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DOUGLAS PRESTON & LINCOLN CHILD RELIC (Relic, 1995) A Charles Crumly. D.P. A Luchie, che ci si è trovata invischiata. E in memoria di Nora e Gaga. L.C. Ringraziamenti Gli autori intendono esprimere la loro gratitudine a quanti hanno prestato generosamente il loro tempo e/o la loro esperienza per far sì che Relic diventasse il libro che è: Ken Goddard, Tom Doherty, Bob Gleason, Harvey Klinger, Anna Magee, Camille Cline, Denis Kelly, Georgette Piligian, Michael O'Connor, Carina Deleon, Fred Ziegler, Bob Wincott, Lou Perretti e Harry Trumbore. INTRODUZIONE 1 Bacino amazzonico, settembre 1987 A mezzogiorno, le nuvole che avvolgevano la cima di Cerro Gordo si sfilacciarono e sparirono^ Whittlesey poteva scorgere tra l'immensa e fitta volta della foresta i barbagli dorati del sole. Animali - probabilmente scimmie-ragno - si agitavano schiamazzando sopra la sua testa, e un'ara sfrecciò bassa, lanciando strida sguaiate. Whittlesey si fermò vicino a un tronco caduto di iacaranda e guardò Carlos, il suo sudato aiutante di campo, che lo stava raggiungendo. "Ci fermiamo qui", disse in spagnolo. "Baja la caja. Metti giù la cassa." Whittlesey sedette sul tronco e si tolse lo stivaletto destro, poi la calza. Accesa una sigaretta, avvicinò la brace al grappolo di zecche sullo stinco e sulla caviglia. Carlos si liberò del vecchio zaino militare sul quale era fissata alla bell'e meglio una cassetta.
"Aprila, per favore", disse Whittlesey. L'aiutante sciolse i legacci, fece scattare una serie dì ganci di ottone e alzò il coperchio. Il contenuto era avvolto dalle fibre di una pianta locale. Whittlesey tolse la protezione filacciosa e tirò fuori alcuni reperti, una piccola pressa per piante, di legno, e un diario con la copertina di pelle bisunta. Esitò un momento, poi tolse dalla tasca della giubba una piccola ma deliziosa scultura raffigurante un animale. Sollevò la statuina, ammirandone ancora una volta la fattura squisita, valutandone la pesantezza inconsueta. Poi l'adagiò di malavoglia nella cassa, riavvolse il tutto con le fibre e abbassò il coperchio. Dopodiché prese dallo zaino un blocco di carta bianca e lo aprì sulle ginocchia. Sfilò dal taschino una vecchia e malconcia penna d'oro e cominciò a scrivere: Xingu superiore 17 settembre 1987 Montague, ho deciso di mandare indietro Carlos con l'ultima cassa e di proseguire da solo in cerca di Crocker. Carlos è fidato, e non posso correre il rischio di perdere la cassa, se mi succedesse qualcosa. Osserva bene il sonaglio sciamanico e gli altri oggetti rituali. Mi sembrano straordinari. La statuina che accludo, trovata nel sito in una capanna abbandonata, è la prova che cercavo. Nota gli artigli spropositati, i caratteri di rettile, i richiami ai bipedalia. I kothoga esistono, e la leggenda di Mbwun non è pura invenzione. Tutti i miei appunti sono nel diario, che contiene anche un resoconto completo dello smembramento della spedizione, cosa di cui, com'è ovvio, sarai già al corrente quando lo riceverai. Whittlesey scosse la testa, al ricordo della scena che si era svolta il giorno prima. Quella carogna di Maxwell. La sola cosa che gli importava era che arrivassero intatte al Museo le cose trovate da lui. Whittlesey rise fra sé e sé. Antiche uova. Figurarsi: nel migliore dei casi dei baccelli insignificanti. Maxwell era un antropologo fisico, non un paleobiologo. Era una vera ironia della sorte il fatto che quell'idiota avesse levato le tende in fretta e furia a un migliaio di metri soltanto dalla sua scoperta!
In ogni caso, Maxwell non c'era più, adesso, come la maggior parte degli altri. Erano rimasti soltanto Carlos, Crocker e le due guide. E ora soltanto Carlos. Whittlesey si rimise a scrivere. Usa il diario e i reperti nel modo che riterrai più opportuno per cercare di salvaguardare la mia reputazione con quelli del museo. Ma, soprattutto, abbi cura della statuina. Sono convinto che il suo valore antropologico è incalcolabile. L'abbiamo trovata ieri, per caso. Sembra che sia il cardine del culto di Mbwun. Qui intorno, comunque, non c'è traccia di insediamenti. E questa, direi, è una cosa molto strana. Si fermò. Non aveva descritto la scoperta della statuina negli appunti di lavoro. Anche adesso, la sua mente si opponeva al ricordo. Crocker era uscito dalla pista per osservare da vicino uno iacamar; non fosse stato per quello, non avrebbero mai trovato il viottolo nascosto che scendeva ripido fra pareti lucide di muschio. Poi, quella rozza capanna semisepolta fra vetusti alberi, nell'umida valletta dove la luce del sole penetrava a stento... Le due guide botocudo, che di solito non smettevano un momento di chiacchierare in lingua tupí, si erano zittite di colpo. Interrogate da Carlos, una di loro aveva borbottato qualcosa circa un custode della capanna e una maledizione che incombeva su chiunque avesse violato i suoi segreti. Per la prima volta, Whittlesey le aveva sentite pronunciare la parola kothoga. Kothoga. Il popolo fantasma. Era incredulo. Aveva già sentito parlare di maledizioni... Di solito quelle chiacchiere precedevano una richiesta di aumento di paga. Quando però era uscito dalla capanna, le guide erano sparite. ...E quella vecchia emersa di colpo dalla foresta. Probabilmente una yanomamo; non una kothoga, ovviamente. Però sapeva di loro. Li aveva visti. Le maledizioni cui aveva accennato... E il modo in cui si era dissolta nel folto, con la rapidità di un giovane giaguaro, più che di una settuagenaria. Poi avevano rivolto l'attenzione alla capanna. La capanna... Riluttante, Whittlesey si lasciò andare al ricordo. Era fiancheggiata da due lastre di pietra su cui era incisa la stessa figura di animale accosciato. Gli artigli stringevano qualcosa che era diventato indistinguibile per l'azione degli agenti atmosferici. Dietro la capanna c'era un giardino rigoglioso, strana oasi dai colori smaglianti racchiusa da baluardi di verde. Il pavimento della capanna era incavato di parecchie decine di centime-
tri, ed entrando Crocker aveva rischiato di rompersi il collo. Whittlesey lo aveva seguito con maggiore cautela, mentre Carlos si era limitato a restare ginocchioni sulla soglia. All'interno c'era buio e freddo, e si sentiva puzza di marcio. Accesa la torcia tascabile, Whittlesey aveva visto la statuina posata su un alto tumulo di terra al centro della capanna. Attorno alla base c'erano numerosi dischi di pietra con strane incisioni. Poi il fascio di luce aveva raggiunto le pareti. Erano ricoperte di teschi umani. Esaminandone alcuni da vicino, Whittlesey aveva notato delle scalfitture profonde che lì per lì non era riuscito a decifrare. Fori frastagliati si aprivano nella parte superiore del cranio. In molti casi, l'osso occipitale alla base del cranio era spezzato e sbriciolato, la spessa squama del temporale asportata completamente. Gli era tremata la mano, la torcia si era spenta. Prima di riuscire a riaccenderla, aveva visto fiochi bagliori guizzare da migliaia di occhiaie vuote, granelli di polvere danzare oziosamente nell'aria pesante. Dopo, Crocker aveva detto che doveva fare due passi... che aveva bisogno di stare da solo. Non era più tornato. La vegetazione qui è davvero insolita. Cicadacee e felci sembrano quasi primordiali. Peccato che manchi il tempo per studi più accurati. Abbiamo usato una varietà di pianta particolarmente elastica come materiale da imballaggio per le casse; liberissimo di fargli dare un'occhiata da Jörgensen, se è interessato. Non vedo l'ora di ritrovarmi con te all'Explorer Club, fra un mese, a festeggiare con un paio di Martini dry e un buon Macanudo. Fino a quel momento, so di poter contare su di te per la tutela di questo materiale e della mia reputazione. Il tuo collega Whittlesey Infilò la lettera sotto il coperchio della cassa. "Carlos", disse. "Voglio che porti questa cassa a Pôrto de Mós e mi aspetti lì. Se non torno entro due settimane, va' a parlare con il colonnello Soto. Digli di spedirla con le altre al museo per via aerea, come d'accordo. Ti darà le paghe arretrate." L'aiutante lo guardò. "Non capisco. Intendi rimanere qui da solo?" Whittlesey sorrise, accese una seconda sigaretta e tornò ad abbrustolire zecche. "Qualcuno deve portare via la cassa. Dovresti essere in grado di ri-
congiungerti con Maxwell prima del fiume. Voglio dedicare almeno un paio di giorni alla ricerca di Crocker." Carlos si diede una pacca su un ginocchio. "Es loco! Non posso lasciarti solo. Si te dejo atrás, te morirías. Morirai qui nella foresta, señor, e le tue ossa finiranno alle aluatte. Dobbiamo tornare indietro insieme: è questa la sola cosa da fare." L'altro scosse la testa spazientito. "Dammi il mercurocromo, il chinino e la carne secca che hai nello zaino", ordinò, rimettendo la calza sudicia e allacciando lo stivaletto. Carlos cominciò ad aprire lo zaino, senza smettere di protestare. Whittlesey lo ignorò, grattandosi distrattamente le punture d'insetti sul collo e guardando verso Cerro Gordo. "S'insospettiranno, señor. Penseranno che ti ho abbandonato. Me la vedrò brutta", brontolò l'aiutante, mettendo la roba nello zaino di Whittlesey. "Le mosche cabouri ti mangeranno vivo", continuò, andando verso la cassa e legandola stretta. "Prenderai di nuovo la malaria e stavolta morirai. Rimarrò con te." Whittlesey guardò stupefatto i capelli bianchi come neve incollati dal sudore sulla fronte dell'uomo. Il giorno precedente, prima che Carlos guardasse nella capanna, erano corvini. Carlos incrociò lo sguardo dell'altro per un momento, poi abbassò gli occhi. Whittlesey si alzò in piedi. "Adiós", disse, e sparì nel folto. A pomeriggio inoltrato, Whittlesey notò che le fitte nuvole basse erano tornate ad avvolgere Cerro Gordo. Negli ultimi chilometri aveva seguito un antico viottolo di origine ignota, poco più di una traccia nella boscaglia. Il sentiero aggirava le paludi d'acqua nera che circondavano la base del tepui, l'umido altopiano fitto di vegetazione che gli si stagliava di fronte. Il viottolo aveva la logica di un sentiero umano, pensò: i tracciati degli animali di solito procedono a caso. E quello lo stava portando verso una ripida forra sul fianco del tepui. Doveva essere la strada imboccata da Crocker. Si fermò a pensare, rigirando inconsapevolmente fra le dita l'amuleto una freccia d'oro sovrapposta a un'altra d'argento - che portava al collo fin dall'infanzia. Accanto alla capanna non avevano visto segni d'insediamento umano negli ultimi giorni, eccetto un villaggio di raccoglitori di radici abbandonato da tempo. Soltanto i kothoga potevano aver creato quel sentiero.
Avvicinandosi all'altopiano, vide alcuni rivoli d'acqua che scendevano dal suo ripido fianco. Si sarebbe accampato alla base del tepui, quella notte, aspettando il mattino per affrontare i mille metri di dislivello. Un'ascesa ripida, nel fango, sicuramente non facile. Se avesse incontrato i kothoga... be', sarebbe stato in trappola. Ma non c'era motivo di ritenere che i kothoga fossero una tribù feroce. Dopotutto, era a quell'altra creatura, Mbwun, che la mitologia locale imputava tutte le uccisioni e le violenze. Strano... una creatura sconosciuta e controllata - a quanto pareva - da una tribù che nessuno aveva mai visto. Ma esisterà, poi, questo Mbwun? si chiese. Non era inverosimile che qualche animale superstite di una specie sconosciuta potesse sopravvivere in quella sterminata foresta pluviale: la zona era virtualmente inesplorata dai biologi. Di nuovo desiderò che Crocker non avesse portato con sé il potente Mannlicher, quando se n'era andato. La prima cosa da fare, pensava, era trovare Crocker. Poi avrebbe cercato i kothoga, dimostrando che non erano estinti da secoli. Sarebbe diventato famoso... lo scopritore di un antico popolo che viveva in una sorta di purezza da Età della Pietra nel cuore dell'Amazzonia, su un altopiano che fluttuava sopra la giungla come Il mondo perduto di Arthur Conan Doyle. Non c'era motivo di temere i kothoga. Quella capanna, però... All'improvviso, un odore pungente e malsano gli aggredì le narici. Si fermò. Non c'erano dubbi: un animale morto; e grosso, anche. Fece un'altra decina di passi e il fetore aumentò. Il suo cuore accelerò i battiti per l'emozione: i kothoga avevano macellato un animale lì vicino? Magari avevano lasciato sul posto dei manufatti... attrezzi, armi, forse anche qualcosa di natura cerimoniale. Procedette. Il puzzo cresceva. Nella volta verde sopra la testa riusciva a vedere qualche striscia di sole: segno evidente di una vicina radura. Si fermò e strinse gli spallacci dello zaino: non voleva avere intralci, casomai si fosse visto costretto alla fuga. Lo stretto viottolo costeggiato di vegetazione si appianò e, con una svolta brusca, sboccò in una piccola radura. Lì, sul lato opposto, c'era la carcassa dell'animale. Sulla base dell'albero contro cui giaceva era stata incisa ritualmente una spirale, e un fascio di piume verdelucenti di pappagallo erano posate sulla cassa toracica brunastra e squarciata. Avvicinandosi, però, Whittlesey notò che la carcassa indossava una camicia color cachi. Un nugolo di mosche grasse ronzava sciamando sul torace squartato.
Whittlesey vide che un braccio, troncato, era stato fissato all'albero con un legaccio fibroso, il palmo aperto. Attorno al cadavere, sparsi, dei bossoli. Poi vide la testa. Giaceva a faccia in su sotto l'ascella del cadavere, la calotta cranica asportata, gli occhi velati che guardavano in alto, gli zigomi sporgenti. Aveva trovato Crocker. Istintivamente, cominciò ad arretrare incespicando. File di unghiate ben visibili avevano scuoiato il cadavere con disumana, oscena violenza. Il corpo sembrava rigido. Forse - a Dio piacendo - i kothoga se n'erano andati da un pezzo. Ammesso che fossero i kothoga. Poi notò che la foresta pluviale, di solito echeggiante di suoni vitali, era silenziosa. Con un sussulto, si voltò a fronteggiare la giungla. Qualcosa si stava muovendo fra le piante altissime al margine della radura: due occhi a mandorla color fiamma presero forma tra le foglie. Con un singulto e un'imprecazione l'uomo si passò la manica sugli occhi e guardò di nuovo. Gli occhi erano scomparsi. Non c'era tempo da perdere... doveva tornare sul sentiero, allontanarsi da quel posto. Il viottolo per la foresta gli stava proprio davanti. Doveva correre per raggiungerlo. Proprio allora vide per terra qualcosa che non aveva notato prima, e avvertì un movimento, un tonfo sordo e tuttavia incredibilmente furtivo, nella boscaglia che aveva di fronte. 2 Belém, Brasile, luglio 1988 Stavolta, Ven era quasi sicuro che il caposquadra avesse capito il gioco. Se ne stava acquattato nell'ombra del viale dei magazzini, e scrutava. La pioggerella velava le enormi sagome delle carrette ormeggiate, riducendo le luci dei moli a puntolini chiari. Dai ponti caldi delle navi battute dalla pioggia si alzava un vapore che portava con sé odor di catrame. L'uomo sentiva alle proprie spalle i rumori notturni del porto: il latrato intermittente di un cane; flebili risate frammiste a frasi in portoghese; il calipso che usciva dai locali dell'angiporto sull'avenida. Pensare che era andato tutto così liscio. Era arrivato lì, seguendo la via più lunga, quando Miami per lui aveva cominciato a "scottare". Lì si faceva per lo più piccolo cabotaggio: motonavi che andavano su e giù lungo la
costa. C'era sempre bisogno di stivatori, e lui era pratico di quel lavoro. Aveva detto di chiamarsi Ven Stevens, e nessuno si era sognato di fargli domande. D'altronde, chi avrebbe creduto che il suo vero cognome fosse Stevenson? Le condizioni erano ottimali. A Miami si era fatto ben bene le ossa e aveva avuto tutto il tempo di affinare l'istinto. E adesso quell'istinto gli tornava utile. Deliberatamente parlava male il portoghese, incespicando nelle parole in modo da avere il tempo di leggere negli occhi degli interlocutori e di soppesare bene le risposte. Ricon, il giovane assistente del comandante del porto, era stato l'ultimo anello della catena, quello più utile. Ven veniva avvisato ogni volta che arrivava una partita. Di solito gli bastavano due dati: entrata e uscita. Sapeva cosa cercare: le casse erano sempre identiche. Aveva visto quando erano state scaricate con cura e riposte nel magazzino. Poi gli sarebbe bastato appurare che fossero l'ultimo carico imbarcato sulla nave giusta, diretta negli Stati Uniti. Ven era guardingo per natura. Aveva tenuto d'occhio il caposquadra. Una volta o due aveva avuto la sensazione - un campanello d'allarme nel cervello - che quel tipo sospettasse qualcosa. Ma ogni volta si era rilassato un po' di più, e in pochi giorni il campanello aveva smesso di trillare. Guardò l'orologio. Le undici. Sentì una porta che si apriva e si chiudeva, dietro l'angolo. Si appiattì contro il muro. Passi pesanti echeggiarono sull'impiantito di legno, poi la sagoma familiare passò sotto un lampione. Quando i passi si allontanarono, Ven scrutò dietro l'angolo. Ora l'ufficio era buio, deserto, come immaginava. Dopo un'ultima occhiata, svoltò l'angolo dell'edificio e fu sui moli. Lo zaino vuoto gli sbatteva sulle spalle con un rumore soffocato. Mentre camminava, infilò una mano in tasca, ne trasse una chiave e la strinse forte. Quella chiave era la sua ancora di salvezza. Due giorni prima, ne aveva fatto fare un doppione. Ven superò una piccola carretta ormeggiata alla banchina, i pesanti cavi che stillavano acqua nera sulle bitte rugginose. La nave sembrava deserta, nessuna guardia sul ponte. Rallentò. La porta del magazzino gli stava proprio di fronte, vicino all'estremità del molo principale. Si guardò alle spalle. Poi, con mossa rapida, aprì la porta metallica e scivolò all'interno. Richiusa la porta, aspettò che gli occhi si abituassero all'oscurità. Era già a metà strada sulla via di casa. Spedito quel carico, avrebbe tagliato la corda. Il più presto possibile. Ricon, infatti, diventava ogni giorno più avido, i
cruzeiro gli scivolavano dalle dita come acqua. L'ultima volta, aveva trovato da ridire sulla sua fetta di torta. Proprio quella mattina, Ricon e il caposquadra si erano messi a parlottare fitto e sottovoce, e il caposquadra aveva subito cercato con gli occhi lui, Ven. Ora, l'istinto diceva a Ven che era il momento di filarsela. All'interno del magazzino buio, vide delinearsi un ammasso di container e di casse da imballaggio. Non poteva arrischiarsi a usare una torcia, ma non importava: conosceva il posto quanto bastava per muoversi a occhi chiusi. Avanzò con cautela, seguendo un tracciato mentale fra le alte cataste di merci in attesa. Infine, vide il punto di riferimento che cercava: un cumulo di casse malconce, sei grandi e una piccola, in un cantuccio appartato. Su due degli imballi più grossi c'era una stampigliatura: MNH, NEW YORK (Museo di Storia Naturale). Mesi prima, Ven si era informato su quelle casse. L'aiuto-magazziniere gliene aveva raccontato la storia. Sembrava che le casse fossero arrivate da Pòrto de Mós l'autunno precedente. Dovevano essere spedite per via aerea a un museo di New York, ma era successo qualcosa alla gente che aveva dato le disposizioni... il giovane non sapeva con esattezza cosa. Fatto sta che i soldi del pagamento non erano arrivati in tempo, sicché le casse, per una serie di intoppi burocratici, erano rimaste lì, pressoché dimenticate da tutti. Non da Ven, però. Dietro quelle merci neglette c'era tutto lo spazio necessario per tenere nascosta la roba fino al momento in cui le navi in partenza fossero state stivate. La calda brezza notturna che entrava da un alto finestrino rotto sulla parete lo faceva sudare. L'uomo sorrise nel buio. Proprio la settimana precedente, aveva saputo che presto le casse sarebbero partite per gli Stati Uniti. Ma in quel momento lui sarebbe stato già lontano. Esaminò il suo nascondiglio: una sola cassetta stavolta, il cui contenuto si sarebbe perfettamente adattato allo zaino. Ven sapeva quali erano le piazze migliori e cosa doveva fare. E l'avrebbe fatto, in un posto ben lontano da lì, quanto prima. Mentre stava per scivolare dietro le grosse casse, si fermò di botto. Sentiva uno strano odore: come di terriccio, di selvatico, di marcio. In quel porto arrivavano carichi di ogni sorta, ma niente che puzzasse a tal punto. Pur facendo appello a tutto il suo istinto, Ven non riuscì a vedere nulla d'insolito. S'insinuò fra il carico per il museo e la parete.
Si bloccò di nuovo. C'era qualcosa che non andava. Sì, qualcosa che non andava proprio. Più che vedere, sentì un movimento nello spazio angusto. L'odore acre si fece più intenso, avvolgendolo di un fetore nauseabondo. A un tratto, Ven fu sbattuto contro la parete da una forza terrificante. Un dolore acuto gli esplose nel petto e nello stomaco. Aprì la bocca per urlare, ma qualcosa gli gorgogliava in gola... Poi un colpo, come un lampo, gli squarciò il cranio, lasciando dietro di sé soltanto il buio. PARTE PRIMA MUSEO DI STORIA INNATURALE 3 New York, oggi Il bambino dai capelli rossi, arrampicandosi sulla piattaforma, dava del "pisciasotto" al fratello più piccolo e allungava la mano verso la zampa dell'elefante. Juan lo osservava in silenzio aspettando, per intervenire, che il bambino toccasse l'animale imbalsamato. "Ehi!" strillò Juan, avvicinandosi senza fretta. "Non si toccano gli elefanti." Il bambino ebbe paura e ritrasse la mano; era ancora nell'età in cui le uniformi fanno impressione. Più grandicelli - quindici, sedici anni - e avrebbero mandato Juan a quel paese. Sapevano che era soltanto un custode. Fottuto, pidocchioso lavoro. Un giorno o l'altro si sarebbe tirato fuori da quella merda e avrebbe dato l'esame per entrare nella polizia. Osservò sospettoso il rosso e il fratellino che giravano attorno ai piedistalli nella sala semibuia, guardando i leoni imbalsamati. Davanti alla vetrina degli scimpanzé, il ragazzino cominciò a fare smorfie e a grattarsi le ascelle, dando spettacolo a beneficio del più giovane. Dove diavolo erano i genitori? Poi Billy, il rosso, trascinò il fratellino nella sala piena di reperti africani. Una fila di maschere con denti piatti di legno sbirciavano da una vetrina. "Uauh!" esclamò il più piccolo. "Tutta fuffa", brontolò Billy. "Andiamo a vedere i dinosauri." "Dov'è la mamma?" domandò il piccino, torcendo il collo. "Boh, si sarà persa", disse Billy. "Tieni." Procedettero lungo una vasta sala risonante, piena di pali totemici. Sul fondo, una donna, tenendo alzata una bandierina rossa, catechizzava con
voce stridula l'ultimo gruppo di turisti della giornata. Per il fratellino di Billy, quella sala "puzzava di fantasma", un odore come di fumo o di vecchie radici. Quando il gruppo scomparve dietro un angolo, la sala piombò nel silenzio. L'ultima volta che erano stati lì, ricordava Billy, avevano visto il più grosso brontosauro del mondo, un tirannosauro e un trachidente. Almeno, così pensava che si chiamasse: trachidente. Le zanne del tirannosauro dovevano essere lunghe almeno tre metri. La cosa più grande che avesse mai visto. Non ricordava, però, quei pali totemici. Forse i dinosauri erano dietro la porta successiva. Ma quella si apriva soltanto sulla noiosa Sala dei Popoli del Pacifico, piena di giade, avori, sete e statue di bronzo. "Hai visto cos'hai fatto, adesso?" disse Billy. "Cosa?" "Mi hai fatto perdere, ecco cosa!" "Vedrai come si arrabbierà la mamma", piagnucolò il piccino. Billy sbuffò. Era sottinteso che non si sarebbero riuniti ai genitori prima dell'ora di chiusura, sullo scalone principale. Lui avrebbe trovato l'uscita, non c'erano problemi. Attraversarono altre stanze tetre, scesero una stretta rampa di scale fino a un lungo corridoio oscuro. Migliaia di uccelletti impagliati popolavano le mensole sulle pareti, dal pavimento al soffitto, gli occhi ciechi imbottiti di cotone bianco. Il luogo era deserto e odorava di naftalina. "So dove siamo", disse fiducioso Billy, scrutando il semibuio. Il fratellino riprese a piagnucolare. "Falla finita", gli intimò il più grande. Il lamento cessò. Il corridoio svoltava ad angolo retto e finiva in un cul-de-sac polveroso e colmo di casse vuote. Nessuna via d'uscita, se non tornando indietro attraverso il corridoio degli uccelli morti. I passi dei bambini echeggiavano sordamente, lontano dagli altri visitatori domenicali. Sul fondo del vicolo cieco s'innalzava una barriera ondulata di legno e tela che simulava malamente una parete. Lasciata la mano del fratellino, Billy andò verso quella e passò dall'altra parte. "Ci sono già stato, qui", annunciò con baldanza. "Hanno chiuso, ma l'altra volta si passava. Scommetto che siamo proprio sotto i dinosauri. Ora guardo se riesco a salire." "E se poi non ce la fai a tornare?" frignò il più piccolo. "Senti, stupido, io vado. Tu è meglio che aspetti qui." Billy scomparve dietro la barriera, e un momento dopo il fratellino udì il cigolio di una por-
ta metallica che si apriva. "Ehi!" sentì Billy esclamare. "C'è una scala a chiocciola. Però va in giù, e c'è freddo. Ora guardo." "No! Billy!" urlò il piccolo, ma in risposta gli giunsero soltanto dei passi concitati. Il bimbo riprese a lamentarsi. Dopo pochi minuti scoppiò in singhiozzi, tirando su rumorosamente con il naso, e sedette sul pavimento. Scoprì che un lembo di gomma gli usciva dalla punta della scarpa e si mise ad armeggiare con quello finché non riuscì a staccarlo. All'improvviso, alzò gli occhi. La stanza era silenziosa e mal aerata. Le luci delle vetrine proiettavano ombre nere sul pavimento. Un condizionatore entrò in funzione, da qualche parte, mettendosi a ronzare. Billy se n'era proprio andato. Il piccino riprese a piangere, stavolta più forte. Forse avrebbe fatto bene a seguirlo. In fin dei conti non doveva essere poi una cosa così terribile. Forse Billy era andato avanti e aveva incontrato i genitori, e ora magari lo stavano tutti aspettando dall'altra parte. Doveva sbrigarsi. Si alzò in piedi e scivolò oltre la barriera. La stanza proseguiva fra mensole ricoperte di polvere e di reperti dimenticati. Su una parete c'era una vecchia porta metallica socchiusa. Il piccolo la raggiunse e la varcò. Dietro la porta c'era un pianerottolo che dava accesso a una stretta scala a chiocciola di cui non si vedeva il fondo. Lì c'era ancora più buio, e uno strano odore nell'aria gli faceva arricciare le narici. Non gli andava proprio di scendere quelle scale. Ma Billy era laggiù. "Billy!" chiamò. "Billy, vieni su! Ti prego!" Dall'oscurità cavernosa, gli rispose soltanto l'eco delle sue parole. Il bambino tirò su col naso, poi afferrò il corrimano e cominciò a scendere lentamente nel buio. 4 Lunedì Quando Margo Green svoltò l'angolo della Settantaduesima West, il primo sole del mattino la investì all'improvviso. Abbassò gli occhi per un momento, sbattendo le palpebre; poi, buttati indietro i capelli castani, attraversò la strada. Il Museo di Storia Naturale di New York le si stagliava davanti come un'antica fortezza, l'ampia facciata che s'innalzava maestosa
sopra una fila di panchine ramate. Margo imboccò il vialetto di asfalto rabberciato che l'avrebbe condotta all'ingresso del personale. Superò una ribalta di carico e si diresse verso il sottopassaggio di granito che portava al cortile interno del museo. Poi rallentò, allarmata. L'inizio del tunnel davanti a lei palpitava di luci rosse. All'altra estremità, intravide ambulanze, auto della polizia e veicoli del servizio di soccorso parcheggiati a casaccio. Entrò nella galleria e andò verso un gabbiotto di vetro. Di solito il vecchio Curly, la guardia, sonnecchiava sulla sedia a quell'ora del mattino, appoggiato a un angolo, una pipa di zucca annerita posata sull'ampio petto. Quel giorno, però, era sveglio e in piedi. Fece scorrere la porta, "'giorno, dottore", salutò. Chiamava tutti "dottore", dagli studenti dei corsi di specializzazione al direttore, avessero o no diritto al titolo. "Cosa succede?" domandò Margo. "Non lo so", rispose l'uomo. "Sono arrivati due minuti fa. Penso sia meglio che mi mostri il tesserino, stavolta." Lei frugò nella sacca, per niente sicura di avere con sé il documento. Erano mesi che nessuno glielo chiedeva. "Non sono sicura di averlo", sbuffò, seccata per non aver ancora ripulito la borsa dai detriti dell'inverno. Di recente, la sua sacca si era guadagnata il titolo di "borsa più incasinata del museo" fra i suoi amici del reparto di Antropologia. Il telefono del gabbiotto squillò, e Curly, nervoso, afferrò la cornetta. Margo trovò il tesserino e lo alzò verso la finestrella, ma la guardia la ignorò, gli occhi sbarrati mentre ascoltava. Posò il ricevitore senza dire una parola, tutto il corpo irrigidito dalla tensione. "Allora?" domandò lei. "Cosa succede?" Il vecchio custode posò la pipa. "Non è tenuta a saperlo", rispose, in tono seccato. Il telefono trillò di nuovo e Curly afferrò il ricevitore. Margo non lo aveva mai visto muoversi con tanta sveltezza. Si strinse nelle spalle, rimise il tesserino nella sacca e proseguì. Doveva iniziare il secondo capitolo della sua dissertazione: non poteva permettersi di perdere nemmeno un giorno. La settimana precedente era andata sprecata... il funerale del padre, le formalità, le telefonate. No, ora non doveva più perdere nemmeno un momento. Attraversato il cortile, entrò nel museo dall'ingresso riservato al personale, svoltò a destra e percorse un lungo corridoio sotterraneo verso il reparto
di Antropologia. I tanti uffici dei funzionari erano bui, come sempre fino alle nove e mezzo o dieci del mattino. Il corridoio faceva una svolta ad angolo retto, e lei si fermò. Una striscia di nastro di plastica gialla le sbarrava il passo. Margo riuscì a decifrare la scritta: INDAGINI IN CORSO POLIZIA N.Y. - NON OLTREPASSARE. Jimmy, il custode assegnato di solito alla Sala degli Ori Peruviani, era fermo davanti al nastro con Gregory Kawakita, un giovane vicecuratore del reparto Biologia Evolutiva. "Cosa sta succedendo?" domandò Margo. "Tipica efficienza del museo", rispose Kawakita con un riso beffardo. "Ci hanno chiusi fuori." "Non mi hanno detto niente, se non di tenere lontano chiunque", si giustificò nervosamente il custode. "Senti", lo pregò Kawakita, "domani devo tenere una conferenza per la raccolta di fondi, e quella di oggi sarà una giornata molto lunga. Se mi lasci..." Jimmy era imbarazzato. "Faccio soltanto il mio lavoro, va bene?" "Dai", disse Margo a Kawakita. "Andiamo a prenderci un caffè nella sala del personale. Forse là qualcuno saprà cosa sta succedendo." "Prima devo trovare un bagno, sempreché ce ne sia uno non sigillato", rispose stizzito lui. "Ci vediamo là." La porta della sala, sempre aperta, quel giorno era chiusa. Margo posò la mano sul pomolo, chiedendosi se non fosse meglio aspettare Kawakita. Poi aprì la porta. Il giorno in cui avesse avuto bisogno del suo sostegno non sarebbe stato un bel giorno. Dentro, due poliziotti stavano parlando, le schiene rivolte alla porta. Uno sogghignava. "Cos'era quella roba, la numero sei?" domandò. "Ho perso il conto", rispose l'altro. "Ma quello lì non deve aver più niente nello stomaco da vomitare, ormai." Mentre i poliziotti si scostavano, Margo lanciò un'occhiata nello spazio dietro di loro. Lo stanzone era deserto. Nel cucinotto a vista, sul fondo, qualcuno era chino sul lavello. Sputò, si pulì la bocca, si voltò. Margo riconobbe Charlie Prine, il nuovo esperto del reparto di Antropologia, assunto a tempo determinato sei mesi prima per restaurare i reperti della nuova mostra. Aveva una faccia cinerea e inespressiva. I poliziotti si misero al suo fianco e lo spinsero delicatamente avanti. Lei si fece da parte per lasciar passare il gruppetto. Prine camminava ri-
gido, come un automa. Istintivamente, gli occhi di Margo guardarono verso il basso. Le scarpe dell'uomo erano intrise di sangue. Fissandola con occhi vitrei, Prine si accorse del suo cambio di espressione. Il suo sguardo seguì quello della ragazza; poi il giovane si fermò così all'improvviso che il poliziotto alle sue spalle gli finì addosso. Gli occhi di Prine si dilatarono e diventarono vacui. Il poliziotto lo afferrò per le braccia, ma lui oppose resistenza, recalcitrando per il terrore. Un momento dopo, veniva portato fuori dalla stanza. Margo si appoggiò alla parete, desiderando che il cuore le rallentasse mentre Gregory Kawakita entrava seguito da altre persone. "Mezzo museo è impraticabile", le disse, scuotendo la testa e versandosi una tazza di caffè. "Nessuno può entrare negli uffici." Quasi in risposta, il vecchio sistema interfonico del museo si mise a gracchiare. "Attenzione, prego. Tutti i funzionati presenti nell'edificio si presentino nella sala del personale." Mentre sedevano, altre persone entrarono a gruppetti. Tecnici di laboratorio, per lo più, e vicecuratori non di ruolo; troppo presto per le persone davvero importanti. Margo li guardava con distacco. Kawakita stava parlando, ma lei non riusciva a sentirlo. Dieci minuti dopo, la stanza era stracolma. Tutti parlavano contemporaneamente: esprimevano indignazione per gli uffici chiusi, lamentavano che nessuno desse spiegazioni, commentavano ogni notizia con toni di stupore. In un museo dove non era mai successo nulla di eccitante, quello doveva essere il gran momento della loro vita. Kawakita trangugiò il caffè, fece una smorfia. "Guarda qua: tutto fondi!" Si voltò verso la ragazza. "Cos'hai, Margo, sei incantata? Non hai ancora aperto bocca." Balbettando, lei gli raccontò di Prine. I bei lineamenti di Kawakita s'indurirono. "Dio mio", esclamò. "Cosa sarà successo?" Mentre la sua voce baritonale risuonava nella stanza, Margo si rese conto che tutte le conversazioni si erano interrotte. Un uomo tarchiato, con pochi capelli, in un vestito marrone, era fermo sulla porta, una radio della polizia infilata in una tasca della giacca da pochi soldi, un sigaro spento che gli sporgeva dalla bocca. Entrò, seguito da due poliziotti in divisa. Si fermò al centro della stanza, si tirò su i pantaloni, si levò il sigaro di bocca, si tolse una briciola di tabacco dalla lingua e si schiarì la gola. "Un momento di attenzione, per favore", disse. "Le circostanze esigono che re-
stiate a nostra disposizione per qualche tempo." All'improvviso, una voce dal tono accusatorio si levò dal fondo della stanza. "Scusi, signor...?" La ragazza allungò il collo. "È Freed", sussurrò Kawakita. Margo aveva sentito parlare di Frank Freed, stizzoso curatore della sezione Ittiologia. L'uomo in marrone si voltò a guardare Freed. "Tenente D'Agosta", disse, aspro. "Dipartimento di polizia di New York." Una replica che avrebbe chiuso la bocca a molta gente. Freed, emaciato, con lunghi capelli grigi, non era tipo da lasciarsi impressionare. "Non le pare", domandò in tono sarcastico, "che qualcuno dovrebbe dirci che cosa sta succedendo, precisamente? Ritengo che abbiamo il diritto..." "Vorrei dirvi che cosa succede", lo interruppe il poliziotto. "Ma, al momento attuale, la sola cosa che possiamo comunicarvi è che un cadavere è stato rinvenuto nell'edifìcio e che sono in corso le indagini del caso. Se..." All'esplosione di voci, D'Agosta alzò stancamente una mano. "Posso dirvi soltanto che la squadra omicidi è al lavoro e che le indagini sono a buon punto", continuò. "A partire da ora, il museo è chiuso. Nessuno può entrare o uscire, per il momento. Pensiamo che sarà questione di poco." Fece una pausa. "Se si tratta di omicidio, c'è una possibilità, una possibilità, che l'assassino sia ancora all'interno. Vi chiediamo soltanto di rimanere qui per un'ora o due mentre sono in corso le operazioni. Un poliziotto passerà fra voi per registrare nomi e titoli." Nel silenzio stupefatto che seguì, l'uomo lasciò la stanza e chiuse la porta. Uno dei poliziotti rimasti trascinò una sedia davanti all'ingresso e sedette pesantemente. Pian piano, le conversazioni ripresero. "Dobbiamo rimanere chiusi qui dentro?" urlò Freed. "È vergognoso." "Gesù", sussurrò Margo. "Pensi che Prine sia un assassino?" "Un'idea terribile, vero?" disse Kawakita. Si alzò e andò alla caffettiera, versandone con rabbia nella tazza le ultime gocce. "Non così terribile come l'idea di essere impreparato per la mia conferenza di domani." Lei sapeva che niente avrebbe mai trovato impreparato Kawakita, da quel giovane e brillante scienziato che era. "L'immagine è tutto, oggi", proseguì lui. "La scienza pura, da sola, non fornisce borse di studio." La ragazza annuì di nuovo. Ascoltava lui, ascoltava il brusio attorno a loro, ma niente le sembrava importante. Niente, tranne il sangue sulle scarpe di Prine.
5 "Ascoltate", disse il poliziotto un'ora dopo. "Siete liberi di andare, adesso. Basta che vi teniate lontani dalla zona delimitata dai nastri gialli." Margo alzò la testa dalle braccia con un sussulto, al tocco di una mano sulla sua spalla. Alto, dinoccolato, Bill Smithback stringeva due blocchi a spirale nell'altra mano; i suoi capelli neri sembravano, come al solito, quelli di chi si è appena buttato giù dal letto. Una matita mangiucchiata dietro l'orecchio, il colletto sbottonato, il nodo della cravatta sudicia allentato. La caricatura perfetta del giornalista d'assalto: Margo sospettava che quel look non fosse casuale. Smithback era stato incaricato di scrivere un libro sul museo, in particolare sulla mostra Superstizione che avrebbe aperto i battenti da lì a una settimana. "Fatti innaturali al Museo di Storia Naturale", le bisbigliò in tono di congiura Smithback mentre le sedeva accanto. Schiaffò sul tavolo i due blocchi, poi una marea di fogli scritti a mano, di dischetti privi di etichetta, di fotocopie di articoli con brani evidenziati in giallo che si sparpagliarono sulla superficie di formica. "Salve, Kawakita!" disse in tono gioviale, dandogli una pacca sulla spalla. "Visto qualche tigre, di recente?" "Soltanto di carta", replicò sarcastico l'altro. Smithback si rivolse a Margo. "Suppongo che conosciate tutti i particolari agghiaccianti, adesso. Orribile, vero?" "Non ci hanno detto niente", rispose lei. "Sappiamo soltanto che c'è stato un omicidio. Forse commesso da Prine." Smithback rise. "Charlie Prine? Quello non farebbe del male a una mosca, figuriamoci a un bipede. No, Prine ha soltanto trovato il cadavere. O per meglio dire, è quello che li ha trovati." "Li...? Che cosa vai dicendo?" L'altro sospirò. "Davvero non sapete niente? Speravo che, qui dentro da ore, foste al corrente di tutto." Si alzò e andò alla caffettiera. La rovesciò, la sbatacchiò, imprecò e tornò a mani vuote. "Hanno trovato la moglie del direttore, impagliata, nella Sala dei Primati", disse mettendosi di nuovo a sedere. "È rimasta lì per vent'anni prima che qualcuno la notasse." Margo gemette. "Di' come stanno le cose veramente." "D'accordo, d'accordo", sospirò il giovane. "Attorno alle sette di stamattina, due ragazzini sono stati trovati morti nello scantinato del Palazzo
Vecchio." La giovane si portò una mano alla bocca. "Come lo hai saputo?" domandò Kawakita. "Mentre voi due facevate anticamera qui, tutto il resto del mondo era fuori sulla Settantaduesima. Ci hanno chiuso le porte in faccia. C'erano anche i giornalisti. Pochi, in verità. Risultato: Wright terrà una conferenza stampa alle dieci nella Grande Rotonda per smentire le voci. Tutte quelle dicerie sullo zoo. Ci ha concesso dieci minuti." "Sullo zoo?" incalzò Margo. "C'è uno zoo, qui vicino. Oddio. Che casino." Smithback si limitava a condire, non a dire, ciò che sapeva. "Pare che gli assassini siano stati particolarmente brutali. E voi sapete come sono i giornalisti: hanno sempre pensato che teneste qui dentro ogni sorta di animali." "Sembra che tutto questo ti diverta un mondo", disse Kawakita sorridendo. "Una storia come questa darebbe una nuova dimensione al mio libro", continuò il giornalista. "La vera, conturbante storia degli orrendi delitti al Museo, di William Smithback Junior. Bestie selvagge e fameliche che si aggirano per i corridoi deserti. Un best-seller assicurato." "Non sei divertente", lo rimbeccò Margo. Stava pensando che il laboratorio di Prine non era lontano dal suo ufficio, nello scantinato del Palazzo Vecchio. "Lo so, lo so", disse briosamente il giovane. "È terribile. Poveri bambini. Ma non so ancora se crederci o no. Magari è una trovata di Cuthbert per fare pubblicità alla mostra." Sospirò, poi riprese, contrito. "A proposito, Margo... mi dispiace molto per tuo padre. Volevo dirtelo subito..." "Grazie." Margo sorrise con un minimo di calore. "Be', sentite, voi due", intervenne Kawakita, alzandosi. "Io devo proprio..." "Ho sentito che pensi di andartene", lo interruppe Smithback, sempre rivolto a Margo. "Di lasciar perdere gli studi per occuparti dell'azienda di tuo padre o qualcosa del genere." La guardava con curiosità. "E vero? Mi pareva che le tue ricerche stessero approdando a qualcosa." "Be'", rispose lei, "sì e no. In questi giorni va un po' a rilento. Ho il mio appuntamento settimanale con Frock alle undici, oggi. È probabile che se ne sia dimenticato, come al solito, e abbia preso altri impegni... soprattutto dopo questa tragedia. Ma spero di riuscire a vederlo. Ho trovato un'interessante monografia sulla classificazione delle piante medicinali kiribitu."
Si accorse che lo sguardo di Smithback era già rivolto altrove, e una volta ancora ricordò a se stessa che la maggior parte della gente non è interessata alla genetica delle piante e all'etnofarmacologia. "Be', vado a prepararmi." Si alzò. "Aspetta un momento!" disse Smithback, raccogliendo affannosamente le proprie cose. "Non vuoi sentire la conferenza stampa?" Mentre lasciavano la sala, Freed continuava a lamentarsi con chiunque volesse ascoltarlo. Kawakita si era già avviato, precedendoli. Li salutò con la mano senza voltarsi, girò l'angolo e sparì. Quando arrivarono alla Grande Rotonda la conferenza era già in corso. I giornalisti attorniavano Winston Wright, il direttore del museo, sommergendolo con microfoni e telecamere, le voci che risuonavano bizzarramente nello spazio cavernoso. Ippolito, responsabile della sicurezza interna, stava a fianco del direttore. Ammassati in cerchio attorno ai due c'erano gli altri funzionari e gruppetti di studenti curiosi. Wright, stizzito, sotto le luci al quarzo, rispondeva al bombardamento di domande. Il suo vestito Savile Row, solitamente impeccabile, era sgualcito, e i capelli radi gli ricadevano su un orecchio. La sua pelle chiara era grigia, gli occhi arrossati. "No", stava dicendo. "Evidentemente pensavano che i loro figli avessero già lasciato il museo. Non c'erano mai stati precedenti... No, non teniamo animali vivi nel museo. Be', naturalmente abbiamo qualche topolino e qualche serpente per le ricerche, ma nessun leone, nessuna tigre o bestie del genere... No, non ho visto i cadaveri... Non so quale tipo di mutilazioni abbiano subito, e comunque... non ho la competenza per affrontare l'argomento, dovrete aspettare l'esito dell'autopsia... Voglio sottolineare che la polizia non ha ancora fatto alcuna dichiarazione ufficiale... Finché non smettete di urlare, non risponderò più alle domande... No, ho detto che non teniamo bestie feroci nel museo... No, nemmeno orsi... No, non darò alcun nome... Com'è possibile rispondere a questa domanda?... La conferenza stampa è finita... Ho detto che la conferenza è finita... Sì, naturalmente stiamo collaborando in ogni modo con la polizia... No, non vedo come ciò possa ritardare l'apertura della nuova mostra. Lasciatemi sottolineare che l'inaugurazione della mostra Superstizione non verrà rinviata... Abbiamo leoni imbalsamati, sì, ma se state cercando di insinuare... Sono stati uccisi in Africa settantacinque anni fa, per l'amor del cielo! Lo zoo? Non abbiamo contatti con lo zoo... Non rispondo a provocazioni di questo tipo... I si-
gnori del Post potrebbero smettere di urlare?... La polizia sta interrogando lo studioso che ha trovato i cadaveri, ma non sono informato in proposito... No, non ho nient'altro da aggiungere, eccetto che stiamo facendo tutto il possibile... Sì, un evento tragico, naturalmente..." I giornalisti cominciarono a sparpagliarsi, superando Wright per entrare nel museo vero e proprio. Wright si rivolse stizzito al responsabile della sicurezza. "Dove diavolo sono i poliziotti?" gli sentì dire a denti stretti Margo. E mentre l'uomo si voltava, aggiunse: "Se vedi la signora Rickman, dille di venire subito nel mio ufficio". E uscì a lunghe falcate dalla Grande Rotonda.. 6 Margo si addentrò nel museo, lontano dalle aree aperte al pubblico, finché raggiunse il corridoio chiamato "Broadway". Attraversava tutto l'edificio - sei isolati cittadini - e si diceva che fosse il rettilineo più lungo in assoluto della città di New York. Sulle pareti si aprivano vecchie stanzette foderate di quercia: ogni sette-otto metri c'era una porta col vetro smerigliato; molte esibivano una targhetta col nome del conservatore a lettere d'oro bordate di nero. Margo, quale laureata intenta a specializzarsi, aveva soltanto una scrivania metallica e uno scaffale in uno dei laboratori dello scantinato. Se non altro, io ho un ufficio, pensava, lasciando il corridoio e imboccando un'angusta scaletta di ferro. Una delle altre specializzande lavorava su un minuscolo banco di scuola malconcio, incastrato fra due enormi frigoriferi nella sezione Mammiferi. La poveretta doveva indossare sempre due maglioni pesanti, anche in pieno agosto. Un custode in fondo alla scaletta la salutò con un cenno e la ragazza svoltò in un corridoio oscuro, fiancheggiato da scheletri di cavalli entro antiche vetrine. Non c'erano nastri gialli della polizia in vista. Una volta entrata in ufficio, posò la borsa accanto alla scrivania e sedette. Il laboratorio, in verità, sembrava in quel momento più un deposito di reperti dei Mari del Sud: scudi maori, canoe da guerra, frecce di canna stipate in scaffali metallici verdolini che occupavano tutta la parete, dal pavimento al soffitto. Una vasca per pesci da duemila litri, riproduzione di un acquitrino appartenente a Etologia, campeggiava su una struttura metallica sotto una fila di luci. Era così popolato di alghe ed erbe che Margo era riuscita soltanto di rado a scorgere un pesce in quell'ammasso verdognolo.
Vicino alla sua scrivania c'era un lungo banco da lavoro disseminato di maschere polverose. La conservatrice, una donna bisbetica, ci lavorava in stizzoso silenzio per tre ore scarse al giorno. A giudicare dall'andazzo, Margo reputava che il restauro di ogni pezzo richiedesse non meno di due settimane. La collezione affidata alle cure della donna comprendeva qualcosa come cinquemila reperti, ma il fatto che per completare il lavoro, a quel ritmo, sarebbero stati necessari un paio di secoli pareva non preoccupare nessuno. Margo accese il computer. Un messaggio in lettere verdognole apparve sullo schermo: SALVE MARGO GREEN-STAFF-BIOTECN BENTORNATA IN MUSENET DISTRIBUTED NETWORKING SYSTEM VERSIONE 15-5 COPYRIGHT© 1989-1995 NYMNH AND CEREBRAL SYSTEM INC. CONNESSIONE ALLE 10:24:06 DEL 27-03-95 STAMPANTE COLLEGATA LJ56 NESSUN MESSAGGIO IN ATTESA Entrò nel programma di scrittura e nel file dei suoi appunti, accingendosi a rivederli prima dell'appuntamento con Frock. Il suo relatore sembrava spesso preoccupato durante quegli incontri settimanali, e Margo si dava sempre un gran daffare per portargli ogni volta qualche nuovo dato. Il problema era che non sempre aveva novità da mostrargli... per lo più articoli letti, studiati a fondo e inseriti nel computer; qualche ricerca di laboratorio; e forse... forse... altre tre o quattro pagine della dissertazione. Sapeva benissimo che c'era gente nelle sue condizioni che la tirava per le lunghe a spese dello stato con continue e inutili aggiunte... quelle che gli scienziati chiamavano ironicamente TMD: Tutto Meno che una Dissertazione. Quando Frock, due anni prima, aveva accettato di farle da relatore, Margo aveva subito pensato a un errore. Frock - ideatore dell'Effetto Callisto, titolare della cattedra di Paleontologia Statistica alla Columbia University, direttore del reparto di Biologia Evolutiva del museo - aveva scelto lei come ricercatrice, un onore concesso soltanto a pochi eletti ogni anno. Il luminare aveva iniziato la carriera come antropologo fisico. Pur se co-
stretto fin dall'infanzia su una sedia a rotelle dalla poliomielite, le sue pionieristiche ricerche sul campo erano ancora il fondamento di molti libri di testo. Dopo ripetuti e gravi attacchi di malaria, aveva dovuto rinunciare a ulteriori osservazioni dirette, concentrando le sue inesauribili energie sulla teoria evoluzionistica. Nella metà degli anni Ottanta aveva suscitato una marea di polemiche con un'idea assolutamente originale. Combinando teoria del caos ed evoluzione darwiniana, l'ipotesi di Frock contrastava la convinzione pressoché universale che la vita si evolvesse per gradi. Lui, invece, sosteneva che l'evoluzione non sempre era graduale e che certe aberrazioni dalla vita breve - le "specie mostruose" - erano a volte una vera e propria diramazione dell'evoluzione stessa. Per Frock, l'evoluzione non era sempre causata dalla selezione casuale, ma l'ambiente poteva provocare improvvisi e bizzarri mutamenti in una specie. Anche se quella teoria era avallata da serie di brillanti articoli e documenti, la maggior parte del mondo scientifico restava scettica. Se esistono strane forme di vita, si chiedeva, dove diavolo si nascondono? Frock rispondeva che, per la sua teoria, il rapido sviluppo del genere comportava anche la sua rapida estinzione. Più gli esperti gli davano del visionario, addirittura del matto, più la stampa abbracciava la sua idea. La teoria divenne nota come Effetto Callisto, dal mito greco secondo il quale una giovane donna si era trasformata di colpo in una creatura selvaggia. Sebbene Frock deplorasse il generale fraintendimento del suo lavoro, sfruttava abilmente quella pubblicità per portare avanti gli studi. Come molti conservatori di talento, era completamente assorbito dalle ricerche; Margo sospettava che ogni altra cosa, compresa la sua dissertazione, il più delle volte lo annoiasse. All'altro capo della stanza, la conservatrice si alzò e, senza dire una parola, andò a fare colazione, segno che si stavano avvicinando le undici. Margo scribacchiò alcune frasi su un foglio di carta, spense lo schermo e raccolse il taccuino. Aveva alcuni nuovi dati sulla classificazione delle piante usate dai kiribitu che potevano interessare Frock. L'ufficio del professore si trovava nella torre sudoccidentale, in fondo a un elegante corridoio edoardiano del quinto piano: un'oasi lontana dai laboratori e dai centri informatici che costituivano il grosso del retroterra del museo. Sulla pesante porta di quercia dell'ufficio appartato si leggeva semplicemente DR. FROCK. Margo bussò. Sentì qualcuno che si schiariva sonoramente la gola, poi il fruscio della
sedia a rotelle. La porta si aprì lentamente e comparve la familiare faccia rubizza, le sopracciglia cespugliose sollevate in segno di sorpresa. Poi lo sguardo dell'uomo s'illuminò. "Già, è lunedì. Entri." Lo disse a bassa voce, sfiorando con la mano paffuta il polso della ragazza e indicandole una sedia imbottita. Frock indossava, come al solito, un vestito scuro, camicia bianca e cravatta a vistosi disegni cachemire. La fitta foresta di capelli bianchi sembrava scompigliata dal vento. I muri dell'ufficio erano tappezzati di antiche vetrine con ripiani spesso stracolmi di stranezze e reperti dei suoi primi anni di ricerche sul campo. Contro una parete era ammucchiata una catasta vacillante di libri. Due ampi bowindow guardavano sull'Hudson River. Poltrone vittoriane posavano su uno stinto tappeto persiano, e sulla scrivania c'erano alcune copie del suo ultimo libro: Evoluzione frattale. Accanto ai libri, Margo notò un grosso blocco di arenaria. Impressa sulla superficie piatta c'era una profonda concavità, stranamente annerita e allungata a un'estremità, con tre ampie intaccature sull'altra. Secondo il professore, si trattava dell'impronta fossile di una creatura sconosciuta alla scienza: la sola prova materiale che avvalorasse la teoria dell'evoluzione anomala. Altri scienziati non erano d'accordo. Molti non lo ritenevano nemmeno un fossile, definendolo "l'assurdità di Frock". Altri non lo avevano mai visto. "Tolga quella roba e si accomodi", disse l'uomo, spostandosi sulla sedia a rotelle nel suo angolino preferito, sotto uno dei bowindow. "Sherry? No, naturalmente; non ne prende mai. Sciocco da parte mia non ricordarlo." Sulla poltrona che le aveva indicato c'erano alcuni vecchi numeri di Nature e il dattiloscritto incompleto di un articolo intitolato "Trasformazione filetica e Felce a Seme del Terziario." Margo depositò il tutto su un tavolo accanto e sedette, chiedendosi se il professore avrebbe accennato alla morte dei due ragazzini. Frock la guardò per un momento, immobile. Poi sbatté le palpebre e sospirò. "Be', signorina Green", disse. "Vuole che cominciamo?" Delusa, Margo aprì il taccuino. Dette una scorsa agli appunti, poi cominciò a esporre le sue analisi della classificazione delle piante kiribitu, spiegando come potevano inserirsi nel prossimo capitolo della dissertazione. Mentre parlava, la testa di Frock si abbassò lentamente sul petto e i suoi occhi si chiusero. Chi non lo conoscesse avrebbe pensato che dormisse, ma lei sapeva che stava ascoltando con la massima concentrazione.
Quando ebbe finito, l'uomo si riscosse lentamente. "Classificazione di piante medicinali a seconda dell'uso, più che dell'aspetto", mormorò infine. "Interessante. Mi ricorda una mia esperienza presso la tribù ki della Beciuania." Margo aspettò pazientemente il ricordo che sarebbe di sicuro seguito. "I ki, come lei sa" - Frock supponeva sempre che l'ascoltatore fosse al corrente dell'argomento quanto lui - "per un certo periodo usarono la corteccia di una pianta come rimedio per l'emicrania. Charrière li studiò nel 1869 e annotò sui suoi diari l'uso di quell'arbusto. Quando li scovai io, tre quarti di secolo dopo, avevano smesso di usarlo. E credevano che l'emicrania fosse provocata da fatture." Si lasciò scivolare sulla sedia. "Chi somministrava il consueto rimedio veniva ora identificato dai parenti della vittima come fattucchiere; poi, naturalmente, lo uccidevano. E ovviamente i familiari del fattucchiere morto si sentivano obbligati a vendicare l'ucciso, sicché spesso andavano a eliminare la persona con l'emicrania. Può immaginare come andò a finire." "Come?" domandò Margo, presumendo che ora il professore le avrebbe spiegato in che modo quel racconto potesse servirle per la dissertazione. "Be'", rispose lui allargando le braccia, "avvenne un miracolo medico. La gente smise di avere l'emicrania." Lo sparato della camicia fu scosso dalle risate. Rise anche lei... per la prima volta quel giorno, si rese conto. "Un bel risultato per una medicina primitiva", commentò Frock, un po' pensoso. "A quell'epoca, le ricerche sul campo erano ancora divertenti." Fece una pausa. "Ci sarà un intero settore dedicato alla tribù ki nella nuova mostra Superstizione, sa?" continuò. "Naturalmente, verrà 'pompata' all'inverosimile per il consumo di massa. Hanno fatto venire un giovane fresco fresco di Harvard per curare la mostra. Mi hanno detto che ha più familiarità con i computer e le tecniche di mercato che con la scienza pura." Frock scivolò ancor più sulla sedia. "In ogni caso, signorina Green, penso che la sua descrizione sia un'ottima aggiunta al suo lavoro. Le suggerisco di prendere qualche esemplare di piante dei kiribitu dall'erbario e di continuare da lì." La ragazza stava raccogliendo le proprie cose quando il professore riprese di colpo a parlare. "Brutta faccenda, stamattina." Margo annuì. L'uomo tacque per un momento. "Mi preoccupo per il museo", concluse infine.
Sorpresa, Margo disse: "Erano fratelli. Una tragedia per la famiglia. Ma tutto si sgonfierà presto... come sempre". "Credo di no", disse Frock. "Ho sentito qualcosa sulla condizione dei cadaveri. La forza usata era... di natura anormale." "Non penserà che si tratti di una bestia feroce?" domandò la ragazza. Forse il luminare era davvero matto come sostenevano. Il professore sorrise. "Mia cara, non faccio congetture. Aspetto ulteriori dati. Per il momento, spero soltanto che questo fatto spiacevole non influenzi la sua decisione circa il restare o no al museo. Oh, sì, ho sentito quel che le è capitato; mi è spiaciuto molto apprendere della morte di suo padre. Ma lei ha dimostrato di possedere tre doti indispensabili per un ricercatore di qualità: sa cosa cercare, dove cercare e sa vedere al di là delle sue teorie." Le si avvicinò con la sedia a rotelle. "Lo zelo accademico è importante quanto lo zelo sul campo, signorina Green. Non lo dimentichi. Il suo addestramento tecnico, le sue ricerche di laboratorio si sono rivelati eccellenti. Sarebbe un vero peccato per la nostra professione perdere una persona con le sue doti." Margo si sentì pervadere da un misto di gratitudine e di risentimento. "Grazie, dottor Frock", mormorò. "Apprezzo le parole gentili... e il suo interesse." Lo scienziato agitò una mano, e lei lo salutò. Giunta alla porta, però, sentì Frock parlare di nuovo. "Signorina Green?" "Sì?" "La prego, stia attenta." 7 Fuori, quasi si scontrò con Smithback. Il giovane si chinò su di lei, ammiccando maliziosamente. "Se andassimo a pranzo insieme?" "No", disse Margo. "Ho troppo da fare." Due volte in un giorno... non era sicura di poter sopportare una dose così massiccia di Smithback. "Su", la sollecitò lui. "Sono venuto a conoscenza di ulteriori particolari macabri sugli omicidi." "Figuriamoci." Margo accelerò il passo lungo il corridoio, stizzita nel sentirsi pungere dalla curiosità. Smithback l'afferrò per un braccio. "Ho sentito che ci sono delle squisite lasagne stracotte e stantie al self-service." La guidò verso l'ascensore.
In mensa c'era la solita ressa di conservatori, custodi corpulenti che parlavano a voce alta, tecnici di vario genere e preparatori in camice bianco. Un curatore stava facendo girare fra i colleghi al suo tavolo degli esemplari di qualche specie, suscitando mormoni di ammirazione e di interesse. Margo dette un'occhiata più attenta. Si trattava di larve di parassita immerse in un vaso di torbida formaldeide. Sedettero e lei cercò di guardare attraverso la crosta delle lasagne. "Come promesso", disse Smithback, prendendone un pezzetto e mordendone un'estremità. "Devono essere nello scaldavivande dalle nove di stamattina, come minimo." Masticava rumorosamente. "Be', la polizia ha rilasciato un comunicato ufficiale. Ci sono stati due omicidi, qui, stanotte. Bella scoperta! E rammenti tutte quelle domande dei giornalisti sulle bestie feroci? Be', c'è anche la possibilità che siano stati straziati a morte da una bestia feroce." "Non mentre sto mangiando", lo pregò lei. "Proprio. Letteralmente dilaniati, a sentir loro." Margo alzò gli occhi al cielo. "Per piacere!" "Non sto scherzando", continuò Smithback. "E l'imperativo è di risolvere il caso, soprattutto con la grande mostra che si avvicina. Ho sentito che i poliziotti si rivolgeranno a un perito settore eccezionale. Uno che sa leggere le ferite da artigli come Champollion leggeva i geroglifici." "Maledizione, Smithback", imprecò Margo mollando la forchetta. "Mi viene la nausea... la tua inciviltà e i particolari macabri mentre mangio! Non puoi aspettare che abbia finito?" "Come dicevo", continuò imperterrito lui, "è una donna che sa tutto sui felini. La dottoressa Matilda Ziewicz. Che nome, eh? Ciccioso." Nonostante l'irritazione, Margo represse un sorriso. Quell'uomo poteva anche essere un idiota, ma perlomeno era divertente. Allontanò il vassoio. "Dove l'hai sentito?" Smithback sogghignò. "Ho le mie fonti." Trangugiò un altro po' di lasagne. "In verità, ho incontrato un amico che scrive per News. Ha saputo i particolari da un informatore del dipartimento di polizia. Sarà tutto sui giornali della sera. T'immagini la faccia di Wright quando li vedrà? Oddio!" Cianciò ancora un momento prima di tornare a riempirsi la bocca. Aveva finito le sue lasagne ed era passato a quelle di Margo. Per essere così magro, mangiava come un orco. "Ti sembra possibile che una bestia feroce se ne vada in giro per il mu-
seo?" domandò Margo. "È assurdo!" "Davvero? Be', senti questa: manderanno qualcuno con un segugio, per trovare le tracce del fetente." "Stai scherzando." "Io? Ti sembro il tipo? Chiedi ai custodi. In questo posto ci sono centinaia di migliaia di metri quadri dove un felino o qualcosa del genere potrebbe nascondersi, senza contare i dieci chilometri di condotti d'aria forzata abbastanza grandi da permettere a un uomo di strisciarci all'interno. E sotto il museo c'è un labirinto di gallerie abbandonate. Stanno prendendo la faccenda molto sul serio." "Gallerie?" "Uh! Non hai letto il mio articolo sulla rivista del mese scorso? Il primo museo è stato edificato su una falda artesiana che non si è mai riusciti a prosciugare. Sicché hanno scavato le gallerie per deviare l'acqua. Poi, quando il museo originario è bruciato nel 1911, hanno costruito l'attuale sopra le fondamenta del vecchio. Il sotterraneo è immenso, a più piani... per la maggior parte non è nemmeno elettrificato. Credo che non esista essere vivente capace di orientarsi laggiù..." Smithback ingoiò l'ultimo pezzo di lasagne e spinse il vassoio di lato. "E poi, ci sono le voci di sempre sulla Bestia del Museo." Chiunque lavorasse lì aveva sentito quella storia. Gli addetti alla manutenzione del turno di notte giuravano e spergiuravano di averla vista con i loro occhi. I vicecuratori che percorrevano i corridoi semibui per portare in cantina i loro reperti l'avevano scorta mentre sgusciava nell'ombra. Nessuno sapeva che cosa fosse, o da dove fosse sbucata, ma alcuni sostenevano che quella bestia aveva ucciso un uomo alcuni anni prima. Margo decise di cambiare argomento. "La Rickman continua a darti grattacapi?" domandò. Sentendo quel nome, lui fece una smorfia. Margo sapeva che era stata Lavinia Rickman, capo dell'ufficio stampa del museo, a ingaggiarlo per scrivere il libro. Ed era stata sempre lei a ridurgli l'anticipo e le percentuali sulle vendite. Pur se Smithback non era soddisfatto delle clausole contrattuali, la mostra prometteva di essere una tale "bomba" che le vendite del libro, sull'onda di quel successo, avrebbero raggiunto numeri a sei zeri. Non era stato davvero un brutto affare per lui, pensava Margo, dato il modestissimo successo del suo libro precedente sull'acquario di Boston. "Rickman?" Il ragazzo sbuffò. "Oddio! È la quintessenza del grattacapo. Senti, voglio leggerti una cosa." Prese un mazzetto di fogli da un taccuino.
"'Quando il dottor Cuthbert lanciò l'idea di una mostra sulla superstizione parlandone con il direttore del museo, Wright fu molto impressionato. C'erano tutte le possibilità che ne venisse fuori una mostra impagabile, qualcosa come I tesori di re Tutankhamon o I sette strati di Troia. Wright sapeva che ciò avrebbe significato un grande afflusso di denaro, e un'insperata possibilità di ottenere fondi da aziende private e dallo stato. Alcuni dei curatori più anziani, però, non erano convinti; pensavano che l'intento di far colpo fosse troppo smaccato e potesse danneggiare la reputazione del museo.'" Smise di leggere. "Guarda cos'ha fatto la Rickman." Le porse il foglio. Un grosso frego barrava il paragrafo e una nota a margine in pennarello rosso diceva: VIA! Margo ridacchiò. "Lo trovi divertente? Sta massacrando il mio lavoro. Guarda qui." Puntò il dito su un'altra pagina. Lei scosse la testa. "La Rickman vuole qualcosa che ravvivi l'immagine del museo. Non troverete mai un'intesa." "Mi sta facendo diventare matto. Taglia tutto quello che potrebbe suscitare la minima polemica. Vorrebbe che spendessi tutto il mio tempo a parlare con quel gufo secchione che curerà la mostra. Sa benissimo che lui dirà soltanto ciò che gli suggerisce il suo capo, Cuthbert." Le si avvicinò con aria di cospirazione. "È il più grande spione che esista al mondo." Alzò gli occhi e borbottò: "Oddio, eccolo che arriva". Un giovane con qualche chilo di troppo e occhiali dalla montatura di corno si materializzò accanto al loro tavolo, tenendo un vassoio in equilibrio su una valigetta di pelle lucente. "Posso unirmi a voi?" domandò timidamente. "Temo che questo sia il solo posto libero di tutta la sala." "Ma certo", disse Smithback. "Siediti. Si da il caso che stessimo parlando proprio di te... Margo, ti presento George Moriarty. È la persona che curerà la mostra sulla superstizione." Agitò i fogli sotto il naso del nuovo arrivato. "Guarda cos'ha fatto la Rickman al mio manoscritto. Le sole cose che non tocca sono le tue dichiarazioni." Moriarty dette un'occhiata ai fogli e guardò Smithback con l'innocenza di un bambino. "Non mi sorprende", disse. "Perché dovremmo esibire in pubblico i panni sporchi del museo?" "Ma via, George. Sono proprio quelli che rendono una storia interessante."
Il curatore della mostra si rivolse a Margo. "Lei è la specializzanda in etnofarmacologia, vero?" domandò. "Sì", ammise Margo, lusingata. "Come fa a saperlo?" "Sono interessato all'argomento." Sorrise. "La mostra comprende alcune vetrine dedicate alla farmacologia e alla medicina. In verità la cercavo per parlarle proprio di questo." "Bene. Che cosa pensa di fare?" Lo guardò con più attenzione. Era quanto di più vicino al funzionario medio di museo si potesse immaginare: statura media, un po' tozzo, capelli di un castano medio. La giacca di tweed stropicciata esibiva i toni marroncini che sembravano un'emanazione stessa del museo. Le sole cose un po' strane erano il grosso orologio esagonale con le ore in numeri romani e gli occhi: di un insolito nocciola chiaro dove, dietro le lenti cerchiate di corno, si scorgeva il lampo dell'intelligenza. Smithback si spostò in avanti, scivolando stizzosamente sulla sedia, e guardò i due. "Be'", disse, "mi piacerebbe restare a godermi questa scena incantevole, ma devo intervistare una persona mercoledì nella Sala degli Insetti e voglio prima finire il capitolo. George, non firmare nessun contratto televisivo per la mostra senza parlarne prima con me." Si alzò sbuffando e andò verso la porta, seguendo un tortuoso percorso fra i tavoli. 8 Jonathan Hamm scrutava il corridoio dello scantinato attraverso le spesse lenti che sembravano implorare una bella pulita. Le sue mani e i polsi, protetti da guanti neri, reggevano i guinzagli di cuoio, e trattenevano due segugi accucciati obbedienti ai suoi piedi. Accanto a lui c'era l'assistente. Al fianco di quest'ultimo, il tenente D'Agosta teneva in mano delle eliografie sporche e spiegazzate; dietro di lui, due poliziotti - i suoi aiuti - erano appoggiati alla parete. Dei Remington calibro 12 a pompa pendevano dalle loro spalle. D'Agosta fece frusciare le eliografìche. "Questi benedetti cani riescono a sentire quale strada dobbiamo prendere?" chiese stizzito. Hamm emise un lungo sospiro. "Segugi. Questi sono segugi. Ma qui non c'è neppure una vaga idea di odore. Da quando abbiamo cominciato, non sono mai stati su una buona traccia. O meglio, ce n'erano troppe." Il tenente borbottò qualcosa; tolse dal taschino della giacca un grosso sigaro e fece per metterselo in bocca. Hamm lo fulminò con lo sguardo. "D'accordo, d'accordo", brontolò D'Agosta. Rimise il sigaro in tasca.
Hamm annusò l'aria. Era umida, e questa era una buona cosa. La sola, in quella specie di scampagnata del cavolo. Tanto per cominciare, c'era la solita stupidità dei poliziotti. Che tipo di cani sono? gli avevano domandato. A noi servono dei segugi. Quelli erano segugi, aveva spiegato. Un segugio dal manto azzurrino e uno nero e rossiccio addestrato per la caccia al procione. Nelle giuste condizioni, quelle bestie potevano scovare un escursionista smarrito nella tormenta e sepolto sotto un metro di neve. Ma queste, pensava, non sono davvero le giuste condizioni. Come sempre, la scena del delitto era stata "inquinata". Sostanze chimiche, pittura spray, gesso, un migliaio di persone che avevano calpestato dappertutto. Inoltre, l'area attorno alla base della scala era letteralmente coperta di sangue; anche adesso, diciotto ore dopo il delitto, il suo odore ristagnava nell'aria e agitava i segugi. Dapprima avevano cercato di seguire l'usta a partire dal luogo del delitto. Quando non c'erano riusciti, Hamm aveva suggerito di "intercettare la traccia" percorrendo un ampio giro tutt'attorno alle scale, nella speranza di ritrovare l'odore laddove la creatura si era allontanata dal cerchio. I segugi non erano abituati a lavorare al chiuso. Ovvio che fossero confusi. Ma non era colpa sua. I poliziotti non gli avevano nemmeno detto se dovevano cercare un uomo o un animale. Forse non lo sapevano neppure loro. "Proviamo di qua", disse D'Agosta. Hamm passò i guinzagli all'assistente, che si avviò in testa, i cani che fiutavano il terreno. A un tratto i segugi avevano cominciato a latrare verso un deposito di ossa di mammut, e l'odore di conservante al paradiclorobenzene che era uscito dalla stanza non appena avevano aperto la porta aveva causato mezz'ora di ritardo... ma le povere bestie dovevano pur ricuperare il senso dell'olfatto. E quello era stato soltanto il primo di una serie di depositi pieni di pelli di animali, di gorilla in formaldeide; e poi celle frigorifere zeppe di cavie morte dello zoo, una cantina traboccante di scheletri umani. Arrivarono a un corridoio con una porta metallica aperta su una scala di pietra in discesa. Le pareti erano ricoperte di uno strato di calce, la scala era buia. "Lì ci saranno le sale di tortura", disse uno dei poliziotti con un riso sguaiato. "Porta al sotterraneo", lo rimbeccò il tenente, consultando le mappe. Fece un cenno a uno dei suoi uomini, che gli porse una lunga torcia elettrica.
La breve scaletta finiva in una galleria di mattoni a spina di pesce, il soffitto a volta che consentiva a malapena di stare dritti. L'assistente del "capocaccia" andò avanti con i cani, seguito da D'Agosta e da Hamm. Per ultimi venivano i due poliziotti. "C'è acqua sul pavimento", disse Hamm. "E allora?" domandò D'Agosta. "L'acqua corrente impedisce di sentire gli odori." "Mi avevano detto che avremmo trovato delle pozze qui sotto", replicò il tenente. "L'acqua scorre soltanto quando piove, e non è piovuto." "Rassicurante", borbottò l'addestratore. Raggiunsero un punto in cui convergevano due gallerie, e D'Agosta si fermò a consultare l'eliografia. "Qualcosa mi diceva che l'avrebbe guardata", mugugnò Hamm. "Davvero?" replicò l'altro. "Be', ho una sorpresa: qui il sotterraneo non esiste." Non appena uno dei cani cominciò a uggiolare e a fiutare furiosamente, Hamm si fece subito attento. "Di qua. Presto." I cani guairono ancora. "Hanno sentito qualcosa!" esclamò. "È un'usta precisa. Deve esserlo. Guardate come rizzano il pelo! Faccia luce da questa parte, non riesco a vedere un accidente." I segugi stavano tirando, i muscoli tesi, i nasi alzati ad annusare l'aria. "Guardate, guardate! L'odore è nell'aria. Sentite la brezza sulle guance? Avrei dovuto portare gli spaniel. Quelli sono imbattibili con gli odori aerei!" I poliziotti superarono i cani, uno reggendo una torcia, l'altro col fucile imbracciato. Più avanti la galleria si biforcava di nuovo, e i cani presero a destra, tentando di mettersi a correre. "Li tenga, Hamm! Può esserci un assassino, laggiù", ordinò D'Agosta. I segugi all'improvviso si misero ad abbaiare a più non posso. "Cuccia!" urlò l'assistente. "Al piede! Castore! Polluce! Al piede, dannazione!" Imperterriti, le bestiole continuavano a tirare come forsennate. "Hamm, vieni a darmi una mano!" "Che cosa vi è preso?" urlò Hamm, lanciandosi sui cani assatanati e cercando di afferrare i collari. "Castore, al piede!" "Li faccia stare zitti!" sbottò D'Agosta. "Si è liberato!" gridò l'assistente, mentre uno dei segugi si lanciava nel buio. Tutti corsero dietro il latrare lontano del cane. "Sentite l'odore?" domandò Hamm, fermandosi di botto. "Santiddio, lo
sentite?" Un odore acre, selvatico, li avvolse all'improvviso. L'altro segugio era in preda a un'eccitazione incontenibile, saltava e si torceva... e a un tratto fu libero. "Polluce! Polluce!" "Aspettate!" ordinò il tenente. "Scordatevi quei dannati cani per un momento. Dobbiamo darci un assetto. Voi due, portatevi in testa. Togliete le sicure." I due poliziotti misero il colpo in canna. Nell'oscurità risonante davanti a loro, il latrato si affievolì, poi cessò. Vi fu un momento di silenzio. Dopo, un suono terrificante, strano, simile allo stridore di uno pneumatico, uscì dalla galleria tenebrosa. I due poliziotti si guardarono. Il suono cessò con la stessa subitaneità con cui era cominciato. "Castore!" urlò Hamm. "Oh, mio Dio! È stato ferito!" "Stia indietro, dannazione!" sbraitò D'Agosta. In quel momento una forma, dal buio, si avventò all'improvviso sul gruppo. Vi furono due spari assordanti, due vampe accompagnate da botti fragorosi. Il rombo echeggiò e si spense nella galleria, seguito da un intenso silenzio. "Maledetto idiota, hai sparato al mio cane!" mormorò Hamm. Polluce giaceva a un paio di metri da loro, il sangue che sgorgava dalla testa fracassata. "Mi stava venendo addosso..." cominciò uno dei poliziotti. "Cristo santo", urlò D'Agosta. "Fatela finita. C'è ancora qualcosa laggiù." Trovarono l'altro cane dopo un centinaio di metri dentro la galleria. Era quasi troncato a metà, i visceri sparsi a terra. "Oh, Gesù, guardate che roba", ansimò D'Agosta. Hamm non parlò. Appena oltre i resti del segugio la galleria si biforcava. Il tenente continuava a guardare l'animale straziato. "Senza i cani, non c'è modo di sapere che strada ha preso. Togliamoci di qui e lasciamo che se la sbrighino i medici legali." Hamm rimase muto. 9
Moriarty, a un tratto solo con Margo nel self-service, sembrava ancor più a disagio. "Allora?" lo sollecitò la ragazza, dopo un breve silenzio. "In verità, volevo proprio parlarle del suo lavoro." Fece una pausa. "Davvero?" Per lei era insolito che qualcuno s'interessasse al suo progetto. "Be', indirettamente. Le vetrine della medicina primitiva per la mostra sono tutte pronte tranne una. Abbiamo quell'invidiabile raccolta di piante sciamaniche e manufatti del Camerun, e vorremmo metterla nell'ultima vetrina, ma il materiale è mal documentato. Se lei potesse dargli un'occhiata..." "Volentieri!" esclamò Margo. "Benissimo! Quando?" "Anche subito. Ho un po' di tempo." Lasciarono il self-service e scesero in un lungo corridoio sotterraneo pieno di tubi di vapore gorgogliami e di porte munite di lucchetti. Su una di queste c'era la scritta MAGAZZINO DINOSAURI 4 - GIURASSICO SUPERIORE. La maggior parte delle ossa di dinosauro del museo e altre raccolte di fossili erano immagazzinate lì nello scantinato perché, così le avevano detto, il gran peso delle ossa pietrificate avrebbe potuto far crollare i piani superiori. "La raccolta è in una delle stanze del sesto piano", disse Moriarty in tono di scusa, mentre entravano nell'ascensore di servizio. "Spero di ritrovarla. Lassù è un vero labirinto di stanze e stanzette." "Ha saputo qualcosa a proposito di Charlie Prine?" domandò Margo in tono sommesso. "Non molto. Evidentemente non è sospettato. Credo però che non lo rivedremo per un pezzo. Il dottor Cuthbert, prima di colazione, mi ha detto che era conciato molto male." Scosse il capo. "Brutta faccenda." Al quinto piano, Margo lo seguì per un ampio corridoio, poi su una rampa di scalini metallici. Le strette, intricate passerelle che costituivano quella sezione del sesto piano erano costruite proprio sotto il colmo dei lunghi tetti del museo. Da un lato c'era una serie di basse porte metalliche dietro le quali si trovavano le stanze ermeticamente chiuse delle raccolte antropologiche deperibili. In passato, un velenoso composto cianico veniva periodicamente insufflato all'interno per eliminare parassiti e batteri; ora la conservazione dei reperti era affidata a tecniche più raffinate. Mentre i due procedevano lungo le passerelle, rasentavano cataste di og-
getti impilati contro le pareti: una canoa da guerra scavata in un tronco, alcuni totem, una fila di mezzi tronchi usati come tamburi. Nonostante le centinaia di migliaia di metri quadri disponibili per l'immagazzinamento, ogni centimetro di spazio era stato utilizzato, inclusi i corridoi, le trombe delle scale e gli uffici degli assistenti. Di cinquanta milioni di manufatti e reperti, soltanto un cinque per cento era esposto; il resto era accessibile soltanto a scienziati e ricercatori. Il Museo di Storia Naturale di New York non occupava un solo stabile, ma era costituito da più edifici uniti, nel corso degli anni, a formare una colossale struttura ramificata. Mentre Margo e Moriarty passavano da un edificio all'altro, il soffitto s'innalzava, e la passerella diventò un corridoio labirintico. Un tenue bagliore filtrava da lucernari polverosi, illuminando scaffali pieni di calchi in gesso di facce di aborigeni. "Dio, questo posto è immenso", sussurrò la giovane, sentendo un brivido improvviso di paura, contenta di essere separata da sette piani dal luogo in cui i due fratellini avevano trovato la morte. "Il più vasto del mondo", rispose l'uomo, aprendo il lucchetto di una porta contrassegnata dalla scritta AFRICA CEN., D-2. Accese una nuda lampadina da venticinque candele. Scrutando l'interno, lei vide una minuscola stanzetta piena di maschere, sonagli sciamanici, pelli dipinte e ornate di perline, un fascio di lunghi bastoni sormontati da teste ghignanti. Su una parete c'erano degli stipi di legno. Moriarty fece un cenno verso quelli. "Le piante sono lì. Tutto il resto è armamentario sciamanico. È una grande collezione, ma Eastman, il responsabile dei reperti del Camerun, non era quel che si dice un antropologo scrupoloso in fatto di documentazione." "È incredibile", disse Margo. "Non avevo idea..." "Senta", la interruppe Moriarty, "lei non può nemmeno immaginare le cose che abbiamo trovato, quando abbiamo avviato le ricerche per la mostra. In questo solo settore ci sono circa cento stanze dedicate all'antropologia, e scommetto che alcune non vengono aperte da una quarantina d'anni." Di colpo era più sicuro e baldanzoso. Margo pensò che, tolta la giacca di tweed, perso qualche chilo, sostituiti gli occhiali con lenti a contatto, avrebbe potuto anche essere attraente. Lui continuava a parlare. "Proprio la settimana scorsa, abbiamo trovato uno dei due soli esemplari esistenti al mondo di scrittura pittografica yu-
kaghir... proprio dietro la porta accanto! Non appena avrò tempo, scriverò un articolo per il JAA." La ragazza sorrise. Era così eccitato: sembrava che avesse scoperto una commedia inedita di Shakespeare. Era sicura che soltanto una decina di lettori del Journal of American Anthropology avrebbero mostrato interesse per l'articolo. "In ogni modo", continuò l'uomo, alzandosi gli occhiali sul naso, "mi serve qualcuno che mi aiuti a dare un senso a questi reperti del Camerun per le didascalie della vetrina della mostra." "Cosa dovrei fare?" domandò Margo, dimenticando per un momento il prossimo capitolo della sua dissertazione. L'entusiasmo del giovane era contagioso. "È un compito facile. Ho proprio qui gli appunti per la vetrina." Tolse un documento dalla valigetta. "Vede", continuò, facendo scorrere un dito sulla copertina, "è una traccia di quanto, idealmente, vorremmo che la vetrina spiegasse. Diciamo che è l'ossatura del progetto. Lei dovrebbe rimpolparla, darle un corpo scegliendo i manufatti e qualche pianta." Margo dette una scorsa al documento. Cominciava a pensare che la faccenda avrebbe richiesto molto più tempo di quello che aveva ipotizzato. "Quanto ci vorrà, a suo avviso, per farlo?" "Oh, dieci-quindici ore al massimo. Ho proprio qui gli elenchi degli accessi e alcune note descrittive. Ma dobbiamo fare in fretta. Mancano pochi giorni all'apertura." Lei pensò al capitolo che doveva iniziare. "Un momento", disse. "Non è un lavoro da poco, e io devo finire la mia dissertazione." La delusione sul volto di Moriarty era quasi comica. Non gli era nemmeno passato per la mente che lei potesse avere altro da fare. "Vuol dire che non può aiutarmi?" "Forse troverò il tempo", mormorò Margo. La faccia del giovane s'illuminò. "Benissimo! Senta, già che siamo al sesto, ne approfitterò per mostrarle un po' di roba." La condusse in un altro stanzino e infilò una chiave nel lucchetto. La porta si aprì cigolando su una profusione di teschi di bufalo dipinti, sonagli, piume, perfino una schiera di quelli che la ragazza identificò come scheletri di corvo appesi a lacci di cuoio. "Gesù", sussurrò. "C'è un'intera religione qui", spiegò Moriarty. "E aspetti di vedere che cosa esporremo. In questa stanza c'è soltanto il materiale escluso. Abbiamo
una delle più belle casacche per la Danza del Sole che si siano mai viste. E guardi!" Aprì un cassetto. "Cilindri di cera originali con la registrazione del ciclo di canti per la Danza del Sole. Incisi nel 1901. Li abbiamo messi su nastro, e li diffonderemo nella Sala dei Sioux. Che ne pensa? Grande mostra, eh?" "Di sicuro sta suscitando un bello scompiglio nel museo", replicò lei cautamente. "In verità, non ci sono poi tutte quelle polemiche che la gente sospetta", disse il curatore. "Non vedo perché scienza e intrattenimento non possano andare d'accordo." Margo non seppe resistere. "Scommetto che è stato il suo capo Cuthbert a darle questa direttiva." "Ha sempre sostenuto che le mostre dovrebbero essere più accessibili al pubblico in genere. Molta gente ci verrà perché si aspetta fantasmi, folletti e spettacoli di stregoneria... e noi glieli daremo. Anzi, avranno più di quello che sperano. In compenso, ci sarà un bell'afflusso di denaro. C'è qualcosa di sbagliato, in questo?" "Niente." Margo sorrise. Era meglio lasciare a Smithback il compito di azzannarlo. Moriarty però non aveva ancora finito. "So benissimo che la parola superstizione ha una connotazione negativa per molti. Sa di trovata pubblicitaria. Ed è pur vero che alcuni degli effetti che stiamo approntando sono... be'... un po' a sensazione. Ma una mostra intitolata Religione aborigena non sarebbe molto invitante, non le pare?" La scrutò con muta supplica. "Credo che nessuno abbia da ridire sul titolo", rispose lei. "E sono sicura che nessuno ritiene che le sue intenzioni non siano scientifiche." Il giovane scosse il capo. "Soltanto i curatori più anziani e più strambi. Come Frock, per esempio. La mostra Superstizione è stata scelta a discapito di quella sull'evoluzione proposta da lui. Non può parlarne bene." Il sorriso scomparve dal volto di Margo. "Il dottor Frock è un antropologo di prima qualità." "Frock? A parere del dottor Cuthbert è un po' fuori di testa. 'Quell'uomo è proprio matto', dice." Moriarty aveva imitato l'accento scozzese dì Cuthbert. La frase echeggiò sgradevolmente nei corridoi oscuri. "Non credo che Cuthbert sia poi quel genio che crede lei", lo rimbeccò la ragazza. "Suvvia! È un'autorità." "Niente di paragonabile al dottor Frock. Cosa mi dice dell'Effetto Calli-
sto? È una delle tesi più ardite dei nostri giorni." "Non ha uno straccio di prova a sostegno delle sue ipotesi. Lei ha mai avuto notizia di qualche specie mostruosa che vaga per la terra?" Moriarty scosse di nuovo il capo, mandando gli occhiali a pencolare pericolosamente sulla punta del naso. "Speculazione teorica. Intendiamoci, la teoria ha la sua importanza, ma deve essere confortata da osservazioni dirette. E il suo assistente, Greg Kawakita, gli dà corda con quel programma di estrapolazione che sta sviluppando. Ritengo che Kawakita abbia il suo tornaconto. Però è triste, davvero, vedere un grande intelletto che si butta via così. Insomma, basta guardare il nuovo libro di Frock. Evoluzione frattale. Sembra il titolo di un nuovo videogame, più che di un lavoro scientifico." La giovane ascoltava con crescente indignazione. Forse Smithback non si era sbagliato, dopotutto, sul conto di Moriarty. "Be', dal momento che io lavoro con il dottor Frock, suppongo che lei non apprezzerebbe un mio contributo alla mostra. Potrei inquinargliela con qualche speculazione." Si voltò e uscì repentinamente nel corridoio. L'altro era sbigottito. Si era ricordato troppo tardi che Frock era il relatore della dissertazione di Margo. La rincorse. "Oh, no, no. Non intendevo..." balbettò. "La prego, era soltanto... Lei sa che Frock e Cuthbert non si vedono di buon occhio. Forse mi sono lasciato influenzare." Sembrava così sgomento che Margo sentì la propria rabbia affievolirsi. "Non sapevo che fossero ai ferri corti", disse la ragazza, lasciando che Moriarty la bloccasse. "Oh, sì. E da lungo tempo. Lei saprà che, da quando Frock ha tirato fuori l'Effetto Callisto, la sua stella nel museo ha cominciato a declinare. Oggi è alla testa del dipartimento soltanto sulla carta, ma in realtà è Cuthbert che tiene le redini. Naturalmente, io ho sentito una sola campana. Mi dispiace, davvero. Preparerà la vetrina per me?" "A condizione", lo interruppe lei, "che mi porti fuori da questo labirinto. Devo tornare al mio lavoro." "Oh, certamente. Mi scusi", sussurrò il giovane curatore. La discussione lo aveva fatto tornare timido, e, mentre ripercorrevano il tragitto fino al quinto piano, restò taciturno. "Mi dica qualcos'altro sulla mostra", cominciò Margo per rimetterlo a suo agio. "Ho sentito parlare di alcuni manufatti estremamente rari..." "Forse si riferisce al materiale della tribù kothoga", disse Moriarty. "Soltanto una spedizione è riuscita a mettersi sulle loro tracce. La scultura della
loro mitica bestia Mbwun... be', è il pezzo forte." Esitava. "O, dovrei dire, sarà uno dei pezzi forti. Non è ancora disponibile." "Davvero? Non aspetteranno l'ultimo momento per tirarla fuori!?" "La situazione è un po' complicata", replicò lui. "Ma, senta, Margo, è una faccenda che non deve diventare di pubblico dominio." Erano tornati alle passerelle, e Moriarty la condusse verso il lungo corridoio, parlando sottovoce. "Di recente si è acceso un grande interesse attorno ai manufatti kothoga. Gente come la Rickman, il dottor Cuthbert... anche Wright, a quanto pare. C'è stata qualche discussione circa l'opportunità di inserirli nella mostra. Avrà sentito quelle storie su una maledizione che incomberebbe sulla statuina e baggianate del genere." "Veramente no." "La spedizione che ha trovato il materiale kothoga si è conclusa con una tragedia, e da allora nessuno ha più toccato quella roba. È ancora nelle casse. Giusto la settimana scorsa, le casse sono state tolte dallo scantinato dov'erano rimaste per tutti questi anni e portate nell'Area di Sicurezza. Da allora nessuno si è potuto avvicinare, e non sono stato ancora in grado di preparare il materiale." "Ma perché le hanno spostate?" incalzò Margo. Entrarono nell'ascensore. Moriarty aspettò che la porta si chiudesse per rispondere. "A quanto pare, le casse sono state manomesse, di recente." "Come? Intende dire che qualcuno le ha aperte senza permesso?" L'uomo fissò Margo, l'aria di perenne sorpresa che lo faceva somigliare proprio a un gufo. "Non ho detto questo", rispose. Girò la chiave, e l'ascensore cominciò a scendere. 10 D'Agosta desiderava con tutta l'anima che il piccantissimo hamburger al formaggio gli sparisse dallo stomaco. Non che gli desse fastidio, per il momento; era però una sgradita presenza. In quel posto c'era l'odore di sempre. Per la verità, puzzava proprio. Tutti i disinfettanti del mondo non potevano coprire l'odore della morte. Le pareti verde-vomito dell'ufficio di medicina legale, poi, non miglioravano davvero le cose. E nemmeno l'ampio lettino a rotelle, al momento vuoto, che se ne stava sotto le luci abbaglianti della sala di autopsia come un ospite non invitato. I suoi pensieri furono interrotti dall'ingresso di un donnone seguito da
due uomini. D'Agosta notò gli occhiali eleganti, i capelli biondi che le uscivano dalla cuffia da chirurgo. La donna avanzò a grandi passi e tese la mano, le labbra rosse che si corrugavano in un sorriso professionale. "Dottor Ziewicz", si presentò serrandogli la mano in una morsa. "Lei dev'essere D'Agosta. Questo è il mio assistente, il dottor Fred Gross." Indicò un uomo magro e smunto. "E questo è il nostro fotografo, Delbert Smith." Delbert annuì, stringendo al petto la Deardorff 4x5. "Sicché, dottor Ziewicz, lei viene qui spesso?" domandò D'Agosta, ansioso di dire subito qualcosa, qualsiasi cosa, pur di rimandare l'inevitabile. "Be', questo posto è la mia seconda casa", rispose la Ziewicz con lo stesso sorriso. "Il mio campo è... come posso dire?... medicina legale speciale. Lavoriamo per tutti, o quasi. Facciamo quel che dobbiamo fare e passiamo i dati all'esterno. Poi leggo sulla carta i risultati che ne hanno tratto gli altri." Lo guardò con malizia. "Lei ha già assistito a operazioni del genere, vero?" "Oh, sì. Continuamente." L'hamburger nello stomaco gli sembrava un lingotto di piombo. Perché non ci aveva pensato prima? Perché non aveva ricordato gli impegni del pomeriggio, prima di ingozzarsi come un maiale? "Benissimo." Il medico legale consultò la propria cartellina. "Vediamo: autorizzazione dei genitori? Bene. Pare che sia tutto a posto. Fred, cominciamo col 5-B." Si infilò i guanti di latice, tre paia, la mascherina, occhialoni e un grembiule di plastica. Il poliziotto fece lo stesso. Gross portò il lettino verso la cella frigorifera dell'obitorio e aprì il portello contrassegnato dalla sigla 5-B. La forma indistinta sotto l'involucro di plastica appariva stranamente corta a D'Agosta, con una protuberanza a un'estremità. Gross fece scivolare il cadavere sul lettino e lo spinse sotto le luci, controllò il cartellino attaccato all'alluce e bloccò le ruote. Mise un secchio di acciaio inossidabile sotto il foro di scarico. La donna stava armeggiando con il microfono che penzolava dal soffitto sopra il cadavere. "Uno due tre... prova. Fred, questo microfono è muto." Fred si chinò sul registratore. "Non capisco, qui è tutto acceso..." D'Agosta si schiarì la voce. "È scollegato", disse. Ci fu un breve silenzio. "Bene", continuò la Ziewicz. "Mi fa piacere che ci sia qui qualcuno che non è uno scienziato. Se deve chiedere qualcosa o fare commenti, signor D'Agosta, la prego di dire prima il suo nome e di parlare chiaramente verso
il microfono. D'accordo? Va tutto sul nastro. Prima descriverò lo stato del cadavere, poi comincerò a tagliare." "Intesi", disse D'Agosta con voce atona. Tagliare. Una cosa era vedere i cadaveri sul luogo del delitto. Quando però cominciavano a tagliarli, a togliere strato dopo strato... non era mai riuscito a farci l'abitudine. "Possiamo cominciare? Bene. Sono la dottoressa Matilda Ziewicz, assistita dal dottor Frederick Gross, ed è lunedì 27 marzo, due e un quarto del pomeriggio. Siamo assieme al detective sergente...?" "Tenente Vincent." "Tenente Vìncent D'Agosta, del dipartimento di polizia di New York. Abbiamo qui..." Fred lesse la targhetta. "William Howard Bridgeman, numero 33-A45." "Tolgo il rivestimento." Lo spesso telo di plastica crepitò. Ci fu un breve silenzio. D'Agosta ebbe una rapida visione del cane sventrato di quella mattina. Il trucco è non pensarci. Non pensare alla tua Vinnie, otto anni la settimana prossima. La dottoressa trasse un profondo respiro. "Abbiamo qui un maschio caucasico, un ragazzino, di età... fra i dieci e i dodici anni; altezza... be', non posso dirlo perché il corpo è decapitato. Un metro e cinquanta o sessanta, presumo. Peso, poco più di quaranta chili. Sono dati molto approssimativi. Lo stato del cadavere è tale che non mi consente di fornire altri segni distintivi. Colore degli occhi e tratti facciali indeterminati, causa l'imponente trauma alla testa. "Nessuna ferita anteriore su piedi, gambe o genitali. Per favore, Fred, pulisci l'area addominale... grazie. Un numero indeterminato di ampie lacerazioni che si dipartono dalla regione pettorale anteriore sinistra e, con un angolo di centonovanta gradi, attraversano costole e sterno fino alla regione addominale destra. La ferita è imponente, lunga una sessantina di centimetri e larga trenta. Grande pettorale e piccolo pettorale sono staccati dalla gabbia toracica esterna; intercostale esterno e interno sono separati, e il cadavere è abbondantemente sventrato. Il processo sternale è spezzato e la gabbia toracica esposta. Emorragia massiva nell'aortico... Difficile capire, prima di pulire ed esplorare. "Fred, pulisci il bordo della cavità toracica. Le interiora chiaramente esposte e sporgenti sono stomaco, intestino tenue e crasso. Gli organi retroperitoneali sembrano in sede. "Pulisci il collo. Nella regione del collo, segni di trauma e lividi, forse dovuti a stravaso, probabile lussazione della spina dorsale.
"Ora, quanto alla testa... Dio mio." Nel silenzio, Fred si schiarì la gola. "La testa è decapitata fra il processo assiale e l'atlante. L'intero occipitale della scatola cranica e mezzo parietale sono frantumati, o meglio... sembra che siano stati spaccati e rimossi in qualche modo, lasciando un foro di quasi venti centimetri di diametro. Il cranio è vuoto. Si direbbe che l'intero cervello sia fuoriuscito o sia stato estratto attraverso tale foro... Il cervello, o quello che ne rimane, è in una bacinella a destra della testa, ma non ci sono indicazioni circa la sua posizione originaria rispetto al cadavere." "È stato trovato a pezzi accanto al corpo", intervenne D'Agosta. "Grazie, tenente. Ma dov'è il resto?" "È tutto lì." "No, manca qualcosa. Avete fotografato il luogo del delitto?" "Naturalmente", rispose il poliziotto, cercando di non mostrare il proprio disagio. "Il cervello presenta gravi traumi. Fred, dammi un bisturi numero due e uno specolo traverso. Sembra che il cervello sia stato staccato all'altezza del midollo allungato. Il ponte di Varolio è intatto ma separato. Il cervelletto mostra lacerazioni superficiali, ma per il resto è integro. Piccole tracce di sanguinamento, indicanti un trauma post mortem. Il corpo del fornice è in sede. Il cervelletto è stato completamente separato dal mesencefalo e il mesencefalo è bisecato... Guarda, Fred, non c'è la regione talamica. E nemmeno l'ipofisi. Ecco che cosa mancava." "Che roba è?" domandò D'Agosta. Si impose di guardare più da vicino. Il cervello, posato in una bacinella di acciaio inossidabile, sembrava una massa liquida, più che solida. Distolse gli occhi. Baseball. Pensare al baseball. Un lancio, il rumore della mazza... "Talamo e ipotalamo. Il regolatore del corpo." "Regolatore del corpo", ripeté lui. "L'ipotalamo regola la temperatura corporea, la pressione sanguigna, il battito cardiaco, e il metabolismo di grassi e carboidrati. Anche il ciclo sonno-veglia. Riteniamo che ospiti anche i centri del piacere e del dolore. È un organo davvero complesso, tenente." Lo guardò fisso, aspettandosi una domanda. D'Agosta bofonchiò con deferenza: "E come riesce a fare tutto questo?" "Ormoni. Secerne centinaia di ormoni regolatori nel cervello e nel flusso sanguigno." "Ah!" esclamò il tenente. Fece un passo indietro. La palla si libra in
mezzo al campo, il centrocampista arretra, il guantone si alza... "Fred, da' un'occhiata", ordinò bruscamente la Ziewicz. L'assistente si chinò sulla bacinella. "Sembra... Be', non saprei..." "Su, Fred", lo sollecitò la dottoressa. "Be', si direbbe..." Fece una pausa. "Si direbbe che sia stato lacerato da un morso." "Esattamente. Foto!" Delbert si precipitò. "Fotografa qui. Proprio come quando i miei figli mi mangiucchiano la torta." D'Agosta si sporse avanti, ma non riuscì a distinguere niente di speciale nella massa grigia, sanguinolenta. "È semicircolare, si direbbe di una persona, ma più largo, più frastagliato di come ci si aspetterebbe. Prendiamone delle sezioni. Facciamole esaminare per rintracciare l'eventuale presenza di enzimi salivari, Fred, non si sa mai. Portalo al laboratorio, digli di congelarlo e di asportare delle microsezioni qui, qui e qui. Cinque sezioni in tutto. Che ne trattino almeno una con eosinophil. E un'altra con enzima attivatore salivare. E digli di fare tutto quello che tu o loro riterrete opportuno." Appena Fred uscì, la dottoressa riprese: "Ora sto sezionando il cervelletto. Il lobo posteriore è ammaccato, causa la rimozione dal cranio. Foto. La superficie mostra tre lacerazioni parallele, o incisioni, distanti circa quattro millimetri e profonde circa un centimetro. Sto sezionando la prima incisione. Foto. Tenente, vede come queste lacerazioni partono separate e poi convergono? Cosa ne pensa?" "Non saprei", brontolò D'Agosta, scrutando più da vicino. È soltanto un cervello morto, pensò. "Unghie lunghe, forse? Unghie acuminate? Voglio dire: ci troviamo davanti a un omicida psicopatico?" Fred tornò dal laboratorio e i due continuarono a lavorare sul cervello per quella che al poliziotto parve un'eternità. Alla fine, la Ziewicz ordinò all'assistente di metterlo in frigorifero. "Ora passo a esaminare le mani", disse la donna nel microfono. Tolse un sacchetto di plastica che avvolgeva la mano destra del cadavere e lo richiuse con cura. Poi alzò la mano inerte, la ruotò, esaminò le unghie. "C'è materiale estraneo sotto il pollice, l'indice e l'anulare. Fred, tre vetrini concavi." "È un bambino", disse D'Agosta. "È normale che abbia le unghie sporche." "Forse, tenente", replicò lei. Raschiò il materiale posandolo nelle piccole
cavità dei vetrini, un dito dopo l'altro. "Fred, il microscopio elettronico. Voglio dare un'occhiata." Piazzò il vetrino sotto l'oculare, si chinò e regolò lo strumento. "Normale sporcizia sotto il pollice, a quanto sembra. Stessa cosa con le altre dita. Fred, fa' analizzare più a fondo, non si sa mai." Sulla mano sinistra non c'era niente d'interessante. "Passo ora", continuò la dottoressa, "a esaminare il trauma longitudinale nella parte anteriore del cadavere. Del, fotografa qui, qui e qui, e vedi se è il caso di cambiare prospettiva per evidenziare meglio la ferita. Primi piani dell'area di penetrazione. Si direbbe che l'assassino abbia già preparato per noi l'incisione a 'Y'... non le pare, tenente?" "Già", bofonchiò D'Agosta, deglutendo a fatica. Ci fu una serie di rapidi lampi. "Pinze", proseguì la donna. "Tre lacerazioni frastagliate partono da sopra il capezzolo sinistro nel grande pettorale: penetrano a fondo e separano il muscolo. Sto sezionando ed esplorando la prima lacerazione nel punto d'ingresso. Tieni qui, Fred." "Sto esplorando la ferita. C'è del materiale estraneo non identificato. Fred, mi passi una pergamina? Sembra materiale tessile, forse dalla camicia della vittima. Foto." Il flash lampeggiò, e poi la donna sollevò un pezzetto di quella che sembrava garza insanguinata, infilandola nella busta di pergamina. Continuò a esplorare in silenzio per un po'. "C'è un altro pezzo di materiale estraneo nel muscolo, circa quattro centimetri sotto il capezzolo destro. È incastrato in una costola. Sembra duro. Foto. Un segnalino qui, Fred!" La dottoressa estrasse il corpo estraneo e lo sollevò, grumo insanguinato tenuto fra le punte delle lunghe pinze. D'Agosta si fece avanti. "Che cos'è? Si può lavare, per vederlo?" La donna lo guardò sorridendo. "Fred, portami un bicchiere di acqua sterilizzata." Mentre immergeva l'oggetto e lo agitava, l'acqua si colorava di rosso bruno. ''Conserva l'acqua, guarderemo poi se c'è dell'altro", disse, alzando il corpo estraneo alla luce. "Oh, mio Dio" esclamò il poliziotto. "È un artiglio. Un fottuto artiglio." La Ziewicz si rivolse all'assistente. "Un incantevole frammento di monologo per la nostra registrazione... non ti pare, Fred?"
11 Margo buttò libri e carte sul divano e guardò l'orologio posato sul televisore: le dieci e un quarto. Scosse la testa. Che incredibile, orrenda giornata! In tutte quelle ore extra aveva aggiunto soltanto tre paragrafi alla dissertazione. E doveva anche pensare alla relazione per Moriarty. Sospirò, rammaricandosi di avergli detto di sì. Il riflesso delle luci al neon di una rivendita di alcolici di là dal viale penetrava dall'unica finestra del salotto, immergendo la stanza in un chiaroscuro blu elettrico. Margo accese la luce al soffitto e si appoggiò alla porta, osservando il caos. Di solito era ordinata fino all'eccesso. Ma adesso, dopo una settimana di abbandono, manuali, lettere di condoglianze, documenti legali, scarpe e maglioni erano sparsi in ogni dove. Vassoi di cartone del ristorante cinese sotto casa traboccavano dall'acquaio. La vecchia macchina per scrivere Royal e un fascio di fogli dattiloscritti erano sparsi sul parquet. Lo squallido quartiere, che ancora non subiva l'influenza borghese della parte alta di Amsterdam Avenue, aveva dato a suo padre una ragione di più per consigliarle di tornare a Boston. "Questo non è luogo per una ragazza come te, Midge", le aveva detto, usando il suo nomignolo di bambina. "E quel museo non è un buon posto di lavoro. Chiusa tutto il giorno con quelle creature morte e impagliate, tutte quelle cose in vaso. Che vita è? Vieni a lavorare con me. Ti prenderemo una casa a Beverly, a Marblehead. Sarai più felice lì, Midge, posso assicurartelo." Quando si accorse che la segreteria lampeggiava, Margo schiacciò il pulsante di ascolto. "Sono Jan", diceva il primo messaggio. "Sono tornato oggi in città, e ho appena saputo. Senti, mi dispiace molto per la morte di tuo padre. Ti richiamo più tardi, d'accordo? Voglio parlarti. Ciao." Aspettò. Giunse un'altra voce. "Margo, sono la mamma." E poi un clic. Lei strinse forte le palpebre per un momento, poi trasse un profondo respiro. Non avrebbe chiamato Jan, non ancora. E non avrebbe nemmeno risposto a sua madre; non fino all'indomani, almeno. Sapeva cosa le avrebbe detto: Devi tornare qui a badare agli affari di tuo padre. È quello che lui desiderava. Lo devi a entrambi. Si voltò, sedette a gambe incrociate davanti alla macchina per scrivere e guardò gli appunti del conservatore, i dati di catalogo, gli elenchi degli ac-
cessi al computer che le aveva dato Moriarty. Doveva consegnargli il lavoro di lì a due giorni, le aveva detto, e il nuovo capitolo della dissertazione doveva essere pronto per il lunedì successivo. Fissò le carte per un po', cercando di concentrarsi. Poi cominciò a scrivere. Pochi momenti dopo si fermò con lo sguardo fisso nel buio. Ricordò le omelette che preparava suo padre - la sola cosa che sapesse cucinare - la domenica mattina. "Ehi, Midge", le diceva sempre. "Niente male per un ex scapolone, eh?" Molte luci all'esterno si erano spente, con la chiusura dei negozi. Margo guardò fuori i graffiti, le finestre sbarrate da assi. Forse papà aveva ragione: la povertà non era una bella cosa. Povertà. Scosse la testa, ricordando l'ultima volta che aveva sentito quella parola, rivedendo l'espressione di sua madre mentre la pronunciava. Erano sedute entrambe nel freddo, buio ufficio dell'esecutore testamentario, e ascoltavano le complesse ragioni per le quali i tassi bancali e la cattiva gestione del patrimonio imponevano di liquidare l'azienda... a meno che qualche membro della famiglia non si assumesse l'onere di rimetterla in sesto. Pensò ai genitori dei due bambini. Anche loro dovevano avere grandi speranze per i figli. Ora non avrebbero avuto più delusioni. O gioie. Poi le venne in mente Prine. E il sangue sulle sue scarpe. Si alzò e accese altre luci. Era ora di preparare la cena. Domani si sarebbe chiusa in ufficio, avrebbe finito quel capitolo. Avrebbe lavorato a quella relazione sul Camerun per Moriarty. E rimandato la decisione... per un altro giorno, almeno. Dopo l'incontro settimanale con Frock, promise a se stessa, ci avrebbe pensato su. Il telefono trillò. Senza pensare, Margo alzò la cornetta. "Pronto", disse. Ascoltò per un momento. "Oh, ciao, mamma." 12 Il buio arrivava presto nel Museo di Storia Naturale. Attorno alle cinque, il sole della recente primavera era già tramontato. All'interno, la folla cominciava a diradarsi. Turisti, scolaresche e genitori provati si riversavano sulle scale di marmo verso l'uscita. Di lì a poco, gli echi, le grida, gli scalpiccii nei corridoi a volta si sarebbero spenti. A una a una, le vetrine si smorzavano, e, mentre la notte avanzava, le luci rimaste proiettavano ombre folli sui pavimenti di marmo.
Una guardia solitaria procedeva lungo un corridoio nel suo giro di ispezione, facendo dondolare una lunga catena di chiavi e canticchiando. Era l'inizio del turno, e indossava l'uniforme neroazzurra dei custodi del museo. Da un pezzo quelle sale avevano perso il gusto della novità per lui. Questo posto mi fa venire la pelle d'oca, pensava. Guarda quel figlio di puttana lì. Fottuta merda indigena. E c'è gente che paga per vedere 'sta roba. Almeno la metà porta sfiga, comunque. La maschera lo osservava da una vetrina buia. L'uomo affrettò il passo verso il punto di controllo, dove girò la chiavi in una scatola. La macchinetta registrò l'ora: 22.23. Mentre procedeva verso l'altra sala e la postazione successiva, aveva la sgradevole sensazione - e non era davvero la prima volta - che i suoi passi fossero accuratamente duplicati da una presenza invisibile. Raggiunse l'altra macchinetta, girò di nuovo la chiave. Si udì un clic: 22.34. Occorrevano soltanto quattro minuti per raggiungere la postazione successiva. Aveva sei minuti per una fumatina. Imboccò una scala, dopo aver aperto e richiuso la porta, e guardò giù, verso lo scantinato oscuro, dove un'altra porta si apriva su un cortile interno. La mano cercò l'interruttore in cima alle scale, poi si ritrasse. Perché attirare l'attenzione? Si aggrappò al corrimano metallico e scese. Nello scantinato, avanzò lungo la parete finché trovò un lungo maniglione orizzontale. Spinse, e fu investito dall'aria fredda della notte. Tenendo la porta aperta col corpo, si accese uno spinello, inalando con gusto il fumo amarognolo mentre avanzava nel cortile. Una luce tenue, dal portico deserto sul lato opposto, illuminava debolmente i suoi gesti. Il ronzio del traffico, attenuato da tante pareti intermedie, da corridoi e parapetti, sembrava venire da un altro pianeta. L'uomo assaporò con sollievo il caldo effluvio dell'erba... un'altra lunga notte resa sopportabile. Una volta che ebbe finito, buttò il mozzicone nel buio, si portò le mani ai capelli tagliati a spazzola, si stiracchiò. A metà scala, sentì la porta sottostante che sbatteva. Si fermò, avvertendo un brivido improvviso. Aveva lasciato la porta aperta? No. Merda, e se qualcuno l'aveva visto fumare? Non potevano però avere sentito l'odore dell'erba e, nel buio, come avrebbero potuto distinguere uno spinello da una comune sigaretta? Nell'aria c'era uno strano odore di marcio che non aveva niente a che vedere con la marijuana. Ma nessuna luce, nessun rumore di passi sui gradini
di metallo. La guardia riprese a salire verso il pianerottolo superiore. Proprio mentre lo raggiungeva, avvertì un movimento brusco alle spalle. Si girò, e una tremenda botta al torace lo mandò a sbattere contro il muro. L'ultima cosa che vide furono i propri visceri indistinti che scivolavano e rotolavano giù per le scale. Dopo un attimo, smise di chiedersi da dove venisse tutto quel sangue. 13 Martedì Bill Smithback sedeva su una sedia imponente e guardava l'affilato, spigoloso profilo di Lavinia Rickman che, dietro la scrivania impiallacciata di betulla, leggeva il suo manoscritto spiegazzato. Due unghie laccate di rosso vivo tamburellavano sul piano lustro. Smithback sapeva che quella musichetta non era un buon segno. Fuori delle finestre, quel martedì mattina si presentava proprio grigio. La stanza non aveva nulla del tipico ufficio del museo. Cumuli di riviste, giornali e libri sparsi, tipico "arredo" degli altri uffici, lì non trovavano posto. Per contro, gli scaffali e la scrivania erano decorati da ninnoli di varia provenienza: una bambola cacciaspiriti del Nuovo Messico, un Buddha di ottone del Tibet, alcune marionette indonesiane. Le pareti erano del tradizionale verde, e nella stanza c'era odore di deodorante al pino. Altre rarità erano allineate su ambo i lati della scrivania, ordinate e simmetriche come piante in un giardino francese: un fermacarte di agata, un tagliacarte d'osso, un netsuke giapponese. E al centro di quel quadretto c'era la Rickman in persona, compostamente china sul manoscritto. La sua capigliatura, sul rosso arancione, secondo Smithback non si addiceva al verde delle pareti. La donna fece tamburellare le dita con più enfasi, poi rallentò il movimento mentre voltava pagina. Giunse infine all'ultima, raccolse i fogli sparsi e li ricompose nel centro esatto della scrivania. "Bene", disse, alzando gli occhi con un sorriso radioso. "Pochi piccoli suggerimenti." "Oh!" "Questa parte sui sacrifici degli aztechi, per esempio. Troppo polemica." Si umettò elegantemente il dito e trovò il punto. "Qui." "Sì, ma nella mostra..."
"Signor Smithback, la mostra vuol essere di buon gusto. E questo non è di buon gusto. È troppo pittoresco." Tracciò un frego col pennarello sulla pagina. "Ma risponde a verità", protestò lui, sentendosi fremere. "Sto parlando di enfasi, non di verità. Una cosa può essere assolutamente vera ma detta in modo sbagliato, sicché dà un'impressione sbagliata. Mi consenta di ricordarle che qui a New York c'è una folta comunità ispanica." "Sì, ma non vedo come ciò potrebbe offendere..." "Andando avanti, questa parte su Gilborg va semplicemente tolta." Tracciò un altro frego su un'altra pagina. "Perché...?" La donna si appoggiò allo schienale. "Signor Smithback, la spedizione di Gilborg è stata un fiasco. Cercavano un'isola inesistente. Uno dei componenti, come lei ha zelantemente rammentato qui, stuprò un'indigena. Noi intendiamo tenere ogni riferimento a Gilborg fuori della mostra. Le sembra davvero necessario documentare i fallimenti del museo?" "Me le sue raccolte sono superbe!" protestò debolmente Smithback. "Senta, non sono sicura che lei abbia ben inteso la natura del suo incarico." Ci fu un lungo silenzio. Ricominciò a far tamburellare le dita. "Crede che il museo l'abbia assunta - e pagata - per documentare fiaschi e polemiche?" "Ma fiaschi e polemiche sono parte della scienza; chi mai leggerebbe un libro che..." "Molte aziende danno soldi al museo, aziende che potrebbero essere disturbate da cose simili", lo interruppe la signora Rickman. "E fuori di qui ci sono capricciosi e battaglieri gruppi etnici che potrebbero offendersi molto." "Stiamo parlando di cose successe centinaia di anni fa, mentre..." "Signor Smithback!" La Rickman aveva alzato la voce di poco, ma l'effetto fu sconvolgente. Cadde di nuovo il silenzio. "Signor Smithback, devo dirle con franchezza..." Fece una pausa, poi si alzò di scatto e girò attorno alla scrivania finché fu alle spalle dello scrittore. "Devo dirle", proseguì la Rickman, "che lei ci mette un po' più tempo di quanto pensassi a uniformarsi al nostro punto di vista. Lei non sta scrivendo un libro per un editore commerciale. Per parlar chiaro, noi ci aspettiamo lo stesso trattamento favorevole che ha riservato all'acquario di Boston nel
suo primo - ehm - incarico." Si portò di fronte a Smithback e si poggiò rigidamente sul bordo della scrivania. "Ci aspettiamo alcune cose da lei, e in verità abbiamo il diritto di aspettarcele. Queste cose sono..." cominciò a contare sulle dita ossute. "Primo: niente polemiche. "Secondo: niente che possa offendere i gruppi etnici. "Terzo: niente che possa ledere la reputazione del museo. "Ora, le sembrano cose tanto irragionevoli?" Abbassò la voce e, chinandosi leggermente, strinse nella propria, asciutta, la mano di Smithback. "Io... no." Il giovane lottò contro il desiderio quasi incontenibile di ritrarre la mano. "Bene, allora siamo d'accordo." Tornò dietro la scrivania e fece scivolare il manoscritto verso di lui. "C'è un'ultima cosa che dobbiamo discutere", aggiunse poi scandendo le parole. "Nel manoscritto ci sono alcuni punti in cui lei riporta commenti piuttosto interessanti di persone 'legate alla mostra', ma trascura di citare le fonti. Niente d'importante, capisce, ma gradirei un elenco di queste fonti... per il mio archivio, semplicemente." Sorrise fiduciosa. Un campanello d'allarme trillò nella testa di Smithback. "Be'", replicò prontamente, "mi piacerebbe accontentarla, ma l'etica giornalistica non me lo consente." Si strinse nelle spalle. "Sa com'è..." Il sorriso della signora Rickman svanì rapidamente, e la donna schiuse le labbra per parlare. Proprio allora, con grande sollievo di Smithback, squillò il telefono. Il giovane si alzò per uscire e raccolse il manoscritto. Mentre chiudeva la porta, sentì un profondo sospiro. "Non un altro!" La porta si chiuse cigolando. 14 D'Agosta non riusciva proprio ad abituarsi alla Sala delle Grandi Scimmie. Tutti quei grossi scimpanzé ghignanti, impagliati, appesi a finti alberi, con le braccia pelose, i falli simpaticamente realistici e grosse mani umane con unghie vere. Si chiedeva perché mai agli scienziati fosse occorso così tanto tempo per capire che l'uomo discende dalla scimmia. Era ovvio: bastava un'occhiata a uno scimpanzé. E poi aveva sentito dire che gli scimpanzé erano proprio come gli uomini, violenti, rissosi, sempre a darsele di santa ragione, perfino a uccidersi e mangiarsi a vicenda. Gesù, pensava, ci
sarà pure un'altra via per attraversare il museo senza passare di qua.. "Da questa parte", disse la guardia. "Giù per le scale. Davvero terribile, tenente. Stavo andan..." "Ti ascolterò più tardi", lo interruppe D'Agosta. Dopo il bambino, era preparato a tutto. "Hai detto che indossa l'uniforme delle guardie. Lo conoscevi?" "Non so. È difficile dirlo." Il guardiano indicò le scale buie. I gradini portavano a una specie di cortile. Il cadavere giaceva in fondo, nell'ombra. Tutto era rigato e chiazzato di nero... il pavimento, le pareti, le luci al soffitto. D'Agosta sapeva cos'era quel nero. "Tu", ordinò, rivolgendosi a uno dei poliziotti che lo seguivano. "Porta qui qualche lampada. Voglio che il posto sia subito ispezionato e che venga raccolto fino all'ultimo granello di polvere. È arrivato il pronto intervento? Dato che l'uomo è ovviamente morto, tenete fuori per un po' quelli dell'ambulanza. Non voglio che mettano tutto sottosopra." Guardò di nuovo giù per le scale. "Dio santissimo", esclamò. "Di chi sono quelle impronte? Qualche deficiente deve aver sguazzato in quella pozza di sangue. A meno che l'assassino non abbia deciso di lasciarci un bell'indizio." Silenzio. "Sono tue?" domandò, rivolto alla guardia. "Come ti chiami?" "Norris. Eric Norris. Come stavo dicendo..." "Sì o no?" "Sì, ma..." "Sta' zitto. E le scarpe sono queste che hai ai piedi?" "Sì. Vede, stavo..." "Togliti le scarpe. Stai calpestando dappertutto." Fottuta guardia giurata, pensò il tenente. "Portale al laboratorio. Di' che le mettano in un sacchetto da reperti, loro sanno cosa fare. Aspettami là. No, non aspettarmi. Ti farò chiamare io più tardi. Devo farti qualche domanda. No, porta quelle dannate scarpe fuori di qui." Non voleva fra i piedi un altro Prine. Possibile che tutti in quel museo avessero la mania di mettersi a sguazzare nel sangue? "Cammina con le calze." "Sissignore." Uno dei poliziotti ridacchiò. Gli occhi del tenente lo fulminarono. "Lo trovi divertente? Ha sparso il sangue dappertutto. Non c'è niente da ridere."
D'Agosta si portò a metà scala. La testa giaceva in un angolo lontano, a faccia in giù. Da lì non vedeva bene, ma sapeva che avrebbe trovato la scatola cranica spaccata, il cervello che galleggiava da qualche parte in mezzo a tutto quel sangue. Dio, che razza di casino riusciva a fare un cadavere, se ci si metteva! Un passo risuonò sulla scala alle sue spalle. "Pronto intervento", disse un tipo basso seguito da un fotografo e altri uomini in camice. "Era ora. Voglio delle luci qui, qui e qui, e ovunque servano al fotografo. Voglio che delimitiate il posto, e voglio che sia fatto cinque minuti fa. Raccogliete ogni filo di lanugine e ogni granello di polvere. Passate su tutto la polvere per le impronte. Voglio... be', cos'altro voglio? Voglio che siano fatti tutti i test possibili e immaginabili, e nessuno deve entrare nell'area circoscritta. Intesi? Non facciamo casini, stavolta." Si voltò. "Sono arrivati quelli della scientifica? E il rappresentante del medico legale? O sono tutti a prendersi il cappuccino?" Si tastò il taschino della giacca, in cerca di un sigaro. "Mettete delle scatole di cartone su quelle impronte. E voi, ragazzi, mentre lo fate, date una pulita attorno al cadavere in modo che si possa camminare senza portare il sangue dappertutto." "Eccellente", sentì dire alle proprie spalle da una voce bassa, mielata. "Lei chi diavolo è?" domandò il tenente, voltandosi a guardare l'alto uomo snello che, in un lindo vestito nero, si sporgeva dalla cima delle scale. I capelli, così biondi da sembrare bianchi, erano pettinati in avanti, sopra occhi azzurrissimi. "Il beccamorto?" "Pendergast", rispose l'uomo, scendendo e tendendo la mano. Il fotografo, carico di attrezzatura, gli passò accanto superandolo. "Bene, Pendergast, sarà meglio che abbia un'ottima ragione per trovarsi qui, perché in caso contrario..." Il giovanotto sorrise. "Agente speciale Pendergast." "Oh. FBI? Che bella sorpresa! Come va? Perché diavolo non telefonate mai prima? Senti, ho uno senza testa e col cervello spappolato, laggiù. Dove sono gli altri?" Pendergast ritrasse la mano. "Temo di essere il solo." "Come? Non prendermi in giro. Voi viaggiate sempre in gruppo." Le luci si accesero, e il sangue attorno a loro scintillò con sinistro splendore. Tutto ciò che prima sembrava nero s'illuminò, tutte le ombre segrete del cadavere divennero visibili. Si vedeva anche qualcosa che doveva essere stata la colazione di Norris, in mezzo a una pozza di liquido sanguino-
lento. Involontariamente, le mascelle di D'Agosta si contrassero. Poi i suoi occhi scorsero un pezzo di cranio ancora attaccato ai capelli a spazzola della guardia, a un paio di metri buoni dal cadavere. "Oh, Gesù", mormorò, facendo un passo indietro. E poi successe. Proprio lì, davanti a quello dell'FBI, davanti a quelli del pronto intervento, davanti al fotografo: vomitò la colazione. Non è possibile, pensò. La prima volta in ventidue anni, e nel momento peggiore. Sulle scale comparve il medico legale, una giovane in camice bianco e grembiule di gomma. "Chi comanda qui?" domandò, infilandosi i guanti. "Io", rispose D'Agosta, pulendosi la bocca. Guardò Pendergast. "Ancora per qualche minuto, comunque. Tenente D'Agosta." "Dottor Collins", replicò bruscamente la donna. Seguita da un assistente, scese nell'area vicino al cadavere, dove stavano pulendo il sangue. "Fotografo", chiamò. "Ora giro il cadavere. Un'intera sequenza, per favore." D'Agosta distolse lo sguardo. "Dobbiamo darci da fare, Pendergast", disse in modo autoritario. Indicò il vomito. "Non pulitelo finché quelli del pronto intervento non hanno finito con le scale. Intesi?" Tutti annuirono. "Voglio l'elenco di tutti quelli che sono entrati e usciti, il più presto possibile. Guardate se riuscite a identificare il morto. Se è una guardia, fate venire Ippolito. Pendergast, andiamo al posto di comando, dobbiamo coordinarci, o darci una linea di condotta, o come diavolo dite voi; torneremo a dare un'occhiata quando qui avranno finito." "Magnifico", disse Pendergast. Magnifico? pensò il tenente. Il tipo doveva essere del Sud. Ne aveva già conosciuti: non avevano speranze a New York. L'uomo dell'FBI si fece avanti e disse pacatamente: "Il sangue schizzato sui muri è molto interessante". D'Agosta alzò gli occhi. "Ma va'?!" "Mi piacerebbe conoscere la balistica (traiettoria e velocità) di questo sangue." D'Agosta lo guardò fisso negli occhi azzurri. "Buona idea", disse infine. "Ehi, fotografo, fa' una bella sequenza del sangue sui muri. E tu, tu..." "McHenry, signore." "Voglio un'analisi balistica di quel sangue. Sembra che sia schizzato con forza e con una stretta angolazione. Voglio che siano individuate fonte, ve-
locità, forza: un rapporto completo." "Sissignore." "Dev'essere sulla mia scrivania fra mezz'ora." McHenry parve un po' a disagio. "Okay, Pendergast, qualche altra idea?" "No." "Andiamo." Nel posto di comando provvisorio, tutto era in ordine. D'Agosta lo capiva subito. Non un pezzo di carta in giro, non un cassetto aperto, non un nastro di registratore sulle scrivanie. Ogni cosa sembrava a posto, e lui se ne rallegrò. I ragazzi si davano un gran daffare, i telefoni erano tutti in funzione, ma la situazione era sotto controllo. Pendergast lasciò scivolare la sua forma smilza su una poltrona. Per essere un tipo così formale, si muoveva come un gatto. Con poche frasi, D'Agosta lo mise al corrente delle indagini. "Va bene", concluse il tenente. "Qual è la tua competenza qui? Ci scaricate? Siamo fuori?" Pendergast sorrise. "No, niente affatto. Per quel che mi riguarda, io stesso non avrei saputo fare di meglio. Vedi, tenente, noi in verità c'eravamo dentro fin dal principio, solo che non lo sapevamo." "Cosa intendi dire?" "Sono dell'ufficio investigativo di New Orleans. Stavamo indagando su una serie di delitti giù da noi, delitti molto strani. Non voglio entrare nei particolari, ma le vittime avevano il cranio scoperchiato, i cervelli estratti. Stesso... modus operandi." "Caspita. E quando è successo?" "Alcuni anni fa." "Alcuni anni fa? Allora..." "Sì. Tutti irrisolti. Da principio hanno preso in mano il caso quelli della narcotici, perché pensavano che fosse una faccenda di droga. Poi, siccome non facevano progressi, è intervenuta l'FBI. Ma neanche noi siamo venuti a capo di niente. La pista si era 'raffreddata'. E poi ecco che ieri leggo una notizia d'agenzia sul duplice omicidio qui a New York. Il modus operandi è troppo, ah, troppo particolare per non vedere subito la connessione, non ti pare? Così ieri notte ho preso l'aereo. Non sono ancora qui, ufficialmente. Però ci sarò domani." D'Agosta si rilassò. "Così sei della Louisiana. Pensavo che fossi uno nuovo dell'ufficio di New York."
"Arriveranno anche loro", disse Pendergast. "Appena farò il rapporto, stasera, si presenteranno. Ma l'incarico sarà affidato a me." "A te? Non ci sperare, non a New York." L'altro sorrise. "Lo daranno a me, tenente. Seguo questo caso da anni, e sono, francamente, molto interessato." Il modo in cui disse interessato provocò una strana sensazione nella schiena di D'Agosta. "Ma non preoccuparti: sono ben felice di lavorare fianco a fianco con te, forse in un modo un po' diverso da quello che userebbe l'ufficio di New York. Naturalmente, sempre che tu sia disposto a darmi una mano. Questo non è il mio terreno e avrò bisogno del tuo aiuto. Che ne dici?" Si alzò e tese la mano. Cristo, pensò il poliziotto, i ragazzi dell'ufficio di New York lo faranno fuori in quattro e quattr'otto e lo rispediranno a New Orleans a pezzi. "Intesi", sospirò D'Agosta stringendo la mano. "Ti presenterò in giro, a cominciare dal responsabile della sicurezza del museo, Ippolito. Ma prima rispondi a una domanda. Hai detto che il modus operandi dei delitti di New Orleans è lo stesso. Ma cosa dici dei segni di morso trovati nel cervello del bambino più grande? Del pezzo di artiglio?" "Da quanto mi hai detto sull'autopsia, tenente, quel 'morso' è puramente ipotetico, per il momento", replicò Pendergast. "Sarà interessante sentire i risultati sulla saliva. L'artiglio è stato analizzato?" Più tardi D'Agosta avrebbe ricordato che la sua domanda aveva avuto soltanto mezza risposta. Si limitò a dire: "Lo faranno oggi". L'agente dell'FBI si appoggiò allo schienale e unì le punte delle dita, i capelli biondo cenere che gli penzolavano sulla fronte, gli occhi persi nel vuoto. "Farò una visitina alla dottoressa Ziewicz quando esaminerà l'obbrobrio che abbiamo qui oggi." "Di' un po', Pendergast... Non sarai parente di Andy Warhol, per caso?" "Non m'interesso molto di arte moderna, tenente." Il luogo del delitto era affollato ma ordinato, tutti si muovevano svelti e parlavano sottovoce, quasi per rispetto al morto. Quelli dell'obitorio erano arrivati ma se ne stavano in disparte, osservando pazientemente le procedure. Pendergast era accanto a D'Agosta e a Ippolito. "Dia retta a me", stava dicendo l'agente dell'FBI al fotografo. "Sarebbe meglio inquadrare da qui." Indicò come. "E vorrei una sequenza dall'alto della scala, e un'altra a partire dal basso. Faccia con comodo, ma con un bel gioco di prospettiva, seguendo l'alternanza di luce e ombra."
Il fotografo guardò fìsso Pendergast, quindi si mise all'opera. L'agente federale si rivolse a Ippolito. "Sorge spontanea una domanda. Perché la guardia - come ha detto che si chiamava, signor Ippolito? Jolley, Fred Jolley? - è scesa quaggiù? Questo posto non fa parte del giro di ronda. Giusto?" "Giusto", rispose Ippolito. Era in un punto appena ripulito accanto all'ingresso del cortile, il volto di un verde acido. D'Agosta si strinse nelle spalle. "Chi può saperlo?" "In effetti", annuì Pendergast. Guardò nel cortile oltre la tromba delle scale, che era piccola e profonda, con pareti di mattoni sui tre lati. "E si è chiuso la porta alle spalle, ha detto. Dobbiamo presumere che sia uscito, o che fosse sua intenzione farlo. Mah! A quell'ora, ieri notte, la pioggia di meteoriti del Toro era al culmine. Magari Jolley era un aspirante astronomo. Ma ne dubito." Rimase immobile per un minuto, guardandosi attorno. Poi si rivolse di nuovo ai due. "Credo di potervi dire perché." Cristo, un vero Sherlock Holmes, pensò D'Agosta. "È sceso giù per le scale per dedicarsi a un suo vizietto. Marijuana. Questo cortile è isolato e ben ventilato. Il luogo perfetto per... farsi uno spinello." "Marijuana? È soltanto una congettura." "Mi pare di vedere il mozzicone", continuò Pendergast, indicando il cortile. "Proprio fra la soglia e il montante della porta." "Io non vedo niente", disse D'Agosta. "Ehi, Ed. Guarda un po' sotto la porta. Sì, proprio lì. Cosa c'è?" "Uno spinello", rispose Ed. "Possibile che non vediate mai niente, voi? Nemmeno un fottuto spinello? Cristo santo, vi avevo detto di tirare su ogni granello di polvere!" "Il cortile non l'abbiamo ancora ispezionato." "D'accordo." Guardò Pendergast. Fortunata carogna. Non è detto, comunque, che sia della guardia. "Signor Ippolito", scandì l'agente federale, "è normale che il personale faccia uso di droghe durante il servizio?" "Assolutamente no, ma chi può dire che fosse di Fred Jolley, quello spinello?" Pendergast lo mise a tacere con un cenno della mano. "Presumo che lei possa spiegare tutte queste impronte." "Appartengono alla guardia che ha trovato il cadavere", intervenne D'Agosta.
Pendergast si chinò. "Hanno cancellato ogni possibile indizio", sospirò, accigliato. "I suoi uomini, signor Ippolito", continuò, "avrebbero proprio bisogno di essere istruiti circa il modo in cui va preservato un luogo del delitto." Il responsabile delle guardie aprì la bocca, poi la richiuse. D'Agosta represse un sogghigno. Pendergast stava tornando, muovendosi con cautela, sotto la tromba delle scale, dove c'era una larga porta metallica dischiusa. "Mi aiuti a orientarmi, signor Ippolito. Dove dà questa uscita sotto la scala?" "Su un corridoio." "Che porta?" "Be', all'Area di Sicurezza sulla destra. Ma l'assassino non può essere andato di là, perché..." "Mi scusi se la contraddico, signor Ippolito, ma sono sicuro che l'assassino è andato proprio per di qua", replicò Pendergast. "Mi faccia capire. Oltre l'Area di Sicurezza c'è il vecchio scantinato, vero?" "Giusto." "Dove sono stati trovati i due ragazzini." "Bingo", esclamò D'Agosta. "Quest'Area di Sicurezza mi sembra degna d'interesse. Possiamo dare un'occhiata, signor Ippolito?" Oltre la rugginosa porta metallica, una fila di lampadine illuminava un lungo corridoio sotterraneo. Il pavimento era coperto di linoleum consunto, e alle pareti c'erano murales di indiani pueblo del Sudovest che macinavano granaglie, tessevano e cacciavano il cervo. "Graziosi", osservò Pendergast. "Un vero peccato che debbano stare qua sotto. Si direbbero proprio del primo Fremont Ellis." "Una volta erano nella Sala del Sudovest", disse Ippolito. "Mi pare che l'abbiano chiusa negli anni Venti." "Ah!" esclamò l'agente federale, scrutando da vicino uno dei murales. "Ma questo è Ellis. Dio mio, sono proprio belli. Guardate la luce sulla facciata di quell'adobe." "Ma", domandò Ippolito. "Come fa a saperlo?" "Be'", rispose l'altro, "chiunque s'intenda un po' di Ellis li riconoscerebbe." "Volevo dire: come sa che l'assassino è passato di qui?" "Diciamo che ho tirato a indovinare", fu la sua risposta mentre esaminava il dipinto successivo. "Vede, quando qualcuno dice 'è impossibile', io ho
la brutta abitudine - è più forte di me - di contraddire l'interlocutore con la massima decisione. È una pessima abitudine, ma per quanto mi sforzi non riesco a trattenermi. Naturalmente, però, ora sappiamo che l'assassino è passato di qui." "Come?" Ippolito sembrava confuso. "Guardi questa splendida veduta di Santa Fe. È mai stato a Santa Fe?" Ci fu un momento di silenzio. "Be', no." "C'è una catena di montagne dietro la città, chiamata Sierra de Sangre de Cristo. Significa Montagne del Sangue di Cristo, in spagnolo." "E allora?" "Be', le montagne sembrano proprio rosse al tramonto, ma non, oserei dire, di questo rosso. Questo è sangue vero, ed è recente. Davvero un peccato: rovinerà i dipinti." "Cazzo", esclamò D'Agosta. "Guardate qua." Una larga striscia di sangue attraversava il dipinto all'altezza della cintola di un uomo. "L'assassino dev'essere proprio un pasticcione. Vedrete che ci saranno tracce di sangue lungo tutto il corridoio. Tenente, avremo bisogno di quelli della scientifica. Tu sei d'accordo, vero?" Fece una pausa. "Finiamo il giro, e poi li chiamiamo. Vorrei andare avanti in cerca di qualche indizio, se permetti." "Fa' come se fossi a casa tua", disse D'Agosta. "Attenzione a dove mette i piedi, signor Ippolito. Dobbiamo far esaminare anche il suolo, oltre che le pareti." Arrivarono a una porta chiusa con la scritta RISERVATO. "Questa è l'Area di Sicurezza", spiegò il responsabile della sicurezza del museo. "Già", borbottò Pendergast. "Ma cosa sta a significare quest'Area? Forse che il resto del museo è insicuro?" "Niente affatto", rispose subito Ippolito. "L'Area di Sicurezza serve a custodire oggetti particolarmente rari e preziosi. Questo è il museo più protetto del paese. Di recente abbiamo installato un sistema automatico di apertura e chiusura delle porte metalliche. Fa capo al nostro computer, e in caso di tentativo di furto possiamo chiudere il museo a comparti, proprio come i compartimenti stagni di..." "Ho ben presente, la ringrazio molto", lo interruppe Pendergast. "Interessante. Una vecchia porta rivestita di rame", disse ancora, esaminandola da vicino. D'Agosta vide che il rame di copertura era rigato da graffi poco profon-
di. "Tacche recenti, a giudicare dall'aspetto", commentò l'agente dell'FBI. "E cosa mi dite di queste?" Indicò un punto in basso. "Oh! Gesù", sussurrò D'Agosta, guardando la parte inferiore della porta. Il telaio di legno era scalfito e scheggiato di fresco, come graffiato da una bestia munita di artigli. Pendergast fece un passo indietro. "Voglio un'analisi completa della porta, se non ti spiace, tenente. E ora guardiamo dentro. Signor Ippolito, sarebbe così gentile da aprire la porta, cercando di toccarla il meno possibile?" "Non posso far entrare nessuno senza autorizzazione." D'Agosta lo guardò incredulo. "Vuol dire che dobbiamo munirci di un fottuto mandato?" "Oh, no, no, solo che..." "Non ha la chiave", concluse per lui Pendergast. "Aspetteremo." "Torno subito", disse Ippolito, e i suoi passi affrettati echeggiarono nel corridoio. Quando il rumore si smorzò del tutto, D'Agosta si rivolse a Pendergast. "Mi costa dirlo, ma mi piace il tuo modo di lavorare. Davvero divertente... i dipinti, e il modo in cui hai trattato Ippolito. Ti auguro buona fortuna con i tuoi colleghi di New York." Pendergast parve divertito. "Grazie. Il sentimento è reciproco. Anch'io preferisco lavorare con te, tenente, anziché con uno di quei tipacci senz'anima. A giudicare da quanto è successo di sopra, tu hai ancora un cuore. Sei ancora un normale essere umano." Il tenente rise. "Be', non è come pensi. Sono state quelle fottute uova strapazzate con prosciutto, formaggio e ketchup che ho mangiato a colazione. E quei capelli a spazzola. Odio i capelli a spazzola." 15 La porta dell'erbario era chiusa, come al solito, a dispetto del cartello su cui si leggeva NON CHIUDERE QUESTA PORTA. Margo bussò. Dai, Smith, so che ci sei. Bussò di nuovo, più forte, e sentì una voce querula: "Va bene, un attimo di pazienza! Sto arrivando!" La porta si aprì e Bailey Smith, l'anziano curatore aggregato dell'erbario, tornò a sedere al suo banco e, dando segni vistosi di irritazione, si mise a scartabellare la posta. La ragazza entrò risoluta. Sembrava che Bailey Smith considerasse il la-
voro un'imposizione bell'e buona. Quando poi decideva di dare una mano, farlo star zitto era un'impresa. In condizioni normali Margo si sarebbe limitata a presentargli la richiesta e andarsene, evitando il tormento di doverlo ascoltare. Ma aveva bisogno di esaminare le piante kiribitu al più presto per il nuovo capitolo della dissertazione. La relazione per Moriarty era ancora incompleta e le erano già arrivate all'orecchio voci su un altro orrendo delitto e sulla possibilità che il museo venisse chiuso per il resto della giornata. Bailey Smith bofonchiò qualcosa, ignorandola. Pur se era vicino agli ottanta, Margo sospettava che fingesse soltanto di essere sordo per esasperare la gente. "Signor Smith!" gridò. "Ho bisogno di questi esemplari, per favore." Spinse un elenco sul bancone. "Subito, se possibile." Il vecchietto borbottò, si alzò dalla sedia e prese lentamente l'elenco, scorrendolo con aria contrariata. "Ci vorrà un po' per trovarli, sa? Che ne direbbe di domattina?" "La prego, signor Smith. Ho sentito che potrebbero chiudere il museo da un momento all'altro. Ho proprio bisogno di questi esemplari." Fiutando la possibilità di una chiacchierata, il curatore si ammansi. "Faccenda orribile", bofonchiò, scuotendo la testa. "In ventidue anni passati qui, non ho mai visto niente di simile. Però non posso dirmi sorpreso", aggiunse, annuendo in modo allusivo. Margo non desiderava che Smith continuasse. Tacque. "Ma non è il primo, per quel che ne so. E non sarà nemmeno l'ultimo." Tornò alla lista, mettendosela sotto il naso. "Cos'è questo? Muhlenbergia dunbarii? Non abbiamo niente di simile." Poi Margo sentì una voce alle proprie spalle. "Non il primo?" Era Gregory Kawakita, il giovane vicecuratore che l'aveva accompagnata nella sala del personale la mattina precedente. La ragazza aveva letto le note caratteristiche di Kawakita custodite nel museo: nato da genitori facoltosi, rimasto orfano molto giovane, aveva lasciato la nativa Yokohama ed era cresciuto presso dei parenti in Inghilterra. Dopo aver studiato al Magdalene College di Oxford, era passato all'Istituto di Tecnologia del Massachusetts per specializzarsi, e da lì al museo come assistente curatore. Era il pupillo più promettente di Frock, cosa che suscitava di tanto in tanto il risentimento di Margo. Kawakita non era il tipo di scienziato che lei avrebbe desiderato vedere al fianco di Frock. Aveva un senso istin-
tivo della "politica" del museo, e Frock era polemico, un iconoclasta. A dispetto del suo egocentrismo, però, il ragazzo era indubbiamente un tipo brillante, e stava lavorando con il luminare a uno schema di mutazione genetica che nessuno, a parte quei due, sembrava comprendere appieno. Sotto la guida di Frock, Kawakita stava sviluppando l'Estrapolatore, un programma in grado di paragonare e combinare i codici genetici di specie diverse. Quando elaboravano i loro dati nel potente computer del museo, la capacità del sistema risultava così ridotta che il personale diceva scherzando: "Ecco, adesso possiamo soltanto usarlo per fare le addizioni". "Non il primo di cosa?" domandò Smith, guardando Kawakita con aria ostile. Margo lanciò un'occhiataccia al giovane, ma questi continuò: "Ha detto che questo omicidio non è il primo". "Greg, dovevi proprio?" bisbigliò lei. "Ora me le scordo, le mie piante." "Non mi lascio più sorprendere da niente", continuò l'anziano curatore. "Io non sono superstizioso", aggiunse, piegandosi sul bancone, "ma non è la prima volta che sento di un essere che si aggira per le sale del museo. Almeno, è quel che dice la gente. Non che io ci creda, badate bene." "Essere?" ripeté Kawakita. Margo gli diede un leggero calcio sullo stinco. "Ripeto soltanto ciò che vanno dicendo tutti, dottor Kawakita. Non mi piace diffondere false notizie." "Ne sono sicuro", disse Kawakita, strizzando l'occhio a Margo. Smith lo fissò con sguardo severo. "Dicono che se ne vada in giro da un bel pezzo. Che viva nello scantinato, nutrendosi di ratti, sorci e scarafaggi. Avete notato che non si trova mai un topo nel museo? Dovrebbero essercene... sa Dio quanti ce ne sono in tutta New York. Ma non qui. Strano, non vi pare?" "Non ci ho mai pensato", disse Kawakita. "Mi sforzerò di farci caso." "Poi c'è stato quel ricercatore che si era messo ad allevare gatti per alcuni esperimenti", continuò Smith. "Sloane, mi pare che si chiamasse... dottor Sloane, della sezione Etologia. Un giorno una dozzina di gatti scapparono. E lo sapete? Nessuno li ha mai più visti. Spariti. Buffo, no? Almeno un paio si sarebbero dovuti ritrovare..." "Forse se ne sono andati perché non trovavano topi", ipotizzò il giovane curatore. Il vecchio lo ignorò. "Qualcuno afferma che è uscito da una cassa di uova di dinosauro arrivate dalla Siberia."
"Capisco", disse Kawakita, cercando di reprimere un sorriso. "Nel museo si aggirano dei dinosauri." Smith si strinse nelle spalle. "Vi ho riferito soltanto quello che ho sentito. Altri ritengono che si tratti di qualcosa uscito da una delle tombe profanate e razziate nel corso degli anni. Qualche reperto maledetto. Sapete... come la maledizione di Re Tutankhamon. E, se proprio volete sapere la mia opinione, per me se lo meritano. Non m'importa come la chiamino loro, archeologia, antropologia, o vudulogia: per me si tratta di furto bell'e buono. Di sicuro non si metterebbero mai a scavare le tombe delle loro nonne... ma quando si tratta di quelle di altri non si fanno scrupoli nel portar via tutto quello che trovano. Ho ragione?" "Assolutamente. Ma cosa intendeva quando ha detto che questi delitti non sono i primi?" Smith li guardò con aria di cospiratore. "Be', se riferirete a qualcuno quanto vi dirò, non esiterò a negarlo, ma circa cinque anni fa è successa una cosa molto strana." Fece una pausa di un minuto, forse valutando l'effetto della sua storia sui due giovani. "C'era un curatore, Morrissey... o Montana... qualcosa del genere. Era coinvolto in quella disastrosa spedizione amazzonica. Sapete a quale mi riferisco, quella in cui morirono tutti. Insomma, un giorno, di punto in bianco, è sparito. Nessuno ha mai saputo più niente di lui. E la gente ha cominciato a mormorare. A quanto pare, qualcuno ha sentito dire da una guardia che fu trovato nello scantinato, orrendamente mutilato." "Capisco", disse Kawakita. "E lei crede che sia stata la Bestia del Museo?" "Io non credo niente", replicò subito Smith. "Ripeto soltanto quello che ho sentito, tutto qui. Ho sentito un sacco di cose da un sacco di gente, ve lo assicuro." "Ma qualcuno l'ha mai visto, questo essere?" domandò Kawakita, reprimendo a stento un sorriso. "Sissignore. Un paio di persone, in verità. Conoscete il vecchio Carl Conover, del negozio di ferramenta? Tre anni fa sostenne di averlo visto, quando venne qui per fare un lavoro: lo vide che svoltava goffamente un angolo dello scantinato. Proprio qui dentro, chiaro come il sole." "Davvero? E a cosa somigliava?" "Be'..." cominciò Smith, fermandosi subito. Ormai aveva capito che Kawakita lo stava prendendo in giro. L'espressione del vecchio cambiò. "Immagino che somigliasse un po' al signor Johnny Walker", disse.
Kawakita non capiva. "Walker? Non credo di conoscerlo..." Bailey Smith scoppiò in una risata sonora, e Margo non poté fare a meno di ridere a propria volta. "George", cantilenò. "Credo che intenda dire che Conover era ubriaco." "Capisco", disse gelido Kawakita. "Naturalmente." Tutto il suo buonumore era svanito. Non gli piace essere preso in giro, pensò Margo. Gli piace fare gli scherzi, ma non sa accettarli. "Be'", riprese con tono brusco il giovane curatore. "Ho bisogno di alcuni esemplari." "Ehi, un momento!" protestò Margo, mentre Kawakita faceva scivolare l'elenco sul piano del banco. Il vecchio guardò la lista e poi fissò lo scienziato. "Che ne direbbe della settimana prossima?" domandò. 16 Alcuni piani più sopra, il tenente D'Agosta sedeva in un mastodontico divano di pelle nello studio del curatore. Fece schioccare le labbra soddisfatto, posò una gamba grassoccia sul ginocchio dell'altra e si guardò attorno. Pendergast, assorto in un libro di litografie, era stravaccato nella poltrona dietro la scrivania. Sopra la sua testa, in una cornice rococò dorata, c'era un enorme dipinto di Audubon raffigurante il rituale di corteggiamento dell'airone niveo. Pannelli di quercia dalla patina secolare correvano lungo le pareti sopra uno zoccolo perlinato. Tenui luci dorate provenivano dalle lampade in vetro soffiato appese al soffitto di lamiera sbalzata. Un ampio camino in calcare dolomitico minuziosamente scolpito dominava un angolo della stanza. Bel posto, pensava D'Agosta. Vecchia ricchezza. Vecchia New York. Ha classe. Non è certamente il posto in cui fumare un sigaro da due soldi. Lo accese. "Le due e mezzo sono passate da un pezzo, Pendergast", borbottò, esalando il fumo azzurrino. "Dove diavolo credi che sia Wright?" L'uomo dell'FBI si strinse nelle spalle. "Sta cercando di intimidirci", rispose, voltando pagina. D'Agosta guardò per un minuto buono l'agente federale. "Sai come sono i pezzi grossi di questo museo: pensano di poter far attendere chiunque", disse infine, aspettando una reazione. "Wright e i suoi soci ci stanno trattando come cittadini di serie B fin da ieri mattina." Pendergast voltò ancora pagina. "Non avrei mai immaginato che il mu-
seo avesse una raccolta completa delle Vedute di Roma di Piranesi", mormorò. Il tenente sbuffò in silenzio. Molto interessante, pensò. Durante l'ora di pranzo, aveva fatto di nascosto un po' di telefonate a certi amici dell'ufficio federale di New York. Aveva così saputo che non soltanto conoscevano Pendergast, ma che sul suo conto giravano alcune voci interessanti. Laureato col massimo dei voti in qualche università inglese... il che probabilmente era vero. Ufficiale delle forze speciali, era stato catturato in Vietnam riuscendo poi a fuggire attraverso la giungla, unico sopravvissuto a un campo della morte cambogiano... e di questo D'Agosta non era molto sicuro. Tuttavia, si stava rapidamente ricredendo. La porta massiccia si aprì in silenzio ed entrò Wright, subito seguito dal responsabile della sicurezza del museo. Bruscamente, Wright sedette di fronte all'agente dell'FBI. "Lei dev'essere Pendergast", disse con un sospiro il direttore. "Sarà meglio toglierci subito il pensiero." Il tenente si appoggiò allo schienale per godersi lo spettacolo. Ci fu un lungo silenzio, mentre il federale voltava le pagine. Wright si alzò in piedi. "Dato che è occupato", disse con stizza, "forse è meglio che ci vediamo un'altra volta." Il volto di Pendergast era invisibile, dietro il grosso volume. "No. Ora va benissimo." Un'altra pagina fu voltata con calma. Poi un'altra ancora. D'Agosta guardò divertito la faccia del direttore che diventava paonazza. "Il responsabile della sicurezza non è tenuto ad assistere al colloquio", disse la voce dietro il libro. "Il signor Ippolito sta seguendo le indagini..." Gli occhi dell'agente spuntarono all'improvviso da dietro il dorso del grosso tomo. "Sono io il responsabile delle indagini, dottor Wright", replicò pacatamente. "Signor Ippolito, avrebbe la gentilezza...?" Ippolito guardò nervosamente Wright, che lo congedò con un cenno. "Senta, signor Pendergast" cominciò il direttore non appena la porta si chiuse, "ho un museo cui badare, e non ho molto tempo. Spero che la cosa si risolva in fretta." Pendergast posò con cura il libro aperto sul piano della scrivania. "Ho sempre pensato", disse lentamente, "che questi primi lavori classicisti di Piranesi siano le sue cose migliori. Lei che ne dice?" Wright sembrava sbalordito. "Non capisco", balbettò, "che cosa c'entra questo con..." "I suoi ultimi lavori sono interessanti, naturalmente, ma troppo estrosi
per i miei gusti", continuò l'agente dell'FBI. "Veramente", cominciò il direttore impostando la voce, "ho sempre pensato..." Il libro si chiuse con uno schiocco. "Veramente, caro dottor Wright", lo interruppe Pendergast con durezza, abbandonando le buone maniere, "sarebbe ora che lei dimenticasse ciò che ha sempre pensato. Adesso facciamo un bel giochetto. Io parlo, e lei si limita ad ascoltare. Intesi?" Il direttore si zittì e si mise a sedere. Poi il suo volto avvampò di rabbia. "Non permetto che mi si parli in questo..." Pendergast gli dette sulla voce. "Nel caso non abbia letto i giornali, dottor Wright, nelle ultime quarantott'ore ci sono stati tre atroci delitti, in questo museo. Tre. La stampa ipotizza che siano da attribuire a qualche bestia feroce. Da lunedì, i visitatori si sono ridotti della metà. I suoi dipendenti sono a dir poco sconvolti. Si è preso la briga di fare un giretto per il museo, oggi? Avrebbe trovato la cosa edificante. La paura è quasi palpabile. La maggior parte degli impiegati, se lasciano i loro uffici, lo fanno spostandosi a gruppetti di due o tre. Il personale addetto alla manutenzione trova tutte le scuse per non entrare nel Vecchio Scantinato. Ma lei preferisce far finta che sia tutto normale. Mi creda, dottor Wright, ci sono molte cose che non vanno, qui." Si sporse in avanti, e incrociò lentamente le braccia sul libro. C'era qualcosa di così minaccioso nella sua pacatezza, di così freddo nei suoi occhi chiari, che il direttore si appoggiò istintivamente allo schienale. D'Agosta trattenne inconsciamente il respiro. Poi Pendergast continuò. "Be', possiamo adottare uno di questi tre metodi", disse. "Il suo, il mio, o quello dell'FBI. Il suo è stato fin troppo chiaro, finora. So che le indagini della polizia sono state subdolamente intralciate. Risposte alle telefonate che arrivano sempre troppo tardi, se mai arrivano. Il personale sempre impegnato o irreperibile. E coloro che sono disponibili - come il signor Ippolito - non ci sono mai stati di grande aiuto. La gente arriva in ritardo agli appuntamenti. Be', quanto basta per renderci sospettosi. Ora come ora, il suo metodo non è più accettabile." Aspettava una replica. Ma non venne, sicché continuò. "Per seguire il metodo dell'FBI, dovremmo chiudere il museo, sospendere tutte le attività, annullare le mostre. Una pessima pubblicità, le assicuro. E molto costosa, per i contribuenti e per lei. Il mio metodo è un tantino più accettabile. Se tutto procede per il meglio, il museo può restare aperto. A certe condizioni, però. Primo, pretendo la completa collaborazione del per-
sonale. Avremo bisogno di parlare con lei, di tanto in tanto, e con altri funzionari, e voglio una totale disponibilità. Avrò anche bisogno di un elenco dei dipendenti. Dobbiamo interrogare tutti coloro che lavorano qui o che per qualche motivo si sono trovati in prossimità dei luoghi dei delitti. Non ammetteremo eccezioni. Le sarò grato se vorrà interessarsene di persona. Prepareremo un elenco di appuntamenti, e tutti dovranno presentarsi puntualmente." "Ma abbiamo duemilacinquecento dipendenti..." cominciò Wright. "Secondo", lo interruppe Pendergast, "a partire da domattina limiteremo l'accesso degli impiegati al museo fino a quando le indagini non saranno concluse. Questo 'coprifuoco' ha lo scopo di salvaguardare la sicurezza del personale. Perlomeno, lei dirà che il motivo è questo." "Ma qui sono in corso ricerche di vitale importanza..." "Terzo", Pendergast puntò contro Wright tre dita che, casualmente, sembravano una piccola pistola, "di tanto in tanto dovremo chiudere il museo, in parte o totalmente. In qualche caso sarà proibito l'accesso ai visitatori, in altri anche al personale. E con un preavviso brevissimo. Ci aspettiamo la sua collaborazione." La rabbia del direttore crebbe. "Questo museo chiude soltanto tre volte l'anno: Natale, Capodanno e il Giorno del Ringraziamento", disse. "Sarebbe una cosa senza precedenti, terribile." Fissò l'agente federale con una lunga occhiata inquisitoria. "E poi, non sono convinto che lei abbia l'autorità per farlo. Credo che dovremmo..." Si fermò. Pendergast aveva alzato la cornetta del telefono. "Che cosa fa?" "Dottor Wright, la faccenda sta diventando seccante. Forse è meglio sentire il procuratore generale." E cominciò a comporre il numero. "Un momento", disse Wright. "Possiamo discuterne senza coinvolgere altre persone." "Dipende solo da lei", replicò Pendergast, finendo di comporre il numero. "Per l'amor di Dio, metta giù quel telefono", lo incalzò stizzito il direttore. "Avrà senz'altro la collaborazione di tutti... entro limiti ragionevoli." "Molto bene. E se in futuro comincerà a pensare che le si chieda qualcosa di irragionevole, possiamo sempre ricorrere a questo", continuò, posando pacatamente il ricevitore. "Se devo collaborare", riprese Wright, "credo di avere il diritto di essere
informato su quanto avete concluso dopo quest'ultima atrocità. Per quel che mi risulta, non avete fatto grandi progressi." "Certamente, dottore", replicò Pendergast. Cercò delle carte sulla scrivania. "Secondo le vostre macchinette marcatempo, la vittima più recente, Jolley, ha trovato la morte poco dopo le dieci e mezzo della notte scorsa. L'autopsia lo confermerà. Era - lo saprà - straziato come le vittime precedenti. È stato ucciso durante il giro d'ispezione, anche se la scala in cui è stato trovato il cadavere non faceva parte del suo normale itinerario. Forse ha sentito un rumore sospetto o cose del genere. O magari si è fermato a farsi uno spinello. Un mozzicone di sigaretta alla marijuana fumata di recente è stato trovato accanto alla porta sotto le scale. Naturalmente stiamo esaminando il cadavere per appurare se assumeva droghe." "Ci mancava soltanto questa", sospirò Wright. "Ma avete trovato qualche indizio utile? E quanto alla bestia feroce? Voi..." L'agente federale alzò la mano per interromperlo. "Preferirei non fare ipotesi prima di aver sentito qualche esperto. Esperti che potremmo trovare fra i suoi funzionari, magari. Per la precisione, non abbiamo ancora prove della presenza di animali sul luogo del delitto. "Il cadavere è stato trovato al fondo delle scale, ma è evidente che la guardia è stata aggredita in cima, dato che sangue e viscere erano sparsi sui gradini. O è rotolato o è stato trascinato. Ma non deve credermi sulla parola, dottor Wright", continuò Pendergast, prendendo dalla scrivania una busta marrone. "Guardi lei stesso." Trasse dalla busta una fotografia e la posò con cura sul piano di legno lucido. "Oh, mio Dio", esclamò il direttore, guardando la foto. "Il cielo ci aiuti." "La parete destra della scala era coperta di chiazze di sangue. Ecco la foto." La porse a Wright, che la posò in fretta sopra la precedente. "Non è stato difficile fare un'analisi balistica del sangue sparso", riprese Pendergast. "In questo caso, le macchie hanno confermato che si è trattato di un colpo violento dall'alto in basso, che ha sventrato all'istante la vittima." Rimise a posto le fotografie e guardò l'orologio. "Il tenente D'Agosta le starà al fianco per accertare che tutto proceda come abbiamo stabilito. Un'ultima cosa. Chi, tra i suoi curatori, conosce meglio le raccolte antropologiche, qui dentro?" Sembrò che il dottor Wright non avesse sentito. Infine rispose: "Il dottor Frock", con un sussurro appena udibile.
"Molto bene. Ah, dottore... prima le ho detto che il museo può rimanere aperto, se tutto procede per il meglio. Se però qualcun altro dovesse morire fra queste pareti, dovrà essere chiuso immediatamente. A quel punto la faccenda non sarà più in mano mia. Intesi?" Dopo un lungo momento, Wright annuì. "Magnifico", esclamò Pendergast. "Mi rendo perfettamente conto, che la mostra Superstizione dovrebbe iniziare la settimana prossima, e che l'apertura è programmata per venerdì sera. Vorrei proprio che tutto procedesse regolarmente, ma dipenderà da cosa scopriremo nelle prossime ventiquattr'ore. Per prudenza, potremmo essere costretti a rimandare l'inaugurazione." Le palpebre di Wright sbatterono. "Ma... è impossibile. La nostra campagna pubblicitaria andrebbe in fumo. L'effetto sul pubblico sarebbe devastante." "Vedremo", ribatté il federale. "Per il momento, se non ha altro da dirmi, non la trattengo." Il direttore, pallido, si alzò, e, senza dire una parola, uscì a passi rigidi dalla stanza. Non appena la porta si chiuse, D'Agosta fece un ghigno. "Gli hai fatto abbassare ben bene la cresta, a quella carogna." "Che cosa dici, tenente?" domandò Pendergast, sprofondando nella poltrona di pelle e riaprendo il libro con rinnovato entusiasmo. "Dai", disse D'Agosta, guardando con malizia il collega dell'FBI. "Vedo che, quando serve, sai usare le maniere dure." L'altro lo guardò con occhi pieni d'innocenza. "Mi spiace, tenente. Chiedo scusa se ho dato prova di un simile atteggiamento indecoroso. Il fatto è che non posso soffrire i burocrati pieni di sé. A volte mi fanno diventare brusco." Alzò il libro. "È una pessima abitudine, ma per quanto mi sforzi non riesco a trattenermi." 17 Il laboratorio guardava sull'East River spaziando sui capannoni e sulle fabbriche in disuso di Long Island City. Lewis Turow, accanto alla finestra, stava osservando un'enorme chiatta, carica di spazzatura e circondata da innumerevoli gabbiani, che veniva spinta verso il mare. Probabilmente l'equivalente di un minuto della città di New York in spazzatura, pensò. Si allontanò dalla finestra e sospirò. Odiava New York, ma nella vita bi-
sognava fare delle scelte. Lui aveva dovuto scegliere fra sopportare la città lavorando in uno dei migliori laboratori di genetica del paese, o trasferirsi in qualche ufficio scalcinato di un ameno posticino in campagna. Fino a quel momento aveva optato per la città, ma la sua pazienza si stava esaurendo. Sentì un beep acuto, poi il sibilo della stampante. Stavano uscendo i risultati. Un altro beep indicò che la stampante aveva finito. Il computer Omega-9 Parallel Processing, costituito da una serie di enormi casse grigie allineate contro la parete, era adesso assolutamente silenzioso. Soltanto alcune spie luminose indicavano che il sistema era in attesa. Si trattava di un modello speciale, ideato per sequenziare il DNA e mappare i geni. Turow era arrivato al laboratorio sei mesi prima proprio per lavorare con quell'aggeggio. Prese lo stampato e lo studiò per un momento. La prima pagina era un sommario dei risultati, seguito da una sequenza degli acidi nucleici trovati nel campione. Accanto a questi, una colonna di lettere identificava le sequenze fondamentali e mappava i geni del gruppo di riferimento. Il gruppo di riferimento, in questo caso, era insolito: felidi. Gli avevano chiesto di rilevare le corrispondenze genetiche con la tigre asiatica, il giaguaro, il leopardo, la lince. Turow aveva inserito anche il ghepardo, poiché la sua genetica era quella meglio conosciuta. Il gruppo estraneo scelto era, come al solito, l'Homo sapiens: un modo per controllare che il processo di raffronto genetico fosse corretto e che il campione fosse reattivo. Esaminò il sommario. Elaborazione 3349A5 990 CAMPIONE: Labor. Pol. Crimin. N.Y. LA-33 SOMMARIO GRUPPO DI RIFERIMENTO corrispondenze
grado di attendibilità 4% 5% 3% 4% 4%
Panthera leo 5.5 Panthera onca 7.1 Felis lynx 4.0 Felis ruta 5.2 Acinonyx jubatus 6.6 GRUPPO ESTRANEO DI CONTROLLO Homo sapiens 45.2 33%
Non ci siamo proprio, pensò Turow. Il campione aveva più corrispondenze con il gruppo estraneo che con il gruppo di riferimento... proprio il contrario di quello che sarebbe dovuto succedere. Soltanto il 4% di probabilità che il materiale genetico appartenesse a un felide, contro il 33% di probabilità di appartenenza a un essere umano. Trentatré per cento. Una percentuale un po' bassa, ma non per questo impossibile. Doveva collegarsi con il GenLab per un confronto. Il GenLab era un'immensa banca-dati internazionale del DNA - oltre duecento miliardi di byte - che conteneva sequenze di DNA, primer, e mappe genetiche di migliaia di organismi, dal colibacillo Escherichia all'Homo sapiens. Avrebbe inserito i suoi dati nel GenLab per scoprire a chi appartenesse quel DNA. Qualcosa di vicino all'Homo sapiens, a quanto pareva. La percentuale non era così alta da far pensare a una scimmia... ma a un lemure forse sì. Turow si era incuriosito: fino a quel momento non aveva mai saputo che il suo laboratorio lavorasse per la polizia. Cosa diavolo gli ha fatto credere che questo reperto venisse da un felide? si domandava. I risultati occupavano un'ottantina di pagine. Il sequenziatore di DNA aveva stampato in colonna i nucleotidi identificati, le specie identificate, i geni identificati e le sequenze sconosciute. Turow sapeva che la maggior parte delle sequenze sarebbero risultate sconosciute, dal momento che il solo organismo con una mappa genetica completa era l'Escherichia coli. C-G G-G G-G C-G A-T T-G G-G T-T A-A A-A A-A G-T T-T G-T
* Homo sapiens A-1 allele marker A-1 Inizio polimorfismo * * *
G-T G-T T-T T-T T-T G C C-C C-T G-T T-A G-G T T
Sconosciuto * * * * * * * * * * * *
T-A A-T T-T G-T C-C C-G
— — — — — A-1 Fine polim.
T
Turow dette un'occhiata agli schemi, poi portò i fogli alla scrivania. Battendo pochi tasti sulla sua SPARCstation 10, poteva accedere alle informazioni di migliaia di banche-dati. Se l'Omega-9 non otteneva l'informazione richiesta, entrava automaticamente in Internet e trovava un computer che ne era in possesso. Esaminando lo stampato più attentamente, si accigliò. Dev'essere un campione degradato. Troppo DNA non identificato. A-A A-T A-T A-T A-T A-T T-T G-G G-G A-A T-T T-G G-C G-T T-G C-A A-C
Non identificato — — — — — — — — *Hemidactylus turcicus * * * * * *
A-T T C T-C C-C T-G G-G G-G G-G G-G G-G G-G G-G G-G G-G G-G G-G
Hemidactylus turcicus * * * * * * * * * * * * * *
Smise di sfogliare le pagine. C'era qualcosa di molto strano: il programma aveva identificato una gran parte di DNA come appartenente a un animale chiamato Hemidactylus turcicus. Che roba sarà? pensò. La banca-dati della Nomenclatura Biologica gli disse:
NOME COMUNE: GECO TURCO Cosa? pensò Turow. Digitò: EXPAND HEMIDACTYLUS TURCICUS: GECO TURCO HABITAT ORIGINARIO: AFRICA DEL NORD HABITAT BIOLOGICO ATTUALE: FLORIDA, BRASILE, ASIA MINORE, AFRICA DEL NORD. SAURO DI MEDIA LUNGHEZZA FAMIGLIA GECO, GECKONIDAE, ARBOREO, NOTTURNO, PRIVO DI PALPEBRE MOBILI Turow uscì dalla banca-dati mentre le informazioni scorrevano ancora. Era un nonsenso bell'e buono, naturalmente. DNA di sauro e DNA umano nello stesso campione? Non era però la prima volta che succedeva una cosa del genere. Non si poteva davvero imputarla al computer. Era una procedura approssimativa, anche perché, di ogni organismo vivente, si conoscevano soltanto frazioni minime di sequenze del DNA. Esaminò ancora l'elenco. Meno del cinquanta per cento delle corrispondenze erano umane... una proporzione assai bassa, immaginando che il soggetto fosse umano, ma non impossibile in un campione deteriorato. E c'era sempre l'eventualità della contaminazione. Una o due cellule isolate potevano compromettere un'intera serie. Quest'ultima possibilità sembrava sempre più ammissibile a Turow. Del resto, cos'altro ci si può aspettare dai poliziotti di New York? Non riuscivano nemmeno a incastrare il tipo che spacciava crack sotto gli occhi di tutti all'angolo del suo palazzo. Continuò l'esame. Un momento, si disse, qui c'è un'altra lunga sequenza: Tarentola mauritanica. Rientrò nella banca-dati, inserì il nome. Lesse sullo schermo: TARENTOLA MAURITANICA. GECO DEI MURI Mi venga un colpo, pensò Turow. Ha tutta l'aria di uno scherzo. Guardò il calendario: sabato era il primo di aprile. Cominciò a ridere. Proprio un bello scherzo. Bello, bellissimo scherzo. Il vecchio Buchholtz stava proprio per fargliela. Be', anche lui aveva il senso dell'humour. Cominciò a scrivere la sua relazione.
CAMPIONE LA-33 SOMMARIO: CAMPIONE IDENTIFICATO DEFINITIVAMENTE COME HOMO GECKOPIENS, NOME COMUNE UOMO-GECO... Quando finì la relazione, la inviò immediatamente ai piani superiori. Poi uscì a prendere un caffè, continuando a ridacchiare fra sé e sé. Era orgoglioso per come se l'era cavata. Si chiedeva dove diavolo Buchholtz fosse andato a pescare quei campioni di geco. Probabilmente in qualche negozio di animali. Quasi gli pareva di vederlo intento a mescolare nella centrifuga due o tre campioni di cellule di geco con qualche goccia del suo sangue. Vediamo cosa riesce a fare la nostra recluta Turow, avrà pensato. Turow, tornando col caffè, continuava a ridere tra sé. Trovò Buchholtz che lo aspettava nel laboratorio: solo che lui non rideva. 18 Mercoledì Nella sedia a rotelle, Frock si passava sulla fronte un fazzoletto di Gucci. "Segga, prego", disse a Margo. "La ringrazio di essere venuta subito. È terribile, terribile." "Povera guardia", sospirò la giovane. Nel museo non si parlava d'altro. "Guardia?" ripeté Frock alzando la testa. "Oh, sì, una vera tragedia. No, intendevo questo." Alzò un foglio con una comunicazione interna. "Un'accozzaglia di nuove norme", proseguì. "Davvero seccante. A partire da oggi, il personale ha accesso al museo soltanto dalle dieci alle cinque. Di sera o di domenica non si lavora. Ci saranno guardie in ogni settore. Dovremo firmare ogni volta che entriamo e usciamo da Antropologia, ogni giorno. Tutti dovranno portare sempre addosso il tesserino d'identificazione. Nessuno può entrare o uscire senza." Continuava a leggere. "Aspetti, che altro... ah, sì. Occorre rimanere il più possibile nel proprio reparto. E si presume che io le ricordi di non recarsi da sola nelle aree isolate del museo. Se ha bisogno di andare da qualche parte, deve farsi accompagnare da qualcuno. La polizia interrogherà tutti coloro che lavorano nel Vecchio Scantinato. Lei verrà sentita la settimana prossima. E molti settori del museo saranno considerati off limits." Spinse il foglio sulla scrivania. Margo vide che, allegata, c'era una mappa del museo, con le aree inter-
dette delimitate in rosso. "Non si preoccupi", proseguì il professore. "Vedo che il suo ufficio è fuori dall'area vietata." Una vera fortuna, pensò Margo. Appena al limite della zona in cui probabilmente è appostato l'assassino. "Sembra una soluzione piuttosto complicata, professore. Potevano anche chiudere del tutto il museo, a questo punto." "Sicuramente ci hanno provato, mia cara. Sono certo che li ha dissuasi Winston. Se la Superstizione non apre per tempo, il museo avrà un sacco di grane." Frock alzò la mano dal foglio. "Possiamo chiudere l'argomento? Volevo parlarle d'altro." La ragazza annuì. Il museo avrà un sacco di grane. Per la verità, lei avrebbe detto che le aveva già. La sua compagna d'ufficio, come metà del personale, si era data malata quella mattina. Quelli che si erano presentati passavano la maggior parte del tempo alla macchinetta del caffè o alla fotocopiatrice, scambiandosi dicerie e restando in gruppo. Come se non bastasse, le sale del museo erano quasi vuote. Famiglie in vacanza, scolaresche, bambini vocianti - i normali visitatori - erano rari. Ora il museo attirava per lo più dei repellenti ficcanaso. "Ero curioso di sapere se ha già ottenuto qualche pianta per il suo capitolo sui kiribitu", continuò Frock. "Ritengo che possa essere un utile esercizio per entrambi inserirle nell'Estrapolatore." Il telefono squillò. "Maledizione!" esclamò l'uomo afferrando la cornetta. "Sì?" chiese. Ci fu un lungo silenzio. "È proprio necessario?" domandò. Poi fece una pausa. "Se insiste", concluse, buttando giù la cornetta e lanciando un profondo sospiro. "Le autorità mi vogliono giù nello scantinato, Dio sa perché. Qualcuno che si chiama Pendergast. Mi accompagnerebbe? Possiamo chiacchierare, strada facendo." Nell'ascensore, Margo riprese il discorso. "Sono riuscita ad avere alcuni esemplari dall'erbario, anche se non quanti ne volevo. Però non ho capito. Lei suggeriva di inserirli nell'ESG?" "Proprio così. Naturalmente dipende dalla condizione delle piante. È roba trascrivibile?" ESG stava per Estrapolatore di Sequenza Genetica, il programma sviluppato da Kawakita e Frock per analizzare le trascrizioni genetiche. "Le piante sono in buone condizioni, per lo più", rispose lei. "Ma non vedo come potrebbe esserci utile l'Estrapolatore." E non sarò gelosa di
Kawakita? si domando. È per questo che oppongo resistenza? "Mia cara Margo, il programma sembra fatto apposta per il tuo lavoro!" esclamò Frock, chiamandola, per l'eccitazione, col nome proprio e dandole del tu. "Non si può ripetere l'evoluzione. Ma la si può simulare con i computer. Forse quelle piante sono geneticamente affini: chissà che non si possano trovare corrispondenze col criterio seguito dagli sciamani per la loro classifìcazione... Non potrebbe essere un bel capitolo aggiuntivo per la tua dissertazione?" "Non ci avevo pensato", ammise la ragazza. "In questo momento stiamo sperimentando il programma, e il tuo è proprio il tipo di 'scenario' che ci serve", continuò vivacemente Frock. "Potresti chiedere a Kawakita di lavorare con lui." Margo annuì. Dentro di sé si diceva che Kawakita non sembrava davvero il tipo disposto a condividere i propri risultati, o le proprie ricerche, con chicchessia. La porta dell'ascensore si aprì su un posto di blocco sorvegliato da due poliziotti armati di fucili. "È il dottor Frock?" chiese uno dei due. "Sì", rispose stizzito il professore. "Venga con noi, prego." Margo guidò la sedia a rotelle lungo alcuni corridoi, giungendo infine a un secondo posto di blocco. Dietro la barriera c'erano altri due poliziotti e un uomo alto e magro vestito di nero, i capelli biondo cenere pettinati in avanti. Non appena il poliziotto spostò la barriera, l'uomo si avvicinò. "Lei dev'essere il dottor Frock", disse, tendendo la mano. "Grazie di essere sceso. Come già sa, aspetto un'altra persona, sicché non sono potuto venire personalmente nel suo ufficio. Se avessi saputo che lei..." indicò la sedia a rotelle con un cenno del capo, "non glielo avrei mai chiesto. Agente speciale Pendergast." La mano era sempre tesa. Accento interessante, pensò Margo. Alabama? Questo tipo non sembra proprio uno dell'FBI. "Va benissimo così", replicò il professore, addolcito dalla cortesia di Pendergast. "Questa è la mia assistente, la signorina Green." La mano dell'agente federale parve fredda a Margo, mentre la stringeva. "È un onore per me conoscere uno scienziato come lei", continuò Pendergast. "Spero di avere il tempo di leggere il suo ultimo libro." "La ringrazio." "Magari, in questo avrà applicato lo scenario della 'Rovina del Giocatore' alla sua teoria dell'evoluzione... Ho sempre pensato che quello scenario della teoria della probabilità potrebbe avallare a pieno titolo la sua ipotesi,
specialmente se si partisse dal presupposto che la maggior parte dei generi inizino vicinissimo al limite di assorbimento." Frock si mosse sulla sedia. "Be', pensavo di farne qualche cenno nel mio prossimo libro." Sembrava a corto di parole. Pendergast fece segno ai poliziotti, che risistemarono la barriera. "Ho bisogno del suo aiuto, dottore", disse poi a voce più bassa. "Certamente", rispose con gentilezza Frock. Margo era sorpresa per la rapidità con cui Pendergast si era assicurato la collaborazione del professore. "Anzitutto, devo chiederle che questa conversazione resti fra noi, per il momento. Posso contare su di lei? E sulla signorina Green?" "Naturalmente", disse il professore. La ragazza annuì. L'agente dell'FBI si avvicinò a uno dei poliziotti, che gli tese un sacchetto di plastica contrassegnato dalla scritta REPERTO. Da quello, trasse un piccolo oggetto scuro, che porse al professore. "Quello che ha in mano", spiegò, "è il calco in latice di un artiglio trovato addosso a uno dei bambini uccisi la settimana scorsa." Margo si chinò per osservarlo da vicino. Era lungo un paio di centimetri, curvo e aguzzo. "Un artiglio?" ripeté Frock, avvicinando l'oggetto agli occhi ed esaminandolo. "Davvero insolito. Così a naso, direi però che si tratta di un falso." Pendergast sorrise. "Non siamo riusciti a identificarne l'origine. Non credo, però, che sia un falso. Nel canale radicolare abbiamo trovato della materia di cui stiamo sequenziando il DNA. I risultati sono ambigui, e il test è ancora in corso." Frock inarcò le sopracciglia. "Interessante." "Questa, invece", riprese Pendergast, togliendo dal sacchetto un oggetto molto più grosso, "è la ricostruzione dello strumento che ha straziato lo stesso bambino." Glielo porse. Margo guardò il calco con disgusto. A un'estremità il latice era screziato e irregolare, ma all'altra i particolari erano chiari e ben definiti. Terminava con tre artigli uncinati: uno grosso al centro e due unghioni più piccoli ai lati. "Santo cielo!" esclamò Frock. "Si direbbero di un sauro." "Sauro?" domandò Pendergast, dubbioso. "Dino-sauro", puntualizzò il professore. "Tipico arto anteriore di ornitisco, direi... con una differenza. Guardi. L'apofisi digitale centrale è ispessi-
ta in modo abnorme, mentre gli artigli stessi sono ipotrofici." Pendergast sembrava sorpreso. "Be', professore", disse lentamente, "noi eravamo orientati verso i felidi o qualche altro mammifero carnivoro." "Ma lei saprà sicuramente che tutti i mammiferi predatori hanno cinque dita." "Naturalmente. Se mi concede ancora un momento, vorrei sottoporle un'ipotesi." "Certo", disse Frock. "Alcuni sostengono che l'assassino usi questo", sollevò l'arto, "come arma per straziare le sue vittime. Pensiamo che l'oggetto che ho in mano possa essere il calco di qualche manufatto, un oggetto costruito da una tribù primitiva che si è ispirata, diciamo, dall'arto di un giaguaro o di un leone. Sembra che il DNA sia degradato. Può trattarsi di un manufatto antico, giunto al museo molto tempo fa e poi rubato da qualcuno." La testa del professore si abbassò, finché il mento toccò il petto. Scese un silenzio rotto soltanto dallo scalpiccio dei poliziotti accanto alla barriera. Finalmente parlò. "La guardia che è stata uccisa... Le sue ferite mostravano traccia di un artiglio rotto o perduto?" "Bella domanda", borbottò l'agente federale. "Guardi lei stesso." Infilò la mano nel sacchetto di plastica e ne tirò fuori una pesante placca di latice, un lungo rettangolo con tre righe frastagliate al centro. "E il calco di una delle ferite addominali della guardia", spiegò. Margo rabbrividì. Era un cosa orribile a guardarsi. Frock scrutò attentamente le profonde incisioni. "La penetrazione dev'essere stata notevole. Ma la ferita non dà indicazioni circa artigli rotti. Lei, è vero, ribatterà che l'assassino può usare due manufatti simili." Pendergast sembrò un po' a disagio, ma annuì. La testa di Frock si abbassò di nuovo. Il silenzio si protrasse per qualche minuto. "Un'altra cosa", aggiunse all'improvviso, quasi gridando. "Ha visto che i segni dell'artiglio convergono leggermente? Che sono più separati in cima che in fondo?" "Sì?" "Come una mano che si stringa a pugno. Ciò indicherebbe che lo strumento è flessibile." "D'accordo", disse l'agente. "È anche vero che la carne umana è piuttosto morbida e si deforma facilmente. Non possiamo pretendere troppo da questo calco." Fece una pausa. "Secondo lei, esiste un manufatto in grado di
fare una cosa simile, e che manca dalle raccolte?" "Non esistono simili manufatti nelle raccolte", rispose Frock con un leggero sorriso. "Questo non proviene da alcun animale vivente di mia conoscenza. Vede la forma conica di questo artiglio, la radice profonda? Noti come si assottiglia in una sezione trasversale quasi perfettamente tripiramidale vicino alla punta... Ciò succede in due sole classi di animali: dinosauri e uccelli. È una delle ragioni per cui alcuni biologi evolutivi ritengono che gli uccelli si siano sviluppati a partire dai dinosauri. Potrei dire che questo appartiene a un uccello, se non fosse cosi grosso. Dunque: dinosauro." Si posò in grembo l'artiglio di latice e alzò la testa. "Naturalmente, una persona molto abile e ben edotta sulla morfologia dei dinosauri avrebbe potuto costruire un artiglio simile e usarlo come arma del delitto. Suppongo che abbiate analizzato il frammento originale per stabilire se era composto di materiale biologico autentico, come la cheratina, o se si trattava di un calco, di una ricostruzione fatta con qualche materiale inorganico..." "Sì, dottore. È autentico." "E siete sicuri che quel DNA fosse autentico, e non semplice sangue o carne della vittima?" "Sì. Come le ho detto, proviene dal canale radicolare, non dalla cuticola." "E a chi appartiene, se è lecito, quel DNA?" "I risultati finali non ci sono ancora pervenuti." Frock alzò una mano. "Capito. Ma, dica: perché non usate il laboratorio del museo? Siamo attrezzati al pari degli altri in tutto lo stato." "Al pari degli altri nel Paese, dottore. Lei capirà che le procedure ce lo vietano. Come potremmo fidarci di risultati ottenuti con esami condotti sul luogo del delitto? Dove magari è l'assassino stesso a manovrare gli strumenti?" Pendergast sorrise. "Spero che perdoni la mia insistenza, ma non vorrebbe riconsiderare la possibilità che quest'arma sia stata costruita a partire da reperti appartenenti alle collezioni antropologiche, e pensare se esiste qualche manufatto - o più manufatti - che le somiglia?" "Se vuole", ammise Frock. "La ringrazio. Possiamo riparlarne fra un giorno o due. Nel frattempo, è possibile avere un inventario delle raccolte antropologiche?" Il professore sorrise. "Sei milioni di oggetti? Può usare il catalogo su computer, però. Vuole che le faccia mettere un terminale?" "Forse più avanti", disse l'uomo dell'FBI, rimettendo la placca di latice
nel sacchetto di plastica. "Molto gentile da parte sua. Il nostro posto di comando si trova attualmente nella galleria inutilizzata dietro la sala di fotoriproduzione." Dei passi risuonarono alle loro spalle. Margo si voltò e vide l'alta sagoma del dottor Ian Cuthbert, vicedirettore del museo, seguito dai due poliziotti dell'ascensore. "Insomma, quanto durerà questa storia?" si stava lamentando. Si fermò alla barriera. "Oh, Frock, hanno chiamato anche lei. Che maledetta seccatura." Frock annuì in modo impercettibile. "Dottor Frock", disse Pendergast, "le chiedo perdono. Questo è il signore che stavo aspettando quando ci siamo incontrati. Può rimanere, se vuole." Il professore annuì di nuovo. "Be', dottor Cuthbert", riprese l'agente federale con durezza, voltandosi verso lo scozzese. "Le ho chiesto di scendere perché vorrei qualche informazione sull'area alle mie spalle." Indicò una larga porta. "L'Area di Sicurezza? Cosa vuole sapere? Sicuramente qualcun altro, meglio di me..." cominciò Cuthbert. "Ah, ma le mie domande sono per lei", lo interruppe Pendergast, con fermezza. "Possiamo dare un'occhiata?" "Se si tratta di una cosa breve... Ho una mostra da allestire." "Sì", annuì Frock, in tono leggermente sardonico. "Diciamo un'esibizione." Fece cenno a Margo di spingerlo. "Dottor Frock?" domandò cortesemente Pendergast. "Sì?" "Potrei avere indietro il calco?" La porta rivestita di rame dell'Area di Sicurezza del museo era stata tolta e sostituita da una in acciaio. Sul lato opposto del corridoio c'era una porticina con la scritta PACHIDERMI. Margo si domandò come fossero riusciti a far passare le enormi ossa per quel pertugio. Procedendo, la ragazza condusse Frock in uno stretto passaggio, oltre la porta aperta dell'Area di Sicurezza. Il museo teneva i reperti più preziosi in piccole camere blindate su ambo i lati del corridoio: zaffiri e diamanti, avorio e corna di rinoceronte ammonticchiati sugli scaffali come legna da ardere; ossa e pelli di animali estinti; divinità guerriere degli zuni. Due uomini in divisa scura, in fondo al corridoio, parlottavano a bassa voce. Si misero sull'attenti non appena Pendergast entrò.
Questi si fermò davanti alla porta di una celletta aperta, simile alle altre, munita di una grossa manopola a combinazione, di una leva di ottone, e decorata di volute. Dentro, una lampadina gettava una luce cruda sulle pareti metalliche. La cella era vuota, a parte alcune casse, tutte piuttosto grandi meno una. Il coperchio della cassa più piccola era rimosso, mentre una delle più grosse era danneggiata gravemente e lasciava intravedere le filacce del materiale da imballaggio. Pendergast aspettò che tutti fossero entrati nella celletta. "Consentitemi di darvi alcune informazioni. L'assassinio della guardia è avvenuto non lontano da qui. Sembra che, dopo, l'omicida abbia percorso il corridoio e si sia fermato qui fuori. Ha cercato di forzare la porta che conduce all'Area di Sicurezza. Poteva averci già provato. I tentativi sono andati a vuoto. In primo luogo, non avevamo idea di cosa cercasse l'assassino. Come sapete, c'è molto materiale prezioso, qui." Fece un cenno a un poliziotto, che si avvicinò e gli porse un foglio. "Così abbiamo fatto delle indagini e scoperto che, da sei mesi in qua, niente è entrato o uscito dall'Area di Sicurezza. A parte queste casse. Sono state spostate qui la settimana scorsa. Per suo ordine, dottor Cuthbert." "Mi permetta di spiegarle..." disse Cuthbert. "Un momento, per favore", lo interruppe Pendergast. "Esaminandole, abbiamo scoperto una cosa interessante." Indicò la cassa danneggiata. "Notate le tavolette. Sono profondamente solcate da segni di artigli. Quelli della scientifica dicono che probabilmente le ferite sulle vittime sono state fatte con lo stesso oggetto o strumento." Tacque e guardò fisso Cuthbert. "Non sapevo..." borbottò questi. "Non è stato asportato nulla. Pensavo soltanto che..." La sua voce si affievolì. "Mi chiedo se non potrebbe raccontarci la storia di queste casse." "È presto detto", rispose il vicedirettore. "Non ci sono misteri. Le casse sono frutto di una vecchia spedizione." "Questo l'avevo capito. Quale spedizione?" "La spedizione Whittlesey." L'agente federale aspettò. Infine Cuthbert sospirò. "Si trattava di una spedizione in Sudamerica, fatta oltre cinque anni fa. Fu... non andò molto bene." "Fu un vero disastro,", intervenne Frock in tono di derisione. Ignorando l'occhiata rabbiosa del collega, continuò: "All'epoca suscitò uno scandalo nel museo. La spedizione fallì quasi subito per contrasti interni. Alcuni
membri della spedizione furono uccisi da tribù ostili; tutti gli altri perirono in un incidente aereo mentre tornavano a New York. Naturalmente si parlò subito di maledizione e cose del genere". "Sta esagerando", scattò Cuthbert. "Non ci furono scandali di sorta." Pendergast li guardò. "E le casse?" domandò cortesemente. "Erano state spedite via mare", disse Cuthbert. "Ma tutto questo non è pertinente. Lì dentro c'era un solo oggetto raro, una statuina foggiata da una tribù sudamericana estinta. Sarà un pezzo importante della mostra Superstizione." L'agente annuì. "Continui." "La settimana scorsa, quando siamo venuti a ricuperare la statuina, ho scoperto che una delle casse era stata manomessa." La indicò. "Così ho ordinato che tutte le altre venissero temporaneamente spostate nell'Area di Sicurezza." "Cosa mancava?" "Be', è questa la cosa strana. Dalle casse non mancava alcun reperto. La statuina da sola vale una fortuna. È unica, la sola esistente al mondo. La tribù dei kothoga che l'ha scolpita è sparita da molti anni." "Vuol dire che non mancava niente?" "Be', niente d'importante. Pare che la sola cosa che mancava fossero dei baccelli di semi... o quel che erano. Maxwell, lo scienziato che li aveva raccolti, è morto nell'incidente aereo vicino ad Asunción." "Semi?" "Onestamente, non so che cosa fossero. A parte quella riguardante il materiale antropologico, ogni altra documentazione è andata perduta. Abbiamo il diario di Whittlesey e basta. Quando le casse sono arrivate qui, abbiamo fatto una piccola ricognizione, ma da allora..." si fermò. "Sarebbe bene che mi dicesse tutto su questa spedizione", lo sollecitò Pendergast. "Non c'è molto altro da aggiungere. Era stata costituita per cercare tracce della tribù kothoga, esplorare e fare una raccolta generica in un'area assai remota della foresta pluviale. Mi pare che il lavoro preliminare avesse stimato che il novantacinque per cento delle specie vegetali presenti nell'area erano sconosciute alla scienza. La spedizione era comandata da Whittlesey, un antropologo. Credo che ci fossero anche un paleontologo, un naturalista specializzato in mammiferi, un antropologo fisico, forse un entomologo e qualche assistente. Whittlesey e un assistente di nome Crocker scomparvero, probabilmente uccisi dai membri di qualche tribù. Tutti gli
altri morirono nel disastro aereo. La sola documentazione in nostro possesso - dal diario di Whittlesey - riguardava la statuina. Quanto alle altre cose, sono un mistero: nessun dato sulla zona di raccolta, niente." "Come mai il materiale è rimasto nelle casse così a lungo? Perché non è stato sballato, catalogato e inserito nelle raccolte?" Cuthbert si mosse a disagio. "Be'", rispose, sulla difensiva, "dovrebbe chiedere a Frock. È lui che dirige il reparto." "Le nostre raccolte sono immense", spiegò Frock. "Abbiamo delle casse con ossa di dinosauro che non vengono toccate dagli anni Trenta. Occorre una quantità enorme di tempo e di denaro per catalogare quelle cose." Sospirò. "Nel caso particolare, però, non si è trattato di semplice omissione. Per quel che ricordo, al reparto di Antropologia fu vietato di esaminare le casse quando arrivarono." Guardò fisso Cuthbert. "Questo è successo molti anni fa!" replicò aspramente il vicedirettore. "Come sapete che non ci sono manufatti rari nelle casse ancora chiuse?" domandò Pendergast. "Dal diario di Whittlesey si evinceva che il solo oggetto importante era la statuina nella cassa più piccola." "Potrei vedere quel diario?" Cuthbert scosse la testa. "È andato perduto." "Le casse sono state spostate per suo ordine?" "L'ho suggerito al dottor Wright dopo aver scoperto che erano state manomesse. Abbiamo lasciato il materiale nelle sue casse originali in attesa che fosse esaminato. È questa la procedura del museo." "Dunque le casse sono state spostate soltanto alla fine della settimana scorsa", mormorò Pendergast, quasi parlando a se stesso. "Poco prima che venissero uccisi i due ragazzini. Cosa diavolo stava cercando l'assassino?" Guardò di nuovo Cuthbert. "Cos'ha detto che mancava? Baccelli di semi?" L'uomo si strinse nelle spalle. "Come ho detto, non so con certezza che cosa fossero. A me sembravano semi in baccelli, ma non sono un botanico." "Può descrivermeli?" "Sono passati anni, non ricordo bene. Grossi, tondi, pesanti. Rugosi all'esterno. Marroncini. Ho visto l'interno della cassa due volte soltanto: la prima quando sono arrivate, e poi la settimana scorsa, quando cercavamo Mbwun. La statuina." "Dov'è ora la statuina?" "La stanno preparando per la mostra. Dovrebbe essere già in vetrina, da-
to che sigilliamo la mostra stasera." "Avete preso altro dalla cassa?" "No. La statuina è l'unico pezzo del lotto." "Mi piacerebbe proprio riuscire a vederla", disse Pendergast. Cuthbert si spostò stizzito da un piede all'altro. "Potrà vederla quando apre la mostra. Francamente, non mi sembra che possa essere di qualche utilità. Perché sprecare tempo con una cassa rotta quando c'è un serial killer che si aggira per il museo e che voi non riuscite a scovare?" Frock si schiarì la gola. "Margo, avvicinami un po', per favore", disse. La ragazza lo spinse accanto alle casse. Con un borbottio, il professore si chinò a scrutare quella rotta. Tutti lo osservavano. "Grazie", disse, raddrizzandosi. Guardò i presenti, uno alla volta. "Vi prego di notare che queste tavole sono graffiate tanto all'interno quanto all'esterno. Signor Pendergast, non dovremmo fare una supposizione?" "Non faccio mai supposizioni", replicò l'agente con un sorriso. "E invece sì", insistette il professore. "Tutti stiamo facendo una supposizione... che qualcuno, o qualcosa, ha rotto la cassa dall'interno." Ci fu un silenzio improvviso nella camera blindata. Margo percepiva la presenza della polvere nell'aria, l'odore leggero del materiale da imballaggio. E poi Cuthbert cominciò a ridere in modo rauco, un suono aspro che colmò la stanzetta. Mentre tornavano in ufficio, Frock era stranamente eccitato. "Hai visto quel calco?" chiese a Margo. "Attributi aviari, morfologia tipica dei dinosauri. Chi si aspettava una cosa del genere?" Non stava più nella pelle. "Ma, professore, Pendergast ritiene che si tratti di una ricostruzione usata come arma", replicò la ragazza. Mentre lo diceva, pensava che lei era la prima a volerlo credere. "Fesserie", esclamò Frock. "Non hai avuto la sensazione, guardando quell'oggetto, di qualcosa di seducentemente familiare e di fortemente estraneo? Abbiamo avuto sotto gli occhi un'aberrazione evolutiva: la prova della mia teoria." Dentro l'ufficio, tolse subito un taccuino dalla tasca della giacca e cominciò a scribacchiare. "Ma come potrebbe una creatura simile...?" Margo si bloccò, sentendo la
mano di Frock che si chiudeva sulle sue. La stretta era straordinariamente forte. "Mia cara figliola", disse, "ci sono molte cose in cielo e in terra, come ricorda Amieto. Non sempre ci è dato di fare congetture. Talvolta dobbiamo soltanto osservare." La sua voce era sonora, ma l'uomo tremava per l'eccitazione. "Non possiamo lasciarci sfuggire questa occasione, capisci? Maledetta questa sedia che m'imprigiona. Devi essere i miei occhi e le mie orecchie, Margo. Devi andare dappertutto, cercare, essere un prolungamento delle mie dita. Non possiamo permetterci di perdere questa opportunità. Sei disposta?" La stretta sulle sue mani si accentuò. 19 Il vecchio montacarichi del Settore 28 puzzava sempre come se ci fosse morto dentro qualcuno, pensava Smithback. Tentò di respirare con la bocca. La cabina era immensa, grossa come uno studio di Manhattan, e il manovratore l'aveva arredata con tavolo, sedia e immagini ritagliate da riviste naturalistiche. Le immagini concernevano tutte lo stesso argomento. C'erano giraffe intente a strofinarsi il collo l'una con l'altra, insetti che si accoppiavano, un babbuino che mostrava il sedere, un'indigena con mammelle pendule. "Le piace la mia piccola galleria d'arte?" chiese il manovratore con un'occhiata maliziosa. Aveva una sessantina d'anni e portava un parrucchino di capelli rossi. "È bello vedere qualcuno che s'interessa così tanto alla storia naturale", replicò sarcastico Smithback. Mentre usciva, l'odore di carne marcia lo investì con rinnovato vigore: sembrava colmare l'aria come una nebbia del Maine. "Come fa a sopportarlo?" tentò di dire boccheggiando al manovratore. "Sopportare cosa?" domandò l'uomo, mentre le porte scorrevoli si chiudevano. Una voce cordiale giunse tintinnando dal corridoio. "Benvenuto!" Un uomo anziano sovrastò col suo grido il rumore dei condizionatori, mentre stringeva la mano di Smithback. "Oggi, soltanto zebra da cucinare. Peccato che lei si sia perso il rinoceronte. Ma venga, venga, la prego!" Smithback capì dall'accento che l'uomo era austriaco.
Jost Von Oster sovrintendeva l'area della preparazione osteologica, il laboratorio in cui le carcasse degli animali venivano ridotte alle sole ossa. Aveva passato gli ottanta, ma era così paffuto e pimpante che tutti lo credevano molto più giovane. Era arrivato al museo nei tardi anni Venti: preparava e montava gli scheletri da esporre. In quei giorni lontani, il suo maggior successo era stato una serie di scheletri di cavallo montati nelle posizioni del passeggio, del trotto e del galoppo. Si diceva che quegli scheletri avessero rivoluzionato il modo di esporre gli animali. Poi era passato all'inserimento degli esemplari in habitat ricostruiti a grandezza naturale, tanto popolari negli anni Quaranta, facendo sì che ogni particolare, perfino la saliva sulla bocca degli animali, sembrasse vero. Ma l'era degli habitat era passata, e Von Oster era stato relegato nella Stanza degli Insetti. Rifiutando le offerte di pensionamento, dirigeva ora il laboratorio osteologico, dove gli animali, per lo più provenienti dagli zoo, erano trasformati in ossa bianche e pulite che venivano poi studiate o montate. Nondimeno, la sua maestria nella ricostruzione degli habitat era intatta, ed egli era stato incaricato di allestire uno scenario sciamanico per la mostra Superstizione. Il suo lavoro era così scrupoloso che Smithback aveva deciso di dedicargli un capitolo del libro. Seguendolo, il giornalista entrò nell'area di preparazione. Non aveva mai visto prima quella stanza famosa. "Sono proprio contento che sia venuto a visitare la mia officina", disse Von Oster. "Non vedo quasi più nessuno, dopo quegli orrendi delitti. Sì, sono proprio contento!" Il laboratorio somigliava, più che altro, a una bizzarra cucina industriale. Grandi vasconi di acciaio inossidabile erano allineati lungo una parete. Dal soffitto, pendevano sulle vasche enormi carrucole, catene e ganci per spostare le carcasse più grandi. Al centro del pavimento c'era un pozzetto di drenaggio con una griglia in cui era incastrato un pezzetto d'osso rotto. In un angolo, su un tavolo anatomico d'acciaio, giaceva un grosso animale. Non fosse stato per il cartello scritto a mano fissato a una gamba del tavolo, Smithback non avrebbe mai saputo che la creatura era stata un tempo un dugongo del mar dei Sargassi. Al momento era quasi interamente decomposto. Attorno alla carcassa giacevano punteruoli, pinze, lame di varia grandezza. "La ringrazio per il tempo che mi concede", riuscì a dire. "Ma si figuri!" esplose Von Oster. "Mi piacerebbe portare in giro la gente, ma, come lei saprà, quest'area è interdetta ai visitatori: un vero peccato.
Doveva essere qui quando c'era il rinoceronte. Gott, che spettacolo!" Attraversando svelto la stanza, mostrò a Smithback la vasca di macerazione contenente la carcassa della zebra. Nonostante la cappa di aspirazione, il tanfo era insopportabile. Alzò il coperchio e fece un passo indietro, come un cuoco orgoglioso. "Cosa le pare di qvesto?" Smithback guardò il liquido marrone e denso che colmava la vasca. Sotto la superficie melmosa, c'era la carcassa di una zebra in macerazione, la carne e i tessuti molli che si disfacevano lentamente. "Un po' stracotta", mormorò a fatica. "Cosa intende con 'stracotta'? È perfetta! Qui sotto c'è il bruciatore. Mantiene l'acqua a una temperatura costante di novantacinque gradi. Vede, prima sventriamo la carcassa e la immergiamo in questa vasca. Qui si disfa, e, dopo due settimane, togliamo il tappo: i liquami finiscono nello scarico. A noi resta un cumulo di ossa bisunte. Allora riempiamo di nuovo la vasca, aggiungiamo un po' di allume e facciamo bollire le ossa. Non troppo a lungo, altrimenti si ammollano." Riprese fiato. "Sa, un po' come quando si bolle troppo il pollo. Una schifezza! Ma queste ossa sono ancora unte, e allora le puliamo mit il benzene, che le fa diventare bianche come neve." "Signor Von Oster..." cominciò Smithback. Se non avesse ripreso subito il filo dell'intervista, gli sarebbe sfuggito per sempre. E lui non tollerava già più il fetore. "Mi chiedo se non potrebbe dirmi qualcosa su quello scenario sciamanico cui sta lavorando. Sto scrivendo un libro sulla Superstizione. Ricorda il nostro colloquio?" "Ja, ja! Naturalmente!" Scattò verso una scrivania e aprì alcuni cassetti. Smithback accese un piccolo registratore. "Per prima cosa, si dipinge lo sfondo su una superficie sinuosa, in modo che non ci siano spigoli, vede? Questo dà l'illusione della profondità." Lo scienziato cominciò a descrivere il procedimento, il tono stridulo per l'eccitazione. Promette bene, pensava il giornalista. Questo tipo è il sogno di ogni scrittore. Von Oster continuò per parecchio tempo, sferzando l'aria con ampi gesti, tirando il fiato tra una frase e l'altra. Quando s'interruppe, fece un sorriso radioso a Smithback. "Le va di dare un'occhiata alle mie bestiole?" domandò. L'altro non seppe resistere. I suoi insetti erano famosi. Von Oster aveva ideato un procedimento che adesso veniva usato in tutti i grandi musei di
storia naturale del paese: i suoi coleotteri spogliavano della carne i piccoli animali, lasciando soltanto degli scheletrini puliti e perfettamente articolati. La stanza "di sicurezza" che ospitava i coleotteri era calda e umida, poco più grande di uno sgabuzzino. Le bestiole, dei dermestidi, venivano dall'Africa e vivevano in bianche vasche di porcellana dalle pareti lisce, coperte da una reticella. I coleotteri strisciavano lentamente su file di animali morti e spellati. "Cosa sono?" domandò il giovane, scrutando le carcasse brulicanti di insetti sul fondo della vasca. "Pipistrelli!" rispose Von Oster. "Pipistrelli per il dottor Huysman. Ci vorranno circa dieci giorni per pulire questi pipistrelli." Pronunciava "qvesti pipiztrelli." Fra odore e insetti, il giornalista ritenne di averne avuto abbastanza. Si raddrizzò e tese la mano al vecchio scienziato. "Devo andare. Grazie per l'intervista. E questi insetti sono davvero formidabili." "Lei è sempre il benvenuto!" rispose Von Oster. "Ma, un momento. Ha detto 'intervista'. Per chi sta scrivendo il suo libro?" L'idea di essere intervistato doveva essergli balenata nella testa soltanto in quel momento. "Per il museo", rispose Smithback. "Ho avuto l'incarico dalla Rickman." "Rickman?" Gli occhi di Von Oster si strinsero di colpo. "Sì. Perché?" "Lei lavora per la Rickman?" "Non proprio. Per lo più, la gentile signora si limita a intralciare il mio lavoro", disse Smithback. Von Oster fece un ghigno. "Ach, è una vera peste! Perché lavora per lei?" "I casi della vita", sospirò il giovane, contento di aver trovato un alleato. "Lei non immagina nemmeno la rottura di scatole..." L'altro batté le mani. "Lo immagino, lo immagino eccome! Se ne va in giro a rompere l'anima a tutti. Con questa mostra, poi, ci dà una seccatura dietro l'altra!" All'improvviso l'interesse di Smithback si riaccese. "E come?" domandò. "Non c'è giorno che non capiti qui per dire: qvesto non va bene, quest'altro non va bene. Gott, qvella donna!" "È proprio da lei", disse Smithback con un sorriso che era un ghigno. "E che cosa non va bene?" "Quella, come la chiama, quella roba della tribù kothoga. Ero proprio
qui ieri, quando lei l'ha portata giù. 'Tutti fuori', diceva. 'Tutti fuori. Portiamo la statuina kothoga!' Siamo stati costretti a interrompere il lavoro e a uscire." "Statuina? Quale statuina? Cosa c'è di così segreto?" Il giornalista pensava che qualunque cosa fosse in grado di turbare a tal punto la Rickman gli sarebbe potuta tornare utile, un giorno o l'altro. "Quella statuina di Mbwun, il pezzo forte della mostra. Non ne so molto. Ma lei era proprio fuori di sé, glielo assicuro!" "Come mai?" "Gliel'ho detto: quella statuina. Non ha sentito le voci? Se ne dicono tante in proposito: cose molto brutte. Io fingo di non sentire.". "E cosa si dice, per esempio?" Smithback ascoltò lo scienziato per un bel pezzo. Infine, si diresse verso l'uscita. Von Oster lo seguì fino al montacarichi. Le porte si chiudevano, ma ancora lo studioso non desisteva. "Una bella sfortuna, lavorare per lei!" gli urlò un momento prima che il montacarichi cominciasse a salire traballando. Ma Smithback non lo sentiva più. I suoi pensieri erano altrove. 20 Mentre il pomeriggio volgeva al termine, Margo alzò stancamente gli occhi dal terminale. Allungando un braccio, premette il comando che azionava la stampante in fondo al corridoio, poi tornò a sedere e si sfregò gli occhi. La relazione per la vetrina era finita, finalmente. Forse un po' troppo concisa, non esauriente come lei avrebbe voluto; ma non poteva permettersi di perdervi sopra altro tempo. Nel suo intimo era piuttosto soddisfatta, e si scoprì impaziente di portarne una copia nell'ufficio di Moriarty al quarto piano, nell'Osservatorio Butterfield, dove si radunavano gli organizzatori della mostra Superstizione. Sfogliò l'elenco del personale in cerca del numero, poi prese il telefono e lo compose. "Mostra centrale", rispose qualcuno in tono strascicato. In sottofondo, si sentivano voci di gente che si salutava. "È lì George Moriarty?" domandò Margo. "Penso che sia giù alla mostra. Qui stiamo chiudendo. Vuole lasciare un messaggio?" "No, grazie", disse lei riattaccando. Guardò l'orologio: quasi le cinque.
Ora del coprifuoco. Ma l'inaugurazione era prevista per venerdì sera, e lei aveva promesso il materiale a Moriarty. Quando stava per alzarsi, ricordò che Frock le aveva suggerito di chiamare Greg Kawakita. Sospirò, riprendendo il telefono. Meglio fare un tentativo. Probabilmente a quell'ora era già uscito: gli avrebbe lasciato un messaggio in segreteria. "Parla Greg Kawakita", sentì dire dalla voce baritonale a lei familiare. "Greg? Sono Margo Green." Smetti di essere così sussiegosa. Non è un caposettore! "Ciao. Cosa c'è?" Margo sentiva in sottofondo il rumore delle dita sulla tastiera. "Devo chiederti un favore. In verità si tratta di un'idea di Frock. Sto analizzando alcune specie di piante usate dalla tribù kiribitu, e lui suggeriva di inserirle nel vostro Estrapolatore. Magari troviamo qualche corrispondenza genetica nei campioni." Silenzio. "Il dottor Frock pensa che possa essere un test utile per il vostro programma, oltre che un aiuto per me", insistette. Kawakita tacque per un momento. "Be', vedi, Margo, mi piacerebbe aiutarti, davvero. Ma l'Estrapolatore non è al momento in condizioni di essere usato da nessuno. Sto ancora lavorando sui coleotteri e non potrei garantire dei risultati." La ragazza si sentì avvampare. "Da nessuno?" "Mi spiace, non ho trovato un'espressione migliore. Sai cosa intendo dire. Inoltre, è un periodo in cui sono indaffaratissimo, e questo coprifuoco non migliora davvero le cose. Senti, perché non ci risentiamo fra una settimana o due? Va bene? Allora potremo riparlarne." La linea dette il segnale di libero. Margo si alzò, afferrò giacca e borsa e andò in corridoio a ricuperare lo stampato. Sapeva che Kawakita aveva intenzione di rimandare la cosa alle calende greche. Be', che andasse al diavolo. Sarebbe andata a cercare Moriarty per consegnargli la copia prima che uscisse. Se non altro, forse ciò le sarebbe valso una visita guidata alla mostra e avrebbe imparato qualcosa sugli oggetti esposti. Pochi minuti dopo, camminava lentamente lungo la Selous Memorial Hall. Due guardie erano ferme all'ingresso; nell'ufficio informazioni c'era un solo custode che stava mettendo sotto chiave i registri e sistemava gli oggetti in vendita per i visitatori dell'indomani. Ammesso che ce ne siano, pensò lei. Tre poliziotti, proprio sotto la statua bronzea di Selous, chiacchieravano. Non la notarono.
La giovane si ritrovò a pensare alla conversazione di quella mattina con Frock. Se non si scovava l'assassino, le misure di sicurezza potevano diventare ancora più rigide. Forse la sua dissertazione sarebbe stata rimandata. Potevano anche chiudere il museo a tempo indeterminato. Scosse la testa. Se fosse successo, il suo ritorno nel Massachusetts era assicurato. Si diresse verso la Galleria Walker e l'ingresso posteriore alla Superstizione. Con disappunto, le grandi porte metalliche erano chiuse, e una corda di velluto tesa fra due paletti d'ottone ne impediva l'accesso. Accanto alla barriera c'era un poliziotto immobile. "Posso aiutarla, signorina?" domandò l'agente. Nella targhetta sul petto si leggeva F. BEAUREGARD. "Dovrei vedere George Moriarty", rispose Margo. "Penso che sia qui. Devo consegnargli una cosa." Brandì lo stampato davanti al poliziotto, che non si lasciò impressionare. "Spiacente, signorina", disse. "Sono le cinque passate. Lei non dovrebbe essere qui. Inoltre", aggiunse più gentilmente, "la mostra è sigillata fino all'apertura." "Ma..." cominciò a protestare lei; poi si voltò, e con un sospiro tornò verso la rotonda. Girato un angolo, si fermò. In fondo al corridoio deserto vedeva l'oscura immensità della Hall. L'agente F. Beauregard era nascosto dallo spigolo della parete. D'impulso, svoltò lesta a sinistra in un piccolo passaggio basso che si apriva su un altro corridoio parallelo. Forse non era troppo tardi per trovare Moriarty, in fin dei conti. Salì un'ampia rampa di scale, e guardandosi circospetta intorno prima di proseguire, avanzò lentamente in una galleria a volta dedicata agli insetti. Poi girò a destra e imboccò un corridoio che passava dietro l'Acquario. Come ogni altro posto nel museo, appariva lugubre e deserto. Scese uno dei due scaloni gemelli fino al pavimento di granito della Hall principale. Muovendosi lentamente, ora, passò accanto a un gruppo di trichechi inseriti nel loro habitat e a un modello meticolosamente ricostruito di scogliera sottomarina. Margo sapeva che diorama come quelli, elaborati originariamente negli anni Trenta e Quaranta, non si producevano più per l'alto costo. In fondo alla Hall c'era l'ingresso alla Weisman Gallery, dove si allestivano le mostre temporanee più grandi. Era una della serie di gallerie in cui si teneva la mostra Superstizione. Fogli di carta nera coprivano l'interno dei vetri della doppia porta, su cui un grosso cartello annunciava:
GALLERIE CHIUSE. NUOVA MOSTRA IN ALLESTIMENTO. GRAZIE PER LA COMPRENSIONE. Il battente di sinistra era chiuso. Quello di destra, però, appena spinto, si schiuse facilmente. Con la massima indifferenza possibile, Margo si guardò alle spalle: nessuno. La porta si chiuse cigolando dietro di lei, che si trovò in uno spazio angusto, fra le pareti esterne della galleria e il retro della mostra vera e propria. Tavole di compensato e grossi chiodi erano sparsi a terra, cavi elettrici si snodavano lungo il pavimento. Sulla sinistra, un'immensa struttura di cartongesso e tavole inchiodate rozzamente insieme e sostenuta da puntelli di legno faceva pensare a un set hollywoodiano. Era la parte della mostra che nessun visitatore avrebbe mai visto. Procedette con cautela in quel budello, cercando un varco per entrare. La luce era scarsa - lampadine schermate ogni sei metri - e non voleva inciampare e cadere. Di lì a poco giunse a una fessura fra i pannelli di legno... abbastanza grande, decise, per passare. Si ritrovò in un'ampia anticamera esagonale. Archi gotici in tre pareti incorniciavano anditi che si perdevano nel buio. La maggior parte della luce proveniva da alcune fotografie di sciamani retroilluminate, appese alle pareti. Margo osservò pensosa le tre uscite. Non aveva idea del punto della mostra in cui si trovava... dove cominciava, dove finiva o quale via dovesse imboccare per scovare Moriarty. "George?" sussurrò, quasi incapace di alzare di più il tono in quel silenzio e in quell'oscurità. Imboccò il passaggio centrale fino a un'altra sala semibuia, più lunga della precedente e piena di vetrine. A intervalli, un faretto illuminava qualche manufatto: una maschera, un coltello d'osso, qualche strana scultura irta di chiodi. Sembrava che gli oggetti galleggiassero nell'oscurità vellutata. Sul soffitto danzavano folli, confuse macchie di luce e ombra. All'estremità della galleria, le pareti si restringevano. Aveva la sensazione di camminare in una grotta profonda. L'hanno fatta proprio da furbi, pensò. Capiva perché Frock fosse così scandalizzato. S'inoltrò nell'oscurità, senza sentire altro che i propri passi attutiti dalla spessa moquette. Non riusciva a vedere le cose esposte finché non vi si trovava proprio davanti, e si chiedeva se sarebbe mai riuscita a ritornare sui suoi passi fino alla stanza degli sciamani. Forse c'era un'uscita non bloccata - e ben illuminata - in qualche altro luogo. Davanti a lei la galleria si biforcava. Dopo un momento di esitazione,
Margo scelse il corridoio a destra. Proseguendo, scorse delle piccole nicchie su ambo i lati, ciascuna contenente un solo bizzarro manufatto. Il silenzio era così profondo che si scoprì a trattenere il respiro. Il corridoio si allargava in una stanza, e lei si fermò davanti a una serie di teste maori tatuate. Non erano rimpicciolite: i crani erano ancora all'interno, conservati - diceva la didascalia - mediante affumicatura. Le occhiaie erano state riempite di fibre, e la pelle color mogano luccicava. Le labbra nere e raggrinzite lasciavano i denti scoperti. Erano sei teste, una folla che sogghignava in modo isterico nel buio. I tatuaggi azzurri erano incredibilmente complessi: intricate spirali che s'intrecciavano e intersecavano più volte, volute infinite attorno alle guance, al naso e al mento. I tatuaggi erano stati fatti in vita, diceva la didascalia, e le teste erano state conservate in segno di rispetto. Subito dopo, si accorse che il corridoio si restringeva drasticamente. Davanti al cul-de-sac, un tozzo, massiccio palo totemico era illuminato da una fioca luce aranciata. Ombre di gigantesche teste di lupo e di uccelli con becchi aguzzi e ricurvi venivano proiettate dal palo sul soffitto, grigio contro nero. Di sicuro era giunta a un punto morto: si avvicinò al palo con riluttanza. Poi notò una piccola prosecuzione, più avanti e sulla sinistra, che portava a una nicchia. Margo avanzò lentamente, camminando nel modo più pacato possibile. Da un pezzo l'idea di mettersi a chiamare Moriarty le era uscita di mente. Grazie a Dio sono lontana dal Vecchio Scantinato, pensò. La stanza si allargava in uno spazio ottagonale sotto un'alta volta a ogive. Una luce screziata filtrava da vetrate colorate raffiguranti gli inferi medievali e poste sul soffitto a volta. Ampie vetrine dominavano ogni parete. Si avvicinò a quella più vicina e si ritrovò a guardare in una tomba maya. Al centro, uno scheletro coperto da spessi strati di polvere. Manufatti erano sparsi tutt'attorno. Una corazza d'oro posava sulla gabbia toracica, anelli d'oro cerchiavano le dita. Vasi dipinti erano sistemati a semicerchio attorno al teschio. Uno di essi conteneva un'offerta di tutoli sottili e rinsecchiti. La vetrina successiva mostrava una sepoltura eschimese nella roccia, con tanto di mummia avvolta in pellicce. La seguente era ancor più sbalorditiva: una bara priva di coperchio in stile europeo, marcescente, completa di cadavere. Questo indossava una finanziera sbrindellata con code e cravatta, ed era in avanzato stato di decomposizione. La testa era piegata rigidamente verso Margo, quasi si accingesse a rivelarle un segreto, le arcate
orbitali sporgenti, la bocca contratta da un rictus di dolore. Fece un passo indietro. Buon Dio, pensò, questo è il trisavolo di qualcuno. Il tono distaccato della didascalia, che descriveva con bel garbo i rituali associati al tipico funerale ottocentesco americano, attenuava il disgusto provocato da quella visione. È proprio vero, disse tra sé, il museo punta decisamente sulle sensazioni forti. Decise di trascurare le altre vetrine e proseguì lungo un basso corridoio al fondo della stanza ottagonale. Più avanti c'era un'altra biforcazione. Alla sua sinistra, vide un piccolo cul-de-sac; a destra, un lungo e stretto corridoio si perdeva nell'oscurità. Margo non intendeva imboccare quella via; non in quel momento. Si aggirò nella stanzetta cieca e poi si fermò di botto. Avanzò per esaminare più da vicino una piccola vetrina. La saletta era dedicata all'idea del Maligno nelle sue tante forme mitiche. C'erano varie immagini del diavolo medievale; c'era lo spirito maligno degli eschimesi, Tornarsuk. Ma ciò che l'aveva indotta a fermarsi era un rozzo altare di pietra posto al centro della stanza. Sull'altare, illuminata da una luce giallognola, era posata una statuina scolpita così minutamente che la giovane si sentì mancare il respiro. Un essere coperto di scaglie era accovacciato a quattro zampe. C'era però in esso qualcosa - i lunghi arti anteriori, l'angolazione della testa - di inquietantemente umano. Lei rabbrividì. Quale fervida immaginazione può aver creato un essere munito di scaglie e di capelli? Lesse la didascalia. MBWUN. Questa scultura rappresenta il furioso dio Mbwun, ed è stata probabilmente scolpita dalla tribù kothoga del bacino superiore del Rio delle Amazzoni. Questo dio crudele, noto anche come Colui-checammina-a-quattro-zampe, era assai temuto dalle altre tribù indigene dell'area. Secondo il mito locale, i kothoga erano in grado di evocare Mbwun a piacimento e di ordinargli di distruggere le tribù vicine. I manufatti kothoga sono estremamente rari, e questa è la sola immagine esistente di Mbwun. Eccettuati gli scarni riferimenti reperibili nelle leggende amazzoniche, non si conosce nient'altro della tribù kothoga o del suo misterioso "diavolo". Margo si sentì percorrere da un brivido gelido. Guardò più da vicino, disgustata dai tratti di rettile, dagli occhietti perfidi... dagli artigli. Tre su ogni arto anteriore. Oddio. Non era possibile.
All'improvviso si rese conto che l'istinto le stava ordinando di restare assolutamente immobile. Passò un minuto, un altro. Poi si ripeté... il suono che l'aveva raggelata. Uno strano fruscio, lento, cauto, ovattato in modo inquietante. Sulla spessa moquette, i passi dovevano essere vicini... vicinissimi. Un disgustoso odore di selvatico minacciava di soffocarla. Si guardò attorno come fuori di sé, lottando con il panico, cercando una via di scampo. L'oscurità era completa. Con la massima lentezza possibile, uscì dal cul-de-sac e tornò alla biforcazione. Un altro fruscio, e Margo si ritrovò a correre, a correre a perdifiato nel buio, accanto alle spaventose vetrine e alle statue ghignanti che sembravano balzare fuori dell'oscurità; a insinuarsi in incroci e corridoi, cercando sempre di prendere la via più nascosta. Alla fine, priva d'orientamento e di fiato, si rifugiò in una nicchia dedicata alla medicina primitiva. Ansimante, si accovacciò dietro una teca che ospitava un cranio umano trafitto da un palo di ferro. Si confuse con l'ombra, tendendo l'orecchio. Non c'era niente: nessun rumore, nessun movimento. Aspettò che le tornasse lentamente il respiro... e la ragione. Non c'era niente là fuori. Non c'era mai stato niente là fuori, in realtà... tutta colpa della sua immaginazione infervorata, esaltata da quell'itinerario da incubo. Sono stata pazza a infilarmi qui, pensò. Ora credo proprio che non riuscirò più a metterci piede... nemmeno con tutta la folla della domenica. In ogni modo, doveva andarsene. Era tardi, adesso, ma sperava che ci fosse ancora qualcuno che l'avrebbe sentita bussare, quando avesse raggiunto una porta chiusa. Sarebbe stato imbarazzante dover spiegare la sua presenza lì a una guardia o a un agente. Ma, se non altro, sarebbe stata fuori. Sbirciò da sopra la teca. Anche se era stata la sua immaginazione, non si sognava nemmeno di tornare per la stessa direzione da cui era venuta. Trattenendo il respiro, uscì lentamente dalla nicchia, poi tese l'orecchio. Niente. Prese a sinistra e percorse pian piano il corridoio, cercando una via più allettante per uscire da quel labirinto. A un ampio incrocio si fermò, gli occhi che scrutavano il buio, chiedendosi quale direzione dovesse imboccare. Non ci sono cartelli che indichino l'uscita? Probabilmente non li hanno ancora messi. Tipico. Il corridoio alla sua destra sembrava promet-
tere bene, però: si sarebbe detto che sboccasse in un ampio foyer più avanti, dove lo sguardo si perdeva. La sua visione periferica colse un movimento. Le gambe raggelate, Margo guardò con riluttanza a destra. Una sagoma - nero su nero - scivolava furtiva verso di lei, proiettando un'ombra sinuosa sulle bacheche e sulle teste ghignanti. Con la velocità che le veniva dalla paura, la ragazza si precipitò nel corridoio. Sentì, più che vedere, le pareti del corridoio che si ritraevano alle sue spalle e si allargavano di fronte a lei. Poi si vide davanti le due fessure di luce gemelle, verticali, che contornavano un'ampia doppia porta. Senza rallentare, vi si buttò contro. La porta cedette e qualcosa sferragliò dalla parte opposta. Una luce fioca la investì... la luce rossa, smorzata, di un museo di notte. L'aria fresca le colpì le guance. Piangendo, ora, richiuse le porte e vi si appoggiò, gli occhi serrati, la fronte contro il freddo metallo, singhiozzante, in lotta col respiro che non voleva tornare. Dal bagliore rossastro alle sue spalle giunse il rumore inconfondibile di qualcuno che si schiariva la gola. PARTE SECONDA SUPERSTIZIONE 21 "Cosa sta succedendo qui?" disse una voce dura. Margo ruotò su se stessa e quasi svenne per il sollievo. "Agente Beauregard, c'è..." cominciò, fermandosi a metà frase. F. Beauregard, che stava raddrizzando il paletto buttato a terra dalle porte oscillanti, alzò gli occhi quando sentì pronunciare il proprio nome. "Ehi, lei è la ragazza che voleva entrare poco fa!" Socchiuse gli occhi. "Cosa c'è che non va, signorina? Vuole darmi una risposta?" "Agente, c'è..." Margo tentò di nuovo, ma non ci riuscì. Il poliziotto fece un passo indietro e incrociò le braccia sul petto, in attesa. Poi un'espressione di sorpresa gli passò sul volto. "Cosa le succede? Ehi, si sente bene?" Margo era crollata a terra, ridendo... o piangendo, non sapeva nemmeno lei... e si asciugava le lacrime. L'agente allungò una mano e le afferrò un braccio. "Forse è meglio che
venga con me." Le implicazioni dell'ultima frase - sedere in una stanza piena di poliziotti, ripetere mille volte l'accaduto, forse in presenza del dottor Frock o magari del dottor Wright, costretta a tornare dentro alla mostra - la indussero ad alzarsi. Penseranno che sono pazza. "Oh, no, non è necessario", disse Margo, tirando su col naso. "Ho avuto soltanto un po' di paura." Beauregard sembrava poco convinto. "Continuo a pensare che dovremmo andare a parlare col tenente D'Agosta." Con l'altra mano, prese dalla tasca dei pantaloni un grosso taccuino rivestito di pelle. "Come si chiama?" domandò. "Dovrò fare rapporto." Era chiaro che non l'avrebbe lasciata andare fino a quando non gli avesse dato l'informazione richiesta. "Il mio nome è Margo Green", rispose. "Sono una specializzanda che lavora con il dottor Frock. Stavo svolgendo un incarico per conto di George Moriarty... che cura la mostra. Ma lei aveva ragione. Non c'era nessuno lì dentro." Delicatamente, mentre parlava si liberò dalla stretta del poliziotto. Poi cominciò ad arretrare, verso la Selous Memorial Hall, senza smettere di parlare. L'agente la guardò e alla fine, scrollando le spalle, aprì il taccuino e cominciò a scrivere. Nella Hall, Margo si fermò. Non poteva tornare nel proprio ufficio; erano quasi le sei, e il coprifuoco era severo. Non voleva andare a casa... non poteva andare a casa, non ancora. Si ricordò la copia della relazione per Moriarty. Si tastò il fianco... Per fortuna la sacca era ancora lì, incolume dopo tutto quel trambusto. Rimase ferma per un minuto, dopodiché si diresse verso il chiosco delle informazioni, deserto. Prese la cornetta del telefono interno e compose un numero. Un trillo, poi: "Moriarty". "George? Sono Margo Green." "Ehi, Margo", la salutò lui. "Cosa c'è?" "Sono nella Selous Hall", spiegò la ragazza. "Sono appena uscita dalla mostra." "La mia mostra?" domandò Moriarty, sorpreso. "Cosa sei andata a fare? Chi ti ha lasciata entrare?" "Stavo cercando te. Volevo darti quella relazione sul Camerun. Eri lì dentro?" Si sentì cogliere di nuovo dal panico. Nella concitazione del momento erano passati a darsi del tu, in modo del tutto naturale "No. La mostra dovrebbe essere sigillata, in attesa dell'inaugurazione di venerdì sera. Perché?"
Margo respirava profondamente, cercando di riprendere il controllo di sé. "Che cosa ne pensi?" domandò Moriarty, curioso. Un risolino isterico uscì dalla bocca di Margo. "Terrificante." "Abbiamo chiamato degli esperti per sistemare le luci e curare le prospettive. Il dottor Cuthbert ha perfino assunto il tipo che ha allestito il Mausoleo Stregato. E considerato il più bello del mondo, sai?" Finalmente la ragazza si sentì di nuovo pronta a parlare. "George, c'era qualcosa con me nella mostra." Una guardia, in fondo alla Hall, l'aveva scorta e stava andando verso di lei. "Cosa intendi dire con qualcosa?" "Quello che ho detto!"All'improvviso era di nuovo all'interno, al buio, accanto a quell'orribile statuetta. Le tornò in bocca il sapore amaro della paura. "Ehi, non urlare!" disse Moriarty. "Senti, vediamoci alle Ossa e parliamone lì. Dovremmo essere entrambi fuori del museo, comunque. Ho sentito quello che hai detto, ma non lo capisco." Le Ossa, come tutti la chiamavano al museo, era nota agli abitanti del quartiere come la Taverna della Pietra di Blarney. La sua facciata minuscola era annidata fra due enormi, ornati edifici gemelli, proprio davanti all'entrata meridionale del museo nella Settantaduesima Strada. A differenza dei locali tipici dell'Upper West Side, la Pietra di Blarney non serviva paté di lepre o cinque "gusti" diversi di acqua minerale: in compenso si poteva mangiare del polpettone fatto in casa e bere una brocca di Harp per soli dieci dollari. Il personale del museo l'aveva soprannominata Le Ossa perché Boylan, il proprietario, aveva addobbato con un incredibile numero di ossa ogni superficie disponibile. Le pareti erano decorate di innumerevoli femori e tibie, sistemati in perfette file eburnee, quasi fossero stuoie di bambù. Metatarsi, scapole e rotule formavano bizzarri mosaici sul soffitto. Teschi di strani mammiferi erano annidati in ogni nicchia possibile e immaginabile. Dove prendesse tutte quelle ossa era un mistero, ma qualcuno diceva che si rifornisse nottetempo al museo. "Me le porta la gente", era solito spiegare Boylan stringendosi nelle spalle. Naturalmente, quello era il luogo di ritrovo favorito dal personale. Le Ossa stava facendo affari d'oro; Moriarty e Margo dovettero farsi largo a spintoni tra la folla per raggiungere un separé libero. Guardandosi at-
torno, la ragazza scorse alcuni funzionari del museo, oltre a Bill Smithback. Lo scrittore era seduto al bar e parlava animatamente con una bionda magra. "Bene", disse Moriarty, alzando la voce per riuscire a farsi sentire. "Cosa mi stavi dicendo, al telefono? Non sono sicuro di aver capito bene." Margo respirò profondamente. "Sono scesa alla mostra per darti la copia della relazione. C'era buio. E dentro c'era qualcosa. Che mi seguiva. Mi dava la caccia." "Di nuovo quella parola, qualcosa. Che senso ha?" Lei scosse la testa, stizzita. "Non chiedermi di spiegare. C'erano dei rumori... come di passi felpati. Erano furtivi, cauti, e io..." si strinse nelle spalle, perplessa. "E uno strano odore, anche. Era disgustoso." "Senti..." cominciò lui, poi si fermò, mentre la cameriera prendeva le ordinazioni. "Questa mostra vuol essere raccapricciante. Hai detto tu stessa che Frock e altri la considerano troppo 'suggestiva'. Posso immaginare cos'hai provato: trovarti chiusa lì dentro, sola nel buio..." "In altre parole, mi sono immaginata tutto." Margo rise mestamente. "Non puoi sapere quanto mi piacerebbe crederlo." Arrivarono i drink: una birra leggera per lei, e una pinta di Guinness per lui, sovrastata dall'immancabile centimetro di schiuma. Moriarty la assaggiò. "Quegli omicidi, tutte quelle dicerie..." continuò. "Probabilmente anch'io avrei reagito allo stesso modo." Margo, ora più calma, tornò a parlare, ma esitante. "George, quella statuina kothoga della mostra..." "Mbwun? Cosa c'è?" "I suoi arti anteriori hanno tre artigli." Moriarty si stava gustando la Guinness. "Lo so. È una scultura meravigliosa, uno dei pezzi forti della mostra. Naturalmente, pur se detesto ammetterlo, il suo fascino viene soprattutto dalla maledizione." La giovane assaggiò la birra. "George, voglio che tu mi dica, nel modo più dettagliato possibile, che cosa sai della maledizione di Mbwun." Uno strillo sovrastò il frastuono delle conversazioni. Alzando gli occhi, Margo vide Smithback comparire dalla nebbia fumosa, stringendosi al petto una serie di taccuini, i capelli illuminati da dietro e irti sulla testa. La donna con cui stava parlando al bar era scomparsa. "Un raduno degli esuli", spiegò il giovane. "Questo coprifuoco è un vero disastro. Dio ci scampi dai poliziotti e dalle responsabili delle PR." Non invitato, sparse i taccuini sul tavolo e sedette accanto a Margo.
"Ho sentito che la polizia ha cominciato a interrogare quelli che lavorano vicino ai luoghi dei delitti", disse. "Temo che chiameranno anche te, Margo." "Il mio colloquio è fissato per la settimana prossima", rispose la ragazza. "Io non ne sapevo nulla", intervenne Moriarty. Non sembrava contento della comparsa di Smithback. "Be', tu non hai di che preoccuparti, appollaiato come sei in quella soffitta", obiettò il giornalista. "La Bestia del Museo probabilmente non riesce a fare le scale." "Hai la luna di traverso, stasera?" gli domandò Margo. "La Rickman ti ha tagliato qualche altro capitolo?" Smithback continuò a parlare con Moriarty. "In verità, stavo cercando proprio te. Volevo farti una domanda." La cameriera passò di nuovo, e lui agitò una mano. "Macallan, subito." "Bene", continuò. "Che storia c'è dietro la statuina di Mbwun?" Ci fu un silenzio attonito. Il giornalista spostò lo sguardo da Moriarty a Margo. "Che cosa ho detto?" "Stavamo giusto parlando di Mbwun", rispose la ragazza, esitante. "Davvero?" esclamò il giornalista. "Piccolo il mondo. Comunque, quel vecchio austriaco nella Stanza degli Insetti, Von Oster, mi ha detto che la Rickman ha fatto un gran casino quando ha saputo che la statuina veniva esposta. Ha parlato di 'questioni delicate'. Così ho pensato di indagare un po'." Lo scotch arrivò e il giornalista alzò il bicchiere in un brindisi silenzioso, poi lo tracannò d'un fiato. "Ho raccolto qualche informazione", continuò. "Sembra che ci fosse quella tribù lungo il corso superiore dello Xingu, in Amazzonia: i kothoga. A quanto pare erano tipi poco raccomandabili... cultori dell'occulto, sacrifici umani e via discorrendo. Non avendo lasciato molte tracce, gli antropologi ritengono che siano scomparsi secoli fa. Tutto ciò che ne è rimasto è una manciata di miti che circolano fra le tribù locali." "Sì, so qualcosa", cominciò Moriarty. "Margo e io ne stavamo giusto parlando. Solo che non tutti credono..." "Lo so, lo so. Tienti forte." Moriarty si appoggiò allo schienale, assumendo un'aria seccata. Era più avvezzo a dare lezioni che a prenderne. "Alcuni anni fa, c'era un tipo di nome Whittlesey al museo. Organizzò
una spedizione nello Xingu superiore per cercare tracce dei kothoga... manufatti, antichi insediamenti eccetera." Smithback si chinò in avanti con fare da cospiratore. "Ciò che però Whittlesey non disse a nessuno era che non intendeva scovare qualche traccia lasciata dalla tribù. Lui cercava la tribù. Si era messo in testa che i kothoga esistessero ancora, ed era quasi certo di poterli localizzare. Aveva sviluppato qualcosa che chiamò 'triangolazione del mito'." Stavolta Moriarty non si lasciò sopraffare. "Si segnano su una carta tutti i punti in cui si sono sentite leggende su un certo popolo o sito, si identificano le aree in cui le leggende sono più particolareggiate e consistenti, e si localizza il centro preciso dell'area del mito. Probabilmente è lì che va cercata la fonte dei cicli leggendari." Il giornalista lo guardò per un momento. "Davvero? Comunque, quel Whittlesey partì nel 1987 e sparì nella foresta pluviale amazzonica: nessuno lo rivide più." "Von Oster ti ha detto tutto questo?" domandò Moriarty, roteando gli occhi. "Quel vecchio noioso." "Sarà anche noioso, ma sa un sacco di cose sul museo." Smithback osservò sconsolato il bicchiere vuoto. "A quanto pare, scoppiarono dei contrasti nella giungla, e la maggior parte dei partecipanti alla spedizione se ne andò prima degli altri. Avevano trovato qualcosa di molto importante e volevano fare subito ritorno, mentre Whittlesey si opponeva. Rimase lì con un tale di nome Crocker. Sembra che siano morti entrambi. Quando però ho chiesto a Von Oster ulteriori particolari sulla statuetta di Mbwun, lui si è cucito la bocca di colpo." Si stirò languidamente e si guardò in giro in cerca della cameriera. "Dovrò rintracciare qualcuno che ha fatto parte della spedizione." "Allora caschi male", disse Margo. "Morirono tutti in un disastro aereo sulla via del ritorno." Il giornalista la fissò. "Stai scherzando!? E come lo sai?" Lei esitò, ricordando che Pendergast le aveva raccomandato la riservatezza. Poi pensò a Frock, a come le aveva stretto forte le mani quel mattino. Non possiamo lasciarci sfuggire questa occasione. Non possiamo permetterci di perdere questa opportunità. "Ti dirò quello che so", scandì lentamente, "ma lo devi tenere per te. E devi promettermi che mi aiuterai in tutti i modi possibili." "Bada a quello che fai, Margo", l'ammonì Moriarty. "Aiutarti? Ma certo, puoi contarci", disse Smithback. "E allora?"
Esitante, Margo raccontò dell'incontro con Pendergast nell'Area di Sicurezza: i calchi dell'artiglio e delle ferite, le casse, la storia di Cuthbert. Poi descrisse la statuina di Mbwun che aveva visto alla mostra... omettendo il suo terrore e la sua fuga. Sapeva che Smithback non avrebbe creduto alla sua storia più di Moriarty. "E ciò che stavo chiedendo a Moriarty quando sei arrivato", concluse la ragazza, "era proprio quello che sa sulla maledizione dei kothoga." Moriarty si strinse nelle spalle. "Non molto, in verità. Secondo la leggenda locale, i kothoga erano un gruppo-fantasma, una setta di stregoni. Si diceva che sapessero farsi obbedire dai demoni. C'era una creatura - un demone al loro servizio - che usavano per compiere le loro vendette. Era Mbwun, Colui-che-cammina-a-quattro-zampe. Poi Whittlesey s'imbatté in quella statuina e in qualche altro oggetto, li mise nelle casse e li spedì al museo. Naturalmente, simili razzie di oggetti sacri non sono una novità. Ma quando lui si perse nella giungla e non fu più rivisto, e il resto della spedizione perì nel disastro aereo..." "La maledizione." "E adesso la gente che muore nel museo", intervenne Margo. "Cosa vorresti dire... che la maledizione di Mbwun, le storie della Bestia del Museo e i delitti attuali sono collegati?" domandò Moriarty. "Suvvia, Margo, non farti suggestionare." Lei lo guardò intensamente. "Non sei stato tu a dirmi che Cuthbert ha tenuto la statuetta fuori dalla mostra fino all'ultimo momento?" "Sì", ammise Moriarty. "Ha lavorato personalmente su quel reperto. Ma non è una cosa insolita, dato il suo valore. Quanto a ritardare la sua collocazione, suppongo che sia stata un'idea della Rickman. Probabilmente riteneva che così avrebbe suscitato più interesse." "Non credo proprio", disse Smithback. "Non è il suo modo di pensare. Semmai, cercava di evitare l'interesse. Basta il sentore dello scandalo, e quella si raggrinza come una falena vicino alla fiamma." Ridacchiò. "E qual è il tuo interesse in tutto questo, comunque?" domandò Moriarty. "Credi che un vecchio manufatto polveroso non possa interessarmi?" Il giornalista riuscì infine ad attirare l'attenzione della cameriera e ordinò un altro giro di drink. "Be', è ovvio che la Rickman non ti lasci scrivere niente in proposito", disse Margo. Smithback fece una smorfia. "Più che giusto. Potrei offendere tutte le
tribù kothoga di New York. In verità, quando Von Oster mi ha detto che la Rickman era molto preoccupata, ho pensato che avrei fatto bene a scavare un po' in questa melma. Magari potrei scoprire qualcosa che mi metterà in posizione di vantaggio quando avremo il prossimo tête-à-tête. 'Questo capitolo rimane o racconto la faccenda di Whittlesey alla rivista Smithsonian': te lo immagini?" "Ehi, aspetta un momento", disse la ragazza. "Non ti ho raccontato tutto questo perché tu lo sfrutti per far soldi. Non capisci? Dobbiamo saperne di più, di quelle casse. Qualunque cosa stia uccidendo la gente, vuole un oggetto che è lì dentro. Dobbiamo scoprire di che cosa si tratta." "Basta trovare quel diario", borbottò il giornalista. "Ma Cuthbert ha detto che si è perso", replicò lei. "Hai provato ad accedere alla banca-dati del museo?" domandò Smithback. "Forse lì c'è qualche informazione. Lo farei io stesso, ma la fiducia di cui mi danno credito è ai minimi termini." "La mia pure", sospirò Margo. "E poi non è la mia giornata con i computer." Riferì la sua conversazione con Kawakita. "E il nostro Moriarty?" domandò Smithback. "Tu sei un mago dei computer, no? Inoltre, come vicecuratore, puoi avere accesso a tutto." "Penso che dovreste lasciare che se ne occupino le autorità." Moriarty si tirò indietro, severo. "Non è compito nostro ficcanasare." "Ma non capisci?" lo incalzò la giovane. "Nessuno sa con che cosa abbiamo a che fare. Ne va della vita della gente... forse del futuro del museo." "So che le tue intenzioni sono buone, Margo", si giustificò il vicecuratore. "Ma non mi fido di Bill." "Le mie intenzioni sono pure come l'acqua delle Pieridi", replicò Smithback. "La Rickman sta cingendo d'assedio la cittadella della verità giornalistica. Sto soltanto cercando di difenderne i bastioni." "Non sarebbe tutto più facile se ti limitassi a fare ciò che vuole lei?" domandò Moriarty. "Penso che la tua vendetta sia un po' infantile. E sai una cosa? Non la spunterai." Arrivarono i drink, e il giornalista trangugiò il proprio con un sospiro di soddisfazione. "Prima o poi avrò ragione di quella megera", disse. 22
Beauregard finì di scrivere, poi rimise il taccuino nella tasca posteriore. Sapeva che avrebbe dovuto denunciare l'incidente. Al diavolo! Quella ragazza era così spaventata: era evidente che non aveva fatto nulla di male. Avrebbe fatto rapporto alla prima occasione, non subito. Era di cattivo umore. Non gli piaceva fare il guardaportone. Tuttavia, sempre meglio che dirigere il traffico a un semaforo rotto. E poi, giù da O'Ryans, era una cosa che faceva colpo. Sì, avrebbe detto. Mi hanno affidato il caso del museo. Spiacente, non posso parlarne. Per essere un museo, questo posto è maledettamente tranquillo, pensava Beauregard. Aveva sempre creduto che in tempi normali là dentro vi fosse un'attività frenetica. Da domenica, però, niente era più stato normale. Se non altro, durante il giorno c'erano funzionari che andavano e venivano nelle sale della nuova mostra. Ora, però, l'avevano sigillata in attesa dell'inaugurazione. Senza un permesso scritto del dottor Cuthbert, nessuno tranne i poliziotti o i custodi con un preciso incarico - poteva entrarci. Grazie a Dio, il suo turno finiva alle sei, e lui non vedeva l'ora di andarsene da quel posto per due giorni. Una bella partita di pesca, da solo, a Catskills. La sognava da settimane. L'agente portò la mano alla fondina della Smith & Wesson .38 special. Lo rassicurava. Pronta a far fuoco, come sempre. E sull'altra coscia aveva la pistola caricata con proiettili stordenti, così efficaci che avrebbero messo in ginocchio un elefante. Sentì uno scalpiccio felpato alle spalle. Si girò, il cuore che accelerava i battiti, verso la porta chiusa della mostra. Fece scattare la serratura, la aprì e guardò dentro. "Chi c'è?" Soltanto una ventata d'aria fredda sulle guance. Richiuse la porta e controllò la serratura. Da lì si poteva uscire, ma non entrare. Quella ragazza era sicuramente passata dall'ingresso principale. Ma non doveva essere chiuso anche quello? Come al solito, non gli dicevano mai niente. Sentì di nuovo il rumore. Be', che diavolo, pensò. Non è compito mio ispezionare l'interno. Non far entrare nessuno nella mostra. Nessuno gli aveva parlato di gente che poteva uscirne. Si mise a canticchiare, battendo il tempo con due dita sulla coscia. Altri dieci minuti e sarebbe stato fuori da quel posto maledetto. Di nuovo quel rumore.
Beauregard aprì la porta una seconda volta e infilò dentro la testa. Vedeva soltanto forme scure: vetrine della mostra, un corridoio dall'aria lugubre. "Sono un agente di polizia. Chiunque siate, rispondete, per favore." Le vetrine erano buie, le pareti piene d'ombre. Nessuna risposta. Ritraendosi, accese la trasmittente. "Beauregard a comando provvisorio. Siete in ascolto?" "Qui comando provvisorio. Cosa c'è?" "Si segnalano rumori all'ingresso posteriore della mostra." "Che tipo di rumori?" "Indefiniti. Come se ci fosse qualcuno." Sentì parlottare, poi un ridere soffocato. "Ehi... Fred?" "Cosa?" L'irritazione di Beauregard cresceva ogni minuto che passava. Il responsabile del comando provvisorio era una vera testa di cazzo. "È meglio che non entri." "Perché?" "Potrebbe essere il mostro, Fred. E potrebbe acchiapparti." "Va' all'inferno", disse Fred sottovoce. Non era tenuto a fare ispezioni se non arrivava un sostituto, e quelli del comando provvisorio lo sapevano benissimo. Dietro la porta ci fu un raschiare, come se qualcuno la stesse grattando con le unghie. Il respiro dell'agente accelerò. La radio gracchiò. "Hai già visto il mostro?" Cercando di mantenere un tono di voce pacato, Beauregard scandì: "Ripeto, rumori di natura sconosciuta. Chiedo sostituto per controllare". "Vuole il sostituto." Ci furono risa soffocate. "Fred, non abbiamo sostituti qui. Sono tutti impegnati." "Senti", disse Beauregard, perdendo la pazienza. "Chi c'è lì con te? Perché non mandi giù lui?" "McNitt. È in pausa. Vero, McNitt?" Si sentirono altre risate. Beauregard spense la radio. Stronzi che non siete altro, pensò. Un minimo di professionalità! Sperava soltanto che il tenente D'Agosta fosse in ascolto su quella frequenza. Aspettò nel corridoio semibuio. Ancora cinque minuti e si possono scordare di me. "Comando provvisorio chiama Beauregard. Mi senti?" "Ti ascolto", rispose l'agente.
"È arrivato McNitt?" "No. Devo pensare che la sua pausa è finita, se Dio vuole?" "Ehi, guarda che prima stavo scherzando", lo rimbeccò il collega con un certo nervosismo. "L'ho mandato giù subito." "Be', allora si è perso", disse Beauregard. "E il mio turno finisce tra cinque minuti. Ho le prossime quarantott'ore libere, e non intendo farmele rovinare da niente e nessuno. Faresti meglio a cercarlo via radio." "Non è in ascolto", disse l'agente del comando provvisorio. Un pensiero attraversò a un tratto la mente di Beauregard. "Da dove è passato McNitt? Ha preso l'ascensore del Settore 17, quello dietro la sala d'attesa?" domandò. "Sì, così gli ho detto di fare. Ascensore del Settore 17. Ho una mappa uguale alla tua, no?" "Dunque, per arrivare qui deve attraversare tutta la mostra. Bravo coglione! Potevi dirgli di passare dalla mensa." "Ehi, Freddy-bullo, non permetterti di darmi del coglione. Arriverà soltanto un po' in ritardo. Chiamami quando è lì." "In un modo o nell'altro, io smammo fra cinque minuti. Poi saranno cazzi di Effinger. Passo e chiudo." Fu allora che un trambusto improvviso giunse all'orecchio di Beauregard dall'interno della mostra. Poi sentì come un tonfo sordo. Gesù, pensò, McNitt. Aprì la porta ed entrò, slacciando la fondina della .38. L'agente del comando provvisorio prese un'altra ciambella e là masticò, mandando giù il boccone con un sorso di caffè. La radio sibilò. "McNitt a comando provvisorio. Ci sei?" "Ti ascolto. Dove diavolo ti trovi?" "All'entrata posteriore. Beauregard non c'è. Non riesco a trovarlo da nessuna parte." "Aspetta... provo a sentire." Cambiò frequenza. "Comando provvisorio chiama Beauregard. Fred, rispondi. Comando provvisorio chiama Beauregard... Ehi, McNitt, credo proprio che abbia mollato tutto e sia filato a casa. Il suo turno è appena finito. Ma da dove sei passato?" "Ho fatto la strada che mi hai detto tu, ma la porta principale della mostra era chiusa e non ho le chiavi, sicché ho dovuto fare tutto il giro. Ho perso un po' di tempo." "Sta' fermo lì, d'accordo? Il suo rimpiazzo deve arrivare da un momento all'altro. Ha detto che è Effinger. Chiamami quando arriva e torna subito
qui." "Ecco Effinger che arriva. Gli fai rapporto, a Beauregard?" domandò McNitt. "Vuoi scherzare?! Ma chi sono io? La vostra baby-sitter?" 23 D'Agosta guardava Pendergast, stravaccato sul sedile logoro della Buick. Gesù, pensava, a uno come Pendergast dovrebbero dare una Town Car ultimo modello. Invece, si ritrovava una Buick scassata con un autista che sapeva a malapena parlare inglese. Gli occhi di Pendergast erano socchiusi. "Svolta nell'Ottantaseiesima e prendi la trasversale per Central Park", sbraitò D'Agosta. L'autista attraversò due corsie della Central Park West e sbucò rombando nella trasversale. "Prendi la Quinta fino alla Sessantacinquesima e attraversa", ordinò D'Agosta. "Poi fa' un isolato a nord della Terza e svolta a destra nella Sessantaseiesima." "La Cinquantacinquesima è più veloce", disse l'autista, con un forte accento mediorientale. "Non all'ora del rientro", lo rimbeccò il tenente. Cristo, non erano nemmeno riusciti a trovare un autista che sapesse come muoversi in città. L'auto sterzò e percorse sferragliando il viale, superando la Sessantacinquesima. "Cosa diavolo stai facendo?" berciò D'Agosta. "Hai appena passato la Sessantacinquesima." "Scusi", mormorò l'autista, svoltando nella Sessantunesima e finendo in un ingorgo bestiale. "Non posso crederlo", disse D'Agosta a Pendergast. "Dovresti farlo licenziare." L'altro sorrise, gli occhi sempre socchiusi. "È, diciamo, un regalo dell'ufficio di New York. Ma questo intoppo ci dà modo di conversare un po'." Si tirò su nel sedile logoro. Pendergast aveva passato l'ultima metà del pomeriggio all'autopsia di Jolley. D'Agosta aveva declinato l'invito. "Quel laboratorio ha trovato tipi diversi di DNA nel nostro campione", continuò l'agente federale. "Uno era umano, l'altro di geco."
D'Agosta lo fissò. "Geco? Che roba è?" domandò. "Una specie di lucertola. Più o meno innocua. Ama starsene sui muri scaldati dal sole. Quand'ero bambino, un'estate prendemmo in affitto una villa sul Mediterraneo, e i muri ne erano coperti. Comunque, i risultati erano così strani che il tecnico ha pensato che si trattasse di uno scherzo." Aprì la ventiquattrore. "Questo è il rapporto dell'autopsia su Jolley. Temo che non ci sia niente di nuovo. Stesso modus operandi, corpo orrendamente dilaniato, regione talamica del cervello asportata. L'ufficio di medicina legale ha dichiarato che per provocare lacerazioni così profonde con un colpo solo occorre una forza straordinaria" - consultò un foglio dattiloscritto - "... due volte superiore a quella di un maschio adulto. Inutile dire che si tratta soltanto di una stima." Voltò alcune pagine. "Le sezioni del cervello del bambino più grande e di Jolley sono state anche sottoposte ai test degli enzimi salivari." "E...?" "Entrambi i cervelli risultavano positivi alla presenza di saliva." "Gesù. Vuoi dire che l'assassino se li mangia?" "Non solo, tenente, ma ci sbava sopra. Chiaramente lui, lei o esso è un gran maleducato. Hai il rapporto della scientifica? Posso vederlo?" D'Agosta glielo porse. "Non ci troverai nulla di sorprendente. Il sangue sui dipinti era di Jolley. Hanno trovato tracce di sangue che andavano oltre l'Area di Sicurezza, giù per una scala e nel sotterraneo. La pioggia della notte scorsa, però, le ha cancellate, naturalmente." Pendergast scrutò il documento. "E qui si parla della porta della camera blindata. Qualcuno l'ha colpita e percossa, forse con uno strumento smussato. C'erano anche tre graffi paralleli corrispondenti a quelli trovati sulle vittime. Ancora una volta, la forza usata era enorme." Restituì i fogli. "Parrebbe proprio che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al sotterraneo. Fondamentalmente, Vincent, questa faccenda del DNA è la nostra carta migliore. Se riusciamo a scoprire da dove viene quel frammento di artiglio, avremo una pista buona da seguire. Ecco perché ho preso questo appuntamento." L'auto si fermò davanti a un agglomerato di edifici in mattoni coperti di edera affacciati sull'East River. Una guardia li scortò a un ingresso laterale. Appena dentro il laboratorio, Pendergast occupò subito il tavolo al centro della stanza e si mise a parlare con gli scienziati, Buchholtz e Turow. D'Agosta era ammaliato dal modo in cui quel meridionale riusciva sempre a dominare la scena.
"Il mio collega e io vorremmo capire questa faccenda delle sequenze del DNA", stava dicendo Pendergast. "Dobbiamo sapere come siete arrivati a questi risultati e se si possono fare ulteriori analisi. Sono sicuro che voi capirete." "Certamente", disse Buchholtz. Era un tipo vivace, bassino e pelato come il Monte Calvo. "Le analisi sono state fatte dal mio assistente, il dottor Turow." Questi fece un passo avanti, nervoso. "Quando ci hanno dato il campione", spiegò, "ci hanno chiesto di verificare se proveniva da qualche grosso mammifero carnivoro. In particolare, un felide. Quel che facciamo in simili casi è confrontare il DNA del campione con il DNA di - diciamo - cinque o sei specie affini. Però scegliamo anche un animale che sia assolutamente lontano dal campione: lo chiamiamo gruppo estraneo. Ci serve per controllo. Mi segue?" "Finora sì", disse Pendergast. "Ma deve essere paziente con me. Non capisco niente di queste cose." "Di solito usiamo il DNA umano come gruppo estraneo, poiché a tutt'oggi ne abbiamo mappato molto. In ogni modo, facciamo una PCR - Polymerase Chain Reaction, un'amplificazione genica - sul campione. Ciò comporta la trascrizione di migliaia e migliaia di geni. È un lavoro lunghissimo, come può intuire." Indicò una grossa macchina con lunghe lastre di Plexiglas trasparente sui lati. Dietro le lastre, delle strisce verticali formavano strani arabeschi. "Questa è la macchina per la gelelettroforesi degli impulsi. Inseriamo il campione e delle particelle di esso salgono lungo queste lastre, attraverso il gel, fermandosi a varie altezze a seconda del peso molecolare. Vanno a formare queste strisce nere. Dalla conformazione delle strisce, e con l'ausilio del computer, riusciamo a stabilire di quali geni si tratta." Trasse un lungo respiro. "In ogni modo, i geni dei felidi hanno dato risultati negativi. Molto negativi. Nessuna affinità. Ma, con nostra sorpresa, abbiamo ottenuto risultati positivi col gruppo estraneo, ovvero l'Homo sapiens. E, come saprà, abbiamo identificato sequenze di DNA appartenenti ad alcune specie di geco... o almeno così pare." Sembrava un po' imbarazzato. "Anche così, però, la maggior parte dei geni del campione sono rimasti non identificati." "Per questo avete pensato che fosse contaminato?" "Sì. Contaminato o degradato. Quando nel campione compaiono ripetutamente molte coppie di basi, significa che vi è stato un grave danno gene-
tico." "Danno genetico?" chiese Pendergast. "Quando il DNA è danneggiato o incompleto, spesso replica in modo incontrollato sequenze ripetute della stessa coppia di basi. Il DNA può essere danneggiato dai virus, per esempio. E dalle radiazioni, dagli agenti chimici, anche dal cancro." Pendergast aveva cominciato a girellare per il laboratorio, esaminando con la curiosità di un gatto le attrezzature che conteneva. "Quei geni di geco m'interessano molto. Che cosa significano, esattamente?" "È questo il mistero", disse Turow. "Sono geni rari. Alcuni geni sono molto comuni, come il Citocromo B, che può essere reperibile in tutto, dalla littorina all'uomo. Ma questi geni di geco... be', non ne sappiamo proprio niente." "Quello che volete dire, in sostanza, è che il DNA non appartiene a un animale, giusto?" domandò D'Agosta. "A nessun grosso mammifero carnivoro a noi noto", rispose Buchholtz. "Abbiamo analizzato i tassi rilevanti. Le corrispondenze non sono tali da consentirci di dire che proviene da un geco. Dunque, per eliminazione, direi che probabilmente viene da un umano. Ma il campione era degradato o contaminato. I risultati sono ambigui." "Il campione", disse D'Agosta, "è stato trovato sul cadavere di un bambino ucciso." "Ah!" esclamò Turow. "Questo spiegherebbe la contaminazione con materiale genetico umano. Le cose sarebbero molto più facili per noi, se queste cose ci venissero dette prima..." Pendergast si accigliò. "Il campione è stato prelevato dal canale radicolare di un artiglio da un patologo legale, per quel che ne so; e si è fatto di tutto per evitare contaminazioni." "Può bastare una sola cellula", disse Turow. "Ha detto un artiglio?" Meditò per un momento. "Potrei azzardare un'ipotesi. L'artiglio può appartenere a un sauro che era stato fortemente contaminato dal sangue della sua vittima umana. Un sauro qualsiasi... non necessariamente un geco." Guardò Buchholtz. "La sola ragione per cui abbiamo identificato parte del DNA come appartenente al geco è dovuta al fatto che un collega di Baton Rouge, qualche anno fa, ha studiato la genetica del geco, immettendo i risultati nel GenLab. In caso contrario, anche quel DNA sarebbe risultato sconosciuto, come nella maggior parte del campione." L'agente federale guardò Turow. "Desidererei che faceste ulteriori anali-
si per stabilire cosa significhino precisamente quei geni di geco, se non vi spiace." Turow corrugò la fronte. "Signor Pendergast, le probabilità di avere dei buoni risultati non sono molto alte, e potrebbero occorrere settimane di lavoro. Magari il mistero, allora, si sarà risolto in altro modo..." Buchholtz dette una pacca sulla schiena del collega. "Non contrariamo l'agente Pendergast. In fondo, la polizia paga per questo, e si tratta di procedure molto costose." Pendergast sorrise apertamente. "La ringrazio di avermelo ricordato, dottor Buchholtz. Mandi pure il conto al Direttore delle Operazioni Speciali, FBI." Scrisse l'indirizzo sul suo biglietto da visita. "E non si faccia scrupoli. Il costo non ha rilevanza alcuna." D'Agosta non poté fare a meno di ridere. Sapeva cosa stava facendo il collega: si stava vendicando per quello scassone di macchina che gli avevano affibbiato. Scosse la testa. Che diavolo! 24 Giovedì Giovedì mattina, alle undici e un quarto, un uomo che si autoproclamava l'incarnazione vivente del faraone egiziano Tothran-amok, nell'ala delle Antichità, prese a pugni due bacheche nel Tempio di Azar-Nar, rompendo un vetro e strappando una mummia al suo sarcofago. Furono necessari tre poliziotti per immobilizzarlo, e alcuni curatori lavorarono per il resto della giornata a risistemare le bende e a raccogliere antica polvere. Meno di un'ora dopo, una donna uscì urlando dalla Sala delle Grandi Scimmie, cianciando di qualcosa che aveva visto accovacciato in un angolo del bagno. Una troupe televisiva, che aspettava sulla scalinata meridionale nella speranza di intervistare Wright, riprese l'intera scena. Verso l'ora di pranzo, un gruppo autonominatosi Alleanza Contro il Razzismo dette avvio a un picchettaggio all'esterno del museo, invitando la gente a boicottare la mostra Superstizione. Nel primo pomeriggio, Anthony McFarlane, filantropo noto in tutto il mondo e appassionato di caccia grossa, offrì una ricompensa di cinquecentomila dollari a chiunque avesse catturata viva la Bestia del Museo. Il museo si affrettò a specificare che non aveva alcun rapporto con McFarlane. Tutti questi fatti furono debitamente riportati dai giornali. Gli incidenti
che seguono, però, rimasero sconosciuti alla gente estranea al museo: A mezzogiorno, quattro impiegati avevano rassegnato le dimissioni senza preavviso. Altri trentacinque avevano preso ferie straordinarie e quasi trecento si erano dati malati. Subito dopo pranzo, un apprendista preparatore, una donna, era svenuta al tavolo di lavoro nel reparto di Paleontologia dei Vertebrati. Portata dal medico, aveva chiesto un'aspettativa retribuita adducendo grave stress emozionale e psichico. Alle tre del pomeriggio, i custodi avevano risposto a sette richieste di intervento per rumori sospetti in alcuni settori remoti del museo. All'ora del coprifuoco, la polizia del posto di comando del museo aveva risposto a quattro chiamate per avvistamenti sospetti, tutti senza esito. Più tardi, il centralino avrebbe registrato il numero di chiamate concernenti il mostro ricevute quel giorno: centosette, inclusi i messaggi dei mitomani, le minacce di bombe e le offerte di assistenza più strane, da quelle dei disinfestatori a quelle degli spiritisti. 25 Smithback aprì con cautela la porta polverosa ed entrò. Quello, pensava, doveva essere uno dei posti più lugubri: il deposito del Laboratorio di Antropologia Fisica, o, nel gergo del museo, la Stanza degli Scheletri. Il museo aveva una delle più vaste raccolte di scheletri del paese, seconda soltanto alla Smithsoniana: dodicimila in quella sola stanza. Si trattava per lo più di indiani dell'America Settentrionale e Meridionale o di africani, raccolti nel XIX secolo, durante l'epoca d'oro dell'antropologia fisica. File di larghi cassetti metallici s'innalzavano in pile regolari sino al soffitto: ogni cassetto conteneva almeno una parte di scheletro umano. Etichette ingiallite poste sulla parte frontale del cassetto riportavano numeri, nomi di tribù, talvolta una breve storia. Altre con scritte molto più sintetiche davano il senso di gelo dell'anonimia. Smithback aveva già curiosato in quei cassetti, aprendoli e leggendo le descrizioni, quasi tutte scritte in un'elegante, sbiadito corsivo. Ne aveva perfino copiate alcune sul taccuino: Esempl. n. 1880-1770 Cammina-nelle-Nuvole. Sioux yankton. Ucciso nella battaglia di Medicine Bow Creek, 1880.
Esempl. n. 1899-1206 Maggie-Cavallo-Perduto. Cheyenne del Nord. Esempl. n. 1933-43469 Anasazi. Canyon del Muerto. Sped. Thorpe-Carlson, 1900. Esempl. n. 1912-695 Luo. Lago Vittoria. Dono del Gener. di Divisione Henry Throckmorton, Bart. Esempl. n. 1872-10 Aleut, provenienza ignota. Era proprio uno strano cimitero. Al di là del deposito c'era il bailamme di stanze che ospitavano il Laboratorio di Antropologia Fisica. In passato, antropologi fisici avevano trascorso parte della loro vita là dentro a misurare ossa e a cercare di determinare i rapporti fra le razze; di scoprire dove aveva avuto origine l'uomo e a fare studi analoghi. Ora, nello stesso luogo si portavano avanti ricerche biochimiche ed epidemiologiche assai più complesse. Alcuni anni prima, il museo - su insistenza di Frock - aveva deciso di spostare in quelle stanze il laboratorio per le ricerche genetiche e il DNA. Oltre la polverosa area dov'erano immagazzinate le ossa c'era un immacolato assembramento di centrifughe enormi, sibilanti autoclavi, apparati per elettroforesi, monitor baluginanti, complessi distillatori di vetro soffiato e attrezzature per la titolazione... uno degli impianti più tecnicamente avanzati di quel tipo. Kawakita si era insediato nella terra di nessuno fra il vecchio e il nuovo. Smithback guardò attraverso gli alti scaffali del deposito verso la porta del laboratorio. Erano appena passate le dieci, e Kawakita era solo. Tra i varchi degli scaffali, il giornalista lo vedeva fermo, a due o tre file di distanza, che faceva ampi movimenti a scatti con il braccio sinistro sopra la testa, come se stesse facendo roteare qualcosa. Poi Smithback udì il sibilo di una lenza e il frullo di un mulinello. Ma bene!, pensò. Il giovane stava pescando. "Abboccano?" domandò a voce alta. Sentì una secca esclamazione e il rumore di una canna caduta.
"Maledizione, Smithback", esclamò Kawakita. "T'infili sempre dappertutto. Non è il momento di andarsene in giro a spaventare la gente, dovresti saperlo. Pensa se avevo in mano una quarantacinque o un'altra arma!" Attraversò il corridoio e svoltò l'angolo, riavvolgendo la lenza sul mulinello e guardando, cupo ma bonario, il giornalista. Quest'ultimo rise. "Te l'avevo detto di non venire a lavorare in mezzo a tutti questi scheletri. Ora è successo: sei andato fuori di testa." "Mi sto solo esercitando", rise Kawakita. "Guarda. Terzo ripiano. Gobba-di-Bisonte." Fece scattare la canna. La lenza frullò, la mosca colpì poi rimbalzò da un cassetto del terzo scaffale in fondo al corridoio. Il giornalista si avvicinò. C'era da aspettarselo: conteneva le ossa di qualcuno che un tempo si era chiamato Gobba-di-Bisonte. Emise un fischio. Kawakita riavvolse un po' di lenza, tenendone una parte arrotolata mollemente nella mano sinistra, mentre la destra stringeva il manico di sughero della canna. "Quinto scaffale, seconda fila. John Mboya", disse. Di nuovo la lenza si svolse in aria fra gli stretti scaffali e la piccola mosca colpì l'etichetta giusta. "Izaak Walton, nuovo arrivo", disse Smithback, scuotendo la testa. Il pescatore riavvolse la lenza e cominciò a smontare la canna di bambù. "Non è come pescare sul fiume", spiegò mentre armeggiava, "ma è un bell'esercizio, specialmente in questo spazio ristretto. Mi aiuta a rilassarmi durante le pause. Naturalmente, quando la lenza non s'impiglia in qualche cassetto." Quando Kawakita era stato assunto al museo, aveva declinato l'offerta di un ufficio soleggiato al quinto piano e ne aveva chiesto uno più piccolo nel laboratorio, dicendo che voleva stare più vicino al suo posto di lavoro. Da allora aveva già pubblicato più saggi di quanti ne avessero scritti certi curatori anziani in tutta la loro carriera. I suoi studi interdisciplinari al seguito di Frock lo avevano fatto diventare in breve tempo vicecuratore della sezione Biologia Evolutiva, dove all'inizio aveva dedicato il proprio tempo allo studio dell'evoluzione delle piante. Kawakita sfruttava abilmente la notorietà del suo mentore per promuovere se stesso. In seguito, aveva abbandonato temporaneamente l'evoluzione delle piante per il programma dell'Estrapolatore di Sequenza Genetica. La sola passione che aveva nella vita, oltre al lavoro, era la pesca alla mosca: in particolare, come spiegava sempre a chiunque volesse ascoltarlo, la caccia al nobile ed elusivo salmo-
ne atlantico. Infilò la canna in una custodia malconcia e la posò con cura in un angolo. Facendo cenno al visitatore di seguirlo, lo precedette fra lunghe file di scaffali assiepati fino a un'ampia scrivania con tre pesanti sedie di legno. Il piano della scrivania, notò Smithback, era coperto di fogli, pile di monografie cincischiate, e basse vaschette dove delle ossa umane giacevano su un letto di sabbia, coperte di plastica trasparente. "Guarda qua", disse Kawakita, spostando qualcosa in direzione dell'ospite. Era un'incisione raffigurante un albero genealogico, marroncino su carta marmorizzata a mano. Sui rami dell'albero c'erano quadrettature che incorniciavano termini latini. "Bello", esclamò Smithback, prendendo una sedia. "È la sua sola qualità, direi", replicò Kawakita. "Un prospetto dell'evoluzione umana della metà del XIX secolo. Un capolavoro dal punto di vista artistico, ma soltanto una parodia scientifica. Sto lavorando a un articoletto per Human Evolution Quarterly sulle prime iconografie evoluzionistiche." "Quando uscirà?" domandò il giornalista con interesse professionale. "Oh, l'anno prossimo. Queste riviste sono lentissime." Smithback rimise il foglio sulla scrivania. "Ma cos'ha a che fare con il tuo lavoro... l'ERG, o SAT o comesichiama?" "ESG, al momento", rise il vicecuratore. "Niente di niente. È stata un'idea così, giusto per occupare il tempo libero. Di tanto in tanto, mi diverte sporcarmi le mani con l'inchiostro." Rimise con cura il foglio in una cartellina, poi si rivolse allo scrittore. "E il tuo capolavoro come va?" domandò. "La signora Rickman continua a darti filo da torcere?" Smithback rise. "Vedo che la mia lotta contro il tiranno sta diventando di dominio pubblico. Ma in fondo si tratta soltanto di un libro. Per la verità, sono venuto a parlarti di Margo." Kawakita gli si sedette di fronte. "Margo Green? Perché? Cosa c'è?" L'altro cominciò a sfogliare con noncuranza una delle monografie sparse sulla scrivania. "So che le serve il tuo aiuto per qualcosa." Kawakita socchiuse gli occhi. "Mi ha chiamato ieri sera, chiedendomi se potevo elaborarle alcuni dati nel programma di Estrapolazione. Le ho detto che non era ancora pronto." Si strinse nelle spalle. "Tecnicamente, è vero. Non posso garantire la totale accuratezza delle sue correlazioni. Ma ho un sacco di lavoro in questi giorni, Bill. Non ho proprio il tempo di assistere nessuno." "Lei, però, non è una scienziata analfabeta che si possa menare per il na-
so. Sta facendo una serie di ricerche genetiche molto impegnative. Non esce mai da quel laboratorio." Spostò di lato la monografia e si chinò in avanti. "Non dovrebbe essere così gravoso darle una mano", aggiunse. "Sta attraversando un momento molto difficile. Suo padre è morto due settimane fa, se non lo sai." Kawakita sembrò sorpreso. "Davvero? Parlavate di questo, l'altro giorno, in saletta?" Smithback annuì. "Non ha detto molto, ma deve aver sofferto. Sta pensando di lasciare il museo." "Sarebbe uno sbaglio", ribatté, accigliandosi, il giovane studioso. Stava per aggiungere qualcosa, ma si bloccò di colpo. Si appoggiò allo schienale e lanciò una lunga occhiata inquisitoria al visitatore. "È un gesto davvero altruistico da parte tua, Bill." Increspò le labbra, annuendo lentamente. "Bill Smithback, il Buon Samaritano. Un'immagine inedita per te, vero?" "Questo è William Smithback Junior." "Bill Smithback il Boy Scout", sospirò Kawakita. Poi scosse la testa. "No, non è credibile. Non sei venuto qui per parlare di Margo, vero?" L'altro esitava. "Be', era uno dei motivi", ammise. "Lo sapevo! Dai, sputa il rospo." "Oh, d'accordo. Senti: sto cercando qualche informazione sulla spedizione di "Whittlesey." "Su cosa?" "La spedizione in Sudamerica che ha fruttato la statuina di Mbwun. Sai, il pezzo forte della nuova mostra." Il volto di Kawakita s'illuminò. "Oh, sì. Dev'essere stato il vecchio Smith a parlarmene nell'erbario, l'altro giorno. Ebbene?" "Be', noi pensiamo che ci sia qualche rapporto fra quella spedizione e i recenti delitti." "Come!?" esclamò Kawakita, incredulo. "Non dirmi che anche tu stai cominciando a credere alla Bestia del Museo. E cosa intendi con quel 'noi'?" "Non ho detto di credere in niente, d'accordo?" replicò Smithback, evasivo. "Ma ho sentito un sacco di storie strane, di recente. E poi quell'ansia della Rickman all'idea di vedere la statuina di Mbwun esposta. Che non è il solo reperto di quella spedizione... ci sono parecchie casse, a dire il vero. Vorrei saperne di più." "E io cos'avrei a che fare, esattamente, con tutto questo?" "Niente. Ma tu sei un vicecuratore. E il tuo grado di affidabilità ti con-
sente di accedere al computer del museo. Potresti entrare nella banca-dati e cercare notizie su quelle casse." "Dubito che vi siano mai state inserite. Del resto, che ci siano o no non ha importanza." "Perché no?" domandò Smithback. Kawakita rise. "Aspetta un minuto." Si alzò e si diresse verso il laboratorio. Pochi minuti dopo tornò tenendo in mano un foglio. "Dovete essere telepatici", disse, porgendogli il foglio. "Guarda qui. L'ho trovato stamattina fra la posta." MUSEO DI STORIA NATURALE DI NEW YORK COMUNICAZIONE INTERNA A: Curatori e Responsabili Da: Lavinia Rickman P. C: Wright, Lewallen, Cuthbert, Lafore A causa dei recenti e infausti avvenimenti, il museo sta attirando l'attenzione dei media e del pubblico in genere. Stando così le cose, colgo l'occasione per riesaminare le modalità delle comunicazioni del museo con l'esterno. Ogni rapporto con i mezzi di comunicazione deve essere notificato all'ufficio-stampa del museo. Nessun commento concernente il museo può essere, in forma ufficiale o ufficiosa, rilasciato ai giornalisti o ad altri rappresentanti dei media. Ogni dichiarazione rilasciata o assistenza fornita a persone impegnate nella preparazione di interviste, documentari, libri, articoli eccetera riguardanti il museo deve avere l'approvazione di codesto ufficio. Ogni infrazione a queste direttive potrà dar luogo a provvedimenti disciplinari da parte della Direzione. Grazie per la vostra collaborazione in questo difficile frangente. "Cristo", imprecò il giornalista. "Guarda qui. 'Persone impegnate nella preparazione di libri'." "Riguarda te, Bill", rise Kawakita. "Dunque, vedi? Ho le mani legate." Prese un fazzoletto dalla tasca dei calzoni e si soffiò il naso. "Allergia alla polvere d'ossa", spiegò.
"Non posso crederlo", borbottò Smithback, rileggendo la comunicazione. Il vicecuratore gli batté una mano sulla spalla. "Bill, amico mio, so che questa storia può fare grande scalpore. E mi piacerebbe aiutarti a scrivere il libro più polemico, scandaloso e spudorato possibile. Solo che non posso. Ho una carriera, davanti, e", serrò più forte la spalla, "sto per passare di grado. Non posso permettermi di scatenare un putiferio proprio adesso. Dovrai trovare un'altra strada. D'accordo?" Smithback annuì rassegnato. "Mi sembri poco convinto", osservò Kawakita. "Ma sono contento che tu capisca, comunque." Con dolcezza, lo sollecitò ad alzarsi. "E, senti: che ne diresti di andare a pesca, domenica? Si è parlato di una schiusa anticipata nel Connetquot." Dopo un momento, Smithback fece una smorfia. "Prepara un po' di quelle tue infernali ninfette anche per me", disse. "Ritieniti impegnato." 26 D'Agosta era sul lato esattamente opposto del museo quando giunse un'altra chiamata. Presunto avvistamento. Settore 18, Sala Computer. Sospirò, rimettendo la radio nella custodia alla cintura, pensando ai suoi piedi stanchi. Tutti vedevano l'uomo nero, in quel posto maledetto. Una dozzina di persone sostavano nel corridoio esterno alla Sala Computer e scherzavano nervosamente. Due agenti in uniforme erano accanto alla porta chiusa. "Okay", disse D'Agosta, scartando un sigaro dal cellofan. "Chi l'ha visto?" Un giovane avanzò lentamente. Camice bianco, spalle curve, occhiali spessi come fondi di bottiglia, calcolatrice e cercapersona appesi alla cintola. Accidenti, pensò il poliziotto, ma dove li pescano? Era proprio perfetto. "Non l'ho realmente visto", disse. "Ho sentito un rumore bestiale nella Sala Elettricità. Dei colpi, come se qualcuno cercasse di buttare giù la porta..." D'Agosta si rivolse agli agenti. "Diamo un'occhiata." Armeggiò con la maniglia della porta e qualcuno gli porse una chiave, spiegando: "L'abbiamo chiusa. Per impedire che uscisse qualcosa..." Il tenente sventolò l'aria con una mano. La faccenda stava diventando ridicola. Erano tutti terrorizzati. Come diavolo potevano continuare a pensare alla grande inaugurazione dell'indomani sera? Avrebbero dovuto chiu-
dere quel dannato posto subito dopo i primi omicidi. La stanza era grande, rotonda e linda. Al centro, poggiato su un ampio piedistallo e illuminato da luci al neon, c'era un cilindro bianco alto più di un metro e mezzo: D'Agosta suppose che fosse il centralone del museo. Ronzava sommessamente, circondato da terminali, video, scrivanie e scaffali. Sulla parete più lontana si vedevano due porte. "Voi date un'occhiata in giro", ordinò ai suoi uomini, mettendo in bocca il sigaro spento. "Io parlo con quel tizio, per il rapporto." Uscì. "Nome?" domandò. "Roger Thrumcap. Sono il capoturno." "Va bene", disse stancamente D'Agosta, prendendo nota. "Ha sentito dei rumori nel Centro di Elaborazione?" "No, signore. Il Centro di Elaborazione è al piano di sopra. Questa è la Sala Computer. Noi controlliamo le apparecchiature, pensiamo alla gestione dei sistemi." "Sala Computer, allora." Scribacchiò qualcos'altro. "Quando ha sentito i rumori per la prima volta?" "Pochi minuti dopo le dieci. Stavo finendo i giornali." "Stava leggendo i giornali, quando ha sentito i rumori?" "No, signore. I nastri giornalieri. Stavamo giusto finendo il backup quotidiano." "Capisco. Stavate finendo alle dieci di mattina?" "Non si possono fare i backup durante le ore di massimo traffico, signore. Abbiamo un permesso speciale per entrare alle sei di mattina." "Fortunati voi. E dove ha sentito quei rumori?" "Venivano dalla Sala Elettricità." "Che si trova?" "La porta sulla sinistra dell'MP-3. Il computer, signore." "Vedo due porte, lì", osservò il tenente. "Che cosa c'è dietro l'altra?" "Oh, è solo la stanza morta. Ha un'entrata a scheda, nessuno può accedervi." D'Agosta guardò l'uomo in modo strano. "Contiene i dischi rigidi e cose simili. Sa, la roba di scorta. La chiamiamo così perché nessuno può entrarci, salvo quelli della manutenzione." Alzò con orgoglio la testa. "Siamo quasi a zero operatori. In confronto a noi, il Centro di Elaborazione è ancora all'età della pietra. Lì ci sono operatori che montano ancora i nastri a mano, non hanno silos né niente." D'Agosta tornò dentro. "Hanno sentito i rumori dietro la porta di sinistra,
là in fondo. Diamo un'occhiata." Si girò. "Tenga fuori la gente", ordinò a Thrumcap. La porta della Sala Elettricità si aprì lentamente, esalando odore di fili surriscaldati e di ozono. D'Agosta annaspò con la mano sulla parete, trovò l'interruttore e accese la luce. Dette un'occhiata "globale", come voleva la prassi. Trasformatori. Grate sui condotti di ventilazione. Cavi. Grossi condizionatori. Gran caldo. Nient'altro. "Guardate un po' dietro i macchinari", disse. I poliziotti ispezionarono dappertutto. Poi uno si voltò verso il tenente e alzò le spalle. "Va bene", brontolò D'Agosta, tornando nella Sala Computer. "Mi sembra tutto a posto. Signor Thrumcap?" "Sì." L'uomo infilò dentro la testa. "Può dire ai suoi di tornare dentro. Sembra tutto in ordine, ma lasceremo qui un poliziotto per le prossime trentasei ore." Si rivolse a un poliziotto che usciva dall'altra stanza. "Waters, voglio che resti qui sino alla fine del turno. Proforma, d'accordo? Ti manderò il rimpiazzo." Qualche altro avvistamento e rimarrò senza uomini. "Va bene", rispose Waters. "Buona idea", approvò Thrumcap. "Questa stanza è il cuore del museo, sa? O, meglio, il cervello. Facciamo funzionare i telefoni, gli impianti, la rete informatica, le stampanti, la posta elettronica, il sistema di sicurezza..." "Naturalmente", lo interruppe D'Agosta. Si chiedeva se quelli erano gli stessi intelligentoni che non possedevano una planimetria accurata del sotterraneo. Il personale tornò nella stanza e tutti ripresero posto ai loro terminali. D'Agosta si asciugò la fronte. C'è un caldo infernale qui. Fece per uscire. "Rog", sentì dire alle sue spalle. "Abbiamo un problema." D'Agosta esitò. "Oddio", sospirò Thrumcap, guardando un monitor. "C'è un blocco della memoria locale. Cosa diavolo...?" "Il centralone stava ancora facendo il backup quando sei uscito, Rog?" domandò un tipo con denti da coniglio. "Se ha finito senza ricevere altre istruzioni... può essere andato in tilt per questo." "Forse hai ragione", rispose Roger. "Vediamo se la memoria centrale è accessibile."
"Non succede niente." "Che sia bloccato il sistema operativo?" domandò Thrumcap, chinandosi sul monitor del dentone. "Fammi dare un'occhiata." Si udì un suono, non alto ma penetrante e insistente. D'Agosta vide una luce rossa accendersi su un pannello del soffitto sopra il cervellone. Forse avrebbe fatto meglio a fermarsi. "Che altro c'è, adesso?" disse il capoturno. Cristo, che caldo, pensò D'Agosta. Conte fa a resistere, questa gente? "Cosa vuol dire questo codice?" "Non lo so. Guardaci." "Dove?" "Nel manuale, testone! È dietro il tuo monitor. Ecco qua, l'ho preso io." Thrumcap cominciò a sfogliare le pagine. "2291, 2291... eccolo. È un allarme di calore. Oddio, la macchina si è surriscaldata! Fate venire quelli della manutenzione!" D'Agosta alzò le spalle. Probabilmente il rumore che avevano sentito era il compressore del condizionamento che andava in avaria. Non ci vuole uno scienziato per capirlo. Ci saranno quaranta gradi, qui dentro. Mentre percorreva il corridoio, incrociò due tecnici della manutenzione che correvano nella direzione opposta alla sua. Come molti moderni supercomputer, PMP-3 del museo era in grado di resistere al calore molto meglio dei "cassoni" di dieci o venti anni prima. Il suo cervello al silicio, a differenza dei tubi a vuoto e dei transistor, poteva funzionare al di sopra delle temperature raccomandate per lunghi periodi di tempo senza danni o perdita di dati. Tuttavia, l'interfaccia del sistema di sicurezza del museo era stata installata da terzi, sopravanzando le prestazioni garantite dalla ditta costruttrice del supercomputer. Quando la temperatura nella Sala Computer raggiungeva i trentacinque gradi, la soglia di tolleranza dei circuiti ROM del sistema automatico di prevenzione guasti veniva superata. Un minuto e mezzo dopo si verificava un'avaria. Waters, in un angolo, sorvegliava la stanza. I tecnici della manutenzione se n'erano andati da un'ora e la stanza era gradevolmente fresca. Tutto era tornato normale, e i soli suoni che si sentivano erano il ronzio del centralone e il ticchettio prodotto sulle tastiere da tutti quegli zombi. Guardò pigramente uno schermo davanti al quale non c'era nessuno e vide lampeggiare un messaggio.
EXTERNAL ARRAY FAILURE AT ROM ADDRESS 33 B1 4A OE Sembrava cinese. Qualunque cosa dicesse, non poteva dirlo in una lingua comprensibile? Waters odiava i computer. Non avevano fatto mai niente per lui, se non togliergli la "s" dal cognome sulle fatture. E odiava anche quei saccentoni che li usavano. Qualunque cosa volesse dire quel messaggio, dovevano essere loro a preoccuparsene. 27 Smithback buttò il taccuino in uno dei suoi box di lettura prediletti. Sospirando, s'insinuò nello spazio angusto, posò il computer portatile sul tavolo e accese la lucina. Era soltanto a un tiro di schioppo dalla sala di lettura foderata di quercia, con le sedie in pelle rossa e il caminetto di marmo spento da un secolo. Ma lui preferiva gli stretti box scalcinati. Prediligeva quelli nascosti in fondo alle scaffalature, dove poteva esaminare documenti e manoscritti temporaneamente sottratti - o schiacciare un pisolino - in privato e con relativa comodità. La collezione di libri nuovi, vecchi e rari del museo, concernenti tutti gli aspetti della storia naturale, era senza uguali. Aveva ricevuto tanti lasciti e donazioni di raccolte private nel corso degli anni che il suo schedario era sempre disperatamente non aggiornato. Tuttavia Smithback conosceva la biblioteca meglio della maggior parte degli stessi bibliotecari. Riusciva a scovare un fascicolo sepolto a tempo di record. Il giovane increspò le labbra, pensoso. Moriarty era un cocciuto burocrate, e la visita a Kawakita era stata infruttuosa. Non conosceva nessun altro che potesse avere accesso alla banca-dati. Per fortuna, non era quello il solo modo di affrontare il rompicapo che lo assillava. Cominciò a passare in rassegna le schede dei microfilm, a cominciare dall'indice del New York Times. Andò indietro fino al 1975. Niente... quantomeno, come presto scoprì, nelle principali rubriche di storia naturale e di antropologia. Passò poi a vagliare le vecchie edizioni dei periodici interni del museo, in cerca di informazioni sulla spedizione. Niente. Sul Who's Who del Museo di Storia Naturale di New York, due righe di biografia di Whittlesey non gli dissero nulla che già non sapesse.
Imprecò sottovoce. Questo tizio è nascosto meglio del tesoro di Alì Babà. Rimise i volumi sulla mensola, guardandosi attorno. Poi, strappati alcuni fogli dal taccuino, si avviò con fare indifferente verso la scrivania dell'addetta alla catalogazione, dopo aver appurato di non averla mai vista prima. "Dovrei rimettere questi in archivio", disse alla bibliotecaria. Lei lo squadrò con sguardo severo. "Sei nuovo?" "Ero alla biblioteca scientifica. Sono stato trasferito la settimana scorsa. Avvicendamento." Le regalò un sorriso, sperando che apparisse franco e radioso. La donna, titubante, lo guardò con cipiglio; poi il telefono sulla scrivania cominciò a trillare. Dopo un attimo di esitazione, la donna rispose, porgendo distrattamente a Smithback una cartellina e una chiave legata a un lungo cordino azzurro. "Firma qui", gli disse, coprendo il microfono con il palmo della mano. Gli archivi della biblioteca si trovavano dietro un'anonima porta grigia in fondo alla stanza. Era un bell'azzardo, per più di un verso. Smithback vi era già entrato una volta, autorizzato. Sapeva che il grosso dell'archivio del museo era conservato altrove, e che i documenti della biblioteca erano molto specifici. Ma qualcosa lo pungolava. Chiuse la porta e avanzò nella stanza, scrutando gli scaffali e i raccoglitori etichettati. Aveva già percorso un lato del locale e stava per svoltare, quando si fermò. Con cautela, allungò le braccia e prese un raccoglitore con la dicitura: RICEVUTE DI SPEDIZIONE VIA AEREA. Accovacciatosi, sfogliò rapidamente i documenti. Ancora una volta, andò a ritroso fino al 1975. Poi, con disappunto, ripeté l'operazione. Niente. Mentre rimetteva a posto il raccoglitore, il suo sguardo si appuntò su un'altra dicitura: POLIZZE DI CARICO, 1970-1990. Poteva trattenersi altri cinque minuti, al massimo. Le dita si fermarono quasi alla fine del fascio di fogli. "Ci siamo", sussurrò, estraendo dal mazzo un documento logoro. Tratto dalla tasca il miniregistratore, dettò con voce sommessa tutto ciò che gli sembrava utile, date e luoghi: Belém; porto di New Orleans; Brooklyn. La Strella de Venezuela: Stella del Venezuela. Strano, pensò. Una sosta davvero interminabile a New Orleans. "Sembra molto compiaciuto", disse la bibliotecaria, rimettendo la chiave
nella scrivania. "Sì, una buona giornata", rispose Smithback. Finì di compilare la scheda di accesso all'archivio: Sebastian Melmoth, dalle 11.10 alle 11.25. Tornato al catalogo dei microfilm, si fermò a pensare un momento. Sapeva che il quotidiano di New Orleans aveva un nome strano - d'anteguerra - sì... Times-Picayune. Sfogliò rapidamente il catalogo. C'era: Times-Picayune, 1840-oggi. Inserì nel lettore la bobina del 1988. Quando arrivò a ottobre, rallentò, poi si fermò del tutto. Un titolone a caratteri cubitali lo fissava dallo schermo. "Oddio", mormorò. Ora sapeva con certezza perché le casse di Whittlesey erano rimaste così a lungo a New Orleans. 28 "Mi spiace, signorina Green, ma la porta è sempre chiusa. Gli darò il suo messaggio il più presto possibile." "Grazie", disse Margo, posando delusa la cornetta. Come poteva essere gli occhi e le orecchie di Frock, se non riusciva nemmeno a parlargli? Quando il professore era immerso in qualche progetto, spesso si barricava in ufficio. La sua segretaria sapeva che era meglio non disturbarlo. Margo aveva già tentato due volte di mettersi in comunicazione quella mattina, ma inutilmente. Guardò l'orologio. 11.20: la mattina se n'era quasi andata. Si mise al computer e tentò di inserirsi nel sistema del museo. SALVE MARGO GREEN-STAFF-BIOTECN BENTORNATA IN MUSENET DISTRIBUTED NETWORKING SYSTEM VERSIONE 15-5 COPYRIGHT© 1989-1995 NYMNH AND CEREBRAL SYSTEM INC. CONNESSIONE ALLE 11:20:45 DEL 03-30-95 STAMPANTE COLLEGATA LJ56 ***A TUTTI GLI UTENTI-AVVISO IMPORTANTE*** CAUSA INTERRUZIONE DEL SISTEMA QUESTA MATTINA,
UN RIPRISTINO VERRÀ EFFETTUATO A MEZZOGIORNO. POSSIBILI PRESTAZIONI IMPERFETTE. RIFERIRE EVENTUALE PERDITA O DETERIORAMENTO DI FILE AL RESPONSABILE DEI SISTEMI IL PIÙ' PRESTO POSSIBILE. ROGER THRUMCAP-RESP-SISTEMI UN MESSAGGIO IN ATTESA Margo entrò nel menù della posta elettronica e lesse il messaggio in attesa. MESSAGGIO DA GEORGE MORIARTY-STAFF-MOSTRA INVIATO 10:14:07 DEL 30-03-95 GRAZIE PER COPIA DIDASCALIA-PERFETTA, NON RICHIEDE CORREZIONI. VERRÀ SISTEMATA CON ULTIMI TOCCHI FINALI PRIMA DELL'APERTURA AL PUBBLICO. PRANZIAMO INSIEME OGGI? -GEORGE REPLY, DELETE, FILE (R/D/F)? Il telefono trillò, rompendo il silenzio. "Pronto?" disse Margo. "Margo? Ciao. Sono George", annunciò la voce di Moriarty. "Ciao", rispose lei. "Scusa, ho letto il tuo messaggio soltanto adesso." "Lo immaginavo", ribatté allegramente il giovane. "Grazie ancora per l'aiuto." "È stato un piacere." Moriarty fece una pausa. "Dunque..." cominciò esitando. "Che ne dici del pranzo?" "Mi spiace. Ne sarei felice, ma sto aspettando una chiamata dal dottor Frock. Potrebbe arrivare fra cinque minuti come fra una settimana." Capiva dal silenzio che Moriarty era deluso. "Ascolta, però", riprese lei. "Potresti passare di qui quando vai al selfservice. Se Frock avrà chiamato, forse verrò. Altrimenti... be', magari potrai fermarti un paio di minuti per aiutarmi con le parole incrociate del Ti-
mes." "Certamente!" esclamò il vicecuratore. "Conosco tutti i mammiferi australiani con nomi di tre lettere." Margo esitava. "E magari, mentre sei qui, potremmo dare un'occhiata alla banca-dati, vedere se troviamo qualcosa sulle casse di Whittlesey... " Silenzio. Infine, dall'altra parte si udì un sospiro. "Be', visto che per te è tanto importante, non credo che danneggeremo nessuno. Passo verso le dodici." Circa mezz'ora dopo, qualcuno bussò. "Avanti", disse Margo. "Questa dannata è chiusa." Non era la voce di Moriarty. La ragazza aprì la porta. "Non mi aspettavo di vedere te." "Fortuna o sfortuna?" domandò Smithback, entrando tranquillamente e chiudendo la porta. "Senti, Fior di Loto, da ieri sera non mi sono fermato un istante." "Nemmeno io", disse Margo. "Moriarty sarà qui da un momento all'altro e ci introdurrà nella banca-dati." "Come sei riuscita...?" "Non ci pensare", svicolò con malizia lei. La porta si aprì e Moriarty fece capolino. "Margo?" domandò. Poi scorse Smithback. "Non temere, professore, tutto a posto", disse lo scrittore. "Oggi non ho la luna di traverso." "Non farci caso", lo incoraggiò Margo. "Ha l'odiosa abitudine di capitare sempre inaspettato. Entra." "Sì, e mettiti comodo", aggiunse Smithback, facendo un ampio gesto verso la sedia davanti al terminale di Margo. Il nuovo venuto sedette lentamente, guardando Smithback, poi Margo, poi di nuovo Smithback. "Immagino vogliate il mio aiuto per accedere alla banca-dati." "Se non ti spiace", disse pacatamente Margo. La presenza del giornalista faceva pensare a una specie di congiura. "Okay." Moriarty posò le dita sulla tastiera. "Girati, Smithback. Sai... la parola d'ordine." La banca-dati del museo conteneva informazioni su tutti gli oggetti catalogati (milioni) delle raccolte. Da principio, l'accesso era consentito a tutti gli impiegati. Però qualcuno del quinto piano si era poi preoccupato del fatto che le descrizioni particolareggiate e la precisa collocazione dei re-
perti fossero alla portata di chiunque. Ora, l'accesso era limitato ai dirigenti... dai vicecuratori, come Moriarty, in su. Quest'ultimo, accigliato, stava battendo sui tasti. "Potrei buscarmi un cicchetto per questo, sapete? Il dottor Cuthbert è molto severo. Perché non vi siete rivolti al dottor Frock?" "Come ho detto, non riesco a vederlo", rispose Margo. Moriarty batté il tasto ENTER. "Ecco qua. Date un'occhiata rapida perché non intendo ripetere l'operazione." Margo e Smithback si avvicinarono al terminale, mentre le lettere verdi riempivano lentamente lo schermo: FILE NUMERO 1989-2006 DATA: 4 APRILE 1989 SCOPRITORE: JULIAN WHITTLESEY, EDWARD MAXWELL ET AL. CATALOGATORE: HUGO C. MONTAGUE PROVENIENZA: SPEDIZIONE WHITTLESEY/MAXWELL BACINO AMAZZONICO COLLOCAZIONE: EDIFICIO 2, PIANO 3, SETTORE 6, STANZA 144 NOTA: GLI OGGETTI QUI CATALOGATI SONO STATI RICEVUTI IL 1° FEBBRAIO 1989 IN SETTE CASSE INVIATE DALLA SPEDIZIONE WHITTLESEY/MAXWELL DAL CORSO DELLO XINGU SUPERIORE. SEI CASSE ERANO IMBALLATE DA MAXWELL, UNA DA WHITTLESEY. WHITTLESEY E THOMAS R. CROCKER JR. NON FECERO RITORNO DALLA SPEDIZIONE E SI PRESUME SIANO MORTI. MAXWELL E IL RESTO DEL GRUPPO PERIRONO IN UN DISASTRO AEREO NEL VIAGGIO DI RITORNO VERSO GLI STATI UNITI. SOLTANTO LA CASSA DI WHITTLESEY È STATA QUI PARZIALMENTE CATALOGATA; QUESTA NOTA SARÀ SOSTITUITA QUANDO DETTA CASSA E QUELLE DI MAXWELL SARANNO ESAMINATE IN TOTO. LE DESCRIZIONI SONO TRATTE DAL DIARIO. QUANDO POSSIBILE. HCM 4/89. "Vi rendete conto?" disse Smithback. "La catalogazione non è mai stata completata." "Ssst!" sibilò Margo. "Sto cercando di tenere a mente tutto."
NO. 1989-2006.1 CERBOTTANA E DARDO, SENZA DATI STATUS: I NO. 1989-2006.2 DIARIO PERSONALE DI J. WHITTLESEY, DAL 22 LUGLIO (1987) AL 17 SETTEMBRE (1987) STATUS: T.P. NO. 1989-2006.3 2 FASCI DI ERBE UNITE A PIUME DI PAPPAGALLO, USATE COME FETICCIO SCIAMANICO, DA UNA CAPANNA ABBANDONATA STATUS: I NO. 1989-2006.4 STATUINA DI ANIMALE FINEMENTE INTAGLIATA. SUPPOSTA RAFFIGURAZIONE DI "MBWUN". CFR. DIARIO DI WHITTLESEY, PP. 56-59 STATUS: I.M. NO. 1989-2006.5 PRESSA LIGNEA PER PIANTE, ORIGINE IGNOTA, DINTORNI CAPANNA ABBANDONATA. STATUS: I NO. 1989-2006.6 DISCO INCISO CON DISEGNI STATUS: I NO. 1989-2006.7 PUNTE DI LANCIA, FORME E CONDIZIONI VARIE. STATUS: I NOTA: TUTTE LE CASSE TEMPORANEAMENTE SPOSTATE NELLA CAMERA BLINDATA, PIANO 2B, DA IAN CUTHBERT 20/3/95. D. ALVAREZ, SICUREZZA.
"Cosa significano quelle sigle?" domandò il giornalista. "Dicono qual è la condizione attuale dei reperti", rispose Moriarty. "I significa 'ancora imballato', non ancora esaminato. I.M. significa 'in mostra'. T.E significa 'temporaneamente prelevato'. Ci sono altri..." "Temporaneamente prelevato?" chiese Margo. "E basta questo? Non c'è da stupirsi, se il diario si è perso." "Naturalmente non è tutto qui", rispose il vicecuratore. "Chiunque asporta un oggetto deve notificarlo. La banca-dati è gerarchica. Possiamo avere altri particolari sulle annotazioni scendendo di un livello. Ora vi faccio vedere." Premette alcuni tasti. La sua espressione mutò. "Strano." Il messaggio sullo schermo diceva: REGISTRAZIONE INESISTENTE O PROCESSO INTERROTTO Si accigliò. "Non c'è nulla riguardo al diario di Whittlesey." Cancellò la videata e ricominciò a digitare. "Per gli altri è tutto a posto, vedete? Qui ci sono i particolari sulla statuina." Margo esaminò lo schermo. **LISTA MOVIMENTI** Reperto: 1989-2006.4 Prelevato da: Approvazione: Data prelievo: Spostato in: Motivo: Data rientro: Prelevato da: Approvazione: Data prelievo: Spostato in: Motivo: Data rientro:
Cuthbert, I. Cuthbert, I. 17/3/95 Mostra Superstizione Vetrina 415, reperto 1004 Esposizione
40123 40123
Depardieu, B. Cuthbert, I. 1/10/90 Lab. Antropol. 2 Esame preliminare 5/10/90
72412 40123
FINE LISTA =:? "Cosa significa, allora? Sappiamo che il diario è perduto", ripeté la ragazza. "Anche se si è perso, dovrebbe esistere una lista di movimenti", insistette Moriarty. "C'è un accesso limitato alle registrazioni?" Lui scosse la testa e schiacciò altri tasti. "Ecco perché", esclamò alla fine, indicando lo schermo. "La lista di movimenti è stata tolta." "Vuoi dire che le informazioni sulla collocazione del diario sono state cancellate?" domandò Smithback. "Ma possono farlo?" L'altro si strinse nelle spalle. "Basta una persona con un codice di alta affidabilità." "Cosa più importante: perché qualcuno dovrebbe farlo?" domandò Margo. "Il problema al cervellone, stamattina, può avere qualche responsabilità in tutto questo?" "No", obiettò Moriarty. "Il file che abbiamo appena visto dimostra che la cancellazione è avvenuta prima del backup di stanotte. Non posso essere più preciso." "Cancellato, eh?" disse il giornalista. "Sparito per sempre. Chiaro, netto. Che coincidenza. Sto cominciando a intravedere un disegno... un losco disegno." Moriarty spense il terminale e si allontanò dalla scrivania. "Non m'interessano le vostre teorie cospiratone", disse. "Potrebbe essersi trattato di un incidente? Di un cattivo funzionamento?" ipotizzò Margo. "Ne dubito. La banca-dati ha tutte le protezioni possibili e immaginabili per l'integrità dei file. Avrei visto una segnalazione di errore." "E allora?" incalzò Smithback. "Non ho una risposta", disse Moriarty, alzando le spalle. "Ma è un brutto affare, nel migliore dei casi." "Non sai fare di meglio?" lo schernì il giornalista. "Un genio dei computer come te..." Il vicecuratore, risentito, si spinse gli occhiali sul naso e si alzò. "Questa potevi risparmiartela. Penso che sia ora di andare a mangiare." Si diresse verso la porta. "Margo, mi tengo buono l'invito per le parole incrociate."
"Bei modi", disse Margo quando la porta si chiuse. "Hai davvero il tatto di un elefante, sai, Smithback!? George ci ha fatto un gran favore inserendosi nella banca-dati." "Già, e cosa ci abbiamo guadagnato?" domandò lui. "Un pugno di mosche. Una sola cassa esaminata. Il diario di Whittlesey sparito." Poi la guardò con aria compiaciuta. "In compenso, io ho fatto una scoperta." "Mettila nel tuo libro", disse la ragazza sbadigliando. "La leggerò poi. Ammesso che riesca a trovarne una copia in libreria." "Quoque tu, Brute?" sogghignò Smithback porgendole un foglio piegato. "Be', da' un'occhiata qui." Il foglio era la fotocopia di un articolo del Times-Picayune di New Orleans, datato 17 ottobre 1988. NAVE FANTASMA ARENATA VICINO A NEW ORLEANS di Antony Anastasia Servizio speciale per il Times-Picayune BAYOU GROVE, 16 ottobre. Un piccolo cargo diretto a New Orleans si è arenato la notte scorsa nei pressi di questa cittadina costiera. Non si hanno particolari, ma i primi resoconti indicano che tutti i membri dell'equipaggio sono stati brutalmente massacrati in navigazione. La Guardia Costiera ha rilevato la nave arenata alle 11.45 di lunedì notte. La nave, la Stella de Venezuela, è un cargo di 18.000 tonnellate battente bandiera haitiana che percorreva regolarmente le acque dei Caraibi e le principali rotte commerciali fra il Sudamerica e gli Stati Uniti. I danni sono limitati e il carico della nave sembra intatto. Non si sa ancora, al momento, come siano morti i membri dell'equipaggio, se qualcuno sia scampato all'eccidio lasciando la nave. Henry La Plage, un pilota civile di elicotteri che ha avvistato la nave incagliata, ha dichiarato che "i cadaveri erano sparsi sul castello di prua come se fossero stati attaccati da una bestia feroce. Ce n'era uno che pendeva da un oblò con la testa squarciata. Sembrava un mattatoio. Non avevo mai visto una cosa simile." Le autorità locali e statali stanno cooperando per capire le ragioni del massacro, sicuramente uno dei più brutali della recente storia marinara. "Al momento stiamo vagliando svariate ipotesi, ma non siamo giunti a
conclusioni di sorta", ha detto Nick Lea, portavoce della polizia. Pur se non esistono commenti ufficiali, fonti statali asseriscono che le possibili cause potrebbero essere ammutinamento, omicidio per vendetta da parte di spedizionieri caraibici o atto di pirateria. "Gesù", mormorò Margo. "Le ferite descritte qui..." "... sembrano simili a quelle sui tre cadaveri trovati nel museo la settimana scorsa", concluse serio Smithback, annuendo. La ragazza aggrottò la fronte. "Ma questo accadeva sette anni fa. Potrebbe trattarsi di una coincidenza." "Dici?" domandò Smithback. "Sarei tentato di darti ragione, se non fosse per il fatto che a bordo di quella nave c'erano le casse di Whittlesey." "Come?" "È la verità. Ho scovato le polizze di carico. Le casse erano state imbarcate in Brasile nell'agosto del 1988... a quasi un anno dalla fine della spedizione, per quel che ne so. Dopo questa faccenda di New Orleans, le casse sono rimaste in dogana per tutta la durata delle indagini. Ci hanno messo un anno e mezzo ad arrivare al museo." "Gli omicidi ritualizzati hanno seguito le casse per tutto il viaggio dall'Amazzonia a qui!" esclamò la giovane. "Ma ciò significa..." "Significa", la interruppe il giornalista con un ghigno, "che d'ora in poi eviterò di ridere, quando sentirò parlare di una maledizione su quella spedizione. E significa anche che fai bene a tenere quella porta chiusa a chiave." Il telefono trillò, facendo sobbalzare entrambi. "Margo, mia cara", borbottò la voce di Frock. "Novità?" "Dottor Frock! Volevo chiederle se posso passare dal suo ufficio per qualche minuto. Al più presto." "Magnifico!" esclamò il professore. "Lasciami il tempo di spazzar via queste cartacce dalla scrivania e buttarle nel cestino. L'una andrebbe bene?" "Grazie", disse Margo. "Smithback", continuò poi, voltandosi, "dovremmo..." Ma lo scrittore non c'era più. All'una meno dieci Margo sentì bussare. "Chi è?" domandò. "Sono io, George. Posso entrare? Volevo soltanto chiederti scusa per essermene andato in quel modo, prima", riprese Moriarty, rifiutando di se-
dersi. "Il fatto è che quel Bill a volte mi irrita. Non rinuncia mai..." "George, sono io che dovrei scusarmi", lo interruppe la ragazza. "Non sapevo che sarebbe arrivato così di punto in bianco." Pensò di parlargli dell'articolo, ma poi ci rinunciò e cominciò a mettere le proprie cose nella borsa. "Volevo anche dirti", continuò lui, "che mentre pranzavo ho pensato che forse esiste un modo per ottenere altre informazioni dalla banca-dati. Sul diario di Whittlesey." La ragazza rimise giù la borsa di colpo e guardò l'uomo che si sedeva davanti al terminale. "Hai letto il messaggio, quando hai cercato di inserirti nel sistema?" domandò Moriarty. "Quello sul malfunzionamento del computer? Una bella sorpresa. Ci ho provato due volte, stamattina." Il vicecuratore annuì. "Il messaggio diceva anche che pensavano di ripristinare le registrazioni del backup a mezzogiorno. L'operazione richiede una trentina di minuti. Ciò significa che ora dovrebbero avere finito." "E allora?" "Be' quelle registrazioni contengono l'equivalente di due o tre mesi di archiviazione. Se la lista dei movimenti del diario di Whittlesey è stata cancellata negli ultimi due mesi... ma la registrazione originaria è ancora nel cervellone... potrei essere in grado di rintracciarla." "Davvero?" Moriarty annuì. "Allora fallo!" lo sollecitò Margo. "È un po' rischioso. Se un operatore del sistema si accorge che qualcuno sta accedendo alla registrazione... be', potrebbe risalire al tuo terminale e identificarti." "Correrò questo rischio", disse lei. "George", aggiunse, "so cosa pensi: che la nostra è un'impresa assurda, e non posso davvero biasimarti per questo. Ma sono convinta che quelle casse della spedizione di Whittlesey abbiano un legame con i delitti del museo. Non so di quale legame si tratti, ma forse il diario potrebbe dirci qualcosa. E non so nemmeno con cosa abbiamo a che fare... con un serial killer, un animale, un essere sconosciuto. E non sapere mi spaventa." Gli prese dolcemente la mano e la strinse. "Forse, però, potremmo essere di qualche aiuto. Dobbiamo tentare." Quando notò il rossore di Moriarty, ritrasse la mano. Sorridendo timidamente, il giovane si mise alla tastiera.
"Proviamo", disse. Margo andò su e giù per la stanza, mentre lui lavorava. "Buone notizie?" domandò infine, avvicinandosi al terminale. "Non so ancora", rispose George, scrutando lo schermo e digitando. "Ho trovato la registrazione, ma il protocollo è pasticciato, compaiono codici di errori di lettura e di blocchi. Nella migliore delle ipotesi, avremo dati distorti. Sto provando da una porta posteriore, per così dire, sperando di sfuggire all'attenzione. La velocità di ricerca, in questo modo, è bassissima." Poi il rumore dei tasti premuti s'interruppe. "Margo", disse pacatamente. "Ci siamo." Lo schermo si animò. LISTA MOVIMENTI Reperto: 1989-2006.2 Prelevato da: Approvazione: Data prelievo: Spostato in: Motivo: Data rientro: Prelevato da: Approvazione: DatLW/oval Date: SposDS*-e34 5WIFU =++ET2 34 h34!
Rickman, L. Cuthbert, I. 15/3/95
53210 40123
Esame personale Depardieu, B. Cuthbert, I. 1/10/90
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DB ERROR =:? "Diavolo!" esclamò Moriarty. "Quello che temevo. È in parte sovrascritto, alterato. Vedi? C'è attaccato un sacco di robaccia." "Sì, ma guarda!" disse Margo, eccitata. George esaminò lo schermo. "Il diario è stato prelevato dalla signora Rickman due settimane fa, con il permesso del dottor Cuthbert. Non c'è data di rientro." La ragazza sbuffò con stizza. "Cuthbert ha detto che il diario era andato perso." "Ma perché, allora, la registrazione è stata cancellata? E da chi?" All'im-
provviso il suo sguardo s'illuminò. "Oddio, devo disinserirmi, prima che qualcuno se ne accorga." Le dita danzarono sulla tastiera. "George", riprese la ragazza. "Sai cosa significa tutto questo? Che hanno tolto il diario dalle casse prima che cominciassero i delitti. Quasi nello stesso periodo Cuthbert ha fatto spostare le casse nell'Area di Sicurezza. Ora stanno nascondendo la prova alla polizia. Perché?" Moriarty si accigliò. "Stai cominciando a parlare come Smithback! Potrebbero esserci mille spiegazioni." "Dimmene una!" "La più ovvia potrebbe essere che qualcun altro ha cancellato la lista dei movimenti prima che la Rickman potesse aggiungere un'annotazione di perdita di reperto." Margo scosse la testa. "Non lo credo. Troppe coincidenze." "Senti", riprese lui con un sospiro, "questo è un periodo difficile per tutti, per te in particolare. So che stai cercando di prendere una decisione ardua, e in un momento così... be'..." "Questi omicidi non sono stati commessi da un maniaco qualunque", lo interruppe stizzita Margo. "Non sono pazza." "Non sto dicendo questo. Penso soltanto che dovresti lasciare che sia la polizia a occuparsene. È una faccenda molto, molto pericolosa. E in questo momento dovresti concentrarti sulla tua vita. Immischiarti in queste cose non ti aiuta a pensare al tuo futuro." Deglutì. "E non ti restituirà tuo padre." "È questo che pensi?" avvampò la ragazza. "Tu non..." S'interruppe di colpo non appena i suoi occhi si fermarono sull'orologio a muro. "Gesù! Sono in ritardo per l'incontro con il dottor Frock." Afferrò la borsa e si avviò verso la porta. A metà strada si voltò. "Ne riparleremo più tardi", promise. La porta si chiuse sbattendo. Dio, pensò Moriarty, seduto al terminale buio e posando il mento sulle mani. Se una laureata in genetica delle piante crede davvero che Mbwun possa aggirarsi libero... se perfino Margo Green vede congiure dappertutto... cosa pensare di tutti gli altri nel museo ? 29 Margo guardò Frock: si stava rovesciando parte dello sherry sullo sparato della camicia.
"Maledizione", disse l'uomo, spazzolandosi con le mani grassocce. Posò il bicchiere sulla scrivania con cautela esagerata e guardò la ragazza. "Grazie d'essere venuta, cara. È una scoperta straordinaria. Dovremmo andare giù subito a dare un'altra occhiata alla statuina, ma quel Pendergast sarà qui a momenti per qualche altra seccatura." Il cielo ti benedica, agente Pendergast, pensò Margo. Tornare alla mostra era l'ultima cosa che desiderava. Frock sospirò. "Non importa, ne sappiamo abbastanza. Non appena Pendergast se ne sarà andato, conosceremo la verità. Quella statuina di Mbwun può essere la prova supplementare che ho sempre cercato. Se, cioè, la tua idea della corrispondenza fra gli artigli e le ferite della vittima si rivelerà esatta." "Ma come può, un essere simile, aggirarsi per il museo?" domandò lei. "Ah!" esclamò il professore, gli occhi splendenti. "Questo è il problema, no? E lascia che risponda alla domanda con una domanda. Che cosa, mia cara, è rugoso?" "Non saprei", rispose lei. "Rugosa come una superficie sbalzata?" "Sì. Con una serie regolare di rilievi, grinze o pieghe. Ti dirò io cos'è rugoso. Le uova dei rettili sono rugose. Come quelle di dinosauro." Un brivido improvviso percorse la giovane mentre ricordava. "È la parola..." "...che ha usato Cuthbert per descrivere i semi spariti dalla cassa", finì per lei Frock. "Ora ti chiedo: erano davvero semi? Esistono semi grinzosi e scagliosi? Un uovo, però..." Frock si raddrizzò. "Altra domanda. Dove sono finiti? Sono stati rubati? O non sarà successo qualcos'altro?" Lo scienziato tacque di colpo, tornando a sprofondare nella sedia a rotelle e scuotendo il capo. "Ma se qualcosa... se qualcosa covava lì dentro e si è schiuso nelle casse", disse Margo, "come spiegare il massacro a bordo della nave che trasportava il carico dal Sudamerica?" "Cara", disse Frock ridendo pacatamente, "ci troviamo di fronte a un indovinello avvolto in un mistero all'interno di un enigma. È indispensabile raccogliere altri dati, senza perdere ulteriore tempo." Qualcuno bussò discretamente alla porta. "Dev'essere Pendergast", disse il professore, tirandosi di nuovo su. Poi, a voce più alta: "Entri, prego!" L'agente entrò, una cartella in mano, il vestito nero come sempre impec-
cabile, i capelli biondo cenere sugli occhi. A Margo pareva sicuro e tranquillo. Quando il professore gli indicò una delle sedie vittoriane, Pendergast sedette. "È un piacere rivederla, signore", disse Frock. "Lei conosce la signorina Green. Stavamo giusto discutendo di una questione... non le spiace se rimane, vero?" Pendergast agitò una mano in aria. "Naturalmente no. Del resto so che entrambi continuerete a osservare la mia richiesta di riservatezza." "Naturalmente." "Dottor Frock, so è molto impegnato e non le farò perdere tempo", cominciò subito l'agente dell'FBI. "Sono venuto con la speranza che lei sia riuscito a trovare il manufatto di cui abbiamo parlato. Che potrebbe essere stato usato come arma del delitto." Il professore si agitò nervoso sulla sedia a rotelle. "Dietro sua richiesta, ho riconsiderato l'argomento. Ho cercato nella banca-dati, sia singoli reperti, sia reperti che potessero essere stati separati e poi riassemblati." Scosse la testa. "Per sfortuna, non ho trovato nulla che somigli anche lontanamente al calco che ci ha mostrato. Non c'è mai stato niente del genere nelle nostre raccolte." L'espressione dell'agente non lasciava trapelare nulla. Poi l'uomo sorrise. "Ufficialmente non lo ammetteremmo mai, ma questo caso è, diciamo, davvero complesso per noi." Indicò la cartella. "Sono subissato da falsi avvistamenti, rapporti di laboratorio, colloqui. Le cose procedono con grande lentezza e non troviamo niente." Frock sorrise. "Credo che le cose che fa lei e quelle che faccio io non siano poi così diverse. Anch'io mi trovo nello stesso imbarazzo. E sicuramente Sua Eccellenza continua a comportarsi come se fosse tutto normale." Pendergast annuì. "Wright è molto ansioso che la mostra si inauguri, come previsto, domani sera. Perché? Perché il museo sta spendendo un sacco di soldi che in realtà non ha. È indispensabile che le entrate aumentino per non mandarci in deficit. E si punta molto sulla mostra per questo." "Capisco", disse Pendergast. Prese un fossile posato sul piano di un tavolo accanto alla sedia e lo rigirò pigramente in mano. "Ammonite?" domandò. "Giusto." "Dottor Frock..." riprese l'agente. "Mi vengono fatte pressioni da ogni
parte in questo momento. Di conseguenza, devo essere doppiamente attento nel condurre l'indagine secondo le regole. Non posso mostrare i nostri risultati a persone estranee all'indagine come lei... anche se le normali procedure investigative non hanno dato esiti di sorta." Posò il fossile con cura e incrociò le braccia. "Detto ciò, sbaglio o lei è un esperto di DNA?" Il professore annuì. "È in parte vero. Ho dedicato alcuni studi al modo in cui i geni agiscono sulla morfologia... sulle forme di un organismo. E seguo i lavori di molti specializzandi - come Gregor Kawakita, e la qui presente Margo Green - i cui studi prevedono ricerche sul DNA." Pendergast ricuperò la cartella, la aprì e ne tolse uno spesso stampato di computer. "Ho qui un rapporto sul DNA dell'artiglio trovato in una delle prime vittime. Naturalmente, non posso mostrarglielo. Sarebbe assolutamente scorretto. A quelli dell'ufficio di New York non andrebbe giù." "Capisco... E lei continua a pensare che l'artiglio sia il suo indizio migliore." "È il solo nostro indizio importante, dottor Frock. Lasci che le dica a quali conclusioni sono arrivato. Ritengo che ci sia un pazzo che vaga per il museo. Uccide le sue vittime in modo rituale, asporta loro la parte posteriore del cranio ed estrae l'ipotalamo dal cervello." "A quale scopo?" domandò Frock. Pendergast esitava. "Noi riteniamo che lo mangi." Margo sussultò. "Probabilmente l'assassino si nasconde nel sotterraneo del museo", continuò l'investigatore. "Molte cose ci indicano che ritorna lì dopo gli omicidi, anche se finora non siamo riusciti a trovare un posto preciso o delle prove in proposito. Due cani sono stati uccisi durante le ricerche. Come lei forse sa, laggiù c'è un vero e proprio labirinto di gallerie e corridoi sparsi su più piani interrati, il più antico dei quali risale ad almeno centocinquant'anni fa. Il museo è stato in grado di fornirmi delle mappe che coprono soltanto una piccola parte dell'area totale. Mi riferisco all'assassino come a un 'lui' perché la forza impiegata negli omicidi indica un maschio, e per giunta fortissimo. Di una forza quasi sovrumana. Come le ho detto, usa una specie di arma a tre punte per sventrare le sue vittime, che vengono a quanto pare scelte a caso. Non conosciamo il movente. I nostri colloqui con il personale selezionato del museo non hanno finora dato esito." Guardò Frock. "Vede, il nostro indizio migliore resta il nostro unico indizio... l'arma, l'artiglio. Ecco perché continuo a cercarne la provenienza." Frock annuì lentamente. "Ha parlato di DNA?"
Pendergast agitò lo stampato del computer. "I risultati di laboratorio sono a dir poco inconcludenti." Fece una pausa. "Ma non vedo ragioni per non dirle che l'analisi dell'artiglio ha portato all'identificazione di DNA di alcune specie di geco, oltre che di cromosomi umani. Da qui l'ipotesi che il campione potesse essere degradato." "Geco, ha detto?" mormorò il professore, leggermente sorpreso. "E mangia l'ipotalamo... Sorprendente. Ma, mi dica: come lo sa?" "Abbiamo trovato tracce di saliva e segni di denti." "Segni di denti umani?" "Non lo sappiamo." "E la saliva?" "Indeterminata." La testa si abbassò sul petto di Frock. Dopo qualche minuto, questi alzò gli occhi. "Lei continua a definire l'artiglio un'arma", disse. "Devo dunque desumere che continua a pensare all'assassino come a un essere umano?" Pendergast chiuse la cartella. "Semplicemente, non vedo altra possibilità. Lei s'immagina, professore, un animale che decapita un cadavere con precisione da chirurgo, gli buca il cranio e individua un organo interno delle dimensioni di una noce che soltanto un esperto in anatomia saprebbe riconoscere? E l'abilità dell'assassino nell'eludere le nostre ricerche nel sotterraneo è impressionante." Di nuovo lo studioso abbassò la testa sul petto. Mentre i secondi diventavano minuti, l'agente dell'FBI rimase immobile a guardarlo. All'improvviso il professore alzò il capo. "Signor Pendergast", disse con voce tonante. Margo sobbalzò. "Ho ascoltato la sua teoria. Vorrebbe sentire la mia, adesso?" L'altro annuì. "Naturalmente." "Benissimo. Lei sa qualcosa sugli Scisti del Transvaal?" "Temo di no..." "Gli Scisti del Transvaal furono scoperti nel 1945 da Alistair Van Vrouwenhoek, un paleontologo dell'università di Witwatersrand, Sudafrica. Erano del Cambriano, vecchi di seicento milioni di anni. Ed erano pieni di strane forme di vita di cui non s'era mai visto l'uguale. Forme di vita disarmoniche, che non possedevano nemmeno la simmetria bilaterale comune, virtualmente, a tutte le forme di vita animale esistenti oggi sul pianeta. Si svilupparono, per caso, all'epoca dell'estinzione di massa del cambriano. Be', molti credono che gli scisti del cambriano rappresentino un vicolo cie-
co dell'evoluzione: la vita che sperimenta ogni forma concepibile prima di assestarsi sulle forme bilateralmente simmetriche che si vedono oggi." "Ma lei non è di questo parere", osservò Pendergast. Frock si schiarì la gola. "Esatto. In quegli scisti predomina un tipo particolare di organismo. Aveva pinne possenti, lunghe ventose e un apparato boccale ipersviluppato, in grado di triturare e squarciare. Un apparato boccale in grado di frantumare la roccia, e pinne che gli consentivano di muoversi in acqua alla velocità di quasi quaranta chilometri l'ora. Non c'è dubbio che si trattasse di un predatore molto feroce ed efficiente. Era, direi, fin troppo efficiente: cacciò le sue prede fino a farle estinguere e, rapidamente, si estinse a sua volta. Fu quello a provocare l'estinzione di massa delle forme minori alla fine dell'era cambriana. Quello, non la selezione naturale, uccise tutte le altre forme di vita negli Scisti del Transvaal." Pendergast sbatté le palpebre. "E...?" "Ho fatto sul computer delle simulazioni evolutive seguendo la nuova teoria matematica della turbolenza frattale. Risultato? Circa ogni sessanta o settanta milioni di anni, capita che la vita si sia perfettamente adattata all'ambiente. Troppo ben adattata, forse. Si ha un'esplosione demografica delle forme di vita più riuscite. Allora, all'improvviso, spunta fuori una nuova specie. Si tratta quasi sempre di un predatore, una macchina per uccidere. Si avventa sulla moltitudine, uccidendo, nutrendosi, riproducendosi. Dapprima lentamente, poi sempre più in fretta." Indicò la placca fossile che teneva sulla scrivania. "Ecco, guardi qui." L'agente si alzò e si avvicinò. "Questa è una serie di impronte lasciate da una creatura che viveva durante il Cretaceo superiore", continuò il professore. "Proprio al limite C-T, per essere precisi. È il solo fossile di questo tipo che sia mai stato trovato: non ne esistono altri." "C-T?" "Cretaceo-Terziario. È il limite che segna l'estinzione di massa dei dinosauri." Pendergast annuì, pur continuando a mostrarsi sorpreso. "Esiste un legame che finora è passato inosservato", proseguì Frock, "fra la statuina di Mbwun, le tracce di artigli lasciate dall'assassino e queste impronte fossili." Pendergast abbassò gli occhi. "Mbwun? La statuina che il dottor Cuthbert ha tolto dalle casse e inserito nella mostra?" Frock annuì.
"Mmm... Quanti anni hanno queste impronte?" "Circa sessantacinque milioni. Provengono da una formazione in cui è stato rinvenuto l'ultimissimo dinosauro. Ovvero, prima dell'estinzione di massa." Un altro lungo silenzio. "Ah! E il legame...?" domandò l'agente dopo un momento. "Ho detto che nulla nelle raccolte antropologiche corrisponde alle tracce dell'artiglio. Ma non ho detto che non vi fossero raffigurazioni, sculture di tale artiglio. Abbiamo appreso che gli arti anteriori della statuina di Mbwun sono dotati di tre artigli, con un dito centrale ispessito. Ora guardi queste impronte", lo invitò lo studioso, additando il fossile. "Ripensi alla ricostruzione dell'artiglio e all'artiglio trovato nella vittima." "Dunque, lei crede che l'assassino possa essere lo stesso animale che ha lasciato queste impronte? Un dinosauro?" A Margo parve di cogliere dell'ironia nella voce di Pendergast. Frock guardò il rappresentante dell'FBI, scuotendo con vigore la testa. "No, non un dinosauro. Niente di così comune come un dinosauro. Stiamo parlando della dimostrazione della mia teoria dell'evoluzione anomala. Lei conosce i miei studi. Questa è la creatura che, a mio avviso, sterminò i dinosauri." Pendergast rimase in silenzio. Il professore si piegò verso l'agente. "Io credo", continuò, "che questo essere, questo mostro, sia la causa dell'estinzione dei dinosauri. Non un meteorite, non un mutamento di clima, ma qualche terribile predatore... l'essere che ha lasciato questa impronta fossile. L'incarnazione dell'Effetto Callisto. Non era grosso, ma era dotato di una grande forza e veloce. Probabilmente cacciava in gruppo ed era dotato d'intelligenza. Ma, data la vita breve dei superpredatori, essi non hanno lasciato traccia nei reperti fossili. Eccetto che negli Scisti del Transvaal. E in questa impronta proveniente dai Calanchi dello Tzun-je-jin. Mi sta seguendo?" "Sì." "Noi siamo in stato di esplosione demografica, oggi." Pendergast restava zitto. "Gli esseri umani!" aggiunse Frock, il tono di voce più alto. "Cinquemila anni fa eravamo soltanto dieci milioni sul globo. Oggi siamo sei miliardi! Siamo la forma di vita più riuscita che si sia mai vista!" Batté col dito sulle copie dell'Evoluzione frattale posate sulla scrivania. "Ieri, lei mi ha chiesto notizie sul mio prossimo libro. Si tratterà di un'estensione della mia
teoria dell'Effetto Callisto, applicata alla vita moderna. La mia teoria prevede che da un momento all'altro avverrà qualche strana mutazione; qualche creatura prederà la popolazione umana. Non voglio dire che l'assassino sia la stessa creatura che sterminò i dinosauri. Ma una creatura simile... Be', guardi di nuovo questa impronta. Sembra quella di Mbwun! La chiamiamo evoluzione convergente: due creature che si somigliano non perché siano necessariamente imparentate, ma perché si sono evolute per fare la stessa cosa. Una creatura evoluta per uccidere. Sono troppe le somiglianze!" Pendergast si posò la cartella in grembo. "Temo di non seguirla più, dottor Frock." "Ma non capisce? Qualcosa è arrivato dal Sudamerica in quelle casse. Si aggira per il museo. Un predatore estremamente efficiente. Quella statuina di Mbwun ne è la prova. Le tribù indigene conoscevano questa creatura, e vi hanno costruito attorno una religione. Senza saperlo, Whittlesey l'ha introdotta nella civiltà." "Lei ha visto la statuina?" domandò l'agente. "Il dottor Cuthbert sembrava riluttante a mostrarmela." "No", ammise lo studioso. "Ma ne ho avuto notizia da fonte degna di fede. Conto di esaminarla quanto prima." "Dottor Frock, abbiamo controllato il contenuto delle casse ieri", disse Pendergast. "Cuthbert assicura che non c'era niente di importante dentro, e non abbiamo motivo di non credergli." Si alzò, con decisione. "La ringrazio per il suo tempo e per l'aiuto. La sua teoria è interessantissima, e mi piacerebbe proprio condividerla." Si strinse nelle spalle. "Però, per il momento la mia ipotesi resta immutata. Perdoni la mia cecità, ma spero che lei sia in grado di tenere le sue teorie separate dai fatti nudi e crudi della nostra indagine, e di aiutarci in tutti i modi possibili." Si avviò verso la porta. "Ora le chiedo di scusarmi. Se mai le venisse in mente qualcosa, la prego di mettersi in contatto con me." E uscì. Frock sprofondò nella sedia, scuotendo la testa. "Peccato", mormorò. "Speravo molto nella sua collaborazione, ma sembra che sia uguale a tutti gli altri." Margo fissava il tavolo accanto alla sedia da cui Pendergast si era appena alzato. "Guardi", disse. "Ha lasciato lo stampato del DNA." Gli occhi di Frock seguirono quelli di Margo. Poi il professore sogghignò.
"Ecco che cosa intendeva con 'se mai le venisse in mente qualcosa'." Fece una pausa. "Forse, in fondo, non è uguale agli altri, Be', non lo tradiremo, vero, cara?" aggiunse, afferrando la cornetta del telefono. "Il dottor Frock per il dottor Cuthbert." Una pausa. "Salve, Ian. Sì, molto bene, grazie. No, vorrei soltanto poter entrare subito nella mostra Superstizione. Come? So che è stata sigillata, ma... No, mi sono rassegnato all'idea della mostra, ma... Capisco." Margo notò che la faccia di Frock si stava arrossando. "In tal caso, Ian", continuò il professore, "vorrei riesaminare le casse della spedizione Whittlesey. Sì, quelle nell'Area di Sicurezza. So che le abbiamo viste ieri, Ian." Ci fu un lungo silenzio. La ragazza riusciva a sentire un debole squittio. "Ora ascolta me, Ian", disse Frock. "Io dirigo questo reparto, e ho il diritto di... Non parlarmi in questo modo, Ian. Non ti permettere." Stava tremando di rabbia, in un modo che Margo non aveva mai visto prima. La sua voce si era ridotta quasi a un sussurro. "Signor mio, tu non hai diritti di nessun tipo in questo istituto. Presenterò formale reclamo al direttore." Frock posò lentamente la cornetta, la mano tremante. Si rivolse a Margo, annaspando in cerca del fazzoletto. "Ti prego, scusami." "Sono sorpresa", disse lei. "Pensavo che in qualità di responsabile..." Non concluse la frase. "Avessi il controllo completo delle raccolte?" Lo studioso sorrise, riacquistando la compostezza. "Anch'io. Questa nuova mostra, però, e questi omicidi hanno generato nella gente sentimenti che non sospettavo. Tecnicamente, Cuthbert è mio superiore. Non so perché agisca così. Deve trattarsi di qualcosa di molto imbarazzante, qualcosa che potrebbe ritardare o impedire l'apertura della sua preziosa mostra." Pensò per un minuto. "Forse sa dell'esistenza della creatura. Dopotutto, è stato lui a far spostare le casse. Forse ha trovato le uova schiuse, ha fatto le sue deduzioni e le ha nascoste. E adesso vuole negarmi il diritto di studiarle!" Si spostò sull'orlo della sedia, stringendo i pugni. "Dottor Frock, non credo che sia realmente possibile", lo ammonì Margo. L'idea di raccontargli che la Rickman aveva prelevato il diario di Whittlesey era completamente sfumata. L'uomo si rilassò. "Hai ragione, naturalmente. Ma non finisce qui, però, puoi starne certa. Inoltre, non abbiamo tempo per questo, adesso, e io confido sulle tue osservazioni della statuina di Mbwun. Invece, cara, dobbia-
mo guardare in quelle casse." "Come?" domandò la ragazza. Frock aprì un cassetto della scrivania e vi rovistò dentro. Poi tirò fuori un modulo che subito Margo riconobbe: un "10-14", Richiesta di Accesso. "Il mio errore", continuò il professore, "è stato quello di chiedere." Cominciò a riempire il formulario. "Ma non bisogna farlo firmare dalla segreteria?" domandò Margo. "Naturalmente. Lo invierò alla segreteria seguendo la normale procedura. E andrò nell'Area di Sicurezza con la copia non firmata. Possiamo star certi che il permesso verrà negato. Intanto, però, avrò il tempo di esaminare le casse. E trovare la risposta." "Ma non può farlo!" replicò la giovane con la voce incrinata. "Perché no?" disse il professore con un ghigno. "Frock, una colonna portante del museo, che agisce in maniera non ortodossa? È una faccenda troppo importante per simili considerazioni." "Non intendevo questo", sussurrò la ragazza. Abbassò gli occhi sulla sedia a rotelle. Lo studioso seguì quello sguardo. La sua espressione mutò. "Ah, sì", disse lentamente. "Capisco." Deluso, frustrato, si accinse a rimettere il foglio nel cassetto. "Dia a me il modulo. Lo porto io nell'Area di Sicurezza." La mano di Frock si bloccò. Fissò Margo con uno sguardo colmo di stima. "Ti ho chiesto di essere i miei occhi e le mie orecchie, non di camminare per me sui carboni ardenti. Io sono un curatore di ruolo, un personaggio relativamente importante. Non oserebbero buttarmi fuori. Ma tu..." trasse un lungo respiro, corrugò la fronte. "Potrebbero decidere di dare un esempio e di espellerti. E io non ho il potere di impedirlo." Lei rifletté per un momento. "Ho un amico che è molto abile in faccende di questo tipo. Uno che saprebbe destreggiarsi in qualsiasi situazione." Frock restò immobile per un attimo. Poi staccò la copia e la porse alla ragazza. "Manderò l'originale al piano superiore. Devo, per salvare le apparenze. La guardia può chiamare la segreteria per controllare... non hai molto tempo. Non appena il foglio arriverà a destinazione, saranno tutti in allarme. In quel momento dovrai avere finito." Da un cassetto della scrivania, prese un foglietto giallo e una chiave. Li mostrò a Margo. "Su questo foglio ci sono le combinazioni delle camere blindate dell'Area di Sicurezza", disse. "E questa è la chiave del locale con le casse. Tutti
i responsabili le hanno. Con un po' di fortuna, Cuthbert non avrà pensato di cambiare le combinazioni." Le porse alla giovane. "Queste ti consentiranno di aprire le porte. Alla guardia, dovrai pensarci tu." Parlava in tono concitato, adesso, gli occhi fissi su di lei. "Tu sai cosa cercare nelle casse. Ogni traccia di uova, di organismi viventi, anche oggetti di culto associati alla creatura. Qualunque cosa possa avallare la mia teoria. Guarda prima nella cassa più piccola. La cassa di Whittlesey. Quella che conteneva la statuina di Mbwun. Se hai tempo, da' un'occhiata anche nelle altre. Ma, per l'amor di Dio, corri meno rischi che puoi. Va', adesso, mia cara, e buona fortuna." L'ultima cosa che Margo vide lasciando l'ufficio, era Frock sotto il bowindow, che le dava la spalle larghe battendo i pugni sui braccioli della sedia a rotelle. "Maledetto aggeggio!" stava dicendo. "Stramaledetto...!" 30 Cinque minuti dopo, nel suo ufficio alcuni piani sotto, Margo alzò la cornetta e compose il numero. Smithback era di ottimo umore. Mentre lei gli raccontava della scoperta di Moriarty sui dati cancellati e, senza troppi particolari, di quanto era successo nell'ufficio di Frock, il giovanotto diventava sempre più allegro. Lo sentì ridacchiare. "Avevo o no ragione sulla Rickman? Che nasconde le prove? Ora dovrà lasciare che scriva a modo mio, oppure..." "Non ci provare!" lo ammonì Margo. "La tua soddisfazione personale non c'entra, qui. Non sappiamo cosa ci sia dietro quel diario, e adesso non possiamo curarcene. Dobbiamo guardare in quelle casse, e abbiamo soltanto pochi minuti per farlo." "D'accordo, d'accordo", si sentì rispondere. "Vediamoci sul pianerottolo davanti a Entomologia. Esco subito." "Non pensavo che Frock potesse essere così deciso", disse Smithback. "Il mio rispetto per il vecchio è salito di molti punti." Stava scendendo una rampa di scalini metallici. Avevano scelto un percorso secondario nella speranza di evitare i controlli della polizia all'uscita degli ascensori. "Hai la chiave e le combinazioni, vero?" domandò il giovane dal fondo delle scale. Margo controllò la borsa, poi lo seguì. Guardò svelta a destra e a sinistra del corridoio. "Hai in mente quelle nicchie illuminate nel corridoio dell'Area di Sicurezza? Tu vai avanti e io ti
seguo dopo poco. Parla con la guardia, cerca di portarla in una delle nicchie dove c'è più luce col pretesto di mostrarle il modulo. Fa' in modo che mi dia la schiena per un paio di minuti, il tempo di aprire la porta della stanza e infilarmi dentro. Tienila occupata. Sei un buon parlatore, no?" "È questo il tuo piano?" la prese in giro il giornalista. "D'accordo." Girò su se stesso, continuò a procedere lungo il corridoio e sparì dietro un angolo. Margo aspettò, contando fino a sessanta. Poi si avviò a sua volta; si era infilata un paio di guanti di gomma. Di lì a poco sentì la voce di Smithback, il tono già alto, di vibrante protesta. "Questo foglio è firmato dal responsabile del reparto in persona! Non vorrà dirmi che..." Sporse la testa da dietro l'angolo. Una ventina di metri più avanti il corridoio s'intersecava con un altro, che portava al posto di blocco. Ancora più giù c'era la porta dell'Area di Sicurezza vera e propria, e, accanto a quella, la ragazza riusciva a scorgere la guardia. Le dava la schiena, e teneva il modulo in una mano. "Mi spiace, signore", sentì dire dall'agente, "ma non è passato attraverso la segreteria..." "Lei non ha visto bene", lo interruppe il giornalista. "Venga qua, dove c'è più luce, e legga meglio." Procedettero lungo il corridoio, allontanandosi da Margo e sparendo nella nicchia illuminata. Quando non li vide più, la ragazza svoltò l'angolo e percorse rapidamente il corridoio. Davanti alla porta dell'Area di Sicurezza, inserì la chiave e spinse con cautela. La porta ruotò sui cardini oliati. Infilò dentro la testa per accertarsi che non vi fosse nessuno; la stanza buia sembrava vuota. Chiuse la porta. Il cuore le batteva già forte, il sangue le rombava nelle orecchie. Trattenne il respiro, annaspò in cerca dell'interruttore. Le camere blindate si stendevano di fronte a lei, a destra e a sinistra. Quando individuò la terza porta sulla destra, con il cartello giallo e la scritta REPERTO, afferrò il pomello della combinazione con una mano e tirò fuori con l'altra il foglietto datole da Frock. 56-77-23. Respirò profondamente e cominciò a girare la manopola, rammentando lo stipetto in cui una volta nella scuola di musica aveva messo al sicuro il suo oboe. Destra, sinistra, destra... Si sentì un sordo clic. Subito, Margo afferrò la leva e l'abbassò. La porta si aprì. All'interno, le casse erano forme indistinte contro la parete. Margo acce-
se la luce e guardò l'orologio. Erano trascorsi tre minuti. Ora doveva agire in fretta. Vide i graffi su una delle casse più grandi, scheggiata e spaccata. Quei segni la facevano rabbrividire. Inginocchiatasi davanti alla cassa più piccola, tolse il coperchio e affondò le mani nel materiale d'imballaggio, separando le fibre compatte per mettere a nudo i manufatti. Le sue mani si chiusero attorno a qualcosa di duro. Tiratolo fuori, vide una piccola pietra con strane incisioni. Non molto promettente. Cavò fuori una serie di quelli che sembravano dischetti labiali di giada, poi punte di freccia in selce, punteruoli, una cerbottana con una serie di dardi, lunghi e appuntiti, rivestiti di una sostanza nera e indurita. Guarda di non pungerti con questi, pensò. Tutte cose che potevano restare dov'erano. Scavò più a fondo. Lo strato successivo nascondeva una piccola pressa di legno; un malconcio sonaglio sciamanico coperto di disegni grotteschi, un bel mantello intessuto di fibre e di piume. D'impulso, infilò nella borsa la pressa avvolta di fibre, poi il disco di pietra e il sonaglio. Sullo strato in fondo alla cassa trovò alcuni barattoli di vetro che contenevano dei piccoli rettili. Molto colorati, ma niente di straordinario. Erano trascorsi sei minuti. Si alzò, tendendo l'orecchio, aspettandosi di sentire da un momento all'altro i passi della guardia. Niente. Rimise gli altri oggetti al loro posto e li riavvolse col materiale da imballaggio. Afferrò il coperchio e notò che la fodera interna era staccata. Mentre lo osservava con curiosità, una busta macchiata dall'acqua, friabile, le cadde in grembo: svelta, la infilò nella borsa. Otto minuti. Non c'era più tempo. Tornata nella stanza centrale, si rimise in ascolto, cercando di decifrare i suoni ovattati all'esterno. Socchiuse la porta. "Qual è la sua matricola, agente?" stava dicendo a voce alta Smithback. Margo non riuscì a sentire la risposta. Scivolò all'esterno e chiuse la porta, togliendosi poi rapidamente i guanti e infilandoli nella borsa. Raddrizzò il busto, ispezionò la propria persona, poi procedette verso la nicchia in cui si trovavano Smithback e la guardia. "Ehi!" Si voltò. La guardia, agitata, la stava fissando. "Oh, sei qui, Billy!" esclamò Margo, pensando al da farsi, sperando che l'agente non l'avesse vista uscire. "Sono in ritardo? Sei già entrato?" "Questo tipo non me lo permette!" lamentò il giornalista.
"Senta", sbottò la guardia, rivolta a Smithback. "Gliel'ho detto e ridetto, e non intendo ripetermi. Il modulo deve essere opportunamente vidimato perché io possa lasciarla entrare. Ha capito?" Ce l'avevano fatta. Margo guardò verso il fondo del corridoio. In lontananza, vide un'alta, esile sagoma che si avvicinava: Ian Cuthbert. Afferrò il braccio di Smithback. "Dobbiamo andare. Ricordi che abbiamo un appuntamento? Guarderemo le raccolte un'altra volta." "Hai ragione. Naturalmente", balbettò il giovane, affannato. "Ma più tardi ne riparleremo", disse, rivolto alla guardia. Allontanatisi, la ragazza spinse Smithback dentro una nicchia. "Dietro quegli armadi", sussurrò. Sentirono i passi di Cuthbert alle loro spalle, mentre si nascondevano. Poi il rumore cessò, e la voce del vicedirettore echeggiò nel corridoio. "Qualcuno ha cercato di entrare nelle camere blindate?" domandava. "Sissignore. Un uomo ci ha provato. Erano qui adesso." "Chi? Quelli con cui stava parlando un attimo fa?" "Sissignore. Lui aveva un modulo, ma senza vidimazione, sicché non l'ho fatto entrare." "Non lo ha fatto entrare?" "Proprio così, signore." "Chi aveva compilato il modulo? Frock?" "Sissignore. Il dottor Frock." "E non ha preso il nome di quel tale?" "Mi pare che si chiamasse Bill. Non so la donna, ma..." "Bill? Bill? Oh, magnifico. La prima cosa che lei deve fare è identificare le persone." "Mi spiace, signore. Era così insistente che..." Ma Cuthbert stava già tornando indietro, furente. Il rumore dei passi si perse nel corridoio. "Ehi, voi!" urlò la guardia. "Venite qui, devo vedere il tesserino! Fermi!" Smithback e Margo erano partiti di scatto. Svoltarono un angolo, imboccarono una scala volando sui gradini di cemento. "Dove stiamo andando?" domandò Margo, ansimante. "E chi lo sa?" Raggiunsero il primo pianerottolo. Il giornalista uscì svelto nel corridoio, guardando a destra e a sinistra, poi aprì una porta con la scritta MAMMIFERI, DEPOSITO PONGIDI.
Dentro, si fermarono a riprendere fiato. La stanza era silenziosa e fresca. Quando gli occhi si abituarono all'oscurità, Margo vide gorilla e scimpanzé impagliati e allineati come sentinelle, e poi cumuli di pelli villose su scaffali di legno. Contro una parete c'erano dozzine di mensole con file di teschi di primati. Smithback si mise in ascolto accanto alla porta per un momento, concentrato. Poi si rivolse a Margo. "Fammi vedere cos'hai trovato", disse. "Non c'era molto", rispose la ragazza, respirando a fatica. "Ho preso un paio di manufatti di scarsa importanza e basta. Però ho trovato questa", aggiunse, infilando la mano nella borsa. "Era incastrata nel coperchio della cassa." La busta chiusa recava soltanto la scritta: "R. H. Montague, MNH di NY." In testa alla carta da lettera ingiallita campeggiava uno strano disegno a sbalzo rappresentante due frecce sovrapposte. Mentre Smithback scrutava da sopra la spalla di Margo, lei rivolse con cautela il foglio alla luce e cominciò a leggere. Xingu Superiore 17 settembre 1987 Montague, ho deciso di mandare indietro Carlos con l'ultima cassa e di proseguire da solo in cerca di Crocker. Carlos è fidato, e non posso correre il rischio di perdere la cassa, se mi succedesse qualcosa. Osserva bene il sonaglio sciamanico e gli altri oggetti rituali. Mi sembrano straordinari. La statuina che accludo, trovata nel sito in una capanna abbandonata, è la prova che cercavo. Nota gli artigli spropositati, i caratteri di rettile, i richiami ai bipedalia. I kothoga esistono, e la leggenda di Mbwun non è pura invenzione. Tutti i miei appunti sono nel diario... 31 La signora Lavinia Rickman sedeva in una poltrona di pelle color vinaccia nell'ufficio del direttore. Nella stanza c'era un silenzio di tomba. Nemmeno i rumori del traffico sulla strada tre piani sotto riuscivano a penetrare le spesse finestre della torre. Quanto a Wright, era seduto dietro la scriva-
nia, praticamente nascosto dal lungo piano di mogano. Un ritratto di Ridley A. Davis, fondatore del museo, opera di Reynolds, guardava in basso alle spalle di Wright. Il dottor Ian Cuthbert occupava un divano contro la parete più lontana. Chino in avanti, i gomiti sulle ginocchia, la giacca di tweed penzolante sul torace scarno. Era imbronciato. Solitamente serioso e irritabile, sembrava più austero del solito quel pomeriggio. Alla fine, fu Wright a rompere il silenzio. "Ha già chiamato due volte questo pomeriggio", disse all'improvviso il direttore, rivolto a Cuthbert. "Non posso continuare a ignorarlo. Presto o tardi pianterà una grana per questo accesso alle casse che gli viene negato. E tirerà in ballo anche la faccenda di Mbwun. Ci saranno polemiche." Il vicedirettore annuì. "Più tardi sarà, meglio sarà. Quando la mostra sarà aperta e in funzione, con quarantamila visitatori al giorno e articoli favorevoli sui giornali, lasceremo che faccia tutto quello che vuole." Ci fu un altro lungo silenzio. "Detesto fare l'avvocato del diavolo", riprese infine Cuthbert, "ma quando questo polverone si sarà dissipato, tu, Winston, avrai il necessario aumento di presenze nel museo. Queste voci possono essere seccanti adesso, ma quando tutto sarà tornato tranquillo, sicuro, la gente vorrà provare il brivido 'retroattivo', gustare lo scandalo. Tutti vorranno venire per vedere con i loro occhi. Affari d'oro per il museo. Ciò che voglio dire, Winston, è che noi stessi non avremmo potuto organizzare meglio le cose." Wright guardò accigliato il vicedirettore. "Voci di una maledizione. Magari c'è del vero. Pensa a tutti i disastri che hanno seguito quell'orrida statuina per mezzo mondo." Rise mestamente. "Non sei serio", disse Cuthbert. "Ti dirò io su cosa sono serio", ritorse Wright. "Sul fatto che non voglio più sentirti parlare così. Frock ha amici importanti. Se cominciasse a lamentarsi con loro... be', sai come queste storie si gonfiano e si diffondono. Sospetteranno che nascondiamo informazioni. Penseranno che contiamo su questi delitti per attirare gente alla mostra. Che te ne pare di una pubblicità così, eh?" "D'accordo", borbottò Cuthbert con un sorriso gelido. "Ma non serve rammentarti che, se la mostra non apre per tempo, tutto diventa accademico. Frock va tenuto al guinzaglio. Sta mandando in giro degli scagnozzi che lo aiutano nel suo sporco lavoro. Uno di loro ha cercato di introdursi nella camera blindata meno di un'ora fa."
"Chi?" domandò Wright. "La guardia ha fatto un pasticcio in proposito. Però conosciamo il nome del tipo... Bill." "Bill?" esclamò la Rickman, sobbalzando. "Sì, credo proprio di sì", riprese il vicedirettore, rivolto alla responsabile delle pubbliche relazioni. "Non è il nome del giornalista che sta scrivendo il libro sulla mostra? È uno dei tuoi, vero? È sotto controllo? So che se ne va sempre in giro a fare un sacco di domande." "Assolutamente", rispose la Rickman con un sorriso radioso. "Abbiamo avuto i nostri alti e bassi, ma ora sta mettendo la testa a posto. Controlla le fonti e avrai controllato il giornalista, come dico sempre." "La testa a posto, eh?" borbottò Wright. "Allora perché hai ritenuto necessario mandare quel messaggio a mezzo mondo, stamattina, per ricordare di non parlare con gli estranei?" La donna alzò subito una mano dalle unghie laccate. "Così ora starà più attento." "Faresti meglio ad accertarlo", disse Cuthbert. "Sei stata della partita fin dall'inizio, Lavinia. Sono certo che non vuoi che quel giornalista vada a rovistare nei panni sporchi." Si udì il ronzio dell'interfono, poi una voce: "Il signor Pendergast chiede di vederla." "Lo faccia entrare", disse Wright. Guardò con cipiglio i presenti. "Eccolo." L'agente dell'FBI comparve sulla soglia, un giornale stretto sotto un braccio. Tacque per un momento. "Perbacco, che bel quadretto!" esclamò. "Dottor Wright, grazie per aver acconsentito a vedermi. Dottor Cuthbert, sempre un piacere. E la signora è Lavinia Rickman, vero?" "Sì", rispose la donna, sorridendo compita. "Signor Pendergast", disse Wright con un sorrisino formale. "Si segga, prego." "Grazie, ma preferisco stare in piedi." Pendergast andò verso l'imponente camino e si appoggiò alla mensola, le braccia incrociate. "È venuto a fare rapporto? Di sicuro avrà chiesto questo colloquio per informarci di qualche arresto." "No. Mi spiace, nessun arresto. Francamente, dottor Wright, abbiamo fatto ben pochi progressi. A dispetto di quello che la signora Rickman ha detto ai giornali."
Mostrò loro il titolo del quotidiano: ARRESTO IMMINENTE PER I DELITTI DELLA "BESTIA DEL MUSEO". Ci fu un breve silenzio. L'agente federale ripiegò il giornale e lo pose con cura sulla mensola del camino. "Qual è il problema?" domandò il direttore del museo. "Non vedo il motivo di farla tanto lunga." "Ci sono molti problemi, come lei senz'altro saprà", rispose Pendergast. "Ma non sono qui per fare rapporti. Mi basta ricordarvi che un pericoloso serial killer continua a vagare per il museo. Non c'è ragione di credere che smetterà di uccidere. Per quanto ne sappiamo, tutti i delitti sono avvenuti di notte. In altre parole, dopo le cinque del pomeriggio. Quale agente speciale incaricato dell'indagine, mi spiace dovervi comunicare che il coprifuoco dovrà rimanere effettivo fino a quando non avremo scoperto l'assassino. Non ci saranno eccezioni." "L'inaugurazione..." belò la Rickman. "L'inaugurazione dovrà essere posticipata. Forse di una settimana, forse di un mese. Temo di non poter promettere niente, purtroppo. Sono davvero dispiaciuto." Wright si alzò, livido in volto. "Lei ha detto che l'inaugurazione non avrebbe subito rinvii, se non vi fossero stati più omicidi. Questo era il nostro accordo." "Non ho fatto alcun accordo con lei, dottore", lo contraddisse l'agente. "Purtroppo adesso non siamo più vicini alla cattura dell'assassino di quanto lo fossimo all'inizio della settimana." Indicò il giornale sulla mensola del camino. "Titoli del genere rendono la gente soddisfatta, e imprudente. L'inaugurazione richiamerà di sicuro molti visitatori. Migliaia di persone, nel museo avvolto dall'oscurità..." Scosse la testa. "Non ho altra scelta." Wright lo guardò incredulo. "A causa della sua incompetenza, lei si aspetta che noi rimandiamo l'inaugurazione causando un danno irreparabile al museo? La risposta è no." Pendergast, pacifico, si portò al centro della stanza. "Mi perdoni, dottor Wright, se non sono stato abbastanza chiaro. Non sono qui per chiedere il suo permesso; sono venuto semplicemente a notificare la mia decisione." "D'accordo", rispose il direttore, con un tremolio nella voce. "Capisco. Lei non sa fare il suo lavoro e pretende di insegnarmi a fare il mio. Ha idea di cosa significherà per la mostra il ritardo nell'inaugurazione? Sa quale tipo di messaggio trasmetterà al pubblico? Be', io non lo permetterò." Pendergast lo fissò. "Tutte le persone non autorizzate che si troveranno
negli edifici dopo le cinque saranno arrestate con l'imputazione di aver violato la scena del delitto. È un reato. Ulteriori violazioni saranno ritenute un intralcio alla giustizia. E questo è un crimine, dottor Wright. Credo di essere stato abbastanza chiaro." "La sola cosa chiara, per il momento, è che lei deve uscire da qui", ribatté Wright, alzando la voce. "In questo, nessuno la intralcerà. È pregato di andarsene." L'altro annuì. "Signori. Signora." Poi si voltò e uscì in silenzio. Chiudendo tranquillamente la porta, Pendergast sostò un momento fuori dell'ufficio del direttore. Poi, guardando la porta, citò Così torno scornato alla mia gioia, Guadagnando in male tre volte più di quanto avevo speso. La segretaria del direttore smise di masticare il chewing-gum. "Howzat?" domandò. "No, Shakespeare", rispose Pendergast, dirigendosi verso l'ascensore. Nell'ufficio, Wright prese la cornetta del telefono con mano tremante. "Cosa diavolo facciamo, adesso?" esplose Cuthbert. "Che io possa essere dannato, se un maledetto poliziotto ci butterà fuori dal nostro museo." "Sta' calmo, Cuthbert", lo ammonì Wright. Poi parlò nel microfono. "Mi dia Albany, subito." Ci fu un silenzio, mentre l'uomo aspettava la comunicazione. Wright guardava da sopra la cornetta Cuthbert e la Rickman, sforzandosi di tenere sotto controllo il respiro affannoso. "È ora di chiedere qualche favore", disse. "Vedremo chi avrà l'ultima parola, qui: un bastardo albino del Delta, o il direttore del museo di storia naturale più grande del mondo." 32 La vegetazione qui è davvero insolita. Cicadacee e felci sembrano quasi primordiali. Peccato che manchi il tempo per studi più accurati. Abbiamo usato una varietà di pianta particolarmente elastica come materiale da imballaggio per le casse; liberissimo di fargli dare un'occhiata da Jörgensen, se è interessato. Non vedo l'ora di ritrovarmi con te all'Explorer Club, fra un mese, a festeggiare con un paio di Martini dry e un buon Macanudo. Fino a quel
momento, so di poter contare su di te per la tutela di questo materiale e della mia reputazione. Il tuo collega Whittlesey Smithback alzò gli occhi dalla lettera. "Non possiamo rimanere qui. Andiamo nel mio ufficio." Il suo covo si trovava in mezzo a un dedalo di uffici al pianterreno. I corridoi di quel favo brulicante di gente e di rumori erano per Margo un cambiamento tonificante dopo gli anditi umidi ed echeggianti dello scantinato attorno all'Area di Sicurezza. Attraversarono un ampio corridoio verdolino traboccante di vecchi numeri della rivista del museo. Fuori dell'ufficio di Smithback, a un grande tabellone erano affisse lettere adirate degli abbonati, per lo spasso dei redattori. Già una volta, nella ricerca affannosa di un numero di Science che mancava da tempo nella biblioteca dei periodici, Margo era entrata nel caotico bugigattolo del giornalista. Era come lo ricordava: la scrivania strabordante di articoli fotocopiati, lettere lasciate a metà, menù del ristorante cinese, e molti libri e riviste che la biblioteca stava sicuramente cercando da un pezzo. "Siediti", la invitò Smithback togliendo alacremente da una sedia una catasta di fogli alta mezzo metro. Chiuse la porta, poi andò dietro la scrivania e si buttò su una vecchia sedia a dondolo. La carta scricchiolava sotto i suoi piedi. "Va bene", disse a voce alta. "Sei sicura che il diario non ci fosse?" "Te l'ho detto: la sola cassa che ho potuto ispezionare era quella imballata personalmente da Whittlesey. Ma non poteva essere nelle altre." Il giovane esaminò di nuovo la lettera. "Chi è questo Montague cui è indirizzata la lettera?" domandò. "Non lo so", rispose Margo. "E Jörgensen?" "Non ho mai sentito parlare nemmeno di lui." Smithback prese da uno scaffale l'elenco dei numeri telefonici del museo. "Nessun Montague", mormorò, sfogliandone le pagine. "Naturalmente, per quel che ne sappiamo può trattarsi di un nome, non di un cognome. Ah! Ecco Jörgensen. Botanica. È in pensione. Come mai ha ancora un ufficio?" "Succede spesso qui", rispose Margo. "Gente che sta bene economica-
mente e non ha altro da fare nella vita. Dov'è il suo ufficio?" "Settore quarantuno, quarto piano", disse il giornalista, chiudendo il fascicolo e buttandolo sulla scrivania. "Vicino all'erbario." Si alzò. "Andiamo." "Un momento! Sono quasi le quattro. Dovrei chiamare Frock e metterlo al corrente..." "Dopo", tagliò corto lui, imboccando la porta. "Andiamo, Fior di Loto. Il mio naso di giornalista non ha fiutato una buona traccia in tutto il pomeriggio." L'ufficio di Jörgensen era un piccolo laboratorio senza finestre, col soffitto alto. Non c'erano le piante o gli esemplari di flora che Margo si aspettava di trovare in un laboratorio di botanica. In verità, la stanza era vuota, tolti un ampio banco da lavoro, una sedia e un attaccapanni. Un cassetto del banco era aperto e lasciava intravedere una serie di vecchi utensili. Jörgensen era chino sul piano di legno e armeggiava con un piccolo motore. "Dottor Jörgensen?" domandò Smithback. Il vecchio signore si voltò e lo squadrò. Era quasi completamente calvo, con sopracciglia bianche e cespugliose che sovrastavano occhi dallo sguardo intenso, color jeans scoloriti. Era tutt'ossa e curvo, ma Margo giudicò che doveva essere alto quasi due metri. "Sì?" disse con voce pacata. Prima che lei potesse fermarlo, Smithback porse a Jörgensen la lettera. L'uomo cominciò a leggere, poi ebbe un visibile sussulto. Senza alzare gli occhi dal foglio, cercò a tastoni una sedia sgangherata e vi si sedette con cautela. "Dove l'avete trovata?" domandò quando ebbe finito. I due giovani si guardarono. "E autentica", disse Smithback. Il vecchio li squadrò. Poi restituì la lettera al giornalista. "Non ne sapevo niente." Ci fu un silenzio. "Viene dalla cassa che Julian Whittlesey inviò dalla spedizione amazzonica di sette anni fa", lo esortò, speranzoso, Smithback. Jörgensen continuava a fissarli. Dopo pochi istanti, tornò al suo motore. I due lo guardarono armeggiare per un momento. "Ci dispiace aver interrotto il suo lavoro", disse infine Margo. "Forse non è il momento opportuno." "Quale lavoro?" domandò il botanico, senza voltarsi. "Qualunque cosa stia facendo."
Jörgensen scoppiò in una risata improvvisa. "Questo?" esclamò, voltandosi verso gli sconosciuti. "Questo non è lavoro. Soltanto un aspirapolvere rotto. Da quando mia moglie è morta, penso io ai lavori di casa. Questo dannato aggeggio mi è esploso in mano, l'altro giorno. L'ho portato qui perché qui ho tutti gli attrezzi. Del resto non ho molto da fare." "Circa questa lettera, signore..." lo sollecitò Margo. Jörgensen sedette nella sedia scassata e si appoggiò allo schienale, guardando il soffitto. "Non sapevo della sua esistenza. La doppia freccia era lo stemma di famiglia di Whittlesey. Ed è proprio la sua grafia, non c'è dubbio. Mi porta vecchi ricordi." "Di che tipo?" incalzò subito il giornalista. Il vecchio lo guardò, le sopracciglia aggrottate per la stizza. "Nulla che la riguardi", ribatté con asprezza. "O, quantomeno, non so perché dovrebbe riguardarla." Margo lanciò a Smithback un'occhiata intimidatoria. "Dottor Jörgensen", cominciò, "sono una specializzanda che lavora col dottor Frock. Il mio collega è un giornalista. Il dottor Frock ritiene che la spedizione Whittlesey e le casse arrivate qui abbiano un rapporto con i delitti del museo." "Una maledizione?" domandò Jörgensen, alzando le sopracciglia in modo teatrale. "No, non una maledizione", disse la ragazza. "Sono contento che non lo pensi. Non si tratta di maledizione. A meno che per maledizione non intenda un misto di avidità, umana stupidità e gelosia scientifica. Non serve Mbwun per spiegare..." Si fermò. "Perché è così interessata?" chiese con sospetto. "...per spiegare cosa?" interloquì Smithback. Lo studioso lo guardò con avversione. "Giovanotto, se apre bocca un'altra volta, dovrò chiederle di andarsene." Gli occhi di Smithback si strinsero, ma non reagì. Margo si chiedeva se doveva parlargli delle teorie di Frock, dei segni degli artigli, della cassa rotta. Decise di no. "Siamo interessati perché temiamo che esista un legame cui nessuno sta prestando attenzione. Né la polizia, né il museo. Nella lettera si fa il suo nome. Speravamo che potesse dirci qualcosa di più su quella spedizione." Il vecchio tese una mano nodosa. "Posso rivedere quella lettera?" Con riluttanza, il giornalista gliela porse. Gli occhi di Jörgensen la scorsero di nuovo con bramosia, quasi ne succhiassero ricordi. "C'è stato un periodo", mormorò, "in cui sarei stato rilut-
tante a parlarne. Forse dovrei dire 'timoroso'. Certa gente avrebbe anche potuto cercare di licenziarmi." Si strinse nelle spalle. "Ma, quando si diventa vecchi come me, non si hanno più paure del genere. Eccetto, forse, quella di rimanere soli." Annuì lentamente a Margo, stringendo il foglio. "Avrei partecipato anch'io alla spedizione, se non fosse stato per Maxwell." "Anche lui è citato nella lettera! Chi è?" domandò Smithback. Il botanico lo fulminò con gli occhi. "Ho messo al tappeto giornalisti più grossi di lei", sbottò. "Perciò la invito a starsene tranquillo. Sto parlando con la signora." Si rivolse di nuovo a Margo. "Maxwell era uno dei capi della spedizione. Maxwell e Whittlesey. È stato il primo errore... lasciare che Maxwell s'intromettesse, che comandassero in due. Erano ai ferri corti fin dall'inizio. E nessuno dei due aveva un controllo totale della situazione. Poi Maxwell la spuntò e ottenne la mia esclusione... Lui aveva deciso che nella spedizione non c'era posto per un botanico, cioè per me. Ma Whittlesey fu ancora più dispiaciuto di me, per questo. Essere insieme a Maxwell metteva a rischio il suo progetto." "E qual era?" domandò la ragazza. "Trovare la tribù kothoga. Giravano voci di una tribù sconosciuta che viveva su un tepui, un vasto altopiano sopra la foresta pluviale. Quantunque l'area non fosse stata esplorata scientificamente, tutti ritenevano che la tribù fosse estinta, che si fosse lasciata dietro soltanto qualche manufatto. Whittlesey non ci credeva. Voleva esserne lo scopritore. Il problema era che le autorità locali negavano il permesso di esplorare il tepui. Dicevano che era riservato ai loro scienziati. Yankee go home." Jörgensen sospirò, scuotendo la testa. "Be', in realtà era riservato alla rapina, al furto di terra. Com'è ovvio il governo locale era al corrente delle voci giunte a Whittlesey. Se lassù c'erano degli indios, le autorità non volevano che interferissero nelle operazioni minerarie e di taglio del legname. Comunque, la spedizione dovette arrivare dal nord. Una via molto meno agevole, ma lontana dall'area interdetta. E non ebbe il permesso di scalare il tepui." "Ma i kothoga esistono ancora?" domandò Margo. Jörgensen scosse lentamente la testa. "Non lo sapremo mai. Il governo ha trovato qualcosa in cima a quel tepui. Oro, forse, o platino, o depositi di sabbie aurifere. Oggigiorno si possono appurare molte cose con le osservazioni dai satelliti. A ogni modo, il tepui fu incendiato dall'aria nella pri-
mavera dell'88." "Incendiato?" ripeté la giovane. "Raso al suolo con il napalm", specificò il botanico. "Azione insolita e dispendiosa. A quanto pare, l'incendio sfuggì al controllo, si diffuse e arse in modo incontrollabile per mesi. Poi costruirono una grande strada che si congiungeva con le vie del sud. Vi mandarono un'impresa mineraria che spazzò via letteralmente con valanghe d'acqua, intere parti di montagna. Sicuramente strapparono alla terra l'oro e il platino - o qualunque altra cosa fosse - con composti di cianuro, lasciando che poi il veleno si riversasse nei fiumi. Non è rimasto più niente, assolutamente niente. Ecco perché il museo non ha mai inviato una seconda spedizione in cerca di ciò che restava della prima." Si schiarì la gola. "È terribile", sussurrò la ragazza. Jörgensen alzò gli inquietanti occhi cerulei. "Sì. È terribile. Naturalmente, non ne troverete notizia nella mostra Superstizione." Smithback alzò una mano mentre tirava fuori con l'altra il miniregistratore. "Mi scusi, posso...?" "No, lei non può registrare. Tutto questo non va attribuito. Né citato. Né niente. Ho ricevuto una comunicazione a questo proposito proprio stamattina, come lei probabilmente saprà. È una cosa riservata solo a me: non sono riuscito a parlarne per anni, e lo sto facendo adesso, per la prima e unica volta. Dunque se ne stia tranquillo e ascolti." Ci fu un momento di silenzio. "Dov'ero rimasto?" si domandò Jörgensen. "Ah, sì. Whittlesey non aveva il permesso di scalare il tepui. E Maxwell era un perfetto burocrate. Era deciso a fare rispettare le regole. Be', quando ci si trova nella giungla a quattrocento chilometri da ogni forma di vita civile... quali sono le regole?" disse con voce stridula. "Dubito che qualcuno sappia con precisione che cosa accadde. Ho appreso la storia da Montague, e lui l'ha ricostruita dai telegrammi di Maxwell. Che non era sicuramente una fonte obiettiva." "Montague?" lo interruppe Smithback. "In ogni caso", continuò lo studioso ignorandolo, "sembra che Maxwell si sia imbattuto in un tipo di botanica incredibile. Attorno alla base del tepui il novantanove per cento delle specie vegetali erano assolutamente ignote alla scienza. Trovarono strane, primitive felci e monocotiledoni che sembravano regrediti all'era mesozoica. Anche se Maxwell era un antropologo fisico, impazzì di fronte a quella strana vegetazione. Riempirono cas-
se di esemplari inconsueti. Fu allora che Maxwell trovò i baccelli di semi." "Quanto erano importanti?" "Erano un fossile vivente. Un po' come la scoperta del celacanto negli anni Trenta: una specie di un intero phylum che si riteneva estinto nel Carbonifero. Un intero phylum." "Quei semi erano simili a uova?" domandò Margo. "Non saprei. Ma Montague gli dette un'occhiata e mi disse che erano duri come sassi. Li si sarebbe dovuti sotterrare profondamente nel suolo acidissimo di una foresta pluviale per farli germinare. Immagino che siano ancora in quelle casse." "Il dottor Frock dice che erano uova." "Frock dovrebbe limitarsi alla paleontologia e basta. È un uomo brillante, ma un po' strambo. In ogni modo, Maxwell e Whittlesey litigarono. Prevedibile. A Maxwell importava ben poco della botanica, ma sapeva riconoscere una rarità quando ne vedeva una. Voleva tornare al museo con quei semi. Apprendendo che Whittlesey intendeva scalare il tepui e cercare i kothoga, si allarmò. Temeva che le casse potessero essere sequestrate alla dogana e che non sarebbe mai riuscito a portare fuori i suoi preziosi baccelli. I due si separarono. Whittlesey si inoltrò profondamente nella giungla, sul tepui, e nessuno lo vide più. "Quando Maxwell raggiunse la costa con il resto della spedizione, mandò un fiume di telegrammi al museo, lamentandosi del collega e dando la sua versione della storia. Poi lui e tutti gli altri perirono nel disastro aereo. Per fortuna, aveva sistemato le cose in modo che le casse fossero spedite via mare, forse però non fu una vera fortuna. Il museo ci mise un anno a sbrogliare le pratiche burocratiche e a farle arrivare a New York. Sembrava che a nessuno premesse riaverle." Roteò gli occhi con disgusto. "Ha citato qualcuno di nome Montague?" domandò pacatamente Margo. "Montague", ripeté Jörgensen, trafiggendola con lo sguardo. "Era un giovane specializzando. Antropologia. Un protetto di Whittlesey. Non occorre dire che uscì subito dalle buone grazie del museo, dopo i telegrammi di Maxwell. Nessuno di noi, amici di Whittlesey, ebbe più la fiducia del museo dopo quella faccenda." "Che fine ha fatto Montague?" Jörgensen esitava. "Non lo so", rispose infine. "Un giorno è semplicemente scomparso. Nessuno lo ha più visto." "E le casse?" incalzò Margo. "Montague era incredibilmente ansioso di vedere quelle casse, special-
mente quella di Whittlesey. Ma, come ho detto, era caduto in disgrazia, e fu lasciato fuori del progetto. In verità, non c'era più progetto. La spedizione si era rivelata un tale disastro che i pezzi grossi volevano semplicemente dimenticare l'accaduto. Quando le casse alla fine arrivarono, rimasero chiuse. La maggior parte della documentazione era bruciata nel disastro aereo. Si supponeva che esistesse un diario di Whittlesey, ma io non l'ho mai visto. In ogni caso, Montague tanto pregò e implorò che alla fine lo incaricarono di fare una prima ricognizione del contenuto. Subito dopo scomparve." "Che cosa intende con 'scomparve'?" chiese Smithback. Il vecchio lo guardò chiedendosi se doveva rispondere o no alla domanda. "Semplicemente, uscì dal museo e non tornò più. So che lasciò l'appartamento e tutte le sue cose. La sua famiglia lo fece cercare... senza esito. Era, è vero, un tipo strano. Qualcuno ritiene che sia finito in Nepal o in Thailandia a cercare se stesso." "Ma giravano voci..." disse Smithback. Era una dichiarazione, non una domanda. Jörgensen rise. "Naturale che giravano voci! Non succede sempre? Chi diceva che avesse sottratto denaro, chi che fosse scappato con la moglie di un gangster, chi che fosse stato ucciso e buttato nell'East River. Ma era una tale nullità che la maggior parte della gente del museo lo dimenticò nello spazio di poche settimane." "Voci che fosse stato ucciso dalla Bestia del Museo?" domandò il giornalista. Il sorriso di Jörgensen svanì. "Non esattamente. Però quel fatto riattizzò tutte le dicerie sulla maledizione. Chiunque fosse venuto in contatto con quelle casse, dicevano, era morto. Qualche guardia e gli inservienti del self-service - sapete com'è quella gente - sostenevano che Whittlesey aveva depredato un tempio, che in quella cassa c'era qualcosa, un reperto con una terribile maledizione e che la maledizione aveva seguito il reperto per tutto il viaggio fino al museo." "E lei non ha voluto studiare le piante inviate da Maxwell?" domandò Smithback. "Insomma, lei è un botanico, no?" "Giovanotto, lei non sa niente di scienza. Non esistono botanici in sé e per sé. Io non mi curo di paleobotanica o di angiosperme. La faccenda esula dal mio campo. La mia specialità è la coevoluzione di piante e virus. O era", corresse con una sfumatura d'ironia. "Ma Whittlesey desiderava che lei desse un'occhiata alle piante spedite
come materiale da imballaggio", continuò Smithback. "Non so proprio perché", rispose lo studioso. "Lo sento oggi per la prima volta. Non ho mai visto prima quella lettera." Con una certa riluttanza, la restituì a Margo. "Avrei pensato a un falso, se non fosse per la grafia e per lo stemma." Nessuno parlò. "Non ha detto che cosa pensò lei della scomparsa di Montague", disse infine Margo. Jörgensen si fregò il naso e guardò il pavimento. "Mi spaventò." "Perché?" Ci fu di nuovo il silenzio. "Non saprei", ammise infine l'uomo. "Una volta Montague aveva avuto dei guai finanziari e mi aveva chiesto un prestito. Era molto scrupoloso: pur fra mille difficoltà, mi restituì puntualmente il denaro. Non mi sembra da lui sparire così. L'ultima volta che lo vidi, stava facendo un inventario delle casse. Era molto eccitato." Guardò Margo. "Io non sono superstizioso. Sono uno scienziato. Come ho detto, non credo alle maledizioni e cose del genere..." la voce si affievolì. "Però...?" lo incitò Smithback. Il vecchio lo fissò per un momento. "Molto bene", riprese guardandolo torvo. Poi si appoggiò allo schienale e fissò il soffitto. "Vi ho detto che Julian Whittlesey era mio amico. Prima di partire, aveva cercato di sapere tutto il possibile sulla tribù kothoga. Per lo più dalle tribù delle pianure lungo il fiume, yanomamo e simili. Ricordo che il giorno prima della partenza mi raccontò una storia. I kothoga, secondo un informatore yanomamo, avevano stretto un patto con un essere di nome Zilashkee. Era una creatura simile al nostro Mefistofele, ma ancora più infernale: tutto il male e la cattiveria del mondo emanavano da quell'entità, che vagava sulla cima del tepui. Così vuole la leggenda. Comunque, secondo il loro patto, i kothoga avrebbero ottenuto il figlio di Zilashkee come loro servitore se avessero ucciso e mangiato tutti i loro figli e si fossero impegnati da quel momento in poi a venerare lui e soltanto lui. Quando i kothoga ebbero assolto il loro macabro dovere, Zilashkee mandò da loro il proprio figlio. Ma quella bestia cominciò a imperversare sulla tribù, uccidendo e divorando la gente. Quando i kothoga si lamentarono, Zilashkee rise e disse: Che cosa vi aspettavate? Sono un diavolo. Alla fine, usando formule ed erbe magiche o affini, la tribù riuscì a controllare la bestia. Che non poteva essere uccisa, capite? Così il figlio di Zilashkee restò al servizio dei kothoga, che lo usarono per i loro fini malevoli. Usarlo, però, era sempre un rischio, comunque. La leggenda dice che i kothoga non smisero mai di cercare un
modo di liberarsi di lui per sempre." Jörgensen guardò il motore smontato. "Questa è la storia raccontatami da Whittlesey. Quando ebbi notizia del disastro aereo, della morte di Whittlesey, della scomparsa di Montague... be', non potei fare a meno di pensare che i kothoga fossero infine riusciti a liberarsi del figlio di Zilashkee." Preso un pezzo del motore, il vecchio botanico lo rigirò fra le mani con sguardo assente. "Whittlesey mi disse che il nome del figlio di Zilashkee era Mbwun. Colui-che-cammina-a-quattro-zampe." Poi il pezzo metallico fu posato con uno schiocco sul banco e l'uomo sogghignò. 33 Approssimandosi l'ora di chiusura, i visitatori cominciavano a fluire verso le uscite del museo. Lo shop, situato direttamente all'interno dell'entrata meridionale, faceva affari d'oro. Nei corridoi di marmo che si dipartivano dall'entrata meridionale, si udivano chiaramente i suoni delle conversazioni e gli scalpiccii. Nel Planetario accanto all'entrata occidentale, dove si doveva tenere il party d'inaugurazione della nuova mostra, il rumore era più ovattato: gli echi sull'enorme cupola sembravano quelli di un sogno indistinto. E, più all'interno del museo, i numerosissimi laboratori, le antiche sale di conferenze, i magazzini stracolmi e gli uffici foderati di libri non facevano filtrare neppure un bisbiglio. I lunghi corridoi erano oscuri e silenziosi. Nell'Osservatorio Butterfield, vocii e tramestio sembravano givingere davvero da un altro pianeta. Il personale, col pretesto del coprifuoco, se n'era andato a casa da un pezzo. L'ufficio di Moriarty, come tutto il sesto piano dell'Osservatorio, era immerso in un silenzio di tomba. Il vicecuratore sedeva alla scrivania, il pugno serrato contro la bocca. "Maledizione", borbottava. A un tratto, in preda al senso d'impotenza, lasciò partire un calcio: il calcagno sbatté contro uno schedario facendo cadere un fascio di documenti. "Maledizione!" ripeté, stavolta per il dolore, piegandosi nella sedia e massaggiandosi la caviglia. Lentamente, il dolore cresceva, e con esso l'inquietudine. Sospirando, Moriarty si guardò attorno. "Diavolo, George, riesci sempre e solo a incasinare tutto, vero?" mormorò. Era socialmente inutile: non esitava ad ammetterlo. Tutto ciò che faceva per attirare l'attenzione di Margo, tutto ciò che faceva per entrare nelle sue
grazie serviva soltanto a ottenere l'effetto contrario. Ciò che le aveva detto circa suo padre dimostrava che la sua era proprio la sensibilità di un orco. All'improvviso, si volse verso il terminale e digitò un comando. Le avrebbe inviato un messaggio per posta elettronica, forse sarebbe riuscito a rimediare almeno in parte al danno. Pensò un momento, poi cominciò a battere sui tasti. CIAO, MARGO! SAREI PROPRIO CURIOSO DI SAPERE SE Subito dopo, schiacciò un tasto e cancellò il messaggio. Probabilmente avrebbe soltanto peggiorato le cose. Per un momento fissò gli occhi sullo schermo vuoto. Conosceva soltanto un metodo infallibile per lenire il proprio male: una caccia al tesoro. Molti dei pezzi più belli della mostra Superstizione erano frutto delle sue cacce al tesoro. Moriarty amava profondamente le grandi collezioni del museo, e i suoi angoli remoti e segreti erano più familiari a lui che alla maggior parte del personale anziano. Di carattere schivo, con pochi amici, spesso passava il tempo a cercare e reperire manufatti dimenticati nei depositi del museo. Ciò gli dava un senso di pienezza che era incapace di ottenere dal contatto con la gente. Di nuovo si mise alla tastiera, inserendosi nella banca-dati del museo e vagliando con calma ma con determinazione gli inventari. Sapeva come muoversi lì dentro, conosceva le scorciatoie e le entrate secondarie come il comandante esperto di un battello conosce ogni ansa del fiume che naviga. Dopo pochi minuti le dita rallentarono. Era entrato in una zona mai esplorata prima: un tesoro di manufatti sumerici scoperti negli anni Venti e mai studiati a fondo. Con cura, passò al vaglio prima la collezione, poi le sottocollezioni, quindi i singoli reperti. C'era una cosa interessante: una serie di tavolette d'argilla, primi esempi di scrittura sumerica. Lo scopritore presumeva che fossero legate a rituali religiosi. Moriarty lesse i dati relativi alla collocazione, annuendo. Forse potevano essere usate per la mostra. C'era ancora posto per qualche reperto in una delle gallerie più piccole dove si esponevano manufatti eterogenei. Guardò i numeri romani del suo orologio esagonale: quasi le cinque. Sapeva già dov'erano immagazzinate le tavolette. Se fossero risultate interessanti, le avrebbe mostrate a Cuthbert l'indomani mattina, ottenendo la sua approvazione. Poteva dedicarsi alla loro collocazione nella mostra fra la
cerimonia del venerdì sera e l'apertura al pubblico. Buttò giù in fretta qualche appunto. Spense il computer. Il suono del terminale che si spegneva echeggiò come un colpo di pistola nell'ufficio semibuio e deserto. Il dito sull'interruttore, restò un momento immobile. Poi si alzò, infilò la camicia nei pantaloni e, evitando di pesare col corpo sulla caviglia dolorante, si chiuse la porta alle spalle. 34 Nel posto di comando provvisorio, la mano di D'Agosta si bloccò nell'atto di bussare sul vetro. Il poliziotto scrutò più attentamente l'interno. Un tipo alto con un orrendo vestito gironzolava per l'ufficio di Pendergast. Aveva la faccia sudata e cotta dal sole, e si muoveva come se fosse il padrone del posto, prendendo documenti dalla scrivania e posandoli altrove, senza smettere di far tintinnare gli spiccioli nelle tasche. "Ehi, amico", disse D'Agosta, aprendo la porta ed entrando. "Questa è proprietà dell'FBI. Se aspetti Pendergast, sarebbe meglio che lo facessi fuori dell'ufficio." L'uomo si voltò. I suoi occhi erano piccoli e stretti, e incazzati. "D'ora in avanti, tenente", disse, guardando il distintivo appeso alla cintura di D'Agosta come se ne volesse leggere la matricola, "dovrai parlare con più rispetto al personale dell'FBI che troverai da queste parti. Alle mie dipendenze. Agente speciale Coffey." "Be', agente speciale Coffey, per quel che ne so, e finché qualcuno non mi dimostra il contrario, qui comanda Pendergast, e tu gli stai incasinando la scrivania." L'altro fece un sorrisino, mise una mano in tasca e ne tirò fuori una busta. D'Agosta esaminò la lettera all'interno. Veniva da Washington, e affidava all'ufficio newyorkese dell'FBI, e all'agente speciale Spencer Coffey, le indagini in corso al museo. Graffate all'ordine c'erano due note. Una, dell'ufficio del governatore, era la richiesta di cambio e accettazione di piena responsabilità per il trasferimento di poteri. La seconda, con l'intestazione del Senato degli Stati Uniti, la ripiegò senza curarsi di leggerla. Restituì la busta. "Così, siete riusciti a fargli le scarpe, alla fine." "Quando torna Pendergast, tenente?" domandò Coffey, rimettendo in tasca la busta. "Che ne so?" rispose lui. "Mentre rovistavi sulla sua scrivania, potevi
anche dare un'occhiata alla sua agenda, no?" Prima che Coffey potesse replicare, la voce di Pendergast echeggiò da fuori l'ufficio. "Ah, agente Coffey! Che piacere vederti." Quello rimise la mano in tasca per prendere la busta. "Non serve", continuò il collega. "So perché sei qui." Sedette dietro la scrivania. "Prego, tenente, mettiti pure comodo." D'Agosta, vedendo una sola altra sedia nell'ufficio, la occupò con un sogghigno. Sarebbe stato un piacere osservare Pendergast in azione. "A quanto pare c'è un pazzo che si aggira nel museo, caro Coffey", disse Pendergast. "Di conseguenza, il tenente e io siamo giunti alla conclusione che si debba impedire la festa d'inaugurazione di domani sera. Questo assassino opera di notte. Ci aspettiamo altre aggressioni. Non vogliamo essere responsabili di ulteriori delitti, se il museo rimane aperto per... diciamo, ragioni pecuniarie." "Sì", ribatté Coffey. "Be', ora non sei più responsabile. I miei ordini dicono che l'inaugurazione deve svolgersi come da programma. Rafforzeremo il servizio di polizia con altri agenti operativi. Questo posto diventerà più sicuro delle toilette del Pentagono. E ti dirò anche che, una volta finita la festa, andati a casa i grossi papaveri, prenderemo quel pazzoide. Gira voce che tu sia un buono a nulla. E sai una cosa? Non mi sorprende. Dopo quattro giorni di indagini, cosa ti ritrovi in mano? Un bel cazzo di niente. Hai perso tempo e basta." Pendergast sorrise. "Sì, mi aspettavo una cosa del genere. Se la tua decisione è questa, d'accordo. Sappi, però, che invierò al direttore una comunicazione ufficiale in cui esprimerò il mio punto di vista sul caso." "Fa' quel che ti pare, ma fallo a tempo perso. Intanto, i miei uomini si piazzeranno nell'atrio. Aspetto un tuo rapporto per l'inizio del coprifuoco." "Il mio rapporto conclusivo è già pronto", replicò garbatamente Pendergast. "Ora, signor Coffey, c'è altro?" "Sì, mi aspetto la tua piena collaborazione." E se ne andò senza chiudere la porta. D'Agosta lo guardò imboccare il corridoio. "Sembra più incazzato adesso che quando è entrato", disse. Poi si girò verso il federale. "Non ti farai mettere sotto da quel segaiolo, vero?" Pendergast sorrise. "Vìncent, temo che sarà inevitabile. In un certo senso, mi sorprende che non sia successo prima. Non è la prima volta che pesto i piedi a Wright questa settimana. Perché dovrei oppormi? Così, almeno, nessuno potrà accusarci di aver negato la nostra collaborazione."
"Ma io credevo che tu avessi più autorità", disse il tenente cercando di non lasciare trapelare la delusione dal tono di voce. L'altro aprì le braccia. "Ho un po' di autorità, come dici tu. Ma non devi scordare che sono fuori del mio territorio. Avevo un buon motivo per trovarmi qui perché gli omicidi erano simili a quelli cui avevo lavorato a New Orleans qualche anno fa... Almeno finché non fossero sorte polemiche, nessuno avrebbe fatto intromettere i locali. Ma sapevo che il dottor Wright e il governatore sono stati all'università insieme. Avendo il governatore fatto richiesta formale d'intervento dell'FBI, questo era il solo esito possibile." "Ma le indagini? Coffey sfrutterà tutto il nostro lavoro attribuendosene il merito." "Tu continui a credere che verrà del merito da questa faccenda, ma io ho un brutto presentimento per questa inaugurazione, tenente. Molto brutto. Conosco Coffey da tempo, e si può star certi che saprà soltanto peggiorare le cose. Come però avrai notato, Vincent, non mi ha scaricato. Non può farlo." "Non dirmi che sei contento di esseri liberato della responsabilità", disse D'Agosta. "Per tutta la vita io ho sempre cercato di pararmi il sedere, ma credevo che tu fossi diverso." "Vincent, mi sorprendi davvero! Non c'è nessun rapporto con lo scarico di responsabilità. Solo che questo stato di cose mi consente una certa libertà d'azione. È vero che Coffey ha l'ultima parola, ma il suo potere di decidere delle mie azioni è limitato. Il solo modo per poter essere qui, all'inizio, era assumere la responsabilità delle indagini. E questo costringe a essere cauti. Adesso posso seguire soltanto il mio istinto." Si appoggiò allo schienale, fissando il tenente con i suoi occhi chiari. "Continuerò a valermi del tuo aiuto. Mi serve qualcuno che sveltisca le cose al dipartimento." D'Agosta restò pensoso per qualche momento. "Una cosa posso dire fin d'ora di quel Coffey..." "Cosa?" "Che è nella merda fino al collo." "Ah, Vincent", esclamò Pendergast. "Hai un modo sempre così colorito di esprimere il tuo pensiero!" 35 Venerdì
L'ufficio, notò Smithback, era esattamente lo stesso: non un ninnolo era fuori posto. Si buttò sulla sedia, in preda a un forte senso di déjà-vu. La Rickman tornò dall'ufficio della segretaria con un foglio sottile in mano e l'immancabile, cerimonioso sorriso sul volto. "Stasera è la gran sera!" disse allegramente. "Lei ci onorerà?" "Sì, certo", rispose Smithback. La donna porse il foglio. "Legga questo, Billy", disse, in tono già un po' meno amabile. MUSEO DI STORIA NATURALE DI NEW YORK COMUNICAZIONE INTERNA A: William Smithback Jr. Da: Lavinia Rickman Oggetto: Libro in fieri sulla mostra Superstizione Con effetto immediato, e fino a nuovo ordine, nel suo lavoro al museo lei dovrà uniformarsi alle seguenti disposizioni: 1. Ogni intervista fatta per l'opera in lavorazione dovrà avvenire in mia presenza. 2. Le è proibito registrare o prendere appunti durante le interviste. Per ragioni di opportunità e coerenza, assumo io la responsabilità di prendere nota e di passarle gli scritti rivisti per l'inclusione nell'opera in lavorazione. 3. Non le è consentito di intrattenere conversazioni concernenti il museo con il personale o con persone incontrate all'interno del museo stesso, a meno che non abbia preventivamente ottenuto una mia autorizzazione scritta. È pregato di apporre la sua firma in calce per presa visione e approvazione delle succitate disposizioni. Il giornalista lesse due volte, poi alzò gli occhi. "Be'?" domandò la donna, piegando la testa di lato. "Che ne pensa?" "Mi lasci capire. Non posso nemmeno più parlare con qualcuno, per esempio a pranzo, senza il suo permesso?" "Su cose del museo. Esatto", rispose la Rickman, avvolgendosi al collo la sciarpa a disegni cachemire. "Perché? La comunicazione diffusa ieri non le sembrava abbastanza vincolante?" "Bill, lei sa perché. Si è rivelato inaffidabile." "E come?" replicò lui con voce stridula.
"Ho saputo che lei continua ad andarsene in giro per il museo a chiacchierare con persone con cui non ha niente da spartire, a fare domande assurde su cose che non hanno nulla a che vedere con la nuova mostra. Se lei crede di poter raccogliere informazioni su... sui recenti fatti accaduti, allora devo ricordarle il paragrafo 17 del suo contratto, dove si vieta l'uso di informazioni che non siano autorizzate da me. Niente, ripeto, niente che abbia rapporti con l'infausta situazione in corso sarà autorizzato." Smithback sbottò. "Infausta situazione! Perché non li chiama con il loro nome: delitti!" "La prego di non alzare la voce nel mio ufficio", lo rimbeccò la Rickman. "Lei mi ha assunto per scrivere un libro, non per graffettare trecento pagine di comunicati stampa. C'è stata una serie di brutali omicidi in questa settimana che precede la più grande inaugurazione della storia del museo. Vorrebbe dirmi che ciò non ha niente a che vedere con il libro?" "Io e soltanto io decido ciò che ci deve e non ci deve essere nel libro. Capito?" "No." La donna si alzò. "La faccenda sta diventando seccante. O firma questo documento adesso, oppure la facciamo finita qui." "Finita? E come? Intende licenziarmi o spararmi?" "Non tollero simili spiritosaggini nel mio ufficio. O firma questa dichiarazione, o accetterò le sue immediate dimissioni." "Bene", sospirò Smithback. "Vuol dire che porterò il mio manoscritto a un editore commerciale. Lei ha bisogno quanto me di questo libro. Ed entrambi sappiamo che potrei ottenere un congruo anticipo per la storia segreta dei delitti del museo. E, mi creda, io conosco la storia segreta. Tutta." La faccia della Rickman era spettrale, pur se continuava a sorridere. Le sue nocche sulla scrivania stavano sbiancando. "Sarebbe una violazione del contratto", scandì lentamente. "Il museo è patrocinato dallo studio legale Daniels, Soller e McCabe di Wall Street. Sicuramente ne ha sentito parlare. Lei lo faccia e riceverà subito una denuncia per rottura di contratto, assieme al suo agente e a qualsiasi editore tanto pazzo da accettare il suo lavoro. Ci siamo tutelati in tutti i modi possibili in questa faccenda, e non mi sorprenderebbe se, dopo che avrà perso la causa, non trovasse mai più lavoro nel suo campo." "Questa è una grave violazione del Primo Emendamento, il diritto alla libertà di espressione", disse il giornalista con voce gracchiante.
"Proprio no. È semplicemente un modo per tutelarci nel caso in cui decidesse di rompere il contratto. Nulla di eroico per lei, in questo, nemmeno se riuscisse a mettere di mezzo il Times. Se sta davvero pensando di imboccare una via simile, Bill, le consiglio di consultare prima un buon avvocato e di mostrargli il contratto da lei firmato. Sono certa che le dirà che è assolutamente inoppugnabile. Se preferisce, accetto le sue dimissioni fin d'ora." Aprì la scrivania e ne trasse un secondo foglio di carta, lasciando il cassetto aperto. L'interfono ronzò fastidiosamente. "Signora Rickman, il dottor Wright sulla uno." La donna prese la cornetta. "Sì, Winston. Come? Di nuovo il Post? Va bene, gli parlo subito. Hai fatto chiamare Ippolito? Bene." Riattaccò e andò verso l'ufficio accanto. "Si assicuri che Ippolito stia andando nell'ufficio del direttore", disse alla segretaria. "Quanto a lei, Bill, non ho più tempo da perdere in scambi di cortesie. Se vuole, firmi la dimissioni, poi raccolga le sue cose e se ne vada." Smithback era diventato improvvisamente calmo. Tutt'a un tratto, sorrise. "Signora Rickman, capisco il suo punto di vista." La donna si voltò verso di lui con un sorriso melenso, gli occhi che splendevano. "E...?" lo esortò. "Accetto le limitazioni." La Rickman tornò dietro la scrivania, trionfante. "Bill, sono davvero felice di non dover usare questo." Rimise il secondo foglio nel cassetto e lo chiuse. "Ritengo che lei sia abbastanza intelligente da capire che non ha scelta." Guardandola negli occhi, Smithback prese il primo foglio. "Non le spiace se lo rileggo prima di firmarlo?" Lei esitava. "No, direi di no. Tuttavia, si renderà conto che ci sono esattamente le stesse cose che ha letto prima. Non c'è possibilità di equivoco, dunque non stia a cercare cavilli." Si guardò attorno, prese l'agenda e si diresse verso la porta. "Bill, l'avverto. Non dimentichi di firmare e mi segua subito; consegni il foglio firmato alla mia segretaria. Le verrà inviata una copia." Le labbra di Smithback si arricciarono per il disgusto, mentre guardava il sedere della Rickman oscillare sotto la gonna pieghettata. Dette un'ultima occhiata furtiva all'altro ufficio. Poi aprì rapidamente il cassetto appena chiuso della scrivania e ne tirò fuori un oggetto che infilò nella tasca interna della giacca. Richiuso il cassetto, si guardò attorno ancora una volta e
scrutò l'uscita. Tornò a fissare la scrivania, prese il foglio e vi tracciò in calce una firma illeggibile. Lo porse alla segretaria mentre usciva. "Conservi questa firma, un giorno avrà un valore", disse da sopra la spalla, sbattendo la porta. Margo stava riappendendo la cornetta quando entrò Smithback. Ancora una volta, lei aveva il laboratorio tutto per sé: la sua compagna d'ufficio, la preparatrice, aveva preso all'improvviso un lungo periodo di ferie. "Stavo parlando con Frock", disse. "Era proprio deluso per il poco che abbiamo trovato nella cassa e per il fatto che non ho avuto il tempo di guardare se c'erano altri semi. Sicuramente sperava di trovare una prova dell'esistenza della creatura. Volevo raccontargli della lettera e di Jörgensen, ma lui ha detto che non poteva parlare. Forse c'era Cuthbert nel suo ufficio." "Probabilmente gli chiedeva conto della richiesta di accesso", ipotizzò il giornalista. "Facendo l'imitazione di Torquemada." Indicò la porta. "Come mai era aperta?" Margo si mostrò sorpresa. "Oh, devo essermene dimenticata di nuovo." "Ti spiace se la chiudo?" Si precipitò alla porta, poi, ghignando, infilò la mano nella tasca della giacca e ne tolse un libretto malandato, che aveva la copertina di pelle con impresse due frecce sovrapposte. Lo reggeva in mano come se le mostrasse un trofeo. Lo sguardo della ragazza passò dalla curiosità allo stupore "Dio mio! È il diario?" Lui annuì con orgoglio. "Come lo hai avuto? Dove lo hai preso?" "Nell'ufficio della Rickman. Ho fatto un terribile sacrificio per questo. Ho firmato un pezzo di carta che mi vieta di parlare con te." "Stai scherzando?" "Soltanto in parte. Comunque, a un certo punto della tortura lei ha aperto il cassetto della scrivania e io ho scorto questo libriccino bisunto. Sembrava un diario. Mi è parso strano che quella donna potesse tenere una cosa simile nella scrivania. Poi mi è venuto in mente ciò che mi avevi detto di lei, del suo prelievo del diario." Annuì compiaciuto. "Come ho sempre sospettato. Così, lasciando il suo ufficio, l'ho preso." Aprì il diario. "Ora sta' buona, Fior di Loto. Paparino ti legge una bella favola." Margo ascoltò il giovane che cominciava a leggere, piano dapprima, e
sempre più veloce a mano a mano che prendeva familiarità con la grafia sciatta e le frequenti abbreviazioni. Per lo più, le prime note erano brevissime: frasi concise con pochi particolari sul tempo e sulla posizione della spedizione. 31 ag. Pioggia tutta la notte - Prosciutto in scatola a colazione - Stamattina l'elicottero ha qualcosa che non va, perderemo la giornata senza far niente. Maxwell insopportabile. Ulteriori discussioni di Carlos con Hosta Gilbao che chiede aumenti di paga per... "Che palle", esclamò Smithback, interrompendo la lettura. "A chi può interessare se hanno mangiato prosciutto in scatola a colazione?" "Va' avanti", lo esortò Margo. "Non c'è un bel niente qui!" continuò il giornalista, voltando le pagine. "Questo Whittlesey era davvero uno di poche parole. Oddio. Spero di non aver firmato la mia condanna a morte inutilmente." Il diario descriveva l'avanzata della spedizione, sempre più addentro la foresta pluviale. La prima parte del viaggio era stata fatta in jeep. Poi la comitiva era stata portata in elicottero per quasi quattrocento chilometri nel tratto superiore dello Xingu. Da lì, le guide salariate avevano condotto il gruppo con le barche lungo il lento corso del fiume, verso il tepui di Cerro Gordo. Smithback riprese a leggere. 6 sett. Lasciate le piroghe in luogo fuori mano. Tutto il percorso a piedi, adesso. Questo pomeriggio, primo avvistamento di Cerro Gordo - la foresta pluviale immersa nelle nuvole. Gridi di tutitl, catturati alcuni esemplari. Le guide parlottano fra di loro. 12 sett. Ultima carne salata per colazione. Meno umido di ieri. Si prosegue verso il tepui - la nuvolaglia sparisce a mezzogiorno - altitudine del tepui circa duemilacinquecento metri - foresta pluviale temperata - visti cinque rari Candelaria Ibex - trovata cerbottana con dardi, condizioni eccellenti - zanzare cattive - a pranzo pecari dello Xingu essiccato - non male, ha il gusto del maiale affumicato. Maxwell riempie le casse di robaccia inutile. "Perché la Rickman lo ha preso?" si domandò piagnucolando Smithback. "Qui non c'è niente di niente. Dov'è la rivelazione?"
15 sett. Vento da S.O. Farina d'avena per colazione. Tre guadi del fiume oggi - acqua al petto - per aggirare la boscaglia impenetrabile - simpatiche sanguisughe. All'ora di pranzo, Maxwell si è imbattuto in alcuni esemplari di flora che lo hanno molto eccitato. Piante indigene in verità pressoché uniche - strane simbiosi, la morfologia sembra molto antica. Ma sono sicuro che altre scoperte più importanti ci aspettano. 16 sett. Questa mattina sosta al campo per imballare il materiale. Maxwell ora insiste per fare ritorno con la sua "scoperta". Idiota: il guaio è che quasi tutti vogliono tornare indietro. Se ne sono andati con tutte le nostre guide meno due, subito dopo pranzo. Cracker, Carlos e io continuiamo. Quasi subito ci fermiamo a risistemare le casse. Dentro, alcuni vasetti con dei campioni si sono rotti. Mentre io imballavo di nuovo, Cracker è uscito dal sentiero, ha trovato una capanna abbandonata... "Forse ci siamo..." "...tirato fuori il materiale per controllare, riaperto le casse, presa la borsa degli attrezzi - prima che potessimo esaminare la capanna, una vecchia indigena esce dal folto barcollando - impossibile dire se malata o ubriaca indica le casse, gemendo a voce alta. Mammelle alla vita - sdentata, quasi calva - piaga infetta sulla schiena, come di pustola. Carlos riluttante a tradurre, ma io insisto: Carlos: Dice, diavolo, diavolo. Io: Chiedile, quale diavolo? Carlos traduce. La donna dà in escandescenze, geme, si torce il petto. Io: Carlos, chiedile dei kothoga. Carlos: Dice che sei venuto a portare via il diavolo. Io: E i kothoga? Carlos: Dice, i kothoga sulla montagna. Io: Sulla montagna, dove? Altre lamentazioni della donna. Indica una cassa aperta. Carlos: Dice che hai preso il diavolo. Io: Quale diavolo? Carlos: Mbwun. Dice che hai messo il diavolo Mbwun nella scatola. Io: Chiedile ancora di Mbwun. Che cos'è? Carlos parla con la donna, che si calma un po' e chiacchiera per un bel pezzo. Carlos: Dice che Mbwun è figlio del diavolo. Il pazzo stregone kothoga
chiede al diavolo Zilashkee l'aiuto di suo figlio per distruggere i nemici della tribù. Il diavolo dice che devono uccidere e mangiare i loro figli - poi manda Mbwun in dono. Mbwun aiuta a distruggere i nemici dei kothoga, poi si scaglia sui kothoga, comincia a uccidere tutti. I kothoga scappano sul tepui. Mbwun li segue. Mbwun non muore mai. I kothoga devono liberarsi di Mbwun. Ora uomo bianco viene e porta via Mbwun. Attento, la maledizione di Mbwun ti distruggerà! Porti la morte alla tua gente! Sono sbalordito, ed esultante - la storia corrisponde al ciclo mitologico che abbiamo sempre sentito raccontare da terzi. Dico a Carlos di chiedere altri particolari su Mbwun - la donna scappa - grande energia per una vecchia - sparisce nella boscaglia. Carlos la segue, torna a mani vuote - sembra spaventato, non insisto con le domande. Esploriamo la capanna. Quando torniamo al sentiero, le guide sono sparite. "La vecchia sapeva che volevano prendere la statuina!" disse Smithback. "Quella doveva essere la maledizione di cui parlava!" Continuò a leggere. 17 sett. Cracker è sparito da ieri notte. Temo il peggio. Carlos molto preoccupato. Lo mando a raggiungere Maxwell, che ora dovrebbe essere a metà del fiume - non posso correre il rischio di perdere questi reperti, che ritengo inestimabili. Continuo a cercare Cracker. Fra gli alberi ci sono tracce di sentiero, probabilmente kothogane - come la civiltà possa sfruttare questo tipo di paesaggio va al di là della mia comprensione - forse i kothoga potranno essere risparmiati, in fondo. Era la fine del diario. Smithback chiuse il libretto con un'imprecazione. "Non posso crederlo! Niente che non sapessimo già. E io ho venduto l'anima alla Rickman... per questo!" 36 Dietro la scrivania nel posto di comando, Pendergast si baloccava con un antico rompicapo cinese fatto di bronzo e di seriche funicelle annodate. Sembrava totalmente assorto. Dietro di lui, i suoni armoniosi di un quartetto d'archi uscivano dagli altoparlanti di un piccolo stereo portatile. Non alzò gli occhi mentre D'Agosta entrava.
"Quartetto per archi in fa maggiore, opera 135, di Beethoven", disse. "Ma sicuramente lo conosci, tenente. È il quarto movimento, l'Allegro, noto anche come Der schwer gefasste Entschluss: La difficile decisione. Un titolo che potrebbe fare al caso nostro, come pure il movimento, no? È stupefacente come l'arte imiti la vita." "Sono le undici", gli ricordò il tenente. "Ah, è vero", replicò Pendergast, spingendo indietro la sedia e alzandosi. "Il responsabile della sicurezza ci deve una visita guidata. Andiamo?" La porta del Comando Sicurezza fu aperta da Ippolito in persona. D'Agosta ebbe la sensazione di trovarsi nella stanza di controllo di una centrale nucleare, tutta quadranti, bottoni e leve. Contro una parete c'era una grande planimetria con reticoli luminosi che formavano intricati disegni. Due guardie controllavano una serie di monitor a circuito chiuso. Al centro, riconobbe la cabina ripetitrice che amplificava il segnale delle radio usate dai poliziotti e dalle guardie del museo. "Questo", spiegò Ippolito allargando le mani e sorridendo, "è uno dei più sofisticati sistemi di sicurezza dei musei di tutto il mondo. E stato progettato espressamente per noi. Posso dirvi che ci costa una fortuna." Pendergast si guardò attorno. "Imponente." "È il massimo della tecnologia", disse il responsabile della sicurezza. "Non c'è dubbio", riprese l'agente federale, "ma ciò che m'interessa ora è la sicurezza dei cinquemila ospiti attesi qui stasera. Mi dica come funziona il sistema." "In origine è stato progettato per prevenire i furti. La maggior parte dei reperti più preziosi sono collegati a dei piccoli chip oculatamente nascosti. Ogni chip trasmette un segnale a una serie di ricevitori sparsi dappertutto nell'edificio. Se l'oggetto viene spostato anche di un solo centimetro, s'innesca l'allarme, indicando la posizione dell'oggetto." "E poi che cosa succede?" domandò D'Agosta. Ippolito fece un ghigno. Andò a una consolle e premette dei pulsanti. Su un ampio schermo s'illuminò la pianta del museo. "L'interno del museo", continuò, "è diviso in cinque comparti. Ogni comparto include un certo numero di sale e depositi. Per lo più questi vanno dallo scantinato al tetto, ma a causa della struttura dell'edifìcio i perimetri dei Comparti Due e Tre sono un tantino più complessi. Azionando un interruttore in questo pannello, delle spesse porte d'acciaio calano dal soffitto e chiudono ermeticamente i corridoi interni. Tutte le finestre sono munite di sbarre. Una volta chiuso ermeticamente un comparto, il ladro è in
trappola. Può, sì, muoversi all'interno, ma non può uscirne. Il reticolo è stato congegnato in modo tale che le uscite sono esterne a esso, rendendo più agevole il controllo." Si avvicinò al tracciato sullo schermo. "Ipotizziamo che qualcuno riesca a trafugare un oggetto e, mentre arriva la guardia, lasci la sala. Non fa nessuna differenza. In pochi secondi, il chip avrà inviato il segnale al computer, che provvedere a chiudere ermeticamente l'intero comparto. Il funzionamento è completamente automatico. Il ladro resta intrappolato all'interno." "Che cosa succede se, prima di scappare, stacca il chip?" domandò D'Agosta. "I chip sono sensibili al movimento", rispose Ippolito. "Anche questo basta a fare scattare l'allarme, e le porte di sicurezza calano all'istante. Nessun ladro potrebbe muoversi così in fretta da riuscire a superarle prima." Pendergast annuì. "Come riaprite le porte, quando il ladro è stato catturato?" "Possiamo aprire ogni serie di porte da questa sala di controllo, e ciascuna porta di sicurezza ha un sistema di apertura manuale. Nel nostro caso, una tastierina. Basta digitare il codice esatto e la porta si alza." "Splendido", mormorò l'agente federale. "Ma tutto questo sistema è progettato per impedire a qualcuno di uscire. Quello con cui abbiamo a che fare noi è un assassino che intende stare dentro. Come può, tutto questo, aiutarci a garantire la sicurezza degli invitati di stasera?" Ippolito fece spallucce. "Non è un problema. Useremo il sistema per creare un perimetro di sicurezza attorno alla sala di ricevimento e alla mostra. La cerimonia si terrà all'interno del Comparto Due." Indicò il reticolo. "Il ricevimento si terrà nel Planetario, qui. È proprio davanti all'ingresso della mostra Superstizione, essa stessa all'interno del Comparto Due. Tutte le porte d'acciaio di questo settore saranno chiuse. Ne lasceremo aperte soltanto quattro: la porta orientale della Grande Rotonda - che è l'ingresso al Planetario - e tre uscite di emergenza. Tutte saranno strettamente sorvegliate." "E quale parte del museo occupa, precisamente, questo Comparto Due?" domandò Pendergast. Il responsabile della sicurezza premette alcuni pulsanti sulla consolle. Un'ampia sezione centrale del museo si delineò, in tratti verdi, sul pannello. "Questo è il Comparto Due. Come può vedere, va dallo scantinato al tetto. Il Planetario è qui. La Sala Computer e la stanza in cui ci troviamo, il
comando sicurezza, sono entrambi all'interno del comparto. Così pure l'Area di Sicurezza, gli archivi centrali e una quantità di altre zone ad alta sicurezza. Le sole vie di uscita dal museo saranno le quattro porte d'acciaio, che apriremo con il dispositivo manuale. Sigilleremo il perimetro un'ora prima dell'inaugurazione, abbasseremo tutte le altre porte e metteremo delle guardie nei punti di accesso. Ve l'ho detto: sarà più sicuro della camera blindata di una banca." "E il resto del museo?" "Avevamo pensato di sigillare tutti e cinque i comparti, ma poi abbiamo deciso di no." "Bene", disse Pendergast, guardando un altro pannello. "In caso di emergenza, il personale di soccorso non troverà ostacoli." Indicò il pannello illuminato. "Ma il sotterraneo? Dalle aree dello scantinato di questo settore vi si può accedere. E dal sotterraneo si può andare dovunque, in pratica." "Nessuno oserebbe passare di lì", sbuffò Ippolito. "È un labirinto." "Ma noi non stiamo parlando di un comune ladro. Stiamo parlando di un assassino che è riuscito a eludere ogni ricerca intrapresa da lei, da D'Agosta e da me. Un assassino che è di casa in quel labirinto." "C'è soltanto una scala che collega il Planetario agli altri piani", spiegò pazientemente Ippolito, "e sarà sorvegliata dai miei uomini, come tutte le uscite di emergenza. Gliel'ho detto, abbiamo pensato a tutto. L'intero perimetro sarà sicuro." L'agente dell'FBI esaminò in silenzio, per alcuni minuti, la mappa luminosa. "Come fa a sapere che questo schema è preciso?" domandò infine. Il responsabile della sicurezza mostrò qualche segno d'irritazione. "È ovvio che è preciso." "Ho chiesto: come lo sa?" "Il sistema è stato progettato direttamente sui disegni fatti dagli architetti per la ricostruzione del 1912." "E non ci sono stati cambiamenti da allora? Nessuna porta è stata aperta ex novo o chiusa?" "Tutti i cambiamenti sono stati presi in considerazione." "Quei disegni comprendevano le aree del Vecchio Scantinato e del sotterraneo?" "No, quelle sono le aree più vecchie. Ma, come le ho detto, saranno tutte chiuse ermeticamente o sorvegliate." Ci fu un lungo silenzio durante il quale Pendergast continuò a guardare i pannelli. Alla fine, lanciò un sospiro e si voltò verso il responsabile della
sicurezza. "Tutto questo non mi convince." Qualcuno si schiarì la gola alle loro spalle. "Che cosa non ti convince?" D'Agosta non dovette voltarsi. Quell'inflessione gracchiante di Long Island poteva appartenere soltanto all'agente speciale Coffey. "Stavo giusto riesaminando le procedure di sicurezza col signor Pendergast", disse Ippolito. "Bene, Ippolito, ora dovrà riesaminarle assieme a me." I suoi occhi piccoli fissarono il collega. "Per il futuro, ricordati di invitarmi ai tuoi party privati", disse stizzito. "Il signor Pendergast..." cominciò il responsabile della sicurezza. "Il signor Pendergast è venuto qui dal profondo Sud per darci una mano quando necessario. Sono io che conduco il gioco. Ha capito?" "Sì, signore", sospirò Ippolito. Spiegò di nuovo il funzionamento del sistema di sicurezza, mentre Coffey, sulla poltrona di un operatore, rigirava una cuffia fra le dita. D'Agosta percorreva la stanza osservando i pannelli di controllo. Pendergast ascoltava attentamente Ippolito, cercando di non perdersi una parola, come se non avesse sentito nulla della spiegazione precedente. Quando questi concluse, Coffey si appoggiò allo schienale. "Ippolito, ha lasciato quattro buchi nel perimetro." Fece una pausa a effetto. "Voglio che tre vengano chiusi. Voglio che ci sia soltanto un varco per entrare e uscire." "Ma il regolamento antincendio prevede..." Coffey agitò una mano in aria. "Del regolamento antincendio mi occupo io. Lei si occupi dei buchi nella sua rete di sicurezza. Più buchi ci sono, più fastidi dobbiamo aspettarci." "Temo che questo sia proprio il modo sbagliato di procedere", intervenne Pendergast. "Se chiudi quelle tre uscite, gli ospiti saranno in trappola. Se succedesse qualcosa, avrebbero soltanto uno sbocco." Il nuovo responsabile delle indagini aprì le braccia in un gesto d'impotenza. "Ehi, è proprio questo il punto. Non puoi avere tutto. O hai un perimetro sicuro o non ce l'hai. Comunque, stando a ciò che dice Ippolito, ogni porta di sicurezza ha un dispositivo di apertura di emergenza. Dunque, dov'è il problema?" "Giusto", intervenne Ippolito, "le porte possono essere aperte usando la tastierina, in caso di necessità. Basta conoscere il codice." "Posso chiedere cos'è che fa funzionare le tastierine?" domandò Pendergast.
"Il centralone. La Sala Computer è nella porta accanto." "E se il computer si guasta?" "Abbiamo sistemi di emergenza plurimi. Quei pannelli sulla parete più lontana controllano il sistema di emergenza. Ogni pannello ha un suo allarme." "Questo è un altro problema", disse pacatamente Pendergast. Coffey sospirò e alzò gli occhi al soffitto. "C'è ancora qualcosa che non lo convince." "Ho contato ottantuno spie di allarme su quel solo banco di controllo", continuò Pendergast ignorando il collega. "In caso di vera situazione critica, con più guasti, la maggior parte di queste spie si metteranno a lampeggiare. Quale squadra di operatori potrà controllarle tutte?" "Mi stai facendo perdere un sacco di tempo", sbottò Coffey. "Penseremo Ippolito e io a questi dettagli, d'accordo? Mancano meno di otto ore all'inizio dello show." "Il sistema è stato collaudato?" domandò Pendergast. "Lo collaudiamo ogni settimana", rispose il responsabile della sicurezza. "Ciò che intendo dire è se è mai stato collaudato in una situazione reale. Un tentativo di furto, per esempio." "No, e spero che non succeda mai." "Mi spiace dirlo", continuò il federale, "ma mi sembra tutto molto poco affidabile. Sono un grande sostenitore del progresso, signor Ippolito, ma raccomanderei vivamente di usare i metodi tradizionali. Per dirla tutta, durante l'inaugurazione, disabiliterei l'intero sistema. Lo spenga, semplicemente. È troppo complicato, e non ci si può fare affidamento in caso di emergenza. Qui ci occorrono metodi sperimentati, qualcosa che sia familiare a tutti. Poliziotti che pattugliano le sale, guardie armate a ogni entrata e uscita. Sono sicuro che il tenente D'Agosta potrà fornirci altri uomini." "Basta dirlo", annuì D'Agosta. "Lo dico io: no." Coffey cominciò a ridere. "Cristo, vuole disabilitare il sistema proprio nel momento in cui ne abbiamo più bisogno!" "Metterò nero su bianco le mie obiezioni a questo piano", disse Pendergast. "Bene, allora scrivi pure le tue obiezioni, e poi spediscile per battello a ruota al tuo ufficio di New Orleans. Io dico che Ippolito ha preso tutte le precauzioni del caso." "Grazie!" esclamò Ippolito, visibilmente orgoglioso. "Questa è una situazione assolutamente insolita e pericolosa", proseguì
Pendergast. "Non è il momento di affidarci a sistemi complessi e non collaudati." "Ora basta!" si spazientì il collega. "Ho sentito abbastanza. Perché non te ne vai nel tuo ufficio a mangiarti il panino al pescegatto che la tua mogliettina ti ha messo nel cestino della merenda?" D'Agosta fu sbalordito dal mutamento di espressione sul volto di Pendergast. Coffey fece istintivamente un passo indietro. Ma Pendergast si limitò a voltarsi e a uscire. Il tenente di polizia fece per seguirlo. "Dove stai andando?" domandò Coffey. "Sarebbe bene che tu stessi qui, mentre studiamo gli ultimi dettagli." "Io sono d'accordo con Pendergast", disse D'Agosta. "Non è il momento di giocare ai videogame. Qui c'è in ballo la vita della gente." "Noi siamo i migliori, siamo I'FBI. Non c'interessa il parere di uno che ha sempre diretto il traffico a Queens." D'Agosta guardò la faccia sudata e rubizza di Coffey. "Tu sei la vergogna dei tutori della legge." L'agente federale sbatté le palpebre. "Grazie, metterò il tuo insulto gratuito nel rapporto al mio buon amico Horlocker, il capo della polizia, che prenderà sicuramente i provvedimenti del caso." "Allora aggiungi anche questo al tuo rapporto: sei un sacco di merda." Coffey buttò indietro la testa e rise. "Mi piace la gente che s'impicca da sola e ti risparmia la fatica. Avevo già pensato che questo caso è troppo importante per avere un semplice tenente come collegamento con il dipartimento di polizia di New York. In ventiquattr'ore sarai fuori da questo caso. Lo sapevi? Non volevo dirtelo fin dopo l'inaugurazione... Non volevo guastarti la festa, ma in fin dei conti questo è un momento buono come un altro. Fa' buon uso di quest'ultimo pomeriggio. Ci vediamo alla riunione delle quattro. Sii puntuale." D'Agosta non disse nulla. Non sapeva perché, ma la cosa non lo aveva sorpreso. 37 Uno starnuto esplosivo fece tintinnare le provette e tremare gli esemplari di piante secche nel laboratorio botanico sussidiario del museo. "Mi spiace", si scusò Kawakita, tirando su col naso. "Allergie." "Ho un clinex", disse Margo, prendendolo dalla borsa. Stava ascoltando Kawakita che le descriveva il suo programma di estrapolazione genetica.
Notevole, pensava. Però scommetto che gran parte della teoria che ci sta dietro è frutto di Frock. "Insomma", continuò il giovane studioso, "si può partire con le sequenze genetiche di due animali o di due piante. Questa è l'informazione di entrata. In tal modo ottieni un'estrapolazione... ovvero, il computer ti dice qual è il possibile legame evolutivo fra le due specie. Automaticamente, il programma confronta le sequenze del DNA, isola quelle simili, poi comunica quale può essere la forma estrapolata. Per esempio, ora farò una prova confrontando il DNA umano e quello di scimpanzé. Otterremo la descrizione di qualche forma intermedia." "L'anello mancante", disse Margo annuendo. "Non dirmi che il computer disegna anche la forma dell'animale!" "No!" rise lui. "Se riuscisse a farlo, mi darebbero il Nobel. Il computer si limiterà a darci un elenco dei tratti morfologici e caratteriali dell'animale o della pianta. Non definito, ma probabile. E non un elenco completo, naturalmente. Lo vedrai alla fine dell'elaborazione." Digitò una serie di istruzioni, e i dati cominciano a scorrere sullo schermo del computer: una rapida, ondeggiante successione di zeri e di uno. "Potremmo anche smettere", disse Kawakita, "ma mi piace guardare i dati inviati dal sequenziatore. È come osservare un fiume. O, meglio, un torrente montano." Dopo circa cinque minuti il flusso di dati si arrestò e lo schermo fu vuoto, nel suo baluginio azzurrino. Poi comparve la faccia di Pulcinella che diceva attraverso l'altoparlante: "Sto pensando, pensando, ma non succede niente!" "Significa che il programma sta elaborando", spiegò, ridendo della sua burla visiva. "Potrebbe impiegarci anche un'ora: dipende da quanto sono dissimili le due specie." Un messaggio lampeggiò sullo schermo: TEMPO PREVISTO PER IL COMPLETAMENTO: 3.03.40 MIN. "Scimpanzé e umani sono così vicini... condividono il 98 per cento di geni... ecco perché ci metterà così poco." Una lampadina si accese di colpo sulla testa di Pulcinella. "Fatto! Ora guardiamo i risultati." Schiacciò un tasto. Sullo schermo del computer comparve:
PRIMA SPECIE: Specie: Pan troglodytes Genere: Pan Famiglia: Pongidae Ordine: Primata Classe: Mammalia Phylum: Chordata Regno: Animalia SECONDA SPECIE: Specie: Homo sapiens Genere: Homo Famiglia: Hominidae Ordine: Primata Classe: Mammalia Phylum: Chordata Regno: Animalia Corrispondenze genetiche complessive: 98.4 % "Che tu ci creda o no", disse Kawakita, "l'identificazione di queste due specie è avvenuta soltanto attraverso i geni. Non ho detto al computer di quali organismi si trattava. È un buon metodo per mostrare agli scettici che l'Estrapolatore non è un trucco o una presa in giro. Comunque, ora avremo la descrizione della specie intermedia. In questo caso, come hai detto tu, dell'anello mancante." Caratteristiche morfologiche della specie intermedia: Gracile Capacità cranica: 750 cc Bipede, postura eretta Pollice opponibile Perdita di opponibilità nelle dita dei piedi Dimorfismo sessuale al di sotto della media Peso del maschio adulto: 55 kg Peso della femmina adulta: 45 kg Periodo di gestazione: otto mesi
Aggressività: da bassa a moderata Ciclo estrale della femmina: soppresso L'elencazione proseguì, diventando sempre più oscura. Alla voce "osteologia", Margo non capì quasi nulla. Forami parietali atavici Cresta iliaca fortemente ridotta 10-12 vertebre toraciche Trocantere maggiore parzialmente ruotato Arcata sopracciliare prominente Apofisi frontale atavica con apofisi zigomatiche prominenti Probabilmente vuol dire che ha le sopracciglia cespugliose, pensò la ragazza. Diurno Parzialmente o periodicamente monogamo Vive in gruppi sociali cooperanti "Ma via! Come fa il tuo programma a dire cose simili?" domandò Margo, indicando monogamo. "Ormoni", rispose Kawakita. "C'è un gene che codifica gli ormoni presenti nelle specie mammifere monogame, ma non nelle specie promiscue. Negli umani, questo ormone ha a che fare con la formazione della coppia. Non è presente negli scimpanzé, che sono notoriamente animali promiscui. E il fatto che il ciclo estrale della femmina sia soppresso... anche questo si riscontra soltanto nelle specie relativamente monogame. Il programma usa un armamentario sterminato - algoritmi AI, fuzzy logic - per interpretare l'effetto di un'intera serie di geni sul comportamento e sull'aspetto dell'organismo proposto." "Algoritmi AI? Fuzzy logic? Mi sto perdendo!" "Be', a dire il vero ha poca importanza. Non c'è bisogno che tu conosca tutti i segreti. Ciò che conta è capire che questo programma pensa quasi come una persona, a differenza dei computer. Fa ipotesi fondate, usa l'intuito. Quella caratteristica, 'cooperanti', per esempio, è estrapolata dalla presenza o assenza di qualcosa come ottanta geni diversi." "Tutto qua?" domandò scherzosamente lei.
"No", rispose Kawakita. "Puoi usare il programma anche per conoscere la taglia di un singolo organismo, per conoscerne la forma e il comportamento, immettendo il DNA di una sola creatura, anziché di due, e disinserendo l'estrapolazione logica. E, ammesso che continuino ad arrivare fondi, conto di aggiungere altri due moduli a questo programma. Il primo riuscirà a estrapolare indietro nel tempo da una singola specie, il secondo nel futuro. In altre parole, saremo in grado di sapere molto di più sulle creature estinte del passato e immaginare quelle del futuro." Sogghignò. "Non male, eh?" "È stupefacente", disse Margo. Cominciava a pensare che la sua ricerca fosse una bazzecola, al confronto. "Come ci sei arrivato?" Kawakita esitava, guardandola con sospetto. "Quando ho cominciato a lavorare con Frock, mi disse che era frustrato dalla mancanza di reperti fossili. Mi confidò che intendeva colmare le lacune, conoscere le forme intermedie. Così ho elaborato il programma. Lui mi ha dato la maggior parte delle tabelle normative. Abbiamo cominciato a provarlo con specie diverse. Scimpanzé e umani, come pure molti batteri di cui conosciamo quasi tutti i dati genetici. Poi è successa una cosa incredibile. Quel diavolaccio di Frock se l'aspettava, ma io no. Confrontammo il cane domestico con la iena, e ciò che venne fuori non fu una semplice forma intermedia, ma una creatura bizzarra, totalmente diversa sia dal cane sia dalla iena. È successo anche con un altro paio di specie. E sai cos'ha detto allora il professore?" La ragazza scosse la testa. "Si è limitato a sorridere e ha detto: 'Ora puoi intuire il vero valore di questo programma'." Kawakita alzò le spalle. "Capisci? il mio programma avallava le sua teoria dell'Effetto Callisto, mostrando che piccoli mutamenti nel DNA possono talora provocare mutamenti enormi in un organismo. All'epoca me la presi un po', ma quello è il modo di lavorare di Frock." "Non mi stupisce che Frock fosse ansioso di vedermi usare il programma", disse Margo. "Potrebbe sovvertire lo studio dell'evoluzione." "Sì, solo che non interessa a nessuno", continuò in tono amaro lo studioso. "Oggi, tutto ciò che ha a che fare con lui è visto come un flagello. E davvero frustrante buttarsi anima e corpo in qualcosa e poi vedersi totalmente ignorati dalla comunità scientifica. Sai, detto fra noi, sto pensando di mollare Frock e unirmi al gruppo di Cuthbert. Penso di potermi portare dietro gran parte del mio lavoro. Dovresti farci su un pensierino anche tu." "Grazie, ma io resto con Frock", replicò la giovane, risentita. "Non mi sarei nemmeno dedicata alla genetica, se non fosse stato per lui. Gli devo
molto." "Fa' come ti pare. Ma allora perché pensi di lasciare il museo? Così, almeno, mi ha detto Bill Smithback. Io ho investito tutto in questo posto. La mia filosofia è che non devi niente a nessuno, se non a te stesso. Guardati attorno: Wright, Cuthbert... Quello che fanno, lo fanno per se stessi! Tu e io siamo scienziati. Noi sappiamo che sopravvive chi si adatta e che la natura s'impone con le unghie e coi denti'. E la sopravvivenza si applica anche agli scienziati." Margo guardò gli occhi splendenti di Kawakita. In un certo senso, aveva ragione. Ma, allo stesso tempo, lei sentiva che gli esseri umani, proprio perché avevano decifrato le leggi di natura, potevano forse trascenderne alcune. Cambiò argomento. "Dunque l'ESG funziona sia con il DNA di una pianta sia con quello di un animale?" "Esattamente allo stesso modo", rispose lui, riprendendo il piglio professionale. "Ottenute le sequenze del DNA di due piante, immetti i dati nell'Estrapolatore. Ti dirà quanto sono affini e poi descriverà la forma intermedia. Non stupirti se il programma ti pone delle domande o fa dei commenti strani. Ho aggiunto qualche 'trastullo' qui e là, mentre sviluppavo i miei programmi di intelligenza artificiale." "Credo di aver afferrato l'idea. Grazie. Hai fatto un lavoro splendido." Kawakita le fece l'occhiolino e si chinò su di lei. "Mi devi un favore, bambola." "Alla prima occasione", promise la ragazza. Bambola. Mi devi un favore. Non le piaceva la gente che si esprimeva in quel modo. E, se a parlare era Kawakita, sapeva bene quel che diceva. Il giovane si raddrizzò e fece un altro starnuto. "Be', io chiudo. Mangio qualcosa e vado a casa a mettermi lo smoking per la festa. Mi chiedo perché mi sono preso la briga di venire, oggi... tutti gli altri sono a casa a prepararsi per stasera. Voglio dire: guarda questo laboratorio. È deserto." "Smoking, eh?" disse Margo. "Io mi sono portata dietro il vestito stamattina. È grazioso, ma niente di firmato o di speciale." Kawakita si chinò di nuovo su di lei. "L'abito fa il monaco, cara. Chi comanda dà un'occhiata a un tipo in maglietta e, anche se pensa che sia un genio, non riesce davvero a vederlo come direttore del museo." "E tu vuoi diventare direttore?" "Naturalmente", rispose lui, sorpreso. "Tu no?" "E limitarsi a fare della buona scienza?"
"Chiunque può fare della buona scienza. Ma un giorno vorrei un ruolo più importante. Si può fare di più per la scienza come direttore che come ricercatore impantanato in uno squallido laboratorio come questo. Oggi la ricerca da sola non basta più." Le batté una mano sulla schiena. "Be', divertiti. E non rompere niente." Se ne andò, e il laboratorio fu immerso nel silenzio. Margo restò per un momento immobile. Poi aprì la cartellina con gli esemplari di piante kiribitu. Non riusciva, però, a smettere di pensare che c'erano cose più urgenti da fare. Quando alla fine era riuscita a mettersi in contatto telefonico con Frock e gli aveva detto del poco che aveva trovato nelle casse, lui era diventato di colpo muto. Era come se, a un tratto, tutta l'energia lo avesse abbandonato. Lo aveva sentito così avvilito che non aveva avuto il coraggio di raccontargli del diario e dell'assenza, in esso, di nuove informazioni. Guardò l'orologio: l'una passata. Sequenziare il DNA di ogni esemplare di pianta avrebbe richiesto un bel po' di tempo, e lei aveva bisogno di quelle sequenze per poter usare l'Estrapolatore di Kawakita. Ma, come Frock le aveva ricordato, quello era il primo tentativo di studio sistematico su un metodo di classificazione primitivo delle piante. Con quel programma, lei poteva dimostrare che i kiribitu, con la loro straordinaria conoscenza delle piante, le avevano davvero classificate biologicamente. E il programma le avrebbe anche consentito di scovare delle piante intermedie, specie ipotetiche la cui controparte reale poteva ancora essere rinvenuta nella foresta pluviale dei kiribitu. Quantomeno, tale era l'intento del professore. Per sequenziare il DNA delle piante, doveva asportare una piccola parte di ogni esemplare. Dopo un tedioso scambio di messaggi per posta elettronica, quella mattina, aveva infine ottenuto il permesso di prelevare un decimo di grammo da ogni esemplare. Una quantità appena sufficiente. Guardò i delicati esemplari che odoravano leggermente di spezie e di erba. Alcuni di essi erano potenti allucinogeni, usati dai kiribitu per le cerimonie sacre; altri erano medicinali, forse di grande utilità per la scienza moderna. Prese con le pinzette la prima pianta e tagliò con un bisturi la sommità di una foglia. La frantumò con mortaio e pestello, mescolandola con un blando enzima che avrebbe dissolto la cellulosa e disintegrato le cellule del nucleo, liberando il DNA. Lavorava in fretta ma con meticolosità, aggiungendo gli enzimi appropriati, centrifugando ed eseguendo la titolazione, poi ripetendo il procedimento su tutti gli esemplari.
Per la centrifuga finale occorrevano dieci minuti e, mentre la provetta vibrava nel cestello metallico, Margo si appoggiò allo schienale della sedia e lasciò vagare la mente. Si chiese cosa stesse facendo Smithback nel suo nuovo ruolo di paria del museo. Si chiese, con un piccolo brivido di paura, se la Rickman avesse scoperto l'assenza del diario. Pensò anche a quanto le aveva detto Jörgensen, e al modo in cui Whittlesey aveva descritto i suoi ultimi giorni di vita. Immaginava la vecchia che puntava un dito ossuto verso la statuina nella cassa, avvertendo Whittlesey della maledizione. Immaginava la scena: la capanna in rovina ricoperta dai rampicanti, le mosche che ronzavano nel sole. Da dov'era venuta, quella donna? Perché era scappata? Poi immaginò Whittlesey che tirava un lungo respiro ed entrava per la prima volta nella capanna del mistero... Un momento, pensò. Il diario raccontava che avevano incontrato la vecchia prima di entrare nella capanna abbandonata. E inoltre nella lettera trovata nel coperchio della cassa si diceva chiaramente che Whittlesey aveva scoperto la statuina dentro la capanna: era entrato nella capanna soltanto dopo che la donna era scappata. La vecchia non stava guardando la statuina, quando aveva urlato che Mbwun era nella cassa! Probabilmente chiamava Mbwun qualcos'altro all'interno della cassa stessa! Nessuno, però, se n'era accorto, perché nessuno aveva trovato la lettera di Whittlesey. La sola testimonianza era il diario, e tutti avevano pensato che Mbwun fosse la statuina. Ma si erano sbagliati. Mbwun, il vero Mbwun non era affatto la statuina. Che cosa aveva detto la donna? Ora uomo bianco viene e porta via Mbwun. Attento, la maledizione di Mbwun ti distruggerà! Porti la morte alla tua gente! Non era proprio quello che stava succedendo? La morte era arrivata al museo. Ma a quale parte del contenuto della cassa poteva riferirsi? Preso il taccuino dalla borsa, ricostruì rapidamente l'elenco di quanto aveva trovato nella cassa di Whittlesey il giorno prima: Pressa per piante con campioni all'interno Cerbottana con dardi Disco inciso (trovato nella capanna) Dischetti labiali Cinque o sei vasetti con rane e salamandre (credo!) conservate Pelli d'uccello Punte di freccia e di lancia in selce
Sonaglio sciamanico Mantello Cos'altro? Frugò nella borsa. La pressa di legno, il disco e il sonaglio erano ancora lì. Li pose sul tavolo. Il sonaglio deteriorato era interessante, ma niente di speciale. Ne aveva visti di più insoliti nella mostra Superstizione. Il disco era strano. I disegni mostravano una specie di cerimonia, gente con i piedi in una bassa pozza, china, qualcuno con delle piante in mano e un cesto sulla schiena. Molto strano. Ma sicuramente non si trattava di un oggetto di culto. L'elenco non l'aiutava. Niente nella cassa somigliava a un diavolo o a qualcosa che potesse ispirare terrore a una vecchia. Margo svitò con cura la pressa malandata, allentando i bulloncini e il compensato che tenevano pressata la carta assorbente. L'aprì del tutto, liberando il primo strato. C'era lo stelo di una pianta con alcuni fiorellini. Qualcosa che non aveva mai visto prima, ma che non sembrava particolarmente interessante a una prima occhiata. Gli strati successivi racchiudevano fiori e foglie. Non si trattava, pensò, di una raccolta fatta da un botanico di professione. Whittlesey era un antropologo, e probabilmente aveva raccolto soltanto gli esemplari più appariscenti e insoliti. Ma perché? Estrasse tutti gli esemplari, e sul fondo trovò l'appunto che le occorreva. "Scelta di piante rinvenute nel giardino abbandonato e incolto accanto alla capanna (kothoga?) il 16 settembre 1987. Forse si tratta di specie coltivate, alcune delle quali possono aver infestato il sito dopo l'abbandono." C'era un disegno del luogo che indicava la posizione delle varie piante. Antropologia, pensò, non botanica. Tuttavia, rispettava l'interesse di Whittlesey per il rapporto dei kothoga con le loro piante. Continuò l'esame. Una pianta attirò la sua attenzione: aveva un lungo stelo fibroso, con una sola foglia rotonda a un'estremità. Pensò che doveva trattarsi di una pianta acquatica, forse una foglia di ninfea. Probabilmente viveva in un'area paludosa. Allora si rese conto che il disco inciso trovato nella capanna mostrava la stessa pianta. Lo osservò più attentamente: si vedevano persone intente a
raccogliere proprio quella pianta nell'acquitrino, in una sorta di cerimonia collettiva. I volti delle persone erano contorti, in preda al dolore. Molto strano. Margo era proprio soddisfatta di aver scoperto quella connessione: poteva trarne un bel saggetto per il Journal of Ethnobotany. Messo da parte il disco, rimontò la pressa e la strinse. In quel momento sentì un lungo sibilo: la centrifuga aveva finito, il materiale era pronto. Aprì la centrifuga e immerse un'asta di vetro nel sottile strato di materiale sul fondo della provetta. Lo depositò sul gel, mise la celletta con il gel nell'apparato per l'elettroforesi. Le sue dita si posarono sull'interruttore. Un'altra mezz'ora di attesa. Rimase immobile, le dita sempre sull'interruttore. I suoi pensieri tornarono alla vecchia e al mistero di Mbwun. Poteva riferirsi ai semi... quelli che somigliavano a uova? No, Maxwell aveva portato con sé quelle casse. Non erano nella cassa di Whittlesey. Forse a una delle rane o delle salamandre nei vasetti, o a una pelle d'uccello? Posto improbabile per il figlio del diavolo. E non poteva trattarsi delle piante del giardino, perché erano all'interno della pressa, invisibili. Forse che la vecchia era pazza e cianciava a vanvera? Con un sospiro, azionò l'interruttore e si appoggiò alla sedia. Rimise il disco inciso e la pressa nella borsa, togliendo alcune fibre che aderivano al fondo di compensato, le fibre usate per imballare il materiale. Altri residui erano sul fondo della borsa. Ragione di più per decidersi a darle una bella ripulita. Le fibre da imballaggio. Incuriosita, Margo ne prese una con la pinzetta, la piazzò su un vetrino e la mise sotto il microscopio elettronico. Era lunga e irregolare, come la nervatura fibrosa di una pianta a gambo duro. Forse era stata appiattita dalle donne kothoga per qualche uso domestico. Attraverso il microscopio, vedeva le singole cellule baluginare fiocamente, i nuclei più brillanti dell'ectoplasma circostante. Ripensò al diario di Whittlesey. Non aveva parlato di vasetti rotti e della necessità di imballare di nuovo il materiale? Probabilmente, nel sito della capanna abbandonata avevano dovuto tirare fuori il vecchio materiale d'imballaggio, impregnato di formaldeide, sostituendolo con qualcosa trovato lì attorno. Fibre preparate dai kothoga, forse; probabilmente per tessere tela grezza o per la produzione di corde. Che la vecchia si riferisse a quelle fibre? Sembrava impossibile. E tuttavia Margo non poteva non provare una curiosità professionale. Davvero i
kothoga coltivavano quella pianta? Prese alcune di quelle fibre e le mise in un altro mortaio, aggiungendo poche gocce di enzima e frantumandole. Se ne avesse sequenziato il DNA, avrebbe potuto usare il programma di Kawakita, quantomeno per identificare il genere e la famiglia della pianta. Dopo poco, il DNA centrifugato era pronto per l'elettroforesi. Seguì la solita procedura, poi azionò l'interruttore. Lentamente, strisce scure cominciarono a formarsi lungo il gel. Mezz'ora dopo, la spia rossa della macchina si spense. Margo tolse la celletta del gel e cominciò a registrare la posizione delle macchioline e delle strisce di nucleotidi migrati, digitando i risultati e inserendoli nel computer. Terminata l'operazione, entrò nel programma di Kawakita per confrontare i dati con quelli di altri organismi conosciuti, collegò la stampante e aspettò. A un tratto le pagine cominciarono a scorrere. In cima al primo foglio, il computer aveva scritto: Specie: Sconosciuta. 10% di corrispondenze genetiche randomizzate con specie note Genere: Sconosciuto Famiglia: Sconosciuta Ordine: Sconosciuto Classe: Sconosciuta Phylum: Sconosciuto Regno: Sconosciuto Caspita, Margo! Cosa mi hai messo dentro? Non so nemmeno se è un animale o una pianta. E non immagini quanto tempo CPU ho sprecato nell'operazione! La ragazza dovette sorridere. Ecco come il sofisticato esperimento in intelligenza artificiale di Kawakita comunicava con il mondo esterno. E i risultati erano ridicoli. Regno sconosciuto? Quel dannato programma non riusciva nemmeno a dire se si trattava di una pianta o un animale. Credette di capire perché Kawakita era stato così restio a farle usare il programma la prima volta, perché era dovuto intervenire Frock. Una volta fuori dai suoi campi abituali, il programma era inservibile. Studiò lo stampato. Il computer aveva identificato pochissimi geni degli esemplari. C'erano quelli comuni alla maggior parte degli organismi viven-
ti: poche proteine del ciclo respiratorio, citocromo Z, altri geni universali. E c'era anche qualche altro gene legato alla cellulosa, alla clorofilla e agli zuccheri, che Margo conosceva come geni specifici delle piante. Si rimise alla tastiera e digitò: Come mai non sai dire nemmeno se è un animale o una pianta? lo vedo molti geni di piante. Ci fu una pausa. Non hai notato che ci sono anche geni di animali? Inserisci i dati nel GenLab. Buona idea, pensò. Attraverso il modem, si collegò col GenLab e dopo poco il familiare logo azzurro comparve sullo schermo. Inserì i dati del DNA trovato nelle fibre per farli confrontare con quelli della sottobase botanica. Stesso risultato: quasi niente. Poche corrispondenze con zuccheri comuni e clorofilla. D'impulso, chiese che la ricerca venisse effettuata nell'intera banca-dati. Ci fu una lunga pausa, poi un flusso di informazioni riempì lo schermo. Margo premette rapidamente una serie di tasti, per arrestare lo scorrimento dei dati. C'erano numerose corrispondenze con una varietà di geni di cui non aveva mai sentito parlare. Disinseritasi dal GenLab, immise i dati ottenuti nel programma di Kawakita, chiedendo di individuare quali proteine fossero codificate da quei geni. Un complesso elenco delle proteine specifiche prodotte da ogni gene cominciò a scorrere sullo schermo. Glicotetraglicina collagenoide Ormone tireotropo di Weinstein, 2,6 adenosina [gram positivo] 1,2,3, ossitocina 4-monossiticina ormone soppressore 2,4 digliceride dietilglobulina ad anello alaninico Gammaglobulina A,x-y, levogira Ormone corticotropo ipotalamico, destrogiro 1-1-1 sulfagene (2,3 mucopeptide) cheratinoide connettivo fattore involuzione III-IV
Proteina di rivestimento di reovirus esagonale ambiloide Enzima transcrittasi inversa L'elenco continuava. Molti di questi sembrano ormoni, pensò. Ma che tipo di ormoni? Trovò una copia dell'Enciclopedia di Biochimica che si stava impolverando su una mensola, la prese e cercò glicotetraglicina collagenoide. Proteina comune nella maggior parte dei vertebrati. È la proteina che lega tessuto muscolare e cartilagine. Sfogliò fino a trovare ormone tireotropo di Weinstein. Ormone talamoide presente nei mammiferi che stimola la secrezione dell'epinefrina nella tiroide. È importante nella ben nota sindrome "scappa e fuggi" perché accelera il battito cardiaco, innalza la temperatura corporea e probabilmente accresce la prontezza mentale. Un'idea terribile cominciò a prendere forma nella sua mente. Cercò il successivo, 1,2,3 ossitocina 4-monossiticina ormone soppressore: Ormone secreto dall'ipotalamo umano. La sua funzione non è ancora nota. Studi recenti hanno dimostrato che può regolare il livello di testosterone nel flusso sanguigno durante periodi di grande stress. (Bouchard, 1992; Dennison, 1991.) Margo si appoggiò di botto allo schienale, e il libro finì sul pavimento con un tonfo sordo. Mentre afferrava la cornetta del telefono, guardò l'orologio. Erano le tre e mezzo. 38 Quando l'autista fermò la Buick, Pendergast scese e salì i gradini di un ingresso laterale del museo, tenendo in equilibrio due lunghi tubi di cartone sotto un braccio mentre mostrava il tesserino di riconoscimento alla guardia. Nel posto di comando provvisorio, chiuse la porta del suo ufficio e tolse dai tubi alcune eliografie ingiallite che sparse sulla scrivania.
Nell'ora successiva, rimase pressoché immobile, il mento sulle mani incrociate, concentrato sui disegni. Di tanto in tanto prendeva qualche appunto su un taccuino o consultava i fogli dattiloscritti posati su un angolo. All'improvviso si alzò. Dette un'ultima occhiata alle eliografie arricciate, passando lentamente le dita da un punto all'altro, increspando le labbra. Raccolse la maggior parte dei disegni e li ripose nei tubi di cartone che poi depositò in un armadietto. Gli altri, piegati con cura, furono infilati in una borsa di tela posata sulla scrivania. Aperto un cassetto, prese un revolver Colt .45 Anaconda, snello, lungo, minaccioso. L'arma si adattò perfettamente alla fondina sotto l'ascella sinistra. Una manciata di proiettili finì nella tasca. Dallo stesso cassetto l'agente dell'FBI tirò fuori un grosso oggetto giallo che infilò nella borsa. Poi, lisciatosi il vestito nero e stretto il nodo della cravatta, mise il taccuino nella tasca interna della giacca, prese la borsa e lasciò l'ufficio. La città di New York aveva poca memoria per la violenza, e i vasti spazi pubblici del museo erano di nuovo invasi da una fiumana di visitatori. Gruppi di bambini si affollavano attorno alle teche, schiacciando il naso contro il vetro, additando e ridendo. I genitori si aggiravano nei dintorni, cartine e macchine fotografiche in mano. Le guide andavano avanti e indietro recitando le loro litanie; le guardie vigilavano attente a ogni porta. Pendergast scivolò inosservato in mezzo alla bolgia. Arrivò lentamente al Planetario. Palme in vaso costeggiavano i due lati dell'enorme stanza, e un piccolo esercito si dedicava agli ultimi ritocchi. Sul podio dell'oratore due tecnici provavano i microfoni, e riproduzioni di feticci indigeni venivano piazzate su un centinaio di tovaglie bianche di lino. Un fervore di attività aleggiava fra le colonne corinzie fino alla vasta cupola del soffitto. Guardò l'orologio: le quattro in punto. Tutti gli agenti dovevano essere alla riunione di Coffey. Attraversò velocemente la sala fino all'ingresso sigillato della mostra Superstizione. Ci fu uno scambio di brevi frasi, poi il poliziotto in divisa gli aprì la porta. Pochi minuti dopo, Pendergast emerse dalla mostra. Si fermò un momento a pensare. Poi riattraversò la sala del Planetario raggiungendo i corridoi. Si muoveva ora nei più quieti locali interni, lontano dalle aree pubbliche. Si trovava nella zona dei depositi e dei laboratori dove i turisti non potevano entrare. Gli alti soffitti e le ampie gallerie decorate lasciavano il posto a corridoi grigiastri tappezzati di armadietti. I tubi del vapore rumoreggiava-
no sopra la sua testa. Si fermò davanti a una scala metallica, si guardò attorno per un momento, consultò il taccuino e caricò la pistola. Poi cominciò a scendere verso gli stretti labirinti del buio cuore del museo. 39 La porta del laboratorio si aprì sbattendo e si richiuse poi lentamente. Margo alzò gli occhi e vide Frock entrare di spalle, la sedia a rotelle che cigolava. Subito, la ragazza lo raggiunse e lo spinse fino al terminale del computer. Notò che era già in smoking. Probabilmente indossato prima di venire al lavoro, pensò. Dal taschino gli usciva il solito fazzoletto di Gucci. "Non capisco perché mettono sempre i laboratori in posti così fuorimano", borbottò il professore. "Dunque, cos'è questo mistero, Margo? E perché farmi venire fin qui per sentirlo? La follia di stasera sta per avere inizio, ed è richiesta la mia presenza sul palco. Un onore da poco, naturalmente... dovuto soltanto alla mia popolarità. Ian Cuthbert me l'ha fatto capire abbastanza bene stamattina, nel mio ufficio." A un tratto la sua voce era diventata amara, rassegnata. Margo spiegò in fretta come avesse analizzato le fibre del materiale da imballaggio. Gli mostrò il disco inciso con la scena della raccolta. Gli parlò del ritrovamento, del contenuto del diario, della lettera di Whittlesey, della conversazione con Jörgensen. E accennò a come la vecchia isterica descritta nel diario di Whittlesey non potesse riferirsi alla statuina, quando aveva ammonito lo scienziato a proposito di Mbwun. Frock ascoltava ruotando lentamente il disco fra le mani. "Storia interessante", disse. "Ma perché tutta questa fretta? Probabilmente il tuo campione era semplicemente contaminato. E, per quel che ne sappiamo, quella vecchia poteva essere pazza, o magari Whittlesey ha confuso i propri ricordi." "Lo pensavo anch'io da principio. Ma guardi questo", disse Margo, mostrandogli lo stampato. Il professore lo scorse rapidamente. "Strano. Ma non credo che questo..." La sua voce svanì, mentre le dita grassocce seguivano l'elenco delle proteine. "Margo", esclamò, alzando gli occhi. "Sono stato troppo frettoloso. Si tratta proprio di contaminazione, ma non da essere umano." "Cosa intende dire?"
"Guarda questa proteina di reovirus esagonale ambiloide. È la proteina dell'involucro di un virus che infetta animali e piante. Guarda quanta ce n'è. E c'è anche della transcrittasi inversa, un enzima quasi sempre associato ai virus." "Non sono sicura di capire." Frock la guardò spazientito. "Si tratta di una pianta gravemente infettata da un virus. Il tuo sequenziatore di DNA li ha mescolati, codificando entrambi. Molte piante hanno dei virus come questo. Un po' di DNA o RNA in un rivestimento proteico. Infettano la pianta, asportandone alcune cellule, poi liberano il loro materiale genetico nei geni della pianta. I geni della pianta cominciano a produrre altri virus, anziché quello che dovrebbero produrre normalmente. Il virus della galla della quercia, per esempio, produce quelle palline marroncine che si vedono sulle foglie dell'albero, ma per il resto è innocuo. Anche i nodi su aceri e pini sono causati da virus. Sono comuni tanto nelle piante quanto negli animali." "Lo so, dottor Frock, però..." "C'è una cosa, però, che non capisco", continuò lui, posando lo stampato. "Un virus normalmente codifica altri virus. Perché un virus dovrebbe codificare tutte queste proteine umane e animali? Guarda qui. Per lo più si tratta di ormoni. Cosa ci fanno degli ormoni umani in una pianta?" "È proprio questo che volevo dirle", cominciò la ragazza. "Ho controllato alcuni di questi ormoni. La maggior parte di essi sembrano provenire dall'ipofisi umana." La testa di Frock scattò all'indietro come se qualcuno l'avesse colpito in faccia. "Ipofisi?" I suoi occhi erano tornati improvvisamente vivi. "Proprio così." "E la creatura che si aggira nel museo mangia l'ipofisi delle sue vittime! Dunque ha bisogno di questi ormoni... forse è addirittura dipendente da essi", esclamò il professore. "Pensa: esistono soltanto due fonti, le piante che, per la presenza di quest'unico virus, sono probabilmente sature di ormoni - e l'ipofisi umana. Quando la creatura non può avere le fibre, mangia il cervello!" "Gesù, è terribile", sussurrò lei. "È sbalorditivo. Ciò spiega esattamente che cosa c'è dietro quei terribili delitti. Con questo, possiamo mettere insieme tutti i pezzi. Abbiamo una creatura che vaga per il museo uccidendo la gente, aprendogli il cranio, togliendone il cervello e mangiando la regione talamica, dove c'è la più alta concentrazione di ormoni."
Continuava a guardarla, le mani leggermente tremanti. "Cuthbert ci ha detto di aver cercato nelle casse per prendere la statuina di Mbwun, trovando una cassa rotta e le fibre sparse tutt'attorno. In effetti, ora che ci penso, nella cassa più grande non c'erano quasi più fibre. Ciò significa che la creatura per un po' di tempo ha mangiato le fibre. Ovviamente Maxwell ha usato le stesse fibre per imballare le sue casse. Forse la creatura non ha bisogno di mangiarne molte - la concentrazione ormonale nelle piante dev'essere molto alta - ma naturalmente deve nutrirsi con regolarità." Frock si appoggiò allo schienale. "Dieci giorni fa, le casse sono state spostate nell'Area di Sicurezza, e tre giorni dopo sono stati uccisi i due bambini. Un giorno ancora, ed è stata la volta della guardia. Che cosa è successo? Semplice: la bestia non può più accedere alle fibre, sicché uccide gli esseri umani e ne mangia l'ipofisi per soddisfare la fame. Ma l'ipofisi secerne soltanto una minima quantità di questi ormoni, rivelandosi un misero sostituto della fibra. Dalla concentrazione descritta nello stampato, azzarderei l'ipotesi che occorrono cinquanta cervelli umani per uguagliare la concentrazione reperibile in quindici grammi di questa pianta." "Dottor Frock", lo interruppe Margo. "Penso che i kothoga la coltivassero. Whittlesey ha conservato alcuni esemplari in questa pressa, e il disegno sul disco inciso rappresenta la raccolta di una pianta. Sono sicura che le fibre sono proprio i gambi pestati della ninfea che è nella pressa di Whittlesey... la stessa che si vede nel disco. E adesso sappiamo: è a queste fibre che la vecchia si riferiva quando gridò 'Mbwun'. Mbwun, figlio del diavolo: è il nome di questa pianta!" Svelta, tolse la strana pianta dalla pressa. Era color marrone scuro e avvizzita, con un reticolo di nervature nere. La foglia era spessa e coriacea, e il gambo nero duro come una radice rinsecchita. Con cautela, avvicinò il naso. Odorava di muschio. Frock la guardava con un misto di fascino e di timore. "Ragazza mia, è eccezionale", mormorò. "I kothoga devono aver allestito un intero cerimoniale attorno a questa pianta, al raccolto e alla preparazione... sicuramente per placare la creatura. E non c'è dubbio che si tratti proprio della bestia raffigurata dalla statuina. Ma come è arrivata qui? E perché?" "Credo di poter rispondere", disse Margo, i pensieri che correvano veloci. "Ieri, l'amico che mi ha aiutato a cercare nelle casse mi ha detto di aver letto di una serie di delitti simili avvenuti a New Orleans alcuni anni fa. Per la precisione, su una nave proveniente da Belém. Ha trovato la polizza di carico delle casse del museo, e ha scoperto che esse erano a bordo di
quella nave." "Dunque la creatura ha seguito le casse", osservò il professore. "E per questo quel tipo dell'FBI, Pendergast, è venuto dalla Louisiana", aggiunse lei. Frock si voltò, gli occhi ardenti. "Buon Dio! Abbiamo attirato qualche terribile bestia in un museo nel cuore di New York. È l'Effetto Callisto unito a vendetta: un brutale predatore che, stavolta, mira alla nostra distruzione. Preghiamo che si tratti di uno soltanto." "Ma che tipo di creatura può essere?" domandò Margo. "Non lo so. Qualcosa che viveva sul tepui, nutrendosi di queste piante. Una specie strana, forse sopravvissuta fin dall'epoca dei dinosauri in pochi esemplari. O forse il prodotto di un capriccio evolutivo. Il tepui, vedi, è un ecosistema fragilissimo, un'isola biologica di specie sconosciute circondata dalla foresta pluviale. In posti simili, animali e piante possono sviluppare insoliti parallelismi, strane dipendenze reciproche. Un fondo comune di DNA... pensa! E poi..." Frock tacque. "Poi!" riprese a voce alta, colpendo con una mano il bracciolo della sedia a rotelle. "Poi sul tepui hanno scoperto oro e platino! Non è quello che ha detto Jörgensen? Poco dopo la fine della spedizione, hanno incendiato il tepui, costruito una strada, portato lì un'imponente attrezzatura mineraria. Hanno distrutto l'intero ecosistema, compresa la tribù dei kothoga. Hanno inquinato i fiumi e sparso dappertutto mercurio e cianuro." Margo annuì con convinzione. "L'incendio è divampato per settimane, senza controllo. E la pianta che alimentava questa creatura si è estinta." "Così la creatura si è messa in viaggio, per seguire le casse e il cibo di cui aveva disperatamente bisogno." Il professore divenne silenzioso, la testa posata sul petto. "Dottor Frock", riprese infine, calma, la ragazza. "Come sapeva, la creatura, che le casse erano finite a Belém?" Lui la guardò con occhi socchiusi. "Non lo so", sospirò dopo un momento. "È strano, vero?" A un tratto cominciò a stringere i braccioli della sedia a rotelle, come se tentasse di alzarsi per l'eccitazione. "Margo!" esclamò. "Possiamo scoprire con precisione cos'è questa creatura. Abbiamo i mezzi per farlo. L'Estrapolatore! E il DNA della creatura: basta inserirlo nel programma e otterremo una descrizione." La giovane sbatté le palpebre. "Vuol dire l'artiglio?"
"Esattamente!" Il professore diresse la carrozzina verso il terminale e le sue dita cominciarono a muoversi sulla tastiera. "Ho inserito nel computer i dati dello stampato lasciato da Pendergast", disse. "Ora mi basta introdurli nel programma di Gregory. Mi dai una mano?" Lei prese il posto di Frock alla tastiera. Dopo un momento, un messaggio comparve sullo schermo: TEMPO PREVISTO PER IL COMPLETAMENTO: 55,30 MINUTI. Ehi, Margo, sembra una cosa lunga. Perché non ti fai arrivare una bella pizza? La migliore della città la puoi trovare da Antonio. Ti consiglio quella al pepe verde e peperoni. Vuoi che te la ordini per fax? Erano le quattro e un quarto. 40 D'Agosta guardava divertito due operai tarchiati che srotolavano un tappeto rosso tra due file di palme nella Grande Rotonda del museo, proseguendo oltre le porte di bronzo e sugli scalini esterni. Pioverà, pensò. L'aria era cupa, si vedevano dei nembi neri che si ammassavano a nord e a occidente, innalzandosi come montagne sopra gli alberi sferzati dal vento lungo Riverside Drive. Un lontano rombo di tuono fece vibrare i manufatti in una vetrina della Rotonda, e pochi goccioloni isolati cominciarono a colpire il vetro zigrinato delle porte bronzee. Sarebbe stata una vera tempesta... le previsioni meteorologiche via satellite del notiziario di quella mattina non lasciavano dubbi in proposito. Lo speciale tappeto rosso si sarebbe inzuppato. E, con quello, un sacco di gente speciale. Il museo aveva chiuso le porte al pubblico alle cinque. Il bel mondo non sarebbe arrivato prima delle sette. I giornalisti erano già lì: furgoni delle televisioni collegati col satellite, fotografi che parlavano ad alta voce l'uno con l'altro, attrezzature sparse in ogni dove. D'Agosta parlò nella radio, dando ordini. Aveva quasi due dozzine di uomini appostati nei punti strategici attorno al Planetario e in altre aree esterne e interne al museo. Era una fortuna, pensò, aver imparato finalmente a muoversi in quel posto. Già due dei suoi si erano persi e aveva dovuto guidarli con la radio.
Non era contento. Alla riunione delle quattro aveva chiesto che si ispezionasse un'ultima volta la mostra. Coffey aveva respinto la richiesta, così come aveva proibito che i poliziotti in divisa o in borghese portassero armi pesanti durante il party. Potrebbero spaventare gli invitati, aveva detto. D'Agosta guardò i quattro metal-detector a raggi X sistemati nell'ingresso. Grazie a Dio, quelli almeno ci sono, pensò. Il tenente si voltò, e, ancora una volta, cercò Pendergast. Non l'aveva visto alla riunione. In verità, non lo vedeva dall'incontro con Ippolito quella mattina. La radio crepitò. "Ehi, tenente! Sono Henley. Mi trovo davanti agli elefanti impagliati e non riesco a scovare l'Acquario. Pensavo che lei..." D'Agosta lo interruppe, guardando un gruppetto di tecnici che provava quello che doveva essere il più grande apparato di riflettori che si fosse mai visto dai tempi di Via col vento. "Henley? Vedi il corridoio con le zanne? Bene, basta che imbocchi quello e giri due volte a destra. Chiamami, quando sei in posizione. Il tuo partner è Wilson." "Wilson? Lei sa, signore, che non mi piace avere per partner una donna..." "Henley? Un'altra cosa." "Cosa?" "Sarà la Wilson a tenere il calibro dodici." "Un momento, tenente, lei è..." D'Agosta interruppe la comunicazione. Sentì un suono stridulo alle spalle, e una spessa porta d'acciaio cominciò a scendere dal soffitto all'estremità settentrionale della Grande Rotonda. Stavano sigillando il perimetro. Due uomini dell'FBI sostavano nella penombra al di là della porta, i fucili a canna mozza non del tutto invisibili sotto le giacche aperte. Il tenente sogghignò. Ci fu un tonfo sordo quando la lastra d'acciaio colpì il pavimento. Il rumore echeggiò più volte nella sala. Prima che svanisse, il tonfo fu ripetuto dalla porta che scendeva all'estremità meridionale. Soltanto la porta a est sarebbe rimasta aperta... dove finiva il tappeto rosso. Cristo, pensò D'Agosta, non vorrei trovarmi qui dentro in caso d'incendio. Sentì una voce sguaiata in fondo alla sala e si voltò a guardare Coffey che mandava i suoi uomini in tutte le direzioni a passo di corsa. L'agente federale lo scorse. "Ehi!" urlò, facendogli segno di avvicinarsi. D'Agosta lo ignorò. Fu Coffey a venire spavaldamente verso di lui, la
faccia sudata. Armi e aggeggi di cui D'Agosta aveva sentito parlare senza averne mai visti gli pendevano dal cinturone d'ordinanza. "Sei sordo? Voglio che metti due uomini dei tuoi a sorvegliare quella porta. Nessuno deve entrare o uscire." Gesù, pensò il tenente. Ci sono cinque dell'FBI che si grattano le palle nella Rotonda. "I miei uomini sono tutti impegnati. Usa qualcuno dei tuoi Rambo. Insomma, stai mandando tutti i tuoi fuori del perimetro. Io devo tenere i miei dentro per proteggere gli invitati, per non parlare di quelli che sono a dirigere il traffico. Il resto del museo rimarrà quasi deserto, e il party non sarà sorvegliato. Non mi piace." Coffey si tirò su il cinturone e lo fissò. "Sai una cosa? Non me ne frega niente di quello che non ti piace. Limitati a fare il tuo lavoro. E tieni un canale libero per me, sulla radio." Se ne andò a grandi falcate. D'Agosta imprecò. Guardò l'orologio. Sessanta minuti e passa. 41 Lo schermo del computer si liberò e comparve un altro messaggio: COMPLETATO: VUOI STAMPARE I DATI, VEDERE I DATI, O ENTRAMBE LE COSE (S/V/E)? Margo premette la lettera E. Mentre i dati scorrevano sullo schermo, Frock avvicinò la sedia a rotelle e incollò la faccia al video, appannando col respiro un po' affannoso il vetro del terminale. SPECIE: Non identificata GENERE: Non identificato FAMIGLIA: 12% di corrispondenze con Pongidi; 16% di corrispondenze con Ominidi ORDINE: Probabilmente Primati; 66% di marker genetici comuni mancanti; ampio scarto dallo standard CLASSE: 25% di corrispondenze con Mammiferi; 5% di corrispondenze con Rettili PHYLUM: Cordati REGNO: Animale Caratteristiche morfologiche: Molto vigoroso Capacità cranica: 900-1250 cc
Quadrupede, accentuato dimorfismo fra treno posteriore e anteriore Dimorfismo sessuale potenzialmente alto Peso, maschio adulto: 240-360 kg Peso, femmina adulta: 160 kg Periodo di gestazione: Da sette a nove mesi Aggressività: Estrema Ciclo estrale della femmina: Intenso Velocità di locomozione: 60-70 km/h Rivestimento epidermico: Pelle anteriore, placche ossee posteriori Notturno Il professore scorse l'elenco con le dita. "Rettili!" esclamò. "Ecco di nuovo quei geni di geco! Sembra che la creatura unisca in sé geni di rettili e di primati. E ha scaglie posteriori. Anche quelle devono venire dai geni di geco." Margo continuò a leggere le caratteristiche che diventavano sempre più oscure. Ipertrofia e fusione delle ossa metacarpali negli arti posteriori Probabile fusione atavica del terzo e quarto dito anteriore Fusione di falange e falangetta negli arti anteriori Marcato ispessimento della calotta cranica Probabile 90% (?) rotazione negativa dell'ischio Marcato ispessimento del femore con sezione a forma di prisma Cavità nasale dilatata Tre (?) padiglioni auricolari involuti Nervo olfattivo e regione olfattiva del cervelletto notevolmente sviluppati Possibili ghiandole nasali mucoidi esterne Chiasma ottico e nervo ottico ipotrofici Frock si allontanò lentamente dal monitor. "Margo", disse, "questa è la descrizione di una macchina per uccidere di prim'ordine. Ma guarda quanti 'probabile' e 'possibile' ci sono. Questa è quantomeno una descrizione ipotetica." "Anche così", obiettò la giovane, "sembra spaventoso quanto la statuina di Mbwun nella mostra." "Hai ragione. In particolare, vorrei richiamare la tua attenzione sulle dimensioni del cervello."
"Da novecento e milleduecentocinquanta centimetri cubici", disse Margo, prendendo lo stampato. "Alto, vero?" "Alto? È incredibile. Il limite superiore è vicino a quello umano. Questa bestia, qualunque essa sia, sembra avere la forza di un grizzly, la velocità di un levriere e l'intelligenza di un essere umano. Dico sembra: molto di quanto abbiamo visto è un'ipotesi del programma. Ma guarda questo gruppo di caratteristiche." Puntò il dito sull'elenco. "Notturno... attivo di notte. Ghiandole nasali mucoidi esterne... che significa naso 'bagnato', quello degli animali con un olfatto acutissimo. Padiglioni auricolari involuti... altro tratto di animali con organi olfattivi eccezionali. Chiasma ottico ipotrofico... la parte del cervello che presiede alla visione. Quella che abbiamo qui è una creatura con un senso dell'olfatto straordinario e ridotte capacità visive che caccia nottetempo." Frock pensò per un momento, le sopracciglia aggrottate. "Tutto questo mi spaventa." "Se abbiamo ragione, il solo pensiero di questa creatura mi spaventa", replicò la ragazza. Rabbrividì alla sola idea di aver toccato quelle fibre. "No, mi riferisco a questo gruppo di caratteristiche olfattive. Se l'estrapolazione del programma è affidabile, la creatura vive con l'olfatto, caccia con l'olfatto, pensa con l'olfatto. Ho sentito dire spesso che un cane vede un intero paesaggio di odori, complesso e bello come il paesaggio che noi vediamo con gli occhi. Ma il senso dell'olfatto è più primitivo di quello della vista, e come risultato ogni animale ha reazioni molto istintive, primitive all'olfatto. È questo che mi spaventa." "Non sono sicura di capire." "Fra pochi minuti, migliaia di persone arriveranno nel museo. Saranno radunate insieme in uno spazio chiuso. La creatura fiuterà gli umori ormonali profusi da tutta quella gente. Ciò può benissimo eccitarla e anche infuriarla." Il silenzio avvolse il laboratorio. "Dottor Frock", riprese la ragazza, "lei ha detto che fra il momento in cui le casse sono state messe al sicuro e il primo delitto sono trascorsi un paio di giorni. Dopo un altro giorno, un altro delitto. Da allora, sono trascorsi tre giorni." "Continua..." "Credo proprio che la creatura debba essere disperata, in questo momento. Quale che sia l'effetto che gli ormoni talamici possono avere sulla be-
stia, esso si sarà esaurito adesso... dopotutto, quegli ormoni del cervello sono un misero sostituto della pianta. Se lei ha ragione, la creatura deve essere simile a un drogato che non riesce a trovare una dose. L'attività della polizia l'ha costretta a restare calma. Ma la domanda è: quanto può resistere?" "Dio mio", disse Frock. "Sono le sette in punto. Dobbiamo avvisarli. Margo, dobbiamo interrompere l'inaugurazione. In caso contrario, sarà come invitarlo a nozze." Andò verso la porta, facendole cenno di seguirlo. PARTE TERZA COLUI-CHE-CAMMINA A-QUATTRO-ZAMPE 42 Pochi minuti prima delle sette, davanti all'entrata occidentale del museo c'era un ingorgo di taxi e limousine. Gli occupanti elegantemente vestiti ne emergevano con cautela, gli uomini in smoking quasi identici, le donne in pelliccia. Gli ombrelli roteavano mentre gli invitati correvano sul tappeto rosso verso la pensilina dell'ingresso, cercando di schivare la pioggia battente che già correva a fiumi sui marciapiedi e turbinava attorno agli scarichi delle fogne. All'interno, la Grande Rotonda, avvezza al silenzio in quell'ora tarda, risuonava dei passi di migliaia di scarpe costose che ne percorrevano il pavimento marmoreo, tra file di palmizi che portavano al Planetario. Lì, chioschi di bambù torreggiavano tra festoni di luci violette. Mazzi di orchidee pendule erano stati fissati ad arte ai bambù, con l'intento di ricreare l'effetto visivo di un giardino pensile tropicale. In qualche punto lontano, una banda invisibile intonò New York, New York. Un esercito di camerieri in cravattino bianco s'insinuava abilmente in mezzo alla calca portando grandi vassoi carichi di coppe di champagne e di stuzzichini. La fiumana degli invitati in arrivo si univa alle schiere di scienziati e funzionari del museo che già pascolavano attorno ai tavoli del buffet. I faretti azzurrognoli catturavano lo scintillio dei lunghi abiti da sera ricoperti di strass, dei fili di diamanti, dei gemelli d'oro, dei diademi. Con l'approssimarsi del buio, l'inaugurazione della mostra Superstizione era diventata l'evento cui non si poteva mancare, per il bel mondo di New York. Balli di società e cene di beneficenza erano passati in secondo piano di fronte alla possibilità di assistere di persona a quella kermesse. Ai tremi-
la inviti spediti avevano risposto cinquemila persone. Smithback, indossando un brutto smoking con almeno due cose sbagliate - i risvolti a punta e la camicia increspata -, scrutò il Planetario in cerca di qualche viso familiare. In fondo alla sala era stato innalzato un gigantesco palco. Su un lato c'era l'ingresso alla mostra elaboratamente decorato, ancora chiuso e sorvegliato. Un'ampia piattaforma per il ballo allestita al centro della sala già si andava popolando di coppie. Una volta entrato, il giornalista si ritrovò subito frastornato dalle conversazioni in corso, tutte in tono spiacevolmente sostenuto. "... quella nuova psicostorica, Grant? Be', ieri si è infine decisa a vuotare il sacco, dicendomi a che cosa sta lavorando. Pensa: sta cercando di dimostrare che le peregrinazioni di Enrico IV dopo la seconda crociata furono semplicemente una fuga dovuta al suo stato di stress. Non so cosa mi ha trattenuto dal dirle..." "... venuto fuori con l'idea ridicola che le terme di Stabia erano delle grandi scuderie! Ti rendi conto che non è mai stato a Pompei? Non distinguerebbe la Villa dei Misteri da una pizzeria. E ha la faccia tosta di definirsi papirologo..." "... quella mia nuova assistente? Sì, quella col nasone. Be', ieri era vicino all'autoclave, ha preso una provetta piena di..." Il giornalista trasse un profondo respiro e si tuffò, aprendosi un varco, verso il buffet. Sarà un cosa grandiosa, pensò. Fuori dell'ingresso principale della Grande Rotonda, D'Agosta vide scattare i flash dei fotografi a raffica, mentre un altro VIP varcava la soglia: un bel giovane allampanato con un'emaciata ragazza appesa a ogni braccio. Da lì il tenente poteva tenere d'occhio i metal-detector, la gente che entrava e la folla che si accalcava all'unico ingresso. Il pavimento della Rotonda era scivoloso di pioggia, e il guardaroba si andava colmando di ombrelli. In un angolo lontano, l'FBI aveva installato la sua "postazione avanzata": Coffey aveva preteso un punto d'osservazione da cui controllare lo svolgimento della serata. D'Agosta non poté fare a meno di ridere. Avevano tentato di mimetizzarla, ma il reticolo di fili elettrici e telefonici, di cavi e fibre ottiche che si allargavano dalla postazione come i tentacoli di un polpo facevano sì che fingere di non vederla fosse come pretendere di ignorare qualcuno con una brutta sbronza. Ci fu un rombo di tuono. Le cime degli alberi sulla passeggiata lungo l'Hudson River, le foglie ancora in boccio, furono sbatacchiate in modo
selvaggio dal vento. La radio di D'Agosta crepitò. "Tenente, abbiamo un altro problema qui al metal-detector." D'Agosta sentiva in sottofondo una vocina stridula. "Lei non sa chi sono io!" "Ditele di spostarsi. Dobbiamo far muovere quella gente. Se non vogliono passare il controllo, fateli uscire dalla coda. Non devono intralciare l'accesso." Mentre riponeva la radio nella fondina, arrivò Coffey, seguito dal responsabile della sicurezza del museo. "Rapporto", disse bruscamente. "Tutti al loro posto", rispose D'Agosta, togliendosi di bocca il sigaro e osservandone l'estremità molliccia e bagnata. "Quattro agenti in borghese al party. Quattro poliziotti in divisa pattugliano il perimetro con i tuoi uomini. Cinque controllano il traffico all'esterno, altri cinque sono al metaldetector e all'ingresso. Ho messo poliziotti in divisa anche nel Planetario. Due di loro mi seguiranno nella mostra quando verrà tagliato il nastro. Ho un agente nella Sala Computer, un altro nel Comando Sicurezza..." Coffey stralunò gli occhi. "Gli uomini in divisa che entrano nella mostra con la gente non facevano parte del piano." "Soltanto una formalità. Voglio essere vicino alla testa della folla, quando entrano. Se ben ricordi, non mi hai permesso di fare un'ispezione preventiva." L'agente federale sospirò. "Fa' come credi, ma non voglio un fottuto servizio di scorta. Tenetevi da parte, non intralciate l'accesso alle vetrine. Okay?" Il poliziotto annuì. Coffey si rivolse a Ippolito. "E lei?" "Be', signore, tutti i miei uomini sono in posizione. Esattamente dove li voleva lei." "Bene. La mia base sarà qui nella Rotonda, durante la cerimonia. Dopo, andrò in giro anch'io. Nel frattempo, Ippolito, la voglio vicino al palco con D'Agosta. Tenete d'occhio il direttore e il sindaco. Conoscete la routine. D'Agosta, tu sei pregato di startene tranquillo. Niente spacconate: non rovinare il tuo ultimo giorno. Intesi?" A Waters, nella fredda Sala Computer illuminata dalle luci al neon, doleva la spalla per il peso del fucile. Di sicuro era il più brutto incarico che gli avessero mai affidato. Guardò il segaiolo - non riusciva a dargli altro
nome - che pestava sui tasti. Pestava, pestava, per ore non aveva fatto altro che pestare. E bere Coca-Cola dietetica. Il poliziotto scosse la testa. Per prima cosa, l'indomani mattina, avrebbe chiesto a D'Agosta la rotazione. Stava diventando matto, lì. Il segaiolo si massaggiò il collo e si stirò. "Lunga la giornata, eh?" disse a Waters. "Eh, sì." "Sono quasi cotto. Non immagini cosa riesce a fare questo programma." "Ci credo", borbottò l'agente senza entusiasmo. Guardò l'orologio. Altre tre ore prima del cambio. "Guarda qui." Il segaiolo schiacciò un tasto. Waters si avvicinò un po' di più allo schermo. Osservò. Niente, soltanto file di lettere: quei ghirigori che probabilmente il segaiolo chiamava "programma". Poi, sullo schermo apparve l'immagine di uno scarafaggio. Da principio era fermo. Dopo poco allungò le zampe verdognole e cominciò a camminare in mezzo alle lettere. Allora sul monitor comparve un altro scarafaggio. I due insetti si guatarono e si avvicinarono. Poi si misero a scopare. Waters guardò il segaiolo. "Che roba è?" domandò. "Continua a guardare." Di lì a poco, erano nati quattro scarafaggini, che si misero a loro volta a scopare. In poco tempo, lo schermo era pieno di scarafaggi. Allora gli insetti cominciarono a mangiare le lettere sullo schermo. In un paio di minuti, tutte le parole erano sparite: soltanto scarafaggi che vagavano in ogni senso. Poi gli insetti cominciarono a mangiarsi a vicenda. Dopo un po', non restava più nulla: soltanto lo schermo vuoto. "Divertente, no?" domandò il segaiolo. "Sì", disse Waters. Fece una pausa. "Ma cosa fa, precisamente, questo programma?" "È solo..." Sembrava un po' imbarazzato. "Solo un passatempo. Non fa niente." "Quanto ci hai messo a prepararlo?" domandò l'agente. "Due settimane", rispose l'altro con orgoglio, succhiando aria attraverso i denti. "A tempo perso, naturalmente." Il tecnico tornò alla tastiera e il ticchettio ricominciò. Waters si rilassò, appoggiandosi alla parete accanto alla porta della Sala Computer. Sentiva il suono flebile dell'orchestrina sopra la testa, il rullo dei tamburi, le vibrazioni dei bassi, lo gnaulio dei sassofoni. Gli pareva anche di sentire lo scalpiccio di migliaia di piedi strascicati. E lui era lì, intrappolato in quella
gabbia di matti con la sola compagnia di un segaiolo che pestava sui tasti. I momenti più eccitanti erano quelli in cui il tipo si alzava per prendersi un'altra Coca dietetica. In quel momento, Waters udì un rumore nella Sala Elettricità. "Hai sentito?" domandò. "No", disse il segaiolo. Un altro lungo silenzio. Poi, un tonfo deciso. "Cosa diavolo è?" chiese ancora Waters. "Non saprei", rispose l'altro. Smise di digitare e si guardò attorno. "Forse dovresti dare un'occhiata." L'agente portò la mano sul calcio liscio del fucile e guardò la porta che dava nella stanza accanto. Probabilmente niente. L'ultima volta, con D'Agosta, non c'era niente. Doveva soltanto entrare e dare una sbirciata. Naturalmente, poteva chiamare il Comando Sicurezza e chiedere rinforzi. Era proprio nel corridoio. Il suo partner, Garcia, probabilmente era là... Il sudore gli colava sulle sopracciglia. Istintivamente, alzò una mano per asciugarlo. Ma non fece un passo verso la Sala Elettricità. 43 Quando Margo svoltò l'angolo per entrare nella Grande Rotonda, vide una scena da pandemonio: gente che agitava ombrelli zuppi, chiacchierava in capannelli e folti gruppi, aggiungeva il proprio baccano al frastuono del ricevimento. Spinse Frock fino al cordone di velluto teso accanto al metaldetector sorvegliato da un poliziotto in divisa. Oltre quello, il Planetario era inondato di luce gialla. Un enorme lampadario appeso al soffitto spandeva in ogni dove iridi sfavillanti. Mostrarono i tesserini del museo al poliziotto, che sganciò prontamente la corda e li lasciò entrare, perquisendo prima la borsa di Margo. Mentre la ragazza passava, l'agente le lanciò un sorriso divertito. Allora lei abbassò gli occhi e capì: aveva ancora indosso i jeans e la maglietta. "Presto", disse Frock. "Lassù, al leggio." Il leggio e il podio erano in fondo alla sala, accanto all'ingresso della mostra. Le porte di legno scolpito erano chiuse con una catena; sopra di esse, un arco di lettere che imitavano rozzamente delle ossa formava la parola Superstizione. Ai lati c'erano stele lignee, simili a immensi pali totemici o a colonne di un tempio pagano. Margo vedeva Wright, Cuthbert e il sindaco assieme sul palco, che scherzavano e chiacchieravano, mentre un
gruppetto di tecnici armeggiava con i microfoni. Dietro di loro, Ippolito stava in mezzo a un branco di amministratori e di assistenti: parlava nella radio e gesticolava esagitato in direzione di qualcuno che non si vedeva. Il rumore era assordante. "Scusate!" gridò Frock. Con riluttanza, la gente si fece da parte. "Guarda qui quanta gente", disse poi, rivolto a Margo. "Il livello di feromone in questa stanza dev'essere astronomico. Sarà irresistibile per la bestia! Dobbiamo fermarli subito." Additò un punto. "Guarda... c'è Gregory!" Agitò la mano verso Kawakita, fermo ai bordi della piattaforma da ballo, un bicchiere in mano. Il vicecuratore si fece strada verso di loro. "Eccola, finalmente, dottor Frock. La stavano cercando. La cerimonia sta per cominciare." Il professore afferrò e strinse il braccio di Kawakita. "Gregory!" urlò. "Devi aiutarci! Questo party dev'essere interrotto, e il museo va evacuato, subito!" "Come?" domandò Kawakita. "È uno scherzo o cosa?" Interrogò con gli occhi Margo, poi tornò a guardare Frock. "Greg", disse la ragazza, sovrastando il baccano, "abbiamo scoperto cos'è che uccide la gente. Non si tratta di un essere umano. È una creatura, una bestia. Una cosa mai vista prima. Il tuo programma di estrapolazione ci ha aiutati a identificarla. Si nutre delle fibre da imballaggio delle casse di Whittlesey. Se non può avere quelle, deve ricorrere agli ormoni dell'ipofisi umana come sostituto. Riteniamo che debba avere un regolare..." "Ehi! Un momento. Margo, che cosa stai dicendo?" "Maledizione, Gregory!" tuonò il professore. "Non abbiamo il tempo di spiegarti. Dobbiamo far evacuare questo posto immediatamente." Kawakita fece un passo indietro. "Dottor Frock, con il dovuto rispetto..." Il professore accentuò la stretta e parlò deliberatamente con lentezza. "Gregory, dammi retta. C'è una creatura terribile che vaga per il museo. Ha bisogno di uccidere, e ucciderà. Stasera. Dobbiamo mandare tutti fuori." Kawakita indietreggiò di un altro passo, guardando il palco. "Mi spiace", disse sopra il frastuono. "Non so che cosa abbiate in mente, ma se avete usato il mio programma di elaborazione per giocare qualche brutto tiro..." Si liberò dalla stretta del professore. "Credo proprio che dovrebbe salire sul palco, dottor Frock. La stanno aspettando." "Greg..." cercò di dire Margo, ma quello se n'era andato, guardandoli con sospetto. "Al palco!" ordinò Frock. "Wright può farlo. Può ordinare di evacuare il
museo." All'improvviso sentirono un rullo di tamburo e una fanfara. "Winston!" urlò Frock, portandosi nello spazio libero sotto il palco. "Winston, ascolta! Dobbiamo far sgombrare!" Le ultime parole aleggiarono in aria, mentre la banda ammutoliva. "C'è una bestia terribile nel museo!" urlò ancora Frock nel silenzio. Un mormorio istantaneo si levò dalla folla. Le persone più vicine all'uomo in carrozzella indietreggiarono, guardandosi l'un l'altra e bisbigliando. Wright fissò Frock, mentre Cuthbert si separava rapidamente dagli altri. "Frock", sibilò quest'ultimo. "Cosa diavolo pensi di fare?" Scese dal palco e lo raggiunse. "Cosa ti succede? Sei ammattito?" disse con un sussurro maligno. Il professore allungò la testa. "Ian, c'è una bestia tremenda che vaga per il museo. So che abbiamo avuto degli screzi, ma credimi, ti supplico. Di' a Wright che dobbiamo mandare fuori questa gente. Subito." Cuthbert lo guardò incredulo. "Non so che cos'hai in mente", disse lo scozzese, "o a quale gioco stai giocando. Forse è un tentativo disperato di mandare a monte la mostra all'ultimo momento, di mettermi in ridicolo. Ma ti avverto: fa' un'altra sceneggiata e chiamo Ippolito perché ti butti fuori di qui; poi provvederò io stesso affinché tu non ci metta più piede." "Ian, ti prego..." Quello si voltò e tornò verso il palco. Margo posò una mano sulla spalla del professore. "È inutile", disse pacatamente. "Non ci crederanno mai. Vorrei che ci fosse George Moriarty ad aiutarci. La mostra è sua, deve essere da qualche parte. Ma non riesco a vederlo..." "Cosa possiamo fare?" domandò Frock, tremando per il senso d'impotenza. Le conversazioni attorno a loro erano riprese non appena gli invitati accanto al palco si erano convinti che doveva trattarsi di una sorta di scherzo. "Dovremmo cercare Pendergast", rispose la ragazza. "È il solo che abbia abbastanza potere per fare qualcosa." "Nemmeno lui ci crederà", sospirò l'uomo, in preda allo sconforto. "Forse non del tutto", continuò Margo, spingendo la carrozzina. "Però ci darà ascolto. Dobbiamo sbrigarci." Dietro di loro, Cuthbert fece un cenno: ci fu un altro rullo di tamburi, seguito dalla fanfara. Poi il vicedirettore andò al leggio e alzò le mani.
"Signore e signori", gridò. "Ho l'onore di presentarvi il direttore del Museo di Storia Naturale di New York, Winston Wright!" Margo si voltò a guardare Wright che si avvicinava al leggio, sorridendo e salutando la folla con la mano. "Benvenuti!" urlò. "Benvenuti, amici newyorkesi, cittadini del mondo! Benvenuti all'inaugurazione della più grande mostra che si sia mai tenuta in un museo!" Le parole amplificate echeggiarono nella sala. Un applauso fragoroso salì al soffitto a cupola. "Dobbiamo chiamare la sicurezza", propose Margo. "Loro sapranno dove si trova Pendergast. Ci sono dei telefoni nella Rotonda." Cominciò a spingere Frock verso l'ingresso. Alle sue spalle, si sentiva la voce di Wright risuonare attraverso gli altoparlanti: "Si tratta di una mostra sulle nostre più profonde credenze, sulle nostre più profonde paure, sui lati più luminosi e più oscuri della natura umana..." 44 D'Agosta, accanto al palco, guardava la schiena di Wright intento a parlare alla folla. Poi il tenente prese la radio. "Bailey?" sussurrò. "Quando tagliano il nastro, voglio che tu e McNitt vi mettiate in testa. Alle spalle di Wright e del sindaco, ma davanti a chiunque altro. Capito bene? Agite con garbo, ma non lasciatevi mettere da parte." "Ricevuto, tenente." "Quando la mente umana fu in grado di capire l'universo, la prima domanda che si pose fu: Cos'è la vita? E, subito dopo: Cos'è la morte? Abbiamo imparato molto della vita. Ma, a dispetto della nostra tecnologia, sappiamo pochissimo della morte e di quello che ci aspetta..." La folla ascoltava rapita. "Abbiamo sigillato la mostra in modo che voi, nostri ospiti d'onore, possiate entrare per primi. Potrete ammirare molti rari e squisiti manufatti, la maggior parte dei quali vengono esibiti per la prima volta. Vedrete immagini stupende e terrificanti, il bene sommo e il male estremo, simboli della lotta dell'uomo per capire e tenere testa al mistero ultimo..." D'Agosta si chiedeva che cosa fosse successo col vecchio curatore sulla sedia a rotelle. Frock: ecco come si chiamava. Aveva urlato qualcosa, ma Cuthbert, il capintesta dell'evento, lo aveva cacciato. Politica interna del museo... peggio che giù alla Centrale. "...la più fervida speranza che questa mostra possa inaugurare una nuo-
va era per il nostro museo: un'era in cui le innovazioni tecnologiche e la rinascita del metodo scientifico contribuiranno a fare rifiorire l'interesse del pubblico per i musei..." Il tenente scrutò la sala, facendo mentalmente l'appello dei suoi uomini. Sembravano tutti al loro posto. Fece un cenno alla guardia all'ingresso della mostra, che tolse la catena dalle porte di legno massiccio. Finito il discorso, uno scroscio di applausi tornò a colmare l'ampio salone. Poi fu Cuthbert a riprendere posto davanti al leggio. "Vorrei ringraziare le tante persone..." D'Agosta guardò l'orologio, chiedendosi dove potesse mai essere Pendergast. Fosse stato nella sala, l'avrebbe saputo. Pendergast non era il tipo da passare inosservato nemmeno in mezzo a una folla. Cuthbert reggeva adesso un gigantesco paio di forbici, che porse al sindaco. Questi afferrò uno dei manici offrendo l'altro a Wright, e i due scesero i gradini del palco fino all'enorme nastro che sbarrava l'ingresso alla mostra. "Che cosa aspettiamo?" disse, faceto, il sindaco, scoppiando poi a ridere. La coppia tagliò il nastro in mezzo ai lampi dei fotografi, e due guardie aprirono lentamente la porta. La banda intonò The Joint Is Jumpin'. "Ora!" ordinò D'Agosta parlando alla radio. "In posizione." Mentre gli applausi e gli evviva risuonavano fragorosi, il tenente procedette svelto lungo la parete, poi varcò la porta della mostra deserta. Dopo una rapida occhiata, riafferrò la radio. "Tutto a posto." Accigliato, Ippolito si unì a D'Agosta. Sottobraccio, sindaco e direttore si fermarono sulla soglia, posando per i fotografi. Poi, con un sorriso radioso, entrarono. Mentre il tenente precedeva il gruppetto in entrata, gli applausi e gli evviva si placarono. Dentro faceva freddo, c'era odore di moquette nuova e di polvere, e c'era uno sgradevole puzzo di putredine. Wright e Cuthbert facevano da ciceroni al sindaco. Alle loro spalle, D'Agosta vedeva i suoi due poliziotti e, dietro, la gente che si accalcava, tendendo il collo, gesticolando, chiacchierando. Dal punto in cui si trovava lui, sembrava un'onda di marea. Una sola uscita. Merda. Parlò nella radio. "Walden, devi dire ai custodi di rallentare l'afflusso. Qui si sta ammassando troppa gente." "Ricevuto, tenente." "Questa", stava spiegando Wright, sempre sottobraccio al sindaco, "è una rarissima lettiga sacrificale mesoamericana. Sulla parte frontale è raffigurato il Dio Sole, difeso da giaguari. Il sacerdote uccideva le vittime su
quel pianale, ne strappava il cuore e lo alzava verso il sole. Il sangue scorreva in quelle due canalette e si raccoglieva sul fondo." "Mi farebbe comodo giù ad Albany", disse il sindaco Wright e Cuthbert scoppiarono a ridere, l'eco che si ripercuoteva sui manufatti immobili e sulle vetrine. Coffey stava nella postazione, gambe divaricate, mani sui fianchi, volto inespressivo. La maggior parte degli ospiti erano arrivati, e quelli che non erano ancora lì probabilmente avevano rinunciato a venire. Pioveva a dirotto, adesso, acqua a catinelle. Dall'altra parte della Rotonda, oltre la porta orientale, vedeva distintamente i festeggiamenti nel Planetario. Era una bella sala, con stelle scintillanti che rivestivano la vellutata cupola nera a venti metri di altezza. Galassie turbinanti e nebulose opache popolavano le pareti. Wright stava parlando dal palco, e presto ci sarebbe stato il taglio del nastro. "Come sta andando?" domandò l'agente federale a uno dei suoi uomini. "Niente di eccitante", rispose questi, scrutando i pannelli. "Nessuna violazione, nessun allarme. Il perimetro è tranquillo come una tomba." "Come piace a me", disse Coffey. Tornò a guardare il Planetario appena in tempo per vedere due guardie che aprivano le enormi porte della mostra Superstizione. Si era perso il taglio del nastro. La folla stava ora avanzando... tutti e cinquemila insieme, a quanto pareva. "Dove diavolo pensi che possa essere Pendergast?" chiese a un altro agente. Era contento di non averlo fra i piedi in quel momento, ma lo preoccupava l'idea che quello stronzo di meridionale se ne andasse in giro incontrollato. "Non l'ho proprio visto", si sentì rispondere. "Vuole che senta il Comando Sicurezza?" "No", belò il capo. "Si sta bene senza. Bene e in pace." La radio di D'Agosta sibilò. "Qui Walden. Ho bisogno di aiuto. Le guardie fanno fatica a controllare il flusso. C'è troppa gente, ancora." "Dov'è Spenser? Dovrebbe trovarsi lì vicino. Mettilo a sbarrare l'ingresso: che lasci uscire la gente ma non faccia più entrare nessuno, mentre tu e le guardie del museo incolonnate gli invitati con ordine. La folla deve essere tenuta sotto controllo." "Sissignore."
La mostra si andava rapidamente popolando. Erano trascorsi venti minuti: Wright e il sindaco erano quasi in fondo alla sala, accanto all'uscita posteriore bloccata. Da principio si erano spostati in fretta, seguendo il corridoio centrale ed evitando quelli secondari. Ora, però, Wright si era fermato davanti a una vetrina per spiegare qualcosa al sindaco, e la gente li superava avventurandosi negli angoli più remoti. "State vicini alla testa del gruppo", ordinò il tenente a Bailey e McNitt, le sue due "avanguardie". Balzò avanti e diede una rapida occhiata a due nicchie laterali. Mostra spettrale, pensò. Una sofisticatissima casa infestata, con annessi e connessi. Le luci soffuse, per esempio. Non così soffuse, però, da nascondere i particolari più macabri. Come quella divinità congolese, con gli occhi sporgenti e il torso crivellato di chiodi appuntiti. O quella mummia, in piedi e sola nella vetrina, con le gocce di sangue. Questo, pensò, mi sembra proprio eccessivo. Gli invitati cominciavano a sparpagliarsi, e D'Agosta li precedette ispezionando la successiva serie di nicchie. Tutto a posto. "Walden, come sta andando?" domandò per radio. "Tenente, non riesco a trovare Spenser. Qui in giro non lo vedo, e non posso andare a cercarlo, con tutta la gente che c'è." "Merda. Va bene, farò venire Drogan e Frazier a darti una mano." Si mise in comunicazione con i due agenti in borghese che pattugliavano il party. "Drogan, ci sei?" Una pausa. "Sì, tenente." "Tu e Frazier dovete andare a dare una mano a Walden all'ingresso della mostra, di corsa." "Ricevuto." Si guardò attorno. Altre mummie, ma nessuna sporca di sangue. Si fermò, raggelato. Le mummie non sanguinano. Lentamente, si girò contrastando la folla di beoti impazienti. Poteva essere una trovata di qualche curatore balzano. Una cosa studiata. Ma doveva esserne sicuro. La vetrina era, come tutte le altre, circondata di gente. D'Agosta si fece largo tra la ressa e guardò la didascalia: "Sepoltura anasazi dalla Grotta della Mummia, Canyon del Muerto, Arizona". Le gocce di sangue secco sulla testa e sul torace della mummia sembravano cadute dall'alto. Cercando di non dare nell'occhio, l'uomo si avvicinò il più possibile alla vetrina e osservò.
Sopra la testa della mummia, la vetrina senza copertura lasciava intravedere il soffitto coperto di tubi e fili. Una mano, un orologio e il polsino di una camicia azzurra pendevano dall'orlo della vetrina. Dal dito medio della mano penzolava una stalattite di sangue rappreso. Il tenente si ritrasse in un angolo, si guardò attorno e parlò concitato nella radio. "D'Agosta chiama Comando Sicurezza." "Sono Garcia, tenente." "Garcia, ho trovato un cadavere. Dobbiamo far sloggiare tutti. Se lo vedono e si fanno prendere dal panico, siamo fottuti." "Gesù", si sentì esclamare all'altro apparecchio. "Mettiti in contatto con le guardie e con Walden. Nessuno deve più entrare nella mostra. Hai capito bene? Voglio che il Planetario sia sgombro, casomai ci fosse un fuggi-fuggi. Manda tutti fuori, ma senza allarmarli. Ora cercami Coffey." "Ricevuto." D'Agosta si guardò attorno, cercando di scovare Ippolito. La radio gracchiò. "Sono Coffey. Cosa diavolo succede?" "C'è un cadavere, qui. È sopra una vetrina. Per ora sono stato il solo a vederlo, ma non è detto che duri... Dobbiamo mandare tutti fuori, finché siamo ancora in tempo." Mentre apriva la bocca per aggiungere dell'altro, sentì una voce sovrastare il baccano della folla. "Come sembra vero quel sangue." "C'è una mano lassù", disse poi qualcun altro. Due donne si stavano scostando dalla vetrina, gli occhi alzati. "C'è un cadavere!" esclamò una delle due. "Non è un vero cadavere", replicò l'altra. "Dev'essere una trovata per l'inaugurazione." D'Agosta alzò una mano, tornando verso la vetrina. "Attenzione, prego!" Ci fu un breve, terribile momento di silenzio. "Un cadavere!" si sentì urlare. Il pubblico fu percorso da un ondeggiamento, seguito da un'improvvisa immobilità. Poi, qualcuno gridò: "È stato assassinato!" La folla parve esplodere a raggiera: molti inciamparono e caddero. Una cicciona in abito da cocktail vacillò all'indietro e rovinò addosso a D'Agosta, mandandolo a sbattere contro la vetrina. L'aria nel torace del tenente, ora schiacciato da altri corpi, uscì lentamente. Poi l'uomo sentì la vetrina
vacillare. "Ehi, attenzione", ansimò. Dall'oscurità sovrastante, qualcosa scivolò dall'orlo della vetrina e precipitò sulla calca, atterrando alcuni invitati. Dalla sua scomoda posizione, il tenente riuscì a capire soltanto che quel qualcosa era insanguinato, e che era un essere umano. Non avrebbe saputo dire se aveva la testa. Scoppiò il pandemonio. Lo spazio angusto si riempì di gemiti e urla, e tutti si misero a correre, aggrappandosi ai vicini, incespicando. D'Agosta sentì la vetrina crollare. All'improvviso la mummia cadde a terra, e il tenente le fu sopra. Mentre si aggrappava a un montante, sentì che una scheggia di vetro gli tagliava il palmo della mano. Cercò di alzarsi, ma fu ributtato contro il telaio dalla folla ondeggiante. Sentì la radio emettere un sibilo, scoprì di averla ancora nella destra e se la portò all'orecchio. "Sono Coffey. Cosa sta succedendo?" "È scoppiato il casino! Dobbiamo far evacuare la sala immediatamente o..." "Merda!" imprecò con un ruggito, mentre la radio gli veniva calciata via di mano dalla folla impazzita. 45 Scoraggiata, Margo guardava Frock che sbraitava a un telefono interno appeso alla parete di granito della Grande Rotonda. La voce amplificata di Wright, proveniente dal Planetario, le impediva di capire anche una sola parola di quello che diceva il professore. Infine, lo scienziato riattaccò, sbattendo la cornetta. Voltò la sedia a rotelle, portandosi di fronte alla ragazza. "È assurdo. A quanto pare, Pendergast è giù nello scantinato. O, almeno, c'era. Lo ha detto per radio circa un'ora fa. Non intendono mettersi in contatto con lui senza autorizzazione." "Nello scantinato? Dove?" domandò lei. "Settore 29, dicono. Perché sia laggiù, o fosse laggiù, rifiutano di comunicarlo. A mio avviso non lo sanno proprio. Il Settore 29 copre un'area molto vasta." Guardò Margo. "Che ne pensi?" "Di che cosa?" "Di andare nello scantinato, naturalmente." "Non saprei", rispose incerta la ragazza. "Forse dovremmo ottenere quell'autorizzazione e farlo venire su."
Il professore si agitò con impazienza nella sedia. "Non sappiamo nemmeno a chi chiederla, un'autorizzazione simile." La fissò, rendendosi conto della sua titubanza. "Non devi preoccuparti che la creatura possa prendersela con noi, cara. Se ho ragione, sarà attirata dalla concentrazione di gente qui nella mostra. È nostro dovere fare il possibile per prevenire la catastrofe; le nostre scoperte ce lo impongono." Margo esitava ancora. Era facile per Frock dire frasi magniloquenti. Lui non era stato là dentro. Non aveva sentito quei passi felpati e furtivi. Non era scappato alla cieca nell'oscurità terrificante... La ragazza trasse un profondo respiro. "Ha ragione, ovviamente. Andiamo." Il Settore 29 si trovava all'interno del perimetro di sicurezza del Comparto Due, sicché dovettero mostrare il tesserino di riconoscimento due volte prima di arrivare all'ascensore. A quanto pareva, la sospensione del coprifuoco di quella sera aveva fatto sì che i poliziotti fossero più interessati a fermare persone sospette o non autorizzate che a limitare i movimenti dei funzionari del museo. "Pendergast!" urlò Frock, mentre Margo lo spingeva fuori dell'ascensore nel corridoio oscuro dello scantinato. "Sono il dottor Frock. Mi sente?" La sua voce echeggiò e svanì. Margo conosceva la storia del Settore 29. Quando nelle sue adiacenze era stata impiantata la centralina elettrica, l'area ospitava tubi di vapore, gallerie di rifornimento, stanzini sotterranei usati da quei primi operai. Allorché nel 1920 il museo era stato dotato di impianti più moderni, le vecchie strutture erano state tolte: l'area si era trasformata in una serie di spettrali nicchie usate adesso per il magazzinaggio. La giovane spingeva Frock lungo i bassi corridoi. Di quando in quando, il professore bussava a una porta o urlava il nome di Pendergast. Ogni volta, ai suoi richiami rispondeva il silenzio. "Stiamo perdendo tempo", disse Frock, appena Margo si fermò per riprendere fiato. I capelli del professore erano scarmigliati, la giacca dello smoking stazzonata. La ragazza si guardò nervosamente attorno. Sapeva più o meno dov'erano: da qualche parte, in fondo all'intrico di corridoi, c'era l'ampio, silente spazio lasciato libero dai vecchi impianti, un pantheon sotterraneo e buio usato adesso per conservare le raccolte di ossa di balena. A dispetto delle predizioni di Frock sul comportamento della creatura, tutte quelle urla del professore la preoccupavano.
"Potrebbero volerci ore", riprese l'uomo. "Magari non è nemmeno più qui. Forse non c'è mai stato." Sospirò. "Pendergast era la nostra ultima carta." "Forse il rumore e la confusione hanno spaventato la creatura, costringendola a nascondersi lontano dal party", ipotizzò Margo, esprimendo una speranza che non aveva. Frock appoggiò la testa sulle mani. "È improbabile. La bestia si sarà lasciata guidare dal fiuto. Per furba e intelligente che possa essere, è come un serial killer: quando sente l'odore del sangue, non riesce a controllarsi." Il professore raddrizzò il busto, gli occhi accesi di nuovo vigore. "Pendergast!" tornò a gridare. "Dove diavolo è?" Waters stava in ascolto, il corpo in tensione. Sentiva il cuore pulsare, e gli pareva di non riuscire più a far entrare aria a sufficienza nei polmoni. Si era già trovato in situazioni di estremo pericolo: gli avevano sparato, lo avevano accoltellato, una volta si era perfino beccato dell'acido in faccia. Aveva sempre mantenuto la calma; quasi il distacco, all'occorrenza. Ora, un rumorino e mi lascio prendere dal panico. Si infilò le dita nel colletto e tirò. Si soffoca in questa maledetta stanza. Si impose di respirare più lentamente e più profondamente. Posso chiamare Garcia. Andremo a vedere insieme. E non troveremo niente. In quel momento si accorse che il suono dei passi sopra la sua testa aveva cambiato ritmo. Non più lo strisciare e scalpicciare che aveva sentito prima: adesso era un tamburellare continuo, come di gente che corresse. Mentre ascoltava, gli parve di udire un pianto flebile. Si sentì pervadere dalla paura. Ci fu un altro tonfo nella Sala Elettricità. Gesù mio, sta succedendo qualcosa. Afferrò la radio. "Garcia? Ci sei? Chiedo rinforzi per investigare su rumori sospetti nella Sala Elettricità." Deglutì. Garcia non rispondeva sulla sua frequenza. Mentre riponeva la radio, Waters notò che il segaiolo si era alzato e si stava dirigendo verso la Sala Elettricità. "Cosa vorresti fare?" "Voglio vedere cos'è quel rumore", rispose il tecnico, aprendo la porta. "Credo che si sia guastato di nuovo il condizionatore." Fece scorrere la mano lungo il telaio, in cerca dell'interruttore. "Un momento", lo fermò l'agente, "non..."
La radio di Waters emise una scarica. "C'è un fuggi-fuggi generale, qui!" Un'altra scarica. "...A tutte le unità, mobilitarsi per evacuazione di emergenza!" Altra scarica. "Non riusciamo a contenere la folla, occorrono rinforzi, subito, subito..." Gesù. Waters prese la radio, premette i pulsanti. In un attimo, tutte le frequenze erano state occupate. Sentiva che qualcosa di terribile stava succedendo sopra la sua testa. Merda. Alzò gli occhi. Il segaiolo non c'era più, e la porta della Sala Elettricità era aperta, ma la luce all'interno era spenta. Perché la luce era spenta? Senza distogliere lo sguardo dalla porta aperta, l'agente imbracciò il fucile, inserì il colpo in canna e si mosse. Con cautela, oltrepassò la soglia, si guardò attorno. Buio totale. "Ehi", chiamò. "Ci sei?" Mentre avanzava nella stanza oscura, si sentiva la gola secca. Sentì un piccolo tonfo alla sua sinistra: Waters si buttò istintivamente in ginocchio e sparò tre colpi, tre vampe di luce e tre suoni assordanti. Ci fu una pioggia di scintille, e una fiammata si levò verso l'alto, illuminando per un momento la stanza di luce aranciata. Il segaiolo era in ginocchio e lo guardava. "Non sparare!" urlò il tecnico, la voce spezzata. "Per favore, non sparare più!" L'agente si alzò sulle gambe tremanti, le orecchie che gli ronzavano. "Ho sentito un rumore! Perché non mi hai risposto, disgraziato?" "Era il condizionatore", disse l'altro, il volto in lacrime. "La pompa del condizionatore bloccata, come prima." Waters si voltò in cerca dell'interruttore. La polvere da sparo aleggiava nell'aria come una nebbia azzurrina. Sulla parete di fronte, una larga scatola metallica appesa al muro fumava da tre grossi fori raggiati sulla parte anteriore. L'agente abbassò la testa, si afflosciò contro la parete. Con un pop improvviso, una scarica elettrica attraversò l'interno della scatola sforacchiata, seguita da un crepitio e da un'altra eruzione di scintille. L'aria era sempre più acre. Le luci nella Sala Computer palpitarono, si abbassarono, si alzarono. Si sentì un allarme trillare, poi un altro. "Cosa succede?" urlò. Le luci si abbassarono di nuovo. "Hai distrutto il commutatore principale", gridò il tecnico, alzandosi e correndo nella Sala Computer. "Oh, merda", sussurrò Waters.
Le luci si spensero. 46 Coffey urlò di nuovo nella radio. "D'Agosta, non ti sento!" Aspettò. "Merda!" Passò sulla frequenza del Comando Sicurezza. "Garcia, che cosa sta succedendo?" "Non lo so, signore", rispose nervosamente l'interpellato. "Mi pare che il tenente D'Agosta abbia parlato di un cadavere..." Una pausa. "Signore, devo riferirle che nella mostra è scoppiato il pandemonio. Le guardie sono..." Coffey lo interruppe e passò su tutte le frequenze, ascoltando. "C'è un fuggi-fuggi generale, qui!" urlava la radio. L'agente tornò sulla frequenza del Comando Sicurezza. "Garcia, passa parola. Tutte le unità si preparino per l'evacuazione di emergenza." Tornò a guardare nella Grande Rotonda, attraverso la porta orientale del Planetario. La folla stava visibilmente ondeggiando, e il chiacchierio di sottofondo era svanito. Sopra il suono della banda, Coffey sentiva ora distintamente le urla ovattate e lo scalpiccio dei passi della gente che correva. Il flusso di persone in entrata si arrestò. Poi la folla cominciò ad arretrare, come respinta da una possente risacca. Ci furono urla rabbiose e grida confuse; a Coffey sembrò perfino di sentir piangere. La marea si bloccò di nuovo. L'agente federale si sbottonò la giacca e si voltò verso i suoi uomini. "Procedura di emergenza per contenimento folla. Svelti." All'improvviso la calca tornò a indietreggiare: grida e gemiti parossistici uscivano dalla porta aperta della sala. La musica si affievolì, tacque. In un attimo, tutti stavano correndo verso l'uscita della Grande Rotonda. "Vuoi muoverti, figlio di un cane?" berciò Coffey, dando uno spintone nella schiena a uno dei suoi uomini e urlando subito dopo nella radio: "D'Agosta, mi senti?" Mentre la marea di invitati cominciava a invadere la sala, gli agenti che tentavano di contrastarla venivano costretti a indietreggiare. Travolto dalla massa di corpi ondeggianti, anche Coffey dovette arretrare leggermente, ansimando e imprecando. "È come un maremoto!" gridò uno dei suoi uomini. "Non ce la faremo mai!" Di colpo la luce si affievolì. La radio gracchiò di nuovo.
"Sono Garcia. Signore, qui tutte le spie rosse lampeggiano, il quadro sembra un albero di Natale. Tutti gli allarmi del perimetro sono entrati in funzione." Coffey cercò di nuovo di avanzare, lottando contro la massa che procedeva in senso inverso. Non scorgeva più l'altro agente. Le luci palpitarono una seconda volta, poi si sentì un basso ronzio provenire dalla sala. Guardò e vide la spessa lastra della porta di sicurezza che calava da una fessura del soffitto. "Garcia!" sbraitò nella radio. "La porta orientale si sta chiudendo! Fermala! Falla tornare su, per l'amor di Dio!" "Signore, le spie di controllo dicono che è aperta. Ma qui sta succedendo qualcosa. Tutti i sistemi sono..." "E chi se ne frega di quello che dicono le spie di controllo! Io vedo che la porta si sta chiudendo!" A un tratto fu fatto ruotare su se stesso dalla folla dilagante. Il lamento generale era adesso continuo; uno strano, basso gemito funereo che faceva rizzare i capelli. Non aveva mai visto niente di simile, mai: fumo, spie di allarme che lampeggiavano, gente che calpestava altra gente, gli occhi pieni di terrore. I metal-detector erano distrutti e le macchine a raggi X venivano travolte da uomini in smoking e donne in abito lungo che correvano fuori sotto la pioggia battente, aggrappandosi l'uno all'altro, inciampando e cadendo sul tappeto rosso e sul marciapiede allagato. Coffey vide lampeggiare dei flash sui gradini del museo, dapprima pochi, poi sempre più numerosi. Sbraitò nella radio. "Garcia, avvisa gli agenti all'esterno. Che ripristinino l'ordine, tengano i giornalisti fuori di qui. E aprite quella porta, subito!" "Ci stanno provando, signore, ma tutti i sistemi sono fuori uso. C'è una perdita di energia. Le porte di sicurezza si abbassano indipendentemente da quel quadro elettrico, e loro non riescono ad attivare l'apertura di emergenza. Tutti gli allarmi stanno suonando..." Un uomo che passava correndo mandò quasi a gambe all'aria Coffey, che in quel momento sentì Garcia strillare: "Signore! Tutti i sistemi sono fuori uso!" "Che cazzo fa il sistema di emergenza?" L'agente federale tentò di aprirsi un varco procedendo di sghembo e si ritrovò incollato alla parete. Era inutile, non sarebbe mai riuscito a contrastare quel maremoto. La porta era già scesa fino a metà. "Mandate un tecnico! Ho bisogno del codice per l'apertura manuale!" Le luci palpitarono una terza volta e si spensero del tutto, lasciando la
Rotonda nel buio totale. Al di sopra delle urla, il rombo della porta che scendeva era ininterrotto. Pendergast fece correre la mano sulla parete di pietra grezza del cul-desac, dando colpetti con le nocche su alcuni punti del muro. L'intonaco era crepato e cadeva a pezzi, e la lampadina sul soffitto era rotta. Aperta la borsa, tirò fuori l'oggetto giallo, un casco da minatore, se lo fissò con cura sul capo e azionò l'interruttore. Fece scorrere il potente fascio luminoso sulla parete di fronte. Poi tirò fuori le mappe piegate e dirigendo la luce su quelle, camminò all'indietro contando i passi. Tolto dalla tasca un temperino, ne conficcò la punta nella parete e ruotò delicatamente la lama. Un pezzo d'intonaco grosso come un piatto cadde a terra, rivelando le tracce indistinte di un antico passaggio. L'agente scribacchiò qualcosa sul taccuino, uscì dal cul-de-sac e procedette lungo la parete, contando sottovoce. Si fermò davanti a una catasta di lastre di cartongesso sgretolato. Con uno strattone, le scostò dalla parete. Il materiale cadde con un tonfo, sollevando una nuvola di polvere bianca. Il fascio di luce illuminò un vecchio sportello alla base della parete. Provò a spingerlo con le mani. Non cedeva. Allora lo colpì con un calcio poderoso, e lo sportello si spalancò stridendo. Uno stretto tunnel di servizio scendeva inclinato, aprendosi nel soffìtto del sotterraneo. Nel piano sottostante, un rigagnolo d'acqua si stendeva come un nastro d'inchiostro. Rimise a posto lo sportello, tracciò un altro segno sulla mappa e proseguì. "Pendergast!" sentì esclamare in lontananza. "Sono il dottor Frock. Mi sente?" L'agente si fermò, inarcando le sopracciglia per la sorpresa. Aprì la bocca per rispondere. Poi si bloccò. C'era uno strano odore nell'aria. Lasciata la borsa aperta sul pavimento, s'infilò in un vecchio deposito, chiuse la porta e alzò la mano al casco, spegnendo la luce. Nel centro della porta c'era una finestrella di vetro protetto da una rete metallica, sporco e crepato. Frugando in una tasca, Pendergast trovò un clinex, ci sputò sopra, lo passò sul vetro e scrutò all'esterno. Qualcosa di grosso e di scuro era appena entrato nella parte bassa del suo campo visivo. Sentiva uno sbuffo sonoro, come di un cavallo sfiatato che respirasse affannosamente. L'odore diventò più forte. Nella luce fioca, Pendergast riuscì a vedere un garrese muscoloso, coperto di ispidi peli neri.
Lentamente, deciso, respirando dal naso a brevi intervalli, l'uomo infilò la mano sotto la giacca e tirò fuori la .45. Nel buio, passò le dita sul tamburo, tastando i proiettili. Poi, tenendo la pistola con entrambe le mani e puntandola verso la porta, cominciò ad arretrare. Mentre si allontanava dalla finestrella, la forma sparì dalla sua vista. Sapeva però senza ombra di dubbio che era ancora lì fuori. Sentì un colpo sulla porta, seguito da un grattare leggero. Strinse più forte la pistola mentre vedeva, o credeva di vedere, la maniglia muoversi. Chiusa o no, quella porta traballante non avrebbe fermato nessuno. Ci fu un altro tonfo ovattato, quindi il silenzio. Pendergast tornò a scrutare dalla finestrella. Non vedeva niente. Puntò il revolver verso l'alto e posò l'altra mano sulla maniglia. Nel silenzio, l'orecchio teso, contò fino a cinque. Di scatto, spalancò la porta, portandosi al centro del passaggio e poi dietro un angolo. In fondo al corridoio una forma scura era ferma davanti a un'altra porta. Anche nella luce fioca Pendergast riuscì a distinguere i movimenti vigorosi e pesanti di un quadrupede. Lui era il più razionale degli uomini, ma gli sfuggì un risolino incredulo nel vedere che la creatura muoveva la maniglia. La luce nel corridoio si abbassò, tornò a ravvivarsi. L'agente si piegò su un ginocchio, alzò la pistola in posizione di combattimento, prese la mira. La luce palpitò una seconda volta. L'uomo vide la creatura, seduta sui posteriori, che si alzava e si voltava verso di lui. Pendergast mirò su un lato della testa, espirò. Poi tirò lentamente il grilletto. Ci furono uno scoppio e una vampa, mentre l'agente si rilassava per assorbire il rinculo dell'arma. Per una frazione di secondo vide una striscia bianca comparire sulla testa della creatura. Subito dopo la bestia sparì dietro un angolo, e il corridoio tornò deserto. Pendergast sapeva con precisione cos'era successo. Aveva già visto una volta quella striscia bianca, cacciando l'orso: il proiettile era rimbalzato dal cranio asportando un lembo di peli e pelle ed esponendo l'osso. Il colpo piazzato alla perfezione di una pallottola corazzata calibro .45, in lega di cromo, aveva avuto sul cranio della bestia l'effetto di una pallina di gomma. L'uomo si raddrizzò, lasciando che la canna della pistola si abbassasse verso il pavimento, mentre la luce palpitava di nuovo e si spegneva definitivamente. 47
Da dove si trovava, accanto al buffet, Smithback vedeva benissimo Wright davanti al microfono, gesticolante, la sua voce che echeggiava da un vicino altoparlante. Il giornalista non si dava pensiero di ascoltare; sapeva con assoluta certezza che la Rickman avrebbe provveduto a inviargli con la massima sollecitudine una copia del discorso. Ora, finiti i convenevoli, la folla impaziente era entrata nella mostra, dove sarebbe rimasta per mezz'ora almeno. Ma Smithback, noncurante, non si mosse. Guardò ancora una volta la tavola, chiedendosi se era meglio prendere un bel gamberone grasso o un sottile bliny au caviare. Decise per il bliny, il quinto per il momento, e cominciò a mangiucchiarlo. Il caviale, notò, era grigio e non salato... vero storione, non il succedaneo che propinavano di solito agli incontri con la stampa. Afferrò comunque anche un gamberone, il secondo, seguito da una cucchiaiata di seviche e da tre cracker ricoperti da uova di merluzzo affumicate, con capperi e limone; da alcune fette sottilissime di roast-beef al sangue - non la tartare, grazie tante - e da due bei pezzi di uni sushi... Il suo sguardo vagliò la fila di squisitezze che si stendeva su cinque metri di tavolo. Non aveva mai visto una simile abbondanza, ed era ben deciso a far sì che niente andasse sprecato. La banda s'interruppe all'improvviso, e quasi nello stesso istante qualcuno gli dette una gomitata violenta nelle costole. "Ehi!" cominciò a dire Smithback; poi, alzando gli occhi, si ritrovò quasi istantaneamente sommerso da una massa di gente ondeggiante, ruggente, urlante. Fu sbattuto contro il tavolo del buffet; lottò per ritrovare l'equilibrio; scivolò e cadde; rotolò sotto il tavolo. Si acquattò, guardando i piedi che gli tambureggiavano accanto. Si sentivano urla e rumori terrificanti di corpi schiacciati l'uno contro l'altro. Udì mozziconi di frasi: "...cadavere!" "...assassinio!" Che il killer avesse colpito di nuovo, in mezzo a migliaia di persone? Non era possibile. Una scarpa femminile nera, con un alto tacco, micidiale, rotolò sotto il tavolo fermandosi accanto al suo naso. Smithback l'allontanò con disgusto, rendendosi conto di avere ancora in mano un pezzo di gamberone, che trangugiò. Qualunque cosa stesse accadendo, stava accadendo in fretta. Era incredibile la rapidità con cui il panico si diffondeva fra la gente. Il tavolo vibrò e si spostò. Il giornalista vide un enorme vassoio atterrare appena oltre l'orlo della tovaglia. Cracker e Camembert stavano volando. Il giovanotto tirò a sé il vassoio e riprese a mangiare. A venti centimetri dalla sua faccia vedeva una moltitudine di piedi che stavano calpestando un bel
pezzo di paté riducendolo in fanghiglia. Un altro vassoio atterrò con un tonfo, spargendo sul pavimento una grigia nevicata di caviale. Le luci palpitarono. Smithback s'infilò svelto una fetta di Camembert in bocca, tenendola fra i denti e rendendosi conto a un tratto che lui se ne stava lì a mangiare mentre il più grande evento cui avesse mai assistito gli veniva servito su un piatto d'argento. Si frugò in tasca, cercando il miniregistratore, mentre le luci si spegnevano e si riaccendevano. Parlò più svelto che poté, il microfono vicinissimo alla bocca, sperando che la sua voce riuscisse a sovrastare il rumore assordante. Era un'occasione incredibile. Al diavolo la Rickman. Tutti avrebbero voluto quella storia. Sperava che, qualora vi fossero altri giornalisti, stessero tutti correndo alla disperata per guadagnare l'uscita. Le luci palpitarono di nuovo. Almeno centomila, come anticipo: non avrebbe accettato un centesimo di meno. Lui era lì, conosceva la storia fin dall'inizio. Nessuno era in una posizione migliore della sua. La luce se ne andò una terza volta, definitivamente. "Figli di puttana!" urlò Smithback. "Qualcuno riaccenda!" Margo fece svoltare a Frock un altro angolo, poi aspettò, mentre il professore chiamava di nuovo Pendergast. La voce echeggiava sconfortata. "È inutile", mormorò il professore, esasperato. "Ci sono decine di stanze in questo settore. Magari lui è dentro una di quelle e non riesce a sentirci. Proviamo ancora un po'. È la sola speranza che ci rimane." Borbottò qualcosa, mentre frugava nella tasca della giacca. "Mai uscire senza", disse con un sorriso, esibendo il passe-partout in dotazione a tutti i curatori. La ragazza aprì la serratura della prima porta e scrutò nel buio. "Signor Pendergast?" chiamò. Nell'oscurità si intravedevano scaffali di metallo con enormi ossa. Un cranio di dinosauro grosso come un Maggiolino Volkswagen era posato su un'incastellatura di legno accanto alla porta, ancora avvolto in parte dalla matrice, i denti neri che baluginavano. "L'altra!" ordinò l'uomo. Le luci palpitarono. Nessuna risposta anche nella seconda stanza. "Proviamone ancora una", la esortò Frock. "Là, sul lato opposto del corridoio." Margo si fermò alla porta indicata, con la scritta PLEISTOCENE- 12B, notando che in fondo al corridoio c'era l'accesso a una scala. Stava aprendo
la porta del magazzino, quando le luci palpitarono una seconda volta. "Questo è..." cominciò. All'improvviso, un'esplosione risuonò lungo lo stretto corridoio. Lei alzò gli occhi, il cuore in gola, cercando di localizzare la fonte del rumore. Sembrava venire da dietro l'angolo che ancora non avevano esplorato. La luce si spense. "Se aspettiamo un momento", disse Frock dopo un attimo, "entrerà in funzione il sistema di emergenza." Il silenzio era rotto soltanto dai cigolii dell'edificio. I secondi diventarono un minuto, due minuti. Poi la ragazza percepì uno strano odore, selvatico, fetido, quasi rancido. Con un gemito disperato, ricordò dove l'aveva già sentito: nella mostra buia. "Sente...?" bisbigliò. "Sì", sibilò Frock. "Va' dentro e chiudi la porta." Il respiro affannoso, Margo si aggrappò al telaio della stretta porta. Disse pacatamente, mentre l'odore diventava più intenso: "Dottor Frock? Ce la fa a seguire il suono della mia voce?" "Non c'è tempo", sussurrò lui. "Per favore, scordati di me e va' dentro." "No. Basta che venga lentamente verso di me." Si sentì il cigolio delle ruote. L'odore era adesso fortissimo, odore di terra, di poltiglia d'acquitrino, mescolato a quello di hamburger caldo. La giovane sentì un sibilo d'aria emessa da narici umide. "Sono qui", mormorò a Frock. "Presto, per favore." L'oscurità era oppressiva, un peso soffocante. Margo si acquattò dietro il telaio, appiattendosi contro la parete, lottando contro la voglia di scappare. In quel nero di pece, le ruote cigolarono ancora e la sedia urtò contro la sua gamba. Margo ne afferrò i manici e la spinse all'interno. Voltatasi, sbatté la porta, la chiuse a chiave e crollò sul pavimento, il corpo scosso da muti singhiozzi. Il silenzio colmò la stanza. Sentirono grattare alla porta, dapprima piano, poi più forte e con insistenza. Margo si spostò di scatto, sbattendo con la spalla contro la sedia a rotelle. Nel buio, sentì che Frock le prendeva dolcemente la mano. 48 Seduto tra i vetri rotti, D'Agosta prese la radio e guardò le schiene degli ultimi invitati che uscivano, mentre urla e pianti si smorzavano.
"Tenente?" Uno dei suoi uomini, Bailey, si stava alzando da un'altra vetrina distrutta. Il Planetario era un campo di battaglia: reperti rotti e sparsi sul pavimento; vetri infranti dappertutto; scarpe, borsette, brandelli di indumenti. Tutti avevano lasciato la sala tranne D'Agosta, Bailey... e il morto. Il tenente guardò il corpo decapitato, notando gli squarci sul torace, gli abiti irrigiditi dal sangue secco, le interiora esposte come l'imbottitura di un manichino sventrato. Morto da un bel pezzo, a quanto pareva. Distolse gli occhi, ma subito li riportò sul cadavere. L'uomo indossava una divisa da poliziotto. "Bailey!" urlò. "È un agente! Chi?" Arrivò Bailey, pallido nella luce fioca. "Difficile dirlo. Però mi pare che Fred Beauregard avesse un grosso anello della scuola di polizia uguale a quello." "Non dire cazzate", sibilò D'Agosta. Si chinò, lesse ad alta voce il numero sul distintivo. L'altro annuì. "È Beauregard, tenente." "Cristo!" esclamò D'Agosta, raddrizzandosi. "Ma non era in permesso?" "Giusto. Ha fatto l'ultimo turno mercoledì pomeriggio." "Dunque è qui da allora..." dedusse il tenente. La sua faccia diventò una maschera maligna. "Quel figlio di puttana di Coffey... non mi ha lasciato ispezionare la mostra. Se lo becco, dovrà rifarsi un culo nuovo." L'agente lo aiutò ad alzarsi. "È ferito." "Ci penserò più tardi", tagliò corto D'Agosta. "Dov'è McNitt?" "Non lo so. L'ultima volta che l'ho visto era intrappolato dalla Ma." Ippolito comparve da dietro un angolo lontano. Stava parlando alla radio. Il rispetto di D'Agosta per il responsabile della sicurezza crebbe di qualche punto. Non si può dire che sia una volpe, ma quando c'è bisogno non si tira indietro. La luce palpitò. "Nel Planetario la gente è in preda al panico", disse Ippolito, la radio all'orecchio. "Pare che la porta di sicurezza si stia chiudendo." "Quegli idioti! È la sola via d'uscita!" D'Agosta afferrò la radio. "Walden! Ci sei? Cosa sta succedendo?" "Signore, qui c'è il caos! McNitt è appena uscito dalla mostra. Se l'è vista brutta. Siamo all'entrata della Superstizione, cerchiamo di rallentare la folla, ma è inutile. C'è un sacco di gente calpestata, tenente." La luce palpitò una seconda volta. "Walden, ti risulta che la porta di emergenza della Rotonda si stia chiu-
dendo?" "Solo un momento." Per alcuni istanti la radio ronzò. "Merda, sì! È già a metà e continua a scendere! La gente ci si è ammassata contro come bestiame, finirà schiacciata..." Di colpo fu buio. Il tonfo di qualcosa di pesante che toccava terra soverchiò per un attimo urla e gemiti. D'Agosta tirò fuori la torcia elettrica. "Ippolito, lei è in grado di alzare la porta manualmente, vero?" "Sì. A ogni modo, il sistema di emergenza entrerà in funzione fra pochi istanti..." "Non possiamo aspettare, non ci pensi nemmeno. E per l'amor di Dio... facciamo presto." Rapidamente, si avviarono verso l'ingresso della mostra, il responsabile della sicurezza che apriva la strada nel bailamme di vetri rotti, legni spezzati e detriti di ogni sorta. Rarissimi manufatti in frantumi erano sparsi in ogni dove. Urla e lamenti crescevano, mentre si avvicinavano al Planetario. Alle sue spalle, D'Agosta non vedeva niente nella vasta oscurità della sala. Anche le candele votive erano cadute e spente. Ippolito stava esplorando l'ingresso con la torcia. Perché non si muove? si chiese stizzito. A un tratto, Ippolito caracollò all'indietro e vomitò. La torcia gli cadde a terra e rotolò nel buio. "Cosa diavolo succede?" urlò il tenente, correndo avanti con Bailey. Si fermò di colpo. L'immensa sala era una bolgia infernale. Non appena accese la torcia, a D'Agosta venne in mente il documentario sul terremoto visto in televisione la sera prima. Il podio era a pezzi, il leggio spaccato. Il palco della banda deserto: sedie capovolte, strumenti schiacciati e contorti. Il pavimento era un'accozzaglia di cibarie, indumenti, programmi della serata, piante di bambù rovesciate, orchidee che, pestate da migliaia di piedi concitati, formavano strane macchie di colore, indecifrabili. Il tenente diresse il fascio luminoso verso l'ingresso. Le immense stele lignee accanto all'entrata erano crollate in pezzi giganteschi. Si vedevano braccia e gambe inerti uscire da sotto le colonne scolpite. Bailey arrivò correndo. "Ci sono almeno otto persone schiacciate lì sotto, tenente. Credo che nessuna sia ancora viva." "Ci sono dei nostri?" domandò D'Agosta. "Temo di sì. Probabilmente McNitt e Walden, e un poliziotto in borghe-
se. Ci sono anche un paio di guardie in divisa e tre civili, mi pare." "Tutti morti? Tutti?" "Per quello che ho potuto vedere... Non si riesce a spostare le colonne." "Merda." Il poliziotto distolse gli occhi, asciugandosi la fronte. Dalla sala giunse un tonfo sordo. "È la porta di sicurezza che si chiude", ansimò Ippolito, pulendosi la bocca con una mano. S'inginocchiò accanto a Bailey. "Oh, no. Martine... Cristo, non posso crederci." Si rivolse a D'Agosta. "Martine era di guardia alle scale sul retro. Dev'essere venuto per dare una mano a contenere la folla. Era uno dei miei uomini migliori..." Il tenente si aprì un varco fra le colonne spezzate e andò verso il Planetario, muovendosi fra tavoli capovolti e sedie rotte. La mano continuava a sanguinargli. C'erano altre forme immobili sparse in ogni dove: se vive o morte, non sapeva dirlo. Quando sentì i gemiti provenire dalla parete lontana del Planetario, diresse la torcia verso la fonte del rumore. La porta di sicurezza era chiusa, e la gente ammassata contro di essa batteva i pugni sul metallo e gemeva. Alcuni si voltarono, quando lui li illuminò. Il tenente andò di corsa verso il gruppo, ignorando la radio che gracchiava. "State tutti calmi e allontanatevi di lì! Sono il tenente D'Agosta della polizia di New York." La folla si calmò un poco; D'Agosta chiamò Ippolito. Osservando il gruppo, il tenente riconobbe Wright, il direttore; Ian Cuthbert, ideatore di tutta la farsa; una donna di nome Rickman, che doveva essere a sua volta un pezzo grosso... insomma, la prima quarantina di persone che erano entrate nella mostra. Prime a entrare, ultime a uscire. "Ascoltate!" gridò. "Il responsabile della sicurezza alzerà la porta di emergenza. State indietro, per favore." Il gruppo si spostò. Al tenente sfuggì un gemito. C'erano alcuni arti incastrati sotto la pesante porta metallica. Il pavimento era viscido di sangue. Uno degli arti si muoveva debolmente, e lui riusciva a sentire un lamento flebile dall'altra parte della lastra d'acciaio. "Dio mio!" sussurrò. "Ippolito, apra questo cazzo di porta." "Faccia luce qui." Ippolito indicò una piccola tastiera accanto alla porta, poi si accovacciò e schiacciò una serie di numeri." Aspettarono. Il funzionario sembrava perplesso. "Non riesco a capire..." Digitò di nuovo i numeri, stavolta più lentamente. "Non c'è corrente", disse D'Agosta.
"Non importa", replicò Ippolito, riprovando a digitare una terza volta. "Il sistema ha un'alimentazione indipendente." La folla cominciava a mormorare. "Siamo intrappolati!" gridò un uomo. Il tenente diresse la luce verso il gruppo. "State calmi. Il cadavere nella mostra era lì da almeno due giorni. Capito? Due giorni. L'assassino se n'è andato da un pezzo." "Come lo sa?" domandò lo stesso uomo. "Fate silenzio e ascoltate", disse D'Agosta. "Vi porteremo fuori di qui. Se non riusciamo noi ad aprire, lo faranno dall'esterno. Ci vorranno pochi minuti. Nel frattempo allontanatevi tutti, state in gruppo, trovate qualche sedia e sedetevi. Non potete fare altro." Wright avanzò nella luce. "Senta, tenente", cominciò. "Dobbiamo uscire di qui. Ippolito, per l'amor del cielo, apra quella porta!" "Un momento!" urlò il poliziotto con estrema durezza. "Dottor Wright, la prego di tornare nel gruppo." Guardò le facce dagli occhi sbarrati. "Non ci sono medici, fra di voi?" Silenzio. "Infermieri?" "Io m'intendo un po' di pronto soccorso", si offrì qualcuno. "Molto bene, signor..." "Arthur Pound." "Pound. Si faccia aiutare da qualche volontario. Sembra che ci siano molte persone calpestate. Devo sapere quante sono e in quali condizioni. Farò venire Bailey, dall'ingresso, ad aiutarvi. Ha una torcia. Abbiamo bisogno di qualcuno che cerchi delle candele." Un giovane smilzo in smoking stazzonato uscì alla luce. Finì di masticare, poi deglutì. "Ci penso io", disse. "Nome?" "Smithback." "Okay, Smithback. Ha dei fiammiferi?" "Certamente." Il sindaco fece un passo avanti. La sua faccia era sporca di sangue, un livido violaceo si gonfiava sotto un occhio. "Vorrei rendermi utile." D'Agosta lo guardò con stupore. "Sindaco Harper! Forse lei può aiutare tutti. Li tenga tranquilli." "Certo, tenente." La radio gracchiò. "D'Agosta? Sono Coffey. Mi senti? Cosa diavolo sta
succedendo lì? Fammi un rendiconto della situazione." D'Agosta parlò in gran fretta. "Ascolta bene, non lo ripeterò un'altra volta. Ci sono almeno otto morti qui, probabilmente di più, e un numero indeterminato di feriti. Penso che tu sappia della gente intrappolata sotto la porta. Ippolito non riesce a farla aprire. Siamo una trentina, forse una quarantina, qui. Inclusi Wright e il sindaco." "Il sindaco! Merda. Senti, D'Agosta, tutti gli impianti sono saltati. L'apertura manuale non funziona nemmeno da questa parte. Ho chiamato una squadra con la fiamma ossidrica per tirarvi fuori. Ci vorrà un po', questa porta è spessa come quella di una camera blindata. Il sindaco sta bene?" "Sta bene. Dov'è Pendergast?" "Non ne ho idea." "Chi altri è intrappolato nel perimetro?" "Non lo so ancora. Lo stiamo appurando. Ci dev'essere qualcuno nella Sala Computer e nel Comando Sicurezza. Garcia e pochi altri. Non so negli altri piani. Qua fuori ci sono alcuni agenti in borghese e delle guardie. Sono stati spinti all'esterno dalla folla. Alcuni sono conciati male. Cosa diavolo è successo nella mostra, D'Agosta?" "È stato trovato il cadavere di uno dei miei uomini, sopra una vetrina. Sventrato, come gli altri." Fece una pausa, poi riprese con durezza: "Se mi avessi lasciato guardare, come ti avevo chiesto, tutto questo non sarebbe successo". La radio gracchiò di nuovo e tacque. "Pound!" gridò il tenente. "Com'è la situazione?" "Ne abbiamo trovato uno vivo, ma è allo stremo", rispose Pound, alzando gli occhi da una forma inerte. "Tutti gli altri sono morti. Calpestati. Forse uno o due hanno avuto un infarto, è diffìcile dirlo." "Faccia quello che può per il ferito." La radio sibilò. "Tenente", disse una voce stridula. "Sono Garcia, dal Comando Sicurezza, signore. Abbiamo..." La voce svanì, coperta da una scarica. "Garcia? Garcia? Cosa c'è?" urlò D'Agosta nella radio. "Mi spiace, signore, ma le batterie della mia ricetrasmittente si stanno scaricando. Abbiamo Pendergast in linea. Glielo passo." "Vincent", sentì dire D'Agosta nel familiare tono strascicato. "Pendergast! Dove sei?" "Nello scantinato, Settore 29. Ho sentito che gli impianti del museo sono saltati, e che siamo intrappolati nel Comparto Due. Temo di dover aggiun-
gere altre brutte notizie da parte mia. Puoi spostarti in un punto dove non ti sentano?" Il tenente si allontanò dal gruppo. "Che cosa c'è?" domandò a bassa voce. "Vìncent, sta' bene attento. C'è qualcosa qui sotto. Non so che cosa sia, ma è grosso, e credo che non sia umano." "Pendergast, non scherzare. Non ora." "Vìncent, sono serissimo. Ma non è questa la brutta notizia. La brutta notizia è che sta venendo da voi." "Cosa vuoi dire? Che tipo di animale è?" "Lo saprai quando lo avrai vicino. La puzza è inconfondibile. Che armi avete?" "Fammi pensare. Due calibro 12, un paio di pistole d'ordinanza, due pistole a proiettili stordenti. Altra roba leggera, forse." "Scordati i proiettili stordenti e le armi leggere. Ora, senti, dobbiamo parlare in fretta. Manda tutti fuori di lì. Ho incontrato quella bestia poco prima che andasse via la luce. L'ho vista dalla finestrella di uno dei depositi qui sotto, e sembrava proprio grossa. Cammina a quattro zampe. Le ho sparato due colpi, poi ha imboccato le scale in fondo al corridoio. Ho con me delle vecchie mappe, ho controllato... Sai dove sbuca quella scala?" "No." "Da quella si può accedere soltanto ai piani alterni. E allo scantinato qui, naturalmente, ma possiamo star certi che non verrà da questa parte. C'è un'uscita al quarto piano. E un'altra dietro il Planetario. Oltre l'area di servizio dietro il palco." "Pendergast, me la sto vedendo brutta qui. Cosa dovremmo fare, esattamente?" "Metti vicino alla porta i tuoi uomini... chiunque abbia un'arma. Se la creatura entra, fatela fuori. Potrebbe essere già lì. Vincent, l'ho colpita al cranio con un proiettile corazzato di quarantacinque, a distanza ravvicinata, e l'ho appena scalfita." Ci fosse stato chiunque altro alla radio, D'Agosta avrebbe pensato a uno scherzo, a un attacco di pazzia. "Capito", sussurrò. "Quanto tempo fa è successo?" "L'ho vista pochi minuti fa, un attimo prima che andasse via la corrente. Ho sparato un colpo, poi l'ho seguita nel corridoio quando si è spenta la luce. Le ho sparato ancora, ma la lampadina sul casco non è stabile, l'ho mancata. Sono appena stato a fare una ricognizione. Il corridoio finisce, e
la bestia è sparita. La sola via d'uscita è la scala che porta lì da te. Potrebbe essere nascosta sulle scale o, se sei fortunato, potrebbe essere andata a un altro piano. La sola cosa che so con certezza è che non è tornata qui." D'Agosta deglutì. "Se pensi di riuscire a portarli nello scantinato sani e salvi, scendete. Ci incontreremo qui. Queste mappe sembrano indicare una via d'uscita. Parleremo ancora quando saremo in un posto più sicuro. Capito?" "Sì." "Vincent? Ancora una cosa." "Che altro c'è?" "Questa creatura può aprire e chiudere le porte." D'Agosta ripose la radio nella fondina, si passò la lingua sulle labbra e guardò il gruppo. La maggior parte delle persone si erano sedute sul pavimento, intontite, ma qualcuno stava cercando di accendere le candele scovate dal tipo allampanato. Si rivolse al gruppo, cercando di non lasciar trapelare la propria inquietudine. "Voi tutti, venite qui e accovacciatevi contro la parete. Spegnete quelle candele." "Come sarebbe?" urlò qualcuno. D'Agosta riconobbe la voce di Wright. "Calma. Fate come ho detto. Lei, come si chiama... Smithback, spenga le candele." Si sentì gracchiare alla radio, mentre il tenente esplorava rapidamente il Planetario con la torcia. Gli angoli più lontani della sala erano così neri che sembrava fagocitassero il fascio di luce. Al centro alcune candele erano accese accanto a una forma immobile. Pound e qualcun altro erano chini su di essa. "Pound!" chiamò. "Voi due. Spegnete." "Ma è ancora vivo... " "Spegnete subito!" Si rivolse al gruppo che si andava ammassando alle sue spalle. "Nessuno di voi si muova o parli. Bailey e Ippolito, prendete quelle armi e seguitemi." "Avete sentito? A cosa vi servono le armi?" urlò Wright. Riconoscendo la voce di Coffey alla radio, D'Agosta la spense con un gesto brusco. Muovendosi con cautela, sondando l'oscurità con la torcia, il gruppetto si portò al centro della sala. Il tenente diresse il fascio verso la parete, illuminando l'area di servizio e lo scuro profilo della porta della scala. Era chiusa. Gli parve di sentire uno strano odore nell'aria; un odore particolare, di marcio, che non riusciva a identificare. La stanza, è vero,
puzzava già abbastanza. Metà di quei fottuti invitati devono aver perso il controllo delle tubature interne, quando è andata via la luce. Fece strada verso l'area di servizio, poi si fermò. "A sentire Pendergast, c'è una creatura, un animale, forse proprio sulla scala", bisbigliò. "A sentire Pendergast", ripeté sottovoce Ippolito, in tono sarcastico. "La faccia finita, Ippolito, e apra bene le orecchie. Non possiamo starcene qui con le mani in mano. Dobbiamo agire con prontezza e prudenza. E coordinazione. D'accordo? Via le sicure, e colpo in canna. Bailey, apri la porta e fa' luce, svelto! Lei, Ippolito, penserà alla parte alta della scala, io a quella bassa. Se vede una persona, chieda l'identificazione e, se non la ottiene, spari. Se vede qualcos'altro, spari immediatamente. Ci muoviamo al mio segnale." D'Agosta spense la torcia, la infilò in tasca e imbracciò il fucile. Fece cenno a Bailey di dirigere il fascio di luce verso la porta della scala. Il tenente chiuse gli occhi e mormorò una breve e muta preghiera. Poi dette il segnale. Ippolito si mise accanto alla porta, mentre Bailey la spalancava con un calcio. D'Agosta e Ippolito si precipitarono fuori. Bailey li seguì a ruota, spazzando rapidamente l'oscurità con il fascio luminoso. Furono accolti da un odore nauseabondo. Il tenente scese alcuni gradini al buio, sentì un movimento improvviso sopra di sé, subito dopo un inaudito ringhio gutturale gli fece cedere le ginocchia. Seguì un tonfo sonoro, come di un asciugamano bagnato sbattuto a terra. Quindi, delle cose umidicce colpirono le pareti e lui si sentì arrivare degli spruzzi in faccia. Si voltò e sparò a qualcosa di grosso e scuro. La luce turbinò scompostamente. "Merda!" sentì dire da un Bailey gemente. "Bailey, non farla entrare!" Sparò nell'oscurità, più volte, in alto e in basso sulle scale, finché ebbe colpi nel caricatore. L'odore acre della polvere da sparo si mescolò al puzzo disgustoso, mentre nel Planetario risuonavano grida. Risalì gli scalini fino al pianerottolo, quasi cadde inciampando in qualcosa e rientrò nella sala. "Bailey, dov'è?" urlò, mentre infilava i proiettili nel fucile, temporaneamente accecato dal fumo che ne usciva. "Non lo so", urlò Bailey. "Non ci vedo!" "È entrato o è sceso?" Due proiettili nel fucile. Tre... "Non lo so! Non lo so!" D'Agosta tirò fuori la torcia e illuminò l'agente. Il poliziotto era coperto di spessi grumi di sangue. Pezzi di carne erano appiccicati ai suoi capelli,
altri gli pendevano dalle sopracciglia. Si stava pulendo gli occhi. Un puzzo nauseabondo ristagnava nell'aria. "Sto bene", mormorò Bailey, rassicurando il suo capo. "Almeno mi pare. È 'sta roba sulla faccia che... Non riesco a vedere." D'Agosta perlustrò la stanza con la torcia, il fucile contro la coscia. Il gruppo, ammassato contro la parete, era in preda al terrore. Il tenente tornò a volgere il fascio luminoso verso la scala e vide Ippolito, o quello che ne era rimasto, steso in parte sul pianerottolo, il sangue che si spandeva rapidamente dal ventre squarciato. La cosa doveva essersi fermata ad aspettarli pochi gradini sopra il pianerottolo. Ma dove cazzo era adesso? D'Agosta mosse il fascio di luce in ampi cerchi tutt'attorno al Planetario. Se n'era andata... l'immenso spazio era vuoto. No. Qualcosa si stava muovendo al centro della sala. La luce era fioca a quella distanza, ma vide una grossa forma scura che, china sul ferito, faceva strani movimenti, a scatti. D'Agosta sentì l'uomo immobile gemere una volta... poi seguirono rumori sommessi di masticazione, e il silenzio. Il tenente infilò la torcia sotto il braccio, alzò il fucile, mirò e tirò il grilletto. Ci furono una vampa e uno scoppio. Dalla gente accalcata si levarono grida. Altri due spari e il fucile fu scarico. Cercò altri proiettili, non ne trovò. Posò il fucile, prese la pistola d'ordinanza. "Bailey!" urlò. "Vieni qui subito. Raduna le gente e prepariamoci a scendere." Fece correre il fascio luminoso sul pavimento, ma la forma non c'era più. A tre metri di distanza, vide l'ultima cosa che avrebbe voluto vedere al mondo: un cranio spaccato e un cervello sparso sul pavimento. Una scia di sangue conduceva all'interno della mostra. Qualunque cosa fosse, era corso là dentro per sfuggire agli spari. Ma non ci sarebbe rimasto a lungo. D'Agosta scattò, girò attorno alle colonne cadute e afferrò uno dei pesanti battenti di legno. Con un grugnito lo chiuse, poi passò dalla parte opposta. Ci fu un rumore all'interno, un calpestio di passi pesanti. Chiuse il secondo battente e sentì la serratura scattare. Subito dopo le porte vibrarono come se qualcuno le stesse percuotendo. "Bailey!" urlò. "Porta tutti giù per le scale!" I colpi diventarono più forti, e il tenente indietreggiò involontariamente. Il legno cominciava a scheggiarsi. Mentre puntava la pistola verso la porta, sentì urlare alle proprie spalle. Avevano visto Ippolito. Udì la voce di Bailey che si alzava in una disputa
con Wright. Poi vide i battenti fremere e una fessura si aprì alla base della porta. Attraversò la sala di corsa. "Giù per le scale, subito! Non guardatevi alle spalle!" "No", sbraitò Wright, bloccando il pianerottolo. "Guardi Ippolito! Non scenderò là sotto." "C'è un'uscita!" gridò D'Agosta. "No, non c'è. Ma al di là della mostra e..." "C'è qualcosa nella mostra!" urlò di nuovo il tenente. "Andiamocene." Bailey spostò rudemente Wright di lato e cominciò a spingere la gente attraverso la porta, non curandosi del fatto che gridassero inciampando nel cadavere di Ippolito. Almeno il sindaco sembra calmo, pensò D'Agosta. Probabilmente ha visto di peggio all'ultima conferenza stampa. "Io non scenderò!" urlò Wright. "Cuthbert, Lavinia, ascoltate. Quello scantinato è una trappola mortale. Lo so. Andiamo di sopra, ci nasconderemo al quarto piano fino a quando la creatura non se ne sarà andata." La gente aveva oltrepassato la porta e scendeva le scale barcollando. D'Agosta sentì il rumore del legno che si spaccava. Si fermò un momento. C'erano trenta e passa persone sotto di lui; soltanto tre esitavano sul pianerottolo. "Vi do un'ultima possibilità di aggregarvi a noi", disse. "Noi andiamo col dottor Wright", gli rispose la responsabile delle pubbliche relazioni. Alla luce della torcia la faccia della Rickman, tirata per la paura, sembrava quella di uno spettro. Senza aggiungere altro, il tenente si voltò e seguì il gruppo. Correndo, sentiva la voce alta, disperata, di Wright che esortava gli altri a salire le scale. 49 Coffey, sotto l'arco dell'ingresso occidentale del museo, guardava la pioggia che sferzava le maestose porte di vetro e bronzo. Urlava nella radio, ma D'Agosta non rispondeva. E quelle puttanate che Pendergast andava dicendo in giro? Un mostro. Quel tipo era già fuori di testa: figurarsi adesso, dopo il black-out. Come al solito, tutti avevano fatto del loro meglio per incasinare le cose; e adesso, come sempre, toccava a lui, Coffey, porvi rimedio. Fuori, due grossi veicoli del pronto intervento erano fermi all'ingresso, e i poliziotti che ne uscivano per sedare il tumulto stavano cominciando a mettere delle barriere su Riverside Drive. Coffey sentiva le
sirene delle ambulanze che tentavano di aprirsi un varco attraverso l'ingorgo creato dai veicoli con le radiotrasmittenti, dalle autopompe e dai furgoni dei servizi d'informazione. Tutt'attorno c'era gente che piangeva o gridava nella pioggia o stesa sotto l'ampia pensilina del museo. I giornalisti cercavano di superare il cordone di polizia, tendendo microfoni e telecamere prima di venire respinti dagli agenti. Coffey corse sotto la pioggia battente fino a raggiungere la massa argentea dell'Unità Comando Mobile. Spalancò il portello posteriore e saltò su. Dentro I'UCM c'era freddo e buio. Alcuni agenti controllavano i monitor, i volti verdi per le luci riflesse dagli schermi. Coffey prese uno sgabello e sedette. "Adunata!" urlò nella frequenza comando. "Tutto il personale dell'FBI nell'Unità Comando Mobile!" Cambiò canale. "Comando Sicurezza. Aggiornatemi." Sentì la voce di Garcia, stanca e tesa. "Tutti gli impianti sono ancora fuori uso, signore. I sistemi di emergenza non hanno funzionato, non si sa perché. Qui abbiamo soltanto torce elettriche e batterie per la trasmittente." "Ma non possono intervenire manualmente?" "È tutto comandato dal computer, signore. A quanto pare, non esiste la possibilità di intervento manuale." "E le porte di sicurezza?" "Signore, appena abbiamo azionato gli interruttori, l'intero sistema di sicurezza è andato in tilt. Pensano che dipenda dal computer. Tutte le porte di sicurezza si sono chiuse." "Cosa significa tutte?" "Che le porte di sicurezza di tutti e cinque i comparti sono chiuse. Non soltanto quelle del Comparto Due. L'intero museo è tagliato fuori." "Garcia, chi è, lì, che ne sa di più sul sistema di sicurezza?" "Forse Allen." "Passamelo." Ci fu una breve pausa. "Parla Tom Allen." "Allen, che cosa mi dici delle aperture manuali? Non funzionano?" "Qualche problema al computer. Il sistema di sicurezza è stato impiantato da una ditta straniera, giapponese. Stiamo tentando di metterci in contatto con il rappresentante, ma è difficile: il sistema telefonico è digitale, ed è andato fuori uso assieme al computer. Tutte le chiamate passano per il trasmettitore di Garcia. Anche le linee di emergenza sono fuori uso. C'è stata una reazione a catena, dopo che la scatola del commutatore è stata fatta saltare con una fucilata."
"Da chi? Non sapevo..." "Un poliziotto - come si chiama? Waters? - di servizio alla Sala Computer ha creduto di vedere qualcosa e ha tirato un paio di schioppettate alla cabina del commutatore principale." "Senti, Allen, devo mandare una squadra a ricuperare la gente intrappolata nel Planetario. C'è il sindaco lì dentro, per dio! Come si può fare? Possiamo tagliare la porta orientale del Planetario?" "Quelle porte sono progettate proprio per resistere allo sfondamento. Si può fare, ma ci vorrà un'eternità." "E lo scantinato? Ho sentito dire che è una specie di fottuta catacomba." "Potrebbero esserci dei punti d'accesso da dove si trova lei, ma i grafici del computer sono inaccessibili. E l'area non è tutta sulle mappe. Ci vorrebbe tempo." "I muri, allora. Se tentassimo di sfondare le pareti? Che ne dici?" "I muri portanti più bassi sono estremamente spessi, quasi un metro in molti punti, e le opere murarie più antiche sono state tutte rinforzate col tondino d'acciaio. Soltanto il Comparto Due ha delle finestre al terzo e quarto piano, ma sono tutte munite di sbarre. E comunque sono finestre troppo strette perché possa passarci una persona." "Merda. E il tetto?" "Tutti i comparti sono coibentati, e sarebbe molto difficile..." "Cristo, Allen, io sto chiedendo a te qual è il modo migliore per entrare!" Silenzio. "Il modo migliore per entrare potrebbe essere, in effetti, quello di passare per il tetto", riprese la voce. "Le porte di sicurezza dei piani superiori sono meno robuste. Sopra il Planetario c'è il Comparto Tre. Quinto piano. Da lì, però, non si può entrare: il tetto è schermato perché sotto ci sono i laboratori radiografici. Forse si può passare dal tetto del Comparto Quattro. In uno dei corridoi più stretti si potrebbe far saltare con una carica la porta di sicurezza per il Comparto Tre. Una volta lì, si può passare direttamente dal soffitto del Planetario. C'è un portello di accesso per la manutenzione del lampadario nel soffitto della sala. Solo che è a venti metri da terra..." "Ti richiamerò, Allen. Passo e chiudo." Colpendola con un pugno, urlò di nuovo nella radio: "Ippolito! Ippolito, ci sei?" Cosa diavolo stava succedendo dentro quel Planetario? Passò sulla frequenza di D'Agosta. "D'Agosta! Sono Coffey. Mi senti?" Cercò con frenesia su tutte le frequenze.
"Waters!" "Qui Waters, signore." "Cos'è successo, Waters?" "Si è sentito un forte rumore nella Sala Elettricità, signore, allora ho sparato come da regolamento e..." "Regolamento? Bestia che non sei altro, il regolamento non dice di sparare per un rumore!" "Mi spiace, signore. Era un rumore forte, e sentivo correre e urlare al piano di sopra, sicché ho pensato..." "Con questo, Waters, ti sei fottuto. Ti farò arrostire il culo e me lo farò servire a fette per pranzo. Pensaci su." "Sissignore." Fuori si sentì qualcosa che tossicchiava e sputacchiava, poi un grosso generatore portatile si mise in funzione con un rombo. Il portello posteriore dell'Unità Comando Mobile si aprì e alcuni agenti entrarono, gli indumenti fradici. "Gli altri stanno arrivando, signore", disse uno degli uomini. "Va bene. Di' loro che si terrà una riunione per fare il punto, qui nell'UCM, fra cinque minuti." Uscì nella pioggia. Gli addetti al pronto intervento stavano portando attrezzi e bombole gialle da fiamma ossidrica su per i gradini del museo. Coffey li superò correndo ed entrò nella Rotonda cosparsa di detriti. Il personale medico era accalcato accanto alla porta di sicurezza metallica che bloccava l'accesso orientale al Planetario. L'agente federale sentì il ronzio di un seghetto da ossa. "Com'è la situazione?" domandò al capo della squadra medica. Gli occhi del dottore lo guardarono stancamente da sopra la mascherina macchiata di sangue. "Non sappiamo ancora quanti siano i feriti, ma qui ce ne sono parecchi conciati male. Stiamo praticando delle amputazioni. Penso che pochi potranno scamparla, se questa porta non si apre entro mezz'ora." Coffey scosse la testa. "Temo che non sarà possibile. Non riusciremo a tagliarla." Un uomo del pronto intervento urlò: "Date a questa gente delle coperte ignifughe con cui proteggersi mentre lavoriamo." Coffey arretrò e parlò alla radio. "D'Agosta! Ippolito! Ci siete!" Silenzio. Poi sentì una scarica. "Qui D'Agosta", rispose una voce tesa. "Senti, Coffey..." "Dove ti eri cacciato? Ti avevo detto..."
"Chiudi il becco e ascolta, Coffey. Facevi troppo casino e ho dovuto spegnere. Siamo nello scantinato, non so bene dove. C'è una creatura che si aggira nel Comparto Due. Non sto scherzando! Si tratta di un fottuto mostro. Ha ucciso Ippolito e poi è entrato nel Planetario. Dobbiamo uscire." "Un cosa? Tu stai ammattendo. Cerca di controllarti, d'accordo? Sto mandando una squadra attraverso il tetto." "Davvero? Be', fagli mettere delle corazze, se hanno intenzione di incontrarsi con quella bestia." "D'Agosta, lascia che me ne occupi io. Cos'è successo a Ippolito?" "È morto, sventrato, come tutti gli altri." "Ed è stato un mostro. Naturale. C'è qualche altro poliziotto con te?" "Sì, c'è Bailey." "Sei esonerato dal servizio. Passami Bailey." "Fottiti. Eccoti Bailey." "Sergente", sbraitò Coffey. "Hai tu il comando, ora. Qual è la situazione?" "Signore, il tenente ha ragione. Abbiamo lasciato il Planetario. Stiamo scendendo per la scala sul retro dell'area di servizio. Siamo una trentina, incluso il sindaco. Non è uno scherzo: c'è davvero qualcosa qui." "Fammi capire. L'hai visto?" "Non sono sicuro di quello che ho visto, signore, ma D'Agosta l'ha visto, e, Gesù, dovrebbe vedere come ha conciato Ippolito..." "Ascoltami bene, Bailey. Sei tranquillo? Te la senti di prendere il comando?" "No, signore. Per quel che mi riguarda, comanda sempre il tenente." "Ma io ho appena passato il comando a te!" Coffey sbuffò e alzò gli occhi al cielo, furibondo. "Quel figlio di puttana mi sta tagliando fuori." Fuori, sotto la pioggia, Greg Kawakita se ne stava immobile in mezzo a un bailamme di gemiti, urla e imprecazioni. Non si curava della pioggia battente che gli incollava i capelli neri alla fronte, dei veicoli d'emergenza che gli passavano accanto a sirene spiegate, degli invitati in preda al panico che lo urtavano mentre lo superavano correndo. Lui continuava a sentire nella mente quello che gli avevano urlato Frock e Margo. Aprì e chiuse la bocca, avanzò come se volesse tornare nel museo. Poi, lentamente, si voltò, e, stringendosi lo smoking fradicio attorno alle spalle gracili, si av-
viò meditabondo nel buio. 50 Margo sobbalzò, quando un secondo sparo echeggiò nel corridoio. "Cosa sta succedendo?" urlò. Nel buio, sentì le dita di Frock che la stringevano più forte. Fuori, qualcuno stava correndo. Poi la luce gialla di una torcia balenò sotto la porta. "Il puzzo sta diminuendo", mormorò Margo. "Pensa che se ne sia andata?" "Cara", rispose pacatamente Frock, "mi hai salvato. Hai rischiato la tua vita per salvare la mia." Si udì bussare piano alla porta. "Chi è?" domandò il professore con voce stentorea. "Pendergast", fu la risposta. La ragazza corse ad aprire. L'agente dell'FBI aveva un grosso revolver in una mano e una mappa spiegazzata nell'altra. Il suo vestito nero di buon taglio faceva uno strano contrasto con la faccia imbrattata. Il giovane chiuse la porta. "Mi fa piacere vedervi sani e salvi", disse, puntando il fascio di luce prima sulla ragazza, quindi su Frock. "Sicuramente non quanto fa piacere a noi!" esclamò il professore. "Eravamo venuti a cercarla. È stato lei a sparare?" "Sì", rispose Pendergast. "E suppongo che fosse lei a chiamarmi, poco fa." "Allora mi ha sentito! Ecco perché è venuto a cercarci qui." L'agente federale scosse la testa. "No." Porse la torcia a Margo, mentre cominciava a stendere la mappa. Lei vide che era coperta di scritte a matita. "La società storiografica di New York non sarà contenta quando vedrà le libertà che mi sono preso con il suo patrimonio", brontolò, caustico, l'agente. "Pendergast", sibilò Frock. "Margo e io abbiamo scoperto con precisione cos'è questo assassino. Lei deve ascoltarci. Non è un essere umano e nemmeno un animale a noi noto. Lasci che le spieghi." Pendergast alzò gli occhi. "Non ho bisogno di essere convinto." Frock sbatté le palpebre. "No? Allora è d'accordo? Voglio dire: ci aiuterà a interrompere l'inaugurazione, a mandar fuori la gente?"
"È troppo tardi per questo! Ho parlato per radio con il tenente D'Agosta e con altri. La corrente non è mancata soltanto qui nello scantinato. Tutto il museo è al buio. Il sistema di sicurezza è fuori uso, tutte le porte di emergenza sono chiuse." "Vuol dire..." cominciò Margo. "Che il museo è suddiviso in cinque comparti completamente isolati. Noi siamo nel Comparto Due. Assieme alla gente che si trovava nel Planetario. E alla creatura." "Cos'è successo?" domandò lo studioso. "È scoppiato il putiferio ancor prima che andasse via la corrente e le porte si chiudessero. Nella mostra è stato scoperto un cadavere. Un poliziotto. La maggior parte degli invitati è riuscita a lasciare la sala, ma trenta o quaranta persone sono intrappolate all'interno." Sorrise mestamente. "Sono stato anch'io nella mostra, soltanto poche ore fa. Volevo dare un'occhiata alla statuina di Mbwun di cui mi avevate parlato. Se fossi passato dalla porta posteriore, anziché dall'ingresso, forse avrei trovato io il cadavere, e tutto questo non sarebbe successo. Comunque, ho avuto la possibilità di vedere la statuina. E posso dirle che è molto somigliante. Chiunque l'abbia fatta, sapeva." Frock lo guardò a bocca aperta. "L'ha vista?" riuscì a bisbigliare a fatica. "Sì. È a quello che ho sparato. Ero dietro l'angolo di questo magazzino quando ho sentito lei che mi chiamava. In quel momento sono stato investito da un odore nauseabondo. Mi sono infilato in una stanza e ho visto la bestia passare. Allora sono uscito e ho sparato: le ho appena scalfito il cranio. Poi è andata via la luce. Ho seguito la creatura dietro l'angolo e l'ho vista che annaspava a questa porta, annusando." Pendergast aprì il tamburo della pistola e sostituì le cartucce esplose. "Così ho capito che eravate qui." "Dio mio", esclamò Margo. Pendergast mise la pistola nella fondina. "Ho sparato una seconda volta, ma non ho potuto mirare bene e l'ho mancata. Sono andato a cercarla... la bestia era sparita. Deve aver preso la scala in fondo al corridoio. Non c'è altra via per uscire da questo cul-de-sac." "Mi dica, la prego: a che cosa somiglia?" incalzò Frock. "L'ho vista per poco", rispose parlando lentamente l'agente federale. "È bassa, dall'aspetto possente. Camminava a quattro zampe, ma riusciva anche a stare eretta. È parzialmente coperta di peli." Increspò le labbra, annuì. "C'era buio. Però posso dire che chiunque abbia scolpito quella statui-
na sapeva cosa stava facendo." Al bagliore della torcia di Pendergast, Margo vide uno strano miscuglio di paura, esaltazione e trionfo passare sul volto del professore. Poi una serie di esplosioni attutite echeggiarono più volte sopra di loro. Ci fu un breve silenzio, e dopo molte voci, alte e tese, rimbombarono più vicine. Pendergast alzò gli occhi, ascoltando attentamente. "D'Agosta!" esclamò. Estratta la pistola e lasciata cadere la mappa, si precipitò nel corridoio. La ragazza corse alla porta e diresse la torcia verso il fondo del passaggio. Nel fascio sottile di luce, vedeva Pendergast armeggiare con la porta delle scale. L'uomo si inginocchiò a ispezionare la serratura, poi si alzò e la tempestò di calci. "È bloccata", disse, tornando indietro. "Quei colpi che abbiamo sentito dovevano provenire dalla tromba delle scale. Qualche proiettile avrà colpito il telaio o danneggiato la serratura. Non si muove." Infilò la pistola nella fondina e tirò fuori una radio. "Vincent, mi senti?" Aspettò un momento, scosse la testa, rimise la radio nella tasca della giacca. "Dunque siamo bloccati qui?" domandò Margo. Pendergast scosse la testa. "Non credo. Ho passato il pomeriggio in queste stanze e gallerie, cercando di capire come la bestia avesse eluso le nostre ricerche. Queste mappe sono state disegnate nel secolo scorso, sono complesse e contraddittorie, ma sembra che indichino una via d'uscita dal museo attraverso lo scantinato. Con tutti i comparti chiusi, non c'è altra via possibile per noi. Inoltre ci sono molti modi per accedere al sotterraneo da questo comparto." "Ciò significa che possiamo unirci alla gente di sopra e scappare insieme!" esclamò la ragazza. L'uomo dell'FBI s'incupì. "Significa che anche la bestia può trovare la strada per il sotterraneo. Per come la penso io, quelle porte di sicurezza precludono ogni via di scampo a noi, ma non impediscono alla bestia di muoversi. Credo che sia stata qui quanto basta per scovare delle vie nascoste, e che possa muoversi per il museo - quantomeno ai piani inferiori praticamente a volontà." Margo annuì. "Noi pensiamo che viva qui da anni. E crediamo anche di sapere come e perché ci è arrivata." Pendergast la guardò a lungo, con aria interrogativa. "Devo sapere da lei e dal dottor Frock tutto il possibile su questa creatura, e al più presto." Mentre tornavano nella stanza, Margo sentì un lontano calpestio, simile
a un rombo di tuono. Si bloccò ascoltando attentamente. Sembrava che quel tuono avesse una voce, che urlasse o piangesse: non avrebbe saputo dirlo. "Che cos'è?" sussurrò. "Quello", rispose pacatamente Pendergast, "è il rumore di gente sulle scale che corre per salvarsi la vita." 51 Nella luce fioca che filtrava dalla finestra sbarrata del laboratorio, Wright riuscì a stento a trovare il vecchio schedario. Una bella fortuna, pensava, che il laboratorio fosse dentro il Comparto Due. Non per la prima volta si rallegrava di essersi tenuto quel vecchio laboratorio, quando era stato promosso direttore. Per lui era sempre stato un porto sicuro, una stanza dove poteva di tanto in tanto tirare il fiato. Il Comparto Due era adesso tagliato completamente fuori dal resto del museo, e loro erano prigionieri nel senso letterale del termine. Tutti gli sbarramenti di emergenza, tutte le porte e i cancelli di sicurezza si erano chiusi durante il black-out. Questo, perlomeno, era quanto aveva sentito dire da quell'inetto poliziotto, D'Agosta. "Qualcuno la pagherà cara", borbottò fra sé e sé. Poi tutti si misero tranquilli. Ora che avevano smesso di correre, l'enormità del disastro cominciava a ridimensionarsi. Wright si mosse con cautela, aprì un cassetto dello schedario dopo l'altro, frugando fra le cartelline finché trovò quello che cercava. "Ruger .38 special", disse, alzandola fra le mani. "Grande pistola. In grado di fermare chiunque." "Non sono sicuro che possa fermare chi ha ucciso Ippolito", lo contraddisse Cuthbert. Era vicino alla porta del laboratorio, sagoma immobile incorniciata dal buio. "Non preoccuparti, Ian. Una di queste pallottole può trapassare un elefante. L'ho comprata dopo che il vecchio Shorter è stato aggredito da quel vagabondo. A ogni modo, la creatura non verrà da questa parte. E, se lo facesse, questa porta è di solida quercia, spessa cinque centimetri." "E quella?" domandò Cuthbert, indicando il fondo dell'ufficio. "Porta nella Sala Dinosauri del Cretaceo. È uguale a questa... solida quercia." Infilò la Ruger nella cintura. "Quei pazzi... correre nello scantinato come tanti lemming. Avrebbero dovuto darmi ascolto."
Frugò ancora nello schedario e tirò fuori una torcia elettrica. "Splendido. Sarà un anno che non la uso." L'accese e ne uscì un flebile bagliore, che oscillava al leggero tremolio della mano. "Non c'è più molta energia in quella torcia", mormorò Cuthbert. Wright la spense. "Be', la useremo soltanto in caso di emergenza." "Per favore!" sbottò la Rickman "Per favore, fatela finita. Almeno per un momento." Era seduta su uno sgabello al centro della stanza, accavallava e scavallava le gambe. "Winston, che cosa facciamo? Dobbiamo preparare un piano." "Per prima cosa", disse Wright, "ho bisogno di un drink. Questo è il piano A. Ho i nervi a fior di pelle." Andò alla parete più lontana del laboratorio e illuminò un antico stipo, trovando infine la bottiglia. Si sentì un tintinnare di vetri. "Ian?" domandò Wright. "Per me no, grazie", rispose il vicedirettore. "Lavinia?" "No, non potrei proprio." Wright tornò indietro e sedette alla scrivania. Riempì il bicchiere e lo vuotò in tre sorsi. Poi tornò a riempirlo. All'improvviso nella stanza si diffuse l'odore caldo, di bruciaticcio, dello scotch di malto. "Comodo, qui, Winston", osservò Cuthbert. "Non possiamo starcene così al buio", lo rimbeccò nervosamente la donna. "Deve pur esserci un'uscita su questo piano." "Ve l'ho appena detto: è tutto bloccato", si stizzì Wright. "E la Sala Dinosauri?" domandò la Rickman, indicando la porta posteriore. "Lavinia", rispose il direttore, "la Sala Dinosauri ha soltanto un ingresso pubblico, sbarrato da una porta di sicurezza. Siamo chiusi dentro. Ma non devi preoccuparti, perché qualunque cosa abbia ucciso Ippolito e gli altri non cercherà noi. Inseguirà la preda più facile, il gruppo che sta vagando alla cieca nello scantinato." Si sentì sbevazzare, poi il toc del bicchiere che colpiva la scrivania. "Propongo di restare qui un'altra mezz'ora, in attesa. Poi torneremo nella mostra. Se il guasto non sarà stato riparato e troveremo le porte ancora chiuse, ho in mente un'altra via. Attraverso la mostra." "Sembra che tu conosca tutti i possibili nascondigli", disse Cuthbert. "Questo è stato il mio laboratorio. Di tanto in tanto mi piace venire qui,
distogliermi dai grattacapi amministrativi, ritrovarmi vicino ai miei dinosauri." Sogghignò e bevve. "Capisco", ribatté caustico il collega. "Parte della mostra Superstizione occupa quello che era il vecchio Padiglione Trilobiti. Ci ho passato un'infinità di ore molti anni fa. Comunque, c'era un passaggio che portava al 'Broadway' dietro una vecchia vetrina di fossili. La porta è stata chiusa con delle tavole anni fa per far posto a un'altra teca. Sono sicuro che, quando hanno montato la mostra, si sono limitati a inchiodarci sopra un pezzo di compensato e a verniciarlo. Basterà un calcio... o un colpo di pistola, se necessario." "Sembra fattibile", disse eccitata la Rickman. "Non ho mai sentito parlare di una porta simile nella mostra", interloquì, dubbioso, Cuthbert. "Se c'era, sono certo che quelli della Sicurezza l'avrebbero saputo." "Sono passati anni, te l'ho detto", sbottò l'altro. "L'hanno inchiodata e se ne sono dimenticati." Ci fu un lungo silenzio, mentre Wright si versava un altro drink. "Winston", lo ammonì Cuthbert, "metti giù quella bottiglia." Il direttore bevve un lungo sorso, poi chinò la testa. Le sue spalle si curvarono. "Ian", mormorò poco dopo. "Come può essere successo? Siamo rovinati, lo sai?" Cuthbert tacque. "Non seppelliamo il paziente prima che sia morto", intervenne la donna, in tono falsamente allegro. "Delle buone relazioni pubbliche possono rimediare anche il danno peggiore." "Lavinia, qui non si sta parlando di quisquilie burocratiche", disse Cuthbert. "Due piani sotto, ci sono almeno una mezza dozzina di morti. C'è il fottuto sindaco intrappolato laggiù. Fra un paio d'ore, saremo su tutti i notiziari della notte." "Siamo rovinati", ripeté Wright. Un piccolo gemito strozzato gli uscì dalla gola, e il direttore posò la testa sul piano del tavolo. "Dannazione", mormorò Cuthbert, andando a prendere bicchiere e bottiglia e riponendoli nello stipo. "È finita, vero?" gemette ancora Wright, senza alzare la testa. "Sì, Winston, è finita", rispose Cuthbert. "Francamente, potrò già dirmi fortunato se riuscirò ad andarmene di qui con le mie gambe." "Per favore, Ian, non possiamo uscire? Per favore?" gemette la Ri-
ckman. Si alzò e andò alla porta da cui erano entrati, che si aprì lentamente. "Non era chiusa!" esclamò, sgomenta. "Dio mio", disse Cuthbert, saltando in piedi. Wright, senza alzare al testa, cercò in tasca una chiave e la tese. "Le chiude entrambe", mormorò. La mano tremante della donna fece girare rumorosamente la chiave nella serratura. "Che cosa abbiamo sbagliato?" si chiese lamentosamente Wright. "È abbastanza chiaro", rispose Cuthbert. "Cinque anni fa, abbiamo avuto la possibilità di risolvere la questione e non l'abbiamo fatto." "Cosa intendi dire?" domandò la Rickman, tornando verso i due. "Lo sai benissimo. Sto parlando della scomparsa di Montague. Avremmo dovuto affrontare il problema allora, invece di far finta che non fosse successo nulla. Tutto quel sangue nello scantinato vicino alle casse di Whittlesey... Montague scomparso. Dentro di noi, sapevamo benissimo cosa gli era successo. Avremmo dovuto andare a fondo della questione allora. Rammenti, Winston? Eravamo seduti nel tuo ufficio, quando Ippolito venne a darci la notizia. Gli ordinasti di far pulire e di dimenticare l'incidente. Te ne lavasti le mani, sperando che chiunque, o qualunque cosa, avesse ucciso Montague sparisse dalla circolazione." "Non c'erano prove che fosse stato ucciso qualcuno!" gemette Wright, alzando la testa. "E men che meno prove che si trattasse di Montague! Poteva trattarsi di un cane randagio, o qualcosa del genere. Come potevamo sapere?" "Non sapevamo. Ma avremmo potuto scoprirlo, se tu avessi consentito a Ippolito di denunciare alla polizia la scoperta di quell'enorme pozza di sangue. E tu, Lavinia... se ben ricordo, anche tu dicesti che era meglio pulire e chiuderla lì." "Ian, non era il caso di creare un inutile scandalo. Sai benissimo che quel sangue poteva avere altre origini", disse la Rickman. "E poi, sei stato tu a insistere per spostare le casse; tu a preoccuparti che la mostra potesse riaccendere l'interesse per la spedizione di Whittlesey; tu a prendere il diario e a chiedermi di tenerlo sino alla fine della mostra. Il diario non corrispondeva alle tue teorie, vero?" Cuthbert sbuffò. "Tu non sai niente. Julian Whittlesey era mio amico. Almeno, una volta. Ci fu uno screzio tra noi per un articolo da lui pubblicato, e le cose non si aggiustarono più. Comunque, è un po' tardi per que-
sto, adesso. Non volevo che il diario fosse scoperto perché le sue teorie avrebbero suscitato l'ilarità generale." Si voltò e fissò la responsabile delle pubbliche relazioni. "Ho cercato soltanto, Lavinia, di proteggere un collega che era diventato un po' tocco. Non intendevo coprire un omicidio. E gli avvistamenti, allora? Winston, c'è stato un anno in cui hai ricevuto molti rapporti di gente che vedeva o sentiva cose strane a ore insolite. Non hai mai fatto niente, in proposito, non è vero?" "Come potevo sapere?" si sentì biascicare in risposta. "Chi ci avrebbe creduto? Erano voci infondate, ridicole..." "Potremmo cambiare argomento, per favore?" urlò la Rickman. "Non posso più starmene qui al buio ad aspettare. E la finestra? Forse potrebbero stendere sotto una rete..." "No", bofonchiò Wright, sospirando profondamente e fregandosi gli occhi. "Queste sbarre sono di acciaio temperato, spesse alcuni centimetri." Scrutò la stanza buia. "Dov'è il mio bicchiere?" "Hai bevuto abbastanza", disse Cuthbert. "Tu e la tua fottuta morale anglicana." Il direttore alzò in piedi e si diresse verso lo stipo, il passo un po' malfermo. Sulle scale, D'Agosta guardò la sagoma indistinta di Bailey. "Grazie", disse. "Comanda sempre lei, tenente." Sotto di loro, il folto gruppo di invitati stava aspettando, ammassato sugli scalini: chi piangeva e chi tirava su col naso. D'Agosta si voltò verso di loro. "Va bene", disse pacatamente. "Dobbiamo muoverci in fretta. Al prossimo pianerottolo c'è una porta che dà sullo scantinato. Passata quella, incontreremo altre persone che conoscono il modo di uscire da qui. Capito tutti?" "Capito", rispose una voce che D'Agosta riconobbe come quella del sindaco. "D'accordo", annuì il tenente. "Andiamo. Io vi precedo e vi guido con la torcia. Bailey, tu chiudi la marcia. Avvertimi se vedi qualcosa." Lentamente, il gruppo scese. Sul pianerottolo, D'Agosta aspettò che Bailey gli facesse segno che era tutto a posto. Allora afferrò la maniglia. Non si muoveva. Dette un altro strattone, più forte. Niente.
"Cosa...?" Diresse il fascio di luce sulla serratura. "Merda", borbottò. Poi, a voce bassa: "State tutti fermi dove vi trovate per un momento; e in silenzio, se è possibile. Raggiungo il mio collega in coda". Tornò sui suoi passi. "Senti, Bailey", sussurrò, "non possiamo entrare nello scantinato. Qualche pallottola ha colpito il telaio e bloccato la porta. Ci vorrebbe un palanchino per aprirla." Anche al buio, vide gli occhi di Bailey dilatarsi. "E allora cosa facciamo?" domandò il sergente. "Torniamo su?" "Lasciami pensare un momento... Quante munizioni hai? Io ho sei colpi nella pistola d'ordinanza." "Non so. Quindici, forse sedici." "Maledizione", imprecò il tenente, "non credevo..." Si bloccò, spegnendo di colpo la torcia e tendendo l'orecchio nel buio. Una leggera corrente d'aria portava giù dalle scale un odore di marcio, di selvatico. Bailey si piegò subito su un ginocchio, puntando il fucile verso le scale. D'Agosta parlò svelto al gruppo fermo in attesa. "Tutti", sibilò, "giù sul pianerottolo. Svelti!" Ci furono dei sordi mormoni. "Non possiamo andare là sotto", urlò qualcuno. "Resteremo intrappolati!" La risposta di D'Agosta fu sovrastata dallo sparo di Bailey. "La Bestia del Museo!" strillò una voce, e tutto il gruppo si buttò a rotta di collo giù per le scale. "Bailey!" gridò il tenente, le orecchie rintronate dalla schioppettata. "Seguimi!" Scendendo le scale, una mano occupata dalla pistola, l'altra che seguiva la parete per trovare la strada, D'Agosta notò che i muri diventavano di umida pietra, segno che aveva oltrepassato il fondo dello scantinato. Più sopra, vedeva la forma incerta di Bailey che lo seguiva, ansimando e imprecando sottovoce. Dopo quella che parve un'eternità, il suo piede incontrò un pianerottolo. Tutt'attorno, la gente tratteneva il fiato; poi Bailey lo urtò. "Bailey, che cazzo c'era?" sussurrò. "Non lo so", si sentì rispondere. "C'era un puzzo tremendo, poi mi è parso di vedere qualcosa. Due occhi rossi nel buio. Ho sparato." D'Agosta spostò il fascio di luce sulle scale. Illuminò soltanto ombre e pietre rozzamente intagliate, gialle e spigolose. Il fetore ristagnava nell'a-
ria. Diresse la luce verso il gruppo e contò mentalmente. Trentotto, inclusi lui e Bailey. "Siamo nel sotterraneo. Vado avanti io, tu seguimi al mio cenno." Si voltò e illuminò la porta. Cristo, pensò, sembra di essere nella Torre di Londra. La porta metallica, nerastra, era rinforzata da sbarre di ferro orizzontali. Quando l'aprì, entrarono freddo, umido e odor di muffa. Avanzò. Udendo un gorgoglio, fece un passo indietro, poi puntò la torcia. "Sentitemi bene", disse. "C'è acqua che scorre, qui sotto: una decina di centimetri. Venite avanti uno alla volta, rapidi ma con cautela. Ci sono due scalini oltre la porta. Bailey, tu guardaci le spalle. E, per l'amor di Dio, chiudi la porta." Pendergast contò le pallottole che gli rimanevano, le mise in tasca. Guardò Frock. "Davvero incredibile. E una scoperta sensazionale da parte sua. Mi spiace aver dubitato di lei, professore." Frock fece un gesto evasivo. "Come poteva sapere? Inoltre, è stata la qui presente Margo a scoprire il legame più importante. Se non avesse esaminato quelle fibre usate per l'imballaggio, non avremmo mai saputo." Pendergast annuì verso Margo, appoggiata a una grossa cassa di legno. "Ottimo lavoro", disse. "Potremmo valerci di lei al laboratorio criminale di Baton Rouge." "Supponendo che io la lasci venire", s'intromise il professore. "E supponendo che usciamo vivi di qui. Dubbie supposizioni, direi." "E supponendo che io voglia lasciare il museo", intervenne la ragazza, sorpresa lei per prima dalle proprie parole. L'agente federale la fissò. "So che lei conosce questa creatura meglio di me. Crede davvero che il piano appena descritto da lei possa funzionare?" Margo trasse un profondo respiro e poi annuì. "Se l'Estrapolatore dice il vero, questa bestia caccia più con l'olfatto che con la vista. E se il bisogno di quella pianta è forte come riteniamo..." Fece una pausa, stringendosi nelle spalle. "È il solo modo." Pendergast tacque per un momento, immobile. "Se può salvare quella gente, dobbiamo tentare." Prese la radio. "D'Agosta?" chiamò, regolando la frequenza. "D'Agosta, sono Pendergast. Mi senti?" La radio emise una scarica. Poi: "Qui D'Agosta". "Come sei messo?"
"Ci siamo scontrati con la creatura. È entrata nel Planetario, ha ucciso Ippolito e un invitato ferito. Siamo sulla scala, ma la porta dello scantinato è chiusa. Dobbiamo andare nel sotterraneo." "Capito. Quante armi sei riuscito a portare con te?" "Ho avuto soltanto il tempo di prendere un calibro 12 e una pistola d'ordinanza." "Qual è la tua posizione attuale?" "Sono quasi nel sotterraneo, forse a una cinquantina di metri dalla porta della scala." "Sentimi bene, Vincent. Ho parlato col professor Frock. La creatura con cui abbiamo a che fare è molto intelligente. Forse anche più furba di te e di me." "Parla per te." "Se la incontri ancora, non mirare alla testa. Le pallottole rimbalzerebbero dal cranio. Mira al corpo." Ci fu un momento di silenzio, poi la voce di D'Agosta tornò. "Dovresti dirlo a Coffey. Sta mandando dentro degli uomini, e credo che non abbia idea di quello che li aspetta." "Farò il possibile. Prima però troviamo il modo di farvi uscire da lì. La bestia vi sta dando la caccia." "Non dire stronzate." "Posso guidarvi fuori del museo attraverso il sotterraneo. Non sarà facile. Queste mappe sono molto vecchie, e non del tutto affidabili. Puoi trovare dell'acqua." "Ne abbiamo già una decina di centimetri, qui. Sei sicuro di quello che fai? Voglio dire: c'è un temporale mai visto, fuori." "O affrontate l'acqua, o affrontate la bestia. Siete una quarantina; siete il bersaglio più ovvio. Dovete muovervi, e muovervi in fretta... è il solo modo." "Riusciremo a incontrarci?" "No. Abbiamo deciso di stare qui per tenere la bestia lontana da voi. Non c'è tempo per spiegarti, adesso. Se il nostro piano funziona, ci riuniremo più tardi. Grazie a queste mappe, ho scoperto più di una via per arrivare al sotterraneo dal Comparto Due." "Cristo, Pendergast, fa' attenzione." "Farò del mio meglio. Ora, stammi bene a sentire. Sei in un corridoio lungo e stretto?" "Sì."
"Perfetto. Quando il corridoio si biforca, prendi a destra. Vedrai che dopo un centinaio di metri c'è un'altra biforcazione. Quando ci arrivi, chiamami. Intesi?" "Intesi." "Buona fortuna. Chiudo." Pendergast cambiò rapidamente frequenza. "Coffey, sono Pendergast. Mi senti?" "Qui Coffey. Maledizione, Pendergast, è una vita che cerco di..." "Non c'è tempo, adesso. Stai mandando una squadra di soccorso?" "Sì. Gli uomini stanno per muoversi." "Assicurati che abbiano armi automatiche pesanti, elmetto e giubbotti antiproiettile. C'è una possente, micidiale creatura, qui. L'ho vista. Può muoversi a piacimento nel Comparto Due." "Cristo santo, tu e D'Agosta! Se stai cercando di..." Pendergast lo interruppe. "Ho voluto soltanto avvertirti un'ultima volta. Hai a che fare con qualcosa di mostruoso. Se lo sottovaluti, lo fai a tuo rischio e pericolo. Chiudo." "No, Pendergast, aspetta! Ti ordino..." Pendergast spense la radio. 52 Sguazzarono nell'acqua, i tenui fasci delle torce che lambivano il soffitto basso davanti e dietro il gruppo. La lieve corrente d'aria nella galleria continuava a sfiorare i loro volti. D'Agosta era preoccupato, adesso. La bestia poteva arrivare loro addosso all'improvviso, non più annunciata dal puzzo. Si fermò un momento per aspettare Bailey. "Tenente", disse il sindaco, riprendendo fiato, "è sicuro che ci sia una via d'uscita?" "Posso soltanto fidarmi di quanto ha detto Pendergast, signore. Lui ha delle mappe. Ciò di cui sono però assolutamente sicuro è che nessuno vorrebbe tornare indietro." Ripresero ad avanzare. Gocce nere, oleose, piovevano dalla volta di mattoni a lisca di pesce. Le pareti erano incrostate di calce. Tutti tacevano, eccetto una donna che gemeva sommessamente. "Mi scusi, tenente", disse a un tratto la voce di un giovanotto allampanato, Smithback. "Sì?" "Posso farle una domanda?"
"Spara." "Che cosa si prova ad avere nelle proprie mani la vita di quaranta persone, incluso il sindaco di New York?" "Come?!" D'Agosta si fermò di scatto, lanciando un'occhiata alle proprie spalle. "Non ditemi che abbiamo fra noi un fottuto giornalista!" "Be', io..." cominciò Smithback. "Telefona in città e fatti fissare un appuntamento con me alla sede centrale." Il tenente puntò la torcia in avanti e trovò la biforcazione. Prese a destra, come gli aveva detto Pendergast. C'era una leggera discesa, e l'acqua scorreva più veloce, tirandogli il fondo dei calzoni mentre procedeva nel buio. La ferita alla mano gli pulsava. Quando il gruppo ebbe svoltato l'angolo alle sue spalle, D'Agosta notò con sollievo che il refolo d'aria non soffiava più. Un topo morto, gonfio, gli galleggiò accanto, andando poi a sbattere contro le gambe di chi lo seguiva come un'enorme palla da biliardo indolente. Qualcuno sussultò e cercò di allontanarlo con un calcio, ma non si udirono lamenti. "Bailey!" esclamò D'Agosta, voltandosi. "Sì?" "Visto niente?" "Se succedesse, sarebbe il primo a saperlo." "Meglio così. Provo a chiamare per sentire a che punto sono con le riparazioni." Prese la radio. "Coffey?" "Ti ascolto. Ho appena parlato con Pendergast. Dove siete?" "Nel sotterraneo. Pendergast ha delle mappe. Ci sta guidando con la radio. Quando torna la luce?" "Non fare pazzie. Quello vi manderà tutti a morire. Sembra che ci vorrà ancora un pezzo per riparare il guasto. Tornate al Planetario e aspettate lì. Gli uomini del Nucleo Speciale passeranno per il tetto fra un paio di minuti." "Allora devi sapere che Wright, Cuthbert e la responsabile dell'ufficio stampa sono di sopra, al quarto piano probabilmente. È il solo altro punto accessibile da quelle scale." "Cosa stai dicendo? Non sono venuti con voi?" "Si sono rifiutati. Wright ha voluto fare di testa sua e gli altri lo hanno seguito."
"Pare che abbiano più cervello di voi. Il sindaco sta bene? Fammi parlare con lui." D'Agosta gli passò la radio. "Sta bene signore?" chiese, sollecito, Coffey. "Siamo in buone mani, con il tenente." "Sono fermamente convinto, signore, che lei dovrebbe tornare al Planetario e aspettare i soccorsi. Stiamo mandando una squadra a prenderla." "Ho piena fiducia nel tenente D'Agosta. E dovrebbe averla anche lei." "Sì, naturalmente, signore. Stia tranquillo: la porterò sano e salvo fuori di lì." "Coffey?" "Signore?" "Ci sono tre dozzine di persone qui con me. Non lo dimentichi." "Voglio soltanto che lei sappia, che sto facendo tutto..." "Coffey! Credo che lei non mi capisca. Ogni essere vivente, qui, vale gli forzi che lei farà." "Sì, signore." Il sindaco restituì la radio a D'Agosta. "Sbaglio, o questo Coffey è un somaro fatto e finito?" mormorò. Il tenente mise la radio nella fondina e proseguì. Poco dopo si fermò, puntando la torcia su un oggetto che emergeva dall'oscurità davanti a loro. Era una porta d'acciaio, chiusa. L'acqua oleosa fluiva da una spessa grata sul fondo della lastra. Si avvicinò. Era simile alla porta al fondo della scala: spessa, a doppia lamina, costellata di perni arrugginiti. Un vecchio catenaccio di bronzo inverdito dal salnitro s'inseriva in un anello metallico a "D" sul montante. Afferrò il catenaccio e tirò, senza esito. "Pendergast?" chiamò D'Agosta dopo aver ripreso la radio. "Ti ascolto." "Abbiamo superato la prima biforcazione, ma c'è una porta d'acciaio, ed è chiusa." "Una porta chiusa? Fra la prima e la seconda biforcazione?" "Sì." "E alla prima biforcazione avete preso a destra?" "Sì." "Un momento." Si sentì un rumore di carta spiegazzata. "Vìncent, torna alla biforcazione e prendi a sinistra. Presto." D'Agosta si voltò. "Bailey! Torniamo alla prima biforcazione. Forza, signori, andiamo. E di corsa!"
Il gruppo si voltò stancamente, borbottando, e tutti ripercorsero il cammino a ritroso nell'acqua nera come inchiostro. "Un momento!" esclamò la voce di Bailey, dalla testa del gruppo. "Cristo, tenente, sente l'odore?" "No", rispose D'Agosta; poi "merda!" mentre veniva avvolto dal fetore. "Dobbiamo metterci in posizione! Arrivo. Spara a quel bastardo!" Cuthbert sedeva alla scrivania e ne martellava il piano graffiato con una gomma. All'altro capo del tavolo, Wright sedeva immobile, la testa fra le mani. La Rickman era accanto alla piccola finestra, in punta di piedi. Stava muovendo la torcia fra le sbarre, davanti al vetro, accendendola e spegnendola con un dito ben curato. Un fulmine ne delineò la magra silhouette, poi un rombo di tuono colmò la stanza. "Sta piovendo a dirotto", disse la donna. "Non riesco a vedere niente." "E nessuno vede te", l'ammonì stancamente Cuthbert. "Stai soltanto scaricando le batterie. Potremmo averne bisogno, dopo." Con un sospiro sonoro, la Rickman spense la torcia, facendo ripiombare la stanza nell'oscurità. "Mi chiedo cosa ne avrà fatto, del corpo di Montague", si sentì dire dalla voce indistinta di Wright. "Lo ha mangiato?" Dal buio scaturì una risata. "Dov'è il mio whisky? Ian, maledetto scozzese, dove hai nascosto il mio whisky?" Cuthbert continuava a tamburellare con la gomma. "Mangiato! Forse con un po' di riso e curry. Pilaf di Montague!" Wright sogghignò. Cuthbert si alzò, andò verso il direttore e gli sfilò la .38 dalla cintola, controllò che fosse carica e poi la infilò nella propria. "Ridammela subito!" ordinò Wright. L'altro non rispose. "Sei un prepotente, Ian. Sei sempre stato un prepotente, un prepotente invidioso e meschino. Per prima cosa, lunedì mattina, ti licenzierò. Anzi, ti licenzio fin d'ora." Il direttore si alzò barcollando. "Licenziato, mi hai sentito?" Cuthbert, sulla porta principale del laboratorio, tendeva l'orecchio. "Che cos'è?" domandò allarmata la Rickman. Cuthbert alzò di scatto una mano. Silenzio.
Dopo un po', l'uomo si voltò. "Mi è parso di sentire un rumore." Guardò la Rickman. "Lavinia, puoi venire un momento qui?" "Cosa c'è?" domandò la donna, con un filo di voce. Lui la condusse da parte. "Dammi la torcia", disse. "Ora, sentimi bene. Non intendo spaventarti. Se però succedesse qualcosa..." "Cosa vuoi dire?" lo interruppe lei, la voce che si spezzava. "Qualunque cosa abbia ucciso quella gente è ancora in giro. Non so se siamo davvero al sicuro qui." "Ma la porta! Winston dice che è spessa cinque centimetri..." "Lo so. Forse andrà tutto bene. Ma le porte della mostra erano più spesse di questa, e preferirei prendere qualche precauzione. Aiutami a mettere la scrivania contro la porta." Si volse verso il direttore. Wright lo guardava con occhi spenti. "Licenziato! Alle cinque di lunedì devi aver sgombrato la scrivania." Cuthbert sollevò il direttore e lo adagiò su una sedia vicina. Aiutato dalla Rickman, portò la scrivania davanti alla porta di quercia del laboratorio. "Questa lo rallenterà un po', comunque", brontolò, spazzolandosi la giacca. "Quanto basta perché io gli assesti qualche buon colpo, con un po' di fortuna. Al primo segno di pericolo, esci dal retro e nasconditi nella Sala Dinosauri. Questo, almeno, metterà due porte fra te e la cosa - quale che sia - là fuori." Si guardò di nuovo attorno, ansioso. "Intanto, cercherò di rompere la finestra. Se non altro, qualcuno riuscirà forse a sentire le nostre urla." Wright rise. "Non puoi rompere la finestra, non puoi, non puoi. Ha i vetri antisfondamento." Cuthbert ispezionò il laboratorio finché trovò un pezzo di profilato metallico a "L". Quando, passato fra le sbarre, colpì di punta il vetro, il ferro rimbalzò e gli saltò via di mano. "Accidenti", mormorò, massaggiandosi i palmi. "Potremmo usare la pistola", suggerì. "Hai altri proiettili?" "Non parlo più con te", disse Wright. Cuthbert aprì lo schedario e cominciò a frugare al buio. "Niente", gemette infine. "Non possiamo sprecare pallottole. Ci sono soltanto cinque colpi." "Niente, niente, niente. Non lo diceva Re Lear?" Cuthbert sospirò e sedette. Ancora una volta il silenzio colmò la stanza: si sentiva soltanto il vento e la pioggia, e il rombo lontano del tuono.
Pendergast abbassò la radio e si rivolse a Margo. "D'Agosta è nei pasticci. Dobbiamo fare presto." "Lasciatemi qui", suggerì pacatamente Frock. "Io posso soltanto rallentarvi." "Nobile gesto", disse Pendergast. "Ma abbiamo bisogno del suo cervello." Uscì pian piano nel corridoio, puntando la torcia prima a destra e poi a sinistra. Lanciò il segnale di via libera. Avanzarono tutti e tre, Margo che spingeva la sedia a rotelle il più rapidamente possibile. Mentre procedevano, il professore dava di tanto in tanto indicazioni sulla strada da seguire. Pendergast si fermava a ogni incrocio, la pistola spianata. Talvolta si fermava ad ascoltare e ad annusare l'aria. Dopo pochi minuti, prese lui le maniglie della sedia, sottraendole a Margo che non protestò. Svoltato un angolo, si trovarono davanti alla porta dell'Area di Sicurezza. Per la centesima volta, la giovane pregò in silenzio che il suo piano funzionasse, che non condannasse tutti - incluso il gruppo intrappolato nel sotterraneo - a un'orribile morte. "Terza a destra!" esclamò Frock, mentre entravano nell'Area di Sicurezza. "Margo, ricordi la combinazione?" La ragazza compose il numero, abbassò la leva e la porta si aprì. L'agente federale entrò di corsa e si chinò davanti alla cassa più piccola. "Aspetti", disse Margo. Lui si fermò, alzando interrogativamente le sopracciglia. "Non deve impregnarsi dell'odore", gli spiegò lei. "Avvolga le fibre nella giacca." L'altro esitava. "Ecco qua", intervenne Frock. "Usi il mio fazzoletto per prenderle." Pendergast esaminò l'oggetto. "Be'", disse mestamente, "se il professore può sacrificare un fazzoletto da cento dollari, forse io posso sacrificare la mia giacca." Prese radio e taccuino, li infilò nella cintura e si tolse l'indumento. "Da quando gli agenti dell'FBI vestono Armani?" domandò scherzosamente Margo. "Da quando le specializzande in etnofarmacologia ci fanno caso", replicò lui, stendendo con cura la giacca sul pavimento. Poi, con la stessa cura, tirò fuori alcune manciate di fibre e le posò delicatamente sulla giacca aperta. Infine, infilò il fazzoletto in una delle maniche, ripiegò l'indumento e
legò le maniche insieme. "Ci serve una corda per trascinarla", osservò la ragazza. "Vedo dello spago attorno a quella cassa", indicò Frock. Pendergast avvolse la giacca in un'imbracatura di spago, poi provò a trascinare il fagotto sul pavimento. "Sembra che funzioni. Un vero peccato che questi pavimenti siano così polverosi." Si rivolse a Margo. "Lascerà odore a sufficienza perché la creatura lo fiuti?" Frock annuì con decisione. "L'Estrapolatore dice che il senso dell'olfatto della creatura è di gran lunga più sensibile del nostro. Non dimentichi che ha rintracciato le casse in questa stanza." "E siete sicuri che il suo... ehm... pasto non l'abbia già saziata?" "Pendergast, l'ormone umano è un misero sostituto. Riteniamo che la bestia viva per questa pianta." Il professore annuì di nuovo. "Se fiuta un'abbondanza di fibre, verrà a cercarle." "Andiamo, allora", disse Pendergast. Alzò cautamente il fagotto. "L'altro accesso al sotterraneo è ad alcune centinaia di metri da qui. Se avete ragione, adesso siamo molto più vulnerabili. La creatura si dirigerà su di noi." Spingendo la carrozzella, Margo seguì l'agente nel corridoio. Pendergast chiuse la porta, poi i tre si avviarono in fretta nel corridoio, tornando in silenzio verso il Vecchio Scantinato. 53 D'Agosta avanzava chino sull'acqua, la pistola puntata verso l'oscurità fitta. Aveva spento la torcia per non tradire la loro posizione. L'acqua gli fluiva veloce fra le cosce, l'odore di alghe e fanghiglia si mescolava al fetore della creatura. "Bailey, ci sei?" sussurrò nel buio. "Sì", rispose il sergente. "Sto aspettando alla prima biforcazione." "Tu hai più munizioni di me. Se non c'imbattiamo in quella carogna, voglio che resti di guardia mentre io provo a forzare quella serratura." "D'accordo." D'Agosta andò verso il sergente, le gambe intorpidite dall'acqua gelida. All'improvviso ci fu un gran trambusto nell'oscurità: un tonfo, poi un altro, più vicino. Il fucile di Bailey sparò due volte, e alcune persone nel gruppo alle sue spalle cominciarono a gemere. Il tenente sentì il collega esclamare "Gesù!" Ci fu uno scricchiolio, Bai-
ley urlò. D'Agosta sentì sguazzare. "Bailey!" gridò, ma in risposta gli giunse soltanto il gorgoglio dell'acqua. Accese la torcia e illuminò la galleria. Niente. "Bailey!" Alcuni urlavano, adesso, dietro di lui, e c'era anche chi piangeva in modo isterico. "Silenzio!" intimò il poliziotto. "Devo sentire!" Le urla furono soffocate di colpo. Il tenente illuminò il soffitto e le pareti: non riuscì a vedere niente. Bailey era sparito, e una volta ancora il puzzo si era affievolito. Forse aveva colpito quella carogna. O forse la bestia si era temporaneamente allontanata per paura degli spari. D'Agosta diresse la luce verso il basso, e notò che l'acqua era tinta di rosso. Un brandello di divisa azzurra della polizia gli passò accanto. "Ho bisogno di aiuto!" sibilò. Smithback fu subito al suo fianco. "Illumina la galleria", gli ordinò D'Agosta. Il tenente annaspò con le dita sul fondo di pietra. Si accorse che l'acqua era più alta: chinandosi, gli sfiorava il petto. Qualcosa gli galleggiò vicino al naso, un pezzo di Bailey. Per un momento distolse lo sguardo. Non ci fu modo di trovare il fucile. "Smithback", disse il tenente, "torno indietro a far saltare il catenaccio. Non possiamo perdere altro tempo con quella bestia che ci dà la caccia. Guarda se riesci a trovare il fucile. Se vedi qualcosa, o fiuti qualcosa, grida." "Mi lascia solo?" domandò il giornalista, la voce un po' incrinata. "Hai la torcia. Un minuto soltanto. Pensi di farcela?" "Cercherò." D'Agosta strinse per un momento la spalla del giovane, quindi si avviò. Per essere un giornalista, quel ragazzo aveva fegato. Una mano lo brancò, mentre passava accanto al gruppo. "La prego, ci dica cosa sta succedendo", implorò una voce femminile. Lui si liberò con garbo dalla stretta. Sentì il sindaco che parlava alla donna in tono rassicurante. Forse avrebbe votato per quel vecchio bastardo, alle prossime elezioni. "State tutti indietro", ordinò mentre raggiungeva la porta. Sapeva di doversi tenere a una certa distanza per evitare eventuali rimbalzi del proiettile. Il catenaccio era robusto: non era facile mirare al buio. Tenendosi a pochi passi dalla porta, avvicinò la canna della .38 al paletto
e sparò. Quando il fumo si dissolse, vide un foro proprio al centro del catenaccio, che però non aveva ceduto. "Maledizione", mormorò, piazzando la bocca della pistola direttamente contro il paletto e sparando di nuovo. Ora il catenaccio era saltato. D'Agosta si buttò a corpo morto contro la porta. "Datemi una mano!" gridò. Subito, alcune persone accorsero a dare spallate tutte insieme. I cardini arrugginiti stridettero, l'acqua cominciò a fluire attraverso il varco. "Smithback! Trovato niente?" "La torcia!" gli rispose una voce incorporea. "Bravo. Ora torna qui!" Mentre il tenente varcava la soglia, notò che anche sulla parte opposta c'era un anello a forma di "D." Si scostò per far passare il gruppo, contando. Trentasette. Bailey non c'era più. Smithback chiudeva la fila. "Benissimo, ora vediamo di bloccare questa porta!" ordinò. Contrastando l'afflusso dell'acqua, la porta si chiuse lentamente, stridendo. "Smithback! Fa' luce qua. Bisogna trovare il modo di sbarrare questa porta." Il tenente osservò per un istante. Se fossero riusciti a incastrare qualcosa di metallico in quell'anello, forse la porta avrebbe tenuto. Si rivolse al gruppo. "Avete oggetti di metallo con cui si possa bloccare questo affare?" Il sindaco passò rapidamente fra la gente e tornò verso D'Agosta mettendogli nel palmo una manciata di oggetti metallici. Mentre Smithback gli faceva luce, il poliziotto passò in rassegna spille, collane, pettinini. "Non c'è niente qui", bisbigliò. Sentirono uno splash improvviso al di là della porta, seguito da un basso grugnito. Si avvertiva chiaramente il fetore. Ci fu un tonfo seguito da un breve stridore di cardini, e l'uscio venne socchiuso. "Cristo! Venite qui, aiutatemi a chiudere!" Subito un gruppetto si ammassò contro la lastra riuscendo a richiudere. Ci fu uno strepito, seguito da un colpo più sonoro della bestia che contrastava la loro forza respingendoli. La porta si socchiuse di nuovo. Al grido di D'Agosta, altri accorsero a dare manforte. "Continuate a spingere!" Un altro mugghio; quindi una botta tremenda spinse di nuovo tutti indietro. La porta gemeva tra le forze contrapposte, ma continuava a schiudersi: venti centimetri... trenta. Il fetore diventò insopportabile. Guardando nello
spiraglio, D'Agosta scorse tre lunghi artigli che ghermivano lo stipite. Dapprima tastarono il legno, poi scattarono in avanti, sguainandosi e ritraendosi. "Oh Dio", sentì mormorare dalla voce del sindaco, in tono quasi naturale. Qualcun altro cominciò a intonare una preghiera con una strana cantilena. D'Agosta puntò la canna della pistola verso la mostruosità. Sparò una volta. Ci fu un tremendo ruggito e la forma svanì nell'acqua spumeggiante. "La torcia!" urlò Smithback. "Si adatta perfettamente. Infiliamola nell'anello!" "Rimarremo con una sola luce", obiettò ansando il poliziotto. "Ha un'idea migliore?" "No", rispose sottovoce il tenente. Poi, in tono più alto: "Spingete tutti!" Con un ultimo sforzo riuscirono ad accostare di nuovo la lastra al telaio, e il giornalista infilò la torcia nell'anello. Ci si adattava perfettamente: l'estremità a bulbo s'incastrò contro il battente. Mentre D'Agosta riprendeva fiato, sentirono un altro schianto improvviso; la porta tremò, ma non cedette. "Di corsa, gente!" urlò il tenente. "Di corsa!" Tutti arrancarono nell'acqua torbida, cadendo, scivolando. Il tenente, incalzato da presso, finì con la faccia nel liquido viscoso. Si alzò e continuò a procedere, cercando di ignorare i colpi e i mugghi del mostro... non credeva di riuscire ad ascoltarli senza perdere la ragione. Si sforzò invece di pensare alla torcia. Era una buona, pesante torcia in dotazione alla polizia. Avrebbe tenuto. Confidava in Dio perché tenesse. Il gruppo si fermò alla seconda biforcazione della galleria, gemendo e rabbrividendo. È ora di chiamare Pendergast perché ci porti fuori da questo fottuto labirinto, pensò D'Agosta. Portò la mano alla fondina della radio... ed ebbe la brutta sorpresa di trovarla vuota. Coffey, nella postazione avanzata, osservava corrucciato il monitor. Non riusciva a contattare né Pendergast né D'Agosta. All'interno del perimetro, rispondevano ancora Garcia, nel Comando Sicurezza, e Waters nella Sala Computer. Tutti gli altri erano stati uccisi? Quando pensava al sindaco morto, e ai titoli sui giornali che sicuramente sarebbero seguiti, si sentiva un buco nello stomaco. Una fiamma ossidrica, che lampeggiava accanto alla lastra argentea della porta di sicurezza nella parte orientale della Rotonda, proiettava ombre spettrali sull'alto soffitto. Un acre odore di metallo fuso permeava l'aria. La sala era diventata stranamente silenziosa. Lì accanto i chirurghi continua-
vano ad amputare, ma tutti gli altri invitati avevano preso la via di casa o dell'ospedale. I giornalisti erano stati confinati al di là delle barriere. Nei vicoli laterali erano state installate sale di rianimazione mobili, le ambulanze erano in attesa. Arrivò il comandante dei Nuclei Speciali: si stava ancora allacciando un cinturone di munizioni sulla tuta nera. "Siamo pronti", annunciò. Coffey annuì. "Dimmi quale tattica seguirai." L'uomo spostò alcuni telefoni d'emergenza e spiegò un foglio sul tavolo. "Il nostro osservatore ci guiderà via radio. Ha avuto gli schemi dettagliati da questa postazione. Fase uno: apriremo un foro nel soffitto, qui, e scenderemo al quinto piano. Dalle caratteristiche del sistema di sicurezza si evince che questa porta può essere fatta saltare con una carica. Ciò ci consentirà di accedere al comparto adiacente. Da lì procederemo fino a questo deposito di materiale di scorta del quarto piano. È proprio sopra il Planetario. C'è una botola nel pavimento: quelli della manutenzione la usano per pulire e riparare il lampadario. Con le imbracature, faremo scendere i nostri e salire i feriti. Fase due: rintracceremo la gente nel sotterraneo, il sindaco e il gruppo che è con lui. Fase tre: faremo il giro del perimetro in cerca di eventuali dispersi. So che qualcuno è intrappolato nella Sala Computer e nel Comando Sicurezza. Il direttore del museo, Ian Cuthbert e una donna non ancora identificata possono essere saliti ai piani superiori. E poi lei ha degli agenti all'interno, vero, signore? Quel tale del comando di New Orleans..." "Mi occupo io di lui", disse seccamente Coffey. "Chi ha approntato questo piano?" "Noi, con l'assistenza del Comando Sicurezza. Quel tale, Allen, non ha più accesso alle mappe computerizzate del comparto. Però, con le caratteristiche del sistema di sicurezza..." "Voi, eh? E chi comanda qui?" "Signore, come lei sa, in situazioni di emergenza, è il comandante dei Nuclei Speciali..." "Voglio che andiate là dentro e uccidiate quel figlio di puttana. Capito?" "Signore, il nostro primo dovere è quello di liberare ostaggi e salvare vite umane. Soltanto dopo possiamo pensare..." "Mi credi stupido, comandante? Se uccidiamo quell'essere, tutti gli altri problemi saranno risolti. Giusto? Questa non è la tua situazione tipica, comandante: richiede creatività." "Nei sequestri di persona, se si sottraggono gli ostaggi al killer gli si to-
glie il suo punto di forza..." "Comandante, che cosa facevi durante la riunione che ho tenuto poco fa? Dormivi? Qui possiamo avere di fronte un animale, non una persona." "Ma i feriti..." "Usa alcuni dei tuoi uomini per far evacuare quei fottuti feriti. Voglio però che tutti gli altri diano la caccia a quell'essere e lo uccidano. Poi potremo cercare i dispersi. Queste sono le tue direttive precise." "Capisco, signore. Vorrei però consigliare..." "Tieni per te i tuoi consigli, comandante. Entra dentro seguendo il tuo piano, ma poi fa' la sola cosa giusta: accoppami quella carogna." Il comandante dei Nuclei Speciali lo guardò in modo strano. "È sicuro che si tratti di un animale?" Coffey esitò. "Sì", rispose infine. "Non ne so molto, ma ha già ucciso parecchie persone." Il comandante lo fissò di nuovo. "D'accordo", disse. "Di qualunque cosa si tratti, la nostra potenza di fuoco è tale da ridurre in fine nebbiolina rossa un branco di leoni." "È quello che ci serve. Trova la bestia e falla fuori." Pendergast e Margo abbassarono gli occhi sulla stretta galleria di servizio nel sotterraneo. La torcia di Pendergast proiettava un cerchio chiaro sulla distesa d'acqua torbida e oleosa sotto di loro. "Sta diventando profonda", disse l'agente. Poi si girò verso Margo. "È sicura che la creatura possa risalire questo pozzo?" domandò. "Ne sono quasi certa", rispose lei. "È molto agile." Pendergast fece un passo indietro e cercò di nuovo di parlare con D'Agosta. "È successo qualcosa", mormorò. "Il tenente ha perso il contatto da un quarto d'ora. Da quando si sono imbattuti in quella porta chiusa." Guardò di nuovo il tunnel in discesa che portava nel sotterraneo. "Come pensa che si possa lasciare una scia di odore con tutta quest'acqua?" "Lei ritiene che siano passati qui sotto qualche tempo fa, giusto?" disse Margo. Pendergast annuì. "L'ultima volta che ho parlato, D'Agosta mi ha detto che il gruppo era fra la prima e la seconda biforcazione. Ipotizzando che non siano tornati indietro, devono essere ben oltre questo punto." "A mio parere", continuò la ragazza, "se spargiamo in acqua alcune fibre, la corrente le porterà fino a quell'essere mostruoso." "Ciò, dando per scontato che la creatura sia abbastanza furba da capire
che le fibre sono trasportate dall'acqua e risalga la corrente. In caso contrario, potrebbe limitarsi a seguirle." "Credo che sia abbastanza furba", intervenne Frock. "Lei non deve pensare a questa creatura come a un animale. Può essere intelligente quasi come un essere umano." Usando il fazzoletto, l'agente dell'FBI prese alcune fibre dal fagotto e le sparse attorno al pozzo. Ne buttò un'altra manciata nell'acqua sottostante. "Non troppe", lo ammonì il professore. Pendergast guardò Margo. "Ne spargeremo qualche altra nell'acqua per invitare la creatura a risalire la corrente, poi trascineremo il fagotto fino all'Area di Sicurezza e aspetteremo. Là scatterà la sua trappola." Riavvolse il tutto. "Alla velocità con cui si muove l'acqua", osservò, "ci vorranno soltanto pochi minuti perché le fibre arrivino al mostro. Quanto tempo credete che occorra perché si faccia vivo?" "Se il programma di estrapolazione è corretto", rispose Frock, "la creatura può muoversi a grande velocità. Forse cinquanta chilometri l'ora o più, specialmente quando è spinta dal bisogno. E il suo bisogno si direbbe imperioso. Non sarà in grado di avanzare a tutta velocità in questi corridoi... l'odore residuo che lasciamo è difficile da seguire... ma dubito che l'acqua possa rallentarla. E l'Area di Sicurezza è vicina." "Capisco", disse Pendergast. "È sconvolgente. E chi vuole combattere/, già che si può, combatta." "Ah", disse Frock, annuendo. "Alceo." L'altro scosse la testa. "Anacreonte, dottore. Andiamo?" 54 Smithback reggeva la torcia, che però riusciva a stento a penetrare l'oscurità quasi palpabile. D'Agosta, poco più avanti, impugnava la pistola. La galleria non finiva mai, l'acqua continuava a scorrere e svaniva nel buio del basso soffitto a volta. O stavano scendendo, o era l'acqua che diventava più profonda. Il giornalista se la sentiva scorrere fra le cosce. Guardò la faccia del tenente, scura in tutti i sensi, i tratti decisi sporchi del sangue di Bailey. "Non ce la faccio più", gemette qualcuno in coda. Il giornalista sentì la voce familiare del sindaco - voce di politico -, rassicurante, suadente, che diceva a tutti ciò che volevano sentirsi dire. Ancora una volta sembrò otte-
nere l'effetto desiderato. Smithback lanciò un'occhiata furtiva al gruppo stremato. La donna magra, paludata e ingioiellata; gli uomini d'affari di mezza età in smoking; il drappello di yuppie provenienti dalle agenzie di borsa e dagli studi legali del centro. Li conosceva tutti, adesso: nella sua mente aveva perfino dato loro nomi e occupazioni. Ed erano tutti lì, ridotti al minimo comune denominatore, che sguazzavano nel buio della galleria, coperti di melma, braccati da una bestia spietata. Smithback era preoccupato, ma non aveva perso la testa. Poco prima, aveva avuto una crisi di vero e proprio terrore nel rendersi conto che le voci sulla Bestia del Museo non erano infondate. Ora, però, stanco e fradicio, più che la morte in sé, temeva di poter morire prima di vedere il suo libro stampato. Si domandò se questo significasse che era coraggioso, avido, o semplicemente stupido. Come che fosse, sapeva che quanto gli stava succedendo lì sotto poteva valere una fortuna. Presentazione del libro nei luoghi più esclusivi, partecipazione agli show televisivi più prestigiosi. Nessuno poteva raccontare quella storia meglio di lui, nessun altro l'aveva vissuta in prima persona. E poi era stato un eroe. Lui, William Smithback Junior, aveva puntato la torcia contro il mostro, mentre D'Agosta faceva saltare il catenaccio. Lui, Smithback, aveva avuto l'idea di usare la torcia per bloccare la porta. Era stato il braccio destro del tenente. "Illumina là sulla sinistra", disse D'Agosta intrufolandosi nei suoi pensieri, e lui obbedì doverosamente. Nulla. "Mi sembrava di aver visto qualcosa muoversi nel buio", mormorò il tenente. "Probabilmente era un'ombra." Dio, pensò il giornalista, se soltanto vivessi per gustarmi il successo. "È la mia immaginazione, o l'acqua sta diventando più profonda?" domandò. "Sta diventando più profonda e più veloce", rispose D'Agosta. "Pendergast non mi ha detto quale strada prendere da qui." "Non glielo ha detto?" Smithback si sentì gelare il sangue. "Dovevamo sentirci per radio alla seconda biforcazione... Ma ho perso la trasmittente prima di arrivare alla porta." Il giornalista sentì un'altra ondata che gli investiva le gambe, più impetuosa delle precedenti. Ci fu un grido, seguito da un tonfo. "È tutto a posto", disse il sindaco, quando Smithback volse indietro la torcia. "Una persona è caduta. La corrente sta diventando più forte." "Non possiamo dir loro che ci siamo persi", mormorò Smithback a D'Agosta.
Margo spalancò la porta dell'Area di Sicurezza, guardò rapidamente dentro, e fece un cenno a Pendergast. L'agente varcò la soglia, trascinando il fagotto. "Chiudiamolo nella camera blindata con le casse di Whittlesey", disse Frock. "Dobbiamo trattenere lì dentro la bestia quanto basta per chiudere la porta." La ragazza aprì la camera blindata, mentre Pendergast faceva una serie di giri intricati facendo strusciare l'esca sul pavimento. Lasciato il fagotto all'interno, chiusero a chiave. "Presto", disse Margo. "Dall'altra parte del corridoio." Lasciata aperta la porta principale dell'Area di Sicurezza, attraversarono il corridoio fino al deposito di ossa di elefante. La finestrella sull'uscio era rotta da tempo, sostituita adesso da un logoro pezzo di cartone. La giovane aprì con la chiave di Frock, Pendergast spinse dentro il professore. Spostato l'interruttore sulla minima intensità di luce, la ragazza posò la torcia in equilibrio su una sporgenza sopra l'ingresso, puntando il flebile fascio in direzione dell'Area di Sicurezza. Poi, con una penna, fece un forellino nel cartone, e, data un'ultima occhiata intorno, entrò. Il deposito era ampio, mal aerato. La maggior parte degli scheletri erano smembrati, e le grandi ossa indistinte erano state accatastate sulle mensole come tanti tronchi da caminetto. In un angolo lontano c'era uno scheletro intero, scura gabbia d'ossa, le zanne ricurve che splendevano debolmente nella poca luce. Pendergast chiuse la porta e spense la lampada da minatore. Spiando dal buco nel cartone, Margo aveva una chiara visione del corridoio e della porta aperta dell'Area di Sicurezza. "Dia un'occhiata", disse a Pendergast, allontanandosi. L'agente si avvicinò. "Eccellente", fu il suo commento. "È un posto d'osservazione perfetto, finché durano le batterie." Fece un passo indietro. "Come ha fatto a ricordarsi di questa stanza?" domandò con curiosità. Lei rise timidamente. "Quando mercoledì lei ci ha chiesto di scendere quaggiù, ho visto questa porta con la scritta PACHIDERMI, e ricordo che mi sono chiesta come si potesse far passare per questa porticina un teschio di elefante." Si avvicinò all'ingresso. "Io sorveglio dallo spioncino. Stia pronto a correre fuori e a intrappolare la creatura nell'Area di Sicurezza." Nell'oscurità dietro di loro, Frock si schiarì la gola. "Signor Pendergast?" "Sì?" "Scusi se glielo chiedo, ma qual è la sua esperienza in fatto di armi?"
"Di solito", rispose l'agente, "prima che mia moglie morisse, ogni inverno andavamo per qualche settimana a fare caccia grossa in Africa orientale. Mia moglie era una cacciatrice accanita." "Ah", sospirò il professore. Margo percepì del sollievo nella sua voce. "Sarà difficile uccidere questa creatura, ma non impossibile, credo. Io non sono un granché come cacciatore, naturalmente. Ma unendo i nostri sforzi potremmo riuscire ad abbatterla." Pendergast annuì. "Purtroppo, questa pistola mi mette in condizione di svantaggio. È un'arma potente, ma poca cosa in confronto a .375 da caccia grossa. Se potesse dirmi quali sono i punti più vulnerabili della bestia, sarebbe di grande aiuto." "Dallo stampato", disse lentamente Frock, "possiamo desumere che abbia ossa massicce. Come lei ha sperimentato, il colpo alla testa non l'ha uccisa. E un tiro alla spalla o al torace per raggiungere il cuore verrebbe quasi sicuramente deviato dall'ossatura robusta e dalla muscolatura del tronco. Se riuscisse a colpirla sul fianco, forse potrebbe centrare il cuore, sotto la zampa anteriore. Anche così, però, le sue costole devono costituire una sorta di gabbia d'acciaio. Ciò che penso, è che nessuna delle parti vitali della bestia sia particolarmente vulnerabile. Un colpo al ventre riuscirebbe forse a ucciderla, ma non prima che essa si sia vendicata." "Magra consolazione", mormorò l'agente federale. Frock si mosse irrequieto nel buio. "Ciò apre davanti a noi un mare d'incertezza." Silenzio. "Eppure può esserci un modo", disse infine Pendergast. "Sì?" lo sollecitò, speranzoso, il professore. "Una volta, qualche anno fa, mia moglie e io stavamo cacciando antilopi in Tanzania. Ci piaceva cacciare da soli, sicché non avevamo portatori di fucili, e le nostre sole armi erano delle carabine da .30. Ci trovavamo quasi allo scoperto vicino a un fiume, quando fummo caricati da un bufalo cafro. Doveva essere stato ferito pochi giorni prima da un bracconiere. Il bufalo cafro è un po' come il mulo: non scorda mai una ferita... e tutte le persone con un fucile devono assomigliarsi, ai suoi occhi." Seduta nella luce fioca, aspettando l'arrivo di una creatura da incubo e ascoltando Pendergast che narrava storie di caccia con il solito tono pacato, Margo si sentiva pervadere da un senso d'irrealtà. "Di solito, cacciando il bufalo", stava dicendo l'uomo, "si cerca di colpirlo subito sotto la radice delle corna, oppure al cuore. In quel caso, il calibro .30 era insufficiente. Mia moglie, molto più brava di me, usò la sola
tattica possibile per un cacciatore in una situazione simile. S'inginocchiò e sparò all'animale in modo da neutralizzarlo." "Neutralizzarlo?" "Non si tenta il colpo mortale. Bisogna cercare di immobilizzarlo. Si mira alle zampe anteriori, ai pasturali, alle ginocchia. Si frantuma il maggior numero di ossa possibile in modo che non riesca più a muoversi." "Capisco", disse Frock. "C'è un solo problema con questa tecnica", continuò Pendergast. "Ed è..." "Bisogna essere un tiratore eccellente. Fare centro è fondamentale. Occorre restare calmi, immobili, non respirare, sparare fra un battito di cuore e l'altro... davanti alla bestia che carica. Avemmo entrambi il tempo di esplodere quattro colpi. Io feci l'errore di mirare al torace e mandai a segno due colpi, prima di rendermi conto che i proiettili venivano fermati dai muscoli. Poi mirai alle gambe. Un colpo lo sbagliai, e l'altro sfiorò l'osso senza spezzarlo." Scosse la testa. "Una magra figura, direi." "E allora cosa successe?" domandò Frock. "Mia moglie mandò a segno tre dei quattro colpi. Frantumò entrambi i cannoni anteriori e spezzò anche la zampa superiore. Il bufalo fece un capitombolo, fermandosi a pochi metri dal punto in cui eravamo inginocchiati. Era ancora vivissimo, ma non poteva più muoversi. Sicché 'pagai l'assicurazione' a mia moglie, come avrebbe preteso un cacciatore professionista." "Vorrei che sua moglie fosse qui", replicò il professore. Pendergast tacque per un momento. "Anch'io", disse poi. Nella stanza tornò il silenzio. "Molto bene", riprese Frock. "Ho chiaro in mente il problema. La bestia possiede qualità insolite che lei deve conoscere, se intende... ah, sì, neutralizzarla. Primo, il treno posteriore è quasi sicuramente coperto di placche ossee o di scaglie. Dubito che lei possa trapassarle con la sua pistola. Proteggono le parti superiori e inferiori delle zampe, fino alle ossa metatarsali, direi." "Capisco." "Dovrà sparare molto in basso, mirare alla prima o seconda falange." "Le ossa più basse della zampa..." "Sì. Diciamo l'equivalente dei pasturali del cavallo. Miri appena sopra l'articolazione più bassa. In verità, l'articolazione stessa potrebbe essere vulnerabile."
"Un colpo difficile", osservò l'agente dell'FBI. "Virtualmente impossibile, se la creatura mi sta di fronte." I tre rimasero zitti. Margo continuava a scrutare dallo spioncino, senza vedere nulla. "Credo che le zampe anteriori della creatura siano più vulnerabili", osservò il professore. "L'Estrapolatore le descrive come meno robuste. Forse i metacarpali e i carpali si potrebbero spezzare, se colpiti in pieno." "L'articolazione anteriore e inferiore della zampa", disse Pendergast, annuendo. "I colpi che lei ha appena descritto sono quasi banali. Ma in quanti punti dovrò colpirla per immobilizzarla?" "Difficile dirlo. Entrambe le zampe anteriori e almeno una posteriore, temo. Anche così, potrebbe sempre strisciare." Frock tossicchiò. "Pensa di farcela?" "Per avere una possibilità, bisognerebbe che fra me e la creatura che carica ci fossero almeno una cinquantina di metri. La cosa migliore sarebbe che riuscissi a mettere a segno un colpo ancor prima che la bestia capisca cosa sta succedendo. In tal modo potrei rallentarla." Frock meditò per un momento. "Nel museo ci sono parecchi corridoi lunghi e dritti: cento, centocinquanta metri. Sfortunatamente, la maggior parte sono tagliati da quelle maledette porte di sicurezza. Credo però che ci sia almeno un corridoio non ostruito dentro il Comparto Due. Al primo piano, nel Settore 18, dietro l'angolo della Sala Computer." L'altro annuì. "Lo terrò presente, casomai questo piano non dovesse funzionare." "Sento qualcosa", sibilò Margo. Tutti tacquero. Pendergast si avvicinò alla porta. "Un'ombra è appena passata davanti alla luce in fondo al corridoio", sussurrò la ragazza. Nessuno osò fiatare. Margo sentì il clic della sicura che scattava sulla pistola di Pendergast. "E qui", mormorò Margo con un filo di voce. "La vedo." Poi, ancora più piano: "Oh, Dio mio". Pendergast le sussurrò all'orecchio: "Si sposti!" La ragazza arretrò, osando a malapena respirare. "Cosa sta facendo?" bisbigliò. "Si è fermata davanti alla porta dell'Area di Sicurezza", rispose con calma Pendergast. "Appena entrata, è tornata indietro in tutta fretta. Si sta guardando attorno, fiuta l'aria."
"A cosa somiglia?" domandò Frock in tono concitato. L'agente federale esitò un momento prima di rispondere. "Stavolta la vedo meglio. È grossa, massiccia. Un momento, si sta girando da questa parte... Buon Dio, è orribile, è... Muso schiacciato, occhi piccoli e rossi. Pelliccia rada sulla parte superiore del corpo. Proprio come la statuina. Ma... ehi... sta venendo qui." Margo si rese conto a un tratto che aveva raggiunto la parete posteriore. Di là dalla porta si sentiva la bestia che fiutava. E poi arrivò l'odore, il fetido puzzo di rancido. La ragazza si lasciò cadere sul pavimento nel buio, lo spioncino nel cartone che oscillava come una stella. La torcia di Pendergast, fuori, splendeva fioca. Luce stellare... Una vocina stava cercando di farsi strada nella sua mente. Un'ombra coprì lo spioncino e tutto fu nero. Si sentì un tonfo sordo contro, poi lo scricchiolio del vecchio legno. La maniglia sbatacchiò. Ci fu un lungo silenzio, poi il rumore di qualcosa che si muoveva pesantemente all'esterno e un cigolio sinistro, mentre la creatura premeva contro la porta. La vocina nella mente di Margo diventò udibile. "Pendergast, accenda la lampada da minatore!" esclamò. "Illumini la bestia!" "Cosa sta dicendo?" "È notturna, rammenta? Probabilmente odia la luce." "Giustissimo!" urlò Frock. "State indietro!" gridò a sua volta Pendergast. Margo sentì un debole clic, poi il bagliore della lampada l'accecò per un momento. Quando fu di nuovo in grado di vedere, scorse l'agente inginocchiato, la pistola puntata verso la porta, lo splendente cerchio di luce proprio nel centro del legno. Ci fu un altro scricchiolio, e Margo vide delle schegge sprizzare nella stanza da una fenditura sul pannello superiore. L'uscio stava cedendo. Pendergast era immobile, l'occhio fisso sulla canna spianata. Ci fu un altro tremendo schianto, e la porta fu ridotta in pezzi che penzolavano oscillando dai cardini piegati. Margo si schiacciò contro la parete finché si sentì dolere la spina dorsale. Udì l'urlo di Frock: di sorpresa, di ammirazione, di paura. La creatura si stagliò sulla soglia, mostruosa sagoma nella luce splendente; poi, con un improvviso ruggito gutturale, scosse la testa e arretrò. "State indietro", ordinò Pendergast. Spostò con un calcio ciò che restava della porta e uscì con cautela nel corridoio. Margo sentì uno sparo improv-
viso, seguito da un altro. Poi il silenzio. Dopo quella che parve un'eternità, l'agente tornò, facendo cenno di uscire. Una scia di goccioline di sangue striava il corridoio e girava dietro l'angolo. "Sangue!" esclamò il professore, piegandosi con un borbottio. "Dunque l'ha ferita!" Pendergast si strinse nelle spalle. "Forse. Ma non sono stato il primo. Le gocce vengono dal sotterraneo. Vede? Il tenente D'Agosta o uno dei suoi uomini devono averla colpita senza però indebolirla. Se n'è andata con una rapidità fulminea." Margo guardò Frock. "Come mai non c'è cascata?" Il professore la guardò di rimando. "Siamo di fronte a una creatura che possiede un'intelligenza eccezionale." "Lei intende dire che ha fiutato la trappola?" intervenne Pendergast in tono incredulo. "Le faccio anch'io una domanda... Lei ci sarebbe cascato?" L'altro tacque. "Suppongo di no", rispose infine. "Be', allora... Stiamo sottovalutando la creatura. Dobbiamo smettere di pensare a essa come a un animale ottuso. Ha l'intelligenza di un essere umano. Ho capito male o quel cadavere trovato nella mostra era nascosto? La bestia sapeva che le davano la caccia. Ovviamente, ha imparato a nascondere le sue prede. Inoltre..." esitò. "Credo che ora abbiamo di fronte qualcosa di più di un mostro semplicemente affamato. Probabilmente, si è per il momento saziato con gli ormoni umani di questa sera. Ma è anche stato ferito. Se la sua analogia con il bufalo è giusta, questa creatura adesso è più infuriata che famelica." "Dunque pensa che sia in caccia", osservò pacatamente Pendergast. Frock rimase immobile. Poi annuì in modo appena percettibile. "E a chi sta dando la caccia, adesso?" domandò Margo. Nessuno le rispose. 55 Cuthbert controllò di nuovo la porta. Era chiusa e solida come roccia. Accese la torcia e la puntò verso Wright che, piegato sulla sedia, cupo, guardava il pavimento. La spense. Nella stanza c'era puzza di whisky. Il solo rumore era quello della pioggia che scrosciava martellando sulla finestra sbarrata. "Come la mettiamo con Wright?" domandò sottovoce.
"Non preoccuparti", rispose la Rickman, con voce ferma. "Diremo ai giornalisti che sta male e lo spediremo in ospedale, poi convocheremo una conferenza stampa per domani pomeriggio..." "Non sto parlando di dopo che saremo usciti. Sto parlando di adesso. Se arrivasse la bestia." "Ti prego, Ian, non parlare così. Mi spaventa. Non posso credere che l'animale faccia una cosa simile. Per quanto ne sappiamo, è rimasto nello scantinato per anni. Perché dovrebbe venire su proprio adesso?" "Non lo so. È questo che mi preoccupa." Esaminò ancora una volta la Ruger, fece ruotare il tamburo, alzò e abbassò la sicura. Cinque colpi. Andò verso Wright e lo scosse. "Winston?" "Sei ancora qui?" domandò Wright, lo sguardo annebbiato. "Winston, voglio che tu e Lavinia andiate nella Sala Dinosauri. Muoviti." Wright gli allontanò il braccio. "Sto bene qui dove sono. Forse mi farò una dormitina." "Il diavolo ti porti, allora", disse Cuthbert. Andò a sedersi davanti alla porta. Si sentì un rumore secco - uno sbatacchiare -, come se qualcuno abbassasse e poi lasciasse andare la maniglia. Cuthbert balzò in piedi, pistola in pugno. Si accostò alla porta e si mise in ascolto. "Sento qualcosa", mormorò. "Va' nella Sala Dinosauri, Lavinia." "Ho paura", sussurrò lei. "Per favore, non farmi entrare là dentro da sola." "Fa' come ti dico." La Rickman andò verso la porta sul fondo e l'aprì. Esitava. "Entra." "Ian..." gemette la donna. Dietro di lei, Cuthbert vedeva gli immensi scheletri di dinosauro spuntare nel buio. Le grandi costole nere e le file di denti nelle mascelle spalancate vennero improvvisamente illuminate da un lampo di luce livida. "Dannazione, entra." L'uomo si voltò e si rimise in ascolto. Qualcosa di molle strusciava contro la porta. Si tese in avanti, accostando l'orecchio al legno liscio. Forse era soltanto il vento. All'improvviso fu sbattuto indietro da una forza tremenda. Sentì la Rickman urlare dalla Sala Dinosauri.
Wright si alzò barcollando. "Cosa c'è?" disse. Frastornato, Cuthbert raccolse la pistola dal pavimento, balzò in piedi e corse nell'angolo più lontano della stanza. "Va' nella Sala Dinosauri!" urlò a Wright. Il direttore si afflosciò pesantemente nella sedia. "Cos'è questo odore nauseabondo?" domandò. Ci fu un altro colpo tremendo alla porta: il crac del legno scheggiato sembrò un'esplosione. Le dita di Cuthbert strinsero d'istinto il grilletto, e la pistola sparò inaspettatamente, facendo piovere intonaco dal soffitto. L'uomo abbassò per un attimo l'arma, la mano che tremava. Idiota, un colpo sprecato. Diavolo, come avrebbe voluto saperne di più, di armi! Alzò di nuovo la pistola e cercò di mirare, ma la mano adesso gli tremava in modo incontrollato. Calmati, pensò. Fa' dei respiri profondi. Mira a qualcosa di vitale. Quattro colpi. Nella stanza tornò pian piano il silenzio. Wright era crollato sulla sedia, come raggelato. "Winston, idiota!" sibilò Cuthbert. "Va' nella Sala!" "Se lo dici tu", borbottò l'altro, dirigendosi a passo strascicato verso la porta. Ora la paura doveva averlo riscosso dal torpore. Allora Cuthbert sentì di nuovo quel rumore ovattato, e il legno scricchiolò. La bestia stava premendo contro la porta. Ci fu un altro terribile crac, e l'uscio si schiantò, un pezzo di legno piroettò da un capo all'altro della stanza. Il tavolo venne spinto da parte. Qualcosa apparve nell'oscurità del corridoio, e una zampa con tre artigli entrò nello squarcio e afferrò il legno rotto. Con un altro schianto, ciò che restava della porta fu strappato e scagliato nel buio, e Cuthbert vide una forma scura profilarsi sulla soglia. Wright si precipitò nella Sala Dinosauri, quasi sbattendo contro la Rickman che era apparsa all'ingresso: senza fiato e singhiozzante. "Sparagli, Ian, oh, ti prego, ti prego, uccidilo!" urlò la donna. Cuthbert aspettava, guardando lungo la canna. Trattenne il respiro. Quattro colpi. Il comandante del Nucleo Speciale si spostava lungo il tetto, forma felina contro l'indaco scuro del cielo, mentre l'osservatore nella strada sottostante guidava la sua avanzata. Coffey era accanto all'osservatore, sotto una tela cerata. Entrambi avevano radio impermeabili, rivestite da uno strato di gomma. "Ricovero a Uno Rosso, avanza di due metri verso est", disse l'osserva-
tore nella radio, guardando in alto con il binocolo a visibilità notturna. "Ci sei quasi." Tornò a studiare le mappe del museo stese su un tavolo sotto una lastra di plexiglas. Il percorso del Nucleo Speciale era stato segnato in rosso. La sagoma scura si mosse cauta sul tetto d'ardesia, le luci dei lampioni dell'Upper West Side che gli scintillavano attorno; sotto, l'Hudson, le luci rotanti dei veicoli d'emergenza sul viale del museo, gli alti edifici residenziali che costeggiavano Riverside Drive come tante file di cristalli splendenti. "Ecco, è lì", continuò l'osservatore. "Ci sei, Uno Rosso." Coffey vide il comandante inginocchiarsi, piazzare svelto e in silenzio le cariche. La sua squadra aspettava a un centinaio di metri di distanza; subito dietro c'era il personale medico. Sulla strada, una sirena urlò. "Fatto", disse il comandante. Si alzò e camminò cautamente all'indietro, srotolando un filo. "Quando siete pronti, fate saltare", mormorò Coffey. L'agente federale osservò gli uomini sul tetto che si stendevano a pancia sotto. Ci fu un rapido lampo, e un secondo dopo il rumore secco raggiunse Coffey. Il comandante aspettò un momento, poi riprese ad avanzare circospetto. "Uno Rosso a Ricovero, abbiamo aperto un varco." "Procedete", ordinò Coffey. Gli uomini del Nucleo Speciale s'introdussero nel foro, seguiti dal personale medico. "Siamo dentro", annunciò la voce del comandante. "Siamo nel corridoio del quinto piano. Tutto come previsto." Coffey aspettava con impazienza. Guardò l'orologio: le nove e un quarto. Erano rimasti bloccati lì, impotenti, per i novanta minuti più lunghi della sua vita. La sgradita immagine del sindaco, morto e sventrato, continuava ad affliggerlo. "Siamo alla porta di emergenza del Comparto Tre, quinto piano, Settore 14. Pronti a piazzare le cariche." "Procedete!" "Piazziamo le cariche." D'Agosta e il suo gruppo non davano più notizie da almeno mezz'ora. Dio, se fosse successo qualcosa al sindaco, nessuno si sarebbe chiesto di chi fosse realmente la colpa. Tutto il biasimo sarebbe stato per lui, Coffey. Così andavano le cose in quella città. Ci aveva messo un sacco di tempo
per arrivare dov'era; era sempre stato attento, prudente, e adesso quei bastardi gli stavano rovinando tutto. Colpa di Pendergast. Se non fosse arrivato a ficcare il naso in faccende che non lo riguardano... "Cariche piazzate." "Quando siete pronti, fate saltare", disse di nuovo Coffey. Era stato Pendergast a fare cazzate, non lui. Lui aveva preso il comando soltanto il giorno prima, in fin dei conti. Forse, dopotutto, non l'avrebbero biasimato. Specialmente se Pendergast non fosse stato più fra i piedi. Quel figlio di puttana era capace di stordire un mulo, con la sua parlantina. Ci fu un lungo silenzio. Nessun rumore di esplosione raggiunse le orecchie di Coffey, mentre aspettava sotto il fradicio telo incerato. "Uno Rosso a Ricovero: via libera." "Procedete. Entrate e fate fuori quella carogna", sibilò l'agente dell'FBI. "Come stabilito, signore, il nostro primo dovere è quello di evacuare i feriti", disse il comandante in tono neutro. "Lo so! Ma sbrigatevi, perdio!" Schiacciò brutalmente il pulsante della radio. Il comandante uscì dalla tromba delle scale e si guardò attentamente intorno prima di far cenno alla squadra di seguirlo. A una a una, le sagome scure emersero, le maschere antigas tenute alte sulla fronte, le tute che si confondevano con le ombre, gli M-16 e i Bullpup con le baionette integrali. In coda, un agente basso e tracagnotto portava un lanciabombe da 40 mm a sei colpi, un'arma panciuta simile a un mitragliatore gravido. "Siamo arrivati al quarto piano", avvisò il comandante parlando con l'osservatore. "Sistemato faro a infrarossi. Davanti a noi, la Sala delle Scimmie Minori." L'osservatore parlò nella radio. "Procedete nella sala in direzione sud per venti metri, poi verso ovest per sette metri finché troverete una porta." Il comandante prese dalla cintura una scatoletta nera e premette un pulsante. Ne scaturì un raggio laser vermiglio, sottile come una matita. L'uomo mosse il raggio finché la scala dello strumento segnò venti metri. Percorse quella distanza e ripeté la procedura, dirigendo il raggio verso la parete occidentale. "Uno Rosso a Ricovero. Porta in vista." "Bene. Procedete." Il comandante avanzò verso la porta, facendo cenno ai suoi uomini di seguirlo. "La porta è chiusa. Piazzate le cariche."
La squadra foggiò rapidamente due rotolini di plastico e li sistemò attorno alla serratura, poi indietreggiò srotolando filo. "Cariche piazzate." Ci fu un sonoro bang e la porta si aprì. "La botola si trova proprio davanti a voi, al centro del magazzino", li istruì l'osservatore. Spostati alcuni pannelli di scena, la squadra speciale mise allo scoperto la botola. Tirati i chiavistelli, il capo afferrò l'anello metallico e sollevò. Il gruppetto fu salutato da un effluvio di aria stantia. Il comandante si sporse in avanti. Nel Planetario sottostante, tutto era immobile. "Abbiamo aperto", disse nella radio. "Sembra che ci sia via libera." "Okay", rispose la voce di Coffey. "Presidiate il Planetario. Mandate giù il personale medico ed evacuate i feriti, presto." "Uno Rosso a Ricovero: ricevuto". Subentrò l'osservatore: "Sfondate il pannello di cartongesso al centro della parete nord. Troverete una grossa putrella cui fissare le cime." "D'accordo." "State attenti. Sono più di venti metri d'altezza." La squadra lavorava in fretta: sfondò il pannello, assicurò due catene alla putrella, vi agganciò i moschettoni e un paranco. Uno degli uomini fissò una scala di corda a una delle catene e la calò nella botola. Il comandante si sporse ancora una volta, esplorando con la potente torcia il fondo buio della sala sottostante. "Qui Uno Rosso. Individuati alcuni cadaveri sotto di noi." "Nessun segno della creatura?" domandò Coffey. "Negativo. Si direbbero dieci, venti corpi, forse di più. Ora la scala è a posto." "Cosa aspettate, allora?" Il comandante si rivolse al personale medico. "Vi faremo un cenno, quando è il momento. Cominciate a calare le barelle pieghevoli. Li prenderemo uno per volta." Afferrò la scala di corda e si calò, oscillando nel vuoto. A uno a uno, gli uomini lo seguirono. Due si aprirono a ventaglio per fornire all'occorrenza il fuoco di copertura, mentre altri due piazzavano dei treppiedi con gruppi di lampade alogene collegate ai generatori portatili appena calati con le funi. Di lì a poco il centro della sala fu inondato di luce. "Entrate e uscite sono sotto controllo!" urlò il comandante. "Faccio scendere il personale medico!"
"Rapporto!" berciò Coffey nella radio. "Planetario presidiato", rispose il comandante. "Nessun segno di animali. Il personale medico sta scendendo." "Bene. Ora non vi resta che scovare la bestia, farla fuori e localizzare il gruppo del sindaco. Riteniamo che siano scesi dalla scala dietro l'area di servizio." "Ricevuto, Ricovero." Mentre la radio ronzava nel silenzio, il comandante sentì uno scoppio improvviso, attenuato ma inconfondibile. "Uno Rosso a Ricovero, abbiamo appena sentito un colpo di pistola. Sembrava provenire da sotto." "Dannazione, segui quel rumore!" urlò Coffey. "Prendi gli uomini e segui quel rumore!" Il comandante si rivolse alla squadra. "Bene. Due Rosso, Tre Rosso, tenete la situazione sotto controllo e finite il lavoro qui. Vi lascio il lanciabombe. Tutti gli altri mi seguano." 56 Adesso l'acqua viscosa lambiva Smithback alla cintola. Anche soltanto restare in equilibrio era sfibrante. Le sue gambe erano intirizzite già da un pezzo, e tremava in tutto il corpo. "L'acqua sta prendendo una velocità da non credere", disse D'Agosta. "Forse non dobbiamo più preoccuparci della bestia", gli fece eco, speranzoso, il giornalista. "Forse no. Sai", continuò il poliziotto in tono pacato, "sei stato davvero in gamba, poco fa, a bloccare la porta con la torcia. Credo proprio che tu abbia salvato la vita a tutti." "Grazie", rispose Smithback, sentendo crescere la simpatia per il tenente. "Adesso però non montarti la testa", replicò D'Agosta sovrastando il rombo dell'acqua. "Tutto a posto?" continuò il tenente, rivolgendosi al sindaco. Questi appariva stravolto. "Così e così. Qualcuno rischia di addormentarsi per lo shock o per la stanchezza, forse per entrambe le cose. Che strada prendiamo, adesso?" I suoi occhi cercarono i due che li guidavano. D'Agosta esitò. "Non posso dire niente con certezza", rispose alla fine. "Smithback e io proveremmo a svoltare a destra."
Il sindaco tornò a guardare il gruppo, poi si avvicinò a D'Agosta. "Senta", sussurrò in tono supplichevole. "So che ci siamo persi. Lei sa che ci siamo persi. Se però questa gente lo capisse, credo che non riusciremmo più a farla muovere. A stare fermi qui ci s'intirizzisce, e l'acqua sta crescendo sempre più. Perché non andiamo tutti? È la nostra sola possibilità di salvezza. Anche se volessimo tornare indietro, metà di queste persone non riuscirebbero a procedere controcorrente." Il tenente lo fissò per un momento. "D'accordo", disse. Poi si rivolse al gruppo. "Ascoltate", gridò. "Imboccheremo la galleria sulla destra. Prendetevi per mano, formando una catena. Reggetevi forte. Tenetevi contro il muro... al centro la corrente è molto forte. Se qualcuno scivola, strilli, ma non lasci il compagno per nessuna ragione. Capito bene? Andiamo." La forma scura superò pian piano la soglia, scavalcando con grazia felina i legni rotti. Cuthbert si sentiva le gambe piene di spilli e di aghi. Voleva sparare, ma la mano rifiutava di obbedirgli. "Vattene, ti prego", disse, con una calma che sorprese lui per primo. La bestia si fermò di colpo, guardandolo in faccia. Nell'oscurità, l'uomo riusciva a vedere soltanto l'immensa, possente sagoma e gli occhietti rossi. Sembravano stranamente intelligenti. "Non farmi del male", implorò. La creatura restava immobile. "Ho una pistola", aggiunse in un sussurro Cuthbert. La stava puntando con cura. "Non ti sparerò, se te ne vai." La bestia si spostò lentamente di lato, tenendo la testa rivolta verso Cuthbert. Poi, con uno scatto fulmineo, sparì. L'uomo arretrò, in preda al panico, il fascio di luce che spazzava dissennatamente il pavimento. Si guardò attorno smarrito. Tutto taceva. Il puzzo della creatura colmava la stanza. All'improvviso si ritrovò a correre incespicando nella Sala Dinosauri; si chiuse la porta alle spalle. "La chiave!" esclamò. "Lavinia, per l'amor di Dio!" Si guardò freneticamente attorno nel semibuio. Davanti a lui, un grande scheletro di tirannosauro si stagliava al centro della stanza. Di fronte a quello, era acquattata la forma scura di un triceratopo, la testa bassa, le grandi corna nere che baluginavano nella luce fioca. Sentì un singhiozzo, poi una chiave gli venne premuta contro il palmo. Cuthbert chiuse rapidamente la porta. "Vieni", disse, portando la donna lontano dall'ingresso, oltre le zampe
artigliate del tirannosauro. Raggiunsero la zona più buia. A un tratto Cuthbert fece girare la responsabile del servizio stampa, guidandola verso una nicchia. Scrutò l'oscurità, tutti i sensi all'erta. Nella Sala dei Dinosauri del Cretaceo c'era un silenzio di tomba. Nemmeno il rumore della pioggia penetrava quel buio santuario. La sola luce veniva dalle file di alti lucernari. Attorno a loro c'era una moltitudine di piccoli scheletri di struziomimo, disposti in formazione difensiva davanti al mostruoso scheletro di un driptosauro carnivoro, la testa bassa, le mascelle spalancate, gli enormi artigli protesi. Il vicedirettore aveva sempre apprezzato la grandezza e la drammaticità di quella stanza che adesso lo spaventava. Ora sapeva cosa significasse essere braccati. Dietro di loro, l'ingresso della sala era bloccato da una massiccia porta di sicurezza metallica. "Dov'è Winston?" sussurrò, scrutando fra le ossa del driptosauro. "Non lo so", gemette la Rickman, stringendogli un braccio. "Hai ucciso la bestia?" "L'ho mancata", bisbigliò l'uomo. "Lasciami andare, per favore. Devo tenermi pronto a sparare." Lei lo lasciò, poi si ritrasse fra due scheletri di struziomimo, rannicchiandosi in posizione fetale con un singhiozzo soffocato. "Fa' silenzio!" sibilò Cuthbert. La sala ripiombò in una profonda immobilità. L'uomo si guardò attorno, sondando le ombre con gli occhi. Sperava che Wright si fosse rifugiato in uno degli angoli più bui. "Ian?" chiamò una voce sommessa. "Lavinia?" Cuthbert si voltò e vide con orrore che Wright era appoggiato contro la coda di uno stegosauro. Quando lo guardò, Wright barcollò per un attimo, poi riprese l'equilibrio. "Winston!" sibilò Cuthbert. "Nasconditi!" Ma quello stava avanzando a passo malfermo verso di loro. "Sei tu, Ian?" domandò in tono incerto. Si fermò e per un momento si appoggiò allo stipite di una vetrina. "Sto male", disse con la massima naturalezza. Di punto in bianco un'esplosione echeggiò in modo strano nella vasta sala. Seguì un altro schianto. Cuthbert vide confusamente che la porta del laboratorio era diventata un buco frastagliato. Ne emerse una forma scura. Dietro di lui, Lavinia Rickman urlava e si copriva la testa con le mani. Attraverso lo scheletro di driptosauro, Cuthbert scorse la sagoma scura che si muoveva svelta sull'ampio pavimento. Dritta su di lui, pensò... ma
all'improvviso la vide deviare verso la forma indistinta di Wright. Le due ombre si fusero. Poi udì un flebile scricchiolio, un grido... seguito dal silenzio. Alzò la pistola e cercò di prendere la mira attraverso le costole dello scheletro montato. La sagoma si alzò tenendo qualcosa in bocca, scosse leggermente la testa ed emise un rumore di suzione. Cuthbert chiuse gli occhi, tirò il grilletto. La Ruger gli sobbalzò in mano. Sentì un'esplosione e una specie di acciottolio. Notò che il driptosauro aveva perso parte di una costola. Alle sue spalle, la Rickman gemeva rantolando. La forma scura della bestia era sparita. Passarono alcuni istanti. Cuthbert sentì che la sua mente vacillava. Alla luce di un lampo proveniente dal lucernario, vide distintamente la creatura muoversi furtiva lungo la parete vicina: gli veniva addosso, gli occhi rossi fissi su di lui. Ruotò la canna e cominciò a sparare selvaggiamente, tre rapidi colpi: ogni vampa illuminava file di teschi, denti e artigli - la bestia reale svanita di colpo in quella massa di creature selvagge estinte - e poi l'arma fece un clic, mentre il percussore batteva su una cartuccia già esplosa. Come in sogno, Cuthbert sentì un suono lontano di voci umane che proveniva dal vecchio laboratorio di Wright. E di colpo si trovò a correre, incurante degli ostacoli, attraverso la porta schiantata, attraverso il laboratorio di Wright, nel buio corridoio oltre quello. Sentì se stesso gridare. Poi una luce lo abbagliò, qualcuno lo afferrò per un braccio e lo incollò al muro. "Calmati, ora... sei al sicuro! Guardate, ha del sangue addosso!" "Disarmalo", disse qualcun altro. "È quello che cerchiamo?" "No, hanno parlato di un animale. Ma è meglio non correre rischi." "Smettete di discutere!" Un altro grido salì nella gola di Cuthbert. "È là dentro!" urlò. "Vi ucciderà tutti! Lui sa, si vede dagli occhi che sa!" "Che cosa sa?" "È inutile parlare con lui, sta vaneggiando." Cuthbert si abbandonò di colpo. Si fece avanti il comandante. "C'è qualcun altro là dentro?" domandò, scuotendolo per le spalle.
"Sì", rispose Cuthbert. "Wright. La Rickman." Il comandante alzò gli occhi. "Vuole dire Winston Wright? Il direttore del museo? Allora lei dev'essere il dottor Cuthbert. Dov'è Wright?" "Lo sta mangiando", rispose lui, "gli sta mangiando il cervello. Se lo mangia come se niente fosse. È nella Sala Dinosauri, oltre il laboratorio." "Portatelo al Planetario e affidatelo agli infermieri", ordinò il comandante a due membri della squadra. "Voi tre, venite con me. Di corsa!" Prese la radio. "Uno Rosso a Ricovero. Abbiamo localizzato Cuthbert, lo stiamo mandando fuori." "Sono in questo laboratorio", disse l'osservatore puntando un dito sulla mappa. Ora che la squadra si trovava nel cuore del museo, i due si erano spostati nell'Unità Comando Mobile, al riparo dalla pioggia battente. "Il laboratorio è sicuro", disse alla radio la voce piatta del comandante. "Procediamo nella Sala Dinosauri. Anche quest'altra porta è stata abbattuta." "Entrate e accoppate quella bestia!" urlò Coffey. "Ma fate attenzione al dottor Wright. E tenete libera una frequenza. Voglio restare in contatto continuo!" Coffey aspettava, teso al massimo, ascoltando i sibili e le scariche sulla frequenza libera. Udì il tintinnio di un'arma e dei bisbigli. "Senti il tanfo?" Coffey avvicinò l'orecchio alla radio. C'erano quasi. Afferrò il bordo del tavolo. "Sì", rispose qualcuno. Uno scalpiccio. "Spegni la luce e tieniti nell'ombra. Sette Rosso, copri il lato sinistro dello scheletro. Tre Rosso, va' a destra. Quattro Rosso, mettiti spalle al muro, copri il fondo." Un lungo silenzio. Coffey sentì un respiro pesante e un rumore di passi. Poi, un bisbiglio concitato. "Cinque Rosso, guarda, c'è un cadavere qui." Coffey avvertì un buco nello stomaco. "Decapitato", sentì dire. "Che roba." "Là ce n'è un altro", sussurrò la voce. "Lo vedi? In mezzo a quel gruppo di dinosauri." Altri tintinnii di armi, altri respiri. "Sette Rosso, coprici la ritirata. Non ci sono altre uscite." "Dev'essere ancora qui", bisbigliò qualcuno.
"Improbabile, Cinque Rosso." Le nocche di Coffey stavano sbiancando. Perché diavolo non gli davano addosso? Erano tutti un branco di paralitici. Altri rumori metallici. "Qualcosa si muove! Là!" La voce era così forte che Coffey sobbalzò, e poi una raffica di mitra si dissolse subito in una serie di scariche dei circuiti sovraccarichi. "Merda, merda, merda", cominciò a dire Coffey, più e più volte. Poi sentì un breve grido, seguito da altre scariche elettrostatiche; la cadenza regolare di un fucile mitragliatore; poi, silenzio. Qualcosa che tintinnava... cosa? Ossa di dinosauro frantumate che cadevano e rotolavano sul pavimento? Coffey fu pervaso da un senso di sollievo. Qualunque cosa fosse, era morto. Niente poteva sopravvivere a quella tempesta di colpi appena sparati. L'incubo era finito. Si abbandonò su una sedia. "Cinque Rosso! Hoskins! Oh, merda!" urlò la voce del comandante, sovrastata all'improvviso dalla raffica intermittente di un mitra e poi da altre scariche elettrostatiche... o erano rantoli? Coffey scattò di nuovo in piedi e si rivolse a un agente al suo fianco. Aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono. Lesse il proprio terrore negli occhi dell'altro. "Uno Rosso!" urlò nel microfono. "Uno Rosso! Mi senti?" Gli risposero soltanto delle scariche elettrostatiche. "Parla! Mi senti? C'è qualcuno?" Cambiò freneticamente frequenza per parlare con la squadra nel Planetario. "Signore, stiamo portando via l'ultimo cadavere", rispose la voce di un medico. "La retroguardia del Nucleo Speciale ha appena evacuato dal tetto il dottor Cuthbert. Abbiamo sentito degli spari, di sopra. Dobbiamo fare altre evacuazioni?" "Filate via!" urlò Coffey. "Datevela a gambe! Toglietevi di lì e tirate su la scala!" "Signore, ma... il resto del Nucleo Speciale? Non possiamo lasciare quegli uomini..." "Sono morti! Capito? È un ordine!" Lasciò la radio e arretrò, scrutando con sguardo assente fuori del finestrino. Un carro mortuario avanzava lentamente verso l'immenso edificio del museo.
Qualcuno gli batté la mano sulla spalla. "Signore, l'agente Pendergast chiede di parlare con lei." Coffey scosse lentamente la testa. "No. Non voglio parlare con quel fottuto figlio di puttana, capito?" "Signore, lui..." "Non ripeta quel nome." Un altro agente aprì il portellone ed entrò, fradicio. "Signore, stanno cominciando ad arrivare i morti." "Chi? Di chi stai parlando?" "Di quelli del Planetario. C'erano diciassette morti, nessun sopravvissuto." "E Cuthbert? Il tipo che avete preso nel laboratorio? È uscito?" "Lo hanno appena portato giù in strada." "Voglio parlargli." Uscì e superò correndo la cerchia di ambulanze, la mente ottenebrata. Com'era possibile che un intero Nucleo Speciale venisse fatto fuori... e a quel modo, poi? Due infermieri si stavano avvicinando con una lettiga. "Lei è Cuthbert?" domandò Coffey alla forma immobile. L'uomo si guardò attorno con occhi annebbiati. Un medico scostò l'agente dell'FBI, aprì la camicia di Cuthbert, esaminò volto e occhi. "C'è del sangue", osservò. "È stato ferito?" "Non lo so", rispose il vicedirettore. "Respirazione, trenta; polso, centoventi", disse un infermiere. "Si sente bene?" domandò il dottore. "E suo questo sangue?" "Non lo so." Il medico gli controllò in fretta le gambe, le tastò, gli palpò l'inguine, esaminò il collo. Si rivolse agli infermieri. "Tenetelo in osservazione." Gli infermieri ripresero a spingere la lettiga. "Cuthbert!" disse Coffey, saltellando accanto a lui. "Lo ha visto?" "Visto?" "Il fottuto animale!" "Sa", rispose Cuthbert. "Cosa sa?" "Sa cosa sta succedendo. Lo sa con precisione." "Cosa diavolo intende dire?"
"Ci odia", disse Cuthbert. Mentre gli infermieri aprivano gli sportelli di un'ambulanza, Coffey urlò: "Com'è fatto?" "C'era tristezza nei suoi occhi", rispose Cuthbert. "Una tristezza infinita." "È ammattito", concluse l'agente dell'FBI rivolto a nessuno in particolare. "Non lo ucciderete", aggiunse Cuthbert, con pacata sicurezza. Gli sportelli si chiusero. "Vedrai se non lo farò!" urlò Coffey verso l'ambulanza che partiva. "Va' all'inferno, Cuthbert! Vedrai se non lo farò!" 57 Pendergast depose la radio e guardò Margo. "La bestia ha appena ucciso la maggior parte degli uomini del Nucleo Speciale. Anche il dottor Wright, a quanto pare. Coffey ha fatto ritirare gli altri, e non risponde alle mie chiamate. Evidentemente ritiene che sia tutta colpa mia." "Deve ascoltare!" ruggì Frock. "Ora sappiamo cosa fare. Basta che entrino con dei riflettori!" "So cosa gli sta succedendo", continuò Pendergast. "È fuori di sé, sta cercando capri espiatori. Non possiamo contare sul suo aiuto." "Dio mio", sospirò la ragazza. "Il dottor Wright..." Si portò una mano alla bocca. "Se il mio piano avesse funzionato... se avessi riflettuto bene su tutto... forse tutta quella gente sarebbe ancora viva." "E forse il tenente D'Agosta, e il sindaco, e tutti gli altri qui sotto di noi sarebbero morti", la interruppe l'agente federale. Guardò nel corridoio. "Suppongo che sia mio dovere portarvi fuori di qui, adesso. Forse dovremmo prendere la direzione che ho indicato a D'Agosta. Ammesso che queste mappe non l'abbiano portato fuori strada, naturalmente." Guardò il professore. "No, non credo che possiamo farlo." "Andatevene!" gridò Frock. "Non restate qui per causa mia!" Pendergast fece un leggero sorriso. "Non si tratta di lei, dottore. È a causa del maltempo. Lei sa che, con la pioggia, il sotterraneo si allaga. Ho sentito dire a qualcuno alla radio della polizia che nelle ultime ore il temporale ha raggiunto la forza di un monsone. Mentre spargevo quelle fibre nel sotterraneo, ho notato che l'acqua è alta più di cinquanta centimetri e scorre veloce verso est. Ciò significa che sta drenando il fiume. Non po-
tremmo passare di lì nemmeno se volessimo." Inarcò le sopracciglia. "Se D'Agosta non è già uscito... be', ha poche speranze di farcela." Si rivolse a Margo. "Forse la cosa migliore sarebbe che voi due rimaneste qui, dentro l'Area di Sicurezza. Sappiamo che la bestia non può abbattere la porta blindata. Entro un paio d'ore, ripareranno sicuramente il guasto. Credo che ci sia parecchia gente intrappolata nel Comando Sicurezza e nella Sala Computer. Può essere vulnerabile. Mi avete insegnato molto sulla creatura. Conosciamo i suoi punti deboli e i suoi punti di forza. Questa zona è vicina a un lungo corridoio libero da ostacoli. Sapendovi qui al sicuro, potrei essere io a braccarla, tanto per cambiare." "No", si oppose la ragazza. "Non può riuscirci, da solo." "Forse no, signorina Green, ma farò del mio meglio." "Vengo con lei", disse la giovane con decisione. "Spiacente, no." Pendergast si diresse verso la porta aperta dell'Area di Sicurezza. "Quell'essere è molto intelligente", continuò Margo. "Non credo che lei possa affrontarlo da solo. Se la pensa così perché sono una donna..." Lui la guardò attonito. "Signorina Green, mi sorprende che abbia una così bassa opinione di me. Il fatto è che lei non si è mai trovata in una situazione analoga. Senza un'arma, non può fare niente." Margo lo fissò con uno sguardo di sfida. "Prima le ho salvato la pelle, dicendole di accendere la lampada", lo sfidò. Lui aggrottò la fronte. Dal buio, venne la voce di Frock: "Non faccia il gentiluomo. La porti". Pendergast si girò verso l'uomo sulla sedia a rotelle. "È sicuro di poter restare qui da solo?" domandò. "Dovremo prendere tutte e due le torce e la lampada da minatore, per avere qualche possibilità." "Naturalmente!" disse Frock, accompagnando le parole con un gesto di noncuranza. "Dopo tutta questa eccitazione, potrò finalmente schiacciare un pisolino." Pendergast esitò ancora un momento, poi lo guardò con occhi assorti. "Molto bene", sospirò. "Margo, lo chiuda dentro l'Area di Sicurezza, prenda le chiavi, quello che è rimasto della mia giacca, e andiamo." Smithback dette uno scrollone alla torcia. La luce palpitò, fu più chiara per un momento, poi tornò fioca. "Se quella torcia ci lascia", disse D'Agosta, "siamo fottuti. Spegnila; l'accenderemo soltanto a tratti per vedere la strada."
Procedettero nell'oscurità, il fragore dell'acqua che colmava l'aria soffocante. Smithback apriva la marcia; dietro di lui veniva D'Agosta: stringeva la mano del giornalista... che, come tutto il resto di lui, era ormai completamente intirizzita. A un tratto Smithback tese l'orecchio. Nel buio, percepì a poco a poco la presenza di un nuovo suono. "Lo sente?" domandò. Il tenente si mise in ascolto. "Sì, sento qualcosa." "È come una..." il giornalista non finì la frase. "...cascata", concluse per lui il poliziotto. "Ma, qualunque cosa sia, significa uno sbarramento. Il rumore viene da questa galleria. Tienilo per te." Il gruppo arrancava in silenzio. "Luce", disse D'Agosta. Smithback accese la torcia, la puntò nella galleria deserta davanti a loro, dopodiché la spense. Il fragore era più forte, adesso; di poco, in effetti. Il giornalista si sentì colpire da un'onda. "Merda!" esclamò il poliziotto. Alle loro spalle era scoppiato uno scompiglio improvviso. "Aiuto!" urlò una voce femminile. "Sono scivolata! Non lasciatemi!" "Qualcuno l'afferri!" disse la voce del sindaco. Smithback accese la torcia e la puntò svelto all'indietro. Una donna di mezza età si stava dibattendo in acqua, il lungo vestito da sera che si gonfiava nel liquido nero. "Si alzi!" stava dicendo il sindaco. "Ancori i piedi!" "Aiutatemi!" urlava la donna. Smithback s'infilò la torcia in tasca e si puntellò controcorrente. La donna stava andando dritta verso di lui. Il giovane vide un braccio annaspare fuori dell'acqua e poi si sentì stringere la coscia da una morsa. Cominciò a scivolare. "Aspetti!" gridò. "Smetta di dimenarsi! La tengo!" Le gambe della donna scalciarono e gli si abbarbicarono a un ginocchio. Il giornalista fu strappato alla mano di D'Agosta e pencolò in avanti, meravigliandosi della forza di quella donna che gli stava facendo perdere l'equilibrio. "Mi sta tirando sotto!" ansimò, finendo in acqua e sentendosi risucchiare dalla corrente. Con la coda dell'occhio vide che il tenente arrancava verso di lui. La donna, in preda a un panico cieco, cercava di arrampicarsi sul
giovane, mandandolo a testa sotto. Smithback, in cerca d'aria, si ritrovò sotto la gonna della signora, il tessuto gli aderì al naso e al mento disorientandolo e soffocandolo. Si sentì pervadere da una grande stanchezza. Andò sotto un'altra volta, udendo uno strano rombo nelle orecchie. Tornò a galla, sbuffando e tossendo. Un urlo terrificante veniva dalla galleria davanti a loro. Qualcuno lo stava stringendo saldamente: D'Agosta. "Abbiamo perso la donna", disse il tenente. 'Andiamo." Le grida della malcapitata giungevano a loro come un'eco, sempre più deboli via via che il corpo veniva trascinato dalla corrente. Alcune persone del gruppo urlavano nella sua direzione, dandole istruzioni; altre si limitavano a piangere in modo incontrollato. "Presto, tutti!" urlò il poliziotto. "Tenetevi contro il muro! Proseguiamo e, qualunque cosa vi succeda, non rompete la catena." Sottovoce, mormorò a Smithback: "Non dirmi che hai perso la torcia". "Ce l'ho", rispose quello, tastandosi la tasca. "Dobbiamo tenere duro o siamo perduti", continuò sempre sottovoce D'Agosta. Fece una breve, mesta risata. "Sembra che io ti abbia salvato la vita, stavolta. Adesso siamo pari." Il giornalista non rispose. Stava tentando di non ascoltare le terribili urla d'angoscia, ora debolissime e distorte dalla galleria. Il fragore dell'acqua rombante diventava più distinto e minaccioso. L'incidente aveva demoralizzato il gruppo. "Andrà tutto bene, se ci teniamo per mano!" li incoraggiò il sindaco. "Mantenete intatta la catena." Smithback strinse la mano di D'Agosta più forte che poté. Arrancarono nel buio. "Luce", disse a un tratto il tenente. Il giornalista accese la torcia... e si sentì crollare il mondo addosso. Un centinaio di metri avanti, l'alto soffitto della galleria si abbassava finendo in uno stretto imbuto semicircolare. Sotto, l'acqua torbida ribolliva con un rumore di tuono, precipitando in un baratro scuro. Una nebbiolina fitta saliva dal fondo, orlando l'imbocco dell'inghiottitoio di una schiuma nera. Smithback osservava sbalordito, mentre tutte le sue speranze di successo, tutti i suoi sogni - anche quello di restare vivo - sparivano in quel gorgo. Poi si accorse confusamente che le urla alle sue spalle non erano di pena ma di giubilo. Si voltò e vide che il gruppo infradiciato guardava in alto, sopra la sua testa. Nel punto in cui la volta di mattoni del soffitto incontra-
va la parete della galleria c'era un buco scuro, di un metro per un metro circa. Sotto, un'arrugginita scaletta di ferro era cementata al vecchio muro. Le grida di gioia svanirono non appena si fece strada la cruda verità. "La scala è troppo alta, non ci si arriva", disse D'Agosta. 58 Si allontanarono dall'Area di Sicurezza e salirono furtivamente una scala. Pendergast si girò verso Margo, le fece cenno di tacere mettendosi un dito sulle labbra e le indicò le macchie rosse sul pavimento. La ragazza annuì: la bestia aveva preso quella strada, fuggendo dalle loro luci. Ricordò di essere salita su quella stessa scala soltanto il giorno prima con Smithback, per sfuggire alla guardia. Seguì Pendergast, che aveva spento la lampada da minatore aprendo cautamente la porta al primo piano e ora s'inoltrava nel buio, il fascio di fibre posato su una spalla. L'agente federale si fermò un momento, fiutando. "Non sento niente", bisbigliò. "Da quale parte, per il Comando Sicurezza e la Sala Computer?" "A sinistra, da qui, mi pare", rispose lei. "E poi attraverso la Sala dei Mammiferi Primitivi. Non è lontano. Proprio subito dietro l'angolo del Comando Sicurezza c'è quel lungo corridoio di cui le ha parlato il dottor Frock." Pendergast accese per un attimo la torcia e illuminò il passaggio. "Nessuna traccia di sangue", mormorò. "La creatura è andata direttamente su dall'Area di Sicurezza... oltre questo pianerottolo, e, temo, proprio verso il dottor Wright." Si volse verso Margo. "Come suggerisce di attirare qui la bestia?" "Usando ancora le fibre", rispose la giovane. "Non cadrà nella trappola, stavolta." "Ma stavolta non stiamo cercando di intrappolarla. Vogliamo soltanto indurla a svoltare l'angolo. Lei sarà al capo opposto del corridoio, pronto a sparare. Lasceremo alcune fibre a un'estremità. E noi faremo un... come lo chiamate voi?... sull'altro lato." "Un appostamento." "Giusto, un appostamento. Ci nasconderemo nel buio. Quando la bestia arriverà, le punterò addosso la lampada da minatore e lei comincerà a sparare." "Già. E come sapremo che la creatura è arrivata? Se il corridoio è lungo come dice il dottor Frock, forse non riusciremo a sentirne l'odore in tem-
po." Margo tacque. "È diffìcile", ammise infine. Per un momento rimasero in silenzio. "C'è una vetrina in fondo al corridoio", riprese la ragazza. "Doveva essere usata per esporre i nuovi libri scritti dal personale del museo, ma la signora Rickman non si è mai curata di riempirla, sicché sarà sicuramente aperta. Potremmo mettere le fibre lì dentro. La creatura può essere assetata di vendetta; dubito però che saprà resistervi. Per aprire la vetrina farà rumore. E, quando sente il rumore, lei spara." "Purtroppo", disse l'agente dopo un momento, "credo che sia un po' ovvio. Dobbiamo di nuovo porci la domanda: se capitasse a me, capirei che è una trappola? In questo caso la risposta è sì. Dobbiamo studiare qualcosa di più sofisticato. Ogni trappola che preveda le fibre come esca è ormai destinata a suscitare sospetti." Margo si appoggiò al freddo marmo della parete. "Oltre che l'olfatto, la creatura ha un udito sviluppatissimo", disse. "Sì?" "Forse il modo più semplice è il migliore. Useremo noi stessi come esca. Parleremo a voce alta. Ci fingeremo delle facili prede." L'uomo annuì. "Come la pernice bianca che finge di avere un'ala spezzata per attirare la volpe lontano dal nido. Ma come sapremo quando la bestia arriva?" "Useremo la torcia a intervalli, muovendo il fascio luminoso nel corridoio. Terremo l'interruttore sull'intensità più bassa: forse potrà irritare il mostro, ma non lo allontanerà. E noi lo scorgeremo. Penserà che ci stiamo guardando attorno in cerca di una via d'uscita. Quando arriverà, accenderò la lampada da minatore e lei comincerà a sparare." Pendergast rifletté per un momento. "E se la creatura venisse da un'altra direzione? Se ci arrivasse alle spalle?" "Il corridoio è chiuso dalla porta d'ingresso alla Sala dei Popoli del Pacifico." "Così saremo intrappolati in un cul-de-sac", commentò lui. "L'idea non mi piace." "Anche se non fossimo intrappolati", replicò Margo, "non riusciremo mai a scappare, se lei la manca. Secondo l'Estrapolatore, la bestia può muoversi con la velocità di un levriere." L'agente dell'FBI ci pensò su. "Be', il suo piano potrebbe funzionare. È illusoriamente semplice, come una natura morta di Zurbarán o una sinfonia
di Bruckner. Se la creatura ha annientato un Nucleo Speciale, probabilmente ritiene che nessun essere umano possa ucciderla. Forse non sarà tanto cauta." "Ed è ferita, cosa che può rallentarla." "Sì, è ferita. D'Agosta deve averla colpita, e anche il Nucleo Speciale avrà mandato a segno almeno un altro paio di colpi. Il fatto che sia ferita, però, la rende infinitamente più pericolosa. Preferirei affrontare dieci leoni sani anziché uno soltanto ma ferito." Raddrizzò le spalle e tastò la pistola. "Muoviamoci, la prego. Stare qui al buio con queste fibre mi fa sentire a disagio. D'ora in poi useremo soltanto la torcia. Facciamo attenzione." "Perché non dà a me la lampada da minatore? Potremmo imbatterci nella bestia inaspettatamente ed essere costretti ad allontanarla con la luce." "Se ha delle brutte ferite, dubito che la luce riesca ad allontanarla", rispose Pendergast. "Comunque, ecco la lampada." Avanzarono in silenzio nel corridoio, svoltarono l'angolo ed entrarono dalla porta di servizio nella Sala dei Mammiferi Primitivi. Margo aveva la sensazione che i suoi passi furtivi echeggiassero come spari sul pavimento di marmo lucido. File di vetrine baluginavano al lucore della torcia: alci gigantesche, tigri dai denti a sciabola, lupi orrendi. Scheletri di mastodonte e di mammut villosi si stagliavano al centro della stanza. I due procedettero con cautela verso l'uscita della sala, l'uomo con la pistola spianata. "Vede quella porta là in fondo, con la scritta RISERVATO AL PERSONALE?" sussurrò Margo. "Oltre quella c'è il corridoio che porta al Comando Sicurezza e alla Sala Computer. Dietro l'angolo c'è il corridoio dove faremo l'appostamento." Esitò. "Se la creatura fosse già lì..." "...in tal caso, mi verrà una gran voglia di non aver mai lasciato New Orleans, signorina Green." Accedendo, attraverso la porta riservata al personale, al Settore 18, si ritrovarono in uno stretto corridoio costeggiato da porte. Pendergast ispezionò l'area con la torcia: niente. "Questo", disse la giovane indicando una porta alla loro sinistra, "è il Comando Sicurezza." Riuscì a sentire dei mormorii, mentre procedevano. Superarono un'altra porta con la scritta COMPUTER CENTRALE. "Ci sono delle facili prede, lì dentro", sussurrò la ragazza. "Non dovremmo...?" "No", si sentì rispondere. "Non c'è tempo." Svoltarono l'angolo e si fermarono. Pendergast illuminò il corridoio.
"E quella cos'è?" domandò. A metà del corridoio, una massiccia porta di sicurezza baluginava beffarda alla luce della torcia. "Il buon dottore si è sbagliato", disse Pendergast. "Il Comparto Due taglia questo corridoio a metà. Lì c'è il limite del perimetro." "Qual è la distanza?" chiese Margo con voce piatta. L'uomo arricciò le labbra. "Direi trenta, quaranta metri al massimo." La ragazza, preoccupata, si volse verso l'agente. "Può bastare?" Pendergast non batteva ciglio. "No. Ma deve bastare. Su, mettiamoci in posizione." Dentro l'Unità Comando Mobile l'aria stava diventando soffocante. Coffey si sbottonò la camicia e allentò la cravatta con uno strattone. Doveva esserci un'umidità del centodieci per cento. Non vedeva un temporale così da vent'anni. Le canalette di scolo sembravano geyser, le ruote dei veicoli d'emergenza erano immerse nell'acqua fino al mozzo. La porta sul retro si aprì e comparve un uomo con la tuta dei Nuclei Speciali. "Signore?" "Cosa vuoi?" "Gli uomini vorrebbero sapere quando torniamo dentro." "Tornare dentro?" sbraitò l'agente federale. "Siete ammattiti? Sei dei vostri ci hanno appena lasciato la pelle, aperti a metà come dei fottuti hamburger!" "Ma, c'è ancora della gente intrappolata là dentro. Forse potremmo..." Coffey investì l'uomo urlando. Aveva gli occhi sbarrati. "Non lo capisci? Non possiamo tornare a farci ammazzare. Abbiamo mandato dentro della gente senza sapere con chi avevamo a che fare. Dobbiamo aspettare che torni la corrente, che vengano ripristinati i sistemi, prima..." Un poliziotto infilò dentro la testa. "Signore, ci hanno appena informati che un cadavere galleggiava sull'Hudson. L'hanno trovato nell'Imbarcadero. Sembra che sia uscito da uno dei grossi scarichi dell'acqua piovana." "E chi se ne frega..." "Si tratta di una donna che indossa un abito da sera, e si ritiene sia uno degli invitati che mancano all'appello." "Cosa?" Coffey era sconcertato. Non era possibile. "Uno del gruppo del sindaco?" "Una delle persone intrappolate. La sola donna che non sia stata trovata
e che si riteneva fosse scesa nel sotterraneo due ore fa." "Vuoi dire con il sindaco?" "Credo di sì, signore." Coffey temette di non riuscire più a controllare la vescica. Non poteva essere vero. Maledetto Pendergast. Maledetto D'Agosta. Era tutta colpa loro. Gli avevano disobbedito, rovinando il suo piano, condannando a morte quella gente. Il sindaco morto. Avrebbero preteso la sua testa, per quello. "Signore?" "Fuori", sibilò Coffey. "Fuori tutt'e due." La porta si chiuse. "Qui Garcia. C'è nessuno?" gracchiò la radio. Coffey si voltò e piantò le unghie nella radio. "Garcia! Cosa succede?" "Niente, signore, solo che manca sempre la corrente. Ma c'è qui Tom Allen che chiede di parlarle." "Passamelo." "Allen. Siamo un po' preoccupati, qui, signor Coffey. Non possiamo far nulla finché non torna la corrente. Le batterie del trasmettitore di Garcia si stanno esaurendo e dobbiamo risparmiarle. Vorremo che lei ci tirasse fuori di qui." Coffey rise, una risata secca, stridula. Gli agenti di servizio alle consolle si guardarono, a disagio. "Vorreste che io tirassi voi fuori di lì? Senti, Allen, siete stati voi geni a creare questo casino. Giuravate e spergiuravate che il sistema avrebbe funzionato, che tutti gli apparati avevano dispositivi di emergenza. Sono cavoli vostri. Il sindaco è morto, e ho già perso più uomini di... pronto?" "Sono ancora Garcia. Qui c'è buio pesto e abbiamo soltanto due torce. Cos'è successo al Nucleo Speciale che doveva arrivare?" Il riso sulla faccia di Coffey sparì all'improvviso. "Sono stati uccisi. Mi senti? Uccisi. Le loro budella pendono dalle pareti come festoni natalizi. E per colpa di Pendergast, per colpa di D'Agosta, per colpa di quel figlio di puttana di Allen, e anche per colpa tua, probabilmente. Qui ci sono dei tecnici che stanno cercando di riallacciare la corrente. Dicono che ci vorranno un paio d'ore per farlo. Farò fuori quella dannata bestia, ma a modo mio, e a tempo debito. Dunque, tenete duro. Non posso sacrificare altri uomini per salvare dei mentecatti." Bussarono alla porta sul retro. "Avanti", urlò, spegnendo la radio. Un agente entrò e si accovacciò accanto a lui, il bagliore dei monitor che
gli induriva i tratti del volto. "Signore, ho appena saputo che il vicesindaco sta venendo qui. E al telefono c'è l'ufficio del governatore. Vogliono un aggiornamento." Coffey chiuse gli occhi. Smithback guardava la scaletta: il primo piolo arrugginito era a più di un metro dalla sua testa. Forse, se non ci fosse stata l'acqua, sarebbe riuscito a raggiungerlo con un salto, ma con quella corrente che gli lambiva il petto era impossibile. "Vedi niente lassù?" domandò D'Agosta. "No", rispose Smithback. "La luce è debole. Non saprei dire quanto è grande quel vano." "Spegni la torcia, allora", ansimò il tenente. "Dammi un minuto per pensare." Ci fu un lungo silenzio. Il giornalista fu colpito da un'altra ondata. L'acqua continuava a salire. Ancora qualche decina di centimetri e tutti sarebbero stati trascinati verso... Scosse la testa, tentando disperatamente di scacciare il pensiero. "Da dove diavolo viene tutta quest'acqua?" bofonchiò senza rivolgersi a nessuno in particolare. "Il sotterraneo è stato costruito sotto la superficie freatica del fiume", rispose D'Agosta. "Quando piove forte ci sono infiltrazioni dappertutto." "Infiltrazioni...? Inondazioni, direi", ansimò Smithback. "L'acqua ci sta sommergendo. Dovevano pensarci, costruire delle nicchie." Il tenente non rispose. "Al diavolo", esclamò una voce. "Qualcuno monti sulle mie spalle. Saliremo uno alla volta." "Zitto!" sbottò D'Agosta. "È troppo alto." Smithback tossicchiò, si schiarì la gola. "Ho un'idea!" Tutti taquero. "Guardate, gli scalini di ferro sembrano molto solidi", continuò. "Se uniamo le nostre cinture e le attacchiamo alla scala, possiamo aspettare che l'acqua si alzi quanto basta per consentirci di raggiungere il primo gradino." "Non posso aspettare così tanto!" gridò qualcuno. D'Agosta fissava il giornalista con occhi sbarrati. "È l'idea peggiore che abbia mai sentito", borbottò. "Inoltre, la metà degli uomini, qui, non ha cinture, ma fasce da smoking."
"Ho notato che lei ha la cintura", ritorse Smithback. "È vero", replicò il poliziotto, sulla difensiva. "Ma cosa ti fa pensare che l'acqua salga fin lassù?" "Guardi là", disse Smithback, illuminando un punto della parete subito sotto la scala metallica. "Vede quella linea di scoloritura? Probabilmente indica il livello di piena. Almeno una volta, in passato, l'acqua è arrivata fin lì. Se il temporale è anche solo la metà di quello che ritiene lei, non dovremo aspettare a lungo." D'Agosta scosse la testa. "Be', continuo a pensare che sia un'idea folle, ma suppongo che sia preferibile allo starsene con le mani in mano ad aspettare di morire. Tutti gli uomini qui!" gridò. "Cinture! Passatemi le cinture!" Quando le ebbe raccolte, le unì insieme per le fibbie, lasciando a un'estremità quella più grossa e pesante. Poi le passò al giornalista, che se le affastellò su una spalla. Facendo dondolare l'estremità più pesante, contrastando la corrente, il giovane si piegò all'indietro e lanciò la corda improvvisata verso lo scalino più basso. I quattro metri di cuoio finirono in acqua, mancando di gran lunga il bersaglio. Provò di nuovo e di nuovo sbagliò. "Da' qua", esclamò D'Agosta. "Questa è roba da uomini!" "Al diavolo", borbottò Smithback, curvandosi pericolosamente e cimentandosi in un altro lancio. Stavolta la spuntò, e la pesante fibbia penzolò nel vuoto oscillando; il giovane fece scivolare verso il basso anche l'altra estremità, la infilò nella fibbia e tirò, assicurando la loro sagola di salvataggio all'ultimo scalino. "Okay", disse il tenente. "Procediamo. Prendetevi tutti a braccetto. Non mollatevi per nessun motivo. L'acqua, salendo, ci porterà verso lo scalino. A mano a mano, vi fileremo corda. E spero che quella figlia di puttana tenga", borbottò poi, guardando sospettoso le cinture unite. "E che l'acqua salga quanto basta", aggiunse Smithback. "In caso contrario, te la vedrai con me, bello." Smithback si voltò per rispondere, ma decise di risparmiare il fiato. La corrente gli avvolgeva il petto, turbinando sotto le ascelle, e lui sentiva una lenta, inesorabile pressione da sotto, mentre i piedi cominciavano a perdere la presa sul viscido pavimento di pietra della galleria. 59 Garcia guardava il fascio di luce della torcia di Allen muoversi lenta-
mente su una serie di pannelli spenti, poi tornare indietro. Nesbitt, la guardia addetta ai monitor, era seduta scompostamente al "tavolo di ricreazione" macchiato di caffè al centro del Comando Sicurezza. Vicino a lui sedevano Waters e l'allampanato programmatore dall'aria beota della Sala Computer. Questi ultimi avevano bussato alla porta del Comando Sicurezza dieci minuti prima, spaventando a morte i tre uomini al suo interno. Ora il programmatore sedeva silenzioso al buio mordicchiandosi le pellicine delle unghie e tirando su col naso. Waters aveva posato sul tavolo la pistola d'ordinanza e la faceva girellare nervosamente. "Cos'era?" chiese Waters all'improvviso. "Cos'era cosa?" domandò cupamente Garcia. "Mi è parso di sentire un rumore nel corridoio", balbettò l'agente, deglutendo a fatica. "Come dei passi." "Tu senti sempre rumori", lo ammonì Garcia. "Se siamo qui, lo dobbiamo anche a quello." Ci fu un breve, inquieto silenzio. "Sei sicuro di aver capito bene quel che ha detto Coffey?" riprese Waters. "Se quella bestia ha annientato un Nucleo Speciale, può farci fuori come niente." "Smetti di pensarci", disse Garcia. "Smetti di parlarne. È successo tre piani sopra di noi." "Non posso credere che ci lascino qui a marcire..." "Se non chiudi il becco, ti rimando nella Sala Computer." Waters tacque. "Richiama Coffey", suggerì Allen a Garcia. "Dobbiamo andarcene di qui, subito." Garcia scosse lentamente la testa. "Non servirebbe a niente. Mi è sembrato di capire che è incazzato nero. Forse è un po' troppo sotto pressione. Siamo inchiodati qui sino alla fine." "Chi è il suo capo?" insistette Allen. "Dammi la radio..." "Assolutamente no. Le batterie di ricambio sono quasi esaurite." L'altro fece per protestare, ma si bloccò di colpo. "Sento un odore", disse. Garcia si alzò. "Anch'io." Prese il fucile, lentamente, come se fosse dentro a un brutto sogno. "È la bestia assassina!" gridò Waters. In un attimo, tutti erano in piedi. Le sedie si rovesciarono, cadendo a terra. Ci furono un tonfo e una bestemmia, quando qualcuno sbatté il fianco contro una scrivania, poi uno
schianto, mentre un monitor andava in frantumi. Garcia afferrò la radio. "Coffey! È qui!" Si udì grattare, poi la maniglia della porta sbatacchiò. Garcia sentì un'ondata di calore sulle gambe e si rese conto che la vescica gli aveva ceduto. A un tratto, la porta si piegò verso l'interno, il legno schiantato da un colpo tremendo. Nel buio e nel silenzio, Garcia capì che qualcuno alle sue spalle aveva cominciato a pregare. "Sente?" bisbigliò Pendergast. Margo puntò la torcia nel corridoio. "Sì, ho sentito qualcosa." Dal fondo del corridoio, dietro l'angolo, arrivò un rumore di legno schiantato. "Sta spaccando una porta!" disse Pendergast. "Dobbiamo attirare la sua attenzione. Ehi!" urlò. La ragazza gli afferrò il braccio. "Non dica niente che lui non debba sapere", sibilò. "Signorina Green, non è tempo di scherzare", sbottò l'uomo. "Ora non mi dirà che capisce anche la nostra lingua..." "Non lo so. Per avere una possibilità di scamparla, dobbiamo tenere conto di tutti i dati dell'Estrapolatore. La bestia ha un cervello molto sviluppato, e dev'essere stata per anni nel museo, ad ascoltare di nascosto. Potrebbe capire qualche parola. Non possiamo correre rischi." "Come vuole", bisbigliò Pendergast. Poi, a voce più alta: "Dove si trova? Mi sente?" "Sì", gridò la ragazza. "Mi sono persa. Aiuto! C'è nessuno qui?" L'agente dell'FBI abbassò la voce. "Dovrebbe averci sentito. Ora possiamo soltanto aspettare." Mise un ginocchio a terra, la .45 nella destra, la mano sinistra stretta attorno al polso dell'altra. "Diriga la luce verso la curva del corridoio e la muova come se cercasse la strada. Appena scorgo la creatura, l'avverto. Lei accenda la lampada sul casco e la punti sulla bestia, costi quel che costi. Se è furiosa, se adesso sta soltanto cercando vendetta, dobbiamo fare di tutto per rallentarla. Abbiamo soltanto una trentina di metri di corridoio a disposizione. Se riesce a muoversi alla velocità che dice lei, quel mostro può percorrerli in un paio di secondi. Non deve avere esitazioni Margo, e non può permettersi di lasciarsi prendere dal panico." "Un paio di secondi", ripeté lei. "Intesi." Garcia si acquattò davanti al banco dei monitor, il calcio del fucile sal-
damente appoggiato alla spalla e aderente alla guancia, la canna puntata nel buio. Davanti a lui, la sagoma della porta era appena visibile. Alle sue spalle, Waters era in posizione di combattimento. "Quando entra, fa' fuoco a volontà", disse Garcia. "Io ho soltanto otto colpi. Tenterò di intervallarli in modo che tu possa ricaricare almeno una volta, prima che ci sia addosso. E spegni quella torcia. Vuoi farci beccare subito?" Gli altri nel Comando Sicurezza - Allen, il programmatore e la guardia Nesbitt - erano arretrati in fondo alla stanza e si erano accovacciati sotto il quadro di controllo spento della rete di sicurezza del museo. Waters stava tremando. "Ha fatto fuori una squadra dei Nuclei Speciali", disse con voce rotta. Ci fu un altro schianto, la porta cigolò, mentre i cardini saltavano. Waters urlò, balzò in piedi e corse verso il fondo della stanza, abbandonando il fucile sul pavimento. "Disgraziato, torna qui!" Garcia sentì il tonfo sordo e disgustoso dell'osso contro il metallo mentre Waters, inciampando nelle scrivanie, sbatteva la testa. "Non farmi ammazzare!" gridava. Garcia si costrinse a voltarsi verso la porta, a tenere fermo il fucile. Il fetore della creatura gli riempì le narici quando il legno tremò sotto un'altra botta. L'ultima cosa che desiderava al mondo era vedere che cosa stava tentando di aprirsi un varco nella stanza. Imprecò e si asciugò la fronte col dorso della mano. A parte i gemiti, ora tutto era silente. Margo diresse il fascio di luce verso il fondo del corridoio simulando i movimenti di chi, persa la strada, cerchi una via d'uscita: la luce lambiva pareti e pavimento, illuminando debolmente le vetrine. Il cuore le martellava nel petto, il respiro era affannoso. "Aiuto!" tornò a gridare. "Ci siamo persi!" La voce le echeggiava innaturalmente rauca nelle orecchie. Da dietro l'angolo non giungeva più alcun suono. La creatura stava ascoltando. "Ehi!" gridò di nuovo, forzandosi a parlare. "C'è nessuno qui?" La voce risuonò e svanì. La ragazza aspettò, scrutando il buio, tesa a cogliere il minimo movimento. Una forma scura cominciò a delinearsi nell'oscurità, a una distanza dove la luce della torcia non arrivava. Poi s'immobilizzò. Si sarebbe detto che avesse alzato la testa. Uno strano suono liquido, nasale, giunse fino a loro.
"Non ancora", sussurrò Pendergast. La forma sporse ancora un poco dall'angolo. Il rumore nasale crebbe d'intensità, e poi il puzzo, diffondendosi nel corridoio, investì le loro narici. La bestia fece un altro passo. "Non ancora", sussurrò Pendergast. La mano di Garcia tremava con tale violenza che non riusciva a premere il pulsante della trasmittente. "Coffey!" sibilò l'agente. "Coffey, per l'amor del cielo! Mi riceve?" "Qui agente Slade della postazione avanzata. Chi parla, prego?" "Qui Comando Sicurezza", rispose Garcia, senza fiato. "Dov'è Coffey? Dov'è?" "È temporaneamente impegnato. Ho assunto io il comando delle operazioni, in attesa del responsabile di zona. Qual è la vostra situazione?" "Qual è la nostra situazione?" rise sgangheratamente Garcia. "La nostra situazione è che siamo fottuti. È fuori della porta. La sta spaccando. Vi supplico, mandate dentro una squadra." "Diavolo!" esclamò la voce di Slade. "Perché non mi hanno informato? Garcia? Sei armato?" "Cosa si può fare con un fucile?" sussurrò Garcia, quasi in lacrime. "Qui ci vorrebbero dei bazooka. Aiutateci, per favore." "Stiamo cercando di rimettere insieme i pezzi, qui. I sistemi di comando e di controllo sono fuori uso. Dovete tenere duro per un po'. Quello non può passare dalla porta del Comando Sicurezza, giusto? È di metallo, no?" "È legno, Slade! Dannato, vilissimo legno!" rispose Garcia, mentre le lacrime gli scendevano sul volto. "Legno? Ma che razza di posto è mai quello? Garcia, sentimi bene. Anche se mandassimo qualcuno, ci vorrebbero almeno venti minuti per raggiungervi." "Per favore..." "Dovete cavarvela da soli. Non so chi abbiate di fronte, ma dovete farvi animo. Verremo al più presto. Mantenete il sangue freddo e..." Garcia si lasciò cadere sul pavimento, le dita che scivolavano dal pulsante della radio. Non c'era più speranza: erano morti. 60
Smithback afferrò la cintura, allungandone ancora qualche centimetro verso il gruppo. Se non altro, pensava, l'acqua stava salendo ancora più in fretta di prima; adesso c'erano ondate ogni pochi minuti, e, pur se non sembrava che la corrente fosse più forte, il rombo in fondo alla galleria stava diventando assordante. I "nuotatori" più anziani, più deboli e meno esperti venivano subito dietro Smithback, avvinghiati alla fune di fortuna; alle loro spalle, gli altri stavano aggrappati insieme e annaspavano nell'acqua. Tutti tacevano, adesso: non c'era più energia per piangere, gemere, nemmeno per parlare. Smithback guardò in su: un altro mezzo metro e sarebbe riuscito ad afferrare lo scalino. "Dev'esserci un uragano, fuori", disse D'Agosta. Stava accanto a Smithback e sorreggeva un'anziana signora. "Inaugurazione bagnata, inaugurazione sfortunata", aggiunse con un risolino. Il giornalista continuava a guardare in alto; accese la torcia: ancora quaranta centimetri. "La vuoi smettere di accendere e spegnere la torcia?" sbottò il tenente. "Ti dirò io quando devi guardare." Smithback si sentì sbattere contro la parete di mattoni da un'altra ondata. Ci furono dei rantoli nel gruppo, ma nessuno mollò la presa. Se le cinture avessero ceduto, sarebbero stati tutti trascinati via in trenta secondi. Cercò di scacciare quel pensiero. Con voce sforzata ma risoluta, il sindaco si mise a raccontare una storiella. Coinvolgeva alcuni personaggi ben noti del municipio. Smithback, pur fiutando un possibile scoop, si sentiva sempre più insonnolito... segno, rammentò, di ipotermia. "Va bene. Controlla la scala." La voce dura di D'Agosta lo riscosse. Il giovane diresse la torcia verso l'alto, scuotendola per ravvivare la luce. Nell'ultimo quarto d'ora, l'acqua era salita di un'altra trentina di centimetri, arrivando quasi a sfiorare l'ultimo scalino. Con un rantolo di piacere, il giornalista allungò un altro tratto di cintura verso il gruppo. "Ecco come faremo", riprese il poliziotto. "Tu sali per primo. Io aiuto dal basso e vengo su per ultimo. Capito?" "Capito", replicò Smithback, cercando di ricuperare del tutto la lucidità. D'Agosta tese al massimo la cintura e con l'altra mano prese Smithback per la vita, sollevandolo. Il giovane gli passò oltre la testa, afferrando con la mano libera l'ultimo scalino. "Passami la torcia", ordinò il tenente. Lui gliela porse, poi afferrò il piolo con ambo le mani. Si sollevò, ricad-
de, i muscoli delle braccia e della schiena dolorosamente stirati. Con un respiro profondo, si spinse di nuovo su, agguantando stavolta il secondo scalino. "Ora afferri lo scalino", sentì dire a qualcuno da D'Agosta. Lui si afflosciò sulla scala, riprendendo fiato. Poi, alzando gli occhi, afferrò il terzo, infine il quarto. Mosse leggermente il piede nel vuoto, in cerca del primo piolo. "Non pestare le dita degli altri!" lo ammonì dal basso il poliziotto. Smithback sentì che una mano gli guidava il piede, finché poté poggiare tutto il peso del corpo sul ferro arrugginito. Il benessere che gli dava la sensazione di sicurezza gli sembrò paradisiaco. Tese una mano verso il basso e aiutò l'anziana signora. Dopodiché si voltò, sentendo tornare le forze. Riprese a salire. La scala terminava alla bocca di un ampio condotto che sporgeva orizzontalmente nel punto in cui il soffitto a volta incontrava la parete della galleria. Con cautela, il giovane entrò nel grosso tubo e cominciò a strisciare nel buio. Subito, un odore nauseabondo gli aggredì le narici. Fogna, pensò. Si fermò senza volerlo per un attimo. Continuò ad avanzare. Il condotto terminava, aprendosi nel buio. Prudentemente, il giornalista mise fuori un piede e lo piegò verso il basso. Una trentina di centimetri sotto il tubo, la scarpa incontrò un solido pavimento di terra. Quasi non riusciva a credere alla loro fortuna: lì fra scantinato e sotterraneo stava sospesa una stanza dalle dimensioni sconosciute. Probabilmente qualche vecchia sovrapposizione architettonica, residuo a lungo dimenticato di una delle tante ricostruzioni del museo. Uscì e procedette di pochi centimetri, poi di un altro passo, strascicando i piedi sul nero pavimento. Il fetore era disgustoso, ma non era quello della bestia, e ciò bastava a consolarlo. Cose secche - legni, rami? - scricchiolavano sotto le sue scarpe. Dietro di sé, sentiva un borbottio e il rumore di altra gente che avanzava carponi nel condotto. La fioca luce della torcia di D'Agosta, dal sotterraneo, non riusciva a penetrare quell'oscurità. Smithback si voltò, s'inginocchiò accanto alla bocca del condotto e cominciò ad aiutare il gruppo infradiciato a uscire, dirigendo le persone di lato e avvertendole di non allontanarsi. Uno per volta, uscirono tutti e si sparsero contro la parete, cercando con cautela la strada e crollando poi a terra per lo sfinimento. Nella stanza si sentivano soltanto dei respiri affannosi.
Smithback udì infine la voce di D'Agosta che usciva dal condotto. "Cristo, cos'è questo tanfo?" sussurrò al giornalista. "Quella maledetta torcia si è scaricata. L'ho buttata in acqua. Va bene, gente", disse poi a voce più alta, mettendosi in piedi. "Facciamo l'appello." Un suono di acqua sgocciolante fece fermare il cuore di Smithback fino a quando non si rese conto che era soltanto il tenente, intento a strizzarsi la giacca fradicia. Una alla volta, con voci stanche, le persone del gruppo dissero il loro nome. "Bene", concluse D'Agosta. "Ora vediamo di capire dove siamo. Forse saremo costretti a cercare un posto più alto, nel caso in cui l'acqua continuasse a salire." "Io direi di cercarlo comunque", suggerì una voce dal buio. "C'è una puzza insopportabile qui." "Sarà difficile, senza luce", intervenne il giornalista. "Dovremo procedere in fila indiana." "Io ho un accendino!" esclamò qualcuno. "Ora guardo se funziona." "Attento", lo ammonì qualcun altro. "Non vorrei che ci fosse del metano." Smithback sobbalzò, quando una fiamma gialla e tremolante illuminò la stanza. "Oddio!" si sentì esclamare. La stanza, quando la mano che reggeva l'accendino lo scagliò involontariamente lontano, fu di nuovo immersa nell'oscurità... non prima che Smithback potesse però farsi un'idea, terrificante, di ciò che giaceva ai loro piedi. Margo si tese nella semioscurità muovendo il fascio luminoso lungo il corridoio, cercando di non puntarlo direttamente sulla bestia che, rannicchiata nell'angolo, li osservava. "Non ancora", mormorò Pendergast. "Aspetti che si mostri completamente." La creatura rimase immobile per quella che sembrò un'eternità, silenziosa come un mascherone di pietra. La ragazza scorgeva gli occhietti rossi che la guardavano. Di tanto in tanto quegli occhi sparivano e ricomparivano, quando la bestia sbatteva le palpebre. L'essere mostruoso fece un altro passo, poi si bloccò di nuovo come se stesse decidendo il da farsi, sagoma possente pronta a scattare. Infine si lanciò avanti, dirigendosi verso di loro con una strana, terrificante andatura a balzi.
"Ora!" gridò Pendergast. Margo alzò il braccio e armeggiò con l'interruttore, finché il corridoio fu di botto inondato di luce. Una frazione di secondo dopo sentì un BANG! assordante, mentre la potente pistola di Pendergast ruggiva accanto a lei. La creatura si fermò per un attimo. La ragazza vide che socchiudeva gli occhi e scuoteva la testa di fronte alla luce. Poi la bestia si girò come per mordere la zampa in cui era penetrato il proiettile. La mente di Margo non riusciva ad accettare la realtà di quella visione: la tozza, chiara testa orribilmente oblunga, la striscia bianca del proiettile sopra gli occhi; gli anteriori possenti, coperti di fitto pelo, che terminavano con lunghi artigli adunchi; i posteriori più bassi, la pelle grinzosa che scendeva verso piedi con lunghi artigli adunchi. La pelliccia era incrostata di sangue, e altro sangue recente brillava sulle scaglie delle zampe posteriori. BANG! La zampa anteriore destra fu sbattuta all'indietro. Margo sentì un terribile ruggito di rabbia. La bestia si voltò a guardarli e scattò in avanti con fili di bava che le penzolavano dalla bocca. BANG! tuonò l'arma - un colpo a vuoto - e la creatura accelerò con tremenda risolutezza. BANG! Margo vide, come al rallentatore, la zampa anteriore sinistra proiettata indietro, e la bestia vacillare leggermente. Si riprese subito, e, con un altro mugghio, il pelo sulle zampe che si rizzava, continuò a procedere. BANG! Riabbaiò la pistola. La creatura non rallentò... e a quel punto Margo si rese perfettamente conto che il piano era fallito, che ormai c'era tempo per un altro colpo soltanto e che la carica dell'essere mostruoso era inarrestabile. "Pendergast!" urlò, vacillando all'indietro, la luce della lampada da minatore che scattava verso l'alto, facendo lampeggiare gli occhi rossi che la guardavano fìssi con un miscuglio orrendamente comprensibile di rabbia, bramosia e trionfo. Garcia sedeva sul pavimento, le orecchie tese, e si chiedeva se la voce che aveva sentito fosse reale - se c'era qualcuno là fuori, intrappolato nello stesso incubo - o se si trattava soltanto di uno scherzo della sua mente eccitata. All'improvviso, un suono ben diverso echeggiò dietro la porta; poi ve ne fu un altro, e un altro ancora. Balzò in piedi. Non poteva essere vero. Annaspò in cerca della radio. "Sentite?" disse una voce alle sue spalle.
Poi tornò quel suono, due volte; un breve intervallo, e si ripeté. "È proprio vero: qualcuno sta sparando nel corridoio!" urlò Garcia. Ci fu un lungo, terrificante silenzio. "Ha smesso", disse poi in un sussurro. "Lo avranno ucciso? Lo avranno ucciso?" gemeva Waters. Il silenzio si prolungava. Garcia brancò il fucile, pompa e grilletto resi viscidi dal sudore. Cinque o sei spari: ecco tutto quello che aveva sentito. E la bestia aveva annientato un Nucleo Speciale dotato di armi pesanti. "Lo avranno ucciso?" domandò ancora Waters. Garcia ascoltava attentamente, ma non sentiva più nulla nel corridoio. Questa era la cosa peggiore: la breve rinascita e l'improvviso crollo della speranza. Aspettò. Si sentì grattare alla porta. "No", bisbigliò Garcia. "È di nuovo qui." 61 "Dammi quell'accendino!" berciò D'Agosta. Smithback, cadendo alla cieca all'indietro, vide l'improvviso bagliore della pietrina e si coprì istintivamente gli occhi. "Oh, Cristo..." udì il tenente gemere. Poi sobbalzò, quando qualcuno gli strinse la spalla e lo rimise in piedi. "Senti, Smithback", gli sibilò all'orecchio la voce del tenente, "non puoi lasciarmi nella merda proprio adesso. Mi serve il tuo aiuto per tenere insieme questa gente." Il giovane si portò la mano alla bocca, mentre si costringeva ad aprire gli occhi. Il pavimento di terra davanti a lui era disseminato di ossa: piccole, grandi, alcune fragili e rotte, altre con pezzi di cartilagine ancora attaccati alle estremità bulbose. "Non rami", disse Smithback, continuando a ripeterlo sottovoce. "No, no, non rami." L'accendino scattò di nuovo. D'Agosta riparò la fiamma con la mano. Un altro bagliore giallo, e Smithback si guardò con ansia attorno. Ciò che aveva calciato con il piede erano i resti di un cane - un terrier, sembrava - gli occhi fìssi, vitrei, i capezzolini bruni che scendevano in file ordinate fino al ventre squarciato. Sparse sul pavimento c'erano altre carcasse: gatti, topi, altre creature quasi completamente disfatte o morte da troppo tempo per essere riconoscibili. Alle sue spalle, qualcuno urlava senza re-
quie. La luce si spense, riapparve lì accanto, adesso che D'Agosta gli si stava avvicinando. "Smithback, vieni con me", disse la sua voce. "Tutti, tenete gli occhi fìssi in avanti. Andiamo." Mentre il giornalista metteva lentamente un piede davanti all'altro, guardando in basso giusto quanto bastava per non inciampare in quelle schifezze, colse qualcosa con la coda dell'occhio. Si voltò a guardare la parete alla sua destra. Una conduttura dell'acqua o dell'elettricità aveva, in passato, attraversato quel muro all'altezza della spalla di un uomo, ma era crollata da tempo e giaceva in pezzi sul pavimento, semisepolta dalle carogne. I pesanti supporti di metallo della conduttura erano rimasti infissi nel muro, sporgenti come uncini. Appeso ai quei ganci c'era un assortimento di cadaveri, forme che sembravano ondeggiare al tremolio della fiamma. Smithback vide, senza rendersene conto subito, che tutti quei cadaveri erano decapitati. Sparse sul pavimento lungo la parete c'erano cose in putrefazione che dovevano essere state delle teste. I cadaveri più lontani erano appesi lì da tanto tempo: erano ormai quasi ridotti a scheletri. Si voltò, non prima che la sua mente registrasse l'orrore estremo: sul polso ancora in carne del cadavere più vicino c'era un orologio insolito, esagonale. L'orologio di Moriarty. "Oddio... oddio", ripeté più volte il giovane. "Povero George." "Conoscevi quel tipo?" domandò, arcigno, il poliziotto. "Merda, questo aggeggio brucia!" L'accendino si spense di nuovo. Smithback si fermò immediatamente. "Che razza di posto è mai questo?" domandò qualcuno alle loro spalle. "Non ne ho la minima idea", mormorò D'Agosta. "Io sì", disse con voce legnosa Smithback. "È una dispensa." La luce tornò a splendere e il giornalista riprese a camminare, ora più svelto. Dietro di sé, sentiva la voce meccanica, spenta, del sindaco che esortava la gente a muoversi. All'improvviso la luce svanì di nuovo: Smithback si bloccò. "Siamo in fondo", sentì dire da D'Agosta nel buio. "Un ramo scende e un altro sale. Prendiamo il tratto in salita." Il tenente riaccese l'accendino e proseguì, seguito dal giornalista. Dopo poco, il puzzo cominciò a svanire. Il suolo era diventato bagnato e molle sotto i loro piedi. Smithback sentì, o credette di sentire, la lieve carezza dell'aria fresca sulla guancia. Il poliziotto rise. "Cristo, forse è la via buona."
La galleria diventava sempre più umida, poi terminava di colpo sotto un'altra scala. D'Agosta la raggiunse, accendino alla mano. Smithback gli andò subito dietro, respirando l'aria fresca. Ci fu uno struscio improvviso, in alto, poi si sentì un tump tump, e una luce viva scorse rapida sulle loro teste, seguita da uno schizzo di acqua viscosa. "Un tombino!" urlò il tenente. "Ce l'abbiamo fatta. Non posso crederlo, ce l'abbiamo fatta!" Si arrampicò sulla scala e premette le spalle contro il coperchio tondo e pesante. "È bloccato", borbottò. "Venti uomini non riuscirebbero a sollevarlo. Aiuto!" cominciò a gridare, spingendosi sull'orlo della scala e mettendo la bocca vicino a uno dei fori. "Qualcuno ci aiuti, per l'amor del cielo!" Cominciò a ridere, abbandonandosi contro la scaletta metallica e lasciando cadere l'accendino. Anche Smithback crollò a terra, ridendo, piangendo, incapace di dominarsi. "Ce l'abbiamo fatta", ripeteva D'Agosta fra una risata e l'altra. "Smithback! Ce l'abbiamo fatta! Dammi un bacio, bello... fottuto giornalista. Ti voglio bene, e spero che tu possa guadagnare un miliardo con questa storia." Smithback udì una voce giungere dalla strada. "Non hai sentito gridare?" "Ehi, siamo qui!" urlò il poliziotto. "Volete una bella ricompensa?" "Hai sentito? C'è qualcuno qui sotto. Ehi!" "Mi sentite? Tirateci fuori di qui!" "Quanto?" domandò un'altra voce. "Venti verdoni! Chiamate i pompieri, che ci tirino fuori." "Cinquanta verdoni, amico, o smammiamo." D'Agosta non riusciva a smettere di ridere. "Cinquanta dollaroni, allora! E adesso fateci tirare fuori!" Si voltò e allargò le braccia. "Ragazzo, porta tutti qui. Gente, sindaco Harper, bentornati a New York!" La porta sbatacchiò di nuovo. Garcia accostò ancor più il calcio dell'arma alla guancia, piangendo sommessamente. La bestia stava tentando un'altra volta di entrare. L'uomo tirò un lungo respiro, cercando di tenere fermo il fucile. Poi si accorse che lo sbatacchiare era diventato un bussare sommesso. Il rumore si ripeté, più forte, e Garcia udì una voce soffocata.
"C'è nessuno?" "Chi è?" domandò Garcia, balbettando. "Agente speciale Pendergast, FBI." Garcia non riusciva a crederci. Quando aprì la porta, vide un uomo alto e snello che lo guardava tranquillamente, capelli e occhi spettrali nella semioscurità del corridoio. Aveva una torcia in una mano e una grossa pistola nell'altra. Su una guancia gli colava del sangue, e la camicia era imbrattata di macchie indecifrabili. Una giovane donna più piccola, con capelli castani impolverati, gli stava accanto, una lampada da minatore che le rimpiccioliva la testa, la faccia, la chioma e la maglietta coperta di macchie scure e umide. Il volto di Pendergast si scompose infine in un ghigno. "L'abbiamo liquidato", disse semplicemente. Soltanto il ghigno dell'uomo fece capire a Garcia che il sangue che copriva quei due non era il loro. "Come...?" balbettò. La coppia entrò superandolo, mentre gli altri, accoccolati sotto il pannello buio della planimetria del museo, la fissavano raggelati dalla paura e dall'incredulità. L'agente dell'FBI indicò una sedia con la torcia. "Si segga, signorina Green." "Grazie", disse Margo, facendo sobbalzare la lampada sulla testa. "Un vero cavaliere!" Anche Pendergast sedette. "Qualcuno ha un fazzoletto?" domandò. Allen si fece avanti, estraendone uno dalla tasca. Pendergast lo porse alla ragazza, che si pulì il sangue dal volto e lo restituì all'agente. Lui se lo passò con cura sulla faccia e sulle mani. "Tante grazie, signor...?" "Allen. Tom Allen." "Signor Allen." Gli porse il fazzoletto sporco di sangue. Allen fece per rimetterlo in tasca, ci ripensò, lo lasciò cadere a terra. Fissò Pendergast. "È morto?" "Sì. Morto stecchito." "Lo ha ucciso lei?" "Lo abbiamo ucciso noi. O meglio, lo ha ucciso la qui presente signorina Green." "Chiamatemi pure Margo. Ed è stato il signor Pendergast a sparare." "Ah! Ma, Margo, è stata lei a dirmi dove sparare. Io non ci sarei mai arrivato. Tutti i grossi animali - leone, bufalo indiano, elefante - hanno gli
occhi sui lati della testa. Se caricano, non si pensa mai agli occhi. Non è un colpo possibile." "La creatura", spiegò la ragazza a beneficio di Allen, "aveva la faccia da primate. Gli occhi spostati sul davanti per la visione stereoscopica. Una via diretta al cervello. E una volta che un proiettile entra in un cranio così grosso, continua a rimbalzare finché non si ferma." "Avete ucciso la creatura con un colpo all'occhio?" domandò, incredulo, Garcia. "L'ho colpita più volte", rispose Pendergast, "quella bestia però era foltissima, e furiosa. Non l'ho guardata bene, e credo che passerà un po' di tempo prima che lo faccia, ma si può dire con certezza che nessun altro colpo l'avrebbe fermata in tempo." Si sistemò la cravatta con le dita esili... meticolosità inconsueta, pensò Margo, con tutto il sangue e i pezzi di materia grigia che gli ricoprivano la camicia bianca. Non avrebbe mai dimenticato la visione del cervello della creatura che schizzava fuori dall'orbita devastata, visione terribile e splendida a un tempo. In verità erano stati proprio gli occhi - quegli occhi tremendi, rabbiosi - a darle quell'idea improvvisa, proprio mentre lei incespicava arretrando di fronte al fetore e al fiato pestilenziale. A un tratto, Margo si strinse le braccia al petto, rabbrividendo. Pendergast fece un rapido cenno a Garcia, che si tolse la giacca della divisa. L'agente federale la mise sulle spalle della ragazza. "Tranquilla, cara", disse, inginocchiandosi al suo fianco. "È tutto finito." "Dobbiamo andare a prendere il dottor Frock", balbettò la giovane, le labbra livide. "Fra un momento, fra un momento", disse Pendergast in tono rassicurante. "Facciamo rapporto?" domandò Garcia. "Le batterie di questa radio possono reggere ancora per un solo collegamento." "Sì, e dobbiamo mandare una squadra a soccorrere il gruppo del tenente D'Agosta", disse Pendergast. Poi si accigliò. "Suppongo che questo significhi parlare con Coffey." "Non credo", gli rispose Garcia. "A quanto pare, c'è stato un cambio della guardia." L'agente federale inarcò le sopracciglia. "Davvero?" "Davvero." Garcia gli porse la radio. "C'è un certo Slade, che dice di aver assunto il comando. Vuole avere l'onore?" "Se per lei è lo stesso... Mi fa piacere che non ci sia l'agente speciale
Coffey. In tal caso, temo che l'avrei trattato molto male. Rispondo sempre per le rime agli insulti." Scosse la testa. "È una pessima abitudine, ma per quanto mi sforzi non riesco a farne a meno." 62 Quattro settimane dopo Quando Margo arrivò, Pendergast e D'Agosta erano già nell'ufficio di Frock. L'agente dell'FBI stava esaminando qualcosa su un tavolino basso, mentre il professore parlava animatamente. D'Agosta girava senza posa per l'ufficio e sembrava annoiato: continuava a prendere oggetti in mano e a rimetterli giù. La riproduzione in latice dell'artiglio giaceva sulla scrivania come un macabro fermacarte. Una grossa torta, comprata dal curatore per salutare la partenza imminente di Pendergast, stava al centro della stanza calda e soleggiata, la glassa bianca che già cominciava a sciogliersi. "L'ultima volta che sono stato là, ho mangiato una zuppa di gamberoni che era le sette meraviglie", diceva Frock, stringendo il gomito di Pendergast. "Ah, Margo", continuò, ruotando la carrozzina. "Vieni a dare un'occhiata." La ragazza attraversò la stanza. La primavera aveva infine preso possesso della città, e attraverso il grande bowindow la giovane vedeva l'azzurra distesa dell'Hudson che scorreva verso sud, scintillando al sole. Sul viale sottostante, i patiti di jogging sfilavano in ranghi serrati. Una grossa riproduzione del piede della creatura era posta sul tavolo basso, vicino alla lastra del Cretaceo con l'impronta fossile. Frock seguiva amorevolmente con un dito quei segni impressi nella pietra. "Se non della stessa famiglia, sicuramente dello stesso ordine", disse. "E la creatura aveva proprio cinque dita nella zampa posteriore. Altra corrispondenza con la statuina di Mbwun." Margo, osservando da vicino, pensò che i due oggetti non erano poi così somiglianti. "Evoluzione frattale?" ipotizzò. Lo studioso la guardò. "Forse. Ma occorrerebbero analisi cladistiche approfondite per esserne sicuri." Fece una smorfia. "Naturalmente, non sarà possibile, ora che le autorità governative hanno portato via la carcassa per Dio solo sa quale motivo." Nel mese trascorso dalla disastrosa sera dell'inaugurazione, l'opinione pubblica era passata dallo shock all'incredulità, all'affascinamento e a una finale accettazione della realtà. Per le prime due settimane, i giornali non
avevano fatto altro che parlare della bestia, ma i resoconti contraddittori dei sopravvissuti creavano confusione e incertezza. La sola cosa che avrebbe potuto appianare le polemiche - il cadavere - era stata immediatamente tolta di scena e infilata in un grosso furgone bianco con scritte governative: nessuno l'aveva più vista. Anche Pendergast giurava di ignorare dove fosse finita. La stampa era passata a parlare del costo in vite umane del disastro e dei processi che incombevano sui costruttori del sistema di sicurezza e, in misura minore, sul dipartimento di polizia e sullo stesso museo. Il supplemento del Times aveva pubblicato un fondo intitolato "Sono sicure le nostre istituzioni nazionali?" Ora, settimane dopo, la gente aveva cominciato a pensare alla creatura come a un fenomeno fra i tanti: una mostruosità del passato, come i pesci-dinosauro che di tanto in tanto finivano nelle reti dei pescherecci d'alto mare. L'interesse aveva cominciato a languire: i sopravvissuti all'inaugurazione non venivano più intervistati nei talk-show, la programmata serie di cartoni animati della domenica mattina era stata soppressa e i pupazzi della "Bestia del Museo" giacevano invenduti nei negozi di giocattoli. Frock si guardò attorno. "Perdonate la mia mancanza di ospitalità. Qualcuno gradisce dello sherry?" Ci fu un mormorio di "No, grazie". "Se però ci fosse una lattina di Seven Up..." disse D'Agosta, mentre Pendergast impallidiva, guardando nella sua direzione. Il poliziotto prese il calco di latice dalla scrivania di Frock. "Orribile", disse. "Straordinariamente orribile", convenne il professore. "Era davvero in parte rettile e in parte primate. Non mi perderò in particolari tecnici... lascio l'incombenza a Gregory Kawakita, cui sto facendo analizzare tutti i dati in nostro possesso, ma sembra che i geni di rettile fossero quelli che davano alla creatura la for za, la velocità e la massa muscolare. I geni di primate fornivano l'intelligenza e probabilmente l'endotermia... sangue caldo. Una combinazione formidabile." "Già, sicuramente", borbottò D'Agosta, posando il calco. "Ma cosa diavolo era?" Frock sogghignò. "Mio caro amico, purtroppo non abbiamo ancora dati a sufficienza per dire che cosa fosse esattamente. E, poiché sembra che fosse l'ultimo della sua specie, non lo sapremo mai. Abbiamo appena ricevuto il resoconto di uno studio ufficiale sul tepui da cui proveniva la creatura. È stato completamente distrutto. Risulta che la pianta di cui quell'essere si
nutriva - pianta che, a proposito, abbiamo battezzato a posteriori Liliceae mbwunensis - è totalmente estinta. Le estrazioni minerarie hanno inquinato tutta la zona paludosa che circondava il tepui. Per non parlare del fatto che l'intera area era già stata incendiata con il napalm per favorire i lavori di estrazione. In nessun luogo si sono trovate tracce di creature simili. Di solito distruzioni ambientali di tale portata mi sgomentano, ma sembra che in questo caso abbiano liberato la terra da una terribile minaccia." Sospirò. "Come misura precauzionale - e, aggiungo, contro il mio parere - l'FBI ha distrutto tutte le fibre da imballaggio e tutti gli esemplari della pianta esistenti nel museo. Sicché anche quel vegetale è completamente estinto." "Come fa a sapere che era l'ultimo della sua specie?" domandò Margo. "Non potrebbero esisterne in altre parti della terra?" "È improbabile", rispose Frock. "Quel tepui era un'isola ecologica... a detta di tutti, un posto unico in cui animali e piante avevano sviluppato una singolare interdipendenza nel corso di milioni di anni." "E sicuramente non ci sono altre creature nel museo", aggiunse Pendergast, avvicinandosi. "Con quelle vecchie mappe trovate alla Società Storica, abbiamo potuto ricostruire tutto il tracciato del museo e setacciarlo palmo a palmo. Abbiamo trovato molte cose interessanti per gli studiosi di archeologia urbana, ma nessun segno ulteriore della creatura." "Sembrava così triste da morta", disse Margo. "Così sola. Mi faceva quasi pena." "Era sola", intervenne il professore, "sola e smarrita. Un viaggio di quattromila miglia dalla sua giungla nativa, dietro gli ultimi esemplari rimasti della preziosa pianta che la teneva in vita e la liberava dal dolore... Ma era davvero spietata, e furiosa. Ho contato almeno dodici fori di proiettile nella carcassa, prima che la portassero via." La porta si aprì ed entrò Smithback, che agitava teatralmente una busta marrone in una mano e una magnum di champagne nell'altra. Tolse dalla busta un foglio, innalzandolo al cielo. "Contratto per il libro, gente!" esclamò con un ghigno. D'Agosta si accigliò e si voltò, riprendendo in mano l'artiglio. "Ho ottenuto tutto quello che volevo e ho fatto ricco il mio agente", gracchiò Smithback con l'orgoglio di un galletto. "E hai fatto ricco anche te", borbottò il poliziotto, dando l'impressione di voler saggiare l'efficacia dell'artiglio sullo scrittore. Smithback si schiarì teatralmente la gola. "Ho deciso di devolvere metà dei diritti per la costituzione di un fondo in memoria dell'agente John Bai-
ley. A beneficio della sua famiglia." D'Agosta lo fissò. "Non mi dire!" "Davvero", continuò il giornalista. "Metà dei proventi. Appena incassato l'anticipo, naturalmente", aggiunse. Il tenente cominciò ad avanzare verso Smithback, poi si fermò di colpo. "Avrai la mia collaborazione", sussurrò, contraendo nervosamente le mascelle. "Grazie, tenente, ne avrò bisogno." "È capitano, da ieri", disse Pendergast. "Capitano D'Agosta?" domandò Margo. "È stato promosso?" L'uomo annuì. "Non poteva capitare a elemento migliore, mi ha detto il capo." Puntò un dito verso Smithback. "Voglio leggere ciò che dici di me prima che il libro vada in stampa." "Ehi, un momento", protestò lui, "c'è un'etica di cui i giornalisti devono tener conto..." "Palle!" sbottò D'Agosta. Margo si rivolse a Pendergast. "Immagino che sarà una collaborazione entusiasmante", bisbigliò. L'uomo annuì. Si sentì bussare piano alla porta, e la testa di Kawakita fece capolino nella stanza. "Oh, mi scusi, dottore", disse. "La sua segretaria non mi ha detto che era impegnato. Potremo vedere i risultati più tardi." "Sciocchezze!" urlò Frock. "Entra, Gregory. Signor Pendergast, capitano D'Agosta, questo è Gregory Kawakita. È il creatore dell'ESG, il programma di estrapolazione che ci ha consentito di ottenere un profilo accuratissimo della creatura." "Le sono molto grato", disse l'agente dell'FBI. "Senza il suo programma, nessuno di noi sarebbe qui, oggi." "Grazie infinite, ma il programma è in verità frutto dell'ingegno del dottor Frock", dichiarò Kawakita, adocchiando la torta. "Io mi sono semplicemente limitato a mettere insieme i vari pezzi. Inoltre, ci sono un sacco di cose che l'Estrapolatore non vi ha detto. La posizione degli occhi, per esempio." "Ehi, Greg, il successo ti ha reso umile", ridacchiò il giornalista. "In ogni caso", continuò, girandosi verso Pendergast, "ho alcune domande da rivolgere a lei. Questo prezioso champagne ha un prezzo, sa?" Fissò l'agente dell'FBI con sguardo pieno d'aspettativa. "Di chi erano i cadaveri scoperti nella tana?" Pendergast si strinse per un momento nelle spalle. "Penso che non ci sia
niente di male a dirglielo... pur se non ne deve parlare finché non riceverà un comunicato ufficiale. Be', cinque delle otto salme sono state identificate. Due erano di barboni entrati nel Vecchio Scantinato probabilmente in cerca di calore in qualche notte gelida. Un'altra apparteneva a un turista straniero scovato sull'elenco delle persone scomparse dell'Interpol. E poi, come lei sa, c'era quella di Moriarty, il vicecuratore che lavorava per Ian Cuthbert." "Povero George", mormorò Margo. Per settimane aveva cercato di non pensare agli ultimi istanti di Moriarty, alla sua lotta finale con la bestia. Morire a quel modo, finire appeso come un quarto di bue... L'agente federale aspettò un momento prima di continuare. "La quinta salma è stata identificata, grazie alla dentatura, come quella di un uomo di nome Montague, un funzionario del museo scomparso alcuni anni fa." "Montague!" esclamò Frock. "Dunque la storia era vera." "Sì", rispose lui. "Sembra che alcuni membri dell'amministrazione del museo - Wright, Rickman, Cuthbert e forse Ippolito - sospettassero che qualche strano essere si aggirava per il museo. Quando una grande quantità di sangue fu trovata nel Vecchio Scantinato, lo fecero pulire senza denunciare la scoperta alla polizia. E il fatto che il ritrovamento coincidesse con la scomparsa di Montague non indusse quelle persone a far luce sull'accaduto. Avevano anche ragione di credere che la creatura fosse in qualche modo connessa alla spedizione di Whittlesey. Devono essere stati quei sospetti a indurii a spostare le casse. A posteriori, fu una mossa terribilmente avventata: quella che ha innescato le uccisioni a catena." "Lei ha ragione, naturalmente", disse il professore, spostando la sedia a rotelle verso la scrivania. "Sappiamo che la creatura era molto intelligente. Si rendeva conto che sarebbe stata in pericolo, qualora si fosse scoperta la sua esistenza qui. Credo che sia stata costretta a tenere a freno la sua natura solitamente feroce al fine di proteggersi. Quando è arrivata al museo, doveva essere disperata, forse furiosa, e ha ucciso Montague allorché lo ha visto armeggiare con i manufatti e con le piante. Dopo, però, è diventata più cauta. Sapeva dov'erano le casse, e aveva una buona scorta della pianta... o, se non altro, la ebbe finché il materiale da imballaggio non venne portato via. Ne usava con parsimonia: nella pianta c'era un'alta concentrazione di ormoni. E la bestia integrava di tanto in tanto la dieta di nascosto, con prede occasionali. Topi del sotterraneo, gatti scappati dal reparto di Etologia... una o due volte, anche sfortunati esseri umani che si erano addentrati nei recessi segreti del museo. Ma badava sempre a nascondere i
suoi delitti accuratamente, e riuscì a sopravvivere per alcuni anni senza essere 'scoperta' o quasi." Si mosse leggermente, facendo cigolare la sedia a rotelle. "Poi, il fattaccio. Le casse furono spostate, messe sotto chiave e rinchiuse nell'Area di Sicurezza. La bestia sentì crescere dapprima la fame, quindi la disperazione. Probabilmente crebbe anche la sua furia omicida contro gli esseri che l'avevano privata della pianta... creature che potevano a loro volta essere un sostituto, quantunque misero, di ciò che le avevano sottratto. La frenesia aumentò, e la bestia uccise, poi uccise ancora." L'uomo tirò fuori della tasca il fazzoletto e si asciugò la fronte. "Ma non perse completamente la razionalità", continuò. "Basta pensare a come nascose il cadavere del poliziotto nella mostra. Anche se la sua sete di sangue era stata eccitata, anche se pazza per la sua bramosia di quella pianta, mantenne sempre la presenza di spirito necessaria a capire che gli omicidi avrebbero attirato un'indesiderata attenzione. Forse aveva progettato di portare il corpo di Beauregard nella sua tana. Il caso volle che non fosse in grado di farlo - la mostra era troppo lontana dai suoi covi -, sicché preferì nascondere il cadavere. Dopotutto, il suo obiettivo primario era l'ipofisi; il resto era soltanto carne." Margo rabbrividì. "Mi sono chiesto più di una volta perché la creatura è entrata nella mostra", disse Pendergast. Frock alzò l'indice. "Anch'io. E credo di conoscerne la ragione. Pensi, a cos'altro c'era nella mostra." L'agente federale annuì lentamente. "Certo. La statuina di Mbwun." "Esattamente. La statuina che raffigurava la bestia stessa. Il solo legame della creatura con la sua patria, la patria che aveva dolorosamente perduto." "Si direbbe che abbiate capito tutto", intervenne Smithback. "Ma anche se Wright e Cuthbert sapevano di quella presenza, come sapevano che era connessa alla spedizione di Whittlesey?" "Credo di poterle rispondere io", intervenne Pendergast. "Loro sapevano, naturalmente, perché la nave che portò le casse da Belém a New Orleans aveva tardato tanto... forse lo avevano appreso nello stesso modo in cui lo ha appreso lei, suppongo." Smithback sembrò all'improvviso a disagio. "Be'", cominciò, "io..." "Anche loro avevano letto il diario di Whittlesey. E, come tutti, conoscevano le leggende. Poi, quando Montague - la persona incaricata di esa-
minare le casse - scomparve, e una pozza di sangue venne scoperta nel luogo in cui erano conservate, non servì uno scienziato per mettere insieme il mosaico. Inoltre", proseguì, mentre il suo volto s'incupiva, "me lo ha più o meno confermato Cuthbert. Come ha potuto, naturalmente." Frock annuì. "Hanno pagato un prezzo tremendo. Winston e Lavinia morti, Ian Cuthbert internato... è doloroso oltre ogni dire..." "Vero", interloquì Kawakita, "ma non è un segreto che ciò ha fatto di lei il rivale più pericoloso per il prossimo direttore del museo." Continua a pensarci, si disse Margo. Frock scosse la testa. "Dubito che quella carica mi verrà offerta, Gregory. Quando tutto il polverone si poserà, prevarranno le menti razionali. Io sono eccessivamente discusso. Inoltre, non m'interessa fare il direttore. Ho troppo materiale nuovo per le mani per ritardare ulteriormente l'uscita del mio prossimo libro." "Una cosa che il dottor Wright e soci non sapevano", continuò Pendergast, "e, in verità, che nessuno qui sapeva, è che gli omicidi non sono cominciati a New Orleans. C'è stato un assassinio molto simile a Belém, nel magazzino in cui le casse erano state depositate in attesa dell'imbarco. L'ho saputo mentre indagavo sulla strage commessa sulla nave." "Dev'essere stata la prima sosta della creatura sulla via di New York", ipotizzò il giornalista. "Immagino che questo chiuda il cerchio." Guidò l'agente dell'FBI verso il divano. "Ora, signor Pendergast, suppongo che questo chiarisca anche il mistero sulla fine di Whittlesey." "La creatura lo ha ucciso, questo sembra abbastanza sicuro", rispose Pendergast. "Ehi, vi dispiace se prendo un pezzo di questa torta..." Smithback gli posò una mano sul braccio, impedendogli di muoversi. "Come lo sa?" "Che ha ucciso Whittlesey? Abbiamo trovato un souvenir nella sua tana." "Davvero?" Il giornalista tirò fuori il miniregistratore. "Lo rimetta in tasca, se non le spiace. Sì, c'era una cosa che Whittlesey portava al collo, a quanto risulta. Un ciondolo con due frecce sovrapposte." "Quello impresso sul diario!" esclamò Smithback. "E sulla carta della lettera che inviò a Montague", aggiunse Margo. "Evidentemente, lo stemma di famiglia. Lo abbiamo trovato nella tana; un frammento, comunque. Perché la bestia se lo sia portato dietro dall'Amazzonia, non lo sapremo mai..." "Abbiamo trovato anche altre cose", intervenne D'Agosta, smettendo di
masticare il pezzo di torta che aveva in bocca. "Assieme a una quantità dei semi di Maxwell. Quel mostro era un vero collezionista." "Che tipo di cose?" domandò Margo, dirigendosi verso un bowindow e guardando il paesaggio. "Cose che nessuno si aspetterebbe di trovare. Un mazzo di chiavi di automobile, monetine e biglietti della metropolitana, anche un bel cipollone d'oro. All'interno della cassa c'era il nome del proprietario, che ci ha detto di averlo perduto tre anni fa. Aveva visitato il museo ed era stato derubato." Il poliziotto si strinse nelle spalle. "Forse il borseggiatore è uno dei cadaveri non identificati. O forse non lo scoveremo mai." "La creatura lo aveva appeso per la catena a un chiodo della parete del suo covo", osservò l'agente federale. "Gli piacevano le cose belle. Altro segno d'intelligenza, suppongo." "E tutto era stato preso all'interno del museo?" chiese Smithback. "Per quel che ci risulta", rispose Pendergast. "Nulla dimostra che la creatura sia mai potuta, o abbia mai voluto, uscire dal museo." "No?" disse il giornalista. "E l'uscita verso cui lei ha indirizzato D'Agosta?" "L'ha trovata il capitano da solo", rispose semplicemente Pendergast. "Siete stati davvero fortunati." Smithback si voltò per fare una domanda a D'Agosta, e Pendergast ne approfittò per arrivare alla torta. "È stato gentile da parte sua organizzare questa festicciola, dottor Frock", continuò poi l'agente federale, tornando al divano. "Lei ci ha salvato la vita", disse il professore. "Ho pensato che un dolcetto fosse un bel modo di augurarle buon viaggio." "Allora temo che la mia presenza qui sia abusiva." "Cosa intende dire?" domandò il professore. "Non lascio la città per sempre. Vede, il capo dell'ufficio di New York è dimissionario." "Vuol dire che non daranno l'incarico a Coffey?" domandò Smithback, un lampo di malizia negli occhi. L'agente federale scosse la testa. "Povero Coffey", sospirò. "Spero che il trasferimento nel Texas non gli pesi troppo. In ogni caso, pare che il sindaco, diventato un grande ammiratore del capitano D'Agosta, stia pensando a una mia possibile nomina qui." "Congratulazioni!" urlò Frock. "Non è ancora detto", lo interruppe Pendergast. "E poi non so se mi pia-
cerebbe vivere qui. Quantunque il posto abbia le sue attrattive..." Si alzò e andò verso il bowindow dove Margo continuava a guardare l'Hudson e, dietro quello, le colline verdeggianti di Palisades. "Che progetti ha, Margo?" domandò Lei si voltò a guardarlo. "Ho deciso di restare al museo sino alla fine della dissertazione." Frock rise. "La verità è che io rifiuto di lasciarla andare." La ragazza sorrise. "La verità è che ho avuto un'offerta dalla Columbia. Un incarico di assistente, a partire dall'anno prossimo. La Columbia era l'università di mio padre. Mi sembra quasi uno sbocco obbligato, non le pare?" "Grande notizia!" esclamò Smithback. "Dobbiamo festeggiare con una cenetta, stasera!" "Cenetta? Stasera?" "Café des Artistes, alle sette", disse il giornalista. "Non potete mancare. Sono un autore di fama mondiale, o destinato a diventarlo. Ma questo champagne sta diventando caldo", aggiunse, prendendo la bottiglia. Tutti fecero capannello, mentre Frock tirava fuori i bicchieri. Smithback inclinò la bottiglia verso il soffitto e il tappo partì con un gratificante pop. "A cosa brindiamo?" domandò D'Agosta, quando il bicchiere fu colmo. "Al mio libro", rispose il giornalista. "All'agente speciale Pendergast", disse Frock. "Alla memoria di George Moriarty", mormorò Margo. "A George Moriarty." Ci fu un attimo di silenzio. "Dio ci benedica, tutti", salmodiò Smithback. Margo lo colpì scherzosamente nelle costole. EPILOGO 63 Long Island, sei mesi dopo Il coniglio si dimenò, mentre l'ago gli entrava nella coscia. Kawakita guardò il sangue scuro che riempiva la siringa. Rimise con cura il coniglio nella gabbia, poi trasferì il sangue in tre provette. Aprì la vicina centrifuga, infilò i tubi di vetro nel cilindro e chiuse il coperchio. Premuto l'interruttore, ascoltò il ronzio che si trasformava len-
tamente in sibilo, mentre la forza di rotazione separava il sangue nei suoi componenti. Tornò alla sedia di legno e fece vagare lo sguardo per la stanza. L'ufficio era polveroso, poco illuminato, ma a lui andava bene così. Non c'era motivo di attirare l'attenzione. L'inizio era stato difficile: trovare il posto giusto, mettere insieme l'attrezzatura, perfino pagare l'affitto. Era incredibile quanto pretendevano per una topaia nel Queens. Il computer era stato un problema. Anziché comprarne uno, Kawakita era riuscito a collegarsi via cavo con il supercomputer del Solokov College di Medicina. Era un modo relativamente sicuro di usare il suo programma di estrapolazione genetica. Attraverso la finestrella lercia del suo bugigattolo nel soppalco, guardò il magazzino sottostante. L'ampio spazio era buio e relativamente vuoto: la sola luce veniva dagli acquari posti su mensole metalliche lungo la parete di fondo. Riusciva a sentire il borbottio sommesso del sistema di depurazione. Le luci delle vasche proiettavano sul pavimento un bagliore verdognolo. Due dozzine, il massimo che si era potuto permettere. Presto gliene sarebbero servite altre. Ma il denaro cominciava a non essere più un problema. Era strano, pensava, come le soluzioni migliori fossero anche le più semplici. Se si comprendeva questo, tutte le risposte diventavano ovvie. Ma ora capiva per la prima volta che quelle risposte separavano anche lo scienziato immortale da quello semplicemente grande. Ne aveva avuto una prova dall'enigma di Mbwun. Lui, Kawakita, era stato il solo a sospettare, a capire, e - ora - a dimostrare la verità. Il sibilo della centrifuga cominciò ad affievolirsi. Di lì a poco la spia che segnalava la fine dell'operazione cominciò a emettere lenti e monotoni lampeggi rossi. Kawakita si alzò, aprì il coperchio, prese le provette. Il sangue di coniglio si era separato nei suoi tre componenti: siero chiaro in alto, uno strato sottile di leucociti al centro, un fondo più denso di globuli rossi. Il giovane aspirò con cura il siero, poi ne posò alcune gocce su una serie di vetrini. Infine, aggiunse reagenti ed enzimi. Uno dei vetrini si colorò di porpora. Sorrise. Era stato così semplice. Dopo che Frock e Margo si erano imbattuti in lui al party d'inaugurazione, il suo iniziale scetticismo si era rapidamente mutato in incanto. Prima di allora si era tenuto in disparte, non aveva prestato grande attenzione a quella storia. Si poteva dire che aveva cominciato a pensarci
dal momento in cui, quella sera, aveva imboccato Riverside Drive, trascinato dalla fiumana di altri innumerevoli invitati che, in preda al panico, lasciavano il museo. Poi, logica conseguenza, aveva cominciato a farsi delle domande. Quando in seguito aveva sentito Frock affermare che il mistero era risolto, la curiosità di Kawakita, anziché scemare, era cresciuta. Forse, a onor del vero, il suo punto di vista era più oggettivo rispetto a quello di quanti erano rimasti all'interno del museo quella notte, lottando al buio con la bestia. Come che fosse, però, gli era sembrato che la soluzione di Frock fosse un po' imperfetta: piccoli problemi, infime contraddizioni trascurate da tutti. Da tutti meno che da lui. Kawakita era sempre stato un ricercatore molto cauto; cauto e tuttavia con una curiosità insaziabile. Cosa che gli era stata di grande aiuto in passato: a Oxford, e nei primi tempi al museo. Adesso gli tornava di nuovo utile. La sua prudenza gli aveva suggerito di inserire nell'Estrapolatore un programma di acquisizione di dati cui poteva accedere lui soltanto. Per ragioni di sicurezza, ovviamente... ma anche per capire come gli altri usassero il suo programma. Sicché era stato del tutto naturale, per lui, richiamare quei dati e valutare ciò che avevano fatto Frock e Margo. Bastava che premesse alcuni tasti e il programma gli riproponeva le domande impostate dal professore e dalla ragazza, tutti i dati che avevano introdotto e i risultati ottenuti. Quei dati lo avevano portato alla vera soluzione del mistero di Mbwun. L'avevano avuta sotto il naso da sempre: sarebbe bastato che sapessero cosa chiedere. Kawakita sapeva impostare le domande giuste. E, assieme alle risposte, era venuta anche una scoperta sconvolgente. Qualcuno bussò alla porta del magazzino. Kawakita scese al piano inferiore, muovendosi nell'oscurità senza esitazioni e senza produrre alcun suono. "Chi è?" sussurrò con voce rauca. "Tony", rispose una voce. Lo studioso fece scorrere senza sforzo il paletto di ferro e aprì la porta. Una sagoma si fece avanti. "C'è buio qui dentro", disse l'uomo. Era basso e robusto, e camminava facendo ondeggiare vistosamente le spalle. Si guardò attorno inquieto. "La luce deve rimanere spenta", disse secco Kawakita. "Seguimi." Andarono alla parete di fondo del magazzino. Lì, un lungo tavolo era
sovrastato da lampade a raggi infrarossi. Il piano era coperto di fibre secche. A un capo del tavolo c'era una bilancia. Kawakita prese una manciata di fibre e le pesò, ne tolse una parte, poi ne lasciò cadere ancora qualcuna sul piatto. Infine, mise le fibre in un sacchetto autosigillante. Guardò il visitatore in attesa che si infilò la mano nella tasca dei pantaloni e gli tese una manciata di banconote stropicciate. Kawakita le contò: un centone. Annuì e porse il sacchettino che l'altro afferrò avidamente, cominciando ad armeggiare con la chiusura a strappo. "Non qui!" lo ammonì lui. "Scusa", disse l'uomo. Andò verso la porta con la sveltezza consentita dalla poca luce. "Aumenta la dose", suggerì Kawakita. "Fa' un infuso: favorisce la concentrazione. Penso che otterrai risultati gratificanti." L'altro annuì. "Gratificanti", ripeté lentamente, come gustandosi la parola. "Ne avrò di più martedì", aggiunse Kawakita. "Grazie", sussurrò l'uomo, uscendo. Il giovane chiuse la porta, tirò il chiavistello. Era stata una giornata lunga e le ossa gli dolevano, ma lui avrebbe aspettato il crepuscolo, quando i rumori cittadini si chetavano e il buio avvolgeva ogni cosa. La notte era diventata in poco tempo il momento del giorno che preferiva. Una volta ricostruito ciò che avevano fatto Frock e Margo col suo programma, tutti i pezzi erano andati a posto. Doveva soltanto trovare una delle fibre. Non si era rivelato un compito facile. L'Area di Sicurezza era stata scrupolosamente ripulita, le casse svuotate erano state bruciate assieme al materiale da imballaggio. Il laboratorio in cui Margo aveva fatto il lavoro iniziale era adesso lindo e lustro, la pressa per piante distrutta. Nessuno, però, aveva pensato di ripulire la borsa della ragazza, nota in tutto il reparto di Antropologia per la sua trasandatezza. Era stata la stessa Margo a buttarla nell'inceneritore del museo qualche giorno dopo la tragedia, per precauzione. Non prima che Kawakita avesse trovato la fibra che gli serviva. Tutti gli altri problemi, però, si erano rivelati un'inezia in confronto alla sfida costituita dall'ottenere una pianta da una singola fibra. Il giovane studioso aveva dovuto fare appello a tutte le sue capacità, a tutte le sue conoscenze di botanica e di genetica. Ma ormai aveva deciso di incanalare le sue inesauribili energie in una sola direzione... Abbandonato il pensiero del posto di ruolo al museo, aveva chiesto una lunga licenza. E alla fine
c'era riuscito... non prima che fossero trascorse cinque settimane. Ricordava ancora la vera e propria ondata di entusiasmo che l'aveva pervaso quando il primo nodulo verde era comparso sulla capsula di Petri contenente l'agar. Adesso, aveva una scorta cospicua e costante che cresceva nelle vasche, abbondantemente inoculata con il reovirus. Lo strano reovirus vecchio di sessantacinque milioni di anni. La pianta si era rivelata un tipo di ninfea perversamente bella, che dava quasi continuamente grossi boccioli porporini con appendici venate e stami di un giallo acceso. Il virus era concentrato nel gambo robusto e fibroso. Kawakita raccoglieva quasi un chilo di fibre alla settimana, ma si stava disponendo ad accrescere la produzione in modo esponenziale. I kothoga sapevano tutto di questa pianta, pensò. Quello che era sembrato un dono del cielo si era poi rivelato una maledizione. Loro avevano tentato di controllarne il potere, ma non ci erano riusciti. La leggenda lo spiegava benissimo: il diavolo non aveva tenuto fede al suo patto, e il figlio del diavolo, Mbwun, era diventato sfrenato. Si era ribellato ai suoi padroni. Non poteva essere dominato. Ma Kawakita non avrebbe fallito. I test sul siero di coniglio dimostravano che lui ci stava riuscendo. L'ultima tessera del mosaico era andata a posto quando si era ricordato ciò che quel poliziotto, D'Agosta, aveva detto alla festa d'addio dell'agente dell'FBI: che avevano trovato nella tana della creatura un ciondolo con la doppia freccia appartenuto a Whittlesey. Prova, dicevano, che il mostro aveva ucciso Whittlesey. Prova. Che panzana. Prova, semmai, che il mostro era Whittlesey. Lo studioso ricordava con chiarezza il giorno in cui tutti i pezzi erano andati a posto. Era stata un'apoteosi, una rivelazione. Spiegava ogni cosa. La creatura, la Bestia del Museo, Colui-che-cammina-a-quattro-zampe, era Whittlesey. E la prova era a portata di mano: il suo programma di estrapolazione. Kawakita aveva messo il DNA umano da una parte e il DNA del reovirus dall'altra. Poi aveva chiesto la forma intermedia. Il computer aveva dato la creatura: Colui-che-cammina-a-quattro-zampe. Il reovirus nella pianta era sbalorditivo. A quanto pareva era esistito relativamente immutato fin dall'era mesozoica. In quantità sufficienti, aveva il potere di produrre mutazioni morfologiche di natura strabiliante. Tutti sapevano che le aree più profonde, più isolate della foresta pluviale ospitavano piante sconosciute e di un'importanza scientifica quasi inimmaginabile. Kawakita, però, aveva già scoperto i portenti della sua. Mangiando le
fibre e infettandosi con il reovirus, Whittlesey si era trasformato in Mbwun. Mbwun: nome usato dai kothoga per la prodigiosa, terribile pianta, e per le creature che diventavano tali mangiandola. Kawakita riusciva ora a farsi un'immagine mentale di molte parti della religione segreta dei kothoga. La pianta era una maledizione odiata e richiesta a un tempo. Le creature tenevano a bada i nemici dei kothoga... ma erano anche una costante minaccia per i loro padroni. Probabilmente i kothoga "allevavano" una creatura per volta... di più, sarebbero state troppo pericolose. Il culto doveva concentrarsi sulla pianta stessa, sulla sua coltivazione e sulla sua raccolta. L'apogeo del loro cerimoniale era quasi sicuramente la creazione di una nuova creatura: la pianta fatta ingerire con la forza alla riluttante vittima umana. All'inizio erano necessarie grandi quantità di fibra perché il reovirus potesse provocare i mutamenti corporei. Una volta completata la trasformazione, la pianta poteva essere consumata soltanto in piccole quantità, supportate naturalmente da altre proteine. Era però indispensabile che la dose fosse costante. In caso contrario, dolori intensi e perfino la follia avrebbero tormentato il corpo nel suo sforzo di tornare allo stato originario. Naturalmente, prima che ciò accadesse, sarebbe intervenuta la morte. E la creatura, disperata, avrebbe, quando possibile, cercato un sostituto della pianta: l'ipofisi umana era di gran lunga il più soddisfacente. Al chiuso, nella confortante oscurità, ascoltando il sommesso borbottio degli acquari, lo studioso immaginava il dramma che doveva essersi svolto nella giungla. Per la prima volta i kothoga avevano messo gli occhi su un uomo bianco. Sicuramente Crocker, il compagno di Whittlesey, era stato trovato per primo. Forse la creatura era diventata vecchia, o si era indebolita. Forse Crocker aveva ucciso la creatura con il fucile della spedizione mentre il mostro lo sventrava. O forse no. Kawakita, comunque, sapeva con certezza che, quando i kothoga avevano incontrato Whittlesey, l'esito poteva essere stato uno soltanto. Si chiese cosa doveva aver provato Whittlesey: legato, costretto - forse in modo rituale - a nutrirsi col reovirus della strana pianta raccolta da lui stesso pochi giorni prima. Forse i kothoga avevano preparato un infuso con le foglie, o magari avevano semplicemente costretto il prigioniero a mangiare le fibre secche. Dovevano aver tentato di fare con l'uomo bianco ciò che non erano riusciti a fare con quelli della loro razza: creare un mostro che potessero controllare. Un mostro che avrebbe tenuto lontano i costruttori della nuova strada, i prospettori e i minatori che si accingevano a inva-
dere il tepui da sud e a distruggerli. Un mostro che avrebbe terrorizzato le tribù rivali e i nuovi arrivati senza terrorizzare i suoi padroni; che avrebbe garantito per sempre la sicurezza e l'isolamento dei kothoga. Ma poi la civiltà era arrivata comunque, con tutti i suoi orrori. Kawakita immaginava il giorno in cui era successo: la bestia-Whittlesey, appostata nella giungla, che vede il fuoco cadere dal cielo e bruciare il tepui, i kothoga, la preziosa pianta. Lui soltanto trova scampo. E lui solo sa dove può trovare le fibre dopo che la giungla è stata distrutta: lo sa perché è stato lui stesso a spedirle in quel posto. O magari se n'era andato ancor prima che il tepui bruciasse. Forse la tribù non era riuscita a controllare, ancora una volta, il mostro creato. Oppure Whittlesey, nella sua miseranda, terribile condizione, poteva avere un piano, che non contemplava l'idea di rimanere lì a fare l'angelo vendicatore. Forse aveva soltanto desiderato di tornarsene a casa. Sicché aveva abbandonato i kothoga e quelli erano stati distrutti dal progresso. A Kawakita, in fin dei conti, non interessavano i particolari antropologici. A lui interessava il potere intrinseco della pianta, e lo sfruttamento di quel potere. Bisognava controllare la fonte, per poter controllare la creatura. E proprio questo, pensava, mi consentirà di riuscire laddove i kothoga hanno fallito. Lui stava controllando la fonte. Lui soltanto sapeva come far crescere quella difficile, delicata ninfea lontano dalla giungla amazzonica. Soltanto lui conosceva il necessario PIl dell'acqua, la giusta temperatura, la luce adatta, la corretta miscela di sostanze nutritive. Soltanto lui sapeva come inoculare il reovirus nella pianta. Li avrebbe resi tutti dipendenti. Con l'innesto genetico mediante il siero di coniglio, lui era riuscito ad attenuare la forza del virus, a renderlo più puro e a mitigare alcuni dei suoi sgraditi effetti collaterali. Perlomeno, era quasi sicuro di esserci riuscito. Si trattava di scoperte rivoluzionarie. Tutti sanno che i virus inseriscono il proprio DNA nelle cellule della loro vittima. Di norma, tale DNA si limita a istruire le cellule della vittima in modo che generino altri virus. È ciò che succede con quasi tutti i virus noti all'uomo: da quello dell'influenza a quello dell'AlDS. Quel virus era diverso. Quello inseriva un vero e proprio spiegamento di geni: geni di rettile. Antichi geni di rettile, geni vecchi di sessantacir que milioni di anni. Reperibili oggigiorno nel geco comune e in poche altre specie. E, a quanto pareva, lo stesso virus aveva anche preso in prestito dei
geni dai primati - quasi certamente geni umani - nel corso del tempo. Un virus che sottraeva geni al suo ospite e incorporava quei geni nelle sue vittime. Geni che, invece di generare altri virus, rigeneravano la vittima. La rimodellavano pezzo per pezzo, facendone un mostro. I virus istruivano l'ingegneria del corpo perché cambiasse la struttura ossea, il sistema endocrino, gli arti, la pelle, i peli e gli organi interni. Modificavano il comportamento, il peso, la velocità e le attitudini. Conferivano uno straordinario senso dell'olfatto e dell'udito ma attenuavano la vista e le capacità vocali. Davano una forza immensa, massa corporea, agilità, lasciando relativamente intatto il portentoso cervello di ominide. In poche parole, la sostanza - il virus - trasformava la vittima umana in una terribile macchina per uccidere. No, la parola vittima non rendeva giustizia a chi era infettato dal virus. Termine migliore sarebbe stato simbionte. Perché ricevere il virus era un privilegio. Un dono. Un dono di Greg Kawakita. Bello. Di più. Sublime. Le possibilità, per l'ingegneria genetica, erano infinite. E Kawakita aveva già un'idea di come sfruttarle. Nuovi geni che il reovirus poteva inserire nel suo ospite. Geni umani oppure animali. Ed era lui a stabilire quali geni avrebbe inserito il reovirus nell'ospite. Lui a decidere che cosa sarebbe diventato l'ospite. A differenza dei primitivi, superstiziosi kothoga, lui aveva il controllo... grazie alla scienza. Un interessante effetto collaterale della pianta era la proprietà narcotica: un meraviglioso "viaggio pulito", senza la spiacevole spossatezza che lasciavano tante altre droghe. Forse era con quella proprietà che la pianta si assicurava in origine l'ingestione e, di conseguenza, la propagazione. A lui, però, quell'effetto collaterale serviva per finanziarsi le ricerche. Da principio non aveva pensato di smerciare droga, ma la pressante mancanza di denaro lo aveva reso inevitabile. Il giovane sorrise al pensiero di come fosse stato facile. La scelta consorteria di avidi consumatori l'aveva già battezzata: glassa. Il mercato era famelico, e Kawakita vendeva tutto ciò che riusciva a produrre. Peccato che se ne andasse via così in fretta. Ormai era notte. Kawakita si tolse gli occhiali scuri e aspirò la ricca fragranza del magazzino, l'odore sottile delle fibre, l'odore di acqua e polvere e combustione interna dell'aria ambientale, il tutto mescolato alle muffe, all'anidride solforosa e a una moltitudine di altri odori. Le sue allergie croniche erano quasi sparite. Dev'essere l'aria pulita di Long Island, si disse, sarcastico. Si tolse le scarpe strette e si sgranchì, deliziato, le dita dei piedi.
La sua era la scoperta più stupefacente che fosse stata fatta in genetica dopo quella della doppia elica del DNA. Avrebbe vinto il premio Nobel, pensò con un sorriso ironico. Se avesse scelto quella strada. Ma a cosa serviva un premio Nobel quando, di punto in bianco, si poteva avere a disposizione il mondo intero? Qualcuno stava di nuovo bussando alla porta. FINE