CoverBook n.18 - Liber A Mente
Sesta Colonna Robert A. Heinlein
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CoverBook n.18 - Liber A Mente
Sesta Colonna Robert A. Heinlein
Scansione da Collana Cosmo - Editrice Nord edizione maggio 1984 Traduzione: Riccardo Valla Titolo Originale: The day after tomorrow (Sixth Column) Mag.2011 Titolo fuori catalogo e non ordinabile
CAPITOLO PRIMO — Ma che diavolo succede, qui dentro? — esclamò Whitey Ardmore. Gli altri ignorarono la domanda, come già avevano ignorato il suo arrivo. L’uomo che armeggiava con il televisore disse: — Stia zitto. Siamo in ascolto, non vede? — e alzò il volume. La voce dell’annunciatore strepitò: —... città di Washington è stata distrutta completamente prima che il governo potesse mettersi in salvo. Con Manhattan in rovine, non resta più... Poi lo scatto dell’interruttore: lo schermo si spense. — Ecco tutto — disse l’uomo all’apparecchio. — Gli U.S.A. sono stati spazzati via. E, dopo un istante: — Chi ha una sigaretta? Non ricevette risposta: allora si fece largo tra il gruppetto di persone radunate intorno al ricevitore, e andò a frugare nelle tasche della decina di forme inerti che giacevano attorno al tavolo. Non fu molto semplice, poiché il rigor mortis era già subentrato, ma alla fine riuscì a trovare un pacchetto vuoto a metà: ne trasse una sigaretta e l’accese. — Che qualcuno mi risponda! — ordinò Ardmore. — Che cosa è successo, qui dentro? L’uomo della sigaretta alzò per la prima volta lo sguardo su di lui, squadrandolo da capo a piedi.
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— Lei chi è? — Maggiore Ardmore, Servizi Segreti. E chi è lei? — Colonnello Calhoun, Servizio Ricerche. — Benissimo, colonnello. Ho un messaggio urgente, per il suo ufficiale comandante. Vuole usarmi la compiacenza di mandare qualcuno a informarlo del mio arrivo, e di farmi accompagnare da lui? Era esasperato, e non si curava di nasconderlo. — Non posso — rispose Calhoun, scotendo il capo. — È morto. Pareva che, ad annunciarla così, la notizia gli desse una sorta di soddisfazione maligna. — Come! ? — Già, proprio come dico. È morto. Sono morti tutti: tutti gli altri. Davanti ai suoi occhi, caro maggiore, ci sono gli unici superstiti del personale della Cittadella... anzi, dovrei dire del laboratorio ricerche d’emergenza, Ministero della Difesa, dato che le mie parole sono una specie di rapporto ufficiale. Fece un sorriso obliquo, e passò lo sguardo sul pugno di uomini, presenti nella stanza, ch’erano ancora vivi. Ardmore dovette rimanere un istante in silenzio per afferrare la portata di quelle affermazioni. Poi chiese: — Chi è stato, i Panasiatici? — No. No, non sono stati i Panasiatici. Per quel che ne posso sapere, il nemico non ha alcun sospetto: non conosce neppure l’esistenza della Cittadella. No, siamo stati noi stessi... Un esperimento scientifico che è riuscito fin troppo bene. Il dottor Ledbetter svolgeva ricerche per scoprire il modo di... — Non importa, colonnello. Chi ha assunto il comando, ora? Devo eseguire gli ordini che mi sono stati affidati. 2
— «Comando»? Comando Militare? Buon Dio, amico, non abbiamo avuto il tempo di pensare a questo particolare... finora. Aspetti un momento. Percorse la stanza con lo sguardo, contando le teste. — Mah... tra i presenti, il più alto in grado sono io, e tutti i superstiti sono in questa stanza. Stando così le cose, credo di essere diventato io l’ufficiale comandante. — Non c’è nessun ufficiale dei quadri regolari, tra i presenti? — No. Abbiamo tutti una nomina temporanea, per esigenze belliche. Quindi il comando passa a me. Faccia pure a me il suo rapporto. Nella stanza c’era una mezza dozzina di uomini: Ardmore spiò che faccia facevano. Ascoltavano la conversazione con un misto tra l’interesse e l’apatia. Prima di rispondere, Ardmore pensò per alcuni istanti al modo migliore di formulare il messaggio. Non c’era dubbio, la situazione era diversa da quella che s’aspettava: forse non era neppure il caso di riferire il suo messaggio... — Avevo ordine — disse infine, scegliendo con cura le parole, — d’informare il vostro generale che era esonerato dall’obbedienza ai suoi diretti superiori. Doveva operare in modo autonomo, e proseguire la guerra contro gli invasori secondo la propria iniziativa. — «Vedete — continuò, — dodici ore fa, quando sono partito da Washington, sapevamo benissimo di essere ormai spacciati. Il gruppo di scienziati raccolto qui, nella Cittadella, costituiva probabilmente l’unica risorsa militare che ci rimanesse. » Calhoun annui. — Capisco — disse. — Un governo defunto manda un ordine a un laboratorio defunto. Zero più zero uguale zero. Potrebbe anche essere 3
divertente, se riuscissimo ancora a ridere. — Colonnello! — Si? — Quell’ordine, adesso, riguarda lei. Cosa pensa di fare? — Cosa penso di fare? E che diavolo posso fare? Siamo sei uomini, contro quattrocento milioni di nemici. Immagino — continuò, — che adesso, per fare le cose a puntino secondo i canoni della mentalità militare, dovrei preparare a tutti un regolare congedo dall’Esercito degli Stati Uniti, e poi salutarli con un bacio in fronte. In quanto a me, non so proprio cosa mi resti da fare. Karakiri, magari. O lei non ha capito? Qui dentro c’è tutto ciò che resta degli Stati Uniti. E resta perché i Panasiatici non l’hanno ancora trovato. Ardmore si umettò le labbra. — A quanto pare — disse, — non ho riferito chiaramente l’ordine. L’ordine dice di assumere direttamente il comando, e di proseguire la guerra! — E come? Prima di rispondere, Ardmore guardò attentamente Calhoun. — In verità — disse, — la cosa non rientra nelle sue responsabilità. Dati i cambiamenti sopravvenuti nella situazione, e in accordo con le norme del codice di guerra, nella mia qualità di ufficiale più alto in grado... ufficiale in servizio effettivo... assumo io il comando di questo reparto dell’Esercito degli Stati Uniti! Il concetto gravò nell’aria per un istante lunghissimo, tra il silenzio assoluto. Ardmore poté agevolmente contare una ventina di battiti del proprio cuore. Poi Calhoun si mise sull’attenti, cercando di raddrizzare le spalle curve.
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— Ha perfettamente ragione, signore — disse. — Quali sono i suoi ordini? Quali sono i tuoi ordini? Era lui il primo a chiederselo. Cerca di pensare in fretta, Ardmore, brutto fanfarone: hai sparato giù la tua bella frase, e adesso? Calhoun aveva perfettamente ragione, a chiedere: «E come?» ma Ardmore, di fronte alla prospettiva di starsene lì con le mani in mano, ad assistere al crollo di quell’ultimo avanzo di organizzazione militare... beh, Ardmore non se l’era proprio sentita. Devi dire qualcosa a questa gente, e dev’essere qualcosa di molto efficace; abbastanza efficace, almeno, da poterli convincere per il momento, finché non trovi qualcosa di meglio. Cerca un diversivo, amico; non farti scappare di mano l’uditorio! — Per prima cosa — disse, — credo che faremmo meglio a esaminare la nuova situazione. Colonnello: vuole pregare il personale superstite di unirsi a noi? Ecco, possiamo sederci tutti a quel grosso tavolo. Quel tavolo andrà benissimo. — Sicuro, signore. Gli altri, che avevano udito l’ordine, si diressero verso il tavolo anche loro. — Graham! E lei, come si chiama... Thomas, no? Voi due, portate via il corpo del capitano MacAllister. Per il momento potete lasciarlo in corridoio. Il trambusto del portar via uno dei morti (ce n’erano dappertutto) e di far sedere al tavolo i vivi servì a rompere quel senso d’irrealtà che permeava l’atmosfera, e a rimettere la situazione nella giusta prospettiva. Quando si volse nuovamente verso Calhoun, Ardmore era già più sicuro di sé. — La prego di presentarmi ai suoi uomini, colonnello — disse, — 5
Desidero conoscere, oltre agli incarichi, anche qualche informazione personale su di loro. E il nome, naturalmente. Non ce n’era abbastanza neppure per un caporale: era un ultimo, disperato manipolo. Laggiù, nascosto in tutta segretezza nel cuore delle Montagne Rocciose, al sicuro da ogni osservatore, Ardmore si era aspettato di trovare il più prestigioso gruppo di ricercatori scientifici che si fosse mai visto al mondo: i cervelli migliori, raccolti insieme e animati da un unico scopo. Anche se le forze regolari degli Stati Uniti erano state spazzate via dalla catastrofe militare, c’era pur sempre la speranza che duecento brillantissimi scienziati, nascosti in una fortezza sotterranea (di cui il nemico ignorava l’esistenza) e dotati dei mezzi di ricerca più moderni, riuscissero a scoprire e a realizzare un’arma capace di cacciare via, col tempo, i Panasiatici dal continente nordamericano. Appunto in base a questo ragionamento, Ardmore era stato mandato laggiù, a riferire al comandante della Cittadella, il defunto generale, che non doveva aspettare altri ordini da parte dei superiori, e che doveva seguire il proprio giudizio. Ma, ormai, cosa avrebbe potuto fare una mezza dozzina di uomini? Perché erano proprio una mezza dozzina. Sette, anzi, se si contava anche lui. C’era il professor Lowell Calhoun, matematico: le necessità della guerra l’avevano strappato via dalla cattedra universitaria e l’avevano messo in divisa con il grado di colonnello. C’era il dottor Randall Brooks, biologo e biochimico, con il grado temporaneo di maggiore. Ardmore lo trovò subito simpatico: sotto la sua aria tranquilla e pacioccona credette d’indovinare una solidissima forza di carattere, nonostante l’apparente imperturbabilità. Una persona forse un po’ chiusa, ma senza dubbio preferibile a tanti estroversi... Si: 6
su Brooks si poteva contare, e i suoi consigli sarebbero risultati preziosi. In quanto a Robert Wilkie, Ardmore lo classificò mentalmente «l’imbambolato». Era giovane, e pareva ancor più giovane della sua età; con la sua aria goffa e ciondolante faceva pensare immediatamente a certi cagnoni affettuosi cresciuti troppo in fretta, e i suoi capelli parevano refrattari all’uso di ogni pettine. Come risultò dalle sue stesse parole, era uno specialista nel campo delle forme radianti d’energia e branche associate della fisica: ricerche piuttosto rarefatte, e assolutamente incomprensibili per un profano. Magari era un genio nel proprio lavoro, ma dalle apparenze non lo si sarebbe mai detto. Questi tre erano gli unici superstiti del gruppo degli scienziati. Gli altri venivano dall’Esercito. Herman Scheer, sergente del Genio. Da borghese faceva l’operaio specializzato, meccanica di precisione. Un uomo capace di costruire viti, ingranaggi, apparecchiature. Prima che l’esercito lo richiamasse, lavorava per i laboratori della Edison: costruiva strumenti ad alta sensibilità. Le mani brune e robuste, le dita, lunghe e sottili garantivano per lui: guardando il suo viso marcato, dalla mascella forte, Ardmore pensò che non sarebbe stato male averlo al suo fianco, se mai ci fosse stato da fare a pugni con qualcuno. Anche su Scheer si poteva contare. C’era poi Edward Graham, soldato scelto. Incarico: cuoco della mensa ufficiali. La guerra, strappandolo dalla sua professione di pittore e decoratore, gli aveva permesso di sbizzarrirsi nella sola dote che possedesse ulteriormente: cucinare. Ardmore non capiva in che modo Graham potesse rendersi utile, salvo il fatto, banale, che qualcuno doveva fare da mangiare. L’ultimo era l’aiutante di Graham, Jeff Thomas. Soldato semplice; dati personali... nessuno. 7
— È capitato qui per caso — spiegò Calhoun. — Un giorno. Siamo stati costretti ad arruolarlo immediatamente e a trattenerlo con noi, per motivi di sicurezza.
Le presentazioni fra Ardmore e gli uomini che componevano il suo «comando» richiesero una decina di minuti: per tutto quel tempo, una buona metà dell’attenzione di Ardmore si dedicò — tumultuosamente — a pensare alla prossima frase da dire. L’effetto da raggiungere lo sapeva, era abbastanza chiaro: doveva essere una specie d’iniezione stimolante, capace di ridare entusiasmo a un gruppo di persone estremamente demoralizzate. Si, una di quelle frasi magniloquenti su cui si articola la vita dell’uomo. Nelle frasi magniloquenti, negli slogan, Ardmore aveva sempre riposto la massima fiducia: egli, soldato esclusivamente per forza maggiore, aveva in verità sempre svolto la professione del pubblicitario. Quest’ultima considerazione gli fece affiorare alla mente un altro problema: era il caso di riferire agli altri che neppure lui era un ufficiale di carriera, anche se, del tutto accidentalmente, l’avevano messo nei quadri effettivi? No, decise subito: sarebbe stata soltanto una sciocchezza. Era un momento in cui tutti dovevano nutrire nei suoi riguardi quel tipo di fiducia immediata che, di solito, nasce nel profano per lo specialista. Jeff Thomas era stato l’ultimo, ed ora anche Calhoun aveva finito di parlare. Adesso tocca a te, bello mio, si disse Ardmore. E cerca di non fare cilecca.
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Fu proprio in quell’istante che gli nacque l’ispirazione: un’ispirazione che, per fortuna, richiedeva poche parole di preambolo. — Dovremo continuare a svolgere il compito che ci è stato affidato — disse. — Dovremo svolgerlo in modo autonomo, e per un periodo indeterminato. A questo proposito, desidero ricordare a tutti che i nostri obblighi non derivano dai nostri ufficiali superiori, i quali sono morti nella distruzione di Washington, ma dal popolo stesso degli Stati Uniti, attraverso la Costituzione. E la Costituzione non è caduta prigioniera, né è stata distrutta... questo non è possibile e non lo sarà mai, dal momento che la Costituzione non è un pezzo di carta, ma il mutuo contratto che lega il popolo americano. Soltanto il popolo americano potrebbe scioglierci dal nostro dovere verso la Costituzione. Ma sarà poi vero, si chiese? Ardmore non era avvocato, e non avrebbe saputo dirlo... però sapeva che quegli uomini avevano bisogno di credere alle sue parole. Si volse nella direzione di Calhoun. — Colonnello Calhoun, vuole prestare giuramento nelle mie mani, accettandomi come ufficiale comandante di questo reparto dell’Esercito degli Stati Uniti? Poi aggiunse, come se l’idea gli fosse venuta solo in quel momento: — Anzi, credo che faremmo meglio a rinnovare tutti il giuramento, insieme con il Colonnello. Fu una specie di coro, quello che echeggiò nella stanza semideserta. — Giuro solennemente... di compiere i doveri del mio incarico... e di sostenere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti... contro tutti i nemici interni ed esterni! — E che Dio mi aiuti. — E che Dio mi aiuti!
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Ardmore scoprì, con un po’ di stupore, che questa piccola rappresentazione, da lui stesso inscenata, era ugualmente riuscita a fargli venire i lucciconi. Poi vide che anche Calhoun aveva gli occhi lucidi. Chissà, forse nelle parole del giuramento c’era più di quanto non avesse pensato... — Colonnello Calhoun: lei, naturalmente, è adesso il direttore delle ricerche. Lei è secondo nel comando, ma mi occuperò personalmente di tutti quegli incarichi che spetterebbero agli ufficiali subalterni: in questo modo lei avrà più tempo da dedicare alle ricerche scientifiche. Il maggiore Brooks e il capitano Wilkie sono ai suoi ordini. Scheer! — Si, signore! — Lei dipenderà dal colonnello Calhoun. Se le resterà tempo libero dagli incarichi che le affiderà il Colonnello, potrò affidarle altri incarichi io: ne parleremo più tardi. Graham! — Si, signore! — Lei continuerà a svolgere il lavoro che già svolgeva in precedenza. Avrà le funzioni di sergente di mensa, di ufficiale di mensa, di ufficiale addetto agli approvvigionamenti... in effetti, lei adesso costituisce la nostra intera fureria. Più avanti nella giornata, lei mi dovrà fare rapporto sul numero delle razioni disponibili, e sulle condizioni degli alimenti deperibili. Thomas lavorerà per lei, ma, nel caso serva il suo aiuto a qualcuno del reparto ricerche, dovrà mettersi ai loro ordini: tutte le volte che ne sorgerà il bisogno. Forse questo ci costringerà a ritardare l’orario dei pasti, ma non c’è modo di evitarlo. — Si, signore. — Noi tre, cioè io, lei e Thomas svolgeremo tutti gli incarichi che non sono direttamente connessi con il lavoro di ricerca, e aiuteremo gli
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scienziati in ogni momento e in ogni occasione in cui avranno bisogno di noi. E ciò vale anche per me. «Colonnello — volle puntualizzare, voltandosi verso Calhoun, — se le serve un altro paio di mani inesperte, per qualsiasi motivo, faccia pure affidamento su di me. » — Benissimo, Maggiore. — Graham: aiutato da Thomas, lei è incaricato di portare via i cadaveri che ci sono qui in giro, prima che l’aria diventi irrespirabile... diciamo prima di domani sera. Metteteli in qualche stanza inutilizzata, e sigillatela ermeticamente. Scheer vi mostrerà come dovete fare. Gettò un’occhiata all’orologio da polso. — Le due. A che ora avete fatto colazione? — La... ehm... non abbiamo fatto colazione, finora. — Ah. Graham: porti del caffè e dei panini. In questa stanza, tra venti minuti. — Benissimo, signore — disse Graham. E, rivolgendosi a Thomas: — Jeff, vieni a darmi una mano. — Arrivo. Come i due furono usciti, Ardmore si rivolse ancora a Calhoun: Nel frattempo, Colonnello, andiamo a dare un’occhiata al laboratorio dove è successo il disastro. Continuo tuttora a voler sapere cosa è successo qui dentro! Tanto gli altri due scienziati quanto Scheer ebbero un attimo d’esitazione; Ardmore rivolse loro un cenno del capo, e il piccolo drappello si mosse. — Lei dice che non è accaduto niente di strano, nessuna esplosione, nessuna esalazione di gas... ma che sono morti lo stesso?
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S’erano fermati davanti all’apparecchiatura con cui il professor Ledbetter aveva compiuto il suo ultimo esperimento, e le facevano capannello attorno. Il corpo dello scienziato era ancora là dov’era caduto vittima delle proprie ricerche: una forma inerte e ormai insensibile, più simile a un fagotto di stracci che ad un uomo. Ardmore distolse gli occhi da quella vista; riprese a fissare l’apparecchiatura posata sul bancone, cercando di capirne la funzione. Pareva un dispositivo abbastanza semplice, ma non gli ricordava nulla che avesse già visto. — No, niente di strano, ad eccezione di un alone azzurrognolo, che poi è subito svanito. Ledbetter aveva appena premuto questo interruttore. Calhoun lo indicò con il dito, guardandosi bene dal toccarlo. Ora l’interruttore era di nuovo in posizione di riposo: si trattava di un tipo automatico, che rimaneva normalmente aperto in virtù di una molla. — Ho provato un attimo di vertigini. Poi, quando mi sono ripreso, ho visto che Ledbetter era a terra. Sono corso da lui, ma ormai non c’era più niente da fare. Era morto... senza neppure una ferita. — Io sono svenuto — aggiunse Wilkie. — Forse non l’avrei scampata, se Scheer non mi avesse fatto la respirazione artificiale. — Lei era in questa stanza? — chiese Ardmore. — No. Ero nel laboratorio radiazioni, all’altra estremità della Cittadella. Ma il mio direttore è morto anche lui. Ardmore, accigliato, si avvicinò alla parete, per prendere una sedia. Stava per sedersi, quando udì un leggero fruscio: vide sul pavimento una minuscola forma grigia, che saettò in direzione della porta e svanì nel corridoio. 12
Sarà stato un topo, si disse, e accantonò subito quel pensiero. Ma invece il dottor Brooks, con un’espressione di somma meraviglia sul volto, rimase immobile dov’era, a fissare la porta spalancata. La sua immobilità durò un istante; poi si precipitò nel corridoio, gridando: — Aspettate un attimo! Torno subito! — Che gli ha preso? — esclamò Ardmore, senza rivolgere la domanda a nessuno in particolare. Sospettò che l’eccessiva tensione avesse avuto il sopravvento sui nervi del piccolo, placido biologo. La risposta arrivò in meno di un minuto. Brooks rientrò, precipitosamente come era uscito; ansava e balbettava per quello sforzo ginnico imprevisto. — Maggiore Ardmore! Professor Calhoun! Signori! — Si fermò a tirare il fiato. — I miei ratti di laboratorio sono ancora vivi! — Eh? E allora? — Come, non capite? È un fatto estremamente importante! Anzi, forse potrebbe avere un’importanza capitale! Nessuno degli animali del laboratorio di biologia ha sofferto il minimo danno! Non capite? — Si, ma... Oh! Forse ci arrivo. Il topo era vivo, e i ratti del laboratorio non sono morti, eppure sono morti gli uomini che erano nelle stesse stanze. — Proprio così! Proprio così! — gridò Brooks, tutto eccitato, ad Ardmore. — Uhm. Un fenomeno che uccide duecento persone, penetrando attraverso pareti di roccia e di metallo, senza far rumore e senza lasciare tracce, ma che non ha alcun effetto sui topi e sugli altri animali. Prima d’ora, non avevo mai sentito parlare di una cosa che potesse uccidere un uomo si e un topo no.
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Accennò in direzione dell’apparecchiatura. — Pare proprio che quel piccolo arnese nasconda qualcosa di grosso, Calhoun. — Sicuro — disse Calhoun. — Sempre che si possa tenere il fenomeno sotto controllo. — Perché, ha qualche dubbio? — Be’... non sappiamo perché è stato capace di uccidere delle persone, né perché ha risparmiato noi, e neppure perché non ha effetto sugli animali. — Precisamente... Ecco, pare che il nostro problema consista nel trovare queste tre risposte. — Fissò ancora l’enigmatico apparecchietto, tanto semplice all’apparenza. — Professore — disse, — non vorrei dare l’impressione di ficcare il naso nel suo lavoro fin dall’inizio, ma preferirei che lei non abbassasse quell’interruttore senza avvertirmi. Il suo sguardo cadde sulla figura immobile di Ledbetter, e subito se ne distolse. L’esame della situazione continuò davanti al caffè e ai panini. — Allora — esordì Ardmore, — nessuno conosce con esattezza il tipo di esperimenti che conduceva Ledbetter? — Si potrebbe anche metterla così — rispose Calhoun, annuendo. — Sa, io gli davo una mano svolgendo gli aspetti matematici delle sue teorie, ma Ledbetter era un genio, e, quando trattava con persone che non erano del suo stesso calibro, era un po’ scostante. Se Einstein fosse stato ancora vivo, quei due si sarebbero potuti parlare su un piano di parità; ma Ledbetter, con noialtri, affrontava solo gli argomenti sui quali gli occorreva un aiuto, o i dettagli che preferiva lasciare in mano a un assistente. 14
— Allora, lei non sa che intenzioni avesse? — Be’, si e no. Lei conosce la teoria generale dei campi? — Diavolo, no! — Sa... allora è un po’ difficile parlarne, maggiore Ardmore. Il professor Ledbetter conduceva ricerche sugli spettri addizionali teoricamente possibili... — «Spettri addizionali»? — Si, spettri addizionali. Vede, gran parte dei progressi compiuti dalla fisica degli ultimi centocinquant’anni si è svolta nell’ambito dello spettro elettromagnetico: luce, radio, raggi X... — Si, si, questo lo so anch’io. Ma cosa sono gli spettri addizionali? — E ciò che sto cercando di spiegarle — ribatté Calhoun, un po’ piccato. — La teoria generale dei campi prevede la possibile esistenza di almeno tre altri tipi di spettro. Vede, sappiamo che nello spazio si propagano tre tipi di campi di forza: il campo elettrostatico, quello magnetico e quello gravitazionale. La luce, i raggi X e le altre radiazioni, cioè le onde hertziane, fanno parte dello spettro elettromagnetico. La teoria indica la possibile esistenza di altri spettri analoghi: uno tra il campo magnetico e quello gravitazionale, un secondo tra il campo gravitazionale e quello elettrico, e infine un terzo spettro, a tre componenti, tra i campi elettrico, magnetico e gravitazionale. Ognuno dei tre costituirebbe allora uno spettro completo, e in complesso si avrebbero tre nuove discipline del sapere. «Se questi tre nuovi spettri esistono, allora è presumibile che le loro proprietà siano altrettanto interessanti quanto quelle dello spettro elettromagnetico, ma del tutto diverse. Però non abbiamo alcuno strumento che ci consenta di rilevare questi spettri addizionali; anzi, non siamo neppure sicuri della loro esistenza. » 15
— Be’ — lo interruppe Ardmore, aggrottato, — io sono poco più che un profano su questi argomenti, e non mi azzarderei a darle torto, ma mi pare come cercare l’ago senza avere il pagliaio. Io credevo che questo laboratorio si occupasse di una singola ricerca: trovare un’arma in grado di opporsi al raggio vortice e ai razzi a testata nucleare dei Panasiatici. Confesso la mia sorpresa nell’apprendere che Ledbetter, il quale, a quanto mi par di capire dalle sue parole, doveva essere il vostro ricercatore numero uno, stesse svolgendo ricerche su cose che forse non esistono, e che comunque sarebbero dotate di proprietà sconosciute. Non mi pare molto sensato. Calhoun non rispose; assunse soltanto un’espressione altezzosa e gli rivolse un sorrisino irritante. Ardmore comprese d’aver detto una fesseria: si sentì arrossire fino alle orecchie. — Si, si — aggiunse in fretta, — ho torto... qualunque cosa abbia scoperto Ledbetter, ha ucciso duecento uomini. Perciò si tratta potenzialmente di un’arma militare; d’accordo. Ma Ledbetter non l’avrà trovata soltanto per caso, brancolando nel buio? — Non proprio nel buio — rispose Calhoun, conservando l’aria altezzosa di prima. — Le considerazioni teoriche che indicano la possibile esistenza di spettri addizionali ci permettono anche di avanzare qualche supposizione su quelle che potranno essere, in generale, le loro proprietà. So che Ledbetter aveva iniziato le ricerche cercando di realizzare praticamente un raggio pressore e un raggio trattore: ricerche che non potevano che riguardare lo spettro gravitomagnetico. «Ma, nelle due ultime settimane, Ledbetter mi è parso molto eccitato: ha cambiato radicalmente la direzione degli esperimenti. Non ne ha fatto parola con nessuno, e io non posso che avanzare una supposizione, 16
del resto molto vaga, basandomi sul tipo di trasformate matematiche e di sviluppi in serie che mi dava da risolvere. Tuttavia — (e Calhoun, a questo punto, cavò dalla tasca interna della giacca un grosso taccuino a pagine mobili) — Ledbetter aveva l’abitudine di prendere nota di ogni dettaglio, quando compiva un esperimento. Credo sia abbastanza agevole ricostruire il suo lavoro, e, probabilmente, risalire alla teoria su cui poggiava. » Il dottorino, Wilkie, che sedeva a fianco di Calhoun, si piegò verso di lui. — Professore — esclamò, tutto eccitato, — dove ha trovato gli appunti? — Su un bancone, nel laboratorio di Ledbetter. Se si fosse preso il disturbo di guardare, li avrebbe visti anche lei. Wilkie non si curò della frecciatina ironica: ormai s’era già tuffato nei simboli matematici che facevano bella mostra di sé sulle pagine del taccuino. — Ehi — disse poi, — questa formula si riferisce a una radiazione... — Certo che si riferisce a una radiazione. Per cosa mi prende, per un ignorante? — Ma è una formula sbagliata! — Forse lo è, dal suo punto di vista. Ma le assicuro che non doveva esserlo affatto, dal punto di vista di Ledbetter. E si addentrarono in una discussione scientifica assolutamente incomprensibile per Ardmore; questi, dopo qualche minuto, riuscì ad approfittare di una pausa per dire: — Signori! Signori! Un momento! Vedo che la mia presenza serve solo a distogliervi dal lavoro; per il momento credo di avere capito quanto basta. Da come interpreto la situazione, ora intendete portarvi 17
alla pari con le ricerche del defunto professor Ledbetter, e scoprire la funzione del suo apparecchio... senza uccidervi nel corso della ricerca. È esatto? — Direi che le sue parole sono sostanzialmente corrette — annui Calhoun, cautamente. — Benissimo; allora continuate pure, e tenetemi informato appena potete. Si alzò, e anche gli altri seguirono il suo esempio. — Ah, un’ultima considerazione. — Si? — Mi è venuta in mente una cosa. Non so se valga la pena di dirla: si collega all’importanza che il dottor Brooks attribuiva alla faccenda dei topi e dei ratti. Prese a contare sulle dita: — Molti uomini sono morti; il dottor Wilkie è svenuto, e per poco non è morto anche lui; il professor Calhoun ha avvertito soltanto uno stordimento passeggero; gli altri sopravvissuti, a quanto pare, non hanno subito danni: non si sono accorti di nulla, se non della morte misteriosa dei loro compagni. Ora, questo non potrebbe già essere un dato di partenza? Attese con ansia una risposta, con una sorta d’inconscio timore che gli scienziati considerassero sciocche, o ovvie, le sue parole. Calhoun stava già per dire qualcosa, ma il dottor Brooks lo precedette. — Certo! — esclamò. — Come ho fatto a non pensarci subito? Buon Dio, oggi sono proprio frastornato! Significa che c’è un gradiente, una certa intensità misurabile, negli effetti del fenomeno ignoto. S’interruppe un istante per riflettere, poi riprese subito a parlare:
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— Maggiore: mi occorre subito la sua autorizzazione per esaminare i cadaveri dei nostri colleghi defunti, e quindi per cercare le differenze tra loro e i superstiti, soprattutto quelli più severamente colpiti dal fenomeno ignoto... S’interruppe bruscamente, fissando pensieroso Wilkie. — Niente affatto! — protestò il diretto interessato. — Non ti permetto di usarmi come cavia! Non hai affatto la mia autorizzazione! Ardmore non riuscì a capire se la preoccupazione di Wilkie fosse vera, o se parlasse per scherzo. Comunque, tagliò corto. — Lascio i dettagli a voi, signori. Ma ricordate... nessuno deve correre rischi senza prima informarmi. — Capito, Brooksino mio? — insistette Wilkie. Ardmore, quella sera, andò a letto per puro spirito di disciplina, non perché avesse voglia di dormire. Aveva portato a termine il suo compito immediato: aveva raccolto i frammenti dell’organizzazione nota come la Cittadella e li aveva rimessi insieme: ora il laboratorio aveva ripreso la marcia. Che poi quella marcia avesse possibilità di giungere a una destinazione, e a quale... Be’, Ardmore era troppo stanco per chiederselo; ma in marcia, almeno quello, era. Aveva ridato a tutti uno schema da seguire, e, assumendo la guida e la responsabilità, li aveva messi in grado di riversare su di lui le incertezze più profonde: ora avevano riacquistato la stabilità emotiva, almeno in parte. E questo li avrebbe salvati dalla pazzia, in un mondo che era impazzito. Chissà che aspetto avrebbe avuto, quel pazzo nuovo inondo... un mondo in cui la superiorità della cultura occidentale non sarebbe più stata accettata con indifferenza, come un dato di fatto; un mondo che
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non avrebbe più visto dall’alto degli edifici pubblici, a tener compagnia ai piccioni, sventolare le sempiterne stelle e strisce? Questo gli riportò alla mente un altro problema: se voleva mantenere quella facciata d’organizzazione militare, doveva procurarsi una specie di servizio d’informazione. Per tutta la giornata era stato fin troppo occupato a rimettere gli uomini al lavoro, e non aveva ancora potuto pensarci, ma la cosa richiedeva la sua attenzione... Domani, si disse. E continuò a preoccuparsene.
Un servizio di spionaggio era altrettanto importante quanto una nuova arma: perfino più importante, anzi. Forse le ricerche del professor Ledbetter avrebbero permesso di costruire un’arma potentissima, ma, per fantastiche che fossero le sue possibilità, quell’arma non sarebbe servita a niente se Ardmore non avesse saputo come usarla contro i punti deboli del nemico. In tutta la storia degli Stati Uniti, la loro caratteristica principale era sempre stata quella di avere un servizio di spionaggio militare inadeguato, ridicolo, fin da quando erano assurti al rango di potenza mondiale. La nazione più potente che si fosse mai vista al mondo, certo, ma era sempre entrata in guerra nel modo peggiore, incappandoci dentro come un gigante cieco. Prendiamo la situazione attuale, tanto per fare un esempio: le bombe atomiche dei Panasiatici avevano la stessa potenza di quelle americane, ma gli americani erano stati colti di sorpresa, e non avevano avuto il tempo di sganciarne neppure una. E quante ce n’erano, nei magazzini militari? Migliaia, gli avevano detto. Ardmore non lo sapeva, ma era certo che i Panasiatici l’avessero 20
sempre saputo: il numero esatto, il punto esatto in cui erano immagazzinate. Era stato lo spionaggio militare a vincere la guerra per conto dei Panasiatici, non le loro armi segrete. Non che quelle armi fossero delle bazzecole... tanto più che c’era una cosa evidente: erano davvero «segrete». I cosiddetti servizi di spionaggio militare americani avevano fatto vergognosamente cilecca. D’accordo, Whitey Ardmore: adesso sono tutti tuoi! Puoi organizzare come meglio credi il tuo tipo preferito di spionaggio... hai a disposizione tre occhialuti ricercatori scientifici, un vecchio sergente del Genio, due soldati semplici con esperienza di cucinieri, e il bambino prodigio... te stesso. Sei bravissimo a criticare, ma... come dice il proverbio? «Se sei tanto furbo, perché non sei ricco?» Si alzò dal letto: desiderava ardentemente una buona dose di sonnifero per dormire tutta la notte; bevve un bicchiere d’acqua calda al posto del farmaco e ritornò sotto le lenzuola. Supponiamo di avere veramente trovato un’arma nuovissima e potentissima. Il marchingegno di Ledbetter pareva davvero promettente, sempre che si fosse riusciti a controllarlo... ma poi? Un uomo solo non può pilotare un bombardiere — anzi, non può neppure farlo levare in volo — e sei uomini non possono spazzare via un impero, neppure se hanno gli stivali dalle sette leghe e il raggio della morte. Com’era, quella vecchia spacconata di Archimede? «Datemi una leva abbastanza lunga e un punto d’appoggio adatto, e vi solleverò il mondo.» Certo, ma dov’è il punto d’appoggio? Un’arma non è un’arma, se non hai un esercito per usarla. Scivolò in un sonno leggero, e sognò di se stesso, indaffarato a cincischiare con il manico della leva più lunga che si possa immaginare: una 21
leva inutile, poiché non poggiava in nessun posto. In alcuni momenti lui era Archimede, in altri Archimede era fermo al suo fianco, e rideva, e gli faceva le boccacce con una fisionomia tipicamente asiatica.
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CAPITOLO SECONDO Nelle due settimane seguenti, Ardmore fu troppo occupato per pensare ad altro che al lavoro immediato. Il postulato su cui poggiava tutto il loro modo di vivere — il fatto, cioè, di essere effettivamente un’organizzazione militare, cui sarebbe toccato, un giorno o l’altro, rendere conto delle sue azioni alle autorità civili — esigeva di rispettare (o almeno di fingere in modo convincente di rispettare) tutti i regolamenti che riguardavano le scartoffie, i rapporti, le registrazioni, i ruolini paga, gli inventari e così via. Personalmente, Ardmore era convinto che fosse tutto lavoro sprecato, formalità insensate; tuttavia, essendo un pubblicitario, aveva anche una certa conoscenza della psicologia spicciola: quel tanto da capire intuitivamente che l’uomo è una creatura che vive di simboli. Nell’attuale momento, ogni simbolo che potesse rappresentare il governo era divenuto importantissimo. Fu così che, dopo essere andato a scartabellare fra i manuali del regolamento, già proprietà del defunto ufficiale pagatore, chiuse con cura i conti dei morti, segnando ogni volta l’esatto ammontare dovuto agli eredi di ciascuno «in moneta degli Stati Uniti a corso legale», anche se, scoraggiato, si chiedeva se quella frase sarebbe mai tornata a significare qualcosa. Comunque, compì quel lavoro, e assegnò a tutti i superstiti qualche piccolo lavoro amministrativo, per far loro capire indirettamente che le regole continuavano a venire rispettate.
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Ma il lavoro d’ufficio era troppo, e una persona sola non bastava. Vedendo che Jeff Thomas, l’aiutante cuoco, sapeva scrivere a macchina e se la cavava bene con i conti, gli affidò parte del lavoro. Il cuoco, Graham, si trovò a far tutto da solo, e se ne lamentò, ma Ardmore non gli diede ascolto: un po’ di lavoro in più gli avrebbe fatto bene... come dicevano dalle sue parti, un cane ha bisogno di pulci. Ardmore voleva che tutti gli uomini del suo comando, ogni sera, andassero a letto stanchi. Inoltre, Thomas serviva anche a un altro scopo. Ardmore non si dava pace un attimo, e avere qualcuno a disposizione con cui parlare gli faceva bene. Aveva visto che Thomas era una persona intelligente e comprensiva, anche se in modo puramente passivo: prese a parlare con lui sempre più liberamente. Non che si addicesse molto, a un ufficiale comandante, intrattenersi tanto familiarmente con un soldato semplice; ma Ardmore sentiva per istinto che Thomas non avrebbe tradito la sua fiducia... e aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno. Fu Calhoun a distogliere la sua attenzione dalle faccende di ordinaria amministrazione per attirarla su qualcosa di più importante. Il matematico era venuto a chiedere l’autorizzazione di mettere in azione l’apparecchio di Ledbetter, modificato secondo certe recenti ipotesi, ma aveva anche un’altra domanda, molto più imbarazzante. — Maggiore Ardmore — chiese, — può già darmi qualche idea di come intenderà utilizzare l’« effetto Ledbetter»? Ardmore non ne aveva affatto; rispose alla domanda con un’altra domanda: — È già così prossimo a un risultato che il problema diventa urgente? In tal caso, può darmi un’idea di quanto ha scoperto finora? — Non mi sarà facile — cominciò Calhoun, con un tono accademico 24
e molto condiscendente, — poiché non posso esprimermi nel linguaggio matematico, che, necessariamente, è l’unico che renda bene l’idea... — Su, Colonnello, per favore — lo interruppe Ardmore, più irritato di quanto non volesse ammettere a se stesso, e frenato dalla presenza del soldato Jeff Thomas. — Può uccidere un uomo con il suo apparecchio, sì o no, e può scegliere chi uccidere o non può sceglierlo? — Si tratta di una semplificazione eccessiva — rispose Calhoun. — Tuttavia, pensiamo che il nuovo tipo di apparecchiatura avrà un effetto direzionale. Le ricerche del dottor Brooks lo hanno portato a supporre che esista una relazione asimmetrica tra l’azione e l’organismo vivente cui viene applicata, cosicché, nel determinare l’effetto dell’azione, le caratteristiche specifiche della forma vivente sono altrettanto importanti quanto le caratteristiche dell’azione stessa. Ossia, l’effetto è funzione di tutti i fattori che intervengono nel processo, inclusa la forma vivente interessata, oltre che dell’azione originale... — Calma, calma, Colonnello. Cosa significa, se vogliamo usarla come arma? — Significa che lei può puntarla su due uomini e decidere quale dei due morirà... se è capace di regolarla bene — rispose Calhoun, irritato. — O, perlomeno, così pensiamo noi. Wilkie si è offerto volontario per un controllo: come bersaglio prenderemo dei topi. Ardmore concesse l’autorizzazione di svolgere l’esperimento, con certe limitazioni e certe precauzioni; poi, quando Calhoun ebbe lasciato l’ufficio, la sua mente ritornò subito al problema di come utilizzare l’arma... ammesso che fosse davvero un’arma. Per risolvere il problema, tuttavia, gli occorrevano informazioni che non possedeva. Accidenti!, gli serviva più che mai una specie di organizzazione spionistica: doveva 25
assolutamente sapere cosa succedeva nel paese. Gli scienziati non potevano essere presi in considerazione, naturalmente. E neanche Scheer, perché in laboratorio avevano bisogno di lui per costruire i particolari meccanici. Graham? No, Graham andava benissimo come cuoco, ma aveva un temperamento nervoso ed eccitabile, non era molto saldo emotivamente: l’ultimo da scegliere, per affidargli un pericoloso lavoro di spionaggio. Rimaneva soltanto lui, Ardmore. Lui era bene addestrato per quel tipo di cose; era meglio che andasse di persona. — Ma lei non può, signore! — gli ricordò Thomas. — Eh? Come? Senza accorgersene, aveva espresso ad alta voce i suoi pensieri, come gli succedeva spesso quando era solo, o quando c’era soltanto Thomas ad ascoltarlo. La riservatezza di Thomas lo incoraggiava a servirsene come di una «cassa di risonanza» per i suoi pensieri. — Lei non può abbandonare il suo posto di comando, signore. Per prima cosa, sarebbe contro il regolamento, e per seconda cosa, se mi è concesso esprimere la mia opinione, tutto quanto lei ha fatto finora andrebbe a pezzi. — E perché dovrebbe andare a pezzi? Nel giro di pochi giorni sarei di ritorno. — Sì, signore; forse per pochi giorni potrebbe funzionare come prima... ma ne dubito. Chi prenderebbe il comando, durante la sua assenza? — Il colonnello Calhoun... naturalmente. — Naturalmente. — Accompagnando questa strana condiscendenza con un’alzata di sopracciglia, Thomas riuscì perfettamente a comunicare
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l’apprezzamento sfavorevole che il regolamento militare gli vietava di esprimere a parole. E lo stesso Ardmore era d’accordo con lui: nulla da dire sulla competenza scientifica del matematico, ma Calhoun, al di fuori della sua specialità, non era altro che un vecchio trombone borioso, intrattabile e scostante. Ardmore era già dovuto intervenire per rimediare ai guai provocati dalla sua arroganza: Scheer continuava a lavorare nel laboratorio soltanto perché Ardmore lo aveva preso da parte e lo aveva calmato facendo leva sul suo spiccato senso del dovere. Tutta la situazione gli ricordava il periodo in cui aveva lavorato come press agent per una famosa predicatrice evangelica, una donna che riscoteva molto successo. Era stato assunto per occuparsi delle sue relazioni pubbliche, ma aveva perso buona parte del tempo a rimediare ai pasticci causati dal caratteraccio bisbetico della santa oratrice. — Inoltre — insisteva Thomas, — chi ci assicura che lei tornerà entro pochi giorni? È una missione molto pericolosa; se lei dovesse morire, qui non ci sarebbe nessuno capace di prendere il suo posto. — Via, Thomas, questo non è giusto. Nessuno è insostituibile. — Signore, non è il momento delle false modestie. In generale può essere vero, ma sappiamo tutt’e due che non è vero nel suo caso. C’è un numero limitato di persone disponibili, e lei è l’unico da cui gli altri accettano ordini. In particolare, lei è l’unico da cui accetta ordini il professor Calhoun. E questo perché lei sa come prenderlo. Nessuno degli altri sarebbe capace di tenerlo al suo posto, e lui non sarebbe capace di tenere al loro posto gli altri. — Sono parole un po’ forti, Thomas. Thomas non rispose. Dopo una lunga pausa, fu Ardmore a riprendere il discorso. 27
— D’accordo, d’accordo — disse, — mettiamo che tu abbia ragione. Ma mi occorrono ugualmente quelle informazioni militari. Come posso procurarmele, se non vado io stesso? Thomas non rispose immediatamente. Alla fine disse, in tono molto tranquillo: — Potrei provare io. — Tu? — Ardmore lo fissò, e si chiese perché non gli fosse venuto in mente Thomas, come possibile candidato. Non lo sapeva neppure lui: chissà, forse perché non aveva dato indicazioni di essere particolarmente adatto a svolgere quel genere di lavoro. Sì, forse la ragione era questa, e inoltre c’era il fatto che fosse un soldato semplice: di solito non si affida a un soldato semplice un incarico che richieda autonomia d’azione e che comporti un potenziale pericolo. Eppure... — Hai mai svolto incarichi spionistici? — No, ma le mie precedenti esperienze potrebbero avermi reso adatto, in un certo senso, a lavori di questo tipo. — Ah, già! Scheer mi ha raccontato qualcosa di te. Tu facevi il vagabondo, no, prima che l’esercito ti arruolasse? — No, non il vagabondo — lo corresse gentilmente Thomas. — Il nomade. — Oh, scusa. Ma... che differenza c’è? — Un vagabondo è un barbone, un parassita, uno che non ha voglia di lavorare. Un nomade è un lavoratore senza fissa dimora, che rinuncia alla sicurezza per essere libero di andare dove gli pare. Un nomade lavora per vivere, ma non vuole legarsi a un luogo determinato. — Ah, capisco. Ehm... sì, e credo di comprendere come la tua esperienza possa averti reso adatto a lavori di spionaggio. Immagino che 28
un nomade debba avere delle grandi doti di adattabilità, debba sapersela cavare nelle situazioni più disparate, se vuol sopravvivere. Ma aspetta un attimo, Thomas... non ho mai badato molto ai tuoi precedenti: eri qui, e basta. Ora però voglio saperne di più sul conto tuo, se devo affidarti questo incarico. Vedi, tu non ti comporti affatto come un nomade... — Perché, come si comporta un nomade? — Eh? Già, meglio lasciar perdere. Ma dimmi qualcosa del tuo passato. Come mai sei diventato un nomade? Ardmore si rese conto di avere infranto, per la prima volta, la naturale reticenza dell’altro. Thomas cercò di dire qualche parola, poi, finalmente, rispose: — Credo sia stato... che non mi piaceva il lavoro dell’avvocato. — Cosa?! — Sì, vede, è andata cosi: ho lasciato la professione di avvocato per impiegarmi nella previdenza sociale. Durante il lavoro, mi è venuto in mente di scrivere un libro sulla manodopera migrante, e ho pensato che, per capire meglio l’argomento, era bene sperimentare di persona le condizioni di vita di quei lavoratori. — Capisco. E mentre eri intento a raccogliere elementi in situ, per così dire, l’esercito ti ha arruolato. — Oh, no — lo corresse Thomas. — Ero già un nomade da una decina d’anni. Non ero mai tornato indietro. Vede, mi ero accorto che la vita del nomade mi piaceva. Si accordarono rapidamente su tutti i dettagli. Thomas non chiese altro equipaggiamento se non i vestiti che aveva avuto indosso quando era capitato nella Cittadella. Ardmore gli suggerì di portarsi un sacco a pelo, ma Thomas non ne volle sapere. 29
— Non sarebbe in carattere — spiegò. — I barboni, dormono nel sacco a pelo; e io non sono mai stato un barbone. I barboni sono sporchi: un nomade che abbia un po’ di rispetto per la propria persona non fa comunella con loro. Un nomade vuole soltanto un buon pasto e qualche spicciolo per i vizi. Ardmore gli diede istruzioni di carattere estremamente generale. — Quasi tutto ciò che vedrai o ascolterai potrà essere un elemento utile per me — gli disse. — Percorri più strada che puoi, e cerca di tornare qui entro una settimana. Se dovessi tardare più di qualche giorno, penserò che tu sia morto o sia stato preso prigioniero, e dovrò studiare un altro piano. «Tieni gli occhi aperti, in particolare, per scoprire qualche modo con cui stabilire un servizio permanente d’informazioni. Non so neppure io che suggerimenti darti in questo senso, ma tieni in mente la necessità. Poi, venendo ai dettagli, m’interessa ogni cosa che riguardi i Panasiatici: come sono armati, come sorvegliano i territori occupati, dove hanno messo i centri di comando, e in particolare dov’è il loro quartier generale del continente americano. Inoltre, se sei in grado di valutare la cifra, quanti possono essere i Panasiatici e come sono distribuiti. Ce n’è da tenerti occupato per un anno, ma cerca di tornare tra una settimana.» Ardmore stabilì un segnale di riconoscimento per aprirgli una delle porte esterne della Cittadella: bastava fischiettare due battute di Yankee Doodle, interromperle subito, e nella parete rocciosa si sarebbe spalancato un vano: un sistema molto semplice, eppure impensabile per un asiatico. Poi gli strinse la mano e gli augurò buona fortuna. Nel salutarlo, scoprì che aveva in serbo un’ultima sorpresa per lui: quando gli porse la mano, Thomas gliela strinse alla maniera dei Dekes, l’associazione di ex universitari cui apparteneva anche lui! Ardmore 30
rimase a fissare, sorpreso, la porta chiusa, cercando di rimettere ordine nei propri preconcetti. Quando si voltò, scorse Calhoun dietro di sé, e si sentì come se lo scienziato l’avesse colto a rubare la marmellata. — Oh, salve, professore — fece, in fretta. — Come sta, Maggiore? — chiese Calhoun, e subito aggiunse, in tono inquisitorio: — Posso chiederle cosa succede? — Ma certamente! Ho inviato in missione esplorativa il tenente Thomas. — «Tenente»? — Facente funzioni di tenente. Sono stato costretto a servirmi di lui per un incarico molto superiore al suo grado, ed è stata l’occasione per assegnargli grado e stipendio richiesti dal suo nuovo incarico. Calhoun non insisté sull’argomento: passò subito a un altro, chiedendo in tono leggermente critico: — Si sarà reso conto, penso, del rischio che corriamo tutti inviando un uomo all’esterno. Mi sorprendo che lei abbia preso una simile decisione senza consultare gli altri. — Mi spiace che lei la pensi così, Colonnello — rispose Ardmore, tentando di ammansire quell’uomo più anziano di lui. — Ma in ogni caso è mio dovere prendere la decisione definitiva, ed è molto importante che non giunga nulla a distrarre lei e gli altri dal vostro importantissimo lavoro di ricerca. Avete compiuto l’esperimento? — aggiunse in fretta. — Sì. — E com’è andato? — Il risultato è stato positivo. I topi sono morti. — E Wilkie? 31
— Oh, Wilkie è illeso, naturalmente. Proprio come avevo previsto. Jefferson Thomas, laureato magna cum laude presso l’Università della California, laureato alla Scuola di Giurisprudenza dell’Università Harvard, di professione nomade, soldato semplice e aiutante cuoco, e ora facente funzioni di tenente dello Spionaggio, Esercito degli Stati Uniti, passò la prima notte all’aperto rabbrividendo sugli aghi di pino, nel punto in cui l’oscurità l’aveva raggiunto. La mattina seguente, molto presto, scorse una casa colonica. Gli diedero da mangiare, ma parevano ansiosi di vederlo andare via. — Non si può mai sapere se uno di quegli scomunicati decide di ficcare il naso qui intorno — si scusò il suo ospite, — e io non posso rischiare l’arresto per aver dato rifugio a un profugo. Ho famiglia. Ma seguì Thomas fin sulla strada, continuando a parlare: la loquacità del suo carattere, evidentemente, era più forte della prudenza. Pareva che piangere sulla catastrofe gli desse una sorta di cupa soddisfazione. — Dio solo sa, cosa vedranno i miei figli; mi chiedo cosa li allevo a fare. Qualche sera penso che l’unica cosa ragionevole sarebbe quella di toglierli dai dolori di questo mondo. Ma Jessie... mia moglie... dice che è scandaloso parlare così, che è peccato, perché al momento giusto ci penserà il Signore a rimettere le cose a posto. Sarà... ma non dirmi che i figli mi saranno riconoscenti: li faccio diventar grandi per fare soltanto i servitori, gli schiavi di quelle scimmie — e sputò con disprezzo. — Non è degno di un americano. — Cosa mi diceva — volle sapere Thomas, — c’è davvero una punizione per chi dà rifugio a un profugo? Il fattore lo fissò con stupore. — Ma da dove arrivi, amico? 32
— Sono stato vari mesi sulle montagne. Anzi, finora non ho ancora visto nessuno di quei brutti musi. — Li vedrai, li vedrai. — E aggiunse: — Se sei stato sulle montagne, vuol dire che non hai ancora un numero, no? Faresti meglio a procurartene uno. Anzi, meglio di no: se provassi a fartene dare uno, finiresti subito in un campo di lavoro. — «Numero»? — Sì, numero di registrazione. Come questo. Trasse di tasca un cartoncino coperto di plastica trasparente, e lo mostrò a Thomas. C’era la fotografia del fattore, brutta ma riconoscibile, le sue impronte digitali, dati relativi alla professione, stato civile, indirizzo ecc. In cima c’era stampigliata una lunga serie di numeri interrotti da trattini. Il fattore li indicò con un dito calloso: — La prima parte è il mio numero — spiegò, e aggiunse con amarezza: — Significa che ho il permesso dell’Imperatore di stare al mondo e di godere dell’aria e della luce del sole. La seconda parte è la mia classificazione: spiega dove vivo e cosa faccio. Se voglio uscire dai confini della contea devo farmi cambiare il numero. Se voglio andare in un’altra città, diversa da quella che mi è stata assegnata per portarci i miei prodotti, devo farmi fare un permesso speciale giornaliero. Ora, dimmi... è questo il modo di vivere? — Non certo per me — convenne Thomas. — Be’, credo che farò meglio ad andarmene, prima di metterla nei pasticci. Grazie della colazione. — Oh, di nulla. È bello poter fare un favore a un compatriota americano, in giorni come questi. Si allontanò di fretta, perché quel fattore così gentile non vedesse quanto l’aveva scosso il ritratto della sua degradazione. Le implicazio33
ni di quel documento di registrazione avevano sconvolto la sua anima di uomo libero, più di quanto non l’avesse colpita la semplice consapevolezza, tutta intellettuale nella sua natura, della disfatta degli Stati Uniti. Nei primi due o tre giorni procedette molto lentamente, evitando le città: prima voleva impadronirsi delle nuove usanze imposte dai conquistatori, per potersi comportare senza destare sospetti. Era sommamente desiderabile poter entrare almeno in una delle grandi città, per dare un’occhiata complessiva, leggere gli avvisi, trovare modo di scambiare qualche parola con persone che, per il loro lavoro, avessero ancora il permesso di compiere viaggi. Fosse soltanto dipeso da lui, avrebbe corso anche il rischio di entrare in città senza carta d’identità, ma ricordava ciò che Ardmore gli aveva detto e ripetuto: — Il tuo principale dovere è tornare indietro! Non metterti a fare l’eroe. Non correre rischi se hai modo di evitarli, e torna indietro! Sì, era meglio che le città aspettassero ancora per qualche giorno. Thomas si aggirò di notte presso i margini delle città, scansando i rastrellamenti come un tempo riusciva a scansare gli agenti della polizia ferroviaria. La seconda notte trovò una delle due cose che cercava: un accampamento di nomadi. Era proprio dove si aspettava di trovarlo, in base al ricordo di precedenti visite a quella zona, ma per poco non gli passò accanto senza vederlo, perché il fuoco — elemento indispensabile in un accampamento di nomadi — era nascosto dietro un paravento di metallo (allestito alla bell’e meglio con un bidone di latta), e risultava pressoché invisibile a un osservatore occasionale. Si avvicinò al gruppo di persone che faceva cerchio intorno al fuoco, e si sedette senza fare parola, come richiedeva l’usanza dei nomadi, 34
attendendo che gli altri finissero d’esaminarlo. Infine, una voce disse: — È Jeff, il Signorino. — E aggiunse, in tono di rimprovero: — Diamine, Jeff, mi hai spaventato. Ti avevo scambiato per un brutto muso. Come te la passi? — Oh, così e cosà. Non sono in regola con la legge. — E chi lo è, oggigiorno? — rispose la voce. — Dovunque vai a chiedere del lavoro, quei brutti musi con gli occhi a mandorla... — e proruppe in una serie di considerazioni sulle madri e sulle abitudini personali dei Panasiatici: cose, a dire il vero, che non poteva certamente conoscere per esperienza diretta. — Statti zitto, Moe — gli ordinò un’altra voce. — Raccontaci le novità, Jeff. — Mi spiace — cominciò Thomas, gentilmente, — ma ero nascosto sulle montagne e non ho nessuna novità. Mi sono tenuto alla larga dall’esercito e mi sono arrangiato con un po’ di pesca. — Facevi meglio a rimanerci. Le cose vanno male dappertutto. Nessuno si azzarda ad assumere persone non registrate, neppure per un giorno, e devi mettercela tutta per non finire in un campo di lavoro. Al confronto, le retate di una volta erano una scampagnata. — Dimmi qualcosa dei campi di lavoro — chiese Thomas. — Se questa fame continua, potrebbe venirmi voglia di farmi chiudere qualche mese lì dentro. — Non sai quello che dici. La fame non può arrivare fino a quel punto. La voce fece una pausa, come se il suo proprietario riflettesse su un avvenimento particolarmente spiacevole. — Conoscevi Seattle Kid? — riprese. 35
— Mi sembra di ricordare. Un piccoletto strabico, molto abile con le mani. — Proprio lui. Be’, l’hanno chiuso in un campo di lavoro: c’è rimasto qualche giorno, prima di riuscire a scappare. Non ha mai potuto spiegarci come abbia fatto; gli aveva dato di volta il cervello. Io l’ho visto, la notte che è morto. Aveva la pelle coperta di piaghe: avvelenamento del sangue, penso. Tacque, poi aggiunse ancora, in tono meditabondo: — Aveva un cattivo odore. Thomas avrebbe preferito cambiare discorso, ma il dovere gli chiedeva di raccogliere altre informazioni. — Chi mandano — chiese, — in quei campi? — Chiunque non lavori in una delle attività consentite. I ragazzi dai quattordici anni in su. Tutti i militari ancora vivi alla data della disfatta. Chiunque viene sorpreso senza una carta di registrazione. — E questa non è che una faccia della medaglia — aggiunse Moe. — Dovresti vedere come trattano le donne senza un lavoro autorizzato. Sai, mi raccontava una donna, l’altro giorno... una cara vecchietta; mi dà sempre qualcosa. Mi raccontava di sua nipote: faceva la maestra, e i brutti musi non vogliono scuole americane e maestre americane. Quando l’hanno registrata, loro... — Statti zitto Moe. Parli sempre troppo. Erano tanti episodi slegati tra loro, frammentari, soprattutto perché non si fidava a rivolgere domande dirette sugli argomenti che voleva conoscere. Comunque, un po’ per volta, riuscì a farsi un quadro abbastanza chiaro della situazione: il ritratto di un popolo che veniva ridotto sistematicamente alla schiavitù più completa, di una nazione ch’era di36
ventata inerme come un uomo paralizzato; le sue difese schiacciate, tutti i mezzi di comunicazione in mano agli invasori. Dappertutto, Thomas vide ribollire il risentimento, incontrò la feroce volontà di battersi contro la tirannia: ma era una volontà priva di guida, senza coordinazione; completamente disarmata, in tutte le accezioni della parola. Le ribellioni sporadiche erano inutili: inutili come la corsa frenetica delle formiche intorno al formicaio distrutto. Certo, i Panasiatici potevano venire uccisi, e numerosi americani erano disposti a sparare contro di loro, anche se questo comportava la certezza della propria morte. Ma avevano le mani legate da una certezza ancor più terribile: quella delle rappresaglie brutali contro i loro compatrioti. Come per gli ebrei tedeschi prima che il nazismo li sterminasse, il coraggio non era sufficiente: ogni atto di violenza contro i tiranni sarebbe stato pagato da altri uomini, donne e bambini, a un interesse mostruosamente alto. Ancora più dolorosi delle miserie che vide o che gli furono riferite, erano i rapporti sulla sistematica distruzione della cultura americana: i Panasiatici intendevano abbatterla dalle fondamenta. Le scuole erano chiuse. Non si poteva stampare una sola parola in inglese. In futuro, nel giro di una generazione, l’inglese sarebbe diventato una lingua di analfabeti, usata soltanto oralmente da un popolo di servi della gleba, inerme e incapace di rivoltarsi per la semplice mancanza di un mezzo di comunicazione su vasta scala. Era impossibile fornire una ragionevole valutazione del numero di asiatici presenti negli Stati Uniti. Correva voce che sulla costa occidentale, ogni giorno, giungessero navi da trasporto militari cariche di migliaia di funzionari civili, molti dei quali avevano preso parte al processo di annessione dell’India. Era difficile dire se questi funzionari civili potessero venire considerati come parte integrante delle forze armate che avevano 37
conquistato gli Stati Uniti e che ora li presidiavano, ma era chiaro che avrebbero preso il posto dei pochi funzionari di razza bianca che ancora svolgevano incarichi di poco conto, lavorando sotto minaccia di morte. Una volta «eliminati» questi pochi funzionari americani, sarebbe stato ancor più difficile organizzare una resistenza. Thomas trovò in un accampamento di nomadi la seconda delle due cose che cercava: il modo d’entrare in città. Finny (nessuno conosceva il suo cognome) non era, a rigor dei termini, un cavaliere della strada come i suoi compagni, bensì una persona che aveva trovato rifugio tra loro e che si manteneva con i frutti del suo talento artistico. Era un vecchio anarchico, che, per ottemperare ai suoi ideali di libertà, usava incidere perfette banconote della Riserva Federale senza la seccatura di chiedere il permesso al Ministero del Tesoro. Alcuni affermavano che il soprannome «Finny» derivava dal suo nome di battesimo, Phineas; altri dicevano che derivava da five, cinque, per la sua abitudine di falsificare biglietti da cinque dollari: «Un taglio abbastanza grande per essere utile, ma ancora abbastanza piccolo da non destare sospetti.» Fu lui a falsificare una carta di registrazione per Thomas, dietro richiesta di uno dei nomadi. Thomas lo osservò mentre lavorava, e lui gli parlò per tutto il tempo. — Vedi, giovanotto — gli spiegò, — l’unica cosa importante è il tuo numero di registrazione. È quasi impossibile che gli asiatici che incontrerai siano in grado di leggere l’inglese, quindi non ha molta importanza ciò che scriveremo sul tuo conto. Anzi, potrei addirittura scrivere come dati caratteristici: «La Vispa Teresa avea tra l’erbetta», e nessuno se ne accorgerebbe. Lo stesso dicasi della fotografia. Per loro, tutti gli uomini 38
bianchi hanno la stessa faccia. Prese dallo zaino una manciata di fotografie formato tessera, e le osservò attraverso le lenti spesse. — Ecco... scegline una che ti somigli vagamente: andrà benissimo. In quanto al numero... Le dita del vecchio erano incerte, quasi tremolanti come quelle di un paralitico, ma acquistarono una sicurezza stupefacente quando si trattò di maneggiare il pennino e l’inchiostro di China per imitare i caratteri a stampa. L’imitazione fu perfetta, e il vecchio riuscì a ottenerla senza avere a disposizione i materiali adatti, senza strumenti di precisione, nelle condizioni primitive di un accampamento di nomadi; Thomas capì che i capolavori di quel vecchio artista dovevano avere provocato dei feroci grattacapi ai cassieri di banca. — Ecco fatto! — gli annunciò Finny. — Il numero di serie dimostra che sei stato registrato pochi giorni dopo la disfatta, e il numero di classificazione ti permette di viaggiare. Inoltre dice che sei invalido, che non puoi svolgere lavori pesanti, e che hai il permesso di fare il venditore ambulante o di chiedere la carità. Il che, per loro, è la stessa cosa. — Grazie, grazie infinite — disse Thomas. — E adesso... ecco... quanto ti devo per il tuo lavoro? Vedendo la faccia di Finny, Thomas si sentì come se avesse detto qualcosa di offensivo. — Non parlare di pagamento, giovanotto! Il denaro è una cosa malvagia... è soltanto lo strumento che permette all’uomo di rendere schiavo il proprio fratello. — Oh, ti chiedo scusa — fece Thomas, con sincerità. — Però, vorrei poter fare qualcosa per te.
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— Così è diverso. Aiuta i tuoi fratelli quando puoi, ed essi ti aiuteranno quando avrai bisogno di loro. Secondo Thomas, la filosofia sociale del vecchio anarchico era confusa, rischiava di portare confusione, ed era, tutto sommato, poco pratica; ma passò ugualmente varie ore ad ascoltarlo e a ricavare informazioni da lui, senza dargli l’impressione di essere interrogato: di tutti coloro che aveva incontrato, il vecchio anarchico era quello che conosceva meglio i Panasiatici. Finny pareva non avere paura di loro, sembrava sicuro di potersela cavare in ogni caso, con gli asiatici, per mezzo della sua abilità. Di tutti coloro che aveva visto dopo la catastrofe, Finny era la persona che pareva meno scossa dalla disfatta degli Stati Uniti... anzi, non pareva per nulla scosso, e non nutriva alcun sentimento d’odio o d’amarezza. Dapprima Thomas non riuscì a comprendere questo atteggiamento, in una persona piena di calore umano come Finny: poi si rese conto che l’anarchico, il quale era convinto che tutte le forme di governo fossero sbagliate e che tutti gli uomini fossero realmente fratelli, pensava che tra gli uni e gli altri ci fosse soltanto una differenza di grado. Visti dal punto di vista di Finny, i Panasiatici non erano persone da odiare: erano soltanto individui che, essendo più in errore degli altri, erano portati a commettere degli eccessi deplorabili. Thomas, dal canto suo, non poteva vedere la situazione con un distacco altrettanto olimpico. I Panasiatici opprimevano e uccidevano un popolo che prima era libero. L’unico Panasiatico buono è un Panasiatico morto, si disse, fino a quando l’ultimo di loro non sarà stato ricacciato dall’altra parte dell’oceano. Se l’Asia è sovrappopolata, ebbene, che l’Asia provveda al controllo delle nascite. 40
Tuttavia, il distacco di Finny e la sua disposizione priva di animosità aiutarono Thomas a comprendere meglio la vera essenza del problema. — Non commettere l’errore di pensare che i Panasiatici siano malvagi... non sono malvagi. Sono diversi, questo sì. Dietro la loro arroganza c’è il complesso d’inferiorità di tutta una razza; una paranoia collettiva, che li spinge a dover dimostrare a se stessi, dimostrandolo a noi, che un uomo giallo vale quanto un uomo bianco, anzi molto di più. Ricorda, giovanotto, che essi desiderano, più di ogni altra cosa al mondo, i segni esteriori del rispetto. — Ma perché dovrebbero avere questo complesso d’inferiorità nei nostri confronti? Abbiamo perso ogni contatto con loro da almeno due generazioni... dalla Legge contro i Rapporti tra Nazioni. — Pensi davvero che la memoria razziale sia cosi corta? I semi della situazione attuale risalgono al diciannovesimo secolo. Ricordi quei due alti ufficiali giapponesi che dovettero commettere onorevole suicidio per riparare a un’offesa fatta al Commodoro Perry, quand’egli aprì il Giappone agli scambi commerciali internazionali? Adesso quei due morti vengono ripagati con la morte di migliaia di ufficiali americani. — Ma i Panasiatici non sono giapponesi. — No, e non sono neanche cinesi. Sono una razza mista: una razza forte, orgogliosa e prolifica. Dal punto di vista americano, hanno i difetti di entrambe le razze senza avere le virtù di nessuna. Ma dal mio punto di vista sono soltanto degli esseri umani, che sono caduti nel vecchio inganno dello Stato come super-entità. «Lo Stato è il mio unico amico. Ich habe einen Kameraden.» Una volta che ti sia chiara la natura del... E si addentrò in una lunga dissertazione in cui mescolò le idee di Rousseau, Rocker, Thoreau e vari altri pensatori. Thomas la trovò interessante, benché poco convincente. 41
Ma la vera utilità delle conversazioni con Finny fu quella di fargli capire la natura dell’avversario. La Legge contro i Rapporti tra Nazioni aveva impedito al popolo americano di sapere qualcosa d’importante sulla mentalità dei nemici. Thomas si accigliò, cercando di ricordare ciò che sapeva sull’argomento. Quando era stata votata, la Legge non era altro che il riconoscimento giuridico di una situazione di fatto. La sovietizzazione dell’Asia aveva tenuto lontano gli occidentali — soprattutto gli americani — da quel continente, ben più di qualsiasi Legge Congressuale. Gli oscuri motivi che avevano indotto il Congresso, a quei tempi, a pensare che gli Stati Uniti avrebbero acquistato dignità votando una legge che non era se non una conferma di quanto i comunisti già facevano nei riguardi degli Stati Uniti, avevano sempre lasciato perplesso Thomas. Gli ricordava la ronda del conestabile Dogberry: se vedete un ladro, lasciatelo scappare, perché è bene che si tenga il più lontano possibile dalle persone oneste... Forse, anche il Congresso di allora aveva trovato più comodo ignorare l’esistenza del comunismo asiatico che imbarcarsi in una guerra. La politica che aveva portato alla Legge aveva trovato un’apparente giustificazione negli avvenimenti dei decenni successivi: per cinquant’anni non c’erano state guerre. Il partito che l’aveva presentata affermava che la Cina era un boccone troppo grosso perfino per la Russia sovietica, e che gli Stati Uniti non avevano di che preoccuparsi: la digestione avrebbe richiesto tempo. Queste supposizioni erano giuste, entro i loro limiti, ma gli americani, a causa della Legge contro i Rapporti tra Nazioni, guardavano da un’altra parte quando fu, invece, la Cina a inghiottire la Russia... Quando gli americani si voltarono, si trovarono faccia a faccia con un sistema politico totalmente incomprensibile per la mentalità occidentale, ancor meno familiare di quanto non lo fosse stato quel si42
stema sovietico che esso veniva a sostituire. Munito della carta d’identità fornitagli da Finny e dei suoi suggerimenti su come recitare bene la parte del servo ossequioso, Thomas si avventurò in una città di media grandezza. La precisione del lavoro di Finny venne messa alla prova fin dai suoi primi passi entro l’abitato. S’era fermato all’angolo della strada, a leggere un avviso affisso al muro. Era l’ordine, rivolto a tutti gli americani, di trovarsi davanti al televisore ogni sera, alle venti in punto, per prendere nota delle istruzioni che i dominatori avessero intenzione di impartire loro. Non era una novità: l’ordine era stato emanato qualche giorno prima, e Thomas ne aveva già sentito parlare. Stava per allontanarsi, quando si sentì colpire pesantemente tra le scapole. Si girò di scatto, e si trovò di fronte a un Panasiatico, che indossava l’uniforme verde dei funzionari statali e che aveva in mano un frustino da ufficiale. — Levati dai piedi, servo! Parlava inglese, anche se con un tono un po’ acuto e cantilenante, ma pronunciava le vocali in modo leggermente diverso da un americano. Thomas si affrettò a scendere dal marciapiede («Desiderano guardarti dall’alto al basso, e non viceversa»), e unì le mani davanti al petto, nella forma di saluto imposta dalle autorità. Chinò il capo e rispose: — Il padrone ha parlato; il servo obbedisce. — Così va meglio — ammise l’asiatico, evidentemente raddolcito. — La carta. La pronuncia di quell’uomo non era cattiva, ma Thomas non capì immediatamente la richiesta, forse perché la scossa emotiva di quella
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prima esperienza del ruolo di schiavo era del tutto diversa da quella che s’era aspettato. Dire che ribolliva dall’ira non è assolutamente adeguato alla rabbia che provava. Il frustino lo colpì in pieno viso. — La carta! Thomas esibì la carta di registrazione. Il tempo impiegato dall’orientale per esaminarla permise a Thomas di riacquistare, in parte, la padronanza di sé. Con la rabbia del momento, non gli importava molto che la carta superasse o no l’ispezione; se l’altro faceva delle storie, Thomas si sentiva capace di ucciderlo a mani nude... Ma la carta superò l’ispezione. L’asiatico gliela restituì, borbottando qualcosa, e si allontanò da lui, senza immaginare che la morte gli era passata vicino. Thomas scopri che in città c’era poco da sapere, oltre a quanto aveva già saputo per interposta persona negli accampamenti dei nomadi. Poté valutare direttamente la proporzione tra invasori e invasi, e vide anche lui che le scuole erano chiuse, i giornali scomparsi. Notò con un certo interesse che le funzioni religiose venivano ancora celebrate, mentre ogni altra forma di assembramenti di uomini bianchi era proibita. La cosa che più lo colpì fu il volto spento, rigido della gente, l’innaturale tranquillità dei bambini: era una vista insopportabile, e preferì sempre tornare a dormire negli accampamenti dei nomadi, invece di fermarsi in città per la notte. E in uno di quegli accampamenti dei nomadi, Thomas s’imbatté in un vecchio amico. Frank Roosevelt Mitsui era americano quanto Buffalo Bill, e molto più americano di George Washington, che, dopotutto, era un aristocratico 44
inglese. Suo nonno si era portato la moglie, mezza cinese e mezza wahini, da Honolulu a Los Angeles, dove dirigeva un asilo nido e una piccola fattoria. Coltivava fiori e piante, e allevava bambini: piccoli bimbi di pelle gialla che non conoscevano né il cinese né il giapponese, e che non si preoccupavano di conoscerli. Il padre di Frank aveva conosciuto la futura madre di Frank — Thelma Wang, più caucasica che cinese — al ritrovo internazionale dell’Università della California del Sud. L’aveva condotta con sé nella Imperial Valley, e l’aveva sistemata in una graziosissima fattoria (acquistata con un graziosissimo mutuo). Man mano che Frank cresceva, il mutuo diminuiva. Jeff Thomas aveva aiutato Frank Mitsui a raccogliere lattuga e meloni per tre stagioni, e lo ricordava come un ottimo datore di lavoro. Era diventato quasi suo amico intimo, soprattutto per la simpatia che provava per il più importante prodotto della sua fattoria: un bel gruppo di ragazzini bruni. Ma adesso la vista di un volto giallo e piatto in un accampamento di nomadi gli fece ribollire il sangue: mancò poco che non riconoscesse in quell’uomo il vecchio amico. Fu un incontro molto imbarazzante. Sebbene conoscesse bene Frank Mitsui, Thomas non era nelle migliori disposizioni per fidarsi di un orientale. Furono poi gli occhi di Frank a convincerlo: il loro sguardo era ancor più disperato di quello degli uomini bianchi incontrati in città; uno sguardo che non si attenuò neppure quando Frank gli sorrise e gli porse la mano. — Sai, Frank — cominciò Jeff, tanto per dire. — Non mi sarei mai aspettato di trovarti qui. Credevo che te la saresti cavata bene, con il nuovo regime. A quelle parole, l’espressione di Frank Mitsui divenne ancor più de45
solata. Pareva cercare una risposta. Uno degli altri nomadi intervenne: — Non dire stupidaggini, Jeff. Possibile che tu non sappia cosa fanno a quelli come Frank? — No, non lo so. — Be’, tu hai la carta irregolare. Se ti prendono, ti sbattono in un campo di lavoro. Ma se prendono lui, lo fanno fuori... sul momento. C’è l’ordine di sparare a vista. — Eh? Cos’hai fatto, Frank? Mitsui scosse il capo, tristemente. — Non ha fatto niente — proseguì l’altro nomade. L’Impero non sa che farsene, degli asiatici d’America. Li elimina. Era molto semplice. I giapponesi della costa occidentale, i cinesi e tutti gli altri americani di discendenza asiatica non potevano rientrare nello schema servi-padroni... soprattutto figli di asiatici e di bianchi. Costituivano una minaccia per la stabilità del sistema. E i Panasiatici, con una fredda logica, li stanavano e li uccidevano. Thomas ascoltò con attenzione la storia di Frank. — Quando arrivai a casa, erano tutti morti... tutti. La mia piccola Shirley, Junior, Jimmy, il Piccolino... e Alice. Si nascose la faccia tra le mani e pianse. Alice era sua moglie. Thomas la ricordava bene: una donna bruna e robusta, con i blue-jeans e il cappello di paglia, che parlava poco e sorrideva sempre. — All’inizio volevo uccidermi — riprese Frank Mitsui, quando si fu un poco ripreso. — Ma poi ci ho ripensato. Mi sono nascosto in un fosso per due giorni, e mi sono rifugiato sulle montagne. Poi ci sono stati dei bianchi che per poco non mi hanno ucciso, prima che riuscissi a spiegare che ero dalla loro parte.
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Thomas poteva capire benissimo l’errore di quelle persone; non sapeva che dire. Frank era cacciato dagli uni e dagli altri: per lui non c’erano speranze. — Cosa hai intenzione di fare, adesso, Frank? Sul viso dell’altro tornò un guizzo di volontà di vivere. — La cosa che mi ha impedito di uccidermi subito! Dieci ciascuno — e prese a contare, sulle dita brune. — Dieci di quei demoni per ciascuno dei miei bambini... venti per Alice. Poi magari altri dieci per me, e allora potrò morire. — Uhm. E come ti è andata, finora? — Tredici, a tutt’oggi. Devo andarci piano, agire a colpo sicuro, perché non voglio che mi uccidano prima di avere finito. Thomas meditò su quelle parole, per vedere se si potevano inserire entro i suoi fini. Un uomo deciso come Mitsui poteva venire utile, se c’era qualcuno a dirigerlo. Ma attese alcune ore prima di rivolgersi nuovamente a lui. — Cosa ne diresti — gli chiese gentilmente, — se potessi alzare la proporzione da dieci a mille ciascuno... duemila per Alice?
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CAPITOLO TERZO L’allarme esterno fece accorrere Ardmore alla porta, molto prima che Thomas fischiettasse il motivetto di riconoscimento. Ardmore inquadrò il vano nel televisore del corpo di guardia; teneva il dito su un pulsante, pronto a fulminare un visitatore inatteso. Quando scorse Thomas si rilassò, ma s’irrigidì di nuovo alla vista del suo compagno. Un Panasiatico! Per poco non li fulminò entrambi, per puro riflesso nervoso, prima di riuscire a controllarsi. C’era la possibilità, piccola ma reale, che Thomas gli avesse portato un prigioniero da interrogare. — Maggiore! Maggiore Ardmore! Sono Thomas! — Restate dove siete, tutt’e due. — È tutto a posto, Maggiore. È un americano. Garantisco io per lui. — Può darsi. La voce che giunse a Thomas dall’altoparlante era gonfia di cupi sospetti. — Sia come sia... spogliatevi completamente, tutt’e due. Obbedirono: Thomas si mordeva le labbra per l’umiliazione, Mitsui tremava per l’agitazione. Non capiva cosa stesse succedendo, e si sentiva preso in trappola. — Adesso giratevi lentamente, e lasciate che vi controlli bene — ordinò ancora la voce.
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Quando fu certo che nessuno dei due era armato, Ardmore ordinò loro di rimanere immobili e di attendere, poi chiamò Graham sul circuito per le comunicazioni interne. — Graham! — Si, signore. — A rapporto da me, immediatamente, nel corpo di guardia. — Maggiore, non posso. Il pranzo... — Lasci perdere il pranzo! Si sbrighi! — Si, signore. Ardmore gli indicò la situazione sullo schermo. — Scenda laggiù e li ammanetti tutt’e due; con le mani dietro la schiena. Per primo l’asiatico. Non gli stia troppo vicino, e non lo perda d’occhio un istante. Se cercherà di saltarle addosso dovrò colpire anche lei. — Non mi va questa faccenda, Maggiore — protestò Graham. — Thomas è a posto. Non cercherebbe mai d’imbrogliare. — Certo, Graham. Anch’io so benissimo che è un ragazzo a posto. Ma potrebbero averlo drogato, tenerlo sotto controllo. Questa faccenda potrebbe essere tutta un trucco, tipo cavallo di Troia. Ora scenda giù e faccia come le ho ordinato. Mentre Graham, circospetto, portava a termine quel poco gradito incarico (e in verità si segnalava per una medaglia al Valor Militare, poiché la sua fantasia d’artista, pienamente consapevole dei pericoli potenziali, gli imponeva di ricorrere al coraggio per eseguire l’ordine), Ardmore chiamò Brooks. — Dottore, può lasciare il lavoro che sta facendo? — Mah, forse si. Direi di si. Cosa desidera? — Venga nel mio ufficio. Thomas è tornato. Voglio sapere da lei se è sotto l’influsso di una droga. 49
— Ma io non sono medico... — Lo so, ma non abbiamo medici a disposizione. — Allora d’accordo, signore. Il dottor Brooks esaminò le pupille di Thomas, gli provò i riflessi del ginocchio, gli controllò il polso e la respirazione. — Direi che è perfettamente normale — concluse, — anche se è stanco ed eccitato. Naturalmente, questa non è una diagnosi definitiva. Se avessi più tempo... — Basterà, per ora. Thomas, sono certo che non me ne vorrai, se ti terrò ammanettato fino a che non avremo esaminato il tuo amico asiatico. — Certamente no, Maggiore — rispose Thomas, con un sorriso torto. — Anche perché lei lo farebbe comunque. Frank Mitsui tremò all’avvicinarsi di Brooks con la siringa ipodermica, e sul viso gli comparve qualche goccia di sudore, ma non cercò di ritrarsi. Poi si rilassò per effetto della droga che cancellava le inibizioni e sottraeva i centri nervosi della parola dalla protezione della censura cervicale. Il suo viso assunse un’espressione di pace. Ma dopo pochi minuti, quando cominciarono a interrogarlo, l’espressione di pace scomparve dal suo volto, come pure da quello degli uomini che lo esaminavano. Era la verità, troppo dura e crudele per chiunque. Sul viso di Ardmore si disegnò una smorfia profonda, mentre ascoltava la tremenda storia di quel piccolo uomo. Qualsiasi domanda gli rivolgessero, Mitsui ritornava sempre alla scena dei suoi figli uccisi, della sua famiglia distrutta. Alla fine Ardmore dovette smettere d’interrogarlo. — Gli dia un antidoto, dottore. Non posso sopportare oltre. Ho saputo quanto volevo. 50
Quando Mitsui riprese conoscenza, Ardmore gli strinse la mano con solennità. — Siamo lieti di averla con noi, signor Mitsui. E le daremo modo di fare qualcosa che la ripaghi di ciò che ha perduto. Ma adesso voglio che il dottor Brooks le dia un sonnifero: dormirà per sedici ore filate. Penseremo poi al suo giuramento e ad assegnarle un lavoro adatto alle sue capacità. — Ma io non ho bisogno di dormire, signor... Maggiore. — Non importa. Lei deve dormire. E anche Thomas, non appena mi avrà fatto rapporto. Anzi... Qui s’interruppe, e fissò il volto di Mitsui, in apparenza impassibile. — Anzi — riprese, — voglio che lei prenda un sonnifero tutte le sere. Se lo farà dare da me e lo inghiottirà in mia presenza, prima di ritirarsi nella sua stanza. Quello era uno dei vantaggi dell’assolutismo militare. Ardmore non sopportava l’idea che quel piccolo uomo giallo restasse sveglio a pensare e a fissare il soffitto. Era chiaro che Brooks e Graham avrebbero desiderato fermarsi ad ascoltare il rapporto di Thomas, ma Ardmore fece finta di non accorgersene e li congedò. Voleva prima valutare i fatti, da solo. — Ebbene, Tenente, non ti dico quanto sia lieto di vederti di ritorno. — E io di essere tornato. Ma, sbaglio, o ha detto «Tenente»? Penso che il mio grado non sia più valido, adesso. — Perché? Anzi, a dire il vero, sto cercando un motivo plausibile per nominare ufficiali anche Graham e Scheer. Le cose diventerebbero molto più semplici, qui tra noi, eliminando le differenze sociali. Ma non è urgente. Ora sentiamo pure cos’hai combinato. Immagino che 51
avrai trovato la soluzione di tutti i nostri problemi, e che ora me la consegnerai in bella calligrafia e legata con un fiocchetto. — Non proprio... Thomas sorrise e si rilassò. — Non lo pretendevo. Però, seriamente, detto tra noi, ho assoluto bisogno di tirar fuori una sorpresa per gli altri, e dovrà essere qualcosa di molto efficace. Il reparto scienziati comincia ad assediarmi, soprattutto il colonnello Calhoun. Non serve a niente che facciano dei miracoli in laboratorio, se poi non trovo il modo di applicarli alla strategia e alla tattica. — Sono davvero arrivati così lontano? — Ne rimarrai sorpreso. Hanno preso il cosiddetto «effetto Ledbetter» e l’hanno azzannato come un foxterrier azzanna un topo. Tranne che per pelare le patate e mettere il gatto fuori della porta, ormai sono capaci di utilizzarlo per qualunque cosa. — Davvero? — Davvero. — E che tipo di cose riescono a fare? — Be’...— Ardmore trasse un respiro profondo. — Sinceramente, non saprei da che parte cominciare. Wilkie cerca di tenermi informato con spiegazioni semplificate, ma, resti tra noi, capisco la metà di quel che dice. In un certo senso, si potrebbe dire che hanno scoperto il metodo per controllare gli atomi... si, non voglio dire il metodo per frantumarli, o la radioattività artificiale. Ecco... di solito parliamo di spazio, di tempo e di materia, no? — Esatto. C’è il concetto einsteiniano di spaziotempo, naturalmente. — Naturalmente. Oggigiorno, lo spaziotempo lo insegnano al liceo. Ma i nostri amici del laboratorio si sono impadroniti dell’argomento fino 52
in fondo. Essi dicono che spazio e tempo, massa, energia, radiazione e gravità sono soltanto dei modi leggermente diversi per indicare la stessa cosa. E una volta che hai capito a fondo come funziona una di esse, hai la chiave per capire tutte le altre. Secondo Wilkie, i fisici, fino a oggi, perfino dopo avere inventato le bombe atomiche, non hanno fatto altro che aggirarsi alla periferia dell’argomento; avevano i primi rudimenti di una teoria unificata dei campi, ma erano i primi a non crederci veramente. Di solito si comportavano come se tra tutte queste cose ci fosse la stessa differenza che c’era tra i loro nomi. «A quanto pare, Ledbetter ha trovato il vero significato della radiazione, e questa scoperta ha dato a Calhoun e a Wilkie la chiave di tutti gli altri fenomeni della fisica. È chiaro?» terminò, con un sorriso. — Non troppo — ammise Thomas. — Ma può darmi un’idea di cosa possono fare, con le loro nuove scoperte? — Ecco, tanto per cominciare, l’effetto Ledbetter originale, quello che uccise la maggior parte del personale della Cittadella... Wilkie dice che è un fenomeno marginale, verificatosi accidentalmente. Brooks ha notato che la radiazione base altera le proprietà colloidali dei tessuti viventi; coloro che furono uccisi, furono come coagulati dal raggio. Però, tanto per fare un esempio, lo stesso raggio potrebbe essere regolato per liberare la tensione superficiale della materia... e infatti hanno compiuto questo esperimento l’altro giorno: hanno fatto esplodere una bistecca come se fosse stata dinamite. — Eh? — Non chiedermi come hanno fatto. Mi limito a ripetere la spiegazione che mi hanno dato. La cosa importante è questa: pare abbiano scoperto cosa tiene in piedi la materia. Possono farla esplodere, in certi casi, e usarla come fonte di energia. Possono trasformarla negli elementi 53
chimici che vogliono. E affermano che presto saranno in grado di scoprire cos’è la forza di gravità, e che potranno utilizzarla come ora noi utilizziamo l’elettricità. — Pensavo che la gravità non fosse più considerata una forza, dai fisici moderni. — E infatti non lo è... ma neanche la «forza» è una forza, nella teoria unificata dei campi. Ma, per tutti i diavoli, non invischiarmi in un giro di parole! Wilkie dice che la matematica è l’unico linguaggio possibile per esprimere questi concetti. — Be’, allora temo che dovrò tirare avanti senza capirli. Però, francamente, non capisco come abbiano potuto scoprire tante cose in così breve tempo. Queste scoperte cambiano tutte le conoscenze tradizionali della fisica. Per passare da Newton a Einstein c’è voluto un secolo e mezzo, eppure i nostri hanno ottenuto simili risultati in poche settimane. Come mai una differenza così? — Non lo so neppure io. Anch’io mi sono rivolto la stessa domanda, e ne ho parlato con Calhoun. Lui mi ha spiegato, con la sua aria cattedratica, che quei pionieri non avevano le conoscenze matematiche che abbiamo noi: calcolo tensoriale, analisi matematica, algebra delle matrici. — Be’, non so dire — osservò Thomas. — Non insegnano queste cose, alla facoltà di legge. — Non so dire neanch’io — ammise Ardmore. — Ho provato a dare un’occhiata ai loro appunti. Un po’ di algebra la conosco, e così i primi rudimenti del calcolo infinitesimale, anche se da anni non ho occasione di servirmene. Non sono riuscito a capire nulla, nei calcoli che fanno loro. Era come se leggessi sanscrito. Molti simboli erano diversi, e anche quelli che conoscevo non significavano più la stessa cosa. Senti, 54
io credevo che a per b fosse sempre uguale a b per a. — Perché, non lo è più? — No, quando quella gente comincia a lavorarci sopra. Ma stiamo divagando. Fammi il tuo rapporto. — Si, signore. Jeff Thomas parlò a lungo, cercando di dare un quadro dettagliato di tutto ciò che aveva visto, udito e pensato. Ardmore lo interruppe soltanto con qualche domanda, intesa a chiarire particolari. Quando Thomas ebbe terminato, cadde un breve silenzio. Finalmente Ardmore parlò: — Credo di avere nutrito inconsciamente la speranza che tu saresti tornato con qualche informazione bell’e pronta, che cadeva subito al suo posto e mi insegnava le cose da farsi. Ma non vedo molte possibilità, in ciò che mi hai riferito. Il modo con cui si possa riconquistare un paese totalmente paralizzato, attentamente sorvegliato come gli Stati Uniti, è un problema superiore alle mie forze. — Ma io non ho visto l’intero paese. La massima distanza cui mi sono spinto è trecento chilometri. — Si, ma hai raccolto informazioni da altri nomadi, provenienti da tutte le parti del paese. — Certo. — E tutti ti hanno riferito lo stesso genere di cose. Credo che quanto hai saputo, confermato da quanto hai visto, dia un quadro ragionevolmente esatto della situazione. Che ritardo pensi avessero le notizie ricevute dagli altri? — Be’... tre o quattro giorni, non di più; le notizie provenienti dalla costa atlantica.
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— Mi pare abbastanza giusto. Le notizie viaggiano sempre con il più rapido mezzo a disposizione. La situazione non è certo incoraggiante. Eppure... Tacque, corrugando la fronte. Era perplesso. — Eppure — riprese, — ho l’impressione che tu mi abbia detto qualcosa... qualcosa che potrebbe essere la chiave di tutto il problema. Ma non riesco a indicarla con esattezza. Cominciava a nascermi un’idea mentre parlavi, ma hai cambiato argomento; la mia mente ha lasciato quel filo di pensieri e l’ha perduto. — Devo riprendere la relazione dall’inizio? — propose Thomas. — No, non c’è bisogno. Riascolterò la registrazione, domani... O forse quell’idea mi ritornerà in mente da sola, nel frattempo. Furono interrotti da qualcuno che bussava alla porta con autorità. Ardmore esclamò: — Avanti! Era il colonnello Calhoun. — Maggiore Ardmore, cos’è questa faccenda del prigioniero asiatico? — Non è proprio prigioniero, colonnello. Un asiatico c’è, ma è americano di nascita. Calhoun non badò a quella distinzione. — Perché non sono stato informato? Le avevo detto che mi occorre urgentemente un uomo di razza mongolica per compiere un esperimento di controllo. — Professore, comprenderà che, con il personale ridotto all’essenziale, è difficile rispettare tutte le normali regole di cortesia di un’organizzazione militare. Lei sarebbe stato informato di tutto con il procedere degli eventi... anzi, pare che ne sia stato effettivamente informato, anche se in modo incompleto. 56
Calhoun sbuffò. — L’ho saputo dai pettegolezzi dei subordinati! — Mi spiace, Colonnello, ma non si poteva evitare. Come vede, ora sto ancora ascoltando il rapporto di Thomas. — Benissimo, signore — fece Calhoun, con un gelido tono formale. — Vuole avere la compiacenza di farmi mandare immediatamente l’asiatico, allora? — Temo di non poterlo fare. In questo momento dorme, per effetto di un sonnifero, e non c’è modo di mandarlo da lei prima di domani. Inoltre, anche se ho la certezza che sarà lieto di offrirsi volontario per qualsiasi esperimento utile, si tratta di un cittadino americano, un civile sotto la nostra protezione... non un prigioniero. Prima di fargli correre dei rischi, dovremo chiedergli la sua autorizzazione. Calhoun uscì, bruscamente come era entrato. — Jeff — mormorò Ardmore, lanciando un’occhiata verso la porta, — parlando in via strettamente ufficiosa... anzi, strettissimamente!... se mai ritornerà il giorno in cui le esigenze militari non mi legheranno più le mani, be’, sarà una grande soddisfazione potergliene mollare uno, a quel vecchio ficcanaso! — Perché non tira la briglia già adesso? — Non posso, e lui ne approfitta. Sa di essere prezioso: insostituibile. Ci occorre assolutamente il suo talento di ricercatore, e non basta passare un ordine, per far lavorare bene le persone di talento. Ti confesso, però, che, con tutta la sua intelligenza, a volte ho l’impressione che dia i numeri. — Non mi sorprenderebbe. Per quale ragione voleva a tutti i costi Frank Mitsui?
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— Be’, si tratta di una storia lunga. Hanno dimostrato che l’effetto Ledbetter, nella forma in cui l’abbiamo incontrato la prima volta, è collegato a una caratteristica della forma vivente che lo subisce. Potremmo chiamarla una sua «frequenza naturale», tanto per dare l’idea. Pare che ciascuno di noi abbia la propria lunghezza d’onda; lunghezze d’onda, anzi, perché ce n’è più di una. A me, tutta la faccenda puzza un po’ di astrologia, ma il dottor Brooks afferma che è una teoria perfettamente plausibile sul piano scientifico, e che inoltre non è una teoria nuova. Mi ha mostrato un articolo di un certo Fox, presentato all’Università di Londra nel 1945. «Fox scriveva che l’emoglobina di ciascun coniglio ha una propria lunghezza d’onda; assorbe quella lunghezza d’onda nell’analisi spettroscopica: soltanto quella, nessun’altra. Potresti distinguere un coniglio dall’altro, o un coniglio da un cane, semplicemente dallo spettro della sua emoglobina. «Quel dottor Fox, dunque, cercò di fare la stessa cosa con gli uomini, ma non ci riuscì. Tra la lunghezza d’onda dei vari individui, non c’erano differenze apprezzabili. Calhoun e Wilkie, invece, hanno allestito uno strumento adatto allo spettro su cui lavorava Ledbetter, e il loro apparecchio mostra effettivamente delle lunghezze d’onda diverse per i campioni di sangue prelevati a donatori diversi. Così pure, seguendo il procedimento inverso, se hai un proiettore Ledbetter a frequenza variabile, e cominci a fargli percorrere le varie frequenze dello spettro, una volta che il proiettore è arrivato alla tua frequenza individuale succede questo: i tuoi globuli rossi assorbono energia, le proteine dell’emoglobina si spaccano, e addio, sei spacciato. Io invece posso stare a un passo di distanza e uscirne illeso, perché l’apparecchio non è ancora arrivato alla mia frequenza. Brooks ha l’impressione che queste frequen58
ze siano raggruppate secondo le razze. Ritiene che si possa regolare l’apparecchio in modo da distinguere una razza dall’altra: dato un certo assembramento di persone, potresti allora uccidere tutti gli asiatici e lasciare illesi i bianchi, e viceversa.» Thomas rabbrividì. — Accidenti! — disse. — Questa sì, che sarebbe un’arma! — Si, lo sarebbe davvero. Finora è ancora allo stadio di progetto, è ancora tutto sulla carta; vogliono fare una prova su Mitsui. Se ho capito bene le loro idee, non intendono ucciderlo, anche se sarà un esperimento pericoloso da pazzi... per Mitsui. — Credo che Frank sia disposto a correre il rischio osservò Thomas. — Già, lo credo anch’io. Ardmore aveva l’impressione che lo stesso Mitsui, probabilmente, avrebbe accolto come una liberazione una morte come quella: una morte indolore, nel corso di un esperimento scientifico... — Passiamo a un altro argomento — disse. — Credo si possa istituire una specie di servizio segreto permanente, utilizzando i tuoi amici nomadi e le loro fonti d’informazione. Esaminiamo un po’ la cosa. Ardmore aveva guadagnato qualche giorno di respiro, in cui si riprometteva di esaminare ulteriormente il problema dell’impiego bellico delle nuove armi a sua disposizione: i giorni necessari perché la sua équipe scientifica verificasse la teoria della relazione tra le varie razze, mediante la nuova modifica dell’effetto Ledbetter. Ma quei giorni di respiro non gli servirono a molto. Aveva un’arma potentissima, certo; anzi, varie armi potentissime, perché pareva che le nuove scoperte fossero suscettibili di un numero infinito di applicazioni, proprio come lo era stata l’elettricità nei decenni precedenti. Proba59
bilmente, se l’esercito americano avesse avuto a disposizione, un anno prima, le armi che ora venivano prodotte nella Cittadella, gli Stati Uniti non sarebbero mai caduti. Ma sei uomini non possono sconfiggere un impero... o, almeno, non possono sconfiggerlo con la forza. Se fosse stato necessario, l’Imperatore avrebbe potuto sacrificare sei milioni di uomini, pur di sconfiggere loro sei. Le orde dell’Impero potevano avanzare a mani nude... e vincere; investirli come una valanga, fino a seppellirli sotto una montagna di morti... Ardmore aveva bisogno di un esercito, per usare le sue nuove armi miracolose. Il problema era: come reclutare e addestrare un esercito? E certo i Panasiatici non sarebbero rimasti con le mani in mano, mentre lui batteva tutte le strade per radunare le sue forze. La meticolosità con cui la loro organizzazione poliziesca teneva sotto sorveglianza l’intera nazione, indicava che non sottovalutavano i potenziali pericoli di una rivoluzione: era chiaro che intendevano schiacciare ogni tentativo sul nascere, prima che potesse raggiungere dimensioni pericolose. L’unico gruppo clandestino che rimanesse era quello dei nomadi. Ardmore si consultò con Thomas sulla possibilità di dare loro un’organizzazione militare. Ma Thomas scosse il capo. — Lei non può capire il carattere di un nomade, Capo. Tra loro, ce n’è uno su cento che potrebbe dare affidamento per un’impresa del genere: gli altri non sarebbero capaci di osservare la rigorosa autodisciplina che è necessaria. Ammettiamo che lei riesca ad armarli con i proiettori... non dico che sia possibile, ma supponiamo che lei possa farlo. Con tutto questo, lei non avrà un esercito: avrà soltanto un’orda indisciplinata. — Non combatterebbero? 60
— Oh, sì, combatterebbero. Combatterebbero individualmente, e magari riuscirebbero a fare un bel massacro, ma alla fine i brutti musi li prenderebbero di sorpresa, uno per uno, e li farebbero fuori. — Mi chiedo se possiamo fidarci di loro come informatori. — Questa è un’altra faccenda. Molti di quei «cavalieri della strada» non si renderanno conto che li usiamo in questo modo. Ne sceglierò un numero limitato, non più di una dozzina, perché mi trasmettano le informazioni, e anche a loro dirò soltanto il minimo indispensabile. Sotto qualsiasi punto si considerasse il problema, il semplice uso diretto, militare delle nuove armi non avrebbe sortito alcun effetto. L’attacco frontale, con la forza bruta, andava bene per un generale che avesse uomini da sacrificare. Il generale Grant poteva permettersi di dire: «Combatterò la battaglia decisiva su queste posizioni, anche se dovesse durare tutta l’estate», perché poteva perdere tre uomini per ciascun uomo nemico, e vincere ugualmente la guerra. Questo tipo di tattica non andava bene per un comandante come Ardmore, che non poteva permettersi di perdere un solo uomo. Occorreva usare l’inganno, stornare l’attenzione del nemico con una finta, un attacco e una ritirata... «per poter ancora combattere il giorno seguente»: Feint and slash and run away And live to fight another day... proprio come diceva la canzoncina! Ecco il modo. Doveva essere qualcosa di assolutamente impensabile, qualcosa che potesse passare sotto il naso dei Panasiatici senza mostrare il suo carattere di azione di guerriglia... finché non fosse in grado di sconfiggerli.
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Doveva essere qualcosa di simile alle «quinte colonne» che avevano minato le democrazie europee dall’interno, nei tragici giorni che avevano portato alla distruzione della civiltà europea. E questa non sarebbe stata una quinta colonna di traditori, decisa a paralizzare una nazione libera, ma esattamente l’opposto: una sesta colonna di patrioti, che avrebbero distrutto il morale degli invasori, li avrebbero spaventati, li avrebbero resi malsicuri. E la chiave di tutto consisteva nello stornare l’attenzione, nell’usare l’arte dell’inganno! Ardmore si sentì meglio, una volta giunto a quella conclusione. Era una cosa che poteva capire, un lavoro adatto a un pubblicitario come lui. Aveva cercato di affrontare il problema come se fosse esclusivamente militare, ma lui non era un capo di stato maggiore, ed era sciocco darsi le arie di esserlo. La sua mente non funzionava lungo quelle direttrici. Doveva affrontare un lavoro di tipo pubblicitario, una faccenda di psicologia delle masse. Il suo primo datore di lavoro, quello che gli aveva insegnato i trucchi del mestiere, diceva sempre: «Riuscirei perfino a vendere gatti morti ai funzionari dell’Ufficio d’Igiene, se avessi un budget sufficiente e se mi dessero mano libera.» Bene, Ardmore aveva mano libera, certo, e il budget non costituiva un intralcio. Naturalmente, non avrebbe potuto servirsi dei giornali e dei normali veicoli pubblicitari; ma doveva esserci la maniera di aggirare l’ostacolo. Ora, tutto stava nello scoprire i punti deboli dei Panasiatici e nel decidere come servirsi degli apparecchietti di Calhoun per fare pressione su quei punti deboli, fino a togliere agli orientali ogni desiderio 62
di rimanere, a convincerli a fare le valigie. Ma per il momento non aveva ancora un piano. Quando una persona non riesce a trovare il giusto corso d’azione, di solito indice una riunione. E così fece Ardmore. Riepilogò la situazione complessiva, includendovi tutto ciò che aveva saputo Thomas e tutto ciò che avevano visto per televisione, nel corso delle «trasmissioni educative» dei conquistatori. Poi descrisse la natura delle forze di cui adesso disponevano grazie al lavoro degli scienziati, e alcuni semplici modi di utilizzarle come armi militari, ponendo l’accento sul numero di soldati necessari per usare in modo efficace i vari tipi di armi. Giunto al termine della propria relazione, chiese il parere degli altri. — Mi par di capire, Maggiore — cominciò Calhoun, che lei, dopo averci incisivamente fatto notare che ogni decisione di carattere militare sarebbe toccata a lei, ora ci chiede di decidere al posto suo? — Niente affatto, Colonnello. La responsabilità delle decisioni ricade sempre su di me, ma ora dobbiamo affrontare una situazione militare completamente nuova. Qualsiasi suggerimento potrebbe risultare prezioso. Non pretendo che il buon senso o l’originalità siano mio monopolio esclusivo. Desidererei che ciascuno di noi proponesse qualche soluzione, e che gli altri la discutessero collettivamente. — E lei ha qualche progetto da esporre? — Mi riservo le mie opinioni fino a che non avranno parlato gli altri. — Benissimo, signore. — Calhoun raddrizzò le spalle curve. — Dal momento che è stato lei a chiedermelo, le dirò cosa occorrerebbe fare in questa situazione, secondo me. Anzi, l’unica cosa da farsi. «Lei si renderà certamente conto dell’enorme potenza delle nuove forze che le sono state messe a disposizione dalle mie ricerche... — 63
(Ardmore notò benissimo la smorfia di Wilkie, di fronte al modo in cui Calhoun si assumeva disinvoltamente la paternità delle scoperte; ma nessuno dei due interruppe il vecchio matematico.) — Nella sua relazione, Maggiore, lei non l’ha certo sopravvalutata... anzi, direi che l’abbia sottovalutata, invece. Qui nella Cittadella disponiamo di una dozzina di ricognitori veloci. Installando su questi velivoli le nuove unità propulsive, modello Calhoun, possiamo renderli più veloci di qualsiasi mezzo di trasporto aereo di cui disponga il nemico. Monteremo su ciascun ricognitore un proiettore Ledbetter di grande potenza, e attaccheremo. Con la schiacciante superiorità delle nostre armi, in breve tempo cancelleremo l’Impero Panasiatico dalla faccia della terra!» Ardmore si chiese come si potesse essere così ciechi. Tuttavia non voleva essere lui a bocciare la proposta di Calhoun; disse: — La ringrazio, Colonnello. La prego di elaborare il suo piano più dettagliatamente, e di farmelo avere. Intanto qualcuno ha da esporre qualche osservazione marginale, o da avanzare qualche critica sulla linea d’azione suggerita dal colonnello? Attese speranzoso; poi aggiunse: — Via, nessun piano è perfetto. Qualcuno avrà pure qualche obiezione sui dettagli, credo... Graham raccolse la sfida. — E ogni quanto tempo ritorneremo alla Cittadella per mangiare? — chiese. Calhoun sbottò, prima che Ardmore potesse trattenerlo: — Ma che mi prenda un colpo! Non è il momento di fare dello spirito! — No, un attimo...— protestò Graham. — Non avevo intenzione di fare dello spirito. Parlavo seriamente. È un aspetto che riguarda il mio 64
campo. Quei ricognitori non sono attrezzati per stare in volo a lungo, e ho l’impressione che ci vorrà un putiferio di tempo per riconquistare gli Stati Uniti con una dozzina di ricognitori, anche riuscendo a trovare abbastanza uomini da tenerli in volo senza interruzioni. E questo significa dover tornare alla base per prendere i pasti. — Già, e significa anche dover difendere la base da attacchi nemici — aggiunse Scheer, d’impulso. — La base verrà difesa mediante altri proiettori — fece Calhoun, in tono sprezzante. — Maggiore, debbo veramente chiedere che le critiche vengano contenute in termini ragionevoli. Ardmore si soffregò il mento e non rispose. Randall Brooks, che aveva ascoltato con estrema attenzione, trasse di tasca un foglio di carta e cominciò a schizzarvi delle linee. — Credo che Scheer non abbia torto, professor Calhoun — disse. — Osservi questo disegno un attimo... ecco, qui mettiamo la nostra base. I Panasiatici possono accerchiarla con gli aerei, tenendosi fuori portata dei nostri proiettori. Il fatto che i nostri ricognitori siano più veloci non ha molta importanza, poiché il nemico può impiegare tutti gli aerei che vuole: in effetti, un numero sufficiente a impedire che i nostri ricognitori forzino il blocco. Si, i ricognitori sono in grado di difendersi con i proiettori di bordo, ma non possono combattere contro centinaia di aerei alla volta, e anche il nemico dispone di armi potenti... non dimentichiamolo. — Puoi davvero dirlo, che sono potenti! — aggiunse Wilkie. — Non possiamo rischiare che il nemico individui la nostra base. Con i suoi missili da bombardamento, potrebbe radere al suolo questa montagna da migliaia di chilometri di distanza... se riuscisse a sapere che siamo nascosti qui. 65
Calhoun si alzò. — Non intendo ascoltare ulteriormente i dubbi degli sciocchi e dei pusillanimi. Il mio piano presumeva che ci fossero degli uomini a portarlo a termine. E si allontanò dalla stanza, a passo rigido. Ardmore ignorò la sua uscita e si affrettò a proseguire: — Mi pare che le obiezioni sollevate dal piano del colonnello Calhoun siano ugualmente valide per ogni altro piano che preveda una lotta aperta, almeno per ora. Ne ho presi in esame alcuni, e li ho scartati per il medesimo tipo di ragioni: soprattutto ragioni logistiche... vale a dire il problema dei rifornimenti militari. Comunque, potrebbe essermi sfuggita una soluzione che, invece, sarebbe perfettamente attuabile. Qualcuno è in grado di suggerire un diverso tipo d’attacco diretto, un tipo che non preveda rischi per chi deve portarlo a esecuzione? Nessuno rispose. — Benissimo. Se a qualcuno verrà in mente un piano del genere, me lo riferirà. Mi pare che sarà necessario adottare altri metodi: metodi capaci di stornare l’attenzione del nemico. Visto che non possiamo affrontare il nemico direttamente, in questo momento, allora dovremo ingannarlo finché non saremo in grado di farlo. — Capisco — annuì il dottor Brooks. — Stancare il toro sulla cappa, e non fargli mai scorgere la spada. — Esatto. Esatto. Peccato che sia più facile a dirsi che a farsi. Nessuno di voi sa suggerirmi come servirci delle nostre armi senza far conoscere al nemico chi siamo, dove siamo e quanti siamo? Facciamo una pausa, fumiamo una sigaretta; intanto, voi pensateci. Dopo un istante, aggiunse: — Dovete tenere presente che abbiamo due concreti vantaggi: siamo certi che i Panasiatici non hanno il minimo 66
sospetto della nostra esistenza, e le nostre armi sono del tutto nuove per loro, perfino misteriose. Wilkie, non era lei che paragonava l’effetto Ledbetter alla magia? — Stavo per urlarlo, Capo! Possiamo essere certi che, ad eccezione degli strumenti del nostro laboratorio, non esiste assolutamente niente che sia in grado di rilevare le forze fisiche da noi utilizzate. Il nemico non sa neppure che esistano. È come voler ascoltare le onde radio direttamente con le orecchie, senza possedere un apparecchio ricevente. — E’ ciò che intendevo dire. Forze misteriose. Come quando gli indiani affrontarono per la prima volta i bianchi e le loro armi da fuoco: morivano, e non sapevano la ragione. Pensateci sopra. Io starò zitto e lascerò a voi la parola. Fu Graham il primo a farsi sentire. — Maggiore? — Si? — Non si potrebbe rapirli? — E sarebbe? — Be’, lei ha intenzione di spaventarli, no? Cosa ne direbbe di un rapido colpo di mano, usando l’effetto Ledbetter? Potremmo partire con uno dei ricognitori, e portare via qualche pezzo grosso; magari lo stesso Principe Reale. Uccidiamo con i proiettori tutti i Panasiatici che incontriamo, entriamo nel palazzo e lo portiamo via. — La vostra opinione, signori? — chiese Ardmore, riservandosi la propria. — Forse potrei dare un suggerimento — fece Brooks. — Preferirei regolare i proiettori in modo da far perdere i sensi per qualche ora, non da uccidere. Mi pare che l’effetto psicologico sarebbe molto più accentuato, se quelli si svegliassero e scoprissero che il loro grande 67
capo è scomparso. Nessuno ricorda cosa gli succede quando viene colpito dal raggio: Wilkie e Mitsui possono testimoniarlo. — Perché limitarci al Principe Reale? — chiese Wilkie. — Potremmo organizzare una squadra di quattro ricognitori, due persone per apparecchio, e compiere diverse incursioni nella stessa notte: magari una dozzina. In questo modo, potremmo rapire un numero piuttosto consistente di pezzi grossi, e così causare una disorganizzazione di una certa severità. — Mi pare una buona idea — convenne Ardmore. — Forse non ci sarà mai una seconda possibilità di ripetere colpi di mano come questo, e in tal caso ci conviene tentare di arrecare il maggiore danno possibile, tutto in una volta; sì, potrebbe ottenere il doppio effetto di demoralizzare il nemico e suscitare una sollevazione generale. Cosa c’è, Mitsui? Si era accorto che il volto dell’orientale diventava sempre più cupo. Mitsui disse, con riluttanza: — Temo che il piano non funzionerà, purtroppo. — Vuol dire che è impossibile rapirli nel modo che abbiamo delineato? C’è forse qualche particolare che ignoriamo, nei loro metodi di sorveglianza? — No, no. Avendo a disposizione un’arma che passa attraverso i muri e uccide i nemici prima ancora che si siano accorti della vostra presenza, sono certo che riuscirete a catturare i loro capi, non c’è dubbio. Ma il risultato non sarà quello che pensate voi. — No? E perché? — Perché non ne ricaverete alcun vantaggio. Il nemico non prenderà neppure in considerazione l’idea che i suoi capi siano prigionieri; penserà che ciascuno di loro avrà commesso onorevole suicidio. E li vendicheranno nel modo più spietato. 68
Era un’obiezione di natura puramente psicologica, e lasciava spazio a differenze d’opinione. Ma un uomo di razza bianca non poteva credere che i Panasiatici avrebbero osato darsi alle rappresaglie, se fosse stato dimostrato inequivocabilmente che i loro sacri superiori non erano morti, bensì nelle mani dei rapitori. Inoltre, quel piano offriva la possibilità di un’azione immediata: e tutti, nella Cittadella, morivano dalla voglia di fare qualcosa. Ardmore finì con l’accettare la proposta, in mancanza di un piano migliore. Aveva la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava, ma cercò di soffocarla. Nei giorni seguenti, dedicarono ogni loro sforzo alla preparazione dei ricognitori, in vista dell’imminente sortita. Nell’ambito dei lavori meccanici, le fatiche di Scheer furono pari a quelle di Ercole: lavorava diciotto, venti ore al giorno, e gli altri lavoravano con alacrità sotto la sua supervisione. Perfino Calhoun si degnò di scendere dalla sua torre d’avorio e accettò di prendere parte al colpo di mano, anche se non si curò di aiutare gli altri nelle attività «manuali». Thomas effettuò un rapido giro di ricognizione, assicurandosi dell’esatta ubicazione di dodici importanti edifici governativi dei Panasiatici, situati in vari punti del Paese. Nell’euforia generata dalla prospettiva di agire direttamente — anzi, dalla prospettiva di agire, indipendentemente dalle modalità dell’azione — Ardmore dimenticò quanto si era detto sulla necessità di una «sesta colonna», di un’organizzazione clandestina, o, in genere, insospettabile, destinata a demoralizzare il nemico dall’interno. L’attuale piano non era affatto di questo tipo: era invece un piano essenzialmente militare. Cominciò a pensare a se stesso come a una specie di Napoleone, o, se non proprio Napoleone, a una specie di moderno Topo del Deserto: 69
il commando che colpisce nella notte il nemico, per poi dileguarsi nel nulla... Ma aveva ragione Mitsui. Il televisore veniva acceso regolarmente, e ogni trasmissione veniva registrata, per conoscere gli ordini degli invasori ai loro schiavi. Alle otto di sera era diventata quasi un’abitudine radunarsi nella sala comune e ascoltare la trasmissione in cui le nuove ordinanze venivano comunicate alla popolazione. Ardmore incoraggiava quell’abitudine: le trasmissioni suscitavano vampate d’odio, che, secondo lui, tenevano desto lo spirito combattivo. La penultima sera prima dell’incursione, erano tutti radunati davanti al televisore, come al solito. Il brutto faccione largo del consueto propagandista lasciò il posto al volto di un altro Panasiatico, più anziano, che venne presentato come il «celeste custode della pace e dell’ordine». E quello venne subito al sodo. I servi americani di un governo provinciale avevano commesso l’orribile peccato di ribellarsi contro i loro saggi dominatori: avevano catturato la sacra persona del governatore, e l’avevano tenuta in ostaggio nel suo stesso palazzo. I soldati del Celeste Imperatore avevano spazzato via i folli profanatori, ma nel corso dell’azione, deplorabilmente, il governatore era andato a raggiungere i suoi antenati. Si annunciava pertanto un periodo di lutto, con inizio immediato, che sarebbe stato inaugurato concedendo a quella popolazione provinciale il permesso di espiare i peccati dei propri cugini. Il teleschermo passò a una ripresa esterna.
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Si videro grandi masse di persone, uomini, donne, bambini, raccolte, anzi stipate, entro recinti di filo spinato. La telecamera scese abbastanza vicino da permettere agli uomini della Cittadella di vedere la disperazione sul volto di quella gente, gli occhi colmi di lagrime dei bambini, le madri con i bimbi in braccio, i padri inermi. Non dovettero fissare quei volti a lungo. La telecamera passò a inquadrare da lontano la folla dei prigionieri, migliaia e migliaia di animali umani indifesi; poi si fissò su una piccola zona del grande campo di concentramento. I Panasiatici usarono il raggio delle convulsioni. Ora le immagini dei prigionieri non avevano più nulla di umano. Era come se gli orientali avessero preso migliaia di enormi polli, avessero tirato loro il collo e li avessero gettati in una stia per dare gli ultimi spasimi prima della morte. I corpi scattavano nell’aria, in contorsioni da spaccare le ossa, da spezzare la schiena. Le madri, incapaci di controllarsi, scagliavano i figli in terra, o li stritolavano fra le braccia, divenute rigide come morse. La scena svanì per lasciare il posto al placido volto del dignitario asiatico. Annunciò, con una sfumatura di rammarico nella voce, che la penitenza dopo il peccato non era sufficiente: era anche necessario essere educativi; nel caso presente, nella misura di uno su mille. Ardmore fece un rapido calcolo, tra sé. Centocinquantamila persone! Era incredibile. Ma presto divenne credibile. Questa volta la scena inquadrò la strada di una zona residenziale, in una città degli Stati Uniti. L’obiettivo seguì 71
una squadra di soldati Panasiatici, che entrò nella stanza di soggiorno di una famiglia. Erano raccolti davanti al televisore, ed erano visibilmente storditi da quanto avevano appena visto. La madre teneva tra le braccia una bimba di pochi anni, tentando di calmare il suo pianto. Avevano tutti l’aria stupita, più che spaventata, quando i soldati fecero irruzione. Il padre mostrò la sua carta di registrazione senza dire nulla. Il comandante della squadra controllò il numero su un elenco, poi i soldati si occuparono dell’americano. Fu chiaro che avevano ordine di usare una forma di esecuzione orribile a vedersi. Ardmore spense il ricevitore. — L’incursione è cancellata — disse. — Andate a letto, tutti. E che ciascuno prenda un sonnifero. È un ordine! Uscirono subito. Nessuno fece parola. Quando furono andati tutti, Ardmore riaccese il televisore e continuò a guardare, fino alla fine. Poi rimase seduto immobile, da solo, a lungo, cercando di ridare coerenza ai propri pensieri. Chi prescrive agli altri le pillole per dormire, per sé non è disposto a prenderle.
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CAPITOLO QUARTO Ardmore si tenne piuttosto isolato, nei due giorni seguenti; consumò i pasti nel proprio alloggio e limitò i colloqui a brevissimi scambi di parole. Ormai vedeva abbastanza chiaramente il suo errore; era una magra consolazione pensare che il massacro era stato causato dall’errore di un altro: se ne sentiva simbolicamente colpevole lui. Ma il problema era ancora irrisolto. Adesso sapeva di avere visto giusto, quando aveva pensato a una sesta colonna. Una sesta colonna! Qualcosa che avrebbe rispettato tutte le formalità imposte dai dominatori, ma che avrebbe fornito tutte le basi della loro sconfitta finale. Forse sarebbero occorsi anni, ma lo spaventoso errore di attaccare frontalmente i Panasiatici non doveva essere ripetuto. Intuitivamente, Ardmore aveva la certezza che il suggerimento di cui aveva bisogno fosse già presente nel rapporto di Thomas. Riascoltò la registrazione parecchie volte, ma non riuscì a trovare lo spunto cercato. Ormai quelle parole le sapeva quasi a memoria: — Cancellano sistematicamente tutti gli aspetti che caratterizzano la cultura americana. Le scuole sono chiuse; i giornali sono stati aboliti. È un delitto capitale stampare qualcosa in lingua inglese. Hanno annunciato che presto sarà istituito un corpo di interpreti, che tradurranno nella lingua dei Panasiatici tutta la corrispondenza commerciale. Intanto, la posta deve essere sottoposta a censura. È proibita qualsiasi riunione,
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salvo che in occasione delle funzioni religiose. — Immagino che sia il risultato della loro esperienza con la popolazione dell’India. Serve a tener calmi gli schiavi. — Questa era la sua voce: aveva un suono strano, in registrazione. — Lo penso anch’io, signore. Non lo ha dimostrato la Storia, che tutti gli imperi che riuscirono a dominare a lungo avevano permesso la sopravvivenza delle religioni locali, pur avendo soppresso ogni altra istituzione del popolo vinto? — Già, mi pare. Continua. — La vera forza del loro sistema, secondo me, è il loro metodo di registrazione. A quanto pare, erano già preparati a metterlo in applicazione, e si sono dedicati totalmente ad esso, lasciando da parte, per il momento, tutte le altre questioni. Il sistema delle carte di registrazione ha trasformato gli Stati Uniti in un enorme campo di concentramento, in cui è quasi impossibile muoversi o comunicare senza il permesso dei carcerieri. Parole, parole e ancora parole! Aveva riascoltato quel rapporto così tante e tante volte che quasi gli pareva avere perso significato. E forse, dopotutto, in quel rapporto non c’era niente di utile. Forse era soltanto immaginazione. Qualcuno bussò alla porta. Era Thomas. — Mi hanno chiesto di parlarle, signore — fece, con aria circospetta. — Parlarmi di che? — Ecco... si sono riuniti nella sala comune. Vorrebbero parlarle. Un’altra riunione; e non organizzata da lui, questa volta. Bene, non c’era altro da fare se non andarci. — Riferisci loro che li raggiungo subito. 74
— Sì, signore. Quando Thomas fu uscito, Ardmore restò seduto ancora per qualche istante, poi andò a un cassetto e ne trasse la sua pistola d’ordinanza. Fiutava aria di ammutinamento nel fatto che qualcuno si permettesse di convocare una riunione senza chiedere la sua autorizzazione. Assicurò la fondina al fianco, poi prese la pistola, controllò percussore e caricatore, e rimase qualche tempo a soppesare l’arma tra le mani. Infine slacciò la fondina e rimise tutto nel cassetto. Non era quello, il modo di risolvere la situazione. Entrò nella sala comune, sedette al suo posto, a capotavola, e attese. — Allora? Brooks si guardò intorno, per vedere se qualcun altro voleva rispondere al posto suo, poi si schiarì la voce e disse: — Ehm... volevamo chiederle se ha qualche piano che possiamo seguire. — Non ho un piano... almeno per ora. — Allora ne abbiamo uno noi! — Questo era CaIhoun. — Si, Colonnello ? — Non ha senso rimanercene qui, con le mani legate. Disponiamo delle armi più potenti che si siano mai viste al mondo, ma ci occorrono dei soldati per farle funzionare. — E allora? — Dobbiamo allontanarci dalla Cittadella e recarci in Sudamerica! Laggiù troveremo sicuramente qualche governò interessato alle nostre armi eccezionali. — E che vantaggio ne trarrebbero gli Stati Uniti? — È ovvio. Non c’è dubbio: l’Impero intende estendere il suo dominio su tutto il nostro emisfero. Potremmo convincere i sudamericani a fare 75
una guerra preventiva. O potremmo raccogliere un esercito di profughi. — No! — Temo che lei non potrà fare altro, Maggiore. Nel tono di voce di Calhoun c’era una punta di soddisfazione maligna. Ardmore si rivolse a Thomas: — Sei d’accordo con loro? Thomas parve imbarazzato. — Speravo che lei avesse un piano migliore, signore. — E lei, dottor Brooks? — Be’... mi pare fattibile. Anch’io la penso pressappoco come Thomas. — Graham? Graham gli rispose con un silenzio eloquente. Wilkie alzò gli occhi, poi li distolse in fretta. — Mitsui? — Tornerò la fuori, signore. Ho sempre un conto in sospeso. — Scheer? I muscoli della mascella di Scheer si contrassero. — Io resto, signore, se resta lei. — Grazie. — Si volse agli altri. — Ho detto «No!», e lo ripeto. Se qualcuno di voi se ne andrà, lo farà in diretta violazione del suo giuramento. E questo, Thomas, dovresti saperlo! Non è una mia decisione arbitraria. La cosa che voi proponete di fare equivale esattamente all’incursione che ho cancellato. Fino a che il popolo degli Stati Uniti sarà un ostaggio in balia dei Panasiatici, noi non potremo svolgere nessuna operazione militare diretta! Non ha alcuna importanza se l’attacco viene dall’esterno o dall’interno: migliaia di innocenti, milioni, forse, pagherebbero quell’attacco con la vita!
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Era molto agitato, ma non tanto da dimenticare di guardarsi intorno per controllare l’effetto delle sue parole. Si, li aveva di nuovo in pugno... o almeno li avrebbe avuti di nuovo in pugno entro pochi minuti. Meno Calhoun. Tutti gli altri parevano profondamente colpiti. — Supponiamo che lei abbia ragione, signore...— Era Brooks, e parlava in tono molto serio. — Supponiamo che lei abbia ragione: c’è qualcosa che si possa davvero fare? — L’ho già spiegato una volta. Dobbiamo organizzare quella che ho chiamato una « sesta colonna»; tenerci nascosti, studiare i loro punti deboli, e lavorare su di quelli. — Capisco. Probabilmente, lei ha ragione. Forse è necessario agire così. Ma è un piano che richiede una dose di pazienza più adatta agli dèi che agli uomini! C’era quasi arrivato... ma che cos’era? — Già — fece Calhoun. — «In Cielo avrete tutti la torta!» Lei avrebbe dovuto fare il predicatore, maggiore Ardmore. Noi, invece, preferiamo agire. Ecco cos’era! Ecco! — Lei ha quasi ragione, Colonnello — rispose Ardmore. — Ha ascoltato il rapporto di Thomas? — Ho ascoltato la registrazione. — Ricorda quale sia l’unica forma di organizzazione ancora permessa ai bianchi? — Perché, ce ne sono ancora? Ricordo che non ce n’era nessuna. — Proprio nessuna? Nessun posto in cui abbiano il permesso di riunirsi? — Ma certo! — esclamò Thomas. — In chiesa!
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Ardmore attese un istante, per lasciare che il concetto s’imprimesse bene; poi aggiunse, dolcemente: — Nessuno di voi ha mai pensato alle possibilità che sorgerebbero se fondassimo una nuova religione? Cadde un silenzio stupito; poi Calhoun sbottò. — Quest’uomo dà i numeri! — Calma, Colonnello — fece Ardmore, senza alzare la voce. — Non posso biasimarla, se pensa che io sia impazzito. In verità, suona quasi pazzesco parlare di fondare una nuova religione, quando invece ci occorre un’azione militare contro i Panasiatici. Ma consideri una cosa: ci occorre un’organizzazione che possa armare delle persone e addestrarle a combattere. E, oltre a questo, un sistema di comunicazione che ci consenta di coordinare l’intera attività. E tutto dev’essere fatto sotto gli occhi dei Panasiatici, senza destare i loro sospetti. Se fossimo una setta religiosa, invece di un’organizzazione militare, queste cose diverrebbero possibili. — Ma è assurdo! Io non intendo avere niente a che fare con questa faccenda! — La prego, Colonnello! Abbiamo estremamente bisogno di lei. Ora, per quanto riguarda il sistema di comunicazione... Immagini: un tempio in ogni città del Paese, tutti collegati da un sistema di comunicazione che fa capo alla Cittadella. Calhoun sbuffò. — Sicuro! E con gli asiatici che ascoltano ogni parola che diciamo! — Ecco dove abbiamo bisogno di lei, Colonnello. Lei non potrebbe inventare un sistema di comunicazione che gli asiatici non possano scoprire? Qualcosa di simile alla radio, magari, ma che operi su uno degli
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spettri addizionali, in modo che i loro strumenti non possano scoprire nulla? O non le sarebbe possibile? Calhoun sbuffò di nuovo, ma con un tono diverso. — Certo che potrei. È un problema elementare. — È proprio per questo che abbiamo bisogno di lei, Colonnello: per risolvere problemi che paiono elementari a un uomo del suo genio...— nel pronunciare queste parole, Ardmore provava un vago senso di nausea; accidenti, era peggio che scrivere annunci pubblicitari! —...ma che a noialtri paiono miracoli. Ed è esattamente il genere di cose che occorre a una religione: miracoli! Le chiederemo di produrre effetti che metteranno alla prova perfino il suo genio, e che gli asiatici non potranno assolutamente capire: li crederanno sovrannaturali. Vide che Calhoun esitava ancora, e aggiunse: — Lei può farlo, vero? — Sicuro, caro Maggiore. — Benissimo. Quanto le occorrerà per farmi avere un metodo di comunicazione che non corra pericolo di venire scoperto? — È impossibile dirlo, ma non ci vorrà molto. Continuo a trovare insensato il suo piano, Maggiore, ma rivolgerò la mia attenzione alle ricerche che lei mi chiede. Si alzò e se ne andò: una processione composta soltanto di un uomo. — Maggiore? — Era Wilkie, per richiamare la sua attenzione. — Ah, Wilkie. Che c’è? — Se vuole posso progettarlo io, un sistema come questo. — Lo so perfettamente, accidenti. Ma per mandare avanti il piano, ci occorrerà il talento di tutti. E le assicuro che avrà un mucchio di lavoro anche lei. Ora, passando agli altri aspetti del problema, ecco cosa ho in mente... è un’idea ancora approssimativa, e desidero che la esaminiate 79
da tutti i punti di vista possibili, in modo che diventi sicura al cento per cento. «Fingeremo di avere fondato una religione evangelica, in tutto e per tutto, e cercheremo di convincere la gente a venire alle nostre funzioni. Una volta riuniti un po’ di uomini in un posto sicuro, dove si possa parlare, sceglieremo quelli che danno maggiore affidamento e li arruoleremo nell’esercito. Possiamo nominarli diaconi della nostra religione, o qualcosa di simile. Il nostro asso nella manica sarà la beneficenza... e a questa provvederà lei, Wilkie, mediante la trasmutazione degli elementi. Dovrà produrre una gran quantità di metallo prezioso, oro soprattutto; così avremo il denaro per le opere di assistenza. Nutriremo i poveri e gli affamati... ce ne sono parecchi, grazie ai Panasiatici!... e ben presto ne accorreranno a frotte. Ma questo non è che l’inizio. Ci metteremo anche a fare veri miracoli, in grande stile. Non soltanto per fare impressione sulla popolazione bianca, che è una cosa di secondaria importanza, ma per confondere i nostri signori e padroni. Faremo cose che non potranno capire, li renderemo dubbiosi, incerti di se stessi. Niente che li colpisca direttamente, è chiaro. Saremo dei leali sudditi dell’Impero, ma capaci di fare cose che loro non potranno fare. Questo li sconvolgerà e li innervosirà.» Tutto il piano cominciava a prendere forma nella sua mente, come se si fosse trattato di orchestrare una buona campagna pubblicitaria. — E quando saremo pronti a colpire con la forza — terminò, — ormai il nemico sarà demoralizzato, timoroso, ridotto all’isterismo. Anche se il suo entusiasmo cominciava a contagiarli, si trattava però di un piano concepito da una prospettiva piuttosto distante dal loro modo consueto di pensare. — Può darsi che il piano possa funzionare, Capo — obiettò Thomas. 80
— Non dico di no, ma come pensa di portarlo avanti? Non crede che gli amministratori dei Panasiatici mangeranno la foglia, vedendo comparire d’improvviso una nuova religione? — Forse, ma non lo credo molto probabile. Tutte le religioni occidentali appaiono ugualmente bizzarre, ai loro occhi. Sanno che abbiamo decine di confessioni religiose, ma, per la maggior parte di esse, i Panasiatici non ne conoscono i particolari. È uno dei pochi lati positivi dell’Era dei Non-rapporti. Conoscono poco le nostre organizzazioni, dalla Legge contro i Rapporti tra Nazioni in poi. Ai loro occhi, la nostra religione sembrerà soltanto uno dei tanti culti strampalati che esistono in America, quel tipo di culti che spuntano fuori da un giorno all’altro nella California del Sud. — Si, ma è appunto la faccenda dello spuntare fuori, Capo. Come cominceremo? Non possiamo certamente uscire dalla Cittadella e attaccare bottone con il primo giallo che passa, dicendogli: «Io sono Giovanni, e vengo per battezzarvi»... — No, non possiamo. Ecco un punto che richiede ulteriore elaborazione. Nessuno ha un’idea? Seguì un lungo silenzio, denso di concentrazione mentale. Infine, il primo a parlare fu Graham. — E se cominciassimo subito l’attività — propose, — aspettando che siano loro a notarci? — Sarebbe a dire? — Ecco, il nostro numero è già sufficiente per permetterci di operare su piccola scala. Se ci fosse un nostro tempio da qualche parte, uno di noi potrebbe essere il sacerdote, e gli altri i discepoli, o qualcosa di simile. Poi basterebbe aspettare che si accorgano di noi. — Uhm. Non è una cattiva idea, Graham. Ma è meglio aprire subito 81
su grande scala; la massima che possiamo. Saremo tutti sacerdoti, chierici e così via, e manderò Thomas a costituire una nostra congregazione tra i suoi amici nomadi. Anzi, no, aspettate. È meglio che vengano a noi come pellegrini. Cominceremo con il lanciare una campagna tra i nomadi: una campagna di voci incontrollate, che essi diffonderanno nelle città. I nomadi diranno a tutti: «Il Discepolo sta per arrivare!» — E che significa? — chiese Scheer. — Niente, per ora. Ma significherà qualcosa in futuro, quando sarà il momento. E adesso... Graham, lei che è pittore. Per alcuni giorni provvederà ai pasti soltanto con la mano sinistra. La destra l’avrà occupata a disegnare paramenti, altari e ammennicoli coreografici in genere. Roba adatta a dei sacerdoti. E ritengo che le decorazioni interne ed esterne del tempio saranno soprattutto competenza sua. — Dove sorgerà il tempio? — Ecco, questo è davvero un problema. Bisogna che non sia troppo lontano di qui, o saremo costretti ad abbandonare la Cittadella. La cosa non mi pare conveniente: ci serve come base di operazioni e come laboratorio. E il tempio, d’altronde, non può essere neppure troppo vicino, perché non possiamo permetterci di richiamare l’attenzione su questa particolare zona delle montagne. Ardmore prese a tamburellare con le dita sul tavolo. — È un problema — ripetè. — E perché non facciamo il tempio qui? — propose Brooks. — Come? — Non voglio dire in questa stanza, naturalmente, ma perché non costruire il primo tempio sulla vetta della montagna che ospita la Cittadella? Sarebbe la soluzione più comoda.
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— Lo so, dottore. Ma attirerebbe pericolosamente l’attenzione su... Un momento! Credo di capire cosa intende dire. Si voltò in direzione di Wilkie. — Bob, potrebbe usare l’effetto Ledbetter per nascondere la presenza della Cittadella, se piazzassimo sopra di noi la Chiesa Madre? Si può fare? Wilkie fece una faccia stupita; pareva proprio un grosso cagnone, più del solito. — L’effetto Ledbetter non servirebbe molto — disse. — Vuole usare proprio quello, Maggiore? Se invece non ha delle preferenze particolari, potrei servirmi di uno schermo che opera nello spettro gravitomagnetico; eliminerebbe completamente le emissioni degli apparecchi di tipo elettromagnetico. Perché vede... — Ma certo! Usi pure quello che vuole! Non so neppure come si chiamano, le cose che maneggiate voi del laboratorio... mi basta che diano i loro risultati, e lascio il resto a voi. Allora, è compito suo. Tutto sarà fatto qui sotto: progettare il tempio, allestire i materiali da costruzione in modo da averli già pronti per il montaggio; poi usciremo fuori e monteremo il tutto, il più rapidamente possibile. Qualcuno ha idea del tempo occorrente? Temo che la mia esperienza non valga mollo, in fatto di costruzioni edili. Wilkie e Scheer cominciarono a consultarsi, sottovoce. Poi Wilkie disse, a voce alta: — Non si preoccupi di questa parte, Capo. Faremo lutto il lavoro di montaggio con i nostri apparecchi, basterà avere dei generatori abbastanza potenti. — Che apparecchi? — C’è una relazione sull’argomento, pronta sulla sua scrivania. Il dispositivo a raggi trattori e pressori che abbiamo sviluppato dai primi 83
esperimenti del professor Ledbetter. — Sì, Maggiore — aggiunse Scheer. — Non ci pensi più: me ne occupo io. Con i raggi trattori e pressori, e lavorando in una zona in cui annulleremo la gravità, non ci metterò più tempo che a montarne un modellino di cartone. Anzi, mi eserciterò proprio su un modellino di cartone, prima di fare il lavoro grosso. — Benissimo — disse Ardmore, sorridendo. Si sentiva già più sollevato, come sempre succede quando un uomo ha la prospettiva di dover compiere un mucchio di lavoro faticoso. — È così che voglio sentirvi parlare. La seduta è aggiornata, per il momento. Sotto con il lavoro! Thomas, tu seguimi. — Un attimo ancora, Capo — intervenne Brooks, alzandosi per seguirlo anche lui. — Non si potrebbe... Uscirono insieme, continuando a parlare. Nonostante l’ottimismo di Scheer, dal compito di costruire un tempio sulla cima della montagna che ospitava la Cittadella nacquero varie preoccupazioni impreviste. Nessuno di loro aveva esperienza di lavori edili di grossa dimensione. Ardmore, Graham e Thomas non sapevano neppure da dove si cominciasse, anche se Thomas, che aveva fatto molti lavori manuali nella sua carriera, aveva lavorato come carpentiere edile. Calhoun era un matematico, e comunque, per temperamento, non era disposto a prestare attenzione a problemi di bassa estrazione, come quelli. Brooks era pieno di buona volontà, ma era un biologo, non un ingegnere. Wilkie era un ottimo fisico, ed era anche un buon progettista, per il genere di cose più direttamente legato con la sua attività: non aveva difficoltà a progettare i nuovi apparecchi che si rendevano necessari per il suo lavoro. Tuttavia, Wilkie non aveva mai costruito ponti, o progettato dighe, 84
o diretto operai in un cantiere. Ma il lavoro toccò ugualmente a lui, perché non c’erano alternative: Scheer non era capace di costruire un grosso edificio; aveva creduto di esserlo, ma si era accorto di saper costruire soltanto le cose di piccola dimensione: utensili, calibri, robe da meccanico. Poteva costruire un modello in scala di un grosso edificio, questo si, ma non capiva i problemi costruttivi dei grossi edifici. Toccò dunque a Wilkie. Wilkie si presentò nell’ufficio di Ardmore, pochi giorni dopo, con un grosso rotolo di disegni sotto il braccio. — Si può, Capo? — Eh? Ah; venga, Bob, si accomodi. Che cos’è che la preoccupa? Quando pensa di cominciare a costruire il Tempio? Guardi qua... mi chiedevo se ci fossero altri modi per nascondere il fatto che sotto il Tempio c’è la Cittadella. Pensa di poter sistemare l’altare in modo che... — Mi scusi, Capo... — Eh? — Possiamo inserire nel progetto tutti i trucchi che le occorrono, ma prima dobbiamo sapere qualcosa di più sul disegno. — A questo deve pensarci lei. Lei e Graham. — Si, signore. Ma quanto lo vuole grande, il Tempio? — Quanto lo voglio grande? Oh, non saprei, esattamente. Deve essere grande. Ardmore fece un gesto con le mani: un gesto che comprendeva pavimento, pareti e soffitto. — Deve essere una cosa imponente — terminò. — Che ne direbbe di dieci metri, come larghezza massima? — Dieci metri? È ridicolo! Lei non deve costruire uno spaccio per bibite, ma la chiesa madre di una grande religione... ovviamente non lo 85
è, ma occorre pensarla tale. Deve fare colpo. Ci sono delle difficoltà? I materiali? Wilkie scosse il capo. — No, con la trasmutazione di tipo Ledbetter, il materiale non è un problema. Possiamo usare come materia prima la montagna stessa. — Infatti, pensavo che avreste fatto proprio così. Tagliare grossi blocchi di granito, e poi usare i raggi trattori e pressori per sistemarli a posto, come se fossero mattoni giganteschi. — Oh, no! — No? E perché? — Be’, potremmo farlo, ma una volta finito non sarebbe un gran che... e poi non sapremmo come costruire il tetto. Io avevo intenzione di usare l’effetto Ledbetter non soltanto per tagliare ed estrarre, ma per creare... per trasmutare... i materiali che occorrono. Vede, il granito è costituito soprattutto da ossidi di silicio. Questo complica un po’ le cose, perché entrambi gli elementi sono all’inizio della scala periodica. A meno di non crearci un sacco di grane per eliminare l’energia in eccesso... e ce n’è un mucchio; quasi come la pila atomica della centrale di Memphis... dicevo, a meno di eliminare tutto quel calore, e sul momento non saprei proprio come si possa farlo,... — Accidenti, arrivi al dunque! — Ci stavo arrivando, signore — ribatté Wilkie, un po’ offeso. — Le trasmutazioni che partono dall’alto o dal basso della scala periodica e sono dirette verso la metà liberano energia, le trasmutazioni in senso inverso ne assorbono. Già nella prima metà del secolo fu scoperto come provocare il primo tipo di trasformazione; è il principio della bomba atomica. Ma se impieghiamo la trasmutazione per produrre materiali da costruzione, non è certo nostro interesse liberare energia come una 86
bomba atomica o una centrale nucleare. Sarebbe imbarazzante. — Vorrei ben dire! — Per cui userò il secondo tipo di trasmutazione, il tipo che assorbe energia. Anzi, in realtà raggiungerò un equilibrio tra i due. Prenda ad esempio il magnesio. È collocato tra il silicio e l’ossigeno. Le energie di legame che in questo caso vengono interessate... — Wilkie! — Si, signore? — Faccia conto che io abbia soltanto la terza elementare. Mi dica: lei può produrre il materiale che le occorre, sì o no? — Oh, sì, signore. Posso farlo. — E allora, in che cosa posso esserle utile, io? — Be’, signore, c’è il problema del tetto... e della dimensione. Dice che una dimensione media di dieci metri non andrebbe bene per... — Ma niente affatto. Lei ha visto l’Esposizione Nordamericana? Ricorda il padiglione della General Atomics? — Ne ho visto qualche fotografia. — Voglio qualcosa d’altrettanto vistoso e imponente, ma più grande. Perché insiste tanto sui dieci metri? — Be’, signore, un pannello di due metri per dieci è il massimo che posso far passare per la porta, tenendo conto delle curve del corridoio. — Lo faccia uscire con il montacarichi dei ricognitori. — Ci avevo pensato. Andrebbe bene per un pannello largo quattro metri, ma la massima lunghezza sarebbe allora nove metri, perché c’è una curva tra l’hangar e il montacarichi. — Uhm. Senta, non può fare delle saldature, con i suoi apparecchietti magici? Penso che potreste fabbricare il tempio qui sotto, a sezioni, e poi metterlo insieme sul posto. 87
— Si, l’idea è quella. Penso che, saldando elementi prefabbricati, potremo costruire pareti di qualsiasi dimensione. Però, Maggiore, quanto dev’essere grande il tempio? — Il più grande che potete costruire. — Si, ma qual è la dimensione a cui pensa lei? Ardmore gliela disse. Wilkie zufolò. — Credo sia possibile costruire pareti di quella dimensione, ma non conosco assolutamente il modo di coprirle con un tetto così largo. — Ma io ho visto edifici che avevano campate anche maggiori. — Sì, naturalmente. Se lei mi mette a disposizione ingegneri e architetti, e un’industria pesante che mi dia le travature metalliche richieste da una campata così grande, io, il suo tempio, glielo costruisco grande quanto vuole. Ma io e Scheer, da soli, non possiamo farlo, neppure con i raggi trattori e pressori per svolgere la parte più pesante del lavoro. Mi spiace, signore, ma non vedo nessuna soluzione. Ardmore si alzò e gli posò la mano sul braccio. — Vuol dire che non vede ancora la soluzione — disse. — Non si preoccupi troppo, Bob. Quello che lei mi potrà costruire, per me andrà benissimo. Ma ricordi una cosa: questo tempio è la nostra presentazione al pubblico. Molto dipende da essa. Non possiamo pretendere di fare molta impressione sui nostri invasori, se costruiamo un chiosco da fruttivendolo. Lo faccia più grande che può. Vorrei qualcosa di imponente come la Grande Piramide... ma cerchi di costruirlo più in fretta! Wilkie pareva preoccupato. — Cercherò, signore. Riprenderò in esame il problema dall’inizio, ci penserò ancora sopra. — Bene!
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Quando Wilkie fu uscito, Ardmore si volse a Thomas. — Cosa ne dici, Jeff? Esigo troppo? — Mi stavo chiedendo una cosa — rispose Thomas, lentamente. — Perché dà tanta importanza al tempio? — Be’, per prima cosa, il tempio potrà essere una magnifica copertura per la Cittadella. Se non vogliamo limitarci a starcene qui seduti, in attesa di morire di vecchiaia, a un certo punto ci sarà un mucchio di gente che dovrà andare e venire, qui. In queste circostanze, non possiamo pretendere che la località rimanga segreta: avremo bisogno di una spiegazione, di una maschera. In una chiesa, c’è sempre qualcuno che entra e che esce: per le funzioni sacre, eccetera. E io voglio mascherare gli «eccetera». — Si, questo lo capisco. Ma anche una costruzione di dieci metri può mascherare benissimo una scala segreta: non c’è bisogno di quella specie di salone da esposizioni che vuole farsi costruire dal giovane Wilkie. Ardmore inarcò le sopracciglia. Accidenti!, possibile che nessun altro capisse l’importanza della pubblicità? — Senti, Jeff — disse, — tutta questa faccenda dipende dal fare la giusta impressione fin dall’inizio. Se Colombo fosse andato a chiedere dieci centesimi, l’avrebbero cacciato fuori del palazzo senza stare neppure ad ascoltarlo. Facendo come ha fatto, invece, ha ottenuto i gioielli della corona. Il nostro aspetto esteriore deve fare una grande impressione. — Già, proprio così — rispose Thomas, senza convinzione. Alcuni giorni dopo, Wilkie chiese il permesso di uscire dalla Cittadella, insieme con Scheer. Saputo che non intendevano allontanarsi molto, Ardmore lo concesse, dopo avere raccomandato loro di agire con la 89
massima prudenza. Più tardi li incontrò nel corridoio principale, quello che portava al laboratorio. Avevano con sé un enorme masso di granito. Scheer lo teneva librato nell’aria per mezzo dei raggi trattori e pressori generati da un’unità Ledbetter portatile; s’era assicurato l’apparecchio sulla schiena, a guisa di zaino, con due cinghie. Wilkie, dal canto suo, aveva legato una corda intorno al masso, e se lo tirava dietro come se si fosse trattato di una mucca. — Santo Cielo! — esclamò Ardmore. — Cos’avete preso? — Ehm, un pezzo di montagna, signore. — Lo vedo. Ma cosa volete farne? Wilkie assunse un’aria misteriosa. — Maggiore — disse, — può dedicarci qualche minuto, più tardi? Forse avremo qualcosa da mostrarle. — Se non volete parlare, non parlate. D’accordo. Wilkie gli telefonò più tardi — molto più tardi — pregandolo di recarsi da loro; gli disse anche di portare Thomas. Quando giunsero nella stanza adibita a officina, videro che c’erano tutti gli altri, eccetto Calhoun. Wilkie li salutò, e disse: — Con il suo permesso, Maggiore, noi siamo pronti a cominciare. — Lasci perdere le formalità. Non intende aspettare l’arrivo del colonnello Calhoun? — L’ho invitato, ma lui ha declinato l’invito. — Allora cominci pure. — Si, signore. Wilkie si rivolse agli altri. — Immaginate che questo pezzo di granito rappresenti la vetta della montagna, sopra di noi. Scheer, comincia.
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E andò a prendere posto ai comandi di un proiettore Ledbetter. Scheer era già al proprio posto, a un altro proiettore. L’apparecchio era dotato di un mirino a cannocchiale e di altri strumenti che Ardmore non seppe riconoscere. Scheer premette due pulsanti; un sottile pennello di luce scaturì dall’apparecchio. Scheer usò il pennello di luce come se si fosse trattato di una sega, e recise netta la sommità del masso. Wilkie afferrò con un raggio trattorepressore la parte staccata, e la spostò lateralmente. Poi regolò i comandi in modo che rimanesse immobile a mezz’aria. La faccia superiore del masso, adesso, era piana, liscia come uno specchio. — Quella superficie sarà la base del tempio — spiegò Wilkie, indicandola. Scheer continuò a tagliare il masso con il pennello di luce del suo apparecchio, spostando il proiettore secondo le necessità. Squadrò perfettamente i bordi della superficie superiore, tagliando grandi fette di granito dai fianchi del masso: il masso assunse la forma di una piramide tronca, quadrangolare. Giunto a questo punto, cominciò a tagliare una serie di gradini su una delle facce laterali. — Mi pare che basti, Scheer — ordinò Wilkie. — Ora costruiamo una parete. Prepara la superficie. Scheer regolò diversamente i comandi del proiettore. Non si vide nessun raggio, questa volta, ma la base superiore della piramide divenne nera. — Carbonio — spiegò Wilkie. — Probabilmente, diamanti industriali. Questo sarà il nostro bancone di lavoro. Va bene così, Scheer. Wilkie prese con il suo raggio trattore il pezzo che era stato staccato per primo, e che fino a quel momento era rimasto da parte, sospeso nell’aria, e lo riportò sul «bancone»; Scheer ne staccò un piccolo pezzo, 91
che si fuse e sgocciolò sulla superficie piatta, levigata. La massa fusa si distese fino agli orli, formando uno strato sottile, e lì si fermò: ora aveva assunto un riflesso bianco, metallico. Quando la sottile lastra metallica si fu raffreddata sufficientemente, Scheer fece quattro piccole intaccature agli angoli, e poi, usando un raggio pressore per tenerla ferma sul masso, come una morsa, e un secondo raggio trattore come un cuneo, ne piegò gli orli a 90 gradi. Ora avevano ottenuto, dalla lastra originaria, una specie di vassoio quadrato, largo cinquanta centimetri e con i bordi alti due. Wilkie lo sollevò e lo spostò di lato. Il procedimento fu ripetuto, ma questa volta si limitarono a ottenere la sottile lastra quadrata, non un vassoio. Wilkie la tolse di mezzo e riportò sul piano d’appoggio il «vassoio». — Adesso imbottiamo questa specie di panino — annunciò. Riportò sul «vassoio» il solito pezzo di granito che forniva il materiale: quello che era stato tagliato per primo. Scheer ne staccò un terzo frammento e lo posò sul «vassoio», poi vi indirizzò un raggio. Il frammento si fuse: si distese sul fondo in modo regolare. — Il granito è un vetro, in pratica — spiegò Wilkie. — E a noi occorre schiuma di vetro; non useremo trasmutazioni, questa volta, salvo che per il tocco finale: la produzione della sostanza gassosa che forma la schiuma. Inietta l’azoto, Scheer. Il sergente annuì, e irradiò, esattamente per un secondo il granito fuso. La massa si gonfiò ribollendo, come caramello sul fuoco, e riempì il vassoio fino all’orlo; poi si solidificò. Wilkie prese la sottile lastra quadrata e la portò esattamente al di sopra del «vassoio» pieno di schiuma di vetro, poi la posò. Ora costituiva una specie di coperchio, e combaciava irregolarmente. 92
— Fissa la lastra, Scheer. La lastra si scaldò fino al calor rosso, e aderì perfettamente, premuta come da una mano invisibile. Scheer spostò il proiettore tutt’intorno, saldando il «coperchio» al «vassoio». Quando Scheer ebbe terminato, Wilkie rizzò il tutto, facendo perno su uno spigolo. Wilkie regolò ancora i comandi del proiettore, in modo che la costruzione non cadesse, poi si recò all’altra estremità della stanza, dove, sul banco, c’era un oggetto di natura indeterminata, coperto con una tela cerata. — Per risparmiare tempo e per fare pratica, ne abbiamo già fatti altri quattro — spiegò, togliendo la copertura. Sotto, c’era una pila di pannelli a tre strati, identici a quello che aveva appena creato. Non li toccò: fu Scheer a sollevarli, con il proiettore, uno alla volta, e a costruire con essi un cubo; il pannello testé prodotto venne a costituire una delle facce, il «bancone» divenne la base del cubo. Wilkie ritornò al suo proiettore e tenne ferma la struttura, mentre Scheer saldava gli spigoli. — Scheer è molto più preciso di me — spiegò. — Lascio a lui le parti che richiedono precisione. Benissimo, Scheer... che ne diresti di metterci una porta? — Grossa quanto? — borbottò il sergente, aprendo la bocca per la prima volta. — Fai tu. Penso che una quindicina di centimetri vada bene. Scheer borbottò ancora qualcosa, e tagliò un’apertura rettangolare su una delle facce del cubo: quella corrispondente ai gradini intagliati inizialmente nella piramide. Quando Scheer ebbe finito, Wilkie annunciò: — Ecco il suo tempio, Capo.
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Nessuna mano umana aveva toccato il masso di granito, o ciò che era stato costruito da esso, dall’inizio alla fine. Gli applausi scrosciarono; anzi, pareva che provenissero da un numero molto maggiore di persone, e non da cinque soltanto. Wilkie arrossì; Scheer serrò le mascelle. — Tutti fecero capannello intorno al «tempio». — È «caldo»? — chiese Brooks. — No — gli rispose Mitsui. — L’ho toccato. — Non intendevo parlare in quel senso. — No, non è «caldo» — lo rassicurò Wilkie. — Con il processo Ledbetter non c’è radioattività residua. Sono isotopi stabili; tutti quelli che si ottengono. Ardmore, che si era recato a esaminare da vicino la costruzione, si raddrizzò. — Mi par di capire — disse, — che avete intenzione di compiere tutto il lavoro all’esterno? — Perché, non va bene, Maggiore? Naturalmente, potremmo preparare tutto qui sotto, e poi mettere insieme il tempio pezzo per pezzo, partendo da piccoli elementi modulari... ma credo occorra più tempo a montarli che a limitarsi a salire e a costruire dei grossi pannelli, direttamente sul posto, partendo da zero. Inoltre, non so se il tetto del tempio possa reggere, costruendolo con tanti piccoli elementi. I pannelli stratificati, come quello che abbiamo fatto, sono le strutture edilizie più leggere, rigide e robuste che possiamo usare nelle nostre condizioni. Ciò che ci ha convinti ad adottare questa soluzione è stato appunto il problema della copertura, data la notevole luce della campata che lei desidera.
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— Regolatevi come meglio credete. Sono certo che sapete quello che fate. — Naturalmente — osservò Wilkie, — occorrerà ancora vario tempo, prima che il tempio sia finito. Questa è soltanto una struttura nuda, un guscio. E non saprei dire quanto tempo richiederà il lavoro di decorazione. — Decorazione? — fece Graham, stupito. — Ma se abbiamo già qui una forma elegante, semplice, grandiosa... perché appesantirla con decorazioni? Il cubo è una delle forme più belle, più pure che esistano. — Sono d’accordo con Graham — intervenne Ardmore. — Il nostro tempio sta bene così. Nulla colpisce l’occhio quanto una grande massa, intatta. Visto che possiamo unire la semplicità all’efficacia, non guastiamole. — Non saprei — disse Wilkie, scrollando le spalle. — Credevo volesse qualcosa di più elegante... — Ma è proprio così, che è elegante! Mi spieghi però una cosa, Bob. Una cosa che non ho capito... e badi bene, non lo dico per criticare: mi sentirei come se criticassi i Sette Giorni della Creazione!... Mi dica: perché correre il rischio di uscire all’aperto, andando fuori a prendere il masso? Bastava andare in una delle stanze non occupate, togliere l’intonaco da una parete e usare il suo coltellino magico: poteva tagliare una fetta di granito direttamente dal cuore della montagna. Wilkie lo fissò, attonito. — Non ci avevo pensato.
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CAPITOLO QUINTO Un elicottero militare incrociava lentamente nell’aria, a sud di Denver. Il tenente Panasiatico che lo comandava consultò la carta topografica, preparata recentemente con il sistema delle riprese aeree a mosaico, e indicò al pilota di abbassarsi. Eccolo: un grande edificio di forma cubica, che s’innalzava sul dorso della montagna. L’aveva scoperto il Rilevamento cartografico del nuovo Regno Occidentale del Celeste Impero; il tenente era inviato a investigare. Il tenente considerava quell’incarico come una faccenda di normale amministrazione. Quell’edificio non figurava nei registri catastali del distretto di appartenenza, ma non c’era di che meravigliarsi. Il territorio recentemente conquistato aveva un’estensione enorme, e gli aborigeni, secondo la loro abitudine di trascuratezza e di disordine — caratteristica comune a tutte le razze inferiori — non tenevano mai le registrazioni debite. Forse sarebbero passati anni, prima che tutto il nuovo, selvaggio paese fosse debitamente schedato e registrato, soprattutto tenendo conto che il suo popolo pallido e anemico era quasi puerile, nel modo in cui rifiutava i benefici della civiltà. Sì, sarebbe stato un lavoro lungo; forse perfino più lungo dell’Amalgamazione, seguita all’Annessione dell’India. Il tenente sospirò. Quella mattina stessa aveva ricevuto una lettera dalla sua moglie principale, che gli comunicava che la seconda moglie gli
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aveva dato un figlio maschio. Era nel dubbio se chiedere la nuova classificazione di colono fisso, e così permettere alla famiglia di raggiungerlo, o se rivolgere domanda per la licenza che da tempo gli spettava. Non erano pensieri degni di un uomo al servizio del Celeste Imperatore! Recitò mentalmente i Sette Princìpi della Razza Guerriera, e indicò al pilota una spianata su cui atterrare. Visto da terra, l’edificio era ancora più impressionante: un’enorme massa quadrata, spoglia, che misurava circa duecento metri di lato. La facciata dinanzi a lui risplendeva di un purissimo color verde smeraldo, pur essendo rivolta in direzione opposta a quella del sole pomeridiano. Dal punto in cui si trovava, vedeva anche in parte la parete di destra, che era dorata. I suoi soldati, una piccola squadra, uscirono dall’elicottero dopo di lui, seguiti dalla guida ch’era stata presa a bordo di forza per accompagnarli sulle montagne. Il tenente si rivolse in inglese all’uomo di razza bianca: — Hai mai visto questo edificio? — No, Padrone. — E come mai? — Questa zona delle montagne è nuova per me. Quell’uomo mentiva, probabilmente, ma era inutile punirlo. Lasciò perdere. — Portaci lassù. Risalirono il pendio, verso il grande edificio cubico, e giunsero al punto in cui iniziava una gradinata ampia, perfino più ampia dello stesso edificio, che conduceva all’ingresso.
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Il tenente esitò un attimo, prima di mettere il piede sul primo gradino. Provava un vago disagio, un leggero senso d’inquietudine: come una voce che lo avvertisse di un pericolo senza nome. Posò fermamente il piede sul gradino. Nel canyon echeggiò una singola nota, profonda e cristallina; il senso di disagio si trasformò in una paura irrazionale. Accorgendosi che anche i suoi uomini ne erano colpiti, salì con decisione il secondo gradino. Una seconda nota, diversa dalla prima, risonò per le montagne. Il tenente continuò a salire, caparbiamente, la lunga gradinata, e i suoi uomini lo seguirono con riluttanza. Un lento «largo», greve e infinitamente tragico scandì i suoi passi; passi faticosi perché i gradini erano più lunghi e più alti del normale: quel tanto che bastava a rendere disagevole la salita. La sensazione di un’imminente catastrofe, di un destino inevitabile si faceva più forte man mano che si avvicinava all’edificio. Due porte ciclopiche si spalancarono lentamente, mentre il tenente saliva. Nel vestibolo così creatosi apparve un uomo, immobile, che indossava una veste color smeraldo, tanto lunga da spazzare per terra. I capelli bianchi e la barba fluente incorniciavano un volto pieno di dignità e di benevolenza. L’uomo avanzò maestosamente, allontanandosi dalla soglia; giunse alla sommità della gradinata proprio mentre il tenente saliva l’ultimo gradino. Il tenente osservò con stupore che un alone di luce immateriale gli guizzava intorno al capo, formando una specie di aureola. Ma non gli fu lasciato il tempo di pensare a quello strano fenomeno, perché il vecchio levò la destra in un gesto di benedizione e parlò: — La pace sia con te! E la pace fu davvero con lui! La sensazione di terrore, di paura irrazionale abbandonò il Panasiatico 98
di colpo, come se qualcuno avesse girato una manopola. Il suo sollievo fu tale che si scoprì a guardare questo membro di una razza inferiore — un sacerdote, evidentemente — con un calore riservato ai propri pari. Ricordò i Precetti per trattare con le religioni degli inferiori. — Che luogo è questo, Sant’Uomo? — Voi siete sulla soglia del Tempio di Mota, Signore degli Dèi e Signore di Ogni Cosa! — Mota?...uhm. Non ricordava un dio che avesse quel nome, ma la cosa non importava. Quelle pallide creature avevano migliaia di bizzarre divinità. Tre sole cose, esigono gli schiavi: cibo, lavoro e i loro dèi; di queste tre, gli dèi non bisogna mai toccarli, a scanso di grossi fastidi. Così dicevano i Precetti per Governare. — Chi sei? — Non sono che un umile sacerdote. Il Primo Servitore di Shaam, Signore della Pace. — Shaam? Non dicevi che è Mota, il vostro dio? — Noi serviamo il Signore Mota in sei dei Suoi mille attributi. E voi lo servite a vostro modo. Perfino il Celeste Imperatore lo serve, a suo modo. Io servo il Signore della Pace. Parole che sfioravano pericolosamente il tradimento, pensò il tenente, se non la bestemmia. Comunque, era possibile che gli dèi avessero vari nomi, e non pareva che l’indigeno intendesse dare fastidio. — Benissimo, Sant’Uomo; il Celeste Imperatore ti permette di servire il tuo dio come ti pare, ma io devo sorvegliare per conto dell’Impero. Fatti da parte. Il vecchio non si mosse. 99
Si limitò a rispondere in tono addolorato: — Mi dispiace, Padrone. Non si può. — Si deve. Fatti da parte! — Vi prego, Padrone, vi scongiuro! Non è possibile che voi entriate qui. In questi Suoi attributi, Mota è Signore degli uomini bianchi. Voi dovete recarvi nel vostro tempio; non potete entrare in questo. C’è la morte, per chiunque non sia un suo seguace. — Osi minacciarmi? — No, Padrone, no... noi serviamo l’Imperatore, come ordina la nostra fede. Ma la cosa che voi volete fare, è lo stesso Signore Mota a proibirla. Non potrò salvarvi, se infrangerete il suo comando! — In nome del Celeste Imperatore... fatti da parte! E si avviò con decisione verso la porta, attraversando l’ampio sagrato; i suoi soldati lo seguirono, marciando con passo pesante e con un’espressione stolida sul viso. Il timor panico l’afferrò mentre marciava, e aumentò d’intensità ad ogni passo, man mano che si accostava alla grande porta. Provava come una stretta al cuore, e si sentiva incalzato da un folle, insensato desiderio di fuga. Solo il coraggio fatalistico conferitogli dal lungo addestramento gli permise di procedere. Vide, oltre la porta, una grande navata vuota, e, quasi all’estremità opposta, un altare, che, pur essendo di proporzioni più che rispettabili, pareva piccolo al confronto con le pachidermiche dimensioni della sala. L’interno delle pareti luccicava, e ogni parete aveva un colore diverso: rosso, azzurro, verde, oro. Il soffitto era d’un bianco perfetto, immacolato, e il pavimento era d’un nero altrettanto perfetto. Qui dentro, si disse, non c’è niente che possa incutere paura. Quel timore illogico — e tuttavia reale: orribilmente reale — era un malessere 100
dello spirito, indegno di un guerriero. Varcò la soglia. Un istante di vertigine, un brivido di terrore e di insicurezza: l’asiatico crollò al suolo. I soldati della sua squadra, che gli stavano alle calcagna, caddero anch’essi senza preavviso. Ardmore sbucò di corsa dal nascondiglio. — Ottimo lavoro, Jeff — esclamò. — Avresti dovuto fare l’attore! Il vecchio sacerdote si rilassò. — Grazie, Capo. Cosa facciamo, adesso? — Abbiamo, tutto il tempo per pensarci. — Si voltò in direzione dell’altare e urlò: — Scheer! — Sì, signore? — Spegni quella maledetta vibrazione a quattordici cicli! E aggiunse, parlando a Thomas: — Questi infrasuoni del diavolo mi fanno venire la pelle d’oca, anche se so perfettamente cosa sono. Mi chiedo che effetto avranno avuto sul nostro amico. — Stava per cedere, credo. Non pensavo che sarebbe riuscito a raggiungere la porta. — Non posso certo biasimarlo. Io stesso volevo mettermi a guaire come un cane... e sono stato io, a ordinare di accenderli. Non c’è niente di peggio che la paura di qualcosa d’ignoto, per spezzare i nervi a un uomo. Bene, abbiamo preso un orso per la coda. Adesso, per trovare il modo di lasciarlo andare... — E di lui, cosa ne facciamo? — chiese Thomas, indicando la guida. L’uomo era ancora fermo alla sommità della enorme gradinata. — Già. Ardmore richiamò l’attenzione dell’uomo con un fischio, e gli gridò: — Ehi, lei! Venga qui! 101
L’altro pareva esitante. Ardmore gridò ancora: — Accidenti, siamo uomini bianchi! Non lo vede? — Lo vedo — rispose l’uomo. — E questa cosa non mi piace per niente. Comunque si avvicinò, lentamente. Ardmore spiegò: — È tutta una montatura per confondere i nostri fratelli di pelle gialla. Ormai lei è in ballo, e deve ballare! Se la sente? Erano sopraggiunti anche gli altri membri del personale della Cittadella. La guida li guardò in faccia. — Non credo di avere molta scelta... — Forse no, ma preferiremmo avere un volontario, piuttosto che un prigioniero. Il montanaro continuò a masticare con attenzione il tabacco, gettò uno sguardo verso il pavimento immacolato, per vedere se c’era un punto dove sputarlo, decise di no, e rispose: — Di che si tratta? — È una messinscena per i nostri padroni asiatici. Cerchiamo di dare loro il benservito... con l’aiuto di Dio e del grande Signore Mota. La guida li squadrò ancora, a uno a uno, poi, d’improvviso, tese la mano. — Ci sto. — Benissimo — disse Ardmore, stringendogliela. — Come si chiama? — Howe. Alexander Hamilton Howe. Alec per gli amici. — Bene, Alec. Ora ci dica: cosa sa fare? Sa cucinare? — Me la cavo.
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— Magnifico. Graham, per il momento è suo. Gli parlerò più tardi. E adesso... Jeff, non hai avuto l’impressione che una di queste scimmie sia caduta dopo le altre? — Forse sì. Perché? — Era questo, no? Sfiorò con la punta dello stivale una delle figure immobili a terra. — Credo. — D’accordo. Voglio controllare quest’uomo, prima di ridare conoscenza agli altri; se fosse di razza mongolica, sarebbe dovuto cadere a terra subito. Dottor Brooks, vuole controllare i riflessi di questo signorino? E non si preoccupi troppo delle buone maniere. In pochi secondi, Brooks riuscì a ottenere alcuni sussulti. Visto il risultato, Ardmore si piegò; spinse col pollice, proprio sotto l’orecchio del caduto, sul nervo. Il soldato si rizzò sulle ginocchia, rabbrividendo. — Bravo, ragazzo; spiegaci un po’ questa faccenda... Il soldato, impassibile, guardò Ardmore, il quale, dopo averlo fissato un istante in volto, gli fece rapidamente un segno di riconoscimento, in modo che gli altri non potessero vedere. — Perché non l’ha detto subito? — chiese il soldato Panasiatico. — Debbo dire che si tratta di un ottimo travestimento — commentò Ardmore, con ammirazione. — Il suo nome e il suo grado, prego. — Tatuaggio e chirurgia plastica — spiegò l’altro. — Mi chiamo Downer, capitano dell’Esercito degli Stati Uniti. — E io mi chiamo Ardmore. Maggiore. — Lieto di conoscerla, Maggiore. Si strinsero la mano. — Anzi, lietissimo. Sono rimasto nel dubbio per mesi, chiedendomi a chi avrei dovuto fare rapporto, e come. 103
— Be’, possiamo senza dubbio servirci di lei. La nostra organizzazione è ridotta ai minimi termini. Ma adesso ho da fare... ne parleremo dopo. — Gli volse le spalle. — Signori, ai vostri posti. Comincia il secondo atto. Che ciascuno controlli il trucco dell’altro. Wilkie, pensi lei ad accompagnare Howe e Downer nei locali sotterranei. Adesso faremo rinvenire i nostri ospiti. Gli altri cominciarono a eseguire gli ordini. Downer toccò il gomito di Ardmore. — Solo un attimo, Maggiore — fece. — Non conosco i suoi progetti, ma, prima di fare quanto ha detto, è sicuro che io non possa esserle più utile continuando a svolgere l’incarico che sto già svolgendo ora? — Eh? Già, ha ragione. Si sente di farlo? — Si, se può essere utile — si limitò a rispondere Downer. — Sarà molto utile, senza dubbio. Thomas, vieni qui. I tre cominciarono a parlottare sottovoce, cercando un modo che permettesse a Downer di fare regolarmente rapporto: attraverso la rete d’informatori costituita dai nomadi, decisero. Ardmore gli spiegò in breve la situazione, senza fornirgli troppi particolari. — E ora, buona fortuna, amico — gli augurò, concludendo. — Ritorni con gli altri a fare il morto: stiamo per rianimare i suoi commilitoni. Thomas, Ardmore e Calhoun erano intorno al tenente Panasiatico, quando quello riaprì gli occhi. — Sia lode al Signore Mota! — intonò Thomas. — Il Padrone è vivo! Il tenente si guardò intorno, scrollò il capo, poi mosse la mano verso la pistola d’ordinanza. Ardmore, il quale, paludato nei paramenti rossi di Dite, Signore della Distruzione, aveva un aspetto davvero impressionante, levò in alto la mano. 104
— Siate prudente, Padrone, vi scongiuro! — esclamò. — Ho supplicato il mio Signore Dite di restituirvi a noi. Non offendetelo ancora! L’asiatico esitò, poi chiese: — Cos’è successo? — Il Signore Mota, agendo per mezzo di Dite, il Distruttore, vi aveva preso con sé. Noi abbiamo pregato, pianto e supplicato Tamar, Signora della Misericordia, perché intercedesse per noi. — Alzò il braccio, indicando la porta spalancata. Wilkie, Graham e Brooks, debitamente vestiti da sacerdoti, stavano ancora genuflettendosi davanti all’altare, con grande zelo. — E la nostra preghiera, benignamente, è stata esaudita. Andate in pace! Scheer, che stava al quadro dei comandi, scelse proprio quel momento per aumentare l’intensità della vibrazione a quattordici cicli. Travolto da una paura senza nome, stordito, deluso, il tenente prese la decisione più comoda: andarsene sui due piedi. Chiamò a sé i soldati e ridiscese la grande scalinata, mentre una ciclopica musica d’organo lo incalzava, in un tremendo accompagnamento cui non poteva sfuggire. — Ecco fatto — commentò Ardmore, quando il drappello dei Panasiatici sparì, nella lontananza. — La fine del primo round vede in vantaggio noi angioletti. Thomas, desidero che tu scenda immediatamente in città. — Come? — Sì, e in pompa magna: paramenti e tutto il resto. Cerca il comandante di questo distretto amministrativo, e rivolgigli una formale protesta perché il Tenente Facciasporca ci ha fatto il grave torto di profanare i nostri luoghi santi, con profondo sdegno dei nostri dèi, e chiedigli l’assicurazione che un simile episodio non si ripeta. Mantieni un tono altezzoso per quanto riguarda tutto lo spiacevole episodio... l’indigna105
zione del giusto, mi capisci... ma, attento!, il massimo rispetto per le autorità temporali. — Sono lieto della fiducia che nutre in me...— replicò Thomas, con una smorfia sarcastica. Ardmore lo ripagò con una smorfia identica alla sua. — So che è un incarico molto pericoloso, amico mio — riprese, — ma si tratta di una questione della massima importanza. Se possiamo servirci delle loro leggi e delle loro consuetudini per stabilire un precedente, fin dall’inizio, che ci qualifichi come una religione legittima, autorizzata ad avere le solite immunità, la nostra battaglia sarà vinta per metà. — E se mi chiedessero la carta di registrazione? — Se ti comporterai con una sufficiente dose d’arroganza, non gli verrà mai in mente di chiedertela. Pensa di essere una damazza dell’alta società, e cerca di parlare con la stessa prosopopea. Voglio che i Panasiatici si mettano in testa che chiunque abbia il bordone, le vesti lunghe e l’aureola sulla testa si faccia riconoscere da sé, soltanto dal suo aspetto. È una cosa che potrà risparmiarci un mucchio di guai, in futuro. — Proverò... ma non posso assicurarle niente. — No, ce la farai: ne sono sicuro. Comunque, uscirai equipaggiato in modo da assicurarti la sopravvivenza in ogni caso. Tieni acceso lo schermo tutte le volte che un Panasiatico ti viene vicino. Non cercare di giustificarne la presenza: lascia soltanto che lo schermo lo allontani da te, se vuole aggredirti. Dopotutto, trattandosi di un miracolo, non ha bisogno di spiegazioni... — D’accordo.
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Il rapporto del tenente non parve molto soddisfacente ai suoi superiori. Però, se era soltanto per questo, non era parso molto soddisfacente nemmeno a lui. Provava in modo acuto la sensazione di avere perso l’onore personale, la «faccia», e le parole del suo diretto superiore non contribuirono a ridargliela. — Tu, un ufficiale dell’esercito del Celeste Imperatore, ti sei permesso di apparire piccino agli occhi di una razza inferiore. Cosa hai da dire? — Il vostro perdono, mio signore! — Questo non spetta a me. È un problema che devi risolvere con i tuoi antenati. — Ho inteso, mio signore. — E la sua mano sfiorò la corta spada che gli pendeva al fianco. — Non avere troppa fretta. Prima, desidero che tu riferisca la tua versione dei fatti direttamente alla Mano Imperiale. La locale Mano Imperiale, vale a dire il governatore militare della regione che includeva Denver e la Cittadella, non fu più soddisfatto di quanto non lo fosse stato il suo subordinato. — Cosa ti è preso, di entrare nei luoghi sacri di questa gente? È gente puerile, irritabile. La tua azione sarebbe potuta diventare la spiacevole causa della morte di molti, più utili di te. E noi non possiamo continuare in eterno a sprecare schiavi per insegnare loro come comportarsi. — La mia persona è indegna, mio signore. — Non intendo contraddire questa tua affermazione. Puoi andare. — E il tenente se ne andò, a raggiungere non la famiglia, bensì gli antenati. La Mano Imperiale si rivolse all’aiutante. — Adesso riceveremo, probabilmente, una petizione dai sacerdoti di questo culto. Fai in modo che i postulanti siano placati, e dai loro assicurazione che i loro dèi non riceveranno più alcun disturbo. Prendi 107
nota delle caratteristiche di questa setta religiosa, e passa ordine a tutti di trattarli con riguardo. Trasse un breve sospiro. — Questi selvaggi e i loro falsi dèi! Cominciano a stancarmi. Eppure sono necessari: i sacerdoti e gli dèi degli schiavi si battono sempre al fianco dei Padroni. È una legge di natura. — Il mio signore ha parlato. Ardmore fu felice di vedere che Thomas era di ritorno alla Cittadella. Nonostante la sua fiducia nelle capacità di Jeff di comportarsi bene in una situazione pericolosa, nonostante le assicurazioni, dategli da Calhoun, che uno schermo protettivo, usato nel modo giusto, avrebbe protetto chi lo portava da ogni possibile arma dei Panasiatici, Ardmore era stato in una condizione di estrema tensione fin dall’istante in cui Thomas si era allontanato per andare a lamentarsi con le autorità asiatiche. Dopotutto, si diceva, forse l’atteggiamento dei Panasiatici verso le religioni locali era soltanto un atteggiamento di sopportazione, e non di incoraggiamento particolare. — Bentornato a casa, ragazzo! — gli gridò, battendogli una manata sulla spalla. — Felicissimo di rivedere la tua brutta faccia!...Raccontami cosa ti è successo. — Mi dia soltanto il tempo di togliermi questo infernale accappatoio da bagno, e le racconto tutto. Ha una sigaretta? La fregatura di essere un sant’uomo è questa: i sant’uomini non fumano. — Sicuro. Prendila. Hai mangiato qualcosa? — Sì, ma non di recente. Ardmore accese il citofono per mettersi in comunicazione con il Servizio Cucine. 108
— Alec — disse, — tiri fuori qualche cosa da mangiare per il tenente Thomas. E dica agli altri che possono ascoltare il suo rapporto, se si sbrigano a venire nel mio ufficio. — Gli chieda se ha delle avocado — intervenne Thomas. Ardmore lo accontentò, poi rispose: — Dice che sono ancora nel freezer, ma che ne sgela subito una. E adesso, fuori la storia. Cos’ha detto Cappuccetto Rosso, quando ha incontrato il lupo cattivo? — Be’,... lei non ci crederà, Capo, ma non ho avuto il minimo fastidio. Una volta entrato in città, mi sono rivolto al primo poliziotto Panasiatico che ho visto. Sono sceso dal marciapiede e ho assunto la solita posa della benedizione: bordone nella sinistra, mano destra che dà zampate nell’aria; niente palme congiunte e capo chino, come si pensa debbano fare gli uomini di razza bianca. Poi ho detto: «La pace sia con voi! Vuole il Padrone indicare al suo servo la sede del governo del Celeste Imperatore?» «Non credo che quello capisse molto di inglese. Mi è sembrato stupito dal mio modo di fare, e ha chiesto aiuto a un’altra di quelle brutte facce. Questo conosceva l’inglese un po’ meglio, e io gli ho ripetuto la domanda. Si sono messi a confabulare tra loro in quella loro maledetta lingua cantilenante, poi mi hanno condotto al palazzo della Mano Imperiale. Facevamo una bella processione davvero... loro due che mi stavano ai fianchi, e io che camminavo così in fretta da tenermi a pari; magari anche un po’ davanti, se era il caso.» — Ottima pubblicità — disse Ardmore, approvando. — Sì, l’ho fatto proprio per questo. Comunque, mi hanno portato al palazzo, e io ho raccontato tutta la storia a un sottufficiale. Quel che poi è successo mi ha davvero stupito. Mi hanno portato immediatamente a 109
parlare con il grande capo: la Mano Imperiale in persona! — Accidenti! — Aspetti, aspetti, il più bello deve ancora venire!... Confesso che avevo una fifa boia, ma mi sono detto: «Jeff, brutto fesso, se ora ti metti a strisciare, di qui non esci vivo.» Sapevo che i Panasiatici si aspettano che un uomo bianco si metta in ginocchio, davanti a un ufficiale di grado così elevato. E io invece no; sono rimasto in piedi, e gli ho impartito la stessa benedizione che avevo già impartito ai suoi tirapiedi. E lui non ha protestato! Mi ha squadrato ben bene, e ha detto: «Grazie della benedizione, Sant’Uomo. Puoi avvicinarti.» Parla un ottico inglese, tra l’altro. «Bene. Gli ho dato una versione ragionevolmente accurata di quanto è successo su da noi... la versione ufficiale, beninteso... e lui mi ha rivolto alcune domande.» — Che genere di domande? — Per prima cosa, ha voluto sapere se la mia religione riconosce l’autorità dell’Imperatore. Gli ho assicurato che la riconosce, e che i nostri seguaci sono rigorosamente tenuti a obbedire alle autorità temporali in tutte le questioni temporali, ma che il nostro credo ci comanda di onorare i veri dèi secondo la nostra specifica maniera. E qui gli ho somministrato una lunga lezioncina di teologia. Gli ho detto che tutti gli uomini venerano Dio, ma che Dio possiede mille attributi, ciascuno dei quali è un mistero. Dio, nella sua saggezza, trova giusto manifestarsi alle diverse razze con attributi diversi, perché non è decoroso che servo e padrone lo venerino nella stessa maniera. Perciò, i sei attributi di Mota, Shaam, Mens, Tamar, Barmac e Dite sono stati messi da parte per gli uomini bianchi, esattamente come quello di Celeste Imperatore è un attributo riservato alla razza dei Padroni. 110
— E come l’ha presa? — Ho avuto l’impressione che l’abbia considerata un’ottima dottrina... per gli schiavi. Mi ha chiesto cosa fa la mia chiesa, oltre a tenere servizi divini, e io gli ho risposto che il nostro più grande desiderio è quello di soccorrere i poveri e i malati. Mi è parso che quest’idea gli andasse a genio. Ho l’impressione che la pubblica assistenza sia diventata un grosso problema, per i nostri graziosi dominatori. — Pubblica assistenza? Perché, hanno qualche forma di pubblica assistenza? — Non proprio in questo senso. Tuttavia, visto che riempiono di prigionieri i campi di concentramento, qualcosa per sfamarli devono pure trovarlo. L’economia interna del paese è andata a pezzi con la disfatta, e i Panasiatici non sono ancora riusciti a rimetterla in sesto. Credo che possano apprezzare un movimento come il nostro, che impedisce loro di preoccuparsi troppo di come sfamare gli schiavi. — Uhm. Nient’altro? — Non molto. Gli ho nuovamente assicurato che a noi, che siamo capi spirituali, è la dottrina stessa a proibire severamente di occuparci di politica, e lui mi ha risposto che in futuro non saremmo più stati molestati. Poi mi ha congedato. Io gli ho di nuovo impartito la benedizione; poi gli ho voltato le spalle, e me ne sono andato via a grandi passi. — Allora — disse Ardmore, — direi che sei riuscito a fargli credere a questo sacco di balle, dalla prima all’ultima... — Non ne sarei troppo sicuro, Capo. Quel vecchio farabutto mi ha dato l’impressione di essere molto astuto: machiavellico. Anzi, non dovrei dire che è un «farabutto», perché non lo è affatto... dal suo punto di vista. È un uomo di stato. Devo ammettere che mi ha fatto molta impressione, veramente. Senta, questi Panasiatici non devono essere 111
affatto stupidi: hanno conquistato mezzo mondo, e riescono a tenerselo ben stretto; centinaia di milioni di persone. Se tollerano le religioni locali, vuol dire che si sono accorti che è una buona politica. Dobbiamo fare in modo che continuino a pensarla così anche nel nostro caso, e, per farlo, dobbiamo ingannare degli amministratori molto astuti, pieni di esperienza. — Hai perfettamente ragione. Certamente: dobbiamo fare attenzione a non sottovalutarli. — Intanto, io non avevo ancora finito. Un’altra scorta mi si è messa alle calcagna, mentre uscivo dal palazzo, e mi è rimasta dietro. Io ho tirato dritto per i fatti miei, senza dare peso alla cosa. Il percorso da me seguito per uscire dalla città mi ha portato a passare nella piazza del mercato. Laggiù c’erano varie centinaia di uomini bianchi, che facevano la coda per comprare un po’ di cibo tesserato. Mi è venuta subito un’idea, e ho deciso di vedere fino a che punto si estendesse la mia immunità. Mi sono fermato, sono salito su una cassa e mi sono messo a predicare. Ardmore fece un fischio. — Accidenti, Jeff! Non avresti dovuto correre un rischio simile! — Ma, Maggiore, era necessario saperlo. Inoltre, pensavo che il peggio che potesse capitarmi fosse l’essere costretto a smettere. — Be’... si, credo anch’io. Del resto, la nostra missione ci impone di correre dei rischi, e occorre usare il nostro giudizio. Forse la sfacciataggine può essere la migliore politica. Mi spiace di averlo detto... cos’è successo, poi? — La mia scorta pareva perplessa, a tutta prima. Incerta sul da farsi. Io ho continuato come se niente fosse, ma intanto li sorvegliavo, con la coda dell’occhio. Ben presto è arrivato un tizio, che doveva 112
essere loto superiore in grado, e si è unito a loro. Gli hanno raccontato cosa succedeva, e quello si è allontanato. Poi è tornato, cinque minuti dopo, ed è rimasto lì senza fare niente, limitandosi a sorvegliarmi. Ne ho dedotto che avesse telefonato al proprio comando, e che avesse ricevuto istruzioni di lasciarmi in pace. — E la gente che c’era al mercato, come l’ha presa? — Credo che la cosa che li ha impressionati maggiormente sia stata quella di vedere un uomo bianco che infrangeva una delle regole dei dominatori, e che se la passava liscia. Non ho detto molto. Ho preso come copione il nostro vecchio «Il Discepolo sta per arrivare!», e gli ho ricamato un mucchio di luccicanti banalità. Ho detto di fare i bravi bambini e di non temere, perché il Discepolo sarebbe arrivato presto, per dar da mangiare agli affamati, per guarire i malati e per consolare gli afflitti. — Uhm. Adesso che hai cominciato a fare promesse, sarà meglio cominciare a mantenerle. — Ci stavo arrivando, Capo. Credo che convenga fondare una chiesa a Denver, e presto. — Non abbiamo ancora abbastanza uomini, per cominciare a diffonderci nelle varie città. — Ne è proprio sicuro? Mi spiace di doverla contraddire, Maggiore, ma non vedo come possiamo fare molte reclute, se non andiamo a cercarle noi stessi. Adesso l’ambiente è pronto: le assicuro che a Denver ogni uomo bianco parla ora del vecchio con l’aureola... con laureola, ci pensi!...che predicava nella piazza del mercato, senza che gli asiatici osassero fermarlo. Accorreranno a frotte! — Be’... forse hai ragione... — Ne sono quasi certo. Visto che lei non può rinunciare a nessuno 113
del personale regolare della Cittadella, le suggerisco un modo: andrò io in città, insieme con Alec, e cercheremo un edificio che si possa adattare a tempio; lì cominceremo a celebrare le funzioni religiose. In un primo tempo possiamo andare avanti con le unità Ledbetter incorporate nei bordoni, in seguito potrà venire Scheer a mettere a posto l’interno del tempio, e a collocare nell’altare un’unità più potente. Una volta avviata, la cosa andrà avanti per conto suo, e io potrò passare le consegne ad Alec. Sarà lui, il nostro rappresentante locale a Denver. Mentre Ardmore e Thomas parlavano, gli altri erano arrivati alla spicciolata. Ardmore si rivolse ad Alec Howe. — Cosa ne dice, Alec? Pensa di poter recitare la parte del sacerdote, pronunciare sermoni, organizzare l’assistenza e altre cose del genere? La guida non rispose subito. — Maggiore — disse infine, — penso che preferirei continuare con il lavoro che faccio adesso. — Non ci sarà niente di difficile — gli assicurò Ardmore. — Io o Thomas possiamo scriverle i sermoni. Il resto consisterà soprattutto nel tenere la bocca chiusa e gli occhi aperti, e nell’inviare qui, alla Cittadella, le persone adatte; noi poi le arruoleremo. — Non si tratta dei sermoni, Maggiore. Posso cavarmela benissimo con i sermoni: in gioventù ero predicatore laico. La ragione è diversa: non riesco a conciliare con la mia fede la faccenda della religione falsa. Sì, so che state lavorando per uno scopo meritevole, e ho accettato di dare il mio contributo, ma preferirei rimanermene in cucina. Prima di rispondere, Ardmore scelse con cura le parole. — Alec — disse poi, in tono molto serio, — credo di capire il suo punto di vista. Non intendo chiedere a nessuno di agire contro la pro114
pria coscienza. Anzi, in realtà non avremmo adottato il travestimento religioso, se ci fosse stato un altro possibile sistema per combattere in difesa degli Stati Uniti. La sua fede le vieta forse di combattere in difesa del suo paese? — No. Non me lo vieta. — La maggior parte del suo lavoro come sacerdote della nostra chiesa consisterà nel difendere gl’indifesi, E questo non rientra forse nel suo credo? — Sicuro, che rientra. Ed è proprio questo, a impedirmi di farlo nel nome di un falso Iddio. — Ma è davvero un falso Iddio? Crede che a Dio importi molto il nome con cui Lo si chiama, purché il lavoro che si esegue sia a Lui accettabile? Ora, badi bene — si affrettò ad aggiungere, — io non voglio dire che il cosiddetto Tempio che abbiamo eretto qui sia necessariamente una Casa del Signore, ma non è forse vero che il culto di Dio riguarda quanto si sente nel proprio cuore, e non le parole e i rituali usati? — È vero, Maggiore, quanto lei dice è vangelo... ma non mi sento a posto lo stesso. Ardmore si era accorto che Calhoun assisteva alla discussione con malcelata impazienza. Decise di farla finita. — Alec, adesso voglio che lei se ne vada e che ci pensi sopra, da solo. Venga da me domani. Se proprio non riuscirà a conciliare questo lavoro con i suoi dettami morali, le farò avere un congedo senza demeriti, come obiettore di coscienza. Non avrà neppure bisogno di lavorare in cucina. — Maggiore, non arriverei mai a questo punto, le assicuro. Soltanto che non mi pare che... — No, lo dico seriamente. Se una cosa è sbagliata, allora è sbagliata anche l’altra. Non voglio la responsabilità di aver fatto commettere a 115
qualcuno una cosa che potrebbe costituire un peccato per la sua fede. Ora esca, e ci pensi sopra. Ardmore lo congedò senza dargli tempo di ribattere. Calhoun non resisteva più. — Diamine, Maggiore, se lo lasci dire! Ma come, fa parte della sua politica venire a compromessi con la superstizione, quando invece ci sono delle impellenti necessità militari? — No, Colonnello, non è la mia politica... ma questa superstizione, come la chiama lei, è una realtà militare. Il caso di Howe è il primo esempio di una cosa che ci troveremo molte volte di fronte in futuro... l’atteggiamento delle religioni ortodosse nei confronti di quella che abbiamo inventato noi. — Forse — azzardò Wilkie, — era meglio imitare le normali sette religiose. — Forse sì. E forse no. Ci ho pensato anch’io, ma non mi vedevo bene la cosa, non so neanch’io perché. Non riesco a immaginare che uno di noi salti su e pretenda di essere un ministro, ad esempio, di una delle regolari confessioni protestanti. Io non sono affatto un beghino, ma l’idea mi dava fastidio. Probabilmente, andando alla radice dei fatti, la cosa che mi turbava è la stessa cosa che turba Howe. Comunque, è anch’essa una cosa da affrontare. Dobbiamo prendere in considerazione l’atteggiamento delle altre chiese. Non dobbiamo mettere loro i bastoni tra le ruote: dobbiamo fare di tutto per evitarlo. — Forse un modo c’è — suggerì Thomas. — Uno dei dogmi della nostra chiesa potrebbe essere questo: la nostra chiesa accoglie e tollera, o addirittura incoraggia, qualsiasi altra forma di religione cui vogliano aderire i suoi fedeli. E, oltre a questo, teniamo presente un fatto: tutte le organizzazioni ecclesiastiche, soprattutto ora, avrebbero da svolgere 116
molto più lavoro assistenziale di quanto non possano permettersene. Potremmo dare un aiuto finanziario alle altre chiese, senza chiedere nulla in cambio. — Mi paiono due ottime idee — disse Ardmore, — ma sarà una questione delicata. Dovunque sia possibile, sarà meglio arruolare direttamente i sacerdoti e gli altri ministri dei culti regolari. Potete scommettere che ogni americano sarà dalla nostra parte, una volta capito cosa intendiamo fare. Ci sarà soltanto il problema di decidere a chi confidare l’intero segreto. Ora, per quanto riguarda Denver... Jeff, sei disposto a ritornare subito laggiù, magari domani stesso? — E Howe? — Verrà anche lui, credo. — Un momento, Maggiore. Era il dottor Brooks, che fino a quel momento se ne era rimasto a sedere cheto cheto, come era sua abitudine, ad ascoltare i discorsi degli altri. — Credo sia meglio aspettare ancora un giorno o due, fino a che Scheer non avrà fatto certe modifiche alle unità Ledbetter dei bordoni. — Che genere di modifiche? — Ricorda che abbiamo dimostrato sperimentalmente che l’effetto Ledbetter può venire usato come agente sterilizzatore? — Sì, naturalmente. — Ecco perché giocavamo sul sicuro, annunciando che avremmo guarito gli infermi. Anzi, abbiamo un po’ sottovalutato le possibilità del nostro metodo. All’inizio della settimana mi sono inoculato i bacilli del carbonchio... — Carbonchio! Per l’amor di Dio, Dottore, ma che diavolo le è saltato in mente di correre un rischio simile?... 117
Brooks levò lo sguardo mite su Ardmore. — Ma era assolutamente necessario! — spiegò, paziente. — Le prove sulle cavie erano positive, d’accordo, ma occorreva anche una prova su un paziente umano; per poter essere sicuri del metodo. Come dicevo, mi sono infettato con il carbonchio, e ho lasciato che la malattia progredisse; poi mi sono esposto all’effetto Ledbetter. Mi sono irradiato con tutte le frequenze, salvo le bande nocive per i vertebrati a sangue caldo. E la malattia è scomparsa. In meno di un’ora, il naturale equilibrio di anabolismo e catabolismo ha poi eliminato ogni residuo sintomo patologico. E io stavo di nuovo bene. — Alla faccia del bicarbonato! E lei crede che funzionerà altrettanto rapidamente con le altre malattie? — Ne sono certo. Non soltanto ho ottenuto lo stesso risultato con le altre malattie, negli esperimenti da me condotti sugli animali, ma c’è anche un’ulteriore testimonianza: una testimonianza imprevista, anche se scientificamente prevedibile. Negli ultimi giorni ho sofferto di un forte raffreddore con emicrania, come forse qualcuno di voi avrà notato. L’esposizione alle radiazioni mi ha guarito non soltanto del carbonchio, ma anche dei sintomi del raffreddore. Il virus del raffreddore comprende una decina o più di forme note, e probabilmente altrettante forme ignote. L’esposizione le ha uccise tutte, indiscriminatamente. — Sono molto lieto di udire questo suo rapporto, Dottore — rispose Ardmore. — Con il tempo, forse questo singolo sviluppo delle ricerche potrà essere più utile alla razza umana che non tutte le applicazioni militari che possiamo trovare oggi... Ma che peso può avere, nella fondazione di una chiesa a Denver? — Be’, signore, forse non avrà alcun peso. Ma mi sono preso la libertà di dire a Scheer di modificare una delle unità Ledbetter portatili, 118
in modo che ciascuno dei nostri agenti possa agevolmente servirsi di questo effetto terapeutico, anche nel caso non abbia con sé altro equipaggiamento che il bordone. Pensavo che anche lei avrebbe preferito attendere che Scheer riuscisse a modificare nello stesso modo i bordoni che saranno usati da Thomas e Howe. — Sì, credo che lei abbia ragione; purché non richieda molto tempo. Posso vedere le modifiche? Scheer mostrò il bordone che aveva già modificato. Superficialmente, non pareva diverso dagli altri. Un bastone lungo poco meno di due metri, sormontato da un capitello decorato, a forma di cubo di dieci centimetri di lato. Sulle facce del cubo, i colori corrispondevano a quelli delle pareti del grande tempio. La base del cubo e tutta l’impugnatura erano coperte di complessi rilievi in oro, arabeschi, foglie d’acanto... tutto per nascondere i controlli del generatore e del proiettore situati nel capitello cubico. Scheer non aveva cambiato l’aspetto esterno del bordone; si era limitato ad aggiungere un altro circuito, all’interno del cubo: un circuito che faceva oscillare il generatore su tutta la gamma delle frequenze, salvo quelle nocive ai vertebrati. Il circuito modulava l’azione del generatore e del proiettore quando veniva premuta una certa foglia, appartenente alle decorazioni del bastone. Scheer e Graham avevano lavorato insieme per creare il disegno del bordone, e poi l’avevano adattato in modo da ottenere un tutto integrato, in cui l’azione meccanica fosse nascosta dalla mascheratura artistica. Quei due facevano un’ottima coppia. E, in verità, il loro talento era molto vicino: l’artista è per due terzi un artigiano, e l’artigiano, in fondo, è mosso dallo stesso impulso che muove l’artista. — Suggerirei — aggiunse Brooks, una volta terminate le spiegazioni 119
e le dimostrazioni del nuovo dispositivo, — che questo effetto sia attribuito a Tamar, Signora della Misericordia, e che, ogni volta che lo si usa, si accenda la sua luce. — Giusto — disse Ardmore, d’accordo. — Ottima idea. Non usate mai il bordone senza prima avere acceso la luce del colore associato alla specifica divinità che, almeno a quanto diamo a credere, invochiamo perché ci aiuti. Anzi, d’ora in poi consideratela una regola fissa. Lasciamo pure che si rompano la testa nel cercare come faccia, una semplice luce monocromatica, a produrre miracoli. — Ma perché ci preoccupiamo delle smancerie? — domandò Calhoun. — I Panasiatici non possono rilevare le entità fisiche da noi usate, in nessun caso. — Per due buoni motivi, Colonnello. Fornendo loro una falsa traccia, possiamo augurarci che indirizzino le loro ricerche nella direzione sbagliata: non possiamo permetterci di sottovalutare le loro capacità. Ma, cosa ancor più importante, c’è da tener presente l’effetto psicologico sulle persone digiune di scienza, bianche o gialle che siano. La gente pensa che siano prodigiose tutte le cose che hanno un’apparenza prodigiosa. L’americano medio non si stupisce affatto per le meraviglie scientifiche; se le aspetta già, le prende come più che ovvie. Il suo atteggiamento è quello di dire: «Be’, e allora? Quella gente riceve lo stipendio proprio per questo.» «Ma ricamate un po’ con le parole, date un alone di mistero alla cosa, e soprattutto non dite che è scientifica: anche lui rimarrà stupito. È un’ottima forma di pubblicità.» — Bene — disse Calhoun, lasciando cadere l’argomento, — sono certo che lei lo sa meglio di me... è evidente che lei deve avere una notevole esperienza nell’arte di gabbare il prossimo. Io non mi sono 120
mai interessato di problemi come questi; il mio interesse è dedicato alla scienza pura. Se ora lei non ha più bisogno di me, Maggiore, io avrei del lavoro da fare. — Certo, Colonnello, certo! Vada pure, il suo lavoro è d’importanza capitale... — Eppure — continuò, in tono meditabondo, quando Calhoun fu uscito, — non vedo perché la psicologia delle masse non debba essere una disciplina scientifica. Se qualche scienziato si fosse preso la briga di mettere in formule le cose che sanno i venditori e i politici, forse non saremmo finiti in un pasticcio simile. — Penso di poterlo spiegare — disse il dottor Brooks, timidamente. — Eh? Ah, sì, Dottore... cosa intende dire? — La psicologia non è una scienza perché è troppo complicata. Le menti portate per la scienza lavorano in modo ordinato, di solito, e hanno un naturale amore per l’ordine. I campi in cui l’ordine non è immediatamente chiaro danno loro fastidio: tendono a ignorarli. Gravitano verso i campi in cui si possa facilmente trovare l’ordine, ad esempio quelli delle scienze fisiche, e lasciano i campi più complessi a gente che suona a orecchio, per così dire. È per questo che abbiamo una scienza rigorosa della termodinamica, mentre è probabile che dovremo aspettare anni per avere una scienza della psicodinamica. Wilkie si voltò, fissando Brooks negli occhi. — Ma ci credi davvero, Brooksino? — Certo, mio caro Bob. Ardmore batté le nocche sul tavolo. — È un argomento avvincente — disse, — e sarei lieto di continuare la discussione... ma qui sta per piovere, e dobbiamo ancora portare il
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fieno al riparo. Dunque, per la faccenda della costituzione di una chiesa a Denver... qualcuno ha un’idea?
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CAPITOLO SESTO — Sono lieto di non doverlo fare io — disse Wilkie. — Non saprei neppure dove cominciare. — Ah, ma può darsi benissimo che debba farlo anche lei — ribatté Ardmore. — Può darsi che dobbiamo farlo tutti. Accidenti!... Se avessimo a disposizione cento persone su cui contare! Ma non le abbiamo; siamo soltanto nove. Rimase in silenzio per qualche istante, tamburellando con le dita sul tavolo. — Soltanto nove! — ripeté. — Non riuscirà mai a convincere il colonnello Calhoun a recitare la parte del predicatore — commentò Brooks. — Già... quindi soltanto otto. Jeff, quante città ci sono negli Stati Uniti, tra grandi e piccole? — E non potrà servirsi nemmeno di Frank Mitsui — insistette Brooks. — E, sempre per stare nell’argomento, non vedo come possa servirsi di me, con tutta la mia buona volontà. Non ho assolutamente idea di come si faccia a fondare una falsa chiesa: per me sarebbe altrettanto astruso quanto mettermi a insegnare danza classica... — Non se ne faccia un cruccio, Dottore: anch’io sono nelle sue condizioni. Vorrà dire che improvviseremo. Per fortuna non ci sono regole da seguire: possiamo cucinarla come ci pare. — Si, ma come potremo essere convincenti?
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— Non c’è bisogno di essere convincenti... non nel senso di operare conversioni, almeno. Anzi, le vere conversioni potrebbero risultare un fastidio. Ci basterà essere abbastanza convincenti da sembrare una religione legittima agli occhi dei dominatori. E questo non richiede di esserlo molto. Tutte le religioni, viste dall’esterno, paiono ugualmente insensate. Prendiamo ad esempio i... A questo punto, Ardmore si accorse che Scheer gli lanciava un’occhiataccia. — Oh, mi spiace! — si affrettò ad aggiungere. — Non volevo offendere le convinzioni di nessuno. Comunque, si tratta di una realtà: una realtà che noi sfrutteremo militarmente. Prendiamo uno qualsiasi dei misteri religiosi, una qualsiasi affermazione teologica; espressa in parole ordinarie, a un profano, sembrerà un’assurdità: dalla consumazione rituale e simbolica della carne e del sangue umani, praticata dal Cattolicesimo, al puro e semplice cannibalismo praticato da alcuni selvaggi. «Aspettate a protestare — seguitò. — Non cominciate a lapidarmi. Non intendo pronunciare giudizi su questa o su quella religione o pratica religiosa; voglio soltanto farvi notare che siamo liberi di fare tutto ciò che vogliamo, purché diciamo che è una pratica religiosa e purché non pestiamo i piedi alle scimmie gialle. Ma faremmo meglio a decidere subito cosa diremo e cosa faremo.» — Non sono le panzane che racconteremo, a preoccuparmi — disse Thomas. — Io mi sono limitato a dire assolute banalità con parole altisonanti, e tutto è andato per il meglio. Mi preoccupa invece come stabilire teste di ponte nelle città. Non abbiamo persone a sufficienza per farlo, tutto qui. È questo, che lei intendeva dire nel chiedermi quante città ci sono negli Stati Uniti, grandi e piccole? 124
— Uhm, si. Non possiamo agire... non osiamo agire, fino a che non avremo coperto gli Stati Uniti come un lenzuolo. Prepariamoci mentalmente a una guerra lunga. — Però, Maggiore, perché vuole avere una base in ogni città? Ardmore parve interessato. — Continua. — Ecco — proseguì Thomas, un po’ intimidito, —da quanto sappiamo, i Panasiatici non tengono vere e proprie forze militari in ogni villaggio. Hanno messo delle guarnigioni in un certo numero di punti importanti: tra i sessanta e i settanta capoluoghi. Nella maggior parte delle città c’è soltanto un funzionario, che è insieme esattore delle tasse, sindaco e capo della polizia: provvede a far eseguire gli ordini che gli invia la Mano Imperiale. Questo capoccia locale non è neppure un soldato nel vero senso della parola, anche se gira armato e indossa l’uniforme. Credo che potremmo permetterci di ignorare questo tipo di funzionari: il loro potere non durerebbe cinque minuti, se non fossero spalleggiati dalle truppe che stazionano nelle città di guarnigione. Ardmore annuì. — Capisco — disse. — Tu pensi che dovremmo puntare sulle città di guarnigione, e ignorare le altre. Però, Jeff... non dobbiamo sottovalutare il nemico. Se il grande dio Mota si mostra soltanto nelle città sede di guarnigione militare, la faccenda sembrerà molto strana agli ufficiali Panasiatici del servizio informazioni, una volta che si mettano a controllare le statistiche della nazione occupata. Credo che dovremo farci vedere un po’ dappertutto. — E io sostengo rispettosamente che non possiamo farlo, signore. Non abbiamo abbastanza uomini per mandare in porto la cosa. Sarà già molto difficile reclutare e addestrare abbastanza uomini per fondare un 125
tempio in ciascuna città presidiata. Ardmore si mangiava le unghie e pareva frustrato. — Forse hai ragione — disse. — Ma, accidenti, se rimaniamo qui seduti a preoccuparci delle difficoltà, non concluderemo mai nulla. Dicevo che dovevamo improvvisare, ed è cosi che faremo. Per prima cosa, occorre stabilire a Denver un nostro quartier generale. Jeff, cosa credi ti occorrerà? Thomas corrugò la fronte. — Non saprei — disse. — Denaro, immagino. — Per il denaro — intervenne Wilkie, — nessun fastidio. Quanto te ne occorre? Posso fabbricarti una tonnellata d’oro con la stessa facilità con cui posso fabbricartene un etto... — Penso che venti chili sia il massimo che posso portarne addosso. — Non credo che riuscirà a cambiare facilmente l’oro in lingotti — commentò Ardmore. — Dovrà essere in monete. — No — obiettò Thomas, — l’oro in lingotti va benissimo. Basta portarlo alla Banca Imperiale. L’estrazione dell’oro è incoraggiata dai Panasiatici: i nostri graziosi padroni speculano da pazzi sul rapporto di conversione. Ardmore scosse il capo. — Dimentichi l’aspetto pubblicitario della faccenda. Un sacerdote con le vesti lunghe e la barba fluente non può andare in giro con il libretto degli assegni e la penna stilografica: non sarebbe in carattere. E poi, in ogni caso, non voglio che tu abbia un conto in banca. Fornirebbe al nemico un rendiconto dettagliato di quello che fai. Tu devi pagare con bellissime, luccicanti monete d’oro: pile di monete d’oro. Farà una magnifica impressione. Scheer, lei sarebbe capace di contraffare monete? — Non saprei, signore; non ho mai provato. 126
— Allora è il momento buono per cominciare. A tutti fa comodo un’attività per il tempo libero. Jeff, non hai avuto occasione di procurarti una moneta d’ oro dell’Impero? Ce ne occorre una come modello. — Purtroppo non ne ho. Ma penso di potermene procurare una, dicendo ai nomadi che mi occorre. — Non voglio perdere tempo. Ma occorre denaro, per andare a Denver. — Deve proprio trattarsi di una moneta dell’Impero? — chiese il dottor Brooks. — Come? Il biologo si levò di tasca una moneta d’oro da cinque dollari. — È un portafortuna che conservo da quando ero ragazzo. Penso che sia un momento fortunato per separarmene. — Uhm... Cosa ne dici, Jeff? Credi di poter spacciare denaro americano? — Be’, le banconote americane non valgono più niente, ma le monete d’oro... Si, credo che quelle sanguisughe non protesteranno, se si tratta di oro. Almeno al prezzo dell’oro in lingotti. E sono sicuro che gli americani le prenderanno in ogni caso. — Non curiamoci del rapporto di conversione che applicheranno. — Ardmore prese la moneta e la passò a Scheer. — Quanto tempo le occorre per farne una ventina di chili? Il sergente osservò attentamente la moneta. — Non molto, se le produco per fusione invece di coniarle. Le vuole tutte identiche, signore? — Perché, c’è qualche motivo per farle diverse? — Be’, signore, c’è la faccenda della data.
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— Oh, capisco. Ma è l’unico modello che abbiamo; mi auguro che la gente non lo noti, o, se lo nota, che non se ne curi... — Se mi dà un po’ di tempo in più, non molto, posso pensarci io, signore. Potrei fare una ventina di stampi come questa moneta, e poi, lavorando un po’ a mano, potrei mettere su ciascuno una data diversa. Cosi avrei venti diversi modelli, invece di uno soltanto. — Scheer, lei ha l’anima di un artista. Faccia come dice. E, mentre è al lavoro, cerchi di fare graffi e segni vari sulle monete. — Ci avevo già pensato, signore. Ardmore sogghignò. — Vedrete che la nostra squadra darà dei feroci grattacapi a Sua Sgradevolezza Imperiale. Allora, Jeff, che te ne pare? Qualche altro particolare da chiarire, prima di aggiornare la seduta? — Una cosa soltanto, Capo. Come faccio ad arrivare a Denver? Anzi, come facciamo ad arrivarci, ammesso che Howe mi accompagni? — Già, mi aspettavo questa domanda. È un po’ un pasticcio; non possiamo pretendere che la Mano Imperiale vi fornisca un elicottero... Come ti senti le gambe? Hai i piedi piatti? Calli? Occhi di pernice? — Preferisco venire bastonato, piuttosto che andare a piedi. C’è un mucchio di strada. — Non ti so dare torto. E il brutto è che si tratta di un problema destinato a ripetersi, se vogliamo estendere la nostra organizzazione su tutto il paese. — Non vedo il problema — intervenne Brooks. — Pensavo che i cittadini potessero ancora viaggiare con qualsiasi veicolo, tranne gli aerei. — Sicuro... con il permesso e con un mucchio di formalità burocratiche. Comunque — proseguì Ardmore, — verrà un giorno in cui il 128
costume di un sacerdote di Mota sostituirà qualsiasi permesso di viaggio che possiamo immaginare. Se non commetteremo sbagli, tra qualche tempo saremo i beniamini della signora maestra, con diritto ad ogni sorta di privilegi esclusivi. Intanto, però, c’è sempre il problema di portare Jeff a Denver, senza richiamare spiacevolmente l’attenzione e senza consumargli le piante dei piedi. Ehi, Jeff, non mi hai detto in che modo hai viaggiato la scorsa volta. Chissà perché, ci siamo dimenticati di parlarne. — Con l’autostop. Ed è stata una faticaccia, anzi. Molti camionisti hanno paura della polizia, non vogliono correre il rischio di offrire passaggi. — Hai davvero fatto l’autostop, Jeff? Non lo avresti dovuto fare! I sacerdoti di Mota non fanno l’autostop. Non va molto d’accordo con la produzione di miracoli. — Perché, cosa fanno i sacerdoti di Mota? Accidenti, Maggiore, se fossi andato a piedi, sarei ancora in cammino adesso... anzi, probabilmente sarei stato arrestato da qualche faccia di limone che non aveva ancora saputo le ultime notizie. Il volto di Jeff Thomas mostrava un’irritazione che non gli era affatto normale. — Scusa — disse Ardmore. — Non dovrei farti critiche retrospettive di questo genere. Ma dovremo studiare un modo migliore. — Perché non lo portiamo giù con un ricognitore? — chiese Wilkie. — Di notte, naturalmente. — La notte non significa niente per il radar, Bob. Ci sbatterebbero a terra a cannonate. — Non credo. Abbiamo a disposizione un quantitativo d’energia quasi illimitato... a volte spaventa perfino me, se ci penso. Credo di poter costruire un dispositivo che, quando viene colpito dalle onde del 129
radar, invia nella direzione dell’onda una scarica d’energia capace di bruciare il trasmettitore. — Bravo! Così il nemico scopre che c’è ancora qualcuno capace d’imbastire trucchi con l’elettronica? Non dobbiamo svelare cosi presto le carte che abbiamo in mano, Bob. Wilkie ammutolì, abbassando la testa. — O forse conviene rischiare? — fece poi Ardmore, dopo averci riflettuto. — Monti pure il suo dispositivo, Bob... ma si tenga a bassa quota per tutto il volo. Faremo il viaggio verso le tre o le quattro del mattino, e forse nessuno ci noterà. Userà il dispositivo antiradar, se sarà necessario; ma, se lo userà, dovrà riportare tutti alla base, immediatamente. L’incidente non dovrà essere ricollegato in alcun modo ai sacerdoti di Mota: neppure indirettamente, come potrebbe succedere se qualcuno notasse che un sacerdote è entrato in città alla stessa data dell’incidente. Questo vale anche per quando Wilkie ti avrà lasciato a terra, Jeff. Se dovessero sorprenderti, usa l’effetto Ledbetter per uccidere tutti i nemici che si trovano nei tuoi paraggi, e datti alla macchia. Nasconditi tra i nomadi. In nessun caso i Panasiatici dovranno sospettare che i sacerdoti di Mota sono qualcosa di diverso da quello che sembrano. Uccidi tutti i testimoni oculari, e scappa. — Giusto, Capo. Il piccolo ricognitore atterrò sul Monte Belvedere, a pochi metri dalla tomba di Buffalo Bill. Il portello si spalancò: si affacciò un sacerdote dalla lunga veste, che poi saltò a terra, inciampando sotto il peso della cintura carica di monete che gli cingeva vita e spalle. Una figura vestita allo stesso modo lo seguì, atterrando con passo più sicuro. — Tutto a posto, Jeff? 130
— Certo. Wilkie inserì il pilota automatico, si sporse e disse: — Buona fortuna! — Grazie; ma adesso chiudi tutto, e fila. — Va bene. Il portello si richiuse, e il ricognitore sparì nella notte. Albeggiava quando Thomas e Howe raggiunsero la base della montagna ed entrarono nella periferia di Denver. Erano sicuri di non essere stati scoperti, finora, anche se, in un’occasione, si erano dovuti nascondere nei cespugli per alcuni minuti, trattenendo il respiro, mentre passava una pattuglia. Jeff aveva tenuto pronto il bordone, il dito appoggiato su una decorazione dorata a forma di foglia, sotto il cubo di Mota. Ma la pattuglia aveva proseguito per la sua strada, ignara dei fulmini puntati su di essa. Giunti in città quando ormai era giorno, non badarono più a non richiamare l’attenzione. A quell’ora c’erano in giro pochi Panasiatici: i membri della razza degli schiavi si affrettavano lungo la strada, diretti alle loro fatiche quotidiane, ma la razza dei padroni dormiva ancora. Gli americani che videro i due sacerdoti li fissarono, stupiti, ma subito distolsero lo sguardo, senza fermarli e senza cercare di parlare loro. Avevano già imparato la prima legge degli stati di polizia: «Fatti gli affari tuoi, e non ficcare il naso.» Jeff cercò deliberatamente un incontro con un poliziotto Panasiatico. Lui e Alec scesero dal marciapiede, accesero lo scudo, e attesero. Non c’erano americani nei paraggi: la presenza di un poliziotto consigliava loro di tenersi al largo. Jeff si umettò le labbra e disse: — Lascia parlare a me, Alec. — D’accordo. 131
— Eccolo che arriva. Santo Cielo, Alec, accendi l’aureola! — Eh? — Howe infilò un dito nel turbante, dietro l’orecchio destro: l’aureola — un cerchio di luce guizzante, con i colori dell’iride — gli circondò il capo. Si trattava di un semplice effetto di ionizzazione, un trucco da salotto con gli spettri addizionali, meno misterioso che un’aurora naturale... ma faceva un ottimo effetto. — Così va meglio — annuì Jeff, parlando a fior di labbra. — Cos’ha la tua barba? — Comincia a staccarsi. Sono sudato. — Accidenti, non lasciare che si stacchi proprio adesso! Ecco il nostro amico poliziotto... Thomas assunse la posa della benedizione, e Howe lo imitò. Jeff intonò: — La pace sia con voi, Padrone! Il poliziotto asiatico si fermò. Le sue nozioni d’inglese si limitavano alle parole: «Fermo!», «Seguimi!» e «Documenti!»; per far rigare dritto i cani bianchi, si affidava soprattutto al manganello. Tuttavia aveva riconosciuto l’abbigliamento: corrispondeva al disegno e all’avviso recentemente comparsi nella bacheca della caserma... era una delle varie stupidaggini che gli schiavi potevano ancora fare. Comunque, uno schiavo era sempre uno schiavo, e doveva rigare dritto come gli altri. Tutti gli schiavi dovevano chinare il capo, e questi due non l’avevano chinato. Il poliziotto calò il manganello contro il diaframma dello schiavo più vicino. Il manganello rimbalzò indietro prima ancora di sfiorare la veste dell’uomo; il poliziotto provò un forte dolore alle dita, come se avesse sferrato un colpo su un oggetto molto duro.
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— La pace sia con voi! — scandì di nuovo Jeff, e fissò attentamente il poliziotto. L’asiatico era armato di pistola a vortice: Jeff non temeva l’arma, ma preferiva che l’altro non scoprisse la sua immunità nei confronti delle armi Imperiali. Già rimpiangeva di essersi dovuto servire dello scudo per parare la manganellata, e si augurava che l’altro non volesse credere ai suoi stessi sensi. E infatti, a dire il vero, il poliziotto era sbalordito. Fissò il manganello, lo strinse come per colpire di nuovo... poi cambiò idea. Fece ricorso a quel poco d’inglese che conosceva. — Seguimi! Jeff alzò di nuovo la mano. — La pace sia con voi! Non è decoroso che lo zagufo si metta a sbrendolare un umile ruffidello sotto gli occhi del grande Signore Mota. Stinfiami! — E indicò Howe. Il poliziotto parve perplesso, poi si allontanò di qualche passo, fino all’angolo; guardò lungo la strada e si portò alle labbra il fischietto. Alec bisbigliò: — Perché hai indicato me? — Non so: mi pareva una buona idea... Attento! Un altro poliziotto arrivava trotterellando. Si uni al primo, ed entrambi ritornarono da Thomas e Howe. Il nuovo arrivato doveva essere un superiore del primo; confabularono brevemente nel solito linguaggio cantilenante, poi il secondo poliziotto si accostò, estraendo la pistola. — Ehi, voi due! Seguitemi, presto. — Andiamo, Alec. Thomas si avviò con i poliziotti, e, nello stesso tempo, spense lo schermo. Si augurò che Alec avesse notato il suo gesto e che lo avesse 133
imitato. Era meglio non dare troppa pubblicità all’esistenza di quella protezione... almeno per il momento. I Panasiatici li condussero al più vicino posto di polizia. Jeff camminava spedito, impartendo untuose benedizioni a tutto e a tutti. Come furono nei pressi del posto di polizia, il poliziotto più alto in grado ordinò all’altro di precederlo. Quando giunsero anche loro, trovarono ad aspettarli sulla soglia l’ufficiale di picchetto: pareva molto curioso di vedere l’insolita preda che i suoi uomini avevano catturato. L’ufficiale, oltre a essere incuriosito, era anche molto all’erta, poiché conosceva le circostanze che avevano visto ricongiungersi con gli antenati lo sfortunato tenente che per primo aveva incontrato questa strana specie di santoni. E lui non intendeva fare un errore che avrebbe comportato una perdita di faccia. Jeff si diresse verso di lui, assunse la solita posa della benedizione e disse: — La pace sia con voi! Padrone, devo presentare una protesta contro i vostri servitori. Ci hanno distolto dalla nostra santa opera: opera che è benedetta da Sua Altezza Serena, la Mano Imperiale stessa! L’ufficiale accarezzò il frustino, poi parlò ai subordinati, nella loro lingua. Infine si volse nuovamente a Jeff: — Chi sei? — Un sacerdote del grande Signore Mota. Il Panasiatico rivolse la stessa domanda ad Alec, e Jeff intervenne: — Padrone — si affrettò a dire, — è un uomo molto santo, che ha fatto voto di silenzio. Se lo costringete a infrangere il voto, il suo peccato cadrà su di voi. L’ufficiale esitò. Il comunicato che riguardava questi pazzi selvaggi era molto preciso, ma non forniva nessun chiaro precedente sul modo di 134
trattare con loro. E lui non aveva intenzione di costituire un precedente: coloro che così facevano, qualche volta venivano promossi, ma, il più delle volte, andavano a raggiungere i loro antenati. — Non c’è bisogno che rompa il suo voto religioso. Mostratemi la carta, tutt’e due. Jeff lo fissò con stupore. — Noi siamo umili sacerdoti senza nome, che servono il grande Signore Mota. Che abbiamo a che fare, noi, con questo genere di cose? — Sbrigatevi! Jeff cercò di apparire rattristato, più che innervosito. Tra sé e sé, aveva già provato varie volte il discorsetto da fare all’ufficiale: molto dipendeva dalla sua riuscita. — Mi dispiace per voi, giovane Padrone. Pregherò Mota per voi. Ma ora sono costretto a chiedervi di condurmi alla presenza della Mano dell’Imperatore... subito! — È impossibile. — Sua Altezza mi ha già ricevuto in precedenza; mi riceverà ancora. La Mano dell’Imperatore è sempre disposta a ricevere i servitori del grande Signore Mota. L’ufficiale lo fissò, poi gli voltò le spalle e sparì all’interno del posto di polizia. Attesero. — Credi che ci farà portare davvero alla presenza del principe? — bisbigliò Howe. — Spero di no. Non credo. — Be’, come ti comporterai, se lo farà? — Mi comporterò come devo comportarmi. E stai zitto... non hai fatto voto di silenzio? L’ufficiale tornò dopo alcuni minuti, e disse seccamente: 135
— Potete andare. — Dalla Mano Imperiale? — chiese Jeff, malignamente. — No, no! Andare via. Toglietevi dalla mia zona. Jeff fece un passo indietro, e gl’impartì un’ultima benedizione. I due «sacerdoti» si voltarono e si allontanarono. Con la coda dell’occhio, Jeff vide l’ufficiale alzare il frustino e calarlo rabbiosamente sul viso del poliziotto più alto in grado; finse di non vedere. Prima di rivolgersi nuovamente a Howe, attese di avere percorso quasi tutto l’isolato. — Ecco fatto! — disse. — Adesso non ci daranno più fastidio per un pezzo. — Ne sei sicuro? Quel tipo sarà furioso con noi. — Non è questo il punto. Non possiamo permetterci che lui o un altro poliziotto creda di poterci trattare come gli altri. Prima ancora che ci siamo allontanati tre isolati dal posto di polizia, si sarà già sparsa la voce, in tutta la città, che siamo qui, e di non darci fastidio. Ed è proprio così, che devono andare le cose. — Mah, forse sì. Comunque, mi pare pericoloso, se i poliziotti sono in allarme sul nostro conto. — Tu non capisci — fece Jeff, spazientito. — Non c’è altro modo di farlo. I piedipiatti sono sempre dei piedipiatti, indipendentemente dal colore della pelle. Essi si basano esclusivamente sulla paura, e capiscono soltanto la paura. Una volta compreso che non possono toccarci, che è molto pericoloso toccarci, ci tratteranno con la stessa cortesia che riservano per i loro superiori. Vedrai. — Mi auguro che tu abbia ragione. — Ho ragione. I poliziotti sono poliziotti. Tra poco li avremo sul nostro libro paga. Oh, oh! Attento, Alec... ne arriva un altro.
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Un poliziotto Panasiatico trotterellava dietro di loro. Ma, invece di raggiungerli o di gridare di fermarsi, attraversò la strada e camminò alla loro altezza, tenendosi sul marciapiede opposto. Fingeva ostentatamente di non vederli. — Cosa pensi che sia, Jeff? — Abbiamo l’accompagnatore ufficiale: lo chaperon! Buon segno, Alec... vuol dire che le altre scimmie non ci daranno più noia. Possiamo cominciare il nostro lavoro. Tu conosci bene la città, no? Dove credi sia meglio collocare il nostro tempio? — Dipende da quello che cerchi. — Mah, non saprei dirlo neppure io. — Si fermò per asciugarsi il sudore dal volto. La veste teneva caldo, e la cintura piena di denaro era pesante. — Adesso che ci sono dentro — riprese, — tutta la faccenda mi pare una sciocchezza. Credo di non essere nato per fare l’agente segreto... Cosa ne diresti di cercare nella parte ovest della città, la zona residenziale di lusso? Dobbiamo fare una grande impressione. — No, non sono d’accordo, Jeff. Adesso quella zona è abitata esclusivamente da due generi di persone. — Si? — I Panasiatici e i traditori... borsari neri e collaborazionisti. Thomas fece una faccia stupita. — Devo essere stato fuori circolazione troppo a lungo, Alec. Ti confesso che fino a questo istante non mi era ancora venuto in mente che un americano... un americano!... potesse mettersi con gli invasori. — Be’, non lo avrei creduto nemmeno io, se non l’avessi visto con i miei occhi. Ma c’è gente capace di tutto: nascono ruffiani...
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Scelsero un magazzino vuoto, nel centro della città, vicino al fiume: era un quartiere povero e popoloso. Già prima della disfatta non era mai stata una zona ricca; adesso era depressa. Tre quarti delle botteghe erano chiuse; il commercio era fermò. L’edificio era uno dei molti magazzini vuoti; Thomas lo scelse sia perché la sua forma, quasi cubica, ricordava quella della Chiesa Madre e del cubo in cima al bordone, sia perché non confinava con nessun altro edificio: da una parte c’era un vicolo, e dall’altra una fascia di terreno incolto. La porta che dava sulla strada era rotta. Sbirciarono nell’interno, poi entrarono e si guardarono intorno. Dentro, c’erano rottami e immondizie, ma le tubature erano intatte, e le pareti erano robuste. A pianterreno c’era un singolo vano, con un soffitto alto sei metri e con pochi pilastri: sarebbe stato molto utile per il «culto». — Mi pare che vada — si disse Jeff. Un topo saltò fuori da un mucchio d’immondizie accatastato contro la parete. Quasi distrattamente, Jeff gli puntò contro il bordone: il topo fece un balzo e cadde, stecchito. — Come si fa a comprare questo magazzino? — chiese ad Alec. — Gli americani non possono essere proprietari di un edificio. Occorre trovare il funzionario che ci ruba sopra. — Non dovrebbe essere difficile. Uscirono; il loro «accompagnatore» della polizia era sempre in attesa, dall’altra parte della strada. Fingeva di guardare altrove. Le strade erano abbastanza affollate, ormai, anche in quella zona povera. Thomas allungò il braccio e fermò un ragazzino che passava: non doveva avere più di dodici anni, ma aveva già negli occhi un’espressione amara e disincantata, cinica, da adulto. — La pace sia con te, figliolo. Chi può affittarci questo edificio? — Ehi, lasciami andare! 138
— Non intendo farti del male — e tese al ragazzino una delle ottime monete d’oro da cinque dollari fabbricate da Scheer. Il ragazzo diede un’occhiata alla moneta e poi alzò gli occhi su di loro, per fermare infine lo sguardo sul poliziotto asiatico fermo dall’altro lato della strada. Il poliziotto pareva guardare da tutt’altra parte; il ragazzo fece sparire la moneta. — Andate da Konsky. È lui che ha le mani in pasta in questo genere di faccende. — Chi è Konsky? — Tutti sanno chi è Konsky. Ehi, nonno, cosa ti è venuto in mente di mascherarti cosi? Gli occhi a mandorla ti faranno avere delle grane. — Sono un sacerdote del grande Signore Mota. Il Signore Mota si prende cura dei suoi servitori. Accompagnaci da questo Konsky. — Niente da fare. Non voglio mettermi nei pasticci con gli occhi a mandorla. Il ragazzo cercò di divincolarsi; Jeff lo tenne saldamente per il braccio, e gli mostrò una seconda moneta. Senza dargliela. — Non avere timore. Il Signore Mota proteggerà anche te. Il ragazzino guardò la moneta, si guardò intorno, e disse: — D’accordo. Venite con me. Li condusse al termine dell’isolato, fece loro girare l’angolo, e indicò loro un ufficio collocato al primo piano, sopra uno spaccio di alcolici, in una vecchia casa priva di ascensore. — Se c’è, è lassù. Jeff regalò al ragazzo la seconda moneta e gli disse di tornare a trovarlo, al magazzino, perché il Signore Mota aveva altri doni per lui. Mentre salivano le scale, Alec gli chiese se la giudicava una mossa saggia.
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— Il ragazzo è a posto — disse Jeff. — Certo, le esperienze lo hanno fatto diventare un monellaccio, non lo nego. Ma è dalla nostra parte. Ci farà un’ottima pubblicità... e non con i Panasiatici. Konsky risultò essere un uomo vagamente sospettoso. Fu subito chiaro che «aveva conoscenze», ma parlò poco finché non vide il colore dorato delle monete. Da quel momento in poi, le strane vesti e lo strano contegno dei suoi clienti non parve imbarazzarlo minimamente (Thomas gli somministrò il trattamento completo, con mucchi di benedizioni: era certo che Konsky non se ne faceva niente, ma lui doveva rimanere in carattere). Konsky si fece dire con esattezza l’edificio che intendevano affittare, contrattò sulla pigione e la bustarella — la chiamò «spese per servizi speciali» — e poi li lasciò. Thomas e Howe furono lieti di essere rimasti soli. Essere un «sant’uomo» comportava degli svantaggi; non avevano mangiato nulla da quando avevano lasciato la Cittadella. Jeff tirò fuori alcuni panini da una tasca interna della veste: li mangiarono in fretta. Inoltre, cosa quanto mai apprezzabile, nell’ufficio di Konsky c’era anche la toletta. Tre ore dopo erano in possesso di un documento, la cui traduzione inglese affermava che il Celeste Imperatore si era graziosamente compiaciuto di concedere ai suoi fedeli sudditi eccetera eccetera l’uso del magazzino, con pagamento anticipato della pigione. In cambio di un’altra sproporzionata somma di denaro, Konsky s’impegnò a procurare gli uomini che avrebbero ripulito il locale, quel giorno stesso, e promise di far riparare certi guasti. Jeff lo ringraziò e, con un’espressione imperturbabile sul volto, lo invitò ad assistere al primo servizio divino che sarebbe stato officiato nel nuovo tempio. Ritornarono al magazzino. Appena fuori portata delle orecchie di Konsky, Jeff disse: 140
— Sai, Alec, dovremo servirci spesso di quel bel tipo... ma quando verrà il momento, be’, avrò una certa lista nera, e il primo nome sarà il suo. Voglio occuparmene personalmente. — Facciamo a metà — fu il solo commento di Howe. Il monello di prima balzò fuori dal niente, mentre i due entravano nel magazzino. — Altre commissioni, nonno? — Che tu sia benedetto, figliolo. Si, parecchie. Vi fu un’altra transazione commerciale, poi il ragazzino se ne andò per procurare brande, materassi e coperte. Jeff lo guardò allontanarsi, e disse: — Penso che riuscirò a farne un ottimo chierichetto. Può andare in posti dove noi non possiamo andare, fare cose che noi non possiamo fare... ed è improbabile che i poliziotti fermino una persona della sua età. — Meglio non fidarsene troppo. — Infatti. Per quanto ne saprà lui, noi siamo due vecchi matti, fermamente convinti di essere sacerdoti del grande dio Mota. Non ci possiamo permettere di fidarci di nessuno, Alec, prima di esserne assolutamente sicuri. Dai, mettiamoci al lavoro... uccidiamo i topi prima che arrivino gli uomini delle pulizie. Vuoi che controlli i comandi del tuo bordone? Al cader della notte, il Primo Tempio di Denver del Signore Mota era già una realtà, anche se aveva ancora l’aspetto di un magazzino, e anche se non aveva ancora fedeli. Il posto esalava odore di disinfettanti, ma i rottami e l’immondizia erano spariti, e la porta aveva la serratura. C’erano due brande per dormire, e vettovaglie sufficienti per un paio di settimane a due uomini.
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Il loro chaperon appartenente alle forze di polizia era ancora dall’altra parte della strada. I poliziotti non li persero di vista per quattro giorni. Due volte, una pattuglia venne a frugare da cima a fondo il magazzino. Thomas lasciò fare; non c’era niente da nascondere, per il momento. I bordoni costituivano ancora la loro unica fonte d’energia, e l’unico comunicatore Ledbetter che avevano con sé era quello che dava un aspetto vagamente gibboso alle spalle di Howe durante il giorno. Howe portava il comunicatore, mentre Thomas portava la cintura del denaro. Intanto avevano acquistato, per mezzo di Konsky, un’automobile grossa e potente... e il permesso di guidarla, anzi di farla guidare da un autista, entro il territorio sottoposto alla giurisdizione della Mano. Le «spese per servizi speciali» furono altissime. L’autista che assunsero, però, non venne ingaggiato per mezzo di Konsky: lo trovarono per vie traverse, servendosi di Peewee Jenkins, il ragazzino che li aveva aiutati il primo giorno. La sorveglianza poliziesca cessò verso il mezzogiorno del quarto giorno. Quel pomeriggio, Jeff lasciò le consegne a Howe e ritornò alla Cittadella in auto. Quando fece ritorno in città, era accompagnato da Scheer, che aveva un’aria molto sperduta e assolutamente fuori di carattere nei paramenti sacerdotali e nella barba fluente. Scheer portava con sé un bauletto cubico, con le facce smaltate nei colori di Mota: una volta entrato in magazzino e chiusasi accuratamente la porta alle spalle, aprì con ogni cura il bauletto; seguì una procedura molto particolare, per evitare che esplodesse, uccidesse loro tre e demolisse l’edificio. Poi cominciò a darsi da fare sull’«altare», costruito da poco. Terminò poco dopo la mezzanotte; rimaneva ancora qualche lavoro all’esterno della 142
costruzione: Thomas e Howe rimasero di sentinella, pronti a stordire, o a uccidere, se necessario, per evitare che il lavoro del sergente subisse interruzioni. La mattina successiva, il sole scintillò su una facciata verde smeraldo; le altre pareti erano rossa, dorata e color azzurro cielo. Il tempio di Mota era pronto ad accogliere i fedeli... e gli altri. E, cosa più importante, soltanto un uomo di razza caucasica, vale a dire bianca, poteva varcarne la soglia impunemente. Un’ora prima dell’alba, Jeff si era già piazzato sulla porta d’ingresso, e aspettava, innervosito. L’improvvisa trasformazione avrebbe richiamato certamente un’altra pattuglia; se necessario, doveva fermarli, stordirli, o addirittura ucciderli... ma non poteva permettere un’ispezione. Si augurava di poterli dissuadere senza troppa fatica; il tempio doveva venire considerato come un luogo riservato esclusivamente alla razza degli schiavi. Ma sarebbe bastato un eccesso di zelo da parte di un tirapiedi per costringerlo a usare la forza, annullando così la possibilità di una penetrazione pacifica. Howe gli venne alle spalle: Thomas trasalì. — Ah... Alec! Non arrivarmi alle spalle in questo modo. Ho già i nervi a fior di pelle... — Oh, scusa. C’è il maggiore Ardmore in linea. Vuole sapere come te la cavi. — Parlagli tu. Io non posso lasciare la porta. — Vuole anche sapere quando Scheer sarà di ritorno alla Cittadella. — Digli che lo rimanderò lassù non appena sarò certo che possa uscire da questa porta senza fastidi, e non un minuto prima. — D’accordo. — Howe se ne andò. Jeff riportò gli occhi sulla strada, e si sentì rizzare i capelli. Un Panasiatico in uniforme fissava l’edificio, 143
incuriosito. L’asiatico rimase immobile per un istante, poi si allontanò con il passo trotterellante che tutti i poliziotti orientali ostentavano quando erano di servizio. — Mota, vecchio mio — disse Jeff tra sé e sé. — È il momento di fare il tuo dovere. Meno di dieci minuti dopo, arrivò una squadra di poliziotti, comandata dallo stesso ufficiale che aveva già perquisito l’edificio in precedenza. — Fatti da parte, Sant’Uomo. — No, Padrone — disse Jeff, con fermezza. — Ora il tempio è consacrato. Nessuno può entrare, salvo i fedeli del Signore Mota. — Non recheremo alcun danno al tuo tempio, Sant’Uomo. Fatti da parte. — Padrone, se voi entrerete, non potrò salvarvi dalla collera del Signore Mota. E non potrò salvarvi neppure dalla collera della Mano Imperiale. — Prima che l’ufficiale potesse riflettere su quelle parole, Jeff continuò, in fretta: — Il Signore Mota aspettava già questa visita, e vi porge il suo saluto. Egli ha incaricato me, suo umile servitore, di farvi tre doni. — Doni? — Per voi... — e Jeff gli tese una pesante borsa. — Per il vostro ufficiale superiore, sia benedetto il suo nome... — e fu il turno di una seconda borsa, —... e per i vostri uomini. — Aggiunse una terza borsa; il Panasiatico dovette usare entrambe le mani per reggerle. Restò immobile un attimo. Non poteva avere dubbi sul contenuto delle borse, anche soltanto dal peso. Lì dentro c’era più oro di quanto ne avesse mai visto in tutta la vita. Si girò, rivolse seccamente un ordine ai suoi uomini, e se ne andò. Riapparve Howe. 144
— Com’è andata, Jeff? — Bene, almeno per questa volta. — Thomas osservò la squadra che s’allontanava. — I poliziotti sono sempre uguali, in tutte le parti del mondo. Mi ricorda un tale che conoscevo una volta, della polizia ferroviaria. — Credi che spartirà il denaro come gli hai suggerito? — I suoi uomini non ne avranno, questo è certo. Può darsi che lo spartisca con il superiore, per tenerlo tranquillo. Scommetto che troverà il modo di fare scomparire la terza borsa prima ancora di essere arrivato al posto di polizia. Mi chiedo soltanto una cosa: sarà onesto, come politico? — Cioè? — «Un uomo politico onesto è quello che continua a lasciarsi corrompere.» Dai, Alec, cominciamo a prepararci: dobbiamo ricevere i primi clienti della giornata. Quella sera tennero i primi servizi divini. Non erano gran cosa, come servizi divini, soprattutto perché Jeff non sentiva molto la parte. Si attennero ai buoni vecchi princìpi dell’Esercito della Salvezza: cantare un inno e mangiare un pasto. Ma il pasto consisteva di una buona bistecca e di pane bianco... e i beneficiati non ne assaggiavano da vari mesi.
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CAPITOLO SETTIMO — Pronto? Pronto? Jeff, sei tu? Mi senti? — Sicuro che la sento, Maggiore. Non gridi. — Vorrei che questi maledetti arnesi fossero dei veri visifoni. Mi piace guardare in faccia una persona, quando le parlo. — Se fossero dei veri visifoni, i nostri amici asiatici potrebbero ascoltarci. Perché non chiede a Bob e al colonnello di aggiungere un circuito video? Scommetto che sarebbero capaci di farlo. — Bob ha già preparato il progetto, Jeff, ma Scheer è talmente occupato a costruire pezzi da installare negli altari che non oso chiedergli di farlo. Pensi di poter reclutare qualche assistente per Scheer? Un paio di meccanici e un radiotecnico andrebbero bene. Il lato «costruzione e montaggio» della nostra impresa comincia a essere troppo impegnativo, e tra poco Scheer impazzirà per l’eccessivo lavoro. Alla sera devo scendere da lui e ordinargli di andare a letto. Thomas ci pensò sopra. — Forse ho una persona per lui — disse. — Un tale che faceva l’orologiaio. — Un orologiaio! Ottimo. — Non so. Mi pare un po’ stordito; gli hanno massacrato la famiglia. Un caso molto triste, quasi come quello di Mitsui. Anzi, come sta Frank? Si sente un po’ meglio?
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— Un pochino. Non nel profondo del cuore, naturalmente, ma mi pare abbastanza soddisfatto del suo lavoro. Si occupa lui della cucina e del lavoro d’ufficio che facevi tu, Jeff. — Me lo saluti. — Certo. Ora, per quanto riguarda il tuo orologiaio... non c’è bisogno che tu, nel reclutare personale per la Cittadella, usi tutta la prudenza che occorre per le persone che dovranno lavorare all’esterno: infatti, una volta entrati, non possono più uscire. — Lo so, Capo. Per questo non ho fatto nessun controllo particolare quando le ho mandato Estelle Devens. Però non l’avrei mandata se non fosse stata sul punto di venir reclutata per le case di piacere. — Hai fatto bene. Estelle è una brava ragazza. Aiuta Frank in cucina, dà una mano a Graham per cucire le vesti sacerdotali, e Bob Wilkie la sta addestrando come centralinista della pararadio. — Ardmore rise. — Cupido ha fatto centro: ho l’impressione che Bob si sia preso una cotta. Thomas si accigliò. — Cosa ne pensa, Capo? Non verrà fuori qualche pasticcio? — Non direi — lo rassicurò Ardmore. — Bob è un gentiluomo, ed Estelle mi pare una ragazza seria. Se la natura, seguendo il suo corso, rallentasse il loro lavoro, mi limiterei a regolarizzare la situazione celebrando il loro matrimonio, nella mia qualità di sommo sacerdote dello strepitoso Dio Mota. — Bob non accetterebbe una simile cerimonia. È un po’ rigoroso in questo genere di cose, se devo dire la mia. — Allora, li sposerei in qualità di primo magistrato della nostra prosperosa comunità. Su, non preoccuparti delle formalità. Oppure mandami un sacerdote vero.
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— Cosa ne direbbe se le mandassi altre donne, maggiore? Estelle l’ho mandata d’impulso, in fondo, ma ci sono varie altre ragazze che hanno bisogno di aiuto. Passarono alcuni istanti prima che Ardmore rispondesse. — Capitano, si tratta di una questione molto delicata. Con il massimo dispiacere, sono costretto a ricordarti che siamo un’organizzazione militare, impegnata in una missione di guerra, e non un ente per prestare aiuto ai casi dolorosi. A meno che una donna non venga reclutata per svolgere un compito d’importanza militare per cui è idonea, tu non dovrai inviarla qui, neppure per salvarla dalle città di piacere dei Panasiatici. — Si, signore. Obbedirò. Non avrei dovuto mandare Estelle. — Cosa fatta capo ha. Estelle svolge un lavoro utile. Però, non avere neppure esitazioni a reclutare donne idonee. Questa guerra sarà lunga, e credo che potrò mantenere più alto il morale di tutti con un’organizzazione mista che non con un’organizzazione strettamente riservata ai soli maschi. Senza donne intorno, gli uomini vanno a pezzi; hanno l’impressione di non avere scopo. Ma cerca di fare in modo che la prossima donna che recluterai sia un’anziana signora, qualcosa tra la madre superiora e l’accompagnatrice di ragazze da marito. Il tipo adatto potrebbe essere un’infermiera diplomata di mezz’età. Potrebbe diventare assistente di laboratorio di Brooks, e farebbe anche un po’ da mamma agli altri. — Farò il possibile. — E mandami quell’orologiaio. Ne abbiamo disperato bisogno. — Conto di fargli l’iniezione questa sera. — È proprio necessario, Jeff? Se i Panasiatici gli hanno massacrato la famiglia, possiamo essere sicuri della sua lealtà. 148
— Be’, questa è la storia che racconta lui. Mi sentirò molto meglio quando gliela avrò sentita raccontare sotto l’influsso della droga. Potrebbe essere una spia, lo sa anche lei. — Giusto. Hai ragione, come sempre. Tu fai la tua parte; io farò la mia. Quando pensi di poter affidare il tempio ad Alec, Jeff? Ho bisogno di te, qui. — Alec potrebbe assumere l’incarico anche subito, per tutte le faccende di normale amministrazione. Ma, se ho capito bene, il mio primo dovere è quello di reclutare altri «sacerdoti», persone in grado di lavorare all’esterno e di fondare nuovi templi da sole. — È vero, ma non potrebbe farlo Alec? Dopotutto, gli esami decisivi li faremo qui alla Cittadella. Eravamo già d’accordo che mai, in nessuna circostanza, avremmo rivelato la vera natura della nostra organizzazione a una persona senza averla prima portata alla Cittadella, in modo d’averla in mano nostra. Se Alec dovesse scegliere un uomo sbagliato, non sarebbe la rovina. Prima di rispondere, Jeff rifletté un istante su ciò che intendeva dire. — Vede, Capo — rispose poi, — può sembrare facile, visto da dove sta lei; ma da qui non sembra affatto semplice. Io... — e s’arrestò. — Di cosa si tratta, Jeff? Hai paura? — Credo di si. — E perché? Mi pare che l’operazione proceda esattamente secondo i piani. — Be’, si... forse. Maggiore, lei ha detto che si tratterà di una guerra lunga. — Si? — Ecco, non è possibile. Se sarà una guerra lunga, la perderemo.
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— Ma deve esserlo. Non osiamo muoverci finché non avremo a disposizione tante persone fidate da poter colpire tutto il paese nello stesso momento. — Si, si — rispose Thomas, — ma dovremo trovarle nel minor tempo possibile. Secondo lei, qual è il maggior pericolo che corriamo? — Come? Be’, la possibilità che qualcuno ci tradisca, per caso o deliberatamente. — Non sono d’accordo, signore. Niente affatto. Questa è la sua opinione, perché lei vede le cose dalla Cittadella. Da qui, io vedo un pericolo di tipo completamente diverso... e continuo a preoccuparmene. — Di che cosa si tratta, Jeff? Spiega. — Il maggiore pericolo... ed è un continuo pericolo, sospeso sulla nostra testa come una spada di Damocle... è che le autorità Panasiatiche comincino a insospettirsi sul nostro conto. Potrebbero convincersi che non possiamo essere quello che pretendiamo: soltanto una delle solite religioni ciarlatane degli occidentali, buona per tenere tranquilli gli schiavi. Se viene loro questa idea prima che siamo pronti, per noi è la fine. — Non farti prendere dal panico, Jeff. Pensa che, comunque, l’equipaggiamento che hai con te è sufficiente a riportarti alla base, incolume. Non possono usare una bomba atomica contro di te, se sei in una delle loro capitali... e Calhoun dice che il nuovo schermo della Cittadella può resistere perfino a una bomba atomica. — Ho i miei dubbi. Ma, anche se fosse in grado di resistere, che vantaggio ne avremo? Si, potremo nasconderci nella Cittadella finché non moriremo di vecchiaia, ma se non oseremo mettere fuori neppure la punta del naso, non potremo mai riconquistare il paese!
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— Uhm... no; ma potremmo avere il tempo di escogitare qualcosa d’altro. — Non cerchi di illudere se stesso, Maggiore. Se ci trovano, siamo fregati; e il popolo americano perderà l’ultima possibilità che gli resta, almeno per la presente generazione. Siamo ancora troppo pochi, indipendentemente dalle armi che Calhoun e Wilkie riusciranno a tirare fuori. — Va bene, ammettiamo che tu abbia ragione. Si tratta di cose che sapevi già dall’inizio, da quando sei partito. Perché questo timore? Stanchezza di guerra? — Si potrebbe anche chiamarla così. Ma volevo parlare con lei dei pericoli, visti dalla prospettiva di chi sta all’esterno. Se noi fossimo soltanto una setta religiosa, senza nessuna forza militare, ci lascerebbero tranquilli fino alla consumazione dei secoli, giusto? — Giusto. — Quindi il pericolo nasce dalle cose che dobbiamo fare per nascondere il fatto che abbiamo un mucchio di materiale che non dovremmo avere. Questi pericoli nascono tutti da qui, dal lavoro esterno. Per primo... — e Thomas prese a contare sulle dita, dimenticando che il suo ufficiale comandante non poteva vederlo, —... c’è lo schermo del tempio. È necessario avere quello schermo; non possiamo esporci a una perquisizione. Ma ne nascerebbe un guaio addirittura peggiore, se fossimo costretti a usarlo. Se a qualche alto ufficiale Panasiatico venisse l’idea di compiere un’ispezione qui dentro, nonostante la nostra immunità, il divertimento sarebbe finito; non oserei ucciderlo, e non oserei neppure farlo entrare. Finora, con l’aiuto di Dio, con un mucchio di chiacchiere, e con un’abbondante elargizione di denaro sono riuscito a tenerli lontani. 151
— Ma i Panasiatici sanno già che i nostri templi sono schermati, Jeff; lo sanno dal primo giorno che sono venuti in contatto con noi, al Tempio della Cittadella. — Lei pensa? Io non credo. Ripensando al mio colloquio con la Mano Imperiale, sono convinto che l’ufficiale che tentò di entrare con la forza nel Tempio non sia stato creduto, quando ha fatto il suo rapporto. E può scommettere la camicia che adesso quell’ufficiale è morto; è il loro modo di fare. I soldati semplici che lo accompagnavano non contano. Il secondo rischio è lo schermo personale che portiamo noi «sacerdoti». Io ho usato il mio una volta soltanto, e ora mi pento di averlo fatto. Fortunatamente si trattava di un soldato semplice anche quella volta. Non avrà osato riferire l’accaduto: non avrebbero creduto una sola parola, e lui avrebbe perso la faccia. — Ma Jeff, i «sacerdoti» devono essere protetti dallo schermo: non possiamo permettere che un bordone cada nelle mani del nemico... per non dire che le scimmie gialle potrebbero dare una droga a un «sacerdote» non protetto dallo schermo, prima che quello riesca ad uccidersi. — E lo dice a me! Dobbiamo averli; non osiamo usarli... e questo richiede di essere svelti con le parole nei casi di urgenza. Il terzo rischio è l’aureola; l’aureola è stata un errore, Capo. — Perché parli cosi? — D’accordo; ha fatto una grande impressione sulle menti superstiziose. Ma i pezzi grossi dei Panasiatici non sono più superstiziosi di quanto non lo siamo io e lei. Prenda la Mano Imperiale, ad esempio: quando mi sono presentato a lui, avevo l’aureola. Non gli ha fatto nessuna impressione; anzi, per mia grande fortuna gli dev’essere parsa una cosa di poco conto, soltanto un semplice trucchetto per incantare i miei 152
seguaci. Ma supponiamo che ci avesse pensato sopra e si fosse messo in testa di scoprire come la producevo? — Già — convenne Ardmore. — Forse faremmo meglio a lasciar perdere l’aureola, nella prossima città in cui penetreremo... — Ormai è troppo tardi. La nostra definizione ufficiale è ormai quella di «sant’uomini con l’aureola». È il nostro segno di riconoscimento. — Davvero? Jeff, devi avere fatto un ottimo lavoro di propaganda! — Inoltre, c’è ancora un altro pericolo. È un pericolo a lunga scadenza. Una specie di bomba a orologeria. — Eh? — Il denaro. Abbiamo troppo denaro. È una circostanza sospetta. — Ma vi occorre denaro, per lavorare! — Nessuno lo sa meglio di me. È l’unica cosa che ci ha permesso di resistere fino a questo momento. Questa gente è ancora più corruttibile degli americani, Capo; per noi la corruzione è un malcostume che solleva le ire delle persone oneste; per loro è una parte essenziale della società. E questo ci favorisce... Ora siamo nella rispettabile posizione dell’oca che faceva le uova d’oro. — Ma perché dici che è una bomba a orologeria? Non vedo il pericolo. — Ricorda cosa accadde all’oca della favola? Un giorno, qualcuno più furbo degli altri si chiederà dove l’oca trova tutto quell’oro, e la farà a pezzi per saperlo. Per il momento, tutti quelli che hanno intascato il nostro denaro hanno finto di non accorgersi delle circostanze sospette, e hanno cercato di intascarne il più possibile, finché dura. Scommetto che ciascuno manterrà il silenzio su quanto ha preso, se riuscirà a tenerlo per sé. Non credo che la Mano Imperiale sia informata del fatto che disponiamo di una riserva apparentemente illimitata di monete d’oro 153
americane. Ma prima o poi lo scoprirà: è questa la bomba a orologeria di cui parlavo. E allora, a meno che non possa venire corrotto anche lui... in modo elegante, s’intende... ordinerà qualche indagine molto spiacevole. E nel corso delle indagini incapperemo in qualche ufficiale che ha più interesse a conoscere la realtà che a tendere la mano. Prima che quel giorno spunti, sarà meglio cominciare ad agire! — Uhm... credo anch’io. Be’, Jeff, cerca di fare del tuo meglio, e invia su da noi qualche candidato per il «sacerdozio», il più in fretta possibile. Se avessimo un centinaio di uomini di cui fidarci, e abili come te nel trattare con la gente, potremmo fissare la data dell’attacco da qui a un mese. Ma forse occorreranno degli anni, e, come dici tu, gli eventi possono precipitare prima che noi siamo pronti all’azione. — Capisce perché mi è difficile trovare candidati al «sacerdozio»? Non basta la fedeltà alla nostra causa; occorre anche una particolare disposizione per imbonire il pubblico. Io ho imparato quest’arte facendo il nomade. Alec, invece, non riesce assolutamente a farlo; è troppo onesto. Comunque, forse ho sottomano una persona adatta: un tale che si chiama Johnson. — Si? Chi è? — Faceva il mediatore d’immobili, e ha una parlantina molto sciolta. Con l’arrivo dei Panasiatici, naturalmente, si è scoperto disoccupato, ed è ansioso di evitare i campi di lavoro forzato. Ho cominciato a fare alcuni approcci. — Be’, se credi che vada bene, mandalo pure qui. Anzi, magari potrei venire a interrogarlo io, scendendo da te. — Eh? — Si, ho riflettuto sulle tue parole, mentre parlavamo. Jeff, hai ragione: io non conosco affatto la situazione esterna; è meglio che venga 154
giù a vedere. Per dirigere lo spettacolo, devo conoscerlo meglio. E non posso farlo, se resto rintanato in un buco; perdo il contatto con la realtà. — Credevo che avesse già raggiunto da tempo la decisione su questo punto, Capo. — Cosa intendi dire? — Ha intenzione di lasciare temporaneamente il comando a Calhoun? Ardmore restò in silenzio per vari secondi, poi disse: — Accidenti a te, Jeff! — Allora, è sempre dell’idea di prima? — Oh; al diavolo! Lasciamo perdere tutta la faccenda. — Non se la prenda, Capo. Volevo darle il quadro completo della situazione: per questo mi sono dilungato tanto. — E io ti ringrazio per averlo fatto. Anzi, ora desidero che tu ripeta tutto, con maggiori dettagli. Chiamerò Estelle e le farò stenografare le tue parole. Potremo ricavare una specie di manuale d’istruzione per i «sacerdoti» dalle tue considerazioni, Jeff. — D’accordo, ma mi permetta di richiamarla più tardi. Tra dieci minuti devo officiare un servizio divino. — Perché, non può pensarci Alec? — Si, Alec lo fa già da qualche giorno, e va benissimo. Dovrei dire, anzi, che è molto più bravo di me a tenere le prediche. Ma il momento della predica è il mio periodo di reclutamento, Maggiore; studio la folla, poi prendo in disparte le singole persone per parlare loro. — D’accordo, d’accordo. Tolgo la comunicazione. — A più tardi. Ormai, i servizi religiosi erano molto affollati. Thomas non s’illudeva che il credo del grande Signore Mota fosse l’elemento che richiamava 155
i fedeli; anche durante la celebrazione dei servizi divini, ai lati della stanza c’erano tavoli carichi di ottimo cibo, acquistato con le luccicanti monete d’oro di Scheer. Ma Alec dava un ottimo spettacolo. Ascoltando la predica, Jeff aveva l’impressione che fosse riuscito a conciliare tra loro, chissà come, quel suo strano nuovo lavoro con i dettami della propria coscienza: a tal punto, anzi, che forse lui stesso era convinto di predicare la sua religione, sotto i nuovi simboli e secondo un rito leggermente fuori ordinanza... comunque, la sua voce toccava accenti di piena convinzione. — Se continua cosi — mormorò Jeff, tra sé e sé, — qualche donna svenirà durante la predica, una volta o l’altra. Dovrò dirgli di non metterci troppo calore. Ma Alec riuscì a terminare gli inni sacri senza far sorgere spiacevoli incidenti. I fedeli cantarono con entusiasmo, poi si diressero verso le tavole imbandite. A tutta prima, la musica sacra era stata un po’ un problema, ma poi Jeff era ricorso al trucco di cambiare le parole delle più note marcette militari americane. Cosi si prendevano due piccioni con una fava: ad ascoltare con attenzione, si poteva notare che le vecchie parole, le vere parole delle marcette, venivano cantate dai più coraggiosi dei presenti. Jeff si mosse fra il suo gregge, mentre tutti mangiavano, accarezzando i bambini, impartendo benedizioni... e ascoltando. Mentre passava, un uomo si alzò dal proprio posto e lo fermò. Era Johnson, l’ex mediatore d’immobili. — Posso avere una parola con lei, Padre? — Che c’è, figliolo? Johnson indicò che voleva parlargli a quattr’occhi. Si allontanarono dalla folla, e si fermarono dietro l’altare. 156
— Padre, questa sera non oso tornare alla mia stanza. — E perché no, figliolo? — Non sono ancora riuscito a farmi vidimare la carta di lavoro. Oggi era l’ultimo giorno di tolleranza. Se torno a casa, mi aspetta il campo di lavoro. Jeff lo guardò con un’espressione severa sul viso. — Tu sai che i servitori del Signore Mota non predicano la resistenza al potere secolare. — Ma lei non vorrà permettere che mi arrestino! — Noi non rifiutiamo asilo a una persona bisognosa. E forse non è grave come pensi, figliolo; forse, rimanendo qui questa notte, domani potrai trovare qualcuno che ti assumerà e vidimerà la tua carta. — Posso restare, allora? — Puoi restare. — Thomas pensava che Johnson poteva restare anche in seguito: se fosse risultato adatto, sarebbe stato mandato alla Cittadella per l’esame definitivo. In caso contrario, Johnson sarebbe potuto rimanere come aiutante, naturalmente all’oscuro di tutto. Di giorno in giorno, nel tempio, il bisogno di aiuto cresceva: soprattutto in cucina. Quando i fedeli furono usciti, Jeff chiuse a chiave la porta che dava sulla strada, poi controllò personalmente l’edificio, per accertarsi che non fossero rimasti estranei, e che ci fossero soltanto gli aiutanti che alloggiavano li, e le persone che avevano chiesto asilo per la notte. C’era una decina di simili rifugiati: Jeff li studiava per vedere se qualcuno di loro poteva venire reclutato. Terminata l’ispezione, fatte le pulizie, Jeff accompagnò tutti, salvo Alec, al dormitorio del primo piano; quando furono dentro, chiuse a chiave la porta della scala. Era la consueta procedura di ogni sera: 157
l’altare e i suoi straordinari dispositivi elettronici erano al sicuro dai ficcanaso, in quanto disponevano di un proprio schermo, azionato da un interruttore in cantina... ma Jeff preferiva che nessuno si avvicinasse. Per spiegare il motivo della chiusura notturna, Jeff aveva fatto ricorso, naturalmente, a una santa frottola che aveva a che fare con la «sacralità» della stanza a pianterreno. Alec e Jeff scesero in cantina e si chiusero dentro: la porta era molto robusta, e l’avevano rinforzata con lastre d’acciaio. La loro stanza era piuttosto ampia: conteneva il generatore che alimentava le apparecchiature nascoste nell’altare, il comunicatore sintonizzato con la base, e le due brandine che Peewee Jenkins aveva procurato loro il primo giorno. Alec si svesti, andò nel bagno annesso alla stanza, e si preparò ad andare a letto. Jeff si tolse la veste sacerdotale e il turbante, ma non la barba: se l’era lasciata crescere. Si mise in vestaglia, accese un sigaro, e chiamò la base. Dettò per tre ore intere, mentre Alec russava sonoramente. Poi andò a dormire a sua volta. Lo svegliò una sensazione di disagio. La luce era ancora spenta: quindi non era stata la sveglia del mattino a destarlo. Rimase immobile un istante, poi sporse il braccio dal letto, tastò con la mano sul pavimento e afferrò il bordone. Doveva esserci qualcuno nella stanza, e non si trattava di Alec, che russava ancora. Jeff ne era certo, anche se per il momento non udiva alcun suono. Lavorando alla cieca, regolò lo schermo in modo che proteggesse entrambe le brande; poi accese la luce. Johnson era chinato sul comunicatore. Aveva gli occhi nascosti da grossi occhiali; in mano stringeva un proiettore a raggi infrarossi. — Resti fermo! — disse Jeff, senza scomporsi. 158
L’altro si girò, poi si rialzò gli occhiali sulla fronte. Rimase immobile per un istante, battendo le palpebre nella luce inattesa. D’improvviso, una pistola a vortice gli comparve nell’altra mano. — Non fare gesti avventati, nonno — disse seccamente. — Questa non è un giocattolo. — Alec! — gridò Jeff. — Alec, sveglia! Alec balzò a sedere sul letto, pienamente sveglio. Si guardò intorno, e si affrettò a prendere il bordone. — Siamo tutt’e due nel mio schermo — disse Jeff, rapidamente. — Prendilo, ma non ucciderlo. — Fai una mossa e sei spacciato — lo minacciò Johnson. — Non dire sciocchezze, figliolo — gli rispose Jeff. — Il grande Signore Mota protegge i suoi servitori. Getta quell’arma. Senza perdere tempo a parlare, Alec regolò i comandi del suo bordone. Gli occorse qualche istante: la sua esperienza dei raggi trattori e pressori si limitava alle esercitazioni compiute alla Cittadella. Johnson lo vide armeggiare, lo fissò perplesso, poi gli sparò senza preavviso. Non accadde nulla; lo schermo di Jeff assorbì l’energia. Johnson parve sbalordito; ma, un istante dopo, parve ancor più sbalordito, e si strofinò le nocche, quando Alec gli strappò di mano la pistola con un raggio trattore. — Ora — disse Jeff, — spiegami, figliolo, perché intendevi violare i misteri di Mota? Johnson si guardò intorno. Nel suo sguardo c’era già una punta d’apprensione; ma mantenne ancora l’atteggiamento di sfida. — Piantala con le frottole su Mota. Con me non attaccano. — Non ci si fa gioco del Signore Mota. 159
— Piantala, ho detto. Come spieghi quell’apparecchio? E indicò il comunicatore. — Il Signore Mota non deve dare spiegazioni a nessuno. Siediti, figliolo, e riconciliati con lui. — Siediti un corno. Adesso me ne vado, e se voi due furboni non volete che questo posto brulichi di occhi a mandorla, farete meglio a lasciarmi andare tranquillamente. Non voglio denunciare un uomo della mia razza, a meno che non sia lui a darmi fastidio. — Vorresti dire che sei semplicemente un ladro? — Attento a come mi chiami. Voialtri avete distribuito oro a palate: è logico che qualcuno se ne interessi. — Siediti. — Vi lascio. E si volse verso la scala. Jeff disse: — Fermalo, Alec!... ma non fargli male. Questo particolare rallentò l’azione di Alec. Johnson era già a metà scala quando Alec lo fece scivolare sugli scalini. Johnson cadde pesantemente; batté il capo. Jeff si alzò dal letto, senza fretta, e indossò la veste sacerdotale. — Tienilo fermo, Alec. Con il bordone. Intanto, io vado in ricognizione. Salì ai piani superiori, e dopo alcuni minuti fu di ritorno. Johnson era disteso sulla branda di Alec, ed era ancora fuori conoscenza. — Non ci sono molti danni — riferì Jeff. — Ha aperto la porta del primo piano con una chiave falsa. Tutti dormivano ancora; mi sono limitato a richiuderla. Occorrerà sostituire la serratura della cantina: ha usato qualcosa che l’ha fusa. Credo sia meglio mettere uno schermo
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anche a quella porta: ne parlerò con Bob. — Diede un’occhiata alla figura stesa sulla branda. — Ancora fuori combattimento? — Non proprio. Riacquistava i sensi, ma gli ho fatto un’iniezione di pentotal sodico. — Ottimo! Volevo proprio interrogarlo. — L’immaginavo. — Dose da anestesia? — No, dose per farlo parlare. Thomas si chinò su di lui e gli pizzicò violentemente il lobo dell’orecchio. La vittima si scosse. — Accidenti, è quasi sotto anestesia. Dev’essere stato il colpo alla testa. Johnson! Mi senti? — Mmm, si. Thomas lo interrogò pazientemente per vari minuti. Alla fine, Alec l’interruppe. — Jeff, dobbiamo ascoltare ancora? Mi sembra di essere caduto in un letamaio... — Anche a me fa venire la nausea, ma dobbiamo avere tutte le informazioni — e continuò. Chi l’aveva pagato? Cosa pensavano di poter scoprire, i Panasiatici? Come trasmetteva i rapporti? Quando si aspettavano il prossimo rapporto da lui? Chi altri c’era, nella sua organizzazione? Che impressione aveva fatto ai Panasiatici il tempio di Mota? Il suo superiore sapeva che lui era li, quella notte? E, infine: che cosa l’aveva indotto a tradire il suo popolo? Ormai l’effetto della droga cominciava a svanire. Johnson aveva quasi ripreso conoscenza, ma la censura dei suoi centri nervosi cerebrali era ancora allentata, ed egli rispose con il massimo disinteresse per ciò che i suoi ascoltatori avrebbero pensato di lui. 161
— Ciascuno deve badare a sé, non credi? Se sei furbo, riesci sempre a cavartela. — Allora credo che noi non dobbiamo essere molto «furbi»... — commentò Thomas. Rimase in silenzio alcuni istanti, poi disse: — Ho l’impressione che ci abbia riferito tutto quello che sapeva. Non so ancora decidere cosa dobbiamo farne. — Se gli facciamo un’altra iniezione, magari può raccontarci ancora qualcosa. — Non riuscirete a farmi parlare! — gridò Johnson. Evidentemente, non si rendeva conto di avere già parlato. Thomas gli calò un manrovescio in pieno viso. — Zitto, tu! Parlerai ogni volta che ti faremo l’iniezione. Adesso stai cheto. — E si rivolse ad Alec. — C’è una piccola possibilità — disse, — che, inviandolo alla base, riescano a cavarne ancora qualche informazione. Ma ne dubito, e inoltre sarebbe una faccenda pericolosa e complicata. Se ci prendessero insieme con lui, o se riuscisse a scappare, tutta la montatura cadrebbe. Penso sia meglio levarlo subito di mezzo. Johnson sembrò sconvolto da quelle parole, e cercò di rizzarsi a sedere; ma Alec, con il bordone, lo inchiodò al letto. — Ehi! — protestò. — Cosa intendete dire? È un assassinio! — Fagli un’altra iniezione, Alec. Non possiamo permettergli di fare baccano mentre noi lavoriamo. Howe non disse nulla, e rapidamente gli fece l’iniezione. Johnson cercò di scansarsi, poi si agitò ancora un poco, prima che la droga facesse effetto. Howe si rialzò. Il suo viso era quasi altrettanto sconvolto quanto lo era quello di Johnson.
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— Intendevi proprio dire quello che ho capito, Jeff? Perché, in tal caso, io non mi sono arruolato per commettere assassini a sangue freddo. — Non è assassinio, Alec. Si tratta dell’esecuzione di una spia. Howe si morse le labbra. — Non mi turberebbe affatto — disse, — uccidere un uomo in combattimento aperto. Almeno, cosi credo. Ma legarlo e ammazzarlo a freddo, come se fosse un maiale... mi rivolta lo stomaco. — Le esecuzioni sono sempre cosi, Alec. Non hai mai visto giustiziare un uomo nella camera a gas? — Ma è un assassinio, Jeff. Noi non abbiamo l’autorità di giustiziarlo. — No, Alec. Io ne ho pienamente l’autorità. Io sono un ufficiale comandante, dotato di libertà d’azione, incaricato di svolgere una missione militare in tempo di guerra. — Ma Santo Cielo, Jeff, non gli hai neppure concesso una corte marziale sommaria! — Le corti servono esclusivamente per provare l’innocenza o la colpevolezza di una persona. È colpevole? — Si, certamente, è colpevole. Ma un uomo ha diritto a un processo! Jeff trasse un lungo respiro. — Alec — cominciò, — io ero avvocato. L’intero scopo della complicata struttura della giurisprudenza occidentale in campo di diritto penale, quale essa si è costituita nei secoli, è quello di evitare che un innocente sia condannato e punito per errore. A volte può accadere che un colpevole, a seguito del procedimento, venga lasciato libero, ma non è quello lo scopo. Io non ho né il tempo né le persone necessarie per istituire una corte marziale che offra a quest’uomo un processo regolare... ma la sua colpevolezza è stata mostrata con maggiore certezza di 163
quanta ne potrebbe raggiungere una corte marziale, e io non intendo far correre dei rischi al personale a me affidato, e mettere in pericolo le sorti stesse della guerra, al solo scopo di assicurargli delle garanzie che sono state create per proteggere gli innocenti. «Se potessi cancellare i suoi ricordi e lasciarlo libero di andare a riferire ai suoi superiori che ha trovato soltanto una chiesa di matti e un mucchio di persone affamate che mangiavano, lo farei, non per risparmiarmi la fatica di ucciderlo, ma perché un simile rapporto confonderebbe il nemico. Ma non posso certamente lasciarlo andare a...» — Non ti chiedo questo, Jeff! — Silenzio, soldato, e ascolta! Se lo lasciassi libero con le informazioni che ha raccolto, i Panasiatici le verrebbero a sapere, anche se lui volesse tacere: userebbero lo stesso sistema che abbiamo usato noi. Inoltre, qui non abbiamo un locale in cui tenerlo prigioniero; e sarebbe pericoloso inviarlo alla base. Ho quindi intenzione di giustiziarlo, subito. E tacque. — Capitano Thomas? — chiese Alec, timidamente. — Si? — Perché non telefoni al maggiore Ardmore e non gli chiedi la sua opinione? — Perché non ce n’è motivo. Se dovessi ricorrere a lui per prendere una decisione che non voglio prendere io, dimostrerei che non sono all’altezza del mio compito. Mi resta soltanto una cosa da aggiungere, Alec: tu sei troppo fiacco e delicato per questo lavoro. A quanto vedo, tu credi che gli Stati Uniti possano vincere questa guerra senza che nessuno si faccia male... non hai neppure il fegato di vedere morire un traditore. Speravo di poterti affidare entro breve tempo il comando di questo insediamento; invece ti sbatto di nuovo alla Cittadella, domani 164
stesso, e, nel rapporto al comandante in capo, dico che non ci si può assolutamente fidare di te per incarichi militari in prima linea. Aiutami a portare quest’uomo nella vasca da bagno. Howe storse le labbra, ma non disse nulla. Insieme, portarono Johnson, sempre privo di sensi, nella stanza vicina. Prima che il tempio fosse «consacrato», Thomas aveva fatto abbattere una parete divisoria fra la toletta del custode e il ripostiglio vicino: nello spazio così creatosi, aveva fatto installare una vecchia vasca da bagno. Scaricarono il corpo in essa. Howe si umettò le labbra. — Perché nella vasca? — chiese. — Perché perderà molto sangue. — Come, non usi il bordone? — No: mi occorrerebbe un’ora per smontarlo e togliere il circuito che sopprime la banda di frequenze nocive alla razza bianca. E non so se sarei capace di rimontarlo. Passami il tuo rasoio, e poi vattene. Howe andò a prendere il rasoio, quindi si avvicinò a lui. Ma non glielo porse. — Mai sgozzato un maiale? — chiese. — No. — Allora, me ne intendo più di te. — Si piegò; sollevò il mento di Johnson. L’uomo respirò pesantemente, e grugnì. Howe, con un rapido gesto, gli tagliò la gola. Poi lasciò ricadere la testa del morto, si rialzò e restò a guardare scorrere il sangue. Infine sputò, si recò al lavandino e risciacquò il rasoio. Jeff disse: — Forse ho parlato affrettatamente, Alec. Alec non alzò lo sguardo. — No — disse, lentamente, — non affrettatamente. Credo che occorra un po’ di tempo per capire cosa voglia dire essere in guerra. 165
— Già, lo credo anch’io. Be’, adesso togliamo di mezzo questa roba. Nonostante le poche ore di sonno di quella notte, Jeff Thomas si alzò molto presto: voleva fare rapporto ad Ardmore prima delle funzioni del mattino. Ardmore ascoltò con molta attenzione la sua relazione, poi disse: — Manderò Scheer a installare uno schermo alla porta della cantina. D’ora in avanti, anzi, sarà un accessorio standard della dotazione dei templi. E di Howe, cosa mi dici? Intendi rimandarlo qui? — No — rispose Thomas. — Credo che abbia superato il suo momento di malumore. È un po’ ritroso per natura, ma ha molto coraggio morale. E poi... accidenti, Capo, bisogna pure fidarsi di qualcuno! — Sei disposto a lasciargli la direzione del tempio? — Be’, si... adesso. Perché? — Perché desidero che tu parta per Salt Lake City, praticamente subito. Sono rimasto sveglio buona parte della notte, pensando a quanto mi hai detto ieri. Sei riuscito a smuovermi, Jeff; il mio cervello cominciava a diventare lento e intorpidito. Quante potenziali reclute hai sottomano, adesso? — Tredici, dopo che Johnson è stato eliminato. Ma non tutti per il «sacerdozio», naturalmente. — Desidero che tu li mandi tutti qui, immediatamente. — Ma, Capo, non li ho ancora esaminati. — Ho deciso di cambiare radicalmente la procedura. L’esame con le droghe, d’ora in poi, si svolgerà solamente alla Cittadella. Giù non avete i mezzi per fare questi esami in modo corretto. Se ne occuperà Brooks; lui svolgerà gli esami, e io controllerò coloro che avranno superato la sua selezione. D’ora in poi, il primo dovere dei «sacerdoti» sarà quello di trovare possibili candidati e di mandarli alla Chiesa Madre. 166
Thomas meditò su quelle parole. — E i tipi come Johnson? — chiese. — Non vorrà che gente di quella risma entri nella Cittadella? — Ci ho già pensato... ed è per questo che faremo qui tutti gli esami. Ogni candidato sarà drogato prima di andare a letto, ma non lo saprà. Durante la notte gli faremo un’iniezione, lo desteremo e lo esamineremo. Se supererà l’esame, tutto bene. Se invece non lo supererà, non saprà mai di essere stato esaminato sotto l’influsso di una droga, ma gli lasceremo credere che sia stato ammesso. — Eh? — Si, ed è proprio questo il bello. Sarà accettato al servizio del grande dio Mota, prenderà i voti come fratello laico... e gli spezzeremo la schiena a furia di lavoro! Dormirà in una cella spoglia, scoperà il pavimento, mangerà cibo umile, e per giunta poco, e tutti i giorni passerà molte ore in ginocchio, a pregare. Sarà irreggimentato con tanta cura che non avrà mai la possibilità di sospettare che ci sia qualcosa sotto la montagna: a quanto ne saprà lui, sotto il tempio non ci sarà nient’altro che roccia. Poi, quando ne avrà le tasche piene, gli permetteremo, con molto dolore, di rinunciare ai suoi voti, e lui potrà ritornare di corsa dai suoi padroni a riferire il cavolo che gli pare. Thomas sorrise. — Mi pare un’ottima idea, Maggiore — disse. — Ci sarà da ridere... e dovrebbe funzionare. — Lo credo anch’io; inoltre, con questo metodo riusciremo a trarre. un profitto dalle loro spie. Poi, a guerra finita, li ripescheremo tutti e li fucileremo... le vere spie, voglio dire, non gli indecisi. Ma si tratta di una faccenda di minore importanza: parliamo piuttosto dei candidati che supereranno l’esame. Voglio delle reclute, e le voglio in fretta. Ne 167
voglio varie centinaia, subito. E in queste centinaia, ci dovranno essere almeno sessanta possibili candidati per il «sacerdozio»; voglio istruirli tutti simultaneamente, e poi mandarli subito all’esterno. Mi hai pienamente convinto del pericolo di attendere troppo, Jeff; voglio penetrare contemporaneamente in tutti i principali centri dei Panasiatici. Mi hai convinto che questa è la nostra unica possibilità di mandare a buon fine la mascherata. Thomas zufolò. — Lei mi chiede niente, Capo, eh? — Possiamo farcela. Adesso ti trasmetto la nuova linea da seguire per il reclutamento. Accendi il registratore. — Acceso. — Bene. Invia soltanto candidati che abbiano perso uno o più familiari a causa dell’invasione Panasiatica, o che diano affidamento, sulla base di altre testimonianze superficiali, prima facie, di essere fedeli anche in situazioni critiche. Elimina le persone che mostrano chiari segni d’instabilità di carattere, ma lascia la decisione, su ogni altro motivo di carattere psicologico, al gruppo esaminatore della Cittadella. Invia soltanto candidati appartenenti alle seguenti categorie professionali: per il «sacerdozio», rappresentanti di commercio, pubblicitari, giornalisti, predicatori, politici, psicologi, imbonitori da fiera, direttori del personale, psichiatri, avvocati, impresari teatrali; per il lavoro da svolgersi non a contatto del pubblico o del nemico, qui alla base: ogni tipo di operai specializzati nella lavorazione dei metalli, tecnici elettronici, gioiellieri, orologiai, operai specializzati in lavori di precisione, cuochi, stenografi, tecnici di laboratorio, fisici, sarti. I membri di questo secondo gruppo di professioni possono appartenere al sesso femminile. — Niente sacerdotesse? — domandò Jeff. 168
— Cosa ne pensi? — chiese a sua volta Ardmore. — Direi di no. Questi asiatici hanno una bassissima idea delle donne: le giudicano zero, o anche meno di zero. Non credo che un «sacerdote» di sesso femminile potrebbe operare in contatto con loro. — La penso anch’io come te. Ora, credi che Alec sia in grado di occuparsi del reclutamento secondo questi ordini? — Uhm... Capo, non mi fido ancora a lasciarlo solo. — Temi che faccia qualche errore che ci possa tradire? Lo credi possibile? — Errori non credo che ne farebbe, ma temo che non darebbe nemmeno molti risultati... — Be’, l’unica cosa che tu possa fare è quella di dargli un bello spintone: nuotare o affogare. Da questo momento in poi, forziamo i tempi, Jeff. Passa il tempio ad Alec e vieni qui a rapporto. Tu e Scheer partirete per Salt Lake City: compra un’altra automobile e tieni per te l’autista che hai ora. Alec può trovarsene un altro. Scheer tornerà alla base dopo quarantott’ore, e dopo altre quarantott’ore voglio ricevere le prime reclute. Entro due settimane manderò qualcuno a sostituirti, e potrà trattarsi di Graham o di Brooks... — Come? Ma nessuno dei due è adatto per... — Puoi passare a uno di loro la palla, dopo avere rotto il ghiaccio. Comunque, in seguito lo sostituiremo con una persona del tipo adatto, appena ne avremo la possibilità. Tu tornerai qui e inizierai un corso per «sacerdoti»... o, piuttosto, prenderai in consegna e migliorerai quello che ci sarà già. Comincio già io, subito, con le persone che ho qui. Poi diverrà il tuo lavoro: penso che non ti affiderò più incarichi all’esterno, salvo, forse, come agitatore, in futuro. Thomas sospirò. 169
— A quanto pare, le mie chiacchiere mi hanno procurato un impiego, no? — Esattamente. Sbrigati a partire. — Ancora un istante: perché proprio Salt Lake City? — Perché mi pare un ottimo posto per i reclutamenti — rispose Ardmore. — Quei mormoni sono gente astuta, pratica, e scommetto che tra loro non troverai neppure un traditore. Se ti darai da fare, credo che riuscirai facilmente a dimostrare ai loro Anziani che fa comodo avere dalle loro parti il grande dio Mota, e che non rappresentiamo affatto una minaccia per la loro fede. Finora non ci siamo ancora serviti abbastanza delle chiese regolari: eppure dovrebbero essere loro, la spina dorsale del nostro movimento. Prendi i mormoni, ad esempio: hanno sempre avuto missionari laici. Se farai le cose nel modo giusto, potrai reclutarne un buon numero: gente fornita di una buona esperienza, coraggiosa, abituata a organizzare gruppi in territorio ostile, decisa e capace di parlare. Capito? — Capito. Farò del mio meglio. — Sono sicuro che puoi farcela. Poi, appena possibile, manderò qualcuno a sostituire Alec, e gli dirò di fondare una chiesa nella città di Cheyenne, da solo. Non è una città molto grande; se Alec farà fiasco, il danno sarà lieve. Ma scommetto che sarà perfettamente in grado di occuparsi di Cheyenne! E adesso, vai subito a occuparti di Salt Lake City.
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CAPITOLO OTTAVO Denver, Cheyenne, Salt Lake City. Portland, Seattle, San Francisco. Kansas City, Chicago, Little Rock. New Orleans, Detroit, Jersey City. Riverside, Five Points, Butler, Hackettstown, Natick, Long Beach, Yuma, Fresno, Amarillo, Grants, Parktown, Bremerton, Coronado, Worcester, Wickenberg, Santa Ana, Vicksburg, LaSalle, Morganfield, Blaisville, Barstow, Wallkyll, Bois, Yakima, St Augustine, Walla Walla, Abilene, Chattahoochee, Leeds, Laramie, Globe, South Norwalk, Corpus Christi. — La pace sia con voi! Pace, e gioia! Venite, o voi che soffrite e siete gravati da pesanti fardelli! Venite! Portate i vostri affanni al tempio del Signore Mota. Entrate nell’asilo dove i Padroni non osano seguirvi. Alzate la testa, uomini bianchi, perché «Il Discepolo sta per arrivare !» «La tua bambina sta morendo di tifo? Portala dentro! Portala dentro! I raggi dorati di Tamar la guariranno. Hai perduto la tua occupazione e ti aspetta il campo di lavoro? Entra! Entra! Riposa nel dormitorio del tempio, e mangia alla tavola che è sempre imbandita. Per te, c’è tutto il lavoro che vuoi: potrai farti pellegrino e portare agli altri la dottrina. Hai soltanto bisogno di essere istruito. «Chi paga per tutto questo? Ma come, fratello, che il Signore ti benedica, non sai che l’oro è il dono di Mota! Entra, presto! Il Discepolo sta per arrivare!.» Ed entravano, a frotte. Le prime volte entravano per curiosità, perché quella nuova, stupefacente, strampalata religione costituiva un piacevo-
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le diversivo agli avvenimenti, dolorosi e monotoni, della loro esistenza di schiavi. La fiducia che Ardmore nutriva istintivamente per la pubblicità chiassosa finì per giustificarsi mediante i risultati: una religione più convenzionale, più riservata, non avrebbe fatto registrare lo stesso «pieno». Dopo essere entrati la prima volta per trovare un diversivo, vi ritornavano per altre ragioni. Cibo gratuito, nessuna domanda... valeva la pena di cantare qualche innocuo inno sacro, se si poteva rimanere a cena! E poi, quei sacerdoti potevano permettersi di comprare certi cibi costosi, che gli americani vedevano raramente sulle proprie mense: burro, arance, carne scelta, e li pagavano ai magazzini imperiali con pesanti monete d’oro che facevano spuntare sorrisi sul volto degli amministratori asiatici. E, inoltre, il sacerdote locale era sempre disposto a fare un prestito, se qualcuno era privo dell’essenziale. Perché stare a guardare l’aspetto della fede? Ecco una chiesa che non imponeva a nessuno la sua fede: potevi andarci, e godere di tutti i benefici senza che nessuno ti chiedesse di rinunciare alla tua vecchia religione... o che ti chiedesse se avevi già una religione. Certo, i sacerdoti e gli altri membri del culto davano l’impressione di prendere molto sul serio quel loro dio a sei attributi, ma con ciò? Era affar loro. Non abbiamo sempre sostenuto la libertà di religione? Inoltre, facevano un buon lavoro, lo dovevi ammettere. Prendi Tamar, ad esempio, la Signora della Misericordia... lì, qualcosa di vero doveva esserci! Quando vedi un bambino che sta per morire di difterite, vedi il servitore di Shaam che lo fa dormire, lo vedi irradiare con la luce dorata di Tamar, e infine lo vedi uscire un’ora dopo, perfettamente guarito... be’, questo ti dà da pensare. Con metà dei medici morti, con l’esercito e un mucchio di altre cose finite nei campi di concentramento, chiunque fosse in grado di guarire le malattie doveva 172
essere preso sul serio. Cosa importava se sembravano soltanto delle pratiche superstiziose? Siamo gente pratica, noi. Quel che conta sono i risultati. E poi, più sottili dei benefici materiali, c’erano i benefici psicologici. Nel tempio di Mota si poteva alzare la testa senza timore: cosa che non si poteva fare neppure in casa propria. — Non hai sentito? Si, dicono che nessuna faccia di limone abbia mai messo piede in uno dei loro templi, neppure per fare un’ispezione. Non possono entrare, neppure travestiti da bianchi; qualcosa te li stende subito secchi, appena varcano la soglia. Personalmente, credo che quelle scimmie si spaventino a morte nel vedere Mota. Non so che cos’abbiano, ma fatto sta che si può respirare a pieni polmoni, nel tempio. Vieni con me... vedrai anche tu! Il reverendo pastore David Wood, dottore in teologia, si recò a trovare un vecchio amico: l’altrettanto reverendo Padre Doyle, cattolico. Il sacerdote più anziano gli venne ad aprire la porta, di persona. — Entra, David, entra — lo salutò. — Sono lieto di vederti. Sono passati tanti giorni da quando ti ho visto l’ultima volta... Lo accompagnò nel suo piccolo studio, lo fece accomodare e gli offrì da fumare. Wood rifiutò; pareva preoccupato. La loro conversazione ondeggiò da un argomento all’altro, banali tutti, a casaccio. Doyle vedeva chiaramente che Wood doveva avere qualcosa d’altro in mente; ma il vecchio sacerdote sapeva essere paziente. Quando fu evidente che il sacerdote più giovane non riusciva — o non voleva — aprire l’argomento, fu lui a incoraggiarlo. — Mi sembra che tu abbia una grave preoccupazione, David. Posso chiedertene la natura? 173
David Wood si decise. — Padre — disse, — cosa ne pensa di quel gruppo che si fa chiamare «sacerdoti di Mota»? — Cosa ne penso? Perché, cosa dovrei pensarne? — Non sia evasivo, Padre Francis. Voi cattolici non vi preoccupate, quando un’eresia pagana sorge e prospera sotto i vostri occhi? — Be’, hai messo sul tavolo alcuni punti che si prestano alla discussione, David. Dimmi, che cos’è una religione pagana? Wood scosse il capo. — Lei ha capito benissimo cosa voglio dire! Falsi dèi. Costumi, templi stravaganti e... pagliacciate, insomma! Doyle sorrise gentilmente. — Stavi per dire «pagliacciate papiste», vero, David? Comunque, non mi preoccupo molto della bizzarria, o no, degli aspetti esteriori. E, per quanto riguarda la qualifica di «pagano», ragionando su basi strettamente teologiche sarei costretto a dire che ogni setta religiosa che non riconosce l’autorità del Vicario di Dio sulla terra è un’eresia pagana... — Non scherzi, Padre; oggi non me la sento proprio. — Non intendevo prendermi gioco di te, David. Volevo dire che, nonostante la rigorosa logica della teologia, Dio, nella Sua misericordia e saggezza infinita, potrà trovare il modo di far entrare nella Città dei Beati perfino uno come te! Ora, per quanto riguarda i sacerdoti di Mota, senza andare a cercare punti deboli nella loro fede, mi pare che svolgano un lavoro utile; lavoro che io non sono capace di compiere. — Ed è appunto questa, la cosa che mi preoccupa, Padre Francis. C’era una donna, nella mia congregazione, che soffriva di un cancro incurabile. Io sapevo che alcuni casi come il suo erano stati guariti,
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a quanto pareva, da... da quei ciarlatani! Che cosa dovevo fare? Ho pregato, ma non ho trovato risposta. — E che cosa hai fatto? — In un momento di debolezza, l’ho mandata da loro. — Si? — E l’hanno guarita. — Allora, non me ne preoccuperei molto. Gli strumenti di cui si serve la Divina Provvidenza non si limitano a noi due. — Aspetti un momento. L’ho rivista in chiesa soltanto una volta, dopo di allora. Poi è andata di nuovo via. È entrata nel santuario, se così vogliamo chiamarlo, che hanno allestito per le donne. Se n’è andata, completamente perduta in mano a quegli idolatri! E questo mi tormenta, Padre Francis. Che vale guarire il suo corpo mortale, se la guarigione mette in pericolo la sua anima? — Era una donna sincera? — Una delle migliori. — Allora, penso che Dio provvederà alla sua anima, senza bisogno della tua assistenza o della mia. Inoltre, David — continuò, riempiendo di tabacco la pipa, — non è detto che essi non abbiano bisogno del tuo aiuto, o del mio, nelle cose spirituali. Non celebrano matrimoni, come forse sai. E se tu volessi servirti dei loro edifici, sono certo che potresti facilmente... — Non saprei immaginarne la necessità! — Forse tu no, ma io ho trovato uno strumento d’ascolto, nascosto nel confessionale... — Il sacerdote strinse le labbra per la collera. — Da allora in poi, ho preso in prestito un angolo del loro tempio: lo uso per ascoltare certe confessioni che rischiano d’interessare i nostri padroni asiatici. 175
— Padre Francis, non vorrà dire sul serio! — esclamò il pastore. Poi, con voce più calma: — E il suo vescovo, ne è stato informato? — Be’, sai, il mio vescovo ha sempre tante cose da fare... — Via, Padre Francis... — Su, non te la prendere. In verità, una lettera gliel’ho scritta: in essa spiegavo la situazione, nel modo più chiaro possibile. Uno dei prossimi giorni troverò qualcuno che viaggi in quella direzione e che possa portargliela. Non mi piace dare in mano a un traduttore pubblico le questioni private della chiesa: potrebbe censurarmele. — Quindi, non gliel’ha detto. — Ma se ti ho appena riferito di avergli scritto una lettera! Dio ha visto quella lettera; non succederà niente di grave se il vescovo dovrà aspettare ancora qualche giorno per leggerla. Circa un paio di mesi dopo, il pastore David Wood prestava giuramento nel Servizio Segreto dell’Esercito degli Stati Uniti. Non si stupì affatto nel vedere che il suo vecchio amico, Padre Doyle, era in grado di scambiare con lui i segnali di riconoscimento. Si estendeva sempre più... tanto l’organizzazione quanto la rete di comunicazione. Sotto ciascuno di quei templi vistosi, in un sotterraneo protetto da uno schermo che sfuggiva ad ogni possibile rilevamento da parte dei mezzi della scienza ortodossa, c’erano sempre degli operatori in servizio ai trasmettitori pararadio che operavano su uno degli spettri addizionali: uomini che non vedevano la luce del giorno e che non incontravano mai nessuno, ad eccezione del sacerdote del loro tempio locale; uomini classificati come assenti nei campi di lavoro forzato degli invasori Panasiatici; uomini che accettavano il loro duro lavoro fi176
losoficamente, come un’inevitabile necessità militare. Il loro morale era altissimo, perché erano nuovamente uomini liberi di lottare: aspettavano con ansia il giorno in cui il loro lavoro avrebbe liberato i connazionali, da un capo all’altro del continente. Nella Cittadella, ragazze con la cuffia da centralinista dattilografavano ordinatamente ogni informazione trasmessa dagli operatori pararadio; la dattilografavano, la schedavano, ne facevano un sunto e la archiviavano. Due volte al giorno, l’ufficiale addetto alle comunicazioni lasciava sulla scrivania del maggiore Ardmore un rapporto sugli avvenimenti delle dodici ore precedenti. In continuità, per tutta la giornata, dispacci indirizzati all’attenzione personale di Ardmore giungevano da una ventina di diocesi e si accumulavano sulla sua scrivania. Oltre a questa miriade di fogli di carta sottile, ciascuna dei quali richiedeva la sua personale attenzione, si accumulavano pile di rapporti provenienti dal laboratorio: ormai Calhoun, che disponeva di un numero sufficiente di assistenti, aveva riempito di ricercatori tutte quelle stanze abitate da spettri, e li spingeva a lavorare sedici ore al giorno. Anche l’ufficio personale lo sommergeva di rapporti: risultati dei test psicologici, richieste di autorizzazione, notifiche che questo o quell’ufficio richiedeva un aumento di organici: per favore, poteva occuparsene il servizio reclutamento? Il personale... quello era un grattacapo! Quante persone possono conservare un segreto? C’erano tre generi distinti di personale: subalterni che svolgevano lavori d’ufficio, come ad esempio le segretarie e gli impiegati della Cittadella, che erano completamente isolati dall’esterno; personale locale dei templi, in contatto con il pubblico, che era a conoscenza del minimo indispensabile e che non sospettava di far parte dell’esercito; e i «sacerdoti» stessi, i quali, necessariamente, dovevano esserne al corrente. 177
Questi prestavano giuramento di mantenere il segreto assoluto, ricevevano il grado di ufficiale dell’Esercito degli Stati Uniti, e venivano informati del vero significato di tutta la mascherata. Ma anch’essi ignoravano i segréti su cui si basava il loro lavoro: i princìpi scientifici che rendevano possibili i miracoli da loro praticati. Venivano addestrati nell’uso delle apparecchiature loro affidate: addestrati con cura, perché potessero usare senza errori i mortali simboli del loro ufficio. Tuttavia, ad eccezione delle rare uscite dei primi sette, nessuna persona che conoscesse l’effetto Ledbetter e i suoi corollari lasciò mai la Cittadella. I candidati al sacerdozio giungevano come pellegrini, provenienti dai templi di tutta la nazione, alla Chiesa Madre vicino a Denver. Lì giunti, erano ospitati nel monastero, situato nella montagna, a un livello intermedio tra il Tempio e la Cittadella. Nel monastero venivano sottoposti ad ogni sorta di test psicologici. Coloro che non li superavano erano rimandati al loro tempio locale, per servire come fratelli laici, e quando vi ritornavano non sapevano nulla che non sapessero già in partenza. Coloro che superavano gli esami, consistenti in test studiati apposta per farli incollerire, per farli diventare loquaci, per mettere alla prova la loro fedeltà al paese, per spezzare loro i nervi, venivano interrogati da Ardmore, nella sua veste di Sommo Sacerdote di Mota, Signore di Ogni Cosa. E Ardmore ne scartava più di metà, senza nessuna apparente ragione, soltanto in base alla propria intuizione, per qualche vaga impressione che il candidato non fosse adatto. Comunque, a dispetto di tutte queste precauzioni, ogni volta che nominava un nuovo ufficiale e lo inviava a predicare, Ardmore si chiedeva se non sarebbe stato proprio quello, l’anello debole che avrebbe mandato in rovina tutta l’organizzazione. Ormai la tensione cominciava a logorarlo. Era una responsabilità trop178
po grande per un uomo solo: c’erano troppi dettagli, troppe decisioni da prendere. Diventava sempre più difficile pensare ai problemi del giorno e prendere le decisioni, perfino le più semplici. Cominciò a perdere la sicurezza di sé, e, corrispondentemente, a diventare irritabile. E il suo cattivo umore contagiava coloro che gli stavano vicino, cominciava a diffondersi nell’intera organizzazione. Bisognava fare qualcosa. Ardmore era sufficientemente onesto con se stesso per accorgersi della sua debolezza, anche se non per rimediare ad essa. Fece venire Thomas nel suo ufficio e si sfogò con lui. Concludendo, gli chiese: — Secondo te, Jeff, cosa dovrei fare? Il lavoro diventa troppo grande per le mie spalle? Credi che farei meglio a passare il comando a un’altra persona? Thomas scosse il capo, lentamente. — No, non credo sia la soluzione giusta, Capo. Nessuno potrebbe lavorare più di lei... dopotutto, in una giornata ci sono soltanto ventiquattr’ore. Inoltre, la persona che verrebbe a sostituire lei dovrebbe affrontare gli stessi suoi problemi, senza tuttavia possedere la sua profonda conoscenza della situazione e senza afferrare intuitivamente, come lei, il quadro complessivo di ciò che intendiamo fare. — D’accordo, ma devo fare qualcosa. Stiamo per dare inizio al secondo tempo dello spettacolo, quello in cui cominceremo sistematicamente a spezzare i nervi dei Panasiatici. E allora, quando il morale del nemico sarà giunto all’orlo della crisi, le congregazioni dei templi dovranno essere pronte ad agire come unità militari. E questo significa che il lavoro aumenterà, invece di diminuire. E io non sono assolutamente in grado di dirigere tutto questo sviluppo. Santo Cielo, amico... 179
pare impossibile, ma non c’è mai stato nessuno, in nessun paese del mondo, che abbia inventato una scienza dell’organizzazione del lavoro, in modo che una grossa organizzazione possa funzionare senza fare impazzire l’uomo che la comanda! Per duecento anni, quegli impiastri di scienziati hanno continuato a tirar fuori dai laboratori un aggeggio dopo l’altro: aggeggi che, per venire utilizzati, richiedono organizzazioni mastodontiche... ma non hanno mai studiato la maniera di far funzionare queste organizzazioni. — Accese un fiammifero, con un gesto brusco. — Accidenti, non è logico! — Un momento, Capo, un momento — disse Thomas, aggrottando la fronte per lo sforzo di ricordare. — Può darsi che questo studio sia stato fatto, anche se lei non lo sa... Mi pare di ricordare un’affermazione che ho letto una volta; qualcosa sul fatto che Napoleone sia stato l’ultimo dei generali. — Eh? — No, no, c’entra. L’idea dell’autore era questa: Napoleone fu l’ultimo dei grandi generali che esercitò direttamente il comando, perché ormai il lavoro era troppo complesso. Pochi anni dopo, i tedeschi inventarono il principio del comando coordinato, e, sempre secondo questo autore, ciò segnò la fine dei generali... come generali. Secondo lui, Napoleone non sarebbe mai riuscito a spuntarla, contro un esercito guidato da un gruppo di generali che lavorassero in collaborazione. Probabilmente, quello che occorre a lei è appunto un gruppo di collaboratori. — Ma per l’amor del Cielo, ho già un mucchio di collaboratori! Avrò dieci segretarie, e almeno il doppio di portaordini e impiegati... se non sto attento ci inciampo dentro! — Non credo sia questo, il tipo di collaborazione di cui parlava il mio autore. Probabilmente, anche Napoleone aveva collaboratori di questo 180
tipo. — E allora, che tipo di collaborazione intendeva? — Be’, con precisione non lo saprei dire; ma, a quanto ho capito, dev’essere un concetto fondamentale della moderna organizzazione militare: «stato maggiore», mi pare sia chiamato. Lei non ha fatto l’Accademia militare? — Dai, sai benissimo che non l’ho fatta. — Ed era vero. Fin dai primi giorni del loro sodalizio, Thomas aveva capito che Ardmore non era affatto un militare di carriera, e che andava avanti improvvisando di giorno in giorno. Ardmore sapeva che Thomas doveva averlo indovinato, ma nessuno dei due ne aveva mai parlato. — Be’ — rispose Thomas, — penso che un ufficiale uscito dall’Accademia potrebbe darci dei buoni suggerimenti su come impostare l’organizzazione interna. — Facile, a dirsi. Quegli ufficiali, o sono morti in battaglia, o sono stati liquidati dopo la disfatta. Se qualcuno si è salvato, probabilmente si sarà nascosto chissà dove, facendo il possibile per nascondere la propria identità... e non si può certo biasimarlo per questo. — Già, non si può certo biasimarlo. Be’, lasciamo perdere... forse, dopotutto, non era affatto una buona idea. — Non avere troppa fretta di sbarazzartene. Era davvero una buona idea. Senti... le grosse organizzazioni non si limitavano all’Esercito: ce n’erano altre. Prendi ad esempio le grandi società per azioni, come la Standard Oil, la U.S. Steel e la General Motors... probabilmente, anche queste dovevano funzionare con gli stessi princìpi. — Forse. Una parte di esse, almeno... Molte portavano i dirigenti all’infarto; erano ancora giovani, ma dopo qualche anno erano già dei
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rottami. I generali, invece, occorreva ucciderli a colpi d’accetta, a quanto ne so. — Però, quei dirigenti aziendali dovrebbero saperne qualcosa. Per favore, puoi occuparti di rintracciarne qualcuno? Un quarto d’ora dopo, un selettore di schede perforate passava rapidamente al vaglio i dati personali di tutti coloro, uomini e donne, di cui erano giunte notizie alla Cittadella. Risultò che parecchi uomini d’affari che avevano esperienza manageriale lavoravano alla Cittadella già in quel momento, svolgendo mansioni amministrative di importanza più o meno grande. Questi furono convocati subito; intanto, vennero inviati messaggi ai templi locali, in cui si invitava a «compiere un pellegrinaggio» alla Chiesa Madre un’altra decina di persone. Il primo di questi dirigenti risultò inadatto. Era un uomo d’affari del tipo «ad alta pressione»: un industriale che aveva diretto la propria azienda pressappoco con gli stessi concetti di supervisione personale adottati da Ardmore fino a quel momento. I suoi suggerimenti riguardavano soprattutto la gerarchia degli impiegati, l’itinerario da far seguire ai documenti e il modo di far risparmiare tempo a singoli dipendenti, ma non ne emerse alcun suggerimento per una fondamentale alterazione dei princìpi organizzativi. Comunque, in breve tempo, furono trovate varie persone meno agitate, che conoscevano per istinto e per esperienza i princìpi della teoria dell’amministrazione. Uno di essi, ex direttore generale del gruppo dei telefoni, risultò essere uno studioso e un ammiratore dei moderni metodi di organizzazione militare. Ardmore lo nominò capo di stato maggiore. Poi, con il suo aiuto, scelse gli altri membri: l’ex direttore del personale di una grande industria; un tale che era stato sottosegretario permanente al 182
dipartimento dei lavori pubblici di uno degli Stati della costa orientale; l’amministratore delegato di una compagnia d’assicurazioni. Altri furono scelti in seguito, man mano che il sistema prese piede. E il nuovo tipo d’organizzazione funzionava. Ardmore, all’inizio, faticò un poco ad abituarsi: per tutta la vita aveva sempre fatto da sé, e adesso trovava sconcertante vedersi suddiviso tra vari alter ego, ciascuno dei quali agiva con autorità pari alla sua, e firmava con il proprio nome e la formula «per la direzione». Ma alla fine si accorse che quegli uomini, applicando efficacemente la sua politica alle varie situazioni, sapevano giungere alla decisione che avrebbe preso lui. Chi non sapeva farlo veniva tolto dal gruppo, dietro segnalazione del suo capo di stato maggiore. In complesso, però, Ardmore continuò sempre a stupirsi, un poco, di avere il tempo di sorvegliare altri uomini che facevano il suo lavoro nella sua maniera, in base al semplice ma efficace principio dello stato maggiore. E adesso, finalmente, poteva dedicare la propria attenzione a definire nei dettagli la politica da seguire, e ad approfondire lo studio delle situazioni veramente nuove che si affacciavano di tempo in tempo: quelle che il suo stato maggiore gli passava per ricevere direttive da seguire. Inoltre, riusciva anche a trovare il tempo di dormire, cullato dalla sicurezza che uno, o più, dei suoi alter ego era sveglio e si stava occupando del lavoro. Ora sapeva che, anche se lui fosse rimasto ucciso, quell’estensione della sua mente che era rappresentata dai collaboratori avrebbe portato avanti l’impresa fino in fondo. Sarebbe stato un errore credere che le autorità Panasiatiche avessero assistito alla crescita e alla diffusione della nuova religione con piena soddisfazione; nel momento critico del suo sviluppo, quello iniziale, esse 183
non avevano capito che si trattava di un pericolo, tutto qui. L’avvertimento rappresentato da quanto era successo al defunto tenente che per primo era entrato in contatto con il culto di Mota non era stato ascoltato, e i semplici fatti contenuti nel suo rapporto non erano stati creduti. Dopo avere stabilito una volta per tutte il loro diritto di viaggiare e di svolgere la loro attività, Ardmore e Thomas avevano detto e ripetuto ad ogni sacerdote quanto fosse necessario mostrarsi umili e pieni di tatto, e avevano ribadito l’importanza di stabilire relazioni amichevoli con le autorità locali. L’oro dei sacerdoti era visto con molto piacere dagli asiatici, preoccupati di trarre dei profitti da una nazione depressa dal punto di vista economico e recalcitrante dal punto di vista psicologico; questo li aveva indotti ad essere più indulgenti con i sacerdoti di Mota di quanto non lo sarebbero stati normalmente. Pensavano, abbastanza logicamente, che lo schiavo che aiuta a pareggiare il bilancio doveva essere un ottimo schiavo. E così, inizialmente, venne passato l’ordine di appoggiare i sacerdoti di Mota, perché aiutavano a consolidare il paese. In verità, qualche poliziotto Panasiatico e qualche ufficiale di grado non molto elevato avevano avuto delle esperienze piuttosto sconcertanti, nel trattare con i sacerdoti; tuttavia, dal momento che questi incidenti avevano comportato una «perdita di faccia» per i Panasiatici direttamente interessati, essi, decisamente, avevano preferito non parlarne. Occorse qualche tempo perché si accumulasse una quantità di informazioni inoppugnabili sufficiente a convincere le maggiori autorità che i sacerdoti di Mota — tutti i sacerdoti di Mota — godevano di varie caratteristiche molto fastidiose, anzi addirittura intollerabili. Non si poteva toccarli. Non si poteva neppure avvicinarsi a loro... era come se fossero circondati da un invisibile, scivoloso muro di vetro. Le pistole a vortice non avevano effetto sulle loro persone. Si sottomettevano passivamente 184
all’arresto, ma, in un modo o nell’altro, non rimanevano mai in prigione. Inoltre — e questo era il peggio — era ormai certo che un tempio di Mota non poteva mai, in nessuna circostanza, venire ispezionato da un Panasiatico. Non era tollerabile.
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CAPITOLO NONO Non fu tollerato: fu lo stesso Principe Imperiale a ordinare l’arresto di Ardmore. La cosa non venne fatta in modo così rozzo. Alla Chiesa Madre giunse parola che il Nipote del Cielo desiderava che il Sommo Sacerdote del Signore Mota si recasse da lui. Il messaggio raggiunse Ardmore nel suo ufficio alla Cittadella; gli fu portato dal suo capo di stato maggiore, Kendig, che, per la prima volta da quando Ardmore lo conosceva, mostrava segni di agitazione. — Capo — disse senza preamboli, — un incrociatore da battaglia è atterrato davanti al Tempio, e l’ufficiale che lo comanda sostiene di avere ordini di portarla con sé! Ardmore depose le carte che stava esaminando. — Uhm... — disse, — direi che sono arrivati al momento della sgridata. Un po’ in anticipo rispetto a quanto avrei preventivato. — Si aggrottò. — Cosa intende fare? — Be’, lei conosce i miei metodi. Secondo lei, cosa farò? — Ecco... credo che lei andrà, probabilmente. E questo mi preoccupa. Preferirei che non andasse. — E che altro posso fare? Non siamo ancora pronti a sfidarli con un’infrazione aperta; un rifiuto non sarebbe in carattere. Ordinanza! — Si, signore!
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— Faccia venire il mio attendente. Gli dica di portare vesti e ammennicoli vari. Poi chiami il capitano Thomas e gli dica di venire qui, immediatamente. — Si, signore. — L’ufficiale di ordinanza cominciò a fare le chiamate al visifono. Ardmore continuò a parlare con Kendig e con Thomas mentre l’attendente lo aiutava a vestirsi. — Jeff, tieni la gatta: adesso la peli tu. — Eh? — Se succede qualcosa e io perdo il contatto con il quartier generale, sei tu l’ufficiale comandante. Troverai la nomina nella mia scrivania, firmata e chiusa in una busta indirizzata a te. — Ma, Capo... — Non darmi del «Ma, Capo». È un argomento che ho già deciso da tempo. Kendig ne è a conoscenza; e anche gli altri membri dello stato maggiore. Avrei messo anche te nello stato maggiore, da tempo, se non avessi avuto bisogno di te per dirigere il servizio di spionaggio. Ardmore andò a guardarsi nello specchio e si lisciò la barba, bionda e ricciuta. Tutti si erano lasciati crescere la barba; tutti coloro che dovevano mostrarsi al pubblico nella veste di sacerdoti di Mota. La cosa tendeva a dare agli asiatici, relativamente glabri, una sensazione di inferiorità femminea, e nello stesso tempo destava in loro un vago senso istintivo di ripugnanza. — Avrai notato — continuò, — che nessun ufficiale dei ruoli effettivi ha mai ricevuto un grado superiore al tuo. L’ho fatto appunto per una simile eventualità. — E Calhoun?
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— Già, Calhoun. Il tuo grado nei ruoli effettivi ti rende automaticamente superiore a lui, è chiaro. Ma temo che non servirà molto, nel trattare con lui. Penso che dovrai cercare di andare avanti con lui senza destare attriti, nel modo migliore possibile. Hai a tua disposizione l’autorità, ma vacci piano. Comunque, non occorre che sia io a insegnartelo. Un portaordini, vestito da accolito, entrò in gran fretta e salutò militarmente. — Signore, l’ufficiale di guardia nel Tempio dice che il comandante Panasiatico sta diventando molto impaziente. — Bene. Deve diventarlo. Sono accese le emittenti di vibrazioni infrasoniche? — Si, signore; e ci fanno diventare tutti nervosi. — Be’, voi potete sopportarlo. Sapete di cosa si tratta. Dica all’ufficiale di guardia di ordinare all’ingegnere di turno di variare il volume dell’emissione in modo casuale, e, ogni tanto, di portarlo al massimo della scala. Voglio che quegli asiatici siano cucinati a dovere, quando li raggiungerò. — Si, signore. Ha qualche comunicazione per il comandante dell’incrociatore? — Non direttamente. Comunichi all’ufficiale di guardia di dirgli che in questo momento sono occupato in preghiera, e che nessuno può disturbarmi. — Bene, signore. — Il portaordini usci. Questa si che era bella!, si disse. Sarebbe rimasto da qualche parte, lì intorno, a vedere la faccia di quel puzzone, all’udire quella frase! — Sono lieto che abbiano potuto finire in tempo i nuovi copricapi — osservò Ardmore, mentre l’attendente gli porgeva il turbante. 188
In origine, il turbante era nato semplicemente per nascondere l’apparecchiatura che produceva l’aureola luccicante, librata sulla testa dei sacerdoti di Mota. Tra turbante e aureola, i sacerdoti finivano col sembrare alti circa due metri, con relativo effetto deprimente sulla psiche degli asiatici. Ma Scheer aveva visto la possibilità di nascondere sotto il turbante anche una ricetrasmittente di breve portata; adesso lo strumento faceva parte dell’equipaggiamento standard. Ardmore spostò leggermente il turbante in modo che il ricevitore a conduzione ossea premesse contro la tempia, e disse, in tono basso, ma naturale, come se parlasse tra sé: — Comandante in capo... prova. Gli rispose una voce che pareva provenire dall’interno della sua testa; le parole giungevano attutite, ma risultavano pienamente comprensibili: — Ufficiale di servizio alle comunicazioni... prova di ricezione. — Bene — disse Ardmore, soddisfatto. — Incrociate su di me due rilevatori direzionali. Continuate a tenerli puntati fino a nuovo ordine. Tenetevi sempre in contatto con me per mezzo del tempio più vicino, e tenetemi in collegamento con il quartier generale. Potrei richiedere in ogni momento il circuito A. Il circuito A era la trasmissione generale a tutti i templi del paese. — Notizie dal capitano Downer? — Ne è arrivata una un momento fa, signore. L’ho inoltrata al suo ufficio — lo informò la voce interiore. — Ah, vedo. — Ardmore si avvicinò alla scrivania; premette un pulsante, e la targhetta luminosa con la scritta «Priorità» si spense. Ritirò un foglio di carta dalla fotocopiatrice. «Riferire al Capo — diceva il messaggio, — che sta per scoppiare qualcosa. Non posso sapere di cosa si tratti, ma tutti i pezzi grossi 189
hanno un’aria molto soddisfatta. Tenete gli occhi aperti, e fate molta attenzione.» Tutto qui, e c’era la possibilità che quelle poche parole fossero state distorte chissà come, nel passare di bocca in bocca. Ardmore si accigliò e strinse le labbra, poi chiamò l’ufficiale d’ordinanza: — Mi mandi il signor Mitsui. Arrivato Mitsui, Ardmore gli mostrò il messaggio. — Le avranno già detto, credo, che sono venuti ad arrestarmi. — Lo sanno tutti — gli rispose Mitsui, concisamente, e gli restituì il messaggio. — Frank — riprese Ardmore, — mi dica: se lei fosse il Principe Reale, quale sarebbe la sua intenzione, arrestando me? — Ma Capo... — protestò Mitsui, con un’espressione desolata sul volto, — lei mi parla come se fossi uno di quei... di quei cani assassini! — Mi scusi, ma mi occorre, il suo parere. — Be’... credo che la mia intenzione sarebbe questa: mettere lei al fresco, poi dare un giro di vite alla sua chiesa. — Nient’altro? — Non saprei. Non credo tuttavia che lo farei se non fossi più che sicuro di poter aggirare le sue difese. — Già, pare anche a me — convenne Ardmore. Poi disse ancora, parlando apparentemente all’aria: — Ufficiale di servizio alle comunicazioni: trasmetta sul circuito A; priorità assoluta. — Lei direttamente, o dal centro di controllo? — Trasmetta lei il messaggio. Voglio che tutti i sacerdoti ritornino al loro tempio, nel caso se ne siano allontanati, e che ci ritornino imme-
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diatamente. Priorità, urgente, segnalare di avere ricevuto il messaggio e fare rapporto. — Si volse nuovamente a coloro che lo circondavano. — Adesso, un boccone, poi me ne andrò. Quando avrò finito di mangiare, le nostre care facce di limone, lassù, dovrebbero essere cotte a puntino. Resta ancora altro da fare, prima che me ne vada? Ardmore entrò nella navata del Tempio dalla porta situata dietro l’altare. Lo spazio dall’altare ai grandi portali, ora spalancati, fu percorso da una maestosa processione. Sapeva che l’ufficiale che comandava gli asiatici lo stava osservando: perciò percorse quei duecento metri con un incedere lento e dignitoso, circondato da una folla di servitori che indossavano vesti rose, verdi, azzurre e oro. La sua veste, invece, era di un colore bianco immacolato. I suoi accompagnatori formarono due grandi ali quando furono giunti quasi davanti alla grande porta; Ardmore uscì da solo e avanzò verso l’asiatico, che aveva un diavolo per capello. — Il vostro padrone desidera vedermi? Il Panasiatico faticò a ricomporsi quel tanto necessario per parlare inglese. Finalmente, riuscì a dire: — Ti è stato ordinato di venire immediatamente da me! Come osi... Ardmore lo interruppe seccamente. — Allora, il tuo padrone desidera vedermi, si o no? — Senza dubbio! Perché non ti sei presentato subito a... — Bene, puoi accompagnarmi da lui. Precedette l’ufficiale e si avviò giù per i gradini, dando agli asiatici l’alternativa di mettersi a correre per raggiungerlo, o di venirgli dietro. Il comandante dell’incrociatore seguì il suo primo impulso di correre, per poco non inciampò su quei gradini larghi, e finì col mettersi vergogno-
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samente in coda, accompagnato dalla propria guardia del corpo. Ardmore era già stato prima d’allora nella città scelta come capitale dal Principe Reale: ma non dopo l’invasione asiatica. Quando scesero al campo d’atterraggio municipale, Ardmore si guardò intorno; cercava di nasconderlo, ma era curioso di vedere i cambiamenti apportati dai dominatori. Il traffico aereo pareva abbastanza intenso: probabilmente a causa dell’alta percentuale di asiatici presenti nella città. Per tutto il resto, pareva non ci fossero molti cambiamenti. A destra, in lontananza, era visibile la cupola del campidoglio di quello Stato; Ardmore sapeva che era divenuto il palazzo del dominatore militare. Avevano apportato qualche trasformazione all’esterno: non avrebbe saputo dire esattamente quale, ma l’edificio non sembrava più rispettare i princìpi architettonici occidentali. Per i successivi minuti, fu troppo occupato per osservare la città. La sua guardia del corpo, che ora lo aveva raggiunto e lo circondava, lo condusse alla scala mobile, e di lì alla strada. Varcarono molte porte, ciascuna sorvegliata da una squadra di soldati. Le sentinelle presentavano le armi all’ufficiale che aveva arrestato Ardmore, mentre il gruppo passava. Ardmore restituiva solennemente il saluto con un gesto di benedizione, comportandosi come se quel saluto fosse stato indirizzato direttamente a lui e soltanto a lui. Il suo custode se ne indignò, ma non poté farci nulla: la cosa divenne presto una specie di gara a chi riusciva a rispondere al saluto per primo. Vinse il comandante, ma a costo di dover salutare per primo i subordinati, stupitissimi. Ardmore approfittò di un corridoio lungo, senza porte laterali, per fare una prova di trasmissione. — Grande Signore Mota — disse, — odi il tuo servitore? — Il 192
comandante Panasiatico lo sbirciò, ma non disse nulla. La voce interiore gli rispose immediatamente: — Ricevuto, Capo. Lei è collegato alla Cittadella mediante il tempio della capitale. — Era un po’ attutita, ma era la voce di Thomas. — Il Signore Mota parla, il suo servitore lo ode. Giustamente fu scritto che i piccoli ascoltano i discorsi degli adulti! — Intende dire che le scimmie gialle possono capire? — In verità è così, ora e sempre. Ma il Signore Mota comprenderebbe stoque goger? — Ah, capito, Capo... «questo gergo»; il linguaggio segreto dei bambini. Parli pure così, ma adagio, se può. — Mootti. Troal in tosegui. Soddisfatto, smise di parlare. Forse i Panasiatici avevano già adesso microfono e registratore puntati su di lui. Sperava di si, perché, se avessero tentato di decifrare le sue parole, si sarebbero presi un grattacapo inutile. Occorre essere cresciuti in una lingua, per capirla rigirando le sillabe. Il Principe Reale era stato mosso tanto dalla curiosità quanto dalla preoccupazione, nell’ordinare l’arresto del Sommo Sacerdote di Mota. Era vero che gli strani avvenimenti collegati con quel culto non erano completamente di suo gradimento, ma aveva l’impressione che i suoi consiglieri si comportassero come delle donnette isteriche. Quando mai una religione degli schiavi si era dimostrata altro che un aiuto per i conquistatori? Gli schiavi avevano bisogno di un muro del pianto; andavano nei templi, pregavano i loro dèi di liberarli dall’oppressione, poi tornavano a lavorare nei campi e nelle fabbriche, rilassati e resi inoffensivi dalla catarsi emotiva delle preghiere. 193
— Però — aveva osservato uno dei suoi consiglieri, — si parte sempre dall’idea che gli dèi non faranno nulla per esaudire queste preghiere. Verissimo: nessuno pretende che un dio scenda giù dal piedestallo e svolga effettivamente la sua parte. — E che cosa avrebbe fatto, se pure ha fatto qualcosa, questo dio Mota? Qualcuno lo ha visto, forse? — No, Vostra Serenità, ma... — E allora, che cosa ha fatto? — È difficile dirlo. È impossibile entrare nei loro templi... — Non avevo dato ordine di non disturbare gli schiavi nel loro culto? — La voce del principe era pericolosamente dolce. — Vero, Vostra Serenità, vero — il consigliere si affrettò ad assicurargli, — e infatti non sono mai stati disturbati, ma gli uomini della vostra polizia segreta non hanno mai potuto entrare nei templi per svolgere indagini al vostro servizio, per quanta astuzia abbiano messo nel travestimento. — E con ciò? Probabilmente avranno commesso qualche balordaggine. Che cosa li ha fermati? Il consigliere scosse il capo. — Questo è il problema, Vostra Serenità. Nessuno ricorda cosa gli sia accaduto. — Come hai detto?... La tua affermazione è assolutamente ridicola. Fanne venire uno perché sia interrogato. Il consigliere allargò le mani. — Purtroppo, mio signore... — Come? Ah, naturalmente... pace alla loro anima. — Si lisciò la fascia di seta ricamata che gli scendeva dal collo. Mentre pensava, lo 194
sguardo gli cadde sui «pezzi», riccamente intagliati in forme delicate, di un gioco di scacchi che aveva accanto a sé, poco distante dal gomito. Tanto per provare, spostò un pedone. No, non era la soluzione: bianco muove e dà matto in quattro mosse... Movendo quel pedone ne occorrevano cinque. Si volse nuovamente al consigliere: — Sarebbe bene tassarli. — Abbiamo già provato... — Senza il mio permesso? — La voce del principe era ancora più dolce. Sul volto del consigliere comparvero gocce di sudore. — Se fosse risultato un errore, Vostra Serenità, volevamo che l’errore fosse nostro. — Mi credi forse capace di sbagliare? — Il principe era autore del più importante testo sull’amministrazione delle razze assoggettate: l’aveva scritto in gioventù, quando era governatore di una provincia dell’India. — Comunque, passiamoci sopra. Li avete tassati, pesantemente, suppongo. E loro? — Hanno pagato, mio signore. — Triplicate la tassa. — Sono certo che pagherebbero ugualmente, perché... — Decuplicatela. Aumentatela al punto che non possano pagarla. — Ma, Vostra Serenità, è questo il problema. L’oro con cui ci pagano è chimicamente puro. I nostri dottori di sapienza temporale affermano che si tratta di oro fabbricato, ottenuto per trasmutazione della materia. Non c’è limite alla tassa che potrebbero pagare. E, in verità — continuò precipitosamente, — è nostra opinione, suscettibile sempre di correzione da parte di una saggezza superiore alla nostra... — fece un rapido inchino, — che non si tratti affatto di una religione, ma di forze scientifiche di un genere sconosciuto! 195
— Vorresti dire che le conquiste scientifiche di questi barbari sono superiori a quelle della Razza Eletta? — Vi prego, mio signore, essi hanno davvero qualcosa, e si tratta di una cosa che demoralizza i nostri. Il numero degli onorevoli suicidi è salito a un’altezza allarmante, e c’è stato un numero molto elevato, troppo elevato, di uomini che hanno chiesto di essere rimandati alla terra dei nostri padri. — Non dubito che avrete trovato il modo di scoraggiare questo genere di richieste. — Si, Vostra Serenità; ma l’unico risultato è stato quello di far aumentare il numero degli onorevoli suicidi tra coloro che sono venuti a contatto con i sacerdoti di Mota. Ho timore a dirlo, ma pare che questo contatto indebolisca lo spirito dei vostri figli. — Uhm. Credo, si, credo che vorrò vedere questo Sommo Sacerdote di Mota. — E quando vorrà vederlo la Vostra Serenità? — Ve lo dirò. Intanto, si dica che i miei sapienti dottori, se non sono già vissuti troppo e non hanno superato la loro utilità, saranno capaci di ripetere e di controbattere qualsiasi conoscenza scientifica che i barbari possono avere. — Vostra Serenità ha parlato. Il Principe Reale osservò con molto interesse il contegno tenuto da Ardmore nell’avvicinarsi a lui. Quell’uomo camminava senza dimostrare timore, e — il principe dovette ammetterlo — mostrava una certa dignità, per un barbaro. Era una cosa interessante. E cos’era quella faccenda luminosa che aveva sul capo?... un trucchetto abbastanza curioso, quello. 196
Ardmore si fermò davanti a lui e pronunciò una benedizione, levando alta la mano. Poi... —... mi avete chiesto di farvi visita, Padrone. — Cosi è. — Che quell’uomo non sapesse di doversi mettere in ginocchio? Ardmore si guardò intorno. — Vuole il Padrone farmi portare una sedia da qualcuno dei suoi servitori? Davvero, quell’uomo era molto divertente: peccato doverlo uccidere. O forse l’avrebbe potuto tenere a palazzo, come passatempo? Naturalmente, questo avrebbe richiesto l’uccisione di tutti coloro che avevano assistito alla scena... e forse sarebbe stato necessario uccidere altra gente, in futuro, se l’uomo avesse continuato con quelle sue divertenti stramberie. Il principe concluse che il fastidio non sarebbe stato nel costo iniziale, ma nel mantenimento. Alzò una mano. Due camerieri, scandalizzati, corsero a portare uno sgabello. Ardmore sedette: il suo sguardo cadde sulla scacchiera accanto al principe. Il principe seguì quello sguardo e chiese: — Conosci il gioco della guerra? — Un poco, Padrone. — Come risolveresti questo matto in quattro mosse? Ardmore si alzò e si avvicinò alla scacchiera. Esaminò per vari secondi la posizione del gioco, mentre l’orientale lo osservava. I cortigiani erano silenziosi come i pezzi sulla scacchiera: attendevano. — Sposterei questo pedone... così — annunciò infine Ardmore. — Così? Si tratta di una mossa estremamente inortodossa. — Ma necessaria. Così è matto in tre mosse... ma, naturalmente, il Padrone l’ha già visto. 197
— Naturalmente. Sì, naturalmente. Tuttavia non ti ho chiamato qui per gli scacchi — aggiunse, voltandosi di nuovo verso di lui. — Dobbiamo parlare di altre cose. Ho appreso con grande dolore che vi sono lamentele sul conto dei tuoi seguaci. — Il dolore del Padrone è il mio dolore. Può il servo chiedere in che modo i suoi figli hanno sbagliato? Il principe era ritornato a studiare la scacchiera. Poi alzò un dito, e un servo gli si inginocchiò accanto, reggendo una tavoletta per scrivere. Il principe tuffò un pennellino nell’inchiostro e tracciò rapidamente alcuni ideogrammi; poi sigillò la lettera con il suo anello. Il servo si inchinò e si allontanò; un messaggero prese il dispaccio e uscì di corsa dalla sala. — Dunque? Ah, si... è stato riferito che essi mancano di grazia. Il loro contegno è sconveniente, nel trattare con la Razza Eletta. — Vuole il Padrone aiutare un umile sacerdote comunicandogli quali dei suoi figli si sono resi colpevoli di avere infranto le convenienze, e in che modo, cosicché egli possa correggerli? Questa domanda, disse il principe a se stesso, era inopportuna. In qualche modo, questa creatura incivile era riuscita a metterlo sulla difensiva. Il principe non era abituato a sentirsi chiedere i dettagli: era sconveniente. Inoltre, non c’era risposta: la condotta dei sacerdoti di Mota era sempre stata impeccabile, incensurabile, in ogni aspetto che potesse venire citato. E la sua corte era lì, in attesa, ad ascoltare che risposta avrebbe dato a quella rozza violazione dell’etichetta. Come dicevano le antiche parole? «... Kung F’tze disorientato dalla domanda di un contadino!» — Non si addice al servo voler interrogare il padrone. In questo momento, tu commetti lo stesso errore dei tuoi seguaci. — Vogliate perdonarmi, Padrone, ma, anche se lo schiavo non può 198
interrogare, non è forse scritto che egli può invocare misericordia e aiuto? Noi siamo dei poveri servitori, e non possediamo la saggezza del Sole e della Luna. Non siete forse voi nostro padre e nostra madre? Non vorrete, dalla vostra altezza, insegnare a noi? Il principe si trattenne a stento dal mordersi le labbra. Come era potuta accadere una cosa simile? Per mezzo di qualche giro di parole, questo barbaro era nuovamente riuscito a metterlo dalla parte del torto. Era pericoloso permettergli di aprire la bocca! Eppure... doveva venire incontro alla sua richiesta. Quando lo schiavo invoca misericordia, l’onore impone di rispondere. — Noi consentiamo a istruirvi in un solo particolare; imparate bene la lezione, e gli altri aspetti della saggezza verranno spontaneamente a voi. Si arrestò, pensando alle parole migliori. Poi riprese: — Il modo usato da te e dai sacerdoti tuoi inferiori nel rivolgersi agli Eletti non è quello che si conviene loro. Questo affronto corrompe lo spirito di chi vi assiste. — Devo allora credere che la Razza Eletta disdegna la benedizione del Signore Mota? Era nuovamente riuscito a girare il senso delle parole! La buona politica richiedeva che il dominatore fingesse di accettare come autentici gli dèi degli schiavi. — La benedizione non è rifiutata, ma la forma del saluto deve essere quella che si richiede dal servo al padrone. Ardmore si rese conto, d’improvviso, che lo stavano chiamando con urgenza. La voce di Thomas gli echeggiava nel cervello:
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— Capo! Capo! Mi sente? C’è una squadra di poliziotti davanti ad ogni tempio, chiedono la resa del sacerdote... Sono arrivati rapporti da tutto il paese! — Il Signore Mota ode! — La frase era indirizzata al principe; chissà se anche Thomas avrebbe capito? Di nuovo la voce di Jeff: — Lo diceva a me, Capo? — Fate in modo che i suoi fedeli comprendano. — Il principe aveva risposto troppo in fretta perché Ardmore riuscisse a trovare altre frasi dal doppio significato per parlare con Thomas. Comunque, ora disponeva di un’informazione della quale, a quanto ne sapeva il principe, sarebbe dovuto essere all’oscuro. E per usarla bene... — Come posso dare insegnamenti ai miei sacerdoti se voi li arrestate? — Il tono di Ardmore cambiò di colpo: da umile qual era, si fece accusatorio. Il volto del principe restò impassibile, e solo gli occhi tradirono il suo stupore. Che quell’uomo avesse indovinato il contenuto del messaggio? — Tu non sai ciò che dici. — Niente affatto! Proprio ora, mentre mi insegnavate come istruire i miei sacerdoti, i vostri soldati bussavano alle porte dei templi di Mota. Ma attendete! Ho un messaggio per voi, da parte del Signore Mota: i suoi sacerdoti non temono le forze di questo mondo. Non siete mai riuscito ad arrestarli, né vi riuscirete mai, se il Signore Mota non ordinerà loro di arrendersi. Fra trenta minuti, quando i sacerdoti si saranno purificati spiritualmente e si saranno fortificati per affrontare l’ordalia, ciascuno di essi si consegnerà ai vostri soldati sulla soglia del suo tempio. E, fino a quel momento, guai al soldato che tenterà di violare la Casa di Mota!
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— Questo è parlare chiaro, Capo! Questo è parlare chiaro! Volete dire che ogni sacerdote deve resistere ancora per trenta minuti, e poi arrendersi... vero? E che i sacerdoti devono uscire pienamente equipaggiati con il generatore, il trasmettitore e tutti gli ultimi strumenti. Mi dia un segnale di «ricevuto», se può. — Vai liscio, Jeff. — Aveva dovuto correre il rischio di dirlo... tre parole senza senso, per il principe, ma Jeff le avrebbe capite. — D’accordo, Capo. Non capisco cosa abbia intenzione di fare, ma seguiremo le sue istruzioni al mille per cento! Il volto del principe era una maschera di ghiaccio. — Portatelo via — ordinò. Per parecchi minuti, dopo l’uscita di Ardmore, Sua Serenità rimase seduto a fissare la scacchiera, tormentandosi con le dita il labbro inferiore. Portarono Ardmore in una stanza sotterranea: una stanza con pareti metalliche e massicce chiavarde alla porta. Come se ciò non bastasse, Ardmore, qualche i—stante dopo essere entrato, udì un leggero sibilo e vide che un punto sullo spigolo della porta era diventato color rosso ciliegia. Saldatura! Evidentemente, gli asiatici volevano essere certi che nessuna possibile debolezza umana, da parte delle sue guardie, gli permettesse di evadere. Chiamò la Cittadella. — Signore Mota, ascolta il tuo servitore! — Si, Capo. — Una strizzata d’occhio può sostituire un cenno della testa. — Capito, Capo. Si trova in un posto dove le scimmie possono ascoltarla. Continui pure a parlare con doppi sensi, per darci le dritte.
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— Il gran capo degli uomini della medicina vuole ciacolare con coloro che spediscono le anime al Cielo. — Vuole parlare sul circuito A? — Giusto come la moneta d’oro! Ci fu una breve pausa, poi Thomas rispose: — Ecco fatto, Capo. Ora lei trasmette sul circuito A. Resto anch’io inserito in linea per fare da interprete... ma non credo che sarà necessario: i ragazzi hanno già avuto occasione di praticare questo tipo di gergo da adolescenti. Dica pure tutto: hanno ancora cinque minuti di tempo, se devono arrendersi entro i trenta minuti fissati. Un cifrario rischia di venire decifrato, un codice rischia di cadere in mano del nemico. Ma la perfetta conoscenza scolastica di una lingua straniera non dà affatto la chiave per comprenderne le forme gergali, le allusioni colloquiali, le mezze affermazioni e quelle esagerate, le inversioni di significato. Ardmore era quasi certo che i Panasiatici avessero installato un microfono nella sua cella. Benissimo; visto che avrebbero udito la sua metà della conversazione, era meglio che rimanessero confusi e perplessi, nel dubbio se si trattava di preghiere senza senso rivolte al suo dio, o se fosse diventato matto. — Occhio, angioletti miei... la mamma vuole che il pupo vada con quel signore così bravo. Tutto a posto, se nel passeggino c’è il sonaglino nuovo da agitare. Questo, l’agitare, è la cosa che conta: se i bambini non si agitano, si agitano loro. Servi questa mano senza mescolare le carte, e il tuo amico con il codino perde il piatto. Il non battere il ciglio ti dà il gioco in mano. — Capo, mi corregga se sbaglio: lei vuole che i sacerdoti si arrendano e che mettano in agitazione i Panasiatici con la loro evidente mancanza di preoccupazione. Vuole che facciamo come lei: freddi come una fetta 202
d’anguria, e assoluta faccia di bronzo. E mi pare d’aver capito che non devono mollare a nessun costo i bordoni, ma non devono neppure usarli prima che lei dia l’ordine. Giusto? — Elementare, mio caro Watson! — E dopo, cosa faremo? — Tre puntini di sospensione. — Come? Ah, «tre puntini di sospensione»: il discorso riprende più avanti. Va bene, ce lo comunicherà in seguito. Benissimo, Capo... la mezz’ora scade adesso. — Hi—hi. * Ardmore attese di essere certo che i Panasiatici non direttamente impegnati a fare la guardia ai prigionieri fossero andati a dormire, o perlomeno si fossero ritirati nei propri alloggiamenti. La cosa che si proponeva di fare avrebbe sortito l’effetto voluto soltanto se nessuno si fosse potuto rendere esattamente conto dell’accaduto. E di notte le probabilità erano più alte. Chiamò Thomas fischiettando un paio di battute di Su le ancore! E Jeff rispose immediatamente. Non si era allontanato dal posto di controllo: era rimasto alla pararadio, facendo di tanto in tanto qualche discorsetto ai prigionieri, inteso a tirar su il loro morale, e trasmettendo marcette tradizionali. — Si, Capo? — È arrivato il momento di levar le tende. Ite missa est. — Evasione generale? — Fare come l’inglese del proverbio... esattamente nello stesso modo. Avevano già discusso da tempo i particolari della «fuga all’inglese»; Thomas forni istruzioni particolareggiate agli altri sacerdoti prigionieri, poi disse: 203
— Capo, mi dica quando. — Quando! — esclamò Ardmore. Riusciva quasi a vedere Thomas che annuiva con la testa. — Via, gente, si comincia! Ardmore si alzò e si sgranchì gli arti, anchilosati dalla posizione d’immobilità. Si avvicinò a una delle pareti della cella e rimase fermo davanti ad essa, in modo che l’unica lampadina proiettasse la sua ombra. Così andava quasi bene... ecco! Regolò i comandi del bordone in modo da avere la massima portata nell’effetto Ledbetter primario, controllò che la frequenza fosse quella della razza mongolica, e predispose l’intensità in modo da stordire invece che uccidere. Poi azionò l’interruttore. Dopo pochi istanti lo spense, e di nuovo osservò la propria ombra sulla parete. Ora il bordone doveva essere regolato in modo completamente diverso: doveva generare un fascio di raggi molto netto. Accese il raggio rosso di Dite per puntare con precisione il bordone, regolò i comandi e di nuovo azionò l’interruttore. Tranquillamente, senza alcun rumore, gli atomi del metallo cambiarono natura, trasformandosi in atomi d’azoto che si mescolarono, senza far danno, con l’aria. Dove prima c’era stata una parete piena, ora c’era un’apertura della dimensione e della forma d’un uomo alto, vestito in abiti sacerdotali. Ardmore osservò l’apertura, e poi, come se ci avesse ripensato, tracciò con cura un’ellisse sulla testa della sagoma: un’ellisse che aveva la forma e la dimensione di un’aureola. Come ebbe terminato, riportò i comandi del bordone nella posizione di prima, azionò ancora l’interruttore e uscì attraverso l’apertura che aveva praticato. Gli andava a pennello: fu costretto a mettersi di lato per poter passare. Uscito dalla cella, dovette scavalcare i corpi ammonticchiati di una decina di soldati panasiatici. La parte da cui era uscito non era quella 204
corrispondente all’ingresso e alla porta saldata: ne concluse che dovevano esserci delle guardie a ciascuna delle quattro pareti; probabilmente anche sul soffitto e sotto il pavimento. Vi furono altre porte da varcare, altri corpi da scavalcare; infine si trovò all’esterno. Una volta fuori, scoprì di avere perso completamente l’orientamento. — Jeff — chiamò, — dove sono? — Un momento, Capo. Lei è... No, non riusciamo a determinare il punto, ma la direzione da cui trasmette è pressappoco a sud del tempio più vicino. Si trova ancora nei pressi del palazzo? — Ne sono appena uscito. — Allora si diriga a nord. Ci sono circa quattro isolati. — E da che parte è il nord? Non riesco ad orientarmi. No, aspetta un attimo... ho individuato l’Orsa Maggiore, sono a posto. — Faccia in fretta, Capo. — Arrivo! — Si avviò a un moderato passo di corsa, e lo mantenne per un centinaio di metri; poi preferì limitarsi a camminare in fretta. Accidenti, pensò, tutto quel lavoro a tavolino ti fa venire il fiato corto. Ardmore incontrò parecchi poliziotti asiatici, ma non erano in condizione di riconoscerlo: aveva tenuto acceso l’effetto primario. Non c’erano bianchi in vista, poiché vigeva un coprifuoco rigoroso; scorse soltanto un paio di spazzini, che lo fissarono sbalorditi. Per un attimo, pensò d’invitarli a seguirlo al tempio, ma poi decise di no: dopotutto, non correvano rischi maggiori di altri centocinquanta milioni di americani. Ed ecco il tempio, con le pareti che splendevano dei colori degli attributi. Fece di corsa gli ultimi metri, ed entrò. Il sacerdote locale lo 205
raggiunse un istante dopo, arrivando dalla direzione opposta. Ardmore salutò cordialmente il sacerdote, e solo allora si accorse della tensione delle ore precedenti: se ne accorse dalla gioia provata nel parlare nuovamente con un uomo della sua razza... un compagno. Poi andarono dietro l’altare e scesero nella sala sottostante: la sala controllo e comunicazione, dove l’operatore pararadio e il suo sostituto li accolsero con grandi manifestazioni di gioia e offrirono loro del caffè nero; lo accettarono con piacere. Poi Ardmore disse all’operatore di disinserirsi dal circuito A e di collegarsi direttamente, audio e video, col quartier generale. Thomas pareva quasi sul punto di saltare fuori dallo schermo. — Whitey! — gridò. Era la prima volta, dopo la disfatta, che qualcuno chiamava Ardmore per nome. Fino a quel momento, non era neppure sicuro che Thomas lo conoscesse. Ma la svista gli fece piacere. — Salve, Jeff — disse all’immagine. — Lieto di vederti. Ancora nessun rapporto? — Qualcuno. Continuano ad arrivare. — Fatti dare la situazione dalle varie diocesi; il circuito A è troppo lento. Voglio avere in fretta un rapporto. Il rapporto giunse presto. Entro una ventina di minuti, ciascuna diocesi fece rapporto. Tutti i sacerdoti erano ritornati ai templi. — Ottimo — disse a Thomas. — Ora voglio che i templi regolino i proiettori in modo da annullare l’effetto primario: svegliamo tutte le scimmie. I templi dovranno usare un raggio direzionale, e servirsene per ripercorrere il cammino seguito dai sacerdoti, fino alla prigione da cui sono evasi. — D’accordo, Capo, se lo dice lei. Ma posso chiederle perché non lasciamo che le scimmie si sveglino da sole, che l’effetto svanisca 206
spontaneamente? — Perché — spiegò Ardmore, — se riprendono conoscenza prima che qualcun altro li scopra, l’accaduto sarà molto più misterioso che se li trovassero apparentemente morti. Scopo della nostra azione era fare a pezzi il morale degli asiatici. Se adesso noi li svegliamo, l’effetto sarà più forte. — Giusto, come sempre, Capo. Sto passando l’ordine. — Ottimo. Una volta fatto questo, ordina di controllare lo schermo dei templi, di accendere le vibrazioni infrasoniche a quattordici cicli, e di andare a dormire... tutti quelli che non sono di servizio, voglio dire. Penso che domani ci sarà molto da fare. — Si, signore. Non torna alla base, Capo? Ardmore scosse la testa. — È un rischio inutile. Tramite la televisione, posso dirigere la nostra azione esattamente come potrei dirigerla se fossi dietro di te. — Scheer era pronto a partire per venire a prenderla. Potrebbe scendere sul tetto del tempio. — Ringraziamelo, ma digli che non ce n’è bisogno. Ora, passa le consegne all’ufficiale di stato maggiore che è di servizio, e vai a dormire. — Come dice lei, Capo. Ardmore fece uno spuntino di mezzanotte insieme con il sacerdote locale. Chiacchierarono un poco, poi il sacerdote lo accompagnò a una camera da letto situata nel sotterraneo.
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CAPITOLO DECIMO Ardmore fu destato dall’operatore pararadio fuori servizio, che lo scoteva con forza. — Maggiore Ardmore! Maggiore! Si svegli! — Mmm... Uhm... che succede? — Si svegli! C’è una chiamata dalla Cittadella. È urgente! — Che ore sono? — Quasi le otto. Faccia in fretta, signore! Ardmore era quasi completamente sveglio, quando raggiunse il microfono. Sullo schermo c’era il volto di Thomas; cominciò a parlare non appena vide Ardmore. — Un nuovo sviluppo, Capo. E molto brutto. I poliziotti Panasiatici rastrellano tutti i membri delle nostre congregazioni... sistematicamente. — Uhm. Come mossa successiva era abbastanza evidente; già. Fino a che punto sono arrivati? — Non lo so. Ho chiamato non appena mi è giunto il primo rapporto. Continuano ad arrivare rapporti da tutto il paese. — Be’, allora è meglio darci da fare. — Un sacerdote, armato e protetto dallo schermo, poteva farsi arrestare senza timore, ma per i fedeli era ben diverso: erano assolutamente inermi. — Capo, ricorda cosa hanno fatto dopo il primo tentativo di rivolta? Me la vedo brutta, Capo... ho paura!
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Ardmore poteva capire benissimo la paura di Thomas: la provava lui stesso. Ma non si permise di mostrarla. — Calma, amico — disse, con voce tranquilla. — Finora non è successo niente ai nostri seguaci... e non permetteremo che succeda. — Ma, Capo, cosa conta di fare? Siamo troppo pochi per fermarli prima che uccidano un sacco di gente. — Si, forse siamo troppo pochi per riuscirci con la forza, ma c’è sempre una maniera. Tu continua a raccogliere dati, e avverti di non fare stupidaggini. Ti richiamo tra un quarto d’ora. E interruppe la comunicazione, prima che Thomas potesse ribattere. Per trovare la soluzione occorrevano pensieri chiari. Se avesse potuto armare ogni uomo con un bordone, non ci sarebbero stati problemi. Teoricamente, l’effetto schermante di un bordone poteva proteggere un uomo contro qualsiasi cosa; uniche eccezioni, forse, una bomba atomica e l’infiltrazione di gas velenosi. Ma il reparto costruzione e riparazioni aveva già fatto fatica a fornire un numero sufficiente di bordoni per equipaggiare ciascun sacerdote: fornirne uno a ciascun fedele era fuori discussione, poiché la Cittadella non era attrezzata per una produzione di massa. Inoltre, quei bordoni gli sarebbero occorsi subito... quella mattina. Un sacerdote poteva estendere il proprio schermo in modo da proteggere qualsiasi data area o qualsiasi numero di persone; ma il campo, se veniva esteso troppo, diventava così debole che bastava una palla di neve a infrangerlo. Accidenti! D’improvviso, si accorse che pensava di nuovo al problema in termini diretti, nonostante sapesse perfettamente che questo modo di affrontarlo era inutile. Quello che gli occorreva, invece, era una specie di jiu—jitsu psicologico... un modo di rivolgere contro il nemico la sua stessa forza. 209
Stornare l’attenzione: il concetto era sempre quello. Qualunque cosa si aspettino da te, non farla! Fanne un’altra. Ma quale «altra»? Quando gli parve di avere trovato la risposta alla domanda, tornò a mettersi in collegamento con Thomas. — Jeff — disse subito, — mettimi sul circuito A. Parlò per alcuni minuti ai sacerdoti, lentamente e dettagliatamente, sottolineando certi punti importanti. — Qualche domanda? — chiese infine, e passò vari minuti a rispondere alle domande che gli venivano trasmesse dalle stazioni delle diocesi. Ardmore lasciò il tempio insieme con il sacerdote locale. Il sacerdote cercò di convincerlo a rimanere al sicuro, ma lui non volle ascoltare le sue obiezioni, anche se sapeva, in cuor suo, che erano giuste. Sapeva che non doveva correre rischi inutili, ma era felice come un ragazzino di essere libero, almeno questa volta, dalle restrizioni che Jeff Thomas riusciva sempre ad esercitare su di lui. — Come conta di scoprire il luogo in cui hanno portato i membri della congregazione? — gli chiese il sacerdote. Era un ex mediatore di immobili, a nome Ward: un uomo dotato di notevoli doti d’intuito. Ardmore l’aveva trovato subito simpatico. — Be’, lei come si comporterebbe, se non ci fossi io? — Mah, penso che andrei in una stazione di polizia e mi metterei a spaventare la faccia di limone che la comanda, fino a ottenere l’informazione che vogliamo. — Mi pare abbastanza ragionevole. Dove possiamo trovare una stazione di polizia? La centrale di polizia dei Panasiatici era un edificio poco distante dal palazzo, a otto o nove isolati di distanza dal tempio. Incontrarono 210
molti orientali durante il tragitto, ma nessuno di essi cercò di fermarli. I Panasiatici parevano sbalorditi alla vista di due sacerdoti di Mota che se ne andavano per i fatti loro, per strada, senza mostrare preoccupazione. Perfino coloro che indossavano l’uniforme della polizia parevano incerti sul da farsi, come se le loro istruzioni non avessero previsto quella circostanza. Comunque, qualcuno doveva avere telefonato alla centrale; sulla soglia dell’edificio, incontrarono un ufficiale asiatico, che gridò loro, con visibili segni di nervosismo: — Arrendetevi! Siete in arresto! Non si fermarono. Ward levò la mano nel gesto della benedizione e intonò: — Pace! Conducetemi dai miei fedeli. — Non hai capito il mio ordine? — scattò il Panasiatico; il tono della sua voce era più acuto del solito. — Sei in arresto! — ripeté, e la mano gli corse, nervosamente, alla fondina. — Le vostre armi terrene non possono giovarvi — disse Ardmore, calmo, — quando siete di fronte al grande Signore Mota. Egli vi ordina di condurmi dai miei fedeli. State in guardia! Continuò ad avanzare, fino a che il suo schermo non cominciò a premere contro il corpo dell’orientale. La pressione immateriale dello schermo invisibile era più di quanto l’asiatico potesse sopportare. Indietreggiò, trasse l’arma dalla fondina e sparò. La scarica della pistola a vortice colpì lo schermo senza fare danni e venne assorbita. — Il Signore Mota è impaziente — osservò Ardmore, in tono pacato. — Conducete i suoi servitori dove vi hanno chiesto, prima che il Signore Mota vi succhi lo spirito dal corpo. 211
E azionò un altro effetto, mai usato prima d’allora contro i Panasiatici. Si trattava di un principio abbastanza semplice: veniva generato un campo di stasi, di forma cilindrica, composto di raggi trattori e pressori. A tutti gli effetti, una specie di tubo. Ardmore lo centrò contro il volto dell’asiatico, poi applicò nell’interno del tubo un raggio trattore. Lo sfortunato Panasiatico boccheggiò, cercando aria dove aria non c’era, e tentò di portarsi una mano alla bocca. Quando cominciò a perdere sangue dal naso, Ardmore lo lasciò. — Dove sono i miei figli? — chiese nuovamente, sempre nel tono pacato di prima. L’ufficiale di polizia, forse per un riflesso istintivo, cercò di fuggire. Ardmore lo bloccò contro la porta, per mezzo di un raggio pressore, e di nuovo azionò il tubo aspirante: questa volta contro lo stomaco dell’asiatico. — Dove sono? — Nel parco — ansimò l’uomo, e vomitò. Ardmore e Ward si volsero con calma dignitosa e ridiscesero gli scalini, spazzando via con noncuranza, mediante il raggio pressore, tutti coloro che cercavano di avvicinarsi. Il parco circondava l’edificio che in precedenza era il campidoglio di Stato e che adesso era il palazzo del Principe Reale. I membri della congregazione erano chiusi in un recinto approntato in fretta e furia, circondato da file di soldati asiatici. Alcuni tecnici, su una piattaforma a poca distanza, stavano installando delle telecamere. Era facile dedurre che i Panasiatici si preparavano a impartire ai servi una nuova «lezione» pubblica. Ardmore non scorse l’apparecchio, piuttosto voluminoso, che produceva le convulsioni: o non l’avevano ancora montato, o si prepa212
ravano a usare un altro metodo di esecuzione. Forse i soldati presenti costituivano un’enorme squadra di fucilazione. Per un attimo provò la tentazione di servirsi del bordone per mettere fuori combattimento tutti i soldati presenti: erano in posizione di «riposo», con i fucili ammucchiati in fascio, e c’era la possibilità di riuscire a metterli fuori combattimento prima che potessero recare danno, non ad Ardmore, ma ai membri della congregazione, indifesi. Però Ardmore vi rinunciò; la mossa giusta era quella che aveva ordinato ai sacerdoti: il gioco doveva basarsi sul bluff... non poteva combattere contro tutti i soldati Panasiatici che potevano scendere in campo, eppure doveva riportare la congregazione, indenne, al tempio. I prigionieri ammassati nel recinto riconobbero Ward, e forse anche il Sommo Sacerdote, almeno di fama. Ardmore vide sul loro volto la disperazione lasciare il posto a una improvvisa speranza: si alzarono in piedi, in attesa. Ma lui, passando accanto al recinto, rivolse loro soltanto un piccolissimo gesto di benedizione. Ward lo imitò, e la speranza lasciò il posto al dubbio e allo stupore, quando i prigionieri li videro avanzare fino al comandante Panasiatico e rivolgergli la stessa benedizione. — Pace! — esclamò Ardmore. — Vengo per aiutarvi. Il Panasiatico lanciò un secco ordine nella sua lingua. Due soldati corsero verso Ardmore e cercarono di afferrarlo. Scivolarono sullo schermo, provarono di nuovo, e poi rimasero fermi a fissare il loro comandante, in attesa di istruzioni, come un cane confuso da un ordine impossibile. Ardmore li ignorò; continuò ad avanzare fino a giungere di fronte all’ufficiale. — Mi è stato detto che i miei figli hanno peccato — annunciò. — Il Signore Mota vuole occuparsi direttamente di loro.
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Non attese la risposta, ma girò la schiena all’ufficiale, perplesso, e gridò: — Nel nome di Shaam, Signore della Pace! — accendendo il raggio verde del bordone. Lo diresse contro la congregazione imprigionata. Tutti caddero al suolo, come un campo di grano sotto un forte vento. In pochi secondi, ogni uomo, donna, bambino giacque immobile a terra, in apparenza morto. Ardmore si volse nuovamente verso l’ufficiale Panasiatico. Gli fece un profondo inchino. — Il servo chiede che questa penitenza sia bene accetta. Dire che l’orientale era sconcertato, sarebbe soltanto una prova dell’insufficienza delle parole. Egli sapeva come comportarsi di fronte all’opposizione, ma una collaborazione totale di questo genere non gli lasciava nessuna linea di condotta: non era prevista dal manuale. E Ardmore non gli diede il tempo di formulare una linea di condotta. — Il Signore Mota non si limita a questo — annunciò; — mi ha ordinato di portare dei doni a voi e ai vostri uomini... doni d’oro! E così dicendo accese una brillante luce bianca e la fece passare sulle armi che aveva alla sua destra e che erano ancora a terra, ammucchiate in fasci. Ward lo imitò, rivolgendo la propria attenzione al fianco sinistro. I fasci di fucili brillarono e luccicarono sotto il raggio: dove esso toccava, il metallo assumeva uno splendore nuovo, più ricco e più caldo. Oro! Oro puro! I soldati semplici dei Panasiatici non erano pagati meglio di quanto non lo siano di solito i soldati semplici. Le loro fila ondeggiarono incerte, come cavalli da corsa ai nastri. Un sergente fece un passo avanti, fino
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alle armi; ne esaminò una e la alzò. Gridò qualcosa nella sua lingua, in tono concitato. I soldati ruppero le righe. Urlavano, correvano e ballavano. Lottavano tra loro per il possesso delle inutili, preziose armi. Non prestarono più attenzione agli ufficiali, i quali, dal canto loro, non erano affatto immuni dalla febbre dell’oro. Ardmore alzò lo sguardo su Ward e gli rivolse un cenno del capo. — Diamogli il fatto suo — ordinò, e diresse sul comandante Panasiatico il raggio dello svenimento. L’asiatico rotolò a terra senza sapere che cosa l’avesse colpito, perché i suoi occhi fissavano, con estrema angoscia, il caos nato tra i suoi quadri. Ward, intanto, si occupava degli ufficiali. Ardmore irradiò sui prigionieri americani l’effetto che li faceva tornare in sé, e Ward disintegrò un vasto tratto del recinto. Si verificò allora la difficoltà imprevista di tutta l’impresa: convincere trecento persone stupite e disorganizzate ad ascoltare e a muoversi tutte nella stessa direzione. Ma due voci robuste e decise riuscirono infine a farlo. Fu necessario aprirsi un varco con i raggi pressori e trattori, per passare attraverso la folla dei soldati asiatici che continuavano a lottare tra loro, impazziti per il possesso delle armi preziose. Questo diede un’idea ad Ardmore: usò il raggio sulla congregazione per tenerla unita, un po’ come fanno le contadine quando tengono in fila le oche con un bastone sottile. Percorsero in dieci minuti i nove isolati dal parco al tempio, a un passo di corsa che sollevò proteste e lasciò molti senza fiato. Ma ce la fecero, senza interruzioni da parte di soldati, anche se tanto Ward quanto Ardmore dovettero abbattere qualche Panasiatico.
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Quando finalmente varcò la soglia del tempio, Ardmore si asciugò il sudore dal volto... sudore dovuto non soltanto alla corsa. — Ward — chiese, ansando, — ha qualcosa da bere, qui dentro? Ardmore non aveva ancora finito una sigaretta, che Thomas lo chiamò: — Capo — disse, — cominciamo a ricevere i rapporti. Credo voglia sentirli anche lei. — Certo. — Completo successo... finora. Circa il venti per cento dei sacerdoti ha inviato rapporto, tramite il proprio vescovo, di essere ritornato al tempio con l’intera congregazione. — Qualche perdita? — Si. Abbiamo perduto l’intera congregazione a Charleston, Carolina del Sud. Erano già morti prima che il sacerdote fosse arrivato. Allora il sacerdote si è buttato contro i Panasiatici con il bordone a piena potenza, e ha ucciso un numero di quelle scimmie almeno triplo del numero dei nostri, prima di ritornare al tempio per fare rapporto. Ardmore si accigliò. — Peccato — disse. — Mi spiace per la congregazione, ma mi spiace ancora di più che non sia riuscito a controllarsi e abbia ucciso un gruppo di Panasiatici. Mi forza la mano prima che siamo pronti. — Ma, Capo, non si può biasimarlo... c’era sua moglie, tra i morti. — Non lo biasimo. Comunque, ormai è fatta: il guanto di velluto doveva cadere, presto o tardi; significa soltanto che dovremo agire più in fretta. Altri fastidi? — Non molti. In alcune città hanno dovuto svolgere una specie di azione di retroguardia durante il ritorno al tempio, e hanno perduto qualche persona.
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Ardmore vide, nello schermo, che un portaordini passava a Thomas alcuni fogli scritti a macchina. Thomas diede un’occhiata e disse: — Altri rapporti, Capo. Vuole che glieli legga? — No. Mi farai un rapporto complessivo quando saranno arrivati tutti. O quando saranno arrivati quasi tutti; tra un’ora al più tardi. Intanto chiudo la comunicazione. Il rapporto definitivo diceva che più del novantasette per cento degli appartenenti al culto di Mota era ritornato sano e salvo ai templi. Ardmore convocò lo stato maggiore e descrisse i piani immediati. Partecipò alla riunione in immagine, e non di persona: il suo posto al tavolo della conferenza era occupato dalla telecamera e dallo schermo del ricevitore. — Ci hanno forzato la mano — disse — Come sapete, non prevedevamo di iniziare l’azione, di nostra volontà, per altre due settimane, magari tre. Ma adesso non abbiamo scelta. Da come mi raffiguro la situazione, ora dobbiamo agire; agire talmente in fretta da conservare l’iniziativa. Invitò una discussione generale: tutti furono d’accordo nel dire che occorreva un’azione immediata, con qualche divergenza d’opinione sul metodo da adottare. Dopo avere ascoltato varie proposte, Ardmore scelse il Piano di Disorganizzazione IV e ordinò di proseguire i preparativi. — Ricordate questo — avvertì. — Una volta partiti, non potremo più tornare indietro. È una cosa che si muove in fretta, e che procede a ritmo accelerato. Quante armi di base sono state preparate? L’«arma di base» era il più semplice proiettore Ledbetter che fosse stato progettato. Aveva un aspetto molto simile a quello di una pistola, e veniva usato nello stesso modo. Proiettava un pennello di raggi a effetto Ledbetter primario, nella banda di frequenze fatale alla razza mongolica 217
e a questa soltanto. Poteva essere usata da chiunque dopo tre minuti di addestramento, perché bastava puntarla e premere il grilletto, ma era assolutamente sicura: chi la usava, letteralmente, non avrebbe potuto far male a una mosca, e neppure a un uomo di razza caucasica. Ma era la morte istantanea per un asiatico. Il problema di fabbricarla in serie e di distribuirla per impiegarla nel conflitto era stato molto complesso. I bordoni usati dai sacerdoti erano fuori questione: ciascuno di essi era uno strumento di precisione, paragonabile a un cronometro svizzero. Scheer stesso aveva faticosamente costruito a mano le parti più delicate di ciascun bordone, ed era dovuto ricorrere all’aiuto di molti altri meccanici specializzati per far fronte alla richiesta. Tutto veniva fatto a mano: una produzione di massa era impossibile, finché gli americani non fossero ritornati padroni delle proprie fabbriche. Inoltre, occorrevano istruzioni precise e un lungo addestramento controllato da una persona esperta, prima che un sacerdote acquistasse quel minimo di abilità necessario per servirsi degli stupefacenti poteri del bordone. La risposta pratica al problema era l’arma di base. Era uno strumento semplice e robusto, e non conteneva altre parti mobili che il pulsante di attivazione, o grilletto. Tuttavia, neppure questa poteva venire fabbricata in grandi quantità alla Cittadella, poiché non c’era modo di distribuire le armi in parti molto lontane della nazione senza richiamare spiacevolmente l’attenzione delle autorità Panasiatiche. Ciascun sacerdote aveva portato al proprio tempio un campione dell’arma; in seguito, si era occupato di trovare e di arruolare, all’interno della sua comunità, operai forniti della necessaria abilità nelle lavorazioni metalliche, i quali avevano poi costruito quello strumento relativamente semplice. 218
Nei locali segreti posti nei sotterranei dei templi, da varie settimane gli operai si dedicavano a quel lavoro: limare, rifinire, tagliare, riprodurre a mano decine di quelle piccole armi mortali. L’ufficiale di stato maggiore che si occupava dei rifornimenti fornì ad Ardmore l’informazione richiesta. — Ottimo — disse lui. — Il numero delle armi è minore di quello delle persone che fanno parte delle nostre congregazioni, ma dovremo accontentarcene. Comunque, ci sarà un mucchio di peso morto. Questa maledetta faccenda del culto ha richiamato tutti gli eccentrici e i mezzi matti del paese... gli uomini con i capelli lunghi e le donne con i capelli corti. Una volta tolti quelli, vedrete che avanzerà un certo numero di armi. Anzi, penso una cosa: se restano armi, in ogni congregazione ci dovrebbe essere un certo numero di donne, giovani, robuste e abbastanza decise da poter dare un aiuto nella lotta. Potremmo armare quelle. E per quanto riguarda gli eccentrici, nel piano generale d’indottrinamento troverete una nota sui criteri che ogni sacerdote dovrà seguire nel comunicare al proprio gregge che tutta la faccenda era in effetti una montatura a scopi militari. Vorrei aggiungere un consiglio: nove persone su dieci saranno lietissime di sapere la verità, e saranno entusiasticamente disposte a collaborare. La decima potrà dare fastidio, dare segni d’isterismo, magari cercare di fuggire dal tempio. Per l’amor di Dio, avvertite tutti i sacerdoti di fare attenzione; dare la notizia a un piccolo gruppo di persone per volta, ed essere pronti a dirigere il raggio del sonno su tutti coloro che potrebbero dare fastidio. Poi chiuderli a chiave fino alla fine dell’azione. Non abbiamo tempo di convincere gli indecisi. «Ora cominciate a darvi da fare. I sacerdoti saranno occupati per 219
tutto il resto della giornata a istruire le congregazioni e a organizzarle secondo una parvenza di ordinamento militare. Thomas, voglio che il ricognitore assegnato questa notte al Principe Reale passi a prelevarmi. E voglio che sia pilotato da Wilkie e Scheer.» — Benissimo, signore. Ma avevo deciso di esserci anch’io, su quell’apparecchio. Le spiace questo piccolo cambiamento? — Si, mi spiace — rispose seccamente Ardmore. — Se provi a dare un’occhiata al Piano di Disorganizzazione IV, vedrai che richiede la presenza nella Cittadella dell’ufficiale comandante. Poiché io sono qui, fuori della Cittadella, rimarrai tu al mio posto. — Ma, Capo... — Non intendo che rischiamo la vita tutt’e due; non a questo stadio dell’azione. E ora, silenzio. — Si, signore. Più tardi nella mattinata, Ardmore fu nuovamente chiamato al trasmettitore. Dallo schermo lo fissava il volto dell’ufficiale di guardia alle comunicazioni, dalla Cittadella. — Oh, maggiore Ardmore — disse, — Salt Lake City cerca di raggiungerla con un messaggio di priorità. — Me la passi. Il volto dell’ufficiale fu sostituito da quello del sacerdote di Salt Lake City. — Capo — cominciò, — abbiamo un prigioniero veramente straordinario. Secondo me, farebbe bene a interrogarlo lei stesso. — Non ho molto tempo. Perché? — Be’, è un Panasiatico, ma dice di essere un uomo bianco e che lei lo riconoscerà. Ma la cosa strana è che è riuscito a passare attraverso il 220
nostro schermo. Credevo fosse impossibile. — È impossibile, infatti. Mi faccia vedere quell’uomo. Si trattava di Downer, come Ardmore già sospettava. Ardmore lo presentò al sacerdote di Salt Lake City, dandogli l’assicurazione che lo schermo difensivo non l’aveva tradito. — Dunque, Capitano, mi racconti tutto. — Signore, ho deciso di venire a fare rapporto dettagliato a lei, perché la situazione precipita. — Certo. Mi dia tutti i dettagli che conosce. — Si, signore. Mi chiedo se ha idea del danno che ha già procurato al nemico? Il loro morale sta andando a pezzi come ghiaccio in primavera. Sono innervositi, insicuri. Cos’è successo? Ardmore gli fece un breve resoconto degli avvenimenti delle precedenti ventiquattr’ore, del suo arresto, dell’arresto dei sacerdoti, dell’arresto in massa dei fedeli di Mota, e della loro successiva liberazione. — Questo spiega tutto — disse Downer, annuendo. — Io non sapevo cosa fosse successo... non dicono mai nulla a un soldato semplice... ma vedevo chiaramente che il loro morale andava a pezzi, e pensavo fosse meglio comunicarlo a lei. — Che cos’è successo? — Be’, penso sia meglio dirle quanto ho visto, e lasciare a lei le deduzioni. Il secondo battaglione del Reggimento del Drago, a Salt Lake City, è agli arresti. Ho sentito dire che tutti i suoi ufficiali si sono suicidati. Suppongo sia il battaglione che non ha saputo evitare la fuga della congregazione locale, ma non potrei affermarlo con sicurezza. — Si, probabilmente è quello. Continui. — So soltanto ciò che ho visto. Li hanno portati verso la metà della mattinata, con le bandiere abbassate, e li hanno confinati in caserma; 221
hanno messo una grossa guardia intorno all’edificio. Ma la cosa non termina lì. Non si limita alla singola unità che è agli arresti. Capo, lei sa che tutto il reggimento va a pezzi, se il colonnello non ha più presa sui suoi uomini. — Certo. È questo, ciò che sta succedendo? — Si, almeno nel caso del comando stazionato a Salt Lake City. Sono certo che il comandante locale teme qualcosa che non riesce a comprendere; la sua paura ha contagiato tutti i suoi uomini, perfino i soldati semplici. Ci sono stati suicidi, mucchi di suicidi, perfino nella truppa. Un uomo viene preso dalla melanconia per tutta una giornata, poi si inginocchia in direzione del Pacifico e si taglia le budella. «Ed ecco che arriviamo al dato più significativo: quello che dimostra il crollo del morale in tutto il paese. È arrivato un ordine generale, emanato dal Principe Reale in nome del Celeste Imperatore, che proibisce altri onorevoli suicidi.» — E che effetto ha avuto? — È un po’ presto per dirlo: è arrivato soltanto oggi. Ma forse lei non può rendersi conto di cosa significa, Capo. Occorre essere vissuti in mezzo a questa gente, come me, per rendersene conto fino in fondo. Per i Panasiatici, la faccia è tutto... tutto. Essi attribuiscono alle apparenze un’importanza estrema: un americano non potrebbe mai capirla. Dire a un uomo che abbia perso la faccia che non può riportare le cose alla pari e mettersi in pace con i propri antenati commettendo suicidio, Capo, equivale a strappargli il cuore dal petto. Pregiudica il suo bene più prezioso. «Lei può essere sicuro, Capo, che anche il Principe Reale dev’essere spaventato, altrimenti non avrebbe mai fatto ricorso a questo genere di misure. Negli ultimi giorni deve avere perduto un altissimo numero di 222
ufficiali, se ha pensato a una cosa simile.» — La notizia mi rassicura. Prima che sia trascorsa questa notte, spero che saremo riusciti a recare al loro morale un danno altrettanto grave quanto quello che gli abbiamo già recato. Dice che li abbiamo quasi indotti alla fuga? — Niente affatto, Maggiore... non lo penso neppure. Quelle maledette scimmie gialle — continuò in tutta sincerità, dimenticando, evidentemente, che il suo aspetto era esattamente simile a quello di un asiatico, — nella loro attuale condizione mentale sono ancor più pericolosi e spietati di prima, quando facevano i galletti. Basterebbe il minimo incidente per scatenare la loro follia e spingerli a massacrare a destra e a sinistra... donne, bambini... indiscriminatamente! — Uhm. Lei ha qualche suggerimento? — Si, Capo, ho un suggerimento. Colpirli con tutto quello che avete, appena possibile, prima che cominci il massacro generale. In questo momento li avete indeboliti; colpiteli prima che abbiano tempo di pensare a rappresaglie sulla popolazione. Altrimenti ci sarà uno spargimento di sangue talmente grande che la disfatta, al confronto, sembrerà un’allegra scampagnata. «Ed è questo il secondo motivo che mi ha indotto a venire nel tempio — terminò. — Non voglio che mi ordinino di massacrare i miei compatrioti.» Il rapporto di Downer fornì ad Ardmore ulteriori motivi di preoccupazione. Credeva che Downer avesse sostanzialmente ragione, nella sua interpretazione della mentalità orientale. La cosa di cui lo aveva avvertito Downer — le possibili rappresaglie contro l’intera popolazione civile — era sempre stata il punto cruciale di tutto il problema. Era stata il motivo che aveva indotto a fondare la religione di Mota: perché 223
non osavano attaccare direttamente, per paura di sistematiche rappresaglie contro gli inermi. Ora — se Downer aveva ragione — Ardmore, nell’attaccare indirettamente, aveva reso quasi altrettanto probabile una rappresaglia causata dalla paura e dall’isterismo. Revocare il Piano IV e attaccare quel giorno stesso? No: sarebbe stato inutile. I sacerdoti dovevano avere qualche ora a disposizione per organizzare i membri delle congregazioni e trasformarli in combattenti partigiani. Stando così le cose, tanto valeva proseguire con il Piano IV e sconvolgere ancor più i dominatori. Una volta dato inizio al Piano IV, i Panasiatici sarebbero stati troppo occupati per avere il tempo di pensare ai massacri. Un piccolo, aerodinamico ricognitore scese in verticale da grande altezza e si posò silenziosamente e dolcemente sul tetto del tempio, nella città capitale del Principe Reale. Ardmore salì fino ad esso mentre il grande portello laterale si apriva e ne discendeva Wilkie. — Come va, Capo? — salutò. — Salve Bob. Esattamente in orario, vedo: mezzanotte in punto. Crede che vi abbiano individuato? — Non credo. Almeno, nessuno ha puntato il radar nella nostra direzione. E noi volavamo molto in alto, veloci; il motore gravitazionale è una gran cosa. Una volta saliti a bordo, Scheer rivolse al suo ufficiale comandante un sobrio cenno del capo, accompagnato da un: «Buonasera, signore», senza staccare le mani dai comandi. Il tempo di allacciare le cinture di sicurezza, poi il ricognitore si levò in volo, verticalmente. — Ordini, signore? — Scenda sul tetto del palazzo... e sia prudente. 224
A luci spente, ad alta velocità, senza nessuna fonte motrice che il nemico potesse scoprire, il piccolo aereo scese a piombo sul tetto designato. Wilkie fece per aprire il portello. Ardmore lo fermò. — Diamo un’occhiata in giro, prima. Un incrociatore asiatico, in servizio di guardia sulla residenza del principe, cambiò rotta e accese un potente riflettore. Il raggio luminoso, guidato dalle indicazioni del radar, si fermò sul ricognitore. — Possiamo colpirlo a questa distanza? — fece Ardmore. Aveva bisbigliato, anche se la cosa era assolutamente inutile. — È la cosa più facile del mondo, Capo. — L’immagine del bersaglio venne inquadrata al centro di due fili incrociati; Wilkie schiacciò un pulsante. Apparentemente non successe nulla, ma il raggio luminoso scivolò via dal ricognitore. — È sicuro di averlo colpito? — chiese Ardmore, dubbioso. — Sicurissimo. Quell’aereo continuerà a proseguire con il pilota automatico finché avrà carburante. Ma alla barra c’è un morto. — D’accordo. Scheer: lei prenda il posto di Wilkie al proiettore. Ma lo azioni soltanto se individuano il ricognitore. Se non saremo di ritorno entro mezz’ora, ritorni alla Cittadella. Venga, Wilkie: andiamo a imbastire il nostro trucchetto. Scheer accettò l’ordine, ma dal modo in cui serrò le mascelle fu evidente la sua mancanza d’entusiasmo. Ardmore e Wilkie, bardati in completa tenuta sacerdotale, perlustrarono il tetto alla ricerca di una via d’accesso all’interno del palazzo. Ardmore teneva il bordone acceso sulla lunghezza d’onda a cui erano sensibili i mongolici, ma a un’intensità da stordire, non da uccidere. Il palazzo era stato irradiato con un cono di raggi della stessa frequenza, prima dell’atterraggio, usando il proiettore, molto più potente, montato sul ricognitore. Presumibilmente, tutti gli 225
asiatici che si trovavano all’interno erano fuori combattimento... ma Ardmore preferiva non correre rischi inutili. Trovarono una botola d’accesso al tetto, evitando così di praticare un’apertura, e discesero per una scaletta metallica impiegata dal personale delle pulizie e dagli operai che riparavano le grondaie. Una volta giunto all’interno, Ardmore faticò a orientarsi: pensava già di dover trovare un Panasiatico, ridargli i sensi e ricavare da lui, usando metodi poco ortodossi, l’ubicazione degli appartamenti privati del principe. Ma la fortuna lo favorì: era capitato al piano giusto, e indovinò la porta della stanza del principe dalla dimensione e dal genere del corpo di guardia che vi giaceva davanti, fuori combattimento. La porta non era chiusa a chiave; il principe si affidava a una guardia militare, non a serrature e chiavistelli: non aveva mai girato una chiave in tutta la sua vita. Lo trovarono sul letto; un libro gli era scivolato dalle dita inerti. A ciascuno degli angoli dell’ampia stanza c’era un attendente, riverso a terra. Wilkie osservò il principe con curiosità. — Dunque, ecco Sua Spocchia. Adesso che si fa, Maggiore? — Lei si metta a un lato del letto; io mi metterò all’altro. Voglio che sia costretto a dividere la sua attenzione in due. E gli stia vicino, in piedi, così dovrà guardare in alto per vederla. Sarò io a parlare; lei, di tanto in tanto, butti giù qualche frase, per richiamare la sua attenzione. — Che tipo di frase? — Le solite frasette sacerdotali. Frasi d’effetto, ma che in realtà non vogliono dire niente. Pensa di farcela? — Credo di si. Da studente vendevo enciclopedie. — Ottimo. Questo tizio è un osso duro; durissimo. Cercherò di fare leva su due paure istintive e fondamentali, comuni a tutte le persone: la 226
paura dello schiacciamento e la paura di cadere. Potrei farlo io, con il mio bordone, ma sarà più semplice se lo farà lei con il suo. Crede di poter capire i miei cenni e di fare esattamente quanto le indico? — Be’, se riuscisse a spiegarmelo meglio... Ardmore gli espose i dettagli, poi aggiunse: — Siamo a posto, credo. Attacchiamo. Si metta in posizione. — Accese i quattro raggi colorati del bordone, e Wilkie lo imitò. Poi fece ancora il giro della stanza, spegnendo tutte le luci. Quando il Principe Reale dei Panasiatici, Nipote del Celeste Imperatore e dominatore in suo nome del Regno Occidentale dell’Impero, riprese i sensi, vide torreggiare sopra di sé, nell’oscurità, due figure impressionanti. La più alta indossava una veste di una luminescenza lattea. Anche il suo turbante risplendeva di luce propria: bianca e calda; al di sopra si librava un candido cerchio di fuoco... un’aureola. Il bastone che la figura stringeva nella sinistra era sormontato da un capitello cubico, che emetteva, dalle quattro facce, raggi di luce color rubino, oro, smeraldo e zaffiro. La seconda figura era simile alla prima, ma la sua veste era rossa come ferro sull’incudine. Il loro volto era parzialmente illuminato dai raggi che uscivano dai bastoni. L’apparizione vestita di bianco levò la mano destra in un gesto che non era di benedizione, bensì di comando. — Di nuovo c’incontriamo, infelice principe! L’educazione del principe era stata rigorosa, e profonda; la paura non era affatto naturale, in lui. Cercò di rizzarsi a sedere, ma una forza impalpabile gli schiacciò il petto e lo inchiodò contro il giaciglio. Fece per parlare. L’aria gli venne strappata dalla gola. 227
— Taci, figlio dell’iniquità! Il Signore Mota parla per bocca mia. E tu ascolterai in pace. Wilkie giudicò che era il momento buono per distogliere l’attenzione dell’asiatico. — Grande è il Signore Mota! — intonò. — Le tue mani si sono macchiate del sangue degli innocenti — continuò Ardmore. — E tutto ciò deve finire! — Giusto è il Signore Mota! — Tu hai oppresso il suo popolo. Tu hai lasciato la terra dei tuoi padri, portando con te il fuoco e la spada. Tu devi ritornare ad essa! — Paziente è il Signore Mota! — Ma tu hai messo duramente alla prova la sua pazienza — incalzò Ardmore, — e adesso l’ira del Signore Mota è rivolta contro di te. Io ti porto il suo avvertimento; vedi di ascoltarlo! — Misericordioso è il Signore Mota! — Ritorna alla terra da cui sei venuto... ritorna subito, portando con te la tua gente. E non rimettere piede qui! A questo punto, Ardmore allungò la mano e serrò lentamente le dita, dicendo: — Se non ascolterai questo ammonimento... il respiro ti sarà strappato dal petto! — La pressione sul petto dell’orientale aumentò fino a diventare intollerabile: il principe spalancò gli occhi, boccheggiò per trovare aria. — Se non ascolterai questo ammonimento — continuò Ardmore, — sarai precipitato dal tuo alto seggio! — Il principe si sentì divenire improvvisamente leggero; si sentì scagliare in aria, sentì che l’alto soffitto premeva contro il suo corpo. Altrettanto bruscamente, l’invisibile sostegno cedette; ricadde pesantemente sul letto. 228
— Cosi parla il mio Signore Mota! — Saggio è colui che ascolta la sua voce! — Wilkie cominciava a essere a corto di giaculatorie. Ardmore era pronto a concludere. Il suo sguardo passò rapidamente in rassegna la stanza, e cadde su una cosa che aveva già avuto occasione di vedere in precedenza: l’onnipresente scacchiera. Era posta a fianco del letto, come se il principe avesse l’abitudine di ricorrere ad essa nelle notti d’insonnia. Il principe, evidentemente, doveva dare molta importanza a quel gioco. Ardmore aggiunse un piccolo poscritto alle parole del Signore Mota: — Il mio Signore Mota ha parlato — disse, — ma tu accetta il consiglio di un vecchio: uomini e donne non sono come pedine in una partita! — E una mano invisibile spazzò via le bellissime, preziose figurine intagliate, mandandole a infrangersi in terra. Nonostante i bistrattamenti subiti, il principe ebbe ancora abbastanza spirito per lanciare ad Ardmore un’occhiata feroce. — Ed ora il mio Signore Shaam ti ordina di dormire. — La luce verde del bordone aumentò d’intensità; il principe perdette i sensi. — Uff! — sospirò Ardmore. — Meno male che è finita. Ottima collaborazione, Wilkie. Non mi sono mai sentito la stoffa dell’attore. Si tirò su la falda della veste, e pescò un pacchetto di sigarette dalla tasca dei calzoni. — Ne prenda una — disse a Wilkie. — Dobbiamo fare un lavoro molto sporco. — Grazie — disse Wilkie, accettando la sigaretta. — Però, Capo... è proprio necessario uccidere tutti, qui dentro? La cosa mi ripugna. — Non si faccia prendere dai timori, figliolo — ammonì Ardmore, con una punta d’irritazione nella voce. — Siamo in guerra, e la guerra 229
non è uno scherzo. Non esistono guerre «umanitarie». Siamo in una fortezza militare: i nostri piani richiedono che venga ridotta alla completa inattività. E non possiamo farlo dal ricognitore, perché il piano richiede che il principe resti vivo. — E non sarebbe uguale, se tutti fossero svenuti? — Lei discute troppo. Una parte del piano di disorganizzazione richiede che il principe sia vivo e che conservi il comando, ma che sia privo dei suoi collaboratori abituali. Questo produrrà una grave inefficienza: la baraonda sarà molto maggiore di quella che si avrebbe se noi, semplicemente, uccidessimo lui e lasciassimo che il comando passasse al suo sostituto. Lo sa anche lei. Proceda con il lavoro. Servendosi del raggio mortale dei bordoni, regolato sul massimo, spazzarono le pareti, il pavimento e il soffitto, procurando morte immediata a tutti gli asiatici compresi entro una sfera di un centinaio di metri, passando attraverso pietra e metallo, intonaco e legno. Wilkie svolse la sua parte con efficienza, ma a labbra strette. Cinque minuti più tardi, erano nella stratosfera, diretti verso casa: la Cittadella. Altri undici ricognitori volavano nella notte. A Cincinnati, a Chicago, a Dallas, in tutte le principali città del continente, piombavano giù dalle tenebre, mettendo fuori combattimento il nemico ovunque incontravano resistenza, e sbarcavano piccole squadre di uomini decisi, pronti a tutto. Questi uomini penetravano nei palazzi dei Panasiatici, superando le guardie svenute, e trascinavano via gli alti ufficiali locali: governatori regionali, comandanti militari, tutte le figure più in vista della città. Poco dopo, scaricavano gli orientali, fuori conoscenza, sul tetto del locale tempio di Mota: lì essi venivano presi in consegna e trasportati nei sotterranei da un sacerdote con la barba e i paramenti rituali. 230
Poi il ricognitore si dirigeva alla città successiva, per ripetere l’impresa. Continuò così, una città dopo l’altra, per tutta la notte.
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CAPITOLO UNDICESIMO Calhoun abbordò Ardmore poco dopo il suo arrivo alla Cittadella. — Maggiore Ardmore — fece, schiarendosi la gola, —attendevo di poter parlare con lei a proposito di una questione importante. Quest’uomo, pensò Ardmore, riesce sempre a trovare il momento meno opportuno per parlare. — Si? — Mi pare che lei si aspetti una rapida risoluzione degli eventi. — Le cose giungeranno presto a una conclusione, si. — Suppongo che tutta la situazione si deciderà nell’immediato futuro — continuò Calhoun. — Non sono riuscito ad avere i particolari dal suo collaboratore Thomas... non mi è parso molto disposto a collaborare; e non riesco a comprendere perché lei lo abbia voluto elevare a una posizione dalla quale può parlare per lei in sua assenza... ma la cosa esula dall’argomento — concesse Calhoun, con un gesto magnanimo. — Quanto volevo chiederle è la seguente cosa: ha pensato alla forma di governo che adotteremo dopo avere respinto gli invasori asiatici? Dove diavolo voleva arrivare il vecchio matematico, si chiese Ardmore? — No — rispose, — non ho ancora pensato a questo aspetto della cosa; del resto, perché avrei dovuto pensarci? Naturalmente, ci sarà una specie di periodo di transizione, qualche forma di governo militare, finché non avremo rintracciato i vecchi funzionari sopravvissuti alla disfatta, li avremo reinsediati nella loro carica e avremo preparato un’e-
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lezione generale. Ma non credo che sarà difficile: potremo lavorare mediante i sacerdoti locali. Calhoun inarcò le sopracciglia. — Intende davvero dire, caro amico, che lei pensa seriamente alla possibilità di ritornare al vecchio metodo inefficiente delle elezioni e altre cose del genere? Ardmore lo fissò, sorpreso. — Perché, che altro modo vuole suggerire? — Mi pare ovvio. Qui abbiamo la possibilità, davvero unica, di infrangere una volta per tutte, definitivamente, le sciocchezze del passato, e di sostituirle con un governo che poggi su basi veramente scientifiche, diretto da un uomo scelto per la sua intelligenza e il suo addestramento scientifico, e non per la sua abilità nell’accondiscendere ai pregiudizi della politica. — Una dittatura, eh? — fece Ardmore. — E dove potrei trovarlo, un uomo simile? — La sua voce era ironicamente, pericolosamente gentile. Calhoun non rispose, ma indicò con una leggerissima espressione di modestia e di compiacimento che Ardmore non doveva cercare troppo lontano, per trovare l’uomo giusto. Ardmore preferì fingere di non avere capito che Calhoun, implicitamente, gli comunicava di essere disposto a prestarsi. — Per ora, lasciamo perdere — disse, e il tono della sua voce non era più gentile, bensì brusco. — Colonnello Calhoun, mi spiace di essere costretto a ricordarle il suo dovere... ma le dico questo: io e lei siamo militari. Non è compito dei militari immischiarsi nella politica. A me e a lei è stato dato un certo tipo di autorità, grazie a una Costituzione, e la nostra fedeltà va a quella Costituzione. Se il popolo degli Stati Uniti
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avrà voglia di modernizzare il proprio governo, dovrà essere lui a farcelo sapere! «Intanto, lei ha dei compiti militari, come me. Continui a svolgere i suoi.» Calhoun stava per ribattere, ma Ardmore lo prevenne, tagliando corto. — È tutto. Esegua i suoi ordini, signore! Calhoun si voltò bruscamente, e si allontanò. Ardmore fece venire nel suo ufficio il capo del Servizio Spionaggio. — Thomas — disse, — voglio che i movimenti del colonnello Calhoun siano sorvegliati: con discrezione, ma con molta attenzione. — Si, signore. — Tutti i ricognitori sono rientrati, signore. — Ottimo. Quant’è il conto? — chiese Ardmore. — Un istante, signore. C’era una media di sei missioni per apparecchio. Con l’ultimo ricognitore rientrato si arriva a un totale di... nove e due undici... settantuno prigionieri in sessantotto incursioni. Alcuni hanno fatto il bis. — Qualche perdita? — Soltanto da parte dei Panasiatici... — Accidenti... non intendevo questo! No, voglio dire perdite tra i nostri uomini, naturalmente. — Nessuna perdita, Maggiore. Un uomo si è rotto un braccio cadendo da una scala, al buio. — Be’, penso che possiamo sopportare una simile «perdita». Tra poco dovrebbero cominciare ad arrivare i rapporti sulle dimostrazioni locali, almeno dalle città della costa orientale. Mi informi. — Si, Maggiore.
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— E, per favore, vuol dire al mio ufficiale d’ordinanza di venire da me, quando esce? Voglio mandarlo a prendere qualche compressa di caffeina. Anzi, farebbe meglio a prenderne una anche lei; oggi sarà una grande giornata. — Ottima idea, Maggiore. — L’ufficiale addetto alle comunicazioni uscì. In sessantotto città, distribuite in ogni angolo del paese, erano in corso i preparativi delle dimostrazioni che costituivano la seconda fase del Piano di Disorganizzazione IV. Il sacerdote del tempio di Oklahoma City aveva delegato parte del compito da svolgere in quella città a due uomini: Patrick Minkowski, autista di piazza, e John W. (detto Jack) Smyth, negoziante. Adesso i due erano occupati a mettere due grossi anelli di ferro alle caviglie della Voce della Mano, l’amministratore Panasiatico di Oklahoma City. Il corpo esanime dell’orientale era spogliato, e giaceva su un lungo tavolone, nell’officina sottostante il tempio. — Senti — disse Minkowski, — questa è la chiodatura migliore che posso fare, non potendo arroventare i chiodi. Comunque, ci metterà sempre un mare di tempo a toglierseli. Dov’è la matita copiativa? — Ce l’hai accanto al gomito. Non preoccuparti delle cerniere: il capitano Isaacs dice che dopo le salderà col suo bordone. Fa uno strano effetto, chiamare «Capitano Isaacs» il sacerdote, non ti pare? Credi davvero che facciamo parte dell’Esercito?... legalmente, intendo? — Mah, non saprei... comunque, mi basta avere la possibilità di dare una bella botta alle scimmie gialle: del resto me ne frego. Però, credo che facciamo davvero parte dell’Esercito: se ammetti che Isaacs è un ufficiale, penso allora che possa arruolare delle reclute. Dì, dove gliela mettiamo, la scritta? Sulla schiena, oppure sulla pancia? — Direi di metterla da tutt’e due le parti. Però, è abbastanza curiosa... 235
la faccenda dell’Esercito, voglio dire. Il giorno prima vai in chiesa; il giorno dopo ti viene detto che si tratta di una unità militare, e ti fanno prestare giuramento. — A me, personalmente, fa piacere — rispose Minkowski. — «Sergente Minkowski»: suona bene. Prima non mi avevano voluto prendere, per il cuore. Quanto poi alla storia della chiesa, io, in ogni caso, non avevo mai dato molta importanza alla faccenda del grande Signore Mota. Venivo per fare un pranzo gratis e per poter respirare senza avere addosso gli occhi degli asiatici. Rialzò la matita dalla schiena dell’orientale; Smyth cominciò a riempire di vernice indelebile gli «scuri» del disegno: un ideogramma. — Chissà cosa vorrà dire, nella scrittura di quegli scomunicati? — chiese Minkowski, osservando i contorni che aveva appena tracciato. — Come, non lo sai? — rispose Smyth, e glielo spiegò. Sul volto di Minkowski comparve un sorriso deliziato. — Be’, che mi pigli un colpo! — disse. — Se qualcuno provasse a dirlo a me, gli butterei giù i denti. Dici sul serio? — Certo. Ero davanti alla trasmittente, quando hanno ricevuto il disegno dalla Chiesa Madre... dal quartier generale, voglio dire. Anzi, anche lì la cosa era piuttosto strana. Ho visto sullo schermo la faccia del tizio che trasmetteva il disegno, ed era asiatico come questa scimmia — Smyth indicò la Voce della Mano, sempre fuori combattimento, — ma lo chiamavano capitano Downer e lo trattavano come uno di noi. Cosa ne dici? — Non saprei. Dev’essere dalla nostra parte, altrimenti non lo lascerebbero circolare liberamente all’interno del quartier generale. Di, cosa ne facciamo del resto della vernice?
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Insieme, trovarono subito cosa farne: una cosa che il capitano Isaacs notò immediatamente, quando venne a controllare come procedevano le cose. Represse un sorriso. — Vedo che avete leggermente elaborato gli ordini... — commentò, cercando di conservare un tono di voce sobrio e ufficiale. — Ci pareva un vero peccato sprecare una vernice costosa — spiegò Minkowski, con tono ingenuo. — Inoltre, ci sembrava un po’ nudo, a lasciarlo com’era. — È questione di opinioni. A me sembra più nudo adesso. Ma lasciamo perdere. Sbrigatevi a rasargli la testa: voglio partire appena possibile. Cinque minuti dopo, Minkowski e Smyth erano fermi ad aspettare sulla soglia del tempio; in mezzo a loro c’era la Voce della Mano, avvolto in una coperta e gettato sul pavimento. Videro giungere a tutta velocità una giardinetta, che accostò al marciapiede, frenò bruscamente e sonò il clacson. Dalla parte del volante, si affacciò al finestrino il capitano Isaacs. Minkowski tirò un’ultima boccata alla sigaretta, gettò a terra il mozzicone e si chinò a prendere per le ascelle la forma avvolta nella coperta; Smyth, a sua volta, la prese per le gambe: insieme la portarono pesantemente alla giardinetta. — Ficcatelo nel retro — ordinò il capitano Isaacs. Fatto questo, Minkowski si mise al volante, mentre Isaacs e Smyth sedettero nel retro, a tener compagnia all’oggetto dell’imminente dimostrazione. — Trovami un bel gruppetto di asiatici — disse il capitano, — non importa dove. Se ci sono degli americani presenti, tanto meglio. Guida in fretta, senza prestare attenzione a nessuno. Se sorgono delle difficoltà me ne occupo io, con il bordone. — Si mise di sentinella alle spalle di 237
Minkowski, osservando la strada. — Bene, Capitano! Sa che è un bel macchinino, questo — aggiunse, mentre l’auto acquistava velocità. — Dove l’ha trovato, cosi in fretta? — Ho messo a dormire un paio dei nostri amici orientali — rispose sobriamente Isaacs. — Ehi, attento al rosso! — Ce la faccio! — L’auto fece una curva, e passò in mezzo al traffico che proveniva dai lati. Un poliziotto Panasiatico agitò inutilmente le braccia nella loro direzione. Pochi istanti dopo, Minkowski chiese: — Cosa ne dice di lasciarlo laggiù, davanti a noi, Capitano? — e indicò col mento la direzione. Era la piazza del municipio. — Ottimo. — Si chinò sulla figura immobile sul pavimento dell’auto, e regolò i comandi del bordone. L’asiatico cominciò a divincolarsi. Smyth gli si gettò sopra, e strinse saldamente la coperta intorno alla testa e alle spalle della vittima. — Scegli tu il punto esatto — disse ancora Isaacs. — Quando ti fermi, noi siamo pronti. L’auto si arrestò con una frenata brusca. Smyth spalancò la portiera posteriore; lui e Isaacs afferrarono gli angoli della coperta e fecero rotolare sulla strada, senza tante cerimonie, l’amministratore Panasiatico, che adesso aveva ripreso pienamente i sensi. — Scappa subito, Pat! L’auto balzò in avanti: il gruppo stupito e scandalizzato di Panasiatici che si lasciò dietro si trovò ad affrontare come meglio poteva una situazione estremamente disonorevole. Venti minuti dopo, un breve ma esplicito resoconto dell’impresa veniva passato ad Ardmore, nel suo ufficio alla Cittadella. Ardmore gli diede un’occhiata e lo passò a Thomas.
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— Laggiù ci dev’essere una squadra piena d’immaginazione, Jeff — commentò. Thomas prese il rapporto e lo lesse, poi assentì con il capo. — Spero che anche gli altri si comportino altrettanto bene — disse. — Forse avremmo dovuto dare istruzioni più dettagliate. — No, non credo. Le istruzioni dettagliate sono la rovina dell’iniziativa individuale. Facendo come abbiamo fatto, ciascuno di loro si sforzerà di escogitare qualche modo particolarmente fastidioso per colpire l’orgoglio dei nostri dominatori dagli occhi a mandorla. Sono sicuro che ne ricaveranno delle soluzioni ingegnose e divertenti. Alle nove del mattino, ora del quartier generale, tutti i settanta e più funzionari Panasiatici di grado elevalo erano stati restituiti incolumi, ma permanentemente, insopportabilmente disonorati, ai loro fratelli di razza. In ciascuno dei casi, almeno da quanto dicevano i rapporti, gli asiatici non avevano nessun indizio che permettesse di collegare direttamente questo nuovo fastidio al culto di Mota. Era semplicemente una catastrofe — una catastrofe psicologica della peggior sorta — che aveva colpito nella notte, senza dare preavviso e senza lasciare traccia. — Non ha ancora fissato l’ora zero della terza fase, Maggiore — disse Thomas ad Ardmore, quando tutti i rapporti furono giunti. — Si, lo so. Ma penso di stabilirla entro le prossime due ore al massimo. Dobbiamo dare agli asiatici un po’ di tempo, perché si rendano pienamente conto di ciò che è accaduto loro. La demoralizzazione sarà molto più grave, se avranno tempo di confrontare le notizie provenienti da varie parti del paese e se si accorgeranno che tutti i loro alti funzionari sono stati umiliati pubblicamente. Questo, unito al fatto che abbiamo mutilato quasi al limite il loro quartier generale, dovrebbe 239
essere in grado di provocare la più bella crisi d’isterismo collettivo che si possa immaginare. Ma dobbiamo dare alla cosa il tempo di diffondersi. Downer è in servizio? — È nell’ufficio comunicazioni, in ascolto. — Comunica di inserire un circuito tra lui e il mio ufficio. Voglio sentire le informazioni che riesce a intercettare. Thomas parlò al citofono, brevemente. Pochi istanti dopo, il volto pseudo-asiatico di Downer comparve sullo schermo posato sulla scrivania di Ardmore. Ardmore gli parlò; Downer si tolse la cuffia da un orecchio e gli rivolse un’occhiata interrogativa. — Ho detto: «Ha già intercettato qualcosa?» — ripetè Ardmore. — Qualcosa. C’è una bella baraonda. Ho tradotto qualche messaggio; l’hanno registrato. Toccò il microfono che aveva davanti alla bocca. Negli occhi gli comparve uno sguardo attento e preoccupato; aggiunse: — A San Francisco cercano di rianimare le guardie di palazzo... — Non la interrompo più — promise Ardmore, e chiuse il suo trasmettitore. —... La locale Mano Imperiale è morta, secondo il rapporto. San Francisco chiede una qualche autorizzazione... Attenda un attimo; l’ufficio comunicazione mi chiede di passare a un’altra lunghezza d’onda. Eccola qui... usano il segnale del Principe Reale, ma è la frequenza dei governatori provinciali. Non capisco cosa dicono; o parlano in codice, o si tratta di un dialetto che non conosco. Attenti a questa frequenza!... ecco, così va meglio. — Il viso di Downer si concentrò, poi s’illuminò d’improvviso: — Capo, senta questa: qualcuno dice che il governatore della provincia del Golfo è fuori di senno, e chiede il permesso di deporlo! Eccone un altro: vuole sapere cosa è successo agli apparec240
chi di trasmissione del palazzo, e chiede il modo di comunicare con il palazzo... vuole fare rapporto sullo scoppio di un’insurrezione... Ardmore si inserì nel circuito. — Dove? — chiese. — Non sono riuscito a udirlo. Tutte le frequenze sono sovraccariche di messaggi, che per una buona metà si sovrappongono tra loro. Non hanno il tempo di dare il «passo e chiudo»: passano subito a un altro messaggio. Qualcuno bussò educatamente alla porta dell’ufficio di Ardmore. La porta si aprì di una spanna: fece capolino il dottor Brooks. — Posso entrare? — chiese. — Oh... certamente, Dottore. Entri pure. Stiamo ascoltando le notizie che il capitano Downer riesce a intercettare alla radio dei Panasiatici. — Peccato non averne dieci come lui... traduttori, voglio dire. — Si, ma pare non ci sia molto da intercettare; soltanto impressioni generali. Ascoltarono per quasi un’ora le notizie che Downer riusciva a intercettare: in maggior parte si trattava di parti di messaggi e di notizie non collegate tra loro, ma era sempre più evidente che il sabotaggio del palazzo, unito al forte effetto emotivo dell’umiliazione degli alti funzionari, aveva mandato a catafascio il normale e preciso funzionamento del governo Panasiatico. Infine, Downer disse: — Sta arrivando un ordine generale... Aspettate un attimo. Ordina il completo silenzio radio su tutti i messaggi normali; d’ora in poi ogni messaggio dovrà essere trasmesso in codice. Ardmore fissò Thomas. — Credo sia il momento giusto, Jeff — disse. — Qualcuno con un po’ di sale in zucca cerca di riportarli alla calma con la forza: probabilmente 241
si tratta del nostro vecchio amico, il Principe Reale. È ora di mettergli i bastoni tra le ruote. — Chiamò l’ufficio comunicazioni. — Ehi, Steeves — disse all’ufficiale di guardia, — attacchi con l’energia! — Blocchiamo le trasmissioni? — Esattamente. Avverta i templi per mezzo del circuito A, e dica di attivare tutti gli apparecchi nello stesso istante. — Sono già pronti a farlo, signore. Azione? — Benissimo... Azione! Wilkie aveva progettato un semplice dispositivo che, applicato ai proiettori dei templi, permetteva di alterare la loro potentissima emissione e di trasformarla in radiazione elettromagnetica indifferenziata, sulle frequenze radio. Scariche, insomma. Ora questi dispositivi vennero messi in azione contemporaneamente, dando luogo a disturbi di trasmissione simili a macchie solari, tempeste elettriche e aurora boreale, tutti messi insieme. Sullo schermo, Downer si strappò bruscamente la cuffia dagli orecchi. — Porco diavolo! — esclamò. — Perché non mi avete avvertito? — Riaccostò un ricevitore all’orecchio, con circospezione, poi scosse la testa. — Tutto spento. Scommetto che avete bruciato tutti i ricevitori del paese. — Può darsi — osservò Ardmore, rivolgendosi alle persone che erano con lui nell’ufficio. — Ma continueremo lo stesso a trasmettere disturbi radio. In quel momento, negli Stati Uniti, non rimaneva più alcun sistema generale di comunicazioni all’infuori della pararadio del culto di Mota. I dominatori asiatici non potevano neppure servirsi delle vecchie linee telefoniche, che erano state smantellate da tempo per recuperare il rame. — Quanto dobbiamo ancora aspettare, Capo? — chiese Thomas. 242
— Non molto. Li abbiamo lasciati parlare tra loro quel tanto che bastava perché capissero che succede qualcosa d’infernale in tutto il paese. Ora abbiamo impedito loro di comunicare. Questo dovrebbe produrre del panico. Voglio lasciare a questo panico il tempo di maturare e di diffondersi a tutti i Panasiatici del paese. Quando saranno maturi, cominceremo ad attaccarli! — E da cosa lo capirà? — Non so. Ci baseremo sull’intuito, tra di noi. Lasceremo che i nostri piccoli cari si mordano la coda per qualche tempo, massimo un’ora, poi ci faremo sotto. Il dottor Brooks, nervosamente, cercò di fare un po’ di conversazione. — Be’, sarà un vero sollievo, poter mettere a posto le cose, una volta per tutte. A volte è stato davvero pesante... — e la sua voce si spense. Ardmore si girò verso di lui. — No, non creda che si possano mettere a posto le cose «una volta per tutte». — Ma se riusciremo a infliggere ai Panasiatici la sconfitta decisiva... — Ecco dove sbaglia, Dottore — lo interruppe Ardmore; la tensione nervosa lo faceva parlare in toni bruschi. — Siamo finiti in questo pasticcio proprio perché avevamo creduto di poter sistemare le cose una volta per tutte. Abbiamo affrontato le minacce asiatiche con la Legge contro i Rapporti tra Nazioni e con la grande rete difensiva della costa occidentale... e così i Panasiatici ci sono piombati addosso dal Polo Nord! «Avremmo dovuto pensarci prima: la Storia ci forniva molti esempi. La vecchia repubblica francese aveva cercato di congelare gli eventi in una configurazione fissa, con il Trattato di Versailles. Quando hanno visto che quel trattato non funzionava, hanno costruito la linea Maginot 243
e sono andati a dormire al suo riparo. E che cosa ne hanno ricavato? La sconfitta! «La vita è un processo dinamico, e non si può farlo diventare statico. Le parole e poi vissero felici e contenti valgono soltanto per le favole...» Fu interrotto dal suono di un campanello, e dal lampeggiare del segnale d’emergenza. Sullo schermo comparve il volto dell’ufficiale di guardia alle comunicazioni. — Maggiore Ardmore! Subito l’immagine fu sostituita dal volto di Frank Mitsui, distorto dalla preoccupazione. — Maggiore! — esclamò. — Il colonnello Calhoun... è impazzito! — Calma, calma! Cos’è successo? — È riuscito a sfuggirmi... è salito al tempio. Crede di essere il dio Mota!
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CAPITOLO DODICESIMO Ardmore escluse Frank dal circuito, entrando in contatto con l’ufficiale di guardia alle comunicazioni. — Mi passi il quadro di comando dell’altare maggiore, presto! L’altro obbedì; ma nello schermo non apparve il volto dell’operatore di servizio all’altare. Comparve invece il volto di Calhoun, curvo sulla console dei comandi. L’operatore giaceva abbandonato sulla sedia, con il capo piegato a destra. Ardmore tolse subito il contatto, e si precipitò verso la porta. Thomas e Brooks furono in lizza per il secondo posto, lasciandosi alle spalle come quarto, distanziato senza possibilità di recupero, l’ufficiale d’ordinanza. Tutt’e tre salirono alla massima accelerazione, mediante il condotto antigravità, fino al livello del Tempio, e balzarono sulla piattaforma d’arrivo. L’altare era davanti a loro, a una trentina di metri di distanza. — Frank ha ricevuto da me l’incarico di tenerlo d’occhio — cercava di spiegare Thomas; in quel momento, Calhoun sporse la testa al di sopra della balaustra superiore dell’altare. — Fermi lì! Si fermarono. — Ha puntato su di noi il proiettore pesante — bisbigliò Brooks. — Faccia attenzione, Maggiore!
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— Lo so — fece Ardmore, parlando senza muovere le labbra. Si schiarì la gola, e gridò: — Colonnello Calhoun! — Sono il grande Signore Mota. Attento a come mi parli! — Si, certamente, Signore Mota. Ma spiega al tuo servo una cosa... non è forse quello di «colonnello Calhoun» uno dei tuoi attributi? Calhoun ci pensò un istante. — A volte — rispose infine, — a volte credo di si. Si, è un mio attributo. — E allora, desidero parlare con il colonnello Calhoun. — Ardmore avanzò di qualche passo. — Fermo! — Calhoun si piegò sul proiettore. — I miei fulmini sono regolati per gli uomini bianchi... Attento a te! — Stia attento, Capo — bisbigliò Thomas, — può distruggere tutta la Cittadella, con quell’arnese. — Come se non lo sapessi! — rispose Ardmore, con un filo di voce, e si preparò a riprendere quel dialogo sul ciglio dell’abisso. Ma qualcosa aveva distratto l’attenzione di Calhoun. Lo videro girare il capo, poi affrettarsi a voltare il proiettore dall’altra parte e premerne i comandi con entrambe le mani. Rialzò la testa quasi immediatamente, parve regolare i comandi in modo diverso; di nuovo premette i pulsanti. Quasi simultaneamente, qualcosa di pesante lo colpì; scomparve dietro la balaustra. Sul pavimento della piattaforma dell’altare trovarono Calhoun che si dibatteva. Ma aveva gambe e braccia ferme sotto il peso di un piccolo uomo bruno, massiccio... Frank Mitsui. Gli occhi di Frank parevano maiolica senza vita; i suoi muscoli erano rigidi.
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Occorsero quattro persone per infilare a Calhoun un’improvvisata camicia di forza e per portarlo nell’infermeria. — Da come posso ricostruire i fatti — disse Thomas, osservando la squadra che portava via il vecchio matematico, — il professor Calhoun aveva regolato il proiettore sulla frequenza mortale per la razza bianca. La prima scarica non ha avuto effetto su Frank, e così Calhoun si è dovuto fermare per regolare i comandi. Questo ci ha salvati. — Noi si, ma non Frank. — Be’... lei conosce la sua storia. La seconda scarica deve averlo colpito mentre gli saltava addosso. Massima intensità. Non ha sentito le sue braccia? Coagulazione istantanea... come un uovo sodo. Non ebbero tempo di riflettere sulla tragica fine del piccolo Mitsui. Ardmore e gli altri ritornarono subito nell’ufficio del comandante in capo, dove trovarono Kendig, capo di stato maggiore, che si destreggiava tra i dispacci arrivati nel frattempo. Ardmore si fece dare un breve riassunto verbale. — Un solo cambiamento, Maggiore. Hanno provato a bombardare con un’atomica il tempio di Nashville. Non l’hanno colpito, ma hanno distrutto tutta la parte della città a sud del tempio. Ha già fissato l’ora zero? Varie diocesi me l’hanno chiesto. — Non l’ho ancora fissata, ma non occorrerà aspettare molto. A meno che lei non abbia altre notizie per me, impartirò subito le ultime istruzioni, mediante il circuito A. — Non ho altre notizie, signore. Potrebbe cominciare anche ora. Quando giunse la comunicazione che il circuito A era pronto, Ardmore si schiarì la gola. D’improvviso, si sentiva nervoso.
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— Azione tra venti minuti, signori — cominciò. — Ora, desidero passare in rassegna i punti principali del piano. — E li elencò: i dodici ricognitori erano assegnati, uno ciascuna, alle dodici città più popolate, o, più esattamente, anche se l’elenco era quasi uguale, alle dodici città in cui c’era la più alta concentrazione di forze armate Panasiatiche. In quelle aree, l’attacco dei ricognitori sarebbe stato il segnale di attaccare da terra. I ricognitori, con l’eccezione di uno solo, erano già in posizione mentre lui parlava: nella stratosfera, al di sopra degli obiettivi. I proiettori pesanti montati sui ricognitori dovevano infliggere il maggior danno possibile agli obiettivi militari terrestri, soprattutto caserme e aeroporti. I sacerdoti, dato che erano quasi invulnerabili, dovevano sostenere da terra l’azione dei ricognitori; così avrebbero fatto anche i proiettori dei templi. La «fanteria», costituita dalle congregazioni, doveva molestare il nemico e inseguirlo. — Date ordine di sparare sempre, nel dubbio, e di sparare per primi — proseguì Ardmore. — Non aspettate di vederli negli occhi. Le armi di base sono buone per migliaia di colpi senza bisogno di ricarica, e non c’è alcun rischio di far male a un bianco, con una di esse. Sparate ad ogni cosa che si muove! «Inoltre — continuò, — dite di non allarmarsi, se vedono qualcosa di strano. Anche se dovesse parere impossibile, il responsabile sarà uno di noi; siamo specializzati in miracoli! «Questo è tutto... buona caccia!» L’avviso riguardante i «miracoli» si riferiva a una missione speciale, affidata a Wilkie, Graham, Scheer e Downer. Negli ultimi tempi, Wilkie aveva preparato alcuni effetti speciali, con la collaborazione artistica di Graham. Il lavoro che avrebbero svolto sul campo richiedeva quattro 248
persone, ma non faceva parte del piano generale d’attacco. Nemmeno lo stesso Wilkie avrebbe saputo dire che effetto poteva avere, ma Ardmore aveva affidato loro un ricognitore e aveva dato loro carta bianca. Mentre Ardmore parlava, il suo attendente lo aiutava a indossare la veste sacerdotale. Si infilò il turbante, controllò il collegamento pararadio con l’ufficio comunicazioni, e si voltò per salutare Kendig e Thomas. Notò uno strano sguardo negli occhi di Thomas; si sentì arrossire. — Vorresti andare anche tu, vero Jeff? Thomas non rispose. — Sicuro... sono un puzzone — disse Ardmore. — Lo so. Ma soltanto uno di noi può andare alla festa, e quell’uno voglio esserlo io! — Lei mi fa torto, Capo. A me non piace uccidere. — E allora? Credo non piaccia neppure a me, se è solo per questo. Ma esco lo stesso a saldare il conto di Frank Mitsui. — Strinse loro la mano. Thomas diede il segnale prima che Ardmore avesse raggiunto la capitale dei Panasiatici. Il pilota lo lasciò sul tetto del tempio locale dopo che per le vie della città era già cominciato il combattimento, poi ripartì rapidamente per svolgere le missioni a lui assegnate. Ardmore si guardò intorno. Nelle vicinanze, tutto pareva tranquillo; a questo aveva provveduto il grande proiettore del tempio. Mentre atterravano, aveva visto precipitare un incrociatore Panasiatico, ma non era stato capace di scorgere il piccolo ricognitore assegnato a quel compito. Scese all’interno del tempio. Pareva deserto. C’era soltanto un uomo accanto a un’auto, ferma in mezzo alla navata come se il tempio fosse un garage. L’uomo si diresse verso di lui e disse: 249
— Sergente Bryan, signore. Il sacerdote... voglio dire il tenente Rogers, mi ha detto di aspettare il suo arrivo. — Benissimo. Allora andiamo. — Salì sul veicolo. Bryan si portò i mignoli alle labbra e ne trasse un fischio acuto. — Joe! — gridò. Un uomo fece capolino dalla sommità dell’altare. — Joe — continuò Bryan, — facci uscire. La testa scomparve; le grandi porte del tempio si spalancarono. Bryan salì sull’auto a fianco di Ardmore e chiese: — Dove andiamo? — Mi porti dove ci sono i combattimenti più feroci... anzi, meglio: dove ci sono i Panasiatici. Concentrazioni di Panasiatici. — È lo stesso. — Il veicolo scese a balzi i gradini del tempio, voltò a destra e acquistò velocità. La strada terminava in un piccolo giardino pubblico di forma circolare, tenuto a siepi. C’erano quattro o cinque figure acquattate dietro alle siepi, e una stesa al suolo. Mentre il veicolo rallentava, Ardmore udì il secco schiocco di una pistola — o di un fucile? — a vortice: una delle figure acquattate sussultò e cadde riversa. — Sono in quel palazzo! — gli gridò Bryan nell’orecchio. Ardmore regolò il bordone in modo da emettere uno stretto cono di radiazioni, e con quello irradiò dall’alto al basso, numerose volte, l’edificio. Gli schiocchi secchi cessarono. Un asiatico uscì di corsa da una porta che Ardmore non aveva irradiato, e fuggì per la strada. Ardmore spense il raggio e regolò diversamente i comandi, poi centrò l’uomo in fuga con un sottile raggio luminoso di colore bianco. Come la luce toccò l’orientale, ci fu un’esplosione sorda: l’uomo scomparve.
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Al suo posto rimase soltanto una grossa nube oleosa, che lentamente si allargò e si disperse. — Porco cane! — imprecò Bryan. — Che cos’era? — Esplosione colloidale. Ho liberato la tensione superficiale delle sue cellule. È un effetto che tenevamo in serbo per questo giorno. — Ma cos’è stato, a farlo esplodere? — La pressione interna delle sue cellule. Arriva a cento atmosfere. Ma andiamo. Gli isolati seguenti erano deserti, salvo la presenza di cadaveri; comunque, Ardmore continuò a tenere acceso il proiettore, e spazzò sistematicamente i fabbricati che sfiorarono nella corsa, per quanto lo permetteva la velocità dell’auto. Approfittò della breve tregua per mettersi in contatto con il quartier generale. — È già arrivato qualche rapporto, Jeff? — Poca roba, Capo. È ancora troppo presto. La macchina era già uscita dalle vie cittadine prima che Ardmore capisse dove lo portava Bryan. Lo portava in estrema periferia, nel villaggio universitario, che adesso era usato come caserma dall’esercito dell’Imperatore. I campi sportivi e i campi da golf che circondavano l’Università erano stati trasformati in aeroporto. Qui, per la prima volta, Ardmore si rese conto che gli americani da lui armati per sconfiggere i Panasiatici erano disperatamente pochi... Lontano, alla sua destra, pareva esserci una scaramuccia: poteva vedere le perdite inflitte agli asiatici. Ma gli asiatici erano migliaia e migliaia: quanto bastava a fagocitare gli americani anche soltanto in base alla pura superiorità numerica. Accidenti, perché il ricognitore assegnato a questa postazione non aveva fatto piazza pulita? Che avesse avuto un incidente? 251
Forse l’equipaggio del ricognitore era stato troppo impegnato dall’aviazione nemica, e non era riuscito a ripulire fino in fondo le caserme. Ardmore pensò che forse sarebbe stato meglio passare metodicamente all’offensiva da una città all’altra, utilizzando la squadra di ricognitori come una singola unità operativa, e sperando che l’incapacità dei Panasiatici di usare la radio gli permettesse di continuare fino alla fine. Era ancora in tempo a cambiare i piani? No... ormai aveva gettato il guanto; la battaglia infuriava in tutta la nazione. Occorreva combattere. Intanto, per rovesciare le sorti dello scontro all’Università, Ardmore stava già lavorando con il bordone. Diresse sulle postazioni dei Panasiatici l’effetto primario, regolato alla massima intensità, e fece una passabile strage del nemico. Poi decise di cambiare tattica: l’esplosione colloidale. Era un metodo più lento e macchinoso, ma il suo effetto sul morale del nemico era molto più forte. Per rendere la cosa misteriosa, non accese il raggio guida: puntava l’arma mediante l’intaccatura apposita, praticata nel cubo del bordone. Ecco! Uno degli asiatici era diventato fumo! Ora li aveva sotto tiro... due! tre! quattro!... dieci! E questo, per gli orientali, era decisamente troppo. Erano soldati coraggiosi ed esperti, ma non potevano battersi contro qualcosa che non capivano. Ruppero lo schieramento, si precipitarono al riparo della caserma. Ardmore udì gli applausi degli americani, che proruppero in un autentico grido di vittoria. Le figure degli assedianti uscirono dai ripari e inseguirono i Panasiatici ormai disorganizzati. Ardmore si rimise in collegamento con il quartier generale. — Circuito A! Pochi secondi d’attesa, poi una voce: — Inserito. 252
— A tutti gli ufficiali, attenzione! Usate il più possibile l’esplosione organica. Li spaventa a morte. — Ripetè il messaggio, poi interruppe la comunicazione. Ordinò a Bryan di portarlo più vicino agli edifici. Bryan salì sul marciapiede e si addentrò nel parco, sterzando per evitare gli alberi. Ci fu una terribile esplosione: l’auto si sollevò mezzo metro da terra e ricadde su un fianco. Ardmore si riprese e cercò di raddrizzarsi, intontito. Solo allora si accorse che — chissà come — era riuscito a non rovinare il bordone. La portiera sopra la sua testa si era incastrata a causa dell’esplosione. Si aprì la strada con il bordone e uscì dall’abitacolo. Poi si volse verso Bryan: — È ferito? — Poca roba — disse Bryan, cercando di alzarsi. —Devo essermi rotto una clavicola. — Si afferri alla mia mano. Ce la fa? Con l’altra devo tenere il bordone. — Non senza fatica, Bryan uscì. — Adesso devo lasciarla. Ha la sua arma di base? — Si, signore. — Ah, bene. Buona fortuna. Mentre si allontanava, gettò un’occhiata al cratere. Per fortuna, si disse, avevo lo schermo in funzione... Qualche decina di americani avanzava con circospezione tra gli edifici, sparando mentre avanzava. Due volte Ardmore fu fatto segno alle scariche di uomini che avevano ricevuto l’ordine di sparare per primi. Bravi ragazzi! Sparate ad ogni cosa che vedete muoversi!
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Un aereo Panasiatico, che volava basso, attraversò lentamente la zona universitaria. Si lasciò dietro una spessa nube giallastra. Gas! Erano disposti a uccidere con il gas le loro truppe, pur di sbarazzarsi di un pugno di americani. Il banco di nebbia scese lentamente a terra, spostandosi nella sua direzione. Ardmore si rese conto, improvvisamente, che si trattava di un pericolo grave, per lui come per gli altri. Lo schermo non lo proteggeva affatto dal gas, perché era permeabile all’aria. Ma cercò ugualmente di colpire l’aereo, anche mentre pensava che fosse giunta la fine. L’aereo ondeggiò e si schiantò a terra prima che potesse colpirlo. Dunque, dopotutto, il ricognitore era al lavoro... ottimo! Il gas si avvicinava. Poteva aggirare i bordi della nube? No. O forse poteva trattenere il respiro e attraversarla, affidandosi allo schermo? Poco probabile. Qualche inconscio recesso della sua mente gli fornì la risposta: trasmutazione. Pochi secondi dopo, regolato il bordone in modo da irradiare su un cono ampio, cominciava a scavare un foro nella nube mortale. Continuò a spostare il cono di raggi a destra e a sinistra, come se il bordone fosse un tubo da innaffiamento, e le particelle della nebbia si trasformarono in innocuo e vitale ossigeno. — Jeff! — Si, Capo? — Avete dei guai con i gas? — Un mucchio. A... — Lascia perdere. Trasmetti quanto segue sul circuito A: regolare il bordone su... E descrisse il modo di combattere quell’arma intangibile. Un ricognitore scese dal cielo, si fermò a mezz’aria e cominciò a volare avanti e indietro sugli edifici delle caserme. Su tutta la zona 254
dell’Università cadde bruscamente il silenzio. Evidentemente, il pilota aveva troppo da fare, prima, per pensare a tutto. Ardmore, tutt’a un tratto, si sentì solo: la linea del fuoco si era allontanata da lui mentre si occupava della nube di gas. Si guardò intorno, cercando qualche mezzo di trasporto per perlustrare i dintorni e per controllare come proseguiva la lotta nel resto della città. Il guaio di questa maledetta battaglia, disse a se stesso, è che non ha alcuna coerenza. Si svolge contemporaneamente su tutti i fronti. E non posso farci niente: è nella natura del problema. — Capo? — Era Thomas che lo chiamava. — Dì pure, Jeff. — Wilkie si sta dirigendo da lei. — Ottimo. Come gli è andata, finora? — Bene, ma aspetti solo a vederlo! L’ho visto per un istante sullo schermo, trasmesso da Kansas City. È tutto, per ora. — D’accordo. Si guardò nuovamente intorno, per cercare un veicolo. Voleva essere vicino a qualche Panasiatico — Panasiatico vivo — all’arrivo di Wilkie. C’era un furgoncino fermo sulla strada, senza nessuno dentro, a un’isolato di distanza dall’Università. Se ne impadronì. Vicino al palazzo del principe, scoprì poi, c’erano Panasiatici in abbondanza: la battaglia non volgeva in favore degli americani. Ardmore contribuì con il suo bordone; era occupato a rintracciare asiatici e a farli esplodere, quando Wilkie arrivò. Enorme, incredibile, una figura di proporzioni ciclopiche, del nero più profondo, alta parecchie centinaia di metri, camminava a grandi passi tra gli edifici: i suoi piedi giganteschi riempivano la strada. Era come se l’Empire State Building si fosse messo a passeggiare: l’ombra immensa, tridimensionale, di un sacerdote di Mota, completa di veste e di bordone. 255
E aveva una voce. Una voce che pareva rombo di tuono, e che si faceva udire distintamente a chilometri di distanza: — Americani, sollevatevi! Il giorno è giunto! Il Discepolo è arrivato! Sollevatevi e calpestate i vostri padroni! Ardmore si chiese come riuscissero, gli uomini a bordo del ricognitore, a sopportare quel baccano; si chiese anche se volavano all’interno della proiezione o se erano più in alto, sulla verticale. Poi la voce prese a parlare in Panasiatico. Ardmore non poteva capire le parole, ma sapeva quale fosse, in generale, il significato. Downer diceva agli invasori che la vendetta stava per scatenarsi su di loro, e che chiunque volesse salvare la sua pellaccia gialla avrebbe fatto meglio a scappare subito. Questo diceva loro, ma sottolineando attentamente i dettagli, e con un’acuta conoscenza delle loro debolezze psicologiche. L’enorme, spaventosa pseudo—creatura si fermò nei giardini del palazzo, e, piegandosi, sfiorò con un dito gigantesco un asiatico in fuga. L’uomo sparì. La figura si raddrizzò e di nuovo parlò come prima... ma ormai, nella piazza, non rimaneva un solo Panasiatico. Il combattimento continuò per ore, sporadicamente, ma non era più un vero e proprio combattimento: era una specie di opera di disinfestazione dai parassiti. Alcuni degli orientali si arresero; molti si diedero la morte con le proprie mani; moltissimi trovarono la morte per mano dei loro ex schiavi. Ardmore stava ascoltando un rapporto di Thomas, sui progressi nello spazzare via dal paese gli asiatici, quando fu interrotto dall’ufficiale addetto alle comunicazioni. — Chiamata urgente dal sacerdote della capitale, signore. — Mi metta in collegamento. 256
Si udì un’altra voce: — Maggiore Ardmore? — Si. Dica pure. — Abbiamo catturato il Principe Reale... — Accidenti! — Si, signore. Chiedo il permesso di giustiziarlo. — No! — Come ha detto, signore? — Ho detto: «No!» E lei mi ha capito benissimo. Verrò a parlare con lui al vostro quartier generale. E... attenzione: non voglio che gli accada niente! Prima di farsi portare il Principe Reale, Ardmore si rase la barba e indossò l’uniforme. Quando infine il dittatore Panasiatico fu davanti a lui, lo fissò e gli disse, senza preamboli: — Tutti gli appartenenti al suo popolo che riuscirò a salvare saranno caricati su navi, e rispediti al paese di partenza. — Lei è misericordioso. — Credo che lei ormai sappia di essere stato ingannato e beffato da conoscenze scientifiche che la sua cultura non può pareggiare. Lei avrebbe potuto spazzarci via in qualsiasi momento, quasi fino all’ultimo momento. L’orientale rimase impassibile. Ardmore si augurò fervidamente che questa calma fosse soltanto superficiale. Continuò: — Quanto ho detto a proposito del suo popolo, non vale per lei. Lei sarà trattenuto come criminale comune. Il principe inarcò le sopracciglia. — Per avere fatto la guerra?
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— No: in questo modo, lei forse potrebbe riuscire a cavarsela. Per le esecuzioni di massa da lei ordinate sul territorio degli Stati Uniti: le sue lezioni «educative». Lei sarà condannato da una giuria, come qualsiasi criminale comune, e, sospetto fortemente... sarà appeso per la gola finché morte non giunga! «Questo è tutto. Portatelo via.» — Un momento, prego. — Cosa c’è ancora? — Ricorda quel problema di scacchi che ha visto nel mio palazzo? — Ebbene? — Potrebbe darmi la soluzione in quattro mosse? — Ah, la soluzione! — Ardmore scoppiò a ridere. — Ma lei le beve proprio tutte, dico! Non avevo nessuna soluzione, io. Stavo soltanto bluffando. Per un istante, fu chiaro che finalmente doveva essersi spezzato qualcosa, nel rigido autocontrollo del principe. Non giunse mai davanti alla giuria. Lo trovarono morto la mattina seguente, il capo reclinato sulla scacchiera che si era fatto portare. FINE
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Indice
1
CAPITOLO PRIMO
1
2 CAPITOLO SECONDO
23
3 CAPITOLO TERZO
48
4 CAPITOLO QUARTO
73
5 CAPITOLO QUINTO
96
6 CAPITOLO SESTO
123
7 CAPITOLO SETTIMO
146
8 CAPITOLO OTTAVO
171
9 CAPITOLO NONO
186
10 CAPITOLO DECIMO
208
11 CAPITOLO UNDICESIMO
232
12 CAPITOLO DODICESIMO
245
259