Carnesecchi Florio Senesi a tavola : la memoria della cucina: storie di fame e di fate, tra sogni e bisogni ************...
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Carnesecchi Florio Senesi a tavola : la memoria della cucina: storie di fame e di fate, tra sogni e bisogni *************** Libreria Dell’Orso 2004 Collana:Saperi e sapori ISBN: 88-7415-018-0 *************** Introduzione L'immagine che fin dal Medioevo si ha di Siena è mediata, bene o male, da quello che è stato tramandato dagli scrittori senesi stessi e dai loro più implacabili rivali, i fiorentini. A queste considerazioni generali non sfugge nessun aspetto della vita civile della città. I senesi, com'è noto, venivano considerati dei matti per aver costruito una torre comunale sottile e d'altezza vertiginosa. Come se non bastasse, secondo i loro avversari, passavano il tempo a cercar la Diana, il mitico fiume sotterraneo che, secondo le leggende, scorreva sotto la città, o a progettare, persino, un ponte per unire San Domenico e il Duomo. Sintomi chiari di pazzia e Dante vide bene di bollare gli abitanti con l'appellativo di gente vana . D'altra parte, se il ceto dirigente della città si lanciava dietro a progetti che all'esterno apparivano folli, che dire allora del modo di vivere dei figli di alcuni dei cittadini più ricchi e influenti, intenti a dilapidare i patrimoni familiari per guarnire le loro pietanze con costosissime spezie? Spese ingenti che costarono a questi scapestrati una citazione nel XXIX canto dell'Inferno.1 L'eccesso sembra, dunque, caratterizzare la prima manifestazione pubblica della cucina senese, ma non bisogna tacere l'opposto. Se la brigata spendereccia si era specializzata nel cucinare i cibi costosissimi, Caterina Benincasa2 si distingue per il difetto opposto, per il rifiuto di nutrirsi. Il rigetto costante del cibo, e d'ogni gratificazione ad esso connessa, che accompagna e contraddistingue la santa, costituisce l'altra sponda che segna il mondo medievale senese. Tra l'eccesso e il difetto, tra la fame e l'orgia di cibo, rappresentati dalla santità e dalla gola, vive il resto della gente che abita già in città o che cerca di ripararsi dentro le mura per liberarsi dal giogo della gleba, come ci racconta Bindino da Travale, che dopo aver parato i maiali lungo la Cecina si rifugiò in città divenendo aiuto dei pittori che affrescarono San Domenico, e amico di potenti che confidarono alle sue rime gli avvenimenti politici di quegli anni. Si è citato, non a caso, Bindino perché la sua attività non sarà tanto quella di pittore ma di preparatore di vernici per la pittura. Se la cucina familiare cercava la nutrizione non rinunciando ai piaceri procurati dagli odori e dai sapori, la cucina di Bindino privilegiava i colori. Elementi tradizionalmente conosciuti del mondo vegetale, animale e minerale subivano dentro la sua officina la trasformazione necessaria a dare alla scuola senese la sua impronta nel tempo. La bottega in cui preparava le sue miscele, in fondo, deve essere stata una bottega non molto diversa da una cucina. La città significa libertà e lavoro ben remunerato. In una popolazione per lunghi periodi vicina al limite di sussistenza un guadagno maggiore dava la possibilità di mangiare di più. Tuttavia non era solo un problema di quantità. Ai cicli economici si accompagnava anche un'evoluzione del gusto derivato da nuove conoscenze e da nuovi prodotti. Il mondo piano piano si allargava e riversava idee e alimenti nuovi sui mercati di tutto il mondo.
Anche la gastronomia, che nasce dal bisogno di sfruttare tutte le possibilità nutrizionali offerte da alimenti nati da un'economia segnata dall'auto-consumo, si apre al nuovo e non è certo un'operazione da poco integrare prodotti che nascono in altri paesi e che appartengono ad una cucina diversa. Si tratta ogni volta di ricostruire ex-novo gli equilibri su cui si fonda il gusto senza essere travolti dalla novità ma anzi piegando questa alle esigenze del consumatore. Su questa dialettica fatta di resistenza e d'apertura si fondano tutte le grandi cucine, anche quella internazionale, il cui nome non riesce a nascondere i debiti verso le cucine regionali. Il cibo è al centro dell'esistenza e i modi per procurarselo sono a fondamento di molte della attività culturali umane. Come si sa, l'arte rupestre, la prima forma di pittura e d'incisione fatta dagli uomini, vecchia di decine di migliaia d'anni, nasce da una concezione magica. Si dipingeva o si incidevano le caverne e le rocce perché si riteneva che la rappresentazione pittorica prefigurasse gli avvenimenti. Si pensava di volgere a proprio favore il futuro convinti che l'arte esercitasse una magia sulla realtà. Il bufalo ferito dalla lance e dalle frecce, che si ammira a distanza di migliaia d'anni ad Altamira, non rappresenta, infatti, la bestia che il pittore aveva visto ma quella che, nei giorni seguenti, grazie alla sua capacità magica, sarebbe caduta sotto le frecce e le lance della tribù garantendo la carne a tutto il gruppo. Il cibo e la sua conquista sembrano essere, dunque, all'origine delle arti e in qualche modo della cultura umana poiché costringono gli individui verso l'organizzazione sociale. Gli studiosi dell'antichità, ad esempio, studiando l'origine della parola principe (in latino princeps , sostantivo che indica chi è preminente, in sostanza il capo del gruppo), si sono accorti che in origine significava: quello che prende per primo . Ma che cosa prende e dove? Gli storici e i linguisti che negli ultimi anni si sono avvicinati all'antropologia, chiariscono che il personaggio insignito di quel titolo, il principe, è colui che per primo prende il cibo nel banchetto del sacrificio. Dunque, anche se non nasce nel banchetto, non possiamo non tenere conto che l'organizzazione sociale si rispecchia nella spartizione del cibo, come nell'organizzazione della tavola. Non ci occuperemo qui né del banchetto né della cucina del sacrificio perché, d'altra parte, procurarsi il cibo non corrisponde ancora alla cucina. Infatti, se è vero che tutti gli esseri viventi si procurano il nutrimento per vivere e riprodursi, solo l'uomo ha elaborato la gastronomia, che non è solo un sistema di consumare il cibo ma un'arte, che purtroppo non ha mai avuto i riconoscimenti dovuti. Si tratterebbe per alcuni di un'arte minore, come tutte quelle legate alla fase materiale dell'esistenza, mentre le arti maggiori sarebbero quelle spirituali come, ad esempio, la musica. Ma proprio alla musica, concludendo, si può paragonare la cucina, anche se questo potrà sembrare poco meno che una bestemmia. È vero che la musica commuove l'anima mentre un piatto, specialmente se non è fatto bene, smuove le viscere, ma non va dimenticato che entrambe si basano su un testo, scritto o a memoria. Anche la poesia trae forza dalla scrittura ma, salvo che il lettore non sia del tutto asino, il pezzo non cambia granché qualunque ne sia l'interprete. Lo spartito come la ricetta, invece, lasciano tutto all'interprete e un maestro, pur suonando la stessa musica mille volte, non eseguirà mai il pezzo in modo uguale. Allo stesso modo un cuoco, pur lavorando sulla medesima ricetta, non farà mai lo stesso piatto. Bisognerebbe ricordarlo in un'epoca dominata dalla riproducibilità tecnica dell'arte, anche di quella culinaria. Prima di iniziare a parlare della cucina, narrando anche aneddoti e storie di vita legate al cibo, vorrei ricordare i limiti di questo lavoro. Innanzitutto si sono esclusi il vino, l'olio e il formaggio perché la specificità della zona è tale che questi prodotti meriterebbero una trattazione a sé e lo spazio di questo lavoro non sarebbe sufficiente. Vorrei inoltre ricordare che rispetto ad altre raccolte che privilegiano il Chianti o la parte meridionale della provincia, qui si è dato molto risalto alla cucina del territorio senese che guarda a Pisa e a Grosseto, semplicemente per una conoscenza maggiore di questa realtà. Concludo confessando il mio debito nei confronti degli autori che hanno trattato l'argomento prima di me, a
cominciare da Giovanni Righi Parenti, la cui opera è ancora insostituibile, senza dimenticare la grazia con cui è scritta. Vorrei inoltre ringraziare tutti i miei informatori e le mie informatrici che hanno sopportato con abnegazione le mie interviste. Cito solo i nomi delle più importanti, Tagiura, Vera, Rina, Alma, senza dimenticare Marco, Floriana e Francesco che hanno riletto il testo suggerendomi opportune correzioni. Un ringraziamento anche a Marchino e Federico che non mi fanno mai mancare il loro appoggio, qualsiasi cosa scriva. Cap. I COLAZIONI, MERENDE, ANTIPASTI Il pane, com'è noto, è un alimento sacro per il Cristianesimo e per le credenze popolari che spesso presentano sotto la forma della religione positiva la sopravvivenza di credenze magiche. Tuttavia, non solo il pane ma anche gli oggetti che rientrano nella sfera della lavorazione e della conservazione di questo elemento assumono una loro sacralità. Chi ha un po' d'esperienza delle società passate dovrebbe ricordare l'importanza che aveva nella famiglia contadina la madia, quel cassettone dove veniva conservato il pane e dove si preparava, unendo alla farina acqua e lievito. Le forme, poi, venivano messe sulla tavola, da cui, con l'aiuto di una pala dal manico lungo, venivano passate nel forno caldo. Un episodio avvenuto durante la guerra di Liberazione sembra ricordare che questa sorta di sacralità si estendeva dal pane a tutti gli oggetti che partecipavano alla sua preparazione, compresa la tavola. Nel '44, in un giorno di primavera, Arduino Marconi, in tempo di guerra partigiano della XXIII Brigata Garibaldi G. Boscaglia, operante sulle Colline Metallifere, ma falegname in tempo di pace, stava facendo il giro dei poderi per trovare qualche tavola. C'era stata un'azione sfortunata, uno dei ragazzi era morto e Arduino, con un mitragliatore a tracolla, passava di podere in podere: Ce l'avete qualche tavola per fare la cassa a quel ragazzo? Un c'ho niente, ma ti do la tavola del pane per quel poro bimbo gli rispose una donna dalla finestra di un podere. Arduino prese la tavola e la usò per fare la bara. Così, con quel legno che profumava ancora di pane, seppellirono i 20 anni d'Alvaro. La sacralità del nostro alimento principale si concretizzava in credenze e in riti. G.B. Corsi, che studiò le tradizioni popolari di Siena e delle sue campagne, nella seconda metà dell'Ottocento, riferisce che i contadini avevano un sacro terrore a mettere il pane sottosopra, convinti che a rovesciare il pane, il mondo si rovesciava, il tempo si fermava e non veniva più né il giorno né la notte. Sempre Corsi racconta che se, malauguratamente, accadeva che il pane cadesse per terra i contadini si precipitavano a raccattarlo e a baciarlo come una reliquia.3 Il pane era dunque alla base dell'alimentazione: dalla colazione alla cena, dal pranzo alla merenda, dalla minestra ai secondi (quando c'erano), tutto aveva al centro il pane. Proprio per questo, prima di passare alle minestre, credo sia necessario segnalare le merende e le colazioni a base di pane che hanno allietato la nostra infanzia. PAN UNTO Ingredienti Pane Aglio Olio Sale Preparazione Per fare il pan unto c'è bisogno dell'olio nuovo. La cosa più semplice e più buona della nostra cucina, che vedeva l'unione dell'elemento più comune - il pane - e di
quello più prezioso - l'olio -, si verificava la sera, a cena, quando si versava un pochino d'olio e un pizzico di sale sul pane che si era lasciato crogiare sul focolare. In genere, sul pane si sfregava uno spicchio d'aglio. PANE IMPOMODORATO Ingredienti Pane Pomodoro Olio Aceto Sale Preparazione Con olio, sale e aceto a piacimento. Era la merenda prediletta della buona stagione. Si iniziava strofinando il pane con i primi pomodori e si continuava per tutta l'estate. Qualcuno, particolarmente innamorato di questa merenda, alla fine della stagione sostituiva il pomodoro fresco con quello messo in conserva. Gli altri, finito il pomodoro, se potevano, incrementavano la razione d'olio e aceto. PANE, VINO E ZUCCHERO Ingredienti Pane Vino Zucchero Preparazione È una merenda da signori raccomandata soprattutto dai nonni, convinti della verità del proverbio: Il vino fa sangue e il pane mette forza nelle gambe . Tutta l'arte diplomatica dei ragazzi consisteva nell'aumentare le quantità. Non del pane, ovviamente, perché una bella fetta, alta e spessa, per reggere il vino e non afflosciarsi subito, era, di solito, assicurata. Più difficile era convincere le mamme a farsi mettere più vino. Prima di tutto perché faceva male ma soprattutto perché ci voleva più zucchero e lo zucchero costava. La torta di fichi (o fichessa) Un companatico che non mangiamo più ma che le generazioni passate usavano per colazione o merenda e, a volte, anche per pranzo o per cena, era la torta di fichi. I fichi, una volta raccolti, venivano messi a seccare nelle forme del cacio, quei recipienti di legno a forma circolare che servivano per dare la forma al pecorino. Dopo diversi giorni, unendosi l'uno con l'altro, diventavano una vera e propria torta, che si poteva tagliare a fette. Di questo companatico di fichi secchi me ne parlava lo zio Mileno, che era nato nel 1913 e aveva perduto il padre pochi anni dopo, nella I guerra mondiale. La madre, fino a quando non si risposò, rimase in casa dei genitori, mezzadri in un podere della fattoria d'Anqua, vicino Radicondoli. Mileno crebbe insieme ai suoi cugini dando una mano al nonno che guardava le pecore. Andava a scuola a S. Lorenzo, tra Castelnuovo e Montecastelli. Oggi sono rimaste solo una chiesa e due o tre case diroccate nel luogo dove, un tempo, c'era una piccola comunità che diventava importante una volta l'anno quando, da tutti i dintorni, veniva la gente per partecipare alla fiera. Una delle più belle della zona. Mileno impiegava un'ora per andare a scuola e un'altra per tornare, ma non a casa. Ancora con il grembiule, andava nei campi ad aiutare il nonno. Mi raccontava che già a scuola cominciava a sentire la fame che poi, con quell'ora di camminata, cresceva ancora di più. Quando arrivava vicino al nonno cominciava a gridare: Nonno, ho fame. Me l'avete portato da mangia'?
Te l'ho portato. Te l'ho portato. Che m'avete portato? T'ho portato il pane. Che mi ci avete messo di companatico? T'ho portato un companatichino bono! Oh che m'avete portato? T'ho portato il pane co' la corteccia! La situazione era quella che era e già avere il pane era tanto ma il nonno qualche cosa per il nipote trovava sempre. Così, dopo lo scherzo, il vecchio tirava fuori una fetta di torta di fichi, o qualche oliva, e Mileno cominciava a mangiare. Quando me ne parlava aggiungeva una cosa sola: Un appetito in quel modo un l'ho più provato . C on la fame anche la bicicletta, che per molti, nel dopoguerra, rappresentò l'unico mezzo di locomozione, diventava il termine di paragone dell'appetito. Così mentre gli altri sognavano le corse, e si scannavano tra Bartali e Coppi, per qualcuno il cerchio della 28, la più grande delle biciclette, diventava il termine di paragone su cui costruire un sogno: Una schiaccia grande come la ruota di una ventotto . La schiaccia veniva preparata insieme al pane e vantava mille varianti, anche se una prima separazione da fare è quella tra dolci e salate. Cominciamo qui a parlare delle schiacce salate e in particolar modo della schiaccia per eccellenza, quella con gli sfriccioli, che veniva fatta nel periodo invernale, in coincidenza con la lavorazione del maiale. Gli sfriccioli, infatti, erano ricavati dalla preparazione del lardo e conservati con cura sotto sale. Un pizzichino ne veniva adoperato per fare una schiaccia che si infornava insieme al pane, accompagnandola con un po' di sale e con un sottile filo d'olio. Altre volte con l'uva passa. SCHIACCIA CON GLI SFRICCIOLI Ingredienti Farina Acqua Sfriccioli Olio Sale Preparazione Preparare l'impasto del pane. Formare una piccola pagnotta ed aggiungere un pizzico di sfriccioli salati. Amalgamare e schiacciare l'impasto. Prima di mettere la schiaccia in forno, passare un filo d'olio. La fiera al Palazzo Chi non ha visto la fiera al Palazzo non sa cos'era una fiera di bestiame nella Toscana contadina. Ancora a metà degli anni Cinquanta, quando l'esodo dalle campagne era appena cominciato, la fiera era ancora piena di bestie e di gente in festa. Negli anni Trenta, quando ci capitò Fulvio, poco più che un ragazzo, la fiera era la misura del mondo degli adulti. Lì si vedevano i mercanti che contavano. I furbetti di paese scomparivano di fronte ai capocci dei poderi che accompagnavano le loro bestie. In quella spianata, dietro la strada, si ammiravano per una delle ultime volte quelle coppie di bovi chianini che da soli valevano il viaggio. Se si saliva sul sentiero che andava verso il bosco, si vedeva un mare di cappelli e sopra quei cappelli, alte, imponenti, svettavano le teste bianche dei bovi. Più in là, più piccole, più tozze, le vacche maremmane che quando le vidi la prima volta mi sembrarono bellissime per quelle grandi corna che nei miti chiamano falci di luna. Ma questo lo scoprii molti anni più tardi. I ragazzi, tuttavia, erano attratti dallo straordinario e non dalla vita quotidiana
di cui facevano parte le bestie, anche quelle più belle, e lo straordinario era dato dai banchi di giocattoli, di dolciumi, di stoffe, di coltelli, d'arnesi, di salumi e formaggi. Perfino il cocomero della fiera al Palazzo era diverso, più grande, più rosso, più dolce. A volte pigliavo più volentieri una fetta di cocombero che un bicchier di vino raccontava Gianni delle Fonti, mio nonno, un mercante di bestiame, che non aveva mai saltato una fiera. Per chi era povero quello era il paese di cuccagna che si poteva solo ammirare e, in alcuni casi, odorare seguendo, come un cane, la traccia del croccante che ad un tratto si confondeva intrecciandosi con gli odori che venivano dal banco del torrone o da quello dei brigidini. In quella festa degli anni Trenta i figli dei poveri erano pochi e se c'erano si riconoscevano subito per gli abiti dimessi e per quegli occhi spalancati nell'attesa di un miracolo che non arrivava mai, un miracolo del costo di pochi centesimi. Si potrebbe pensare che i giocattoli fossero stati, per questi ragazzi, il massimo dell'aspirazione ma quando cominciavano a sentire gli odori si risvegliava quella fame che era iscritta nel loro DNA e che, probabilmente, la polenta non riusciva a calmare. I dolci erano una meraviglia ma quel giorno Rio, un ragazzo ricco per quei tempi, aveva comprato un panino. Era un panino piccolo ma di pane bianco, all'olio. Rio raccontava che era più buono dei biscotti e poi era pieno di fette di salame. Dietro a quel panino si aggirava un branco di ragazzi mentre Rio, che lo teneva con due mani, lo mangiava piano piano. Si è affermato che i miracoli, soprattutto per i più poveri, non arrivano mai ma quella mattina per Fulvio il miracolo si realizzò nei panni di uno zio molto gentile e soprattutto mezzo cieco che invece di dargli due pezzi da cinque centesimi gli dette due pezzi da mezza lira. Era una cifra enorme quanto bastava per un grande panino all'olio, pieno di prosciutto. Fulvio non ci pensò due volte e con quello sfoggio di ricchezza si presentò davanti al branco dei ragazzi che, abbandonato Rio, si precipitarono dietro a lui. Era la prima volta che uno di loro, almeno per un giorno, diventava ricco. Erano i miracoli della fiera al Palazzo. U na colazione e una merenda ricca era quella con le salsicce, il salame e, soprattutto con il prosciutto. Erano cibi, tuttavia, non sempre disponibili. Si offrivano agli ospiti ma la famiglia li mangiava raramente e quando succedeva tutto avveniva in modo parsimonioso. Ancora oggi, emerge dalla memoria il ricordo di cantine rigidamente sorvegliate da cui filtrava un odore che prometteva godimenti del palato e soddisfazioni dello stomaco. Solo con un po' d'ingegno si riusciva, a volte, a mangiare qualcosa che non fosse la zuppa o la polenta, come raccontava un ex garzone che era riuscito a prendere un po' di prosciutto approfittando delle difficoltà della capoccia. La vecchia, che teneva la chiave della cantina nascosta nella tasca del grembiule, non vedeva molto bene e si faceva accompagnare in cantina. Una mattina il ragazzo infilò un chiodo nel prosciutto e quando la padrona prese il coscio per affettarlo, il coltello non andava. So' sempre più cieca. Affettalo te, a me un mi riesce disse rivolta al ragazzo che, subito, tolto il chiodo, cominciò a tagliare vedendo bene di nascondere metà delle fette nella tasca dei pantaloni. Più comuni di merende a base di pane e prosciutto erano quelle con il pane condito, come le due riportate di seguito. PANIONE Ingredienti per una persona 2 fette di pane raffermo Olio Aceto
50 gr. di formaggio pecorino grattato Sale 1 foglia di cavolo nero Preparazione Si scotta il cavolo nero, poi si prendono le fette di pane, si bagnano con l'acqua di cottura, si condiscono con olio, sale, aceto, il formaggio e una foglia di cavolo. PAN LAVATO Ingredienti per una persona 2 fette di pane tostato Sale Olio Aceto Aglio Preparazione Si prendono due fette di pane bruschettato, ci si passa sopra l'aglio, si immergono nell'acqua tiepida e poi si condiscono con olio, sale e aceto. Gli antipasti In fondo gli antipasti toscani non si distinguono molto da quelle ricche merende e colazioni che sono rimaste nell'immaginario della gente. Tutte a base di salumi, che in famiglia non mancavano ma che venivano consumati in piccole dosi. Dovevano durare per tutto l'anno. Gli antipasti si sono cominciati a diffondere nella cucina popolare a cominciare dal dopoguerra. Oltre ai salumi già ricordati fanno parte dell'antipasto toscano i crostini, di cui ci limiteremo a ricordare i più famosi. CROSTINI NERI
Ingredienti per 4 persone 500 gr. di pane per crostini 200 gr. di milza di vitella 1 fegatino di pollo Olio Sale Pepe 1/2 bicchiere di brodo di carne 1/2 bicchiere di vino bianco Capperi 1 sedano 2 porri Preparazione Per prima cosa privare la milza della pelle e il fegatino della bile. Tagliare finemente il bianco dei porri e del sedano e farne un leggero soffritto in olio d'oliva. Quando le verdure sono dorate, unire il fegatino e la milza tagliati a pezzetti. Salare, pepare e far cuocere lentamente, poi versare il vino bianco e lasciare che evapori. Aggiungere i capperi tagliuzzati e poco dopo il brodo. Quando la salsa è ben tirata togliere dal fuoco e tritare ancora più finemente carne e verdure. Spalmare il composto ottenuto su fettine di pane scuro. Servire i crostini caldi. Va detto per scrupolo che la milza più che tagliata viene grattata fino al callo, l'unica parte non utilizzata.
CROSTINI MILZA E ACCIUGHE Ingredienti per 4 persone 200 gr. di fegatini o di milza di vitellone 2 acciughe sotto sale pulite 30 gr. di capperi sotto aceto Olio Sale Pane raffermo Preparazione Tritare (o grattare) e poi soffriggere in abbondante olio i fegatini o la milza di vitellone. Tritare a parte le acciughe lavate e i capperi. Aggiungere questo trito ai fegatini già soffritti e far cuocere ancora per 15 minuti. Vedere se è necessario aggiungere un po' di sale. A parte abbrustolire delle fettine di pane casereccio un po' raffermo dell'altezza di circa un dito. Versarvi sopra i fegatini con il loro intingolo, se fossero troppo asciutti allungarli con un po' di brodo. Servire caldi o almeno tiepidi, mai freddi! P rima di concludere con gli antipasti, due righe sulla verdura che li accompagna e sul modo di mangiarla. In breve la ricetta del pinzimonio. PINZIMONIO Si scelgono le più belle verdure di stagione da consumarsi crude: sedano, radici rosse, finocchio, carciofi, carote, fave fresche, ecc. e si servono già mondate e lavate. A parte avremo preparato delle piccole vaschette contenenti olio d'oliva extravergine toscano con sale e pepe. È il momento di tufare le verdure nelle vaschette, una voce dialettale che comprende l'azione del tuffare e dello zuppare. Cap. II PRIMI Noi apparteniamo alla civiltà del pane. A me ed ai miei coetanei veniva insegnato prima di tutto il rispetto del pane. Quando facevo merenda dalla nonna ero costretto a mangiare sul tavolo mentre avevo tutt'altra intenzione: prendere la fetta e quel po' di companatico e poi scappare fuori, dietro ai miei compagni. Finita diligentemente la merenda raccattavo tutte le briciole e le davo ai polli badando bene che nessun pezzettino di pane fosse caduto per terra e intanto la nonna, seria, mi ripeteva per l'ennesima volta: I bimbi che sciupano il pane quando moiono vanno all'Inferno e gli danno foco al mignolino e co' la luce di quella fiammellina li mandano nel buio a cerca' tutte le bricioline che hanno perso . Confesso che anche ora, di tanto in tanto, mi capita di controllare il mignolo per veder se è ancora intatto o sta per prendere fuoco. Il pane era alla base di tutta l'alimentazione. Nella minestra al posto della pasta, presente raramente sulle mense della gente comune, c'era il pane e ancora il pane era alla base della seconda pietanza che, non a caso, prevedeva pane e companatico. La parola stessa - companatico - la dice lunga sulla quantità degli alimenti che accompagnavano il pane, talmente esigua da poterli riunire in un unico nome collettivo. Bisognerebbe aver visto anche solo una volta il pranzo degli operai degli anni Cinquanta per capire bene che voleva dire questo sostantivo. Da una sacca di tela blu, il tascapane, venivano fuori una bottiglia di vino e una d'acqua, un bel pezzo di pane, minimo tre o quattro etti, e, infine, un po' di prosciutto, di salame o di formaggio, tagliati a fette esili come carta velina. Il piatto non c'era, il suo posto era preso dal tozzo di pane sul quale il coltello affilato tagliava con un unico colpo uno spicchino di carne o di formaggio e un boccone, enorme, di pane. Già allora mi sembrava che più che pane e companatico
mangiassero pane e profumo di companatico. Eppure spesso si aveva impressione che quello fosse il meglio dell'alimentazione che la famiglia poteva offrire. Lì, davanti ai compagni di lavoro, si nascondeva la miseria per quanto si poteva. A casa probabilmente non c'era nemmeno la fettina di salame o di prosciutto. Spesso con un uovo e molte erbe si sfamava una famiglia intera. C'è una precisazione da fare sulle minestre di pane, senza la quale si rischia di compromettere tutti gli sforzi gastronomici. Le ricette che riguardano le minestre e le zuppe, fondate su quest'elemento essenziale della cucina mediterranea, sono nate in una società in cui le farine non erano molto raffinate e dove la cottura avveniva nel forno a legna. Il risultato era un pane che si manteneva una settimana (la massaia aveva da fare e non poteva certo infornare tutti i giorni). Questa lavorazione portava naturalmente ad avere del pane raffermo, una cosa ben diversa da quello secco che ci ritroviamo oggi, ed era questo quello che si utilizzava in cucina, preferibilmente nella panzanella e nelle zuppe. Un'abitudine del fare il pane in casa che in campagna è durata fino agli anni Sessanta/Settanta del Novecento. Nei paesi era finita prima, quando ai forni a legna dei quartieri, che cuocevano durante le feste anche i dolci delle famiglie, si erano sostituiti i forni moderni e, soprattutto, da quando le donne avevano cominciato a lavorare fuor di casa. Occorre quindi, prima di cominciare a lavorare, accertarsi di avere in cucina un pane che sia di una qualità simile a quello della tradizione gastronomica in cui le ricette sono nate. Il piatto povero per eccellenza, a base di pane, era la pappa con il pomodoro, che si mangiava a cena e a colazione. Ne diamo qui una ricetta arricchita con uova e salsiccia. PAPPA CON LA SALSICCIA Ingredienti per 5 o 6 persone Acqua Olio 2 spicchi d'aglio Sale Pepe 5 o 6 salsicce secche 300 gr. di pane, preferibilmente raffermo 1 uovo crudo per ciascun piatto 1 pomodorino Formaggio grattugiato Preparazione Si mette l'acqua a bollire con l'aglio, solo un pomodorino per insaporire e le salsicce. Quando l'acqua ha bollito 10 minuti si mette il pane tagliato a fette sottili. Si lascia bollire altri 5 minuti e si versa nei piatti aggiungendo formaggio grattugiato, olio e un uovo fresco, dopo aver salato e pepato il tutto. C ome si vede, due aggiunte fanno di questo piatto poverissimo e insipido una pietanza ricca. La prima è la salsiccia secca, cotta insieme al pane e poi sbriciolata meticolosamente in modo che quell'impasto insapore si carichi di nuove fragranze. In alternativa, o in alleanza con la salsiccia, un uovo crudo per ogni piatto di pappa ed ecco trasformato, come dicevano i vecchi, un piatto da poveri in uno da signori. In origine, ovviamente, com'è rimasto nella memoria degli informatori, non c'era né uovo né salsiccia. Una variante di questo piatto è l'aggiunta di pomodoro, da non confondere con il pomodorino che si è fatto cuocere insieme al pane e alle salsicce, che dà origine, invece, alla pappa con il
pomodoro. Altri piatti di pane della tradizione senese e toscana che affiorano immediatamente alla memoria sono: ACQUA COTTA Ingredienti per 4 persone 2 litri d'acqua 2 cucchiai d'olio 1 cipolla Sale Pepe 2 foglie di sedano Peperoncino 2 pomodori 200 gr. di pane raffermo Preparazione Nell'acqua salata si versa la cipolla tagliata a fette, si aggiungono le foglie di sedano, i pomodori, il peperoncino e si cuoce il tutto per circa un quarto d'ora. Si versa il brodo così ottenuto sul pane raffermo. Si condisce con olio, sale e pepe a piacere. ZUPPA DI FAGIOLI Ingredienti 200 gr. di fagioli lessati 2 cucchiai d'olio 1 cipolla Sale Pepe Peperoncino 3 pomodori 100 gr. di bietole 2 foglie di cavolo 2 foglie di sedano 1 carota 200 gr. di pane raffermo Preparazione Si soffrigge la cipolla. Si mettono i pomodori, i fagioli già lessati (metà interi e metà passati), si aggiungono ancora bietole, sedano, cavolo, carota, peperoncino e si cuociono per circa mezz'ora in acqua salata. Quando il brodo è pronto si versa sulle fette di pane raffermo. Si condisce con olio e pepe a piacere. Per chi non si preoccupa dell'alito si consiglia di completare il piatto con la cipolla, cruda e a fette sottili. V isto che nella cucina il segreto è non buttare via niente ricordiamo che dalla preparazione della zuppa di fagioli deriva un piatto, ormai diffusissimo anche da noi, la ZUPPA LOMBARDA, che consiste nel versare su delle fettine di pane secco, dopo aver aggiunto sale, pepe, olio e aceto, l'acqua di cottura dei fagioli. PANZANELLA POVERA Ingredienti per 2 persone 300 gr. di pane raffermo 1 cipolla Qualche foglia di lattuga
2 foglie di sedano Peperoncino 2 pomodori 1 cetriolo Olio Sale Pepe Aceto Preparazione Si prende il pane raffermo e si mette nell'acqua. Quando il pane è zuppato si strizza bene, si sbriciola, poi si mettono lattuga, pomodori, sedano, cipolla e un cetriolo (a chi piace), tutti tagliati a listellini. Si condisce con olio, sale, pepe, peperoncino e aceto. ZUPPA DI CAVOLO NERO Ingredienti per 4 persone 2 litri d'acqua 1/2 cavolo nero 2 salsicce 50 gr. di lardo 50 gr. di cotenne fresche di maiale 8 fettine di pane casereccio Aglio Prezzemolo Formaggio grattugiato Sale Pepe Preparazione Togliere le foglie esterne più dure al cavolo, sciacquarlo accuratamente e tagliarlo a listerelle. Soffriggere in una pentola di terracotta un battuto di lardo, salsicce spellate, prezzemolo tritato e aglio schiacciato. Aggiungere il cavolo, le cotenne lessate e ridotte in striscioline, il sale e il pepe. Versare l'acqua e lasciare cuocere a fuoco basso per 60 minuti a pentola coperta. Disporre le fettine di pane casereccio grigliato nelle terrine, ricoprire col cavolo appena preparato e spolverare con formaggio grattugiato. ZUPPA DI FUNGHI Ingredienti per 4 persone 1 cipolla rossa 2 coste di sedano 2 carote 500 gr. di funghi 1,5 litri di brodo 1 cucchiaio di farina di frumento 200 gr. di pane casalingo raffermo 1 spicchio d'aglio Olio d'oliva Sale Pepe Preparazione In una pentola rosolare in olio gli odori tritati finemente, spolverare di farina, unire i funghi tagliati a pezzetti, salare e pepare. Versare subito il brodo e portare a cottura a fuoco moderato. Far tostare il pane in forno e strofinarlo con uno spicchio d'aglio da un lato. Disporre le fette in una zuppiera e versarvi sopra
la minestra, continuare con gli strati di pane ed il liquido. Servire il tutto ben caldo. T ra le minestre di pane metterei anche la minestra di fagioli o quella di ceci. In effetti, pur trattandosi di brodo vegetale e nonostante ci fosse un po' di pasta tra i commensali, non mancava mai chi aggiungeva un paio di fette di pane tagliate a pezzi. MINESTRA DI CECI (O DI FAGIOLI) Ingredienti 200 gr. di tagliatini fatti in casa o pasta in quantità equivalente 300 gr. di ceci 2 pomodori 1 rametto di rosmarino Peperoncino Aglio Sale Olio Preparazione Per farli ammorbidire si mettono i ceci in bagno, in acqua calda, con un cucchiaino di bicarbonato per circa otto ore. Poi, dopo averli lavorati in modo da togliere tutte le bucce, si mettono a cuocere. Quando i ceci sono sbucciati e cotti, a parte si prepara una pentola in cui si versano tre cucchiai d'olio, uno spicchio d'aglio, i pomodori, il peperoncino e il rosmarino. Si fa insaporire e poi si aggiungono i ceci, si fanno cuocere un quarto d'ora in questo sugo, si passano, si aggiungono due litri d'acqua salata, i tagliatini fatti in casa o la pasta e si fanno bollire per circa due minuti. Per la minestra di fagioli la ricetta è la stessa ma non prevede il rosmarino (a volte la salvia). MINESTRA CON LA RICOTTA Ingredienti per 5 o 6 persone Olio Aglio Sale Conserva di pomodoro 300 gr. di ricotta 200 gr. di pasta Preparazione Si soffrigge nell'olio l'aglio e poi la ricotta, in genere di latte di pecora. Si fa rosolare e poi si aggiunge la conserva di pomodoro, il sale ed acqua quanto basta per cinque o sei persone. Quando il condimento raggiunge il color nocciola è il tempo di buttare la pasta, in genere spaghettini corti. La minestra a brodo In campagna vicino a Chiusdino, in un inverno di quelli freddi, il capoccio di uno di questi poderi, ritornando a casa, s'accorse che le pecore erano libere per i campi. Arrabbiato, andò a cercare il garzone ma lo trovò svenuto ai piedi di una quercia. Lo prese e lo portò a casa. Lo rivestirono con panni caldi, prepararono lo scaldino per lo scaldaletto e poi, quando fu tutto pronto, lo misero sotto le lenzuola. Ma il ragazzo non stava bene e allora, la mattina presto, andarono a chiamare il prete. Il dottore costava. Dato che veniva il prete, la padrona tirò il collo ad una gallina e preparò un bel
pranzetto. Il prete arrivò nel pomeriggio e andò subito a visitare il garzone e lo benedisse. Poi fece due chiacchiere, bevve un bicchiere, parlò con i vecchi e aspettò cena. Fu una bella cena. Intanto il ragazzo, tra il caldo, il riposo e un bel piatto di minestra di gallina, aveva ripreso colore e si era risentito subito in forze e quando il prete andò a salutarlo lo trovò bene. Vedi come ti sei rimesso? T'ha fatto bene la benedizione! Anche la minestrina, reverendo! Il brodo Il brodo buono esige un buon taglio di lesso. Gli odori sono cipolla, carota, sedano e prezzemolo. Sarà bene aggiungere anche un bell'osso spugnoso. La carne, per ottenere un buon brodo, va messa a bollire in acqua fredda e salata. Si può ingentilire il brodo aggiungendo al manzo un po' di zampa o un pezzo di pollo. In campagna tuttavia, data la vocazione e la necessità dell'autoconsumo, l'unica carne per il brodo era quella di gallina ma c'era anche chi, in mancanza della carne, provvedeva in altri modi: BRODO FINTO Ingredienti 2 litri d'acqua 4 patate 1 carota 1 cipolla Basilico (2 o 3 foglie) 2 foglie di sedano 1 pomodorino Lardo o cotenna Preparazione Si mettono in due litri d'acqua le patate, la carota, la cipolla, il basilico, il sedano e il pomodorino. Si bolle per mezz'ora e si aggiunge una puntina di lardo (e/o qualche pezzo di cotenna). Poi si passa tutto. Le minestre di castagne: La polenta dolce C'è un proverbio pistoiese - Pan di bosco e vin di nugoli! - che potrebbe essere esportato in alcuni comuni senesi dell'area amiatina e delle Colline Metallifere. Il vin di nugoli (nuvole) è l'acqua e il pan di bosco sono le castagne. Nei secoli scorsi, fino al Novecento, acqua e castagne costituivano tutta la varietà alimentare. Le viti scarse davano vino acido e leggero che si beveva perché non c'era di meglio. Il grano ci cresceva a stento, come il mais, del resto. Un po' di proteine venivano dall'allevamento delle pecore e dei maiali, allevati soprattutto per il lardo, l'unico grasso utilizzabile, dato che gli oli vegetali, a cominciare dall'olio d'oliva, erano quasi inesistenti. Gli ulivi erano pochissimi e per seccarli bastava una gelata, che regolarmente, ogni quindicina d'anni, arrivava. Quanto deve essere stato prezioso l'olio l'ho capito ascoltando una vecchia che raccomandava ad una mamma la pazienza con i ragazzi piccini: Ci so' delle volte che per farli smette' gli daresti l'ampolla dell'olio. L'unica cosa che non mancava in queste zone periferiche del Senese erano i boschi di castagni e per parecchie famiglie, specialmente durante la guerra, le castagne sono state quasi l'unico cibo. Principalmente le castagne erano raccolte per seccarle, macinarle e ottenere così la farina che serviva per preparare la polenda dolce che, fino all'Ottocento, deve essere stata il piatto principale della dieta degli abitanti delle campagne. I vecchi sostenevano che la prima prova nella vita era la polenda . Il bimbo, dopo svezzato, cominciava a mangiare la polenta e se non riusciva a farcela deperiva e moriva. A parte un po' di fagioli, la polenta,
infatti, costituiva da sola quasi tutta la base alimentare delle classi meno agiate. Che fosse la polenta di mais o la polenta di castagne, come capitava nell'Amiata e nelle Colline Metallifere, sempre polenta era. La dieta quotidiana, oltre alla polenta, prevedeva minestre di verdura. La carne non c'era quasi mai. Il maiale, qualche coniglio e qualche pollo erano le uniche proteine, che tuttavia erano riservate agli ospiti di riguardo e ai vicini, o ai lavoratori ad opre , che venivano ad aiutare la famiglia nei periodi di maggior lavoro, come la segatura . Senza dimenticare che molti di questi animali venivano venduti per avere un po' di liquidità. Vorrei ricordare che tra i tanti racconti che si tramandavano per mettere in ridicolo gli abitanti di Montieri, il paese degli sciocchi per antonomasia, nelle province di Siena e Grosseto e, in parte, di Pisa, ce n'era uno che narrava proprio di quando ai Montierini venne a noia la polenta di castagne, la polenda dolce . Le storie narrano che a quel povero prete gli ci volle una processione fino al poggio di Montieri, durata un giorno intero, a digiuno e con un sacco sulle spalle, per convincere i suoi parrocchiani a ricominciare a mangiare la polendina . Ma ad Orgia la raccontano in modo diverso. Dicono che i Montierini fecero quella processione perché speravano che il Signore gli facesse la grazia [...] di poter gustare la polenta con lo stesso piacere che si prova nel mangiare una gallina .4 POLENTA DOLCE Ingredienti Acqua Farina di castagne Sale Preparazione La polenta dolce è la polenta di farina di castagne. Prendete un paiolo di rame o una pentola capace. Fate bollire dell'acqua leggermente salata e versateci tutta insieme, in proporzione di mezzo chilo per litro, la farina di castagne che ricoprirà completamente l'acqua. Infilate al centro del paiolo un bastone di legno; toglietelo e dal foro lasciato dal bastone uscirà a fontana l'acqua bollente. Con lo stesso bastone cominciate subito a mescolare velocemente, con forza e senza interruzione, in senso rotatorio, in modo da non formare grumi. Se vedete che la polenta risulta troppo dura, aggiungete acqua bollente. Sempre mescolando fate cuocere per oltre mezz'ora. A fine cottura, con un mestolo bagnato d'acqua, cercate di riunire la polenta al centro del paiolo staccandola il più possibile dalle pareti. Poi rovesciate il paiolo sulla spianatoia in modo che la polenta si depositi tutta insieme, assumendo la tipica forma. Tagliatela a fette con un filo. Si mangia calda o fredda e, in quest'ultimo caso, anche abbrustolita o fritta successivamente. È ottima da sola oppure con ricotta o formaggio fresco. Le minestre di castagne: i biscottini Mangiate lesse e arrosto in autunno, le castagne erano poi seccate. Una parte, tuttavia, non veniva macinata ed era lasciata per preparare i biscottini , una minestra di castagne aromatizzata con il finocchio, dolcissima, nonostante qualche cucchiaiata di sale. BISCOTTINI Ingredienti Acqua Sale Castagne secche Finocchio
Preparazione Pulite le castagne secche, o vecchioni, dei residui di buccia. Sciacquatele appena in acqua corrente e mettetele in una pentola con acqua fredda un po' salata. Fatele bollire per varie ore a fuoco moderato, aggiungendo del finocchio selvatico. Mangiatele, calde o fredde, col cucchiaio assieme alla loro acqua che è buonissima. Le collitore Quando si arrivava alla stagione delle castagne, tutto il paese si mobilitava ma le braccia non bastavano mai e allora dai paesi vicini, che c'invidiavano quella ricchezza, arrivava un esercito di ragazze per guadagnare due lire per il corredo e per uscire qualche giorno di casa. Allora non c'erano gli strumenti tecnologici odierni. La radio era soltanto in canonica e nella casa del fascio. La situazione rimase la stessa anche nell'immediato dopoguerra, fino agli anni Cinquanta. Se si voleva sentire un po' di musica bisognava ricorrere ai musicanti , le persone che sapevano suonare qualche strumento. D'altra parte per trovare un musicante non c'erano problemi. Anche nel posto più sperduto, nel paese più piccolo, non mancavano dei volenterosi che fondavano una banda chiamata, invariabilmente, Filarmonica G. Verdi . Se si voleva ballare, dunque, e l'arrivo delle collitore era l'occasione attesa un anno, bisognava trovare un musicante. Se non c'era disponibile qualche professionista della fisarmonica si trovava sempre qualcuno che, per pochi centesimi, si sobbarcava il compito di accompagnare i ballerini con un organetto. Così a turno, una sera per uno, i poderi che, durante il giorno, vedevano il lavoro continuo di decine di ragazze, si trasformavano in sale da ballo. Il musicante, seduto sulla madia, suonava due o tre walzer, gli unici che conosceva ma poi, quando la capoccia, che controllava dal canto del fuoco, cominciava a dormire, dall'organetto cominciavano ad uscire le note di un tango nonostante il prete, dall'altare, avesse condannato più volte tutti i balli, specialmente quelli più moderni e scandalosi. Il ballo era l'avvenimento atteso e ci si preparava per tempo. La sera, dopo aver finito di lavorare, queste ragazze con le mani screpolate dal freddo e piene di spine, si lavavano alla meglio, davano una stiratina al vestito delle feste, sempre il solito. Né potevano sperare di comprarne un altro con i guadagni di quella stagione. A parte il vitto e l'alloggio, spettava loro, dopo quasi un mese di lavoro, solo un sacco di castagne secche e uno staio di marroni. Se poi si trattenevano per il ruspatoio ottenevano anche un paniere o due di marroni. Il ruspatoio era il periodo in cui, finita la raccolta tradizionale, le collitore più brave erano mandate di nuovo a cercare le castagne che erano rimaste nascoste nella prima raccolta. Le ragazze, dunque, si preparavano. Si mettevano due mollette in testa per mantenere la piega dei capelli e cominciavano ad aspettare l'arrivo dei ragazzi, che a quell'ora erano impegnati in un compito analogo. In genere in campagna, durante l'estate, si mangiava tardi ma la cena seguiva un po' il corso dell'anno, così in autunno inoltrato, alle sette si era già a tavola. In quei pochi minuti in cui si aspettava la minestra, i ragazzi si lavavano, chi nella tinozza chi nella catinella, dopo essersi contesi con i fratelli l'acqua calda del paiolo che bolliva sul focolare. Il momento centrale dell'operazione era dato dalla lucidatura delle scarpe, o degli stivali, per chi se li poteva permettere, con un pezzo di lardo rancido, la sugna. Qualche mamma, guardando il figliolo che si lavava con tanto impegno, non poteva fare a meno di pensare, con un misto d'orgoglio e di gelosia, a quanto aveva dovuto penare pochi anni prima per riuscire a lavarlo appena appena. Chissà che cosa sarà venuto in testa, in quei momenti, alla mamma di Sergio, quando lo vedeva strofinarsi a più non posso con un bel pezzo di sapone da panni, ripensando a quella volta, in quinta elementare, in cui aveva dovuto presentarsi a scuola con tinozza, spazzola e sapone per riuscire a lavarlo dopo una settimana d'inseguimenti senza risultato? Intanto, mentre ci si preparava, c'era una guerra che serpeggiava tra i maschi e le
loro fidanzate. Molte delle ragazze del paese dovevano lavorare nelle loro case e non sempre avevano il permesso di uscire la sera, per questo tentavano con ogni mezzo di impedire ai loro fidanzati di andare a ballare. I ragazzi dovevano attuare una strategia che permettesse loro di mantenere il legame vecchio e consolidato e nello stesso tempo li mettesse in grado di evadere il controllo. Solo così avrebbero potuto partecipare ai balli, con la possibilità di fare qualche conquista. Le collitore , d'altra parte, non erano ragazze facili. Certo, erano fuori casa e non avevano i freni della famiglia, ma, insomma, venivano dai paesi vicini e non avevano intenzione di far arrivare alle orecchie dei loro parenti voci sgradevoli sul proprio conto, perciò le ragazze libere potevano anche rischiare qualcosa ma quelle fidanzate dovevano essere molto prudenti. C'era tutto un gioco che permetteva queste unioni volanti che, in genere, non lasciavano strascichi. La maggior parte dei fidanzamenti non andava avanti e tutto finiva lì. Solo qualche ragazza, ma erano casi veramente rari, tornava a casa in stato interessante. Molto più spesso ritornavano dalle loro famiglie con un po' di castagne, un po' d'esperienza e la sensazione di aver vissuto una storia che era stata bella proprio perché, da tutte e due le parti, si era capito che sarebbe finita presto. Ricordiamo in onore delle donne che raccoglievano questi frutti del bosco e che sapevano, a differenza di Cappuccetto Rosso, evitare i lupi, alcuni piatti di castagne oltre le minestre e la polenta già ricordati. Innanzitutto le arrostite, le castagne lesse e poi il castagnaccio. La differenza tra i vari tipi di castagne e tra castagne e marroni influiva, naturalmente sulla qualità del prodotto finale. Le castagne lesse ( le ballocce ) Fare bollire le castagne in acqua salata con qualche foglia di alloro oppure con rametti di finocchio. Volendo, si possono sbucciare le castagne prima di cuocerle. Le arrostite ( le frogiate ) Se volete fare le bruciate occorre la padella bucata. Dovete castrare le castagne, cioè fargli un taglio nella buccia, e porle a cuocere nella padella mescolandole spesso. Quando sono cotte aumentate il fuoco e fate bruciacchiare la buccia. Poi rinvoltatele in un cencio di lana e lasciatele riposare per 10 minuti. Un modo più raffinato di gustare le bruciate è quello di metterle a bagno per una mezz'ora, dopo averle pulite e un po' schiacciate, in vino rosso vecchio. CASTAGNACCIO Ingredienti per 6 persone 400 gr. di farina dolce di castagne 100 gr. di zibibbo o uvetta 50 gr. di pinoli (sgusciati) 6 noci Rosmarino 2 cucchiai di zucchero Poca scorza d'arancia Olio d'oliva Poco sale Preparazione Setacciate la farina dolce e mettetela in una zuppiera. Aggiungete lo zucchero, un pizzico di sale, un cucchiaino di scorza tritata e mezzo litro abbondante d'acqua. Rimestate bene in modo da ottenere una pastella liquida e senza grumi. Aggiungete un paio di cucchiai d'olio e lasciate riposare per circa un'ora. Ungete una teglia e versateci la pastella (non deve essere alta, massimo un dito). Cospargete la superficie con foglioline di rosmarino, l'uvetta ammollata, i pinoli e le noci sgusciate e spezzettate. Versate due cucchiai d'olio e cuocete in forno caldo per
circa 40 minuti. La pasta: i tortelli A Sandrino capitava di rado di poter mangiare i tortelli, il piatto per eccellenza dei giorni di festa. Vicina di Sandrino era la Barazzola, una vecchietta con cui condivideva la passione per tutto quello che poteva passare per la gola. Un giorno Sandrino aveva ricevuto in regalo una bella ricotta e aveva chiesto alla Barazzola di fargli i tortelli. Il patto, vecchio ma sempre rinnovato, prevedeva che Sandrino mettesse gli ingredienti, cioè farina, ricotta, uova e poi olio e carne per il sugo. Le verdure non erano necessarie perché al posto delle bietole, da veri raffinati, andavano a scegliere foglia per foglia le migliori erbe di campo. La Barazzola a sua volta doveva preparare il sugo e l'impasto, stendere la pasta e preparare i tortelli. Il tortello maremmano è un gran raviolo alle erbe. Quattro tortelli fanno già una discreta porzione ma per la Barazzola e Sandrino le porzioni normali non avevano senso. In genere non mangiavano mai meno di 30/40 tortelli ciascuno, che era come dire quattro o cinque porzioni abbondanti, ma quella volta il patto saltò definitivamente perché, con la scusa di assaggiarli per vedere se erano cotti, la Barazzola ne mangiò una ventina mentre bollivano contando sul fatto che Sandrino non se ne sarebbe reso conto. Sandrino invece lo scoprì e pretese una porzione maggiore. Così, litigando fino all'ultimo, mangiando i tortelli direttamente nella pentola, rubandoseli l'un l'altro, finì la società tra Sandrino e la Barazzola. TORTELLI Ingredienti per il ripieno 500 gr. di ricotta fresca 700 gr. di bietole 700 gr. di spinaci Sale Noce moscata Pepe Ingredienti per la sfoglia 3 uova 500 gr. di farina 1/2 bicchiere d'acqua Sale Olio Preparazione Pulire le verdure e bollirle separatamente in acqua salata, colare e far raffreddare, strizzare con le mani, porre la verdura strizzata su un tagliere, tagliuzzarla finemente. Mettere la ricotta in una terrina con sale, pepe, noce moscata e mescolare bene. Aggiungere all'impasto la verdura e mescolare molto, fino a rendere il tutto omogeneo. Preparare a parte la sfoglia con uova, farina, sale e qualche goccia d'olio, tagliare la sfoglia a quadrati di circa 8-10 cm di lato. Al centro d'ogni quadrato mettere un cucchiaio d'impasto e ricoprire con un altro quadrato, premendo bene con le dita. Porli appena fatti su un tovagliolo spolverato di farina. Bollire in acqua salata, tirarli su e posarli in un piatto di portata. Condirli con cucchiaiate di sugo e infine spolverare con pecorino. SUGO PER I TORTELLI Ingredienti 1 cipolla media 1 mazzetto di prezzemolo 1 gambo di sedano Qualche foglia di basilico
1/2 bicchiere d'olio Sale 300 gr. di macinato fresco 1 salsiccia 1 fegatino di pollo 1/2 bicchiere di vino preferibilmente bianco 500 gr. di pomodori pelati Preparazione Fare un battuto di cipolla, prezzemolo, sedano e basilico e farlo soffriggere in olio in una casseruola. Aggiungere il macinato, la salsiccia, i fegatini di pollo. Versare mezzo bicchiere di vino. Far consumare a fuoco molto lento. Aggiungere i pomodori a pezzi o in conserva. Far cuocere a fuoco lento per quasi 3 ore. Se si asciuga troppo aggiungere un po' di brodo o d'acqua. La pasta: i maccheroni C hissà se aveva sentito parlare del paese di cuccagna quel giovane operaio, tornato dalla prigionia in Germania, che non riusciva a levarsi la fame. Mentre gli altri erano assorti nelle prime libere discussioni politiche dopo la fine della dittatura, lui, in disparte, sognava solo di mangiare. A che pensi Gradi? gli fece il suo compagno. Pensavo rispose che mi garberebbe un maccherone lungo fino alle Galleraie (erano quattro chilometri) e lui con un cucchiaio che mi ci mette il sugo e te con un catino di pecorino secco grattato che me lo caci . MACCHERONI ALLA PODERANA Ingredienti per il sugo 300 gr. di fave 6-7 carciofi 100 gr. di prosciutto 2 salsicce 1 manciata di prezzemolo 500 gr. di pomodori maturi Spezie Sale Pepe Olio d'oliva Cipolla Ingredienti per la sfoglia 500 gr. di farina 3 uova Sale 1 cucchiaio d'acqua 1 cucchiaio d'olio Preparazione Pulire i carciofi. Tritarli insieme al prosciutto, alla salsiccia, al prezzemolo e alla cipolla. Mettere tutto in un tegame con sale, pepe, olio d'oliva. Far rosolare, aggiungere una buona quantità di baccelli sgusciati. Far cuocere per circa 30 minuti. Unire poi i pomodori e le spezie e far cuocere a fuoco lento. Preparare a parte la sfoglia, tirandola molto fina e tagliarla a liste piuttosto larghe. Far cuocere la pasta al dente e saltarla con il sugo. Aggiungere a piacere il formaggio grattugiato. La pasta: i frascarelli
Sciala Mechino t'ho cotto un uovo dice un vecchio proverbio per indicare la miseria. Se Mechino si poteva considerare un signore il giorno che riusciva a mangiare un intero uovo, viene da domandarsi che cosa mangiava il resto dell'anno. Bisogna ricordare le condizioni di miseria della gente comune dell'Ottocento e dei primi del Novecento per comprendere l'importanza e la diffusione di queste due paste poverissime: i tagliatini e i frascarelli, quest'ultima in due versioni, una delle quali contiene, appunto, le uova. FRASCARELLI I Ingredienti per il brodo Olio Aglio Rosmarino Sale Conserva di pomodoro 300 gr. di fagioli lessi Peperoncino Preparazione Si fa soffriggere l'aglio, il rosmarino e il peperoncino nell'olio, poi si aggiungono fagioli lessi, conserva di pomodoro e un litro d'acqua. Si sala quanto è necessario, lasciando ritirare il brodo, poi si passa il tutto. Ingredienti per la pasta 200 gr. di farina acqua sale Preparazione Si fa uno strato di farina, si stende, poi si prende un po' d'acqua e si comincia a schizzare sulla farina in modo da creare dei piccoli grumi che vengono lavorati con le mani. Ottenute queste piccole briciole, si passano nello staccio lasciando passare la farina. Quello che rimane sono i frascarelli, che a questo punto vengono cotti nel brodo di fagioli precedentemente preparato, avendo cura di evitare che i grumi di farina si appiccichino l'un l'altro. D i questo antichissimo piatto, precursore della pasta secca, diamo anche una variante che prevede l'uso delle uova, un alimento non sempre disponibile nel bilancio delle famiglie. FRASCARELLI II Ingredienti per il brodo Aglio 1 litro d'acqua 1 uovo Peperoncino 2 pomodori Sale Preparazione Si prende uno spicchio d'aglio e lo si fa rosolare. Quando è rosolato si aggiungono i pomodori e si fa insaporire. Si aggiunge l'acqua e si sala il tutto. Vi si cuociono i frascarelli e quando il tutto è quasi raffreddato si sbatte un uovo con un po' di peperoncino e si aggiunge prima di servire nei piatti.
Ingredienti per la pasta 200 gr. di farina 1 l. d'acqua 1 uovo Peperoncino 2 pomodori Sale Preparazione Si prende la farina e si mette nello staccio, poi si sbatte un uovo con un pochino di sale e un po' d'acqua. Si schizza il liquido sulla farina in modo che si formino delle palline. A questo punto si prendono le palline e si mettono a cuocere nel composto che si è già preparato. La cottura dura circa 2 o 3 minuti. La pasta: i tagliatini Nelle case di campagna, sul focolare, c'era sempre un paiolo d'acqua. Le donne, preparati i tagliatini, li lasciavano cuocere solo per qualche attimo. Poi, in fretta, toglievano la pasta, la mettevano nella zuppiera e aggiungevano la salsa, avendo cura di togliere l'acqua che vi era caduta. Non doveva mancare il formaggio, grattato a piacere, preferibilmente pecorino secco. TAGLIATINI Ingredienti per il sugo Olio Aglio Prezzemolo Sale Conserva di pomodoro Cipolla Preparazione Si soffriggono nell'olio cipolla, prezzemolo e aglio. Quando il soffritto raggiunge il color nocciola si aggiunge la conserva di pomodoro e si fa cuocere lentamente per una mezz'ora. Ingredienti per la pasta Acqua 500 gr. di farina 1 uovo Preparazione Si tira la sfoglia molto fine, impastata con acqua, farina, sale e un uovo. Si spiana ricavandone rettangoli larghi un centimetro e lunghi cinque. Si lascia asciugare. La pasta: i pici Se in campagna non si viveva bene, talvolta in città, soprattutto durante la guerra, si viveva peggio. Armida aveva il carattere deciso di chi fin da piccola s'è dovuta arrangiare. Aveva fatto la pastora, poi si era sposata con un operaio ed era andata ad abitare in città. L'abbandono del paese doveva aver significato per lei la fine di una condizione di miseria e d'inferiorità. Per anni aveva dovuto dividere con due sorelle l'unico paio di scarpe ed anche il resto degli abiti. Così l'andare in città le era sembrato una liberazione ma in città la situazione non era delle migliori. Anche se non si moriva di fame, certo ci si alzava spesso senza sapere se in fondo alla giornata si sarebbe riusciti a riempire lo stomaco. La società di allora, non solo nelle zone rurali, era contrassegnata da forti legami comunitari. I vicini si conoscevano tutti e c'erano scambi continui
d'informazioni e d'aiuti. Naturalmente questo implicava anche alcuni problemi: siccome tutti sapevano tutto di tutti, era difficile mantenere quel minimo di riservatezza. Armida era una donna aperta e arguta - a quanto si racconta - ma l'aver vissuto in una famiglia numerosa senza un minimo di spazio per se stessa doveva averle fatto sentire questa presenza costante dei vicini come un'intromissione vera e propria. Come vicina, in città, le era capitata una donnetta che, come occupazione, aveva quella di curiosare. Era talmente impegnata in questa attività che non perdeva occasione, con una scusa o con l'altra, di entrare continuamente nelle case di tutti. Armida aveva fatto suo il detto: Meglio essere invidiati che compianti. Così, quando arrivava la vicina che voleva sapere cosa cucinava, non la faceva nemmeno entrare ma rispondeva con un sorriso sulla bocca e la fame nello stomaco: Pastasciutta. Poi, quando l'altra domandava: Pastasciutta anche oggi? Un l'avete mangiata ieri? E Armida: Anche ieri l'altro, se è per questo, ma che volete, si campa una volta sola. A proposito di pasta asciutta parliamo degli antenati degli spaghetti - i pici che secondo alcuni storici della gastronomia sarebbero una variante etrusca degli spaghetti. L'affermazione si fonda sulla scena affrescata in una tomba etrusca, in cui è raffigurato un servo intento a portare a tavola proprio un piatto di pici fumanti. L'origine del nome sembra da connettere con il verbo appicciare o fare le piccie , cioè le matasse di pasta che venivano poste vicino al camino per asciugare. Il piatto, così come il condimento, è tipico della parte meridionale della nostra provincia. PICI ALL'AGLIONE Ingredienti per il condimento 1 o 2 teste d'aglio Conserva di pomodoro Olio Peperoncino Sale Parmigiano o pecorino stagionato Preparazione Preparare un soffritto con abbondante olio, peperoncino e tre o quattro spicchi d'aglio per persona, schiacciati e tagliati per il lungo in due o tre pezzi. Imbiondito l'aglio, aggiungere la conserva di pomodoro, il sale e diluire con un po' d'acqua di cottura della pasta. Lasciare ritirare a fuoco lento per una ventina di minuti. Ingredienti per la pasta 500 gr. di farina Acqua Sale Preparazione Impastate la farina con poco sale e acqua lavorandola in modo da farne un impasto piuttosto consistente. Tiratela spessa circa un centimetro e poi tagliatela a listarelle larghe un centimetro. Lavorate quindi la pasta con le mani (si dice appiciare ) in modo da farne dei grossi spaghetti. Lessateli in abbondante acqua salata e poi conditeli con il sugo e molto cacio. Qualcuno aggiunge briciole di pane raffermo in alternativa al formaggio.
La pasta: gli gnocchi La storia di Modesto, pur attenuata dal fatto che il protagonista era un po' ritardato, la dice lunga sulle condizioni di vita e sulla dieta dei mezzadri, anche di quelli appartenenti a famiglie agiate come la famiglia di Modesto. Modesto una volta fu invitato ad un pranzo. Appena vide la minestra a brodo, che gli piaceva tanto ma che a casa non c'era quasi mai, cominciò a mangiarne un piatto, poi un secondo, un terzo. Insomma ne mangiò sette piatti. Mentre finiva il settimo arrivarono gli gnocchi e Modesto, che non li aveva previsti e che ormai era pieno, si mise a piangere. GNOCCHI DI PATATE Ingredienti per 6 persone 500 gr. di farina 1000 gr. di patate (gialle farinose) Sale Preparazione Lessate le patate con un po' di sale, pelatele e passatele ancora bollenti. Appena cominciano a raffreddarsi, unite metà della farina e lavorate l'impasto fino a renderlo sodo e omogeneo, aggiungendo altra farina se fosse necessario. Sulla spianatoia infarinata formate dei cilindretti della grossezza di un dito che taglierete obliquamente alla lunghezza di tre centimetri. Con un dito formate su ognuno una piccola fossetta. Lasciateli asciugare un po' e cuoceteli, pochi alla volta, in acqua bollente salata. Appena salgono alla superficie toglieteli con un mestolo bucato facendoli scolare bene. Conditeli con sugo di pomodoro o di carne (vedi la ricetta dei tortelli) e sempre con molto cacio grattato. Il sugo finto Bisognino fa correre la vecchia oppure La necessità aguzza l'ingegno . Qualsiasi proverbio vogliamo citare una cosa è certa: il sugo finto, cioè il sugo senza carne, appartiene alla cultura della cucina povera. Abbiamo già visto il brodo finto, un brodo di verdure e non di carne. Il sugo finto è figlio della stessa cultura alimentare in cui si supplisce con l'inventiva alla mancanza di carne. SUGO FINTO Ingredienti per 5 o 6 persone Olio 2 spicchi d'aglio Prezzemolo Sale Pepe 3 pomodori 1 cipolla Qualche foglia di salvia Preparazione Si soffriggono nell'olio cipolla, prezzemolo, aglio e qualche foglia di salvia. Quando il soffritto raggiunge il color nocciola si mette il pomodoro a pezzetti anche con la buccia. Si aggiungono sale e pepe e si fa cuocere a fuoco lento. Si usa in genere per condire i maccheroni, aggiungendo parecchio formaggio grattugiato, preferibilmente pecorino secco. Al soffritto qualcuno aggiunge carota, sedano e zucchine. Cap. III SECONDI
Sandrino abitava in uno dei paesi delle Colline Metallifere. Una mattina del luglio del '44 si ritrovò a dover scappare davanti ai tedeschi in ritirata. La vita innanzitutto aveva pensato buttandosi a capofitto giù per le scale. Ma proprio quel giorno era riuscito, dopo tanto, a trovare una gallina e stava aspettando con ansia che il brodo fosse pronto quando cominciarono a cadere giù colpi di cannonate mentre le case saltavano come se fossero state di carta. Sandrino, con un grande atto d'eroismo risalì in casa, prese la pentola del brodo e corse senza voltarsi indietro, inseguito dai colpi d'artiglieria e dalle schegge delle bombe che cadevano da tutte le parti. Fu così che con questa pentola in mano si fece un paio di chilometri senza guardare. Quando si fermò al podere, solo allora si accorse di avere in mano solo il manico della pentola, perché una scheggia aveva risparmiato lui ma non la gallina. Povero Sandrino, gli vennero le lacrime agli occhi. Se avesse perduto un familiare non si sarebbe sentito così disperato come di fronte alla perdita di quel pranzo, sognato da settimane. Non inseriremo la ricetta del lesso che è troppo diffusa, preferendo, invece, citare quella del lesso rifatto, in omaggio alla capacità delle generazioni passate di riuscire, utilizzando gli scarti e gli avanzi del pranzo, a preparare dei cibi di buona qualità. LESSO RIFATTO Ingredienti Lesso avanzato Cipolla Pomodori pelati Olio Sale Preparazione Come dice il nome, si tratta di riutilizzare brodo, cosa che avveniva, in genere, durante nell'olio e poi si aggiungono i pomodori, il ricuocere fino a quando il pomodoro non si è
il lesso avanzato, dopo aver fatto il le feste. Si fa soffriggere la cipolla sale e la carne a pezzi, quindi si fa ritirato.
U n buon lesso merita come degna compagna una salsa. La più semplice e forse la più buona è la salsa verde. SALSA VERDE Ingredienti Aglio Prezzemolo Acciughe Dragoncello Capperi Pinoli Ovo sodo Sale Olio Preparazione È un trito d'aglio e olio con capperi, prezzemolo, acciughe senza lisca, uovo sodo e poco sale. Qualcuno aggiunge anche i pinoli e qualcun altro della mollica zuppata nell'aceto e strizzata. Per amore di completezza si ricorda che esiste una variante più povera senza uovo, capperi, pinoli e pane zuppato nell'aceto, ma con l'aggiunta del dragoncello.
Il buristo e il gonnellino scozzese In un articolo uscito da qualche anno, si sostiene che il simbolo dell'identità scozzese, il gonnellino, è un capo d'abbigliamento piuttosto recente, inventato all'inizio dell'Ottocento dall'industria tessile inglese. Quello che decenni di romantiche elucubrazioni hanno ritenuto la sopravvivenza di un passato millenario sarebbe dunque il risultato di una tradizione inventata recentemente.5 Ho l'impressione che qualche cosa del genere sia successo da noi con il buristo. La gelosia con cui Siena ha conservato il suo particolarismo ha fatto sì che usi e costumi fossero circondati di un'aura d'originalità e d'eccezionalità. Questo vale soprattutto per uno dei prodotti che si ricavano dal maiale, il buristo. Si tratta di una salsiccia al sangue, cotta due volte, che per il tipo di lavorazione sembra più originale e meno soggetta d'altri prodotti alle contaminazioni esterne. In fondo si tratta di carne di seconda scelta e per questo volta al consumo prevalente da parte dei ceti più popolari. Secondo una concezione romantica sarebbe l'ingegno di questi poveri che nell'arco dei secoli avrebbe saputo dare ad una carne non pregiata quel particolare gusto che nasce da segreti accostamenti di dolce e salato, di sangue e d'aromi. Ora non è che il buristo di per sé rappresenti Siena e la sua gastronomia. Anzi, la sua marginalità nella cucina contemporanea della città può essere ampiamente documentata. Resta il fatto che indubbiamente si tratta di un piatto che ancora recentemente, forse per il prezzo popolare, è stato largamente diffuso nelle merende e nelle colazioni invernali. Purtroppo il nome non è italiano e per quanti sforzi uno voglia fare non si può negare la derivazione dal blut wurst , la salsiccia al sangue della tradizione tedesca. La presenza in Toscana del mallegato, un tipo di carne di maiale al sangue, presente nel pisano e molto affine al nostro buristo, non può farci dimenticare che probabilmente la sua realizzazione è derivata dalla richiesta delle truppe tedesche al seguito dei Lorena o addirittura dei soldati bavaresi che accompagnarono Violante di Baviera, agli inizi del Settecento, quando resse il governo della città.6 Ma in fondo di che meravigliarsi. Ricordiamoci che anni fa G. Gaber cantava: Se potessi mangiare un'idea avrei fatto la mia rivoluzione e la cucina, prima che un cibo, è un'idea e le idee non hanno confini. La cultura umana, se non si chiude in sé, si nutre continuamente delle idee degli altri, a cominciare da quelle nate in cucina e diventate cibi. BURISTO Ingredienti Lardelli Cotenne Sangue Testa di maiale Buccia di limone Sale Pepe Preparazione Le cotenne e tutte le parti della testa del suino vengono cotte in acqua salata e macinate grossolanamente: si aggiungono poi lardelli di grasso soffritti e portati a mezza cottura e, per ogni dieci chilogrammi di questo impasto, duecento grammi di sangue di maiale filtrato, aggiungendo pepe (e sale se necessario). Si condisce con aromi, si insacca l'impasto ancora caldo nello stomaco del suino cucito con filo e si cuoce. Si consuma subito. Nel senese la percentuale di sangue è più elevata. U na variante del buristo, ma di migliore qualità, è la SOPPRESSATA, conosciuta in gran parte della Toscana. La preparazione di questo insaccato avviene insieme al buristo, solo che per la soppressata si scelgono le carni migliori e poi si insaccano insieme alle bucce d'arancio. Nel caso del buristo c'è l'aggiunta del
sangue e una nuova cottura. I cibi delle fiabe Nelle fiabe si parla spesso di cibo ma senza darne una rappresentazione precisa. Si rimane nell'indefinito, una modalità d'espressione che contribuisce a dare alla narrazione il suo andamento favoloso. È il caso del protagonista di una novella di Marzocchi dove si vede un giovane alle prese con una tavola apparecchiata: E intrafinefatto apparve sul tavolino un pranzo da dir proprio: 'Bocca mia quel che tu vuoi'. Giannone mangiò e bevve come un bufalo e anche la sposa fece lo stesso perché le patate e i fagioli del mugnaio le andavano poco .7 Lo stesso succede in una novella di Pitrè dove tre fate lasciano tre doni a Soldatino. Uno di questi era un tovagliolo magico. Appena le fate se ne furono andate a Soldatino 'un gli pareva vero che andassero via, dalla bramosia di vedere cosa gli avevano lasciato. Si rizza e distende il tovagliolino; e appena lo distende, gli appare tanta roba, ma tanta, tanta di tutte le delizie del mondo. 8 Lo stesso accenno senza nessuna precisazione dei cibi in un'altra novella di Marzocchi dove si racconta di un giovane che ha avuto in dono un tovagliolo che si apparecchia da solo, una chitarra che fa ballare e una borsa sempre piena. Nella novella, parlando della forza magica del tovagliolo, si ricorda semplicemente che quando la bambina ebbe fame chiese da mangiare e subito si trovò servita una bella cena; dopo domandò casa e letto, ed ebbe anco quella e andò a dormire. 9 Altre volte il cibo viene elencato solo per far risaltare la misera condizione delle persone, come ci ricorda la protagonista di una novella di Marzocchi, che accoglie il Signore e S. Pietro pur essendo poverissima: Passate pure; ma per cena avrete pane e latte soltanto; vi fa? 10 Altre volte la fame è tanta e il cibo così scarso che bisogna contentarsi di un po' di verdura raccolta nei campi: Allora mettiamoci a girare pei campi a vedere se si trova delle frutta di casco e dell'insalata contadina. Così fecero e chi andò a dritta chi a mancina. La figlia minore, detta Nina, andò in un campo e fece una grembialata fra crescione, pimpinella, mentastro e popolino. 11 Oppure il cibo è nauseabondo perché non appartiene al mondo degli uomini ma a quello degli animali: Dopo manco un quarto d'ora, eccoti il Falco, che si mette a tavola e divora un monte di carnaccia. 12 Quando addirittura non si tratta di un pranzo antropofago: Il Re degli animali [...] lo fece sedere, gli diede a mangiare un coscio di cristiano e si fece raccontare ogni cosa. 13 Raramente comunque il cibo è quello comune e abituale della quotidianità: Finalmente fu messa in tavola la zuppa e lui mangiò e bevve appena: bastò però perché s'addormentasse, poiché il vino era alloppiato. 14 Quando, invece, il cibo della festa è elencato si tratta in genere della carne: Sale e trova una tavola apparecchiata per una persona. Le vivande mandavano un odorino da far venire l'acquolina in bocca a' morti, figuriamoci a lei, che era viva e affamata! Dette un'occhiata alla stanza, poi acciuffò una bragiola e se la mise in tasca. Subito sentì una voce che disse: 'Si serva! si serva!' Credé fosse il padrone e lasciò andare la bragiola in terra; ed ecco una mano (non si sa di chi) la raccatta e la rimette sul piatto, altre mani versano la minestra ed altre le accostano la seggiola. Nina badava quel lavoro con tanto di lanterne spalancate. 'Ma che lavoro è questo? qui c'è mani senza che si veda di chi sono; voci che non si sa di chi siano; e quel che è più bello, pranzi preparati per me!...' Ma la solita voce disse: 'S'accomodi e mangi.' Nina fece: 'Mille grazie, signore.' E si mise a sedere. Da principio faceva bocconcini e adoprava la forchetta, ma siccome la fame le cresceva col mangiare, principiò a divorare a due palmenti e adoprare le mani. Intanto le solite mani le barattavano i piatti, accendevano i lumi, le versavano il vino. A lung'andare Nina ci prese gusto e si divertiva a dire: 'Ehi, quelle mani; datemi la saliera' oppure: 'Affettatemi il pane.' E le mani, puntuali, facevano ogni cosa. 15 Persino il re degli animali quando deve dare un gran pranzo ai suoi sudditi prepara per loro la carne: Anticamente il Re degli animali, invitò a pranzo tutti i cani. Preparò loro un bel quarto d'agnello arrosto, ma, quando andò per metterlo in tavola, l'agnello era scomparso. 16 Piuttosto che la carne di bue sono, d'altronde, i polli e i piccioni che occupano
gran parte dell'immaginario alimentare dei narratori, come si vede in questa novella raccolta da Pitrè in cui si racconta di un ragazzo che semina una fava, l'unica cosa che possegga la madre, e risalendo la pianta prodigiosa che ne è nata giunge sino in paradiso. S. Pietro gli regala un tavolo che si apparecchia da solo, un ciuchino che fa monete e un bastone che picchia a volontà. L'oste ruba il tavolino al ragazzo e rimasto solo, pensò bene di dire la parola che il cittino gli aveva proibito, e cominciò a dire: 'Tavolino, apparecchia'. Detta la parola magica, vennero polli, piccioni, e di ogni sorta di vivande belle e cucinate, che all'oste gli fece molto piacere. 17 Capponi e galline nell'altra novella di Marzocchi: Il ciabattino ci stette; ammazzò la gallina e preparò un bel pranzo pel giorno dopo perché quel beccajo di giudeo [...] spedì loro un corbello di pane, cacio e frutta, poi capponi e galline e un baril di vino. 18 Tra i cibi raffinati, oltre agli arrosti non poteva mancare il prosciutto, come si vede da questo pranzo offerto da una donna avara a Gesù e S. Pietro per ottenere una ricca ricompensa: Finalmente si sparge la voce che il Divin Maestro era per lì. Mette al fuoco un bell'arrosto, affetta di bravo prosciutto, apparecchia e prepara due o tre fiasconi di vino, poi scappa fuori e va a trovare Gesù. 19 Altre volte la colazione presentata dal narratore vuol essere più raffinata suggerendo curiosi accostamenti: Andò in salotto e fece colazione con crostini e cioccolata, poi scese nel giardino a fare due passi. 20 Non va dimenticata infine la funzione sociale della tavola con la ripartizione gerarchica dei posti: Il servo sale e vede di lontano uno splendore di carrozze e soldati che venivano alla volta del palazzo. Scende e lo dice al re. Tutti a domandarsi: 'Chi sia? chi sia?' e il servo: 'Mah! si vede un luccichio; pare il re de' re.' Il re di Sassonia va a riceverlo all'uscio, gli fa inchini e reverenze, poi lo mette in capo tavola. 21 Naturalmente le versioni toscane in cui è presente come oggetto magico il tavolo (o la tovaglia che si apparecchia) non finiscono qui22 e molte altre varianti si trovano nelle altre raccolte regionali23 ma hanno tutte la caratteristica di privilegiare polli e piccioni piuttosto che le bistecche. Cominciamo quindi con le ricette delle carni bianche. La prima è della zona di San Gimignano. CONIGLIO ALLA VERNACCIA Ingredienti per 4 persone 1 coniglio da 1 kg 1 cipolla 50 gr. di burro 1/2 bicchiere di Vernaccia di San Gimignano 1/2 bicchiere di brodo di carne 2 tuorli 1/2 limone Farina Sale Pepe Preparazione In un capace tegame fare dorare il burro e la cipolla affettata, poi aggiungere il coniglio pulito, tagliato a pezzi e infarinato. Salare e far rosolare per 10 minuti a fuoco medio. Quando la carne apparirà dorata, bagnare con il brodo e la Vernaccia e poi pepare. Far ritirare al punto giusto, e fuori dal fuoco mescolare rapidamente i pezzi di coniglio con un composto di due tuorli e il succo di limone. Servire al momento. POLLO DORATO
Ingredienti per 4 persone 1300 gr. di pollo giovane e ruspante 2 uova intere Farina Olio Limone Sale Pepe Preparazione Tagliare il pollo a pezzi dopo averlo spennato, vuotato e pulito. Rompere in un piatto fondo le uova, salarle e batterle leggermente. Infarinare i pezzi di pollo, passarli nelle uova e cuocerli in olio già caldo a fuoco moderato. A cottura ultimata metterli sopra una carta paglia, spruzzarli leggermente di sale e pepe e disporli in un piatto di portata. Guarnire con spicchi di limone. Accompagnare con verdure fritte o insalata verde campagnola. POLPETTONE DI RIGAGLIE Ingredienti (per un piccione) Rigaglie di piccione Aglio Prezzemolo Salvia Cipolla Salsiccia o rigatino Pane grattato inzuppato nel latte Formaggio Farina 2 uova Sale Pepe Preparazione Si macinano le rigaglie di piccione con aglio, prezzemolo, foglie di salvia, cipolla, salsiccia e/o rigatino. Si aggiunge sale e pepe insieme a pane grattato inzuppato nel latte, formaggio e due o tre uova crude. Si fa un composto piuttosto solido e si lavora con le mani. Poi, dopo averlo spolverato con la farina, si mette nell'acqua o nel brodo e si lascia cuocere per circa un quarto d'ora. N ell'ottica di un ricupero della cucina tradizionale tralasciamo i piatti a base di carne rossa perché un tempo non erano molto diffusi, non senza aver reso il dovuto omaggio alla razza chianina, essenziale per chi ama la bistecca. Più consumate di quelle di bue sono le bistecche di maiale, che qui diamo in un ricetta più elaborata. BISTECCHE DI MAIALE AL VINO Ingredienti per 4 persone 4 bistecche di maiale Vino rosso Aglio Prezzemolo Semi di finocchio Sale Pepe Preparazione
Cospargere le bistecche di maiale con sale e pepe, disporle in un tegame di terracotta a fuoco basso, con un battuto di aglio, prezzemolo e semi di finocchio. Quando le bistecche saranno rosolate, bagnarle con un buon bicchiere di vino rosso e portare a cottura a fuoco basso e a tegame coperto finché il vino sarà del tutto evaporato. C 'è poi tutto un mondo gastronomico che ci limiteremo solo a citare ma che ha costituito un essenziale apporto proteico alle povere diete contadine: gli animali selvatici. Oggi, quando pensiamo alla caccia, pensiamo subito al cacciatore armato di fucile, mentre uccide gli animali, soprattutto fagiani e cinghiali. Un tempo non era così. Il cinghiale e il fagiano, che sono molto diffusi nelle nostre campagne, erano quasi inesistenti. La presenza poi di campi coltivati, il domestico come dicono i contadini, e la mancanza di forti competitori come i cacciatori e i nuovi animali da loro importati, davano alle lepri un'assoluta predominanza nel territorio. Tuttavia la parte del leone la facevano gli uccelli, sia quelli di passo sia quelli stanziali. Fino agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso la caccia di frodo era praticata su larga scala. Specialmente in campagna la cattura degli uccelli avveniva quasi esclusivamente per mezzo delle tagliole e, prima ancora, dei lacciuoli, lacci fatti con il crine di cavallo. Oltre agli uccelli, che non sempre venivano mangiati dalla famiglia ma venduti invece ai ristoranti cittadini, si cacciavano senza fucile anche le lepri e gli altri animali del territorio, come i ricci e gli istrici che venivano seguiti nelle loro tane, costretti ad uscire e, quindi, colpiti. Non daremo ricette sulla preparazione di queste carni, conosciute in tutta la Toscana, soprattutto perché si tratta d'animali in via d'estinzione la cui caccia è ovviamente proibita. Ci limitiamo a ricordare che, secondo gli informatori, la carne dell'istrice, preparata in umido, era più delicata e più buona di quella del cinghiale, cucinata allo stesso modo. Per quanto riguarda il riccio, le testimonianze riferiscono che la carne veniva usata per preparare il sugo per la pastasciutta. Di questa cucina tradizionale rimane solo l'arrosto d'uccelli, cui il cuoco non manca mai di aggiungere fegatelli e salsicce di maiale. La carne, comunque, non era alla portata di tutti. Molto più comuni le frittate che si facevano con le uova e le erbe. Ricordiamo qui di seguito le vitalbe, ma non si devono dimenticare anche i rovi in fioritura come elementi addizionali alle uova. La frittata con gli zoccoli In campagna si ballava spesso, specialmente d'inverno quando le giornate era corte. Bastava che un musicante, con un organino, salisse sopra la madia, che la casa , la grande stanza del focolare, fosse sgombra del tavolo e delle sedie e la sala da ballo era pronta. Quasi sempre il ballo si concludeva con uno spuntino, spesso con una bella frittata. Una frittata co' gli zoccoli capoccio cominciavano a gridare i ballerini, soprattutto quelli che non avevano avuto successo con le ragazze. I più fortunati, quelli che stavano cominciando a tessere una relazione, non avevano nessuna voglia di interrompere una conversazione che si profilava interessante e che prometteva buoni sviluppi. Tuttavia quella pausa era necessaria. Era gente che lavorava pesante durante il giorno e anche le danze consumavano energie. Dopo qualche ora di ballo un po' d'appetito era venuto a tutti. Nelle case, allora, non mancavano mai le uova e, con pochi centesimi, ogni ballerino poteva offrire alla sua dama un bel pezzo di frittata. Le famiglie non erano certo mononucleari, il numero dei membri andava da quattro o cinque persone fino a venti o trenta. A questi si dovevano aggiungere gli ospiti o i lavoratori occasionali e i garzoni. Si doveva tener conto poi che il numero delle bocche cresceva in alcuni periodi dell'anno, durante la trebbiatura o la raccolta delle castagne ad esempio, o quando c'era qualche cerimonia, come in occasione delle comunioni o degli sposalizi , ai quali si dovevano invitare parenti ed amici. Per
tutte queste ragioni gli strumenti della cucina avevano dimensioni diverse dalle nostre. La padella delle famiglie più grandi, ad esempio, era talmente grande che ci volevano due persone per girarla. Secondo i parametri dell'epoca, era più larga di una ruota di bicicletta: Più grossa d'una ventotto! Anche le abitazioni erano grandi, a cominciare dalla casa , la stanza che serviva da cucina e da sala da pranzo e da cui si accedeva a tutta una serie d'altre stanze, dalle camere ai granai. Il luogo centrale della casa era dominato dal focolare su cui, estate e inverno, c'era un fuoco che non si spengeva mai. Cercando sotto la cenere, la mattina presto, appena alzata, la capoccia trovava sempre qualche tizzone con cui ricominciare un nuovo giorno. In queste famiglie, dunque, fare una frittata per cinquanta persone non era poi una cosa straordinaria. Se poi si voleva una frittata particolarmente nutriente, ma che oggi ci apparirebbe molto grassa, si chiedeva una frittata con gli zoccoli. Gli zoccoli erano fatti con il rigatino , tagliato a pezzi molto alti, come il tacco di uno zoccolo, appunto. Cominciava allora un cenino fatto a base di generose fette di pane, pezzetti di frittata e bicchieri di vino. Tra urla e spinte, quei maschi che erano stati a guardare, senza riuscire a fare un ballo, riuscivano ad avere il loro quarto d'ora d'attenzione. Quell'interruzione che i ballerini, all'inizio, non avevano per niente gradito ora diventava un'occasione eccezionale per dare una spinta decisiva al loro tentativo di conquista. In quella confusione, mentre c'era una sorta d'arrembaggio al vino e alla frittata, e i filoni di pane, due chili l'uno, sparivano a grandi velocità e, soprattutto, mentre la capoccia girava per dare qualcosa a tutti e prendere anche i soldi per le uova, il pane e il vino, le ragazze, trascinate fuori, per la verità senza grandi sforzi, si trovavano dietro la casa con il ragazzo. In genere, dopo tante proteste e molte promesse, almeno un bacio ci scappava. Cominciava così una delle mille storie che soprattutto nell'immediato dopoguerra dettero il senso della fine di una tragedia e della vita che, con gioia, ricominciava. FRITTATA CON GLI ZOCCOLI Ingredienti per 4 persone 100 gr. di rigatino 4 uova intere Olio Sale Pepe Preparazione Tagliare a tocchetti il rigatino e soffriggerlo con poco olio. Dopo aver sbattuto le uova con sale e pepe, versarle in padella con olio bollente. Cuocere da entrambe le parti e servire calda. C 'è un'altra frittata conosciuta solo localmente ma che meriterebbe una larga diffusione. Anche in questo caso si tratta di una ricetta diffusa nei comuni senesi al confine con le province di Pisa e di Grosseto, nella fascia che va da San Gimignano a Monticiano. Si tratta della frittata di ricotta. FRITTATA DI RICOTTA Ingredienti per 4 persone 200 gr. di ricotta di pecora 4 uova intere Olio Sale Pepe Preparazione
Dopo aver sbattuto le uova con sale e pepe, si aggiunge la ricotta e si amalgama bene. Quindi si versa il tutto in olio bollente. Cuocere da entrambe le parti e servire calda. FRITTATA DI VITALBE Ingredienti per 4 persone 6 uova 300/350 gr. di vitalbe Olio Sale Preparazione Le vitalbe sono delle erbette che non si trovano nel negozio. Si devono raccogliere nei cespugli. Raccogliete le vitalbe, lavatele e tagliuzzatele. Cuocetele in una padella con dell'olio. Quando le vitalbe sono cotte, scolatele dall'olio. Mescolate in una ciotola le uova, le vitalbe e il sale. Prendete una padella, versateci dell'olio. Quando l'olio è bollente, versate le uova e le vitalbe e cuocete. Quando la parte sotto della frittata è cotta, giratela e cuocete l'altra parte. Cap. IV PESCI, RANE E CHIOCCIOLE Ricorriamo ancora una volta alle fiabe non per parlare del pasto antropofago dei maghi o delle streghe e nemmeno per ricordare l'immaginario regno di Bengodi dove le montagne sono fatte di formaggio grattato mentre sulla cima un enorme pentolone vomita continuamente maccheroni che si caciano rotolando fino alla pianura. Vogliamo, invece, utilizzare la raccolta di novelle senesi di Marzocchi per introdurre un argomento, il pesce, che in Toscana non esiste . Storicamente, infatti, il pesce non fa parte della nostra cultura gastronomica perché il mare non è il nostro elemento. I toscani stanno nell'entroterra, niente li porta sull'acqua. Il laghetto di S. Antonio, nella piana di Monteriggioni, come nel Grossetano il lago dell'Accesa, vicino a Massa Marittima, contengono poca acqua ma sufficiente ad alimentare, nei secoli, racconti di città e paesi scomparsi nei gorghi. Persino i nostri pescatori non sono toscani di origine, come ad esempio quei pochi che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, trasformarono Castiglione della Pescaia, un borgo arroccato intorno alle antiche fortificazioni, in un villaggio di pescatori. Si trattava di gente che conosceva già il mare e proveniva dal basso Tirreno o, addirittura, dall'Adriatico. Senza mare non c'è né pesca né pesce. Per secoli, le nostre coste e le nostre isole sono state in mano alle galee saracene. La Toscana non ha fiumi tali da supplire a quest'abbandono del mare, che è ritornato nostro solo negli ultimi secoli. D'altra parte, nessuno dei tre fiumi della regione, Arno, Ombrone, Cecina, che sono modesti rispetto ai grandi fiumi europei, offre un percorso significativo nel territorio senese. Secoli d'isolamento hanno fatto sì che sparisse dai nostri riferimenti la grande distesa d'acqua salata e che, insieme con lei, fosse sommerso persino il linguaggio che le si riferiva. Siamo di fronte, dunque, ad una cultura popolare che si mostra indifferente rispetto al mare, del cui mondo ignora persino il vocabolario, come si capisce dal lavoro di Marzocchi, il giovane fiabista senese che non ha tralasciato di riportare alcuni termini popolari usati per definire il mare e tutto ciò che vi vive dentro o vicino. Ci sono due novelle nelle quali le narratrici, dovendo indicare la pinna o le pinne dei pesci, adoperano termini adatti agli uccelli: alina, aline.24 In un'altra novella il plurale ossini 25 viene impiegato, impropriamente, per indicare le lische dell'anguilla. Il mare, dunque, nell'immaginario degli informatori non è una sconfinata distesa d'acqua ma si riduce, più modestamente, alla dimensione di un ruscello o poco più. In Il Pesce d'oro , ad esempio, protagonista della novella è un principe che, trasformato per un incantesimo in un pesce, vive la sua nuova condizione in un fiume. Nel racconto Lo zufolo fatato si narra che i protagonisti, Giannone, la
moglie e il figlio, dopo essere stati scaraventati in mare [...] entrarono in una corrente che li portò ad un mulino. 26 Difficile pensare ad una comunicazione tra la gora del mulino e la grande distesa d'acqua, ma l'immagine, sbagliata geograficamente, si giustifica, tuttavia, se si tiene conto della cultura dei narratori che non conoscevano il mare. Una Toscana agraria, dunque, e con uno spazio, quello senese, ancora più terricolo del resto della regione. Ovvio che in quest'ambiente, dove persino la lingua ignora i termini marinari, il pesce non sia al centro di nessuna attività e tanto meno della cucina. Questo isolamento campagnolo, tuttavia, viene rotto ben presto, almeno per quanto riguarda le mense dei più ricchi, dall'arrivo dai mari del nord del baccalà, uno dei primi prodotti a comparire sulle mense della gente comune pur non appartenendo al nostro universo produttivo. Stoccafisso e baccalà La parola baccalà , ormai, indica sia il baccalà propriamente detto, sia lo stoccafisso . In effetti, il pesce è sempre lo stesso - il merluzzo - anche se, talvolta, con stoccafisso si comprendono anche i naselli essiccati. La differenza tra baccalà e stoccafisso non consiste dunque nella tipologia del pesce ma nel modo di conservazione. Basta sillabare stoccafisso (in inglese stockfish, bastone di pesce) per comprendere, dalla stessa etimologia, la tecnica di conservazione usata. Per diversi secoli, fin dai tempi dei vichinghi, infatti, i pescatori norvegesi hanno lasciato che l'aria seccasse il merluzzo pescato. Quando, invece, il pesce prende il nome di baccalà, vuol dire che per conservarlo non si usa più l'essiccazione ma il sale. Il merluzzo così trattato, pur originario del nord Europa, nel corso dei secoli ha avuto una tale diffusione nel sud del continente tanto da divenire un piatto etnico, comune a diverse città d'Italia e dei paesi della sponda nord del Mediterraneo. È vero che in Italia è più diffuso il merluzzo salato di quello seccato, tuttavia nello scegliere bisognerebbe ricordare che il prodotto finale non è lo stesso perché baccalà e stoccafisso si distinguono per caratteristiche, gusto, costo e preparazione. Il fatto che lo stoccafisso sia più costoso del baccalà nonostante quest'ultimo, ormai, si trovi nei negozi già messo ammollo, prima di essere venduto, dovrebbe farci riflettere sull'acquisto. Tutto dipende dal fatto che il pesce più piccolo è più gustoso di quello grosso e lo stoccafisso, infatti, è un pesce intero, ma piccolo, completo di ossa e pelle che danno il caratteristico colore grigio. Per questo ha un aroma più delicato del baccalà. Per il baccalà, invece, si usano dei merluzzi più grandi che vengono tagliati in filetti. Diamo qui di seguito alcune ricette di baccalà - ma realizzabili anche con lo stoccafisso - che pur affini a quelle dell'area fiorentina e pisana, se ne discostano per alcuni particolari su cui si fonda la specificità locale. BACCALÀ IN UMIDO Ingredienti per 4 persone 600 gr. di baccalà ammollato 2 spicchi d'aglio Prezzemolo 2 pomodori freschi Olio d'oliva Farina Sale Preparazione Asciugare bene, con un panno, un pezzo di filetto di baccalà che sarà stato lasciato ammollo per ventiquattro ore. Infarinarlo e friggerlo in padella con
parecchio olio, dopo essersi assicurati che sia abbastanza asciutto. A parte, in un'altra padella, viene soffritto un trito d'aglio, cui vanno aggiunti i pomodori. Mettiamo il baccalà già fritto e, dopo aver aggiunto il sale, lo facciamo cuocere nel pomodoro lentamente per mezz'ora. Prima di toglierlo dal fuoco, all'ultimo momento, lo cospargiamo di prezzemolo. Per chi ha problemi di digeribilità, si mettono a cuocere nel sugo i pezzi di baccalà senza friggerli. Naturalmente il sapore, rispetto al precedente, è un'altra cosa. P rima di abbandonare il baccalà e lo stoccafisso dobbiamo ricordare, per quanto ovvio, che: - Il baccalà è troppo salato per utilizzarlo immediatamente. Per questo deve essere lasciato ammollo per almeno due giorni (qualcuno arriva a cinque), provvedendo a cambiare spesso l'acqua per assicurare che il sale in eccesso venga espulso. Solo allora può essere pronto per entrare in qualcuna delle ricette che lo vedono protagonista. - Lo stoccafisso è molto secco e ha un'apparenza legnosa. Deve essere battuto con un pestello di legno per rompere la sua tessitura fibrosa prima di essere lasciato ammollo, come il baccalà, per un paio di giorni. BACCALÀ LESSO COI CECI Ingredienti per 4 persone 600 gr. di baccalà ammollato Ceci Limone Olio d'oliva Sale Pepe Preparazione Si lascia ammollo nell'acqua, per una notte, un bel pezzo di baccalà bianco. Poi lo si lessa in acqua bollente e, infine, si taglia in quattro o cinque pezzi. Al momento di servire condirlo con olio di oliva extravergine toscano, limone e pepe. A parte si preparano i ceci: si mettono ad acqua fredda con sale e si fanno cuocere per parecchie ore dopo essere stati ammollo per un lungo periodo. Se i ceci sono molto resistenti si aggiunge del bicarbonato nell'acqua in cui cuociono. Si servono caldi, appena pronti, aggiungendo olio e pepe. Le aringhe Il baccalà è un cibo popolare, diffuso in tutto il paese, e tuttavia c'era un pesce che ancor più di questo rappresentava il cibo dei poveri, il cibo della Quaresima che per molti durava tutto l'anno. Si tratta dell'aringa, che nell'uso popolare regionale assunse presto il nome di salacca , termine che accomunava aringhe e altri pesci di scarso pregio, che si consumavano salati o affumicati. Il termine è passato dalla gastronomia alla lingua per definire una persona magra e patita. Infine, poiché le salacche erano cibo da poveri, il modo di dire campare con le salacche , diffuso anche oggi, soprattutto in alcune regioni del Nord, voleva dire vivere miseramente. In Toscana è rimasta l'espressione dare una salacca con il significato di dare un colpo forte e si riferiva alla forma del pesce che, una volta affumicato e secco, diventava una specie di bastone al pari dello stoccafisso. Legato alle aringhe c'è un racconto, ripetuto mille volte. Una storia vera, centrata su un cibo così misero che sembra messo lì solo per richiedere l'intervento urgente delle fate, le uniche in grado di sostituire la povera mensa
degli anonimi protagonisti con leccornie di tutti i generi. Se qualcuno ha pratica di folklore e volesse fare una prova per difetto, potrebbe divertirsi a sfogliare tutte le novelle nelle quali è presente, tra gli oggetti magici, un tavolo che all'ordine Tavolino apparecchiati si copre di tutti i cibi che si possono desiderare. Tra queste pietanze favolose non troverebbe mai le aringhe, tipiche delle mense dei poveri. La storia, diffusissima, cui ci riferivamo è un affresco della miseria che affliggeva le classi popolari fino agli inizi del Novecento. Condizioni difficili che si riflettevano nella dieta costituita essenzialmente da polenta ed aringa. Quest'ultima veniva comperata in quantità minime, di solito una per settimana, una sola anche se i membri della famiglia erano tanti. Poi veniva attaccata, con un filo, alle travi del soffitto e lasciata pendere sul tavolo come un oggetto del desiderio che poteva essere solo sfiorato. La famiglia seduta al tavolo aspettava che la polenta si raffreddasse, poi ciascuno batteva la sua fetta sull'aringa e quel sale, dal sapore di pesce, costituiva il companatico di tutta la settimana, fino alla domenica, quando, per festeggiare il giorno del Signore, il pesce veniva fatto in pezzi sottili e finalmente mangiato da tutti. Per poi ricominciare il lunedì con un'altra settimana fatta di polenta condita con quel po' di sapore che la nuova aringa rilasciava, ondeggiando sopra il tavolo, spinta qua e là dai commensali a forza di colpi. Dopo un'eclisse durata decenni, le aringhe sono ritornate sui tavoli delle famiglie, non più come cibo della quotidianità e della miseria ma come piatto parzialmente elaborato, ricercato e assai più costoso. In ricordo di questo pesce che ha contribuito a sfamare intere generazioni diamo una ricetta, la più vicina a quelle tradizionali. ARINGA Ingredienti Aringhe affumicate Olio Aceto Patate Bietole Spinaci Preparazione Dopo averle tolto la testa ed averla tenuta ammollo nell'acqua, si apre l'aringa a metà. Va cotta in gratella e mangiata con patate lesse, bietole, spinaci. Naturalmente va condita bene con olio e aceto. L'anguilla di ser Meoccio Probabilmente al successo delle aringhe, del baccalà e dello stoccafisso e alla diffusione tra la massa della gente di questi pesci del nord, devono aver contribuito non poco le cucine dei monasteri che, con abbinamenti appropriati, riuscirono ad adattare al gusto locale un prodotto proveniente da paesi lontani. Questo mondo di badesse e di abati, grassi e corpulenti, più attenti ai piaceri del corpo che a quelli dello spirito, trova nei nostri novellieri del Tre Quattrocento degli splendidi e spietati cronisti. Tra questi scrittori vorremmo ricordare Gentile Sermini, che ci ritrae un prete, ser Meoccio parroco di Pernina, così intento ai piaceri della tavola da trasformare una predica in una ricetta su come cucinare l'anguilla. Mentre ci apprestiamo a leggere la parte centrale della novella, val la pena di ricordare che, per quanto riguarda la cultura italiana, probabilmente ci troviamo davanti alla prima ricetta inserita in un'opera letteraria. Pernina è una bella chiesa romanica sulla Montagnola, a pochi chilometri da Siena,
ad un passo dal castello di Celsa. Il prato della chiesa, che scende verso un piccolo cimitero, si trasforma nelle giornate serene in una delle terrazze più belle per chi vuole contemplare in lontananza la città con il suo profilo di torri, in fila, lungo i crinali delle colline, specialmente la sera, quando la luce tira fuori dai mattoni tonalità di un rosso che piano piano si spenge nel tramonto. Se poi questo spettacolo non è sufficiente, si può scendere lungo il prato della chiesa, lasciare il cimitero, attraversare un boschetto e, dopo aver percorso qualche centinaio di metri, proseguendo a sinistra lungo un viottolo, arrivare in cima alla Scala Santa, una piccola Gerusalemme, costruita tra Sei e Settecento. Alla base della Scala, la villa di Cetinale, con il suo giardino all'italiana. Intorno la campagna di Sovicille, con i resti di quegli insediamenti medievali trasformati nel corso dei secoli in poderi e fattorie, con i loro muri a secco ancora intatti. Uno spicchio di quel paesaggio agrario che Braudel considerava il più bello del mondo. Torniamo dunque alla novella Ser meoccio Ghiottone , il parroco di Pernina, cui molto le bone vivande piacevano quando erano assai, e al governo del corpo più che ad altro attendea. 27 Intento a soddisfare i piaceri della gola, ser Meoccio con false predighe diè a intendere a' suoi popolani, che a dare limosine a poveri o a incarcerati fusse peccato, e a sé lo ridusse facendo l'altare ben fruttare. 28 L'opera di convinzione riuscì così bene che uomini e donne cominciarono a portare al parroco tutti i doni che avevano destinato ai poveri e ai carcerati: [...] E così attendevano delle più belle e più fiorite cose che avevano; per modo che in mane di pasqua, o altre feste solenni, l'altare della sua pieve sì come una pizzigherìa di pollaiuoli o di soffrittaiuoli o di beccari diventato pareva, e la pietra sagrata pareva delle loro monete il banco Barattoli; e Dio sa la malanconia che n'aveva il piovano, il quale a tutti dava la benedizione, pagando di centum pro uno accipietis, facendo mane e sera buono piattello. E avendo il piovano già quasi tutti i soi popolani drizzati a fare la festa ogni anno ciascuno del so santo, accadde che uno che Vincenzo aveva nome, facendo di santo Vincenzo la festa, la quale in venerdì venia, Vincenzo per consiglio del piovano comparò molto pesce, fra quale fu una anguilla grossa di bene dieci libbre, e quattro tenche grosse; e perché alla pieve gionse uno poco tardetto a ora che 'l piovano predicava, uno Guerino, che la mattina era so cuoco, non avendo pratica di sì grosse anguille apparecchiare, non sapendo che farsi, con l'anguilla e le tenche in atto di buffone in su l'uscio della chiesa n'andò, e, colto il tempo, al piovano l'anguilla e le tenche mostrò, di spallucce con molti altri atti facendo; per modo che 'l piovano che subito intese che non sapeva conciarle, subito prese riparo a insegnarglielo. E narrando i miracoli e martirj di santo Vincenzo, fece una incidenzia, dicendo: Quanto santo Vincenzo era ordinato nel mangiare e nel bere! E' non faceva come questi ghiottoni del dì d'oggi, che ve ne vuò contare una ch'io ne vidi. Una volta, essendo fanciulletto ad Acqua pendente, vennero a desinare col mio maestro quattro gioveni, e recaro quattro tenche grosse e una grossa anguilla di Marca; e in tutto furo loro quattro e il mio maestro cinque ed io che servivo: e dirovvi la golosità ch'io gli vidi fare: Prima pellaro quella anguilla con l'acqua bollita e cavaro quello è dentro, e mozzaro la coda e la testa, poi lavaro bene a sei acque, poi ne fecero rocchj agugliati d'uno palmo l'uno o meno, e miserli in uno spedone con frondi d'alloro in mezzo tra rocchj acciocché non s'attaccassero insieme, così temperatamente l'arrostiro: e avendo prima messo in una conchetta sale, aceto e uno gocciolino d'olio, con quattro speziarie dentro, cioè pepe, specie, garofani e celamo fino, di ognuno di questi una mezza oncia, e con una rametta di osmarino, sempre di questa zenzeverata l'andavano ugnendo: e quando fu bene cotta e spolpata la trassero in una conca da gelatina, e ivi i rocchj assettaro; poi su vi premettero sei melegrane con bene venti aranci, e con molte fine specie sopra essa, poi con una teglia da migliacci caldetta la copersero acciocché calda si mantenesse infine che fossero a tavola. Ed ebbero in prima una lellata con l'ova, poi le quattro tenche lesse con tanto savore bianco, che ne toccò una gran scodella per uno, poi quella anguilla
arrostita col savore che era con essa in concia, poi una torta con tanto zuccaro che era uno abbaglio, poi per guasto anici confetti; e tutte queste cose si mangiaro, che non rimase niente, che a venticinque sarebbero bastate. Di che veduta io tanta ingordigia e disonestà, tanto mi dispiacque, che io vi prometto in pura conscienzia che quella fu cagione che il mondo abbandonai e presi questa religione: e Dio mi tenga le soe mani in capo acciocché a quella disonestà mai più non mi ritrovi. E detto questo, dimenticato il resto de' miracoli del Santo, temendo che alla cucina non mancasse nulla, la predica lascia. Guerino che di punto intese ciò che avesse da fare, di tratto partitosi, pulitamente apparecchiò come il piovano ammaestrato l'avea; sicché sei preti empiro le disordinate buseggie a loro modo; e Vincenzo e la sua famiglia in altro abituro da parte fave e lasche mangiaro [...] 29 Purtroppo per il nostro parroco successe che: uno libricciuolo di ricette per breviale studiandoli quale pervenuto alle mani di Lodovico Salerni, di quello e di molte altre gattività in presenzia del popolo lo vituperò, che fu cagione di cacciarlo. E fuggitosi in parte ove da corsari fu preso, e posto in galea, assuzzò la gran peccia: e divenuto cieco, povero e infermo, stando a Roma accattare, a caso Lodovico riconosciutolo, per compassione lo rivestì e alla sua casa lo rimenò. 30 Finita così l'avventura di Ser Meoccio finisce anche il nostro giro intorno a quelle poche ricette di pesce che il territorio ha elaborato nel corso degli anni. Tuttavia, la novella del pievano di Pernina imperniata sul modo di cucinare le anguille e le tinche ci porta a parlare di quei pochissimi pesci che una zona povera di acque come la nostra poteva vantare. Come si è già detto, nella Toscana meridionale mancano i fiumi e per fortuna dei cittadini, fin dal Settecento, i Lorena, nella loro opera riformatrice, avevano bonificato alcuni laghetti paludosi come quello di Pian del Lago accanto a Siena. L'unica distesa d'acqua che superi la dimensione di uno stagno rimasta nel Senese all'inizio dell'epoca contemporanea è il lago di Chiusi, dove da secoli si pescano tinche, carpe, lucci, persici ed anguille, gli unici pesci che per la loro reperibilità hanno avuto sempre una certa, anche se minima, diffusione nelle mense della gente. Diamo qui la ricetta di due piatti tipici del lago della vecchia capitale etrusca. Si tratta del brustico e del tegamaccio . Questi due piatti, senza mai dimenticare i pici, offrono, insieme al paesaggio, un ulteriore motivo per una visita ghiotta (è il caso di dirlo) alla capitale di Porsenna. BRUSTICO Ingredienti Persico reale e luccio Prezzemolo Succo di limone Olio Preparazione Il pesce viene fatto abbrustolire intero, su un fuoco di canne. Il calore della fiamma penetra dentro il pesce e lo cuoce mantenendo il gusto e il profumo. Successivamente viene ripulito, la pelle più abbrustolita viene tolta insieme alle lische e quindi condito con olio, limone e prezzemolo. TEGAMACCIO Ingredienti Pesce (luccio, tinca, carpa, anguilla) Passata di pomodoro Pane casereccio Vino rosso 1 cipolla Basilico
Nepitella Peperoncino Olio Sale Aglio Preparazione Dopo aver pulito, lavato e diliscato accuratamente il pesce, si taglia a pezzi grossi. In un tegame di terracotta viene soffritto un battuto di cipolla e aglio che poi viene unito al pesce con aggiunta di sale. Quando è dorato si bagna con il vino e si lascia evaporare. Una volta aggiunto il peperoncino, l'aglio tritato, il pomodoro, il basilico e la nepitella, si fa cuocere lentamente per un paio di ore. Il pane leggermente abbrustolito viene messo nei piatti dopo avervi strofinato l'aglio. A questo punto vi si versa il pesce e il sugo. Le rane Abbiamo citato quei pochi piatti di pesce che costituiscono l'eccezione di questa cucina di campagna. Finiamo con una ricetta imperniata su un altro abitante dell'acqua. Questa volta non si tratta di un pesce ma delle rane, cucinate in tutte le zone nelle quali la ricchezza d'acqua garantisce un consistente approvvigionamento di batraci. L'utilizzo di questi animali è proprio di alcune zone della Toscana meridionale, dove ha una certa diffusione anche se non paragonabile a quella del nord Italia, soprattutto delle zone intorno alle risaie, dove la carne di questi animali costituiva un integratore della dieta popolare di uso quotidiano. RANE FRITTE Ingredienti per 6 persone 1200 gr. di rane pulite 2 uova 50 gr. di farina Sale Olio di semi Preparazione Lavare e asciugare con un panno le rane, dopo averle tenute in acqua e limone. Infarinarle bene e passarle nelle uova sbattute con poco sale. Scaldare l'olio in una padella e mettervi le rane una ad una, tenendole staccate una dall'altra. Rivoltarle di tanto in tanto fino alla doratura. Servirle appena scolate. Le chiocciole Terminiamo, infine, con uno di quei piatti poveri per eccellenza, ormai nobilitato: le chiocciole. Non potremmo tuttavia ricordare questa ricetta senza accennare alla leggenda che unisce questo piatto alla fine della Repubblica e ad uno dei protagonisti di questo evento sfortunato Blaise de Montluc, i cui Commentaires offrono testimonianze delle tragiche sequenze finali della Repubblica senese, spesso punteggiate da episodi crudeli e sanguinosi come l'espulsione decisa negli ultimi giorni dell'assedio di tutti quelli che non erano adatti a combattere e non appartenevano strettamente alla famiglia. Cinquemila persone fra vecchi, donne e bambini furono cacciati e lasciati morire di fame fuori dalle mura. Furono abbandonati anche i trovatelli dello Spedale che - secondo Alessandro Sozzini - gli spagnoli ammazzarono più di mezzi . I sopravvissuti che rimasero nei pressi della città [...] erano tutti fuori di porta a Fontebranda [...], tutti a diacere per terra, con grandissime strida e lamenti. Era la più gran compassione a veder quei putti svaligiati, feriti e percossi in terra a diacere, che averiano fatto piangere un Nerone: ed io avrei pagati venticinque scudi a non averli visti; ché per tre
giorni non possevo mangiare né bere che prò mi facesse [...] I sacrifici non servirono a salvare Siena, che si arrese il 17 aprile 1555, nonostante un migliaio di cittadini si rifugiasse a Montalcino per proseguire la guerra ancora per quattro anni. Secondo una leggenda popolare, in quei giorni di fame e di disperazione, ma anche di grande coraggio, Blaise de Montluc e i suoi amici francesi appresero la magia del dragoncello, quest'erba amarognola dal sapore particolare. Da allora, l'estragon sarebbe diffuso in Francia, abbinato agli stessi cibi, le chiocciole, sperimentati da Blaise in quei giorni tragici in cui correva da un posto all'altro a rianimare gli assediati, ormai allo stremo delle forze. Anche se, probabilmente, il dragoncello ha fatto il percorso inverso arrivando in Italia dalla Francia, è vero, d'altra parte, che l'uso di questo aroma che si fa a Siena non ha riscontro in altre città d'Italia. L'erba si adopera in molte ricette, soprattutto nelle insalate, ma la sua presenza è essenziale in un piatto comune alla città e ai suoi immediati dintorni. Si tratta delle chiocciole al dragoncello. CHIOCCIOLE AL DRAGONCELLO Ingredienti per 4 persone 60/80 chiocciole Aglio Cipolla Basilico Prezzemolo Dragoncello Sedano Carota Peperoncino Rigatino o prosciutto crudo 2 fette di soppressata Conserva di pomodoro Vino bianco Pane casalingo Tonno Olio d'oliva Sale Pepe Preparazione Dopo aver fatto spurgare per una settimana le chiocciole tenute digiune, vengono lavate e fatte bollire in acqua salata per una ventina di minuti. In seguito si lavano e si scolano per un paio di volte mentre in un tegame si fa rosolare nell'olio un trito di cipolla, aglio, basilico, prezzemolo, dragoncello, sedano, carota, rigatino (o prosciutto crudo), soppressata, pepe e peperoncino. A questo punto qualcuno aggiunge del tonno e, dopo che questo è rosolato, un po' di vino bianco. Quando il sugo si è ritirato è l'ora di aggiungere le chiocciole e un po' di conserva di pomodoro. Rigiriamo lentamente e facciamo cuocere a fiamma bassa per due o tre ore aggiungendo, se necessario, un po' di brodo. Serviamo quindi le chiocciole con la loro saporitissima salsa su fette di pane abbrustolite. Cap. V CONTORNI Anche nelle famiglie dove si mangiava, il cibo era insufficiente di fronte allo sforzo fisico cui le persone erano sottoposte. Quando si andava ad opre spesso s'era ospitati a pranzo ma in alcune famiglie, come in un podere su verso Fosini nel comune di Radicondoli, il cibo era poco o di scarsa consistenza. Non si poteva lavorare dalle cinque del mattino mangiando soltanto zucca. Zucca a colazione, zucca a pranzo e zucca a cena. E' vero che la zucca rinfresca, ma non nutre molto.
Raccontano che un bracciante, dopo una decina di giorni di quella dieta, con ritmi di lavoro di 15 ore al giorno, una mattina di un'estate particolarmente calda, si presentò al campo con il cappotto. Oh, che hai stamani? gli fece il capoccio. Ho freddo rispose con tutta questa zucca mi so' rinfrescato troppo . Sembra che il capoccio abbia capito l'allusione e che da allora abbia cominciato, una volta a settimana, a tirare il collo ad un pollo. ZUCCA FRITTA Ingredienti 500 gr. di zucca gialla Farina Un goccio di birra Sale Pepe Olio Preparazione Si fa la pastella con farina, birra e acqua. Si passa la zucca tagliata a fettine nella pastella e la si mette a friggere nell'olio bollente. Dopo averla lasciata asciugare aggiungere sale e pepe. GOBBI RIFATTI Ingredienti 500 gr. di gobbi Farina Cipolla Pomodori freschi o pelati Sale Pepe Olio Preparazione Si lessano i gobbi. Si passano nella farina e si friggono. A questo punto, dopo aver preparato a parte un sugo di pomodoro (fatto ovviamente con un battuto di cipolla), ci si fanno saltare i gobbi fritti, dopo aver aggiunto sale e pepe. PISELLI ALLA SENESE Ingredienti 500 gr. di pisellini freschi sgusciati 100 gr. di pancetta (o una salsiccia) Aglio Sale Pepe Olio Preparazione Scottare qualche minuto i pisellini in acqua bollente già salata. Scolarli e passarli in una padella con la pancetta già dorata nell'olio e nell'aglio. Coprire, lasciare cuocere a fuoco lento fino a quando i pisellini non sono divenuti teneri. Aggiungere pepe e servire. FAGIOLINI RIFATTI Ingredienti 500 gr. di fagiolini freschi
1 cipolla rossa piccola 1 spicchio d'aglio Pomodori freschi o pelati Sale Pepe Olio Timo o maggiorana Preparazione Cuocere per circa 10 minuti i fagiolini in abbondante acqua salata. In una padella ampia fare imbiondire la cipolla e lo spicchio d'aglio in diversi cucchiai d'olio. Scolare i fagiolini, porli sul soffritto. Lasciar cuocere qualche minuto e poi aggiungere i pelati o i pomodori spellati. Profumare con timo (o maggiorana) e pepe. Coprire e cuocere per mezz'ora a fuoco basso. FAGIOLI AL FIASCO Ingredienti per 6 persone 1400 gr. di fagioli toscanelli freschi Olio extra 3 foglie di salvia 2 spicchi d'aglio Sale Pepe Preparazione Sgranare i fagioli, lavarli e introdurli in un fiasco spagliato, versare mezzo bicchiere di olio, aggiungere la salvia, gli spicchi d'aglio schiacciati e un quarto di acqua. Mettere il fiasco sulla brace a cenere e tapparlo con poca stoppa, affinché il vapore possa uscire durante la cottura. Sono necessarie 3 ore di cottura. Salare i fagioli qualche minuto prima di levarli dal fuoco. Versarli in una terrina, condirli con olio nuovo, altro sale e pepe al momento. Si servono con il tonno, un'aringa e le acciughe, sia caldi che freddi. A piacere possono essere ripassati con olio, salvia, aglio e pomodoro. STUFATO DI FAVE Ingredienti per 4 persone 500 gr. di fave fresche sgranate, piccole e tenere 100 gr. di pancetta tesa o arrotolata 50 gr. di strutto o 100 gr. di olio Cipolla Aglio Prezzemolo Brodo Sale Pepe Preparazione Tritare l'aglio, la cipolla e un po' di prezzemolo e farli imbiondire in un tegame di coccio, con la pancetta tagliata a pezzettini e lo strutto; gettarvi le fave, condire con sale e pepe, cuocerle a fuoco moderato e bagnarle, in occorrenza, con qualche cucchiaio di brodo. Salarle quando sono cotte. Vanno servite calde. A piacere, si può aggiungere in cottura della passata di pomodoro fresco e poi servire con fette di pane casereccio tostato. I carciofi fritti A fine Ottocento, il Fiorai, contadino nella parrocchia di Costalpino, accompagnò
all'altare la prima delle sue tre figliole. Il capoccio era un mezzadro benestante che lavorava un podere dove non mancava né il grano, né l'olio, né il vino. Il pranzo di nozze di questa sua prima figliola fu, dunque, all'altezza delle aspettative. Nei giorni seguenti il vecchio Fiorai fu chiamato in fattoria. Il capoccio partì da casa tranquillo. Quando arrivò, il fattore non fece tanti giri di parole: Fiorai, ho saputo che avete fatto il pranzo di nozze della vostra figliola e che avete fatto i carciofi fritti. I carciofi so' roba da signori. Per questa volta passi ma ricordatevelo! Ci avete da fa' sposà altre du' figliole. Che un risucceda. Qualche anno dopo nella famiglia Fiorai erano diventati tutti socialisti. Questo episodio viene a proposito per parlare dei contorni fritti. Ne citiamo solo qualcuno. CARCIOFI FRITTI Ingredienti per 4 persone 4 carciofi morelli Pan grattato 1 uovo Sale Pepe Olio per friggere Preparazione Si prendono i carciofi, si lavano, si puliscono togliendo le spine e si tagliano in quattro spicchi ciascuno. Si passano nell'uovo che abbiamo provveduto a sbattere, successivamente nel pan grattato e quindi si friggono in abbondante olio bollente. Dopo averli lasciati asciugare aggiungere sale e pepe. FIORI DI ZUCCA FRITTI Ingredienti per 4 persone 12 o 16 fiori di zucca 100 gr. di farina 1 uovo Olio d'oliva Sale Pepe Olio per friggere Preparazione Mettete in una zuppiera la farina, aggiungete due cucchiai d'olio, il tuorlo dell'uovo, sale e pepe. Qualcuno alla pastella aggiunge della birra (o un goccio di vino bianco) per renderla più soffice. Lasciatela riposare per circa un'ora e, poco prima di friggere i fiori, aggiungete la chiara montata a neve. Pulite i fiori eliminando i gambi, le foglioline verdi esterne e l'interno. Passateli nella pastella e friggeteli finché non saranno croccanti. Metteteli ad asciugare su carta da cucina, salateli e serviteli subito. FUNGHI PORCINI FRITTI Ingredienti per 4 persone 4 porcini medi Pan grattato 1 uovo Sale Pepe Olio per friggere
Preparazione Si prendono i funghi, si lavano, si puliscono e si tagliano a spicchi. Si passano nell'uovo che abbiamo provveduto a sbattere, successivamente nel pan grattato e quindi si mettono a friggere in abbondante olio bollente. Dopo averli lasciati asciugare aggiungere sale e pepe. Altra ricetta prevede anche la frittura con la pastella. Naturalmente, oltre ai porcini, che sono i funghi più pregiati, si possono usare altri funghi di qualità inferiore. Cap. VI DOLCI È il momento di parlare dei rivolti. Lo facciamo particolarmente volentieri perché questi dolci ci danno l'occasione di ricordare almeno l'inizio di una delle più belle novelle senesi, la novella del Gatto Mammone. Racconta Marzocchi che nei tempi antichi c'era [...] una donna che aveva due figliole e tutte e tre facevano le tessitrici e campavano alla meglio. Un giorno regalarono loro farina, unto e zucchero, ed esse pensarono di fare un po' di rivolti ma non c'avevano la padella. Pensarono di farsela prestare dal Gatto Marmione, che stava lì vicino a loro. 31 Non racconterò tutta la favola, basti sapere che la protagonista, Nina, la figlia più piccola, dopo aver superato tutte le prove, compresa quella di salire, senza romperle, le scale di vetro , otterrà una stella d'oro in fronte e diventerà sposa del principe. Vorrei parlare invece dei rivolti, che erano il dolce tradizionale, il più semplice della cucina popolare, fatto con acqua, farina e zucchero. Un impasto ben amalgamato e cotto in un po' d'unto . In sostanza, un dolce leggero, che oggi conosce una nuova stagione, specialmente se farcito, come le crêpes, con marmellate adatte, a cominciare da quella di more, di mele cotogne e di marroni. Questi dolci della tradizione senese secondo alcuni gastronomi sarebbero gli antenati delle crêpes. La loro origine viene fatta risalire ai conventi, dove si usava unire al brodo alcune pastelle di farina, acqua, sale rivoltate in una padella con olio o grasso di maiale. Da Firenze sarebbero emigrati in Francia, al seguito di qualche figlia del granduca. Lì nel nuovo paese sarebbero state aggiunte le uova, trasformando i rivolti in crêpes. RIVOLTI Ingredienti 300 gr. di farina di grano tenero 1/4 di litro d'acqua Sale Olio Preparazione Si fa una pastella cremosa, con acqua, farina e un pizzico di sale, che si scioglie in una zuppiera con il mestolino, girando bene perché non si formino grumi. Si prende una padella con il fondo antiaderente e si fa riscaldare con uno o due cucchiai di olio d'oliva. Poi si aggiunge uno strato sottile di pastella con un ramaiolo da brodo, tale da coprire tutta la padella. Quando il lato inferiore è quasi cotto, si gira come una frittata e si continua la cottura sull'altro lato. MIGLIACCI DI FARINA Ingredienti per 5 o 6 persone Lardo
300 gr. di farina Sale Pepe 3 uova Acqua Noce moscata (o anaci) Zucchero Preparazione Si lavorano le uova con l'acqua e la farina, con l'aggiunta di noce moscata, sale e un pizzico di pepe, fino a raggiungere un impasto liquido soffice e tenero. Si mette a friggere una noce di lardo. Quando è caldo si mette un ramaiolo di impasto e si fa rosolare da entrambe le parti. Dopo si lascia asciugare sulla carta assorbente aggiungendo zucchero. A bbiamo visto i migliacci di farina, ma certamente più famosi, sebbene oggi poco cucinati, sono i migliacci al sangue, presenti da tempo immemorabile nella cucina toscana. Basti ricordare che nel Trecento Sacchetti32 ne parla come di cibi abituali e tipici dei giorni che seguono la lavorazione del maiale. La ricetta classica, infatti, prevede il sangue anche se in dosi minime. MIGLIACCI O SANGUINACCI Ingredienti 500 gr. di sangue di maiale 1/2 litro di brodo di carne 500 gr. di farina 2 arance (succo e buccia grattugiata) 15 gr. di pinoli 30 gr. di uvetta Strutto Cannella macinata Chiodi di garofano macinati Noce moscata Sale Pepe Zucchero (facoltativo) Preparazione In una zuppiera si mescola al sangue di maiale il brodo nel quale abbiamo messo farina, il succo e la scorza grattugiata delle arance, un pizzico di spezie, pinoli, uvetta, sale e pepe. A questo punto si mette in una padella dello strutto e, quando è caldo, vi si versa qualche cucchiaio del composto per realizzare una crespella molto sottile che va cotta da entrambe le parti. I migliacci si servono caldi e, per i golosi, cosparsi di zucchero. A parte il periodo in cui si ammazzava il maiale, in genere coincidente con la fine o l'inizio dell'anno, il sangue non era disponibile e allora si facevano migliacci senza sangue. La base era quella dei rivolti ma gli ingredienti erano diversi. In alcune zone, soprattutto nei comuni senesi occidentali, al confine con le province di Pisa e di Grosseto, si usava talvolta la zucca. Un cibo più delicato, che in alcune famiglie lentamente sostituì i migliacci al sangue, cibo pesante che sembrava inadatto ai tempi nuovi e che cominciava ad essere in contrasto con il gusto moderno. I migliacci di zucca, invece, simili alle crêpes per la loro morbidezza, potevano essere mangiati in qualsiasi momento. I dolci, infatti, erano i cibi delle feste, giorni nei quali avveniva lo scambio di visite con amici e parenti. Le donne delle classi popolari cominciarono a preferire quei dolci, che sembravano non lontani dalla tradizione popolare ma che potevano essere offerti in
ogni occasione senza che la famiglia, specialmente le giovani generazioni, si sentisse presa in una sorta di rito cannibalesco, come avveniva quando venivano offerti i sanguinacci, che lasciavano nel piatto striature rosse a memoria del sangue di maiale usato come collante per legare zucchero, farina e spezie. MIGLIACCI CON LA ZUCCA Ingredienti 200 gr. di zucca gialla 1000 gr. di farina 2 uova Sale Pepe Noce moscata 2 litri d'acqua Zucchero Olio Preparazione Si fa cuocere nell'acqua la zucca fino a che non si disfa e poi si passa. Si prende allora una pentola in cui si versa l'acqua, le uova sbattute, sale, pepe e noce moscata. Appena il composto è raffreddato si mette la farina e si gira fino a quando non si è formata una crema. Si mette un cucchiaio d'olio nella padella e si versa mezzo ramaiolo di composto nell'olio, si cuoce da entrambi i lati e il migliaccio è fatto. Basta ora cospargerlo di zucchero abbondante. La rivoluzione delle serve Quando mia nonna andò a servizio a Firenze era il 1908 e aveva 13 anni. La domenica, il giorno di libera uscita, scendeva in centro e poi tornava a piedi, a San Miniato, in una villa tra gli alberi, accanto a piazzale Michelangelo. Non c'erano soldi ma ci si accontentava di vedere la gente ben vestita e le vetrine del centro. La nonna e le sue amiche arrivavano fino alle Cascine per ammirare gli ufficiali di Sua Maestà che, alti e snelli, con i baffi, le sciabole ai fianchi e i mantelli lunghissimi, davano il braccio a qualche signora mentre scendeva dalla carrozza tra trine e merletti. Poi, contente dello spettacolo, le ragazze, con i loro vestitucci e qualche sospiro, tornavano nelle case dei padroni dove le aspettava un'altra settimana lunga e faticosa ma in un posto caldo, pulito e con una cucina ben fornita. Se qualcuno ha l'opportunità di parlare con queste vecchie serve , dovrebbe farsi raccontare i soprusi che subivano. Le ragazze più sveglie riuscivano a vivere abbastanza bene, lavorando s'intende, le altre erano sottoposte alle angherie delle colleghe, delle padrone e soprattutto del capo del servizio, quello che oggi si chiamerebbe il maggiordomo. Gli stipendi delle donne, alcune poco più che bambine, erano miseri eppure non era raro il caso che anche quel poco fosse trattenuto per ripagare qualche bicchiere o qualche piatto che si era rotto. Tuttavia dovevano continuare a rimanere lì. La voglia di tornare a casa era poca. Molte di loro rimasero in città per sempre. Alcune ebbero la fortuna di fare matrimoni vantaggiosi, altre furono costrette ad affidare il frutto di un amore alla carità pubblica. Ci fu, infine, chi si perse. Ho ricordato mia nonna per un omaggio a tutte le serve che per decenni hanno lavorato in città. La loro opera, mai studiata, fu all'origine della vera e propria rivoluzione delle abitudini che penetrò nelle campagne. Se i giovani operai, educati come tutti i mezzadri ad un atteggiamento subalterno nei confronti del padrone, andavano in città come sudditi e dopo qualche anno tornavano socialisti, imponendo una svolta nella concezione politica dei contadini, il ruolo decisivo, tuttavia, nell'ingentilimento dei costumi e delle abitudini di vita si deve alle donne, in special modo alle serve .
In città le novità filtravano. La piccola nobiltà e la borghesia agiata vivevano gomito a gomito con i ceti popolari. Chi aveva raggiunto un certo reddito poteva imitare le classi più ricche nella cura del corpo, negli abiti, nell'arredamento e nei cibi. In campagna, per decenni ancora, pur in presenza di un lento miglioramento delle entrate familiari, le condizioni di vita rimasero le stesse. Le abitazioni erano poco più che catapecchie, gli abiti quelli di sempre, spesso fatti in casa grazie alla filatura della lana e del lino. La cucina non prevedeva novità se non il fatto che la polenta e il pane erano un po' più abbondanti rispetto ai periodi di fame di qualche decennio prima. Grazie alle serve la rivoluzione culturale che interessò il cibo, l'arredamento e il modo di vestire arrivò nelle nostre campagne molto prima che la diffusione della televisione veicolasse tra le masse popolari modelli alternativi a quelli tradizionali. Le ragazze partivano dai poderi con le pezzole in testa e ritornavano dopo qualche anno trasformate, portandosi con sé i frutti di quell'esperienza. Voglio qui ricordare solo alcuni piatti, i dolci che venivano preparati per Natale, Pasqua e il I Maggio. Nella maggior parte dei casi si trattava di ricette apprese nelle cucine dei signori e arrivate, tramite le donne di servizio, sulle mense dei contadini e dei paesani. A questo proposito ricordo un episodio che si raccontava negli anni Cinquanta, decenni dopo la morte di una di queste donne, che era stata a servizio nella cucina di una casa patrizia, dove aveva appreso i segreti della gastronomia. Tornata in paese per esigenze di famiglia aveva fatto di quell'esperienza la sua professione, che consisteva nell'andare, durante le feste, a fare la pasticciera nelle case più agiate. Mi hanno raccontato che appena tornata fu chiamata in casa di un contadino ricco, un ex mezzadro, che era riuscito con fatica e con intelligenza a comprarsi un podere e ad acquisire una certa agiatezza. Questo capoccio, di solito, quando s'arrivava alle feste comprava una balla di zucchero e, con la farina che aveva in casa, faceva fare alle sue donne dei biscotti secchi, sempre i soliti. Un anno, in questa famiglia numerosa, successe che le ragazze più giovani, e per questo più attente alle novità, dopo aver visto in paese le meraviglie che questa donna era capace di far uscire dal forno, convinsero il vecchio a farla venire a casa, durante la Settimana Santa, per preparare i dolci per la Pasqua. La ragazza lavorò di buona lena e dopo due giorni aveva riempito di dolci mezza stanza. Quando il capoccio vide tutto quel ben di Dio, dalle crostate al pan di Spagna, dal pesce alle bocche di dama, alle torte e così via, soprattutto dopo averne assaggiato qualche pezzetto, pensò che la ragazza gli avesse fatto spendere un capitale. Poi s'accorse che lo zucchero era stato consumato meno degli altri anni, che la farina era avanzata e che a parte qualche uovo e un po' di latte che, essendo prodotti in casa, non venivano considerati una spesa, con poche cose e pochi quattrini era venuta fuori tutta quella roba. Alla fine dall'entusiasmo non sapeva più che dire se non chiedere alla ragazza, quasi supplicando, di ritornare a fare i dolci ogni volta ci fosse stata una festa comandata , poi s'allontanò con le lacrime agli occhi. Come mi raccontarono, il vecchio aveva il pallino per la tecnologia. Anni prima aveva visto all'opera la trebbiatrice, che faceva risparmiare tempo e fatica agli uomini e alle bestie. Da allora non abbandonava mai una conversazione nella quale fossero ricordati i congegni meccanici. Non c'era fiera dove non si fermasse per ore a vedere i nuovi aratri e i primi trattori. Il mondo, si era convinto, era delle macchine ed ogni cosa era lì a dimostrarlo, fossero i treni, gli aerei o le automobili che cominciavano ad attraversare le strade polverose. La sua esclamazione preferita, usata sempre, a volte a sproposito, era diventata: che macchina . Ora, tuttavia, guardando quella ragazza che, con la sua intelligenza, aveva fatto tutta quella tavolata di dolci, uno più buono dell'altro, il capoccio, commosso, esclamò: Il cervello! Che macchina! TORTA MANTOVANA Ingredienti
300 gr. di farina 10 uova (10 tuorli più 5 chiare) 400 gr. di zucchero 200 gr. di burro Una puntina di lievito Pinoli Preparazione Si sbattono le chiare con lo zucchero e si montano a neve. Si aggiungono i tuorli, il burro sciolto e poi la farina, versandola piano piano. In ultimo si aggiunge una puntina di lievito. Si versa il contenuto nella teglia che si è provveduto ad ungere con il burro e infine si mettono i pinoli. La cottura è di circa un'ora. CIAMBELLONE Ingredienti 600 gr. di farina 6 uova 500 gr. di zucchero 1 bicchiere di latte 100 gr. di burro 1 limone 1 bustina di lievito Preparazione Si sbattono le chiare con lo zucchero e si montano a neve. Si aggiungono i rossi quando le chiare sono già montate, poi il burro fuso, la farina, il latte, il limone e il lievito, girando piano piano. Si versa il contenuto in una teglia, meglio se di rame, a forma di ciambella, che si è provveduto ad ungere con il burro. La cottura è di circa un'ora. PINOLATE Ingredienti 600 gr. di farina 6 uova 500 gr. di zucchero Preparazione Si sbattono le uova con lo zucchero per circa un'ora. Poi si aggiunge la farina e si mette l'impasto nella teglia infarinata, un cucchiaino per volta, dando la forma di caramelle. La cottura è di circa un quarto d'ora. CROSTATA Ingredienti 450 gr. di farina 9 uova (9 tuorli più 7 chiare) 300 gr. di zucchero 300 gr. di burro Limone Marmellata Lievito Preparazione Si sbattono le chiare con lo zucchero e si montano a neve. Si aggiungono i rossi quando le chiare sono già montate, poi il burro fuso, la farina, il limone e il lievito, girando piano piano. Si versa il contenuto nella teglia che si è provveduto ad ungere con il burro. A questo punto si aggiunge la marmellata e si
lascia cuocere per circa un'ora. BOCCA DI DAMA Ingredienti 12 uova 333 gr. di zucchero 333 gr. di mandorle tritate Preparazione Si sbatte a mano tutto l'insieme per un'ora e poi si mette nella teglia imburrata. Seguire la cottura (circa un'ora) con molta attenzione perché non bruci. Sembrerà strana la quantità dello zucchero e delle mandorle impiegate in questa ricetta. La donna che l'ha raccontata ci ha informati che quel dolce, con quelle curiose proporzioni degli ingredienti, si tramandava in famiglia da generazioni. La nonna, nell'insegnarlo alla nipote, dopo aver ricordato di aver appreso la ricetta, a sua volta, dalla voce di sua nonna, aveva affermato che le misure erano quelle che si usavano quando c'era ancora la libbra, prima del chilo. PASTA REALE Ingredienti 4 cucchiai di farina 4 uova 4 cucchiai di zucchero Una puntina di lievito Preparazione Si sbatte la chiara a neve. Si aggiungono lo zucchero, i tuorli e dopo la farina. Si mette l'impasto nella teglia imburrata e si fa cuocere per circa un'ora. È utile ricordare che la pasta reale è la base del salame , quel dolce che assume questa forma. Per fare il salame basta arrotolare la pasta reale, aggiungendo uno strato di crema e uno di cioccolata, e disegnando poi sopra con la cioccolata delle righe, ad imitazione dello spago che avvolge il salame. In alcune zone il salame è chiamato pesce perché la superficie veniva coperta di chiara sbattuta e di chicchi di zucchero argentati. Poi con pinoli e confetti si facevano i denti e gli occhi del pesce. Il dolce si faceva soprattutto per Pasqua e forse in origine aveva anche una simbologia religiosa. I dolci tradizionali Cuoco è una di quelle parole che non faceva parte del vocabolario familiare, come molte che ho appreso nel corso degli anni. Ricordo bene che questo termine, a differenza degli altri, mi colpì. A dire la verità avevo già sentito parlare di cuoca e di cuoche ma non avevo mai ascoltato questa parola declinata al maschile. Per me la cuoca era una sorta di mamma o di nonna che esercitava per denaro e non per affetto la sua capacità. Il fatto non mi procurava nessun problema perché il dominio che si esercitava sui cibi era sempre femminile. La cosa cambiò quando mio padre mi spiegò che le cuoche erano inferiori ai cuochi, i veri detentori del sapere gastronomico. Non riuscivo a capire. Era come se la zia fosse diventata prete e mio cugino avesse fatto la lavandaia. Il mondo da piccoli è rigidamente segnato e in una società ancora agraria come era quella degli anni Cinquanta del secolo scorso i campi di competenza dell'universo maschile e femminile erano separati. In realtà, in modo oscuro, identificavo la cucina con la sfera materna. L'idea, in modo molto semplice, era che tutta quella parte del mondo che va dall'acquisizione dei prodotti alimentari alla loro conservazione e trasformazione in cibo fosse di competenza esclusiva delle donne,
mamme, nonne, zie e cugine. Mi rendevo conto che rispetto al cibo gli uomini avevano competenza solo nella fase iniziale, quella dell'acquisizione. Fossero contadini, come erano la maggior parte dei genitori dei miei compagni, e ricavassero direttamente i prodotti dal loro lavoro, o fossero operai, come mio padre, ed acquistassero, quindi, questi stessi prodotti, con la mediazione del denaro, la loro opera finiva in questa fase primitiva. Da questo momento in poi i prodotti grezzi entravano sotto la tutela delle donne per essere immediatamente cucinati o immagazzinati per la conservazione. Tutto questo ha funzionato nelle famiglie della mia generazione anche dopo l'introduzione dei frigoriferi. Oggi i frigoriferi sono una sorta di perenne distributore di cibo ma quando ero un ragazzo avevano mantenuto il ruolo delle loro antenate, le dispense. Non erano a disposizione dei vari membri del clan familiare che, oggi, vi si accalcano in ogni momento ma erano sottoposti al rigido controllo della padrona di casa che distribuiva il cibo secondo le qualità e quantità necessarie e soprattutto in ben precisi orari canonici. Questo dare la vita e presiedere alla nutrizione faceva delle donne, pur all'interno di un rapporto sociale subalterno, le protagoniste ben definite di un mondo che appariva per certi versi magico. Nel passaggio dal crudo al cotto, non soltanto si rendevano commestibili alcuni prodotti. Attraverso la cucina, infatti, oltre alla gastronomia, passavano tutte quelle arti magiche nate da un'empirica ma efficiente erboristeria domestica cui si accompagnavano formule che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto lenire le varie malattie che affliggevano i membri della famiglia. Questa eccezionalità dei saperi che si tramandava, in genere, tra generazioni alternate, per cui le nipoti imparavano dalle nonne più che dalle madri, dava l'idea di un mondo apparentemente aperto ma che nascondeva, in realtà, saperi segreti. Ricordo i piatti che accoglievano, di tanto in tanto, tre gocce d'olio che la nonna vi lasciava cadere per togliere il malocchio ai figli, ai nipoti e, quando ci voleva, all'asino e al maiale. Nei giorni seguenti, quando mangiavo la minestra, in genere di fagioli o di ceci, mi domandavo se quel piatto fosse lo stesso che era servito per il rito e temevo che lo spirito maligno, che la nonna aveva tentato di scacciare con il segno della croce, fosse penetrato dentro la ceramica per poi riapparire tra le verdure. Mi è venuto in mente questo rito con cui nelle campagne si scacciava il malocchio rileggendo la leggenda del panforte narrata da G. Righi Parenti. Anche in questo racconto, a riprova di una commistione tra mondo magico e gastronomico, le donne cacciano le presenze demoniache che, secondo un topos diffusissimo, accompagnano e contrastano sempre la realizzazione di ogni attività umana. Sembra che il folklore abbia selezionato un tipo di racconto nel quale il protagonista, ogni volta che sta per scoprire una cosa o per realizzare un'impresa, debba pagare un prezzo o, almeno, affrontare la sfida con i demoni. Il fatto che tali miti accompagnino il racconto della fondazione di una città o della costruzione di un ponte o della scoperta di qualche alimento o di un'erba medicinale, dovrebbe farci riflettere su quanta importanza abbia assunto a Siena il panforte. Non si tratta tanto di verificare la veridicità della leggenda quanto la sua importanza simbolica, che consiste nel rivestire di una struttura narrativa il cibo etnico per eccellenza della città. In questo senso la storia è vera perché estrae dalla gastronomia locale un dolce e ne fa l'icona della diversità e dell'identità etnica di una popolazione. Il panforte, secondo la leggenda, sarebbe nato per caso in un convento quando una suora scoprì che si erano confuse tutte le spezie: [...] Sorella Leta che non sapeva come districarsela con i tanti avanzini del fondo del cassetto che si erano tutti mescolati: farina, cannella garofani; non pensò di mettersi a scegliere, a vagliare; avrebbe volentieri gettato tutto in una buca dell'orto... Questo pensiero poco ortodosso, privo di sopportazione e pazienza, era stato fatto nascere dal Diavolo che, sotto forma d'un gatto nero, si era avvicinato alla bassa finestra della cucina.
'Se provassi a preparare, con questo miscuglio, qualche cosa per i poveri?...' L'idea non piacque al Diavolo gatto, che ne suggerì una per lui più consona: 'Oppure, qualcosa di gustoso per il mio stomaco... delicato?!' Sorella Leta allungò la mano verso il vaso del miele, aggiunse quel nettare trasparente ai garofani ed alla farina, mescolò ed impastò. Non le sembrava che sortisse un manicaretto eccezionale; si ricordò che per ottenere il meglio delle spezie era opportuno distillarle a foco forte ed allora passò tutto sul fornello. La pasta si arricchì d'una dose generosa di mandorle. Il profumo era deliziosamente appetitoso. Sorella Leta incominciò a risentirsi a suo agio; pensava d'aver salvato capra e cavoli con quella preparazione improvvisata. Il gatto intanto si era fatto vicino, si strusciava alla gonna della religiosa ed ad un tratto: 'Ma non ti decidi a mangiarla codesta squisitezza?!' fece dimenticandosi, il Diavolo, che i gatti al più miagolano ma non parlano. Fu una distrazione fatale; Suor Leta afferrò il tegame e scagliò l'impasto bollente sul muso della bestia che istantaneamente prese le vere sembianze del Diavolo tentatore quale era ed andò, difilato a staccarsi il 'panforte' bollente dal naso, nel più profondo dell'inferno [...]. 33 Così un dolce nato per caso diventò un'arma per sconfiggere Satana. In realtà quello che era nato era il pan pepato che è presente, non solo miticamente, nell'arte dolciaria senese da molti secoli, soprattutto nelle cucine dei monasteri. Una sua diffusione industriale si deve all'opera del farmacista Giovanni Parenti, che cominciò ad operare in questo ambito a partire dal 1829. Il panforte è un figlio diretto dell'antico dolce senese. Il suo nome è da riconnettere al pane forte, il pane che dopo qualche giorno diventava particolarmente acido. La ricetta moderna del panforte ha una data precisa. Nel 1879, in occasione della visita della regina Margherita di Savoia,34 la città le dedicò una variante del suo dolce più famoso, lasciando invariata la procedura ma aggiornandolo a gusti più moderni, pertanto via le spezie miste, via il melone dentro il candito al cedro, meno aggressivo e più delicato nel sapore del suo predecessore, aggiungendo uno spiccato profumo di vaniglia. Il Panforte viene cotto su ostie. PANPEPATO Ingredienti 200 gr. di popone candito 50 gr. di arancio candito 350 gr. di zucchero 350 gr. di mandorle sgusciate 150 gr. di farina 6 gr. di coriandolo 3 gr. di macis 5 gr. di cannella in polvere Noce moscata Chiodi di garofano Preparazione La noce moscata e i chiodi di garofano precedentemente pestati al mortaio servono solo per profumo perciò varieranno secondo il gusto personale. Sciogliete sul fuoco lo zucchero con poca acqua in modo da ottenere uno sciroppo denso ma non caramellato. Togliete dal fuoco e impastate bene con la farina, i canditi tritati fini e le mandorle non pelate, le spezie e la cannella. Rimestate a lungo, poi versate il composto in una teglia infarinata, di dimensioni tali che l'impasto, una volta schiacciato, risulti spesso circa due centimetri. Finita questa operazione, cospargetelo con la cannella e i semi di coriandolo, dopo di che mettetelo in forno a media temperatura per circa mezz'ora. Una volta cotto e sfornato, togliete la polvere delle spezie e cospargetelo di zucchero a velo. Si conserva a lungo avvolto
in un foglio di alluminio. Essendo questo un prodotto artigianale, non avrà la durata di quello commerciale. Nella ricetta originale del Panpepato di Siena veniva aggiunto un cucchiaio di pepe nero. PANFORTE Ingredienti 300 gr. di farina 300 gr. di zucchero 1/3 di litro di acqua 25 gr. di mandorle intere con buccia 25 gr. di mandorle con buccia tritate 1 cucchiaino di cannella in polvere 1 noce moscata 200 gr. di arancia candita a pezzetti 200 gr. di cedro candito a pezzetti Ostia Preparazione Nell'acqua fate bollire per 5 minuti lo zucchero, le mandorle intere e quelle tritate, la noce moscata grattugiata e la cannella, dopo di che aggiungete la frutta candita, continuando a far bollire il tutto per altri 5 minuti. Sempre in fase di cottura, aggiungete la farina un poco per volta, continuando a mescolare finché l'impasto non sarà completamente amalgamato. Versate il tutto in una teglia, sul fondo della quale deve essere posta un'ostia, stendete in maniera omogenea l'impasto, cospargete con lo zucchero a velo. Prima di servire il dolce, va fatto raffreddare. CAVALLUCCI Ingredienti 300 gr. di farina 300 gr. di zucchero 100 gr. di noci sgusciate 15 gr. di anice in polvere 50 gr. di scorza di arancia candita 5 gr. di spezie Cannella Miele Un pizzico di carbonato di ammonio Preparazione Preparare uno sciroppo denso con acqua e zucchero. Quando è pronto, unire lentamente la farina, le noci spezzettate, la scorza di arancia finemente tritata, due cucchiaini di miele, l'anice, la cannella, le spezie e un pizzico di carbonato di ammonio come lievito. Stendere il composto in un angolo infarinato della spianarola per lo spessore di un centimetro. Ritagliare la pasta in formine grandi come il fondo di un bicchiere, spruzzarle di farina e sistemarle su una placca leggermente unta di strutto e infarinata. Cuocere i cavallucci a calore moderato per 30 minuti, facendo attenzione a non dorarli troppo. RICCIARELLI Ingredienti 1 chiara d'uovo 100 gr. di zucchero 100 gr. di mandorle tritate Preparazione
Si sbattono prima chiara e zucchero, poi si aggiungono le mandorle. A questo punto si colloca l'impasto sopra le cialde, dando ad ognuna una forma ovale. La cottura dura circa un quarto d'ora. CONCLUSIONI IL BURISTO, LA MADIA E LA BRACIOLA Abbiamo parlato del buristo e della sua origine particolare. La specificità non ha impedito il progressivo abbandono del consumo di questa salsiccia cotta e speziata, scomparsa dalle mense, secondo un processo comune a tanti prodotti e a tanti oggetti della cultura contadina. Chi non rimpiange le splendide madie, le piattaie e quei capoletto, dove il ferro si avvolgeva in spire, o gli altri oggetti minori che alla fine degli anni Cinquanta hanno abbandonato le abitazioni per essere sostituiti da tavoli di formica e mobili di truciolato? Il processo di rinnovamento non si è limitato agli abiti, all'arredamento e agli edifici ma si è esteso anche alle ricette di cucina, che hanno visto un immediato abbandono dei piatti tradizionali che sembravano in contraddizione con la nuova alimentazione. Per quanto riguarda la tradizione senese, il buristo e ancora di più il migliaccio al sangue, identificati insieme alla madia e al tavolo di castagno con un modo di vivere vecchio , sono stati lasciati in disparte per anni. La storia ha tuttavia strani percorsi e, con curiosa contraddizione, quello che sembrava moderno nel dopoguerra oggi appare, a sua volta, vecchio e superato. Se negli anni Cinquanta la cultura dominante tendeva a scalzare i cibi tradizionali, la tendenza sembra ora quella di riscoprire la cucina etnica come elemento di forza nel marcare l'identità culturale di un gruppo e come forma di resistenza agli aspetti deteriori della globalizzazione. Si arriva così ad un ribaltamento. Per secoli la cucina povera si è identificata con la cucina dei poveri. La sua caratteristica era l'uso di elementi di scarso valore e di bassissimo costo. Il piacere del gusto che alcuni piatti davano, e danno, nasce infatti dall'uso sapiente dei vari elementi, amalgamati insieme in modo tale da far emergere un sapore che esalta la proporzione dei vari ingredienti. Questo processo implica non solo una grande intelligenza e capacità tecnica ma soprattutto un notevole impiego del tempo. Valga per tutte le ricette quella del sugo finto , dove il sapore delle carne, che non c'era, veniva sostituito da altri sapori, cucinati in modo tale da dare la sensazione di un vero e proprio sugo. La cucina ricca, al contrario, almeno nell'immaginario popolare, era quella della carne. Più che le salse e le creme, quello che a livello di massa rappresentava la differenza erano i cibi costosi, da ricchi: il coscio d'agnello, la bistecca, le braciole, i piccioni, i polli, etc.. Negli ultimi decenni un certo benessere ha fatto sì che la cucina dei ricchi cominciasse a diffondersi nella dieta popolare mentre, al contrario, sparivano i cibi poveri - pensiamo solo alla polenta - sia perché sembravano ancora segnare con la loro sola presenza una condizione che si voleva dimenticare, sia perché la loro elaborazione contrastava con i tempi della nuova famiglia basati sul lavoro dell'uomo e della donna. Il recupero, oggi, della cucina povera non avviene per opera delle classi popolari, ma dei ceti più ricchi e più colti. Estremizzando, possiamo dire che la cucina povera, per la laboriosità di alcuni suoi piatti, è diventata ricercata, ed elitaria. Tuttavia l'interesse per la cucina e la diffusione del buon gusto hanno costituito una linea di resistenza all'omogeneizzazione del gusto comune a tutte le classi sociali, impedendo la diffusione in modo massiccio, come è avvenuto in altri paesi europei, dei prodotti standardizzati. Concludendo questo lavoro sulla memoria della cucina più che sulle ricette senesi in senso stretto, vorrei riprendere due piatti, tratti da leggende diffuse in città, che abbiamo citato nel corso del lavoro. Si tratta di storie importanti non tanto per i piatti cui si riferiscono quanto per la storia stessa di Siena, che anche nella gastronomia sembra echeggiare gli avvenimenti che hanno caratterizzato la vita della città, assurta, un tempo, al ruolo di dominatrice della Toscana
meridionale per divenire poi, dopo la caduta della repubblica e la fine della libertà, un piccolo capoluogo tristemente abbandonato ad un destino di decadenza e di miseria, comune a gran parte della regione, cui sembra sfuggire solo nel XX secolo. Quel lontano fatto di sangue che si concluse con l'occupazione da parte delle truppe spagnole e fiorentine, dopo un lungo assedio che aveva visto i Senesi ripetere il gesto disperato dei Galli, assediati ad Alesia da Cesare - l'espulsione delle persone non adatte al combattimento, che furono mandate a morire di fame fuori dalle mura - è il termine ultimo dell'epopea della città e da questo episodio, che costituisce un vulnus incancellabile nella memoria collettiva, bisogna dunque partire. Nel corso del tempo il racconto della caduta lentamente cessa di essere un dramma storico ed assume caratteristiche mitiche. Tutto quello che avviene prima del 1555, nel racconto folklorico, prende le caratteristiche dell'età dell'oro e si colora di dolcezza e di splendore, come possiamo vedere nella prima delle due leggende nelle quali, a parere nostro, piuttosto che nella favola letteraria di Senio e Aschio, è da riconoscere il vero mito di fondazione della città. Quello che veramente è il nocciolo duro di una storia sentita sempre presente dai cittadini e spesso trasfigurata nella leggenda comincia il 4 settembre 1260 con la sconfitta dei Fiorentini a Montaperti e si chiude nel 1555 con la resa della città. Proprio all'interno di queste due date si situano le due leggende cui abbiamo accennato. La battaglia di Montaperti, infatti, costituisce l'inizio dell'età dell'oro, che coincide nel racconto con la fine del giogo fiorentino, anche se la cultura popolare dimentica che pochissimi anni dopo il 1260 il Governo dei Nove ripristina in città la supremazia dei guelfi. In quegli anni felici si situa la leggenda dell'invenzione del panforte. Naturalmente, come in tutti i racconti folklorici, non è tanto importante la verità storica quanto la funzione svolta dal racconto nel delineare ed esaltare l'identità della comunità. Da una parte il panforte, ricco di spezie e di miele, che si rivela nel tempo felice della libertà, dall'altra le umilissime chiocciole e il dragoncello, cibo dei poveri e della fame, prima di essere riscoperto dalla cucina colta. Tuttavia attenti a non limitarsi ad una dialettica tra ricchezza e povertà o tra abbondanza e fame. C'è anche questo aspetto ma in realtà dietro i due cibi e i loro ingredienti preme un universo simbolico facilmente riconoscibile. Il panforte, come i fiumi di latte e di miele, presenti nei paradisi di cuccagna ma anche nelle tradizioni religiose, evoca un'età dell'oro pura e libera che nemmeno Satana riesce a scalfire. La dolcezza di questo cibo, assurto a simbolo di un'età in cui Siena viveva libera tra le ricchezze, contrasta con l'amaro del dragoncello, protagonista della ricetta delle chiocciole. Un piatto povero, ingentilito da questa umile erba che, secondo la tradizione orale, Blaise de Montluc imparò ad apprezzare nei giorni dell'assedio e della fame, che terminarono poi con la resa della città e la fine della libertà. Il dragoncello non ricorda solo un legame tra la gastronomia senese e quella francese ma assurge a simbolo dell'amarezza dell'esistenza dopo la perdita del paradiso. Del resto non sono rare le leggende in cui alcuni cibi presidiano passaggi importanti nell'esistenza dei popoli. Nella cultura ebraico-cristiana conosciamo un altro racconto in cui è protagonista un'erba amara: Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell'anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo serberete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l'assemblea delle comunità di Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po' del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull'architrave, delle case, in cui lo dovranno mangiare. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco ; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. 35 Si tratta di un pezzo celebre della Bibbia ma che contrasta con la leggenda della nostra città. Quell'erba rappresentava per il popolo ebraico l'ultima durezza della servitù prima della terra promessa. Per i Senesi, invece, l'amarezza del dragoncello chiudeva la stagione della libertà e della dolcezza: il tempo del panforte.
Se questa ricostruzione della storia di Siena e del suo immaginario ha una sua plausibilità bisognerà ancora una volta riconoscere che la cucina influenza in modo determinante anche la cultura degli uomini. INDICE DELLE RICETTE Acqua cotta 32 Anguilla di ser Meoccio 102 Aringa 102 Arrostite ( frogiate ) 49 Baccalà in umido 97 Baccalà lesso coi ceci 98 Biscottini 45 Bistecche di maiale al vino 84 Bocca di dama 142 Brodo 39 Brodo finto 40 Brustico 108 Buristo 73 Carciofi fritti 123 Castagnaccio 50 Castagne lesse ( ballocce ) 49 Cavallucci 153 Chiocciole al dragoncello 113 Ciambellone 139 Coniglio alla vernaccia 81 Crostata 141 Crostini milza e acciughe 25 Crostini neri 24 Fagioli al fiasco 120 Fagiolini rifatti 119 Fiori di zucca fritti 124 Frascarelli I 57 Frascarelli II 58 Frittata con gli zoccoli 89 Frittata di ricotta 90 Frittata di vitalbe 91 Funghi porcini fritti 125 Gnocchi di patate 65 Gobbi rifatti 117 Lesso rifatto 69 Maccheroni alla poderana 55 Migliacci con la zucca 133 Migliacci di farina 129 Migliacci o sanguinacci 131 Minestra con la ricotta 38 Minestra di ceci (o di fagioli) Pan lavato 23 Pan unto 13 Pane impomodorato 14 Pane, vino e zucchero 15 Panforte 152 Panione 22 Panpepato 150 Panzanella povera 34 Pappa con la salsiccia 30 Pasta reale 143 Pici all'aglione 63
37
Pinolate 140 Pinzimonio 26 Piselli alla senese 118 Polenta dolce 43 Pollo dorato 82 Polpettone di rigaglie 83 Rane fritte 111 Ricciarelli 154 Rivolti 128 Salsa verde 70 Schiaccia con gli sfriccioli 18 Soppressata 73 Stufato di fave 121 Sugo finto 67 Sugo per i tortelli 53 Tagliatini 60 Tegamaccio 109 Torta di fichi (o fichessa) 15 Torta mantovana 138 Tortelli 52 Zucca fritta 116 Zuppa di cavolo nero 35 Zuppa di fagioli 33 Zuppa di funghi 36 Zuppa lombarda 33 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Atti alimentari e atti culinari, Bologna, Dse, 1981. M. ALBERINI, G. RISTRETTA, Guida all'Italia gastronomica, Milano, Touring Club Italiano, 1984. P. ARTUSI, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, Torino, Einaudi, 1970. F. ALLEGRUCCI, G. RIGHI PARENTI, L. MARRA, G. GORIA, Un diamante in cucina: il tartufo bianco delle crete senesi [a cura del Comitato promotore della Mostra mercato del tartufo bianco delle crete senesi ], Siena, Alsaba, 1992. M. BENCI, Le ricette della mia cucina fiorentina e toscana, Firenze, Edizioni del Riccio, 1977. P. BOGATYREV, R. JACOBSON, Il folklore come forma di creazione autonoma, in Strumenti critici: rivista quadrimestrale di cultura e critica letteraria, 1967. P. BOURDIEU, La distinzione: critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1979. P. CAMPORESI, Alimentazione folklore società, Milano-Parma, Pratiche, 1980. P. CAMPORESI (a cura di), Il Libro dei vagabondi; Lo Speculum cerretanorum , di Teseo Pini; Il vagabondo , di Rafaele Frianoro e altri testi di furfanteria , Torino, Einaudi, 1973. P. CAMPORESI, Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1985. P. CAMPORESI, Il pane selvaggio, Bologna, Il Mulino, 1980. P. CAMPORESI, Il sugo della vita: simbolismo e magia del sangue, Milano, Mondadori, 1988.
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