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SARAH LOVETT OPERAZIONE INFERNO (Dante's Inferno, 2001) A Lew, Miriam & Michael PRIMO CERCHIO... 1 MACCHINA INFERNALE: Ordigno costruito in modo da sembrare un oggetto comune e inoffensivo e riempito invece di pericoloso esplosivo. Una scatola dall'apparenza innocua, o analogo contenitore, viene riempita in parte con dinamite o altro esplosivo, mentre lo spazio rimanente ospita un dispositivo meccanico, per lo più a orologeria, dal funzionamento silenzioso e generalmente predisposto in modo che, una volta arrivato al termine di un determinato numero di ore o di giorni, provochi la deflagrazione del materiale esplosivo. Dick's Encyclopedya, 1891 Un altro complotto alla polvere da sparo. Un dono del fuoco greco per l'antica Babilonia del Nuovo Mondo. Riconoscete in ognuna di queste missive una macchina infernale. Lettera anonima al "Los Angeles Times", marzo 2001 23 aprile, ore 11.14 Los Angeles indossava la sua miglior veste d'aprile: cielo azzurro, nuvole di panna montata e aria lavata dalla pioggia che sussurrava promesse di aranci in fiore e di denaro. Una giornata di dolci parole d'amore a LA. Wanda Davenport, insegnante elementare e pittrice dilettante, afferrò con gesto esperto la maglietta di Jason Redding, di anni dieci, proprio mentre il bambino stava per infilare un dito sporco tra le natiche scolpite di un Icaro di duemilacinquecento anni. I pezzi antichi erano il grande richiamo del Getty Center. E lo stesso valeva per i bagni. La mancanza di bagni. Quattro degli scolari di quinta elementare dovevano fare pipì e l'assistente di Wanda era scomparsa nel nulla.
«In fila, ragazzi!» latrò Wanda con allenata autorità. «Jason, dammi la mano.» Il ragazzino gemette e roteò gli occhi, ma il viso splendeva di eccitazione. Erano sei mesi che la classe di Wanda aveva programmato quella visita. Potendo scegliere tra gli Universal Studios e il Getty, i bambini avevano scelto l'arte. Scolari di quinta! Chi l'avrebbe mai detto? Ma era pur vero che Wanda Davenport non era la tipica maestra elementare. Amava talmente l'arte che una minuscola particella della sua passione si trasmetteva praticamente a chiunque passasse anche solo qualche settimana sotto la sua guida. Wanda amava i realisti, gli impressionisti, i dadaisti... Dagli artisti classici agli autori di graffiti, lei era comunque un'ammiratrice devota. Sorrise tra sé mentre dava l'ordine di mettersi in marcia. Jason le dava moltissimo da fare, ma in segreto ammetteva che era uno dei suoi preferiti. Il bambino era svelto, vivace e creativo. Un giorno sarebbe potuto diventare un famoso artista, architetto, inventore, medico... qualunque cosa. «Voltate a destra!» Come secondo lavoro, Wanda avrebbe potuto fare benissimo il sergente istruttore. Jason per poco non inciampò nei propri piedi, audacemente incapsulati in un paio di sneaker verde neon di una misura troppo grande. Wanda sapeva che la madre del ragazzino, Molly Redding, era una tossicodipendente in via di recupero; era anche una madre single che manteneva il suo unico figlio facendo la cameriera. Erano tempi difficili in casa Redding, dove però c'erano affetto e speranza. E Jason era un bambino meraviglioso. «A sinistra!» ordinò Wanda, osservando Maria Hernandez che accettava una "palla di fuoco" da Suzie Brown; il dolcetto rosa carico scomparve tra i denti candidi. Venti minuti prima Wanda aveva guidato la sua truppa di bambini di dieci e undici anni a bordo del tram bianco che li avrebbe portati in cima alla collina. Il viaggio di circa due chilometri aveva regalato uno stupefacente panorama di Los Angeles e dell'oceano Pacifico. Il nuovo J. Paul Getty Center si trovava a Brentwood, accarezzato da Santa Monica e sfiorato dalle montagne. Sia dal tram che dalla terrazza in marmo davanti al museo, sulla sommità della collina, Wanda aveva indicato le varie località ai suoi ragazzi: Ocean Park, Venice, la Los Angeles vera e propria (il cuore al centro del mostro metropolitano, con il suo costante alone di smog), l'estremità meridionale dei cantieri navali di San Pedro, che si allungava come una coda
in lontananza... poi di nuovo Santa Monica e il molo che si estendeva come una gamba al neon nelle acque azzurre dell'oceano. E per ultima, ma non meno importante, più a ovest lungo la costa, la Malibu delle star del cinema, che si era costituita in città autonoma proprio mentre le frane di fango inghiottivano grandi morsi di terra e gli incendi delle foreste divoravano il panorama, riducendolo a una pelle spoglia e carbonizzata. Dopo quella lezione di geografia ed economia, la scolaresca era entrata a passo di marcia nell'edificio della reception, dove Wanda era riuscita a dare a malapena un'occhiata al programma che veniva fornito per la visita: i suoi scolari richiedevano il centodieci per cento dell'energia. Ma non aveva importanza: conosceva a memoria quel posto, che le faceva sempre pensare a un tempio greco fuso con un transatlantico art déco. Aveva vagato per ore nel giardino-camaleonte di Robert Irwin, che ogni stagione offriva nuovi colori, nuovi odori, nuove forme e sfumature. Il Big Blue Bus di Santa Monica arrivava diritto fino al giardino. Wanda aveva perso il conto delle sue visite. Nessuno aveva mai creduto che a Los Angeles la cultura potesse richiamare le folle, e invece... be', bastava guardare i suoi ragazzi! Con gesto esperto, Wanda tolse un chewing-gum masticato da dietro l'orecchio di uno dei suoi scolari più grandi, confortando contemporaneamente il più piccolo che si lamentava per il mal di stomaco. Non vedeva l'ora di portarli nel giardino, il suo posto preferito. Cominciarono ad attraversare il primo cortile esterno. L'acqua scorreva come vetro tra le lastre di marmo. I bambini facevano scivolare i piedi sulle pietre levigate. «Ehi, ragazzi: vi ricordate il nome dell'architetto? Ne abbiamo parlato in classe.» Sentì appena la risposta borbottata da Jason: «Meier». «Richard Meier. Esatto, Mr Redding.» Erano quasi arrivati alla scala che scendeva alla caffetteria del museo e ai tavolini all'aperto. Entro pochi secondi il giardino centrale sarebbe comparso improvvisamente alla vista. Ricco di colori primari e forme geometriche (caos e ordine allo stesso tempo), esplodeva nello spazio tra l'edificio a più livelli del museo vero e proprio e i vari istituti. Wanda si sentì tirare una manica, si voltò sorpresa e abbassò lo sguardo sul viso agitato di uno dei suoi scolari. «Miss Davenport, per favore: devo proprio andare!» implorò una vocina. «Intervallo, ragazzi» annunciò con voce allegra Wanda. «Appena arriviamo in fondo a questa scala, andremo tutti in bagno e poi ci raduneremo
di nuovo per il giardino. Carla, tieni le mani a posto, grazie. Non si corre, Hector.» Voltarono l'angolo e vennero salutati dalla vista di piante di buganvillea e jacaranda, di orchidee, margherite, iris e fiori selvatici, ognuna bella ed effimera come una farfalla. L'ultima visione nella vita di Wanda Davenport fu quella del giardino che amava tanto. Jason Redding scoprì lo scrigno del tesoro sotto la scala. Lo aprì curioso e vide un intricato, capriccioso collage fatto a mano: una macchina infernale di legno lucido, avorio, fili colorati e tubo metallico riempito di polvere nera. Perplesso, il ragazzino sentì un sibilo, vide del fumo e petali delicati che ruotavano e si contorcevano fluttuando verso l'alto: innesco. Uno sneaker verde neon sopravvisse intatto. Ore 13.03 Edmond Sweetheart non guardò i cadaveri. Non aveva niente da offrire ai morti, se non la sua capacità di concentrarsi sui vivi, sullo sconosciuto terrorista, o terroristi, sulle rovine che lo aspettavano cento metri più su. Se avesse perso la concentrazione in quel particolare momento, il suo mondo sarebbe crollato in frantumi. Ad andatura veloce e sicura, attraversò il giardino con i muscoli tesi e flessibili, le braccia strette al corpo, la schiena eretta, misurando istintivamente i passi. Tutti i suoi sensi erano dolorosamente all'erta, le orecchie lacerate dall'urlo implacabile delle sirene, gli occhi scuri spalancati alla luce brillante riflessa dal cielo coperto di nuvole. Los Angeles ha un sapore. Lì al Getty, tra le Santa Monica Mountains e l'oceano Pacifico, Sweetheart avvertì un gusto alcalino con una forte nota di carbonio. C'era conforto nell'ordine dei composti chimici, non altrettanto nel caos delle motivazioni, azioni e reazioni umane. Il loro effetto distruttivo, ora a pochissima distanza, era fin troppo visibile. Potendo scegliere, Sweetheart raramente visitava la scena del crimine. Preferiva piuttosto passare la vita studiando tabulati, individuando analogie e differenze in serie di dati diversi: un giorno poteva venire dedicato alla morfologia linguistica, quattro giorni ai composti chimici, un'intera settimana ai modelli geografico-spaziali. Uno scambio arido che ti regalava occhi rossi e vista miope. A meno che questo non rappresenti sia la tua
passione che la sanità mentale. Era più di un decennio, ormai, che Sweetheart dava la caccia ai terroristi e operava come consulente per diverse agenzie federali e internazionali, pur continuando il suo lavoro di ricerca all'Ucla. Aveva anche un ufficio presso la Rand Corporation, ma, dato che era un tipo sia pratico che paranoico, seguiva i lavori più delicati dalla sua casa in Hollywood Hills, da dove poteva controllare il flusso di informazioni. I risultati delle analisi scientifiche sulle prove fisiche (messaggi di estorsione, registrazioni di telefonate minatorie, ricostruzioni di bombe o di ordigni incendiari, modelli degli schizzi di sangue... i prodotti del lavoro di un criminale) erano sempre lontanissimi dal luogo dell'azione distruttiva. Ma in quel mezzogiorno d'aprile, Sweetheart era presente sulla scena per motivi personali - per quanto mentalmente repressi, per quanto fisicamente nascosti - ed era vitale che mantenesse una distanza, se non fisica, almeno emotiva. Aveva parcheggiato l'auto in fondo alla strada riservata ai vigili del fuoco, accanto a diversi veicoli dei servizi d'emergenza. La corsa di ottocento metri non gli aveva neppure solleticato i polmoni. Mentre colmava gli ultimi cinquanta metri che lo separavano dal luogo dell'esplosione, un uomo dall'aspetto familiare che indossava un giubbotto dell'Fbi gli passò accanto veloce, diretto verso il furgone della Scientifica. L'agente gli lanciò un'occhiata diffidente e sospettosa, ma l'attenzione di Sweetheart era concentrata su un uomo dai capelli rossi ai piedi della scala distrutta. Si chiamava Church, del Dipartimento di polizia di Los Angeles, e aveva un'espressione arcigna. Appena due ore prima, un bambino e la sua insegnante erano morti a causa dell'esplosione di una pipe bomb. Nessuno aveva rivendicato l'attentato. Nessun indizio sull'identità del terrorista o dei terroristi. Non ancora. Sweetheart lo sapeva grazie alla telefonata che aveva ricevuto. Il battito del cuore aumentò pericolosamente mentre gli argini dell'autocontrollo minacciavano di cedere. Sweetheart rallentò il passo, quasi barcollando. Un bambino era morto... Elimina dalla mente qualsiasi distrazione emotiva. Accelerò di nuovo l'andatura e il respiro, inspirando dal naso ed espirando dalla bocca nel mantra non verbale dell'atleta. Quando fu a dieci metri dalla scala, fissò il poliziotto, costringendolo a incontrare il suo sguardo. Il detective Frederick "Red" Church lo guardò assorto. Era con un gruppo di investigatori, comprendente elementi dell'Fbi e dell'Atf, che si era
raccolto ai piedi della scala distrutta. Erano tutti impegnati nelle prime fasi dell'analisi della scena, un processo faticoso che includeva la raccolta e la classificazione di ogni reperto. Church si staccò dal gruppo e percorse in fretta il leggero pendio accuratamente modellato, senza riuscire a nascondere il proprio disagio, choc addirittura, alla vista di Sweetheart. Quando gli fu vicino, sussurrò: «Lei non dovrebbe essere...». Ma non terminò la frase, interrompendosi non appena lesse le emozioni intrappolate negli occhi dell'altro. «Mi ha telefonato mia nipote» disse Sweetheart. «Vengo direttamente dall'aeroporto.» Dodici ore con la Nigeria Airways, la maggior parte delle quali trascorse a terra con una temperatura di trentotto gradi e il novanta per cento di umidità; dodici ore a bordo di un aereo della Japan Airlines, la maggior parte delle quali trascorse in volo, in quella prima classe così isolata dalle carestie, dalle malattie e dalla povertà che tormentavano il resto del mondo. Poi la telefonata d'emergenza mentre volavano in cerchio sopra l'aeroporto internazionale di Los Angeles. «Devo avere accesso immediato. Prima che quegli idioti inquinino la scena. Sta già diventando un circo.» La voce di Sweetheart era minacciosamente controllata; nessuna espressione traspariva dalla maschera del viso attraente. «Avevo sentito dire che lei era in Africa» disse Church, ignorando la frase e servendosi del proprio corpo come di una porta chiusa. Manteneva una cauta distanza dall'interlocutore, ben più imponente di lui; in nessun modo avrebbe potuto resistere a centoventi chili di solida massa muscolare. «In Nigeria è stato tremendo.» Sweetheart osservava la scena con sguardo possessivo, come se fosse stata un suo tesoro privato. «Un'altra bomba all'ambasciata.» Facendo un passo verso Church, aggiunse in tono calmo: «Settanta morti, il doppio di feriti. Nient'altro che detriti e cadaveri». «Bin Laden?» domandò il detective senza spostarsi di un millimetro. Era curioso, carico d'adrenalina. Era anche intenzionato a prendere tempo. Non aveva né il tempo né la forza per uno scontro... non con Edmond Sweetheart. «Magari, dovremmo mandargli un bel regalo: un paio di Tomahawk.» Facendo quasi sobbalzare il detective, Sweetheart agitò di scatto una mano, forse per allontanare l'impatto emotivo della tragedia, passata e presente. Era maledettamente troppo calmo, troppo controllato, mentre fissava
Church negli occhi. «Dovremmo fare come in Afghanistan sei mesi fa: ridurre in polvere il campo dei ribelli.» Non aveva bisogno di aggiungere che l'attacco in Afghanistan - il quale, oltre ad aver annientato un campo d'addestramento per terroristi, aveva provocato anche la morte di un ricercato internazionale - era stato sferrato sulla base di informazioni raccolte dalla sua intelligence. I circoli antiterrorismo erano piccoli e incestuosi; tutti i giocatori conoscevano gli affari degli altri. Anche quel giorno le notizie sarebbero circolate in fretta, pensò Sweetheart, mentre la rabbia gli montava nel petto come una marea. Intuendone il prossimo movimento, il detective fece un passo verso Sweetheart proprio mentre questi contraeva i muscoli, e gli disse in fretta: «Professore, lei non è autorizzato a stare qui». Gli occhi scurissimi di Sweetheart scintillarono di un bagliore non dissimile dal metallo pressato. La bocca era una linea netta sulla carnagione liscia e dall'abbronzatura naturale. «Le devo chiedere di andarsene» insistette Church a bassa voce. «No.» Sweetheart avrebbe potuto essere un albero o una colonna, tanto radicata e cementata era la sua energia. Nonostante la corporatura massiccia, era incredibilmente agile e forte, un avversario formidabile e atletico. «Io non vado da nessuna parte, Red.» Church sentì il suo soprannome usato come un avvertimento e sentì anche la nota durissima che comunicava lo spaventoso livello di autocontrollo di Sweetheart. Gli occhi azzurri del detective riflettevano minuscole immagini del mondo circostante, compresa quella dell'uomo che lui sapeva essere un mostro nell'elaborazione dei dati, un consulente indipendente ricercatissimo dalle agenzie federali e internazionali. Nonostante le decine di volte in cui le loro strade si erano incrociate, Edmond Holomalia Sweetheart rimaneva un assoluto enigma del cazzo. Se lui, Red Church, fosse stato nei panni dell'altro... Quasi al rallentatore, le palpebre di Church si abbassarono come un sipario per poi sollevarsi di nuovo. Le parole, una riluttante offerta di informazioni, vennero pronunciate con un sospiro: «Abbiamo il coperchio del tubo, è saltato via quasi integro». «Me lo faccia vedere.» Church fece dietrofront, rassegnato, e il suo disagio si tradusse in movimento maniacale mentre guidava Sweetheart verso la scala devastata, risalendo il breve pendio e passando accanto al personale dei servizi d'emergenza e alla squadra di investigatori. Finalmente si fermò. Sweetheart si
arrestò mezzo passo indietro. Adesso i due uomini si trovavano nel perimetro interno della scena. Alle loro spalle il giardino riempiva il canyon poco profondo. Sweetheart notò il panorama e ne apprezzò la simmetria formale, ma l'attenzione era focalizzata sul coperchio di metallo contorto a trenta centimetri dai suoi piedi. Tra frammenti di legno, acciaio deformato e altri detriti, un piccolo contrassegno arancione con il numero 1 era già stato piazzato accanto al coperchio. Sweetheart si chinò, allargando le cosce finché il lino dei pantaloni si tese sui quadricipiti ben sviluppati. Le dita si contrassero, tradendo la tensione del corpo. Il coperchio metallico, completamente annerito, aveva un diametro di circa venti centimetri ed era spesso una decina di millimetri; in alcuni punti il bordo era ripiegato all'indietro, come il coperchio di una lattina aperta. La forza dell'esplosione aveva prodotto incavature e graffi sulla superficie. Bilanciandosi sui talloni, Sweetheart si fece più vicino, gli occhi intenti e fissi, estraneo a ogni distrazione. Il respiro rallentò fino a farlo sembrare quasi addormentato. Il detective Church rimase in piedi, spostando nervosamente il proprio peso da un piede all'altro. Mormorò: «È tutto rovinato, ma forse troveremo qualcosa». Il suo sguardo attento si fermò su due agenti dell'Atf che, a tre metri di distanza, stavano esaminando un reperto già numerato. La partecipazione di Sweetheart sarebbe stata messa in discussione? Fortunatamente la presenza stessa del professore costituiva una specie di lasciapassare. Church si chinò accanto al suo più massiccio compagno e gli disse: «La bomba era in una graziosa confezione regalo, ma il nostro terrorista ha imbottito il contenitore di chiodi e frammenti metallici per essere sicuro di ottenere l'effetto shrapnel, sufficiente a staccare la testa a...». Il detective si accorse con orrore delle proprie parole, ma lanciando un'occhiata veloce a Sweetheart non vide alcuna reazione. Deglutendo a fatica, Church pensò che quel viso impassibile fosse peggio di qualsiasi dimostrazione di rabbia. Dopo un momento riprese a parlare: «Finché non metteremo insieme i dati sull'ordigno, questa può essere opera di un centinaio di delinquenti diversi. I testimoni più vicini all'esplosione sono dei bambini e al momento sono completamente sconvolti. Nessuna descrizione utile, ma lo psicologo del Bureau continuerà a lavorare con loro». Sweetheart sapeva che Church stava parlando, ma gli prestava scarsa attenzione. Studiava invece le rozze linee sul coperchio, abbastanza certo ormai che fossero presenti già prima dell'esplosione. Lasciò che la loro di-
sposizione gli guidasse i pensieri, assimilando le associazioni mentali suscitate da configurazioni familiari che poi si dissolvevano immediatamente nell'estraneità; era come osservare le nuvole in cielo mentre creavano forme e identità che poi svanivano in pochi secondi. La complessità della comunicazione era sempre presente nella mente di Sweetheart; quasi ogni giorno studiava i simboli costitutivi del linguaggio: dalla struttura morfologica e sintattica al processo di formazione della parola. Estrasse una matita e un piccolo blocco per appunti dalla tasca della giacca. Sempre bilanciato sui talloni, tracciò molto lentamente alcune linee sulla pagina. A Church fece pensare a un uomo che si divertisse da solo al gioco dell'impiccato. Sul foglio comparvero dei segni, in uno schema che sembrava allo stesso tempo casuale e preciso. "Perché diavolo non riesco a capire?" si chiese Church, mentre osservava con attenzione il coperchio, studiandone i segni finché non si coagularono in un rozzo linguaggio che tuttavia non riusciva a comprendere. «C-a-n-t-o-l-l» disse deciso Sweetheart. «Chi diavolo è Cantoll?» «Provi con che cosa.» «Okay.» Church annuì. «Cosa diavolo è Cantali?» «Qui in fondo, dove il metallo è particolarmente contorto, manca una lettera, o un numero» rispose Sweetheart, chiudendo gli occhi. «Se prendiamo "Canto", allora possiamo...» Tracciò con l'indice tre linee verticali nell'aria. Church scosse la testa, espirando la propria frustrazione in un sussurro: «Non la seguo». «È poesia famosa, detective. Il terzo canto» scandì Sweetheart, come parlando a uno scolaro un po' tardo. «"Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore..." È un poema italiano del quattordicesimo secolo, in seguito intitolato La Divina Commedia. Nella Commedia, è l'iscrizione che compare sopra l'entrata dell'inferno.» Mentre aspettava con impazienza che Church capisse l'ovvio collegamento, si voltò per esaminare l'architettura dell'edificio, in particolare l'aggraziato cancello ad arco di fronte alla terrazza danneggiata. Seguì con lo sguardo le linee curve e improvvisamente ricordò il verso finale. "Per me si va tra la perduta gente." La sua mente - sempre veloce, sempre intenta a selezionare ed elaborare dati - creò le connessioni: una pipe bomb come ordigno antiuomo e firma; un ordigno secondario capace di massicci danni strutturali agli edifici; un
indizio linguistico che implicava un dinamitardo. Il corpo di Sweetheart si irrigidì. «Le porte dell'inferno» mormorò. Alzò lo sguardo verso le colonne imponenti che delimitavano l'ingresso al giardino pubblico. Una sintesi tra una pipe bomb e un più potente ordigno antiproprietà... Si voltò verso Church: «Avete controllato se ci sono altre bombe?». «Stiamo ancora esaminando la scena...» «Le colonne! Quei pilastri!» lo interruppe Sweetheart. «Avete controllato la struttura interna? Sono passate due ore dall'esplosione. Se esiste un secondo ordigno programmato per colpire il personale intervenuto...» Urlò un ordine: «Faccia allontanare tutti dalla scena. Adesso!». Church esitò solo un istante, poi il viso si indurì nella decisione di agire. Si voltò per avvertire e allontanare un agente dell'Atf. L'allarme si diffuse rapidamente e l'evacuazione del personale investigativo e d'emergenza richiese meno di quattro minuti. Sweetheart e gli altri si erano allontanati di circa cinquecento metri e si trovavano già ai piedi della collina quando avvenne l'esplosione. Violenta e profonda, scaraventò tonnellate di cemento, roccia e acciaio - la carne e le ossa della struttura - in un raggio di quattrocento metri. Si sollevò subito una nube di polvere, che sembrò quasi volere deliberatamente nascondere una simile, oscena devastazione. Tutto sembrò accadere in un istante, mentre i presenti si gettavano a terra per ripararsi. Tutti tranne Edmond Sweetheart, che rimase in piedi, immobile e inamovibile, a fissare la bestia negli occhi. Non sbatté neppure le palpebre quando un missile di quindici chili di marmo mancò di pochi centimetri il suo orecchio sinistro. Riconobbe invece il potente cocktail di adrenalina e paura che nel tempo era arrivato a identificare come una specie di soglia chimica, una porta d'accesso allo stato alterato del terrore. Era acre e pungente come gli elementi chimici che servivano per fabbricare una bomba. Succedeva tutto dentro di lui. All'esterno, intorno a lui, i segni noti e familiari del disastro: panico sui visi e negli occhi, un'atmosfera surreale di fumo, gas ed esalazioni. Il riverbero della deflagrazione svanì a poco a poco, mentre le squadre d'emergenza e gli investigatori entravano velocemente in azione per la seconda volta in due ore. Il danno maggiore consisteva nel crollo di tre pilastri, ma la facciata dell'edificio era intatta. Attraverso il fumo, le grida e il caos, Sweetheart ricordò altri versi del grande poeta.
"Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: 'Chi è costui che senza morte va per lo regno de la morta gente?'." Percepì, piuttosto che vedere, il detective Church al suo fianco. Quando si voltò verso di lui, lo guardò con occhi opachi e inespressivi. Parlò con voce monocorde e quasi senza vita: «Sei secoli fa Dante Alighieri scrisse l'Inferno, il libro più famoso della sua Commedia in tre parti». L'espressione sul viso lentigginoso e bruciato dal sole di Church sembrò confusa. «Stiamo parlando dell'Inferno di Dantes?» domandò, compiendo un logico salto mentale fino a un manifesto di quattrocento pagine scritto negli anni Novanta e pubblicato nel 1999. L'autore era John Dantes, un dinamitardo ancora in libertà il quale, nell'arco di oltre un decennio, aveva rivendicato una dozzina di attentati che avevano causato immensi danni alle cose e, soprattutto, perdite di vite umane. Lascia perdere i poeti italiani morti da secoli, per quanto famosi; a meno che non si creda ai fantasmi, loro non mettono bombe. «Sì» rispose Sweetheart, cupo. «Stiamo parlando di John Freeman Dantes.» «Forse.» Church sembrava scettico. «È noto che Dantes piazzava anche ordigni secondari...» «Ha già ucciso.» «Ma non è nel suo stile prendere di mira degli scolaretti. E sono tre, quasi quattro anni che non viene collegato a un attentato dinamitardo.» «Era entrato in clandestinità» ribatté Sweetheart. «E adesso sta riemergendo.» Indicò con un cenno del capo la scena della distruzione, poi si chinò e raccolse una manciata di terriccio sabbioso. «Vuole che lo sappiano tutti.» Il suo sguardo passò oltre il detective Church e si fermò su una giovane donna che lo fissava. Aveva un'espressione attonita, e sembrava fragile e ferita come un bocciolo di caprifoglio schiacciato. Il respiro di Sweetheart si arrestò e la mente si svuotò come una lavagna pulita. Impiegò parecchi secondi per dare un nome a quel viso. Molly Redding. Sua nipote. La ragazza stringeva nella mano una scarpetta da bambino e se la premeva contro il petto, dondolandosi sui piedi. Dalle labbra le sfuggiva un sottile lamento di disperazione. Un bambino e la sua insegnante sono morti nella prima esplosione... L'aria si congelò. Niente entrò nei polmoni di Sweetheart e niente ne uscì. Per i secondi che la tragedia impiegò a imprimersi nella mente, Sweetheart smise di respirare, in bilico tra vita e morte.
Hakkeyoi, si ordinò. Muoviti! Forza! D'improvviso la diga che tratteneva le sue emozioni crollò, e rabbia e dolore si riversarono nei canyon della sua psiche complessa. Mentre la negazione svaniva, le informazioni tempestavano le sinapsi del cervello: il bambino morto era Jason Redding, suo nipote. Molly Redding era la madre di Jason. Il viso abbronzato di Sweetheart si sbiancò. Il terriccio che chiudeva nel pugno gli scivolò tra le dita finché in mano non gli rimase che polvere. Jikan desu. È arrivato il momento. Il suo sguardo bruciante si fermò sulla faccia del detective. Disse: «Dobbiamo catturare John Dantes. O giuro che lo troverò io e lo ucciderò con le mie mani». SECONDO CERCHIO... 2 L'utopìa in senso classico sfida l'umanità nella sua necessaria e costante lotta per l'omeostasi. Ambiente costruito dall'uomo, la città - con tutti i suoi difetti, la polvere e la sporcizia, il caos di menzogne e segreti - deve sostituire e rappresentare qualsiasi sogno di perfezione. Io sono un uomo adulto pazzamente innamorato di Los Angeles, di tutta la sua bellezza e di tutti i suoi difetti. John Dantes, L'Inferno di Dantes (Athena Press, 1999), da un articolo pubblicato sul "Los Angeles Times" il 7 novembre 1999 16 aprile, lunedì, ore 7.59 Un anno dopo. Una ziggurat si innalzava sopra le sabbie scintillanti del centro di Los Angeles. Sylvia Strange si fece scivolare gli occhiali da sole dalla montatura d'ebano davanti agli occhi castani e gli zigomi pronunciati. Attraverso le lenti Polaroid, il bagliore del traffico dell'ora di punta si smorzò e le sabbie desertiche si coagularono in un mosaico di alti edifici urbani sbiaditi dal logorio di mezzo secolo; le carovane di nomadi si trasformarono nelle corsie della Harbor, direzione nord; la ziggurat si ridefinì come la torre terrazzata sulla sommità di City Hall.
Quella struttura di ventotto piani era a pochissima distanza dalla destinazione di Sylvia: il Metropolitan Detention Center, meglio noto come Mdc, la casa dei pazzi e dei malvagi. Con tanti saluti alle visioni di Terra Santa. Comunque, faceva abbastanza caldo per essere nel deserto del Negev. Nonostante l'aria condizionata, il sudore le bagnava il collo e le gocciolava tra i seni. Sylvia regolò il climatizzatore e si puntò un soffio artico in direzione della gola. Quasi all'istante, le venne la pelle d'oca. Il giusto mezzo non esisteva, quel lunedì mattina. Scostandosi dal viso qualche ciocca dei capelli neri che le arrivavano alle spalle, Sylvia si diede una rapida occhiata nello specchietto retrovisore. Carnagione olivastra un po' smorta, labbra screpolate e prive di rossetto, pupille dilatate dietro le lenti scure. Sapeva che le serviva ben più del fard, dell'eyeliner e di un po' di trucco per sembrare un membro dell'élite specializzata nei profili psicologici. Benvenuta tra i grandi, Strange. Sei arrivata in serie A, adesso hai la possibilità di contribuire al più grande studio mai effettuato al mondo sui profili psicologici dei dinamitardi. La possibilità di assistere mentre l'Fbi, l'Atf, Il Dipartimento di polizia di Los Angeles e l'Ucla - tutti sotto lo sguardo attento ed elitario della Rand Corporation - danno un'occhiata personale e ravvicinata ai soci del Famigerato Club dei Dinamitardi: McVeigh, Ramzi Yousef, Richard Johnson, Theodore K. E John Freeman Dantes. Sylvia tese automaticamente una mano verso la valigetta, estrasse una sigaretta e se la mise tra le labbra. Aspettando che l'accendino dell'auto si scaldasse, abbassò appena il finestrino come concessione alla politica antitabacco della Hertz. L'accendino scattò e Sylvia avvicinò la spirale incandescente al tabacco, inalando avidamente. Il fumo le graffiò la gola e le scese denso nei polmoni. Trattenendo il fiato e la nicotina, scosse una cenere inesistente fuori dal finestrino ed espirò l'aria cancerosa. John Dantes... l'uomo che aveva scritto L'Inferno di Dantes: la Città degli Angeli nel ventunesimo secolo. Capitolo 1: "Il ragazzo allevato dai lupi nella città". Sylvia inalò di nuovo il fumo. Nel suo Inferno, Dantes aveva dissezionato lo yin e lo yang di Los Angeles: la parte maschile rappresentata dalla tecnologia, imposta quale superstruttura sulla parte femminile, la naturale evoluzione funzionale del villaggio nella megalopoli postmoderna. Per Dantes tutto si riduceva all'avidità, all'ambizione e alla fantasia, che di-
struggevano il cuore dell'autentica Los Angeles, la città che apparteneva alla gente. Sylvia guardò l'orologio e mise a fuoco il quadrante argentato: le otto meno un minuto. Intrappolata in un conto alla rovescia infinito, la minuscola lancetta nera scattava ai piccoli intervalli dei secondi. Strange era in ritardo, sempre più in ritardo a ogni respiro nel traffico immobile. Non dovrebbe essere un problema, pensò. La dottoressa Strange, studiosa di menti oscure e disorientate, sapeva come usare il metodo reverse in psicologia. Nel corso degli ultimi cinque anni, lavorando in carceri e ospedali, si era ritrovata faccia a faccia con alcuni dei peggiori criminali del mondo, e tra i colleghi si era guadagnata la fama di psicologa legale con un talento innato per entrare in sintonia con il più difficile dei casi difficili. Era esattamente quello il motivo per cui era stata convocata a Los Angeles. Al volante della Lincoln, si sistemò meglio sul sedile rivestito di pelle, morbido come burro. Le scarpe erano di fianco a lei, davanti al sedile del passeggero. Spostò la cucitura dei collant che le premeva sull'inguine: non appena portato a termine l'incarico, avrebbe bruciato quell'indumento da tortura e se ne sarebbe tornata in volo in New Mexico, dove sì poteva camminare scalzi sul terreno desertico e osservare le nubi cumuliformi che si formavano sopra la catena montuosa del Sangre de Cristo... Prima ancora che il primo squillo svanisse nell'aria, Sylvia avvicinò il cellulare all'orecchio. Quel suono la riportò indietro nel tempo e, per la centesima volta, udì di nuovo l'eco delle parole che, solo quattro settimane prima, avevano fatto crollare il suo mondo. Dottoressa Strange? Sono Mona Carpenter. La chiamo per dirle addio. Una voce vera le domandò: «Sylvia, ci sei?». «Leo?» «Hanno appena proibito tutte le visite all'Mdc» annunciò lo psichiatra Leo Carreras. La voce era carica di preoccupazione. «Minacce di bombe?» «La linea ufficiale è "massima allerta".» «Il mio colloquio con Dantes è ancora confermato...» Metà domanda, metà dichiarazione. «Finora tutto bene. Nervosa, dottoressa Strange?» «So che hai fatto i salti mortali per farmi avere l'autorizzazione.» Leo l'aveva inserita nel progetto in veste di esperto psicometrico: un modo altisonante per dire che Sylvia si sarebbe occupata dei test e degli inventari psicologici. Nonostante lei fosse in possesso di tutte le indispen-
sabili credenziali, il progetto relativo ai profili aveva risvolti politici paragonabili a un'elezione primaria. Leo e l'Ucla rappresentavano una fazione, i federali un'altra e lo stesso valeva per il Dipartimento di polizia di Los Angeles; la Rand, infine, aveva i propri programmi da portare a termine. Ma la verità era che l'approvazione finale spettava a John Dantes, il quale aveva accettato di collaborare con la dottoressa Strange per quanto riguardava i test. I detenuti celebri con la popolarità di John Dantes si servivano della loro fama come di un'arma. «Avrai tutto il giorno per sottoporlo ai test» disse Leo. «A meno che tu non venga interrotta dalle guardie di sicurezza, perciò il colloquio introduttivo dovrà essere breve...» Ascoltando appena, Sylvia sospirò. Solo sei settimane prima avrebbe fatto salti di gioia per la possibilità di lavorare a un progetto così importante. Sarebbe stata certa di riuscire con Dantes laddove altri avevano fallito. Ma questo prima che la sua cliente si suicidasse. Dottoressa Strange, naturalmente ci sarà un'inchiesta della commissione. «Sylvia? Tutto bene?» Si riprese subito, rendendosi conto che Leo le aveva chiesto qualcosa. Si sistemò gli occhiali da sole sul naso. «Sono qui.» Trovò il flacone in tempo record - via il coperchio - e si cacciò una minuscola pastiglia azzurra in bocca. La pastiglia le rimase in gola. «... cominciare facendo un po' di riscaldamento proiettivo per stabilire il rapporto» stava dicendo Leo. «E poi l'Mmpi.» Si riferiva all'Inventario multifasico della personalità dell'Università del Minnesota. «Io mi trovo meglio cominciando con gli inventari oggettivi» ribatté Sylvia. Ma cosa ci faceva in quella città di rumori, luce abbagliante, smog e cemento? «Prima l'Mmpi e poi il Millon.» «So che richiede molto tempo, ma il Rorschach ci darà moltissime informazioni preziose.» Dopo un breve silenzio Leo aggiunse: «Prendilo solo come un suggerimento». «Naturalmente.» «Protrai al massimo l'incontro di oggi» continuò Leo. «Cerca di ottenere quanti più dati possibile, può darsi che tu non abbia un'altra occasione.» «Sì, mamma.» La battuta cadde nel nulla. «Dantes è maledettamente ostile... Non credere che collaborerà solo per-
ché gli piace la tua faccia. Assumerà il controllo, cercherà di irritarti, oppure si chiuderà a riccio.» «Lo irriterò anch'io. È semplice.» «Ricordati che voglio tutti i dettagli. Ci vediamo stasera a cena al Lobster, Santa Monica Pier. A proposito, com'è andato il volo?» Mona... il bambino è lì con te? Nathan è con te? «Al Lobster. Ti telefono appena finisco» riuscì a dire Sylvia. «Il volo è stato turbolento.» «Sylvia, sai che sono stato io a volerti, e non ho dubbi che sei la persona giusta per questo lavoro.» Il tono di Leo diventò di colpo serissimo: «Solo non dimenticare con chi hai a che fare. Dantes è pericoloso». Sylvia chiuse la comunicazione e portò la Lincoln verso la corsia di destra. Premendo sul pedale, diede gas al motore potente. Ci furono colpi di clacson, ma lei stava già puntando verso est, sulla rampa di uscita di Fourth Street. "Sarò di nuovo in New Mexico tra quattro, cinque giorni al massimo" ricordò a se stessa. "Faccio il mio lavoro e me ne vado." Ma nessuno l'aveva costretta ad andare a Los Angeles. Nessuno le aveva torto un braccio dietro la schiena. Leo Carreras le aveva offerto l'incarico perché aveva bisogno delle sue capacità professionali; contava su di lei per entrare in contatto con il cliente più ostile del mondo. E adesso lei era lì, nonostante si sentisse sbilanciata sia dal punto di vista emotivo che da quello professionale. Aveva accettato perché da qualche parte, sotto tutte le emozioni turbolente, sentiva il richiamo seducente del progetto "importante"... Per non parlare dell'attrazione esercitata da John Dantes. Le ossessioni durano a lungo e hanno radici profonde. Quelle di Dantes si concentravano nel vendicare i crimini che i potenti avevano perpetrato sulla città postmoderna e sui suoi abitanti meno sofisticati. Mentre si dava il caso che le sue, di Sylvia, fossero costituite da una fascinazione apparentemente infinita per una mente brillante che aveva assunto caratteristiche patologiche. "Fatti l'uno per l'altro" mormorò tra sé, sollevando il piede dal freno e cambiando marcia. Trovò una serie di semafori verdi fino a Broadway. Puntò verso nord, poi di nuovo a est. Superando la barriera all'entrata della US 101 direzione sud, Sylvia ster-
zò così bruscamente che i fascicoli sul sedile del passeggero caddero sul pavimento e la Lincoln lasciò una scia di gomma nera lungo la curva. Mentre passava davanti all'Mdc, il centro federale di detenzione sul confine settentrionale del complesso del Civic Center di Los Angeles, un'informazione le attraversò la mente: il complesso ospitava venticinquemila prigionieri, la più numerosa popolazione dietro le sbarre di qualsiasi città statunitense. Nessuno l'avrebbe mai detto. Al passante occasionale la facciata dell'Mdc e i suoi dieci piani, con i tralicci d'acciaio postmoderni e i passaggi aerei che proiettavano le loro ombre sulla sede dell'Ufficio immigrazione e naturalizzazione, potevano facilmente sembrare un hotel e non il più grande carcere mai costruito in un importante centro urbano. Oltre l'Mdc, in distanza, la ziggurat di City Hall intrappolava il sole e per un istante la torre brillò come un fiammifero acceso prima che si spenga la fiamma. La civiltà che sparisce in un lampo. Sylvia passò sotto un cartello di sei metri - PARQUEO - ed entrò nelle fauci spalancate del garage sotterraneo riservato ai visitatori del centro di detenzione del Dipartimento di polizia di Los Angeles, nonché dell'adiacente Roybal Federal Building. Dopo i vasti spazi del New Mexico, Sylvia non riusciva ad abituarsi a questo paesaggio urbano dove ogni universo verticale se ne stava acquattato sopra una tana vasta e profonda. Troppa luce, troppa oscurità. Pilotando la Lincoln in un labirinto fluorescente di veicoli parcheggiati e pilastri di cemento, ripensò a una scarpetta da bambino, uno sneaker. Verde neon. Ridicolmente piccolo. Con il minuscolo simbolo della lucertola sulla linguetta. Jason Redding era morto all'età di dieci anni e mezzo. La settimana dopo l'attentato al Getty, la foto di quella scarpa era arrivata anche sulle copertine di "Time" e "Newsweek"; quell'immagine evocativa aveva fatto il giro del mondo con la Cnn. Molly Redding aveva lanciato un messaggio all'assassino di suo figlio, mentre questi usciva dall'aula del tribunale... Sylvia infilò l'auto in un posto vuoto. Il motore della Lincoln verde mare si spense con un sospiro quasi impercettibile che sembrò riecheggiare il suo. "John Dantes, ti aspetterò all'inferno."
Ore 8.23 Sylvia si spinse gli occhiali da sole sulla testa ed entrò nell'atrio di vetro, acciaio e aria condizionata dell'Mdc, dove l'illusione dell'hotel continuava grazie alle piante in vaso e all'illuminazione soffusa. Era l'ambiente sottilmente blindato che la faceva sentire più sicura? O era soltanto la familiarità del carcere come ambiente di lavoro? Sylvia sospettava che si trattasse di qualcosa di diverso... Si sentiva più al sicuro rinchiusa con i detenuti che fuori, nei canyon urbani di Los Angeles. A pieno regime l'Mdc ospitava oltre novecento detenuti, per la maggior parte casi federali in attesa di giudizio: trafficanti di droga, sequestratori, estorsori, falsari e terroristi. Con tanti pessimi soggetti in giro, poteva essere rassicurante avere gli sceriffi federali proprio alla porta accanto e il Dipartimento di polizia sull'altro lato della strada. Quel giorno, a causa di minacce di attentati e del fatto che mancassero otto giorni al primo anniversario delle bombe al Getty, la sorveglianza era particolarmente severa. Al banco dell'accettazione Sylvia passò attraverso un metal detector mentre una guardia carceraria, una donna, invitava un pastore tedesco di quaranta chili a stare calmo. Lui ringhiava comunque. "Non si può ingannare un cane in gamba" pensò Sylvia sorridendo freddamente. Entrò in ascensore. Da qualche parte nel vano i meccanismi si lamentarono. Al quarto piano le porte si aprirono, rivelando due prigionieri in manette che aspettavano nel corridoio; i loro sguardi scivolarono avanti e indietro tra la guardia nervosa che li scortava e Sylvia. Si ritrovò a un altro checkpoint di sicurezza. Guarda, mamma: niente pipe bomb. La guardia estrasse dalla valigetta di Sylvia un registratore grande quanto il palmo di una mano, su cui fregò un batuffolo di cotone imbevuto di qualcosa e poi attese un'eventuale reazione chimica provocata da residui di materiale esplosivo. Controllò i numerosi fascicoli e gli oggetti personali, quindi passò alle cassette del registratore, che sottopose all'esame del batuffolo di cotone. "Lasciami fare il mio lavoro" pensò Sylvia con impazienza. Per parecchi giorni quello sarebbe stato il più sistematico dei compiti: sottoporre il soggetto agli inventari psicometrici obiettivi: l'Mmpi-r, il Millon, il Wais-r, il Bender, l'Halstead-Reitan oppure la batteria neuropsicologica Luria-
Nebraska. Il libretto di ogni test era alto parecchi centimetri. Alcuni contenevano infinite domande: Tu hai...? Se tu...? Faresti mai...? Altri erano costituiti da scelte multiple, o da scelte tra vero e falso, oppure prevedevano il racconto di una storia o il completamento di frasi. Altri ancora erano test visivi: ricostruire il puzzle, trovare la corrispondenza tra forme diverse, inserire il cuneo rotondo nel foro quadrato. Alla fine si assegnava un punteggio ai risultati dei test. Esistevano parametri per misurare la depressione, l'isterismo, la psicopatologia, la mania, l'ipocondria, la schizofrenia e la psicastenia. Sylvia si trovava lì proprio perché la valutazione dei test psicologici rappresentava la parte più analitica, standardizzata, misurabile ed emotivamente distaccata dell'intero Progetto profili. Non posso offrire giudizi, intuizioni o emozioni. Non questo mese. Nessun colloquio clinico, nessuna terapia, nessuna necessità di rapporto empatico. Nessuno sconfinamento sul pericoloso terreno dell'anima o della psiche. Grazie comunque. Un rumore elettronico richiamò la sua attenzione, graffiandole i timpani. La guardia la stava invitando con un cenno a superare le fauci sbadiglianti del cancello di sicurezza. Sylvia inciampò sul bordo slabbrato del rivestimento in gomma del pavimento; di colpo priva di equilibrio, ricordò a se stessa che era in ritardo di circa quaranta minuti all'incontro con un assassino di nome John Dantes. Ore 8.41 «Ce l'ha fatta a superare i mastini di guardia all'inferno» disse l'uomo sottovoce. In quel momento, il viso perso nell'ombra, era solo una presenza incorporea. Ma Sylvia si sentì pungere la pelle da quegli occhi. Una luce fluorescente inondò d'improvviso la piccola stanza quadrata. Colta di sorpresa, Sylvia sbatté le palpebre, e si ritrovò a fissarlo direttamente in faccia. Il viso, a forma di cuore, era incorniciato da capelli castano chiaro prematuramente grigi alle tempie e raccolti in un'approssimativa coda di cavallo. Gli zigomi erano sporgenti, la bocca larga; i lineamenti delicati sembravano confluire in un mento piccolo, quasi appuntito. La stanchezza e la vita carceraria avevano come spento la carnagione, inoltre erano passati almeno due giorni dall'ultima rasatura. Il livido recente che gli azzur-
rava la guancia sinistra completava l'effetto generale, un mix tra un emarginato del diciottesimo secolo e un lottatore di strada contemporaneo. Ma erano gli occhi, dietro la montatura metallica degli occhiali, che minacciavano di penetrare nel perimetro emotivo di Sylvia; erano verdi... no: grigi, punteggiati di bianco e di giallo, frangiati da ciglia folte. Erano gli occhi di un visionario. O di uno psicopatico. Sylvia distolse in ritardo lo sguardo, mentre sentiva il sibilo di parole appena sussurrate: «... l'ultima volta... io non posso...». Si accorse di un'altra presenza nella stanza: una donna, una guardia carceraria. Era una ragazza e si perdeva dentro la larga uniforme marrone con le spalline e il cartellino che la identificava come "D. Florette". Sylvia ebbe la sensazione di avere interrotto un vivace scambio di battute tra la guardia e Dantes; questo suscitò la sua curiosità, che tuttavia rimase insoddisfatta perché Florette chinò il capo e si lanciò in una recita apparentemente infinita su norme e regolamenti. Mentre la giovane guardia continuava a parlare monotona, Sylvia ebbe la possibilità di studiare l'uomo il quale, all'età di ventiquattro anni, aveva tenuto corsi di specializzazione postlaurea di sociologia strutturale urbana presso una delle più prestigiose università della California meridionale, quando non era stato impegnato a far saltare in aria l'acquedotto della California in rappresaglia per i suoi peccati storici. Adesso, a trentasette anni, stava scontando il suo primo anno di ergastolo: per il Getty, l'unico attentato di cui negava la responsabilità. Durante la sua carriera di fuorilegge, i media avevano presentato Dantes di volta in volta come un fuggiasco misterioso e intelligente, un imputato appassionato e carismatico, un prigioniero politico coriaceo. Sylvia pensò che l'uomo le sembrava meno funzionale di tutti i suoi personaggi pubblici. «Dottoressa Strange?» La voce dura e fredda di Florette richiamò l'attenzione di Sylvia. «Come può vedere, il detenuto è ammanettato solo alle caviglie: in conformità alla sua richiesta gli abbiamo lasciato le mani libere. Io sarò qui fuori, è il regolamento, ed effettuerò controlli visivi a intervalli casuali.» «Grazie, Deborah» le disse Dantes educatamente. «Per favore, si ricordi di evitare qualunque contatto fisico con il detenuto. Con permesso, signora.» Ignorando Dantes, la guardia passò davanti a Sylvia e la porta sbatté rumorosamente alle sue spalle. Il suono rimbalzò nella stanza prima di morire in un silenzio artificiale, rotto soltanto dal ticchettio dell'orologio appeso alla parete.
«Deborah è gelosa.» Fu John Dantes il primo a parlare. «Perfino le prigioni hanno le loro star.» Sylvia non si mosse. L'aria che veniva pompata in quella scatola di cemento sapeva di chiuso e assicurava la temperatura rigida prevista dai regolamenti federali. «Lei è orgoglioso del suo status di celebrità?» «Presenta qualche vantaggio.» Sylvia indicò il livido accanto all'occhio sinistro. «Un vantaggio collaterale?» «Lei non è come l'avevo immaginata.» Dantes la studiò intensamente per parecchi minuti, poi disse: «Non è uno dei tirapiedi di Leo. E non è neppure un'agente federale... o ne avrei sentito la puzza a un chilometro di distanza». Ma sul viso era inciso il sospetto. «Io sono la dottoressa Strange, Mr Dantes. Lavoro con il dottor Carreras, il quale ha organizzato questo incontro per completare alcuni inventari psicologici. Nel quadro del progetto dei profili criminali, tutti i partecipanti vengono sottoposti a una valutazione standard.» Passò la valigetta dalla mano destra alla sinistra e poi aggiunse: «Ma credo che lei sappia perché sono qui, visto che ci siamo già parlati al telefono e lei ha anche firmato il modulo di accettazione e la liberatoria». L'eco di una porta che sbatteva si intromise debolmente. Lo sguardo di Dantes si spostò verso la finestrella della porta di sicurezza, attraverso la quale si intravedeva il corridoio e la sommità della testa scura di Florette. «Valutazione standard... Fa sembrare il progetto molto banale, non è vero?» «No, io non credo.» «Però è un progetto che riguarda i dinamitardi.» «È classificato come Progetto profili criminali» ribadì Sylvia con voce piatta. Anche se era scontato che i partecipanti, come Dantes, avrebbero avanzato ipotesi in quel senso, non sarebbe stata data alcuna conferma al fatto che l'iniziativa era limitata ai soli dinamitardi: la conoscenza della realtà sarebbe servita soltanto a gonfiare ulteriormente il loro ego e a inquinare le risposte. «Si sieda, dottoressa Strange. Mi sta rendendo nervoso. E sto cominciando a pentirmi di avere accettato.» Sylvia attraversò la stanza e posò la valigetta accanto alla sedia. Togliendosi gli occhiali da sole dai capelli, colse il debole odore emanato dall'uomo: una semplice miscela di sapone e sudore.
Mentre posava il registratore sul tavolo e premeva il tasto "Record", Dantes la sottopose a uno studio accurato. Sylvia aveva quasi la sensazione che la stesse toccando. «Ma guardatela!» Lo sguardo del detenuto la percorse dalla testa ai piedi. «Tutta in tiro con il suo completino migliore.» La voce si era ammorbidita, le labbra arricciate in un sorriso d'attesa. Sylvia non reagì. Questo sembrò irritarlo. «Prima di cominciare questa sua valutazione standard del criminale comune, mi racconti qualcosa della dottoressa Strange. Lei è una psicologa legale, autorizzata a esercitare in New Mexico e in California... È iscritta all'ordine, ha un Ph.D. e una specializzazione in psicologia legale. Università del New Mexico, Case Western Reserve, per non parlare dell'Ucla, la nostra comune alma mater.» «Ha fatto un buon lavoro di ricerca.» «Sono a conoscenza di alcuni fatti della sua vita. Il mio avvocato mi fornisce i curricula vitae... ma non è certo come ascoltare la sua versione della storia.» Sembrava controllato e tranquillo come l'occhio al centro di un ciclone. «Sono riuscito perfino a leggere una decina di sue pubblicazioni.» La studiò. «Non se la prenda, ma la sua inclinazione clinica si nota. Può darsi addirittura che lei creda alla redenzione.» Sylvia si spostò sulla sedia, le cui gambe metalliche graffiarono rumorosamente il pavimento di cemento. «Tutta quella strada dal New Mexico fin qui...» proseguì Dantes. «Si è fatta tanti chilometri solo per l'onore di passare qualche ora con me?» «Viaggio spesso, per lavoro» disse Sylvia senza trattenere del tutto l'impazienza. Estrasse una confezione di matite da una tasca della valigetta. Passò l'unghia del pollice lungo l'involucro di plastica, ma non riuscì neppure a intaccarlo. «Però non le capita tutti i giorni di viaggiare per l'Fbi, l'Atf e tutti quegli altri vip federali.» «Gliel'ho già detto: io lavoro con il dottor Carreras.» La confezione di plastica si lacerò di colpo, rovesciando matite sulla formica del tavolo; una rotolò oltre il bordo e Dantes l'afferrò al volo. «Come i suoi predecessori?» Si strinse nelle spalle. «Lei non è la prima a presentarsi qui con i suoi inventari psicometrici.» «Questo è irrilevante.» «Davvero?» Intrecciò le dita sul petto e lanciò un'altra breve occhiata all'unica finestra della stanza, il quadrato di trenta centimetri per trenta nella
porta. «Ha visto la mostra al County?» domandò Dantes, riportando lentamente l'attenzione sul viso della visitatrice. Sylvia scosse la testa, lasciando che fosse lui a guidare la danza, con la sensazione di avere sbagliato un passo. «Francisco Goya, gli occhi dell'Illuminismo» la sollecitò Dantes. Il corpo lungo e muscoloso rimpiccioliva la sedia di plastica su cui sedeva e, nonostante tutto, l'uomo indossava la divisa del carcere, il giubbotto antiproiettile e i ferri alle caviglie come un abito a tre pezzi. «Ho visto quadri di Goya in altri musei.» Sylvia aprì lo scomparto centrale della valigetta. «Un vero democratico. Offeso dalla corruzione sia nello Stato che nella Chiesa.» Guardando verso la porta per la terza volta in pochi minuti, Dantes continuò la conversazione, come un padrone di casa in un'occasione sociale. «E come Dürer e Dante Alighieri, Goya rifiutò di tenere la bocca e gli occhi chiusi. Una scelta sempre pericolosa. Fu tradito dalle spie, dai codardi.» Sylvia mise il primo libretto sul tavolo e ci posò sopra una matita. «Lei si paragona a Dürer o a Dante? O a tutti e due?» «È scocciata perché non è la prima a offrirmi le sue valutazioni standard? Non è così che si chiamano nel vostro business decostruzionista?» «Che io sia la prima o la decima, la cosa importante è completare gli inventari standardizzati.» Sentiva la gola così arida da riuscire a malapena a deglutire. «La mia partecipazione al progetto è estremamente circoscritta.» Dantes inarcò un sopracciglio. «Lei non mi sembra proprio il tipo.» «Quale tipo?» «Il tipo estremamente circoscritto.» Si studiavano a vicenda, muovendosi in cerchi come cani intorno a un osso. «L'Fbi mi aveva mandato un tipo noioso» continuò Dantes. Le dita tamburellavano sul tavolo. «La Rand, invece, una rossa con un pessimo atteggiamento.» «Ha intenzione di completare gli inventari con me o no?» Sylvia cambiò di nuovo posizione sulla sedia e il libretto dei test scivolò dal tavolo, cadendo sul pavimento con il rumore di uno schiaffo. «Quali sono le immagini di Goya che le sono rimaste maggiormente impresse?» le chiese Dantes. Senza respirare, Sylvia sostenne lo sguardo del detenuto, affascinata dalla sua intensità. «I demoni.»
«Non i pazzi?» Dantes tese la testa in avanti, abbassando le palpebre, come se, senza guardarla, percepisse chiaramente la sua vulnerabilità. «Oh, andiamo, lo ammetta, dottoressa Strange: lei sente una certa affinità con i pazzi.» Le ciglia scure nascosero gli occhi indagatori di Sylvia, mettendo in ombra un'acutezza inquieta e dando al viso un aspetto di comune gradevolezza. Fu quasi sul punto di scuotere la testa: era questo ciò che voleva, no?, mantenere un contatto, tenere il soggetto agganciato. Nella mente le passò il lampo di un'immagine: suo padre e una ragazzina che pescavano a bordo di un dinghy nell'Heron Lake. Devi dare un po' di lenza al pesce, Sylvie. Lascia andare la lenza finché non è ora di tirare su. «Goya dipingeva la cronaca del fanatismo e della superstizione del suo tempo.» «Goya dipinge la cronaca del nostro tempo.» Dantes tamburellò qualche altro colpetto nervoso sul tavolo. Lo sguardo era arrogante e freddo, ma nelle profondità di quegli occhi scintillava il tizzone di una passione indefinibile. Rabbia, odio... paura? Sylvia non era in grado di dare una definizione. Dantes corrugò la fronte; i muscoli intorno all'occhio illividito si contrassero in un tic debolissimo. «Coloro che detengono il potere, i membri delle classi privilegiate, non dovrebbero abusare della loro posizione o dei loro doveri di guida, né per commissione né per omissione. Se lo fanno, sono dei criminali comuni... o peggio, sono dei codardi.» Si ritrasse d'improvviso, concludendo la breve escursione nella retorica. «Non ha una grande opinione dei codardi.» «Lei sì?» «Li ha citati due volte nel giro di pochi minuti.» «Non mi piacciono neppure gli psicoanalisti.» Dantes sorrise. Sylvia tese una mano per strappare la fascetta che sigillava il libretto dei test. I primi due inventari che pensava di completare, il Millon Clinical Multiaxial e il Minnesota Multiphasic, richiedevano almeno cinque ore. Diede un'occhiata all'orologio. «Un appuntamento galante?» Sylvia incontrò lo sguardo del detenuto, vi lesse la derisione e afferrò la valigetta. «Mr Dantes, o io non me la sto cavando meglio dei miei colleghi, o lei non è interessato a questi inventari, oppure tutte e due le cose.» Si alzò in piedi. «Non sprechiamo altro tempo.» Dantes mostrò immediatamente i palmi delle mani: era un gesto di resa,
l'azione di un uomo solo. «Ha vinto lei» disse. Allungò un braccio in direzione del libretto e lo fece scivolare verso di sé. Afferrò la matita e con un cenno invitò Sylvia a sedersi di nuovo. Lei sbatté le palpebre come passando dal buio alla luce, disorientata. Si ricompose. Aveva mal di testa, i muscoli indolenziti e aveva bisogno di fare pipì... ma l'ultima cosa che avrebbe fatto era chiedere una pausa, con il rischio di ritrovarsi poi a mani vuote. Fuori, nel corridoio, risuonarono passi pesanti. I toni striduli di una lite penetrarono attraverso le pareti della stanza. Rimettendosi a sedere di fronte a Dantes, Sylvia disse: «Questa conversazione e i risultati del test non saranno confidenziali, ma i coordinatori del progetto faranno ogni sforzo per mantenere le trascrizioni riservate e disponibili solo ai partecipanti al...». Si irrigidì quando, d'improvviso, la mano di Dantes si poggiò sulla sua. «Pazzi e carcerati. Non siamo poi così male, eh?» sussurrò l'uomo. Liberandosi la mano, Sylvia sentì Dantes che l'osservava, avvertì la fame della sua curiosità. «E tu non li puoi salvare tutti, non è vero, Sylvia?» La voce di Dantes era morbida, seduttiva. Lei lo fissò, mentre dentro di sé sentiva un'altra voce. Dottoressa Strange, nonostante i membri di questa commissione non ritengano sussistere elementi concreti per accusarla di violazioni etiche in relazione alla morte di Mona Carpenter, dobbiamo tuttavia esprimere alcune serie preoccupazioni. Apparentemente lei si è attenuta agli standard della professione per quanto riguarda i meccanismi di salvaguardia contro il suicidio, ma, per quanto concerne il giudizio personale, lei avrebbe certo potuto fare di più, affidandosi meno all'intuizione e alla fortuna e più a un solido follow-up. Dantes la fissava, il viso atteggiato a studiata comprensione. Con voce carezzevole disse: «Raccontami di Mona Carpenter». Lo choc arrivò. Sylvia non disse niente. Si concentrò su un unico pensiero: so come gestire questa situazione, fa parte del mio lavoro. Dantes insistette: «Pillole e polsi tagliati... non lo trovi eccessivo?». A ogni parola il respiro accelerava, come se l'uomo si stesse eccitando. Sylvia pensò che, se l'avesse aggredita fisicamente, la situazione non sarebbe stata molto peggiore. Ma Dantes non aveva ancora finito. «Cos'hai provato nel sentirla morire?» domandò. Sylvia raccolse libri e registratore e gettò tutto nella valigetta. Vide i suoi occhiali da sole cadere sul pavimento. Il cuore le batteva all'impazza-
ta. Dantes si alzò in piedi. La sua presenza sembrò riempire la stanza, mentre sussurrava l'ultima domanda: «Che effetto ti fa sapere che avresti potuto salvarla?». Per un istante Sylvia pensò che sarebbe andato oltre la semplice aggressione verbale... ma Dantes aveva già avuto il sangue che voleva. Rimase in piedi immobile, bruciandola con lo sguardo. La dottoressa Strange conosceva il protocollo da seguire in caso di pazienti minacciosi o aggressivi: rimanere calmi, mantenere le distanze, creare una barriera. Bisognava sempre sapere dove trovare il pulsante antipanico. C'era già passata, ci sarebbe passata di nuovo in futuro. Ma niente di tutto questo sembrava avere importanza. Sentiva la scarica dell'adrenalina, ogni sinapsi del cervello intrappolata nel panico. «Tu, patetico figlio di puttana!» sibilò, scuotendosi d'improvviso. «Credi sul serio di essere migliore di qualsiasi sociopatico da due soldi?» Si voltò e con quattro passi arrivò alla porta. Picchiò con il pugno sul metallo. La porta si spalancò. Una guardia in uniforme la guardò stupito. «Già finito?» Sylvia si lasciò Dantes alle spalle prima ancora che la porta si richiudesse. 3 L'uomo è una fune tesa tra animale e Superuomo: una fune sopra un abisso. Un pericoloso attraversamento, un pericoloso viaggio, un pericoloso guardarsi indietro, un brivido e un'immobilità pericolosi. Friedrich Nietzsche Ore 9.55 Da un ufficio della sua residenza in Hollywood Hills, il professor Edmond Sweetheart guardò la psicologa che stava uscendo dalla saletta colloqui dell'Mdc. Nell'immagine catturata da una videocamera nascosta e trasmessa via satellite, la dottoressa Sylvia Strange sembrava scossa e turbata dall'aggressione verbale di Dantes, ma Sweetheart pensò che la donna doveva possedere una propria rozza energia, una vena pericolosa, visibile perfino sul
piccolo schermo. E quando la Strange aveva sussurrato quell'ultima frase, che non era stato possibile sentire ma chiaramente aggressiva, gli era dispiaciuto che l'angolazione della videocamera non gli avesse permesso di leggerle le labbra. Non era ancora del tutto sicuro di Sylvia Strange: era un elemento sconosciuto - una carica positiva o negativa - introdotto in quella particolare equazione chimica. Era un catalizzatore... e, nel caso di John Dantes, un catalizzatore era esattamente ciò di cui avevano bisogno. La Strange passò nel corridoio e la sua immagine scomparve dallo schermo non appena la porta le si richiuse alle spalle. A Sweetheart rimase da studiare solo il prigioniero, John Freeman Dantes. A sua volta, Dantes studiava Sweetheart. Lo faceva fissando l'occhio della telecamera nascosto nell'orologio appeso alla parete. Il detenuto rimaneva immobile, senza neppure sbattere le palpebre mentre i secondi passavano sommandosi in un minuto, poi in due. Fissava attraverso le lenti, attraverso la parete, quasi attraverso la città gli occhi neri di Sweetheart. Poi, finalmente, la bocca si piegò adagio in un sorriso. Dantes alzò la mano destra e mostrò il dito medio. Lo sguardo di Sweetheart rimase impassibile. Non cambiò posizione sul tatami. La bocca era bloccata in una linea rigida, ogni muscolo nel suo corpo di centoventi chili era in fiamme, ma il respiro si manteneva lento e regolare. Ogni inspirazione, ogni espirazione aiutava a placare i pensieri violenti. Nemmeno Dantes attenuò la concentrazione, o l'atteggiamento di sfida insito nella sua postura, neppure quando la porta sì spalancò e tre guardie entrarono nella stanza. La porta si richiuse sbattendo e la prima guardia diede uno spintone al prigioniero, facendolo barcollare. Contro ogni probabilità il detenuto resistette, rifiutandosi di cedere anche quando la seconda guardia sollevò un manganello di gomma. Con un unico colpo esperto, la guardia sembrò sfiorare appena le costole di Dantes. Il detenuto cadde sulle ginocchia, apparentemente sconfitto. Sweetheart osservava la scena dalla sua sala operativa. La sua espressione era calma, come i visi dei lottatori di sumo i cui ritratti decoravano le pareti. Lo sguardo non si staccava mai dal monitor. Il ronzio dei computer, il mormorio lontano del traffico in Sunset Boulevard, il fruscio dei bambù nel giardino, il ritmo del proprio respiro, si fondevano in un unico rumore bianco che neppure l'audio proveniente dall'Mdc era in grado di turbare.
Grazie ai miracoli della tecnologia, quelle immagini in diretta avrebbero potuto benissimo essere trasmesse da una distanza di seimila chilometri, invece che di soli sei. Adesso l'audio trasmetteva suoni di sforzi fisici e di dolore: grugniti e gemiti. Sweetheart osservava placido, inclinando forse il corpo di una frazione di centimetro. Nessuno in quella prigione stava alzando un solo dito: i rumori provenivano da John Dantes, che crollava sul pavimento, vomitando. Sweetheart studiò le reazioni cinetiche del detenuto. (Era così che pensava a Dantes in quei giorni: in astratto. Era più sicuro.) C'era qualcosa di anormale, di spastico in quei movimenti, quasi fossero stati il risultato di un attacco epilettico. Ma Sweetheart aveva letto i più recenti rapporti fisici e neurologici sul prigioniero, il quale, nonostante la vita carceraria, godeva di una salute pressoché perfetta. Il professore immagazzinò quest'ultima informazione nel suo personale, organico sistema di elaborazione dati per successivo recupero e valutazione. D'improvviso com'era cominciato, l'attacco terminò. Dantes si rialzò in piedi con l'aiuto delle guardie. Mentre il detenuto veniva fatto uscire dalla saletta colloqui - e dal campo visivo della videocamera - Sweetheart cambiò posizione sul tatami, rilassandosi quasi impercettibilmente. Bevve un sorso di tè verde da una tazza raku e poi premette un tasto su una minuscola tastiera. Il monitor reagì con una nuova immagine, fornita da una seconda videocamera all'Mdc. Sweetheart adesso stava osservando la guardia carceraria Deborah Florette, rannicchiata su una sedia all'interno di un ufficio nell'ala amministrativa del Metropolitan Detention Center. Non appena il professore regolò il volume dell'audio, un'incorporea voce maschile domandò: «Chi ti ha dato i soldi, Florette?». «Non so chi era» mormorò la donna, agitandosi a disagio. «Non l'avevo mai visto.» «Ma sei stata pagata per passare di nascosto qualcosa a Dantes. Cosa gli hai portato?» La bocca della donna era irrigidita in una linea ostinata. Scosse la testa e incrociò le braccia. Tutto il linguaggio del suo corpo esprimeva totale chiusura. «Come te la cavi in matematica, Florette?» Un uomo dai capelli rossi entrò nel campo visivo della telecamera, occupando quasi metà del monitor. Il detective Red Church si sedette sull'angolo della scrivania. «Te la
dovrai vedere con vent'anni di galera. Due decenni. Dieci più dieci dietro le sbarre.» In silenzio, la guardia carceraria Florette scosse la testa. «Andiamo, Deb» sospirò Church, guardandola con aria triste. «Una donna carina e in gamba come te, con due figli piccoli... Sarebbe un peccato e uno spreco. Vuoi che sia lo Stato a crescere i tuoi bambini?» «Erano foto» sussurrò Florette. Chinò la testa, quasi nascondendosi alla vista, in segno di resa. «Ecco tutto.» Rialzò lo sguardo, gli occhi neri rabbiosi. «Come le figurine del baseball, ecco tutto. Lui è una celebrità, giusto? Dantes è in una di quelle figurine dei serial killer. E quel tizio voleva solo qualche autografo.» La voce della donna si alzò a un livello quasi isterico. «Siamo a Hollywood, giusto? Senta, se proprio vuole prendersela con qualcuno, se la prenda con quelli che stampano quelle figurine.» «Già» disse Red Church con calma. «L'abbiamo trovata quando gli abbiamo perquisito la cella. Maledizione, Florette, voglio darti il beneficio del dubbio.» Si avvicinò alla donna e si chinò su di lei. «Dimmi che non sapevi che gli stavi passando un messaggio.» «Glielo giuro, le do la mia parola d'onore... Non lo sapevo!» Sweetheart abbassò lo sguardo sulle parole che il suo computer aveva ricevuto e stampato venti minuti prima: una copia del messaggio rinvenuto nella cella di Dantes mentre il detenuto era occupato con la dottoressa Strange. caro amico per me si va ne la città dolente per me si va ne l'etterno dolore sacrificare i figli dei pagani fino a quando nessun innocente possa più protestare primo cerchio spezzato restano ancora 8 cerchi eseguo fedelmente il tuo ordine M Una rabbia gelida rallentò la circolazione di Sweetheart. Le prime due righe, l'inizio del terzo canto della Commedia di Dante Alighieri, lo riportarono all'attentato del Getty e agli oscuri graffiti sul coperchio della bomba. Un bambino morto, sangue del suo sangue... "sacrificare i figli dei pa-
gani". Mancavano otto giorni all'anniversario dell'attentato... "restano ancora 8 cerchi". Dopo l'attentato al Getty, Sweetheart aveva guidato la caccia che aveva portato alla cattura di Dantes. Le prove erano state solide: un chip del detonatore riconducibile a un unico fabbricante e una documentazione relativa al trasporto che portavano diritti a Dantes. Era stato troppo facile? Il desiderio spasmodico di catturare Dantes lo aveva accecato al punto da non fargli considerare la possibilità di un complice? Se in effetti un complice esisteva, Sweetheart ne voleva la testa. L'Fbi stava sicuramente monitorando i movimenti della psicologa, la dottoressa Strange. La donna aveva superato il protocollo di sicurezza del Progetto profili e le sue credenziali sembravano ineccepibili, ma la scelta del momento della visita a Dantes di sicuro interessava molto i federali. Sweetheart riteneva che l'avrebbero fatta seguire da un agente almeno per le successive ventiquattr'ore. Il professore aveva comunque un suo modo per controllare i soggetti umani. Si piazzò davanti un altro monitor, uno schermo piatto fissato direttamente alla parete bianca. Batté sulla tastiera una sequenza di ricerca relativa a "Strange, Sylvia". Il computer sembrò sbattere le sue palpebre elettroniche, flirtando con le offerte dei dati che lampeggiavano sullo schermo. Nel giro di quarantacinque secondi, Sweetheart stava già studiando le informazioni del Multiplex prOfiles Systems AnalysIs Kit. Mosaik, la sua creatura, era specializzato nell'elaborazione di profili completi a più livelli, basati su dati ufficiali e informazioni di intelligence. Il professore diede una rapida occhiata agli ormai familiari dati biografici che comprendevano informazioni mediche, accademiche, professionali e legali, nonché la storia personale del soggetto. Altezza: m 1.75; peso: kg 64; occhi: castani; capelli: castani; carnagione: olivastra; cicatrici: occhio sinistro, mano sinistra; tatuaggi: nessuno; nei: spalla destra, seno destro Professione: psicologa legale Stato civile: divorziata LINK: relazioni personali LINK: storia, sessuale Discendenza: irlandese, italiana
Ricoveri ospedalieri generici: 1977, tonsillectomia Ricoveri ospedalieri psichiatrici: 1981, Los Angeles, California LINK: valutazioni psichiatriche Il flusso dei dati sembrava infinito; documentava gli ampi studi e le approfondite ricerche della Strange sulle carceri, i disturbi affettivi, la psicopatologia; forniva informazioni sulla figlia adottiva che era stata salvata da un barrio sul confine tra il Messico e il Texas, sulla relazione della Strange con uno psichiatra poi deceduto per cancro, sul suo fidanzamento con un investigatore della polizia di Stato del New Mexico, su un remoto matrimonio dalla durata così breve da essere quasi irrilevante, sul rapporto incerto con la madre, sul padre, che aveva abbandonato moglie e figlia moltissimi anni prima. Sweetheart diede un ordine verbale a Mosaik e sul monitor comparve una nuova schermata: Padre: Strange, Daniel, Danny; nato 1940, Colorado Springs, Colorado NOTE: persona scomparsa LINK: Strange, D., servizio militare nell'esercito LINK: addestramento CLASSIFICATO LINK. Vietnam, Cambogia LINK: Strange, D., prigioniero di guerra LINK: operazioni in incognito; operazioni speciali LINK: Cia LINK: Strange, D., persona scomparsa LINK: ricerca globale, status attuale CLASSIFICATO Sweetheart stava pescando alla cieca. Fissando lo schermo, calcolava quali informazioni potessero essergli più utili. Sapeva che Sylvia stava cercando di rintracciare suo padre e che aveva assunto un investigatore privato di nome Joshua Harold. Era addirittura arrivata al punto di andare negli obitori per eliminare la possibilità che un qualche cadavere sconosciuto fosse Daniel Strange. Con un unico comando Sweetheart poteva richiamare l'intero file... Fece scorrere schermata dopo schermata, ignorando le informazioni sul
Dna e le impronte vocali, escludendo per il momento l'archivio video e quello fotografico, le campionature linguistiche e i rilevamenti di spostamento tramite Gis, il Geographic Information System. Tese una mano verso una ciotola di ceramica e scelse un candito alla prugna. Il basso ronzio elettronico faceva da colonna sonora ai suoi pensieri. Batté sulla tastiera un altro nome: "Carpenter, Mona Suzanne". Aggiunse i dati supplementari. Rapporto: cliente. Status: deceduta. Diede un ordine verbale. Mentre nuove informazioni riempivano lo schermo, Sweetheart pensò alla dottoressa Sylvia Strange, il catalizzatore. Era interessante... il rapporto tra Strange e Dantes aveva appena preso una piega inaspettata: il suicidio. Quello della madre di lui. Quello della cliente di lei. Questo morboso punto di contatto tra Dantes e Strange rendeva la dottoressa preziosa. La rendeva anche vulnerabile. Specialmente se c'era un altro dinamitardo in libertà nelle strade di Los Angeles. Ore 10.09 Sylvia era rannicchiata all'interno dell'abitacolo in pelle della Lincoln e cercava di far durare il più a lungo possibile ciò che restava della sigaretta. Dieci minuti prima era uscita dal grembo artificiale dell'Mdc nel sole abbagliante di Los Angeles. Semiaccecata, e consapevole soltanto del cartello che indicava il parcheggio di fianco al grande edificio di cemento davanti a sé, aveva attraversato Alameda, un ampio viale sorprendentemente privo di traffico. Il sole le aveva aggredito gli occhi già feriti e gonfi per lo stress e i farmaci. E per la paura. Dantes le aveva fatto paura. Era stato quasi piacevole... un esilio forzato da un mondo privo di sensazioni. Esalò il fumo, studiando la sigaretta che stringeva tra le dita sottili. Era consumata quasi fino al filtro. Sylvia aprì la portiera, gettò fuori il mozzicone, richiuse e mise la sicura. Cercando di scuotersi di dosso la paura e una sensazione fugace di disgrazia imminente, girò la chiave nell'accensione. Il motore si svegliò con un ruggito. Seguì la I-10 ovest finché la strada non andò a scontrarsi con l'oceano. Il Pacifico, che brillava di un blu simile a inchiostro, si allungava e rotolava scagliando il proprio peso contro l'ampia striscia di sabbia della spiaggia. Con Missy Elliott che dalla radio cantava a proposito di Washington, At-
lanta e Los Angeles, Sylvia osservò il magnetismo lunare animare la marea. Il traffico era imbottigliato per due isolati davanti all'accesso illuminato da luci al neon del Santa Monica Pier. Avanzando lentamente verso l'incrocio e poi voltando verso nord in Ocean Avenue, Sylvia colse una rapida visione del ristorante dove aveva appuntamento con Leo. Il Lobster, una struttura da spiaggia a forma di scatola e di un bianco accecante, risaltava come una mascella squadrata e sporgente sul suo collo di palafitte. Uno striscione annunciava concerti sul molo tutti i giovedì sera. Per la settimana seguente erano in programma vecchi classici dei Velvet Underground. Gente che faceva jogging, gente che prendeva il sole, turisti e passanti condividevano la fetta di verde nota come Palisades Park. Passando davanti alla mole incombente in falso stile déco dello Shangri La Hotel, Sylvia cercò di chiamare con il cellulare il suo fidanzato in New Mexico. Matt England non rispose, ma la sua segreteria telefonica riuscì a interromperla proprio mentre gli stava dicendo che lo amava. Sylvia lasciò un messaggio anche per Leo Carreras, spostando il loro incontro alle tre. Gettò il cellulare sul sedile del passeggero, superò Wilshire e Montana e infine voltò a destra in Marguerita Avenue. Parcheggiò la Lincoln davanti alla proprietà di Leo e scese dall'auto nella brezza profumata dell'oceano. Portando con sé la valigetta, la sacca porta-abiti e il borsone da viaggio, attraversò il prato curatissimo e raggiunse uno dei quattro minuscoli bungalow in stile anni Trenta. L'alto condominio in vetro e acciaio di Leo occupava il lato sud della grande proprietà. Carreras aveva affittato i cottage a personaggi tipici di Los Angeles: un creativo della televisione, un attore caratterista con un debole per il whisky irlandese, un cameriere/cantante. L'ultimo bungalow, il numero 4, era riservato ai colleghi di Leo di passaggio in città. Nel corso degli ultimi due anni Sylvia aveva alloggiato lì diverse volte in occasione di consulenze a Los Angeles. La chiave era sotto il solito vaso di ceramica, traboccante di gelsomini che fiorivano di notte. All'interno la casa odorava di legno vecchio, sale - un accenno di oceano - e profumo. Strange localizzò immediatamente l'origine di quella fragranza dolce: un grosso vaso di porcellana pieno di orchidee bianche, gialle e lavanda ingentiliva una scrivania antica. Sylvia provò per un attimo una sensazione di piacere misto a disagio, sapendo che Leo aveva scelto quei fiori espressamente per lei. Staccando un bocciolo delicato, se lo premette sulla guancia. Contro la pelle i petali sembravano di seta.
Il bungalow aveva una semplice pianta rettangolare: cucina e minuscola zona pranzo, soggiorno, camera da letto, bagno e un salottino utilizzato come studio, il tutto intorno a un ingresso centrale. Dopo aver tirato su le veneziane del soggiorno, Sylvia si spostò in camera da letto, gettò la borsa da viaggio sul copriletto bianco e tirò fuori un paio di short, una maglietta, scarpette da corsa e il berretto azzurro dei Dodgers. Si tolse la divisa da lavoro, che portava dalle quattro di quella mattina, e si cambiò rapidamente, indossando la tenuta da jogging. Andò in cucina, bevve un bicchiere d'acqua di rubinetto e uscì. Arrivata al centro della soprelevata che attraversava la Highway 1 e consentiva l'accesso dal parco alla spiaggia, sentì la mancanza dei suoi occhiali da sole. Li aveva lasciati sul pavimento della saletta colloqui dell'Mdc. Bene, pensò, lasciamo che Dantes aggiunga un altro pezzo alla sua collezione di trofei, visto che si sta sbranando uno strizzacervelli dopo l'altro. Corse per parecchio in direzione nord, parallela alla spiaggia, a pochi centimetri dall'acqua schiumosa e salata che lambiva la sabbia color crema. Ogni tanto passava accanto ad altri jogger, a vagabondi da spiaggia e ai fuoristrada gialli di proprietà dello Stato della California. Al largo, a qualche centinaio di metri dalla riva, gli appassionati di surf andavano su e giù nell'acqua con le foche, ma entrambi avevano a disposizione solo onde molto modeste. Dopo un po', Sylvia sentì sciogliersi i muscoli; al sesto chilometro si sentì ripulita dalla nube chimica indotta dalla dose di benzodiazepina del mattino. Accelerò il passo, sudata; il respiro era veloce, ma regolare. Sapeva che il sole che le riscaldava la pelle avrebbe dato alla sua carnagione olivastra una leggera sfumatura dorata. Fissò lo sguardo sulla piccola penisola irregolare che vedeva davanti a sé: il punto dove avrebbe fatto dietrofront. Sentiva il tempo evaporare sotto le gambe e le sembrò di raggiungere quelle rocce vulcaniche non in trenta minuti, ma in uno soltanto. Passò dalla corsa a una camminata rapida per eliminare un crampo alla caviglia sinistra e decise di fare una pausa per riprendere fiato prima del ritorno. La formazione geologica delle rocce le ricordò che si trovava sulla piattaforma continentale, sopra una terra giovane e tumultuosa. Quello era il punto di incontro di due zolle tettoniche che, macinando e masticando la terra sotto i suoi piedi, stavano lacerando tutta la California con linee di faglia. Mentre tornava verso il molo, lasciò che i pensieri fluissero in sintonia con il movimento delle sue gambe. L'incontro con John Dantes era stato un fallimento: nessun test, nessun risultato, niente da valutare o misurare.
L'indomani sarebbe tornata al suo deserto; poteva prendere il primo volo della Southwest oppure, nel caso i voli fossero stati completi, aspettare in lista d'attesa. Voleva andarsene da Los Angeles. La metropoli rappresentava il passato. La città non mancava mai di afferrarla nella sua morsa, quando ci tornava; Los Angeles suscitava ricordi di un'altra epoca, di un'altra vita, del periodo in cui lei era una grezza, pericolosa ombra di se stessa. Los Angeles, la città dell'Id, sapeva turbare e sedurre in modi pericolosi. Sylvia sapeva che LA alimentava la sua ostinazione, aumentava i suoi appetiti, rivitalizzava le sue ambizioni. Risvegliava fantasie e resuscitava incubi. Inciampò in un ciuffo di alghe essiccate. Riprendendo l'equilibrio, spinse a fondo per lo sprint finale. Al diavolo, comunque. Il balletto del mattino con John Dantes aveva gettato acqua fredda sui suoi obiettivi carrieristici da grande città. Lui l'aveva battuta psicologicamente e lei non se l'era cavata meglio dei suoi predecessori. Questo risolveva la questione della sua partecipazione al Progetto profili dinamitardi. Passò di nuovo a una camminata veloce, respirando a fondo. I polmoni le ricordarono che stava fumando troppo. Quella piccola fitta dolorosa le diede un piacere perverso. Con un'occhiata all'orologio, si rese conto di avere novanta minuti per tornare al bungalow, fare qualche telefonata, farsi una doccia, vestirsi e andare al ristorante. Ore 15.20 «Con tre strike sei fuori...» Sylvia infilzò la grossa oliva verde, ingrandita attraverso il fondo del bicchiere di martini, e poi se l'infilò tra le labbra. Finalmente rialzò lo sguardo su Leo Carreras, colpita dalla sua alta, snella eleganza e dal viso attraente. Dovrebbe esserci una legge... Leo la stava osservando con attenzione, cercando di capire il suo umore. Scivolò nel séparé e si sedette di fronte a lei, sull'altro lato del piccolo tavolo. «Scusa il ritardo.» Carreras diede un'occhiata al Rolex che aveva al polso, poi si guardò intorno nel ristorante. Il livello sonoro era pari al ronzio di un alveare. «Un consulto dell'ultimo minuto... una grossa estorsione, vittima il Kraill Medical. Mi perdoni?» «Assolutamente no.»
Leo sfiorò delicatamente l'audiocassetta al centro del tavolo. «Presumo che la seduta con Dantes non sia stata del tutto soddisfacente.» Sylvia sbuffò. «È stata una schifezza. Ma lascio giudicare a te: ho registrato tutto, tranne gli ultimi sessanta secondi.» «Ed era proprio quella la parte interessante, giusto?» Sylvia gli lanciò un'occhiata strana. «Giusto.» Con mani incerte, estrasse una sigaretta dal pacchetto. Leo gliela strappò immediatamente dalle dita. «Ci farai arrestare, se provi a fumare qui dentro.» «Un reato capitale» disse Sylvia con calma. Infilando la cassetta nel taschino della camicia, Leo si rivolse al cameriere che era comparso accanto al tavolo. «Vorremmo una grande ciotola della vostra zuppa di pesce. Poi il tonno, poco cotto, un'insalata della casa con aceto balsamico e una bottiglia di acqua minerale gassata.» Guardò la sua ospite: «Succo di pomodoro?». Sylvia si sentiva già girare la testa per il martini, ma non riuscì a resistere alle lusinghe dell'ostinazione. Picchiettò il dito sullo stelo del bicchiere. «Un altro di questi, per favore.» Leo scosse la testa rivolto al cameriere. «Facciamo un'acqua minerale e un succo di pomodoro.» Bevve un sorso dal bicchiere d'acqua di Sylvia, prendendo tempo finché l'aspirante attore in grembiule bianco inamidato non si fu allontanato. «Sylvia... parlami.» Lei posò il mento sulle mani e i gomiti sul tavolo. «Perché mi hai chiesto di partecipare al progetto, Leo? Hai sprecato il mio tempo e i tuoi fondi.» Carreras la guardò sospettoso, incrociando le braccia sul petto e appoggiandosi allo schienale. «Okay, sputa il rospo.» «So che Peter Marshall è un eccellente psicologo.» Sylvia si scostò i capelli scuri dalla spalla, sistemandosi le ciocche dietro l'orecchio. «E lo stesso vale per Christine Tanner.» «Quindi?» «Quindi...» Sylvia allargò le mani, i palmi in alto, facendo quasi cadere il bicchiere d'acqua. Sospirò e abbassò la voce: «Oggi pomeriggio ho fatto un po' di compiti a casa. Sia Peter Marshall che Christine Tanner hanno tentato di sottoporre Dantes ai test. Marshall è stato ridicolizzato, aggredito verbalmente e minacciato. La Tanner ha resistito due minuti e poi se n'è andata».
«È vero» ammise Leo, calmo e fresco nel suo vestito estivo grigio. «Tu sapevi che non saresti stata l'unica incaricata delle valutazioni.» Si strinse nelle spalle. «Christine lavora per la Rand; è competente, ma è anche troppo inquadrata, troppo rigida per i gusti di Dantes. Peter Marshall passa la maggior parte dell'anno in Virginia, nei pressi di Quantico.» «È tutto quello che hai da dire?» «No. Voglio sapere tutto di Dantes. Le tue impressioni.» Fece scivolare il bicchiere vuoto di martini al centro della tovaglia bianca; tra le sue dita sottili e abbronzate lo stelo pareva fragilissimo. «Osservazioni comportamentali, reazioni e presentazione... All'inizio ha collaborato? Era ostile o funzionale? Che cosa, se c'è stato qualcosa, lo ha provocato? Tutto è importante ai fini del progetto. Ho bisogno delle tue intuizioni su tutto questo.» «Ti manderò per fax un resoconto da Santa Fe.» Sylvia scrollò le spalle, passando un dito intorno al bordo del bicchiere. «Io non ho intuizioni.» «Tu non hai cosa?» ripeté Leo, cercando di mantenere il tono intimo. «Senti, tu eri la scelta giusta per Dantes. Ero sinceramente convinto che saresti riuscita dove Tanner e Marshall hanno fallito. Non è andata così: peccato. Ma adesso ho bisogno che tu parli con me. Tutte quelle informazioni sono ancora determinanti.» «Tu vuoi la mia opinione professionale su Dantes.» La voce le tremava. «È uno stronzo arrogante, freddo e manipolatore, e io gli ho detto sostanzialmente di andarsene all'inferno. Questo non c'è sul nastro.» Leo aprì la bocca e la richiuse immediatamente quando comparve il cameriere con il primo. «Mangia» ordinò con calma. «Andiamocene da qui.» «Dopo che avrai messo qualcosa nello stomaco.» Sylvia fece per protestare, ma Leo la ignorò e, dopo un attimo, lei cedette. Mentre Carreras l'osservava, si sforzò di mandare giù qualche cucchiaiata. Si rendeva conto che la zuppa era buona, ma non ne sentiva quasi il sapore. Fu lo stesso con il tonno: nonostante tutte le spezie delicate e l'abilità dello chef, quello che stava mangiando avrebbe potuto essere carta. Ma Leo aveva ragione: doveva mangiare. Dopo dieci minuti si sentì sazia e con la mente più chiara. Vuotò il bicchiere d'acqua e incontrò lo sguardo di Carreras. «Adesso possiamo andare?» Leo lasciò una banconota da cinquanta dollari sul tavolo, si alzò in piedi e si rimise in tasca l'ordinata mazzetta di banconote trattenute da un ferma-
glio d'argento. Si gettò il soprabito sulla spalla; la seta grezza color crema frusciò morbida. Sylvia lo seguì, raccogliendo il suo berretto da baseball e ricordandosi all'ultimo momento di prendere anche la giacca. Leo le premette con decisione l'indice sulla spina dorsale, cercando di pilotarla verso l'uscita. Quando vide che lei non si muoveva, la guardò curioso e disse: «Fammi capire. Cosa credi che stia succedendo?». «Sei settimane fa mi hai telefonato per sentire se ero disposta a sottoporre Dantes ai test. Mi hai detto che avevi la sensazione che lui avrebbe reagito positivamente con me.» «È vero.» Annuendo, Leo si mise gli occhiali da sole dalla montatura d'oro. Spalancò la porta e l'aria dell'oceano si abbatté all'interno come un'ondata. «Dove vuoi arrivare?» «Mi hai anche detto che all'inizio Dantes non era d'accordo sul mio coinvolgimento. Continuava a prendere tempo e poi un giorno, di colpo, ha cambiato idea.» Seguì Leo all'esterno. «Ci ha messo circa due settimane per decidersi. Che importanza ha?» «Ha importanza.» Sylvia toccò il braccio del collega. «Ho controllato i miei appunti, Leo. Dantes ha cambiato idea tre giorni dopo il suicidio della mia cliente.» «Cosa ti ha detto, oggi?» Lo sguardo di Carreras era duro. «Conosceva tutti i dettagli, sapeva della commissione d'inchiesta, della telefonata, del metodo...» Si sforzò di controllare la voce. «Oggi pomeriggio ho telefonato al suo avvocato e sono riuscita a sapere qualcosa da una delle sue assistenti, è lei che svolge le indagini sui potenziali strizzacervelli.» Scosse la testa. «Leo, Dantes ha fatto fare un controllo completo su di me. Ha puntato diritto alla giugulare.» «Mi dispiace, Sylvia. Non lo sapevo.» «Ehi, non è colpa tua. Tu mi avevi avvertito che Dantes è un bravo ragazzo.» Si avviò a passo veloce. Leo la lasciò andare, poi la seguì, accelerando il passo per raggiungerla. Separati da circa cinque metri, passarono davanti alla giostra dei bambini e ai negozi di articoli da regalo. La zona era affollata di turisti, tipi da spiaggia e tizi con taglio di capelli militare. Il molo attirava folle di visitatori diversi fin dal primo decennio del 1900, quando navi a bordo delle quali si giocava d'azzardo si ancoravano al largo e i ricchi non vedevano l'ora di essere trasportati al di là del confine legale per perdere montagne di denaro.
Sylvia si fermò e si appoggiò alla ringhiera. Quindici metri sotto di lei, il mare tormentava frenetico i massicci piloni incrostati di cirripedi. Sylvia osservò un uomo dalla pelle scura estrarre dall'acqua una razza appena pescata. Le ali d'angelo dell'animale si afflosciarono pateticamente. Leo trovò la collega appena superate le giostre al centro del molo. C'era un'espressione di sfinimento nella postura della donna e la voce si sentiva appena sopra il rumore delle onde. «L'acqua è stupenda.» Sylvia guardava in basso, fissando le acque inquiete del Pacifico, mentre i capelli le svolazzavano intorno al viso. «Solo io, le foche e gli squali.» Per quasi un minuto Leo le rimase accanto senza parlare. Poi disse: «Mi stai spaventando». «Sto spaventando anche me.» «Sylvia...» Fece per toccarla, ma lei si ritrasse come se quelle dita avessero potuto scottarla e si avviò a passo veloce verso l'estremità opposta del molo. Quando Leo la raggiunse di nuovo, era un'altra donna: composta, distaccata, con la piena padronanza di sé. Aveva appoggiato le braccia sulla ringhiera e, con il vento che ora le soffiava via i capelli dal viso, sembrava più un'adolescente inquieta che una donna di trentacinque anni. «Prendo il primo volo per Santa Fe appena posso cambiare la prenotazione.» «Come sta Serena?» La voce di Leo era neutra. «E Matt?» «Bene. Stanno bene tutti e due» rispose lei, troppo seccamente. «Non c'è bisogno che tu scappi via.» Lo sguardo di Carreras era fermo, insistente. «Ti ho già vista così in passato.» «Mi hai vista come? Fuori controllo? È così che mi hai vista?» Scosse la testa. «Non posso fidarmi di me stessa» sussurrò. «Non so cosa dire ai miei clienti, ai miei pazienti. Scappo in New Mexico, ma è l'ultimo posto dove vorrei essere.» Chinò le spalle in avanti e prese un respiro profondo. «Non posso fidarmi dei miei istinti.» Leo le posò le mani sulle spalle. «Deve trattarsi di qualcosa di più della perdita di una paziente.» Sylvia si voltò, gli occhi scuri di rabbia a malapena controllata. «Lo fai sembrare come se la paziente se ne fosse andata in vacanza o avesse cambiato terapeuta. Ma lei si è uccisa, Leo. Sotto la mia responsabilità. Stava a me decidere e io le ho permesso di lasciare l'ospedale.» «Non è stata colpa tua.»
«Vallo a dire a suo figlio.» Sylvia gli voltò le spalle e prese a camminare in fretta. Leo la seguì finché lei si fermò al centro della passeggiata. La gente li sfiorava in un flusso continuo di pedoni. Dal battello a ruota arrivava musica a tutto volume. Il sole sbirciava da dietro una nuvola grigia e il calore soffocava il molo. «Vuoi le mie intuizione su Dantes?» domandò Sylvia. «Sta giocando con i federali, con te e con me: non si sottoporrà mai a quei test del cazzo. E hai ragione, Leo. Si tratta di qualcosa di più della perdita di una paziente: si tratta di questa città. È piena di fantasmi.» Riprese a camminare, indicandosi il cuore con un dito. «Oggi, in quella stanza con John Dantes, non ho sentito niente. Nessun contatto di nessun tipo. Per quello che mi riguarda, Dantes potrebbe essere benissimo un morto vivente.» Si voltò e scomparve nella folla. La bugia resse per tutta la strada fino al bungalow. Sylvia entrò e salì direttamente la stretta scala di legno che portava alla terrazza sul tetto, da dove poteva cogliere un'ultima visione del sole sull'oceano. Distesa su una sdraio a righe bianche e verdi, chiuse gli occhi. In realtà, aveva avvertito un tramite con John Dantes. Erano entrati in contatto attraverso la morte, attraverso la perdita, attraverso l'abbandono. Sylvia aveva percepito anche la fame voyeuristica dell'uomo. Cadde quasi subito in un sonno profondo e inquieto. Il fruscio morbido delle palme scandiva il passare del tempo. L'aria densa dell'oceano l'avvolgeva nel suo abbraccio umido. Si svegliò qualche ora dopo, infreddolita e turbata dai sogni: immagini fluttuanti di suicidi, di un fantasma con un sorriso triste. Mentre scendeva la scala per andare in camera da letto, si bloccò di colpo. Un frammento di sogno si delineò con chiarezza: il viso della donna morta non era quello di Mona Carpenter. Era il suo. Deviò verso il bagno, aprì la lampo della busta dei cosmetici con mani tremanti e buttò giù un'altra pillola azzurra. Mentre si voltava per uscire, colse un bagliore argenteo accanto a uno dei piedini ad artiglio della vasca da bagno. Si chinò e strinse le dita intorno a un cerchietto, un braccialetto d'argento; sul metallo erano incise piccole croci delicate. Un talismano. C'era conforto nel pensiero della magia. Infilò il cerchietto d'argento al polso. In attesa del sonno, si trastullò con l'idea di cominciare a lavorare al rapporto su Dantes, ma aveva lasciato il computer portatile nel bagagliaio del-
la Lincoln. Così se ne andò a letto con L'Inferno di Dantes: la Città degli Angeli nel ventunesimo secolo. Gli occhi le si chiusero e la mente passò a frequenze diverse, fino ad arrivare a una conversazione telefonica che si era svolta due settimane prima. "Sono John Dantes." Una conclusione perfetta per il primo giorno di aprile. "Mi sta chiamando da Terminal Island?" Ma Sylvia pone la domanda solo per rompere il silenzio; sa che Dantes è rinchiuso nella struttura federale su quella roccia spazzata dal vento nel porto di Los Angeles. E, se anche in qualche modo se ne fosse dimenticata, una monocorde voce registrata gliel'ha ricordato nel momento stesso in cui ha risposto al telefono. Sylvia non ha avuto dubbi sul fatto che avrebbe rifiutato la chiamata... Solo che il suo dito ha premuto il tasto uno. Per accettare. Ha portato il cordless e il suo bicchiere colmo di vino fuori casa, nell'oscurità di quella serata d'inizio primavera a Santa Fe. Devono esserci milioni di stelle sparse sul tappeto di velluto del cielo. La brezza è stranamente calda e porta con sé l'odore inconfondibile della pioggia nel deserto. A piedi nudi si avvicina al bordo della piattaforma di legno di sequoia. Anche se gli occhi stanno fissando il crinale in ombra che delimita il confine nord della sua proprietà, i pensieri stanno viaggiando verso ovest, a mille chilometri di distanza. "Come ha avuto il mio numero?" "Il mio avvocato." Sylvia è stata avvertita: è abitudine di Dantes cercare un contatto preliminare con tutti i suoi visitatori. Gli dice: "Ho solo qualche minuto e...". "E non può discutere la procedura dei test" conclude Dantes. "Non la tratterrò a lungo." Sylvia non risponde; sta pensando di telefonare a Leo per rifiutare l'incarico, per dirgli che ha cambiato idea. È ancora scioccata per il suicidio della sua cliente. Forse mille chilometri è la distanza minima che vuole mettere fra lei e John Dantes. Un'improvvisa punta di durezza sottolinea le parole del detenuto: "Possiamo essere interrotti. Un segnale acustico avvisa che restano solo trenta secondi". "So come funziona" dice Sylvia. Un po' di vino le cola lungo il mento. "Bene." Dantes prende un respiro poi espira, rilasciando la tensione. Ha già imparato ciò che ogni essere umano impara quando viene monitorato
ventiquattr'ore al giorno: come comunicare in un sottotesto, come parlare al di là delle parole. È responsabilità di chi ascolta imparare a tradurre questo linguaggio segreto. "Mi trasferiranno in centro" dice Dantes. "È tutto ultra-segreto, ma credo che mi sveglieranno alle due di mattina per l'elicottero." C'è una traccia di canzonatura nella voce. Sylvia sa che dovrebbe riattaccare. Invece beve un altro sorso di vino e dice: "Io non vado da nessuna parte". E lui ride. Nel silenzio che segue, Sylvia si siede sul bordo della piattaforma e preme le dita nude dei piedi nel terreno umido del giardino. Dentro casa, attraverso la finestra della cucina, vede il suo amante, Matt England, e la propria figlia adottiva undicenne, Serena, che preparano la cena. L'eco delle risate e il profumo di spezie aleggiano sulle correnti buie della sera. D'improvviso, Sylvia si sente grata per la sua libertà. E si sente molto sola. Un mese prima - se questa conversazione si fosse svolta allora - sarebbe entrata in casa per godersi una buona cena, si sarebbe unita alle risate e, dopo che Serena se ne fosse andata a dormire, avrebbe fatto l'amore con Matt. Ma avevano smesso di farlo subito dopo la morte di Mona Carpenter. "Lei conosce la città?" domanda Dantes. Naturalmente sta parlando di Los Angeles. "Abbastanza" risponde Sylvia, cauta. Sa che il suono della sua voce sta viaggiando verso un uomo chiuso in una prigione di cemento. Massima sicurezza. Rinchiuso in cella per ventitré ore al giorno. Forse ha una piccola finestra da cui vede l'oceano, più probabilmente il panorama del cortile asfaltato del carcere. Dantes ha un mucchio di tempo per pensare ai suoi crimini più recenti, alle sue ultime vittime: una giovane donna - un'insegnante di talento - e un bambino. Entrambi uccisi. Jason Redding aveva l'età di Serena. "La lettura dell'Inferno di Dantes è indispensabile" dichiara il detenuto. È all'altezza della sua fama di manipolatore. Sylvia gli dice la verità: "L'ho letto quando è uscito". Beve ciò che resta del vino. Per un momento si sente girare la testa. "Ho una domanda per lei." "Fantastico." Però ha esitato. "La morte di sua madre è stata ovviamente un fatto traumatico e lei ha scritto che ha avuto un'influenza determinante sulla sua vita. Però non ha mai scritto di..."
"Avevo nove anni" l'interrompe Dantes. "L'ho guardata nuotare oltre il frangiflutti di Santa Monica. Non è più tornata indietro. Fine della storia." In sottofondo, una voce rabbiosa e autoritaria sta ordinando a un detenuto: "Mani dietro la schiena, mani dietro la schiena. Metti le mani dietro la schiena!". "Adesso ho io una domanda per lei" riprende Dantes. "Il giorno in cui mia madre mi ha lasciato, io l'ho sostituita. Con chi, dottoressa Strange? Con che cosa?" Una sequenza di clic elettronici disturba la comunicazione. A Sylvia occorre un momento per capire che si tratta dell'avviso dei trenta secondi. Inconsciamente stringe la mano intorno al telefono, come se muscoli e tendini potessero impedire l'interruzione. "... resterà forse sorpresa dai cambiamenti di Los Angeles, da tutte quelle ristrutturazioni. Io la definisco 'distrutturazione'." Dantes cambia tono, sottolineando il saluto con ironia: "Il colloquio è confermato. A proposito, felice primo d'aprile". E d'improvviso non c'è più. Dietro di lui, solo i sussurri spettrali di donne e bambini morti. Sylvia rimane sulla piattaforma di legno, rabbrividendo nella sera del deserto finché il tocco di una mano non la riporta alla realtà. Come svegliandosi da un sonno profondo, alza lo sguardo sul bel viso di Serena, la sua figlia adottiva. Sente una voce dolce che le chiede: "Perché sei triste?". 4 Così discesi del cerchio prunaio giù nel secondo, che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia; essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata vede qual loco d'inferno è da essa... Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto V
Ore 23.35 In questo infernale labirinto sotterraneo, l'uomo ascolta il linguaggio primitivo di uomini dimenticati. Qui la terra ha un odore umido e metallico come di sangue, e il calore, che dalla superficie del mondo filtra verso il basso attraverso bocche di ventilazione e grate e fessure, è opprimente. Qui c'è una strana umidità, prodotta dal vapore e dalle continue perdite di migliaia di arterie arrugginite. C'è il cancro dentro questo corpo, sotto la pelle di questa città voluttuosa e schizoide che ha preso il suo nome dagli angeli. L'uomo si trova a circa cinque metri sotto terra; sotto otto centimetri di asfalto, quasi trenta di cemento grezzo e uno strato di terra imbevuta di prodotti chimici; sotto una serie apparentemente infinita di contenitori zeppi di cavi che alimentano telefoni, elettricità, illuminazione stradale, televisioni via cavo e allarmi antincendio. Sulla stradina sopra di lui arde un falò acceso dentro un bidone; i riflessi del fuoco colano attraverso una grata e gli danzano capricciosi sotto i piedi. Le voci spettrali, isteriche e avvinazzate, scendono giù con la luce per tenergli compagnia. Lui è intrappolato nel buio, in questo tunnel di tre metri per tre e mezzo, al centro di una vasta rete sotterranea di arterie e ossa urbane. È imprigionato negli strati di tubature del gas e dell'acqua, dell'elettricità e del riscaldamento. Sotto di lui, l'enorme sistema fognario scende ancora, verso un altro mondo sotterraneo, le volte e i tunnel della metropolitana attraversano centinaia di chilometri quadrati e le vecchie gallerie dell'acquedotto perdono acqua preziosa nelle antiche condutture. Solo il demonio sa quali altri tesori e quali malvagità siano stati sepolti durante la vita della città. Ma lui è qui per trovare un uomo alto e scheletrico, una creatura senza casa che in questo mondo sotterraneo è conosciuto come "il Papa" a causa di una sua precedente, oscura esistenza da prete. Di giorno il Papa vaga in superficie; di notte predica in questa cattedrale umida e buia a una congregazione di gente emarginata e dannata. Si dice che la sua conoscenza degli angoli, dei tunnel e dei nascondigli sia straordinaria. Nel corso degli ultimi mesi, durante tutta la dettagliata preparazione, queste conoscenze del Papa si sono dimostrate preoccupanti. Bisogna occuparsene immediatamente. Io sono Mole, una talpa che, annusando cieca, attraversa l'inferno. Io sono M. Il pensiero gli penetra nella coscienza. È il buio ciò che lui cerca... no, brama... ed è il buio ciò di cui ha paura.
Sono i mormorii spettrali, la compagnia di uomini come lui, uomini che hanno varcato il confine. Di sicuro questo posto è tortuoso come qualsiasi inferno abbia mai immaginato. M abbassa lo sguardo sull'uomo disteso scompostamente a terra che sembra morto; da un braccio pieno di lividi e croste spunta ancora una siringa vuota. Chinandosi, M gli sussurra: «Sei già morto?». Sebbene non riceva risposta, e non se ne aspetti nessuna, vede il petto dell'uomo sollevarsi e abbassarsi appena. Vivrà ancora, almeno per questa notte. M non ha fame di aghi o siringhe. La sua pazzia è un veleno ingoiato solo di recente. Guardandosi allo specchio, ha cominciato a notare che il suo riflesso si è fatto più scuro, come se il sangue stesse stagnando, come se lui stesse marcendo, esattamente come gli uomini in cui inciampa in queste viscere della città: gli sbandati, i vagabondi, i pazzi, i criminali. M non ha perso ogni traccia di sanità mentale, ma questa capacità di saper vedere le proprie lacerazioni psichiche, questi resti di processi di pensiero razionale, non fanno che irritarlo. E così agisce. La città è sotto assedio. Verrà versato sangue e gli innocenti moriranno. La rovina non può essere fermata. Non può, non può, non può... Il rumore dell'acqua che sgocciola sembra perseguitarlo. Ha trascorso notti insonni vagando come un fantasma per queste volte, scarichi, condutture e tunnel della metropolitana, fino a diventare una specie di leggenda spettrale per i diseredati che vengono qui a nascondersi o a morire. Scavalca il tossico comatoso e avanza tra pozze d'acqua fetida, immondizia e rifiuti umani. In qualche modo troverà la strada. Le mappe sono tutte nella sua mente. Gli fanno scottare la fronte e dolere la testa. Passi rapidi e leggeri! È un'ombra, quella? È la strana ombra ingobbita del Papa? M la segue, accelerando il passo, chinandosi per entrare in un condotto ancora più angusto. Qui non può stare eretto, ma deve ingobbirsi, piegarsi sulle ginocchia come uno scimpanzé. Sente il ritmo veloce di passi che corrono, una quindicina di metri più avanti. «Aspetta!» grida. L'ombra accelera, schizzando nelle pozzanghere, inciampando in mucchi di rifiuti. Affannato e raschiante, il respiro graffia i muri.
Quando M punta la luce della torcia davanti a sé, il raggio rimbalza sul metallo. Adesso anche M ha il respiro corto, ma continua a correre finché per poco non sbatte la testa contro una conduttura bassa sul soffitto. È arrivato a un bivio. Da che parte è andata la preda? M spegne la torcia e si costringe a rimanere immobile nel buio, tendendo al massimo l'udito. Sotto il suono irregolare del proprio respiro, percepisce quello trattenuto di un'altra creatura vivente. Sorprendendo se stesso, mormora: «Aiutami, per favore». Le parole echeggiano nel tunnel fino a svanire. M è solo con il tanfo, le correnti d'aria innaturalmente calde, le voci spettrali. Volta a sinistra, avanza per altri dieci metri e arriva a un'altra curva del tunnel. La luce della torcia illumina cose indicibili. Come possono degli esseri umani decidere di vivere così? Succede tutto molto in fretta. Improvvisamente M è faccia a faccia con il Papa, che gli chiede: «Stai bene?». «Ti stavo cercando» mormora M. Il Papa è spaventato, ma riesce a parlare: «Ho scoperto quello che volevi. Ho visto il mostro. I suoi tentacoli stanno crescendo, sono gonfi come vasi sanguigni maligni. Si stanno estendendo e allungando dappertutto intorno a noi. La fine è vicina... vicinissima!». Parla con i toni apocalittici e declamatori di un profeta di strada. Il suo alito diffonde il fetore nauseante della malattia. Gli occhi sono cerchiati. Anche il suo sangue sta diventando scuro. «Allora l'hai visto?» gli chiede M lentamente. «Sì, nei tunnel.» Il Papa annuisce, puntando un dito verso l'alto e poi, drammaticamente, verso il basso. «Si sta estendendo, l'inquinamento di Satana. Vuole le nostre anime. È consumato dal desiderio della nostra bontà.» «E tu cosa desideri, sant'uomo? Cosa ti ha portato nel secondo cerchio dell'inferno?» Il Papa incontra lo sguardo di M e lo sostiene. «Nella mia vita di sopra, nel mondo di aria e di luce, desideravo le donne... il denaro... il potere sulle anime degli uomini. Ho vissuto nelle città cadute di Sodoma, Gomorra e Babilonia.» Il Papa sbatte le palpebre e deglutisce a fatica; questa confessione gli fa male. «Ma il mio vero peccato, quello che mi ha portato quaggiù, in questo inferno, è stata la mia brama di giustizia e virtù.» Tende una mano ossuta. «Scusami.» Sospira. «Ho fame.» «Fame.» M fissa il Papa a lungo, poi estrae un quadrato marrone dalla
tasca. Mentre aspetta, il Papa è combattuto tra la paura e il bisogno. Ha paura di quest'uomo, di questa apparizione demoniaca che tutte le notti vaga per i tunnel, nello stesso modo in cui ha paura della peste, dell'omicidio o dei grossi ratti affamati. Ma il Papa ha anche fame. E ha bisogno di soldi per comprarsi il cibo, e magari anche qualcosa per allontanare la mente da queste fogne. Abbassa lo sguardo, aspettandosi di vedere qualche moneta o una banconota da un dollaro nella mano dell'altro. Ma ciò che vede è un sacchetto di plastica. Perplesso, rialza lo sguardo. «Ma tu chi sei?» «Io sono Minosse, il giudice dei morti.» Con un sorriso triste, M afferra il Papa per i capelli unti, gli sbatte la testa contro la parete di terra durissima e gliela infila nel sacchetto. Che calza come un guanto: M tira il laccetto alla base e il sacchetto si stringe intorno al collo, creando un effetto sottovuoto e modellandosi sul viso dell'uomo, che sta soffocando. Mentre il Papa perde i sensi, mentre agita le braccia, mentre gli occhi gli si arrossano, M ha una visione: Los Angeles è un inferno in fiamme, il cielo diventa nero, la città crolla su se stessa sbriciolandosi e non resta che polvere. «Mi dispiace» si scusa M con il cadavere che lascia cadere a terra. Poi mormora a se stesso: «La città è così bella, di giorno. È solo la notte che la rende orribile». Volta la schiena e comincia lentamente la sua risalita verso il mondo. Per questa notte il suo lavoro è finito: il secondo cerchio è completato. Domani lo aspetta una giornata importante. Domani lavorerà alla luce del giorno. È abituato alle premonizioni distruttive. Può vedere il futuro con chiarezza, come se si distendesse dietro di lui, un sentiero già tracciato, un libro già scritto e chiuso. Questa città sarà travolta da un cataclisma. Il fuoco le carbonizzerà la pelle, inghiottendone i lineamenti; la forza di due bombe atomiche le spezzerà le ossa e le strapperà gli arti. Diventerà cieca e sorda, e muta e cesserà di respirare. La città sarà il sacrificio. Domani tutti si troveranno ad affrontare il terzo cerchio. Il Papa aveva ragione: c'è un mostro in libertà. Il mostro è John Freeman Dantes. Oppure sono io? si chiede M. Siamo noi. Sì.
Il mostro siamo noi. TERZO CERCHIO... Il cane a tre teste e una profezia 5 Quasi tutti i poliziotti artificieri di mia conoscenza rispondono alla porta o aprono un pacco pensando: "Merda, questo potrebbe essere... Bum!". Edward "Boomer" Toms, detenuto nel carcere di Folsom Martedì, ore 5.00 I colpi alla porta erano forti. Intontita sia emotivamente che chimicamente, Sylvia sbirciò dallo spioncino della porta d'ingresso del bungalow e si ritrovò a guardare il distintivo di un funzionario di polizia. «Dottoressa Strange?» Ci fu qualche movimento all'esterno, poi davanti allo spioncino comparvero due facce. Con un gemito, Sylvia socchiuse la porta, lasciando la catena di sicurezza, e diede un'occhiata più attenta: i distintivi erano rispettivamente del Federal Bureau of Investigation e del Dipartimento di polizia di Los Angeles. Erano lucidissimi e sembravano autentici. «Sono l'agente speciale Purcell.» La donna aveva i capelli permanentati, il viso color cioccolato al latte privo di trucco e la voce piatta. Sembrava così piena di sé da poter rimbalzare. Accanto a lei incombeva un uomo. Per poter incontrare il suo sguardo neutro, Sylvia dovette sollevare il mento, gesto che servì solo a peggiorare il suo mal di testa. Quando l'uomo si presentò come detective Church, Dipartimento di polizia di Los Angeles, le parole sembrarono tuonargli nella gola. «Lei ieri era al Metro Detention Center» le disse, strascicando la sillaba finale. Sylvia si scostò una ciocca dal viso. Il battito del cuore rallentò un po': non si trattava del New Mexico o della sua famiglia, grazie a Dio. Riuscì a gracchiare l'inizio di una domanda: «Di cosa si?...». «Lei ha avuto un colloquio con John Dantes» la interruppe Church. Sor-
rise senza mostrare i denti; gli occhi erano penetranti. «Le dispiace se entriamo?» «Sì, mi dispiace» rispose Sylvia lentamente. Per quindici secondi rimase immobile. Nessuno si mosse, nessuno parlò. Poi lei sbatté le palpebre e i due agenti vinsero il primo round. Di malavoglia, Sylvia tolse la catena di sicurezza e guardò entrare i due, prima l'agente, poi il detective. Non avrebbero potuto essere più diversi. Solo le loro espressioni gravi erano uguali. Sylvia era fiancheggiata dai due rappresentanti della legge, una alta un metro e sessantacinque, l'altro uno e ottantotto. «Dottoressa Strange, cosa voleva di preciso da John Dantes?» Lo sguardo del detective della polizia, apertamente indagatore, restava inchiodato sul suo viso. «L'ha appena detto lei» rispose Sylvia con calma. Aveva la sensazione che il detective le leggesse dentro. «Un colloquio.» Si strinse la cintura dell'accappatoio finché lo stomaco non le fece male. Sapeva di avere un aspetto orrendo e in bocca sentiva un sapore come di sabbia. «Sono andata da Dantes per completare una serie di inventari psicometrici, di test, per un progetto federale di profili psicologici.» «E ha completato gli inventari?» domandò Purcell. «No.» «Ha fatto qualche test?» «No.» «Neanche uno?» Church incrociò le braccia, inarcando le sopracciglia. Senza darne l'impressione, stava esaminando l'interno del bungalow. «Neanche uno, detective.» Sylvia si era abbastanza ripresa da sentirsi irritata. «Magari è un peccato, ma per quello che ne so, non è un reato.» «Deve venire con noi» le annunciò Purcell con decisione. «Oh, no.» Sylvia alzò il dito indice e raddrizzò le spalle. «Ci deve essere un errore: il mio lavoro a Los Angeles è finito.» Nessuno dei due agenti sembrò impressionato. Lei sbuffò e aggiunse: «Non so cosa stia succedendo, ma io devo prendere un aereo». Come aspettando la battuta, la sveglia in camera da letto cominciò a suonare. «Mi dispiace, Doc» disse il detective Church. «Il suo paese ha bisogno di lei.» Otto minuti più tardi, Sylvia scivolava sul sedile posteriore della Ford scura priva di contrassegni, mentre i due investigatori si sistemavano da-
vanti per il viaggio fino agli uffici dell'Fbi in Wilshire. Sylvia si sentiva ancora un disastro, e probabilmente ne aveva anche l'aspetto, ma se non altro era riuscita a lavarsi i denti e a vestirsi. Si sistemò meglio la camicia bianca nei jeans. L'odore del caffè nelle due tazze sul cruscotto le faceva prudere il naso. Nessuno le offrì neppure un sorso. Durante la corsa ebbe l'opportunità di studiare la sua scorta. Al volante, Purcell si stava producendo in una passabile imitazione del tipo tosto. Poteva senz'altro rientrare in quella categoria di donne poliziotto ossessionate dall'idea di essere all'altezza degli uomini. Se l'agente aveva intenzione di incidere qualche nuova tacca sul calcio della sua pistola, Sylvia non aveva alcuna intenzione di essere una di quelle tacche. Con un cellulare in grembo, il detective Church riempiva il sedile del passeggero; grosso e massiccio, aveva l'aria dell'uomo vittima del disordine cronico. L'abito lucido gli si appiccicava al corpo come un orfano affamato. Il cappello floscio di feltro sembrava aver messo radici sui capelli rossi. Il naso grosso era punteggiato da lentiggini. Se si fosse presentato a un ufficio casting, gli avrebbero subito consegnato un kilt scozzese e una cornamusa. Qualcosa era rimasto impigliato nei pensieri di Sylvia, qualcosa che la strattonava come un cagnolino con una manica: un detective della polizia di Los Angeles che ha lavorato alle indagini per il Getty... «Oh, insomma!» protestò Sylvia, tornando alla realtà. Purcell era appena passata davanti agli uffici dell'Fbi e l'auto continuava a procedere verso est lungo Wilshire Boulevard. «Dove diavolo stiamo andando?» Fu Church a risponderle: «Roybal Federal». Sylvia si appoggiò allo schienale, con le braccia conserte. Guardando fuori dal finestrino, sentiva l'aeroporto internazionale farsi sempre più distante. «Roybal Federal... è vicino all'Mdc.» «Proprio la porta accanto» confermò Purcell, gli occhi riflessi nello specchietto retrovisore. «E io cosa ci faccio qui? Quanto tempo ci vorrà?» Sylvia faceva domande a raffica. «Sono in arresto?» «Per cosa?» «Ditemelo voi. Ho attraversato fuori dalle strisce? Perché, in caso contrario, avrei un biglietto di ritorno per il New Mexico che vorrei utilizzare oggi.» Per un istante pensò che Church stesse per scusarsi. Invece il detective disse: «Abbiamo bisogno di informazioni sul suo colloquio con Dantes».
«E perché non l'avete detto subito?» Si passò il dorso della mano sulla bocca. Sentiva lo stomaco rumoreggiare per la fame, il mal di testa aumentare a ogni chilometro e desiderava avere i suoi occhiali da sole per smorzare la luce. «Avremmo potuto parlarne a Santa Monica. L'intero colloquio è registrato su nastro e la cassetta è disponibile, se potete sistemare la questione della giurisdizione. In ogni caso, il Progetto profili è federale...» Fu interrotta dalla suoneria di un cellulare. Church rispose e ascoltò per circa trenta secondi. Chiuse la comunicazione con un generico: «Okay, Sweetheart». Sylvia roteò gli occhi, pensando che Church avesse appena parlato con il suo "tesoro". «La sua ragazza non può aspettare la fine dell'orario di lavoro?» Purcell sbuffò e Church sparò un'occhiataccia alla collega prima di rivolgersi di nuovo alla dottoressa: «Che impressione ha avuto del suo colloquio con Dantes?». «Non ero preparata per lui.» Sylvia sentiva l'energia emanata da Church. Il detective aveva occhi penetranti come due freccette azzurre appuntite. Vedeva la mente del poliziotto al lavoro: stava mettendo insieme le tessere di un puzzle, confrontando colori, consistenza, schemi e sfumature. Be', era quello che stava facendo anche lei. «E così... avete un'altra bomba, giusto?» domandò. Church non mosse un muscolo. «Lei cos'è, un artificiere?» «Non sono stupida.» Sylvia si sentì reagire con la stessa tensione dell'investigatore e si impose di respirare adagio. All'interno del veicolo, il livello di sfiducia era quasi palpabile. Guardò di nuovo Church. «Lei faceva parte della task-force antibomba. Detective Red Church. Lei ha collaborato a rintracciare e arrestare Dantes. È finito addirittura sulla copertina di "Vanity Fair". Quella foto non era granché.» «Nessuno ha mai detto che lei sia stupida» ribatté Church. Sylvia guardò l'orologio, poi il cielo, depressa dalla vista di un lontano uccello metallico che saliva verso le nuvole. Il poliziotto seguì il suo sguardo. «Visto uno, visti tutti.» «Vaffanculo» sussurrò lei. Ore 6.05 Fiancheggiata da Purcell e Church, Sylvia attraversò l'asfalto già caldo di Alameda Street, strada che ormai le stava diventando familiare. Passan-
do accanto al Metropolitan Detention Center, non poté resistere alla tentazione di guardare in alto. Le strette finestre verticali catturavano i raggi del sole, scandendo le ore con la luce. Dantes era da qualche parte là dentro. Sylvia rabbrividì. Esattamente quindici metri oltre l'Mdc, entrarono nell'atrio semideserto e scarsamente illuminato del Roybal Federal Building e superarono in fretta il controllo di sicurezza. Al quarto piano Sylvia seguì gli investigatori in un labirinto di corridoi su cui si affacciavano cubicoli di vetro. Era troppo presto perché la maggior parte degli impiegati fosse già al lavoro, ma i monitor dei computer baluginavano e il ticchettio di dita su una tastiera echeggiava in tutto il piano. Sylvia si sentì confortata da quel suono umano. Aveva mal di stomaco, le mani le tremavano per l'astinenza da caffeina e, quando abbassò lo sguardo, si accorse di avere una stringa slacciata. Gli agenti le fecero strada in una sala riunioni lunga e stretta. Una parete di finestre dai vetri azzurrati offriva il panorama del centro città. La parete opposta era coperta da una mappa aerea di Los Angeles di tre metri e mezzo per due. L'aria condizionata era troppo fredda, le luci erano state abbassate. In fondo alla sala, uno schermo bianco sospeso emanava luce. Sylvia sentì il rumore di un proiettore, che non riuscì a localizzare perché gli occhi si stavano ancora adattando a quel crepuscolo artificiale. Ci fu un leggero ronzio, seguito da un clic. Comparve un'immagine: due paragrafi in caratteri neri battuti a macchina risaltavano ingranditi e nitidi sullo schermo bianco. «Ieri, mentre lei era con Dantes» cominciò il detective Church «una guardia di sicurezza ha trovato un foglio nella sua cella. Guardi il messaggio a sinistra.» Sylvia studiò lo scritto: caro amico per me si va ne la città dolente per me si va ne l'etterno dolore sacrificare i figli dei pagani fino a quando nessun innocente possa più protestare primo cerchio spezzato restano ancora 8 cerchi eseguo fedelmente il tuo ordine
M Church si schiarì la voce e proseguì: «Un secondo messaggio, scritto apparentemente dallo stesso individuo, è arrivato con la posta di ieri agli uffici dell'Fbi». cari federali babbei babbei babbei basta Limbo secondo cerchio presto completato liberate URgentemente vs prigioniero DaNTes, profeta apocrifo o aspettate ansiosamente il prossimo Vvv M «Lei ha indovinato quando ha detto che ci ritrovavamo con un'altra bomba» riprese Church. «Abbiamo avuto il primo contatto da un possibile dinamitardo-estorsore.» «Che si chiama M» aggiunse Sylvia. Fu sul punto di domandare cosa avevano da dire gli esperti psicolinguistici di Quantico a proposito del contenuto dei messaggi, dei loro riferimenti letterari e religiosi. Ma si trattenne. Combattuta tra l'idea di protestare e quella di scappare, ignorò l'istinto infantile di coprirsi le orecchie con le mani. «Perché mi state mostrando tutto questo?» «Le sue credenziali sono state controllate e risultano sufficienti. Altrimenti, mi creda, lei adesso non sarebbe seduta qui» disse Purcell. «Questo non risponde alla mia domanda. Io non sono dell'Fbi, non mi occupo di scienze comportamentali, non faccio parte dell'Atf o delle squadre artificieri. E voi non siete tipi da regalare informazioni gratis.» Rallentò, come rivolgendosi a qualcuno che capisse poco l'inglese. «Allora, perché sono qui?» Visto che nessuno le rispondeva, si alzò in piedi di scatto, improvvisamente claustrofobica. «Si sieda» le ordinò Purcell. «Non finché non mi avrete dato qualche spiegazione.» «Si sieda» ripeté Purcell come a una bambina disubbidiente. «No.»
Mentre il corpo solido di Purcell si irrigidiva minaccioso, Church tese un braccio tra le due donne. «Ehi, andiamo! Calmiamoci tutti quanti.» Si rivolse a Sylvia: «Ha sete?». Senza aspettare risposta, si avvicinò fischiettando a un tavolino con caraffa e bicchieri di plastica. Sia pure con riluttanza, Sylvia cedette e si mise a sedere. Sentiva i primi sintomi del mal di gola e, nonostante l'aria condizionata al massimo, stava sudando. Church posò un bicchiere pieno sul tavolo davanti a lei. L'acqua le diede sollievo alla gola e Sylvia la tracannò in un paio di sorsate. Il detective si sedette sul bordo del tavolo. «Lei come se la cava con gli anniversari, Doc?» «Come?» «Ancora una settimana e festeggeremo tutti il primo anniversario dell'attentato al Getty. Ci piacerebbe evitare i fuochi d'artificio.» Frustrata, Sylvia scosse la testa. «La scelta del momento della mia visita all'Mdc è stata determinata dal fatto che Dantes sta per essere trasferito in un altro Stato e anche perché, per qualche disguido burocratico, la mia autorizzazione è arrivata in ritardo.» Classificato a livello sei - il massimo livello di sicurezza dei federali - Dantes stava per essere trasferito al Supermax in Colorado. Dopo qualche istante, Church azionò il piccolo telecomando che stringeva nella mano destra. Mentre lo schermo tornava bianco, Purcell disse: «Le informazioni che stiamo per darle sono estremamente delicate. L'unità di Scienze del comportamento di Quantico è convinta che la minaccia sia reale. Stiamo parlando di una situazione volatile con una possibilità molto alta di perdita di vite umane». Sotto le parole accuratamente modulate si nascondeva un debolissimo accento del Sud. Nessuno aprì bocca. L'unico suono nella stanza era quello del proiettore. Una seconda diapositiva, stavolta l'ingrandimento di una foto. «Questa polaroid è arrivata con il secondo messaggio minatorio» disse Purcell. Sylvia stava guardando il primo piano di un improvvisato ordigno esplosivo. Una bomba a tempo, ma non un semplice assemblaggio funzionale di timer, miccia, innesco e carica esplosiva. Il contenitore era elaborato: un cofanetto di legno intagliato, decorato con metallo e pietre. Le maniglie alle estremità sembravano essere di ottone o di un materiale simile. In contrasto stridente con il contenitore, il dispositivo a tempo sembrava consistere di una comune sveglia dal largo
quadrante bianco con numeri e lancette neri. Le lancette indicavano l'una, diciotto minuti e trenta secondi. Non era dissimile dalle bombe attribuite a John Dantes. «Qualcuno sa se è programmata per esplodere oggi?» domandò Sylvia. «Lei si sente di scommettere che non lo sia?» ringhiò Church. «Se è così, allora lei ha più palle di me.» «L'Fbi deve ricevere centinaia di minacce come questa ogni giorno. Cos'è che la rende reale?» «Ovviamente, i riferimenti possono essere collegati a Dantes» rispose Purcell. «Meno ovviamente... se si espone la carta alla luce, sulla pagina diventano visibili alcune figure, forse con valore numerico.» La terza diapositiva mostrava una serie di piccoli segni a forma di cuneo: due orientati da sinistra a destra, nove sovrapposti in file orizzontali di tre. «Abbiamo sviluppato diverse teorie sul possibile significato, ma, fatto più pertinente a questa discussione, abbiamo già visto qualcosa di simile in un'altra bomba.» disse Purcell. «Il Getty?» domandò Sylvia. «Sui resti della bomba che ha fatto saltare in aria il museo dodici mesi fa.» Purcell annuì. «Questa informazione non è pubblica.» «Perciò, solo Dantes dovrebbe esserne al corrente» osservò Sylvia. «E lui sta scontando un ergastolo.» «Questo M...» riprese Purcell. «Abbiamo a che fare con un imitatore, con un aspirante dinamitardo. Oppure con un collaboratore, un complice.» «A quanto pare, è un grande ammiratore di Dantes... e di Dante.» Sylvia fissava la diapositiva. «Quale che sia il profilo di questa persona, noi adesso siamo sotto tiro» tuonò la voce profonda di Church. «Abbiamo bisogno di informazioni, e Dantes non collabora. Quel bastardo ci dice di andare al diavolo.» Sylvia si alzò in piedi, con una sensazione di freddo e la testa che le girava leggermente. Si avviò verso la porta, affamata d'aria che non fosse pompata, riciclata e disinfettata. Niente di tutto questo mi riguarda, pensò. Dietro di lei sentì le voci basse e indecifrabili dei due investigatori. Continuò a camminare. Quando sentì la terza voce, si fermò di colpo. John Dantes. Ci mise un minuto per rendersi conto che quella voce profonda e risonante, una registrazione di altissima qualità, usciva dalle casse montate sulle pareti.
Rivolgendosi a ignoti inquisitori, Dantes diceva: "Se volete fare conversazione, statemi a sentire: io parlerò solo con una persona. Voi la riportate qui, la trattate rispettosamente e negoziate attraverso di lei. Si chiama Sylvia Strange. Dottoressa Strange, per voi". Il tuono basso della risata vibrò attraverso le casse. "Vi rendiamo la vita facile: la Strange ha addirittura l'autorizzazione." Il sonoro tacque di colpo, ma Sylvia prese tempo. Quando si voltò verso gli investigatori, la sua vera voce era scomparsa. Quella roca che aveva preso il suo posto sussurrò: «Quell'uomo è pazzo». «Pazzo o no, lei ci va» disse Church. «Altrimenti?» «Altrimenti la sua vita diventerà molto sgradevole. Di recente la sua condotta professionale è stata messa in discussione, in New Mexico. Se rifiuta di collaborare con noi, dovremo chiederci perché e dovremo prestare la massima attenzione a ogni sua mossa. Potremmo anche decidere che Dantes ha un rapporto molto particolare con Sylvia Strange: magari lei appartiene al suo fan club.» Church lasciò cadere un lucente oggetto nero sul tavolo: occhiali da sole. «Dantes ha detto che sono suoi. Occhiali Armani. Dovrebbe stare più attenta a dove lascia le sue cose.» Mentre il silenzio si addensava, la guardò; la sua espressione era stranamente comprensiva. La postura - le ampie spalle inclinate verso Sylvia esprimevano una certa intimità. «Lei andrà senza bisogno di minacce. C'è un dinamitardo là fuori. Se fa sul serio, e noi crediamo di sì, lei è in grado di salvare delle vite, dottoressa Strange.» Church teneva la mano su un fascicolo alto circa un paio di centimetri. Lo aprì, mettendo in mostra documenti e fotografie. Tese il fascio di carte in un gesto d'offerta. «Di tutto e di più su John Dantes.» Sylvia si passò la lingua sulle labbra secche. I secondi ticchettavano via insieme all'opportunità di andarsene. Finalmente annuì, accettando il fascicolo con mani incerte. «Cosa volete che faccia, esattamente?» 6 La città - sia essa Sodoma, Babilonia, Atene, New York o Los Angeles - rappresenta i peccati più gravi dell'umanità, le trasgressioni dell'uomo contro Dio. La città deve pagare per i suoi pecca-
ti. Manifesto di Mole (inedito) Martedì, ore 7.20 Benvenuti a Los Angeles, città del suo stupore infantile. Benvenuti a Los Angeles, dove i ricchi e i potenti si nutrono della città, ingozzandosi e gonfiandosi fino a scoppiare. Un benvenuto a tutti voi, masochisti golosi di punizioni. La nebbia della sera prima si è diradata; la caccia ha avuto successo. Si è goduto le sue tre ore regolamentari di sonno e adesso è vivo e vegeto come gli altri cinque o sei tipi dall'aria impiegatizia che scendono dal vagone della Red Line con le benedizioni di Ram'khastra, l'Angelo dell'Aria Rarefatta, di Sui'el, l'Angelo della Terra, e di Sut, l'Angelo delle Bugie. Lui è fortunato; pensa alla sua Faccia d'Angelo e a come lo ha fatto sentire bene quando è rientrato a casa, questa mattina presto. Richiamata dal sonno dal suo amante, gli ha sorriso dai sogni e ha teso una mano per accarezzarlo, la pelle dorata nella luce della luna riflessa dall'oceano. Riccioli color miele intorno al viso dolce: Faccia d'Angelo gli ricorderebbe una bambina, se non fosse per i seni delicati, la vita sottile, i fianchi arrotondati e il ciuffo dorato tra le cosce: la prova che non è una bambina, ma una donna. La sua donna. La sua Faccia d'Angelo. In piedi sulla scala mobile, dalle profondità della metropolitana sale in Union Station. Sulla spalla sinistra ha la tracolla di uno zaino nero, pesante, ma niente che un operaio di San Pedro non possa trasportare per tutta una lunga, calda giornata in città. Una graziosa ragazza dai capelli rossi che lo incrocia scendendo sulla scala mobile si volta per fargli maliziosamente l'occhietto. Mentre si muove, la gonna rossa le svolazza intorno alle gambe lunghe e snelle e un sorriso ammiccante gioca sulle sue labbra scarlatte. Quello che la ragazza vede è un maschio sano e attraente sui trentotto, trentanove anni. Un uomo che le piacerebbe si fermasse a parlare con lei, a flirtare per un minuto, magari a concordare un appuntamento per cena... e a salvarla dalla sua vita banale e monotona che teme la stia soffocando. Ma lui è già fuori portata... e comunque ha già la sua Faccia d'Angelo, che in questo momento sta lavorando duro a San Pedro: prossimo ordine tre uova ben cotte, toast di pane integrale e caffè.
Mentre la scala mobile sale, un nastro luccicante di luce riflessa serpeggia giallo e rosso sulle sue pupille nere leggermente dilatate e lui coglie l'immagine subliminale di Marilyn Monroe. Sono gli ologrammi artistici proiettati nel vuoto della stazione. L'urlo di Tarzan nella giungla risuona selvaggio sopra di lui, echeggiando dalle cupole piastrellate del paradiso high-tech delle stelle del cinema, Mecca dell'artista urbano. Ah, sì, Los Angeles, villaggio di angeli. Forse, fino a questo momento, non si è mai reso conto di quanto gli sia sempre mancata la sua città. Non è forse vero che ogni uomo ha un debole per la città della sua innocenza perduta? È stato qui, in queste strade, che lui è diventato uomo, qui che ha scoperto la ragione della sua esistenza. Qui ha trovato la sua causa, la sua forza propellente. Ha trovato il suo solo e unico eroe. E lo ha perso... Ma lui non è un uomo amareggiato. Non è tipo da portare rancore. Sorridendo a un'altra ragazza carina - spuntano come funghi a Los Angeles - avanza a grandi passi nel lungo tunnel fresco. Passeggeri provenienti dai treni ai piani superiori si mescolano tra loro scendendo decine di rampe. Metropolitana, autobus, treni... questa stazione è il cuore dei trasporti della città. Con scioltezza si sistema lo zaino, ridistribuendone il peso sulla spalla. Il contenitore metallico che c'è dentro è di alluminio, misura ventitré centimetri per ventitré e pesa meno di quindici chili. Il sistema funziona tramite comunicazioni radio in Vhf o Uhf. Undici chilometri in linea d'aria. È questa la distanza massima dalla quale è possibile far detonare una bomba. Un chilo di nitrato d'ammonio, tre o quattro candelotti di dinamite commerciale, un po' di Petn o di esogeno, una manciata di C-4. Scegli la tua ricetta, scegli il tuo veleno. Ingredienti esplosivi che distruggeranno edifici e faranno schizzare in aria legno, metallo e vetro in spirali di shrapnel, che appiccheranno incendi, che interromperanno servizi essenziali e comunicazioni. Esplosivi studiati per annientare obiettivi civili e costringere una città in ginocchio. Nel caso di M, tutto in nome del suo compatriota, di suo fratello, John Freeman Dantes. Bum. Esplosione comandata a distanza. Un tempo era stata solo il sogno di
fertili immaginazioni. Nell'ultimo decennio è diventata reale quanto il solido alluminio che M trasporta nello zaino di pelle. È il suo genio che deve comprendere la natura di ogni lavoro - parametri e obiettivo - e se portarlo a termine con un milione e mezzo di dollari o con venticinque soltanto. Se pensate che lui sia una specie di sottoproletario risentito, un montanaro sceso con la piena, be', vi sbagliate. Lasciandosi trasportare dal flusso dei pendolari, riconosce brandelli di libanese, spagnolo, arabo; addirittura capisce un po' della conversazione a proposito di un certo figlio maggiore che, a Pechino, vuole sposare una dottoressa e il furioso sfogo di un russo che deve soldi a dei gangster. M si fonde nella folla sempre più numerosa. Chi, a parte la ragazza dai capelli rossi, si ricorderà dell'uomo atletico dai capelli castani corti e i lineamenti maliziosi che indossa una giacca leggera, camicia azzurra, pantaloni cachi e mocassini? E occhiali da sole. Dio aiuti chi si dimentica gli occhiali da sole a Los Angeles! Superato l'ingresso ai treni, i passeggeri si ritrovano sotto la vasta cupola fresca di Union Station. Qualcuno mangia croissant o sorseggia i cappuccini di un ambulante. Altri, in numero minore, leggono i quotidiani e mangiano burritos da Velarde's. È troppo presto perché ci siano molti clienti nel bar, un buio scenario déco che risale agli anni Trenta. Se tutto va come previsto, lui sarà già in un altro mondo all'ora in cui i pendolari, le coppie e gli uomini di affari sorseggeranno martini e cocktail, atteggiandosi a Bogart e Bacali e parlando dell'esplosione che sarà il titolo d'apertura della Cnn. Le bombe vanno forte, al giorno d'oggi. Nonostante il bancone originale della biglietteria sia ormai chiuso da moltissimi anni, il ripiano di legno lucido risplende esattamente come sessant'anni fa, quando faceva parte di un'epoca più civilizzata. Un'epoca, ricorda M a se stesso, in cui la più antica Chinatown della città era stata rasa al suolo per costruire proprio questo idillio revival-coloniale-spagnolo-art déco. Sfiora un poliziotto in uniforme e lo saluta con un cenno educato del capo, poi passa sotto uno dei numerosi portoni ad arco. Uscendo dal buio nel calore bianco dei giorni di cemento, respira a fondo, godendosi il debole odore di cloro. Ha un naso maledettamente fino, che gli ha salvato la pelle in più di un'occasione. M è sempre riuscito a fiutare nell'aria l'odore della propria morte quando la miscela di prodotti chimici è diventata mortale. Oggi sta soltanto respirando il particolare profumo di LA, un veleno tutto
suo. Attraversa il parcheggio davanti a Union Station e volta in Los Angeles Street. Ha un veicolo parcheggiato tre isolati più a nord. Per il momento è un soldato appiedato, un fante. Con grande attenzione, sposta lo zaino sull'altro braccio. Sembra essere più pesante adesso, ma lui non rallenta e, continuando con il suo passo regolare, attraversa la Highway 101, passando sopra il cavalcavia. Sotto di lui un fiume di automobili e camion forma una densa corrente che scorre verso sud e minaccia di allagare Anaheim. Coglie la rapida visione di un bambino che preme la faccia contro il polveroso lunotto posteriore di una station wagon. M lo saluta con la mano. Il bambino gli mostra la lingua. In questo livello più umano, lungo la balaustra della rampa, i vagabondi hanno disteso le loro coperte, marcando il territorio con cartoni, vecchi stracci, orina e sudore. L'agglomerato di abusivi gli fa pensare agli accampamenti di nomadi che ha visto in deserti dimenticati. Per un istante immagina cammelli infiocchettati, donne velate e tende che si gonfiano al vento, come vele di vascelli insabbiati nel Taklimakan, nel Sahara, nel deserto della Nubia, in quello libico, nel Kyzyl Rum e nel Kara-Kum. M ha visto la sua parte di mondo. Scuotendosi di dosso i ricordi e rallentando il passo in una città d'asfalto, acciaio e vetro ribollenti, svolta nella direzione che lo farà passare davanti ai senzatetto. Getta monete verso le loro mani tese. Quando arriva a un uomo sottile con gli occhi acquosi, seduto a gambe incrociate come un santone mendicante in una città santa, getta nell'aria una moneta più grande e più luccicante. Il mezzo dollaro Kennedy ricade a spirale, riflettendo dure, veloci schegge di luce. Atterra in grembo al mendicante. Per la buona fortuna. Ora M cammina più in fretta e passa davanti a una schiera di edifici in mattoni che saranno presto ristrutturati. Qui, in questa foresta primordiale di cemento, non ci sono molti passanti per via del caldo; le poche persone che incrocia tengono gli occhi bassi, per rispetto all'etichetta urbana e per ripararsi dalla luce del sole. Non osano guardare in alto. M invece sì. I muri verdazzurri del Metro Detention Center si alzano sopra di lui. L'Hotel Metro. M sorride al suo vecchio amico. Riesci a sentire la mia presenza? Perché io ti sento, Dantes. Sento ogni tuo respiro. Ehi, te l'avevo promesso, no? Io sono Ulisse. Oppure Ulisse sei tu.
Entrambi pellegrini, tu e io di nuovo insieme a Babilonia. Cenere alla cenere, polvere alla polvere. È ora di regolare un vecchio conto. Continua a camminare sorridendo, prosegue verso ovest in direzione di un parco polveroso e di una strada di palazzi in attesa di ristrutturazione. Mentre cammina, sente il sapore dei gas di scarico e del calore della terra bollente. Assorbe l'eco del traffico, il tuono dei jet in cielo, la vibrazione dei trasformatori e dei treni sottoterra. Tutto questo è il polso della città. La Città degli Angeli di Dantes con le sue curve di puro sesso, il sorriso abbagliante, l'indifferenza. La città indossa addirittura gioielli inestimabili di uomini potenti: una ziggurat scintillante, una Torre di Babele a forma di piramide. La ragazza di Dantes... Mentre osserva questo mondo, M estrae dalla tasca una figurina intagliata nell'osso; ha le dimensioni del pollice di un bambino e, come un bambino, M ne accarezza la superficie liscia tra le dita: Enkidu, compagno dell'eroe Gilgamesh, risalito dal mondo sotterraneo assiro-babilonese per raccontare al suo amico la storia triste delle regioni del buio eterno. Nella casa della polvere Vivono il signore e il sacerdote. Vivono il mago e il profeta... Vivono coloro che i grandi dèi Hanno unto nell'abisso. Il crepuscolo è il loro nutrimento. E il loro cibo è il fango. Benvenuti a LA, dove l'innocenza non può sopravvivere. Benvenuti all'"Operazione Inferno". 7 In modo sistematico, e con una brillante intelligenza criminale, John Freeman Dantes ha attaccato i poteri passati e presenti prendendo di mira acqua, petrolio, elettricità, piani regolatori e l'intero apparato politico che ha creato la mitica Los Angeles. I due innocenti, morti nell'attentato all'acquedotto, sono vittime di guerra. È stato soltanto quando ha piazzato una bomba al Getty che Dantes ha deviato dal suo corso, varcando quel confine che separa l'a-
narchico profetico dall'assassino a sangue freddo. Io per primo ho pianto la sua caduta dalla grazia. Lettera al direttore del "Los Angeles Weekly", 1° dicembre 2000 Ore 7.55 Purcell e Church terminarono di dare istruzioni a Sylvia mentre aspettavano l'ascensore nel corridoio vuoto. «La terremo sotto sorveglianza audio per tutto il tempo che sarà là dentro» le spiegò Purcell. «Dantes se lo aspetta, perciò non proverà a fare niente. Non potrà fare niente.» «Proceda con calma, sia diretta e lasci che sia lui a dare il ritmo» disse Church. «Adesso è meglio che mi dia quella roba.» Tese la mano, indicando il fascicolo su Dantes. Sylvia glielo cedette volentieri. Aveva appena terminato di dare un'occhiata a quelle trecento pagine; molto di quel materiale le era noto grazie alle ricerche che aveva svolto in preparazione al Progetto profili, ma ce n'era anche del nuovo: per esempio, i rapporti di laboratorio sulle prove rinvenute sulle scene degli attentati e le fotografie postmortem dell'ispettore e della guardia di sicurezza uccisi dall'esplosione di un tratto dell'acquedotto della California. Le foto erano a colori e molto esplicite: un'assicurazione perché lei non dimenticasse mai che John Dantes era un assassino. Si appoggiò stancamente contro la parete, sorseggiando caffè riscaldato da un bicchiere di plastica; le luci fluorescenti del corridoio le bruciavano gli occhi. Purcell premette il pulsante di chiamata per la terza volta. Non successe niente. Lo premette di nuovo, borbottando: «Questi maledetti ascensori sono più lenti della melassa». «Doc?» Church si picchiettò una tempia con l'indice. «Faccia tutto ciò che è necessario per entrare in contatto con lui, ma non cerchi di essere più furba della volpe.» Spostò il proprio peso da un piede all'altro. «Ha paura?» «Sì.» «Ottimo. È bene che ce l'abbia...» La voce gli morì di colpo, come se fosse stato interrotto, ma stava semplicemente cambiando corsia cognitiva. Studiò il viso di Sylvia e le chiese: «Lei ha idea del perché Dantes abbia voluto lei?».
«Io sono fuori dal sistema. Pensa di usarmi, di manipolarmi... magari pensa addirittura di potermi coinvolgere. Di farmi diventare sua alleata.» Si strinse nelle spalle. «Ma queste sono le ragioni ovvie.» «Cosa c'è di non ovvio?» «Non lo so ancora. Se ieri è stato un test, in qualche modo l'ho superato. Tenga presente che si è trattato del nostro primo incontro faccia a faccia. Ci sono in gioco elementi relativi al transfert.» Fece una pausa, osservando Church con aria pensierosa. «Tipo: lei gli ricorda sua madre, la sua fidanzata o quello che è» disse il detective. «Ho studiato un po' di psicologia anch'io, Doc.» «Più o meno» confermò Sylvia. «Dal punto di vista psicologico, Dantes ha bisogno del mio aiuto.» «Terapia?» Purcell sputò la parola proprio mentre l'ascensore si fermava rumorosamente al piano. Dando un'occhiata all'agente dell'Fbi, Church sbuffò. «Già, le bombe di quello stronzo sono proprio un grido di aiuto.» Le porte dell'ascensore si aprirono silenziose. «Mi pareva che lei avesse studiato psicologia» commento Sylvia seccamente, seguendo gli investigatori all'interno della piccola scatola metallica. Chiuse per un momento gli occhi. «Dantes pensa che io sia vulnerabile.» Riaprì gli occhi e aggiunse: «Questo è cruciale, per lui». Church mantenne la voce neutra: «E lei si sente vulnerabile?». «Oh, sì» rispose Sylvia sottovoce. Purcell premette un pulsante e l'ascensore cominciò a scendere, prese velocità, superò il piano terra, due piani sotterranei e si fermò finalmente al terzo livello sotterraneo. «Ma Dantes non è all'Mdc?» chiese Sylvia, lottando contro il panico. La spaventava pensare che quell'uomo non fosse rinchiuso in cella. «L'abbiamo portato qui per ragioni di sicurezza» rispose Purcell. «La mia o la sua?» Sylvia bevve un sorso di caffè e ne rovesciò un po' dalla tazza; una pillola azzurra era rannicchiata nel palmo della sua mano. «La nostra» disse Purcell con voce piatta. Le porte dell'ascensore si aprirono, lasciando entrare nella cabina aria calda che sapeva di chiuso. Seguita da vicino da entrambi gli agenti, Sylvia uscì in un garage di cemento male illuminato. «Cos'è questo posto?» domandò. «Un sotterraneo, con un solo ingresso di servizio e un tunnel d'accesso all'Mdc» rispose Purcell, avviandosi a passo veloce. Indicò con un cenno
del capo una porta a due battenti con la scritta VIETATO L'ACCESSO. «Gli sceriffi se ne servono per il trasporto dei prigionieri, è la ragione per cui c'è questa gabbia.» «Stupendo.» Sylvia bevve un altro sorso di caffè e piegò leggermente la testa all'indietro, pronta a cacciarsi in bocca la pillola azzurra. Una grossa mano le afferrò il polso e le dita si strinsero intorno ai tendini. Lentamente, involontariamente, i muscoli cedettero e la pillola cadde a terra. «Lei fa sempre la colazione dei campioni?» le domandò Church con voce molto tranquilla. La bocca le premeva quasi contro l'orecchio. Il poliziotto non le aveva ancora lasciato il polso. Sylvia lo guardò. «Solo quando sto per crollare.» «Benvenuta a Los Angeles» disse Church in tono brusco, con un rapido cenno della testa rossa. Lei non rispose e fece due passi verso la porta, davanti alla quale Purcell e uno sceriffo l'aspettavano rigidi. «Ehi, Doc.» Sylvia si voltò verso Church, di cui colse una quasi impercettibile strizzata d'occhio. «Non faccia casini.» Gettò qualcosa in aria: un pacchetto di sigarette, che lei afferrò al volo. Aprì la bocca per rispondere, ma dalle labbra non uscì nulla. I palmi delle mani sentirono le fredde porte metalliche della gabbia da trasporto. Le sembrò di spingere un ghiacciaio in salita. Ore 8.13 La gabbia, circa cinque metri per sei, era priva di finestre, soffocante e progettata per ospitare una decina di detenuti di massima sicurezza. Poteva essere descritta come un bunker, foderato di rete metallica, con panche incorporate. John Dantes indossava ancora l'uniforme del carcere e il giubbotto antiproiettile. Una catena, omaggio dello Stato, legava e collegava braccia, vita e caviglie. La catena, inoltre, gli impediva di staccarsi più di qualche centimetro dalla rete metallica. Sedeva dietro uno stretto tavolo, ma le dita potevano arrivare a malapena al bordo. Sylvia rimase immobile, consapevole dell'adrenalina, della paura e, in sottofondo, di uno stato di forte aspettativa. Aspettò, rifiutandosi di parlare per prima. «Dottoressa Strange, vorrei ringraziarti» disse Dantes, stranamente for-
male nelle parole e nella postura. Il viso mostrava una tensione più profonda di quella di ventiquattr'ore prima. «Non ero sicuro che avresti accettato il mio invito.» «È di questo che si tratta, di un invito? A me è sembrata più una specie di convocazione.» «In questo caso mi scuso.» Gli occhi si restrinsero e le mascelle si irrigidirono. «Ti hanno dato delle noie?» «Sto bene.» Sylvia attraversò la gabbia, lasciò cadere il pacchetto di sigarette sul tavolo e si sedette su una sedia metallica pieghevole. «Sono qui.» Con movimenti attenti, picchiettò il pacchetto finché dall'apertura spuntò una sigaretta. La tese in avanti e Dantes si piegò per raggiungerla con le labbra. Sylvia estrasse un accendino dalla tasca della giacca e, piegandosi verso di lui sul tavolo, avvicinò la fiamma. Dantes aspirò finché la punta della sigaretta si tinse di arancione. Espirò e il fumo rimase sospeso nell'aria intorno alla bocca. «Perché non mi fai quella domanda?» Sylvia annuì, posando l'accendino sul tavolo. Le dita trovarono il pacchetto di sigarette e cominciarono a giocherellare con il cellofan. «Perché io?» «Sappiamo benissimo entrambi che hai esaminato tutte le varie possibilità. Possiamo limitarci a dire che tu sei una libera professionista?» «Sono comunque dalla loro parte» osservò lei, chinandosi per raccogliere un improvvisato portacenere che qualcuno aveva lasciato sul pavimento. «Io scommetto che sei dalla parte della giustizia e dell'equità.» «Sto ascoltando.» «Non è così semplice.» «Sì, invece» ribatté Sylvia con durezza. «Tu hai informazioni di cui hanno bisogno per...» «Io ho le mani legate.» Il detenuto sollevò le braccia fino a tendere le catene. Il sorriso era malvagio. Sylvia si alzò in piedi e si allontanò dal tavolo fermandosi accanto alla rete metallica. Infilò le dita tra le maglie e strinse. «Hanno bisogno di sapere di quelle lettere minatorie.» «Io sono a conoscenza soltanto della mia corrispondenza privata.» «Stronzate.» Si voltò verso di lui. «No» scandì Dantes, gelido. «Facciamo a modo mio.» «Naturalmente.» Sylvia non cercò di mascherare la nota di derisione.
Dantes chinò la testa, l'espressione imperscrutabile mentre finiva la sigaretta. «Ti manca Santa Fe, dottoressa? I tuoi amici, la tua famiglia?» Lei non rispose e lui rialzò lo sguardo. «Mille chilometri non sono niente.» Sylvia piantò i palmi delle mani sul tavolo e si piegò verso l'uomo. Consapevole della sorveglianza audio, articolò con le labbra quattro parole mute: "Non provarci neppure, stronzo". Si fissarono. Sylvia non distolse lo sguardo. Neppure quando sentì Dantes leggerle nella mente: lui sembrava possedere quella capacità. «Mi hai frainteso» dichiarò l'uomo. «No, non è vero. Hai appena minacciato la mia famiglia. Fallo un'altra volta e io me ne vado. Hai capito?» Il detenuto si lasciò cadere dalle labbra il mozzicone acceso, che finì sul pavimento di cemento; lo spense con il tacco della scarpa. «Quando hanno perquisito la mia cella, hanno portato via una carta. Non so nient'altro.» «Ieri l'Fbi ha ricevuto un'altra comunicazione scritta.» «Per posta?» «Sì.» «Contenuto?» «Era una minaccia.» Sylvia aveva già provato il copione con Church e Purcell; fino a quel momento era andato tutto come previsto. «Ma questo non ti sorprende.» «No.» Si rilassò sulla sedia. «Non mi sorprende.» «Il messaggio era sul retro di una foto, la polaroid di una bomba» proseguì Sylvia. «Chi è? Che cosa vuole?» Dantes sorrise compiacente. «Gradirei un'altra sigaretta.» «È il tuo socio? Un ammiratore?» Sylvia si mise di nuovo a sedere e afferrò il pacchetto di sigarette. «Un imitatore? O un tuo leccapiedi?» «Non essere così banale.» Lei si portò la sigaretta alle labbra. «I federali perderanno la pazienza molto prima di me.» Si accese la sigaretta e inalò il fumo. «Dagli qualcosa su cui lavorare.» Dantes non rispose. Sylvia gli tese la mano, offrendo con quell'unico gesto la sigaretta accesa e un senso di intimità. Il detenuto accettò. «Una volta sognavo le mie vittime» mormorò. «L'ispettore ucciso dalla bomba dell'acquedotto. Aveva un figlio di due anni e un altro in arrivo. La sua ispezione non era prevista per il giovedì: l'aveva anticipata perché sua moglie voleva che si prendesse un lungo weekend di
vacanza. E la guardia di sicurezza? Quella donna aveva solo quarantun anni.» Si piegò in avanti, i lineamenti tesi. «Una volta li sognavo sempre, ma ho smesso subito dopo il Getty. Perché credi che abbia smesso, dottoressa Strange?» «Perché avevi dei nuovi incubi, nuove vittime.» Gli occhi di Sylvia erano accesi di rabbia. «La bomba al Getty ha ucciso un bambino, la sua insegnante e...» «Non sono io il responsabile.» «Le prove...» «... erano circostanziali. Hai parlato con i ragazzi della squadra Artificieri e adesso è cambiato tutto. Mi hai voltato le spalle.» «Io non sono mai stata dalla tua parte.» «Oh, io invece credo di sì, dottoressa Strange. È solo che non vuoi ammetterlo.» Sospirò. «Tu e io ci somigliamo molto. Tutti e due vogliamo giocare a fare Dio... Tutti e due andiamo oltre i nostri limiti. E c'è gente che resta ferita.» «Tu sei un assassino.» «Hai ragione» mormorò Dantes. Rialzò lo sguardo e negli occhi c'era di nuovo quella tristezza intensa, finta o reale. Prese un respiro, liberandosi fisicamente di un peso. «Ma non abbiamo ancora risposto alla domanda, dottoressa Strange: perché tu? Però te lo immagini, vero?» Sorrise. «Parliamo di Mona Carpenter.» Sylvia si alzò in piedi. «Suo marito deve proprio odiarti» continuò Dantes, tranquillo. Si abbandonò sulla sedia ed espirò, seguendo con lo sguardo i riccioli di fumo. «Mona aveva un figlio, vero? Nathan. Il piccolo Nate.» Sylvia si voltò e si avviò verso la porta. «Sappiamo tutti e due come ci si sente ad assistere alla morte di qualcuno che contava su di te per rendere il suo mondo più sicuro.» Il tono di Dantes si fece incalzante. «Mia madre contava su di me. Mona Carpenter contava su di te.» Sylvia sollevò la mano per bussare sul metallo: il segnale per essere liberata. Dantes non le staccava gli occhi dalla schiena. «Hai mai visto cosa succede quando esplode una bomba? Hai mai visto la portata della distruzione?» domandò. «Se adesso te ne vai, altri innocenti moriranno. Bambini, madri, nonne.»
Sylvia si immobilizzò. Non si fidava a muoversi. Poi, finalmente, si voltò verso di lui. «È per questo che sei diventato un dinamitardo? Per colpire gente innocente? Pensavo che John Dantes volesse salvare il mondo.» «C'è stata un'epoca in cui credeva di poterlo fare... Salvare il mondo.» «Mi fa piacere sentire che credevi in qualcosa» disse Sylvia. Tornò verso il tavolo. «I miei obiettivi erano selezionati in modo da contenere i danni ed evitare vittime. Ovviamente, questo non è sempre possibile. Io avevo una storia da raccontare. Dovevo fare in modo che la gente ascoltasse.» «Tu credi davvero che abbiano sentito il tuo messaggio?» domandò Sylvia con durezza. «Ti hanno etichettato come schizofrenico, psicotico, disadattato.» Quelle parole le aveva come sputate. «Dovresti sentirli, nei talk-show televisivi. Sono sempre divisi al cinquanta per cento: o ti vogliono sposare, o ti vogliono uccidere. È questa la tua eredità.» Gli si avvicinò, abbassando la voce per lasciare spazio all'insinuazione. «Nessuno sta a sentire John Dantes. Ti reputano un codardo.» «Ascolteranno» dichiarò l'uomo con freddezza. «Prima che sia tutto finito, ascolteranno.» Sylvia lo fissò, come se guardandolo abbastanza a lungo e con cocciutaggine avesse potuto penetrargli nella mente. Invece si ritrovò risucchiata dall'energia di quell'uomo, impressionata dalla sua intensità. Voltò di scatto la testa. «Ci serve il tuo aiuto.» Era di nuovo consapevole di Purcell e Church. Il corpo tradì il cambio di marcia interiore e Sylvia sentì l'incrinatura nella propria concentrazione, come un attore che di colpo si accorga di recitare. A Dantes questo non sfuggì. «Salve, Church» disse con cordialità, seguendo i pensieri di lei. Si sistemò sulla sedia. «L'adorabile Miss Purcell è con lei, oggi? Ti prego di scusare la mia scortesia, dottoressa Strange, ma sto parlando con i miei vecchi amici della task-force.» Il sorriso di Dantes era insinuante. «I miei amici sono molto preoccupati, giusto?» Voltò la testa prima a sinistra, poi a destra. Il suo atteggiamento era cambiato, la sottile patina di calma stava scivolando via. L'ansia aveva cominciato ad affiorare, come qualcosa di informe appena sotto la pelle. Lottando per mantenere il controllo, focalizzò l'attenzione su Sylvia. «Cos'è che li preoccupa?» «Prova a indovinare.» «Un dinamitardo? Io non credo.» Si raddrizzò sulla sedia, visibilmente teso. «Sono preoccupati di aver combinato un casino con l'indagine Getty.
Hanno condannato l'uomo sbagliato.» Si picchiettò la testa. «Volete sul serio aiuto da me, dal carcerato?» Sorrise, mentre gli occhi elettrici raggiungevano il loro punto di convergenza. «Dal pazzo?» Sylvia cercò di leggere le emozioni sfuggenti su quel viso pallido, ma Dantes si ritrasse di colpo in se stesso. «Una domanda, dottoressa Strange: come ci si sente quando crei un ordigno, lo piazzi in un punto predeterminato e lo fai detonare... con la consapevolezza che distruggerai cose e forse vite umane?» «Dimmelo tu. Sei tu l'esperto in materia.» «Ma tu sei la psicologa. Cosa suggerisce il profilo?» «Non esiste un profilo attendibile dei dinamitardi: i dati dello studio effettuato nel novantadue sono pieni di varianti. Lo sai benissimo.» «Ma l'Fbi adesso sta lavorando a un altro piccolo progetto. Che ti piaccia o no, tu fai parte della squadra. Hai scritto un libro sui disturbi affettivi. Deve essere la moda psicologica del giorno rivelare se stessi. Lo strizzacervelli come confessore. Al centro del tuo sforzo letterario c'era tuo padre... Ti ha abbandonata, vero, Sylvia? Non sai ancora se è vivo o morto.» Scrollò le spalle. «Ma questo è il passato. Guardiamo al presente, invece. Nel corso degli ultimi diciotto mesi hai pubblicato alcuni tuoi lavori su "Homicide Studies", sulla rivista dell'Associazione psichiatri d'America e sul "Giornale delle scienze comportamentali". Hai scritto anche un capitolo per il tuo amico immaginario, Leo Carreras, sull'attaccamento patologico. Tu hai detto cose sensate, lui solo stronzate.» Dantes protese la mascella in avanti come per farsi colpire da un pugno e aggiunse: «A te piacciono da morire i casi difficili. Violentatori, psicotici, terroristi... la dottoressa Strange tiene duro e non molla. Non fa come il suo papà. Date alla nostra bella signora un bel dollaro lucente!» La bocca era una linea diritta. «Per altri venticinque centesimi: cosa significano Sinai e Olivet?» «Non lo so.» Sylvia scosse la testa, frustrata e spaventata; lo sguardo le scivolò sull'orologio. Il tempo passava e Dantes stava giocando. «Il Monte Sinai?» domandò. «Mosè, l'ascensione e le buffe vetture di Angels Flight. Mia madre mi mostrò per la prima volta quella funicolare quando avevo cinque anni e il biglietto costava cinque centesimi. Simmetria perfetta.» «Tu hai scritto di tua madre...» «Ultima corsa alle dieci» l'interruppe Dantes. «La possibilità di vedere Bunker Hill in tutto il suo splendore. Ti ho mai raccontato la storia di Pru-
dent Beaudry? Si era comprato quel pezzo di terra per cinquecento sacchi e gli ha dato il nome della famosa battaglia.» Si stirò nelle catene. «Se vuoi conoscermi» continuò «va' a vedere la mia città di angeli caduti. Cos'ho scritto su quel posto?» Il sorriso era privo di allegria. «Fa' il tuo compitino... io il mio l'ho fatto.» Il corpo si piegò in avanti nel giubbotto antiproiettile e la voce si abbassò a un sussurro: «Non ti invidio il lavoro che dovrai fare». Sylvia aprì la bocca, ma non uscì alcun suono. «Consumerai momenti preziosi della tua vita cercando di assorbire John Freeman Dantes. Cosa pensa e cosa sente, cosa ama e cosa odia. Cercherai di inserire i suoi crimini in un contesto che non solo abbia senso, ma spiegherai anche moventi e metodi di futuri dinamitardi. Se Dantes ha messo una bomba al Getty, perché per quindici anni si era dato tanto da fare per evitare vittime? Perché prende di mira la città che adora? Perché il tutto non è una bella risposta coerente in confezione regalo?» Scosse la testa. «Ti darai da fare per scoprire verità sorprendenti, ma alla fine...» «Per favore, aiutaci» lo pregò Sylvia, sfinita e delusa dal fallimento che vedeva profilarsi. «C'è una bomba, là fuori. Non abbiamo tempo per...» Dantes la interruppe bruscamente. «Abbiamo fin troppo tempo.» In un gesto di disgusto Sylvia si scostò dal tavolo. «Tu dici di amare questa città, però non vuoi fermare un dinamitardo che minaccia di mutilare e uccidere gente innocente.» «Non hanno un solo indizio, non sanno con chi hanno a che fare.» Lo sguardo di Dantes scivolò sulla sua visitatrice per fermarsi sulla parete, come se avesse potuto vedere i nemici dall'altra parte. L'arroganza gli raddrizzò le spalle, quasi allungandogli i muscoli. Scosse la testa. «Non un solo indizio del cazzo.» «Allora aiutali, aiutaci, invece di divertirti con il tuo giochetto privato.» Dantes riportò il suo sguardo febbrile su Sylvia e la fissò per un momento, come per memorizzarne i lineamenti. Parlò con voce stanca: «Il colloquio è finito». «Io non me ne vado.» Sylvia si alzò in piedi e strinse il bordo del tavolo con entrambe le mani, le nocche bianche. «Tu scrivi di giustizia, parli di compassione... è tutta una bugia?» «Mona Carpenter ti aveva promesso di non uccidersi?» Sylvia chiuse gli occhi. «Sì.» «Ti aveva mentito?» Dantes si piegò in avanti, lottando con le catene fino a gonfiare i tendini del collo. «O aveva mentito a se stessa?»
«Non lo so.» «Nel tuo cuore, non nella tua mente... nel tuo cuore, credi che avresti dovuto salvarla?» «Sì.» «Hai ragione» sussurrò Dantes. La fissò a lungo, poi chiuse gli occhi. «Lei aveva bisogno di te.» Sylvia ebbe la sensazione di cadere nel vuoto, come se lui di colpo avesse fisicamente mollato la presa. «Non ho le informazioni che ti servono» disse Dantes. «Maledetto te! Adesso ti dico io perché hai chiesto di me: tu hai paura. Sei un essere umano, non un dio: hai chiesto di me perché ti serve il mio aiuto.» «Colui che viola il proprio giuramento profana la divinità della fede stessa» cantilenò Dantes. «È scritto sulla pietra, alla sorgente.» «Tu di notte non riesci a dormire perché gli incubi non se ne sono mai andati. Tu vuoi un'assoluzione.» «Di' ai ragazzi della squadra Antiterrorismo che io non posso aiutarli.» «Stai mentendo!» Per la prima volta Dantes lasciò che l'intensità della propria rabbia emergesse d'improvviso in superficie. Un'ombra gli trasformò i lineamenti, dando al viso un'espressione fredda e sinistra. Strattonò le catene, che sferragliarono contro la parete metallica. «Non venire a dire a me cos'è la verità del cazzo!» Mentre le parole echeggiavano nella stanza, la creatura primordiale si tuffò di nuovo, scomparendo nelle profondità di un fangoso mare psichico. Il corpo di Dantes venne scosso da un tremito. E allora un pensiero improvviso colpì Sylvia, un pensiero rapido, fuggevole e arcaico: stava osservando un uomo che precipitava nella follia. Che cosa poteva riportarlo indietro? I muscoli di Dantes erano così tesi che le mani gli tremavano. «Benvenuta nel mio umile inferno» mormorò. Ore 9.09 Sylvia era certa che Dantes le avesse mentito, certa che le avesse detto qualche verità. Menzogna e verità, oscurate l'una dall'ombra dell'altra. L'ossigeno riciclato che respirava era lo stesso che era entrato nei polmoni di John Dantes. Ma quell'intimo scambio di molecole non aveva con-
sentito alcun accesso alla mente di un dinamitardo, ai suoi pensieri, a ciò che era realtà e a quello che era invenzione. Uscì dalla gabbia proprio mentre vi entrava lo sceriffo; la porta si richiuse con fragore metallico alle spalle dell'uomo. Si ritrovò sola nel sotterraneo in penombra; nessun segno di Purcell o Church. Rimase immobile qualche momento per ricomporsi. Detestava non avere risposte: se si trattava di persone e del loro comportamento, il bisogno di sapere il come e il perché era inciso in profondità nella sua psiche. Era stato quel bisogno a spingerla a diventare psicologa. Da ragazza aveva pensato che le risposte potessero cambiare il mondo. Adesso accettava il fatto che piccole schegge di verità fossero spesso un fatto eccezionale. Ma anche un frammento di verità poteva salvare una vita. Si avvicinò a passo svelto agli ascensori, salì al piano terra del Roybal Federal e uscì in quello che si aspettava essere l'atrio. Invece si ritrovò in un corridoio illuminato da abbaglianti luci fluorescenti. Quel percorso le era ignoto: si trovava in un'area che di solito non veniva mai vista dai civili. Passò accanto a due sceriffi, spinse una pesante porta rinforzata ed entrò nel mondo dei burocrati. I passi erano attutiti da una moquette a buon mercato color erba. Gli stretti corridoi erano verniciati di verdazzurro invece del solito beige e i lavori artistici dei detenuti vicini di casa erano incorniciati e appesi con cura. Sylvia si scontrò con l'agente speciale Purcell, che comparve d'improvviso da una svolta del corridoio. «Mi segua» le ordinò la donna. «Dov'è Church?» domandò Strange, tenendo il passo dell'altra. «Al posto di comando.» Purcell spinse un portoncino e uscì nell'aria rovente e nella luce accecante del sole. «Quale posto di comando?» «Grazie a Dantes» rispose Purcell «abbiamo una bomba.» 8 La bomba ha un cuore. Se non mi credete, provate a tenere tra le braccia un fagotto ticchettante e ditemi se non sentite l'eccitazione di una nuova vita. Manifesto di Mole
Ore 9.11 Il richiamo del pericolo esercita una sua particolare influenza, come la forza gravitazionale. A disagio nell'aria afosa e troppo luminosa, M si avvicina all'ombra dell'edificio in Spring Street proprio mentre arriva la prima ondata di funzionari di polizia e della sicurezza pubblica. Un quartetto di uomini concentrati e serissimi scende dalle auto; devono vedersela con la minaccia di una bomba. M riconosce il detective Church, Dipartimento di polizia di Los Angeles, che sta dando ordini per creare un posto di comando. Anche M ha buoni motivi per trovarsi qui. Credenziali. Il battito del suo cuore non accelera minimamente quando un poliziotto gli taglia la strada, spingendolo quasi da parte. Intorno a lui impiegati, turisti e residenti che popolano cortili e marciapiedi sono ancora ignari dei cambiamenti nell'atmosfera. Ma non lo saranno per molto. M osserva una berlina priva di contrassegni spuntare da Spring e dirigersi verso Tempie. In distanza, un mezzo dei vigili del fuoco romba sul selciato. È troppo presto per le sirene. La prassi ufficiale d'emergenza prevede il mantenimento dell'ordine e il controllo della popolazione, evitando panico e caos. M ha sempre trovato interessante lo studio della psicologia sociale, il comportamento delle masse. La paura collettiva segue sempre un corso sorprendentemente prevedibile. In questo preciso momento, M percepisce il primo cambiamento; è sottile, ma in rapida progressione. Le espressioni si modificano: i visi dei passanti mostrano dapprima sorpresa, poi preoccupazione. La gente si scambia occhiate, ma nessuno è davvero spaventato. Non ancora. Nel giro di qualche minuto, una mentalità da stato d'assedio avrà la meglio sul normale ritmo burocratico della vita quotidiana. Il pericolo è qualcosa che M conosce bene, fa parte del mestiere. Nitrato d'ammonio. Anidride acetica. Paraformaldeide. Petn. Acetone. Olio minerale. Datasheet. M-118. M-186. Ricette per la distruzione di massa. M è il cuoco e le sue mani esperte dall'ossatura quasi delicata trovano sempre il bersaglio. Le mani di un dinamitardo, segnate nella carne dall'esperienza. Le mani di un artista. Di un uomo estremamente cauto e attento. Prepara sempre un detonatore perfetto.
Controlla sempre tutto due volte. Vestiti sempre di cotone, seta o lana: le fibre create dall'uomo fondono. Non permetterti mai di diventare troppo insolente o spavaldo, a meno che non ti sia stancato di questo mondo. Mai dare la schiena alla bestia. Le regole d'oro per l'arte della morte improvvisata. Ce ne sono molte altre. Regole per la cucina. Regole per quando si è sul campo. M le ha imparate nel corso degli anni, le ha imparate nel modo più duro. Come Dantes... anche lui conosce le regole di sicurezza. Con un sorriso esitante M chiede a una passante: «Cosa sta succedendo?». Vede la donna esaminarlo rapidamente, un po' preoccupata. Sente la risposta: «Forse un incendio?». Poi la donna riprende a camminare veloce. Ah, sì: adesso M li sente reagire; le deboli infiltrazioni di panico sono come sangue che si spande nelle acque calme dell'oceano. Prova a indovinare: la polizia cederà e deciderà l'evacuazione. Il messaggio minatorio implica un rapporto con Dantes; la posizione, l'importanza degli occupanti dell'edificio e il suo peso simbolico per Los Angeles sono tutti elementi che fanno pendere la bilancia a favore di misure precauzionali extra. La ricerca standard di un ordigno esplosivo in un grande palazzo d'uffici viene effettuata al meglio se svolta da dipendenti informati della situazione e da funzionari pubblici, senza procedere all'evacuazione. Costa meno ed è più efficiente lasciare che sia il personale della sicurezza dell'edificio stesso a controllare il territorio familiare, con il supporto dei vigili del fuoco e della squadra Artificieri, che si occuperanno di eventuali ordigni o oggetti sospetti. Di solito il risultato è zero assoluto. La maggior parte delle minacce di bombe è infondata. Ma questa non è la solita minaccia standard. Rientra tutto nel grande piano. L'"Operazione Inferno". Attentamente orchestrato, già conficcato nel cuore stesso della città, nelle sue vene e arterie, nel suo sistema nervoso centrale. M ha impiegato mesi per elaborare una meticolosa griglia di distruzione. E adesso l'inferno è solo a un tiro di schioppo. Osserva gli agenti dell'Fbi e dell'Atf - petto in fuori e pronti a marcare i rispettivi territori - arrivare a bordo dei vari mezzi di servizio. M sta bene attento a non ridere a voce alta. Però, accidenti, si sente proprio bene.
Arriva sempre, non manca mai il momento in cui la poesia, il lato artistico, prende il sopravvento, e allora la tecnica, la precisione, il dolore sbiadiscono sotto un ronzio puro e rarefatto. M adesso sta canticchiando a bocca chiusa. È invisibile, si fonde nell'ambiente con il suo atteggiamento deciso e supera il perimetro di sicurezza mostrando le sue credenziali. Nessuno inarca neppure un sopracciglio. M è un uomo che crea la propria storia. Mesi prima ha deciso che avrebbe ottenuto un impiego presso una società di consulenza. Con il suo curriculum, come potevano non assumerlo? È suo compito valutare i danni provocati dai terremoti, mappare i sistemi sotterranei, conoscere le infrastrutture della città e il loro funzionamento, in condizioni normali e in situazioni di crisi. Anche lui è responsabile della sicurezza pubblica. Annuisce quando gli dicono: «Le comunicazioni radio sono proibite. Si presenti al posto di comando». «Bene.» M osserva la folla, cercando occhi in cui compaia un lampo di riconoscimento, visi che firmino la loro stessa sentenza di morte, perché lui non si può permettere di essere riconosciuto. È in piedi a meno di millecinquecento metri dal Metro Detention e dal Roybal Federal Building. Sente drizzarsi i peli sulle braccia. Dantes è così vicino che dovrebbe riuscire a leggere nella mente di M. Sto pensando ai nostri anni insieme; specialmente a quel giorno, quando io sono morto e tu invece sei andato avanti, diventando il professore stimato, il dinamitardo clandestino e fuorilegge, l'autore famoso e l'eroe idolatrato. Se il tuo pubblico avesse saputo la verità, ti avrebbe sbattuto giù dal piedistallo molto tempo prima, Dantes. So maledettamente bene cosa stai pensando, amico mio. Sei di fronte al dilemma del codardo. Hai vissuto una menzogna. Non è meglio portarla con te nella tomba? Sei intrappolato in un incubo, e l'unica via d'uscita è giù, all'inferno. Io non ho mai scelto la strada del codardo. Io ho accettato la mia punizione da uomo. E ho coltivato il mio rancore finché non mi ha scavato un dolce buco nel cervello. Io sono morto. Il sorriso svanì. E tu non ti sei presentato al mio funerale, Dantes.
9 Per quanto riguarda il terrorismo contemporaneo, i criminologi devono focalizzare l'attenzione sul dinamitardo politico, sull'uomo convinto che l'importanza della propria causa giustifichi la morte di persone innocenti. Leo Carreras, M.D., Ph.D., e Sylvia Strange, Ph.D., Profili del terrorismo del ventunesimo secolo Ore 9.21 «Allontanatevi dalle transenne!» Sylvia si manteneva vicina all'agente speciale Purcell. Si trovavano davanti al palazzo federale, all'angolo fra Tempie e Los Angeles Street; un poliziotto in uniforme si sforzava di restare calmo mentre manovrava un cavalletto, spingendolo verso una ressa crescente di curiosi. «Cosa accidenti sta succedendo?» domandò al poliziotto un donnone arrogante che indossava una specie di pareo rosso brillante. «Ho delle pratiche da consegnare all'ufficio del sindaco.» «Niente consegne, signora. Si allontani dalle transenne, per favore.» «Col cavolo! E non mi importa se fa tanto il gentile, perché io...» Dopo un attimo di fuggevole comprensione per il poliziotto, Sylvia escluse mentalmente il dialogo e si concentrò su Purcell, che camminava molto veloce. Avanzarono su Tempie verso Main Street. Tra brandelli di secche conversazioni della Purcell al cellulare e un interrogatorio con risposte monosillabiche, Sylvia stava ricavando un quadro generale della situazione. Le autorità avevano deciso di isolare un perimetro di cinque isolati tra First e Tempie, da Hill a San Pedro; il traffico automobilistico cominciava già a rallentare, serpeggiando intorno ai gruppi di curiosi. Sotto la direzione di poliziotti in uniforme, un flusso regolare di pedoni aveva appena cominciato a defluire dall'area fortificata. Polizia, vigili del fuoco e personale dei servizi d'emergenza stavano lavorando con cupa efficienza. Erano in azione: codice 2, urgente, niente sirene. La squadra Artificieri stava arrivando per iniziare la ricerca di una bomba, ricerca che si sarebbe basata su informazioni derivanti dal colloquio di
Sylvia con John Dantes. Ma quali informazioni? Purcell si rifiutava di fare commenti in merito, era troppo occupata con il suo cellulare. Mostrò il distintivo al nervoso agente di guardia a un'altra transenna, questa all'angolo di Main Street, poi procedettero verso sud. Sylvia pensò che il complesso del Civic Center, con le sue piazzette, stava cominciando ad assumere l'aspetto surreale di una città abbandonata. Mentre seguiva l'agente federale nell'ombra proiettata da un alto edificio, sentì della musica esplodere da una radio e una fluida voce maschile che, cantando, invitava l'ascoltatore a Live and die in LA, vivere e morire a Los Angeles. Il suono sfumò per poi esplodere di nuovo: "Amo la California come amo le donne...". Il resto della canzone andò perduto mentre Purcell la sollecitava a muoversi. «Church vuole parlare con lei.» Sylvia vide il detective che stava parlando con due uomini e una donna; erano distanti una cinquantina di metri, in fondo alla strada. A quanto pareva, il posto di comando consisteva in due berline senza contrassegni disposte ad angolo, con un furgone della squadra Artificieri a circa cento metri dall'entrata sud di City Hall. «Il nostro supervisore sarà qui da un momento all'altro» continuò Purcell. «Il capo della polizia sta arrivando da Westwood.» L'agente federale fece un sospiro. «L'evacuazione è cominciata dall'ufficio del sindaco.» «La bomba è a City Hall?» Purcell rispose al telefono e non alla domanda. Sylvia si allontanò dall'agente, parlandole da sopra la spalla: «Non sono stata io a voler entrare in questa faccenda... avete chiesto voi il mio aiuto». «Dove sta andando?» le domandò Purcell, con una mano sul microfono. Senza rallentare, Sylvia indicò Church. Con il cappello grigio in testa e il distintivo fissato alla cintura, il detective faceva la spola tra il furgone e le auto. Le lanciò un'occhiata e sollevò un dito in una specie di saluto, mentre contemporaneamente abbaiava al cellulare. A causa del pericolo dell'accidentale detonazione di un eventuale ordigno esplosivo, le comunicazioni radio sarebbero state tenute al minimo. Sylvia guardò dietro di sé e vide due agenti dell'Atf - identificabili dalle giacche - attraversare di corsa la strada. Poi vide l'agente speciale Purcell correre da loro, cercando di allontanarli. I riccioli scuri della donna arriva-
vano a malapena a solleticare il mento degli uomini dell'Atf, ma lei aveva gonfiato il petto, pronta a dare battaglia nella guerra territoriale delle agenzie. Se la situazione fosse andata come al solito, il Dipartimento di polizia, quello dei vigili del fuoco e i vari enti di emergenza e sicurezza si sarebbero uniti alla festa... e tutti avrebbero cercato di essere il capobranco. Le questioni relative alla giurisdizione delle varie agenzie non erano mai facilmente risolvibili, in particolare nelle aree ad alta densità urbana, dove era impossibile tracciare confini netti e indiscutibili. Sylvia passò accanto ai veicoli e al posto di comando e proseguì per altri sei metri circa, fino all'angolo di First Street. Si fermò accanto alle transenne. Sentì piangere un bambino, vide le facce degli spettatori curiosi, senza focalizzare però i lineamenti individuali. Persone ed edifici sembravano fondersi insieme, sciolti dal calore, dallo stress e dall'illusione ottica. I precedenti novanta minuti ora si facevano sentire e la tensione con cui Sylvia era riuscita a convivere per tutta la mattinata adesso aveva rotto gli argini, abbattendo ogni difesa. Si sentiva stanca, inadeguata, spaventata... e questa era la buona notizia. M stava guardando. Doveva essere così. Aveva messo in piedi uno show spettacolare e si era procurato un biglietto di prima fila. Estraendo una sigaretta dalla tasca, Strange lasciò scivolare lo sguardo sulla distesa d'asfalto e lo fermò su City Hall, attirata dalla torre di ventotto piani: la ziggurat di Los Angeles. COLUI CHE VIOLA IL PROPRIO GIURAMENTO PROFANA LA DIVINITÀ DELLA FEDE STESSA. Gli enormi caratteri erano scolpiti sopra l'ingresso sud di City Hall. Sylvia ebbe l'impressione che dietro il plesso solare le si aprisse uno spazio vuoto. «Non se la prenda, Doc. Dantes ha lanciato la palla ben sopra la sua testa, mirando diritto al mio guantone.» La voce arrugginita e gracchiante era quella del detective Church, che notò gli occhi di Sylvia: come i suoi, anche quelli della donna mandavano un bagliore freddo e duro. «Merda, devo essere passato sotto quella scritta un milione di volte. Ho lavorato come collegamento con l'ufficio del sindaco. Dantes lo sa.» «Lei l'aveva capito subito?» gli domandò Sylvia, arrabbiata. Con se stessa, con Church e specialmente con Dantes. «Marco Tullio Cicerone» disse Church. «Il più grande oratore di Roma.
Io sono uno di quelli che leggono le scritte sui muri. La storia si ripete: Dantes ha piazzato una bomba qui nel 1988.» «Una bomba finta» precisò Sylvia, ricordando la pratica che aveva esaminato qualche ora prima. «Sì, era fasulla.» «E così, adesso avete una bomba all'interno di City Hall» sussurrò Strange. Stava osservando le infinite tonnellate di cemento, di marmo e di acciaio e stava ripensando a Oklahoma City. Si sentì stringere lo stomaco. Fece istintivamente un passo indietro. «Oppure è un altro falso allarme.» «Non scommetta mai su un falso allarme» ribatté Church; la voce era un basso brontolio. Stava sudando e in viso gli erano comparse delle chiazze rosse. «La bomba c'è finché non dimostriamo il contrario e, come la mia cara, vecchia mamma mi ha detto più di una volta: non cercare mai, mai di essere più furbo di un furbo.» «Sua madre aveva ragione.» Con le mani che le tremavano, Sylvia si accese la sigaretta, perversamente grata per il fumo caldo nei polmoni. Mentre le volute gli aleggiavano davanti al naso lentigginoso, Church disse: «Potrei arrestarla, per questo». Sylvia tese un polso. «La prego. Non faccio che provare a smettere.» Il detective sbuffò. «Lei la settimana scorsa non era qui a godersi il triplice spettacolo.» Nella voce c'era una nota di commiserazione. «L'Mdc è andato vicino tanto così all'evacuazione tre volte in ventiquattr'ore. Quegli stronzi mi hanno rovinato il mio codice 7.» «Me lo sono perso.» Codice 7 era il gergo dei poliziotti per indicare la pausa pranzo; Sylvia aveva imparato a tradurre quel codice. «Peccato per le sue ciambelle.» Il detective Church le lanciò un'occhiata di traverso, inarcando un sopracciglio. «Forza, adesso la aggiorno» dichiarò, già diretto verso il posto di comando. Mentre camminava, estrasse il cellulare, rispondendo alla chiamata a vibrazione. «Qui Church.» Sylvia si voltò a guardare City Hall, mentre il detective informava il suo interlocutore: «Gli ultimi civili sono già fuori. I nostri hanno già controllato il parcheggio e i piani terra. Adesso sono al primo e al secondo. Riceviamo aggiornamenti piano per piano». Church rimase in silenzio, poi grugnì diverse volte. Tenendo il telefono in mano, studiò Sylvia. «Là, al Roybal, abbiamo saltato un passaggio.» «Il debriefing.» «Giusto.» Church si sistemò la falda del cappello. «Mentre era con Dan-
tes, lei ha visto quello che noi abbiamo soltanto ascoltato. Ritiene che siamo sulla strada giusta? Mi dia la sua sensazione viscerale.» Fissando il poliziotto, Sylvia si ritrovò a guardare in due buchi neri: le lenti opache degli occhiali da sole. Le lentiggini sul naso di mezz'età si stagliavano sulla carnagione rosea. In fondo al cervello Sylvia registrò il rumore lontano di un jet, ma i pensieri erano concentrati sull'Inferno di Dantes: la Città degli Angeli nel ventunesimo secolo. Una settimana prima aveva perso quel maledetto libro... non l'avrebbe mai ammesso, era troppo freudiano. Ma l'aveva sostituito con un'altra copia. Nel libro Dantes non aveva fatto alcuna rivelazione sulla sua vita segreta di dinamitardo, concentrandosi invece sulla storia, la conformazione, l'ecologia e la sociologia della città. Con partecipazione e nostalgia, aveva scritto di un'amante: la Città degli Angeli come mirica compagna, Los Angeles come anima. Era giusto che Dantes adesso fosse prigioniero nel centro geografico della sua ossessione, dove i confini fisici e mentali si fondevano. Dove il mondo veniva capovolto dalla minaccia della distruzione esplosiva. Giusto anche che usasse il linguaggio dell'architettura - la struttura sintattica della sua città - per parlare a quelle autorità che disprezzava. Sylvia si passò la lingua sulle labbra secche. «Quand'ero là dentro, quando gli ho dato del bugiardo, gli è esplosa la rabbia. Dantes è crollato. Disintegrato.» Annuì. «La mia sensazione viscerale: ci ha mandati a cercare una bomba. Ma se stia lavorando in combutta con l'attentatore o semplicemente approfittando di un'opportunità... questo non lo so.» Church parlò al cellulare: «Ha sentito, Sweetheart?». Sweetheart... E nella mente di Sylvia ci fu il clic: conosceva di reputazione un certo professor Edmond Sweetheart, uno psicolinguista, un analista antiterrorismo che era diventato una piccola leggenda nei circoli dell'intelligence e che aveva avuto un ruolo determinante nell'indagine Ben Black-Abu Mohammed in Medio Oriente: in sintesi, Black, il ricercato numero uno dell'Fbi tra gli specialisti di esplosivi, era rimasto ucciso quando un Tomahawk americano si era abbattuto su un campo d'addestramento per terroristi nel Nord Africa... Merda. Edmond Sweetheart non era parente di una delle vittime del Getty? «Come dice?» domandò Sylvia, d'improvviso nuovamente consapevole della presenza di Church.
«Dicevo: non mi fraintenda. Ma là dentro, con Dantes, il messaggio le è sfuggito. Le è sfuggito perché lui l'ha coinvolta. E se lui la coinvolge... degli innocenti moriranno.» La voce svanì, mentre Church guardava il furgone nero corazzato della squadra Artificieri fermarsi accanto alle auto bianche e azzurre della polizia. Fece per allontanarsi, ma poi si voltò a guardare la folla crescente di curiosi. «Io non voglio che Los Angeles paghi per le stronzate di Dantes. Mi capisce?» La voce era bassa. «Non se ne vada, Doc. Avremo bisogno di lei.» Sylvia spense la sigaretta sul palo metallico di un lampione stradale e seguì il detective verso il posto di comando. Ore 9.47 Cercava di non intralciare nessuno: investigatori, personale d'emergenza e funzionari della città. Sylvia registrava i loro dialoghi, la tensione, gli sforzi solo a livello subliminale, perché la sua attenzione veniva costantemente richiamata da attimi isolati, carichi di energia: una voce alta nella folla, una sirena, un lampo di luce, l'odore di fumo, sudore e stanchezza. Sentiva la presenza di M. Anche gli agenti e gli investigatori intorno a lei la percepivano. Improvvisamente la città sembrava chiudersi intorno alla ziggurat: i moderni grattacieli noti come City Hall East, City Hall West, la sede del Dipartimento di polizia, il palazzo del "Times" un isolato più a sud, Spring Street, Main Street, il porto e le Hollywood Freeway. Quei due o tre chilometri quadrati ospitavano cinque livelli governativi: da quello federale allo statale, alla contea e alla città, per arrivare addirittura agli enti municipali. Ogni giorno andavano e venivano migliaia di persone. Avviandosi verso l'area transennata e il pubblico di curiosi, Sylvia sollevò una mano per toccare la catenella d'oro che portava al collo. Chiuse le dita intorno a qualcosa di piccolo e solido: un regalo di Serena. Strinse la minuscola icona della Vergine di Guadalupe, immaginando il viso angelico della sua figlia adottiva, i suoi occhi scuri e la pelle color caramello. Un rumore metallico la riportò bruscamente al presente. Dal furgone corazzato vide emergere una sagoma: un tecnico in completa tenuta di protezione. Con il passo rigido di un astronauta, l'uomo cominciò a camminare in cerchio per testare la propria mobilità. Sylvia trattenne il fiato finché
non lo vide scomparire di nuovo a passi pesanti dentro il furgone. Poi osservò i visi intorno a lei: vigili del fuoco, poliziotti, addetti ai servizi, tecnici della sicurezza, ognuno dei quali segnato dalla paura e dalla vigilanza spasmodica. In attesa della luce verde per il codice 10. Anche M stava aspettando. Ore 10.33 Passò meno di un'ora, prima che tutti capissero che non sarebbe successo. La temperatura era già salita intorno ai trentacinque gradi e tutti avevano i nervi scoperti. A parte i veicoli d'emergenza, le strade transennate erano stranamente deserte; al di là delle barriere, i pochi curiosi rimasti erano troppo silenziosi. Qualche isolato più a est, su Broadway, i marciapiedi traboccavano sicuramente di passanti e l'aria era satura della musica della città: il rumore degli ambulanti, le canzoni amplificate, le voci, il traffico... I suoni echeggiavano, rimbalzando sulle pareti ripide dei canyon urbani - burroni di cemento e acciaio - dove i rapaci dividevano i tetti con piccioni, ratti e scarafaggi. I vincenti dell'evoluzione... ignari che la morte distava solo un paio di isolati. Sylvia si premette il palmo sulla nuca; sentiva la pelle scottare. Il cielo era come un tendaggio giallo bluastro, sospeso tra gli edifici sbiancati. Il sole della tarda mattinata picchiava sul deserto di cemento, creando un bagliore oppiaceo. Sentì uno squillo stridulo e, con la coda dell'occhio, notò Church che rispondeva al telefono. Si morse l'unghia del pollice con gli incisivi appena un po' storti. M... chi diavolo era? E in che modo la sua vita si incrociava con il bizzarro racconto di John Freeman Dantes? "I dinamitardi non corrispondono a un profilo preciso e definitivo; come gli altri criminali, come gli altri esseri umani, sono motivati dall'avidità, dalla fede, dalla politica, dall'invidia, dalla patologia, dal bisogno, dalla paura, dalla rabbia e dalla vendetta. Forse ciò che li rende eccezionali è la loro resistenza a qualunque classificazione. E la loro disponibilità a uccidere indiscriminatamente." Sylvia sentì lo stomaco contrarsi in un grumo di paura: l'inevitabile tensione nell'attesa di sentire cadere anche l'altra scarpa.
Colui che viola il proprio giuramento profana la divinità della fede stessa. Una dichiarazione sul tradimento... D'impulso, Sylvia cercò la consolazione di un'altra sigaretta per tenere occupate le mani e sedata la propria chimica interiore. Vista attraverso le lenti degli occhiali da sole, la sommità dorata di City Hall rifletteva la luce, scintillando come un gioiello pacchiano e vistoso. Da quella distanza non c'era alcun pericolo evidente, l'edificio sembrava del tutto normale. Ma nell'immaginazione di Sylvia di colpo esplodeva, collassando su se stesso e scagliando frammenti mortali in tutte le direzioni. Nella mente le sfrecciarono le parole di Dantes: "Ultima corsa alle dieci... Bunker Hill in tutto il suo splendore... va' a vedere la mia città di angeli caduti". Dantes non ha ancora finito, con noi. Sylvia si voltò, avviandosi in fretta. «Dove crede di andare?» Per la seconda volta in quel giorno, Sylvia si scontrò con l'agente speciale Purcell, che teneva in mano un piccolo registratore. «Questa telefonata è arrivata poco fa.» Sylvia avvicinò il registratore all'orecchio. Sentì una voce stranamente artificiale, la voce di un uomo che si divertiva al suo stesso scherzo. "Vedo che John ha svelato il nostro piccolo segreto di Babele. Le sue bombe erano pensate per punire gli infedeli e i golosi. Ma i vostri avidi padri della città non hanno ascoltato. Adesso tocca a me. Niente bombe oggi... ma ci rivedremo domani." E poi l'uomo rise. "Benvenuti al terzo cerchio dell'inferno." 10 Uomo nella tana del topo, guardo il mondo dal basso, da un nido caldo e buio rivestito di rametti e ciuffi di pelliccia. Tutto ciò che vedo, là dove dovrebbe abitare Dio, è un cielo vuoto. Sono un uomo del ventunesimo secolo. Oppure sono un topo? Manifesto di Mole Ore 10.38 M preme il tasto di fine chiamata sul cellulare.
Good-bye. Ciao. Sayonara. La telefonata non può essere rintracciata - un gioco da ragazzi - a meno che i federali non guardino in alto. Nel qual caso li saluterà con la mano. Sta cominciando a conoscere gli attori. Gli agenti dell'Fbi, dell'Atf, del Dipartimento di polizia di Los Angeles e tutti gli altri. Sta cominciando a sentire un'affinità. Lui fa una mossa, loro fanno una mossa. Una sinergia perfetta. Un'autentica relazione simbiotica. Adesso, grazie al binocolo, li può vedere chiaramente dal suo nido d'aquila in cima al palazzo del "Los Angeles Times". Il suo punto d'osservazione privilegiato è stato scelto in onore della bomba di Dantes al "Times". Che fiasco era stato quello! Come se l'anarchia borghese di John avesse potuto effettivamente condizionare il corso della storia. È M l'uomo che condizionerà la storia. I federali ronzano stizzosi come insetti, delusi dal fatto che tutti i loro piani non abbiano portato a niente. M li capisce. Anche lui si sente depresso. Il suo metabolismo si abbassa sempre, come per un'alterazione chimica, dopo che ha fatto una consegna. È come se dentro diventasse fisicamente più leggero. Si apre un foro. Una qualche parte di lui è stata lasciata dietro di sé. È in un limbo. In cui galleggia fino al momento della detonazione, dell'esplosione. A quel punto si ricarica. Dopo decenni M è convinto che questo sia parte integrante del suo essere. M vive all'interno dello spazio di tensione tra azione e reazione. Le sue azioni: scegliere un obiettivo. Costruire una bomba. Sentirla prendere vita. Guardarla morire mentre vive. Per un momento, il sole di Los Angeles viene eclissato da un ricordo recentissimo e i neuroni trasportano M nel suo laboratorio sotterraneo, nel bunker privato dove crea i suoi ordigni di distruzione. "My old flame, I can't even think of this name." Il suo pappagallo, Nietzsche, un grigio africano, si unisce a lui nell'ultima nota della canzone, la voce tremula come quella di un cantante da night con un megafono. L'uccello agita entrambe le ali e abbassa la testa, inchinandosi come d'abitudine al suo pubblico di un solo spettatore. Un'unica penna azzurra della coda cade volteggiando dal posatoio e atterra sul pavimento spoglio del seminterrato, accanto a una decina di sacchetti di lettiera per gatti. "Non posso applaudirti, adesso." In quel momento le mani guantate del cuoco sono occupate a versare, attraverso un imbuto, acido solforico in
una bottiglietta di vetro. Delicatamente. Con attenzione controlla la nascita di una miccia ad azione capillare. L'olio di vetriolo, chiaro e corrosivo, si avvicina alla metà della bottiglia. Alcuni di questi materiali hanno più di quindici anni: lui e Dantes li hanno comprati da un vecchio a Pomona. Da ottimi amici quali erano, si dividevano addirittura chip, circuiti, clip... Sorridendo sotto la maschera, il cuoco alza la bottiglietta a beneficio di Nietzsche. "Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, amico mio?" Il pappagallo flette e contrae una zampa. "Vuoto, amico mio" gli fa eco, rauco. "Nietzsche il pessimista" sussurra il cuoco, chiudendo la bottiglia con un tappo di gomma, rivestito di cera e con un unico foro al centro. Non è un uomo grosso - senza la maschera da saldatore modificata e il pesante grembiule in gomma, arriva a malapena a settantacinque chili - ma in quell'ambiente ristretto si sente sempre sovradimensionato. Il locale è arredato nel modo più spartano possibile, ma ha tutto per soddisfare le sue necessità: due tavoli da lavoro, quantità industriali di lettiera per gatti altamente assorbente, bicarbonato di sodio, il suo semplice bicchiere, attrezzi di plastica per mescolare e solo quei prodotti chimici essenziali per l'operazione del momento. Ha installato la cappa aspirante e la canna fumaria perché entrambe sono assolutamente necessarie per eliminare le esalazioni che certi giorni lui provoca. Ma non durante questa particolare sera. Nietzsche non gli tiene mai compagnia, quando deve lavorare con esalazioni chimiche pericolose. M posa la bottiglietta di acido sul tavolo più piccolo, attraversa la stanza in quattro passi e raggiunge l'area di lavoro più vasta. Le sue provviste sono disposte ordinatamente. Sacchetto di plastica. Vasetto nuovissimo di vaselina. Zucchero. Clorato di potassio. Ciotola e spatola per mescolare. Tubo. Tappi. La bellezza di una pipe bomb è il contenimento. Il tubo funziona come un grembo metallico, all'interno del quale i gas surriscaldati (creati da una polvere esplosiva, in questo caso un esplosivo a lenta combustione) si espandono fino a generare una pressione sufficiente per determinare l'esplosione. Il cuoco sta utilizzando una delle sue ricette preferite per il ripieno: clorato di sodio e zucchero, che, come il nitrato di ammonio e il carbone di legna, è altamente igroscopico e assorbe l'umidità come una spugna.
Tutto sommato, è più semplice che cucinare biscotti. Purché nemmeno una traccia del contenuto contamini accidentalmente lo spazio tra i fili e il tappo. La vaselina aiuta a ingrassare la rotazione della vite. Oltre a M, altri ammirano l'efficienza utilitaristica delle pipe bomb. George Metesky, il Mad Bomber di New York, ogni tanto le inseriva nel suo repertorio. Tom Mooney e Warren Billings avevano passato più di vent'anni in carcere per la pipe bomb del 1916 in Market Street a San Francisco, bomba che aveva provocato dieci morti e quaranta feriti. Unabomber aveva l'abitudine di aggiungere anche dei chiodi. M scatta una polaroid alla sua bomba: un regalo per gli amici del Federal Bureau of Investigation. Nietzsche canta sempre più forte e con maggior sentimento quando la ricetta du jour è una pipe bomb. Questo ordigno, come ogni altra creazione di M, ha una destinazione: il centro di Los Angeles. Un nascondiglio speciale... Una voce risveglia M dalla sua rèverie. «Come mai se ne vanno?» si lamenta qualcuno. Qualcun altro recita una novena. Il solito calo di tensione dopo lo show. Sollievo e delusione: dovevamo vedere un bel po' di fuochi d'artificio, no? Si muovono come un gregge. M si ritrova in strada, confuso tra gli spettatori delusi. La squadra Artificieri sta facendo i bagagli: giubbotti antiproiettile, cani, dispositivi telecomandati, intelligenza e paura collettive... tutto radunato in questo isolato per combattere la sua malvagità. M sa cosa succederà quando gli artificieri finalmente si troveranno faccia a faccia con il suo ordigno. Le mani sudate, il tremito, il cuore che batte veloce. Gli scherzi macabri, la falsa spavalderia, l'umorismo nero. La personificazione di una macchina per uccidere. Come lui, anche loro lavorano a mani nude perché i guanti impacciano. Le visiere di plastica che proteggono il viso si annebbieranno; la maggior parte dei sopravvissuti delle squadre artificieri danza sull'orlo della morte ogni volta che viene invitata a una festa. È facile coltivare un desiderio di morte. Dopo un po', la vicinanza della morte porta conforto. L'uomo, ogni tanto, ha bisogno di tenere la morte per mano. E gli uomini della squadra
Artificieri non sono diversi dagli altri. Peccato, pensa M. Dopo tutta quella paura, dopo quella scarica d'adrenalina... adesso sembrano bambini a una festa di compleanno senza regali. Ah, ma lui e Nietzsche, il pappagallo, un regalo ai federali l'hanno lasciato: un serpente del tempio a protezione del sacro. Sotto le sue dita attente, il cavetto-trappola è stato posato e srotolato. Lungo più di due metri, color legno, non ha opposto resistenza al tocco del suo padrone. Non ha morso o punto, non ha rilasciato il suo veleno mentre lui lo svolgeva seguendo il disegno del pavimento. Usando le dita nude, M ne ha ancorato la coda; la bocca si alimenta a una molla metallica, tesa ed espansa sotto pressione. Tra questi due punti, il cavo rimane teso. Finché non viene esercitata pressione. Un passo leggerissimo, per esempio. Sufficiente a liberare l'isolatore di sicurezza: l'estremità di un fiammifero di carta inserito tra molla e chiodo, sufficiente a chiudere il circuito quando il cavo viene ri-rilasciato. Quando "l'elemento umano" fa un passo in più. I militari lo definiscono "sistema esplosivo di fortuna". M ha aggiunto abbellimenti di sua creazione, per un po' più di sano divertimento. Consegna effettuata in nome dell'"Operazione Inferno". Sì, M crede ancora che riconquisterà i giorni di gloria in cui lui e Dantes erano una persona sola. Adesso M aspetterà; il prossimo discorso appartiene a Dantes: parlerà di fiducia, tradimento, sacrificio in onore dei ricchi e potenti. Devono cominciare a capire quanto M faccia sul serio riguardo alla vendetta. 11 Tutte le civiltà finiscono. È una tragedia solo quando la polvere si posa nel corso della nostra esistenza. Manifesto di Mole Ore 10.37 «Dantes non ha ancora finito con me» sussurrò Sylvia. L'agente speciale Purcell scosse la testa. Aveva un'espressione scettica, o forse semplicemente arrabbiata. Church fece tre passi verso Sylvia. «Ci spieghi: cosa vuole quell'uomo?»
«Avete ascoltato anche voi il colloquio. Tutte quelle chiacchiere su Bunker Hill, sua madre, la funivia... mi sta mandando a Angels Flight.» «Perché?» «Per vedere se sto al suo gioco. Per vedere se voi state al suo gioco.» «Noi non diamo la caccia agli avvoltoi.» Il detective Church stava masticando il chewing-gum con una tale energia che i legamenti della mascella sembravano sul punto di cedere. «E se cercassi di ottenere qualcosa di più?» Sylvia continuava ad agitarsi, a parlare. «Dantes sta centellinando le informazioni, c'è un sottotesto nascosto fra le righe. È una cosa che i detenuti fanno continuamente.» Si voltò sul cemento bollente, camminando all'indietro. «La citazione di Cicerone... e Angels Flight.» Si girò di nuovo proprio mentre Church la raggiungeva, le braccia conserte sul torace ampio. «Se lei ha ragione, le è passato per la mente che Dantes e quel suo stronzo di socio la stanno mandando a trovare la bomba vera?» Dopo un attimo di silenzio, Sylvia disse: «È per questo che verrete anche voi». Church scambiò un'occhiata con Purcell. «Sentite, io vado a Angels Flight, vale la pena rischiare. E, quando sarò là, avrò bisogno di parlare con Dantes.» «Potremmo far parlare Dantes su una linea sicura» disse Church. «Magari ci si impiccherà.» Purcell aprì il suo minuscolo cellulare e premette un tasto. Parlò in tono secco: «Siamo qui con la Strange... dice che può ottenere altre informazioni da Dantes». Gli occhi di Sylvia si spalancarono. «Muoviamoci.» Il detective Church stava già avviandosi verso le transenne e la strada. Sylvia fece per seguirlo, ma Purcell le tese il telefono. «Per lei.» Sentì una voce che non conosceva. «Dottoressa Strange, perdoni la teatralità...» la comunicazione si interruppe per un istante, poi «... con piacere di incontrarla.» «Chi parla?» «... Sweetheart» gracchiò la voce «... seconda opinione sui terroristi...» Interruzione. E di nuovo: «... psicolinguistica, decrittazione. I miei amici dell'Fbi mi hanno chiesto di collaborare».
«Ho sentito parlare di lei» disse Sylvia. Inclinò la testa verso il telefono, come se all'interno del piccolo strumento di plastica vivesse una miniatura di quell'uomo e lei potesse convincerlo a uscire. «A quanto pare, il suo amico l'ha messa in difficoltà» osservò la voce. «Cercherò di restare in contatto.» La trasmissione via satellite era debole, ma costante. «La persona che ha telefonato ha menzionato il terzo cerchio» disse Sylvia. «E il precedente messaggio...» «Basta Limbo» l'interruppe Sweetheart. «Lei ricorda l'Inferno? Dante Alighieri aveva immaginato un inferno gerarchico. Nove cerchi.» Il professore tacque, mentre un ronzio di fondo diventava sempre più forte. «Il poeta Virgilio guida il pellegrino al primo cerchio, o limbo, dove gli infedeli esistono in uno stato fatto di nulla. Il secondo cerchio è riservato a chi si è reso colpevole di lussuria. Sostanzialmente, più alto è il valore numerico del cerchio, più grave è il peccato. Capisce?» «In pratica, si tratta di un'escalation.» «Metteranno Dantes al telefono» proseguì Sweetheart. «Gestirà lei la conversazione... solo lei. Non lo faccia aspettare. Non cerchi di nascondergli ciò che prova: se è spaventata, gli faccia capire di essere spaventata.» «Posso farlo» disse Sylvia sottovoce. «Ehi, il tre cos'è?» «Come dice?» «Il terzo cerchio: qual è il peccato?» «Una brama insaziabile per qualsiasi cosa.» Dopo un secondo di esitazione, Sylvia provò a indovinare: «La gola?». «Esatto. Dottoressa Strange, sembra che abbiamo un dinamitardo dietro le sbarre, ma che ce ne sia un altro là fuori, per le strade. Per favore, stia attenta e si guardi le spalle.» «Certo» disse Sylvia seccamente chiudendo la comunicazione. La paura la rendeva insofferente. Ore 10.52 Una volta sfuggiti al labirinto del Civic Center, Church si allontanò sgommando. Sylvia osservava dal finestrino la macchia confusa del panorama stradale che le scorreva accanto mentre il detective guidava verso sud, su Hill. Nastro giallo e coni rossi contrassegnavano i punti dove squadre di operai avevano divelto l'asfalto per lavori alla metropolitana o riparazioni dei servizi pubblici; l'auto zigzagava intorno a questi e altri ostaco-
li, compresi i rari passanti che si avventuravano al di fuori dell'ombra proiettata dagli edifici a più piani, dai musei e dai grandi cartelloni pubblicitari. Sylvia rabbrividì all'urlo acuto e lacerante delle sirene. Leo Carreras aveva curato un testo sull'elaborazione dei profili criminali. Il contributo di Sylvia era stato un capitolo sul narcisismo e i disturbi affettivi. Il capitolo di Leo aveva trattato il tema dei dinamitardi: in base ai suoi dati, alcuni di loro potevano essere classificati come estremi opposti nello spettro caratteriale. Nichilista contro moralista, opposti e contrastanti, e tuttavia con una comune tensione per l'assoluto. Dantes aveva tutte le caratteristiche del moralista. Sylvia aveva la sensazione che avessero appena cominciato a cercare i pezzi mancanti del puzzle teoretico. "Il dinamitardo è spesso di razza caucasica, sesso maschile, celibe, o coniugato solo per amore delle apparenze...ma la maggior parte dei crimini è commessa da uomini e negli Stati Uniti la maggior parte degli uomini è di razza bianca. E la vita del dinamitardo - la fabbricazione segreta di esplosivi mortali - non si concede facilmente a un contesto sociale. Perciò, come restringere il campo? "Alla fine degli anni Settanta, Macdonald suddivise il profilo del dinamitardo in sei tipologie, ognuna delle quali non esclude le altre: il compulsivo, lo psicotico, il sociopatico, il politico, il mafioso e il militare." Il detective Church fermò l'auto senza contrassegni in divieto di sosta; la voce bassa della radio riempiva l'abitacolo. «Andiamo a chiamare il suo boyfriend.» Angels Flight, la più corta funicolare del mondo, si sviluppa da est a ovest per salire su una piccola collina. Durante le frequenti corse, i due identici vagoncini rossi si incrociano solo per un attimo nel punto in cui i rispettivi binari divergono per una decina di metri. Mentre Church attraversava la strada con Sylvia, Purcell rimase ai piedi della collina per monitorare le trasmissioni e tenere gli occhi aperti per eventuali dinamitardi vaganti. Il vagone chiamato Olivet, vuoto e fermo in Hill Street, incontrava il marciapiede con un angolo di quarantacinque gradi. Seguita da Church, Sylvia passò sotto il caratteristico passaggio ad arco, superò il cancelletto girevole e salì a bordo. Si sedette su una delle piccole panche che ricordavano una vecchia aula scolastica. Church dovette chinarsi per fare entrare la sua mole massiccia nel vagoncino. Avevano Olivet tutto per loro.
Quasi istantaneamente, ci fu un sobbalzo e la corsa cominciò. "Vent'anni dopo Macdonald, il dinamitardo politico e quello compulsivo sembrano essere le tipologie più rilevanti. Il dinamitardo politico ha una causa su cui ha bisogno di richiamare l'attenzione e crede sinceramente che qualsiasi metodo sia giustificabile nella sua lotta per il cambiamento ideologico. Il dinamitardo compulsivo è colui che per tutta la vita nutre un'ossessione nei confronti degli esplosivi, forse traendo addirittura gratificazione sessuale dallo scoppio, sebbene questo sia sempre stato un punto controverso. "Di nuovo, queste due categorie non si escludono reciprocamente. Il dinamitardo anarchico Ravachol era noto per il suo estremismo politico, la personalità antisociale e le eccentricità sessuali: nella borsa portava sempre con sé fard, rossetto ed esplosivi." Circa quindici secondi dopo l'inizio della salita, Sylvia notò il secondo vagone, Sinai, che scendeva sull'altro binario. Per quello che poteva vedere, trasportava un solo passeggero. «È uno dei nostri» mormorò Church. Olivet si fermò sferragliando. Sylvia scese dal vagone, accompagnata da Church e pronta a pagare la corsa alla ragazza nel box della biglietteria. La storia per un quarto di dollaro. Cinque corse per un dollaro. Ma Church mostrò il distintivo alla ragazza, che li fece passare con un cenno della mano e un'occhiata stupita. «Ehi, i soldi sono sempre soldi» disse Church con la sua voce strascicata. A prima vista la Water Court sembrava deserta, poi Sylvia notò un'altra coppia. Pensò che fossero poliziotti. Accelerò il passo, dirigendosi verso il bordo della terrazza panoramica. "Numerose e diverse teorie analizzano variabili della personalità quali il desiderio di morte, le tendenze suicide, una bassa soglia di eccitazione. Quello del terrorista viene definito un 'crimine da vigliacco', ma la vita del dinamitardo in realtà presenta scarsissime occasioni di vigliaccheria. Il rischio di ferite e/o morte è estremamente alto. La stragrande maggioranza delle vittime di attentati esplosivi è costituita dai dinamitardi stessi, uccisi durante la preparazione o il trasporto dell'ordigno." I dinamitardi in gamba non sono la norma, pensò Sylvia. «Adesso telefono al Roybal. Per organizzare la trasmissione con Dantes» annunciò Church, raggiungendola. «Mi dia altri due minuti» lo pregò Sylvia, senza distogliere lo sguardo
dal panorama della città. Scacciò il pensiero sgradevole che avrebbe fatto meglio a produrre risultati... Preghiamo che sia una caccia inutile e che possiamo tornarcene tutti a casa sani e salvi. Immaginò Dantes lì in piedi, al suo posto. Los Angeles era più della sua casa: era il suo ego, e lui aveva scritto di tutti i suoi angoli più nascosti e dei suoi neri segreti, in dettaglio. Il risultato era stato un tomo - in parte storia urbana, in parte ecosociologia - un trattato sull'architettura come destino, con una sana dose di psicologia sociale da parte di un uomo che dichiarava di disprezzare gli psicologi. Nel frattempo aveva vissuto una doppia vita da fuorilegge, da anarchico. Le macchine infernali di John Dantes, le sue bombe, erano speciali. Le sue creazioni portavano distruzione: a un piccolo tratto dell'acquedotto, a un edificio della società elettrica, a una torre di trivellazione petrolifera. Ma Dantes non aveva un'unica firma, un metodo preciso di costruzione che contrassegnasse i suoi ordigni. Alcuni erano ispirati a un criterio di pura efficacia, progettati per causare la massima esplosione possibile. Altri erano fasulli: finte bombe, del tutto innocue. E altri ordigni ancora erano belli, creati espressamente per attirare i curiosi. Non diversamente dalla bomba che aveva ucciso il decenne Jason Redding. "Chi per alcuni è un rivoluzionario, per altri è un assassino a sangue freddo. A cavallo del ventunesimo secolo, il dinamitardo politico è l'animale più pericoloso del branco: la sua psicopatologia, da cui la sua motivazione, dispone ancora di un rifugio, di una casa sicura nei recessi profondi dell'ideologia." Sylvia pensò che Dantes la stava mandando in giro per commissioni. La prima in cima a Angels Flight. E lei aveva preso il maledetto trenino perché... In distanza, la luce incendiò il vetro e la superficie metallica del Bonaventure Hotel. Il cuore le si fermò, ma era soltanto il riflesso del sole. Nessuna esplosione. Non ancora. Il sole le bruciava una spalla e un lato del viso. Quando guardò Church, la luce le ferì gli occhi. Per un istante, una scheggia di ricordo la colpì come un pugno. «Lo chiami» disse al detective con un cenno deciso del capo. Church parlò al cellulare. Meno di trenta secondi dopo Dantes era in linea. «Dottoressa Strange, com'è il panorama da Angels Flight?»
«Il tuo amico ha chiamato l'Fbi e ha parlato del terzo cerchio.» «Dove cade una pioggia gelida e il cane a tre teste fa la guardia ai dannati.» «Sta punendo Los Angeles, i padri della città, per il peccato di gola?» «Solo Ciacco può vedere il futuro della città» disse Dantes. «E Ciacco è all'inferno. Dovrai cavartela da sola, dottoressa Strange. Dimmi cosa vedi.» «Una città sotto assedio.» «Voglio dettagli, non melodramma. Grand Central Market a est. Pershing Square. Il Metropolitan Water District, una banca Wells Fargo, un bar, tutti quei vecchi alberghi dei giorni di Chandler.» Fece una pausa. «Cosa c'è dietro di te?» «Ancora città» rispose Sylvia, mentre il livello di adrenalina si alzava come una marea interna. Cercò automaticamente le sue pillole, ma trovò le tasche vuote. «Guardando verso nord... dimmelo.» «Wilshire Boulevard. Olympic, Pico.» «Nord, non ovest.» Sylvia si voltò lentamente. Monopoli tridimensionale. Vedeva metà della maledetta città, compresi i recessi soffocati dal traffico del Civic Center. L'Hollywood Freeway. L'interscambio del porto. Milioni di persone che ogni giorno viaggiavano lungo il massiccio fiume di cemento. Vittime così facili. «Perché sono qui, Dantes? Mi sono esposta per te.» «Sii paziente.» «Mentre tu ti diverti con qualche gioco di potere? Tu contro l'Fbi?» «Loro non possono darti le risposte» scattò Dantes. «Io sì.» «Può darsi. O forse stai soltanto giocando con delle vite innocenti.» Silenzio. Se n'era andato? Quella era una partita a cinque: oltre a Sylvia e Dantes stavano ascoltando la conversazione il detective Church, l'agente speciale Purcell e gli sceriffi federali del Roybal. «Pronto? Merda!» «Non saltare a conclusioni stupide» riprese Dantes seccamente. «Sei nei guai fin sopra i capelli, perciò ascolta con molta attenzione. Hai seguito il mio processo? Prima che mi condannassero in modo così anticostituzionale?» «Sì... Io...» «Ti ricordi la reazione del giudice Heron al mio rifiuto definitivo di sot-
topormi a un esame psichiatrico?» «Ha usato una tua frase.» Colta di sorpresa, Sylvia prese tempo. «A proposito della società che etichetta i radicali come criminali o disadattati...» «Sbagliato.» «Rinfrescami la memoria.» «Fa' attenzione ai dettagli, altrimenti sarà un bel pesce d'aprile.» «Mi ricordo di aver letto di...» Sylvia si interruppe. «Dantes?» «Ha riattaccato?» chiese Church, con la bocca spalancata per la sorpresa e la preoccupazione; l'auricolare che gli sporgeva dall'orecchio come un insetto nero. «Cosa voleva dire? Merda! Cazzo!» Sylvia scosse la testa, cercando di scacciare la sensazione di sprofondare sott'acqua. Il suo sguardo era incollato alla macchia di caffè sulla camicia del detective. «I verbali del processo riempiono stanze intere. Leo Carreras ha redatto una valutazione; lo psichiatra nominato dal tribunale un'altra. E il giudice...» «È tutto inutile» si lamentò Church. «Stia zitto, mi lasci pensare.» Church obbedì. «Cos'ha detto Dantes? "Fa' attenzione ai dettagli, altrimenti sarà un bel pesce d'aprile."» Rialzò lo sguardo su Church, ma senza vederlo realmente. «E infatti Dantes mi ha telefonato proprio il primo d'aprile.» Chiuse gli occhi, tornando indietro nel tempo. «Ero a casa mia, sul terrazzo. Era sera tardi. Gli ho chiesto... cosa?» «Cosa?» la sollecitò Church. «La teoria delle relazioni oggettuali» esclamò Sylvia, come colta da un'improvvisa illuminazione. Il detective la guardò senza capire. «Dantes non ha mai conosciuto suo padre. Aveva i nonni, ma non ha mai legato con loro. Sua madre si è suicidata» continuò Sylvia, resistendo all'impulso di scattare, frustrata dal bisogno di dover spiegare. «Dantes mi ha chiesto di dirgli con cosa avesse sostituito la madre e io finora non avevo visto la relazione.» Parlava sempre più in fretta, enfatizzando le parole con ampi gesti. «Sua madre aveva l'abitudine di portarlo in giro per tutta la città, giorno e notte, in una specie di continuo pellegrinaggio.» «Per cui dovremmo metterci a vagare per le strade?» esplose Church, esasperato. «Stia zitto, detective.» Sylvia premette il tasto ripetizione sul telefonino,
che squillò troppe volte. Proprio quando stava per abbandonarsi al panico, Dantes rispose. «Durante il processo, hai detto al dottor Carreras che un posto, invece di una persona, può essere l'oggetto di attaccamento primario di un bambino. Gli hai detto che a te era successo così.» «E poi Carreras e il giudice Heron hanno usato questa frase contro di me. Brava, dottoressa Strange.» «È la città ciò che tu ami di più. È lei il tuo attaccamento primario. È lei che ti ha fatto sentire sicuro, che ti ha fatto sentire di appartenere a qualcuno.» Immobile, Sylvia trattenne il fiato e poi domandò con calma: «John, di quale posto di Los Angeles stiamo parlando?». Sentì il sollievo nella voce di Dantes mentre recitava tre parole, come una piccola preghiera: «Casa, dolce casa». 12 Troppo spesso il sistema divora i suoi figli più dotati e creativi. Dostoevskij ha scritto di questa forma di cannibalismo, e lo stesso ha fatto Conrad. All'inizio di ogni secolo i difetti dei sistemi sociali dell'umanità vengono enfatizzati. Gli indizi della morte imminente di una particolare civiltà vengono rivelati, ma solo a coloro che hanno il coraggio di cercare la verità e di leggerne i segni. L'Inferno di Dantes Ore 11.20 Casa, dolce casa era un edificio vittoriano a tre piani rivestito con assi di legno, adesso completamente sbarrato e circondato da rete metallica. Sylvia aveva riletto il passaggio dell'Inferno di Dantes: "Sono cresciuto in centro. Il mio sangue è sangue di città. La mia pelle filtra il medesimo smog urbano che un tempo si diffondeva nell'aria intorno alla casa vittoriana bianca all'incrocio tra Beaudry e Tempie. Da ragazzo ero un furfante dalle gambe storte che amava la sua casa, dolce casa". Pallida e austera, la casa si ergeva solitaria in attesa di essere rasa al suolo o spostata come uno scenario hollywoodiano. Il lotto era vasto, almeno duemila metri quadri, e spoglio, a eccezione della casa stessa e di cinque o sei vecchi alberi: palme, olivi, sempreverdi. Uno stretto sentiero soffocato
dalle erbacce segnava ancora il percorso fino alla porta d'ingresso. Un tempo il quartiere era stato residenziale, ma i piani regolatori e l'espansione della città stavano rapidamente alterando il panorama. Nelle strade confinanti c'erano ancora negozietti, ma gli alti palazzi per uffici, quelle costruzioni verticali che rappresentavano chiaramente la successiva ondata edilizia, incombevano sopra le modeste attività commerciali. Il detective Church parcheggiò su Tempie e osservò la proprietà dal finestrino, gli occhi nascosti dagli occhiali da sole. Stava ancora masticando il chewing-gum. «Mi ricordo ancora di quando abbiamo fatto la perquisizione.» «Subito dopo l'arresto?» gli chiese Sylvia. «No, Dantes era ancora in libertà. L'abbiamo beccato due settimane dopo a Llano del Rio» rispose Church. «La Scientifica ha perquisito di nuovo la casa prima del processo. Hanno catalogato mezza tonnellata di prove, la maggior parte delle quali inutili.» Sylvia aprì la portiera e, scendendo, domandò: «Allora, chi ha portato le tronchesi?». Il terzetto percorse i trenta metri che separavano l'auto dal confine della proprietà sulla strada, dove le erbacce spuntavano alla base del reticolato e si arrampicavano tra le maglie metalliche. Mentre seguivano il perimetro del recinto, Sylvia sentiva il fruscio del traffico su Hollywood Freeway nonostante non potesse vedere i veicoli. L'aria era appesantita da inquinamento, calore e umidità. Il cielo era di un innaturale grigio-azzurro. Passarono davanti al negozio di un fotografo che sembrava essere stato chiuso almeno una decina d'anni prima. La facciata era sbiadita, l'insegna si arricciava agli angoli e la vetrina verniciata di grigio era protetta da sbarre di ferro. Qualcuno aveva tracciato con lo spray graffiti nichilisti sul cartellone pubblicitario che delimitava il retro della proprietà: ANDIAMO TUTTI AFFANCULO. Altri avevano lasciato simboli di gang, neri e spigolosi. Un dissidente urbano, con un infantile senso dell'umorismo, aveva annerito un occhio della modella. Il recinto metallico era solidissimo e lo stesso valeva per il cancello. Fortunatamente il lucchetto era attaccato a una catena sottile, che Church recise con un unico colpo. Gli investigatori avevano avuto il permesso ufficiale di entrare nella proprietà. Con estrema cautela. Non avevano rinforzi: gli altri agenti se n'erano andati da Angels Flight, diretti all'Mdc. Le minacce di bombe stavano tenendo i federali molto occupati.
«Come vogliamo procedere?» domandò Purcell con calma. «Molto lentamente.» «Siete dell'umore giusto per una qualche trappola esplosiva?» Church allentò la tensione dicendo: «Prego, entri lei per prima». «Stupendo» mormorò Sylvia. Le era passato per la mente che entrare nell'ex residenza di un dinamitardo seriale, sia pure una residenza d'infanzia, forse non era una grande idea. Perfino i turisti più famelici erano sempre rimasti sull'altro lato della recinzione. Il retro della casa era ombreggiato da due alte palme e da un olivo. Grazie all'abilità di Purcell con le serrature, la porta si aprì facilmente, consentendo l'accesso in un'ampia cucina appena rischiarata dalla luce del giorno che filtrava dai vetri delle finestre ricoperti di carta. Church entrò per primo ed effettuò un attento controllo visivo. Sylvia fece per seguirlo, ma Purcell la trattenne. «Facciamo la telefonata» disse l'agente speciale. La linea era stata attivata per un unico scopo e Dantes rispose al primo squillo: «Come mai ci avete messo tanto?». «Abbiamo dovuto trovare un modo per entrare» rispose Sylvia. Il suo primo obiettivo era la sopravvivenza, il secondo fare in modo che Dantes restasse felice. «Casa, dolce casa... È molto bella, per inciso. Adesso mi trovo sulla porta del retro. Sto per entrare.» Sbirciò nella penombra. La casa era buia e odorava di muffa, occupata dai fantasmi. La pianta si sviluppava quasi in linea retta: una stretta stanza dopo l'altra, tutte organizzate intorno a un semplice soggiorno-sala da pranzo. Strange sentì dei passi: il detective Church che tornava dall'area dispensa e lavanderia. Un leggero strato di polvere ricopriva il pavimento della cucina. «Su cosa devo concentrarmi?» domandò Sylvia al telefono. «I federali si sono portati via la maggior parte dei miei giocattoli» disse Dantes. «Ma è possìbile che non abbiano notato qualcosa? Perché non cominciamo dal fondo, per poi risalire? La porta del seminterrato è alla fine del corridoio.» Si accorse del silenzio riflessivo di Sylvia. «Dimmi una cosa, dottoressa Strange: se non ti fidi abbastanza di me da fare il primo passo, perché stiamo facendo tutto questo?» Church, che stava ascoltando la conversazione, fece un gesto con due dita - vado giù io - e attraversò la cucina. Purcell rimase accanto alla porta; Sylvia seguì il detective.
Superò bagno e camera da letto e si avviò lungo un corridoio stretto. Church aveva aperto la porta del seminterrato e proiettava la luce della torcia lungo la scala. «C'è più polvere qui che all'inferno» sussurrò. «Adesso dove sei, Sylvia?» domandò Dantes. Lei rabbrividì; la presenza di Dantes era sinistra, la terrorizzava, come se l'essenza dell'infanzia di quell'uomo avesse permeato quei vecchi muri. «Sulla porta del seminterrato» rispose. «Ho un'altra idea.» Ma Church stava già scendendo, molto cautamente, come un uomo scalzo su frammenti di vetro. «La biblioteca alle tue spalle» riprese Dantes. «Una volta era la mia camera da letto. Gli scaffali sono vuoti?» Sylvia si voltò e vide i ripiani di quercia, solidamente fissati alla parete. «Sì.» «C'è un armadio, a sinistra degli scaffali. Troverai qualcosa inciso nel legno: un messaggio da parte di un dodicenne.» Dantes rise. «I ragazzi sono sempre ragazzi.» Strange sentiva Church esitare sulla scala, ma lei intanto era già entrata nella stanza con il suo bovindo vittoriano e i pannelli di vetro, adesso oscurati dalla carta. Con il telefono premuto all'orecchio, si avvicinò agli scaffali vuoti e all'armadio, alto fino al soffitto. Non vide alcuna incisione. «Dantes, ci sei ancora?» Nessuna risposta. Quello stronzo aveva la pessima abitudine di... Non finì il pensiero, perché in quell'istante udì un forte, sonoro "clic". Contemporaneamente, sentì qualcosa sotto il piede destro. Spense automaticamente il cellulare, abbassò lo sguardo e vide il buco nel pavimento, nel punto in cui erano state tolte le assi. Fu là che vide la bomba. Se ne stava acquattata come un animale nella tana, in profondità tra le assi del pavimento smontate, tentacolare come una creatura del mare, con un groviglio di appendici e una coda. Sylvia avrebbe potuto giurare di sentirne il respiro. Dalla gola le sfuggì un grido soffocato. Mentre il cervello registrava la presenza della bomba, stava già per ritrarsi in una fuga terrorizzata. Ma, quasi istantaneamente, una calma glaciale scese su di lei, una calma tradita solo da un rivolo di paura. Aveva posato il piede sulla coda della bestia.
Non si mosse. Senza voltarsi, chiamò: «Purcell?». La voce le sembrò arrugginita. «Dica alla squadra Artificieri che abbiamo trovato il nostro ordigno.» Fu il detective Church a risponderle: «Si sposti, Doc, ma adagio e con calma». «Credo di essere sopra il cavetto-trappola.» Dalla bomba, infatti, partiva un cavo sottile che arrivava fino alla parete; il cavetto era teso, perfino dopo che Sylvia ci aveva messo il piede sopra. «Merda.» Non molto rassicurante. «Ha spento il cellulare?» domandò il detective. «Sì.» Sylvia strinse l'apparecchio nella mano, consapevole che una frequenza elettronica attiva poteva far detonare un esplosivo molto vicino. «Ha intenzione di restarsene lì senza fare niente?» «Proprio così» rispose Church, fingendo un sorprendente buon umore. «Lei tenga duro e non si muova.» Respirava con più affanno di Sylvia. «Purcell li farà arrivare nel giro di cinque minuti.» «Vada per i cinque minuti.» Church, se esco viva di qui ti amerò per sempre. «Ehi, Sylvia!» Era l'agente speciale Purcell, con un tono che sembrava provato in addestramento, gentile ma deciso. «Ce la può descrivere?» Sylvia aprì la bocca e un'ondata di ansietà per poco non le diede le vertigini. Si sentì stringere il petto e le mani formicolare mentre abbassava gli occhi sulla bomba. Oh, merda. Non si era aspettata l'esotica bellezza di quella cosa... e neppure la sua violenta bruttezza. «Forza, Doc» l'incoraggiò Church. «Io resto dietro di lei in modo da non far scoppiare niente, comunque non me ne vado, okay?» Il tono era di gran lunga troppo gentile per un detective del Dipartimento di polizia di Los Angeles. «Allora, mi dica pure quanto sono stronzo e mi parli dell'ordigno.» «È sotto le assi del pavimento.» Dov'era finita la sua voce vera? «Ci sono fili dappertutto. Il contenitore sembra vecchio, è di legno lucido. Credo sia la bomba della polaroid spedita da M. Non so se quello è un timer funzionante, comunque è sicuramente un grande quadrante d'orologio.» «Sta andando benissimo, Doc» la rincuorò Church. «Li informi che è bella. Un'opera d'arte. Come una scultura di Picasso o di Man Ray.» La voce si alzò. «Ed è grossa.»
13 Lussuria e paura, attrazione e avversione, amore e odio: sono queste le leggi basilari dell'energia fisica. Tutto può essere spiegato nel quadro di questi semplici opposti, che sono in effetti una sola cosa. Anonimo Ore 11.50 Church e Purcell avevano mentito: i cinque minuti erano passati e la squadra Artificieri non si vedeva ancora. Sylvia visse il trascorrere del tempo come una macchia confusa di emozioni mutevoli: a poco a poco, la paura tinta di panico si attenuò fino a lasciarla insensibile, fisicamente e mentalmente. Il piede poggiava leggero sul cavetto; lei non si muoveva. La bomba era piazzata a poco più di un metro dal punto in cui si trovava lei: il cavo era stato teso intenzionalmente in modo da cogliere di sorpresa chiunque fosse passato. Se solo Sylvia avesse flesso l'alluce destro, il cavo si sarebbe sollevato di un centimetro, o anche meno, dal pavimento in legno. Se avesse rilasciato del tutto l'alluce e il cavetto, sarebbe saltata in aria. Ne era convinta. Il cuore le batteva forte, martellandole in petto; riuscì a calmarsi con respiri lunghi e faticosi. Dalle dimensioni della scatola di legno, riteneva che si trattasse di una pipe bomb. È la tensione contenuta all'interno di una bomba del genere, la crescente pressione durante l'iniziazione e la capacità di distruggere bersagli umani e materiali che rende questo tipo di ordigno infernale uno dei favoriti dei terroristi storici e contemporanei, compresi i membri dell'Ira, della Raf tedesca e di Meteski, il Mad Bomber. Dantes aveva già usato pipe bomb. Ma, secondo quanto aveva dichiarato, mai per colpire persone. Nella stanza spoglia, un grosso insetto goffo e ronzante si scagliava contro le alte finestre sbarrate e ogni tanto rimbalzava sulla testa di Sylvia, che sentiva i peli diritti sulla pelle e i muscoli che cominciavano a dolerle. Doveva anche fare pipì. Un vago prurito persistente le zampettava su tutto il corpo come un piccolo animale. A intervalli irregolari lasciava emergere una rabbia trattenuta: non pote-
va permettersi di ascoltarla in pieno. Ma John Dantes l'aveva mandata lì per trovare una bomba. L'aveva mandata a morire. Poteva vedere il proprio orologio da polso. Era in piedi, praticamente impietrita, intrappolata, da nove minuti. Dov'erano Purcell e Church? Dove diavolo erano i ragazzi delle bombe? Come mai ci mettevano tanto? Certo, la maggior parte dei poliziotti della città e l'intera squadra Artificieri erano state attirate a City Hall per disinnescare una bomba inesistente, ma questo era successo ore prima. E lei aveva trovato il loro ordigno infernale nel salotto della casa d'infanzia di John Dantes... proprio come era stata mandata a fare. In un limbo tra il panico e l'inerzia, cullata dal ritmo del proprio respiro men che regolare, dal ronzio dell'insetto e dai rumori distanti della città, studiò la bomba e ciò che la circondava. Tutto le dava la sensazione di un'epoca precedente, di salotti con l'illuminazione a gas e di secoli che giravano come lente ruote massicce: la stanza a causa delle sue origini vittoriane, la bomba per il suo assemblaggio. Era l'ordigno che Sylvia aveva visto ore prima come un'icona proiettata sullo schermo. Dopo tutto, M aveva mantenuto la parola. La scatola di legno era del colore delle ciliegie scure e di forma rettangolare. Il legno lucido era coperto di polvere, il che andava a sommarsi alla generale impressione di abbandono. Le candele sarebbero state il detonatore più appropriato; invece, i cavi collegati e la grossa sveglia bianca risultavano una confusa intrusione moderna di elettricità, ioni positivi e negativi, fisica. Le lancette nere del quadrante indicavano 1.18.30, proprio come nella fotografia. Grazie a Dio, non si stavano muovendo. Un segnalibro - o una striscia di carta - era incuneato tra due dei pomellini di legno. Un messaggio di Dantes o di M? Nella luce fievole, Sylvia riuscì a fatica a decifrare le parole tracciate in un corsivo formale. Erano in italiano: ... quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé foro. Si sforzò di tradurre quei versi con il poco italiano che conosceva, ma con scarsi risultati.
Non c'era modo di sapere per quanto tempo la bomba fosse rimasta nascosta nel suo nido, in attesa che qualcuno le pestasse la coda. Il prurito, ora più intenso che mai, si fermò sulla gola, per scendere poi con una goccia di sudore tra i seni, lungo lo sterno. La camicetta di cotone bianco era incollata al corpo, la cucitura dei jeans le si era sgradevolmente incuneata tra le natiche. Era tempo di pregare gli dei. Sbatté le palpebre al suono di una voce: Church, che le chiedeva se andava tutto bene. «Stupendamente» rispose Sylvia, prendendo un respiro profondo. «Stanno arrivando?» Il suo orologio indicava le 11.59. «Mi sembra di sentire arrivare il camion. Tenga duro, Doc» mentì il detective. «Se potessi dare un'occhiata migliore a quel coso, forse potrei riuscire a tirarla fuori di qui più in fretta, ma non voglio correre rischi.» «Non corra rischi» disse Sylvia in fretta. Sentiva che Church era spaventato, ma il detective continuò a parlare, arrivando addirittura a fischiettare qualche battuta di Irish Eyes. A mezzogiorno e tre minuti, anche Sylvia ebbe l'impressione di sentire il camion degli artificieri. Forse. Che si fermava davanti alla casa. Ma poi quasi non si accorse dei poliziotti in uniforme e dei tecnici che si preparavano ai rispettivi compiti, o della voce bassa dell'agente speciale Purcell. Era tutto come una sorta di rumore in sottofondo. La testa le pulsava, il sudore le bagnava la pelle e l'ossigeno le entrava nei polmoni in faticosi respiri. «Dobbiamo smetterla di incontrarci così» scherzò Church. «I ragazzi della squadra devono fare alcune cose qui, prima che lei possa tornarsene a casa.» Prese un respiro profondo e rumoroso. «Allora, mi dica Doc: come mai ha deciso di giocare con le bombe?» Oh, Dio. Sylvia sapeva cosa stava cercando di fare il detective: distoglierle la mente da quel momento infernale. Si aggrappò disperatamente alla fune di salvataggio che le aveva lanciato il poliziotto. «Ho preso lezioni da un professionista, One-Shot Mahoney.» «Ah, sì? E dove? Socorro Tech?» «Non l'Emertc.» Sylvia sapeva che Church si riferiva all'Energetic Materials Researching Testing Center presso l'Istituto di tecnologia del New Mexico, dove i ragazzi dell'Fbi, dell'Atf e del Lanl andavano a giocare. Sylvia c'era andata una volta per guardare cinque chili di Petn demolire una casetta. «Non la prima volta.» «Allora mi racconti della prima volta.» Probabilmente Church stava sor-
ridendo. «È sempre la più bella.» «È stato a cinque chilometri da Golden, New Mexico» balbettò, mentre la mente opponeva resistenza alla concentrazione. «Golden, eh? Sembra un bel posto.» La vista del bacino vicino a San Felipe Pueblo fa trattenere il respiro a Sylvia. "Tutti al riparo!" La voce di Mahoney rimbomba sul pendio fitto di piñon, dove ci sono duecentotrenta chili di Anfo pronti a esplodere. L'impresa incaricata dell'esplosione fa seguito all'avvertimento di Mahoney con tre muggiti di un clacson a trombe grande quanto un pugno. «Doc?» l'incitò Church. «Mi ha lasciato innescare sessantuno cariche con candelotti di Magnum 75.» «Roba buona. Gelatina. E cosa avete usato per le cariche?» «Anfo» «Giusto. Poi avete intasato le cariche...» «Con roccia frantumata.» Sylvia osserva Mahoney collegare ciascuno dei tubi gialli delle cariche in una complicata disposizione, studiata in modo da creare una faccia libera intermittente in costante movimento - per ridisegnare novecento tonnellate di roccia solida - nell'arco di un secondo. «Eccitante, vero?» le domandò Church. «Sì. Davvero.» Specie mentre torce gli ultimi quattro cavi, avvolgendoli due a due, e le viene la pelle d'oca: è in piedi a tre metri dal sito dell'esplosione, dove stanno per fregare Madre Natura creando una montagna alta otto metri. Ci sono occasioni in cui la negazione è una buona cosa. In quello che sembra un movimento al rallentatore, Sylvia segue Mahoney che si allontana dal punto zero, percorrendo i trecento metri fino al camion da cui parte la linea di tiro. "Tutti al riparo!." La voce sale dalla strada, dov'è appostato un trivellatore di Mahoney con il compito di impedire a chiunque l'accesso nella zona all'interno della quale potrebbero volare frammenti di roccia. Scagliato in aria a duecento chilometri l'ora, anche un sasso di un chilo può essere molto pericoloso. Mahoney ripete il grido di avvertimento mentre finisce di controllare il filo con un galvanometro: sta cercando un eventuale corto circuito o un'interruzione, ma non trova nulla.
"Siamo collegati" annuncia con voce rauca. Seguendo gli ultimi ordini, Sylvia collega il cavo all'esploditore nero. Il battito del polso accelera. «È proprio come quel vecchio cliché» commentò tranquillamente Church in tempo reale. «Ci si sente vivi.» «Già... vivi» sussurrò Sylvia. La bocca era così secca che le sembrava di avere la lingua gonfia. «Così è stata lei a fare saltare tutto?» la sollecitò il detective con gentilezza. Il pulsante su un lato dell'esploditore è sensibile sotto il pollice. È compito di Sylvia premerlo e provocare lo scoppio. Ascolta il conto alla rovescia di Mahoney, trattiene il respiro e solleva il dito. Non succede niente. Poi vede una nuvola marrone di terra e rocce alzarsi al di sopra della linea degli alberi. Quasi istantaneamente, la nube viene accompagnata dal profondo staccato degli scoppi, la musica dei ritardi esplosivi di cinquecento millisecondi e venticinque millisecondi. Si sente spingere da dietro - Mahoney grida - e si ritrova sotto il naso della Ford, mentre proiettili di rocce volanti mitragliano il cofano ammaccato. All'esplosione segue un odore debole e acre. Sylvia rialza gli occhi su One-Shot Mahoney. Sa di avere i capelli sporchi di polvere e il casco protettivo storto sulla testa che le fa male; sa anche di avere un sorriso stupido stampato in faccia. Mahoney invece sorride cattivo e gracchia: "Accidenti, adoro il profumo dell'Anfo di mattina". Uno stridulo lamento elettronico spaventò di nuovo Sylvia che, disorientata, non fu in grado di riconoscerlo. Prima che potesse reagire, una nuova, rassicurante voce maschile le disse di restare calma e aggiunse: «Adesso mi ascolti: non si muova. Tenga duro, Sylvia. Lei si chiama Sylvia, giusto? Shorty deve controllare due o tre cose... Noi siamo proprio dietro di lui». La vibrazione era debole, ma Sylvia la sentì risalire dai piedi lungo le gambe. Il suo primo pensiero fu che la bomba fosse stata innescata. Poi si accorse di non essere sola. Finalmente vide il robot - questo deve essere Shorty - fermarsi sulle rotelle accanto al suo piede sinistro. In altre circostanze avrebbe potuto paragonare il robot a un cane. In realtà assomigliava più a un tosaerba elettrico o a un carro armato in miniatura. Alimentato da un cavo e alto circa mezzo metro, aveva un corpo tozzo sormontato da un lungo collo, occhi simili a
lampadine, antenne e telecamere mobili. Impavido, deciso e curioso, Shorty era stato realizzato per indagare in possibili situazioni-bomba tramite telecomandi; con un chip computerizzato per cervello, la macchina poteva entrare in un campo minato per raccogliere informazioni visive, uditive e perfino olfattive. Poteva recuperare un ordigno e trasportarlo dal punto A al punto B. L'unica cosa che Shorty non era in grado di fare, era disinnescare una bomba. Quello era un compito che rimaneva alle mani nude degli uomini. Sylvia sentì la tranquilla rassicurazione di Church: «Doc, adesso è in buone mani». Un'altra voce - c'era qualcosa di familiare in quei toni suadenti - le suggerì di continuare a respirare profondamente: avevano quasi finito, l'avrebbero portata fuori di lì nel giro di un minuto. Sì, per favore. Ma forse le vibrazioni del robot si erano trasmesse attraverso le assi del pavimento con forza sufficiente da condizionare l'ambiente. O forse l'arrivo di Shorty aveva provocato un leggerissimo spostamento del corpo di Sylvia... con il medesimo risultato. Di qualunque cosa si trattasse, il cuore metallico della bomba cominciò a ticchettare. Gli occhi di Sylvia si spalancarono. Si era solo immaginata una voce bassa che da qualche parte nel mondo mormorava: "Oh merda!"? Il collo di Shorty si allungò di quindici centimetri. L'occhio di una telecamera si abbassò verso il pavimento, l'altro si girò con un fluido movimento idraulico verso la bomba. La verità era ineluttabile. La lancetta sul quadrante dell'orologio stava divorando i secondi: quarantotto, quarantasette... «Aiuto!» gridò Sylvia. Trentuno, trenta, ventinove... Da qualche parte nella casa, una soffocata voce maschile rispose: «Ti sentiamo, Sylvia. Resisti, non ti muovere: stiamo entrando». Diciotto, diciassette, sedici... Sylvia gemette, il corpo così teso che i muscoli le facevano male. «Pronti a muoverci!» abbaiò qualcuno. Sette, sei, cinque, quattro... Tutto accadde in una foschia carica d'adrenalina. Shorty fece dietrofront; rispondendo all'istinto, Sylvia si piegò, ma un uomo robusto in tuta e casco spaziale l'afferrò per la vita, facendole uscire l'aria dai polmoni. Si sentì
volare all'indietro e colpì con forza il pavimento, schiacciata sotto un quintale di armatura e di scudo protettivo antibomba. Strinse con forza gli occhi, in attesa dell'esplosione, ma fu il suono stridulo di un allarme a riempirle le orecchie. Il suono si esaurì in una specie di belato lamentoso. Poi un singhiozzo. Un altro. Nessuna esplosione. Solo silenzio, e il battito furioso del cuore. Si accorse del respiro ansimante del suo salvatore, sentì il morso metallico dell'armatura protettiva, ma tutto ciò che riusciva a vedere era una faccia dai lineamenti confusi dietro la visiera di plastica. Una voce incorporea le disse: «Siamo ancora qui». Dopo un tempo interminabile, sentì dei passi, cauti e leggeri: qualcuno camminava in punta di piedi sul pavimento. «Kudos, dottoressa Strange.» Sylvia spinse, e il santo nella tuta protettiva rotolò su un fianco, allontanando il pericolo di un'imminente asfissia. Sylvia si mise a sedere, cercando istintivamente di sistemarsi: scosse la polvere dai capelli e con le mani cercò di pulirsi la camicetta. Niente ossa rotte: era solo stordita. Ma ancora viva. Vide qualcosa lampeggiare, ancora e ancora, e rabbrividì, sollevando lo sguardo sull'uomo che conosceva solo come una voce: il professor Edmond Sweetheart. «E la bomba?» La gola era così chiusa che dovette ripetere la domanda. «Prima di tutto andiamocene da qui» disse Sweetheart, scuotendo la testa. Si mise in tasca una minuscola videocamera digitale. «Mi sento vulnerabile, anche se...» Gli occhi erano fissi sull'ordigno mentre tendeva una mano a Sylvia. Lei la strinse e si sentì sollevare in piedi. «Un falso?» mormorò. Poi, a voce più alta: «Un maledetto scherzo del cazzo?». «Forse è un maledetto scherzo del cazzo. Ma solo forse. Non sarebbe la prima volta di Dantes.» Sweetheart continuava a fissare la bomba annidata tra le assi del pavimento. Ma annuì, facendo eco alle parole di Sylvia con la sua voce grave da baritono: «Gli artificieri devono assicurarsi che l'area sia davvero pulita e non possono farlo con noi tra i piedi». Si fregò qualcosa tra le dita. Polvere. La casa sembrava rivestita da una polvere sottile, come se qualcuno avesse lasciato cadere un sacchetto di farina, rompendolo.
Strange barcollò, quasi cadendo addosso a Sweetheart di cui sentì il braccio solido e sicuro. «Merda.» Lui la sostenne con forza, ma non brutalmente, facendole riprendere l'equilibrio. Quando sentì i piedi ben piantati a terra, Sylvia lo studiò: Sweetheart era di un'età imprecisata fra i trenta e i quarantacinque anni; un mix razziale che comprendeva antenati polinesiani, altezza media, capelli nerissimi pettinati all'indietro, zigomi alti, pelle incredibilmente liscia, sopracciglia scure e occhi inquisitori. Strange si concentrò sulla bocca, generosa anche quando non sorrideva, e in quel momento non stava affatto sorridendo: Sweetheart sembrava arrabbiato, almeno quanto lei. Stranamente, l'ultima cosa di cui Sylvia si accorse fu la mole del professore. Sweetheart pesava almeno centoventi chili. I loro sguardi si incontrarono; difficile dire chi per primo l'avrebbe distolto. Entrambi voltarono contemporaneamente la testa, richiamati dai toni stridenti di un uomo che indossava la giacca e il berretto scuri dell'Fbi. L'agente federale si rivolse allo spazio tra gli occhi di Sylvia, nel punto cui di solito mira il plotone d'esecuzione. «Evacuate il sito. Immediatamente. Quest'area non è stata bonificata.» Sweetheart allentò la presa sulla spalla di Sylvia e le chiese: «Pronta?». Lei annuì, seguendolo subito. Non vedeva l'ora di andarsene. L'agente federale, camminando a passi pesanti, le rimase dietro le spalle; Sweetheart faceva strada. Ripercorrendo il tragitto di quando era entrata, Sylvia uscì dalla porta sul retro. La luce lacerante del sole di metà pomeriggio la colpì come uno schiaffo in pieno viso. Socchiudendo gli occhi, vide una scena trasformata. Due veicoli dei vigili del fuoco, un camion della squadra Artificieri, auto della polizia, ambulanze, veicoli federali vistosamente neutri e tutto il relativo personale affollavano la strada prima semideserta. L'asfalto era stato trasformato in un temporaneo parcheggio; i veicoli bloccavano in parte la visuale alle parecchie decine di residenti che erano usciti sui prati delle loro case sessantenni. A una trentina di metri più giù, all'altezza dell'incrocio, le transenne bloccavano l'accesso ai passanti curiosi. Mentre Sylvia osservava la scena, da un furgone scese la troupe di un notiziario Tv. Una giornata di grandi folle e coperture televisive in diretta. Sylvia prese un respiro lento e profondo, scostandosi contemporaneamente la folta capigliatura nera dal collo. Con la mano destra si sventolò il viso; l'effetto rinfrescante era minimo, ma il gesto l'aiutò a calmare il tre-
mito. A quanto pareva, era finita dritta in una presa in giro, ma le autorità non volevano correre rischi inutili in quella che stava risultando essere un'impegnativa giornata di bombe. Un tecnico le passò accanto, trasportando ciò che Sylvia ritenne potesse essere un disruttore. O quello, o un qualche proiettile tipo missile. Un altro artificiere seguì il collega con un pastore tedesco dall'aria ipervigile al guinzaglio. Qualcuno, una forma umana di passaggio - l'agente Purcell - le offrì una tazza di caffè. Sylvia strinse la tazza, senza accorgersi che le unghie stavano scavando mezzelune nella plastica morbida. «Grazie.» Fu contenta di constatare che non stava battendo i denti. Gli effetti dello choc cominciavano a farsi sentire. Il caffè era acido, troppo dolce e tiepido... la cosa migliore che avesse mai assaggiato. Sweetheart percorse i venti metri che separavano la casa dal reticolato e arrivò per primo al cancello. L'effetto fisico che produceva era opprimente, ma stranamente confortante. Uscì e spinse Sylvia attraverso il varco. Il detective Church si materializzò dal nulla. Senza riflettere, Sylvia gli si avvicinò e l'abbracciò; una soffice polvere bianca le infarinò la pelle. «Grazie» sussurrò. Il poliziotto emise qualche borbottio imbarazzato e poi le domandò: «Tutto bene?». «Sì. E lei?» «Più o meno.» Il detective indicò Sweetheart con un cenno del capo. «Tenga d'occhio questo signore: è prevedibile come la nitroglicerina. Un libero professionista, uno di quei brillanti figli di puttana che danno le risposte giuste a Quantico e a B.S. Quando non se ne sta a crogiolarsi sulla sua torre d'avorio.» Le sopracciglia di Sweetheart si inarcarono di colpo. «E ovviamente» proseguì Church, impassibile «dato che ha lavorato in Medio Oriente, deve avere contatti anche nella Cia e nell'Nsa. Senza il sistema di profilo elaborato da Sweetheart, quello stronzo di Ben Black sarebbe ancora in giro a fare esplodere merda.» «... diavolo credi di fare...» Una voce maschile si alzò e tornò ad abbassarsi. Sylvia si voltò, in tempo per vedere l'agente speciale Purcell che veniva ripresa da un superiore. Provò un briciolo di comprensione per la donna. Con la coda dell'occhio scorse Church allontanarsi con aria troppo noncurante in direzione della casa. «E adesso dove va?» gli domandò Sweetheart.
«Devo controllare una cosa» rispose Church, senza voltarsi. «Funkspiele» disse Sweetheart, rimasto solo con Sylvia. «Come dice?» Sylvia riportò l'attenzione sul professore. «Funkspiele: in tedesco significa "giochi radiofonici"'. A Dantes piace giocare.» Le palpebre di Sweetheart non si muovevano nel bagliore del sole. «Così come piace ai terroristi in Medio Oriente. Usano falsi segnali per depistare l'intelligence.» «Perciò la domanda è: Dantes sta giocando con noi o con M?» Le sopracciglia scure di Sylvia scomparivano sotto ciocche disordinate di capelli. Gli occhi spalancati monopolizzavano l'intero viso. «Forse con tutti e due» si rispose. Le guance avevano perso ogni colore, a eccezione di quello dello sporco e della polvere. «In entrambi i casi, è lui che vince.» Il professore la stava studiando. «Ottiene tutta l'attenzione che vuole e ha la sensazione di avere il controllo.» «Mentre ero in casa, ho notato qualcosa nell'ordigno.» Sylvia aggrottò la fronte. «Una specie di messaggio su un pezzetto di carta. In italiano.» «L'ho visto anch'io. È una citazione dall'Inferno di Dante Alighieri. Il tema continua.» Estrasse qualcosa di tasca, un foglio ripiegato, e lo tese a Sylvia, che lo aprì. Vide una specie di mappa tracciata con cura: cerchi concentrici di diametro decrescente, numerati da uno e nove. Erano stati indicati anche alcuni punti particolari: la Selva Oscura, il fiume Acheronte, il Limbo, le mura di Dite, il fiume Stige. «La mappa originale dell'Inferno. Se vuole, è sua: potrebbe tornarle utile.» Sweetheart picchiettò l'indice sul terzo cerchio. «Noi siamo qui.» Si voltò a guardare la casa. «Quei versi che ha visto sono tratti dal terzo canto.» Sylvia seguì il suo sguardo, poi si voltò di nuovo verso di lui, fissando quelle sopracciglia che potevano appartenere al demonio. «Lei è in grado di tradurre l'italiano?» Gli occhi di Sweetheart la fissarono, assorbendo, registrando, come se lei non fosse stata del tutto umana. «Un gruppo di angeli si ribellò e venne cacciato dal...» «Caddero oltre la terra, nell'inferno» l'interruppe Sylvia con impazienza. «Conosco la storia.» «Allora sa anche che vennero cacciati dal Paradiso per non macchiarne la perfezione. E alcuni di loro non vennero ammessi all'inferno, in modo che l'inferno stesso non potesse dichiarare vittoria sulle loro anime. Perciò
rimasero a vagare smarriti nel Limbo.» «E la citazione?» chiese Strange, studiando la mappa. Sweetheart gliela tradusse. «Gli infedeli» mormorò Sylvia. Prima che uno dei due potesse aggiungere qualcosa, la casa esplose. 14 Cockie Lockie il cielo sta cadendo. Filastrocca Ore 12.36 La deflagrazione emise onde d'urto come un fiore sbocciato di colpo con violenza inaudita, allungando le radici fino alla carica principale, frantumando molecole e provocando una reazione a catena che si concluse con un'esplosione enorme e massiccia. Come in una specie di bis, altre cariche trasmisero onde d'urto secondarie dal seminterrato fino alla soffitta. L'impatto fu amplificato dai gas fuoriusciti dalle pile di sacchetti di comune farina bianca sotto il pavimento. Nell'istante della detonazione, sembrò che l'intera città schizzasse nella stratosfera, solo per ricadere di nuovo a terra in una pioggia solida e dura. Ci fu uno scoppio assordante, immediatamente seguito da un altro meno potente e da una sorta di tuono irregolare. Il terreno tremò. Piccoli soli implosero intorno a un buco nero e un vento lacerante centrifugò il mondo. Il legno è organico, facile da mutilare quanto la carne umana. Lo shrapnel derivante dalle tubature esplose e da altri oggetti metallici si frantumò ulteriormente, catapultandosi di nuovo a terra con schegge di legno e vetro che penetravano ovunque. L'esplosione spinse tutti a tuffarsi d'istinto, in cerca di riparo. Bombardò il professor Edmond Sweetheart con piccoli rami dell'olivo. Mitragliò Sylvia Strange con sassolini di ghiaia simili a pallottole. Scagliò un pezzo di intonaco sulla fronte dell'agente speciale Purcell. Si era scatenato l'inferno. Le squadre d'emergenza scattarono in azione; una giornalista si ritrovò con il servizio della sua vita quando la ben piazzata minitelecamera del network per il quale lavorava riprese l'esplosione e relative conseguenze per la diretta e successivi replay; il personale d'emergenza controllò la sce-
na, soccorrendo i vivi, cercando i morti. Ore 12.41 Sweetheart vide Sylvia Strange, distante circa cinque metri, distesa a terra. La donna si rimise in piedi a fatica e si avviò a passo incerto verso le rovine della casa. Il professore le corse vicino e la bloccò. Con un'espressione di attonita incredulità, lei lo guardò come se fosse stato un grosso albero massiccio. «Dove sta andando?» le domandò Sweetheart, pilotandola verso uno spazio sgombro vicino al marciapiede. «Possono esserci dei feriti...» Cercò di allontanare un pezzetto di carta da parati in fiamme che volteggiava verso terra. L'aria era densa di particelle: legno, plastica, cenere. «Mi sento male.» «Lei è sotto choc, dottoressa Strange. Lasci che le squadre d'emergenza facciano il loro lavoro.» Intorno a loro vigili del fuoco, personale medico e agenti di polizia stavano cercando di coordinare le azioni. Due paramedici avevano scaricato le lettighe dalle ambulanze; le rotelle sfrecciarono sull'asfalto, accompagnate dal rumore dei cuscinetti a sfere. Le manichette dei pompieri alimentate dal camion erano puntate verso i resti della casa in fiamme; un vigile del fuoco gridava ordini alla sua squadra. A pochi metri di distanza, un poliziotto in uniforme tentava di soccorrere diversi feriti. Sweetheart vide l'agente speciale Purcell seguire due paramedici verso il luogo dell'esplosione. Nel caos di voci e sirene, sentì Sylvia chiedergli: «Ha visto Purcell e Church?». «Piarceli è appena passata. È incolume.» Non appena Sweetheart le lasciò andare il braccio, Sylvia vacillò. «Ho bisogno di un passaggio per tornare all'Mdc, al Roybal» disse lentamente. Era chiaro che stava lottando per riprendere il controllo. Il professore pensava che anche lei fosse disturbata dallo stesso suono acuto e stridulo che lui stesso sentiva risuonargli nella testa. Le orecchie gli facevano male e aveva l'impressione che il cranio si fosse come contratto intorno al cervello, ma sapeva che quei sintomi sgradevoli erano transitori. Entrambi erano stati molto fortunati, più fortunati di qualcun altro. Si avviò verso il gruppetto di agenti del Dipartimento di polizia e dell'Fbi proprio mentre Sylvia gli diceva: «Ho bisogno di parlare con Dan-
tes». «Non è il momento.» Sweetheart si voltò verso di lei, scuotendo la testa. «Glielo ho già detto: lei è sotto choc.» Premette subito le dita sulla fronte di Sylvia, che cadde a sedere sul marciapiede. La donna aprì la bocca, ma la richiuse immediatamente. La pelle era punteggiata dai segni rossi provocati dalla ghiaia. Sweetheart la studiò, studiò gli occhi intelligenti con le loro lucciole giallo scuro, infinitesimali e preistoriche, intrappolate nell'ambra. La mascella volitiva. La bocca grande. Strange non aveva ancora visto il nesso: Dantes l'aveva giocata in modo perfetto. L'aveva usata per fare del male ad altra gente e adesso, attraverso quel legame oscuro, psicologa e detenuto erano legati in un'instabile relazione sinergica. Sylvia non era più solo il catalizzatore: era parte della formula. E questo era solo l'inizio. «Ho bisogno di parlare con Dantes» ripeté la dottoressa. «Può darsi che Dantes, invece, non abbia bisogno di parlare con lei. Per il momento, lei è già servita allo scopo: ha trovato la bomba.» Sweetheart vide l'espressione colpita sul viso di Sylvia. Distolse lo sguardo. Sentiva già nell'aria l'odore di carne bruciata. «Con me parlerà» mormorò Strange. «L'Fbi non lo permetterà. Non prima che l'abbiano interrogato loro.» Il professore incombeva su di lei come una nuvola massiccia che bloccasse il sole. Il viso era sporco e su una guancia cominciavano a notarsi i primi segni di un livido; tra i capelli scomposti spuntava il frammento di un rametto di olivo. Dietro di lui, dalle rovine della casa di Beaudry Street, si alzava il fumo. «Rifletta su tutto quello che è successo nelle ultime sei ore» disse seccamente. «Al momento i federali stanno riconsiderando il suo coinvolgimento. A ogni livello.» Rimase in silenzio per un attimo e poi aggiunse: «Dantes si è servito di lei, dottoressa Strange». «Qualcosa è andato storto» ribatté Sylvia, scuotendo la testa. «Non era previsto che andasse così.» Il professore chiuse gli occhi; nella sua voce una nota sprezzante: «E cos'era previsto che succedesse?». Sylvia deglutì e sentì il sapore leggermente metallico della polvere. «Ho bisogno di sapere se Dantes mi ha incastrata.» «Se ha incastrato lei?» Il tono di Sweetheart era durissimo, la bocca piegata in una smorfia di disgusto. «Qui non si tratta di lei. Non si tratta della
dottoressa Strange. Leo Carreras l'ha voluta qui come mossa introduttiva, una specie di preriscaldamento per Dantes. Lei aveva le giuste credenziali. E questo devo riconoscerlo a Leo: ha avuto ragione. Ma la posta in gioco si è appena alzata di parecchio... e si è alzata in conformità al piano di John Dantes.» «Non posso credere che abbia voluto tutto questo...» Strange si interruppe, messa a tacere dal rumore assordante di un elicottero della polizia che volava a bassa quota. Nella scia dell'elicottero passò anche un piccolo aereo. Il suono delle sirene venne quasi soffocato da quello dei motori. «Lei pensava che Dantes non l'avrebbe tradita?» domandò Sweetheart, urlando per farsi sentire, mentre l'elicottero virava in direzione della freeway. «Crede di essere immune alle sue bugie?» «No.» Ma Sweetheart sapeva che Sylvia invece ne era convinta. Era stata sedotta dall'aura del caso di grande importanza e dalla fantasia, per quanto subliminale, che sarebbe riuscita a entrare in rapporto con John Dantes come nessun altro prima di lei. Il professore capiva quel tipo di vulnerabilità. Tese lentamente una mano. Mentre aiutava Sylvia a rialzarsi, le dita registrarono la liscia freschezza della pelle di lei. «Stia in guardia con Dantes» disse. L'avversione gli aleggiava intorno come un'ombra minacciosa. «Lei come può essere così certo che non ci sia un altro dinamitardo, con un proprio programma? E se Dantes non c'entrasse per niente con l'attentato al Getty?» «M e Dantes sono complici.» La voce di Sweetheart era secca, i toni profondi spazzati via come velluto bruciato. «Il collegamento tra loro è nei dati. Risulterà evidente nei confronti degli esami di laboratorio, negli esplosivi, nei test e nelle analisi linguistiche. È già evidente nella loro comune cosmologia: l'Inferno di Dante Alighieri.» Il sorriso di Sweetheart era duro e freddo. «Io troverò il nostro dinamitardo pazzo, il nostro stronzo ossessivo di mezz'età in doppiopetto e cravatta. E sarà il migliore amico di John Dantes. Questa è opera di Dantes... il fatto che sia dietro le sbarre non significa assolutamente niente.» Sylvia sapeva che c'erano uomini che dal carcere governavano imperi della droga: davano ordini, emettevano sentenze di morte, pilotavano colpi di Stato... «Dantes l'ha mandata qui a morire, dottoressa Strange.»
Era la voce dell'agente speciale Purcell. Stava tremando e gli occhi erano cupi e accusatori. Sembrava respirare a fatica. «Church era dentro con due artificieri, quando è saltato tutto. Stanno per trasportarlo all'Ucla in elicottero.» Spostò lo sguardo sul velivolo in avvicinamento. «Per il suo stesso bene, spero che muoia prima di arrivarci.» 15 Vivo ogni giorno nella consapevolezza di aver causato sofferenze. So che sarò chiamato a rimediare alle mie azioni. John Dantes al "Los Angeles Weekly" Ore 12.41 Il tunnel tremò. La bomba era esplosa. La prima reazione di Dantes fu di eccitazione. La seconda di dispiacere. Si accorse con sorpresa di queste sensazioni, ma le emozioni sono di per sé fugaci e il suo determinismo, il suo fatalismo, monopolizzarono rapidamente l'attimo. Faceva tutto parte dello schema, dello scenario messo in moto anni prima. E che adesso doveva svolgersi fino all'ultimo atto. Sentiva che le guardie lo stavano osservando. Perché non reagivano all'esplosione? Perché si stavano muovendo con gelida efficienza a dieci metri sottoterra, dove vibrazioni e tremiti avrebbero dovuto essere motivo d'allarme? Il tunnel tremò di nuovo, inclinandosi leggermente. Dantes inciampò, boccheggiando. Le guardie lo fissavano sospettose. Le luci ronzavano, alimentate da un flusso regolare di corrente. La pelle di Dantes era imperlata di sudore e resa verdastra dalla fluorescenza nel tunnel che collegava l'edificio federale al centro di detenzione. Gli sceriffi avevano deciso improvvisamente di trasferirlo di nuovo dal Roybal all'Mdc. Questo era successo dopo che la comunicazione con Sylvia Strange si era interrotta. «Vaffanculo» sussurrò Dantes. Tutta quella storia lo faceva infuriare: gli sceriffi gli avevano detto che era stato lui a chiudere la comunicazione con la psicologa. Quella gente non smetteva mai di mentire. Gesù, loro si di-
vertivano a incasinare le menti dei detenuti, specialmente di quelli più in gamba, di quelli più duri, i più difficili da spezzare. Dantes prese un respiro profondo, traendo qi dal terreno e lasciando che gli risalisse attraverso il corpo fino al cervello. Se la terra avesse tremato di nuovo, lui sarebbe stato pronto. Non era un estraneo in quell'inferno sotterraneo. Per studiare e laurearsi, aveva lavorato come operaio in opere di escavazione. Aveva trapanato e pompato, aveva caricato e trasportato. Aveva respirato l'aria malsana degli spazi bui. "Se un uomo vuole capire la vera ricchezza, il vero potere, deve sentire fisicamente le risorse della terra nelle proprie mani, almeno abbastanza a lungo da avvertirne il peso" mormorò Dantes tra sé. Nei suoi giorni da manovale, aveva lavorato a un tratto dell'attuale metropolitana, a uno del sistema fognario e perfino a qualcosa per l'Azienda gas e acqua. Aveva visto la terra tremare mentre si trovava a quindici metri sottoterra e la prospettiva era molto diversa, quando avevi mille tonnellate di terra e roccia sulla testa. Come in risposta ai suoi pensieri, la terra si mosse di nuovo. Ma questa volta Dantes registrò lo spasmo come interiore. Questo spiegava il comportamento delle guardie. Sì, doveva trattarsi di una specie di reazione per empatia, pensò, conficcandosi le unghie nei palmi. Il controllo era tutto. L'energia arrivò come un'ondata, raggiunse l'apice e finalmente si ritrasse. Ma nella sua scia lasciò la paura. Dantes prese un respiro profondo, orientandosi nello spazio. I buchi neri nella mente erano una brutta cosa. Era questo che lo Stato faceva a quelli che parlavano troppo. Era questa la tradizione dello Stato: individuare i dissidenti, i radicali e i disperatamente poveri per torturarli ed etichettarli come matti, esattamente come i pazzi di Goya. La pazzia era qualcosa che succedeva ai disadattati di qualsiasi società. Chi non si adatta viene classificato come disadattato. E se l'etichetta viene ripetuta più e più volte, un uomo arriverà a credere che sia la verità. "Io non mi adatto" pensò Dantes. "Non mi sono mai adattato." Il flusso di pensiero fece un salto improvviso e Dantes vide il viso della dottoressa. Qualcuno lo spinse da dietro e l'immagine svanì. Una voce gli chiese perché stesse camminando con le braccia aperte,
come se avesse avuto paura di inciampare. Lui diede alle guardie un po' della loro stessa medicina: li fissò come se loro fossero stati i pazzi. Gulag, gulag, gulag... la parola gli ruzzolava scomposta per la mente come una ruota fuori controllo. Le catene che gli legavano polsi e caviglie, unendosi all'altezza della cintura, producevano un rumore sordo e ripetitivo e gli davano l'aspetto di un prigioniero medioevale, costretto in una specie di tenuta da tortura. Ma Dantes non aveva bisogno di catene per ricordare di essere un ostaggio. Cercò di scacciare la rabbia. L'aggressività passiva del martire cominciava a emergere. Era a questo che l'avevano spinto. Gli occhi di Dantes brillavano di uno scintillio folle, dovuto in parte all'illminazione, in parte a un mal di testa terribile che durava ormai da giorni. Fiancheggiato dagli sceriffi, proseguì lungo il tunnel. Due guardie carcerarie li aspettavano davanti alla massiccia porta d'acciaio che permetteva l'accesso all'Mdc. Una di loro sussurrò la notizia di una bomba, di un'esplosione. "Lo sapevo" pensò Dantes. E cominciò a ridere. Barcollò, quando una guardia gli calò con forza il manganello sulla schiena. I padroni non erano contenti del loro servo. Le pulsazioni dietro il cranio aumentarono d'intensità mentre saliva in ascensore verso il mondo siberiano della sua cella. Percorse il corridoio asettico e il cancello scorrevole della cella si aprì, manovrato elettronicamente. Appena varcò la soglia, il cancello si richiuse. Dantes fece scivolare le dita tra le sbarre d'acciaio e fissò le pareti spoglie all'esterno. Il silenzio era sinistro. Il detenuto era solo in un'area attrezzata per ospitarne ventotto. Tutte quelle misure di sicurezza, tutti quei soldi per un unico uomo solitario. Dollari delle tasse federali al lavoro. Tutto quel darsi da fare per il Calbomber, per il dinamitardo del Getty, per il bombarolo della storia... I federali erano stupidi; avevano dato prova della loro inadeguatezza più e più volte: Ruby Ridge, Waco e Heatherwade. Non avevano un solo indizio. Il che significava che lui doveva prendere delle misure, doveva trovare un suo modo per uscire da quel casino. Be', ci stava lavorando. Si sedette sulla brandina e passò le dita lungo lo spazio tra il materasso e la parete. Sentì solo intonaco grezzo.
Nessuna nuova consegna. Dantes prese a camminare avanti e indietro, ben consapevole del rumore dell'acqua che gocciolava nel minuscolo box doccia, aperto e privo di porta o tenda. Nel caso avesse deciso di annegarsi, impiccarsi o tagliarsi... come se il suicidio fosse stato nel suo stile. Sentì dei passi pesanti e ascoltò insulti rimbalzare in quel mondo d'acciaio e cemento armato. Si vide comparire davanti una guardia carceraria. Dantes lo conosceva e l'aveva soprannominato Ciacco, come il goloso, a causa del suo collo grosso, dei rotoli flaccidi intorno alla vita, della testa da uccello, della luce malvagia negli occhi ottusi e della nuvola di aglio e grasso che sembrava aleggiargli sempre intorno alle labbra carnose. Ciacco, il famelico e sfigurato amico di Dante Alighieri, compagno d'infanzia e di gioventù che aveva profetizzato il futuro violento di una città corrotta dall'ingordigia, dalla brama e dalla depravazione di un appetito insaziabile per i lussi e per il potere, sempre il potere. Dantes pensò che erano proprio quegli uomini "ch'a ben far puoser li 'ngegni" quelli che cadevano negli abissi più profondi dell'inferno, quando i peccati venivano giudicati e i castighi assegnati. «Chi sono oggi gli uomini "ch'a ben far puoser li 'ngegni"?» urlò Dantes alla guardia. «Sono in grado di riconoscersi?» «Stronzo di un assassino.» Ciacco camminava avanti e indietro davanti alla cella di Dantes, offrendogli gratuitamente lo spettacolo della propria stupidità. Era insolitamente ottuso per essere una guardia carceraria federale. Dentro quell'uomo, il risentimento bruciava senza fiamma come un bastoncino d'incenso. Dantes fornì un bersaglio a quell'emozione. «Cosa stai guardando?» ringhiò Ciacco. «Aspettavi qualcun altro? Magari Florette, eh?» Le labbra della guardia si arricciarono. «Be', non trattenere il fiato nell'attesa.» Ma dopo un po' Ciacco si stancò. Dopo che se ne fu andato, voci ardenti di frustrazione rotolarono lungo il corridoio fin dentro la cella. Dantes si avvicinò cauto al lavandino. Abbassò la testa e si spruzzò acqua sul viso, passando contemporaneamente una mano sotto il lavabo e lungo la parete. Le dita sentirono un bordo ruvido di carta, che riuscirono con difficoltà ad afferrare. Dantes estrasse il foglietto dal nascondiglio. Lo strinse nel pugno, schiacciandolo. Il televisore, montato sulla parete di fronte alla cella, prese improvvisamente vita. Il detenuto fece una smorfia: quei suoni e quelle immagini artificiali lo facevano impazzire. E tuttavia voleva notizie del mondo esterno,
della sua città. Los Angeles era la sua città, dopo tutto. Lui ne aveva toccato ogni parte... perfino lì, rinchiuso all'inferno. Cominciò a tremare. All'inizio fu solo un lieve tremito, che però aumentò in modo incontrollabile. Sullo schermo le immagini si succedevano a un ritmo folle, opera delle guardie. Una notizia flash. Un'esplosione in Beaudry Street. Numerosi feriti in condizioni critiche, un morto. Un detective del Dipartimento di polizia. Il filmato venne trasmesso più volte: la casa della sua infanzia che esplodeva in frammenti. Casa, dolce casa. Dantes vedeva solo la sua casa che si polverizzava in milioni di pezzi. I visi dei feriti e dei morti si fusero: non riusciva a sfuggire allo sguardo innocente del fantasma di Jason Redding. Sapeva che avrebbe incontrato quegli spettri all'inferno. Fu scosso da un tremito e una scarica elettrica gli esplose nel corpo. Gridò di dolore. Gli occhi si rovesciarono e il corpo cominciò a scuotersi violentemente mentre un unico pensiero gli bruciava il cervello. La dottoressa... aveva trovato il messaggero. Una risata orribile e stridula rimbalzò sulle pareti di cemento della cella e sì alzò ad altezze isteriche. Chi poteva produrre un suono così orribile? Questo è il suono che fanno i pazzi. Il corpo si contrasse, come i muscoli in preda agli spasmi. Dantes cadde irrigidito sul pavimento, dove continuò a tremare con la stessa violenza di un epilettico in preda a un attacco. «Sono io» urlò, ancora e ancora. «Sono io il pazzo!» E poi la lingua gonfia gli riempì la gola, bloccò le parole e cominciò a soffocarlo. 16 Lei è veramente così ingenuo, presuntuoso e arrogante da credere di andarsene dalla tana del demonio con il suo bel lavoretto ordinato? La scala Wechsler di indagine psicometrica per adulti, l'inventario multifasico della personalità dell'università del Minnesota, test, registrazioni dei colloqui, accidenti, perfino un Rorschach? Risposte con carta e penna. Scale psicometriche. Associazioni mentali. Il tutto per arrivare a quell'elusiva, intangibile chiave che apre la psiche di un uomo, la sua stessa anima. Lei
crede di riuscire a trovare la verità? Non ci scommetta. Lettera di John Dantes allo psichiatra nominato dal tribunale Ore 13.19 L'elicottero aveva a malapena toccato terra che già Church e le altre vittime venivano caricate a bordo. Sylvia osservò il velivolo decollare e poi virare verso la zona ovest di Los Angeles e l'ospedale dell'Ucla. I rotori tagliavano l'aria con un suono insistente e ripetitivo. Su una diversa frequenza, Strange sentì la voce stridula di una giornalista. Voltò le spalle a Sweetheart e alla casa in rovina e si ritrovò a guardare una donna snella in tailleur grigio che parlava in fretta davanti a una telecamera: «... almeno tre feriti, tutti in condizioni critiche. Le autorità sono ovviamente preoccupate per altre eventuali trappole esplosive, sebbene fino a questo momento l'Fbi non abbia ancora comunicato la causa ufficiale di questa esplosione...». Sylvia non stava ascoltando. La sua attenzione era stata attirata da un uomo, distante forse venticinque metri, che stava attraversando il cortile di una casa gialla a un piano, sul lato opposto di Beaudry. L'uomo, che aveva la visiera del berretto da baseball calata sul viso e gli occhi nascosti dagli occhiali da sole, si muoveva con passo sciolto, zigzagando tra i curiosi. Le dita della mano sinistra erano strette intorno alla tracolla di uno zaino in pelle. L'uomo voltò la testa e guardò verso di lei, mentre il sole si rifletteva sulla montatura metallica degli occhiali. Sollevò un dito in una specie di saluto. «È lui!» esclamò Sylvia, mentre l'uomo scompariva dietro la casa. Scattò di corsa, ignorando le proteste di Sweetheart. Evitò una donna che scendeva da uno dei camion dei vigili del fuoco, saltò un basso steccato e attraversò il cortile davanti alla casa gialla, dove le erbacce crescevano a ciuffi. Un lampo bianco le attraversò la strada e Sylvia gridò qualcosa al cagnolino rabbioso, senza tuttavia fermarsi. Sentì dei passi alle sue spalle; lanciò un'occhiata dietro di sé e vide Sweetheart che la seguiva, affiancato da un poliziotto in uniforme. Il cagnolino deviò la sua furia sui nuovi intrusi, ma Sylvia non vide cosa stava succedendo perché stava già passando sul retro della casa. Adesso si muoveva veloce, spinta dall'adrenalina.
Il cortile era recintato, ma le assicelle di legno avevano ceduto in parecchi punti, creando diversi varchi. Con la coda dell'occhio, Sylvia scorse una vecchia casetta per il cane, calzini appesi ad asciugare e un piccolo capanno per gli attrezzi, ma ciò che richiamò la sua attenzione fu un rumore metallico verso il confine opposto della proprietà. Si infilò a fatica in un punto in cui mancavano due assi, rimanendo per un attimo impigliata con la manica nelle schegge di legno. Il cortile limitrofo era un clone del precedente, tranne che per la recinzione di legno, che qui era stata sostituita da un muro alto un metro e venti. Il muro non fermò l'uomo, che saltò atterrando con facilità sull'altro lato. La nuca dello sconosciuto, il berretto da baseball, sembrarono deriderla. Senza voltarsi, Sylvia chiamò Sweetheart gridando. Le sembrò di sentirlo rispondere. Quando la dottoressa arrivò al muro, la preda era ormai scomparsa. Sylvia si issò sul rozzo muretto, si sedette, passò le gambe sull'altro lato e si lasciò cadere. Adesso non si trovava più nel quartiere residenziale, ma in un fognolo; ampio abbastanza da ospitare due veicoli, correva lungo tutto un isolato per poi tuffarsi sotto un vecchio cavalcavia abbandonato. Lì il rumore del traffico su Hollywood Freeway aveva la pulsazione liquida del sangue che scorre in un'arteria vitale. Una recinzione metallica delimitava il lato opposto del fognolo. Due possibilità: o scavalcare il reticolato, o correre verso il sottopassaggio. Strange decise per la seconda. Avanzò lentamente, studiando la zona in cerca di un segno qualunque dell'uomo con lo zaino, sperando che Sweetheart e il poliziotto fossero nelle immediate vicinanze. Trovò uno scavo aperto tra coni arancione per le segnalazioni stradali, cartelli gialli di lavori in corso e macchine per il movimento terra, adesso immobili. Un'escavatrice idraulica aveva strappato enormi morsi di terra dura e rocciosa fino a una profondità di tre o quattro metri sotto il livello stradale. In fondo allo scavo, tra i detriti, sporgeva l'estremità aperta di una massiccia conduttura del diametro di quasi due metri. Il giunto di collegamento (se esisteva) era ancora sepolto, per cui c'era una sola entrata, e forse una sola uscita. «Fa parte del vecchio sistema fognario degli anni Dieci o Venti.» Sweetheart le si fermò di fianco e sollevò la testa, facendole pensare a un cane da caccia che fiutasse l'aria. Il professore aveva il respiro regolare, a differenza del poliziotto che stava sopraggiungendo. Invece di farsi indietro, Sweetheart si aggrappò alle transenne e dondolò
il corpo sopra lo scavo. Lasciò la presa e si lasciò cadere, atterrando con i piedi in un centimetro di acqua melmosa e nerastra. «Mi butti giù la torcia» gridò al poliziotto che ora si trovava sul bordo dello scavo, spalla a spalla con Sylvia. Quando il poliziotto ubbidì, Sweetheart afferrò la torcia con una mano e l'accese, illuminando il tunnel di cemento. Entrò e scomparve subito, come un enorme coniglio nella tana. Sylvia lo seguì d'istinto. Atterrò sbilanciata, barcollò, poi recuperò l'equilibrio. Guidata dalla luce della torcia, ora più o meno a tre metri all'interno del condotto, cominciò ad avanzare. L'odore tossico la colpì come una porta sbattuta in faccia. Perso nell'ombra, Sweetheart si voltò sentendola avvicinare. «Si guardi le spalle» sussurrò. L'enorme conduttura cadente era perfetta per un'imboscata. Sembrava contrarsi ed espandersi a seconda della luce che rimbalzava sulla sua superficie e deformava piani e angoli, distorcendo la distanza. A ogni metro che percorrevano, il tanfo dei rifiuti chimici e umani diventava sempre più insopportabile. L'avanzata era ulteriormente ostacolata da detriti prodotti dall'uomo, rami sporgenti, sassi grossi come teschi. Dove l'acqua era filtrata attraverso le crepe, il pavimento si era trasformato in fango. Si inoltrarono in profondità - quindici metri, venti, venticinque... - finché ciò che rimaneva della luce del giorno non riuscì più ad arrivare. Un suono secco echeggiò da qualche parte davanti a loro. Sweetheart accelerò il passo. Sylvia doveva restare vicino alla luce per evitare di inciampare negli ostacoli. Adesso il rumore della superficie della città era scomparso: la terra che avviluppava la conduttura assorbiva ogni traccia di civilizzazione. Sylvia cominciò a sudare, mentre sentiva il cuore accelerare il battito. Andò quasi a sbattere contro Sweetheart, che si era improvvisamente fermato. Ci fu un clic e il mondo diventò buio e nero. Un familiare rumore di corsa zampettante. «Un topo» sussurrò a bassa voce il professore. Ma non si mosse. Rimasero fermi in silenzio, vicini, e Sylvia si sforzò di sentire ciò che Sweetheart sentiva. Un suono impercettibile le punzecchiò la mente; lo si poteva udire così come si può intravedere una luce ammiccante: a intervalli. Era un suono debole furtivo e indistinto. Come se qualcuno stesse cercando di non respirare.
Rabbrividì, grata per la presenza di Sweetheart in quel mondo claustrofobico. Adesso lo strano odore pungente di terra ammuffita era più forte e l'aria era densa di polvere. Un altro rumore. Attutito, sinistro e vago. Un passo? Seguito da un rumore secco e netto. Sweetheart riaccese la torcia. Sylvia strinse gli occhi nella luce improvvisa, distinguendo a malapena la sagoma del professore che si lanciava avanti. Lei premette la schiena contro la parete della conduttura. Fu allora che vide l'ombra muoversi poco più avanti di Sweetheart, Sparita. Il professore continuò a inseguirla e Sylvia gli andò dietro, chinandosi dove l'altezza della conduttura si dimezzava. Lottò contro la paura di quello spazio claustrofobico e la paura dell'uomo che inseguivano. Quando Sweetheart svoltò, lo perse di vista per parecchi secondi, poi arrivò allo stesso angolo, lo superò e andò a sbattere contro di lui. «Vicolo cieco» ringhiò il professore. «Dove diavolo è andato?» Passò il raggio di luce intorno a loro, lasciandolo giocare lentamente sulle radici che penetravano come dita nere attraverso le crepe nel cemento. Qui la conduttura era stata intenzionalmente allargata fino a raggiungere un'area di più di un metro quadrato. Sweetheart sembrò rendersi conto di colpo di non essere solo; afferrò il braccio di Sylvia e la forza delle sue dita fu come una morsa. «Sto bene» lo rassicurò lei. Sentì il suono dell'acqua che gocciolava a ritmo regolare, come un battito cardiaco della terra. «Dove arriva questa conduttura?» sussurrò, togliendosi delle ragnatele dal viso con la mano. «Dove finisce?» «Una volta si congiungeva con un bacino imbrifero, ma il sistema è fuori uso da secoli. Il rumore d'acqua che sente è solo deflusso superficiale: irrigatori e canaline di scolo che filtrano fin quaggiù.» Sweetheart cercò con il raggio della torcia l'infiltrazione d'acqua da cui aveva origine il suono e sul soffitto del condotto vide un'apertura: i resti di un vecchio camino di ceramica, uno sbocco in superficie. Si avvicinò con cautela. «Ecco com'è uscito.» «Non possiamo salire anche noi... e inseguirlo?» «Se n'è andato da un pezzo. E sarebbe un'arrampicata pericolosa: sembra tutto sul punto di crollare.»
Riportarono l'attenzione sul vicolo cieco sotterraneo. Per terra, ai loro piedi, una pila di stracci sudici faceva pensare a un cadavere. C'era anche una candela consumata, la cui cera sporca si era raggrumata sopra una cassetta di legno. Ovunque c'erano rifiuti: vecchi elettrodomestici, spazzatura, resti di cibo. Il tanfo era denso e putrescente. «Il popolo delle talpe. Questa è la loro immondizia. Vivono quaggiù.» «In una tana» sussurrò Sylvia. «Che casa orrenda.» «"Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch'a la mente altrui mi rechi"» recitò Sweetheart in italiano. «Traduca.» Il professore ubbidì, poi prese un respiro. «Faremo venire quaggiù la Scientifica. Il nostro dinamitardo è un ragazzo molto brillante e ha fatto i suoi compiti per benino: conosce il nostro modo di agire, i nostri schemi reattivi in situazioni di emergenza.» Sylvia si voltò verso Sweetheart, proprio mentre lui le afferrava un braccio. Sentì le dita dell'uomo affondare nella carne e il dolore correrle lungo i nervi. «Lei sta collaborando con Dantes?» le domandò il professore. «No.» «Dantes ha chiesto di lei... e lei ci ha portato alla bomba.» «Avrei potuto morire anch'io.» «Ma non è successo.» Gli occhi scuri del professore intrappolavano la luce, che ammiccava come un fuoco pericoloso nelle pupille. «E cosa mi dice di lei?» contrattaccò Sylvia. «È ossessionato da Dantes. La sua non è solo un'indagine: è una vendetta.» Sweetheart le era così vicino che ne sentiva il respiro sulla pelle. «Ha ragione» ammise lui a bassa voce. Le passò davanti e puntò la luce della torcia come un coltello davanti a sé. Si immobilizzò di colpo. Sylvia alzò lo sguardo sul messaggio tracciato sulla parete. QUARTO CERCHIO «A quanto pare, siamo appena entrati nel livello successivo dell'inferno» annunciò Sweetheart. Per Sylvia il resto di quel martedì fu una sequenza di episodi confusi. Prima un interminabile debriefing negli uffici dell'Fbi. Poi Leo che la riaccompagnava al bungalow... con le uscite della superstrada che le scorrevano di fianco, mentre nella mente le immagini svani-
vano e si riformavano in modo molto simile al panorama. L'improvvisa consapevolezza che c'era un unico contatto tra John Dantes, Sylvia Strange e le bombe: Los Angeles, città dell'Id, dove prospera l'ombra. Leo che l'accudiva: con brodo di pollo, con un bagno caldo, con l'offerta di dormire sul divano; un vago ricordo del sistema d'allarme di casa che si preparava alla battaglia della notte e dello sfinimento che vinceva la paura. L'e-mail di Serena: Cara Sylvie, Matt mi ha detto che stai aiutando l'Fbi a catturare un uomo cattivo. Mi ha detto anche che può darsi che nel telegiornale veda delle bombe, ma che devo stare tranquilla perché tu sei al sicuro. Io recito preghiere speciali a san Cristoforo e a san Michele. Te amo mucho!!! Torna a casa presto. Baci, Starfish. Andarsene a letto con il suo amante in New Mexico... grazie alla società dei telefoni AT&T. Perdere finalmente conoscenza, mentre Matt era ancora in linea e le prometteva di prendere il prossimo volo per Los Angeles. Il sonno non fu un rifugio. Immagini da incubo si materializzarono e si dissolsero, deformando la realtà o deviando completamente dalla realtà stessa. Il piede sul cavetto-trappola... e la bomba che le esplode sotto i piedi. Il detective Church coperto di sangue, mutilato, che le sorride macabro e ripete: "Tic tac, tic tac". M che ride, inseguendo Serena. Matt che le presenta i genitori di Mona Carpenter: "Vogliono sapere perché hai ucciso la loro figlia". L'agente speciale Purcell che le si avvicina, ridacchiando come una strega: "Ha usato la farina per rafforzare l'esplosione... la farina! Prova a pensare a un incidente in un silo quando esplode il grano". E, in fondo al tunnel, Sweetheart si toglie la faccia e diventa John Dantes. Mentre le braccia di Dantes le si stringono intorno al corpo, lei si ritrae, cercando di urlare. Ma la bocca di lui trova la sua e gliela chiude. E poi le succhia veleno dal corpo e lei sente piccolissime cose dure e solide che dalla pancia le salgono in gola.
"Sassolini" pensa. "Sono piena di sassi tossici." Ma quando Dantes si stacca da lei per sputare il veleno, la bocca vomita persone ed edifici, minuscoli pezzetti di plastica di una città giocattolo. QUARTO CERCHIO... 17 Datemi pure del nichilista, ma io abbraccio con entusiasmo quell'annientamento che è parte integrante della patologia urbana fin dai primi raggruppamenti umani noti come civiltà. Si tratti di tendopoli in deserti aridi e spogli, o di bastioni in cemento e acciaio, prima o poi cadranno tutti in rovina. Manifesto di Mole Ore 23.53 La sua mente si muove in cerchio, come un cane che sta per accucciarsi. M sa che sta sognando e tuttavia le immagini scorrono con un inquietante, fluido realismo. Mancano pochi minuti a mezzanotte. È disteso sul letto con una donna accanto e allo stesso tempo guarda esplodere la casa di Beaudry Street. Nel sogno lui guarda, mentre loro - i suoi vecchi amici, i suoi nuovi amici - vengono scagliati in aria, oppure si buttano a terra e poi si riprendono, scioccati. Alcuni cominciano a correre, altri urlano, qualcuno piange. Si è esposto al sole con riluttanza. Odia il calore che riporta in superficie le cicatrici rosse di vecchie bruciature. Però, come sempre, deve essere testimone oculare della punizione. Essere un voyeur è l'unico modo per condividere quello che gli è rimasto. M osserva con deferenza. Questa esplosione, qualsiasi esplosione, è il prodigio di alchimisti bizantini e della loro invenzione di duemila anni fa, il fuoco greco. M non manca mai di apprezzare la bellezza della sacra triade: innesco, ossigeno, carburante. Da questo punto di vista è un voyeur soddisfatto. Ma qualcosa, ormai, è definitivamente assente: il senso di timore reverenziale. Certo, la consapevolezza del suo potere e della sua onnipotenza rimane. Ma è una consapevolezza vuota. Un luogo morto. Privo di desiderio, privo d'amore, addirittura di sofferenza. Non sta sognando; lui è un uomo smarrito che vaga nelle gallerie vuote e
buie del suo incubo in stato di veglia. Cos'è che riempie lo spazio? Il nulla. C'è qualcosa di più orribile nell'universo? Per contrasto, la sofferenza deve essere divina e la morte un piacere. Dopo tutto, lui si occupa di morte. Di conseguenza, è un portatore di piacere. Polvere da sparo, nitroglicerina, trinitrotoluene, nitrato d'ammonio, C-4, Petn ed esogeno, Tovex, Semtex... queste etichette rappresentano la sua storia personale e gli strumenti del suo mestiere, della sua particolare scienza di distruzione. Ha un grande talento nello scegliere ciò che farà più male. Lui comprende il dolore degli altri. C'è stato addirittura un tempo in cui lui stesso provava dolore. Sente la mancanza di quel dolore come la maggior parte della gente sente la mancanza d'amore. Sa come creare il perfetto inferno per gli altri perché lui ci è già stato tantissime volte. Le pareti di terra, l'aria fetida, il tanfo nauseante; sì, lui sa tutto dell'inferno, dove gli uomini sono incatenati come bestie, costretti a dormire tra i loro escrementi e a implorare avanzi di carne putrida, brodaglia speziata di vermi. Cagheremo nel tuo cibo. Pisceremo in quello che bevi. Tra un po' ci ringrazierai se ti daremo piscio e merda. Impara in fretta. Nello spazio vuoto della sua anima c'è un unico bisogno che lo mantiene in vita: lui è un uomo che sta aggrappato al suo ultimo respiro. Quel bisogno è la vendetta. Solo allora questo incubo finirà davvero. Gli occhi si spalancano - adesso è veramente sveglio - e si ritrova disteso accanto alla donna che sta russando appena, con un ritmo regolare. Il sonno la libera dall'agonia dell'esistenza quotidiana. La luce della luna le dipinge la pelle di un biancore latteo. Le labbra sono socchiuse e piccoli respiri gli riscaldano il braccio. Ogni inspirazione è per scegliere la vita. Ogni espirazione un flirt con la morte. Ogni respiro è una decisione di continuare a vivere. M si stira, sbadiglia e poi si passa le dita sulla barba castana di un giorno. Il cuoio capelluto gli prude e, al suo tocco, le cicatrici in rilievo sono come segnali topografici di passate miserie. M non trova rifugio da nessuna parte, neppure nei sogni. Per lui il sonno è semplicemente un allenamento per la morte; gli bastano poche ore, due o tre. L'insonnia è un'abitudine che ha imparato nella lunga notte invernale che chiamano prigione.
Si volta verso i numeri rossi luminosi dell'orologio digitale: tre minuti a mezzanotte. Il quarto cerchio promette nuovi livelli di impegno. Da parte sua. Da parte degli altri. Dantes sta recitando la sua parte alla perfezione. Sì, la loro società è sopravvissuta agli anni, alla distanza, all'agonia del tradimento. M fa scivolare il corpo nudo fuori dalle lenzuola di cotone verde acido. Alzati e sorridi, c'è del lavoro da fare. Si fa la doccia nel piccolo bagno piastrellato. Sceglie gli abiti per il nuovo giorno: pantaloni cachi, camicia di cotone a maniche corte bianca e azzurra, stivali da lavoro. Prepara il caffè. Dà il buon giorno a Nietzsche, che gli offre suoni d'amore da un becco ingiallito. Prima di uscire, M riempie sempre di croccantini la ciotola di Einstein. La gatta agita la coda. È ridicola con quella pelliccetta che sembra un patchwork folle, una cacofonia di strisce e macchie chiare e scure. Perché una gatta di nome Einstein? Ah, sì: è stato il ragazzino a darle il nome. I bambini fanno cose del genere, si dice M. Torna a sedersi sul bordo del letto, sorseggiando il caffè, osservando il corpo della donna tra le lenzuola in disordine. La sua pelle sembra risplendere di morbida luce. Ogni giorno lei gli dice che la sta riportando alla vita. Che le sta insegnando di nuovo a toccare e a essere toccata. Ogni volta che grida per amore, mentre le lacrime le scorrono sul viso, è stupita e confusa dal fatto che lui possa portarla all'orgasmo nonostante il dolore. Lei lo ucciderebbe, se sapesse la verità. In modo perverso, il fatto di rappresentare per la donna sia la morte che la vita lo eccita sessualmente. Non ha mai avuto problemi con le donne, ma questa volta c'è una sensazione speciale, creata dal dare-e-prendere della sopravvivenza. La donna, a sua volta, risveglia dentro di lui un debolissimo, leggero desiderio: il desiderio di provare passione, amore, ma soprattutto la capacità di provare rimorso. M è convinto che queste tenui fitte emotive siano come i dolori provocati da un arto fantasma, o forse, più esattamente, dalle vestigia di una coda primitiva e preistorica, perché un arto fantasma presupporrebbe che una volta lui sia stato capace di amare. M le accarezza la nuca e le solleva i capelli fulvi. Ah, ma questo è vero, ricorda a se stesso. È stato John Dantes a derubar-
lo della capacità di provare dolore e amore. Paradossalmente, è stato sempre Dantes che lo ha reso più forte. M sussurra tra sé il nome del ragazzo, come assaggiando sulla lingua la forma della parola. Ma il pensiero del bambino morto lo lascia vuoto come qualunque altra cosa del suo mondo. Si è esercitato nella finzione di ciò che significa vivere con un cuore dietro le costole. Può recitare un piccolo elenco di coloro che sono morti per lui: donne e bambini che sono diventati la sua famiglia, per lo meno per qualche mese. Io tocco gli altri attraverso la morte, pensa M. È un fatto, né buono né cattivo. Lui è sempre solo, anche quando è circondato da centinaia, da migliaia di esemplari della sua specie. Anche quando è disteso accanto a uno di loro. La solitudine è l'unico stato che può tollerare. La solitudine lo sta uccidendo. Ma non può avere esitazioni. Non a partire da questo preciso momento... Non prima che lui e Dantes abbiano recitato le rispettive parti fino in fondo. Di nuovo sussurra: «Jason». Il fantasma del bambino non risveglia nulla dentro di lui, ma richiama Molly dal sonno. Lei gli tende le braccia. «Abbracciami» mormora; le guance sono rigate di lacrime. M la stringe a sé. «Hai sognato di nuovo?» Lei annuisce, soffocando un singhiozzo. «Brutti sogni.» «Raccontami.» Le bacia le labbra, le guance, le palpebre. «Va tutto bene, Faccia d'Angelo.» «No, no» fa lei, rifiutando inconsciamente le rassicurazioni. Lo guarda, mentre ha ancora negli occhi visioni del suo bimbo morto. «Jason in sogno mi ha detto che... che c'è un mostro sepolto sotto questa città.» «Torna a dormire» le sussurra M. Le passa le dita sul collo. Con quelle stesse mani nude ha assassinato le sue amanti. Questo è insolito per un dinamitardo, M lo sa, questa abilità di ignorare la morte. Ha le mani sporche di sangue, ma non bada a quelle macchie. Fa parte del suo lavoro. «Dormi, Faccia d'Angelo» dice, carezzevole. «Veglio io su di te.» Sorprendentemente, Molly ubbidisce. Il respiro si fa sempre più profondo e la donna si muove appena, quando lui si alza dal letto. La gatta adesso siede sul davanzale della finestra e lo osserva diffidente. L'appartamento con due camere da letto offre il panorama del porto di San Pedro. Le navi da carico con le luci gialle nell'aria umida della notte se ne stanno allineate lungo i moli. Quando M è irrequieto, le scene del porto a-
giscono da tranquillante. Perfino il profumo salato dell'oceano lo aiuta ad allentare un po' la tensione. Lui ha sempre vissuto a una velocità più alta della maggior parte della gente, ma negli ultimi tempi la costante marcia altissima del suo motore interno sembra essere più intensa che mai. M ha brama di stimoli, della sua dose quotidiana di caos, di distruzione. Nella cucina minuscola, le dita volano sui tasti del computer portatile. Si è imposto di registrare ogni dettaglio di ogni sua operazione. Fa sempre il suo compito a casa. Procedura standard. Sebbene non provi più esaltazione per un lavoro ben fatto, ne sente comunque la soddisfazione. Qualunque idiota di merda può far saltare in aria un palazzo federale. Ma solo un maestro può riuscire a far collassare ordinatamente duemilacinquecento tonnellate d'acciaio con una semplice manciata di esplosivi. E solo un genio può costringere una città in ginocchio. M richiama sullo schermo immagini digitali: squadra Artificieri, investigatori, esplosioni, immagini viste e riviste. Si ferma su una: un primo piano della donna, la dottoressa Strange. Per divertirsi, aggiunge una didascalia: "Miss Los Angeles". Ingrandimento. Definizione. Inquadratura. Stampa. M ha bisogno di una buona foto della ragazza di Dantes: ha un appuntamento a Santa Monica con la bella dottoressa. Guarda l'orologio: 1.09. È mercoledì. Impiega esattamente ventun minuti per inserire nel suo sistema i dati sulla risposta alla minaccia di bomba a City Hall. Fa lo stesso per lo scenario di Beaudry Street. M era presente e ha osservato entrambe le operazioni nella loro completezza: tempo di risposta, arrivo di personale e attrezzature, scelte, strategie e risultati finali. Prima di uscire, raccoglie il portatile, la giacca e le chiavi del furgone. Sulla freeway punta prima a nord e poi a ovest, verso l'oceano. Sono inefficienti, pensa, fuori esercizio. Be', ci penserà lui a farli allenare. 18 La riduzione del dissidente radicale nel quadro della psicopatologia non è mai stata limitata solo ai gulag e agli ospedali psichiatrici dell'Unione Sovietica. Sebbene finora non sia ancora arrivato al punto da incidere queste parole su una saponetta, io sono comunque un anarchico che è stato di volta in volta definito come
schizofrenico paranoide, bipolare, psicotico: un uomo reso invisibile dal titolo di "pazzo". Dai verbali processuali. John Dantes, rivolto al giudice Heron Mercoledì, ore 4.34 Il telefono strappò Sylvia dal sonno. Allungò il braccio e fece cadere la sveglia sul pavimento. Dopo tre belati elettronici, riuscì ad afferrare l'apparecchio. Premette la plastica fredda all'orecchio e rotolò giù dal letto in un unico movimento, memoria cinetica delle innumerevoli telefonate d'emergenza nel corso degli anni. La prima parola che le uscì di bocca fu il nome della sua figlia adottiva: «Serena?». «Ha trenta minuti per arrivare al Los Angeles City Hospital, ingresso di servizio sud.» «Purcell.» «Questa è l'unica possibilità che ha di rivedere il suo amico, dottoressa Strange.» Nella voce da contralto c'era una punta di durezza. Di colpo allerta, Sylvia rovesciò la sveglia con il piede nudo: il quadrante illuminato indicava le 4.35. «Ingresso lato sud. Ci sarò» confermò all'agente dell'Fbi. Gettò il cordless sul letto, poi afferrò reggiseno e T-shirt dallo schienale di una tozza poltrona. Raccolse i jeans dal pavimento. Gli indumenti avevano ancora tracce del suo profumo. Non c'era tempo per una doccia. Infilandosi la maglietta, si guardò intorno, cercando la sua leggerissima giacca di seta; la trovò morbidamente stropicciata dietro la poltrona. Con gli sneaker slacciati, uscì di casa e attraversò il prato. Si mosse in fretta; le ombre la innervosivano. Accese il motore della Lincoln dopo aver ripulito con la manica il parabrezza dalla rugiada salata. Mentre il motore si scaldava, fece un inventario mentale: il portatile era nel bagagliaio, dove l'aveva lasciato trentasei ore prima, ma la valigetta l'aveva Purcell e dentro c'erano tutte le sue cose: cellulare, registratore, rossetto, crema solare, sigarette, una carta di credito, contanti, vitamine, dolci. Sylvia lasciò Leo Carreras presumibilmente ancora addormentato nel suo appartamento. A parti invertite (come in realtà sarebbe dovuto essere, perché era Leo quello che lavorava regolarmente con i federali), se lui l'a-
vesse lasciata fuori dal gioco si sarebbe incazzata. Però doveva ammetterlo: l'idea di quel ribaltamento di ruoli l'eccitava un po'. Quando superò l'uscita di Fairfax a oltre centotrenta all'ora su Santa Monica Freeway, qualsiasi traccia dell'umidità dell'oceano era già stata bruciata; l'aria irradiava calore stantio come un forno vuoto. Tre quarti di luna illuminavano l'infinito oceano urbano che si stendeva in ogni direzione sotto la freeway. Venti caldi soffiavano dal deserto. Le palme ondeggiavano come sirene costrette sulla terraferma, con le fronde che frusciavano contro i bastioni di cemento, ritmando una canzone inquietante. Dalla radio, Miles Davis e All Blues facevano da contrappunto. Il melanconico motivo jazzistico terminò e una voce impregnata di cognac annunciò: «Sono le quattro e cinquantanove nella città dei vostri sogni, la dolce LA. E noi siamo sempre con voi, tutta la notte, tutto il giorno, da Compton...». La Lincoln divorava la strada e scivolava con facilità su Harbor Freeway, la 110 nord, quasi riconoscendo il percorso, ormai familiare. Sylvia colse una rapida visione del proprio viso nello specchietto. Déjà vu: stesse occhiaie scure sotto gli occhi castani, stessa faccia tormentata. Fa' il tuo lavoro. Rimani concentrata. Quella poteva essere la sua unica opportunità di rivedere Dantes... Non aveva intenzione di chiedersi perché l'Fbi avesse ritenuto necessario buttarla giù dal letto prima dell'alba. Le domande avrebbero aspettato finché non avesse parlato con Purcell. Aveva solo pochi minuti per arrivare in tempo al Los Angeles City Hospital. Con una mano si frugò nelle tasche in cerca di sigarette. Aveva smesso di fumare negli ultimi tre mesi. Parecchie volte. Dopo due boccate spense la sigaretta e la gettò fuori dal finestrino. Sapeva che il City Hospital si trovava in Sixth Street. Prese l'uscita seguente. Il suo motore interno girava a una velocità più alta di quello dell'auto attraverso quell'inquietante panorama urbano. I grattacieli di vetro e acciaio brillavano di luci spettrali. I semafori ammiccanti davano l'impressione di una città abbandonata. Come il fiato del diavolo, il vapore usciva sbuffando dalle bocche di ventilazione. Un assurdo brandello di sogno emerse fluttuando fino alla coscienza: una giovane donna, in piedi sulla sommità di una cupola bianca, guarda in alto e vede enormi stelle di cartone sospese in un cielo dipinto di nero totale. Una voce che fa pensare a quella di Dio ordina: "Ritorna quando avrai perso la ragione". Sylvia a Griffith Park... Dio, era stata proprio una bambina sperduta e
disgraziata, una fuggiasca a Los Angeles. Una ragazzina in cerca di un padre, in cerca di se stessa... Indietro nel tempo, quando la follia della città combaciava con quella della sua psiche. Quando credeva che sarebbe morta, se non fosse scappata. Perché Los Angeles doveva sempre rispecchiare i momenti più psicotici della sua vita? Accelerò lungo la soprelevata e notò nello specchietto retrovisore due fari in lontananza. Tenne d'occhio il veicolo dietro di lei: la seguì per due isolati e poi voltò in un vicolo. Sylvia si rendeva conto che Dantes e il caso su cui stava lavorando l'avevano resa vulnerabile. In più di un modo. Sul lato ovest della freeway il panorama era cambiato. Gli edifici, meno imponenti da un punto di vista strutturale, sembravano più umili. Un uomo in pantaloni sportivi, senza camicia e senza scarpe, attraversò di corsa l'incrocio tra Lucas e Fifth. Una donna in tacchi a spillo e un abito che le aderiva al corpo come una seconda pelle lo seguì, più in un indolente movimento di danza che con una normale camminata. Sylvia passò davanti alla facciata cadente del City Hospital e fece il giro dell'isolato. Quando arrivò di nuovo al punto da cui era partita, rallentò e si fermò. Sentì in distanza il fischio acuto e lamentoso di un treno merci. Nessun segno di Purcell, ma gli abbaglianti che per un attimo illuminarono lo specchietto retrovisore le provocarono una scarica di adrenalina. Il furgone le sfrecciò accanto e Sylvia seguì con lo sguardo i fanalini rossi posteriori finché non scomparvero. Voltò in un vicolo stretto e avanzò lentamente, osservando l'edificio scuro in cerca di un altro ingresso. Niente. Nessuno. Aveva avuto un'allucinazione? Purcell le aveva telefonato, giusto? Un altro giro intorno all'isolato. Questa volta, quando passò sul lato sud, la luce rossa di una sigaretta illuminò la sagoma spettrale dell'agente federale che usciva dall'ombra. Sylvia parcheggiò, chiuse a chiave l'auto e superò quasi correndo il breve tratto buio. La notte la spaventava. «Dov'è Dantes?» domandò a Purcell. «Crema, niente zucchero.» L'agente speciale la salutò porgendole un caffè in una tazza di plastica. «Non sapevo come lo preferisce.» La voce era lenta e con un marcato accento del Sud. «Ho ancora la sua valigetta, tra parentesi.» Confusa dall'improvviso cambio di marcia, Sylvia disse: «Sono arrivata
più in fretta che ho potuto». Accettò la tazza, bevve un sorso e il caffè tiepido le gocciolò lungo il mento. Si premette la mano sulla bocca e il mento, poi riportò l'attenzione su Purcell e le chiese: «Dove diavolo siamo?». «All'ingresso sul retro.» Sylvia pensò che l'agente speciale avesse un aspetto orrendo. Perfino al tenue bagliore della sigaretta e della distante illuminazione stradale, aveva l'espressione attonita di un animale ferito. Dimostrava dieci anni di più del giorno prima. E poi c'era quella curiosa letargia: cos'era successo all'ordine urgente di presentarsi entro pochi minuti? «Sbrigarsi e poi dovere aspettare...» disse Purcell, come leggendo i pensieri di Sylvia. «Dovremmo avere il via libera da un momento all'altro.» «È una visita autorizzata?» «Potrà restare con lui solo pochi minuti.» «Va bene.» Sylvia annuì, diffidente. Purcell non voleva, o non poteva, incontrare il suo sguardo. Si concesse qualche momento per studiare l'ambiente circostante. Si trovavano in un'area di carico e scarico dietro il vecchio ospedale di mattoni. Nell'aria calda aleggiava un leggero tanfo di rifiuti; la temperatura era la più fresca che si sarebbe registrata nell'arco delle successive ventiquattr'ore. Continuava ad avere l'impressione che da un momento all'altro dall'ombra dovesse comparire il grosso detective dai capelli rossi. Incredulità, rabbia, dolore... faceva tutto parte del pacchetto emotivo che il poliziotto aveva lasciato dietro di sé. E questo per un uomo con cui Sylvia era stata per meno di otto ore. «Mi dispiace per il detective Church» disse a Purcell. L'agente scosse la testa e chiuse gli occhi scuri di velluto. Il corpo era immobile e irrigidito, come se qualche pericolo annidato nella notte potesse improvvisamente travolgerla. Con un respiro faticoso si voltò verso Sylvia: «Lei crede che il destino...». Le parole sfumarono, interrotte dal trillo improvviso, come d'uccello, di un cercapersone. Purcell gettò la tazza in un cassonetto aperto. «Mi segua.» Sylvia ubbidì. Seguì l'agente federale lungo il corridoio sotterraneo che portava al seminterrato del City Hospital. Le luci fluorescenti ammiccavano discontinue, il suono dei passi echeggiava sulle piastrelle e un debole odore di muffa aleggiava ovunque. Stavano camminando sopra i frammenti friabili della vernice che si era staccata dalle pareti: il tunnel che cam-
biava pelle. Dov'erano i federali di guardia a Dantes? Dove diavolo si trovavano, lei e Purcell? Sotto quante tonnellate di terra e cemento? A disagio, Sylvia scacciò ogni pensiero su contìnui, agitati movimenti geologici, sulla scoperta di centinaia di nuovi e instabili strati sotto la città, sul fatto che il bacino di Los Angeles subisse ogni giorno migliaia di invisibili choc. Il passaggio terminava davanti a una pesante porta rivestita d'acciaio, che Purcell aprì spingendo con il corpo massiccio. Varcò la soglia e fece strada in un altro corridoio, quasi una replica del primo, solo che questo puntava verso l'alto e non verso il basso. Quella parte sotterranea del vecchio ospedale era stata probabilmente condannata all'oblio dopo l'ultimo terremoto. Per due volte Sylvia fu certa di sentire vibrare il terreno: eccesso di immaginazione, si disse. Varcarono un'altra porta e questa volta entrarono in un corridoio dall'aria ufficiale. Qualcuno le afferrò un braccio e Sylvia sobbalzò. «Mi scusi» mormorò la dottoressa Mendoza, la targhetta di riconoscimento bene in vista sul taschino sinistro. Era una donna paffuta dai lineamenti vivaci che contrastavano con gli occhi melanconici. «La dottoressa Strange?» Mendoza lesse la conferma di Purcell: un rapido cenno affermativo del capo. Disse: «Dantes chiede di lei». «Mi è stato detto che si trova qui per motivi di sicurezza e...» Sylvia smise di parlare quando vide Mendoza scuotere enfaticamente la testa. Si voltò per chiedere spiegazioni a Purcell, ma l'agente speciale era scomparsa. I corridoi erano deserti. Mendoza le tese un camice bianco da ospedale completo di targhetta. «Dove sono tutte le guardie? I poliziotti, gli agenti dell'Fbi?» le domandò Sylvia, infilandosi il camice. «C'è un agente di polizia nel corridoio e uno nella stanza con Dantes. Ha già visto l'agente Purcell. Di norma, quest'ala dell'ospedale è sempre chiusa.» Mendoza sbatté nervosamente le palpebre. «Voglio che sia chiaro: io non ho niente a che fare con l'attuale condizione di Dantes.» «Quale condizione?» «Gli ordini sono arrivati dall'alto... e io sono qui solo dalla mezzanotte.» «Chi ha autorizzato?...» Sylvia lasciò sfumare la voce, evitando di fare alla dottoressa domande alle quali avrebbe potuto rispondere meglio l'Fbi. «Mi porti da lui.»
Mendoza indicò una porta a battente che presumibilmente dava sulle aree di lavoro dell'ospedale. Si portò un dito sulle labbra sottili e si spostò dietro un angolo, fuori dalla vista di chiunque potesse gettare un'occhiata casuale attraverso le piccole finestre. «Per sua informazione, lei ha percorso un tunnel di servizio che è rimasto chiuso per anni.» La dottoressa Mendoza scosse la testa; l'espressione era perplessa e turbata. «Qualcuno non vuole che lei richiami troppa attenzione.» Mentre Sylvia si spostava dietro l'angolo con l'altra donna, sentì formarsi un nodo nello stomaco. Mendoza proseguì: «Vedrà, il corpo ha subito traumi veramente minimi durante l'attacco». «Quale attacco?» «Pensavo... l'agente Purcell non gliel'ha detto?» Le lanciò un'occhiata perplessa. «A quanto pare, quando Dantes ha saputo della bomba è rimasto sconvolto.» «Sconvolto può significare turbato, può addirittura significare psicotico» osservò Sylvia, cercando di controllare l'impazienza. «Ma di solito non significa "attacco".» La dottoressa rimase per un attimo in silenzio, mordendosi le labbra quasi stesse assaggiando il sapore delle parole. «Abbiamo il rapporto preliminare del neurologo» disse finalmente. Lesse la domanda negli occhi di Sylvia. «Dantes mostra sintomi incompatibili con le sue condizioni fisiche, sintomi che non sembrano avere né base organica, né alcuna spiegazione neurologica.» «Devo vederlo.» «Mi segua.» Durante il tragitto, Mendoza mitragliò Sylvia di domande: «Ieri ha notato se aveva problemi di visione? Fotofobia? Diplopia... visione doppia?». Rallentando l'andatura per mantenere il passo della Mendoza, Sylvia si sistemò una ciocca dietro l'orecchio e giocherellò nervosamente con il braccialetto che portava al polso. «Forse una leggera sensibilità... ma mi è sembrato completamente presente. Lei ha parlato di traumi minimi.» «Per quello che possiamo dire, Dantes ha solo finto un attacco epilettico.» Mendoza sollevò le mani, i palmi rivolti al soffitto. «Nessun segno di trauma spinale o cerebrale. Nessuna traccia di difetti organici: l'elettroencefalogramma è normale. Presenta alcuni sintomi, compresa la paralisi degli arti.» Si picchiettò la testa con un dito. «Ho letto qualcosa in merito all'università.»
«In merito a cosa?» «Disturbo di conversione.» Sylvia scosse inconsciamente la testa. Il disturbo di conversione era uno dei disordini somatoformi, una diagnosi controversa prima definita come isteria di conversione: la comparsa di sintomi neurologici inspiegabili con qualsiasi condizione medica nota. Era una diagnosi che innervosiva parecchio molti psichiatri e psicologi, in parte anche perché li riportava alla fine del diciannovesimo secolo, a Freud e a Charcot. In parole povere, era ciò che accadeva quando il corpo materializzava i segreti della mente. Le due donne si erano fermate davanti a una porta metallica verniciata di bianco: B-103. La dottoressa Mendoza indicò una finestrella: «Dia un'occhiata». Sylvia sbirciò attraverso il vetro opaco. La stanza era quadrata e spoglia, la vernice bianca sbiadita dagli anni e dalla sporcizia. L'unica sedia disponibile era al momento occupata da un poliziotto in uniforme, che la fissò inespressivo. Strange aveva la sensazione che Purcell non avesse seguito i canali normali per organizzare la visita. «Quello è l'agente Jones» le disse Mendoza sottovoce. Stia alla larga da lui e andrà tutto bene.» La dottoressa fece un passo avanti ed estrasse dalla tasca un anello carico di infinite chiavi. La serratura scattò con un gemito. Sylvia entrò nella stanza e si fermò immediatamente. Le luci fluorescenti del soffitto erano spente e l'unica illuminazione, a parte quella proiettata dal televisore, era fornita dalla luna e dai lampioni stradali, un riflesso latteo che si riversava all'interno da una piccola finestra in alto. Il televisore, montato sulla parete, spargeva un alone di luce ammiccante e quasi nauseante. Due telecamere di sicurezza sospese ai lati del televisore registravano qualsiasi attività nel centro della stanza. Non c'era letto, solo una lettiga inclinata con un angolo di quarantacinque gradi e rivolta verso la porta. Sylvia sentì Mendoza che salutava il poliziotto e poi le loro chiacchiere casuali sulle levatacce del mattino e il cambiamento dei turni. Si avvicinò alla lettiga proprio mentre si accendevano le luci del soffitto. John Dantes era immobilizzato, le braccia e le gambe bloccate da strisce di pelle. Uno spesso strato di garza gli copriva gli occhi. Ma l'elemento più
bizzarro del quadro era il rigido arco del corpo che si inarcava sulla lettiga. Era come se una scarica di corrente elettrica lo percorresse dalla testa ai piedi, provocando un'estrema contrazione muscolare. Consapevole della presenza delle telecamere, Sylvia si fece avanti, chiamandolo sottovoce per nome. Lui ebbe un tremito. «Dantes» ripeté. Gli toccò un braccio e, attraverso il cotone, sentì il calore febbricitante della pelle. «Dot-toressa Strange» balbettò il prigioniero con le labbra screpolate. (Era solo immaginazione la piega crudele della bocca?) Il tentativo di Dantes di parlare fallì di nuovo. Sylvia sentì una mano decisa sulla spalla. Alzò lo sguardo e vide Mendoza che la fissava diffidente. «Faccia attenzione, dottoressa. Evitiamo problemi di sicurezza.» Sylvia annuì. «E le bende?» domandò con calma. Mendoza lanciò un'occhiata al poliziotto e poi rispose: «Ha ragione: dovremo togliere la garza per controllare la reazione delle pupille». Tolse rapidamente le bende sterili. Il viso di Dantes era pallido, appena illividito. Non presentava segni evidenti di ferite o traumi e tuttavia era un'immagine inquietante. Nonostante la posizione bizzarra del corpo, furono gli occhi a richiamare l'attenzione di Sylvia: fissavano il mondo senza vederlo, come buchi vuoti. Sollevò due dita davanti alle pupille di Dantes. L'uomo non sbatté le palpebre, non spostò lo sguardo e non ebbe alcuna reazione motoria. Continuò a fissare il vuoto davanti a sé, lo sguardo fisso sul muro spoglio. «Acqua» mormorò. Mendoza gli avvicinò un bicchiere di plastica alle labbra. La maggior parte del liquido gocciolò sul mento, ma Dantes riuscì a bere qualche sorso. D'improvviso, il corpo si rilasciò; sembrò che il paziente stesse uscendo da uno stato di estremo disorientamento. Mendoza si staccò dalla lettiga e si avvicinò di nuovo all'agente Jones, impegnandolo in una conversazione di blande lamentele a proposito di lunghe nottate e piedi gonfi. Voltando la schiena a Jones e Mendoza, Sylvia si piegò più vicino a Dantes. Per un attimo si sentì trasportare di nuovo dentro quella casa, si ritrovò a fissare la bomba sul pavimento e la scritta in italiano incisa nel legno. «Ho trovato il tuo messaggio» disse sottovoce. «"... Angeli che non fu-
ron ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé foro."» Dantes si irrigidì di nuovo. Le dita si strinsero sul metallo, le vene si gonfiarono, in rilievo come corde sotto la pelle, ma gli spasmi durarono poco. «Quel messaggio non era mio!» sibilò. «Mi hai mandata là per trovare la bomba.» «Sei stupida! Ed era stupido anche Church.» Dantes respirò con un fremito. «Perché dovrei fidarmi di te?» Sylvia non si mosse, sforzandosi di tenere a bada la collera. «Perché sono qui» rispose. Non era pronta alla reazione di Dantes. «Karen sa.» La voce era così bassa da essere appena percepibile. «Chiedi al maestro.» La convulsione lo colpì come una scarica elettrica. Rovesciò gli occhi, boccheggiò e irrigidì il corpo, che si piegò in un arco rigido. Mendoza si avvicinò alla lettiga. «Bisogna sedarlo» disse seccamente. Richiese assistenza premendo il tasto d'emergenza sul suo cercapersone. Sottovoce sussurrò: «Se ne vada. Subito». Vedendo che Sylvia non si muoveva, ribadì: «Se ne vada immediatamente da qui!». Con un'ultima occhiata a Dantes, Strange uscì dalla stanza, andandosi a scontrare con Purcell. L'agente l'afferrò per un braccio e la pilotò dietro l'angolo. «Dantes le ha raccontato solo stronzate.» Sylvia appoggiò la schiena contro la parete di cemento freddo. Sentiva aprirsi una voragine davanti a sé, come se Dantes l'avesse separata dal resto del mondo. Si riscosse da quella sensazione strana e riportò l'attenzione sull'agente federale. «Mi costringe a lavorare con lei, ma non mi dice cosa sta succedendo. Mi racconta delle cretinate, scompare in modo da poter ascoltare e...» «Quel bastardo si è dimenticato di parlare di questo.» Purcell tese una mano. Sylvia prese il foglio di carta e lesse il messaggio. caro John, figliol prodigo... messaggio ricevuto ordini verranno seguiti alla lettera
nel nostro viaggio al quarto essi saranno puniti per i peccati dell'altro il sacificio della città sacra ricorda i nostri incalzanti pensieri L 9, M Le parole si confusero sulla carta. «I vostri analisti dei messaggi minatori...» «Ci stanno lavorando in questo momento» disse Purcell. «L'abbiamo preso a Dantes: le guardie gliel'hanno trovato in mano quando ha avuto l'attacco.» Da dietro l'angolo risuonarono dei passi. Sylvia sentì voci che parlavano in toni bassi e concitati. La porta della stanza B-103 venne chiusa a chiave. Ma la sua attenzione era concentrata sul foglio che aveva in mano. Lo schema visivo che incorniciava il messaggio prese forma: era un rettangolo irregolare, attraversato da un leggero delta lineare e contrassegnato in parecchi punti da piccoli triangoli. «Cosa sono queste linee? Questi segni?» domandò a Purcell. «Una specie di mappa?» Annuendo stancamente, l'agente rispose: «Potrebbero essere coordinate». Muovendosi in fretta, Sylvia tornò verso la stanza di Dantes. Le dita si strinsero intorno alla maniglia. Guardò attraverso la finestrella e vide Mendoza conficcare un ago nel braccio di Dantes. «Oh, no...» sussurrò. Ma il farmaco che Mendoza aveva iniettato stava già scorrendo nelle vene. Dantes non poteva più essere raggiunto. La testa gli cadde all'indietro, il corpo diventò un peso morto: l'immagine vivente di uno dei pazzi sfortunati di Francisco Goya. 19 Quindi, signore e signori, in conclusione è meglio non fare assolutamente nulla! L'inerzia consapevole è la cosa migliore! Un brindisi al mio buco sotto il pavimento! Dostoevskij, Memorie del sottosuolo Ore 6.33
M è un sensitivo. Mentre guarda la psicologa andarsene dal Los Angeles City Hospital, sente che è sconvolta, arrabbiata e spaventata. È fuori di sé. Strattonata da un lato dai federali e dall'altro da Dantes. M predice il futuro. Non lo preoccupa l'idea di perdere di vista la dottoressa Strange. Sa esattamente da dove è arrivata, lui conosce molto bene Leo Carreras e il bungalow di Santa Monica. È anche in grado di dire dove la dottoressa Strange adesso è diretta: al covo di Edmond Sweetheart. Non c'è dubbio che ieri, in Beaudry Street, il professore sia rimasto colpito da Miss Los Angeles. Era chiarissimo, perfino da lontano. M sa dove vive Sweetheart. Ha trascorso lunghe, tediose ore di sorveglianza: è il modo migliore per arrivare a conoscere un bersagUo umano, le sue abitudini e i suoi gusti, ciò che ama e che odia, il suo habitat naturale, il suo mondo. Nel suo particolare ramo di attività, M dipende molto dalle proprie predizioni. Deve sapere ciò che un bersagUo sta pensando prima ancora che lo sappia il bersagUo stesso. Per portare a termine con successo una missione, M deve occuparsi dei preparativi, darsi da fare, predisporre soluzioni d'emergenza... Preparare la trappola. Le cose importanti prima di tutto: M deve controllare Dantes. Solo un controllo visivo. Per vedere a che punto si trovano lui e il suo vecchio amico. Mentre la buona dottoressa scompare alla vista, M la saluta, toccandosi il berretto. La raggiungerà tra non molto. In ogni caso, lei gli ha già fornito un'informazione preziosa: lo ha guidato diritto da Dantes. Certo, questo spostamento ha colto M di sorpresa: avrebbe scommesso piuttosto sul vicino Detention Center. Ma va bene anche così. Con le credenziali di cui dispone, nessuno metterà in dubbio la sua autorità e la richiesta di controllare i rapporti relativi a sovracorrenti, perdite d'acqua o erosione dei tunnel nel vecchio ospedale. «Non c'è mai riposo per i cattivi!» scherza con Thomas, il capo del servizio manutenzione, quando l'uomo gli chiede come mai stia lavorando così presto di mattina. È Thomas, un vecchio con eleganti capelli bianchi, a dirgli che i poliziotti gli stanno rendendo la vita difficile, gli creano problemi con i suoi operai e i suoi programmi. Si mostra riconoscente, quando
M accetta cortesemente di tornare la settimana seguente per dare un'occhiata al seminterrato, l'unica area rigorosamente vietata. È sempre Thomas che, in modo del tutto casuale, a giudicare da tutti i test, le preoccupazioni e la confusione, aggiunge: «Questo celebre paziente fuorilegge deve essere completamente pazzo». 20 ... nella misura in cui il soggetto ha sviluppato uno schema mentale stabile e ben strutturato, il ricercatore che intenda elaborarne il profilo psicologico sarà in grado di isolare caratteristiche stabili e discriminanti del soggetto stesso. D.A. Berkerian e J.L. Jackson, Elementi critici nell'elaborazione dei profili psicologici criminali Ore 6.43 Incalzanti pensieri... Quelle due parole di M risuonavano nella mente di Sylvia come un mantra, mentre seguiva l'auto di Purcell in direzione ovest lungo Melrose Avenue, semaforo rosso dopo semaforo rosso: Cahuenga, La Brea, Fairfax. Il sole le sfiorava le scapole, dita calde di un'alba in città che riuscivano a penetrare attraverso la barriera di foschia e smog. Karen sa. Chiedi al maestro... Sylvia non aveva idea di cosa avesse voluto dire Dantes e probabilmente non avrebbe saputo altro da lui, almeno non nelle prossime ore. Prima di andarsene dall'ospedale, era riuscita a estorcere un'ultima informazione dalla dottoressa Mendoza: Dantes adesso aveva trenta milligrammi di Novodipam in circolo. Una dose sufficiente a sedare un paziente soggetto a convulsioni o attacchi epilettici. Mendoza aveva predetto che, entro cinque minuti dal momento dell'iniezione, Dantes non sarebbe più stato in grado di comunicare, e neppure di aprire gli occhi, per le successive dodici, diciotto ore. Dantes era l'ovvio collegamento con M. In diciotto ore potevano succedere moltissime cose. La città poteva esplodere, per esempio. La vista di Dantes, il suo deterioramento fisico e mentale avevano scosso Sylvia. Era davvero seriamente ammalato oppure era un attore consu-
mato? E lei, aveva davvero creduto di poter trovare un eroe caduto, nascosto dentro il criminale violento? Se sì, si era cullata in pericolose illusioni. Per poco non perse la svolta, sterzando troppo vicino al marciapiede mentre seguiva l'auto di Purcell in Crescent Heights. John Dantes presenta disturbi visivi e segni di paralisi. L'esplosione aveva ucciso il detective Red Church e aveva accecato un artificiere, al quale era stato anche amputato un braccio. Non esistono prove di problemi organici... Sintomi somatici senza alcuna evidente giustificazione di tipo organico o neurologico... Sylvia si infilò una sigaretta tra le labbra, ma non l'accese. La luce brillante del sole si rifletteva scintillando sul braccialetto d'argento al polso sinistro. La dottoressa Mendoza aveva suggerito una delle più pittoresche spiegazioni psicanalitiche per i sintomi di Dantes: 300.11 disturbo di conversione. Quella diagnosi, e relativi requisiti, erano contemplati dal Dsm-IV, la bibbia diagnostica dei professionisti della salute mentale. "... presenza di sintomi o di deficit condizionanti una funzione volontaria, motoria o sensoriale, che suggerisca una condizione di malattia neurologica (criterio A). Si giudica il sintomo o il deficit in questione provocato da fattori psicologici..." Disturbo di conversione, un sottoinsieme dei disordini somatoformi, il maledetto buco nero delle diagnosi. Sylvia scosse la testa, ammonendosi. Non ci provare. Ma l'avrebbe fatto, come sempre. Come una falena attratta dalla luce, il suo intelletto non riusciva mai a resistere al fascino della perplessità, dell'enigma psicologico, di quell'unica tessera del puzzle che sfidava la logica. Sterzando intorno al coperchio sporgente di un tombino, schiacciò la sigaretta ancora spenta nel portacenere della Lincoln. Quel particolare disturbo era roba da salotti del diciannovesimo secolo, roba da crinoline. Il regno di Charcot e Freud e dell'isterismo del diciannovesimo secolo. Nell'antichità i greci avevano imputato la manifestazione di quel disturbo nelle donne a un utero vagante; gli uomini isterici erano considerati semplicemente matti. I tempi non erano poi cambiati di molto. Tenendo il cellulare tra il mento e la spalla, Sylvia premette il primo tasto dei numeri in memoria. Lo scenario più probabile: si trattava solo di un
disturbo fasullo e di un vantaggio collaterale. In altri termini, Dantes fabbricava preconsciamente i propri sintomi per ottenere qualche vantaggio. Era appena un gradino più su del darsi malato per non lavorare, oppure semplice finzione. Forse. Accelerando a un semaforo giallo, Sylvia estrasse un'altra sigaretta dal pacchetto. Preoccupata, cercò di inspirare aria attraverso la sigaretta spenta, riuscendo soltanto a inumidire il filtro. Il maledetto telefono non stava suonando. Compose il numero manualmente. Se seguivi il classico ragionamento freudiano - solo per mezzo minuto ti ritrovavi con una persona che viveva un conflitto estremo, tipo vergogna o colpa, cercava di reprimerlo senza riuscirci e così lo estrinsecava, manifestando l'ansietà attraverso il proprio corpo: un'espressione somatica, per esempio la paralisi o la cecità... Ancora nessuna risposta. Attaccata al parafango posteriore di Purcell, Sylvia passò con il rosso, preparandosi a quello successivo. Gettò la sigaretta bagnaticcia sul pavimento della Lincoln. «Leo?» «Dove sei stata?» Il modo in cui aveva scandito le parole rivelava il livello di frustrazione e preoccupazione di Carreras. «Ho dovuto andarmene in gran fretta» rispose Sylvia in tono di scusa. «Non ho avuto tempo di spiegare.» «Spiega adesso. Ero preoccupato.» «Sono andata a trovare il nostro comune amico.» Non avrebbe menzionato il nome di John Dantes durante una comunicazione non protetta. Leo avrebbe saputo capire. Era sollevata nel sentire la sua voce; aveva bisogno di una cassa di risonanza. Anzi, aveva bisogno di un "amico". Sentì un'improvvisa fitta di nostalgia per Matt, per Serena e per i suoi amici nel New Mexico. Aveva voglia di sentire la terra sotto i piedi nudi. «E com'è andata?» le stava chiedendo Leo. «Interessante, abbastanza bizzarro... dovremmo discuterne.» Accese l'aria condizionata dell'auto e inclinò il viso verso la ventola. «Leo, quando hai redatto la tua valutazione psicologica prima del processo, non ti sei ritrovato con un profilo V dell'Mmpi?» Aveva letto il rapporto di Leo cinque o sei volte, ma voleva essere sicura di non essersi inventata niente. Se gli indici uno e tre dell'inventario multifasico della personalità erano alti e quello depressivo (il due) era basso, il risultato visivo era in pratica un V,
da cui la definizione. Un profilo V poteva confermare la tendenza all'isteria, all'ipocondria, a disturbi di conversione in genere. «Vediamoci tra mezz'ora» propose Leo. «Ne parleremo.» «Non è possibile. Mi basta un sì o un no.» «Sì, era un blando profilo V.» Leo rimase in silenzio per un momento, poi aggiunse: «Sono preoccupato per il tuo ruolo in questa storia». «Anch'io. Ne parleremo, te lo prometto.» Seguì Purcell lungo Laurel Canyon, poi verso est su Selma, una stradina fiancheggiata da alberi alla base delle Hollywood Hills. Alla fine del secondo, breve isolato, l'agente federale voltò in un vialetto e si fermò davanti a un reticolato alto due metri e mezzo. Sylvia si fermò accanto al veicolo di Purcell. «Lei non viene dentro?» «Non ce n'è bisogno.» La donna diede un'occhiata all'orologio. «Vada a fare le sue chiacchiere da strizzacervelli con il professore, ma poi fate in modo di tradurmi tutto quanto in termini da profano.» «Dove potrò trovarla?» «Sarò io a trovare lei.» Senza cerimonie, Purcell inserì la retromarcia e puntò in direzione di Sunset Boulevard. Sylvia avanzò a bordo della Lincoln e parlò nel microfono metallico inserito in un pilastro. «Sono la dottoressa Strange.» Cinque secondi dopo il cancello si aprì. Sylvia fermò la Lincoln dietro un minivan e una Harley. Il sentiero in lastroni di pietra era ombreggiato da una volta di rami di sterculia. Il prato, un liscio mare verde, si innalzava dolcemente fino a un rilievo di pini bonsai, azalee, uccelli del paradiso, gigli e zenzero. Era quanto di più lontano si potesse immaginare dai giardini del New Mexico, progettati per il risparmio d'acqua, con le loro delicate, ruvide piante di cholla, echinacea e chamiza. La casa, grande, bassa ed elegante, era in stile Craftsman con evidenti accenti California-Pacifico. Sylvia passò sotto un semplice arco in legno ed entrò in un giardino giapponese. Il suo sguardo si arrestò su una luccicante scultura di bronzo a grandezza naturale: rappresentava un uomo grasso con casco, tuta di volo e un'ala piumata, un'unica ala d'angelo; l'uomo guardava verso il cielo ed era immobilizzato a metà di un passo, pronto ad avventurarsi oltre il bordo del precipizio. Sylvia stava studiando la scultura, quando il portone si aprì dopo lo staccato dei clic di almeno tre catenacci.
«L'Angelo Caduto» annunciò una voce. Sylvia si voltò e nel vano della porta vide un giovane sui ventotto, ventinove anni. Era molto attraente nella canotta bianca che lasciava vedere il tatuaggio di un pesce volante sul bicipite destro, i jeans aderenti e macchiati di vernice, gli stivali da motociclista. «L'angelo caduto sul punto di precipitare di nuovo» osservò sottovoce Sylvia. «Proprio così» confermò l'uomo. «Lo scultore è Michael Bergt, il quale, tra parentesi, vive a Santa Fe, proprio come lei. Grand'uomo. Il professore colleziona le sue opere: quadri e sculture incredibili.» Sorrise, lasciando rotolare le parole sulle onde della voce bassa e profonda. «Dottoressa Sylvia Strange... la stavamo aspettando. Io sono Luke.» «Bella, la sua Harley.» «Grazie. Purtroppo non riesco a godermela quanto vorrei. Quando non sto lavorando come uno schiavo sulla mia tesi, lavoro come uno schiavo per il professore.» Strizzò l'occhio. «A proposito, il suo saggio sul narcisismo mi è piaciuto moltissimo.» «Grazie. Piacere di conoscerla, Luke.» A una seconda occhiata, il giovane poteva forse essere appena oltre la trentina. La mano di Sylvia si staccò dal bronzo freddo della scultura per stringere quella di Luke. Entrarono nel regno di Sweetheart. Nell'atrio, due cani le corsero incontro - un bulldog in miniatura e un terrier Jack Russell - e Sylvia si chinò a grattare le orecchie morbide. Quando si rialzò, notò con un'occhiata le lanterne di carta (di Isamu Nobuchi, senza dubbio) e la scala di legno lucido che saliva con una curva aggraziata al primo piano. Un grande quadro astratto bianco, azzurro e giallo, che ricordava de Kooning, riempiva gran parte della parete lungo la quale correva la scala. L'arredamento era più che di buon gusto: colpiva per la sua semplicità e conservava il sapore asiatico del giardino. Sull'atrio si aprivano tre passaggi ad arco; Luke voltò a sinistra, guidando Sylvia in quella che sembrava una sala da pranzo, se non fosse stato per il fatto che vi erano sistemate numerose postazioni di lavoro. Una ragazza la salutò con un sorriso e uno sguardo miope incorniciato da occhiali dalla montatura di corno. «Io sono Gretchen. Benvenuta al centro di comando antiterrorismo. Adoro dare la caccia ai cattivi.» Un marcato accento scandinavo. «È per questo che sono venuta in America... e anche per studiare con il professore.»
«In America abbiamo più cattivi che altrove?» le domandò Sylvia. «L'America, l'Fbi... voi siete i rottweiller del mondo.» Gretchen si morse il labbro inferiore e studiò Sylvia dalla testa ai piedi. «Sento di conoscerla bene.» «Davvero?» Sylvia sorrise a disagio. «Il profilo di Mosaik è come un compendio, che sintetizza tutto questo» rispose vagamente Gretchen, indicando il modernissimo tavolo da pranzo in vetro verde al centro della stanza; era carico di libri, manoscritti, fogli, grafici, mappe. «Quale profilo?» «Il suo.» Gretchen si strinse nelle spalle. «Abbandono paterno, adolescente sradicata dal trasferimento in California, l'Ucla, il breve matrimonio, quindi di nuovo il New Mexico, dove ha acquistato la casa di suo padre. E poi la sua figliola adottiva, il lavoro in carcere...» Quasi senza prendere respiro, Gretchen spalancò le braccia, come la presentatrice di un quiz televisivo che mostra i premi in palio: «Qui c'è uva, formaggio, tè verde, miso... le pesche sono biologiche. Anche le alghe. Oh, e non dimentichiamo il cioccolato belga biologico!». Strizzò l'occhio. «Anch'io adoro i dolci.» Luke rivolse a Sylvia un sorriso comprensivo. «A nessuno fa piacere scoprire la propria vita in un database, ma è un sistema incredibilmente efficace per familiarizzare con le possibilità del nostro sistema.» Strange ricambiò il sorriso con uno sguardo neutro. «Allora comincerò con il profilo di Sweetheart.» Ridendo, Luke le voltò le spalle per occuparsi di un computer. Almeno tre stampanti stavano sputando tabulati; il ronzio dei computer riempiva la sala. Chopin non aveva una sola possibilità, anche se a Sylvia sembrava di riconoscerne fioche note musicali in sottofondo. Su una parete notò una versione quadrata, di un metro e mezzo di lato, della mappa dell'Inferno di Dante che Sweetheart le aveva dato; i primi quattro cerchi erano contrassegnati da puntine da disegno rosse. Sylvia si avvicinò ai diplomi incorniciati sulla parete opposta: caratteri dorati elencavano diverse università, comprese Yale, Hawaii, Penn State e Cambridge. Tutti i diplomi erano intestati a Edmond Holomalia Sweetheart. Una foto in particolare attrasse la sua attenzione: lottatori massicci impegnati nell'azione. «Il professore si interessa di sumo» spiegò Luke. «Ehi, sarà meglio che lei mangi qualcosa: sarà una giornata lunga.»
«Ho bisogno solo di caffè. Molto forte.» Sylvia afferrò una pesca e la morse. «Dove diavolo mi trovo?» «In paradiso, dottoressa Strange» rispose Luke. «Mosaik, cioè Multiplex prOfiles Systems AnalisIs Kit, è un sistema a più livelli. Il programma per l'elaborazione dei profili è finalizzato all'analisi dei terroristi, e il sistema elabora qualunque tipo di dati: linguistici, medico-legali, geografici. Mosaik lavora dal basso verso l'alto. Cominciamo con i dati di base, evitando le trappole del modello inverso, cioè dall'alto verso il basso, che si è dimostrato incapace di prendere in considerazione tutte le varianti.» Il viso attraente era illuminato dall'eccitazione. «Mosaik collega le informazioni, mettendoci in grado di consultare e cercare dati storici e di previsione, schemi di spostamento, qualsiasi cosa a seconda del livello che si sta esaminando. Al momento stiamo dando la caccia a una decina di terroristi sparsi sul globo, collegando crimini, metodologie e sospetti.» Sylvia inarcò le sopracciglia. «È così che siete riusciti a trovare Ben Black?» «Mosaik è stato la chiave di volta per l'indagine Black-Abu Mohammed» confermò Luke, annuendo. Le dita di Gretchen volavano sulla tastiera. «Mosaik è consultabile per modello linguistico: verbale o scritto... che si tratti di estorsioni, minacce, confessioni o suicidi. Il programma trova analogie sintattiche, modelli di linguaggio ricorrenti ed errori grammaticali... per esempio, qual è il profilo psicologico di Shakespeare?» «E la mappatura ci mostra gli schemi geografici» intervenne Luke. «Ci dice, per esempio, se il soggetto sta allargando il suo raggio d'azione, le sue fonti, se sottolinea la propria firma. Il sistema evidenzia addirittura i dati stagionali o temporali.» «Cazzo» fu tutto ciò che Sylvia riuscì a dire. Fu allora che sentì quella voce caratteristica: «Non vi avevo detto che la dottoressa sa sempre trovare le parole giuste?». Una grossa porta intagliata si era spalancata e Sweetheart entrò nella sala. Quella mattina indossava un abito di lino grigio scuro e una camicia gialla. Nell'ombra l'espressione sembrava pensosa, quasi cupa, tuttavia il professore sorrise a Sylvia. Che fu di nuovo colpita dai lineamenti attraenti del volto, dagli occhi a mandorla, dalla carnagione luminosa e dalla potenza del corpo massiccio. Il professore era in sintonia con la propria casa. «Mosaik... Pensi a Mosaik come alla Gestalt del profilo psicologico computerizzato.»
«Gestalt...» Sylvia valutò quel termine psichiatrico nel contesto computer. «Allora vengono combinate tra loro informazioni spaziali, medicolegali, psicolinguistiche...» «Al fine di individuare lo schema o gli schemi predominanti.» Sweetheart tese la mano, strinse quella di Sylvia e mantenne il contatto ben oltre gli usi previsti dalle convenzioni sociali. Fu uno di quei momenti in cui si crea un rapporto e non si può sapere, né serve analizzare, se quella corrente viva è alchimia o chimica. «Il programma è stato sviluppato dalla società Nightsky di Santa Fe, la sua città» riprese Sweetheart. «La Nightsky, che è stata fondata da membri del Santa Fe Institute, è specializzata nel reperimento dei dati, o raccolta informazioni. Noi siamo collegati con Quantico. Gretchen è la nostra esperta linguista e al momento si sta occupando dei messaggi di M. Luke è il nostro uomo geografico-spaziale: sta lavorando sulla mappa che abbiamo preso a Dantes.» «Quindi è veramente una mappa?» domandò Sylvia. «Sto ancora cercando di estrarre delle coordinate» rispose Luke con un sorriso di scusa, mentre raccoglieva alcuni dischetti e si allontanava dalla sua scrivania. «Me lo chieda di nuovo tra un'ora» disse, scomparendo al di là della porta intagliata, seguito da Gretchen. Sylvia si ritrovò sola con il professore. «Cos'aveva da dirle Dantes?» le domandò bruscamente Sweetheart. «Me lo dica lei.» Il professore non evitò la domanda: «È vero: abbiamo monitorato la trasmissione video in diretta». Osservò Sylvia con interesse, come se fosse stata una qualche sostanza sconosciuta spalmata su un vetrino. «Ma io sto chiedendo una sua analisi.» Sylvia mantenne un tono neutro: «Lei cosa pensa del disturbo di conversione?». «Una diagnosi di merda. La psicologia è già di per sé una scienza inesatta. Per favore, non la renda ancora più vaga. Dantes sta recitando la parte del pazzo. Gli piace giocare. Se non è convinta, pensi solo alle sue macchine infernali.» «Sapevo che avrebbe risposto così.» «Non mi dica che lei crede sul serio ai suoi sintomi isterici. Dantes è soltanto un ottimo attore che sta recitando la parte di Anna O.» «Okay, questo è il secolo sbagliato, per l'isteria» disse Sylvia, scrollando le spalle. Josef Breuer, il mentore di Sigmund Freud, aveva suscitato scal-
pore nel decennio tra il 1880 e il 1890 con un caso insolito, quello di Anna O. La quale presentava sintomi isterici drammatici, ma comunque passeggeri. «Tuttavia, l'ipnosi di Breuer ha funzionato.» «La sua cura di parole?» sbuffò Sweetheart. «I sintomi sono diminuiti.» «E poi sono peggiorati» ribatté il professore, agitando con impazienza una mano. «Gravidanza immaginaria, parto isterico... tutte cose che probabilmente non funzionerebbero con John Dantes. Lasci perdere l'ipnosi, la catarsi. Tanto varrebbe provare con il vudù.» «Lei crede che sia divertente?» «No.» Lo sguardo di Sweetheart era diretto. «Credo che troppe persone siano morte a causa di quell'uomo.» Le sopracciglia scure e diritte enfatizzavano gli occhi penetranti. «Io preferisco dati clinici solidi e chiari alla sua repressione freudiana ammuffita e mangiata dalle tarme. Mi dia una bella risonanza magnetica o una tomografia a emissione di positroni, mi dia i transistor neuronali del Plank Institut e le ultimissime scansioni a superrisoluzione delle connessioni interneuronali, delle sinapsi e delle concentrazioni di neurotrasmettitori... e mi mostri dove queste emozioni represse illuminano il cervello, mi dia delle impronte sulla corteccia cerebrale e allora forse comincerò ad ascoltare le sue teorie.» «Il suo campo di competenza è solo questo» disse Sylvia, indicando i computer e gli scanner ronzanti intorno a loro. «Sì. Il reperimento dati è il fondamento della mia specifica analisi di profilo, proprio così. Abbiamo sviluppato Mosaik partendo da ciò che avevano i federali e adesso il sistema è in grado di confrontare dati collaterali, caratteri comportamentali e...» «Accidenti!» l'interruppe Sylvia alzando le mani. «Mi sto perdendo.» «In parole povere, Mosaik ci permette di vagliare e selezionare migliaia di gigabyte senza che qualche informazione si perda nelle fessure, problema che abbiamo avuto con Unabomber. Abbiamo fatto il passo cruciale nell'elaborazione dei profili tramite database.» Sylvia scelse un grappolo d'uva sul tavolo e cominciò a mangiarlo, staccando gli acini uno a uno come per sottolineare le sue parole. «Lei può giocare con i database dell'Fbi, del Cri, di Holmes e Catchem fino alla fine dei tempi; può cercare informazioni di collegamento, mappe, schemi e divertirsi con ogni tipo di modello. La sua analisi si basa su serie di dati nazionali che assicurano validità statistica, quindi lei può desumere, enfatiz-
zare... perfino intuire, ma solo se il soggetto le fa dono della propria firma.» «M esiste, vive nei nostri dati, glielo garantisco. Noi lo tireremo fuori e, cosa ancor più importante, lo collegheremo a John Dantes.» «Stupendo. Se lei è così perfetto, perché io sono qui?» Sweetheart la studiò per un momento, abbastanza a lungo da metterla a disagio. Poi esibì un mezzo sorriso. «Lei è il mio asso nella manica, dottoressa Strange. Cognitivamente lei è in grado di superare i crepacci con un salto.» Si strinse nelle spalle. «Anche se ho una fede enorme in Mosaik, si tratta ancora di una facoltà molto umana.» «E questo la disturba, vero? L'idea che la mente umana sia capace di qualcosa che il computer non è in grado di fare.» «Un domani ci arriverà anche l'intelligenza artificiale, e dopodomani gli umani saranno lasciati nella polvere.» Sorrise. «Per il momento, tuttavia, lei ha un talento naturale per i nessi creativi. Risulta evidente nei suoi recenti studi sulla psicopatia, gli abusi sull'infanzia e la teoria delle relazioni oggettuali. Posso non essere d'accordo con i metodi e gli strumenti di cui si serve, ma i suoi risultati finali mi interessano.» Andò verso la porta. «Vogliamo andare?» Seguendolo nel cuore della casa, Sylvia si sentì come una bambina nel labirinto di un parco giochi: sempre più in profondità, mentre ogni soglia aggiungeva un altro strato di complessità al tema della fuga. Si ritrovò in un grande studio traboccante di libri e fascicoli e attrezzato con due computer. Sweetheart chiuse la porta, escludendo i rumori della casa. La luce era debole, lo spazio chiuso e i computer risplendevano in tonalità ambra come "cybertizzoni". «Dia un'altra occhiata ai dati che abbiamo ricavato dalle comunicazioni scritte di M. Gretchen ci sta lavorando da ventiquattr'ore.» Le dita di Sweetheart picchiettarono sulla tastiera. «Il nostro primo passo consiste nell'analizzare ogni comunicazione per estrarre i dettagli salienti; il secondo passo è la ricerca di analogie, somiglianze e corrispondenze nel database esistente; il terzo passo è lo sviluppo del profilo. Qualcosa che vada oltre l'ovvio, l'idea del maschio bianco solitario, antisociale e paranoide.» Sylvia si mise di fianco a Sweetheart e notò la forma delicata delle sue mani mentre abbassava lo sguardo sui messaggi che comparivano ingranditi sul monitor.
cari federali babbei babbei babbei basta Limbo secondo cerchio presto completato liberate URgentemente vs prigioniero DaNTes, profeta apocrifo o aspettate ansiosamente il prossimo Vw M caro John, figliol prodigo... messaggio ricevuto ordini verranno seguiti alla lettera nel nostro viaggio al quarto essi saranno puniti per i peccati dell'altro il sacificio della città sacra ricorda i nostri incalzanti pensieri L 9, M Il professore batté un tasto e la schermata cambiò. Poi ordinò a voce: «Trovare associazioni, livello tre». Una serie di associazioni di parole cominciò a scorrere veloce sul monitor in un anello di sequenze infinite, come un nastro di telescrivente cibernetico. babbei = (errore, ortogr.) = babel = Babele = torre = torre per raggiungere cielo Dantes = profeta apocrifo = falso profeta = angelo caduto = apocalisse = antico profeta UR = città sumera, antica Mesopotamia = città di commerci UR = città conquistata da Babilonia = città sotto dominio Nabucodonosor = ricerca UR = codice di Ur-Nammu, il più antico codice di leggi del mondo = più antico di Hammura Vw = (numerico) = romano = 15/5 =?cuneiforme =?quattro =?4 = (alfabetico) prodigo = dissipatore = eccessivamente generoso = sprecone prodigo = (possibile errore, ortogr.) = prodigio = bambino prodigio = mostro Limbo = anticamera inferno = Divina Commedia = Dante, Alighieri = Inferno
sacificio = (errore, ortogr.) =?sacrificio = sacro = sacrilego città sacra = città santa = angeli = Los Angeles = rif. UR = Babilonia M = mastro = maestro = Gesù =?Dio =?iniziale, cognome = ricerca incalzanti pensieri = senza tregua = ossessivi Sweetheart diede un morso a una mela e il profumo del frutto si propagò nell'aria. Tra un morso e l'altro, domandò: «Vuole provare anche lei?». «La mia mamma mi diceva sempre di stare prima a guardare» rispose Sylvia. «Babele... come la Torre di Babele, l'arroganza dell'uomo convinto di poter arrivare al cielo. E la punizione di Dio: il linguaggio ridotto a balbettio, il che non è poi così lontano dalla macedonia di parole della schizofrenia.» Il professore esaminò quello che adesso era il torsolo della mela. «Ur... sempre che si tratti di Ur... la città caduta.» «Babilonia... civiltà caduta. Los Angeles, città caduta.» «Ho riflettuto un po' sulla polaroid scattata da M, sul dispositivo a tempo della bomba, sull'ora indicata dall'orologio» disse Sweetheart. «L'una, diciotto minuti e trenta secondi.» «Non c'è stata alcuna esplosione all'una e diciotto.» «Io credo che i numeri si riferissero al dove, non al quando. Uno, diciotto punto trenta è la longitudine di Los Angeles: M ha grandi progetti per la Città degli Angeli.» «Non era già evidente?» Ignorando la risposta irritata, Sweetheart riprese: «I triangoli incorporati nel messaggio minatorio sono simboli sessagesimali, derivanti dal sistema sumero-accadico, il più antico esempio di numerazione che si conosca». «Sumero... cioè Mesopotamia?» «Cioè Babilonia: rovine, nient'altro che sabbia, rocce e vento. Io ci sono stato.» «Quindi lei sta dicendo che il nostro amico vuole facilitare la caduta della nuova Babilonia, ridurla in polvere.» «È un'idea... che porta a un'altra domanda.» Sweetheart la osservò con attenzione. «Ideazione suicida?» Sylvia aggrottò la fronte; la sua risposta si fece improvvisamente esitante: «Dantes equivale a un falso profeta e il suo lavoro a una babele di sciocchezze». Si massaggiò i muscoli della nuca. «Se Dio equivale a M e
l'angelo caduto equivale a Dantes, allora tutta questa storia verte sull'invidia e sulla rabbia narcisistica.» «Rabbia narcisistica?» «Tipo: strappiamogli le palle.» Sylvia si strinse nelle spalle. «Proiezione, tipico meccanismo di difesa.» «Rabbia» confermò Sweetheart. «L'aggressività rivolta verso l'esterno.» «Ma questo non elimina la possibilità del suicidio-barra-omicidio.» Sylvia strinse le labbra in una linea diritta, raccolse una penna e la fece roteare tra pollice e indice. Rimase in silenzio per oltre un minuto. Sweetheart aspettò. Finalmente, Sylvia disse: «Le offro uno dei miei salti creativi. Accidenti, le salto tutto il Grand Canyon». Chiuse gli occhi, di colpo eccitata. «Il secondo messaggio inizia con un'implicazione: "Caro John, io seguirò i tuoi ordini alla lettera".» Strinse forte la penna, senza accorgersi dell'inchiostro che le macchiava le dita. «Oppure... "John seguirà i miei ordini alla lettera."» Riportò lo sguardo su Sweetheart. «E... "essi saranno puniti per i peccati dell'altro."» Lasciò ricadere la penna sul tavolo. «E se John Dantes equivalesse all'altro di M?» «Allora Dantes e M sarebbero nemici» rispose il professore in tono freddo e neutro. «Non solo.» Sylvia si alzò in piedi bruscamente, facendo cadere libri e fogli. «M sta tenendo Los Angeles in ostaggio: in questo scenario, la vittima è la città.» Fissò il professore. «John Dantes non è il nostro colpevole: è la marionetta di M.» «Non ci credo» dichiarò Sweetheart secco, respingendo l'ipotesi. Sylvia si ritrasse di scatto, come se avesse ricevuto uno schiaffo. Ore 8.44 Luke e Gretchen fissavano un monitor su cui lampeggiava veloce come un lampo una serie di mappe. Senza rialzare lo sguardo, Luke disse: «Ho sovrapposto il modello spaziale di M alla mappa-base più ovvia...». «Cioè Los Angeles» finì Sylvia. Notò una serie di puntini arancione lampeggianti sparsi sullo schermo. Sembravano grossi granelli di pepe rosso sparpagliati a caso; cinque si allargavano come petali. «Giusto. Ma è la tipica ricerca dell'ago nel pagliaio, perché non abbiamo
idea della scala... se risale a un periodo anteriore alla standardizzazione del 1927 o se...» Ma Sylvia si stava già rivolgendo a Gretchen: «Lei è l'esperta linguista. Il suo programma, ovviamente, ha individuato Dante Alighieri e il suo Inferno in relazione al Limbo. Vengono citati anche nell'Inferno di Dantes?». «Mi dia un nanosecondo.» Gretchen si sedette davanti al computer. «Mosaik ha già divorato il testo completo dell'Inferno di Dantes, unitamente alla sua tesi di laurea, a tutti i compiti in classe da studente, ai verbali del processo, ai rapporti psicologici... praticamente tutto.» Sollevò una copia consunta del libro di John Dantes, mentre il computer entrava in azione facendo le fusa, troppo high-tech per lucine, carillon o fischi. Sylvia prese il libro da Gretchen e si chinò sopra la sua spalla. «In ospedale Dantes ha detto qualcosa come "Karen sa. Chiedi al maestro".» La ragazza aggrottò la fronte. «Nella comunicazione verbale è importante considerare l'influenza di...» «Civiltà cadute e lezioni di letteratura» mormorò Sylvia, mentre la mente lavorava, zigzagando alla massima velocità. Chiedi al maestro... Colpa, repressione, stress, conversione... Gretchen cominciò a borbottare in svedese, ma si controllò. Sfogliando L'Inferno di Dantes, Sylvia si ritrovò a fissare la dedica: "Questo lavoro è dedicato a mia madre, Bella Dantes, che mi ha detto addio troppo presto, e a James Healey, mio maestro all'Oxford Academy, le due persone che mi hanno fatto conoscere Dante Alighieri, il suo Paradiso e il suo Inferno, il suo Paradiso e il suo Purgatorio".» «Chiedi al maestro...» sussurrò Strange. «Il maestro James Healey.» Ore 9.27 Mentre si lavava il viso nel piccolo bagno in rame e bambù, Sylvia pensò all'incontro con Sweetheart. Quell'uomo era maleducato, arrogante e irritante. Ma anche molto in gamba. Sylvia borbottò tra sé mentre faceva pipì e continuò a borbottare mentre frugava in valigia. Rossetto e pettine la fecero sentire meglio. In sala da pranzo, in attesa del suo ospite, bevve una tazza di caffè forte, nero. L'umore cupo andava gradualmente svanendo. Aveva lasciato un messaggio a Matt, chiedendogli di annullare il volo dal New Mexico: voleva che rimanesse vicino a Serena finché tutto quel pasticcio non si fosse risolto. Stava per accendere il suo portatile per inviare qualche e-mail e ri-
vedere gli appunti su Dantes, quando comparve Sweetheart. Il professore le fece segno che era pronto ad andare. Buttando giù ciò che restava del caffè, Sylvia raccolse valigetta e computer e lo seguì lungo un corridoio che portava a un garage superprotetto. Una Mercedes verde scuro ronfò in risposta a un saluto elettronico. Mentre il professore scaldava il motore e la porta del garage si sollevava silenziosa, Sylvia disse: «Prima di procedere, voglio che un punto sia ben chiaro: lei prima si è comportato da stronzo. Mi deve delle scuse». «Ha ragione.» «Lo so che ho ragione.» «Le chiedo scusa.» Sylvia rimase in silenzio per un momento, poi annuì. «Lei voleva la mia intuizione. Eccogliela: Dantes è malato, sotto ogni punto di vista. Si è ritirato dal gioco, è soltanto un partecipante passivo.» Sweetheart ascoltava attento. Sylvia continuò: «O Dantes sta fingendo il disturbo di conversione, e questo rientrerebbe nel piano organizzato in collaborazione con M, oppure non sta fingendo, nel qual caso M incolperà noi di aver tolto Dantes dalla circolazione». Sylvia si mise gli occhiali da sole. «La mia previsione è questa: adesso M colpirà più vicino. Darà la caccia a uno di noi.» 21 Il sole mi fa venire uno spaventoso mal di testa e sono costretto a mettermi sempre occhiali da sole scuri. In altre parole, accidenti alla California... Nathanael West Ore 10.13 Lungo la strada piena di curve, M segue a distanza la Mercedes verde. L'auto di Sweetheart è una vera bellezza ed è stata costruita su ordinazione per quel cowboy dell'antiterrorismo: veloce, accessoriata, 350 cavalli; completa di sensori di vibrazione, allarme radio ultrasensibile, vetri antiproiettile, telaio corazzato, chiusura automatica cofano, chiusura automatica coprimozzo, chiusura automatica serbatoio, barriera tubo di scarico. Fa' solo uno starnuto a dieci metri da quella macchina e lei comincia ad
abbaiare con tutti i suoi allarmi. C'è bisogno di un tocco gentile. M, amante della tecnologia sofisticata, accarezza leggermente il volante del suo furgone. Pazienza... Nel suo mestiere, un uomo che voglia sopravvivere deve procedere con calma. M è anche abbastanza informato da ricordare quelli che, negli annali della storia criminale, sono stati meno che pazienti. 1605. Guy Fawkes: arrestato per avere nascosto grosse quantità di polvere da sparo sotto la Camera dei Lord a Londra. 1886. Quattro anarchici: impiccati per avere causato la morte di sette poliziotti in Haymarket Square. 1903. Tenente Joseph Petrosino, New York City, capo della prima squadra ufficiale antiterrorismo, creata per combattere la Mano Nera: assassinato in Italia. 1922. John Magnusson, dinamitardo: identificato e catturato grazie ad analisi e confronti calligrafici. Un minuto di silenzio, per favore... M non ha alcuna intenzione di unirsi ai ranghi degli impetuosi, degli sciocchi, dei morti. Non ha la minima intenzione di combinare casini con l'auto supercorazzata di Sweetheart. E non ne ha neppure bisogno. Perché il lavoro è già fatto: la bomba è al suo posto, il timer è puntato e l'orologio sta ticchettando. 22 Molte delle "tenute" lungo Outpost Drive appartenevano a persone che si consideravano "coloni", i quali si dava il caso godessero di redditi a sei zeri... Randall Sullivan, Il prezzo dell'esperienza Ore 10.33 Ad appena un tiro di schioppo dall'altra roccaforte dell'elite Wasp della California meridionale, l'Oxford Academy ospitava da almeno un secolo i rampolli della crema di Los Angeles.
Sweetheart pilotò la Mercedes da Mulholland in Coldwater e il paesaggio cambiò sensibilmente, come se gli alberi ben potati, gli ettari ed ettari di prati curatissimi, i giardini, esotici perfino per gli standard di Los Angeles, avessero fatto parte di un diverso, più civilizzato strato sociale dell'ecosistema urbano. Il professore svoltò di nuovo in un lungo viale sinuoso, ombreggiato da alberi di jacaranda, olivi contorti e sterculia scarlatte; mentre Sylvia guardava fuori dal finestrino aperto, godendosi il montaggio visivo di colori violenti contro lo sfondo del cielo turchese. Qui si trovavano ormai al di sopra dello strato di smog che si estendeva sulla Valley fino a sfiorare i fianchi delle Santa Monica Mountains. Qui (si poteva facilmente immaginare) la vita dei pochi eletti veniva innalzata a un livello di diritto completamente nuovo e splendido. Passarono sotto l'arcata di un cancello, dove una statua di pietra a grandezza naturale sembrava osservare con disapprovazione il loro arrivo. «Pluto è un guardiano perfetto per l'Oxford Academy» commentò seccamente Sweetheart. «Non era la divinità greca della ricchezza?» domandò Sylvia. «Era il figlio di Demetra. E sfida Dante Alighieri nel quarto cerchio del suo Inferno, quello riservato in particolare agli avari.» «Stupendo.» La strada proseguiva per un paio di chilometri, passando accanto a una postazione elettronica del servizio di sicurezza, a un gruppo di edifici a un solo piano, a parecchi, discreti parcheggi per studenti affollati di auto da esposizione: Corvette, Porsche, Rolls, Bentley. Né Sylvia né Sweetheart parlarono mentre la Mercedes avanzava per un'altra trentina di metri fino a fermarsi davanti all'edificio dell'amministrazione in stile spagnolo. Due salici incorniciavano il tetto inclinato di tegole rosse. Un sentiero, fiancheggiato da palme intorno ai cui tronchi sbiancati crescevano fitti cespugli di zenzero arancione, portava dal parcheggio all'edificio. Pattugliando il suo dominio - un ettaro di prato - un ometto in tenuta da safari, maschera e occhiali protettivi spingeva un tosaerba e si lasciava alle spalle l'odore tenue della benzina e una scia di fili d'erba perfettamente tagliati a un'altezza di sei millimetri. Sweetheart non si mosse. Scendendo dalla Mercedes, Sylvia gli lanciò un'occhiata. Si appoggiò al metallo caldo della carrozzeria. «Lei ha elaborato un profilo su di me?» «Mmmh.» Il basso mormorio era affermativo. Il professore aprì lenta-
mente la portiera e scese dall'auto, mentre un gruppo di studenti - tutti maschi, tutti bianchi, tutti in giacca e cravatta in conformità alle regole d'abbigliamento del college - si stava avvicinando. Due dei ragazzi più giovani si voltarono a guardare Sylvia; uno inciampò, l'altro gli diede di gomito. Dopo che il gruppo fu passato, Sylvia disse: «Mi chiedo se dovrei sentirmi insultata o violata. Diavolo, perché non tutte e due le cose?». Si chinò a raccogliere dall'erba curata un lungo baccello scuro. «Quand'è che ha deciso che aveva bisogno di trattarmi come uno dei suoi soggetti?» «Quando lei ha accettato di partecipare alla valutazione di Dantes.» Sweetheart non la guardava, ma nella sua voce c'era impazienza. «Ritengo mio dovere conoscere tutti nel mondo del terrorismo. Cosa ancora più importante, ho bisogno di sapere con chi sto lavorando, di sapere se posso fidarmi di una determinata persona in una situazione di pressione.» «E qual è il verdetto?» «Lei è qui.» «Quel che è giusto è giusto» commentò Sylvia. «Quand'è che io vedrò il suo profilo? Perché, sa una cosa? Ho bisogno anch'io di sapere con chi sto lavorando.» Sweetheart aveva un modo di guardare - più tattile che visivo - che poteva sembrare invasivo. Sylvia voltò la testa. «Lei aveva previsto che Dantes si sarebbe messo in contatto con me?» «Leo Carreras l'aveva già previsto per me. È uno psichiatra molto intelligente, un ottimo membro della squadra. Rispetto molto il suo giudizio.» Tese una mano, chiedendo il baccello, e le dita si strinsero intorno alla forma color mogano. «Ma tutta questa storia è andata molto al di là di quello che chiunque avrebbe potuto prevedere, dottoressa Strange. Lei è stata scelta come confessore di Dantes. AM questo non piacerà.» «No» concordò Sylvia sottovoce. Per un attimo, le palpebre nascosero l'energia contenuta nelle iridi d'oro scuro. La testa si abbassò, la bocca si rilassò. Stava viaggiando in altri mondi, i pensieri catturati dal passato. Poi tornò al presente e rialzò lo sguardo sul viso di Sweetheart. Si allontanò dalla Mercedes. «Il professor Healey ci sta aspettando all'Avery Gymnasium. Gli ho detto che saremmo arrivati verso le undici e mezzo.» Sweetheart indicò con un dito l'ordinato cartello che si alzava di un paio di metri sopra l'erba: DAVIS AVERY GYMNASIUM. Una freccia indirizzava i visitatori verso una grande struttura bianca, distante circa quattro-
cento metri. Sylvia cominciò ad avviarsi, ma si voltò quando vide che Sweetheart non si muoveva. «Sta aspettando un invito?» «Oh, sarei lieto di accompagnarla a parlare con l'ex preside.» Il sorriso era freddo. «Oppure potrei rimanere qui, nel caso M decida di farci una visitina.» Gli occhi di Sylvia si spalancarono. «Non c'è un sistema di allarme nella sua macchina?» «Un sistema estremamente sensibile. In effetti è progettato per far detonare un ordigno esplosivo entro un raggio dai dieci ai venti...» «Resti qui.» Ore 11.26 L'Avery Gymnasium era umido come una serra. I due ragazzi avvinghiati nella lotta al centro del tappeto stavano sudando copiosamente. In tuta grigia e fischietto, il professor Healey Sr sembrava surriscaldato quanto i ragazzi. «Findlay, non lasciare che Underwood si alzi... non farlo alzare!» Alto e dall'ossatura massiccia, Healey camminava intorno al tappeto, osservando i suoi lottatori. Proprio quando Sylvia aveva deciso che il professore avrebbe ignorato la sua presenza, Healey le fece segno di avvicinarsi. «È lei che mi ha telefonato a proposito di John?» «Sì, sono la dottoressa Strange.» «Perché vuole parlarmi?» «Ho pensato che lei potesse rispondere a qualche domanda. Dantes mi ha mandato a parlare con il suo "maestro".» Raddrizzò le spalle, esigendo l'attenzione del professore. «Lei ha seguito la sua carriera?» «Intende dire la carriera di Calbomber?» Healey fece un grugnito. «Ho passato troppi anni in compagnia di Milton e di Dante per non credere che l'arroganza e la presunzione siano veri peccati. John è stato lo studente più brillante che io abbia mai avuto. Come atleta era una star, un ragazzo baciato dalla fortuna... ma era anche egocentrico e un moralista bigotto. E lo è ancora.» Spostando bruscamente l'attenzione, abbaiò con forza sorprendente: «Findlay, cosa ti ho detto, maledizione? Dovresti riuscire a mettere giù Underwood in quindici secondi!».
Sylvia osservò la lotta, un primitivo faccia a faccia basato sulla forza, l'aggressività, l'astuzia e il coraggio. Underwood veniva tenuto giù da Findlay, che pesava almeno sette, otto chili in più. Il respiro dei due ragazzi, raschiante e affannato, echeggiava in modo quasi doloroso nella sala cavernosa. Healey fece quattro passi lungo il bordo del materasso; guardava i suoi lottatori, ma parlò rivolto a Sylvia: «Dantes sopravvaluta la propria forza, una cosa che un guerriero non dovrebbe mai fare». «Mi ha detto che lei poteva parlarmi di Karen. Era un'insegnante?» «Charon, non Karen. In italiano sarebbe Caronte, il nocchiero sul fiume Acheronte nell'inferno.» Batté le mani: «Inchiodalo! Inchiodagli le spalle a terra!» Si immobilizzò di colpo. «Cos'altro ha detto Dantes?». «Incalzanti pensieri. L9» disse Sylvia, pensando al messaggio di M. «Significa qualcosa, per lei?» Healey rimase in silenzio per qualche istante. «Lei conosce Milton?» «Il Paradiso perduto, al liceo.» Sylvia sbatté le palpebre al tono sfacciatamente condiscendente del professore. «Mi rinfreschi la memoria.» «I miei studenti conoscevano i grandi libri. Ci pensavo io.» Adesso la carnagione aveva assunto una preoccupante tonalità rosa. Ignorando i ragazzi, si fermò davanti a Sylvia, il viso a pochi centimetri dal suo. Arrotondando le vocali, fingendo un leggero accento tedesco, intonò: «"Perché trovo conforto agli incalzanti pensieri soltanto distruggendo".» Gli occhi scomparvero dietro le palpebre rugose. «Libro nove del Paradiso perduto di John Milton. È Satana che parla.» Healey riportò l'attenzione sui ragazzi. «Non lasciarlo scappare, Findlay. Non lasciare che liberi l'altro braccio.» Come aspettando la battuta, Underwood improvvisamente liberò il braccio dalla presa del ragazzo più grosso e si spostò di un paio di metri. Guardò Healey, cercandone l'approvazione. Il professore berciò: «Findlay, hai appena regalato due punti. Hai lasciato che uno grande la metà di te ti scappasse, idiota che non sei altro». Cambiando marcia, l'ex preside abbassò la voce, tanto da introdurre una punta di intimità: «John Milton era deciso a giustificare un Dio puritano che fosse meno che tollerante. Secondo me, e secondo molti altri studiosi, ha fallito. Tuttavia, Milton è riuscito a creare una delle più grandi figure tragiche della letteratura occidentale: l'eroe caduto». «Satana.» «Un Satana dolorosamente umano.» Healey lanciò un'occhiata al tappe-
to. «Professor Healey, perché John Dantes mi ha mandata da lei?» «Perché non lo chiede a lui?» «C'era per caso un altro studente?» insistette Sylvia, tentando alla cieca in cerca di nessi, di qualsiasi cosa potesse portare a M. «Qualcuno a cui fosse legato? Magari un insegnante?» Healey continuava a dare la schiena a Sylvia, l'attenzione concentrata sui lottatori. Poi lei aggiunse: «Forse Dantes intendeva parlare di un altro maestro». Percorse i pochi metri che la separavano dalla porta, il palmo toccò il legno e... «Posso dirle chi giocava a fare il dio spietato con l'eroe caduto!» disse Healey a voce alta. Sylvia si fermò. Cacciandosi il fischietto in bocca, Healey impartì un ordine. Findlay, il lottatore più grosso, adesso incombeva sopra il più piccolo. I corpi dei ragazzi si contrassero, i lineamenti si tesero e la pelle cominciò ad arrossarsi. Era cominciato il secondo round. Sylvia tornò lentamente sui suoi passi. «C'era uno studente» cominciò Healey, allontanandola dal tappeto. Sporse le labbra, come se avesse appena mangiato qualcosa di acido. Continuò a parlare a voce bassa: «Simon Mole. C'era un qualche legame tra i due ragazzi. Io ho cercato di scoraggiarlo, non era... sano». «Un legame omosessuale?» «Santo cielo, no!» Sul viso di Healey passò un'espressione disgustata. «Era più qualcosa come l'adorazione per l'eroe. E Simon era l'adoratore.» Il professore corrugò la fronte. «All'epoca ho discusso con John del fatto che quell'amicizia era... indesiderabile. Specialmente per l'unico studente con borsa di studio di tutta la scuola.» «E come ha reagito Dantes?» «Ha ignorato il mio consiglio.» Healey sembrava arrabbiato, come se l'episodio fosse accaduto il giorno prima e non due decenni prima. «Per il programma del diploma postlaurea, Dantes e Simon elaborarono le loro dissertazioni sotto forma di dialogo. Dantes scrisse una prima bozza del suo Inferno... Molti anni dopo, naturalmente, diventò la sua tesi per il dottorato di ricerca, nonché un bestseller.» «E Simon Mole?» «Simon rispose con un trattato miltoniano: il Paradiso perduto di Mole.
Tutto il campus ci scherzava sopra. Gli altri studenti l'avevano ribattezzato il Manifesto di Mole. Nella migliore delle ipotesi era rivalità adolescenziale.» «Lei ha...» «Sai cosa devi fare!» abbaiò Healey verso il centro della sala, dove i due ragazzi erano allacciati in una lotta violenta e silenziosa. «Allora fallo!» Gli occhi azzurri, freddi e rabbuiati, si spostarono di nuovo su Sylvia. «Appena varcata la porta dell'inferno, Dante e Virgilio vedono un demone che, ai remi, sta attraversando il fiume, diretto verso le anime dei dannati in attesa. Il demone è Caronte, il traghettatore. Caronte però si accorge che Dante è ancora vivo e si rifiuta di farlo attraversare.» «Caronte non vuole traghettare Dantes?» Healey fece un sorriso cattivo. «Non intende dire Dante Alighieri?» Canzonò Sylvia per la confusione. «Però, dopo tutto ha ragione... È del viaggio di John Dantes che lei e io ci preoccupiamo. Non dimentichi che l'Inferno originale era un lavoro autobiografico, inteso a scacciare i demoni personali dell'Alighieri.» Sylvia prese un respiro profondo, fissando i due giovani lottatori. «Lei sa se i ragazzi sono rimasti in contatto dopo avere lasciato Oxford?» «Simon rinunciò a Yale per frequentare l'Ucla, e restare con il suo eroe.» «Erano insieme all'Ucla? L'Fbi ha studiato il Manifesto mentre preparavano l'accusa contro Dantes? Hanno fatto dei controlli su Simon Mole?» «Non c'era alcun motivo per fare dei controlli.» Healey scosse la testa. «Simon Mole è morto prima di concludere il suo primo anno all'Ucla.» Sylvia aveva percorso metà della distanza che la separava da Sweetheart e dalla sua Mercedes, quando si fermò di colpo in mezzo al sentiero. Stava pensando a un demone, a un rabbioso traghettatore infernale che rifiutava il passaggio a un pellegrino che non era veramente morto. Dantes l'aveva mandata a scoprire Simon Mole: era Mole l'impostore nel regno dei morti? E, se era così, Simon Mole viveva come M? 23 Resta ancora da scrivere tutta una storia sugli spazi - che sarebbe al tempo stesso la storia dei poteri (entrambi i termini al plurale) dalle grandi strategie della geopolitica alle piccole tattiche dell'habitat.
Michel Foucault, L'occhio del potere Ore 12.19 Sweetheart fermò l'auto sotto l'arco di Pluto. «E questo sistema il quarto cerchio» disse sottovoce. Mentre il dio greco della ricchezza osservava dall'alto uno scambio altamente protetto di informazioni hi-tech, inimmaginabile ai suoi tempi, dall'altoparlante dell'auto emerse la voce di Luke. «Compare negli annunci mortuari del "Times"...» La voce tacque per un momento, poi riprese: «Scusate, sono al computer, sto facendo scorrere i dati. È stato un incendio, un'esplosione di gas che ha ridotto in cenere la casa di famiglia. Datemi cinque minuti: metto tutte queste informazioni nella solita directory, così poi potrete...». «Dammi i dati essenziali» l'interruppe Sweetheart. «Faremo l'Ftp in seguito.» «L'indirizzo è in Valley Vista Drive, a meno di cinque chilometri da dove vi trovate adesso. "Los Angeles Times" del 2 aprile di quello stesso anno: esplosione delle tubature del gas, emergenza medica... la sorella, Laura Mole, di anni sedici, deceduta all'arrivo in ospedale. Simon Mole, di anni diciannove, in condizioni critiche...» Luke tossì e fece un'altra pausa, durante la quale si sentì il ticchettio dei tasti del computer. «Due giorni dopo, il "Times" pubblica un breve articolo. I genitori erano attivisti politici repubblicani, raccoglievano fondi in favore di Reagan, ed erano in viaggio al momento dell'incidente. Le condizioni di Simon da critiche passano a serie, però ha perso un occhio... Un attimo... di nuovo il "Times", 28 maggio: l'esplosione viene archiviata come accidentale dai vigili del fuoco di Los Angeles, parere confermato anche dagli investigatori della società del gas e dell'assicurazione.» «Gli incidenti capitano» commentò Sweetheart. Una foglia si staccò da una quercia imponente e atterrò sul parabrezza, direttamente davanti a Sylvia, che teneva il portatile sulle ginocchia, pronto all'uso. «Ci sono notizie successive su Simon?». «Ho i necrologi» rispose Luke. «Laura Diane Mole, studentessa alla Holyoke.» Tacque, esaminando altri dati. «Nessun necrologio per Simon... Aspetti... Bingo! Però è quasi due anni dopo: Simon Eton Mole, entrambi i genitori e altri tredici passeggeri deceduti in un incidente ferroviario a Milano... sospetto sabotaggio.» Luke soffiò aria tra i denti. «Un ragazzo sfor-
tunato.» «Continua a scavare a fondo su Mole.» «E, Luke...» disse Sylvia, piegandosi leggermente in avanti. «Muovi il culo.» Sapeva che il file di ricerca allargata alla fine avrebbe compreso votazioni scolastiche, valutazioni psicologiche, voti accademici, notizie sulla famiglia e rapporti finanziari - meglio ancora: pettegolezzi e illazioni rapporti su incidenti, schede cliniche e certificato di morte. In breve, ogni possibile statìstica che potesse essere raccolta in un tabulato su quel particolare soggetto umano, vivo o morto. Tutte le informazioni sarebbero poi state inserite in Mosaik, per diventare parte del complesso processo dell'elaborazione-profilo basato su dati. «Parlando di culo veloce, cosa mi dice di questo?» ribatté Luke, ridendo. «Ho frugato nei file dell'assessorato.» Recitò l'indirizzo di Simon Mole e poi aggiunse: «La proprietà non è mai stata venduta: fa parte di un fondo... uno studio legale in Gran Bretagna». «Tienici aggiornati» ordinò Sweetheart, pronto a chiudere la comunicazione. «Saremo di ritorno verso le due...» «No, non sarete di ritorno» intervenne la voce incorporea di Gretchen. «Messaggi: il dottor Carreras ha telefonato a proposito di alcune valutazioni di Dantes all'Ucla. Se potete farcela per l'una e trenta, Carreras aspetterà lei e la dottoressa Strange al Bay View in Pacific Coast Highway.» «Possiamo farcela» confermò Sweetheart, lanciando un'occhiata a Sylvia, che si strinse nelle spalle. Che valutazioni era mai riuscito a scovare, Leo? E perché lei non le aveva viste prima? Era impaziente di metterci le mani sopra. Annuendo, sentì a malapena Gretchen che finiva di recitare un elenco di chiamate internazionali: «... e l'agente speciale Purcell, la quale ha detto che vi contatterà alle quattro e mezzo». La ragazza esitò per una frazione di secondo. «Professore? Ha telefonato anche sua nipote. Molly ha bisogno di vederla per...» Ma Sweetheart chiuse la comunicazione prima ancora che Gretchen potesse terminare la frase. Ore 12.29 Con un'espressione più truce di quella di Pluto, Sweetheart portò la Mercedes dai prati dell'accademia fino a Coldwater Canyon Road. All'incrocio
con Mulholland Drive, frenò e puntò verso Vista Valley Drive. Sprofondata nel sedile di pelle, Sylvia manteneva lo sguardo fisso sulla strada, sulla progressione eclettica di case allineate lungo quel tratto di Mulholland Drive. Le laterali avevano nomi di artisti: Picasso Way, Dalí Drive. E, in effetti, quel panorama urbano le faceva pensare a dei quadri, ai colori sognanti di Monet, agli incubi primari di Brueghel. Sentiva il proprio umore abbassarsi a spirale, ma rimase in silenzio, riorganizzando i pensieri; sapeva che lo stress, lo sfinimento e la paura potevano spingerla al di là del livello di controllo. E in quelle circostanze le barriere professionali tendevano a confondersi. Tuttavia, era rimasta scioccata dalla reazione brusca di Sweetheart alla sola menzione di sua nipote. La strada si restrinse quando Sweetheart superò una curva e l'auto andò vicinissima al bordo dello strapiombo che da Mulholland scendeva nella San Fernando Valley. «Cosa c'è?» domandò finalmente il professore. «Lei continua a fissarmi.» «No, non è vero.» Sylvia giocherellò con il braccialetto. «Mi sono imposta di non fissarla.» Dopo un attimo di silenzio aggiunse: «Mi ha dato davvero fastidio il modo in cui ha reagito al nome di Molly Redding». «Non sono affari suoi.» «Sbagliato.» Chiuse di scatto il computer. «Un'ora fa lei mi ha detto di aver elaborato un mio profilo. E perché? In modo da sapere con chi ha a che fare... Più importante ancora, per sapere se può fidarsi di me sotto pressione.» «Dottoressa Strange, se lei ha problemi di fiducia, le suggerisco di risolverli.» «Bene. E vaffanculo.» Lo fissò per un attimo, lottando per riprendere il controllo delle proprie emozioni. Le parole le scapparono di bocca: «Appena torniamo a casa sua, farò una ricerca su Mosaik: qual è il problema dell'incasinata relazione di Sweetheart con sua nipote?». Si pentì della frase appena l'ebbe detta. Ma Sweetheart non le diede il tempo di scusarsi. Cambiò marcia e premette l'acceleratore. Lungo la strada stretta e tortuosa, Sylvia vide il tachimetro superare di poco gli ottanta chilometri l'ora... poi novanta, cento... «Se rallenta, le chiedo scusa.»
Sweetheart si limitò a una smorfia e accelerò ancora. Il vento caldo sollevava la polvere e i pneumatici facevano schizzare la ghiaia. Alberi e cespugli si confondevano in un arazzo di colori acquosi. L'ago del tachimetro avanzava in piccoli scatti regolari. «Rallenti.» Sweetheart la ignorò. «Rallenti!» Ma il professore non lo fece e le piante si fusero in un'unica, morbida siepe continua lungo la strada. Il bordo di Mulholland Road sembrava ondeggiare sotto le ruote della Mercedes. Sylvia contò fino a cinque. «Fermi questa macchina del cazzo. Vado a piedi!» Sweetheart non la guardò, ma il piede allentò la pressione sull'acceleratore. L'auto proseguì ancora per mezzo chilometro e poi si fermò accanto un gruppo di alti eucalipti. Intorno alla vettura vorticava la polvere, riluttante a posarsi. Con il motore spento, le cicale sembravano urlare. Sylvia sedeva irrigidita. «Vuole parlarne?» domandò finalmente. «Non ho bisogno di una strizzacervelli.» Sweetheart sollevò l'aletta parasole. «Non c'è niente di misterioso negli oggetti compensatori d'attaccamento, sul riadattamento affiliativo.» Parlava con voce piatta e meccanica, picchiettandosi ritmicamente la testa con un dito, quasi a sottolineare i criteri di un qualche elenco interiore. «Sono gli eventi stressanti della vita, sgradevoli, ma tutto sommato banali.» «Basta così.» Sylvia aspettò parecchi secondi prima di continuare: «Non definisca la morte di Jason Redding un fatto banale». Quando Sweetheart parlò di nuovo, la voce era più bassa e stanca, consumata come un sasso dalla marea. «Mia nipote non è mai stata una persona stabile, ha avuto problemi per tutta la vita. Ma Jason era un bambino brillante e molto dotato. Quando è morto...» La voce si spezzò. Sylvia chiuse gli occhi; il dolore di Sweetheart era una presenza invisibile che occupava spazio e lei si sentì quasi soffocare, oppressa. Il professore ritentò: «Non ho mai approvato lo stile di vita di sua madre. Molly è tossicodipendente. Ho pagato per la disintossicazione una, due volte... le statistiche sulle guarigioni sono estremamente negative...». Fece un sospiro. «Ho fatto l'unica cosa logica: ho preso le distanze da lei.» Sweetheart sedeva impietrito e la sua immobilità emanava una tensione palpabile. «Jason non esiste più. E neppure sua madre.» Sylvia non riusciva a staccare gli occhi dal viso del professore: l'assenza
d'espressione era più sconcertante di qualsiasi emozione. «Ho bisogno di un bersaglio per la mia rabbia. Ho scelto John Dantes perché ha ucciso Jason. Psicologia molto semplice, e dal più grande dei libri: occhio per occhio.» Aprì la portiera e scese dall'auto. «Farò in modo che Dantes vada all'inferno.» Sylvia lo guardò avvicinarsi agli alberi e al terrapieno. Il professore rimase in silenzio per lunghi secondi, poi, proprio quando lei si aspettava che tornasse all'auto, superò il bordo della strada. Sylvia non si mosse, non si sentiva ancora pronta ad affrontarlo. Nei suoi anni da psicologa aveva dovuto vedersela infinite volte con l'attaccamento psicopatologico e ne conosceva il pericolo. Ma era raro trovare un tale livello di patologia ossessiva in uno dei "buoni", un uomo su cui lei avrebbe forse dovuto contare per salvare vite umane. Raggiunse Sweetheart accanto a una recinzione metallica, oltre la quale c'era una piscina vuota, morta e piena di foglie. Cautamente, come temendo un rimprovero, gli posò una mano sul braccio. Sotto la manica della camicia, la carne le sembrò morbida e molto umana. Per un momento il professore non si mosse, poi indicò verso il basso: «Deve essere stato un accidente di esplosione». A giudicare dalle fondamenta ancora visibili, la casa di Simon Mole doveva essere stata molto grande, forse oltre cinquecento metri quadrati. In stile spagnolo-californiano, si sarebbe detto dai muri ancora esistenti, dai caminetti scheletrici e dallo stucco che andava sbriciolandosi. Un arco aggraziato contrassegnava ancora l'ingresso occidentale. Poco più in là, piante di rose selvatiche, buganvillea, azalee, erba cristallina - le piante di quel subclima mediterraneo - crescevano disordinate come in una giungla. Camminarono lungo il perimetro, evitando rami, azalee selvatiche, piante di zenzero e di uccelli del paradiso: alla natura era stato concesso di riprendersi ciò che le spettava, nello stile della California del sud. All'interno delle fondamenta della zona soggiorno era visibile un cratere, che aveva ulteriormente scavato in profondità ciò che già era stato il seminterrato. Sylvia scavalcò il muro basso e si avvicinò cauta al cratere; da lì le sembrò di guardare all'interno di una gigantesca tana. Si mise le mani sui fianchi. «Il gas naturale fa esplodere le strutture esterne in un inferno» disse Sweetheart. «Scaglia in aria il tetto, fa saltare i muri.» «E da quando si lascia dietro un cratere di tre metri per cinque?» Il professore le si avvicinò; adesso erano spalla a spalla sul terreno spu-
gnoso. «La famiglia era ricca. I genitori erano persone molto in vista e contavano su un futuro politico.» «Probabilmente si sono opposti a un'indagine» disse Sylvia. «In particolare, a un'indagine che avrebbe rivelato il fatto che il loro figliolo si divertiva a giocare con gli esplosivi.» «Esplosivi che hanno scavato questo cratere e ucciso la figlia» concluse Sweetheart sottovoce. «È plausibile.» Sylvia fece un altro passo verso il cratere. Nel corso degli anni, rami, foglie e rifiuti si erano raccolti nel grande buco profondo. Un riflesso di luce richiamò la sua attenzione. Si avvicinò al bordo e riuscì a distinguere l'estremità di un grosso tubo ondulato; contorto, slabbrato, penetrava nella terra e nel cemento spaccato. Per un istante Sylvia barcollò, priva di equilibrio. Dal metallo grezzo l'acqua gocciolava con un rumore ritmico e ipnotico. Un pezzo dell'infrastruttura della città... un'altra conduttura che portava sottoterra, in profondità. Perché trovo conforto agli incalzanti pensieri soltanto distruggendo. A un tratto lanciò un grido, mentre il terreno cedeva e lei cadeva verso il fondo del cratere sudicio. Il dolore le corse lungo i muscoli e la spalla sembrò bruciare quando il braccio si tese di colpo verso l'alto: Sweetheart l'aveva afferrata e adesso la sollevava sul terreno solido, il tutto in un unico movimento fluido. Sylvia si allontanò barcollando dalla buca. «Gesù» mormorò quando riprese fiato. «Grazie.» Sweetheart annuì in silenzio. Poi, per parecchi minuti, rimasero immobili sul bordo della proprietà, dove il terreno digradava fino a fondersi con i fianchi della collina tempestati di case, i canyon e la distante, vulnerabilissima città. Finalmente Sylvia disse: «La colpa di Dantes è una cosa, la sua colpa è un'altra. Lei non è responsabile della morte di Jason». Sweetheart voltò la testa e la fissò. Gli occhi, del colore di un cielo tempestoso, erano accusatori. Ma il loro centro focale era interiore. Il professore, nonostante tutto il suo intelletto e tutte le sue capacità analitiche, era un uomo provato e trasformato in modo radicale dal dolore e dalla rabbia. Una combinazione pericolosamente potente, soprattutto in quelle circostanze. Sylvia prese un respiro profondo, raccogliendo il coraggio mentre si avventurava oltre il bordo di un'invisibile scogliera psichica. «Io credo sia possibile che Dantes abbia voluto la cecità psicologica... Forse lui veramente non possiede un ego abbastanza forte per vedere la verità. Ma lei,
Sweetheart... lei non può permettersi di non vedere. Non confonda la vendetta con la giustizia. Il tempo comincia a scarseggiare.» QUINTO CERCHIO. Due anime dannate 24 Ogni uomo al momento della nasata è in possesso della mappa per raggiungere la Terra Santa, un territorio del corpo e dell'anima che possa definire suo. Ma, molto rapidamente, il paradiso si trasforma in inferno. Anch'io ho amato e ho perso. Manifesto di Mole Ore 13.01 La bomba è programmata per detonare alle ore 1.18.30. Il furgone di M se ne sta in ozio all'ombra di un vecchio eucalipto. M strappa la carta della cannuccia e beve qualche sorso di Coca ghiacciata. La radio trasmette vecchie canzoni. Ha seguito per tutta la mattina Sweetheart e Strange. Adesso è riuscito ad anticiparli di qualche minuto. Ovviamente quei due non hanno idea di trasportare la morte con loro, a bordo della Mercedes verde. Dopo la deviazione in Valley Vista Drive, Sweetheart ha esaminato la sua macchina con grande attenzione. Non ha trovato alcun ordigno esplosivo, attaccato come un mollusco alla carrozzeria; nessuno ha manomesso il serbatoio o il cofano; niente ha fatto scattare l'allarme silenzioso. Ma la verità è che M li ha preceduti fin dall'inizio. Portano la morte con loro perché la dottoressa Strange l'ha portata con sé: dal bagagliaio della Lincoln a noleggio alla casa in Selma, alla Mercedes corazzata. M guarda la strada a due corsie, aspettando un segno dell'auto verde. Ancora niente. Passa un altro po' di tempo guardandosi intorno. La collina dietro di lui e il canyon dall'altra parte della strada mostrano le cicatrici di incendi recenti. A ogni stagione degli incendi, i venti di Santa Ana catturano scintille nel deserto della California e poi frustano quelle fiamme in una frenesia
molecolare finché la pelle stessa della terra brucia e ciò che resta è annerito e carbonizzato. M è grato per l'ombra. Ha vissuto in posti nel mondo dove l'unico sollievo dal sole era la propria ombra. E ha visto uomini adulti - la pelle coperta di vesciche, gli occhi accecati, la lingua gonfia e nera - saltellare a braccia spalancate come bambini piccoli e festosi che danno la caccia alla propria ombra in un oceano infinito di sabbia. M era tra coloro che avevano il compito di seppellire quegli idioti. Maneggiando funi e vanghe, mentre il sole e il mercurio si alzavano nella loro danza, ha coperto di sabbia corpi disidratati, ha spedito via anime da questo mondo con imprecazioni invece che con preghiere. È la ragione che esplode in fiamme, è la sanità mentale che brucia con maggior calore ed è il tizzone della fede che si spegne per ultimo. Oh, sì: è la fede che prolunga il tormento e la sofferenza degli uomini. M ripiega la carta oleata intorno al suo sandwich, da cui toglie con attenzione una fettina sottile di cetriolo. Dal suo posto d'osservazione ha un'ottima visuale del traffico che attraversa il canyon. Per almeno cinquecento metri ogni veicolo è in piena vista, addirittura illuminato dal sole come da un faro. M aspetta i suoi inquisitori e approfitta di questa pausa momentanea per godersi una pausa pranzo all'ombra. Ha anche tempo per meditare: sulla vita, sulla morte, sul passato e il futuro. Sull'imminente futuro dell'uomo e della donna che gli danno la caccia. Sweetheart e Strange. Sembrano un duo di vaudeville. M sorride. Ma il sorriso svanisce. Quei due, dopo tutto, non sono poi così divertenti, pensa M mentre la Mercedes verde supera una piccola salita ed emerge in piena vista. Dantes si è fatto troppo coinvolgere da quella donna. Sta giocando con il fuoco. E Sweetheart... Dopo tutto, il quinto cerchio è riservato agli iracondi. Gira la chiave dell'accensione. Allaccia la cintura di sicurezza. Regola lo specchietto retrovisore, si controlla addirittura i denti in cerca di eventuali residui di cibo. Ciò che rimane del sandwich è sul sedile accanto a lui. Rapidamente, con ordine, M raccoglie i resti di lattuga, prosciutto e pane, nonché la confezione di carta, e deposita il tutto nell'apposito sacchetto dei rifiuti.
Mentre toglie il freno e fa avanzare il furgone, preparandosi a immettersi nel traffico, si assicura che il cellulare sia a portata di mano. Il rispetto dei tempi è tutto. 25 Accelerazione Metallo con Esplosivi: questo metodo viene usato per prevedere a quale velocità gli esplosivi possono accelerare i materiali posti in contatto con loro. Paul W. Cooper e Stanley R. Kurowzki, Tecnologia degli esplosivi Ore 13.03 Per placare il caos nella mente, Sweetheart teneva lo sguardo fisso sul panorama irregolare del canyon mentre la Mercedes manovrava tra le curve e i tornanti di Topanga. Quell'ambiente di fitto fogliame, denso sottobosco e alberi alti era un sistema semplice a paragone delle complessità dell'interazione umana. Anche Sylvia sembrava lieta di concentrarsi sullo scenario. Sweetheart approfittò del silenzio per liberarsi dal suo stato d'animo precedente. Il dialogo accanto alle rovine della vecchia casa di Simon Mole l'aveva turbato più di quanto fosse disposto ad ammettere. Non voleva pensare a Jason. O a Molly. Scacciò dalla mente immagini che minacciavano di disturbare la concentrazione e focalizzò l'attenzione nell'atto meccanico della guida. La Mercedes era nel proprio elemento e scivolava tranquilla sulla strada, ignorando le ripide cunette, gli angoli irregolari, le discese rocciose di Topanga. Per chilometri e chilometri il traffico fu sorprendentemente scarso e condivisero la strada solo con pochi motociclisti, qualche pendolare e un paio di trailer per cavalli. Finché arrivarono al villaggio. Mentre passavano davanti al mercato, al magazzino di articoli di seconda mano, al ristorante e all'agenzia immobiliare, i veicoli andarono via via aumentando e la velocità di crociera si abbassò a venticinque chilometri l'ora. Di quel passo sarebbero arrivati alla costa il giorno dopo. Tre chilometri fuori dal villaggio, la Mercedes riprese velocità, toccando i cinquanta, poi i sessanta. Ma si trovavano ancora a dieci minuti buoni dall'incrocio tra Topanga Canyon Boulevard e Pacific Coast Highway e dal
ristorante. Ore 13.14 Sweetheart guardò Sylvia che frugava nella valigetta. Tese un braccio e le mise in grembo il proprio cellulare. «Adoperi il mio.» Sylvia digitò un numero, che il professore pensò essere quello di Leo Carreras. Dopo trenta secondi imprecò sottovoce. «Risponde la segreteria telefonica.» «Tra quattro minuti saremo al ristorante: potrà parlare a Leo di persona.» «Perché non ci ha reso le cose più facili, dandoci appuntamento a casa sua?» «Avrà avuto un lavoro da fare da queste parti, magari un consulto. Non è poi una gran deviazione.» Sylvia annuì, ma il professore la vide infilarsi le mani tra le cosce. Pensò fosse a causa dell'improvvisa consapevolezza di essersi mangiata le unghie per gli ultimi otto chilometri. Meglio le unghie che le pillole o le sigarette, pensò Sweetheart. Con un grosso sospiro, Sylvia si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Non li riaprì finché il professore rallentò in una curva. Erano a poco più di un chilometro dalla Coastal Highway e dall'oceano Pacifico. Qui, piccoli negozietti erano risaliti fin sul canyon e cartelli di legno e manifesti pubblicizzavano tavole da surf, fiori, hamburger e lettura della mano. Il caldo non aveva fatto che intensificare la solita folla in riva al mare. Sweetheart inserì la seconda in vista dell'incrocio, adesso poco distante. Il cellulare squillò e Sylvia sobbalzò sul sedile. Passò il telefono al professore, che abbaiò: «Sì, Luke?». «Professore?» Qualcosa non andava: la voce di Luke era tesa e ansiosa. «C'è lui sull'altra linea, dice che è un'emergenza.» «Attacca il registratore e poi passamelo» disse Sweetheart in tono piatto e urgente. Ci furono parecchi clic mentre Luke effettuava i collegamenti. Poi una nuova voce. «Furioso Flegiàs... Sei giusto in tempo per una lezione sul quinto cerchio. Tutti e due sappiamo chi è che cade così in basso...» «Le anime guidate dall'ira.» «Dantes lo diceva che sei in gamba, professore.» «Vai al punto.»
«Stai lontano dal tempio del dio Sole.» «Apollo.» Sweetheart si concentrava sulle informazioni aurali, elaborando all'istante il contenuto verbale, il tono di voce, la costruzione della frase, i riferimenti. Allo stesso tempo, controllava il traffico, i pedoni e l'incrocio poco più avanti. «Chi è che incendia il tempio?» Sweetheart colse una rapida visione di una bassa berlina con i finestrini azzurrati, poi il suo sguardo fu attirato da un furgone fermo nel parcheggio del mercato, sull'altro lato della strada. «Simon? Sei...» «Sta' zitto e ascolta» gli ordinò M. «A bordo del tuo gioiello c'è un pacco speciale, programmato per esplodere tra... un minuto e due secondi.» «Cos'hai...» «Diciamo un minuto esatto.» Clic. Sweetheart vide la propria paura specchiarsi negli occhi scuri di Sylvia. «Cominci a contare quarantacinque secondi» le ordinò. «Abbiamo una bomba a bordo.» «Oh merda.» Ma si stava già concentrando sull'orologio. «Mi dia il tempo ogni cinque secondi... a voce alta.» «Quarantacinque.» «Cos'ha portato in macchina?» «La mia valigetta, il cellulare... quaranta secondi... il computer...» Sweetheart vide l'oggetto in laminato plastico sotto i piedi di Sylvia. «È lì dentro.» Sylvia si ritrasse di scatto, piantando le unghie nella pelle della tappezzeria, ma non perse la concentrazione. «Trentacinque secondi. Non possiamo gettarla?...» Si interruppe, vedendo le auto, i pedoni e il semaforo che, a una trentina di metri, diventava giallo. «Trenta!» «Si tenga forte» ruggì Sweetheart, premendo contemporaneamente il clacson e l'acceleratore. La Mercedes schizzò in avanti, superando un furgone della FedEx, uno scuolabus giallo e una Jeep carica di ragazzini, poi zigzagò tra una decina di motociclette che arrivavano dalla direzione opposta. Il professore lesse a malapena la sorpresa sui visi dei motociclisti di mezz'età. «Venticinque secondi» sibilò Sylvia. «Mi dia la valigetta!» Lei gliela mise in grembo.
Il Bay View Restaurant, poco più avanti, era appollaiato in cima a un bastione di rocce sopra l'oceano Pacifico. A causa della costante erosione costiera, il bordo del parcheggio sulla scogliera era delimitato da una serie di paletti metallici alti un metro e mezzo, ognuno dei quali conficcato in una base di cemento armato rozzamente modellata; un nastro arancione teso tra i paletti era tutto ciò che avvertiva gli automobilisti del rischio: un tuffo a capofitto sulla rocciosa zona di marea, sei metri più sotto. Grazie a Dio, era solo un nastro e non l'abituale recinzione metallica alta due metri. Sweetheart scalò la marcia e controllò l'area; vide una giovane madre che spingeva un passeggino. La donna era al centro del parcheggio. Il professore pregò che la Mercedes fosse abbastanza robusta da contenere la maggior parte dell'esplosione. «Venti secondi...» Ma Sweetheart continuò la sua corsa, premendo sul clacson mentre guidava la macchina attraverso l'incrocio trafficato. Le auto in arrivo sterzarono a destra e a sinistra. Un massiccio bus turistico slittò in una lunga scivolata sull'asfalto. La Mercedes sfiorò altri parafanghi, prima di superare con un sobbalzo il marciapiede e tuffarsi nell'affollato parcheggio del ristorante. L'auto puntava diritta verso la scogliera. Solo allora Sweetheart frenò, gridando: «Pronta a saltare!». Con la coda dell'occhio vide Leo Carreras in piedi accanto alla porta del ristorante. «Dieci secondi!» «Adesso, Sylvia! Salti!» Strange aprì la portiera e si gettò fuori, proteggendosi con il braccio destro. Vide una macchia confusa di colori e crollò sul terreno. Uno stretto spazio che il contrassegno azzurro e bianco riservava ai portatori di handicap offriva a Sweetheart l'accesso all'oceano... sempre che il passaggio fosse stato abbastanza largo per la Mercedes. Il professore spalancò la portiera. Per favore, non esplodere... Sweetheart bloccò la valigetta di Sylvia sull'acceleratore e, quasi con lo stesso movimento, si lanciò fuori dal veicolo. Colpì il terreno e sentì esplodere il dolore in tutto il corpo. La manica della giacca di lino rimase impigliata nel metallo, mentre la Mercedes si scagliava in avanti come una pallottola di due tonnellate.
I piedi di Sweetheart si alzarono da terra, il corpo si contorse e venne trascinato per tre metri verso il bordo della scogliera. Quando fu a pochi centimetri dal vuoto, a pochi centimetri dalle rocce taglienti e dalle onde dell'oceano, il tessuto cedette come una cerniera. L'automobile volò dalla scogliera in un perfetto tuffo suicida, ma Sweetheart, esaurita la spinta, sembrò quasi galleggiare per un attimo nell'aria. Ricadde di colpo e si sentì graffiare dalla ghiaia quando finalmente si fermò, in bilico e per metà nel vuoto. Cercò a tastoni una presa e riuscì ad afferrare una radice scoperta, qualche ramo di yucca. Sentì il tuono dell'esplosione sovrastare il ruggito più basso delle onde del Pacifico. Vide fiamme e stelle cadenti. La Mercedes esplose in frantumi, sbriciolandosi. Nokotta. Sweetheart mormorò quella parola giapponese come una preghiera. Sei ancora in gara. Sei ancora vivo. 26 Le dispute sorte sul significato, l'importanza e le conseguenze dell'anarchia - specialmente riguardo alla misura in cui l'assenza di un'autorità centrale possa ostacolare le prospettive di cooperazione interstatale - sono al centro delle più recenti controversie accademiche tra neorealismo e neoliberalismo. Brian C. Schmidt, Il discorso politico dell'anarchia M osserva l'auto esplodere in un vortice mutante di metallo, vetro e plastica, fino a ridursi ai suoi elementi primari e basilari. Inserisce la prima e si immette nel traffico diretto a sud sulla Pacific Coast Highway. È ora di andare. Le forze del bene arriveranno da un momento all'altro. E M ha davanti a sé un lungo viaggio e un'importante fermata, un lavoro cruciale, prima di poter tornare all'appartamento di San Fedro. Non si volta a guardare la scena della sua più recente distruzione. Non c'è bisogno di perdere tempo. Non è niente di speciale. I suoi inquisitori non sentiranno certo la sua mancanza; sono molto indaffarati e la loro è stata una giornata estremamente intensa. Stanno cercando la verità. E nel corso di questa ricerca hanno scoperto un ragazzo, una casa, una scuola.
Nella mente di M, il ragazzo che ha abitato in quella casa - il giovane uomo che ha frequentato Oxford e l'Ucla e che poi è morto a Milano - non era nato per sopravvivere. Dal momento stesso della sua nascita, dal primo vagito, quel ragazzo era stato un disadattato, un cucciolo difettoso destinato al sacco da gettare nel fiume. Coloro che sono privi di una forte volontà, i deboli, vengono eliminati; è questa la verità brutale dell'ordine del mondo, il mondo di Darwin e della gerarchia dell'evoluzione, il quale, a sua volta, si è evoluto dalla teologia cristiana germogliata nei deserti del Negev e di Kara-Kum, trascritta da monaci febbricitanti che riuscivano a scansare malattie e pestilenze e abbellita dalla poetica di Dante e di Milton. È questa, signore e signori, la maledetta verità di Dio. Un ragazzo morto, Simon. Uno stupido ragazzo in cieca adorazione. Uno sciocco con un occhio solo e un solo braccio che ha smarrito la strada in un mondo di cui non aveva mai fatto veramente parte. Alle sue sofferenze è stata messa fine molti anni fa. M è un animale completamente diverso. La sua carne è rivestita di chitina. È nato sotto forma di bestia. Una bestia che ha assaggiato l'innocenza, l'ha trovata di suo gusto e se n'è nutrito banchettando. I suoi peccati sono troppi per essere elencati, ma non pensate che abbia paura dell'inferno di Dante. L'unica cosa di cui ha veramente paura è il nulla. Il vuoto. Il vuoto della sua esistenza. Cos'è che tiene a bada la non esistenza? L'attesa della vendetta. M si rimprovera sottovoce. Tutti questi giochetti arcaici, queste spacconate da scolaretto... Basta. Questa sera ha del lavoro da fare vicino a casa. I tocchi finali al suo capolavoro sono già cominciati. Domani scenderà il primo scalino verso il sesto cerchio dell'inferno. Altre due vite per la sua anima. 27 Ma quelli che odii li odio anch'io, e su di me assumo i Tuoi terrori come la Tua clemenza, immagine di te in tutte le cose; armato del potere che mi assegni cancellerò in un attimo dal cielo quegli angeli ribelli,
li spingerò nella triste dimora che è loro destinata, legati a catene di tenebra, al verme che non muore. John Milton, Paradiso perduto Ore 20.27 Scortata da Purcell da altri due agenti federali e da un investigatore del Dipartimento di polizia di Los Angeles, Sylvia percorse i dieci metri che la separavano dalla stanza B-103 e da John Dantes. Sono venuta a trovare un uomo per parlargli di una bomba. Ma questa volta c'erano più agenti che civili. E Leo Carreras era al suo fianco. Avevano trascorso le ultime sette ore occupandosi delle conseguenze dell'ultimo ordigno esplosivo. Quell'esperienza le avrebbe insegnato a non lasciare mai più in giro il suo computer. Nemmeno in un bagagliaio chiuso a chiave. Come previsto, la Mercedes aveva attutito gli effetti dell'esplosione. Nessuno era morto. Lividi e contusioni, sì, ma nessuno era rimasto ferito in modo grave. Neppure Edmond Sweetheart. La cui rabbia però aveva trovato ulteriore carburante. Per questa ragione, Sylvia era sollevata dal fatto che Sweetheart avesse deciso di monitorare il colloquio dalla stanza attigua alla B-103, in compagnia degli agenti di sorveglianza. Era meglio che il professore mantenesse le distanze da Dantes. Lei stessa desiderava essere sicura della propria capacità di riuscire a controllare la collera. Davanti alla porta si bloccò di colpo. «Ehi, ragazza» le disse Leo sottovoce. «Ti senti davvero pronta?» Purcell e gli altri investigatori si erano allontanati quel tanto da offrire una parvenza di privacy. Sylvia aspettò un secondo di troppo prima di rispondere. «Perché, se non è così...» Carreras aggrottò la fronte. «Vediamo di non sprecare la nostra migliore possibilità.» «Sono pronta.» Ma Leo non era convinto. Sembrava intuire che la collega aveva bisogno di qualche altro momento per calmarsi, per prepararsi. Invitandola a seguirlo con un gesto, si spostò poco più giù lungo il corridoio. «Tieni presente che Dantes è ancora sotto l'effetto dei sedativi.» «Gli hanno dato abbastanza diazepam da addormentare un elefante» os-
servò Sylvia. I muscoli le dolevano e l'abrasione sul gomito cominciava a bruciare. «Pensi di servirti del rapporto psicologico dell'Ucla?» «Qualche obiezione?» Sylvia cominciò a camminare avanti e indietro, troppo tesa per restare ferma. Leo l'aveva già messa al corrente dei punti chiave della valutazione psicologica formulata quindici anni prima, quella cioè che risaliva al primo anno di Dantes all'Ucla... e a una sua visita alla clinica studentesca. Aveva avuto una serie di attacchi e la diagnosi era stata facile: epilessia. Solo che c'era un problema: gli elettroencefalogrammi non avevano evidenziato alcuna patologia organica. Un tocco lieve riportò Sylvia al presente. Leo aveva cominciato a massaggiarle dolcemente la spalla, parlando a bassa voce: «In base alla descrizione del problema attuale, sembrerebbe che Dantes ci sia già passato: attacchi, paralisi, altri sintomi somatici... il che conferma la diagnosi di disturbo di conversione». «Dantes si è presentato alla clinica chiedendo di essere curato meno di sei settimane dopo l'esplosione della casa di Simon Mole» disse Sylvia, abbassando la testa. I muscoli del collo erano dolorosamente tesi. «Se davvero si trattava di disturbo di conversione, qual era stato lo stimolo?» «Colpa?» «È possibile.» Sylvia sollevò la testa, annuendo. «Dantes si sentiva responsabile della morte di una ragazza e della quasi morte del suo migliore amico.» «Forse era davvero responsabile» osservò Leo. «È un'ipotesi stimolante, ma non prova niente.» Sylvia si allontanò da Carreras. Il controllo, sia fisico che emotivo, le stava costando troppo. «Potrebbe essere una finzione, pura e semplice» dichiarò. La voce lasciava trasparire la frustrazione. «Sei tu che hai passato più tempo con Dantes» disse Leo. «Credi davvero che sia tutto così chiaro e netto?» Sylvia si cacciò con forza le mani in tasca. «No. Siamo circondati da fumo e da specchi.» Tornò davanti alla stanza. Attraverso la finestrella d'osservazione, vide un viso familiare all'interno della B-103: l'agente Jones. Dietro di lui, Dantes era disteso su un letto, i lineamenti nell'ombra. Sylvia si fece indietro, riportando l'attenzione su Leo. «Io dovrei essere morta. Oggi, su quella Mercedes, Sweetheart e io eravamo morti.»
Seguì con le dita le cuciture della giacca che indossava. «Ma M ha ancora voglia di giocare.» Si premette i palmi sulle tempie, cercando di calmare il mal di testa. «Tra non molto comincerà ad annoiarsi, si stancherà di giocare al gatto con il topo. Il che ci lascia una sola alternativa: prenderlo... prima che lui prenda noi.» Leo annuì, serio. «Se hai bisogno di me...» «Ho bisogno di una sigaretta.» «... io sono qui.» Ma Sylvia si era già voltata verso Purcell: «Forza, andiamo». Nella stanza d'ospedale le forme erano smussate dall'ombra. L'agente Jones sedeva rigido su una sedia di legno e leggeva con l'aiuto di una minitorcia. Alzò lo sguardo dal suo libro in edizione economica per salutarla con un cenno del capo. Sylvia lesse il titolo del romanzo: Il miglio verde. Dantes era legato sul letto di contenzione. Sul viso c'era ancora la maschera della malattia: solchi profondi gli segnavano la fronte e gli angoli della bocca, la carnagione era grigiastra, la barba incolta. Sylvia si avvicinò, avanzando lentamente fino a trovarsi all'altezza delle spalle del detenuto. «Dantes?» Prese un respiro, esaminando le proprie sensazioni; per due volte quell'uomo l'aveva mandata a un incontro ravvicinato con la morte. Le emozioni le sarebbero, servite solo se fosse riuscita a tenerle sotto controllo. Per cui, per il momento, doveva ignorare la rabbia omicida e riuscire a farsi forza, cercando equilibrio in una situazione estremamente squilibrata. Dantes piegò la testa verso di lei. Gli occhi erano aperti, ma vacui. Strange sapeva che il detenuto aveva lamentato un campo visivo limitato; il personale ospedaliero aveva inoltre notato che la paralisi del braccio era più pronunciata di quanto non fosse soltanto quindici ore fa, prima che gli venissero somministrati i farmaci anticonvulsivi. E l'avevano anche avvertita che Dantes aveva perso parte della propria capacità vocale: invece che con la sua profonda voce baritonale, comunicava in sussurri. Se stava recitando, era un ottimo attore. Sylvia si accorse che l'agente Jones la stava osservando; fu contenta di quella presenza nella stanza. Avvicinò una sedia al letto di contenzione, lasciando che le gambe di le-
gno graffiassero il pavimento. Fu un rumore stridente, ma Dantes non reagì. Sistemò la sedia in modo che lei e Dantes fossero testa a testa, poi si sedette. Questa volta gli occhi dell'uomo trovarono il suo viso. Sylvia vide che si era accorto della sua presenza, ma non riuscì a leggere la reazione. Sollievo o sfiducia? «"Beatrice"» mormorò Dantes. «"ché non soccorri quei che t'amò tanto ch'uscì per te de la volgare schiera?"» Declamò i versi con voce strascicata e una punta di ironia. Sorrise. «Sei tornata.» «Sorpreso?» «Sempre meno, dottoressa Strange.» Prese un respiro profondo. «Cosa mi è successo?» «Ti hanno somministrato dei farmaci, hai avuto una reazione.» Con uno sforzo, Dantes sollevò la testa per esaminarsi il corpo; lo sguardo passò attento dalle braccia alle gambe, come scoprendo un estraneo nel proprio letto. «Non sento più il braccio destro.» «A quanto pare, due giorni fa in carcere hai avuto una specie di attacco.» Fece una pausa, studiandolo. «Ti ricordi?» «Mi sembra di sì.» «Avevi già avuto attacchi di questo genere?» «Non ha importanza.» L'espressione di Dantes era impassibile, indifferente. «Hai mai sofferto di perdite temporanee di coscienza?» «No.» «I medici ti faranno altri esami, cercheranno cause organiche e...» «No.» Le mani si strinsero a pugno. «Sono tutti bugiardi. Io voglio parlare di te. Cos'è successo?» Lesse attraverso il silenzio di Sylvia. «Hai trovato M» mormorò. Lei non rispose e lui aggiunse: «Non posso aiutarti, se non ho informazioni». «C'è stata un'altra bomba.» Sylvia continuava a restare immobile, lottando per mantenere il controllo. La sorpresa alterò per un istante i lineamenti di Dantes. «Ma non eri tu il bersaglio.» «Come fai a saperlo?» «I tuoi occhi non vedono la morte accanto a lui?» Studiò Sylvia con attenzione. «Io direi che il bersaglio era Sweetheart.» «Perché?» Dantes non rispose e Sylvia si piegò verso di lui. «Sweetheart
è il tuo bersaglio... o è il bersaglio di Mole?» «Vedo che dopo tutto hai trovato il maestro.» Un sorriso giocò sulle labbra dell'uomo. «Come sta quel bastardo sadico?» «Healey mi ha detto di Simon.» «Ovviamente.» Dantes sbatté le palpebre. «Sweetheart incolpa me della morte di Jason.» «Dovrebbe incolpare Mole?» «Dovrebbe incolpare se stesso.» Chiuse gli occhi. «Perché?» Sylvia strinse le dita intorno alla manica di Dantes. Il cotone dell'ospedale le grattò la pelle. «È ora che tutto questo finisca.» Era così vicina da vedergli i sottili peli del collo. «Dantes, te lo chiedo per favore: aiutami, prima che sia troppo tardi.» L'uomo voltò il viso verso di lei; gli occhi si sforzarono di metterla a fuoco. Annuì, passandosi la lingua sulle labbra esangui. «Io so...» Ci fu un rumore violento quando la porta si spalancò e Sweetheart piombò nella stanza. L'agente Jones lasciò cadere il libro, si lanciò per bloccare l'intruso, ma venne spintonato da Purcell che gli sfrecciò davanti. Un attimo dopo entrarono Leo Carreras e un altro agente federale. Ma Sweetheart stringeva già le mani intorno alla gola di Dantes. «Arrogante, bugiardo figlio di puttana. Io ti ammazzo.» La voce era fredda, il corpo impassibile; solo le mani erano irrigidite nello sforzo, con le dita affondate nella carne del prigioniero. «Lo lasci!» ordinò Purcell. Sweetheart non si mosse. Sylvia gli era abbastanza vicino da leggergli il desiderio di uccidere negli occhi. Gli disse: «Lo lasci andare». Per trenta secondi rimasero tutti congelati in un violento tableau. Poi, molto lentamente, Sweetheart lasciò la presa. Dantes non disse nulla. Ma sorrideva come un pugile che avesse appena vinto un round. Ore 21.55 Sweetheart lasciò l'ospedale senza dire una parola. Sylvia aspettava Leo Carreras davanti all'ingresso principale. Purcell le teneva compagnia. Le due donne rimasero in silenzio per parecchi minuti, poi Purcell accese una sigaretta e la porse a Sylvia. Se la divisero in silenzio.
«Stasera non tornate a Santa Monica» disse l'agente, esalando il fumo. Sylvia scosse la testa. «Staremo in un hotel in west Los Angeles.» Purcell annuì. «Io vi seguirò. Usate le carte del dottor Carreras. Lei ha un cane?» Sorpresa, Sylvia annuì. «Due.» «Come si chiamano?» «Rocko e Nikki.» «Carini. Dica alla reception che accetterà solo le telefonate di Mr Rocko. La chiamerò domani mattina.» L'agente dell'Fbi rimase in silenzio mentre guardava la Lexus di Leo spuntare da dietro l'angolo dell'isolato. «Abbiamo organizzato una sorveglianza di ventiquattr'ore su ventiquattro per Sweetheart, nel caso M decida per un altro round.» «M vuole altri quattro round. Ci sono nove cerchi nell'Inferno di Dante.» Accettò la sigaretta da Purcell. Ormai era quasi un mozzicone. Aspirò in silenzio l'ultimo tiro. «Mi avete trascinato voi in questa indagine... adesso non lasciatemi all'oscuro di tutto.» «Come le ho detto, le telefonerò domani mattina, appena avrò notizie.» «E cosa succede tra adesso e allora?» «Simon Mole. Se è M, avrà pur fatto qualcosa negli ultimi quindici anni. Troveremo le sue tracce, da qualche parte lungo il percorso.» Accompagnò Sylvia al marciapiede, mentre la Lexus rallentava fino a fermarsi. «Perciò, il compito di Mosaik sarà quello di trovare una concordanza empirica» disse Sylvia. «Simon uguale M.» «Sbagliato.» Purcell le tenne la portiera aperta. «Ufficialmente, dopo il casino con Dantes, Sweetheart è fuori gioco.» «E ufficiosamente?» «Guardatevi le spalle.» Ore 23.43 Edmond Sweetheart sentiva la sua anima evaporare. L'aria calda della notte portava sussurri di bambù e il leggero scampanio degli scacciaspiriti mossi dal vento. Le tende di carta della finestra aperta frusciavano dolcemente. Il professore era a casa. Seduto nella posizione del loto sul pavimento dello studio, era circondato da bombe. Su un semplice pannello bianco che occupava l'intera larghezza di una parete erano stati ordinatamente fissati sei gruppi di fotografie, ognuno dei
quali contrassegnato da un cartello a caratteri neri. Sei titoli. Il primo diceva: HOLLYWOOD FREEWAY. Il secondo: ANARCHIA, LOS ANGELES TIMES. Il terzo: ACQUEDOTTI & ELETTRICITÀ. Quarto: LOTTIZZAZIONE SIERRA. Quinto: FRODI PETROLIFERE. Sesto: GETTY. Sotto il tabellone, e per la sua intera lunghezza, un tavolo mangiato dai tarli. Sul ripiano c'erano i complicati, dettagliati modelli di sei ordigni esplosivi, ognuno sotto il rispettivo titolo. Sweetheart lasciò indugiare lo sguardo sui suoi modelli. Ciò che vedeva era storia e civiltà. Ogni ordigno era stato una dichiarazione storica di una qualche ingiustizia commessa nei confronti della città, nei confronti di Los Angeles. Lentamente, il professore si alzò in piedi al centro del tappetino morbido. Si riempì i polmoni d'aria e poi, espirando, si accovacciò nella posizione shiko. Muovendosi a ritmo lento, sollevò una gamba, rimase così per qualche secondo e poi l'abbassò di colpo mentre espirava, pestando con forza il piede sul pavimento e schiaffeggiandosi le ginocchia; i movimenti fluirono sciolti, compiendo un cerchio completo fino a tornare alla posizione acquattata. Centoventi chili di muscoli, decisione, concentrazione. Sweetheart bloccò fuori dalla mente ogni dolore fisico. Ignorò i muscoli tormentati, i legamenti tesi. Ricominciò con l'altra gamba. Inspirare, sollevare, trattenere. Espirare, pestare, schiaffeggiare, accovacciarsi. Ripeté più e più volte lo shiko, il movimento base del lottatore di sumo. L'esercizio fisico gli schiarì la mente. Un ultimo pensiero: so cosa spinge un uomo a distruggere: un odio totale e divorante. Lo so perché me l'ha insegnato Dantes. 28 Darei qualsiasi cosa per provare di nuovo dolore. Questo diritto mi è stato rubato. Io lo rivoglio. Manifesto di Mole
Giovedì, ore 0.13 M sente che il mondo sta accelerando. Nel corso delle prossime quarantott'ore, la sua abituale dose di sonno, già minima, scenderà a qualche minuto soltanto. Sonnellini. È così che sopravviverà, da adesso alla fine. È un uomo molto, molto indaffarato. Il suo pappagallo, Nietzsche, gli tiene compagnia. M è sottoterra, nel vecchio cantiere navale di San Pedro, circondato da cemento armato, acciaio, terra e acqua. Un tempo il suo bunker era stato un magazzino sotterraneo di una fabbrica ormai dimenticata, risalente alla Seconda guerra mondiale. Il posto è perfetto, la zona abbandonata. Solo qualche vagabondo capita ogni tanto a ficcanasare. L'affitto è basso e nessuno lo vede. Il bunker è simile a molti altri luoghi che M ha conosciuto in vita sua. Buio. Chiuso. In alcuni di quei posti M è entrato volontariamente, in altri no. Da un anno a questa parte passa parecchie notti in questo grembo di cemento. Si sente al sicuro, qui. E produttivo. Molly è abituata alle sue assenze notturne. «Fa parte del mio lavoro, Faccia d'Angelo. E gli straordinari di notte significano più soldi e magari una vacanza su una spiaggia bianchissima di Tahiti o del Belize.» Ma un'intera notte fuori potrebbe preoccuparla, e mettere in pericolo l'Operazione Inferno. M non vuole che questo succeda. Non c'è ragione che Faccia d'Angelo sappia che si è licenziato due mesi fa. Sei giorni la settimana, M esce ancora tutte le mattine per andare al lavoro. Perciò ritornerà coscienziosamente in quell'appartamento soffocante, da quella gatta che perde il pelo e da Molly. Nel sonno, lei lo troverà, lo avvolgerà con il proprio corpo e con la bocca gli sfiorerà i punti più sensibili. Un fringe benefit che gli dà sempre meno piacere. Scavalca il cadavere ai suoi piedi. Attraverso la plastica, riesce a distinguere i crudi dettagli del viso. Solo un'ora fa, era una donna calda, bionda, minuta, sui vent'anni. Adesso non è che una prostituta in ghiaccio. M rimuoverà il corpo domani. Il cadavere - unitamente a un altro - fornirà la chiave al prossimo livello d'inferno. M riordina e spazza intorno al corpo. La donna ha un ruolo da recitare,
una specie di spettacolo destinato a quelli che credono di essere tanto in gamba. Nietzsche intona il ritornello di My Way. M canticchia con lui. 29 Chi è il vero peccatore? È l'assassino che uccide per una fede? O il codardo che predica la non violenza? Il nichilista che abbraccia la propria vita spoglia e tutto il suo orribile vuoto? O il moralista che trova conforto nella recita della virtù e nel "credo"? Anonimo Ore 6.49 Sylvia si alzò di scatto a sedere nel letto. Un brutto sogno. Sott'acqua, lottando per respirare, annegando. Seppellì il viso tra le mani; le guance bagnate di lacrime. Solo un brutto sogno. Non era in New Mexico e nessuno tsunami oceanico aveva invaso il deserto. Nessuna corrente le aveva strappato sua figlia dalle braccia. E lei non si era tuffata sott'acqua per trovare il corpo gonfio di Molly Redding. Rabbrividì. Nel sogno aveva confuso Molly Redding con Bella, la madre di Dantes. La madre di un bambino assassinato e una madre che si era suicidata, lasciandosi dietro un ragazzino. Proprio come Mona Carpenter. Echi da incubo di omicidio e suicidio. Essere sveglia non migliorava molto la situazione, pensò Sylvia. Era a Los Angeles, in un hotel Hilton nella zona ovest. Il giorno dopo essere sfuggita per poco alla morte. Due giorni dopo che una bomba aveva ucciso il detective Church. Scostandosi i capelli umidi dal viso, guardò l'orologio digitale dell'albergo: se non altro aveva dormito per otto ore. Scalciò via le lenzuola e andò in bagno. Accese la luce e si vide nello specchio a tutta parete: i capelli arruffati, il segno inciso dal lenzuolo su un seno, i lividi sulla coscia, le unghie dei piedi smaltate. Spense la luce. Rimase a lungo sotto la doccia bollente e poi si spalmò sulla pelle anco-
ra umida la crema idratante, gentile omaggio della direzione. Avvolgendosi nel kimono di spugna dell'hotel e sentendosi quasi umana, tornò in camera da letto, pronta a telefonare a Matt e Serena. Leo la stava aspettando con caffè, brioche e succo d'arancia su un vassoio d'argento. «Servizio in camera.» Sorrideva, ma gli occhi erano seri. «Hai l'aria di esserti riposata un po'.» «E tu come hai dormito?» «Non ho dormito» rispose Carreras, staccando un pezzetto di brioche con l'uvetta. «Purcell ha telefonato?» «Non ancora.» Leo aprì le persiane, lasciando entrare la luce del giorno e la vista sulle strade di Los Angeles. Strange si versò una tazza di caffè. Il succo d'arancia e la brioche le avevano calmato i nervi tesi, la caffeina glieli sollecitò di nuovo. «Non ho intenzione di restare qui seduta ad aspettare che quel maledetto telefono squilli» dichiarò, tuffando l'ultimo pezzetto di brioche nel caffè. «Abbiamo del lavoro da fare.» «Chissà perché, sapevo che l'avresti detto.» Leo annuì, si alzò in piedi, attraversò la stanza e aprì la porta comune che trasformava le loro camere adiacenti in una suite. Si sentì subito il ticchettio della tastiera di un computer. Si alzò in piedi anche Sylvia, curiosa. Non fu sorpresa di vedere Luke al lavoro con un computer portatile nella stanza di Leo. «Abbiamo cominciato circa mezz'ora fa» disse Carreras. «Siamo collegati al database di Mosaik.» «Bello, quell'accappatoio» osservò Luke, sorridendo a Sylvia. Leo afferrò un sacchetto a righe bianche e nere sul letto. «Ti ho fatto comprare qualcosa della tua misura. Ti vanno bene i jeans italiani?» «Vanno benissimo» rispose Sylvia. Ma i suoi pensieri non erano rivolti alla moda. «Dov'è Sweetheart?» I due uomini si scambiarono un'occhiata. «Il professore è a casa, attaccato a Mosaik, e sta esaminando migliaia di dati» rispose Luke. «Ignora gli ordini dei federali e rifiuta di interrompere le ricerche. Ha dato istruzioni precise di non essere disturbato finché non troviamo una corrispondenza per M.» «Bene» sbottò Sylvia. «Allora diamogliene una.» Raccolse una grossa pila di fogli.
«È tutto quello che Gretchen è riuscita a trovare su Simon Mole» disse Luke, rispondendo alla sua tacita domanda. «Test attitudinali e d'intelligenza, domande d'ammissione al college, lettere di insegnanti e tutor, lettere di raccomandazione, cartelle cliniche...» Fece un ampio gesto con un braccio e il pesce volante tatuato sul bicipite sembrò fremere. «Gretchen ha passato quasi tutta la notte inserendo in Mosaik campioni di testi scritti da Simon, tratti dai suoi saggi all'Ucla. Poi ha fatto un confronto linguistico con i messaggi minatori di M. Penso che stia finendo di controllare i risultati.» Le dita volavano impazienti sulla tastiera. «Nel frattempo, posso fare ricerche in qualunque direzione lei desideri.» Nella mente di Sylvia presero forma frammenti di immagini dell'incubo: donne morte sott'acqua, bambini uccisi e bambini resi abbandonati dal suicidio. Piantò entrambe le mani sul tavolo accanto al computer e disse: «Sweetheart ha detto che voleva salti intuitivi, perciò proviamo a giocare una carta a sorpresa. Vedi cosa puoi trovare su Bella Dantes». «La madre di Dantes?» Luke si grattò la testa. «Vuole qualcosa di specifico?» «Certo. E precisamente voglio sapere perché si è uccisa davanti a suo figlio. Diciamo che è una sensazione.» Ignorando gli sguardi incuriositi dei due uomini, allineò i fogli, divise a metà la pila e porse a Leo la sua parte. Era ansiosa di mettere le mani sulle nuove informazioni. Questo era parte del suo processo di inserimento dati... e parte del suo meccanismo di adattamento. Ma quale stress? Chi ha paura del lupo cattivo? Sistemata sul divano di pelle color crema, i piedi nudi appoggiati sul tavolino di vetro, inforcò gli occhiali e cominciò a leggere. Quarantacinque minuti più tardi, accompagnati dal ticchettio della tastiera di Luke e dal ronzio del computer, Strange e Leo cominciavano a capire qualcosa del mondo secondo Simon Mole. Dopo ogni pagina, ogni rapporto, iniziava a prendere cronologicamente forma un profilo: una variazione sul tema del povero bambino ricco. Sylvia scribacchiava appunti su un blocco. Leo si faceva strada tra i vari documenti con l'aiuto di una seconda caffettiera. Quando uno dei due trovava un punto di particolare interesse, lo leggeva all'altro a voce alta. «È stata la maestra d'asilo la prima a definirlo con precisione» disse Sylvia, giocherellando con il braccialetto che portava al polso. «"Simon è
chiaramente un bambino brillante e dimostra desiderio di imparare, ma non gode di molta popolarità tra i compagni, neppure durante i giochi. A volte Simon ricorre a sgradevoli interazioni passivo-aggressive per averla vinta (e addirittura a veri e propri attacchi isterici!). Questo atteggiamento lo rende ancora meno popolare, innescando così un circolo vizioso. Simon è riuscito a farsi solo un paio di amici che sembrano rispondere alle sue attenzioni, anche se queste interazioni si trasformano spesso in rivalità."» «E a mano a mano che cresceva» mormorò Leo «cresceva anche il suo narcisismo, la sua rigida schematizzazione interiore e la sua mania di grandezza.» Sylvia si tolse gli occhiali. Attraverso le finestre, la luce del sole si riversava all'interno, rimbalzando sulle pareti. «E così abbiamo esperienze della prima infanzia definite dal puritanesimo paterno, dall'apprezzamento materno e dall'iperprotezione... il desiderio di mantenere tale approvazione... e un estremo attaccamento alla sorella minore, Laura, e a sua madre.» «Non ha mai legato con il padre» aggiunse Leo. «Ma, sicuro come l'inferno, ha legato con John Dantes.» Sylvia lasciò cadere l'ultimo rapporto sulla moquette bianca. «Abbiamo la trascrizione della débàcle di ieri?» «Dantes?» domandò Luke, mentre le dita impostavano già nuovi comandi sulla tastiera. «Mi dia un minuto.» Sylvia si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra. «Cos'ha detto a proposito della bomba? Voglio le parole esatte.» Luke fece scorrere i dati e lesse. «Dantes: Hai trovato M. Non posso aiutarti, se non ho informazioni. «Strange: C'è stata un'altra bomba. «Dantes: Ma non eri tu il bersaglio. «Strange: Come fai a saperlo? «Dantes: I tuoi occhi non vedono la morte accanto a lui?» Luke rialzò lo sguardo dallo schermo. «Questo è un riferimento all'Inferno.» Riprese a leggere. «Dantes: Io direi che il bersaglio era Sweetheart. «Strange: Perché? Sweetheart è il tuo bersaglio... o è il bersa-
glio di Mole? «Dantes: Vedo che dopo tutto hai trovato il maestro. Come sta quel bastardo sadico? «Strange: Healey mi ha detto di Simon. «Dantes: Ovviamente. Sweetheart incolpa me della morte di Jason. «Strange: Dovrebbe incolpare Mole? «Dantes: Dovrebbe incolpare se stesso.» «Perché?» Sylvia si alzò dal divano e cominciò a camminare irrequieta. «Manipolazione» disse Leo. «Dantes puntava alla giugulare più vicina.» «Pensi fosse una tattica diversiva? E se invece ci avesse preso?» «A che proposito?» Sylvia si rivolse a Luke: «L'attentato al Getty... c'era qualche prova che indicasse Jason Redding come bersaglio?». «È una possibilità che è stata presa in considerazione.» Luke scosse la testa. «Ma poi è stata scartata. La gita scolastica era stata riprogrammata perché in precedenza l'insegnante si era ammalata. Non c'era modo che Dantes avesse potuto sapere del cambiamento di data.» «E M?» domandò Sylvia. «Per quello che ne sappiamo, poteva benissimo lavorare al Getty.» «Stai fantasticando, Sylvia» obiettò Leo. «I federali hanno indagato a fondo. Chiunque al museo avrebbe potuto trovare la scatola e innescare la bomba. Per una tragica combinazione, è capitato a un ragazzino curioso.» «Va bene» convenne Sylvia. «Torniamo a Dantes che punta alla giugulare. Perché Sweetheart ha perso la testa? Cos'è che lo tormenta?» Luke scosse la testa. «Se fossi in lei, non andrei a chiederglielo oggi.» «Giusto. Lo chiederò a sua nipote. Qual è il numero di Molly Redding?» Ore 14.02 Beverly Hot Springs era un'esotica caverna, scavata nelle profondità del cuore di Hollywood. Una donna dal sorriso simpatico fece entrare Sylvia e l'accompagnò nello spogliatoio dalle pareti rivestite in legno, in quel momento deserto. Sylvia lasciò gli abiti in un armadietto e si infilò al polso lo spago con la chiave. Con un grosso asciugamano di spugna sulle spalle nude, varcò una porta di legno. All'inizio pensò di essere sola. Nella penombra, il vapore
fluttuava sopra una piccola piscina. Lungo una parete si allineavano le porte di vetro delle cabine private. Poi, nel vapore e nella luce fioca di quel crepuscolo artificiale, vide una bambina. Una spettrale donna-bambina. Molly Redding era così delicata da sembrare un'adolescente. La carnagione era pallida, il viso grazioso incorniciato da corti capelli scuri. A Sylvia ricordò un nudo di Modigliani: grandi occhi, collo lungo e sottile, ossatura minuta, fianchi stretti e seno piccolo. Molly era distesa su un asciugamano accanto alla piscina. Ma la voce era quella di una donna, bassa e morbida. «Sylvia?» «Grazie per avere accettato di incontrarmi.» Sylvia distese l'asciugamano sulle piastrelle calde e si mise a sedere, lasciando dondolare le gambe nell'acqua calda che odorava di minerali. Sulle ginocchia risaltavano ancora i lividi scuri. «Questo è uno dei miei posti preferiti a Los Angeles. Lei cosa ne pensa?» «È carino.» Molly sbatté le palpebre. «Al telefono mi ha detto che lavora per mio zio. Non ho capito perché vuole parlare con me.» «Il lavoro che stiamo facendo è molto... delicato. Credo che suo zio sia sottoposto a un'enorme tensione. Forse lei può aiutarmi a capire perché.» Nella luce scarsa, la pelle di Sylvia scintillava di perle di sudore che le colavano dal collo e dal seno. Una goccia brillava nell'ombelico e un minuscolo rivolo sparì nel ciuffo scuro tra le cosce. «Mio zio cosa le ha detto di me?» L'espressione di Molly era seria, gli occhi assorti. «Molto poco» rispose Sylvia con sincerità. «So che vi siete allontanati.» «Lo può ben dire. Dopo Jason, ha smesso di rispondere alle mie telefonate.» «Ma ieri lei ha provato comunque a telefonargli.» «È stato... Io...» Molly tornò a distendersi sulle piastrelle calde e chiuse gli occhi. Le costole, definite dalla luce e dall'ombra, sembravano essere tutto ciò che le impediva di scomparire. «È stato un impulso del momento.» Sylvia entrò nell'acqua mineralizzata della piscina. Con i gomiti sul bordo piastrellato, appoggiò la testa sulle braccia. Il pigro sgocciolio dal soffitto cavernoso, i loro respiri e una debole musica di violino erano gli unici suoni nell'aria impregnata di vapore. Molly Redding era una pessima bu-
giarda; era anche molto nervosa e probabilmente si sarebbe chiusa a riccio, se sottoposta a pressioni o incalzata. La voce della ragazza filtrò nei pensieri di Sylvia: «Mio zio e io non eravamo più in contatto già da molto tempo prima che Jason morisse». «Le dispiacerebbe dirmi perché?» «Ero una tossica. O almeno è quello che diceva lui.» «E lei cosa dice?» le domandò Sylvia con gentilezza. Molly sospirò. «Lei è mai impazzita?» «Intende dire se ho mai parlato da sola o se ho visto cose sulle pareti?» «Ha mai voluto morire?» «Ho avuto i miei momenti.» Sylvia studiò la ragazza. «È così che si sente adesso?» In silenzio, Molly immerse la mano nell'acqua calda. Lasciò che il liquido le scorresse tra le dita. «No.» «Ne è sicura?» «Lo zio le ha detto che era il mio tutore? I miei genitori sono morti quando avevo dodici anni. Ma Sweetheart era troppo occupato con i suoi terroristi, i suoi demoni. Bin Laden, Ben Black, Abu Mohammed...» Rise senza allegria. «Lui pretende di essere così evoluto! Lo sa che è nato nelle Hawaii, ma ha vissuto per anni in Giappone? Ha perfino studiato il sumo.» «No, non lo sapevo.» «Ha rinunciato a tutto per diventare uno scienziato, in modo da poter misurare il mondo in millimetri. Non si lasci prendere in giro. Una volta avevo paura di lui, di quanto era in gamba. Ma se si tratta di persone, non capisce neppure gli elementi base.» «Forse passa troppo tempo con i suoi computer.» «Le macchine non chiedono amore. Non impazziscono, non hanno esigenze, non si fanno di metedrina e non restano incinte.» Il viso di Molly era quello di una bambina, la voce bassa. Scivolò in acqua e si tenne a galla con piccoli movimenti lenti. «Lei ha figli?» «Una figlia adottiva» rispose Sylvia. A occhi chiusi, si sorprese a pensare all'aria azzurra delle Sangre de Cristo Mountains. Come una biglia su una superficie inclinata, i pensieri continuavano a scivolarle verso il New Mexico. Immaginò Serena e suo padre, Cash Wheeler, intenti alle semplici cose di famiglia. In quel momento avvertì la separazione come un dolore fisico. Come ci si sentiva a perdere un figlio per sempre? «Serena ha undici anni» aggiunse. «L'età di Jason.» Il dolore si impadronì del viso di Molly. «Non riesci a
proteggerli» sussurrò. «Non importa quanto impegno ci metti, se controlli che tempo fa, se li accompagni a scuola e gli rincalzi le coperte... Non riesci a tenerli al sicuro.» «No» concordò Sylvia a bassa voce. «Una volta pensavo che Dio mi avesse punita perché ero una cattiva madre... la droga... e tutto il resto.» Molly scomparve sott'acqua, poi tornò in superficie, scuotendo la testa. «Ma adesso so che non è vero. Dio è perdono.» «Lei incolpa Sweetheart della morte di Jason?» «No...» La voce di Molly era appena percepibile. «Perché mai dovrei fare una cosa del genere?» Scosse la testa. Poi, improvvisamente, sorrise e una luce le trasformò i lineamenti; il viso prese vita e negli occhi comparve una scintilla. «Può dire a mio zio che sto guarendo.» Sylvia, che l'osservava con attenzione, avvertì una sfumatura pericolosa. Quello di Molly non era il lento ritorno all'equilibrio dopo un dolore devastante: era il passaggio maniacale dalla depressione all'esaltazione, un pendolo provocato da una reazione chimica estrema, naturale o no. «Ho un messaggio per lui» dichiarò Molly Redding, allontanandosi sia fisicamente che mentalmente. «Dica a mio zio che sto meglio.» Il respiro era veloce; sotto la pelle tesa, le costole sobbalzavano frenetiche: era il ritmo di una creatura disperatamente ferita che lottava per mantenere una fragile presa sulla vita. «Gli dica che non ho più bisogno di lui. Io sono andata avanti.» Ore 17.21 Sylvia lasciò la nuova auto a noleggio all'inserviente ed entrò nell'atrio dell'hotel. Era un indaffarato giovedì pomeriggio e davanti al banco della reception si era formata una coda. Era quasi arrivata agli ascensori, quando si sentì afferrare con forza un braccio. Si voltò di scatto, pronta a difendersi. «Come osa andare a parlare con mia nipote senza il mio permesso?» Sweetheart incombeva su di lei; il viso era una maschera rabbiosa e il corpo emanava una tensione simile a elettricità. «Quello che ha fatto è sbagliato.» Le lasciò il braccio. «Avevo cercato di parlare con lei» disse Sylvia, ignorando le occhiate della gente. «Salga in camera mia.» «No.»
«Ma si guardi! Lei è così perso nelle sue elucubrazioni da non vedere cos'ha davanti al naso. Molly è al limite. Ha bisogno di lei. Se non verrà aiutata, potrebbe...» «Uccidersi?» Il professore scosse la testa. «Conosco mia nipote. L'ho già vista al limite decine di volte. Non sta parlando di se stessa, dottoressa Strange?» «Io sto parlando dei pezzi mancanti di un puzzle. C'è qualcosa che non va.» «Qui non si tratta di Molly. Si tratta di Dantes, che sta manipolando tutti... lei più di chiunque altro.» Sweetheart si voltò e scomparve nell'atrio affollato. Sylvia trovò Leo e Luke accasciati sul divano color crema. Sul pavimento c'erano i vassoi del servizio in camera, con pasti consumati solo a metà. «Hai mancato di poco Sweetheart» disse Leo. «No, non l'ho mancato.» Sylvia sospirò e lanciò un'occhiata al monitor del computer, su cui erano allineate colonne numeriche. «Mosaik?» domandò. Improvvisamente, era di nuovo piena di energia. Leo annuì. «Gretchen ci ha trasmesso i suoi risultati.» «Abbiamo una corrispondenza tra Mole e M?» Passò lo sguardo da Leo a Luke. «Andiamo, ragazzi!» «Prima di esaminare i risultati» l'avvertì Luke «tenga presente che Mosaik punta a una Gestalt del profilo. Noi inseriamo tutti i dati - medicolegali, geografici, psicolinguistici, addirittura archeologici per quanto riguarda la storia personale - e otteniamo un punteggio numerico.» Sylvia aggrottò la fronte, impaziente. «Perciò, in teoria, quel punteggio corrisponderà unicamente al soggetto in esame.» «Esatto.» Luke premette un tasto. Il computer entrò in azione con un ronzio frenetico, inviando i dati alla stampante. Leo raccolse il foglio e lo porse a Sylvia. «Il profilo numerico di Simon Mole.» Sylvia studiò la sequenza di oltre venti numeri. «E adesso da' un'occhiata ai dati di M. Dovrebbe esserci una stretta correlazione con Simon Mole... sempre presumendo che si tratti della stessa persona.» Sylvia abbassò lo sguardo sulle equazioni numeriche di entrambe le pagine. Le linee e i grafici erano simili. Ma non identici. «Secondo Mosaik» disse Leo «ci sono cinquantasette probabilità su cen-
to che Simon Mole e M siano la stessa persona.» «È una percentuale attendibile?» «In una corrispondenza veramente buona, la percentuale è del sessantacinque per cento, o anche di più. Ma quello che abbiamo è sufficiente per andare avanti.» «Una buona corrispondenza... Ecco perché non mi sembrate molto felici.» Sylvia chiuse gli occhi. «Io credo che il nostro Simon Mole abbia un talento speciale per ricreare se stesso: si è ristrutturato completamente. Da un punto di vista psicologico, Simon e M sono più simili a due fratelli che a due cloni. Forza, ragazzi! È come cerco sempre di dire a Sweetheart: il mondo non è tutto bianco e nero.» SESTO CERCHIO... 30 Niente è più disprezzabile di un vigliacco, tranne forse chi ripone la propria fede in un vigliacco. Manifesto di Mole Venerdì, ore 0.01 Nel parco di Pershing Square la linea di faglia scintilla nel laghetto, le costellazioni riflesse catturano la luce della luna e i minerali ardono di un fuoco luminoso tra gli aranci e le palme. Le note di Verdi, tenui e dolorosamente magnifiche, volano via danzando da un tetto per rimbalzare su superfici di metallo, pietra e vetro. Paesaggio urbano, vento urbano. Queste sono le vette artistiche più alte, le rappresentazioni estetiche più notevoli della supremazia dell'uomo. Ma questo è sopra. Quindici metri sotto Pershing Square, M guarda il Ladro vomitare in una pozza d'acqua stagnante già fetida, tra rifiuti e bidoni di acidi corrosivi scaricati illegalmente. Il Ladro. È questo il nome dell'uomo, la sua identità, qui nelle viscere della città. Il Ladro è un uomo massiccio. Alto un metro e settantotto, pesa settantasette chili, ha i capelli biondi, sporchi, e gli occhi azzurri. Entrambi gli occhi azzurri, ma questo non è un problema.
Il Ladro è sudicio e M ha già previsto un bagno e un taglio di capelli. Niente di strepitoso, solo il minimo vitale. Il Ladro non è una talpa da così tanto tempo da aver causato danni irreparabili al proprio corpo. Ed è il suo corpo ciò di cui M ha bisogno. Ha scelto il Ladro proprio nel momento in cui questa patetica creatura ha cominciato la sua lunga discesa nella merda. La discesa è scivolosa, ripida, lunga, e irrevocabile. Non si torna indietro. Il Ladro se ne sta rattrappito come un animale e rabbrividisce alla luce di un piccolo fuoco, i piedi che scivolano sullo strato di cenere che ricopre il terreno. Il fumo di mille falò ha annerito queste travi sotterranee, questi pilastri di cemento che sostengono tutte quelle belle opere d'arte sulla superficie della città. Ma la cultura ha sempre vissuto e ha prosperato sulle schiene spezzate dei paria. Della gente sacrificabile, degli intoccabili. Los Angeles non ha niente da invidiare a Bombay. M sorride con comprensione all'uomo. «Perché ti chiamano il Ladro?» «Perché rubo» risponde il Ladro con voce roca. Non riesce a fermare il tremito, batte i denti. «E cosa rubi?» M gli si avvicina, attento a non spaventarlo. Hanno già parlato in precedenza. Questo non è un incontro casuale. «Tutto quello che posso» dice il Ladro, cominciando a ridere. «Ti rubo il portafoglio, i vestiti e anche la ragazza, se non è troppo brutta.» La risata si trasforma in una tosse secca. «Ti faccio un'offerta. Ti darò i miei vestiti, una volta che ti sarai ripulito. E, se farai un lavoretto per me, ti darò dei soldi.» «Sono più bravo a rubare che a lavorare» ribatte il Ladro, socchiudendo sospettosamente gli occhi nel fumo. «Si tratta proprio di rubare, amico.» M d'improvviso aggrotta la fronte. «C'è una cosa che devo dirti, però: puoi avere i miei vestiti, ma non la mia ragazza.» Ridono tutti e due. M estrae dalla tasca una pinta di buon whisky. «Vogliamo berci sopra?» «Cosa vuoi che rubi?» «Qualcosa di sacro.» Ore 0.59 Nonostante in strada sia buio, il Ladro socchiude gli occhi come se il chiaro di luna fosse accecante. Non parla molto, è un tipo silenzioso. Ma
segue M lungo le strade buie, fin nella zona dei negozi d'abbigliamento. I due potrebbero essere fratelli. Stessa altezza, stessa costituzione, stessi colori. Passano accanto al popolo della strada accampato lungo i marciapiedi, agli orgogliosi proprietari di scatoloni e casse da imballaggio. Queste sono le talpe che non hanno ancora accettato il loro fato, che non si sono ancora arrese al loro posto sottoterra. Lo faranno presto, pensa M. Arrivano a destinazione, vale a dire il Gentleman's Hotel, dove M ha già prenotato una stanza, undici dollari all'ora per persona. Qui il Ladro si ripulisce - una lavata e una rasatura - servendosi del bagno comune. Nella stanza miserabile e deprimente, il Ladro siede sul letto; il materasso è sottile e pieno di buchi. M gli taglia i capelli, mentre lui si occupa delle unghie. «Sei sicuro che non devo farmi la tua ragazza?» Il Ladro scherza agitando le mani, adesso pulite e curate. Gli abiti che M gli ha comprato sono perfetti. A giudicare dalla sua espressione, è come se d'improvviso il Ladro si ritrovasse al Ritz. La vita gli sorride. La prosperità gli mette fame. Trovano da mangiare al mercato dei fiori, dove all'una di notte la giornata lavorativa è in pieno svolgimento. Caffè bollente con panna e molto zucchero, bistecca, uova e dolci per il Ladro. Per uscire attraversano l'enorme magazzino, dove i fiori traboccano da secchi e vassoi e i profumi sono sia nauseanti come acqua di colonia da due soldi, che delicati come il miglior profumo francese. Il Ladro ruba un garofano da mettersi all'occhiello. Il furgone è parcheggiato a un isolato di distanza. M ritiene che adesso il Ladro possa salire a bordo del suo veicolo senza provocare danni permanenti in termini di sporcizia e puzza. M guida, il Ladro fischietta. M parcheggia a Chinatown. Da qui proseguiranno a piedi per cinque isolati. Il Ladro esita, quando arrivano al tombino che dà accesso alla scala e alla loro destinazione finale. «Non possiamo restare qui sopra ancora per un po'?» implora. Non vuole ritornare nel buio. Non ancora. «Non ci metteremo molto» lo rassicura M. Quando vuole, sa essere incredibilmente dolce, indicibilmente carezzevole. E così il Ladro entra di buon grado nel tombino e scende in uno spazio lungo tre metri, ampio tre e alto meno di due. In piedi, i capelli sfiorano il soffitto. È un locale di servizio abbandonato. L'aria sa di chiuso, ma la luce è vi-
vida, in modo quasi doloroso. Illumina il cadavere di donna in abiti presi a prestito, avvolto nella plastica e disteso sul pavimento. «Vuoi che rubi questo?» M sorride. Cala con violenza il manganello di gomma sulla nuca del Ladro, che spalanca la bocca e lascia colare la saliva sugli indumenti nuovi. Al colpo, sferrato in modo professionale e con forza perfetta, fa seguito un'iniezione. M lavora contento nel suo buco, dimentico dello spazio e del tempo. Nelle profondità delle condutture che partono da questo locale sotterraneo, l'eco viene sentita dalle creature che vivono nel buio. È l'eco di una risata che scorre come un torrente sotto la città. Il Ladro dormirà. Per tutta la notte, per tutta la durata dell'operazione. M infila la mano nella tasca sinistra dei pantaloni e sente con le dita la pallina, dura e rotonda. La tira fuori e la soppesa sul palmo della mano: una biglia bianca, con un disegno azzurro e nero. Si volta di nuovo verso il Ladro e si siede, appoggiandosi sulle gambe la testa dell'uomo privo di sensi. Un cucchiaio funziona a meraviglia per estrarre l'occhio, il destro, dall'orbita. C'è pochissimo sangue. La biglia si adatta perfettamente all'orbita vuota. Naturale. Non è una biglia. È un occhio di vetro. Prima di andarsene, M lega le braccia e le gambe del Ladro in modo semplice, ma sicuro, con nastro adesivo industriale. Gli chiude anche la bocca. Appoggia il Ladro contro una parete. Sistema l'occhio che ha estratto al centro del pavimento, vicino al cadavere. Quando il Ladro aprirà l'occhio che gli resta, il sinistro, è questo che vedrà: il suo occhio destro che gli restituisce uno sguardo pieno di orrore. Per ore e ore, il Ladro potrà essere in comunione di spirito con il suo occhio separato. "Per quanto riguarda il resto dell'operazione" pensa M, "bisognerà aspettare il mio ritorno." Una cosa alla volta. 31 In base allo stile e al contenuto del messaggio minatorio, ai metodi operativi, al tipo di ordigno e alla sua realizzazione, il soggetto
che dobbiamo cercare è un uomo di età compresa tra i venticinque e i quarantacinque anni, solitario, opportunista nelle amicizie e nelle relazioni interpersonali, con una preparazione nel campo dell'elettronica o dell'ingegneria e un'attività lavorativa "bassa" o comunque umile, certo non in un ruolo professionale che richieda prestazioni di alto livello e il raggiungimento di obiettivi importanti. Introduzione, Profilo Fbi, soggetto sconosciuto, alias M Ore 5.14 Sylvia sentì sbattere una porta e aprì gli occhi, prendendo lentamente contatto con la realtà. Stanza all'Hilton, diciassettesimo piano. Slip e maglietta al posto del pigiama. Macchie di rossetto sul bicchiere da vino accanto al letto; fondi di fumé blanc. Solchi sulla guancia, scavati dal cellulare vicino all'orecchio. Giusto... si era addormentata al suono della voce di Matt. Provò una fitta dolorosa al pensiero del suo amante, lontano mille chilometri. Poi un alito di panico: se non me ne vado di qui... Si mise a sedere nel letto e si stirò. Il quadrante dell'orologio digitale segnava le cinque e un quarto. Il sole si era già svegliato e dalle finestre filtrava la luce. Con un sospiro, Sylvia scostò le lenzuola e si alzò. Passò accanto al vassoio con gli avanzi dell'insalata Caesar e, andando verso il bagno, bussò piano alla porta di Leo. Carreras non rispose e Sylvia ricordò che anche lui era rimasto alzato fino a tardi. Pensò di lasciarlo dormire qualche altro minuto, mentre si faceva la doccia e si vestiva. L'acqua calda le calmò muscoli e mente, innescando i ricordi della conversazione con Matt. Sylvia aveva sobbalzato allo squillo basso del cellulare. "Ciao, tesoro. Scusami se ti chiamo così tardi. Stai bene?" "Mi manchi. Come sta Serena?" "Meglio. Ha uno sfogo sulla pelle. Il dottore pensa che sia un'allergia, non la varicella." "Sente male?" "Non proprio. Dice solo che le prude." «Pobrecita. Dio, come mi mancate! Mi mancano anche i cani."
"Anche loro sentono la tua mancanza." Era stato bellissimo ridere e condividere i piccoli fatti intimi di ogni giorno. Non avevano quasi parlato di lavoro, evitando intenzionalmente il mondo dei criminali e delle loro vittime. Ma poi Matt aveva toccato un nervo scoperto: "Sylvia, a proposito di Mona Carpenter... Robert Montoya mi ha detto che hanno portato suo marito nell'ufficio del procuratore distrettuale per interrogarlo". "Il marito di Mona? Perché?" "Domani mattina farò qualche telefonata e ti farò sapere." Poi Sylvia era scivolata nel sonno, mentre Matt le descriveva i più recenti acquerelli di Serena e una festa d'anniversario per i loro migliori amici, Ray e Rosie Sanchez. Nel bagno pieno di vapore, Sylvia si asciugò, si spalmò la crema idratante, quella protettiva per il sole e si avvolse un asciugamano sui capelli bagnati. I nuovi jeans italiani sarebbero andati benissimo per un'altra occasione; frugò nella borsa e trovò una camicia di cotone color sorbetto al limone. La sera prima, lei e Leo erano tornati a Santa Monica per il tempo necessario a riempire un paio di valigie sotto lo sguardo attento di due poliziotti del posto. Luke aveva chiuso il suo computer ed era tornato alla casa in Selma; Sylvia immaginava che lui e Gretchen avessero lavorato per gran parte della notte. Questa volta bussò con il pugno sulla porta di comunicazione. «Leo? Ehi! Leo!» Nessuna risposta. Carreras era un tipo dal sonno leggero ed era abituato ad alzarsi presto. Doveva essere sotto la doccia. Sylvia compose il numero della sua stanza e lasciò squillare il telefono una decina di volte, prima di riattaccare. Qualche secondo più tardi fu la suoneria del cellulare che la fece sobbalzare. Cercando a tastoni l'apparecchio, senza volere diede un calcio al caffè freddo sul vassoio del servizio in camera. «Dottoressa Strange, sono Purcell. Mi trovo al City Hospital. Il dottor Carreras è qui con me. Può venire subito?» «Esco subito.» Ore 7.01
Nella verità della luce del giorno, il Los Angeles City Hospital era una suora di carità completamente diversa. Spariti gli angoli misteriosi e oscuri e le ombre nere e azzurrastre della notte, adesso l'esterno dell'ospedale si appiattiva in un grigio opaco e insignificante e presentava alla città circostante un profilo anonimo, una facciata tetra. Sylvia spinse le porta d'ingresso e si fermò. La vasta area dell'accettazione le sembrò estranea. Pazienti, familiari e personale affollavano lo spazio echeggiante. Un ragazzo, seduto su una sedia a rotelle spinta da una abuelita, continuava a ripetere lamentosamente una frase in spagnolo. Sylvia raggiunse la zona di ricevimento e parlò con un impiegato dall'aria stanca, che la fissò inespressivo. Poi sentì qualcuno chiamarla per nome, si voltò e vide Purcell, che, con un cenno della testa, la invitò ad avvicinarsi. «Sa che sta diventando un'abitudine?» le chiese Sylvia. «Sì, lo so.» L'agente speciale la guidò velocemente lungo uno stretto corridoio fino a un ascensore di servizio. Erano le uniche passeggere. Una griglia metallica si richiuse rumorosa dietro le grosse porte verniciate. I vecchi pulsanti metallici offrivano tre destinazioni sotterranee, compresa la loro: B-103. «Ha intenzione di darmi una spiegazione?» «Lascerò che sia il dottor Carreras a farlo.» La discesa fu lenta e i componenti dell'ascensore si lamentarono per tutto il viaggio. Quando arrivarono, i quindici secondi che trascorsero prima dell'apertura delle porte tolsero il respiro a Sylvia. "Dio, fa' che non resti mai chiusa in un ascensore" pensò. Spazi ristretti, posti bui... meglio lasciarli alle creature furtive della notte. «Si sente bene?» le domandò Purcell. «No.» Fuori dall'ascensore, nei corridoi simili a un labirinto, l'ambiente, stranamente, cominciò a sembrare allo stesso tempo sia amorfo che familiare. Si fermarono davanti alla stanza di Dantes. Era vuota. La porta era chiusa a chiave. «Dov'è?» «In questo momento?» Purcell guardò l'orologio. «Stanno finendo l'interrogatorio all'amitale di sodio.» Sylvia scosse la testa. La voce piatta e gelida. «Perché non sono stata informata?» Sapeva che l'amitale di sodio, o sodio isoamiletilbarbiturico, u-
sato in ambito medico-legale, era stato originariamente etichettato come siero della verità. Una definizione impropria. Il farmaco era particolarmente efficace nel ridurre amnesie indotte da sostanze stupefacenti. Studi clinici avevano dimostrato che alcuni soggetti erano in grado di mentire alla perfezione anche sotto l'effetto di quella droga. Sylvia sentì dei passi, si voltò e si ritrovò a fissare il viso del dottor Carreras. Con una voce così professionale da sembrare fredda, Leo le annunciò: «L'Fbi mi ha chiesto di sovrintendere al colloquio. Sarà ancora sotto flebo per altri cinque minuti. Vogliono che tu sia lì appena si riprende». «Perché non hai chiesto la mia collaborazione?» sussurrò Sylvia. Leo deglutì e il pomo di Adamo sobbalzò visibilmente sotto la pelle tesa. «Sai benissimo che si riprenderà non appena gli toglieranno la flebo.» «Il mio rapporto con Dantes è estremamente tenue. E tutto dipende dal mio essere presente quando lui è vulnerabile.» Sylvia si sentiva tradita e arrabbiata. E forse era proprio quello il punto di tutta la manipolazione: mantenerla in una posizione di equilibrio precario. «Non stava a me stabilire la procedura» si giustificò Leo. «Stronzate.» Carreras abbassò la voce in modo che solo la collega potesse sentirlo: «Mi hanno chiamato due ore fa». Sylvia si rivolse a Purcell: «Dov'è?». «Prima porta dietro l'angolo.» «A proposito...» Sylvia si voltò. «Com'è andata?» «C'è stata una remissione dei sintomi» rispose Leo con voce neutra. «Il che conferma la diagnosi di disturbo di conversione» commentò Sylvia. Sotto l'effetto dell'amitale di sodio, i soggetti sofferenti di disturbo di conversione tendevano a riprendersi dai sintomi, almeno temporaneamente. Quelli che invece fingevano spesso esageravano malessere e afflizioni. «È vero» concordò Leo. «Il cieco ha visto di nuovo. Ma non dimenticare che Dantes probabilmente ha letto tanta letteratura medica quanto te o me.» «Può darsi.» Sylvia fece due passi verso Carreras. «Il siero ha funzionato?» «Sì.» Leo appiattì il tono, che diventò serio e ammonitore: «Non lasciare che ti prenda in giro. Può anche non servirsi di un coltello o di una pistola, ma è comunque un killer». Scosse la testa e la luce scintillò sulle lenti nel-
la montatura d'oro. «Dantes ci ha svenduto Simon Mole, alias M. L'ha fatto perché questo serve al suo scopo. Sta barattando un dinamitardo in cambio di un biglietto per andarsene da Los Angeles, più qualche privilegio. Il suo avvocato ha già presentato i termini della richiesta.» Sylvia lo fissò, i lineamenti alterati dalla confusione. «Questo non ha senso» sussurrò. «Perché dovrebbe darci Simon adesso? La scelta del momento non è giusta. Non ha niente da guadagnare. Dantes non vuole lasciare Los Angeles.» «Sul serio?» Leo l'osservò con attenzione. «I federali sono già per strada, diretti a un magazzino nel porto di Los Angeles dove, secondo Dantes, troveranno il laboratorio di M.» «Spero che trovino il loro dinamitardo» disse Sylvia. Entrò nella stanza da sola. Attraverso le pareti penetravano i rumori distanti della città e quelli di un ospedale in piena attività. Si sedette accanto al letto di contenzione e lo guardò respirare. La carnagione di Dantes era come priva di colore, con quella sorta di lucentezza spenta di chi ha la febbre. La bocca era screpolata, incrostata di saliva agli angoli. Era quasi come se Dantes fosse circondato da una foschia affollata d'ombre, come se i lineamenti fossero confusi. Le ultime gocce di amitale colarono dalla flebo nella vena antecubitale nel gomito; il cervello di Dantes era in bilico, sull'orlo dell'incoscienza. Era uno scherzo della luce, o l'uomo aveva aperto gli occhi per un attimo, richiudendoli subito dopo? Sylvia gli parlò a bassa voce: «Dantes?». Sentì il proprio Io ritrarsi, allontanarsi emotivamente, rifiutando qualsiasi forma di empatia. Jason Redding, il detective Church e altri erano morti a causa di quell'uomo. Per un istante, Sylvia desiderò potersi arrendere alla semplice chiarezza del pensiero in bianco e nero, alla polarità del bene assoluto e del male totale. Ma lei non era fatta così. Nel bene e nel male, vedeva il mondo in strati complessi, in tonalità diverse di grigio, con le sfumature di molteplici punti di vista. Era la sua debolezza... e la sua forza. Prese un respiro profondo e notò un cambiamento interiore mentre lasciava che pregiudizi e preconcetti svanissero, almeno per il momento. Cancellò i visi delle vittime, scacciò il ricordo del colloquio con Leo e i pensieri riguardanti M. Adesso si sarebbe concessa di pensare a Dantes come a un uomo che era prigioniero, di se stesso e dello Stato. La voce del detenuto la colse di sorpresa. «Gliel'ho detto...» deglutì con
difficoltà e si passò la lingua sulle labbra aride. «Di Simon.» Sylvia riconosceva la confusione provocata dal farmaco e dallo stress. Ma c'era qualcos'altro sotto quel disorientamento indotto dalla chimica. Non era in grado di definire con precisione di cosa si trattasse, non ancora. «Gli ho detto... che lavoravamo insieme... È questo... che volevano.» Un'infermiera si stava preparando a togliergli le flebo. Sapendo di avere ben poco tempo a disposizione prima che gli effetti della droga svanissero, Sylvia voleva ricavarne il massimo, ma percepiva la spaccatura che si era aperta fra lei e Dantes. «Perché hai mentito con loro, Dantes?» «Non siamo... all'altezza... di questo caso, vero, dottoressa Strange?» «L'attentato al Getty è stato un massacro calcolato che ha preso di mira dei civili.» Sylvia scosse la testa. «Io non credo che sia stato tu a uccidere quel bambino.» «È andata... male.» «Dimmi la verità.» Sylvia strinse le sbarre metalliche del letto di contenzione. «Me la devi.» «Te la devo perché hai mantenuto... la fede?» L'uomo chiuse gli occhi. «Nessuno ascolta... finché non muoiono i bambini.» «So che stai mentendo» sussurrò Sylvia. D'improvviso la stanza le sembrò fredda e molto buia. «Ma non so perché.» Gli occhi di Dantes erano fissi su di lei e le leggevano i pensieri... e ritornò la strana, inquietante sensazione che un altro animale, predatore e calcolatore, si stesse nascondendo sotto la pelle di quell'uomo. «La dottoressa Strange... vuole... un eroe... caduto.» L'infermiera, che era rimasta immobile, estrasse l'ago dal braccio. Sylvia si piegò verso Dantes e sussurrò: «Che potere ha M su di te?». Lui chiuse gli occhi. «È finita.» Ore 7.49 L'odore penetrante di prodotti chimici permeava l'intero laboratorio. "Questo è il covo di Simon Mole, di M" pensò Sweetheart. "Ma la sensazione è quella di una prigione." Era in piedi al centro del locale, immobile come un albero mentre i tecnici della Scientifica lavoravano intorno a lui. Sentiva il rumore delle onde grigie lambire le fondamenta della fabbrica, forse a un centinaio di metri.
Ma in quel silenzio un uomo poteva essere benissimo al centro del Sahara. L'ambiente, di quattro metri per sei, era ordinato e pulitissimo, praticamente sterile; la ritenzione anale era un'eccellente caratteristica per un dinamitardo che volesse restare vivo. Sweetheart pensò che ciò che stava guardando era la pelle esterna del dinamitardo. Su uno dei due tavoli di legno, accanto a un paio di occhiali protettivi, c'era una pesante maschera da saldatore. Sotto il gancio da cui pendeva un grembiule di spessa pelle, completo di maniche, c'era un paio di stivali da pescatore. Sopra un piccolo scaffale erano allineati i guanti: di pelle, di gomma e una confezione ancora sigillata di guanti da chirurgo. La misura degli indumenti era quella di un uomo di media altezza e di peso medio. Su un altro ripiano c'erano fiale e bicchieri di varie forme e dimensioni. Sweetheart ne annusò uno con cautela e riconobbe l'odore dell'acido solforico. Sacchetti di lettiera per gatti erano impilati lungo la base di due pareti. Un altro scaffale era carico di rotoli di corda: corda infiammabile per miccia, corda per detonatore, corda di nylon e corda di cotone. E cavi, isolati e nudi, di vario spessore. Il contenuto dei cassetti poteva essere quello di una cucina qualsiasi: soda caustica, lievito, zucchero, clorato di potassio, foglio d'alluminio, carta oleata e infiniti sacchetti di plastica. Attrezzi da cucina di plastica bianca erano appesi all'apposita barra. Erano state installate una cappa aspirante e una canna fumaria; il lavoro era stato eseguito con estrema cura da un uomo che sapeva il fatto suo, un uomo che sapeva come restare vivo. Poi c'era tutto l'armamentario: tubi vari, giunti, chiodi, viti, morse, chiavi, coltelli aguzzi e altri attrezzi. Gli investigatori non erano stati così fortunati da trovare una bomba in corso di fabbricazione. Questo perché Simon, o M, era un tipo in gamba: quando cominciava un lavoro lo portava sempre a termine, poi ripuliva e sistemava tutto. Sebbene all'esterno fossero stati piazzati agenti nascosti, Sweetheart dubitava molto che M sarebbe mai tornato: gli istinti del dinamitardo erano troppo acuti. Il professore si sorprese a provare una specie di rancoroso rispetto. Chiuse gli occhi, sforzandosi di afferrare i pensieri elusivi che gli sfrec-
ciavano nella mente. Percepiva la presenza di M... ma lì dentro c'era pochissimo dello scolaretto di nome Simon. Sweetheart salì gli scalini che portavano al livello della strada. Davanti alla porta del seminterrato, un lampo di colore richiamò il suo sguardo. Si chinò e raccolse un'unica piuma azzurro-verde. Quando si raddrizzò, vide Sylvia a un paio di metri da lui. Non ne fu sorpreso; provò sollievo, e forse piacere, nel vederla. «Cosa ne pensa?» le domandò, indicando la stanza con un cenno del capo. «Credo che si tratti di M.» Sylvia aggrottò la fronte. «Ma si è evoluto ben oltre Simon Mole.» «Questo non è un deshi» disse Sweetheart, annuendo. «Non è un apprendista. Questa è la casa di un makuuchi: un maestro.» Sylvia indicò la piuma che Sweetheart teneva delicatamente tra due dita: «Un maestro con un pappagallo». 32 «C'è un limite di velocità in questo Stato, Mr Neff. Settanta chilometri l'ora.» «A quanto andavo, agente?» «Direi sui centoquaranta.» Billy Wilder, Raymond Chandler, La fiamma del peccato (sceneggiatura) Ore 7.50 M è al volante di una bomba di due tonnellate e mezzo. Mantiene una tranquilla velocità di ottanta chilometri l'ora sulla corsia di destra della I-10, la San Bernardino Freeway. È circondato dalla città, il diavolo-femmina che divora lo spazio aperto, così come la marea divora la sabbia. Un'ora fa si è fermato poco più a est di San Berdu. Il terreno piatto e marrone gli ha ricordato altri deserti, sempre ai confini del mondo. Un posto adatto per scambiare la sua auto con questo lucente, argenteo camioncino per la vendita di fast food. Controlla la propria posizione: si trova a circa cinquanta chilometri dal centro di Los Angeles, il che va benissimo. Non c'è tempo per andare a trovare i suoi amici, il Ladro e la puttana. Ma non importa, aspetteranno.
Però ha tutto il tempo di portare il camioncino al punto stabilito. Più tardi, un tizio che ha bisogno di qualche dollaro lo guiderà fino alla sua destinazione finale. Il tizio non ha fatto domande. In realtà, solo un pazzo vorrebbe sapere che questo carico di Anfo è innescato con esplosivi di scarsa qualità che arrivano fin dal New Mexico; una falla nelle antiquate leggi dello Stato incoraggia un sano commercio di esplosivi rubati. Richiedi il modulo giusto all'ufficio competente della tua contea, compilalo, sorridi all'impiegato, lascia cadere qualche nome di gente che lavora nel ramo e te ne vai con il permesso di comprarti un camion di morte. E tutto secondo la legge. Gas di scarico, chilometri e minuti evaporano dietro il camioncino. Il panorama va gradualmente riempiendosi come un gigantesco puzzle, finché l'intero tavolo da gioco è coperto... di condensazione urbana: centri commerciali, negozi, zone industriali, condomini, palazzi, grattacieli. La I-10 penetra nel centro di Los Angeles e poi sfreccia diritta verso la 101 nord, l'Hollywood Freeway. Il luccicante camioncino del fast food finirà parcheggiato al centro di un garage sotterraneo, eco dell'attentato al World Trade Center. Gesù, quegli idioti erano quasi riusciti a distruggere le Twin Towers, facendole saltare fino in cielo... Una passeggiata, e loro invece hanno incasinato tutto... Ma è così che va, quando l'orbo guida i ciechi. Per evitare che le guardie del servizio di sicurezza diventino troppo curiose, ci sarà un foglietto a decorare il parabrezza del camioncino: "In panne. Torno appena possibile, Manny". Manny, l'autista del vero camioncino, si prenderà un giorno di vacanza. Ma M sta correndo troppo avanti. Adesso cambia corsia e si immette su Hollywood. Dopo circa un chilometro e mezzo, prende Echo Park verso Sunset. Peccato che non ci sia il tempo di passare per Elysian Park e salutare il Dodger Stadium: M è un fan appassionato di baseball. Subito dopo Sunset, rallenta, volta a sinistra ed entra nel parcheggio di Ralph's. I clienti del supermercato sono in piena attività e il parcheggio è pieno. M sistema il camioncino in un posto all'ombra. Passa un ragazzo e la sua radio urla rabbiosa: "Going back to Cali, Cali, Cali, I'm going back to Cali... I don't think so". M si fa a piedi i due isolati fino al suo furgone. Una volta a bordo, apre il computer, lo accende, scrive un breve messaggio e-mail e lo spedisce nel cyberspazio.
Questo dovrebbe solleticare i loro appetiti. M è stato in piedi tutta la notte e si sente splendidamente. Innescato. Pronto. Presto sarà ora di scendere al settimo cerchio. Per farlo, M deve prima chiudere tutte le operazioni in uno dei più indaffarati palazzi del centro città. 33 Almeno sappiamo che la famosa triade - incendi dolosi, enuresi notturna e crudeltà verso gli animali - non sempre è valida. Agente speciale Mackavoy, Laboratorio criminale Fbi Ore 10.03 Fu Gretchen a scoprire il cybermessaggio arrivato alla centrale operativa di Sweetheart. perso la strada? nuova città sorge su vecchie rovine polvere alla polvere settimo cerchio aspetta. M Il messaggio innescò una catena di eventi, cosa che certamente M aveva previsto. I federali collaboravano di nuovo con Sweetheart. Gli chiesero di far sì che la sua squadra si concentrasse sulla rudimentale mappa rinvenuta nella cella di Dantes tre giorni prima. L'opinione generale era che ci fosse un collegamento diretto tra la prossima mossa di M, il settimo cerchio, e le informazioni contenute in quell'unico foglio di carta. Sylvia lasciò le sue valigie in una delle molte stanze per gli ospiti di casa Sweetheart, poi tornò nella sala operativa. La prima persona che incontrò fu Gretchen, che le consegnò numerosi libri. A giudicare dai titoli, storie di Los Angeles. «"La nuova città sorge su vecchie rovine"» citò Gretchen. Dietro gli occhiali dalla pesante montatura di tartaruga, i grandi occhi azzurri fissarono Sylvia. «Quasi dimenticavo.» La ragazza si voltò e raccolse un fascio di stampate dalla scrivania. «Bella Dantes. Lei voleva sapere del suicido, così ho fatto ricerche sulla sua storia clinica, per esempio eventuali cure psichiatriche. Non ho trovato niente sotto Bella Dantes... il che spiega come
mai la stampa non ne abbia mai parlato.» Si sistemò gli occhiali. «Così ho cercato sotto Caldini, il cognome da nubile.» Sorrise. «Bingo: Bella Caldini ha passato due settimane al County General nell'ala di stretta sorveglianza. Ed è stata ricoverata di nuovo circa sei settimane prima del suicidio. I medici ritenevano che fosse una schizofrenica ad alto funzionamento.» «Sei un genio» disse Sylvia, sistemando i fogli sopra i libri. «Lo so.» Gretchen le strizzò l'occhio. «Le abbiamo preparato una scrivania nell'ufficio accanto alla camera degli ospiti dove dormirà. Oppure, se vorrà reclamare il suo territorio qui con noi, sarà la benvenuta. C'è una caffettiera di espresso appena fatto. Sa già come funziona tutto.» Nell'area di lavoro principale, Sylvia scelse un'ampia poltrona in pelle in un angolo. Di fronte a lei, Gretchen analizzava l'ultimo messaggio di M per quanto riguardava contenuto verbale, sintassi, anomalie e modelli linguistici. La grande sala era immersa nella luce del sole. Il terrier e il bulldog erano distesi beatamente sul tappeto. Sylvia cercò di concentrarsi sui libri di storia, ma la luce le faceva dolere la testa. Pensando che un buon espresso potesse aiutarla, se ne versò una tazza. Mentre sorseggiava il caffè, ripensò alla breve conversazione telefonica con Leo Carreras: "Perché non mi hai detto del colloquio con l'amitale? Bastava bussare alla porta, darmi un colpo di telefono". Leo non aveva avuto esitazioni: "Se l'Fbi vuole tenerti informata, è compito suo, non mio". "Qui non si tratta della condotta dell'Fbi. Stiamo parlando di noi due. Io mi fidavo di te." "E io invece ti amo. Ma questa non è una novità... sappiamo tutti e due quello che provo, fin dal primo giorno che ti ho vista. Il buon, vecchio Leo, l'amico su cui si può sempre contare... Le cose non vanno sempre come vogliamo noi." "Leo..." Cosa aveva voluto dirgli? "Sei sicura che non stai cercando di salvare l'anima di Dantes?" le aveva chiesto finalmente lui. "I buoni e i cattivi: devi scegliere da che parte stare, Sylvia." Il ricordo si dissolse e lei si ritrovò a studiare la mappa ingrandita dell'Inferno di Dante Alighieri appesa alla parete. Adesso una puntina da disegno rossa contrassegnava il confine interno del sesto cerchio e il bordo
esterno del settimo, dove qualcuno aveva scritto in un preciso stampatello PECCATI DI VIOLENZA. Dal settimo cerchio l'inferno scendeva all'ottavo... per sprofondare poi nell'abisso del nono e ultimo cerchio. Ore 12.39 In contrasto con la luce accecante del giorno, l'ufficio di Luke era immerso in una lunga notte polare. Il riflesso verde-violetto di cinque o sei monitor faceva ben poco per disturbare quell'oscurità cavernosa. Luke aveva l'espressione fissa di chi dorme metà del necessario. I capelli biondi erano ispidi come spighe appena spuntate. Il pesce volante tatuato si librava sul bicipite gonfio. I piedi si muovevano seguendo un ritmo che nessuno sentiva. Sylvia sapeva esattamente come si sentiva il ragazzo: frustrato, ossessionato, iperteso. In quel momento Luke fissava immobile un grande monitor. Da sopra la sua spalla, Sylvia studiò i simboli, cercando una topografia urbana familiare, qualcosa che assomigliasse a Los Angeles. Senza voltarsi, Luke disse: «È la mappa della rete di manutenzione della contea». «Quindi è sottoterra?» «Questa è l'infrastruttura sotterranea di Los Angeles.» Il ragazzo le offrì un sorriso stanco. «L'Inferno.» Sylvia si chinò, cercando di trovare qualche punto di orientamento. Il braccialetto al polso sinistro catturò una scheggia di luce e poi la lasciò andare. «Dov'è il centro città?» Luke indicò un'area nel quadrante destro superiore del monitor. «Lo veda come un grattacielo, solo che si sviluppa verso il basso invece che verso l'alto. A un metro o due sotto l'asfalto abbiamo le cabine dell'elettricità e dei telefoni. Anche le gallerie del gas e dell'acqua partono da questo livello, poi scendono per circa due metri e mezzo. Al livello successivo ci sono le tubature del gas, quindi quelle dell'acqua, poi il vapore, le fognature. Le gallerie della metropolitana possono essere dai cinque ai sessanta metri sottoterra. E, sotto tutto questo, ci sono gli scarichi e i tunnel per il drenaggio dell'acqua piovana, che sono anche le condutture più grosse.» «Il ventre della città» commentò Sylvia sottovoce. «Una volta ho preso un pugno proprio nella pancia» disse Luke, appoggiandosi allo schienale, le mani dietro la testa. Alzò lo sguardo su Sylvia e
le sorrise. «È stato strano. Mi sono ritrovato disteso sulla schiena, a guardare dal basso quello stronzo di motociclista. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a respirare. Continuavo a pensare solo che aveva un tatuaggio più bello del mio.» «Un tatuaggio di cosa?» domandò Sylvia, ricambiando il sorriso. «Un angelo...» Luke mimò generose curve femminili. «Ehi, ero semincosciente!» «Quindi cosa succede, se una città si prende un pugno nella pancia?» «All'epoca in cui stavamo dando la caccia a Ben Black, dopo che era scappato agli iracheni, abbiamo messo le mani su certe informazioni di intelligence: Ben Black aveva elaborato un piano per attaccare New York.» Luke si mosse sulla poltroncina, facendo gemere la pelle. «Non stiamo parlando semplicemente di una cosa tipo Oklahoma City o World Trade Center. Doveva essere un attacco simultaneo a obiettivi molteplici, tale da mettere la città in ginocchio per giorni, da impedirne il funzionamento per mesi... forse da alterarne addirittura le strutture di potere economico.» «E?» lo sollecitò Sylvia. «Ovviamente non è successo. New York è ancora in piedi. Abbiamo ricevuto quel rapporto due settimane prima che i missili americani distruggessero il campo d'addestramento.» «E se Black non fosse stato ucciso?» «Uno di questi giorni verrà colpita una delle principali città statunitensi. Una variazione sul tema della bomba al World Trade Center. Oppure, scenario più probabile, un attacco con armi batteriologiche.» «Sareste arrivati a Black senza Mosaik?» «Mosaik ci ha portato solo fino a un certo punto.» «Spiegati.» Sylvia abbassò il viso a pochi centimetri da quello del ragazzo. Luke fissò lo schermo, cambiando le immagini, tuffandosi in uno strato ancora più profondo sotto Los Angeles. Scosse la testa, la voce bassa: «Diciamo che la fortuna non ha guastato». Ore 16.21 Il calore del sole soffocava Los Angeles, agitando molecole, comprimendole, colorando il cielo di un bianco sporco. Nella casa del professore avrebbe potuto essere mezzanotte ad Anchora-
ge: le luci erano dolorosamente brillanti, l'aria condizionata gelava l'atmosfera e i computer ronzavano ossessivi. Sweetheart era scomparso nel suo studio privato. A Sylvia facevano male gli occhi per aver esaminato troppe pagine, vecchie mappe dei pueblo di Los Angeles. Fece uno scatto, quando sentì posarsi una mano sulla spalla. «È ora di fare una pausa.» Luke sorrise. «Vuole seguirmi, dottoressa Strange?» L'uomo delle mappe la guidò in un nuovo territorio. Mentre attraversavano un'ampia sala dalle pareti decorate con acqueforti e monotipi incorniciati, Sylvia colse rapide visioni di un'antica Londra rurale, della Parigi ottocentesca, di New York e della Los Angeles di fine secolo e ai tempi della dominazione spagnola. Una parete intera, dal pavimento al soffitto, era coperta da una stampa di Los Angeles. Il vecchio si fondeva con il nuovo, una ragnatela di antichi acquedotti spagnoli, ferrovie e binari di tram del periodo del boom, funzionalismo dal déco al postmoderno. Al posto di altra vegetazione, pozzi petroliferi, enormi cartelloni pubblicitari di film e palme. L'impressione era quella di una città inventata, e non di storia. Sylvia stava studiando l'immagine con tanta attenzione che quasi andò a sbattere contro Luke, che si era fermato. Si accorse che alla sua destra c'era una porta; dapprima pensò che desse in un ripostiglio, ma Luke l'aprì ed entrò. Lei lo seguì e salì con lui le due rampe di una stretta scala che portava a un terrazzino quadrato di due metri e mezzo di lato. Con l'eccezione di una massiccia magnolia e di un vecchio salice, si trovavano al di sopra della linea degli alberi. A occidente, Los Angeles si stendeva dalle colline alla costa; isolati in miniatura erano disposti in irregolari griglie rettangolari; le principali arterie attraversavano la città come nastri di un pacco dono. «Tutti noi abbiamo le nostre ragioni per lavorare a questo progetto» disse Luke, appoggiandosi alla ringhiera. Sylvia si voltò verso di lui, che si strinse nelle spalle. «Il cugino di Gretchen era un esperto che lavorava in Europa alla bonifica della rete di gallerie dalle trappole esplosive rimaste dalla Seconda guerra mondiale. Entrambe le parti hanno usato tonnellate di mine e di altri esplosivi. Lei sa che ancora oggi vengono disinnescati ordigni di quel periodo? Il cugino di Gretchen è morto l'anno scorso. È saltato in aria ed è rimasto sepolto sotto una montagna di roccia. Non sanno ancora se la bomba era tedesca o inglese. Ma che cazzo di importanza ha?»
«E tu? Qual è il tuo motivo?» «La maniera in cui va il mondo. Internet, i pazzi e l'accesso a qualsiasi materiale, i pensieri malvagi...» Il dolore gli invecchiava il viso. «Non voglio dimenticare Jason. Un giorno voglio avere dei figli. E voglio che possano crescere e avere a loro volta dei figli.» Sylvia annuì, poi si voltò a guardare il mondo. Presto il crepuscolo sarebbe sceso sopra una città dove abbondavano i profeti urbani: la svolta del duemila non aveva fatto nulla per mitigare le previsioni di disastro. La rovina poteva arrivare con cataclismi naturali come i terremoti, gli incendi, la siccità; poteva arrivare tramite rivolte e altri prodotti del crollo sociale ed economico; poteva arrivare con atti di terrorismo. Se il nemico fosse stato abbastanza in gamba, abbastanza potente e ricco, avrebbe potuto storpiare uno dei maggiori centri urbani del mondo. No: non avrebbe potuto... l'avrebbe fatto, un giorno o l'altro. E quel momento stava arrivando, proprio come aveva detto Luke. Anche lui stava seguendo la stessa linea di pensiero. Disse: «Le città nascono e hanno una vita, economica, culturale e sociale. Cicli di crescita ed espansione. Credo però che tendiamo a dimenticare l'altro lato del ciclo: prima o poi muoiono. Sopravvivono per un po', ma a fatica, fino a svanire. Oppure vengono spazzate via dal vento, portate via dalle maree». Sylvia assenti. «Nel Sudovest ne abbiamo degli esempi. Le rovine anasazi: Chaco Canyon, Mesa Verde, Canyon de Chelly.» «Proprio così. Intere civiltà, con calendario, astronomia, complessi scambi commerciali, religione e organizzazione familiare, scompaiono quasi da un giorno all'altro. Il Messico, il Sudamerica, l'Africa, il Medio Oriente... sono tutti luoghi che vantano civiltà fantasma, fiorenti centri di cultura trasformati in polvere. Non vorrei sembrare catastrofico, ma anche nel ventesimo secolo uragani e terremoti hanno alterato il futuro di importanti aree urbane. L'uragano che ha distrutto Galveston ha creato un altro mega agglomerato: Houston-Dallas-Fort Worth.» Si strinse nelle spalle. «Così è la vita.» Sylvia appoggiò i gomiti sulla ringhiera. Tutte le città muoiono. L'energia urbana cambia percorso, così come il sangue smette di affluire a un organo morente: il cervello lo reindirizza verso altre, più produttive parti del corpo. Ma Los Angeles era ben lontana dal morire. A meno che non l'avesse vinta M. La luce esplose riflettendosi su un gruppo di grattacieli argentei lungo
Sunset Boulevard: le ultime scintille del giorno che cedeva alla sera. Sylvia chiuse gli occhi e le sembrò di sentire la città in ogni cellula del proprio corpo. Ma si stava già spostando in un altro mondo. New Mexico. Una sera di luna in ottobre... una passeggiata nel Chaco Canyon con Matt: ombre, buio contro la luce. Il grido dei coyote. Era stata Sylvia a fare strada lungo il sentiero che portava a Casa Grande. A un certo punto un gufo aveva gridato e quell'urlo primitivo aveva come tagliato l'aria secca della sera. Qui, per centinaia di anni, erano nate e si erano succedute le generazioni. E poi erano scomparse, lasciando dietro di sé strade, calendari, sistemi per misurare il tempo, edifici per assemblee, tombe; i fantasmi delle loro realizzazioni, perché gli archeologi li potessero poi trovare e studiare, interrogandosi perplessi. Lei e Matt si erano fermati tra. le rovine dell'antico pueblo. Soli nel deserto, si erano rifugiati all'interno di una piccola casa e avevano fatto l'amore sulla sabbia. Quella notte, una volta tornati sotto la loro tenda, la pioggia l'aveva svegliata prima dell'alba e, per qualche ora, aveva pensato di udire le risposte sussurrate ad antichi segreti. «Sylvia?» La voce di Luke la raggiunse attraverso lo spazio e il tempo, riportandola al presente, alla realtà urbana. Il ragazzo sembrava irrequieto, pronto a tornare al lavoro. «Si sente bene?» «Sì, benissimo. Verrò tra un minuto.» Luke si allontanò senza dire una parola e scese la scala due gradini alla volta. Sylvia si concesse dieci minuti. In quell'arco di tempo il sole si abbassò verso l'oceano, oscurando il cielo finché la città fu avvolta nell'ombra. Gli Anasazi avevano intuito la fine del loro mondo? M stava scavando nel passato. Se tutto fosse andato come voleva, quanto tempo sarebbe passato prima che Hollywood raggiungesse Babilonia? Come una sonnambula, Sylvia tornò nella sala delle mappe, dove sentì subito il ticchettio della tastiera. Luke le dava la schiena e lo schermo lampeggiava colori, forme e testi. Dopo qualche minuto sembrò fermarsi su un'immagine solitaria. «Hollywood-Babilonia» disse Sylvia. «La mappa... prova Babilonia.» 34
I crimini contro la società comprendono l'acquisizione di risorse naturali con mezzi illegali; in casi del genere, i criminali sono di gran lunga peggiori dei ladri comuni, dato che la loro avidità condiziona il futuro della città. Sistemi di correzione che implichino l'uso della forza non solo sono giustificati, ma addirittura necessari. L'Inferno di Dantes, da un articolo pubblicato sul "Los Angeles Times" il 7 novembre 1999 Ore 16.48 In piedi sulla sommità della Porta di Ishtar, M osserva il degrado urbano noto come civiltà occidentale. Sa che sotto le sue gambe c'è un passaggio che scende nel mondo sotterraneo. È proprio attraverso questo passaggio infernale che, al suo comando, correrà la prossima bestia, portando distruzione nel suo alito di fuoco. La bestia arriverà fino in cima a questa torre di vetro e acciaio, a questo cuore dei trasporti, proprio come Mosè salì sul monte Oreb per toccare, per un unico, stupefacente istante, la mano di Dio. M solleva la testa e fissa direttamente l'orbita pulsante del sole. Io sono qui. Uccidimi con un fulmine, se ci sei. Sarebbe proprio uno scherzo grandioso. Naturalmente non succede nulla, a parte il sole che gli irrita vecchie cicatrici. Falso Dio. Spaccone. Nessuna rivelazione divina che, dopo tutto, è il penultimo fardello. M dovrebbe essere contento di non avere illusioni religiose. La sua risata risuona sulla terrazza sbiancata dal sole. Solleva le braccia e comincia a ruotare lentamente su se stesso. L'anima gli è stata bruciata molto tempo fa. Maestro del giorno del giudizio. Quante volte ha sentito queste parole. Gli ricordano il sapore del sangue. Del proprio sangue. Gli uomini che, piegati sulle mani e le ginocchia, pregavano tutti i giorni erano anche diligenti nell'infliggere le loro torture. Non occorre molto tempo per spezzare un uomo. È una cosa che si può fare rapidamente e a poco prezzo. Gli ho venduto la mia anima, pensa M. E loro hanno creduto di aver comprato qualcosa di valore.
Gli ho venduto aria. Aria del cazzo. Si avvicina al bordo del terrazzo e si ferma così vicino al baratro da sentire la calda corrente ascensionale tra gli edifici. Un uccello bianco si libra nell'aria. Un gabbiano, a caccia nel mare urbano. M sorride e si volta. La giacca si gonfia dietro di lui come un'ala di stoffa. Se avessi un'anima, adesso volerebbe giù dal bordo. L'uccello cambia rotta con un movimento leggero delle penne. Ma la rotta di M è già fissata. Ha trascorso mesi programmando, raccogliendo dati, preparandosi. Proprio come per il progetto Getty dell'anno scorso, per il quale aveva elaborato minuziosamente ogni passo, dall'ideazione fino alla serata di gala. Edificio per edificio... esame del sito e preparazione, mappatura, accesso ai trasporti, infrastrutture di servizio, fondamenta, realizzazione della struttura, ambiente circostante, disposizione dei giardini ed esecuzione. E durante tutta questa fase, in compagnia del modernista Richard Meier e dell'espressionista astratto Robert Irwin, M aveva lasciato il suo marchio su uno dei principali centri culturali della città. Niente del suo lavoro era visibile a occhio nudo... o almeno non lo sarebbe stato prima del colpo di grazia finale. Ma ogni volta che urbanisti e architetti innalzavano lodi poetiche al Getty, parlando di visione euclidea, struttura aristotelica, unità dogmatica e caos tematico, M si era goduto in silenzio la consapevolezza che il proprio seme era stato piantato, e poi coltivato, dalla complicità corporativa. La collaborazione era una cosa così bella. Inconsapevole come la donna che a bordo di un volo internazionale porta con sé una strana borsa dopo che il suo fidanzato rivoluzionario l'ha salutata con un bacio: "Telefonami appena arrivi, tesoro". Il Getty, quel bastione postmoderno del classicismo, era stato il custode della sua creazione artistica: blocchi di cemento imbottiti d'esplosivo e incassati nel sistema di condizionamento; ulteriore esplosivo nella conduttura sovrastante i blocchi manipolati. Nessuno aveva fatto domande a un uomo in uniforme. E poi il detonatore, sensibile al movimento, che utilizzava esplosivi da innesco, altamente reattivi anche in dosi minuscole, per attivare l'esplosivo principale. Il tutto confezionato all'interno di una scatola magica, una vera opera d'arte. Il marchio di fabbrica del dinamitardo. Apri la scatola e... op là Il perfetto gioco preliminare amoroso, il treno
esplosivo. Dopo molti esperimenti, M aveva optato definitivamente per la trappola esplosiva che innesca una reazione a catena ritardata. Il che significava che Pandora doveva alzare il coperchio. Ah, ma tanto lo faceva sempre... In guerra la gente muore. Bum. «Per le sei finiamo.» Una voce lo strappa ai ricordi. L'ironia della situazione: mentre questi operai lavorano duramente per costruire, lui lavora duramente per distruggere. Al piano di sotto ci sono circa dieci uomini; stanno terminando il lavoro, rispettando i tempi del loro programma. Ma per i progetti di M, sono in ritardo di due giorni. Questo edificio verrà chiuso durante il weekend... una città fantasma di grattacieli. È ufficiale. M ha parlato con il supervisore, Jack, che adesso lo raggiunge sul terrazzo e gli dice: «Conto proprio sul certificato di abitabilità, altrimenti... be', potremmo avere dei casini con la prossima ristrutturazione». Jack estrae un pacchetto dalla tasca e offre una sigaretta a M. Tutti e due accendono e mandano altro fumo sulla città. «Non prevedo problemi» dice M, sorridendo. «Ho la sensazione che passerà tutto senza difficoltà.» Scrolla le spalle, comprensivo perché conosce la prassi: permessi della città, approvazioni, bustarelle. «Però, ehi!» continua M «sembra proprio che gli ispettori debbano sempre farti passare dei guai, altrimenti hanno l'impressione di non essersi guadagnati gli straordinari.» Jack concorda con una risata: «Per quello che mi riguarda, gli statali non sono molto meglio di quelli che campano con l'assistenza pubblica». M annuisce. «Sì, non c'è paragone con il settore privato.» Con la sigaretta nell'angolo della bocca, si china sulle ginocchia e comincia a srotolare il primo schema. «Allora... diamo un'occhiata a questa roba, così poi l'inserisco nel nostro computer.» Socchiude gli occhi nella luce del sole. «Le condutture del riscaldamento passano di qui... gli scarichi qui...» E così via. Dopo una mezz'ora di onesto lavoro, Jack scende di nuovo per raggiungere la sua squadra e M resta sul terrazzo, a pensare al suo camion carico di Anfo. Il World Trade Center... Oklahoma City... l'Università del Wisconsin negli anni Sessanta. Il nitrato d'ammonio, piazzato strategicamente vicino alle colonne portanti, è tuttora il sistema più efficace per provocare mas-
sicci danni strutturali. Un uccello emette un grido esigente; si butta in picchiata, cercando qualcosa da mangiare. M si siede su una trave e accende il portatile. Accarezza i tasti, apre file. Sullo schermo compare la mappa. A colori. La città delle città. La vetta più alta della civiltà. Battendo sui tasti, M comincia i suoi calcoli. Quanto potere distruttivo possiede oggi? Un misurino di C-4. Tre di Anfo. Due di carburante per aereo. Un vero cocktail party. In attesa del tocco di Dio: seicento volt. Batte altri comandi sulla tastiera e lo schermo impazzisce di colori e immagini, finché compare una griglia. È una mappa di Los Angeles, ma non la solita pianta stradale. M ha messo le mani sul sistema nervoso della città... dal porto, San Pedro e l'aeroporto di Inglewood a Marina Del Rey dove il Ballona Creek manda metà degli scarichi pluviali del centro città nell'oceano - alla sala operativa in Alhambra, dove vengono controllate e coordinate quindici dighe. È questo il progetto che farà sembrare un gioco da bambini l'esplosione della Porta di Ishtar. È tutto parte del karma urbano universale, pensa M sorridendo. Ma, prima, vita e morte nel settimo cerchio. SETTIMO CERCHIO... 35 Addio, campi felici, dove la gioia regna eternamente! E a voi salute, orrori, mondo infernale; e tu, profondissimo inferno, ricevi il nuovo possidente. John Milton, Paradiso perduto Sabato, ore 0.12 Le maniche arrotolate fino al gomito e le mani dietro la testa, Luke era disteso sul pavimento e guardava in alto, verso il soffitto a cupola riempito da una città in miniatura. Sembrava esausto, assorto e soddisfatto. Disse: «A quanto pare, M ci ha dato la pianta schematica dell'antica Babilonia secondo Koidewey. Si tratta di una spedizione famosa: Robert Koidewey effettuò i suoi scavi tra il 1899 e il 1917 per conto della Deu-
tsche Orient-Gesellschaft. La sua mappa è una pietra miliare, citata in tutti i testi archeologici relativi all'epoca babilonese». Sylvia ruotò sulla poltroncina in pelle e abbassò lentamente lo schienale. Mentre guardava, sopra la sua testa Babilonia prese forma in rilevo. La città era rettangolare, circondata da mura e percorsa dal fiume Eufrate. Le strade tracciate intorno agli edifici pubblici uscivano dalla città attraverso le porte. Sylvia vide il palazzo di Nabucodonosor, il tempio di Marduk e la Torre di Babele. «La mappa è antecedente al Nad-27...» Intuendo che Sylvia non lo seguiva, Luke tradusse: «Nad significa North American Datum. Nel 1927 furono fissati degli standard internazionali, riveduti poi nell'83 con il Nad83. Il Nad venne creato proprio per questo motivo: prima non c'era assolutamente modo di lavorare con più mappe, dato che non esistevano standard universali.» «Si può comunque scoprire la scala, anche senza il Nad?» Sylvia riportò la poltroncina in posizione verticale per bere un sorso di caffè dalla tazza di creta che aveva in mano. «È la domanda da un milione di dollari.» Dalla sua posizione prona, Luke manipolò un mouse senza fili, flettendo il braccio sinistro e facendo volare più in alto il tatuaggio. Strange inclinò di nuovo la poltrona per osservare lo spettacolo sul soffitto. Babilonia svanì e la pianta del centro di Los Angeles, suddivisa in griglie, si spalmò sul soffitto. I punti chiave erano contrassegnati da vistose forme geometriche. Le linee e i simboli ricordarono a Sylvia le stelle di un planetario. Luke giocò con le immagini: Babilonia, Los Angeles, Babilonia. La sua voce, profonda e di petto, emerse dalla penombra: «Se avessi un allineamento, quattro o cinque punti di correlazione, potrei fare un lucido della mappa buona, quella di Los Angeles, e della mappa cattiva, Babilonia. Potrei sovrapporre gli incroci più importanti, i punti principali». «Ho afferrato l'idea» disse Sylvia. «Puoi proiettare un'altra volta Los Angeles?» Mentre guardava cambiare le immagini, cominciò a sentirsi come ipnotizzata. «Dato che non abbiamo punti di correlazione, cosa ne dici di confrontare quell'area rettangolare?» Tese le dita in aria, delineando il cuore di Los Angeles e il centro di Babilonia. «Sì» disse Luke, cliccando parecchie volte fino a sovrapporre le immagini: l'Harbor Freeway sul fiume Eufrate. «Oppure potremmo sovrapporre
Hollywood all'Eufrate... o magari la Torre di Babele a City Hall, oppure...» «Ho capito» disse Sylvia, sospirando. «Abbiamo bisogno di un allineamento.» «Avete bisogno di andare più in profondità» disse Sweetheart, entrando nella stanza. «Stiamo parlando dell'Inferno.» «Arriveremo anche alla parte sotterranea» disse Luke. «Ma avremo comunque lo stesso problema: possibilità infinite.» Cliccò di nuovo, frustrato perché le dita non tenevano il passo con i suoi ordini mentali. «L'Eufrate potrebbe essere rappresentato dai tunnel del Metrolink, la Red Line. E la Strada Processionale che arriva alla Porta di Ishtar... cosa mi dite di questo condotto antipluviale? Parte dal sistema di drenaggio del centro di Los Angeles, che potrebbe rappresentare il confine orientale di Babilonia.» «Sunset e Hollywood» mormorò Sylvia. «È dove D.W. Griffith, mi pare nel 1910, creò un grandioso set di Babilonia.» «Mi dispiace, professore» disse Luke. «Vedo le stelle, ma nessun allineamento astrale.» «Non dirmi "mi dispiace", dammi dei risultati.» Sweetheart si voltò e scomparve. Luke si raddrizzò e si voltò verso Sylvia: «Mi fa piacere vedere che è di nuovo di buon umore». Qualche minuto più tardi, Sylvia andò in cerca di Sweetheart. Come una sonnambula, senza alcuna consapevole pianta cognitiva che potesse guidarla, arrivò davanti a una stretta porta di tek, in fondo a un corridoio che non conosceva. Naturalmente entrò. Al di là della porta c'era una sala operativa di guerra, dove la battaglia era stata combattuta e non necessariamente vinta. Era quadrata, con il soffitto basso e una temperatura di qualche grado più fredda del resto della casa. L'attenzione di Sylvia venne richiamata da un grande schermo piatto su cui scorrevano filmati in grigio, poi a colori, poi in bianco e nero e infine di nuovo in grigio: brutali esplosioni di obiettivi sempre diversi. Ambasciate, chiese, autobus, appartamenti, pub, scuole, fabbriche. Quelle sinistre scene di distruzione, che erano state catturate da video amatoriali, satelliti di sorveglianza e telecamere di sicurezza, adesso si succedevano in un infinito anello continuo di immagini sgranate.
Sylvia sentì la presenza di Sweetheart. Era seduto su un tatami nella posizione del loto, immobile come una statua. Per un istante pensò che stesse dormendo. Ma il professore sbatté le palpebre e gli occhi si mossero, seguendo i suoi movimenti. Sylvia non accese le luci, accontentandosi del debole chiarore della luna che si riversava all'interno dalle due finestre in alto. Si sedette davanti a un computer spento e ruotò sulla sedia per voltarsi verso il professore. Poi, visto che Sweetheart non parlava, si girò di nuovo verso la scrivania. Sul ripiano c'erano parecchie pratiche, sia su carta che su dischetto. Sylvia esaminò le etichette: Zaire, 1975; Parigi 1983; Kenya, 1990; Nairobi, 1987; Londra, 1988, 1981; Monaco, 1999. Aprì il primo fascicolo. Un elenco di nomi su un foglio: Ben Black, Benjamin J. Bland, John Blake, Jean Bonai, J. Bonay... i nomi continuavano, fino a riempire due colonne. I nomi di un terrorista internazionale. I nomi di un uomo morto. Nella mente le echeggiarono due parole: ragazzo morto. Un brivido le passò sulla pelle come un brezza sull'acqua. «Com'è finita questa indagine?» domandò. «Ben Black è morto» rispose Sweetheart, la voce appena percettibile. In quella stanza, esattamente come nelle altre, le pareti erano coperte dalle mappe e dai modelli del Mosaik di Sweetheart: la Gestalt del trarre e decifrare informazioni da singoli dati, collegare i punti, scoprire la topografia del quadro più generale. In quel caso specifico, con lo scopo di costruire il profilo di Ben Black, un uomo che per decenni era riuscito a svanire come nebbia, segnalato alternativamente come morto, imprigionato, torturato o attivo sotto l'ala protettiva di Gheddafi. Sylvia non guardò Sweetheart, ma lasciò che la propria voce riempisse lo spazio: «Se la guerra è finita, perché non chiudere la sala operativa?». «Perché lui era meglio di me, meglio di Mosaik. La sua firma era quasi introvabile... non ha mai usato lo stesso metodo due volte.» Sweetheart sospirò. «Non siamo stati noi a fermarlo.» «Che cosa allora?» «La sfortuna.» Sylvia chiuse gli occhi; sentiva la pelle fredda della poltroncina premerle contro la schiena e, nella mente, pensieri-scimmia che inseguivano frenetici la propria coda. La morte di Ben Black era stata un anticlimax per Swee-
theart: dopo tutti quegli anni di caccia, il terrorista era stato eliminato per puro caso. Non era stata Molly Redding a parlare dei demoni dello zio? E poi, poco dopo la scomparsa di Black, Sweetheart aveva trasferito la sua ossessione su John Dantes. L'evento scatenante? La morte di Jason Redding. Il bambino era stato un bersaglio casuale, una vittima del caso e delle coincidenze. Almeno era questo che ognuno voleva credere. «Tutti i terroristi ai quali ha dato la caccia...» sussurrò Sylvia. «Cosa significano per lei? Dov'è la sinergia? È la loro ideologia contorta? Il loro nichilismo? Cosa vuole che dimostrino? Oppure, semplicemente, guardando loro lei vede se stesso?» Sentì il ritmo del proprio respiro, e per un istante quel suono fu l'unica cosa che la tenne ancorata a terra. Rivide Sweetheart davanti al laboratorio di M con una penna in mano. "Questa è la casa di un makuuchi: un maestro." Le parole le sfuggirono dalle labbra: «Lei non crede che Ben Black sia morto». «Abbiamo conferme di intelligence.» Sweetheart le restituì lo sguardo; gli occhi gli brillavano pericolosamente, poi si fecero neutri e si chiusero di nuovo, come se l'uomo non abitasse più in quel corpo. «L'ultimo cerchio dell'inferno è riservato ai traditori» mormorò il professore, dondolandosi leggermente avanti e indietro. Il respiro era affannato. «Giuda Iscariota, Cassio, Bruto... i traditori. Dantes aveva l'intelligenza, il carisma, il talento: aveva la possibilità di aiutare il mondo. Invece ha scelto la distruzione. Io non le permetterò di cancellare i peccati di Dantes. E adesso se ne vada.» Sylvia uscì dalla casa, spalancando le portefinestre, temendo di poterne rompere i vetri. Una volta fuori, si costrinse a tornare al presente. Parlando. Camminando. Riprendendo lentamente il controllo. In realtà, non pensava di poter sopportare un minuto di più chiusa in quella casa. Il giardino cintato era pieno della fragranza del gelsomino notturno. La luce della luna lucidava la scultura dell'Angelo Caduto facendone risplendere il bronzo con una patina lattiginosa, mentre quel serafino decisamente umano sorvegliava con calma il buio morbido. Da Sunset Boulevard arrivava il rumore attutito del traffico. E poi, lontano, un coyote mandò il suo messaggio primitivo, facendolo echeggiare
nelle montagne urbane dietro la casa in Selma. A Sylvia venne la pelle d'oca. Per un momento sentì il sapore del New Mexico e dei suoi spazi puliti e aridi. Intorno a casa sua, nel deserto fuori Santa Fe, in certe notti i coyote impazzivano. Quando riuscivano a uccidere una preda, le loro urla si facevano selvagge in modo terribile e lei pensava che assomigliassero alle risa folli delle iene africane. Il giorno dopo quelle morti orgiastiche, durante le sue passeggiate Sylvia scopriva sempre le penne sporche di sangue di una ghiandaia blu o i ciuffi di pelliccia insanguinata di un coniglio. Era tutto ciò che rimaneva della danza naturale e fatale tra il predatore efficiente e la preda disponibile. Sotto la magia della mezzanotte, lasciò che la quiete di quel deserto ricordato le riempisse le cellule, le espandesse i polmoni, le portasse i pensieri a un livello più alto, dove l'aria era sottile e rarefatta. E in quel momento, dentro di sé, scoprì un dolore creato dall'assenza; aveva nostalgia di casa. Di quell'intangibile miscela di gas troposferici a duemila metri. Aveva nostalgia di casa, ma non poteva tornare. Dietro quel desiderio si nascondeva qualcosa di più profondo e di molto più spaventoso: la sensazione che lei, Molly Redding, Sweetheart e perfino M fossero tutti precipitati in un vortice. Nell'Inferno di Dantes. Chiuse gli occhi con forza, rabbrividendo nell'aria calda. I demoni si agitarono, sollevando le teste grottesche, fiutando l'aria in cerca di un odore. Muoviti. Non lasciare che prendano il controllo. Sentì voci sussurranti: una vecchia che parlava con gli stregoni, un bimbo magico con visioni misteriose, un detenuto che volava con le creature della notte. Una passeggiata su un terreno folle... Impiegò fin troppo tempo per recuperare un qualsiasi senso di sicurezza. Si ritrovò a camminare avanti e indietro, sobbalzando al più lieve rumore della notte. Era tutto sbagliato. Stava per crollare. Qualcosa le sfuggiva. Qualcosa di molto pericoloso. Sentì il fruscio dei rami e alzò lo sguardo. Per vedere il cielo, per cercare stelle che non c'erano. Un vuoto oceano celestiale... Respirò a fatica. In New Mexico le stelle erano così brillanti e splendenti che potevi affrontare con sicurezza la più buia delle notti. Arturo, Antares e la Corona Boreale in giugno; Cassiopea, Perseo e la Stella Polare in dicembre. Che risaltavano come gioielli surriscaldati sullo sfondo del cielo
d'ebano. Qui, in questa città infernale, non c'era nulla che ti indicasse la strada... non se ti eri smarrito. Che Dio ti aiuti, se ti sei smarrito! 36 Verso la fine del diciannovesimo secolo, gli anarchici urbani si scatenarono in attentati dinamitardi che provocarono centinaia di vittime a Parigi e a New York. In un momento in cui le nuove scienze della psicologia e della psichiatria esplodevano di teorie di James, Wundt, Titchener, Kraepelin, Breuer, Freud, Watson - i dinamitardi, ormai liberi dalle stigmate della psicopatologia ed esaltati dalla retorica eroica della rivoluzione, facevano esplodere i loro ordigni infernali. Leo Carreras, M.D., Ph.D., e Sylvia Strange, Ph.D., Il terrorismo nel ventunesimo secolo Ore 3.33 John Dantes si svegliò da un incubo e tese di scatto le braccia, le mani strette a pugno. «Calma, amico» gli disse una voce. «È già domani. Tra un po' ti spediscono via.» Dantes rabbrividì. Guardò l'agente Jones, ma vide il fantasma del bambino. «Sembra che il tuo braccio vada molto meglio» osservò Jones. Jason Redding aveva di nuovo visitato Dantes in sogno. Buchi neri dove avrebbero dovuto esserci gli occhi. Una tale tristezza nel cuore. Non c'erano segreti tra il bambino e l'uomo. "Ti stai uccidendo con l'odio" aveva sussurrato il bimbo. Dantes aveva cercato di rispondere, ma non riusciva a respirare. Il disgusto gli premeva sul petto e gli bloccava la gola, tanto che non riusciva a risucchiare aria nei polmoni. "Muoio" aveva pensato. "Sto morendo" aveva detto nel sonno. "Sto morendo perché li ho delusi... prima Bella, poi Laura, poi Simon e poi tu." Aveva guardato il bambino, implorante. «Forza, amico. Ti senti bene?» gli domandò l'agente Jones. «No» sussurrò Dantes.
Jones fissò il detenuto, che non reagì in alcun modo. Nel caos del cervello febbricitante, Dantes trovò un passaggio che aveva letto da qualche parte: "A volte credo di diventare matto. Non psicotico, non schizofrenico, ma matto in un qualche modo assolutamente banale. Non mi interessano le pseudoscienze della mente; quando tocco la mia follia, so che la psicologia non è riuscita a spiegare il buio dello spirito umano, quei silenziosi angoli di disperazione che non vedono mai la luce del giorno. È allora che mi rivolgo alla città, alla civilizzazione, a un labirinto di strade che mi porta sempre da qualche parte, anche quando sono smarrito, anche quando sono accecato dalla perdita della fede". Fissò l'intonaco sfaldato del soffitto. Niente cielo, niente paradiso, niente pace. Aveva cercato di salvare ciò che amava di più, ma le sue azioni l'avevano portato nell'inferno dei codardi. «Ehi, Dantes, mi hai sentito? Ti spediscono via. È ora di andare alla stazione di trasferimento. Ultima fermata prima del Colorado.» Fu come se quelle parole lo svegliassero finalmente dal buio. Si mise a sedere, scuotendosi di dosso il sonno e il sogno. «Ti ho sentito.» La voce era rauca, ma chiara. «Non puoi portare molto con te» gli disse Jones con gentilezza. «Comunque, non hai un granché. Vuoi portarti i tuoi libri?» Dantes riuscì a sorridere. «Sì, grazie, agente Jones. Mi piacerebbe portare i miei libri. Lei è mai stato in Colorado?» «No, mai. Però ho sentito dire che è bello. Un mucchio di alberi e tutte quelle montagne.» Senza bisogno di aiuto, Dantes si alza in piedi. Si sistema gli abiti, si passa le dita fra i capelli. Ha bisogno di radersi. E di un bagno. Puzza di ospedale e di sudore. Si chiede se i federali sono contenti, adesso che lui gli ha dato la caverna di M. Riesce a visualizzare il magazzino abbandonato, proprio di fronte a Terminal Island. Non era per caso che il laboratorio era visibile dalla sua cella: M lasciava ben poco al caso. Mackie è tornato in città. «Vorrei mangiare» disse a Jones. «Che giorno ha detto che è oggi?» «Sabato, da un paio d'ore.» Mentre l'agente raccoglieva i suoi pochi effetti personali nella stanza d'ospedale, Dantes chiuse gli occhi. Aspettò per vedere se riusciva a sentire la presenza; loro due avevano sempre avuto quel legame; attraverso gli anni, attraverso i chilometri, non l'avevano mai perso.
«So che stai arrivando» mormorò sottovoce. L'agente Jones alzò lo sguardo. «Parli con me?» «Sì, Jones» rispose Dantes con gli occhi ancora chiusi. «Cos'hai detto? Non ti ho sentito.» «Ho detto: "Questa volta sono pronto a incontrarti a metà strada".» 37 Non c'era niente da fare. Il supercapo era puntuale, come lo è quasi sempre, e il soggetto era facile da individuare come un canguro in smoking. Raymond Chandler, Playback Ore 3.43 M è arrivato al punto da adorare l'oscurità. Solo tra le sue braccia morbide riesce a trovare una pace momentanea. Oscurità e dolore. La sua vita... ciò che ne rimane. Dantes lo ha tradito. Ha mandato i federali. E i federali hanno fatto il loro sporco lavoro contaminando il suo laboratorio; hanno violato il suo ultimo santuario. M osserva con amarezza dal suo furgone, fermo su una collina a un chilometro circa dalla fabbrica abbandonata. Guarda i due federali in attesa che lo stupido dinamitardo si faccia vedere. Be', M non è stupido: sa che non può tornare a casa. Così se ne sta seduto, inseguendo immagini sul monitor del portatile. Questa rappresentazione visuale e spaziale del mondo è il risultato di oltre due decenni di lavoro. Sì, assomiglia ben poco alla sua ispirazione da scolaretto, ma è pur vero che i semi da cui è nata questa creazione sono stati piantati quando lui non era che un ragazzino goffo e innamorato. Preme un tasto e linee si sovrappongono a immagini, strati su strati, mondi su mondi. Mappa del paradiso. Mappa della terra. Dell'inferno. Una costruzione tridimensionale. Lo schema. Il suo piano magistrale. Fa parte del lavoro consistente nel tracciare carte dei sistemi geografici, mappare chilometri di condutture, registrare l'infrastruttura di una città, sopra e sotto la superficie. C'è una galleria dove tubature d'acciaio, che
partono da una stazione di trasformazione, trasportano abbastanza volt da far saltare mezza città fino in cielo. Cavi avvolti in carta oleata e piombo e sigillati in neoprene passano attraverso le canalizzazioni. Ogni canalizzazione trasporta elettricità prodotta nelle principali centrali elettriche; le centrali alimentano i trasformatori; i trasformatori conducono a sale sotterranee. Inserisciti in un cavo elettrico e puoi collegarti a una centralina, a un aeroporto, un porto, una diga. Lascia che sia l'infrastruttura a lavorare per te. Fase uno: la cruciale interconnessione dei neuroni dalla spina dorsale... il più semplice dei sistemi a distanza. Telefona e fa' saltare tutto per aria. M sta toccando nervi che portano direttamente al centro nervoso, al cervello... Conclusione. M ha un piano semplicissimo per fermare il battito del cuore del più grande amore di Dantes: Los Angeles. È ora di dare inizio all'operazione. Il Ladro e la puttana sono stati preparati per andare a incontrare il loro creatore. E la donna... lei servirà come esca. Possedendo lei, M darà inizio a una reazione simile a un'esplosione a catena. Molecole che si espandono, si frantumano e bruciano. Per finire in un enorme "big bang". Le dita battono sui tasti; lo schermo diventa azzurro, poi di nuovo bianco. M comincia a scrivere: è ora del prossimo livello siamo stanchi di aspettare, non ci importa se alla fine sacrifichiamo ciò cui il falso profeta tiene di più la "lei" che egli ama può essere trovata alla bocca dell'inferno, già in attesa Non c'è dubbio che seguiranno l'odore di lei, che scenderanno fino alla tana di M, nel suo territorio, dove il mondo è un posto silenzioso e isolato. Anche prima di Dantes, M ha sempre cercato il conforto degli spazi bui e nascosti. Dopo l'incidente, si è ritrovato a scivolare sotto la superficie del mondo ogni volta che ne ha avuto la possibilità. In Europa i chirurghi l'hanno reso di nuovo integro, per lo meno a livello
epidermico. Ma il sole gli irrita le cicatrici, suscitando ricordi di dolore. E poi c'è sempre la sofferenza della tortura nella mente. «Addio, LA. Addio, Faccia d'Angelo.» M studia il messaggio e alla fine decide che non è quello che vuole dire. Ricomincia daccapo. Lei vive nel mondo rosso della morte... Non va. Fa troppo canzone sentimentale con tanto di violini. Tu, bastardo di merda, non sei neppure venuto al nostro funerale! Non hai telefonato, non hai scritto. Voglio staccarti la testa dal collo e infilartela su per il culo. Eccessivo. C'è un inferno per coloro che ignorano le grida dell'innocente... Così va meglio. Un messaggio sottile, e però con un accenno arguto. C'è così poco tempo da passare nel settimo cerchio. Tuttavia è lì che i violenti annegano nel fiume del loro stesso sangue e i morti muoiono di nuovo, e di nuovo e di nuovo. 38 George Meteski, il Mad Bomber di New York, durante la sua carriera lunga diciassette anni, si firmava "F.P."; Unabomber, che ha ucciso e ferito gente per diciotto anni, firmava le sue bombe "F.C."; John Dantes ha lasciato della poesia. Cosa c'è nella testa di questi stronzi? Agente Robert Macias, squadra Artificieri, Dipartimento di polizia di Los Angeles Ore 4.07 «Jason?» Molly si sedette nel letto. Confusa dal sonno, semiaccecata dalle lacri-
me, vide un fantasma dove le tende bianche si gonfiavano davanti alla finestra al quarto piano. Vide il viso di un ragazzino invece della gatta. Emise un gemito, morse il lenzuolo umido e si voltò, rannicchiandosi in posizione fetale. Se solo avesse potuto rimanere così per sempre... senza muoversi, senza respirare. Non che servisse a diminuire il dolore: semplicemente, lasciava spazio a un intorpidimento meno tormentoso. Ti prego, Dio: riporta Jason indietro e prendi me. No. Non poteva permettere che quel gioco ricominciasse. Ti prego, Dio: torturami, ma ridammi mio figlio. Dio, per favore, la sua vita non è finita... sta appena cominciando. Uno scambio: una vita per l'altra, la mia vita per mio figlio. La bilancia non penderà e nessuno se ne accorgerà. Oh, Dio mio, ti prego... Quel piccolo angolo della notte era sempre il momento in cui morire sembrava essere la cosa più saggia. La morte era la brezza fresca. La morte era la donna con la voce morbida e dolce. La morte era la strada che portava a Jason. La morte era il biglietto del viaggio. Molly tese un braccio e le dita scivolarono nel cassetto del comodino accanto al letto, dove trovarono metallo freddo. La lama tagliente del rasoio le diede un assaggio di ciò che l'aspettava. Afferrò la lama e la osservò alla luce, mentre il sangue decorava come una perla il pollice ferito. Sentì un'ondata calda percorrerle i muscoli, quando posò la lama sulla pelle pallida. La sua stanchezza era così profonda che si rendeva conto di avere appena l'energia sufficiente per dare un colpo deciso e profondo: un taglio sui polsi. Il metallo cominciò a mordere... sentì Jason gridare... e poi una farfalla bianca richiamò il suo sguardo. Voltò la testa per seguire con gli occhi il piccolo biglietto da visita color avorio che cadeva svolazzando dal comodino. Inconsciamente diminuì la pressione del rasoio sulla carne. Un viso le riempì i pensieri: Sylvia Strange. Vide i caldi occhi castani, la bocca gentile, il viso intelligente. Da quella donna fluiva energia, ed era proprio la forza di Sylvia ciò di cui Molly aveva così disperatamente bisogno in quel momento. Si voltò, stringendo il rasoio nel palmo, e allungò l'altra mano verso il biglietto da visita. Ma quella notte buia stava assumendo una forma diversa. Molly non reagì quando sentì il rumore. Il cuore gonfio di dolore le disse che forse, finalmente, l'universo l'aveva ascoltata. Forse Jason sarebbe
comparso dalla cucina, a piedi nudi e con i capelli arruffati, profumato di sonno e latte. Il suo bambino si sarebbe rannicchiato accanto a lei, sul letto. Lei gli avrebbe scostato i riccioli dalla fronte. E gli avrebbe dato un bacio sulla guancia prima che lui potesse divincolarsi. Un altro suono. Un passo. Non di bambino. Il suono proveniva dal mondo reale, non da uno dei suoi incubi. Una presenza. C'era qualcuno nella stanza con lei. Non la gatta. Non il suo bambino morto. Un'emergenza che richiedeva una reazione. In tempo reale. Molly si alzò, completando l'azione al rallentatore. Ma non c'era nessun desiderio di lotta in lei, nessuna ragione per vivere. Non fino a quando Einstein miagolò e saltò dal davanzale. Non fino a quando Jason, il suo bambino fantasma, l'afferrò per le spalle e la scosse con forza. Le strinse una mano e si rifiutò di lasciarla. Nemmeno quando Molly vide chi c'era nella stanza. «Michael» mormorò con calma, pensando che quell'uomo le aveva portato sollievo, sapendo che le aveva portato il male, tutto nello stesso istante. Il dolore non era stato completo fino a quel momento. Il tradimento pugnalò un cuore che Molly aveva creduto fosse morto. No, c'era ancora vita invece. Vita sufficiente per farla ridere del suo amante. Della siringa ipodermica che aveva in mano. Poi Molly vide che quell'uomo non era Michael, non era il suo angelo, non era l'uomo che lei amava. Questo aveva gli stessi capelli biondi e gli stessi occhi azzurri, lo stesso viso giovane, la stessa cicatrice sul braccio. Ma gli occhi - uno vero, l'altro di vetro - non appartenevano a nessuno, a niente. Molly si staccò dal letto, sfrecciando attraverso la stanza. Einstein miagolò rabbiosa, quando Michael afferrò la sua padrona per una caviglia. La donna cadde sul pavimento. Michael sbuffò, non aspettandosi una lotta, cercando di evitare gli artigli della gatta. Quando sentì una puntura nella natica, Molly cominciò a scalciare, agitando le braccia. La sua rabbia contro il mondo, contro un Dio che le aveva preso tutto, finalmente trovò un bersaglio. Dalla gola si liberò un urlo dissonante. Continuò a sferrare calci. Lui rispose con un pugno in faccia. Mentre cadeva al di là della coscienza, mentre cadeva verso un'enorme
mano buia, Molly ricordò la lama che stringeva tra le dita. Guidata da qualcosa di molto più potente di se stessa, raccolse le forze e tagliò in profondità la carne morbida di Michael. Lui urlò, rabbioso. Molly sentì le dita della notte stringersi intorno alla sua anima esausta. Si distese di fianco al suo bambino addormentato e gli si rannicchiò vicino. 39 Quando è ormai molto tardi, devi scuotere la gente dalla sua paura, dall'inerzia. Sì, ne sono convinto. La storia rende questo punto dolorosamente evidente. Professor John Dantes, intervista radiofonica, 1990 Ore 4.37 Fu Sweetheart a scuotere Sylvia dal dormiveglia. «Ho bisogno di lei. Subito.» «Cosa?...» «Molly. Ci vediamo alla macchina.» Ed era già scomparso dal vano della porta. Sylvia indossò jeans e maglietta e, senza neppure andare in bagno, afferrò scarpe e berretto da baseball. Mentre correva lungo il corridoio verso il garage, si ritrovò Luke di fianco. Il ragazzo le mise un foglio in mano, comunicandole le notizie in una sorta di affannosa stenografia verbale: «Questa e-mail è arrivata quattro minuti fa. Il computer è programmato per avvertirci dei messaggi in arrivo. Ho provato a telefonare a Molly: nessuna risposta, nessuna segreteria. Se vi sbrigate, in quindici minuti arrivate a San Pedro. I poliziotti aspettano davanti a casa sua». Luke aveva già aperto la portiera della nuova Mercedes appena acquistata e la richiuse con forza appena Sylvia fu a bordo. «Ho le mappe pronte... pronte per inserire qualsiasi nuova coordinata. Purcell vi aspetta là» gridò, mentre Sweetheart avviava il motore. Sylvia non lesse il messaggio finché non ebbero superato i cancelli di ferro. inferno x chi ignora le grida degli innocenti sono le vittime migliori
sweet heart? tua nipote così adorabile leggi bene tua mappa tra palazzo & fiume ci incontreremo ancora M Ore 5.19 Se Los Angeles era una donna sognante, San Pedro era la piega del gomito dove la città posava la testa sul Pacifico. Molly Redding viveva su una collina che dominava i docks e le agitate onde grigio-azzurre del porto, dove le navi cisterna se ne stavano allineate lungo i moli. C'era un'autopattuglia ferma in strada, davanti al modesto edificio anni Cinquanta di cui Sweetheart aveva appena varcato il portoncino. Adesso stava salendo la scala che portava al quarto piano. Sylvia lo seguiva. Trovarono un poliziotto in uniforme piantato davanti all'appartamento di Molly. Sweetheart gli mostrò le sue credenziali. «Lei è entrato?» domandò bruscamente all'agente. «Sì, signore, sono entrato. Per escludere la possibilità di un 10-45.» Il poliziotto annuì. «Non ci sono bombe.» Con un ringhio, Sweetheart si avvicinò all'agente, invadendo il suo spazio. «Lei non ha trovato un ordigno esplosivo. Questo non significa che non ci sia. Ha capito?» «Signore...» «Se avete toccato una sola molecola di prove...» «No, signore.» Sweetheart e Sylvia passarono davanti al poliziotto ed entrarono nel piccolo appartamento. Si muovevano con grande cautela, consapevoli della possibilità di una trappola esplosiva. Fu la luce la prima cosa che Sylvia notò. I raggi dell'alba trasformavano le pareti in burro sciolto. La seconda cosa di cui si accorse fu il sibilo. Sentì l'adrenalina defluire, quando vide il gatto: non era una bomba. Era un grosso micio, acquattato tra i fornelli e la credenza. Aveva il pelo irto, i denti scoperti intorno a un ringhio di gola, gli occhi psicotici. «Einstein.»
Sylvia si voltò sorpresa e vide Sweetheart chinarsi. «L'ho regalata io a Jason» disse il professore. «Vieni qui, piccola. Vieni, micia.» Usando toni tranquillizzanti, ma senza muoversi, convinse la gatta a farsi avanti. A bocca aperta, Sylvia guardò la gatta, Einstein, che non solo si lasciava afferrare, ma cominciava a fare le fusa tra le braccia del professore. Sweetheart era immobile, perso per un momento nel battito del cuore della bestiola, un semplice legame con Jason e Molly. Sylvia si allontanò ed entrò nella camera da letto, dove si ritrovò a fissare gli occhi obliqui di una lanterna di Halloween. «Nietzsche impera!» gridò una voce. Sylvia si voltò di scatto, pronta a difendersi. «Dio è morto!» «Cazzo» sibilò Sylvia con sollievo, a pochi centimetri da un pappagallo in gabbia. «Un grigio africano.» Sweetheart le era accanto, il corpo irrigidito; la gatta era tuttora ancorata al suo petto. «La penna nel laboratorio.» «Per poco non mi ha... Oh, Gesù.» Sylvia si accorse di colpo della scena intorno a lei. Le lenzuola del letto matrimoniale erano aggrovigliate sul pavimento. La lampada del comodino era caduta a terra. Sylvia si chinò e raccolse il suo biglietto da visita dal pavimento. Una vecchia tigre di peluche con un occhio solo la fissò dal centro del letto. Il foglietto era stato conficcato nel bottone del naso nero. lei conosceva strada x settimo cerchio dove volano arpie e alberi sanguinano Beatrice non può salvarla troppo tardi ormai via, alla Porta di Ishtar x riposare nemico non passerà mai seguiteci all'ottavo «Non l'ucciderà subito.» Il viso di Sweetheart non aveva espressione. «È ancora viva» ribadì Sylvia sottovoce. «Per il momento.» «Sweetheart...» Per parecchi secondi nella mente di Sylvia ci fu solo vuoto. Sentiva la gola così secca da non riuscire quasi a parlare. «Il settimo
cerchio dell'Inferno di Dante... il pellegrino e Virgilio sono quasi arrivati al centro dell'inferno.» «Nel settimo cerchio gli alberi sanguinano perché imprigionano le anime di coloro che hanno offeso i loro stessi corpi.» «I suicidi» disse Sylvia, spaventata alla parola. «"Alla Porta di Ishtar"» disse Sweetheart, calmo. «Mia nipote è la vittima sacrificale.» Sylvia si passò le mani nei capelli arruffati. «Lei lo conosce, vero? Lei conosce M.» «Così pare» rispose il professore, accarezzando la gatta e senza accorgersi che la bestiola cercava di scappare. «Ben Black? È possibile?» «Un fantasma?» Sweetheart chiuse gli occhi. A pochi centimetri dal viso del professore, Sylvia sentiva un debole profumo di legno di sandalo. «Le bombe americane hanno ucciso la compagna e il figlio di Black, più altre ottanta persone.» «Abbiamo dovuto fidarci dell'intelligence - intelligence affidabile - ma non abbiamo mai trovato il suo corpo...» La voce si spezzò. «E se fosse tornato per Dantes... e per lei?» «"Il nemico non passerà mai."» Sweetheart non reagì quando la gatta gli piantò i denti nel polso. «Queste parole sono incise sulla Strada Processionale di Babilonia, vicino alla Porta di Ishtar.» A un rumore di passi, si voltarono tutti e due e videro Purcell sulla soglia. «Sta arrivando una squadra della Scientifica» annunciò l'agente. «Lui ha mia nipote.» Purcell li raggiunse accanto al letto. Rimase in silenzio per un po' mentre leggeva il messaggio, poi rialzò lo sguardo, stringendo gli occhi scuri. «Quando ho parlato con Luke, mi ha detto che può soltanto cercare di indovinare le coordinate.» «Dobbiamo procedere in base all'ovvio» disse Sweetheart seccamente. «Il che pone la Porta di Ishtar da qualche parte in un raggio di ottocento metri tra Fort Moore e Union Station. Come già sa, siamo costretti a indovinare scala, coordinate, standard internazionali... Non c'è niente di scientifico, niente.» «In parte ci guiderà M» intervenne Sylvia, guardando Purcell. «Ci lascerà avvicinare perché è un sadico.» Si voltò verso Sweetheart, che però distolse lo sguardo. «Prendiamo Union Station come nostro centro operativo» disse il pro-
fessore. «Lavoreremo con Luke.» «Informerò la centrale» disse Purcell. «Sono le cinque e ventinove. Resteremo in collegamento continuo con voi e con Luke... e avremo agenti piazzati nell'area prima ancora che voi arriviate là.» «E sottoterra» disse Sweetheart. «Allertate l'Azienda dei trasporti e il Dipartimento di polizia per eventuali ordigni esplosivi.» Purcell stava già premendo i tasti del telefonino. «Vi seguo subito. Voi andate.» «Sa, Purcell» disse Sweetheart con voce chiara «è possibile che abbiamo a che fare con Ben Black.» 40 La vera fede appartiene agli scettici Ore 5.29 Molly è ubriaca. Ubriaca della chimica del dolore e della paura. La sua mente sta correndo impazzita; non un solo cavallo imbizzarrito, ma un'intera mandria che le galoppa nel cranio, mentre gli zoccoli le pestano il cervello, amputandole i sensi. Legata... non posso muovermi... i muscoli del collo urlano, così stretti, le mani e i piedi gelati. Intorno è tutto buio. L'aria è spaventosamente stagnante... e calda. Non riesco a respirare con il bavaglio. Non posso respirare! Rivede Michael camminare verso di lei. Nessuna espressione, è questa la cosa strana: assolutamente niente negli occhi e una lavagna pulita per faccia. Molly spalanca gli occhi. Da qualche parte, nell'anima, sta pregando che lui l'uccida, che la tolga dalla sua miseria. Vergogna... Molly la sente correrle bollente e veloce nelle vene. Suo figlio l'ha salvata, andando al suo fianco, prendendola per mano. Se fosse vivo, Jason lotterebbe. Oh, bambino mio, perdonami. Lei farà in modo che l'uomo che conosce come Michael non abbia la possibilità di fare del male a un altro bambino, a un altro essere umano. Lei lotterà e lo farà per suo figlio. Per la prima volta da un anno a questa parte, a pochi passi dalla morte,
Molly Redding ha trovato una ragione per vivere. Apre gli occhi, li chiude, li apre di nuovo. Sta vedendo un minuscolo bagliore di luce? Ci sono odori, penetranti e acri. Un qualche tipo di carburante? Petrolio? C'è anche l'odore orribile e dolce di disfacimento organico. Forse un topo morto. Qualcosa di morto... Suoni. Un debolissimo ronzio. Un forte rumore di tuono che le arriva nelle ossa. Il cuore ricomincia a battere forte, minacciando di esploderle nel petto. Devo rallentare il battito, così non spreco ossigeno. Questo buco non sarà la mia tomba. Tic... tic... adesso lo sente. E poi i passi lenti e strascicati, così terrificanti nel buio. Una voce le parla. Molly riconosce l'uomo con cui ha vissuto, l'uomo che ha amato. Lui sussurra: «Faccia d'Angelo...». Molly geme e morde il bavaglio per scacciare il panico, poi si ritrae, rabbrividendo al tocco di quelle dita sul suo viso. «Ti faccio paura, Faccia d'Angelo?» È quasi visibile ora, una sagoma nera sullo sfondo ancora più nero. «Adesso ti tolgo questa brutta cosa.» Il nastro adesivo le strappa della pelle dalla faccia e il pezzo di stoffa infilato tra i denti. Molly lancia un grido, poi comincia a strillare. Quel suono si interrompe di colpo, quando lui le dà uno schiaffo così forte da stordirla. «Nessuno... può... sentirti... Faccia d'Angelo.» Deve ripeterle quelle parole finché lei non riemerge alla superficie della coscienza. «Noi siamo i morti. I dimenticati. Noi siamo i dannati, Faccia d'Angelo.» Molly urla, quando un sole accecante lacera d'improvviso il buio; la violenta luce artificiale le brucia la retina. Vuole ripararsi gli occhi, ma ha le braccia legate. Il dolore le ruba il fiato. Non riesce a mettere a fuoco la faccia nota di lui perché continua a scomparire dietro a soli doppi. «Vaffanculo!» «Tu sai qualcosa delle formule di implosione?» L'uomo sta facendo educatamente conversazione. «Sono proprio stupido: continuo a dimenticare che non riuscivi neppure a far tornare i conti degli assegni.» C'è un nuovo suono, adesso, umido e spugnoso, e l'odore pungente di qualcosa di fresco. La prima cosa che gli occhi di Molly distinguono: una mela. Lui sta tagliando una mela. E le sorride, scuotendo la testa. «Scom-
metto che hai sete.» Oh, Dio, la gola arida è una tortura, ma Molly la ignora e ritrova la voce: «Sei malato» mormora. «Sei patetico.» «Ci sentiamo coraggiose, eh?» Sembra contrariato e sarcastico. «Per la miseria, abbiamo chiamato a raccolta tutte le nostre forze.» Molly riconosce note familiari in quella voce. Hanno diviso il letto, diviso notti, diviso i loro corpi. Perché ha pensato che fosse amore? "Io mi fidavo di te" pensa Molly "ho ringraziato Dio per te." «Adesso devo presentarti un amico» dice Michael. Si volta e poi si gira di nuovo verso di lei, con un grugnito. Molly sente la bile che dallo stomaco le sale in gola. Quell'uomo è morto e l'occhio... Proprio come Michael. E c'è un altro cadavere. Non tenta di bloccare la rabbia. Lascia che le invada ogni cellula; rivolgerà contro di lui la sua stessa malvagità. «Dovrai fare una telefonata per me, tesoro.» Molly chiude gli occhi, con forza, cerca di scuotere la testa. «Nnnooo...» Ma lui dice qualcosa che le fa cambiare idea. Lui dice: «Miss Molly, se mi crei altri problemi, per divertirmi faccio saltare in aria altri cento Jason». OTTAVO CERCHIO... E ci fu un grande terremoto 41 W(TNT.equivalent) = Wexp (Pcj/P0)exp/(Pcj/P0)TNT Equazione onda d'urto (Paul Cooper e Stanley Kurowsky, Tecnologia degli esplosivi) Ore 5.57 Come ubbidendo a un segnale subliminale, Sylvia e Sweetheart scesero contemporaneamente dalla Mercedes e alzarono lo sguardo verso il tetto rosso e la facciata color crema in stile spagnolo di Union Station. Accanto a loro passavano pedoni impazienti: i pendolari del primo mattino che viaggiavano in metropolitana, treno, autobus e tram. Una sirena
distante riempì l'aria; a un occhio osservatore le forze dell'ordine erano più visibili del solito. Sylvia si voltò e vide Leo Carreras attraversare quasi di corsa il parcheggio. L'uomo si fermò accanto a lei con il fiato un po' corto. «Purcell dovrebbe essere... eccola qui.» Un'auto marrone e grigia zigzagò nel traffico e si fermò lungo il marciapiede. L'agente speciale scese dalla Lincoln e socchiuse gli occhi alla luce del sole; gli occhiali da sole le scivolarono sul naso color cioccolato. «Abbiamo allertato il Dipartimento di polizia e il personale delle aziende di trasporto. Sono pronti a evacuare la stazione. Comunque, fino a questo momento, le squadre di ricerca non hanno trovato assolutamente niente.» Controllò con lo sguardo la scena che li circondava: parcheggi che andavano già riempiendosi di auto, pendolari che andavano e venivano, un treno che si fermava sul binario B, appena oltre il terminal principale. E ovunque edifici, un milione di posti in cui un dinamitardo poteva nascondersi. «Ci serve qualcosa di meglio che tirare a indovinare...» Il cellulare emise un suono stridulo e l'aria si caricò immediatamente di elettricità. «Qui Purcell. Dateci dieci secondi e poi passatemelo.» Guardò Sweetheart. «M. Vuole lei. Lo faccia parlare: noi cercheremo di rintracciare la chiamata.» In quel momento un furgone grigio si fermò dietro la Mercedes; dal veicolo scese un uomo in jeans e camicia da golf. Purcell, seguita da vicino da Sweetheart, Sylvia e Leo, scattò verso la portiera aperta e invitò gli altri a salire. Sylvia entrò per prima, poi fu la volta di Sweetheart e Leo e infine si unì anche Purcell, che richiuse la portiera, sbattendola. A bordo c'era già un altro agente; cinque corpi e un assortimento di attrezzature da sorveglianza chiusi dietro finestrini oscurati a prova di proiettile. L'agente aveva nell'orecchio un auricolare quasi invisibile. «La persona che chiama sentirà praticamente tutto, a meno che io non tolga la comunicazione. Quindi tenete la bocca chiusa, se non volete farvi sentire da lui. Pronti?» Puntò l'indice in direzione di Sweetheart; con l'altra mano attivò un interruttore, poi fece un cenno con la testa: via. Sweetheart si identificò. Per un momento non si sentì nulla. Poi dall'altoparlante vibrò una voce: «Zio Sweetheart?». «Sono qui, Molly. Stai bene?» «Lui afferma che i missili hanno ucciso la sua famiglia» disse Molly Redding.
«Fammi parlare con lui. So che può sentirmi.» «Ha ucciso Jason e ucciderà anche me.» «Perché ti nascondi sempre dietro le donne e i bambini?» domandò Sweetheart. «Perché lasci che siano loro a prendersi le pallottole destinate a te?» «Stai parlando di me? O di te?» La voce era maschile, monotona. «Sto parlando di te: Simon Mole... Ben Black... M.» Aspettarono. Sylvia si accorse di trattenere il fiato ed espirò lentamente un soffio d'aria solo quando sentì di nuovo la voce. «Io credo nella reciprocità.» «Lascia andare Molly» disse Sweetheart con voce calma. «Tu e io possiamo regolare i nostri conti. Ti incontrerò in qualsiasi posto tu voglia, verrò da solo. Hai la mia parola.» «Questo è il mio show» rispose la voce bassa dall'altoparlante. «Se ti dico salta, devi stare pronto a saltare.» Rimase in silenzio per qualche secondo. «E se ti dico muori...» «Finché terrai Molly in vita, avrai la mia totale attenzione. Non è questo che vuoi? Attenzione?» Sylvia si morse il pollice. Non pressarlo troppo. «Voglio parlare con la Strange» disse M con impazienza. Tutti gli occhi si spostarono su Sylvia. Carreras mimò con le labbra: "Fallo parlare"; lei annuì. «Sono qui» disse Sylvia. «Come devo chiamarti?» «Simon va benissimo.» «Abbi pazienza, con me, Simon. Mi sono persa qualche passaggio basilare: quanti ostaggi hai? Dicci cosa vuoi, in modo che possiamo chiudere questa storia senza che nessuno si faccia del male.» «Ci siamo solo io e la piccola Molly. È troppo tardi per negoziare. Avevo già detto quello che volevo sia a te che ai federali. Ma nessuno presta più attenzione, di questi tempi.» «Io ti sto prestando attenzione. Voglio capire cosa...» «No, non è vero. È Dantes che ti interessa.» Purcell era protesa in avanti e ascoltava assorta la comunicazione dal minuscolo auricolare. Con un dito indicò Sylvia, poi il finestrino verso Union Station e con le labbra articolò in silenzio: "Ce l'abbiamo quasi". «Simon...» riprese Sylvia, annuendo a Purcell. L'interruzione l'aveva distratta, ma non aveva né il tempo, né lo spazio per permettersi di perdere colpi. «Sei tu che controlli questo spettacolo fin dall'inizio.»
«Stronzate!» Adesso la voce era quella che Sylvia aveva sempre immaginato per Simon Mole: piagnucolante, stizzosa. «Nessuno ha ascoltato! Non tu, non Sweetheart e neppure Dantes! Ma io vi costringerò ad ascoltare.» «Si tratta di farla pagare a Dantes?» «No...» La voce si spezzò. «Sì. Sono stanco di giocare.» Sylvia si sentì gelare quando sentì l'urlo di Molly Redding in sottofondo. «Morirò!» singhiozzò Molly. «Ci farà saltare in aria.» «Molly, dove...» «Silenzio o Molly è morta!» gridò Simon. «In ogni caso è già tutto finito. Dite a Dantes che l'ho lasciato indietro a marcire all'inferno.» «Puoi dirglielo tu stesso» disse Sylvia, cercando disperatamente di gettare un'esca. «Conto che tu gli trasmetta il messaggio. E, già che ci sei, di' a Sweetheart che purtroppo non ha più un futuro genetico.» «Senti, parla con me e...» intervenne il professore. «Vi prego...» Attraverso l'altoparlante, la voce di Molly Redding era rotta dal terrore. «Non lasciate che lui...» «Molly!» Ma la linea era già muta. Contemporaneamente l'agente Purcell, in contatto con i tecnici dell'Fbi, annunciò: «L'abbiamo trovato! È vicinissimo a Union Station, a nordest». Sweetheart era già fuori dal furgone. Sylvia lo seguì. Osservò gli edifici circostanti, soffermando lo sguardo sulle basse arcate e gli angoli smussati di Union Station. Il professore era immobile, con gli occhi chiusi e il viso rivolto verso l'alto. Era un punto fermo al centro del caos. Strange sentì che la chiamava; un frammento di luce riflessa attirò il suo sguardo in alto, sul logo MTA. A ore tre. Nord-nordest. Sylvia si spostò leggermente per guardare meglio quella torre elegante con i suoi angoli di bianco, grigio e azzurro, edificio e cielo che si fondevano in totale armonia visiva. La Porta di Ishtar. Non Union Station. Ma l'edificio più vicino, la sede della Metropolitan Transit Authority, l'MTA. La porta d'accesso alla città. E in quel momento Sweetheart fece un passo avanti, proprio mentre la torre cominciava ad appallottolarsi su se stessa come carta, facendo eco al profondo rumore riverberante della distruzione. La gente urlò e si buttò a terra, con i visi rivolti verso l'alto, impietriti dalla sorpresa.
La Porta di Ishtar... che andava disfacendosi, ma che continuava a restare in piedi anche se la sua pelle di vetro si disintegrava e metà del suo scheletro rimaneva esposta all'aria, mentre si formava un alone scintillante di frammenti dove prima c'era stata materia solida. Spazi negativi e spazi positivi che si spostavano in un istante. Una bomba atomica, un tornado, un buco nero... Nubi che si alzavano in curve fungiformi. Un grosso pezzo di metallo contorto si schiantò sul marciapiede non lontano da Sylvia, che si era riparata dietro un'automobile. Poi, ritardato dalle barriere fisiche che si opponevano alle onde sonore, ci fu il ruggito assordante. Per un attimo il tempo si fermò. Poi furono le sirene a lacerare l'aria. Per tutto quel tempo Sweetheart era rimasto in piedi a fissare la tomba di Molly Redding. Dalla gola gli uscì un urlo. Il suono venne inghiottito dall'eco dell'esplosione e poi si alzò verso il cielo come un orribile uccello. 42 Ogni essere umano è il prodotto dell'ambiente, sia esso isola, savana, foresta pluviale o montagna. Facendo eco alla grande catena della Sierra, Los Angeles si è spinta con violenza verso l'alto e verso l'esterno; ha così modificato indelebilmente paesaggio e prospettive, psiche e anima e ha dato forma, ha modellato i suoi figli, seducendo una generazione dopo l'altra - uomini, donne e bambini - con la promessa del suo materno seno urbano, un arido capezzolo di vetro e acciaio. John Dantes Domenica, ore 10.10 Dalla finestra, Sylvia guardava la parte occidentale di Los Angeles. Vista dal quarto piano della locale sede dell'Fbi, la città sembrava funzionare come se niente fosse accaduto nel corso delle ultime diciotto ore, come se un grattacielo del centro non fosse stato strappato a metà da una bomba. Come se solo un miracolo non avesse limitato il numero delle vittime a poche persone. Sylvia posò le dita sul vetro della finestra; al piano sottostante, un uomo appeso a un'imbracatura passava la spugna sui vetri esterni. Sotto il lavavetri, in strada, c'era un flusso leggero ma costante di pedo-
ni da e verso il parcheggio. La sede dell'Fbi di Los Angeles, che si trova in Wilshire Boulevard, è la terza per dimensioni di tutti gli Stati Uniti. Con quasi seicento agenti, l'ufficio gestisce il lavoro creato da un'abbondanza di rapinatori di banche, molestatori di divi, gangster... e dinamitardi, ispirati dal precedente del 1° ottobre 1910, quando alcuni attivisti avevano fatto saltare in aria parte del palazzo del "Los Angeles Times", uccidendo venti persone e ferendone diciassette. Lo stesso crimine storico - attivisti sindacali contro forze antisindacali aveva motivato, quasi un secolo dopo, una delle bombe di John Dantes. Ma Sylvia non stava pensando a Dantes, o alle domande che rimanevano ancora senza risposta. Per qualche minuto fu a malapena consapevole dell'agente speciale Purcell che, seduta alla scrivania, parlava al telefono. Stava pensando a Molly Redding e a suo figlio, Jason. Rivide i lineamenti delicati e infantili della donna specchiarsi in quelli del bambino: tutti e due morti per mano dello stesso assassino. «Abbiamo il rapporto preliminare della Scientifica» disse Purcell, riattaccando. L'agente federale sembrò quasi riluttante a parlare, ma poi si passò le dita tra i capelli corti e continuò: «Sono stati identificati i resti di almeno due adulti, un uomo e una donna. Non abbiamo ancora un riscontro positivo del Dna per quanto riguarda Molly Redding, però abbiamo trovato alcuni effetti personali relativamente intatti che sono stati identificati da suo zio. Il laboratorio sta effettuando i test Pcr-Dna e dovremmo avere i risultati entro quarantott'ore». Purcell sospirò. «Se l'edificio non fosse stato chiuso per i lavori di ristrutturazione antisismica, adesso ci ritroveremmo con un tasso di mortalità nell'ordine delle centinaia.» Sylvia non si voltò dalla finestra. Nonostante l'ora, sentiva il calore emanato dal vetro scuro. «Avete trovato campioni per controllare il Dna di Simon Mole?» «Non ancora. Né Simon, né Ben Black.» L'agente si morse un labbro; la stanchezza era evidente nelle ombre scure delle occhiaie. «Ma ci lavoreremo finché non avremo un risultato definitivo. Glielo prometto.» Sylvia annuì. Rispettava Purcell, cominciava addirittura a trovarla simpatica, ma non voleva restarsene lì ad ascoltare promesse che l'Fbi non aveva alcun potere di fare. Guardò di nuovo fuori, ma la vista non allontanò la sensazione di trovarsi in gabbia, confinata in un cubicolo. Sentiva la mente imprigionata e i pensieri che continuavano a cozzare contro le pareti.
Attraverso l'unica vetrata interna dell'ufficio, stretta e verticale, Sylvia poteva vedere un tratto limitato del lungo corridoio esterno. Prima aveva visto passare Sweetheart, ma il professore non aveva reagito in alcun modo alla sua presenza. Nonostante il forte mal di testa, Sylvia mantenne l'attenzione fissa su Purcell. L'agente stava mentalmente soppesando quante informazioni i suoi superiori l'avessero autorizzata a condividere con una psicologa civile e ciò che, per contro, lei sentiva di doverle dire per rispetto nei suoi confronti. Il rispetto ebbe la meglio sul dovere. Porse una foto a Sylvia. «Una telecamera digitale, installata dal Dipartimento di polizia nell'ambito di un programma sperimentale di sorveglianza stradale, ha filmato quel camioncino per la vendita di fast food, che era imbottito di Anfo, mentre entrava nel parcheggio sotterraneo» disse finalmente Purcell. «Una variazione degli attentati a Oklahoma City e al World Trade Center. Si vede la faccia del guidatore. La telecamera era installata in cima a un palo di fronte all'MTA, a una distanza di circa trenta metri, ma i nostri tecnici sono riusciti a ingrandire l'immagine.» Sylvia guardò la foto. Tre quarti del viso del guidatore erano in ombra, si vedeva solo parte del profilo. «M avrà di sicuro assoldato un autista per il camioncino. Esporsi in prima persona, correre rischi stupidi... non rientra nel suo stile. Cosa mi dice dell'uomo che viveva con Molly Redding?» «Ci stiamo lavorando.» Purcell annuì stancamente. «Ma non ha lasciato molte tracce. I vicini quasi non lo vedevano: andava e veniva alle, ore più strane. Guidava un furgone, a quanto pare una specie di veicolo aziendale, ma nessuno ricorda un logo. Nell'appartamento era tutto pulito... troppo pulito.» «Come il laboratorio. È questo lo stile di M, un uomo invisibile con un pappagallo grigio africano che cita Nietzsche.» Sylvia prese una matita dalla scrivania di Purcell e ci giocherellò nervosamente. La matita cadde sul pavimento. «Lei crede che M sia morto?» «E lei?» «No. Io credo che sia morto Simon Mole» «M e Mole sono la stessa persona» obiettò Purcell. «Non stiamo parlando di gemelli o di personalità multipla.» «No, niente personalità multipla» concordò Sylvia, premendosi le dita sulle tempie. «Però possiamo parlare di divisione della personalità. È quasi come se Simon Mole fosse morto nell'esplosione di Mulholland... Ma si è trattato di una morte psichica, non fisica. È per questo che il confronto dei
profili ha dato un risultato di probabilità media.» Purcell sospirò. «Qualunque sistema di elaborazione profili ha i suoi punti deboli, compreso il cervello umano.» Sylvia si mise a esaminare con fin troppa attenzione le fotografie di sorveglianza che decoravano le pareti. Rapinatori di banche nell'atto di minacciare, sparare, uccidere. C'erano etichette attaccate alle varie foto: Bandito Non-è-Einstein, Bandito Naso Rosso, Bandito Spaccone, Mamma e Papà, Bandito Romeo. Una scritta a mano proclamava: "Los Angeles, capitale mondiale delle rapine in banca". L'effetto di quella collezione di foto era una leggera depressione, determinata dalla frequenza, dalla stupidità e dalla banalità dei crimini. «Come sta Sweetheart?» domandò Sylvia. «Non gli ha parlato?» «Mi sta ignorando.» «Sta ignorando tutti, se questo può consolarla.» «Non particolarmente» disse Sylvia sottovoce. Purcell esitò un attimo. Di nuovo, stava riflettendo su quali informazioni dare. «Domani Dantes verrà spedito in Colorado.» «Faranno comunque il trasferimento?» «È ora di allontanare il Calbomber da Los Angeles. Io non le sto dicendo niente, ma Dantes è stato portato nel vecchio carcere, il City Detention Facility.» Scosse la testa, portandosi un dito sulle labbra. «Saranno gli sceriffi federali a gestire il trasferimento vero e proprio.» «Mi faccia entrare là dentro.» «Non posso.» «Purcell.» «Pensavo che lei questa sera tornasse in New Mexico.» «Ho bisogno di incontrare Dantes un'altra volta. È tutto quello che chiedo. Poi sarà finita... non tornerò a infastidirvi.» «Mi dia un'ora per vedere cosa posso fare» concesse finalmente l'agente. Sylvia si voltò per andarsene e sbatté le palpebre a una tagliente lama di sole riflessa dal vetro e dal metallo. Una voce interiore sussurrò: "Non è ancora finita". Ore 13.08 Il Los Angeles City Detention Facility consisteva in diversi e vasti fabbricati sparsi su decine di ettari. I detenuti più fortunati nell'edificio princi-
pale godevano di una vista su Sunset, nel punto in cui il famoso boulevard cominciava il suo viaggio verso est sotto falso nome, Cesar Chavez Avenue. Al di là del viale, i grattacieli del centro disegnavano i picchi aguzzi e le valli profonde del panorama urbano, alimentato da un fiume di binari ferroviari. Quegli stessi detenuti avevano avuto posti in prima fila per lo spettacolo dell'esplosione della torre MTA. Adesso potevano ammazzare il tempo guardando dall'alto gli investigatori che frugavano tra le macerie in cerca di cadaveri. Ma Sylvia non doveva fermarsi alla prigione. Si presentò al chiosco. Mentre la guardia carceraria verificava via radio la sua destinazione, si guardò intorno. Il panorama le era familiare: il recinto perimetrale alto tre metri e mezzo e sormontato da filo tagliente come rasoio, le torri di sorveglianza, le pareti rinforzate in acciaio delle unità detentive. Strange aveva passato un bel po' di tempo lavorando in varie prigioni. La guardia l'autorizzò a procedere, dandole secche indicazioni di andare diritto, prendere la prima a destra e poi la seconda a sinistra. Fu ciò che Strange fece. La vecchia struttura detentiva era una specie di magazzino verde ruggine. C'era una guardia armata a presidiare il secondo chiosco, da cui veniva controllato l'accesso attraverso la recinzione perimetrale interna. Mentre Sylvia varcava il cancello, vide la sagoma di un'altra guardia al di là delle doppie porte, distanti cinque o sei metri. John Dantes era ben sorvegliato. Una pista d'atterraggio e un eliporto accanto alla vecchia struttura carceraria garantivano un comodo punto di trasferimento per criminali ad alto rischio o di alto profilo. Una volta all'interno, un uomo con la carnagione color noce annunciò a Sylvia che l'avrebbe accompagnata e sarebbe sceso con lei per una breve rampa di scale, fino all'area un tempo nota come "i Ferri". «Perché i Ferri?» domandò Sylvia alla guardia carceraria di nome Henry, mentre il rumore dei tacchi sul cemento rimbalzava sulle pareti spoglie. «Ai vecchi tempi rinchiudevano quaggiù gli artisti dell'evasione. Tanto per essere sicuri che non gli venisse il prurito ai piedi, li incatenavano con la palla al piede.» Davanti alla cella numero 9 sedeva l'agente Jones del Dipartimento di polizia di Los Angeles. A quanto pareva, era suo compito sorvegliare Dan-
tes fin davanti allo sportello dell'elicottero e passarlo alla custodia degli sceriffi federali. «Salve, Jones» lo salutò Sylvia. «Salve, dottoressa Strange» rispose il poliziotto a bassa voce. Si alzò per aprire la serratura, sotto lo sguardo della guardia carceraria. «È venuta a dare un'ultima occhiata?» «Quando lo trasferiscono?» chiese Sylvia. La domanda era indiscreta, ma Jones non esitò a rispondere. «Pare domani o dopodomani. Ma è bene che lei sia venuta oggi: domani sarà assolutamente vietato. Si suppone che lei non debba entrare, a meno che Dantes non sia incatenato.» Si passò una mano sulla mascella. «Vuole che entri anch'io?» «No. Però resti vicino alla porta.» Jones si fece indietro mentre Sylvia entrava nella temporanea casa di John Dantes, una cella di tre metri per tre senza finestre. Dantes non era più legato sopra una lettiga. Non aveva bende. Non aveva una flebo che gli immettesse fluidi chimici nelle vene. Aveva un bel colorito e sembrava riposato, in buona salute. La divisa del carcere era pulita e lui ben pettinato. Sedeva su una delle due sedie imbullonate al pavimento. Sul tavolo c'era un libro, Il conte di Montecristo. Il detenuto teneva le mani raccolte in grembo. «Grazie, Jones» disse all'agente, ma gli occhi erano fissi su Sylvia. «Speravo proprio di vederti ancora. Mi dispiace per la nipote di Sweetheart.» «Non credo che a lui importi quello che senti.» La porta si chiuse silenziosamente. Sylvia era sola con Dantes. «E a te importa?» Sylvia non rispose. Il silenzio si prolungò e lei percepì il disagio dell'uomo. Dantes prese in mano il libro e lo sollevò. «È un bel romanzo. Ingiusta condanna, fuga, storia d'amore, vendetta. Cosa c'è di meglio?» Fece un mezzo sorriso. «Tu l'hai letto?» «Ne ho sempre avuta l'intenzione.» Sylvia si sentiva spinta da un'energia irrequieta, un'ansia repressa e fluttuante. Fece otto passi, che le fecero compiere un giro completo intorno a Dantes. Sulla coperta della branda notò una copia del libro di John. Vide anche qualche appunto scarabocchiato su un blocco. E vide la foto della madre di Dantes, scattata alla fine degli anni Cinquanta, quando Bella era un'incantevole, giovane donna.
Lesse il titolo sbiadito di un libro rilegato: Isterismo: storia di una malattia. L'autore era Veith; Strange conosceva quel testo, che illustrava le origini storiche e i sintomi di ciò che era conosciuto come disturbo di conversione. «Sono contento che tu sia venuta» disse Dantes con voce bassa e suadente. «Nel mio ultimo giorno a Babilonia, tu sei l'unica persona che mi importasse vedere.» «Non si sa mai. Potrei sorprenderti e visitare il Colorado.» Era tornata al punto di partenza, da dove aveva una chiara visione dei lineamenti di Dantes: il sorriso segreto sulle labbra, gli occhi grigio-verdi dallo sguardo impassibile, la delicata definizione di ossa e legamenti sotto la pelle della mascella. Quei lineamenti non dicevano nulla dell'uomo. «Ti senti meglio» osservò Sylvia, sedendosi. Le dita tormentavano il braccialetto al polso. Adesso era a un metro da lui. «Molto meglio.» «Nessun altro attacco?» Dantes scosse la testa, sciolse le dita e si premette i palmi sulle cosce. «La mia salute...» «Insensibilità? Paralisi?» «... è buona.» L'uomo sorrise appena; le pupille si contrassero, enfatizzando il colore dell'iride. Sylvia si sforzò di non distogliere lo sguardo. Dantes sembrava curioso, presente, divertito. Stava aspettando la sua prossima mossa. Lei si rese conto che il detenuto credeva di avere il totale controllo di sé, ma sapeva che disturbi somatici di quella portata non potevano essere stati frutto di una finzione. Non del tutto. Alla fine, disse: «Ho scoperto qualcosa di tua madre». «Davvero?» La disinvoltura suonava eccessiva. «Sapevi della diagnosi di schizofrenia?» «No.» «Era stata ricoverata più di una volta. L'ultima poche settimane prima che morisse.» Dantes fissava un punto nello spazio, ma i suoi pensieri erano rivolti al passato. «I miei nonni non me l'hanno mai detto.» «Alcuni schizofrenici soffrono di un'intensa angoscia mentale. Perfino le persone più vicine a loro non riescono a fare breccia nella psicosi.» Dantes chiuse gli occhi, ritraendosi in un luogo interiore. Poi respirò a fondo e si ricompose. «Perché è così difficile accettare il fatto che non so-
no riuscito a salvarla?» «I bambini sono spesso convinti che nelle loro emozioni ci sia potere di vita e di morte.» «Il potere di Dio» disse Dantes a bassa voce, offrendole di nuovo quel suo sorriso melanconico. «Di questi tempi sono costretto a cavarmela con i miei poteri di manipolazione, molto terreni.» «Le più famose pazienti isteriche di Charcot erano sempre donne giovani e graziose» disse Sylvia, seguendo il discorso di Dantes. «Mettevano in scena uno spettacolo di varietà con i fiocchi per quei neurologi e chirurghi nevrotici.» «È vero. Era un pubblico al quale piaceva essere eccitato, solleticato. In realtà, volevano essere presi in giro. È questa la magia: una danza tra l'artista e il pubblico.» «O tra medico e paziente?» «L'uno non può esistere senza l'altro. Charcot, Breuer e Freud avevano le loro reazioni isteriche di fronte a quei pazienti chiassosi ed eccessivi. Però hanno documentato i casi clinici e hanno fornito informazioni preziose all'aleatoria scienza della psicologia.» «La vera sofferenza esiste.» «Siamo tornati ai pazzi di Goya» disse Dantes. «La maggior parte dei pazienti isterici di Freud e Breuer soffriva di forme di psicopatologia chiaramente diagnosticabili.» «Io non sono un numero secondario di uno spettacolo, dottoressa Strange.» Per un istante Sylvia avvertì l'ormai familiare elettricità dello sguardo di Dantes, ma altrettanto rapidamente gli occhi verdi diventarono di nuovo freddi e l'aggressività si ritrasse in un qualche angolo buio e chiuso. «No, non lo sei» gli disse. «Il numero secondario era Simon Mole.» «È stato molto tempo fa. Dovevamo cambiare il mondo.» «E Laura?» «Si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.» «Cos'è successo?» «L'acetilene diventa instabile alla pressione di uno virgola settantacinque chili per centimetro quadrato; il suo range esplosivo va dal due virgola sei all'ottanta per cento.» Recitava il tutto con noncuranza. «È appena un po' più leggero dell'aria. In uno spazio chiuso, se qualcuno si dimentica di chiudere una valvola del serbatoio dell'acetilene, si verifica un'esplosione catastrofica.» Per la prima volta in un'ora, Dantes distolse lo sguardo. «So-
no stato l'unico a sfuggire allo scoppio. È stata un'esperienza rivelatrice: fino a quel momento avevo davvero creduto di possedere il coraggio delle mie convinzioni.» «Sei scappato.» «Mi sono dannato.» Sylvia si alzò in piedi e si avvicinò alla porta, ma si voltò, lanciando un'ultima occhiata. «M è vivo, vero?» «È tutto finito, dottoressa Strange.» Dantes le tese Il conte di Montecristo. «So già come va a finire. Lo legga, uno di questi giorni.» Ore 15.55 Al volante dell'auto a noleggio, Sylvia puntò verso ovest su Sunset. Il famoso boulevard correva come una cucitura attraverso la città. Gli uffici cadenti, i piccoli fast food, i ristoranti che pubblicizzavano cucina tailandese, coreana, spagnola, indiana, sushi, nonché Kentucky Fried, si fondevano tutti insieme in un nastro di semplici commerci che rivelavano complessi schemi di migrazioni umane, scambi culturali ed espansione. Proseguendo, edifici stretti e altissimi di vetro e acciaio si ergevano spalla a spalla, costeggiando l'asfalto. A Doheny gli immobili erano occupati tutti da negozi alla moda. Continuando verso ovest, le discoteche e i nightclub se ne stavano addormentati e squallidi nelle ore diurne, come prostitute in attesa di prendere vita al tramonto. Il traffico formava un nastro continuo e scintillante che si curvava e si piegava, chilometro dopo chilometro. Nell'aria, il morso dello smog. Ma Sylvia era cosciente soltanto del flusso ansioso dei propri pensieri: un ragazzo di nome Simon Mole era rinato come terrorista internazionale e si era fatto chiamare Ben Black; quando i missili Usa avevano colpito in Afghanistan, Black era fuggito per ricostruirsi di nuovo, trasformandosi in M. Un uomo sopravvissuto a bombardamenti, catastrofi ferroviarie, prigioni e attacchi militari di sicuro non avrebbe finito per suicidarsi nel centro di Los Angeles. M non muore: si trasforma. Perciò, dov'era? Cosa stava aspettando? Sylvia proseguì verso sud e poi si diresse a est, di nuovo verso il cuore della città. Arrivata in centro, seguì Main Street, il punto zero, la linea che divideva l'est dall'ovest. Le ombre cominciavano a prendere vita sotto le luci al ne-
on. Fifth Street, a oriente di Broadway, era terra di nessuno, la via dei barboni e dei vagabondi, dei falò nei bidoni e delle auto della polizia che facevano retate di ubriachi. Fifth Street, la strada dei disperati lunga cinquanta isolati, era al centro del rettangolo formato da Main, Third, Alameda e Seventh. I negozi di liquori, tutti con le vetrine coperte da cartoni, erano innumerevoli e gli alberghetti per diseredati mostravano facciate squallide e deprimenti. Guidando piano, senza fermarsi, Sylvia riconobbe le facce dei malati di mente, dei tossici, dei senza casa. Non era sicura di cosa si fosse aspettata di trovare lì, ma ciò che le rimase fu solo un doposbornia di miseria e povertà. Si diresse verso ovest, verso l'oceano e la sua ultima notte a Los Angeles. In mattinata, Leo era volato in Arizona per un consulto. Il suo appartamento era buio. All'interno del bungalow numero quattro le tende erano ancora tirate. Sylvia fece qualche telefonata e sentì le ultime notizie da Matt: il marito di Mona Carpenter era trattenuto in stato di fermo, in attesa dell'accusa formale: aveva violato un'ordinanza restrittiva della corte ed era andato a trovare Mona un'ora prima che si suicidasse. «I genitori di Mona vogliono che venga accusato di aggressione e tentato omicidio» disse Matt. «Non è stato lui a cacciarle le pillole in gola.» Ma Sylvia sapeva del potere oscuro che Bob Carpenter aveva esercitato su Mona. La notizia le portò tristezza, ma anche, finalmente, l'inizio di una conclusione. Fece la doccia, restando a lungo sotto l'acqua calda; la pelle era arrossata, quando si spalmò la crema. Scivolò nuda tra le lenzuola bianche e pulite, abbracciò il cuscino e cadde in un sonno quasi narcotico per lottare con sogni agitati, quasi incubi. Fu Molly Redding a sorridere a Sylvia dal mondo dei sogni. Le tese una mano, invitandola. Non mosse le labbra, ma parlò lo stesso: "È la vendetta che conta, alla fine?". Mentre Sylvia riemergeva dal sonno, la domanda continuò a echeggiarle nella mente. Andò alla finestra e aprì le tapparelle. Le strade della notte erano buie, avvolte in un sudario di nebbia. Nell'Inferno di Dante Alighieri c'erano nove cerchi. M aveva portato tutti loro fino all'ottavo. Perché avrebbe dovuto fermarsi a quel punto?
Prese in mano Il conte di Montecristo. Ne sfogliò le pagine e la prima volta quasi non se ne accorse. Ma la chiave era lì: cinque o sei parole, quasi invisibili, tracciate tra i margini. 43 Quando si è sordi al suono del dolore, il mondo è pieno di un tale, gioioso rumore. Manifesto di Mole Lunedì, ore 4.12 Sylvia picchiò entrambi i pugni sulla porta di Sweetheart. Il messaggio di Molly Redding nel sogno continuava a risuonarle nella testa: "È la vendetta che conta, alla fine?". Alzò i pugni per bussare di nuovo e... La porta si spalancò e lei quasi cadde in avanti, andando a sbattere contro il petto di Luke. Recuperando l'equilibrio, notò, quasi senza accorgersene, la barba di un giorno e gli occhi azzurri addormentati del ragazzo. «Dov'è?» Gli passò davanti ed entrò nell'atrio. «Dov'è Sweetheart?» «Dottoressa Strange... Sylvia, siamo tutti esausti» cominciò Luke. Seguì la psicologa, osservandola insofferente, non fidandosi di quella sua energia maniacale. «Senta, tutti noi abbiamo passato...» Si interruppe, guardando oltre Sylvia, verso l'ala privata della casa. «Non sarebbe dovuta venire.» Strange si voltò al suono di quella voce profonda e si ritrovò a qualche centimetro da Sweetheart. L'aspetto del professore - il viso cinereo, le occhiaie scure, gli abiti in disordine - era spaventoso. Sweetheart scosse la testa e fece per andarsene. «Ho le coordinate.» Sylvia sollevò il libro, Il conte di Montecristo. Sweetheart si fermò. «Le vere coordinate di Babilonia» riprese Sylvia a voce bassa. «Ci eravamo sbagliati: la Porta di Ishtar Gate non è l'MTA. Io credo che M non fosse neppure nei dintorni della torre, quando è esplosa.» «Molly...» sussurrò Sweetheart. Nessuno disse nulla per parecchi secondi, poi, lentamente, il professore tese la mano per chiedere il libro. Le dita tremavano. Sylvia aprì il volume alla pagina dove c'erano le parole scritte a mano:
brdwy = eufr/mura e = 110/str process = la st/pal nabuc = pueb. Ore 4.25 Immagini topografiche lampeggiavano sul monitor. Turchese, magenta, ebano, onice, pesca, violetto... un vortice accecante di colori che delineavano contorni, fiumi, aree, schemi di flusso e di erosione, contee, strade, municipalità. Per fermarsi infine sul centro urbano di Los Angeles. E su Babilonia. Le immagini si sovrapposero e lo scheletro della megalopoli del ventunesimo secolo riempì la pelle spettrale di Babilonia, abbracciando più di tremila anni di storia urbana. Piegato in avanti davanti al monitor, Luke parlava con le frasi mozze di chi è in lotta contro il tempo. «Quattro punti di correlazione dovrebbero bastare per una sovrapposizione precisa. Dite le vostre preghiere, adesso passo le immagini sul soffitto.» Sylvia sbatté le palpebre, riparandosi gli occhi. La luce del sistema di proiezione illuminava i disegni floreali del tappeto antico. Si accorse che Sweetheart la stava osservando e gli offrì un debole sorriso. Aveva paura, erano in ritardo di un giorno, troppo in ritardo. Questo era l'ultimo gioco sognato da Dantes, il maestro manipolatore. Sopra le loro teste, stelle rosse, gialle e rosa esplodevano in uno spazio infinito. Il mondo perduto di Babilonia. Los Angeles, una civiltà morente. «Okay» mormorò Luke. «Adesso posso allineare le coordinate. Hollywood-Babilonia, stiamo arrivando.» Le dita volarono sulla tastiera. Sylvia guardò in alto. Sul soffitto brillavano galassie perdute. Poi le ombre cancellarono le stelle ed evidenziarono le mappe in precisi dettagli in rilievo. I punti di sovrapposizione risaltavano rossi, come incendiati. Improvvisamente l'immagine si congelò e le coordinate si allinearono, bloccandosi in uno spazio tridimensionale. Sylvia stava osservando una ragnatela di linee che si intersecavano: al centro si innalzavano la Torre di Babele e la ziggurat di Los Angeles; da nord a sud, l'Eufrate si fondeva con Broadway, entrambi fiumi per il trasporto attraverso un centro urbano. Le mura nord di Babilonia: Freeway 101. Le mura est di Babilonia: Freeway 110, cioè la Harbor Freeway. Eufrate: Broadway. La Strada Processionale: Los Angeles Street.
Il palazzo di Nabucodonosor: il pueblo storico di Nuestra Senora la Reina de Los Angeles, nostra signora regina degli angeli. Sylvia camminava nervosamente avanti e indietro. Aveva bisogno di muoversi. La tensione era una presenza palpabile nella stanza. Tutte le civiltà finiscono. Il Mondo di Dantes. L'inferno di Mole. Scavi archeologici nel passato. Quei due alla fine si erano incontrati, sovrapponendosi per creare un'unica città condannata alla distruzione. «I traditori del nono cerchio» mormorò. «Il livello più profondo dell'inferno» disse Sweetheart. «Luke, scendi sottoterra. Fammi vedere il livello più basso della griglia.» Le immagini cominciarono a cambiare, scendendo sempre più in profondità nella topografia della città finché furono le infrastrutture urbane a riempire lo schermo: una ragnatela intricata di condutture del gas, del telefono, dell'elettricità e della Tv via cavo, scarichi e gallerie dell'acqua, fognature, tunnel della metropolitana, tombini, stazioni di trasmissione e locali di servizio sotterranei. Un mondo sotterraneo dove una persona si poteva perdere. O essere trovata. Luke cliccò con il mouse e nella proiezione sul soffitto brillò una luce rossa. «La Porta di Ishtar» sussurrò Sweetheart. «Corrisponde all'incrocio tra Cesar Chavez e North Vignes» osservò Sylvia. Attraversando la stanza, Sweetheart disse: «Consideriamo un raggio di mezzo chilometro come margine di errore». «Quando ho parlato con Pete Carson del County Flood Control, l'ente che controlla il deflusso e gli scarichi acque della contea, mi ha detto che in quell'area ci sono delle gallerie di servizio abbandonate» disse Luke. «E alcuni magazzini sotterranei di proprietà della ferrovia.» «Perciò...» Sweetheart chiuse gli occhi a mandorla. Alle sue spalle le prime luci dell'alba filtravano attraverso le persiane, avvolgendolo in un leggero riflesso dorato. «John Dantes ci manda a ovest del Los Angeles River, in una fognatura per circa milleduecento metri, per poi puntare a nord in una galleria più piccola e andare verso Sunset, che lì prende il nome di Cesar Chavez, tenendo gli occhi aperti per tutto il percorso in cerca della Porta di Ishtar.» «Dovrete seguire la griglia delle strade, soltanto a un livello più basso»
disse Luke, ignorando il tono caustico del professore. «Perché è così che sono disposte le condutture e le gallerie dei servizi, anche se ci sono delle eccezioni.» Quando vide le espressioni interrogative dei presenti, aggiunse: «Non possiamo coprire tutte le possibilità: gallerie in disuso, fognature abbandonate, oleodotti dell'epoca del boom, tunnel della metropolitana...». Si appoggiò allo schienale della poltroncina, tamburellando con le dita come un batterista. «Pete Carson dice che controllerà per noi tutti i vecchi tunnel della metropolitana e della ferrovia nell'intera area tra Union Station e Roundout Street.» «Regola l'immagine verso est.» «Ricevuto.» Luke guidò il mouse con il pollice; sul soffitto il mondo sotterraneo si spostò. «Sembra che questa galleria per lo scarico delle acque parta immediatamente a nord di Union Station e arrivi fino al vecchio pueblo.» Si interruppe, come accorgendosi dell'immensità della ricerca, delle scarse probabilità di ritrovare qualsiasi cosa... viva o morta. «Purcell assicura che la polizia manderà agenti e personale della contea, se diciamo dove devono andare» intervenne Sylvia, cercando di risollevare il proprio umore dalla spirale depressiva: non potevano permettersi di crollare, non adesso. «Hai detto che quel tizio del County Flood Control è disposto a prenderci con lui? In questo modo avremo due squadre.» «Pete è pronto a incontrarvi alla stazione di manutenzione numero duecentoquarantuno» confermò Luke. «Purcell ha contattato il carcere» aggiunse Sylvia. «Trasferiranno Dantes entro un'ora.» «Andiamo» ordinò Sweetheart bruscamente. Sylvia si fermò di colpo. «Lei ha detto che Ben Black aveva un piano: voleva distruggere New York.» «Piani dettagliati per attaccare le principali infrastrutture: acqua, elettricità, spedizioni, trasporto aereo.» La voce di Sweetheart sfumò, ma il professore si riprese subito. «Abbiamo trovato mappe e piante dopo l'attacco missilistico. Tra le altre cose, Black sapeva quale centralina e quale trasformatore far saltare in modo da mettere Wall Street ko.» «Farla saltare all'inferno» disse Luke sottovoce. Sylvia prese un respiro veloce. Quanti danni poteva provocare un solo uomo? 44
Da ragazzino sapevo distinguere il bene dal male, ma a un certo punto, nel corso degli anni, ho perso la strada Jai Uttal, Conductor Ore 4.28 Nel buio, John Dantes era disteso sulla brandina, le dita intrecciate dietro la testa. Era il momento. Si alzò in piedi con cautela, si stirò, attraversò la piccola cella e si fermò davanti alla porta. Piegò il collo per sbirciare dalla finestrella e riuscì a intravedere la nuca dell'agente Jones. I riccioli scuri del poliziotto sembravano sobbalzare dolcemente a un ritmo regolare. Dantes sorrise il suo fedele cane da guardia stava dormendo. Entrò in bagno, si aprì la lampo, abbassò i pantaloni e si sedette. La prigione toglie il privilegio della privacy. Dantes era abituato a svolgere quasi tutte le funzioni corporali in presenza di testimoni. Ma questa volta non c'erano testimoni e lui non stava rispondendo a una necessità fisiologica. Accarezzò la parete con la mano destra. Nel palmo nascondeva una normale moneta. La strinse con forza tra le dita. Picchiettò la moneta sul tubo metallico del water. Il metallo era il vantaggio offerto da un vecchio edificio. Nulla di tutto questo era successo per caso. E lui ne era compiaciuto. Tap, tap, tap. Il suono echeggiò, poi ci fu di nuovo silenzio. Due giovani legati dall'idealismo, dalla fratellanza, dalla solitudine e, alla fine, dall'odio. Tap, tap, tap. All'età di diciotto anni avevano fatto un patto, avevano stretto un voto di sangue: "Se uno di noi due verrà mai imprigionato, l'altro lo libererà". Liberazione. Salvezza. Gli ideali dell'amore prima che l'amore diventasse odio. Dantes aveva rotto il voto. Simon Mole no. Tap, tap... Finalmente, alle cinque esatte, Dantes sentì ciò che stava aspettando. Il suo stesso segnale che gli tornava indietro dal basso.
Tap, tap, tap... Bene. Tra poco sarebbe arrivato il momento di affrontare il suo amico, il suo nemico. 45 La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a' capelli del capo ch'elli avea di retro guasto. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIII Ore 5.01 Pensa a un labirinto, a un agglomerato buio sotto una città di luce e di aria, un insieme di cellule, una rete di arterie e vene, un sentiero di neuroni, messaggeri di tutto ciò che serve al corpo della città. Pensa al gas, all'elettricità, all'acqua, al petrolio, al vapore, ai carburanti e ai rifiuti, al calore e ai liquidi refrigeranti, il tutto che fluisce e scorre in un labirinto di condutture e tubi all'interno di tunnel che si estendono per i diecimila chilometri quadrati del bacino di Los Angeles. In questo modo tutti gli edifici, i grattacieli e i magazzini, le gallerie della metropolitana, gli aeroporti, le stazioni degli autobus e dei treni, i distributori di benzina sono collegati tra loro e possono respirare, mangiare, cagare. Benvenuto nell'infrastruttura sotterranea di ogni megalopoli del mondo. Benvenuto nel ventre e nella spina dorsale di Los Angeles. Dove la città è più vulnerabile. Benvenuto nel nucleo dell'esistenza urbana. M intende far saltare tutto all'inferno. Non per l'ultima volta in vita sua, è un uomo morto. Prima Simon, poi Ben Black. Ciò che succederà da adesso in poi, è nelle mani di M e Dantes. M creerà il cambiamento attraverso le molecole; le molecole sono il suo dio... quelle invisibili inezie, quei frammenti, quei legami che devono essere spezzati in una reazione esplosiva. Dantes creerà il cambiamento rivisitando il passato.
M non vede la luce del sole da quasi trentasei ore. Ha avuto troppo da fare con gli ultimi ritocchi all'Operazione Inferno per salire a respirare un po' d'aria. Questo comunque non ha molta importanza, perché il suo desiderio di spazi chiusi e bui è diventato pressante. M è arrivato ad adorare l'oscurità. Solo tra le sue braccia morbide trova una pace momentanea. Oscurità e vendetta... dolce, dolce vendetta. Qui, sotto la città, è circondato dalla terra. Se fossi pazzo, non tornerei mai alla luce del giorno. Ma io non sono pazzo, pensa M, sorridendo. Un uomo inferiore a lui non sarebbe mai riuscito a sopravvivere alla perdita, alla prigione, alla tortura. Lui non è un uomo inferiore; è solo un uomo che vuole regolare vecchi conti. Uno per la morte di sua sorella Laura. Uno per le sue cicatrici. Uno per la perdita dell'innocenza. Uno per la delusione. Uno per gli anni in quel buco infernale. Uno per le torture. Uno per i missili Tomahawk. Uno per la perdita del suo dio e della sua anima... E chi ne pagherà il prezzo? Mentre lavora, solleva lo sguardo verso le intelaiature metalliche, dove due cavi confluiscono in un manicotto di piombo. Stringe la mano intorno al manicotto modellato, sente il calore di una cosa viva, la leggera vibrazione di un cuore o di neuroni pulsanti. Fase due: una serie di esplosioni lacererà il sistema nervoso della città. M ha scelto punti strategici. Uno: proprio sotto il complesso del Criminal Courts Building, il centro nevralgico della Corte Superiore di Los Angeles. Due: l'aeroporto internazionale di Los Angeles con le sue condutture per il carburante degli aerei. Tre: il First Interstate World Center e la Biblioteca Centrale. Quattro: lo svincolo Santa Monica-Golden State-Pomona-Hollywood Freeway. Cinque: lo svincolo Santa Monica-San Diego Freeway. Sei: il porto di Los Angeles, San Pedro. Sette: Union Station e il centro nevralgico dei trasporti della città (per
finire il lavoro cominciato con la torre dell'MTA.) Otto: il centro controllo dighe. L'innesco viene facilmente attivato per mezzo di un sistema a distanza, collegato al sistema di comunicazioni della città stessa. M è molto compiaciuto di questa semplice soluzione. Ha impiegato più di un anno per infettare la città. Come il virus dell'Aids, adesso può far sì che le cellule di Los Angeles si rivoltino contro se stesse. La bestia se ne sta rannicchiata nelle viscere della città. Il mostro ha allungato i suoi tentacoli di morte e distruzione. E la bestia, il mostro, si chiama tecnologia. Da New York a Los Angeles, le società telefoniche hanno abbandonato le loro linee Pots (quelle del buon, vecchio sistema telefonico), ormai obsolete. Tutte quelle condutture di rame, ancora perfettamente efficienti, che attraversano a zigzag tutta la città, ordinatamente disposte sottoterra e poi dimenticate. È molto più facile installare semplicemente i nuovi cavi a fibre ottiche... Be', quasi dimenticate. Le società 3Digital si ricordano delle condutture di rame; a volte arrivano addirittura a ripristinare quelle linee defunte per i loro abbonati, inviando informazioni super-veloci e supercompresse per cinquecento metri in meno di mezzo nanosecondo. Anche Ben Black, dinamitardo a pagamento, si ricorda del rame. Chilometri e chilometri di rame con gli amplificatori di potenza già inseriti nelle condutture: il potere di fare grandi cose. È tutto così semplice. In pratica, si tratta di una variazione sul tema dei gruppi di telescopi e radiotelescopi: una grande rete di esplosivi. È sufficiente sincronizzare una dozzina di piccoli strumenti astronomici per crearne uno enorme. Simon dice: solleva un ricevitore nel punto A. Chiama il punto B. Dopo quattro squilli, la chiamata viene trasferita al punto C. Idem, punto C a punto D. È una reazione a catena, una linea che si sviluppa dal porto di Los Angeles all'aeroporto internazionale, alla società dell'acqua e dell'elettricità, alla sala operativa della diga, al canale di deflusso di Ballona Creek, a Union Station, ai terminali della Red Line. Ma la parte migliore è la conclusione.
A ogni punto - A, B, C, D - M ha collegato alla carica di innesco un timer ritardato di trenta secondi; l'innesco è collegato alla carica principale, la carica principale è costituita da C-4 e Petn, con una potenza pari a una quantità di Tnt compresa tra i settecento e i novecento chili. Quando parte la prima telefonata, una scintilla elettrica schizza lungo quella buona, vecchia conduttura di rame, il telefono squilla, il timer è attivato dalla scintilla e la chiamata - e quindi l'impulso - viene passata al prossimo anello della catena. Nel frattempo, la prima bomba fa BUUM. Ma questa è la seconda fase. Fase uno: una serie di esplosioni farà ordinatamente saltare le condutture del gas che passano sopra e si incrociano con quelle del vapore, con le fognature e con tremilaottocento chilometri di gallerie di scarico acque. Il gas farà quello che fa sempre: saturerà lo spazio disponibile, creando un'enorme bomba pronta a esplodere. Ma non dimentichiamo ciò che a M importa veramente: la fase uno darà la libertà a un prigioniero. John Freeman Dantes condividerà la gloria di M perché Edmond Sweetheart lo renderà possibile. Sweetheart è un uomo d'onore e verrà a cercare Faccia d'Angelo. Adesso M osserva la carica nel foro di venti centimetri proprio sopra la sua testa. Il foro è stato fatto la settimana scorsa. Le cariche devono essere sistemate solo poco prima della detonazione perché sono sensibili e, come le belle donne, non amano che le si faccia aspettare. Ultimo controllo. M mette del fissativo intorno alla base; ha programmato le quattro cariche a brevissimi intervalli l'una dall'altra. Devono essere accurate, contenute, e devono provocare solo il danno che lui ha previsto. M si trova direttamente sotto il Los Angeles City Detention Facility. Chiude gli occhi e ascolta con grande attenzione. Sì, ecco: tap, tap, tap... Solleva la chiave inglese che stringe nella mano. Tap, tap, tap... NONO CERCHIO... Le anime dei traditori 46 È il tipo d'uomo che non esce mai di casa senza avere in tasca al-
meno un paio di granate a frammentazione M26A1. Un vero boyscout. Sempre pronto a tutto La mano del diavolo: vita e morte del terrorista Ben Black, International Press, 1999 Ore 5.39 Eccetto che per la luce dei fari, il tunnel del canale di scolo era immerso nel buio. Il furgone del County Flood Control non stava esattamente volando. Pete, supervisore dei genieri dell'esercito che collaboravano con il Flood Control di Los Angeles, teneva il piede leggero sull'acceleratore, mantenendo una velocità media di cinquanta chilometri l'ora. Ma guidare in una galleria sotterranea - con la luce che sembrava accartocciarsi in quel cilindro di cemento scavato nella terra e nella roccia, la luce che brillava incerta sull'orlo del buio totale solo per morire nel nulla - provocava illusioni ottiche, spaziali ed energetiche. Provocava intenso disagio. «Abbiamo circa tremilaottocento chilometri di canalizzazioni sotto Los Angeles» disse Pete. «Il sistema controllo acque può ricevere fino a tredicimilacinquecento metri cubi d'acqua al secondo, prima che il Los Angeles River straripi. Quando succede è un disastro. Abbiamo avuto brutte stagioni nel '36, nel '69 e negli anni Novanta.» Sylvia era incastrata nel sedile anteriore fra Pete e Sweetheart. Nonostante la sua mole, o forse proprio a causa di questa, Sweetheart era profondamente consapevole del proprio corpo: sapeva sempre quanto posto occupava e rispettava con scrupolo i confini fisici del proprio spazio. Sylvia pensò che probabilmente la maggior parte dei bambini occupava più spazio di lui. «In questo momento» riprese Pete «direi che siamo sotto il nostro punto zero... Main e First Street.» Il che significava che si trovavano sotto il centro di Los Angeles e che si stavano avvicinando all'obiettivo: l'incrocio tra Vignes e Cesar Chavez. Sylvia si morse nervosamente il labbro, osservando le pareti della galleria. Sebbene dopo il primo mezzo chilometro i graffiti fossero molto diminuiti, alcune opere, lavoro di coraggiosi e non claustrofobici artisti, erano ancora visibili. Qui non c'erano eleganti bisonti o grossi gatti. C'erano invece teschi, svastiche, simboli di gang, facce grottesche: i guardiani del mondo sotterraneo. Ogni graffito era una dichiarazione: io sono stato qui,
io sono esistito abbastanza a lungo da lasciare il mio segno. Un discorso sull'istinto umano alla procreazione, all'appartenenza e all'identità. E all'inevitabilità. VAFFANCULO A TUTTO. IL DEMONIO REGNA. LA MORTE VINCE. Pitture rupestri urbane. La nuova Avignone di Los Angeles. «Chi era quello che scese nell'inferno per riportare la sua amata sulla terra?» domandò Pete, con una voce troppo forte per quello spazio chiuso e buio. «Orfeo.» «E chi ha ucciso il Minotauro e poi è uscito dal labirinto seguendo un filo? Lo sa?» Pete si voltò verso Sylvia, il viso carico di energia nervosa. Il furgone andò pericolosamente vicino a graffiare la fiancata sul cemento. «Teseo» rispose Sylvia. Sweetheart era troppo silenzioso. «Lo sapevo e...» Pete frenò di colpo. «Ehi! Ma cosa?...» Strange sbirciò fuori, nel cilindro sotterraneo illuminato solo per un brevissimo tratto. Si sentiva la gola chiusa. «Qualcuno ha dormito nel mio lettino» disse Pete con calma. Aprì la portiera, mise fuori una gamba e passò il raggio della torcia su un mucchio di stracci, un materasso devastato, qualche confezione di cibo confezionato. Sylvia guardò il campo improvvisato. «Le è mai capitato di investire qualcuno?» «Una volta ne ho quasi messi sotto due. Li ho mancati per qualche centimetro... Gesù Cristo...» La voce di Pete sfumò, fuori vista. Una profonda spaccatura sul fondo della galleria aveva provocato uno squarcio di circa un metro dai contorni irregolari. Era possibile superarlo a piedi, ma al furgone quel salto non sarebbe piaciuto. «Ma cosa diavolo?...» fece Pete, scuotendo la testa. «Manderò una segnalazione per questa cosa.» «Voglio controllare anche più avanti» dichiarò Sweetheart. Si chinò, passò le dita intorno al bordo della buca e poi si annusò la mano. «Ha usato l'esogeno, o ciclonite, in forma di nastro. Non ha dovuto fare altro che stenderlo lungo il taglio che voleva creare.» «Datemi un minuto per comunicare la nostra posizione» disse Pete. Scomparve a bordo del furgone, la mente rivolta al lavoro. In base agli accordi, ogni trasmissione doveva essere riferita immediatamente all'agente
speciale Purcell e al Dipartimento di polizia di Los Angeles - c'era un'altra squadra di ricerca al lavoro sotto la città - ma questo significava lasciare i punti più profondi e remoti del tunnel per trovare una posizione con campo sufficiente per trasmettere. I fari del furgone illuminarono una parola tracciata con vernice spray nera: CAINA. «Nel nono cerchio dell'Inferno» disse Sweetheart sottovoce «Caina rappresenta il tradimento contro i parenti.» Sylvia rabbrividì, infreddolita nel tunnel umido e ammuffito. M aveva lasciato il suo marchio lungo la pista. Pete li raggiunse; i lineamenti erano tirati, la voce resa acuta dall'ansia. «Se volete, possiamo andare avanti.» Lasciarono il furgone, seguendo la luce dei fari. Il fetore d'acqua putrida, di terra ammuffita e di cose impensabili li afferrò alla gola. Di tanto in tanto venivano colpiti da un penetrante tanfo chimico, quasi stessero entrando e uscendo da nubi tossiche. Dopo cinque lunghi minuti il tunnel si era curvato quel tanto da scuotersi di dosso quasi del tutto i fari del furgone. Adesso erano le torce a penetrare nell'oscurità come tre lame gialle; il mondo era fatto di istanti, di brusche illuminazioni, di centimetri strappati al buio. Sweetheart procedeva lentamente dietro gli altri due. Per quello che poteva dire Sylvia, il professore si attardava a esaminare la parete di cemento ogni volta che qualcosa suscitava la sua curiosità: una piastra metallica, una conduttura elettrica... e un ordinato mazzo di cavi. «Sweetheart» lo chiamò. Visto che il professore non rispondeva, Sylvia rallentò l'andatura, poi raggiunse Pete. Ogni passo era incerto a causa dei sassi, dei vetri rotti, dei rami e di qualsiasi altra cosa fosse stata depositata dall'acqua di scarico. «Cosa c'è qui?» La domanda di Pete rimbalzò sulle pareti del tunnel. L'uomo passò il fascio di luce della torcia sull'alto soffitto curvo. All'inizio Sylvia non notò niente, ma quando Pete saggiò il soffitto con un bastone, piovvero calcinacci. «È una qualche conduttura di scarico?» «Non delle nostre.» «Cosa intende dire?» «Qualcuno ha deciso di improvvisarsene una personale... e ha fatto un lavoro piuttosto sofisticato.» Sylvia si voltò indietro in cerca del professore, distante alcuni metri.
«Un vagabondo, un senza tetto non farebbe mai una cosa del genere, vero, Pete?» «Guardi lì» mormorò Pete. Il tono di voce diceva che la mente stava già seguendo una traccia bizzarra. «Qualcuno ha scavato dei punti di appoggio per i piedi.» Sylvia vide le leggere, piccole cavità nella parete; assomigliavano alle tacche preistoriche che aveva visto nelle rovine anasazi del New Mexico: lunghe otto o dieci centimetri, profonde più o meno tre. «Gli antenati degli indiani Pueblo le facevano in modo da poter scalare una parete ripida e liscia e sfuggire ai nemici.» «Una buona idea» grugnì Pete, che stava già arrampicandosi con agilità. Mentre Sylvia l'osservava, l'uomo entrò in un'alta apertura sulla parete. Lei lo seguì. Con la testa e le spalle compresse nel varco, riuscì a vedere qualcosa solo grazie alla torcia di Pete. Dopo un brevissimo tratto, il passaggio si espandeva a una larghezza di almeno un metro per uno e mezzo d'altezza. Strange ebbe un brivido, che portò con sé l'antica paura degli spazi ristretti e poco illuminati. Non riusciva a vedere dove terminava quella nuova galleria, che sembrava allungarsi come una gola buia. «Pete, cos'è questo tunnel?» «È molto vecchio. Accidenti, non l'avevo mai notato prima d'ora.» Passò le sue grosse dita da operaio lungo una parete, sollevando piccole nuvole di polvere. «Vecchia creta... quindi non poteva essere usato per l'acqua o per le fognature.» Fece un fischio, a disagio. «Faccio questo lavoro da così tanto tempo da conoscere praticamente tutte le leggende.» «Leggende su cosa?» «Vecchie gallerie spagnole.» «Spagnole del Settecento?» «Gallerie dove uno come Zorro poteva nascondersi per anni» disse Pete con voce neutra. «Non mi piace. È meglio che lei torni indietro: questo tipo di tunnel è quello che noi del mestiere definiamo una lunga tomba.» «Voglio essere stupida e venire con lei.» Ma Sylvia aveva paura, temendo ciò che aveva sempre temuto di più: la perdita d'orientamento, emotivo o psichico, l'impossibilità di poter fare affidamento sui propri istinti. Era lì che Sylvia si sentiva più vulnerabile. Pensava che così doveva sentirsi un marinaio abituato a navigare con le stelle quando le nuvole gli nascondevano il cielo notturno. Trattenne il fiato, mentre la polvere si posava. Era contenta di indossare il casco, i guanti di pelle e gli occhiali protettivi. Il kit del pronto soccorso
le premeva sul fianco, attraverso la borsa. La torcia di Pete illuminava la terra, trattenuta da una fitta trama di radici, rocce e creta. Sylvia aveva addirittura paura di deglutire. Ogni passo, che li portava sempre più in profondità, la spaventava. Quel territorio apparteneva ad altre creature, agli animali della notte. Era giusto che una talpa avesse una tana, pensò. Pete emise un grugnito e si fermò. La torcia era puntata direttamente davanti a lui: il tunnel era collassato su se stesso. Il fascio di luce cominciò a indagare l'ostruzione. Lungo i dieci metri circa che li separavano dal muro cieco, si aprivano tre bassi varchi. Ma erano rozzi e stretti e scendevano ancora più in profondità nella terra solida. Sylvia aveva appena avuto il tempo di farsi forza per superare la propria riluttanza, quando piovvero altri detriti che le fecero stringere le labbra con forza. Mentre la polvere si posava, riaprì gli occhi e ripulì le lenti degli occhialoni. La torcia di Pete era sul pavimento; il raggio giallastro e morente illuminava la parete e le quattro lettere tracciate con vernice nera: DITE. Dite, la città dell'inferno più profondo. Un invito a scendere ancora più in profondità nel mondo di M. «Torniamo indietro» tagliò corto Pete. «Non posso assumermi la responsabilità... Dobbiamo chiedere aiuto.» Afferrò la torcia e passò accanto a Sylvia con un deciso: «Su, andiamo». Sylvia non lo seguì. Dietro di lei sentì la voce di Sweetheart: in qualche modo era riuscito a comprimersi attraverso l'apertura. «Pete, lei sa esattamente dove siamo. Prenda il furgone e ci mandi i rinforzi. Sylvia?» «Io non torno indietro senza di lei» dichiarò Sylvia con calma. «Io ho tutti i motivi del mondo per andare avanti, anche se questo dovesse significare non uscire più. Lei non ha bisogno di...» «Stia zitto e si muova.» Dopo un momento, Sweetheart annuì e disse: «Pete, avverta che probabilmente la dottoressa Strange e io avremo bisogno di una squadra di soccorso». «Non potete, non è legale» protestò Pete. «Lo è, se faccio valere il mio grado» ribatté Sweetheart. «Il governo federale è superiore alla contea di Los Angeles.» Il professore atteggiò la bocca a una linea rigida. «Lei sta sprecando tempo che non abbiamo. Quando esce, dia un'occhiata al cavo elettrico nel tunnel principale: a quanto pare, il nostro amico ha cablato la sua galleria.»
«Cablato? Vuol dire che?...» Considerate le implicazioni, Sylvia spalancò gli occhi. «Sì, esplosivi.» Sweetheart si rivolse di nuovo a Pete: «Si assicuri che l'agente speciale Purcell riceva questa informazione». «Va bene.» Pete li fissò entrambi, scuotendo la testa e offrendo contemporaneamente il suo cinturone degli attrezzi a Sweetheart. «Potrebbe farle comodo. Tornerò con gli altri il più presto possibile. So come trovarvi.» E sparì attraverso l'imboccatura della galleria improvvisata, stava tornando al tunnel principale. Sylvia ordinò al cuore di rallentare il battito. Si appiattì sul pavimento e cominciò a strisciare sulle gambe e le braccia attraverso l'apertura più piccola. Non c'è modo che Sweetheart riesca a passare... ma quando si voltò, il professore era dietro di lei, come un'ombra massiccia. Per circa cinque metri la nuova galleria risultò essere più stretta della precedente, ma poi si allargò di colpo. Lottando contro la claustrofobia, e nonostante la polvere, Sylvia inspirò profondamente. Respirare aiutava. Sweetheart passò davanti. Proseguirono in silenzio. Per Sylvia era quasi impossibile valutare la distanza: venti metri, trenta? D'improvviso sentirono il rimbombo sordo della terra che franava. Il rumore proveniva da dietro: un cedimento della volta. La luce della torcia rivelò un muro di terra nel punto in cui parte del soffitto era crollata. Continuarono ad avanzare in silenzio, solo per arrivare a un altro vicolo cieco. Questa volta, però, sopra di loro c'era un corto camino che portava a una stretta apertura. Un altro messaggio sulla parete: ANTENORA. Senza attendere la domanda, Sweetheart disse: «Il tradimento della causa o della patria. Se si sente nervosa, faccia dietrofront». «Lei non è nervoso?» «Me la sto facendo addosso.» «Io mi sento un po' meglio» riuscì a sussurrare Sylvia, nonostante la gola dolorante. La luce del suo casco protettivo creava ombre inquietanti. «Faccia dietrofront? E per andare dove?» Nella semioscurità intravide il viso di Sweetheart e l'accenno di un sorriso. Poi il professore puntellò le braccia ai lati del camino e si issò verso l'alto, riuscendo a malapena a salire nello spazio ristretto. Scese quasi subito e annunciò: «Portello metallico». «Il coperchio di un tombino?»
«Probabilmente l'accesso a un locale di servizio.» «Chiuso a chiave?» «Oppure sigillato.» «Abbiamo gli attrezzi di Pete.» Sweetheart diresse la luce della torcia sul cinturone degli attrezzi, esaminandone i pezzi e scegliendo alla fine una semplice chiave inglese arrugginita. «Vale la pena tentare.» Si issò di nuovo e si puntellò piantando un piede nella terra, tra grugniti e gemiti. Ma non funzionò. Si lasciò ricadere e passò la luce sul pavimento. «Credo di aver urtato con il piede qualcosa di duro, circa tre metri più indietro.» Sylvia seguì con lo sguardo il raggio di luce, che si fermò sull'estremità di una barra d'acciaio. Raccolse l'attrezzo improvvisato e lo porse a Sweetheart. Per la terza volta, il professore si issò nel camino e inserì a forza la punta metallica nel bordo arrotondato del portello. Fece leva di nuovo, le braccia tese sulla testa in un ultimo sforzo finale. Cinque secondi, dieci, quindici... Quando il coperchio cedette, non si limitò ad aprirsi: si spezzò. Ci fu il rumore secco del metallo che si rompeva. Poi un'ondata di aria calda e puzzolente li colpì in piena faccia. Sylvia boccheggiò. Sweetheart ricadde sul pavimento della galleria, sibilando ciò che sembrò un'imprecazione. Poi salì di nuovo e si issò all'interno dello spazio buio e chiuso. Sylvia attese qualche secondo, poi salì a sua volta. Il locale, in cemento armato, era rettangolare, circa tre metri per tre per due. Le pareti erano piene di grossi manicotti metallici che correvano per l'intera lunghezza della stanza fino alle condutture. I manicotti contenevano probabilmente cavi elettrici o linee telefoniche. Al centro della stanza c'era una pesante scaletta metallica arrugginita che scendeva dal soffitto. Sweetheart puntò la torcia sul pavimento e la fece girare in senso orario. All'inizio Sylvia pensò che la luce avesse scoperto un cane, disteso su un mucchio di stracci sudici. Ma poi vide il viso esangue e senza vita di Molly Redding. Ore 6.31 Inginocchiati accanto a quel corpo fragile, Sylvia sentì un debolissimo respiro di farfalla sul braccio e vide l'impercettibile movimento delle co-
stole sotto la lacera maglietta gialla di Molly. La ragazza era ancora viva... «È disidratata e in stato di choc» disse Sweetheart, accettando il kit del pronto soccorso di Sylvia. Aprì la confezione, esaminò il contenuto e selezionò un ago di plastica, un tubicino e un sacchetto di soluzione salina. Le mani erano ferme, mentre preparava l'occorrente. «Lei dovrà tenere il sacchetto in modo da poterle fare una flebo.» Colpì il braccio di Molly con uno schiaffetto e lo pizzicò, in cerca di una vena in cui inserire l'ago, ma la pelle era così pallida da sembrare priva di circolazione. Finalmente Sweetheart posizionò la punta dell'ago sopra un debole, flaccido vaso sanguigno. «Adesso ci provo» annunciò cupo. L'ago cominciò a penetrare attraverso una pelle sorprendentemente resistente. Comparve una piccola goccia di sangue. Il professore continuò a premere con cautela. Molly si lamentò. Sweetheart la chiamò per nome, picchiettandole le guance con le dita. «Forza, Molly, torna indietro!» Inserì l'estremità del tubicino nell'ago. Gli occhi grigi si aprirono, sbattendo le palpebre. Tra i gemiti, Molly cercò di riemergere. «Va tutto bene» la rassicurò Sweetheart con dolcezza. La prese tra le braccia, sussurrando: «Farò in modo che vada tutto bene». La ragazza si agitò; accennò a sollevare una mano, ma i muscoli rifiutarono di rispondere. Molly aprì la bocca e Sylvia si chinò per ascoltare. «Sweetheart...» La ragazza deglutì ed ebbe un brivido. «Ho pregato che...» Gli occhi si chiusero di nuovo. Il professore, che si rifiutava di staccarsi dalla nipote, ordinò a Sylvia di puntare la luce sulla scaletta che scendeva dal soffitto al pavimento con una leggera inclinazione; i pioli metallici erano grossi e arrugginiti. Sylvia puntò la torcia sul coperchio del tombino in cima alla scala. Per un istante immaginarono una via d'uscita. Poi la luce illuminò grosse e pesanti sbarre di sicurezza: il coperchio era stato deliberatamente sigillato, bloccato da massicci pezzi di metallo che si incrociavano sulla superficie. «Mi faccia vedere in che posto ci troviamo» disse Sweetheart. Sylvia si spostò e illuminò lo spazio vuoto intorno a sé, poi la luce colpì il profilo di una rozza piastra d'acciaio sulla parete opposta. Da quello che poteva intuire, doveva trattarsi di una specie di passaggio, simile a quello di cui si erano serviti per entrare. Portava ancora più in profondità nella rete sotterranea di tunnel, condutture, tubature, stanze? Oppure era veramente una via d'uscita verso l'aria
aperta e la salvezza? «Proviamo a trasportare Molly lungo il percorso da cui siamo venuti» suggerì Sylvia. «Non ce la faremmo mai. Può provarci lei... e ritornare con i soccorsi.» «È sicuro di non riuscire a farci uscire dal tombino?» Puntò la luce in alto per la seconda volta. Il sistema di bloccaggio sembrava inattaccabile. «Controlliamo di nuovo questo posto» disse Sweetheart. «Magari ci è sfuggito qualcosa.» Il fascio di luce sfrecciò come un uccello spaventato nel locale e questa volta illuminò un armadietto di vetro (appena sopra il livello degli occhi) con un estintore e la scritta in caratteri rossi CASSETTA D'EMERGENZA 3456. Continuando a sostenere Molly con il braccio destro, Sweetheart si voltò per studiare la cassetta. «Da qui sembrerebbe pulita» osservò. Strange si rese conto che il professore stava valutando le probabilità di una trappola esplosiva contro la possibilità di far avere a Molly una vitale assistenza medica. «Vede qualcosa? Cavi, segni di manomissione?» «No, niente.» Ma Sylvia sentì che il battito del proprio cuore accelerava. Non riusciva a prendere la decisione. Improvvisamente Sweetheart sollevò un braccio sopra la testa e con un pugno mandò il vetro in frantumi, strappando lo sportello dai cardini. Poi afferrò il ricevitore del telefono d'emergenza. Quasi subito sussurrò: «Merda». Sylvia gliela lesse negli occhi: la paura. Capì che la cassetta era una trappola e si preparò all'impatto rannicchiandosi sul pavimento. Sweetheart protesse Molly con il proprio corpo. Per trenta secondi non accadde nulla. Poi l'esplosione scosse la terra come un terremoto, facendo tremare il cemento armato. Le onde d'urto si susseguirono violente in una marea molecolare che bloccò una via di fuga - il tunnel che avevano appena lasciato - e aprì un buco nella parete opposta. L'onda finale strappò il metallo dai cardini e lo sparò nel buio... Poi, come un cielo cadente, la pesante scala metallica crollò su di loro. 47 Quella sera, mentre vago senza meta in centro - oltre il Nickel, dove i falò ardono nei bidoni, e oltre le strade commerciali ad-
dormentate - la ziggurat scintilla come la Torre di Babele e Broadway scorre come un fiume sacro verso le terre promesse di San Gabriel, Rosemaead, El Monte. John Dantes Ore 6.31 Davanti alla cella di Dantes nel seminterrato, lo sceriffo federale Fitz salutò con un cenno del capo l'agente Jones. Attraverso lo spioncino i due potevano vedere ciò che sembrava essere il prigioniero disteso sul letto, il corpo nascosto da una coperta. «Andiamo» disse Fitz. Jones diede un'occhiata all'orologio e corrugò la fronte. «Sei in anticipo.» «Una misura di sicurezza» disse secco Fitz, mentre Jones apriva la porta. Lo sceriffo entrò per primo, seguito da Jones, che entrò con riluttanza nella cella buia. «Metti le mani dove io possa vederle» ordinò Fitz. «Voglio che tu adesso ti alzi lentamente e ti allontani dal letto.» La testa di Dantes emerse da sotto la coperta. «Partiamo già?» Sembrava assonnato e confuso. «Metti le mani dove io possa vederle» ripeté Fitz. «Sopra la testa. Subito.» Dantes guardò la coperta, poi rialzò lo sguardo sullo sceriffo. «Ho bisogno di aiuto» disse sottovoce. Fitz fece un passo avanti. Fu sufficiente. Dantes ruotò il pezzo di tubo come una mazza da baseball e lo calò sul braccio destro dello sceriffo, che si spezzò con un rumore secco e raccapricciante. Un secondo colpo raggiunse Fitz alla tempia e l'uomo barcollò all'indietro. Dantes balzò su Jones e gli sbatté la testa contro il muro. Non c'era tempo per fare nient'altro. L'esplosione dal basso squarciò il pavimento di cemento armato, scaraventando nella cella una pioggia di shrapnel a trecentosessanta gradi. Come una rabbiosa bestia satanica, si aprì la strada dall'inferno, artigliando terra, cemento e metallo, sputando scarti e rifiuti, divorando la vita con il suo tossico respiro di fuoco. Portando il buio.
48 Io non mori', e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, qual io divenni, d'uno e d'altro privo Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIV Ore 6.34 Sylvia aprì gli occhi e scoprì il buio. Si sforzò di orientarsi. Erano passati minuti dall'esplosione? Non sapeva se aveva perso i sensi. Si sentiva stordita, inebetita. La polvere le intasava gola e polmoni. Era in trappola. Un peso insopportabile le premeva sul corpo. Se cercava di muoversi, il dolore le pugnalava i muscoli. Non riusciva a vedere Sweetheart e Molly. Era sorda a ogni suono, a eccezione del flusso del sangue nelle arterie. Poi il cielo sembrò sollevarsi, piovvero detriti e terriccio e lei poté respirare di nuovo. E muoversi. Inghiottì l'aria a grandi respiri; si fregò gli occhi e, quando li riaprì, vide un fantasma grigio. Era a pochi centimetri da lei, chino sulle ginocchia e lottava per sollevare mezza tonnellata di metallo arrugginito. Sweetheart, illuminato da una luce debole e coperto di polvere. «Esca di qui» gemette il professore, sollevando la scala crollata. Molly era rannicchiata ai suoi piedi. «Trovi Purcell o Pete. Loro sapranno come farci uscire.» Barcollando, Sylvia cercò l'apertura attraverso la quale erano entrati, ma era scomparsa, bloccata dai detriti. «L'altra uscita» sussurrò Sweetheart. Strange si voltò piano, cercando l'altra uscita possibile, l'unica ormai. La torcia del casco emetteva ancora una luce flebile. Gli occhi trovarono i contorni di un'apertura. «Lei sa esattamente dove siamo... farò in modo che Molly e io restiamo vivi. Vada a chiamare i soccorsi.» Sylvia si avventurò nel buco nero.
Ore 6.41 Nel tunnel di terra, l'aria calda e buia l'avvolse come il respiro di un enorme animale. Anche se era costretta a stare chinata, il passaggio era abbastanza largo da permetterle di procedere con una certa velocità, quasi al piccolo trotto. Nel primo tratto la galleria si sviluppava in linea retta e la visibilità andava dai tre ai cinque metri. Ma ben presto il tunnel si inclinò in salita, per poi scendere di nuovo. Sylvia cominciò a iperventilare e a sentire nelle gambe la minaccia dei crampi per lo sforzo della posizione curva. C'era acqua che gocciolava sul cemento e Sylvia avanzava sguazzando in pozzanghere fetide. Continuò a procedere, mentre intorno a lei lo spazio si restringeva e poi di nuovo si allargava, in alternanza. Si ritrovò in un punto in cui la terra era così umida da causare una sorta di nebbia, che le penetrava attraverso gli indumenti e le faceva bruciare gli occhi. L'odore della terra bagnata era pungente; radici e rametti le graffiavano il viso. Si protesse la faccia con le braccia, ma non si fermò, timorosa di rallentare, cercando continuamente di recuperare un qualche senso d'orientamento. Doveva trovarsi tra i tre e i sei metri sottoterra. Nella migliore delle ipotesi, aveva percorso circa quattrocento metri da quando aveva lasciato il locale in cui erano intrappolati Sweetheart e Molly. Non aveva modo di sapere se era diretta a ovest, a est, a nord o a sud. Il raggio di luce della torcia ebbe un tremolio. Questo è un vicolo cieco. Il tunnel crollerà. La voce interiore la scherniva. Sto strisciando nella mia tomba. Sarò sepolta viva. Scacciò rabbiosamente la paura, ignorando la minaccia di un'altra esplosione, continuando il cammino finché qualcuno l'afferrò per la spalla. Sylvia urlò, dimenandosi per cercare di allontanare da sé quelle braccia rozze. L'adrenalina le inondò il sistema nervoso. Ci mise qualche secondo per rendersi conto che il suo aggressore non era una persona. Strinse le dita intorno al pezzo di tubatura verticale che pendeva dall'alto ed emise un lamento di frustrazione e di paura. Si passò la manica sul viso. Si accorse per la prima volta che minuscole schegge le erano penetrate nella carne e che la pelle era punteggiata da gocce di sangue. Si fece forza, respirando piano e a fondo.
La torcia si spense. Era sola nel buio... sola con il ritmo sempre più veloce del proprio cuore. Si abbracciò, dondolandosi avanti e indietro come una bambina smarrita e bisognosa di conforto. Non c'era modo di tornare indietro, non c'era modo di andare avanti. "Ecco com'è morire" pensò. Vide il viso di Serena. Questo è morire. Poi pensò a Sweetheart e a Molly, intrappolati nelle rovine. M e Dantes li avevano attirati all'inferno. Lei non sarebbe riuscita a trovare aiuto e la ragazza e il professore sarebbero morti, soffocati sotto la Città degli Angeli. Si lasciò sfuggire un unico, basso lamento e lo sentì echeggiare. Echeggiare... Tastò intorno a sé nel buio e toccò terra fredda e umida, rocce, cose aguzze che le tagliuzzarono i palmi delle mani. Si spostò, ruotò goffamente su se stessa... e la vide. Luce. Un debole fascio circolare che filtrava dal basso. Sylvia cominciò ad avanzare, palmo a palmo. Strisciò fino ad arrivare a un bordo. E a un buco nero, dove l'aria era più fredda. Le pupille le si erano dilatate per assorbire anche il minimo accenno di luce. Sylvia si ritrovò a guardare un salto di quattro, cinque metri. Riuscì a malapena a distinguere, proprio sotto di lei, il luccichio di un torrente nerastro e il nastro doppio di due binari: doveva essere un tunnel della ferrovia, ora abbandonato, collegato a Union Station. Cercò un modo per calarsi nella galleria. Poco più sotto di lei, un groviglio di sbarre si tendeva nel vuoto. Sporgendosi cautamente oltre il bordo, Sylvia strinse nella mano il metallo corrugato. Strisciò ancora in avanti per circa un metro, fino a ritrovarsi con il tronco sospeso nel vuoto. Stava usando il proprio corpo come un contrappeso. Un piede le scivolò, trascinando con sé il resto del corpo attraverso l'apertura. Rimase aggrappata alla sbarra, le braccia tese in tutta la loro lunghezza, dondolando a mezz'aria. Spostò lentamente le mani lungo il metallo arrugginito. I muscoli delle spalle e delle braccia erano in fiamme. La sbarra cominciò a piegarsi, cedendo al peso come al rallentatore. Non ti spezzare.
A pochi centimetri dall'estremità della sbarra, Sylvia perse la presa. D'improvviso stava cadendo. Atterrò rovinosamente. La luce del casco prese vita, ammiccando. Sylvia rimase distesa, stordita, e quando finalmente riuscì a muoversi, lo fece con estrema lentezza. Si mise a fatica in ginocchio e, dopo qualche istante, si alzò in piedi, guardandosi intorno con ansia. A quanto pareva si trovava in una vecchia area destinata a magazzino e servizio della ferrovia. Lungo le pareti dello spazio cavernoso, puntellate da travi, erano allineati contenitori metallici da trasporto. I binari erano centrati come una cucitura. Sylvia cominciò a seguirli, in cerca di luce, aria, libertà. Dopo pochi minuti arrivò a un vicolo cieco. La galleria doveva essere crollata molto tempo prima, oppure era stata chiusa intenzionalmente. Strange tornò sui suoi passi. Solo per ritrovarsi in un altro vicolo cieco. La paura le diede una sensazione di vertigine. Si sforzò di concentrarsi. Un tempo quel tunnel si collegava ai binari principali. Adesso non più. Entrata e uscita erano bloccate. Sylvia ruotò su se stessa, illuminando con il sottile fascio di luce del casco curve, crepe, fenditure. Ma non trovò tracce di un passaggio, di una porta, di un varco. Si mise a sedere, esausta. Fu allora che vide la parola tracciata con spray rosso sulla parete di terra: COCITO. Sylvia la riconobbe. Cocito era il nome di un lago nel nono cerchio dell'Inferno, dove le anime dei traditori erano imprigionate nel ghiaccio fino al collo. C'era un'apertura sopra il graffito di M: un passaggio largo circa un metro. Sylvia non l'aveva notato prima perché era molto più in alto del livello degli occhi. Pensò di essere vicina all'antico pueblo spagnolo di Los Angeles. Forse il passaggio aveva fatto parte di un acquedotto, o forse era un primitivo oleodotto, residuo del boom petrolifero degli anni Venti. In entrambi i casi, era possibile che fornisse una via d'uscita. Strange cercò di valutare l'altezza dell'apertura. Era assolutamente fuori portata, non ci sarebbe mai arrivata senza un appoggio. A fatica fece rotolare un bidone metallico sul pavimento. Quando finalmente il bidone fu in posizione, le offrì la base rialzata di cui aveva bisogno. Sylvia spiccò un salto, spingendo con un piede, graf-
fiando con l'altro. Si tuffò di testa nell'apertura e usò il proprio corpo per spingersi avanti, guadagnando qualche altro centimetro. La torcia si spense. Immobile, Sylvia rimase distesa nel buio. Fu una specie di resa. Dopo qualche minuto la paura svanì e Strange riprese ad avanzare. Il passaggio le consentiva a malapena di strisciare carponi. Perdere la nozione del tempo. E dello spazio. Essere completamente disorientata. Arrivò in un punto così stretto che si ritrovò praticamente incastrata. Il polso, già veloce, accelerò ancora di più e il respiro si fece affannoso. Non poteva far altro che aspettare che passasse il peggio: le vertigini, la nausea... Si sentì svenire e poi il corpo le parve senza peso; il dolore si dissolse in un grido... Il suono svanì e rimase soltanto il sussurro di uno spettrale vento lamentoso. «... e dal cerchio più profondo dell'inferno i demoni salivano sulla terra per rubare le anime dei morti... ma per i traditori non avevano bisogno di aspettare la morte... potevano rubarne l'anima nell'attimo stesso del tradimento... da quel momento in poi l'anima era all'inferno, ma il corpo restava sulla terra, posseduto dal demonio... a te hanno preso l'anima quindici anni fa, amico mio, mio nemico...» «Benvenuta, dottoressa Strange.» Esplose una luce accecante, al calor bianco. Che rivelò un bunker dalle pareti rivestite di metallo, una specie di capannone. Lungo le pareti erano ammucchiati contenitori, taniche, scatole. Il pavimento era in terra battuta. Nell'aria aleggiava un debole odore di gas. Una figura entrò nel campo visivo. Un uomo dai corti capelli biondi, il corpo compatto e muscoloso, i lineamenti singolarmente attraenti. «Sei arrivata giusto in tempo» disse l'uomo chinandosi. In una mano stringeva un piccolo coltello. «So chi sei» sussurrò Sylvia, spostandosi in modo da poter appoggiare il proprio peso alla parete. Sentiva le spalle e la schiena ammaccate e indolenzite. In quel momento si accorse di John Dantes, seduto su una cassa a circa cinque metri di distanza. I polsi erano legati con del nastro isolante, fissato
a un gancio in alto. «E conosci già John. Per semplificare le cose, puoi chiamarmi M.» L'uomo sorrise. «Quando avrai ripreso fiato, potrai notare che sei attaccata a un ordigno esplosivo.» Sylvia abbassò lo sguardo: il suo braccio sinistro era fissato con il nastro adesivo a una grossa bomba rettangolare. «Non fare movimenti improvvisi» le consigliò M in tono gentile. «Bisogna stare attenti con gli esplosivi e le bombole di acetilene. E, se fossi in te, ignorerei qualsiasi desiderio di fumare. Giusto, John?» Dantes non rispose. Sylvia lo guardò. Eccola di nuovo: la sensazione ormai familiare che un'anima sconosciuta vivesse sotto la pelle di Dantes. «Perché stai facendo tutto questo?» M batté le mani. «Eccellente domanda. Eravamo nel bel mezzo di qualcosa, quando d'improvviso sei piovuta tu.» La osservò con curiosità. «In realtà pensavo che ormai tu fossi morta, soffocata insieme a Sweetheart e alla sua preziosa nipote.» Si strinse nelle spalle. «Non abbiamo tempo per queste storie.» Dantes sembrava annoiato. M agitò una mano per farlo tacere e riprese: «Stavo ricordando a John che l'Inferno è un viaggio alla scoperta di se stessi... un viaggio verso Dio. Storico ed eterno. Tu sei una studiosa della psiche umana: sei d'accordo che si tratta di un viaggio verso Dio?». «A un certo livello di lettura, sì» cominciò Sylvia lentamente. La voce era debole. «È anche un viaggio attraverso l'inconscio.» «Proprio così.» M sorrise. «A paragone di Dantes, io sono un uomo semplice. Dopo che il mio eroe ha ucciso mia sorella e mi ha distrutto illusioni e innocenza, mi sono reinventato. Ho eliminato i miei genitori. E mi sono unito a qualsiasi movimento rivoluzionario sia riuscito a trovare. Ho lavorato con l'Ira, con il Plo, con gli uomini di Gheddafi e con quelli di Bin Laden, fino a diventare un maestro nel mio ramo. Solo allora ho potuto prendere il nome di Ben Black...» «Piantala con questa storia» lo interruppe bruscamente Dantes. «Dottoressa Strange» proseguì M «Dantes ti ha eletta sua Beatrice. Il mio amico crede di essere innamorato, glielo leggo negli occhi. Questa è la buona notizia. La cattiva notizia è che era innamorato anche di mia sorella Laura. E guarda cosa le è successo: lui l'ha fatta saltare in aria. Perché? Perché è un vigliacco.» M si interruppe, improvvisamente dimesso, come se le sue stesse parole avessero fatto breccia nella facciata che esibiva.
«Beatrice, perché un uomo diventa un fanatico, un rivoluzionario? Può essere che sia per sfuggire alla verità, al fatto che è un codardo e un impostore? Può essere questo il motivo?» «È possibile» mormorò Sylvia. «E può un uomo diventare uno zelota della fede per sfuggire a un'altra verità, e cioè che tradirà il suo più caro amico, la sua causa, il suo fratello di sangue?» «Si chiama proiezione: formazione reattiva» rispose Sylvia cautamente. «Vedi, John: la dottoressa ha un nome per questa cosa.» M si voltò e si avvicinò a Dantes. «Un demonio ti ha rubato l'anima il giorno in cui hai lasciato morire mia sorella.» Dantes lo guardò; gli occhi erano spenti, il viso impassibile. Scosse la testa. «Mi dispiace deluderti, Simon. Ma io avevo perso l'anima molto tempo prima di incontrarti.» «Tu vuoi sempre avere l'ultima parola» disse M con rabbia, facendosi indietro. Per un istante sembrò uno scolaretto stizzoso. Ma poi la sua espressione si indurì. «Abbiamo due possibili scenari. Il primo appartiene al demonio. Tu, Beatrice, resti con la bomba. Dantes e io ce ne andiamo. Quando ci sarà l'esplosione...» guardò l'orologio «... fra tre minuti e ventinove secondi, tu salterai in aria, innescando una serie di esplosioni secondarie in vari punti strategici.» Scrollò le spalle. «In sostanza, Los Angeles verrà storpiata... forse oltre ogni possibilità di recupero.» M non aveva staccato gli occhi da Dantes, ma adesso ricontrollò l'orologio. «Tre minuti e quattro secondi: è quasi ora di tagliare la corda. Ma c'è un secondo scenario... e questo appartiene all'eroe caduto.» Sorrise. «Funziona così: lascio Dantes qui con te, dottoressa Strange. Lui ha appena il tempo di liberarti, ma nel corso dell'operazione fa scattare una trappola esplosiva, un altro innesco della tua bomba. Vedi quel cavetto arancione che hai vicino al gomito? Proprio quello. Los Angeles si salva perché l'esplosione resta confinata all'interno di questo bunker... ed è possibile anche che Beatrice riesca a scappare: ha trenta secondi buoni per uscire di qui e salire la scaletta di un tombino. Ma questo solo se Dantes tiene il dito premuto sul cavo. E quando arriva il momento... bum! John Dantes sacrifica se stesso e muore da eroe.» M sospirò. «Due minuti e tredici secondi. Due minuti e dieci secondi. Due minuti e sette secondi.» Fece una pausa, studiando il suo pubblico e fingendo perplessità per la loro mancanza di entusiasmo. Finalmente si rivolse a Dantes per avere conferma: «Lei muore, sì?».
Dantes annuì. Sì. «Sì.» M si voltò verso Sylvia: «Mia bella Beatrice, dov'è adesso la tua preziosa fede? Non negarlo: tu credevi in John». M adesso stava camminando, vicino alle bombole di acetilene allineate lungo la parete. Sylvia lesse le parole scritte sul metallo: PERICOLOPELIGROSO. Ricordò le parole di Dantes: "L'acetilene diventa instabile alla pressione di uno virgola settantacinque chili per centimetro quadrato... È appena un po' più leggero dell'aria...". «Non che abbia importanza» stava dicendo M «ma a Dantes piacerebbe moltissimo uccidermi e scappare. Sfortunatamente per te, assomiglierebbe troppo al passato.» Continuò a camminare, molto lentamente. Quando fu vicino a Dantes, si chinò rapidamente in avanti e tagliò il nastro adesivo con il piccolo coltello. «"Da quale parte volerò, infinita ira e infinita disperazione? Da qualsiasi parte io fugga, è inferno; io stesso sono inferno"» mormorò M. Con le mani libere, Dantes si massaggiò i polsi e gli avambracci. Non fece alcun gesto per alzarsi in piedi. «Questo ti interesserà, dottoressa Strange» riprese M, passandosi la lingua sulle labbra. «Dantes è convinto che il suo disturbo di conversione fosse tutto una finzione. Dimentica molto opportunamente l'Ucla... quello era vero. Anche se a lui piace raccontarsi di avere confuso le cose nella memoria. Ma noi sappiamo la verità, non è vero?» Dantes guardò Sylvia negli occhi; c'era forse un'impercettibile punta di rammarico nelle iridi grigio-verdi. «M ha ragione. L'attentato dinamitardo è un crimine da vigliacchi» disse sottovoce. «Ho perso la mia fede da troppo tempo per essere degno della tua.» Sylvia rimase a fissarlo, mentre i pensieri le si accavallavano frenetici nella mente: i rigidi ideali di Dantes, la sua ossessione per la madre e l'ossessione parallela per Los Angeles, il suo rapporto con Simon Mole: una storia che comprendeva tutti gli elementi dell'amore e della vendetta. Solo che Sylvia non conosceva ancora la fine di quella storia... non riusciva a credere che Dantes avrebbe condannato se stesso all'inferno. Lo guardò di nuovo negli occhi e lui sostenne il suo sguardo: l'energia c'era ancora, ancora viva. Sylvia scosse la testa. «John, tu non sei un vigliacco.» Vide Dantes reagire. Se ne accorse anche M, che scattò nello stesso istante, come per spezzare la connessione tra Sylvia e Dantes. Inciampò nel bordo di un contenitore metallico, che cadde rotolando ru-
morosamente. Quel suono improvviso, quel movimento, bastò a distrarlo per un attimo. Dantes si lanciò in avanti e i due uomini crollarono entrambi a terra, imprecando. L'uno sopra l'altro, le mani strette intorno al collo dell'avversario. M costrinse Dantes contro la parete. Le bombole di acetilene crollarono sul pavimento. Dantes tastò alla cieca intorno a sé e riuscì ad afferrare un pezzo di tubo metallico. Lo calò con violenza. Ci fu il suono sordo di qualcosa che si spezzava e M sembrò afflosciarsi. Cadde a terra sulla schiena, gli occhi spalancati per la sorpresa. «Mi hai... rotto la schiena» mormorò. «Questo non rientrava nel piano.» Ma Dantes era già accanto a Sylvia. Tagliò il nastro adesivo con l'estremità appuntita del tubo. Stringendo il cavetto arancione tra le dita, sussurrò: «Tu sapevi che non ti avrei abbandonato... non Los Angeles, non tu». «John...» L'uomo strappò un altro filo. «Adesso esci di qui!» Sylvia si voltò barcollando verso il buio. «Corri!» urlò Dantes. Sylvia corse lungo il tunnel, riuscendo a lanciare una rapida occhiata dietro di sé. Intravide Dantes che si chinava sopra la bomba. Trovò la scaletta, salì e colpì qualcosa di metallo. Il coperchio cedette di colpo, spalancandosi, e il sole le scaldò il viso. Adesso era fuori, richiudeva il coperchio del tombino sbattendolo e si tuffava dietro un'auto parcheggiata, atterrando con violenza sull'asfalto. Quando il bunker esplose, le fiamme schizzarono dal tombino verso il cielo, la terra tremò e un ruggito riverberò attraverso la Città degli Angeli, come un'eco dei venti che correvano sulle rovine deserte di Babilonia. EPILOGO Seigen jtkan ippai! (Tempo scaduto!) Arbitro 30 giugno - due mesi dopo... Le luci al neon illividivano la strada, pulsando in rosso, blu e arancione sull'asfalto bagnato. La sera era tranquilla, i rumori del traffico erano
smorzati dalla pioggia leggera e l'unica altra passante era una donna snella in impermeabile nero sotto un ombrello bianco. Sylvia si passò una mano sugli occhi e, quando li riaprì, la donna era scomparsa. Abbassò lo sguardo e vide Serena sorridere, gli occhi brillanti d'eccitazione. Il club si trovava in fondo a una stradina, Chunking Alley, che correva da ovest a est. Luke fu il primo a entrare attraverso un basso e stretto portoncino che Sylvia di sicuro non avrebbe mai notato. Sotto la manica della T-shirt, quasi a indicare il percorso, il tatuaggio del pesce volante risaltava sulla pelle chiara. Purcell e Pete, che adesso era un eroe del County Flood Control, li avrebbero raggiunti più tardi. Gretchen seguì Sylvia e Serena attraverso il portoncino e salì con loro una lunga rampa di scale. Sylvia fu sorpresa quando emersero in una galleria che dava su una piccola arena, quindici metri sotto di loro. Luke le sussurrò all'orecchio: «Il ring si chiama dohyo». Silenzioso ed eccitato, un pubblico di oltre cento persone attendeva l'inizio. Alle loro spalle, una serie di bandiere dai colori dell'arcobaleno. «Quelli sono i nobori, Serena» spiegò Luke. «Sopra ci sono i nomi dei rikishi... gli "uomini forti" che gareggiano.» Sylvia si guardava intorno con curiosità. «Dov'è Sweetheart?» domandò, leggermente perplessa, sfiorando il posto vuoto alla sua sinistra. «È qui, da qualche parte» rispose Luke vago. «Ci sarà un mucchio di rituali, per esempio...» E procedette a spiegare, travolgendo Serena e Sylvia con un fiume di parole strane. Disse: «Questo non è honbasho, cioè un torneo importante. Di tornei ufficiali ce ne sono solo sei all'anno, e tutti in Giappone. Questo è jungyo, vale a dire un'esibizione rituale. E anche queste sono molto rare fuori dal Giappone. Siamo fortunati a essere qui». Sorrise. «È stupendo che voi due siate venute dal New Mexico.» Gretchen sfiorò la gamba di Sylvia e le disse: «I lottatori entrano a far parte di una heya, una scuderia, appena escono dal college, e poi cominciano a risalire la classifica attraverso le varie divisioni...». «Serena?» fece Sylvia, sorridendo. «Mi piace questa cosa» disse la bambina. «Quando tornate a Santa Fe?» domandò Luke. «Domattina presto. A meno che non riusciamo a convincere Matt a raggiungerci qui.» «Ci riusciremo» dichiarò Serena. Un mormorio di eccitazione attraversò il pubblico. Sylvia vide parecchi
uomini entrare sul ring. I due lottatori indossavano le tradizionali cinture sumo. Uno di loro aveva un'aria familiare... «È molto raro che un non giapponese diventi lottatore di sumo» disse Luke. «Adesso stanno gettando sale sul ring come offerta agli dèi...» Guardò sopra la testa di Sylvia e sorrise. Lei si voltò, aspettandosi di vedere il professore, ma fu Molly Redding che occupò il posto alla sua sinistra. Sylvia le strinse la mano e Molly ricambiò la stretta. Colse lo sguardo di Sylvia e con gli occhi rispose: sto bene. Sorrise a Serena e si allungò per abbracciarla. Un grido si alzò dalla folla. Sylvia, Molly e tutti gli altri incollarono lo sguardo sul ring. L'incontro era cominciato. Fu al momento del primo contatto che a Sylvia sembrò di riconoscere il più piccolo dei due lottatori: qualcosa nella sua postura, nella statura, nella grazia dei movimenti. Spalancò gli occhi e si voltò verso Luke, che però mantenne ostinatamente lo sguardo fisso davanti a sé. RINGRAZIAMENTI Un ringraziamento speciale a: David Rosenthal e Marysue Rucci; Theresa Park, Julie Barer e Peter McGuigan; Miriam Sagan; Julia Goldberg; Sharon Neiderman; Carolyn Guilliland; Michael Mariano; Maggie Griffin; Brian Wiprud; Charles Knief; Bruce Mann, M.D.; Reid Meloy, Ph.D., A.B.P.P.; James Eisenberg, Ph.D., A.B.P.P.; Russ "Dynamite" Deal; S.A. John Hoos, Fbi; LA County Flood Control; Paul Cooper; Jad Davis; Peter Miller; Alan Zelicoff; March Kessler; Don Opper; Tom Johnson; Dorothy Bracey; Phyl Schnyder e "AskSam" Peter Schoenburg, Esq.; Alice Sealey; Reilly Johnson; Jill Ryan; Ann Pederson; Mark Donatelli, Esq.; Sandy MacGregor; Marilyn Abraham; Jim, Katie, Stephanie e Jim Jr Gallegos; Pat Berssenbrugge; Michael Gelles; Larry Renner; Jacqueline West; Peter Miller; Ron Schultz; Hope Atterbury; Tuko Fujisaki; Ana Matiella; Stephanie Marston; Rod Barker; Donald Fineberg, M.D.; Rich Feldman; Loretta Denner; Lew Thompson e, naturalmente, Tim Thompson. FINE