RAYMOND BENSON PRIMA DEL BUIO (Face Blind, 2003) PROSOPAGNOSIA (s. f.) Dal greco (prosopon = volto; agnosia = assenza di...
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RAYMOND BENSON PRIMA DEL BUIO (Face Blind, 2003) PROSOPAGNOSIA (s. f.) Dal greco (prosopon = volto; agnosia = assenza di riconoscimento). Condizione neurologica che impedisce a una persona di riconoscere i volti. Del tutto indipendente dalle capacità visive dell'individuo: una persona dalla vista perfetta può soffrire di prosopagnosia. Del tutto indipendente anche dal quoziente di intelligenza dell'individuo. Nel cervello normale esiste un centro dedicato al riconoscimento dei volti. La prosopagnosia si manifesta quando tale centro rimane danneggiato o è altrimenti incapace di svolgere la propria funzione. 1 Due giorni dopo il fatto, un breve articolo apparve sul "New York Daily News". Era la prima volta che se ne parlava, ma non sarebbe stata l'ultima. Di lì a poco, quel mistero sarebbe divenuto uno dei grandi casi irrisolti della storia di New York City, un puzzle che avrebbe fatto impazzire i poliziotti per gli anni a venire. TRIPLICE OMICIDIO IN CASA DI UNO SCRITTORE La polizia brancola nel buio sulla scena di un triplice omicidio nella residenza dello scrittore John Cozzone, nell'Upper East Side di Manhattan. Due uomini e una donna sono stati trovati morti nella villetta: un uomo e la donna vittime di colpi di arma da fuoco, l'altro uomo, invece, accoltellato a morte. Le identità delle vittime non sono state rese note, in attesa del completamento delle indagini. Cozzone non era tra le vittime. La polizia ricerca attivamente lo scrittore, che a metà degli anni Settanta ha goduto di una breve fama grazie ai suoi due bestseller I pomi del cosmo e La lingua lunga di Lucretia Leone. Si cerca ancora di stabilire quali rapporti esistessero tra le vittime e Cozzone, anche se, in base all'esame preliminare della scena del crimine, si ritiene che possa trattarsi di un regolamento di conti nel mondo del traffico di droga.
Il giorno dopo la pubblicazione dell'articolo, la polizia di New York venne a sapere dove fosse Cozzone. E il mistero s'infittì ulteriormente. Il detective incaricato del caso era sicuro che qualcuno, da qualche parte, fosse al corrente di cosa fosse avvenuto in quella casa in una calda serata di giugno, mentre la maggior parte dei residenti di Manhattan era a cena, o davanti alla televisione, o al cinema o a teatro. Il detective non era del tutto fuori strada. In effetti, c'era qualcuno in casa di John Cozzone, al momento del triplice omicidio. Il problema era che neanche questa persona avrebbe saputo spiegare chi avesse fatto cosa e perché, né più né meno dell'unico altro testimone, un gatto domestico. Per capirci qualcosa, sarebbe stato necessario possedere una prospettiva onnisciente di tutti i personaggi coinvolti, tornare indietro nel tempo di due settimane e cominciare dal principio. 2 Ehi, baby, come butta? Le parole le risuonavano nel cervello. La voce untuosa, soffusa di intimidazione, continuava a riecheggiarle in sogno, riempiendola di terrore. Lo schema ormai familiare si ripeteva: lei si voltava e, come al solito, vedeva la strada che si prolungava all'infinito, fino a sparire nell'oscurità. Non c'era nessuno intorno, né auto né pedoni. Neanche un'anima. Era come se la First Avenue appartenesse a una gigantesca città fantasma. Il silenzio, come si suol dire, era assordante. Tentacoli di ombre si protendevano lenti e minacciosi verso di lei, invitandola a restare immobile e a lasciarsi fagocitare. A lasciarsi trascinare nel buio dell'ignoto. Lei tentava di fuggire ma, come sempre in questi casi, sentiva le gambe pesantissime. Anche solo fare un passo le costava una fatica insormontabile. In un crescendo di angoscia, lottò contro la forza oscura che le paralizzava i muscoli delle gambe. Ehi, baby, dove vai? C'era un sottofondo malevolo in quella voce da baritono, una lussuria perversa e viscerale. Per le donne che camminavano da sole per le strade di Manhattan le battute sessiste erano la norma, ma le passanti giovani e attraenti erano ancora più a rischio. Che fretta hai, baby? Vieni a divenirti. Hannah si sforzò di muovere una gamba dopo l'altra e cominciò a corre-
re verso casa nella avenue deserta. Le mancavano ancora parecchi isolati. Perché era così buio? Persino la luce dei lampioni era fioca e spettrale. Perché non c'era nessuno? Non una macchina, un camion, un autobus per strada. Non era solo insolito, era impossibile alle undici di sera di un giorno feriale. Manhattan era la città che non dormiva mai! Il rumore del traffico era una presenza costante, anche nel cuore della notte. Mio Dio, pensò Hannah, sono da sola. Naturalmente, nei recessi del suo cervello, sapeva che non era altro che l'assurda logica del sogno. Non era affatto sola, quando le era capitato. C'era traffico, un bel po', e c'era gente sui marciapiedi, anche se non quanta ce ne sarebbe stata in pieno giorno. Hannah non andava mai a piedi a tarda ora, ma quando l'autobus della linea 1 aveva avuto un guasto, non aveva avuto la pazienza di aspettare il successivo. Era stanca e si sentiva un raffreddore in arrivo. Non desiderava altro che tornare a casa, farsi un tè caldo e trascinarsi a letto, con Panther acciambellato sopra la coperta. E invece aveva incontrato lui. Ehi, baby, ti sto dietro! Era a quel punto, nel sogno, che Hannah si rendeva conto che l'uomo le stava alle calcagna. Si voltò di nuovo, come aveva fatto nella realtà, ma non vide nessuno. Eppure lo sentiva. Il mostro era alle sue spalle, a un metro o due da lei, con gli artigli sguainati. Hannah riprese a correre, ma le leggi del sogno non le consentirono di fare molta strada. E anche quando era accaduto nella realtà, quella fatale notte di maggio, Hannah aveva avuto l'impressione di non riuscire a correre abbastanza veloce. Malgrado ciò, non si arrese. Mancavano solo due isolati. Superò la Wong's Laundry e il Love Drug Store, attraversò la strada con il rosso. Non importava, tanto non c'era traffico. Anche intorno al suo palazzo, l'Upper East Side era un deserto. Quando passò davanti alla tavola calda dove prendeva spesso la pizza al trancio, Hannah sentì i passi di corsa alle sue spalle sull'asfalto. Il segnale che doveva mettersi a gridare. Ma dalla sua gola, arida e annodata, non uscì un suono. La logica del sogno rendeva tutto più atroce: il suo urlo fu solo un sussurro impercettibile. Naturalmente, rimase inascoltato. Non c'era nessuno che potesse sentirla. Vieni qui, baby! Sono proprio dietro di te! Con una stretta al cuore, Hannah sospinse in avanti il suo fisico minuto, facendo appello a tutte le sue forze. Percorse l'ultimo tratto di strada, fino a trovarsi a pochi passi dal palazzo di cinque piani in arenaria in cui abitava
con il gatto. Sapeva che il mostro non si era fermato. Gli sarebbero bastati pochi secondi per raggiungerla. Il tempismo era cruciale. Spinse la porta a vetri e si tuffò nell'atrio, dove le cassette della posta si allineavano sulla parete. Un secondo portone consentiva l'accesso all'edificio solo con una chiave o con l'uso del citofono. In altre circostanze Hannah si sarebbe soffermata a guardare la posta e a ritirare le bollette del giorno (di lettere non ne riceveva mai) ma in quel momento non ci pensò nemmeno. Voleva solo infilare la chiave nel portone ed entrare prima che la raggiungesse il mostro. Si era sempre rimproverata per le troppe chiavi che portava con sé. Gliene occorrevano quattro solo per entrare in casa, una per il portone e tre per la sua porta. Poi c'erano la chiavetta della posta e molte altre che aprivano porte e cassetti nella banca in cui lavorava. Le mani le tremavano mentre cercava la chiave giusta nel mazzo tintinnante. La infilò nella serratura, ma il sogno non le concesse di aprire la porta. La chiave diventò di gomma e si piegò in modo grottesco. Non era quella giusta. Ne provò un'altra, identica a quella del portone, che entrò senza problemi. Ma Hannah non riuscì a girarla. Ti prego, oh Dio, ti prego! Sentì la porta a vetri che si apriva alle sue spalle e la ventata di aria fredda che annunciava l'arrivo del mostro. Ehi, baby, è qui che abiti? Vuoi invitarmi su da te? Hannah tentò nuovamente di gridare, poi fece per girarsi, pronta ad affrontare il mostro. Avrebbe voluto metterlo knock out, ma era una donna minuta che pesava solo quarantotto chili. Prima che riuscisse a voltarsi, il colpo la spinse contro il portone. Non avrebbe mai dimenticato il dolore e lo shock di quell'atto di violenza, la sensazione che qualcuno le avesse scavato un buco nella testa. Mentre cadeva sulle piastrelle del pavimento, ebbe il tempo di guardare in faccia il suo aggressore. Ma il sogno rispettò il proprio copione e il finale fu lo stesso di sempre. Il mostro non aveva volto. Hannah si svegliò di soprassalto, il corpo in tensione, pronta a difendersi. Quando comprese di essere al sicuro, nel letto del suo appartamento, si abbandonò a un sospiro e sprofondò nel cuscino. Il cuore le martellava nel petto e le lenzuola erano umide di sudore. Era successo di nuovo.
«Accidenti» mormorò. Quegli incubi erano così frequenti che ormai avrebbe dovuto esserci abituata. Un lugubre miao la costrinse a riaprire gli occhi. Panther, eretto sulle zampe in fondo al letto, la stava fissando preoccupato. Erano sette anni che quel gatto domestico dal pelo corto e nero le teneva compagnia. «Scusa, Panther. Ti ho spaventato?» Il gatto miagolò di nuovo e cominciò a strofinare la testa e il corpo contro il rigonfiamento sotto le lenzuola che corrispondeva alla gamba di Hannah. La sveglia accanto al letto segnalava che era comunque ora di alzarsi. Hannah allungò una mano, spostò l'interruttore sulla funzione radio e si mise lentamente a sedere sul letto. La luce del sole filtrava dalle persiane del suo piccolo appartamento, un monolocale diviso in salotto, angolo cottura e zona notte. Era minuscolo, ma l'affitto era miracolosamente basso per Manhattan, la casa non era lontana dal lavoro e lo spazio era più che sufficiente per una trentaquattrenne single e il suo gatto. Hannah non aveva bisogno di un appartamento di rappresentanza. Non dava mai ricevimenti, non aveva mai ospiti, non usciva mai con nessuno. A lei andava bene così. Si alzò in piedi, andò in cucina e riempì il bollitore di acqua del rubinetto. Lo mise sul gas, accese la fiamma e si chiuse in bagno. Quando ebbe finito, tornò in cucina, aprì l'armadietto e prese il cibo di Panther. Prevedibilmente, il gatto le si strofinò tra le gambe, miagolando implorante. «Frena l'entusiasmo, Panther» fece lei. Gli riempì una ciotola di cibo e un'altra di acqua fresca. Nel frattempo dal bollitore cominciava a uscire il vapore. Hannah prese dall'armadietto la sua tazza preferita, ci mise sopra il portafiltro e recuperò un filtro pulito dalla confezione. Poi tirò fuori il pacchetto di caffè macinato Starbucks dal frigorifero, mise un paio di cucchiaini rasi nel filtro e ci versò sopra l'acqua bollente. Mentre il liquido colava nella tazza, si sfilò la T-shirt marrone lunga fino al ginocchio che da tre anni usava come camicia da notte e andò a fare la doccia. Dopo le abluzioni rituali, indossò un paio di jeans e una T-shirt della maratona di New York. Dove lavorava ora, era di rigore l'abbigliamento casual. Una fortuna, per lei. Seduta al tavolino, Hannah sorseggiò il caffè mentre ascoltava le notizie alla radio. Prese una banana dalla fruttiera e la sbucciò, guardando Panther che mangiava. Non si era ancora scrollata di dosso le ultime immagini dell'incubo. Sapeva, del resto, che non se ne sarebbero andate prima di
qualche ora. Non era una novità. Erano cinque anni che continuava a sognare le stesse cose, sempre le stesse... Finita la colazione, Hannah tornò in bagno e si lavò i denti. Poi si guardò allo specchio, studiando la propria immagine. Tutto come al solito. I capelli biondi, lunghi fino alle spalle, sembravano in ordine. Non richiedevano mai molte cure. Il resto era anonimo, come sempre. Hannah sapeva che quella era la sua faccia, ma ogni giorno aveva la sensazione di trovarsi di fronte a una sconosciuta. Rifiutava di truccarsi: non l'aveva più fatto, dopo quella volta. E poi, se anche ci avesse provato, sarebbe stato un disastro. Per tutta la vita le avevano detto che era bella così com'era. Forse era anche vero... prima. Di sicuro non si riteneva tale, adesso. Non le importava. Per lei non faceva più differenza se era bella o no. Passò alla parte conclusiva del rituale mattutino. Aprì lo sportello a specchio dell'armadietto dei medicinali, prese il flaconcino delle compresse di Zoloft da cento milligrammi e ne inghiottì una e mezza con l'acqua del rubinetto. Controllò che il cestino dei rifiuti sotto il lavandino fosse pulito, poi tornò in salotto a prendere la borsetta, le chiavi e una sacca di biancheria sporca. Spense la luce, fece un paio di carezze a Panther e uscì sul ballatoio. Abitava al secondo piano. La maggior parte dei vicini, come lei, si facevano i fatti propri, ma mentre scendeva le scale si aprì una porta al primo piano. Liz mise fuori la testa. «Oh, ciao Hannah. Mi era sembrato di sentirti scendere le scale.» Hannah non capiva: aveva piedi piccoli e camminava a passi leggeri. Conscia dell'eco della tromba delle scale, stava sempre attenta a non fare il minimo rumore. «Ciao, Liz.» «Ti va una tazza di caffè?» Liz spalancò la porta e apparve a figura intera, con un accappatoio di spugna rosa pieno di macchie, che a stento conteneva il suo petto abbondante. Liz Rosenthal era una donnona con qualche problema di peso e i capelli castani tagliati a caschetto, secondo la moda lanciata dai Beatles all'incirca nel 1964. Sopra la bulbosa mammella destra ostentava un tatuaggio raffigurante un cuore trafitto da un chiodo. Appeso al collo portava un chai d'oro. «No, grazie, l'ho appena bevuto.» Hannah si sarebbe trattenuta davanti alla porta di Liz lo stretto necessario a mostrarsi gentile. «Devo andare al lavoro.»
Liz aveva appena passato i quaranta, o almeno così pensava Hannah. Era lesbica e non cercava di nasconderlo. Nel corso degli anni, la si era vista con varie ragazze, anche se ultimamente era sempre da sola. Liz era quanto Hannah avesse di più simile a un'amica, ma i rapporti tra le due non erano troppo distesi. Hannah aveva la sensazione che Liz volesse approfondire le loro relazioni, dato che anche lei era un tipo solitario. Nondimeno, le aveva lasciato una copia delle chiavi, giusto in caso di emergenza. Così all'occorrenza la vicina poteva dare da mangiare a Panther. «Pensavo che fossi tu a stabilire gli orari» osservò Liz, con il suo marcato accento del New Jersey. «Infatti. Ma ho anche delle scadenze.» «Mmm. E come sta il tuo famoso cugino?» «Bene, credo. Non è poi così famoso.» Liz alzò le spalle. «Se lo dici tu.» «Ti sei alzata presto. Hai lavorato ieri notte?» «Seh. Sono rientrata verso le quattro. Non è che ho dormito molto. Il solito.» Hannah assentì e strascicò i piedi. «Be', devo andare. A più tardi.» «Buona giornata, tesoro» la salutò Liz con un sorriso, e chiuse la porta. Hannah scese l'ultima rampa di scale e uscì dal portone. Quando passò dall'atrio, le tornò in mente l'incubo e provò un brivido improvviso. Forse avrebbe fatto meglio a traslocare, dopo quella notte, ma trovare un alloggio altrettanto conveniente era praticamente impossibile. Non se ne parlava nemmeno, anche a costo di sentirsi quasi sempre a disagio quando entrava e usciva dal caseggiato. Era un bel giovedì di giugno, l'ora di punta. La First Avenue ferveva di attività, con le strade intasate di traffico, i marciapiedi brulicanti di persone che andavano al lavoro e i negozianti che aprivano bottega. Hannah si incamminò verso sud. Dopo due isolati approdò alla Wongs Laundry. L'anziano titolare della lavanderia la salutò cordialmente: «Buongiorno, signorina McClealy.» Come al solito, pronunciava "McClealy" anziché "McCleary". «Buongiorno, signor Wong. Ritiro tutto oggi pomeriggio, okay?» «Okay.» Il vecchio compilò il modulo e le staccò la ricevuta. «A dopo.» «Grazie.» Hannah uscì dalla lavanderia e riprese il cammino in direzione sud. Prima della notte fatale era solita proseguire fino alla Second Avenue e prendere l'autobus fino alla banca in cui lavorava. Ma ora non doveva fare altro
che percorrere a piedi diciotto isolati complessivi, per raggiungere la villetta in cui abitava John. Era stata fortunata a trovare un posto di lavoro raggiungibile senza far uso di mezzi, che non le richiedesse contatti con il pubblico e le permettesse di avere a che fare con pochissima gente. Quello sì che era importante, per Hannah. Perché suo cugino John, il signor Wong e Liz erano le sole persone che avrebbe dovuto riconoscere quel giorno. 3 "La paziente soffre di depressione acuta a seguito del divorzio, che risale a tre mesi fa." Con la voce del dottore nelle orecchie, Bill Cutler trascriveva la registrazione al computer come se volasse con il pilota automatico. I nastri del dottor Berger erano facili: era uno dei pochi medici che parlassero in modo lento e preciso, a beneficio del dattilografo. Era per questo che tutti in ufficio lo amavano. Inoltre, quei nastri erano spesso divertenti e talvolta addirittura istruttivi: Cutler aveva imparato molto riguardo alla psicoanalisi dalle cartelle dei pazienti di Berger. Tutto lo staff dell'ufficio voleva lavorare su quei nastri. Per contro, nessuno voleva quelli della dottoressa Lazar, una psichiatra che si esprimeva a frasi spezzate, con un improbabile accento straniero. Era più il tempo che si perdeva a correggerle la grammatica e a cercare sul dizionario le parole che non pronunciava correttamente, che quello trascorso a battere a macchina le cartelle dei pazienti. "Prescrizione per Zoloft, centocinquanta milligrammi al giorno." Cutler trovava stupefacente che al giorno d'oggi ci fosse tanta gente che prendeva gli antidepressivi. C'era da pensare che in America fossero tutti sull'orlo del suicidio. Non lo capiva. Non riusciva a comprendere perché la gente dovesse andare dal dottore e assumere farmaci, se soffriva di depressione. Quando lui era depresso, si sballava, si ubriacava, si trovava una ragazza e se la scopava di brutto. Il mattino seguente si sentiva un uomo nuovo, a patto di avere sbattuto a calci la ragazza fuori dal letto prima di addormentarsi. Non gli piaceva risvegliarsi con qualcuno accanto. "La prossima paziente è Eileen Charles, quarantacinque anni. Visita di routine." Cutler occhieggiò l'orologio. Era quasi ora di andare all'audizione. Non che sarebbe servito a molto: quattordici anni nella grande città e non aveva mai messo piede su un palcoscenico. Era stato scelto qualche volta per
produzioni tipo off-off-Broadway, ma non era mai arrivato a completare le prove, né tantomeno a partecipare a una prima. I registi lo scacciavano tutte le volte, e non perché non sapesse recitare. Cutler sapeva di essere un bravo attore, forse uno dei migliori a New York. No, lo allontanavano perché era "difficile". Era da tanto che nessuno gli dava una chance. E ormai era entrato in una fascia di età nebulosa. Avere trentacinque anni poteva essere fantastico per Brad Pitt o Tom Cruise, ma era il bacio della morte per un attore sconosciuto senza curriculum. Era sempre "troppo vecchio" o "troppo giovane", oppure "non abbastanza alto" o "non abbastanza basso", oppure "troppo bello" o "troppo da soap-opera" o chissà che. Ciononostante, Cutler era fermamente deciso a fare l'attore e prima o poi arrivare a Broadway, vincere uno o due Tony Awards e infine trasferirsi a Hollywood per fare cinema. Quantomeno, non si poteva dire che non fosse ambizioso. Anche se di solito la gente si limitava a definirlo antipatico. E questo lo sapeva persino lui. Era cresciuto con un fratello molto più grande e una madre single alcolizzata che se ne fregava dell'uno e dell'altro. Patrick aveva dieci anni più di lui, per cui, quando Bill aveva raggiunto la maggiore età, il fratello se n'era andato da tempo in cerca di fortuna e la madre era ormai ai confini della realtà. Sicché, il giovane William aveva potuto combinare tutto quello che gli andava, sicuro di farla sempre franca. Quella libertà aveva insegnato al ragazzo a contare sulle proprie forze, ma aveva anche prodotto un adulto che riteneva di avere diritto a tutto ciò che voleva. Bill Cutler non aveva mai esitato a dire quello che pensava, a contestare ogni autorità, a sfidare il sistema e a correre i propri rischi. Quando era un teenager, insegnanti e compagni di scuola lo consideravano estremamente arrogante. In aggiunta alla sua personalità estroversa e alla sua presunzione, c'era il fatto che fosse molto bello. Non aveva mai avuto problemi ad attrarre il sesso opposto. Semmai, i problemi sorgevano quando le donne si rendevano conto di non avere a che fare con un perfetto gentiluomo. Le poche relazioni di cui aveva goduto da ragazzo erano state dolorose e di breve durata. Andando verso i trenta, aveva cominciato a usare le donne come rapide dosi di piacere, per poi disfarsene come fossero il giornale del giorno prima. In breve, Bill Cutler era un misogino calcolatore. Questo glielo aveva detto il suo terapeuta ed era un fatto che lui aveva accettato. Andava di pari
passo con gli aspetti più oscuri e repressi del suo profilo psicologico, quelli su cui preferiva non soffermarsi troppo spesso. Completò la trascrizione, si sfilò gli auricolari e andò alla macchina del caffè. Debbie e Kathy erano perse nel lavoro, accumulando diligentemente le loro quaranta ore settimanali. Come direttore della MedScript Inc., Cutler se la passava piuttosto bene. Era sempre stato rapido come dattilografo e fin dal suo arrivo a New York non aveva avuto difficoltà a trovare lavoro. Le trascrizioni mediche erano un modo come un altro per tirare avanti, anche se ora Bill cominciava a pensare che non sarebbe riuscito a occuparsi d'altro per tutta la sua vita. Naturalmente, il suo vero obiettivo era recitare. Purtroppo, la sua carriera era stata interrotta da quello che tra sé lui chiamava "il buio". In quel periodo avrebbe anche potuto continuare a presentarsi alle audizioni, ma aveva scelto di non farlo. Era troppo arrabbiato e depresso. Era stato allora che il fratello ricco aveva fondato la MedScript. Quando Bill aveva ottenuto la libertà vigilata, Patrick gli aveva fatto il "favore" di affidargli la direzione della compagnia. Il fratello maggiore era sempre in cerca di sistemi per fare soldi in fretta. La sorpresa era che, nella maggior parte dei casi, funzionavano. Patrick, che in realtà era solo il suo fratellastro, era miliardario. Aveva cominciato a investire saggiamente appena uscito dal liceo, facendo soldi a palate con le agenzie di lavoro temporaneo. Nonostante la differenza di età e il fatto che avessero solo la madre in comune, Bill e Patrick si assomigliavano molto. Anche Patrick, reduce da un matrimonio fallito, era scapolo e dedicava buona parte del suo tempo a passare da una donna all'altra. L'altra faccia della medaglia era che tutte le volte che Bill si inventava un sistema per fare soldi in fretta, questo falliva miseramente. Patrick lo denigrava di continuo: era un perdente, diceva. Gli aveva affidato il lavoro alla MedScript solo perché era un dattilografo veloce e perché era di famiglia. A parte questo, Patrick non faceva nulla per nascondere il proprio disprezzo nei suoi confronti. Bill odiava il fratello. Lo considerava un viscido stronzo che non pensava ad altro che ai soldi. Patrick lo trattava sempre dall'alto in basso, lo sfotteva persino per le sue aspirazioni teatrali. Per lui Bill non era che un fallito privo di talento. Quando erano cominciati i problemi medici e legali, Patrick voleva quasi disconoscerlo. Bill si era sempre chiesto che cosa gli avesse fatto cambiare idea, dopo la libertà vigilata. Forse era stata la morte della madre.
Vaffanculo, pensò Bill. Se non altro, Patrick si fidava di lui quanto bastava a dargli un minimo di responsabilità in una delle sue lucrose compagnie. Quello che il fratello maggiore non sapeva era che spesso Bill sgattaiolava via a metà giornata per andare alle audizioni. Non che fosse un problema. Cutler ci metteva poco a recuperare il lavoro rimasto indietro. E, oltre a essere il capo, era il miglior dattilografo dell'ufficio. Non faceva mai errori di battitura e sapeva scrivere correttamente qualsiasi termine medico, anche i più impossibili. Riusciva persino ad affrontare di buon grado i nastri della dottoressa Lazar. Sfortunatamente, il personale non riusciva a reggerlo troppo a lungo. Debbie e Kathy erano nuove, ma Cutler valutava che avrebbero resistito ancora per un paio di settimane, non di più. Poi ci sarebbe stato l'inevitabile scazzo e anche loro se ne sarebbero andate. Il record di durata di un dipendente era stato sei mesi. Vaffanculo anche a loro. Quello era il suo modo di vedere le cose. Se non gli andava bene quel posto, che si arrangiassero. Lui aveva imparato a lavorare per vivere senza rinunciare alle proprie ambizioni. Battere al computer le cartelle mediche faceva schifo a lui come a chiunque altro, ma era di gran lunga meglio che fare il cameriere. Squillò il telefono. Cutler batté Debbie sul tempo e sollevò il ricevitore. «MedScript. Cosa desidera?» rispose, in tono da conduttore di telequiz. «Che diavolo di voce è?» chiese Patrick, infastidito. «Come sarebbe a dire? È una voce entusiasta e amichevole» si difese l'altro. «Bill, parla normale, okay? Niente stronzate al telefono, d'accordo?» «D'accordo.» Bill avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro, ma si trattenne. «Volevo sapere se hai finito la dichiarazione dei redditi.» «Non ancora. Ce l'ho in agenda per quésta settimana.» «Ma cazzo, Bill, scade il quindici. Se consegniamo in ritardo paghiamo la sanzione.» «Sai che roba, Patrick. Quasi tutte le compagnie consegnano in ritardo. O si fanno dare una proroga o pagano la dannata sanzione. Non è poi molto.» «Va bene, Bill. Che ne dici se te la detraggo dal salario?» «Senti, Patrick, ti ho detto che la faccio. Non ti preoccupare.» «D'accordo. Come vanno le nuove ragazze?» «Non male. Non abbiamo perso nessuno questo mese.» «Okay, avanti così. Adesso devo chiamare le altre società.» Patrick riag-
ganciò senza salutare. Che stronzo, pensò Cutler. Finiva sempre con un "Okay, avanti così", anche se per tutta la conversazione non aveva fatto altro che criticare il loro lavoro. Bill tornò alla scrivania per occuparsi del paziente successivo. "Jill Thompson è una donna di quarantadue anni sofferente di depressione a seguito della morte del marito in un incidente d'auto. Apparentemente, il marito non aveva un'assicurazione sulla vita e la signora Thompson rischia di perdere il proprio appartamento." Oooh, che peccato. Cutler non aveva molta simpatia per quella gente. "Prescritto Prozac e raccomandata visita da un terapeuta. Inviata dal dottor Miller." Cutler ci rimuginò sopra. Prese un'agendina nera dalla borsa che aveva appoggiato sullo scaffale dietro la sedia. Ci scriveva gli indirizzi delle poche persone che conosceva in città, ma anche i nomi della sua "Lista di Caccia", come l'aveva battezzata. Aprì l'agendina e con una biro aggiunse JILL THOMPSON in coda all'ultima annotazione. Poi prese il raccoglitore a fisarmonica in cui erano conservate le cartelle mediche. Le trascrizioni venivano inserite direttamente nei fascicoli dei singoli pazienti, dove si trovavano tutte le informazioni necessarie: indirizzo, telefono, polizza di assicurazione, numero della previdenza sociale... e innumerevoli altri dettagli personali e privati. Cutler ricopiò l'indirizzo e il numero di telefono di Jill Thompson, quindi rimise a posto la cartella. Completò la trascrizione del nastro, la stampò e inserì i fogli nella sezione corrispondente. Poi andò all'ingresso e depose raccoglitore e nastri nel cestino dei lavori finiti. Da lì il materiale veniva smistato tra gli studi medici, molti dei quali avevano sede in quello stesso palazzo di Midtown. La MedScript garantiva un servizio rapido e continuo. Di solito la mole di lavoro era ingestibile, ma quello era un giorno relativamente calmo. Ogni tanto capitava: anche i medici restavano indietro con i loro nastri e spesso finivano per consegnare due settimane di lavoro in una volta sola. Cutler fece un cenno a Debbie e Kathy, mettendosi la borsa a tracolla. Debbie si tolse gli auricolari. «Vado a un'audizione» spiegò lui. «Torno fra un paio d'ore.» Debbie ci era abituata. Non era insolito che il supervisore le lasciasse sole. Si limitò a un cenno del capo e tornò a dattilografare.
L'audizione fu uno schifo, come al solito. Quando il regista gli disse: «Terremo da parte il suo curriculum, grazie tante» Cutler si sentì autorizzato a dirgli di ficcarselo nel culo. Quello stronzetto con la puzza sotto il naso sembrava appena uscito dal college. Tipico della scena off-offBroadway. Uno di questi giorni, pensava Cutler, uno di questi giorni gliela faccio vedere io. Avrebbe dimostrato al mondo il suo talento. Poteva interpretare qualsiasi personaggio, assumere qualunque tono di voce o atteggiamento. Certe volte si era presentato al lavoro travestito, ingannando i colleghi per qualche minuto prima di farsi riconoscere. Di solito lo prendevano per uno sciroccato, ma ridevano. Una volta era arrivato vestito da donna. Quella volta sì che li aveva lasciati di sasso. Li aveva tenuti in pista per un quarto d'ora. Cutler lasciò l'East Village e tornò a Midtown in metropolitana. Quando uscì dalla stazione, guardò l'ora: era stato fuori quarantacinque minuti. Perché tornare subito in ufficio? Poteva concedersi un po' di divertimento. Tirò fuori la Lista di Caccia e la esaminò: tre pagine di nomi femminili con indirizzi e numeri di telefono, quasi tutti provenienti dalle trascrizioni mediche. Delle ventidue donne della lista ne aveva già portate a letto, con successo, diciassette. Niente male. Delle altre cinque, tre erano brutte come il peccato. Gliene restavano due. E doveva ancora liberarsi dell'ultima che si era fatto, Nancy, una patetica divorziata con due figli. Aveva giusto il tempo per darle il benservito. E poi c'era l'ultimo arrivo, Jill Thompson. Troppo vecchia, ma ci si poteva divertire. Era rischioso usare il cellulare. Cutler localizzò un raro esemplare di telefono pubblico, specie ormai in via di estinzione, e vi introdusse le monetine. Compose il numero di Jill Thompson. Dopo tre squilli gli rispose una voce femminile. «Pronto?» La donna aveva un tono affaticato, esaurito. Bill già si immaginava che aspetto potesse avere. «Signora Thompson?» le disse, con la sua migliore intonazione da Il prezzo è giusto. «Sì?» «Buongiorno, sono Ron Jeremy del...» Consultò al volo gli appunti desunti dalla scheda della paziente. «Hartford Insurance Group.» «Sì?» «La chiamo per informarla che abbiamo fatto un terribile errore. Riguarda l'assicurazione sulla vita del suo defunto marito.»
«Mio marito... mi avete detto che mio marito non aveva un'assicurazione sulla vita» replicò la donna. «Questo è il punto, signora Thompson. Abbiamo appena scoperto che c'è stato un errore di trascrizione al nostro reparto risarcimenti. Signora Thompson, suo marito le ha lasciato una polizza da cinquecentomila dollari!» Silenzio dall'altra parte del filo. «Signora Thompson?» «Sono qui. È solo che... Davvero? Oh, mio Dio. Harold, mio caro! Oh, mio Dio! Grazie, Signore!» «Ho pensato che volesse saperlo il più presto possibile.» «Be', ma perché non ve ne siete accorti prima? Sono stata nei vostri uffici, ho parlato con il nostro assicuratore, ho scritto lettere...» «Capisco la sua frustrazione, signora, Per questo volevo informarla che, se vuole, può venire questo stesso pomeriggio nel nostro ufficio di Midtown a ritirare l'assegno.» «L'assegno?» «Esatto. Così potrà avere la cifra oggi stesso. Normalmente la dilazioneremmo nel tempo, ma, dal momento che l'errore è stato da parte nostra, abbiamo pensato che fosse il modo migliore per rimediare.» La donna stava piangendo. Cutler assaporò ogni singhiozzo. «Oh, grazie» gemette la signora Thompson. «Grazie. Mi ripete il suo nome?» «Ron Jeremy.» «Me lo scrivo. Dov'è che devo andare?» Cutler guardò dall'altro lato della strada e lo vide: il Peepland Adult Video Store. «All'angolo tra la Sixth Avenue e la 42nd Street. Siamo due porte a est.» Le diede l'indirizzo esatto del pornoshop. «Entri e dica all'uomo alla reception che vuole vedere Ron Jeremy.» «Oh, grazie! Grazie tante!» La donna era in estasi. «Di niente. Buona giornata!» Cutler riappese e rise senza freni. Accidenti, che sorpresa avrebbe avuto quando fosse entrata nel negozio e avesse chiesto di vedere Ron Jeremy, uno dei più laidi attori dell'industria del porno. Cutler prese una biro e depennò Jill Thompson dalla lista. Era il momento di chiamare Nancy. L'aveva tirata troppo in lungo con lei, essenzialmente perché era brava a letto. La povera donna aveva un reddito basso e due figli a carico, non si prendeva cura di se stessa e fumava come una ciminiera. Però aveva un corpo da restarci secchi e faceva cose che la maggior
parte degli uomini poteva soltanto sognare. Il guaio era che non solo Nancy si era presa una cotta per lui, ma si aspettava anche che lui l'aiutasse a uscire dalla sua pietosa situazione. Compose il numero e attese. «Pronto?» «Nancy? Sono Eric» disse lui, usando il nome con cui le si era presentato e un accento del Sud perfezionato guardando vecchi film western. «Eric! Bastardo, dov'eri finito?» Ottimo, pensò lui. È già incazzata. Non c'era da sorprendersi. «Ero fuori città, bambina. Come stai?» «Come sto? Ma non potevi chiamarmi? Non sapevo più che fine avessi fatto.» «Scusami, bambina, ma non ero in condizioni di chiamarti.» «Non dire stronzate. Cosa ci vuole a prendere un telefono e chiamare?» «Nancy, sono stato via solo per una settimana.» «Ma cosa dici? Vieni a letto con me una notte, poi sparisci per sette giorni. Dove sei adesso? Vieni a trovarmi?» «Non se ce l'hai con me.» «Oh, Eric, certo che ce l'ho con te. Ma faccio la brava. Vieni a trovarmi, dai. Mi manchi tanto.» «Dove sono i bambini?» «Dal padre.» «Okay. Senti, c'è una cosa che ti devo dire.» «Cosa?» «Mi devo sposare. La mia vecchia fiamma del liceo. Ci siamo visti alla riunione della classe la settimana scorsa. È lì che sono andato. Abbiamo deciso che siamo fatti l'uno per l'altra.» Nancy non disse nulla. Poi, finalmente, mormorò: «Che cosa hai detto?» «Mi devo sposare. Volevo che fossi tu la prima a saperlo.» «Tu... figlio di puttana! Volevi che fossi io la prima a saperlo?» «Sì. Vuoi venire al matrimonio?» «Bastardo pezzo di merda!» strillò Nancy. «Ti auguro di marcire all'inferno!» E sbatté giù il ricevitore. Cutler non riuscì a trattenere le risate. Scosse il capo, prese la biro e cancellò anche il nome di Nancy dalla lista. Si rendeva conto di essere stato crudele. Un vero stronzo. Solo che il suo terapeuta aveva insistito perché si trovasse un hobby che lo distraesse dalla tentazione di quello che faceva prima. E questo era l'unico passatempo che gli fosse venuto in mente.
Cutler rimise l'agendina nera nella borsa, uscì dalla cabina telefonica e tornò verso l'ufficio fischiettando Hei-ho, hei-ho, andiamo a lavorar... 4 Dominic DeLauria trascorse da solo la sua ultima notte a Rikers Island. Era la prima volta in cinque anni che non divideva la cella con il suo compagno. Gli dispiaceva per lui. Di solito a DeLauria non fregava niente di nessuno, ma tutto sommato Lane era un bravo ragazzo. Gli era simpatico. Tuttavia, nonostante quanto era accaduto quel mercoledì, il pensiero dominante di DeLauria era la propria imminente scarcerazione. Non avrebbe più dovuto rispondere alla domanda: «Cosa farai quando sarai fuori?» A Rikers tutti quanti sapevano che stava per essere rilasciato sulla parola e da una settimana a quella parte non gli chiedevano altro. «Vado a sbattermi tua madre» rispondeva lui. Di solito ridevano. Ma, anche se non ridevano, non osavano protestare. Con DeLauria non si scherzava, lo sapevano tutti. La mattina di mercoledì era cominciata come tante altre. DeLauria aveva finito la sua colazione a base di pane e avena, era uscito dalla mensa ed era andato in cortile per farsi una sigaretta. Ancora un giorno solo, ricordava di avere pensato, dopo otto lunghi anni. Doveva recuperarne, di tempo perduto. Si era acceso la Marlboro, aspirando e trattenendo il fumo come se fosse una canna. Era una bella sensazione. Si era domandato se sarebbe riuscito a riabituarsi a entrare in tabaccheria, a Manhattan, per comprarsi le sigarette. Trovare da fumare in prigione era costoso e fastidioso. Fuori sarebbe stato tutto diverso. Un gruppo di detenuti si stava esercitando a fare canestro. DeLauria non aveva mai giocato a basket in prigione, non gli andava di dover socializzare con i compagni di squadra. Aveva sempre preferito la palestra. In prigione si era allenato costantemente e ora era più in forma di quando ci era entrato. La dieta stretta aveva scolpito il suo corpo già solido, trasformandolo in una massiccia macchina di muscoli. A quarantadue anni, ben portati, DeLauria sembrava ringiovanito di un decennio. E questo lo faceva sentire bene. Oltre al gruppo che giocava a basket, aveva tenuto d'occhio gli skinhead addossati al muro. Poi aveva avvistato il suo compagno di cella, sull'altro lato del campo.
Lane era un uomo distrutto e amareggiato. Come la maggior parte dei detenuti, si ostinava a dichiararsi vittima di un errore giudiziario. DeLauria non gli credeva: sapeva riconoscere quelli che raccontavano palle. Lane gli aveva detto di essere stato ingiustamente accusato di un tentato stupro a Manhattan, Era stata la sua seconda condanna per violenza sessuale: stavolta gli avevano dato dieci anni e, secondo DeLauria, erano stati quasi clementi. Ormai Lane ne aveva già scontati cinque. DeLauria aveva raggiunto il compagno di cella e gli aveva offerto una sigaretta. «No, grazie» aveva risposto Lane. «Incazzato come al solito, eh?» aveva chiesto DeLauria. «Seh. Ho di nuovo il Rikers Island Blues.» A vederli, molti pensavano che fossero parenti. Erano entrambi di altezza media e avevano i capelli scuri. DeLauria sospettava che Lane avesse a sua volta una quota di sangue italiano. Quando glielo avevano messo in cella, DeLauria si era mostrato diffidente. Non gli fregava niente di avere un amico. Ma Lane era un tipo sveglio: un ragazzo cresciuto per strada, ma non il solito delinquentello, anche se aveva ammesso di avere sulla coscienza qualche furto, un paio di rapine e uno stupro. Con il tempo, avevano cominciato ad andare d'accordo. In fondo Lane era uno a posto. Come compagno di cella poteva capitare di peggio. «Allora, Dom, stai contando le ore?» DeLauria gli aveva concesso uno dei suoi rari sorrisi. I suoi freddi occhi castani avevano brillato sotto il ciuffo di capelli neri. «Diciassette ore e trentadue minuti. Domani mattina porto fuori le chiappe.» «Non ti chiedo che cosa farai quando sarai tornato in città.» «Grazie.» «Ma immagino che andrai subito a fare il culo a qualcuno.» «Ci puoi scommettere.» Lane aveva sospirato. «Io credo che dovrò aspettare ancora tre anni prima che mi diano la libertà sulla parola. Due, se va bene.» Si erano incamminati lungo il perimetro del cortile, ignorando le occhiate dalle varie confraternite di neri, ispanici, asiatici e skinhead. Ci volevano le palle per starsene fuori dai gruppi, ma grazie al loro anticonformismo si erano entrambi guadagnati il rispetto degli altri detenuti. «Hai parlato con il tuo avvocato?» aveva chiesto DeLauria. «Seh. Me l'hanno messo in culo, quindi tanto vale che ci faccia l'abitudi-
ne.» «Non ci si fa mai l'abitudine.» Lane aveva alzato le spalle. «Cazzo ci posso fare?» Avevano proseguito in silenzio per un po', mentre DeLauria finiva la sigaretta, per poi gettare il mozzicone a terra e schiacciarlo con gusto sotto la scarpa. «Te lo dico io» aveva ripreso Lane. «Se uscissi domani, andrei a cercare quella stronza e le farei la festa sul serio. Quella non sa nemmeno cos'è uno stupro.» «Se non sei stato tu, come ha fatto a identificarti?» «Cazzo ne so? Sai come vanno queste cose: non l'avrà neanche visto in faccia, quel tipo. La polizia le ha messo in testa che ero stato io e lei gli ha dato retta e ha detto "Sì, è lui".» «Non mi sembra che il tuo avvocato ti sia servito molto.» «Nah. Non vale un cazzo. Quella stronza nemmeno mi guardava quando mi ha indicato. Cioè sì, mi guardava, ma non mi vedeva, capisci cosa intendo?» «Forse.» «Era come se fossi trasparente. Mi ha indicato solo per farla finita.» DeLauria aveva notato uno dei Black Muslim che li fissava, sprizzando odio. «Tim, il tuo amico Passim ti sta mandando il malocchio.» Lane si era girato, incrociando lo sguardo del nero. «Quella testa di cazzo. Si è messo in testa che sia stato io a fargli la spia l'altro giorno alla mensa.» «Non ti ha mai perdonato che gliele hai suonate, quando è scoppiata quella rissa. Quando è stato?» «Quattro fottuti mesi fa» aveva risposto Lane. «E non gli è ancora andata giù.» Avevano continuato a camminare, senza fare troppo caso a Passim. «DeLauria!» aveva chiamato una delle guardie dall'ingresso del cortile. Lui si era voltato a guardare. «Vieni qui!» «Che c'è?» aveva chiesto Lane. «Non lo so. Ci vediamo dopo.» DeLauria aveva attraversato il cortile. La guardia lo aspettava con una cartelletta e una penna. «Mi serve solo la tua firma. È per la tua scarcerazione, domattina. Ti ho cercato in cella, ma il sergente Duffy ha detto che eri qui.» Presa la penna, con un'alzata di spalle DeLauria aveva firmato il modulo
e aveva riconsegnato il tutto al secondino. «Molto bene» aveva approvato questi. DeLauria stava dicendo: «A che ora devo...» ma era stato interrotto da un urlo dall'altra parte del cortile, dove i Black Muslim si erano raggruppati per coprire quella che sembrava una scazzottata. Un bagliore nell'aria e un attimo dopo tutto era finito, rapido com'era cominciato. Per terra era rimasto un bianco, con la tuta arancione coperta di sangue. Era Timothy Lane. Passim era stato beccato pochi minuti dopo. Le guardie lo avevano perquisito, trovandogli addosso un taglierino che qualcuno aveva trafugato di nascosto dal laboratorio. Il nero era stato portato via, tra le proteste dei suoi compagni. Branco di stronzi, pensava DeLauria, e ringraziava Dio, se esisteva, di essere alla vigilia della scarcerazione. Uscì di prigione giovedì mattina alle otto, con ottantadue dollari nelle tasche degli abiti civili che aveva indosso quando lo avevano arrestato per attività di racket e riciclaggio. Il procuratore distrettuale non era stato in grado di inchiodarlo per l'accusa di omicidio. E, per fortuna, non era riuscito nemmeno a collegarlo agli altri omicidi. DeLauria stava sempre attento a non usare due volte lo stesso metodo. In galera c'era già finito, tempo prima. Aveva vent'anni, quando aveva massacrato di botte un tipo dietro il Rocky's Italian Restaurant di Brooklyn. Gli avevano dato uno sconto per buona condotta, grazie anche al fatto che il giudice era sul libro paga di Pontecorva. E adesso era fuori. I soldi non erano un problema: Pontecorva si prendeva cura dei suoi, specie di quelli che si sacrificavano per il bene della famiglia. DeLauria non doveva fare altro che andare a Manhattan e presentarsi da Lou, a Little Italy. I ragazzi gli avrebbero trovato dove e come vivere. Gli avrebbero procurato le armi, i suoi ferri del mestiere. Il lavoro non avrebbe tardato ad arrivare. DeLauria fece un cenno a un taxi e salì a bordo. «All'angolo tra Broome e Mott Street» disse. 5 Venerdì, al termine della sua routine mattutina, Hannah uscì come al so-
lito per andare al lavoro sulla East 63rd Street, tra la Second e la Third Avenue. Al suo arrivo, vide che la porta della villetta era aperta e davanti era parcheggiata una BMW nera con il bagagliaio spalancato. John Cozzone stava uscendo con una valigia. «Ciao, Hannah» la salutò. «Ciao, John. Sei di partenza?» «Proprio così. Aspettami dentro. Poi ti spiego i dettagli.» Hannah assentì ed entrò nella casa. L'adorava. Si sentiva più a suo agio quando era lì a lavorare, rispetto a quando stava nel suo appartamento, di giorno o di notte. Certo, John era un casinista, come del resto tutti gli uomini. Ma per le questioni organizzative c'era lei. Sulla sinistra, vicino all'ingresso, c'era un salottino con una grande finestra sulla strada, che non veniva usato quasi mai. John se ne serviva soprattutto d'inverno, per togliersi il cappotto e sedersi a sfilare gli stivali, se aveva nevicato. Sulla destra, invece, c'erano il guardaroba e la scala che portava ai tre piani superiori. In mezzo, superato lo sgabuzzino sotto la scala, a destra, e la porta del bagno, a sinistra, un corridoio portava a un ampio open space comprendente sala e cucina, con tanto di bancone e sgabelli. In un angolo c'era un tavolo da pranzo, ma anche questo veniva usato di rado. John e i suoi ospiti preferivano sedersi al "bar" dell'angolo cucina. Hannah salì al primo piano, dove in origine c'erano due camere da letto e un bagno. Ma John aveva convertito le due stanze in studio e biblioteca. In quest'ultima, Hannah non entrava mai: c'era troppo disordine, tra libri, video, vecchi dischi in vinile e cartacce. La camera da letto principale, completa di bagno, era al secondo piano, mentre al terzo c'erano le stanze degli ospiti. La prima cosa che Hannah notò entrando nello studio fu, come di consueto, l'odore di marijuana: John aveva fumato di nuovo, non più di un'ora prima. La stanza era un casino, specie la scrivania di John, ma la postazione di lavoro di Hannah, equipaggiata di computer, stampante e telefono, era pulita e ordinata. Hannah depose la borsetta ed esaminò la selva di post-it che il cugino le aveva lasciato. Il pesante manoscritto era aperto all'ultima pagina che lei aveva trascritto il giorno precedente. Incorniciate alla parete, c'erano parecchie fotografie di John e le riproduzioni delle sovraccoperte dei suoi libri: qualche edizione in inglese, ma soprattutto traduzioni straniere. Dietro la scrivania di Hannah si ammassavano i cartelloni che avevano reclamizzato le apparizioni di John in varie
librerie di New York: lui li aveva conservali come souvenir, ma non ne aveva fatto mai niente. I due bestseller mondiali che aveva pubblicato negli anni Settanta gli avevano garantito denaro e una certa fama, ma John Cozzone non aveva ancora scritto un libro che potesse definirsi di un certo spessore. A volte Hannah si domandava se i diritti d'autore dei suoi due successi fossero ancora sufficienti a mantenere il suo stravagante stile di vita da rockstar. John abitava in una casa costosa, occasionalmente visitata da una donna delle pulizie; cambiava ragazza ogni mese, scegliendo sempre il tipo fotomodella; guidava una BMW che teneva in un garage privato; ed evidentemente faceva parecchio uso di droghe, cosa che Hannah non condivideva e che non aumentava la sua simpatia per lui. John Cozzone aveva da poco passato i cinquanta, era bello, bruno, con qualche ruga in viso ma con un fisico in ottima forma. Anche se Hannah non riusciva a distinguere il suo volto, nemmeno quando guardava le fotografie, che fosse bello lo sapeva. E le piaceva il suo odore, un misto di muschio e tabacco che gli permeava gli abiti e tutta la casa. Doveva ammettere di avere una cotta da scolaretta nei suoi confronti, per quanto lui fosse, seppure alla lontana, suo cugino. Distolse gli occhi dalle foto, uscì dallo studio e scese in cucina. Aveva un bisogno disperato di caffè, prima di mettersi al lavoro. John aveva una spettacolare macchina Cuisinart e teneva in frigorifero caffè da buongustaio. Hannah era conscia di berne troppi, perché a volte la caffeina le scatenava crisi di ansia improvvise. L'unico modo per combatterle era bere qualcosa di forte, solitamente scotch o bourbon. Si sorprese di trovare una donna alla macchina del caffè. Nonostante la vedesse di spalle, Hannah intuì che fosse giovane e bella. La ragazza aveva capelli biondi che le scendevano fino alle spalle. Indossava una camicetta annodata sul petto, che le lasciava scoperta la vita, e un paio di jeans attillatissimi, da cui faceva capolino un tatuaggio sulla natica sinistra. Hannah non credeva di averla mai incontrata, ma era ancora presto per dirlo. La ragazza si voltò e la vide. «Ciao, Hannah. Come stai?» «Bene.» Lei cercò di capire chi fosse. «Vieni pure. Io ho finito. Vuoi del caffè?» «Sì, grazie.» La ragazza prese la tazza nella mano sinistra e le tese la destra. «Ci siamo conosciute la settimana scorsa. Sono Sophia.» Hannah si ricordò di lei. Le ragazze che John portava in casa erano tutte
uguali. Non riusciva a distinguerne i tratti del viso, ma fisicamente anche Sophia rientrava nel tipo fotomodella. «Salve» le disse, stringendole la mano. «Che lavoro fai per John?» chiese Sophia. C'era qualcosa di intimidatorio in lei: emanava vibrazioni forti, quasi minacciose. Sembrava una donna dura, che in passato doveva avere vissuto sul filo del rasoio. Hannah abbassò gli occhi sul pavimento. «Gli batto i manoscritti, gli faccio da assistente, cose del genere.» «Una segretaria di lusso.» «Più o meno.» «Mi ha detto che siete anche parenti.» Hannah assentì. «È mio cugino. Un cugino lontano. Il figlio del precedente matrimonio del primo marito della sorella di mia madre. Non siamo parenti di sangue. Siamo solo legati da una complessa politica familiare.» Sophia rise. «Ho capito. Da quanto lo conosci?» «Solo qualche anno. Si è messo in contatto con me dopo che... dopo che ho lasciato il mio lavoro in banca. Aveva saputo da sua madre che abitavo nelle vicinanze. Lei è morta, adesso, e John non ha altri parenti. E nemmeno io. John mi ha offerto questo lavoro, una soluzione vantaggiosa per tutti e due.» Si allontanò da Sophia, per non sentirsi obbligata a guardarla in faccia. «Che fortuna. Così non devi timbrare il cartellino.» Hannah annuì, mentre si versava il caffè. «Oh, John mi dà delle scadenze, piccole cose da fare. Ma più che altro batto il suo nuovo libro al computer.» John entrò nell'opere space proprio in quel momento. «Un libro brillante, vero Hannah?» Lei rise. «Faccio la dattilografa, non il critico letterario.» Sophia si avvicinò a John e gli passò un braccio intorno al collo. «Allora stai per pubblicare qualcosa, dopo I pomi del cosmo.» «Non ho scritto solo quello!» obiettò lui, dandole un bacio su una guancia. «Ah, sì, c'è anche l'altro. La lingua lunga di non-so-chi.» «La lingua lunga di Lucretia Leone» rispose Hannah. «Quello» disse Sophia, con una strizzatina d'occhio. «Credo che siano usciti quando io ero appena nata.» «Attenta» la redarguì John. «Altrimenti non ti porto con me.» Ad Hannah non sfuggì che la battuta di Sophia aveva punto John sul vi-
vo, anche se lui tentava di non darlo a vedere. Dopo un rapido abbraccio, si staccò da lei e tornò in corridoio. «Ho ancora un paio di cose da prendere, poi ce ne possiamo andare. Hannah, vieni su nello studio?» Lei lo seguì. Sophia disse: «A dopo, Hannah.» «Ciao» rispose lei, voltandosi appena. Mentre salivano le scale, Hannah pensò che John e la ragazza fossero in procinto di andare insieme da qualche parte. Dunque tra loro c'era qualcosa di più rispetto alle consuete relazioni "usa e getta" del cugino. John entrò nello studio e richiuse la porta alle spalle di Hannah. «Che ne dici di Sophia?» Hannah si strinse nelle spalle. Come poteva avere un'opinione? «È carina, credo. Ma ha un'aria da ragazzaccia.» «Oh, sì, è una ragazzaccia» fece lui, allusivo. «Una vera ragazzaccia!» Hannah distolse lo sguardo. Doveva piacergli molto. «Non mi va come ti prende in giro.» «Sì, ogni tanto lo fa» ammise lui, remissivo. «Ma ha ragione, lo sai. Sono venticinque anni che non esce un mio libro. È umiliante.» John andò alla scrivania e aprì un cassetto. Vi frugò fino a trovare ciò che cercava: un lungo, lucente tagliacarte d'argento, con cui si mise ad aprire la posta. Hannah commentò: «Sono sicura che la maggior parte degli scrittori si accontenterebbe di avere pubblicato i tuoi due libri. Hanno venduto milioni di copie.» Busta dopo busta, John suddivideva il contenuto tra il cestino della carta straccia e il vassoio delle "cose da fare" sopra la scrivania. «È questo che mi piace di te, Hannah: sei ottimista.» «Nient'affatto, John. Credimi.» «No?» Lei si sedette alla propria scrivania. «Non mi conosci abbastanza, se mi credi ottimista.» «Be', quando ti vedo, lo sembri. Anche se, a pensarci bene, sei un po' timida. Anzi, riservata, non so se mi spiego.» Lei annuì e abbassò gli occhi. «Scusa, non volevo metterti in imbarazzo.» «Non preoccuparti.» John finì di guardare la posta e, per un istante, si soffermò a contemplare il tagliacarte. «Bello» notò lei.
«Regalo del Club del Libro del Mese. Forse dovrei usarlo più spesso. È maledettamente affilato.» Con noncuranza, riaprì il cassetto e lo gettò dentro. «Be', come penso avrai capito, Sophia e io facciamo un viaggetto. Andiamo a Chicago, con la BMW. On the road. Staremo via una settimana, forse di più. Sarà uno spasso.» John prese una borsa appesa allo schienale della sedia, dietro la scrivania. «Da quanto la frequenti?» volle sapere Hannah. «Hmmm?» «Non importa.» «Da quanto frequento Sophia?» Hannah fece cenno di sì. «Meno di un mese. L'avevi già vista, mi pare. Una ragazza speciale. Viene da una famiglia italiana ben ammanigliata.» John si chinò davanti alla cassaforte accanto alla sua scrivania e compose la combinazione. «Avrò bisogno che tu mi tenga d'occhio la casa, mentre sono via. Ti spiace? Non è che potresti venire qui a dormire?» Hannah batté le palpebre. «Perché no?» «Puoi usare la mia camera da letto. O una delle stanze degli ospiti. Per me è lo stesso.» Grandioso, pensò lei. La camera di John disponeva di apparecchiature ad alta tecnologia, ampio letto e bagno privato completo di Jacuzzi. Le sfuggiva tuttavia perché dovesse anche dormirci, visto che in ogni caso sarebbe venuta lì a lavorare tutti i giorni. John le rispose prima ancora che lei ponesse la domanda. «Mi sento più tranquillo se si vede che c'è qualcuno in casa anche di notte. Sai com'è.» Aprì la cassaforte e ne estrasse due pacchetti avvolti in carta marroncina, che infilò nella borsa. «Ma certo.» «Voglio dire, non è che devi stare qui tutto il tempo. Se devi andare a casa e, non so, ritirare la posta e così via, fallo pure.» «Posso portare qui Panther?» «Panther?» John richiuse lo sportello della cassaforte, quindi tirò la cerniera lampo della borsa e se la mise a tracolla. «Il mio gatto.» «Oh, sì, certo. Nessun problema. Se non gli dà fastidio un ambiente nuovo.» «Non saprei. Non è mai uscito da casa mia.» «Be', allora sarà un'avventura, per lui.»
«Grazie.» «Allora, vediamo...» John tornò alla sua scrivania. «Starò via almeno una settimana. Se hai bisogno, mi trovi sul cellulare, ma non chiamarmi a meno che non sia un'emergenza, d'accordo?» «Va bene.» «Finisci il manoscritto, quello è il lavoro più urgente. Segnati tutti i messaggi che arrivano in segreteria. Non occorre che richiami nessuno, lasciamoli nel loro brodo finché non torno. Raccogli la posta dalla buca sulla porta e mettimela sulla scrivania. Ci sono delle piante in salotto e nelle camere... Dagli un po' d'acqua, ogni tanto. Oh, prima mi ha chiamato Manuel della Boxes and Copies. Le copie dattiloscritte che hai finito l'altro giorno sono pronte da ritirare. Se puoi andare tu, mi fai un favore. Ci sono domande?» «Non mi pare.» «Usa pure la TV, lo stereo, tutto quello che vuoi.» Levò un dito in aria e aggiunse, severo: «Ma niente ragazzi.» Hannah sbuffò. «Sì, okay.» «Non è vero. Se vuoi portarti qui un ragazzo, fai pure.» «Non ho nessun ragazzo.» John le si avvicinò e le diede un buffetto sul mento. «No? Be', dovresti.» Hannah provò una stretta allo stomaco. Lui, di buon umore, uscì dallo studio. Hannah non ne era sicura, ma forse quella era stata la prima volta che lui l'aveva toccata, a parte qualche stretta di mano. Si sedette alla scrivania e avviò il computer. Era ora di mettersi al lavoro. Poi sarebbe tornata a casa, avrebbe preso qualcosa e messo Panther nella sua gabbietta da viaggio. Lavorò per un quarto d'ora, poi sentì John annunciare, da sotto: «Hannah? Noi andiamo.» Lei si alzò e andò alla balaustra. John e Sophia erano giù nell'atrio. «Divertitevi» disse loro. «Grazie. Anche tu» rispose lui. Le fecero entrambi un cenno di saluto e uscirono. Hannah sospirò. Era tutta sola nella casa di John Cozzone. La regina del castello. Tornò nello studio e si sedette alla scrivania. Dalle pareti, le facce di John la fissavano dalle fotografie: erano tutte diverse, eppure identiche. Poteva essere il primo che passava per strada e lei non si sarebbe accorta della differenza. Poteva essere addirittura Timothy Edward Lane e lei non
l'avrebbe capito. Dopotutto, avevano la stessa corporatura. Timothy Lane. Hannah rabbrividì quando quel nome le tornò alla mente. Le capitava spesso, specie nei giorni che seguivano uno di quegli incubi. Timothy Lane. L'uomo che cinque anni prima l'aveva aggredita e aveva cercato di violentarla nell'atrio di casa sua. Sempre che fosse stato lui. A volte le venivano i sudori freddi, quando ci pensava troppo. Cercava di dimenticare, di convincersi che la polizia avesse ragione. Il detective le aveva detto che Lane era "con tutta probabilità" il suo aggressore. Anche se le era stato impossibile riconoscerlo al confronto, in tribunale Hannah aveva puntato il dito contro di lui. Aveva creduto al detective e aveva accusato l'uomo che era stato arrestato. «È lui» aveva dichiarato, indicando Lane, seduto con la bocca spalancata, minaccioso. Lui l'avrebbe uccisa, se solo ne avesse avuto l'occasione. Be', ormai Lane era sotto chiave. E lei poteva stare tranquilla. Ma allora perché si sentiva sempre in colpa, quando ci ripensava? Dopo un istante, tuffò la mano nella borsetta e ripescò il biglietto da visita che le era stato dato cinque anni prima. SAM BLAINE DETECTIVE DI PRIMO GRADO 37° DISTRETTO Compose il numero riportato sul biglietto e attese. La voce burbera del poliziotto, che lei ricordava benissimo, le rispose da una segreteria telefonica: "Ufficio del detective Sam Blaine, 37° Distretto. Al momento non posso rispondere, ma lasciate un messaggio dopo il segnale acustico e sarete richiamati appena possibile. In caso di emergenza, fate il numero..." Hannah attese il beep e disse, esitante: «Uhm, detective Blaine? Sono Hannah McCleary. È un po' che non mi sente. Volevo sapere... ecco, se ci sono stati altri arresti per casi simili al mio. Era... be', semplice curiosità. Non importa, non c'è bisogno che mi richiami. Mi farò viva io. Arrivederla.» L'esperienza con la polizia era stata piuttosto spiacevole. Se da una parte agenti e detective si erano mostrati molto comprensivi con lei, dall'altra erano stati piuttosto bruschi e severi. Una volta dimessa dall'ospedale, Hannah aveva passato parecchio tempo alla stazione di polizia. Quel posto la terrorizzava. Non ci si era mai sentita a suo agio e gli uomini in divisa la
spaventavano quanto un potenziale stupratore. Considerato tutto quello che aveva letto sulla corruzione e sulla brutalità dei poliziotti, Hannah non si fidava di loro. Si rendeva conto che era una reazione irrazionale, ma dopotutto lei era una persona irrazionale. Sapeva perfettamente di avere un sacco di problemi. Avrebbe voluto mettersi al lavoro, ma la curiosità di esplorare la casa era troppo forte. Sentiva il bisogno di alzarsi e fare un giro, di placare il proprio nervosismo. Per qualche ragione, il suo cuore aveva accelerato quando John le aveva sfiorato il mento. La scarica di adrenalina aveva risvegliato le sensazioni sgradevoli provate la notte in cui era stata aggredita. E la paura, unita al senso di colpa che si ridestava ogni volta che ripensava a Timothy Lane, la disturbava profondamente. Scese le scale fino al secondo piano ed entrò nella camera da letto di John. Il trionfo del caos. C'erano vestiti sparpagliati sul pavimento e sui mobili, boxer, calzini, pantaloni, short. E anche indumenti femminili: un reggiseno e un paio di mutandine sul pavimento, un abito da sera rosso sulla spalliera di una sedia. Di Sophia, presumibilmente. Hannah provò l'inesplicabile desiderio di frugare nell'armadio e nei cassetti di John. Era lì che la gente nascondeva ciò che aveva di privato. Biancheria, naturalmente, ma anche lettere d'amore, droga e altri segreti oscuri. Si emozionò ad aprire uno dopo l'altro i cassetti e le ante. Dapprima non trovò altro che mutande e calzini, ma dal cassetto più in basso spuntò un bauletto nero che catturò immediatamente la sua attenzione. Lo tirò fuori e lo esaminò: era rivestito di cuoio ed era chiuso da un chiavistello d'oro. Si sarebbe detto un cofanetto di gioielli. Più curiosa che mai, Hannah l'aprì come se fosse il forziere di un tesoro. Dentro c'era una piccola pistola, con due scatole di munizioni. Che cosa se ne faceva suo cugino di una pistola? A che cosa gli serviva? Hannah avrebbe voluto prenderla in mano, ma rabbrividì all'idea e decise di non toccarla. Non sapeva niente di armi, non le piacevano e non sapeva distinguere un revolver da un'automatica. Senza perdere tempo, richiuse la cassettina e la rimise dove l'aveva trovata. Si alzò in piedi e si guardò intorno. Il grande letto era sfatto. Hannah vi si avvicinò. La stanza era pervasa dall'odore di sesso e da quello di John. Lei tese la mano fino a toccare le lenzuola. C'era una macchia umida, fredda al tatto. Sotto le lenzuola c'era un paio di slip del cugino. Hannah li tirò fuori e, titubante, li annusò. Inspiegabilmente, gli occhi le si riempirono di lacrime. Si sedette sul let-
to e vi si lasciò cadere all'indietro. C'era uno specchio sul soffitto. Poteva distinguere la propria figura distesa, ma il suo viso restava un enigma, una lavagna bianca. Il volto di una bambola priva di lineamenti. Hannah tirò su le lenzuola e vi si avvolse. Inspirò l'odore di John dal cuscino e le lacrime cominciarono a scorrere in libertà. 6 Con una certa riluttanza, Bill Cutler aveva accettato di vedere Patrick a pranzo. Era un rituale dalla cadenza mensile, benché solitamente spiacevole per entrambi. Il fratello maggiore veniva in città da New Rochelle, dove possedeva una grande casa. L'appuntamento era al ristorante preferito di Patrick, un locale italiano sulla West 47th Street, poco lontano dall'ufficio della MedScript. Il fratello non aveva mai chiesto a Bill se avrebbe preferito andare da qualche altra parte. Bill era in ritardo, come sua consuetudine. Quando fece il suo ingresso, vide che Patrick era già al tavolo, in compagnia dell'abituale Bloody Mary: tamburellava con le dita e guardava l'orologio. «Scusa, dovevo finire una trascrizione» si giustificò Bill, sedendoglisi di fronte. Patrick sospirò e scosse la testa. «Non so neanche perché perdo ancora tempo con te» si lamentò. «Preferisci pranzare da solo?» chiese Bill, a voce leggermente troppo alta. Ci furono occhiate dagli altri tavoli. «Posso tranquillamente andare a prendere un trancio di pizza in fondo alla strada e lasciarti in pace.» «Abbassa la voce, Cristo. Non possiamo pranzare tranquillamente insieme, per una volta?» «Ehi, sei tu che hai cominciato.» «Lascia perdere. Che cosa prendi?» «Ti spiace se guardo il menù?» «Prego.» Il cameriere si avvicinò al tavolo e Bill ordinò da bere. A differenza del fratello, gli piaceva cambiare. In quell'occasione ordinò un gin and tonic. «Credevo che non ti piacesse il gin» osservò Patrick. «Che cosa ne sai tu di quello che mi piace?» «Va bene. Basta. Stammi a sentire. Voglio parlarti di una cosa.» «Quale?» «Sai che sto cercando casa a Manhattan. Una villetta. Credo di averne
trovata una niente male nell'Upper West Side. Ti va di darci un'occhiata con me?» «E perché?» Patrick si strinse nelle spalle. «Volevo avere un secondo parere.» «Vuoi il mio parere? Da quando ti interessa che cosa penso?» «Accidenti, Bill, sto tentando di essere amichevole. E poi, se compro una casa, rimane in famiglia.» «Quale famiglia?» «Tu e io. Non abbiamo nessun altro, no?» Il cameriere portò il gin and tonic di Bill, che prese il bicchiere e ne bevve una lunga sorsata. «Hai ragione, Patrick. Ti sono affezionato.» Il cameriere percepì la tensione. «Volete che ripassi tra qualche minuto?» «No, sono pronto» disse Patrick. E chiese le lasagne, come al solito. Bill sospirò e ordinò spaghetti alla bolognese. I due fratelli rimasero in silenzio per qualche minuto, il tempo di raffreddare i bollori. Poi Bill domandò: «Che ne dici della mia proposta di espandere i servizi della MedScript?» Patrick aggrottò la fronte. «L'ho letta. Non saprei, Bill. La MedScript è una compagnia specializzata. Ci occupiamo di trascrizioni mediche. Cominciare un'attività di assistenza a domicilio è tutta un'altra faccenda. Bisognerebbe assumere nuovo personale e la selezione sarebbe problematica. Le brave infermiere non crescono sugli alberi. E il personale medico è sempre nel mirino degli avvocati. Come tutte le tue idee, è potenzialmente disastrosa.» Bill annuì. «Già. Le mie idee non ti piacciono mai.» «Solo perché di solito non sono realistiche. Non ci rifletti a fondo. Te ne vieni fuori con le tue trovate, senza renderti conto di tutte le implicazioni. Non sei lungimirante, non le esamini sotto tutti i punti di vista. Gli affari sono come gli scacchi. Devi anticipare tutte le mosse e contromosse.» Su questo Bill non poteva discutere. Era lo stesso discorso che suo fratello gli aveva fatto mille volte. La vita è una scacchiera. Bill gli avrebbe ficcato volentieri un pedone su per il culo. «Senti» gli disse «lo so che ho preso delle cantonate. Non sono come te, il ragazzo d'oro che vince sempre. Ma mi sto dando da fare alla MedScript, non ti pare? Sono o non sono un bravo direttore?» «Non ho detto il contrario.»
«E allora dammi ascolto, ogni tanto. L'idea dell'espansione era solo... un'idea. Fa schifo? Okay. Perché non mi incoraggi a pensare a qualcos'altro, invece di darmi sempre del fallito?» «Va bene, scusami. Hai ragione.» Bill prese una fetta di pane e la imburrò in silenzio. Dopo un minuto, Patrick gli chiese: «Come va la terapia?» «Quale terapia?» «Andiamo, Bill.» «Ho smesso di andarci.» «Cosa?» «Ho smesso di andarci. Non mi serviva a niente.» «Ma che ti salta in mente?» Patrick si stava agitando. «Tu devi seguire la terapia. Fa parte degli accordi con...» «Lo so, Patrick, lo so.» Bill cercò di controllarsi. «Ma a quello della libertà sulla parola non gliene frega un cazzo. Gliel'ho detto che mi faceva più male che bene. Mi fa pensare di più a... a quelle cose di quando non ci vado. Sul serio, Patrick, è meglio così. Fidati.» «Hmm. Mi sembrano tanto le ultime parole famose.» Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Bill gettò il tovagliolo sul tavolo, si alzò e uscì dal ristorante. A Bill non andava di trascrivere i nastri che gli erano stati lasciati. Debbie e Kathy si erano tenute alla larga dal raccoglitore della dottoressa Lazar, che ora era l'ultimo rimasto nel cestino. Bill considerò la possibilità di inventarsi una scusa e andarsene. Qualsiasi cosa, pur di evitare quel lavoro. Ma purtroppo aveva appena saputo che nel pomeriggio dagli studi dei pediatri del primo piano sarebbe arrivata una montagna di materiale. Si sarebbero trovati sommersi di impegni. Quindi gli toccava sbrigarsi, prima del crollo della diga. Imprecò tra sé e prese i due nastri. Ne avrebbe avuto per due ore e mezza. E va bene, si disse. Se la sarebbe sbrigata, poi si sarebbe preso una lunga pausa per il caffè. Se quel ficcanaso di suo fratello non chiamava per qualche idiozia, poteva anche passarla liscia. La voce della dottoressa Lazar gli ronzò nelle orecchie per più di un'ora, prima che si prendesse un intervallo per andare a pisciare. Quella donna proprio non sapeva come parlare a un registratore. Esitava, parlava a voce bassa, si ripeteva, si interrompeva a metà di una frase. E poi, quel maledetto accento. Di solito Bill non aveva problemi a capire i mitteleuropei, ma
la dottoressa Lazar sembrava una parodia dei nazisti dei vecchi film: "Und noi difenta padroni di mondo!". Mentre andava in bagno, all'ingresso, Bill guardò le due dattilografe. Avrebbe giurato che si fossero strizzate l'occhio. Doveva essere un complotto: facciamo in modo che i nastri della Lazar tocchino a Bill. Era consuetudine alla MedScript che si potesse prendere qualsiasi raccoglitore dal cestino, per cui le due ragazze si assicuravano per prime i dottori più facili. Bill stava considerando di etichettare gli schedari con l'ora di arrivo e imporre un rigoroso ordine cronologico, per evitare che quelli più pallosi restassero all'ultimo che arrivava. Trascorse in bagno più tempo del necessario. Non aveva fretta di tornare alla scrivania. Aveva mal di testa, per cui aprì un cassetto, tirò fuori il flacone di Ibuprofen e ne trangugiò uno con il caffè tiepido, prima di riprendere il lavoro. Fino a quel momento, nessuno dei pazienti aveva risvegliato il suo interesse. Nessuna giovane ninfomane bisognosa di aiuto psichiatrico. Nessuna madre single bisognosa di affetto. Solo gente depressa e lamentosa. Quasi alla fine del secondo nastro, Bill dovette imporsi maggiore attenzione per decifrare l'incomprensibile dettatura della dottoressa e trascriverla in modo corretto e sensato. "Il nome della paziente è Hannah McCleary. Trentaquattro anni. Caso estremamente interessante. È venuta da me un anno fa, inviata dal dottor Bromfield." Bill sapeva che il dottor Bromfield era un noto neurologo. La MedScript si occupava anche delle sue trascrizioni. "La signorina McCleary soffre di una rara condizione neurologica chiamata 'prosopagnosia'." Questa era nuova. Bill si accigliò, fermò il nastro e si tolse gli auricolari. Prese il dizionario medico e cercò la parola per scriverla correttamente. Non c'era. Andò allo scaffale di consultazione a disposizione di tutto il personale della MedScript. Dall'assortimento di libri prese il volume intitolato Disordini del cervello e cercò il termine. Lo trovò. "Prosopagnosia." Lesse con attenzione tutta la voce, scoprendo che il termine definiva una condizione decisamente insolita. A quanto pareva, c'era una piccola porzione del cervello, in prossimità della regione occipitale, che si occupava esclusivamente dell'identificazione facciale. Normalmente un individuo immagazzina il ricordo delle persone che ha
davanti, le facce, e accede a quei ricordi ogni volta che incontra un essere umano. Di solito non è difficile riconoscere parenti o amici, o anche persone note semplicemente di vista: si può non sapere il nome del portiere di un palazzo, ma il viso è ugualmente familiare. Ma chi soffre di prosopagnosia è incapace di identificare le persone, anche quelle che conosce benissimo, persino i parenti più stretti. Il volume citava il caso di un padre che non era in grado di distinguere il proprio figlio da un compagno di scuola di questi, finché il ragazzo non gli parlava. O quello di una donna che incontrava un collega di lavoro ai grandi magazzini: ritrovandolo in un ambiente a cui normalmente non era associato, non aveva modo di riconoscerlo, nonostante lavorasse fianco a fianco con lui da anni. Straordinario, pensò Bill. Come si poteva convivere con quell'handicap? Sembrava irreale. Continuò a leggere. Per compensare la deficienza visiva, chi soffriva di prosopagnosia dalla nascita sviluppava solitamente metodi di identificazione alternativi, basandosi su odori, voce, colore dei capelli, corporatura e altri piccoli indizi. La condizione diventava più problematica in pazienti che la sviluppavano da adulti. La prosopagnosia poteva essere provocata da un trauma cranico che agiva sulla porzione di cervello adibita all'identificazione facciale. In questi rari casi, era molto difficile per il paziente adeguarsi alla disabilità. Frequentemente, chi soffriva di prosopagnosia acquisita tendeva a evitare le occasioni sociali, la folla e, in generale, qualsiasi circostanza che potesse richiedere il riconoscimento delle persone. Bill chiuse il libro e lo ripose sullo scaffale. Tornò alla scrivania e si rimise al lavoro. "Gli appunti del dottor Bromfield sono allegati alla cartella. Cinque anni fa, la paziente è stata vittima di un tentativo di stupro. Ha subito un trauma cranico, ma per il resto non ha riportato alcun danno fisico. Ripresasi dalla concussione, ha sviluppato i sintomi della prosopagnosia. La paziente ha avuto difficoltà a gestire la situazione e il dottor Bromfield le ha consigliato la psicoterapia. A quanto pare, la signorina McCleary non si è trovata bene con il dottor Miller, a cui l'avevo deferita, motivo per cui la passo al dottor Madison. La signorina McCleary soffre di depressione e di ansia e, come risultato, si è ritirata da qualsiasi interazione sociale le fosse possibile evitare. Giudico la paziente estremamente timida e introversa. Sta già assumendo centocinquanta milligrammi al giorno di Zoloft. Durante la mia valutazione, ho riscontrato inoltre che soffre di manifestazioni emotive conseguenti al fatto traumatico, con possibile mania di persecuzione. Ha
affermato più volte di essere convinta che il suo aggressore sia ancora a piede libero, nonostante questi sia stato arrestato e incarcerato. Mi preoccupa una sua affermazione: se dovesse" trovarsi faccia a faccia con l'uomo che l'ha assalita, farebbe di tutto per ucciderlo. Il paziente successivo è..." Bill fermò il registratore e rimase seduto a riflettere su quanto aveva appena sentito. Era tutto vero? Com'era possibile non riconoscere i volti della gente? Voleva dire che la paziente, quella Hannah McCleary, non era capace di identificare una persona, anche se la incontrava due volte nell'arco di un'ora? Bill prese l'agendina nera e l'aprì alla pagina della Lista di Caccia. Annotò il nome HANNAH MCCLEARY insieme all'indirizzo e al numero di telefono, in bella vista sulla cartella. Si appuntò anche alcune delle osservazioni della dottoressa Lazar, poi richiuse l'agendina. Si appoggiò allo schienale della sedia, unendo le mani dietro la testa, e meditò sulla sua prossima, grandiosa interpretazione. 7 «Sicura che ci possiamo fidare?» chiese Cozzone, parcheggiando la BMW sull'Avenue A. «Sì. Lavorano per la famiglia Pontecorva» rispose Sophia. «Riforniscono di roba i Castellano. È un accordo tra le due famiglie. Spirito di cooperazione, capisci?» «Penso di sì.» Avevano disceso la Second Avenue, tagliando poi verso il Lower East Side. Appena John spense il motore, Sophia estrasse dalla borsetta una Colt calibro 45 e la esaminò con aria professionale. «Ma Sophia, che diavolo...!» sussurrò Cozzone. «Solo per sicurezza, dai. So come si usa.» Lui abbozzò un sorriso, tutt'altro che convinto. «Con che ragazzaccia mi sono messo?» «La peggiore» assicurò lei, protendendosi a dargli un bacio sulla guancia. Ficcò la pistola nella borsetta «Probabilmente ti perquisiranno. Ma sono certa che non ci saranno problemi. Oh, e non gli dire il tuo vero nome. Sanno solo che oggi per le consegne non viene il solito corriere.» Aprì la portiera. «Ehi, aspetta!» disse Cozzone, prendendola per un braccio. «Senti. Mi
sembra tutto così strano. Non sono abituato a lavorare così.» «Qual è il problema? Volevi fare un grosso affare, no? È così che hai detto.» «Lo so, lo so. Ma preferirei avere a che fare con persone che conosco e di cui mi fido.» «Le persone che conosci e di cui ti fidi sono pesci piccoli. Con loro non vai oltre le bustine da quattro soldi. Se vuoi lavorare in grande, devi trattare con i grandi. E i grandi giocano con le pistole, perciò devi correre qualche rischio. Pensa di essere ad Atlantic City: è come una scommessa.» «Non sono messo così male» volle sottolineare lui. «Con quello che vendo, ci pago la casa da anni.» «Ehi, sei tu che ti sei lamentato. Che succede, stai facendo marcia indietro?» Sophia cominciava a riscaldarsi. «No, no.» «Allora che ti prende?» Lui alzò le spalle. «Solo un po' di nervosismo, tutto qui.» «Be', fattelo passare. Hai detto a Ramòn di aspettare la roba a Chicago. I clienti sono già in fila. Non è che mi fidi di uno che si chiama Ramòn, ma se ti tiri indietro proprio adesso, ti inculi la reputazione alla grande. Nessuno farà mai più affari con te.» Cozzone guardò i pacchetti di carta marrone dentro la borsa. «Sophia, ce ne sono trentamila, qui dentro.» «Seh. E allora?» «Per me sono un sacco di soldi. E se cercano di fotterci?» «Se cercano di fotterci, ci penso io, John! Allora, andiamo o no? Vuoi costringermi a fare una telefonata molto imbarazzante?» John sospirò e scosse il capo. «Andiamo.» Scesero dall'auto e si incamminarono sulla 2nd Street, in direzione est. Quando raggiunsero la vecchia casa di arenaria, Sophia lo guardò. «Ci siamo.» Entrarono nell'atrio e si fermarono al citofono. Lei premette un pulsante. «Seh?» fece una voce maschile dal tono burbero. «Charlie?» «Chi è?» D'un tratto Sophia si rese conto di non essersi preparata una falsa identità. Scelse il primo nome che le venne in mente. «Sono Hannah. Ci manda Sputo.» Ci fu una beve pausa, durante la quale Cozzone la guardò perplesso. Con
le labbra ripeté silenziosamente: «Hannah?» Lei scosse la testa, facendogli capire che doveva tenere la bocca chiusa. «Primo piano» disse la voce. La porta si aprì con un ronzio. L'edificio puzzava di vecchio, con un chiaro sentore di piscio di gatto. Salirono i gradini di legno, i cui scricchiolii riecheggiarono nella stretta tromba delle scale. Nessuno sarebbe riuscito a cogliere di sorpresa quelli di sopra. Un uomo gigantesco li aspettava sul pianerottolo, a braccia conserte. «Charlie?» chiese Sophia. «No, Anthony. Charlie è dentro.» L'uomo girò la testa verso una porta con il numero 12. L'aprì e li fece entrare. L'appartamento era un bilocale arredato in modo spartano. Sembrava disabitato. Cozzone suppose che servisse solo per transazioni illecite. Anthony richiuse la porta a chiave. «Come hai detto che ti chiami?» chiese alla donna. «Hannah.» L'energumeno squadrò Cozzone. «Oh, io sono Vincent.» «Ciao, Vincent. Devo dare un'occhiata alla borsa.» «Fai pure.» Cozzone gli passò la borsa che portava a tracolla. Anthony aprì la cerniera lampo e frugò all'interno, senza aprire i pacchetti. Poi appoggiò la borsa sul pavimento e disse: «Ti devo perquisire.» «Va bene» acconsentì Cozzone. E allargò le braccia, mentre Anthony lo tastava. Soddisfatto, l'energumeno indicò un tavolo rotondo intorno al quale erano disposte quattro sedie di giunco. «Accomodatevi. Charlie arriva subito.» «E a me non mi perquisisci, baby?» chiese Sophia, con un tono provocante che suonò nuovo a Cozzone. La donna allargò le braccia, mostrando il suo fantastico corpo da modella. Anthony fece un sorrisetto. «Tranquilla, bambola. Mettiti seduta.» E scomparve in camera da letto. Cozzone la guardò come se fosse impazzita. «Cosa cerchi di fare?» mormorò. «Zitto. Ho pensato che se mi offrivo volontaria non mi avrebbe perquisito.» Cozzone prese una sedia. «Sembrava che volessi farti scopare.»
«Chiudi il becco e lascia parlare me» ordinò lei, sedendoglisi accanto. Anthony tornò di lì a poco, seguito da un uomo alto e magro, con baffi e capelli grigi, e una vecchia cicatrice che andava da un angolo della bocca fino a dietro l'orecchio. Doveva essere sulla cinquantina, mentre l'energumeno dimostrava trent'anni. Cozzone fece per alzarsi e tendere la mano, ma l'uomo disse: «Restate seduti. Sono Charlie Patrone.» «Vincent Pileggi» mentì Cozzone. «E lei è...» «Hannah Vaccarino» completò Sophia. «Come va, Charlie? È tanto che non ci si vede, baby.» «Ci conosciamo?» chiese l'uomo, immune al suo fascino. «Forse non ti ricordi, baby. Ci siamo visti un paio di anni fa al matrimonio di Christopher Rizzo, nella casa al mare.» «Non mi ricordo di te» disse Charlie. «Oh, ma io mi ricordo di te» fece lei, suadente. Charlie si sedette al tavolo, mentre Anthony restava in piedi al suo fianco, pronto a intervenire se i due ospiti avessero fatto una mossa falsa. «Hai detto che è Sputo che ti manda» disse Patrone. «Esatto» rispose Sophia. «Non sapevamo che avrebbe mandato una signora.» «Ehi, baby, finché arrivano i soldi, che cosa ti importa?» La donna sorrise ai due uomini. Ma Patrone non batté ciglio. «Stammi a sentire, baby» disse, soppesando con cura le parole «stiamo parlando di molti soldi e di una grossa consegna. Dopo ci possiamo anche divertire, se vuoi, ma prima comportiamoci da professionisti.» Il sorriso svanì dalla bocca di Sophia. «Sicuro, Charlie. Come vuoi tu.» «Ce li hai i soldi, baby?» «Seh» fece lei. Guardò Cozzone, che tirò fuori i pacchetti dalla borsa e li spinse sul tavolo, davanti a Patrone. L'uomo lacerò la carta con un coltello a serramanico apparso dal nulla. Le mazzette di banconote verdi erano nuove di zecca. «Trentamila, come d'accordo» disse Sophia. Patrone fissò il denaro, poi fece un cenno all'energumeno, che uscì dalla stanza. «Dove pensate di distribuire il prodotto?» Cozzone cominciò a dire: «Chic...» «Fuori dallo Stato» lo interruppe Sophia. «Non ti devi preoccupare. Non
vogliamo fare casino in nessuno dei vostri territori.» Patrone si limitò ad annuire. Anthony ricomparve con una borsa da palestra, che mise sul tavolo insieme a uno specchietto. Aprì la borsa, ci infilò una mano e ne estrasse un frigo portatile che si rivelò pieno di polvere bianca. Con un cucchiaino da coca, l'energumeno ne dispose una striscia sullo specchietto, che spinse davanti a Sophia. Lei prese la corta cannuccia che Anthony le offriva e saggiò il campione. Annusò a fondo, scosse la testa e commentò: «Whoa, baby.» Si leccò il dito, raccolse i granelli rimasti sullo specchietto e se li mise sulla lingua. «Wow, già la sento» disse. Guardò Cozzone «Niente male, baby.» «Allora, affare fatto» chiese Patrone «baby?» «Sì. Ehi, posso andare un momento in bagno? Mi scappa la pipì.» I due uomini si scambiarono un'occhiata. Patrone alzò le spalle. Anthony indicò la camera da letto. «È lì dietro.» Sophia prese la sua borsetta e uscì dalla stanza. Patrone si mise ad ammonticchiare le mazzette, mentre Anthony chiudeva il frigo e lo rimetteva nella borsa da palestra. «Sono quattro chili in tutto» disse il guardaspalle. Il cuore martellava nel petto di Cozzone. Con tutta quella cocaina, una volta tagliata e divisa, erano virtualmente in possesso di mezzo milione di dollari netti, forse di più. Non ne aveva mai gestita così tanta. «Da quanto conosci Sputo?» gli chiese Patrone. «Non sono io che lo conosco» rispose lo scrittore. «E lei.» «Com'è che è lei che comanda? Dove hai le palle, amico?» Per tutta risposta, Cozzone sorrise. «Me le ha spremute Hannah, da un bel po'. È tutta dinamite, credetemi.» Patrone aggrottò la fronte. «Se lo dici tu.» Si alzò in piedi. «Ora, scusami, per favore. Devo...» La detonazione improvvisa fece sussultare Cozzone sulla sedia. Nello stesso istante, il petto di Patrone sembrò esplodere verso l'esterno. Sangue e tessuti schizzarono sul tavolo e su una delle sedie vuote. Anthony fece una giravolta fulminea, estraendo una Heckler & Koch 9mm dalla fondina dietro la schiena, ma una seconda esplosione assordante lo fermò. L'energumeno lasciò cadere la pistola e stramazzò all'indietro. Sophia era sulla porta della camera da letto. Teneva la Colt in pugno e gli occhi fissi su Anthony, steso a terra. Lo vide allungare la mano verso la Heckler & Koch e premette di nuovo il grilletto. Una porzione del corpo dell'uomo si dissolse nell'aria. Non si mosse più.
Nemmeno Cozzone. Lo scrittore guardò Sophia, pensando che le avesse dato di volta il cervello. «Ma che cazzo...?» riuscì a mormorare. «Avanti, John, prendi i soldi e alziamo il culo.» «Che cos'hai fatto?» chiese lui, a voce più alta. «Che vuoi dire cos'ho fatto"? Ho risparmiato trentamila dollari, ecco cos'ho fatto. E adesso sbrighiamoci!» Rimise via la Colt, raccolse i soldi e li gettò nella borsa di John. «Ti vuoi muovere?» «Sophia, lo sai chi hai appena ammazzato?» chiese lui, incapace di alzarsi. «Sì, lo so. È per questo che dobbiamo scappare. Dobbiamo andarcene da New York, di corsa.» Lo guardò, aspettando che si alzasse in piedi. «Subito, John!» Tremante, lo scrittore si alzò e prese le borse. Corsero fuori dall'appartamento e giù per le scale, rallentando il passo solo quando furono in strada. Senza scambiare una parola, salirono sulla BMW. Nella stanza, Anthony aprì e chiuse gli occhi. «Potevi anche dirmelo che cosa volevi fare» protestò Cozzone, avviando il motore. «Te la saresti fatta sotto. Muoviamoci.» L'auto si staccò dal marciapiede, fece il giro dell'isolato e si diresse a nord. Sophia scoppiò in una risata. «Che c'è da ridere?» chiese lui. «Baby, siamo ricchi! Cazzo, siamo ricchi!» «Cazzo, siamo morti appena Pontecorva lo viene a sapere.» «Non scoprirà mai chi è stato» volle tranquillizzarlo Sophia. «E prima che si mettano a cercarci, saremo a metà strada tra qui e Chicago.» Cozzone svoltò, in direzione ovest, verso il tunnel. Aveva un brutto presentimento. 8 Per metà pomeriggio, Hannah aveva completato cinque capitoli del manoscritto di Cozzone. Quello che aveva letto non l'aveva impressionata particolarmente, ma dopotutto, come gli aveva detto, lei non era un critico letterario. Di sicuro, quello non era un libro da mass-market: era un ro-
manzo storico, imperniato su un intrigo ai tempi delle guerre napoleoniche. Non era certo il suo genere. Hannah guardò l'orologio e decise che era il momento di andare al suo monolocale e organizzarsi, per poi tornare a casa di John. Doveva ritirare la biancheria da Wong, passare dalla banca, fare la spesa e preparare una borsa. Chiuse con cura la porta di casa con la chiave che John le aveva affidato e si incamminò verso nord. Fece tappa alla Boxes and Copies, sulla Second Avenue. Manuel, il ragazzo ispanico che gestiva il negozio, alzò la testa dal computer e le disse, amichevole: «Salve, signorina McCleary.» «Ciao, Manuel.» Hannah si domandava se uscisse mai dal negozio, che fungeva da ufficio postale e copisteria. Cozzone era un cliente fisso e lei ci passava spesso, per spedire o ritirare pacchetti. «È venuta a ritirare le copie?» «Non ricordo più quante sono.» Manuel non ebbe bisogno di guardare. «Quattro risme.» «Oh. Sto andando a casa e non ho voglia di portarle avanti e indietro. Ti spiace se ripasso quando torno, stasera?» «Quando vuole, signorina Hannah. Come sta il signor John?» «Bene. Grazie, Manuel.» Hannah uscì dal negozio, si fermò allo sportello automatico fuori dalla sua banca e ritirò cento dollari, più che sufficienti per i prossimi giorni. Poi entrò da D'Agostino e comprò latte e cibo per gatti. Sapeva esattamente dove trovarli e in due minuti aveva tutto nel cestino. La coda alla cassa, lo sapeva, sarebbe stata più lunga. Il suo turno arrivò dopo dieci minuti. Il cassiere l'accolse in tono allegro: «Buonasera. Come va oggi?» Il tono implicava che lui là conoscesse. «Il suo gatto ha già mangiato tutto quello che ha comprato l'altro giorno?» Hannah era una cliente abituale e aveva fatto amicizia con alcuni cassieri e cassiere, ma le era impossibile riconoscere di chi si trattasse. Cercò di far finta di nulla e rispose: «Sto bene, grazie.» Poi notò il cartellino sulla giacca del cassiere: SALVE, MI CHIAMO JAMES! POSSO ESSERVI UTILE? «Lieta di rivederti, James. Sì, il mio Panther mangia più. come un cavallo che come un gatto.» «Be', se è una pantera, allora capisco.» Il cassiere le strizzò l'occhio: Hannah se ne accorse, nonostante non riuscisse a discernere i lineamenti. Per farlo, doveva guardarlo di lato.
Prese il sacchetto con entrambe le mani. Casa sua era solo un paio di isolati più in là. Si fermò in lavanderia. Il signor Wong non c'era e lei non riusciva mai a distinguere i suoi due figli l'uno dall'altro. Mostrò la ricevuta e il ragazzo le consegnò la sacca, che Hannah prese per i cordoncini. Se casa sua fosse stata più lontana, le sarebbe stato impossibile trasportare la biancheria e la spesa. Dopo varie manovre con chiavi e sacchetti, entrò nell'edificio e si fermò a guardare la posta. C'era una brochure di Santa Fe, New Mexico, che lei aveva ordinato qualche tempo prima via Internet. Le piaceva fantasticare di viaggi, anche se sapeva che non ci sarebbe mai andata. I suoi passi riecheggiarono sulle scale, mentre saliva. La porta di Liz si aprì e la donna si affacciò. Indossava un paio di jeans strettissimi e una canottiera bianca, naturalmente senza niente sotto e con il seno debordante bene in vista. «Ciao, Hannah. Serve una mano?» «Se puoi...» disse Hannah. Stava quasi per caderle il sacchetto della spesa. Liz uscì di casa e lo afferrò in tempo. «Preso.» Fuori dalla sua porta, Hannah mise a terra la sacca della lavanderia e aprì le serrature. «Che fortuna che ci siamo viste» disse a Liz, riprendendo il sacchetto. «Volevo dirti che devo passare i prossimi giorni da John.» Liz inarcò le sopracciglia. «Oh?» «Gli guardo la casa» spiegò Hannah. «Lui è partito con la sua ragazza.» «Oh, be', niente male! Non è che posso venire a vedere dove vive il famoso scrittore?» Hannah alzò le spalle. «Certo, perché no? Possiamo prepararci una cena e guardare la TV. Ha un impianto spettacolare.» «Promette bene. Venerdì prossimo ho la serata libera. Va bene tra una settimana?» Hannah alzò di nuovo le spalle. «Penso di sì, se John non torna prima. Ma ha detto che prima di una settimana non rientra, quindi non dovrebbero esserci problemi.» «Perfetto. Adesso devo andare al lavoro. Stasera abbiamo la Ladies Night.» Hannah la guardò sorpresa. «Non è sempre la Ladies Night, al vostro bar?» «Sì, ma questa è la serata in cui offriamo da bere a tutti gli uomini che vengono vestiti da donna. Ladies Night, in quel senso.» «Capisco. Allora ci vengono anche gli uomini, da voi.»
«Certo. Anche gli etero, che sperano di portarsi a casa una coppia di lesbiche. Hah! Se lo sognano.» Panther comparve sulla porta e si strusciò sulle gambe di Hannah. «C'è qualcuno che ha fame» disse lei. «Metto via questa roba e gli do da mangiare.» «Hai bisogno che io mi prenda cura di lui mentre sei via?» «No. Lo porto con me. E ogni tanto torno a controllare la posta, eccetera.» «Senti, perché non passi dal bar, qualche sera?» propose Liz. «Ti offro qualcosa da bere.» Hannah guardò il pavimento. «A me, uhm, non piace molto uscire.» «L'ho notato. Dai, non è che entri solo se sei lesbo. Ci vengono anche un sacco di etero.» «Non so...» «Be', pensaci, non ti voglio certo obbligare.» «Okay, grazie.» «Ci vediamo» disse Liz, tornando verso le scale. «Ciao.» Hannah chiuse la porta e sospirò. L'ultima cosa che voleva era andare da qualche parte e incontrare gente. Detestava le occasioni sociali. Quando le presentavano qualcuno, rischiava di non riconoscerlo se se lo ritrovava davanti cinque minuti dopo. La sola idea di andare in un locale pubblico le metteva l'angoscia. E se la tensione cresceva, Hannah rischiava un attacco di panico, il che sarebbe stato anche peggio. Mise il sacchetto della spesa sul buffet in cucina e lasciò cadere a terra la sacca della lavanderia. Quando aprì il frigorifero per riporvi il latte, notò che la spia della segreteria telefonica lampeggiava. Era insolito, per lei: nessuno le lasciava mai messaggi. Premette il pulsante e riconobbe una voce rauca che apparteneva al recente passato. "Signorina McCleary, sono il detective Blaine. Ho sentito il suo messaggio. Voleva sapere se abbiamo arrestato qualche altro potenziale sospetto nel suo caso? In tal caso la risposta è no. Abbiamo trovato il colpevole al primo colpo. Non dovrà mai più preoccuparsi di lui. Se ha altre domande, non esiti a chiamarmi." Per qualche ragione, le parole del detective non la rassicurarono minimamente. C'era qualcosa di artefatto nel suo tono, come se Blaine volesse convincerla a tutti i costi di avere ragione. Hannah prese la telefonata cum grano salis. Era davvero Timothy Edward Lane il colpevole? Il detective
ne sembrava sicuro. Ma lei? La risposta era ovvia. Hannah non sapeva di soffrire di prosopagnosia, all'epoca del processo. Sapeva solo che c'era qualcosa che non andava e che la sua capacità di riconoscere le persone risultava alterata in qualche modo, forse a seguito della concussione. I dottori l'avevano avvisata che qualcosa di simile sarebbe potuto accadere. Solo parecchi mesi dopo la condanna e la reclusione di Lane, Hannah si era fatta visitare da un neurologo e si era sottoposta a una lunga batteria di test, per determinare le ragioni della sua apparente follia. Nessuno le credeva, quando affermava di non essere più in grado di riconoscere chicchessia. Non riusciva a ricordare la faccia di chi le serviva il caffè da Starbucks e aveva difficoltà a seguire i film e la televisione, perché non distingueva più i personaggi gli uni dagli altri. La paranoia e la paura avevano preso il sopravvento, tanto da indurla a diffidare di chiunque. Cominciava a soffrire di mania di persecuzione: le sembrava che ogni sconosciuto senza volto appartenesse a qualche oscura setta segreta decisa a punirla per avere mandato un innocente in prigione. Ma credeva davvero che Lane fosse innocente? Non poteva saperlo. Qualcosa dentro di lei, nel profondo della sua coscienza, le urlava che aveva fatto un errore terribile. Aveva assecondato i poliziotti e identificato Lane come il suo aggressore. Nonostante l'assenza di prove effettive, la giuria aveva messo in conto il fatto che Lane si trovasse in zona e fosse stato arrestato venti minuti più tardi, mentre cercava di rapinare un minimarket. Un altro testimone aveva confermato di avere visto Lane bighellonare sulla First Avenue pressappoco all'ora in cui Hannah stava tornando a casa dal lavoro, quella sera fatale. L'uomo aveva precedenti per aggressione, anche se non era rimasto a lungo in prigione. Prove indiziarie, senz'altro: era stata l'identificazione da parte di Hannah a segnare il destino di Lane. Il suo analista le aveva raccomandato di lasciarsi quell'episodio alle spalle. Di solito i poliziotti non si sbagliavano: se dicevano che era stato Lane, perché dubitarne? Hannah se lo era ripetuto migliaia di volte, ma questo non era servito a scacciare i suoi incubi, né il senso di colpa che le gravava sulla coscienza. A volte avrebbe voluto mettersi a gridare. Ignorò il miagolio del gatto tra le sue gambe e occhieggiò l'armadietto in cui teneva la bottiglia. I dottori le avevano detto che le faceva male, che potevano esserci interazioni negative con i suoi farmaci. Nondimeno, bere
la calmava. Spesso, troppo spesso, era l'unico rimedio efficace. Aprì l'armadietto e tirò fuori la bottiglia di Jack Daniel's. Se ne versò un bicchiere, prese un paio di cubetti di ghiaccio dal dispenser del frigorifero e li lasciò cadere nel liquido ambrato. Vuotò il bicchiere in un sorso e gettò i resti del ghiaccio nel lavandino. «Okay, Panther, adesso tocca a te.» Preparò la cena del gatto, poi svuotò la sacca e mise via la biancheria pulita. Preparò una borsa per sé e la gabbietta da viaggio per Panther, che appena la vide corse a nascondersi dietro il divano: l'apparizione della gabbietta solitamente preludeva a una visita dal veterinario. «Andiamo in vacanza, Panther. Non preoccuparti, niente veterinario.» Ebbe un ripensamento e mise nella borsa anche il Jack Daniel's. Poi accese la televisione e ascoltò le notizie. Non vi prestava mai molta attenzione: l'ascoltava distrattamente mentre faceva altre cose, dal momento che le facce non avevano alcun significato per lei. Al telegiornale stavano parlando di un paio di gangster uccisi in un appartamento nel Lower East Side: la polizia sospettava che si trattasse di un regolamento di conti nel traffico di droga e ricercava un uomo e una donna per interrogarli. Hannah aprì una scatola piatta appoggiata su un tavolino e tirò fuori un mucchio di fotografie 18x20 che aveva acquistato in un negozio di curiosità cinematografiche. Sul retro di ognuna aveva scritto il nome dell'attore o dell'attrice corrispondente. Le dispose sul tavolino e studiò le facce, una a una, cercando di identificarle. Era il suo modo di esercitarsi. «Tu sei Tom Cruise» disse. Voltò la foto: era Charlie Sheen. «Accidenti.» La successiva: «Harrison Ford.» Niente da fare: George Clooney. Quella dopo era una donna. Di solito era più facile: c'erano più dettagli su cui basarsi, per esempio la lunghezza dei capelli, «Meg Ryan.» Voltò la foto. Questa l'aveva indovinata. Anche la foto successiva era di una donna. «Diane Keaton.» Macché: Susan Sarandon. Squillò il telefono. Strano. Non la chiamava mai nessuno. Due telefonate in un giorno erano una specie di record. Sollevò il ricevitore. «Pronto?» «Posso parlare con Hannah McCleary?» Era un uomo, una voce mai sentita prima, con un lieve accento di Boston. «Sono io.»
«Buonasera, signorina McCleary. Sono il dottor Tom Cagle. Lavoro con la dottoressa Lazar.» «Sì?» «Di recente la dottoressa l'ha affidata a un terapeuta, un certo dottor Madison, giusto?» «Sì. Ho appuntamento con lui tra un paio di giorni.» «Ah, bene. La chiamo perché il dottor Madison non sarà disponibile. Sta lasciando la città, si trasferisce a Long Island. La dottoressa Lazar ha chiesto a me di occuparmi di lei, se non le dispiace.» «Certo, va bene.» «Eccellente. Devo avvisarla che ricevo i miei pazienti verso sera. Non è un problema per lei?» «No, va bene.» «Ottimo. Avrei tempo di riceverla giovedì sera, lo stesso giorno del suo appuntamento con il dottor Madison. Le va bene alle sette e trenta?» «Dove si trova?» «Midtown, all'angolo tra la East 55th Street e la Fifth Avenue. È comodo per lei?» «Sì, certo.» L'uomo le diede l'indirizzo e il numero dello studio. «Non occorre che cancelli il suo appuntamento con il dottor Madison. Ci abbiamo pensato noi. Confermerò alla dottoressa Lazar che d'ora in avanti sarò io a seguirla.» «Grazie.» «Quando ha di nuovo appuntamento con la dottoressa Lazar?» «Uhm... tra qualche settimana. Tre o quattro, mi pare. Dovrei guardare in agenda.» «Va bene, mi basta una stima approssimativa. Spero che l'ora non le crei problemi con il lavoro.» «No, ho un orario flessibile.» «Davvero? Buon per lei. Che lavoro fa?» «Sono l'assistente personale di uno scrittore.» «Dev'essere interessante. Qualcuno di famoso?» «Pressappoco. John Cozzone, ne ha sentito parlare?» «Non è quello che ha scritto I pomi del cosmo?» «Proprio lui.» «Perbacco, era proprio un gran libro. L'ho letto parecchio tempo fa. Ha scritto qualcosa di recente?»
«È sempre attivo, ma è un po' che non pubblica niente.» «Be', me ne parlerà quando viene qui. Allora, giovedì prossimo alle sette e trenta. Sono ansioso di vederla.» «D'accordo, grazie. Come ha detto che si chiama?» «Cagle. Tom Cagle.» Con quell'accento, sembrava un Kennedy. «Ho capito. La ringrazio. Arrivederla.» Hannah riagganciò. Dalla voce, il dottore le era parso molto affabile e cordiale. Si domandò che aspetto avesse, anche se la sua faccia non le avrebbe detto niente di più di quella di Tom Cruise. O di quella di Charlie Sheen, se era per questo. 9 Dominic DeLauria scese dal taxi a Glen Cove e premette il pulsante del citofono, accanto al monumentale cancello. «Sì?» «Sono Dominic.» Il cancello si aprì lentamente sulla lunga curva del vialetto che portava alla casa. DeLauria si incamminò tra i cespugli ben curati e le statue di gusto classico che costeggiavano la strada in salita verso la guardiola. Due uomini di Pontecorva erano sempre di guardia, ventiquattrore su ventiquattro. Uno dei due gli fece cenno di proseguire. «Freddie ti sta aspettando. È bello rivederti, Dom.» «Grazie.» Una quarantina di metri più avanti, dietro la curva, DeLauria si trovò davanti al maestoso palazzo in stile Tudor che da mezzo secolo era la residenza dei Pontecorva. Non aveva mai conosciuto Don Pasquale Pontecorva, il padrino che aveva messo in piedi la famiglia dal nulla, al termine di una sanguinosa guerra di mala che risaliva agli anni Quaranta. Quando le vecchie famiglie mafiose si erano evolute nel moderno crimine organizzato, Pontecorva si era trovato in prima linea. Era stato tra i primi a capire che il nuovo mercato era la droga e aveva investito grosse somme per garantirsi un flusso continuo di cocaina, eroina e altre sostanze di dubbia natura da varie fonti in tutto il mondo. Oggi era suo figlio Freddie a tenere le fila. DeLauria aveva grande rispetto per lui. Qualcuno diceva che, come padrino, Freddie fosse ancora migliore del padre. Si era laureato a Harvard in economia o qualcosa del genere, era freddo, calmo e molto intelligente. Nei ventidue anni che DeLauria aveva trascorso al servizio della famiglia Pontecorva, non lo aveva
mai visto perdere la pazienza o prendere una decisione affrettata. Inoltre) Freddie si preoccupava dei suoi uomini, specie quando finivano in galera nell'esercizio delle loro funzioni. Mentre DeLauria era a Rikers, Freddie aveva continuato a retribuirlo. E gli aveva promesso che ci sarebbe stato sempre posto per lui, quando fosse uscito. Per questo, Dominic DeLauria era pronto ad andare in capo al mondo, per Freddie Pontecorva. Uno dei gorilla di Freddie, un tipo che tutti chiamavano Tommy Salami, aspettava DeLauria davanti alla casa. «Ehi, Dominic, ti vedo bene» disse, accogliendolo con un abbraccio da orso. «Grazie, Tommy. Anche tu sei in forma.» «Quando sei uscito?» «Che giorno è oggi? Lunedì? Sono uscito giovedì scorso.» «Ti hanno trattato bene, là dentro? Non è che te l'hanno messo in culo o roba simile, vero?» «No, ma visto che me l'hai chiesto me lo puoi anche baciare.» Tommy rise e gli diede un buffetto sulla guancia. «È bello averti qui. Freddie ti aspetta. Dai, entra.» Entrarono nella casa, ordinata e pulitissima come quando Pasquale Pontecorva l'aveva acquistata e arredata negli anni Cinquanta. Le decorazioni in stile classico ricordavano a DeLauria il Caesar's Palace di Las Vegas. L'atrio era ampio e ben illuminato dal sole che entrava dai vetri antiproiettile. Al centro c'era una fontana, in funzione, decorata dalla statua di una dea romana nuda con una lira in mano. Tommy fece strada lungo un corridoio, fino alla stanza spaziosa che Freddie usava come ufficio e che, in netto contrasto con il resto della casa, sembrava piuttosto lo studio di un avvocato: le librerie alle pareti traboccavano di volumi, soprattutto testi legali, e un lato della stanza era occupato da una grande scrivania in rovere. L'altra metà dello studio era un salotto con divani e poltrone in pelle, su cui il padrino riceveva i suoi uomini. «Accomodati. Freddie arriva subito» disse Tommy. «Cosa vuoi bere?» «Scotch e soda.» «Ti servo subito.» Tommy uscì dallo studio, mentre DeLauria si sedeva su una delle grandi poltrone. Pontecorva non lo fece aspettare più di dieci secondi. «Dom» lo salutò, con un ampio sorriso. DeLauria si alzò e i due uomini si abbracciarono fraternamente. «Sono lieto di rivederti.» «Grazie, Freddie. Anch'io.» Pontecorva era sulla cinquantina, un uomo robusto e muscoloso. Doveva
allenarsi costantemente, pensò DeLauria: non aveva un filo di grasso. I capelli neri e ondulati erano appena ingrigiti e i baffi si erano fatti sale e pepe, ma complessivamente il padrino non era cambiato. «Cos'è, hai un ritratto nell'attico che invecchia al tuo posto? Sei in gran forma» osservò DeLauria. «Nah. Invecchio anch'io, come tutti. Ho qualche problema di salute. Ma mi sento in forma. Oggi, se non altro. E tu come stai? Sembra che la prigione ti abbia fatto bene.» «Si fotta la prigione. Adesso sono uscito.» «Sì, sei uscito. Ah, ecco i nostri drink.» Tommy stava entrando con un vassoio. DeLauria prese il suo whisky e soda. Il bicchiere del Don sembrava contenere succo d'arancia. «Mi tengo lontano dall'alcool» spiegò Pontecorva. «Mi limito strettamente alle spremute.» «Sul serio?» «Ordine del medico. Pressione alta, pensa un po'.» «Ma sembri in salute.» Pontecorva scosse il capo. «Sto bene, finché non bevo.» Indicò il proprio corpo, mentre si sedevano. «Tutta questa... roba ha un prezzo. Devo perdere peso.» «Minchia, Freddie, sei una roccia. Forse dovresti cambiare medico.» Pontecorva fece cenno di lasciar perdere con la mano libera. «Cambiamo argomento. Parliamo di te. Salute.» Alzò il bicchiere in un brindisi. DeLauria lo imitò. Lo scotch non era niente male. «Allora» riprese Pontecorva. «I ragazzi ti hanno sistemato bene, quando sei tornato in città?» «Sì. Mi hanno trovato un posticino a Lower Manhattan, vicino a Ground Zero.» Pontecorva assentì. «Il mercato immobiliare va bene laggiù. Non ci vuole vivere nessuno. Abbiamo fatto buoni affari.» «L'ho apprezzato. E anche il pezzo che mi hanno procurato è buono.» «Una Walther P99. Se non ricordo male, era la tua preferita.» «Uh-huh. Quello che fa al caso mio.» «È la pistola di James Bond, lo sapevi?» «Pensavo che usasse una PPK.» «Ai vecchi tempi. Adesso si è aggiornata.» «Non lo sapevo.» «Già. Come stai a soldi?»
«A posto, Freddie, grazie. Sei stato molto generoso.» Pontecorva fece di nuovo un cenno con la mano. «Ci prendiamo sempre cura dei nostri, Dom, lo sai.» «Lo apprezzo molto. Allora, che cosa posso fare per te? Muoio dalla voglia di mettermi al lavoro. A Rikers mi annoiavo a morte.» «Mi fa piacere che tu me lo chieda, Dom. C'è una faccenda che richiede la tua... competenza.» «Certo. A tua disposizione.» Pontecorva bevve un sorso di spremuta. «Te lo ricordi Charlie Patrone?» «Sicuro.» «L'hanno ammazzato venerdì.» «Mio Dio. Come?» «A quanto pare, doveva consegnare la coca al corriere abituale. Ma al suo posto sono comparsi due sconosciuti. Un uomo e una donna. Da quanto ho capito, era la donna a comandare.» «Com'è che Charlie si è fatto fregare da due sconosciuti?» Pontecorva si strinse nelle spalle. «Aveva avuto garanzie dal solito intermediario. Non ne sono sicuro al cento per cento, ma Charlie si aspettava due facce nuove. Il fatto è che si è fatto ammazzare e Anthony, il suo guardaspalle, è rimasto ferito. Gravemente. È morto domenica mattina. Ma sabato è riuscito a dirci un paio di cose.» «Tipo?» «La ragazza si chiama Hannah, l'uomo Vincent. Lei è un gran bel pezzo di fica, chiama tutti "baby" e spara da professionista. Se ne sono andati con la coca, circa quattro chili. Anthony pensava che volessero piazzarla a Chicago: il tipo se l'è lasciato sfuggire.» «Quello è territorio tuo, o sbaglio?» «No, i Castellano gestiscono il Midwest. Ma la roba è nostra.» «E tu vuoi che li trovi?» chiese DeLauria. «Ci puoi scommettere il culo. Non voglio solo che li trovi. Voglio che se la facciano sotto per un paio di giorni. Voglio che si piscino addosso dalla paura, prima che tu li faccia fuori. E voglio che tu recuperi la coca, o i soldi che hanno ricavato se l'hanno già venduta.» «Sappiamo altro di loro?» «No. Ma ti consiglio di parlare con l'intermediario.» «Te lo stavo per chiedere. Chi è?» «Stavamo collaborando con la famiglia Castellano nella distribuzione. Loro hanno dei contatti che noi non abbiamo nel Midwest e nel Sud. Han-
no accettato di stare fuori dai nostri territori e ci danno il quindici per cento degli incassi, oltre al prezzo della roba. Ti suggerisco di fare due chiacchiere con il nostro contatto.» «Hai un nome?» «Sì.» Pontecorva tirò fuori un biglietto da una tasca e glielo consegnò. DeLauria gli diede un'occhiata, memorizzò il nome e appallottolò il biglietto. Se lo mise in bocca e lo deglutì con un sorso di scotch. 10 Hannah si stava godendo la trasferta dal suo angusto monolocale nell'Upper East. Side. La casa di John Cozzone era lusso allo stato puro, un'esperienza decisamente insolita per lei. Persino Panther era felice: aveva molte stanze da esplorare, nuovi pavimenti da marcare come suo territorio e dozzine di oggetti su cui arrampicarsi e appollaiarsi. La sua padrona aveva temuto che si spaventasse e si nascondesse da qualche parte, ma in realtà il gatto continuava a fare le fusa e a strofinarsi dappertutto. Nel frattempo, Hannah si portava avanti con il lavoro. In un paio di giorni aveva già battuto mezzo manoscritto. Il cugino le aveva lasciato da trascrivere le tracce di altre opere in preparazione, nel caso lei avesse finito in anticipo il materiale del romanzo. Quasi certamente avrebbe avuto tempo di battere anche quelle, prima del ritorno di John. Si domandò che cosa stesse combinando suo cugino. Sophia sembrava... ecco, interessante. Di sicuro era attraente, per quanto a Hannah fosse possibile discernere. Aveva un bel corpo, quantomeno. Il viso era identico a quelli sulle copertine delle riviste, impossibili da distinguere gli uni dagli altri. Martedì Hannah decise di tornare a casa a controllare la posta. Inoltre, doveva prendere un flacone di Ibuprofen dall'armadietto dei medicinali. L'emicrania si stava facendo più frequente e quella della notte precedente era stata una tortura. L'aveva tenuta svéglia per ore. Lei l'aveva attribuito al whisky che aveva bevuto prima di andare a letto. Sapeva che bere le faceva male, eppure continuava a farlo. Se ne rendeva conto: crogiolarsi nella malinconia in una casa di lusso era una forma di compiaciuta perversione. Indossò un paio di blue jeans e una felpa, uscì e percorse a piedi i diciotto isolati fino a casa. Era una splendida giornata estiva, di quelle in cui alla gente piace passeggiare per Manhattan. Peccato che quel tragitto fosse il massimo che Hannah si concedesse di percorrere. Detestava la folla, tro-
vava intollerabile la metropolitana ed era terrorizzata dalle masse di pedoni che circolavano sui marciapiedi di Midtown. La spaventava l'idea di dovere andare giovedì, per l'appuntamento con il nuovo terapeuta, ma si sarebbe imposta di affrontare le proprie paure. Mentre percorreva la First Avenue, il ricordo dell'aggressione affiorò per l'ennesima volta. Rammentava nel dettaglio di essere passata davanti ai negozi e ai ristoranti che, quella sera fatale, erano chiusi. Se solo uno di essi fosse stato aperto, le cose sarebbero andate in modo diverso. Avrebbe potuto trovarvi rifugio dal predatore che la inseguiva. Ehi, baby, dove vai? Non avrebbe mai dimenticato quelle parole. «Hannah?» La donna davanti a lei aveva un'aria familiare. Hannah riconosceva il fisico e il colore dei capelli. Chi era? «Ti sei persa? Sembravi in un altro mondo.» Hannah tirò un sospiro di sollievo. Era Liz. «Oh, ciao, Liz» le disse. «Stavo sognando a occhi aperti.» «Si vede. Dove andavi?» «Vado a casa a guardare la posta, eccetera. Non ci sono tornata dal weekend.» «Lo so. Eh! È un bene che ci siamo viste. Davanti al portone c'era un tipo che chiedeva di te, quando sono uscita. Voleva sapere se era lì che abitavi.» «Ah, sì? E chi è?» «Non so. Non me lo ha detto.» «E per cosa mi cerca?» «Non lo so.» «Che tipo è?» Liz si strinse nelle spalle. «Uno qualunque. Be', carino, per essere un uomo. Tipo attore da soap-opera. Capelli scuri, occhi azzurri, occhiali, bel fisico. E porta il trench, come i detective.» «Che cosa gli hai detto?» «Che non eri in casa.» «Gli hai detto che vivo lì?» «Uh, sì. Gli ho detto che non c'eri.» «Grandioso.» «Scusa. Ehi, allora si fa la cena venerdì a casa di tuo cugino?» «Certo, se non devi andare a lavorare.»
«No, è la mia sera libera. Ce l'hai il mio numero di telefono?» «Sì.» «Chiamami e ci organizziamo.» «Okay. Arrivederci.» «Ciao, Hannah.» L'amica proseguì verso sud, mentre lei riprendeva la strada di casa. Avvistò da lontano un uomo che corrispondeva alla descrizione di Liz, sul marciapiede di fronte all'edificio. Hannah provò un brivido e sentì il cuore accelerare i battiti. Ebbe la certezza che quell'uomo fosse Timothy Lane: aveva la stessa altezza, la stessa corporatura, la stessa figura. Ed emanava le stesse vibrazioni. Ma non poteva essere lui! Lane era in carcere! L'uomo stava prendendo appunti su un taccuino, mentre osservava la casa e le finestre. Indossava un trench grigio e, in effetti, faceva pensare a un poliziotto in borghese. Hannah distingueva i capelli neri e gli occhiali, ma il resto della faccia non aveva senso per lei. L'uomo si voltò verso di lei, vedendola arrivare. «È lei la signorina McCleary?» le chiese. Lei si girò, tenendo la testa bassa. «Sì.» «Mi scusi se sono passato senza preavvisarla. Sono il detective Sean Flannery.» L'uomo le mostrò un portafogli nero con un distintivo argenteo, che lei guardò appena. Annuì. «Sì?» «Sono io che mi occupo del suo caso, attualmente. Be', non in modo ufficiale, dal momento che è chiuso, ma di quando in quando confrontiamo i sospetti con quelli dei casi in corso, per verificare di avere messo dentro le persone giuste.» L'uomo aveva un lieve accento del Sud. «E il detective Blaine?» «Il detective Blaine?» «Era lui a seguire il mio caso, a suo tempo.» «Giusto, il detective Blaine. Non è più lui a seguirlo: lui si occupa solo dei casi aperti» spiegò Flannery. «Che cosa posso fare per lei?» «Be', le sarei grato se potessimo prendere un caffè insieme. Avrei bisogno che mi raccontasse che cosa le è accaduto con parole sue. Voglio dire, posso leggere i verbali del processo e tutto il resto, ma preferisco parlare personalmente con la vittima.» «A quale scopo? Il colpevole è stato arrestato e condannato.»
«Mi rendo conto. Ma, vede, abbiamo tra le mani altri casi che ricordano il suo. Ho le foto segnaletiche degli uomini arrestati nell'ultimo anno e ho pensato che sarebbe utile se lei gli desse un'occhiata. Per vedere la sua reazione.» Hannah scosse il capo, provando un improvviso attacco d'ansia. «No, non posso farlo.» Non voleva confessare che le facce non avevano alcun significato per lei. «Ci vorrà solo qualche minuto...» «No, mi spiace, non posso.» Hannah si voltò verso il portone. «Aspetti, signorina McCleary, per favore.» L'uomo le si avvicinò. Lei avvertì un odore forte, ma non sgradevole. Acqua di colonia. «Detective...» cominciò. «Flannery.» «Detective Flannery, io non ne posso più di guardare foto segnaletiche. Tutto questo appartiene al mio passato, capisce? Me lo sono lasciato alle spalle. O almeno ci sto provando, da cinque anni a questa parte. Quello che mi è successo mi perseguita ancora e non voglio più ritrovarmici in mezzo. La prego, mi lasci stare.» «Capisco quello che prova, Hannah» disse Flannery, in tono comprensivo. La sorprendeva che l'avesse chiamata con il suo nome di battesimo. «Vorrei ugualmente offrirle quel caffè. Non dobbiamo... non dobbiamo necessariamente parlare del suo caso.» Lei lo guardò. «Non la seguo.» L'uomo strascicò i piedi e rivolse lo sguardo verso la strada. Rise timidamente. «Ecco, per dirle la verità io, uhm, non volevo parlarle davvero del suo caso. Io volevo... semplicemente conoscerla.» «Conoscermi?» «Vede, il detective Blaine aveva una sua fotografia, che era stata usata al processo. L'ho vista e... ecco, ho voluto incontrarla.» Hannah non si domandò perché il detective Blaine avesse lasciato in giro una sua fotografia che chiunque al distretto di polizia poteva vedere. Si chiedeva piuttosto perché quest'uomo avesse voluto conoscerla solo per avere visto una sua foto. «È uno scherzo?» fu tutto quello che riuscì a dirgli. «No, non lo è. È un modo un po' contorto per conoscere una donna, lo ammetto. Ma, Hannah, se posso dirlo, la sua fotografia mi ha molto colpito. Le sembrerò stupido. Ma lei è... come dire, lei è una donna molto attraente. Ecco, ce l'ho fatta.»
«Senta, detective Flannery...» «Mi chiami Sean.» «Meglio di no. Adesso vado a casa a prendere qualcosa per il mio mal di testa e poi devo tornare al lavoro. La ringrazio per le sue parole, ma arrivederci.» Gli voltò di nuovo le spalle. «Aspetti, Hannah!» Lei si fermò. Lui le diede un biglietto da visita. «Senta, questo è il mio biglietto. Lo prenda, per favore.» Esitante, lei tese la mano e prese il biglietto tra le dita. «Posso telefonarle?» chiese lui. Sembrava sincero. «Potremmo vederci per un caffè. Qualsiasi cosa, quando vuole lei. Mi renderebbe molto felice.» Hannah doveva ammettere che la sua insistenza le faceva tenerezza. Il problema era che le riusciva estremamente difficile credere che qualsiasi uomo volesse conoscerla. Non si considerava il tipo di donna di cui gli uomini si innamorano semplicemente da una fotografia. Eppure Flannery sembrava molto gentile. «Va bene» concesse, finalmente. «La ringrazio. Allora, ci vediamo, un momento o l'altro.» Lei assentì e cercò di sorridere. Flannery annuì a sua volta e disse: «Arrivederci.» Poi si voltò e si allontanò sul marciapiede. Dopo un po' si girò per farle un cenno di saluto, poi riprese a camminare. Molto strano, pensò Hannah, mentre apriva il portone. Non le era mai capitato niente del genere, in tutta la sua vita. Davvero gli piaceva così tanto? A un detective? Era accaduto veramente? D'un tratto si sentì emozionata. Era leggermente nervosa e apprensiva, ma questo non le dispiaceva. Per una volta, si trattava di un'ansia gradevole. Che la provvidenza le avesse inviato un uomo a cui lei piaceva sul serio? Era avvenuto un miracolo? Hannah si sentiva girare la testa. Entrò nel suo appartamento e si accorse di non ricordare più che cosa ci fosse venuta a fare. Oh, sì, a guardare la posta. E a prendere l'Ibuprofen. Strano. Il suo mal di testa era sparito! Bill Cutler si sfilò il trench, lo piegò accuratamente e lo chiuse nel bagagliaio della sua Toyota Corolla del '92. Aveva avuto fortuna a trovare un
parcheggio così vicino alla casa della donna. La sua auto era decrepita, ma funzionava ancora e non aveva superato i centosessantamila chilometri. Gli sarebbe piaciuto comprarsene una nuova, ma quando si vive a Manhattan una macchina rappresenta un lusso inutile. La usava di rado e gli sarebbe costata una fortuna lasciarla in garage a Manhattan, perciò aveva affittato uno spazio macchina a Brooklyn, per un terzo della cifra. Così l'auto restava ferma quasi tutto l'anno. Cutler si tolse gli occhiali dalle lenti false e li infilò nel taschino della camicia. Aprì la portiera e, guardandosi nel riflesso del vetro, si annodò una cravatta. Il biglietto da visita era stato un tocco da maestro. Si congratulò con se stesso per avere pensato di farsene stampare un po'. Quanto al distintivo, era un attrezzo di scena che aveva conservato da una vecchia commedia. Indossò una giacca blu marina e prese una valigetta, poi chiuse la portiera e fece scattare le serrature dell'auto. Era un bancario, adesso. Assunse un'aria rigida e boriosa, quindi si incamminò lungo la Avenue per attendere al varco la sua preda. Il trucco del "detective Flannery" aveva funzionato alla perfezione, così come la telefonata del "dottor Cagle". A Cutler piaceva sperimentare nuovi personaggi. Era un modo per tenersi in esercizio come attore e, al tempo stesso, per cancellare i nomi dalla sua Lista di Caccia. Un hobby divertente. C'era qualcosa di familiare in quella donna, ma Cutler ignorò la sensazione. Hannah McCleary lo aveva sorpreso favorevolmente. Era decisamente carina, non la zitella casalinga che lui si era aspettato. Le sarebbe bastato un po' di trucco per diventare bellissima. Sì, aveva un'aria da topolino spaurito, di sicuro era timida e introversa, ma quello faceva parte del suo fascino. Aveva urgente bisogno di una bella scopata, su questo non c'era dubbio. Ma tra breve gli sarebbe venuta a mangiare in mano. Cutler non vedeva l'ora di scoprire che faccia aveva quando era in preda alla passione, abbandonata all'estasi del sesso. Ma prima le cose più importanti. Un altro test fondamentale. Cutler voleva avere la certezza assoluta che le condizioni descritte nella sua cartella medica corrispondessero al vero. Aspettò davanti a un'edicola, fingendo di guardare i giornali e le riviste in esposizione, finché non la vide nuovamente in strada. Hannah gli aveva detto che doveva tornare al lavoro, quindi Cutler decise di seguirla a distanza per vedere dove fosse diretta. Con la valigetta in mano, l'attore le andò incontro, pronto a un confronto
diretto. La donna era a sei o sette metri da lui, con la stessa espressione sognante e svagata negli occhi. Quando si incrociarono, lui le disse: «Hannah!» Lei lo guardò, sorpresa. «Come stai? È tanto che non ci vediamo» disse lui, simulando familiarità. Hannah sorrise e batté le palpebre. «Oh, ciao, sto bene.» Fingeva di averlo riconosciuto, ma non era molto convincente. «Non ti ricordi di me, vero?» chiese lui. Hannah abbassò lo sguardo, con aria timida. «Mi spiace, temo di no.» «Sono George, della banca. Sentiamo tutti la tua mancanza, sai?» «Oh, salve. No, ho cambiato lavoro.» Ancora non era sicura di chi fosse. «Che cosa... che cosa ci fai da queste parti?» «Sto andando a vedere un cliente. Ehi, mi ha fatto piacere vederti. Saluterò tutti da parte tua.» Detto questo, superò la donna senza voltarsi, lasciandola sola con le sue perplessità. Fece qualche passo, poi dietrofront. Hannah proseguiva in direzione sud. Non lo aveva assolutamente riconosciuto. Cutler non aveva idea se nella banca in cui lavorava ci fosse qualcuno di nome George. Se c'era, era stato fortunato. Se non c'era, sarebbe stato un ulteriore contributo alla confusione mentale della donna. Cutler attraversò la strada, per seguirla dall'altro lato. Così lei non lo avrebbe notato. E, se anche lo avesse fatto, non sarebbe stata in grado di identificarlo. Era convinto, ormai: la ragazza era del tutto incapace di riconoscere il volto delle persone che incontrava. A sua volta, Cutler ebbe di nuovo la netta sensazione di averla già vista. Era quasi certo di avere già conosciuto Hannah McCleary un momento o l'altro, prima del buio. 11 Sputo Spinozza si asciugò il sudore dalla fronte mentre faceva un altro giro di corsa in Washington Square. Si schiarì la gola e sputò alla sua sinistra, un'abitudine che coltivava dall'età di otto anni e che gli aveva procurato il suo grazioso soprannome. Il jogging in realtà era tutta scena. Non ci metteva troppa energia. Ma se qualche sbirro lo teneva d'occhio, era un'ottima scusa. Non poteva certo dire che girava Washington Square per vendere cocaina al dettaglio ai suoi clienti fissi. La routine era semplice: quando ne vedeva uno, si fermava a
correre sul posto. Stringeva la mano al cliente per passargli la bustina e ci scambiava due chiacchiere. Dopo un paio di minuti incassava i soldi con una nuova stretta di mano e riprendeva a correre intorno alla piazza. Questo tutti i giorni dalle dodici alle tredici. I clienti conoscevano l'orario. Funzionava d'incanto. Lo spacciatore aveva appena completato una transazione con uno sballato di professore della New York University. Svoltò un angolo e scorse un uomo alto, fermo sulla sua traiettoria dall'altra parte della piazza. Non aveva una faccia conosciuta, eppure sembrava proprio che lo stesse aspettando. Forse era un nuovo cliente, mandato da uno degli habitué. Aveva un'aria troppo truce per essere uno sbirro. Sembrava piuttosto un gorilla dei Castellano. Spinozza rallentò il passo e gli si avvicinò. «Come butta, uomo?» chiese, ansimante. «Sei tu Sputo?» Per tutta risposta, lo spacciatore sputò per terra. «Seh» disse poi, asciugandosi la bocca. «E tu chi cazzo sei?» «Smetti di correre.» Il tono di quell'ordine gli fece venire i brividi. Normalmente non gli avrebbe dato retta, ma in questo caso la minaccia era tangibile. Sputo si fermò a riprendere fiato. «Ti conosco?» «Chi sono non è importante» disse Dominic DeLauria. «Quello che importa è che voglio sapere chi hai mandato l'altro giorno da Charlie Patrone.» Sputo sentì lo stomaco balzargli nel petto. Allora era di questo che si trattava. «Perché? C'è qualche problema?» «Non lo sai?» «No. Cosa?» «Hanno ammazzato Patrone e il guardaspalle. Si sono fregati la consegna. A Pontecorva non è piaciuto.» «Porca puttana, non lo sapevo. Giuro!» gemette Sputo. DeLauria gli mise un braccio intorno alle spalle e lo guidò a una panchina. «Rilassati. Siediti. Parliamone.» Lo spacciatore cercava invano di riprendere fiato. «Giuro che non lo sapevo. Porca puttana, mi spiace!» «Chi sono quei due, Sputo? E perché li hai fatti andare al posto tuo?» «Stammi a sentire, mi hanno preso per il culo. La ragazza è venuta qui e mi ha detto che la mandava la famiglia Castellano. Non so come si chia-
ma.» «Che aspetto ha?» «Non lo so, uomo. È bella, molto bella. Una gran fica. Troppo fica per essere una truffatrice, sai cosa intendo.» «Vai avanti.» «Stava con un tipo, una faccia conosciuta anche se chi era l'ho capito solo dopo. Comunque la ragazza ha detto che Marco Castellano voleva che andasse lei a prendere la consegna della settimana da Charlie, al posto mio. Le ho chiesto che cosa dovevo fare con i miei clienti e lei ha detto che Marco mi avrebbe rifornito dopo una settimana. È stato mercoledì scorso, quindi era per oggi. Mi aspettavo di vederlo. Infatti pensavo che fossi qui per questo, che ti mandasse lui.» «No. Non mi manda Marco Castellano. Mi manda Freddie Pontecorva.» Per una volta, lo spacciatore deglutì, invece di sputare. Questo voleva dire guai. «La ragazza non ti ha detto come si chiamava?» chiese di nuovo DeLauria. Sputo scosse la testa. «No, ma il tipo che stava con lei l'ho riconosciuto. Credo che fosse quello scrittore che era famoso venti o trent'anni fa. John Cozzone. Sai chi è?» «No.» «Ha scritto un paio di bestseller negli anni Settanta. Posso giurare che era lui. Adesso è nel giro, penso, perché la ragazza si comportava come se la coca dovessero distribuirla insieme. Il fatto è che era a conoscenza di tutti i dettagli dell'operazione e ho pensato che fosse dei nostri. Avrei dovuto chiedere prima conferma a Marco.» DeLauria fece cenno di sì con la testa. «Puoi dirmi altro di quei due?» «Non so niente di più, te lo giuro.» «Non ha detto per caso di chiamarsi Hannah?» «Non l'ha mai detto come si chiamava.» DeLauria sospirò. «Va bene. Adesso ti dico cosa facciamo. Vieni qui.» Gli fece cenno di accostarsi, per parlargli all'orecchio. Lo spacciatore obbedì. E lui gli ficcò un coltello Bowie nel ventre. Sputo emise un singhiozzo, seguito da un grugnito. Afferrò DeLauria per le spalle, come se dovesse confessare a un caro amico i suoi peccati. DeLauria spinse a forza il coltello verso l'alto, fino allo sterno, poi lo estrasse e ne pulì la lama sulla camicia della vittima. Si alzò e si allontanò con passo tranquillo.
Sputo cadde in avanti. Il sangue sgorgava come da un rubinetto. Una giovane donna si mise a urlare. Due ragazzi neri smisero di giocare a basket e indicarono la panchina. Qualcuno gridò di chiamare la polizia. Dietro la piazza, DeLauria salì su una berlina nera che lo stava aspettando accanto al marciapiede. L'auto partì prima che qualcuno avesse il tempo di leggerne la targa. A bordo della macchina, DeLauria disse all'autista, un ragazzo di nome Favio, di accompagnarlo al suo appartamento a Lower Manhattan. Aveva ancora in mano il coltello Bowie. Lo rimise nel fodero che portava sopra la caviglia, sotto i pantaloni. Se non altro aveva una pista: John Cozzone. Avrebbe indagato su di lui, avrebbe scoperto dove viveva e che cosa avesse in mente. E ovunque fosse Cozzone, quella Hannah non doveva essere lontana, se era quello il suo vero nome. «Si vedono già le Sears Towers» annunciò Sophia. Stavano percorrendo la cosiddetta Skyway, l'autostrada a pedaggio che collegava l'Indiana a Chicago girando intorno al Lago Michigan. «Lo sai che siamo in fottutissimo ritardo?» si lamentò Cozzone, sorpassando un lento autoarticolato a diciotto ruote. «Speriamo che Ramòn sia rimasto ad aspettarci.» «Non hai detto che lo chiamavi, ieri sera?» «L'ho fatto, ma c'era la segreteria. Mi auguro che abbia sentito il messaggio.» «Forse non dovevamo perdere tanto tempo a Cleveland.» «Sei tu che hai voluto passare tutto il giorno alla fottuta Rock'n'Roll Hall of Fame» protestò lui. «Sei tu che hai voluto passare da Filadelfia per salutare un ex fidanzato che non era nemmeno in casa. Cristo, siamo partiti venerdì da New York e oggi è mercoledì!» «Senti, ho pensato che lui ci avrebbe dato più soldi del tuo amico di Chicago, okay? Quanto a Cleveland, sono anni che non faccio una vacanza. Cosa vuoi fare, spararmi?» «Questo è il problema» commentò Cozzone, desolato. «Ho paura che qualcuno lo farà, dopo quello che hai combinato a New York.» «Ancora ti lamenti? Non ci troveranno mai. Sputo non sa neanche chi siamo. È un coglione.» «È solo che non mi piace fare giochetti con gente come Freddie Pontecorva. O Marco Castellano. Sono italiano, ma non sono scemo.»
«Zitto e guida» disse Sophia. «Marco Castellano non alzerebbe un dito su di me. È mio cugino.» «Sì, lo so. E Carlo Castellano è tuo zio.» Lo scrittore era allo stremo. Ne aveva più che abbastanza di Sophia. Era stata straordinaria, nelle poche settimane che si erano frequentati. A letto era fantastica, sembrava che fosse appena uscita dalle pagine di un catalogo di Victoria's Secret e le droghe le piacevano quanto a lui. Ma cominciava a qualificarsi come Stronza di Prima Classe. Dal momento in cui avevano deciso insieme di imbarcarsi in quello che lei chiamava "il grosso affare", Sophia aveva preso il controllo della situazione e insisteva a comandare. Per un po' lo scrittore le aveva lasciato la briglia sciolta, ma quando era troppo, era troppo. Il duplice omicidio a New York aveva cambiato tutto. Cozzone era troppo spaventato per riuscire a divertirsi. Nei cinque giorni da quando avevano lasciato Manhattan non avevano scopato neppure una volta. Lo scrittore non era nemmeno sicuro che se la sarebbe sentita di andare a letto con lei. Che cosa sapeva di Sophia, alla fin fine? Solo che era la nipote del capo di una delle presunte famiglie criminali di New York. Carlo Castellano era una figura leggendaria, più o meno come la sua controparte nella famiglia Pontecorva. Cozzone se ne intendeva abbastanza della mafia italiana: una volta aveva cercato di scrivere un libro sull'argomento. Di una cosa era sicuro: non si comportavano più come i gangster dei tempi d'oro. Era convinto che quella serie TV, The Sopranos, avesse colto nel segno. I resti delle famiglie di New York cooperavano tra loro e lavoravano in società. Sophia Cabrini era al corrente delle operazioni delle due famiglie, per quanto riguardava la distribuzione della cocaina. Era stata una sua idea quella di fregare i Pontecorva, rilevando una consegna. Solo ora Cozzone si rendeva conto di quanto fosse stato idiota a farsi mettere in mezzo. Mentre attraversavano l'Indiana era venuto fuori che Sophia era ai ferri corti con i Castellano, per via di certi "atti" di quando era più giovane. Ormai lo scrittore cominciava a dubitare che la famiglia l'avrebbe protetta, quando i Pontecorva fossero calati su di loro. E a New York Sophia gli aveva dimostrato quanto poteva essere pericolosa, letale e imprevedibile. Con lei al suo fianco, Cozzone se la faceva sotto dalla paura. 12 Bill Cutler aveva trascorso l'intera nottata di mercoledì a trasformare il magazzino della MedScript in uno studio medico.
La stanza era situata al piano di sopra dello stesso palazzo, il che era piuttosto scomodo per le necessità della compagnia, ma era il meglio che l'amministratore potesse offrire. I primi tre piani erano tutti occupati da gabinetti medici e i rimanenti da uffici di vario genere. Nel magazzino tenevano i mobili avanzati, tra cui una scrivania ancora nuova. Come direttore della MedScript, era Cutler a disporre dell'unica chiave. A suo fratello non fregava niente del magazzino, il che era un vantaggio per lui: era sicuro di poter fare quello che gli pareva in quel locale, senza che nessuno se ne accorgesse. Per prima cosa, preparò un cartello da appendere alla porta: TOM CAGLE, LCSW. La sigla stava per Licensed Clinical Social Worker, Operatore sociale clinico autorizzato, un titolo che aveva sentito su uno dei nastri dei dottori. Sul retro del cartello c'era un adesivo riutilizzabile che gli avrebbe permesso di appenderlo alla porta quando gli occorreva e di staccarlo quando non gli serviva. Il passo successivo era stato trovare una nuova collocazione a tutto il materiale in eccesso: carta per le fotocopie, articoli di cancelleria, audiocassette, eccetera. Decise di sistemarne una parte nel bagagliaio dell'auto e il resto nel proprio appartamento. Una volta sgombrata la stanza, riordinò i mobili in modo da renderla credibile come studio di un terapeuta rispettabile. La scrivania rimase, naturalmente. C'erano poi uno schedario, una libreria e un paio di poltroncine. Cutler vi portò anche un tavolino, su cui depose un posacenere e una scatola di fazzoletti di carta. Perché negare ai pazienti il diritto di fumare, intanto che mettevano a nudo la propria anima? Riempì gli scaffali di volumi di psicologia, trattati sull'abuso di sostanze e riviste mediche, tutto comprato di seconda mano allo Strand Bookstore. E ora la stanza era pronta. La sua "paziente" Hannah McCleary sarebbe arrivata quella sera stessa, alle sette e trenta. La cosa migliore da fare, a quel punto, era tornare giù alla MedScript e mettersi a lavorare nell'attesa. Hannah arrivò puntuale e bussò alla porta del dottor Cagle. Cutler si era appiccicato un paio di baffi di scena e si era pettinato in modo diverso. Se quanto aveva letto sulle condizioni di Hannah era corretto, quei piccoli ritocchi alla sua fisionomia sarebbero stati più che sufficienti a impedirle di riconoscere in lui il detective Sean Flannery. «Avanti» disse lui, andando ad aprire. «Tu devi essere Hannah.»
«Sono io» rispose la paziente. Non batté ciglio quando lo vide. Via libera, pensò Cutler. «Sei puntualissima. Accomodati.» «Che genere di studio è questo?» chiese lei. «Prego?» «Voglio dire: non c'è la sala di attesa. E se ci fosse stato un altro paziente quando sono arrivata?» «Oh, non preoccuparti.» Cutler aveva lavorato sodo per affinare quell'accento vagamente bostoniano, già collaudato con successo al telefono. «Non fisso mai gli appuntamenti uno di seguito all'altro. I miei metodi sono piuttosto diversi dalla media, ma, come avrai modo di vedere, è questo che piace ai miei pazienti.» Ridacchiò, compiaciuto del proprio buonumore, e si sedette dietro la scrivania. Hannah rimase in piedi al centro della stanza, ancora incerta su come reagire a quell'ambiente poco ortodosso. «Ti prego, accomodati. Gradisci qualcosa da bere? Caffè? Una bibita?» «No, grazie.» Si decise a occupare una delle sedie. «Non sono mai stata da un terapeuta come lei. Di solito c'è il lettino e tutto il resto...» «Non amo far parlare i miei pazienti da sdraiati. L'obiettivo è indurli ad aprirsi sui loro problemi. A volte richiede sforzo. E non si può fare uno sforzo stando su un lettino. Non ne ho mai compreso la necessità. Trovo che i pazienti parlino più agevolmente stando seduti.» «Capisco.» La donna sfuggiva il suo sguardo: i suoi occhi saettavano da un oggetto all'altro, senza mai soffermarsi troppo a lungo su una singola cosà. «Se ti senti più a tuo agio girando la sedia in un'altra direzione, fai pure» la invitò Cutler. «Certi pazienti parlano più liberamente quando sono rivolti al muro. Non sei obbligata a guardarmi in faccia.» Lei si strinse nelle spalle. «Nessun problema.» «Bene.» Cutler prese una cartelletta e cominciò a esaminare i fogli che vi aveva messo dentro, per fare scena. «Hannah McCleary. So quello che mi ha riferito la dottoressa Lazar, naturalmente, ma vorrei che fossi tu stessa a parlarmi di te.» Hannah parve sperduta. «Cosa... cosa vuole sapere?» «Tutto quello che ti viene in mente. Se dovessi descriverti a un biografo, che cosa gli diresti? Non del tuo aspetto, di te come persona. Che tipo di donna sei? Come lo sei diventata? Chi è Hannah McCleary? Che cosa ti piace e che cosa non ti piace? Quali sono i tuoi sogni e le tue ambizioni? Di che cosa hai paura? Quali sono i tuoi hobby? Parlami di quello che
vuoi.» Hannah continuava ad apparire sperduta. «Non so da dove cominciare.» «D'accordo, allora comincia dall'infanzia. Da dove vieni? Com'era la tua famiglia?» Lei si strinse di nuovo nelle spalle e abbassò gli occhi sul pavimento. Era spaventosamente timida. «Non so, era una famiglia normale» mormorò. «Sono cresciuta ad Albany. Sono figlia unica. Mia madre faceva la bibliotecaria, mio padre vendeva assicurazioni. Morì per un attacco di cuore quando avevo sei anni. Mia madre fu portata via dal cancro quando ne avevo quattordici. Per un po' ho abitato da una zia, fino alla fine del liceo. Poi sono andata a vivere da sola, in un appartamento. Ho frequentato per due anni la Business School e poi sono venuta a New York. Vivo qui da allora.» «Cosa hai studiato al college?» «Economia.» Cutler aggrottò le sopracciglia e le fece cenno di essere più specifica. «Be', contabilità, soprattutto. Me la cavo bene con i numeri» rispose lei. «Capisco. E poi hai trovato lavoro nella grande città?» «Sì. Un compagno di scuola lavorava in banca, così ho avuto un aggancio. Ho lavorato alla Chase per diversi anni fino... Be', fino a quando non è più stato possibile.» «Cioè quando è successo quello che è successo?» chiese lui, con delicatezza. Lei abbassò di nuovo lo sguardo. «Sì.» «Vale a dire cinque anni fa, giusto?» «Sì.» «Prima di affrontare quell'argomento, dimmi ancora di te. Che cosa ti piace fare? Che cosa vorresti fare che non hai mai fatto?» Lei rimase in silenzio per qualche secondo, poi disse, incerta: «Non lo so. Credo che una volta mi piacesse l'idea di fare shopping. Ma non ho mai avuto molti soldi e non compravo mai niente. Adesso... non vado più a fare shopping. Non mi piace la folla.» «Che altro? Che cosa ti piace fare, adesso?» Cutler trovava il suo disagio doloroso e al tempo stesso tenero. Era carina, pur con la sua aria da topo di biblioteca, ed era interessante che quello fosse l'ambiente di lavoro di sua madre. Hannah corrispondeva proprio allo stereotipo della giovane bibliotecaria per cui uno studente poteva prendersi una cotta.
«Adesso non c'è quasi niente che mi piaccia.» Aveva un tic nervoso: continuava a pizzicarsi le dita. «Vai al cinema? Leggi libri?» «Non vado molto al cinema. Non riesco a seguire i film perché confondo i personaggi gli uni con gli altri. Leggo soprattutto riviste, a volte qualche libro. Ascolto la radio. Mi piace la musica, direi.» «Di amici ne hai?» Lei scosse il capo. «Nessuno. Be', sì, forse uno o due. La mia vicina del piano di sotto è simpatica. Si chiama Liz Rosenthal. È... be', è lesbica e credo di piacerle, capisce? Ma non ne ha mai fatto un problema. Ogni tanto viene a prendere un caffè da me, o vado io da lei.» «Adesso hai un nuovo lavoro, se non sbaglio.» «Sì. Lavoro da mio cugino. Lui è uno scrittore. Gli batto al computer i manoscritti. Sono una specie di assistente personale.» «Oh, sì, me ne hai parlato al telefono.» «John Cozzone, l'autore de I pomi del cosmo e La lingua lunga di Lucretia Leone.» «Sì, lo conosco. I pomi del cosmo ha avuto molto successo. L'ho letto da un bel po'. Quando è stato, vent'anni fa?» «Di più. Erano gli anni Settanta.» «Dev'essere interessante lavorare per lui.» «Non è male. È facile e a casa sua ci arrivo a piedi, dal mio appartamento.» «Oh. E dove abita tuo cugino?» «Sulla East 63rd Street. Così evito gli uffici e le strade. Non... non mi piace avere a che fare con troppa gente.» «Parliamone un momento. Stando alla dottoressa Lazar, soffri della condizione nota come prosopagnosia. Le persone che frequenti ne sono al corrente? Voglio dire tuo cugino o la tua amica Liz?» «No, non lo sanno. Mio cugino sa che ho subito un'aggressione, ma non gli ho mai detto dei miei sintomi. Quando ho saputo di soffrirne, ho provato a parlarne con qualcuno. Colleghi del mio vecchio lavoro in banca. Non mi credevano, lo sa? Voglio dire, mi guardavano come se fossi pazza. "Prosopagnosia? Mai sentita! Sei sicura?" Cominciava a diventare un problema spiegare perché non potevo più lavorare in banca, o perché non potevo andare a una festa dove avrei incontrato gente conosciuta, o perché non entravo in un bar. Perché non uscivo a vedere gente o perché non potevo conoscerne. Se mi presentano qualcuno, il giorno dopo non posso ri-
conoscerlo. A meno che uno non abbia una caratteristica ben definita che riesco a ricordare: se ha la pancia, se è calvo, se ha un tatuaggio o un piercing al naso o qualcosa del genere.» Cutler tacque per un istante. Cominciava solo in quel momento a rendersi conto dell'entità del problema di Hannah. Quella prosopagnosia poteva essere davvero alienante. Gli riuscì solo di dire: «Credo di capire quello che provi.» «No. Non può.» C'era una sfumatura d'ira nella sua voce. «Nessuno può capirlo, se non lo prova. Ho trovato qualcuno come me su Internet. Neanche dieci persone.» «Ti sento rabbiosa.» Lei distolse lo sguardo, con aria di rassegnazione. «Forse a volte lo sono.» Cutler inspirò e tentò un approccio diverso. «Hannah, che cosa speri di ottenere dalla terapia?» «Io non spero niente. È stata la dottoressa Lazar a raccomandarmela.» «Credo che la dottoressa Lazar voglia farti uscire dalla tua clausura.» «Ma io non voglio uscire.» «Hannah, anche se soffri di una... disabilità sociale, non ti fa bene startene sempre rintanata nel tuo appartamento. Hai bisogno di andare fuori. Hai bisogno di amici. Non ti andrebbe, per esempio, di innamorarti?» Hannah continuò a fissare il pavimento e a pizzicarsi le dita. Cominciò a mordicchiarsi il labbro inferiore. Dopo quasi un minuto senza risposte, Cutler tornò alla carica. «C'è mai stato un uomo nella tua vita?» Lei rispose subito: «No.» «Non ci credo. Non hai mai avuto un ragazzo?» «Be', qualcuno, ai tempi del college. Ma mai niente di serio.» «Come ti sentiresti se all'improvviso incontrassi l'uomo della tua vita e a lui non importasse nulla della tua prosopagnosia?» «Ho avuto degli incubi in proposito. Ho sognato che ero al mio matrimonio e non potevo riconoscere mio marito tra tutti gli uomini in smoking al ricevimento.» Stavolta fece una risatina. «Sul serio, che effetto ti farebbe?» chiese lui. Lei rifletté. «Be', certo» disse poi. «Mi farebbe piacere. A dire il vero io...» Ma la risposta sfumò. Hannah si voltò verso la libreria. «Che cosa?» «Niente.»
«Che cosa stavi per dire?» «Be', ieri ho conosciuto qualcuno, più o meno.» «Davvero?» «Un poliziotto. Voleva che guardassi alcune foto segnaletiche. Non so perché, in realtà, dato che l'uomo che... l'uomo che mi ha aggredito è già in carcere. Be', il poliziotto poi mi ha detto che quello che voleva veramente era conoscermi.» «Ah, sì? Racconta.» «Ha visto la mia foto al distretto di polizia. Ce l'aveva il detective che si è occupato del mio caso. Dice che gli piaccio e che vuole offrirmi un caffè.» «E cosa c'è di male?» Lei alzò le spalle, un suo gesto caratteristico. «Non lo so.» «Cosa vuol dire "Non lo so"?» «Non lo so! Non so immaginare perché gli possa piacere una come me.» «Perché no? Sei una donna attraente, Hannah. Non c'è niente che non vada in te.» «Niente?» fece lei sarcastica." «No, niente. Sono sicuro che, nell'ambito di una relazione stabile, non avresti alcuna difficoltà a riconoscere la persona a cui sei legata.» Lei non aprì bocca. «Ascoltami, Hannah. Non devi avere paura di provare. Se non funziona, non funziona, ma non potrai scoprirlo se nemmeno ci provi. Potrebbe essere la cosa migliore della tua vita. Non si può mai sapere.» La voce di lei divenne un sussurro. «Non lo so...» «Hannah, di che cosa hai paura? Di farti male? Capita a tutti. Anche quelli che riconoscono le facce.» Cutler notò che gli occhi le si riempivano di lacrime. Stava per scoppiare a piangere. «Soffro di... incubi. E di emicrania. E ho tanta paura, anche senza motivo.» Questo era un cambio di rotta. Hannah prese un fazzolettino, si tamponò gli occhi e si soffiò il naso. «Mi scusi» disse. «Non preoccuparti. Parlami di queste sensazioni. Come si manifestano?» «Non lo so... Succede e basta. Sa, come attacchi di panico. Ansia. E spesso sono depressa. Non mi piace quando succede. Mi sento in modo orribile.» «Che cosa pensi, quando ti succede?» «Penso a lui» proruppe Hannah. «Penso all'uomo che mi ha aggredita, ha tentato di violentarmi e mi ha colpito alla testa, lasciandomi... questo.»
«Ma è in carcere, adesso» le rammentò Cutler. «Non può più farti del male.» Lei si prese la testa fra le mani. «Ma... io non so...» «Che cosa? Non sai che cosa?» «Non so se è davvero stato lui.» Cutler si sedette sul bordo della sedia. «Perché no? Non lo hanno arrestato e processato?» «Sì, ma sulla base di prove indiziarie. E sono stata io a identificarlo. La giuria mi ha creduto.» «E allora?» «E allora io non l'ho riconosciuto! Ho solo dato ascolto alla polizia. Ho pensato che se loro dicevano che era stato lui, forse era vero. Ho pensato che se lui andava in prigione, mi sarei sentita meglio. Ma non è stato così. Mi sono sentita peggio. Mi sento così....» La voce sfumò di nuovo nel silenzio. «In colpa» completò lui. Lei annuì, dopo qualche secondo. Il tormento di Hannah era commovente. Al principio Cutler trovava divertente fare la parte dello psicologo: era un'avventura, per lui, un divertente esercizio di recitazione. Ora invece vedeva la sofferenza e l'orrore che lei aveva provato e tutto questo lo eccitava. «Ma non puoi averne la certezza, non ti pare?» le chiese. «Infatti.» «Allora dimenticalo. Quell'uomo è in prigione. Non puoi lasciare che questa storia ti consumi. La vittima sei tu, non lui.» «Non posso farci niente. Rivivo l'aggressione nei miei sogni. Continuamente.» «Vedi la sua faccia, nei sogni?» «No. Non ce l'ha mai. È più... una sensazione, che una persona.» Cutler annuì, con l'aria di chi la sa lunga. La guardò per qualche secondo senza dire una parola. Hannah fissava il pavimento, si pizzicava le dita, si mordicchiava il labbro e stava zitta. Il falso terapeuta guardò la cartelletta e disse: «Secondo la dottoressa Lazar, hai detto che lo uccideresti, se te lo trovassi di fronte oggi.» Hannah scosse la testa. «L'ho detto così per dire, sa.» «Non parlavi sul serio?» Lei alzò le spalle ancora una volta. «Sì e no.»
«Spiegami questa risposta, per favore.» «Certo che non voglio ucciderlo. Non credo che ne sarei capace. Ma poi, certe volte, quando sono sola e provo tutta quell'ansia, mi viene il mal di testa e mi dispero... Allora me la prendo con lui. Lo odio. Vorrei ucciderlo. A volte mi immagino di scoprire dove vive o dove lavora: io vado da lui e gli sparo con una pistola.» «Hai una pistola, Hannah?» «No.» Fece un sorrisetto malizioso. «Ma so dove trovarla.» «Davvero?» «Mio cugino ne ha una. L'ho vista.» «Oh, santo cielo.» Cutler si concesse un momento per raccogliere i pensieri. «Lo sai, Hannah, che è piuttosto normale che tu abbia di queste fantasie?» «Lei dice?» «Certo. Non ti senti meglio quando immagini di fargli saltare le cervella?» «Forse.» «Sarebbe bello, non credi? Nei limiti della fantasia, intendo. Prendere una pistola e sparare all'uomo che ti ha fatto del male.» «Sì, sarebbe bello.» «A volte è una buona terapia immaginare qualcosa del genere, o anche fingere di farlo. Inscenarlo. Facciamolo adesso.» Si alzò in piedi e la invitò a fare lo stesso. «Cosa?» «Alzati.» «Perché?» «Forza, ti piacerà.» «Io, uh...» Hannah esitò, poi si alzò in piedi. Cutler andò alla scrivania e aprì un cassetto. Ne tirò fuori una pistola giocattolo di plastica e gliela porse. «Ecco, prendila.» «Che... cos'è?» «Solo un giocattolo, non avere paura. Ogni tanto uso degli oggetti nelle sessioni di terapia. Prendila, non succede niente.» Lei tese la mano e prese la pistola giocattolo. «E adesso?» «Adesso diciamo che hai scoperto dove vive il tuo aggressore.» «Ma è in prigione.» «Lo so, ma facciamo finta che non lo sia. Diciamo che non hanno arrestato l'uomo giusto e che tu hai scoperto dove vive quello vero. Vai da lui,
gli entri in casa. Lo aspetti in una delle stanze. Sai che tra poco tornerà.» Hannah non sapeva che cosa pensare. Era la sessione di terapia meno ortodossa che le fosse mai capitata. «Senta, io...» «Fidati. Fingi di interpretare un ruolo. Che cosa faresti? Ti andresti a nascondere? Resteresti in mezzo alla stanza? Come faresti a ucciderlo?» «Non lo so.» «Pensaci. E se sparandogli guarissi improvvisamente dalla prosopagnosia?» Lei lo guardò e fece un lento cenno di assenso. «Va bene. Probabilmente mi siederei alla scrivania...» Hannah si mise sulla sedia del dottore. «Bene» approvò Cutler. «E lo aspetti... La pistola è carica, giusto?» «Sì.» Hannah tese il braccio e puntò il giocattolo verso la porta. «E finalmente senti rumori di sotto. È lui che torna a casa. Senti i suoi passi mentre lui appende la giacca e sale le scale.» Cutler notò che il respiro di Hannah stava accelerando. La vide stringere la pistola con entrambe le mani. «Senti i passi più vicini. È in cima alle scale. Quasi fuori dalla porta.» Lei sgranò gli occhi. «Poi lui apre la porta. Ora è in piedi sulla soglia.» Le mani di Hannah erano malferme. Lei si morse il labbro e cominciò a tremare. Cutler vedeva che voleva premere il grilletto, ma qualcosa glielo impediva. «Che cosa fai?» le chiese, sottovoce. Le mani le tremavano visibilmente. Hannah chiuse gli occhi ed emise un gemito quasi impercettibile. Poi, d'un tratto, espirò e depose la pistola sulla scrivania. «Non posso.» Cutler ne fu compiaciuto. Era la reazione in cui sperava. «Sembravi avere tutto sotto controllo, fino all'ultimo secondo.» «Non mi piaceva. Voglio dire, sì, ha ragione: all'inizio era emozionante. Ma quando avrei dovuto premere il grilletto, è stato più forte di me.» Hannah si alzò in piedi e girò intorno alla scrivania. Era come se non volesse riconoscere quanto era appena accaduto. «Molto bene, Hannah» approvò lui. «In che senso?» «Hai fatto bene. Dopo quello che avevi detto alla dottoressa Lazar, volevo vedere fino a che punto saresti arrivata. Scommetto che stanotte dormirai meglio.» Lei tornò sulla sua sedia. «Mi sento un po' scossa.»
«C'era da aspettarselo. Ti ci è voluta un po' di adrenalina, per compiere questo esercizio.» Cutler guardò l'orologio e aggiunse: «Per oggi abbiamo finito. Ma credo che abbiamo cominciato con il piede giusto. Abbiamo qualcosa su cui lavorare, non credi?» Lei si strinse ancora nelle spalle. «Penso di sì.» «Ci rivedremo tra qualche giorno. Nel frattempo, se questo detective di cui mi hai parlato cerca di rivederti, pensaci seriamente. Provaci. D'accordo?» Lei sospirò profondamente e rispose: «Ci proverò.» 13 Al ritorno dalla sessione di terapia, Hannah fu accolta da Panther sulla porta di casa Cozzone. Il gatto le scivolò tra le gambe mentre lei chiudeva a chiave. «Ti sono mancata, ragazzo?» chiese lei, con dolcezza. «La tua cena l'hai avuta. Sei in cerca di coccole?» Si chinò a grattargli la testa e si diresse in cucina. Non aveva ancora mangiato e decise di prepararsi un piatto di pasta e aprire un barattolo di sugo. Mise l'acqua a bollire e cercò in frigorifero qualche verdura da aggiungere al condimento. Decise che i broccoli potevano andare bene. Mentre preparava la cena, Hannah rifletté sull'incontro con il nuovo terapeuta. Era sorpresa che fosse andato così bene. Di solito non dava molto peso alla terapia. Sapeva di avere problemi sul piano psicologico, di essere depressa, chiusa in se stessa, paranoica. Che cosa si aspettavano? Quando una donna viene aggredita e quasi stuprata, quando riceve un colpo alla testa e si ritrova con una rara e misteriosa condizione neurologica che condiziona i suoi rapporti sociali, è difficile che rimanga del tutto normale. L'esperimento con la pistola giocattolo era stato sfiancante, ma il terapeuta aveva visto giusto: Hannah aveva provato un senso di esaltazione, almeno fino al momento di prendere la decisione finale. Per la prima volta da cinque anni, si era sentita forte, in grado di trascendere il suo mondo di paura, angoscia e paranoia. Si domandò quanto quelle sensazioni fossero reali. Sarebbe davvero riuscita ad arrivare al punto di premere il grilletto? Sarebbe stata veramente capace di uccidere l'uomo che l'aveva aggredita, se ne avesse avuta l'occasione? La risposta immediata, a livello intellettivo, era che non ci sarebbe mai riuscita. Ma la contraddizione era intensa a livello emotivo. Nei più profondi recessi del suo cuore, Hannah sapeva che
l'odio e la rabbia con cui aveva convissuto dopo l'aggressione avrebbero potuto prendere il sopravvento sul suo lato razionale. Forse poteva arrivare a uccidere. Ma la questione era puramente accademica. Timothy Edward Lane era in prigione. Non avrebbe mai più potuto farle del male. Hannah aprì l'armadietto e prese la bottiglia di Jack Daniels. Come d'abitudine, se ne versò un bicchiere, vi fece cadere un paio di cubetti di ghiaccio e si sedette su uno degli sgabelli al bancone della cucina, in attesa che l'acqua nella pentola bollisse. Il dottor Tom Cagle. Sembrava molto comprensivo. C'era qualcosa di familiare in lui, ma Hannah si era lasciata trarre in inganno altre volte in precedenza. La mente le giocava spesso brutti scherzi: avvertiva come familiari persone che non aveva mai incontrato prima. Non sapeva mai chi conosceva e chi no. Era tutto una grande confusione. Tuttavia, percepiva qualcosa di noto nel dottore. Forse era un odore, o la sua postura. Il terapeuta aveva sollevato molte questioni cui lei avrebbe preferito non pensare, ma che sapeva essere importanti. Davvero il suo isolamento comportava l'incapacità di gestire i rapporti sociali? D'altra parte, Hannah non vedeva come le sarebbe stato possibile migliorare la propria situazione. Il solo pensiero di uscire per divertirsi la terrorizzava. Era il modo più rapido per scatenare un attacco di panico. Hannah sentì l'ansia ribollirle in petto solo a immaginare di trovarsi in pubblico. A volte aveva quasi la sensazione di un imminente arresto cardiaco. Scordatelo, si disse. Non aveva intenzione di uscire a "vedere gente". Neanche per idea. Meglio starsene a casa, da sola, al sicuro. Al riparo da tutte quelle facce che per lei non significavano niente. Squillò il telefono. C'era un apparecchio in cucina e altri sparsi per la casa. La segreteria telefonica, invece, era nello studio. Hannah si era dimenticata di controllare i messaggi al suo ritorno. Sollevò il ricevitore. «Pronto. Residenza di John Cozzone.» «Hannah, sei tu?» Era suo cugino. «John, ciao!» «Ciao. Come va?» «Bene. Nessun disastro da riferire» disse lei. «Qualche chiamata per me?» «Non che io sappia. Sono appena rientrata e non ho ancora controllato la segreteria. Sono in cucina.» «Be', non preoccuparti. Non vedo chi possa avere bisogno di me questa
settimana.» «Dove siete?» «A Chicago. Ci stiamo divertendo un mondo.» «Quando pensate di tornare?» «Non lo sappiamo ancora. Se tutto va bene, un momento o l'altro la prossima settimana. Hai fatto progetti per il weekend? Hai invitato l'intero cast di Chippendale's a festeggiare sabato sera?» «Uuh, John, per favore. Che me ne faccio dei ragazzi di Chippendale's?» «Hannah, se non lo sai, è inutile che te lo spieghi.» «John!» «Senti, devo lasciarti. Era giusto per sapere come andava. Tutto okay? Non ti senti troppo sola?» «C'è Panther qui con me. Domani sera viene qui a cena la mia amica Liz. Sto bene, non preoccuparti. Oh, e ho quasi finito il manoscritto. Nel weekend posso già cominciare gli altri lavori.» «Magnifico. Bene, allora ci sentiamo a fine weekend, okay?» «Okay. Ciao.» «A presto.» John riagganciò e lei fece lo stesso. L'acqua stava bollendo: era ora di buttare la pasta. Poi Hannah salì le scale ed entrò nello studio. Come prevedibile, il display delle segreteria lampeggiava, indicando la presenza di tre messaggi. Hannah premette il pulsante di riascolto. Il primo messaggio riguardava un articolo che John stava scrivendo per una rivista. Lei annotò il nome e il numero di telefono dell'uomo che aveva chiamato e ascoltò il messaggio seguente. Era dello stesso John, che aveva telefonato mentre lei era fuori e aveva detto solo che avrebbe riprovato più tardi. Al terzo messaggio, il cuore di Hannah si fermò per un istante. "Ehi, baby, come butta? Lo so che sei lì, baby. Non ti puoi nascondere da me. Presto verrò a prenderti. Abbiamo dei conti in sospeso, lo sai cosa voglio dire? Passa una bella serata. Riparleremo presto." Mio Dio, mio Dio! Hannah riascoltò i primi due messaggi per poter risentire il terzo. Mentre lo sentiva per la seconda volta, si sentì oppressa dall'angoscia e fu costretta a sedersi. Era lui, l'aggressore, lo stupratore. L'uomo che l'aveva assalita, che aveva cercato di violentarla e che le aveva lasciato una disabilità permanente. Era tornato. Le stava di nuovo dando la caccia. No, non poteva essere! Timothy Edward Lane era in prigione. Oppure
no? Era uscito, forse? Ma la polizia avrebbe dovuto avvisarla, se Lane fosse stato rilasciato. Hannah non ne aveva saputo nulla. Scattò come una molla dalla sedia e si precipitò giù per le scale. Aveva lasciato la borsetta in cucina, sul bancone. La prese e, mentre risaliva di corsa le scale, l'aprì e frugò nel portafogli. Il biglietto del detective Blaine era dove lo aveva lasciato. Hannah compose il numero di telefono. Le rispose la segreteria telefonica di Blaine. Certo che non era in ufficio: era troppo tardi. I poliziotti non lavoravano ventiquattrore su ventiquattro. O sì? Be', forse solo quelli che si vedevano in TV. Era sul punto di lasciare un messaggio dopo il segnale acustico, ma le venne un'altra idea. Perché chiamare Blaine, che non era più assegnato al suo caso e probabilmente aveva il suo daffare in altre indagini? Nel portafogli, accanto a quello di Blaine, c'era il biglietto da visita del detective Flannery. Era lui che doveva chiamare: si interessava a lei, si occupava del caso ed era un uomo molto gentile. Nelle orecchie di Hannah riecheggiarono le parole del terapeuta. Provaci. Hannah compose il numero. Fece una smorfia quando sentì una voce registrata. "Risponde la segreteria telefonica del detective Sean Flannery del 97° Distretto. Non sono alla mia scrivania, ma se lasciate un messaggio dopo il segnale acustico vi richiamerò appena possibile." Hannah stava per lasciargli un messaggio, ma si trattenne e riagganciò. Non voleva fare la figura della cretina. Il messaggio sulla segreteria di Cozzone doveva essere uno scherzo di cattivo gusto, nemmeno diretto a lei. Probabilmente non significava niente. Ehi, baby, come butta? Le parole le risuonarono nella mente. Erano le stesse che le aveva rivolto l'aggressore quando lei gli era davanti sulla First Avenue. La voce era la stessa. Era lui! Era lui! Hannah riprese il telefono e ricompose il numero di Flannery. Stavolta, quando le rispose la segreteria telefonica, lasciò un messaggio. «Uhm, detective Flannery? Sono Hannah McCleary. Ci... uhm, ci siamo visti martedì di fronte a casa mia.» Fece smorfia e scosse la testa. Che cosa stava dicendo? Certo che lui sapeva che si erano visti: era stato Flannery a venirla a cercare. «Uhm, avrei bisogno che mi richiamasse appena sente questo messaggio. Sono a casa di mio cugino, lo scrittore. Passo qui alcuni
giorni, per guardargli la casa.» Recitò il numero di telefono e riagganciò di colpo. Doveva essere sembrata una scolaretta nervosa. Sarebbe stato un miracolo se quel poliziotto l'avesse voluta rivedere. Hannah sospirò e guardò la segreteria telefonica. Cancellò i primi due messaggi, ma lasciò registrato quello del maniaco. Voleva farlo sentire al detective Flannery, ammesso che lui la richiamasse. Erano molestie, dopotutto, no? Non si poteva essere arrestati già solo per quello? E non c'era modo di rintracciare le chiamate? Di sicuro c'era la possibilità di impedirgli di tornare a perseguitarla. E se lui la voleva uccidere? Hannah rabbrividì e si alzò dalla scrivania. Tornò di sotto e vide che l'acqua stava ancora bollendo. Si affrettò a spegnere la fiamma, mescolò il contenuto della pentola e cercò uno scolapasta nella credenza. D'un tratto si ricordò che ancora non aveva scaldato il sugo. Lasciò la pasta nell'acqua calda e si mise a cercare un pentolino. Cinque minuti dopo, finalmente, riusciva a sedersi a mangiare. Il gatto si era arrampicato sul bancone, accanto a lei, e annusava il profumo della salsa degli spaghetti. Hannah aveva scovato una bottiglia di vino rosso e l'aveva stappata. Aveva deciso di prendersi una lieve e piacevole sbronza. Le venne quasi da ridere quando si accorse di avere davanti al piatto un bicchiere di vino e uno di Jack Daniels. Si mise a mangiare, alternando l'uno e l'altro bicchiere. Il cuore le batteva forte: il messaggio in segreteria l'aveva messa in allarme. Non riusciva a togliersi quella voce dalla testa. Il telefono squillò. Hannah ebbe un sussulto. Si fermò con la mano sopra il ricevitore. E se fosse stato ancora il mostro? Che cosa avrebbe fatto? Esitò, ascoltando gli squilli: due, tre... E se fosse stato il detective Flannery? Prese il ricevitore. «Pronto?» «Hannah?» «Sì.» «Sono Sean. Il detective Flannery.» «Oh, sì, salve. Grazie per avermi richiamato.» «Che succede? Qualcosa non va?» La voce era rassicurante. «Uhm, c'è un messaggio sulla segreteria telefonica. Credo che l'abbia lasciato lui, l'uomo che mi ha aggredito.»
«Cosa? Davvero?» «Sì, sembra proprio lui, la voce e tutto il resto.» «Ma Hannah... il tuo aggressore è, uhm, in prigione.» Le parve di cogliere un'esitazione nella voce del poliziotto, «Non puoi verificare? Chiedere conferma? Controllare se è in libertà vigilata o qualcosa del genere?» «Be', certo, posso controllare, se vuoi.» «Sì, ti prego, fallo.» La sua sollecitudine le diede un minimo di sollievo. «Va bene, ma probabilmente non potrò fare molto, prima di domani. Che cosa ti diceva nel messaggio?» «Che mi stava venendo a prendere, o qualcosa del genere. Che aveva dei conti in sospeso.» «Accidenti» disse Flannery. «Senti, Hannah, non credo che si tratti del tuo aggressore. Come avrebbe fatto a trovarti? Non sei nemmeno a casa tua, giusto?» «Giusto.» «Allora chiudi bene le porte e non ti preoccupare. Domattina vengo da te, che ne dici? Ascolto il nastro e vediamo di capirci qualcosa, d'accordo?» «D'accordo.» «Bene. Sei più tranquilla, adesso?» «Sì, grazie.» «Prego. E... Hannah?» «Sì?» «Mi ha fatto piacere sentirti.» Flannery riagganciò. Lei sorrise per un istante, ma il panico non se n'era andato del tutto. No, non era vero che era più tranquilla. Ma non avrebbe potuto farci niente, fino all'indomani. 14 Dominic DeLauria era seduto su una Chevrolet Malibu del '97, parcheggiata sulla East 63rd Street, sul lato opposto della strada e poco lontano dalla casa di John Cozzone. L'automobile, di seconda mano, faceva parte delle attrezzature che Pontecorva gli aveva fornito su sua richiesta. La Chevy non era male come macchina, nonostante avesse più di centomila chilometri al suo attivo. Il precedente proprietario l'aveva trattata bene. Gli pneu-
matici erano nuovi e il motore faceva le fusa come un gatto ben pasciuto. DeLauria pensava che il boss avesse ritenuto più conveniente fargli avere quattro ruote, piuttosto che procurargli una macchina con autista ogni volta che gli serviva. Parcheggiare a Lower Manhattan era sempre un casino, ma bastava avere la pazienza di fare qualche volta il giro dell'isolato per riuscire a trovare un posto. Scoprire dove abitava Cozzone non era stato difficile. Lo scrittore non figurava sull'elenco telefonico, ma Pontecorva conosceva vie traverse per procurarsi gli indirizzi delle persone, specie quelle che non volevano essere trovate. Una volta constatato che la casa era effettivamente intestata allo scrittore di nome John Cozzone, DeLauria aveva fatto una telefonata al suo numero di casa, diretta a Hannah. Aveva usato un paio di volte la parola "baby", la stessa che aveva ripetuto lei quando aveva steso Charlie Patrone e il suo guardaspalle. Era solo un modo di farle capire che le stava alle calcagna. Naturalmente era molto probabile che la donna avesse usato un alias e che non si chiamasse affatto Hannah. Dopotutto, ai ragazzi, Cozzone si era presentato come Vincent. Dopo la telefonata, DeLauria aveva tenuto la casa sotto sorveglianza per tutta la notte. Non era uscito nessuno. C'era chiaramente qualcuno in casa: le luci si accendevano e spegnevano a ogni piano. Se si trattava della bambola e di Cozzone, prima o poi sarebbero usciti. Il piano prevedeva di terrorizzarli un po' per volta, lasciargli capire un po' per volta che erano nella merda fino al collo. Sarebbe stata una finezza beccarli mentre cercavano di tagliare la corda: DeLauria non avrebbe avuto alcun problema a sistemare una coppia di ladri e assassini che si erano permessi di fregare la famiglia Pontecorva, specie se tentavano la fuga. Nel caso non avessero cercato di scappare, il killer prevedeva di finire il lavoro nel giro di un paio di giorni. Dopo averli marchiati con la paura, gli sarebbe bastato sfondare la porta di notte e sparargli nel letto. Sbadigliò e considerò la possibilità di fare un salto alla tavola calda in fondo all'isolato per mangiare qualcosa. Pontecorva gli aveva offerto un po' di manovalanza, se la desiderava, e all'inizio DeLauria aveva declinato. Di solito lavorava da solo. Ma, dopo una notte intera appostato fuori dalla casa di Cozzone, cominciava a pensare che un altro paio d'occhi non sarebbero stati una cattiva idea. Ogni tanto un po' di sonno era necessario, se si voleva restare lucidi e attenti. DeLauria prese il cellulare e fece una chiamata. Quando il contatto rispose, gli diede l'indirizzo e richiese rinforzi. Se qualcuno avesse intercet-
tato la telefonata, lo avrebbe preso per un poliziotto. Il contatto garantì che qualcuno sarebbe arrivato, entro un'ora. Il killer si stiracchiò e controllò se dalla casa giungessero segni di vita. Era tutto tranquillo, ma era ancora presto. La gente si stava alzando in quel momento per andare a lavorare. Una Toyota Corolla rossa rallentò, evidentemente in cerca di parcheggio. DeLauria non le prestò molta attenzione, finché non la vide fermarsi accanto al marciapiede nei pressi della villetta di Cozzone. Un uomo sui trent'anni scese dalla Toyota e salì i gradini fino al portone. Indossava un trench grigio. Si sentiva puzza di sbirro fin dall'altro lato della strada. L'uomo suonò il campanello e attese. DeLauria aguzzò gli occhi quando una donna venne ad aprire. Benché parzialmente nascosta dalla porta, intravide una bionda che poteva avere venticinque o trent'anni. Che fosse lei la misteriosa Hannah? Che avesse chiamato gli sbirri a seguito del messaggio che lui le aveva lasciato in segreteria la sera prima? Il poliziotto entrò e la porta si richiuse. Bene, pensò DeLauria. Sapeva aspettare. «Grazie per essere venuto» disse Hannah. Cutler si sfilò il trench e commentò: «Non so perché lo porto. Il tempo è bello. Dev'essere perché si adatta al mio personaggio.» Lo appese al pomolo in fondo al corrimano delle scale. «Allora, parlami del tuo problema.» «Voglio farti sentire una cosà.» Hannah lo precedette sulle scale, fino a uno studio. Il numero 1 lampeggiava sul display della segreteria telefonica. Hannah premette il pulsante di riascolto e guardò Cutler. Lui ascoltò il messaggio lasciato dal maniaco e ne fu compiaciuto. Non si aspettava quel colpo di fortuna. Ne avrebbe senz'altro approfittato. Tutto sommato, la paranoia di Hannah non era frutto di fantasie. «Sei sicura che sia quello che ti ha aggredito?» «Sembra proprio lui.» «Hannah... non è che qualcuno ha voluto farti uno scherzo, per quanto di cattivo gusto?» «No. Non ho nessun amico. E non ho nemmeno nemici, se è per questo. A parte, forse, Timothy Lane. Hai scoperto se è ancora in prigione?» «Non ne ho avuto il tempo. Stamattina sono venuto qui direttamente.» Cutler non aveva idea di come procurarsi quell'informazione. «Lo tengono a...» Schioccò le dita, come se avesse un temporaneo vuoto di memoria. «Rikers Island» rispose lei.
«Giusto. Vedo di scoprirlo, appena torno al distretto.» «E io cosa devo fare? Lui sa dove sono.» Hannah si sedette e cominciò a pizzicarsi le dita, esattamente come la sera prima nello studio dello psicoterapeuta. Era visibilmente agitata. «Non puoi tornare a casa?» suggerì lui. «Non proprio. Ho promesso a mio cugino che sarei rimasta qui. E ho del lavoro da fare. Il mio lavoro. E poi non pensi che, se ha scoperto che sono qui, saprà anche dove abito?» Cutler si grattò il mento, fissandola pensoso. Era così fragile e impotente, seduta su quella sedia, con i suoi occhioni azzurri spalancati. Sembrava Una fanciulla fatata, uscita da un dipinto di Maxwell Parrish. Più la vedeva, più ne era attratto. «Stammi a sentire, Hannah, al momento non c'è niente che possiamo fare. Aspettiamo e vediamo se ti chiama ancora.» «Ma non potete rintracciare la chiamata?» Lui scosse il capo. «Non è così facile come si crede. Servono una richiesta della magistratura e altre scartoffie.» Cutler non era sicuro che fosse vero, ma lei parve credergli. Hannah tacque e riprese a pizzicarsi le dita. «Senti» propose lui «perché non andiamo fuori? Hai già fatto colazione?» Lei lo guardò e quasi gli sorrise. «Davvero? Vuoi?» «Certo. Andiamo. Troviamoci un posto qui vicino.» «Conosco una caffetteria» disse lei. «Dammi un minuto.» Hannah si alzò in piedi, uscì dallo studio e scese di buon passo le scale, fino al piano di sotto. «Ti aspetto giù» le disse Cutler. DeLauria stava per richiamare il suo contatto quando vide riaprirsi la porta della casa. Ne uscirono lo sbirro e la ragazza, che si incamminarono in direzione est, apparentemente senza fretta: Passeggiavano tranquilli, come se volessero andare a fare colazione. Lui li seguì con lo sguardo, specialmente la ragazza. Gli avevano detto che Hannah doveva essere bionda, carina, sui trent'anni, La donna al fianco dello sbirro corrispondeva alla descrizione. Non aveva l'aria di una killer, ma DeLauria sapeva che l'apparenza inganna. Nessuno era mai quello che sembrava. Avrebbe voluto scendere dalla macchina e seguirli, ma doveva aspettare il cambio della guardia. Guardò l'orologio: mancava ancora una ventina di
minuti. Vaffanculo, si disse. Scese dalla Chevy e pedinò la coppia, a debita distanza. Quando svoltò l'angolo della Second Avenue, li vide entrare in una caffetteria sul lato opposto della strada. Perfetto. Non poteva chiedere di meglio. Da lì poteva tenere sottocchio tanto la caffetteria quanto la 63rd Street. Se il rincalzo arrivava, lo avrebbe visto. DeLauria comperò un giornale all'edicola sull'angolo e si appoggiò al muro, guardando in entrambe le direzioni. 15 John Cozzone non sapeva se strangolare Sophia oppure scappare da lei, ma era pronto a fare l'una o l'altra cosa. La ragazza continuava a spaventarlo a morte e lui non sapeva come risolvere la situazione. Erano nel Grant Park, vicino alla grande fontana, nello spettacolare Loop al centro di Chicago. Era una giornata calda e soleggiata ed era in corso una specie di festa. Festival gastronomico di Chicago, lo chiamavano, ma per quanto lo riguardava poteva anche essere il Festival gastronzomico. La folla era soffocante. Erano dappertutto: famiglie con bambini, passanti, ambulanti, borsaioli, sbirri, motociclisti. Gente di ogni età, razza e fascia di reddito. Bisognava essere pazzi per andarci. Gran bel posto per incontrare un trafficante. «Perché hai deciso di vederci qui?» chiese a Sophia. «Ho pensato che sarebbe stato divertente» disse lei. «Hai fame? Tutta quella roba non ti mette appetito?» Cozzone si era fatto troppa coca per pensare al cibo. Gli odori del festival lo nauseavano. «Non ho fame» replicò. «Nemmeno io, credo. Dove cazzo è? Ha detto alla fontana, no?» «Alla fontana.» Quando erano arrivati a Chicago, Sophia aveva insistito perché prendessero una stanza al Drake Hotel, uno dei più costosi. Cozzone aveva dovuto usare la sua carta di credito e sperava che non si trattenessero troppo a lungo in città. Fintanto che non piazzavano la coca, poteva contare solo su quanto gli restava dei miseri proventi dei suoi articoli. E i compensi delle riviste bastavano appena a pagare il taxi. I soldi che aveva tirato fuori per pagare la coca a New York dovevano tornare al più presto in cassaforte e non gli andava di doverseli portare appresso.
Una volta in albergo, Sophia si era sniffata un po' della coca che avrebbero dovuto vendere, aveva chiamato il servizio in camera ma poi aveva scoperto di non avere fame. La scopata non era stata male, la prima da quando si erano messi in strada. Ma il mattino dopo lei aveva ricominciato a dargli ordini. Cozzone era giunto finalmente alla conclusione che Sophia in realtà non gli piaceva. Era lo stereotipo della principessa della mafia: credeva di essere l'equivalente femminile di Tony Soprano. Sotto l'effetto della coca, credeva di essere invincibile, di poter fare di tutto e passarla liscia. Il momento più drammatico era stato quando avevano cercato di vendere la roba e Sophia aveva tirato fuori la pistola. Il contatto di Cozzone, un portoricano, si era presentato nella loro stanza con il suo compadre. I due avevano fatto un balzo sulla sedia appena avevano sentito il prezzo. Sophia aveva alzato la cifra senza preavvisare Cozzone delle proprie intenzioni. E quando Ramòn si era lamentato del cambio di tariffa rispetto a quanto concordato, la ragazza aveva sfoderato la Colt. «Ascolta, amigo» aveva detto. «Le nostre spese sono state più alte del previsto. Te l'abbiamo fatta assaggiare e hai detto che è il meglio che ti è mai capitato. Quindi, baby, se ci stai ci stai, se no alzi il culo e ti levi dalle palle.» A quelle parole, a Cozzone era andata di traverso la saliva. Si era raggelato, aspettandosi che l'amico di Ramòn tirasse fuori una mitraglietta da sotto il tavolo e li spedisse dritti all'inferno. Invece Ramòn aveva alzato le mani. «Va bene» aveva detto. «Ce ne andiamo.» Aveva scambiato un'occhiata con l'amico, dopodiché i due erano usciti dalla camera. Un minuto dopo, Cozzone era esploso: «Ma che cazzo stai facendo?» «C'è di meglio» aveva sentenziato lei, rimettendo la pistola in borsetta. «Ma di che parli? Perché hai alzato il prezzo? Non era questo che gli avevamo promesso.» Cozzone era esasperato. «Vuoi stare zitto? Dobbiamo trovare un compratore più in alto. Possiamo fare il trenta per cento in più, con i contatti giusti.» «Ma sei matta? Tirare fuori una pistola in una compravendita di droga? È così che la gente si fa ammazzare. E se il suo amico aveva un mitra e ci stendeva?» «Be', non lo ha fatto, ti pare? Non lo so, John, a volte penso che non hai le palle per queste cose. Dovrei trovarmi un altro partner.» «Brava! Trovati un dannato nuovo partner!» Cozzone si era alzato ed era
uscito dalla camera. Aveva passato le due ore successive al bar, prima che lei scendesse a raggiungerlo. Nel frattempo si era addolcita e gli aveva persino chiesto scusa. Il mattino dopo, Cozzone aveva telefonato a un altro contatto, un compratore. "più in alto". L'uomo, di nome George, aveva acconsentito all'appuntamento suggerito da Sophia, quel venerdì alla fontana del Grant Park. E ora Cozzone non ne poteva più. Aveva caldo, era nervoso. Si asciugò il sudore dalla fronte e si rivolse a Sophia. «Non credo che verrà. Andiamocene.» «Merda, John. Era un contatto tuo.» «Lo so. Avremo dovuto vendere la roba a Ramòn.» Lei ignorò il commento e strinse gli occhi, guardando alle spalle di John. «Credo che stia arrivando. Muoviamoci.» Cozzone si voltò e vide George, un bianco alto e grosso con lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo. Lo scrittore lo aveva conosciuto diversi anni prima e i due non erano mai stati amici, ma in quell'occasione si comportò come se fossero vecchi compagnoni. «George! Come stai?» disse, tendendogli la mano. L'omone la strinse con forza e disse: «Quanto tempo che non ti si vede, pulcioso italiano che non sei altro. E chi è questa Miss Bellezza?» La ragazza sfoderò il suo fascino. «Sono Sophia, baby.» «Io sono George. Che ne dite se ci tiriamo fuori da questa folla e andiamo a parlare da qualche parte?» Finirono al Drake. Prima di prendere qualsiasi impegno, George voleva vedere il prodotto. Sophia, dal canto suo, voleva vedere i soldi prima di mostrargli la coca. George alzò le spalle e disse che poteva avere in mano la cifra in capo a un'ora. «Non vado in giro con mezzo milione addosso. Cosa credete, che sono matto?» Sophia non cedette. «Allora ci dai un anticipo per l'assaggio. Diciamo cinquecento dollari?» «Che cosa? È la prima volta che lo sento» fece George. Si rivolse a Cozzone: «A che cazzo di gioco stai giocando, John?» «Io sono solo l'autista, George» si giustificò Cozzone. «È Sophia che fa le regole. Il gioco è suo.» «Va bene» disse Sophia. «Sarò onestà. Se quello che assaggi non ti piace, ti riprendi i cinquecento dollari.» George la guardò sospettoso.
Lei batté le ciglia. «Ti do la mia garanzia personale, baby.» George sorrise. «Va bene.» Tirò fuori il portafoglio, contò cinquecento dollari e li mise sul tavolo, davanti a Sophia. Lei prese i soldi e se li mise in tasca. Poi aprì la borsa da palestra e prese un campione di cocaina. Appoggiò lo specchietto sul tavolo e preparò due strisce, quindi porse a George una cannuccia: «Mettiti knock out, baby.» George sniffò la coca, poi ripulì lo specchietto con l'indice. Si leccò il dito e fece un cenno di approvazione. «Wow, gente. Che merda potente!» «Saprai già come tagliarla» disse lei. «Un milione. In contanti. Oggi o mai più.» «Un milione?» fece George. «Al telefono John mi ha detto mezzo.» «Domani saranno già due milioni» disse Sophia. «Più aspetti, più diventa cara.» Il compratore si alzò in piedi. «Datemi un paio d'ore e sono di nuovo qui. Non vendetela a nessun altro, capito? Cazzo, quante buona.» Quando se ne fu andato, John scosse la testa. «Che cosa ti avevo detto?» chiese lei, contenta come una pasqua. George fu di ritorno dopo un'ora e mezza con una Samsonite metallica. La sollevò, la depose sul tavolo e fece scattare tre serrature. All'interno erano ammucchiate mazzette pulite e nuove di zecca di banconote da cento dollari. «Volete contarli?» «Sì» rispose Sophia. «Vai a guardare la TV o a leggerti una rivista, okay? Non mi piace se la gente mi osserva mentre conto.» «Andiamo, George» disse Cozzone, facendogli cenno di trasferirsi sul divano. Il compratore prese una canna e se l'accese. «Mettila via» intimò la ragazza. «Perché?» «Non voglio attirare l'attenzione» puntualizzò Sophia. «Qualcuno potrebbe sentire l'odore dal corridoio.» George si rassegnò e rimise in tasca la canna. Cozzone accese la TV e fece zapping tra i canali con il telecomando, fino a stabilizzarsi su una comica dei Three Stooges. «C'è anche Curly?» chiese il compratore. «A me piacciono solo quelle con Curly.» «Credo di sì» disse Cozzone. Difatti Curly Howard apparve sullo schermo, inseguito da un uomo in costume da gorilla. Venti minuti dopo, Sophia richiuse la valigia e disse: «Bene. Ci siamo.»
Mise sul tavolo la borsa da palestra e l'anticipo di cinquecento dollari. «Non sniffartela tutta in una volta.» George si alzò dal divano e raggiunse il tavolo. Prese la borsa da palestra, ci guardò dentro e disse: «È un piacere fare affari con voi.» «Seh, hai ragione. Ma adesso fuori dai coglioni, baby» disse Sophia. Il compratore si rivolse a Cozzone. «È proprio un amore, vero John?» Lo scrittore rise nervosamente e tese la destra. «Buona fortuna, George.» In quel momento un foro si spalancò sulla tempia del compratore. Un ammasso di sangue e materia grigia schizzò nell'ingresso e il corpo di George si schiantò contro la parete, lasciandosi dietro una scia rossastra. Sophia, in piedi, stringeva ancora la pistola con entrambe le mani. Dopo qualche secondo, abbassò l'arma. «Adesso dobbiamo liberarcene» disse con nonchalance. «E ci teniamo soldi e coca!» «Sophia!» Cozzone stava tremando. Spalancò la bocca, ma non riuscì a trovare le parole. «Cosa... cosa...?» «Andiamo, John, in questo mondo bisogna essere spietati, se si vuole arrivare da qualche parte. Non per niente sono una Castellano.» Lo scrittore era in stato di shock. Barcollò fino a una poltrona del salotto e vi si lasciò cadere. «Niente paura, John. Me ne occupo io. Ma non metterti a frignare e dammi una mano.» Cozzone alzò la voce. «Gesù, Sophia, ma che ti è preso?» «Faccio solo quello che c'è da fare.» «Cristo! Sei pazza! Non sei là stessa persona che ho conosciuto un mese fa a Tribeca.» «Era tutta una finta, John, non capisci?» La ragazza batté una mano sulla valigetta. «Ehi, baby, siamo ricchi!» «Sì, sì. Be', a me non piacciono le finte, Sophia. E non mi piace che diventiamo Bonnie e Clyde. Vaffanculo, Sophia! Vaffanculo!» «John, bisogna sempre fingere. Torneremo alla normalità quando saremo a New York.» «Credi che io voglia salire in macchina con te?» «La vuoi metà dei soldi, sì o no?» Lo scrittore era confuso. Non sapeva cosa fare. «E adesso aiutami a ripulire» disse lei. La sua calma era spaventosa. «Il corpo possiamo buttarlo giù dallo scarico dei rifiuti. Paghiamo il conto e tra un'ora siamo in viaggio. Ti va l'idea?» Cozzone mormorò: «Sì.»
«Bravo. Adesso muoviamoci. A proposito: vaffanculo anche tu, baby.» 16 Hannah e il suo accompagnatore occuparono l'unico tavolo libero nella caffetteria, vicino alla vetrata. Una cameriera di mezz'età con un marcato accento di Brooklyn li accolse con un "Salve, come va" (non era una domanda) e buttò un paio di menù sul tavolo. «Caffè?» «Sì, per favore» rispose l'uomo. Poi guardò Hannah, interrogativo. «Sì, caffè» disse lei. La cameriera sembrava un robot. Si affrettò a riempire due piccoli bicchieri d'acqua, senza far caso a quanta ne rovesciava, poi si allontanò. Lui parlò in falsetto, imitando la donna. «Certo, sarà un piacere servirvi. I caffè arrivano subito!» Hannah sorrise. «Si vede che le piace il suo lavoro» commentò Cutler, tornando alla sua voce normale. «Che cosa prendiamo?» chiese Hannah. «Io uova. Frittelle, magari. E tu?» «Non so.» Lei guardò il menù, ma sembrava distratta. «Cerca di rilassarti» la incoraggiò lui. «Scusa. Sono solo un po' nervosa.» «Non preoccuparti del tipo al telefono.» «Non è lui che mi innervosisce.» «Allora che cosa?» «Il fatto è che sono anni che non faccio colazione con un uomo» disse Hannah, continuando a guardare il menù, ma poi alzò gli occhi verso di lui, per osservarne la reazione. Il detective Flannery le stava rivolgendo un sorriso rassicurante. Questo poteva vederlo. Di solito riusciva a distinguere se una persona era sorridente o accigliata. Il suo problema era che non le era possibile collegare i frammenti del viso in un'immagine coerente. Poteva solo focalizzare lo sguardo su una parte, gli occhi, il naso o la bocca, come se fossero pezzi separati di un puzzle. Doveva far ricorso alla propria immaginazione per assemblarli e creare la somma delle loro parti. Tuttavia, considerando i singoli frammenti, Hannah si accorgeva che il detective era un uomo molto bello. La cameriera tornò con il caffè. Riempì due tazze e indicò una piccola lattiera metallica. «Lì c'è la panna. Avete già deciso?»
«Prego» disse Hannah, rivolta a Flannery. «Io prendo tre uova strapazzate, bacon e pane bianco tostato.» Hannah esitò. «Oh, io lo stesso.» La cameriera annuì, annotò tutto sul taccuino e si allontanò. «Allora, eccoci qui» disse lui. Hannah rise, nervosa. «Già, eccoci qui.» «Parlami del tuo lavoro.» Lei si schermì. «Non c'è molto da dire. Batto al computer i manoscritti di mio cugino, che fa lo scrittore. Gli faccio da assistente personale. Mi piace. Ho molta libertà.» «Sembra idillico. Io a stento trovo un'ora per me stesso.» «Oh, ti sto distogliendo dal lavoro?» «No, no, non intendevo quello. Sono autorizzato a fare colazione. Ho... uhm, chiamato il distretto e ho avvisato che stamattina facevo un po' tardi.» «Da quanto sei un detective?» «Non da molto, in realtà. Sono stato agente di pattuglia per qualche anno e mi sono guadagnato la promozione con il sudore della fronte. Sono stato promosso detective due anni fa.» «Capisco. Sei di New York?» «Io? Nah. Sono della Virginia. Ci sei mai stata?» «No, temo di no. Non sono mai stata da nessuna parte. Sono un tipo noioso.» «Oh, andiamo. Sai una cosa, Hannah? Manchi di autostima. Spero non ti dispiaccia se te lo dico.» «No, non mi dispiace, perché hai proprio ragione. Io, ecco... sono molto timida.» Hannah abbassò la testa. «Non volevo metterti in imbarazzo.» «Non è un problema. Arrossisco facilmente.» «Be', sei molto carina quando arrossisci.» Hannah arrossì ancora di più. La cameriera portò il cibo. «Che rapidità» commentò il detective. La cameriera non gli fece caso, si limitò a mettere i piatti sul tavolo e ad andarsene. Lui assaggiò le uova. «Be', per fortuna il cibo è meglio del servizio.» «È già qualcosa» replicò Hannah. Mangiarono in silenzio per qualche minuto. Poi il detective ruppe l'im-
barazzo dicendo: «Che cosa fai per divertirti?» Lei ridacchiò. «Oh, io non mi diverto. Mai.» «Ma dai!» «No, davvero. Quando dico che sono un tipo noioso, parlo sul serio. Leggo. Ascolto musica. Tutto lì.» «E amiche? Ne hai di amiche?» «Non proprio. Ho una vicina che posso considerare un'amica, più o meno. Tutto qui.» «Non avevi amiche ad Albany?» chiese lui. «Be', sì, ai tempi del liceo, ma...» Lei si interruppe e lo guardò curiosa. «Come fai a sapere che sono di Albany?» Oh, merda, si disse Cutler. Di quello Hannah aveva parlato con il dottor Tom Cagle, non con il detective Flannery. Ma non esitò a rispondere: «Sai, c'era... uhm, nel tuo dossier.» «Oh» fece lei. «E che altro sai di me?» Lui rise. «Che ti piace vestirti di pelle nera e far schioccare la frusta.» Lei aggrottò la fronte. Non l'aveva capita. «Lascia stare» disse lui. «Una battutaccia. Sono uno sbirro, abbiamo tutti un senso dell'umorismo distorto.» Ripresero a mangiare in silenzio. Hannah guardò fuori dalla finestra, sospettosa. «C'è un uomo che ci osserva, sull'altro lato della strada» disse. Lui si voltò. «Dove?» «Quello con il giornale, sull'angolo.» «Come fai a sapere che guarda proprio noi? Sta leggendo il. giornale, mi pare.» «Continua a guardare da questa parte» insistette lei. «Hannah, sei paranoica. Probabilmente sta aspettando qualcuno, oppure l'autobus. Vedi, è vicino alla fermata.» «Vicino alla fermata, ma non alla fermata. Giurerei che ci sta guardando. Ci può vedere attraverso la vetrata.» Lui si voltò verso Hannah. «Ti stai immaginando le cose. Dopo quella telefonata, hai i nervi a fior di pelle.» Lei riprese a mangiare in silenzio. «Vuoi che venga da te stasera?» chiese lui, dopo poco. «Oh, non è possibile. Stasera ho a cena la mia amica Liz.» «Non avevi detto che non avevi amiche?» «Infatti. Lei è la mia vicina. Abita al piano di sotto. Siamo amiche, ma
non ci frequentiamo più di tanto.» Cutler finì le uova e guardò fuori dalla vetrata. L'individuo con il giornale era ancora lì, ma a lui non sembrava sospetto. «Detective Flannery?» fece Hannah. «Sì? Chiamami Sean.» «Sean...» «Sì, Hannah?» «Ti spiacerebbe accompagnarmi al mio appartamento? Vorrei passare a prendere un libro e poi tornare a casa di mio cugino. Hai tempo?» «Ma certo, nessun problema.» Hannah mise giù la forchetta, lasciando il piatto a metà. «Non vuoi altro?» le chiese lui. «No. Non mangio molto.» «Mangi come un uccellino. Non mi stupisco se sei così magra.» «Mi trovi troppo magra?» «No, no. E poi a me piacciono le magre.» La cameriera si avvicinò e Cutler le chiese il conto. Hannah aprì la borsetta, ma lui la prevenne. «Faccio io.» «Sei sicuro?» chiese lei. «Assolutamente.» Contò i soldi e li lasciò sul tavolo. «Pronta?» Lei annuì, ma guardò trepidante dalla finestra. «Non preoccuparti di lui: non è nessuno» la rassicurò lui. «Se lo dici tu.» Si alzarono dal tavolo e uscirono dalla caffetteria, dirigendosi verso nord. Svoltarono a est sulla 72nd Street, per poi imboccare la First Avenue, fino a raggiungere la casa di Hannah. «Vuoi che ti riaccompagni da tuo cugino?» si offrì lui. «No, non c'è bisogno» rispose lei. «Devo prendere un po' di cose di sopra. Grazie lo stesso.» «Non c'è di che.» Lui esitò un istante, poi si protese in avanti e le diede un bacio su una guancia. D'istinto lei si tirò indietro con un "Oh!" «Scusami. Io non...» «No, va tutto bene. Mi... mi hai solo colto di sorpresa.» Hannah appariva turbata. Lui le tese la mano: «Ci vediamo presto?» Lei gli strinse la mano, titubante. «Sì.» «Allora ciao.» Lui le sorrise e riprese il cammino, verso sud.
Hannah lo seguì con lo sguardo ed entrò nell'atrio. Cutler era soddisfatto di com'era andata. Sentiva che stava conquistando la sua fiducia. Ben presto l'avrebbe avuta in pugno. Un movimento attrasse la sua attenzione. Poteva quasi giurare di avere scorto l'uomo con il giornale entrare in un negozio. Accelerò il passo. Era un drugstore. Ma attraverso la vetrina l'uomo non si vedeva. Cutler alzò le spalle. Doveva essere stata la sua immaginazione. Tornò a prendere la macchina, parcheggiata davanti alla villetta del cugino di Hannah. DeLauria attese che lo sbirro superasse il drugstore prima di guardare fuori. Sbirciò in entrambe le direzioni, senza vederlo. Temeva di essere stato scoperto, ma a quanto pareva era al sicuro. Uscì dal negozio e si diresse a nord, verso l'edificio in cui era entrata la donna. Strano. Forse non viveva insieme a Cozzone e abitava da sola. La vecchia casa di arenaria era un semplice condominio. DeLauria entrò nell'atrio e passò in rassegna le cassette della posta. Un nome gli fece inarcare le sopracciglia: HANNAH MCCLEARY. Be', accidenti, pensò. Allora è proprio lei la killer. 17 Hannah tornò a casa di John Cozzone verso mezzogiorno, per rimettersi al lavoro. Lasciò a Liz un messaggio, dandole appuntamento per le sette, dopodiché si mise al computer. Ma la sua mente divagava. Ripensava alla colazione e al detective Sean Flannery. Era un uomo così carino... Hannah non aveva mai conosciuto nessuno come lui. Sean cominciava davvero a piacerle. Purtroppo, per quanto si sforzasse, non le riusciva di ricordare la sua faccia. Era sempre stato così, dopo l'aggressione: non solo non poteva riconoscere i volti delle persone che incontrava, ma non riusciva neppure a ricordare quelli di coloro che conosceva prima. Nemmeno quelli dei suoi genitori, che peraltro erano già morti da tempo. Si domandò se gli orfani non affetti da prosopagnosia riuscissero a rammentare il viso del padre e della madre. Non lo sapeva. I suoi pensieri corsero, inevitabilmente, all'uomo misterioso che aveva visto davanti alla caffetteria. Nonostante quanto le aveva detto Sean, aveva un brutto presentimento. La sua corporatura era identica a quella del suo aggressore. Che fosse Timothy Lane? Negli ultimi cinque anni Hannah aveva imparato a fidarsi del proprio istinto, che in quel momento le lanciava segnali di pericolo.
E se invece il suo aggressore non fosse stato Timothy Lane? E se l'uomo che aveva visto per strada fosse il vero stupratore, tornato per finire ciò che aveva lasciato in sospeso? L'aveva ritrovata e stava seguendo ogni sua mossa. Le aveva lasciato quel messaggio minatorio. La pedinava nei suoi spostamenti da casa propria a quella del cugino, preparando un piano per aggredirla di nuovo, stavolta con successo... Smettila! ordinò a se stessa. La sua fantasia stava galoppando, creando uno scenario su basi irrazionali. Per quanto fosse cosciente della propria paranoia, le occorreva un grande sforzo per evitare che si trasformasse in panico. Guardò l'orologio. Erano le due. Decise che un drink non le avrebbe fatto male. Si alzò dalla scrivania, scese in cucina e trovò nella credenza il suo vecchio amico Jack Daniels. Il rumore dei cubetti di ghiaccio nel bicchiere la rassicurò, prima ancora che bevesse il primo sorso. Portò il bicchiere con sé nello studio, perché le tenesse compagnia mentre lavorava. L'alcol le entrò in circolo, alleviando la tensione. Il pomeriggio trascorse rapido e venne l'ora di preparare la cena. Hannah aveva comprato un pollo intero, qualche patata, lattuga, carote e pomodori. Mentre pollo e patate cuocevano nel forno, preparò l'insalata. Si augurò che Liz portasse una bottiglia di vino, altrimenti si sarebbero dovute accontentare di succo di frutta, bibite o Jack Daniel's. Liz arrivò in ritardo, quasi alle sette e mezza. Quando le aprì la porta, Hannah sentì che il suo alito puzzava di liquore. «Ciao, Hannah» la salutò Liz, con voce leggermente strascicata. «Ciao, Liz. Ti senti bene?» «Ho solo bevuto un po', tutto bene» rispose l'amica, inciampando sulla porta. Urtò Hannah e disse: «Ooops, scusa.» «Accidenti, è un po' presto per essere ubriaca» rise Hannah. «Non ridere. Sempre meglio che tagliarmi le vene.» «Di che parli?» «Ti ricordi che ti ho parlato di Sylvia, la cameriera del bar?» «Uhm, no, non mi pare.» «Ah, no? Pensavo di sì. Be', mi ha mollato.» «Liz, non sapevo nemmeno che avessi una relazione.» «Infatti. Mi ha mollato prima ancora che lo diventasse.» Hannah scosse il capo. «Vieni a sederti. Ti offrirei da bere, ma forse non è il caso.» Liz le mostrò un sacchetto. «Ho portato il vino!» Hannah glielo prese di mano. «Grazie. Mettiti comoda, mentre finisco in
cucina.» «Non voglio mettermi comoda, voglio darti una mano.» «Be', siediti su uno sgabello. Non c'è molto da fare. Intanto rilassati e parlami di Sylvia.» Hannah apparecchiò la tavola, mentre Liz dominava la conversazione, giocherellando con il chai appeso al collo. «Era così bella!» stava dicendo. «Non quanto te, ma dannatamente bella.» Hannah arrossì, ma continuò i preparativi della cena fingendo di non averla sentita. «Ha cominciato a lavorare al bar un mese fa. Una volta le cose ci hanno preso la mano, durante una pausa nel retro, e mi sono fatta qualche illusione. Mi metteva il fuoco addosso, sai com'è. Poco tempo dopo siamo uscite insieme. Siamo andate a cena, poi al cinema e siamo finite a casa sua. Ma dopo quella volta, come cercavo di fare un passo, lei mi dava picche. E infine oggi mi ha mandato a fare in culo.» «In questi termini?» «Più o meno. No, non lo ha detto esplicitamente, ma quello era il sottotesto.» «Che cosa hai fatto per meritartelo?» «Non lo so.» A Liz sfuggì un singulto. «Pardon. Cielo, ho il singhiozzo. Devo farmi un drink. Apri quella dannata bottiglia.» «Non saprei, Liz. Mi sembra che tu abbia già bevuto abbastanza.» Hannah sorrise e scosse la testa. «Aprila, accidenti!» «Va bene, ma non mi svenire, altrimenti...» «Altrimenti?» «Non lo so. Tu non svenire.» Hannah trovò un cavatappi e aprì la bottiglia, che si rivelò un ottimo cabernet cileno. Fecero un brindisi, poi Hannah si sedette sullo sgabello accanto a Liz. «Sarà pronto tra poco.» «Bene, muoio di fame» rispose Liz. Poi notò la bottiglia di Jack Daniels sul banco. «Ehi, c'è anche il dessert.» «Dai, Liz...» Hannah alzò gli occhi al cielo. «Spero non ti dia fastidio, ma stasera ho intenzione di prendermi una bella sbronza.» «Sei già sulla buona strada.» «No, ce ne vuole. E a te come va? Il lavoro?» Hannah alzò le spalle. «Oh, sai, come al solito.» «Notizie dal cugino?»
«Ha chiamato, una volta.» «È carino, vero?» Hannah supponeva che lo fosse, ma non ne era sicura. «Credo di sì.» Liz sbuffò. «Non che a me interessi.» «Non sei mai uscita con un uomo?» «Sicuro, qualche cazzo l'ho preso.» «Liz!» «Dai, non mi dire che non hai mai sentito quella parola.» Hannah scosse la testa: era mutile tentare di deviare la conversazione da quell'argomento. «Sì, sono uscita con gli uomini. Ma non era come ti raccontano. Sai, ti precondizionano. Ti dicono che ti devi innamorare di un uomo, sposarti e vivere sempre felice e contenta. La stronzata del Principe Azzurro, il matrimonio in bianco, una bella casa in una zona residenziale... Un cumulo di cazzate. Credo di avere iniziato a capire che ero diversa quando avevo otto anni, ma non ci ho fatto caso. È stato quando andavo al college che ho cominciato a rendermi conto che non provavo niente quando stavo con un uomo. Con le donne era tutta un'altra storia. Ho avuto la mia prima esperienza lesbo al primo anno ed è stato come la festa del Quattro di Luglio. Nonostante tutto, l'ho ignorata. Mi sono detta: sarà stata una di quelle cose, sai, sperimentazione e tutto il resto. Poi, dopo il college, ho conosciuto Julia. Wow, mi ha convinta. Cazzo, se mi ha convinta. E oggi sono "Liz the Lez" e ne vado orgogliosa.» Hannah non sapeva che cosa replicare. Parlare di sesso la metteva a disagio, che fosse delle preferenze di Liz o delle proprie. Non che avesse molto da raccontare, riguardo al recente passato. «E tu, Hannah? Com'è che non hai un ragazzo?» Hannah alzò le spalle. «Non so. Non sono il tipo di ragazza che piace agli uomini.» «Stronzate. Sei bella. Sei solo timida e tranquilla, ma questa è una cosa che piace a un sacco di uomini. Non è che sei gay, vero?» «No.» Hannah scoppiò a ridere. «Non è che sei bisessuale e stai aspettando che io ci provi, per vedere se scatta la scintilla?» «Temo dì no, Liz.» Hannah continuò a ridere. «Accidenti.» Liz bevve un sorso di vino. «Ehi, sto solo scherzando, sai?» «Lo so.»
«Non voglio metterti a disagio.» Suonò il cicalino del timer. «Oh!» Hannah balzò giù dallo sgabello. «Mettiti a tavola, arrivo subito.» «Macché. Ti do una mano. Non sono mica al ristorante.» Le due donne si sedettero a tavola e cominciarono a mangiare. Il pollo era venuto magnificamente e Liz gli fece onore. Il vino scorreva, mentre si raccontavano delle rispettive infanzie e delle vicissitudini scolastiche. Liz continuò a parlare delle proprie faccende amorose, ma non riuscì a indurre Hannah a parlare delle proprie. «Dai, Hannah, avrai fatto sesso qualche volta, o no?» chiese Liz, senza troppo tatto. «Sì, Liz. L'ho fatto. Non è stato memorabile.» «Quanto tempo fa?» «Dobbiamo proprio parlarne? Sono passati anni.» «Anni? Tesoro, dobbiamo trovarti subito qualcuno con cui andare a letto. È questo il tuo problema. Hai bisogno di un corpo nudo tra le lenzuola.» «Liz!» «Dico sul serio, bella. Stai troppo ritirata. Ti vedo tutta sola nel tuo appartamentino. Mi dispiace per te. Non esci mai, non fai niente per trovarti un amante.» «Non è del tutto vero» rispose Hannah, indispettita. «Forse adesso vedo qualcuno.» Liz inarcò le sopracciglia. «Come hai detto?» Hannah rise della sua reazione. «Può darsi che veda qualcuno. Ancora non lo so.» «Davvero? E chi è?» «Un poliziotto.» «Un poliziotto!» «Ricordi il tipo che mi aspettava fuori casa? Quello di cui mi hai parlato?» «Sì. Lui?» Hannah assentì. «È un detective.» Liz corrugò la fronte e bevve un sorso di vino. «Non è male. Ma non aveva l'aria del poliziotto.» «Perché?» «Boh? Non ne aveva l'atteggiamento. Se è uno sbirro, mi sembra troppo... inesperto. Capisci cosa intendo?»
«No.» «Be', nemmeno io.» Liz alzò il bicchiere. «Ma che importa? Congratulazioni! Racconta.» «Non c'è niente da raccontare. Solo che ci siamo visti stamattina a colazione.» «È un buon inizio. Come si chiama?» «Sean.» Liz fece un cenno di approvazione. Finirono la cena e sparecchiarono. Hannah insistette per lasciare a dopo i piatti sporchi. Liz prese la bottiglia e due bicchieri prima che si trasferissero davanti alla televisione. Ma invece di accenderla, Hannah scelse un CD di jazz e si sedette sul divano accanto all'amica. «Com'è che non ti trucchi mai?» domandò Liz. Hannah alzò le spalle. «Non mi serve.» «Invece sì.» Liz le scostò un ciuffo di capelli biondi dalla fronte. «Sei bella di tuo, ma con il trucco potresti accentuare certi dettagli. Gli occhi. E la bocca: da mangiare di baci.» Hannah abbassò lo sguardo e arrossì. L'alcol cominciava a fare effetto anche su di lei. Si stupiva che Liz fosse ancora cosciente. L'amica le prese una mano nella sua e disse in tono gentile: «Ti è successo qualcosa, vero? Nel passato, voglio dire. Qualcosa di brutto.» Hannah tacque per un istante, ma non ritrasse la mano. Dopo qualche secondo annuì. «Cosa ti è capitato?» Hannah non disse nulla. «A me lo puoi dire. Sono tua amica.» «Non è facile parlarne» mormorò Hannah. «È tutto okay. Fai finta che sia una strizzacervelli.» Hannah rise. «Ce l'ho già. Lo sapevi?» «No, davvero? E a che ti serve?» «Per quello che hai detto tu. Depressione, timidezza, paranoia...» «Wow. Ci vai spesso da lei?» «È un lui. Si chiama dottor Cagle. Finora l'ho visto una volta sola, ma devo tornarci la settimana prossima.» «È bravo?» Hannah annuì. «Sì, Mi ha sorpreso. Di solito non ci credo molto, ma lui ha capito subito quali sono i miei problemi.» «E quali sono, Hannah? Tuo padre ha abusato di te quando eri piccola, o
qualcosa del genere?» «No, niente del genere.» «Allora cosa?» «Ho subito un tentativo di stupro. Un uomo mi ha aggredito nell'atrio di casa nostra, dove ci sono le cassette delle lettere.» Liz sgranò gli occhi. «Oh, mio Dio, Hannah! Davvero? Gesù, e io dov'ero?» «È stato prima che tu ci venissi ad abitare. Cinque anni fa.» «Com'è andata?» «Stavo tornando a casa dalla banca in cui lavoravo. Avevo fatto gli straordinari per finire un progetto. Ho deciso di tornare a piedi perché l'autobus non arrivava. Stavo camminando sulla First Avenue quando questo tipo è spuntato dal buio e ha cominciato a seguirmi. Mi diceva delle cose, voleva che mi fermassi. Io sono andata avanti. Non c'era gente intorno. Era molto strano: erano quasi le undici e in strada non c'era nessuno. Lui mi ha raggiunto al portone. Cercavo le chiavi di casa quando lui mi ha aggredito. Mi... mi ha colpito alla testa. Mi sono svegliata in ospedale.» «Ma lui... voglio dire, non ti ha violentata?» «Apparentemente no. Dev'essere arrivato qualcuno. Credo che mi abbiano sentito gridare e abbiano chiamato la polizia. Lui è scappato. Ci è voluto un po' perché arrivassero i poliziotti. Non so quanto, ma di sicuro troppo. In ogni caso, lo hanno preso qualche isolato più in là. Io ero ancora in stato di incoscienza, ma così mi hanno raccontato.» «Allora lo hanno preso?» «Già. Lo hanno preso un paio di avenue più in là. Si ostinava a dire che non era stato lui, ma aveva dei precedenti. Era già stato accusato di violenza sessuale, ma l'aveva fatta franca, o forse era stato in carcere solo per un po', non ricordo. Comunque lo hanno condannato e lo hanno rinchiuso a Rikers Island. Gli hanno dato sette anni e spero che sia ancora lì. Ho chiesto conferma alla polizia.» «Povera bambina» disse Liz, e l'abbracciò. Hannah, annebbiata dall'alcol, la lasciò fare. Normalmente sarebbe sgusciata fuori delicatamente dall'abbraccio, ma in quel momento le faceva bene un contatto umano. Si strinse a sua volta all'amica. Rimasero a lungo sedute una accanto all'altra, con le braccia intrecciate. Liz si voltò verso Hannah e la guardò negli occhi. Lei studiò la faccia dell'amica. Da vicino riusciva quasi a distinguerla in modo completo. Da dopo l'aggressione, Hannah non si era mai trovata a
quella distanza da una persona e ignorava che effetto potesse avere sulle sue capacità di riconoscimento. Il viso era ancora spezzato in varie sezioni, ma c'era molta più coesione tra l'una e l'altra. Hannah poteva quasi dire che stava guardando una faccia. «Sei molto bella» sussurrò Liz. «Grazie» rispose Hannah. «Anche tu.» Liz si protese in avanti e sfiorò con le labbra quelle di Hannah, troppo inebetita dall'alcol per resistere. E, dopotutto, la sensazione non era spiacevole. Liz premette con forza la sua bocca su quella di lei e ce la tenne. Hannah dischiuse le labbra, invitando la lingua dell'amica a farsi strada. Liz fece lo stesso e Hannah ricambiò. Per parecchi secondi, le due donne si esplorarono a vicenda, in profondità. Quel bacio era una sorpresa, per Hannah, ma non le suscitò affatto repulsione. Si lasciò trascinare dalla corrente, senza pensare a dove avrebbe potuto condurla. Inaspettatamente, fu Liz a spezzare l'incantesimo. «Oh, merda. Dov'è il bagno?» Hannah indicò: «Là in fondo, a sinistra. Tutto okay?» La faccia di Liz sembrava verde. Lei scosse il capo e corse lungo il corridoio, urtando un tavolino. Hannah si alzò dal divano e la seguì, ma Liz sbatté la porta del bagno. Dopo qualche secondo, la sentì vomitare. Hannah rabbrividì e tornò in salotto, incerta sul da farsi. I conati risuonarono ancora per qualche minuto. Quando tornò il silenzio, Hannah ripercorse il corridoio e bussò alla porta del bagno. «Liz, stai bene?» Sentì bofonchiare una risposta affermativa. «Ti serve aiuto? Devo entrare?» Stavolta Liz bofonchiò un no. «Trovi degli asciugamani, nell'armadietto. Ti devo portare qualcosa?» «No, grazie. Mi dispiace.» «Non ti devi dispiacere. Te l'avevo detto che avevi bevuto troppo.» Hannah tornò in salotto e recuperò i bicchieri e la bottiglia vuota. Anche lei si sentiva un po' alticcia, ma non al livello dell'amica. Andò in cucina e mise il vuoto in pattumiera e i bicchieri nel lavandino. Poi tornò in corridoio. «Come va?» La porta del bagno si apri e Liz ne emerse lentamente. Era pallidissima. «Mi sento di merda.» «Vuoi sdraiarti?» Liz annuì.
«Andiamo di sopra» suggerì Hannah. «Mi metto sul divano.» «Non dirlo neanche. Ti trovo un bel letto grande.» Circondò Liz con un braccio e l'aiutò a salire le scale. L'amica tremava e si doveva appoggiare a lei. «Mi dispiace» ripeté. «Lascia stare, va tutto bene.» Raggiunsero il piano di sopra. Hannah aveva deciso di portarla nella camera di John, dove c'era il letto più spazioso. «Un'altra rampa di scale e ci siamo.» A Liz sfuggì un gemito. Continuarono a salire. Quando furono al secondo piano, per poco l'amica non stramazzò sul pavimento, ma Hannah riuscì ad appoggiarla contro la parete. «Okay, manca poco» la incoraggiò, cercando di sorreggerla. Entrarono nella stanza di John. Liz crollò sul letto e, prima che l'altra potesse aprire bocca, si addormentò. E adesso? pensò Hannah. «Che diavolo» disse sottovoce. Tolse le scarpe a Liz e le slacciò la fibbia della cintura. Le sfilò i jeans e il maglione, che riuscì a far passare dalla testa. L'amica era rimasta in reggiseno e mutandine. Hannah si chiese se dovesse toglierle la catenina con il chai dal collo, ma decise di no. La coprì con un lenzuolo e una coperta, poi andò in bagno a far pipì. Quando tornò in camera da letto, Liz stava russando sommessamente. Hannah si spogliò a sua volta, restando con indosso la biancheria, poi si infilò nel letto accanto a Liz. Anche lei non tardò a addormentarsi. 18 Dovettero fermarsi a South Bend, nell'Indiana, perché Sophia non si sentiva bene. Cozzone guardò l'orologio: erano quasi le nove e trenta. Voleva continuare a guidare fino all'Ohio, ma lei aveva insistito perché si fermassero. Lui era uscito a una stazione della Mobile e l'aveva lasciata scendere. La ragazza era corsa al bagno delle Signore con una mano sulla bocca. Cozzone scosse il capo, disgustato. Sophia ci aveva dato dentro con la vodka che si era comprata prima di partire da Chicago e che, sommata a tutta la coca che si era fatta, le aveva procurato il mal d'auto. Lo scrittore l'accolse la bottiglia dal pavimento della BMW e vide che era ancora mezza piena. Decise di disfarsene. A quel punto, Sophia non si sarebbe accorta
della differenza. Scese dall'auto e gettò la bottiglia in un cestino dei rifiuti. Poi andò a fare il pieno, pagando con la carta di credito, e riportò la BMW davanti ai gabinetti, per aspettarla. Quando riemerse, aveva un aspetto terribile. Si appoggiò allo stipite del bagno e non si mosse. Era completamente andata. «Oh, Gesù» si lamentò Cozzone, scendendo di nuovo dall'auto. Aiutò la ragazza a salire sulla BMW e le domandò: «Sophia, ce la fai?» «No» gemette lei. «Senti, non possiamo fermarci in un albergo? Voglio solo dormire.» Stentava quasi a parlare. «Non puoi dormire in macchina, così intanto proseguiamo?» Lei scosse la testa. «Mi fa venire la nausea. Davvero. Devo sdraiarmi e restare immobile per un po'.» Cozzone le chiuse la portiera, girò intorno all'auto e si rimise al volante. Mise la marcia indietro, fece manovra e valutò la situazione. Sophia si accovacciò contro la portiera, gemendo ad alta voce. «Hai intenzione di vomitare di nuovo?» chiese lui. «Può darsi» mormorò lei. «Oh, minchia.» Cozzone avvistò un Best Western all'orizzonte e partì in quella direzione. Un'ora più tardi, Sophia era knock out su un grande letto, morta per il mondo. Cozzone si mise a sedere, preoccupato. Aveva paura che da un momento all'altro qualcuno bussasse alla porta, gridando: "Aprite, polizia!". Già vedeva la propria vita finire nello scarico del cesso, tutto per colpa di una principessa mafiosa psicopatica. Ripensò agli eventi degli ultimi giorni e cercò di dargli un senso. Quella donna era un'assassina. Come aveva potuto mettercisi insieme? Che cosa ci aveva visto? E come sarebbe uscito da quel casino? Era tentato di abbandonarla a se stessa in quell'hotel. Poteva salire in macchina e tornarsene a casa senza di lei. Ma, conoscendola, probabilmente Sophia si sarebbe messa in testa di vendicarsi. Lo avrebbe ammazzato entro una settimana. E poi c'erano tutti quei soldi e tutta quella coca. Quelli non li poteva abbandonare. Lo scrittore guardò la valigetta metallica che conteneva un milione di dollari. Un po' meno, ormai: i trentamila dollari che ci aveva messo lui all'inizio erano stati aggiunti alla somma, da cui tanto lui quanto Sophia avevano attinto varie mazzette, "per le piccole spese". Lei non aveva perso
tempo: si era fermata a un negozio di liquori per rifornirsi di vodka e in una gioielleria per comprare un orologio con brillanti, che aveva pagato sull'unghia. Per il gioielliere era stata una gran bella giornata. Cozzone sospettava che non fosse un'ottima idea spendere troppi soldi in giro. Qualcuno avrebbe potuto parlare. E che dire di George Williams, quel povero coglione che si era fatto ammazzare al Drake Hotel? Che cosa avrebbero fatto le autorità, una volta scoperto il corpo? Sophia sosteneva che non ci fosse nulla che potesse collegare il morto a loro due, ma lui non ne era troppo convinto. Chi lo sapeva con chi aveva parlato George, prima di tornare in albergo a chiudere l'affare? Di sicuro, rifletté Cozzone, aveva dei soci. Più ci pensava, più aumentava la tensione. E la paura. Non era sicuro viaggiare con tutti quei soldi e quella droga. E se l'avesse nascosta? Sophia non se ne sarebbe accorta. Era fuori combattimento. Cozzone guardò l'ora e prese una decisione d'impulso, si alzò in piedi, raccolse la valigetta e la borsa e uscì dalla porta. Scese di sotto in ascensore e trovò il portiere di notte, un ragazzo in età da college cui probabilmente faceva comodo avere in tasca qualche soldo. Gli chiese se ci fossero degli scatoloni vuoti. Il ragazzo gliene trovò qualcuno. Cozzone se ne impadronì, insieme a un rotolo di nastro adesivo da pacchi. Si chiuse in bagno e ricomparve dopo qualche minuto. Allungò mille dollari al portiere di notte e gli chiese di fargli un favore, lunedì mattina. 19 I raggi del sole che filtravano attraverso le persiane svegliarono Hannah, che aprì gli occhi, e avvertì immediatamente una presenza nel letto, accanto a sé. Represse un singhiozzo, si voltò e si rese conto che era Liz. Avevano dormito nello stesso letto. Hannah guardò l'orologio digitale sul comodino. Erano passate le otto. Scivolò silenziosamente fuori dalle lenzuola e si alzò. Camminando in punta di piedi, si apprestò ad andare in bagno. Liz si stiracchiò, emise un gemito e aprì gli occhi. «Buongiorno» la salutò Hannah. «Dove cazzo sono?» chiese Liz, con voce roca. «Sei in casa di mio cugino. Ricordi ieri sera? Abbiamo cenato insieme e tu hai bevuto troppo.»
«Oh, sì. Per un momento ho pensato di essere a casa di mia madre. Quello sì che sarebbe stato un incubo.» Liz si mise a sedere sul letto e si accorse di indossare solo la biancheria intima. Poi guardò Hannah e notò che anche lei era piuttosto discinta. Inarcò un sopracciglio, cercando di ricordare. «Non preoccuparti» disse Hannah. «Non è successo niente.» «No? Pazienza, meglio così. Non che mi sarebbe dispiaciuto. Ma se fosse successo, avrei preferito ricordarmelo.» «Stavi piuttosto male. Ho dovuto portarti di peso fino al letto e ho pensato che c'era posto per tutte e due. Avrei dovuto dormire in una camera degli ospiti, ma sono abituata a stare qui.» «Scusami, spero di non averti dato troppo fastidio.» Hannah le fece cenno che non importava ed entrò in bagno. Quando ne uscì, Liz era in piedi e si stava vestendo. «Meglio che vada» disse l'amica. «Non c'è fretta. Come ti senti?» «Come se mi fosse passato sopra un camion. Mi sento un po' strana. Devo andare.» «Se vuoi restare, sei la benvenuta. Vuoi del caffè?» Hannah indossò i jeans e una camicetta pulita. Liz scosse la testa. «Mi sento molto in imbarazzo. Comincio a ricordare qualcosa della serata. Hannah, se ti ho fatto delle avance o ti ho messo a disagio...» «Liz, non preoccuparti. Adesso non sentirti in colpa e vieni giù a prendere un caffè. Sto per prepararlo.» Hannah lasciò l'amica in camera e scese le scale. Prese due tazze dalla credenza della cucina. Mentre accendeva la macchina del caffè, Liz comparve in salotto. «Io vado. Grazie per ieri sera.» «Sicura? Non hai motivo di sentirti imbarazzata.» Liz andò all'ingresso e notò una busta sul pavimento. «Ehi, c'è una lettera qui. Qualcuno l'ha infilata dalla buca della posta.» Raccolse la busta. C'era scritto solo il nome: HANNAH. «Portala qui, ti spiace?» chiese Hannah. «Chi la manda?» «Non lo dice. Ma è per te.» Liz tornò in cucina e gliela consegnò. «Hmmm» fece lei. «Be', grazie.» «Ci vediamo.» Liz tornò nell'ingresso e se ne andò. Che cosa poteva essere? Hannah guardò la lettera davanti e dietro, ma non trovò alcun indizio. Lacerò la busta e all'interno trovò solo un foglietto di carta bianca, con un breve messaggio battuto a macchina:
EHI, BABY, INDOVINA CHI È? NON PUOI SCAPPARE. LA PARTITA È QUASI FINITA. QUESTA VOLTA ANDRÒ FINO IN FONDO. Hannah lasciò cadere il biglietto come se le scottasse le dita. Un dolore improvviso, lancinante, le si diffuse dal petto verso le estremità. Sentì il cuore accelerare i battiti e qualcosa martellarle nella testa. Avrebbe voluto mettersi a gridare, ma le corde vocali non le rispondevano. È uscito di prigione. Il mostro era libero. E sapeva dove trovarla. Dominic DeLauria sedeva al volante della Malibu con accanto il suo rincalzo, Favio, il giovane che in precedenza gli aveva fatto da autista. Tenevano d'occhio la residenza di Cozzone dall'altro lato della strada. Nella notte, DeLauria aveva infilato la busta nella buca della porta e ora aspettava che la killer facesse la sua mossa. Di sicuro avrebbe tentato la fuga. I due si aspettavano che uscisse di casa da un momento all'altro con una valigia, pronta a fare cenno a un taxi per farsi portare all'aeroporto o alla stazione. Doveva essere una tipa sveglia, altrimenti non sarebbe mai riuscita a fregare in un colpo solo Patrone e il suo guardaspalle. E, se lo era abbastanza, non avrebbe tardato a capire il senso di quei messaggi. Ormai doveva essere giunta alla conclusione che i Pontecorva erano sulle sue tracce e su quelle del suo complice. E Cozzone? Non lo si era ancora visto. Dov'era? Aveva già tagliato la corda? Perché lasciare la ragazza sola in casa? L'unica risposta possibile era che lo scrittore avesse lasciato la città per vendere la cocaina e che presto sarebbe ricomparso. DeLauria avrebbe dovuto aspettare il suo ritorno. E poi li avrebbe uccisi entrambi. Favio aprì un sacchetto marrone e tirò fuori uno spesso sandwich di pane di segale e salame, traboccante di olio e di senape, che gli gocciolarono addosso quando lo addentò. «Cristo, è disgustoso» protestò DeLauria. «Sì, ma è buono» rispose Favio, a bocca piena. Le parole gli vennero fuori come: «Shì, mmh bnnh.» «Quanti anni hai, ragazzo?» Favio mandò giù il boccone e rispose: «Ventitré.» DeLauria era sorpreso. Gliene avrebbe dati meno di venti. «Sei imparentato con i Pontecorva?»
Favio scosse la testa. «Nah. Ma mio zio lavora per Jimmy Fontana.» Questo spiegava tutto. Fontana era un luogotenente di Pontecorva, uno dei suoi caporegime. «Che pezzo porti?» chiese DeLauria. Favio addentò il sandwich e disse: «Smumf ann Weshum.» «Cosa?» Il giovane deglutì. «Smith & Wesson.» DeLauria annuì. Ne aveva abbastanza delle chiacchiere. Non voleva familiarizzare troppo. «Resta qui» gli ordinò. «Trovo un posto in cui andare a pisciare e fare colazione anch'io. Tu continua a tenerla d'occhio.» Stava per scendere dall'auto, ma Favio indicò la casa. «Guarda, la porta si apre.» DeLauria si voltò: una donna robusta uscì dalla casa e si diresse verso la Second Avenue. «E questa chi è?» chiese Favio. «Non lo so» disse DeLauria. «È comparsa ieri sera, mentre tu eri a prendere la pizza.» «Ha passato lì la notte?» «Già.» DeLauria osservò la donna. Non sembrava troppo in forma. Probabilmente lei e Hannah McCleary avevano passato la notte in bianco a sniffare coca, godendosi il frutto delle fatiche di quest'ultima e di Cozzone. Poi a DeLauria venne un'altra idea. E se quella donna fosse stata un "mulo"? Se fosse stata un anello della distribuzione del prodotto? «Non ti muovere» ordinò DeLauria a Favio. «Chiamami sul cellulare se vedi entrare o uscire qualcun altro.» «Dove vai?» «Seguo la donna. Vedo cosa succede.» DeLauria scese dall'auto e si diresse verso est, tenendosi sul lato opposto della strada rispetto alla donna. Lei svoltò a nord sulla Second Avenue, poi a est all'altezza della 71st Street. Fece una sosta in un minimarket per comprare un giornale e una confezione di succo di frutta, poi entrò da un panettiere. DeLauria la aspettò, paziente. Riprese il pedinamento e proseguì fino alla First Avenue, su cui la donna svoltò in direzione nord. Va a casa della McCleary, concluse DeLauria. Ecco com'era. Hannah l'aveva mandata a prendere qualcosa nel suo appartamento, perché aveva troppa paura a uscire di persona. Sapeva di essere sorvegliata. E quest'altra donna c'era dentro fino al collo. DeLauria affrettò il passo fino a trovarsi a pochi metri dalla preda. Come
aveva previsto, la vide puntare verso il palazzo in cui abitava Hannah McCleary. Il killer si immobilizzò appena vide il trench. Lo sbirro che aveva visto entrare e uscire dalla casa di Cozzone era sul marciapiede davanti all'edificio. La donna si fermò a parlargli. Che cazzo succede? La donna lavorava forse per la polizia? Gli sbirri erano già sulle tracce della McCleary e di Cozzone? Non poteva essere altrimenti. Questo cambiava tutto. DeLauria fece dietro-front e tornò verso la 63rd Street, riflettendo sulla situazione e sulla strategia da adottare. La sua missione era recuperare la cocaina di Pontecorva o, alla peggio, il denaro ricavato dalla vendita. Quello era il suo obiettivo. Ma se la polizia ci metteva il naso, era fregato. La donnona poteva essere un grosso ostacolo. Ma la specialità di DeLauria era rimuovere i grossi ostacoli. Bill Cutler si aggiustò gli occhiali finti sul naso e si rivolse alla donna prima che aprisse il portone. «Chiedo scusa, tu sei Liz?» disse, con l'accento della Virginia. «Sì» rispose lei. «E credo di sapere chi sei tu. Sean, vero?» «Infatti. Qualcuno ti ha parlato di me?» Liz sorrise. «Indovina. Cercavi Hannah?» «Sì. È qui?» «Non è in casa, è da suo cugino.» «Ah, ho capito. So dov'è.» Liz lo guardava con curiosità. Probabilmente si stava chiedendo come mai lui non sapesse dov'era Hannah e perché non l'avesse chiamata prima di presentarsi. Cutler cercò di prevenire i suoi sospetti. «Ero da queste parti, per lavoro. Ho pensato di fare un salto.» «Capisco. Piacere di averti conosciuto.» Liz andò verso il portone, poi si voltò. «Spero che tu sia un bravo ragazzo. Trattala bene, Hannah. È molto fragile.» Cutler si finse sorpreso. «Ho forse l'aria di uno che potrebbe trattarla male?» «Sì. Qualsiasi uomo ne è capace.» Cutler squadrò la donna. Ricordò quello che Hannah aveva detto sul suo conto al dottor Cagle. «Vedo che gli uomini non ti stanno simpatici.»
A Liz, evidentemente, il suo tono non piacque. «Senti» disse, risentita «devo andare su a mettere via la spesa. Buona giornata.» «Sai una cosa? Vedresti le cose in modo diverso, se avessi un vero uomo» disse Cutler. Sentiva che stava per perdere le staffe. Quando gli capitava, era come se gli mettessero un paraocchi. E nel momento in cui perdeva la visione periferica, sapeva che rischiava di mettersi nei guai. La donna spalancò la bocca, ma passò qualche secondo prima che parlasse. «Vaffanculo, mister.» Aprì il portone, raggiunse la porta interna, ma poi si voltò di nuovo verso di lui. «Non ci credo che sei uno sbirro. Lo dirò a Hannah.» «Ehi!» gridò lui. Ma Liz era già. sparita dietro la seconda porta. Cutler, infuriato, si incamminò verso sud. Aveva voglia di prendere a botte qualcosa o qualcuno. Le sensazioni che aveva cercato di soffocare negli ultimi anni stavano riaffiorando. Pensò a quello che avrebbe potuto dirgli suo fratello. Le hai prese le medicine, Bill? No, Patrick, non le ho prese. Idiota! Vuoi finire in galera? È questo che vuoi? Vatti a scavare una fossa, Patrick. Cutler svoltò un angolo e raggiunse la Toyota. Forse, se avesse bevuto qualcosa di forte, si sarebbe calmato. Avviò il motore, si immise nel traffico e guidò verso casa, nel Queens. 20 Hannah trascorse il sabato nelle stesse condizioni in cui si era ridotta Liz la sera prima. Aveva cercato più volte di chiamare Sean Flannery, ma lui non le aveva mai risposto, né l'aveva richiamata. Hannah aveva pensato anche di chiamare la polizia, ma aveva lasciato perdere: che cosa avrebbero potuto fare? Dopotutto, lei aveva soltanto ricevuto una spiacevole lettera anonima. Alla fine, si era arresa al Jack Daniels. Si era messa a sedere davanti alla televisione e si era addormentata. Al suo risveglio, era già scesa la notte. Si sentiva malissimo e le ci volle un po' per ricordarsi dove si trovava. Poi si rese conto di essere sul divano nel salotto di John, con Panther ai suoi piedi. La bottiglia di whisky era sul tavolino, aperta e mezza vuota. Hannah si mise faticosamente a sedere e avvitò il tappo sulla bottiglia.
L'orologio digitale sul televisore segnava le nove e venti. Non le sembrava vero di avere dormito tutto il giorno. La sbronza non le era ancora passata. Il gatto miagolò, stiracchiandosi. Aveva saltato la cena. «Va bene, Panther» disse lei, con voce incerta. Si alzò in piedi, appoggiandosi al bracciolo del divano, e si trascinò in cucina. Mise il cibo del gatto in una scodella e andò in bagno. Quando ne uscì, decise che avrebbe fatto meglio ad andare a dormire. Salì le scale, stando ben attenta a non inciampare, ed entrò nello studio. Sulla segreteria telefonica lampeggiava ancora il numero 1, che corrispondeva all'orribile chiamata di Timothy Lane. «All'inferno» disse Hannah, e premette il tasto per cancellarlo. Spense la luce e andò in camera da letto. Si spogliò, lasciando cadere i vestiti sul pavimento, e si infilò tra le lenzuola. Quel sabato sera, Liz Rosenthal arrivò tardi al lavoro. L'alterco con quello stronzo di Sean l'aveva messa di cattivo umore e, ancora sofferente dei postumi della sbornia, si era messa a letto. Aveva dormito fino a sera. Quando si era alzata, aveva pensato di chiamare Hannah, per avvisarla che stava facendo un terribile errore con il suo nuovo ragazzo, ma non aveva il numero di telefono della casa di Cozzone. Provò con il servizio clienti della compagnia telefonica, ma quello dello scrittore risultava un numero riservato. Liz considerò di passare da Hannah mentre andava al lavoro, per dirle che cosa pensava di Sean, ma era troppo tardi. Avrebbe dovuto rimandare i consigli all'indomani. Uscì di corsa da casa e si diresse verso la Lexington Avenue, per prendere la linea 6 della metropolitana. Se il treno non tardava, sarebbe riuscita ad arrivare in tempo. Il suo orario andava dalle dieci di sera alle quattro del mattino ed erano già le nove e trentacinque. Nel breve tratto tra la Third Avenue e la Lexington, Liz ebbe la sensazione di essere osservata. Come uno strano prurito alla nuca. Si voltò e scorse un uomo che camminava verso di lei dall'altra parte della strada. Era troppo lontano e, con il buio, non si riusciva a distinguere chi fosse. Uno qualunque, si disse Liz. Con tutta la gente che ce in giro... Continuò a camminare fino alla stazione. Scese i gradini. Che fortuna, pensò, sentendo lo sferragliare del convoglio. Si vedevano già i fanali del treno. Liz si affrettò a passare i tornelli con la Metro Card.
Il tragitto fino a Lower Manhattan richiese un quarto d'ora. Uscita dalla stazione, Liz camminò in direzione est fino alla Avenue A, dove si trovava l'Alice's: un bar funky in un quartiere hip. La maggior parte dei locali gay erano nel West Side, ma l'Alice's aveva trovato la sua nicchia sul lato opposto dell'isola. Intitolato ad Alice B. Toklas, il bar accoglieva avventori di entrambi i sessi, ma la sua clientela era costituita prevalentemente da lesbiche sopra i trent'anni. Ogni tanto si vedevano anche ragazze più giovani, che tuttavia erano solite preferire i locali più alla moda del West Side. A Liz andava bene. Le piacevano il suo lavoro e il cameratismo del locale. Mentre attraversava la Second Avenue, sentì di nuovo il prurito alla nuca. Si voltò e vide nuovamente quell'ombra, un isolato più indietro, che camminava nella sua stessa direzione. Era lo stesso tipo di prima? Avrebbe scommesso di sì. Il Lower East Side era più buio e meno frequentato. Vent'anni prima sarebbe stato considerato una zona pericolosa, ma ultimamente non era così male. In ogni caso, Liz avrebbe preferito che ci fossero in giro più pedoni. Arrivò felicemente a destinazione. Al suo ingresso, fu investita dalla voce di k.d. lang dagli altoparlanti appesi ai quattro angoli della sala. Il bar non era molto grande e una ventina di clienti erano già una folla. Quella sera ce n'erano di più. Tutte donne. Virginia era al banco e Sally era l'unica cameriera in servizio. Oltre al consueto assortimento di bibite e liquori, il locale offriva sandwich e stuzzichini: niente che richiedesse la cottura, cosa di cui Liz era ben contenta. «Dio, meno male che sei arrivata» disse Sally. «Non è che sono in ritardo?» chiese Liz. «No, solo che siamo pieni.» «Vado un secondo nel retro e arrivo. E, senti...» «Cosa?» Liz dovette parlarle all'orecchio, per sovrastare la musica. «Credo che un tipo mi abbia seguito dalla metropolitana. Non so se voglia entrare qui, ma nel caso tienilo d'occhio. Ha un'aria che non mi piace.» «Tranquilla» garantì Sally. Liz andò al banco e salutò Virginia. «Mi serve il ghiaccio. Sally ha troppo da fare. Sii carina, vammelo a prendere.» Liz rabbrividì. Non voleva uscire dal locale. «Qualche problema?» le chiese Virginia. Doveva mantenere la calma: Virginia èra il boss. «Niente, niente. Vado
subito» disse Liz, prendendo il secchio di plastica che usavano per il ghiaccio. La porta con la scritta PRIVATO dava in realtà su uno stanzino di servizio, con un lavandino che si riempiva di piatti e bicchieri fino alle quattro, quando il bar chiudeva e qualche anima gentile si preoccupava di lavarli. Sulla destra c'era il piccolo ufficio di Virginia e sulla parete di fondo si apriva la porta sul retro. A Liz non piaceva il fatto che la macchina del ghiaccio fosse nel magazzino, una stanza senza riscaldamento in cui venivano accatastati vecchi tavoli, sedie e altre cianfrusaglie. Non si poteva accedere al magazzino direttamente dal bar. Bisognava uscire dalla porta sul retro, percorrere cinque metri a tentoni nel vicolo e aprire un'altra porta chiusa a chiave. Era una grande rottura di coglioni, soprattutto d'inverno. Liz prese la chiave appesa al muro e uscì con il secchio, seguita da una folata di musica. Non mancava mai di stupirla che i vicini non si lamentassero del rumore. Nel vicolo c'era buio pesto, come al solito. Liz aveva suggerito a Virginia di metterci una lampadina. Parole al vento. Raggiunse la porta del magazzino e infilò la chiave nella serratura. Nel momento in cui la aprì, avvertì la presenza alle sue spalle. Nel bar nessuno la sentì urlare. «Allora, che ne facciamo?» chiese Sophia, mentre la BMW procedeva a centoventi all'ora in direzione di Toledo. L'orologio sul cruscotto segnava luna e dodici. A quell'ora non c'era molto traffico sulla Turnpike. «Di cosa?» domandò Cozzone. Aveva il mal di testa e le palle piene di guidare. «Della coca, scemo. Quella che non abbiamo venduto a Chicago.» «Oh, la coca?» «Allora?» «La vendiamo, no?» «Sì, ma quando?» «Gesù, Sophia, siamo seduti su un milione di dollari. Che fretta c'è?» «Meglio liberarsene al più presto. Non si sa mai.» Sophia si voltò per sincerarsi che il bagagliaio fosse chiuso. «Dici che i soldi sono al sicuro, lì dietro?» «Sophia, sono nel bagagliaio. Nella valigia, chiusi a chiave.» «Lo so, lo so. Solo che mi è venuta voglia di giocarci.» Sophia scoppiò a
ridere. «Voglio prenderne una manciata e mescolarli come un mazzo di carte. Voglio strofinarmeli su tutto il corpo. Ehi, fermiamoci in un albergo e scopiamo su un letto di soldi.» «Gesù, Sophia, hai dormito fino a mezzogiorno. Giusto l'ora di lasciare libera la stanza. A momenti ci facevano pagare un'altra notte.» «E che ti frega? L'hai appena detto: siamo seduti su un milione di dollari.» Cozzone sospirò. «Ci siamo messi in macchina da poco. Cristo, hai voluto andare al cinema, hai voluto andare a cena in un cazzo di ristorante di South Bend. Abbiamo perso ore! E adesso vuoi fermarti di nuovo in albergo? Cerchiamo prima di arrivare a Cleveland, okay?» «Non lo so. È tardino. Non ti viene già voglia di scoparmi?» «Non è che non mi va, è che mi scoppia la testa.» La verità era che ormai Sophia gli faceva accapponare la pelle. Cozzone guidava con un occhio sulla strada e l'altro sulla passeggera. Da quando erano partiti da Chicago, la ragazza era diventata strana, imprevedibile, spiazzante. Prima tornavano a New York e meglio era. «Ho la cura adatta.» Sophia tirò fuori una bustina di coca. «No, grazie. Dev'essere quella che mi ha fatto venire il mal di testa. Me ne sono fatta troppa.» «Be', trova un posto in cui fermarti. Magari qualcosa di meglio di un Motel 6.» Lei si portò un cucchiaino al naso e inspirò. «Sophia, se continui così ti intasi il setto nasale. Non ne hai sniffata abbastanza, ieri? Non stavi più nemmeno in piedi.» «Oh, chiudi il becco.» Sophia rovesciò la testa all'indietro e chiuse gli occhi, godendosi l'effetto. Cozzone, rassegnato, continuò a guidare. Premette sull'acceleratore, fino a raggiungere i centoquaranta. E intanto si chiedeva come liberarsi di lei. Non ne poteva più. Era bella, a letto era una tigre, ma era pazza. Doveva trovare il modo di chiudere la storia, darle metà dei soldi e della coca e dirle che non si sarebbero più visti. Era il modo migliore per uscirne. Farla finita una volta per tutte. «Lo sai, la polizia ci darà la caccia» le disse. «E allora? Non sanno neanche chi siamo. Non Ci troveranno.» «Chi te lo assicura?» «Gli sbirri sono fondamentalmente stupidi.» Lo scrittore non replicò. Per un po' non scambiarono una parola. Sophia era sotto l'effetto della
coca e lui era concentrato sulla guida. Dovevano arrivare almeno a Toledo. Di sicuro la polizia stava ricercando una BMW. Non era così facile farla franca come credeva Sophia, dopo un omicidio. «John?» fece lei, sognante. «Sì?» «Perché non ci sposiamo?» Cozzone fece una smorfia. «Stai scherzando, vero?» «No, dai. Siamo una bella squadra.» Lui non commentò. Sophia riaprì gli occhi e sollevò la testa. «Perché, non ti va?» «Sophia, ci conosciamo... da quanto, un mese?» Lei gli si mise vicino e gli sussurrò all'orecchio: «Sì, ma sei arrivato a conoscermi a fondo.» Gli leccò un orecchio. Lui si ritrasse di scatto. «Dacci un taglio. Sto cercando di guidare.» Lei gli piazzò una mano sulla patta. «Forse ti posso convincere che siamo una bella squadra.» Gli tirò giù la cerniera lampo. «Sophia, piantala, non sono in vena.» Lei gli cercò il pene. Lui la ricacciò indietro, con uno spintone. «Ehi!» proruppe lei, guardandola furiosa. «Stronzo!» E cominciò a prenderlo a pugni. «Sophia, piantala!» Le diede un altro spintone, ma lei non si arrese. La BMW sbandò e per un momento Cozzone ne perse il controllo. Riuscì a rimetterla in carreggiata nello stesso istante in cui un violento pugno lo colpiva all'orecchio. Una fitta gli arrivò dritta al cervello. «Aaagh!» gridò. Si ritrasse, premendosi una mano sull'orecchio. Doveva avere subito un danno al timpano, o qualcosa del genere, perché sentiva uno scampanellio assordante e un dolore fortissimo. «John, attento!» urlò Sophia. La BMW sbandò di nuovo, urtando il guardrail che separava i due flussi di traffico sulla Interstate, quello verso ovest da quello verso est. L'auto rimbalzò, slittando verso il margine destro della carreggiata. Oltrepassò una barriera di filo spinato e andò a sbattere contro un cumulo di terra a centocinquanta all'ora. Si sollevò in aria e, dopo un volo spettacolare, capottò due volte e atterrò sul tetto. Nel buio, un faro superstite proiettava il suo raggio di luce sul campo. Il motore stava ancora girando, interrotto da occasionali scoppiettii che rie-
cheggiavano nel silenzio e nella quiete della notte. Dopo quella che le parve un'eternità, Sophia riaprì gli occhi. La prima sensazione fu di umidità. Si passò una mano sul viso e la guardò. Rossa. Di sangue. La seconda sensazione fu di dolore, alla schiena e allo stomaco. La cintura di sicurezza le aveva impedito di essere catapultata fuori dal parabrezza, ma non di battere la testa contro il finestrino, su cui si era disegnata una ragnatela di crepe. Dove si trovava? Tutto era così nebuloso. C'era un uomo steso sul volante, piegato in un angolo grottesco. Chi era? Lo conosceva? Tese una mano e gli sollevò la testa. La faccia non le era familiare. E non era messo molto bene. Poteva anche essere morto. «Ehi, tu» provò a dire Sophia. «Svegliati.» L'uomo non si mosse. Il collo era piegato in modo strano. Una protuberanza che doveva essere il pomo d'Adamo si trovava sotto l'orecchio destro. «Ehi!» Capì che era morto. Non sapeva chi cazzo fosse, ma era chiaro che non avrebbe ripreso a respirare nel prossimo futuro. Sophia guardò fuori dal parabrezza e solo allora si rese conto che l'auto era capovolta. Doveva uscirne. Lottò con la cintura di sicurezza, cercando di capire come sganciarla. Alla fine ci riuscì e dal sedile cadde sul tetto. Per un po' rimase immobile in quel mondo rovesciato. Lo sconosciuto era tenuto appeso al sedile dalla cintura di sicurezza, come un burattino rotto. In preda a un panico improvviso, Sophia si mise a urlare. Cercò freneticamente la maniglia. Quando la trovò, tentò di aprire la portiera, che si scostò solo di pochi centimetri. Era bloccata da qualcosa. Sophia la spintonò, fino ad aprirla quanto bastava a strisciare fuori. Il dolore alla schiena divenne intollerabile. E c'era qualcosa che non andava anche alla gamba sinistra. Ma lei non cedette e riuscì a sgusciare fuori dal veicolo. Sentì il suolo freddo. Erba. Terriccio. Continuò a strisciare sul terreno per qualche metro, poi si sdraiò sulla schiena per riprendere fiato. Il dolore alla spina dorsale si placava, se la teneva dritta, ma quello alla gamba non le dava tregua. Una cosa per volta. Sopra di lei, tre quarti di luna illuminavano il mondo circostante. Dopo qualche minuto, si sollevò quanto bastava a guardare la gamba. Aveva uno squarcio nei blue jeans, attraverso il quale si vedeva un taglio sulla coscia. Era tutta coperta di sangue.
Piano piano, con cautela, si alzò in piedi. Sarebbe riuscita a camminare? Mise un piede davanti all'altro, procedendo insicura come un bambino ai primi passi, e si allontanò dall'auto. La gamba le faceva un male d'inferno, ma poteva farcela. Dove si trovava? Cosa ci faceva in quella macchina? Chi era quello che guidava? Non lo sapeva. Aveva sentito parlare di amnesia, ma non aveva mai pensato che potesse succedere davvero. Come si chiamava? «Sophia Cabrini» disse a voce alta. Bene, il suo nome lo sapeva. Dove viveva? «New York City» mormorò. Eccellente. Non tutto era perduto. Ora doveva trovarsi un posto in cui sdraiarsi, per un po'. Forse sarebbe riuscita a farsi dare un passaggio. La polizia. Poteva chiamare la polizia. No, aspetta. Non poteva chiamarla. C'era qualcosa che non andava, anche se non sapeva cosa. Ma era sicura che, per qualche ragione, doveva tenersi alla larga dagli sbirri. Forse le sarebbe venuto in mente, dopo qualche ora di sonno. Tornò alla macchina e, nonostante il dolore, si accovacciò a terra e guardò dentro. In basso, sul tetto, c'era una borsetta. Era la sua? La prese e guardò dentro. Ci trovò un portafogli rigonfio di biglietti da cento, una patente di New York con il suo nome e la sua foto, e una pistola. Curiosa, Sophia la prese in mano e la esaminò. Era sua anche questa? Le sembrava di ricordare di avere una pistola, ma a cosa le serviva? Alzò le spalle e la rimise nella borsetta. Sul fondo c'era un telefono cellulare. Lo prese, lo aprì e cercò di comporre il 911, il numero di emergenza. L'apparecchio non funzionava. Doveva essersi rotto nell'incidente. Sophia si rimise in piedi e barcollò per una quindicina di metri, fino a raggiungere il ciglio della strada. Si guardò indietro. Da lì l'auto non si vedeva, solo il raggio di luce del faro tra le spighe. Prima o poi qualcuno l'avrebbe notato e si sarebbe fermato. Sophia si incamminò sul bordo della strada, nella stessa direzione da cui presumeva provenisse l'auto. Un camion le passò accanto, suonando il clacson, ma non rallentò né tantomeno si fermò. Lei si voltò di nuovo verso la strada, per vedere se ci fossero altri veicoli in arrivo. Avvistò una coppia di fari in lontananza e agitò una mano, come per fermare un taxi in città.
L'auto le passò accanto a tutta velocità. Neanche fosse stata invisibile. Dopo dieci minuti e altre tre auto che passarono senza fermarsi, Sophia scorse un cartello che segnalava un'uscita: WAUSEON - 3 MIGLIA. «Cazzo» disse. Si incamminò sulla rampa e, con la mente annebbiata, proseguì alla volta di Wauseon, del tutto ignara di essersi lasciata alle spalle più di un milione di dollari insieme a un cadavere sconosciuto. 21 Anche se era domenica, Bill Cutler andò negli uffici della MedScript per fare qualche fotocopia del suo curriculum teatrale. Non esitava mai a rubare la cancelleria e servirsi delle attrezzature dell'ufficio, uno dei pochi vantaggi offerti dal suo lavoro. Aveva dormito fino a tardi, poi aveva preso la macchina e verso le undici era giunto a Manhattan. Il palazzo era semideserto: gli studi medici erano chiusi e solo qualche stacanovista veniva in ufficio di domenica. Cutler salutò il guardiano al piano terra, prese l'ascensore e salì al piano della MedScript. Andò dritto alla scrivania e vide lampeggiare la spia della segreteria telefonica. Il primo messaggio era di Patrick: parlava di una villetta di Manhattan che aveva visitato, ma di cui non era convinto. Chiedeva a Bill di informarsi se ci fossero case sul mercato, preferibilmente nell'Upper East Side. Sì, ceno, pensò Bill. Moriva dalla voglia di fargli questo favore. Il secondo messaggio, risalente a sabato, era di Hannah McClear che sembrava isterica. Arrivava dalla linea riservata al detective Sean Flannery. Non era stato difficile: le chiamate ai numeri che aveva dato a Hannah, tanto per il dottor Cagle quanto per il detective Flannery, arrivavano al suo cellulare o venivano trasferite alla sua segreteria telefonica alla MedScript. "Sean, sono Hannah. Timothy Lane è uscito di prigione. Mi ha fatto arrivare una lettera a casa di mio cugino, quindi adesso sa dove sono. Ha minacciato di uccidermi. Chiamami, ti prego!" diceva il messaggio. Hannah aveva lasciato altri tre messaggi destinati al detective Flannery, il giorno precedente. Che cosa stava succedendo? Era uscita di testa? Quella donna aveva proprio bisogno di farsi curare. Cutler si grattò il mento. Da un lato, gli eventi giocavano a suo favore. Dall'altro, potevano creargli qualche problema. Era chiaro che Hannah
McCleary soffriva di allucinazioni e di mania di persecuzione. Le serviva sul serio uno strizzacervelli. Cutler prese il telefono e compose il numero della residenza di. Cozzone. Hannah rispose dopo due squilli. «Pronto?» «Hannah, sono Sean» disse adottando il sottile accento meridionale tipico della Virginia. «Oh, Sean, grazie a Dio hai chiamato. Ho tanta paura. Dove sei stato ieri?» «Ehi, ehi, tranquilla. Sono stato fuori tutto il giorno per un caso. Mi spiace. Che succede?» «È Timothy Lane. Mi sta perseguitando! Ha messo una lettera nella buca della posta di mio cugino. Mi vuole uccidere!» Hannah era prossima a una crisi di nervi. «Aspetta un momento. Tira un respiro profondo.» «Hai scoperto qualcosa sul suo conto? Quando è uscito di prigione?» Cutler decise di lasciarla nelle sue illusioni, così avrebbe potuto interpretare il ruolo del cavaliere bianco dall'armatura lucente e le si sarebbe infilato nel letto a tempo di record. «A quanto sembra, una settimana fa. Libertà sulla parola. Succede. Si fanno qualche anno di galera e poi escono.» «Perché nessuno me lo ha detto?» «Il magistrato non è tenuto a farlo, Hannah. Lane ha pagato il suo debito con la società.» «Ma è pericoloso! Mi sta minacciando.» «Cercherò di passare da te stasera. Nel frattempo, credo che dovresti andare dal tuo terapeuta. Cerca di vederlo oggi e fatti dare qualcosa per calmarti.» «Di domenica?» «Chiamalo. Chissà mai. Magari può riceverti. Provare non costa nulla.» «Ho paura a uscire.» «Hannah, siamo in pieno giorno. Non credo proprio che Lane stia in agguato dietro la tua porta. Andrà tutto bene. Senti, mando un'auto di pattuglia a fare qualche giro dell'isolato, per controllare che non ci sia niente di sospetto. Okay?» «Okay.» «Senti, Hannah, ce l'hai una pistola?» Il dottor Cagle conosceva la risposta, ma il detective Flannery no. «Ne ha una mio cugino.» «Sei capace di usarla?»
«Credo di sì. Si prende la mira e si spara, no?» «Essenzialmente è così che funziona. Tienila a portata di mano. Se qualcuno cerca di forzare la porta, sparagli. Senza tanti complimenti.» Cutler trovava esilarante la propria interpretazione. Quando mai uno sbirro avrebbe incoraggiato apertamente un civile a usare una pistola contro un intruso? Ma lei se l'era bevuta. «Dici sul serio?» «Ma certo. La gente ha il diritto di proteggersi. Però adesso chiama il tuo dottore, d'accordo? Io ti ritelefono tra un po'.» «D'accordo.» «Tutto okay?» «Credo di sì. Mi manchi.» Cutler sorrise. Hannah si stava innamorando. «Anche tu mi manchi. Ci sentiamo dopo.» Riagganciò. Quanto è ingenua, pensò. Proprio non ci sta con la testa. E sta cadendo in trappola. Tre minuti dopo il telefono Squillò. Cutler controllò la linea e fu lieto di constatare che la chiamata era destinata allo psicoterapeuta. Adottò l'accento di Boston e rispose: «Dottor Cagle.» «Dottore, sono Hannah McCleary.» «Oh, sì, Hannah! Come stai?» «Non troppo bene. Credo di avere bisogno di lei. Mi sento a pezzi.» «Perché? Qual è il problema?» «L'uomo che mi ha aggredita è uscito di prigione e sono sicura che mi sta perseguitando.» «Ti perseguita? E perché?» «Non lo so. Per vendicarsi del fatto che l'ho fatto condannare, credo.» «Hmm, be'... oggi sarebbe domenica, ma forse ci possiamo vedere lo stesso nel mio studio. Ci devo andare comunque, per compilare un po' di scartoffie. Non è che potresti venire subito?» «Penso di sì.» «Bene. Ti aspetto... diciamo tra mezz'ora?» «Va bene.» Conclusa la telefonata, Cutler lasciò gli uffici della MedScript e prese l'ascensore. Nessuno lo vide appendere il cartello del "dottor Cagle" sulla porta del magazzino e sparirvi all'interno. Sophia Cabrini si svegliò al passaggio di un camion. Il clacson risuonò nel cielo.
Nel cielo? Aprì gli occhi e mise a fuoco quello che sembrava l'oscuro soffitto di una caverna. Il panico stava per avvilupparla, ma poi si ricordò dov'era. Era un troncone di conduttura abbandonato, uno dei tanti ai margini dell'area di servizio. Durante la notte Sophia aveva trovato riparo nel tubo e si era addormentata. Questo era stato dopo aver raggiunto l'area di servizio camminando come uno zombie, destando occhiate curiose e domande imbarazzanti. Una cameriera, masticando un chewing-gum, le aveva chiesto se le servisse aiuto. Sophia aveva scosso la testa, rispondendo: «Dimmi solo dove il bagno.» Quando si era vista allo specchio, era quasi svenuta. I capelli e la camicetta erano impregnati di sangue secco. La ferita alla fronte non era poi così drammatica: si era coagulata e non sembrava richiedere punti. La testa le doleva, ma probabilmente sarebbero bastate un paio di aspirine a risolvere il problema. Il taglio sulla coscia non aveva un bell'aspetto, ma il bendaggio che Sophia aveva improvvisato qualche ora prima sembrava avere favorito il processo di guarigione. Non aveva di che preoccuparsi. Si era lavata i capelli nel lavabo e si era ripulita dal sangue. Nella borsetta aveva trovato rossetto e matita per gli occhi. Grazie al trucco, il suo aspetto era decisamente migliorato. Con i capelli bagnati, era tornata nella stazione di servizio, dove aveva preso una T-shirt con la scritta BENVENUTI IN OHIO! e un flacone di antidolorifici. «Hai qualche problema, bella?» le aveva chiesto la cameriera, alla cassa. «No» aveva risposto Sophia. Voleva solo andarsene e smettere dì attirare l'attenzione. Non riusciva a togliersi dalla testa l'idea di avere qualcosa di grave sulla coscienza e la polizia alle calcagna. Doveva al più presto trovare un posto in cui dormire indisturbata e cercare di ricordare che cosa le fosse successo. Lasciata l'area di servizio, si era incamminata sul ciglio dell'autostrada, dove aveva visto i tubi. Erano sezioni di conduttura lunghe quasi tre metri, con un diametro di un metro e mezzo. Era estate e l'aria notturna era ideale per dormire all'aperto. Sophia aveva deciso che era troppo stanca per proseguire e, controllato che nessuno la vedesse, si era infilata nel tubo più lontano dall'area di servizio. Aveva aperto il flacone, ingurgitando due compresse senz'acqua. Quasi ci si era soffocata. Poi si era rannicchiata in posizione fetale, abbandonandosi al sonno.
Ora il sole era alto. L'orologio di Sophia segnava le dieci e trentacinque. Aveva dormito circa sei ore. E finalmente si ricordò di John, l'auto, l'incidente. I soldi. «Oh, mio Dio!» disse a se stessa. Tornò di corsa alla stazione di servizio e guardò dentro. C'erano sei uomini che bevevano il caffè e un'altra cameriera di turno. «Uhm, scusate?» aveva detto. Tutti si voltarono verso di lei. «Mi servirebbe, uhm, un passaggio di qualche chilometro sull'autostrada per l'Indiana. Credo di avere lasciato qualcosa sul ciglio della strada. Qualcuno mi può aiutare?» Nessuno aprì bocca. «Sono solo pochi chilometri. Ho avuto un incidente. Devo vedere se la macchina è ancora lì. Devo prendere una cosa.» «Era una BMW?» chiese uno dei camionisti. «Sì.» «L'hanno portata a Wauseon stamattina. C'era anche lei su quella macchina?» «L'hanno portata via?» chiese lei, incredula. E adesso come avrebbe fatto a recuperare i soldi? «Dove la posso trovare?» «Dovrà rivolgersi all'ufficio dello sceriffo. È probabile che le vorranno parlare. Pare che sia morto qualcuno.» Sophia provò un senso di vertigine. Era vero. John era morto. «Signorina?» chiese il camionista. «Vuole che le chiami lo sceriffo?» «Non importa» rispose lei, e andò alla porta. Corse via, prima che qualcuno la seguisse. Avrebbero chiamato la polizia, l'avrebbero cercata. Aveva lasciato la scena di un incidente in cui era morto un uomo. E se avevano trovato i soldi? O la cocaina? Un milione di dollari in contanti e qualche chilo di coca nel bagagliaio della BMW di un morto non potevano passare inosservati. Certo che gli sbirri le avrebbero voluto parlare. Sophia aspettò qualche minuto. Un uomo uscì dalla stazione di servizio e tornò verso il suo camion. Non era quello con cui aveva parlato. Era giovane e piuttosto carino. Sophia decise di provarci. Spuntò da dietro la costruzione e lo chiamò: «Ehi.» L'uomo si voltò. «Non è che stai andando a Wauseon?»
«No, vado a Toledo.» «Ma Wauseon è vicina, vero?» «Tre chilometri.» «Non è che mi daresti un passaggio?» buttò lì, cercando di assumere un tono da gattina sexy. Il ragazzo la guardò da capo a piedi, chiedendosi se l'avrebbe messo nei guai. Dall'aspetto, la ragazza doveva essersela vista brutta. E da quello che lui aveva sentito al bar, i poliziotti la stavano cercando. Probabilmente sarebbe stato meglio non immischiarsi. D'altra parte era una bella ragazza. E aveva un corpo fantastico. «Va bene. Salta su.» Sophia sorrise e lo seguì fino al camion. 22 L'idea di uscire la riempiva di angoscia. Hannah prese la borsetta, scese le scale e si fermò sull'ultimo gradino. Sean le aveva detto di tenere la pistola a portata di mano, per proteggersi. E se Lane la stava aspettando là fuori? Risalì le scale, andò nella camera da letto di John e, senza esitazioni, aprì il cassetto in basso e prese il piccolo forziere. Lo appoggiò sul letto, lo aprì e impugnò la pistola. Era pesante. Su un lato era incisa la parola BROWNING. Avrebbe saputo come usarla? Aveva visto tante volte, al cinema e alla televisione, poliziotti e criminali che caricavano le pistole. Sapeva che il caricatore era nell'impugnatura. Lo estrasse, vide che era pieno e lo rimise nell'arma. La pistola le dava una sensazione di potenza. La tenne dritta davanti a sé e guardò attraverso il mirino. Sapeva che doveva esserci la sicura, da qualche parte. Esaminò l'arma da vicino, fino a trovarla. Si accertò che fosse inserita e mise la pistola in borsetta. In strada non notò niente di strano. C'erano molte auto parcheggiate lungo il marciapiede, tutte vuote. Hannah chiuse a chiave la porta e si avviò con passo rapido verso la Second Avenue. Meglio non aspettare l'autobus: avrebbe preso un taxi. A una decina di metri dall'angolo scorse due uomini seduti in macchina, sull'altro lato della strada. La stavano guardando. Hannah fece come ogni donna newyorkese in quelle circostanze: tenne la testa alta e continuò a camminare. Si sentì trafitta dai loro sguardi. Avrebbe voluto voltarsi, per vedere se riusciva a riconoscerli, ma sarebbe stato un esercizio inutile. Non
solo erano lontani, ma con la sua maledetta prosopagnosia le loro facce non le avrebbero detto niente. Svoltò l'angolo e avvistò un taxi. Lo fermò con un cenno e si affrettò a salirci. «Che vuoi fare?» chiese Favio. «Ancora niente» rispose DeLauria. «Lasciamola andare, per adesso. Tornerà.» «Come lo sai?» «Non ha valigie. E poi voglio beccarla insieme a Cozzone.» «Non sappiamo nemmeno che faccia ha.» «Ho visto una sua foto. Prima o poi tornerà a casa.» DeLauria e il suo giovane collega rimasero seduti sulla Malibu, seguendo la bionda con lo sguardo. La videro svoltare l'angolo e salire su un taxi. La donna non sembrava avere fretta. Che avesse appuntamento con Cozzone, da qualche parte? Sapeva che la tenevano d'occhio: poteva averlo chiamato per metterlo in guardia. Oppure stava andando dal suo boss, se ce l'aveva. «Sì, forse faremmo bene a seguirla» decise DeLauria. Avviò il motore e fece una rapida manovra per uscire dal parcheggio. In uno stridore di pneumatici, la Chevrolet girò l'angolo e accelerò sulla Second Avenue. Hannah arrivò all'appuntamento venticinque minuti dopo la telefonata al dottor Cagle. Mentre entrava nel palazzo, notò la Chevy Malibu che accostava al marciapiede, una quindicina di metri dietro il suo taxi. Alla reception compilò il modulo destinato ai visitatori, quindi prese l'ascensore. Nel corridoio si allineavano le porte di vari uffici, nessuno dei quali era uno studio medico. Una volta di più, le parve strano che uno psicoterapeuta avesse il suo studio al sesto piano, quando tutti i suoi colleghi erano ai piani bassi. Ma chi era lei per mettere in discussione i dettami della professione medica? Vide il cartello sulla porta del dottore e bussò. «Avanti.» Quando entrò, il dottor Cagle era in piedi davanti alla libreria e stava maneggiando un cartone sagomato raffigurante un uomo in giacca e cravatta, a grandezza naturale. Hannah non riusciva a distinguere se fosse un attore o un politico.
«Ah, salve, Hannah. Vieni, accomodati.» Lei si chiuse la porta alle spalle e si sedette. «Che cosa sta facendo?» Il dottore ridacchiò. «Oh, sono un grande sostenitore del presidente Bush. Ho pensato che sarebbe stato divertente averlo qui in effigie.» «Sarebbe lui?» «Sì. Oh, chiedo scusa. Non lo hai riconosciuto, naturalmente, È George W. Bush. Non è eccezionale? L'ho trovato in un negozietto in Times Square e non ho saputo resistere.» Il dottore finì di sistemare la sagoma. Hannah trovava alquanto incongruente la figura di quell'uomo alto dal ghigno stupido con lo studio di uno psicoterapeuta. «Allora?» disse Cagle, sedendosi alla scrivania. «Cosa c'è che non va?» Hannah si protese in avanti e parlò a bassa voce, gli occhi spalancati dalla paura. «È tornato, dottor Cagle. Timothy Lane. Mi vuole uccidere.» «E tu come fai a saperlo?» «Mi ha mandato una lettera. Dice che mi sta sorvegliando. Mi aggredirà quando meno me lo aspetto.» Cutler si accigliò e, non visto, scarabocchiò sulla cartella della paziente: "Questa donna è completamente pazza!" «Ne sei sicura?» le chiese. «Certo che sono sicura!» «Hai portato la lettera?» «Oh» fece Hannah, corrucciata. «Avrei dovuto. Volevo portarla, ma l'ho lasciata a casa. O meglio, l'ho lasciata a casa di mio cugino.» Cutler assentì, sicuro che si fosse immaginata tutto quanto. Erano tutte allucinazioni: non c'era nessun biglietto, nessuno stupratore folle che le desse la caccia. C'era, quello sì, il messaggio sulla segreteria telefonica, ma doveva essere uno scherzo di qualcuno. «Va bene, senti: devi prendere una di queste adesso e un'altra prima di andare a dormire.» Aprì il cassetto della scrivania e ne prese un flacone di vitamina C cui aveva tolto l'etichetta, sostituendola con quella di uno dei suoi farmaci. Mise due compresse in una bustina e gliele consegnò. «Che cos'è?» «Un blando sedativo. Dovrebbe rilassarti.» «Non voglio rilassarmi! Voglio reagire!» «E come pensi di reagire, Hannah?» «Voglio dirgli di uscire dalla mia vita! Voglio spaccargli la testa per quello che mi ha fatto l'altra volta! Voglio sparargli! Non merita di essere
fuori di prigione, non merita nemmeno di vivere!» Dio mio, pensò Cutler, è sull'orlo della follia. Ossia, proprio dove lui la voleva. «Ti ricordi quello che abbiamo inscenato qui l'altra volta?» «Sì.» «Come ti ha fatto sentire?» «Meravigliosamente. Dopo mi sono sentita a posto. Non possiamo rifarlo?» «Certo. Perché non facciamo pratica con il presidente Bush? Sarebbe un'ottima controfigura per il tuo aspirante stupratore.» Hannah si alzò e andò dall'altra parte della stanza. Cutler tirò fuori la pistola giocattolo dal cassetto, ma lei aveva già preso una Browning dalla borsetta. «Hannah, cos'è quella?» «La mia pistola. Mi serve per proteggermi.» «Dio mio, non sarà carica, vero?» «No.» Hannah puntò la pistola sulla sagoma di George W. Bush. D'un tratto Cutler sentì le mani sudate. Si augurò di non avere tirato troppo la corda. Aveva a che fare con una donna che soffriva di seri disturbi mentali, che sapeva capace di tutto. Di sicuro non voleva che andasse in giro con una pistola carica. Doveva convogliare tutta la sua fiducia su Sean Flannery. «Molto bene» cominciò. «Chiudi gli occhi.» Lei gli obbedì. «Sei tutta sola. Sei a casa tua. Oppure a casa di tuo cugino. Dovunque tu sia, non c'è nessun altro. Senti un rumore all'esterno, dietro la porta. Arriva qualcuno. Senti suonare il campanello. Non vuoi andare ad aprire, perché sai già che è lui. Sai che è l'uomo uscito di prigione che torna per tormentarti. Che cosa fai?» In piedi, con gli occhi chiusi, Hannah scivolò nella fantasia. Era tutto così reale, nella sua mente, che riusciva persino a immaginare i rumori e gli odori della camera da letto, a casa del cugino. Poteva vedere Panther accovacciato sulle lenzuola, la biancheria di John sparpagliata sul pavimento... «Prendo la pistola» rispose. Nel dirlo, sollevò l'arma e tese il braccio davanti a sé. «Apri gli occhi.» Lei li aprì. «L'uomo di fronte a te in questa stanza è la tua nemesi. È lui che ha cercato di violentarti. È lui che ti ha inflitto la tua disabilità, impedendoti di
riconoscere le persone. La colpa è sua, Hannah. È lui che deve pagare. Sei in piedi con la tua pistola e lui entra nella stanza. Lui è lì con te, adesso.» Cutler notò che il respiro di Hannah stava accelerando. Nei suoi occhi balenava una follia senza precedenti. Fu in quel momento che Cutler si sentì di nuovo come se gli avessero messo un paraocchi. Visione a tunnel. Provò un senso di disorientamento e confusione. No, non qui! Non ora! Non ancora! Cutler la guardò come se lui non fosse veramente nella stanza, come se il suo corpo fosse presente e lo spirito ne fosse fuori. Non era la prima volta che gli capitava. Concentrati! ordinò a se stesso. Sentì riecheggiare le parole del fratello. Vuoi finire in prigione? Cutler chiuse gli occhi, strinse le palpebre, poi le riaprì. Hannah era ancora lì, con la pistola in mano, in attesa di un suo ordine. Cutler vedeva di nuovo normalmente. Era riuscito a riprendere il proprio autocontrollo. «Molto bene, Hannah» disse, con la voce del dottor Cagle. «Puoi mettere giù la pistola.» Ma lei non lo fece. Non lo aveva sentito? «Signorina McCleary, l'esercizio è finito.» La detonazione fu così assordante che Hannah lanciò un urlo e Cutler sussultò. La sagoma di George W. Bush aveva un grosso buco in pieno petto. Il falso dottore si alzò dalla scrivania e andò a guardare dietro: alcuni libri erano stati obliterati. Grazie al cielo, dall'altra parte del muro c'era il magazzino di un'altra compagnia ed era poco probabile che ci fosse dentro qualcuno di domenica. Purché il proiettile non avesse trapassato due pareti. «Oh, mio Dio» sussurrò Hannah, abbassando la pistola. «Non posso credere di averlo fatto davvero.» «Non avevi detto che era scarica?» disse Cutler, ancora scosso. «Ho mentito.» Il falso dottore sorrise. «Bene, devo dire che stai facendo progressi quanto ad assumere, ehm, un atteggiamento più aggressivo nella vita. Come ti sei sentita?» «Magnificamente.» Stava quasi ridendo. «Non avevo mai sparato in vita mia. Mai!»
«Le pistole sono pericolose, Hannah. Non credo sia una buona idea che tu vada in giro armata.» «Mi spiace, dottor Cagle. Temo di avere rovinato il suo presidente.» «Non fa niente. Ne avevano altri uguali.» «Non posso credere dì avere centrato il bersaglio!» «Sì, lo hai, ehm, preso in pieno. Ma adesso perché non metti via quell'arnese e non torni a sederti?» Cutler notò che quell'esperienza le aveva fatto effetto. Hannah non si pizzicava più le dita, non si agitava più sulla sedia. Respirava regolarmente, tenendo gli occhi fissi sul buco nella sagoma. «Ora, quando ti senti di nuovo in preda all'ansia o hai paura che quest'uomo ti stia dando la caccia, voglio che tu riviva questa stessa esperienza, ma senza la pistola. Cerca di conservare la stessa sensazione, ma usa la tua mente, invece di un'arma vera. Lo scopo dell'esercizio è di appropriarti della sicurezza di te stessa che ti conferisce una pistola, per poi ricrearla senza armi.» Hannah annuì, lentamente. «Allora, come va con il ragazzo di cui mi hai parlato l'altra volta?» Lei alzò le spalle. «Non ci frequentiamo molto. Ha parecchio da fare. Siamo andati a fare colazione insieme, l'altra mattina, ma poi non l'ho più visto.» «Ti piace?» «Sì. Vorrei che avesse più tempo da dedicarmi. Ma non mi stupisco: gli uomini ci mettono poco a capire che sono noiosa.» «Assurdo» la rimbrottò Cutler. «Sii più aggressiva nei suoi confronti. Cerca di sedurlo. Non immagini quanto il sesso possa essere efficace.» Hannah parve sotto shock. «Cosa?» Cutler sorrise. «La mia opinione professionale, cara signorina, è che hai bisogno di amore e di affetto. Hai bisogno di intimità. Farebbe miracoli, per te. Voglio dire: le donne hanno la capacità di rendersi interessanti. E se un uomo è già interessato, fisicamente, intendo, allora perché non guidarlo nella giusta direzione?» Hannah scoppiò a ridere. «Più che di un dottore, sembra il consiglio di un'agenzia matrimoniale.» Cutler rise a sua volta. «Non è poi così strano. Adesso prendi la compressa: c'è un distributore di acqua in corridoio. Starai bene, Hannah. Ci vediamo all'appuntamento prefissato?» «Sì.» Hannah si avvicinò alla scrivania e gli, tese la mano.
Lui esitò, ma poi la strinse calorosamente. «Grazie, dottor Cagle. Sta già facendo molto per me. E ci siamo visti solo due volte.» «È il mio mestiere» rispose lui, ritraendo la mano. Non voleva darle la possibilità di riconoscere Sean Flannery al tatto. Hannah inarcò un sopracciglio e lo guardò in modo strano. «Cosa c'è?» chiese lui. «Niente. Mi ricorda una persona che conosco.» «Ah, sì?» «Sì. A dire il vero è il poliziotto di cui le ho parlato. Ha la sua stessa corporatura.» Uh oh, pensò lui. Mantieni la calma. «Curiosa coincidenza, In ogni caso ti consiglio di fidarti di lui. Come tutore della legge, sono sicuro che potrà darti buoni consigli.» «Lo penso anch'io. Arrivederci.» «Alla prossima volta.» Hannah uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Cutler tirò un sospiro di sollievo e si asciugò i palmi delle mani sui pantaloni. Sarebbe stato un disastro se lei lo avesse riconosciuto come Sean Flannery. Ma ancora di più se si fosse ricordata di avere incontrato Bill Cutler, prima del buio. Mentre scendeva in ascensore, Hannah avvertì una sensazione strana. C'era qualcosa che l'aveva colpita, nel dottore, anche se non riusciva a capire di che si trattasse. In effetti, le ricordava Sean, ma c'erano tanti uomini che potevano avere la stessa corporatura. Era qualcos'altro... Forse un odore? L'acqua di colonia? Sean e Cagle usavano forse la stessa marca? Non ne era certa, ma sospettava di essere sulla pista giusta. Quando si erano salutati, il dottore aveva la mano umida di sudore, probabilmente per lo shock di quando lei aveva sparato. Hannah uscì dall'edificio e decise di passare da casa per guardare la posta. Raggiunse a piedi la First Avenue e aspettò l'autobus della linea 1 alla fermata. Rivedere il suo appartamento sarebbe stata una boccata d'aria fresca. 23 Il camionista era un gentiluomo. Non parlò molto, durante il breve tra-
gitto tra l'area di servizio e Wauseon. Le chiese solo da dove venisse e dove fosse diretta. Si presentò come Rick e le disse che avrebbe dovuto fare base a Toledo per qualche giorno. Ma non era tanto lontano e, se lei avesse avuto bisogno di qualcosa... Sophia gli rispose: «Non mi serve niente, grazie tante.» Lui la lasciò a un Holiday Inn alle porte della città e le diede un biglietto. «C'è il mio numero di cellulare.» Per ultimo le domandò come si chiamasse. «Hannah» rispose lei. Sophia si registrò in albergo, prese un giornale alla reception e andò in camera, dove trascorse un'ora nella vasca di bagno. Si sentiva incredibilmente sporca, dopo avere trascorso le ultime dodici ore all'aperto e avere dormito in un tubo. L'incidente l'aveva lasciata piena di lividi. La ferita alla testa, per quanto quasi rimarginata, continuava a farle male. Ci mise sopra un grosso cerotto: doveva bastare. Decise che non aveva niente da perdere se telefonava allo sceriffo. Poteva sempre dire che, dopo l'incidente, era rimasta disorientata, che non era più in sé e che aveva vagato per l'autostrada fino a trovare un passaggio in città. Il che, in fondo, era vero. Doveva mettere le mani sulla valigetta che conteneva il denaro. Anche la sua valigia, con gli effetti personali, era rimasta nel bagagliaio della macchina. L'unico rischio era la cocaina: se la trovavano, erano guai. Ma Sophia poteva sondare il terreno al telefono, prima di decidere che cosa fare. Si chiese se non fosse meglio dormire un po', prima di chiamare. Forse sì. Si sentiva ancora un po' annebbiata. Si sdraiò sul letto e sfogliò il giornale. Le capitò sotto gli occhi una fotografia della BMW di John, capovolta e circondata da poliziotti. Il titolo diceva: SOSPETTO DI CHICAGO VITTIMA DI INCIDENTE MORTALE «Oh, mio Dio.» Lesse rapidamente l'articolo. John Cozzone, riferiva il giornalista, era ricercato dalla polizia per l'omicidio di un certo George Williams in un albergo di Chicago. Il cadavere era stato rinvenuto nello scarico dei rifiuti dell'hotel. In tasca della vittima era stato trovato un biglietto su cui era annotato il numero della stanza di Cozzone. Questi, insieme a una donna non identificata, aveva lasciato l'albergo prima del ritrovamento del corpo. In
seguito, Cozzone era rimasto ucciso in un drammatico incidente sulla James W. Shocknessy Ohio Turnpike, quando la sua BMW era uscita di strada, capottando. La polizia stava cercando ora la donna, che poteva forse trovarsi a bordo dell'auto al momento dell'incidente: una bionda attraente con un fisico da modella, sui vent'anni. Il caso era stato affidato all'ufficio dello sceriffo di Fulton County. Chiunque disponesse di informazioni poteva telefonare a un numero verde indicato in calce. «Merda.» E adesso? Come avrebbe fatto a recuperare i soldi? Probabilmente erano nelle mani degli sbirri. D'altro canto, secondo l'articolo lei non era sospettata. Non sapevano nemmeno con certezza se fosse in macchina, al momento dell'incidente. Sophia si domandò se sarebbe riuscita a mettere in piedi una storia convincente da raccontare alla polizia. Non sapeva niente del delitto, era partita per l'Ohio per conto proprio e rivoleva indietro i suoi bagagli. Tolse la Colt dalla borsetta e la mise nella cassaforte della stanza. Poi prese il biglietto lasciatole dal camionista e fece una telefonata. Sulla strada di casa, Hannah era di buon umore. La visita dal dottor Cagle l'aveva rinvigorita. Erano anni che non si sentiva tanto sicura di se stessa. E la rassicurava il pensiero di avere una pistola in borsetta, nel caso Timothy Lane avesse deciso di aggredirla di nuovo. Ancora non sapeva se sarebbe riuscita a premere il grilletto, ma adesso non le sembrava più impossibile. Quell'uomo era un animale, un vigliacco, un predatore che assaliva donne indifese. Non meritava che la morte. Hannah cominciò a preoccuparsi quando vide un'auto della polizia parcheggiata sotto casa. Entrò dal portone e si fermò davanti alle cassette della posta. La sua era vuota. Aprì la porta interna ed entrò. C'era silenzio, come sempre a quell'ora. I più giovani erano fuori e i più anziani rintanati in casa. Salì le scale silenziosa, a parte lo scricchiolio dei vecchi gradini di legno. Quando ci passava un uomo, specie se pesante, se ne sentivano i passi in tutta la casa. Al primo piano, Hannah notò che la porta di Liz era aperta. In casa dell'amica c'erano due poliziotti. Stava per chiedere che cosa stesse succedendo, ma non ne ebbe bisogno: fu uno degli agenti a rivolgerle la parola. «Mi scusi.» «Sì?» fece lei. «Abita in questa casa, signora?»
«Sì.» «Conosce l'inquilina che viveva qui?» Viveva? Aveva detto viveva? «Sì.» «La conosceva bene?» «Che cosa succede?» chiese Hannah. «Stiamo indagando su un omicidio, signora. Possiamo farle qualche domanda?» «Omicidio? Quale omicidio?» I due poliziotti si scambiarono un'occhiata. L'agente che le aveva rivolto la parola le spiegò: «La signorina Rosenthal è stata uccisa ieri notte, fuori dal bar in cui lavorava.» «Oh, mio Dio» mormorò Hannah. «Chi è stato?» «È quello che stiamo cercando di scoprire. Le spiace entrare un minuto?» Hannah si sentiva confusa. Entrò in casa dell'amica, dove tutto sembrava come al solito. Il poliziotto la invitò a sedersi. Lei lo assecondò. «La conosceva bene?» disse l'agente, estraendo un taccuino. «Non proprio. Eravamo vicine. Io vivo al piano di sopra.» «Mi può dire il suo nome?» «Hannah McCleary.» Il poliziotto annotò il nome. «Conosceva qualcuna delle persone che frequentava? Un fidanzato, per esempio?» «No. Liz era gay.» Si fece avanti il secondo poliziotto. «Lavorava da Alice's, Jimbo.» Il primo poliziotto, Jimbo, fece una risatina. «Oh, sì, avrei dovuto pensarci.» A Hannah non piacque lo scambio di battute tra i due poliziotti. Si arrabbiò. «In ogni caso, non mi risulta che vedesse nessuno» disse. «Sa se aveva parenti nella zona, o dove possa essere la sua famiglia?» Hannah cercò di ricordare che cosa le avesse detto Liz in proposito. «So che ha qualche parente, ma non credo mi abbia mai detto dove vivono.» «Va bene, lo scopriremo.» «Mi potete dire che cosa le è successo?» «Era fuori dal bar. Stava andando a prendere del ghiaccio in magazzino. Qualcuno l'ha assalita. L'ha strangolata. E non è stato bello quello che le ha fatto dopo averla uccisa.» «Che cosa intende?» «Non glielo possiamo dire, mi spiace.»
Hannah provò orrore. Che l'avesse aggredita un maniaco sessuale, qualcuno come Timothy Lane? E se fosse stato proprio Lane? Dopotutto, era a piede libero. Il poliziotto le fece qualche altra domanda, poi le disse che poteva andare. Le lasciò un biglietto da visita, invitandola a chiamarlo nel caso le fosse venuto in mente qualcosa di rilevante. Con la mente obnubilata, Hannah uscì dall'appartamento di Liz e salì le scale fino al suo. Una volta dentro, si sentì soffocare dal panico. La sensazione di piacere che provava fino a poco prima si era dissolta e ora l'angoscia le attanagliava la gola. Si sentiva quasi svenire. Avrebbe voluto mettersi a gridare, ma dalla bocca le uscì solo un mugolio. Si abbatté sul pavimento e scoppiò a piangere. Povera Liz. Era una brava ragazza. Come poteva esserle capitata una cosa del genere? Hannah si mise a sedere per terra e si asciugò il viso. Perché aveva la certezza che fosse stato Timothy Lane a fare una cosa così orribile? Non aveva alcuna prova, non c'era nessuna ragione per pensarlo. Eppure, dal profondo dell'anima, qualcosa le diceva che i suoi sospetti non erano infondati. Che cosa doveva fare? Dirlo ai poliziotti? No, erano due idioti, che ridevano alle spalle di Liz perché era lesbica. Hannah guardò il biglietto da visita che aveva in mano e lo fece a pezzetti. Sean. Poteva chiamare Sean. Lui avrebbe saputo cosa fare. Hannah corse al telefono e compose il suo numero. «Flannery» rispose lui, di persona. «Oh, Sean, grazie al cielo ci sei.» «Hannah, cosa c'è?» «Liz. È morta.» «Chi?» «Liz, la mia vicina. Ti ho parlato di lei.» «Oh, certo. Come sarebbe a dire che è morta?» «Credo che l'abbia uccisa Timothy Lane. È successo ieri notte, fuori dal bar in cui lavorava.» «Oh, santo cielo, mi dispiace, Hannah.» «È terribile.» «Chi ti dice che sia stato Lane?» «Non lo so, è una sensazione.» «Hannah, se è una sensazione, forse vuol dire solo che sei ossessionata
da quel tipo.» «Lo so, ma sono convinta che è così, Sean.» «Farò... farò un paio di telefonate. Il bar non è nel mio distretto, sai, ma vedo se riesco a scoprire qualcosa.» «Che cosa stai facendo? Sei impegnato?» «Un po'.» «Ho bisogno di vederti, Sean. Ti prego. Non puoi venire da me per un'oretta?» Lui tacque per qualche secondo, poi rispose: «Forse riesco a liberarmi per un po'. Dove, nel tuo appartamento?» «No, vediamoci a casa di mio cugino.» «Tra un'ora sono lì.» «Oh, grazie, Sean! A presto!» «Ciao.» «Ciao.» Hannah riappese il ricevitore e si guardò intorno. Dopo avere passato una settimana a casa di John, il suo appartamento le sembrava spoglio. Era così... angusto. Non ricordava nemmeno più perché ci fosse tornata. Uscì, chiuse a chiave la porta e scese le scale a due gradini per volta. Prima di uscire dal portone controllò la strada. Se Lane era là fuori, probabilmente stava sorvegliando la casa. Hannah controllò tutte le auto parcheggiate, ma non vide nessuno a bordo. Forse non c'era pericolo. Era pieno giorno. Ma perché uccidere Liz? Lane era così pazzo da aggredire qualsiasi donna? Agli stupratori piacevano le donne sovrappeso? Hannah aveva letto da qualche parte che non facevano distinzioni: vecchie, giovani, donne di ogni razza, belle o brutte... Si avventurò fuori dal portone e camminò di buon passo verso la residenza del cugino. Stava ribollendo. Avrebbe dato una lezione a Timothy Lane. La polizia era inutile. Lo avevano messo in galera, ma poi lo avevano fatto uscire di nuovo, perché tornasse a fare del male. Non c'era giustizia. Gli anni che aveva trascorso in cella gli erano serviti solo a perfezionare la sua malvagità. Di certo non gli avevano fatto bene: in carcere era diventato ancora più crudele e depravato. Doveva avere trascorso ogni giorno a progettare la sua vendetta, a studiare il modo migliore per terrorizzare la sua vittima, prima di ucciderla. Hannah camminò senza sosta. Coprì la distanza in undici minuti, un record personale. Appena entrò, Panther corse ad accoglierla sulla porta in
un tripudio di fusa e miagolii. In casa tutto sembrava normale. Con il gatto in braccio, Hannah salì le scale fino allo studio. Sul display della segreteria telefonica lampeggiava il numero 1. Lei premette il tasto di ascolto e si sedette con il gatto in grembo. Il messaggio la turbò ancora più profondamente. "Sono il sergente Thomas Ackerman dell'ufficio dello sceriffo di Fulton County, Ohio. Stiamo cercando il parente più prossimo di un uomo di nome John Cozzone. Siamo risaliti a questo numero e indirizzo dalla sua patente. Se qualcuno della sua famiglia si trova in casa, gli saremmo grati se ci richiamasse." Il poliziotto aveva lasciato il numero. Che cosa poteva significare? Hannah temeva il peggio. La polizia non aveva motivo di chiamare a casa di John, a meno che... Prese il telefono e compose il numero. Rispose una donna. Hannah chiese del sergente Ackerman. Glielo passarono e lei si identificò come la cugina di John. Quando ascoltò ciò che il sergente aveva da dirle, fu sul punto di sentirsi male. Ackerman le raccontò che John Cozzone era rimasto ucciso in un incidente d'auto a otto chilometri da Wauseon, Ohio. Le porse le sue "sentite condoglianze" e le diede le informazioni necessarie per contattare l'ufficio del coroner, dimodoché potesse identificare la vittima e recuperarne gli effetti personali trovati a bordo dell'auto. Hannah era sconvolta. Mise Panther a terra e appoggiò la testa sulla scrivania. Non era riuscita a versare molte lacrime per Liz, ma stavolta pianse a lungo, per l'amica e per John. Dominic DeLauria entrò nella tana del suo mentore e benefattore, trovandolo in piedi davanti alla grande vetrata. Si era già fatta sera, ma alla luce della luna si distinguevano il gazebo, le statue romane e gli aceri che coronavano il vasto giardino. «Entra, Dom» disse Freddie Pontecorva, senza voltarsi. «Ciao, Freddie.» DeLauria era stato convocato a Glen Cove nel tardo pomeriggio, per cenare con il boss e "fare una riunione". Aveva preso la macchina, lasciando Favio solo e appiedato davanti alla residenza di Cozzone. Il ragazzo cominciava a dargli sui nervi, ma DeLauria aveva bisogno di qualcuno che gli desse il cambio quando doveva dormire o fare qualcos'altro. Favio lo aveva chiamato per comunicargli che Hannah era rientrata a casa di Cozzone.
Tommy Salami portò due bicchieri: uno di bourbon e uno di succo di mirtillo. Solo allora Pontecorva voltò le spalle alla finestra. Prese il suo bicchiere e fece un brindisi. «Salute.» Mentre assaggiavano i loro drink, Tommy Salami si defilò. «Hai fame, Dom?» domandò il boss. «Credo di sì. Qualche problema, Freddie?» «Ah, niente» disse Pontecorva, con un gesto di noncuranza. «Solo la mia vescica che torna a dare fastidio. Non mi sento troppo bene. Ma non ti preoccupare. Non ti ho fatto venire per nessuna ragione particolare, se non per cenare con qualcuno di diverso dai miei soliti gorilla.» «Sei andato da un medico, Freddie?» «Sì. Probabilmente dovrò fare un'operazione. Una grande rottura di coglioni. Ma facciamo due chiacchiere. Mettiti comodo.» Si sedettero a un tavolino. «Dom, mi dicono che quella killer, Hannah McCleary, è sotto la tua stretta sorveglianza.» «Sì. E non ha ancora fatto la sua mossa. Sa che le sto addosso, ma non ha ancora cercato di scappare. Credo che stia aspettando che torni Cozzone, ovunque sia.» «Non tornerà. È morto.» «Ah, sì?» «L'abbiamo saputo stamattina. A quanto pare ha avuto un incidente d'auto vicino a Toledo, mentre tornava da Chicago.» «Davvero? Ed era solo?» «Pare di sì.» DeLauria si passò un dito sul mento. «Sai cosa penso? Che è andato a vendere la coca a Chicago e stava tornando a New York con il grano.» «Lo penso anch'io.» «E dov'è la sua macchina? E la sua roba?» «A Wauseon, un buco di cittadina nell'Ohio, in attesa che il parente più prossimo vada a ritirarla.» «E chi sarebbe?» «Non ne abbiamo idea. Ma voglio che resti alle calcagna della killer; Li vorrà, anche lei, quei soldi.» «Credo proprio di sì.» «Quindi aspetta ad ammazzarla. Seguila. Potrebbe portarti fino ai soldi. Poi, quando li hai presi, la sistemi.» DeLauria bevve un altro sorso di bourbon. «Per me va bene.»
24 Erano quasi le sette e trenta quando Bill Cutler si presentò a casa di Cozzone. Hannah aprì la porta e, sorprendentemente, gli gettò le braccia al collo. «Oh, Sean, ero così preoccupata. Perché ci hai messo tanto?» Lui le accarezzò i serici capelli biondi e la tenne stretta. «Mi spiace, cara. Questo caso a cui sto lavorando...» «Va tutto bene. Adesso sei qui. Vieni dentro.» Cutler si sfilò il trench e lo appoggiò sul corrimano delle scale. Notò che Hannah aveva gli occhi rossi. «Poverina» le disse. «Liz era una cara amica?» «Non è solo per lei. Ho avuto brutte notizie dalla polizia, in Ohio. John è rimasto ucciso in un incidente d'auto.» «John, tuo cugino?» «Sì. Mi hanno detto che devo andare a identificare il corpo, ma non me la sento proprio.» «Gesù, Hannah. Non ci sono altri parenti?» «No, solo io.» Lei lo abbracciò di nuovo e disse: «Era una brava persona. Mi mancherà.» Cutter la strinse forte. Conosceva abbastanza le donne da sapere che in momenti come quelli erano al culmine della vulnerabilità... e della ricettività. Le prese il mento con una mano e le sollevò il viso. Anche senza trucco era terribilmente bella. C'era un'impalpabile innocenza, nel suo viso, che la rendeva desiderabilissima. Cutler si protese a baciarla. Lei lo lasciò fare, ma non aprì la bocca. Lui spostò la mano dietro la nuca, per tenerla in posizione. Continuò a baciarla, cercando di forzare le sue labbra con la lingua. Avvertì un'iniziale resistenza e poi la resa. Hannah si strinse a lui con forza, mentre le loro lingue si intrecciavano. Cutler sentì la passione crescere in lei. Per un istante, si abbandonò al bacio, poi si staccò da lei. Hannah continuò a guardarlo negli occhi, quasi cercasse di penetrargli nella mente. «Che cosa stai cercando?» chiese lui, sorridendo. «Solo di memorizzare il tuo viso. Io... uhm, a volte ho qualche problema a ricordare le facce della gente.» Cutler dovette rammentare a se stesso che il dottor Cagle lo sapeva, ma il detective Flannery no. «Sul serio?»
«Lascia perdere. Baciami ancora.» Lui tirò di nuovo a sé il viso di lei. Il secondo bacio fu ancora più intimo e prolungato. Quando si separarono, Hannah sospirò. Cutler sentì una scarica di eccitazione. Ci era vicino. Presto avrebbe potuto segnare un altro successo sulla sua Lista di Caccia. E Hannah McCleary rappresentava una conquista molto particolare. «Perché non andiamo in sala?» suggerì Hannah. Trovarono Panther appollaiato sullo schienale del divano. Cutler gli si avvicinò e tese una mano. «Ciao, gatto.» Panther soffiò, balzò giù dal divano e corse sotto una sedia. «Ehi, ho detto qualcosa che l'ha offeso?» chiese Cutler. «Panther! Non è educato!» lo sgridò Hannah. Poi si rivolse all'uomo che credeva si chiamasse Sean Flannery. «Di solito non fa così. La gente gli piace. Quasi tutta.» «Non importa. Io di solito non piaccio agli animali.» «Non vedo perché.» Si guardarono per alcuni secondi, poi lei superò l'imbarazzo dicendo: «Posso offrirti qualcosa? Un drink? Hai già mangiato?» «Oh, sì, ho già mangiato. Qualcosa da bere?» Lei andò dietro il bancone della cucina. «C'è ampia scelta. Io credo che berrò un Jack Daniel's.» «Ottima idea.» Hannah riempì due bicchierini, girò intorno al banco e diede a Cutler il suo drink. «Alla tua» disse lui, toccando il bicchiere di lei. «Alla tua» rispose lei. Bevvero un sorso. D'un tratto, Hannah si mise a tossire. «Scusami, mi è andato di traverso.» «Stai bene?» «Uh-huh.» Lui le passò la mano libera dietro la nuca e la attirò a sé. Si baciarono per la terza volta. Il cuore di Cutler accelerò i battiti. Con uno sforzo, tenne sotto controllo le proprie sensazioni. Non voleva che gli capitasse di nuovo quello che era successo in passato. Quei giorni erano finiti, si disse. Doveva ricordare ciò che il terapeuta gli aveva ripetuto mille volte, anche se Cutler lo odiava e non voleva più vederlo. Concentrati su ciò che è giusto. Focalizza la tua mente sulla retta via. Resisti alle tentazioni.
Ciononostante, stava accadendo. Cutler aprì gli occhi sul goffo primo piano di una persona nel bel mezzo di un bacio. Il buio cominciò a formarsi alla periferia del suo campo visivo. Come temeva, qualcosa cominciò a martellargli nella testa. Le sue membra cominciarono a reagire allo stimolo. No, controllati! si ordinò silenziosamente. Ma non poteva farci niente. Quella donna non rappresentava soltanto il suo ultimo trofeo, ma anche un conto da chiudere con il passato. D'un tratto, Cutler la spinse contro il divano, rovesciando il whisky. A Hannah sfuggì di mano il bicchiere. «Sean!» protestò lei. «Lascia stare, puliremo dopo» mormorò lui. Il suo respiro si era fatto pesante, mentre continuava a baciarla. Hannah cadde sul divano e lasciò che lui le montasse sopra. Si abbracciarono. Cutler la sentiva cedere: la sua preda si stava arrendendo. «Sean...» sussurrò Hannah. Ecco, già lei mormorava il suo nome in preda alla passione. Sì! Sì! Stava per farcela! «Sean, aspetta...!» Cutler la sentì resistere. Fu un momento glorioso. Il martellio nella testa lo esortava a insistere. Non poteva fermarsi, ormai: quelle vecchie sensazioni avevano ripreso il sopravvento. Quanto gli erano mancate! «Sean, smettila!» Lei lo respinse con tutte le sue forze e lui rotolò sul pavimento. «Che ti prende?» chiese Hannah. Sembrava agitata, quasi spaventata. Cutler notò che la sua T-shirt era strappata all'altezza del seno, sulla destra. Era stato lui? «Hannah, io...» «Mi hai fatto male.» «Hannah, io... io... voglio fare l'amore con te. Non resisto più. Lo desidero fin da quando ci siamo incontrati.» Si rialzò dal tappeto e tornò a sedersi sul divano. Ma stavolta Hannah reagì come un animale chiuso in un angolo: lo respinse e scavalcò lo schienale. «Hannah!» «Sean, che ti è preso? Non posso farlo... non ancora... Io non...» Era visibilmente sconvolta. «Hannah, mi dispiace. Solo che... tu mi piaci. No, non è vero. Il fatto è che ti amo. Ecco, l'ho detto.»
Lei lo guardò incredula. «Che cosa?» «Mi hai sentito.» «Sean, io... io... Hai un modo strano di dimostrarlo. Voglio dire...» Hannah gli voltò le spalle. «Sta succedendo tutto troppo in fretta. Non sono pronta. Non è ancora...» I sintomi di Cutler tornarono a manifestarsi con violenza: la visione a tunnel, una rabbia crescente, una voglia di gridare che riuscì a stento a reprimere. Scattò in piedi e disse: «Ma bene. Allora se è così che ti va, prenditi tutto il cazzo di tempo che vuoi!» Tornò all'ingresso. Hannah gli corse dietro. «Sean, aspetta! Non te ne andare!» «Ci vedremo quando sarai un po' più pronta!» Cutler prese il trench, spalancò la porta e uscì senza aggiungere altro. «Sean!» gridò lei alle sue spalle. Cutler si augurò che lei non lo seguisse. Non si voltò indietro. Andò dritto alla Toyota, aprì la portiera e si mise al volante. La rabbia stava sfumando, ma le vecchie sensazioni non se ne andavano. Mentre avviava il motore, Cutler si rese conto che non se ne sarebbe mai liberato. Non sarebbe mai cambiato. Hannah rimase ferma davanti alla porta chiusa. Che cosa era successo? Sembrava andare tutto così bene, quando all'improvviso lui era parso... un altro. Incomprensibilmente. L'aveva spaventata. Era accaduto tutto troppo in fretta. Hannah si era sentita violata, il che le aveva ricordato... Tornò in sala, raccolse i bicchieri e li portò in cucina. Con uno straccio umido cercò di ripulire il whisky che avevano rovesciato. Quando ebbe finito, se ne riempì un altro bicchierino e lo bevve a piccoli sorsi. I baci erano stati così belli. La bocca di Sean aveva un sapore caratteristico e le sue dita erano calde e sapienti. Il profumo della sua acqua di colonia aleggiava ancora nell'aria. All'improvviso, Hannah si sentì più sola che mai. Cominciava a capire perché si tenesse sempre in disparte e non uscisse mai con nessuno. A parte la sua disabilità neurologica, lo stress generato dai dubbi al momento di cominciare una relazione era sufficiente a scatenare in lei un migliaio di attacchi di panico. Per fortuna c'era il whisky.
Sophia si dimenava, inarcava la schiena, sudava, gemeva e continuava a ripetere il nome del camionista. Non dovette simulare a lungo, perché a letto il ragazzo se la cavava decentemente. Si sentiva piena fino all'orlo. Le bastò scuotere i fianchi per raggiungere l'orgasmo, poi si mosse opportunamente perché Rick venisse dentro di lei. Esausta, si staccò da lui e si sdraiò sulla schiena al suo fianco. Il giovane rilasciò un lungo sospiro e prese dal comodino il pacchetto di Marlboro e un accendino placcato in argento. Ne offrì una a Sophia che la prese e se la fece accendere. «Hannah, è stato fantastico. Sono proprio contento che mi hai chiamato.» «Anch'io, baby. E se vuoi ce n'è ancora.» «Dio, non chiedo altro. Forse sono morto e questo è il paradiso.» Si voltò verso di lei per baciarla. Le sfiorò il cerotto sulla fronte. «Fa ancora male?» «Solo quando lo tocchi.» «Oh, scusa.» «Non importa.» «Non mi hai ancora detto che cosa ti è successo.» «Quando, l'altra notte?» «Sì. Alla stazione di servizio dicevano che eri passata di lì qualche ora prima. O almeno, quando ti ho visto ho pensato che quella di cui parlavano eri tu.» «Ho avuto un incidente d'auto. Ho bisogno che tu mi aiuti in una cosa.» «Tesoro, se posso farlo, lo faccio.» Sophia si mise in ginocchio sul letto. «Speravo di sentirtelo dire, baby. Ho bisogno che tu reciti una parte. Hai mai fatto l'attore?» «Uh, no.» «Be', è facile. Devi solo fingere di essere mio marito.» Lui sogghignò. «Non è difficile.» «E di chiamarti Cozzone. Che nome di battesimo preferisci?» «Cosa?» «Devi fingere di essere il fratello di una persona che conosco. Ehm, conoscevo, perché è morto. Dobbiamo richiedere i suoi effetti personali e identificare il corpo. Ma per questo ci vuole qualcuno che finga di essere il suo parente più prossimo. Non posso farlo da sola, perché mi cercano. Ma se mi presento come la moglie del fratello del defunto, non dovrebbe essere un problema. Capito?»
«Non proprio.» Rick si mise a sedere e schiacciò il mozzicone nel posacenere. «È una cosa illegale?» «No, certo che no. È solo che devo recuperare una valigia che adesso è nelle mani dei poliziotti. Ma loro non avranno alcun problema a consegnarla al parente più prossimo del morto. È facile.» Rick la guardò sospettoso, ma poi sorrise. «E io che ci guadagno?» Lei lo abbracciò e gli diede un bacio. «Baby, puoi mettermelo dove vuoi e quanto vuoi. Fino a quando ce l'avrai così spompato che ti servirà una stampella per pisciare.» «Questo non mi dispiace.» «Bene. Ma prima dobbiamo trovare dei documenti falsi. Non è che hai qualche idea?» Il telefono la svegliò alle otto e un quarto di lunedì mattina. Hannah si rigirò nel letto, sollevò il ricevitore e rispose con un sussurro rauco: «Pronto?» «Sì, è la residenza di John Cozzone?» Era una voce maschile, autoritaria ma cordiale. «Sì.» «Mi scusi, l'ho svegliata?» «Sì.» «Sono molto spiacente. Con chi parlo?» «E io con chi parlo?» «Sono il dottor Charles Webber, del Fulton County Health Center di Wauseon, Ohio. Sono il vicecoroner della contea. Lei è la signorina McCleary?» Hannah si ricordò di avere telefonato all'ufficio del coroner nell'Ohio, prima di andare a dormire, ma non aveva trovato nessuno e aveva lasciato un messaggio. «Sì, sono io.» «Buongiorno. Ieri sera lei ha lasciato un messaggio a proposito di John Cozzone.» «Sì. Ho parlato con qualcuno dell'ufficio dello sceriffo, ieri. Ackerman, mi pare. Sono a casa di mio cugino John, adesso. Gliela tenevo d'occhio mentre era via.» «Ho capito. È lei la parente più prossima?» «Credo di sì. Sono sua cugina. Acquisita. Lavoro per lui.» «Ho capito» ripeté il dottore. «Le porgo le mie più sentite condoglianze. Il corpo del signor Cozzone è qui all'obitorio della contea. Abbiamo biso-
gno che un suo parente venga a identificarlo e provveda al funerale. Inoltre, dobbiamo consegnarle gli effetti personali che si trovavano a bordo dell'auto.» «Che cosa è successo, esattamente?» «L'ufficio dello sceriffo ha stabilito che si è trattato di un incidente. È avvenuto sulla Turnpike, non lontano da Wauseon. Apparentemente, la BMW del signor Cozzone è uscita di strada e ha capottato. Riteniamo che non abbia sofferto: aveva il collo spezzato e dev'essere morto sul colpo.» Hannah sentì un'improvvisa fitta di dolore. John era tutta la sua famiglia ed era un uomo che ammirava. Si domandò se l'incidente non fosse dovuto al suo uso di stupefacenti. «Un minuto solo, cerco carta e penna.» Si costrinse a uscire dalle lenzuola. Panther pensò che fosse ora di colazione: balzò giù dal letto e, miagolando, corse alla porta. Hannah trovò qualcosa per scrivere e tornò al telefono. «Ecco. Mi dia tutte le indicazioni.» Bill Cutler non si presentò al lavoro, lunedì mattina. Chiamò l'ufficio e spiegò a Debbie che non si sentiva bene. La ragazza disse che lei e Kathy se la sarebbero cavata da sole, ma che Patrick aveva già telefonato due volte, chiedendo di lui. Voleva che lo richiamasse. Cutler fece una smorfia e riagganciò. Il martellio alla testa non era ancora passato. Non aveva chiuso occhio tutta la notte. Dopo avere passeggiato avanti e indietro per casa, alla fine era uscito e si era messo a camminare per le strade, nel buio. Sapeva che quella dannata visione a tunnel era il segnale che stava perdendo il controllo. Mentre passava vicino a un parco, nel Queens, aveva visto un gruppo di ragazze sui diciott'anni, sedute in una macchina. Aveva sentito odore di marijuana ed era stato tentato di mostrare loro il suo falso distintivo e dire che erano in arresto. Poi avrebbe potuto trattare con loro e ottenere qualcosa in cambio. E invece aveva resistito ai demoni che gli affollavano la mente ed era tornato a casa. Sapeva tuttavia che la volta successiva non ne avrebbe avuto la forza. Prese il telefono e chiamò il fratello. «Sono io.» «Perché non sei in ufficio?» «Sto male.» «Ma davvero?» Cutler lo odiava, quando aveva quel tono. «Sì, davvero» ribatté.
«Okay. Senti, ho parlato con il tuo addetto alla libertà vigilata.» «Che cosa?» «Gli ho parlato. Gli ho detto che non vai più dal dottore.» «Che... cosa?» «Bill, ti sto facendo un favore, accidenti! Sei mio fratello!» «Non sono affari tuoi.» «Ehi, ma ti ha dato di volta il cervello? Ti sei dimenticato che, se non era per me, saresti in galera? È stato solo grazie al mio avvocato che te la sei cavata. Ti è andata bene che ti hanno lasciato a piede libero.» «Patrick?» «Eh?» «Vai a fare in culo, Patrick. Vai proprio a fare in culo» disse calmo. E sbatté giù il ricevitore. Si portò le mani alle orecchie, nel tentativo di far tacere le voci, ma non ci riuscì. I demoni erano tornati. Dopo un intero giorno di ansia e preoccupazione, Hannah decise che sarebbe partita per l'Ohio il mattino dopo. Meglio togliersi subito il peso. Non che ne avesse voglia: detestava viaggiare, nonostante a volte fantasticasse di farlo. Ricordava ancora la brochure del New Mexico che le era arrivata per posta e quanto le sarebbe piaciuto visitare Santa Fe. Ma solo al pensiero di trovarsi su un treno o un aereo affollato le venivano le palpitazioni. Dopo pranzo aveva bevuto un paio di Jack Daniels, nella speranza di placare il nervosismo. Sfortunatamente, questa volta il whisky non le era servito. Si sentiva ancora più disorientata. Il panico era alle porte e l'ansia la faceva impazzire. Aveva preso Panther in grembo e l'aveva accarezzato incessantemente, fino a quando lui si era ribellato e aveva cercato di graffiarla, per poi correre a nascondersi. Non l'aveva mai fatto prima. Anche il gatto si rendeva conto che lei stava cadendo a pezzi. Ora di sera, Hannah aveva preso la decisione. Ma prima voleva fare un salto a casa, guardare la posta e prendere un paio di cose per il viaggio. Una volta in strada, controllò tutte le macchine in sosta. Ma era già buio ed era difficile vedere se ci fosse qualcuno a bordo. Quando svoltò l'angolo della Second Avenue, non si accorse dell'uomo che scendeva dalla Chevrolet Malibu parcheggiata poco più indietro. Pen-
sava solo a camminare, come quella notte, quando Timothy Lane aveva deciso di braccarla. Procedeva di buon passo, quasi fosse un'atleta in fase di allenamento, sospinta dall'adrenalina che le inondava il sangue da qualche ora a quella parte. Aveva i nervi tesi e la tachicardia, ma in qualche modo la tensione le dava sicurezza. E la pistola nella borsetta la faceva sentire invincibile. Si augurò che nessuno spuntasse dal buio con l'intenzione di molestarla, altrimenti gli avrebbe sparato. Si voltò indietro. Non era tardi e c'era ancora gente per la strada. Era difficile capire se ci fosse qualche individuo sospetto. Tuttavia, le parve di riconoscere una figura familiare. C'era un uomo, a un isolato di distanza, sull'altro marciapiede, che camminava nella sua stessa direzione. Si ricordò immediatamente dell'individuo che fingeva di leggere il giornale di fronte alla tavola calda, quando era andata a fare colazione con Sean. E se era lui? Non poteva che essere il suo aggressore, lo sapeva. Era Timothy Lane. Hannah affrettò il passo. Svoltò a est sulla 72nd Street, perché era più larga e affollata. Quando si girò, vide che anche l'uomo aveva svoltato l'angolo per seguirla. Si mise a correre. Le ci volle quasi un minuto per coprire il lungo tratto tra la Second e la First Avenue. L'uomo continuava a pedinarla, anche se non si era dato la pena di mettersi a correre. Hannah lo aveva distanziato. Sarebbe riuscita a seminarlo? Valeva la pena di fare un tentativo. Sulla First Avenue, si fiondò nella Wong's Laundry, che di solito restava aperta fino alle dieci, per i clienti che volevano usare le lavatrici a selfservice. Ce n'erano due, giovani, probabilmente studenti. Dal retro, il proprietario della lavanderia la vide e le venne incontro. «Salve, signorina McCleary! Venuta a prendere qualcosa?» «No, no. Cerco un rifugio. Mi può nascondere nel retro?» Wong aggrottò le sopracciglia. «Nascondere? Hannah guardò in strada.» Per favore. C'è qualcuno che mi segue. Ho paura. «Prego» disse Wong, vedendola spaventata. Le fece cenno di seguirlo. I due studenti la guardarono distrattamente, poi tornarono a preoccuparsi della loro biancheria. Nel retro c'erano le macchine per lavare a secco, le grosse lavatrici industriali e gli scaffali con le sacche di indumenti puliti e stirati, pronti per essere ritirati. Hannah si addossò al muro, per non farsi vedere dall'esterno.
Wong le indicò una sedia. «Prego.» Hannah si sedette, pizzicandosi nervosamente le dita. «Ha visto passare un uomo?» gli chiese. «Alto circa un metro e settantacinque.» Lui allargò le braccia. «Forse. Tanti uomini passano. Strada affollata.» Hannah si chiese se fosse sicuro tornare a casa. Decise di correre il rischio. «Grazie, signor Wong. Arrivederla» disse, precipitandosi alla porta. Riprese il cammino verso nord. Era a un isolato da casa quando lo rivide. L'uomo era fermo su un angolo, davanti a lei. Le voltava le spalle, ma Hannah lo riconobbe dalla corporatura e dai vestiti. L'uomo si guardava intorno. La stava cercando. Hannah non poteva andare a casa senza passargli davanti. Sentì il richiamo della Browning nella borsetta. Sarebbe stato facile prendere la pistola, arrivargli alle spalle e premere il grilletto. Si sarebbe liberata di Timothy Lane una volta per tutte. La polizia avrebbe capito che si trattava di legittima difesa. Quell'uomo la stava perseguitando. L'aveva minacciata per telefono e per lettera. Aveva assassinato la sua vicina. Se non bastava questo, come giustificazione, che altro ci voleva? Ma cosa mi viene in mente? Non poteva sparargli in mezzo alla strada. Non così, non alla schiena. L'avrebbero arrestata, l'avrebbero accusata di omicidio. Anche se aveva ucciso un assassino, l'avrebbero messa in prigione. Non era possibile. Hannah tornò sui suoi passi. Si fermò a una cabina telefonica e fece il numero di Flannery. Con suo disappunto, le rispose la segreteria. Lasciò un messaggio: «Sean, sono Hannah. Non posso tornare al mio appartamento. C'è Timoty Lane sull'angolo. Mi sta aspettando. Sono sicura che è lui: mi ha seguito da quando sono uscita dalla casa di John. Non so che fare. Torno da John e ti richiamo.» Riappese il ricevitore e attraversò la strada. Vide un taxi senza passeggeri che andava nella sua stessa direzione ed ebbe un'idea. Fece cenno all'autista, che si fermò e la fece salire. Mentre chiudeva la portiera, Hannah gli disse di portarla all'angolo tra la East 55th Street e la Fifth Avenue. Non c'era molto traffico e ci arrivarono in fretta. Lei pagò la corsa e si infilò nel palazzo in cui aveva il suo studio il dottor Cagle. Era tardi, ma quella era l'ora in cui riceveva i suoi pazienti. Lui avrebbe saputo dirle cosa fare. Sotto lo sguardo sospettoso di un sorvegliante afroamericano, Hannah
compilò il modulo per i visitatori. Doveva indicare anche il numero dell'ufficio in cui voleva andare, ma non se lo ricordava più. «Mi scusi» disse al guardiano. «Qual è il numero dello studio del dottor Cagle?» Il sorvegliante la guardò perplesso. «Chi?» «Il dottor Cagle. Tom Cagle. Al sesto piano.» L'uomo fece cenno di no con la testa. «Dev'essersi sbagliata, signora. Non ci sono studi medici al sesto piano, che io sappia.» «Invece c'è. Ci sono già stata. Non posso salire? So dov'è, solo che non mi ricordo il numero.» Il sorvegliante si accigliò, guardò il modulo e poi le fece cenno di passare. «Grazie» disse lei. Corse all'ascensore, lo chiamò e attese la cabina. Di lì a poco, uscì al sesto piano. Ansimante, corse lungo il corridoio verso lo studio del dottor Cagle. Arrivò in fondo e si fermò, confusa. Come aveva fatto a non vederlo? Aveva percorso il corridoio deserto guardando tutte le porte sulla sinistra, aspettandosi di vedere il cartello dello studio medico. Tornò indietro, fino all'ascensore. Doveva essere scesa al piano sbagliato. Non poteva essere altrimenti. Richiamò l'ascensore, entrò nella cabina e dal display ebbe conferma che quello era proprio il sesto piano. Uscì prima che le portine si richiudessero. Stavolta passò lentamente in rassegna tutte le porte, fino ad arrivare a quella che doveva corrispondere allo studio. Era quella giusta, ne era sicura. Ma che fine aveva fatto il cartello? Forse si era staccato e il dottore si era dimenticato di riappenderlo. Hannah girò la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Bussò con decisione, ma non accadde nulla. Che cosa stava succedendo? Il dottor Cagle era sparito? O era lei che stava impazzendo? Sentì un rumore dall'altra parte del corridoio. Era spuntato un uomo con un secchio e una scopa. «Mi scusi...» lo chiamò. L'uomo delle pulizie alzò la testa. «Mi sa dire che cosa è successo al dottor Cagle?» «Chi, signora?» «Il dottor Cagle. Questo è il suo studio. Ma non c'è nessuno e non vedo più il cartello.» L'uomo scosse la testa. «Guardi che si è sbagliata, signora. Qui non c'è nessun dottor Cagle. Quello è un magazzino.»
«Un magazzino? Non è possibile. Ci sono venuta ieri come paziente.» «No, signora. Mi spiace, ma quello è un magazzino.» «Non può aprirlo?» «Non posso. Le chiavi ce le hanno solo quelli della società che ha in affitto la stanza.» «Che società?» «La MedScript, al piano di sotto. Ma saranno chiusi, a quest'ora.» L'uomo riprese a pulire il pavimento, segno che dava per conclusa la conversazione. L'incubo di Hannah stava peggiorando. Avrebbe voluto mettersi a gridare. Ma tenne per sé la sua frustrazione e andò all'ascensore. Scese al piano di sotto è cercò gli uffici della MedScript. Qualcuno c'era ancora: dalla porta a vetri si vedevano le luci accese e un uomo seduto a una scrivania, in un ufficio sul retro. Hannah bussò con forza. L'uomo alzò la testa, con aria preoccupata. «Salve» lo chiamò Hannah. «Può aiutarmi? Devo chiederle una cosa.» L'uomo si alzò in piedi e, cautamente, uscì dal suo ufficio. Si fermò a una decina di metri dalla porta. Sembrava avesse paura a venire ad aprire. «Per favore. Devo chiederle una cosa.» Esitante, l'uomo fece ancora qualche metro. «Mi sa dire che cosa è successo al dottor Cagle? L'uomo delle pulizie, al piano di sopra, mi ha detto che il suo studio sarebbe un vostro magazzino. Non capisco che fine abbia fatto.» L'uomo la osservò, poi finalmente venne ad aprire. «Di che cosa ha bisogno, signora?» le chiese. «Mi scusi se la disturbo, ma sto cercando il mio dottore. Si chiama Tom Cagle. L'uomo delle pulizie dice che adesso il suo studio è un vostro magazzino. Mi può spiegare che cosa succede?» «Mi spiace, signora, ma non conosco nessun dottor Cagle. Il magazzino è nostro da quando abbiamo aperto gli uffici. È sicura di non avere sbagliato indirizzo?» Hannah era completamente disorientata. Aveva sbagliato edificio? Era diventata pazza? Alla fine disse: «Scusi il disturbo» e se ne andò. Solo allora si accorse che c'era qualcosa di strano. Quell'odore. Conosceva l'odore dell'uomo che era venuto ad aprire. Acqua di colonia. E anche lui le sembrava stranamente familiare. Ma non era possibile. Non lo aveva mai visto prima in vita
sua. Era davvero pazza. Bill Cutler richiuse la porta e tirò un sospiro di sollievo. Hannah non lo aveva riconosciuto, né come Tom Cagle né come Sean Flannery. Povera donna. Quasi gli dispiaceva di dover dar corso ai propri piani, ma non aveva altra scelta. Sapeva già quello che doveva fare. E, una volta chiarito che quella era l'unica opzione possibile, era venuto fuori orario alla MedScript, per cercare di non pensare allo spiacevole quanto inevitabile compito che lo attendeva. Tornò alla scrivania e riordinò le copie del suo curriculum, complete di fotografia. Aveva un'audizione importante, l'indomani. 25 Il taxi la lasciò davanti alla casa di Cozzone poco prima delle dieci. Hannah pagò la corsa e si precipitò all'interno, chiudendo subito a chiave la porta. Panther si presentò a salutarla, ma lei lo scavalcò e puntò dritta al Jack Daniel's. Si riempì un bicchiere alto, che le avrebbe tenuto compagnia per una o due ore, poi spense le luci al pianterreno e andò di sopra. Era in uno stato di confusione totale. Non capiva che cosa fosse successo al suo dottore. Non sapeva perché Sean si fosse comportato in quel modo la sera precedente. Suo cugino era morto e ora lei doveva vincere le proprie paure e affrontare il viaggio in Ohio. E poi c'era Timothy Lane, con tutta probabilità in agguato fuori casa. Hannah se lo immaginava seduto in una macchina, che la sorvegliava, in attesa del momento più opportuno per colpire. Avrebbe saputo aspettare, per coglierla di sorpresa e spaventarla a morte. Lane poteva supporre che fosse armata e in grado di difendersi e per questo doveva agire quando lei fosse stata più vulnerabile. Hannah si sedette alla scrivania e compose il numero di telefono del dottor Cagle. Le rispose il messaggio uscente della segreteria telefonica. Evidentemente, aveva ancora uno studio, da qualche parte. Possibile che, traumatizzata dagli eventi degli ultimi giorni, fosse entrata davvero nel palazzo sbagliato? Non aveva senso, ma non vedeva altra spiegazione. Quando sentì il segnale acustico, disse: «Dottor Cagle, sono Hannah McCleary. L'ho cercata in studio questa sera, ma non l'ho trovata. O meglio, non c'era più il suo studio. Ha traslocato? La prego, mi richiami ap-
pena le è possibile.» Lasciò il suo numero e tolse la comunicazione Con un sospiro, si appoggiò allo schienale e bevve un sorso di whisky. Sentì la gola in fiamme, ma ci si era abituata e la trovava una sensazione piacevole. Prese tra le dita il biglietto da visita di Sean Flannery, chiedendosi se fosse il caso di richiamarlo. C'era qualcosa di strano in lui. Hannah aveva tenuto a freno i propri dubbi, ma dopo gli eventi della sera precedente cominciava a insospettirsi. Sean poteva non essere così sincero come le era parso. Forse era vero che nessun uomo potesse davvero trovarla interessante. Sean le aveva detto di amarla, ma il suo tono non l'aveva convinta. Non gli credeva. Tutt'al più, lui voleva portarsela a letto. Dopodiché, non si sarebbe più fatto vivo. Era raro che gli uomini facessero la cosa giusta e dicessero apertamente che cosa volevano da' una relazione. Si nascondevano sempre dietro una barriera di sotterfugi, oppure si limitavano a non chiamare più. Hannah ricordava i vecchi tempi, gli anni prima della prosopagnosia, quando le capitava di uscire con i suoi corteggiatori. Si mostravano interessati per un po'. Ma alla fine scomparivano senza dare spiegazioni. Panther miagolò e le saltò in grembo. Probabilmente aveva fame, ma Hannah non aveva voglia di alzarsi e scendere in cucina. Il Jack Daniel's cominciava a fare effetto. «Vai giù a mangiare» suggerì al gatto. «Hai ancora cibo nella tua scodella.» Panther, invece, le solleticò la pancia con le zampe anteriori, il suo modo di chiedere affetto. Lei lo accarezzò e lui se ne stette buono, facendo sonoramente le fusa. Il rumore di vetri rotti al piano di sotto la fece sussultare. Hannah lanciò un grido e Panther balzò a terra, uscendo di corsa dalla stanza. Hannah prese la borsetta, impugnò la Browning e tolse la sicura. Si alzò in piedi e tese le orecchie, cercando di cogliere qualsiasi rumore che indicasse la presenza di un intruso. Niente. Andò alla porta e, per un istante, dovette appoggiarsi allo stipite per non perdere l'equilibrio. Il cuore le batteva all'impazzata, una sensazione quasi dolorosa. Si impose di fare un respiro profondo e di essere coraggiosa. Poi andò alle scale e cominciò a scendere, un gradino alla volta. Teneva la pistola davanti a sé, pronta a premere il grilletto. Non c'era nessuno nell'ingresso e la porta era ancora chiusa. Scese qualche altro gradino e arrivò in vista del corridoio e del salottino vicino all'ingresso. E qui,
sul tappeto, vide un sasso tra le schegge di vetro. Hannah entrò nel salottino. Come sospettava, il vetro della finestra era infranto. Fuori non si vedeva nessuno. Chiunque fosse stato, ora non c'era più. C'era un biglietto legato al sasso. Hannah si chinò a raccoglierlo e lesse: Dacci quello che ci devi, baby. Hai ventiquattrore. Hannah lasciò cadere il sasso sul tappeto. Che cosa diavolo voleva dire? Dacci quello che ci devi? Per cosa? Per averlo mandato in prigione? Timothy Lane era pazzo. Voleva che lei lo ripagasse in qualche modo, ma con cosa? Soldi? Lei non ne aveva. Che cosa pretendeva da lei? Non pensare a quel mostro, si disse. La prima cosa da fere era coprire il buco alla finestra. Avrebbe dovuto chiamare un vetraio, ma per il momento bastava rattopparla con qualcosa. Le venne un'idea. Tornò di sopra e nello studio trovò un grosso cartonato che reclamizzava l'apparizione di John in una libreria per firmare le copie de I pomi del cosmo. I colori erano da tempo sbiaditi, ma il cartone era spesso. Lo portò giù, insieme a un rotolo di nastro adesivo. In cinque minuti il problema era risolto. L'estetica lasciava a desiderare, ma in quel momento non importava. Tornò nello studio, rimise la pistola nella borsetta e si sedette di nuovo alla scrivania. Il bicchiere di Jack Daniel's era mezzo vuoto. Ne bevve un lungo sorso infuocato, chele scatenò un accesso di tosse. Poi si mise a piangere. Favio risalì sulla Malibu e guardò DeLauria. «Okay, fatto. Ho rotto la finestra. E adesso?» «Aspettiamo.» «Cosa? Perché non andiamo dentro e non la costringiamo a dirci dove sono i soldi?» «Perché non è lei che li ha.» «Come fai a saperlo?» «Perché Cozzone è morto in Ohio. I soldi ce li aveva lui. Lei dovrà andarli a prendere. Aspettiamo che parta e la seguiamo. Appena lei ci mette sopra le mani, facciamo la nostra mossa.» Favio aprì una lattina di birra. Si era scaldata e, appena il ragazzo sollevò la linguetta, schizzò dappertutto.
«Maledizione!» proruppe DeLauria. «Testa di cazzo!» «Scusa. Devo averla agitata.» DeLauria tirò fuori la Walther e appoggiò la canna alla tempia di Favio. «Ehi» gridò il giovane. «Ehi, Dominic, calmati!» «Senti, stronzetto, mi hai rotto il cazzo, va bene? Levati dalle palle.» «Cosa?» «Avanti, vattene, prima che ti faccia schizzare le cervella.» Non ebbe bisogno di ripeterlo. Favio aprì la portiera, rovesciando il resto della birra mentre cadeva sul marciapiede. «E a Jimmy cosa dico?» «Non me ne frega un cazzo di cosa gli dici. Digli che non mi servi più. Mi arrangio da solo.» DeLauria rimise la pistola nella fondina e distolse lo sguardo. Favio, sbigottito, si incamminò verso la stazione della metropolitana di Lexington Avenue. DeLauria era furente. Non avrebbe dovuto tirarsi dietro il ragazzo. Preferiva lavorare da solo. Mentre guardava Favio sparire dietro l'angolo, riconobbe la Toyota Corolla che si fermava davanti alla casa. Ne scese il solito sbirro con il trench, che andò alla porta ma non suonò il campanello. E quello che cosa c'entrava? Era forse il boyfriend della McCleary? Ma allora, Cozzone? Non era lui il suo uomo? Forse no. Forse erano solo soci in affari e lei stava con lo sbirro. A DeLauria non fregava un cazzo di chi se la scopasse, visto che tanto tra non molto l'avrebbe ammazzata. Ma lo sbirro lo preoccupava. Non era salutare avere la legge tra i piedi. Quanto ne sapeva, lo sbirro? Era possibile che lei gli avesse confessato tutto? Poteva avere deformato i fatti, raccontando che Patrone e il guardaspalle li aveva ammazzati qualcun altro e tacendo la propria partecipazione alla compravendita di coca? Che avesse dato la colpa al suo misterioso persecutore, cioè a lui? DeLauria decise di aspettare e vedere. Sapeva essere paziente. Hannah compose il numero di Sean e attese la segreteria telefonica. Era sicura che lui non avrebbe risposto. Gli lasciò un messaggio: «Sean, sono Hannah...» Si schiarì la gola. Aveva bevuto troppo e dalla voce si sentiva. «Timothy Lane è stato qui, stasera. Ha gettato un sasso in una finestra.» Fece due colpi di tosse e riprese. «Io, uhm, non so cos'è successo ieri sera, ma mi manchi e vorrei che fossi qui. Mi pare strano... quello che c'è tra noi. Non so che succede, ma mi sembra di impazzire.» Si rendeva conto che doveva sembrare incoerente, ma continuò. «Mi ami davvero? Hai detto
di sì. Ma sai una cosa, Sean? Non ti credo. Penso che tu voglia solo... Be', non so, non farci caso, sto farneticando.» Tossì di nuovo. Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Domani devo andare in Ohio, per riconoscere il corpo di John e prendere le sue cose. Dovrò farlo seppellire, immagino. Forse lo farò cremare, sarebbe più semplice.» Fece una breve pausa. Le girava la testa. «Vorrei non andare. Ho paura. Ho paura che Timothy Lane mi segua e cerchi di uccidermi laggiù.» Tossì di nuovo. «Forse sarebbe meglio, eh, Sean? Forse dovrei lasciare che mi uccida.» Hannah prese il bicchiere. Era vuoto. Avrebbe voluto versarsi altro whisky, ma la bottiglia era di sotto. «Ho sempre desiderato viaggiare» riprese, continuando a divagare. «Vorrei lasciare New York una volta per tutte. Solo che non ne ho il coraggio. Vorrei... non so, andare in New Mexico, magari. Potrebbe piacermi. Andare in un posto in cui non ci sia troppa gente. Un posto in cui vivere sola... in cui esistere e basta, senza tante preoccupazioni.» Le venne in mente un'idea assurda. Sbuffò e scoppiò a ridere. «Forse dovrei andare a Hollywood a fare la direttrice casting. Quello sì che è un lavoro per me!» Sbuffò di nuovo. «Lascia perdere, non puoi capire.» Tacque per qualche secondo. «Be', in ogni caso, adesso ti lascio andare. Non ci sei neanche. Ti chiamo dall'Ohio, magari, quando sono meno sbronza.» Stava per riagganciare, ma ci ripensò e aggiunse: «Sean, se davvero mi ami, non... be', ecco... non...» Non sapeva come finire la frase. Non sapeva nemmeno cosa voleva dire. Riagganciò. Si alzò, appoggiandosi alla scrivania. Uscì dallo studio e salì in camera. Si tolse le scarpe, i jeans e la T-shirt e si gettò nel letto. Affondò nel materasso come se fossero sabbie mobili. 26 A Rick bastò mezza giornata per ottenere documenti falsi per entrambi. Conosceva un tipo a Toledo che campava contraffacendo patenti e passaporti. Non che Rick fosse un criminale, ma ne conosceva parecchi. Effetto collaterale del suo lavoro, aveva spiegato: incontrava gente di ogni tipo e, in un modo o nell'altro, sapeva sempre da chi procurarsi tutto quello gli poteva servire. Sophia esaminò la sua nuova patente dell'Ohio, con la sua foto e il nome "Hannah Cozzone". Quella di Rick, invece, era intestata a "Frank Cozzo-
ne". Il loro indirizzo risultava essere un appartamento di Cleveland, un edificio realmente esistente, anche se ancora in costruzione. Alcuni appartamenti erano già stati opzionati dai futuri inquilini e le patenti sarebbero state credibili, almeno per un po'. Il Fulton County Health Center si trovava nella città rurale di Wauseon, non lontano dalla Turnpike. La comunità constava di circa quarantaduemila anime, per la maggior parte agricoltori. L'ufficio dello sceriffo era sottotono e non aveva mai a che fare con casi troppo seri. Sophia presumeva che non sarebbe stato difficile mettere le mani sui bagagli. Era tardo pomeriggio quando Rick parcheggiò il suo pick-up davanti alla clinica. Aveva lasciato il camion dal suo capo ed era andato a prendere Sophia in albergo con il proprio veicolo. «Meglio se parcheggi un isolato più avanti» gli consigliò lei. «A qualcuno potrebbe venire in mente di controllare la tua targa.» Rick deglutì e fece un cenno di assenso. Era nervoso, si vedeva. Gli tremavano le mani e i suoi occhi avevano l'espressione di un cerbiatto in mezzo alla strada, che guarda dritto nei fanali prima di essere investito. Sophia aggrottò la fronte, augurandosi che non facesse casino. Forse era stato un errore tirarlo dentro. «Farai bene a calmarti. Te la stai facendo sotto.» «Si vede così tanto?» chiese lui. «Uh-huh. Senti, lascia parlare me. Se ti chiedono qualcosa, tu di' soltanto "sì" o "no". Se ti fanno domande dirette sul conto di John, inventati una risposta. Ti ricordi quello che ti ho detto stamattina?» «Seh.» «Come si intitolano i suoi libri?» «I pomi del cosmo e La lingua lunga di Lucinda Leone.» «Lucretia, non Lucinda. Ma non preoccuparti. Me lo scordo sempre anch'io come si chiama. E poi non credo che questi bifolchi lo sappiano. Andiamo.» Sophia scese dal pick-up. Rick la seguì. Tornarono a piedi alla clinica ed entrarono. Una donna dietro una parete di vetro alzò gli occhi e sorrise. «Dobbiamo vedere il vicecoroner» disse Sophia. Controllò il nome su un foglietto. «Un certo dottor Webber.» «E voi siete...?» «Il signore e la signora Cozzone. Il dottore ci aspetta.» «Certamente.» La donna fece una telefonata, scambiò due parole all'apparecchio e riappese. «Accomodatevi. Arriva subito.»
«Grazie.» Si sedettero in una sala d'aspetto. Sul tavolino davanti a loro c'era il consueto assortimento di riviste. Sophia prese una copia di "People" e si mise a sfogliarla, quando da una porta con la scritta VIETATO L'ACCESSO uscì un uomo calvo, sulla trentina, con gli occhiali. «I signori Cozzone?» «Sì?» si fece avanti Sophia. «Buonasera. Sono il dottor Webber.» Il vicecoroner scambiò strette di mano con entrambi. «Vi porgo le mie più sentite condoglianze.» «Grazie» disse Sophia. Rick non disse nulla. Lei lo guardò. «Oh, grazie» disse lui, a sua volta. «Per mio marito è stato un duro colpo» spiegò Sophia. «Lo scusi se parla poco.» «Non si preoccupi» disse Webber. «Mi rendo conto. Se volete seguirmi...» Li precedette in un corridoio freddo e asettico, fino ad arrivare un piccolo ufficio. «Accomodatevi» li invitò, sedendosi dietro una scrivania. Sophia e Rick occuparono le due poltroncine nere davanti a lui e lo guardarono ansiosi. Webber aprì una cartelletta e la studiò con attenzione. «Qualcuno dell'ufficio dello sceriffo vorrebbe parlarvi, ma prima...» «L'ufficio dello sceriffo?» lo interruppe Sophia. «E perché mai?» «Dall'autopsia sono risultati certi elementi, riguardo... riguardo a suo cognato, signora Cozzone.» Il dottore si rivolgeva direttamente a lei, senza far caso a Rick. «Il rapporto tossicologico ci ha dato qualche preoccupazione. Sono elementi di competenza dell'ufficio dello sceriffo.» «Perché? Qual è il problema?» «Glielo spiegheranno loro, signora. Intanto, ho bisogno dei vostri documenti. Devo chiedervi di compilare alcuni moduli. Poi andremo a vedere il defunto. A nessuno di voi è mai capitato di riconoscere una salma, prima d'ora?» «No» rispose Sophia. Guardò Rick. «No» le fece eco lui. «Be', tenete a mente che non abbiamo ancora fatto niente per preservarlo o renderlo presentabile per il funerale: a questo penseranno le pompe funebri. Non è stato imbalsamato. Le ferite che ha riportato nell'incidente sono ancora evidenti. Mi spiace, ma dovrete vederlo così com'è, prima che pos-
siamo affidare la salma a un'impresa di vostra fiducia. Vediamo... Venite da Cleveland, giusto?» «Sì.» Sophia sosteneva la conversazione, mentre Rick fissava il pavimento, in un'interpretazione piuttosto convincente del fratello in lutto. «Avete già scelto l'impresa di pompe funebri?» «No. Pensavamo di farlo cremare qui.» Il vicecoroner sollevò le sopracciglia. «Qui?» «Eh, sì. Non ci possiamo permettere... Voglio dire, sa com'è. A dire la verità, Frank e John non erano molto vicini, capisce. Non ci sono altri fratelli e i loro genitori sono morti. Non c'è nessun altro. Finivano sempre per litigare. John non è venuto nemmeno al nostro matrimonio. L'ho visto solo una volta.» «Capisco. In sostanza, vorreste che se ne occupasse un'impresa di Wauseon.» «Direi di sì. Sarà costoso?» «Ci saranno delle spese, sì» spiegò Webber. «Ma se optate per la cremazione, penso che sia fattibile. Quando avremo finito, vi darò l'indirizzo della Morris Funeral Home. È qui vicino e ci rivolgiamo spesso a loro. Potrete parlarne con il signor Morris.» «Okay. C'era qualcosa nella macchina di John?» Dopo averlo chiesto, Sophia si rese conto che forse aveva sollevato la questione troppo presto e con troppo interesse. «Intende dire effetti personali?» «Sì.» «Qualcosa c'era: tre bagagli nel baule. Purtroppo l'auto è completamente distrutta. È stata rimossa dal luogo dell'incidente e portata direttamente dallo sfasciacarrozze. Per quanto riguarda la macchina, dovrete contattare l'assicurazione del defunto.» Rick parlò per la prima volta. «La macchina non era nostra.» Il dottore lo guardò. Rick si strinse nelle spalle. «Perché preoccuparsene?» «In quanto suo parente, potrebbe avere diritto a un risarcimento» rispose Webber. «Avete ricostruito la meccanica dell'incidente?» «Di questo parlerete con il vicesceriffo. Posso dirvi che il signor John Cozzone è deceduto in seguito alle ferite riportate nell'incidente. Se lo desiderate, posso entrare nei dettagli.» «No, grazie» disse Sophia. Si rivolse a Rick. «A meno che tu non li vo-
glia conoscere, baby.» Rick scosse la testa. «Allora» disse il vicecoroner «vi do i moduli da compilare. Poi procederemo al riconoscimento.» Sophia gli consegnò le due patenti, poi si mise a compilare i moduli insieme a Rick, suggerendogli sottovoce cosa scrivere. Nel frattempo, Webber esaminò i documenti e annotò qualcosa su un foglio. «Signor Cozzone, da quanto vive a Cleveland?» domandò. Rick alzò la testa. «Sette anni» rispose. «E prima dove risiedeva?» «New York. Mio fratello e io siamo di New York. Lui vive... viveva ancora lì.» «E non ci sono altri parenti?» «Sono tutti morti. Non c'è nessun altro.» «E cosa mi dite di...» Webber girò il foglio e lesse un nome. «Hannah McCleary? Una cugina.» Merda, pensò Sophia. Rick la guardò. Fu lei a rispondere per lui. «Oh, lei. È la cugina di Frank e John. Già. Ma non ha molti rapporti con la famiglia.» «Le ho parlato. Dice che lavorava per suo cognato.» Sophia scosse la testa. «Non è esatto. Gli faceva un po' da segretaria, tutto lì. Niente di ufficiale. In nero, mi capisce.» «Si chiama come lei.» Sophia alzò gli occhi al cielo come se lo avesse sentito dire un milione di volte. «Già. Una pura coincidenza.» Merda, merda, merda, pensava intanto. Perché era stata così stupida da usare di nuovo quel nome? «La signorina McCleary ha detto che probabilmente sarebbe venuta lei da New York a identificare il corpo. Ne eravate al corrente?» «No.» Sophia guardò Rick «E tu, tesoro?» «No. Io non ci parlo con lei.» Sophia annuì. Rick stava al gioco. Webber sospirò. «Be', dal momento che lei è il fratello del defunto, è sicuramente il parente più prossimo. Vogliamo procedere al riconoscimento?» Uscirono dall'ufficio. Il vicecoroner li condusse all'obitorio. L'aria fredda della sala fu come uno schiaffo per Sophia, che rabbrividì involontariamente. D'istinto, Rick la circondò con un braccio.
Webber aprì lo sportello di una delle celle frigorifere e fece scivolare in avanti un cassetto. Un lenzuolo copriva il cadavere. «Vi spiace avvicinarvi?» li invitò il vicecoroner. Rick e Sophia gli si misero alle spalle. Webber sollevò il lenzuolo dalla testa del cadavere. Sophia si lasciò sfuggire un gemito. John Cozzone era decisamente morto. La sua faccia era di un pallore malsano, segnata da due lividi vistosi. «Oddio» fece Rick. Si voltò, coprendosi il volto tra le mani. Sophia era impressionata dalla sua recitazione. Webber guardò lei per il verdetto. Sophia annuì. «Sì. È John.» Webber fece un cenno di assenso e ricoprì la faccia del cadavere. Poi spinse il cassetto nella cella e richiuse lo sportello. «Di nuovo sentite condoglianze. Ora, se volete seguirmi, il sergente Ackerman desidera parlarvi.» «Chi?» chiese Sophia. «Dell'ufficio dello sceriffo.» «Oh, certo.» Webber li accompagnò fuori dall'obitorio e li portò in una piccola sala riunioni, dove un uomo dai capelli grigi li attendeva seduto al tavolo. Quando li vide entrare, il sergente si alzò. La sua uniforme consisteva in una camicia grigia e in un paio di pantaloni neri. «Buonasera» disse, tendendo la mano. «Sono il sergente Ackerman, dell'ufficio dello sceriffo di Fulton County.» «Frank Cozzone» si presentò Rick, stringendogli la mano. «Mia moglie Hannah.» Ackerman strinse la mano anche a lei. «Accomodatevi» disse. Poi si rivolse al vicecoroner. «Grazie, Chuck. Ti avviso quando ho finito.» Webber assentì e uscì dalla sala, chiudendo la porta. «Sentite condoglianze» esordì il sergente. «Grazie» rispose Sophia. «Perché voleva parlarci?» «Ecco, dovremmo chiarire un paio di cose riguardo al defunto signor John Cozzone. Se ho ben capito, lei non aveva molti contatti con suo fratello» disse, rivolto a Rick. «Infatti. Non ci parlavamo da anni.» «Capisco. La polizia stradale ci ha passato il caso. Devo informarvi che l'incidente è avvenuto mentre suo fratello era sotto l'effetto di sostanze stupefacenti.»
Rick si finse convincentemente sorpreso. «Dice davvero?» Il sergente annuì. «Gli è stata rilevata traccia di cocaina nel sangue. Parecchia. E non solo quello. Ne abbiamo trovato tracce anche sul sedile anteriore dell'auto.» Rick scosse la testa, guardò Sophia e fece: «Tsk, tsk, tsk. Tipico di John, vero, tesoro?» «Non mi stupisce» disse lei. «Sapevate che faceva uso di cocaina?» domandò il sergente. «No, ma ne era il tipo. Sa, era un artista.» Rick lo disse come se fosse una specie di malattia. «Ma, come ho detto, non eravamo in buoni rapporti.» Il sergente li squadrò entrambi per un momento. «C'è un'altra cosa. Suo fratello era sospettato per un caso di omicidio a Chicago.» «Che cosa?» proruppe Rick. «Come sarebbe a dire?» disse a sua volta Sophia. «A quanto pare, stava tornando a New York da Chicago. Un uomo è stato assassinato nel suo albergo. In tasca alla vittima è stato trovato un foglietto su cui era segnato il suo numero di camera.» Nella sala calò il silenzio. Rick lo ruppe con: «Io... non so cosa dire.» «Sfortunatamente» riprese Ackerman «non abbiamo trovato altri indizi che lo collegassero all'omicidio. Non c'erano armi nell'auto. Tuttavia la vittima era un noto spacciatore di cocaina di Chicago. Questo è il punto.» «E che cosa comporta per noi?» chiese Sophia. Stava diventando impaziente. Voleva la valigia. In quel momento le venne un terribile sospetto. «Avete aperto i bagagli?» «Sì. Abbiamo dovuto. Date le circostanze, mi capisce. Con la cocaina sul sedile e nel suo sangue, e i fatti di Chicago...» Sophia provò una stretta allo stomaco. «E...?» chiese, esitante. Ackerman allargò le braccia. «Non abbiamo trovato niente di interessante. Possiamo consegnarvi tutto. È un caso chiuso.» Sophia non sapeva che cosa pensare. Come avevano fatto a non trovare i soldi? Avevano aperto i bagagli senza vedere un milione di dollari? Per non parlare della cocaina che non avevano venduto a Chicago. Dove diavolo era andata a finire? Rick e il sergente si alzarono in piedi. «Oh, ancora una cosa» disse Ackerman. «Quale?» chiese Rick.
«A Chicago suo fratello era in compagnia di una donna. Alcuni testimoni lo hanno visto insieme a una bionda attraente. Non ha idea di chi possa essere?» Rick e Sophia si scambiarono uno sguardo. «No» dissero all'unisono, voltandosi di nuovo verso il sergente. Ackerman stava guardando attentamente Sophia. Era chiaro quello che stava pensando: lei era una bionda attraente. È finita? si chiese lei. Ci hanno scoperti? Mi sono messa in trappola da sola? Dopo un lungo silenzio tormentato, finalmente Ackerman concluse: «Be', non credo ci sia altro da fare. Tanto il sospetto quanto la vittima sono morti. E presumo tocchi alla polizia di Chicago localizzare la donna misteriosa, che a quanto pare non è partita con suo fratello. O, se sono partiti insieme, lui l'ha lasciata per strada da qualche parte. Dal momento che nessun altro è rimasto coinvolto nell'incidente, il caso per noi è chiuso.» «Okay. Grazie» disse Rick. Sophia si alzò. Il sergente aprì la porta. Chiamò Webber: «Chuck, puoi consegnargli gli effetti personali.» «Okay, Tommy» disse il vicecoroner. Webber fece di nuovo strada in corridoio e li portò in un'altra stanza. I bagagli erano su un tavolo, compresa la valigetta da un milione di dollari. «È tutto quello che è stato trovato in macchina» disse il vicecoroner. «Se mi fate una firma qui, potete ritirarlo.» Porse loro un modulo. Rick lo firmò. Webber restituì loro le patenti. «Eccoci. E questo è il numero di telefono dell'impresa di pompe funebri. Ho già avvisato il signor Morris.» «Grazie» disse Rick. «E ancora sentite condoglianze.» Rick e Sophia fecero un cènno di assenso. Quando risalirono sul pick-up, Sophia mise la valigia metallica sul pianale ed esaminò le serrature. John le aveva chiuse a chiave, ma evidentemente la polizia le aveva forzate. Sophia inspirò a fondo e aprì la valigia. Era piena di vestiti e giornali. Nessuna traccia dei soldi. «Questo si chiama prenderlo nel culo» mormorò. «Che c'è?» chiese Rick. «Non ci sono più.»
«Cosa vuoi dire?» «Non ci sono più, idiota! I soldi. Non sono qui. John li avrà fatti sparire. Ha combinato qualcosa. Quel bastardo. Quel merdoso, incapace, stronzissimo bastardo del cazzo!» Rick la lasciò sfogare per un po', prima di chiedere: «E adesso che facciamo?» «Che cazzo ne so? Torniamo in albergo.» Non scambiarono una parola nel tragitto fino all'Holiday Inn. Rientrati in camera, Sophia riaprì la valigia ed esaminò anche le altre due borse. Gli sbirri ci avevano messo le mani, ma le sue cose erano più o meno come lei le aveva lasciate. «Che strano» disse Rick. «Non mi hai nemmeno detto grazie.» «Come?» «Non mi hai detto grazie per averti aiutata. Mi sembra di essermela cavata bene.» «Ma non abbiamo trovato i soldi, coglione. Il piano non ha funzionato.» «Il piano ha funzionato, solo che non c'erano i soldi.» «Chiudi quel cesso di bocca, sto pensando.» «Eri tu la bionda di Chicago di cui parlava il poliziotto?» chiese Rick. «Taci, ho detto.» Rick rimase in piedi un momento, poi annunciò: «Vado a farmi una doccia.» Andò in bagno, cominciando a togliersi i vestiti. Sophia rifletteva sulla situazione. Cosa poteva avere fatto John con i soldi? Doveva essere uscito dalla stanza d'albergo quando lei era ubriaca fradicia. Li aveva nascosti da qualche parte. Ma dove? E perché? Non si fidava di lei? Che stronzo. Avrebbe dovuto capirlo che John non era affidabile, da quanto si era spaventato perché lei aveva tirato fuori la pistola. Ma se John aveva lasciato i soldi laggiù, poi sarebbe dovuto tornare indietro a prenderli. Una rottura di palle. No, non aveva senso. In qualche modo, doveva avere spedito i soldi a New York. Proprio così. Li aveva impacchettati e spediti mentre lei era sbronza. Ma a New York, dove? E ci arrivò. Era ovvio. John aveva spedito i soldi a sua cugina. Sophia sentì aprirsi il rubinetto della doccia, poi Rick che si metteva a canticchiare. E di lui che cosa doveva fare, adesso? Non le serviva più a niente. Doveva liberarsene. Il problema era che sapeva troppo. Se ci fossero stati i soldi, avrebbe potuto comprare il suo silenzio, senza rimetterci troppo. Ma purtroppo di soldi non ce n'erano e Rick rappresentava un rischio.
Sophia andò di soppiatto alla cassaforte e l'aprì. Prese la Colt, controllò che fosse carica e andò in bagno. Quando aprì la porta, il rumore dell'acqua sulle piastrelle e la voce di Rick divennero più forti. Sophia tirò la tendina. «Posso venire anch'io, baby?» Rick sorrise. «Certo!» La sua espressione cambiò appena vide la pistola. 27 I passi riecheggiarono alle sue spalle, mentre Hannah si metteva a correre verso il suo appartamento. Sapeva che lui la stava seguendo e che l'avrebbe aggredita appena fosse entrata nell'atrio. Ehi, baby, dove vai? Quella voce le faceva venire i brividi. Cercava di mettere un piede davanti all'altro, ma era difficile: il sogno seguiva sempre le sue regole. Hannah cercava di urlare, ma le usciva solo un debole sussurro, un gemito acuto di impotenza. D'un tratto si ricordò una cosa. Aveva una pistola nella borsetta. Come aveva fatto a dimenticarsene? Hannah infilò la mano nella borsetta che portava a tracolla. La pistola era lì, in attesa di uscire dal suo nascondiglio. La impugnò. Come sempre, quel contatto solido la fece sentire subito più forte. La estrasse dalla borsetta, si voltò e la puntò verso il suo inseguitore, l'uomo che conosceva come Timothy Edward Lane. Lui era solo a un paio di metri da lei, immerso nell'ombra. Le luci della First Avenue sembravano stranamente inesistenti. Cos'hai lì, baby? Un giocattolo? Lei lo teneva sotto tiro, ma lui non si fermava. Era quasi su di lei. Hannah premette il grilletto, ma non accadde nulla. L'ombra diventava più grande, si dilatava nell'aria come un genio uscito da una lampada. Hannah premette il grilletto, e ancora, e ancora... Ma era inutile. Finché non le rimase altro che urlare, mentre il male la avvolgeva. «Signora? Signora?» La mano sulla spalla la scosse un po' più forte. «La prossima fermata è Bryan, signora.» Hannah si svegliò di soprassalto. Aprì gli occhi e, dopo qualche secon-
do, si rese conto di essere ancora sul treno. Il controllore le teneva una mano sulla spalla. «Mi scusi se la disturbo, signora. Mi aveva chiesto di svegliarla prima di Bryan.» «Sì, grazie.» Il controllore si allontanò, lasciandola scossa e disorientata. Il sogno l'aveva sconvolta più del solito. Il vagone era buio e gli altri passeggeri stavano dormendo. Hannah intuì che il controllore doveva averci messo un po' a svegliarla. Aveva parlato a bassa voce, per non disturbare gli altri. Hannah guardò l'ora. Erano le quattro meno cinque del mattino. Fuori dal finestrino, il piatto panorama dell'Ohio era solo una striscia confusa di oscurità in rapido movimento. Hannah stirò le membra, si mise la borsetta a tracolla e prese il suo unico bagaglio, una valigia trolley, dalla reticella. Il treno numero 49 dell'Amtrak dalla Penn Station di New York a Chicago era la sua unica possibilità di raggiungere Wauseon senza spendere troppo. La stazione più vicina alla città era Bryan, una trentina di chilometri più a ovest. Avrebbe dovuto prendere un taxi per arrivare a Wauseon, anche se dubitava di riuscire a trovarne, a quell'ora. Era stato un lungo viaggio. Arrivare fino a Chicago stando su un sedile doveva essere una tortura inimmaginabile. Se avesse potuto permetterselo, avrebbe preso una cuccetta in un vagone letto. Diamine, se avesse potuto permetterselo, avrebbe preso un aereo. Di fatto, il viaggio in Ohio per identificare la salma del cugino e recuperare le sue cose le stava costando più del dovuto. Le dispiaceva terribilmente per lui e ne avrebbe sentito fortemente la mancanza, ma avrebbe preferito evitare quella responsabilità. Aveva già troppe cose di cui preoccuparsi. Il treno rallentò e si fermò, apparentemente in mezzo al nulla. Il cielo era punteggiato di stelle e il paesaggio era una pianura anonima. Hannah mise piede sulla banchina. La stazione di Bryan era una piccola costruzione di legno che sembrava deserta. Non c'era da stupirsi, vista l'ora. Nessun altro era sceso dal treno. Tirandosi dietro il trolley, Hannah entrò nella stazioncina, dove trovò un telefono pubblico. Una rapida chiamata alla compagnia telefonica le permise di mettersi in contatto con il servizio taxi. Anche la centralinista sembrava essersi svegliata di soprassalto. Le fu promesso che il taxi sarebbe arrivato di lì a un quarto d'ora. Han-
nah domandò alla centralinista se ci fossero hotel poco costosi a Wauseon. Le venne raccomandato l'Holiday Inn. Il taxi la lasciò davanti all'albergo. Doveva essere successo qualcosa, perché c'erano tre auto della polizia e un'ambulanza con i lampeggiatori in funzione. Hannah prese la borsetta e il suo bagaglio ed entrò. Alla reception un uomo dagli occhi assonnati e dall'aria preoccupata beveva caffè da una grossa tazza. Hannah vide la sua espressione, ma non i lineamenti. Se l'avesse incontrato un'ora dopo, non avrebbe saputo riconoscerlo. «Sì, signora?» le chiese lui. «Avrei bisogno di una camera. Ne avete una libera?» «Certo, signora. Per quante notti?» «Non ne sono sicura... Stanotte di certo, o quello che ne rimane. E forse domani. Spero che basti.» Il portiere prese la carta di credito e le diede il modulo da compilare. «Che cosa è successo?» chiese lei. «Oh, abbiamo... uhm, avuto qualche problema. Ma non ce da preoccuparsi.» «Mi auguro.» Il portiere le diede la chiave e le spiegò come raggiungere la stanza. Non si offrì di portarle il bagaglio. Hannah entrò in camera, passò un paio di minuti in bagno, si tolse le scarpe e si trascinò a letto senza nemmeno spogliarsi. Dormì fino alle dieci e mezzo, quando suonò la sveglia. Immaginò che non ci fosse fretta di arrivare al Fulton County Health Center. Il corpo di John non sarebbe andato da nessuna parte. Fece una doccia, si rivestì e telefonò al vicecoroner, che rispose distrattamente: «Pronto?» «Signor Webber? Sono Hannah McCleary, di New York.» «Dottor Webber. Posso esserle utile?» «Ci siamo sentiti l'altro giorno, a proposito di mio cugino, John Cozzone.» «John... Lei è... Aspetti, mi ripete il suo nome?» «Hannah McCleary.» «Signorina McCleary! Ho cercato di richiamarla. La polizia... o meglio, noi abbiamo bisogno di parlare con lei. Ha ancora intenzione di venire a Wauseon?» «Sono già arrivata, stamattina presto.»
«Lei è a Wauseon?» «Sì. Pensavo...» «Quando può venire? Lo sceriffo deve parlarle.» «Lo sceriffo? Perché?» «Poi le spiegheremo. Dove si trova? Posso far mandare un'auto di pattuglia a prenderla.» Si misero d'accordo. Un poliziotto sarebbe passato in albergo entro un'ora. Quando riappese il ricevitore, Hannah era stupefatta. Perché la polizia voleva parlarle? Che John si fosse messo in qualche guaio, prima dell'incidente? Che cosa stava succedendo? Il sergente Ackerman arrivò puntuale su una Crown Vic nera. Hannah lo aspettava nell'atrio dell'albergo. Il poliziotto si presentò e l'accompagnò alla macchina. «Che cosa succede?» domandò lei, salendo sull'auto. «Lo sceriffo vorrebbe parlarle, signora. Siamo piuttosto confusi su alcune cose.» «Anch'io.» Attraversarono in silenzio la cittadina rurale e raggiunsero la clinica, davanti alla quale erano ferme altre due auto della polizia. Ackerman parcheggiò dietro di esse. Scesero dalla Crown Vic ed entrarono. Il sergente oltrepassò il banco della reception e la guidò verso il retro. Percorsero un corridoio e raggiunsero la sala riunioni, dove li attendevano un medico in camice e un uomo di mezz'età con capelli e baffi grigi. Ackerman fece le presentazioni. «La signorina Hannah McCleary, lo sceriffo Rumley e il dottor Webber, che credo abbia sentito per telefono.» Si strinsero la mano e si sedettero. «Che cosa succede?» domandò Hannah. «Signorina McCleary» cominciò lo sceriffo «se non erro lei è la cugina di John Cozzone.» «Esatto.» «Ieri» riprese Rumley, accigliato «un uomo e una donna si sono presentati per riconoscere il corpo di suo cugino e ritirare i suoi effetti personali. L'uomo si è identificato come Frank Cozzone, fratello del defunto. Con lui c'era la moglie, Hannah Cozzone.» Hannah non capiva. «Ma John era figlio unico. Temo di non seguirla.» Lo sceriffo scambiò un'occhiata con il dottor Webber. «Era quello che temevamo» le disse. «Conosce quest'uomo?» Le consegnò una patente di guida intestata a Frank Cozzone, domiciliato a Cleveland. La faccia, natu-
ralmente, era indecifrabile per lei. Non poteva dire se lo conoscesse o meno. «Non l'ho mai visto prima» rispose. Non sapeva se fosse vero. Restituì il documento allo sceriffo. Rumley tamburellava sul tavolo con le dita. «Abbiamo un problema. Suppongo che lei possa dimostrare di essere la cugina del defunto.» «Non ne sono certa. Voglio dire, ho la mia carta di identità, ma non dice che fosse mio cugino. Che genere di dimostrazione vi serve?» «Uno stato di famiglia? Qualcosa che indichi che siete parenti?» Hannah scosse il capo. «È complicato, È un cugino alla lontana: John è il figlio del primo marito della sorella di mia madre. Non abbiamo legami di sangue. E tutti i nostri parenti sono morti.» «Capisco. È vero che lei lavorava per lui?» «Sì. Sono... ero la sua assistente personale. Gli battevo i manoscritti al computer, cose del genere.» «E anche lei vive a New York?» «Sì.» Webber mormorò qualcosa all'orecchio dello sceriffo. Rumley assentì, poi tornò a guardare Hannah. «Signorina McCleary, suo cugino era sospettato per un omicidio commesso a Chicago alcuni giorni fa. Al momento dell'incidente, avvenuto vicino alla nostra città, era ricercato dalla polizia. Stando ai nostri colleghi di Chicago, c'era una donna con lui. Per caso ne sa qualcosa?» «Sì. Si chiama Sophia. Non conosco il cognome. Era la sua ragazza.» «La conosce bene?» «No, per niente. L'ho vista una volta, anzi due. Ma solo per poco.» «La riconoscerebbe, se la rivedesse?» Hannah esitò. Non l'avrebbe saputa riconoscere, fuori contesto. «Credo di no. A dire la verità, John ne aveva parecchie di ragazze e si assomigliavano tutte. Tipo fotomodella.» «Okay. Il fatto è questo.» Lo sceriffo batté il dito sulla patente di Frank Cozzone. «Quest'uomo e una donna, una bionda carina "tipo fotomodella", come dice lei, sono venuti qui ieri e si sono fatti passare per parenti di suo cugino. Hanno compilato i moduli, hanno visto la salma e l'hanno identificata. Poi si sono presi tutti i suoi effetti personali. La notte scorsa, l'uomo è stato trovato ucciso in una stanza d'albergo. Il suo stesso hotel: l'Holiday Inn. Non solo. L'esame balistico coincide con quello del delitto di Chicago.»
Hannah non sapeva che cosa pensare. Era tutto decisamente bizzarro. «Ho visto le auto della polizia quando sono arrivata in albergo, la notte scorsa, o meglio, stamattina. Tra le quattro e mezza e le cinque.» «La donna è scomparsa. I bagagli sono rimasti in albergo, eccezion fatta per una borsa da viaggio contenente indumenti femminili e articoli da toilette. Siamo convinti che la donna che ha finto di essere la cognata del signor Cozzone abbia ucciso l'uomo e sia fuggita, portandosi via il proprio bagaglio.» «Oh.» Per Hannah cominciava a essere troppo. «E io cosa devo fare? O meglio, che cosa volete che faccia?» «Non lo sappiamo nemmeno noi» rispose lo sceriffo. «Suo cugino aveva assunto cocaina. Ne abbiamo trovate tracce anche sul sedile dell'auto. Sapeva che faceva uso di stupefacenti?» «Sì» ammise lei. «Non lo approvavo. Ma suppongo che lo facesse da molto tempo. Sa, è una celebrità. O lo era. Vent'anni fa era più famoso.» «Sapeva perché fosse andato a Chicago?» «Non proprio. È partito con Sophia, per stare via qualche giorno. Ho pensato che fosse una specie di fuga romantica.» «Sa dirci perché Sophia abbia utilizzato il nome Hannah?» «Davvero?» fece lei, sorpresa. «Assolutamente no. È molto strano. Mi preoccupa. Chi è stato ucciso a Chicago?» «Uno spacciatore di droga. Aveva in tasca un biglietto con il numero di camera di suo cugino. Le dice niente il nome George Williams?» «No.» Con il proseguire della conversazione, Hannah si rese conto che era un vero e proprio interrogatorio. La polizia aveva tra le mani due casi di omicidio e riteneva che lei vi fosse collegata. Lo sceriffo le chiese dettagli sul lavoro che lei svolgeva per John, dove lui abitasse, come si mantenesse. Poi passò a domande più personali, in particolare dove si trovasse Hannah negli ultimi giorni e come potesse dimostrarlo. «Senta» disse lei, alla fine «io non ho niente a che fare con questa storia. Sono venuta fin qui da New York per identificare mio cugino e prendere le sue cose. Francamente, ne avrei fatto a meno. Gli volevo bene, era tutta la mia famiglia. Ma tutto questo è... veramente troppo per me. Come avete potuto lasciare che fossero quelle due persone a identificare il corpo?» Fu Webber a rispondere. «Ci siamo fidati dei loro documenti. Non avevamo ragione di sospettare di loro. Siamo molto spiacenti.» «E adesso devo tornare a New York?»
«Se lo desidera» rispose lo sceriffo. «Anche se potremmo avere bisogno di parlarle ancora, nel caso ci fossero sviluppi. Vorremmo risolvere il caso e soprattutto trovare questa Sophia. Pensa che cercherà di mettersi in contatto con lei?» «Non ne vedo la ragione. Ma perché ha dovuto presentarsi sotto falsa identità, per identificare il corpo di John? Che cosa ci guadagnava?» «Bella domanda» commentò lo sceriffo. «Ce lo chiediamo anche noi. Sempre che questa "signora Cozzone" sia effettivamente la donna che lei conosce come Sophia. In ogni caso, ha preso la borsa con gli oggetti femminili che, se quello che lei dice è vero, probabilmente le apparteneva. Forse pensava che ci fosse qualcosa nascosto tra i bagagli. Dopotutto, stiamo parlando di trafficanti di droga.» Hannah si abbandonò sullo schienale, frustrata e rabbiosa. «Grandioso. Sono arrivata fin qui, in questo posto sperduto, e adesso devo tornarmene a New York. Ma lo sapete quanto tempo ci vuole, in treno?» «Siamo spiacenti, signora» disse Ackerman. «Bisogna anche decidere che cosa fare di suo cugino» le fece presente Webber. «In che senso?» «Dev'essere affidato alle pompe funebri. Ed essere sepolto. I due che sono stati qui ieri hanno detto che avrebbero provveduto, ma non lo hanno fatto.» «Sentite, non mi importa» disse Hannah. «Non ho soldi. Non potete cremarlo?» «È quello che hanno proposto anche i due di ieri.» «Bene, la vera parente sono io e io vi dico di cremarlo.» «Suo cugino era famoso» osservò Webber. «Non aveva soldi? Come sua unica parente, immagino che lei avrà diritto alla sua eredità.» Hannah cominciava solo in quel momento a comprendere le proporzioni delle sue responsabilità riguardo a John Cozzone. Era tutto molto spaventoso. «Non lo so. Devo chiedere a un avvocato?» «Non sarebbe una cattiva idea» rilevò Ackerman. Lo sceriffo riprese la parola, rivolto a Webber. «Parlerò con Morris, delle pompe funebri. Potremmo fare come con i morti non identificati. Così la signorina McCleary non avrà altri problemi. Se vuole la cremazione, sono sicuro che la contea può provvedere alle spese.» Si voltò verso Hannah. «Per lei va bene?»
«Sì, grazie.» «Dovrà in ogni caso occuparsi delle proprietà di suo cugino, specie se non c'è nessun altro a farlo» le ricordò lo sceriffo. «Sì.» «Oh, prima che lei vada via» intervenne Webber «avremmo bisogno che identifichi la salma, dal momento che è lei la vera parente.» Hannah sospirò. «D'accordo. Ma dopo vorrei andare in albergo. C'è un treno per New York a mezzanotte. Vorrei cercare di dormire un po' questo pomeriggio e ripartire stanotte stessa.» «D'accordo» stabilì lo sceriffo. «Il sergente Ackerman la riaccompagnerà in albergo.» Vedere il corpo fu meno drammatico di quanto Hannah avesse temuto. Senza il suo odore familiare, senza la sua voce amichevole, le riusciva impossibile riconoscere il morto come John. Ma dichiarò ugualmente che si trattava di lui e uscì dall'obitorio. Dopo i saluti e le strette di mano, Ackerman la scortò fino alla macchina. Nessuno dei due fece caso all'uomo sulla Chevy Malibu parcheggiata sull'altro lato della strada. 28 Sophia si tolse la parrucca nera e gli occhiali da sole e si guardò allo specchio. I lividi erano praticamente svaniti, ma la ferita alla fronte aveva un brutto aspetto. Sembrava infetta. Aprì l'armadietto dove teneva la sua patetica scorta di medicinali e trovò un tubetto usato di pomata antibatterica Neosporin. La data di scadenza era passata da sei mesi, ma suppose che fosse ancora efficace. Se lo spalmò sulla ferita e la coprì con un cerotto nuovo. Maledizione, si disse. Forse i punti sarebbero serviti, dopotutto. Il suo appartamento al Greenwich Village era in disordine. Quando vi era rientrata quella mattina, scesa dall'autobus Greyhound che l'aveva riportata a New York dall'Ohio, si era resa conto che non vi metteva piede da una settimana, dalla sua partenza per Chicago. Se n'era andata in fretta e furia, senza avvisare nessuno. La cassetta della posta scoppiava e la segreteria telefonica era piena di messaggi, per la maggior parte di amici, che volevano sapere dove diavolo fosse finita. Ma a catalizzare la sua attenzione fu la voce di suo zio. "Sophia? Dobbiamo parlare. Per favore, chiamami quando senti questo
messaggio." Non occorreva che dicesse altro. Il suo tono imperioso, con una sfumatura di disappunto, era una stilettata di paura nel cuore. Che cosa sapeva? Non poteva certo collegarla alla morte di Charlie Patrone. Non ne aveva motivo. Sophia aveva fatto in modo che i Pontecorva sospettassero di qualcuno all'interno della loro stessa organizzazione. Tese la mano verso il telefono, ma esitò. Non sarebbe stato facile. Inspirò a fondo, sollevò il ricevitore e compose il numero. Le rispose Benny, il braccio destro di suo zio. «Sì?» «Benny, sono Sophia.» «Sophia, dove diavolo eri? Tuo zio è impazzito a cercarti.» «Ero via, Benny. Non è che lo avviso ogni volta che parto. Lui lo sa. Qual è il problema?» «Un minuto solo. Ti vuole parlare.» Dopo qualche secondo di silenzio, dal telefono uscì la voce roca dello zio, Carlo Castellano. «Sophia?» «Ciao, zio Carlo. Come stai?» Cercava di mostrarsi allegra e gentile. «Lascia perdere» tagliò corto lui. «Dove diavolo sei stata?» «Perché me lo chiedi? Sono stata via per una settimana. Sono andata a trovare un'amica a Chicago.» «Quando sei partita?» «Venerdì scorso. Perché?» «Abbiamo un problema. Non è che hai fatto qualcosa che non avresti dovuto?» «In che senso, zio Carlo?» Sophia cercava di infondere nel suo tono i modi innocenti di una teenager. Sapeva che suo zio si ammorbidiva, quando pensava a lei come la sua "bambina". «Piantala con le stronzate, Sophia. Una settimana fa due uomini di Pontecorva sono stati ammazzati da una donna che ha detto di lavorare per Marco. I Pontecorva pensano di sapere chi è stato, ma, dalla descrizione che ci hanno dato, trovo che assomigli moltissimo a te.» «Oh, zio Carlo, non dirmi che credi a una storia del genere.» «Sophia, ne abbiamo già parlato altre volte. Se non fosse stato per i miei amici nel sistema giudiziario, saresti già dietro le sbarre. Lo sanno tutti che sei stata tu a stendere Billy Sorvino due anni fa. Lo sanno persino i Pontecorva. Mi stupisce che Freddie non abbia chiesto di vederti. I loro uomini sono stati ammazzati in modo molto simile a Sorvino.» «Oh, andiamo, io non c'entro niente.»
«Sophia, stammi a sentire.» «Dimmi.» «I Pontecorva se la sono presa con Marco. Hanno pensato che ci fosse dietro lui. È morto.» «Oh, mio Dio.» Sophia si spaventò. Marco, l'uomo incaricato della distribuzione di droga sulla East Coast, era suo cugino. Non le era mai venuto in mente che qualcuno potesse ritenérlo responsabile dell'accaduto. «Quando è successo?» «Tre giorni fa. Un paio di gorilla sono andati a prenderlo mentre usciva dall'ufficio, lo hanno portato da qualche parte e se lo sono lavorati per bene, cercando di cavargli informazioni. Hanno buttato il corpo vicino a uno dei nostri negozi di frutta nel Bronx.» «Ma è terribile.» «Sì. Ecco, volevo solo farti sapere che si è scatenata una piccola guerra e, a meno che la testa dell'assassina non venga portata al più presto ai Pontecorva, la situazione si aggraverà. Ho parlato con Freddie. Ho cercato di ragionarci. Ha ammesso di avere un uomo che lavora sul caso e che crede di averla trovata. Mi ha tranquillizzato. Ma poi ho saputo che la donna ti somiglia...» «Zio Carlo, non sono stata io. Puoi starne sicuro.» «Hai ricominciato con la droga, Sophia?» «Certo che no.» Carlo Castellano rimase in silenzio. Sophia si immaginava la sua espressione, mentre rifletteva: si sarebbe grattato il doppio mento e la sua bocca avrebbe disegnato una U capovolta. Ma era già positivo il fatto che stesse soppesando ciò che lei gli aveva detto. «Sophia» disse finalmente «farai bene a dirmi la verità. Se sei stata tu e se Freddie e i suoi lo vengono a sapere, non sono sicuro che riuscirei a proteggerti.» «Non preoccuparti. Non ho fatto niente. Come sta zia Anna?» «Sta bene. Quand'è che vieni a trovarla?» «Perché non stasera? Sono appena tornata e prima ho un po' di cose da fare.» «Va bene. Ti aspettiamo per cena. E sarebbe una buona idea che tu venissi a stare da noi, finché le acque non si calmano. Non mi va di avere una nipote che va a spasso per la città mentre c'è una guerra in corso.» Carlo Castellano riappese. Sophia chiuse gli occhi ed espirò lentamente. Aveva temuto il peggio.
Depose il ricevitore e si sedette sul divano, davanti alla TV dallo schermo ultrapiatto. Il suo appartamento, con salotto e due camere da letto, era molto lussuoso, all'altezza della nipote di un boss mafioso. Ma non le bastava. Sophia voleva sempre di più: più soldi, più cose, più emozione. Sentiva di averne il diritto. In buona parte, era dovuto al risentimento nei confronti dello zio, che per lei era stato quasi un padre. Zio Carlo e zia Anna l'avevano cresciuta dopo che i suoi genitori erano morti in un incidente. Per tutto quel tempo, lo zio l'aveva tenuta sotto il suo pugno di ferro. Era prepotente, esigente, crudele. Un manipolatore. Diceva di volerle bene, ma aveva uno strano modo di dimostrare il proprio affetto. Quell'uomo era un mostro. Trattava zia Anna come una schiava e i suoi figli come cavie da laboratorio, per giocarci, torturarli o farci esperimenti, a proprio piacimento. Era per questo che Sophia si era data alla delinquenza giovanile e si era messa nei guai con la legge. Aveva cominciato quando, a scuola, aveva dato a un compagno un calcio nei testicoli così forte da mandarlo all'ospedale. Se lo meritava: le aveva dato della iena. Il suo primo omicidio risaliva all'età di quattordici anni, ma questo non lo sapeva nessuno. Durante il liceo era stata in disintossicazione cinque volte. Poi ci era tornata una sesta, ben contenta di interrompere gli studi al college. Non li aveva più ripresi, cosa di cui suo zio si era detto deluso. Perciò le aveva tagliato i fondi e l'aveva lasciata ad arrangiarsi. Era stato allora che Sophia aveva deciso di prendere in pugno la situazione e mettere in pratica ciò che aveva imparato crescendo in una famiglia mafiosa. Guardò l'orologio. Era ora di andare a cercare Hannah McCleary e scoprire che cosa sapesse del denaro e della cocaina che John aveva sottratto dalle mani di Sophia. Se John aveva detto a qualcuno dove li aveva messi, quel qualcuno doveva essere sua cugina. In albergo, Hannah dormì tre ore, poi fece una doccia, si vestì e preparò la valigia per tornare a New York. Il direttore dell'hotel le aveva usato la cortesia di lasciarle la camera fino al pomeriggio senza richiederle il pagamento di una seconda notte. In ogni caso, Hannah aveva assicurato che avrebbe lasciato libera la stanza entro le sei e il suo treno era alle 12,16 della notte. Che cosa poteva fare a Wauseon, Ohio, fino all'ora di prendere un taxi per Bryan? Non poteva nemmeno andare al cinema. Faticava a seguire le trame: se un personaggio si cambiava d'abito, lei non lo riconosce-
va più. Poteva restare in albergo a leggere un paio di riviste per ammazzare il tempo. Decise di chiamare Sean. Comprò una scheda telefonica alla reception e compose il numero da un telefono pubblico. Si aspettava la solita casella vocale, ma a sorpresa fu lui a rispondere. «Sean Flannery.» «Ciao, Sean. Sono Hannah.» «Hannah! Dove sei?» «Sono ancora in Ohio. Il mio treno parte dopo mezzanotte e dovrei essere a casa domani pomeriggio. Ci vediamo?» Ci fu uno spiacevole momento di esitazione. Poi Sean disse: «Passo da te domani sera, se non sei troppo stanca.» «Sono già esausta, ma non credo che sarò troppo stanca per vedere te. E... Sean, credo di averti lasciato un messaggio un po' strano l'altra sera in segreteria. Ero mezza ubriaca.» «Non preoccuparti.» C'era qualcosa di insolito. Sembrava privo di emozioni. Non era da lui. «Allora, a domani?» «Sì. Potrei avere una bella sorpresa per te.» «In che senso? Che cos'è?» «Uh-huh, è una sorpresa. Tu pensa a tornare a casa.» «Adesso sono curiosa.» «Devo scappare. A presto, baby.» E tolse la comunicazione senza darle il tempo di rispondere. Un'ondata di ansia la sommerse. C'era qualcosa nel tono in cui aveva detto "baby" che le faceva suonare dei campanelli d'allarme nella testa. Riagganciò il ricevitore e rimase ferma davanti all'apparecchio per qualche secondo. Doveva essere di nuovo la sua immaginazione. Era solo ultrasensibile a quella parola. Tutto lì. Sentirsi chiamare "baby" da chiunque le riportava alla mente gli sgradevoli ricordi di quella notte. Hannah tornò nel piccolo atrio dell'hotel e si sedette sul divano, pronta a tuffarsi nell'ultimo numero di "People". Guardò la copertina e si rese conto che non le importava niente di cosa stesse facendo Harrison Ford in quel momento. Sapeva che era un divo ricco e famoso, ma per lei non significava nulla. La sua faccia sulla rivista era una macchia indistinta. Cosa poteva importarle, di celebrità che non riusciva nemmeno a riconoscere? Decise di fare due passi. L'aria estiva era piacevole e non era ancora buio. Chiese al ragazzo di turno alla reception di tenerle la valigia mentre lei
usciva. Fuori dall'albergo, superò il cassonetto, percorse il vialetto e si incamminò sul viale. All'incrocio trovò una strada rurale a due corsie che da Wauseon portava all'Interstate. Poteva percorrere due o tre chilometri e poi tornare indietro. Mentre passeggiava, ripensò a Sean e al modo insolito in cui lui era entrato nella sua esistenza. Era apparso dal nulla, già attratto da lei. Non le era mai capitato niente del genere in tutta la vita. Forse, al suo ritorno a New York, avrebbero potuto passare la notte insieme. L'altra volta Hannah aveva resistito, ma forse era venuto il momento. Conosceva Sean da una settimana e cominciava a temere che, se non avesse fatto qualcosa, lui avrebbe potuto perdere interesse. «Ehi, baby.» Hannah si raggelò. La voce veniva da dietro le sue spalle. Mio Dio! È qui? Dietro di me? Timothy Lane mi ha seguita fino in Ohio? Si voltò lentamente e lo vide. Era a una decina di metri da lei, con indosso un paio di blue jeans e una camicia nera. Hannah non lo riconobbe, naturalmente, ma quell'aria minacciosa le era ormai ben nota. Era come un'aura che solo lei riusciva a vedere e che le trasmetteva un segnale preciso: quell'uomo era pericoloso. Un predatore di donne. Uno stupratore. «Che cosa ci fai qui in mezzo al niente, baby?» «Che cosa vuole?» chiese Hannah. Strinse la borsetta tra le mani, davanti a sé. Sarebbe riuscita a prendere la pistola prima che lui si avvicinasse? Si guardò intorno. Nella pianura non si vedeva nessuno nel raggio di chilometri. Timothy Lane poteva saltarle addosso, ucciderla e abbandonare il suo cadavere in mezzo alla strada senza alcun testimone. «Lo sai che cosa voglio, baby» disse l'uomo. «Hai preso qualcosa che non era tuo. Il proprietario lo rivuole indietro.» Quello che diceva non aveva senso. Hannah cercò di interpretare le sue parole e il loro significato. Si riferiva agli anni che aveva passato in carcere? La accusava di avergli rubato il suo tempo? «Senta, mi spiace che lei sia andato in prigione. Ma la prego, mi lasci stare.» L'uomo avanzò verso di lei. «È la tua ultima chance, baby. Ridammi tutto. Sei venuta fino in Ohio per prenderlo. Adesso dammelo. Dov'è, in albergo? Nella tua valigia?» «Ma di che sta parlando?» L'uomo scosse la testa e rise. «Sei brava, baby, te lo devo riconoscere.
Un'interpretazione da Oscar. Ma la mia pazienza ha un limite. È un po' che ti tengo d'occhio. Ormai siamo alla resa dei conti. Sono sicuro che sai qual è la punizione per ciò che hai fatto. Posso renderti le cose più facili, più... piacevoli, se mi dici quello che voglio sapere. In caso contrario...» Allargò le braccia, come per dire che la cosa non era nelle sue mani. «Lei è pazzo. Se ne vada o mi metto a urlare.» «Urla pure. Chi ti sente?» L'uomo aveva ragione, ma lei ci provò lo stesso. Si mise a gridare a squarciagola, più di quanto lui si fosse aspettato. L'uomo balzò verso di lei per farla tacere. In quello stesso istante, Hannah prese la Browning dalla borsetta, la puntò su di lui, chiuse gli occhi e premette il grilletto. L'arma sussultò con una detonazione impressionante. Hannah, spaventata, lanciò un grido. La pistola le sfuggì di mano e ricadde nella borsetta. Quando riaprì gli occhi, l'uomo che conosceva come Timothy Lane si era fermato. Si premeva una mano sullo stomaco, mentre il sangue gli impregnava la camicia. Portò la mano libera dietro la schiena, cercando di prendere qualcosa. Si chinò in avanti, scosso da colpi di tosse. La mano spuntò dalla schiena con una pistola. Hannah lo superò e si mise a correre in direzione della città. Sentì risuonare uno sparo. Si aspettava di provare una vampata di dolore, che non arrivò. Continuò a correre per un minuto, prima di trovare il coraggio di voltarsi. L'uomo era disteso sulla strada, a faccia in su. Ho ucciso Timothy Lane? È morto? L'incubo è finito? Hannah riprese a correre. Che cosa avrebbe fatto, adesso? Doveva avvisare il sergente Ackerman? O così facendo si sarebbe messa in guai peggiori? I poliziotti di New York erano degli inetti che tiravano a campare. E in quel luogo sperduto dell'America c'era il rischio che fossero anche peggio. Già si vedeva a marcire in una piccola cella fredda di una città dimenticata. Scordati la polizia, si disse. Tornò all'Holiday Inn, si precipitò alla reception e, ansante, chiese al portiere: «Può chiamarmelo subito, quel taxi?» Il giovane la guardò. Non era abituato a vedere clienti in preda al panico. Wauseon era una città tranquilla, in cui tutto procedeva al rallentatore. «Mi ha sentito?» insistette Hannah, alzando la voce. «Voglio subito un taxi per Bryan. Me lo può chiamare?»
«Certo, signora.» Il giovane prese il telefono. Hannah passò dietro al banco e prese la valigia. Guardò fuori dalla vetrata dell'ingresso. Stava scendendo la sera e il tramonto tingeva il cielo di pennellate rosse e arancione. Si intravedeva la strada che Hannah aveva percorso, ma di Timothy Lane non c'era traccia. Lo aveva ucciso? Lo aveva cancellato dalla propria vita una volta per tutte? Doveva sedersi. Il cuore le scoppiava nel petto e le girava la testa. Si lasciò cadere su una poltrona, mentre l'angoscia dava l'assalto al suo sistema nervoso. Provava un senso di nausea, come se stesse per rimettere. Cercò la toilette con lo sguardo e, facendo appello alle sue forze residue, si alzò in piedi e corse al bagno. Spinse la porta, andò dritta in un cubicolo e si piegò su una tazza a vomitare. Dieci minuti dopo, uscì dal bagno dopo essersi lavata la faccia. Avrebbe voluto un bicchiere del suo amato Jack Daniel's, ma temeva che poi sarebbe stata di nuovo male. Forse cominciava a essere in astinenza, dopo due giorni che non beveva. Il portiere la stava fissando. «Si sente bene, signora?» «Sì» rispose lei con un filo di voce, tornando a sedersi. «Il suo taxi arriva tra un minuto.» «Grazie.» Poi si ricordò della pistola. L'aveva ancora in borsetta. Doveva riportarsela a New York? E se la polizia l'avesse fermata? Era una prova, no? Forse sarebbe stato meglio liberarsene: dopotutto, a John non serviva più. Quanto a Timothy Lane, ormai era morto. Non aveva più alcuna ragione di tenerla. E, soprattutto, non voleva tenerla. Nell'atrio c'erano dei quotidiani. Tornò in bagno, con la borsetta in una mano e un giornale nell'altra. Ripulì la pistola con salviette di carta bagnate e l'avvolse nei fogli, fino a formare un fagotto grande quanto un pallone da football. Passò dall'atrio senza guardare il portiere, uscì dall'albergo e gettò l'involto nel cassonetto dei rifiuti. Il taxi arrivò mentre Hannah tornava nell'atrio a recuperare il bagaglio. «Credo che quello sia il suo taxi» le disse il portiere. «Grazie.» Hannah uscì dall'albergo, per cominciare il suo lungo viaggio verso casa, lontano dalla tristezza e dagli orrori di Wauseon, Ohio. 29 Hannah era allo stremo delle forze. Aveva pensato di tornare dalla Penn
Station in metropolitana, ma alla fine aveva optato per un taxi. Sapeva che Panther sarebbe impazzito, quando lei fosse rientrata a casa di John. Doveva essere morto di fame. Prima di partire, gli aveva lasciato cibo in abbondanza nella ciotola, ma il suo gatto non era abituato a restare da solo la notte, tantomeno due notti di seguito. Il treno aveva rallentato in Pennsylvania ed era giunto a New York con tre ore di ritardo. Erano quasi le sette quando Hannah arrivò a destinazione. Pagò la corsa al taxista, prese la borsetta e la valigia e andò alla porta. Non c'era niente fuori dall'ordinario, intorno a lei. Ma, dopotutto, Timothy Lane era morto e lei non aveva più niente da temere. L'unica cosa che la turbava era il pensiero di doversi occupare delle proprietà di John. Non conosceva nessun avvocato, tranne quello che aveva rappresentato l'accusa al processo Lane. Le questioni di eredità non dovevano essere il suo forte, ma forse lui avrebbe saputo indirizzarla a un collega. Mentre apriva la porta, le venne in mente che, forse, quella casa sarebbe diventata sua, dal momento che lei era l'unica parente in vita di John. Non sapeva come funzionassero quelle cose. O forse avrebbe dovuto venderla. Non ne aveva idea. Certo che sarebbe stato bello... Appena la vide entrare, Panther miagolò forte e le si strofinò tra le gambe, manifestando inequivocabilmente il proprio disappunto. «Ciao, Panther. Mi spiace tanto. Ti sono mancata? Adesso sono a casa. Lasciami mettere giù queste cose e ti preparo il tonno. Che ne dici?» Il felino si erse sulle zampe posteriori, appoggiandosi con quelle anteriori alle cosce di Hannah. Segno che voleva essere preso in braccio. Hannah lasciò la valigia dov'era e sollevò i sette chili di gatto, stringendolo al petto. «Sei bello pesante, Panther. Non sembra proprio che tu abbia digiunato per due giorni.» Panther smise di miagolare e fece le fusa, chiudendo gli occhi mentre lei lo accarezzava. Hannah lo portò in salotto e, sul bancone della cucina, vide la bottiglia di Jack Daniel's aperta, con accanto un piatto sporco e delle posate. E qui cosa succede? Hannah mise a terra il gatto e si avvicinò al bancone. Era sicura di avere messo tutto in ordine, prima di partire. Non era stata lei a lasciare in giro il piatto: ricordava di avere sistemato tutto in lavastoviglie. C'è qualcuno in casa? «Ehi?» chiamò.
Sentì un rumore, di sopra. Qualcuno aveva lasciato cadere qualcosa. D'un tratto Hannah si rammaricò di non avere con sé la pistola. Andò alla scala. Non aveva ancora chiuso a chiave la porta di casa. Forse avrebbe dovuto correre fuori. «Chi c'è? Io chiamo la polizia!» Una donna apparve sul ballatoio del primo piano. «Eccoti» disse. «Mi stavo chiedendo quando saresti tornata.» Sulle prime, Hannah non la riconobbe. Era giovane, tipo fotomodella. Una delle ragazze di John? E finalmente capì. «Sophia?» «Scusa se ti ho spaventato.» La dorma scese le scale. «John mi ha dato la chiave. Sono, ehm, tornata senza di lui.» Hannah non sapeva che cosa pensare. Fece un passo indietro. Se la polizia di Wauseon non si era sbagliata, Sophia era coinvolta nel delitto di Chicago e forse anche in quello in Ohio. E, anche se era innocente, Hannah era certa che fosse una poco di buono. «Lo sai che cos'è successo a John, vero?» le chiese Sophia. «Sì. Sono appena tornata dall'Ohio.» «Ah, sì?» Sophia si diresse verso la sala. «Non è che hai riportato a casa la sua roba, vero?» «Cosa vuoi dire?» «Qualsiasi cosa John possa avere lasciato in macchina. Non lo so.» «Sei stata tu a fingerti sua cognata?» Sophia si fermò e si voltò, sorridente. «Ma di che stai parlando, Hannah?» Stavolta l'ansia era alimentata dall'ira. Quella donna aveva in mente qualcosa e a Hannah non piaceva affatto. «Lo sai benissimo: Tu e un altro tipo vi siete presentati come parenti di John e avete ritirato le sue cose. Hai preso tutto tu, non c'era nient'altro. A me è rimasta solo la responsabilità di mettere in vendita le sue proprietà. Quindi ridammi quello che ti sei presa. Non ho simpatia per i poliziotti, ma sarò ben felice di chiamarli. Scommetto che ti stanno cercando.» «Santo cielo, parli proprio da dura.» Sophia andò a sedersi sul divano. Sul tavolino c'era un bicchiere, mezzo pieno di qualcosa che sembrava il whisky di Hannah. Sophia ne bevve un sorso. «Sai, Hannah? Ho lasciato tutto in Ohio. Se vuoi le sue cose, dovrai tornare laggiù a prenderle.» Hannah ricordò che lo sceriffo le aveva detto che i bagagli di John erano rimasti all'Holiday Inn, nella stanza in cui l'uomo era stato ucciso. «L'hai ammazzato tu, quel tipo in hotel?»
«Quale tipo?» «I bagagli di John erano in una stanza, insieme a un cadavere. Un uomo a cui hanno sparato.» «Non ne so niente.» Sophia bevve un altro sorso e rimise il bicchiere sul tavolino. «Non ti credo.» «È un problema tuo, tesoro. Io invece devo farti una domanda.» «Quale?» «John ti ha spedito qualcosa? Ti ha mandato qualche messaggio?» «No. Mi ha chiamato solo una volta, da Chicago. Non eri con lui?» «Sì, ero con lui. Ma lui se ne andato senza di me» disse Sophia. «Abbiamo litigato.» «Mi spiace tanto.» Hannah non riuscì a evitare una sfumatura di sarcasmo nella voce. «Ascoltami bene. Te lo chiedo un'ultima volta.» Una pistola le si materializzò tra le mani. Hannah batté le palpebre. Da dove era spuntata? L'aveva avuta addosso tutto quel tempo? «John aveva qualcosa che mi apparteneva. Apparteneva a tutti e due, in realtà, ma io voglio la mia parte. Ne sai qualcosa?» Con noncuranza, Sophia puntò la canna della pistola verso Hannah. «No. Non ne so niente. E mettila via. Mi fai paura.» «L'idea era quella, tesoro. Senti... com'è che non ti credo? Penso di essere arrivata a conoscere John piuttosto bene. Ha combinato qualcosa con la mia proprietà. L'ha nascosta o l'ha spedita da qualche parte. Non ne ho idea. Ma ne ha fatto qualcosa. E l'unica persona a cui avrebbe potuto rivelarlo eri tu. Quindi farai meglio a parlare. Forse ti ha mandato un messaggio e tu non te ne sei accorta.» «Non credo proprio» rispose Hannah. «Abbiamo avuto una conversazione normale. "Come va?", "Ti diverti?", cose del genere.» Dalla pistola partì un colpo, che spaventò a morte Hannah. Lo sparo riecheggiò a lungo nell'acustica dell'open space. Panther, appollaiato sul bancone, saltò giù e corse a nascondersi sotto una poltrona. Sophia aveva sparato proprio sotto il punto in cui era accovacciato il gatto. «La prossima volta gli faccio un buco in testa. A proposito, dovresti cambiare la sabbia della cassettina. Di sopra c'è una puzza che non si resiste.» «Hai... hai cercato di sparare al mio gatto?» Hannah fece per andare a
recuperarlo da sotto la poltrona, ma Sophia le fece un cenno con la pistola. «Uh, uh, uh! Resta dove sei. Prima voglio scoprire se stai dicendo la verità.» Si alzò in piedi e girò intorno al tavolino. Hannah era terrorizzata. Il cuore le batteva all'impazzata e l'angoscia le piegava le ginocchia. Temeva di svenire. Sentì di nuovo un attacco di nausea, peggio di quello che aveva sofferto in Ohio. «Io... io...» cercò di dire. «Che cosa?» la esortò Sophia. «Hai qualcosa da dire? Sputa, ragazza.» «Non so di che cosa stai parlando! Lo giuro!» «E com'è che non ti credo?» «L'hai ucciso tu, quell'uomo in Ohio, vero? E quello a Chicago! Scommetto che sei stata tu a uccidere anche John.» Hannah, ansante, stentava quasi a parlare. «John era un coglione» disse Sophia. «Voleva giocare con i ragazzi più grandi ma non era capace di prendere la palla. Era carino, però. Glielo devo concedere. E non era niente male a letto.» Hannah arrossì e abbassò lo sguardo. «Whoa! A quanto pare avevi una cotta per il cugino. Non mi dire che ci sei andata a letto.» Le parole di Sophia riecheggiarono nelle orecchie di Hannah, accrescendo la rabbia che le ribolliva dentro, più forte della nausea e dell'ansia. D'improvviso si sentiva più forte. La guardò negli occhi con odio e ruggì: «No, non ci sono andata a letto!» Si avventò su Sophia, che cadde all'indietro sul tavolino. Un colpo partì dalla Colt e il proiettile finì sul soffitto, ma Sophia non perse la pistola. Hannah le afferrò il braccio destro con entrambe le mani, cercando di farle allentare la stretta sull'arma. «Togliti di dosso, pazza di una troia!» sbottò Sophia. Hannah le affondò i denti nell'avambraccio destro. Sophia urlò e, di riflesso, fece scattare un ginocchio verso l'alto. Colpita allo stomaco, Hannah rimase senza fiato e lasciò la presa per un istante. Sophia ne approfittò per sgusciarle di sotto. Si rimise in piedi, stringendosi il braccio con la mano sinistra. «Stronza» disse, puntando la Colt su Hannah, che ora, accovacciata a terra, cercava faticosamente di respirare. «Spero che tu non abbia qualche malattia.» E, detto questo, le sferrò un violento calcio tra le costole. Hannah cadde distesa sul pavimento, sempre più assetata di ossigeno. «Dovrei spararti subito.» Sophia appoggiò il dito sul grilletto.
Hannah chiuse gli occhi, aspettando l'inevitabile. Non sentì uno sparo solo, ma due. Sapeva che doveva essere morta, ma stranamente non sentiva dolore, né vedeva un velo nero calarle davanti agli occhi. Era ancora cosciente e lo shock degli spari le aveva sospinto aria nei polmoni. Si girò sulla schiena, rantolando e tossendo, e vide Sophia con lo sguardo fisso sul corridoio. Hannah non riusciva a distinguerne i lineamenti, ma era in grado di vedere la sua espressione di assoluto stupore. Una macchia di sangue le si allargava sul petto. Qualcuno le aveva sparato. Hannah si voltò verso il corridoio. Un uomo era in piedi sulla soglia della sala, ferito anche lui, allo stomaco. No, il sangue sgorgava dal petto. Ma la ferita allo stomaco sembrava più... vecchia. Aveva i pantaloni intrisi di sangue rappreso e il volto pallido come quello di un morto. Sembrava essere uscito dalla tomba. Hannah non poteva riconoscerlo, ma capì di averlo già visto. Era Timothy Lane. Hannah indietreggiò sul tappeto, appoggiandosi sulle mani. Avrebbe voluto gridare, ma il cervello non riusciva a trasmettere il comando alla voce. Riusciva appena a muoversi. «La porta era aperta» disse l'uomo, rivolto a entrambe. Tossì. «Non potete immaginare cosa sia guidare dall'Ohio a New York con un proiettile in corpo.» Si guardò il petto, vide il sangue fresco, poi guardò Sophia. «Tu spari meglio... di lei.» «E tu... chi cazzo... sei?» riuscì a dire Sophia. Barcollò, cercando a fatica di tenere la Colt puntata sull'intruso. «È Timothy Lane!» gridò Hannah, accovacciatasi ai piedi del divano. «Chi?» chiese Sophia. L'uomo ci mise qualche secondo a registrare la risposta di Hannah. Poi la guardò e riecheggiò la domanda di Sophia. «Chi?» «Sparagli ancora!» disse Hannah a Sophia. «È uno stupratore, un assassino!» Dominic DeLauria sollevò la Walther, pronto a sparare a Sophia. Lei, annebbiata dal dolore e dalla confusione, premette il grilletto. Malgrado la pessima mira, il proiettile centrò l'uomo all'addome. L'impatto lo spinse all'indietro e la Walther esplose un colpo, che aprì un foro nella parete alle spalle di Sophia. Il corpo di DeLauria stramazzò sul tappeto con un tonfo attutito. Il sangue continuava a fluire dalle sue ferite.
«È morto?» chiese Hannah, scattando in piedi. Ma aveva paura ad andare a controllare. Di sicuro, lo sembrava. Non si muoveva più e intorno a lui c'era più sangue di quanto lei ne avesse visto in tutta la sua vita. Si voltò a guardare l'altra donna. Ora anche Sophia era pallida come un cadavere. Il sangue le era defluito dal viso. Teneva una mano sul seno, sopra la ferita rosseggiante. La Colt le sfuggì di mano e andò a fracassare il vetro di una cristalliera alle sue spalle. Poi Sophia perse l'equilibrio e finì a sua volta tra le porcellane. Cercò di reggersi aggrappandosi al mobile, ma riuscì solo a rallentare la propria caduta. Nella sala tornò il silenzio. Hannah sentiva solo il proprio respiro accelerato e il battito forsennato del cuore. «Sophia?» mormorò. Le si avvicinò. Gli occhi di Sophia erano aperti, ma fissavano vacui il soffitto. La lingua penzolava in modo grottesco fuori dalla bocca e un rivoletto di sangue le colava dal mento sul tappeto. Hannah si sentì come se le avessero dato una mazzata. E adesso che cosa doveva fare? Doveva andarsene. Doveva abbandonare quella casa per non farvi più ritorno. Avrebbe voluto nascondersi sottoterra. Voleva mettersi a piangere, a urlare, ma non ne aveva le forze. «Hannah?» Era così sconvolta da immaginare di sentire delle voci? «Hannah?» La voce era più forte, adesso. Una voce conosciuta. Hannah colse un movimento con la coda dell'occhio. Un uomo era entrato nella sala. «Mio Dio, Hannah, ma chi sono? Hannah!» Lei lo vide e non riuscì a trattenersi. «Sean?» Gli corse incontro e lo abbracciò. Lui era l'unico che potesse portarla via da tutto questo. La diga cedette e le lacrime strariparono. Hannah singhiozzò sul suo petto, liberandosi dei demoni che l'avevano torturata nell'ultima ora. 30 «Mio Dio, Hannah, ma cos'è successo qui? Chi sono queste persone? Sono morte?» Cutler teneva Hannah stretta a sé, mentre si guardava intorno. I corpi insanguinati nel salotto sembravano frutto di un incubo. Se si fosse svegliato, forse sarebbero spariti. «Oh, Sean...» gemette Hannah. Indicò DeLauria. «Quello è Timothy La-
ne. Non lo riconosci?» Cutler si voltò verso il cadavere. «Oh, sì, certo. È proprio lui.» E intanto pensava: Ma che diavolo succede? Che Hannah avesse avuto sempre ragione? L'aveva creduta pazza, allucinata, ultraparanoica... «E la donna?» «Era la ragazza di John. Si chiama Sophia. Non so il cognome.» «E lei cosa c'entra?» «Non lo so. Lei e John stavano combinando qualcosa di losco. Vendevano droga, o qualcosa di simile. Credo che lei abbia ucciso John e altre due persone, a Chicago e in Ohio. Ha cercato di uccidere anche me.» «E per quale motivo?» «Credeva che sapessi qualcosa. Riguardo a John. Non lo so, sono sconvolta.» «Vieni, sediamoci da qualche parte.» «Che cosa facciamo, Sean? Vuoi chiamare degli altri poliziotti?» Neanche per sogno! pensò lui. Doveva tenere alla larga la polizia. «Me ne occupo io. Tra un momento li chiamo. Ma prima voglio assicurarmi che tu stia bene.» Si sciolsero dall'abbraccio. Hannah andò verso il bancone della cucina. Vide la bottiglia di whisky e disse: «Ho bisogno di un drink.» «Uno anche per me.» Hannah prese due bicchieri dalla dispensa e vi versò ciò che restava nella bottiglia. Il gatto la raggiunse sul bancone. «Oh, ciao, Panther.» Lo prese in braccio. «Poverino. Ti hanno fatto paura. Guarda, Sean. Trema tutto.» «Me l'immagino.» Cutler bevve una lunga sorsata. Hannah teneva il gatto con un braccio. Prese il bicchiere con l'altra mano e bevve a sua volta. Tossì ripetutamente. «Sean, non capisco più niente.» Si sedette su uno degli sgabelli, mettendo il gatto sul bancone, accanto alla bottiglia vuota. Lui la guardò chiudersi in se stessa, come aveva fatto alla sua prima visita dal "dottor Cagle". Cutler andò a chiudere la porta. Era sorpreso che nessuno in strada avesse sentito gli spari. Ma dopotutto quella era New York. E per entrare in casa si doveva salire una scalinata di pietra. Anche con la porta aperta, dalla strada non si vedeva niente. Tornò in cucina. Hannah era immobile, seduta sullo sgabello a pizzicarsi le dita come sua abitudine. Sembrava così indifesa, come un'orfanella uscita dai racconti di Charles Dickens che lui leggeva da piccolo. Era sconvolta e aveva un livido sul viso. Le si era strappata la camicetta, mettendo a
nudo una spalla. Era un'immagine molto eccitante. Molto erotica. Cutler sentiva qualcosa martellargli nella testa, più forte che mai. Gli erano tornati i sintomi della visione a tunnel. Hannah era bella, ma ciò che la rendeva particolarmente attraente era la sua vulnerabilità, su cui lui aveva fatto più volte leva da una settimana a quella parte. Era la vittima perfetta, la conquista ideale, la preda più ambita della sua Lista di Caccia. Si concentrò su di lei, guardandola da capo a piedi. La immaginava sdraiata sotto di lui, mentre si dimenava, cercando di ribellarsi. Mentre gemeva di piacere, schiava della sua volontà. Lui sapeva che era questo che Hannah, segretamente, voleva. Lei era innamorata di lui. Lo desiderava. Tutte le donne non volevano altro che essere prese con la forza e soddisfare i desideri del loro padrone. Stava accadendo. Cutler stava perdendo di vista tutto ciò che gli stava intorno. L'unica cosa importante era portare a termine la Caccia. Lei era lì, seduta sullo sgabello, pronta per lui. Cutler non vedeva altro che Hannah che lo supplicava in ginocchio. Non sentiva altro che le parole con cui lei lo avrebbe implorato di fare scempio del suo corpo. Si abbandonò al rituale, una cerimonia cui doveva sottoporsi, se non voleva impazzire. O forse era già impazzito. Glielo avevano detto. E più di una volta Patrick lo aveva accusato di essere ammattito. Lo strizzacervelli del Bellevue gli aveva raccomandato di continuare a prendere i medicinali, altrimenti avrebbe "esternato" di nuovo. Avrebbe commesso di nuovo un crimine, come era già accaduto in passato. Risentiva la voce del suo terapeuta che lo ammoniva: "Vuoi finire in prigione? Vuoi passarci il resto della tua vita?". Non capiscono niente, si disse Cutler. Aveva un perfetto controllo della situazione. Sapeva esattamente quello che stava facendo. La Lista di Caccia era tutto: i suoi Dieci Comandamenti, la sua Costituzione, la sua Magna Charta. Il nome di Hannah McCleary era sulla Lista e lui aveva il dovere di tirarci una riga sopra. Era venuto il momento di farlo. Non lo poteva più rimandare. Vedeva che lei era pronta per il sacrificio. Involontariamente, si accostò al bancone, dietro allo sgabello di Hannah. Le appoggiò le mani sulle braccia e si protese in avanti, per sentire il profumo dei suoi capelli e sfiorarle le orecchie. Sì, finalmente, era tempo. Hannah nemmeno si era accorta che Sean le era scivolato alle spalle. Era
entrata nella Terra-che-non-c'è in cui talvolta si rifugiava quando il mondo intorno a lei diventava troppo ostile. Vedeva solo ciò che le stava davanti, percepiva la presenza di Panther sul bancone, ma era come se la sua mente fosse uscita dal corpo. Si domandò se non fosse una di quelle "esperienze extracorporee" di cui aveva sentito parlare. Probabilmente no, visto che di solito venivano associate alle persone in punto di morte. Nondimeno, c'erano tutti quei sensitivi e tutte quelle Shirley Maclaine che affermavano che fosse possibile. In quel momento, Hannah aveva due visioni differenti di se stessa: una dentro la sua testa, attraverso i suoi stessi occhi, e l'altra sospesa in aria, come una telecamera sul soffitto, uno spettatore onnisciente dall'alto dell'angolo cucina. E, con uno stacco, Hannah poté inquadrare Sean dietro di lei. D'un tratto, qualcosa di quell'immagine la disturbò. La quiete che di solito provava accanto a lui sfumò e l'ansia la invase. Il battito del suo cuore accelerò, l'adrenalina le inondò le vene, mandando un segnale di allarme al suo cervello traumatizzato. C'era qualcosa di sbagliato, qualcosa di terribile. Nel monitor della sua mente lampeggiavano spie rosse. E poi c'era l'odore. Quel dolce profumo di acqua di colonia che Hannah sapeva di conoscere ma non riusciva a identificare esattamente. Era forte, come il tanfo di sudore in uno spogliatoio, solo che non era altrettanto sgradevole. Era la colonia di Sean, o il suo dopobarba? Era l'aroma che gli aveva sentito addosso fin dal primo momento. Sì, era quello. Lo aveva percepito quando si erano incontrati per la prima volta sotto casa sua. E lo aveva sentito di nuovo la sera in cui lei lo aveva respinto. Ma c'era qualcos'altro. Hannah associava quell'odore a un altro momento. Quella sensazione riattivava un ricordo spiacevole, nascosto nei profondi recessi della sua coscienza. Aveva sentito quello stesso profumo molto prima di conoscere Sean. Due mani le accarezzavano le braccia. Sean la stava toccando. «È ora, baby.» Che cosa? La sua voce era cambiata. Non era più quella di Sean. «Devi sforzati di uscire dal tuo guscio, Hannah.» Stavolta l'accento era diverso. Aveva un che di New England. Era... bostoniano. Che cosa? «Devi sottometterti ai tuoi desideri, Hannah. Concediti a lui.» Era la voce del dottor Cagle! Che cosa ci faceva lì il suo dottore?
Hannah si voltò, molto piano. Voleva vedere chi ci fosse alle sue spalle. Anche se il suo volto era anonimo, doveva essere possibile discernere a chi appartenesse. Doveva esserci qualche indizio. «Cosa c'è, Hannah?» chiese Sean. Era di nuovo la sua voce, con quel vago accento della Virginia. «Sembravi diverso.» «Tu dici? Temo che tu abbia subito un forte shock, stasera. Povera ragazza. La mente ti gioca strani scherzi.» «Sean, che acqua di colonia usi?» «Colonia? Non uso acqua di colonia.» «Invece sì. La sento. L'ho già sentita altre volte.» «Davvero?» «Sì.» La voce cambiò di nuovo. «Dove? Allo studio medico?» Era di nuovo l'accento bostoniano. Oh, mio Dio! Oh, santo cielo! Sean era il dottor Cagle. «Sean...?» «Sì, Hannah?» Era di nuovo la voce che lei riconosceva come quella di Sean. Lui non smetteva di massaggiarle le braccia e le spalle. Ora lei lo guardava in faccia e ne sentiva le mani fin dietro la nuca. «Chi sei?» gli chiese. «Chi pensi che sia?» La voce era cambiata di nuovo. Non era quella di Sean, né quella del dottor Cagle. Era completamente diversa. «Io... io... non lo so.» «Stai balbettando, Hannah» disse il dottore. «D... Dottor Cagle?» «Può darsi.» Le mani continuavano a massaggiarla, chiudendosi ora intorno al suo collo. «Sean, che cosa stai facendo?» Questa volta le rispose la voce estranea. «Chi pensi che sia, Hannah?» Eppure anche questa era una voce familiare. Dove l'aveva sentita? «Sono un grande attore, Hannah. Il migliore della città. Un giorno sarò a Broadway. O andrò a Hollywood. Vincerò un Oscar. Vedrai. Oh, a momenti mi dimenticavo. Ti avevo promesso una sorpresa.» Le tenne una mano sul collo, continuando ad accarezzarla, mentre con l'altra si frugava in una tasca del trench. Ne tirò fuori una scatoletta da gioielli, che le consegnò. «Ho pensato che ti sarebbe piaciuto avere questa,
come souvenir.» Con le mani tremanti, Hannah prese la scatoletta. Non osava aprirla, ma sapeva di doverlo fare. Aveva paura della reazione di Sean, se si fosse rifiutata. Alzò il coperchio e vi trovò uno strato di bambagia. Lo sollevò con cautela e vide il contenuto. Era una catenina con un chai d'oro, il pendaglio di Liz. Le mani si strinsero intorno al suo collo. Hannah scattò all'indietro, lasciò cadere la scatoletta e si ribellò. Lui non lasciò la presa e strinse ancora più forte. Hannah scivolò giù dallo sgabello, che cadde a terra. Si ritrovò con la schiena sul bancone. «Non potevo lasciarla vivere, Hannah. Ti avrebbe messo in guardia contro di me. Mi avrebbe rovinato la Caccia.» Lei cercò di gridare, di urlare il suo nome, di supplicarlo. Tentò di prenderlo a pugni sulle spalle, ma lui era troppo forte. «Non hai ancora capito chi sono? Forse questo ti aiuterà: Ehi, baby, dove vai?» Le parole entrarono nelle orecchie di Hannah e le riecheggiarono nei corridoi del cervello. E quando arrivarono a destinazione, un sipario di terrore calò su di lei. È lui, Timothy Lane! È lui il violentatore! La stretta intorno al suo collo aumentò ancora, fino a soffocarla. Hannah cominciava ad avvertire la carenza di ossigeno. «È ora di finire quello che ho cominciato cinque anni fa. Oh, a proposito, quel povero coglione che hai mandato in galera, come si chiamava? Lane? Nemmeno ti conosceva. Era l'uomo sbagliato, signorina McCleary. La polizia ha preso una cantonata. L'uomo che ti ha seguito quella notte non lo hanno mai preso. L'ha fatta franca. Ha continuato a vivere la sua vita e ha seguito altre donne fino a casa.» Non sta accadendo veramente. Hannah cercò di resistergli, ma a stento riusciva a respirare. «Una di quelle donne riuscì a scappare e minacciò di denunciarlo. Ma poi tutto cadde nel nulla, dopo che lui promise di tenere a bada i suoi demoni. È stato il buio: due anni di libertà provvisoria e di terapia. La cosa più curiosa è che... non ha funzionato.» Hannah fissò gli occhi dell'uomo sopra di lei. Riusciva a vedere la sua faccia, ora: non solo gli occhi, ma il naso, la bocca, gli zigomi, i capelli
scuri... Era lui. L'uomo che l'aveva seguita cinque anni prima, che aveva cercato di violentarla e ucciderla nell'atrio di casa. Dio aiutami... Dio aiutami... Hannah sentì miagolare. Cos'era? Era davvero un gatto? Sì, era Panther! Era ancora sul bancone e stava assistendo alla scena, spaventato ma conscio che qualcosa di orribile stesse capitando alla sua padrona. Solo che era un gatto, non un cane, che avrebbe tentato di proteggere la padrona. Tuttavia, l'animale si rendeva conto che lei era in pericolo e manifestava la sua protesta miagolando. Hannah tese una mano verso di lui, cercando il contatto del suo pelo, intrappolata nella stretta al collo. Lo sentì di nuovo miagolare e cercò di raggiungerlo. Non andartene, Panther! Dove sei? Vieni da me! Un altro miagolio. Gli occhi di Hannah cominciavano a oscurarsi. Sarebbe finita molto presto: si sentiva soccombere. Stava per cedere alla tentazione del vuoto, non foss'altro per porre fine al dolore. Avvertì il pelo con la punta delle dita. Le ripiegò, solleticando il gatto. Sapeva che gli piaceva. Panther le si avvicinò. Lei gli passò la mano sotto il ventre e lo tirò a sé. Sollevò il gatto di peso e lo gettò verso il suo aggressore. Panther lanciò un gemito acuto e affondò gli artigli nella faccia dell'uomo, che urlò e lasciò la presa per scacciarlo. Panther corse di nuovo a nascondersi sotto una poltrona. Hannah cadde sul pavimento, cercando di respirare e, nel contempo, di rimettersi in piedi. Era diverso da prima, quando aveva lottato con Sophia: ora aveva la sensazione che la gola le fosse rimasta schiacciata. L'uomo si premeva una mano sull'occhio destro. Il gatto l'aveva graffiato brutalmente, accecandolo. Con l'altro occhio cercò di mettere a fuoco la sua preda, che stava strisciando sul pavimento della cucina. Sean si gettò su di lei, ma inciampò nello sgabello rovesciato. Questo diede a Hannah il tempo di rialzarsi e scappare. «Torna qui!» disse l'uomo. Hannah corse verso le scale e le salì a due gradini per volta. Arrivata al piano di sopra, si precipitò nello studio. Sentì l'inseguitore arrivare in cima alle scale mentre lei chiudeva a chiave la porta. Sean bussò con veemenza. «Apri, baby. Su, abbiamo una cosa in sospeso!» gridò. «Chiamo la polizia!» urlò lei.
«Avanti, baby. Fallo!» disse lui, quasi con soddisfazione. Che cosa significa? Hannah sollevò il ricevitore, notando che il display della segreteria lampeggiava: non aveva ascoltato i messaggi dopo il suo ritorno dall'Ohio, ma non era il momento di farlo. Quando appoggiò il ricevitore all'orecchio, non sentì alcun suono. Premette i pulsanti più volte, ma non riuscì a prendere la linea Il telefono era morto. «Che succede, baby? Non funziona?» chiese la voce dietro la porta. Che cosa aveva fatto? Aveva tagliato i fili prima di entrare? «Vattene!» urlò Hannah. «No-oh» fece lui «Abbiamo qualcosa in sospeso, tu e io.» Hannah si guardò intorno, in cerca di un'arma. Qualunque cosa che potesse servirle a difendersi. Sfortunatamente c'erano solo manoscritti, cancelleria e altri oggetti inutili. Sean batteva sulla porta. Schegge di legno si staccarono dallo stipite, all'altezza dei cardini, come se stesse usando un ariete. Non gli ci sarebbe voluto molto per entrare. Hannah era completamente indifesa. «Conto fino a tre, baby» disse lui, allegro. «Apri, o ti vengo a prendere.» Poi Hannah si ricordò di una cosa. Aprì il primo cassetto della scrivania di John, cercando l'unico oggetto che avrebbe potuto salvarle la vita. C'era di tutto: pezzi di carta con appunti, fermagli sparpagliati, penne, matite, un righello, un rotolo di scotch... Hannah chiuse con violenza il primo cassetto e aprì il secondo, che doveva fungere da archivio. John ci aveva ficcato ogni genere di articolo da ufficio: una punzonatrice, un barattolo di colla, una cucitrice, le scatolette dei punti, il bianchetto, un paio di forbici... Un paio di forbici. Potevano servirle? Hannah le afferrò e, in quel momento, vide ciò che stava cercando: il tagliacarte d'argento del Club del Libro del Mese. Lo impugnò. Era lungo venti centimetri e molto tagliente. L'ariete continuava ad abbattersi sulla porta. Il cardine superiore cedette e le schegge volarono per la stanza. Hannah urlò. «Cucù-settete!» fece lui. Disperata, Hannah cercò qualcos'altro che potesse servirle. Decise di spingere la scrivania contro la porta. Era terribilmente pesante, ma l'adrenalina le diede la forza necessaria. L'uomo dovette accorgersi dell'ostacolo, perché protestò, con voce acuta e frustrata: «Maledizione, Hannah! Apri!»
Anche il cardine a mezza altezza cedette. Ora solo quello in basso e la scrivania tenevano in piedi la porta. L'uomo spinse, spinse ancora, ma non guadagnò un millimetro. D'un tratto tornò la calma. Si era allontanato dalla porta. Ma dov'era andato? Hannah sentiva il proprio respiro affannoso e il cuore che le martellava nelle orecchie. Se non si calmava al più presto, temeva che avrebbe avuto un attacco cardiaco. Ma che cosa le restava da fare? Non poteva fuggire da quella stanza: non c'erano finestre o condotti dell'aria condizionata da cui sgattaiolare fuori. Il telefono non funzionava e la sua unica arma di difesa era un tagliacarte. Era la fine? Dopo tutto quanto, doveva finire così? Strano a dirsi, le tornò in mente Timothy Lane. Quell'uomo era stato condannato pur essendo innocente. Era stata lei a puntare il dito su di lui in aula e a convincere la giuria che fosse il suo aggressore. Per colpa sua, Lane aveva passato cinque anni in prigione. Fino al giorno prima, non sapeva nemmeno se fosse ancora in carcere, se fosse vivo o morto. Aveva creduto a ciò che le aveva detto Sean Flannery, ma lui cosa ne poteva sapere, dato che era un impostore e uno psicopatico? Come aveva potuto essere così ingenua? Era davvero così cieca? La sua condizione neurologica aveva sopraffatto ogni altra sua capacità? Ma avrebbe dovuto rinviare i sensi di colpa nei confronti di Lane a un altro momento. I colpi di pistola la riportarono bruscamente al presente. Fori di proiettile apparvero nella porta e le pallottole le sibilarono vicino alla testa. Hannah si gettò a terrà, mentre i proiettili si conficcavano nella parete alle sue spalle. «Che te ne pare, Hannah? Li senti? Ti ho colpito?» Rannicchiata a terra, Hannah cercava di regolarizzare il proprio respiro. «Qual è il problema? Sei morta? Ti ho preso? Non morire, baby. Abbiamo ancora del lavoro da fare!» La porta cedette di qualche millimetro al nuovo assalto. La scrivania si spostò. E ancora. E ancora. Non era possibile evitarlo: lui stava per entrare. Attenta a non fare rumore, Hannah salì sulla scrivania, dietro la porta. Stringeva il tagliacarte con entrambe le mani, pronta a calarlo sulla prima parte del corpo che avesse oltrepassato la barriera. La porta sussultò di nuovo. A ogni assalto, la scrivania si spostava in avanti. Finché la porta non fu aperta di una ventina di centimetri, abbastanza perché lui potesse guardare dentro.
L'uomo si affacciò. Gli occhi saettarono da ogni parte, fino a scorgerla sopra la scrivania. Sorrise. «Ehi, baby!» Il tagliacarte gli si infisse nel viso, spalancando un geyser di sangue. L'uomo lanciò un urlo e scomparve dall'apertura. La tachicardia le procurava un senso di vertigine. Hannah sentì l'assalitore gridare come un animale ferito e abbattersi sulla parete opposta del corridoio, per poi trascinarsi come un pesce fuor d'acqua. Hannah considerò le alternative. La prima era aspettare, per riprendere le forze. Ma lui avrebbe trovato un nuovo modo di attaccare e avrebbe fatto irruzione nella stanza, sopraffacendola. Le avrebbe sparato con la pistola, le avrebbe strappato il tagliacarte e avrebbe vinto. La seconda alternativa era uscire e aggredire Sean mentre era ancora a terra. Che cosa aveva cercato di insegnarle il "dottor Cagle"? Ad affrontare le sue paure! A visualizzare il nemico nella mente e a focalizzare la sua rabbia su di lui! Non le restava altra scelta. L'uomo nel corridoio era il mostro che le aveva rovinato la vita. Aveva cercato di violentarla e di ucciderla, le aveva procurato la disabilità che le impediva di condurre una normale vita sociale. Hannah era cosciente di essere mentalmente instabile, si rendeva conto dei propri problemi psicologici e sapeva che tutto questo era colpa del mostro fuori dalla porta. Scese dalla scrivania, la scostò e aprì la porta. L'uomo era steso sul pavimento. Gemeva in modo patetico, premendosi una mano sulla faccia. Non si era accorto che lei era uscita dallo studio. Per terra accanto a lui, sulla moquette, c'era una cappelliera che normalmente era appesa nell'ingresso. Ecco che cosa aveva usato come ariete. Hannah torreggiò sopra di lui con il tagliacarte in mano. Lo sollevò in aria e glielo infisse tra le scapole. L'uomo emise un grido lancinante, sussultò e rimase immobile. Hannah indietreggiò, sconvolta dall'orrore, incapace di guardare ciò che aveva fatto. Si girò e attese un segno, un qualsiasi segno, che le indicasse di avercela fatta. Udì un gemito, un sospiro e poi il tonfo di un corpo sulla moquette. Si voltò. Il suo assalitore era disteso a faccia in giù, in una pozza di sangue, con il tagliacarte che gli sporgeva dalle scapole come una banderuola. Hannah si appoggiò alla parete, si accovacciò in posizione fetale e si mise a piangere.
31 Non sapeva quanto tempo fosse passato. Quando risollevò la testa, il silenzio era tornato a regnare, a parte, in lontananza, i rumori della strada e il ticchettio di un orologio da qualche parte nella casa. Sentiva ancora i battiti cardiaci nelle orecchie, anche se erano tornati a un ritmo normale. Tuttavia un dolore le pulsava nella testa. Sophia le aveva fatto del male, certo, ma l'emicrania per lei era ordinaria amministrazione, quando si trovava sotto stress. Che cosa faccio, adesso? Non poteva restare lì. A che scopo? John era morto. Non sarebbe tornato a pagarle lo stipendio arretrato. Il suo manoscritto non sarebbe mai stato pubblicato. Hannah doveva andarsene. Si voltò e guardò il corpo disteso in corridoio. Ebbe l'impulso improvviso di frugargli nelle tasche. Forse aveva addosso qualche documento con il suo vero nome. Ma a che cosa le sarebbe servito? A niente. Sapeva solo che non era Timothy Lane. L'uomo che aveva ritenuto il suo aggressore era innocente e ora era morto anche lui, al piano di sotto. Poveraccio. Non poteva biasimarlo, se aveva voluto vendicarsi. La prigione lo aveva incattivito. Probabilmente desiderava così tanto vendicarsi da avere perso completamente il senno. E Hannah sapeva che era tutta colpa sua. Era stata a lei a incolparlo. E si era sbagliata. «Potrai perdonarmi?» chiese lei, a nessuno. E che cosa avrebbe dovuto fare, con quei tre cadaveri in casa? Che cosa avrebbe potuto fare? Chiamare la polizia? L'avrebbero portata alla centrale per interrogarla. Le avrebbero messo una lampadina in faccia per ore, facendole ripetere la storia mille volte. Ma lei non aveva fatto niente di male, no? Si era semplicemente difesa da un uomo che cercava di stuprarla e di ucciderla. Un uomo che aveva assassinato la sua amica Liz. Sophia e Timothy Lane, invece, si erano ammazzati a vicenda. Lei non c'entrava. Unico dettaglio: il tagliacarte con cui aveva ucciso l'aggressore aveva sopra le sue impronte digitali e le faceva senso l'idea di estrarlo dalla schiena del morto. Si alzò e raggiunse il bagno in fondo al corridoio per prendere un asciugamano. Poi tornò al corpo e si chinò a pulire l'impugnatura del tagliacarte, fino a quando giudicò che non vi fossero rimaste impronte.
Sarà stato davvero un poliziotto? Probabilmente no. Aveva solo finto di esserlo, così come aveva finto di essere uno psicoterapeuta. Doveva sapere della mia prosopagnosia. Ma come? Hannah tornò nello studio. Non avrebbe mai conosciuto le risposte. Tutto quello che era successo la settimana precedente sarebbe rimasto per sempre un mistero. Che cosa tramavano John e Sophia? Che cos'era accaduto veramente a suo cugino? Che cosa era venuta a cercare Sophia a casa di John? E il suo aggressore, perché si era dato tanto da fare nei giorni precedenti per guadagnare la sua fiducia? Voleva forse andare a letto con lei, senza doverla stuprare? Era pazzo. Quell'uomo era un maniaco pericoloso. Meritava di morire. Hannah si sedette sulla sedia che solitamente stava dietro la sua scrivania. A New York non c'era più niente per lei. Non aveva lavoro, non aveva amici, non aveva famiglia. Il suo appartamento era poco più grande di una cella di prigione. La sua condizione le impediva di socializzare con chicchessia. La città era una continua intimidazione, a cui non si sarebbe mai più potuta riabituare. Una volta, prima dell'aggressione, era felice di vivere a New York. Ma ora era quella la radice di tutti i suoi problemi. E allora vattene! Che cosa la tratteneva? E se fosse, semplicemente, scomparsa? Non era difficile. Nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. Il padrone del suo monolocale avrebbe denunciato la sua sparizione, ma entro un mese avrebbe gettato le sue cose nei rifiuti e riaffittato l'appartamento. La polizia di New York non sapeva che lei lavorava per John. I poliziotti dell'Ohio erano teste dure: loro sarebbero venuti a cercarla, ma tutte le questioni in sospeso riguardanti i delitti di Chicago e Wauseon avrebbero trovato soluzione con la scoperta del corpo di Sophia. Una luce lampeggiante sulla scrivania di John attrasse l'attenzione di Hannah, ricordandole che c'era un messaggio sulla segreteria. Premette il pulsante di ascolto. Era una voce dall'accento ispanico, quella del giovane Manuel. "Pronto, qui la Boxes and Copies. C'è un pacco per Hannah McCleary spedito dall'Indiana. Passi pure a ritirarlo quando vuole. Siamo aperti ventiquattrore su ventiquattro." Hannah riascoltò due volte il messaggio, prima di cancellarlo. Che cosa poteva essere? Doveva averlo mandato John. Chi altri avrebbe potuto spe-
dirle qualcosa dall'Indiana? Era di questo che parlava Sophia? Hannah ispezionò l'ufficio, recuperando tutte le piccole cianfrusaglie che le appartenevano. Si chiese dove fosse la borsetta, poi le venne in mente che l'aveva lasciata in cucina, appena rientrata in casa con il bagaglio. Uscì dallo studio, scavalcò il cadavere e scese le scale. Gli altri due corpi erano rimasti dove li aveva lasciati. Hannah non li degnò di uno sguardo. Recuperò la borsetta e ci mise dentro tutto quello che aveva preso in ufficio. Poi cercò il gatto. «Panther? Micio-micio?» Ebbe in risposta un miagolio sommesso, da sotto una poltrona. «Eccoti lì, poverino.» Hannah lo raccolse. Il gatto fece immediatamente le fusa. «Ti sarai preso un bello spavento, eh? Scusa se ti ho gettato addosso a quell'uomo. Ma tu mi hai salvato la vita, lo sai? Mi hai salvato la vita. Sei il mio eroe.» Dal guardaroba nell'ingresso recuperò la gabbietta da viaggio del gatto. Vi fece entrare Panther, poi raccolse tutte le sue lattine di cibo dalla cucina. Aprì la valigia e ci buttò dentro tutto. Esplorò la sala per controllare se fossero rimasti altri indizi della sua permanenza in casa di John. Soddisfatta, prese valigia, borsetta e cassettina e andò alla porta. Non erano ancora le dieci di sera. La città era ancora sveglia. C'era gente per strada e il traffico scorreva fluido. Hannah chiuse la porta e gettò la chiave in un tombino tra il marciapiede e la strada. Raggiunse la Second Avenue, svoltò l'angolo e si diresse verso nord. Fece tappa alla Boxes and Copies, dove trovò Manuel seduto da solo a leggere un fumetto. «Buonasera, Manuel. Mi hai lasciato un messaggio?» «Sì, signorina McCleary.» Il giovane le rivolse un ampio sorriso, come sempre. Hannah riusciva a vederlo: era un sorriso caldo e amichevole. Peccato non le fosse possibile contestualizzarlo nel resto del suo viso. Manuel andò nel retro e tornò con un pacco delle dimensioni di un forno a microonde. «È un po' pesante. Ha qualcosa per trasportarlo?» Hannah guardò il trolley. «Ci può stare qui sopra? Hai qualcosa per legarcelo?» «Certo, si può fare» disse Manuel. Prese dello spago e legò saldamente il pacco al manico, in modo che Hannah potesse tirare la valigia con una mano sola. L'altra le serviva per portare la cassettina di Panther. Manuel le fece firmare la ricevuta e il pacco fu suo. Le ci volle un quarto d'ora per tornare alla casa in cui abitava. Controllò
la cassetta della posta, vuota, e aprì la porta interna. Per primo portò su Panther, poi tornò a prendere la valigia con il pacco. Una volta chiusa la porta, Hannah sciolse lo spago e mise il pacco in mezzo alla cucina. Tagliò il nastro adesivo con un coltello. Dentro c'era qualcosa avvolto in fogli di giornale. Hannah aprì l'involucro e rimase a bocca aperta. La cassa traboccava di mazzette di denaro, tutti biglietti da cento dollari. In cima c'era un foglietto. Cara Hannah, per favore, tieni questo pacco al sicuro fino al mio ritorno. Se non dovessi tornare, è tutto tuo. Facci attenzione. Con affetto, John Hannah, stupefatta, prese una mazzetta e contò le banconote. Cinquanta. Cinquemila dollari. Incredibile quanto poco spazio occupassero cinquanta biglietti da cento. Poi contò le mazzette. Erano così tante! John le aveva impacchettate molto strette. In capo a venti minuti, Hannah ne aveva contate centonovantotto. Prese il block-notes che teneva accanto al telefono e fece i conti. Cinquemila per centonovantotto equivaleva a... novecentonovantamila! Quasi un milione di dollari. Si chiese se all'inizio fosse un milione tondo. Forse John si era preso qualche mazzetta. Non lo sapeva. Ma che cosa importava? C'era qualcos'altro in fondo al pacco: sacchetti di plastica sigillati, contenenti polvere bianca. Capì di che cosa si trattasse e seppe che non li voleva. Senza esitazione, li svuotò uno a uno nel gabinetto. Dovette tirare l'acqua tre volte per riuscire a far sparire tutto. Hannah andò al suo minuscolo armadio e ne prese una valigia più grossa, in cui rovesciò il contenuto del trolley. Aprì i cassetti e mise in valigia tutto quello che pensava potesse servirle o di cui non avrebbe voluto fare a meno. Le rimase ancora spazio per qualche articolo da toilette. Poi richiuse la valigia. Trascorse la mezz'ora successiva riempiendo il trolley con il denaro. Ci stava appena. Dovette tirare fuori una ventina di mazzette, che divise tra la borsetta e la valigia più grande. Fece il giro del monolocale, per controllare di avere preso tutto il neces-
sario. Scrisse un biglietto per l'amministratore, avvisandolo che se ne andava e che era libero di vendere o buttare via tutto quello che lei lasciava nell'appartamento. Poteva tenersi la caparra. Hannah omise di indicare il suo prossimo indirizzo. Le ci vollero due viaggi per portare giù i bagagli. Mise il biglietto nella casella dell'amministratore e si assicurò che le valigie fossero ben chiuse. Verificò che riusciva a tirarle con una mano sola, mentre con l'altra teneva la cassettina da viaggio di Panther. Poteva farcela. Uscì e fece cenno a un taxi. Chiese all'autista di portarla alla Penn Station, dove lo avrebbe pagato con due biglietti da cento. «Ma non ho il resto» si lamentò il taxista. «Allora se lo tenga» replicò lei, con un sorriso dolce. Ancora in stato di shock, il taxista caricò i bagagli in macchina. Hannah si presentò alla biglietteria dell'Amtrak e chiese un biglietto di sola andata per Santa Fe, New Mexico. Sarebbe stato un percorso complicato: doveva arrivare a Chicago, cambiare treno e scendere negli Stati del West, per poi servirsi dei trasporti locali. Era fattibile, ma le sarebbero occorsi diversi giorni. Hannah disse che non le importava e pagò in contanti. Le fu detto che avrebbe dovuto aspettare qualche ora, ma dopo luna avrebbe trovato posto su un vagone letto. Hannah si sedette su una delle panchine della sala d'attesa. Inspirò profondamente e scoprì di sentirsi in pace con se stessa. Eccola lì, alla stazione, pronta a lasciare la città che pensava non avrebbe mai abbandonato. Ma era meglio per lei voltare le spalle al mondo in cui aveva vissuto da trent'anni a quella parte e ricominciare da zero. Non c'era molta gente nella sala d'attesa, solo qualche viaggiatore notturno che leggeva libri o riviste. La maggior parte degli homeless erano stati scacciati anni prima, ma ce n'erano un paio che ancora riuscivano a filtrare. Hannah non prestava attenzione alla gente. Erano tutti estranei. Lo sarebbero stati anche se li avesse conosciuti. Le loro facce non significavano nulla per lei e a Hannah andava bene così. L'anonimato poteva essere qualcosa di prezioso. Qualcosa da sposare. Per la prima volta nella sua vita, Hannah McCleary non vedeva l'ora di vivere in un luogo senza nome e perdersi in un mare di facce vuote, prive di lineamenti. La sua sarebbe stata una fra le tante. Ringraziamenti
L'autore e l'editore sono grati a Cecilia Burman, a Jordan Charter, all'ufficio dello sceriffo di Fulton County, Ohio, e al Fulton County Health Center. Per ulteriori informazioni sulla prosopagnosia, visitate il sito www.prosopagnosia.com. FINE