenti tesi della madre, che grugniva e borbottava e si dimenava sulla sedia in preda ai tormenti. "Niente grugniti e niente convulsioni alla maniera della signora Piper" ricordò Claire. Come poteva, lo zio Alec, scherzare su fenomeni come quello? Era orribile da guardare, non si sarebbe abituata mai. — Ho l'impressione di... essere trasportata nello spazio — disse la Mamma con voce soffocata. — Trasportata per una strada illune... e infinita. — Rabbrividì e gemette di dolore, poi di colpo divenne rigida e gli occhi parvero trasformarsi in marmo. — Si sono raccolti — disse con voce esilissima, priva di vita. — Gli spiriti sono con noi. Li incontriamo mentre discendono la scala di Giacobbe, la scala della comunione. Sono vicini. Vicini. Vicini. — Mentre ripeteva quest'ultima parola, lo sguardo duro e brillante disparve dai suoi occhi e le palpebre cominciarono a chiudersi. La testa dondolava, la mascella inferiore allentata: finalmente, con un singhiozzo profondissimo, si tuffò in avanti e immerse il volto nel cuscino. Rimase in quella posizione per diversi minuti, immobile e in silenzio. Claire guardò la spagnola: fissava sua madre per metà impaurita, per metà in attesa trepidante. Quando la Mamma si alzò di nuovo, lo fece con un movimento brusco e imperioso. Aveva un'espressione arrogante, e lentamente incrociò le braccia e li fissò uno alla volta, agitando la testa. — Io Salice Bianco — disse con voce ridondante. — Io venire da lontano. Salute a voi dal Regno dell'Eterna Felicità. — Salute a te, Salice Bianco — disse Elizabeth Coulter con un cenno del capo. — Siamo felici di incontrarti di nuovo... — Salice Bianco è felice di incontrarvi — disse la Mamma, annuendo. — Sempre bello vedere uomini di Terra che siede e ha fede. Noi essere con voi sempre... noi sorvegliare e proteggere voi. Morte non è fine di cammino. Morte è solo porta per entrare in mondo senza fine. Noi sapere. — Amen — disse il signor Marshall. — Uomini di Terra essere anime prigioniere — continuò la Mamma. — E la carne essere loro prigione. Morte è perdono, è liberazione. Lasciate dietro di voi quello che poeta chiama "veste decomposta di fango"; scoprite libertà, luce, eterna gioia.
— Eterna gioia — disse Elizabeth Coulter. E il signor Marshall: — Amen. — Qué? — chiese disperatamente la spagnola. Suo marito non parlava: fissava la Mamma, e nel suo sguardo si mescolavano disprezzo e disagio, e lottavano fra loro. La Mamma si volse alla spagnola: — Loro nuovi. Nuovi in circolo. — Scrutò attentamente i convenuti, facendo cenno con la testa. — Io non conosce. — Sono qui per la prima volta, Salice Bianco — spiegò Elizabeth Coulter. La Mamma borbottò qualcosa, poi annuì. — Questo io sa. Salice Bianco sa. Bambino qui dire: "Ecco mia mamma". — Qué? Il marito tradusse, e il suono che uscì dalla gola della donna fece rabbrividire Claire. Era come il lamento di un animale sconvolto dal dolore. La spagnola si piegò verso la Mamma per guardare meglio. Anche nella penombra, Claire distingueva il luccichio di quegli occhi. — Bambino dire: ii-a, ii-o, ii-oh. — Hijo? — chiese la spagnola debolmente, incredula. La Mamma borbottò qualcosa e annuì. — Hijo... hijo — ripeté. — Il bambino dice: "Io tuo figlio". — Piegò la testa, come se ascoltasse una voce lontana. — Tu hijo, lui dice. Un altro cenno con la testa. — Tu hijo. La donna singhiozzò, incapace di contenere oltre il suo dolore; Claire, tuttavia, aveva la sensazione che non si abbandonasse completamente, che cercasse ancora di darsi un contegno. — Bambino dice lui morto all'improvviso — declamò la Mamma. Lo spagnolo tradusse con riluttanza. La donna, stupita, rispose: — Sí? Sí? — C'è stato un... incidente? — chiese la Mamma come rivolgendo una domanda a qualcuno che non potevano vedere. Il marito fece da interprete e la spagnola trattenne il fiato, di nuovo sul punto di crollare. — Sí, un accidente. La Mamma annuì gravemente. — Bambino dice: sì, incidente. Ora mostra me disegno. — Piegò la testa. — Lui dice: caduto. E poi... investito? Lo spagnolo tradusse, cercando di evitare che la moglie fornisse la risposta in anticipo; ma la poveretta, ormai, era fuori di sé, e le parole uscirono meccanicamente dalle sue labbra. — Sí, el tranvia: pasaba en frente
y... — S'interruppe, con un ultimo guizzo di reticenza. — È così — disse la Mamma, annuendo. — Il bambino mostrato me: tramway. Lui corso davanti, caduto. Ruote passate su corpo. — Sí? — La spagnola, ora, tremava senza controllo. — Lui dice: Salice Bianco, tu non fa piangere lei. Io qui felice. Es bueno, dice bambino, bueno. No tristezza, no dolore. Gioia eterna. — Sì? — I singhiozzi della donna erano incontrollabili, scuotevano il suo corpo come frustate. La Mamma continuò ad annuire. — Bambino chiede: io parla mamma, adesso? — Morna borbottò qualcosa. — Proviamo — disse — proviamo. Lo spagnolo tradusse e di nuovo la donna gemette, un suono inarticolato da folle. Claire abbassò gli occhi e rabbrividì. Non sopportava tanto dolore. La Mamma si schiarì la gola, il genere di pietoso rumore prodotto dall'affannoso tentativo di formare le parole. Claire alzò gli occhi involontariamente e vide la bocca della Mamma aprirsi e chiudersi come quella di un pesce agonizzante, coi muscoli che guizzavano sotto la pelle. Il rumore di gola continuò per qualche minuto finché calò il silenzio. Poi la Mamma parlò: — Mamma? — Aveva una vocetta acuta, artificiale, come se uscisse da una macchina parlante. A sentirla, la spagnola smise di singhiozzare e aprì la bocca in preda allo shock. — Como estas, mamma? — disse la voce. La donna fissava Morna con gli occhi spalancati dalla sofferenza; una volta ancora Claire evitò di guardarli. — Quién es? — mormorò la spagnola. — Mamma? — Quién es? — Tu hijo, Mama. — Manuel? — Si, mamma, Manuel. No tenga cuidado. — Ah! — la voce della donna si spezzò nella disperazione. — No tenga cuidado — ripeté, annuendo, un sorriso da folle sulle labbra. — Manuel? Mi hijo? — Sí, mamma, tu hijo. No tenga cuidado. Todo va a salir bien. — Manuel... — La donna respirava a fatica. — Manuel! — urlò come se traesse il nome del figlio da abissi di dolore, dal centro stesso del suo corpo. All'improvviso perse l'ultimo brandello di autocontrollo. Qualcosa in lei
si ruppe e cominciò a piangere così violentemente che il marito dovette trattenerla per non lasciarla cadere. — Manuel! — Il nome, adesso, era quasi un mugolio. — Madre de Dios! Manuel! Manuel! Claire sedeva rigida e con le membra intorpidite. Pareva che non le riuscisse di respirare, e a un tratto spalancò la bocca in cerca dell'aria. Il cuore le batteva come un animale impazzito, un animale in preda al panico che cercava di sfuggire la Paura, prima che le sue zanne assassine si chiudessero e trafiggessero a morte la creatura. Titolo originale: Come Fygures, Come Shadowes. (1970) TOCCO FINALE Hollister stava immobile davanti alla finestra, sul balcone e li guardava far l'amore. Nuvolette di fumo bianco gli uscivano dalla bocca, e le mani guantate, lungo i fianchi, si flettevano per tener viva la circolazione. L'aria notturna penetrava nella carne e impregnava le ossa di umidità. In camera da letto, Rex Chappel e sua moglie erano stretti l'uno all'altra. Rex indossava i calzoni del pigiama, Amanda una camicia da notte nera e trasparente. Nel vederla rispondere alle carezze del marito, Hollister provò una stretta alla gola. Strinse i denti, il volto pallido ombreggiato dall'Homburg. "Finirà presto" disse a se stesso. E piegò le labbra in un sorriso senza gioia. Ora Chappel sfilava la vestaglia di Amanda. Lei sedeva col busto eretto, mentre lui le scostava la camicia passandola sui seni sodi, sul viso rosso e sorridente, sulla massa scompigliata dei capelli biondi e finalmente su per le bianche braccia e le dita laccate. La camicia da notte volò sul pavimento. Amanda si buttò all'indietro, le braccia protese, le dita curve come artigli. Chappel si alzò e disfece il cordoncino che teneva su il pigiama. Le gambe muscolose rimasero a nudo, poi allontanarono da sé l'indumento. Amanda si mosse sinuosamente all'indietro, sistemandosi contro un mucchio di cuscini. Hollister osservò con quanta regolarità i capezzoli induriti si alzassero e si abbassassero nel ciclo del respiro. Osservò Chappel che si protendeva verso il corpo offerto, che si arcuava, ansioso di possederlo. "Ora" pensò. Il suo volto divenne una maschera: spinse leggermente le ante della finestra ed estrasse la pistola. Seguirono dei suoni soffocati, appena percettibili. Sei pallottole si pian-
tarono nella schiena di Chappel. Hollister guidava lentamente per le vie della città. La pistola, a cui era attaccato un peso, riposava in fondo al fiume; quanto ad Amanda, era sicuro che non l'avesse visto: oppressa dal corpo senza vita del marito, non aveva fatto caso alla sua fuga. Era in una botte di ferro. Che provassero a incastrarlo. Punto primo: quale poteva essere il movente? Chappel era un suo impiegato. Non aveva niente da offrire a un uomo nella posizione di Hollister: tranne Amanda, si capisce, ma questo non c'entrava. Si erano incontrati raramente, e quando era capitato, lui non aveva dato alcun segno di desiderarla: né a parole, né con uno sguardo. Hollister si concesse un sospiro soddisfatto. Era stata una serata perfetta: un delitto perfetto, nel momento perfetto, gli procurava ora una perfetta soddisfazione. Mancava il tocco finale. Tornare a casa di Chappel, per esempio, non appena lo shock iniziale fosse passato ad Amanda. Suonare il campanello e chiedere se il lavoro extra che aveva dato a Chappel era stato fatto: e poi l'orribile rivelazione, e le scuse in tono costernato. E la selvaggia esultanza nel vedere il viso devastato di Amanda: perché disprezzava anche lei. Quello che provava era desiderio cieco, senza amore. Al momento opportuno se la sarebbe presa con lo stesso disprezzo con cui si era preso la vita del marito. Hollister sorrise. Finalmente poteva pensare a Rex Chappel senza inquietudine. L'aveva odiato fin dal primo giorno che era venuto a lavorare per la Hollister & Ware, Inc.; l'aveva odiato perché aveva tutto ciò che a lui mancava: giovinezza, un bell'aspetto, buone maniere. L'incontro con Amanda a un party aziendale era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Che un uomo già dotato di tante qualità dovesse avere, per soprammercato, una donna bella e sensuale come quella, era semplicemente troppo. E Hollister aveva capito che, per ritrovare la pace dell'anima, doveva distruggere quei due e il loro rapporto. Ma come? Sulle prime l'omicidio non gli era parso la via più facile, ma col tempo l'idea aveva cominciato a sedurlo. Non poteva separare Amanda da un marito così bello e giovane; né poteva distruggere Chappel sul piano del lavoro, perché lui poteva cercare impiego altrove. Se le cose si fossero messe male, d'altra parte, Chappel poteva incastrarlo con le sue stesse armi. Era furbo. No, l'unica soluzione era la distruzione fisica: oltretutto la cosa che odiava di più era la virilità di Chappel. Quale vendetta migliore
che troncare quella virilità nel momento dell'amplesso? Ora, finalmente, l'aveva troncata: il resto era semplice. Riserbo sulle prime. Poi discrete attenzioni, qualche atto di riguardo occasionale: la classica spalla su cui appoggiarsi nei momenti di bisogno. Graduale accerchiamento fino al giorno della capitolazione: e quel giorno, cadendo, Amanda non avrebbe trovato nessuno che l'aiutasse a rialzarsi. Quando frenò davanti alla casa dei Chappel, l'orologio sul cruscotto segnava le undici e venti. Dal momento del delitto erano passate circa due ore: abbastanza per la rimozione del cadavere e le prime domande della polizia. Hollister girò intorno alla macchina e s'incamminò sul marciapiede, verso la casa. Premette il campanello con discrezione e lo sentì squillare. Era affascinante constatare come si sentisse distaccato; merito del sollievo per la morte di Chappel, naturalmente. La scomparsa di quel maledetto Adone era un peso che si era tolto di dosso. La porta venne aperta e apparve Amanda: indossava una vestaglia scarlatta, e i lineamenti erano stanchi e tirati. "Mia cara, cosa c'è che non va?" disse Hollister con la voce della mente. Ma soprassedette: doveva cadere dalle nuvole, o lei si sarebbe insospettita. Si toccò cortesemente il cappello. — Mi scusi se disturbo a un'ora simile, ma temo di dover vedere i documenti che ho dato a suo marito questo pomeriggio. Riguardano un cliente importante, lei capisce, e... — Mentre proseguiva i suoi occhi neri scrutavano il viso di lei per leggervi il dolore. — Entri — disse Amanda. Si fece da parte con un fruscio di seta e Hollister entrò tenendo in mano il cappello. — Le prendo i documenti — disse Amanda. — Be', ehm... — Hollister si sentiva insicuro. — Non credo che dovrei... — La prego. Era anche meglio di come aveva sperato. Hollister si avviò in soggiorno mentre Amanda appendeva il cappello e il soprabito. Quindi lo seguì. — Un drink? Lui annuì. — Lei è molto gentile. Un po' di scotch e acqua. — Di nuovo scrutò la faccia di lei, ma era priva di espressione. Lui si era aspettato lacrime, singhiozzi, isterismo. Ah, be'... scrollò le spalle mentalmente. Anche questa era una reazione e in un certo senso ancora più totale. La morte di Chappel l'aveva ammutolita. Abbastanza soddisfacente, decise Hollister. Sedette sul divano con un
sorriso e incrociò le gambe dagli impeccabili pantaloni. — Suo marito dov'è? — chiese, senza darvi troppo peso. — Di sopra. Gli girava la schiena, e Hollister poté permettersi di spalancare la bocca. Di sopra? Dita di ghiaccio gli carezzarono il petto. Poi, all'improvviso, capì, e un'irresistibile sensazione di gioia si unì alla soddisfazione. "Non ha ancora chiamato la polizia!" Hollister rabbrividì. Di sopra, un cadavere. Di sotto, l'assassino beveva scotch e acqua con la vedova inconsolabile. Troppo bello per essere vero, eppure era vero! Chiuse gli occhi e respirò a fondo prima di riuscire a controllare il tremito del suo corpo. Quando li riaprì vide Amanda che si girava. La vestaglia si scostò leggermente e Hollister avvertì una contrazione allo stomaco. Le aveva visto le cosce: era possibile che sotto non portasse niente? Mentre gli porgeva il drink, Hollister rabbrividì. Si era piegata verso di lui, e i suoi occhi non avevano potuto evitare lo spettacolo dei seni. Le dita tremarono al contatto del bicchiere, sfiorate dalla mano di Amanda. — E ha... uhm, ha finito di esaminare i documenti? — chiese Hollister. — Sì — rispose lei. Gli stava davanti, immobile, come immersa in profondi pensieri. — Bene. — L'uomo bevve un sorso e tossì. Ma perché non parlava? Nel domandarselo, Hollister avvertì una stretta allo stomaco. — Non ho chiamato la polizia — fece Amanda. Il bicchiere di Hollister tremò e il liquido si versò sui pantaloni. — Oddio — si sentì dire debolmente. Mise giù il bicchiere, trasse il fazzoletto dal taschino e cominciò a pulire le macchie. Amanda si sedette bruscamente, stringendogli il polso. — Ho detto... — Sì, sì, ho sentito — fece Hollister con voce tremula. — M-ma perché avrebbe dovuto farlo? Amanda strinse più forte, poi inspirò profondamente spingendo il petto in avanti. Buon Dio, sì che era nuda, di sotto! Hollister provò un brivido che era insieme di gelo e di fiamma. Non riusciva a distogliere gli occhi da lei. — Non si burli di me — disse Amanda. — Burlarmi...? Io... — Hollister la guardò con la bocca spalancata. All'improvviso Amanda cedette ai singhiozzi e gli si buttò addosso. — Mi aiuti, la prego — implorò. — Mi aiuti. Le labbra di Hollister si aprirono senza che riuscisse a parlare. Cercò di
liberarsi del suo corpo ma non vi riuscì. Né riuscì a staccare gli occhi dalle pieghe aperte della vestaglia. — Signora Chappel... — cominciò, con voce incerta. — Prendimi — sussurrò la donna. — Tu lo hai ucciso, ora devi soddisfarmi. — Aprì la vestaglia: i seni caddero bianchi e pesanti, sul petto di lui. — Devi soddisfarmi! — Gli occhi brillavano di una luce febbrile, le labbra si arricciarono sui denti scoperti. Hollister sentì l'alito caldo di lei sulle guance e tremò d'orrore e di disgusto. Stava accadendo troppo presto, troppo presto! I suoi progetti... Al piano di sopra, lo schianto di una porta aperta. Amanda si raggelò, piantando le unghie nella schiena di lui, stringendosi con forza al corpo di Hollister. — No — disse. Fissava la scala con lo sguardo vitreo. Anche Hollister guardò da quella parte. Al piano di sopra qualcuno barcollava in corridoio e singhiozzava, e pronunziava versi demenziali di dolore. — No — disse Amanda di nuovo. Hollister sentì le dita di lei conficcarsi nella schiena fino a fargli male. — Cosa c'è? — chiese in tono lamentoso. Lei sedeva accanto a lui, come impietrita, e guardava le scale. Dalla gola le saliva un lamento basso, da pazza. — Che cosa sta succedendo? — scattò Hollister. Amanda gemette, poi gli nascose la faccia nel petto. — È Rex! — gridò. Il cuore di Hollister fu afferrato da una morsa. Si tirò indietro, con un fremito, e quando cercò di parlare non gli uscì altro che un balbettio rauco e forsennato. Al piano di sopra il folle gorgoglio sembrava farsi più vicino: e ora veniva giù per le scale. — Non lasciare che mi prenda — gemette Amanda. Gli si era abbarbicata in modo tale che pareva una parte del suo corpo; Hollister cercò invano di spingerla via. Il cuore gli batteva in petto come un martello, il sangue gli faceva scoppiare le tempie. Sulle scale, un rumore di passi che si avvicinavano, di un corpo che urtava il corrimano; di nuovo, un folle urlo di dolore. — Non lasciare che mi prenda! — ripeté Amanda con voce isterica. Hollister cercò di risponderle, ma tutto ciò che gli uscì fu un grido strozzato. Continuava a guardare il corridoio, gli occhi pietrificati. "No" pensò. "Oh, Dio, no!" — Non lasciare che mi prenda! — urlò Amanda. Un attimo prima che la figura insanguinata entrasse nella stanza, Holli-
ster sentì un grido terribile: e finalmente comprese che era il suo. — Ha confessato? — disse lei. Il sergente di polizia annuì lentamente. Non si era ancora ripreso dalla scena: la signora Chappel, quasi nuda, abbarbicata all'ometto urlante; lui, vestito di un lenzuolo insanguinato, che faceva il suo ingresso nella stanza secondo le istruzioni della donna. — Ancora non mi spiego come abbia capito che l'assassino era Hollister — disse il sergente. Amanda Chappel abbozzò un debole sorriso. — Lo chiami intuito. Cinque minuti dopo il sergente Nielson si dirigeva alla centrale, pensando che le donne erano veramente incredibili. Non c'era nessun indizio, men che meno una prova, che l'assassino fosse Hollister. Solo l'insistenza di lei perché aspettassero l'arrivo di Hollister aveva permesso alla polizia di contare su una prima traccia; e solo quel fenomenale attacco ai nervi di Hollister aveva portato alla sua incriminazione. È vero, gli assassini emotivi hanno la confessione facile, ma se si fossero applicati i normali mezzi d'indagine, Hollister sarebbe sfuggito a qualunque sospetto. Per quanto gli fosse sembrato folle, Nielson dovette ammettere che il metodo della signora Chappel probabilmente era l'unico che potesse dar frutti. Scosse la testa, ammirato e stupefatto. Il suo ruolo nell'arresto era stato quasi superfluo: Amanda Chappel aveva incastrato Hollister col suo tocco finale. Titolo originale: The Finishing Touches. (1970) FINE