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JOSEPH NASSISE RIVERWATCH (Riverwatch, 2001) Dedico questo libro ai miei genitori: a mio padre, che con il suo esempio mi ha insegnato a essere marito e padre a mia volta; a mia madre, che con un costante sostegno mi ha dato la forza di realizzare i miei sogni. Grazie ad entrambi per aver sempre avuto fiducia in me. Ringraziamenti Voglio innanzitutto ringraziare mia moglie, Dawn, che trovò il manoscritto originale di questo romanzo in una scatola da scarpe in fondo all'armadio e insistette perché io lo proponessi. Senza di lei, questo libro non esisterebbe. Voglio poi ringraziare il mio agente Bob Diforio, per aver dato una chance a uno scrittore sconosciuto; il mio editor Amy Pierpont, per aver lavorato fianco a fianco con me per portare questo libro nelle vostre mani; i tanti membri della Horror Writers Association, i cui voti hanno consentito il piazzamento della versione originale di questo libro nella lista dei candidati al premio Bram Stoker; i giurati degli International Horror Guild Awards, che parimenti hanno ritenuto di nominarlo nella categoria delle migliori opere prime; e i miei amici Jon e Drew per avermi offerto incoraggiamenti e critiche non solo per questa fatica ma, in generale, per i miei scritti. 1. Una scoperta inaspettata È una lapide funeraria. La consapevolezza sbucò fuori da chissà dove. Si insinuò nella sua coscienza come la nebbia che evapora dal mare in certe fredde sere d'estate, infiltrandosi nel cuore dei suoi pensieri come un pericoloso intruso. Una volta là, si fissò rapida e tenace. La pietra assomigliava realmente a una lapide tombale. I bordi esterni erano stati smussati con un angolo dolce che le conferiva un semplice, inequivocabile aspetto di dignità. La malta la te-
neva assicurata al fondo di terra fangosa. Se era una lapide, a chi apparteneva? E perché metterla lì, nascosta sotto un fiume? Un totale nonsenso. Fissandola, Jake decise che era già stato un pomeriggio difficile. Quest'ultimo supplemento ai suoi guai era cominciato quindici minuti prima, con l'arrivo di Rick alla roulotte. «Dovresti scendere in cantina, capo». «Perché diavolo, Rick?», rispose Jake Caruso senza neppure girarsi. «Blake vuole questi conteggi pronti prima delle due, lo sai benissimo. Non ho tempo per occuparmi di ogni minima grana. Ti ho nominato caposquadra proprio per questo, te lo ricordi?». Jake era seccato: il lavoro procedeva bene, ma Blake gli soffiava sul collo persino per un'inezia. Cominciava a esserne stufo. Perché questo brav'uomo non se ne torna da dove è venuto e mi lascia fare il mio lavoro? si domandò Jack, e non per la prima volta. Fu sorpreso dalla risposta di Rick. «Lo so capo, ma è meglio che tu venga giù. È importante». Jake fu colpito dal tono grave di quelle parole. Lasciando perdere il lavoro che aveva davanti, alzò lo sguardo verso Rick e rimase sorpreso. L'uomo aveva le labbra serrate. Nonostante facesse di tutto per nasconderla, la tensione della mascella era evidente. La sua faccia solitamente rubizza si era fatta di un grigio smorto e la luce nei suoi occhi, sempre vivace, era offuscata da una patina opaca. L'irritazione di Jake per essere stato interrotto svanì. Conosceva Rick come un inguaribile ottimista. Vederlo in quello stato poteva significare soltanto che era accaduto qualcosa di veramente grave. Immagini di sangue e ferite percorsero veloci la mente di Jake, assieme alla visione di uomini schiacciati da possenti macchinari. «Che cosa è successo? Chi si è fatto male? Chiamo un'ambulanza?», e Jake fece per prendere il telefono. Rick tese le mani, rassicurante. «No, non serve. Nessuna disgrazia. È solo che la squadra ha trovato nel sotterraneo qualcosa che penso dovresti vedere. Tutto qua». Si trattava di questo. Nonostante l'insistenza, Rick si rifiutò di aggiungere ulteriori dettagli. Mise da parte la penna, si passò una mano nei capelli perennemente arruffati. Di sicuro era meglio andare a vedere. Lasciarono la roulotte e attraversarono il prato diretti verso la grande ve-
randa che circondava la casa. Salirono i gradini ed entrarono dalla porta principale. Attraversarono l'ingresso, la sala da pranzo, la dispensa del maggiordomo e scesero la rampa della scala di servizio che conduceva allo scantinato dove la squadra di Jake stava lavorando da parecchi giorni. Il vecchio proprietario aveva sfruttato le caratteristiche naturali del terreno, deviando nel sotterraneo della casa un torrente che scorreva lì vicino. Il flusso costante dell'acqua muoveva una grande ruota idraulica che produceva elettricità per tutta la tenuta. Alla lunga, questa bizzarria del proprietario aveva causato più danni che benefici, perché con gli anni, le acque del torrente avevano tracimato allagando il sotterraneo dell'edificio. Allo stato attuale era ridotto a poco più di una specie di profonda pozza stagnante. Blake, l'attuale proprietario, aveva deciso che la cantina dovesse diventare un posto per conservare i vini. All'inizio della settimana, gli uomini di Jake avevano dapprima arginato quel che rimaneva del ruscello, all'esterno del lato est della tenuta, e negli ultimi due giorni avevano provveduto a pompare fuori dalla cantina l'acqua rimasta. Una volta asciutto, il letto del torrente sarebbe stato riempito con calcestruzzo per poi gettare un fondo adatto a pavimenti di legno resistente, secondo le indicazioni di Blake. Avevano appena iniziato a scendere la scala di vecchi gradini traballanti, che subito venne loro incontro la puzza di muffa e di marcio. A Jake ricordò i giorni dell'infanzia passati a cercar gamberi in certe insenature paludose. Il fetore che avvertiva era il medesimo. Si fermò in fondo alla scala a osservare il lavoro fatto dai suoi uomini. Erano state montate lampade piuttosto forti per dare luce all'ambiente e in quella vivida, freddissima luminosità Jake poté verificare da una chiazza scura lasciata sulla parete il livello che l'acqua aveva raggiunto nel corso degli anni. Al di sotto di questo segno restavano ancora residui di melma verde e alghe che riflettevano la luce delle lampade. L'aria era irrespirabile per l'umidità e Jake aveva la sensazione di stare attraversando una cortina perpendicolare di rugiada. Poté vedere il largo scavo che si estendeva da un lato all'altro della casa, dividendola ordinatamente in due parti prima di scomparire verso l'esterno, sul lato opposto. Rick lo guidò sul bordo e gli indicò di sotto. Ora, nel fissare la pietra, Jake si rese conto che Rick gli stava parlando. «...circa un'ora fa eravamo agli ultimi centimetri d'acqua e ho mandato degli uomini nello scavo per cominciare ad allargarlo. Speravo di essere in grado di posare già oggi pomeriggio il tubo per la fogna, ma poi è saltata
fuori questa cosa». Jake non riusciva a distogliere lo sguardo dalla pietra. Calcolò che fosse poco meno di due metri per uno. Un angolo era scheggiato e lasciava intravedere un vuoto sotto la lastra, rivelandone uno spessore di parecchi centimetri. «L'ho fatta rompere io da uno dei miei uomini, giusto per capire se fosse un vecchio ripostiglio o un pozzo. Quando ho visto di cosa si trattava, ho detto di non toccare più nulla in attesa che tu potessi darci un'occhiata», disse Rick, passando a Jake una torcia elettrica. Afferrata la lampada, Jake saltò giù nello scavo avvicinandosi alla pietra. Il marciume nel fondo del fosso si appiccicò alle suole delle sue scarpe inzaccherandole di sudicia melma puzzolente. Non se ne curò; il suo interesse era tutto per quella lastra di pietra che aveva davanti. Piegandosi, fece scivolare una mano sulla superficie dove gli uomini avevano già rimosso gli strati di fango accumulati negli anni. Fu sorpreso di trovarla perfettamente liscia. «Non stare a perder tempo», gli disse Rick da sopra. «Non c'è nessuna iscrizione, ho già controllato io. Dai piuttosto un'occhiata dentro il buco». Jake indirizzò il fascio di luce della torcia giù nell'oscurità sotto la lastra. La luce perforò l'anfratto buio, offrendogli una visione chiara di quel che si trovava là sotto. Capi cos'è che aveva sconvolto il caposquadra. Celata dalla lastra, c'era una scala di pietra. Che andava giù. In profondità, dentro la terra. «Ma che...», mormorò tra sé Jake. Infilò una mano dentro l'apertura e passò con delicatezza un dito sul primo gradino. Era ricoperto da uno spesso strato di polvere che il suo movimento aveva appena smosso. Non c'era alcun segno che l'acqua che aveva a lungo sovrastato quel luogo fosse filtrata di sotto. Insospettito, Jake si allungò a tastare l'interno della parete più vicina. Pure quella era asciuttissima. Era anch'essa di solida pietra. Jake si accovacciò, alzando lo sguardo verso Rick. «Non possiamo fare nient'altro prima di avere controllato meglio. Manda un paio di uomini al furgone, nel cassone ci dovrebbero essere dei piedi di porco». Dieci minuti più tardi, con l'aiuto di molti altri operai, Jake e Rick stava-
no sollevando i bordi della lastra. Era una fatica enorme. La pietra stava là da un mucchio di tempo e pesava terribilmente. Incunearono parecchi palanchini tra la lastra e le pareti, usando il primo gradino come punto d'appoggio. In quel modo riuscirono a esercitare forza sufficiente a divellere la lastra dal suo alveo. La fecero scivolare di lato creando un'apertura grande abbastanza perché un uomo potesse calarcisi. A quel punto, si vide chiaramente la scala. I gradini scendevano per sei, sette metri per poi terminare all'imbocco di un altro tunnel. Mentre Jake si stava già infilando di sotto per andare a vedere, Rick lo prese per un braccio. «Dobbiamo proprio andarci, laggiù?», gli chiese. «Certo. Altrimenti, come diavolo pensi di scoprire di cosa si tratta?». Gli occhi di Jake luccicavano. Visioni di tetre caverne e di stanze segrete danzavano nella sua mente. Un'espressione terrorizzata era invece ricomparsa sul volto di Rick. «Non sono certo che sia una buona idea, Jake. Non possiamo sapere se quel tunnel è sicuro e neppure a che scopo è stato costruito. Per quello che ne sappiamo, potrebbe anche essere la tomba di qualche antenato di Blake. E non penso che il vecchio gradirebbe che si andasse a curiosare nella cripta di famiglia». Jake ricordò la sua prima reazione dinanzi alla pietra, e un freddo gelido lo attraversò. E se anche fosse una cripta? Che differenza può fare? Se devo finire il lavoro, devo prima scoprire cosa c'è là sotto e poi informare Blake. Certo non posso andargli a dire che abbiamo interrotto il lavoro nella cantina perché abbiamo trovato un buco nel pavimento. Blake andrebbe su tutte le furie. Ci vuole un motivo più che valido per giustificare un ritardo. Spiegò ogni cosa a Rick che scrollò le spalle e, sebbene riluttante, si mostrò d'accordo, senza però mai perdere l'ombra di turbamento negli occhi. Jake sapeva che Rick l'avrebbe seguito soltanto perché lui era il capo. Bene, pensò, se così dev'essere, così sia. Jake si voltò verso la scala che lo fronteggiava, incurante di quello che Rick rimuginava, spinto com'era dall'eccitazione di esplorare l'ignoto. Prudentemente, tastò con un piede il gradino più alto valutando se potesse reggere il suo peso. Poi lo discese con trepidazione, preoccupato di qualche trappola nascosta e temendo per la stabilità dell'intera struttura. Visto che non accadeva nulla di strano, proseguì con cautela, un gradino dopo l'altro. Dietro di lui veniva Rick con un piede di porco in mano. Dopo i primi gradini Jake prese ad avanzare con maggiore sicurezza, arrivando rapidamente in fondo alla di-
scesa dove aspettò che Rick lo raggiungesse. Insieme, puntarono le torce nell'oscurità dell'imboccatura del tunnel. Davanti a loro, il percorso s'inoltrava diritto, oltre la portata delle loro luci. Mentre Jake scrutava dentro il tunnel, sentiva crescere la propria eccitazione. C'era un'aria asciutta ma fredda, e fu contento di essersi messo una felpa prima di uscire. Si avviò nella galleria seguito da Rick. Il tunnel si estendeva più o meno per duecento metri e, a metà circa, iniziava a risalire lievemente verso la superficie. In fondo, le torce rivelarono una svolta a novanta gradi. Quando vi furono arrivati, Jake esitò un istante chiedendosi cosa avrebbe incontrato dietro quell'angolo. Fu improvvisamente attanagliato da una strana sensazione di disagio e gli sembrò che le pareti potessero chiuderglisi addosso. Ebbe la tentazione di voltarsi e di precipitarsi fuori dal tunnel il più rapidamente possibile. Ma un attimo prima di dire a Rick che stavano per tornare indietro, il suo buon senso prevalse. Uscire adesso? si sentì sussurrare da una voce irridente nel cervello. Solo per un piccolo attacco di claustrofobia? Fin qui sono arrivato. E allora posso tranquillamente vedere cosa c'è dall'altra parte. Jake si era appena convinto ad andare avanti che Rick lo richiamò con voce leggermente tremula. «Jake, non pensi che sarebbe meglio se aspettassimo...». Jake non lo stava ascoltando. Determinato a volere scoprire cosa ci fosse lì avanti, girò dietro l'angolo. Il tunnel terminava dopo poco più di un metro con una parete perfetta di mattoni. «Che diavolo è?». Jake si avvicinò e picchiettò con le nocche sul muro. In risposta udì un rumore sordo. Rick lo raggiunse e Jake gli disse: «Passami il piede di porco». Rick glielo allungò e stette a osservare Jake che prendeva slancio, brandendo l'attrezzo verso la parete. Il colpo rimbalzò sulla superficie e mancò poco che colpisse in faccia Jake, il quale non sembrò neppure accorgersene. Si fece avanti e appoggiò l'orecchio al muro, ascoltando. Aggrottò le sopracciglia, i lineamenti tirati. Fece un passo indietro e vibrò ancora un colpo. «Hai sentito?», gli chiese. Rick scosse il capo. «C'è un'eco», gli disse Jake. E colpì di nuovo, con maggior forza. Sta-
volta anche Rick udì l'eco. «Ci deve essere un altro locale dietro il muro». Ora anche Rick era preso dall'eccitazione per la scoperta. «Vado a prendere il martello pneumatico?», chiese. Jake passò distrattamente il piede di porco a Rick riflettendo sulla prossima mossa. Voleva fare ciò che il capomastro gli aveva suggerito. Sapeva però che non avrebbe dovuto. Poteva esserci una valida ragione per avere chiuso e sigillato quella zona. Non intendeva mettere in pericolo nessuno. Decise che la cosa migliore da fare, prima di tutto, era discuterne con Blake. Informò Rick della sua scelta e, insieme, tornarono per dove erano venuti. Avendo lasciato Rick a congedare gli uomini per quella giornata, Jake rientrò nella roulotte. Eccitazione o no, c'era ancora un tavolo ingombro di scartoffie che reclamavano di essere sistemate prima di chiudere la giornata. Con grande disappunto, si ritrovò incapace di concentrarsi sul lavoro. Seguitava a tornare con i pensieri a quella pietra, al tunnel che nascondeva. Ancora e ancora si ritrovò a tormentarsi con la stessa domanda. Cosa c'è dietro quella parete? Nel buio, si risvegliò. In un primo momento ci fu un vago senso di smarrimento. Il medesimo che assale un bambino quando si sveglia di colpo nel cuore della notte in una stanza sconosciuta; eppure quello che si stava risvegliando laggiù era tutt'altro che un bambino. Combatté contro questo turbamento cercando di mantenersi rintanato dentro i suoi sogni. Anche se i sogni erano un misero surrogato della realtà, erano tutto ciò che aveva. I suoi soli amici. Per chiunque altro sarebbero stati incubi: oscure visioni di morte, magnificamente colorate dal denso lampo vermiglio del sangue sprizzato di fresco. Erano il suo legame con la vita, il suo ultimo appiglio al bordo della razionalità. Senza sogni, già da molto tempo avrebbe dovuto soccombere al destino che i suoi nemici avevano programmato per lui. Ma, allora come adesso, la sua voglia di vivere era stata invincibile. Molto tempo addietro, quando aveva provato per la prima volta le catene soffocanti della prigionia, quando si era reso conto della vera natura della sua reclusione, si era rifugiato nell'abbraccio gelido delle tenebre che lo
circondavano. Si era autoarreso ai suoi sogni, trovandovi il rifugio necessario per sopravvivere. Col tempo, aveva dimenticato cosa fosse davvero reale e cosa no, facendosi via via più indistinto il confine tra illusioni e certezze. Era arrivato a convincersi che i suoi sogni non fossero solamente un semplice riflesso della realtà, ma l'immagine stessa di questa. Allora, ai primi flebili richiami della realtà venuti a pungolare la sua coscienza, reagì combattendoli, non sentendosi ancora pronto a lasciare ciò che l'aveva salvato dal lungo assedio di un silenzio e di una disperazione mortali. Poi, come il lento sgocciolio di un rigagnolo melmoso, cominciò a ricordare. Visioni e suoni e immagini gli giungevano dai giorni sepolti nella polvere, spezzoni di una perduta stagione congelata per sempre negli abissi della sua mente. Ritornò la memoria. Si risvegliò. Si apprestò ad abbandonare la sua prigione, per scoprire se la pena fosse finita o semplicemente sostituita da un'altra. Urlò, un lungo altissimo grido, tremendo da ascoltare se solo fosse esistita una gola che potesse generarlo, un grido così pieno di rabbia e di frustrazione da trasformare in ghiaccio il sangue e in sassi le ossa di chi l'avesse sentito, se mai fosse stato possibile udirlo. Nel mezzo di quel grido, affiorò un altro ricordo. L'impronta di un volto si materializzò nel buio della sua mente. Il volto di qualcuno conosciuto molto tempo prima, il volto di chi lo aveva imprigionato nelle tenebre dell'eternità, colui che gli aveva causato tante miserie e dolore. Il volto del suo nemico. Un ragionamento freddo e perfido lo sopraffece, strozzandogli in gola l'urlo silenzioso, spazzando via ogni altra emozione. Un'accortezza calcolatrice lo spinse a valutare la sua condizione attuale. Richiamando energie da qualche profondo anfratto interiore, si appellò ai suoi sensi rigenerati e scoprì dell'altro. Gli uomini erano nei pressi. Poteva percepirli, poteva sentire il rumore metallico degli attrezzi e il suono delle loro voci. Avvertiva le sottili vibrazioni che penetravano giù nel terreno ogniqualvolta si muovevano sopra di lui. Per la prima volta dopo un numero incalcolabile di anni cominciò a spe-
rare che presto sarebbe stato libero. Una volta che lo fosse stato, nulla lo avrebbe trattenuto dal vendicarsi su chi lo aveva imprigionato. Sforzandosi, spinse ancora oltre i pensieri, fuori dalle mura della sua prigione, attraverso i campi che si estendevano all'esterno, fra i vivi. Cercando, osservando, sfiorando le menti di tutti quelli che incontrava, saltando dall'uno all'altro... finché infine, con le forze che lo abbandonavano, la sua mente schizzò indietro con lo schiocco di un elastico troppo tirato. Ma in quell'ultimo momento lo aveva trovato. Il suo nemico era vecchio, ora, vecchio e fragile, neppure l'ombra di quella forza impressionante che un tempo l'aveva sconfitto in battaglia. I poteri del suo nemico si erano fiaccati; il corpo dell'uomo si era indebolito con l'età. Avendo consumato quella poca energia che possedeva, la bestia scivolò di nuovo dentro il confine agitato del sonno. Ma stavolta rimase consapevole. E negli abissi della sua mente inumana, un piano iniziò a prendere forma. 2. Leggende Con autentica soddisfazione, mentre le dita volavano sulla tastiera, Samuel Travers osservava le parole fluire in ordinate file di caratteri verde brillante sullo schermo davanti ai suoi occhi. Stava scrivendo dalle nove del mattino, cinque ore filate di lavoro. All'inizio era stato difficile, ogni frase lo lasciava insoddisfatto. Niente gli sembrava collimare, niente gli suonava giusto abbastanza. Aveva completamente sciupato la prima mezz'ora senza aver prodotto nulla se non i mozziconi di un mezzo pacchetto di sigarette nel portacenere lì a fianco. Sconfortato, era ricorso a una vecchia esercitazione di scrittura, ricopiare nomi dall'elenco del telefono per pungolare la creatività, e all'improvviso le parole, che un attimo prima aveva stentato a mettere insieme, gli erano balenate nel cervello nitide come se fossero incise nella pietra. Cacciò un urlo di gioia, gettò a terra con un gesto del braccio l'elenco telefonico e s'immerse nel suo racconto con totale abbandono. Per le ultime quattro ore, con il cervello che scappava in avanti e le dita che cercavano disperatamente di tenersi al passo con i pensieri, era stato troppo assorbito dalla trama limpida che gli sgorgava dalla mente per poter prestare attenzione ad altro.
Poi però il flusso creativo aveva cominciato a rallentare. L'alluvione si era trasformata in debole sgocciolio e sapeva che non ci avrebbe messo molto a inaridirsi del tutto. Per quel giorno era giunto il momento di smettere. Quanto aveva scritto quel giorno era di buona qualità. Maledettamente buono, gli venne da pensare. Se soltanto potessi seguitare così fin quando avrò finito. Tirando una lunga boccata dalla sigaretta, innalzò una preghiera silenziosa alle Nove Muse perché glielo concedessero. Sam era alto circa un metro e ottanta, rendeva alla bilancia più o meno ottantacinque chili e aveva capelli corti e ricci, del colore dell'olio esausto di motore, che andavano lentamente stempiandosi. Al termine della scuola, Sam aveva imboccato la strada meno battuta, arrivando a lavorare come autore per un'azienda che produceva giochi di ruolo fantasy. Essendo stato innamorato dell'ignoto e del fantastico da quando aveva memoria, aveva un lavoro che gli permetteva di vivere in un mondo dove demoni, fantasmi e le cose che ti danno gli incubi di notte sono realtà, almeno sulla carta. Pur divertendolo, l'attività non gli rendeva abbastanza, e così Sam era stato costretto a incrementare il suo mensile con un secondo lavoro in una casa di cura a Glendale. Mentre se ne stava seduto a fissare le pagine del racconto fantastico che era intento a scrivere, i suoi pensieri andarono all'ultima seduta di Swords and Sorcerers che aveva programmato per Jake e Katelynn più avanti nel corso della serata. Era passata una settimana da quando i suoi amici si erano avventurati nel labirinto sotterraneo sotto Zolthane Mountain che Sam, autore delle avventure, aveva ideato dandogli il nome di Caverne di Cristallo. Jake e Katelynn operavano spesso come gruppo di collaudo informale, testando pregi e difetti delle sue ultime creazioni prima che Sam le consegnasse all'editore per la produzione. Come sempre, Sam era ansioso di fare ritorno in quel fantastico universo dell'immaginazione. L'ultima settimana aveva visto Chelmar il Mago e Alganea la Vergine Guerriera bloccati da un branco di creature affamate di carne umana in una caverna senza uscita. Malgrado la settimana avuta a disposizione per riflettere sul problema, Sam ancora non immaginava come Jake e Katelynn sarebbero riusciti a cavar fuori i loro personaggi da quel guaio mortale. Mi sa che questa volta l'hai fatta un tantino troppo complicata, pensò tra sé e sé. Se quelli non trovano la via d'uscita dal labirinto, ti troverai con un bel po' di roba da riscrivere. Una rapida occhiata all'orologio gli disse che erano da poco passate le
due. Aveva accettato un orario insolito che gli offriva un'eccellente opportunità di portare Katelynn con sé al lavoro quel pomeriggio, affinché lei potesse intervistare per la sua tesi Gabriel Armadorian, uno dei pazienti della casa di cura nonché amico di Sam. Sapendo di dover essere là per le tre e mezza, Sam decise che c'era giusto il tempo per una doccia veloce e per mangiare un boccone prima di andare a prendere Katelynn. Salvò nel computer il testo scritto di fresco, e mentre si aggirava in cucina alla ricerca di qualcosa per un paio di sandwich, i suoi pensieri si soffermarono sui particolari dell'avventura di quella notte. In quel momento non poteva saperlo, ma prima che la notte fosse del tutto trascorsa, Sam sarebbe stato coinvolto in una situazione fuori dal suo controllo, tale da fargli sembrare assolutamente insignificanti, al confronto, quelle che frequentava nel regno crepuscolare della sua immaginazione. Dall'altra parte della città, Katelynn Riley stava aspettando con ansia l'arrivo dell'amico. Come sempre quando era nervosa, frugava continuamente nella borsa per essere sicura di non aver dimenticato nulla. Taccuino? C'è. Penne e matite? Ci sono. Registratore? Preso. Cassette e batterie di scorta, nel caso? Eccole. C'è tutto, pensò soddisfatta, e si lasciò andare sulla seggiola davanti alla finestra dove s'era seduta aspettando l'arrivo dell'auto di Sam. Lui le aveva promesso che quel giorno l'avrebbe portata al Saint Boniface, quando andava al lavoro, per presentarla a Gabriel Armadorian, il paziente più anziano della casa di cura. Le aveva garantito che il vecchio era ancora lucido e in pieno possesso delle sue facoltà mentali. Da quello che Sam le aveva detto, Katelynn era abbastanza certa che Gabriel fosse in possesso di una buona quantità di informazioni, per lei irrintracciabili altrove, su Sebastian Blake, il personaggio oggetto della sua tesi. Era ansiosa di sedersi con Gabriel per sviscerare l'argomento. Che colpo sarebbe stato per lei scoprire e documentare informazioni che nemmeno il Dottor Hemington, il suo docente, aveva mai raccolto prima. Il clacson all'esterno la strappò alle sue fantasie. Vedendo l'auto di Sam nel vialetto, s'infilò rapida il cappotto, afferrò la borsa e si affrettò a uscire. «Tutto ok?», chiese Sam mentre lei gli si sedeva accanto. «Puoi giurarci. Grazie davvero per tutto questo, Sam». Si tese verso di lui per dargli un rapido bacio sulla guancia.
Lui la ricambiò con un sorriso. Si conoscevano da parecchi anni, essendosi iscritti insieme alla Benton University. Un incontro casuale era sbocciato in un'amicizia profonda, protrattasi ben oltre gli anni del college. Talvolta Sam si era ritrovato a interrogarsi sul perché non fossero mai divenuti qualcosa di più che buoni amici. È o non è l'amicizia uno dei pilastri fondamentali per costruire una relazione? Non è che non la trovasse attraente, questo era più che sicuro. Lei si teneva in forma con esercizi quotidiani di nuoto e aerobica, tonificando il corpo senza perdere le sue morbide curve femminili. Aveva capelli castani che scendevano in riccioli sopra le spalle. Katelynn possedeva una magnifica risata, un sorriso bellissimo e un nasino impertinente che ricordava quello di un elfo. Sam sapeva da precedenti esperienze che era sempre gentile, sensibile e generosa. Dunque, perché non si erano mai innamorati? Sam aveva deciso semplicemente che fosse uno dei grandi misteri della vita, liquidando così la questione. A volte non vale la pena passare al microscopio certe cose. Erano amici, e questo era ciò che contava. O almeno era quello che si ripeteva. Improvvisamente, Katelynn interruppe i suoi pensieri. «Parlami di Gabriel, Sam». Ci pensò su un attimo e poi disse con una risata: «Non sono certo di poterlo fare». Malgrado tutto il tempo passato insieme, per lui Gabriel rappresentava ancora un enigma. Aveva la sensazione che il vecchio desiderasse mantenere le cose così, indipendentemente dal fatto che andavano via via conoscendosi meglio. Sam ricordava il giorno del ricovero di Gabriel alla casa di cura. I portantini lo avevano accompagnato sulla sedia a rotelle perché l'attacco cardiaco era ancora troppo recente per poter camminare, e mentre passavano davanti al bancone, dove Sam era di turno per la notte, il vecchio aveva aperto gli occhi, lo aveva guardato e gli aveva detto: «Vieni a trovarmi qualche volta, Sammy. Penso che io e te abbiamo un mucchio di cose di cui parlare». Sam aveva impiegato un paio di minuti per riprendersi dallo shock, e intanto il gruppetto aveva già oltrepassato le doppie porte e l'atrio, dirigendosi verso le stanze dei degenti. Si domandava come avesse fatto il vecchio a sapere il suo nome, poi stabilì che l'aveva semplicemente letto sul suo badge. Ma nello spogliatoio, cambiandosi alla fine del turno, si accorse che quella notte si era dimenticato di mettersi il badge. Infatti era là, abbandonato dove l'aveva lasciato la sera precedente, sull'ultimo ripiano dell'armadietto, con le lettere bianche del suo nome che lo fissavano dritto in faccia. Quando i brividi erano passati, si convinse che uno
degli infermieri gli avesse fatto uno scherzo. Conoscendo la passione di Sam per il soprannaturale, avevano indotto il paziente a prestarsi come complice per procurargli uno spavento. Dovette ammettere che l'avevano studiata bene, e la faccenda finì lì. Ma l'accaduto non abbandonò la sua testa per tutto il weekend e quando rientrò al lavoro, la settimana successiva, fece esattamente ciò che quell'uomo gli aveva chiesto, andò a fargli visita. Da quella sera divennero amici. Sapendo che Katelynn era pazientemente in attesa di un qualche tipo di risposta, si sforzò di descriverle come lui si sentiva in presenza di Gabriel. «Ti è mai capitato di vedere come la televisione raffigura i nonni? Simpatici vecchietti che hanno sempre la risposta giusta, in grado ogni volta di fornire al ragazzino che è la star dello show il consiglio giusto?». Katelynn annuì. Sapeva bene quello che Sam intendeva dire: aveva avuto un nonno esattamente così. Lui capiva subito quando qualcosa la turbava e riusciva sempre a rincuorarla con poche parole. Quando era morto, alcuni anni prima, Katelynn aveva pensato che non sarebbe mai riuscita a smettere di piangere. «Bene, questo è Gabriel. Mi fa sentire ancora come un bambino, impaurito e sbalordito di ogni cosa che mi racconta. Può prendere un qualsiasi oggetto comune e trasformarlo in qualcosa di miracoloso solo col fartelo guardare in modo diverso». Fece un sorrisetto imbarazzato. «Un mucchio di banalità, vero?». «Per niente. Va' avanti». «A me sembra quasi preistorico. È tutt'uno con la natura e il mondo attorno a lui, mite, sereno, come se niente mai potesse turbarlo. E sa raccontare in un modo incredibile. Qualche volta, quando faccio l'ultimo turno e lui non riesce a dormire, mi rifugio nella sua stanza e mi racconta vecchie leggende, storie piene di stupore e di magia, di bene e di male, di tragedia e di felicità». Lasciarono la periferia della città e imboccarono la Route 3, costeggiando il fianco del monte ai cui piedi si stende Glendale, distante quindici minuti. Attraversarono il ponte coperto che scavalca il fiume Quinnepeg e pochi minuti dopo si spinsero dentro la città di Glendale. Era più grande e più industrializzata di Harrington Falls, meno pittoresca e più squallida. Il Saint Boniface, la casa di cura dove Sam lavorava, era situato dalla parte opposta della cittadina e gli toccarono altri quindici minuti di lotta con il traffico del pomeriggio prima di raggiungerlo. Una volta là, Sam fece aspettare Katelynn nell'atrio mentre lui scendeva
allo spogliatoio per indossare gli abiti da lavoro e timbrare il cartellino. Quando ritornò, la condusse di sopra, al terzo piano. Armadorian stava nella stanza 310, in fondo a un lungo corridoio a L. Fuori dalla porta, Sam disse: «L'ho avvertito che saresti venuta, ma, nel caso stia dormendo, aspetta qui un momento e fammi entrare da solo». Katelynn annuì e si fece indietro, ma una voce li chiamò dall'interno della stanza. «Voi due volete restare lì fuori tutto il giorno o venire dentro a far compagnia a un povero vecchio?». Sam fece un sogghigno, alzò le spalle e accompagnò dentro Katelynn. La prima cosa che lei notò furono gli occhi. Di una limpida tonalità blu come uova di pettirosso, sembravano fissarla con lo stupore innocente di un bambino. Erano occhi di cui lei spesso aveva letto, ma che non aveva mai realmente incontrato, occhi ipnotici, occhi che parevano scrutare dritto nell'anima. Se non fosse stato per l'evidente gentilezza che promanavano, l'impatto con quegli occhi sarebbe risultato decisamente inquietante. Così com'erano, le trasmisero la sensazione di una calorosa accoglienza. Quando riuscì a distogliere lo sguardo da Gabriel, notò che la sua pelle era del colore del rame brunito, il volto così segnato da crepe e da grinze da sembrare cuoio consumato. Aveva capelli lunghi e bianchi, che ricadevano sulle spalle in una lunga criniera candida come la neve, appena stempiati malgrado l'evidente età. Sorrise allo sguardo indagatore di lei. «Sammy», disse, stringendo affettuosamente la mano dell'amico con entrambe le sue. «Ti stavo aspettando, come avevamo stabilito». Gabriel lo lasciò e si voltò verso Katelynn. «E questa deve essere la giovane damigella di cui il mio amico mi ha parlato ultimamente». «Katelynn Riley», lei gli disse, ricambiandogli la stretta di mano. Quella del vecchio era piccola e sembrava fragile, ma la pelle era ruvida per gli anni di lavoro pesante e la stretta ancora sorprendentemente vigorosa. Notò che indossava un paio di jeans scoloriti e una camicia blu di tessuto chambray troppo ampia in cui la sua fragile struttura ossea sguazzava. I piedi, appoggiati sul bordo del letto, erano infilati in un paio di morbidi mocassini scamosciati. «Per favore, sedetevi accanto a me, qui vicino alla finestra», disse, indicando diverse sedie allineate vicino alla vetrata scorrevole che dava sul balcone, che occupavano quasi tutto il muro davanti al letto. «Stavo giusto godendomi il calduccio dell'ultimo sole». Essendo stato lì innumerevoli volte, Sam si era già seduto, mentre Katelynn indugiava a guardarsi intorno, osservando l'austerità dello spazio a-
bitato da quell'uomo. Arrivando lì aveva sbirciato in diverse altre stanze e aveva notato che quello non era il normale arredo di dotazione. Nella stanza, a parte il letto, le sedie e un cassettone, l'unico altro pezzo di mobilio era un comodino che sembrava intagliato a mano da un unico solido pezzo di legno. Era grezzo e malfinito, ma questa sua scarna semplicità gli conferiva un aspetto così genuino che un mobile accuratamente rifinito non avrebbe mai potuto avere. Le pareti erano rifinite in semplice gesso bianco, non verniciate, disadorne, eccetto un macramè fitto di ghirigori in cui le pareva di scorgere una sorta di uccello che nasceva dalle fiamme. Distogliendo lo sguardo dall'oggetto appeso al muro, Katelynn si accorse che Gabriel la stava osservando. Gli sorrise timidamente ed egli rispose con un cenno della mano, invitandola con un sorriso dei suoi a raggiungere lui e Sam vicino alla finestra. Rimasero tutti e tre seduti in silenzio per un po', lasciando che il calore del sole cavasse il gelo dalle loro ossa. Finalmente Gabriel si voltò verso di lei e disse, «Sammy pensa che possa esserle di qualche aiuto». «Sì», replicò lei con ansia, facendosi avanti sulla seggiola, desiderosa di affrontare l'argomento che le stava a cuore. «Sono assistente di cattedra e sto preparando il dottorato in Sociologia alla Benton University. Sto lavorando a una tesi sulle dinamiche delle comunità che hanno origine dall'influenza predominante di una famiglia. L'importanza della fortuna dei Blake nella nascita di Harrington Falls è un esempio perfetto. Sam mi ha raccontato che la sua famiglia in passato ha avuto a che fare con i Blake e così ho pensato di chiederle qualche informazione per aggiungere un po' di colore locale al mio lavoro». Lui annuì con una curiosa espressione sul volto. «Sarei ben felice di aiutarla se solo potessi, ma la maggior parte di quel che so sono notizie di seconda, se non addirittura di terza mano». «Nessun problema. Ultimamente mi sono concentrata sulla figura di Sebastian Blake, comprese le circostanze legate alla sua scomparsa da questo territorio. Qualsiasi cosa lei potesse raccontarmi su di lui sarebbe di grande aiuto per me, dal momento che sono riuscita a scoprire poco più di niente». Mentre parlava, Katelynn frugò nella borsa alla ricerca di taccuino e penna e allo stesso tempo avviò il registratore. Lo lasciò dentro la borsa per non mettere a disagio Gabriel. Quando rialzò lo sguardo, si accorse che l'atmosfera nella stanza era cambiata, che l'aria tutt'a un tratto si era caricata di tensione. Il vecchio la fissava intensamente, con una luce strana negli occhi.
Katelynn percepì nella sua espressione un'ombra di paura. «Perché mai una ragazza giovane e carina come lei desidera raccogliere notizie su di un uomo come quello?», le chiese Gabriel con una voce calma e sommessa, che in qualche modo aveva molto più vigore della sua esuberanza di poco prima. Un'improvvisa emozione attraversò Katelynn, facendole capire che era sulla strada giusta. Calma, ragazza, disse a se stessa, non volendo precipitare le cose e comprometterle. Ben consapevole della reazione del vecchio, rispose prudentemente: «Bene, i Blake hanno avuto un'enorme influenza sullo sviluppo di questo territorio. Visto che molto è stato già scritto su altri, più eminenti membri della famiglia come Elijah e Nathaniel, ho preferito occuparmi di una figura meno conosciuta. Le mie prime ricerche su Sebastian, il fratello minore di Elijah, hanno fruttato solo notizie di poco conto e cosi ho deciso di scoprirne il perché. Più indagavo, meno scoprivo e più cresceva la mia curiosità». «E ora, come un bambino che ha per le mani la mappa del tesoro, non ha nessuna intenzione di lasciar perdere», disse carinamente Gabriel, quasi pentito. Lei annuì. Lui si girò e fissò lo sguardo nel vuoto, come per riflettere se fosse o no il caso di aiutarla. Le sue mani, inattive fino ad allora, si misero improvvisamente in movimento. Cominciò a sfregarle una contro l'altra esternando un qualche conflitto interiore. Continuò per alcuni interminabili momenti mentre Katelynn e Sam aspettavano seduti, entrambi trattenendo il respiro e chiedendosi cosa avesse tanto turbato quell'uomo. Infine, Gabriel sembrò tornare in sé e pose di nuovo lo sguardo su di loro. «Chiudi la porta, Sammy». Katelynn guardò Sam mentre eseguiva, e sul suo viso poté scorgere un'espressione di smarrimento quasi pari alla sua. Sentiva crescere la propria eccitazione. Il vecchio si comportava come se stesse per rivelare segreti di Stato e questo confermava che era a conoscenza di qualcosa di ghiotto. Gabriel attese che Sam ritornasse a sedersi, poi si rivolse a Katelynn. «Non ho alcuna possibilità di farle cambiare idea e proporle di scegliere qualcun altro?». Katelynn scosse il capo. Ci ho lavorato così tanto, ho speso un sacco di ore a frugare scartoffie polverose nel fondo degli scaffali della biblioteca, e tutto questo per niente? Proprio ora che finalmente m'imbatto in qualco-
sa di concreto, lui vorrebbe che rinunciassi? Ma neanche per sogno! Lui annuì di nuovo, come se si fosse aspettato la sua risposta. «Mi dica quello che sa», le chiese. Katelynn tirò un respiro profondo per dissimulare la sua eccitazione e attaccò. «A parte fatti generici come chi furono i genitori o dove fu educato, non conosco molto. So solamente che era un tipo solitario, quasi l'esatto opposto del fratello Elijah, e che crescendo ebbe guai con le autorità in più di un'occasione. Lasciò Harrington Falls per studiare a Boston e poi andò all'estero per diversi anni». «Mi sembra tutto abbastanza normale», intervenne Sam. «Fino a un certo punto», chiarì Katelynn. «Ritornò diversi anni dopo, ma profondamente cambiato. L'irrequietezza giovanile si era tramutata in uno zelo irreprensibile che sembrò fare contenti tutti. Dopo il suo rientro fu menzionato in parecchi documenti storici di vario tipo, partecipa a un'assemblea di cittadini qua, fa la sua apparizione a un impegno conviviale là, proprio come ci si aspetta da un membro facoltoso di una delle famiglie che hanno fondato la città. Ma ben presto il mondo sembrò perdere le sue tracce. Fino alla primavera del 1760 è stata figura di notevole rilievo, ma dopo di allora, più nulla. Dopo il 1760, non ho trovato neppure un minimo accenno su di lui dovunque abbia cercato». Sottolineò con un sospiro la propria esasperazione. «I vari archivi di storie familiari sembrano anch'essi ignorare la questione di cosa gli accadde. Non sono riuscita a rintracciare neppure una nota sulla sua morte». Inconsciamente, rabbrividì. «È come se fosse scomparso dalla faccia della terra senza che nessuno se ne sia accorto». Accanto a loro, affascinato, Sam l'ascoltava sciorinare la sua litania. Per lui era tutto nuovo. In passato, aveva sentito fare il nome di quell'uomo un paio di volte e gli pareva di ricordare che un tempo gli era stata dedicata una statua nella piazza della cittadina, poi rimossa per qualche motivo. Cominciava ad avvertire la medesima sensazione di mistero che aveva contagiato Katelynn. Era evidente che Gabriel era rimasto turbato da quello che lei aveva detto. Sam conosceva l'uomo da troppo tempo per non cogliere i segnali impercettibili: lo sguardo improvvisamente modificato in fondo ai suoi occhi, quel tic nervoso che gli tormentava il mignolo. Era sconvolto, e per un attimo Sam ebbe la certezza che non avrebbe detto loro nulla. Poi Gabriel si voltò e guardò fuori dalla finestra, raccogliendo i pensieri. Sam riconobbe
la stessa espressione che traspariva dal vecchio ogniqualvolta si accingeva a raccontargli una delle sue storie di un magico passato. «Sebastian Blake», disse a bassa voce Gabriel, come se assaporasse quel nome sulla punta della lingua trovandolo amaro. «Per molti anni non ho pensato a lui. E per un buon motivo: non è proprio il tipo d'uomo che uno lascia entrare volentieri nei propri pensieri». Girò il viso verso di loro, ed entrambi videro che un velo di malinconia era disceso su di lui, una coltre di pesante afflizione che per la prima volta ne fece sembrare vecchio, oltre al corpo, anche l'animo. Proseguì: «I nativi di questa regione credono che quando il Grande Spirito creò il mondo, lo popolò di parecchie creature strane e meravigliose, alcune buone, altre malvagie. Una di queste era Coyote». Katelynn alzò lo sguardo verso Sam, e dall'espressione del viso di lei questi si rese conto che si stava chiedendo cosa mai le parole del vecchio avessero a che fare con Sebastian Blake. Gabriel aveva un modo tutto suo di raccontare una storia e Sam aveva imparato già da molto tempo che era inutile tentare di sollecitarlo. Raccontava le cose in questa maniera, prendendosi tutto il suo tempo, e così era. D'altra parte, rifletté Sam, quando diceva qualcosa lo faceva sempre per una ragione e spesso ciò che in un primo momento poteva sembrare banale, diventava importante nel proseguimento del racconto. Rassicurò Katelynn con un impercettibile movimento delle mani. Gabriel seguitava a parlare e Sam focalizzò nuovamente l'attenzione su di lui. «Coyote è uno degli spiriti più importanti tra gli Indiani. Secondo la leggenda, insegnò molte cose all'uomo: l'uso dell'argilla per costruire vasi, la maniera di preparare stuoie dalle canne che crescono sull'argine del fiume. Secondo la loro credenza, tutte le arti e i mestieri delle genti indiane tramandati fin dalle origini sono state insegnate da Coyote. Tuttavia, Coyote aveva due volti, e non ci volle molto perché la gente se ne accorgesse. In fondo al cuore, era una canaglia, un avido imbroglione. Vagava invisibile in mezzo alla gente, capace di sfogarsi a distruggere appena gli si presentava l'occasione di farlo». Gabriel fissò Katelynn dritto negli occhi e per un attimo lei fu quasi spaventata dal vecchio, tanto intensa era la forza del suo sguardo. «L'uomo di cui parli era assolutamente simile, ma coloro che gli vivevano accanto impiegarono molto più tempo per accorgersi di quel che veramente era». Ci volle un attimo, ma infine lei ritrovò fiato. «E così, lui non era affatto il Signor Bravo Ragazzo che voleva sembrare quando rientrò dall'Euro-
pa?». «Apparentemente lo era. Non è però quel che appare di fuori a rivelare la vera natura di un uomo, è ciò che ha qui dentro», si toccò con il lungo dito ossuto sul petto, «a renderlo ciò che egli veramente è. Nel cuore di Sebastian Blake non c'era nient'altro che tenebra». In quell'istante, il sole scomparve dietro una nuvola, quasi a voler fare eco alle parole di Gabriel. Sam fu colpito dalla sgradevole sensazione che si stesse nascondendo affinché la sua luce preziosa non restasse contaminata da ciò che stavano dicendo. Anche il vecchio dovette avere la stessa sensazione, poiché alzò gli occhi verso il cielo e poi annuì, come se il comportamento del sole fosse del tutto adeguato alla circostanza. «Il mio bisnonno era solito parlarmi di lui quand'ero bambino, tramandandomi i racconti che aveva ascoltato ancora prima da suo padre. Il mio bisnonno era un uomo saggio, più di quanto io possa mai sperare di essere, temo. Ho imparato da lui molte cose sulla vera natura del mondo. Ma fra tutte le cose che mi ha insegnato, la più importante è questa: il Male cammina nel mondo con volti diversi e sotto molte forme, alla luce del sole o nelle tenebre». Lo sguardo gli si offuscò, come se si fosse rovesciato all'interno, su un percorso che nessuno degli altri due poteva vedere. «Non penso di aver mai compreso cosa lui intendesse esattamente, finché non incontrai Sebastian Blake». Le ultime parole furono pronunciate quasi in un soffio e ci volle un momento a Katelynn per capire quello che aveva detto. Quando capì, parlò senza pensare. «Ma dai! Incontrarlo? Questo vorrebbe dire che lei ha più di duecento anni!». Il tono della sua voce strappò Gabriel fuori dai suoi ricordi facendolo trasalire. Per un attimo sembrò confuso, ma poi sorrise con dolcezza. «Per modo di dire, naturalmente, quello che sapevo di lui era abbastanza perché potessi mai desiderare d'incontrarlo, vi assicuro». Il suo largo sorriso si fece ancora più aperto e le strizzò l'occhio. «E così, può essere che io abbia più di duecento anni. Ma scommetto che non ne dimostro più di settantacinque, no?». Katelynn ricambiò il sorriso per stare al gioco, e si rilassò. Per un attimo aveva pensato che il vecchio potesse non essere così lucido come sembrava. «Blake era alla ricerca del sapere proibito, quel tipo di conoscenza che sarebbe opportuno tenere il più lontano possibile dalla vista e dall'udito di un uomo. Invece che avvicinarsi alle filosofie e alle dottrine che avevano
strappato l'umanità dai secoli bui proiettandola nell'era moderna, lui recuperava antiche credenze e leggende, rimestando nel dominio dell'oscurità, cercando la compagnia di Entità Tenebrose». «Vuoi dire del Demonio?», chiese Sam con evidente eccitazione. Katelynn gli lanciò un'occhiata acida. Era lì per portare avanti delle ricerche serie per la sua tesi, e non intendeva sprecare tempo indulgendo alla passione di Sam per il fantastico. Se a lui piaceva pensare che diavoli e demoni e mostri con mille zampe infestano i luoghi oscuri e dimenticati del mondo, facesse pure, ma lei non voleva che ciò interferisse con quello che era venuta a fare. Lui sembrò non avvedersi della sua occhiataccia, e nemmeno Gabriel, dato che cominciò a rispondergli. «Non esattamente, Sam. Quantomeno, non nel senso che tu intendi. Devi ricordare che tutto questo avveniva nei primi tempi degli insediamenti in questo Paese. Le gente arrivata qui era fuggita via dalla vecchia patria nel desiderio di sottrarsi a persecuzioni religiose. Per loro, la fede in Dio o nel Demonio non era soltanto qualcosa cui indulgere secondo il proprio comodo, così come sono invece diventate molte delle religioni di oggi. Per loro era una seria faccenda di salvezza o dannazione eterne. Ma Blake non era interessato a una simile, limitata visione del cosmo. Guardava oltre, a una concezione più vecchia e più tenebrosa dell'universo, e tentava di recuperare il potere che gli antichi avevano presumibilmente tratto da riti e cerimoniali». Katelynn lo interruppe prima che potesse proseguire con le spiegazioni. «Un momento!», disse alzando la voce, la leggera irritazione per la domanda di Sam ormai degenerata in fastidio per la risposta di Gabriel. «Sta cercando di dirci che Sebastian Blake praticava la stregoneria?». «Magia nera sarebbe il termine più appropriato, ma comunque, sì, è ciò che vi sto raccontando», rispose schiettamente e senza mai perdere l'amabile espressione del volto. «Fico!», si esaltò Sam. Quando aveva deciso di portare Katelynn a incontrare Gabriel, si era aspettato una lunga conversazione su un individuo da molto tempo ridotto in polvere e che aveva vissuto un'esistenza tanto insignificante che nessuno si ricordava di lui. Ora, tutta un tratto, si ritrovava a discutere di qualcosa che era giusto nelle sue corde, un autentico stregone realmente vissuto proprio lì, nella sua città! Katelynn, però, era ben lontana dall'eccitarsi per quelle notizie. «Mi spiace ma non posso proprio crederci», disse.
«Perché no?», domandò Gabriel, con un sorriso allegro sulle labbra e un lampo malizioso negli occhi. La sua espressione servì solo ad aumentare l'irritazione di Katelynn. Lui era un vecchietto simpatico e, probabilmente, abbastanza solo per la maggior parte del tempo. Era questo il motivo per cui amava confezionare storielle da raccontare a Sam quando questo faceva l'ultimo turno, essendo gli unici due svegli a quell'ora di notte. Probabilmente non aveva compreso quanto lei facesse sul serio, e non avendo informazioni utili, aveva deciso di inventarsi qualche frottola del tipo di quelle che era solito raccontare a Sam, pensando che fosse quello che lei voleva sentirsi dire. Era arrivata fin lì alla ricerca di concreti orientamenti che la potessero aiutare, e ritrovarsi a parlare di rituali o magia nera era quel che ci voleva per metterla di pessimo umore. Ma fino a che punto la faceva ingenua? «Perché non ci credo?», gli rispose, stampandosi in faccia un sorriso più falso di un biglietto da tre dollari. «Glielo spiego, perché non ci credo. Semplicemente perché la magia nera non esiste». «Ne è proprio sicura, Katelynn? Qualcuno ha effettivamente provato che non esiste?». «Naturalmente no. Nessuno scienziato rispettabile perderebbe tempo con una ricerca di questo tipo. L'idea stessa di magia è totalmente in antitesi con quanto oggi conosciamo sui fenomeni fisici. Semplicemente, non può esistere». «Ah, ma si ricordi di cosa stiamo parlando. Non discutiamo di una concezione moderna della realtà, ma delle convinzioni della gente che fondò verso la fine del diciassettesimo secolo questa città. A quel tempo, credere alla stregoneria era un modo di vivere e praticamente in tutti i piccoli centri c'erano uomini o donne ritenuti stregoni o fattucchiere. Scacciare questi individui dalle città o, peggio, vedere nel pieno della notte una folla inferocita che li metteva a morte, non era poi così inconsueto, specialmente qui, nei boschi più isolati del New England. Prenda Salem, ad esempio. Pensa davvero che quella gente non credesse alla magia?». A malincuore, Katelynn dovette ammettere che aveva ragione. Chi vuole esaminare a fondo il passato, deve ricordare che non può usare criteri moderni di valutazione. Deve ragionare secondo le convinzioni di quell'epoca, se non vuole pervenire a conclusioni errate, proprio come lei stava facendo ora. Ma cosa aveva a che fare tutto questo con Blake? Gabriel fu ben felice di aiutarla a capire. «Blake credeva che avrebbe ottenuto potere con la pratica della magia nera, e molti dei suoi comporta-
menti in pubblico erano una messa in scena per ingannare i suoi concittadini e farsi accettare, mentre proseguiva le sue ricerche alle loro spalle. Scandagliò ogni documento che poté scovare, un libro dietro l'altro, sempre in cerca del rituale appropriato che lo mettesse in contatto con le oscure entità che lui credeva esistere tra noi, sperando di usare i loro poteri per ergersi in una posizione di dominio sulla comunità». «Poi, nei primi mesi del 1762, cominciarono gli omicidi. All'inizio la popolazione ebbe l'impressione che si trattasse di disgrazie, tanto erano stati astutamente camuffati. Un incidente a un carro qui, un'improvvisa caduta da cavallo lì, un bambino che si smarrisce nel bosco e che è ritrovato morto assiderato il giorno dopo. Ma, con il trascorrere dell'anno, gli omicidi presero a diventare più frequenti. E più violenti. Non bastavano più degli incidenti a spiegare quello che stava succedendo, e il ritrovamento di cadaveri sfigurati cominciò a diffondere il sospetto che stesse accadendo qualcosa fuori della normalità. Poi, verso la fine del 1763, l'assassino venne scoperto». Katelynn ascoltava con un'espressione scettica, ma Sam era totalmente rapito dal racconto di Gabriel, gli si leggeva in volto che credeva a ogni parola. «Un'informazione anonima indirizzò le autorità locali a un piccolo tugurio nei boschi all'interno della proprietà della famiglia Blake e là scoprirono Sebastian nel pieno di uno dei suoi rituali ripugnanti. Un bimbetto era steso sopra un altare davanti a lui in una sorta di rito sacrificale a favore di quelle entità oscure alle quali si era votato. Proprio sotto i loro occhi, Sebastian affondò il pugnale nel petto del bimbo e gli strappò il cuore pulsante». Il vecchio rabbrividì e Katelynn, senza volerlo, si scoprì a fare altrettanto. Di una cosa doveva dargli riconoscimento: Gabriel era un narratore fantastico. Se poi ciò che andava dicendo avesse un qualche fondamento concreto, questa era tutta un'altra faccenda. «L'opinione pubblica non volle attendere un processo formale. Si radunarono per linciarlo e lo impiccarono sul posto». «E allora, come mai non risulta alcuna documentazione di ciò?», chiese Katelynn cercando di metterlo in difficoltà. Lui aveva una risposta pronta anche per questo. «Gli anziani del posto non volevano infangare il nome dei Blake o suscitare una cattiva nomea per la loro fiorente cittadina, perciò si misero d'accordo per cancellare ogni traccia dell'accaduto dalle cronache, e proibire ai giornali di pubblicare
qualsiasi riferimento a quella storia, e non fu difficile, visto che erano tutti di proprietà dei Blake». «E allora come farò dimostrare che tutto ciò è realmente accaduto?», gli domandò. Gabriel si appoggiò allo schienale e allargò le mani, i palmi all'insù. «Non saprei. A questo ci deve pensare lei. Io le ho raccontato tutto quello che so». Durante il racconto Sam era rimasto silenzioso, ma alla fine se ne uscì: «I Blake non possono aver controllato tutto e tutti, Katelynn. Qualcuno avrà pure annotato i fatti, un mercante, un sacerdote in viaggio, forse addirittura un parente di una delle vittime. Quantomeno, dovresti poter documentare il numero di coloro che morirono in quel periodo, no?». Katelynn ci pensò su un attimo e poi convenne. Tra i documenti dell'anagrafe cittadina, se ancora rintracciabili, si sarebbero dovuti rinvenire i certificati di morte relativi a quegli anni. Se riusciva a documentare le morti, avrebbe potuto scovare qualche altra traccia che la aiutasse a provare il resto. Si rallegrò con se stessa, sorpresa di stare prendendo in seria considerazione il racconto di Gabriel. L'ipotesi che Blake fosse in combutta col Demonio era semplicemente assurda, ma riuscire a dimostrare che fosse stato una sorta di serial killer non era fuori dalle sue possibilità. Si concentrò nuovamente su Gabriel. «Potrebbe raccontarmi qualcosa di più circa le persone che furono assassinate?», domandò speranzosa. Il pozzo delle informazioni di cui Gabriel sembrava in possesso era, a quanto sembrava, prosciugato. Non conosceva il nome di alcuna vittima e neppure la data del loro assassinio. Nulla, eccetto che la storia aveva avuto inizio ai primi del 1762 e termine alla fine del 1763. «Mi dispiace di non poterle dare altro aiuto», le disse. «Oh, va bene così. Mi ha comunque fornito un punto di partenza. Non posso affermare di crederci, ma forse vale la pena tentare di approfondire». Lui le sorrise e lei ricambiò, con lo scetticismo che aveva provato all'inizio di quella conversazione ormai svanito. Chiacchierarono ancora per qualche minuto e poi si salutarono. Sam doveva iniziare il suo turno e Katelynn doveva preparare una lezione per la classe a cui insegnava la mattina. Dissero a Gabriel che sarebbero tornati presto a trovarlo e s'incamminarono lungo il corridoio. «Che ne pensi, Katelynn?», le chiese Sam mentre si dirigevano verso la postazione all'estremità opposta della sala dove lui era assegnato per la du-
rata del turno. «Credi che abbia detto la verità?». «Non lo so, Sam. Può darsi che un simile individuo sia veramente andato in giro a sacrificare dei poveracci nella convinzione aberrante che ciò potesse conferirgli poteri soprannaturali. Era il 1700, dopo tutto. Cosi come Gabriel potrebbe essersi inventato ogni cosa solo per compiacerti. È evidente che ti è affezionato e, se pensava che fosse il genere di storia che stavi cercando, quella ti ha raccontato. È abbastanza intelligente per idearne una». «Non saprei, Katelynn. Gabriel non mi ha mai mentito prima e sicuramente ha capito quanto sia importante per te». «Solo il tempo ce lo potrà dire. Forse, con qualche altra ricerca, riuscirò a muovere un po' le acque. È meglio che vada». Sam le porse le chiavi dell'auto. «Passa a prendermi alle nove che andiamo insieme da Jake, ti va?». «Aggiudicato. Ci vediamo più tardi», replicò lei e s'incamminò lungo il corridoio, lanciando un ultimo sorriso in direzione di Sam per dimostrargli che non pensava di aver sprecato l'intero pomeriggio. Sam le sorrise a sua volta e si avviò a iniziare il lavoro, ma la sua mente rimase a pensare a quella lunga notte del 1763 da tempo dimenticata. All'altra estremità del corridoio, colui che si era dato il nome di Gabriel sedeva fissando il vuoto, gli occhi offuscati e trasognati. La voce della bestia era rintanata nel fondo della sua mente, dove era rimasta per tutta la durata dell'incontro, sussurrandogli i terribili propositi che aveva escogitato per lui durante i suoi lunghi anni di isolamento. Era stato più facile ignorarla quando nella stanza c'erano i suoi due giovani amici con cui parlare, distogliendo il pensiero da ciò che la bestia diceva, ma ora, senza di loro, era quasi impossibile zittirla. La ascoltò molto attentamente per un istante, tentando di comprendere se fosse divenuta più forte ma, non riuscendovi, la soffocò dentro di sé. Non voleva ascoltare oltre quella voce malvagia. Era inquieto. Non si sentiva più l'uomo che un tempo era stato. Il suo potere andava rapidamente affievolendosi; il suo corpo era diventato vecchio e stanco. Era convinto che la prigione di Nightshade avrebbe tenuto la bestia rinchiusa per sempre, ma in questo s'era sbagliato. Non avrebbe mai dovuto inorgoglirsi tanto delle sue capacità. La bestia era sveglia, lui sapeva che tra non molto sarebbe stata anche libera. Allora sarebbe venuta da lui.
Non aveva dubbi su quanto poi sarebbe accaduto. Tuttavia, conservava un'ultima speranza. I semi del suo progetto erano già stati piantati. Sam era un buon ascoltatore, e mischiati alle storie che gli aveva raccontato, c'erano alcuni brandelli di verità. Era convinto che al momento opportuno il ragazzo sarebbe stato sufficientemente perspicace da poter distinguere le une dagli altri. La ragazza era una faccenda diversa. Era sicuramente scettica in merito al racconto che lui le aveva propinato, ma restava da capire se avrebbe mai superato il suo scetticismo in tempo per aiutare Sam in quello che andava fatto. D'altra parte era giocoforza che si convincesse, da solo Sam non poteva farcela. Gabriel decise di darle una spinta nella direzione giusta. Si alzò dal letto, si diresse verso il comò e aprì il tiretto più basso. Sotto alcuni vecchi maglioni c'era una cassetta di metallo chiusa con un lucchetto. La prese e la mise sul ripiano. Dentro c'erano cianfrusaglie accumulate negli anni; oggetti personali e ricordi di qualche momento speciale. Fra questi c'era, avvolta in un panno morbido, una collana d'oro da cui pendeva una pietra cremisi. Era stata realizzata anni prima dall'alleato del suo nemico e Gabriel ne aveva fatto bottino in seguito alla vittoria su di loro. La collana era una sorta di strumento di comunicazione, per l'individuo giusto, e Gabriel non nutriva alcun dubbio sul fatto che Katelynn fosse il tipo adatto al suo scopo. Prese l'elenco del telefono e trovò l'indirizzo di Katelynn. Poi chiamò un pony service con cui concordò il ritiro e la consegna della collana. Se vedeva giusto, tra non molto Katelynn sarebbe stata pienamente coinvolta nel suo progetto, che lo volesse o no. Era un atto sleale ma indispensabile. Ogni giorno che passava, la bestia diveniva più forte, sempre più vicina alla fuga. Gabriel sapeva che mancava poco. Terminato il suo compito, cominciò a pregare. 3. Blake Mentre Jake percorreva con la jeep la strada tortuosa che portava dall'imponente cancello d'ingresso della tenuta di Riverwatch alla dimora vera e propria, gettò uno sguardo verso il lago alla sua sinistra. Negli anni, la bellezza del sole al tramonto riflesso nelle acque tranquille aveva conser-
vato il fascino di quando l'aveva ammirata per la prima volta. Era arrivato a Harrington Falls cinque anni prima, dopo averne trascorsi quasi dieci a New York City. La magia della metropoli era durata fino a che, logorato dal tempo trascorso, aveva deciso di andarsene. Era sempre più stanco della ressa; stanco della gente che ti opprime ovunque; stanco di quel ritmo forsennato. Sentiva il bisogno di purificarsi lo spirito, cosa impossibile da fare in città, e una sera stabilì che ne aveva abbastanza. Vendette quasi tutto quel che aveva, caricò la jeep e si diresse a nordest. Alla fine si ritrovò a Harrington Falls e decise di fermarsi. Da allora, aveva realizzato un mucchio di cose. Con l'aiuto di una banca locale, aveva avviato un'impresa di costruzioni, mettendo finalmente a frutto la laurea in ingegneria conseguita all'università di New York. Partì in sordina, concentrandosi sull'ampliamento di costruzioni esistenti, sull'edilizia delle ristrutturazioni, su cose del genere. Dopo un po', scoprì di possedere un vero talento, oltre che un autentico interesse, nel restauro degli edifici più antichi del luogo, che riusciva a ricondurre alla loro vitalità originaria. Modificò quindi in tal senso l'orientamento dei suoi affari, fino a guadagnarsi una solida reputazione nelle comunità dei dintorni. Era stato proprio il suo successo a segnalarlo agli occhi dell'attuale cliente, Hudson Blake. Blake era il discendente diretto della famiglia che fondò Harrington Falls verso la fine del diciassettesimo secolo, fatto che non permise mai a nessuno di dimenticare. Jake aveva accettato di restaurare una delle dimore della famiglia, un posto chiamato Stonemoor. Aveva valutato che l'incarico gli avrebbe procurato un buon lavoro fisso per il resto dell'autunno e per gran parte dell'inverno, periodo in cui il lavoro ordinario di solito scarseggiava. Jake cominciava a pentirsi di avere accettato. Odiava le riunioni con Blake. Ne veniva tenuta una alla settimana, apparentemente per verificare lo stato d'avanzamento dei lavori di ristrutturazione. Blake aveva sempre fatto di tutto per far sentire Jake in uno stato d'inferiorità. Era un individuo tronfio e supponente che voleva tutto pronto per il giorno prima, divenendo aggressivo, sia pure verbalmente, quando ciò non accadeva. No, non sarà proprio quella che si dice una riunione divertente. Jake si diresse dove la strada carrabile terminava in un vicolo cieco e parcheggiò a fianco di una lucente Rolls Royce argentata del 1937. Un ampio vialetto di mattoni attraversava il prato fino all'ingresso principale
dell'edificio. Sollevò il battente sulla porta, un pesante blocco d'ottone forgiato a raffigurare una testa di leone, e picchiò decisamente per tre volte. Ci volle un po' prima che il maggiordomo, Charles, aprisse la porta. Squadrò con evidente disapprovazione l'abbigliamento di Jake, che indossava ancora i jeans e la maglietta da lavoro che aveva sul cantiere. Oltrepassando la soglia, Jake lo ricambiò con il suo migliore sguardo strafottente, non senza una certa soddisfazione. Era già abbastanza sgradevole dover accettare un simile atteggiamento da parte di Blake. Subirlo anche dal suo domestico sarebbe stato davvero troppo. Senza dire una parola, Charles girò sui tacchi e gli fece strada, oltrepassando il primo piano fino a raggiungere un'infilata di massicce porte in quercia sul retro della casa. Essendoci già stato in precedenza, Jake sapeva che era la biblioteca. «Attenda qui un istante», disse Charles, con la voce asettica da maggiordomo che aveva imparato a modulare, e si girò senza aspettare alcun riscontro. Bussò leggermente alla porta che aveva davanti e poi scivolò silenzioso nella stanza. Quando tornò fece segno a Jake che poteva entrare. Una volta dentro, Jake sentì i battenti richiudersi con decisione alle sue spalle. Blake sedeva a una scrivania ricavata da un imponente blocco di pietra nera, piazzata al centro del massiccio parquet come un altare eretto a qualche divinità particolarmente abietta. Non sollevò lo sguardo o mostrò comunque di essersi accorto della presenza di Jake. Continuò semplicemente la lettura delle carte che aveva davanti. Invece di starsene fermo a sentir crescere il suo disagio, cosa che Jake sapeva essere proprio lo scopo di quel piccolo "esercizio" occupò il tempo a studiare il suo datore di lavoro. Come sempre, ogni volta che stava qualche giorno senza incontrare Blake, Jake ricominciava ad avvertire un senso di ripulsa alla vista del suo cliente. Non perché fosse fisicamente ributtante; i lineamenti non erano sfregiati da orrende cicatrici né esibiva disgustose malformazioni da renderne insopportabile la vista. Niente che si potesse additare per dire: «Ecco, è questo il problema». Niente di tutto questo. C'era piuttosto uno strano senso di malessere che promanava dalla sua struttura ossea, un'aura inquietante che fluiva adagio fuori da lui. Una sensazione che ti faceva capire come il cuore al centro di questa creatura fosse rattrappito e nero di putrefazione. Se a questo si aggiungevano un'ossatura segaligna e degli occhiet-
ti malvagi su una faccia da furetto, Jake poteva concludere che era abbastanza comprensibile sentirsi come lui si sentiva. Blake continuò con la sua farsa per diversi lunghi momenti, lasciando che il silenzio si protraesse. Infine disse: «Lei è in ritardo», con un tono che mostrava tutta la sua indignazione, senza alzare neanche per un attimo lo sguardo sul suo ospite. «Lo so», rispose tranquillamente Jake. Di colpo, Blake scaraventò le carte sulla scrivania e Jake si ritrovò a fissarlo dritto nelle pupille piccole come capocchie di spillo. «Immagino che avrà una qualche giustificazione». Jake non si era ancora sentito offrire una sedia. Sapeva che non l'avrebbe fatto. Scelse di ignorare anche la provocazione delle sue parole. «Temo di avere delle brutte notizie», rispose invece. «Sono stato obbligato a fermare i lavori nella cantina oggi pomeriggio, a causa di qualcosa che i miei uomini hanno scoperto». L'espressione negli occhi dell'uomo cambiò mentre registrava queste parole, e per un istante Jake credette di avervi scorto un barlume d'eccitazione prima che lo sguardo del suo datore di lavoro riprendesse una studiata indifferenza. «Che significa?», domandò Blake, con un tono di voce piatto quanto la sua espressione. «Avevamo finito di pompare via l'acqua del fiume quando abbiamo scoperto l'accesso a dei gradini che portano sottoterra. Sono sceso giù con il mio capomastro e ho seguito per circa duecento metri una galleria, fino a un punto dov'è stata chiusa con un muro di mattoni. Ho pensato che fosse meglio aspettare che lei ci desse istruzioni, prima di procedere». «Capisco...», replicò Blake, e poi fece ruotare la poltroncina verso la finestra, dando le spalle a Jake, così che questi non potesse vedere il gran sorriso di sorpresa che lentamente gli si andava dipingendo sul volto. «E a quel punto, che avete fatto?». «Nulla. Ho mandato a casa gli uomini, ho chiuso tutto e sono venuto qua». «Capisco», rispose nuovamente Blake. Il silenzio si prolungò per un tempo insolitamente lungo, con Blake che fissava fuori dalla finestra perso nei suoi pensieri, e Jake riluttante a disturbarlo e a guastarne il buon umore. Alla fine pensò che, se non lo interrompeva, avrebbero potuto restare là fino al martedì. «Mr Blake, cosa vuole che faccia?».
«Come? Ah, niente, niente di niente». La poltroncina ruotò di nuovo. Jake fu incapace di leggere alcunché nell'espressione volutamente neutra dell'uomo. «Temo di doverci pensar sopra ancora un po' prima di decidere. Perché lei e i suoi uomini non vi prendete qualche giorno di riposo?». Tenne da parte l'affondo. «Pagati, naturalmente», precisò Blake. Jake non credeva alle sue orecchie. Giorni di riposo? Pagati? Qualcuno ha ribaltato il mondo senza dirmelo? Ma Jake non era uno sciocco. Sia che Blake fosse diventato all'improvviso carino sia che avesse scopi diversi, Jake sapeva che a caval donato non si guarda in bocca. Accettò prontamente l'idea, lasciò perdere le famose scartoffie che gli era stato chiesto di portare e mise in programma di riprendere i contatti prima della fine della settimana. Poi portò le scarpe fuori da là, prima che Blake potesse cambiare idea. Qualche giorno di riposo? Al diavolo, sì. Buona idea! Saltando nella sua jeep, Jake si concesse finalmente di sorridere alla sua buona sorte. Quando lo sciocco se ne fu andato, Blake si abbandonò a un sorriso di trionfo mentre cercava di valutare le implicazioni della notizia. Il diario del suo antenato aveva più volte accennato all'esistenza di un sotterraneo segreto in una delle proprietà di famiglia, ma dopo aver investito migliaia di dollari e mesi di sforzi per localizzarlo, aveva alla fine lasciato perdere diversi anni prima, convinto che fosse una sciocca assurdità. La notizia di oggi cambiava ogni cosa. Tuttavia, non aveva senso correre rischi personali per esserne certi. Avrebbe fatto finta di riflettere sulla faccenda e poi avrebbe richiamato quel giovane idiota più tardi, quella sera stessa. Gli avrebbe comunicato che aveva cambiato idea e che lo autorizzava a proseguire le ricerche. Il sorriso si allargò alla consapevolezza che quello di cui era andato in caccia per tanto tempo poteva infine essere a portata di mano. Il che, a ogni buon conto, non rappresentava nulla di realmente sorprendente. Era, dopo tutto, un Blake. 4. Un gioco notturno
Sam fece rotolare di nascosto il suo dado a otto facce. Vedendo il risultato, diede un annuncio ai giocatori seduti davanti a lui. «Cinque degli otto guerrieri che avete appena ammazzato, si sono improvvisamente risollevati e si stanno rimettendo in piedi». «Credo che siamo nei pasticci», disse Jake a Katelynn, che annuì in segno di accordo. Rivolgendosi a Sam, Jake continuò: «Chelmar torna indietro e si prepara a lanciare un incantesimo per addormentarli». «Bene. E di Alganea, che ne è stato?». «È poco più avanti, fuori dalla sua vista, ma abbastanza vicina per difenderlo se quelle cose attaccano ancora». Altro lancio di dadi e altro annuncio solenne: «Il primo mostro s'è alzato in piedi e si volta verso di voi. Il suo sguardo sembra fiammeggiare quando vi vede, e con passi pesanti comincia piano ad avanzare con la spada nella destra minacciosamente levata sopra il capo». «Sbrigati, Jake!», lo incalzò eccitata Katelynn. «Va bene, va bene. Chelmar s'avvicina ad Alganea e lancia l'incantesimo, assicurandosi, prima, che lei resti alle sue spalle e quindi fuori dalla portata del sortilegio». Jake fece un sorriso accattivante a Katelynn, come a dirle che aveva tutto sotto controllo. «Chelmar, ti rendi conto di aver lanciato l'incantesimo nella maniera giusta, ma pare non avere alcun effetto sui mostri che, di fatto, sono non-morti e quindi immuni da esigenze dei comuni mortali come il sonno. Il primo mostro è abbastanza vicino da potervi colpire e, guardando alle sue spalle, entrambi potete vedere che ora anche gli altri quattro stanno per rialzarsi e marciare verso di voi». Entrambi i giocatori erano consapevoli che i loro personaggi si trovavano in guai seri. Se non avessero escogitato qualcosa subito, probabilmente sarebbero morti là in fondo alle buie caverne nel ventre di Zolthane Mountain. Erano da poco passate le dieci di sera e i tre amici si trovavano nel bel mezzo di una seduta di Swords and Sorcerers, per verificare i meccanismi di gioco di quest'ultima creazione di Sam. Sedevano intorno al tavolo della cucina nell'appartamento di Jake, Sam da una parte e Jake con Katelynn dall'altra, con libri, fogli e mappe sparpagliati davanti. Le luci erano spente, l'unica illuminazione proveniva da una mezza dozzina di candele che proiettavano tremolanti bagliori rossastri sui loro volti, accentuando l'atmosfera del gioco. Loki, il cane akita di Jake, dormiva della grossa ai suoi piedi, la testa a-
dagiata mollemente sulle zampe, perso in un suo mondo fantastico di sogni. Il gioco proseguì. «Io mi faccio avanti e tiro via Chelmar dal raggio d'azione delle spade dei mostri», disse prontamente Katelynn in risposta a Sam, non appena si rese conto che l'incantesimo non aveva funzionato come programmato. Un altro giro di dadi. «Riesci a tirarlo fuori appena in tempo, Alganea. Ma i mostri incalzano». Il gioco continuò in quel modo più o meno per un'altra ora, con Katelynn e Jake che s'ingegnavano a sottrarre i loro personaggi dalle grinfie dei mostri, solo per ritrovarli smarriti nel fitto labirinto di gallerie che li conduceva sempre più giù nel ventre della terra, preparando lo scenario per l'avventura della settimana successiva. Jake era sembrato sovrappensiero per gran parte della serata e, visto che seguitava a esserlo anche mentre riordinavano, Sam decise di affrontare la faccenda. Jake stava ancora con lo sguardo perso nel vuoto, accarezzando distrattamente la testa del cane, quando Sam. gli disse: «Che c'è, Jake? Di solito ti diverti sempre a trovare dei difetti nei miei lavori. Qualche volta mi fai pensare che l'unico motivo per cui giochi è per evitare che io faciliti troppo le cose a un pubblico non smaliziato. Stasera invece hai lasciato tutto il lavoro sulle spalle di Katelynn». Jake rise. «Scusami, Sam. Effettivamente, sono un po' distratto. C'è stato un problema oggi in cantiere e immagino che mi frullerà in testa per tutta la notte». Immediatamente le sue parole richiamarono l'attenzione sia di Sam che di Katelynn. «Qualcuno è rimasto ferito?», domandò Katelynn, mostrandosi preoccupata e trascurando per un momento il modulo per giocare che aveva in mano. «No, niente di tutto questo». Ricordando la sua prima reazione quando Rick s'era presentato nella roulotte, gli venne quasi da sorridere. «Negli ultimi giorni i miei uomini hanno lavorato nella cantina pompando fuori l'acqua del fiume per poi poter posare il pavimento di legno, mi seguite?». Sam e Katelynn annuirono. Passando insieme tutto quel tempo, i progetti di ristrutturazione di Blake cominciavano a esser loro familiari quasi quanto a Jake. «Una volta che la squadra di Rick ha pompato fuori tutta l'acqua, ha trovato un fossato che taglia esattamente a metà tutto il sotterraneo. E lì, sul fondo del fossato, è saltata fuori una scala che scende dritta sottoterra». Jake smise di fissare il pavimento e alzò lo sguardo per verificare se gli ami-
ci lo stessero seguendo. Erano attenti e lui raccontò il resto. Disse della sua reazione viscerale dinanzi alla pietra. Del tunnel che lui e Rick avevano scoperto, di quell'esplorazione nelle tenebre sotterranee. Raccontò di una telefonata ricevuta poco prima da Blake e della richiesta di questi che assieme ai suoi uomini provvedesse a demolire il muro che ostruiva l'estremità della galleria per scoprire cosa ci fosse là dietro. «Che pensi di fare?», domandò Sam. «Esattamente quello che mi è stato detto di fare. Domattina butterò giù il muro per vedere che c'è dall'altra parte». «Vuoi che venga con te?», gli chiese Sam «Perché no? Però preparati a faticare. Tirare giù un muro di mattoni all'aria aperta e alla luce del giorno è un conto. Farlo sottoterra con una luce molto debole e in una galleria poco ventilata, è tutto un altro paio di maniche. Non sarà una passeggiata». Durante la conversazione, Katelynn era rimasta seduta tranquillamente, facendo del suo meglio per controllare la marea di sensazioni prodotta dalle rivelazioni di Jake. Un'inquietudine misteriosa le si srotolava nello stomaco come un serpente, fredda e famelica, suggerendole di tenersi alla larga da quella faccenda, di non turbare la quiete di ciò che riposava da così tanto tempo nelle viscere oscure di quel tunnel. Fu improvvisamente sicura che violarlo non avrebbe fatto loro del bene. Alla fine intervenne. «Pensi davvero che sia una buona idea scendere laggiù, Jake?», provò timidamente a domandare, neanche lei convinta dalla propria sensazione al punto da sentirsi d'insistere. «L'abbiamo controllato piuttosto bene oggi pomeriggio. Il tunnel è scavato nella roccia. Non c'è pericolo che ci crolli addosso», replicò, fraintendendo l'invito alla prudenza di Katelynn. Lei non riuscì a trovare un modo di esprimere la sua preoccupazione che non la facesse sembrare sciocca o superstiziosa, così lasciò cadere la cosa. Nella sua mente cercò una qualche spiegazione razionale per la paura che rapidamente la stava pervadendo, ma stabilì che non ve n'erano. Qualcosa sarebbe successo se loro fossero scesi là sotto, qualcosa di spaventoso. Lo sapeva, se lo sentiva nelle ossa. Mentre Katelynn si sforzava di mettere a fuoco le sue sensazioni, Jake e Sam si erano già accordati per vedersi la mattina seguente un po' prima delle sette. Dopo di che, la riunione si sciolse alla svelta. Il ritorno in macchina con Sam si svolse in silenzio.
Quando entrarono nel vialetto di casa di Katelynn e lui l'accompagnò alla porta, lei provò a insistere ancora una volta. «Ragazzi, dovreste rinunciare e lasciare che Blake ingaggi dei professionisti per esplorare quel tunnel. Cosa succederebbe se fosse pericolante e voi due restaste intrappolati laggiù?». Sam sospirò. «Non resteremo intrappolati, Katelynn. Hai sentito Jake. Il tunnel sta su da un bel po' di tempo. Un giorno in più non farà differenza, non ci cadrà in testa all'improvviso. Sei solo invidiosa di non poter venire con noi perché domattina hai scuola». Sorrise, senza rendersi conto di quanto la paura di lei fosse profonda. «Dai, va', entra in casa», le disse. «Ti racconteremo tutto domani a pranzo. Non ci saranno problemi. Vedrai». Si girò e scese i gradini allontanandosi. Katelynn rimase immobile, seguendolo con lo sguardo finché le luci posteriori dell'auto scomparvero dietro la curva in fondo alla strada. Nell'oscurità, si sentì rabbrividire. 5. Halloran Mentre Jake riferiva ai suoi amici della scoperta fatta quel pomeriggio, nella parte opposta della città si svolgeva un altro genere di festeggiamento. Kyle Halloran si stava ubriacando. Sedeva al bancone del Mikey's Place, facendo sembrare piccolo piccolo con la sua stazza lo sgabello imbottito, reggendo con le tozze mani carnose un boccale di birra gelata, la nona della serata. Il viso butterato dalla mascella squadrata rifletteva le emozioni che gli scorrevano sottopelle. Sedeva là, con indosso i jeans e la stessa maglietta macchiata di sudore che aveva portato per tutto il giorno mentre lavorava sotto il sole cocente, lasciando che la collera gli montasse dentro come il gas in un cadavere in decomposizione. Fanculo Jake! rimuginò furibondo. Mi faccio un culo così tutto il giorno per quel tipo e lui non mostra un minimo di riconoscenza? Cazzo, no! Portò violentemente il boccale alla labbra, senza accorgersi nei fumi dell'alcol che il vetro s'era incrinato sbattendo contro i denti. Tirò una lunga sorsata, scolando fino in fondo la birra. È la prima volta che chiedo un aumento, e che mi risponde? «Mi spiace Halloran, ma non lavori abbastanza da meritartelo», lo scimmiottò stridulo a voce alta.
Halloran sbatté sul bancone alcune banconote e si avviò barcollando fuori nell'aria notturna. Il freddo pungente penetrò i fumi della birra e acuì il suo furore. L'aver insistito quel giorno sulla richiesta di aumento gli era costato il licenziamento. Ora, mentre Halloran incespicava lungo la via, a malapena consapevole di dove si trovasse, i suoi pensieri si concentrarono su come farla pagare a Jake per la presa di posizione nei suoi confronti. Dopo aver meditato su molte ipotesi, ciascuna delle quali prevedeva pesanti conseguenze fisiche per lo stesso Jake, Kyle si fermò un attimo sotto un lampione cercando di capire dove si trovasse. Sul cartello davanti a lui c'era scritto LAMPLIGHTER LANE e gli ci volle un po' per rendersi conto che s'era incamminato in direzione opposta al suo appartamento. «Merda!», imprecò nel buio, voltandosi per tornare indietro. Girandosi, l'occhio gli cadde sulla sommità di una casa alla sua sinistra che si ergeva sopra la linea degli alberi. Era la tenuta dei Blake un tempo chiamata Stonemoor, proprio il posto dove aveva lavorato nelle ultime settimane. Vederla lo aiutò a mettere a fuoco i suoi propositi di vendetta, e un piano preciso cominciò a prendere forma. Nel pomeriggio aveva sentito qualcosa che avrebbe potuto usare contro Jake Caruso. Qualcosa circa la cantina... Poi gli venne in mente. La squadra di Cantelli ha trovato un passaggio segreto nel sotterraneo. Joey Henderson gliene aveva parlato durante la pausa pranzo, quel giorno. Al momento non l'aveva quasi ascoltato e ora, invece, avrebbe voluto essere stato più attento. Non era nemmeno sicuro se avessero parlato di un passaggio verso una stanza segreta o di un deposito oppure... La cripta di un tesoro. Si appigliò immediatamente all'idea. Per quale altro motivo qualcuno dovrebbe costruire una stanza sottoterra cui nessuno può accedere? Deve essere sicuramente per quello! Gli ci volle solo un attimo per mettere a punto una pensata per sfruttare l'informazione. Quando l'occasione bussa, solo lo scemo non risponde, rifletté, e io mica sono scemo. Ho proprio qui davanti a me un modo per fottere Caruso e contemporaneamente diventare ricco. Si guardò intorno, compiaciuto che nessuno stesse osservando, e poi si avviò per il bosco in direzione della tenuta. Dieci minuti dopo, era accovacciato accanto al capanno degli attrezzi a fianco della casa. Si assicurò con una rapida occhiata che quell'idiota di
Caruso non avesse assunto un guardiano notturno. Questo dimostra quanto sia stupido, si compiacque sarcasticamente Kyle. Uscì dal nascondiglio dirigendosi verso il capanno. Raggiuntolo, provò la porta. Chiusa a chiave. Nessun problema. Sapeva come affrontare la situazione. Kyle girò sul retro dell'edificio, dove la squadra dei muratori aveva ammucchiato il legname e i rottami rimossi dalla casa, oltre ad alcuni arnesi di scarso valore. Pescò dal mucchio un piede di porco. Halloran ritornò al capanno e fece leva con la punta del paletto nella fessura tra lo stipite e il blocco della serratura. Un colpo secco e la porta si spalancò con un rumore sordo. Kyle scivolò dentro. Gli bastarono pochi istanti per raccogliere quel che gli serviva: un paio di torce elettriche ad alta intensità, un piccone, una pala. La porta principale della dimora si arrese con ancor meno resistenza di quella del capanno. Una volta dentro, accese una delle torce per illuminare il percorso. La casa era alquanto distante dalla strada e chi, sano di mente, avrebbe potuto sbucare fuori a quell'ora? Era un luogo già abbastanza inquietante di giorno, figurarsi di notte. Nel momento stesso in cui entrò sentì venirgli la pelle d'oca alle braccia. Trovò le scale che portavano alla cantina e discese nel sotterraneo buio. Attraversò l'impiantito, nella melma sudicia che si appiccicava alle suole, nell'oscurità che lo circondava incalzandolo da tutte le parti. Se fosse stato sobrio, avrebbe potuto avvertire il silenzio di tomba che avviluppava la casa in un abbraccio soffocante. Avrebbe potuto percepire l'improvviso montare di una tensione quasi elettrica che riempì ogni fessura di quel silenzio come un'entità vivente, e che gli fece rizzare i peli sulla nuca. Ma rimase beatamente inconsapevole. Le fauci nere della scala che conduceva al sottosuolo si spalancarono improvvisamente nel pavimento davanti a lui, e dovette bloccarsi di colpo, evitando per poco di rotolare giù per i gradini. Il buio della bocca del tunnel sembrava ancora più spesso di quello che lo circondava e diresse il fascio di luce lungo gli scalini, fendendo l'oscurità con la precisione di un bisturi. Del pulviscolo vorticò nel fascio di luce e poté scorgere le tracce del passaggio degli altri che, prima di lui nella giornata, avevano rimescolato lo spesso strato di polvere accumulato sul fondo. Un senso vago di disagio gli trasudava lentamente dai pori. Ebbe l'im-
provvisa sensazione che qualcuno lo stesse osservando e si girò di scatto, puntando la luce nella direzione da cui era venuto. La stanza era vuota. Per un istante si gingillò con l'idea di abbandonare quel folle progetto e di andare a casa. Ma visioni di tesori danzarono davanti ai suoi occhi e l'ipotesi fu subito scartata. Era arrivato fin qui. Non c'è modo di fermarsi, a questo punto, pensò. Respirò profondamente e iniziò la discesa della scala, verso le tenebre. Nella stanza 310, il vecchio giaceva in quel regno crepuscolare che ondeggia tra il sonno e la veglia. Era sdraiato su un fianco, accovacciato in una posizione fetale, e dalle sue labbra leggermente dischiuse una sottile striscia di saliva cadeva sopra il cuscino. Ogni pochi istanti era squassato da spasmi, come se il corpo fosse attraversato da una scossa elettrica. I suoi occhi, dietro lo schermo delle palpebre chiuse, si muovevano avanti e indietro. Nei suoi sogni, era in piedi in uno stretto tunnel di pietra, poco più indietro e sulla sinistra rispetto a un uomo alto e massiccio che, a sua volta, era fermo davanti a un muro di mattoni che chiudeva il passaggio dove si trovavano. Le emozioni dell'uomo fluivano a ondate fuori di lui; era gonfio di collera e rancore. Era lì, intento ad abbattere la parete con un piccone, deciso ad aprirsi un passaggio per accedere dall'altra parte. Il vecchio osservò il giovane brandire ancora una volta il piccone e abbatterlo con le possenti braccia contro il muro con energia impressionante. Mentre il colpo calava, il tempo sembrò rallentare, e lui stette a guardare con stupore terrificato il piccone che si abbatteva silenziosamente. Poté vedere che la maggior parte della parete era già stata demolita e capì che, se l'uomo fosse riuscito a passare dall'altra parte, l'antico avversario sarebbe stato libero di camminare sulla faccia della terra. Non poteva permettere che ciò accadesse. Non volendo darsi per sconfitto, ma immaginando che forse era già troppo tardi, cacciò un urlo disperato, tentando contro ogni evidenza di ritardare quell'ultimo colpo. «Fermati!!!». Kyle esitò a vibrare il colpo, il manico gli scivolò dalle mani, e mancò poco che si riducesse in pezzi il ginocchio quando la pesante testa del piccone rimbalzò sulla parete e tornò indietro verso di lui.
«Vaffanculo! Potevi farmi azzoppare!», urlò furibondo mentre si voltava di scatto a cercare colui che aveva parlato, con una rabbia più forte della paura di essere stato scoperto. Tuttavia, quello che vide voltandosi gli strozzò l'imprecazione in gola. Il corridoio alle sue spalle era vuoto. «Ehi?», chiamò con voce tutt'a un tratto tremula. Il grido gli rimbalzò addosso dalla profondità del tunnel, spettrale eco di un sussurro. Ehi, ehi, ehi... «Chi c'è là?». Chi c'è là, là, là... «Merda!». Merda, merda, merda... Kyle si voltò nuovamente. «Devo essermelo immaginato», mormorò tra sé, cancellando l'incidente dalla propria mente con la sicumera dell'ubriaco. Vide che gli sarebbe bastato solo un altro colpo per abbattere la barriera e, mentre sollevava ancora una volta il piccone, la visione dell'oro prese a danzargli nel cervello. Vibrò una picconata tremenda. Il colpo andò perfettamente a segno. Con uno schianto fragoroso, le pietre davanti a lui cedettero, creando un'apertura di un mezzo metro di diametro. «Sì!», gridò eccitato, stavolta senza nemmeno far caso all'eco che rimbalzava nell'oscurità alle sue spalle. Un paio di minuti ancora e sarò un uomo ricco! Lasciò il piccone e recuperò la torcia che, per farsi luce, aveva appoggiato sopra una pietra lì vicino. La puntò nell'apertura. Un volto orribile, spaventoso gli si avventò contro sbucando dalle tenebre. «Cristo!», imprecò, vittima di un improvviso terrore che gli rendeva acuta e stridula la voce. Lasciò cadere la torcia, senza neppure avvertire il rumore del vetro che s'infrangeva al suolo, e impugnò il piccone brandendolo sopra la spalla, pronto a colpire la cosa se avesse provato a uscire dal buco. Kyle era troppo cocciuto per scappare. Attese nel buio per alcuni momenti, teso a captare ogni minimo suono proveniente dalla cosa davanti a lui. Tremava per la paura ma teneva la posizione, preparandosi a fracassare il volto orribile della cosa non appena avesse sporto fuori la testa.
Non accadde nulla. Dopo alcuni minuti, s'inginocchiò con cautela e si mise a tastare intorno ai suoi piedi alla ricerca di una delle altre torce che aveva portato con sé. Con il cuore che gli galoppava nel petto, si avvicinò lentamente all'apertura e proiettò la luce all'interno. L'immagine era sempre là e stava quasi per balzare all'indietro una seconda volta quando notò qualcosa che prima gli era sfuggito. Gli occhi della cosa erano ricoperti da uno spesso strato di polvere e sporcizia. «Ma che diavolo...», mormorò. Si fece ancora più vicino, infilando la testa nel buco, quasi a contatto con la cosa. Stavolta vide meglio e, dopo un attimo, prese a ridere sommessamente. La risata crebbe da uno sghignazzo trattenuto a un'esplosione sonora e incontrollata, finché a furia di ridere cominciarono a scendergli le lacrime. La cosa era una statua. Una statua del cazzo! rimuginò. Mi sono spaventato per una statua! La risata echeggiò tra le strette pareti del cunicolo, senza che si accorgesse dei picchi d'isterismo nel suo tono. Sentendosi assai meglio rispetto a pochi minuti prima, Kyle ritirò la testa dal buco che aveva creato e sollevò nuovamente il piccone. Con cinque minuti di lavoro rese l'apertura abbastanza larga da poterci passare attraverso. Muovendo la luce della torcia a esplorare la stanza, Halloran poté osservare che l'ambiente dove si trovava era poco più grande di tre metri per tre, la stessa distanza anche tra soffitto e pavimento. La statua sembrava essere l'unico oggetto presente. Le girò intorno, sollevando nuvolette di polvere. La statua era fatta di una sorta di pietra scura a lui del tutto sconosciuta. Per quanto potesse capire, sembrava di nessun valore, niente rubini al posto degli occhi o cose del genere. Dopo un'ulteriore occhiata più da vicino, la rimosse dai suoi pensieri e si voltò da un'altra parte. Era là per un tesoro, non per un'assurda statua di pietra. Il problema consisteva nel fatto che, per quello che poteva vedere, il resto della stanza era vuoto. Non sembrava neppure esserci un'altra uscita, eccetto quella che lui stesso aveva creato. E ora? Si fermò qualche secondo a riflettere, arrivando infine a convincersi che dovesse esserci un'altra stanza segreta nascosta all'interno di questa. Nes-
suno sprecherebbe tempo ed energie per scavare nella roccia durissima una stanza come questa solo per custodirci una brutta statua, o no? Dando le spalle alla scultura, cominciò a far scorrere le mani sulla superficie delle pareti, cercando leve o pulsanti nascosti che potessero attivare congegni d'apertura. Saggiò qua e là le pareti battendo col manico del piccone, l'orecchio teso a percepire echi che potessero indicare la presenza di una cavità. Era quello che facevano sempre nei film. Pensò che potesse andar bene anche per lui. Dopo quindici minuti di ricerche e malgrado avesse ripetuto la verifica di tutta la stanza per ben due volte, non aveva trovato nulla. Kyle si voltò a fronteggiare la statua, frustrato. Improvvisamente la stanza sembrò ondeggiare come una barchetta di carta in un mare burrascoso. D'istinto, protese una mano per sorreggersi, scoprendo però che la parete sembrava arretrare. Il suo equilibrio fu ulteriormente scombussolato. Incespicò e, prima di potersene rendere conto, cadde pesantemente a terra, con i polmoni svuotati dal duro impatto. Restò un poco dov'era, per riprendere fiato. Dopo un paio di minuti, si rese conto di un dolore acuto che s'irradiava dal palmo della mano destra. Tirandosi su a sedere appoggiato alla base della statua, si allungò con l'altra mano a recuperare la torcia elettrica sfuggitagli durante la caduta. Alla luce, si accorse di un taglio profondo che gli solcava il palmo destro. Devo essere caduto sopra il piccone, si disse, e una rapida occhiata in quella direzione alla luce della torcia gli rivelò una sottile striscia rossa sulla punta dell'attrezzo. Cambiò posizione, tentando in qualche modo di rimettersi in piedi. Riuscì solo a inginocchiarsi, prima d'essere sommerso da un'altra ondata di vertigini. Gli girò la testa, le pareti presero a vorticargli intorno e la torcia gli scivolò di mano, andando a infrangersi contro la base della statua con un rumore che gli suonò lontano. Il buio che all'improvviso avviluppò la stanza era pari a quello dentro di lui. Aveva perso conoscenza dal momento in cui il suo corpo s'era abbattuto al suolo. Con l'eco del suo urlo che gli rintronava nel cervello, il vecchio si svegliò. Il cuore incespicava nel torace martellando come un tamburo, provocandogli un acuto dolore al fianco sinistro. Per alcuni angosciosi momenti fu certo che il suo fragile corpo stesse per frantumarsi in mille pezzi.
No, pensò. Non adesso, non ancora, implorò silenziosamente. Sembrò che qualcuno l'avesse ascoltato, perché il dolore man mano diminuì e il battito cardiaco andò stabilizzandosi su di un ritmo più regolare. Respirando con minore difficoltà, sollevò la mano debolissima per tergere lo spesso strato di sudore che gl'imperlava la fronte. Il gelo nelle viscere e il suono dell'improvvisa risata di gioia che gli echeggiava nella mente, gli dissero tutto quello che c'era da sapere sugli effetti sortiti dal suo avvertimento. La bestia era libera. 6. Sottoterra Nelle prime ore della mattina successiva, Jake entrò con la sua jeep nel vialetto davanti a casa di Sam e diede due colpetti di clacson. Poi frugò nella borsa che aveva appoggiato dietro il sedile del passeggero e tirò fuori un bicchiere di caffè e una ciambella. Sam discese i gradini vestito con jeans e una felpa della Benton University, un paio di pesanti scarponcini da trekking ai piedi. Portava appese al collo due macchine fotografiche e un assortimento di obbiettivi. Un marsupio allacciato in vita era rigonfio di ulteriori attrezzature. «Cos'è tutta questa roba», domandò Jake mentre Sam saliva in auto. «L'indispensabile, Jake. Non puoi aspettarti che io vada incontro a quello che è probabilmente uno dei ritrovamenti più interessanti cui questa cittadina ha assistito da duecento anni a questa parte e non mi porti dietro qualche strumento per documentare l'evento, ti pare? Vorrei solo che quel cazzo di videocamera non fosse in riparazione, così l'avrei portata». Jake sorrise mentre passava caffè e ciambella a Sam e pescava nella borsa un'altra ciambella per sé. Non poteva certo biasimare l'amico per il suo entusiasmo; era egli stesso ansioso di scoprire cosa mai fosse quello che si era creduto di dover seppellire sotto il letto di un fiume. Nel poco tempo che gli ci volle per attraversare la città e raggiungere la dimora, Jake sentì crescere il suo stato di eccitazione. In fondo al viale di Stonemoor, Jake girò a sinistra per raggiungere il cantiere e parcheggiò di fronte alla sua roulotte, dove qualcosa catturò la sua attenzione. La porta del capanno degli attrezzi era spalancata e la si vedeva pendere sbilenca da un solo cardine. Jake grugnì di sorpresa e si avvicinò, tallonato da Sam. Jake aveva avuto precedenti esperienze di furti da altre parti, si era persino comprato una pi-
stola, che teneva nel cassetto della scrivania dentro la roulotte, per sentirsi un po' più sicuro quando lavorava da solo la notte, ma non si sarebbe mai aspettato qualcosa del genere a Stonemoor. Non c'era proprio niente di valore nel ricovero degli attrezzi. Che ci deve fare uno, con qualche vecchia pala e un paio di picconi? si ritrovò a chiedersi. «Perché mai qualcuno dovrebbe cercare di...», cominciò a dire Jake per bloccarsi subito dopo, gli occhi spalancati in un'improvvisa consapevolezza. «Il tunnel!», esclamò. Senza una parola, Sam si voltò e partì, con l'angoscia che altri l'avessero preceduto in ciò che lui considerava l'occasione di tutta una vita, ma Jake lo agguantò per un braccio. «Aspetta. Sei venuto per aiutare me, in questa faccenda». Lo piantò lì e si diresse al capanno, spingendo la porta di lato e scomparendo all'interno. Riemerse poco dopo con un paio di pale, un piede di porco e un piccone raccolti nelle braccia. Passò una pala a Sam e tenne l'altra per sé. Poi si avviò alla roulotte e, aperta la porta, vi entrò. Questa volta tornò fuori con un grosso anello di chiavi e due lampade a batteria. Si era infilato la pistola nella cintura dei jeans. «Ne avremo bisogno per poter vedere là sotto», disse indicando le lampade a batteria. «Non è stato ancora possibile allacciare delle luci». Attraversarono il cortile diretti alla porta principale. Camminando, Jake sentiva crescere la preoccupazione. Erano davvero pochi quelli a conoscenza della scoperta del giorno prima. A meno che qualcuno della squadra si fosse lasciato sfuggire qualcosa con gli amici, doveva per forza essere stato uno dei suoi uomini a provocare il danno che avevano appena visto. Dopotutto erano i soli a sapere esattamente dove fossero depositati gli attrezzi e cosa ci sarebbe voluto per scendere nel sotterraneo. Il sospetto che qualcuno fosse andato in cerca di quello che era nascosto nel tunnel fu confermato quando, salendo gli scalini con Sam, constatò che la porta d'ingresso era aperta per metà, quasi un invito a entrare. Questo lo irritò parecchio. A Blake sarebbe venuto un attacco d'ira quando gli avrebbe detto dello scasso, e Jake sperava ardentemente che nulla fosse stato rubato all'interno. Questo avrebbe peggiorato ancora le cose. Dio mio, fermami se trovo chi è stato, pensò truce. Dietro di lui, Sam scattava fotografie. Il click ripetuto dell'otturatore mandò Jake su tutte le furie. «La vuoi piantare, Cristo Santo?», lo aggredì aspramente. Sam abbassò giudiziosamente la macchina fotografica senza replicare.
Segni di forzatura come quelli del capanno erano visibili anche sullo stipite di questa porta e, osservando più attentamente, Jake capì che erano stati lasciati da un piede di porco. Per averne la certezza, prese quello che aveva in mano e lo fece aderire ai segni di effrazione. Combaciavano perfettamente. Osservando le condizioni del legno di quercia antica di cui era fatto lo stipite, Jake scosse il capo sconsolato. Aggiungiamo un'altra cosa alla lista di quello che deve essere sostituito, pensò tra sé e sé. Stava per entrare quando la voce di Sam lo fermò. «Ehi, Jake». Jake si voltò con uno sguardo interrogativo. «Non credi che faremmo meglio a chiamare la polizia?», gli chiese Sam, indicando con la testa verso la roulotte dove sapeva esserci un telefono. Jake ci pensò un istante. «Per ora no. Voglio prima dare un'occhiata intorno, cercare di farmi un'idea del danno che è stato fatto. Vedere se manca qualcosa». E voglio dare un'occhiata al tunnel, aggiunse tra sé. La porta aperta lo richiamava. Con un colpetto del piede la aprì del tutto, le parole di Sam gli avevano ricordato che non doveva alterare eventuali prove senza necessità, ed entrò. Sam lo seguiva da vicino. Il sole del mattino non era ancora abbastanza alto nel cielo da superare la cima degli alberi che circondavano la proprietà, e l'interno della casa era appena rischiarato da una luce fioca e malinconica. Per vedere chiaramente, Jake fu costretto ad accendere una lampada a batteria. L'ingresso sembrava intatto. «Aspettami qui un secondo», disse a Sam, e si affacciò nelle stanze sui due lati dell'atrio. Tutto sembrava a posto. Jake non voleva perder tempo a salire le scale di fronte a lui. Portavano al secondo piano e lassù non c'era comunque niente di valore. Del resto, per qualche misterioso motivo era certo che l'intruso non fosse salito. Era invece sceso di sotto. Al sotterraneo. Al tunnel. «Andiamo», disse Jake e attraversò l'ingresso per entrare nella sala da pranzo e da lì in cucina, fino alla porta che si apriva sulle scale della cantina. Tenendo alta la luce davanti a sé, scese. Una volta arrivato di sotto, scoprì che i suoi sospetti erano fondati. Il te-
lone posto a coprire le scale che portavano più giù nel sottosuolo era stato spostato. Un piede di porco era abbandonato lì vicino. Jake si avvicinò ai gradini con Sam incollato dietro. Con un gesto della mano gli fece segno di spegnere la torcia. I due rimasero fermi nel buio. Nessuna luce proveniva dal fondo delle scale Nessun suono raggiungeva il loro udito. Jake estrasse la pistola e si avvicinò all'amico. «Sembra che siamo soli, ma non corriamo rischi. Tieni la voce bassa e seguimi. Se ci imbattiamo nell'intruso, io lo tengo a bada mentre tu corri alla roulotte e chiedi aiuto». Sam strinse un po' più forte il badile che aveva in mano e annuì. Accesero le lampade e, muovendosi piano per non fare rumore, cominciarono a scendere i gradini a caccia dell'intruso. Percorsero l'intera lunghezza del tunnel e svoltarono l'angolo, trovandosi di fronte a un buco aperto nel muro che in precedenza bloccava il cammino. Jake vi si fermò davanti, fece luce all'interno e sbirciò dall'altra parte. Sam lo affiancò e aggiunse la luce della sua lampada a quella dell'amico. Un attimo dopo abbassò la lampada e impugnò la macchina fotografica. Scattò parecchie foto prima di girarsi verso Jake e chiedere: «Ora possiamo chiamarla, la polizia?». Jake annuì senza una parola. Di là dal muro, il cadavere di Kyle Halloran ricambiava il loro sguardo con occhi fissi e sbarrati. 7. Wilson Damon Wilson era di servizio a Harrington Falls quando arrivò la chiamata. Come sceriffo della contea di Algonquin, era responsabile per la sicurezza degli abitanti non solo di Glendale ma anche di Harrington Falls e di altre simili comunità montane dentro i confini della contea. Aveva due uomini ammalati, così stava coprendo i loro turni di persona, pattugliando con la sua Bronco. «Ci siamo, Centrale. Sono nei pressi». «Ricevuto sceriffo. Ci dovrebbe essere un certo Jake Caruso sul posto». «Dieci - quattro». Damon posò il radiomicrofono e si diresse alla tenuta di Stonemoor. Prima, quando era in forza a Chicago, le chiamate come questa erano un'evenienza abbastanza comune. Venivano spesso chiamati in edifici abbandonati e in posti desolati, specialmente durante i mesi estivi, quando il
fetore dei cadaveri in decomposizione disturbava persino gli abitanti dei quartieri vicini più turbolenti. Nei mesi invernali non andava così male; un corpo poteva rimanere steso nel buio per settimane senza essere scoperto. Ne aveva avuto la sua buona razione; questo era certo. Ma qui, a Harrington Falls? Non riusciva a ricordare l'ultima volta che si era verificato un crimine violento. A Glendale era leggermente diverso; un poco più moderna, più mele marce. Harrington Falls sembrava aver evitato tutto questo, annidata com'era in mezzo alle montagne. Qui le persone erano gente tranquilla. Se ne stavano per conto loro e, generalmente, erano rispettose della legge. A parte rumorose sbronze occasionali o furti di adolescenti, il servizio di pattuglia a Harrington Falls era considerato al riparo da incidenti. Il che rendeva la chiamata ancora più interessante. Quando Damon arrivò di fronte alla casa, vide due uomini seduti sul gradino più alto del portico, in palese attesa del suo arrivo. Jake guardò scendere dalla Bronco un uomo grande e grosso. Alto occhio e croce un metro e ottantacinque, doveva pesare bei centoventi chili. I capelli erano sale e pepe, così come barba e baffi. Il tutto corto e ben curato. L'uomo era nell'uniforme marrone del dipartimento dello sceriffo, con la pistola ben in vista alla cintola. Jake e Sam si alzarono per andargli incontro. «Uno di voi è Jake Caruso?», chiese Damon. Jake rispose: «Sono io», e tese la mano per salutarlo. «Damon Wilson, dipartimento dello sceriffo». Lo sceriffo strinse la mano anche a Sam. Rivolgendosi a Jake, chiese: «Se ho capito bene, avete trovato un corpo?». Jake annuì. «Giù in cantina». «Vi dispiace dirmi prima di tutto che stavate facendo qui». Jake spiegò allo sceriffo il motivo per cui si trovava lì quella mattina, risalendo a quanto era accaduto il giorno prima. Lo sceriffo ascoltò molto attentamente, prese ogni tanto qualche appunto, ma lasciò per il resto che Jake raccontasse la storia senza interromperlo. Quando Jake ebbe finito, lo sceriffo si rivolse a Sam e gli chiese se ricordasse qualche altro particolare. Lo sceriffo poi suggerì che Sam aspettasse fuori l'arrivo del medico legale per accompagnarlo sul posto, e chiese a Jake di portarlo dove si trovava il corpo.
I due salirono i gradini della casa, attraversarono l'ingresso e la cucina, fino a raggiungere le scale che scendevano al sotterraneo. L'odore di muffa e di marcio che proveniva da sotto investì Damon. Per un attimo appena ebbe una nitida visione dei corpi che per giorni giacevano in appartamenti abbandonati a Chicago, ricordi di un altro tempo, di altri luoghi. Mise immediatamente il tappo a quel particolare ricordo, prima che il vaso di Pandora della sua mente potesse tracimare. Chicago era lontana nel tempo e Damon desiderava che così rimanesse, per sempre. Jake si diresse giù per i gradini e Damon lo seguì. «Mi dispiace per la puzza. Quando abbiamo iniziato la ristrutturazione, questo livello era completamente sommerso. I miei uomini hanno pompato fuori l'acqua stagnante l'altra notte, ma è probabile che il puzzo rimarrà per un po'». «È così che avete trovato il tunnel?», chiese Damon. «Sì. C'era una grossa lastra di pietra in mezzo a un piccolo fossato scavato nel pavimento. Il tunnel era di sotto» Jake aveva lasciato le lampade laggiù quando lui e Sam erano ritornati alla roulotte per chiamare la polizia. Alla loro luce, Damon poté vedere il fossato dove gli uomini avevano lavorato. Quando si avvicinarono maggiormente, vide l'apertura che conduceva al tunnel. Jake si fermò e raccolse la sua lampada da dove l'aveva lasciata vicino all'apertura. Indicò la pesante torcia elettrica che lo sceriffo aveva con sé. «È meglio che la accenda». Lo sceriffo fu meravigliato dal tunnel. Sembrava essere stato realizzato da uomini, scavato nella roccia dura molto tempo addietro. La fatica che aveva comportato una simile impresa doveva essere stata incredibile. Perché mai qualcuno dovrebbe crearsi tutti questi problemi? si domandò. Comunque non ebbe molto tempo per pensarci su, dato che stavano giungendo rapidamente a destinazione. Davanti a loro, Damon poté vedere i resti del muro di mattoni che una volta bloccava il tunnel. Jake si fermò pochi passi prima, consentendo a Damon di superarlo. Damon si fermò proprio sul limitare della stanza e fissò il corpo. Poté stabilire che si trattava di un maschio bianco, di circa ventotto anni, che giaceva a faccia in su, parzialmente piegato sul fianco destro. Il volto dell'uomo era contratto in un'espressione d'orrore. Un braccio era bloccato sotto il corpo, l'altro giaceva inerte lungo un lato del basamento della statua. Nella luce incerta, Damon non vide alcun segno di ferite.
«L'ha trovato così?». Jake annuì. «Sono entrato nella stanza e gli ho sentito il polso, ma non ho toccato o spostato nulla». Damon fece luce nel resto del locale. Gli unici oggetti erano una lampada, appoggiata alla parete opposta, e un piccone a poca distanza dai piedi del cadavere. Per il resto, la stanza era vuota. Subito dopo, Damon puntò la sua torcia sulla statua. Alta due metri buoni, era scolpita interamente in una qualche pietra scura lucida che brillava come olio nero nel cono della sua torcia. Sembrava raffigurare un demone, o forse un gargoyle. Due lunghe corna ritorte sporgevano dalla fronte. La bocca orrenda da serpente era spalancata e rivelava una doppia corona di denti taglienti come lame di rasoio. Il busto della creatura era di forma umanoide, ma coperto da migliaia di minuscole squame, come il manto di un drago in miniatura. Artigli di sembianza infernale spuntavano dalle quattro dita delle mani e dei piedi. Ali come quelle di un pipistrello erano attaccate al centro della schiena. La lavorazione era superba e dava alla creatura un senso di vitalità. A Damon sembrava che in qualsiasi momento potesse scendere dal basso piedistallo da cui si ergeva. «È davvero brutta», disse Damon. Jake non rispose. Sarebbe stato il meno se la statua si fosse limitata a essere brutta. Ma c'era qualcosa di più, qualcosa di indefinibile, che mise immediatamente Damon in allarme. Era una sensazione più che altro viscerale, la sensazione di qualcosa di sbagliato che promanava dalla cosa, a turbarlo a qualche primordiale, profondo livello. Damon sentì i corti capelli rizzarsi sul retro del collo e immediatamente rivolse la sua attenzione al corpo sul pavimento. Gli ci volle qualche attimo, ma infine lo riconobbe per quello di Kyle Halloran. Kyle era stato uno dei poco di buono regolarmente coinvolti in risse nei bar, giù a Glendale. Più di una volta Damon aveva dovuto sbatterlo in cella per la notte, con l'accusa di ubriachezza molesta e disturbo della quiete. Era il classico tipo che stava fuori dai guai per un mese, forse anche per due, e poi finiva per tornare in cella con le solite accuse. A parte l'espressione del suo volto, non c'erano altre evidenti tracce di violenza. Damon, inoltre, non fu in grado di rinvenire alcun segno di colluttazione nella polvere lì intorno. Droga, fu la prima cosa che gli venne in mente. Il che avrebbe spiegato la mancanza di lesioni esterne. L'ipotesi poteva anche giustificare l'espressione dell'uomo. Chissà in cosa ci si può imbattere durante le allucinazioni provocate
dalla droga? «Lo riconosce?», chiese lo sceriffo. Jake annuì. «Kyle Halloran. L'ho assunto a tempo la scorsa settimana. Un individuo volgare. Il mio caposquadra mi ha detto che è uno scansafatiche, così ieri l'ho licenziato». «Qualche idea su cosa poteva essere venuto a fare quaggiù?». «Non saprei nemmeno dirle come ne abbia scoperto l'esistenza. Non faceva parte della squadra che lavorava qui sotto». Lo sceriffo annuì. Gli sembrava abbastanza ovvio. Halloran ne aveva sentito parlare da un altro operaio, aveva immaginato che ci potesse essere qualcosa di valore nascosto nel tunnel e aveva deciso di verificare in prima persona.Probabilmente per tutta la settimana aveva seguitato a strafarsi di ogni tipo di robaccia che gli era capitata sottomano e alla fine ne aveva assunta più di quella che era in grado di sopportare. Damon tirò fuori il suo taccuino e buttò giù le sue impressioni assieme a dati sommari relativi alla scena. Aveva imparato da tempo a prendere nota di ogni cosa sulla scena di un delitto; non si può mai sapere che cosa può rivelarsi importante, più avanti. Quando ebbe terminato, si inoltrò per la prima volta nella stanza. Jake osservò lo sceriffo compiere un'accurata ispezione del corpo. Damon si piegò sul cadavere e tastò il collo dell'uomo per sentire eventuali pulsazioni. Si accovacciò ed esaminò il cadavere, facendo attenzione a non toccare nient'altro. Dopo alcuni istanti, buttò giù qualche appunto e un veloce schizzo della scena. Jake riconobbe i connotati di un uomo metodico e paziente. Quando lo sceriffo ebbe finito con il cadavere, rivolse la sua attenzione alla statua, concentrandosi su di essa con la medesima pignola accortezza che aveva mostrato per il corpo. Jake non avrebbe mai voluto trovarsi nella stanza né con la statua, né col cadavere. L'eccitazione iniziale s era spenta immediatamente quando lui e Sam avevano scoperto il corpo di Kyle. Ora, tutto ciò che desiderava fare era risalire le scale fino alla vivida luce del sole e dimenticare quello che aveva trovato. Mentre percorreva all'indietro il passaggio, i suoi occhi colsero un barlume di movimento. Si girò sulla soglia, fissando la statua, osservandone gli occhi, osservandone le mani. Dev'essere stato lo sceriffo.
Le statue non si muovono. Appena si voltò, lo sceriffo lo chiamò a voce alta. «Dove porta, questo?», domandò Damon, indicando qualcosa alle sue spalle che Jake non poteva vedere con la statua di mezzo. «Dove porta, cosa?», chiese Jake. Fece un passo a sinistra e rimase a bocca aperta per la sorpresa di fronte all'apertura che si vedeva dal lato opposto della stanza. «Da dove diavolo è saltata fuori?», si chiese Jake. Damon guardò attentamente Jake esaminare la porta e capì che non stava fingendo. Ne aveva davvero ignorato l'esistenza. La porta di ferro era ricoperta da uno spesso strato di polvere e sporcizia che la mimetizzava, in quella luce incerta, con il muro stesso. Nell'orrore del ritrovamento del corpo di Kyle ai piedi della statua, non era stata notata. Lo sceriffo intendeva lasciare che fossero quelli della scientifica ad aprire la porta, una volta che avessero minuziosamente controllato la stanza. Non aveva tenuto conto della curiosità di Jake. Prima che lo sceriffo potesse fermarlo, Jake appoggiò le mani contro la porta e spinse con tutta la sua forza. La porta si aprì cigolando verso l'esterno. La luce del sole inondò la stanza. Senza una parola, Damon fece qualche passo, affiancando Jake. I due uomini si ritrovarono a contemplare al di là della porta il prato accuratamente rasato del Cimitero di Forest Green. «Cazzo santo», se ne uscì Jake in un sussurro. Lo sceriffo fu d'accordo. Cazzo santo è appropriato. Dobbiamo aver percorso circa duecento metri sottoterra, superando la proprietà dei Blake e quella adiacente. Non s erano resi conto di essere arrivati così lontano. S'incamminò fuori, nella luce del sole, con Jake appresso. Si girarono all'unisono a guardare la soglia. Risultava essere l'entrata di un mausoleo di marmo bianco costruito sul fianco di una piccola collina. Sull'architrave dello specchio della porta era inciso un nome. Sebastian Blake. 8. Resurrezione Dentro la tomba.
Movimento. Cominciò come nulla più di un lieve spostamento nel buio, un cambiamento nell'aria fetida che permeava la struttura sepolta, una stimolante sensazione di movimento più percepita che vista, come se la pressione si fosse improvvisamente abbassata. Col passare dei minuti, il movimento divenne gradualmente più consistente fino a potersi vedere a occhio nudo, se ci fosse stato qualcuno a guardare. Una macchia di tenebra, più nera perfino della fitta oscurità che pervadeva ogni anfratto e fessura della tomba, si staccò dalle ombre di un angolo e fluttuò come una cortina di foschia verso il centro della stanza. S'agitò in ampie, pigre volute, ribollendo e fermentando come la pozione di una strega, roteando e ripiegandosi su se stessa. La foschia divenne caligine; la caligine si fece nebbia e ancora fremette, e ondeggiò. A ogni rotazione, raccoglieva lentamente linfa dalla tenebra che la circondava. Quando la nuvola divenne di parecchi centimetri di diametro, pian piano avviluppò la statua nel suo abbraccio nero come l'inchiostro. La tenebra cominciò ad attaccarsi alla pietra modellata finemente, dapprima lenta, poi più veloce, come se l'intelligenza che la pilotava si risvegliasse gradualmente da un lungo sonno, i sensi in sintonia crescente con la realtà materiale. Il sangue umano che prima era stato sparso funzionò da catalizzatore, procurandogli le sostanze necessarie ad assumere nuovamente una sembianza corporea. L'oscura unione delle forze che l'avevano sorretto tanto a lungo fece il resto. Una luce situata all'incirca al centro del torace della cosa scintillò attorno alla statua, un minuscolo bagliore rosso della dimensione e della forma della brace di una sigaretta. A ogni pulsazione diveniva lentamente più luminosa, poco a poco, fino a raggiungere l'intensità di un fuoco attentamente tenuto a freno. Non c'era calore. La luce misteriosa sembrava emanare un gelo innaturale che si effondeva e rendeva l'aria nella tomba diversi gradi più fredda di quanto fosse stata fino a un attimo prima. La luce rosso sangue guizzò sulle sembianze della statua, facendo risaltare i suoi denti in un bagliore sinistro. La nube pulsò e si gonfiò come per fondersi alla figura, fino a divenire una massa semisolida di spuma nera, spalmata sulla pietra a ricoprirne ogni centimetro di superficie visibile. La luce divenne improvvisamente più forte, così abbagliante che avreb-
be accecato chiunque nella stanza col suo inquietante bagliore rosso. Ma là non c'era nessuno, e così la trasformazione andò avanti. Inosservata. Indisturbata. Inavvertita da tutti, eccetto da colui che l'aveva scatenata e dall'altro che aveva cercato disperatamente d'impedirglielo. Un fetore saturò improvvisamente l'aria, come il puzzo di un vapore nauseante di zolfo. Insieme a esso la luce deflagrò in un lampo che persistette per parecchi, lunghi attimi. Quando la luce scomparve e tornò l'oscurità, la bestia che era stata nascosta per centinaia di anni si erse al centro della stanza, là dove fino a poco prima s'innalzava la statua. Nel buio gli occhi gialli emanarono un vivido bagliore. La bestia rimase per un minuto o due ferma dov'era, godendo della sua ritrovata libertà. Il flusso nelle sue vene del sangue rubato, le provocò un pulsare ritmico alle orecchie, e dopo i secoli di silenzio persino questo lieve rumore interiore sembrò un tuono. Gioì. Era viva. La creatura un tempo conosciuta come Moloch s'incamminò verso la porta, bramosa di evadere dai confini della fredda e umida struttura di pietra dov'era rimasta imprigionata. Si mosse con ferma determinazione; i primi passi lenti e maldestri, le giunture delle ginocchia e delle anche sembravano arrugginite dall'immobilità. Dopo qualche altro passo, i tessuti cominciarono a ricordare e a ristabilire un ritmo corretto. Laddove i movimenti erano stati dapprima scoordinati, a scatti, ora diventavano man mano fluidi, composti ed eseguiti con selvaggia grazia felina. Percorse il perimetro della stanza. Una, due, tre volte, rinnovando a ciascun passo la sua familiarità col movimento fisico e con le leggi che lo governano. Mentre camminava, lavorava con le braccia, piegando i gomiti avanti e indietro, ruotando le spalle, flettendo i muscoli dei bicipiti. Serrò e disserrò ripetutamente i pugni. Moloch aprì e richiuse parecchie volte la mandibola, mordendo l'aria per sentire il colpo tagliente dei suoi denti, abbastanza possente da ridurre un osso in poltiglia. Provò piacere nel tendere e rilassare i muscoli della schiena e delle gambe. Il rumore degli artigli che grattavano la ruvida pietra sotto i piedi gli
provocò un brivido di piacere. Moloch camminò a grandi passi da una parte all'altra della stanza. Con la poderosa spinta di un braccio muscoloso, spalancò la porta. Questa si schiantò contro il muro esterno con un sonoro fragore metallico. Percepì a malapena il rumore, tanto rimase ipnotizzato da ciò che vide attraverso la porta spalancata. Là, pochi passi fuori, c'era la libertà. I rumori l'assalirono da ogni parte; il sussurro del vento, il palpitare di minuscoli cuori nel boschetto. Rise, e il suono sgorgò dalle profondità della sua gola con una gioia isterica, echeggiando nella notte. Era un suono tutto meno che umano. Delle luci brillarono in lontananza. Vedendole, i pensieri della bestia si rivolsero alla terribile, devastante fame che s'era risvegliata nel profondo del suo organismo. Troppo a lungo era rimasta chiusa dentro quella pietra, imprigionata e lasciata a morire sola nelle tenebre. Troppo a lungo era sopravvissuta nel crepuscolo che separa questo mondo dal prossimo, la sua vita prolungata dalle forze oscure che l'avevano imprigionata laggiù. Ora era libera. Libera di agire. Libera di saziarsi. Distese le braccia. Le ali coriacee che erano ripiegate sulla schiena vennero spiegate, frusciando nella brezza con il suono di un lenzuolo sbattuto. Caricando i muscoli delle sue gambe squamate, Moloch si diede una spinta possente e librò il suo corpo in alto, nella notte oscura. 9. Una morte spiegata? Edward Strickland, medico legale della contea di Porter, fece un passo nelle gelide mura dell'obitorio e accese le luci. Benché fosse tarda sera, Strickland si accingeva a eseguire l'ultimo lavoro per la notte, un lavoro che si era volutamente tenuto da parte perché altri impegni non gli impedissero di dedicargli un'attenzione completa. Strickland era un bell'uomo poco più che sessantenne, ed era medico legale da sedici anni. Malgrado raccontasse sempre scherzosamente che l'unica ragione che gli aveva consentito di conservare il posto era dovuta al fatto che nessun altro lo voleva, era un professionista competente desideroso, prima di tutto, che il lavoro fosse fatto e fosse fatto bene. Era vicino
alla pensione, ma non era in alcun modo pronto per essa. Il suo lavoro era per lui uno stimolo costante, e lo perseguiva con una devozione quasi fanatica. Trovarlo a lavorare fino a notte inoltrata, come si apprestava a fare in quest'occasione, non era circostanza insolita. Fuori orario, il silenzio nell'obitorio era profondo e quieto, rassicurante, assai differente dal ritmo frenetico che caratterizzava l'attività durante le normali ore di lavoro. Vivide luci fluorescenti illuminavano la stanza nella quale stava lavorando, invadendo le pareti dipinte del tradizionale colore verde e il pavimento di linoleum lucido. Un corpo giaceva sul tavolo mortuario davanti a lui, con la pelle di una pallida tonalità grigia, il colore della morte. Una vistosa etichetta bianca era legata all'alluce del piede destro del cadavere e riportava il nome del defunto, l'età e la causa approssimativa del decesso. Strickland diede un'occhiata veloce al talloncino. «Halloran, Kyle, maschio caucasico, 25 anni, probabile overdose», lesse tra sé, canticchiando forte a bocca chiusa un brano di Mozart che si diffondeva nella stanza dagli altoparlanti a soffitto, a volume alto quanto bastava a essere udito. Le suole di gomma delle sue scarpe scricchiolarono quando girò intorno al corpo che aveva davanti, scrutandolo con attenzione per rilevare qualche segno esterno di lesioni, dettando a voce alta le sue annotazioni perché il microfono sopra il tavolo potesse riceverle per la trascrizione. Quando pensò di aver visto tutto quello che c'era da vedere, si diresse al vassoio degli strumenti che era sistemato lì accanto e prese un bisturi. Il freddo metallo della lama brillò di colpo nella luce. «Ora, mio defunto, giovane amico», disse al cadavere mentre s'accingeva a effettuare una prima incisione nella carne leggermente elastica, «vediamo quali segreti stai nascondendo». Tre ore dopo aveva terminato. Inizialmente, quando aveva letto l'etichetta, Strickland s'aspettava che l'autopsia sarebbe stata una parte abbastanza semplice del lavoro. Ma, ora che aveva finito, capì che questo era un caso tutt'altro che privo di complicazioni. Scoprì parecchie cose che non avevano alcun senso e che, oltre a turbarlo, solleticavano anche la sua curiosità professionale; fatto che non accadeva tanto spesso. Il corpo sul tavolo, rappresentava per lui un insulto. Determinato ad andare in fondo alla cosa, compose il numero dell'ufficio di Wilson. «Pronto?». «Damon, sono Ed. Ero sicuro che ti avrei trovato lì. Non vai mai a ca-
sa?». Wilson scoppiò a ridere. «Certo, più o meno alla stessa ora in cui ci vai tu». I due uomini si conoscevano da anni, da prima che Damon se ne andasse a Chicago. Avevano frequentato insieme le stesse scuole superiori, avevano anche corteggiato alcune delle medesime ragazze. La loro amicizia s'era rinnovata ancora, una volta che Damon era tornato a casa. «Che c'è?», chiese Damon. «Ho appena terminato quell'autopsia sul corpo del giovane che hai tirato fuori dalla cripta nella proprietà della famiglia Blake». «Halloran. Kyle Halloran». Ed grugnì. «Sì, quello. Ho pensato che dovessi sapere che non è un caso di quotidiana, banale routine. Alcuni dei dati che ho ricavato sono piuttosto strani». «Strani divertenti o strani misteriosi?». «Strani misteriosi». «In che senso?», chiese Damon. «Cazzo, sembrava un caso apri-echiudi. I testimoni hanno detto che il tipo quella sera aveva bevuto e sniffato abbastanza coca da abbattere un elefante. Dopo tutta quella roba, uno sforzo fisico esagerato ed ecco un bell'arresto cardiaco». «Bene, per prima cosa, non è stata un'overdose ad ammazzarlo». Damon rise. «Sì, come no. Prova a dirlo al suo cuore e ai suoi polmoni. Stanno ancora cercando di capire che cosa li ha fulminati». «È proprio così, Damon. I test tossicologici rilevano consistenti tracce di benzocaina, l'individuo quella sera si era prima fatto di cocaina, in quantità sufficiente a spedire parecchia gente dritta sulla luna. Aggiungi a questo un tasso alcolico nel sangue da 1.8 e, dannazione, puoi esser certo che quando se ne è andato volava alto come un aquilone. Probabilmente non s'è accorto di niente. Ma non sono state la droga o la sbronza a ucciderlo». Ed fece una pausa, e poi disse: «È morto dissanguato». «Cosa?», chiese Damon, scioccato. «Mi hai sentito», rispose Strickland. «È morto dissanguato». «Ma non è possibile, Ed. Non c'erano ferite sul corpo e sicuramente non abbiamo trovato nulla sul posto che indicasse una cosa simile. Per un individuo di quella stazza, che perde così tanto sangue da morirne, avremmo dovuto trovare un lago. Invece no, il posto era asciutto come un osso». «Non mi avevi detto che il pavimento di quella tomba era di terra battuta? Non potrebbe darsi che sia semplicemente stato assorbito dal terreno e
che chiunque era sulla scena non se ne sia accorto?». «Andiamo, Ed. I miei uomini sono migliori di così. E oltretutto, sono io quello che ha risposto alla chiamata. Non c'era traccia di sangue. Nada, niente, zero carbonella. Mi segui?». Ed sospirò. «Sì, ti ascolto. Anch'io mi ci sto arrovellando. Ma c'è di peggio. Non riesco a immaginare come sia successo. Non c'erano ferite sul corpo, nulla eccetto un taglio abbastanza superficiale sul palmo di una mano. Probabilmente era doloroso e sanguinava un po', ma di certo non abbastanza da uccidere qualcuno». «Merda, Ed, non ci voleva». Damon scosse il capo, perplesso. Sembrava che stesse per venirgli una dannata emicrania e adesso proprio non ne aveva bisogno. Poi Ed aggiunse qualcos'altro, ed era così assurdo che Damon pensò di non averlo sentito bene. «Me lo ripeti un'altra volta?». «Ti ho detto, quell'individuo non ha soltanto perso abbastanza sangue da ucciderlo, lo ha perso tutto». Damon sentì improvvisamente la pelle d'oca sulle braccia. «Cosa intendi per TUTTO?». «Esattamente quello che ho detto. Tutto. Sai come funziona. Una volta che il cuore s'è fermato, il sangue di norma ristagna nella parte più bassa del cadavere, rendendo la carne in quella zona di color rosso scuro. Eccetto in questo caso, in cui ciò non è accaduto. Non ho potuto riscontrare in nessuna parte del corpo alcun segno di lividezza post mortem. Se non mi avessi detto tu della posizione in cui è stato trovato, non sarei stato in grado di immaginarla. E quando l'ho aperto, non ho nemmeno dovuto drenarlo. Avrei potuto eseguire la stessa operazione sul tavolo della mia cucina e poi mangiarci sopra. Tanto era pulito». Mentre ascoltava, Damon si era involontariamente irrigidito sulla sua seggiola. Qualcosa non quadrava; era fin troppo ovvio. In qualche profondo, primitivo livello, Damon fu improvvisamente certo che le cose si stavano complicando parecchio. «Ehi, Damon, ci sei?». «Sì, sì. Sono qui. C'è dell'altro, Ed?». «Mi dispiace. È tutto qui, temo». «Ok, grazie per la telefonata. L'ho apprezzata. E ascolta, mantieni il riserbo con la stampa per un po', d'accordo?». «Naturalmente, Damon. A risentirci presto».
Per la prima volta nella sua lunga carriera, Edward Strickland si rese conto che non voleva restare da solo con un cadavere. Damon riagganciò il telefono e s'appoggiò allo schienale della sedia, con lo sguardo fisso sulla parete ma senza realmente guardarla. I suoi pensieri erano altrove. Morto dissanguato? Come? L'intera cosa era assurda. Il piccone che avevano trovato era alcuni metri distante dal cadavere. Non c'era modo in cui avesse potuto ferirsi da solo. E se anche lo avesse fatto, come si fa a morire dissanguati per un taglio sulla mano? Era semplicemente impossibile. Ripensò agli avvenimenti di quella mattina, ricostruendo mentalmente la scena. Il cadavere giaceva nella piccola stanza buia ai piedi di quella statua mostruosa, senza che intorno ci fossero tracce di scontro o di lotta, con una sola piccola ferita sul corpo. Ecco perché era stato così sicuro che si fosse trattato di un'overdose o di un attacco di cuore. Tutti gli anni di lavoro in polizia lo avevano spinto in quella direzione. Ho trascurato qualcosa? Non lo pensava affatto. Quelli della scientifica avevano operato con la consueta accuratezza arrivando sul posto, quando li aveva chiamati, ed era rimasto costantemente dietro di loro a controllare. Era sicuro che il lavoro fosse stato svolto in modo esauriente e con professionalità. Ora avvertiva la fastidiosa sensazione di non aver visto tutto ciò che avrebbe dovuto, di essersi lasciato sfuggire qualcosa d'importante. Damon era un poliziotto che credeva alle sensazioni. Più di una volta, nel corso di precedenti indagini, aveva raccolto una sensazione da certi aspetti del caso. Niente più che quella, solo un'impressione, una sorda, viscerale reazione totalmente priva d'attinenza con qualcosa che potesse collocare in una sequenza logica. Aveva imparato a prestarvi ascolto, scoprendo che il più delle volte aveva fatto bene. Sapeva che si trattava semplicemente del suo inconscio che collegava insieme le cose in un modo che la sua razionalità aveva trascurato, e che le sue "sensazioni" erano per l'appunto la maniera di suggerirgli di scuotersi e di stare attento. Qualcosa circa l'immagine mentale della scena del crimine l'arrovellava; qualcosa su cui non poteva puntare il dito, e così, invece di andare a casa come voleva fare prima che Ed telefonasse, si diresse al suo schedario d'archivio e tirò fuori la cartella del caso. Prese le fotografie della scena del
crimine. Osservò ciascuna di esse in lenta sequenza, analizzandole alla ricerca di qualcosa che potesse aver trascurato. Le immagini sembravano identiche ora come prima. Il cimitero, la tomba, il cadavere. Nulla più. Raccolse le poche foto che raffiguravano soltanto la statua, fissando il volto scolpito nella pietra con una strana combinazione d'ammirazione e ripulsa. Doveva ammettere che si trattava di un bellissimo pezzo d'arte, se a uno piace quel genere di cose, il che non era il suo caso. La cura dei dettagli nell'opera era incredibile. Ogni più piccolo particolare era stato reso con precisione, dalle squame che ricoprivano il volto agli artigli ricurvi che s'allungavano dalle zampe. In tutto e per tutto, era un'opera d'arte sbalorditiva. A Damon non piaceva per niente. Ricordare come s'era sentito sotto il suo sguardo di pietra, lo rendeva inquieto persino ora. Se non fosse stato superiore a queste sciocchezze, avrebbe giurato che quella dannata cosa gli aveva tenuto gli occhi addosso per tutto il tempo che era rimasto là sotto. Solo a guardare quegli occhi nelle fotografie, la sensazione si riaffacciò. La bestia- sembrava ricambiare il suo sguardo, con uno sprazzo di qualche intelligenza diabolica nelle sue pupille di pietra. C'era qualcosa nelle fotografie, qualcosa d'importante che aveva trascurato. E che ancora non riusciva a vedere. Già, ma cosa? Stanco e abbastanza frustrato, rimise le fotografie nella cartella e le ripose nel suo schedario. Per quel giorno, ne aveva avuto abbastanza; stare a contemplare le foto per un altro paio d'ore non l'avrebbe portato da nessuna parte. Era ormai notte. Mentre attraversava l'area del parcheggio diretto verso l'auto, Damon provò l'inquietante sensazione di non essere solo. Si guardò intorno. Sotto l'orribile luce gialla dei lampioni al vapore di sodio, nulla si muoveva. L'area era vuota. Scrollò le spalle, respingendo la sensazione. Eccesso di lavoro e una fantasia troppo fervida, ecco cos'era. Eppure sul fondo della sua mente, indugiava un'immagine. Due occhi di pietra, che guardavano...
10. Una morte nella notte «Mi porteresti un altro pezzo di quella torta, dolcezza?». Nella cucina, Martha Cummings guardava attraverso la finestra interna che dava sulla stanza a fianco. Suo marito George era seduto sulla sua poltrona preferita davanti al televisore. Lo sguardo di lei era colmo d'affetto, come se accarezzasse il corpo lievemente sovrappeso e la chierica all'apice della sua testa. Scosse il capo alla richiesta in segno di finta costernazione, ma fu nondimeno ben lieta d'accontentarlo. Martha aveva quasi settant'anni ed era pienamente appagata dalla propria esistenza. Il tempo era stato buono con lei. Donna abbondante, florida, non particolarmente carina per gli standard attuali, ma dotata di una straordinaria carica di simpatia, aveva sposato l'attuale marito dopo due matrimoni non riusciti, all'età di trentacinque anni. Aveva una bella casa, un marito affettuoso, e abbastanza denaro da rendere felici entrambi per il resto delle loro vite. Era molto più di quanto avesse potuto chiedere, e di questo era molto riconoscente. Naturalmente, c'erano anche i suoi gatti. Per l'orgoglio e la gioia di Martha, i gatti avevano dimostrato di essere un accettabile surrogato all'impossibilità d'avere bambini. Riversava su di essi tutta la cura, l'amore e l'attenzione che avrebbe potuto dare a dei figli. Erano un costante fastidio per suo marito, malgrado li sopportasse con dolcezza per amore di lei. I felini gironzolavano liberamente per casa. Lei aveva perso il conto di quanti ce ne fossero attualmente, avendo smesso di contarli più o meno dopo sedici. All'inizio erano stati solo cinque, ciascuno col proprio nome, ma dopo un po' aveva rinunciato a nominarli individualmente, riferendosi a tutti semplicemente come Kitty. Loro non sembravano farci caso e così era molto più semplice. Portò la torta a suo marito, assieme a un bel bicchiere di latte. «Ecco, caro», disse, posandogli un rapido bacetto sulla pelata. Questo lo innervosì un po', essendo consapevole della perdita dei capelli, ma i suoi occhi le lasciarono intendere che andava tutto bene. Tornata in cucina decise di preparare una torta di mele che avrebbe cotto il giorno dopo, ed era nel bel mezzo dell'operazione quando George annunciò che stava andando a letto. «Hai intenzione di rimanere qui tutta la notte o mi raggiungi?», chiese con un'espressione significativamente maliziosa in volto. Lei arrossì. A dispetto della loro età avanzata, i due godevano nel buio
di una buona intesa più di una volta la settimana, come se fossero una coppia di teenager dagli ormoni impazziti. Non importava se nove volte su dieci la cosa non funzionava. A contare era il desiderio, che recentemente pareva essere aumentato. Sapere che suo marito dopo tutti quegli anni ancora la desiderava, la faceva sentire perfidamente peccaminosa, e quello, da solo, valeva tutto il disturbo. Lei lo guardò con occhi lascivi. «Sarò di sopra tra pochi minuti. Se sarai ancora sveglio quando arriverò, vecchio arnese, forse potremo trovare qualcosa che ci tenga svegli ancora un po'». Mosse le mani come per scacciarlo. «Ora vai e lasciami finire, altrimenti stanotte dormirò sul sofà, e finirai per restare a bocca asciutta». George le diede un bacetto veloce e scomparve in fretta su per le scale, compiacendosi del potere che esercitava sulle donne. Martha ritornò alla sua torta. Il suo ritmo era più veloce di quanto non fosse pochi minuti prima. Mezzora più tardi, mentre stava riponendo la torta nel frigorifero dove sarebbe rimasta finché lei, al martino, l'avrebbe messa in forno, sentì provenire dal cortile antistante un prolungato, sottile lamento. Martha si fermò, china davanti alla porta aperta del frigorifero, con la torta in mano, la testa piegata da una parte. La casa attorno a lei era silenziosa, l'unico rumore era il ticchettio dell'orologio del nonno, in sala da pranzo. Dopo alcuni istanti d'attento ascolto, decise che il rumore era stato solo nella sua testa. Frutto dell'ora tarda e della sua inquieta immaginazione. Devi aver visto troppi di quei film dell'orrore, vecchia ragazza, si disse bonariamente, e spinse la torta sul ripiano. Si raddrizzò e chiuse il frigo, voltandosi verso il lavandino per prendere una spugna e pulire il piano di lavoro. Fu allora che sentì di nuovo il grido, un urlo acuto che istintivamente le fece incassare la testa tra le spalle. Fece un passo verso la finestra sopra l'acquaio che dava sul cortile, ma poi esitò, bloccandosi. Che cosa c'è là fuori? pensò impaurita, mentre immagini di assassini psicopatici armati d'ascia le fluttuavano nel cervello. All'improvviso non fu più certa di voler scoprire l'origine di quel grido. E se fosse stato solo un trucco per farla avvicinare alla finestra? Che faccio se guardo fuori e trovo qualcuno che sta guardando dentro? Non appena quel pensiero le attraversò la mente, fu colpita dalla strana sensazione che là fuori ci fosse davvero qualcuno che la stava osservando.
Osservando. E aspettando. Martha si girò e andò svelta verso le scale, desiderando di essere dovunque ma non da sola in quella stanza. Voleva salire e svegliare George. Lui avrebbe saputo come affrontare la situazione. Avrebbe saputo cosa fare. Era a metà delle scale quando un altro grido raggiunse le sue orecchie, e questa volta non ci furono dubbi sulla sua natura animale. L'immagine di un gatto imbrattato di sangue la folgorò e, nell'impeto di materna protezione che l'accompagnava, la paura scomparve. Uno dei suoi piccoli aveva bisogno di lei. Spinta dall'ansia per i felini di cui era responsabile, Martha recuperò il proprio controllo. Andiamo, vecchia ragazza, si disse. Va' là fuori e vedi cosa sta succedendo. Non c'è alcun bisogno di starsene acquattata in cucina. Dopotutto, quando è stata l'ultima volta che la polizia ha dovuto lavorare davvero per guadagnarsi la paga in questa piccola città sonnacchiosa? Il tasso di criminalità era così basso che, qualche mese prima, le autorità cittadine avevano pensato di demolire la locale stazione di polizia ausiliaria per far posto a un nuovo supermercato e avevano deliberato diversamente solo dopo che era venuta fuori una sistemazione migliore. Assassini psicopatici armati d'ascia? Non qui a Harrington Falls. Confortata dal suo raziocinio, Martha raggiunse con calma il guardaroba all'ingresso, dando un'occhiata alla sua vestaglia da casa e alle pantofole. Non era il caso che i vicini la vedessero gironzolare in giardino in quello stato, così si mise addosso un lungo impermeabile e cercò le sue scarpe. Dopo un attimo, ricordò che le aveva lasciate di sopra, vicino al letto. Per prenderle avrebbe rischiato di svegliare George. «Le pantofole dovranno bastare», disse ai coniglietti rosa sui suoi piedi, e agitò le dita dentro di esse, ridacchiando al pensiero di quanto si sarebbe sentita sciocca se qualcuno dei suoi vicini l'avesse vista così. Prelevò una scopa con un pesante manico di legno dalla rastrelliera dietro la porta dello sgabuzzino. Impugnandola come una mazza da baseball, si diresse all'ingresso. «Non temere, Kitty», disse dolcemente, «mammina sta arrivando». Fuori la bestia lasciò cadere a terra il corpo del gatto, poi si leccò il sangue dagli artigli, assaporandone il sapore agrodolce. Improvvisamente un rumore attrasse la sua attenzione.
Interruppe il lavoro di pulizia e scrutò attraverso i rami. Da dove era accucciata, sopra il grande vecchio olmo che dominava il cortile frontale, aveva una chiara visuale dell'abitazione. Vide la porta di casa aprirsi e una donna affacciarsi sulla veranda che si estendeva per tutta la lunghezza della casa. Aveva qualcosa di lungo e sottile sopra una spalla. Gli occhi della bestia si dilatarono nell'attesa. Ora che l'antipasto era andato, il piatto principale faceva la sua comparsa al momento dovuto. Decidendo che voleva divertirsi un po' prima di soddisfarsi, la bestia si calò lentamente al suolo. Nell'oscurità, Moloch sorrise. Martha era in piedi nella veranda, scrutando nell'oscurità di fronte a lei. La notte era tranquilla. Soffiava un vento leggero che scuoteva le foglie degli alberi vicini in un coro di mormorii. La luna ancora non s'era levata e il buio attorno a lei appariva fitto e totale. Non le piaceva. Ritornò indietro nel vano della porta d'ingresso e pigiò l'interruttore per accendere la luce della veranda, ma non successe nulla. Provò ancora, con lo stesso risultato. Dev'essere saltata la lampadina, pensò. Proprio al momento giusto! Prese nuovamente in considerazione l'idea di svegliare suo marito, ma la scartò subito. Poteva cavarsela da sola. «Qui, Kitty. Qui, Kitty, Kitty», chiamò dolcemente muovendo qualche passo sull'impiantito. Il vecchio legno sotto i suoi piedi scricchiolò debolmente. «Qui, Kitty, Kitty. Vieni da mammina». Solo il vento le rispose. Martha attraversò la veranda fino ad arrivare al limite dei gradini. Il prato all'inglese si stendeva davanti a lei, un grande tappeto verde ammantato di ombre oscure. La notte era stranamente silenziosa, l'abituale sinfonia di rane e grilli era assente. Il fatto che non avesse più sentito ripetere l'urlo serviva solo ad aumentare il suo nervosismo. Scrutò nelle tenebre davanti a sé. Le luci dalle case dei vicini di quando in quando trapassavano il fitto fogliame, generando ombre che danzavano ai bordi del suo campo visivo.
Più di una volta credette di scorgere dei movimenti, ma quando guardava direttamente in quel punto, non c'era nulla. Quando discese i pochi gradini verso il vialetto di pietre che conduceva alla strada, un debole, furtivo fruscio raggiunse il suo udito. Si fermò immobile, ad ascoltare. Dopo un attimo lo senti di nuovo. Proveniva da un gruppo di cespugli alla sua sinistra. Cautamente, si avvicinò di qualche passo. «Qui, Kitty», chiamò dolcemente. I cespugli frusciarono ancora. Avanzò più vicina, ora solo a pochi centimetri, avvertendo la fresca umidità che dall'erba carica di rugiada le era penetrata attraverso il feltro delle ciabatte fino alla pianta dei piedi. Il fruscio arrivò nuovamente, questa volta accompagnato da un miagolio lamentoso. Il suono fece sorridere Martha e in risposta abbassò il manico della scopa mentre il sollievo la pervadeva. Era stato uno dei suoi gatti, dopo tutto. Povero piccolo, probabilmente è rimasto intrappolato in una siepe e non è capace di venir fuori, pensò. Appoggiando la scopa sul prato, avanzò piano per gli ultimi passi non volendo spaventare la dolce creaturina e allungò entrambe le mani. «Piano piano, cucciolo», disse, «mammina è qui per aiutarti». Con molta delicatezza, spostò gli arbusti e introdusse la testa nello spazio che aveva creato. Non ebbe nemmeno il tempo di gridare. Quando Moloch ebbe finito, si mise sotto il braccio ciò che era rimasto del corpo e si voltò verso la casa. Il suo pasto non era ancora terminato. C'era un altro umano all'interno. Poteva sentirne nella mente il rumoroso battito cardiaco e dal tipo di risonanza capì che si trattava di un maschio. Quel suono lo rese bramoso. Quando cominciò a camminare lentamente verso la porta d'ingresso rimasta aperta, il suo corpo s'ingobbì tanto che i talloni del cadavere strusciarono sul prato alle sue spalle, e cominciò a ridere. Una risata bassa, agghiacciante. Una risata che sarebbe suonata solo parzialmente umana, se là attorno ci fosse stato qualcuno ad ascoltarla.
11. Leggende dal passato A sera inoltrata Sam si ritrovò a terminare prima del solito i suoi giri alla casa di cura. I pazienti erano tranquilli quella notte, le loro richieste relativamente poche, così quando ebbe finito i suoi controlli s'avviò dall'atrio verso l'ultima stanza sulla sinistra, impaziente di raccontare a Gabriel gli avvenimenti della mattinata. Gabriel lo stava aspettando e Sam prese subito posto sulla solita sedia vicino alla finestra. Questa volta i ruoli s'invertirono, perché era Sam a narrare a Gabriel gli eventi di quella mattina con Jalce. Gabriel ascoltò tranquillo tutto il racconto, senza mai interrompere, anche se si protese in avanti con interesse evidentemente acuito mentre Sam descriveva le condizioni della statua che avevano trovato nel tunnel. Scosse la testa mestamente quando Sam parlò del ritrovamento del corpo di Kyle, e per un istante Sam pensò di vedere negli occhi di Gabriel l'umido luccichio delle lacrime trattenute. «Piuttosto stupefacente, non pensi?», chiese Sam quando finalmente ebbe terminato. «Sì, effettivamente, Sammy. Ha del fiabesco. Dimmi, la polizia che intende fare adesso?». Sam ci pensò su un momento, e si rese conto che non ne aveva idea. Lo sceriffo aveva detto a Jake di stare alla larga dalla tenuta, o il suo amico intendeva riprendere i lavori di ristrutturazione il mattino successivo? Non ricordava di aver sentito alcuna discussione in proposito, ma immaginava che, trattandosi della scena di un crimine, il lavoro avrebbe dovuto essere sospeso almeno per qualche giorno, e tanto disse a Gabriel. «Pare che tu abbia avuto una mattinata piuttosto eccitante, mio giovane amico. Tanto eccitante che i miei racconti sembrano, al confronto, così noiosi e piatti che forse per stasera possiamo dimenticarcene, non credi?». Sam scosse la testa. «Non ci pensare nemmeno, Gabriel. Abbiamo praticamente tutta la notte per parlare, e non ho nessuna intenzione di perdermi una delle tue storie». Tutte le volte che faceva visita alla stanza di Gabriel, il vecchio aveva un racconto da somministrargli, ed erano sempre così incredibilmente interessanti che Sam s'era talvolta ritrovato a guardare al suo stesso lavoro con un'aria di rassegnazione, giudicandone i testi al confronto insignificanti. Gabriel lo fissò intensamente per un momento, come per valutare la sin-
cerità della reazione di Sam, e acconsentì con un sorriso. «Dimmi, Sammy, come pensi che accadde che l'Uomo si lasciò alle spalle la vita nomade e iniziò a insediarsi in un'area, passando da una società di cacciatori a una basata sull'agricoltura e sulla vita domestica?». Era facile. Sam aveva imparato la risposta anni prima alle scuole secondarie. «Quando i grandi animali cominciarono a estinguersi e gli uomini crebbero di numero, per sopravvivere fu necessaria una fonte più costante di cibo. Divenne impossibile spostare grosse comunità attraverso estensioni tanto vaste per inseguire i branchi di animali, così si dedicarono a un approvvigionamento di cibo più stabile sotto forma di qualsiasi raccolto che potessero coltivare». «E come impararono a fare questo?», chiese Gabriel. «Ah, be', suppongo che lo abbiano fatto d'istinto». Era una risposta fiacca, e Sam lo sapeva, ma era l'unica che avesse. Non aveva mai considerato la questione prima di allora, avendo accettato la risposta standard che la sua istruzione gli aveva impartito, ed essendosene accontentato. Guardò Gabriel, con le sopracciglia inarcate interrogativamente. «Te lo dirò io come fecero, Sam. Ricevettero un aiuto». «Aiuto?». «Sì, aiuto. Aiuto da una specie che era venuta prima di loro e aveva imparato a farlo da sola. Vedi, i tuoi libri di storia ti spiegano soltanto le nozioni fondamentali. Come l'Uomo lentamente si adattò, lasciandosi alle spalle le sue usanze ancestrali. Ma non è ciò che accadde realmente. Pensi davvero che l'umanità riuscì a fare tutto da sola?», chiese Gabriel, e per la prima volta Sam avvertì qualcosa di più di una semplice sana allegria nella voce del suo amico. Per un attimo pensò che ci fosse anche una punta di arroganza. «Migliaia di anni fa, prima che l'Uomo si evolvesse dalla sua condizione primordiale, ci fu un'altra era, fu chiamata l'Era della Creazione, e in quel tempo altre creature governavano la terra. I più saggi, i più moderati tra loro erano conosciuti come gli Anziani. Furono il collegamento più importante nella transizione dell'uomo dalla brutalità alla civilizzazione. Gli Anziani erano apparentemente umani, a tal punto che se tu oggi ne vedessi passare uno per le strade non noteresti alcuna differenza. Forse la tua mente e la tua anima potrebbero notare qualcosa, perché gli Anziani erano diversi. Erano più civilizzati, molto più in pace con se stessi e con il mondo attorno a loro di ogni altra specie, da quell'epoca lontana fino ai nostri
giorni. Se tu non fossi completamente anestetizzato dalla piattezza del mondo nel quale ora vivi, potresti riconoscere le differenze tra le nostre specie». Gabriel tacque per un attimo e nel silenzio Sam fu colpito dalla strana idea che Gabriel stesse parlando di sé, che fosse vissuto e avesse camminato tra gli Anziani. «Essi si servirono della concordia per creare una grande civiltà che si espanse sul pianeta. Edificarono città meravigliose, piene di gioia e di luce, le cui torri scintillanti si protendevano verso i cieli con grazia e vigore, e a tutti coloro che le osservavano lasciavano intendere che quello era un popolo da rispettare. Un popolo da amare. Alcuni tra gli Anziani presero in simpatia quelle creature simili a scimmie che erano i progenitori dell'Uomo. Lentamente conquistarono la loro fiducia con l'offerta di cibo e altri doni. Gli Anziani iniziarono a istruirli, scoprendo presto che parecchi di loro erano dotati di una rudimentale intelligenza distinta dalle altre creature selvagge. Elevare queste creature dal livello delle bestie e dar loro qualcosa di più divenne ben presto una missione per gli Anziani». Gabriel si girò a guardare Sam, i suoi occhi brillavano intensamente. Estrasse la mano da sotto le coperte e afferrò il polso di Sam. «Pensaci, Sam! Un'intera specie che si dedicava a migliorare la vita di un'altra. Quale speranza devono aver posseduto! Quanta gioia! Che mondo meraviglioso per viverci!». Gabriel allentò la presa e si lasciò andare indietro sui cuscini. «Questo significò la loro decadenza, la loro rovina». Sam era desideroso di saperne di più. «Cosa vuol dire "la loro rovina"?», chiese. «L'Uomo si rivoltò contro di loro? Li distrusse?». «Non direttamente. Vedi, c'era un'altra specie che competeva con gli Anziani per la supremazia. Queste creature, munite di ali e vagamente somiglianti a rettili, erano l'opposto degli Anziani, piene di crudeltà e di rabbia, ma non meno intelligenti. Esse predavano le razze inferiori. Si chiamavano NaKarat, ma siccome era loro abitudine piombare giù dal cielo buio della notte per attaccare le prede, questo fece loro guadagnare il soprannome di "Ombre della Notte". Cacciavano molte specie di creature, ma prediligevano la caccia a quegli umani primitivi più di qualsiasi altro tipo di selvaggina. L'Uomo aveva più intelligenza, e per questo possedeva un più complesso e profondo senso della paura, ed era proprio della paura che le Ombre della Notte andavano a caccia. Si nutrivano di carne, ma era
la paura che le corroborava, la paura che appagava il loro distorto bisogno di spiritualità. Laddove gli Anziani cercavano di aiutare gli umani, le Ombre della Notte non volevano altro che lasciarli sguazzare nella loro condizione primitiva. Erano bestiame, nulla di più, e le Ombre della Notte li trattavano come tale, allevati, chiusi in recinti e cacciati per il sostentamento che potevano assicurare». «E così, che cosa accadde?». «Ci fu la guerra, Sam. La guerra. Gli Anziani non potevano starsene semplicemente a guardare ciò che accadeva. Presero le armi contro le Ombre della Notte e giurarono che il conflitto non sarebbe cessato fino a quando gli umani non fossero stati liberi e non fosse stato loro permesso di prosperare come s'addice a una specie intelligente. Dove una volta regnava una coesistenza pacifica, ora c'era un odio tra razze. Grandi eserciti marciavano fuori dalle loro città. Eserciti guidati da coloro che più tardi sarebbero diventati leggende Michael, Uriel, Gabriel perfino - marciarono verso i campi di battaglia. Le Ombre si lanciarono giù a incontrarli, in numero tale che l'azzurro brillante del cielo venne offuscato dalle loro sagome». Sam poté vedere tutto con gli occhi della sua mente, colmando i dettagli con la sua immaginazione di scrittore. Vide le armate degli Anziani marciare in guerra, le corazze dorate scintillare alla luce del sole. Immaginò resistenze eroiche contro incalcolabili moltitudini, le armate del Bene che trionfavano su quelle delle Tenebre, omettendo per convenienza che la guerra non è mai così semplice o incruenta. S'accorse improvvisamente che era calato il silenzio. Gabriel stava seduto e lo studiava. Sam si sentiva a disagio sotto l'intensità di quello sguardo, ma desiderava ascoltare la fine. «Chi vinse?», chiese. Gabriel rispose con un amaro, tirato sorriso. «Non vinse nessuno, Sam. Infuriavano battaglie su battaglie, con i migliori di entrambe le specie che giacevano a imputridire sui campi di battaglia cosparsi di morti sotto la luce accecante del sole. Le città crollarono sotto gli assalti e le buie caverne delle Ombre della Notte furono conquistate e distrutte. Le perdite da entrambe le parti furono ingenti. Tuttavia ancora si combattevano nella loro ostinazione, la guerra continuò, non per le nobili ragioni per cui era iniziata, ma per puro odio e per vendicare tutti quelli che erano caduti prima. Ogni uomo, donna o bambino, da entrambe le parti, s'unì alla lotta. Ben presto, quella che un tempo era stata una gloriosa civiltà divenne una cata-
strofica rovina. I pochi sopravvissuti da entrambe le parti videro la distruzione e lamenti funebri s'alzarono per quello che era ormai defunto nel mondo. Continuarono a combattere finché rimasero troppo pochi perché le specie potessero sopravvivere. Sia gli Anziani che le Ombre della Notte diminuirono di numero, condannati all'estinzione dalla loro stessa dissennatezza. Dalle ceneri dei loro conflitti uscì fuori l'Uomo, poiché aveva osservato e imparato mentre infuriava la battaglia. Liberi dall'unico predatore che li aveva veramente decimati, gli Uomini si moltiplicarono rapidamente. I più saggi tra loro ricordarono gli insegnamenti che gli Anziani avevano impartito e lentamente condussero gli altri nel lungo cammino verso la civilizzazione». In quel momento il cercapersone di Sam ronzò, segnalando che un altro paziente sul piano aveva bisogno di lui. «Dannazione!», imprecò, non avendo alcuna voglia di andarsene. Come se conoscesse i pensieri di Sam, Gabriel sorrise e disse: «Vai Sammy. Va tutto bene. Sono certo che avremo altre occasioni per parlarne». Sam lo ringraziò per il racconto e scivolò fuori dalla porta, pensando agli Anziani e al sacrificio che avevano compiuto per la razza umana, sempre che quella storia fosse vera. Dietro di lui, in quella stanza solitaria in fondo a sinistra, l'ultimo esponente di una specie tutt'altro che dimenticata fece un altro stanco sorriso. Era fatta. I semi erano stati piantati. Restava solo da vedere se avrebbero dato dei frutti. Dopo tutto quel che era accaduto quel giorno, Jake non aveva voglia di restare da solo. Sam era al lavoro, e raggiungerlo per raccontargli tutto era quindi fuori discussione. Sebbene a Sam fosse consentito di ricevere visite, specialmente durante il turno di notte quando nessun altro era lì nei paraggi a dirgli qualcosa, Jake non aveva voglia di farsi qualcosa come quarantacinque minuti di scarrozzata fino a Glendale. Una rapida occhiata all'orologio gli disse che Katelynn era probabilmente ormai a casa, così girò la sua jeep in quella direzione e attraversò la cittadina diretto verso la casa di lei. Quando si avvicinò all'inizio del suo vialetto, vide che era seduta sul grande dondolo nella veranda. «Ciao. Sembri stanco», gli disse quando prese posto al suo fianco.
«Non ne hai idea», replicò. «Ehi, è nuova?». Indicò la pietra rossa che portava al collo appesa a una catenina d'oro. «L'amico di Sam, Gabriel, me l'ha spedita oggi pomeriggio con un biglietto che diceva che era il suo modo per ringraziarmi per avergli dedicato del tempo stamattina. Gli ho telefonato e gli ho detto che non potevo accettare una cosa così costosa, ma mi ha convinta con molta dolcezza a tenerla». Sorrise. «Così, al diavolo! Com'è andata la mattinata? Cos'è successo quando è arrivata la polizia?». «Questa è la parte più strana, Katelynn. Lo sceriffo ha risposto alla chiamata in prima persona. Sembra che sia un tipo a posto. Dopo aver sentito il nostro racconto, mi ha chiesto di portarlo nel sotterraneo, nel punto dove avevamo trovato il corpo. Ci siamo arrampicati attraverso il buco che Kyle aveva fatto nel muro e ci siamo ritrovati in una grande stanza dalle pareti di pietra. Dentro, il corpo di Kyle giaceva ai piedi di un massiccio gargoyle di pietra. Una delle cose più orrende che ho visto». Jake rabbrividì al ricordo. «Mentre lo sceriffo controllava il corpo, mi sono guardato un po' in giro e ho trovato un'altra porta su una delle pareti laterali. La situazione deve avermi assorbito completamente, perché l'ho aperta senza riflettere sul fatto che stavo alterando la scena d'un crimine. La porta conduceva al cimitero limitrofo. È venuto fuori che il muro di mattoni nel tunnel era in realtà la parete posteriore del sepolcro che apparteneva a Sebastian Blake, e la porta che ho scoperto ne era l'entrata esterna». Gli occhi di Katelynn mandarono un bagliore d'interesse. «Come sai che era la tomba di Sebastian?». «C'era il suo nome inciso proprio sopra l'ingresso». Katelynn stette qualche istante a rimuginare, cercando di vedere i fatti alla luce di quanto aveva appreso nella sua ricerca. Le tornò in mente la storia sconclusionata che Gabriel le aveva raccontato, ma non era pronta a credere a qualcosa di così folle. Almeno non ancora. «Un tunnel segreto che porta dalla casa alla cripta di famiglia, Jake? Sembra uno dei racconti fantastici di Sam». «Non scherzo. Lo sceriffo s'è incavolato perché ho aperto la porta, ma gli è passata abbastanza in fretta. Penso che fosse innervosito quanto il sottoscritto da tutta la faccenda». «Che pensi sia successo a Kyle?». «Non lo so», ridacchiò Jake. «Sam ti racconterebbe probabilmente che un'antica maledizione s'è levata a reclamare la sua prima vittima».
I due parlarono per un'altra ora prima di darsi la buonanotte, senza mai rendersi conto di quanto il commento di Jake fosse davvero andato vicino alla verità. 12. La Pietra di Sangue Il sogno inizia in modo abbastanza innocente. Nel sonno, Katelynn cammina con Jake al fianco in un parco di divertimenti. Immagini e suoni si susseguono in un caleidoscopio frenetico. Luci lampeggianti, ruote girevoli, il richiamo rauco di un imbonitore. Salgono sui Seggiolini Volanti, poi sulla Nave Vichinga. Jake vince per lei un orsacchiotto buttando giù delle bottiglie di latte con una palla. È il tipico sogno, che salta da una scena all'altra senza un reale collegamento, anzi, dando in qualche modo a tutte il medesimo significato. Improvvisamente, una luce rossa lampeggiante si fa largo dal lato opposto di quel carnevale. Una luce così vivida, così persistente che Katelynn ne è irresistibilmente attratta. Jake svanisce nel buio alle sue spalle mentre lei si allontana dalla sua portata. La luce la trascina avanti, e la dissonanza intorno a lei scivola nell'oblio, come se tutta la sua attenzione fosse legata all'inseguimento di quel bagliore persistente. In realtà, Katelynn si muove e si rigira sotto le lenzuola, con la pietra rosso vermiglio intorno alla gola che pulsa di luce. Continua a dormire e il carnevale si dissolve, rimpiazzato da una spessa, grigia foschia che le turbina attorno in pigre spirali, muovendosi e agitandosi. La luce brilla davanti a lei, ora più vicina, nascosta in qualche luogo nelle profondità della nebbia. Poi Katelynn inciampa mentre cerca di raggiungerla. La foschia si sposta e Katelynn si ritrova di fronte alla luce sospesa, immobile nell'aria. Brilla vividamente, tagliando l'oscurità, pulsando di vita soprannaturale. Katelynn vede il suo braccio alzarsi da solo e allungarsi per toccarla... Si solleva alta sopra la terra, trasportata in su come un aliante lanciato verso la bufera. Il vento è freddo, e sbatte leggermente sui suoi fianchi in una carezza setosa. Il cielo attorno a lei è buio con pesanti nuvole cariche di pioggia che si estendono fino all'orizzonte e oscurano la luce del pomeriggio, il che a lei fa piacere. La bufera si avvicina velocemente, senza preavviso, e lei gode delle opportunità che può offrire.
Si tuffa verso il basso, cavalcando una delle selvagge correnti della tempesta in una rapida, nauseante discesa che la fa precipitare di parecchie centinaia di metri in pochi attimi, mentre l'aria le urla nelle orecchie con un sibilo stridulo, bestiale. Si riprende facilmente, volando ora appena sopra le cime degli alberi, seguendo il percorso che vede sotto di sé, sapendo che era spesso utilizzato da coloro di cui va alla ricerca. Un movimento attrae la sua attenzione. Si sposta più in basso, ora solo a pochi centimetri da terra, e piega sulla destra per intercettarlo, qualunque cosa sia. Un secondo o due e la cosa appare alla sua vista. È un'antilope, con lunghe corna ritorte in cima al capo e un manto marrone-dorato. È parte di un branco, che appare alla sua vista quando lei volteggia sulla testa del primo animale. Accortisi della sua presenza, cominciano a girare in tondo, nervosi ma non terrorizzati. Essendo in gruppo, aspettano tutti insieme di vedere che cosa lei farà, studiandola attentamente con le teste rivolte in alto. Comunque lei ha uno sport migliore questa notte, e plana sulle loro teste senza dar loro altra preoccupazione. Riguadagna un po' d'altitudine e utilizza le correnti più calde per volare e controllare i movimenti là sotto nella piana. A Ovest, si può scorgere una porzione scura di terra inaridita, e lei ne prende nota con una sorta di soddisfazione spietata. I suoi nemici una volta vivevano là, in una grande e disordinata città che si ergeva come una fortezza contro la sua razza, ma erano infine caduti nel corso di un'epica battaglia. Le vie di quella città erano rosse del sangue di coloro che erano stati sbranati quella notte. Non molto tempo dopo aver superato la città, riconobbe quello che stava cercando. Un'esile colonna era in cammino lungo la strada, poco più che delle macchioline in movimento, da questa altezza. Lei aveva cacciato qui prima di allora e sapeva di aver trovato il suo obiettivo. Scese in picchiata e contò un gruppo di quattordici individui che si spostavano in coppia, nel modo che gli Anziani avevano loro insegnato. In questa maniera ottenevano un discreto livello di protezione, riuscendo qualche volta a schivare un attacco con l'aiuto degli animali a quattro zampe che viaggiavano insieme a loro. Non accadeva spesso, ma dopotutto non era male valutare la situazione prima di attaccare. Vide che un altro Na'Karat stava seguendo la pista dello stesso gruppo, un grosso maschio, che rimaneva da parte, discosto, in osservazione proprio come lei. Dalla agitazione del gruppo là sotto, si erano ovviamente
accorti di lui e stavano cercando di raggiungere un luogo riparato prima che attaccasse. Che stupido, pensò. S'è fatto scoprire troppo presto e adesso sta cercando di rimediare all'errore. Perderà l'opportunità, se non attacca subito. Decise di agire prima di lui. Volò in alto e cominciò a girare intorno al gruppo. Sotto, il bestiame si ritirava rapidamente nei propri ranghi, muovendosi per formare un ampio cerchio con i più deboli al centro e i più forti sul bordo, proprio come gli Anziani avevano loro insegnato. Non sarebbe servito a niente. Ne individuò uno disorientato, uno giovane, a giudicare dalla taglia, decine di metri lontano dal gruppo, che si muoveva lentamente. Sorrise, con la lingua che dardeggiava tra i denti. Ecco il prescelto. Ripiegò le ali e scese in picchiata verso terra. La sua vittima era a circa sei metri dal gruppo quando lei colpì. Spalancando le ali, usò la resistenza del vento per rallentare bruscamente la discesa, così che sembrò sbucare dal nulla direttamente di fronte a lui. Come si aspettava, rimase per un attimo paralizzato sul posto. Era il tempo che le bastava. Ruotò una delle braccia in un veloce arco accecante, con gli artigli di ciascun dito snudati. Gridò di soddisfazione quando la carne si lacerò, il sangue sprizzò, e il lezzo del dolore invase l'aria... Katelynn si svegliò urlando nel suo letto. Capì subito di aver avuto un incubo; il cuore le rimbombava nel petto e il corpo era madido di sudore. Comunque conservava solo un vago ricordo di cosa s'era trattato e anche quello lentamente sfumò mentre lei cercava di recuperare il controllo di sé. Si alzò e andò in bagno. Con un asciugamano imbevuto d'acqua fredda si terse la parte alta del corpo e si spruzzò un po' d'acqua in faccia. Il battito lentamente ritornò normale. Quando si mise di nuovo a letto, il sogno non c'era più. S'era dissolto tanto rapidamente quanto la rugiada del mattino sotto il sole estivo. Cinque minuti dopo s'era addormentata. Era stato il primo dei sogni, ma non sarebbe stato l'ultimo. Dall'altra parte della città, la bestia si rigirò nel sonno, poiché il suo so-
gno era disturbato da una presenza indesiderata. Tuttavia durò non più di un momento e la creatura non si svegliò mai del tutto, preferendo sprofondare nei ricordi di un altro tempo e di un altro luogo. Non diede alla presenza alcun'altra considerazione. 13. Orribili scoperte Il trillo del telefono lo svegliò. «Parla Wilson». «Scusi il disturbo, signore. Ma abbiamo una cattiva notizia». Damon ascoltò per alcuni attimi e poi riappese. Si vestì e uscì in meno di dieci minuti, usando sirena e lampeggiante mentre saliva le colline verso Harrington Falls. Quando prese la discesa di Chestnut Street, vide subito l'attività che ferveva attorno alla casa in fondo all'isolato. La casa era un faro, splendente nell'oscurità, che lo chiamava urlando, chiedendo la giustizia che lui poteva offrire, ordinandogli di vendicare quelli che ancora giacevano silenziosi al suo interno. Sebbene fosse ancora a mezzo chilometro di distanza, poteva vedere la casa chiaramente. Si distingueva dal resto perché era l'unica dell'isolato con tutte le finestre illuminate, come una torcia fiammeggiante in un campo vuoto, e si avvicinò riluttante. L'indicibile era accaduto. Per la prima volta in più di vent'anni c'era stato un omicidio a Harrington Falls. Damon non voleva vedere che cosa giacesse in attesa all'interno di quelle quattro mura, non desiderava sentire l'odore del sangue appena versato o vedere le ferite, non voleva fissare occhi senza vita e stupirsi di ciò che essi avevano visto in quegli ultimi, pochi, preziosi momenti prima della morte. Malgrado la sua rassegnazione continuò, solo perché era il suo lavoro. Non c'era nessun altro a farlo. Era andato a letto solo pochi minuti prima che arrivasse la telefonata e, mentre posava il ricevitore, si era reso conto di non essere affatto sorpreso di sapere che qualcuno era stato ucciso. Per tutta la sera, da quando aveva lasciato l'ufficio era stato nervoso, coi sensi tesi, incapace di rilassarsi e riposarsi come solitamente faceva dopo una giornata di lavoro; sentiva la conversazione avuta con Stickland ripetersi in continuazione nella sua mente, come se ci fosse stato un registratore Top Forty. Era quasi come se
stesse aspettando che accadesse qualcosa. Quando arrivò, vide che la casa era arretrata rispetto alla strada, su un appezzamento fittamente boscoso. Sul viale d'accesso c'erano parecchie macchine della polizia, con i lampeggianti blu che davano all'intonaco bianco della casa una smorta luminosità. Due ambulanze erano parcheggiate accanto al marciapiede. La casa era a più livelli, come ce n'erano molte nelle vicinanze, benché fosse stato fatto qualche lavoro per modificarne leggermente l'aspetto. C'era una piccola aggiunta, probabilmente un ripostiglio o una stanza per la tv che sporgeva fuori dall'angolo posteriore sinistro e da questo un'ampia veranda con grata si estendeva girando attorno fino all'angolo opposto sul davanti. Le finestre originali che si affacciavano sulla strada erano state eliminate e al loro posto erano state istallate due finestre a larga campata che guardavano Damon come i bulbi oculari di una mosca gigante. Lo sceriffo distolse lo sguardo, improvvisamente a disagio. Solo per un istante, era stato colpito dalla sgradevole sensazione di essere osservato. La sua attenzione si rivolse alla fitta fila di siepi che accompagnavano il percorso dalla porta d'ingresso al vialetto carrabile, e alla disposizione dei pini che recintavano la proprietà in fondo al giardino. Entrambe le zone fornivano ottimi nascondigli per chiunque cercasse di avvicinarsi alla casa senza essere visto, e mentalmente prese nota di farle controllare dai ragazzi per rilevare ogni traccia eventuale che l'assassino avesse lasciato. Decidendo che non poteva rinviare oltre l'inevitabile, Damon si rassegnò a quello che l'attendeva e si diresse alla porta anteriore. All'interno era il caos. Il soggiorno era sottosopra. Una poltrona reclinabile era stata capovolta e il suo rivestimento di cuoio sventrato. I cuscini del divano e delle poltroncine erano sparsi per la stanza, a brandelli anch'essi, con le imbottiture bianche di gommapiuma rovesciate fuori attorno agli squarci slabbrati. Era come se qualcuno avesse usato lo stesso coltello anche sulle pesanti tende, che ora pendevano in strisce lacerate. Il pavimento era cosparso di cocci di ceramica e vetro; era tutto quel che rimaneva di quelle che Damon immaginava essere state un paio di lampade da tavolo. Due tecnici si muovevano nella stanza, fermandosi ogni tanto per mettere qualche oggetto in una delle molte buste di plastica trasparenti che sporgevano dalle loro tasche. Uno di loro alzò lo sguardo e indicò con la mano la direzione dove con-
duceva il corridoio, e Damon la seguì, avviandosi verso le scale che portavano al secondo piano. Di sopra, il vicesceriffo Frank Castiglioni venne fuori dall'ombra e lo salutò. Frank faceva parte di quell'ufficio da dieci anni, ed era uno dei collaboratori di Damon più temprati ed esperti. «Sceriffo», disse salutando. «Come va, Frank?». Damon notò che il suo collega era pallido, con la voce leggermente alterata. Dietro la schiena dell'uomo, dove ovviamente sperava che Damon non arrivasse a vedere, la mano destra di Castiglioni tremava violentemente. «È brutto?», chiese. L'altro deglutì una volta, con difficoltà, e poi annuì. Tentò un debole sorriso ma non gli uscì fuori. Damon gli batté sulla spalla in segno di conforto, e poi lo oltrepassò. Si fermò sulla soglia della camera, la sua sagoma stagliata nel lume della porta. Quello cui si trovò davanti gli fece salire la bile in gola e per un attimo pensò di sentirsi nauseato davanti alla scena di un crimine per la prima volta dopo molto anni, ma dopo un secondo o due la sensazione passò. «Santa Madre di Dio». Quello che vide era molto, molto peggio di quanto si aspettasse. La stanza era un mattatoio. Il sangue era schizzato dovunque; sul pavimento, sul soffitto, sulle pareti. Era come se qualcuno ne avesse preso dei secchi e li avesse allegramente rovesciati tutt'intorno. Allo stesso modo brandelli sanguinanti di carne umana erano sparsi dappertutto, disseminati sul pavimento e in cima a vari mobili. Una mano, con sole tre dita intatte e quelle mancanti amputate alla prima falange, penzolava dal cassetto aperto di un comò. Un piede, ancora rivestito da una pantofola macchiata di sangue, giaceva in mezzo al pavimento, con la tibia che occhieggiava bianca nella carne lacera e sanguinolenta. Per molti altri pezzi non si poteva capire da quale parte del corpo provenissero, cosa che Damon trovò piuttosto inquietante; il suo sguardo continuava a ritornare ripetutamente su di essi, cercando di capire che cosa una volta potevano essere stati, quasi per dare un ordine al caos. Quelli che scambiò per tratti luccicanti di cordone delle tende che velavano la superficie del letto matrimoniale, gli ricordavano i festoni che usa-
va ogni anno sull'albero di Natale. Incuriosito si avvicinò, solo per rendersi conto con un moto improvviso d'orrore che si trattava in realtà di budella umane. Nei recessi della sua mente una piccola voce diabolica cominciò a cantare: «Uno Slinky, uno Slinky, che magnifico sollazzo, uno Slinky, uno Slinky per la bimba ed il ragazzo». Un conato di vomito gli salì fino in gola e riuscì a malapena a ributtarlo indietro, restandogli in bocca un gusto ripugnante del tutto in linea con il puzzo di morte che gli ristagnava nel naso. In tutti gli anni di lavoro nella polizia non aveva mai visto qualcosa di così turpe. Così contorto. Così innegabilmente diabolico. Emozioni contraddittorie lo percorsero mentre abbassava gli occhi sulla carneficina davanti a sé, mentre il malessere che provava contrastava con la necessità di studiare la scena e comprendere cosa fosse accaduto. La rabbia gli fece recuperare la sua lucidità e lasciò che montasse, sapendo che l'avrebbe aiutato a calmare i nervi, così pericolosamente vicini al limite di rottura. La rabbia gli avrebbe fatto superare la repulsione, gli avrebbe permesso di osservare obiettivamente la situazione. Si aggrappò ad essa e se la avvolse tutt'intorno, nello stesso modo in cui un bambino potrebbe avvilupparsi in una morbida coperta durante una gelida notte d'inverno. Farò in modo che il bastardo che ha fatto questo paghi, promise a se stesso, e quel pensiero lo fece sentire un po' meglio. Solo allora Damon notò che un fotografo della polizia era nella stanza con lui; aveva infatti scattato fotografie per tutto il tempo in cui Damon era rimasto là, ignorando la sua presenza, preoccupato di sbrigarsi e scappar via da quell'inferno. Damon non lo biasimò. «C'è di più, capo», disse una voce alle sue spalle. «Il resto è peggio, se è possibile immaginarlo». Damon non trovò neanche la forza di parlare, si girò soltanto a guardare Frank. Il resto? Peggio? Che diavolo poteva esserci peggio di questo? Castiglioni fece un cenno allo sceriffo indicando il letto e Damon lo seguì, con i piedi pesanti come blocchetti di cemento. Non aveva voglia di avvicinarsi di più, non voleva vedere quello che il suo collega intendeva mostrargli, ma il dovere lo obbligava a seguirlo.
Frank si abbassò sotto un pezzo d'intestino pendente e tirò indietro le tende a scoprire il letto e quello che c'era sopra. Alla vista, Damon sentì il fiato risucchiato dai polmoni. Un cadavere umano giaceva sul letto, e dalla muscolatura Damon poté stabilire che si trattava di un maschio. Sul suo petto s'apriva uno squarcio selvaggio, ed era da lì che tutti gli organi interni erano stati strappati via per essere gettati sopra il baldacchino. E, come se non bastasse, il corpo era stato smembrato. E decapitato. La pura brutalità dell'atto era nauseante. Chiunque fosse, Damon sperò in Dio che la vittima fosse morta molto prima che il carnefice facesse sfoggio della sua grottesca maestria. Persino immaginare quanto quell'uomo potesse aver sofferto se fosse stato vivo, era impensabile; la mente si fermava dinanzi all'idea stessa. Quando ebbe recuperato abbastanza fiato per parlare, Damon chiese: «Dov'è la testa?». Notò che la sua voce tremava mentre parlava e si chiese se anche Frank se ne fosse accorto. Frank rise, un ridacchiare strano e macabro. Wilson immediatamente lo riconobbe per quel che era; quel tipo di risata che si fa per scacciare i brividi quando si è soli in una casa vuota nel cuore della notte. Era il rumore di un uomo che fa del suo meglio per rassicurarsi. E miseramente inutile. Era tutto meno che confortante. «Nel bagno», rispose Frank. Esitò, chiaramente valutando cosa dire, e poi decise di non dire niente del tutto, cosicché ancora una volta si limitò a fare segno a Damon di seguirlo. I due uomini attraversarono la stanza, fino a una porta vicino allo scrittoio. Non era lo stravagante bagno padronale che Damon s'era aspettato. Uno specchio ovale era appeso sopra un lavandino di marmo. Alla sua sinistra una toilette, alla sua destra una vasca da bagno. Frank indicò la toilette aperta. Damon fece un passo in avanti e guardò in basso, percependo marginalmente che Frank era uscito dalla stanza. La testa dell'uomo era conficcata nella tazza del water, e l'acqua che prima era bluastra, adesso era diventata di un malsano colore violaceo per il sangue versato dal collo reciso. I capelli bianchi dell'uomo fluttuavano sopra la testa come alghe viventi. La spaventosa faccia morta era congelata in un'espressione d'orrore, la
bocca spalancata in un muto grido di dolore, le orbite vuote ancora sanguinanti. Per una frazione di secondo, la mente disse a Damon che non era vero. Ma lo era. E nel suo intimo ne era consapevole. Si voltò, incapace di fronteggiare anche solo per un altro istante quello sguardo accusatore privo di occhi, ma solo per scoprire che poteva ancora sentirlo che gli bruciava la schiena. «Tu, povero bastardo», mormorò in un soffio. Intorpidito da tutta la devastazione, stette per un momento a guardarsi nello specchio del bagno, mentre gli occhi gli riflettevano le domande che gli turbinavano nel cervello. Era peggio di qualsiasi cosa avesse immaginato. Che lui fosse la persona giusta per trovarsi in questa situazione, non c'era il minimo dubbio; il resto degli uomini in servizio non avevano mai trattato alcun tipo di crimine violento. Erano bravi, sì, ma una cosa come questa era oltre la portata della loro esperienza. Erano poliziotti di una cittadina e cose come questa non erano mai accadute in un posto come Harrington Falls. In città era diverso, e Damon lo sapeva grazie a tanti anni di esperienza personale. Ora si chiedeva se quegli anni sarebbero bastati. E poi un altro pensiero, ancora più agghiacciante, gli venne in mente. E se il bastardo uccidesse ancora prima che riuscissero a fermarlo? Il pensiero dei corpi che gli si ammucchiavano intorno mentre le indagini stagnavano gli fece scendere per la schiena un rivolo di sudore, lasciando riaffiorare tutte le vecchie ansie e insicurezze. Una responsabilità pesante come una montagna gli gravava sulle spalle come un mantello di piombo, e fu improvvisamente più spaventato di un fallimento di quanto non lo fosse mai stato. E se anche mettendocela tutta non ce la facessi? si chiese. Cosa accadrebbe? Scacciò lontano i suoi dubbi, sapendo che aveva bisogno di concentrarsi per portare a termine il lavoro. Frank lo stava aspettando nella camera da Ietto. Ora che lo shock iniziale era passato, Damon scoprì che riusciva a pensare un po' più ordinatamente. Fece la prima, ovvia domanda: «La radio parlava di due corpi. Dov'è il secondo?». Frank distolse lo sguardo, a disagio. «Guardati attorno», fece segno con
la mano, indicando tutt'attorno alla stanza. Damon guardò. Tutto ciò che vide erano brandelli e pezzi di carne sparsi dovunque. Quello che il suo collega aveva voluto dire lentamente si fece strada. Si girò verso di lui. «Vuoi dire...». «Sì. Non ci sono abbastanza pezzi mancanti dal cadavere dell'uomo per spiegare tutta questa roba, così la maggior parte deve provenire dalla moglie di quel tizio. Non riusciamo però a trovare il resto del corpo della donna, e quindi pensiamo che chiunque sia stato se le portato via quando se ne andato». «Abbiamo già l'identificazione del corpo?», chiese Damon. «Sì, ma ancora senza conferma. Alcune fotografie nella casa corrispondono a quest'individuo, almeno per quello che è possibile stabilire. George Cummings. Dobbiamo aspettare che il medico legale faccia i rilievi per esserne certi, ma ci scommetterei sopra la paga della prossima settimana. Abbiamo chiesto un APB sulla moglie, solo per essere sicuri che non sia lei la squartatrice e che non sia un bambino quello fatto a pezzi assieme a lui». «Qualcuno ha chiamato Strickland?». «Sì. Dovrebbe essere qui da un momento all'altro». Damon annuì col capo in segno d'approvazione. I suoi uomini stavano facendo il loro lavoro nonostante l'atrocità attorno a loro, e di questo poteva essere orgoglioso. «Ok allora, usciamo di qui e lasciamo finire i tecnici». Fece segno con la mano a Frank di uscire dalla stanza prima di lui, e l'altro sembrò più che felice di accontentarlo. Damon non gliene fece una colpa; pensò che se avesse dovuto passare un altro minuto in quella stanza, avrebbe potuto urlare. Una volta scesi di sotto, i due chiamarono gli altri uomini, tutti quelli che non erano momentaneamente impegnati a proteggere il posto dalla folla che stava cominciando ad assieparsi, e li riunirono in gruppo vicino alle auto di pattuglia. Damon cominciò a distribuire istruzioni, facendo del suo meglio per mettere la situazione sotto controllo e far marciare l'inchiesta. Non c'era tempo da perdere. Conosceva la regola fondamentale delle indagini per omicidio; la maggior parte degli assassini sono catturati entro le prime quarantotto ore di indagini, ammesso che si riesca a catturarli. Quando ebbe finito, uno degli uomini alzò la mano.
«Che facciamo con la stampa?», chiese il poliziotto. «I giornali locali hanno già i loro uomini là fuori, mischiati alla folla, che stanno cercando di entrare. Le troupe della televisione probabilmente seguiranno a ruota». Damon imprecò sottovoce. Sapeva che non poteva mantenere a lungo il riserbo, ma lasciar trapelare qualcosa adesso sarebbe servito soltanto a diffondere il panico nelle strade. Pensò intensamente per un attimo. «Ok, ascoltate. Voglio che teniate tutti la bocca chiusa. Se viene fuori anche solo un accenno a quello che abbiamo di sopra, me la prenderò con ciascuno di voi, intesi? Per il momento siamo i soli a sapere quanto sia orribile questa faccenda, e dobbiamo tenercelo per noi fino a che i funzionari della contea non potranno organizzare una conferenza stampa, domattina. Non sappiamo se si sia trattato di un episodio isolato o meno, e non abbiamo certo bisogno di un altro svitato là fuori che cominci a darsi da fare per emulazione. Tenete i dettagli per voi. Se qualcuno chiede, lasciategli intendere che abbiamo una morte sospetta, e basta. Se qualcuno vi dà dei problemi, mandatelo direttamente da me, d'accordo? Domande? Ok, allora, mettiamoci al lavoro». Gli uomini si mossero per eseguire gli ordini, lasciando Damon da solo per un pò. Si lasciò andare pesantemente contro il fianco della sua vettura, improvvisamente svuotato. Rimase là immobile a scrutare nella notte, interrogandosi sul killer. Chi è? Che aspetto ha? E, ancora più importante, dov'è adesso? Per il momento, Damon non aveva alcuna risposta. Ma le avrebbe trovate in tempo. Doveva. 14. Un'evocazione notturna Mezzanotte. La notte era immobile. Silenziosa. In attesa. La luna pendeva bassa sull'orizzonte, incombente come se fosse sospesa sull'orlo d'una lunga goccia. Poiché era all'apice della sua ascensione, riempiva il cielo, un'enorme palla d'incandescenza che perforava l'oscurità della notte. Immobile sul balcone, con il levigato pavimento di pietra sotto i suoi
piedi inumidito dal freddo della sera e rilucente della luce blu argento della luna, Hudson Blake scrutava nell'oscurità notturna, attento e vigile. Mentre osservava l'oscurità, se ne sentiva a sua volta osservato. Avvertiva che era affamata. Girandosi, rientrò nel suo studio dalla grande portafinestra che chiudeva il balcone e attraversò la stanza, andando a prendere il diario gualcito che giaceva aperto sulla scrivania. La rilegatura di cuoio del libro era rinsecchita e screpolata, le sue pagine fragili, ingiallite dal tempo e sciupate. Lesse a voce alta le prime righe della pagina aperta. «Per convocare la Bestia, si deve compiere un vero e importante sacrificio. Un'offerta di ciò che è più prezioso per gli abitanti del pozzo, deve essere fatta rapidamente e senza esitazione. Una volta che il sangue è stato versato, se volete essere avveduti e coraggiosi, dovete impugnare la Pietra di Sangue con entrambe le mani, trattenendola tra i palmi, con la mano sinistra, Mano della Vendetta, sopra la destra, Mano della Rettitudine. Ripetendo le parole dell'empio incantesimo qui riportate, vi congiungerete con la vera essenza della vostra anima, adesso dannata, e chiederete ciò che desiderate». Aveva letto quel passaggio più di cento volte e le parole uscivano dalle sue labbra con la disinvoltura di una lunga familiarità. Avendo compiuto un ragguardevole studio delle antiche tradizioni mistiche, Hudson liquidò gran parte del testo come sciocchezze. Simili rituali servivano principalmente a fare scena, a rafforzare l'immagine del celebrante agli occhi dei non iniziati. Ma così come le più grandi bugie contengono un nocciolo di verità, anche la descrizione del rituale conteneva gli indizi che servivano per portarlo alla sua corretta fruizione. E sotto quest'aspetto Blake era certo di averli correttamente identificati. Le osservazioni sul cristallo erano la chiave. Posando con cura il libro sulla scrivania, Hudson si portò le mani al collo della camicia e si tolse la collana che portava. La pietra nera che pendeva dalla catena oscillava nell'aria come un pendolo, emettendo deboli bagliori color cremisi ogniqualvolta veniva toccata dalla luce della stanza. Questo era il cristallo al quale il diario si riferiva. La Pietra di Sangue. Adesso la fissava, chiedendosi come sempre dove il suo antenato Sebastian l'avesse procurata. Anni prima l'aveva mostrata a parecchi importanti gioiellieri. Nessuno di loro era stato in grado di identificare il tipo di pietra
o il paese d'origine. Da allora in poi essa aveva posseduto per lui un fascino particolare e spesso l'aveva a lungo studiata, cercando di scoprirne i segreti. Quello che aveva compreso era che sarebbe stata la pietra stessa, non il rituale o i suoi elaborati incantesimi, a permettergli di comunicare con la bestia conosciuta dal suo antenato come Moloch. La alzò verso la lampada, facendo brillare la luce sulla sua superficie color rubino. Nelle profondità interne della pietra, gli sembrò di scorgere del movimento. Strizzò gli occhi per guardare più da vicino. Là! Qualcosa aveva cambiato posizione nel cuore di quelle profondità. Ma cosa? Mentre bramava le risposte, capì che non erano poi così importanti. Solo ciò che la pietra gli avrebbe permesso di fare, lo era. Si chinò sulla scrivania e rilesse il passo fondamentale del testo. «...vi congiungerete con la vera essenza della vostra anima ...e chiederete ciò che desiderate». Dapprima, il verso l'aveva confuso. Come può uno congiungersi con l'essenza della propria anima? Ma dopo un po' di tempo giunse a rendersi conto che stava cercando un significato più profondo del necessario, che le parole dovevano essere interpretate in senso letterale. Gli scrittori medievali avevano considerato la mente e l'anima come un'unica cosa, perciò il brano si riferiva esattamente alla mente. Congiungersi con la propria anima significava così congiungersi con la propria mente. Era convinto che in qualche modo il cristallo canalizzasse i suoi schemi di pensiero, più o meno come un'antenna fa con i segnali radio. Tutto quello che doveva fare per raggiungere Moloch era pensare a lui. Sarebbe stato semplice. Aveva già provato, comunque, senza successo. Il suo fallimento con la pietra e l'incapacità di trovare la cripta segreta l'avevano indotto a liquidare l'intera leggenda del demone alato al servizio del suo antenato come frutto di fantasia. Ma ora che la cripta era stata rintracciata, era persuaso che i contenuti del diario fossero veri. Forse era solo il mio dubitare a impedire il collegamento. La scoperta del corpo nella cantina di Stonemoor aveva aggiunto combustibile agli ardori delle sue convinzioni e, dopo aver ottenuto tutte le notizie che poteva da Caruso, decise che c'era una sola spiegazione possibile.
Il diario era vero; la bestia esisteva. E con la morte di quel vandalo, sembrava che fosse tornata al mondo dopo essere rimasta nascosta per così tanto tempo. Non che a lui importasse di quel pazzo che era stato ucciso, non era una cosa rilevante. Quello che interessava era invece il fatto che finalmente sarebbe stato in grado di provare la veridicità delle leggende di famiglia, che lo avevano intrigato per tutta la sua esistenza d'adulto. La fine della sua ricerca era finalmente in vista. Gli prudevano le dita per la voglia di stringere il potere nella loro ossuta presa. Aveva appreso per la prima volta dell'esistenza della bestia quando, anni prima, aveva ritrovato il diario, nascosto in una nicchia nel camino di una delle stanze abbandonate della dimora. Nel leggerlo, Hudson dapprima aveva riso delle informazioni che conteneva, ma in seguito si era scoperto irresistibilmente attratto a tornare ancora e ancora sulle sue pagine ammuffite e ingiallite, con la mente illuminata dalle potenzialità che in esso vedeva. Dal diario apprese anche del patto che il suo antenato aveva stretto con la bestia e dei poteri terrificanti che questa aveva messo al suo servizio. Sognando di possedere anche lui una simile conoscenza, si era dedicato al suo studio per capire se quello che il diario conteneva fosse vero. Stanotte finalmente l'avrebbe saputo. Era ora di iniziare. Tenendo per la sottile catena d'oro il cristallo, si diresse verso il centro della stanza. Sul pavimento, ai suoi piedi, c'era un certo numero di oggetti. Considerando quello che stava per fare, aveva deciso di prendere alcune precauzioni. Blake non era un uomo profondamente religioso e mai lo era stato. Da giovane rideva all'idea di Dio e del suo esercito di celestiali moltitudini. Allo stesso modo, se non c'era Dio, non c'era nemmeno Satana e nessun esercito demoniaco per mezzo del quale corrompere l'uomo dalla salvezza che avrebbe dovuto attenderlo. Invecchiando, aveva scoperto il potere che un leader religioso può esercitare sui suoi seguaci, in particolare nelle religioni dalla natura più oscura. Li aveva avvicinati uno dopo l'altro, studiandone l'arte, imparando da quelli che stavano sopra di lui prima di prenderne spietatamente il posto, assumendo il loro potere e facendolo proprio. Tutti quegli anni lo avevano len-
tamente ma sicuramente persuaso che c'era della verità in quello che i leader predicavano. S'era convinto che esisteva un altro regno di realtà, separato dal nostro, alla cui porta si poteva bussare con gli strumenti giusti. Non era importante come lo si chiamasse: Regno Soprannaturale, Piano Astrale, Altro Mondo o in qualsiasi altro modo. Esisteva. Aspettando di essere utilizzato. Di questo era certo. Una volta raggiunto questo convincimento, era un passo breve arrivare a credere che quest'altro regno fosse popolato da esseri dei quali l'Uomo ha poca conoscenza. Hudson sentiva che erano stati proprio degli incontri con creature dell'Altro Mondo che avevano indotto l'Uomo a inventare la religione. Dopo tutto, che cos'è la religione se non il tentativo di spiegare ciò di cui l'Uomo ha paura e che non comprende? Sebbene ancora ridesse dei vecchi rituali, con le loro sovrastrutture di misticismo e i loro elaborati schemi per proteggere il celebrante dai molti poteri che cercava di invocare, non li abbandonò del tutto. E se in fondo avessero avuto una qualche validità? Poteva correre forse il rischio di rimanere vulnerabile di fronte alle creature che cercava di evocare e di sfruttare per proprio uso? No. Sarebbe stato sciocco e Hudson Blake era tutto fuorché uno sciocco. Si rimise il cristallo al collo per avere libere entrambe le mani. Si tolse la lunga vestaglia nera che indossava, la piegò con cura e l'appoggiò da una parte. Prese con entrambe le mani una piccola ciotola di creta e andò verso lo spazio aperto proprio davanti alla finestra a battenti. Tenne la ciotola sollevata, con le braccia protese in avanti, come in una supplica silenziosa, e rimase così per parecchi, lunghi minuti. Abbassando le braccia, immerse la mano sinistra e prese una manciata di sale bianco raffinato che riempiva la ciotola. Si piegò su un ginocchio e lasciò cadere lentamente dal suo pugno la sostanza, a formare una linea liscia, ininterrotta sul pavimento. Quando la mano fu vuota, ripeté l'operazione indietreggiando man mano, fino a tracciare, segmento per segmento, un cerchio attorno a sé. Soddisfatto uscì dal cerchio facendo bene attenzione a non toccare la polvere bianca, affinché il segno tracciato restasse integro, e ritornò al mucchietto di oggetti a pochi passi da lì. Piegandosi, raccolse una piccola gabbia e un involucro di considerevole lunghezza avvolto nel cuoio. Un grosso gatto nero se ne stava raggomitolato nella gabbia e soffiò diffidente quando la sollevò, fissandolo con i suoi
liquidi occhi verdi che lo accusavano senza parole. Blake ghignò. Odiava i gatti. Da sempre. Non perdeva occasione di usarli nei suoi rituali, provando un piacere sadico nel liberare il mondo dal maggior numero possibile di quelle bestiacce. Con i due oggetti in mano ritornò nel cerchio, superando il bordo con attenzione e si collocò nel centro, deponendo la gabbia ai suoi piedi. Liberò il secondo oggetto e gettò fuori dal cerchio la copertura che l'aveva avvolto. La spada scivolò fuori dal suo fodero con un lieve sibilo da rettile e il rumore dell'acciaio che sfregava contro il cuoio gli provocò un'accelerazione del sangue nelle vene. Questa era la parte del rituale che gli piaceva di più, e così attese alcuni minuti, lasciando che l'aspettativa che provava montasse fino a essere un fiume in piena contro la diga mentale della sua volontà. Quando il tempo fu quello adatto, quando l'eccitazione ebbe raggiunto il giusto livello febbrile, sollevò e tese in alto l'arma. Nudo, con la luce della luna che si rifletteva sull'acciaio blu argento della lama e in una lieve brezza che muoveva le punte dei suoi capelli come il tocco delle dita di un fantasma invisibile, Hudson Blake cominciò a cantare. La canzone partì da un mormorio basso, come il suono del vento tra le canne del fiume, ma crebbe di potenza via via che procedeva diventando più chiara, fino a trasformarsi in un ruggito di mille voci che gridavano tutte insieme. Nel mezzo di ciò, tirò fuori il gatto dalla gabbia. Quello soffiò e si divincolò contro di lui graffiandogli l'avambraccio, ma lui ignorò gli attacchi. Si assicurò di avere una presa salda sotto le zampe anteriori e poi lo protese con il braccio in fuori, lontano dal suo corpo, continuando a cantare. Brandeggiò la spada dietro la spalla finché sentì il lieve tocco della lama sulla carne nuda dei lombi. Improvvisamente, bruscamente, smise di cantare. Il silenzio era carico di tensione, l'aria nella stanza sembrava più pesante di quando aveva iniziato, ora satura di una vibrante energia. Il gatto incontrò il suo sguardo. La consapevolezza passò tra di loro. La spada s'abbatte sibilando, fendendo l'aria con un rumore sinistro. La testa del gatto cadde ai piedi di Blake con un tonfo molle, bagnato. Il sangue schizzò dal collo mozzato, una caldo fiotto cremisi che si sparse sul volto di Hudson e sulla parte superiore del corpo.
Con movimenti rapidi infilò la spada sotto la carcassa del gatto, facendola girare come uno spiedo su un barbecue in modo che l'intera lama fosse coperta di sangue prima che il flusso cessasse. Quando il sangue smise di sgorgare, gettò via la carcassa attraverso la stanza. Con la lama gocciolante tracciò senza esitazione un pentagramma dentro il perimetro del cerchio che prima aveva disegnato. Secondo l'usanza, fintantoché fosse rimasto all'interno del simbolo sarebbe stato al sicuro da pericoli. Comunque, non essendo il tipo che rischia tutto su un solo lancio di dadi, Blake uscì dal cerchio e recuperò l'ultimo oggetto che aveva lasciato sul pavimento. La Smith & Wesson pesava rassicurante nelle sue mani. Sperava di non doverla usare. Ritornato nel cerchio, Blake posò la pistola tra i piedi. Con l'altra mano conficcò la spada nel pavimento davanti a sè in modo che rimanesse diritta senza bisogno di alcun supporto. S'inginocchiò e meditò per parecchi minuti, liberando la mente da ogni pensiero estraneo. Quando fu pronto si sollevò, racchiuse la Pietra di Sangue nel palmo delle mani e chiamò con il pensiero nella notte buia, convocando la bestia al suo fianco. 15. Un testimone nel buio Dall'altra parte della città, qualcosa si mosse. Moloch si svegliò lentamente, pesantemente, come un drago ridestato da un sonno incantato. Sbatté i suoi occhi gialli simili a quelli di un gatto, una, due, tre volte. Una voce Jo stava chiamando nella mente, una voce che non riconosceva. Se fosse stata quella del vecchio, l'avrebbe semplicemente ignorata, avendo già deciso che si sarebbe occupato di quello sciocco a tempo debito. Ma questo non era l'Anziano, e nemmeno uno della sua stessa specie. E allora, chi? Per quanto ne sapeva, lui e il vecchio erano gli unici sopravvissuti dell'Era della Creazione. Perciò doveva essere un umano. L'idea lo riempì di quieto divertimento. Curioso, chiuse gli occhi e si rilassò, spogliandosi delle costrizioni terre-
ne imposte al corpo, lasciando volare la coscienza nel regno buio che separa questo mondo da quello adiacente; quel luogo fuori dal tempo, fuori dallo spazio, dove le leggi fisiche della realtà non hanno più significato alcuno. In quel mondo era libero di viaggiare ovunque volesse e utilizzò la chiamata come un faro, orientandosi verso di essa, seguendola fino alla fonte. Quello che vide laggiù lo sorprese e lo compiacque. Risvegliò anche la sua fame. Librandosi nel cielo, volò in quella direzione. Nel suo sogno, Katelynn era in piedi, nel cimitero. Era notte fonda. La luna era appesa nel cielo, un occhio malefico nelle tenebre. La sua fredda luce blu toccava gli spigoli delle lapidi attorno a lei e proiettava le loro lunghe, solenni ombre in una fila perfetta sull'erba bagnata di rugiada, qualcosa che le ricordava un esercito vigile e immobile. Un esercito macabro, fermo in attesa. L'aria era greve del loro silenzio. Avvertendo quest'assenza di rumore tutt'attorno, in Katelynn crebbe la paura. Senza sapere perché, cominciò a correre, facendo una specie di slalom fra le pietre tombali mentre fuggiva disperatamente sull'erba bagnata. Il cuore le batteva furiosamente e il bisogno di gridare le crebbe pericolosamente in gola. Riuscì a reprimerlo in tempo, sapendo che se avesse gridato lui l'avrebbe sentita. Quel pensiero la scosse e le fece arrestare di colpo il volo precipitoso, spingendola a rannicchiarsi contro la lapide più vicina. Mi sentirà? si chiese in un attimo di razionalità. Chi mi sentirà? Non lo sapeva. Ma sapeva che lui era là. Dietro di lei. Nell'oscurità. Stava per venire a prenderla. Doveva fuggire! Un gemito di paura le uscì dalle labbra quando si staccò dalla lapide e riprese nuovamente a correre. Il silenzio dietro a lei cambiò; divenne il silenzio della paura, denso e pigro. L'aria si fece più fredda. Aveva la netta sensazione che ora fosse più vicino, che stesse riducendo
implacabilmente la distanza tra di loro, e si guardò intorno terrorizzata, sapendo che lui era là ma incapace di scorgerlo. E poi cadde. La notte divenne immobile. Persino gli alberi sembravano trattenere il respiro, rimanendo fermi, come paralizzati. La leggera brezza che aveva soffiato fino a pochi attimi prima, improvvisamente morì. I grilli smisero di cantare. Da dove era inginocchiato, in mezzo al pavimento, Hudson Blake apri gli occhi e si guardò attorno nella stanza. Era solo. Ma non si aspettava di rimanerlo per molto. La bestia stava arrivando... La sensazione che qualcuno fosse nei pressi, intento a osservarlo, lo colpì improvvisamente e si rannicchiò d'istinto, reagendo a quella presenza a un livello primitivo, animalescamente consapevole della vicinanza del pericolo. Viene... viene... viene... La mente gli urlava di fuggire, ma rimase dov'era, fiducioso d'essere al sicuro fintantoché rimaneva all'interno del perimetro del cerchio protettivo che aveva creato. Strinse la pietra più forte tra le mani, con le nocche bianche per lo sforzo, e ripeté quel nome, ancora e poi ancora nella sua mente, invocandolo. Moloch... Moloch... Moloch... Improvvisamente, capì di non essere più solo. Il calore della vita filtrò lentamente fuori dal suo corpo quando vide l'ombra allungarsi sul pavimento di legno, l'ombra dell'enorme bestia accovacciata sulla ringhiera del balcone, con le ali dispiegate nel chiarore della luna. Blake poté soltanto fissarla in silenzio mentre un terrore gelido lo sopraffaceva con la velocità di un ciclone, ma era troppo tardi per pensare di fuggire. Moloch era arrivato.
Il sogno si modificò, ondeggiò e poi si fuse. Non più nel cimitero, si ritrovò in piedi su una ringhiera. Alle sue spalle, un dislivello di dieci metri si allungava dal balcone al suolo. Di fronte s'apriva una portafinestra, attraverso la quale vide un uomo più anziano, nudo e inginocchiato al centro del pavimento. Il torace e il viso erano macchiati da un'incrostazione scura, cremisi. Sangue essiccato, capì, quando l'aroma pungente raggiunse le sue narici. La bocca le si torse in un largo, crudele ghigno. La lingua schioccò in avanti, accarezzando gli incisivi anteriori, saggiandone le punte lunghe e acuminate. Che diavolo è? si chiese una parte lontana della sua mente. Una voce che non era la sua parlò, e un brivido le percorse la spina dorsale alla gelida minaccia di quelle parole. «Dammi la pietra», disse. Una mano, la sua ma non proprio la sua, si protese in avanti e aprì il pugno. Lei vide con crescente orrore che non era umana. C'erano solo quattro dita, ciascuna che terminava con un artiglio affilato come un rasoio, e quando si ripiegarono indietro nel palmo e ancora in fuori, gesticolando, li sentì tintinnare come acciaio che sfrega l'acciaio. Il respiro le si strozzò in gola mentre tentava di gridare... Si svegliò boccheggiando, e il rumore del suo urlo le echeggiava ancora nelle orecchie. Qualcosa la ghermiva con forza dalle tenebre, avviluppandosi attorno alle sue gambe e gridò di nuovo, dimenando freneticamente gli arti, lottando contro qualsiasi cosa fosse con la forza che nasceva da un terrore disperato. Sussultando capì che era solo attorcigliata nelle lenzuola del letto, con il tessuto che s'incollava alla pelle madida di sudore. «Oh, mio Dio», disse in un soffio, con il petto che si sollevava come se lottasse per controllare il battito impazzito del cuore. «Era un incubo, solo un incubo», mormorò lasciandosi andare contro la testata del letto, svuotata ed esausta. A differenza della maggior parte dei sogni, questo rimaneva lì con lei, con i dettagli impressi tenacemente nella sua mente. Era stato traumaticamente realistico e spaventoso. Non riusciva a immaginare che cosa potesse averlo provocato; da anni non aveva avuto un sogno tanto vivido, certamente mai così violento. O così strano.
Si sollevò e gettò un'occhiata all'orologio. Le tre e trenta. Ancora molte ore prima della luce del giorno. Si distese nuovamente, nel tentativo di rilassarsi. Un po' alla volta l'agitazione si placò e il respiro perse i connotati esagitati e ritornò a un ritmo normale. Benché per quella notte non si aspettasse di riprendere a dormire, lo sfinimento le fu propizio. Alla fine, il suono delicato del suo stesso respiro la trasportò nel sonno con la stessa facilità di un bimbo che ascolta la ninna nanna della mamma. Sul suo petto la pietra rossa brillò, accesa da un bagliore cremisi autogenerato. 16. Premonizioni Katelynn si svegliò la mattina successiva con lo sgradevole sospetto che qualcosa non andasse. Il sogno non l'abbandonava e durante la colazione le immagini le balenarono davanti agli occhi, ricordandole l'orrore che aveva visto. Il volto dell'uomo che aveva osservato dal terrazzo continuò ad apparirle, ancora e poi ancora, ossessionandola, fino a quando si convinse che avrebbe dovuto fare qualcosa al riguardo. Anche se era riluttante ad ammetterlo, conosceva quel volto nei suoi sogni. Rivide mentalmente la scena. La portafinestra del balcone aperta. I simboli disegnati sul pavimento. L'uomo al centro della stanza con la faccia e il petto coperti di sangue e una spada impugnata nella destra. Nei suoi occhi aveva visto tanto una bramosa aspettativa quanto un'improvvisa paura. Katelynn non poté più negarlo. Non c'era assolutamente alcun dubbio che l'uomo nei suoi sogni fosse Hudson Blake. Lo vedeva spesso nelle cronache locali ed era anche andata alla sua tenuta per tentare di intervistarlo all'inizio della sua tesi. Ricordava ancora l'altezzoso rifiuto del maggiordomo alla sua richiesta e il modo in cui le aveva sbattuto la porta in faccia. Che ci faceva Blake nei suoi sogni? Terminò la colazione, riflettendoci, poi prese il telefono e chiamò Jake.
Gli disse che aveva qualcosa d'importante di cui parlargli, che preferiva farlo di persona, e chiese se potevano incontrarsi. Jake acconsentì e le assicurò che sarebbe stato da lei entro un'ora. Fedele alla sua parola, Jake arrivò puntuale. Lei lo fece entrare e insieme, passando per la cucina, andarono in terrazza dove presero posto uno accanto all'altra sulle poltroncine da esterno. Era una splendida mattina, ma il calore del sole non ce la faceva a sciogliere il gelo nelle ossa di Katelynn. «Voglio andare a Riverwatch». Jake vide che era agitata. «Perché?». «Voglio provare ancora una volta a farmi rilasciare da Blake un'intervista per la mia tesi. Pensavo che forse potresti aiutarmi». Jake rise. «Dannazione, Kate. Quell'uomo non mi sopporta. Forse avresti più speranze andando senza di me». «No, non credo. In fondo è stato lui ad assumerti, non è così? Forse, con te là, sarà più propenso a dir di sì». A Katelynn non piaceva mentire a Jake. Era un amico e meritava di meglio, ma sapeva che se avesse detto la verità le avrebbe riso in faccia. Jake era troppo fermamente radicato nella realtà per credere che qualcosa di simile alle premonizioni potesse esistere al di fuori delle loro sedute settimanali di Swords and Sorcerers. Lo voleva lì perché nutriva l'inquietante sospetto che ci sarebbe stato qualcosa di terribile quando fossero arrivati alla tenuta di Blake. Jake era sempre stato equilibrato nei momenti critici e lei avrebbe avuto bisogno di quel solido sostegno se fosse risultato che aveva ragione. Lui protestò per un po', ma alla fine Katelynn l'ebbe vinta. Lui aveva il giorno libero dato che la polizia proseguiva le indagini alla tenuta di Stonemoor. Doveva ancora sentire quando riprendere i lavori, così poteva usare quello come pretesto per andare a incontrare Blake. Accettò con riluttanza, ma solo perché apprezzava la compagnia della ragazza e perché non aveva programmato niente di meglio per la mattinata. Jake attese che lei lavasse i piatti della colazione e poi andarono alla jeep. Loki stava aspettando all'interno e Jake gli permise di scendere per un momento a salutare Kate prima di risalire tutti insieme. Il viaggio verso Riverwatch trascorse in piacevole silenzio, a parte ogni tanto un abbaiare di Loki a qualcuno sulla strada che trovava particolarmente interessante. Era una mattina di sole e Jake si sentiva in generale abbastanza soddisfatto. Aveva del tempo extra-lavorativo, soldi in tasca e
buoni amici. Faceva del suo meglio per non pensare a quello che era successo il giorno prima, non volendo guastare l'inizio di un grande giorno. Quando giunsero alla tenuta, Jake entrò nel viale e si diresse di fronte alla casa. Parcheggiò direttamente davanti all'ingresso sapendo che questo avrebbe probabilmente irritato Charles, il che gli stava bene, e scese dalla jeep. Katelynn fece lo stesso. Prima che potesse richiudere la portiera, comunque, Loki sgusciò fra loro, si lanciò su per i gradini e cominciò ad abbaiare furiosamente alla porta. «Merda!», esclamò Katelynn. «Non preoccuparti», disse Jake chiudendo la portiera. «Lascia un attimo lo sportello aperto e lo farò rientrare». Chiamò il cane, sicuro che sarebbe ritornato. Aveva addestrato bene il suo akita, nonostante l'impegno e il tempo che ciò aveva richiesto. Essere il proprietario di un cane di taglia così grande aveva reso l'addestramento obbligatorio, almeno per come Jake la pensava, ed essendo addestrato Loki gli aveva sempre obbedito. Questa volta non fu diverso. Il cane smise immediatamente di abbaiare e trotterellò a fianco di Jake. Ma, anziché arrampicarsi nell'automobile, Loki rimase vicino a Jake, con l'attenzione rivolta alla porta d'ingresso e un ringhio basso nella gola. Jake lo aveva visto comportarsi così soltanto in un'altra occasione, ed era stato quando uno scassinatore aveva cercato di introdursi in casa. Qualcosa non andava, questo era chiaro. Jake si accovacciò vicino al cane. «Cos'è, ragazzo? Che c'è là dentro?». L'akita lo guardò e poi tornò a girarsi verso la porta, ringhiando nuovamente. Fece uno o due passi avanti, guardando indietro verso Jake e ringhiò una terza volta. «Qualcosa non va, Katelynn. Non si è mai comportato così. Penso che dovremmo andare». «Andare?», chiese Katelynn. Non aveva staccato gli occhi dal cane da quando era balzato fuori dall'auto. Un opprimente, soffocante peso le stava lentamente calando sulle spalle mentre si rendeva conto che i suoi sospetti erano fondati. C'era qualcosa di terribilmente sbagliato in quel posto e Katelynn aveva l'impressione di sapere cosa fosse. «Dobbiamo entrare», si senti dire. Le suonò come se la propria voce arrivasse da lontano e si chiese perfino se avesse davvero parlato a voce alta. Evidentemente sì. «Entrare? E per quale diavolo di motivo?», replicò Jake. «Qualcuno potrebbe essere ferito, Jake. Non possiamo andarcene».
«Col cavolo che non possiamo! Se c'è qualcosa che ha sconvolto Loki in questo modo, io non entro». Si voltò verso la jeep, con l'intenzione di fare esattamente quel che aveva suggerito, quando Loki fece conoscere la sua opinione. Il cane si lanciò su per gli scalini e fece un balzo, appoggiando le zampe anteriori contro la porta. Con grande sorpresa di tutti la porta s'aprì sotto il suo peso e proiettò il cane nell'atrio. In una cacofonia di latrati, l'akita scomparve all'interno. «Oh, merda!», esclamò Jake rincorrendolo. Katelynn li seguì. Loki doveva essere andato diritto al piano superiore perché Jake, una volta entrato, sentì che abbaiava da qualche parte lassù. Fece di corsa le scale fino al secondo piano. I latrati divennero più cupi, più stridenti, e Jake capì che il cane aveva trovato quello che cercava, qualsiasi cosa fosse. Giù nell'atrio, Katelynn si guardò intorno. D'istinto, sapeva che la casa era vuota. Lo sapeva con una sicurezza che la sorprendeva, e servì solo ad aumentarne il disagio. Era preoccupata per Blake e per il suo domestico, cominciando a credere che quello che aveva visto nel sogno fosse stata una premonizione di pericolo per i due. Da qualche parte, di sopra, i latrati del cane divennero più insistenti. Katelynn diede uno sguardo alle stanze vicine. Se ci fosse stato qualcuno in casa, avrebbe sentito la confusione e sarebbe venuto a investigare, ma ogni stanza che controllava era vuota. Convinta che il suo ragionamento fosse corretto, Katelynn tornò all'ingresso e prese a salire le scale. Quando Jake raggiunse il ballatoio del secondo piano, gettò uno sguardo lungo il corridoio e vide il cane fermo davanti all'entrata dell'ultima stanza. Loki smise di abbaiare e lo fissò, evidentemente aspettando il suo permesso prima di entrare. Jake non aveva intenzione di darglielo. «Vieni ragazzo», disse con decisione. Il cane rimase dov'era. «Vieni, ho detto». Loki si mosse avanti e indietro, guaendo sommessamente. Era chiaro che non aveva intenzione d'obbedire al comando. «Te ne farò pentire», sibilò Jake a denti stretti, con la rabbia che gli montava. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era d'essere sorpreso qui, nella casa del suo datore di lavoro, con il cane. Sarebbe stato licenziato in un batter d'occhio. Scuotendo il capo per la frustrazione s'avviò lungo l'atrio.
Non appena Loki vide che Jake stava andando verso di lui, si girò verso la stanza, ma non entrò. Quando Jake raggiunse la porta, vide il perché. Katelynn salì i gradini chiamando i loro nomi. Arrivò al secondo piano e vide Jake e Loki in fondo al corridoio. «Che succede?», domandò. Jake trasalì e poi si voltò verso di lei. «Rimani là, Katelynn. Non devi vedere». «Vedere cosa?», chiese lei, ignorandolo. S'incamminò per il corridoio, con la paura che cresceva a ogni passo. Jake le andò incontro e cercò di fermarla, ma lei si divincolò dalla presa, aveva bisogno di sapere, aveva bisogno di guardare. La stanza era come lei l'aveva vista; le librerie, i simboli disegnati sul pavimento, la spada conficcata a terra diritta in mezzo alla stanza, tranne che adesso la stanza sembrava essere stata verniciata a spruzzo col sangue. Era dovunque e doveva essere stato il suo tanfo ad attirare il cane. In un angolo dalla parte opposta della stanza, Katelynn vide il corpo di un piccolo animale. Attraverso la portafinestra aperta si vedevano la parte inferiore delle gambe di un uomo che giaceva riverso nel balcone. Loki ringhiò sommessamente. «È...?». Non riuscì a terminare la domanda. «Non lo so». «Dobbiamo scoprirlo. E se avesse bisogno d'aiuto?». Era la cosa giusta da fare, ma in cuor suo Katelynn sapeva che l'uomo ormai non ne aveva più bisogno. Jake annuì e avanzò. Katelynn lo guardò attraversare la stanza e uscire sul balcone. Scomparve dietro la portafinestra parzialmente aperta, riapparendo qualche attimo più tardi. Vide che lei lo guardava e scosse il capo, facendole intendere che non c'era più alcun aiuto da portare. «È il maggiordomo di Blake», disse quando le fu vicino. «Faremmo meglio a cercare un telefono e a chiamare la polizia». Tenendo stretto il collare di Loki, Jake si diresse giù per le scale e poi nello studio di Blake, dove sapeva che avrebbe trovato un telefono. Fornì i dettagli all'operatore del 911 e gli fu detto di aspettare fuori fino all'arrivo dello sceriffo. Tornato alla jeep, Jake ripensò a quello che aveva visto di sopra. Non
aveva realmente avuto bisogno di andare in quella stanza, non aveva realmente avuto bisogno di scoprire se l'uomo che avevano visto sul balcone era morto o vivo. Lo sapeva già. Quando hai visto la morte da vicino, pensò, la riconosci dovunque. Nonostante il sole splendesse alto, il giorno non era più così bello e luminoso come quando avevano lasciato l'abitazione di Katelynn. Era diventato notevolmente più cupo. Sul sedile posteriore, Loki puntava su nel cielo e ringhiava, con un suono basso e gutturale. 17. Riverwatch Damon impiegò i suoi primi venti minuti sulla scena interrogando Jake e Katelynn. Dopo aver detto loro che li avrebbe quanto prima contattati per completare la deposizione, li lasciò andare a casa e rivolse la sua attenzione alla scena. Negli ultimi giorni aveva il recondito sospetto di aver tralasciato qualcosa sul teatro dei primi due delitti, qualcosa che avrebbe fornito quell'unico importante indizio di cui aveva tanto disperatamente bisogno. Questa volta non intendeva correre rischi. Se è qui, pensò con severa determinazione, lo troverò. Diede istruzioni ad alcuni agenti di collocarsi all'ingresso della tenuta, con l'ordine di non far passare nessuno all'infuori del coroner e della squadra scientifica della polizia di Stato. Gli altri ispezionarono a fondo la casa in cerca di qualche segno del proprietario, senza successo. Hudson Blake fu rapidamente posto in cima alla lista dei sospetti dello sceriffo e fu diramato un bollettino di ricerca con l'avviso «ricercato per interrogatorio». Non passò molto tempo prima che arrivasse Strickland, avvisato personalmente via radio da Damon dopo che questi aveva ricevuto la chiamata. E arrivò dal viale con una camminata frettolosa, portando in una mano la valigetta nera da medico e nell'altra l'attrezzatura per la scena di un crimine. Damon si girò verso la casa e lo affiancò, fornendogli i dettagli mentre entravano. Al secondo piano si fermarono sull'uscio della stanza prima di entrare, per metabolizzare le prime impressioni. Uno spazio di circa dodici metri per dodici, la stanza sembrava essere stata uno studio, almeno un tempo.
Una scrivania era stata spinta contro il muro di destra, vicino a un tavolino. Scaffali per libri ricoprivano parzialmente altre due pareti. Tra le librerie c'era una vetrina, piena di armamenti medievali. La quarta parete, direttamente opposta alla soglia dove ora si trovavano, era divisa nel centro da una portafinestra aperta. In mezzo alla stanza un grande cerchio era stato tracciato sul pavimento di legno levigato con una specie di polvere bianca o di sabbia. Al centro del cerchio, un secondo disegno era stato tracciato allo stesso modo, ma con una qualche sostanza scura. Al suo interno era conficcata nel pavimento una spada con l'elsa arricchita da pietre preziose. Una macchia scura s'allargava sulla superficie della lama e su un'ampia porzione di pavimento adiacente la punta della spada. La luce del sole del mattino, entrando dalla portafinestra del balcone, faceva brillare le pietre preziose incastonate sull'elsa dell'arma e proiettava sul pavimento una lunga ombra a forma di croce. Accanto a lui, Damon sentì Strickland bisbigliare: «Che cos'è, in nome di Dio...?». Quando Damon ebbe distolto lo sguardo dalla strana raffigurazione al centro della stanza, capì che cosa aveva provocato il commento di Strickland. Piccole quantità di sangue erano spruzzate in vari posti lungo tutto il resto della stanza: sul dorso di un libro, sul davanti della scrivania, sulle tende sottili sollevate dalla brezza leggera che veniva dal finestrone aperto. Il cadavere senza testa di un piccolo animale, probabilmente un gatto, giaceva in un angolo, buttato là con noncuranza. Una piccola gabbia dorata era appoggiata sulla scrivania, accanto a una pistola. La parte inferiore della gamba di un uomo sporgeva davanti alla portafinestra del balcone. Pensando alle altre recenti scene del delitto, Damon si sorprese a sperare che ci fosse un corpo attaccato a quella gamba. «Ed», disse ad alta voce, indicando l'arto al compagno che stava ancora fissando incredulo le condizioni della stanza. I due uomini si avvicinarono al balcone, facendo attenzione a non spostare niente mentre attraversavano la stanza. Sul balcone scoprirono il corpo mutilato di un uomo di mezza età. Come per i Cummings, grossi pezzi di carne mancavano dal cadavere. Comunque, stavolta il killer aveva aggiunto un risvolto nuovo. Parecchie armi, ovviamente prese dalla teca nella stanza vicina, erano state conficcate violentemente nel corpo e lasciate là, facendo venire in mente a Damon
degli spilli appuntati su un cuscinetto. In un angolo del cervello Damon cominciò distrattamente a catalogare le armi: abbiamo uno spadone, un'epée, e un pugnale... S'affrettò a zittire la voce interna. «Lo riconosci?», chiese Strickland. «No, ma abbiamo un'identificazione certa». Parzialmente coperta di sangue, la faccia dell'uomo era distorta in una selvaggia espressione di paura e di dolore. Damon raccontò a Strickland che Jake aveva fornito la conferma che l'uomo era Charles Turner, il maggiordomo di Blake. Strickland appoggiò le sue borse su un angolo pulito del balcone e ne aprì una. Ne estrasse un paio di sottili guanti di gomma, se li infilò e poi si piegò vicino al corpo e ne iniziò l'ispezione. Damon gli diede alcuni minuti per l'esame preliminare, e poi chiese: «Che ne pensi?». «Senza dubbio è lo stesso assassino. Organi molli esterni andati; occhi, lingua, ecc. Cavità del torace penetrata; probabilmente scoprirò che mancano alcuni organi interni quando lo sezionerò. Quello che non mi spiego sono queste armi». «Prima o dopo?», chiese Damon, intendendo se le armi erano state usate mentre la vittima era ancora viva o no. Ed ci pensò su. «A occhio e croce dovrei dire che era ancora vivo quando sono state usate. C'è qualche evidenza di sanguinamento attorno alle ferite, sebbene sia difficile esserne sicuri. Dalla sua espressione facciale non c'è dubbio che il poveretto ha sofferto». Ed scosse la testa insoddisfatto. «D'altro canto, potrebbero anche essere state impiegate dopo la morte. Armi di quel tipo avrebbero dovuto provocare un lago di sangue, invece il pavimento sotto di lui è praticamente pulito». Guardò su verso Damon. «Non posso dire altro finché non lo apro». Quando Ed si curvò ancora sul corpo, Damon lo lasciò al suo lavoro e ritornò nella stanza. Contemplò il disastro e poi si diresse alla macchia scura al centro della stanza. Quando fu più vicino, molti dettagli apparvero più chiari. La macchia era ovviamente sangue; questo era subito evidente. E sebbene parzialmente oscurato del sangue, Damon vide che il disegno sul pavimento era in realtà un pentagramma inscritto in un cerchio. Il materiale con cui era stato creato era probabilmente sale o sabbia colorata, poi ripassato col sangue. Gli ricordò i dipinti di sabbia degli indiani Hopi che aveva visto una volta in un viaggio all'Ovest.
Il simbolismo lo impensierì. Un pentagramma in un cerchio non era proprio tanto usuale. Non gli piacevano le implicazioni. A Chicago aveva già incontrato quel simbolo una volta, durante una serie di omicidi a sfondo religioso. Il killer era stato addentro nell'occulto, i delitti si svolgevano come sacrifici nel corso di una messa nera. È quello che è accaduto qui? si chiese Damon. Turner è forse la vittima sacrificale di qualche cerimonia occulta? La morte è avvenuta qui, dentro la stanza, e il suo corpo è stato trascinato fuori sul balcone quando non ne hanno avuto più bisogno? E in tal caso, perché? Damon digrignò i denti, insoddisfatto. Questo caso era come gli altri precedenti; troppe domande e non abbastanza risposte. Comincia a essere la storia della mia vita, pensò. Facendo attenzione a non danneggiare nulla, Damon si avvicinò per guardare meglio la spada. La lama era lunga circa un metro, quasi tutta macchiata di sangue. L'elsa dell'arma era ricoperta con quelle che a Damon sembravano essere pietre preziose, anche se potevano benissimo essere false; certamente non era in grado di distinguere la differenza. Nel complesso, era un'arma che faceva una certa impressione. Come le altre nella stanza. Blake dev'essere una specie di collezionista, si ritrovò a pensare Damon. Il pensiero lo fece rabbrividire. Si diresse verso la teca. Alcune armi erano ancora al loro posto, ma la maggior parte erano ammucchiate confusamente a terra davanti alla vetrina. Le studiò con attenzione, prendendosi tutto il tempo, esaminandone la disposizione. Contò quelle che vedeva, poi fece del suo meglio per collocarle mentalmente al loro posto, con l'aiuto dei cartellini di identificazione che erano nella teca e con la sua conoscenza delle armi antiche. Lo fece tre volte e sempre giungendo allo stesso risultato. Se conteggiava la spada al centro della stanza e quelle ancora nel cadavere là fuori, ne mancava una, approssimativamente della stessa lunghezza di quella al centro della stanza. L'ha portata con sé il killer? Damon fece il giro della stanza, piegandosi a guardare sotto ai mobili e alle librerie, assicurandosi di non averla semplicemente trascurata. Sotto le mensole più vicine alla teca qualcosa brillò alla luce della sua torcia. Qualcosa di rosso. Damon estrasse dal taschino un'asticella allungabile e la usò per portare alla luce l'oggetto. Era una collana. Una collana d'oro dalla quale pendeva una pietra rosso
rubino di notevoli dimensioni. La catena era rotta e macchiata da altro sangue essiccato. Damon immaginò che fosse stata strappata e scagliata via durante una lotta e si chiese di chi fosse. Di Blake? Di Turner? Dell'assassino? Usò l'asticella per inserire la collana in una bustina di plastica trasparente che estrasse da un'altra tasca, e con la penna annotò la data, l'ora e il luogo del ritrovamento. A quel punto Strickland rientrò dal balcone. «Ok. Ecco ciò che abbiamo. Le ferite di Turner sono di sicuro compatibili con le altre uccisioni. È insorta rigidità, ma non è ancora completa: dunque sappiamo che la sua morte è avvenuta nelle ultime ventiquattro ore. Sul corpo non ci sono segni di lividezza post mortem. Un'autopsia completa ci fornirà altre risposte, ma per adesso la mia opinione è che sia stato ucciso in questa stanza e poi trasportato fuori sul balcone». Il suono della radio di Damon lo interruppe. «Qui Wilson». «Nelson, signore. La squadra della scientifica è arrivata. Ehm, e anche la stampa». Merda. «Fai salire la squadra. Trattieni la stampa ai cancelli, non lasciare, ripeto, non lasciare che qualcuno di loro entri nella proprietà. Abbiamo la scena di un crimine da proteggere, qui. Digli che scenderò io a parlare con loro personalmente». Riappese la radio alla cintura e guardò Ed. Il coroner abbassò il capo con un mezzo sorriso dipinto sul volto. «Buon divertimento». «Già», rispose asciutto Damon, e scese le scale per affrontare la solita musica. 18. Proteggere e servire «Odio tutto questo», borbottò sottovoce lo sceriffo aggiunto Steve Bannerman. Sul sedile accanto, il suo collega Charlie Jones annuì in tacito accordo. Sapeva già senza chiederlo quello a cui Bannerman si riferiva; alla paura che attanagliava entrambi, una paura generata da ore continue di incertezza. Una settimana prima, turni serali come questo erano considerati una passeggiata. Qualche giro di perlustrazione in città con l'auto d'ordinanza,
un po' di tempo passato alla centrale a smaltire scartoffie, un lungo intervallo per la cena alla stazione di servizio di Rosie sul confine ovest della città. Erano giri semplici e senza problemi. Fino a che erano cominciati gli omicidi. Adesso questi turni erano i peggiori. Sapere che da qualche parte, là fuori nell'oscurità, c'era un killer che operava solo di notte e del quale non si sapeva praticamente nulla, non era un pensiero rassicurante. Li rendeva costantemente nervosi; si guardavano di continuo alle spalle, chiedendosi se lui era lì dietro, ad aspettare, a osservare, a scegliere la prossima vittima. Il che non contribuiva a rilassare la serata. «Hai sentito l'ultima?», chiese Jones al suo compagno. «No, cosa?». «Questa mattina nella dimora di Hudson Blake hanno trovato una scena da messa nera». «Mi stai prendendo in giro?». «No. Pentagrammi tracciati sul pavimento, una spada insanguinata, perfino un gatto decapitato. Senza contare i pezzi di carne mancanti dal cadavere del maggiordomo di Blake». «Cosa?». Bannerman non ebbe modo di rispondere. Mentre apriva la bocca per parlare, qualcosa sbucò dall'oscurità e si catapultò in mezzo alla strada direttamente davanti a loro. Reagì istintivamente, sterzando il volante nel tentativo di evitarla, qualsiasi cosa fosse, e mandando l'auto a slittare in una lunga e incontrollabile sbandata. Per un attimo Bannerman pensò che ce l'avevano fatta, che l'avevano schivata. Poi arrivò il tonfo dell'impatto e l'auto fece testacoda, e non ci si poteva sbagliare su quel rumore. L'auto seguitò a sbandare ancora per parecchi secondi prima che il poliziotto potesse riprenderne il controllo e riuscisse a fermarla. Bannerman scese e guardò indietro. Il corpo era a circa cento metri da loro e giaceva vicino al bordo sinistro della strada. Non si muoveva. Da quella distanza non poteva vedere abbastanza in dettaglio per determinare cosa fosse. Per quel che ne sapeva, poteva aver colpito un autostoppista che gli era corso incontro sulla strada per attirare la sua attenzio-
ne. Estraendo la pistola, Bannerman s'incamminò. Dietro a lui sentì Jones uscire dalla vettura. Sapeva che il collega avrebbe assunto la posizione standard parecchi metri dietro di lui e di lato per poter fornire un supporto senza avere la linea di fuoco impedita dai movimenti di Bannerman. Il corpo non si muoveva. Quando fu più vicino, Bannerman vide che aveva quattro gambe, non due. Del sangue macchiava la strada attorno alla carcassa, nera e luccicante sotto la luce della luna. Quando fu abbastanza vicino da capire che cosa aveva colpito, Bannerman tirò un sospiro di sollievo. Un cervo. Era un maschio di notevole taglia a giudicare dalla ramificazione delle corna e dalle dimensioni della carcassa. Una sessantina di chili, pensò. Non c'erano dubbi che fosse morto; la lingua pendeva di lato fuori dalla bocca e gli occhi vitrei fissavano oltre la strada. «Che cos'è?», gridò Jones nervosamente. «Un cervo», gridò di rimando Bannerman, ignorando con discrezione il tremito che avvertì nel tono di Jones. «E anche grosso. Non credo che abbia sofferto». Bannerman abbassò l'arma, guardando contrito l'animale che aveva ucciso. Ricordando quanto rapidamente s'era precipitato fuori dalla macchia, immaginò che non si fosse reso conto che c'era un'automobile. Qualcos'altro, qualcosa nel bosco alle sue spalle doveva averlo spaventato a tal punto da costringerlo a lanciarsi fuori in preda a un panico cieco. Questi pensieri attraversarono la mente di Bannerman in pochi secondi, e arrivò alla loro conclusione proprio nello stesso istante in cui Jones cominciò a gridare. Bannerman sollevò rapido il capo, sorpreso dal panico nella voce del compagno e fu sbigottito da quanto vide. Jones correva dritto verso di lui agitando in aria la pistola! Bannerman armeggiò con il revolver, pensando che alla fine Jones avesse ceduto alla pressione per i recenti omicidi. L'aveva estratto per metà dalla fondina quando fu colpito violentemente da dietro. Sbatté duramente a terra e sentì con chiarezza lo schiocco del polso che veniva incastrato tra il peso del suo corpo e la superficie dura del terreno. L'improvviso dolore lo fece quasi svenire. Colpi di pistola ruppero l'aria della notte subito dopo e Bannerman alzò
la testa sempre più sorpreso. Jones stava diritto in mezzo alla strada e sparava con il revolver verso il cielo sopra di lui, usando tutti e sei i proiettili e ricaricando immediatamente dopo. Appena ricaricata l'arma, corse a controllare il collega. Il dolore improvvisamente sopraffece Bannerman. Aveva la schiena in fiamme, una fucina incandescente di piombo fuso, con il dolore che bruciava tutto il corpo. Mentre Jones gli s'inginocchiava accanto, la pienezza di quel dolore divenne netta e acuta e cacciò un urlo agonizzante. «Oh Gesù, oh Dio», esclamò Jones quando vide le condizioni della schiena del suo compagno. Fu subito evidente che era ferito seriamente. Un pezzo di carne della grandezza di una palla da softball era stato strappato dal suo corpo nella zona dei reni e Jones vide lembi d'organi interni che uscivano dalla ferita. Il sangue fluiva in abbondanza, un piccolo fiume scuro che riversava le sue acque sull'asfalto. Bannerman gridò ancora di dolore. «Cristo», imprecò Jones, «Cosa faccio? Cosa faccio?». Prese una decisione. Un suono sibilante riempì l'aria e Jones seppe che la cosa che aveva colpito il suo collega stava ritornando per colpire ancora. Consapevole che sarebbe morto se non si fosse mosso, Jones si tuffò sulla sinistra, lontano da Bannerman. Ebbe la fugace visione di una sagoma alata, grande all'incirca come un uomo, e di un luccichio di artigli nella luce della luna, poi la cosa scomparve nell'oscurità velocemente com'era venuta. «Merda, Steve! Dobbiamo andarcene da qui». Strisciò carponi verso il compagno e cercò di aiutarlo a sollevarsi, sapendo che doveva cercare di portarlo in salvo malgrado lo sforzo apparisse inutile. Non avrebbe dovuto darsi pensiero. Una fresca, densa macchia di sangue sgorgava da una seconda ferita sulla parte alta della schiena del suo partner e Jones vide che una buona porzione del collo era stata squarciata durante l'attacco. Bannerman era al di là del dolore. Jones non esitò ulteriormente. Balzò in piedi e corse verso la macchina, con la testa incassata fra le spalle, pienamente consapevole della sua vulnerabilità. Tenne gli occhi fis-
si sull'auto, fiducioso di poter trovare protezione nella struttura d'acciaio, se l'avesse raggiunta in tempo. Quasi ci riuscì. Era più o meno a cinque metri quando l'Ombra della Notte colpì di nuovo, per la seconda volta. La bestia lo assalì da dietro il veicolo, sfiorandone il tetto. Balzò fuori dall'oscurità, una figura scura che si lanciava in avanti ad ali spiegate, simile a un demone dantesco direttamente uscito dalle profondità dell'Inferno. Mentre la bestia copriva in un batter d'occhio la distanza tra loro, Jones si gettò basso in avanti, in una scivolata frontale che lo portò al disotto della portata delle ali dell'Ombra e gli salvò la vita. Sentì gli artigli della cosa passargli radente tra i capelli, incidendo un solco sottile sulla superficie dello scalpo, ma senza penetrare in profondità. Immediatamente fu di nuovo in piedi, coprendo la distanza che lo separava dalla macchina un po' camminando e un po' arrancando; con uno strattone aprì la portiera e si buttò dentro. La chiuse sbattendo, la bloccò e afferrò la radio con la mano libera, il revolver ancora miracolosamente stretto nell'altra. Tutto il suo addestramento di poliziotto fu dimenticato nel panico e nella necessità di ottenere aiuto il più velocemente possibile. Premette il pulsante della trasmissione e cominciò a gridare nel microfono. «Aiuto! Ho bisogno di aiuto! Bannerman è morto e questa cosa è..». La portiera dell'auto fu strappata via. La bestia si allungò dentro e abbrancò il vicesceriffo per un braccio. Jones gridò inorridito e si girò a guardare. Per la prima volta vide da vicino cosa lo stava aggredendo. La luce interna della vettura d'ordinanza cadde su una faccia lunga e stretta, con orecchie appuntite e una bocca con diverse file di denti affilati e acuminati. Gli occhi gialli da gatto della cosa lo fulminarono, pieni di fame e di odio. Una mano spessa e deforme si chiuse come una morsa sull'avambraccio di Jones mentre la bestia lo trascinava fuori dall'auto. La testa sbatté contro il volante, un duro, doloroso colpo, e poi s'abbatté al suolo quando la bestia lo scagliò fuori dall'auto. Jones era confuso e disorientato per il colpo alla testa, ma sentiva ancora il peso rassicurante della rivoltella nella mano. Alzò il braccio e cercò di puntarlo in direzione della cosa che lo stava abbrancando. La pistola fece sentire la sua voce, sparando nella notte una successione di colpi tonanti. Così da vicino, non era possibile fallire il bersaglio. Jones vide ciascun proiettile colpire la bestia in rapida sequenza, respin-
gendola indietro nella strada. Gli artigli gli aprirono un lungo solco nel braccio, lacerando il tessuto dell'uniforme e la tenera pelle sottostante con uno sforzo minimo. Jones sentì l'immediato dolore e il caldo getto del sangue che fluiva, ma li ignorò, perché la sua attenzione era inchiodata allo spettacolo dell'enorme bestia alata di fronte a lui. Il sangue lo inondò, un colore rosso cupo, e zampillò nella notte in un rivolo scuro che scorreva dalle ferite della creatura. Solo per un istante i loro sguardi s'incrociarono, poi la bestia stramazzò al suolo e il contatto fu interrotto. Il suo addestramento riprese il sopravvento, Jones svuotò il tamburo del revolver e velocemente introdusse altre sei pallottole, senza perdere mai di vista la bestia. Quando ebbe finito cercò di mettersi in piedi, ma scoprì che era già in preda alle vertigini per la perdita di sangue. La bestia non si era rialzata e non si aspettava che lo facesse; niente di più piccolo di un grizzly poteva sopravvivere a tanto danno. Arrancò indietro verso la vettura per chiedere ancora aiuto via radio. Quando raggiunse l'auto, si stabilizzò contro la cornice della portiera e poi scivolò sul sedile anteriore Jones aveva appena sollevato il microfono quando un rumore attrasse la sua attenzione. Girò il capo. La bestia s'era tirata su a sedere e lo fissava. Il furore spumeggiava in quegli occhi gialli e una lingua biforcuta schizzò fuori tra le labbra sibilando rabbiosa verso di lui. Jones non era tuttavia concentrato sulla faccia della creatura perché, mentre guardava, i sei proiettili di piombo che aveva sparato nella bestia avevano lentamente invertito il loro corso e stavano riemergendo dalla carne della creatura con un lieve schiocco e una sottile pioggerella di sangue, che s'interrompeva immediatamente ogniqualvolta una pallottola cadeva libera a terra. Mentre Jones guardava atterrito, la cosa si mise in piedi e lanciò un urlo di sfida nell'aria della notte. La vescica di Jones si lasciò andare improvvisamente, riempiendo l'aria d'un penetrante odore d'urina. La bestia sembrò sorridere in risposta. Spalancò le ali, incombendo su di lui come una sorta di angelo vendicatore. Il suoi gialli occhi perforanti agganciarono per un istante quelli di Jones e si ritrovò completamente paralizzato dalla paura, con la pistola dimenti-
cata nella mano. La bestia balzò. Allora Jones urlò, un lungo acuto grido di totale terrore, mentre la bestia gli ghermiva la gamba in una presa d'acciaio e trascinava il suo corpo fuori dalla vettura. Lontano, nell'ufficio dello sceriffo, i centralinisti potevano udire le urla di Jones dal microfono aperto. Infine cessarono. Sostituite soltanto da qualcosa di gran lunga peggiore. Il rumore di un grosso animale che mangia. 19. Avvertimenti Mentre i due agenti giacevano morenti dall'altra parte della città, Sam era seduto sulla poltroncina girevole dietro al banco di assistenza geriatrica con tra le mani una copia piena di orecchie di It di Stephen King. Era a metà del suo turno quando sentì un debole grido. Si protese in avanti oltre la superficie del bancone per poter vedere nella hall. Era vuota. Un silenzio pesante gravava nell'aria, come una presenza fisica incombente. Rimase seduto là per un momento, ad ascoltare, e già si stava convincendo d'aver sentito il suono soltanto nella sua mente, un risultato dell'abilità di King di rendere viva la parola scritta, quando l'udì di nuovo. Solo che stavolta non si fermò. Questa volta proseguì in un lungo gemito, un suono disperato d'angoscia e di terrore che crebbe di volume finché fu impossibile per lui non credere che fosse reale. Per una frazione di secondo Sam fu paralizzato dall'orrore che sentiva in quel lamento. Poi la formazione professionale ricevuta s'impose, scattò in piedi e si mise a correre, con le suole di gomma delle scarpe che schiaffeggiavano il freddo pavimento di linoleum, il libro dimenticato sul bancone alle sue spalle. Il grido continuava. Sentì la fredda mano morta della paura afferrargli le budella e torcerle spietatamente. Insorse la nausea.
La sua mente correva in avanti, facendo del proprio meglio per giustificare con un'emergenza medica il perché una persona gridasse in quel modo. Quando questo tentativo fallì, l'immaginazione prese il sopravvento, evocando apparizioni di piccoli demoni oscuri che avevano attraversato le barriere del Mondo Sotterraneo, diavoli partoriti dall'Inferno che laceravano e dilaniavano carne tenera e vulnerabile; i loro denti, taglienti come rasoi, baluginavano perfidamente nella luce fioca della casa di riposo. Adesso era a metà strada nel corridoio. Erano passati solo pochi attimi da quando s'era catapultato fuori dalla sedia, ma mentre il grido cresceva e penetrava nelle sue orecchie, ogni secondo gli pareva un'eternità. Il tempo divenne un esercizio di ralenti cinematografico in cui Sam era il protagonista dello spettacolo. Si sentiva come se stesse nuotando in un fiume di melassa e avanzasse a malapena controcorrente. La sua mente l'incitò a correre più veloce. Il grido continuava ancora e ancora. Aveva il cuore in gola, al battito di un ritmo forsennato. Le mani erano fradice di sudore. Poi lo assalì un desiderio impellente di tapparsi ermeticamente le orecchie con le mani per chiudere fuori quel grido raccapricciante, ma fece in modo d'ignorarlo. Gesù, pensò, fallo smettere, ti prego, Dio, fallo smettere! Ma Dio non se ne curò o non stava ascoltando, perché quello non smise. Proseguì ancora, echeggiando nelle severe pareti dell'istituto. Sam ora stava superando le stanze singole; 301, 302, 303, 304... Con un sussulto comprese che il suono proveniva dall'ultima stanza sulla sinistra, l'unica che era isolata nell'angolo lontano del corridoio. La numero 310. La stanza di Gabriel. Come svoltò l'angolo, scivolando sulle piastrelle levigate, s'appoggiò contro la parete per mantenere l'equilibrio e il tempo tornò al suo ritmo normale. Per un terribile istante Sam pensò d'avere avuto un black out mentre i suoi sensi si ribellavano alle illusioni che la mente stava creando. Ma poi riguadagnò un minimo di controllo sul proprio corpo, e il grigio che gli stava montando dietro gli occhi svanì. Si fermò slittando sulla soglia della stanza. Nella frazione di secondo in cui gettò il primo sguardo all'interno, Sam pensò di avere avuto ragione, dei mostricciattoli infernali avevano davvero
fatto visita a Gabriel. Il vecchio si dibatteva selvaggiamente nel letto e Sam vide con orrore che c'era qualcosa accovacciato sul suo petto, una forma scura che lui stava colpendo con i pugni. La stanza era piena del frastuono delle urla. Quando gli occhi di Sam s'adattarono all'oscurità della stanza, si rese conto della verità. Gabriel aveva un incubo. L'oggetto sul torace non era nient'altro che il suo stesso cuscino. Il suo dibattersi era la conseguenza dell'essere intrappolato nelle lenzuola. Il sollievo pervase Sam come la carezza di un'onda fresca dell'oceano. S'avvicinò al fianco di Gabriel e cercò di svegliarlo. Gli sforzi del vecchio stavano solo peggiorando la situazione, perché ogni nuova scossa delle sue membra gli attorcigliava le lenzuola ancora più strette al corpo, tanto che si doveva sentire come una mosca catturata nella tela di un ragno. Il grido improvvisamente cessò. Al suo posto venne un gemito piagnucoloso che riempì la stanza, il pianto di un coniglio preso in trappola, e Sam a quel suono sentì i capelli rizzarglisi sulla nuca. La sua mente esitò un attimo di fronte al terrore che l'uomo stava vivendo per essere ridotto in quello stato. «Gabriel! Svegliati! È solo un sogno! Svegliati!», strillò Sam, sovrastando il suono lamentoso. A fatica Sam riuscì ad afferrare un braccio del vecchio e a inchiodarlo contro il materasso, rimanendo sorpreso dalla ferrea forza dell'uomo. Abbrancò anche l'altro braccio e lo perse, rimediando un pugno in bocca per il disturbo. «Gabriel, svegliati!». Questa volta la voce fu abbastanza forte da penetrare nel terrore dell'incubo di Gabriel e raggiungerlo. Si svegliò con un sobbalzo, e Sam aumentò la pressione sul suo braccio vedendo l'improvvisa paura che montava negli occhi dell'uomo. «Va tutto bene, Gabriel. Tutto bene. Sono Sam. Stavi solo facendo un brutto sogno, tutto qui, solo un sogno». Parlava con un tono di voce delicato, gentile e gradualmente il panico che vedeva sui rugosi lineamenti dell'uomo diminuì, per essere sostituito da un aspetto di totale sfinimento. «Oh, grazie di cuore, Sammy», gracchiò con voce stanca l'uomo più anziano mentre si lasciava andare sul cuscino.
«È tutto ok adesso, Gabriel. Stavi solo sognando. Fa' qualche respiro profondo e cerca di rilassarti». «È là fuori, Sammy. So che c'è. Lo sento. È là fuori che mi aspetta». «Non c'è nessuno là fuori. È stato solo un brutto sogno». «No, Sammy. Tu non capisci! Lui è là e sa che io so. È scappato, s'è liberato. Ma sono troppo debole ora, Sammy, troppo debole. Non posso fermarlo stavolta», disse. Sam guardò Gabriel che si girava a guardare fuori dalla finestra, nell'oscurità della notte. Sembrava stesse scrutando il cielo in cerca di qualcosa e parve alquanto sollevato nel vedere che non c'era, qualsiasi cosa fosse. Tornò a voltarsi verso Sam. «Lui sa. Sa dove sono. E verrà per me. Ricorda quello che ti dico. Imprimiti bene in mente le mie parole, verrà per me. E questa volta non sarà lui quello che perderà». «Andiamo, Gabriel. Non c'è nessuno che ti da la caccia. Hai fatto soltanto un brutto sogno». Ora anche Sam stava diventando nervoso, con l'agitazione di Gabriel che andava rapidamente diffondendosi, come una malattia infettiva. Calma, si disse. Il vecchio sta cominciando a perdere lucidità. Doveva succedere una volta o l'altra, giusto? Sam sospirò. Voleva bene a Gabriel, sinceramente. Era un paziente tranquillo, che non aveva mai bisogno di molto se non di qualche parola gentile qua e là, ma l'età avanzata era a un certo punto destinata a pareggiare i conti con lui, e sembrava che alla fine l'avesse fatto. «Sai che ti dico, Gabe. Mi metterò seduto qui vicino a te e ti farò compagnia. Così nessuno potrà awicinartisi senza passare su di me, ok?», disse, sorridendo per mostrare che non c'era niente da temere, mentre tirava una sedia vicino al letto. La mano del vecchio cercò la sua e Sam la strinse teneramente senza dire nulla, aspettando tranquillamente che Gabriel riprendesse a dormire. Quindici minuti più tardi, proprio quando si stava alzando per andarsene, sicuro che il vecchio riposasse pacificamente, Gabriel parlò nell'oscurità, in un lieve sussurro. «Guarda il cielo, Sammy. Quando arriverà sarà sulle ali di velluto della notte, rapido come la tenebra stessa. Sarà troppo tardi per salvare me ma non troppo tardi per salvare te stesso, finché guardi il cielo..». Sembra così sicuro, pensò mentre camminava verso la porta, e per un momento considerò di tornare indietro a interrogare il vecchio più detta-
gliatamente per verificare se ci fosse qualche concretezza dietro il suo discorso. Ma poi il respiro lieve dell'uomo gli giunse attraverso l'angusto spazio della stanza e cambiò idea. Ora è addormentato. Se lo svegli, servirà solo a spaventarlo di nuovo e potrebbe non essere più in grado di addormentarsi così facilmente una seconda volta. È meglio che lasci perdere. Probabilmente domattina non ricorderà più nulla, si disse Sam. Fu allora che guardò verso la finestra e vide la scura, massiccia sagoma appollaiata appena fuori sul balcone. «Oh, mio Dio!», esclamò in un soffio atterrito, con le braccia che gli si afflosciarono sui fianchi. Fu improvvisamente troppo spaventato per muoversi. È qui, pensò. La cosa di cui Gabriel ha paura è davvero qui! È venuta per lui, proprio come ha detto! Dopo un istante o due, quando la cosa, qualsiasi fosse, non si muoveva, Sam cominciò a dubitare di quello che vedeva. Qual è il tuo problema? si chiese irritato, costringendosi a muoversi. Non esistono cose come demoni volanti o qualsiasi accidenti si supponga possa essere. Probabilmente è solo una sedia che qualcuno ha dimenticato di riportare dentro, tutto qui. Trattenendo quell'idea bene in evidenza nella sua mente, Sam attraversò la stanza e pigiò l'interruttore sulla parete vicina al finestrone scorrevole che dava sul balcone. La lampada appesa al muro esterno s'accese, illuminando il balcone. Aveva avuto ragione. Era solo una sedia. Sentendosi molto più che stupido, Sam spense la luce e scivolò silenziosamente fuori dalla stanza. Ritornò alla sua postazione all'estremità opposta del corridoio e si mise a sedere. Riprese il libro con l'intenzione di ricominciare da dove aveva lasciato, ma si rese conto che non se la sentiva più. Non dopo l'incubo di Gabriel e lo sgomento dei momenti successivi. Sono già stato abbastanza spaventato per questa notte, grazie mille. Mettendo da parte il libro, afferrò una pila di cartelle e cominciò ad aggiornare i dati. Non vide la sagoma scura ritornare al balcone della stanza 310 alcuni istanti dopo che lui se n'era andato, non seppe mai che rimase per il resto della notte a guardare attraverso la finestra il vecchio che giaceva tranquillo nel suo letto.
Più di una volta si ritrovò a distogliere lo sguardo dalle sue occupazioni per sbirciare fuori dalla finestra nel buio, cercando non sapeva bene cosa nel cielo notturno. Non c'era mai niente là fuori, ma per qualche ragione questo non lo fece sentire affatto meglio. 20. Medicina legale Damon sedette fissando i rapporti della scientifica in un silenzio carico di tensione. Gli interrogatori di quella mattina non avevano prodotto niente di utile e anche questi documenti sembravano condurre a un vicolo cieco. La squadra scientifica aveva analizzato i proiettili recuperati sulla scena. Le prove balistiche dimostravano che venivano tutti dall'arma di Jones. Lo schiacciamento provava che avevano colpito il bersaglio, una conclusione confermata dalla presenza di tracce di sangue su ciascuno di essi. Al momento i tecnici non erano stati capaci di identificare il sangue come appartenente a nessuna specie conosciuta, portandoli quindi a concludere che le tracce erano in qualche modo contaminate. Ulteriori analisi erano in corso. Che brutto pasticcio. Gettando uno sguardo all'orologio, Damon capì che doveva muoversi se voleva arrivare in tempo all'appuntamento con Strickland. Lo sceriffo lasciò la stazione di polizia e raggiunse in macchina l'ufficio del medico legale. Scese con l'ascensore nell'interrato dell'ospedale insieme a tre chirurghi; il suo atteggiamento duro e scontroso, con il pensiero rivolto ai due agenti morti, indusse i medici ad affrontare la discesa in silenzio, evitando deliberatamente di guardare nella sua direzione. Al livello più basso Damon uscì dall'ascensore e percorse speditamente l'atrio finché arrivò all'obitorio. La stanza era completamente illuminata da vivide luci fluorescenti. Tre tavoli da autopsia erano disposti in modo geometrico, e sopra ciascuno di essi un pannello di lampade mobili era sospeso in modo da poter essere agevolmente manovrato. Larghi condotti di scolo solcavano il pavimento. Due tavoli erano occupati, con il contenuto coperto da teli di plastica bianchi. Attorno ai bordi della canalina di drenaggio, sotto il tavolo che ospitava la sagoma più grande, Damon vide una sottile schiuma rosa rimasta da quando i ripiani erano stati sciacquati dopo il lavoro del mattino. Le scarpe gli scricchiolarono mentre attraversava il linoleum ancora umido. Strickland si stava ripulendo a uno dei lavandini.
«Ciao, Ed», salutò Damon, entrando nella stanza. «Sceriffo». Ed si asciugò le mani e andò a chiudere la porta dell'obitorio, per difendere la loro privacy. «Ho passato le ultime dieci ore a fare autopsie multiple, prima sulla coppia dei Cummings e poi sui tuoi due agenti». Damon serrò le mascelle al pensiero dei suoi uomini assassinati ma non lo interruppe. «In ognuno dei casi ho trovato lo stesso tipo di tracce, gli stessi confusi problemi». Si avviò a uno dei tavoli da autopsia. Sopra giaceva un cadavere coperto da un lenzuolo bianco immacolato. Raggiuntolo, accese il pannello di luci sovrastante e tolse il lenzuolo per scoprire i resti di George Cummings. «La ragione per cui ti ho chiamato è semplice». Strickland esitò, respirò profondamente e poi disse: «Qualunque cosa abbia ucciso quest'uomo non era umana». Damon guardò per un attimo in silenzio l'amico e poi se ne uscì: «Vuoi ripetere?». Ed chinò lo sguardo sul cadavere di fronte a lui, con un'espressione sinceramente disorientata. «In tutti gli anni passati in patologia non mi è mai capitato d'imbattermi in qualcosa di così strano. Ogni volta che penso di essere sul punto di raggiungere una conclusione, trovo qualcos'altro che manda in pezzi la mia teoria. Non ho terminato tutte le analisi che intendo fare, ma ho la sensazione che una volta completate non saprò più di quanto so adesso, cioè praticamente niente. C'è solo una cosa di cui sono certo». Strickland sollevò gli occhi e incontrò lo sguardo incredulo di Damon: «Non è stato un essere umano a uccidere quest'uomo». Le parole restarono sospese in aria. Spostando le luci più in basso, vicino al corpo, Strickland cercò di spiegare. «Prima di tutto, la testa dell'uomo non è stata recisa dal corpo. È stata strappata». Si curvò sul cadavere. «Vedi questa lacerazione, qui?», domandò, indicando quello che era rimasto del collo dell'uomo. La carne in quel punto saliva e scendeva in creste diseguali. «Se il killer avesse usato un coltello o qualche altro oggetto tagliente per troncare la testa, vedremmo un taglio relativamente netto». «E se avesse usato una sega?», chiese Damon. «Quella non lascerebbe un bordo liscio, non credi?». «No, ma ci sarebbe una lacerazione uniforme. Questa è troppo diseguale
per essere causata dalla lama di una sega». Fece una pausa e alzò lo sguardo per accertarsi che Damon stesse seguendo la spiegazione. Poi Strickland continuò. «Ricordi il gioco che facevamo con le bocche di leone quando eravamo piccoli? Qualcosa come la mamma che ha un bambino e la sua testa sparisce di colpo?». «Non starai dicendo che...?». Stricldand accennò uno strano, amaro sorriso. «Sì, è esattamente ciò che sto dicendo. Qualcosa ha strappato la testa di quest'uomo dal suo corpo con la stessa facilità con cui noi staccavamo quei fiori dallo stelo». Damon fissò il cadavere con un rinnovato, totale senso d'orrore. «C'è di peggio. A eccezione degli occhi, ancora nella testa che hai recuperato nella toilette, e degli intestini che hai trovato appesi dovunque nella stanza, tutti gli altri organi molli del corpo sono stati rimossi». «Rimossi?». Un lieve tremito nella voce suggerì che già sapeva che cosa Strickland intendeva dire con quell'eufemismo. Ancora un sorriso. «Rimossi. Mangiati. Divorati. Usa il termine che vuoi. Per quel che posso dire, la bestia, qualunque cosa sia, gli ha preso il cuore, i reni, il fegato e persino la lingua e i testicoli». «Oh, Dio», esclamò Damon, mentre lottava per far accettare alla sua mente quello che stava udendo. «È esattamente quel che penso». Strickland allontanò le luci e coprì il corpo. Damon infine mise in ordine i suoi pensieri. «Come mai sei così sicuro che si tratti di un animale? Non potrebbe aver fatto la stessa cosa un essere umano, anche se molto malato? Pensa a quel ragazzo, Dahmer. Sarebbe certamente capace di qualcosa di simile». «Certo, immagino che sarebbe possibile. Ma non in questo caso. Nessun uomo lascia impronte di denti come quelle che ho trovato». «Impronte di denti?», fece eco Damon. Stava incominciando a sentirsi un po' lento di comprendonio. Ed si spostò all'altro tavolo. Accendendo le luci e tirando indietro il lenzuolo, come aveva fatto prima, scoprì la testa e gli arti di Cummings. «Le ossa sono state profondamente incise nel punto di distacco dal resto dell'arto. La mia prima impressione è stata che i segni fossero provocati da qualche tipo di attrezzo, forse uno svitabulloni o un'ascia, ma a un esame più attento ho capito che quelle in realtà erano le impronte lasciate dalla bestia quando ha schiacciato le membra tra le mandibole. I suoi denti sono curvati in dentro, ad angolo, così quando affondano nella pelle e colpisco-
no l'osso, lasciano traccia del loro passaggio», Ed girò il piede perché Damon potesse vedere la sezione trasversale esposta dell'osso, «e se guardi da vicino, vedrai che è stato succhiato anche il midollo. Anche se la creatura ha avuto meno tempo con Bannerman e Jones, i loro corpi presentano molti riscontri analoghi». «Gesù! Di che razza di animale stiamo parlando, Ed?». Il medico legale alzò le spalle. «Dio mi fulmini se lo so. Qualcosa di grande abbastanza da afferrare un uomo adulto. Qualcosa che non solo non ha paura di lui, ma che ne ama addirittura il sapore. Ma temo che ci sia dell'altro. Ho riscontrato la stessa strana mancanza di sangue su questo corpo come sul cadavere di Halloran». «Mi stai prendendo in giro, vero?». «Purtroppo no. Niente sangue, e le vene collassate nell'intero apparato circolatorio. Non riesco a spiegarlo ora più di quanto potessi ieri quando ti ho parlato. Non ho mai visto niente di simile». «Così, quello che stai dicendo è che qualsiasi cosa abbia ucciso Halloran, ha ucciso anche i Cummings». «Così pare». Damon era perplesso. «Perché non ha banchettato anche con Halloran? Perché solo con la coppia anziana e con i miei uomini?». «Chi lo sa? Potrebbe essere per diverse ragioni. Forse aveva solo sete, la prima volta». Il debole tentativo di battuta da parte di Strickland non fu colto da Damon. Per quel che ne sapeva, poteva non essere affatto uno scherzo. «Sei pronto per il resto?». «C'è dell'altro?», gli chiese Damon, incredulo. Strickland prese la testa dal tavolo e la girò perché Damon potesse vedere il foro della grandezza di un pugno sul retro del cranio dell'uomo. «Ha mangiato anche il cervello», aggiunse Strickland. 21. Confronto Più tardi, quella notte, Gabriel giaceva tranquillamente nella sua stanza, ripensando al passato. Una volta era stato giovane e vigoroso, ma quel tempo era lontano fino a essere svanito nella polvere. La sua fine si stava avvicinando, lo sapeva, e in un certo senso era la benvenuta. Alzò una fragile mano e la fissò, ricordando com'era molto tempo prima, liscia e forte, un'energia ragguardevole, non debole e malaticcia come adesso. Gli anni,
alla fine, avevano riscosso il loro pedaggio dalla forma fisica. Tuttavia, la sua mente era più lucida che mai, e decise d'avvalersi dei suoi poteri un'ultima volta prima di lasciare quel luogo. Sistemandosi sui cuscini, raccolse le energie e con un acuto sforzo mentale spinse la sua coscienza oltre i muri della clinica in cui era degente, nell'aria fresca e increspata della notte estiva. Mentre il Na'Karat aveva il potere di volare in modo fisico, Gabriel poteva farlo in altri modi, più autentici, e non li avrebbe cambiati per nulla al mondo. S'innalzò sopra gli edifici, godendo della sua libertà, poi scese in picchiata verso il bosco sottostante. Mentre lo faceva, un coniglio saltò fuori dalla macchia e smise di mangiare in una macchia di trifoglio. Come sarebbe vivere come fai tu, mia piccola creatura? chiese silenziosamente. Non avere responsabilità, preoccupazioni, dormire la notte senza il peso di dubbi soffocanti che t'affliggono come una lebbra che t'imputridisce dall'interno? Come sarebbe poter pensare solo al presente, senza preoccuparsi del futuro e del passato? Il coniglio s'irrigidì improvvisamente, come se sentisse la sua presenza, e con un'immediata accelerazione scartò sulla destra scomparendo nel bosco. Gabriel lo guardò sparire, seguendo i suoi passaggi tra gli alberi e ascoltando i lievi battiti del suo cuore. Augurò buona fortuna al piccolo amico di pelliccia, e poi spedì lo spirito a volare alto sopra la terra per vedere ancora una volta il mondo come quand'era giovane, prima della venuta dell'uomo e della guerra che aveva distrutto il suo popolo. Quando gli "occhi" ebbero visto abbastanza, ritornò al suo corpo e giacque là, nell'oscurità della stanza, aspettando. Invece di concentrarsi sullo scontro che sapeva sarebbe presto avvenuto, lasciò andare i suoi pensieri alla deriva. L'immagine di una donna prese forma nella sua mente. Era bella, una dea dai capelli d'oro, occhi verde smeraldo e labbra rosso ciliegia. Ah, Mira, mia bella Mira! Quanto tempo è passato? pensò malinconicamente. Il suo cuore soffriva per lei come aveva fatto in anni lontani, quando avevano camminato mano nella mano sotto le guglie dorate della loro bella città. L'amava con lo stesso ardore dei giorni della sua gioventù. Se possibile, quella devozione era diventata ancora più forte con il passare del tempo, fino a farlo quasi esplodere per il desiderio intenso di lei. Ricordava il suo volto chiaramente, come se l'avesse vista ieri; con gli occhi poteva disegnare nell'aria le sue curve morbide, delicate e sentire il calore del suo respiro sulle labbra. Sapeva che non sarebbe passato molto tempo
prima che fossero di nuovo insieme e in segreto desiderava ardentemente che il suo viaggio attraverso i secoli terminasse per potersi ricongiungere a lei nell'aldilà. Gabriel guardò le lancette dell'orologio e sperò che si muovessero più veloci. Alla fine scivolò nel sonno. Si ridestò poco più tardi e capì immediatamente di non essere più solo. La porta a vetro scorrevole che dava sul balcone era aperta e una brezza pungente entrava, facendo gonfiare le tende nella notte. Ai piedi del letto c'era l'Ombra della Notte. Si fissarono. A Gabriel la bestia parve orribile come il giorno in cui l'aveva rinchiusa sotto terra. L'Anziano rimase sgomento nel vedere che sembrava potente come quella notte di tanto tempo fa, come se segregarlo lontano dalla realtà le avesse permesso in qualche strana maniera di raccogliere le energie invece di togliergliele, come aveva inteso fare quando aveva creato la sua prigione. I muscoli della bestia si gonfiarono sotto la pelle e gli occhi luccicarono di astuta intelligenza. Gabriel improvvisamente temette di avere atteso troppo a lungo. Non c'era modo che Sam e i suoi amici potessero sconfiggerla, se era forte come paventava. Moloch fissava l'Anziano. Ira e odio crescevano in lui come un fiume in piena. Ecco colui che l'aveva perseguitato nei secoli. Ecco colui che aveva cercato di imprigionarlo per sempre senza forma o sostanza in un vuoto fuori del tempo nelle profondità della terra. Ecco il suo nemico. La bestia quasi rise. L'Anziano non era niente di più che il patetico involucro di quello che una volta era stato, e certamente non poteva competere con i poteri di Moloch. Ucciderlo non sarebbe stata una fatica, sarebbe stato un piacere. Gabriel ruppe il silenzio, parlando nell'antico linguaggio. «Ti pentirai d'essere venuto qui». Tenne la voce ferma, ma sospettò che la bestia avesse già visto il suo sgomento davanti all'evidente forza dell'avversario. Comunque, non gli avrebbe dato più soddisfazione del dovuto. «Io penso di no».
La voce di Moloch era più profonda, più gutturale di come la ricordava, e Gabriel si trovò a chiedersi se avesse subito qualche danno permanente per effetto della prigionia. «Non vincerai. Gli umani sono più forti ora, più capaci di affrontare le sfide che la vita posa ai loro piedi. Useranno la tecnologia per distruggerti». Moloch rise. «Non sono rimasto inattivo da quando sono libero. Ho osservato il bestiame. Ho visto di cosa sono capaci. Ho anche imparato che non credono a nulla se non a quello che possono toccare con mano. Hanno dimenticato il passato e fanno troppo affidamento sul futuro. Mostrerò loro di nuovo che cosa significa essere cacciati, e ancora una volta ricorderanno la paura». Gabriel, mentre la bestia parlava, aveva raccolto le forze. Mentre le sillabe finali le uscivano di bocca, Gabriel sferrò con la potenza del suo spirito un violento attacco mentale. L'Ombra della Notte barcollò sotto l'improvviso assalto. Era stata presa alla sprovvista, in modo inaspettato, e la scarica mentale dell'Anziano cominciò ad abbattere le sue difese interne, minacciando di ucciderla con la pura e semplice forza di volontà. La bestia fu letteralmente respinta via dal letto dalla potenza dell'attacco. Gabriel capì che stava avendo il sopravvento e investì la maggior parte delle sue riserve nell'attacco, sperando di sopraffare la bestia e di distruggerla prima che avesse l'opportunità di rivalersi. La fine non sarebbe stata così semplice, comunque. La bestia recuperò rapidamente il controllo, alzando le difese, proteggendosi, respingendo il potere dell'attacco. Gabriel tentò invano, per molti lunghi istanti, di aprirsi una breccia, ma inutilmente. Alla fine, esausto, fu costretto ad abbandonare l'assalto. Scuotendo il capo, Moloch avanzò sul letto e fissò di nuovo Gabriel. Non sembrava in alcun modo danneggiato dall'attacco, e la disperazione invase Gabriel per la prima volta dopo tanti anni. Doveva affrontare la verità, non era più in grado di competere con la bestia. A meno che Sam e i suoi amici riuscissero a sconfiggerla, l'Ombra della Notte avrebbe vinto. Katelynn era in biblioteca e stava leggendo, quando accadde. Un attimo primo era assorbita dagli archivi sulla vita del 1700, un attimo dopo il mondo sembrò restringersi su di lei, con una foschia nera che le oscurava
la vista. Si perse nel buio. Quando riemerse, non era più nella biblioteca. Si trovava nella stanza di Gabriel, alla casa di cura. Lui era seduto sul letto, e la fissava con un'espressione di paura e di smarrimento negli occhi. Era evidentemente esausto, ma sembrava richiamare le sue energie mentre la guardava, come se si preparasse a un confronto. Katelynn non capì cosa stava succedendo. Che ci faccio qui? Gabriel vide l'Ombra della Notte riprendersi dal suo attacco. La lingua della bestia saettò fuori dai denti e l'Anziano capì che la fine era vicina. Aveva esaurito l'energia in quell'ultimo sforzo di distruggere l'Ombra della Notte e sapeva che non sarebbe sopravvissuto a lungo alle grinfie della creatura. Era anche troppo evidente che Moloch intendeva farlo soffrire il più a lungo possibile. Gabriel non aveva alcun'intenzione di permettere che ciò accadesse. Mentre la bestia gli si avvicinava impettita, Gabriel raccolse le poche energie che gli rimanevano. Non aveva la capacità di sferrare un ulteriore attacco, ma c'era un'altra via d'uscita, qualcosa che da secoli aveva desiderato utilizzare. Moloch s'avvicinò ancora, aggirando il bordo del letto. Così da vicino Gabriel avvertì il fetore del suo alito puzzolente e sentì il rumore dei suoi artigli che graffiavano il linoleum del pavimento. La lunga lingua appuntita della bestia dardeggiò a saggiare l'aria, in cerca della paura che avrebbe dovuto promanare a ondate dal suo avversario. Gabriel attese pazientemente, lasciò che la bestia pensasse di aver vinto, lasciò che esultasse per il proprio successo, e così facendo guadagnò un altro momento di preparazione. Doveva essere certo di avere la forza per riuscire nel suo intento. Altrimenti, sarebbe stato troppo debole per tentare qualcos'altro. Sarebbe stato inerme nelle mani del suo nemico. Katelynn s'avvicinò al letto e guardò in giù mentre le sue mani trovavano la sbarra di sicurezza. Fu scioccata da quello che vide. Le mani erano cambiate, erano diventate ripugnanti. Erano squamate, come le zampe di una lucertola e di un color grigio-verde scuro. Ciascuna aveva quattro dita; tre si dipartivano insieme all'apice del palmo, la quarta, che s'opponeva alle prime, molto simile agli artigli d'un rapace. Ciascun dito aveva quattro nocche, gonfie e deformi, grosse come noci, alla cui estremità si protende-
vano lunghi artigli ricurvi che brillavano come avorio nella fioca luce della stanza. La mente di Katelynn turbinò a un ritmo vorticoso, cercando di spiegare quello che i suoi occhi stavano vedendo. Poi, come una secchiata d'acqua ghiacciata gettatale in faccia, il suo subconscio trascinò dalle profondità il ricordo di altri sogni, facendole accettare quel che stava accadendo. Con un piccolo sussulto d'orrore, capì. Non era più nel proprio corpo ma in qualche modo era stata trasportata dentro qualcos'altro e stava guardando attraverso gli occhi di questo anziché con i propri! Mentre avvertiva il battito del cuore pazzamente accelerato, poteva sentire anche quello della creatura nel cui corpo si trovava, un battito più profondo e più potente del suo, che pulsava a un ritmo assai più lento. Se si concentrava, come stava facendo ora, poteva percepire debolmente anche i pensieri dell'altro. Avverti un'ondata di odio così malvagia da farle desiderare d'essere vomitata fuori dalla forma che stava abitando. Che Gabriel l'avesse riconosciuta sotto questa forma era fuor di dubbio; c'erano ostilità e consapevolezza nei suoi occhi. Mentre la sua testa lottava con mille domande, si sentì parlare, con una voce che le suonò nelle orecchie come ghiaia calpestata. «È tempo di morire, vecchio stupido», disse. Piegandosi più vicino, Moloch aprì la bocca e mise in mostra numerose file di denti acuminati come bisturi. Usando l'ultima energia, Gabriel raggiunse le profondità del suo corpo e semplicemente ordinò al cuore di fermarsi. Morì con un sorriso sul volto, sapendo di aver defraudato l'Ombra della Notte della vittoria finale. Katelynn sentì la bocca aprirsi in modo inverosimile, sentì la lingua saettare tra le punte di denti mostruosamente lunghi, taglienti come ferri da chirurgo, mentre si chinava verso Gabriel. Nooooo! gridò mentalmente, ma fu impotente a fermare la discesa repentina di quelle terribili zanne. Quando i denti affondarono spietatamente nella fragile carne del collo del vecchio, la mente di Katelynn pietosamente trovò la forza di fuggire e ritornò di nuovo in sé, accasciata sul pavimento a fianco del tavolo su cui stava lavorando in biblioteca. Un acuto e lungo grido le stava uscendo dalle labbra. Sentì qualcuno che l'afferrava per le braccia e le gambe e, te-
mendo che la cosa, qualsiasi fosse, l'avesse seguita, si dibatté selvaggiamente, terrorizzata d'essere sul punto di morire. Un dolore improvviso si diffuse bruciante sulla guancia destra, riportandola alla realtà. La bibliotecaria di mezz'età che l'aveva schiaffeggiata era accovacciata accanto a lei, con una mano in aria pronta a vibrare un secondo schiaffo, se fosse stato necessario. Due studenti le tenevano ferme braccia e gambe contro il pavimento. Le labbra di quello ai suoi piedi erano rosse e si stavano gonfiando e Katelynn capì con profondo smarrimento che doveva averlo colpito in volto mentre si divincolava. «Resti giù», disse la donna più anziana. «Ha avuto una specie d'attacco. Stia distesa ancora un po'. La guardia medica è in arrivo». La donna le sorrise, ma Katelynn riconobbe paura e preoccupazione sul suo volto. Probabilmente pensa che sia pronta per il reparto psichiatrico, rimuginò tra sé. Con sgomento crescente capì che la donna poteva avere ragione. D'improvviso volle disperatamente uscire di lì e, assicurando i suoi soccorritori che stava bene, si rialzò, raccolse velocemente i libri e uscì nella sera, ignorando le loro proteste. Gli incubi delle notti precedenti si affollavano in lei, spronando la sua paura. Ora sapeva che erano molto più che semplici incubi, sapeva che il contatto che aveva realizzato in quel regno crepuscolare l'aveva seguita nel mondo reale. Solo Dio sapeva cos'altro sarebbe accaduto. Quando comprese che il suo nemico s'era tolto la vita prima che potesse compiere la sua vendetta, Moloch perse il controllo. Infierì sul cadavere fresco, strappandone gli arti dal corpo con frenesia; dilettandosi ad affondare nella carne tenera gli artigli, come se fosse burro. Gridò la sua rabbia e la sua frustrazione, senza preoccuparsi, adesso, d'essere udito da qualcuno degli umani. Se fossero stati tanto stupidi da indagare, avrebbe squartato pure loro. Più tardi, quando ebbe sfogato la rabbia e il corpo fu a malapena riconoscibile come qualcosa che una volta era stato un umano, Moloch se ne andò per la via da dove era venuto; lasciò la porta di vetro scorrevole aperta dietro di sé e dal balcone spiccò il volo nelle tenebre. Mentre ritornava al suo trespolo, scivolando agevolmente nelle oscurità della notte, meditò sugli eventi della serata. Poco prima d'uccidere l'Anziano, aveva sentito la presenza di un altro essere là in quella stanza assieme a loro. Eppure era certo che la stanza fosse vuota a eccezione dell'Anziano e di
lui stesso. E allora, come spiegare la sensazione che qualcuno li stesse guardando? O il grido che aveva udito mentre i suoi denti laceravano la gola del vecchio sciocco? Non lo sapeva. Ma era determinato a scoprirlo. Per ora, pensò, poteva aspettare. Saziata la fame, Moloch si sentì pesante, gonfio, pieno. Il quieto oblio del sonno e i dolci sogni lo invitavano. Decise che avrebbe riposato prima di cercare le risposte a quelle domande. Dopotutto, ora che il suo vecchio nemico era morto, cosa aveva da temere? Era ancora una volta il padrone della notte e nulla gli avrebbe sbarrato il passo. Gli sciocchi umani avrebbero riscoperto la paura dell'oscurità, e lui li avrebbe dominati dal suo giusto ruolo di Re. Ah, quanto divertimento stava per prendersi, pensò allegramente la bestia mentre volava sulla via di casa. 22. Un messaggio dall'aldilà In precedenza quella stessa sera attorno alle sette Jake sedeva nell'appartamento di Sam, aspettando che l'amico finisse di vestirsi. All'inizio della settimana Sam aveva scambiato i turni di lavoro con un collega per poter andare a una festa organizzata per Dana Sandings, una sua amica, e Jake con riluttanza aveva accettato di accompagnarlo. Anche se starsene seduti in mezzo a una comitiva di letterati non era la prima scelta di Jake per una serata fuori, era sempre meglio che restare in casa da soli. Quando arrivarono il party era in pieno svolgimento, con la gente che riempiva l'appartamento e si riversava sul terrazzo retrostante. Jake si fece strada tra gli invitati alla ricerca del bar, mentre Sam afferrò una Pepsi da un vassoio di passaggio, salutò quelli che conosceva e passò un po' di tempo mischiandosi a quelli che non conosceva. Dopo un po' sentì qualcuno arrivargli dietro e battergli leggermente sulla spalla. Si voltò e trovò Jake. «Vieni, devi vedere una cosa», disse l'amico. Jake si rituffò tra la folla, dirigendosi verso una delle stanze sul retro. Raggiunsero una porta chiusa, che Jake aprì piano, facendo cenno a Sam di precederlo. La stanza in cui entrarono era quasi completamente al buio, con quattro
candele come unica fonte di illuminazione. Alla loro debole luce, Sam poté scorgere cinque o sei persone sedute in un largo semicerchio sul pavimento in mezzo alla stanza, davanti ad altre due. I due a loro volta sedevano uno di fronte all'altro, con una specie di tavola da gioco davanti. A Sam ci volle un attimo per capire che era una tavoletta Ouija. Ti va di vedere? pensò tra sé. Aveva sempre desiderato provare una Ouija ma non ne aveva mai avuto l'opportunità. S'avvicinò. Nella luce fioca, Sam riconobbe in uno di quelli del gruppo Dana, la loro ospite. Non era una sorpresa. Sapeva che si dilettava di cose del genere, come trance spiritiche, predizione della fortuna, lettura della mano e quello che lei definiva comunicare coi morti; il tutto come risultato dall'avere per madre una zingara rumena, lei diceva. Mentre lui guardava, Dana iniziò a parlare. «Gli spiriti sono dovunque, vedono e sanno tutto. Sono sempre attorno a noi; nell'aria che respiriamo, nel fumo delle candele, nella luce della fiamma, sempre presenti ma lontani da noi per colpa del nostro scetticismo sulla loro esistenza. È una cosa che si deve superare, se si vuole ricevere un messaggio». All'improvviso si rese conto che Jake s'era seduto ai bordi del cerchio e si mosse per raggiungerlo. Gli altri notarono la loro presenza ma non dissero nulla. Nessuno voleva interrompere Dana. «Per entrare in contatto con qualcuno dall'altra parte, dobbiamo tutti ripulire le nostre menti dal dubbio. Gli spiriti cercano costantemente di comunicare con noi su questo livello, con il nostro aiuto ci riusciranno. Se non credete, ma desiderate restare ed essere testimoni della loro presenza in mezzo a noi, dovete ripulire la vostra mente da tutti i pensieri negativi. Abbiate solo pensieri positivi. Non importa cosa siano, purché siano pensieri felici. Gli spiriti useranno l'energia da voi prodotta per aiutarsi a penetrare la barriera e raggiungerci». «Con chi dovremmo dialogare?», chiese un uomo con i capelli scuri. Dana chiese: «C'è qualche richiesta particolare?». Si fecero parecchi nomi: John F. Kennedy, Jim Morrison, Ben Franklin, Adolf Hitler, Ted Bundy. Dana alzò le mani per chiedere silenzio e quando lo ebbe ottenuto, guardò Sam. «Scegli qualcuno», disse. Sam fu preso alla sprovvista. Con chi voleva parlare? Jake suggerì. «Che ne dici di quel gesuita che si dice infesti la biblioteca dell'Università di Benton, Padre Castelli?». Sam fu d'accordo. Andava bene come un altro.
«Ok. Vada per Padre Castelli». Dana si rivolse a Jake. «Perché non vieni qui e non mi aiuti con la tavola?», chiese. Jake stava quasi per rifiutare quando Sam gli diede una secca gomitata. «Ne sarebbe felice», rispose Sam per lui. Jake si sollevò e attraversò la stanza, sedendosi come un indiano davanti a Dana, con la tavola Ouija tra loro. «Non l'hai mai fatto prima?», lei domandò. Jake fece di no con la testa. Sam s'accorse che faceva del suo meglio per trattenersi dal ridere. «Ok, allora. Posa le dita sulla planchette. No, così è troppo pesante. Fallo con mano leggera, devi toccarla appena». Jake eseguì e Dana disse: «Bene, così va molto meglio». Chiuse gli occhi e fece parecchi respiri profondi. Sam si guardò attorno e vide che tutti gli altri fissavano intensamente la planchette. Scambiò uno sguardo carico di umorismo con Jake e stava per seguire l'esempio degli altri quando Dana disse: «Sam, perché non vieni qui e prendi il mio posto? Non devo essere io a usare la tavola per procurare un canale spirituale a quelli che devono transitarvi. So che tu e il tuo amico molto probabilmente siete scettici. Così nessuno di voi potrà dire che sono io a muovere la planchette». Sam assentì entusiasticamente. «Ho la vostra parola che nessuno di voi muoverà consciamente la tavoletta?». «Certamente», disse Jake. Anche Sam annuì. «Ok. Ognuno chiuda gli occhi. Liberate la mente da tutti i pensieri estranei; lasciate che il mondo esterno scorra via. Immaginate che la vostra mente sia un apparecchio televisivo e che l'unica cosa che voi state ricevendo siano scariche d'energia statica. Quando sentite che avete raggiunto il giusto stato di consapevolezza, potete aprire di nuovo gli occhi. Casey, ti spiace leggere le lettere quando la planchette si ferma su di loro?». La donna seduta alla sinistra di Sam acconsentì. Sam lasciò che i suoi occhi si chiudessero e cercò di seguire le istruzioni di Dana, con un piccolo fremito di eccitazione che gli cresceva nello stomaco. Immagina se veramente riusciamo a contattare qualcuno, pensò tra sé. Non sarebbe già qualcosa? Alcuni diedero un piccolo sussulto; Sam aprì gli occhi e trovò che Jake e tutti nella stanza stavano guardando in direzione di Dana. Sam fece altrettanto.
Gli occhi di Dana erano riversi indietro, nelle loro cavità, in modo tale che si vedeva solo il bianco dei bulbi oculari. Un trucco, pensò Sam, un po' contrariato dalla sceneggiata. Alcune voci mormorarono da qualche parte ai bordi della stanza. «Silenzio», sibilò Dana, e immediatamente ritornò la quiete. Con una voce bassa dalla cadenza stranamente cantilenante, cominciò a parlare. «C'è qualcuno là fuori? Qualcuno mi sente?». Sam iniziò a chiudere nuovamente gli occhi. Mentre lo faceva, diede uno sguardo all'orologio sulla parete e annotò in un angolo della mente che mancava un minuto a mezzanotte. «C'è qualcuno là? Stiamo cercando d'entrare in contatto con Padre Castelli. Può sentirmi, Padre?». Improvvisamente Sam si rese conto che due cose accadevano contemporaneamente. Davanti a lui Jake s'irrigidì e la planchette diede uno strappo sotto le loro dita. Sam gettò un'occhiata a Jake, ma aveva la testa abbassata e non incontrò il suo sguardo. È Jake a muovere questo affare? «C'è qualcuno...?», Dana fece una pausa, e sussurrò al gruppo. «Sento gli spiriti. Sono tutti attorno a noi, e si agitano per parlarci. Sento una grande ansia tra loro. Ciascuno si concentra per arrivare a Padre Castelli. Per fargli sapere che desideriamo parlare con lui. Casey, per favore vorresti leggere le lettere sulla tavola quando il contatto sarà stabilito?». «Può sentirmi, Padre?», continuò. Sotto alle sue dita Sam sentì la planchette muoversi ancora. Diminuì la pressione, finché le dita la sfiorarono appena. Voleva essere sicuro di non essere lui a provocarne il movimento. Vide il resto del gruppo piegarsi in avanti impaziente di vedere gli sviluppi e questa volta tenne aperti gli occhi come tutti gli altri. «Padre? È qui, Padre Castelli?». La planchette cominciò a fare pigri e lenti cerchi sulla tavola e Sam sentì un leggero formicolio sulla punta dei polpastrelli, come se una debole corrente gli stesse attraversando la carne. La planchette prese a muoversi più veloce poi, bruscamente, attraversò la tavola fino in alto a sinistra, centrandosi sulla parola «sì». Tutto il gruppo rimase senza fiato. «Chi è?», domandò Dana ad alta voce. La planchette girò senza meta per un attimo e poi calò sulla doppia fila di lettere al centro della tavola. «M», lesse Casey, e poi: «A... T... T... H... E... W». La planchette fece
una pausa e così pure Casey. Subito dopo, come per segnalare l'inizio d'una nuova parola, continuò. «C... A... S... T... E... L... L... I». «È Padre Castelli?», chiese Dana, soltanto per esserne certa. La planchette immediatamente tornò sul SÌ. Dana disse: «Ora il contatto è più forte. Gli spiriti hanno superato la barriera e i loro messaggi ci risulteranno più chiari». Comunque, prima che Dana potesse porre la domanda successiva, la planchette cominciò a roteare senza meta sulla tavola prima di comporre una nuova parola. «A... T... T... E... N... T», Casey disse in risposta con voce leggermente tremante. Stupido spirito, non sa nemmeno scrivere, pensò Sam tra sé. Come se l'avesse sentito, Dana disse: «Spesso uno spirito omette qualche lettera, è una circostanza abbastanza frequente, specialmente se il soggetto è morto da molto tempo». «È questo il tuo messaggio?», chiese. «Attenti?». «SÌ». «Attenti a cosa?», domandò lei. Un brivido freddo risalì leggero la spina dorsale di Sam. La planchette correva più veloce, come guidata da una mano invisibile spinta da un'urgenza. Casey sillabò le lettere con una voce carica di eccitazione. «M... A... L... E - M... A... L... E - M... A... L... E. Sta ripetendo la parola "male" più e più volte». La planchette venne a fermarsi al centro della tavola. Sam modificò leggermente la posizione per sentirsi più comodo. «Non staccare le mani, Sam! Interromperesti il contatto», disse Dana. L'avvertimento comunque non era necessario. Sam era talmente assorbito da ciò che stava accadendo da non prenderlo neppure in considerazione. Dana prosegui. «Che cosa è male? Può dirci a quale male dobbiamo stare attenti, Padre Castelli?», la sua voce era un quieto bisbiglio nella stanza silenziosa. Immediatamente: L... A... S... V... E... N... T... U... R... A... D... I... B... L... A... K... E. «Sventura?», domandò qualcuno. Questa volta fu Jake a rispondere, con voce bassa ma ferma: «Vuol dire causa di morte o rovina». Si sentì un'altra voce dal fondo della stanza. «Dice Blake. Pensate che
intenda Hudson Blake?». Nessuno seppe rispondere. Dana decise di chiedere la precisazione. «Ci può spiegare che cos'è, Padre?». La planchette restò immobile. Dana ripeté la domanda due volte, ogni volta più lentamente. Dopo quello che a Sam parve un secolo, la planchette finalmente si mosse. Ma questa volta fu diverso. Anziché con morbidi movimenti circolari, si mosse a scatti, strattonando spasmodicamente sulla tavoletta. «A... T... T... E... N... T... I... L... U... I... P... U... Ò», lesse Casey, per quelli che non vedevano l'indicatore. Sam aveva lo sguardo fisso sulla tavola. La planchette si muoveva ancora precipitosamente sulla superficie, scartando a destra e a sinistra come un pupazzo su una cordicella. Il formicolio nelle braccia si era fatto quasi doloroso. Voleva ritirare le mani e interrompere il contatto, ma qualcosa lo costringeva a tenerle lì. Cercò di rassicurarsi. Dev'essere Jake, pensò. Jake sta compitando messaggi per spaventare tutti. «Padre Castelli? È ancora con noi, Padre?», chiese Dana. Poi una strana espressione le attraversò il volto, in parte una smorfia e in parte incredulità. «Chi c'è?», chiese. «Chi desidera parlare con noi?». Sotto le sue mani, Sam avvertì la tavoletta scivolare lentamente, poi con decisione. Vide con grande sorpresa che componeva un messaggio diretto espressamente a lui. R... I... C... O... R... D... A... I... L... M... I... O... A... V... V... E... R... T... I... M... E... N... T... O... S... A... M... M... Y. Sam sedeva là, sbalordito. Attorno a lui, quelli che potevano vedere la tavola emisero un singulto di sorpresa e poi lo guardarono in modo piuttosto strano, come se avessero appena scoperto qualcosa di misterioso in mezzo a loro. La planchette riprese a muoversi ancora. ADDIO, SAMMY, si lesse. Quel sottile brivido di paura si trasformò in una mano serrata che strizzava selvaggiamente la sua spina dorsale. Poi, con la rapidità di un serpente che colpisce, la tavoletta scrisse un altro messaggio. STUPIDI! NÉ VOI NÉ IL VECCHIO POTETE FERMARMI ORA! VI MACELLERÒ DA BESTIAME QUALE SIETE.
Vedendo quel messaggio comporsi davanti a sé, Sam sobbalzò, interrompendo quasi il contatto. Per ciò che accadde poi, si pentì di non averlo fatto. Dana gemette. Sam la guardò e rimbalzò indietro per lo shock. Era scossa violentemente, come se una corrente ad alto voltaggio le stesse attraversando le vene. I denti sbattevano e quel suono riempì velocemente la stanza come la carica d'un branco di scheletri. La mano sulla spina dorsale strizzò più forte. Non può essere Jake a farle fare questo, disse la sua voce interiore. Nella stanza tutti furono congelati in uno stato di shock. Nessuno si mosse per aiutarla. Alle sue spalle Sam fu sorpreso di vedere Katelynn con lo sguardo fisso nella loro direzione, con il volto pallido come quello di un fantasma. Era stato così coinvolto da non accorgersi nemmeno del suo arrivo. Sotto le sue dita, Sam sentì la planchette riprendere a muoversi ancora con movimenti deliberatamente lenti. Con voce rotta dalla paura, Casey lesse il messaggio a voce alta. «DITE ADDIO A DANA». Come se rispondesse, Dana improvvisamente gridò. L'eco del suo strillo interruppe la paralisi che aveva attanagliato tutti quanti. Sam balzò via dalla tavola come se fosse viva. Jake afferrò Dana. Si stava ancora dibattendo, ora più violentemente. I suoi talloni sbattevano frenetici sul pavimento. «Ha un attacco convulsivo!», gridò qualcuno. «Accendete le luci!». Qualcuno assecondò la richiesta e un attimo dopo la stanza fu inondata dalla luce elettrica. Sam recuperò il suo buon senso e andò ad aiutare Jake, che teneva fermi i piedi di Dana. Qualcun altro, pensò si trattasse di Bill, le immobilizzava le braccia. Dalla sua bocca usciva sangue e Sam capì che i denti avevano morso la lingua. Probabilmente l'ha quasi tagliata a metà. Vide che Jake le comprimeva i lati delle mandibole nel punto preciso di un nervo e la costringeva a spalancare la bocca. Dentro c'era un disastro; sangue e saliva mischiati in una schiuma rossastra che non permetteva di vedere quanto danno s'era procurata. Cercando di trovare il modo di impedirle di lacerarsi ulteriormente, Jake le infilò il portafogli tra le mascelle e lasciò andare la presa. I denti immediatamente scattarono sulla superficie di pelle del portafo-
gli come una morsa caricata a molla. Katelynn si spinse verso di loro. «Qualcuno chiami l'ospedale e faccia venire immediatamente un'ambulanza», disse al gruppo. Si girò verso Jake. «Va meglio?». «Non so. Qualcuno sa se è epilettica?», chiese. Nessuno lo sapeva. Passò un altro minuto. Le convulsioni diminuirono e poi cessarono del tutto. Dana giaceva nelle braccia di Jake, stremata ma cosciente. Katelynn le tolse il portafogli dalla bocca e cercò di rassicurarla. «Stai calma. Hai avuto una crisi. I soccorsi stanno arrivando, rimani sdraiata». Il suo sguardo ruotò nella stanza, largo e vacuo, senza realmente distinguere nessuno di quelli che le stavano attorno. Poi vide Jake. S'irrigidì nelle sue braccia, con gli occhi che s'andavano dilatando quasi comicamente. La mano destra salì ad afferrargli il davanti della camicia e tirò verso il basso, cercando di avvicinare il volto di lui alle sue labbra. Gli disse qualcosa, ma Sam era troppo lontano per sentire. Jake impallidì. Poi la squadra di soccorso fece il suo ingresso, e tutti si tirarono indietro per lasciare un po' di spazio per lavorare. Sam, Jake e Katelynn indietreggiarono come gli altri, e si resero conto che tutt'intorno la festa s'era rapidamente dissolta. Solo poche persone erano ancora nell'appartamento. Katelynn era al fianco di Sam, bianca come un cencio. «Che è accaduto là dentro?», gli chiese. «Non ne sono sicuro. Stavamo usando la tavoletta Ouija e lei improvvisamente è impazzita, ha avuto una specie d'attacco». Rabbrividì. Jake stava muovendo la planchette, continuava a ripetersi. Solo Jake, nessun altro. La vocetta interna parlò di nuovo. Perché non lo chiedi a lui, disse, e decise di farlo. I paramedici posarono Dana su una barella e la portarono giù per le scale. Jake, Sam e Katelynn seguirono la squadra di soccorso fuori dall'edificio e stettero a guardare mentre Dana veniva caricata in ambulanza. Con le luci lampeggianti, il veicolo s'avviò rombando verso i cancelli del complesso. Jake si girò a fronteggiare Sam. Bastò uno sguardo agli occhi di Jake e Sam sentì crescere la paura. Il sangue scorreva gelido e lento nelle sue vene. Si strinse le braccia attorno al petto nell'inconscio tentativo di riscaldarsi. Jake è spaventato, si rese conto, riconoscendo l'espressione negli occhi
dell'amico. Questo l'impaurì più di qualsiasi cosa accaduta quella sera. Se Jake è spaventato, disse a se stesso, allora io dovrei essere terrorizzato. Improvvisamente capì di esserlo. Quello che disse Jake subito dopo peggiorò ancora le cose. «Eri tu a muovere quell'aggeggio, Sam?». La domanda lo paralizzò lì dov'era. Intorpidito, Sam scosse la testa. Non voleva sentire il seguito, ma non c'era scampo. «Non ero nemmeno io, Sam. Lo giuro». Accanto a loro, Katelynn disse: «Se non eri tu, e non era Sam, allora chi..». Jake poté solo scuotere il capo in risposta alla domanda. Ma Sam pensava di sapere. C'era solo una persona che lo chiamava Sammy. Gabriel. Qualcosa doveva essere successo. Si girò e cominciò a farsi strada tra la gente, cercando disperato di raggiungere la macchina, con un'improvvisa paura tanto pressante che non si curò nemmeno di dire ai suoi amici dov'era diretto. I due rimasero là per alcuni minuti mentre la folla si disperdeva, ciascuno perso nei propri pensieri, finché Katelynn ruppe il silenzio. «Lei, cosa ti ha detto, Jake?». Jake esitò, poi con tono rassegnato rispose. «Ha detto che uno di quelli presenti nella stanza morirà presto». In distanza, la sirena di un'ambulanza urlò come un presagio di morte nell'oscurità delle tenebre. 23. Tessere di un puzzle Senza attendere d'essere soli, i due s'incamminarono verso l'Hemingway, caffetteria e Internet point aperto tutta la notte situato dalla parte opposta del campus. Il locale era costituito da una lunga stanza zeppa di curiosità e mobili di fine serie; tavoli e sedie, sofà disassortiti e divanetti, persino alcuni separé di un fast food ormai defunto, davvero ogni tipo di cosa su cui gli studenti riuscivano a mettere le mani. Alla sinistra del bar c'era un minuscolo palcoscenico e durante la notte poeti e scrittori, che costituivano la tipica fauna del locale, potevano salire a leggere estratti delle loro opere, mentre gli altri stavano attentamente ad ascoltare o chiacchieravano sottovoce tra di
loro. Le pareti erano rifinite in legno grezzo, decorate qua e là da avvisi di sedute letterarie di poesia e volantini di un'infinità di gruppi politici e artistici. Presero posto sul fondo, lontani dalla maggior parte degli altri tavoli, in modo da poter parlare liberamente senza essere ascoltati. Katelynn fu la prima ad affrontare l'argomento. «Che sta succedendo, Jake?». «Accidenti a me se lo so», rispose scorbutico, ancora sconcertato sia per quanto era accaduto alla festa sia per l'insolito comportamento di Sam, immediatamente dopo. «Andiamo, Jake. Parlo seriamente». «Anch'io, Katelynn. Non ne ho la minima idea. Il guaio è che trovo un cadavere tutte le volte che mi giro. Aggiungendo la tavola Ouija e la comunicazione coi morti, non mi sento affatto meglio. Per non parlare di Sam che è scappato in quel modo». Jake si versò un'altra birra dalla caraffa che aveva davanti sul tavolo. Per quanto non lo volesse ammettere, era spaventato. Ubriacarsi gli sembrava la soluzione giusta e decise di mettere in atto il piano senza indugio. «In ogni modo, che diavolo ci facevi tu al party? Pensavo che dovessi studiare, questa sera». «Infatti. È successo qualcosa». Si prese il suo tempo, spiegando i sogni che aveva fatto e l'"attacco" avuto alla biblioteca. Gli raccontò della sconvolgente sensazione di guardare attraverso gli occhi di un altro e della crescente convinzione che quello che stava vedendo non era immaginario ma reale. Comunque, Jake aveva avuto abbastanza stranezze in una sola notte. «Andiamo, Katelynn. Non puoi crederci davvero». «Perché no?». «Perché è pazzesco, ecco perché», la rimbeccò seccamente, ma vedendo l'espressione di lei decise di usare una tattica diversa. «Guarda», disse più gentilmente, «pensaci con razionalità per un momento, ok? Sei vittima di un grande stress, tutti lo siamo. Il killer ci sta rendendo tutti nervosi. «E mi fa avere le traveggole, è questo che stai dicendo?». «Sì. Ieri pomeriggio ti ho parlato del corpo che abbiamo trovato a Stonemoor e di notte hai sognato Hudson Blake. Questo spiega perché il tuo subconscio trasferisce quello che hai sentito dentro i tuoi sogni notturni, mentre dormi». «Ma qualcosa gli è accaduto proprio mentre lo vedevo nel mio sogno». Jake scosse il capo. «Non per davvero. Pensaci. Hai detto che nel sogno
hai visto Hudson Blake, mentre alla tenuta non abbiamo scoperto il corpo di Blake, abbiamo trovato il suo maggiordomo. E stasera hai visto Gabriel, ma per quanto ne sappiamo gode di perfetta salute. Non sappiamo se sia accaduto qualcosa a Blake - è soltanto sparito. È proprio il tuo subconscio ad aggrapparsi alle cose che sai e a trasformarle con la tua paura e il tuo nervosismo dovuti al fatto che la polizia non ha ancora catturato il killer». Katelynn non era convinta. «Come spieghi stanotte allora?», lo sfidò. «Cosa, di stanotte?». «Come spieghi la tavola Ouija o quello che è capitato a Dana». Esasperato, Jake replicò: «Può essersi trattato di una quantità di cose. Sam può aver mosso l'indicatore di proposito. Può aver mentito quando ha detto di non essere stato lui, solo per prenderci in giro. Oppure può essersi effettivamente mosso da solo, come effetto dell'insorgere di elettricità statica tra me e Sam. Diavolo, ci sono migliaia di motivi per cui si può essere spostato. E la cosa meno plausibile è che noi stessimo veramente parlando con il morto. È stata semplicemente una coincidenza che Dana abbia avuto un attacco epilettico proprio in quel momento. Probabilmente è stato provocato da tutta l'eccitazione della festa». «E allora, cos'è successo a Sam? Perché è corso via in quel modo?». «Non lo so. Può aver perso la bussola per il malessere di Dana». Trovando la caraffa vuota, Jake si girò sulla sedia cercando la cameriera. «Andiamo, Jake. Non suona tutto un po' troppo una forzatura?». Senza sospendere i suoi tentativi di far segno a una cameriera, Jake rispose: «No. Di sicuro suona assai più ragionevole della robaccia di cui vai blaterando». Katelynn ne aveva avuto abbastanza. Che fosse per la paura o che fosse infastidita da quanto Jake aveva sbevazzato in così poco tempo, era meno tollerante del solito. Il fatto che Jake l'avesse trattata così male la fece infuriare. Scivolò fuori dalla panca, prese Jake per il mento e gli girò la testa verso di sé. «Sai che cos'è una testa di cazzo, Jake?», chiese, e continuò senza dargli il tempo di rispondere. «Te lo dico io. Una testa di cazzo è uno che non riesce a vedere la verità nemmeno quando è lì davanti a lui. Grazie per l'aiuto. Penso che riuscirò a capirlo da sola». Jake riuscì solo a fissarla. Che diavolo hanno tutti quanti, stanotte? La mente annebbiata dalla birra ormai non poteva mettere insieme due più due. Senza dire altro, Katelynn si girò e attraversò infuriata il locale, scomparendo fuori dalla porta. Per un attimo Jake considerò se seguirla, ma re-
spinse subito l'idea. Lei probabilmente non gli avrebbe rivolto la parola e se aveva voglia di fare la stronza, allora era meglio lasciarla da sola. Dopo un po' si sarebbe calmata. E poi forse avrebbe parlato sensatamente. Ricominciò a cercare di far segno a una cameriera e fece del suo meglio per dimenticare quello che gli era successo negli ultimi giorni. Era più di quel che volesse pensare in quel momento. 24. L'ultimo di una nobile stirpe Qualcosa di terribile era accaduto a Gabriel. Sam ne era certo e, mentre procedeva a tutta velocità sulla strada, la sua paura cresceva a ogni miglio che scorreva sotto le ruote. Vide i lampeggianti blu non appena girò sul lungo viale alberato che conduceva all'edificio principale del complesso. A quella vista il cuore gli si gelò. Avvicinandosi, distinse le sagome delle macchine della polizia che erano parcheggiate alla rinfusa nel vicolo cieco antistante l'edificio. C era anche un'ambulanza con le portiere posteriori spalancate e il lampeggiatore rosso che si mischiava con quelli blu a comporre una sinfonia raccapricciante. Sam fermò bruscamente l'auto, saltò giù e stava già correndo verso la porta d'ingresso prima che il motore fosse spento del tutto. Un agente in uniforme lo vide all'ultimo momento e cercò di impedirgli di entrare, ma Sam passò abbassando la testa sotto le braccia protese dell'uomo e varcò la porta di vetro. L'atrio era pieno di pensionanti, la maggior parte del terzo piano, con indosso un assortimento di pigiami. Agenti in uniforme brulicavano qua e là tra gli ospiti. Sam ebbe l'impressione che gli uomini dello sceriffo stessero cercando di interrogare alcuni pazienti, ma non poteva indovinarne il motivo. Erano soprattutto anziani e si sarebbero dimostrati di scarsa o nulla utilità per qualunque genere di investigazione. La confusione nella stanza gli aveva permesso di avanzare di poco oltre la porta e, quando capì che era bloccato, si gettò un'occhiata ansiosa alle spalle. Fu sollevato nel vedere che l'agente che aveva dribblato era ancora fuori, impedito dall'inseguirlo da uno sciame improvviso di spettatori che cercavano di entrare a loro volta. Ignorando la gran quantità di persone che si muoveva attorno a lui, Sam si diresse all'ascensore, pensando a Gabriel. La presenza della polizia e
dell'ambulanza confermavano quello che prima aveva solo sospettato. Quella notte, li era successo qualcosa ed era sicuro che riguardasse Gabriel. Un sentore di maleficio permeava l'aria, come un gas solo parzialmente disperso. Non era l'unico a percepirlo; altri nella stanza si guardavano continuamente alle spalle come se avvertissero anche loro un'altra presenza, un'ombra sinistra acquattata dietro di loro. In quell'istante Sam capì che quello di cui Gabriel aveva paura era davvero venuto a trovarlo. Tutto quel che restava da fare era scoprire se il vecchio era sopravvissuto. Sam aveva la vaga impressione di sapere già la risposta a quella domanda e si dovette far forza per procedere oltre, costretto a ignorare la riluttanza che all'improvviso gli era calata addosso come un mantello di piombo, minacciando di piegargli la schiena sotto il suo peso. Aveva paura. Paura di quello che avrebbe trovato di sopra. Quando allungò il braccio per premere il pulsante di chiamata dell'ascensore, una mano gli si posò sulla spalla, spaventandolo. «Scusi. L'ascensore non si può usare. Nessuno può lasciare l'atrio finché non abbiamo terminato», disse una voce burbera dietro di lui. Sam si girò e si trovò faccia a faccia con un altro agente di polizia. L'uomo lo guardava con occhi duri come pietra e carichi di sospetto. «Oh», disse Sam, un po' turbato da quell'improvvisa apparizione. «Allora userò le scale». Si mosse per superare l'agente. La larga stazza dell'altro gli sbarrò il passo. «È sordo?», chiese l'uomo con malcelata ostilità. «Ho detto che a nessuno è permesso salire». «Guardi, agente. Io lavoro qui. Queste persone non soltanto sono sotto la mia responsabilità. Molti di loro sono miei amici. Se è successo qualcosa a qualcuno di loro, devo fare quello che posso per portare aiuto». «Lei può essere d'aiuto togliendosi dai piedi dei professionisti». Sam fece uno sforzo per rimanere calmo. Asseconda questo tipo, gli disse una voce interiore. «Va bene, va bene», disse Sam con voce rassegnata, e si infilò di nuovo nella folla. Parecchi minuti più tardi, quando fu certo che l'agente non lo stesse più controllando, scivolò lentamente a destra in direzione della scala. Dannazione! pensò quando vide l'accesso alla scala. Un altro agente era appostato là per impedire l'accesso ai piani superiori. Era bloccato. Non c'era altra via per salire di sopra, a meno di non arrivare dalla passerella
che collegava la casa di cura al resto del complesso ospedaliero, e se loro avevano coperto questo accesso, Sam era certo che avessero ben protetto anche l'altro. E adesso, che faccio? Poi il destino gli offrì l'opportunità di cui aveva bisogno. Fuori erano arrivati parecchi giornalisti che stavano cercando di superare l'agente a guardia della porta anteriore. Il poliziotto sulle scale vide la situazione critica del collega e gli corse in aiuto, lasciando sguarnita la sua postazione. Sam approfittò della situazione e con calma raggiunse la porta che dava sulle scale, l'aprì e sgattaiolò silenziosamente dentro. Fece i gradini a due a due, con il cuore che gli batteva in petto impazzito. Di sopra potevano esserci altre guardie, ma per ora non se ne preoccupava. Il suo unico pensiero era la sorte dell'amico. Doveva scoprire se Gabriel era ancora vivo! Sbucò al terzo piano dalla parte opposta rispetto alla stanza di Gabriel. Il piccolo corridoio di fronte a lui era vuoto, ma sentì parecchia confusione provenire da quello principale dietro l'angolo. Sam decise di correre il rischio. Il corridoio principale era pieno di gente, la maggior parte in uniforme da poliziotto. Alcuni indossavano abiti scuri e cravatte. Sam pensò che fossero detective. Due infermieri dell'ambulanza sedevano sulle sedie di plastica allineate nel corridoio con un'aria decisamente nauseata sul volto. Una lettiga vuota era appoggiata al muro accanto a loro. Mentre Sam se ne stava là cercando di decidere il da farsi, sentì una voce familiare chiamarlo. «Sam! Da questa parte!». Guardò alla sua sinistra e vide Jerry Peters, un collega. Jerry era seduto al banco dell'infermeria, con un poliziotto in divisa alla sua sinistra. Aveva in mano un taccuino aperto e aggrottò le ciglia mentre Sam si muoveva per raggiungerli. «Che casino fottuto, Sam. È l'ultima volta che scambio il turno con te!». Il volto del suo amico, normalmente rubizzo per via della fiaschetta di Dewar's che teneva in tasca, era così pallido da sembrare esangue. Cerchi neri gli si allargavano sotto gli occhi. Sam vide le mani di Jerry tremare mentre tirava una boccata dalla sigaretta che stava fumando. Il posacenere davanti a lui era pieno di mozziconi. «Dimmi, Jerry. Che è successo?» Prima che potesse ricevere risposta, il poliziotto chiese: «E lei chi è?». Jerry rispose per lui. «Tutto a posto, agente. Lavora qui. Questo doveva
essere il suo turno». L'agente guardò interrogativamente Sam. «Sì, è vero. Stanotte ero di riposo, ma sono passato a prendere alcune cose dal mio armadietto e ho visto confusione. Sono salito a vedere cosa stava succedendo», spiegò Sam. L'agente Collins esitò. Gli ordini erano di assicurarsi che nessuno lasciasse il piano; ma non gli avevano detto niente riguardo al far passare qualcuno. Per quel che ne sapeva, erano stati quelli di sotto a mandar su questo tipo. Dopo averci pensato un attimo decise che sarebbe stato meglio sentire lo sceriffo e fargli sapere del tizio che era lì. In quel modo si sarebbe parato il culo. Che se la prendano quelli di sotto la responsabilità d'averlo fatto passare. «Ha un documento?», chiese a Sam. Sam tirò fuori il tesserino che custodiva nel portafoglio. Il documento riportava la sua fotografia, e aveva il nome e l'incarico stampati sotto il logo della casa di cura. Porse la tessera a Collins che per un minuto la osservò scrupolosamente, dopodiché s'incamminò nell'atrio senza dire una parola. Sam crollò sulla sedia che l'agente aveva liberato. «Che sta succedendo, Jer?». «Merda! Non mi crederai! Qualche maledetto è entrato qui e ha fatto a pezzi uno dei vecchi». Peters rabbrividì. «Ho trovato quel che restava di lui circa mezz'ora fa. Amico, avresti dovuto vedere quella stanza. C'era sangue dappertutto!». Sam aveva ascoltato abbastanza. «Chi era?», chiese, temendo la risposta ma dovendo chiedere comunque. «Era... ah, come si chiama? Quel tale che faceva sempre quei sogni strani? Ma sì, il tipo con quel cognome buffo. Gabe come-diavolo-sichiama?». Prima che Peters capisse cosa stava succedendo, Sam era saltato su dalla sedia e stava correndo per il corridoio, superando un gruppo di agenti troppo sorpresi dalla sua improvvisa apparizione per riuscire a fermarlo. Aveva il cuore in gola, piantato lì come un osso che lo stava soffocando. Lampi di flash si vedevano uscire dalla stanza 310, e un gruppo di agenti era assiepato di spalle davanti alla porta. Rallentando appena, Sam si fiondò dentro la stanza passando loro in mezzo, ignorando le proteste ed evitando i tentativi di bloccarlo. La stanza era immersa nel sangue. Schizzi rossastri coprivano tutte le
superfici. Le pareti. Il pavimento. Le lenzuola del letto, una volta bianche. Grumi irriconoscibili coperti di sangue erano sparsi a terra dovunque. Mentre si guardava intorno sotto shock, Sam posò gli occhi sui due uomini che stavano lavorando nella stanza. Vestiti con tute bianche da laboratorio, il primo fotografava a uno a uno quegli strani grumi, nel luogo dove erano stati trovati, poi aspettava mentre il suo collega usava un attrezzo simile a una spatola per riporre quei pezzi in una piccola busta di plastica. La busta veniva poi depositata su un carrellino d'acciaio alle loro spalle. Sam vide che il carrello si stava lentamente riempiendo di buste. Impietrito dall'orrore, si costrinse ad avvicinarsi per vedere uno degli oggetti attraverso la plastica trasparente. Le buste erano piene di pezzi di carne umana a brandelli. Carne di Gabriel. Era probabile che gli agenti anziani che stavano a guardare dalla soglia avessero maturato tanta di quell'esperienza da riuscire a sopportare il fetore insopportabile, ma Sam no. Girò su se stesso e barcollò fuori dalla stanza, lottando disperatamente per mantenere i denti serrati contro la nausea che gli saliva dallo stomaco. Comunque, l'angoscia fu più potente della volontà, e rigettò, schizzando le scarpe di uno dei detective vicini con una colata semisolida di vomito. 25. Il testimone passa di mano La sensazione dell'acqua fredda del rubinetto sul viso e sulle mani gli diede sollievo. Dopo aver vomitato senza tanti complimenti la sua cena, Sam s'era diretto barcollando al bagno degli uomini e aveva avuto un nuovo attacco di conati che s'era protratto quasi per un quarto d'ora. Aveva la gola secca. Lo stomaco gli doleva. Era più che certo che un altro attacco l'avrebbe messo a terra. Sam allungò la mano e strappò parecchie salviette dal dispenser appeso alla parete, usandole per asciugarsi il viso. Un'occhiata allo specchio, al suo aspetto pallido e sconvolto, gli bastò. Mentre piegava la testa sotto il rubinetto e cercava per la quarta volta di sciacquare via quel saporaccio dalla bocca, decise che avrebbe evitato di specchiarsi ancora. Quando sentì di essersi ripreso, lasciò il bagno e ritornò nell'atrio. Due
agenti in uniforme lo stavano aspettando proprio fuori dalla porta. Damon parlava con uno degli agenti di servizio quando Collins gli si fece dappresso e richiamò la sua attenzione. «Cosa abbiamo scoperto?», chiese Wilson, gettando un'occhiata a Sam alle spalle dell'agente. «Non molto, temo». Collins puntò il pollice dietro la spalla. «Si chiama Samuel Travers. Dice di lavorare qui, doveva andare a prendere alcune cose dal suo armadietto e s'è trovato nel caos giù di sotto, così ha pensato di salire a controllare. La vittima era un suo amico, pare». Collins porse a Damon un tesserino con la foto di Sam e le informazioni sul ruolo. Damon diede un'occhiata alla foto e improvvisamente ricordò dove l'aveva già visto. Travers era sul luogo in cui avevano scoperto il cadavere di Halloran. Si chiese se fosse solo una coincidenza il fatto che Sam si trovasse sulla scena anche di quest'omicidio. Pensaci, anche Jake Caruso è stato sul luogo di due delitti, quelli alla tenuta dei Blake. Damon archiviò l'intuizione per successive indagini. Lo sceriffo restituì a Collins il tesserino. «Fai un controllo. Scopri chi è il suo superiore e dagli un colpo di telefono. Voglio sapere tutto quello che può dirci su questo tipo. Conosci la prassi». «D'accordo, sceriffo». Mentre Collins si allontanava nell'atrio, Damon si avvicinò a Sam. «Si sente meglio, signor Travers?», chiese cortesemente. «Ah, sì, grazie. Scusi per il macello che ho fatto». Fece debolmente cenno con la mano in direzione della soglia, dove poco prima aveva perduto il controllo dello stomaco. «Non si preoccupi», replicò Damon. «Uno spettacolo del genere non è facile da affrontare». Scosse la testa mestamente. «Disgraziatamente, quando sei in una posizione come la mia, dopo un po' ti abitui». Sam non rispose. Stava a malapena ascoltando. Sapeva che avrebbe dovuto prestare attenzione. Probabilmente si trovava in un mare di guai, ma non gliene importava. I suoi pensieri erano un miscuglio confuso, come uno sciame d'api intorno a un alveare. Si rese improvvisamente conto che lo sceriffo gli aveva fatto un'altra domanda. «Mi scusi, diceva...?». Wilson lo guardò con calma. «Le ho chiesto se conosceva la vittima».
Gabriel! gridò una voce dal fondo della testa di Sam. «Sì. È..», iniziò, ma poi si corresse. «Era un mio amico. Io lavoro qui, questo è il mio piano». Perdonami Gabriel! Come potevo sapere che era tutto vero? «È amico della maggior parte dei pazienti che ha in cura?». «Di alcuni», rispose Sam. Il fetore della morte gli riempì le narici mentre gli infermieri dell'ambulanza gli passavano accanto spingendo una barella con sopra una sacca con i resti del corpo. Lo sguardo di Sam li seguì per tutta la lunghezza dell'atrio finché scomparvero dietro l'angolo. Damon attese che Sam gli prestasse di nuovo attenzione. Poi chiese: «Lei sa chi ha ucciso il signor Armadorian?». Sì! urlò la mente di Sam, e per un attimo temette di non riuscire a trattenersi dal raccontare allo sceriffo tutto ciò che sapeva, che la bocca disobbedisse agli ordini inviati dal suo cervello e che l'intera triste storia fosse rivelata, ma qualcosa della sua componente razionale funzionava ancora. Sapeva che se avesse raccontato allo sceriffo quello che sospettava, lo avrebbe spedito di corsa all'ospedale della contea per un esame psichiatrico. Tenne per sé il disperato bisogno di liberarsi del suo fardello e rispose negativamente alla domanda. Il tumulto interiore di Sam non passò inosservato, ma Damon non lasciò trasparire di essersene accorto. Se Sam sapeva qualcosa che potesse aiutare l'inchiesta sui delitti, Damon era tenuto a fermarlo per interrogarlo. Il sindaco e il pubblico stavano strepitando perché lui arrestasse qualcuno e ponesse fine agli spettacolari omicidi che avevano rapidamente trasformato la cittadina in un'atterrita comunità di eremiti, troppo spaventati per lasciare le proprie case. Non poteva arrestare Sam solo perché s'era trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma portarlo alla stazione di polizia per interrogarlo non avrebbe violato alcun suo diritto civile. Comunque, qualcosa lo frenava. Forse non aveva molto senso, ma dentro di sé Damon era certo che Sam non avesse relazione alcuna con i delitti. Sebbene non ci fossero ancora prove del legame tra questo e gli altri omicidi, al di là della ferocia brutale, Damon era sicuro che fossero tutti collegati. Dovevano esserlo. Non aveva dubbi sul fatto che tutti e quattro i delitti fossero stati commessi dalla stessa persona. O dallo stesso animale, a voler prendere in considerazione la teoria di Strickland. Benché quella notte l'aspetto di Sam potesse indicare che sapeva qualcosa sui delitti, nemmeno per un istante Damon aveva creduto che fosse capace di commetterli. Ci vuole una buona dose di malvagi-
tà per uccidere in un modo così brutale, e la reazione del suo stomaco gli diceva che Sam non ne era capace. Il che lo faceva tornare al punto di partenza. Eccetto che per quello che Sam sapeva, qualsiasi cosa fosse. Damon vide che Sam pescava un pacchetto di sigarette tutto stropicciato da una tasca posteriore e se ne metteva una tra le labbra. Le mani gli tremavano mentre cercava d'accenderla e, dopo tre infruttuosi tentativi, lo sceriffo si mosse a compassione e gliela accese lui stesso. Sam fece un debole sorriso di ringraziamento. Damon prese una decisione. «Guardi, Mr Travers. Ho la sensazione che lei sappia più di quanto lasci intendere. Le sto offrendo una chance per chiarire tutto, adesso. C'è niente che mi vuole dire?». Sam scosse semplicemente la testa. «Le dispiace se adesso me ne vado? Non mi sento granché bene...». Damon lo interruppe. «Sì, d'accordo. Capisco che l'intera situazione è stata uno shock. Ci sono altre domande che vorrei farle su Armadorian, ma possono aspettare fino a domattina. Ci vediamo in ufficio da me domani, intesi?». «Sì, ok». Sam si voltò e s'incamminò lungo il corridoio. Aveva fatto solo pochi passi quando lo sceriffo Wilson lo chiamò. «Mr Travers?». Sam si girò. «La scala che porta allo spogliatoio è da questa parte», disse lo sceriffo, indicando con una mano tesa l'estremità opposta del corridoio. Per un attimo Sam rimase completamente stordito. Lo spogliatoio? Ma che diavolo voleva dire quel... Poi ricordò la balla che aveva raccontato all'agente Collins. Sorrise debolmente, facendo del suo meglio per mascherare la gaffe. «Grazie. Con tutto quello che è successo credo d'aver dimenticato perché sono venuto qui». Sam si girò, passò davanti a Wilson e si diresse lungo il corridoio verso la parte opposta. Sapeva che lo sceriffo non se l'era bevuta. Damon lo guardò allontanarsi, poi rientrò nella stanza dove il vecchio era stato ucciso. Fissava le macchie di sangue sparse dappertutto, mentre i tecnici della scientifica svolgevano il loro lavoro attorno a lui. Gesù Cristo! pensò. Chi diavolo può avere fatto una cosa delgenere? La mutilazione dei Cummings era stata terribile. Il ricordo della testa dell'uomo immersa nella tazza della toilette gli ritornò in mente, ma lo respinse con prontezza. Era già abbastanza brutto esserselo sognato, non sentiva proprio alcun bisogno di rivederlo da sveglio.
Tuttavia quell'orrore aveva avuto qualcosa che poteva arrivare a comprendere. Era sì frutto di una mente malata, ma di una mente malata normale, se questo poteva avere un senso seppur distorto. La mutilazione del corpo di una vittima non era poi così rara negli omicidi perpetrati da psicopatici. Ma questo... Era oltre ogni cosa avesse mai visto. Il poveretto è stato ridotto a brandelli, che Dio ci aiuti. Scosse la testa. A che razza d'animale sto dando la caccia? Chi diavolo può riuscire a entrare qui senza essere visto o sentito? Dove arriva l'intelligenza di questa cosa? Lo sceriffo Wilson fece inconsciamente scivolare la mano destra fino ad accarezzare il calcio del suo revolver di servizio. C'era comunque una domanda della quale conosceva la risposta. Che cosa fai con una bestia feroce a piede libero per le strade? Damon sorrise truce. La scovi e l'ammazzi. Sam si sentiva come se fosse stato afferrato da un gigantesco turbine che lo sballottava implacabile, completamente fuori dal suo controllo. Crollò seduto a terra nello spogliatoio del seminterrato, con la schiena appoggiata al freddo metallo degli armadietti. Stava facendo del suo meglio per arrestare il tremore devastante che l'aveva assalito appena s'era rifugiato lì dentro. Non stava avendo molto successo. Gli eventi delle ultime ore erano stati troppo per lui. La mente e il corpo erano intorpiditi dallo shock. Era difficile credere che Gabriel fosse morto. Sapeva che era vero, eppure una parte di lui respingeva l'idea. Sam era sopraffatto dal senso di colpa. Non c'era modo di negare il fatto che era stato lui a uccidere l'amico. Non lo aveva colpito fisicamente, ma in cuor suo si sentiva responsabile tanto quanto colui che aveva commesso la violenza. Aveva liquidato le paure del suo amico come innocui vaneggiamenti di un uomo anziano che rapidamente s'avvicinava alla senilità, sebbene Gabriel non avesse mai dato segno d'iniziare a perdere contatto con la realtà, e questo l'aveva certamente ucciso come se Sam stesso avesse maneggiato il coltello. Se l'avesse ascoltato, forse sarebbe stato in grado di salvarlo. Lui e Gabriel avrebbero potuto affrontare insieme il nemico del vecchio. Gabriel
avrebbe potuto essere ancora vivo. Se solo l'avesse ascoltato! Ma non l'aveva fatto, e Gabriel aveva pagato il prezzo più alto per l'ignoranza di Sam. Con il cuore dolente e pieno di colpa, alla fine il cordoglio deflagrò. Con il volto tra le mani, Sam pianse a lungo e disperatamente, con le spalle squassate dall'intensità dei singhiozzi. Dopo un po', il dolore lasciò posto lentamente alla rabbia. La morte di Gabriel non sarebbe rimasta impunita, fece voto solenne all'aria intorno a lui. Con il dorso delle mani, Sam s'asciugò le lacrime dal viso e si rimise lentamente in piedi. Sapendo che la polizia poteva essere ancora fuori, volle salvare le apparenze, specialmente alla luce degli ovvi sospetti dello sceriffo Wilson. Andò al suo armadietto e ne aprì la chiusura a combinazione con l'intenzione di tirar fuori il camice di riserva per avvalorare la storia che aveva raccontato allo sceriffo e all'agente Collins. Quando la serratura scattò, tirò la sottile porta metallica e restò paralizzato nel vedere quello che c'era dentro. Sulla mensola più alta dell'armadietto era poggiato un pacco di un certo spessore avvolto in carta marrone, con sopra il nome di Sam scarabocchiato con la calligrafia di Gabriel. Il giorno prima il pacco non c'era. Era solo un pacco, non più grande di un paio di libri tascabili. Eppure aveva qualcosa che fece correre dei brividi freddi lungo la spina dorsale di Sam. Ebbe la netta impressione che fosse rimasto là ad aspettare lui; che l'avesse atteso nell'oscurità dell'armadietto, in silenzio, paziente, come un ragno appeso alla sua tela. Lo fissò a lungo, con il cuore che gli batteva dolorosamente nel petto. Con molta lentezza si fece avanti e lo prese. Lo sollevò con cautela, quasi aspettandosi che gli sgusciasse di colpo dalle mani. Non avvenne. Se ne stava semplicemente lì, con la sua stessa presenza che pareva prendersi gioco di lui, sfidandolo ad aprirlo. Una voce in fondo alla mente gli disse di ributtarlo nell'armadietto. Ancora meglio, diritto nel più vicino bidone della spazzatura. In ogni caso, probabilmente non è niente d'importante, disse la voce. Sbarazzatene. Dimentica di aver mai posato gli occhi su quella dannata cosa. Lasciala lì a marcire finché al suo posto non rimanga altro che un velo sottile di
muffa. Ignorando la voce, Sam tirò un respiro profondo, strappò l'involucro e guardò dentro. A ricambiare il suo sguardo c'era il frontalino nero di una videocassetta. 26. Rivelazioni Jake si svegliò. Giaceva supino sul letto, con gli occhi sbarrati a contemplare il buio. Aveva i muscoli contratti e fu sorpreso quando, un secondo o due dopo essersi svegliato, si rese conto che stava trattenendo il respiro. Per parecchi lunghi attimi ci fu silenzio. Proprio quando s'era convinto d'essersi immaginato delle cose, il forte martellare che l'aveva svegliato ricominciò. La porta d'ingresso, intuì vagamente. Guardò le lancette luminose dell'orologio. Chi diavolo stava bussando alla porta alle due di notte? Trovando i jeans dove li aveva lasciati cadere accanto al letto, Jake tirò fuori le gambe da sotto le lenzuola e se li infilò. I colpi continuavano. «Tieni a freno i tuoi dannati cavalli. Ho detto che sto arrivando!», gridò in direzione della porta d'ingresso. I colpi avevano svegliato Loki e ora il cane aggiungeva il suo abbaiare al chiasso. «Tranquillo ragazzo!», disse Jake girando l'angolo e accendendo la luce nell'atrio. Loky abbaiava furiosamente davanti alla porta, ma quando vide Jake indietreggiò e si accucciò. L'improvvisa quiete generata dall'ammutolimento di Loki fu interrotta un attimo dopo, quando il martellare riprese per la terza volta. Jake perse la pazienza. Girò la chiave nella serratura, tolse il chiavistello e spalancò la porta con violenza. «Tu, stupido figlio-di-una...». Non andò oltre. Il diluvio di parole che gli sgorgava dalla bocca s'interruppe nel momento in cui Jake capì chi gli stava davanti. Era Sam, e il suo amico era davvero malridotto. Le ginocchia dei jeans erano macchiate d'erba e fango. La camicia era abbottonata malamente e sul davanti c'era una lunga striscia di vomito rin-
secchito. Sam alzò lo sguardo e Jake capì che era accaduto qualcosa di terribile. Alla fine ritrovò la voce. «Sam! Che diavolo è successo?». Travers sorrise mestamente. Aprì la bocca per rispondere, ma non gli uscì niente. Abbassò il mento, incurvò le spalle e, senza emettere un suono, crollò direttamente tra le braccia di Jake, svenuto. La lattina di birra che aveva tenuto dietro la schiena cadde rumorosamente a terra. «Oh merda, Sam», borbottò Caruso mentre trascinava l'amico nell'appartamento, fino al salotto. Mentre attraversavano l'atrio, qualcosa scivolò a Sam dalla camicia, mezza dentro e mezza fuori dei pantaloni, e cadde sul pavimento. Loki corse e l'afferrò, mentre Jake senza troppi complimenti scaricava Sam sul divano. Per alcuni minuti Jake armeggiò con il corpo inanimato dell'amico, finché riuscì a togliergli gli indumenti sudici di dosso. Li gettò nella lavatrice e poi prese una coperta dall'armadio del corridoio, per coprirlo. Raccolse dal pavimento la lattina di birra, uscì di fuori e guardò attraverso i finestrini della macchina di Sam. Altre cinque lattine di una confezione da sei stavano sul sedile anteriore, ancora nel loro imballaggio di plastica. Rassicurato sul fatto che Sam non stesse morendo nel bel mezzo della notte per un avvelenamento da alcol, Jake tornò dentro. Loki era accucciato sul pavimento e mordicchiava il nuovo giochino trovato, qualsiasi cosa fosse. Dimentico, nell'agitazione, dei postumi della propria sbornia, Jake lo raggiunse e strappò la cosa dalle mascelle del cane, ignorando il ringhio che ricevette in cambio. «Zitto, ragazzo», disse distrattamente mentre rigirava l'oggetto tra le mani. Era una videocassetta. Non c'era custodia e nemmeno una scritta sull'etichetta; niente che identificasse quel che poteva contenere. Il contatore della curiosità di Jake sali di una tacca. Andò in cucina, con alle calcagna il cane impaziente di riappropriarsi del suo gioco. «Visto che hai fatto, Loki?», disse Jake tenendo la cassetta davanti al naso del cane e indicando la saliva gocciolante. «Hai insudiciato tutta la cassetta. E adesso, come dovrei fare a vederla?». L'akita uggiolò, come per scusarsi. «Sì, lo so. Non ne potevi fare a meno, giusto?». Lo scherzo con il suo cane lo aiutò a distogliere il pensiero dalle condizioni di Sam e si rilassò
un poco mentre puliva l'esterno della videocassetta. Tornò in soggiorno, infilò la cassetta nel videoregistratore e accese il televisore. Accomodandosi per bene sul pavimento, con la testa contro il cuscino del divano alle sue spalle, si preparò a vedere lo spettacolo. La faccia di un uomo anziano riempì lo schermo quando il nastro cominciò a girare, e senza bisogno che gli fosse detto, Jake capì che era l'amico di Sam, quello della casa di riposo, Gabriel. L'uomo sorrise e cominciò a parlare. «Bene, Sammy. Se stai guardando questa cassetta, entrambi sappiamo che è troppo tardi per fare qualcosa per me». Sorrise amaramente. «Non preoccuparti, amico mio. Ho aspettato a lungo questo giorno. Da più di quanto tu possa sapere. Il mio tempo è terminato, ma temo che il tuo sia appena iniziato». Jake s'avvicinò al televisore, con accresciuto interesse. Il vecchio parlava come se fosse morto. Poteva essere quella la ragione per cui Sam era così sconvolto? Perché Gabriel era morto? Lanciò un'occhiata dietro la spalla. Sam sembrava mezzo morto anche lui. La testa era ripiegata all'indietro in un angolo strano, con la bocca spalancata. Se non fosse stato per il lento alzarsi e abbassarsi del petto, l'illusione sarebbe stata perfetta. Scuotendo la testa in un gesto di commiserazione, Jake ritornò allo schermo mentre il vecchio riprendeva a parlare. «Lo so che non lo desideri, so che se potessi scegliere non lo vorresti. Ma qui non ci sono alternative. Devi fare come ti chiedo. Devi! Tu sei l'unico che possa comprendere davvero, sei l'unico pronto a non liquidare l'intera storia come una pura assurdità». Ma che dice? «Devi credere a quanto sto per raccontarti. So che sarà difficile. Sembrerà strano, all'inizio persino incredibile. Ma è vero. Su questo, devi fidarti di me». Il vecchio fece una pausa. Stava fissando diritto nella telecamera e, dal punto di vista di Jake, era come se Gabriel stesse guardando fuori dallo schermo, con gli occhi puntati direttamente su di lui. Malgrado fosse del tutto irrazionale, Jake ebbe la strana sensazione che anche adesso Gabriel potesse in qualche modo vederlo. Gli fece venire la pelle d'oca. Ma quello che Gabriel disse poi era ancora più spaventoso. «Se tu non mi crederai, molti innocenti moriranno». Jake si raddrizzò. Gabriel stava parlando dei recenti omicidi! Aveva
qualcosa a che fare con essi? Piccole dita d'inquietudine cominciarono ad accarezzargli la nuca. Jake, in ogni modo, non fece alcun gesto per spegnere il registratore. Ancora qualche minuto, si disse. «Ricordi la storia che ti raccontai alcune settimane fa?», stava dicendo Gabriel. «Sulla Genesi? Sulle Ombre della Notte e sul mondo prima dell'avvento dell'Uomo? Devi credermi Sam, quando ti giuro che è tutto vero! Ogni parola!». «E ora sta a te riprendere la lotta». «Io sono l'ultimo degli Anziani, l'ultimo del mio popolo. Eravamo una valorosa e nobile razza, ma quando me ne sarò andato non esisteremo più. Usciremo da questo mondo, e dei nostri tempi gloriosi rimarrà solo una debole eco, ricordi scarni che il tuo popolo crede essere niente più che miti e leggende». Aspetta un momento! pensò Jake aggrottando le sopracciglia. Ombre della Notte? Anziani? Di che sta parlando? Era come se il vecchio non pensasse d'essere umano, il che era davvero assurdo. Il tipo era forse completamente uscito di zucca? «Come ti ho già detto, milioni morirono nella Grande Guerra tra le nostre due razze. Quando terminò, solo una manciata di individui da entrambe le parti sopravvisse. Alcuni di noi invocarono la pace tra i due popoli. Credevano che gli Anziani e le Ombre della Notte potessero convivere fianco a fianco, in armonia, lavorando alla ricostruzione di un mondo che avevamo portato vicino alla distruzione per la nostra avidità. Ma altri tra noi, me compreso, non furono d'accordo». Il vecchio serrò il pugno e la sua voce si acuì al ricordo doloroso. Vibrò la mano in aria. «Odio incandescente bruciava nei nostri cuori, e nelle nostre menti c'era solo rabbia. Giurammo di ottenere vendetta per i nostri morti, oppure di morire in quel tentativo». Suo malgrado, Jake fu commosso dalle parole appassionate dell'uomo, anche se la sua mente cercava di negarne l'autenticità. Era chiaro che Gabriel era convinto che quanto diceva fosse la verità. Guardò il vecchio abbassare il pugno e fissarlo, come se fosse sorpreso di trovarselo lì. Quando Gabriel distese le dita, Jake poté vedere piccole mezzelune rosse sul palmo dove le unghie avevano premuto selvaggiamente contro la carne tenera. Gabriel proseguì, ma la passione svanì rapidamente com'era venuta. La sua voce era adesso poco più che un sussurro e come impastata, nella con-
sapevolezza di aver fatto scelte sbagliate. «Ci demmo la caccia l'un l'altro attraverso le età, senza che nessuna delle due parti riuscisse a prevalere. Di nascosto dagli umani, che erano cresciuti di numero e avevano diffuso la propria civiltà in tutto il globo, noi continuammo la nostra guerra nell'ombra. Ogni volta che c'incontravamo avvenivano scontri selvaggi. Combattemmo, combattemmo, combattemmo sempre più, finché rimanemmo troppo pochi perché continuare avesse ancora senso. Eppure continuammo ancora. Non conoscevamo altro che quello; la lotta ci consumava, corpo, cervello e anima. Alla fine, divenne la nostra unica ragione di vita. Continuò così per secoli, finché soltanto due di noi rimasero. Io e un'Ombra della Notte di nome Moloch». Gli occhi di Gabriel ardevano di fanatismo. «Cercò di scappare, di sfuggire alla mia collera, ma io fui più bravo. Implacabilmente seguii le sue tracce, senza mai stancarmi della caccia. Avevo l'eredità di un'intera razza sulle spalle e giurai a me stesso che non avrei fallito, che non erano morti invano. Moloch avrebbe pagato per i suoi crimini. La vittoria alla fine sarebbe stata nostra!. La caccia mi condusse qui, a Harrington Falls, che a quel tempo era niente più che un piccolo insediamento di pionieri. Moloch aveva trovato rifugio nella casa di un umano, uno che cercava di sfruttare i "Poteri delle Tenebre" come lui li chiamava, per i propri scopi malvagi. Là, io affrontai l'Ombra della Notte e la battaglia fu durissima. Il combattimento durò per giorni e molte volte mi trascinò sull'orlo della sconfitta. Ogni volta richiamavo i volti di tutti quelli che erano caduti prima di me e la mia forza si rinnovava, finché riuscii a volgere la situazione in mio favore. Alla fine fu Moloch a essere sconfitto. Fu allora che commisi il mio errore più grande. Mentre giaceva là ai miei piedi, in attesa del colpo finale che lo avrebbe spedito nell'oscurità per sempre, scoprii che ero incapace di terminare ciò che avevo iniziato. Per decine di secoli, distruggerlo era stato il solo obiettivo della mia vita, la ragione stessa del protrarsi della mia esistenza. Quando pensai a come sarebbe stato vivere senza quel fardello, tutto quello che vedevo aspettarmi era una vita desolata, senza la compagnia della mia gente. Anche il mondo era qualcosa che da molto tempo non riconoscevo più, l'Uomo era dappertutto; gli ultimi luoghi sacri e selvaggi andavano scomparendo. Nel momento del trionfo, mi resi conto dell'ironia della mia esistenza. Se l'avessi distrutto, avrei di fatto distrutto anche me stesso.
Malgrado la mia solitudine, non volevo morire. Alla fine, scelsi un compromesso. Usai i miei ultimi poteri per privarlo della sua esistenza fisica, imprigionando il resto della sua essenza, la sua anima se vuoi, dentro un vuoto, una sfera fatta di nulla. Questa fu a sua volta inglobata in una scultura che raffigurava le sue sembianze, scolpita dal suo alleato umano, Sebastian Blake. Sigillai la statua e il suo prezioso contenuto in un posto dove pensavo non sarebbe mai stata ritrovata, mentre la gente del villaggio provvedeva a spedire Blake al suo ultimo traguardo. Non ero più il Cacciatore. Ero diventato il Guardiano. Avevo di nuovo uno scopo di vita, una ragione per continuare. Altri decenni passarono e la Bestia rimaneva chiusa nella sua cella. Aveva perso il suo corpo, ma la sua mente ancora funzionava; era indifesa, intrappolata, aveva soltanto i propri pensieri come compagni per l'eternità. Speravo che alla fine impazzisse, ma non prima di aver sofferto a lungo e intensamente per tutto quello che aveva commesso assieme ai suoi simili. Questa fu la natura della mia vendetta». La voce di Gabriel aumentò ancora una volta. «Fui uno stupido! Gli anni passarono. Io vagai per il mondo come uno di voi, fingendo di essere un semplice umano, nascondendo la mia vera identità. Ogni notte lasciavo che la mia coscienza ritornasse qui a controllare il prigioniero, per essere sicuro che tutto andasse bene riguardo il suo confino. Le mie visite divennero settimanali, poi mensili e dopo un po' interi decenni trascorrevano prima che facessi ritorno. Stavo godendomi l'esistenza da essere umano, anche se primitiva paragonata al nostro mondo, e cercavo quei piaceri della vita che avevo perso nei miei primi anni, a causa della guerra. Il mio popolo aveva un ciclo di vita molto più lungo del vostro e così vedevo intere generazioni passarmi davanti, mentre io rimanevo com'ero e sempre ero stato, giovane e forte. Alla fine, il tempo mi raggiunse e riscosse il suo pedaggio. Le nostre vite possono essere più lunghe delle vostre ma, alla fine, pur sempre mortali. Sapendo che la mia morte non era ormai lontana, ritornai qui a passare gli ultimi giorni. Questo è ciò che è accaduto. Moloch è fuggito». Jake fissava lo schermo a bocca aperta, completamente sbalordito da quanto stava ascoltando. Tutto quello che il vecchio aveva detto erano cazzate, ma che cazzate! La parte migliore di tutto era che Gabriel ci crede-
va. Parola per parola. Lo si poteva vedere nei suoi occhi e sentire nella sua voce. Gabriel proseguì. «Sono troppo vecchio per combatterlo come facevo un tempo. Il mio corpo è stanco e il mio potere va scemando. Se stai guardando questa cassetta, allora sai che ero troppo debole per difendermi e che la guerra è finalmente al suo termine. Ma tu sei giovane. Hai il potere della verità e della rettitudine dalla tua parte, come io lo possedevo un tempo. Tu puoi sconfiggerlo. Moloch ha ucciso molte volte negli ultimi giorni e certamente ucciderà ancora e ancora, a meno che non sia fermato. Devi trovarlo e distruggerlo una volta per tutte. Devi riuscire laddove io ho fallito». Il volto del vecchio assunse un'espressione contrita, come se implorasse il perdono. «Vorrei avere più tempo per insegnarti quello che so. Ma ho atteso troppo, sperando contro ogni evidenza d'essere abbastanza forte da portare a termine l'impresa. Quanto mi sbagliavo! Ti posso dire questo: ha aggiunto nuove capacità da quando è libero, capacità di cui neanche io sono sicuro. Ma s'è aggiunta anche una debolezza. Ha bisogno di sangue per rimanere corporeo, altrimenti la magia che ha usato per liberarsi sarà annullata. Non commettere gli errori che ho fatto io, mio giovane amico. Ricorda, quando verrà, giungerà sulle ali di velluto della notte. Stai in guardia. Trovalo e distruggilo. Il destino del tuo mondo ora è appeso a un filo». Con quell'asserzione finale il nastro terminò. Lo schermo davanti a Jake divenne bianco. Oh, cazzo! pensò Jake qualche attimo dopo, una volta che il suo cervello ebbe digerito ciò che il vecchio aveva raccontato. Le Ombre della Notte? Civiltà preesistenti l'ascesa dell'Uomo? E quella cazzata della caccia all'Uomo Nero attraverso i secoli, quella te la raccomando! Questo tipo era un pazzo patentato, su questo non si discute, ma diavolo, aveva una bell'immaginazione, bisogna dargliene atto. Non c'era da meravigliarsi che a Sam piacesse. Scuotendo la testa per lo stupore, Jake spense l'apparecchio e si diresse a letto con l'intenzione di riprendere il sonno. Avrebbe potuto parlare a Sam in mattinata. Stava per chiudere a doppia mandata la serratura della porta d'ingresso, quando un pensiero s'affacciò nei recessi della mente. Jake s'irrigidì e sgranò involontariamente gli occhi. Aprì la bocca, ma non ne uscì alcuna parola. Delle immagini gli balenarono in testa, una dopo l'altra, così veloci che sembrarono mescolarsi insieme in un orribile collage.
Il cadavere di Halloran. La statua che avevano trovato dentro la cripta. Le notizie riportate sugli omicidi. Il corpo del maggiordomo. Le visioni che aveva Katelynn. Gabriel che supplica Sam di impedire alla cosa di uccidere di nuovo. Buon Dio! pensò Jake. Poteva mai essere che tutto quello che Gabriel aveva detto fosse vero? In quell'istante Jake sentì che in fondo al cervello un pilastro mentale iniziava a sgretolarsi. E con esso, le fondamenta intere del suo pensiero razionale cominciavano a sprofondare in una lunga e oscura discesa. Bene, Jake. Adesso non andarmi fuori di testa, disse a se stesso. Resta in te e guarda l'intera faccenda usando la logica. Dev'esserci una qualche spiegazione per tutto questo. Ci deve essere! Non c'era. Una parte di lui, molto in profondità, lo sapeva. Calmandosi, Jake andò in cucina e sedette, riconsiderando l'intera situazione passo per passo. Gli omicidi erano iniziati martedì pomeriggio o sera, poco dopo che il corpo di Kyle Halloran era stato rinvenuto nella cripta di Sebastian Blake. Da allora s'era scatenato l'inferno. Nello spazio di quarantott'ore, cinque o forse sei persone erano state orribilmente assassinate. Jake sapeva dai notiziari che i corpi erano stati anche devastati. In un caso, quello della morte di una coppia di anziani, erano stati mutilati così barbaramente che la polizia, quand'era arrivata sulla scena, non era certa di quanti corpi si stesse occupando. Jake aveva anche sentito dire che alcune parti dei corpi erano state mangiate. A giudicare dalla pressione frenetica cui i giornali sottoponevano il dipartimento dello sceriffo, Jake sospettava che le autorità non fossero più vicine alla cattura del killer di quanto lo fossero state all'inizio. Perché? Perché stavano guardando nel posto sbagliato? Perché il killer non era umano, come loro davano per scontato? Mentre la parte razionale della sua mente gli andava suggerendo di smetterla con le cazzate e tornarsene a letto, l'altra metà, quella che amava leggere i romanzi horror e giocare a Swords and Sorcerers, gli diceva invece: Perché no, diamine? Cose anche più strane accadono ogni momento, giusto? Guardati intorno. Quanti avvistamenti di UFO ci sono stati l'anno
scorso? E che ne dici del mostro di Loch Ness? Certo, e il National Enquirer concorre per il Premio Pulitzer quest'anno. Supponi che la creatura esista. Questo vorrebbe dire che la polizia ha un sacco di problemi a trovare l'assassino, non è vero? Un demone, o comunque tu voglia chiamarlo, non lascerebbe il solito tipo di prove su cui si basano le indagini di polizia. Non ci sarebbero moventi, nessuna relazione tra le vittime. Non esisterebbero impronte digitali, tracce di fibre o frammenti di carta da seguire. Non ci sarebbero armi del delitto; niente pistole, niente coltelli, niente tubi di piombo o candelabri. Tutti i campioni di sangue o di tessuto recuperati dalla polizia non porterebbero ad alcun risultato. Con che cosa potrebbero essere confrontati? Lo stesso vale per le impronte di denti sulle vittime. La creatura potrebbe lasciarsi dietro una scia di cadaveri ed essere ancora praticamente irrintracciabile! È pazzesco, disse a se stesso, tuttavia non era pronto a lasciar perdere. Non ancora. La sua teoria avrebbe alla lunga spiegato cos'era quello che Katelynn vedeva nelle sue "visioni". Una volta fatto il semplice salto logico che dichiarava cose di questo tipo possibili, ogni altra faccenda quadrava perfettamente. Ok. Diciamo che esiste. Come faccio a provarlo? Jake si alzò e si versò un po' di caffè. Aveva la sensazione che ne avrebbe avuto bisogno. Andò al cassetto delle cianfrusaglie e rimestò finché non trovò un foglio di carta bianca e una penna. Li posò entrambi sul tavolo. Dopo un paio di minuti, cominciò a scrivere. 27. Collegamenti Mentre Jake combatteva con l'idea che qualcosa di paranormale gli stesse accadendo attorno, Katelynn stava camminando su e giù per il soggiorno, immersa nei propri pensieri. La Sventura di Blake, continuava a ripetere a se stessa muovendosi nella stanza. La Sventura di Blake... la Sventura di Blake... di Blake... Aveva cercato di dormire, ma dopo essere rimasta a letto sveglia per mezz'ora, s'era alzata e s'era messa a lavorare. L'innata curiosità che l'ave-
va condotta a una vita di ricerca aveva preso il controllo e respingeva le emozioni dove non potevano interferire col suo lavoro. Là potevano cuocere a fuoco lento, finché lei non fosse stata di nuovo pronta a negoziare con esse. Al momento, Jake era dimenticato. Katelynn aveva pesci più grossi da friggere. La Sventura di Blake... la Sventura di Blake... La frase di Padre Castelli aveva fatto suonare un campanello da qualche parte, negli oscuri recessi della sua mente. Katelynn era sicura d'averla già sentita. Non dubitava nemmeno lontanamente che la frase fosse autentica; si convinse invece del fatto che avevano davvero parlato col prete morto. Ma quando l'aveva sentita? E dove? Sentiva che se fosse riuscita a dare risposta a ciascuna di queste domande, avrebbe anche dato una spiegazione a quello che ultimamente le stava accadendo. Avanti e indietro... Avanti e indietro... La Sventura di Blake... Cacciando uno strillo acuto attraversò precipitosamente la stanza verso la scrivania e frugò con frenesia nelle pile di libri accumulate disordinatamente lì e sul pavimento. Infine tirò fuori un piccolo volume rilegato in cuoio che aveva vissuto giorni migliori. La copertina del libro era lacera, gli angoli piegati, persino le pagine avevano assunto quella colorazione giallo-marrone che denota l'antichità. Si sedette dietro la scrivania, sovrappensiero, e dopo aver acceso la luce, cominciò lentamente a scorrere pagina per pagina la piccola opera. So che è qui da qualche parte, si ripeté più e più volte. So che c'è. Infatti, c'era. A pagina 243, per l'esattezza. Il volume era il diario di viaggio di Edward Beckett. Era un libretto esile, che aveva trovato solo dopo avere seguito il consiglio di Gabriel e avere rovistato per la quarta volta nella collezione di libri rari della biblioteca. Beckett era stato un ministro della fede itinerante che nei primi anni della nazione si spostava di villaggio in villaggio per portare la parola di Dio a coloro che volevano ascoltarla. Beckett era passato da Harrington Falls parecchie volte negli anni attorno al 1760 e Katelynn stava usando i suoi appunti sul territorio come fonte per la tesi. Harrington Falls era all'epoca già ben sviluppata, essendosi lentamente espansa nella campagna circostante,
mentre la ricchezza della famiglia Blake attirava sempre più gente nella regione. Le osservazioni di Beckett offrivano un ritratto chiaro e accurato della vita di frontiera. A quanto pareva egli percorreva a cavallo parecchie centinaia di miglia all'anno, predicando quanto più spesso possibile. Uomo meticoloso, aveva registrato ogni più piccolo dettaglio nei volumi dei diari di viaggio che scriveva lungo la via. Come il destino volle, arrivò a Harrington Falls in una fredda sera di ottobre nel 1763, la medesima in cui Sebastian Blake fu accusato di praticare stregoneria e magia. La comunità del posto aveva appena concluso un processo sommario, e raggiunto un verdetto sul loro concittadino. La sentenza: morte. Beckett aveva assistito al processo e all'esecuzione che ne era seguita, e, come sempre, aveva registrato le sue osservazioni nel diario. Era stato lui a coniare la strana definizione «la Sventura di Blake». Ora, leggendo le parole di un uomo che da tempo era diventato polvere, Katelynn scoprì alcune delle risposte che andava cercando. E anche qualcos'altro, per la precisione. Scoprì di essere molto più spaventata di quanto lo fosse mai stata in tutta la sua vita. 28. Ritorno a Forest Green Avendo lasciato Sam addormentato sul divano, Jake si trovava ora accanto alla sua jeep, intento a fissare al di là della strada l'ingresso del cimitero, spinto dalla logica a verificare se la sua teoria fosse esatta. Due faretti illuminavano di vivida luce le volte in cemento, rendendo ancora più nera l'oscurità retrostante. Gli appariva come una solida barriera di tenebre, e mentre si sforzava senza esito di guardarvi dentro, Jake ebbe la sensazione sgradevole che qualcosa fosse nascosto nelle sue profondità, celata appena oltre la portata della sua vista, acquattata in ansiosa attesa del suo arrivo. Tu non vuoi entrare, lo ammonì una voce interiore. Non c'è niente al di là di quell'arco; niente erba, niente tombe, nessun cimitero. Solo una grande distesa di nulla, e ti sta aspettando. Aspetta di ingoiarti tutto intero. «Cazzate!», disse forte. L'eco della sua voce nel vuoto silenzio della notte lo fece sobbalzare per la sorpresa. È solo buio, ecco tutto. Ecco perché
hai portato la torcia, ricordi? si disse. Malgrado capisse che stava diventando ridicolo, per quanto sapesse che era solo un'illusione creata dal contrasto tra le luci e l'oscurità della notte, non poté fare a meno di farsi piccino dalla paura quando passò sotto l'arco, aspettandosi in quell'istante di essere risucchiato nel vuoto, per mai più ritornare. Naturalmente non accadde nulla di simile e riemerse dall'altra parte illeso. «Niente da dichiarare», bisbigliò mentre si asciugava la lieve imperlatura di sudore sulla fronte. Accendendo la torcia, il cui fascio di luce gli illuminava il percorso davanti per sette buoni metri, Jake s'incamminò, sapendo che se esitava poteva perdere la carica nervosa e tornare indietro. L'oscurità lo pressava da ogni parte. Si sentiva come se una bestia affamata fosse in attesa di aggredirlo, e più di una volta si fermò sui suoi passi e ruotò la torcia in un lento arco attorno a sé, per assicurarsi di essere davvero solo. Mentre era ancora una volta intento in questa operazione, gli venne un improvviso pensiero, uno di quelli che certo non miglioravano la condizione dei suoi già logori nervi. Vedendo il marmo luccicante delle pietre tombali, ritte in file silenziose su ciascun lato del vialetto, Jake ricordò di non essere solo. Non realmente. Non da troppo tempo. Aveva i morti per compagni. Li immaginò nelle loro fosse sotto terra, sdraiati languidamente nelle bare, con la carne che si decomponeva dalle ossa, le labbra rattrappite che scoprivano denti ghignanti, gli occhi aperti e fissi. Occhi che erano vivi di vita innaturale. Occhi che potevano vederlo nonostante il legno e la terra che li separavano. S'immaginò i loro ghigni allargarsi al vederlo, le braccia sollevarsi lentamente dai costati e protendersi in alto verso di lui... Si scosse violentemente, cercando di disperdere quelle visioni. Non ci riuscì completamente. Gli si rizzarono i peli sulle braccia e sulla nuca. Dovette fare uno sforzo per proseguire. Non poteva essere molto lontano, pensò. Se vai ancora avanti, potresti non essere in grado di tornare indietro, gli sussurrò dal fondo della mente quella vocetta petulante, ma la ignorò e procedette. Cinque minuti più tardi uscì fuori dal vialetto, i piedi sembravano conoscere la strada per proprio conto. Malgrado il senso di disagio, Jake non riusciva a credere davvero a quel che stava facendo. A casa, con l'agitazio-
ne di quella notte che ancora lo pervadeva e la voce di Gabriel che gli echeggiava nelle orecchie, l'idea che qualche essere soprannaturale stesse andando a caccia in giro per Harrington Falls gli era sembrata possibile. Le strane coincidenze che gli stavano accadendo intorno avevano aggiunto benzina al fuoco, e sembravano condurre a quella conclusione con tanta naturalezza quanto due più due fa quattro. Ma qui, in fondo al cimitero nel cuore della notte, Jake non ne era più così certo. Lottò con i suoi pensieri per parecchi minuti, finché capì di essere giunto a destinazione. Laggiù, a non più di tre metri, c'era la tomba. Che fosse per quel senso di male che pervadeva il luogo o per la stressante sensazione che non tutto era come avrebbe dovuto essere o per la percezione di qualcosa di sgradevole che penetrava le ossa come una gelida pioggia di febbraio, di qualsiasi cosa si trattasse, Jake seppe improvvisamente senza ombra di dubbio che le sue conclusioni erano esatte. Lo sentiva nel cuore, nella testa e nell'anima. Mentre cinque minuti prima era quasi arrivato a convincersi che era tutto privo di senso, ora, guardando la cripta, tutti i suoi sospetti furono spazzati via da una marea mentale di profonda certezza. La bestia era reale. A conferma del fatto, la porta aperta della cripta cigolò rumorosamente. Jake sentì il proprio respiro svanire in un improvviso sussulto. «Oh mio Dio», mormorò. Illuminando il pavimento davanti a sé, sentendosi i piedi improvvisamente malfermi, Jake s'avvicinò prudentemente alla cripta fino a trovarsi a soli trenta centimetri dalla porta. La paura gli dava la nausea. Pregando che avesse ragione la sua mente e si sbagliassero i suoi istinti, sollevò la torcia finché il fascio illuminò direttamente l'interno del sepolcro. Sentì il cervello vacillare assurdamente di fronte a quella vista, e le ginocchia farsi pericolosamente deboli. Sapeva che se fosse caduto lì, così vicino alla tomba, avrebbe potuto non avere la forza di rialzarsi. Era l'ultima cosa che desiderava in quel momento. Se non se ne andava da lì, capiva che sarebbe impazzito. A quel punto, non riuscì più a fare a meno di guardare. Pur provandoci, indietreggiando lentamente, Jake scoprì di non riuscire a distogliere lo sguardo dalla visione che aveva davanti.
Il cono di luce illuminò direttamente il muro posteriore del sepolcro. Il vuoto della stanza sembrò però prendersi gioco di lui. Per quanto impossibile fosse, era vero. La tomba era vuota. 29. Tempo di decisioni «Posso entrare?». Jake annuì e indietreggiò leggermente dalla porta per dare a Katelynn quel tanto di spazio da farla entrare, sbrigandosi a richiuderla diligentemente a chiave. Poi controllò la serratura due volte prima di sbirciare nella notte attraverso lo spioncino. Katelynn stette a osservare tutto questo senza una parola. Jake non aveva un gran bell'aspetto. I capelli erano spettinati e arruffati. Un'ombra pesante gravava sul suo volto. Jake si girò verso di lei. Mise un dito sulle labbra e con l'altra mano le fece segno di seguirlo. Attraversarono il soggiorno, dove Katelynn vide Sam addormentato sul divano, con un aspetto ancora peggiore di quello di Jake. Due grandi occhiaie risaltavano ancora di più sul diffuso pallore della pelle. Una mano era abbandonata sopra la coperta che aveva addosso e Katelynn la vide tremare mentre lui dormiva. Jake si sedette al tavolo e la invitò a fare altrettanto con un cenno malfermo della mano. «Cos'è successo a Sam?». Jake scosse la testa. «Si è presentato qui alcune ore fa ma è crollato prima di riuscire a dirmi qualcosa. Non ho nemmeno cercato di svegliarlo». «Che sta succedendo, Jake?», chiese con voce calma. Per parecchi lunghi attimi pensò che non le avrebbe risposto. Se ne stava seduto lì, immobile, fissando il tavolo con negli occhi uno sguardo vacuo e assente. Quando si decise a rispondere, la voce era bassa e monocorde. «Prima, quando ti ho detto che dovevi aver sognato, mi sbagliavo. È reale, Katelynn. È reale, ed è da qualche parte là fuori. In attesa di uccidere ancora». Le disse tutto ciò che era successo da quando lei lo aveva lasciato all'Hemingway fino a che le aveva telefonato chiedendole di raggiungerlo. Mentre lui parlava Katelynn non disse una parola, ascoltandolo pazientemente fino in fondo. Quando ebbe terminato, si alzò silenziosa e uscì dalla stanza.
«Dove stai andando?», le chiese, alzandosi con riluttanza e seguendola. La trovò in soggiorno, mentre inseriva la cassetta nel videoregistratore. Rivedendola una seconda volta, Jake sentì la paura che gli aveva masticato le budella nelle ultime ore tornare per un altro giro. Sapere che Gabriel diceva la verità rendeva la sua richiesta d'aiuto più forte di un pugno nello stomaco. Non era il delirio visionario d'un pazzo; era realtà nuda e cruda. Jake rabbrividì pensando a quello che ne poteva conseguire. Katelynn continuò a tacere; quando il nastro finì s'alzò con calma e tornò in cucina. Jake diede una rapida occhiata a Sam, vide che dormiva ancora e la seguì. S'era seduta al tavolo, e lo aspettava. «Temo ci sia qualcosa di più, Jake», disse. Lui la guardò, pensando che stava per beccarsi la seconda metà d'una combinazione di pugni uno-due. «Ti dice niente il nome Edward Beckett?». Lui scosse la testa. Facendo un respiro profondo, lei diede inizio alla storia. «Beckett era un ministro di culto itinerante, uno che passò molto tempo da queste parti alla fine del 1700. Teneva resoconti accurati di tutto quel che faceva e vedeva. Sto usando alcuni dei suoi lavori come fonti per la mia tesi. Nell'ottobre del 1763, Beckett arrivò qui a Harrington Falls, giusto in tempo per essere testimone dell'unico processo di stregoneria che questa cittadina abbia mai visto. L'uomo sotto accusa, dichiarato più tardi colpevole del crimine, era Sebastian Blake». «Che c'entra Gabriel con la cosa che continui a vedere nei tuoi sogni?», domandò Jake. «Ci sto arrivando. Pare che Blake praticasse quella che tutti ritenevano essere magia nera. Fra l'altro, sembra che avesse al suo servizio un demone, un famiglio, una sorta di compagno magico che l'assisteva ed eseguiva i suoi ordini». Jake fece segno d'aver capito. Era abituato al concetto di "famiglio" per via delle sedute settimanali di Swords and Sorcerers. «Al processo, molti testimoni si fecero avanti e dichiararono di aver visto questo famiglio. Un tale sostenne persino di essere sopravvissuto a un suo attacco. Le autorità li presero in parola e perquisirono la casa di Blake, ma non trovarono mai il famiglio. Trovarono invece una statua con le sembianze di una creatura demoniaca scolpita nella pietra, così impressionante
nel suo realismo da far loro ritenere che Blake avesse usato una bestia vera come modello. Bastò questo alle autorità per convincere la giuria che i testimoni dicevano il vero. Fu l'ultimo chiodo per sigillare la bara di Blake. Beckett registrò tutto questo nel suo diario, inclusa una descrizione della bestia, e da quel momento cominciò a chiamarla la Sventura di Blake. Credo che la statua che tu hai trovato nella tomba di Sebastian Blake sia quella menzionata da Beckett nel suo diario». Rimasero per un momento seduti in silenzio, riflettendo sulle implicazioni. «Che cosa accadde a Blake?», chiese Jake. «Si pensa che fu sepolto vivo nella tomba come ammonimento per chiunque altro si fosse azzardato a giocare con la stregoneria», rispose con sicurezza. La guardò attonito. «Stai scherzando?». Lei scosse la testa. «Bei concittadini», disse Jake. Katelynn proseguì. «Sono convinta che la statua non fosse tanto l'effigie del famiglio di Blake quanto il famiglio stesso, in qualche modo trasformato in pietra. E penetrando nella tomba, Kyle ha involontariamente offerto ciò di cui l'Ombra della Notte aveva bisogno per assicurarsi la libertà», concluse. Sedettero in silenzio, immersi nei rispettivi pensieri. «Che cosa pensi sia successo a Gabriel?», chiese Katelynn. «Qualcosa ha fatto irruzione nella casa di riposo e l'ha fatto a pezzi». Jake e Kate sobbalzarono per la sorpresa. Appoggiato allo stipite della porta c'era Sam, avvolto nella coperta sotto cui aveva dormito. Aveva in viso un'espressione smarrita e la voce era totalmente priva d'emozione. È sotto shock, pensò Katelynn. Sam proseguì. «Sono andato alla casa di cura. Ho fatto in modo di dribblare i poliziotti e sono salito al terzo piano in tempo per vedere che fotografavano la scena del crimine. Quello che rimaneva di lui sembravano più pezzi di carne cruda che resti di un essere umano». Si trascinò nella cucina e sedette di fronte a Jake, rifugiandosi nel silenzio. Loki scelse quel momento per entrare trotterellando, guardarli tutti e andare ad accucciarsi sul pavimento ai piedi di Katelynn. Lei si chinò ad accarezzarlo nel tentativo di calmarsi i nervi rapidamente logorati. «Così, era Gabriel a tentare di avvertirci tramite la tavola Ouija?»,
chiese. Sam annuì. «Avrei dovuto saperlo che era lui. Solo Gabriel mi chiamava Sammy. Quando quel messaggio è arrivato, ero semplicemente troppo stordito per reagire e poi il malore di Dana ci ha distratto tutti. Quando sono arrivato alla casa di cura era ormai troppo tardi. Gabriel era già morto». «Dunque, quello che vedo nei miei incubi..». «È l'Ombra della Notte, Moloch», completò per lei Jake. «Che facciamo adesso?», si chiese Katelynn. Jake rispose senza esitazione: «Dobbiamo fermarlo». Lei lo guardò. «Cosa intendi per "fermarlo"? Come?». «Ucciderlo, suppongo. Che altro possiamo fare?». «Non stiamo parlando di un cane rabbioso che puoi stanare e far smettere di soffrire. Questo è un... ehm...». Esitò, incerta su come definire la cosa. Una bestia? Un demone? Che cos'era, in nome di Dio? Jake vide il suo smarrimento, e rifletté che lui, pur non sapendo come chiamarlo, almeno sapeva di cosa si trattasse. Il Male. Con la M maiuscola. «Tu cosa suggerisci di fare?», chiese a Katelynn di rimando. «Lasciare che continui ad ammazzare la gente?». «Certo che no! Penso solo che può esserci qualcuno più qualificato per un lavoro del genere. Perché non dirlo alla polizia? Loro possono chiamare la squadra SWAT, o la guardia nazionale, o qualcun altro. Sono addestrati per queste cose. Noi no». Jake rise. «Sì, hai ragione, Katelynn. Già lo vedo». Fece il gesto di sollevare la cornetta del telefono e comporre un numero. «Sì, pronto. È la polizia? Bene. Mi chiamo Jake Caruso e volevo farvi sapere che c'è una creatura infernale che imperversa a Harrington Falls ed è lei che sta ammazzando la gente. Che cos'è? Oh, naturalmente posso fornirvi una descrizione. È rossa, zoccoli fessurati e coda biforcuta, e di solito gira con un forcone». Katelynn lo fissò un attimo, poi sospirò. «Ok. Capisco. Ma non sono ancora convinta che sia una buona idea quella di lasciarci coinvolgere. Non sappiamo niente sul modo di fermare questa cosa. Non sappiamo dove vive, quali siano i suoi punti deboli, niente. Come dovremmo fare a ucciderla? Trapassandole il cuore con un paletto di legno? Sparandole pallottole d'argento? Incatenandola e gettandola nell'acqua che scorre? Come?». «Non so. Ma dev'esserci un modo per fermarla, altrimenti ci ritroveremo
con migliaia di loro là fuori. Gli Anziani ce la fecero, secondo Gabriel. Quindi possiamo farcela anche noi». «Andiamo, Jake! Questa non è una partita di Swords and Sorcerers, dove puoi bere una pozione per guarire o beneficiare di un incantesimo di risurrezione e tutto si sistema di nuovo. Torna alla realtà. Questa cosa ha ammazzato selvaggiamente della gente, inclusi due poliziotti. E puoi scommetterci il culo che loro avevano delle pistole e sapevano anche come usarle!». Jake si voltò verso Sam, che assisteva in silenzio al loro battibecco. «Che ne dici, Sam? Sei con me?». Lo sguardo di Sam incrociò il suo e Jake vide nei suoi occhi la rabbia che covava come un tizzone incandescente. La voce di Sam uscì piatta e dura, ma stavolta piena d'emozione, con ira malrepressa. «Voglio ammazzare quel bastardo. Non m'importa come lo facciamo. Lo voglio morto». «Bene! Adesso ti riconosco!», disse Jake battendogli sulla schiena. «Andiamo a rispedire quel figlio di puttana all'Inferno da cui è sgusciato fuori!». Si girò verso Katelynn. «Allora? Sei con noi o no?». Katelynn li fissò entrambi. L'avrebbero fatto veramente, che lei fosse d'accordo o no, era chiaro. Sono diventati tutti e due completamente matti? Era convinta di sì. «No», disse, poi lo ripeté ancora con maggior decisione. «No, non vengo con voi. E non rimarrò qui seduta ad ascoltarvi ancora. Devi essere uscito di testa, Jake. Hai sentito quello che ha detto Sam. Questa cosa ha fatto Gabriel a pezzi. Se lui era uno di quegli Anziani con poteri mistici e nonostante questo è stato fatto a brandelli, cosa pensi che farà a voi due?». «Credo che dovremo correre questo rischio», replicò Jake con calma. Katelynn vide il rammarico nei suoi occhi, ma l'ignorò. Se voleva essere arrabbiato con lei perché cercava di salvargli la vita, facesse pure. Aveva già fatto cose anche più stupide. «Allora lo farete senza di me». Si alzò e uscì dalla cucina. Alcuni attimi dopo, i due uomini sentirono la porta d'ingresso aprirsi e richiudersi e poi il rumore dell'automobile di lei che veniva messa in moto. Katelynn non sarebbe tornata indietro. Jake guardò Sam, poi scrollò le spalle. «Così sia. Lo faremo da soli». Si alzò, versò una tazza di caffè per ciascuno di loro, poi sedette e cominciò a buttare giù un piano.
30. Riverwatch Sam si svegliò al tocco di una mano che gli scuoteva con gentilezza la spalla. Nella luce fioca vide Jake chinato sul letto. «È ora d'andare», gli disse l'amico. Sam annuì mostrandogli d'aver capito. Appena Jake scomparve di nuovo nel soggiorno, Sam buttò fuori le gambe dal letto e si vestì in fretta. Una rapida occhiata all'orologio gli disse che erano le 4 del mattino. Sgusciò fuori dalla camera da letto e si avviò nel corridoio per raggiungere Jalce che, in silenzio, aspettava sulla porta d'ingresso. Loki era ritto al suo fianco, ma Jake gli fece segno che doveva rimanere e l'akita ubbidì. Sam gli fece cenno d'esser pronto, e uscirono entrambi di casa salendo nella jeep. Avevano concordato un piano assai semplice. Tutti e due si sarebbero arrampicati sul Rock, un alto spuntone di pietra che sovrastava il fiume Quinnepeg, e da lì avrebbero iniziato una sorveglianza. Come luogo più alto della città, dal quale si dominava tra l'altro la tenuta di Riverwatch, sembrava un posto logico per cominciare. Tutte le aggressioni erano avvenute di notte, al riparo delle tenebre. Questo li aveva portati a ipotizzare o che la bestia avesse deciso di non operare alla luce del giorno o che non potesse farlo. In entrambi i casi avrebbe cercato di far ritorno al suo nascondiglio prima del sorgere del sole. L'altezza del Rock offriva loro la miglior opportunità possibile di avvistare l'Ombra della Notte mentre volava, e c'era sempre la possibilità che potesse davvero nascondersi dentro Riverwatch, malgrado le ricerche già precedentemente effettuate sul posto dalla polizia. Jake e Sam decisero di essere in cima al Rock prima possibile, così da avere l'opportunità d'avvistarla quando fosse tornata. Questo avrebbe dato loro un'idea di quello che avrebbero dovuto affrontare. Dopo di che avrebbero messo a punto il resto del piano. Da parte sua, Sam si ritrovò a domandarsi cosa diavolo credevano di fare. Non aveva dubitato neanche un istante che la bestia esistesse per davvero. Negli ultimi due giorni aveva visto abbastanza da convincersene. Aveva anche imparato quali efferati atti di violenza la bestia fosse capace di compiere, eppure si ritrovava qui impegnato alacremente a stanare la cosa, a scoprire dove viveva. La rabbia gli era leggermente sbollita e questo gli aveva consentito qualche riflessione sulla faccenda. Katelynn aveva visto giusto. Dovevano essere pazzi a tentare una bravata del genere. La cosa
avrebbe potuto ucciderli senza un battito di ciglia. Era sul punto di esternare la sua opinione a Jake, quando l'amico gli disse: «Ci siamo». Sam gettò uno sguardo fuori dal finestrino mentre Jake accostava la jeep, posteggiandola sul bordo della carreggiata. Da dove Sam sedeva, i boschi sembravano estendersi per miglia al di là dalla strada, anche se sapeva bene che solo poche centinaia di metri oltre terminavano di colpo sull'argine del fiume Quinnepeg. In prossimità della riva si ergeva il Rock, sebbene dalla strada non lo potessero vedere. «Non ne sono più tanto sicuro, Jake. Mi sembra una bella pazzia». Jake non ne fu contento. «Pensavo che fossimo d'accordo». «Lo eravamo», convenne Sam. «È solo il resto del piano che mi preoccupa. Certo, potremmo davvero avvistare questa cosa, e poi? Che succede se ci scopre quassù? Ci hai pensato? Gabriel non ci ha dato informazioni su come fermare l'Ombra della Notte. Non sono particolarmente eccitato all'idea di affrontarla a mani nude!». «Non ci scoprirà», disse Jake saltando giù dalla jeep e guardandolo dalla portiera spalancata. «Ce ne staremo nascosti tra gli alberi, ben fuori dalla vista. Tutto quello che dobbiamo fare è aspettare quanto basta a vedere se si trova ancora nella tenuta, poi ce la daremo a gambe e chiederemo aiuto». «A chi, per esempio?», volle sapere Sam, senza accennare a scendere dall'auto. «Come cazzo faccio a saperlo?», replicò Jake esasperato, e sbatté la porta in faccia a Sam. Sam lo guardò attraversare la strada, scavalcare il vecchio muretto di pietre sgretolato sul limitare degli alberi, e scomparire nel buio dall'altra parte. Il silenzio opprimente che calò nella jeep sembrò pesare enormemente su Sam. Era arrivata la paura a rimpiazzare la rabbia provata in precedenza, quando avevano concordato quel piano d'azione, e sembrava gravargli sulle spalle come un mantello fradicio. Rimanere solo nel buio non sembrava al momento l'idea migliore. Doveva aspettare qui e sperare che l'Ombra della Notte non lo scoprisse nascosto nell'auto, o raggiungere Jake e pregare che quella non guardasse mai nella loro direzione? Nessuna delle due alternative lo convinceva troppo. Gli ci volle solo un secondo ancora per decidersi. Sam aprì la portiera e uscì dalla jeep. «Ehi, Jake!», sibilò nel buio. «Aspettami!». Dieci minuti più tardi erano posizionati in cima al Rock, facendo del lo-
ro meglio per mimetizzarsi nel paesaggio. La pietra su cui sedevano era bagnata dall'umidità notturna, e quel freddo cavò rapidamente il calore dalle loro ossa. Il vento fischiava leggero attraverso gli alberi che li circondavano, facendo frusciare e risuonare le foglie come voci che li chiamassero dalle tenebre. Al di sotto, uno spesso strato di nebbia ristagnava pochi centimetri sopra l'acqua, turbinando tutt'attorno in leggere volute simili a fantasmi che danzano nella notte. Non c'era niente nella loro situazione che confortasse Sam sulla decisione presa di lasciare la jeep. Sam gettò uno sguardo sopra l'acqua. Da dove erano seduti, le alte guglie di Riverwatch erano chiaramente visibili alla luce della luna. Era là che loro sospettavano che l'Ombra della Notte si nascondesse dopo le recenti uccisioni. Rimasero silenziosi nell'oscurità, cercando di ignorare il disagio, persi nei rispettivi pensieri, finché Sam ruppe il silenzio dopo una mezz'ora d'osservazione. «Penso di aver capito». Nella luce fioca Sam vide Jake girare la testa verso di lui. «Capito cosa?». «Perché non esiste alcuna prova della versione della storia data da Gabriel». «E sarebbe?». «Perché l'umanità non la riconobbe per ciò che era quando la vide». Jake si scrollò, un modo di fare che aveva probabilmente preso da Loki. «Spiegamelo un'altra volta». «Pensaci. Se diamo per buono che queste cose ebbero una loro propria civiltà come disse Gabriel, ci dovrebbe risultare un qualche genere di concreta documentazione sulla loro esistenza, giusto? Voglio dire, se nelle pianure dell'Africa riusciamo a trovare tracce dei più antichi antenati dell'uomo, allora ci dovrebbero essere anche dei segni disseminati da queste due grandi specie che abitarono il mondo prima di noi. Che diamine, Gabriel si è sempre vantato delle meravigliose città degli Anziani. Perché di esse non si trova alcuna traccia?». Jake ci rifletté per un istante. «Va avanti». «Forse una prova esiste. Facci caso, Jake. Quante coincidenze inspiegate e quanti misteri irrisolti ci sono che riguardano il mondo del passato? Centinaia, vero?». La voce di Sam cominciò a crescere di eccitazione. «Dunque?», replicò Jake. Non era sicuro di dove Sam volesse andare a parare. «E abbassa la voce, per favore», aggiunse irritato.
«Sto parlando della concreta, sostanziale prova che il racconto di Gabriel sull'Era della Creazione è veritiero. Una prova che è stata sempre proprio sotto il nostro naso, ma che semplicemente non abbiamo riconosciuto». «Come sarebbe?». «Come chi ha costruito le statue sull'Isola di Pasqua, per esempio. Stanno lì da secoli ma ancora nessuno conosce un'acca del popolo che le realizzò o del perché furono innalzate». Jake fissò l'amico con incredulità, malgrado il buio impedisse a Sam di vedere la sua espressione. «Questa sarebbe la tua prova? Quattro statue pidocchiose che nessuno sa chi ha costruito dovrebbero fornire la dimostrazione che una civiltà altamente evoluta governava la terra prima di noi? Non credi di stare forzando un po' le cose?». «Ma è proprio così, Jake. Non è l'unica prova. È soltanto un esempio. Ce ne sono altre. Guarda le piramidi. Perfino oggi, con tutta la nostra tecnologia moderna, non siamo ancora riusciti a rifare una di quelle piramidi realizzandola matematicamente precisa come facevano gli egizi, e loro usavano soltanto le mani. E che ne dici dei maya e degli incas? Due civiltà incredibilmente sviluppate, ciascuna in possesso di una lingua e di un alfabeto scritto molto tempo prima che i nostri antenati in Europa avessero imparato il valore della scrittura. Entrambi avevano anche cognizioni di geometria e astronomia sufficienti a creare un calendario che molti ritengono anche più preciso di quello che usiamo oggi. Come altro avrebbero potuto farlo, Jake, se non con un piccolo aiuto da qualcuno come gli Anziani?». Ora Jake era interessato. Sam stava dicendo cose abbastanza sensate. Ricordava che tali teorie erano state evocate in passato, anche se normalmente si riferivano a qualche intelligenza extraterrestre discesa da dischi volanti per una visita di buon vicinato. Quelle ipotesi, con valide motivazioni, erano sempre state derise da Jake. Ma l'idea di Sam colpiva un po' più vicino al segno. Un'intelligente specie preistorica di "alieni", in mancanza di una definizione migliore, era una teoria buona come un'altra per spiegare come l'uomo fosse riuscito a elevarsi da un nudo, bestiale stato selvaggio in un lasso di tempo tanto breve, guardando alle cose sulla base di una scala di valori cosmica. Sembrava impossibile che avessero fatto da soli. Jake si girò indietro a scrutare nella notte, riflettendo su questa nuova svolta. La mente di Sam stava galoppando, mentre lui si sforzava di raccogliere i pensieri in un ragionamento coerente. Ogni cosa acquistava improvvisamente un senso e un'unica, semplice risposta poteva spiegare centinaia di misteri. «Ma perché non abbiamo nessuna reliquia, nessun rudere, di quei
popoli? Tutte le altre civiltà si sono lasciate dietro qualcosa, qualche traccia del passato, perché questa no?», chiese Jake. «Non devono necessariamente esserci dei ruderi. È il modo in cui allora si facevano le cose. Guarda Troia, santo cielo. È un esempio perfetto. Quando Schliemann ritrovò il luogo esatto, non rintracciò una città sola, ma ben ventidue, ciascuna delle quali edificata sopra i resti delle altre, con i materiali rimossi della precedente a costituire le fondamenta della successiva. È forse per questo che alcuni dei primi insediamenti umani furono realizzati in un punto piuttosto che in un altro; costruivano sopra le rovine della civiltà che li aveva preceduti». Jake, tuttavia, rimaneva scettico. «Ci deve pur essere qualche traccia, Sam. Qualche riferimento, qualche indizio che confermi che sono esistiti prima di noi». «Ma c'è, Jake! Qual è il mito più diffuso che può essere rintracciato in centinaia di culture? Il mito di una grande e illuminata civiltà distrutta da una terribile catastrofe agli albori della storia. Atlantide». «Non riesci a immaginarlo, Jake? Quegli ultimi giorni violenti, con la specie che hai educato che diviene adolescente mentre la tua stessa sta decadendo nei suoi ultimi giorni, le tue schiere e quelle dei tuoi nemici assottigliate irreversibilmente dopo secoli di guerra?». Sam cominciò a camminare avanti e indietro su una parte esposta del Rock, non nascondendosi più, completamente visibile a chiunque avesse volto lo sguardo nella loro direzione. Intuendo che Sam, nella sua eccitazione, aveva dimenticato che cosa facessero lì e quanto fosse essenziale restare inosservati, Jake fu sul punto di dirgli di stare zitto e di sedersi. Le parole gli si congelarono sulle labbra. Da dietro la spalla di Sam, Jake vide sbucare dalla notte una figura alta, scura, dai contorni più neri delle tenebre da cui proveniva, stagliata nella luce delle stelle che copriva la vista. La visione paralizzò Jake. Giù, veniva giù, viaggiando velocissima, puntando dritta sul bersaglio, la schiena indifesa di Sam. Jake provò a gridare, a urlare, a sbloccare la paralisi che l'aveva attanagliato, mentre un crudo, denso terrore gli strizzava il cuore in una morsa e minacciava di mandargli in tilt il sistema nervoso. Ma non ce la faceva a muoversi, non era in grado di avvertire il suo amico della morte che si stava avvicinando dal cielo notturno.
Tutto sembrò accadere di colpo. Un urlo acuto, lacerante riempì l'aria quando l'Ombra della Notte dette fiato al puro e semplice piacere, pregustando l'uccisione imminente. Sam si voltò di scatto e guardò in su, vedendo per la prima volta la sagoma scura che s'abbatteva su di lui. La luna riverberava sugli artigli protesi della bestia, mentre s'apprestava ad assalire e squartare la sua preda. La paralisi di Jake si sbloccò. Reagì senza rendersene conto; si buttò di lato senza una parola, le gambe protese avanti a sé in un calcio violento sferrato con tutto il peso della sua stazza da un metro e ottanta. Le sue caviglie colpirono le gambe di Sam esattamente sopra le ginocchia, privandolo dell'appoggio e proiettandolo in una caduta incontrollata che lo spinse oltre l'orlo del Rock, verso l'acqua sottostante. Con un gemito acuto, Sam scomparve alla vista. Sapendo d'avere pochi secondi per fuggire, Jake non sprecò tempo a inventare qualcos'altro. Si limitò a lasciare che il corpo proseguisse la traiettoria già iniziata, gettandosi di lato e seguendo Sam nella caduta. Un attimo prima aveva sotto di sé la solida superficie del Rock, quello dopo stava precipitando nel vuoto. Il volo parve durare all'infinito, finche con un brusco impatto sprofondò nelle acque gelide del Quinnepeg. La caduta lo spinse giù, e il freddo dell'acqua sembrò risucchiargli l'aria direttamente dai polmoni. Nuotò freneticamente verso la superficie, avvertendo il peso degli abiti bagnati che tendeva a trascinarlo di sotto, e tirò un respiro di sollievo quando la testa sbucò fuori dall'acqua. Trovò Sam che sputava una sorsata d'acqua qualche metro più in là. «Stai bene?», gli chiese Jake. «Sì». «Immagino che l'abbiamo trovato», disse debolmente Jake. Sam preferì non rispondere. Jake era quasi sul punto di continuare quando un suono sibilante lo avvertì del pericolo in arrivo. «Giù!», urlò, senza neppure disturbarsi a guardare verso l'alto, sapendo istintivamente che si trattava del sibilo dell'aria lacerata dalle ali dell'Ombra della Notte, mentre si buttava in picchiata su di loro. Jake si tuffò di nuovo, si tuffò in profondità per sfuggire a quegli artigli mortali che s'immergevano nel fiume in cerca della sua carne tenera. Nel contempo cercò d'avvicinarsi alla riva, puntando in quella direzione, spe-
rando che la vista dell'Ombra della Notte non fosse così aguzza da scorgerlo sott'acqua nell'oscurità. Pensò di venire in superficie a una certa distanza da dove s'era immerso, sperando di guadagnare abbastanza tempo da potersi inventare un modo per tirarsi fuori da quella situazione. Jake stette sotto più che poté, finché i polmoni presero a urlare il loro bisogno d'ossigeno e capì senz'ombra di dubbio che non avrebbe potuto attendere un secondo di più. Riemerse a circa dieci metri da dove s'era tuffato, avendo coperto due terzi della distanza dall'altra sponda. Una rapida, frenetica occhiata all'insù gli disse che il cielo al momento era vuoto. Era una benedizione, sebbene nessuno potesse dire quanto a lungo sarebbe durata. Comunque doveva approfittare di ogni momento disponibile. Dov'è Sam? pensò, e si guardò intorno, facendo del suo meglio per forare lo strato di nebbia che fluttuava a qualche centimetro dal pelo dell'acqua. Colse un leggero movimento nella nebbia e fu raggiunto dal suono ritmato delle bracciate di qualcuno che nuotava, e il cuore riprese a battergli. Al momento pareva che entrambi fossero sani e salvi. Jake sapeva che, se non erano in grado immediatamente d'architettare qualcosa, erano spacciati. Il rumore che facevano rappresentava la certezza di tirarsi addosso l'Ombra della Notte, e ogni istante in più passato in quelle gelide acque avrebbe rapidamente spazzato via la loro energia, rallentando i tempi di reazione. Probabilmente non sarebbero stati in grado di schivare abbastanza in fretta il prossimo attacco. Jake non voleva nemmeno pensare a cosa sarebbe accaduto in quel caso. Si mise a nuotare dietro a Sam, sbrigandosi ad affiancarlo mentre si dirigeva faticosamente verso la riva. «Tutto bene?», gli chiese Jake sottovoce quando l'ebbe raggiunto. «Ho la spalla che sanguina, ma non credo che sia una ferita seria. Non sono sicuro se è quella cosa che mi ha colpito o se ho urtato contro le rocce cadendo. Comunque, il freddo sta collaborando ad attutire il dolore. Credo che starò bene se ci sbrighiamo a toglierci da qui. Hai qualche idea?». Per tutta risposta Jake scosse il capo. Non avevano molto tempo per discutere il da farsi. Parlando, continuarono a guardare verso il cielo, sforzandosi di rintracciare il loro inseguitore. Fu proprio per questo che non riuscirono a vederlo quando, qualche istante dopo, balzò fuori dalla nebbia solo una spanna o
due sopra l'acqua, materializzandosi come uno spettro nella notte, con gli artigli protesi e bramoso di carne. «Attento!», urlò Sam, vedendo improvvisamente la bestia, e si gettò all'indietro all'ultimo momento nel tentativo di sfuggire a quegli artigli mortali. Jake non fu altrettanto veloce. L'artiglio dell'Ombra della Notte lo sfregiò al viso con un colpo fulmineo, scavandogli un solco profondo sulla guancia sinistra. Rapidamente com'era arrivata, la bestia tornò a sparire nascondendosi nell'oscurità. Il dolore era acuto, e Jake sentì il sangue scorrergli copioso sul volto, ma poteva affermare che non gli era andata troppo male. Ancora un centimetro o due e avrebbe potuto essere tutt'altra faccenda. «Jake! Da questa parte!». Guardando in direzione della voce, vide Sam che si teneva a galla qualche metro più in là, nei pressi della sponda. «Attento!», strillò il suo amico, e puntò verso la riva. Dall'alto, Moloch catturò una corrente ascensionale e si lasciò trasportare, tenendo d'occhio la sua preda nell'acqua sottostante. La sua vista era eccezionale, così come non aveva problemi a percepire il calore dei loro corpi, benché camuffato dal gelo dell'acqua in cui erano immersi. Non c'era fretta. Avrebbe potuto aspettare, per prendersi una sorta di perverso piacere giocando con le sue vittime. Gli umani, come aveva imparato che essi ora si definivano, avevano risvegliato la sua curiosità. Non sarebbero mai stati niente più che bestiame, per lui. Ma era ovvio che avevano percorso un lungo cammino dai tempi in cui cacciava la loro specie nelle lussureggianti, verdi foreste dove avevano iniziato a insediarsi molti secoli prima. Avevano mandato a memoria gli insegnamenti degli Anziani e si erano diffusi in quantità che lui non avrebbe mai immaginato possibili. Questo serviva a renderli una preda più interessante; non ancora all'altezza di uno della sua specie, ma comunque interessante. Specialmente questi due. Sembrava quasi che lo stessero aspettando. Come se sapessero che sarebbe arrivato. Ma com'era possibile? I dati ricavati dalla prima uccisione, gli avevano suggerito che gli umani
già da lungo tempo si erano dimenticati del predatore alato che una volta li cacciava in branchi. Il tempo aveva cancellato le loro paure, tramutando i ricordi in miti. Quei miti s'erano così radicalmente trasformati da risultare ora quasi irriconoscibili. Il Na'Karat, per loro, aveva cessato di esistere. Che ci facevano qui questi due? Era semplicemente curioso; la verità gli importava poco. Il risultato finale sarebbe stato identico. Appena il brivido della caccia gli crebbe nel petto, mise da parte le sue elucubrazioni e rivolse una volta ancora l'attenzione ai due che s'agitavano nell'acqua sottostante. Jake guardò nella direzione che Sam aveva indicato. Laggiù la nebbia era spessa, e mentre Jake le era stato grato quando li aveva aiutati a nascondersi dall'essere maligno che incombeva su di loro, ora la malediva perché gli impediva di vedere quello che Sam stava indicando, qualsiasi cosa fosse. «Che c'è?», lo chiamò a bassa voce. «Non vedo..», ma poi ci riuscì. Fuori dall'oscurità, sul margine dell'acqua, poteva intravedere appena i resti fatiscenti di una piccola struttura. Guardando meglio, Jake si rese conto che se fossero riusciti a raggiungerla, avrebbe potuto offrir loro riparo sufficiente per proteggersi dagli attacchi della creatura. «Ce la fai?», domandò a Sam. Persino da dove si trovava riusciva a vedere le profonde lacerazioni che gli artigli della bestia avevano aperto nel giubbotto di pelle di Sam e poteva facilmente immaginarsi la condizione delle carni. Il dolore doveva essere acuto, e Jake sapeva che Sam, nuotando, probabilmente apriva in maniera più profonda le ferite. Restare lì non rappresentava comunque una soluzione. Sam era giunto apparentemente alla stessa conclusione. «Ho forse qualche altra scelta?», rispose, sorridendo con amarezza. Mentre Sam puntava in direzione della struttura con la velocità che il freddo e la ferita gli consentivano, Jake esitò un istante, scrutando attentamente il cielo, chiedendosi dove diavolo si trovasse la creatura. La nebbia, che prima era stata alleata, ora era loro nemica, nascondendo alla vista la bestia. Tese le orecchie, ma la spessa foschia attutiva tutti i rumori. Anche quello di Sam, che nuotava a parecchi metri di distanza, gli arrivava così smorzato da non sentirlo quasi. Speriamo che la cosa abbia un udito di merda, si disse lugubremente Jake mentre nuotava alle spalle di Sam.
L'oggetto delle preoccupazioni di Jake stava in quel momento sorvolando l'acqua, preparandosi con tutta calma a un ulteriore attacco. Non aveva premura; il bestiame era intrappolato là sotto, impegnato a dibattersi nelle gelide acque del fiume. Persino da così distante poteva fiutarne la paura. Li aveva mancati per due volte di proposito, giocando alla stessa maniera di un gatto che stuzzica la sua preda, lasciando che paura e adrenalina li spingessero sempre più vicini al limite. Sapeva di poterli prendere quando voleva; poteva anche godersi il gioco un altro po'. Guatò l'acqua sottostante, individuando senza difficoltà, grazie alla sua vista sensibile al calore, le due sagome che s'affannavano verso riva. La lingua volteggiò sopra i denti e Moloch s'abbandonò a un sogghigno, con la bocca che sbavava pregustando l'imminente tepore della carne viva. Con un'ultima occhiata all'ingiù, spalancò le ali e si precipitò come un macigno in direzione dell'acqua. Si trovavano a pochi metri dalla riva quando Moloch colpì di nuovo. Questa volta, Jake era vigile e in attesa. Riconobbe l'improvvisa fibrillazione in fondo al cervello come un istintivo segnale d'allarme e reagì con prontezza. «Tuffati!», strillò, facendolo a sua volta e pregando che Sam lo seguisse a ruota. Riempiendosi velocemente i polmoni d'aria, spinse il corpo sott'acqua, scalciando disperatamente, artigliando con le mani per raggiungere una maggiore profondità. Una vocina in un angolo della mente gli sussurrò che il tuffo di Moloch dall'alto gli avrebbe consentito una notevole penetrazione sotto la superficie, e che se non fossero scesi abbastanza in profondità, avrebbero avuto scarse possibilità di sopravvivenza. L'acqua era scura come pece a mezzanotte, impossibile vederci attraverso, e dopo pochi secondi Jake ci rinunciò. L'assenza del principale tra i sensi lo disorientava, perciò fu sorpreso quando con le braccia protese incontrò il limo fangoso del fondo del fiume. Troppo poco profondo! gli urlò il cervello, spingendolo irrazionalmente ad andare più giù. Non c'era altro posto dove andare. Jake stette giù più che poté, facendo schiumare il fondo del fiume, terrorizzato di riemergere, non sapendo cosa l'aspettasse di sopra. Abbiamo fatto in tempo? Quegli artigli acuminati come rasoi sono protesi anche in questo momento attraverso l'oscurità, pronti a lacerarmi la pelle, strappandola dalle ossa? Sam è riuscito a sfuggire o il suo sangue sta tingendo
l'acqua di rosso? Non c'era modo di saperlo con certezza se non riaffiorando, cosa che i polmoni affamati d'ossigeno stavano peraltro ordinandogli di fare. Jake cedette alla richiesta. Incapace di vedere, fece una risalita affannosa non meno della discesa, e gli sembrò di metterci il doppio. Per un istante si domandò se non si fosse involontariamente rigirato e se non stesse per caso nuotando di lato piuttosto che verso l'alto. La paura cresceva mentre i polmoni combattevano per inalare; l'attimo si dilatò in quella che gli parve un'eternità, finché ruppe la superficie, provando lo stesso stordimento di quando aveva toccato il fondo. La bocca inspirò a pieni polmoni con un urlo sofferto, e la necessità d'alleviare il bruciore dei tessuti lo spinse a fregarsene del rumore così prodotto. Con non poca sorpresa, anche Sam era là, non distante più di qualche metro. «Grazie a Dio!», esclamò il suo amico vedendolo, alleggerendo un po' la paura che aveva negli occhi. Jake sapeva con esattezza quello che provava. Affrontare quella faccenda insieme era stato abbastanza brutto, ma farlo da soli sarebbe stato infinitamente peggio. Per parte sua, Sam era stupito che fossero sopravvissuti così a lungo. Avevano avuto fortuna. Sam era decisamente convinto che la fortuna conoscesse molto bene il modo di sfuggirti quando più ne avevi bisogno. Si guardò intorno, cercando l'Ombra della Notte. Per quello che poteva vedere, il cielo sopra di loro sembrava sgombro. La nebbia li circondava ancora, ma si stava diradando visibilmente. Una flebile luce grigia cominciava a diffondersi nel cielo e Sam si trovò a pregare che l'alba venisse in fretta. Avevano solo pochi secondi per togliersi dalla visuale prima che l'Ombra della Notte riguadagnasse una quota sufficiente a iniziare un nuovo attacco, e Sam era sicuro che avevano usato una buona porzione di quel tempo ritornando in superficie. Dovevano sbrigarsi! Malgrado i movimenti, il dolore della spalla cominciava a diminuire, senza dubbio un effetto della temperatura dell'acqua. Il freddo, con sua grande soddisfazione, aveva anche rallentato l'emorragia. Jake ora poteva vedere chiaramente la struttura. Erano i resti di una casa galleggiante. Mentre sembrava poter offrire loro un qualche riparo, era tuttavia distante ancora parecchi metri e raggiungerla avrebbe richiesto di-
spendio di energie. Non c'era tempo da perdere. Ignorando il dolore residuo del braccio e il freddo profondo che si stava lentamente facendo strada nelle membra, Sam riprese a nuotare con accanimento, puntando dritto verso quello che sperava rappresentasse la salvezza. Delle quattro pareti, due erano rimaste in piedi, le rimanenti s'erano arrese alle ingiurie del tempo e del clima, crolland all'interno - l'una contro l'altra - quasi a formare una copertura precaria. Il tetto era precipitato sopra le altre pareti quando il legno sottostante aveva ceduto. Anche la maggior parte del pontile su cui poggiava era da tempo sprofondato, facendo precipitare la parte inferiore della struttura sotto il pelo dell'acqua. Guardandola, Sam si sentì cadere le braccia. Quello che aveva sperato fosse abbastanza robusto da fornir protezione dagli assalti della bestia sembrava pronto a crollare solo a sfiorarlo. Il pontile stesso non pareva messo molto meglio; in qualsiasi momento quel che ne residuava poteva inabissarsi. Quando la raggiunsero, scoprirono che sembrava esserci spazio sufficiente per nascondersi là sotto. Apparentemente avrebbero potuto nuotare sott'acqua e risalire dentro la casa galleggiante, protetti alla vista da chi guardasse dall'alto, rimanendo nascosti in quella sacca d'aria intrappolata sotto quel che restava del tetto. Non persero tempo a discuterne. Jake si tuffò sotto la superficie con Sam lesto a seguirlo, determinati a occupare il loro rifugio improvvisato il più in fretta possibile. Riemersero, verificando con sollievo che non s'erano sbagliati. Aggrappandosi ai rottami dei pali di sostegno del pontile, riuscirono a guadagnare un minuscolo spazio per le membra esauste, ma sapevano tutti e due che non avrebbero potuto rimanere in acqua troppo a lungo. Se non fosse stata l'Ombra della Notte a spacciarli, ci avrebbe pensato l'ipotermia. Il mattino che si stava levando intorno a loro era tranquillo. Al di là del suono appena percettibile dell'acqua che sciabordava dolcemente sui resti del pontile, non percepivano alcun altro rumore. Dove diavolo si era ficcata quella cosa? si chiese Jake con ansia. In quel momento, Moloch stava sorvolando in cerchio l'acqua, con la rabbia che gli ardeva nel petto come un inferno. Solo qualche istante prima li aveva praticamente intrappolati. Nessun posto dove andare, nessuna possibilità di fuggire, nessun mezzo di sottrarsi a lui. Eppure, era proprio quello che sembrava essere successo. Erano inspiegabilmente scomparsi alla
vista. Moloch era furibondo. Mai prima d'ora il bestiame lo aveva superato in astuzia. Non avrebbe permesso a questi due di farlo per primi. Scese sul pelo dell'acqua, girando la testa avanti e indietro mentre ispezionava la sponda vicina al punto del suo ultimo assalto. Cercava sia delle tracce nel terreno e nella vegetazione, che gli indicassero in quale punto potevano essere usciti dall'acqua, sia la scia di calore lasciata dal passaggio dei loro corpi, ma non trovò né le une né l'altra. La rigida temperatura dell'acqua e il sole che stava sorgendo a Est contrastavano i suoi sforzi. Presto sarebbe stata l'alba. Moloch odiava la luce del sole; quand'era troppo forte comprometteva la sua vista, annebbiando ogni cosa in un'improvvisa valanga calda che gli rendeva difficile tenere gli occhi aperti. Pur potendo ancora fare affidamento sugli altri sensi, non gli piaceva trovarsi così nettamente in svantaggio. Con la grigia luce dell'alba che iniziava a filtrare nel cielo, Moloch sapeva che non gli restava molto tempo, se non voleva essere individuato durante il giorno. Stanco dei bassi sorvoli sull'acqua, virò verso i resti di una piccola struttura adiacente alla riva andandosi ad appollaiare in cima al tetto, rilassandosi comodamente una volta stabilito che, malgrado gli scricchiolii sinistri, non sarebbe crollato sotto il suo peso. Abbassò le ali sui fianchi, così da poter ascoltare la notte intorno a sé senza ostacoli. Attraverso i buchi della copertura, Sam s'avvide di come l'Ombra della Notte fosse andata a poggiarsi sul tetto sopra di loro. Si bloccò, non osando muoversi neppure per respirare, la paura conficcata in gola come un boccone troppo grosso. Aveva il terrore che la bestia potesse sentirli. Un suono improvvisamente ruppe il silenzio, il tambureggiare profondo e ritmato di qualcosa là vicino. Sam si guardò freneticamente intorno, cercandone la fonte, pregando in cuor suo che non attirasse l'attenzione dell'Ombra della Notte. Fu stupito nel constatare che Jake sembrava invece ignorarlo, preoccupandosi piuttosto della tenuta della struttura che s'andava pericolosamente inclinando, e solo dopo qualche altro attimo di confusione riuscì a rendersi conto che il suono era il battito impazzito del suo stesso cuore che gli rintronava nelle orecchie. Anche Jake era preoccupato, ma per una ragione del tutto diversa. Per un lungo attimo era stato certo che la fatiscente struttura sarebbe crollata quando la bestia vi si fosse posata sopra, abbattendoglisi addosso. Il tetto aveva tuttavia resistito, e ora erano intrappolati a brevissima distanza dalla creatura che dava loro la caccia.
E adesso? si domandò. Non aveva una risposta pronta. Una rapida occhiata in direzione di Sam gli confermò le peggiori paure. Il volto dell'amico era smunto e impallidito per il sangue perso, con le labbra blu per il gelo. Se non fosse uscito presto dall'acqua, Sam sarebbe stato spacciato. Cominciò a esaminare con attenzione tutt'intorno. Forse c'era qualcosa che poteva essere usato come arma; qualcosa che poteva tenere lontana la creatura abbastanza a lungo da permettere a loro due di risalire la riva. Ci mise solo pochi minuti a liquidare tali speranze. Non c'era niente se non acqua e legname marcito, reso viscido dai molti anni di accumulo del limo del fiume. La casa galleggiante scricchiolò mentre la bestia spostava il suo peso. Guardando in su sconfortato, Jake si chiese se la dannata cosa si fosse davvero seduta ad aspettare che loro uscissero. Se era così, non avrebbe dovuto attendere a lungo. Fortunatamente per loro, le cose andarono diversamente. Moloch non sapeva che la preda che cercava era lontana pochi metri, perché il denso, persistente odore che si levava dalla sponda paludosa nascondeva quello abitualmente forte degli umani e lo sciabordio dell'acqua contro le sponde mascherava eventuali suoni rivelatori che questi producevano. Il sorgere del sole a Est costrinse Moloch ad abbandonare la caccia. Diede un'ultima occhiata all'area circostante e poi spiegò le sue enormi ali. L'ira gli corse nelle vene come mercurio, quando si dovette rendere conto che gli umani gli erano sfuggiti. Mai prima d'ora era accaduta una cosa simile. Era ormai evidente che gli umani erano parecchio cresciuti in astuzia durante gli anni del suo isolamento e promise a se stesso che non avrebbe più permesso loro di beffarlo. Per ora, avrebbe fatto ritorno al suo rifugio nella soffitta, oltre il fiume, ad attendere il calar del sole. In fondo non gli importava davvero che fossero sfuggiti; non sarebbero andati lontano. Quando la notte avesse nuovamente dispiegato le sue ali maestose sul mondo, lui avrebbe rintracciato quei due umani. Quando questo sarebbe accaduto, li avrebbe uccisi. Lentamente. Cullando questo stimolante pensiero, Moloch decollò dal tetto, portandosi con alcuni veloci colpi d'ala nel cielo che rischiarava e, attraversando il fiume, in direzione della tenuta.
Al riparo della casa galleggiante, alla fine, le forze di Sam vennero meno. Il dolore e il freddo avevano riscosso il loro pedaggio. Guardò sconfitto le dita perdere la presa sui pali del pontile e il corpo scivolare giù sotto la superficie. Freneticamente Jake si slanciò ad afferrarlo, annaspando con le dita nelle pieghe del giubbotto di Sam. Lo trascinò in superficie, tenendoselo a fianco, reggendogli la testa fuori dall'acqua grazie soltanto all'energia prodotta dall'adrenalina. Scrutarono in alto pieni di paura, ogni nervo dei due corpi teso ad aspettare che il legno sopra di loro cedesse sotto la forza spaventosa dei fendenti della creatura, e che i suoi artigli calassero ad attaccare con ferocia la loro carne indifesa. Non ci fu nessun assalto. Stava forse aspettando che fossero loro a fare la prima mossa? Per indurli a uscir fuori dal loro riparo e squartarli all'aperto? Niente accadeva ancora. «Dov'è, Jake?», domandò Sam, con la paura che gli restituiva un po' d'energia, abbastanza da potersi aggrappare di nuovo ai pali, senza aiuto. «Non lo so», sussurrò Jake in risposta. Stava là penzolando nell'acqua, con l'orecchio teso a ogni minimo segnale che tradisse la presenza della bestia. Non gli arrivò nulla. Guardò in su verso il tetto e questa volta notò qualcosa di diverso. Era più facile vedere. Non di molto, ma certamente meglio di quanto fosse stato qualche minuto prima. Una grigia luminosità filtrava dai buchi del tetto, consentendogli di distinguere alcuni dettagli della struttura e di vedere più chiaramente il volto di Sam. Era stato il sorgere del sole a portar via la creatura, come per qualche vampiro uscito dalla leggenda? Oppure adesso stava acquattata sopra di loro, nascosta alla vista, cercando d'ingannarli, facendo credere loro che se n'era andata? S'era davvero allontanata, oppure volteggiava ancora alta, pronta a lanciarsi giù non appena fossero emersi dall'acqua e si trovassero esposti sulla riva? Mentre s'arrovellava in questo dubbio, la luce che filtrava giù. dal tetto si fece sensibilmente più forte, e alla fine fu proprio questo a indurre Jake a decidersi.
Pensò che se la bestia si trovava ancora sul tetto ad aspettarli, allora la luce in qualche modo sarebbe stata ostruita dalla sua mole. Come minimo avrebbe proiettato un'ombra che non avrebbero potuto non vedere. Perciò la creatura doveva essere volata via. Se era vero, e loro si muovevano in fretta, ce l'avrebbero fatta a uscir fuori e a raggiungere la terra ferma prima che attaccasse. Era solo una possibilità remota, certamente, ma era tutto quello che avevano. Jake sperava che potessero farcela. Spiegò la sua idea a Sam, che per inciso era troppo debole per protestare, anche se avesse voluto. Jake passò le braccia sotto Sam, allacciandolo al torace. «Va tutto bene», disse all'amico, «un respiro veloce e poi andiamo sotto. Faccio tutto io, tu tieni soltanto duro. Capito?». Sam annuì. «Andremo in superficie. Una volta là, fatti un altro bel respiro, solo per l'eventualità che quella cosa sia là ad aspettarci e che ci si debba nuovamente immergere. Se capita, ci penso io a riportarti qui al riparo e studieremo qualcos'altro». Jake fece una pausa, guardò Sam sfinito, e poi disse: «Sei sicuro di farcela?». «Sbrighiamoci». Dietro di lui, senza essere visto, Jake sorrise. Dopo tutto, era possibile che ne venissero fuori vivi. Pregando tra sé che la bestia se ne fosse davvero andata, Jake disse: «Ok. Uno. Due. Tre». Presero entrambi un respiro profondo e s'immersero. 31. Ripercussioni «Dobbiamo ritornare». Seduto al tavolo della cucina, dove Katelynn gli stava disinfettando le ferite sulla spalla, accingendosi a coprirgliele con un pesante tampone di garza chirurgica, Sam guardò l'amico. «Cosa?», domandò incredulo. «Che cosa?». Jake si girò a fronteggiarlo. «Dobbiamo ritornare», disse, questa volta con voce più decisa. L'espressione smarrita, scioccata che aveva dipinta sul volto da quando erano sfuggiti alla creatura, era svanita e al suo posto Sam
vide piuttosto il primo barlume di quella determinazione che, come sapeva dall'esperienza del passato, significava sempre guai. A Sam non passava neanche lontanamente per la testa di lasciarsi convincere. A dirla tutta, ne aveva abbastanza delle stronzate di Jake. «Niente da fare, Jake. Almeno non in questa cazzo di vita! È ora che sia qualcun altro ad accollarsi questo casino. Gabriel era un pazzo a pensare che potessimo essere noi ad occuparcene!». Jake scosse la testa in disaccordo. «Dobbiamo fermare questa cosa. Siamo gli unici a conoscerla». Sam sbuffò esasperato. «Allora parliamone a qualcun altro. A chiunque. Alla polizia, alla guardia nazionale, a chi cazzo ti pare». A Sam sembrava di ricordare che quello era il piano originario. Provare che esisteva e poi coinvolgere qualcun altro. Così disse a Jake. Questi non gli rispose subito, così Sam ne scambiò il silenzio per assenso e tornò a dedicarsi all'esame delle ferite sulla spalla. Gli artigli dell'Ombra della Notte avevano squarciato il giubbotto di pelle, lasciandogli sulla spalla quattro profondi solchi che si estendevano per dieci centimetri lungo la schiena. Sussultò quando Katelynn cominciò ad applicargli la fasciatura e si girò a guardarla per non pensare al fatto d'essere stato a pochi centimetri dalla morte. Lei aveva tenuto la bocca chiusa durante lo scambio di battute tra lui e Jake e, dopo averla osservata in volto, Sam capì immediatamente il perché. Katelynn era fuori di sé. Più infuriata di quanto l'avesse mai vista. Si trovava a casa di Jake quando erano ritornati, facendo nervosamente su e giù per il vialetto antistante la casa, ma vedendo le loro condizioni li aveva accompagnati dentro e aveva semplicemente cominciato a prendersi cura di loro, senza dire una parola. Ora il muro di calma sembrava sgretolarsi e i commenti di Jake avevano l'effetto di far crollare giù le pietre più velocemente. Sam lanciò un'altra occhiata in direzione di Jake e s'accorse con disappunto che il suo amico era lontano mille miglia, se l'espressione inebetita rappresentava un'indicazione. Un dolore improvviso gli divampò nella spalla e si ritrasse istintivamente. «Sta' fermo!», disse brusca Katelynn, afferrandogli saldamente il braccio a sottolineare le parole. «Fa male», rispose a denti stretti per il dolore, ma fece come gli era stato chiesto. Sapeva che da lei non c'era d'aspettarsi ombra di comprensione.
Aveva detto che correvano il rischio di farsi ammazzare se fossero andati, ed era sicuramente mancato molto poco a che la sua profezia s'avverasse. A Katelynn non piaceva che i suoi consigli venissero ignorati. Jake interruppe i pensieri di Sam. «Bene. Andrò da solo». Sam scattò in piedi, pronto a dire a Jake che razza di stupido testardo fosse, ma Katelynn lo precedette. «Ma sei proprio fuori di quella cazzo di testa?», gli gridò tutt'a un tratto. Gli si fece sotto, ancora urlando, e ognuna delle parole di Katelynn sembrava a Sam una martellata sferrata contro il cranio di Jake. Facevano indietreggiare lui, che non era nemmeno l'obiettivo dell'attacco. «Ma non l'hai ancora capito? Questa... cosa... ammazza la gente! Fa solo questo! Ammazza la gente! È più forte di te, più veloce di te, e non so quante volte più micidiale di te. Ti sei quasi fatto uccidere. E adesso vuoi tornare a cercare di combatterla? Come? Con che cosa? Ancora non ne hai avuto abbastanza?». Katelynn terminò che stava proprio di fronte a Jake, con le mani strette a pugno sui fianchi, quasi a trattenersi dal fargli uscire quell'idea dalla testa a suon di botte. Sam aspettava che Jake perdesse a sua volta la pazienza, ingaggiando un'autodifesa su toni altrettanto esasperati, ma, dopo parecchi lunghi attimi di tensione, quando si decise a risponderle, la voce suonò calma e normale. Sentendo quel tono, Sam capì che avevano perso, prima ancora che le parole dell'amico gli fossero del tutto penetrate in testa. «Hai ragione, Katelynn. Questa cosa, quest'Ombra della Notte, ammazza la gente. Ne ha ammazzati sei soltanto nelle ultime due settimane. Sei di cui sappiamo. Chissà quanti altri? Nessuno in questa città ci crederà se glielo raccontiamo. Ecco perché tocca a noi. Prenderemo la pistola dalla mia roulotte, perlustreremo Riverwatch finché troveremo dove questa cosa si rintana durante il giorno e poi gli ficcheremo due pallottole in testa. Fine della storia». «No. È stupido e troppo pericoloso», disse Katelynn, facendo del suo meglio per recuperare la calma. «Portiamo il video di Gabriel allo sceriffo Wilson. Sam era d'accordo di incontrarsi comunque con lui più tardi in mattinata. Wilson vi crederà. Deve farlo». Jake scosse la testa. «Il video non prova niente, Katelynn. Sono solo sconnesse farneticazioni di un vecchio malato in punto di morte. Non abbiamo tempo per raccogliere il tipo di prove che ci serve per convincere
chicchessia, men che meno lo sceriffo. No, non c'è tempo. Ogni minuto che passa è un minuto in più in cui qualcun altro potrebbe rimetterci la vita. Non potrei vivere con un simile rimorso. Tu sì?». Katelynn cominciò a piangere nel bel mezzo della spiegazione di Jake e quando lui finì si voltò e s'allontanò, con le lacrime che le scorrevano silenziose lungo il viso. Jake fece per raggiungerla, poi ci ripensò e lasciò ricadere lentamente la mano sul fianco. Si girò verso l'amico. «Sam?», chiese, e il resto della domanda non pronunciata gli si leggeva chiarissimo in faccia. Non voleva andare da solo. Trascorse un lungo attimo, senza che nessuno dei due si muovesse, gli sguardi fissi, le parole non dette sospese nell'aria; ricordi di tutte le volte che avevano affrontato assieme qualsiasi nemico, immaginario o meno, ricordi che solo un profondo vincolo d'amicizia può generare. Poi lentamente, quasi in modo impercettibile, Sam scosse il capo. No. Non questa volta. Jake tenne lo sguardo fisso su Sam per un momento, poi lo distolse. Attraversò la stanza verso la porta, l'aprì e senza voltarsi disse: «Datemi due ore. Non si aspetta di avermi alle calcagna. Starà ancora pensando di averci terrorizzato a morte. Ora tocca a me sorprenderlo con la guardia abbassata. Due ore. Se per allora non sarò di ritorno, be', è facile che non torni più. Andate alla polizia e raccontate tutto quel che potete. Non vi crederanno, ma almeno avremo fatto del nostro meglio per metterli in guardia». Senza più voltarsi, Jake uscì e chiuse con calma la porta dietro di sé. 32. Piani d'attacco Sui gradini, appena uscito, Jake esitò un attimo, combattuto tra il desiderio di rientrare e cercare di convincere gli amici a venire con lui e la necessità di tenerli al riparo da quel che stava per fare. Decidendo che forse sarebbe stato meglio andare da solo, si girò e percorse il vialetto fin dove aveva parcheggiato la jeep. Loki arrivò di corsa nella prima luce del mattino, sbucando fuori dall'apposito passaggio sul retro della casa. Jake fece salire il cane nella jeep e montò a sua volta. Lanciò un ultimo sguardo alla porta chiusa, poi mise in moto e s'avviò. Ci vollero solo pochi minuti per raggiungere il cantiere. Si fermò alla fine del viale d'accesso e si diresse alla roulotte. Sapeva che molto presto sa-
rebbe stato pieno giorno. Ne era ben lieto. Sapendo che i suoi amici avrebbero seguitato a cercare di dissuaderlo dall'andare, Jake aveva già deciso che l'occasione più adatta per seguire la bestia era quando questa avrebbe fatto ritorno al suo covo. Quello era il momento di colpire, quando si sentiva al sicuro, con la guardia abbassata. Credendo d'essere al riparo da pericoli grazie alla segretezza del luogo dove si nascondeva, sarebbe risultata del tutto impreparata a un attacco. E lui avrebbe attaccato. Prese il portachiavi dalla cintura e aprì la porta della roulotte. Agì rapidamente, avendo già determinato con esattezza durante il tragitto quello che gli sarebbe servito; un piano di massima aveva lentamente preso corpo mentre attraversava le strade silenziose della città, determinato nella sua missione di distruzione. Entrò, andò alla scrivania, aprì il cassetto più alto e prelevò la Beretta 9 mm che teneva riposta là dentro. Passò poi all'armadio-ripostiglio che occupava l'intera parete di fondo della roulotte e l'aprì. Era convinto più che mai che l'Ombra della Notte avesse preso rifugio nella tenuta di Riverwatch e quella era, dunque, anche la destinazione di Jake. Era abbastanza sicuro che l'elettricità fosse ancora allacciata; dopotutto era la scena di un'indagine di polizia ancora in corso. Ma l'ultima cosa al mondo che avrebbe voluto era arrivare là e trovarsi intrappolato nel buio con quella cosa, perciò non volle correre rischi. Dal terzo ripiano dell'armadio estrasse una grossa lampada Coleman e una confezione di combustibile al propano, di riserva. Controllò che lampada e bombola fossero cariche e poi richiuse a chiave l'armadio. Almeno, potrò darle una buona occhiata, pensò con un tocco di humor nero, sorridendo amaramente della sua stessa battuta. Si voltò verso la porta, passando in rassegna la minuscola stanza ingombra attorno a lui e chiedendosi se c'era qualcos'altro che potesse essergli utile. Che diavolo ci si porta dietro a una caccia al mostro? si chiese sarcasticamente. La determinazione, gli rispose una vocina dal fondo della mente. Uscì subito, prima che la voce gli logorasse completamente i nervi. Una volta sulla jeep, avviò il motore, sgommando sul terreno polveroso che faceva da improvvisato parcheggio di Stonemoor e fece in fretta il percorso a marcia indietro, evitando di fermarsi in fondo e immettendosi sulla strada senza rallentare, contando sul fatto che a quell'ora le strade di Harrington Falls fossero deserte. Gli ci vollero solo pochi minuti per giungere all'arco di pietra che segna-
va l'ingresso alla tenuta di Riverwatch. Si fermò e si prese un attimo di tempo per prepararsi mentalmente. Se vuoi fare questa cosa, Jake, falla bene, disse a se stesso. Inspirò parecchie volte profondamente per rallentare la respirazione e riportare sotto controllo il battito cardiaco. Non ti aiuterà davvero arrivarci mezzo alterato. Servirà soltanto a farti ammazzare. Decise di lasciar lì la jeep, all'inizio del viale d'ingresso. Quando si sentì pronto, scese. Loki cercò di seguirlo. Jake aveva permesso a Loki di accompagnarlo perché pensava di usare il fiuto sensibile dell'animale come aiuto per localizzare la bestia, ma ora, di fronte a una decisione da prendere, all'ultimo momento cambiò idea. Con la scarpa spinse indietro il cane nel veicolo, non volendo mettere in pericolo proprio il compagno più fedele. «Torno subito, Loki», disse rassicurante, e si allontanò dai guaiti del cane con il cuore spaccato al pensiero che avrebbe potuto non rivederlo più. Lo consolò il fatto che Sam e Katelynn si sarebbero presi cura dell'alata come se fosse loro, e questo pensiero lo indusse a concentrarsi ancora sul problema principale. Il sole nascente si specchiava nell'acqua del fiume quando Jake cominciò a percorrere il vialetto. Fino a che punto arriva l'intelligenza di questa cosa? si chiese, un po' a disagio. Sa già che sono qui? Ed è là nella dimora ad aspettarmi? Le risposte a queste domande potevano fare la differenza tra la vita e la morte. Con l'attrezzatura in mano, cominciò a incamminarsi verso la casa, coprendo rapidamente il percorso che gli si snodava davanti. Quando raggiunse l'ampia gradinata di legno che conduceva alla veranda, era assolutamente risoluto a eseguire la sua missione o a morire nel tentativo. Non credeva che la bestia gli avrebbe dato una seconda opportunità, così stabilì che sarebbe stato o tutto o niente. Aveva già recitato i suoi addii, più di quelli che avesse mai dati, ed era certo che, se non ce l'avesse fatta a tornare, Sam si sarebbe rivolto alla polizia, ai giornali, a chiunque altro si potesse pensare, nel disperato tentativo di farsi ascoltare da qualcuno. Se non ci fossero riusciti, allora Sam non avrebbe avuto altra scelta che prendere con sé Katelynn e fuggire il più lontano possibile dalla città. Sapendo che quelli che aveva a cuore avrebbero potuto mettersi in salvo anche se lui non ce l'avesse fatta, a Jake si allentò un po' la tensione. Non era in alcun modo sicuro di riuscire, ma almeno ci sarebbe stato qualcuno a raccogliere il testimone e a incaricarsi della faccenda.
I gradini gli si paravano dinanzi e Jake mise da parte i suoi pensieri, tenendo il più possibile la mente sgombra, preparandosi allo scontro che sarebbe venuto. Ai piedi della scala, si fermò e guardò in su. La doppia fila di olmi che fiancheggiava il viale drappeggiava la casa di ombre, conferendole un'oscura, meditabonda essenza, come se fosse qualcosa di vivente e palpitante a fronteggiarlo, con le buie finestre che lo guatavano come altrettanti occhi. Sembrava che guardassero nella sua direzione disapprovandolo. Come se la costruzione lo stesse studiando e non gradisse quel che vedeva. S'affrettò a distogliere lo sguardo. L'occhio gli cadde sulle chiazze d'oscurità che fluivano da sotto la veranda. Non era una vista migliore, dato che la mente impaurita già cominciava a immaginarsi qualcosa che si muoveva sotto lo stipite. In quel momento Jake pensò di girare i tacchi, di darsela a gambe da Harrington Falls, di fuggire agli antipodi più velocemente che poteva, ma la ragionevolezza di poco prima riaffiorò rapidamente e ricacciò quell'idea nelle profondità dalle quali il cervello l'aveva dragata. Entrerò lì dentro, farò quello che deve essere fatto, e questo è tutto. Fai del tuo meglio, pensò Jake con sprezzo del pericolo e salì il primo gradino della veranda. Nel silenzio che seguì l'uscita di Jake, Sam e Katelynn si fissarono, incerti sul da farsi. Katelynn ruppe il silenzio per prima: «Fai qualcosa, Sam!». Si limitò a guardarla, senza dire nulla. «Avanti, Sam! Non restartene lì seduto. Devi fermarlo. Sta andando a farsi ammazzare». Sam sapeva che era inutile, che una volta che Jake si era deciso su qualcosa, ci sarebbe voluta una pallottola in testa per impedirgli di farla. L'espressione di panico sul volto di Katelynn gli fece capire che doveva almeno fare un tentativo. Ma era già troppo tardi. Proprio mentre s'avviava alla porta, fuori risuonò il ruggito improvviso del motore della jeep. Aprendo la porta, Sam fece in tempo a vedere i fanalini posteriori di Jake scomparire dietro l'angolo all'estremità opposta della strada. Sentì una mano sulla spalla sana e si girò a guardare Katelynn, che aveva un'angoscia visibile dipinta sul volto. Non erano sicuri di dove Jake fosse diretto, e comunque nessuno dei due aveva il coraggio di raggiungerlo a
Riverwatch. Katelynn parlò con una voce da oltretomba: «Allora, Sam, che facciamo?». Non sapeva che dirle. In ogni caso, a meno che non s'inventassero qualcosa, c'era una buona possibilità che Jake stesse per diventare le prossima vittima dell'Ombra della Notte. Un'idea improvvisa prese forma nella sua mente. «Rimani qui», le disse, e scomparve all'interno della casa. Riemerse dopo qualche minuto, portando il suo zaino. «Andiamo», disse. Buttò lo zainetto sul sedile posteriore della macchina e sedette al volante. Katelynn lo seguì in fretta. Quando Sam cominciò ad avviarsi, lei disse: «Riverwatch è dall'altra parte, Sam. Dove stiamo andando?». «Non stiamo seguendo Jake», rispose. «Abbiamo un appuntamento con qualcun altro». Le porse un pezzo di carta. Passando sotto la luce di un lampione, Katelynn la riconobbe come una pagina strappata dall'elenco del telefono. Un nome e un indirizzo verso il fondo erano cerchiati in rosso. Il nome era Damon Wilson. In quel momento, Damon era seduto nel suo studio, e fissava le pagine dei rapporti che aveva davanti senza realmente vederli. Non ne aveva bisogno; li aveva letti così tante volte nelle ultime settimane che praticamente li conosceva a memoria, compresi gli errori di ortografia di McClowski. Non c'era niente che potesse dirgli quello che aveva tanto disperatamente bisogno di sapere. Che cosa stava uccidendo i cittadini di Harrington Falls? Dopo tre settimane avvilenti di indagini senza sosta, non era più vicino alla verità di quando aveva cominciato. Si stava logorando. Di giorno era scorbutico, irascibile e in un modo o nell'altro sfogava le proprie frustrazioni sui suoi uomini. Di notte soffriva d'insonnia, parole e frasi relative alle inchieste gli si avviluppavano nella mente. Nelle rare occasioni in cui dormiva era tormentato da visioni da incubo delle vittime stesse, squartate e straziate. Aveva preso a buttar giù parecchi bicchierini di Scotch prima di andare a letto, nella speranza che l'alcol smorzasse i ricordi quel tanto da permettergli di riposare un po'. Era un circolo vizioso di cui non si vedeva la fine, e Damon sapeva che
a meno di non trovare presto delle risposte, qualcosa, da qualche parte, avrebbe finito per frantumarsi, e quel qualcosa probabilmente sarebbe stato lui. Si voltò per gettare lo sguardo oltre la porta a vetri alle sue spalle. Attraverso il vetro vide che l'alba era già passata da un pezzo. Tirò un sospiro di sollievo a quella vista. Ormai da giorni il buio lo rendeva inquieto. Era arrivato al punto che la notte non poteva guardare fuori dalla finestra senza sentirsi a disagio. Era là, dall'altra parte del vetro, nero e massiccio, a guardare, ad aspettare, alla ricerca di ogni minima opportunità d'irrompere nella luce e strappargli via un'altra vita da sotto il naso. Damon tornò a girarsi verso la scrivania con l'intenzione di riprendere l'esame delle sue carte, quando gli giunse all'orecchio il rumore degli sportelli di un'automobile che si chiudevano. Diede un'occhiata all'orologio digitale dall'altra parte della stanza. Le sette e mezzo. Chi diavolo è? Forse c'era uno spiraglio nel caso, pensò improvvisamente. Forse i miei uomini non vogliono trasmettere le informazioni via radio per paura che la stampa le possa intercettare. Pur sapendo d'inseguire probabilmente una chimera, i passi di Damon si fecero più lievi e si sentì pervaso da un senso d'inebriante aspettativa. Il campanello suonò, e l'eco, non s'era ancora spenta che già lui faceva scorrere il chiavistello e apriva la porta. «Le dispiace se entriamo?», chiese Sam allo sceriffo. «Abbiamo davvero bisogno di parlarle». Senza dire una parola Damon arretrò, facendo largo a Sam e a Katelynn. Dopo che Sam gli ebbe presentato Katelynn, Damon indicò il corridoio che conduceva al salotto e s'avviarono tutti da quella parte. La ragazza si sedette sul divano, Sam accanto a lei e Damon, senza pensarci, scelse un posto lontano da loro, con il tavolino da caffè in mezzo come un'involontaria linea di separazione. Fu solo allora che lo sceriffo avvertì i primi segni di una scelta antagonistica nel loro modo di sedersi, sensazione che cresceva mentre il suo fiuto da poliziotto gli confermava di aver avuto ragione; Sam e i suoi amici sapevano qualcosa su quello che stava accadendo a Harrington Falls. Damon parlò per primo. «So che le avevo chiesto di passare a trovarmi questa mattina, Mr Travers, ma non mi aspettavo di vederla così presto»,
disse con gentilezza, sperando di dissipare un po' di quella tensione che sentiva lentamente montare. «Cosa posso fare per voi?». Li osservò mentre si scambiavano un'occhiata, vide Katelynn annuire con il capo a Sam e quindi non rimase sorpreso quando fu quest'ultimo a rivolgersi a lui in risposta. La palla era stata chiaramente scodellata nella metà campo di Sam. «Scusi se è tanto presto, ma avevamo bisogno di parlarle». Damon gli fece cenno di continuare. «Io, noi, dobbiamo dirle qualcosa, ma prima vogliamo che lei ci prometta che quello che racconteremo non ci procurerà ulteriori guai. Se non ci dà la sua parola, temo che non potremo continuare». Perplesso, Damon fissò entrambi per un attimo senza rispondere. In che razza di guai si erano cacciati? Prudentemente Damon rispose: «A condizione che, qualsiasi cosa sia, non infranga la legge, e quindi non calpesti il mio giuramento di pubblico ufficiale, credo di poter acconsentire». Sam esitò e si volse a Katelynn. «Penso che sia il massimo che possiamo ottenere, Sam. Dai, attacca», rispose Katelynn, e Damon fu sorpreso avvertendo nel suo tono dolore e rassegnazione. Rivolgendosi allo sceriffo, Sam senza mezzi termini disse: «Sappiamo a cosa attribuire gli omicidi». Damon fu talmente scioccato dall'annuncio da non far caso all'attenzione con cui Sam aveva scelto le parole. Impaziente, si protese in avanti sulla poltrona. «Chi?». Prendendo un respiro profondo, Sam cominciò a raccontare. Della statua. Di Gabriel e della sua storia dell'Era della Creazione. Dell'Ombra della Notte e dell'attacco a Riverwatch. Gli raccontò tutto quello che sapevano. Alla fine, Sam disse allo sceriffo dov'era diretto Jake e cosa il suo amico aveva intenzione di fare. Poi s'appoggiò indietro sul divano in attesa di una risposta. Da parte sua, Damon si dibatteva in una tempesta di emozioni da quando Sam aveva iniziato a raccontare. Adesso, quarantacinque minuti più tardi, non sapeva cosa pensare. Era partito con l'incredulità, era passato al sarcasmo, e aveva poi sviluppato una ben radicata convinzione che fossero entrambi usciti di testa. Mentre, infine, Sam proseguiva il racconto Damon gradualmente, con sua stessa sorpresa, aveva cominciato a credergli. Per quanto pazzesco, che Dio l'aiutasse, aveva stranamente senso.
A patto di credere ai mostri. «Concretamente, cosa volete che faccia?», chiese Damon a Sam. «Venga con noi a Riverwatch. È là che Jake è diretto. Se il mio racconto è vero, avrà la sua occasione con l'assassino che sta terrorizzando la città. Se così non è, mi scuso per il tempo che le avrò fatto perdere». Damon ci pensò per alcuni minuti. Che danno poteva fare andar con loro? si chiese. Era probabile che avessero davvero visto qualcosa sul fiume; Sam non aveva mostrato neppure il più piccolo segno che stesse mentendo, gli occhi allenati di Damon l'avrebbero immediatamente rilevato. E le ferite fresche sulla schiena e sulla spalla erano certamente la prova che s'erano andati a scontrare con qualcosa. Era assolutamente possibile che avessero visto l'animale di cui Strickland aveva parlato dopo le autopsie, e che avessero semplicemente fatto correre un po' troppo la fantasia. Poteva forse fargliene una colpa, considerate le circostanze attuali? Damon pensava di no. Se c'era una probabilità che avessero davvero visto la cosa, era suo dovere accertarsene. A parte il fatto che era l'unica pista che aveva. «Ok, verrò con voi». Si alzò e si diresse al mobile delle armi sulla parete di fronte. Prendendo il portachiavi dalla cintola, aprì le antine e scelse dalla rastrelliera un fucile di grosso calibro. Pescando sempre dal mobile, si riempì le tasche di munizioni di scorta per l'arma. Se fosse risultato che Sam aveva ragione, Damon non voleva farsi cogliere impreparato. Quando fu pronto, si girò verso di loro. «Andiamo a dare un'occhiata a questa cosa», disse. 33. Primo colpo Jake fissò l'Ombra della Notte con un misto di soggezione, paura e terribile fascinazione. Gli pendeva di fronte, sospesa per le zampe a una delle travi del soffitto dell'abbaino, artigliata saldamente al legno grezzo mentre si lasciava lievemente ondeggiare nella leggera brezza che entrava dalla finestra aperta. La luce bassa della lanterna Coleman si rifletteva sulla sagoma della creatura, la cui pelle squamata era umida di rugiada addensatasi nelle prime ore del mattino. Jake intuì che era massiccia, probabilmente più di un metro e novanta ritta sulle gambe. Le pieghe multiple delle ali facevano pensare che, una volta completamente aperte, forse superavano i
due metri d'ampiezza. Adesso erano avviluppate morbidamente al corpo della creatura come una sorta di velo protettivo e sembrava che la bestia si fosse autoavvolta in un terrificante abbraccio. Il capo dell'Ombra della Notte era ripiegato in giù contro il torace, i bordi delle ali contro le tempie, e Jake fu senza dubbio felice di non vederne il volto. Posò la lanterna lentamente, delicatamente, stando attento a essere il più silenzioso possibile, non sapendo quanto attivi fossero in quel momento i sensi della creatura. Sa che sono qui? si chiese. Mi può sentire? Mi può fiutare? Allungò la mano destra dietro la schiena e lentamente sfilò la pistola dalla cintola dei jeans, senza mai distogliere gli occhi dalla bestia. Finora non s'era mossa, era un bene. Forse avevo ragione, pensò tra sé improvvisamente speranzoso, forse questa schifosa va in letargo di giorno dopo essersi gonfiata di cibo la notte. Forse potrei riuscire a chiudere questa faccenda proprio qui, adesso, prima che abbia anche una sola opportunità di difendersi. L'adrenalina lo elettrizzò invadendogli l'organismo, facendogli stringere con presa più salda la pistola mentre le mani cominciavano a sudargli. Lentamente, assunse la posizione classica di tiro; gambe leggermente piegate e divaricate quanto l'ampiezza delle spalle, braccia tese in avanti, mano sinistra posizionata a coppa sotto la destra. Le scarpe da ginnastica gemettero sul pavimento con lo spostamento del peso e subito s'immobilizzò, ma la bestia non si mosse mai e nemmeno si ritrasse. Dopo un lungo istante carico di tensione, Jake liberò il respiro che stava trattenendo e si preparò a sparare. Studiò per un momento la sagoma della bestia, stabilendo che la testa era il miglior bersaglio possibile. Sapeva che doveva far conto sul primo colpo, sperando che fosse sufficiente a rallentare la creatura quel tanto che gli sarebbe bastato per vuotare sulla cosa l'intero caricatore bifilare. Se diciannove colpi non fossero serviti a fermarla, allora non gli sarebbe rimasto altro da fare che recitare velocemente una preghiera e fiondarsi come un demonio giù per le scale alle sue spalle. L'Ombra della Notte non si era ancora mossa. Se stesse per svegliarsi, l'avrebbe già fatto, si disse. Prendendo la mira, Jake si rannicchiò abbassandosi leggermente e bloccò le braccia nella posizione corretta. Tirò un respiro profondo, piano piano cominciò a espirare e mentre lo faceva premette il grilletto, con un movimento di trazione lento e costante, proprio come aveva imparato al poli-
gono di tiro, con lo sguardo sempre puntato sul bersaglio. La creatura spalancò gli occhi e lo guardò nello stesso istante in cui partiva il colpo. L'Ombra della Notte si prese la pallottola in alto tra la spalla e il collo, gettando indietro la testa con un rumore secco che risuonò come una frustata. Mentre la forza dello sparo le sbatteva il corpo contro la parete, le zampe perdettero la presa sulla trave sovrastante, facendola precipitare a terra. Jake aggiustò la posizione, mirò e sparò di nuovo, mentre il primo colpo echeggiava ancora nella piccola stanza, ficcando con precisione la seconda pallottola nella fronte della bestia. Il proiettile aprì un buco nel cranio della creatura e l'attraversò cercando l'uscita, staccandone una larga porzione e spruzzando muro e pavimento con una macabra mistura di sangue e ossa. Il silenzio riempì la stanza dopo che l'eco dei due colpi cessò. Jake mantenne la posizione, aspettando che fosse la bestia a muoversi. È morta, deve esserlo. Non esiste niente che possa subire un danno del genere e sopravvivere, pensò tra sé. Ciononostante, rimase in posizione con il fiato sospeso, in attesa fiduciosa, con l'adrenalina che gl'inondava il corpo come un fiume in piena. I minuti trascorrevano. Né lui né la bestia si muovevano. Jake aspettò cinque minuti buoni prima di abbassare le braccia, con i muscoli tremanti per l'improvvisa caduta della tensione e un eccesso di adrenalina nelle vene. Sembrò ricordare solo allora che doveva respirare, e lasciò che l'aria gli riempisse i polmoni. Si sentì pervadere dal sollievo. Poi, il raspare improvviso di un artiglio sulla pietra gli spedì il cuore fuorigiri. L'Ombra della Notte s'era mossa! La bestia aveva fatto forza sulle braccia e allo stesso tempo aveva tirato i piedi sotto di sé per sostenersi, sollevandosi in posizione rannicchiata, con gli artigli che raschiavano il pavimento mentre gli arti lottavano per obbedire ai comandi trasmessi dal cervello danneggiato. Ma non fu quello a bloccare Jake in muto stupore; fu qualcosa di gran lunga peggiore. Davanti ai suoi occhi, il cranio dell'Ombra della Notte stava cominciando lentamente a guarire. La pallottola aveva lasciato un foro d'uscita della grandezza di un pompelmo, come lui s'era aspettato. Ora, le pareti di questa cavità stavano len-
tamente ricongiungendosi, carne e ossa nuove fluivano fuori dal cranio come creta, collegandosi e fondendosi insieme. Era questione di poco e non ci sarebbe più stata traccia alcuna che fosse mai esistita una ferita. E poi la bestia aprì gli occhi. Nello spazio di un secondo, Jake realizzò due cose con fredda, ineludibile certezza. Punto uno: la creatura gli stava ridendo in faccia. Punto due: lui stava per morire. La prima considerazione fu per il suo orgoglio ostinato una salutare provocazione che lo sbloccò dalla posizione di immobilità e lo fece muovere nuovamente, inducendolo a sollevare il braccio destro e a premere il grilletto ancor prima che la pistola fosse allineata col bersaglio. Sfortunatamente, questa volta l'Ombra della Notte fu più svelta. Jake lasciò partire un colpo, il proiettile trapassò la creatura in un punto tra la spalla sinistra e la cassa toracica. Poi la mano artigliata della bestia s'abbatté su quella di Jake, lasciandogli solchi insanguinati su tutta la lunghezza dell'avambraccio e strappandogli la pistola dalle dita, improvvisamente paralizzate dalla sorpresa e dal dolore. Inesorabile, il braccio che l'aveva investito un attimo prima ritornò dalla direzione opposta, questa volta colpendolo sulla tempia con il dorso della mano, con un rovescio tanto duro e potente da sollevare Jake e sbatterlo in mezzo alla stanza. L'Ombra della Notte si fece più vicina e improvvisamente se ne uscì con una risata, un suono che scosse Jake come se gli avessero versato del ghiaccio nelle vene, facendogli rizzare i capelli sulla nuca. La risata era bassa e agghiacciante, e assolutamente non umana. A meno che lui non facesse qualcosa, e lo facesse in fretta, sapeva che stava per morire. Vedeva la sua gamba sinistra piegata in un angolo innaturale, proprio sotto il ginocchio. Muoversi gli provocava un dolore bruciante che gli mordeva l'arto e dovette serrare i denti per non urlare. La creatura adesso era nel mezzo della stanza, a non più di tre metri da lui. Aveva le braccia protese in avanti, le mani, se si potevano chiamare così, si aprivano e chiudevano, come per prepararsi ad affondare i grandi artigli nella carne indifesa della preda. Mentre si avvicinava spiegò le ali, come un cobra fa col suo cappuccio. La loro ampiezza l'avvolse d'ombra, bloccando la poca luce della lanterna dall'altra parte della stanza; il rumore del loro movimento era simile al frusciare di canne sulla riva del fiume nella dolce brezza di primavera.
Un suono tutt'altro che rassicurante. Sapendo che aveva solo pochi secondi prima che la bestia gli fosse addosso, Jake strinse i denti contro il dolore che sentiva e cercò d'appoggiarsi alla gamba sana, inarcando la schiena contro il muro per sostenere il proprio peso e raddrizzarsi in posizione semi-eretta. Mentre s'ingegnava a far questo, la bestia si fece avanti sovrastandolo. Jake fissò gli occhi inumani della creatura e la paura lo travolse come un'ondata. Ma la sua parte ostinata, quella che aveva fatto sì che cercasse di sparare alla bestia anche dopo aver visto come questa rigenerava le sue ferite, affiorò ancora e gli fece tirar fuori il coraggio nascosto. Se stava per morire, almeno lo avrebbe fatto in piedi, fronteggiando qualsiasi cosa l'attendesse. La mano sinistra si strinse a pugno sul fianco, una difesa ben misera considerando quel che doveva affrontare, ma confortante nella sua istintiva, schietta semplicità. D'accordo, bastardo, pensò con fierezza, vediamo quel che sai fare. Quasi a rispondergli, Moloch si slanciò e afferrò entrambe le spalle di Jake in una presa d'acciaio. Tirò Jake a sé, con un orrendo sorriso sulla bocca a scoprire le doppie file di denti affilati e acuminati allineati sulle mascelle. Il dolore per il movimento della gamba rotta fu troppo per Jake. Un velo d'oscurità gli si chiuse intorno. Da quell'oscurità si levò una voce piena di minaccia e d'odio, una voce che risalì rapidissima sulla spina dorsale di Jake con milioni di peduncoli ghiacciati, riverberandosi nelle pareti del cranio con intensità sufficiente a causargli dolore fisico. Una voce non udita ma avvertita direttamente dentro il cervello. «Voi siete bestiame», disse la bestia, con la sicurezza d'un predatore che impartisce una lezione a una preda ottusa. «Siete sempre stati bestiame. Quello è il vostro posto. Guarda!». Improvvisamente il buio fu rimosso, sostituito da visioni di ferocia e di sangue, di una terra e di un tempo da lungo trapassati e ormai dimenticati. I sensi di Jake furono sopraffatti dal sangue e dall'improvvisa violenza, dagli odori e dalle sensazioni che fluivano dalla marea di ricordi dell'Ombra della Notte. Erano così reali, così vividi, un dramma di tale portata da fare di Jake non solo uno spettatore, ma da renderlo partecipe, imprigionato comera dentro la mente della creatura. Mentre era inchiodato lì, cercando disperatamente di ritagliarsi una via di fuga da quella difficile situazione, la voce della bestia gli echeggiò nella
testa. «Bestiame! Se gli Anziani non si fossero intromessi, le cose non sarebbero mutate e l'equilibrio non sarebbe stato spezzato. Ora non potete ricevere alcun aiuto da loro. Questa volta, le cose ritorneranno com'era stato deciso che fossero». Il suo tono mutò in bieca soddisfazione. «Bestiame eravate e bestiame tornerete a essere». «Non è rimasto nessuno che mi possa combattere!». Moloch si protese in avanti, la bocca si spalancò a mostrare file di denti luccicanti. La lingua biforcuta schizzò fuori a frustare qua e là la faccia di Jake, stampando tracce di muco viscido a contatto della carne. La bieca risata di Moloch saturò la stanza. Jake guardò in faccia la morte e capì che non avrebbe avuto la forza di resistere più a lungo. Il dolore alla gamba era insopportabile, e gli aveva rapidamente risucchiato la poca energia rimasta; ormai non poteva far altro che starsene imprigionato senza reazione nella morsa di Moloch, attendendo rassegnato la fine. Mentre le mascelle della bestia gli si avvicinavano lentamente, cercò di prepararsi ad affrontare il dolore. Il disprezzo beffardo nel ghigno della creatura gli suggerì che sarebbe stato tutto fuorché rapido e indolore. Le zanne calarono. Katelynn stava viaggiando sul sedile posteriore nella Bronco dello sceriffo, ascoltando distratta la conversazione tra Sam e Damon, quando accadde. La mano sinistra era posata sulla collana regalatale da Gabriel, e faceva scorrere la pietra avanti e indietro sulla catena d'oro mentre guardava nervosamente fuori dal finestrino, pregando che arrivassero in tempo. Quando la pietra lampeggiò la prima volta con un debole bagliore interno di luce rossa, sulle prime non lo notò. Fu solo parecchio dopo, quando la fioca luminosità divenne di colpo un'ardente incandescenza che illuminava il sedile posteriore di sinistri lampi rossastri, che lei se ne avvide. Katelynn avvertì un solletico lieve sul fondo della testa, una sensazione che percepì appena, al di là della sorpresa per la luce che la pietra emanava. Quando la vibrazione si trasformò bruscamente in dolore, come se due grandi mani ghiacciate le stessero strizzando il cervello, capì d'essere in pericolo. Ma era già troppo tardi; ebbe solo il tempo di gemere debolmente per il dolore prima che le tenebre, che avevano cominciato a fluttuare sui bordi della visione, la inondassero come il salire d'una marea: cadde nell'incoscienza senza emettere un suono. Il primo segnale per Sam e Damon
che qualcosa non andava fu quando sentirono sbattere violentemente contro lo schienale dei loro sedili. Girandosi a guardare, Sam quasi si prese in piena faccia un calcio da Katelynn. Il colpo lo prese in alto sulla spalla, abbastanza forte da strappargli un acuto grugnito di dolore. «Oh cazzo!», riuscì soltanto a dire per lo stupore. Il sedile posteriore era inondato dal bagliore rosso scuro emanato dalla pietra che Katelynn stringeva tra le dita, una luce violenta e sinistra che sembrava immergere tutto in uno spesso strato di sangue. In mezzo a essa la ragazza si dibatteva violentemente, frustando l'aria con i piedi, sbattendo da una parte all'altra il capo madido di sudore contro il cuoio dei sedili, visibilmente in preda a una specie di strane convulsioni. Per un lungo attimo Sam restò paralizzato a guardare. Lo sceriffo gettò un'occhiata dietro alle spalle e, vedendo la strana luce e Katelynn in preda a un attacco, reagì con la prontezza dovuta ad anni d'esperienza. Accostò sul ciglio della strada così bruscamente da proiettare con forza Sam contro la presa della cintura di sicurezza. Damon, prima ancora che Sam capisse che s'erano fermati, scese dalla macchina e aprì lo sportello posteriore per raggiungere Katelynn. Questa, da parte sua, avvertì un improvviso, nauseante vortice di luce e colori e la sensazione di precipitare in un buio profondo, dove si ritrovò a guardare con gli occhi dell'Ombra della Notte. Direttamente in faccia a Jake. Era là, a pochi centimetri da lei e dalla posizione capì che la bestia lo stava tenendo inchiodato nella sua presa. Il viso di Jake era imperlato di sudore, la fronte corrugata dal terrore. L'Ombra della Notte continuava a fissarlo direttamente in volto, Katelynn non riusciva perciò a vederne il resto del corpo per valutare la gravità delle sue ferite, ma almeno era ancora vivo. Il problema era ancora per quanto. Rimasero entrambi in quel modo per un tempo che a Katelynn sembrò di ore ma che in realtà era solo di pochi secondi, prima che gli occhi di Jake si spalancassero improvvisamente e lei si ritrovasse a fissarli in profondità. Le pianse il cuore per l'angoscia al vedere l'intenso patimento che riflettevano; lui stava soffrendo, non c'era dubbio. Assieme al dolore, Katelynn vide una vampata di rabbia e determinazione; un'onda d'emozione che trasformò quegli occhi, di solito gentili, in ghiaccio blu per la risolutezza. Jake stava ancora lottando, ma Katelynn si chiedeva quanto a lungo potesse
resistere. Dovevano arrivare là in tempo! Improvvisamente avvertì nel legame che la teneva in collegamento un segnale che le giungeva dalla stessa Ombra della Notte. Era a sua volta consapevole della presenza di lei, anzi l'aveva forse anche attirata nel contatto intenzionalmente, dato che quasi la stava sommergendo riversandole contro ondate di rabbia e di furore. Ebbe un'intuizione; la collana funzionava in entrambe le direzioni! Finché lei l'aveva, la bestia poteva cercarla, in ogni momento, ogniqualvolta lo desiderasse ed era in grado di trascinarla negli abissi contorti della sua mente. Prima che potesse reagire a quella consapevolezza, la bestia improvvisamente scagliò entrambi, sia lei che Jake, nel pozzo dei suoi ricordi. Rinvenne sul retro della Bronco, con gli sportelli spalancati da entrambi i lati e Sam e Damon chini su di lei per aiutarla. Quando videro che era cosciente, la lasciarono andare e si rialzarono lentamente, con evidente preoccupazione in volto. «Sam!», gridò aggrappandosi saldamente alle sue braccia, «Dobbiamo rimetterci in viaggio. L'Ombra della Notte ha preso Jake!». Lui non ebbe il tempo di risponderle. Damon stava già rimettendosi al volante e Sam dovette sbrigarsi per evitare d'essere lasciato a terra. Dopo alcuni secondi l'auto era di nuovo in viaggio, lanciata verso Riverwatch a tutta birra. 34. Un epilogo infuocato Alla fine, fu Loki a salvarlo. Jake non era in grado di muoversi, paralizzato dal dolore che irradiava dalla gamba sinistra e dall'opprimente consapevolezza che, qualsiasi cosa avesse fatto, non sarebbe stato in grado di fermare la bestia. Mentre quelle mascelle selvagge gli calavano addosso, Jake si diede per perso, e innalzò una rapida preghiera al cielo affinché gli amici considerassero la sua morte un segnale per abbandonare la città il più in fretta possibile. Sentendo sul viso il fetido alito caldo dell'Ombra della Notte e nelle orecchie il suono del suo avido pregustare, Jake girò la testa, incapace di affrontare la propria distruzione. Così facendo, con la coda dell'occhio colse una parvenza di movimento ed ebbe la bellissima sorpresa di vedere Loki
irrompere a razzo e puntare dritto sulle spalle dell'Ombra della Notte. La sagoma di Loki sembrò volare in aria al rallentatore, una combinazione d'agilità e potenza, con le labbra sollevate a mostrare le zanne in un ringhio minaccioso di ferocia e rabbia, 70 chili di solidi muscoli proiettati contro la creatura che minacciava il suo padrone. Quando Loki raggiunse l'apice del salto e cominciò a planare, con le zampe protese ad assorbire l'imminente impatto, Jake trovò l'energia per divincolarsi dalla presa della bestia e cadde sul pavimento. Appena in tempo. Le mascelle dell'Ombra della Notte si serrarono con uno schianto là dove solo un attimo prima c'era la faccia di Jake. La bestia roteò il capo, seguendo istintivamente il movimento dell'uomo, e nel freddo bagliore dei suoi occhi Jake poté vedere un odio feroce e assoluto, mentre la bestia si rendeva conto che la preda era riuscita a eludere il proprio destino. Prima che l'Ombra della Notte avesse il tempo di agire, comunque, Loki le si abbatté addosso da dietro, proiettandone il corpo contro la parete con incredibile violenza. Si sentì uno schiocco simile a una frustata e la bestia ruggì per il dolore. Jake si mosse scivolando lungo il muro, allontanandosi dallo scontro feroce che si stava consumando alle sue spalle. Il dolore divampava nella gamba e i piedi si rifiutavano di obbedire ai comandi del cervello, tuttavia cercò di mettere una certa distanza tra sé e l'Ombra della Notte. Una voce in fondo alla mente si chiedeva come avesse fatto Loki a scappare dalla jeep; ma la ignorò, sapendo che si trovava ancora in enorme pericolo e che aveva bisogno di concentrarsi per escogitare come fuggire. Doveva trovare la maniera, di fermare la bestia abbastanza a lungo da permettere a sé e a Loki di uscire dall'abbaino e correre verso altri ambienti della casa, dove forse sarebbero riusciti a sfuggirle e a salvarsi la vita. Alle sue spalle, l'Ombra della Notte ruggì di rabbia. Il ringhio furioso che si levò in risposta fece capire a Jake che Loki era ancora vivo e lottava. Si guardò attorno disperatamente, cercando di trovare qualcosa per fermare la bestia, anche solo per poco. Un'occhiata gli mostrò Loki immobile a pochi passi da lui, zampe allungate in avanti e pancia a terra, che seguitava a ringhiare. Non sembrava che l'Ombra della Notte potesse avere in alcun modo paura di un cane, anche se Loki doveva averla ferita, dato che la creatura protendeva il lato destro, proteggendosi quello sinistro. Da dove si trovava,
Jake vide che l'ala destra della bestia pendeva inerte lungo il fianco e capì che era quello lo schiocco che aveva sentito quando la creatura aveva sbattuto contro il muro. Era davvero così fragile? Mentre guardava, Loki si avventò sulla bestia, tenendosi basso, azzannandola alle gambe come fa un lupo con un cervo. A ogni attacco del cane la zampa della creatura menava un fendente terribile. Jake sapeva che se la bestia fosse riuscita a mettere a segno uno di quei colpi, Loki sarebbe stato spacciato. Doveva trovare un'arma prima che questo accadesse. Doveva. Ma dove? Gli unici oggetti in vista erano quelle poche cose che aveva portato con sé, oltre ai calcinacci che s'erano staccati dalle pareti della stanza. La pistola s'era dimostrata inutile e il coltello tascabile che teneva sempre con sé sarebbe stato efficace quanto tirargli dei sassi. Un guaito doloroso risuonò dietro di lui e Jake capì d'essere quasi fuori tempo massimo. La bestia aveva messo a segno un colpo ed era ormai solo questione di tempo prima che Loki venisse dilaniato e finisse in una palla di pelo insanguinata sul pavimento. Lo sguardo di Jake si posò sulla lampada Coleman e capì d'aver trovato quello che gli serviva. Sterzando sul vialetto, Damon frenò appena in tempo per evitare di sbattere contro la jeep di Jake. Prima ancora che l'auto fosse ferma del tutto, Sam era già fuori e correva verso il veicolo dell'amico. Katelynn e Damon lo raggiunsero un attimo dopo. Il parabrezza della jeep era andato in pezzi. Il cofano era ricoperto di vetri frantumati, come se qualcosa fosse scoppiato dall'interno proiettandosi fuori Alcuni cocci erano macchiati di sangue rappreso. Senza una parola Damon ritornò alla Bronco, aprì il bagagliaio e prelevò il fucile dalla rastrelliera interna. Mise il colpo in canna e il rumore rimbombò particolarmente sonoro nell'aria del mattino. Sorrise sinistramente. «Andiamo», disse. La lanterna Coleman si trovava dall'altra parte del locale, vicina alla porta d'ingresso. Jake si trascinò attraverso la stanza e raccolse la pistola ap-
pena fu alla sua portata, ignorando le acute vampate di dolore che irradiavano dalla gamba ferita. Con la pistola in mano, raggiunse la parete opposta e sollevò la lampada. Un'occhiata al locale gli disse che non aveva molto tempo. Loki stava ancora incalzando la bestia, abbaiando in modo assordante per confonderla; ma i suoi movimenti erano più lenti, più deboli, e ogni attacco lo esponeva sempre più agli artigli della bestia. Prima o poi un altro colpo sarebbe andato a segno. Jake vedeva una vasta ferita sul fianco di Loki dove s'era abbattuto il primo fendente e il rosso vivo del sangue del cane risaltava sul bianco candido del manto. Avrebbe avuto bisogno di notevoli cure nelle mani di un buon veterinario se fossero usciti vivi da quella situazione. Quando ne fossero usciti vivi, si corresse Jake. Con la mano destra ruotò la valvola del combustibile sulla lanterna regolando il gas più alto possibile, poi gridò per attirare l'attenzione dell'Ombra della Notte. «Ehi, stronzo! Da questa parte!». Per un istante la creatura distolse lo sguardo da Loki e puntò Jake. Era tutto quello di cui entrambi avevano bisogno. Ringhiando, Loki s'avventò sgusciando sotto gli artigli mortali della bestia, e affondò i denti nelle parti molli al di sotto d'un ginocchio della creatura, recidendone i tendini con la precisione di un bisturi e facendola crollare a terra. S'abbatté sul pavimento. Nel medesimo istante, Jake le scagliò con violenza la lanterna contro la testa, più forte che poté. La Coleman si fracassò sulle spalle di Moloch proprio mentre questi alzava il braccio e lo ruotava per attutire la caduta: la lanterna in fiamme restò così incastrata tra l'ala e il torace. L'Ombra della Notte ululò di dolore e di rabbia. Damon, Sam e Katelynn entrarono nella casa e si lanciarono su per i gradini. Dal piano superiore li accolsero i rumori della lotta e Damon s'affrettò senza indugio lungo la scala, seguendone la direzione. «Andiamo!», richiamò gli altri una volta in cima, ma non ce n'era bisogno, Katelynn e Sam lo seguivano a ruota. In quel momento sentirono echeggiare un colpo. Quando la bestia crollò sulla lanterna, Jake richiamò Loki. Il cane interruppe subito l'assalto e indietreggiò, continuando a ringhiare, certo non convinto ma obbediente come sempre al suo padrone. Jake gli
voleva bene per questo. Moloch usò l'ala buona per sollevarsi parzialmente dal pavimento, con il braccio ferito e la gamba che gli pendevano inerti da un lato. Mentre si rialzava, Jake vide la lanterna sotto di lui: il peso della bestia aveva fracassato il vetro senza soffocare la fiamma. Moloch ruggiva di sfida e richiamava il suo potere, ordinando ai tessuti di iniziare a guarire ossa e muscoli devastati. In quell'attimo d'esitazione, Jake vide la sua occasione e non se la lasciò sfuggire. Sollevando la pistola nella mano destra, mirò al serbatoio del gas che alimentava la lanterna e sparò. Lo sceriffo precedette gli altri nell'abbaino e restò paralizzato da quel che vide. Una grande e goffa bestia si stava lentamente trascinando sull'altro lato della stanza, e all'apparire di Damon sulla soglia, spostò su di lui gli occhi gialli, ruggendo furiosa. L'intelligenza e l'odio di quegli occhi congelarono il sangue nelle vene di Damon. Era evidente che era ferita, e tuttavia a guardarla pareva che stesse raccogliendo le forze, usando una delle lunghe braccia alate per sollevarsi da terra e mettersi in posizione semi-eretta. Lontano, alla destra di Damon, Jake Caruso giaceva sul pavimento con il braccio teso a puntare una pistola sulla bestia. Era appoggiato al muro con una gamba ripiegata in modo innaturale. Tra lui e la bestia era accovacciato un cane, ferito e insanguinato dal combattimento, ma ancora in gioco. L'improvviso frastuono del secondo colpo di Jake fece sobbalzare Damon. Jake vide sgomento il colpo mancare il bersaglio; il rinculo deviò l'arma a sinistra e il proiettile si conficcò nel pavimento, con un rumore appena percettibile tra i rabbiosi ululati di Moloch. La bestia si stava lentamente rialzando e allontanando dalla lanterna. Jake non poteva permettere che accadesse! Sparò di nuovo, istintivamente consapevole d'un movimento alla sua sinistra ma ignorandolo, per concentrarsi a spedire il proiettile dove mirava, pregando di metterlo a segno prima che la bestia s'allontanasse troppo. Strinse il calcio della pistola più saldamente che poté per assorbirne il rinculo; e pregò, pregò, aveva bisogno che il proiettile andasse a bersaglio, perché sapeva che altrimenti non avrebbe avuto un'altra chance.
Anche il secondo colpo andò a vuoto. Oh, Gesù! pensò, vedendo con orrore che la bestia si rimetteva in piedi. Il danno che Loki aveva provocato ai tendini e ai muscoli del polpaccio era già completamente risanato e ora poteva sostenersi su entrambe le gambe, mentre anche l'ala si stava pian piano rigenerando. Jake capì che in meno di un minuto sarebbe stata completamente guarita. Improvvisamente altri colpi risuonarono nella stanza, e Jake guardò terrorizzato la potenza dell'impatto che faceva piegare di nuovo la bestia sulle ginocchia; grossi brandelli di carne le vennero staccati dalla testa e dalla spalla, con l'arma evidentemente nelle mani di qualcuno capace di usarla; l'eco degli spari rimbalzò sulle pareti del piccolo ambiente. Jake si girò e vide lo sceriffo, Katelynn e Sam stagliati contro la soglia, con il primo che puntava un fucile enorme contro la bestia, pompando un'altra cartuccia. I loro sguardi s'incontrarono e Jake lesse paura e orrore negli occhi dello sceriffo, dove l'incredulità aveva lasciato posto all'azione; l'istinto mentale di sopravvivenza ci aveva messo un po' a razionalizzare la presenza della creatura letale che avevano davanti. Le armi spararono, stavolta all'unisono. Il proiettile di Damon prese in alto la tempia dell'Ombra della Notte, facendola sbattere indietro, proprio mentre quello di Jake raggiungeva con stridore metallico il serbatoio di combustibile della lanterna Coleman. La scintilla che ne seguì infiammò il propano all'interno, dando luogo a un'esplosione soffocata e sprigionando una fiammata. Il fluido incendiato schizzò sul collo e sulle spalle della bestia, mentre veniva abbattuta dalla potenza del colpo di fucile di Damon. Incredibilmente, in pochi secondi l'intera testa dell'Ombra della Notte fu in fiamme, ricoperta dal liquido ardente. Un acuto, lacerante urlo di dolore uscì dalla bocca della creatura mentre si contorceva sul pavimento. Loki abbaiava furiosamente; Sam dalla porta gridava: «Uccidetelo! Uccidetelo!», e Damon stava preparando il fucile per un altro colpo, quando il fuoco che consumava la bestia s'estese improvvisamente alle travi soprastanti. Le fiamme attecchirono in fretta al legno secco e marcito. In pochi secondi nella stanza intera infuriò un inferno. «Dobbiamo uscire di qua!», gridò loro Katelynn sovrastando gli orrendi latrati della bestia, e si precipitò su Jake afferrandolo per il braccio sano. Sostenendone il peso, cominciò a trascinarlo verso la porta e fuori dalla
stanza. Sam s'affrettò ad aiutarli, mentre Damon lasciava partire un altro colpo. Prima che Jake se ne rendesse conto, tutti e quattro stavano scendendo precipitosamente le strette scale, mentre le urla terrificanti della bestia affogavano nel divampare delle fiamme che consumavano voracemente il combustibile. Loki li sopravanzò e fece loro strada, sempre abbaiando come impazzito. Raggiunsero il secondo piano, con il fumo che cominciava a dilagare nel corridoio davanti a loro in grandi volute nere che s'innalzavano a ondate. Nel tempo in cui discesero le scale e si precipitarono alla porta d'ingresso attraverso il soggiorno, le fiamme si propagarono e presero a consumare tutto il terzo piano in una morsa di fuoco. Il gruppo uscì correndo dalla casa e si rifugiò dietro ai veicoli, oltre il viale, e all'unisono tutti si voltarono a guardare la scena che si stava svolgendo. L'intera porzione superiore della casa bruciava; il fuoco divampava selvaggio divorando letteralmente il legno. L'abbaino era una massa di fiamme così abbagliante da doversi proteggere gli occhi per guardarla. Damon aprì la portiera della Bronco e s'infilò dentro per dare l'allarme dell'incendio sulla frequenza della polizia. Gli altri deposero a terra Jake, appoggiandolo al paraurti perché potesse vedere anche lui, con Loki accucciato a fianco che si rifiutava d'allontanarsi dal padrone. «Guardate!», gridò Katelynn improvvisamente indicando l'ultimo piano dove, nel riquadro in fiamme d'una finestra, una sagoma infuocata indugiò per un istante, stagliandosi nel bagliore. Era l'Ombra della Notte, interamente avvolta in un sudario di fuoco. Rimase lì un attimo soltanto, con quelle terribili grida di rabbia e di dolore che ancora uscivano dalle fauci, e poi, con un'enorme spinta delle zampe possenti, si lanciò nel vuoto. La bestia spiegò le ali, e quelli da sotto le videro bruciare e sbattere freneticamente nell'aria per quasi un minuto, nel tentativo di sostenere la sagoma della bestia, nonostante il movimento delle ali non facesse altro che ingigantire le fiamme. Con un urlo impressionante la cosa precipitò verso il suolo, una cometa di fuoco che rotolò giù dal cielo nell'ultimo tratto del suo viaggio e ardendo andò a schiantarsi nelle placide acque del fiume Quinnepeg. 35. Conseguenze
«...ed io non trovo parole adeguate per ricordare il coraggio e la professionalità che questi uomini hanno mostrato davanti al pericolo. Hanno fatto onore a se stessi, a questa città, e a questo Paese». Il notiziario passò dall'elogio pronunciato dallo sceriffo Wilson alla lunga processione di colleghi che erano venuti a offrire conforto alle famiglie degli agenti Jones e Bannerman. La fila di uniformi blu e marrone s'allungava per la strada, senza dubbio la più grande adunata di poliziotti che Harrington Falls avesse mai ospitato. I due caduti, fratelli in armi, erano stati riconosciuti come eroi e la città voleva che tutti sapessero che il sacrificio di quegli uomini era stato compreso e apprezzato. «Come sapete, questi coraggiosi agenti sono caduti in servizio nel tentativo di catturare un sospetto omicida a Harrington Falls, una cittadina appena a nord di Montepelier. Poco dopo la loro morte, c'è stato uno scontro fra il presunto assassino e lo sceriffo Damon Wilson, che abbiamo appena visto tenere l'elogio funebre per questi valorosi. Lo scontro è finito con la morte del sospettato e con l'incendio accidentale che ha raso al suolo la più antica tenuta della città, Riverwatch. A te la linea, Steve». Jake usò il telecomando per spegnere il televisore. Tutte le reti stavano trasmettendo il funerale. I canali di sole news erano senza eccezione dedicati agli eventi accaduti a Riverwatch. La consapevolezza che ogni cosa raccontata dai giornalisti era falsa rendeva tutto assai meno interessante, rifletté Jake. Si girò nel suo letto d'ospedale, alla ricerca di una posizione comoda. L'aveva fatto di continuo negli ultimi tre giorni, da quando era stato ricoverato. Con la gamba sotto trazione, non era facile star comodi. Stava dandosi da fare con i cavi che sostenevano la gamba quando vide una figura in piedi sulla soglia. «È davvero un peccato non poter raccontare la verità su quello che è accaduto», disse Damon, togliendosi il cappello ed entrando nella stanza. Chiuse la porta, assicurando così un po' di privacy. «In ogni modo, non ci crederebbero mai», replicò Jake. «Ho idea che sia stato già abbastanza duro convincere lei». «Come va la gamba?». «Bene, credo. Mi parlano di mesi di riabilitazione prima di poter anche solo pensare di camminare, ma dicono che camminerò di nuovo, dunque non va poi così male». Damon s'accomodò su una sedia di plastica vicina al letto. «Quello che lei ha fatto è stata una pazzia, lo sa?».
Jake alzò le spalle. «Mi sentivo responsabile, in qualche modo. È stato uno dei miei a scatenare quella creatura. Se avessi avuto anche una sola briciola di buon senso, avrei sigillato quel maledetto tunnel subito dopo la scoperta e avrei risparmiato a tanti un mucchio di dolore». Incrociò lo sguardo di Damon, leggendovi una schietta approvazione. «Che avrebbe fatto al posto mio?», gli chiese. «Probabilmente la stessa cosa», rispose Damon con una smorfia. «Ho voluto solo parteciparle il parere ufficiale prima di darle quello mio personale». Jake indicò con il capo il televisore. «Pensa che se la berranno?». Damon capì subito che Jake si riferiva alla stampa e, in senso lato, al pubblico. «Abbiamo superato la fase peggiore dell'esame. Il "sospettato" che ho propinato loro può reggere. Avremo dei problemi di qui a poche settimane quando non troveranno alcun resto dopo aver setacciato quel che è rimasto di Riverwatch, ma per allora m'inventerò qualcos'altro. Ne usciremo». «Grazie per avermi tirato fuori di là. Non ce l'avrei fatta senza di lei», disse Jake allo sceriffo. «I ringraziamenti spettano piuttosto ai suoi due amici. Sono stati molto convincenti». In quel momento la porta della stanza di Jake s'aprì ed entrò Katelynn. Baciò Jake sulla fronte, salutò Damon e si sedette ai piedi del letto. «Non porta più la collana», notò Damon. «E non lo farò mai più». Allungò una mano in tasca e ne trasse un piccolo involto. «Comunque, non so bene che fare con questa. Mi sembra sbagliato buttarla via». «La prendo io», disse Jake. «Sarà un bel ricordino di quello che abbiamo passato». «Cosa pensa che sia, realmente?», chiese Damon, riferendosi alle straordinarie proprietà della pietra. «Non lo so. Ci ho pensato parecchio negli ultimi giorni, fin da quando Katelynn mi ha raccontato quello che è successo nell'auto. L'ipotesi migliore è che Sebastian Blake l'avesse creata per poter comunicare con l'Ombra della Notte più intimamente». «A proposito di Blake, niente su Hudson?», domandò Katelynn allo sceriffo. «Niente di niente», replicò lo sceriffo. «Ufficialmente lo consideriamo disperso, ma ritengo che quella creatura l'abbia preso quando ha ucciso il
maggiordomo. Sembra improbabile che sia fuggito. Comunque, lo cerchiamo ancora». Chiacchierarono per un po', finché per Jake venne l'orario della periodica somministrazione di antidolorifici. Sapendo che li avrebbero fatti uscire subito, Damon e Katelynn salutarono quando entrò l'infermiera, lasciando Jake alle sue cure. Si risvegliò più tardi, quel pomeriggio. La stanza era vuota, ma una lunga scatola bianca di cartone era posata sul comodino, legata da un nastro blu. Allungandosi, Jake la prese e se la posò accanto sul letto. Esternamente non c'erano bigliettini; nessuna indicazione del contenuto o del mittente. Dopo aver slegato il nastro, l'aprì. Dentro c'era un bastone da passeggio, intagliato nel mogano e con un pomolo d'argento a forma di testa di mago. In fondo alla scatola, ripiegato sotto il regalo, c'era un biglietto. «Jake», lesse. «Ho pensato che potresti averne bisogno nelle prossime settimane. Mi spiace di non essere arrivato prima». Firmato, Sam. Il testo era breve ma spiegava parecchio. Jake non aveva visto Sam, a parte una rapida visita, da quando si trovava in ospedale. Era ovvio dal bigliettino che Sam si sentiva ancora in colpa per il fatto di non averlo accompagnato a Riverwatch. Anche se Jake detestava il pensiero di dover aver bisogno di un bastone, capì che avrebbe dovuto abituarsi all'idea, se aveva intenzione di camminare presto. «Grazie, Sam», disse ad alta voce alla stanza vuota, desiderando che l'amico fosse lì. A valle di Riverwatch, in una piccola gola formata dalle anse del fiume che scendeva giù dalla montagna, qualcosa risalì dal profondo delle acque. Si trascinò nell'oscurità del fitto sottobosco e lentamente cominciò a guarire. 36. L'inizio della fine Era una notte magnifica. L'aria aveva quella qualità frizzante, limpida che accompagna l'autunno. Le stelle in cielo brillavano splendenti. Era la notte giusta per una passeggiata e dato che la terapia riabilitativa ne richiedeva parecchie ogni giorno, Jake aveva deciso di approfittare della serata. Dall'angolo dove stava poteva vedere il Columbus Park.
La strada dove abitava incrociava il parco all'altra estremità e lui terminava sempre il suo allenamento tagliando per lì dentro. Attraversò il cancello ed entrò nel parco. In lontananza riusciva a malapena a intravedere nel buio le sagome immobili della giostra e del castello di legno sui cui i bambini potevano arrampicarsi. Il diamante del baseball gli stava proprio dirimpetto. Da qualche parte, laggiù, c'erano anche uno scivolo e alcune altalene, ne era certo, ma la scarsa illuminazione che procuravano i lampioni stradali alle sue spalle non arrivava fino a quella distanza. Dal campo centrale fino all'uscita sul lato opposto, il parco si estendeva sprofondato in un'oscurità rotta solamente dalla fioca luce delle stelle. A un certo punto fu assalito da un disagio improvviso all'idea di attraversare quell'estensione, e per un attimo pensò di tornare indietro e prendere la strada più lunga per rientrare. Appoggiati a lui. Stringendo saldamente il pomolo del bastone da passeggio nel palmo della mano, s'inoltrò nel parco. Una larga striscia d'erba separava l'area tra il campo centrale e il parco giochi. Mentre si dirigeva verso questa terra di nessuno, Jake fu colpito dall'improvvisa quiete della notte intorno a lui. Il parco era silenzioso. Talmente silenzioso da far accapponare la pelle. Non soffiava un alito di vento, neppure un uccello cinguettava. Le altalene penzolavano immobili. Anche la strada alle sue spalle era vuota e silenziosa. I nervi di Jake cominciarono a stridere come cavi dell'alta tensione. È strano. Jake si fermò e cercò di raccogliere le idee. È così tranquillo, si disse. Certo che è tranquillo. Sono quasi le undici di notte di un giorno feriale di metà ottobre. Ma perché ha l'aria così vuota? si chiese. Si guardò indietro. Il buio alle sue spalle appariva più spesso, più corposo, nero su nero, ogni strato in qualche modo più inquietante del precedente. No, non sarebbe ritornato in quella direzione. «Dunque, avanti o niente. E così sia». Malgrado la spacconeria, Jake si pentì di non aver imboccato la strada lunga. Guardando avanti a sé gli venne in mente che, una volta raggiunto il campo giochi, sarebbe venuto a trovarsi al centro del parco.
Nel cuore delle tenebre. I piedi si avviarono quasi di propria volontà, e stavolta l'andatura teneva il passo con il battito accelerato del cuore. Il buio e il silenzio ora lo incalzavano, come ringalluzziti dalla sua ammissione di paura. Camminando sulla ghiaia del campo da gioco, si sforzava di mantenersi calmo. Il bastone da passeggio stentava a trovare un appoggio sul fondo ricoperto di pietrisco e questo, combinato con l'eccitazione nervosa, più d'una volta stava per farlo cadere a faccia avanti. Gli battevano i denti per il freddo, e il loro suono gli faceva venire in mente stanze piene solo di scheletri, le cui ossa sbattevano nell'umida oscurità... «Ora basta, Jake!», si disse, improvvisamente adirato. È assolutamente ridicolo. Non c'è niente da temere. Si rendeva conto che la sua immaginazione era corsa in avanti e non era contento d'averne perso il controllo. Sin dall'incontro con la bestia aveva cominciato a vedere fantasmi in ogni ombra, demoni dietro ogni porta. Aveva provato che la dannata cosa era fatta di carne e sangue, non era forse vero? Provato che poteva essere uccisa. Non esisteva malvagio essere soprannaturale che non potesse essere fermato. Lui, Jake Caruso, l'aveva fermato! Rimpiazzata dalla rabbia, la paura si rintanò sul fondo della mente. Jake avanzò, convinto d'aver recuperato il controllo. In distanza, riusciva a vedere la luce dei lampioni del parcheggio dal lato opposto del parco, e si diresse verso quelli. Dopo appena un paio di passi la sua andatura accelerò. «Eccoci daccapo», si disse a voce alta, con le parole che rimasero sospese nell'aria della notte. Non rallentò, tuttavia. Il disagio che era stato confinato dietro il muro di razionalità della sua mente sbocciò all'improvviso sotto la forma di un greve senso di terrore, facendosi strada dentro di lui a ogni passo che muoveva. Aveva in testa un solo obiettivo, ed era quello di raggiungere le luci davanti a lui. Nelle luci sarebbe stato salvo. Si mise a correre in maniera scomposta, appoggiandosi più pesantemente sul bastone e trascinandosi dietro la gamba malata, con gli occhi incollati alle luci. Si lasciò alle spalle lo scivolo, i dondoli, poi le altalene ed era ormai nei pressi del castello di legno. Un attimo prima stava correndo con quell'andatura sconnessa, quello successivo si ritrovò faccia in giù nella ghiaia, stordito e disorientato.
Il dolore alla spalla si fece sentire, quasi in sincronia col primo caldo fiotto di sangue che prese a colargli sotto al collo. Jake si sollevò e si mise a sedere. Sostenendosi con il braccio sinistro, allungò con cautela il destro sotto il bordo della giacca. Quando sfiorò la carne martoriata, rimase fulminato dal dolore. Ritirò la mano coperta di sangue. Con molta prudenza tirò indietro la spalla della giacca fin dove arrivava a vedere e fissò le tre profonde lacerazioni che avevano trapassato completamente la spessa imbottitura squarciandogli la carne. Poi capì d'essere stato spinto con violenza alle spalle e che era stata la forza del colpo a proiettarlo faccia a terra nella ghiaia. Ma non c'era nessuno dietro di lui. Forse era venuto dall'alto. Resto paralizzato all'idea, terrorizzato da quello che implicava. Ma è morto! gridò una parte della sua mente. L'hai ucciso! Hai visto la sua fine, è affondato nel fiume avvolto tra le fiamme, tre mesi fa! Ma l'altra parte, quella razionale, calcolatrice, che aveva scartato l'emotività e valutato i fatti per come li aveva trovati, sapeva che lui aveva ragione. In qualche modo l'Ombra della Notte era sopravvissuta, riuscendo a stare nascosta per tutto il tempo necessario a guarire, ed era tornata a completare il lavoro che aveva iniziato nell'abbaino di Riverwatch. Era tornata per ucciderlo. La voce di un morto gli echeggiò nella mente. «Quando verrà per te, volerà sulle ali di velluto della notte». Guardò in alto, torcendo il corpo malgrado il dolore, per vedere dietro di sé, sforzando gli occhi per distinguere nell'oscurità. Sapeva che la bestia era là, eppure il cielo era vuoto fin dove lui arrivava a vedere. Perché non si preparava sorvolando a un altro attacco? Era là fuori? Vigilava? Aspettava? Non vedendo altro che tenebre intorno a sé, decise che era rimasto troppo a lungo nello stesso posto. Localizzò il suo bastone, s'alzò in piedi e si diresse verso le luci quanto più rapidamente lo potessero sospingere le gambe e la paura. In alto Moloch volteggiava nel cielo, guardando l'umano mentre si rimetteva in piedi e s'avviava di nuovo lungo la strada che attraversava il parco. La sua sete di sangue era enorme, ma c'era tempo.
L'umano sarebbe morto. E dopo Moloch avrebbe banchettato. Ripiegando strettamente le ali contro il corpo, si lanciò in picchiata. Jake procedeva verso il confine del parco quando l'Ombra della Notte gli si parò improvvisamente davanti, così rapida e inaspettata che Jake fece persino un altro passo prima che il cervello registrasse il pericolo. La bestia stava sollevata di pochi centimetri da terra, e la ritmica percussione delle sue grandi, coriacee ali gli soffiava in faccia la fredda aria della notte impregnata di quel particolare odore che lui ricordava dall'ultima volta che aveva affrontato la bestia, puzzo di lana umida e di vello fradicio. Per un lungo istante si fissarono. Predatore e preda. A Jake parve che quell'attimo fosse destinato a durare un'eternità, lasciandoli immobili in quello spazio senza tempo tra il mondo e il tempo stesso, finché con un improvviso lampo d'emozione nelle pupille, la bestia fece sibilare una delle mani artigliate e colpì Jake in pieno volto. L'impatto spedì Jake a terra, la testa che girava, la mente che ancora tentava di prendere coscienza del fatto d'essere stato colpito. La botta fu così fulminante che la vide solamente al momento di prenderla in faccia. Il colpo era stato inferto con potenza calcolata; Jake era certo che avrebbe potuto staccargli di netto la testa dalle spalle soltanto se l'avesse voluto. Alzò lo sguardo e vide la creatura ferma a poca distanza da lui, che ghignava mettendo in mostra zanne acuminate come rasoi che scintillavano al chiarore della luna. E poi l'Ombra della Notte colmò la breve distanza che li separava e colpì ancora. E ancora. E ancora. Ogni volta accentuando i fendenti quel tanto che bastava a ferire la preda senza annientarla. Jake si sollevò da terra. La testa era stordita, la vista sfocata, il sangue gli scorreva copioso lungo la guancia come una ruvida carezza. L'Ombra della Notte era di nuovo a pochi passi. E lo guardava. Richiamando quel che era rimasto delle sue forze, Jake si voltò per affrontarla, brandendo saldamente come un'arma il bastone da passeggio dal pomolo d'argento.
37. Requiem Travolto dalla rabbia e dalla disperazione, Sam fissava il corpo dell'amico. Jake era morto. L'amico aveva combattuto, combattuto anche lui come un demonio, lo si capiva chiaramente dalla scena drammatica che aveva sotto gli occhi. Jake giaceva là dove era caduto l'ultima volta; un braccio era ripiegato sotto il corpo, l'altro proteso sopra la testa, riverso sulla barra metallica della giostra, con le dita divaricate e irrigidite ad artiglio nel tentativo di proteggersi dall'essere malvagio che l'aveva buttato là come una bambola di pezza ormai logora, scartata come spazzatura. Le mani gli erano state racchiuse in piccoli sacchetti di plastica legati ai polsi; i tecnici della scientifica s'erano dati da fare in fretta per preservare ogni traccia di lotta, decisi a trarre dai resti qualcosa di concreto su cui lavorare, qualche indizio per incastrare il killer. Attraverso la plastica Sam vide delle macchie violacee sotto le unghie di Jake, sangue rappreso di una ferita che era riuscito a infliggere al suo assalitore. Un tecnico gli passò a fianco urtandolo col gomito, facendogli alzare lo sguardo sull'espressione del volto di Jake. Vi si leggevano determinazione e sfida assolute, come se il suo ultimo atto fosse stato quello di sputare in faccia alla cosa. Le labbra erano sollevate sui denti, congelate nella lugubre fissità di un sorriso. Un sorriso che nemmeno la sofferenza della morte era stata capace di cancellare. Quando Sam era arrivato, dopo aver ricevuto la chiamata, Damon l'aveva messo al corrente dell'accaduto con delicatezza, informandolo su quello che erano riusciti a ricostruire degli ultimi movimenti di Jake e della tragedia che era seguita. Apparentemente era fuori per una passeggiata e, come d'abitudine, aveva tagliato per il parco anziché prendere la strada più lunga che lo costeggiava. Ad alcune centinaia di metri dalla strada, era stato aggredito ed era caduto; i tecnici avevano già isolato e verificato quel punto, dove erano evidenti dei segni di lotta nel terriccio soffice del campo da gioco. Era rimasta una lunga traccia frastagliata a indicare che era stato di nuovo ferito alla gamba malata, che se l'era trascinata dietro sull'erba, ai bordi del campo, come se avesse cercato di raggiungere la salvezza offerta dalle luci. A metà strada era stato attaccato ancora una volta, e il terreno dov'era caduto era macchiato di sangue. A quel punto doveva essersi girato a lottare dato che,
oltre al suo, risaltavano sull'erba tutt'attorno anche macchie vistose di sangue violaceo dell'Ombra della Notte. In qualche modo, e Sam non riusciva a capire come, Jake era riuscito a sottrarsi un'ultima volta alla bestia, artigliando con le dita la terra morbida e trascinandosi in avanti, strappando persino delle zolle, nell'illusione che la luce potesse salvarlo. Ma così non era stato. Moloch l'aveva afferrato e ne aveva scagliato il corpo contro la dura sagoma della giostra, che non gli aveva dato scampo. Dalla postura scomposta del corpo risultava evidente che aveva impattato le sbarre metalliche precipitando dall'alto e che il colpo gli aveva spezzato la spina dorsale come un ramo secco. A quel punto, la fine non aveva tardato. O almeno lo speravano. Adesso gli agenti attorniavano Sam cercando di fare il proprio lavoro, e lui si fece indietro senza mai distogliere lo sguardo dal volto dell'amico. Lo troverò per te, Jake, mormorò in un soffio. Te lo giuro, lo troverò. Poi si voltò, incapace di guardare più a lungo, mentre la squadra del coroner s'apprestava a trasferire il corpo di Jake in un sacco di plastica nera. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, che rotolarono giù per le guance. Si guardò attorno, nella luce grigia dell'aurora imminente, chiedendosi dove si fosse rifugiata l'Ombra della Notte dopo aver completato l'opera con Jake. Era là fuori da qualche parte, nascosta, in attesa del buio. L'avrebbe trovata, dovunque fosse, anche a costo di impiegare il resto dei suoi giorni. E l'avrebbe uccisa. Si girò per allontanarsi dal gruppo dei detective e trovò Damon ad aspettarlo vicino alla Bronco. I due uomini rimasero in silenzio per un minuto, poi Damon disse quello che entrambi sapevano essere la verità. «È tornata, vero?». Sam poté solo annuire. Damon rifletté per parecchi, lunghi, silenziosi minuti, poi disse: «Qualsiasi cosa stia pensando di fare, sono con lei. Voglio fermare questo essere una volta per tutte». Sam ebbe la netta sensazione che s'intendevano perfettamente. «Da dove cominciamo?», volle sapere Damon. «Come facciamo a trovare questa cosa?». Sam non ne era sicuro. Comunque un'idea ce l'aveva. Sperava solo che Katelynn fosse abbastanza forte da andare avanti. La morte di Jake le ave-
va procurato degli attacchi isterici. Si voltò verso lo sceriffo. «Ho un'idea su come trovare la cosa, ma avrò bisogno dell'aiuto di Katelynn per farlo. Può chiedere a qualcuno di accompagnarmi da lei?». Damon annuì e chiamò uno dei suoi uomini. Rivolto a Sam, disse: «Quando siete pronti, chiamatemi alla stazione di polizia. Se non doveste trovarmi, fatevi mettere in contatto con me via radio, chiaro?». «Sì», rispose Sam, ma i suoi pensieri erano già lontani, a meditare su quanto stavano per fare. Tra meno di dodici ore sarebbe tornato il buio. Non avevano molto tempo. 38. Di nuovo a caccia «Devi usare la collana, Katelynn. È la nostra unica speranza per rintracciare l'Ombra della Notte». Katelynn lo fissava, sentendo le sue parole ma senza comprenderne il significato, come se stesse parlando in una lingua straniera. Da quando gli agenti dello sceriffo lo avevano accompagnato, Sam era rimasto con lei tutta la mattina, fino al pomeriggio inoltrato. Il sedativo somministratole da Sam l'aveva fatta cadere in un sonno profondo, ma non le aveva evitato gli incubi. Erano state visioni terribili di sangue, denti e artigli, un caleidoscopio di sofferenza e d'orrore che minacciava di soffocarla sotto un peso ripugnante, finché scalciando e urlando s'era risvegliata. La stanza conservava l'eco dei suoi lamenti. Quando riacquistò i sensi, si ritrovò saldamente tenuta ferma da Sam, che con voce rassicurante l'aiutava a scacciare i demoni. Sam. Poi capì che le stava parlando, e focalizzò l'attenzione su di lui giusto in tempo per afferrarne le ultime parole. «...ed è per questo che devi usarla». «Usare cosa?», chiese lei. «La collana!», ripeté esasperato. «Non hai sentito quello che ti ho detto?». Lo guardò interrogativamente, poi di colpo capì. Divenne pallida e il corpo le cominciò a tremare. «Non ci pensare nemmeno», disse con voce piatta. Attraversò la stanza vacillando e si accucciò vicino a Loki. Damon, mentre lei dormiva, aveva portato lì il cane; Loki sembrava in qualche modo sentire che Jake non sa-
rebbe più tornato. Damon aveva pensato che probabilmente i due sarebbero stati una buona compagnia l'una per l'altro, e aveva visto giusto. Sam, comunque, non intendeva arrendersi così facilmente. «È l'unico modo, Katelynn. Devi farlo!». «No», disse lei di nuovo, stavolta con più fermezza. Non capisce quello che mi sta chiedendo? Non si rende conto che ogniqualvolta la porto sono risucchiata in qualsiasi orribile azione stia commettendo la bestia in quell'istante? Che posso fiutare il sangue, assaporare la paura, sentire la carne sotto i miei artigli? Ha la minima idea di quanto tutto questo sia orribile? Pensava di no. Altrimenti non glielo avrebbe chiesto. E poi, pensò, non abbiamo più la pietra. L'aveva data a Jake quand'era ricoverato in ospedale e da allora non ne avevano più parlato. Per quel che ne sapeva, Jake l'aveva buttata via. O almeno lo sperava. Lo disse a Sam. «Merda!», gridò furioso. Conoscendo Jake, la pietra poteva essere dovunque, letteralmente. «Allora dobbiamo trovarla», disse Sam. Katelynn non riusciva a credere a quello che sentiva. Si girò verso di lui. «Assolutamente no, Sam». «Che significa "assolutamente no"? Ti ripeto che dobbiamo». «Ho detto di no. Anche se la trovi io non sono d'accordo sul continuare a usarla. Non voglio più toccare quella cosa. Lasciala perdere». Avvertendone l'agitazione, Loki s'alzò a leccarle la faccia. Lei gli accarezzò il pelo e lo guardò mentre puntava Sam diffidente. Era quasi come se il cane sapesse quello che stava dicendo e non condividesse neppure lui quell'idea. «Non posso lasciarla perdere, Katelynn! La cosa che ha ucciso Jake è là fuori e io voglio mettere la parola fine alla faccenda!». Si voltò e tirò un calcio di rabbia, colpendo la sedia accanto. Loki cominciò subito ad abbaiare e Katelynn dovette trattenerlo saldamente per impedirgli d'avventarsi su Sam. «Penso sia meglio che tu vada, Sam», gli disse, con il cane che seguitava ad abbaiare. Sam si girò e si diresse alla porta senza replicare.
Fuori, sotto il patio, Sam sedette un istante sul dondolo cercando di calmarsi. Sapeva che la sua rabbia non era rivolta verso Katelynn, ma al senso d'impotenza che provava. Jake era un suo amico e c'era più d'un motivo per continuare a sentirsi responsabile della sua morte. Il quadro non poteva essere peggiore. Anche se Sam riusciva a localizzare la pietra, non aveva idea di come agire per neutralizzare la bestia. Aveva visto che i proiettili sembravano avere scarsa efficacia e quindi tentare di metterla spalle al muro e abbatterla con una pistola sembrava più che altro un modo fantasioso per suicidarsi. Non poteva disporre di niente di simile a un lanciafiamme o a un lanciarazzi portatile e temeva che lo stesso valesse per Damon. Sam valutò l'idea di usare un'arma da corpo a corpo, come un'ascia tagliafuoco; forse fare la bestia a pezzi minuscoli le avrebbe impedito di sfruttare i suoi poteri rigenerativi. Ma se non fosse stato così? Anche se fosse riuscito a tranciarle un arto, che cosa avrebbe impedito alla bestia di farsene crescere uno nuovo, lì davanti ai suoi occhi? Non aveva forse espulso i proiettili dal proprio corpo al cospetto di Jake? E, ancora peggio, cosa sarebbe accaduto se, oltre a generare un nuovo arto, quello vecchio avesse deciso di far crescere un nuovo corpo? Sam si smarrì in quel pensiero. No, un'ascia era fuori questione. Quindi rimaneva solo il fuoco, che Sam sapeva poter danneggiare la bestia. Era ovvio che era sopravvissuta al precedente supplizio, ma questo non significava che l'avrebbe fatto di nuovo, se in qualche modo avessero potuta intrappolarla nelle fiamme e lasciare che il fuoco la consumasse del tutto. Avevano dato per scontato con troppa leggerezza che fosse morta quand'era precipitata nel fiume tre mesi prima. Sam era determinato a non ripetere lo stesso errore. Ma prima doveva trovare la bestia. Sapeva che localizzarla poteva richiedere un tempo infinito. Jake aveva correttamente immaginato che la cosa aveva preso stabile dimora a Riverwatch, ma Sam non s aspettava d'avere altrettanta fortuna. Ecco perché aveva bisogno della Pietra di Sangue. Non conosceva altro modo per entrare in contatto con la bestia. Avrebbe dovuto iniziare a frugare nell'appartamento di Jake. Se non l'avesse trovata là, avrebbe cercato nella roulotte. E poi nella jeep. E poi... Un'idea gli affiorò dal fondo della mente e vi si aggrappò alla maniera in cui un uomo che sta per affogare s'aggrappa a un salvagente. Ricordò qualcosa che Gabriel gli aveva detto una volta, durante il primo incontro
con Katelynn, sull'ossessione di Sebastian Blake per i poteri occulti. Aveva letto sui quotidiani le notizie circa la scomparsa del discendente di Sebastian, Hudson Blake, e adesso si chiese se potesse tuttora esistere una relazione con la bestia, così comera accaduto per il passato. Hudson Blake era scomparso nel mezzo di una sorta d'oscuro rituale, e il suo maggiordomo era stato una vittima scontata dell'Ombra della Notte. Era possibile che Blake stesse cercando d'esercitare un controllo sulla bestia? E se era così, come aveva immaginato di riuscirci? Sam si guardò intorno, con i pensieri che friggevano. Era ormai tardi e il sole stava tramontando. Gli rimaneva poco tempo. Si rialzò e s'incamminò verso l'auto. Montò, mise in moto, percorse in retromarcia il vialetto di Katelynn e si diresse in città. C'era qualcuno in grado di riferirgli nei minimi dettagli quello che avevano trovato a Riverwatch. Quella persona probabilmente non si rendeva conto di custodire la risposta al loro problema: rintracciare la bestia prima che uccidesse ancora. 39. Metodi mistici Quindici minuti più tardi Sam sedeva fuori dell'ufficio di Damon aspettando il suo rientro. Sulla scrivania del Sergente c'era una radio accesa a basso volume, e Sam ascoltò le notizie che andavano in onda; le informazioni del giornalista circa la morte di Jake erano lacunose e piene di congetture. La preoccupazione immediata era se il serial killer che la polizia aveva ritenuto morto nello scorso giugno fosse ritornato o meno a Harrington Falls. Dal momento che il precedente coinvolgimento di Jake era stato tenuto all'oscuro dei media, nessuno aveva stabilito un nesso tra le due situazioni ed era stato considerato soltanto un'altra vittima casuale. Sam ne sapeva di più. Vieni a parlare con me, pensò tra sé. Te la dirò io la verità. Ti darò una storia alla quale faresti fatica a credere. Tuttavia, sapeva che non avrebbe mai potuto. La morte di Jake sarebbe stata per sempre avvolta nel mistero, una pratica permanentemente aperta, un delitto irrisolto. Poi Damon varcò la porta seguito da un paio di agenti. Vide Sam e gli fece un cenno col capo, lasciandogli intendere che sarebbe stato subito da lui. Da dove si trovava Sam vide la stanchezza dipinta sul volto di Damon,
le rughe della tensione che gli solcavano la fronte come canyon. Gli occhi erano pozzi scavati nel cranio, e per un istante Sam credette che l'uomo fosse sul punto di crollare; ma, quando si voltò per invitarlo a entrare in ufficio, aveva una voce ferma e pacata. La forza su cui Sam faceva affidamento c'era ancora. Damon lo fece entrare nell'ufficio e chiuse la porta. Attraversò la stanza e si lasciò andare sfinito sulla poltroncina, indicando a Sam con un gesto della mano di prender posto su una delle due sedie davanti alla scrivania. Quando Sam si fu accomodato, Damon buttò sulla scrivania una voluminosa cartellina. «Non dovrei farlo, ma quelle sono le foto della scena del crimine che riguardano la morte del suo amico. Sono uguali a tutte le altre. È la stessa cosa». Sam non si mosse per prenderle. Non aveva bisogno di rivederle. Il ricordo dell'amico che giaceva morto non lo avrebbe abbandonato mai più. Il rispetto di Damon per Sam crebbe di un'ulteriore tacca. Continuò: «La dannata cosa è tornata. Il laboratorio lo conferma; stessi segni di denti e artigli, stesso MO. Ma non abbiamo alcun'idea di dove possa trovarsi». «È il motivo per cui sono qui», rispose Sam. Mise al corrente lo sceriffo degli eventi della serata, spiegandogli l'uso che aveva intenzione di fare della Pietra di Sangue, il rifiuto da parte di Katelynn d'avere a che fare con quel progetto, e il fatto che non avesse idea di dove poter trovare la pietra. «Che possiamo fare allora?», chiese Damon. «Usiamo l'altra». Damon guardò Sam, per un attimo stranito. «Cosa?», gli domandò. «Ho detto: usiamo l'altra. C'è un inventario degli oggetti recuperati a Riverwatch la notte in cui Hudson Blake scomparve?». «Sicuro». Lo sceriffo scavò nelle pila di dossier sulla sua scrivania finché trovò quello giusto. Rimosse un grosso fascicolo di carte pinzate da una clip, selezionò parecchie pagine e le passò a Sam. «Questa è una lista di tutto quello che abbiamo portato via dalla casa». Sam scorse l'elenco, augurandosi di essere nel giusto. Finalmente la trovò, circa a tre quarti della terza pagina. Una piccola pietra rossa levigata su una collana d'oro; tipo sconosciuto. L'indicò allo sceriffo. «Avete tutti questi oggetti qui in ufficio?», domandò, restituendo la lista. «Probabilmente. I reperti più grossi sono stati lasciati sul posto o si trovano depositati nel sotterraneo del tribunale, ma tutto quello che era nella
stanza dove è stato trovato il corpo è stato fotografato, etichettato e impacchettato per essere portato al laboratorio per le analisi. La maggior parte dovrebbero trovarsi nell'armadio dei reperti nel sottoscala. Perché?». «Penso che Blake non solo sapesse qualcosa circa l'Ombra della Notte, ma che stesse cercando di entrarci in contatto. Scommetto che la pietra ritrovata è un duplicato perfetto di quella che aveva Katelynn, penso si trattasse di una coppia. Se ho ragione, possiamo ancora scoprire dove l'Ombra della Notte s'è rifugiata». Convenendo che potesse funzionare, Damon prese le chiavi ed entrambi scesero nel sotterraneo. Damon si diresse a una porta con la targa REPERTI. Aprì e scomparve all'interno. Ritornò un momento dopo con una grossa scatola di cartone. «Potrebbe essere qua dentro», disse. S'avvicinò con la scatola a una panca e la posò con cautela. Dentro c'erano allineate molte buste di plastica sigillate e un foglio di carta. Confrontando l'elenco che aveva in mano con quello tolto dalla scatola, Damon si convinse di avere il contenitore giusto, poi frugò dentro finché non trovò la busta che andava cercando. La sfilò fuori, le diede un'occhiata e la passò a Sam. Per lunghi istanti, Sam ne studiò il contenuto. Un lento, severo sorriso gli attraversò il volto. Dentro la busta c'era una pietra rossa identica per forma e colore a quella che Katelynn aveva un tempo portato addosso. Questa era attaccata a una lunga catena d'oro. «È questa?», chiese lo sceriffo. Sam annuì. Damon lo accompagnò lungo il corridoio fino a una stanzetta contrassegnata dalla targa INTERROGATORI. S'accertò che l'adiacente stanza d'osservazione fosse vuota, poi si chiuse a chiave la porta alle spalle. Non voleva che qualcuno li vedesse alle prese con quella cosa mentre tutti i suoi agenti erano fuori alla caccia del killer. Per quanto sapesse di stare facendo qualcosa di necessario, non ci sarebbe stato comunque modo alcuno di spiegarlo ad altri. Lui e Sam si sedettero di fronte, con la pietra appoggiata sul tavolo in mezzo a loro. «Come lo facciamo?», chiese Damon, sentendosi un tantino ridicolo ma volendo comunque procedere. Sam alzò le spalle. «Che sia dannato se lo so. Katelynn mi ha detto che
non ha mai provato a stabilire il contatto consapevolmente. Le prime due volte è accaduto mentre dormiva. Quella successiva mentre era occupata a studiare in biblioteca. L'ultima fu nell'auto». Si allungò per prendere la pietra, lasciandola pendere dalla mano. Roteava sulla catena d'oro emettendo bagliori rossi come il colore del sangue sprizzato di fresco. «È possibile che concentrandosi su di essa si orientino i propri pensieri nella sua direzione?», suggerì Damon. «Vale la pena provarci», Sam mise la pietra nel palmo delle mani e si avvolse nei suoi pensieri come in un mantello. Liberò la mente, nel tentativo di raggiungere una condizione di quiete. Respirò lentamente; inspirò dal naso ed espirò dalla bocca con un ritmo profondo, calmo. Quando si sentì pronto, cominciò a crearsi un'immagine della bestia così come la ricordava da quel fatale incontro a Riverwatch. Arricchì di dettagli quell'immagine quanto più poté, contando sul ricordo che aveva della statua per aggiungere le parti mancanti. Poi cominciò a incalzare quell'immagine con domande del tipo «Dove sei?», sperando che la pietra creasse il collegamento di cui avevano bisogno per localizzare la bestia. Non accadde nulla. Sam la trattenne ancora per diversi minuti, mentre Damon sedeva tranquillo all'altro capo del tavolo, ma senza esito. «Dia qua, mi faccia provare». Sam consegnò la pietra allo sceriffo, che fece anche lui un tentativo. Ancora niente. Per la successiva mezz'ora provarono di tutto per far sì che la pietra rivelasse i suoi segreti. Proiettarono su di essa i loro pensieri. La misero al centro del tavolo e le parlarono. La tennero in mano e le intonarono litanie. Ma niente funzionò. «Maledetta!». Sam s'alzò dal tavolo e cominciò a camminare, sfogando la frustrazione nell'azione fisica. Damon diede un'occhiata all'orologio. «Non abbiamo tempo per questo, Sam». «Lo so, lo so. Ok, forse ci vogliono certe persone per usare la pietra. Oppure ha bisogno d'essere prima sintonizzata con un determinato individuo e noi non sappiamo come farlo. In entrambi i casi, siamo fregati. A meno che non possa funzionare con Katelynn». «Posso sempre ordinarle di usare la pietra», aggiunse Damon.
Sam smise di camminare e lo fissò incredulo. «Ah, certo. E qualora rifiutasse, che pensa di fare? Costringerla con una pistola alla tempia?». Per un istante Sam pensò che Damon stesse per dirgli di sì. C'era della rabbia negli occhi di quell'uomo, e un livello di frustrazione nel quale Sam poteva facilmente immedesimarsi. Comunque, bisognava recuperare il buon senso. Damon lo fissò per un attimo, poi si girò scuotendo il capo in risposta alla domanda di Sam. «Dobbiamo convincerla che questo è l'unico modo per localizzare la cosa». Sam fu d'accordo. Non sapeva come ci sarebbero riusciti, ma era l'unica opzione che era loro rimasta. Katelynn doveva aiutarli. Non poteva non capirlo. Li accolse alla porta con uno sguardo sospettoso, ma comunque li fece accomodare. Entrarono in soggiorno; Damon e Sam scelsero di sedersi da un lato del tavolino da caffè mentre Katelynn e Loki sedettero sul divano dal lato opposto. Damon lasciò che fosse Sam a parlare per spiegare come avevano recuperato la pietra e cosa volevano che lei facesse con essa. Ascoltò la loro storia, con una falsa espressione di calma stampata in volto. Poi, con altrettanta calma, disse loro di no. «Ma non vedi che non abbiamo altra scelta, Katelynn? Tu sei l'unica che può farlo!», esclamò Sam esasperato. Per la prima volta Katelynn s'infiammò di emozione. «Stronzate! Non puoi saperlo! Non sai proprio un bel niente; stai solo tirando a indovinare». Allacciò le braccia attorno al collo di Loki, come segno del suo disagio. Il cane, per tutta risposta, uggiolò. Damon annui, dando segno di convenire con la sua affermazione. «Ha ragione, Katelynn. Stiamo tirando a indovinare. Non funziona con Sam e con me. Potrebbe non funzionare nemmeno con lei». Tenne un tono pacato, rassicurante, per contribuire a smorzare frustrazione e rabbia che avevano rapidamente saturato la stanza. «Ma cosa suggerisce di fare? Sappiamo che con lei la pietra ha funzionato in passato. Non abbiamo l'originale, ma speriamo che questa agisca alla stessa maniera. Abbiamo bisogno che lei ci provi». Sembrava che Sam fosse sul punto di parlare, ma Damon lo zittì con un'occhiata fulminante.
«Non voglio farlo», rispose lei testarda. Damon capì che stava cominciando a cedere. Lasciò che il silenzio si protraesse per un istante, poi giocò il suo asso. «Se non lo fa, qualcun altro perderà chi ama. Proprio come lei ha perso Jake». Non era bello giocare con i suoi sentimenti in quel modo, ma Damon era quasi disperato. Era d'accordo con Sam; avevano bisogno di trovare la cosa prima possibile, e Katelynn era lo strumento più veloce e più facile. Katelynn lo fissò. Vide una serie di emozioni attraversarle gli occhi: rabbia, paura, dolore, preoccupazione. Solo per un momento avvertì che la forza di quei sentimenti annullava le distanze tra loro. Poi Katelynn si girò e il collegamento fu interrotto. Nessuno parlava. Il silenzio si protrasse. Loki uggiolò di nuovo e leccò il volto di Katelynn. Lei si chinò a guardare negli occhi del cane. Quello che vide Damon non poteva saperlo, ma quando si rivolse di nuovo a lui, prima che pronunciasse una sola parola, seppe che l'avrebbe fatto. «Ok. Datemi la pietra». Sam soffocò il sorriso e tirò fuori l'oggetto dal fondo della tasca. Cercò di passarglielo, ma lei si rifiutò di prenderlo. Lo posò in mezzo al tavolo, di fronte a lei. «Andrà tutto bene, Katelynn», disse Damon. «Le altre volte che l'ha fatto, non era preparata. Non c'era nessuno per aiutarla a uscire dalla trance se avesse avuto dei problemi. Questa volta ci saremo sia Sam che io. Al minimo segnale di pericolo la tireremo fuori». Katelynn l'ignorò, consapevole che nonostante le buone intenzioni non sarebbero stati di alcun aiuto in caso di problemi. Sapeva quanto potente fosse in realtà l'Ombra della Notte. Nell'auto aveva fatto tutto il possibile per liberarsi dalla sua morsa ripugnante; ma non c'era riuscita. Adesso era costretta a mettersi di nuovo in pericolo, e non ne era certo felice. Chi poteva dire che tipo di potere la bestia fosse in grado d'inviarle tramite il collegamento della pietra? E tuttavia, lo sceriffo aveva ragione. Non c'era scelta. Lasciare che la bestia vagabondasse in libertà e continuasse le sue stragi era impensabile. Avrebbe dovuto usare la pietra. Da essa sembrava emanare Male allo stato puro e Katelynn dovette forzarsi per sollevarla.
S'adagiò sul divano, con la pietra stretta in entrambe le mani. Loki s'accucciò sul pavimento accanto a lei. Sam si sedette sul tavolino, mentre Damon gli stava alle spalle. «Se vi sembra che stia lottando, o soffrendo, fate tutto quello che potete per risvegliarmi. Togliendomi la pietra dalle mani, dovreste riuscirci. Scuotetemi, schiaffeggiatemi, fate tutto quello che è necessario», ripeté Katelynn con insistenza. Annuirono. Detto questo, Katelynn si mise all'opera. Come Sam aveva fatto in precedenza, Katelynn cercò di liberare la mente da ogni pensiero, lasciando che un buio totale la pervadesse. Anziché concentrarsi sulla pietra, comunque, rivolse i suoi pensieri all'esterno, alla ricerca della bestia. La raffigurò come l'aveva vista in sogno, con le enormi ali spiegate mentre volava alta nel cielo. Cercò di percepirne il battito cardiaco, quel ritmo a tre tempi che già aveva sentito in precedenza. Immaginò la carezza del vento sui fianchi e la danza della lingua sui denti. Improvvisamente il contatto fu stabilito. L'Ombra della Notte era rannicchiata sulla cima di un'alta struttura e scrutava la notte. Attraverso i suoi occhi Katelynn vide il campus dell'Università e riconobbe immediatamente il luogo che aveva scelto come punto di osservazione. Keating Hall. Un'alta torre di pietra s'ergeva dal tetto dell'edificio, ed era quello il luogo dove la bestia stava appollaiata. Immediatamente Katelynn capì che quella era la nuova tana della creatura. La torre dell'orologio era in disuso da anni e la bestia era libera di andare e venire a suo piacimento, dato che evitava di tirarsi addosso delle attenzioni. Avendo raggiunto l'obiettivo, Katelynn tentò di uscire dalla trance. Non distolse mai lo sguardo dal terreno del campus. Combatté duramente, nella volontà di risvegliarsi. Non accadde nulla. Rimase collegata alla bestia, imprigionata nella consapevolezza di questa. Una strana sonnolenza cominciò a impossessarsi di lei. L'oscurità apparve in lontananza per poi sommergerla. Altrettanto rapidamente la visione cominciò a riaffiorare, ma non stava più guardando il campus buio dell'università. Si ritrovò, invece, a guardare il muso di Loki, a pochi centimetri dal suo. Il cane ringhiava, facendo salire dalla gola un suono rauco e profondo.
«Va tutto bene, Loki», tentò di dirgli Katelynn. Nessun suono le uscì dalla gola. Fu assalita dal panico. I due uomini videro Katelynn cadere rapidamente in trance. Un minuto prima era con loro; quello dopo era persa nel mondo in cui la sua coscienza era fuggita. Il corpo si rilassò visibilmente. Il respiro rallentò e divenne profondo. Gli occhi tremavano sotto le palpebre serrate. Le mani rimasero chiuse attorno alla pietra. Aspettarono. Passarono cinque minuti. Dieci. Katelynn rimaneva bloccata in trance. Improvvisamente Loki s'alzò in piedi e si avvicinò a Katelynn. Le annusò la faccia, poi si tirò indietro a guardarla. Damon e Sam videro che gli occhi di Katelynn lentamente si aprivano. Guardandola, il cane grugnì a lungo e intensamente. «L'hai trovato?», chiese Sam. «Ha funzionato?». Katelynn non rispose. Girò il capo lentamente a guardare Sam e poi Damon. Loki balzò indietro, ringhiando nuovamente. «Cos'ha questo cane?», chiese Sam, ancora non pienamente consapevole delle strane reazioni di Katelynn. Damon comunque l'aveva notato. Aveva anche osservato l'atteggiamento di Loki verso Katelynn. Entrambe le cose non gli erano piaciute. Era successo qualcosa di terribilmente negativo. La paura si levò come uno spettro nella notte e minacciò di sommergerla. L'Ombra della Notte aveva usato il potere del contatto contro di lei, ribaltando il collegamento. La bestia aveva preso il controllo, usando i poteri mentali per entrare nelle sembianze di lei. Mentre lo sceriffo e Sam aspettavano che lei rivelasse il nascondiglio della bestia, la bestia stava usando lei per spiarli! Durò solo un attimo, ma fu abbastanza. Nel preciso istante in cui Damon faceva un passo verso di lei, mentre Sam allungava una mano per toccarla e Loki si preparava ad attaccare, l'Ombra della Notte lasciò la presa e la connessione tra loro s'interruppe. L'oscurità discese nella mente di Katelynn, per la seconda volta in quella
notte. Katelynn rinvenne tra le braccia di Sam, sentendo un panno freddo che le tamponava la fronte. Loki era ritto vicino al divano e cercava disperatamente di leccarle la faccia mentre Damon lo tratteneva con una mano aggrappata al collare, con la pistola puntata verso di lei. «Stai bene?», domandò Sam con l'angoscia dipinta sul volto. Katelynn non si fidò di parlare e annuì col capo. Damon sembrava ancora diffidente, ma abbassò la pistola. «Che è successo?», domandò. Katelynn tirò parecchi respiri profondi, facendo il possibile per rimettere il cuore sotto controllo. Era madida di sudore e i lunghi capelli le pendevano in ciocche scomposte sul viso. Mentre rispondeva, le tremavano le mani. «L'ho trovata», disse. «All'Università. Utilizza la vecchia torre dell'orologio come nido». «Sììì!», gridò Sam eccitato. Damon non aveva ancora staccato gli occhi da Katelynn. «E dunque?». Katelynn sostenne il suo sguardo. «Il collegamento ha funzionato da entrambe le parti, stavolta. Non c'era niente che potessi fare per fermarla. Prima che riuscissi a liberarmi, ha preso il controllo dei miei sensi e ha dato una lunga occhiata a voi due. Abbiamo scoperto dove si nasconde, ma adesso sa che la stiamo braccando. Non abbiamo molto tempo». Damon annuì con aria severa. L'aveva sospettato quando il cane era apparso impazzito, pronto ad azzannare Katelynn alla gola, la prima volta che aveva aperto gli occhi. «Che facciamo?», chiese Sam, reprimendo a malapena l'eccitazione per quello che aveva appreso. Damon si girò verso di lui. «Che facciamo?», ripeté. «Quello che avevamo già deciso di fare. La scoviamo e l'ammazziamo». «Ma sa che stiamo arrivando. Non avremo scampo», obiettò Sam. Damon gli lanciò un'occhiata gelida. «Abbiamo altra scelta?». 40. Preparativi Si mossero in fretta. Anche se l'Ombra della Notte preferiva spostarsi nel buio, questo non significava che non potesse farlo anche di giorno e che non potesse prendere semplicemente il volo scomparendo ancora una vol-
ta, solo per cercarsi un altro rifugio chissà dove. Chi poteva sapere se sarebbero stati più capaci di localizzarla? La volta successiva, potevano non essere altrettanto fortunati. Non conoscevano la reale portata del talento di Katelynn. Appariva inoltre evidente che Katelynn era sopravvissuta all'incontro perché stava già tentando di interrompere il contatto quando la bestia s'era accorta della sua presenza. Che sarebbe accaduto se questa avesse scagliato contro di lei la totalità dei suoi poteri mentali nel preciso istante in cui Katelynn aveva cercato il contatto? Avrebbe avuto, poi, la forza di liberarsene? Non lo sapevano e non potevano correre il rischio. Se raggiungevano il campus prima che fosse troppo tardi, potevano sperare di impedire alla bestia di andarsene, o nella peggiore delle ipotesi, seguirla quando e se l'avesse fatto. «Ok», disse Damon con un'espressione di stanca rassegnazione in volto. «Sappiamo dov'è, ma a che ci serve? Non abbiamo ancora la minima idea su come fermarla». Invece, rialzando gli occhi, Damon capì dallo sguardo di Sam che forse non era così. Sam aveva un piano. Prese un respiro profondo e poi glielo espose. Mentre Damon si sedeva disponendosi ad ascoltare, qualcosa di totalmente inaspettato e del tutto dimenticato gli sbocciò in petto. Per la prima volta da quando erano cominciati gli omicidi, Damon sentì rinascere la speranza. Dopo che Sam ebbe terminato, Katelynn si aspettava le obiezioni dello sceriffo. Quello che Sam aveva proposto era pazzesco quanto il piano originale di Jake di affrontare l'Ombra della Notte da solo. Semplicemente, non erano attrezzati per sostenere una simile impresa. Avrebbero dovuto chiamare la guardia nazionale anziché tentare di attaccare da soli l'ultimo rifugio della bestia. Si aspettava che Damon le facesse eco partecipando loro le medesime riflessioni. Rimase sbalordita. Damon, con una luce di vendetta negli occhi che faceva il paio con quella di Sam, disse soltanto: «Facciamolo». Chiamarono via radio uno degli agenti e gli dissero di venire all'ufficio dello sceriffo con i materiali di cui avevano bisogno. Lasciando l'abitazione di Katelynn, i tre si diressero alla stazione di polizia, dopo una breve sosta al distributore di carburante lungo la strada. Poco più tardi, Sam e Katelynn stavano versando in alcune bottiglie del sapone in scaglie, come quello che si usava una volta; poi le passavano a
Damon che le riempiva di benzina e le sigillava ermeticamente. Mentre Sam e Katelynn le deponevano con cautela in due zaini neri, Damon si diresse alla teca delle armi dietro la scrivania per scegliere un fucile. Caricando le munizioni, domandò loro: «Sapete maneggiare entrambi un'arma da fuoco?». «Un po'», disse Sam. Katelynn scosse la testa. Damon sospirò, e con il fucile in mano si girò verso di loro mostrando un volto severo. «Mettiamo la parola fine a questa storia», esclamò. Se ne andarono tutti e tre senza dire niente agli uomini di Damon; non c'era tempo per le spiegazioni. Come in un flashback degli eventi di tre mesi prima, montarono sulla Bronco di Damon e attraversarono la città mentre cominciava a cadere una pioggia leggera. Quando arrivarono al campus universitario, Damon fece una rapida sosta all'ufficio dei guardiani per farsi consegnare le chiavi degli edifici. Circa una volta al mese perlustrava egli stesso la zona, e tutti lo conoscevano, quindi le guardie in servizio non trovarono niente di strano nella richiesta. Damon tornò alla vettura e si diresse verso Keating Hall. L'edificio s'ergeva sopra di loro e la sola vista fece correre brividi di freddo sulla spina dorsale di Katelynn. Sapeva cosa si nascondeva dietro quelle gelide mura di pietra. Sarà un miracolo uscirne vivi, pensò. Sam, dal canto suo, fissava la struttura con fiera aspettativa. Anche lui sapeva che cosa li attendeva, ma accettava la sfida. Quella cosa aveva ammazzato il suo migliore amico, aveva minacciato una donna a cui lui teneva profondamente e aveva terrorizzato una città che considerava la sua patria. Era il momento della resa dei conti e Sam intendeva esserne il protagonista. Aveva un che d'ironico che l'Ombra della Notte avesse scelto quel luogo per il confronto finale. Keating Hall risaliva alla fine del 1800 ed era stata costruita in stile rinascimentale. Sembrava un castello, con la torre dell'orologio che s'innalzava sopra il tetto come un torrione sugli spalti del castello. L'aveva citato in molti racconti, poiché era la natura stessa dell'edificio ad accendergli l'immaginazione. Adesso la finzione stava per diventare realtà. Sam era determinato a scrivere il finale a modo suo. Scesi dall'auto, Katelynn e Sam andarono a ripararsi dalla pioggia sui gradini dell'ingresso mentre Damon recuperava il fucile dal bagagliaio.
Sapeva che quell'arma non avrebbe fermato la bestia; ne erano la riprova i fatti accaduti quando Jake era stato salvato. Comunque l'avrebbe rallentata e questo era quanto il piano richiedeva. Damon avrebbe usato l'arma per rendere la bestia momentaneamente inoffensiva, quel tanto che bastava a Katelynn e Sam per fare il resto. Era un vecchio assioma militare che nessun piano sopravvive al contatto diretto col nemico, e Damon pregò che, almeno per questa volta, si dimostrasse falso. Aprì la porta d'ingresso della Keating Hall e gli altri lo seguirono dentro. Accesero tutti le torce che s'erano portati dietro e s'inoltrarono nell'edificio. Nella sua visione, Katelynn aveva localizzato l'Ombra della Notte dentro la torre dell'orologio che sorgeva sopra la costruzione principale, perciò salirono svelti al piano più alto. Damon alzò la mano per invitarli a muoversi in silenzio, e tese l'orecchio a ogni minimo rumore mentre l'eco dei loro passi si smorzava poco a poco nel vuoto dell'edificio. Non udì nient'altro che i loro respiri. Il corridoio s'allungava diritto dinanzi a loro. Per entrare nella torre dovevano percorrerlo, uscire dalla porta all'altro capo, salire le scale, attraversare il tetto fino alla torre stessa, entrare da una seconda porta e salire un'altra rampa di scale fino alla stanza più alta. Era là che si aspettavano di trovare l'Ombra della Notte. Sarebbero rimasti per tutto il tempo esposti ad attacchi da davanti e da dietro. Non è un pensiero molto confortante, rimuginò Damon tra sé. Il bagliore d'un lampo del temporale esterno, seguito dopo pochi attimi dalla deflagrazione d'un tuono, illuminò improvvisamente a giorno il corridoio davanti a loro. Damon si sentì sollevato vedendo che era vuoto. «Sembra ok», disse agli altri. «Andiamo». S'inoltrarono. È l'ora, pensò Sam disponendosi dietro Damon, Katelynn in mezzo a loro. Sapeva che Damon aveva ragione d'essere prudente, ma gli montava la rabbia in corpo. Aveva dentro di sé come una cosa viva, e lottava per tenerla a freno, sapendo che poteva ritorcerglisi contro, accecando le sue percezioni e annebbiando i suoi giudizi. Quando raggiunsero l'altro capo del corridoio, Damon spinse adagio la porta, l'aprì, si guardò attorno e fece segno di procedere. Attraversandola, si trovarono sul tetto. Da dove stavano, la torre era proprio di fronte, a quindici metri circa. Il
tetto su cui si trovavano era avvolto dall'oscurità, ma la torre stessa era illuminata da grossi fari che sporgevano dal cornicione proiettando la luce sulla facciata. La pioggia scendeva a scrosci e dopo pochi passi ne furono inzuppati fino alle ossa. Forse fu un movimento percepito con la coda dell'occhio o forse il suono improvviso di passi diversi sulla pietra bagnata del tetto, Katelynn non seppe mai cosa la indusse a girarsi a guardare il percorso da cui erano arrivati. Qualsiasi ne fosse la causa, fece in tempo a capire che sul tetto c'era qualcun altro. Chiunque fosse, stava correndo dritto verso di loro. La sua mente registrò ogni cosa nel tempo di un battito cardiaco. Reagì senza pensare. «Attenti dietro!», gridò. La figura era quasi loro addosso quando Katelynn si tuffò sulla destra. Agì all'ultimo istante. Mentre cadeva, udì il sibilo di qualcosa che fendeva l'aria a meno di un centimetro dalla sua testa e capì in quell'istante di essere stata pericolosamente vicina alla morte. Il clangore del metallo contro il metallo raggiunse le sue orecchie e Katelynn guardò freneticamente in quella direzione. Sam si trovava lì vicino, paralizzato dall'indecisione. Damon era a parecchi passi di distanza, fronteggiandoli, ma arretrava affannosamente mentre una figura incappucciata lo incalzava. Damon era a mani vuote, il fucile che impugnava pochi attimi prima ora non si vedeva più. Katelynn balzò in piedi cercando disperatamente di pensare a cosa poteva fare per aiutare lo sceriffo. Era ovvio che l'uomo se la stava prendendo con Damon. Il nuovo arrivato era vestito con i resti sbrindellati di quello che un tempo era stato un abito di lusso, la parte anteriore del quale era sbiadita in una macchia scura. L'uomo brandiva una spada ingioiellata, una cosa che sarebbe stata più appropriata esposta allo Smithsonian piuttosto che su un tetto scivoloso per la pioggia, nelle mani d'un pazzo. A ogni fendente, a ogni affondo, la lama arrivava più vicina. Lo sceriffo balzava indietro forsennatamente, cercando di schivarne il ferro affilato. Mentre duellavano, Katelynn ebbe modo di osservare bene l'uomo. Il volto era distorto in un'espressione di furia totale, la carne appariva così macilenta da sembrare tesa sul telaio delle ossa. Dentro questa maschera, gli occhi brillavano d'odio fanatico.
Malgrado il suo aspetto, Katelynn non ebbe alcun problema a riconoscerlo. Hudson Blake. Katelynn vide Blake roteare l'arma e questa volta Damon fu troppo lento nella schivata. Un urlo di dolore riempì l'aria e il sangue fiottò mentre la spada apriva un lungo taglio superficiale sul costato di Damon che cercava di balzare di lato per evitare il fendente. I tentativi frenetici di Damon di schivare la lama contorcendosi e facendosi indietro gli impedivano di estrarre il revolver, lasciandolo così indifeso contro l'attacco. Katelynn sapeva che lei e Sam dovevano fare qualcosa rapidamente per aiutarlo. Si guardò attorno con frenesia, cercando un'arma e vide il fucile di Damon a terra contro il parapetto. Si mosse in quella direzione, sapendo di avere solo alcuni secondi prima che Blake si stancasse della danza e infilzasse Damon. Sam vide Blake cambiare improvvisamente tattica e ficcare in corpo a Damon la punta dell'arma. Seguì immediatamente un urlo di dolore e Sam vide con orrore lo sceriffo crollare sul pavimento. La lama della spada di Blake luccicava. Katelynn sollevò il fucile in direzione di Blake con mani poco abituate a impugnarlo. Il vecchio fu più svelto di quanto lei o Sam potessero mai aspettarsi. In un batter d'occhio le fu dinanzi, con la spada che volteggiava in aria e collideva con la canna del fucile proprio mentre lei lo puntava nella sua direzione. La potenza del fendente strappò il fucile dalle mani di Katelynn. A molti metri di distanza, Sam costernato vide l'arma volare alle spalle di Katelynn, sparendo nell'oscurità fuori dal parapetto, precipitando di sotto. Poi un largo sorriso solcò il volto di Blake mentre brandiva alta la spada per abbattere un altro colpo su Katelynn. «No!», urlò Sam, intromettendosi di colpo e scagliandosi direttamente contro Blake. Sam colpì Blake appena sotto le braccia alzate, facendogli perdere l'equilibrio. Da qualche parte in fondo al cervello, Sam registrò il fragore della spada del folle che colpiva la pietra sotto i loro piedi anziché la carne tenera di Katelynn. Avviluppato strettamente a Blake, Sam s'abbatté contro il pavimento del
tetto. Cadde male, sbattendo la testa sulla pietra. Stordito, non poté raccogliere le forze per impedire a Blake di voltarsi nuovamente e di bloccarlo spalle a terra. Blake aveva mantenuto in qualche modo la presa sulla spada durante la lotta e Sam lo vide brandire l'arma sopra il capo, stringendo saldamente l'elsa con entrambe le mani, la lama pronta ad abbattersi violentemente per uccidere Sam. Oh, cazzo, pensò Sam, troppo stanco e stordito per opporre resistenza. Due colpi echeggiarono e qualcosa di caldo e appiccicoso schizzò sul volto di Sam, accecandolo per un istante. Un secondo più tardi Blake crollò su Sam e la spada sfuggita alla presa gli rimbalzò vicina sulla pietra. Katelynn si precipitò accanto a Sam, ad asciugargli il sangue dagli occhi per permettergli di vedere. Lui girò il capo e vide Damon accovacciato pochi metri oltre, con una mano che premeva forte sulla ferita sanguinante al fianco inferragli dalla spada di Blake e con l'altra che stringeva ancora la pistola con cui aveva appena sparato al suo avversario. La canna dell'arma era puntata fissa, non si staccava dal corpo del vecchio, come se Damon aspettasse la certezza di saperlo fuori combattimento. Quando gli sembrò che Blake non potesse più rialzarsi, Damon si mise in piedi e si avvicinò a loro. Katelynn aiutò Sam a tirarsi fuori da sotto il corpo di Blake, contenta che la testa dell'uomo fosse nascosta dalle braccia così da non dover vedere quello che doveva essere uno squarcio in mezzo al volto, dove Damon l'aveva colpito. Si misero in piedi proprio nel momento in cui Damon li raggiunse. «State bene voi due?», chiese lo sceriffo. Katelynn annuì, e lo stesso fece Sam. Era ancora un po' stupito di ritrovarsi vivo e non si arrischiò a parlare. «È una ferita grave?», chiese Katelynn a Damon. Muoversi, gli provocava smorfie di dolore, ma disse semplicemente: «Ce la faccio...», e cambiò argomento. «Faremo meglio a controllare lo stato delle nostre armi». L'avvertimento di Katelynn aveva concesso a Damon un secondo di più per posare lo zaino sul tetto prima che l'assalto di Blake li raggiungesse, cosicché le bottiglie di napalm improvvisato riposte là dentro erano ancora intatte. Meno fortunate quelle nello zaino di Sam; lo portava sulla schiena
quando si era avventato su Blake e la caduta che ne era seguita le aveva fracassate tutte. «Perché non prende questo, Sam?», disse Damon, porgendogli lo zaino. «Così avrò le mani libere». Rendendosi conto che la pistola di Damon, ora che il fucile non c'era più, era l'unico loro mezzo di difesa, Sam non rifiutò. Si mise velocemente in spalla lo zaino di Damon, poi insieme attraversarono il tetto. Damon si muoveva più lentamente degli altri e perciò era un passo o due dietro di loro quando raggiunsero la porta della torre e la varcarono. Li chiamò per dir loro di aspettare, ma la pesante porta di ferro gli si serrò di colpo in faccia, apparentemente senza che nessuno l'avesse spinta, separandolo dagli altri. Contemporaneamente sentì provenire da dietro la porta un grido di sorpresa e di paura. L'urlo spronò Damon ad agire. Aprì la porta con una spinta ed entrò svelto nella stanza con la pistola spianata, dimenticando momentaneamente il dolore al fianco. Dalla parte opposta della stanza l'Ombra della Notte stava in attesa. 41. Illusioni Katelynn e Sam erano scomparsi. La stanza era vuota, a parte l'Ombra della Notte. Damon la fissò, studiandone i dettagli. Sembrava più massiccia di prima, ma poteva essere un effetto della paura. La bestia colse il suo sguardo e a sua volta lo fissò. Damon poteva veder sprizzare da quegli occhi gialli una gelida luce d'intelligenza e d'odio. La stanza gli girò intorno per un istante e Damon barcollò confuso, stringendo istintivamente l'arma per la paura di perderla. Scosse bruscamente la testa nel tentativo di scacciare la sensazione, e poi sollevò lo sguardo sull'estremità opposta della stanza per accertarsi della posizione della bestia. Con orrore vide che altre due Ombre della Notte s'erano unite alla prima. Mentre le guardava, le bestie presero a girargli intorno, muovendosi rapide nel tentativo di tagliargli la via di fuga. Damon le seguiva veloce con lo sguardo, cercando di tenerle in vista tutte, consapevole che se l'avessero incalzato contemporaneamente non sa-
rebbe stato in grado di difendersi. Ma non poteva coprire tutti i lati, e quando si girava a controllarne una, un'altra tentava d'avvicinarglisi da dietro. Dove diavolo si sono cacciati Sam e Katelynn? pensò. Erano entrati solo pochi istanti prima, e lui non aveva perso tempo quando aveva sentito l'urlo di Katelynn. Era possibile che le bestie li avessero catturati così in fretta? Tuttavia, non c'erano né corpi, né sangue. A parte il grido di Katelynn, non s'erano sentiti rumori di lotta. Allora dove diavolo erano? Una delle bestie fece un passo avanti, costringendo Damon a girarsi verso di lei per proteggersi dalla sua minaccia, e alle spalle sentì un raspare di artigli sulla pietra: un'altra delle creature aveva colto l'opportunità di avvicinarglisi ulteriormente da dietro. Damon si voltò con rapidità ad affrontare questo nuovo pericolo, con il cuore che martellava impazzito. Oltre alla porta da cui era entrato, che ora era sorvegliata da una delle bestie, l'unica altra via di fuga era diritto davanti a lui sul lato opposto della stanza. Sfortunatamente avrebbe dovuto superare tutt'e tre le bestie per raggiungerla. Un pensiero lo colpì. Poteva darsi che Sam e Katelynn fossero già usciti da là? Damon valutò che la distanza dal punto in cui si trovava fino alla porta fosse di circa dieci metri. Forse avevano già attraversato quell'uscita prima che le Ombre della Notte avessero deciso di materializzarsi, e forse l'urlo di Katelynn non era stato provocato da un assalto quanto piuttosto come reazione allo sbattere della pesante porta che s'era chiusa alle loro spalle. Un movimento a sinistra lo costrinse a ruotare in quella direzione e dovette non pensare più agli altri. Mentre girava attorno, facendo il possibile per tenerle tutte a bada, Damon considerò la possibilità di affrontare la bestia dietro di lui per ritornare sul tetto, ma scartò subito l'idea. Avrebbe lasciato gli altri completamente alla mercé di queste bestie, e non voleva abbandonarli se esisteva anche un'unica possibilità che fossero ancora vivi. La sua decisione significava che non doveva soltanto tenere a bada le creature, ma anche distruggerle, in qualche modo. Gli sarebbe proprio piaciuto sapere come.
Katelynn non capiva cosa stesse accadendo. Quando lei e Sam erano entrati nella stanza e avevano trovato l'Ombra della Notte ad attenderli, s'era lasciata sfuggire il grido di sorpresa che aveva indotto Damon a seguirli. Da allora, ogni cosa aveva cessato d'avere un senso. Damon s'era precipitato dentro e, fatti pochi passi, era rimasto paralizzato sul posto a fissare la bestia in quella che sembrava essere una perversa fascinazione. Aspettandosi che iniziasse a sparare, lei e Sam s'erano spostati sulla destra, fuori dalla linea di fuoco. Ma Damon non aveva fatto niente. Era semplicemente rimasto là a fissarla, con la bocca aperta nello stupore. Questo era andato avanti per qualche secondo, poi Katelynn capì che doveva fare qualcosa. Finora, l'Ombra della Notte aveva ignorato loro due, concentrando la sua attenzione su Damon. Katelynn pensò che la bestia avesse riconosciuto la pistola nelle mani dello sceriffo come un'arma, e avesse deciso che era lui la minaccia più immediata. Anche se Sam era armato, niente di quello che portava poteva farlo identificare come tale, e Katelynn era a mani vuote. Sembrava che la bestia li avesse per il momento cancellati. Chiamò Damon, cercando di distoglierlo dalla bestia che evidentemente esercitava su di lui uno strano magnetismo. Damon non la sentì o finse di non sentirla. Sam aggiunse il suo richiamo a quelli di lei e, anche se la creatura tendeva le orecchie verso di loro, non si mosse e non distolse minimamente lo sguardo dalla figura di Damon. Katelynn si spostò dal fianco di Sam e si piazzò al centro della stanza, non sapendo ancora esattamente cosa fare ma sapendo di dover fare qualcosa. Damon probabilmente registrò il movimento con la coda dell'occhio. Si voltò verso di lei. E le puntò contro la pistola. Lo sceriffo avvertì uno spostamento alla sua destra e si voltò di scatto per affrontare la nuova minaccia. Una delle Ombre della Notte più piccole, che finora s'era tenuta contro il muro, gli si stava avvicinando. Non voleva che nessuna di quelle cose gli si facesse troppo sotto. Anche se questa era di piccole dimensioni, non c'era alcun dubbio che avesse artigli affilati
come rasoi al pari delle altre. Damon fece uno o due passi indietro per aumentare la distanza tra loro, tenendo il bersaglio attentamente sotto tiro. Katelynn si fermò a mezz'aria, con un piede ancora sollevato, quando vide Damon puntarle contro la pistola. Così da vicino, la canna della pistola sembrava assurdamente larga, e lei quasi credette di poter scrutare dentro fino a vedere il proiettile. Dallo sguardo vitreo negli occhi di Damon, Katelynn capì che non la stava vedendo. La mancanza di una reazione ai suoi strilli di poco prima ebbe improvvisamente una spiegazione quando si rese conto che lui stava vedendo qualcos'altro, qualche fantasma della mente che l'Ombra della Notte doveva avergli evocato. Che Damon la percepisse come una minaccia era certo; la mano che teneva puntata la pistola su di lei non si muoveva d'un millimetro. Katelynn lentamente appoggiò il piede a terra, e cercò di decidere il da farsi. Sollevò gli occhi, distogliendo lo sguardo dalla pistola, e cercò sul volto di Damon un qualche segno che mostrasse di riconoscerla. Non ce n'erano. Vide soltanto odio e paura. In quel momento le cose precipitarono di male in peggio. Da dove si trovava, Katelynn vide con orrore che una figura umana si stagliava improvvisamente nella luce della porta dietro a Damon. Un lato della faccia dell'uomo si presentava come un rudere sventrato, con l'occhio sinistro devastato e reso irriconoscibile dal proiettile che l'aveva trapassato. Il sangue fluiva copioso dalla ferita, mescolandosi con il flusso costante che sgorgava da uno squarcio analogo nella parte superiore del torace. Nonostante le lesioni, la sua posizione era salda, il sorriso beffardo, e nelle mani impugnava la spada. Nell'istante successivo Hudson Blake protese l'arma diritto davanti a sé e caricò Damon! Damon vide che la bestia stava guardando oltre le sue spalle e in quell'istante capì d'essere stato intrappolato. Determinato a vender cara la pelle prima di morire, lo sceriffo ignorò per un attimo il movimento dietro di lui, il tempo sufficiente a esplodere un colpo contro la creatura che aveva di fronte. Mentre tirava il grilletto, un acuto, gelido intorpidimento gli attraversò la schiena. Vide che la bestia veniva scagliata all'indietro dalla violenza del
colpo, ma istintivamente capì di non averla ferita in una zona vitale, l'attacco da dietro aveva deviato la sua mira. Poi un'improvvisa vampata di dolore gli salì dallo stomaco costringendolo ad abbassare lo sguardo per scoprire, scioccato, una spanna di freddo acciaio sporgergli alla sinistra dell'ombelico. Il sangue sgorgava dalla ferita in una copiosa marea vermiglia e Damon capì che il suo tempo stava per finire. Così sia. Almeno avrebbe portato qualcuno di loro con sé. Lo sguardo gli cadde sulla sagoma distesa lì davanti sul pavimento, e sbatté le palpebre sconvolto dall'incredulità. Quella chioma di capelli castani, quella figura snella erano inconfondibili, e in un angolo della sua mente colma di dolore Damon si trovò a chiedersi come avesse mai potuto scambiare Katelynn per un'Ombra della Notte. Chiunque stesse maneggiando la spada scelse quel momento per strapparla violentemente dal suo corpo. Sentì in modo ovattato il tonfo della sua pistola che toccava il pavimento, e il mondo cominciò a ruotargli attorno mentre scivolava in un'oscurità più profonda della notte. Katelynn si ritrovò prona, a fissare il pavimento stordita dallo smarrimento. Era consapevole del dolore acuto che irradiava dalla sua gamba e le ricordava quanto era appena accaduto. L'attacco di Blake aveva disturbato la mira di Damon, così s'era beccata la pallottola nella gamba anziché nel torace. La forza del colpo l'aveva sbattuta a terra. Alzò la testa e guardò attorno, scoprendo che la pistola era a qualche centimetro da lei. Damon stesso giaceva poco lontano riverso sul pavimento, immerso in una pozza rosso vivo che gli si andava allargando attorno. Blake stava sollevando la spada per un altro fendente, e sembrava proprio che con quell'unico, semplice colpo intendesse mozzare la testa di Damon dal corpo. Ci volle solo un istante perché tutto questo fosse chiaro nella mente di Katelynn. Poi reagì. Mentre Blake compiva gli ultimi pochi passi e brandiva in alto la spada, Katelynn s'allungò e afferrò la pistola di Damon. Blake iniziò a calare il colpo. Come al rallentatore, Katelynn guardò la spada tagliare l'aria, vide il proprio braccio alzare l'arma e puntarla in direzione di Blake. Ebbe solo un istante fugace per pregare, poi premette il grilletto. Il colpo prese Blake nella parte alta del torace, per la seconda volta quel-
la sera, scagliandolo all'indietro. La spada volteggiò in aria, di lato. Katelynn la notò appena. Era troppo impegnata a tenere Blake sotto tiro e a sparare ancora. E ancora. Il secondo proiettile gli aprì una ferita rossa nello stomaco. Il terzo lo sbatté violentemente indietro a giacere immobile a terra. Lei avanzò piano piano, tenendo la pistola su di lui, finché fu abbastanza vicina da accertare che non respirava. Contenta che quel figlio di puttana non fosse più in grado di rialzarsi, si dedicò alla sua ferita nella gamba. Sanguinava di continuo, ma in modo non copioso, e vi premette sopra una mano con forza mentre usava l'altra per sfilarsi la cintura. L'avvolse intorno alla gamba appena sopra la ferita e la legò stretta. Il dolore era intenso, ma provò sollievo nel vedere che la ferita non perdeva abbastanza sangue da far pensare che il proiettile avesse perforato un'arteria importante. Si guardò attorno cercando Sam, ma non riusciva più a vedere né lui né l'Ombra della Notte. Allora si concentrò su Damon. Da quando era caduto non s'era più mosso. Trascinandosi su di lui, scoprì che era vivo ma privo di sensi. Data la quantità di sangue che c'era sul pavimento, comunque, non sarebbe durato così ancora per molto. Katelynn si sfilò la felpa e ne stava facendo un tampone quando Damon aprì gli occhi. «Katelynn», rantolò, con il sangue che gli colava dalla bocca. Lei sapeva che era un pessimo segno. «Tranquillo, sceriffo. Va tutto bene». Lo girò su un fianco, premette contro la ferita l'indumento, che subito s'inzuppò di sangue. Lo rigirò a faccia in su, in modo che il suo peso mantenesse il tampone improvvisato premuto sulla ferita. I movimenti le avevano procurato un dolore rovente alla gamba, e fu costretta a fermarsi un momento nel tentativo di strapparsi al grigio stordimento che minacciava di sommergerla. Quando ritrovò l'equilibrio, si strappò la metà inferiore della camicetta e la pigiò contro la ferita sull'addome di Damon. Anche quella s'inzuppò in un attimo di sangue, era inevitabile. Katelynn non aveva nient'altro per bloccare l'emorragia. Lo sceriffo mosse la mano per trattenere il tampone e Katelynn lo guardò in volto. Gli occhi erano aperti ma privi di sofferenza; era chiaramente sotto shock. Manteneva comunque abbastanza controllo da indicarle col capo la porta
alle sue spalle. «Sam s'è avviato da solo», disse con un filo di voce. La paura serrò il cuore di Katelynn in una morsa di pietra. Damon con un debole movimento indicò la radio alla sua cintola. «Chiami rinforzi. Poi segua Sam». Sembrò che volesse dire di più, ma soffocò nel proprio sangue e dovette girarsi per espettorarlo. Bastò quel movimento a stremarlo. Crollò indietro, a malapena cosciente. Katelynn non pensava che ce l'avrebbe fatta fino all'arrivo dei soccorsi. Gli prese la radio dalla cintura e pigiò il tasto di chiamata. «Pronto? Pronto? Qui è Katelynn Riley. Lo sceriffo è ferito gravemente e ha bisogno di soccorso medico. Siamo all'Università, Keating Hall». Voci che ponevano una serie di domande rimbalzarono nell'etere, ma Katelynn le ignorò. Non aveva tempo di rispondere; anche Sam poteva essere sul punto di morire. Doveva cercare d'aiutarlo. Prese la pistola di Damon, lo lasciò riverso sul pavimento e arrancò verso la porta. Centimetro per centimetro, dolorosamente, s'avvicinò alla sua meta. Anche Sam, al pari di Katelynn, era rimasto confuso dalle azioni di Damon; ma aveva tenuto gli occhi fermamente puntati sull'Ombra della Notte occupando una posizione che gli consentì di vedere la bestia arretrare verso la porta all'altra estremità della stanza al momento dell'arrivo di Hudson Blake. Era come se i due stessero lavorando in tandem e la bestia avesse lasciato il lavoro sporco al suo sottoposto. Dopo tutto quello che avevano passato, il ritrarsi dell'Ombra della Notte servì soltanto a far esplodere la rabbia di Sam oltre il punto di rottura. Sapeva che Katelynn e Damon erano in difficoltà, che se non faceva qualcosa per aiutarli probabilmente non sarebbero sopravvissuti; ma sapeva anche che non poteva lasciar fuggire la bestia. Scelse di passare all'azione. Ficcò una mano nello zaino. Una parte del cervello considerò per un attimo quale follia sarebbe stata attaccare una bestia così selvaggia e assetata di sangue con niente di più potente che bottiglie di vetro riempite con una miscela di benzina e scaglie di sapone; l'altra parte l'indusse a sollevare il braccio e a scagliare una bottiglia contro la sagoma di Moloch che arretrava veloce. La mira di Sam fu precisa. La bottiglia colpì Moloch sull'ampia superficie dell'ala destra mentre piegava verso la porta sul lato opposto della stanza. Il vetro si ruppe all'impatto, schizzando sulla bestia la mistura gelatino-
sa. Sam aveva già un'altra bottiglia in mano quando la bestia si fermò rivolgendo l'attenzione verso di lui. Immediatamente scagliò la seconda bottiglia, e la guardò frustrato fracassarsi inoffensiva contro l'arco di pietra della soglia, mentre la bestia scompariva alla vista. Senza pensarci un attimo, Sam si gettò all'inseguimento dell'Ombra della Notte. Aveva attraversato la stanza e stava raggiungendo la porta quando i suoi orecchi furono riempiti dall'echeggiare d'alcuni colpi d'arma da fuoco, seguiti subito dopo da un acuto grido di dolore. Sam riconobbe la voce. Katelynn. Per un attimo, esitò. Si voltò per vedere quello che era accaduto, per capire cosa avesse strappato all'amica quel grido di dolore. Ma Moloch era scomparso oltre la porta, e Sam sapeva che se non l'avesse raggiunto subito l'avrebbe perso davvero. Non poteva permettere che questo accadesse. «Dio mi perdoni», bisbigliò angosciato mentre si gettava attraverso la porta senza fermarsi e senza più voltarsi indietro. Al di là, Sam si ritrovò nella stanza alla base della torre dell'orologio. Le mura si stagliavano alte nell'oscurità, fin lassù, sopra l'orologio, dove una volta erano appese le campane. Sapeva che non c'erano più da tanti anni, vittime del degrado del tempo e della mancanza di denaro. Le pareti di pietra erano state progettate con grandi archivolti per consentire un agevole accesso al tetto e per lasciare che le campane suonassero libere. Da dove Sam si trovava distingueva parecchi di quegli archi. Ma Moloch non si vedeva. Il locale era abbastanza grande. Moloch non poteva averlo attraversato tanto rapidamente. Doveva essere salito verso l'alto. Mentre questo pensiero prendeva forma nella mente, sentì una specie di brezza calda danzargli sulla pelle, provocandogli un'istantanea reazione. Con la paura che gli aveva caricato i riflessi d'adrenalina, Sam si buttò in avanti in senso trasversale e sbatté con violenza il corpo sul pavimento di pietra, tenendo il braccio destro sollevato nel tentativo di proteggere la bottiglia che teneva in mano. Immediatamente gli artigli mortali dell'Ombra della Notte solcarono l'aria dove lui s'era trovato un attimo prima. Cacciando un urlo rabbioso e penetrante, la bestia scomparve nell'oscuri-
tà. Sam si risollevò, usando l'altra mano per estrarre di tasca una torcia Winchester a strappo. L'Ombra della Notte ci proverà di nuovo, pensò, e questa volta sarò pronto. L'attacco arrivò solo qualche secondo più tardi. Stavolta Sam sapeva quello che stava per accadere, e sentì nell'aria il sibilo del corpo di Moloch che si lasciava cadere dall'alto. Sam aspettò, con i muscoli contratti. Vide la sagoma scura sopra di lui diventare sempre più grande mentre la distanza tra loro diminuiva. Restò ancora in attesa. Immaginò quegli artigli, protesi, pronti ad affondare nella sua pelle. Invece di fuggir via, alzò semplicemente le braccia una vicina all'altra e accese la torcia. Poi l'infilò accesa nell'imboccatura della bottiglia. La mistura all'interno divampò con un lampo istantaneo e le fiamme sprizzarono verso l'alto fuori dal collo della bottiglia. Sam alzò il braccio, sapendo che la morte era solo a pochi passi, e scagliò la bottiglia direttamente sulla bestia, con tutta la forza che aveva. La bottiglia colpì l'Ombra della Notte al centro del torace, il vetro si frantumò spandendo la mistura infiammata sulle sue carni. Urlando di sorpresa e di dolore la bestia deviò l'attacco, schiantandosi pesantemente sul pavimento di pietra. Sam estrasse dallo zaino l'ultima bottiglia. La creatura era a meno di due metri. La pelle era ricoperta dalle fiamme, essendosi la mistura attaccata alla carne, dando fuoco anche a quella rimasta dal primo attacco di Sam. Gridò ancora di rabbia e dolore, poi cominciò lentamente a rialzarsi. «Crepa, dannata! Crepa!», urlò Sam. Usando di nuovo la torcia per accenderla, scagliò l'ultima bottiglia. Ebbe ancora fortuna, la bottiglia colpì la bestia alla tempia, facendola crollare col corpo ricoperto da un fuoco devastante. Sam udì un grido dietro di sé e si voltò vedendo Katelynn che strisciava attraverso la porta. Corse al suo fianco, ma prima che potesse chiedere cos'era accaduto a lei e a Damon, Katelynn puntò il dito oltre la sua spalla e disse ansimante «Guarda!». 42. Inferno
In qualche modo, la bestia s'era rimessa in piedi. In preda ad orrore quasi ipnotico, Katelynn e Sam videro l'Ombra della Notte muovere un passo verso il cornicione del tetto, poi un altro. E un altro ancora. Ora il fuoco ardeva selvaggiamente, con quella specie di napalm fatto in casa sparso su tutto il torace della creatura. Lo sbattere forsennato delle ali serviva solo a gonfiare le fiamme, amplificandone la forza distruttiva. Si resero conto, tuttavia, che non bruciava abbastanza in fretta. Nonostante l'intenso calore, il fuoco non si era propagato al resto del corpo della creatura, bruciando solamente dove la mistura di combustibile aveva inzuppato la pelle. Col suo potere soprannaturale di guarirsi, Moloch sarebbe scampato alle ustioni se soltanto avesse trovato il modo di soffocare le fiamme prima che lo consumassero del tutto. La bestia avanzò d'un quarto passo. Un quinto. Ogni passo la portava più vicina alla libertà. Acquattato contro il muro lontano, usando il suo corpo per schermare Katelynn dal calore, Sam si rese conto di quello che la creatura stava per fare. Una volta che avesse raggiunto il bordo del tetto, si sarebbe lanciata nell'aria aperta. Se da un lato il volo nel vento avrebbe alimentato le fiamme, dall'altro avrebbe anche consentito alla bestia di raggiungere il fiume sull'altro lato del campus. Una volta là, si sarebbe immersa sotto la superficie, spegnendo le fiamme e trovando un luogo per nascondersi. Là avrebbe ottenuto la certezza di recuperare le energie e, lentamente, di guarirsi. Sam sapeva di non poter permettere che questo accadesse; avevano dato due opportunità alla bestia. Non le avrebbero offerto la terza. Adesso era tempo d'agire. Le angosciose urla di dolore della creatura agonizzante echeggiavano tra i muri di pietra della stanza; erano d'intensità quasi assordante. Sam accostò il viso di Katelynn al suo e le poggiò le labbra all'orecchio così che potesse sentirlo al di là del rumore. «Pensa tu a Damon». Prima che lei potesse reagire, attraversò la stanza a piena velocità direttamente verso la sagoma ardente che stava per raggiungere il cornicione del tetto. Mezza scioccata dal dolore per la gamba fratturata, Katelynn impiegò
qualche istante per capire quello che Sam stava per fare. In quel momento, urlò d'orrore. «Sam! Noooo!». Era troppo tardi per fermarlo, e in cuor suo lo capì. Sul bordo del tetto, l'Ombra della Notte dispiegò le sue ampie ali, accingendosi a gettarsi dalla cima della torre e a fuggire. Sam si trovava solo un passo o due dietro alla cosa, e con un altissimo urlo di rabbia e disperazione si lanciò sulla bestia. In quel momento, poco prima che il suo corpo si scontrasse con la sagoma in fiamme, Sam si rese conto di qualcosa. Non c'è niente di male a provare paura. Paura è qualcosa che ci rende tutti creature umane. È la paura a permettere di elevarci, di progredire e crescere, che ci spinge a conquistare quel tanto di più. Se ci fossimo arresi alle nostre paure, gli uomini non avrebbero mai superato l'Era Glaciale. Ci sono troppe cose di cui aver paura nella nostra vita; paura di noi stessi, paura degli altri, paura delle nostre emozioni e della mancanza delle medesime, paura delle azioni che possiamo compiere ogni giorno della nostra vita. Le superiamo e andiamo avanti affrontando le nostre paure con un senso di coraggio che ci sopravvive dentro in attesa dell'opportunità di uscire allo scoperto. Appena il corpo di Sam ebbe colmato la distanza che lo separava dalla sagoma incandescente della bestia, si sentì molto, molto impaurito. Ma era giusto così. Penso di non essere poi così codardo come credevo, meditò tra sé mentre il suo corpo s'abbatteva su Moloch, nell'esatto istante che li vide entrambi sull'orlo del baratro. Il calore intenso delle fiamme contro le carni l'indusse semplicemente a serrare ancor più strette le braccia intorno al corpo del suo nemico, impedendogli di spalancare le ali. Mentre precipitavano dal cornicione e vedevano la terra correre loro incontro, più alto del grido della creatura e del suo stesso indistinto urlo di furore, Sam credette di sentire Katelynn che chiamava il suo nome. Un secondo prima di sfracellarsi a terra con l'Ombra della Notte, Sam sussurrò soltanto una parola. «Addio». Epilogo Due settimane più tardi. Unità di Terapia Intensiva dell'Ospedale di Glendale.
Damon era a letto a guardare la televisione quando Katelynn bussò alla porta aperta della sua stanza. «Entri pure», le disse con un sorriso sincero sul volto, il primo da giorni. Katelynn attraversò la stanza sulle sue stampelle e sedette sulla sedia vicina al letto. Era stanca; le ultime due settimane erano state una baraonda di impegni con la polizia e con diverse altre agenzie investigative all'opera per capire quello che era accaduto laggiù negli ultimi mesi. Con Sam morto e Damon in Terapia Intensiva, era lei la loro fonte d'informazioni primaria. «Ho sentito che hanno migliorato la sua prognosi tanto da permetterle di ricevere visite, e desideravo verificare di persona come sta», disse allo sceriffo. «Ce la farò. Mi dicono che se non fosse stato per lei non sarei venuto fuori da quella torre. Le sono riconoscente». Katelynn scrollò le spalle, la gratitudine la metteva a disagio. A voce più bassa Damon aggiunse: «Mi dispiace per Sam». Lei si limitò ad annuire, non sentendosi ancora pronta a parlare dell'argomento. Come risultò, l'azione di Sam era stata di notevole intelligenza; con le ali serrate contro il corpo, la creatura non era stata in grado d'arrestare la caduta. Il combustibile aggiunto dagli abiti di Sam aveva contribuito a propagare il fuoco, così, mentre entrambi precipitavano a terra in un groviglio indistinguibile, l'Ombra della Notte s'era trasformata in una pira. Il danno aggiunto dalla caduta era stato eccessivo persino per i poteri rigenerativi della bestia. Non ce l'aveva semplicemente fatta a recuperare in tempo per debellare le fiamme. La bestia era morta nella terrificante collisione col terreno, seguitando a bruciare per i successivi venti minuti fino all'arrivo sul posto dei pompieri. Siccome i resti della bestia erano malamente confusi con quelli di Sam, il tutto era stato trasportato all'obitorio, dove erano ancora in corso le analisi. L'indagine rimaneva aperta; in attesa dell'esito degli esami legali e delle valutazioni scientifiche. Katelynn aveva raccontato la storia per intero, come lei la conosceva, dall'inizio alla fine, senza trascurare niente. Aveva ricevuto una quantità incredibile d'occhiate sospettose da parte degli investigatori del giudice distrettuale, finché le foto della scena del crimine arrivarono dal laboratorio. Era arduo negare l'evidenza d'immagini in bianco e nero che mostravano i resti carbonizzati di un'ala sporgente dal dorso di uno dei cadaveri recu-
perati dal terreno. «Ho sentito che intende lasciare la polizia», disse, anziché proseguire il discorso iniziato da lui. «È vero. Anche potendo riprendere il lavoro, non me la sento. Dopo quello che abbiamo appena passato, non mi andrebbe di tornare ai divieti di sosta e alle multe per la velocità. E lei che farà?». «Se mi permettono di lasciare la città, penso di andare da mia zia in California. Adesso, qui è troppo freddo per me». Damon capì senza domandare che si riferiva a qualcosa di più del clima invernale. Nessuno dei due sapeva cosa dire. Avevano vissuto qualcosa di straordinario e le ferite erano ancora troppo fresche, troppo dolorose. Forse col tempo avrebbero ritrovato la capacità di parlarne tra loro, ma per ora un'innocua chiacchierata era il massimo che potevano permettersi. Rendendosene conto, Damon si rattristò. Parlarono brevemente del più e del meno, poi Katelynn disse che doveva andarsene. «Teniamoci in contatto, intesi?», la salutò Damon. «Certamente», rispose Katelynn, ed entrambi si chiesero se l'avrebbero fatto. S'alzò appoggiandosi alle stampelle e si chinò su Damon per dargli un bacio sulla fronte. «Cerchi di star bene», gli disse e si voltò prima che potesse vederle le lacrime negli occhi. Mentre s'avviava zoppicando alla porta, Damon la chiamò di nuovo. «Katelynn?». Lei si voltò. «Mi fa una cortesia?», disse lui, indicando la finestra. Attraverso le tende aperte, Katelynn vide che s'era fatto tardi; il sole era tramontato molto in fretta e l'oscurità stava per scendere su di loro. Lei annuì senza una parola, e si diresse a chiudere per bene la tenda, lasciando fuori il mondo. Entrambi si sentivano a disagio all'idea di cosa potesse celare il cielo notturno. E lei temeva che sarebbe stato così per molto tempo. FINE