ANDY McNAB NOME IN CODICE DARK WINTER (Dark Winter, 2003) 1 Penang, Malesia Domenica 20 aprile, ore 20.15 Il colossale c...
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ANDY McNAB NOME IN CODICE DARK WINTER (Dark Winter, 2003) 1 Penang, Malesia Domenica 20 aprile, ore 20.15 Il colossale cartello spiegava in inglese, cinese, malese e perfino in hindi che il traffico di droga era punito con la morte. E l'immagine di un cappio chiariva il messaggio per chi avesse avuto problemi a comprendere il significato delle parole. L'annuncio però ometteva che, in quel momento, in Malesia si trovava la più alta concentrazione di terroristi di Al Qaeda fuori dai territori di Afghanistan e Pakistan, una circostanza che la rendeva un Paese piuttosto improbabile come meta di vacanze. Tenevo il casco nell'incavo del braccio destro ed ero troppo accaldato e sudato anche solo per dire di no agli ambulanti che mi sventolavano sotto il naso i loro assurdi souvenir. Il marciapiede era stretto e non potevamo camminare l'uno accanto all'altra, ma ero certo che Suzy mi stava attaccata alle spalle. Impossibile non riconoscere il suo accento dell'Inghilterra meridionale, anche perché, per essere sicura che la sentissi sopra il frastuono del traffico, stava urlando. «Nick, ti ho già detto che mio padre ha fatto qui il servizio militare?» Soltanto un'ora prima c'era stato un tipico rovescio di pioggia tropicale e l'aria era pesante e appiccicosa. La strada che attraversava il mercato era stretta, stracolma di auto e di autobus diesel arrugginiti. Scooter e motorini Honda anni '70 ronzavano ovunque come moscerini. Il lungomare di Batu Ferringhi, dove si trovava il nostro Holiday Inn, era punteggiato di alberghi di lusso e di alberi di equiseto, ma più ci allontanavamo dalle spiagge, non particolarmente bianche a dire il vero, più incontravamo baracche dai tetti di lamiera ondulata. In quegli agglomerati viveva e lavorava la maggior parte dei malesi. Le bombe di Bali, la guerra in Iraq, l'epidemia di SARS avevano compromesso il turismo, e ciò rendeva noi superstiti un bersaglio ancora più ambito per i venditori di Rolex contraffatti, CD pirata, mascheroni di legno e chincaglieria da quattro soldi di probabile provenienza cinese. Dai piccoli generatori a petrolio che fornivano energia alle griglie su cui arrostivano
enormi quantità di kebab di pollo si alzavano sbuffi di fumo. Le antiquate insegne al neon ce la mettevano tutta per attirarci nei caffè lungo la strada. Per nulla demotivata dal mio silenzio, Suzy continuava a blaterare. «Proprio così, anche se c'è stato per poco. Voleva entrare in marina e invece l'hanno arruolato nei furieri dell'esercito e l'hanno spedito qui.» Emisi un grugnito di assenso, ma in realtà non l'ascoltavo. La nostra vacanza non procedeva male, a esclusione della sua dipendenza dal fumo. Evitava di fumare in camera, ma sono sicuro che le sarebbe piaciuto farlo, se non altro per dispetto. «Ci è rimasto a dir tanto un paio di mesi, poi se l'è filata. Non sopportava di friggere tutte quelle uova, immagino. Credo che tecnicamente sia ancora considerato un disertore», concluse. «Anche se è morto.» Mi voltai e le concessi una specie di sorriso. I capelli castano scuro, lunghi sulle spalle, le incorniciavano il viso che teneva curvo in avanti, lo sguardo fisso ai piedi per evitare il fiumiciattolo che correva parallelo al marciapiede. Sulla nuca la capigliatura era sudata e si appiccicava al collo. Eravamo al nono giorno di una romantica vacanza di due settimane. Ci eravamo incontrati per caso in un bar di Londra un paio di mesi prima. Me ne stavo seduto al banco davanti a una birra e quando lei si era avvicinata per ordinare l'avevo presa in giro per il suo accento. Lei mi aveva risposto con fierezza che faceva parte di una classe sociale molto superiore alla mia. Avevamo attaccato discorso e quando se n'era andata mi era rimasto il suo numero di telefono. Lavorava in un'agenzia di viaggi e quella era una delle poche cose che sapevo di lei. I suoi genitori erano morti ed era figlia unica. Divideva un appartamento a Shepherd's Bush con altre due donne. Non le piacevano i pomodori né la dimensione dei suoi piedi e ciò, più o meno, era tutto. Da quando la guerra era finita e il saccheggio di Baghdad e Bassora si era lievemente attenuato, la SARS occupava tutti i titoli dei giornali. Vai a sapere perché. Su Newsweek avevo letto che altre forme di polmonite uccidevano oltre quarantamila persone l'anno solo negli Stati Uniti, la malaria quasi tre milioni in tutto il mondo e la tubercolosi provocava più o meno la stessa quantità di vittime. Per non parlare dei millecinquecento inglesi che muoiono rotolando giù per le scale. Ma ogni disgrazia ha il suo lato buono: noi eravamo riusciti a partire per la vacanza in quattro e quattr'otto e quasi a costo zero. Era la prima volta che stavamo insieme più di una notte; gli orari di lavoro non combaciavano, ma stavamo cercando di trovare una soluzione.
Quella era la nostra storia di copertura. L'appartamento a Shepherd's Bush, che esisteva davvero, come le due donne che ci vivevano, era il suo CA (Cover Address, indirizzo di copertura). Per Suzy garantiva il titolare dell'agenzia di viaggi. Il mercato era agli sgoccioli e noi eravamo arrivati dove volevamo. La Suzuki 250 che avevamo noleggiato si trovava ancora dove l'avevamo lasciata, tra un bar e il ristorante Palace, dove stavano entrando i primi turisti della sera, forse attratti dall'insegna che prometteva LA MAGIA DELLA MIGLIOR CUCINA INDIANA E OCCIDENTALE. Il bar era più adatto alle nostre esigenze. Dall'altro lato della strada, in mezzo alle baracche, sorgeva la moschea, un solido edificio di mattoni e gesso. In quel preciso momento, tuttavia, la mia attenzione era concentrata su un solitario furgone Toyota Lite Ace bianco, macchiato di ruggine, parcheggiato sul fondo di fango compatto. Veniva da pensare che per avviare un commercio alimentare da quelle parti bastasse qualche foglio di lamiera ondulata, qualche mattonella di cemento per coprire gli scoli d'acqua e un paio di gabbiette malconce piene di uccellini verdi che non cantavano mai. Suzy e io prendemmo delle sedie di plastica e sedemmo l'uno di fronte all'altra a una lunga tavola di formica a fiori poggiata su due cavalletti. Un istante dopo, dal Palace qualcuno iniziò a pestare con forza Climb Every Mountain su una tastiera elettrica. Una ragazza indiana scalza venne verso di noi e le ordinai due aranciate. Inutile chiedere a Suzy cosa voleva. Da quando eravamo arrivati avevamo bevuto ettolitri di aranciata. Da un banchetto lungo la strada giungeva odore di kebab mischiato alla puzza dei gas di scarico e al tanfo di fogna. Dalla televisione appoggiata su una mensola sopra le nostre teste proveniva la telecronaca in inglese di una partita - Leeds contro non so chi -, seguita con interesse da un gruppo di ragazzoni inglesi seduti un paio di tavoli più in là. Suzy aveva ancora voglia di parlare di suo padre. «Esatto, un disertore. Non ci crederai ma la cosa strana è che fino al giorno della sua morte ha continuato a ripetere che solo i militari potevano opporsi alla delinquenza.» Posò sul tavolo la grossa borsa da spiaggia in paglia e ne estrasse un accendino usa e getta rosso, un pacchetto nuovo di Benson comprato al duty free e la guida di Penang. Mentre si accendeva la sigaretta e iniziava a sfogliare la guida mi guardai in giro. Stava passando un gruppo di rubicondi tedeschi di mezz'età. Erano tutti tirati a lucido per l'uscita serale. Puzzavano di profumo e dopo-
barba e mi sembrava che avessero troppo caldo per potersi divertire. Dall'altra parte proveniva una mezza dozzina di giovani sui vent'anni, magliette sbiadite, calzoni corti e bandiera australiana sugli zaini. Uno aveva un braccio ingessato. Noleggiare una moto era una gran bella avventura finché tra gomma e asfalto non ci si metteva la pioggia. In albergo c'era un flusso continuo di gente che rientrava con qualche ammaccatura. Il pacchetto dorato e l'accendino rientrarono nella borsa e Suzy soffiò il fumo nella mia direzione. Si mise comoda e mi rivolse una smorfia. «E piantala di lamentarti. Sono io quella che paga. Tu puoi respirare nicotina gratis. E poi pensa come ti sentirai quando ti ritroverai nel tuo letto all'ospedale, lì come uno scemo che muore senza un motivo.» Non smise di sorridere e studiò le mie reazioni, la sigaretta fra le dita. Non impiegò molto a capire che non le avrei dato soddisfazione e riprese a sfogliare la guida. Mi spostai per vedere il televisore e mi resi conto di avere la schiena appiccicata alla sedia nonostante la maglietta. Lasciai vagare lo sguardo fino alla moschea. Era un edificio a un piano, arretrato di trenta o quaranta metri rispetto alla strada, con il tetto azzurro e la torre bianca del muezzin con gli altoparlanti e un paio di parcheggi coperti solo da fogli di lamiera. Senza dubbio una moschea per operai. In fondo alla strada sorgeva un tempio buddhista e a soli dieci minuti di distanza gli Hare Krishna erano pronti a far risuonare i loro cimbali. Ero già stato in Malesia per lavoro, quando facevo ancora parte del reggimento, e sapevo che era uno dei pochi posti al mondo dove Buddha, Allah, Hare e perfino Gesù potevano uscire insieme la sera senza venire alle mani. Non più tardi di quella mattina avevo visto sulla spiaggia mamme australiane in bikini ridottissimi che ingozzavano di patatine i loro bambini, accanto a donne coperte di nero dalla testa ai piedi che facevano esattamente la stessa cosa con i loro. Le aranciate arrivarono mentre il tastierista del Palace ci informava cha aveva lasciato il cuore a San Francisco. Suzy aspirò una boccata; i suoi occhi non si sollevavano dalla pagina. Bevvi un sorso della mia bibita. Il parcheggio della moschea cominciava a riempirsi dei fedeli che si radunavano per la preghiera serale. Arrivò un drappello di motociclisti che scesero dai loro mezzi e si diressero verso l'ingresso bene illuminato. Riuscii a scorgere il vano dove si toglievano le scarpe e lavavano le mani e il viso prima di sparire per mettersi a parlare con Dio. «Che cosa ne pensi dell'irrigazione intestinale?» Mi voltai di scatto verso Suzy.
Lei aspirò un'altra boccata e girò il libro verso di me per mostrarmi una donna sdraiata su un fianco e coperta da asciugamani che beveva un cappuccino con la cannuccia. I grandi occhi castani fissavano le luci con le pupille dilatate. «Forse non sai che molti vengono nel Sud-est asiatico solo per le cure termali disintossicanti. Pare che siano miracolose, ti danno una bella ripulita radicale. Dentro.» Scossi piano la testa. «Sono piuttosto delicato quando si tratta di farmi infilare qualcosa su per il sedere.» «L'americano medio muore con due chili e mezzo di carne non digerita nell'intestino.» Il naturale interesse che si prova nei confronti di un nuovo amore. «Io non sono americano.» «Fa lo stesso. Ho visto la quantità di cibo che ingurgiti. Dovresti pensarci. Siamo quello che mangiamo.» Posò il libro sul tavolo e si portò la sigaretta alle labbra. «E questo fa di me un doppio hamburger con patatine fritte, giusto?» Poi aggiunsi: «E tu sei una stupida banana ricoperta di nicotina». «Non credo di essere poi così male: ho visto come mi guardavi oggi in piscina. I tuoi occhiali da sole non sono scuri come credi.» Fece una smorfia e tornò al libro. 2 Mi trovavo a Penang insieme con lei per ordine di George. Che, come al solito, aveva detto: «Se qualcuno ti colpisce e minaccia di colpirti ancora, dev'essere fermato. Punto». Ma come sempre, sai che novità, ero lì perché avevo bisogno di soldi. Suzy e io non conoscevamo l'intera storia e la cosa a me stava più che bene. Troppe informazioni mi facevano venire l'emicrania e probabilmente per Suzy era la stessa cosa. Piccole rotelle del grande ingranaggio. Avevo imparato sulla mia pelle che la cosa migliore era essere capaci di progettare ed eseguire l'incarico che ti veniva affidato senza chiedere il perché. Il lavoro poteva essere smentito. Il governo malese non aveva idea di quello che stava accadendo, e non perché non ci si potesse fidare: la Malesia ha un governo stabile e ottiene buoni risultati nella lotta al terrorismo. Solo che, meno persone erano a conoscenza del motivo della nostra presenza lì, più possibilità di riuscita avremmo avuto. Si trattava di un'operazione congiunta Stati Uniti-Inghilterra. La prima
per me. Gli americani in Malesia, date le circostanze, non erano molti, ma una coppia di inglesi era piuttosto normale. Rientrare in Inghilterra era stato come tornare indietro nel tempo. Infatti era stato Signorsì a passarci le istruzioni finali. Signorsì... e pensare che ero andato in America per evitarlo. Non posso dire che la cosa mi facesse piacere, ma sapere che avrei lavorato per lui per poco tempo mi rendeva euforico. Una volta in America sarei tornato agli ordini di George. Era la prima volta anche per un'altra ragione: non avevo mai lavorato con un altro K. A dirla tutta non ero neppure mai stato, per quanto ne sapevo, in un raggio di cento metri con un altro K. Probabile che Suzy non si fosse resa conto che ero un operatore inglese esattamente come lei. Di sicuro non poteva averlo capito dai miei documenti di copertura. Ero ancora Nick Snell, lo stesso nome di quando ero un K. L'ultimo giorno della preparazione, alla vigilia della nostra partenza, Signorsì si era seduto sul divano dell'appartamento sicuro a Pimlico, tutto impettito come un ufficiale dell'esercito che tiene l'ultimo discorsetto d'incoraggiamento alle truppe prima che vadano in guerra. Lui era fatto così, gli piaceva esprimersi con il linguaggio dei rapporti, dimenticando che persone come Suzy e il sottoscritto quelle cose le vivevano in prima persona. «Non credete alla propaganda, voi due», aveva detto. «Quella serve per gli altri.» E aveva indicato fuori dalla finestra. «Gli altri hanno bisogno di credere che noi combattiamo contro gente ignorante, contro derelitti diseredati, ma non è così. E i nemici non sono folli, codardi, insensibili o incivili. Se i nuclei di terroristi fossero veramente formati da disadattati, non sarebbero in grado di addestrare persone pronte a sacrificare la vita per uccidere.» «No, signore.» Suzy lo chiamava sempre «signore». Quanto a me, non lo chiamavo in nessun modo per paura che mi sfuggissero parole come «stronzo» o «bastardo». Tutt'intorno a noi iniziò una sinfonia di suonerie di cellulari: come la versione digitale di Hallelujah Chorus. Il telefono squillava e il proprietario si alzava e s'incamminava senza guardare chi fosse a chiamarlo. Sapeva che era Dio. Anche Suzy lo sapeva. «Non manca molto.» In Malesia i cellulari squillano cinque volte al giorno per la preghiera e hanno un dispositivo che indica la direzione della Mecca, in caso il fedele
rimanga bloccato in un centro commerciale e sia impossibilitato a raggiungere una moschea. Suzy riprese il corso accelerato sui clisteri e continuò a fumare e a bere senza staccare gli occhi dalla pagina. Io osservavo una coppia che si era fermata a leggere il menu all'esterno del Palace, quindi ascoltai il cameriere che si affannava a convincerli a entrare sotto la lamiera ondulata. Era costretto a urlare per farsi sentire al di sopra del tastierista, che al momento stava raccontando qualcosa a proposito di una ragazza di Ipanema. Non occorreva agitarsi granché per concludere affari nei dintorni della moschea. Continuavano ad arrivare moto e auto, e numerose altre persone sopraggiungevano a piedi. Lasciai scivolare lo sguardo verso sinistra, in direzione di una baracca con la tettoia in tela cerata azzurra fissata su piloni da impalcatura, circondata da scooter e motorini assemblati alla meglio con pezzi di recupero. Ma quello che m'interessava era l'ingresso a sinistra dell'officina. All'inizio della strada vicina c'era un'insegna al neon in caratteri cinesi. Non avevo la minima idea di ciò che pubblicizzasse, ma illuminava la soglia a meraviglia. Prima che il bersaglio comparisse sulla scena passarono cinque minuti. Indossava una camicia bianca e pulita, pantaloni grigi e sandali infradito. Svoltò a sinistra e camminò sul marciapiede pieno di buche e morchia, quindi superò l'officina. Mi avvicinai a Suzy e picchiettai piano sul tavolo. «Il nostro ragazzo è arrivato.» Mi sorrise, chiuse il libro e lo infilò in borsa. La ragazza indiana interpretò il gesto come se fossimo sul punto di andarcene e si affrettò a chiederci se volevamo qualcos'altro da bere. Suzy annuì. «Altre due, lo stesso.» Il bersaglio era sulla quarantina, indiano, pakistano, forse del Bangladesh. Scavalcò con cautela il metro di palizzata appuntita che separava il cimitero dei motorini dalla moschea. I corti capelli neri erano ben pettinati all'indietro e tenuti a posto da un velo di gel. Lo guardammo togliersi le calzature, avvicinarsi ai rubinetti e poi sparire all'interno insieme con gli altri. Le nostre consumazioni arrivarono. Suzy pagò la ragazza e le disse di tenere il resto, che era pari a una sterlina. Dall'espressione dell'indiana era chiaro che le avevamo risolto la giornata, ma quella di Suzy non era generosità. Non volevamo che avesse un motivo per tornare, dovevamo essere liberi di andarcene in fretta.
Un paio di ragazzi con gli zaini, sui diciotto o diciannove anni, sedette a un tavolo vicino al nostro e ordinò la cosa meno cara della lista, esaminandosi la pelle scottata che si stava già squamando. La loro conversazione venne sommersa dalla litania proveniente dagli altoparlanti della torre che invitava alla preghiera. Anche il tastierista smise di suonare. Dovevamo solo aspettare che il bersaglio uscisse di nuovo. Non sapevamo il suo nome. Sapevamo solo che era un membro del gruppo attivo Jemaah Islamiyah (JI), presente in Indonesia, Malesia, Singapore, Filippine e Thailandia, tutti Paesi che non cercavano d'instaurare un regime fondamentalista islamico. In indonesiano Jemaah Islamiyah significa «gruppo islamico». Per anni avevano attaccato bersagli americani e occidentali nel Sud-est asiatico. George e Signorsì non erano gli unici a sospettare che JI fosse una cellula sussidiaria controllata da Al Qaeda. Altri sostenevano che il collegamento non era così stretto e che le vittime prescelte da JI non corrispondevano alle aspirazioni di globalità dei seguaci di Osama. Comunque fosse, solo dopo la bomba nel night club di Bali dell'ottobre 2002 gli Stati Uniti li avevano riconosciuti ufficialmente come forza terroristica straniera. Un onore che la Malesia rivendicava da anni. L'ostacolo principale era stata l'Indonesia: la schiacciante maggioranza dei suoi 231 milioni di abitanti era musulmana, la più grande concentrazione di islamici del pianeta, e non aveva la volontà di prendere le distanze dalla sua gente. Ma in seguito JI venne scoperta mentre progettava attacchi simultanei con camion bomba contro le ambasciate americane in Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Taiwan, Vietnam e anche in Cambogia. Tenevo gli occhi sulla moschea e ascoltavo gli inglesi che scolavano birra Tiger al tavolo vicino. Nell'intervallo della partita avevano trasmesso uno spot governativo che metteva in guardia dall'uso delle carte pirata per vedere la televisione satellitare: se scoperti si rischiavano una multa pari a cinquemila sterline, dieci anni di prigione e la fustigazione. «Merda», borbottò Suzy, «meglio evitare di mettersi nei guai con Murdoch. Quasi quasi è meglio spacciare droga.» Il richiamo alla preghiera terminò e la pianola elettrica riprese a suonare. Stavolta annunciava al vasto pubblico l'apparizione del fantasma dell'opera. «Il taxi è qui.» Suzy fece un cenno in direzione dell'officina, dove si era fermato uno sgangherato Proton familiare giallo e rosso. L'insegna di plastica, parzialmente in frantumi, con la scritta TEKSI spariva alla vista
quando un autobus o un camion passava rombando. Gli ultimi quattro numeri della targa erano 1032 e quello era il VDM (Visual Distinguishing Mark, segnale visivo di riconoscimento) che ci era stato fornito. L'autista era il nostro uomo, nessun dubbio. Lo intravidi mentre faceva segno di no a un gruppo di turisti con false magliette Nike nuove di zecca. In Malesia guidano a destra e il mezzo era posteggiato con il posto di guida accanto al marciapiede, per cui non riuscivo a vedere l'autista bene in faccia. Al riflesso dell'insegna al neon vidi che aveva la pelle più chiara del bersaglio, ma non quanto quella degli indigeni. Forse era indonesiano. Rimase seduto nel taxi a leggere il giornale con un gomito fuori dal finestrino e la sigaretta in bocca. Era la fonte, il responsabile delle informazioni sul bersaglio. Forse era al corrente dell'incarico che quello stava per portare a termine. Comunque era l'uomo che ci avrebbe aiutato. Non conoscevamo la sua identità e neppure ci interessava. Molto probabilmente pensava la stessa cosa di noi. Gli era stato detto che nei dintorni ci sarebbero state delle persone in attesa che finisse la sua parte di lavoro, prima di subentrare. Portata a termine la sua parte, secondo l'accordo, sarebbe stato fuori dal gioco. A quel punto eravamo in tre ad aspettare che il bersaglio uscisse, tutti gli altri bevevano birra, guardavano la televisione o mettevano a confronto le rispettive scottature. Suzy riprese a consultare la guida. Sarebbe parso innaturale che tutti e due ce ne stessimo lì immobili a guardare nella stessa direzione senza scambiarci una parola. 3 I fedeli iniziarono a riemergere dalla moschea e, in un attimo, lo spiazzo del parcheggio si trasformò in un caos di moto e automobili avviate e mandate su di giri. I primi veicoli cercarono d'insinuarsi nel flusso del traffico, che però non lasciava varchi. L'aria si riempì del fragore di clacson e frenate. Suzy posò il libro sul tavolo e io alzai lo sguardo. Il bersaglio era uscito e stava di nuovo scavalcando la staccionata. La fonte gli fece un cenno e scese dal taxi. Adesso che si trovava in piena luce mi convinsi che era indonesiano: zigomi pronunciati, capelli neri e corti, baffi, alto più o meno come Suzy. Portava la camicia a righe larghe fuori dai jeans, forse perché il tessuto gli tirava troppo sulle spalle imponenti, come se avesse indossato
la camicia senza toglierla da una gruccia per abiti extra large. I due si affiancarono senza scambiarsi una parola e varcarono insieme la porta da cui prima era uscito il bersaglio. Suzy ripose il libro nella borsa mentre gli inglesi lanciavano occhiate a un gruppo di ragazze che stava passando e il tastierista riceveva qualche timido applauso. Adesso la fonte usciva di nuovo trasportando quello che sembrava un cartone bianco con una maniglia. Quando fu vicino al taxi vidi che si trattava di una confezione regalo da sei bottiglie di vino, fustellata sui fianchi per rendere visibili le etichette. Fece il giro e raggiunse la portiera del passeggero, la più vicina a noi, l'aprì e posò con cura la scatola sul fondo, poi, passando davanti al cofano della macchina, sedette al volante e partì. Fatto. Tutto finito in meno di un minuto. Il taxi si mescolò nel traffico mentre Suzy chiudeva la borsa. «Vino? Ma non sono musulmani? Forse è succo di mirtillo.» Gli inglesi esultarono con una serie di manate sul tavolo. Ma non per la battuta di Suzy: il Leeds aveva segnato. Mi tastai la tasca dei pantaloni per sentire le chiavi della moto. Di lì a poco il bersaglio sarebbe uscito per andare a lavorare. Anche i terroristi hanno bisogno di guadagnare e di avere una vita di copertura. Uscì un paio di minuti dopo, illuminato in pieno dall'insegna al neon. Era in lieve anticipo quella sera. Di solito tra preghiere e uscita passava almeno un quarto d'ora. La camicia bianca era infilata dentro pantaloni neri e ai piedi portava scarpe nere di vera pelle. Scavalcò ancora una volta la staccionata e si diresse verso il Lite Ace cercando di schivare le pozzanghere per non infangare le scarpe. Mi alzai. «Che ne dici di tornare in albergo?» Suzy annuì e si alzò anche lei. Presi il casco e lo indossai mentre raggiungevo la moto. Lei si passò la tracolla della borsa sopra la testa e infilò il casco a sua volta. Nel frattempo avevo tolto il cavalletto e avviato il motore. Lei attese che lo mandassi su di giri, aggiungessi il nostro contributo di smog e con i piedi manovrassi in modo da puntare verso la strada. Il Lite Ace raggiunse il cancello della moschea. Nessuna freccia indicava la direzione che avrebbe preso. Ma, se avesse seguito il copione dell'ultima settimana abbondante, avrebbe seguito il traffico: a sinistra, destra per noi. Suzy salì e armeggiò con il casco per guadagnare tempo in attesa che il Lite Ace partisse. Nel casco intriso dell'unto dei capelli di anni di turisti avevo già la testa in ebollizione. Sotto il mento il cinghino di plastica strusciava contro la barba di due giorni.
Nel momento in cui il Lite Ace s'immetteva nel traffico Suzy mi diede un colpetto sulla spalla. Svoltammo a destra, contro corrente, e cominciammo a seguire il bersaglio. Tra noi, quattro auto e uno stormo di Honda. Lui rallentò per fare attraversare un gruppo di turisti e accelerò per recuperare. Lo seguivamo, fermando e ripartendo, seguendo la luce tremolante del fanalino destro degli stop. Se lo avessi perso di vista sarebbe stato un ottimo VDM, facile da individuare nella confusione del traffico e nell'oscurità. Lo sapevo perché lo avevo allentato con un cacciavite qualche sera prima. Se usare una carta contraffatta per vedere il satellitare era punito con la fustigazione, avevo paura solo a immaginare la pena per chi manometteva un veicolo. Le auto e i mezzi più pesanti si fermarono di nuovo mentre le moto proseguirono a zigzag. Non le imitai, e ingranai la prima pronto a ripartire. Dietro di me Suzy si agitò sul sellino nel tentativo di staccare la stoffa leggera dei pantaloni dalla plastica. Si reggeva a me con il braccio destro, la borsa schiacciata fra il suo corpo e il mio. La sua pistola, una vecchia sei colpi calibro 45, puro antiquariato della Seconda guerra mondiale, premeva contro il mio fondo schiena. Aspirai un'energica boccata di fumo di scappamento. Mi sarei tenuto a due auto di distanza e comportato come un turista attento a non commettere imprudenze. Le gambe sudavano nei pantaloni comprati a un mercatino notturno e quel filo d'aria che s'infilava nelle scarpe da ginnastica quando acquistavamo un po' di velocità era un vero sollievo. Ci fu un lampo di luce all'interno del Lite Ace seguito immediatamente da una nuvoletta di fumo di sigaretta che usciva dal finestrino del guidatore. Suzy si protese sopra la mia spalla e aspirò in modo plateale. La sentii ridere. Non sapevo se rallegrarmi della totale mancanza di agitazione che mostrava durante il lavoro, o preoccuparmi della sua indifferenza. Mi piacciono le persone che hanno paura. Il lungomare di Penang è pianeggiante ma non appena ci s'inoltra all'interno si comincia a salire. Il bersaglio faceva il cameriere in un ristorante olandese su una collina al centro dell'isola; presto saremmo arrivati a un semaforo e lui avrebbe svoltato a destra. Ma qualcosa non andava. Non si stava spostando nella corsia di destra. Anzi si fermò all'incrocio per svoltare in direzione opposta. Suzy si sporse in avanti. «Ma cosa fa?» Non risposi e continuai a seguirlo, non potevo fare altro.
Il flusso del traffico si fermò e avanzò ancora, e alla fine vidi lampeggiare la freccia di sinistra. Il Lite Ace si addentrò in un mondo di lamiere ondulate arrugginite, girò ancora una volta a sinistra e scomparve. Ci ritrovammo in una stretta stradina di cemento grezzo costeggiata da baracche. Fermai la moto in un angolo buio in prossimità dell'incrocio. Si vedeva un gruppo di tetti in lamiera illuminati da un lampione. Suzy balzò a terra. Riuscii ad afferrarla per un braccio prima che si precipitasse all'inseguimento. «Non qui, capito? Non qui.» Si tolse il casco e svanì nell'oscurità. Io proseguii e girai la moto in modo da avere una buona visuale sull'incrocio. Spensi il motore. Da quasi tutte le baracche filtrava il chiarore spettrale dei televisori. Udii voci di bambini e cani che abbaiavano. L'odore di fogna era opprimente. Di colpo vidi dei fari nella stradina che sbucava all'incrocio e sentii il rumore di un motore avanzare nella mia direzione. Non riuscii a distinguere chi era a bordo del Lite Ace che svoltò a destra verso la strada principale; misi in moto senza accendere i fari. Lo vidi fermarsi all'incrocio e inserirsi a fatica nel traffico, verso destra. Suzy riapparve. Correva al massimo della velocità. Mi avvicinai alla sua posizione e lei, nel frattempo, indossò il casco. Saltò sul sellino. E si appoggiò a me ansimando. «È andato a prendere qualcuno, adesso sono in due a bordo. Ma, cazzo, di tutte le notti...» Sentivo il suo respiro tiepido sul collo mentre insieme guardavamo il veicolo che scompariva. Accesi i fari e partimmo. «Hai visto chi era?» «No. E adesso cosa facciamo?» Mi strinsi nelle spalle. Non sapevo mai cosa fare quando capitava un imprevisto, se non dopo aver agito. Quando fummo sulla strada principale accelerai notevolmente imitando gli altri moscerini che ondeggiavano nel traffico. Il braccio di Suzy mi strinse più forte i fianchi e le sue gambe aderirono alle mie. Vide il fanalino dello stop nel momento in cui lo notai io, mi premette la destra contro lo stomaco e con la sinistra m'indicò dove guardare. Annuii con un ampio cenno del capo. La visiera rovinata del casco rifletteva i neon e le luci dei fari. Il Lite Ace stava raggiungendo l'incrocio nella corsia di sinistra. Sorpassai un'altra auto. Adesso c'era solo un veicolo fra noi e cercai di vedere meglio la situazione all'interno. Sollevai la visiera e il mio volto sudato
venne investito da un soffio d'aria fresca. La luce di un neon inondò le due persone sui sedili anteriori. L'ospite era un maschio, più giovane del bersaglio, malese. Trovai positivo il fatto che indossasse anche lui una camicia bianca e avesse l'aria di un dipendente modello. Quando voltò la testa per parlare al bersaglio notai che indossava già la cravatta a farfallino. Vidi la freccia di sinistra lampeggiare, svoltarono e abbandonarono la litoranea. La strada verso l'interno era trafficata, ma meno di quella che avevamo appena lasciato e, quando cominciammo a salire, percepii la differenza. Le prime baracche a blocchi di cemento fecero la loro comparsa dopo meno di un chilometro, e con loro lo sferragliare dei generatori a petrolio e l'ululato dei cani. Poi, ancora più in alto, lungo la strada non rimase altro che vegetazione. Di tanto in tanto s'intravedeva una luce nel verde che lasciava supporre l'esistenza di una casa abitata, ma subito dopo non si notava più nulla. A quel punto la strada si era fatta decisamente stretta, tanto che due auto sarebbero passate a fatica. Rallentai in modo da lasciarlo a distanza. Ormai eravamo gli unici nei paraggi. Sapevo che non mancava molto alla brusca svolta a sinistra e come previsto subito dopo vidi le luci posteriori illuminarsi, una un po' ammiccante, mentre il Lite Ace frenava per effettuare la curva. Poi scomparve. Suzy mi sbucò sopra la spalla, la 45 sempre più premuta contro la mia schiena. «Seguiamo il piano?» Annuii, non vedevo alternative. La missione doveva essere eseguita. Sentii Suzy frugare nella borsa stringendo le gambe contro le mie per mantenere l'equilibrio. Stava infilando i guanti di gomma. Le luci rosse che avevo di fronte comparivano a intermittenza mentre il bersaglio seguiva le curve della strada in salita. Ancora per un chilometro non avevo bisogno di stargli troppo addosso. Sapevo dov'era diretto. Guardai nello specchietto retrovisore. Sotto di noi si allungava la costa pianeggiante. La strada davanti a noi era stata tagliata nella foresta pluviale e i fari illuminavano la fitta parete verde che si ergeva su entrambi i lati, mentre io tentavo di schivare le foglie di palma che marcivano a terra e le buche piene d'acqua. Mezzo chilometro dopo superammo il nostro punto di riferimento, un grande Buddha in pietra su un tronco che guardava in basso verso un sentiero di fango che si addentrava nella foresta. Forse si trattava di un punto maledetto per gli incidenti e il Buddha era stato messo lì come portafortu-
na. Con la mano coperta da un guanto di gomma rosso, Suzy mi toccò una spalla per essere sicura che lo avessi visto. Poi mi cinse i fianchi con il braccio sinistro e infilò la mano destra nella borsa. Un attimo dopo sentii la canna della pistola contro la schiena. Il posto dell'imboscata era vicino. Un improbabile incrocio dove il bersaglio avrebbe dovuto rallentare per superare un ruscello che scorreva nel mezzo. Era il punto che avevamo scelto. Che senso ha spingere a forza un bersaglio su un terreno di caccia quando è tanto più semplice scegliere il luogo fra i suoi percorsi abituali? In quel punto era costretto a rallentare fin quasi a fermarsi per superare il corso d'acqua. Adesso eravamo a meno di cinquanta metri dal Lite Ace. Suzy mi spinse la sinistra sotto il sedere, la calibro 45 nella destra. Era pronta a saltare giù. Gli stop rossi si accesero e lampeggiarono quando il bersaglio frenò all'incrocio. Doveva svoltare a destra, superare il ruscello e immediatamente dopo sterzare a sinistra. Quando mi avvicinai alla fiancata destra del Lite Ace sentii odore di sigaretta. All'altezza del cofano posteriore rallentai e la moto ebbe un sobbalzo. Suzy era saltata a terra mentre io continuavo ad avanzare. Si udì un urlo all'interno dell'auto. Accelerai per bloccargli la strada, ma il nostro uomo non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Il Lite Ace urtò la ruota anteriore della moto e io mi chiusi a riccio per assorbire la caduta. Rotolai sul fianco destro e scivolai sull'asfalto seguito dalla moto, finché entrambi non ci fermammo nel torrente. Mi rialzai a fatica e spostai la visiera del casco in tempo per vedere l'auto rotolare all'indietro giù per la discesa, la luce degli abbaglianti puntata verso il cielo. Suzy la seguiva di corsa. Io avanzai a fatica cercando di mettere in funzione la gamba: era come se qualcuno mi avesse passato una gigantesca grattugia sulla coscia. E, mentre l'auto continuava a scivolare all'indietro e la luce dei fari puntava sempre più verso il cielo, Suzy si tuffò all'interno attraverso il finestrino del guidatore. Ma cosa cazzo stava facendo? Una quindicina di metri più in basso l'auto terminò la corsa contro un albero. Le gambe di Suzy furono risucchiate all'interno mentre la portiera opposta si apriva provocando l'accensione della luce interna. Una sagoma uscì zoppicando e si scontrò con la vegetazione mentre si udirono due colpi di pistola.
«Chi dei due? Chi?» Suzy si arrampicò fuori. «È scappato!» «Stai ferma, ferma.» La raggiunsi e le afferrai un braccio per impedirle di slanciarsi nella foresta. Era morto il passeggero. Aveva la testa girata e schiacciata contro il sedile insanguinato. Mi strappai il casco e respirai profondamente. Avevo bisogno di ossigeno. «Zitta, ascolta.» Era una giungla, ovunque il sole riuscisse a penetrare fra lo spesso tetto di foglie crescevano piccoli cespugli e ogni tipo di pianta. Era difficile camminarci dentro, in particolare al buio. Il bersaglio non sarebbe riuscito a vedere neppure le sue stesse mani. Non riuscivo a sentire niente. Dovevamo seguirlo. Quattro passi all'interno e non riuscivo più a vedere Suzy. In quell'oscurità nera come l'inchiostro mi protesi, l'afferrai per un braccio e tirai finché non cadde con me tra le foglie marce e il terreno bagnato della foresta pluviale. Con le mani e le ginocchia sprofondate nella fanghiglia avanzammo strisciando per qualche metro prima di fermarci. In ascolto. Ancora niente. Stavo per riprendere a muovermi quando sentii un rumore. Mi bloccai di colpo. Lei mi urtò. Smisi di respirare per eliminare i miei stessi rumori. Lasciai che la saliva colasse. Era molto vicino, un po' a destra rispetto a me. Lo sentivo a malapena a causa del rumore dell'auto ancora in moto. Ma percepivo la paura. Lentamente tastai alle mie spalle sino ad afferrare la mano della collega, le passai il casco e le posai un dito sulle labbra. Lei indossava ancora il suo e ciò era un bene: non era il caso che li lasciassimo sul posto. Voltai l'orecchio destro in direzione dei suoni di un uomo spaventato. Facile che non sapesse cosa fare, dove andare, se nascondersi o correre alla cieca nella foresta. Mi augurai che continuasse a pensare che restare immobile protetto dal buio fosse la scelta migliore per uscirne vivo. Tesi una mano nella sua direzione, tastando il terreno che avevo davanti e che non riuscivo a vedere. Poi avanzai di qualche centimetro. Fango, radici e foglie mi s'infilarono tra le dita prima d'incontrare il freddo della corteccia viscida di un albero. Ci girai intorno molto lentamente. Suzy mi era dietro e inghiottiva saliva. Adesso era vicinissimo. Muoveva le gambe. Le sentii annaspare tra le foglie marce. Il mio viso subiva l'assalto di qualsiasi cosa provvista di ali e affamata di pelle. Ma al momento non avevo tempo per pensarci. Ero tutto concentrato
sul bersaglio, anche il dolore alla gamba era svanito. Avanzai ancora un poco. Era così vicino che lo sentivo ansimare per la paura, poi cambiò posizione delle gambe e le foglie spostate mi coprirono la mano. Non c'era altro da fare che slanciarsi in quella direzione. Caddi in modo scomposto sopra di lui. Urlò. Avevo il naso contro il suo viso. Si raggomitolò pregando e implorando mentre io mi mettevo in ginocchio. Non conoscevo la lingua, non ascoltavo. Suzy era dietro di me. «Dov'è? Dov'è?» Con il ginocchio destro gli bloccai la testa. Le implorazioni aumentarono. «Silenzio, va tutto bene, è tutto okay.» Lasciai ricadere la mano destra sul suo viso madido di sudore e lo tenni fermo. Tesi la mano libera nel buio. «Vieni vicino a me, svelta.» Mi fu a fianco e io la tastai. Trovai il braccio e lo percorsi fino a sentire la rivoltella che guidai contro la testa del bersaglio. «Ora ce l'hai. Te lo tengo fermo.» Sentii che la canna s'infilava dentro la carne mentre lui singhiozzava e cercava di reagire. Volevo che tutto finisse in fretta. «Sei pronta? Al tre lo lascio andare... uno, due, tre!» Mollai la presa e balzai all'indietro. In quel preciso momento lei fece fuoco. Ci fu un lampo di luce e il rumore della detonazione mi parve fortissimo, molto più di quello che era in realtà. «Resta pronta, pronta! Bisogna avere la certezza.» Suzy alzò il cane dell'arma. «Aspetta, aspetta.» La sentii tastare quello che restava della testa del bersaglio. Poi ci fu un altro lampo di luce e un altro scoppio fragoroso. Sospeso fra noi l'odore di cordite intrappolato fra le foglie mentre il dolore alla gamba tornò come una vendetta. «E adesso? Come cazzo facciamo a uscire da qui?» Suzy aveva usato un tono di voce quasi normale. Ci trovavamo solo dieci metri all'interno della foresta, ma eravamo arrivati sin là perché avevamo seguito i rumori del bersaglio. Uscirne era tutt'altra cosa. «Non c'è fretta, prima ci calmiamo e poi forse riusciremo a sentire il motore del Lite Ace.» Smisi di respirare. A poco a poco il rimbombo delle detonazioni abbandonò le mie orecchie e riuscii a cogliere il sommesso ron-
zio del motore. Capire la direzione era facile. Cercai a tastoni il casco, poi strisciammo fuori dagli alberi, sbucando a tre o quattro metri dall'auto. Alla luce dei fari vidi che il viso di Suzy era sporco di sangue. «Ma cosa cazzo ti è venuto in mente di giocare all'Uomo Ragno?» Mi esaminai la gamba ferita mentre lei faceva la stessa cosa con la mano. «Dovevi solo ucciderli.» «Quando li ho raggiunti stavano già cercando di uscire dalla portiera. Il furgone continuava a rotolare. Non sapevo cosa fare. Poi ho pensato: 'fanculo, l'unica è tuffarsi dentro.» Sorrideva, vedevo il sorriso aperto alla luce rossa dei fanalini posteriori. «E, comunque, adesso è fatta.» Aveva ragione. «Dobbiamo spostare il furgone dalla strada e tu devi pulirti il viso. Qui è impossibile perché gli alberi sono troppo fitti. Portalo all'incrocio dove c'è il Buddha e cerca di nasconderlo meglio che puoi, io ti seguo con la moto, sempre che funzioni ancora. In caso contrario dobbiamo tornare a piedi.» Salì sul Lite Ace e con i guanti sporchi di sangue e fango inserì la prima, lo riportò sulla strada e guidò fino al Buddha. Io raggiunsi la moto e la sollevai. La leva della frizione era piegata verso il basso, ma tutto sommato era in condizioni migliori di altre moto che avevo visto in giro. La cosa più importante era che funzionava ancora. All'incrocio di Buddha attesi che Suzy risalisse dalla scarpata. Sollevò una gamba sopra il sellino e si protese in avanti. «Siamo stati bravi. E, come premio, domani potremmo fare un giro su un aquascooter. Che ne pensi?» Il lato destro della gamba scorticato dall'asfalto mi provocava un bruciore atroce. Fui costretto a stringere i denti. 4 Washington DC Venerdì 2 maggio, ore 7.04 La giornata non era un granché. Il tempo non riusciva a decidersi. Non pioveva ma sembrava sul punto di doverlo fare da un momento all'altro. Camminavo lungo D Street, un paio di isolati a sud dopo la Library of Congress. Avevo appuntamento con George. Andavo veloce per quanto mi consentiva il contenitore bollente di Starbucks che tenevo in mano. Ero salito in metropolitana a Crystal City. Adesso vivevo là, in un grande con-
dominio grigio che mi faceva sentire come un delegato delle Nazioni Unite. Il portiere di giorno era bosniaco, quello di notte croato. Tutte le addette alle pulizie sembravano russe e il soprintendente alla manutenzione era pakistano. Capivano tutti l'inglese alla perfezione tranne quando occorreva qualche riparazione o pulizia particolare. Soprattutto il soprintendente, ogni volta che lo interpellavo per qualche problema alla lava-asciugatrice, diventava completamente sordo. Provai ad assaggiare il latte. Si era appena raffreddato e riuscii a inghiottire qualche sorsata attraverso la fessura nel coperchio. Mi ero fatto l'idea che solo uno come George potesse fissare un incontro alle sette della mattina, ma evidentemente mi sbagliavo. Tutta Washington aveva deciso di darsi una mossa. Il traffico era già intenso e una moltitudine di persone camminava di buon passo in entrambe le direzioni, gente di potere, tutti con il cellulare con tanto di auricolare inserito e bene in evidenza in modo che fosse chiaro che stavano portando a termine cose molto importanti. In realtà non avevano nemmeno bisogno del telefono, perché parlavano a voce così alta che mezza città avrebbe potuto sentirli. Senza smettere di camminare bevvi un altro sorso e guardai il Traser. Sarei arrivato puntuale. La missione a Penang era stata abbastanza agevole: uccidere il bersaglio dopo che aveva consegnato una scatola alla fonte, alla fine della preghiera, la sera stessa. Ma altrettanto importante - George lo aveva ripetuto più volte - era che Suzy e io avessimo la certezza che la fonte fosse fisicamente in possesso della scatola. Forse era per quello che l'aveva messa in macchina dalla parte del passeggero. Non era andata troppo bene per il tizio che aveva chiesto un passaggio al bersaglio. Doveva essere uno dal destino segnato: si era trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Non occorreva essere un genio per capire che le bottiglie non contenevano vino né succo di mirtillo; mi augurai che fosse qualcosa per cui valesse la pena morire. Il problema più grosso che Suzy e io avevamo dovuto affrontare erano stati i quattro giorni di soggiorno necessari per esaurire il pacchetto vacanza. Impossibile fare le valigie, prendere il primo volo e tornarsene a casa. Tutto doveva sembrare normale, dovevamo andare sino in fondo. Girammo come veri turisti visitando i posti più interessanti anziché restarcene sdraiati in piscina. Dovevo nascondere in qualche modo la contusione alla gamba e cercare di farmi notare il meno possibile. La sensazione era di aver trascorso intere giornate in risciò andando da un tempio a un altro. Alla riconsegna della moto avevo dovuto pagare centocinquanta dollari
di danni, ma si erano limitati a trattarmi come un turista incapace. Nei quattro giorni successivi il New Straits Times non riportò la notizia né dell'assassinio né della scomparsa dei due camerieri. Probabilmente nessuno si era ancora imbattuto nel Lite Ace o nel cadavere coperto di mosche. In effetti la notizia principale riportata dai giornali riguardava la moglie di un politico accusata di khalwat, reato che presupponeva il farsi trovare in eccessiva intimità con un membro dell'altro sesso non facente parte della cerchia familiare. La donna stava guardando la televisione insieme con tre studenti dell'Università internazionale islamica quando una squadra del dipartimento religioso del territorio federale aveva fatto irruzione nell'appartamento a seguito della denuncia dei vicini di casa. Se li avessero giudicati colpevoli avrebbero dovuto pagare una sanzione di tremila dollari e passare due anni in prigione. Come disse Suzy, la donna doveva ritenersi fortunata che non l'avessero beccata con tre spacciatori di droga a guardare i canali satellitari con una scheda contraffatta. La pistola di Suzy era stata consegnata da un corriere della Ditta in un posto prestabilito nel bagno femminile di uno Starbucks. Bevvi un altro sorso del loro caffè: la globalizzazione esisteva davvero, erano ovunque. Quella particolare rivendita di Starbucks si trovava nel centro commerciale di una zona residenziale di George Town, il capoluogo dell'isola. Ci avevano fornito solo la pistola e sei proiettili, motivo per cui Suzy non poteva permettersi il lusso di sbagliare. Niente di strano nel fatto che si fosse tuffata con tale foga dentro il Lite Ace. Sapeva di non poter sprecare neppure un colpo. Per noi sarebbe stato meglio se la consegna del cartone di vino fosse avvenuta l'ultima sera, perché in quel modo avremmo potuto portare a termine il lavoro e lasciare Penang il giorno successivo. Ma ero contento che non fosse avvenuta il primo giorno perché non avremmo avuto il tempo di svolgere accurati sopralluoghi e saremmo rimasti allo scoperto sull'isola per quindici lunghi giorni. Avevamo passato molto tempo a studiare le abitudini del bersaglio: il tragitto casa-lavoro, a che ora prendeva servizio, quando finiva di lavorare, se abitava da solo o con qualcuno. Sapevamo dove posteggiava l'auto e qual era il momento migliore per la modifica al fanalino degli stop. Sapevamo quasi tutto di lui, ma non sapevamo il suo nome. Nessun problema. In fondo non è che dovessimo familiarizzare. Quando raggiunsi l'isolato del massiccio edificio avevo ancora un po' di latte da finire. Salii i sei o sette gradini della grande casa vittoriana con mattoni a vista, convertita da tempo in una sede di uffici e circondata da
moderni isolati in cemento. Le porte a vetri m'introdussero nell'ingresso e verso il bancone dove si trovava un nero piuttosto grosso in camicia bianca e divisa azzurra. Esibii la patente della Virginia, come richiedeva la prassi dopo l'11 settembre. Non mi ero deciso a comprare una macchina perché avevo la mia moto, se mai fossi riuscito a recuperarla da casa di Carne a Marblehead. Lessi il nome della guardia sul cartellino. «Salve, Calvin. Mi chiamo Stone, vado al terzo piano, Hot Black Inc.» «Mi firma il registro, signore, per favore?» Siglai debitamente mentre lui controllava l'elenco degli ospiti prima di consegnarmi il pass. Washington è rimasta una città piuttosto formale per quanto riguarda il modo di vestire, e io indossavo jeans, stivali Caterpillar e giubbotto di pelle marrone. Posai la penna e gli scoccai un sorriso. «Vesto sempre casual il venerdì.» Calvin non batté ciglio. «Grazie, signor Stone. L'ascensore è dietro l'angolo sulla destra. Le auguro di trascorrere una buona giornata, signore.» Mentre mi allontanavo risposi nel modo consueto: «Anche a lei». Stavo sorridendo: il nome Hot Black Inc. mi divertiva molto. Avevo sempre pensato che solo nella serie TV L'uomo dell'UNCLE usassero nomi così strani per le società di copertura. Ero sul libro paga della Hot Black da quasi un anno ormai. Si trattava di una ditta commerciale che aveva poco da commerciare e la cosa mi stava bene perché non ne sapevo proprio nulla. La vita mi andava bene. Il mio stipendio era di ottantaduemila dollari l'anno più la casa. Inoltre venivo pagato in contanti dopo ogni lavoro. Decisamente meglio che lavorare come K per la Ditta a duecentonovanta sterline al giorno, tutto compreso. Come impiegato della Hot Black mi era stato assegnato il numero della previdenza sociale americana e potevo richiedere il rimborso delle tasse. Il che mi offriva la possibilità di condurre una vita quasi normale. Dopo che la figlia di George, Carrie, mi aveva cestinato, avevo anche avuto una ragazza per circa un mese e mezzo. Era la capozona di Victoria's Secret per il District of Columbia e la Virginia e vivevamo nello stesso condominio. Stavamo bene insieme, ma a un certo punto il marito aveva deciso di provare a rimettere in sesto il matrimonio. Secondo me sentiva la mancanza dei campioni gratuiti che la moglie portava a casa. E avevo anche un fondo pensione. Era una delle trovate di George per farmi avere più soldi senza che il mondo reale se ne accorgesse: d'altra parte entrare in una banca con ventimila dollari in contanti, di quei tempi,
poteva destare più di un sospetto. Per la prima volta nella mia vita mi sentivo quasi a posto. L'ascensore arrivò, le porte si aprirono, entrai e premetti il pulsante del terzo piano. 5 Non avevo ancora chiaro da quale dipartimento - se militare o governativo - dipendesse George e quindi non sapevo chi mi pagava lo stipendio, ma non mi lamentavo. Da quando lavoravo per lui ero stato molto occupato: negli ultimi mesi ero stato a Bombay e in Grecia per operazioni di «ritorno»; i bersagli erano tre individui sospettati di far parte di Al Qaeda, che adesso, secondo me, percorrevano a balzelloni i cortili della prigione di Guantanamo con le teste rasate e le tute arancioni. Le porte si chiusero alle mie spalle e io terminai il latte, quindi svoltai a sinistra nel corridoio verso gli uffici della Hot Black. L'ambiente era un trionfo di marmo nero lucidissimo alle pareti, nicchie che contenevano statue di alabastro e intense luci al neon fissate a controsoffitti. Il corridoio era stato appena rimodernato e si avvertiva ancora l'odore di nuovo della moquette. Hot Black non era una compagnia da due soldi. Oltrepassai la doppia porta in vetro fumé. La reception era deserta. C'era un grande tavolo antico in finto legno che fungeva da bancone, dietro il quale non si vedeva nessuno. A sinistra del tavolo, due lunghi divani in velluto rosso separati da un basso tavolino in vetro altrettanto lungo. In vista neppure un quotidiano o una copia di Marketing Monthly. Stessa condizione anche per la scrivania, perfettamente vuota se si escludeva il telefono. Anche la fontanella dell'acqua potabile era priva del bottiglione di plastica rovesciato, in un angolo solo sei solitari bicchieri di cristallo. Mi diressi verso le porte della direzione. Alte, nere, lucide, solenni. Mi si aprirono davanti come per magia. Senza una parola di saluto, George girò sui tacchi e tornò a passi decisi alla scrivania incorniciata dalla finestra, dieci metri più in là. I tacchi rimbombarono contro il pavimento in acero tirato a lucido. «Sei in ritardo, avevo detto alle sette.» Ero certo che lo avrebbe detto. Con ogni probabilità lui si era svegliato alle cinque, aveva fatto jogging e recitato la preghiera davanti alla ciotola di cereali dietetici ed era uscito di casa esattamente all'ora che aveva stabilito e non cinque o dieci minuti dopo: occorre essere precisi, il resto è solo una perdita di tempo. E undici minuti dopo era in ufficio, alle sei e cin-
quantasei spaccate. Chiusi la porta. «Lo so, scusa. Ho avuto problemi con la metropolitana.» Non rispose. La metropolitana di Washington non è mai in ritardo. La colpa del mio ritardo era dovuta alla lunga coda da Starbucks e alla scarsa rapidità degli addetti dietro il banco. Compì il giro della scrivania e accennò al contenitore che avevo in mano. «E quello cos'è?» «È un latte.» Le finestre avevano tripli vetri. Vedevo il traffico ma non ne sentivo il rumore. L'unico suono, a parte le nostre voci, era il ronzio dell'aria condizionata. «Non c'è più nessuno che beva un caffè normale? Tutti pronti a pagarlo il doppio solo perché ha un nome curioso.» La stanza era ben arredata. Su una parete interamente rivestita di quercia era appeso un quadro, il ritratto di un uomo del XVIII secolo con in testa un cappello a tricorno e un grembiule da scultore, sullo sfondo un gruppo di indiani d'America occupati a fare lo scalpo a qualcuno. Quando George si girò infine verso di me, mi resi conto che effettivamente quel giorno, nel Paese delle spie, ci si vestiva casual. Sotto la giacca di velluto a coste non portava l'usuale camicia con i bottoncini sul colletto e neppure la cravatta, ma solo una polo bianca. Forse la settimana successiva avrebbe superato ogni limite e sarebbe arrivato a lasciare aperto il primo bottone. Ma non ci avrei perso il sonno. George si accomodò sulla sedia di legno scuro che cigolò sotto il suo peso. Nuova anche quella. Il telefono e una valigetta in pelle marrone scuro, sulla scrivania non c'era altro. Mi fece cenno di sedermi e non perse altro tempo. «Cosa ne avete fatto della pistola?» Avevo ancora in mano il contenitore del latte e non sapevo dove posarlo. «Suzy è andata a fare un giro con un aquascooter e l'ha buttata in mare a trecento metri dalla costa. I proiettili erano ancora all'interno. Non sono andato con lei ma so che ha svolto un buon lavoro.» George sollevò un sopracciglio. «Non potevo, non volevo esporre la ferita.» «Adesso come va?» «Bene. Solo che di notte non riesco a non grattarmi la crosta.» Azzardai un accenno di sorriso, che non ebbe nessun effetto su George. Guardava per aria, verso le lampade fluorescenti del controsoffitto. «Devo chiedere che installino dei riduttori. Questi fari sono un attentato alla salute, fanno
malissimo agli occhi.» Annuii. Se lo diceva George doveva essere vero. Fece ritorno nel mondo reale. «Tu e quella donna...» «Suzy.» «Sì. Avete fatto un buon lavoro.» Tirò a sé la valigetta e trafficò con la combinazione della serratura. Posai il contenitore sul pavimento tirato a cera. «Mi chiedevo, George, cosa contenevano le bottiglie?» Non si prese neppure il disturbo di sollevare la testa. «Questo, figliolo, non è necessario che tu lo sappia. Hai fatto la tua parte.» La valigetta si aprì e lui mi guardò con un sorriso forzato. «Ricordi quello che ti ho detto? Il nostro lavoro consiste nell'assicurarci che quella feccia raggiunga il suo Dio prima del previsto. Punto.» Ricordavo. «Dove sei diretto?» «Forse vado via per un po', chi lo sa?» «Voglio saperlo. Porta sempre il cellulare con te. Il numero del mio cercapersone rimarrà lo stesso fino a fine mese, poi ti comunicherò quello nuovo.» Estrasse dalla valigetta una busta imbottita e la spinse verso di me insieme con un foglio battuto a macchina. Mi protesi per prenderla e lui guardò ancora una volta le luci sul soffitto e poi l'orologio. Sul foglio c'era scritto che ricevevo da George sedicimila dollari. «Ricordo male o avevi parlato di ventimila?» «È così, ma hai contribuito con il 20 per cento al fondo sociale.» Osservò il lusso che lo circondava e allargò le braccia. «Là fuori ci sono vecchi agenti che, quando hanno smesso di lavorare o sono stati messi fuori uso, non avevano il conforto di una pensione su cui fare affidamento. Le cose andavano diversamente una volta, così mi sono convinto che sia giusto che noi che abbiamo tanto pensiamo un poco anche a loro. Quei ragazzi se la passano male nella vita di tutti i giorni, Nick. Non credo ci sia bisogno che te lo dica, là fuori è una giungla...» Feci un gran respiro pronto a replicare che non avevo scelta. George mi anticipò. «Adesso che fai parte della squadra, sarà sempre così. Noi tutti seguiamo le regole. E poi chi può dirlo, un domani potresti essere tu ad avere bisogno di aiuto.» Non mi preoccupai di aprire la busta per controllare. I soldi che mi spettavano erano lì dentro al cento per cento: George li aveva contati perso-
nalmente. Tutto era sempre corretto con George. E puntuale. Per quello mi piaceva. Guardò di nuovo l'orologio e poi chiuse la valigetta, attento a ripristinare la combinazione. «A questo punto tu e il tuo latte potete anche andare.» Con il contenitore e i soldi in mano mi avviai verso la porta. Fu a quel punto che si lanciò nella sparata finale. «Ci sarà sempre posto per te, qui, Nick. Niente e nessuno potrà togliertelo.» Sapevo che si riferiva a Carrie e mi voltai in tempo per veder comparire un ghigno. «Fino a quando non ti uccidono, naturalmente. O non trovo qualcuno migliore di te.» Annuii e aprii la porta. Conoscevo le condizioni. Quando mi voltai per richiudere vidi che George guardava di nuovo il soffitto, forse preparando mentalmente un appunto per il responsabile della manutenzione. Gli augurai che avesse più fortuna di quanta ne avevo io con il mio. 6 Laurel, Maryland Lunedì 5 maggio, ore 10.16 Ero seduto sul taxi diretto a casa di Josh. Avevo passato una mezz'ora buona sul treno che da Central Station portava a Laurel e, visti tutti i problemi e le attese, forse sarei arrivato prima se avessi noleggiato una macchina. Ma ormai era tardi. Svoltammo nella strada dove abitava Josh d'Souza, un nuovo quartiere di case in legno linde e ordinate. Indirizzai l'autista alla casa giusta. La mia ultima visita risaliva a solo sei settimane prima, ma ciò nonostante trovavo sempre difficile distinguere una casa dall'altra: il prato perfettamente curato sul davanti, l'immancabile canestro fissato al muro del garage e la bandiera americana che garriva al vento. In alcune, sulla finestra anteriore, c'era anche la foto ingrandita di un ragazzo o una ragazza in divisa militare, virtualmente avvolta da un alone di gloria. La casa di Josh era al numero 106, a metà strada sulla sinistra. Il taxi si fermò all'inizio del vialetto privato in cemento. L'edificio era arretrato rispetto alla strada di una ventina di metri e collocato su una piccola collinetta. Davanti al garage c'erano un paio di biciclette, un pallone da pallacanestro e uno skateboard. E la colossale Dodge nel viale. Intravidi Josh alla finestra della cucina, sembrava che avesse torturato senza posa le tendine mentre mi aspettava. Il taxi era appena andato via e
lui era già sul portone di casa in legno dipinto di bianco. Tutto, nel viso sfigurato, tradiva il suo nervosismo. Niente di nuovo. Nonostante tutti i «ti ho perdonato», non avevo ancora capito se gli piacevo o no. Era meglio dire che mi sopportava. Di rado mi elargiva il sorriso cordiale con cui mi accoglieva prima dello scontro a fuoco che gli aveva distrutto la faccia. Mi tollerava per quella forma di parentela che avevo con Kelly, niente di più. In realtà eravamo come genitori divorziati. Io il padre sempre in giro che capitava di tanto in tanto con regali sempre sbagliati, lui la madre che seguiva i problemi quotidiani, che si alzava presto la mattina, che cercava le calze pulite e che era lì quando le cose andavano male, circostanza che negli ultimi tempi sembrava essere la regola. Si voltò e chiuse la porta a doppia mandata. «Perché il tuo cellulare è sempre spento?» «Perché lo odio. Controllo solo i messaggi. Di solito ogni telefonata porta problemi.» Una breve stretta di mano e mi mostrò le chiavi. «Ecco, appunto, ne abbiamo uno. Dobbiamo andare.» «Cos'è successo?» Ci avvicinammo alla Dodge. «Hanno telefonato dalla scuola, il professore di matematica l'ha richiamata perché era arrivata in ritardo a lezione e lei gli ha risposto di andare a quel paese.» Premette il pulsante d'apertura e le quattro frecce lampeggiarono. «Cosa ha fatto?» Entrai in macchina. «Lo so, lo so. E la settimana scorsa ha abbandonato la lezione di educazione fisica. È troppo, la scuola ne ha abbastanza. Parlano di sospenderla. Ho detto che saresti venuto oggi e che saremmo andati non appena tu fossi arrivato. Non sarà facile.» Avviò il potente motore e uscì in retromarcia dal vialetto. «Sai, Josh, a volte mi capita di pensare di essermi comportato molto male con qualcuno in una vita precedente...» «Oltre a quello che hai fatto in questa?» La scuola era a solo una ventina di isolati, non riuscivo a ricordare se Kelly ci andasse a piedi o in autobus. Forse nessuna delle due. Nel Maryland si può prendere la patente a sedici anni e lei frequentava ragazzi più grandi di lei. Josh espresse la sua disperazione con un gesto della mano. «Non ho nessun controllo su di lei. Di notte scappa di casa. Ho trovato delle sigarette
nei suoi cassetti. È sempre irritabile e nervosa e non so come prenderla. Sono preoccupato per il suo futuro, Nick. Di recente ne ho parlato con la consulente della scuola, ma non è stata in grado di aiutarmi perché Kelly non si apre neppure con lei. Non comunica con nessuno.» «Non ti colpevolizzare. Nessuno potrebbe fare per lei più di quanto fai tu.» Josh era mezzo nero e mezzo portoricano. Era cambiato parecchio dalla prima volta che l'avevo visto. Al sole, vicino alla tomba della famiglia di Kelly, la testa rasata e gli occhiali da sole brillavano quasi quanto i suoi denti. Adesso la prima cosa che si notava era la profonda cicatrice rosa sul lato sinistro del viso. Sembrava un wurstel tagliato, cotto in padella, con i bordi anneriti da macchie più scure di sangue rappreso nei punti dove si tagliava facendosi la barba non riuscendo a evitare la pelle sollevata. Per quante schifezze di perdono cristiano lui spargesse in giro, per quanto io cercassi di non pensarci e di ripetermi che ormai il danno era fatto, provavo per Josh lo stesso senso di colpa che lui aveva nei confronti di Kelly. Indossava una maglietta azzurra infilata nella cintura di pelle nera, gli stessi pantaloni grigi della divisa della squadra allievi del servizio segreto che aveva sempre, e scarpe da ginnastica Nike. In passato, a completare il tutto, fissata alla cintura c'era una fondina di cuoio chiaro molto consumato che portava sopra il rene sinistro, un caricatore doppio sulla destra e un cercapersone nero. Cinque anni prima aveva fatto parte della squadra di guardie del corpo dei servizi segreti che proteggevano il vicepresidente. Poi Geri aveva abbandonato lui e i tre figli per l'istruttore di yoga. Aveva dovuto vendere la casa in Virginia perché non poteva permettersi di pagare il mutuo e aveva trovato lavoro a Laurel come istruttore degli allievi. Non ci frequentavamo in quel periodo, ma sapevo che i primi anni erano stati un incubo per lui e i bambini. Era stato in quel periodo che era cominciata tutta la storia dei cristiani della Rinascita. Adesso non faceva più parte del Servizio. Mi aveva detto che era stato facile decidere: o se ne andava o i suoi figli non avrebbero mai visto il padre. E poi adesso era neovicario, reverendo o qualcosa del genere. La faccenda di Dio gli forniva nuove possibilità di carriera. Gli mancava un anno e poi avrebbe potuto urlare e ballare in chiesa con i migliori. Gli avevo detto che doveva pensare in grande e magari andare in televisione, io potevo fargli da assistente. Per la prima parte dello spettacolo lui avrebbe parlato di Dio e dopo l'intervallo io avrei spiegato quello che noi, piccoli aiutanti
del Signore, avremmo potuto fare con un'incredibile montagna di dollari. Non aveva gradito. «Tu sei il male, Nick.» «È vero, sono un soldato del diavolo, ma adesso mi occupo solo degli aspetti formali.» Non aveva gradito neanche quella. La campanella suonò la fine dell'ora e una marea di ragazzi e di rumore si riversò nel corridoio. «Vorrei tanto poterla aiutare.» L'insegnante di matematica era frustrato per la situazione in cui si trovava Kelly. Cercò di rallentare la corsa dei ragazzi in modo che non ci travolgessero. «Ho cercato di parlarle ma devo aver scelto il giorno sbagliato. A volte è così difficile riuscire a comunicare con lei.» Si passò una mano sulla testa quasi completamente calva e poi si guardò le dita come se si aspettasse di trovarci dei capelli. Non aveva che una trentina d'anni, ma sembrava che la vita gli avesse già richiesto il pedaggio completo. «Avrete di sicuro notato anche voi che un giorno è del tutto assente e quello successivo invece vola alta come un aquilone. Non è facile avere a che fare con lei. La consulente psicologica della scuola è pronta ad aiutarvi, se volete... Ecco, siamo arrivati. Ho dovuto mandarla direttamente in presidenza. Siamo obbligati a mantenere una certa disciplina nelle classi. Eccoci arrivati, qui dentro.» Aprì la porta e ci fece entrare nell'anticamera dell'ufficio del preside. «Kelly, guarda chi...» Kelly non era sulla sedia su cui avrebbe dovuto essere seduta. C'era solo un bicchiere con un po' d'acqua e nient'altro. La stanza era vuota. «Se n'è andata circa un'ora fa.» La segretaria del preside era una nera piuttosto in carne che sprizzava efficienza da tutti i pori, ma il suo viso tradiva l'angoscia. «Il preside ha tentato di telefonarle, signor d'Souza. Stavamo per chiamare la polizia.» Scosse la testa. «La sola cosa che ha detto non appena entrata è che sarebbe andata a Disneyland.» «Che Dio ci salvi.» Josh sospirò voltandosi verso di me con le mani alzate. Estrasse il cellulare, compose un numero, lo portò all'orecchio e rimase in ascolto per qualche secondo. «Ha staccato il cellulare. Adesso andiamo a casa, se non c'è chiamiamo la polizia.» «Non ce n'è bisogno, amico, so esattamente dove si trova», dissi dirigendomi verso la Dodge.
7 Puntammo a ovest e dopo poco seguimmo le indicazioni per Baltimora e Washington. Josh aveva provato a chiamare casa altre tre volte senza ottenere risposta. Imboccammo lo svincolo per la I-95 in direzione Washington. «Disneyland, eh? È così che chiama la sua vecchia casa?» «In un certo senso.» Si strinse nelle spalle. «Ti ho già detto che non viene più in chiesa con noi? Dice che la religione è tutta una fregatura. Non penso che lo creda sul serio, lo dice solo per farci soffrire.» «Sai come la pensa: se Dio esiste, com'è possibile che i suoi siano morti?» Mi lanciò un'occhiata che diceva tutto. «Non ho voglia di discutere di questo con te e, come ti ho già detto, l'unico consiglio è di andare a leggerti la Bibbia.» Fissai il cruscotto. Il suo lato portoricano risultava evidente nella foto recente - in una piccola cornicetta dorata - che lo ritraeva con Kelly e i suoi tre figli. Dakota aveva sedici anni e i denti coperti dalla madre di tutti gli apparecchi. Kimberly ne aveva quattordici e la sua unica preoccupazione erano i capelli, Tyce, il ragazzo, ne aveva tredici ed era convinto di essere Tony Hawks. Avevano tutti la carnagione più chiara di Josh perché la madre era bianca, ma assomigliavano molto al padre. In casa loro quasi non ci si poteva muovere dal numero di foto messe in bella mostra. Josh quando aveva ancora i capelli, da recluta, molto simile alle foto che i vicini tenevano appese alle finestre; Josh che entrava a far parte delle Forze Speciali; Josh e i bambini; Josh, Geri e i bambini, oltre a quelle orribili foto fatte a scuola con sorrisi sdentati e ginocchia sbucciate. Aveva capito che non gli avrei mai risposto, e come ogni buon cristiano porse l'altra guancia. «Allora, sentiamo, come te la passi?» «Bene. Nelle ultime settimane ho lavorato in Inghilterra. Mi è sembrato strano fare la coda al controllo passaporti con gli stranieri. Ma in fondo mi dà da vivere.» Il che mi ricordò la vera ragione per cui ero venuto. Cercai nel giubbotto e sfilai la busta ancora sigillata che spinsi sotto la sua gamba. «E spero che mi farai il piacere di comprarti una macchina nuova e una parrucca.» «Grazie, ma posso farne un uso migliore.» Non avevo dubbi. Kelly non era l'unica ad avere bisogno di soldi.
Per un tratto guidò in silenzio, poi prese il cellulare dall'alloggiamento nel cruscotto e me lo passò. «Apri la rubrica e cerca Billman sotto la B. Sono dei vicini a Hunting Bear. Sono quelli che tengono d'occhio la casa e il resto.» Premetti qualche tasto e lasciai squillare. Dopo un po' partì la segreteria. Scrollò le spalle. «Proveremo più tardi.» Si voltò verso di me con un sorriso ironico. «Probabilmente sono a una riunione del gruppo a lamentarsi per come ci stiamo comportando sul prezzo della casa. Forse è arrivato il momento di cedere e di venderla sotto costo. Nessuno comprerà mai una casa con quel passato. Lasciamo che la demoliscano per costruire un parco giochi o qualsiasi cosa abbiano in mente.» Ci aveva messo un po', ma finalmente Josh cominciava a pensarla come me. «Forse, in un certo senso, potrà essere d'aiuto anche per Kelly. Come chiudere una porta, non so se rendo l'idea.» Mise la freccia per lasciare la I-95 all'uscita successiva in direzione della tangenziale, la I-495, che correva intorno al District of Columbia. Ovunque, cartelli luminosi lampeggiavano senza sosta le istruzioni per comunicare all'istante ogni sospetto di attività terroristica. «E se notiamo attività non sospette cosa dobbiamo fare? Tenerle per noi?» Mi fu chiaro che aveva passato gli ultimi chilometri a riflettere. «Ascolta, Nick, adesso io la vedo così. Niente di nuovo, solo che ne sono più convinto. Ciò che più conta è che non la lasceremo mai, qualunque cosa accada. Le sue trasgressioni sono solo un modo per riuscire a sopravvivere. Per accettare la morte della sua famiglia, per accettare il suo sentirsi sola e abbandonata. Ha un grosso peso sul cuore con cui fare i conti, lo sai anche tu.» Abbassai l'aletta parasole per ripararmi dal riflesso. «Io non l'ho abbandonata, e questo lei lo sa. Sa che se vive con te è perché siamo convinti che sia la cosa migliore per lei.» Mi accorsi che mi stavo mettendo sulla difensiva. «Bisogna guardare le cose dal suo punto di vista. Non importa quanto affetto riusciamo a darle, è comunque difficile.» Si piegò sul volante per dare sollievo alla schiena. «È ostile con tutti, sai come fa. È il suo modo di tirare avanti, Nick. Si allontana da noi prima che avvenga il contrario. Si isola per proteggersi. Dobbiamo impegnarci perché trovi un altro modo per superare il passato. Un modo migliore.» «Hai guardato troppi episodi di Dr Phil, amico mio.» Fece di nuovo finta di non aver sentito. «Ognuno ha il suo sistema per
far fronte alle situazioni, mi segui? Io ho la mia fede immensa nel Signore, so che Lui mi ama. L'avresti anche tu, se solo Lo lasciassi entrare. Se ti aprissi agli altri, mi vien da pensare...» Mi puntò un dito contro mentre cercava di non tagliare la strada a un camion. «Tu sei il signor Cambiadiscorso: quando le cose si fanno troppo impegnative, cerchi distrazioni, ti butti nel lavoro, cominci a scherzare, qualsiasi cosa pur di scappare. Quella battuta su Dr Phil... vedo che continui a usarla: come la chiami? Fuga? Sì, non hai ancora smesso di fuggire.» Si voltò verso di me e io, per darmi un contegno, guardai fuori del finestrino. «Sai perché non mi guardi mai negli occhi? Sai perché non mi guardi in faccia? Perché ti senti colpevole, allora fai il solito trucco, rimuovi.» Non rimuovevo, azzeravo del tutto. «Un mucchio di balle.» Scosse la testa lentamente da una parte all'altra. Un cartello annunciò che stavamo entrando in Virginia. «Per come la vedo io, Kelly si comporta né più né meno come te, rimuove e chiude il coperchio. Non può sopportare di esporre i sentimenti che prova, ha paura delle conseguenze. Ha paura che possa essere come lasciare aperte le porte dello zoo e che i leoni e gli elefanti possano fuggire, capisci quello che voglio dire?» Mi strinsi nelle spalle farfugliando un «forse». «Nick, so bene che hai cercato di fare il massimo che potevi per lei, so che ci sono stati momenti difficili, ma cosa le passa per la testa la notte? Cosa sogna? Forse per te è tardi, ma dobbiamo aiutarla a sollevare il coperchio. E dobbiamo andare piano. Molto piano.» Uscimmo dalla tangenziale prendendo lo svincolo sulla destra che indicava Tyson's Corner. «Ci vorrà molto tempo, ma riusciremo a farcela, alla fine.» «Ne sei convinto?» A volte ammiravo le sue incrollabili certezze di cristiano, ma altrettanto spesso mi facevano perdere il controllo. «Ne hai parlato con Dio?» Era una battuta fiacca e lo sapevamo entrambi. Di colpo assunse un'espressione triste. Per lui ero una continua delusione. «No, Nick, ho detto al Signore che in nome Suo risolveremo questa cosa. Meglio, che tu lo farai. Domani porto i bambini con me al mio corso alla scuola battista. Kelly sarebbe comunque venuta malvolentieri. Torniamo sabato pomeriggio. Passa un po' di tempo con lei, amico.» Usciti dalla superstrada potevamo essere nella verde periferia del Surrey. La strada era fiancheggiata da grandi case monofamiliari, e quasi tutte avevano auto parcheggiate nel vialetto in grado di trasportare sei o sette persone e l'immancabile cesto da pallacanestro. Ricordavo fin troppo bene
la strada che portava al loro quartiere, o comunità come preferivano chiamarlo, dove Kev e Marsha avevano abitato con Kelly e la sua sorellina, Aida. Svoltammo nella strada che portava a Hunting Bear e proseguimmo per circa mezzo chilometro finché non raggiungemmo una piccola schiera di negozi a un piano in uno spiazzo con possibilità di parcheggio. Erano in gran parte piccoli negozi di alimentari o punti specializzati nella vendita di candele o saponette. Quel giorno mi ero fermato lì a comprare i dolci per Aida e Kelly - anche se sapevo che Marsha non glieli avrebbe fatti mangiare - e un paio di altri regalini altrettanto non graditi. Più in su, sulla destra, riuscii a distinguere fra le case grandi il retro di quella, in stile coloniale, che era stata di Marsha e Kev. Il cartello VENDESI dell'agenzia Century 21 era lì da diversi anni ed era ormai sbiadito e rovinato dalle intemperie. In qualità di coesecutore testamentario, insieme con Josh, delle loro volontà, non avevo mai molte speranze quando qualcuno veniva a vedere la casa. Perdevano subito ogni interesse allorché scoprivano ciò che era successo lì dentro. 8 «La signora Billman è tornata.» Josh indicò l'Explorer azzurra posteggiata in un vialetto una cinquantina di metri più avanti. Da quelle parti le case erano piuttosto distanti l'una dall'altra. Si fermò bloccando l'uscita dell'altro veicolo e inarcò la schiena per infilare la mano nella tasca dei pantaloni. «Vado a parlare con loro, tu intanto fai un giro intorno alla casa. Tieni.» Mi lanciò un mazzo di chiavi tenute insieme da un anello con Homer Simpson. «Io non vengo, voglio lasciarvi un po' di tempo da soli.» Scendemmo e, mentre lui si avviava verso la dimora dei Billman, io rimasi a guardare la casa bianca con i mattoni marroncini e le travi di legno a vista. Era un anno o due che non la vedevo, ma non era cambiata molto: sembrava solo più vecchia e più stanca. Se non altro la «comunità» si occupava di tagliare le siepi e il prato in modo che non fosse motivo di disordine nel loro mondo. Iniziai a salire il vialetto. Mi stavo prendendo in giro, tutto era cambiato. In genere, in quel punto, ero oggetto di un agguato: le bimbe mi saltavano addosso, mentre Marsha e Kev mi venivano incontro. Quella primavera del 1997 avrei potuto dire che conoscevo i Brown da sempre. Ero con Kev quando aveva incontrato Marsha, avevo fatto da te-
stimone alle nozze ed ero il padrino della loro seconda figlia, Aida. Avevo preso l'impegno molto sul serio, anche se non sapevo esattamente cosa volesse dire. Sapevo che non avrei mai avuto dei figli miei, ero sempre troppo occupato a fare il lavoro sporco per personaggi come George. Anche Kev e Marsha lo sapevano e cercavano con tutto il cuore di farmi partecipe della loro felicità. Ero cresciuto in un quartiere povero a sud di Londra con il mito della famiglia perfetta. E, per come la vedevo io, Kev aveva realizzato quel sogno. Andai deciso verso la porta del garage, ma nessuna delle chiavi di Homer riuscì ad aprirla. Passai a sinistra della casa e andai nel cortile sul retro. Nessuna traccia di lei. Solo la grande altalena in legno, un po' consumata dal tempo ma ancora al suo posto dopo tutti quegli anni. Infilai la chiave nel portone e aprii. Sei anni prima, come ricordavo fin troppo bene, l'avevo trovata accostata. Negli ultimi mesi il lavoro di Kev con la DEA, a Washington, si svolgeva in ufficio. Quando faceva l'infiltrato nella comunità dei narcotrafficanti si era procurato molti nemici e, dopo aver subito cinque attentati alla vita, Marsha aveva deciso che aveva raggiunto un limite insuperabile. Lui adorava la sua nuova vita da tranquillo impiegato. «Più tempo per stare con le bambine», diceva sempre. «Sì, così puoi continuare a fare il bambino anche tu.» Era la mia risposta standard. Per fortuna Marsha era una compagna matura e razionale, e all'interno della famiglia si completavano bene. La loro casa era un posto piacevole e accogliente, ma non riuscivo mai a fermarmi per più di tre o quattro giorni. Ci scherzavo sopra, lamentandomi che non sopportavo il profumo delle candele, ma loro conoscevano bene il vero motivo: non sapevo come comportarmi in un ambiente dove regnava l'amore. L'odore di stantio, di umido, di casa rimasta chiusa troppo a lungo m'investì non appena misi piede dentro. Il corridoio si allargava in un ampio ingresso su cui si affacciavano le porte dei locali del piano terra. La cucina era sulla mia destra. Il soggiorno a sinistra. Tutte le porte erano chiuse. Me ne stavo lì all'altro lato della soglia girandomi il portachiavi intorno a un dito e desiderando con tutto me stesso di sentire ancora il profumo delle candele. I tappeti e gli arredi erano stati portati via da molto tempo. Era la prima cosa che l'agenzia ci aveva chiesto quando avevamo messo in vendita la
casa. I possibili compratori non avrebbero pagato di più per una moquette insanguinata o per i tre pezzi del salotto. A Kelly non importava se la casa veniva svuotata, ma aveva insistito molto perché l'altalena restasse. In seguito avevamo fatto pulire con il vapore le macchie di sangue. Ma l'odore era rimasto, ne ero convinto: quell'odore metallico che mi perseguitava mi aggredì le narici e mi serrò la gola. Infilai Homer in una tasca del giubbotto e mi avventurai all'interno della casa. Il cuore accelerò i battiti quando oltrepassai la solida porta del salotto. Non potevo evitarlo, dovevo fermarmi e affrontare quella porta del cazzo. Sollevai la mano per afferrare la maniglia ma la lasciai ricadere. Sapevo che non ci sarei riuscito. E quella non era l'unica porta che mi faceva provare quelle sensazioni. Ero già venuto diverse volte per controllare lo sgombero e la pulizia, ma non ero mai andato oltre la cucina. Alla fine avevo lasciato che se ne occupasse Josh da solo. Non gli avevo mai spiegato il vero perché, non gli avevo mai spiegato delle porte che non riuscivo ad aprire. Ma era intelligente e probabilmente aveva capito tutto lo stesso. Me ne stavo lì con la fronte contro la porta chiusa a fissare la maniglia. Infilai le mani nelle tasche del giubbotto. Strinsi la testa di Homer e le chiavi fra le dita sino a farmi male. Quel giorno di aprile del 1997 la luce del tramonto proveniva dalla porta del salotto, ma non ci avevo guardato dentro. Ero troppo intento ad andare dritto verso la musica soft rock che proveniva dalla cucina. La mia visuale periferica doveva aver registrato qualcosa, comunque, perché un paio di passi dopo mi ero fermato di colpo. L'informazione doveva essere arrivata al cervello, ma per un nanosecondo mi ero rifiutato di elaborarla. Strinsi Homer ancora più forte, mentre venivo colto da ondate di nausea. Ormai la videocassetta che era dentro di me era partita, avrei rivissuto tutto, in technicolor. Difficile credere che fossero passati sei anni, e ancora più difficile credere che il ricordo fosse ancora così vivo. Merda, credevo che ormai fosse tutto sotto controllo. Troppo tardi, ormai stava andando. Kev era sdraiato su un fianco, sul pavimento, la testa sfracellata da una mazza da baseball. La stessa che mi aveva mostrato pieno d'orgoglio, un bell'aggeggio in alluminio. Aveva sollevato le sopracciglia e poi mi aveva detto ridendo che i razzisti del posto la chiamavano macchina della verità dell'Alabama. Poi avevo controllato se respirasse ancora. Impossibile. Il cervello era sparso sul pavimento e la faccia ridotta in poltiglia. E sangue ovunque, sul-
le poltrone e sul divano. Sangue anche sulle finestre che davano sulla veranda. Cos'era successo a Marsha e alle bambine? L'assassino era ancora in casa? Avevo bisogno di una sua pistola, quegli oggetti del cazzo che avrebbero dovuto proteggerli. Un giorno mi aveva fatto vedere tutti i posti dove le aveva nascoste, in alto e fuori portata delle figlie, tutte cariche e pronte con un colpo in canna e il caricatore pieno. Un attimo dopo avevo fra le mani una Heckler & Koch USP calibro 9, una pistola semiautomatica. Aveva un mirino a laser sotto la canna: dov'era il puntino rosso lì sarebbe andato il proiettile. Avevo le lacrime agli occhi ricordando la musica che proveniva dalla cucina, un pezzo degli Aerosmith, uno dei gruppi preferiti di Marsha. Rimasi fermo contro lo stipite della porta in attesa che il cuore recuperasse un ritmo normale, poi girai la testa verso la porta chiusa della cucina. Era la prima stanza in cui ero entrato per cercare Marsha e le bambine. Era la più vicina, quella con la musica. Con una spinta mi staccai dalla porta, i miei stivali rimbombarono nell'atrio vuoto, gli Aerosmith facevano da colonna sonora al film che mi scorreva nella testa. Con la pistola spianata davanti a me pronto a far fuoco su ogni possibile bersaglio, avevo spinto la porta e mi ero spostato oltre lo stipite. Adesso la musica era più forte e la lavatrice era in funzione. Il cestello girava, si fermava, girava. Ero venuto avanti e avevo aperto la porta del tutto. Niente. Solo un piccolo puntino rosso sul muro di fronte dove il laser andava a picchiare. Quel giorno non c'era la radio, non c'era la lavatrice, non c'era niente. Ma anche allora era stato come salire a bordo della Mary Celeste. C'era del cibo che qualcuno stava preparando. Kev mi aveva detto che Marsha avrebbe cucinato qualcosa di speciale. Verdure e carne. La tavola era apparecchiata a metà. Lentamente mi ero avvicinato alla porta che conduceva al garage e l'avevo chiusa a chiave. Non volevo farmi sorprendere da qualcuno alle spalle mentre controllavo il piano terra. Di colpo mi resi conto che continuavo a strangolare Homer. Mollai la presa. E mentre il sangue riprendeva a scorrere nella mano mi appoggiai al lavandino e guardai la porta del garage. Era lì che sarei dovuto andare, ma era più forte di me, dovevo arrivare prima al piano di sopra. Tornai in ingresso e posai il piede sul primo gradino senza tappeto. Il le-
gno nudo scricchiolò in modo esagerato. La stanza delle ragazze mi aspettava in cima alla scala. Sei anni prima era stata un trionfo di Pocahontas, magliette e manifesti, lenzuola e una bambola che cantava una canzoncina sui colori se si premeva la schiena. La porta era chiusa, ma quella porta non costituiva un problema. La porta successiva era quella di Marsha e Kev. Era socchiusa. Il cuore riprese a battere forte, avevo la bocca asciutta. Cosa cazzo sei venuto a fare quassù? Avevi promesso a te stesso che non saresti salito mai più. Non potevo evitarlo. Mi avvicinai piano come se la porta fosse un animale feroce, e ancora sentii quell'odore metallico, forte come allora, e poi l'odore di merda. 'Fanculo. Andai verso le scale, poi mi fermai e tornai indietro, mentendo a me stesso sul fatto di avere un buon motivo per restare. Riprenditi! Sei qui per cercare Kelly. Ma il film continuava ad andare. Ero incapace di fermarlo. Con i piedi ben piantati sul pianerottolo sbirciai attraverso la porta. Nella testa rivedevo ogni più piccolo maledetto dettaglio. Solo dopo aver aggirato l'infisso avevo visto Marsha. Era in ginocchio accanto al letto, le braccia spalancate su di esso, il copriletto un lago di sangue. Ero entrato sforzandomi di ignorarla. Nella camera non c'era nessuno. E poi c'era il bagno. Quello che avevo visto lì mi aveva mandato fuori di testa, completamente, dannatamente fuori. Bang, mi ero lasciato cadere contro la parete ed ero scivolato a terra. Sangue ovunque. Ce l'avevo sulla camicia e sulle mani; ero seduto in mezzo al sangue e avevo i pantaloni zuppi. Stop, cazzo, fermalo! Non pensarci, corri via... Troppo tardi. Troppo tardi. Aida era sul pavimento, tra la vasca e il water, la testolina di bambina di cinque anni era quasi completamente staccata dal corpo. Restavano pochi centimetri di pelle intatta, le vertebre erano appese a un filo. A quel punto avevo visto Marsha sul serio. Il vestito cadeva normale ma il collant era stato strappato e le mutandine abbassate e se l'era fatta addosso, probabilmente in punto di morte. In quel momento avevo visto solo una persona cui volevo bene, che forse avevo amato, in ginocchio, e il suo sangue schizzato ovunque. Le avevano fatto quello che avevano fatto ad Aida.
Neppure Homer riusciva più a distrarmi. Ansimavo e mi asciugavo gli occhi, come avevo fatto allora. E provavo la stessa paura, la stessa incredulità e la stessa devastante sensazione di fallimento. Cosa sarebbe successo se fossi arrivato prima? Sarei riuscito a impedire questo incubo? Mi asciugai le lacrime. Dovevo darci un taglio, o correvo il rischio di impazzire. Ci avevo messo anni per imparare a tenere chiusi i cancelli dello zoo e mi ero fatto del male nel cercare di aprirli. Mi afferrai al corrimano e mi rialzai. Poi andai a cercarla. 9 Kev mi aveva mostrato il «nascondino», così lo chiamava, lo stesso giorno in cui mi aveva fatto vedere dov'erano riposte le pistole, in caso di bisogno. Era costruito con i cartoni vuoti degli elettrodomestici della cucina, sotto una scala aperta del garage che portava a un piccolo soppalco dove Kev teneva gli attrezzi. Le bambine sapevano che dovevano correre lì immediatamente se Kev o Marsha avessero urlato la parola «Disneyland!» Dovevano restare in silenzio e non dovevano uscire finché uno dei genitori non fosse andato a prenderle. Tornato in cucina trassi un gran respiro e aprii la porta che immetteva nel garage. Allora avrebbero potuto far stare nel locale altre tre macchine oltre a quella che Kev aveva in dotazione dalla compagnia, una Caprice Classic blu scuro piena di antenne. «Aggeggio del cazzo», si lamentava sempre. «Tutte le stupidaggini moderne degli anni '90 su un motore che assomiglia a quello di un frigorifero anni '60.» Le biciclette delle bambine stavano appese ai ganci fissati nel muro insieme con tutte le cose che una famiglia accumula normalmente. Adesso c'era solo un discreto numero di cartoni avanzati dal trasloco che avevamo ammucchiato sotto la scala. Kelly si era fatta da sola una nuova Disneyland. Mi avvicinai chiamandola sottovoce. «Kelly? Sono Nick. Sei qui?» Quando Kev aveva predisposto la caverna di cartoni ci aveva messo anche alcune bambole, qualche bottiglia d'acqua e delle barrette di cioccolata. L'ultima volta che ero stato lì mi ero avvicinato avanzando carponi con la pistola infilata nella cintura. Non avevo voluto che Kelly la vedesse, non
volevo che si rendesse conto di ciò che era successo di sopra. Con parole dolci avevo cercato di convincerla a uscire mentre spostavo i cartoni e avanzavo piano verso il muro di fondo. E l'avevo trovata, gli occhi spalancati per il terrore, seduta con le gambe raccolte che dondolava avanti e indietro, le mani sopra le orecchie e gli occhi rossi e gonfi di lacrime. Avevo scoperto solo molto più tardi che aveva sentito e visto tutto. Questa volta dovetti solo muovere una scatola da imballaggio. Era lì, seduta contro il muro. «Ciao.» Indossava una maglietta verde con il logo di qualche squadra, scarpe da ginnastica bianche e rosse e un paio di jeans a vita bassa che lasciavano scoperte le ossa dei fianchi. Questa volta non c'era terrore nei suoi occhi, erano solo stanchi e tristi e anche un po' incuriositi, come se cercasse di capire perché anche i miei fossero così arrossati. «Ti ho trovato, alla fine», le dissi ridendo. «Non sei molto brava a giocare a nascondino.» Non rispose al sorriso. Il viso deformato dalle lacrime mi fissava mentre mi avvicinavo. Ma lo stato in cui si trovava non faceva nessuna differenza: era carina come sempre. Aveva ereditato il meglio dei genitori, la bocca dalla madre e gli occhi dal padre. «Ha il sorriso più bello di Julia Roberts», ripeteva sempre Kev. Sua madre era originaria del Sud della Spagna e lui sembrava uno del posto: capelli nerissimi, ma con gli occhi più azzurri del mondo. Marsha sosteneva che era la copia esatta di Mel Gibson. «Andiamo, usciamo da qui. Ho bisogno di aria fresca.» Mi fissò per un periodo che mi sembrò durare un secolo, come se fosse appena tornata da un viaggio in terre lontane e cercasse di capire quello che era cambiato. Alla fine mi rivolse un rapido e debolissimo sorriso. «Scusa.» Spostai un cartone per agevolarle l'uscita. «E per cosa?» Tornò quello sguardo fisso come se non riuscisse a connettere. «Per oggi.» Sollevò le spalle. «Per tutto.» «È tutto a posto, non ti preoccupare. Ehi, ti piace ancora andare in altalena?» 10 Mentre uscivamo in giardino chiusi il cellulare e le passai un braccio in-
torno alle spalle. Avevo comunicato a Josh che stava bene e che avevamo bisogno di un po' di tempo. Mi aveva risposto che sarebbe andato a bere un caffè giù ai negozi e di chiamarlo quando volevamo. L'altra volta che l'avevo fatta uscire dal nascondiglio l'avevo presa per mano e guidata con cautela fuori dal garage. Poi l'avevo presa in braccio e l'avevo tenuta stretta fino in cucina. Tremava tanto che non riuscivo a capire se mi diceva di sì o di no. E quando l'avevo portata via in macchina era quasi rigida per lo shock. La dottoressa Hughes mi aveva detto alcune cose all'inizio della terapia. Avevo l'impressione che fossero passati secoli. «Kelly è stata costretta a imparare presto cosa vogliono dire abbandono e morte, signor Stone. Come può una bambina di sette anni, tanti ne aveva allora, comprendere l'assassinio? Un bambino che è stato testimone di atti violenti è convinto che il mondo sia un posto pericoloso e imprevedibile. Mi ha detto che non si sentirà mai al sicuro nel mondo esterno. Non è colpa di nessuno, l'esperienza la porta a credere che gli adulti che la circondano siano incapaci di proteggerla. È convinta di doversi assumere da sola questo compito e la prospettiva le causa un'ansia insostenibile.» Camminammo fino all'altalena e lei si agitò un po' per trovare la posizione più comoda sul vecchio copertone che faceva da sedile. Mi sdraiai sul prato. «Mi spingi, Nick?» Mi posi alle sue spalle. All'inizio rimase seduta passivamente senza darsi lo slancio, poi fu come se ricordasse. «Cosa ti sei fatta al dito?» Aveva un cerotto sulla nocca dell'indice destro e la pelle sotto sembrava rossa e irritata. «Ho fatto una cosa piuttosto stupida durante l'ora di scienze. Guarirà.» La spinsi in silenzio per un po'. Mi piaceva. Mi faceva pensare ai momenti felici che anch'io avevo passato in quel giardino. «Quando papà tornava dal lavoro, la prima cosa che faceva era andare a dare un bacio alla mamma, poi veniva in giardino a giocare con noi. Era bello. Non tutti i padri lo fanno.» «Non tutti i padri amano i loro figli quanto lui amava voi.» La frase le fece piacere. «La mamma ci portava dei biscotti e un succo di frutta. A volte stavamo qui tutti insieme fino all'ora di cena.» Sorrise. «Mi piaceva tanto quando venivi a trovarci. La mamma ci diceva di ringraziarti se portavi dei dolci ma di darli a lei. Era la guardiana delle caramelle.» Si era fatta di nuovo seria e io la rallentai sino a fermarla, la ascoltai con la
testa posata sulla sua spalla destra. «Mi sentivo sempre più al sicuro quando eri qui con papà. Ricordi? La mamma vi chiamava i 'miei due uomini forti'. Ero molto più preoccupata quando era da solo, perché sapevo che c'erano persone che ce l'avevano con lui.» «Perché era bravo nel suo lavoro.» «Lavoravate insieme?» «Eravamo insieme nell'esercito. Poi ha sposato la mamma ed è venuto a stare qui.» Si fissò le scarpe da ginnastica, poi mi fissò, gli occhi azzurri piantati nei miei. «Perché papà, mamma e Aida sono morti, Nick?» Non ne avevamo mai parlato. Ero convinto che in qualche modo avesse saputo, che forse i nonni o la dottoressa Hughes o Josh glielo avessero detto. Provai la sensazione di non averle mai spiegato i fatti della vita limitandomi alla speranza che potesse apprenderli da sola. Ma poi, forse, sapeva, e voleva soltanto sentirlo da me per provare ancora una volta a capire. «Tuo padre era dalla parte dei buoni. Ma il suo capo si è trovato coinvolto con degli spacciatori e tuo padre l'ha scoperto. È stato il suo capo a ucciderlo e poi ha ucciso i possibili testimoni.» «La mamma e Aida?» «Sì.» «E perché non ha ucciso anche me, Nick? Perché sono l'unica che è dovuta sopravvivere?» «Non so cosa risponderti, Kelly. Può darsi che, se fossero entrati cinque minuti prima o cinque minuti dopo, avrebbero ucciso anche te.» «E sarebbe stato molto meglio per tutti.» Sollevai la testa e feci il giro per guardarla. «Non dire mai una cosa del genere. Non devi neppure pensarla.» Mi chinai e le presi le mani. «A volte mi sento proprio di merda, come se fossi dissociata. Sai cosa intendo?» «Passo la maggior parte della vita a sentirmi così.» Esitai e la attirai a me. «Sai, quando avevo otto anni ho visto qualcuno morire.» Si raddrizzò. «Davvero?» Descrissi la vecchia fabbrica abbandonata vicino a dove abitavamo. Le finestre e le porte chiuse con assi di legno e coperte con il filo spinato. Ma non ci impedivano di entrare. «C'era un vecchio pezzo di lamiera ondulata inchiodato al telaio di una piccola porta che dava su un vicolo. Non era fissato bene. Eravamo riusciti a entrare ed eravamo andati sul tetto. Ricordo che avevo il fiatone e che guardavo le nuvolette formate dal mio respiro.»
Faceva molto più freddo lassù, a quasi cento metri di altezza. «Mi avventurai sino in fondo al tetto e da lì guardai le chiazze di luce sotto i lampioni. La strada era deserta, nessuno che potesse vederci. Era tutto così tranquillo. Non mi ero mai accorto che le strade intorno a casa mia fossero così serene. E poi si udì un suono, un suono orribile.» «Che cos'era?» Si strinse al mio fianco. «Vetri rotti. Mi voltai e vidi i miei tre amici in piedi vicino all'abbaino. Avrebbero dovuto essere quattro.» Una frazione di secondo dopo, avevo sentito un tonfo soffocato dal pavimento dell'edificio. «Sapevo ancora prima di guardare nel buco che John era morto. Lo sapevamo tutti. Tornammo di corsa giù per le scale. Giaceva immobile. Scappammo.» «È venuta la polizia?» «Il giorno successivo la polizia era in tutte le case, ma ci eravamo messi d'accordo di raccontare tutti la stessa cosa. Eravamo convinti di averlo ucciso. Non ho mai provato tanta paura.» Kelly mi guardò. «E adesso, ti capita mai di avere paura?» «Sempre.» Azzardai un sorriso. «E, prima che tu me lo chieda, non ho nessuna intenzione di morire finché non sarò vecchissimo.» «Ma non hai garanzie, o sbaglio?» «Quelle sono roba per Josh e la sua scuola di Bibbia.» Rabbrividì. «Non lo trovo divertente, Nick. So che a te il futuro non importa molto, ma a me sì. E tanto, lo sai? Cioè, cosa succede se qualcuno vuole farti del male come è successo a papà? Che ne sarebbe di me?» Mi accucciai davanti a lei e i nostri visi si trovarono allo stesso livello. «Ci sarebbe Josh. Ti vogliono tutti bene.» «Questo lo so. Ma io ho bisogno di te, Nick. Come ti ho detto, la mamma chiamava te e papà i suoi due uomini forti. Adesso ne rimane soltanto uno.» Lasciò andare le corde e mi toccò le guance. Le sue mani erano incredibilmente fredde. «Vuoi essere il mio uomo forte, Nick? Vuoi?» C'erano lacrime nei suoi occhi. Mi lasciò andare e prima che potessi risponderle, cosa che mi andava più che bene perché non avrei saputo cosa dire, si guardò le scarpe. «Non ci sono molti posti in cui mi sia sentita al sicuro da... da quando sono rimasta sola. Una volta ho cercato di fare un elenco. C'è la casa nel Norfolk. Ricordi quando hai messo la tenda in camera da letto? L'hai piantata con i chiodi al pavimento invece di usare i picchetti e io pensai che era proprio forte. Mi piaceva molto. E poi qui, a volte. E...» Distolse lo sguardo. «Quel
posto dove mi hai portato...» Le strinsi le spalle. «La dottoressa Hughes?» Annuì. «Lei capiva.» Nel silenzio che seguì presi la decisione che era giunto il momento di cominciare a essere il suo uomo forte. Josh aveva ragione. «Avresti voglia di parlarle ancora?» S'illuminò tutta come se avessi premuto un interruttore. «Potrei? Ma come?» «Due miracoli: gli aerei e la MasterCard. Potremmo essere lì domani, se vuoi.» «Dovrei andare al corso sulla Bibbia con Josh e...» La interruppi con un gesto della mano. «Non è un problema. Ce ne andiamo in Inghilterra, invece. Sono sicuro che capirà. Andiamo a trovare i nonni, a parlare con la dottoressa Hughes e ce ne stiamo insieme, noi due da soli.» Saltò giù, quasi cadde, dall'altalena, mi buttò le braccia al collo e mi stampò un bacio su una guancia. «Mi sento già meglio.» Poi si accigliò. «Come hai fatto a venire qui? Ti ha portato Josh?» «Sì, è andato a prendere un caffè.» «Gli hai parlato di Disneyland? Gliel'hai detto?» «È un nostro segreto», le dissi ridendo. «Ma tu, piuttosto, come hai fatto a entrare?» «Che sciocco che sei, ho preso la chiave e l'ho fatta duplicare, tanto tempo fa.» E la cosa continuava a farla sorridere. «Sono pronta. Andiamo.» Facemmo ancora una passeggiatina in giardino, Kelly non smetteva di guardare l'altalena, e poi chiusi a chiave. Un uccello volò rasente il prato e poi si alzò in cielo. Ci avviammo nel vialetto e telefonai a Josh. 11 Bromley, Inghilterra Giovedì 8 maggio, ore 9.10 I nonni di Kelly erano davanti al loro bungalow del 1980 sotto un piccolo cartello su cui era scritto I SICOMORI. Carmen non aveva ancora finito con le raccomandazioni. «Hai le chiavi? Più tardi andiamo da Safeway.» Gliele mostrai, mentre Kelly si allacciava la cintura, l'espressione sul suo
viso spenta come il cielo. Avviai il motore e loro ci salutarono con la mano, come se partissimo per sempre e non per un giorno solo. Carmen si faceva sempre prendere dall'ansia quando si trattava di partenze. A sentir lei non era più la stessa da quando la sorella, che era tutta la sua famiglia, era partita per andare in Australia, poco dopo il matrimonio di Carmen, e aveva finito per sposare un tipo di Sydney che aveva i soldi per comprare una casa. O qualcosa del genere. Cercavo di prendere un'aria assente quando precisava che Jimmy non aveva mai guadagnato abbastanza da comprare una casa come si deve a Bromley. Carmen e Jimmy non erano cambiati granché dall'ultima volta che li avevo visti, qualche anno prima, e niente era cambiato nella loro vita. Ma secondo me erano così da quando si erano sposati, e Jimmy aveva cominciato a lavorare come un mulo per mantenere Carmen a livello con i Jones australiani. Aveva sempre la stessa Rover senza un graffio, vecchia di quindici anni, e Carmen teneva sempre la casa perfetta come se fosse una vetrina. Continuava a ritenermi responsabile della morte del figlio, anche se io non ero là. Le bastava il fatto che facessimo lo stesso tipo di lavoro. Erano ancora piuttosto infastiditi per il fatto che nel testamento Kev e Marsha avessero nominato Josh e me custodi delle figlie. Kelly se ne stava lì, in silenzio, a guardare dal finestrino le strade affollate. Josh aveva ragione riguardo agli sbalzi di umore; proprio in quel momento era così giù da farmi venire il dubbio che non sarebbe mai riuscita a riprendersi, ma poi ricordai i progressi che aveva fatto da quando l'avevo trovata. Mi domandai se era colpa di qualcosa che avevo detto o che mi aveva sentito dire ai nonni. Cercavo sempre di mettercela tutta per non farle capire quello che in realtà pensavo di loro. Quella mattina mi era particolarmente difficile, perché senza volere avevo sentito Jimmy dare ragione a Carmen quando sosteneva che il problema di Kelly fosse da attribuire tutto a me. Niente a che vedere con quel simpatico Josh che con grande bontà d'animo l'aveva presa con sé, che le aveva fatto conoscere Dio e che le aveva dato tanto amore e tante attenzioni. No, niente di tutto quello sarebbe successo se all'inizio io non avessi tanto insistito per occuparmene da solo e se l'avessi lasciata stare con quella famiglia di buoni cristiani. Grande stronzata. Era andata così e - che cazzo - sarebbero morti presto, per cui dovevano affrettarsi ad avanzare i loro reclami, non gli restava molto tempo. Mi sorpresi a sorridere come un idiota nello specchietto retrovisore. A modo loro Carmen e Jimmy riuscivano sempre a tirare fuori il meglio di me.
Eravamo a sud del Tamigi e stavamo passando davanti a un McDonald's. Sentii il bisogno di riempire il silenzio. Negli ultimi dieci minuti avevo avuto solo dei «sì», «no», «forse», «come vuoi». Indicai i manifesti sulle vetrate del McDonald's e cercai di mantenere un tono scherzoso. «Guarda, hanno il McRib. Ci fermiamo al ritorno?» «Sì, se vuoi.» La guardai di sfuggita. Cosa cazzo passava nella sua giovane testa? Probabilmente le stesse cose che passavano nella mia. Solo che io avevo imparato a nasconderle meglio. I Moorings erano un grande complesso in una piazza verde affacciata su giardini protetti da palizzate in modo che solo i residenti potessero godere dei prati curati. Tutto nella zona e negli edifici diceva che si trattava di un'organizzazione specializzata nel trattare i disordini mentali dei ricchi, ed era una disdetta perché io ricco non lo ero proprio. Trovai parcheggio per la poco dignitosa Corsa che avevo noleggiato a prezzo speciale, spensi il motore e mentre sganciavo la cintura guardai Kelly. «È bello come al solito, non trovi?» Nessuna risposta. «Mi sono sempre chiesto perché li chiamino Moorings, 'ormeggi', in fondo siamo lontano dal Tamigi. Dove sono le barche?» Sempre in silenzio, Kelly si liberò della cintura come se il peso del mondo fosse tutto sulle sue spalle. Scesi e infilai qualche sterlina in monete nel parchimetro, poi salimmo insieme i tre gradini di cemento fiancheggiati dal ferro battuto finemente dipinto e oltrepassammo la porta a vetri. L'atrio era lussuoso quanto l'ufficio direzionale di una banca privata, quadri d'epoca vittoriana alle pareti e profumo di cera per mobili. Una donna dal vestito immacolato lasciò la scrivania, ci condusse alla sala d'attesa e ci offrì qualcosa da bere. Kelly era ancora dell'umore «come vuoi», perciò chiesi una Coca-Cola e un caffè con latte e senza zucchero. Sapevamo dove andare e ci sistemammo su un grande divano di pelle rossa in stile antico. Sul basso tavolino di vetro davanti a noi c'era una parata di riviste sul Sud della Francia e sui Caraibi. Niente male, se si può avere, quel tipo di terapia. Kelly appoggiò le mani sulle cosce fasciate nei jeans, ma il resto del corpo sembrava come afflosciato. L'indice era ancora rosso e sotto il cerotto si vedeva la pelle che si staccava. Lo indicai con un cenno. «Ti fa male? Credevo che ci avrebbe messo meno a guarire.»
«È solo brutto da vedere ma è a posto. Tutto a posto.» La signora della reception ci portò da bere e Kelly parve riprendersi. Poi la dottoressa Hughes entrò nella stanza con un grande sorriso di benvenuto. «Ciao, Kelly, è passato un po' di tempo dall'ultima volta che ci siamo viste.» Mi ignorò, e la cosa aveva un senso: non era lì per me. «Ma che bella ragazza stai diventando.» Kelly arrossì. Ci alzammo. Se non altro quando aveva visto la dottoressa Hughes aveva accennato un sorriso, cosa che mi aveva fatto sentire subito meglio. Dietro gli occhiali a mezzaluna la dottoressa era attraente come al solito. Doveva avere superato i sessanta, ormai, i capelli grigi avevano sempre la stessa acconciatura che la faceva assomigliare a una giornalista americana più che a una psichiatra. Indossava un completo giacca e pantalone nero di quelli che si comprano solo con l'American Express di platino. Si rivolse a Kelly e all'inizio non ottenne altra risposta che qualche cenno del capo, ma poi si aprì in un sorriso grande e di colpo non m'importò più di quello che mi sarebbe costato: ne valeva la pena. «Ce ne andiamo di sopra per un po', Kelly?» Aprì la porta e la condusse fuori. Kelly si voltò. «Mi aspetti qui?» «Certo.» Mi rimisi a sedere mentre la porta si chiudeva con un sospiro. 12 Esattamente cinquantacinque minuti dopo la porta si riaprì e si affacciò la dottoressa Hughes. Si voltò verso il corridoio e disse: «Sì, è qui». Entrò Kelly, sul viso la stessa espressione che aveva tenuto in macchina. Niente di preoccupante: mi fidavo della Hughes. Cose di quel genere non andavano a posto in un attimo. Si rivolse esclusivamente a Kelly. «Ci vediamo sabato alla stessa ora?» Kelly annuì. Infilò il giubbotto e ci avviammo verso l'auto. Avevo appreso dalla volta precedente che non era il caso di chiederle com'era andata. La Hughes mi aveva detto che, se avesse voluto parlarmene, lo avrebbe fatto di sua spontanea volontà. Mi aveva anche detto che non mi avrebbe messo al corrente su niente di ciò che Kelly poteva dirle, a meno di pericoli immediati. Dovevo aspettare e tacere. Premetti il pulsante di apertura e le frecce lampeggiarono. Salimmo a
bordo. «La vecchia ragazza non è cambiata, che ne dici?» Agganciò la cintura. «No.» Non scambiammo altre parole nella via di ritorno verso Londra. Guardai il Traser. Le sei meno dieci. Non saremmo mai riusciti ad arrivare a Bromley per le sette. Presi il cellulare tri-band e lei mi guardò sospettosa. «Li chiamo e li avverto che non ce la facciamo.» La voce che sentii dall'altra parte non fu una sorpresa. A Jimmy non era concesso neppure di avvicinarsi al telefono. «Carmen, sono Nick. C'è un traffico incredibile e credo proprio che non ce la faremo ad arrivare per le sette.» Kelly mi fece cenno che non voleva parlarle. «Oh, caro, che peccato. Siamo andati apposta da Safeway. E mi sono data tanto da fare a preparare. Jimmy non ce la fa ad aspettare. Ceniamo sempre alle sette.» «Mi dispiace proprio. Mangeremo qualcosa lungo la strada.» Riuscii a non dirle che non vedevo l'ora di mangiare una montagna di schifezze. «E arriverete in ritardo ogni volta?» Feci un gran respiro. «Dipende dal traffico. Ascolta, se ci va bene arriveremo alle nove.» «Me la passi? Come sta? Com'è andata?» «Sta bene. Adesso è dietro che dorme. Ti racconto dopo. Andiamo a mangiare, non preoccuparti. Stiamo entrando in galleria. Devo lasciarti. Ciao.» Premetti il tasto rosso e feci un sorriso a Kelly. «Questa me la paghi, cara.» Alle luci delle auto che incrociavamo intravidi l'ombra di un sorriso. «Scusa, ma non mi andava di parlarle. Mi avrebbe detto di non prendere freddo e di mangiare solo cibi sani, potrei scommetterci.» «Sei ingiusta. Magari voleva discutere della crisi umanitaria in Iraq.» Il sorriso di Kelly si fece più grande e io provai un immediato sollievo. «A proposito di cena... ti va un McRib?» Poco dopo eravamo in coda nell'affollato McDonald's di Wandsworth. Era pieno di gente che aveva deciso di cenare lì dopo il lavoro invece di andare a casa e mettersi a cucinare. Ci vollero secoli prima di arrivare al bancone e a quel punto non avevamo voglia di sprecare altro tempo per aspettare il McRib, così optammo entrambi per un doppio hamburger e porzione grande di patatine fritte. Kelly ordinò anche un frullato. Lei andò avanti per prendere al volo un tavolo che si era liberato e io la seguii con il vassoio.
Cominciammo a ingurgitare le patate mentre un gruppo di bambini iperattivi si azzuffava nell'area giochi che avevamo accanto. Kelly era sempre stata magra come un'acciuga e dall'ultima volta che l'avevo vista si era fatta ancora più magra. Non mi spiegavo che fine facesse il cibo. Annegò l'hamburger con una doppia dose di ketchup e subito dopo lo portò alla bocca. Si bloccò. «La dottoressa Hughes dice che la chiave per guarire è essere onesti con se stessi.» «Davvero? Allora dev'essere così. Anzi, è probabilmente la chiave per tutto.» Con gli occhi ancora bassi si sistemò meglio sulla sedia di plastica. Era a disagio. «Nick, ti fa piacere se ti racconto quello che ci siamo dette oggi?» Annuii e mi preparai al peggio. Anche se faceva parte della terapia non avevo nessuna voglia di sentirle dire che mi detestava. «Hai mai avuto a che fare con la droga da giovane?» Feci cenno di no. «Solo alcolici. Non ho mai desiderato roba d'altro genere. Perché? Fai uso di erba?» Mi sorrise con sincera commiserazione. «Erba? Ma vai!» Tornò seria. «No. Si tratta di altro. Mai sentito parlare del Vicodin?» «L'analgesico? Matthew Perry?» «Mi stupisci. Non voglio critiche e non voglio predicozzi. D'accordo?» Scossi la testa, se non altro per disperdere la confusione che vi regnava. «E neppure una parola con la nonna e il nonno. A Josh ne parlerò io quando mi sentirò pronta.» «Tutto quello che vuoi.» Con gli occhi girati verso la televisione bevve un sorso di frullato, come se stesse raccogliendo i pensieri, poi mi guardò con i suoi penetranti occhi azzurri. «Allora, è andata così. Nella mia scuola è più facile procurarsi il Vicodin che il Tylenol per bambini. Chiunque ne abbia lo divide con gli altri.» «E dove lo prendete? Ci sono spacciatori a scuola?» Che ne facessero uso gli adulti era una cosa, che gli spacciatori la portassero ai ragazzini era un'altra. Certa gente dovrebbe essere presa a martellate con una mazza pesante e affilata. Mi sentivo prudere la pelle del viso, ma ero deciso a non lasciarglielo capire. «No. La mia amica Vronnie. Ricordi? La primavera scorsa hanno tolto il dente del giudizio al suo ragazzo. Gli hanno prescritto molto più Vico di quanto non avesse realmente bisogno. Così l'ha dato a Vronnie per il mal di testa. È così che è cominciata.»
Guardò in giro per la stanza. «Il Vicodin anestetizza il dolore e presto desideri tornare in quello stato. Sappiamo tutti che dà dipendenza, perché lo dicono alla televisione. Melanie Griffith e Matthew Perry hanno dovuto fare una cura disintossicante. E sappiamo che anche Eminem ha lo stesso problema. Ma il Vico funziona, il problema è tutto lì. I miei amici e io siamo continuamente stressati per i voti d'ammissione al college. Restiamo svegli tutta la notte per fare i compiti e studiare come pazzi. Il Vico ti tiene su e allevia lo stress. E prima che lo dica tu, Nick, no, non sono finita in un brutto giro.» Fece una risata vuota. «È il medicinale che scelgono i ragazzi la cui madre prende il Valium per rilassarsi.» Fece una faccia strana. «Ora ti faccio la mamma di Vronnie, stai attento. 'Dottore?'» La sua voce salì di un'ottava e la mano volò alla fronte. «'Dottore, deve darmi qualcosa per i miei nervi. La mia American Card è andata nell'iperspazio e il mio ex marito non mi capisce.'» La voce si fece profonda. «'Certo, Signora Casalinga, ho quello che fa per lei. Eccole un centinaio di pasticche.'» Sospirò. «Hai capito com'è facile? Vronnie non deve far altro che sottrarre le pasticche alla mamma.» «Fermati, Kelly. Torniamo un po' indietro. Quando hai cominciato?» Si strinse nelle spalle. «Più o meno sei mesi fa. Vronnie e io stavamo parlando delle nostre esistenze. Di quando i suoi genitori hanno divorziato, di suo padre che beve troppo e di come fosse stato orribile per lei. Le ho raccontato della mamma, di papà, di Aida e poi di te e di Josh e lei è rimasta a bocca aperta. Se non altro lei abita sempre nella stessa casa e suo padre è ancora vivo. Quasi.» Feci un gran respiro. «Cosa le hai detto di me?» Di nuovo si strinse nelle spalle. «Lo sai. Che ti sei preso cura di me, che mi hai mandato da Josh perché eri occupato. Che ti fai vedere poco a causa del lavoro. Cose così.» «Josh e io abbiamo pensato che fosse la cosa giusta per te, lo sai...» Sporse la testa in avanti. «Stabilità, giusto? Quella ha funzionato. Ma perché è passato tanto tempo dall'ultima volta che sei venuto da me?» «Abbiamo trascorso dei weekend insieme, abbiamo fatto altre cose. Solo che Josh e io abbiamo ritenuto meglio che tu ti costruissi un tuo ambiente. Il mio andare e venire continuo poteva creare disturbo.» Socchiuse gli occhi. «I genitori di Vronnie non fanno che litigare, ma se non altro il padre non l'ha abbandonata completamente. Va a trovarla ogni weekend e la porta fuori. Non ne perde uno, eppure è un alcolizzato.» Infilò con eccessiva cura una patata fritta nella coppetta del ketchup.
Mi rivolsi alla testa chinata mentre il resto dell'hamburger spariva all'interno della sua bocca. «Lo sai, il lavoro mi costringe a stare via parecchio. Ho fatto del mio meglio.» Staccò le labbra dal panino ma non mi guardò. «Ascoltami, quello è il passato. Io sono qui, tu sei qui e insieme troveremo una soluzione, ho ragione?» «Hai ragione.» Sollevò lo sguardo e si pulì la bocca con il tovagliolo. «Immagino che la prossima domanda sarà: perché ho voluto provare?» Non potei che assentire. «Rispondo. Vronnie e io stavamo parlando di droghe, le ho chiesto di farmi un elenco delle sostanze che aveva provato e lei mi disse le solite: alcolici, erba, ecstasy, roba del genere. E poi aggiunse che faceva uso di Vicodin per non perdere il controllo. Un suo amico le aveva detto che poteva ridurlo in polvere e inalarlo. Le chiesi che sensazioni dava e lei disse: 'Perché non proviamo? Vieni in bagno'. «Vronnie aveva un tubetto di metallo e uno specchietto con il coperchio e cominciò a fare due piste. Frantuma le pasticche a casa e le conserva nel tubetto di metallo.» Kelly piegò la cannuccia. «In borsa teneva anche una di queste. Comunque, aspirò una pista e mi passò la cannuccia.» Da come ne parlava era evidente che le piaceva raccontare. La cosa mi preoccupò, ma cercai di non darlo a vedere. «E cos'hai provato?» «Mi pizzicavano il naso e la gola e stavo da cani, ma solo per pochi secondi. Poi fece effetto e mi sembrò che la testa galleggiasse. Mi sentivo come un palloncino, volavo via da tutte le cose brutte che avevo intorno. Ero felice, stavo incredibilmente bene, dalla punta delle dita fino ai piedi. A quel punto tutti i colori divennero più brillanti e ogni suono più intenso. E in quello stato siamo andate a scuola. Pronte a tutto.» Sogghignò. «L'eroina dei poveri, è così che la chiamano. Non sono ancora a uno stadio di dipendenza, ma oggi con la dottoressa Hughes abbiamo parlato di questo.» Si alzò e controllò il contenuto delle tasche, poi si diresse verso il bagno, come se volesse lasciarmi il tempo di pensare a cosa dire. Restò dentro dieci minuti buoni e quando uscì ero fuori ad aspettarla. Salimmo in macchina e ci dirigemmo verso Bromley. Nell'aria un forte odore di dentifricio e collutorio. 13
Londra Venerdì 9 maggio, ore 8.30 Quando entrai nella sua stanza in punta di piedi per appoggiare il sacco a pelo accanto alle mie cose, Kelly era ancora a letto. Io avevo dormito sul divano e mi ero dovuto alzare prima delle otto. La sera precedente avevo ricevuto una telefonata dalla segretaria della dottoressa Hughes che mi aveva fissato un appuntamento telefonico per quella mattina. La dottoressa voleva parlarmi. Aveva promesso di fare un quadro della situazione e dirmi a quali conclusioni era giunta dopo il primo incontro. In cucina Carmen e Jimmy stavano ruminando il loro muesli e il pane tostato, così chiesi permesso e andai in giardino con la tazza di caffè. Il cellulare squillò puntualissimo. «Buongiorno, signor Stone», disse in tono sbrigativo. Era chiaro che aveva altre telefonate da fare. «Ho una domanda da farle. La bruciatura sull'indice destro. Sa dirmi come se l'è fatta?» «Mi ha detto che è successo a scuola durante l'ora di scienze.» «Mangia normalmente?» «Come un cavallo.» Esitai. «Senta, mi ha parlato del Vicodin.» «Davvero? È positivo. Si è spaventato?» «Avrei dovuto? Ho cercato di mantenere un'espressione serena quando me ne parlava, ma devo dire che la cosa mi ha preoccupato parecchio. Perché mi mette davanti agli occhi immagini di spacciatori all'uscita della scuola, ma a dire la verità non ne so molto di quella roba.» «Il Vicodin è un oppiaceo, contiene gli stessi elementi attivi dell'eroina e della codeina e può portare a una dipendenza piuttosto grave. Le spiegherò nel dettaglio la prossima volta che ci vediamo. E poi forse potrebbe entrare anche lei visto che Kelly gliene ha parlato. «Signor Stone, ho paura che sia anche bulimica. È possibile che l'acido che le ha bruciato il dito sia il suo acido gastrico. Sospetto che s'infili il dito in gola per procurarsi il vomito e poi lo sfreghi sui denti. È un problema piuttosto comune nelle ragazze della sua età, ma nel caso di Kelly è una complicazione che non è certo la benvenuta.» D'un tratto mi sentii un perfetto deficiente. «Si lava sempre i denti e fa sempre gli sciacqui con il collutorio, come usava una volta.» «Capisco. Si è già sviluppata?» «L'anno scorso.» Josh aveva trovato dei Tampax nel suo zaino e tutta la faccenda aveva fatto sentire Kelly quasi un'adulta. «Sa dirmi se il ciclo mestruale si è interrotto?»
«No, io non sono molto...» Mi chiesi dove volesse andare a parare. «La pregherei di non preoccuparsi, è possibile che le faccia altre domande di questo genere a mano a mano che progrediamo. È solo che, quando la bulimia diventa cronica, spesso le mestruazioni cessano.» «Sta dicendo che è una cosa comune?» Adesso mi sentivo un perfetto idiota. Quella ragazzina non aveva bisogno di me o dello Squadrone del Signore. Aveva solo bisogno della sua mamma. «Ne soffre una ragazza su cinque. Inizia come un modo di controllare il peso e poi sviluppa una vita propria. E stiamo di nuovo parlando di dipendenza. Abbuffarsi e liberarsi sono comportamenti tipici di chi ne soffre. Sì, ha confessato spontaneamente la dipendenza dalla droga, ma non ha ammesso la bulimia. Volevo solo che lei ne fosse informato perché a mio parere ci aspetta un cammino molto lungo e difficile.» Mentre l'ascoltavo sentii il segnale di una chiamata in arrivo. Lo ignorai e alzai il tono di voce mentre il suono continuava. «È abbastanza positivo che si sia aperta con me, non crede?» «Sì, naturalmente. Ma non possiamo scartare l'ipotesi che lo faccia perché ce l'ha con lei. Forse vuole spaventarla o punirla.» «E che motivo avrebbe allora di tener nascosto il resto? Non dovrebbe avere il desiderio di andare sino in fondo e sbattermi in faccia anche la bulimia?» «È una possibilità. Comunque volevo solo avvertirla che ci vorrà del tempo prima di vedere la luce alla fine di questo particolare tunnel. Avrà bisogno di tutto l'aiuto possibile da parte sua.» «Allora cosa facciamo?» «Il problema è complesso. L'aspetto più urgente al momento è quello della dipendenza perché mette la sua vita in pericolo.» «Pericolo di vita?» Mi si spezzò il cuore. Cosa cazzo stava succedendo? «È la peggiore delle ipotesi, ma non possiamo non tenerne conto. Gli analgesici a base di oppio sono pericolosi perché hanno un grande potere di attrazione. Agiscono rimuovendo i blocchi lungo il sentiero del dolore dalle terminazioni superficiali dei nervi, attraverso il midollo spinale fino al cervello, arrivati lì aprono l'emissione della dopamina chimica, che innesca sensazioni di benessere.» «Estrema calma?» «Esatto. La dopamina in effetti è come se sovrastimolasse il cervello, che quindi si abitua a questa sensazione di benessere. Quando una persona che ne è diventata dipendente smette di assumere la droga, il corpo conti-
nua ad averne un disperato bisogno. «Se Kelly prende il Vicodin per un lungo periodo di tempo, ne diventerà mentalmente e fisicamente dipendente e potrà raggiungere il punto in cui la solita dose non farà più effetto. In quel momento un drogato aumenta la dose. Al momento Kelly mostra solo di essere irritabile e chiusa, con notevoli sbalzi di umore. Ma, se la dipendenza non venisse bloccata, potremmo aspettarci un abbassamento della vista, allucinazioni e una seria confusione mentale. Anche se decidesse di non sperimentare altre droghe per ottenere l'effetto desiderato, si andrebbe in rischio di overdose, di mancato funzionamento del fegato, convulsioni, coma e, in alcuni casi, la morte.» Strinsi forte il telefono. «Gli spacciatori, quelli che vendono la roba ai ragazzini, in Malesia vengono impiccati. Comincio a capire il perché.» «Mi riesce difficile capire in che modo e in che misura questo potrebbe aiutare Kelly nella situazione in cui si trova. La dipendenza e la bulimia possono essere solo parti di un quadro più grande, ed è per questo che ritengo importante che lei e io ci incontriamo ancora. Ho parlato con alcuni colleghi americani specializzati in Vicodin, dato che la mia esperienza è più approfondita per quello che riguarda analgesici e prodotti da banco. Mi hanno detto che ci sono diverse opportunità per farle proseguire la terapia una volta tornata in America. Prima di tutto dobbiamo stabilire se è veramente bulimica e questo condizionerà la scelta del posto dove mandarla. Ma niente accadrà se non sarà Kelly stessa a deciderlo. È a questo punto che entra in scena lei.» «Certo, naturalmente. Ci vediamo domani. Nel frattempo c'è qualcosa che posso dire?» «No. Dobbiamo riprendere a parlarne quando avrò confermato la diagnosi. Al momento la cosa migliore che può fare per lei è darle tutto il suo appoggio.» «Farle da mamma?» «Esatto. Ci vediamo domani.» Premetti il tasto per vedere chi mi aveva chiamato. L'odio per i tri-band aumentava di minuto in minuto. Era un numero non identificabile e, mentre mi sforzavo di capire chi potesse essere, suonò di nuovo. Portai il telefono all'orecchio e mi venne annunciato che avevo un messaggio. Subito dopo fui raggiunto dall'inconfondibile voce da preside di scuola pubblica di Signorsì. «Venerdì, ore 8.57. Richiama non appena possibile, stesso numero del mese scorso.» Cazzo, no!
Spensi il telefono. Solo George poteva avergli detto che ero lì e rintracciando il segnale del telefono sapeva dove mi trovavo con uno scarto di dieci metri al massimo. Voleva dire casini e io ne avevo già tanti. Premetti i tasti. Rispose al secondo squillo. «Cosa?» Signorsì non si era mai perso in convenevoli. «Sono Nick.» «Stammi a sentire, c'è una palla veloce. Trovati qui all'una. Non dovresti metterci molto da Bromley.» «Stammi a sentire un cazzo.» Odiavo il modo in cui parlava, come se ancora fossi una sua proprietà. «Non lavoro più per te. Non vivo neppure più qui.» Sospirò, come avevano sempre fatto i miei insegnanti. «I nonni. Possono pensarci i nonni a portare la ragazzina avanti e indietro da Chelsea.» Il bastardo non mi aveva neppure sentito. «Ti è stato affidato un nuovo incarico. Se hai voglia di perdere tempo puoi contattare i tuoi capi in America. Ti daranno conferma. Non m'importa se ti va o no, vedi di arrivare puntuale. Preparati a stare via diverse settimane.» La comunicazione venne interrotta e per alcuni momenti restai a fissare il telefono che tenevo in mano. Impossibile. Impossibile stare via settimane. Mi avviai nel vialetto e vagai senza meta cercando di raccogliere le idee. Non che mi ci volesse molto. Pochi secondi dopo componevo il numero del cercapersone di George. 'Fanculo la differenza di fuso orario, era pagato ventiquattr'ore al giorno sette giorni su sette. Ascoltai le istruzioni e mentre finivo di comporre il numero sentii un'auto che si fermava alle mie spalle. Una voce da macho urlò: «Tutto bene, ragazzo?» Mi voltai e vidi due volti sorridenti, dalla pelle indurita, che mai nella vita mi sarei augurato di rivedere. Dio sa come si chiamavano. Per me erano Scarpedatennis e Sundance, i picchiatori di Signorsì, quelli che avrebbero ucciso Kelly se non avessi fatto per lui il lavoro a Panama. Il cellulare squillò e vidi Scarpedatennis tirare il freno a mano a pochi metri di distanza. «Sono io. Mi hai cercato.» Mi fermai a guardare Sundance nella Volvo. Anche lui era al telefono, probabilmente con Signorsì. «Mi hanno appena chiamato. Perché io? Sai bene perché sono qui.»
«Sì, ma io non sono un assistente sociale, figliolo.» Non sembrava che l'avessi svegliato. «Non posso farlo.» «Allora chiamo Osama e gli dico di aspettare. Vuoi che faccia così? No, figliolo, il lavoro ti chiama.» «Deve pur esserci qualcun altro.» «Voglio un mio uomo nell'azione e oggi tocca a te perché ti trovi lì.» «Ma ho preso un impegno, è importante che io resti con lei...» Di colpo mi resi conto di quanto suonavo patetico. «Ma cosa credi che faccia io tutti i giorni? Sono pagato per pensare, è questo che faccio. Ci ho pensato, ma, no, non c'è nessun altro. È un mondo ingiusto, figliolo, tu sei pagato per agire e questo devi fare.» «Capisco, ma...» «No, tu non capisci e non ci sono 'ma'. Mettiti al lavoro o non riuscirà neppure a godere della sua stupenda terapia.» Provai un improvviso dolore sordo al centro del torace. Sundance continuava a ciarlare al telefono. Mi ero fatto l'idea che George fosse un uomo migliore. «Vaffanculo. È un trucco che ha già usato e proprio con le due teste di cazzo che ha mandato qui a sorvegliarmi. Perché coinvolgere di nuovo la ragazzina in questa merda? Siete solo dei bastardi.» George non perse la calma. Sundance chiuse la telefonata e sorrise a Scarpedatennis. «Ti sfugge una cosa, figliolo, non siamo noi la vera minaccia.» Seguirono alcuni secondi di pausa. Io tenni la bocca chiusa. «Non mi chiamare più. Fa' i tuoi rapporti a Londra fino a mio ordine contrario, mi hai sentito?» Chiusi e mi avviai verso la Volvo. La testa di capelli biondo sporco, che quando lo avevo visto per la prima volta mi aveva ricordato Robert Redford da giovane, non esisteva più. Sundance sporse la testa quasi rapata a zero dal finestrino del passeggero. «Ripeto, va tutto bene, ragazzo?» Quel forte accento di Glasgow si ottiene solo masticando sabbia. «Un po' incazzato a quanto pare, vero? La ragazzina dev'essersi fatta grande, ormai. Dovrebbe riempirle bene, due mani.» Fece il gesto di soppesare due tette e mi guardò con un'espressione lasciva che mi fece venire l'istinto di spaccargli la faccia. A Scarpedatennis la battuta piacque non poco e scoppiò a ridere mentre estraeva un pacchetto di Drum e le Rizla. Aveva la stessa età e lo stesso taglio di capelli in versione scura di Sundance. Era chiaro che non avevano mai smesso di fare sollevamento pesi da quando erano stati nel braccio H
della prigione per le leggi inglesi sull'antiterrorismo, ma i loro corpi erano sempre sproporzionati verso l'alto e non uniformemente muscolosi. Il naso rotto e il torace a forma di barile li rendevano perfetti per stazionare davanti a un locale notturno con indosso giacche da sera non adatte al loro fisico e Doc Martens ai piedi. Notai la contrazione dei muscoli del braccio di Scarpedatennis, che indossava una camicia a maniche corte, mentre arrotolava la sigaretta. L'ultima volta che l'avevo visto si era appena fatto togliere con il laser il tatuaggio con la Red Hand of Ulster. Non ne era rimasta nessuna traccia. Sapevo che in quel preciso momento non potevo fare altro che respirare profondamente. Scarpedatennis passò la prima sigaretta a Sundance e con il suo accento di Belfast, puro al cento per cento, mi urlò dal finestrino del passeggero: «Il capo ci ha detto di fare in modo che tu arrivi in perfetto orario all'appuntamento. Non hai intenzione di piantare casini, vero, grand'uomo?» Mi abbassai per vederlo meglio mentre iniziava ad arrotolare la seconda sigaretta ed ebbi modo di ammirare le sue Nike. Sundance, le mani grosse come pale, cercava di far funzionare l'accendino ma senza successo. «E se invece mi andasse di piantare casino?» «Oh, sarebbe proprio una cosa carina.» Nessuno dei due riuscì a non ridere. Sundance scrollava l'accendino per vedere se funzionava. «Potremmo tornare tutti insieme al garage, che ne dici? E le cose potrebbero farsi di nuovo interessanti.» Il garage si trovava a sud di Londra. Era là che mi avevano pestato a sangue mentre aspettavamo che Signorsì venisse a spiegarci i fatti della vita: che dovevo andare a Panama e basta. Mi raddrizzai e mi voltai. «Ci sarò.» «È un vero peccato.» Tornando verso casa mi resi conto che Sundance non avrebbe lasciato niente al caso. Aveva spostato e parcheggiato la Volvo sul marciapiede. Di lì a poco nell'abitacolo ci sarebbe stata una cortina di fumo. 14 Carmen era in soggiorno che guardava rapita Lorraine Kelly mentre spiegava al suo pubblico tutti i segreti dei fertilizzanti organici. «Mi hanno appena chiamato dal lavoro.» Non si scomodò neppure a sollevare lo sguardo.
«Devo presentarmi a un appuntamento all'una. Se voglio arrivare puntuale devo partire fra poco. È una specie di emergenza.» Cos'altro potevo fare? Chiudere a chiave la porta e sperare che Sundance e Scarpedatennis si annoiassero al punto di andarsene via? No, quello che dovevo scoprire era se Signorsì poteva usare un altro. Ero pronto a supplicarlo in ginocchio, se fosse stato necessario. Con gli occhi incollati su Lorraine, Carmen si stava passando la punta delle dita sulle rughe del viso. Se aveva capito le implicazioni, non mi rendeva le cose più facili. Alzai il tono. «Sai com'è, a volte questi appuntamenti si trascinano più a lungo del previsto, forse stasera non riuscirò a tornare. Se dovesse succedere, domattina dovrete accompagnare voi Kelly a Chelsea.» Per un momento mi domandai se avesse sentito una sola parola di quello che le avevo detto. «Oh, cielo, non so», disse dopo un po'. «Dovrei parlarne con Jimmy. Non credo che gli farà piacere guidare nel traffico. Dove si paga per entrare in centro e tutto il resto... E poi il parcheggio. Quanto dovremo aspettarla?» «Poco meno di un'ora. Ascolta, pago io benzina e...» «Sai perfettamente che possiamo permetterci la benzina.» «Ma se hai appena finito di dire... Qual è il problema, Carmen?» «Be', cioè, insomma, cosa raccontiamo ai vicini? Nessuno sa che va dallo psichiatra.» «Stammi a sentire, non è che sei obbligata a mettere un cartello del cazzo per informare i vicini. E te lo ripeto per la milionesima volta, non è una cosa tanto grave. Kelly non ha nessun disturbo mentale, ha solo bisogno di aiuto, nient'altro.» «Non si può fargliene una colpa, con quello che ha passato. Sballottata da un posto all'altro, costretta a sentire tutte le parolacce che dici in continuazione.» Non ne potevo più. L'atteggiamento negativo di quella donna mi stava svuotando di qualsiasi energia. Aveva passato la vita a ridurre a brandelli le persone intorno a sé e ad autocompatirsi, di sicuro non sarebbe cambiata con me. Forse con un martello da un chilo sulla nuca. «Grazie dell'aiuto, Carmen.» Mi voltai e uscii. Ero tentato di aggiungere qualcosa di sarcastico del tipo: «Non so perché pago migliaia di sterline lo strizzacervelli quando ho te a portata di mano», ma mi venne in mente quando ero già in corridoio.
Quello che dovevo fare al piano di sopra non mi piaceva per niente. Stavo per confermare a Kelly ciò che pensava di me. Non c'era bisogno di preoccuparsi. Era già stato fatto. Quando mi avviai verso la camera di Kelly la vidi davanti alla porta. Non riuscii a decifrare con esattezza l'espressione sul suo viso: rabbia, incredulità, disappunto, senso di abbandono, forse un misto di tutto. Ma capii perfettamente di essere nella merda. «Non ti credo, Nick.» Era sul punto di piangere e le parole le uscirono come strozzate. «Non ho scelta, Kelly. È solo una riunione. Se tutto va bene, io...» «C'è sempre la possibilità di scegliere, Nick. Non fai che ripetermelo, no?» «Non è così semplice.» Mi avvicinai per farle una carezza ma fece un balzo all'indietro come se l'avessi colpita con un Taser. «Non farlo.» Rientrò in camera. «Ipocrita del cazzo.» Sentii che di sotto Carmen emetteva un gridolino di paura. I casi erano due: o Lorraine stava suggerendo di ricorrere a fertilizzanti non organici o aveva origliato. In entrambi i casi, il colpevole ero io. Kelly sbatté la porta, ma era senza serratura. Bussai piano. «Lascia che ti spieghi. No, non che ti spieghi, fammi solo entrare per chiederti scusa.» Sentii tirare su con il naso e aprii. Era sdraiata sul letto a pancia in giù, un cuscino sulla testa. Quando le andai vicino lo lanciò lontano e si mise seduta per guardarmi in faccia. «Ti ho raccontato tante cose, Nick. Talmente tante che non ce la fai a reggere, giusto?» «Lo so che dovevo dire a questa gente di toglierselo dalla testa, ma non posso. Non posso e basta.» Si nascose il viso fra le mani. «Quando torni?» «Presto. Stanotte, forse domani.» «Okay, adesso vattene.» Mi protesi per toccarla ma mi respinse di nuovo. Mentre andavo verso la porta raccolsi i Caterpillar e il giubbotto. Nessuno in casa di Carmen aveva il permesso d'indossare le scarpe. «Ehi, un'ultima cosa, bada che la nonna non frughi tra le mie cose per cercare biancheria da lavare. Lo faccio io quando torno, d'accordo?» «Come vuoi.» 15 Per raggiungere Chelsea Bridge avevo impiegato almeno un'ora, sessan-
ta minuti di imprecazioni contro George e Signorsì, sempre con la Volvo alle calcagna. Il traffico mi rombava intorno mentre avanzavo a fatica diretto a Pimlico e all'appartamento dove ero stato con Suzy per preparare il lavoro di Penang. La Ditta aveva rifugi sparsi per tutto il Paese, ma quello di Pimlico era fra i più richiesti. Di solito si trovavano in grandi case ristrutturate a miniappartamenti, classica residenza per chi ha bisogno di un pied-à-terre durante la settimana di lavoro a Londra o di una garçonnière per un ultimo svago prima di rientrare in famiglia nel Cotswolds per il weekend. Erano impersonali e anonimi, quindi ideali dal punto di vista della sicurezza. L'appartamento verso cui stavo andando era arredato, aveva televisore e videoregistratore, ma non il telefono. La Ditta provvedeva a tutto e pagava le bollette, ma era intestato a una compagnia prestanome. Dopo aver girato per una quindicina di minuti alla fine trovai parcheggio in Warwick Square. Infilai nel parchimetro tutte le monete che avevo e mi augurai che bastassero. Con un po' di fortuna, di lì a un'ora o due sarei stato sulla via del ritorno verso Bromley. Attraversai la piazza diretto al numero 66. Sundance e Scarpedatennis mi facevano da guardaspalle. Che culo! Premetti il pulsante dell'interno tre, all'ultimo piano. Mi rispose la voce di Yvette, assistente personale, braccio operativo e Dio solo sa cos'altro di Signorsì. Usava sempre un tono di voce basso, come se tutta la vita fosse un'unica grande cospirazione. Fui costretto a infilare l'orecchio nel citofono per sentirle chiedere: «Chi è?» «Sono io, Nick.» Si udì un cicalino, la porta si aprì e io venni spinto nel corridoio angusto. Una spinta che non lasciava dubbi sul fatto che i ragazzi avevano una gran voglia di ottenere la rivincita. Era evidente che la trasformazione della casa era avvenuta a spese delle parti condominiali. Le scale iniziavano subito e cominciai a salire. L'ultima volta che quel posto aveva ricevuto una mano di pittura doveva risalire al 1980, quando il color magnolia era di gran moda; la moquette non era molto più recente: impossibile indovinare di che razza di colore fosse in origine. La scala si avvitava su se stessa e seguiva la carta da parati, effetto pedinato in legno, per alcuni pianerottoli fino all'ultimo piano. Yvette mi stava aspettando sulla porta. Suzy e io l'avevamo ribattezzata Mazzadagolf. Capelli castani tagliati corti e magra, forse troppo magra. Uscire a cena con Kelly per una bella mangiata di patatine fritte non avrebbe fatto male a
nessuna delle due, anche il sedere nei jeans stretti era cadente. Era sulla quarantina, l'unico gioiello che portava era una fede nuziale ed era vestita come per andare sull'Everest. L'avevo vista con un certo numero di giacche da montagna in Gore-Tex e il resto dell'abbigliamento lasciava intendere che fosse sponsorizzata da Helly Hansen. Le guardai i piedi. Come previsto indossava scarponi da montagna. Di profilo sembrava davvero possibile che Tiger Woods la usasse per il primo drive. Nel lavoro di Penang si era dimostrata molto professionale. Anche prima di lasciare la pistola nello Starbucks di George Town, aveva svolto tutto il lavoro di amministrazione, aveva predisposto i passaporti e i documenti di copertura, raccolto tutte le informazioni di cui avevamo bisogno e trasmesso le istruzioni di Signorsì, senza sollevare il tono della voce oltre l'intensità di un sussurro. Grazie a lei, avevamo potuto evitare Signorsì dopo l'incontro iniziale, cosa che mi andava più che bene. Presi la decisione di trovare il modo di uccidere quell'uomo e poi di occuparmi anche di Sundance e Scarpedatennis, prima di avere i capelli grigi. E quello era un lavoro che avrei fatto gratis. Aprì un po' di più la porta e mi bisbigliò di entrare. «Salve, Nick. Non abbiamo mai avuto l'occasione di salutarci.» «Oserei dire che sarebbe stata una perdita di tempo.» Sussurrai a mia volta. Avessi usato un tono di voce normale avrebbe avuto l'effetto di un urlo. Mi augurai di non trovarmi mai con lei in cima a una montagna e di dover fare affidamento su di lei per gridare aiuto. Mi gratificò di un piccolo sorriso e la salutai usando parole gentili. Entrai nell'appartamento. Sentii subito la voce di Signorsì. Benissimo. Ripassai il discorsino che mi ero preparato. L'ingresso era piccolo, con le pareti disadorne. Un ulteriore rigurgito di color magnolia. Di fronte c'era la porta della camera da letto, a destra il bagno e la cucina in formica piuttosto malandata. Presi a sinistra, seguendo la consunta moquette grigia da ufficio, e arrivai nel soggiorno che dava sullo splendido verde della piazza. Signorsì era a testa bassa e occupava da solo l'intero divano di velluto rosso. Stava sfogliando una pila di carte e parlava al telefono. Suzy era seduta su una sedia, jeans, giacca di pelle nera e un maglione quasi dello stesso colore della moquette. Ai suoi piedi una grande sacca sportiva di nylon blu. Appoggiate alla parete c'erano altre due sedie. Una era occupata da una giacca di Gore-Tex rossa che non avevo mai visto indosso a Mazzadagolf, con migliaia di tasche e cerniere. Sedetti nell'altra. Nel mezzo c'erano due
valigette di pelle marrone, attaccate con una catena lunga dodici centimetri a un paio di manette in acciaio consumato. Nessuno parlò. Signorsì non mi salutò perché era un figlio di puttana e, dato che non l'aveva fatto lui, neppure Suzy poteva farlo. Non me la presi con lei. A volte si lasciava prendere da eccessiva eccitazione, ma, se dovevo lavorare con qualcuno, lei era in cima alla mia lista, e non solo perché gli altri nomi della lista erano morti. Sedetti sul bordo della sedia in attesa che Mazzadagolf preparasse il caffè. Signorsì continuava ad annuire sfogliando le pagine e iniziava a perdere la pazienza con chiunque fosse dall'altra parte del filo. «Okay... sì... No! Digli che li incontrerà questa sera, anche se non sa ancora in quanti saremo, la riunione è importante. Ricordagli chi è e che non ha scelta.» Sbatté il telefono sul tavolo e lesse a tutta velocità le pagine che gli restavano. Non l'avevo mai visto in quelle condizioni, era davvero agitato. Suzy e io ce ne stavamo seduti scambiandoci qualche occhiata di tanto in tanto, mentre lui continuava a leggere e ad annuire. Lei aveva tutta l'aria di non vedere l'ora di cominciare. Sapevo che Suzy moriva dalla voglia di una Benson & Hedges, ma non avrebbe mai osato accenderne una in sua presenza. Signorsì non beveva e non fumava, era un cristiano della Rinascita o di Scientology o qualcosa del genere, e perciò metteva sempre una certa soggezione. Mi chiesi se fosse il caso di presentarlo a Josh, anche se forse insieme si sarebbero annoiati a morte. Dalla cucina arrivò un rumore di stoviglie e di un bollitore elettrico che veniva riempito. Mi piegai in avanti e appoggiai i gomiti sulle ginocchia senza smettere di osservare Signorsì che scribacchiava qualche appunto sulle pagine che continuava a sfogliare. I suoi capelli rossicci stavano diventando sempre più grigi o meglio lo sarebbero diventati se li avesse lasciati vivere in pace. Ma era tornato da Grecian 2000 e mi parve di scorgere gradazioni color rame un po' troppo intense. Indossava la solita cravatta azzurra con disegnini a rombo annodata troppo stretta. Probabilmente era il motivo per cui era sempre rosso in faccia. O forse la portava così per cercare di nascondere il punto del collo su cui stazionava sempre un foruncolo sul punto di scoppiare. Andava verso i cinquanta. Mi sforzai d'immaginare come fosse stato da bambino. Le cicatrici che gli disegnavano il viso facevano pensare a un'adolescenza infelice. Forse per quello da grande era diventato una testa di cazzo. Il caffè doveva essere quasi pronto a giudicare dal rumore di tazze che
proveniva dalla cucina, ma lì nel salotto eravamo ancora in attesa che il preside proclamasse aperta la riunione. Girò ancora qualche pagina e compose un numero sul cellulare. Cercai di catturare il suo sguardo, niente da fare, troppo distratto dai suoi fogli. Sulla telefonata cambiò idea. Il rimbombo degli scarponi di Yvette sul tappeto sottile ci avvertì dell'arrivo del vassoio. Lo posò sul tavolino basso davanti al divano e versò per primo il caffè di Signorsì che lo preferiva Nato standard, come lo definiva Suzy, cioè con latte e due cucchiaini di zucchero. Suzy lo prendeva nero e senza zucchero, io solo con latte. Mazzadagolf non dimenticava mai i dettagli. Sedette al suo posto e si chinò per sollevare una delle valigette. L'anello e la catena sferragliarono quando lei se la sistemò sulle ginocchia e aprì le serrature a scatto. Signorsì le allungò un paio di fogli e mi guardò di sfuggita prima di tornare a leggere. «Sono contento che tu sia riuscito ad arrivare in orario.» Guardai Suzy. «Veramente sono in anticipo e non c'era bisogno della scorta. Signore?» Odiavo chiamarlo così ma dovevo in qualche modo attirare la sua attenzione. «Posso parlarle da solo?» «Cosa?» «C'è una questione che vorrei discutere con lei.» Un'occhiata a Suzy bastò a farle comprendere: si dileguò e chiuse la porta. Yvette restò al suo posto. Parlare a quattr'occhi con Signorsì includeva automaticamente anche quelli di Mazzadagolf. «Allora?» Non aveva sollevato lo sguardo. Capii subito di essere dalla parte di chi perde. «Signore, devo risolvere con urgenza un problema personale. Ho bisogno di un po' di tempo per occuparmene.» «Ma allora non vuoi proprio capire, vero? Non esistono problemi personali, perché i problemi personali non esistono per te. La ragazzina drogata resta con i nonni, oppure se ne torna a casa. Tutto qui. Non è importante quello che ne sarà di lei, perché tu resterai qui a svolgere il lavoro per cui sei pagato.» «Signore, capisco, ma...» «Non c'è nessun 'ma'. Taci e pensa a lavorare. Mi hai capito?» Annuii. Cos'altro potevo fare? Precipitarmi fuori di lì e finire in braccio a due picchiatori che non vedevano l'ora di rinchiudermi nel loro garage? Ancora troppo presto. No, doveva esserci un'altra soluzione.
16 Yvette andò a richiamare Suzy e Signorsì si raddrizzò sul divano. Mentre Yvette consegnava a Suzy e a me una busta imbottita ciascuno che aveva preso dalla valigetta, lui rimase concentrato sulle sue carte. Controllai il passaporto. Di nuovo a nome Nick Snell. Era tutto a posto: la data di nascita era giusta ma alcuni timbri erano cambiati. Tanto per cominciare il visto della vacanza in Malesia era sparito. Controllai le carte di credito della Bank of Scotland, debitamente invecchiate, e mi accertai che non fossero scadute. Yvette sorseggiò il suo caffè. «Stesso CA dell'ultima volta?» Annuì. Guardai Suzy che stava facendo le stesse operazioni ma con maggiore entusiasmo. Le brillavano gli occhi, anche se cercava di contenere l'entusiasmo in presenza del capo. Signorsì aveva messo da un lato le carte. Il telefono squillò. Mazzadagolf lo sollevò e andò in cucina, anche se non ce n'era bisogno: nessuno a una distanza superiore a venti centimetri da lei sarebbe riuscito a sentirla. Signorsì si sporse in avanti per prendere la tazza e piantò gli occhi su Suzy. La cosa mi stava bene. Avrei voluto trovarmi in qualsiasi altro posto tranne che lì e il fatto di non essere costretto a guardarlo era già qualcosa. «Le bottiglie di vino ritirate a Penang contenevano il bacillo della peste polmonare...» Lasciò in sospeso la frase come se attendesse una reazione. Da me non ne avrebbe avute: si fosse trattato di Chardonnay non mi sarei trovato lì. «Era l'ultima produzione per JI. Non abbiamo nessuna idea di quanto ne abbiano accumulato negli ultimi undici mesi, ma sappiamo con assoluta certezza che da tempo stanno programmando un attacco batteriologico. Bersaglio preferito l'Estremo Oriente. Nel frattempo, membri delle Active Service Units, le ASU, sono scomparsi dalla Malesia. A quanto sembra hanno mire ambiziose di espansione e ciò significa una sola cosa. Si considerano la terza ondata.» Dall'espressione sul suo viso si capiva che gli avrebbe fatto piacere se gli avessimo chiesto che cosa voleva dire, ma non si trattava di una cosa tanto complicata. Terrorismo della terza ondata voleva semplicemente indicare persone regolari e preparate dal punto di vista tecnologico. Non erano be-
stioni, anzi la loro arma migliore era il cervello. Sapevano che non era così difficile accedere alle informazioni e, dato ancora più spaventoso, sapevano dove andare a guardare. Avevano imparato a sviluppare agenti biologici e molto probabilmente era solo questione di tempo perché riuscissero a impadronirsi della tecnica di scissione dell'atomo in cucina. Suzy si agitò sulla sedia. «È per questo che hanno alzato le barriere intorno al Parlamento?» Fece cenno di no con la testa. «Il tipo di attacco che hanno in mente non si ferma davanti alle barriere.» Posò la tazza e la fissò per diversi secondi prima di sollevare la testa e ristabilire un contatto visivo, stavolta con tutti e due. «Il problema che abbiamo di fronte, aggiornato a sei ore fa, è che nel nostro Paese ci sono come minimo sei bottiglie, forse di più. A quanto sembra sono entrate come bottiglie di vino comprate al duty free da uno dei quattro membri delle ASU. Ogni centimetro di pellicola di ogni possibile telecamera che abbia inquadrato probabili punti di accesso è stato esaminato con attenzione per cercare di identificare chi siano, per poi, naturalmente, cercare di prenderli.» In cucina il cellulare di Signorsì squillò di nuovo. Yvette rispose tornando da noi e chiuse la telefonata. Lui la guardò avvicinarsi. «Abbiamo un informatore sul territorio, ma per adesso le notizie disponibili sono scarse. Il fatto è...» Mazzadagolf gli bisbigliò qualcosa nell'orecchio. «Ne sei sicura?» Era sempre più preoccupato. Mazzadagolf fece cenno di sì e tornò alla sedia. «Dunque, la fonte comunica che le bottiglie sono dodici, ma ancora non sappiamo dove siano o quando abbiano intenzione di usarle.» Fece una pausa e ci guardò per controllare che avessimo colto appieno il significato delle sue parole. Yvette, calma come al solito, sollevò la tazza e si appoggiò alla spalliera, provocando un impercettibile fruscio del Gore-Tex. «Susan, come ti muoveresti?» Lei trasse un sospiro. «È contagiosa?» Signorsì la guardò scuro in volto. «Altamente contagiosa, sì.» «Selezionerei zone affollate dove ci sia un grande transito di persone perché gli infetti, continuando a muoversi, contagerebbero altre persone, le famiglie, per esempio. A loro volta i bambini la passerebbero ai compagni di scuola, le mogli, o i mariti, agli amici o ai colleghi. La catena non avrebbe fine.» Suzy, in pratica, era sull'orlo della sedia. Signorsì, senza smettere di
guardarla, bevve un sorso di caffè e posò con cautela la tazza sul tavolino. Potevo anche non sparire. «Ricordate l'attacco all'antrace negli Stati Uniti?» Pendeva dalle sue labbra. «La gente aveva paura di andare al lavoro, era spaventata dalla semplice idea di aprire una busta. L'America ha patito un danno economico enorme da un numero molto piccolo di agenti. E quanti morti ci sono stati? Cinque?» Suzy continuava ad annuire. Doveva stare attenta perché rischiava che la testa le si staccasse dal collo. «Il danno peggiore lo ha causato l'effetto psicologico. Ma in questo caso sarebbe ancora più grave.» Ritenni giunto il momento di intervenire e dire la mia, prima che il loro festino amoroso si trasformasse in un'orgia. «Questo significa che gli esperti secondo cui gli obiettivi di JI non erano compatibili con le aspirazioni di globalità di Al Qaeda non ci hanno visto giusto?» Signorsì si voltò a guardarmi negli occhi, probabilmente sorpreso che fossi in grado di usare parole con più di due sillabe. «Esatto. E, poiché tutti sono concentrati sugli arabi, gli asiatici riescono a sgusciare fra le maglie della rete. Al giorno d'oggi chiunque veda un arabo pensa che sia un terrorista, se vede un asiatico pensa solo che gestisca una rosticceria.» «Si può sapere che aspetto ha questa roba?» chiese Suzy. «Come si usa per scatenare un'epidemia, di che tipo di protezione abbiamo bisogno? E, ancora più importante, da dove cominciamo le ricerche?» Mantenne ancora per qualche secondo lo sguardo di derisione su di me, poi si voltò verso di lei. «Il governo non è stato messo al corrente dei dettagli dell'attuale situazione. I membri del gabinetto reagirebbero in maniera esagerata, Downing Street perderebbe come un colabrodo e nel giro di poche ore le strade si troverebbero in preda all'anarchia. È per questo che siete qui. Non deve succedere.» Il cellulare trillò ancora e Mazzadagolf sparì di nuovo in cucina. Signorsì continuò. «Le parole 'peste' e 'polmonare' non compariranno in nessuna relazione e in nessun rapporto. Dovete sempre riferirvi all'agente patogeno con il nome in codice 'Dark Winter'. Ripeto, in nessun caso le parole 'polmonare' o 'peste' devono essere pronunciate. Si tratta solo di Dark Winter. Mi avete capito bene? Tutti e due?» Puntò un dito verso Suzy e lei annuì, poi verso di me e anch'io feci cenno di aver capito. Non avevo nessuna intenzione di trattenermi più a lungo del necessario, ma allo stesso tempo
avevo bisogno di ricevere istruzioni. Signorsì si raddrizzò e posò le mani sulle ginocchia. «Il vostro compito è molto semplice: prendere il controllo di Dark Winter.» E, dato che era la linea guida della missione, la ripeté per accertarsi che fosse tutto chiaro. «Comunque...» Sapevo che avrebbe continuato così, c'era sempre un «comunque». Agitò l'indice in aria. «... se vi trovaste faccia a faccia con una o più persone che vogliano impedirvi di prendere il controllo su Dark Winter, dovrete reagire come richiede la situazione e in modo da assicurare l'incolumità della comunità e di voi stessi.» Era la solita frase priva di senso. Le esecuzioni sbrigative erano illegali se mancava l'okay del ministero dell'Interno o degli Esteri, non ricordavo mai quale dei due e, se non fosse arrivato, Signorsì si sarebbe parato il culo dichiarando di non aver mai ordinato l'uccisione di ASU in Inghilterra. «Per prima cosa prenderete contatto con la fonte. Yvette vi fornirà tutti i dettagli dell'incontro.» Scambiò un'occhiata con Mazzadagolf. «Quando il nostro amico risolverà i suoi problemi.» Suzy si mise comoda e accavallò le gambe. «Questo vuol dire che nessun altro è coinvolto?» «Nessun altro.» «Un po' come usare una noce per spaccare una mazza, o sbaglio?» Signorsì prese a radunare le sue carte e Mazzadagolf si alzò. La giacca frusciò quando si chinò in avanti per infilare le braccia nelle maniche. «Per certi aspetti questo lavoro è più complicato di altri. Il Servizio ha un equilibrio difficile da perseguire», disse. Era la prima volta che la sentivo alzare la voce. «Dobbiamo andare là fuori e trovare Dark Winter, ma anche evitare che il pubblico venga a conoscenza della sua esistenza e dell'uso che intendono farne e nel pubblico, purtroppo, vanno inclusi il governo e le altre agenzie, oltre a membri del Servizio stesso. Non c'è altro sistema se vogliamo proteggere la popolazione e raggiungere il nostro obiettivo. Comunque abbiamo una piccola finestra di possibilità per sradicare il problema prima che le circostanze rendano prudente informare le agenzie interessate nel prossimo futuro.» Sembrava di sentire una battuta da Yes, Minister e io non capii una parola di quello che aveva detto. Ma compresi il messaggio: in caso di errori, la colpa sarebbe stata scaricata su altri. Dark Winter era il nome dato a un'esercitazione americana condotta nel giugno 2001 con lo scopo di istruire le forze politiche sulla possibilità di un attacco bioterroristico. Nella simula-
zione, la rete terroristica aveva attaccato città americane - Atlanta, Oklahoma City e Philadelphia - con il virus del vaiolo. Nel giro di quindici giorni il germe era presente in tutti i cinquanta Stati e in diverse altre nazioni. La simulazione era stata un successo. Migliaia di americani «morirono» e un numero infinito venne «contagiato». Io ne ero venuto a conoscenza solo perché un mio amico era stato coinvolto. Il mondo intero avrebbe dovuto mettersi in allerta e tenerne conto. Ma ebbe luogo tre mesi prima dell'11 settembre e nessuno batté ciglio. Capivo benissimo ciò che stava succedendo. La Ditta si stava parando il culo in caso fossero trapelate le informazioni sull'attacco o in caso fossimo stati scoperti. Se il primo ministro avesse accusato il Servizio di muoversi in modo troppo autonomo, Signorsì avrebbe potuto replicare: «Certo che abbiamo informato il governo, ma i rapporti dell'intelligence non li ha letti nessuno? È possibile che nessuno sappia cos'è Dark Winter?» Dopo la più recente guerra del Golfo, i rapporti tra Ditta e governo non erano dei migliori. Avrei scommesso che Signorsì godeva nel tener loro nascosta la cosa. Suzy era sempre più eccitata. Adesso non avevo più dubbi: viveva per quella merda. Signorsì infilò le ultime carte nella valigetta. Yvette lo imitò e continuò a parlare mentre chiudeva la manetta intorno al polso. «Alle tre in punto si terrà un incontro per chiarirvi le idee sul contenuto delle bottiglie. Si chiama Simon e verrà qui. È all'oscuro di tutto quello che riguarda l'operazione ed è convinto di venire a tenere una lezione a qualche funzionario del ministero degli Esteri.» Con un sorriso sollevò lo sguardo e ci fissò entrambi. Signorsì aveva chiuso la sua manetta. «Sarò di ritorno alle sei, mi auguro con i dettagli per l'incontro con la fonte e due Packet Oscar.» Signorsì si alzò. Non chiedeva mai se qualcuno aveva domande: per quanto lo riguardava, quando lui finiva di parlare chi lo aveva ascoltato sapeva tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Si avviarono verso la porta, Suzy li precedeva di pochi passi con le tazze, quindi virò in direzione della cucina. Quando Signorsì mi fu vicino si chinò per un attimo alla mia altezza, tanto che la condensa del suo respiro mi bagnò l'orecchio. «Vedi di organizzare per benino ciò che devi fare per la ragazzina prima dell'incontro delle tre. Dopo sei tutto mio.» Il portone si chiuse e Suzy tornò. Era raggiante. «Allora? Di nuovo in pista, vero? Ma non credo che il capo sia contento di rivederti come lo sono io...» Infilò una mano in tasca ed estrasse un pacchetto di gomme da
masticare, poi con un salto all'indietro sprofondò nel divano di Signorsì con le gambe su un bracciolo. «Okay che ne pensi di tutta la faccenda?» «Cerco di tenere la mente sgombra.» «Grazie. Ma vedi di non esagerare.» Mi soppesò mentre s'infilava in bocca due pezzi di gomma. «Be', se non altro non morirai di fumo passivo. Ho smesso.» «Grazie al cielo.» Mi diressi verso la porta e mentre giravo la maniglia le urlai: «Abbiamo un'ora prima di quella cosa con Simon. Esco a comprare la roba per lavarmi e radermi. Ci vediamo fra un po'». «Okay...» Non sembrava troppo convinta. 17 Il parchimetro stava per scadere quando raggiunsi l'auto e premetti il pulsante di apertura. Ero uscito con la convinzione che avrei trovato Sundance e Scarpedatennis pronti per un ultimo caloroso addio. Ma non erano in vista. Per loro la giornata di lavoro era finita e probabilmente si erano già rintanati nei loro buchi. Cosa cazzo potevo fare per tirarmi fuori da quel casino? Non ne avevo idea. Sapevo però che avrei fatto meglio a concentrarmi sulla preparazione del lavoro, in caso non fossi riuscito a sganciarmi dall'incarico e da Signorsì. Il mondo era ingiusto. George aveva ragione, dov'era la novità? George aveva sempre ragione. Dall'altro capo mi giunse un confuso «pronto?» Carmen doveva essere bloccata in fondo a un pozzo se a Jimmy era concesso di rispondere al telefono. «Jimmy, sono io, Nick. Ascolta, io...» «Un attimo, è meglio che tu parli con Carmen.» Sentii il suono della TV dal salotto e l'ordine mondiale venne ripristinato. «Pronto?» La solita voce da martire. «Mi dispiace, Carmen, non so ancora se riuscirò a rientrare questa sera.» «Davvero? E allora?» «Allora dovrete portarla voi a Chelsea. È importante che non perda neanche una seduta. Ascolta, spero ancora di riuscire a tornare e portarcela io. Ho voglia di vederla.» Sentii che traeva un gran respiro per prepararsi a farmi un discorsetto, ma riuscii a prevenirla. «Stammi a sentire, Carmen, non perdiamo tempo in cazzate. Ho fretta. Ancora pochi anni e sarà grande abbastanza per badare a se stessa e a quel punto non saremo più obbligati a parlarci. Sopporto i tuoi continui lamenti solo per il bene di Kelly. Perciò
fammi il piacere di parlare in modo normale. Allora, l'accompagnate o no?» Mi giunsero brevi respiri nervosi. «Ma non sappiamo neppure come arrivarci, dallo psichiatra. Jimmy non è capace di usare la metropolitana.» Non riusciva a cambiare. Cercai di mantenere un tono di voce normale. «Carmen, non dovrete prendere la metropolitana. Ti dico io quello che dovete fare: chiamate un taxi. Ogni giorno ti arrivano sotto la porta montagne di volantini del servizio minicab. Pago io. Capito? È tutto sistemato.» «Ma a che ora deve essere lì? Non è che ci voglia un attimo. Il taxi deve venire a prenderci e portarci, sai com'è. Noi...» «Ti darò tutte le coordinate fra un attimo. Kelly è lì? Posso parlarle?» Il tono di voce subì un'ulteriore variazione. Stavolta era piuttosto compiaciuto. «Al momento è molto arrabbiata con te, te lo assicuro. Non riusciamo a cavarle una parola di bocca. Qualsiasi cosa tu le abbia detto, l'ha sconvolta. Ma non importa, supereremo il momento.» «Carmen, la vuoi piantare con queste idiozie? Ce la porti domani o no?» «Sì, lo farò.» «Ottimo. Ti ringrazio molto. Ah, quasi dimenticavo, dovrebbe arrivare un pacchetto per me, domani o lunedì. Lo tieni fino a che non passo a ritirarlo?» «Questa è una cosa che posso fare.» Parlava come se il pacchetto fosse grande quanto un'utilitaria. «Grazie. Posso parlare con Kelly, adesso?» La sentii borbottare mentre si alzava e portava il telefono fuori dal soggiorno. Avrei voluto che Kelly avesse il suo cellulare, ma quello che possedeva non era tri-band e quindi lo aveva lasciato in America. Il vociare della TV svanì e sentii una breve discussione prima che mi giungesse il suo respiro. «Kelly?» «Lo so, non riesci a farcela. Per il lavoro. Nessun problema.» «Ma non è così. Sono bloccato. Ce la sto mettendo tutta per rientrare stasera, ma se non ci riesco ti accompagnano loro dalla dottoressa Hughes e io cercherò di raggiungerti là. Mi dispiace, sto cercando di sganciarmi, davvero.» Tutte cose che aveva già sentito. «Certo, come preferisci. Vuoi parlare con la nonna?» «No, voglio parlare con te.» «E di cosa dobbiamo parlare? A domani, allora, forse...»
Chiuse la comunicazione. Capivo le sue ragioni ma la cosa mi fece incazzare lo stesso. Richiamai e rispose Carmen. Le fornii i dettagli e l'orario dell'incontro con la dottoressa Hughes e riagganciai. Lasciai il parcheggio e mi diressi verso un grande magazzino, senza smettere di cercare con gli occhi la Volvo. Da Superdrug comprai il necessario per lavarmi e un marsupio nero di nylon. Quindi andai in un negozio che faceva anche da ufficio postale e mi procurai una busta imbottita formato A4 e una penna. Ci infilai dentro il passaporto a nome Nick Stone, il portafoglio con le carte di credito della Citybank e tutto quello che apparteneva a Nick Stone, comprese le chiavi della casa di Carmen. Odiavo quando la Ditta mi toglieva i documenti veri: era come perdere l'identità, la mia vita; mi faceva sentire scoperto e indifeso. In quel modo, se non altro, sapevo dov'erano e, se tutto fosse andato bene e avessero deciso di fare a meno di me, li avrei recuperati presto. Non riuscii a non sorridere mentre scrivevo il mio nome e l'indirizzo sulla busta. Carmen aveva deciso di battezzare il bungalow «I sicomori» e aveva costretto Jimmy ad appendere un cartello con il nome, ma se non si indicava il numero civico, il 68, la posta non sarebbe mai arrivata. 18 Suonai il campanello con dieci minuti di anticipo. Suzy mi aprì la porta e per poco il fumo delle sue Benson & Hedges mi soffocò. Le finestre avevano tutte doppi vetri e più serrature della Banca d'Inghilterra. La seguii in camera da letto in una cortina di fumo. «Lo so, Nick, mi dispiace. Ma avevo nausea. La gomma da masticare fa venire il voltastomaco.» «Perché non provi con i cerotti o qualcosa di simile?» «Prometto, questa è l'ultima, davvero.» Era evidente che Mazzadagolf era già venuta e andata, per fortuna aveva detto che sarebbe tornata alle sei. In camera di Suzy c'era una valigia aperta sul letto. La stava svuotando. Mi mostrò un apparecchio telefonico Nokia. «Ne abbiamo uno ciascuno, più uno di scorta, tre pile e un fill gun. Per il resto sono Packet Oscar del tipo standard.» Lasciai cadere il mio sacchetto sul letto e vidi che l'anta dell'armadio era aperta. I due ripiani sulla destra erano pieni di biancheria e calze, oltre a un asciugacapelli e una busta con il necessario per lavarsi. Nella valigia c'erano due MP5 SD, cioè le normali mitragliette Heckler
& Koch MP5 ma con una canna più spessa, cinque o sei scatole di munizioni e tre caricatori per ogni arma. Erano per noi, per permetterci di reagire, come la situazione ci avrebbe imposto, in modo da non mettere in pericolo la salute pubblica e la nostra. Le SD erano a soppressione e non con silenziatore. È impossibile riuscire ad annullare del tutto il rumore del colpo. Un soppressore si limita ad attutirlo con una serie di congegni in gomma e in plastica sottile posti all'interno della canna, che servono a disperdere i gas che fanno fuoriuscire i colpi. Quando il colpo lascia la canna si avverte solo un rumore sordo, nessuna fiamma e il clic delle parti in movimento che arretrano prima che la molla di ritorno le spinga nuovamente in avanti a prendere un altro proiettile che viene spinto nella camera di scoppio. Le armi erano dotate di dispositivo ottico olografico, un quadratino montato dove di solito si trova il mirino posteriore e quando lo si usava era come guardare il monitor di avvertimento su uno schermo. Esistevano pacchi diversi per i diversi lavori. Packet Oscar era una confezione per uccidere in operazioni sotto copertura. Oltre alle SD, conteneva l'attrezzatura base per fare irruzione e uccidere dentro un edificio in un'operazione sotto copertura. Era ben arrotolata in una custodia nera, era il PVC MOE (Method Of Entry, sistema per effrazione). Quei due particolari Packet Oscar contenevano alcuni extra. Presi uno dei telefoni mentre Suzy si dava da fare con gli altri due e inseriva lo spinotto nel fill gun, una sottile scatoletta verde in lega, grande più o meno quanto una tavoletta di cioccolata da mezzo chilo. Suzy premette il pulsante nero e lo tenne premuto fino a che la luce rossa non iniziò a lampeggiare, segnale che il codice per criptare era stato scaricato. Il telefono poteva essere messo sul canale sicuro in qualsiasi momento e chiunque fosse stato in ascolto non avrebbe sentito altro che fruscii. E, altrettanto importante, rendeva il telefono non rintracciabile; i telefoni digitali erano notoriamente facili da individuare, ma una volta caricati con il fill gun e posizionati su «sicuro» diventavamo invisibili. Due, dieci, anche cento telefoni potevano essere riempiti con lo stesso codice di criptazione e tutti potevano effettuare chiamate e parlare in modo esplicito con la certezza di non poter essere intercettati. Dopo l'11 settembre i soldi per aggiornare gli equipaggiamenti erano miracolosamente arrivati. I telefoni erano anni luce dal vecchio sistema di tavolette per criptare un messaggio in una serie di numeri da inserire nel telefono. Ci voleva un sacco di tempo e c'era sempre la possibilità di sbaglia-
re se si era sotto pressione. Alcuni fill gun avevano un certo numero di codici e quindi, durante un'azione, potevano essere cambiati spesso a ore e date stabilite. In genere c'era un selettore con i numeri dall'uno al dieci, pertanto si poteva ricevere l'istruzione: «Giovedì si usa il sei». Ma nel nostro fill gun c'era solo un codice. Avremmo comunque cercato di effettuare una ricarica ogni ventiquattro ore per essere sicuri che la carica non si esaurisse e il codice di criptazione non subisse alterazioni. Ogni telefono, come tutti i Nokia, aveva sul retro un'etichetta con il PIN, codice di accesso di sicurezza, ed erano tutti uguali, 4321. Gran fantasia. Accesi i telefoni e li collegai al caricabatterie per controllare che fossero carichi. Suzy mi venne vicino. Sotto l'odore delle B&H fumate nervosamente sapeva di pulito e di shampoo alle mele. «Allora, sei riuscito a comprare quello che ti serviva?» Sembrava piuttosto eccitata, ma di proposito evitò di guardarmi negli occhi. «Sì. Ho perso un sacco di tempo a trovare posteggio per la macchina.» M'interruppi per un istante. «E tu? Tutto bene?» «Certo che sto bene», scattò. «Perché non dovrei?» L'avevo irritata ma non di proposito. Non sollevò lo sguardo finché la luce rossa dell'ultimo telefono in carica non lampeggiò. «Conosci bene il capo? Quando ci ha impartito le ultime istruzioni prima di Penang ho avuto l'impressione che fra voi due ci fosse qualcosa...» «Lo conosco appena, è che fra noi è scattata la famosa attrazione fatale.» Non mi credette neppure per un attimo. «Già, certo.» «Hai già chiamato il tuo CA?» «Certo che no. Prima dobbiamo inventarci una storia. Quella di Penang è superata o sbaglio?» Si alzò, sul viso aveva un'espressione soddisfatta, quasi provocatoria. Era a pochi centimetri da me. «Vuoi fare il piacere di concentrarti?» Il suo respiro sapeva ancora di fumo. «È chiaro come il sole che non hai nessuna voglia di essere qui.» Passammo alcuni minuti a mettere insieme qualcosa, poi io andai nella stanza principale e composi un numero sul cellulare, lei andò in camera a fare la sua telefonata. Mi rispose la voce allegra di una donna di mezz'età. «Rosemary, come stai? Sono Nick.» «Molto bene, grazie. Com'è andata la vacanza?» «Fantastica.» «Ti sei dimenticato di mandarci una cartolina, ragazzaccio.»
Erano brave persone, James e Rosemary. Il loro ruolo era confermare la mia vita di copertura. Quando ero un K avevo l'abitudine di andare a trovarli ogni volta che potevo, soprattutto prima di un lavoro, in modo che più tempo passava e più la copertura diventava credibile. Erano completamente all'oscuro delle missioni e non volevano saperne nulla: le nostre chiacchierate si limitavano ai pettegolezzi sul circolo e a come eliminare i pidocchi dalle rose. Tutti i miei documenti, tutte le mie carte di credito, tutto quello che necessitava di un indirizzo riportavano il loro. Per mantenere un flusso costante di posta e movimentare l'estratto conto delle carte di credito, mi ero abbonato a tre o quattro riviste settimanali e mensili. Non li vedevo da un anno, da quando avevo cominciato a lavorare per George, così avevo avuto molto terreno da recuperare prima del lavoro a Penang. Era stata una sorpresa per tutti. «Mi dispiace per la cartolina, ma tanto lo sai com'è fatta la Spagna. Il tempo è stato magnifico.» «Sono verde d'invidia. Anche noi speriamo di andare in Spagna quest'anno.» Aveva capito: la Malesia ormai era storia. «Dimmi, Nick, posso fare qualcosa per te?» «Sai, la vacanza è andata così bene che penso proprio di andare a Londra per un po' con la mia nuova ragazza, forse un paio di settimane. Sembra proprio una cosa seria e tu sei sempre convinta che si chiami Suzy o Zoe, un nome del genere. Ma più che altro ho chiamato per ringraziarti ancora per avermi accompagnato in stazione stamattina.» «Già. L'espresso delle 8.16 per Waterloo?» «Proprio quello.» «Due settimane, mi sembra una bella idea. Ti auguro di divertirti. A quanto dici dev'essere proprio una ragazza simpatica. Ce la farai conoscere, un giorno?» «Tempo al tempo, Rosemary, non è ancora il caso di comprare un cappello nuovo. C'è qualcosa che dovrei sapere?» «Non molto, a dire il vero. Abbiamo una nuova TV in salotto, l'hanno portata martedì scorso, non c'eri così ti sei perso la consegna. È un Sony nero a schermo grande, ventiquattro pollici. A te e a James piace ma a me no perché fa sembrare il mobiletto su cui è posata troppo piccolo, sai di quale parlo, quello marrone in finto legno.» «Lo ricordo benissimo, ma non preoccuparti, pensa solo che potrai vedere Delia ancora più grande e ancora meglio. Comunque, saluta tanto James
da parte mia.» «Certo. Ora è fuori, è andato a Waitrose. Dopo essersi tanto lamentato e dopo essere stato a capo di quel maledetto comitato che voleva impedire che fosse costruito, adesso è sempre lì!» Ridemmo entrambi, ci salutammo e andai in cucina a preparare un caffè. Il citofono ronzò e io risposi. Una voce piuttosto nervosa gracchiò: «Salve, sono Simon, penso di essere atteso. Una signora che si chiama Yvette mi ha detto di trovarmi qui alle tre». Premetti il pulsante di apertura, Suzy uscì dalla camera da letto e chiuse la porta, poi si guardò intorno per controllare che non avessimo lasciato qualche componente della SD sul vassoio del tè. Accesi il bollitore dell'acqua in cucina e aprii la porta. Guardando per le scale scorsi, due piani più in basso, una testa di capelli biondi ben tagliati e ben pettinati che stava salendo. Quando fu più vicino notai che era sulla trentina, alto e magro e molto curato. Mi sembrò logico: dopo aver passato la giornata circondato da insetti carnivori e altre schifezze del genere, si sente il bisogno di darsi una bella strigliata. Quando ebbe raggiunto il pianerottolo, feci un passo indietro per farlo entrare. Doveva essere alto come minimo un metro e novantacinque: i miei occhi erano all'altezza del suo collo. Teneva stretto fra le mani uno zaino di tessuto piuttosto rovinato che doveva usare da quando era studente. Poteva essere stato il capitano della squadra di pallacanestro, ma probabilmente era troppo educato. «Salve.» Si fermò nell'ingresso, accennando un movimento, come se fosse incerto sul da farsi. Ci stringemmo la mano e ci scambiammo un sorriso. Era rasato alla perfezione e sulle guance aveva quelle chiazze rosse che si vedono al circo. Forse era la fatica di aver fatto le scale, o forse era solo nervoso. Non appena lo vidi mi diede l'impressione di essere una persona estremamente buona e gentile. Mi augurai che l'incontro con noi non gli rovinasse la vita. Indicai verso destra e mi seguì nel soggiorno. Lo feci accomodare sul divano. «Ho appena messo su l'acqua, bevi qualcosa?» Suzy entrò e gli tese la mano con un cordiale «ciao». Anche se era mezzo seduto, quando la mano di lei sparì nella sua erano alti uguali. «No, grazie, non prendo niente. Non mi fermerò molto. C'è un'auto giù che mi aspetta perché alle quattro e mezzo ho un'altra riunione.» Senza smettere di sorridere Suzy incrociò per un attimo il mio sguardo.
Alle quattro e mezzo non sarebbe andato a nessuna riunione ma in isolamento, finché la missione non fosse conclusa. «Non vuoi il suo tè? Ottima mossa, scommetto che molte delle cose del tuo laboratorio hanno un gusto migliore.» Battuta orribile, ma lui rise lo stesso, ancora incerto se alzarsi di nuovo o sedersi comodamente. Suzy gli fece cenno di sedere. «Simon, vero?» «Sì, Simon, Simon Ma...» Lo interruppe. «Simon è più che sufficiente. Allora, Simon, di cosa ci parlerai oggi?» 19 «Posso?» domandò tenendo lo zaino sospeso sopra il tavolo. «Certo.» Suzy faceva il possibile per farlo sentire a suo agio, ma, a vederlo con il sedere sprofondato nel divano e le ginocchia quasi contro il mento, non sembrava per niente comodo. Posò la sacca e si tolse il soprabito. Indossava un cardigan marrone rossiccio sopra una camicia a quadrettini marroni. Era ancora agitato; forse dubitava che l'incontro fosse veramente organizzato dagli Affari Esteri, forse temeva che subito dopo avremmo potuto sparargli. Sganciate le fibbie estrasse un certo numero di fotografie dieci per otto e le posò sul tavolino. Si schiarì la voce. «Simon, solo qualche domanda prima di cominciare.» Mi piaceva sapere chi avevo davanti. Non avere informazioni sufficienti da fornire a volte può essere più pericoloso che non sapere niente del tutto. «Ci puoi dire da dove vieni?» Per un paio di secondi, mentre lui decideva se rispondere fosse la cosa giusta da fare, solo il rumore di Suzy che masticava riempì il silenzio. «Nessun problema. Sono un medico, lavoravo in Namibia prima di diventare consulente alla Scuola di igiene e medicina tropicale qui a Londra. Dopo l'attacco dell'antrace negli Stati Uniti sono diventato un esperto in armi con agenti biologici per gli Affari Esteri. Incontri di aggiornamento per il personale delle ambasciate, cose così.» Suzy lo interruppe con un sorriso. «Cosa ti hanno detto, Simon, riguardo alla tua presenza qui?» «Solo che devo soddisfare la vostra curiosità sulla peste polmonare e sulle sue potenzialità come arma. Niente di più.» Lo ringraziò con un cenno e io feci capire di non avere altre domande.
Prese la dozzina di foto e me le passò. «Questo è quello che ho cercato di curare per anni.» Le guardai e mi ritrovai a esaminare una serie di inquadrature ravvicinate del corpo gonfio di un vecchio - testa, braccia, tronco - coperto di tumefazioni piene di pus. Le dita dei piedi e delle mani, ormai in cancrena, sembravano uscite da un frullatore. Cercai di non guardare quella del viso, c'era il terrore in quegli occhi. Lo stavano mangiando vivo. Suzy armeggiava con il blister delle cicche, anche lei cercava di evitarla. Simon lanciava sguardi veloci a entrambi per cercare di capire se quello era il livello d'informazione che volevamo. Quando Suzy posò l'ultima foto sul tavolino, decise che era giunto il momento di continuare. «Peste. Le varianti più importanti sono due: la peste bubbonica, di cui avete sicuramente sentito parlare e che è stata la causa della Morte Nera nel XIV secolo uccidendo oltre trenta milioni di persone nella sola Europa. La filastrocca che ci insegnavano all'asilo parla di questa: 'Un tondo tondo di rose e tanti tanti fiori'.» Suzy la completò: «'Etciù etciù e tutti cascan giù!'» Non mi unii al coretto. Non conoscevo le filastrocche. Il mio patrigno non le voleva sentire per casa. La mamma era sempre al lavoro alla lavanderia e non aveva tempo da perdere per insegnare ai figli cose inutili. Non si trova lavoro con le filastrocche. Si schiarì di nuovo la voce. «Sì, trenta milioni di persone solo in Europa, il maggior numero di persone mai ucciso da un'epidemia. Ma la peste bubbonica è la meno letale fra le due varianti.» Ci guardò entrambi. «Quella di cui parliamo oggi è la peste polmonare, che infetta i polmoni e che è così contagiosa da essere classificata un'arma di classe A. Solo l'antrace e il vaiolo hanno la stessa classificazione, tanto per chiarire quanto sia letale. Se non viene curata entro ventiquattr'ore dall'infezione, il rischio di morte è praticamente pari al cento per cento.» Suzy si sporse verso di lui. «Quindi la sorveglianza degli agenti, o come si chiamano, è massima?» Appena l'accenno di un sorriso. «Non c'è modo. La peste polmonare è originata, in modo naturale, dal batterio Yersinia pestis, che si trova nei roditori e nei loro parassiti in tutti i continenti esclusi Australia e Antartide. Gli umani ne sono contagiati se vengono morsicati da pulci infette, ma per fortuna i casi non sono più di trenta all'anno in tutto il mondo.» Picchiettò le fotografie che erano ancora sul tavolo e si fece triste. «Il vecchio Archibald ha avuto la sfortuna di essere uno di quelli.»
Non me ne importava niente del vecchio Archibald. Volevo che Simon non divagasse. «Può essere usato come arma?» Sospirò e scosse la testa. «Fa paura anche solo pensarlo. Cinquanta chili dispersi in una città grande come Londra sarebbero sufficienti a infettare centocinquantamila persone e circa un terzo sarebbe destinato a morire. E sarebbero solo i primi. Il numero aumenterebbe in modo esponenziale se le persone contagiate si spostassero in altre città e in altri Paesi. La peste polmonare si diffonde con la rapidità di un incendio, trasportata dalle goccioline della respirazione: un colpo di tosse o uno starnuto è in grado d'infettare chiunque si trovi nelle vicinanze. Il problema è che non esiste nessun sistema per individuare la presenza dei bacilli della peste nell'aria, nessuno sa di essere stato contagiato se non quando si manifestano i primi sintomi.» Mi resi conto di avere ancora il giubbotto addosso e senza alzarmi del tutto me lo sfilai. «E quanto ci vuole, dopo quanto si manifestano i sintomi?» «In genere dal contagio ai sintomi passano da uno a sei giorni, ma spesso da due a quattro giorni.» «Come si possono riconoscere?» «Dunque, il primo segnale di contagio è un'improvvisa malattia che si presenta come polmonite o infezione virale. Se i casi clinici non sono molti, si tende a escludere che si tratti di peste polmonare, data la somiglianza con le polmoniti virali o batteriche, anche perché in Occidente sono pochi i medici che hanno visto casi di peste polmonare. Possono passare anche dieci giorni prima che il servizio nazionale si renda conto di quanto è accaduto e a quel punto tutti i contagiati sono morti.» Si tirò su le maniche del cardigan. «Usare questo tipo di peste come arma biologica avrebbe effetti a dir poco catastrofici.» «Se tu fossi un terrorista, come lo useresti?» «Non ci vuole particolare abilità a far moltiplicare il batterio Yersinia pestis, e ancor meno a diffonderlo. È sufficiente ridurlo in particelle di polvere finissima in modo che sia possibile spargerlo nell'aria. Magari irrorando una città o una metropoli con un nebulizzatore in uso per l'agricoltura, ma anche con una bomboletta pressurizzata usata da individui per la strada, oppure con grandi bombole da ospedale messe in auto che rilasciano l'agente mentre si va in giro. E ancora può essere trasmesso a mano, magari con una bomboletta nascosta dentro uno zaino, o anche con un normale aerosol. Ma il come non è importante: una volta disperso, una nu-
voletta invisibile e altamente infettiva rimarrà sospesa nell'atmosfera per circa un'ora, in attesa di essere inalata.» Suzy si mordicchiò un labbro. «Simon, la polvere può essere trasportata dentro una bottiglia? E, supponiamo, dodici bottiglie da vino, che zona possono contaminare?» Piazzò la gomma umida su un angolo del tavolo e si alzò per raggiungere la borsa. Simon la seguì con lo sguardo. «Una bottiglia? Sì, se è perfettamente sigillata.» Suzy tornò a sedersi con le sigarette e l'accendino in mano. Mi guardò e prese una Benson & Hedges e l'espressione sul viso di Simon mi disse che la lampadina si era accesa. «È per questo che sono qui, vero? È stato scoperto dello Yersinia pestis? Dodici bottiglie da settantacinque centilitri, nove litri. Dove? E quali misure di controllo sono state attivate? È stato informato il pubbl...» Suzy lo interruppe con l'offerta di una sigaretta e lui, con mia sorpresa, accettò. «No, Simon, non sappiamo quali misure di controllo siano in atto. Il nostro compito è trovare la roba.» Mi guardò e io annuii mentre faceva scattare l'accendino. Poteva benissimo essere messo al corrente considerato dove sarebbe stato portato dopo l'incontro. Aspirò una lunga boccata e gli passò l'accendino. Simon lo studiò a lungo prima di avvicinarlo alla sigaretta che teneva fra le labbra. «La prima dopo tre anni.» «Sono contenta che anche tu ci sia ricascato, Simon.» Suzy sorrideva beata. «Io avevo smesso solo pochi minuti fa.» Agitò la sigaretta che teneva fra le dita. «Questa è tutta colpa tua.» Il fumo di due sigarette riempì l'aria. «Hai altro da aggiungere, Simon? Come si viene contagiati? Qual è la distanza di sicurezza?» Soffiò fuori il fumo e si sporse in avanti per scaricare con gesto esperto la cenere nel portacenere. Avrei giurato che avesse gli occhi lucidi, ma nonostante ciò aspirò un'altra veloce boccata. «L'esposizione diretta allo Yersinia pestis significa contagio. Dopo di che chiunque nel raggio di un paio di metri dalla persona infetta è a rischio - due metri, due iarde, usate l'unità di misura che preferite - e la possibilità che venga contagiato è altissima. In poche parole sarebbe paragonabile a un evento biblico.» Simon scosse della cenere immaginaria e fissò il portacenere. Era chiaro che pensava ad altro. Mi sembrò passare un tempo lunghissimo prima che tornasse a guardare Suzy. «Ma accadrà davv...»
«Ascolta, Simon, tu pensa a fare il tuo lavoro. D'accordo?» Se si era fatto l'idea che la più debole tra noi fosse lei, si era sbagliato. «Sì, naturalmente, scusa.» La tirata che seguì fu molto più lunga e il fumo gli uscì da ogni buco della faccia. Continuò. «I primi sintomi sono febbre, mal di testa, tosse, debolezza. Le vittime ritengono che sia colpa delle condizioni atmosferiche, pensano che si tratti di un raffreddore o influenza. Molte persone, come ha fatto Archibald, continuano la vita di sempre. Lui faceva il giardiniere. E in quel lasso di tempo diventano, senza saperlo, parte della catena del contagio.» Con un gesto della mano libera indicò le foto. «Poi, dopo pochi giorni, comincia la tosse con escreato sieroso o ematico causato dall'infezione ai polmoni, la polmonite. Insufficienza respiratoria, dolori al torace, sintomi gastrointestinali, nausea, vomito, dolori addominali, diarrea e via dicendo.» Suzy soffiò il fumo verso il soffitto. «E non c'è un lieto fine, giusto?» Lui scosse la testa e si appoggiò alla spalliera del divano. «Via via che la polmonite peggiora, da due a quattro giorni, può causare uno shock settico. Non che la cosa importi molto, perché si muore comunque.» Socchiuse gli occhi e aspirò un'altra boccata. Gli tremava la mano. «E quando l'epidemia viene pubblicamente riconosciuta - in genere occorrono dai dieci ai quindici giorni - è troppo tardi per decine, forse centinaia di migliaia di persone.» Simon si appoggiò tutto all'indietro e fissò il soffitto, come se stesse visualizzando l'enormità della cosa. Non era il solo. Suzy e io ci scambiammo un altro sguardo. Lei non sorrideva più. Simon continuava a portare la sigaretta alla bocca. «L'unico aspetto positivo del ciclo di vita dello Yersinia pestis è che non ha forma di spora e questo lo rende facilmente influenzabile dagli agenti esterni, la luce del sole in particolare. Ed è per questo che le particelle sospese nell'aria sono infettive per non più di un'ora.» Si tirò su e provò con me. Sembrava che facesse fatica a respirare. «Con quella quantità di Yersinia pestis si mettono a rischio centinaia di migliaia d'innocenti. Perché non è stata adottata nessuna misura? La gente dev'essere informata del rischio, questo è fuori dubbio.» «E come ci si protegge, Simon?» Si strinse nelle spalle. «La trasmissione da contatto ravvicinato può essere evitata se s'indossa una mascherina chirurgica di classe N95 per i modelli americani e FFP3 per quelli inglesi, inoltre guanti da chirurgo, protezione per gli occhi e cose del genere.» Non sembrava convinto. «Ascoltate.» Spense la sigaretta nel portacenere. Suzy fece lo stesso qualche attimo
dopo. «A essere sinceri sono tutte stronzate. Se dovessi avere a che fare con quella roba, sotto forma di polvere, mi sentirei sicuro solo se indossassi una tuta da astronauta.» Suzy gli offrì un'altra sigaretta che lui accettò volentieri e subito vennero avvolti da nuove nuvolette di fumo. Io lo pensai e Suzy lo disse. «Esiste qualcosa che si possa prendere come prevenzione? Un vaccino, una medicina?» Simon fece cenno di no con la testa. «No, non esiste vaccino, nel 1999 ne è stata sospesa la produzione, ma l'uso della tetraciclina ha qualche effetto sia a livello di prevenzione sia in caso di infezione.» M'inserii senza indugio. «È già qualcosa, ce ne serve una quantità industriale. Riesci a farla avere a Yvette entro oggi?» Annuì. «Certo, posso organizzare la cosa.» Si rivolse a Suzy. «Sei incinta o c'è qualche probabilità che tu possa esserlo?» Sollevò il bastoncino cancerogeno appena acceso. «Secondo te?» «Certi antibiotici possono danneggiare la crescita del feto.» Suzy si alzò. Aveva recuperato il buon umore. «Fantastico. Tutto quello che abbiamo sempre voluto conoscere sulla peste polmonare e forse anche quello che non avremmo voluto sapere mai. Grazie, Simon.» Lui sorrise, ma il sorriso svanì subito. «Non so con esattezza cosa stia accadendo e non voglio saperlo, ma il fatto è... ho dei figli e stavo pensando... pensavo che è da tanto tempo che voglio portarli da mia cognata in Namibia. Ritenete che sia il momento giusto?» Spense la sigaretta. La mano non aveva smesso di tremare. Suzy e io ci guardammo. «Vi prego, ho bisogno di saperlo.» Al diavolo e perché no? «Mettiamola cosi.» Mi alzai e mi avvicinai a Suzy. «Se io fossi uno dei tuoi figli e tu mi dicessi: 'Domani andiamo a trovare la zia Edna', e questo per me significasse non andare a scuola e spostarmi in un bel posto dove fa caldo, io sarei molto contento e mi sentirei molto, ma molto, al sicuro.» Guardai Suzy. «Non la pensi così anche tu?» «Assolutamente. È il sogno di ogni bambino. Ma tu, Simon, non andrai con loro.» Non avrei saputo dire se l'espressione del suo viso indicasse sorpresa o rassegnazione. «È tutto okay.» Feci quello stupido gesto di abbassare le mani nel tentativo d'infondergli calma. «Ma tu non andrai a un altro incontro dopo que-
sto. Mi dispiace, amico. Ci sono due persone che ti aspettano, di sotto.» «Mio Dio, no. Ho una famiglia e...» «Cerca di calmarti, amico, niente di quello che pensi. Ti porteranno al sicuro da qualche parte finché noi non avremo finito - o incasinato - il nostro lavoro. Questo è quanto. E comunque, se noi falliamo, sarai contento di trovarti in isolamento. Le cose stanno così.» In nessun caso Signorsì avrebbe corso il rischio di una fuga di notizie. Simon stava per passare un po' di tempo in una casa in campagna e la sua famiglia sarebbe stata informata che era dovuto andare in tutta fretta nella giungla per ricerche importanti su qualche insetto. Suzy gli prese lo zaino mentre lui s'infilava lentamente il cappotto. Mi avvicinai. «Simon, hai un cellulare?» «Cosa? Sì...» Gli diedi una pacca sulla spalla come si fa tra amici. «Ti dico io cosa ti conviene fare. Mentre scendi chiami tua moglie e le dici che devi andare in Africa per qualche malattia. Le dici di portare i bambini dalla zia per due settimane e che tu li raggiungerai là, che paga la ditta, che è un viaggio gratis, l'opportunità della vita, o qualcosa del genere.» Si abbottonò il cappotto. «Grazie di cuore.» Mi strinsi nelle spalle. «Nessun problema. Cerca di non dimenticare le medicine e stai attento, amico. Attento a quello che dici a tua moglie. Non incasinarti con quello che sai o, la prossima volta che vedrai i ragazzi di sotto, non saranno tanto gentili con te. Mi hai capito, vero?» Recuperò lo zaino che Suzy reggeva e si avviò verso la porta. Suzy lo seguì. Quando aprì gli posò una mano sulla spalla. «Dimentica quello che ti ha appena detto.» Sollevò lo sguardo di scatto. Non capiva, io neppure. Lei disse: «Se io fossi tua moglie e tu mi dicessi che la vacanza è di due settimane, sarei contenta. Ma, se tu mi dicessi che durerà un paio di mesi, non ti crederei». «Grazie, messaggio ricevuto.» Gli sfiorò la spalla con una carezza. «Parla con lei, convincila.» Simon le sorrise, un sorriso tristissimo. «Non credo che sarà possibile. È morta sei anni fa. A Gillian sarebbe piaciuto molto tornare a casa, ma non è mai capitata l'occasione. Archibald era il nostro giardiniere. Tutti i giorni passeggiavano insieme per il giardino.» 20
Suzy rimase accanto alla porta. L'espressione del suo viso mi disse che stavamo pensando la stessa cosa. «Mascherina un corno.» Feci pollice verso. «N95 o normali F inglesi, o cose del genere? Io voglio una tuta NBC.» La tuta Nuclear Biological and Chemical era a protezione completa per azioni di guerra. «Chiamo subito Mazzadagolf.» Sparì in camera. «Dille che vogliamo il vecchio tipo, non la nuova versione per operazioni mimetiche sul campo di battaglia», le urlai. Mentre lei si occupava di quello, me ne restai lì cercando di sentirmi fiero di me per la cosa carina che avevo fatto con il Signor Gentile, invece di preoccuparmi per Kelly. George aveva ragione: se quella gente non fosse stata fermata, nessuna terapia al mondo le sarebbe stata di aiuto. Non c'era soluzione. Doveva tornare a Laurel. Suzy tornò con due Nokia. «Mazzadagolf verrà più tardi, stanotte. Se noi saremo fuori per l'incontro con la fonte, lascerà qui le NBC.» «Tipo vecchio?» Annuì. Districò dalle cuffie i caricatori da usare in macchina, poi me ne passò uno. Ci mettemmo entrambi a adattare le impostazioni alle nostre esigenze. Suzy faceva del suo meglio per mostrarsi concentrata sul cellulare, ma io intravidi un piccolo sorriso che le cresceva sul viso. «Allora, Agente Speciale Austin Powers, non sei madre Teresa ma non sei neppure un K, o sbaglio?» Ero troppo occupato a scegliere fra le diverse opzioni di suonerie per sollevare lo sguardo. «E dai, sei una professionista, puoi fare molto ma molto meglio...» «Uno a zero per te.» Scrollò le spalle e per cinque lunghi secondi si concentrò sulla procedura amministrativa del Nokia. «Di certo sei un ex militare e sei inglese.» Continuai a fare quello che stavo facendo e ascoltai. «Io sono stata in marina dall'84 al '93. Me ne sono andata per i mari... be', in un certo senso. Gli ultimi sei anni li ho passati nel Det.» Allora sì che la guardai. Lei ghignò. «Sapevo che avrei attirato la tua attenzione.» «Ma che gioco è questo?» Comunque fosse, aveva perfettamente ragione. Negli anni '70 l'Irlanda del Nord era un incubo per la Ditta e per i servizi di sicurezza e la qualità
delle informazioni che riuscivano a raccogliere era infima, perciò le forze armate avevano costituito una propria unità d'intelligence riservata. Gli operatori reclutati fra i tre corpi erano organizzati in distaccamenti territoriali, o Det. Ormai era lanciata. «Ho fatto due turni nel Det Est, poi sono diventata istruttore di MOE giù ad Ashford.» «Ed è così che sei diventata un K?» «Sì, mi hanno contattato quando mi sono congedata.» «Perché lasciare la marina? Hai incontrato l'uomo dei tuoi sogni?» «E dai, conosci le regole, nessuna menata privata.» «Allora tutto quello che mi hai raccontato di quando tuo padre ha disertato erano tutte palle?» «No, ma è morto, e quello che ti ho detto si adattava bene alla nostra storia di copertura. Come fai a conoscere i Det?» 'Fanculo. Non avevo intenzione di passare i giorni successivi in totale silenzio. «Verso la fine degli anni '80 sono stato a capo di una squadra nel Det Nord.» «Det Nord?» Scoppiò a ridere e agitò le mani come se tenesse delle redini. «Uno dei cowboy, il gruppo che modifica le leggi a proprio uso e consumo, o sbaglio?» «Vediamo di finire il lavoro con i telefoni. Che numero hai? 07802...» Mi disse le ultime sei cifre e io premetti i tasti che adesso erano silenziosi. Almeno quella l'avevo azzeccata. Premetti due volte il pulsante invio. «Pronto, pronto...» Ogni tre secondi, nel sottofondo, sentivo il debole suono intermittente, anche lei lo sentiva. Era il segnale che eravamo sicuri, la carica funzionava ancora. «Ottimo, questo funziona.» Chiusi la comunicazione e salvai il numero nell'accesso veloce. Di colpo si fece serissima. «Nick, la cosa ti preoccupa... lavorare con me intendo?» Non capivo. «Certo che no. Perché dovrebbe essere un problema lavorare con una donna? È vero che vorrei che tu mostrassi più paura di tanto in tanto, ma a Penang abbiamo lavorato bene, non ti pare?» «Idiota, cos'hai capito? Non mi riferivo a quello.» Per un momento l'espressione restò seria, poi si aprì nel sorriso più grande del mondo. «Ma al fatto di lavorare con una persona terribilmente brava come me.» Rideva, ma non avrei saputo dire se stesse scherzando. Le persone che si credono invulnerabili mi mettono sempre una certa an-
sia. Stava cominciando a comportarsi come faceva Josh, ma senza il giubbotto antiproiettile di Gesù. «E, dato che sei così formidabile, immagino tu sia un quadro permanente?» I quadri permanenti erano K, operativi le cui azioni potevano essere disconosciute. Erano a libro paga e non liberi professionisti come ero stato io, ma dovevano comunque fare i lavori di merda che nessun altro voleva fare. «Lo sarò dopo questo lavoro, per cui vedi di non fare casini, intesi?» «Solo se mi prometti di vuotare il portacenere.» Lo prese e sparì in direzione della cucina. Sentii scorrere l'acqua. Poi mi urlò: «Ti va adesso quel famoso caffè?» «Buona idea.» Infilai il Nokia nel marsupio con il mio cellulare. Presto avrei dovuto chiamare Kelly per informarla e poi dovevo riuscire a mettermi in contatto con Josh. Cercai di cancellare dalla mente l'espressione del viso di Archibald. Mentre l'acqua gorgogliava il telefono squillò. Senza entusiasmo lo tirai fuori. Signorsì era all'altro capo e il gracchiare fu immediato. «Pronto? Rispondimi.» «Pronto.» In sottofondo partirono suoni soffocati. «Starbucks, Cowcross Street, Farringdon. Conosci?» «So dov'è la stazione.» «L'incontro con la fonte è alle venti.» Continuò a fornirmi i dettagli dell'incontro. Suzy si materializzò e si mise al mio fianco, come una scolaretta che attende di conoscere il risultato degli esami. Dopo che lui ebbe finito e io ebbi a mia volta riferito tutto a Suzy, schizzammo entrambi in camera a prendere le Browning 9 mm che erano nella valigia, un piccolo extra che Yvette aveva graziosamente aggiunto ai Packet Oscar. La Browning era in produzione da circa un milione di anni, ma a me continuava a piacere e non sentivo la necessità di passare a qualcosa di più trendy, o di plastica o qualunque fosse l'ultima novità in fatto di pistole. Le nostre due cominciavano a mostrare i segni del tempo. Avevano subito qualche modifica, il legno delle impugnature era stato sostituito dalla gomma. Ma non c'era nessuna prolunga saldata alla leva della sicura sopra l'impugnatura, utile perché consente a chi spara di disinserire la sicura con il pollice della mano destra. Un po' mi dispiaceva perché ho le mani piuttosto piccole, ma non mi sarei lamentato. Era una pistola semplice: sapevi che premendo il grilletto partiva il colpo. Che altro occorre?
Continuammo con le normali procedure di sicurezza. Con il pollice destro e l'indice tirai indietro l'ingranaggio terminale del carrello e controllai che non ci fosse un colpo all'interno, poi lo rilasciai in modo che tornasse a posto da solo. Inserii un caricatore vuoto nella pistola per simulare lo sparo - non si può sparare senza caricatore -, posai il polpastrello dell'indice destro sul grilletto e saggiai la prima pressione. Quasi tutti i grilletti hanno due pressioni. La prima di solito è molto morbida e c'è un po' di gioco prima del punto di arresto, cioè il punto in cui occorre esercitare pressione per sparare. Quel grilletto aveva tre o quattro millimetri di gioco prima di opporre resistenza. Premetti piano la seconda pressione e il carrello avanzò con un clic. Conoscere la posizione della seconda pressione è estremamente importante. In prossimità di un bersaglio, quando magari non hai più di un secondo per reagire, io mi porto sempre sulla seconda pressione. So che si tratta a volte solo di pochi millimetri, ma possono fare la differenza. Nonostante tutto, non ho nessuna fretta di finire ammazzato. Indossati i guanti da chirurgo ci apprestammo a riempire la mezza dozzina di caricatori da tredici colpi. Se avessimo sparato, con le mitragliette o con le Browning, i bossoli sarebbero volati ovunque. Non era importante chi li avrebbe trovati, se amici o nemici, noi due non volevamo lasciare traccia della nostra presenza. Il lavoro era disconoscibile. Comunque, a giudicare dal marchio impresso sul fondo, le munizioni erano di fabbricazione tedesca. Tenendo in mano il caricatore corto in modo che la base dei tozzi proiettili fosse rivolta verso l'esterno, ne afferrai una manata e li spinsi dentro uno alla volta nell'apertura superiore, quindi li feci scorrere piano all'indietro per essere sicuro che fossero inseriti in modo corretto. Suzy fece esattamente le stesse cose, fermandosi ogni tanto per un sorso di caffè. «Allora, adesso vuoi dirmi cosa c'è fra te e il capo?» Iniziai a riempire il secondo caricatore. «È chiaro che non vi siete simpatici al punto di scambiarvi gli auguri di Natale.» L'amo della canna da pesca era più che evidente ma, 'fanculo, che importanza aveva? «Fino all'anno scorso ero un K, poi mi hanno offerto un lavoro migliore da un'altra parte. Chissà, forse non riesce a vivere senza di me.» «Dove?» «Stati Uniti.»
«Oh.» Sorrise mentre guardava il caricatore contro luce. Non ne sapevo il motivo. «E perché sei tornato qui?» Presi il terzo caricatore e ricominciai l'operazione, ma non riuscivo a pensare ad altro che all'espressione che aveva Kelly quando l'avevo trovata in mezzo ai cartoni. «Mi era sembrata una buona idea, allora.» Inserii il terzo caricatore nell'impugnatura della pistola e lo feci scorrere finché non sentii il clic che indicava l'avvenuto alloggiamento. Mai fare un gesto violento alla Mel Gibson: rovina il caricatore e ciò può causare un inceppamento. Con l'impugnatura della pistola saldamente stretta nel palmo della mano destra, tirai indietro il carrello sino in fondo con la sinistra per poi rilasciarlo in modo che tornasse in posizione da solo. Durante questa fase le parti mobili raccolgono un proiettile e lo mettono in posizione nella camera di scoppio. Poi, voltata l'arma verso sinistra in modo da esporre l'apertura per l'espulsione, tirai indietro il carrello - solo un poco stavolta - per verificare che il colpo fosse nel posto giusto. Dati i problemi che avevo nell'usare la sicura se non era provvista di estensione, facevo sempre così: armavo il colpo a metà. Mettevo il mignolo della sinistra davanti al cane e premevo con gesto morbido il grilletto. Il cane avanzava un poco e poi veniva fermato dal dito, a quel punto lo spingevo indietro fino a che non restava alzato a metà. Da quella posizione non si sarebbe mosso, neppure se avessi premuto il grilletto. Per sparare era sufficiente fare arretrare completamente il cane, fino al clic di aggancio, e fare fuoco. Nella valigia c'erano due spesse fondine ad astuccio in nylon nero, ma non m'interessavano. La mia pistola andò dritta nei jeans. Il gioco era già iniziato da troppo per cambiare adesso: i gesti devono essere istintivi, la mano deve andare diretta alla pistola. Suzy, invece, si comportava da manuale, aveva armato la pistola, controllato la camera di scoppio, lottato, come avrei fatto io, per inserire la sicura e aveva preso una fondina da allacciare alla cintura. Mentre lei apriva la sua io stringevo la mia in modo che la Browning se ne stesse tranquilla al suo posto. «Non hai paura per i gioielli di famiglia?» «No. Ma la cosa che m'infastidisce è l'olio della pistola sui nuovi boxer così carini.» Lei spostò la fondina sopra il rene destro e dopo un ultimo controllo alla sicura inserì la pistola.
Mi tolsi i guanti, ne lanciai uno a Suzy e li riponemmo nella valigia che venne chiusa con la cerniera e infilata sotto il letto. Quando si trattava di nascondigli l'inventiva era pari a quella dei codici del telefono. Andai in soggiorno a recuperare il marsupio che fissai ai passanti dei jeans in modo che non fosse d'intralcio alla Browning. Prima di lasciare l'appartamento eseguimmo le SOP (Standard Operating Procedures, normali procedure operative): controllo di finestre e apparecchi elettrici. Poi, prima di aprire la porta, ci sintonizzammo sul canale «fidanzatini». Inserii il codice dell'antifurto come se fossimo una coppia felice sul punto di uscire per la gita settimanale da Tesco. L'antifurto non faceva nessun rumore: l'ultima cosa che la Ditta desiderava, infatti, era l'arrivo della polizia in una casa rifugio. Era collegato direttamente con la QRF (Quick Reaction Force, forza d'intervento immediato). La porta era rinforzata con una lastra di metallo per impedire l'effrazione e in ogni camera c'era un pulsante antipanico, così se uno si stava annoiando poteva premerlo per rompere le scatole a quelli della QRF che si erano appena seduti per bere il tè con i biscotti. Scherzo: ladri, o qualsiasi problema durante una delle tante «interviste» che avevano luogo nell'appartamento e in un batter d'occhio una squadra di quattro persone armate sarebbe intervenuta comunque. Chiusi la porta a doppia mandata. Attraversata la piazza svoltammo a destra verso la strada principale. Dopo circa cinque minuti riuscimmo a fermare un taxi. Suzy adottò il tono di voce che usava sempre con i tassisti, da Penang a Londra. «Farringdon, caro.» «Dove esattamente, amore?» «La fermata della metropolitana va benissimo.» Raggiunto l'Embankment in un attimo ci trovammo a costeggiare il nuovo muro di cemento che circondava il Parlamento, costruito per impedire attacchi suicidi. La radio trasmetteva un dibattito sullo stato di massima allerta. Una testa di cazzo qualsiasi di un qualche ufficio importante sosteneva che le misure di prevenzione avrebbero dovuto rassicurare i turisti e non essere un deterrente. L'autista del taxi scoppiò a ridere. «Ne ho sentite di cazzate, ma questo qui ci prende in giro o cosa?» Guardai il Traser. Erano le 18.45 e l'incontro era fissato per le 20. Una volta arrivati avremmo avuto tempo a sufficienza per fare una ricognizione e metterci in postazione. A Blackfriars lasciammo l'Embankment e svoltammo verso Farringdon; adesso eravamo fermi a un semaforo. Notai una Ford Mondeo parcheggiata poco più in su e una motocicletta ferma così vicina alla fiancata del gui-
datore che il casco del motociclista era praticamente dentro l'abitacolo. Nell'auto erano in due, un uomo e una donna. Dal sedile del passeggero lei era protesa verso di lui per poter partecipare alla conversazione. Arrivò un'altra moto. Guardai Suzy, anche lei aveva visto. Era una squadra di sorveglianza al completo che effettuava un seriale (incarico di sorveglianza). I casi erano due, o erano in appostamento o avevano perso il bersaglio e stavano decidendo la mossa successiva. Molto probabilmente si trattava di E4, il gruppo di controllo del governo che teneva sotto tiro tutti, dai terroristi ai politici corrotti. Scattò il verde e, mentre passavamo oltre, le moto schizzarono via in direzioni differenti e la Mondeo fece un'inversione a U che bloccò il traffico. Il nostro autista vide l'ingorgo nello specchietto retrovisore. «Ci sono persone che farebbero di tutto pur di non pagare la tassa d'entrata.» Rise da solo della battuta e Suzy annuì pensierosa mentre cambiava posizione. Dieci minuti dopo ci trovammo ad affrontare un posto di blocco della cortina di ferro che circondava la City. Poliziotti armati erano vicino a due auto con i lampeggianti in funzione. L'autista si girò verso di noi. «Non preoccupatevi, noi svoltiamo prima. Sono ovunque, vero? Cosa succede?» Suzy scosse la testa. «Non ne ho idea, caro. È così tutti i giorni?» «A volte sì, a volte no. È una maledetta lotteria. Ve lo dico io, la colpa è tutta di quel pazzo, quel pazzo fottuto di Osama.» L'autista ghignò e imboccò Cowcross Street. Vidi la stazione di Farringdon poco più avanti. Clerkenwell era il posto più in voga del momento. Tutti i magazzini della zona erano stati riconvertiti in loft dove abitavano quelli che lavoravano nella City, una breve passeggiata li separava dagli uffici nello Square Mile e la zona era piena zeppa di bar. Giunti davanti alla stazione della metropolitana pagammo il taxi. Starbucks era lì, da qualche parte. «Indosserà vestito blu e camicia bianca e avrà nella mano destra una copia dell'Evening Standard.» Così Signorsì aveva descritto la fonte. «E avrà un impermeabile nero sul braccio sinistro.» Suzy sarebbe stata in prima linea. Doveva sedere nello Starbucks a bere un caffè; sul tavolino davanti a lei ci sarebbe stata una copia, piegata, dell'Independent. La fonte doveva avvicinarsi e chiederle se sapeva come raggiungere Golden Lane. Suzy avrebbe dovuto rispondere che non lo sapeva ma che aveva lo stradario A-Z. Stabilito il contatto avrebbe telefonato per dirmi di entrare. La stazione di Farringdon era un vecchio edificio vittoriano. Davanti c'e-
ra una bancarella che vendeva quotidiani, riviste porno, Private Eye, quel genere di cose. Attesi che Suzy comprasse la sua copia dell'Independent. Cowcross è leggermente in salita ed è abbastanza stretta, concepita per cavalli e carrozze. Era ancora piuttosto trafficata, soprattutto da agenti di Borsa che non avevano voglia di andare a casa. In mezzo alle facciate molto alla moda c'è una serie di piccoli negozietti, cibo indiano da asporto, paninoteche e parrucchieri, come denti marci in un contesto altrimenti perfetto, tutti in attesa che i proprietari aumentassero l'affitto tanto da non rendere più possibile restare dov'erano. Scorsi l'insegna di Starbucks un po' più in su in Cowcross, sulla sinistra. La fonte doveva arrivare dalla stazione e dallo stesso lato della strada. Avrebbe attraversato all'incrocio con Turnmill Street, circa quindici metri più in su. Nell'angolo opposto c'era un pub, il Castle, che sembrava lì dai tempi di Jack lo Squartatore e che sarebbe rimasto spettatore del crollo dei nuovi locali, tutti vetri fumé e cromature. Il nostro caffè era una trentina di metri più avanti. Suzy mi prese a braccetto. «Lo vedi?» Annuii. In Turnmill Street non c'era molto, solo l'alto muro che costeggiava la ferrovia. Attraversammo. Il pub era pieno di ventiquattrore, impermeabili e gente che si divertiva. C'erano dei posti liberi, se per caso ne avessimo avuto bisogno, lungo tutta la vetrata, da cui si vedeva bene la strada. Lo Starbucks sembrava nuovo di zecca e uguale in tutto e per tutto a quello di George Town, stessa mescolanza di sedie in pelle, panche di legno, divani e tavolini bassi. Era pieno per un quarto. Una rampa di scale scendeva verso altri posti a sedere e alle toilette. Credo. In fondo, dietro una porta a vetri, s'intravedevano alcune sedie e tavolini in alluminio lucido, sembrava un cortile interno. Più di un'entrata e un'uscita. Perfetto. I casi erano due: o il locale era un punto d'incontro abituale per la Ditta, oppure la fonte sapeva il fatto suo. Ci infilammo nella traversa successiva e ci ritrovammo in una piazza piuttosto grande con l'acciottolato rifatto da poco. Vi si affacciava un paio di locali molto trendy, pieni di merdate in acciaio all'esterno. Il cortile di Starbucks era alla nostra sinistra. Suzy mi guardò come se avesse già deciso cosa mangiare e io facessi parte del menu. «Se le cose si mettono male prima del tuo arrivo, uscirò da qui. E dopo, chi può dirlo?» Le passai un braccio intorno alle spalle. «Allora forse è meglio scoprire
se le porte sono aperte, non credi?» Ma mentre ce ne stavamo lì, uscì una coppia. Suzy era felice. «Perfetto, e quando mi sono allontanata abbastanza ti telefono.» 21 Tornati a passo lento alla stazione di Farringdon prendemmo un caffè a un baracchino che vendeva panini e zuppe. Appoggiati al muro esterno, fra un sorso e l'altro, ispezionammo la zona circostante con aria distratta. Suzy mordeva con delicatezza il bordo del bicchiere di plastica e il segno che lasciava con i denti era simile alla cicatrice del morso di un alsaziano che avevo sul braccio sinistro. Con gli occhi fissi alla strada ruotò un poco il bicchiere in modo da trovare una nuova superficie da mordicchiare. «Non vedo niente che ci possa preoccupare. E tu? Vedi qualcuno da qualche parte con in mano un Evening Standard dotato di buchi da spione?» Aveva ragione: non c'era nessuno che si sforzasse troppo di sembrare normale. Quasi tutti camminavano a testa bassa, con l'unico pensiero di tornare presto a casa. «No, ma gli incontri con le fonti non mi piacciono comunque. A dirla tutta non sopporto gli informatori, punto. Non importa da che parte stai, è gente che tradisce qualcuno e la cosa mi mette i brividi.» Riprese a bere senza perdere di vista la strada. «Eppure non possiamo fare a meno di loro. Non siamo costretti a iniziare nuove amicizie.» Buttò un occhio all'orologio. La imitai. «Venti minuti. Forse è meglio che cominci a muoverti se vuoi riuscire a farti servire. Non credi?» Si voltò e mi sorrise inserendo l'auricolare. Premetti il tasto di selezione rapida, poi due volte il tasto invio e portai il cellulare all'orecchio. Rispose prima che terminasse il primo squillo. «Siamo collegati.» Rimasi in ascolto e sentii i rassicuranti impulsi di sottofondo. «Ci vediamo più tardi, allora. E vedi di non fare proposte indecenti agli sconosciuti.» Le sfiorai con un bacio la guancia e me ne andai. Gettai il caffè avanzato in un cestino, attraversai e mi avviai lentamente verso il Castle. Prima di entrare inserii l'auricolare. Sul marciapiede opposto Suzy mi superò diretta da Starbucks. All'interno il pub era pieno di fumo di sigarette che saliva a spirale verso il soffitto e di persone felici che tossivano e si rilassavano dopo una settimana di lavoro. Gli uomini avevano la cravatta allentata e il rossetto delle
donne ormai era spalmato tutto sul bordo dei bicchieri. Mi misi in coda per ordinare una Coca e poi serpeggiai fra la calca per raggiungere la vetrata che dava sull'incrocio con Turnmill. La musica era forte e il rumore delle conversazioni copriva il brusio di sottofondo della cuffia, ma in compenso avevo un'ottima visuale della strada fino alla stazione e di tutta Farringdon Road. Mi giunse il rumore della macchina dell'espresso. «Pronto? Ci sei?» Premetti l'auricolare. «Riesci a sentirmi?» «Oh, ciao, sì, sono da Starbucks.» Il tono di voce era dolce, come se stesse parlando al suo ragazzo. «Se ti va, ti aspetto qui.» «Sì, sono in buona postazione.» Sorseggiai la Coca e osservai il mondo che passava, senza smettere di cercare un uomo vestito di blu con la camicia bianca e un impermeabile nero sul braccio sinistro. Dall'altro lato della strada vidi sopraggiungere un uomo che sarebbe potuto venire dalla direzione dello Starbucks. Sulla trentina, carnagione decisamente scura, indiano o forse dello Sri Lanka. I capelli con la riga da un lato, corti dietro e alle basette, avevano una striscia di grigio all'altezza della tempia. Indossava un giubbotto di renna marrone, un golf nero e jeans. Non era abbigliato come avrebbe dovuto essere il nostro informatore, tuttavia quel tipo attirò la mia attenzione. Come per controllare la strada, prima di passare si voltò a guardare il tratto appena percorso e, mentre attraversava, scrutò attentamente Turnmill. Giunto al marciapiede proseguì diretto verso la stazione e sparì all'interno. Di lì a poco vidi uscire un altro candidato. Sembrava un orientale, forse del Sud-est asiatico, vestito blu e impermeabile nero, ma indossato. Si avvicinò al chiosco e comprò un giornale. Avvicinai il microfono della cuffia alla bocca. «Ciao, sai la novità? Ho un candidato, e forse si è portato un amico.» Lo guardai rientrare in stazione. «Adesso non lo vedo più.» «D'accordo, bene.» Immaginai Suzy seduta da Starbucks davanti a un delizioso cappuccino gigante pieno di schiuma, che reggeva il microfono e sorrideva come una scema mentre ci scambiavamo dolci insensatezze. Fece un paio di secondi di pausa. «Oh, sì, capisco benissimo, allora ci vediamo presto!» Ricomparve. «Ci siamo, ha l'impermeabile sul braccio sinistro e il giornale arrotolato nella destra. Forse saremo solo in tre a prendere il caffè. L'amico non è in vista.» Aveva un'aria familiare. Attesi che raggiungesse la vetrata del pub. «Ha
lo Standard.» Lo guardai in viso e il mio cuore accelerò i battiti. «È il tassista stronzo che abbiamo incontrato in vacanza.» Cercai di mantenere un tono calmo e rilassato. «Si avvicina... mi ha superato... adesso viene verso di te. Il conducente del taxi...» «Ma che bello, sarà come tornare ai vecchi tempi.» Scrutai la strada, cercavo qualcuno o qualcosa che fosse al seguito del nostro uomo e, come previsto, Ciocca Grigia uscì dalla stazione e non era da solo. «Credo che gli amici siano due. Pelle marrone su azzurro e blu scuro su azzurro. Entrambi indiani. Stai all'occhio.» «È arrivato. Ci vediamo fra poco. Ciao.» Attraversarono Turnmill e superarono la mia postazione; sembravano molto all'erta e un po' troppo impegnati a parlare fra loro. Entrambi avevano la carnagione molto scura e liscia e sembrava che si servissero dallo stesso barbiere: identico taglio squadrato e il collo ben rasato non mostrava segni di ricrescita. Attesi ancora un po' e attraversai per ottenere una visuale migliore del bar. Non li vedevo, ma sentivo nell'auricolare una voce istruita con accento del Sud-est asiatico. «Mi scusi, sa per caso dirmi come si fa a raggiungere Golden Lane?» «No, mi dispiace, ma se vuole può consultare il mio stradario A-Z.» La voce di Suzy mi giunse forte e chiara. M'inserii. «È tutto a posto? Non vedo più gli altri due.» «Sì.» «Okay, sto per entrare.» Percorsi l'ultimo tratto di strada ascoltandola impostare la storia di copertura. A me batteva forte il cuore, lei era fredda più del ghiaccio. «Il motivo per cui stai parlando con me è che mi hai chiesto come raggiungere Golden Lane. Adesso io prendo l'A-Z dalla borsa e lo poso sul tavolo. Abbiamo iniziato a parlare perché a Pasqua sono stata con il mio ragazzo in vacanza in Malesia. Mi hai capito?» Lo sentii acconsentire. Toccava a Suzy, che era la garante dell'RV, il punto di rendez-vous, impostare la storia di copertura. «Allora, da un minuto all'altro ci raggiungerà il mio ragazzo. Conosciamo tutti Penang e ne parleremo insieme mentre beviamo un caffè.» Mi giunse di nuovo il suo assenso. «Qualsiasi cosa succeda, il mio ragazzo e io usciremo dalla porta posteriore. Tu esci da quella principale, da dove sei entrato. Mi segui?»
Entrato nel locale, li vidi subito nell'angolo in fondo sulla sinistra. Suzy era in posizione di comando, con la schiena contro il muro e poteva controllare entrambe le uscite. Le feci un cenno di saluto con la mano e lui si voltò. L'A-Z era sul tavolo. Mi avvicinai e la baciai. «Non smettere, dammi il tempo di spegnere il telefono.» Anche lei spense il suo. «Questo signore non sa come raggiungere Golden Lane. Ma sai la coincidenza? Era a Penang nello stesso periodo in cui c'eravamo noi.» Gli altri nel bar pensavano agli affari loro e nessuno faceva caso a noi. Gli feci un cenno e sorrisi. «È stata una vacanza magnifica, mi piacerebbe da matti tornarci.» A quel punto eravamo tutti e tre seduti, la copertura e le vie di uscita erano state stabilite. Potevamo procedere. Silenzio. Era come se aspettasse che fossimo noi a cominciare, il che era strano perché di solito è esattamente il contrario. Gli sorrisi, forse era solo nervoso. «Allora, cos'hai per noi?» Era sulla quarantina avanzata, magro, alto più o meno come Suzy. Portava un orologio in acciaio piuttosto semplice, nessun anello né altri gioielli. I baffi erano spariti e aveva un certo numero di lentiggini marrone scuro sulle guance e rughe sul resto del viso che ben completavano gli occhi arrossati. Aveva l'aspetto di uno che non dormiva da una settimana, o più semplicemente di uno ridotto molto male. Ma era impossibile non notare le mani, enormi, forse più grandi di quelle di Sundance, le unghie erano corte e ben curate, ma le nocche erano callose, quasi bianche. Di sicuro praticava arti marziali giapponesi o qualcosa di simile, ci faceva sopra le flessioni e prendeva a pugni tavolette di legno. Di una cosa ero contento, di non essere un pezzo di legno. «Cosa vi aspettate da me?» Suzy e io ci guardammo. «Dovete capire che trovare questa ASU sarà estremamente difficile.» Suzy si avvicinò. «Allora perché ci siamo incontrati, se non hai niente da darci?» «Io ho detto ai vostri che non avevo ancora nulla, sono stati loro a insistere per questo incontro. Combattiamo persone pronte al martirio. Sono professionisti, il successo delle loro azioni sta nell'agire di nascosto, non commettono errori. E voi non vi chiedete altro se non dove...» Alzai le mani. «Ascolta, al nostro livello tutte le tue elucubrazioni sono solo merda, ti è chiaro?»
Mi fissò per alcuni secondi, come se mi stesse soppesando. «Forse ci vorrà un po' di tempo. Questi non sono come i vostri ragazzini esaltati dell'Irlanda del Nord...» Vidi un lampo negli occhi di Suzy. «Sono morti in molti per combattere quei 'ragazzini'.» Le posai una mano sul braccio. «Okay, cerchiamo di procedere.» La fonte si fece seria. «Loro sono qui, sono in Gran Bretagna. Chi è la persona che devo contattare, con chi avrò a che fare?» Indicai Suzy. «È lei. Dagli il numero.» Suzy mi guardò ma non fece domande. Dovevamo mostrarci uniti, anche se quello ci stava fottendo. Glielo disse e lui chiuse gli occhi per registrarlo nel software della testa. Quando li riaprì sembravano ancora più iniettati di sangue. «Vi chiamerò se e quando avrò qualcosa.» Si alzò per andarsene. «Sei sicuro di riuscire a localizzare la ASU?» domandai. «Hai qualcuno che ti aiuta?» «Non ho bisogno di aiuto. Me la cavo benissimo da solo.» E uscì dalla porta posteriore. 22 «Attenta, Suzy, guarda.» Per la strada avevano acceso i lampioni. Meno di trenta secondi dopo Ciocca Grigia passò davanti alla vetrata. Era diretto verso la stazione. «È il primo che ho visto.» Poi, mentre lei si appoggiava alla spalliera e prendeva il bicchiere di cartone con la sua bevanda, passò anche la fonte. Non guardò neppure dentro. Da ultimo Blu seguì a ruota. Accesi il cellulare. «Sta mentendo. Seguiamoli. Parti prima tu.» Accese il suo, portò la tracolla della borsa alla spalla sinistra e, controllando che la giacca di pelle coprisse il fianco destro dove era la Browning, si chinò a baciarmi. Mentre usciva e spariva all'esterno premetti il tasto di riselezione. «Pronto, mi senti?» «Sì, bene. Blu è sulla destra... vicino alla stazione... adesso è all'interno. Tutti e tre fuori campo.» Io ero già su Cowcross. Suzy era circa venti metri davanti a me sul marciapiede di destra, quasi all'altezza del pub. «Sto per entrare in stazione.» Prima che mi giungesse di nuovo la sua voce sentii gli altoparlanti e il rumore della biglietteria. «Tutti e tre ancora
fuori campo, continuo a cercare.» Parecchi fruscii mentre lei ispezionava la zona. «Aspetta, aspetta, aspetta. Sì... li vedo tutti e tre, sono sotto, sulla piattaforma, non riesco a capire la direzione. Sono ancora separati, ma allo stesso binario. Compro i biglietti.» La raggiunsi nel giro di un minuto. Mi salutò con un sorriso e un «sono felice di vederti» e sotto braccio ci avvicinammo ai tornelli. Le telecamere a circuito chiuso CCTV erano ovunque. «Guarda in fondo alle scale.» Una rampa piuttosto ampia in metallo scendeva sino alle piattaforme. Al di sopra dei cartelloni riuscii a scorgere l'ultimo terzo della testa della fonte e poco più avanti una riconoscibile ciocca di grigio. Blu era più vicino a noi, seduto su una panca fra una donna di colore di mezz'età con due sacchetti di Tesco e un bianco con una valigetta di cuoio vicino ai piedi. Suzy mi raggiunse e mi posò la testa sul petto, annuiva mentre io le sussurravo romanticamente nell'orecchio: «Non ci resta che aspettare...» Un treno arrivò rombando sotto di noi. Le persone si avvicinarono al binario. Blu e i due della panchina si alzarono per unirsi alla massa. «Fottiamocene degli altri due, tanto non ci conoscono. Seguiamo la fonte. Tu vai nella carrozza più avanti, io mi occupo di questa.» Mi porse il biglietto, valido per tutte le zone della metropolitana, e inserì il suo nel tornello. Le alette si aprirono all'unisono con le porte del treno sotto di noi. Passai anch'io e scendemmo le scale. Grazie alla copertura dei cartelloni Suzy si avviò veloce dall'altro lato della piattaforma. Non persi mai di vista la testa della fonte. Avevo bisogno di esserle più vicino possibile e ciò significava salire sulla prima carrozza alla sua destra. Avanzavo dietro Suzy, testa bassa per confondermi tra la folla in attesa fino a che lei non superò l'uomo. Poi mi spostai rapido all'indietro mentre la fonte saliva sul treno. Merda. Blu sarebbe salito nella mia carrozza. Non avevo tempo di cambiare direzione: ero bloccato. La donna si mise a sedere con la schiena rivolta verso il marciapiede. Blu anche. Io sedetti di fronte a lei, cercando di non inciampare nei sacchetti. La carrozza era piena per metà. Un paio di ragazzini rimase in piedi per ostentare sicurezza, tutti gli altri sedettero. Buttai un occhio a destra, oltre la porta di comunicazione, ma non riuscii a vedere la fonte. Scostandomi dal sedile mi protesi per prendere un supplemento del Guardian abbandonato pochi posti più in là a sinistra della donna di colore. E, mentre l'alto-
parlante ci ricordava di fare attenzione allo spazio tra il vagone e la banchina, riuscii a intravedere la fonte seduta a circa metà nella carrozza successiva, sul mio stesso lato. Non avrei saputo dire se si era accorta di noi. Con assoluta certezza Blu non si era reso conto di niente. Se ne stava lì con le mani posate sulle gambe e gli occhi persi nel vuoto. Basta guardare, per il momento. Non potevo rischiare un contatto di sguardi: non volevo diventare qualcuno che potesse ricordare in un momento successivo. Le porte si chiusero e il treno si mosse; eravamo ancora all'aperto, anche se i muri di mattoni sporchi costeggiavano da vicino i binari. Osservai la cartina sopra la testa della donna e scoprii che eravamo sulla Circle. Il treno prese velocità e io mi sentii sballottato da una parte all'altra, poi rallentò. Giocherellai con il telefono come se stessi componendo un numero e portai il microfono vicino alla bocca. Sorrisi come se avessi appena preso la linea. «Ciao, come stai?» La sentivo appena sopra lo sferragliare del treno, così avvicinai direttamente il telefono all'orecchio e tolsi l'auricolare. «Sto bene. Lo vedi oggi?» Le mie labbra sfioravano il telefono. «Sì, ne vedo due. Fra poco ti perdo.» Fece un risolino da ragazzina. «Anch'io. Mi sembra magnifico.» Immaginai che avesse qualcuno seduto nel sedile accanto. Forse Ciocca Grigia. Silenzio. Controllai il campo sul telefono. Sparì del tutto quando il treno venne inghiottito da una galleria. Osservai i miei compagni di viaggio. Erano tutti persi nel loro mondo, leggevano libri o giornali e cercavano di evitare il contatto visivo con la persona di fronte. Alcuni, Blu per esempio, se ne stavano lì lasciando ciondolare la testa da parte a parte. Alla mia sinistra l'uomo con la borsa di pelle fra i piedi pareva ossessionato dai pelucchi che continuava a togliere dai pantaloni di velluto a coste. La donna si chinò in avanti e frugò nei sacchetti finché non tirò fuori una copia di Hello! che prese a sfogliare distratta. Io mi trastullai con l'idea che Velluto a Coste se ne andasse per le piattaforme affollate nelle ore di punta con la sua borsa piena di bacilli di peste polmonare e attraverso un buco sul fondo lasciasse una scia del carico mortale. Poteva girare per la metropolitana e nessuno si sarebbe fermato a guardarlo due volte. Poteva andare lontano quanto voleva, tornare a riempire la borsa e cominciare da capo. Al pari di migliaia di altre persone, anche la donna non avrebbe visto, udito, sentito l'odore del bacillo che le galleggiava intorno in attesa di essere inalato. La sera sarebbe andata a casa e un paio di giorni dopo avrebbe
pensato di essersi presa l'influenza e con quasi assoluta certezza avrebbe infettato il marito e i figli. Il marito avrebbe diffuso la buona novella a chiunque avesse incontrato mentre andava al lavoro e anche lì avrebbe continuato a farlo. E i bambini sarebbero andati a scuola o al college e avrebbero fatto esattamente la stessa cosa. Non serviva il professore di matematica di Kelly per calcolare quanto in fretta si sarebbe arrivati a quello che Simon aveva definito un «evento biblico». L'altoparlante del treno gracchiò e una voce femminile con la tipica cadenza della stessa zona dell'estuario di Suzy ci informò che la stazione successiva era King's Cross. Dal lato opposto della carrozza le luci della piattaforma ci inondarono e le pareti buie diventarono di colpo manifesti pubblicitari di vacanze in Grecia. Il treno si fermò con un soffocato cigolio di freni e le porte si aprirono lentamente. Blu si alzò. Guardai attraverso la porta di comunicazione. Anche la fonte si era alzata, aveva indosso l'impermeabile. Io rimasi dove mi trovavo perché non sapevo da che parte fosse l'uscita. Avrebbe svoltato a sinistra o a destra? Se avessi cominciato a camminare nella direzione sbagliata potevo andare a sbatterle contro. Ma se avessi atteso troppo, le porte si sarebbero chiuse. Quasi tutte le persone che scendevano dal vagone in cui ero svoltarono a destra, e Blu era fra loro. Se anche la fonte l'avesse fatto, Suzy l'avrebbe avuta nel mirino. Attesi un poco prima di mescolarmi al gregge. Non riuscivo a vedere nessuno, neppure Suzy, tra la folla che seguiva i cartelli indicanti l'uscita. Il gruppo andava compatto in un'unica direzione, ma io non perdevo di vista le altre possibili uscite: King's Cross è uno snodo importante della metropolitana e comprende anche due stazioni ferroviarie di superficie. Ancora nessun segnale sul telefono mentre mi aprivo un varco fra un gruppo di adolescenti stranieri indecisi e mi ricongiungevo al filone degli uomini d'affari che andava spedito ai treni. Inquadrai Blu. Era a circa metà della scala mobile, fermo. Sembrava non essersi accorto di nulla. Guardava distrattamente, come tutti, i poster che scorrevano. Una tacca di campo apparve sul display del telefono. «Pronto, Suzy?» Nessuna risposta. Quando mi trovai circa a metà, lui arrivò in cima e scomparve. Cominciai a fare i gradini a due alla volta, scontrandomi con le persone e mormorando parole di scusa. La scala mobile ci riversava in un atrio da cui si dipartivano cinque o sei
gallerie in direzioni diverse. Difficile stabilire quale avesse preso Blu. Ma non era importante. Solo la fonte lo era. Presi la prima a sinistra, avevo una possibilità su cinque di averla azzeccata e percorsi un centinaio di metri. «Pronto, Nick, pronto?» «Suzy, ti sento male, molto lontana.» «È fuori dalla metro. Adesso si trova alla stazione della linea principale, li vedo tutti e tre.» «Arrivo tra un attimo.» Feci dietro front e avanzai contro corrente fino all'arrivo delle scale mobili e seguii le indicazioni per la stazione della linea principale di King's Cross. Ancora spintoni, ancora scuse. Suzy continuava la radiocronaca: «Tutti e tre diretti all'uscita della stazione che va verso la principale, sono ancora separati. Mi senti?» «Sì, sto per raggiungervi. Mi scusi, mi dispiace, permesso.» Con un ultimo sforzo arrivai in cima alla scala che portava a una sala dal soffitto altissimo. Un gigantesco cartellone digitale mostrava gli orari dei treni in partenza, quasi tutti in ritardo. Ovunque pendolari che bevevano liquidi caldi da bicchieri di carta e parlavano al telefono. Suzy non era in vista ma nell'auricolare mi arrivava il brusio e poi la sua voce. Fui costretto a tapparmi l'altro orecchio con un dito per riuscire a sentire quello che stava dicendo, perché anche gli altoparlanti della stazione avevano cominciato a trasmettere. Riuscii a cogliere solo che parlava della principale. «Cosa fa sulla principale?» «Sono tutti fermi. All'esterno della stazione, ancora separati e fermi. Mi senti?» «Sì. Tu mi ricevi?» «Sì, sì.» Smise di parlare e mi giunse solo il rumore del traffico. Poi: «Frena, frena, si stanno muovendo. Ancora separati. Hanno raggiunto la strada, sempre dal lato della stazione, diretti verso sinistra». «Adesso esco.» 23 La zona era tutta un cantiere. Ovunque recinzioni di ferro, macchinari e cartelli di scuse per il disagio causato dai lavori per la costruzione del collegamento ferroviario veloce con il tunnel della Manica, LA PORTA CHE COLLEGA L'INGHILTERRA ALL'EUROPA. Subito oltre c'era la strada
principale, un labirinto di vie illuminate e di traffico bloccato in ogni direzione. «Stanno per attraversare la prima a sinistra, quella che costeggia la stazione.» Mi avviai in quella direzione. Suzy non smetteva di parlare. «Grigio e Blu sono dall'altro lato della strada... tempo... tempo, il bersaglio si dirige verso destra, oltre la principale, verso l'isola. Gli altri due proseguono dritti, lui sta attraversando la principale.» Non riuscivo a vederla, ma non era importante: vedevo il bersaglio tra la folla, illuminato dalle arcate dorate. Insieme con altri era in paziente attesa dell'omino verde, poi si rese conto che il traffico era talmente bloccato che poteva attraversare comunque. Era diretto a uno spiazzo asfaltato di fronte a un cadente edificio a tre piani che aveva la forma della prua di una nave e che divideva in due la strada principale. «Tempo, tempo, sta per raggiungere l'isola.» Lo vedevo, era a non più di sessanta metri, e Suzy mi arrivava piuttosto confusa al di sopra del traffico. «Ce l'ho ancora, ancora. Fermo all'isola. Sembra diretto alla seconda strada. Sempre fermo.» Raggiunsi la traversa a sinistra e la passai, superai il McDonald's e mi diressi all'attraversamento che portava all'isola. Non avevo bisogno di osservarlo, mi avrebbe comunicato Suzy i suoi spostamenti. Guardavo avanti, invece: Grigio e Blu avevano svoltato nella seconda traversa a sinistra ed erano scomparsi. «Fermo, fermo, scattato il verde, adesso attraversa. Diretto a destra... ora è sul marciapiede, verso destra. Sembra non essersi accorto.» Guardai di nuovo in direzione della fonte e la vidi sparire all'interno di un Costcutter molto illuminato, di quelli che stanno aperti giorno e notte sette giorni su sette. «Stop, stop, stop!» Scattammo all'unisono. Raggiunsi l'isola e m'incamminai sul marciapiede a sinistra dell'edificio a forma di cuneo in modo da essere fuori campo per Costcutter. Suzy lo teneva d'occhio. «Sono sul bersaglio e posso dirti in che direzione va quando esce.» «È un roger, socia. Io sono nella parte buia del vecchio edificio. Gli altri due hanno preso la prima a sinistra dopo McDonald's. Un attimo...» Mi spostai in modo da poter leggere il nome della strada. «Sono in Caledonian Road, Caledonian. Attendo istruzioni.» «Caledonian, ricevuto.» Era da sempre una zona malfamata e degradata, un'accozzaglia di locali
da poco dove acquistare kebab, patate, hamburger e materiale porno. Lì trovavi i vagabondi, gli spacciatori e i loro clienti, molte prostitute. L'edificio cadente era transennato in attesa di essere ristrutturato e i pannelli di legno al livello strada erano già imbrattati con le più recenti, artistiche interpretazioni di un mondo migliore. Sopra il rombo delle auto che imballavano i motori, mi giunse di nuovo la voce di Suzy. «Attenzione, attenzione. È foxtrot, cammina, foxtrot verso sinistra. Ha un sacchetto azzurro, alla tua destra con un sacchetto azzurro.» Tornai alla prua della nave. «Lo vedo, lo vedo.» Ero circa venti metri dietro di lui. «Sta per raggiungere la prima traversa sulla sinistra.» Ci trovavamo di nuovo a camminare sulla principale, di fronte alla stazione, quando lui scomparve. «È andato a sinistra. Non lo vedo più.» «È un roger. Sono dietro di te, cerco di raggiungere una parallela.» «Roger.» Suzy avrebbe cercato una strada parallela a quella che aveva imboccato la fonte. Raggiunto l'incrocio restai in attesa vicino alla minuscola stazione di polizia sull'angolo. In passato doveva essere un negozietto con i vetri a specchio. «Suzy, è Birkenhead Street.» «Ricevuto, Birkenhead. Sono dietro di te, all'altezza di Gray's Inn, che curva dopo un centinaio di metri. Sono parallela a Birkenhead.» «Roger.» Attraversai la strada come se volessi andare oltre l'incrocio e raggiungere le luci intermittenti della sala giochi all'angolo opposto rispetto alla stazione di polizia, guardai verso sinistra e dalla porta chiusa mi giunsero i lampi e il rumore di morte dei videogiochi. «È più o meno a metà di Birkenhead. La strada è lunga circa duecento metri. Alla fine c'è un incrocio a T. Penso che incroci a sinistra con Gray's Inn.» «Roger. Io ho un incrocio sulla destra. St Chad's Street, ripeto St Chad's. Adesso mi fermo e attendo di vederlo spuntare all'incrocio a T.» Mi fermai all'angolo, volevo mettere una certa distanza fra noi prima di seguirlo. In ogni caso, come fosse arrivato all'incrocio, Suzy avrebbe visto in che direzione andava. «Okay, è un roger. Lo vedo ancora, a sinistra in Birkenhead.» Birkenhead era una strada con case in stile edoardiano che erano state convertite in alberghetti del vizio. Sembravano avere tutti le stesse pesanti tendine alle finestre e la stessa condensa sui vetri. Il posto dove portare una delle puttanelle della stazione se non ti andava di farlo nel vicolo.
«Stop, stop, stop! Ma che diavolo sta facendo? È quasi all' incrocio.» Era fermo. «Aspetta, aspetta... sta accendendo.» «Ricevuto. Io sono fermo alla sala biliardo sulla Gray's Inn e vedo bene tutta la strada fino a St Chad's.» «È un roger. Sempre fermo, sta fumando.» Se ne stava fermo con il sacchetto nella sinistra e la sigaretta nella destra. Perché si era fermato così all'improvviso? Si era accorto di essere seguito? Ma allora perché non si voltava per accertarsene? Stava aspettando qualcuno? «È sempre fermo, fuma. Sta guardando in alto, come se cercasse di vedere un aeroplano o qualcosa di simile. Non ho idea di cosa stia facendo.» Di certo non guardava le stelle, il cielo era colore del fango. Suzy rientrò subito in rete. «Si tratta di una CCTV. Vedo una telecamera al primo incrocio, proprio su St Chad's. Sta girando, la telecamera...» «Attenzione, attenzione. È foxtrot.» Io rimasi dov'ero. «È a sinistra dell'incrocio. Diretto verso sinistra, verso te, verso sinistra.» Suzy parlò nel momento esatto in cui io lo persi di vista. «Ce l'ho, ce l'ho. Si muove verso... no. È fermo, fermo, fermo. Chiavi in vista. È a un portone, sta entrando. Io proseguo e lo supero.» «Roger. Ti aspetto in prossimità dell'incrocio, ci incontriamo là.» Mi voltai a guardare la stazione alle mie spalle, a non più di cinquanta metri dalla principale, e compresi il motivo che aveva convinto il gruppo a fermarsi all'uscita. Al primo incrocio, oltre WH Smith e Boots c'era un'altra CCTV fissata ben in alto su un palo di ferro. Girò e si fermò più o meno esattamente di fronte all'entrata del McD. Attraversai Birkenhead e mi trovai sul lato della strada che aveva preso lui. La fonte era andata a sinistra. Aveva tenuto d'occhio la telecamera e atteso il momento giusto per muoversi, come un prigioniero di guerra in fuga che calcola il tempo del percorso della sentinella. Sentivo il respiro di Suzy nell'auricolare. Stava percorrendo St Chad's. Mi fermai a circa cinque metri dall'incrocio, vicino a un cancello di sbarre di ferro, alto circa due metri e chiuso con un lucchetto, che delimitava lo spazio tra due edifici. Guardandoci attraverso riuscivo a vedere il retro di un condominio a tre piani che formava l'angolo fra Birkenhead e St Chad's come pure il retro della fila di case in stile edoardiano in cui la fonte era entrata. Dalle lastre in plexi di un piccolo laboratorio proveniva della luce che illuminava un intrico di tubi privo di senso.
Dietro una tendina cascante di una finestra dell'ultimo piano si accese una luce, poi i tendoni vennero chiusi velocemente. Con un ronzio elettrico la telecamera iniziò a girare. Presi il cellulare e lo accostai all'orecchio al posto dell'auricolare, così tutti avrebbero pensato che avevo un motivo per essere lì. «La telecamera si è messa in moto.» «Ricevuto.» Seguì una pausa. «La casa è il numero 33. Ripeto, 33. È la più vicina al condominio.» «Ricevuto. 33. Continua fino all'angolo e mi vedrai.» La telecamera inquadrò Birkenhead, e ciò voleva dire che ero rimasto esposto sotto il lampione. Feci un gran sorriso quando vidi Suzy che si avvicinava a braccia aperte. Baci, coccole e telefoni spenti. La CCTV rimase in posizione mentre io mi appoggiavo al cancello per permettere a Suzy di guardare il retro della casa bersaglio. «Terzo piano.» Sentii la sua testa strisciare contro di me mentre la sollevava per guardare in alto. «Vedi la lama di luce fra le tende?» «Sì.» «Si è accesa un minuto dopo il suo ingresso. Deve essere lui e deve essere solo. Spostiamoci fuori campo della telecamera, svoltiamo a destra in St Chad's.» Attraversammo tenendoci per mano a beneficio della ripresa. Non girò su se stessa per seguirci. Non ce n'erano altre davanti a noi ma solo dei cartelli che annunciavano che la sorveglianza del quartiere funzionava davvero. Mi piantò un dito nel braccio. «Adesso mi spieghi perché gli hai detto che poteva avere il mio numero di telefono? Cos'ha il tuo che non va?» «Te lo dico non appena arriviamo a casa.» Suzy tirò fuori il pacchetto di cicche alla nicotina e fece un cenno in direzione dell'insegna al neon di una chiesa metodista. S'illuminò. «È come essere di nuovo in vacanza.» «Hai finito le B&H?» Si voltò e fece finta di soffiarmi del fumo addosso. «Avrei solo voluto che Signorsì ci dicesse chi era la fonte.» Mise via il pacchetto e cominciò a masticare. «Forse sa come ci piacciono le sorprese.» «Vuoi sapere una cosa? Ho un brutto presentimento a proposito della cosiddetta 'fonte'. Ragazzini esaltati, cazzo, ma chi crede di essere?» «Credevo che non t'importasse.» Mi guardò a lungo. Non riusciva a capire se la stessi prendendo in giro.
«'Servono allo scopo'», le feci il verso. «Non m'importa perché lo facciano purché lo facciano.» Con una smorfia di disgusto sputò la gomma da masticare nel canale di scolo. «Sa di merda. Ascolta, secondo me dobbiamo stare molto attenti con lui e con gli altri due.» Le descrissi Grigio e Blu, il loro taglio di capelli, la loro pelle liscia. «Forse sono andati dal barbiere prima di iniziare il lavoro, o forse si sono fatti tagliare non solo i capelli ma anche la barba per passare inosservati. Non so dire se questo sia per noi una cosa positiva o no.» «Cerchiamo di non essere pessimisti.» Quando raggiungemmo la chiesa una figura si staccò dall'ombra. Era un ragazzo bianco sulla ventina. Indossava una giacca di cuoio nero e jeans strappati. Anche con la poca luce che c'era vidi che aveva gli occhi iniettati di sangue e pieni di cattiveria. «Volete la bianca o la nera?» Suonava più come una minaccia che come l'offerta della settimana. Continuammo a camminare. «Siamo a posto, grazie, amico.» Scossi la testa. «Non vogliamo niente.» Cominciò a seguirci. «Venite con me. Venite laggiù.» La sua voce sembrava provenire da un registratore con le pile scariche. «Venite, venite.» Agitò le mani verso il retro della chiesa. «Ho le bianche, le marroni, dieci per dose.» Suzy ci andò giù dura. «Quale pezzo della parola 'no' non riesci a capire?» Si bloccò malfermo sulle gambe. «Mi prendi in giro, pezzo di merda? Ti strappo le budella.» Continuammo a camminare senza perderlo di vista, nell'eventualità che la situazione peggiorasse. Fece scivolare la mano destra nella tasca. «Vi faccio a fette tutti e due. Pezzi di merda del cazzo.» Suzy ridacchiò piano mentre continuavamo per la nostra strada. Aveva ragione, non era il caso di attirare l'attenzione, la cosa migliore era non smettere di camminare. Non ci avrebbe mai seguito nella strada principale, era evidente che preferiva restare nell'ombra. Ma invece urlò: «'Fanculo, pezzi di merda». Poi rise fra sé. «Se voi non la volete allora la venderò ai vostri figlioletti del cazzo e le vostre bambine me lo succhieranno per una dose.» Girai sui talloni, andai deciso verso di lui, avevo il volto in fiamme. Sapevo che non avrei dovuto, ma ci andai. Suzy mi seguiva. «Lascia perdere, Nick, andiamo via. Non siamo qui
per questo.» Mi raggiunse e mi afferrò per un braccio cercando d'incrociare il mio sguardo. «Non adesso, non adesso. Dobbiamo andare.» Il piccolo bastardo si rintanò a passo incerto all'ombra della chiesa, ghignava come una iena. «E dai, vieni, mezza sega del cazzo...» «Porca miseria, Nick, ma cosa ti succede? In questo preciso momento sto cercando con tutta me stessa di convincermi che tu abbia un cervello. Se c'è ancora, vedi di metterlo in funzione, cazzo!» Mi trascinò alla strada principale, ci dirigemmo verso ovest e finalmente riuscimmo a fermare un taxi. 24 Digitai le otto cifre sul quadro dell'allarme e la lucina rossa lampeggiò. La guardia, che si era appena messa comoda per seguire il poliziesco The Bill, non sarebbe stata disturbata. Suzy mi aveva già superato diretta al frigorifero con i due sacchetti per la cena da riscaldare al microonde. Stavamo diventando una coppietta casalinga a tutti gli effetti. Mi accorsi subito che durante la nostra assenza c'erano stati dei cambiamenti. Sul letto di Suzy c'erano le tute NBC portate dall'efficiente Yvette. E sul tavolino del soggiorno un cartone trenta per venti, con il coperchio aperto, pieno fino all'orlo di blister di lucenti pillole verdi. Ne presi uno e lo voltai. «Abbiamo la tetraciclina.» «Fantastico», mi urlò Suzy dalla cucina, «allora si fa festa.» Infilai un paio di blister nella tasca posteriore e posai Browning e marsupio sulla TV. C'erano anche due mazzi di chiavi e un biglietto scritto a mano. «Le auto sono nel posteggio riservato ai residenti, preferisci una Mondeo o una Peugeot?» «Secondo te cos'è meglio?» Entrambe erano state modificate per l'azione, poco ma sicuro. I possibili indizi d'identificazione, tipo l'adesivo dell'autosalone o eventuali ammaccature sulla carrozzeria, rimossi. Tolte anche le lampadine all'interno in modo da consentirci di entrare e uscire dall'auto di notte senza essere visti. Sotto il cruscotto ci sarebbero stati due interruttori per disattivare le luci dei freni e della retromarcia. Il biglietto di Yvette proseguiva chiedendo se avevo bisogno che qualcuno riconsegnasse l'auto che avevo noleggiato. Quella gente sapeva tutto: la vita privata per loro non esisteva.
Sprofondai nel divano, accesi Sky con il telecomando e feci un po' di zapping fra i canali di notizie ventiquattr'ore su ventiquattro per aggiornarmi sulle ultime disgrazie. Suzy mi raggiunse. Masticava la gomma, sempre con espressione disgustata. «Non preoccuparti, vedrai che mi ci abituo. Che ne dici di preparare i caricatori per le SD? Ti va?» Misi il cellulare sotto carica e la seguii in camera. Prese la valigia da sotto il letto, estrasse due sacchetti di plastica pieni di proiettili sciolti e mi lanciò un paio di guanti da chirurgo. Presi una SD ed eseguii le normali procedure di controllo: tirai indietro il cane al di sopra della canna per controllare che non ci fosse un colpo inserito, poi lo rilasciai in modo che tornasse da solo in posizione e premetti con delicatezza il grilletto per trovare la seconda posizione. Aveva molto meno gioco della Browning, sarebbe stato un incubo sparare con gli ingombranti guanti della tuta NBC, avendo sotto quelli di cotone per assorbire il sudore. Nel calcio sulla leva della sicura c'era il selettore per la raffica da tre colpi o il colpo singolo. Se lo si abbassava con il pollice destro fino al primo scatto, premendo il grilletto avrebbe sparato un solo proiettile. Abbassandolo ancora fino al punto di bloccaggio si otteneva una raffica da tre. Nelle prime MP5, quando le munizioni finivano, il carrello di scorrimento procedeva comunque in avanti e si bloccava come se avesse caricato un colpo in canna. Ti ritrovavi con il «clic dell'uomo morto», perché premevi il grilletto di un'arma scarica. Per ricaricare dovevi riarmare il cane, inserire il caricatore, abbassare di nuovo la leva e attendere che le parti in movimento avanzassero un'altra volta per mettere un colpo in canna, prima di essere pronto a sparare. Una maledetta complicazione, soprattutto se ti stavano sparando addosso. Quelle MP5 SD funzionavano esattamente come i fucili d'assalto M16 e tutte le pistole semiautomatiche: sparato l'ultimo colpo le parti in movimento restano arretrate. Non occorre fare altro che sostituire il caricatore e premere il grilletto. In poche parole rendeva la vita più facile, cosa che apprezzo sempre molto. Ma quello che mi piaceva più di tutto era l'HDS (Holografic Diffraction Sight, mirino olografico a diffrazione). Il mirino era come un piccolo schermo di televisore. Premetti il pulsante di destra posizionato sotto lo schermo e Suzy si avvicinò per seguire le mie mosse. «Ne hai mai usato uno?»
Lei annuì. «L'anno scorso. Niente di che, ho disintegrato un paio di lampioni e un cane la sera prima di fare irruzione in un palazzo di uffici. Ottima attrezzatura, sei d'accordo?» «La migliore del secolo.» Sollevai l'arma e presi la mira: la lampada del comodino stava per ricevere mie notizie. Nel piccolo schermo c'era una zona bianca opaca con al centro un cerchio e un puntino nel mezzo. La luce non si vedeva dal lato della canna. Colpire in sequenza uno o più bersagli in movimento non poteva essere più semplice. Un po' come scattare foto con una macchina digitale: si potevano tenere aperti entrambi gli occhi e inquadrare all'istante il bersaglio, anche con la maschera del respiratore sugli occhi. A molti non piaceva, ma a me sì. Se ti toccava di sparare in un ambiente ristretto era importante poter tenere aperti entrambi gli occhi per riuscire a cogliere ogni fonte di pericolo, sempre. Disattivai l'HDS e iniziai a riempire i caricatori da trenta colpi. Mi augurai che fossero proiettili subsonici, anche se non era facile capirlo dal marchio. Le SD funzionavano anche con quelli ad alta velocità, ma la potenza dei gas che li azionavano poteva far esplodere le membrane per silenziare e produrre una forte detonazione. Pensai che lo avremmo scoperto presto. Sedemmo sul letto. «Come tornare ai vecchi tempi», disse Suzy. «Come essere di nuovo nel Det.» Per un attimo smisi di fare quello che stavo facendo e la osservai. Per me non era niente di più di un lavoro: nel migliore dei casi mi procurava regolari entrate di contante, nel peggiore mi consentiva di non pensare alla montagna di merda da cui fuggivo da tutta una vita. A tenere ben chiuso il coperchio, come avrebbe detto l'onnisciente Josh. Era chiaro che per lei era diverso. Ero curioso. «Come fai a essere così sicura di passare quadro permanente?» Non mi guardò e continuò a inserire proiettili. Come se fosse in corso una gara a chi finiva per primo. Scrollò le spalle. «Perché sono brava e m'impegno e perché mi hanno detto che lo diventerò.» «Chi? Signorsì?» «Già. Entro la fine dell'anno, ha detto, ma chi può dirlo dopo questo lavoro? Dimmi di te. Ti hanno contattato quando facevi parte dei Det?» «No, dopo che ho lasciato il reggimento.» Sembrò sorpresa. «Lo so, lo so. Triste ma vero. Me ne sono andato nel '93 e dopo ho lavorato per chi precedeva Signorsì.»
«Il colonnello Lynn? Anch'io ho lavorato per lui. E non sei mai diventato quadro permanente?» Infilai la mano nel sacchetto e afferrai una dozzina di proiettili. «Secondo te?» «È per quello che te ne sei andato?» «No, un paio d'anni fa ho fatto un lavoro per Signorsì e non ci siamo trovati troppo bene insieme. Come ti ho detto, mi hanno offerto un lavoro migliore negli Stati Uniti.» «Allora perché sei qui?» «In un certo senso perché lungo il percorso mi sono ritrovato senza altra possibilità di scelta. Ma basta parlare di me. Tu perché sei qui?» «Dunque...» Smise di caricare e mi guardò. «Voglio fare altre cose, voglio un'altra vita, ma dentro di me so che non funzionerebbe. Sai di cosa parlo, vero?» «E da grande cosa vuoi fare?» A quel punto sorrise. «Giusta domanda. Non lo so. Tu?» «Non ci ho mai pensato seriamente. Loro continuano a ripetere che mi terranno finché non mi faccio uccidere o finché non troveranno qualcuno migliore di me.» Smettemmo entrambi di parlare e il silenzio fu riempito dallo scatto leggero dei proiettili e dal rumore di lei che masticava. «Suzy, ho bisogno di un piacere.» Lei continuò il suo lavoro. «Ho delle cose da fare tra le dieci e mezzogiorno e mezzo. Per questo ho dato alla fonte il tuo numero di telefono, perché tu lo terrai sempre acceso.» «Il capo ti ha detto di risolvere tutto entro le tre, Nick. Io ero in cucina, ricordi? E non stavo ascoltando apposta. La differenza ti è chiara, vero? La bambina, è tua?» «Ero in vacanza quando mi hanno chiamato e mi resta qualche casino da risolvere, mio e anche suo.» Interruppe di nuovo l'operazione di carico. «Sei sposato? Non può occuparsene la madre?» «No, non può. E non occorre che Signorsì lo venga a sapere. Due ore e mezzo domattina e sarà tutto finito. Sarò a venti minuti di distanza.» Mi guardò con un'espressione che giudicai simile alla pietà e riprese a caricare. «Non fare cazzate, Nick. Lo faccio per lei, chiunque sia.» «Grazie.»
Non molto dopo, a lavoro concluso, annunciò che andava a fare la doccia. Controllai il Traser: erano le undici di sera, cioè circa le sei nel Maryland. Presi il cellulare dal marsupio in salotto e andai in cucina. Tenendolo incastrato contro la spalla, riempii il bollitore. L'impianto idraulico reagì alla velocità del fulmine. «Bastardo!» Comunque mi venne da ridere. Dopo alcuni squilli, una versione cordiale della voce di Josh rispose dalla segreteria. «Salve, sapete cosa fare: accogliete la benedizione del Signore.» Chiusi la comunicazione. Chiaro, sarebbe stato via con i figli fino a sabato per uno dei suoi raduni tutti gioia e battiti di mani. Kelly non poteva tornare prima di domenica perché Josh doveva andare a prenderla. Merda. L'acqua bolliva e qualche secondo dopo Suzy uscì dalla doccia avvolta in un ampio e morbido asciugamano verde seguita da una scia di vapore. Percorse i pochi passi nel corridoio ravviandosi i capelli e alzando le dita nella V di vittoria. «Preparo anche per te?» «Certo, scemo.» Non chiuse del tutto la porta dietro di sé e non m'impegnai a fondo nel non guardare mentre si asciugava andando e venendo dall'armadio; aveva ancora il segno del bikini, l'abbronzatura di Penang. «Non pensare che non sappia cosa stai facendo, piccolo omino triste. Continua con le tazze.» Mi voltai verso il bollitore. «Hai fatto delle lampade?» La sua risata rimbalzò nel corridoio. «Nei tuoi sogni, amico. Nei tuoi sogni.» Quando mi raggiunse in salotto stavo ruminando un panino con la salsiccia decisamente freddo e guardavo le briciole ricadere sui jeans e sulla moquette. Aveva pettinato i capelli all'indietro e indossava gli stessi jeans e le stesse scarpe da ginnastica, ma adesso aveva una maglietta azzurra e un golfino. Mi si piegò accanto per prendere una tazza e il profumo del bagnoschiuma mi ricordò che dovevo stare attento a non sporcare i boxer con l'olio della pistola. Non avevo vestiti di ricambio. Sedette e le lanciai una confezione di tetraciclina. Io avevo già estratto due pillole dalla mia. «Quante dovremmo prenderne?» Inghiottii le capsule con piccoli sorsi di tè. Anche lei non ne aveva idea. «Le prendo dopo mangiato se no mi viene mal di stomaco.»
«Ne vuoi un po'?» Le offrii metà del mio panino ma lei agitò il blister verso di me con una smorfia di disgusto. «Perché ti sei incazzato tanto con quello spacciatore? Sembrava una faccenda personale...» «È che li odio, quei pezzi di merda.» Cercai di far comparire un sorriso. «Mi dà fastidio che facciano più soldi di me.» «Ehi, Nick, guarda che io non sono il nemico. Non lo dico a nessuno e non dimenticare che domani ti copro.» Spinsi in bocca una briciola rimasta sulle labbra e presi altre due capsule. «Hai ragione. La ragazza ha dei problemi e io pensavo di riuscire a risolvere tutto stando qui, poi ho ricevuto la telefonata e...» «Basta così, Nick, non voglio sapere altro. Cose personali, ricordi?» Si alzò e sparì nel corridoio. Ma prima di chiudere la porta mi disse: «Buona fortuna per domani, Nick. Vedi solo di tenere acceso quel cazzo di cellulare». Più tardi, quella notte, mi sdraiai sul divano del salotto sotto un paio di coperte, senza riuscire a prendere sonno. Non smettevo di pensare a cosa sarebbe successo la mattina successiva. Un incubo. Tornare a casa in America sarebbe stato devastante per lei; proprio adesso che stava ottenendo dei risultati con la dottoressa Hughes. Proprio adesso che lei e io eravamo riusciti a ricostruire una forma di rapporto. Ma se non altro avrebbe continuato a vivere. Se quella ASU riusciva nella missione, non era il caso di pensare alle conseguenze, per ciascuno di noi. 25 Sabato 10 maggio, ore 8.55 Avevo raggiunto la porta quando Suzy mi strillò dalla cucina: «Ricorda quello che ti ho detto, tieni acceso il telefono, d'accordo?» E l'avevo aperta a metà quando comparve nel corridoio con in mano una tazza di crusca, ruminando alla grande. «Spero che vada tutto bene, lo sai...» Scesi le scale e infilai la mano nella tasca interna del giubbotto. Tastai il sacchetto che la sera prima aveva contenuto la cena e in cui adesso c'erano dieci confezioni di tetraciclina. Avrei lasciato la Mondeo al suo posto. L'Inghilterra è il Paese al mondo con il maggior numero di telecamere. A Londra la copertura è totale, col-
legata oltretutto con sistemi di ricerca sulle targhe, così che Signorsì avrebbe saputo all'istante dove mi trovavo e magari lo avrei trovato ad aspettarmi al mio arrivo. Le ottocento cineprese aggiunte per la Congestion Charge erano il tocco finale. Ken Livingstone, il sindaco di Londra, continuava a ripetere che i filmati venivano cancellati ogni sera, e forse era anche vero, ma non necessariamente prima di averli passati alla divisione speciale della Ditta e a chiunque altro mostrasse interesse per la nostra vita. In quella zona, quei maledetti aggeggi potevano riprendere l'uomo della strada, anche a piedi, come minimo ogni cinque minuti. Molte cineprese erano del tipo super, cioè abbinavano la videosorveglianza con un sistema di riconoscimento facciale, in grado di processare un milione di impronte facciali al secondo. Il mio cellulare privato era spento ma, come promesso a Suzy, quello schermato era acceso. La sicurezza era inserita e sapevo che non poteva essere localizzato. Ma ero certo che ci avrebbero provato comunque. Presi un taxi per Chelsea. Durante il tragitto pensai solo a quale fosse il modo migliore per dare la notizia a Kelly. Quando stavo per arrivare ai Moorings mi resi conto di essere oltre un'ora in anticipo, così dissi al tassista di tornare indietro e mi feci lasciare a Sloane Square. Entrai da WH Smith e comprai una busta imbottita, una Bic e un foglio intero di francobolli. Proseguendo in King's Road verso l'ufficio postale, infilai gli antibiotici nella busta, la sigillai, scrissi il mio nome presso Jimmy e Carmen, incollai francobolli sufficienti per farla recapitare al Polo sud e imbucai la busta. Avevo ancora quarantacinque minuti di tempo. Entrai da Next e comprai un'esagerata quantità di biancheria, calze, magliette e jeans. Forse era da un po' che non incassavano trecento sterline in così poco tempo. La mia vita usa e getta non era cambiata poi molto. Continuavo a non possedere troppe cose; le usavo e le buttavo, si trattasse di rasoi, spazzolini da denti o vestiti. L'appartamento di Crystal City era praticamente vuoto, a eccezione di tre set di lenzuola, tre di asciugamani e tre jeans: uno pulito, uno indosso e uno a lavare. O per lo meno quella era la teoria, in realtà c'era sempre l'incognita di riuscire a far riparare la lavatrice. Il resto - un secondo paio di stivali e alcune paia di scarpe da ginnastica, qualche camicia, diverse stoviglie e un'accozzaglia di altre cose che avevo comprato in blocco da una vendita televisiva - in realtà non mi serviva. Non ricevevo tutte le sere. E forse era quello il motivo vero per cui avevo comprato tutta quella roba. Giunsi puntuale ai Moorings ma gli altri non erano ancora arrivati. La
signora della reception non aveva ricevuto nessuna chiamata che avvertisse del ritardo. Con il suo telefono chiamai il bungalow ma ottenni solo il messaggio della BT. Carmen s'incasinava sempre con le segreterie telefoniche perché premeva i pulsanti sbagliati. Affidarsi alla BT era con assoluta certezza la decisione più sensata. La dottoressa Hughes entrò nella sala d'attesa con un sorriso da cui si poteva intuire che aspettasse d'incontrare Kelly e non me. «Viene con i nonni.» Le sorrisi. «Forse sono bloccati nel traffico.» Annuì. «Non importa, ci sediamo e aspettiamo, che ne dice? Le andrebbe una tazza di tè? Catherine, puoi occupartene tu?» Non c'era da stupirsi che Kelly si sentisse al sicuro con lei. Sì, era pettinata in modo piuttosto austero, ma in lei c'era un qualcosa, una specie di aura calmante, che rendeva impossibile non rilassarsi in sua compagnia. «Dottoressa Hughes, ho bisogno di parlarle. Temo che le cose siano cambiate.» «Ma certo, signor Stone. Sediamoci.» Sedemmo l'uno di fronte all'altra con il tavolino basso fra noi. Era così protesa verso di me che gli occhiali a mezzaluna sarebbero potuti scivolarle dal naso da un momento all'altro. «Domani Kelly torna negli Stati Uniti, e questo purtroppo sarà l'ultimo incontro.» Non cambiò espressione ma avvertii preoccupazione nella sua voce. «È sicuro che sia la cosa giusta? Lei ha ancora...» La interruppi con un cenno del capo. «Pagherò volentieri gli appuntamenti già fissati e tutto quello che ancora le devo. Sono davvero riconoscente per quello che ha fatto per noi in passato e anche adesso naturalmente, e le sarei molto grato se volesse consigliarci qualcuno in America in grado di aiutarla.» Sembrava sapesse che era inutile continuare a discutere. «Molto bene, signor Stone, comprendo. Si tratta ancora del suo lavoro, immagino.» Erano parole di comprensione e non di accusa. Annuii. Ne avevamo passate parecchie insieme, la dottoressa e io. Tre anni e diverse decine di migliaia di sterline prima, ero approdato alla clinica con Kelly a pezzi. Era come un secchio pieno di buchi, tutto entrava e tutto rapidamente fuoriusciva. Al collegio, prima che andasse ad abitare con Josh, aveva iniziato ad accusare «malesseri» che non riusciva a descrivere o a localizzare con precisione. Kelly peggiorava progressivamente, staccandosi dai compagni, dagli insegnanti, dai nonni e da me. Non parla-
va più, non giocava più; guardava la TV, sedeva imbronciata o singhiozzava. La mia reazione era sempre la stessa: uscivo a comprare del gelato. Sapevo che non era la risposta giusta ma non sapevo che altro fare. E una notte, eravamo nel Norfolk, il suo comportamento era diventato più distaccato e scostante del solito e niente riusciva a scuoterla. Mi ero sentito come un ragazzino che assiste a una rissa fra compagni, saltella agitato ma non sa decidere cosa sia meglio fare: unirsi a loro, cercare di separarli o fuggire. Era stato in quella occasione che avevo montato la tenda in camera sua, fissandola con i chiodi al pavimento, e avevamo fatto finta di essere in campeggio. Dopo alcune ore si era svegliata in preda a incubi orribili. E aveva continuato a urlare fino all'alba. Avevo cercato di calmarla ma mi aveva aggredito in preda a un attacco incontrollabile. La mattina successiva avevo fatto alcune telefonate e avevo scoperto che per ottenere un appuntamento con la mutua occorrevano più di sei mesi, senza nessuna garanzia di ottenere qualche risultato. Altre telefonate, e il pomeriggio stesso l'avevo accompagnata al primo colloquio con la dottoressa Hughes. Comprendevo in parte quali potevano essere le condizioni di Kelly, ma solo in parte. Sapevo di uomini che soffrivano di disordini da stress posttraumatico, ma si trattava di ragazzi adulti che erano stati in guerra. La Hughes mi aveva spiegato che era normale che un bambino attraversasse la fase dell'elaborazione del lutto, ma che a volte, dopo un evento traumatico improvviso, le sensazioni potevano affiorare settimane, mesi, in alcuni casi anche anni dopo. La reazione ritardata ha un nome, PTSD, e i sintomi sono simili a quelli che si associano alla depressione e all'ansia: insensibilità emotiva, sensazione di abbandono, inadeguatezza e disperazione e il continuo rivivere l'esperienza traumatica sotto forma di incubi. A me era capitata la stessa cosa a Hunting Bear Path. La diagnosi della dottoressa Hughes sembrava esatta ma, come scoprii in seguito, quasi tutte le cose che diceva lei suggerivano quell'impressione. Kelly non si era del tutto ripresa dagli eventi del 1997 e non sapevo se ci sarebbe mai riuscita. Aveva visto sterminare tutta la propria famiglia e ci voleva del tempo per riprendersi. Ma era una lottatrice, come lo era stato suo padre, e aveva fatto incredibili passi in avanti. Seguendo la terapia della dottoressa Hughes era passata dall'essere un fagotto di niente chiuso in se stesso all'essere in grado d'interagire con il grande mondo cattivo. La fregatura stava solo nel fatto che il mondo era pieno di sesso, esami, ragazzi e droga, e tutti insieme cospiravano per ricacciarla nel buco nero da cui era faticosamente uscita.
26 Bussarono piano alla porta e la ragazza della reception mise dentro la testa. «Kelly è qui.» Ci alzammo e la dottoressa Hughes riprese l'espressione sorridente di benvenuto speciale. «Dottoressa, non gliel'ho ancora detto e vorrei essere io a farlo, più tardi.» Kelly entrò e si scusò. «Il tassista non conosceva la strada, ha dovuto perfino guardare sullo stradario.» Carmen e Jimmy erano rimasti nell'ingresso e da quanto sentivo Jimmy era sotto processo. Carmen, non si sa come, stava riuscendo nell'impresa di addossare a lui la colpa dell'incompetenza dell'autista. Sbirciai il nuovo cerotto che Kelly aveva sul dito. «Saliamo, Kelly?» La dottoressa Hughes le indicò la strada con un braccio. «Abbiamo ancora un po' di tempo.» Kelly sembrava felice. Mi guardò interrogativa. «Ti ritrovo qui?» Annuii. «Ci vediamo fra un po'.» Mentre usciva dalla stanza accennò un sorriso. Non capii se era contenta di vedermi o se semplicemente era felice di fuggire da quei due per quasi un'ora. Jimmy sembrò sollevato quando mi vide. Da sempre commetteva l'errore di pensare che la salvezza stesse nel numero. Parlai per primo. «Vi va di andare a prendere una tazza di tè dietro l'angolo? Non c'è motivo di aspettare qui.» Jimmy fu subito d'accordo, ma entrambi fummo costretti ad attendere la decisione di Carmen. Dopo un po' ci avviammo nella principale e trovammo un tavolo libero in un bar che si definiva «francese» ma era gestito interamente da croati. «Sono arrivate delle lettere per me?» Carmen scosse la testa mentre studiava il menu. «No, ma siamo usciti prima della posta. È così lontano, come sai. E quello stupido non sapeva neanche dov'era. Ma non devono superare qualche esame? Guarda che prezzi, una sterlina e cinquanta per una tazza di tè.» Jimmy ringraziò con un cenno la cameriera che aveva preso le nostre ordinazioni. Riprendemmo tutti lo studio dei menu, la conversazione era finita. Ci salvò la ragazza che tornò dopo qualche minuto. Posò in malo modo i
due tè e il mio cappuccino. Presi due compresse di antibiotico dalla confezione, gesto che non sfuggì all'occhio attento di Carmen. «Sento un raffreddore in agguato», dissi. «Cerco di respingerlo prima che arrivi.» «Basta che non lo respingi verso di me. Sono appena uscita da un malanno. Ma forse si è trattato più di influenza, vero, Jimmy?» Jimmy si accese. «Dev'essere necessario solo per i taxi neri, il nostro era un minicab.» «Sarà, ma anche loro dovrebbero sostenere un esame.» Si voltò verso di me e mi dedicò un «a parte» molto teatrale. «Sta diventando sordo, ma non vuole ammetterlo. Gli ho detto di farsi vedere dal dottore, ma, no...» Ingoiai la prima pasticca con un sorso di schiuma del cappuccino. Certo che era sordo. Lo sarei stato anch'io, al suo posto. «Forse arriverà un'altra lettera per me», dissi. «Niente d'importante, passerò a ritirarla a lavoro finito.» Presi ancora un po' di schiuma del cappuccino per far scendere la pillola. Non c'era motivo di ritardare ancora. Era giunto il momento di andare al punto. «Carmen e Jimmy, ho brutte notizie. Kelly deve tornare in America domani.» «Ma...» «Lo so, lo so, solo che il lavoro durerà più del previsto. La dottoressa Hughes si è attivata per cercare qualcuno in America che possa continuare a seguire Kelly. Ed è una cosa buona.» «Non credo che tutti questi cambiamenti siano un bene...» «Vi chiedo solo», interruppi qualsiasi cosa stesse per dire, «di cambiare il biglietto. Lo farete?» «Ma non abbiamo tutti quei soldi.» Nessun problema era abbastanza microscopico da sfuggire al radar di Carmen. «Voi lo cambiate e io provvedere a pagare l'eventuale differenza con la carta di credito, li chiamerò e fornirò tutti i dettagli. Solo che non ho il tempo di organizzare le cose e poi il biglietto lo ha lei. Io inizio a lavorare a mezzogiorno.» «Cosa dobbiamo fare?» «Hai una penna?» Ne trovò una nella borsa e io scrissi Londra Heathrow Baltimora, American Airlines; domenica 11 su un tovagliolino. «Non hanno bisogno di sapere altro», aggiunsi. «Date il biglietto e loro faranno il resto. Chiamate l'American, troverete i numeri di telefono sul biglietto. Se non hanno disponibilità, prenotate un volo per Baltimora con qualsiasi compagnia, per domani. Ogni agenzia di viaggio può farlo. Dite
loro che, quando avranno fatto la prenotazione, io telefonerò per sistemare tutto.» Stavo eliminando ogni ostacolo prima che Carmen lo inquadrasse, ma nonostante ciò lei aveva ancora l'espressione di chi ha ingoiato una vespa. «Quando pensi di dirglielo? Si agiterà ancora di più, povera piccolina.» «Lo so. Fra poco.» Quasi inconsapevolmente controllai il telefono e Carmen fu presa dall'ansia. «Devi già andare?» Ero tentato di rispondere di sì, per liberarmi di lei, ma il cappuccino era buono. E poi Kelly voleva bene alla nonna nonostante tutti i suoi difetti. Avevo spedito gli antibiotici per loro in caso fosse scoppiata la tragedia, dopo che Kelly era partita verso la salvezza. Sollevammo tutti e tre le tazze per bere in un pesante silenzio. Jimmy giocherellava con il cucchiaino e Carmen guardava ora il traffico che scorreva all'esterno ora me, come se avesse qualcosa da dire ma non riuscisse a trovare le parole. Fatto decisamente insolito per lei. Un paio di minuti dopo, finito il cappuccino, estrassi il portafoglio. «Oh, no, ci pensiamo noi, vero, Jimmy?» Sorrisi. «Grazie. Forse è meglio se...» «Nick?» La mano di Carmen si posò sul mio braccio. «C'è qualcosa che vorrei chiederti. Prima che tu vada. Nel caso, sai...» Stava ancora annaspando. Oh, cazzo, no. Per favore fa' che non mi chiedano soldi. «Io... be', noi, Jimmy e io... vorremmo chiederti una cosa. Riguarda Kevin.» Fece una pausa come per schiarirsi la voce. «Non ci ha mai detto niente a proposito del suo lavoro, ma crediamo di sapere. Qualcosa di simile a quello che fai tu, vero?» Domanda difficile. Se Kev aveva scelto di non parlarne, perché avrei dovuto farlo io? Ma che cazzo. «Sì, in un certo senso.» «Per il governo?» «Sì.» Carmen sorrise e Jimmy sembrava sul punto di scoppiare per l'orgoglio. «Pensavamo che fosse così.» Poi il sorriso svanì. «Nick, è questo che ci fa preoccupare tanto. Ascolta, abbiamo avuto le nostre divergenze, ma sappiamo che vuoi molto bene a Kelly e che vorresti solo il meglio per lei. Sappiamo questo e siamo anche consapevoli che il tuo non è il tipo di lavoro cui si può dire no quando si viene chiamati. Non è facile per te destreggiarti fra tutti gli impegni.»
Aprii la bocca, ma Carmen non aveva ancora finito. «Un'altra cosa, Nick. È piuttosto imbarazzante per noi dirla, perché siamo i nonni, ma devi capire, che... la verità è che non ce la sentiamo di prenderci cura di lei, non più di due o tre giorni per volta. L'amiamo teneramente, è ovvio, ma è un impegno troppo duro. Non riusciamo a sopportare di vederla stare così male, aver bisogno dello psichiatra e tutto il resto. Se succede qualcosa a te e a Josh e noi sappiamo che da soli non possiamo farcela, allora cosa succede? E Kelly, che sarà di lei se ti succede qualcosa? Lo so che Josh farà del suo meglio, ma come farà Kelly a sopravvivere, se sarà costretta a rivivere tutto una seconda volta? So che pensi che noi siamo solo due vecchietti rimbambiti, ma siamo davvero preoccupati. Non ci diamo pace.» Adesso toccava a me distogliere lo sguardo. «Credo che non sia facile per nessuno di noi, o sbaglio? Ma le cose andranno meglio. Kelly inizierà il trattamento in America e fra due o tre settimane sarò di nuovo con lei. E non appena possibile torneremo a trovarvi. Sarà come se non fosse successo niente di tutto questo.» Mi guardava speranzosa. Non sapevo che cosa fare, allora mi alzai. Sorridevano entrambi, a disagio. Poi Jimmy balbettò: «P-prendiamo... un taxi nero per tornare, così saprà la strada». Era giunto il momento di lasciarli. «Sapete cosa facciamo? Voi due restate qui e io vado a prendere Kelly, d'accordo? Così avrò un po' di tempo per parlarle. Lascio qui i sacchetti.» Mi sorrisero entrambi, poi mi voltai per uscire. Mai, con la sola eccezione di Kelly, avevo visto persone così smarrite. 27 Non c'era un modo facile per dirglielo. In passato le avrei semplicemente mentito, adesso, non avrei saputo spiegare perché, non era più possibile. Entrai nella sala d'aspetto e controllai di nuovo il segnale, poi sedetti con una rivista. Kelly arrivò dopo poco insieme con la dottoressa Hughes. Convinta di rivederla il martedì successivo, la salutò in modo quasi distratto. «Dove sono i nonni?» «Al bar dietro l'angolo a prendere un tè. Ti andrebbe?» Uscimmo nel sole primaverile e cercai di prepararmi psicologicamente, ma Kelly mi batté sul tempo. «Nick, posso parlarti di una cosa?» «Certo. A patto che non si tratti di qualcosa di orribile che mi riguarda.» Per un attimo un sorriso le illuminò il viso, poi tornò a farsi seria. «Vo-
glio dirti di cosa abbiamo parlato con la dottoressa Hughes. È così in gamba, Nick Le posso parlare di tutto e lei sembra sempre capire tutto. È un po' come parlare con Vronnie, solo che i suoi consigli sono sempre validi.» Le presi la mano e la strinsi. Probabilmente pensò che lo facessi perché ero contento di lei o qualcosa di simile. Mi guardò negli occhi. «Il fatto è, Nick, cioè, non sempre, ma mi sono provocata il vomito.» Riuscii a resistere all'urgenza di distogliere lo sguardo. Non volevo pensasse che ero disgustato di lei o intuisse che lo sapevo già. Per una sola persona provavo disgusto, me stesso. «Davvero? Perché l'hai fatto?» «Allora, lo sai che faccio ginnastica, vero? Quando siamo tutte insieme ci contiamo le costole l'una con l'altra e se contarle risulta difficile vuol dire che c'è troppo grasso. Anche Vronnie frequenta lo stesso corso e un giorno è riuscita a pizzicarmi un fianco. Ciccia. La cosa mi ha terrorizzato. La sera stessa, dopo cena, ho vomitato. È stato orribile, ma poi l'ho fatto di nuovo e non è stato tanto male, e adesso non è per niente difficile.» Non sapevo cosa dire. Era faticoso credere alla sequenza degli eventi. Ero come Carmen: annaspavo per trovare le parole giuste. «Pensi di dirlo alla nonna e al nonno?» Guardò per terra e scosse la testa. «Non credo proprio, tu lo faresti?» «Non penso. E a Josh?» «Secondo te?» «So che probabilmente non vorresti farlo, ma lui ti vuole bene e ce la mette tutta per aiutarti.» «Sì, questo penso che sia vero.» A quel punto feci un bel respiro. «Kelly, c'è un grosso problema...» Sentii la sua mano irrigidirsi. Conosceva già il seguito. «Devo andare via. Sì, si tratta di lavoro. Ci ho pensato e credo che la cosa migliore per te sia tornare prima del previsto. Josh e gli altri rientrano stasera tardi, così se parti domani...» Ritirò la mano. «Ma devo vedere la dottoressa Hughes martedì, non lo sai?» «Le ho già parlato, sa che parti domani. Le ho chiesto di non dirti niente perché volevo essere io a farlo. Ascolta, per te è meglio tornare subito in America e iniziare con il dottore che ci indicherà lei.» «Ma io voglio tornare da lei martedì.» Le tremava la voce. Mi guardò. Le lacrime le riempivano gli occhi, poi cominciarono a scenderle sul viso. «Voglio vederla, ho bisogno di vederla, lei è l'unica che...» «È meglio così, credimi. In questo modo cominci prima con la persona
che lei ci raccomanderà.» «Ma come faccio a guarire se tu continui a comportarti in questo modo con me?» Scuoteva la testa da parte a parte con grande tristezza. «Dici di voler stare con me, ma non lo fai. Tu non capisci...» «Sii onesta, come posso capire se non mi dici quello che ti succede?» Non piangeva più, il corpo aveva smesso di tremare. «Adesso lo sto facendo, non te ne sei accorto? Eppure vai via lo stesso.» Merda. Aveva ragione. «Ascolta. Andare a casa adesso significa solo che comincerai prima con il nuovo terapista. Non ci saremmo fermati a lungo qui, lo sai. La dottoressa Hughes è stata molto utile, te ne rendi conto? Cioè, guarda quello che sei riuscita a dirmi. Adesso abbiamo una base su cui costruire quando saremo a casa. Non trovi che sia un bene?» Bastardi! Il cellulare squillò e Kelly ritrovò il tono sarcastico. «Pronto, il lavoro chiama. Pronto, il lavoro chiama.» Premetti due volte il tasto. Suzy era per strada. «Ha telefonato e dobbiamo incontrarlo fra un'ora e quarantacinque minuti.» Risposi allegro. «Okay. Ti richiamo fra poco.» Era molto agitata. «Hai capito? Esco adesso per andare da Starbucks. Devi venire... non farmi il bidone.» «Sì, ho capito. Ti chiamo fra un minuto.» Chiusi la comunicazione e guardai Kelly. «Lo so, lo so. Sono costretto ad andare via subito. Mi dispiace ma non posso evitarlo. Ti chiamo più tardi.» Eravamo fermi sul marciapiede di fronte al bar. «La nonna e il nonno sono lì dentro.» Aprii la porta ed entrammo. Kelly parlò per prima. «Adesso Nick deve andare a lavorare. È così, vero, Nick?» La guardai. «Continueremo in seguito il nostro discorso... quello che stavamo facendo. D'accordo?» Fece un piccolo cenno di assenso e accettò il mio abbraccio. «Okay.» Non appena fui fuori con i sacchetti mi attaccai al telefono. «Suzy, passami a prendere. Ci vediamo in Sloane Square alla fermata dell'autobus davanti a WH Smith. Ce la fai?» «Vedi di esserci.» Chiuse la comunicazione. M'incamminai verso la piazza cercando di convincermi di aver fatto la cosa giusta. Sai la novità. Era tutta una vita che lo facevo, ma non ci riuscivo quasi mai. 28
1Suzy era in ritardo. Non avrebbe dovuto metterci tanto. La aspettavo appoggiato alla vetrina di Smith, i sacchetti ai piedi, concentrato su tutti i veicoli che giungevano da destra nella strada a senso unico che correva intorno alla piazza. Mentre cercavo d'individuare Suzy prendevo mentalmente nota di tutte le donne al volante più o meno della sua età e del tipo di macchina che guidavano, colore, numero di targa, qualsiasi cosa pur di non pensare a Kelly. Controllai di nuovo il Traser e presi il telefono della Ditta. «Dove cazzo sei?» «Ci sono quasi, due minuti.» Sul mio telefono composi il numero di Josh, chissà, forse era rientrato prima. Se era così, stavo svegliando tutta la casa, c'erano cinque ore di differenza. Mi rispose la segreteria. Individuai per prima la Peugeot 206 argento metallizzato, un affarino lucido appena uscito dall'autosalone, poi i capelli di Suzy che ondeggiavano mentre voltava la testa da una parte all'altra per cercarmi. Mi vide e sterzò, la destra sul volante, la sinistra sul cambio per scalare. Un taxi suonò e si spostò per evitarla. Feci un passo avanti e la salutai con la mano, poi tornai indietro a prendere i sacchetti. Aprii la portiera con un sorridente «ciao, come va?» e salii buttando i sacchetti dietro. Lei rispose con un classico «che piacere vederti!» «Traffico del cazzo.» Masticava con forza la gomma. «Dobbiamo darci una mossa.» Rientrammo nel flusso del traffico che scorreva in senso orario intorno a Sloane Square e immediatamente dopo eravamo già fermi al semaforo. «Nick, telefoni al capo, per piacere? Digli cosa sta succedendo. Ho aspettato perché avevo paura che volesse parlarti.» «E non puoi farlo tu?» «Che... e infrangere la legge?» Staccò entrambe le mani dal volante. «E dai, lo so che in realtà ti sta simpatico.» Presi il telefono dal marsupio e composi il numero. «Pronto!» gracchiò Signorsì. «Sono Nick.» «Allora?» «Ci ha fissato un incontro fra meno di un'ora. Stiamo...» «Chiama quando avrete finito.» E chiuse. «Fatto, hai visto?» Suzy scrollò la spalla sinistra e sollevò una mano. «Non è stato doloroso o sbaglio?»
Ero troppo preso a riporre il telefono nel marsupio per poterle rispondere. «È perché ho sempre ragione, tutto qui. Comunque, cosa ti ha detto?» «Di richiamare dopo per il rapporto.» Guardò l'orologio. «Ho portato tutta l'attrezzatura, le sacche per la missione sono nel bagagliaio. Ho pensato che fosse meglio averle con noi piuttosto che nell'appartamento. Ancora il passato che ritorna, eh?» Si riferiva alle cose che portavamo sempre in macchina quando partivamo in missione con il Det: tenuta completa in Gore-Tex, stivali inclusi, indumenti per climi caldi, stivali di gomma, barrette di Mars avvolte nella pellicola da cucina per diminuire al minimo il rumore e un'arma. Molti sceglievano il G3, fucile d'assalto 7,62 a calcio fisso che ti consente di sparare con precisione e a lungo raggio, preferibile ai modelli pieghevoli che tendono a perdere l'allineamento. Sarebbe stata l'arma che avrei scelto per quel lavoro, ma le SD nel bagagliaio mi andavano benissimo. Usciti dalla piazza ci dirigemmo verso est. Quando passammo davanti alla stazione Victoria, Suzy fece un cenno con la testa. «Guarda lì, sono di nuovo al lavoro.» Parcheggiate poco più avanti lungo la strada, due auto della polizia prive di scritte. I due occupanti erano abbastanza disinvolti ma un raggio di sole faceva luccicare i lampeggianti azzurri nascosti dietro le griglie in plastica dei radiatori. Accesi la radio e ascoltai un reportage telefonico sul dopoguerra in Iraq. Suzy abbassò il finestrino. «C'eri alla prima guerra del Golfo?» Sputò la gomma. «Con il reggimento, intendo?» «Sì, a caccia di Scud e altro. È stata l'ultima volta che ho indossato una NBC. E anche allora non è che capissi bene cosa farne.» Richiuse il finestrino e scoppiò a ridere. «Ma dài, figurati se non sai come si usano. Vuoi che ti...» «Lo so... in un certo senso. Non che fosse poi così importante, laggiù. Secondo i miei calcoli, se avessi dovuto indossarne una mentre ero sul punto di essere colpito dall'antrace sarebbe stato come chiudere la stalla dopo che i buoi erano fuggiti.» «Però funzionano.» «Certo, ma quei cazzo di affari durano un giorno solo. L'unico beneficio che sia mai riuscito a trarre dalla mia è che di notte mi riparava dal freddo. Ma questa volta», portai una mano sopra la testa, «mi copro fin qua con carbonio e gomma.» Venti minuti dopo trovammo parcheggio a Smithfield. Infilai monete nel
parchimetro fino al massimo delle due ore, mentre Suzy riponeva i miei sacchetti nel bagagliaio e chiudeva l'automobile. La Congestion Charge non era un problema perché la ditta di copertura pagava un abbonamento annuale, ma se ci portavano via la macchina la giornata era rovinata. Quei ragazzi ti sbattono giù una multa e alla velocità del fulmine arriva il carro attrezzi. Entrambi controllammo l'interno della Peugeot prima di allontanarci. «Come l'altra volta?» Annuì e prese un'altra gomma dalla borsa, io composi il suo numero per verificare il collegamento. Inserì l'auricolare e raggiunto Starbucks la salutai con la mano e con un sorriso, e lei entrò. Mancavano quindici minuti all'appuntamento. Il pub non era affollato come la volta precedente. Presi una Coca e mentre andavo a sedermi vicino alla finestra sentii nell'auricolare il rumore della macchina dell'espresso. Sopra la musica dolce di un violino udii la voce di Suzy ordinare due cappuccini. Circa un minuto dopo era in linea. «Ciao, mi trovo di fronte all'ingresso principale, circa a metà sulla sinistra.» «Anch'io sono in posizione.» Quando mancavano tre o quattro minuti un viso familiare spuntò dalla stazione e svoltò a sinistra nella mia direzione. «Pronto, tempo, Blu è arrivato, stessa giacca e jeans. Raggiunge Turnmill.» «Okay, fantastico, allora ci vedremo presto.» Blu attraversò all'incrocio e mentre passava guardò dentro il pub. In quel momento le cose si fecero ancora più interessanti. «Ci siamo, Suzy. Il nostro uomo è uscito dalla stazione, verso di me, stesso impermeabile, lo ha indosso. Grigio lo segue, camoscio su jeans, attraversa la strada. Entrambi verso di te.» «Sì, ricevuto, ho appena visto passare Blu. Ci vediamo presto.» La fonte oltrepassò il pub e devo dire che era piuttosto brava a confondersi fra la gente. «Mi hanno appena superato.» «Ricevuto.» Suzy parlava come se stesse chiacchierando con la mamma dei prezzi di Sainsbury's. Sentivo ancora la musica del violino e la voce di un italiano che blaterava forte al bancone mentre altri ordinavano caffè. Poi nella sua voce intuii un filo di preoccupazione. «Perché non vieni ora a bere il cappuccino?» Forse aveva notato qualcosa. «Stai bene?» «Non mi fido di lui, nient'altro.»
29 Lasciai il pub accompagnato dalla voce di Suzy che parlava con la fonte. «Ciao, non mi aspettavo di rivederti.» Li immaginavo scambiarsi sorrisi di sorpresa. E mentre passavo davanti alla vetrata udii rumore di sedie che venivano spostate. Guardai a sinistra. I due erano seduti al tavolo che Suzy mi aveva descritto. Lei su una sedia in pelle, lui appollaiato su uno sgabello di fronte con le spalle verso di me. Continuai per qualche metro e svoltai a sinistra nel vicolo. Raggiunta la piazzetta feci in modo da tenere lo sguardo fisso in avanti. Con la coda dell'occhio individuai Blu, poco oltre in diagonale sulla destra. Era seduto su una panca di metallo. Mangiava un sandwich vicino a un gruppo che si godeva la pausa pranzo. Entrai dalla porta a vetri e Suzy mi sorrise subito. Le due donne vicino a lei sollevarono con curiosità la testa per vedere chi era entrato, poi ripresero a spettegolare. Sedetti accanto a Suzy e davanti alla fonte. Lei prese il comando. «Il motivo per cui siamo qui è lo stesso dell'altra volta, d'accordo? Se ci sono problemi noi usciremo dalla porta posteriore e io voglio che tu...» Stava indicando con un dito la fonte, ma la interruppi prima che finisse la frase: «No, usciamo noi dalla porta principale e lui esce da quella sul retro». Era troppo in gamba per chiedere subito spiegazioni. Lo avrebbe fatto più tardi. «Okay, allora faremo così.» Poi con un sorriso, come se stesse chiedendo di passarle lo zucchero, Suzy disse: «Allora, cos'hai per noi?» Si piegò in avanti e si portò il cappuccino alle labbra. Io la imitai. Anche la fonte si piegò in avanti e iniziò a giocare con la bustina dello zucchero. «La ASU... so dov'è.» Io dissi: «Ha quello che vogliamo?». «Certo.» Restammo in attesa che continuasse, ma non accadde nulla. Con le sue grandi mani continuava a torturare la bustina sul tavolo. Cercai d'immaginare che lavoro facesse per vivere. Suzy si stancò subito. «Allora? Dov'è?» Lui sollevò uno sguardo penetrante. «Perché mi avete seguito ieri sera? Potevate chiedermelo.» «Perché avevi due uomini con te se lavori da solo? Chi segue chi?»
Quella gli piacque. Pensieroso, si mise più comodo e prese un sorso di caffè. «Il terrorismo con cui avete a che fare adesso, e che io conosco, non è fatto di attacchi tattici finalizzati a far sedere qualche governo a un tavolo di trattativa. Ma a uccidere quante più persone possibile. Dovete affrontare uomini e donne che cinque volte al giorno pregano per ottenere una morte degna.» Fece una pausa, cercava l'effetto. «'Voi uccidete noi, noi uccidiamo voi.'» Sollevai le mani. «Ehi, ascolta, lascia perdere.» «Voialtri non sapete niente. Siete tutti agitati, preoccupati solo per l'11 settembre. Non comprendete la storia, parlate dei membri di Jihad come se abitassero in un mondo dove il tempo è compresso, come se tutti i morti e tutti i torti che hanno dovuto subire per secoli potessero essere spazzati via con pochi anni di martirio. Questo è solo l'inizio della terza ondata...» «Dove sono?» Suzy non ne poteva più, esattamente come me, e lo fece capire. La cosa gli piacque. Chiuse gli occhi. «Sono in una città che si chiama King's Lynn.» Suzy sembrava sorpresa. «Cosa? Nell'East Anglia?» Irritato, curvò le spalle e ricominciò con lo zucchero. «E come faccio a sapere dov'è? Io so solo che loro sono lì.» «E non sai altro?» intervenni. «È un posto grande.» Roteò gli occhi. Erano talmente iniettati di sangue che sembravano sul punto di schizzare dalle orbite. «La casa è in Sir Lewis Street. Numero otto-otto.» «Quanti sono?» «Non so nient'altro. Niente.» Ero sempre proteso in avanti. «Sono armati?» «Basta. Vi ho detto tutto quello che so.» Suzy aveva un'altra domanda. «Come hai saputo di King's Lynn?» Non rispose, si alzò, borbottò parole di saluto per salvare le apparenze e uscì dalla porta sul retro. Feci un cenno verso di lui. «Quando sono entrato Blu era là.» Prese una penna dalla borsa e annotò i dettagli di King's Lynn, poi uscimmo dalla porta principale diretti all'auto. Toccai la borsa. «Forse sarebbe meglio fare rapporto.» «Perché non lo fai tu?» «Non posso. Il mio oroscopo consiglia di ridurre al minimo le comunicazioni con le mezze seghe.»
Senza smettere di camminare per Smithfield accese e chiamò. «L'incontro è appena terminato.» Pausa. «King's Lynn.» Un'altra pausa. «Sì, giusto. Otto-otto Sir Lewis Street.» Scosse la testa. «Non lo so, forse quattro o cinque ore?» Annuì. «Sì, signore.» Mostrai tre dita e articolai tre. «Signore, dovremmo essere sul posto in tre ore.» Passò un po' prima che riuscisse a inserire un'altra parola. «Sì, signore, certo, sarà fatto.» Le feci il gesto di passarmi il telefono. «Signore, Nick vuole parlarle.» Me lo porse. «Che c'è?» «Cosa sappiamo sulla fonte? Possiamo fidarci delle sue informazioni, possiamo fidarci di lui? Secondo me sono palle. Solo ieri continuava a ripeterci quanto fosse difficile. Perché dobbiamo precipitarci lassù, per poi scoprire...» «Perché non importa quanto siano affidabili le informazioni, o se lui lo sia o no, non abbiamo alternative. Quindi, finché non verrà presa la decisione d'informare gli altri, tu devi precipitarti ovunque io ti ordini di andare. Hai capito?» «Sì.» Chiuse la telefonata. «Allora, sai dov'è King's Lynn? Non ti facevo un ragazzo del Norfolk.» Ignorai la domanda e mentre andavamo alla macchina le raccontai quello che aveva detto Signorsì. Si fregò le mani. Sembrava eccitata. «Allora, dove ci dirigiamo?» «Comincia a prendere la M11.» Raggiunta la North Circular ci fermammo a una stazione di servizio a prendere dei panini e una Coca per me e quattro mele e uno yogurt per lei. Dopo un po' eravamo sull'autostrada che portava a Cambridge. Passai un po' di tempo a ragionare sul perché la ASU avesse scelto il Norfolk e di colpo tutto mi fu chiaro. «Se Facciadiculo ha detto la verità, King's Lynn potrebbe avere un senso.» Distolse gli occhi dalla strada e mi guardò per qualche secondo attraverso le lenti azzurrine degli occhiali da sole. «Da lì i treni arrivano direttamente a Liverpool Street e a King's Cross. Ottima base alla giusta distanza considerato lo stato d'allarme che c'è intorno a Londra.» «Potrebbero preparare tutto a King's Lynn, prendere il treno per King's Cross e iniziare a spruzzarne un po' lungo la strada?» Suzy mise la freccia
per superare un camion. «Ma non credi che qualche malese, cinese o quello che sono potrebbe farsi notare in un posto del genere?» E io che ne sapevo? «È un porto e ci sono un paio di locali per cibo da asporto. A Facciadiculo conviene che la dritta che ci ha dato sia quella giusta.» Uscimmo dall'autostrada e prendemmo la strada che si snodava nella monotona pianura della contea di Cambridge. Estrassi dai jeans il blister e presi altre due capsule, stavolta accompagnate da Coca-Cola tiepida, e le offrii a Suzy. Scosse la testa. «Le ho prese prima di passarti a prendere. Ascolta, forse Facciadiculo conosce la ASU, forse ha preso un treno per andare su... forse è per quello che sta a St Chad's? Comunque... se ha ragione, è un lavoro che si fa in fretta, così tu puoi risolvere i tuoi problemi e io divento quadro permanente, che ne dici?» Annuiva fra sé mentre io infilavo in tasca le medicine. Poi fu chiara la decisione di smettere di parlare di Facciadiculo. «Allora, come si chiama? Quanti anni ha?» Ignorai la domanda e mi misi comodo, ma lei non aveva nessuna intenzione di mollare. «E dài, so che muori dalla voglia di parlarmene. E poi, se Facciadiculo è nel giusto, magari domani è l'ultima volta che ci vediamo.» Tornò a guardare la strada per darmi un po' di tregua. «Kelly, si chiama Kelly e ha quattordici anni.» «Non è tua figlia?» «No, mi occupo di lei, se così si può dire.» «Poteva andarle peggio, suppongo.» Un cartello passò con un sibilo - KING'S LYNN 67 - e, dopo quelli che a me sembrarono trenta chilometri, un altro con su scritto, 60. In alcuni punti la strada era sopraelevata con canali su entrambi i lati, vie d'acqua che drenavano la zona paludosa e chilometri e chilometri di terreno nerissimo coltivato a patate o carote o qualcosa di simile. «Allora, padre adottivo, patrigno, o qualunque cosa tu sia, cosa si prova a essere responsabili di qualcuno?» «Si sta bene.» «Vuoi dire che il ruolo di genitore è... è positivo?» Spinsi indietro il sedile per allungare le gambe. «Ecco il mio piano.» Mi girai a guardarla. «Prima cosa compriamo una cartina della città e scopriamo dov'è questo posto, poi entriamo in città e diamo un'occhiata, d'accordo? A che ora fa buio?»
Il telefono squillò prima che potesse rispondermi. Glielo passai. «Tieni, io sono in zona franca per le mezze seghe, ricordi?» Premette il pulsante e lo avvicinò all'orecchio. «Pronto? Sì, signore, sono sul canale sicuro.» Mi guardò e roteò gli occhi. Non sarebbe riuscito a parlarle se così non fosse stato. Ci fu una pausa. «Oh, no, sta guidando, signore.» Annuì in risposta a qualsiasi cosa le stesse dicendo, poi mi guardò con espressione seria. «Sì, signore, lo farò.» Con il pollice chiuse la comunicazione e mi restituì il telefono. «L'Immigrazione e la polizia locale tengono sotto tiro l'indirizzo da due anni.» «Ha intenzione d'intervenire? Di far cessare la sorveglianza o cose del genere?» «No. Azione disconoscibile, o l'hai dimenticato, ragazzo del Norfolk?» «Stronzo del cazzo.» Annuì lentamente. «Mi dirai mai perché ce l'hai tanto con lui?» Eravamo arrivati alla periferia di King's Lynn e Suzy si fermò a una stazione di servizio BP. S'inizia sempre una missione con il pieno e, comunque, avevamo bisogno della piantina. Mentre tornavo alla macchina con la cartina aperta fra le mani potevo sentire la brezza del mare del Nord. King's Lynn si trova nell'angolo in basso a destra della baia di Wash. È attraversata dal Great Ouse e forse è navigando quello che le navi raggiungono le banchine. Attraversammo una strada circolare punteggiata di negozi di fai-da-te, di giganteschi saloni di mobili e attrezzature elettriche, inframmezzati da qualche sparuto franchise di hamburger e mentre seguivamo i cartelli che indicavano il centro città le cose peggiorarono sensibilmente. Era una triste mescolanza di costruzioni in cemento anni '70 e edilizia popolare dei primi del Novecento in mattoni rossi. Il posto aveva tutta l'aria di avere un urgente bisogno di una profonda raschiata e un paio di mani di buona pittura. Parecchi negozi erano chiusi con assi di legno. Oltrepassammo un'immensa zona scoperta adibita a parcheggio fiancheggiata dal muro in cemento incolore di un piccolo negozio e alcune case cadenti in stile georgiano con la vernice scrostata. Suzy sembrava depressa almeno quanto me, contraeva il viso in smorfie assortite e scuoteva la testa masticando a maggiore velocità la cicca alla nicotina quando superammo un gruppo di tre mamme adolescenti con passeggini e capelli biondi malamente decolorati. Restammo sull'arteria principale che collegava la città alla tangenziale. Controllai la cartina. A quel punto non eravamo troppo lontani da Sir Le-
wis Street. Alla nostra sinistra comparvero immense cisterne per lo stoccaggio di carburante, metà dipinte e metà arrugginite. «Ci serve Loke Road, sulla nostra destra.» La vedemmo entrambi. Eravamo prossimi all'ingresso del porto e, abbandonando la principale, svoltammo a destra, in una vasta zona desolata. «Siamo quasi in Sir Lewis, oltre il torrente, sulla sinistra.» Mentre superavamo i cortili posteriori delle case di Sir Lewis, fila dopo fila di case «due-su due-giù» in mattoni rossi prese di peso da Coronation Street, Suzy sembrava ancora più depressa. Continuammo fino a superare la casa bersaglio e Suzy continuava a lamentarsi: «È così maledettamente senz'anima». Guardai ogni stradina che separava le case fra loro, vidi biancheria stesa ad asciugare in quasi tutti i cortili e bidoni della spazzatura ricolmi e schifezze sulla strada. Negli anni '60 qualcuno era diventato ricco convincendo i proprietari a cacciare un pacco di soldi in rivestimenti in pietra e acciottolati. C'erano tantissimi cartelli VENDESI piantati di fronte alle case, e anche l'obbligatorio disco Sky, e nessuna delle auto parcheggiate nella stretta stradina aveva sulla targa un codice d'immatricolazione superiore alla J. Oltrepassammo un emporio di quartiere, un'insegna dipinta a mano di una parrucchiera e un pub. Poi, dopo circa un minuto, fummo circondati da case comunali anni '50 e da appartamenti a un piano. Svoltammo a destra in direzione della stazione. «Parcheggiamo lassù e torniamo indietro a piedi.» Se si parcheggia in una zona abitata, tutti si aspettano che tu entri in una casa nelle vicinanze. Di colpo i cartelli stradali svanirono ma riuscimmo comunque a raggiungere la stazione, un vecchio edificio in stile vittoriano in mattoni rossi e vetro che aveva accanto un nuovissimo supermercato Morrisons e un negozio di abbigliamento della catena Matalan. Suzy s'infilò nel parcheggio di Morrisons. Seduti in macchina consultammo la cartina per decidere come muoverci. 30 «La cartina è piuttosto vecchia.» Indicai Morrisons. «Ma noi adesso ci troviamo qui, in questa zona non edificata. Il bersaglio è a una decina di minuti a piedi verso nord.» Sir Lewis Street faceva parte di una griglia di sei isolati di case a schiera con terrazza, disposti su tre strade, ognuna delle quali era lunga circa due-
centocinquanta metri e parallela alle altre, intersecate nel mezzo da Walker Street. Alle spalle aveva il torrente ed era appena più lunga delle altre due. L'area abbandonata dilagava su tutta la superficie compresa fra il torrente e la strada principale. Suzy reagì con una smorfia. «Ma come si può sopravvivere in un luogo simile? Odio questi posti del cazzo.» Mi strinsi nelle spalle. «Non sempre le persone hanno facoltà di scelta.» Elaborammo una strategia per il sopralluogo a piedi. Non sapevamo con esattezza dove si trovasse la casa bersaglio. A giudicare dalla cartina la strada era senza uscita. Suzy strappò un angolo e lo arrotolò per farne una specie di bacchetta per indicare quali sarebbero state le nostre mosse. «Se percorriamo la Loke in giù, fino ai negozi davanti ai quali siamo passati in macchina, e poi svoltiamo a destra in una traversa, dovremmo riuscire a raggiungere il lato senza uscita di Sir Lewis. Arrivati a quel punto, possiamo percorrere tutta la strada all'indietro fino alla Loke.» «Affare fatto. Okay. Copertura. Siamo qui per qualche giorno di vacanza. Stavamo facendo una passeggiata ma ci siamo persi e adesso stiamo cercando la stazione.» Suzy chiuse a chiave. Controllò due volte tutte le portiere e si accertò che l'attrezzatura nel bagagliaio non fosse in vista. Il parcheggio era pieno di auto e carrelli. Suzy e io camminavamo affiancati diretti a un piccolo varco che portava all'edificio principale. Suzy fece scivolare un braccio sotto il mio e cominciò a commentare allegramente la marca e il colore delle auto che superavamo. Qualsiasi cosa pur di sembrare naturali fra la gente, almeno da lontano. I residenti avevano fatto del loro meglio per personalizzare le case comunali e ciò sembrò irritare ancora di più la mia collega. Alcune abitazioni esibivano leoni di pietra sui pilastri del cancello, altre gnomi seduti sui gradini d'ingresso o intenti a pescare in piccoli laghetti del cortile, altre casette per gli uccellini a forma di mulino a vento, quelle più di lusso una tettoia per la macchina. Suzy ammirò in modo particolare alcuni mattoni smossi in un muro accanto a un palo del telefono. «Sarà la nostra DLB. D'accordo?» Dead Letter Box, casella postale senza contatto, una buona idea. Annuii. Raggiunta la Loke svoltammo a sinistra e ripercorremmo la strada fatta in macchina, oltre le casette due-su due-giù, tipo Come. Su una lastra di pietra fissata al muro c'era scritto 1892, che doveva essere la data
dell'ultima visita di un imbianchino. Attraverso le tendine potevo vedere la moquette a disegni marroni e gli alari d'ottone vicino a caminetti rivestiti di piastrelle. L'umore di Suzy non era migliorato. «Odio profondamente tutto questo.» «Dov'è il problema? Non ti piace il Norfolk?» «Sono andata per mare proprio per fuggire da un buco di merda come questo. Ma guarda, sembra di essere a West Belfast. Voglio il mio Bluewater e la nuova serra, lo voglio.» Mi guardai in giro. Sapevo esattamente cosa intendeva, a parte il pezzo su Bluewater. Continuammo a camminare sulla Loke e superammo le prime due strade parallele alla Sir Lewis. Un cinese sui vent'anni uscì da un negozietto con un giornale sotto il braccio e un dito sull'anello di apertura di una lattina di Coca. Ne ingollò una bella sorsata, saltò su una vecchia Lada rossa e si allontanò dalla strada bersaglio. Suzy mi guardò e mi sorrise come un'innamorata. «D958?» Annuii, non che avessimo bisogno di memorizzare la targa. Lada così vecchie e di quel colore non ne erano rimaste molte sul pianeta. Lasciai sfuggire un sospiro. «Il mio buco di merda era una casa popolare. C'è la stessa puzza in tutte quante. Non trovi?» Scrollò le spalle. «Stufa a carbone e cavolo. Lo odio, odio, odio.» Come se non lo avessi ancora capito. Sir Lewis era l'incrocio successivo sulla destra. «Prendiamo quel vicolo?» Attraversammo la strada a braccetto e svoltammo nel sentiero poco lontano dalla strada bersaglio. Riuscivamo a malapena a camminare affiancati. I retri delle case della Sir Lewis Street erano sulla nostra sinistra. I cortili erano minuscoli e i fili per stendere erano al secondo piano per sfruttare qualche bava di vento. Vecchie vestagliette grigie e jeans molto sbiaditi sembravano l'articolo più in voga della settimana. Gatti o volpi di città dovevano essere rimasti intrappolati nei sacchetti della spazzatura sparpagliando in giro confezioni di cibo surgelato e il contenuto di qualche centinaio di portacenere. Dalla finestra di una cucina proveniva odore di vestiti umidi e di tè stantio. Qualcuno al piano di sopra aveva appena tirato la catena del bagno. Alcuni cortili avevano una porta sul vicolo, altre erano state abbattute o erano marcite. Le case stesse non erano che piccoli cubi di mattoni.
Walker Street era a circa quaranta metri di distanza. Da alcune abitazioni giungeva il rumore della TV e ogni tanto l'abbaiare di un cane da dietro i muri cadenti. Iniziammo ad attraversare Walker Street e cercammo d'individuare i numeri civici delle porte di Sir Lewis Street alla nostra sinistra. Niente da fare, erano troppo lontani. Un piccolo ponte a mezzaluna, solo per pedoni, superava il torrente e portava all'ampia distesa di fango, spazzatura e tracce di impianti industriali rasi al suolo dai bulldozer che si estendeva per un centinaio di metri fino all'arteria principale. Oltre a quella c'era il reticolato a difesa del porto, dove gru e depositi di carburante, con il logo Q8 malamente dipinto, si stagliavano contro il cielo. Centinaia di pali in legno spuntavano dalla recinzione; forse qualche ditta tipo Jewsons utilizzava la zona come deposito. L'intera area portuale era dominata da una grande costruzione rettangolare in cemento bianco. Era senza finestre, ne dedussi che doveva trattarsi di un magazzino. Un gruppo di ragazzini uscì dalla Sir Lewis e ci venne incontro sulla Walker con un incedere da finti duri. Avevano tutti i capelli tagliati a spazzola e buchi nelle scarpe da tennis, continuavano a scrollare la cenere dalle sigarette con gesto nervoso del pollice senza smettere di sputare sul marciapiede. Noi ci dirigemmo verso la continuazione del vicolo, separandoci per superare due carrelli abbandonati di Morrisons. Il sopralluogo a piedi aveva altre finalità oltre a permetterci d'individuare il numero civico. Dovevamo assimilare più informazioni possibili perché non ci sarebbe stata una seconda chance. Una volta passati davanti al bersaglio, la zona per noi sarebbe diventata proibita fino al momento dell'attacco. Non ci saremmo neppure voltati per un'ultima occhiata: la lezione sugli sguardi della gente comune, imparata dalla dura esperienza, ce lo avrebbe impedito. Ma a parte quelli che spiano dalle tendine, c'era da supporre che la ASU avesse qualcuno di guardia, alle finestre o nella strada. Di colpo mi venne in mente una cosa. «Come si fa un sopralluogo in due? Non l'ho mai fatto in coppia.» Suzy sembrò felice che ci fosse qualcosa che non sapevo. «Facile. Bisogna cercare di non dividere le informazioni. Comportati come se fossi da solo. Discuteremo dopo su quello che abbiamo visto.» Eravamo arrivati alla fine del vicolo che sbucava in Sir Lewis Street. Sulla sinistra c'era la zona Corrie, sulla nostra destra case comunali a un
piano e a più piani per circa centocinquanta metri prima che la strada finisse. Restammo dall'altro lato della strada per avere una prospettiva migliore sul bersaglio e quindi più tempo per guardare, più tempo per immagazzinare informazioni. Guardammo tutto anche se la sensazione era di non registrare: l'inconscio è come una spugna e in seguito avremmo potuto estrarre informazioni l'uno dall'altra. Il primo numero dall'altro lato della strada era il 136. Ciò era un bene: significava che eravamo nella parte alta della via. Davanti a noi passò una macchina che spaventò una coppia di vecchi gatti randagi. Suzy mi tirò piano per la giacca. «Non dimenticare di contare.» Annuii e mi lamentai fra me. Odiavo contare, ma andava fatto. Il numero 88 era vicino. Il fronte casa era in acciottolato. La porta solida e bianca. A destra di quella c'era una finestra in alluminio ad anta unica e con i doppi vetri. Solo la parte alta si apriva. Verso l'esterno. Un'altra identica era al piano superiore. Parcheggiate nei paraggi c'erano tre auto: una Volvo rossa, targa P; una Toyota verde, targa C, e una Fiesta nera di cui non riuscivo a leggere la targa ma non ce n'era bisogno perché aveva dei segni di riconoscimento molto evidenti: due strisce rosse lungo la fiancata. A un primo sguardo non c'era segno di vita. Tendoni chiusi. Niente fumo dal camino, nessuna bottiglia di latte sulla soglia, nessun giornale o lettera nella cassetta della posta, la parte alta di entrambe le finestre era chiusa. Quando fummo più vicini presi per mano Suzy e attraversammo in diagonale, non direttamente verso la casa ma zigzagando. La Fiesta aveva le strisce anche sull'altro lato. Ancora un paio di case e oltrepassammo il bersaglio. Nessun rumore, nessuna luce, niente. I vetri delle finestre erano sporchi, le tendine ridotte a uno straccio. La chiusura delle finestre era una semplice maniglia. La vernice della porta si stava sfogliando e la serratura era una Chubb qualsiasi in ottone con una maniglia imitazione B&Q del vecchio tipo, anche se chi poteva avere la certezza che non ci fossero due ferri morti a sprangarla dall'altra parte? Superata la porta cominciammo a contare. Uno, due, tre... ogni casa che superavamo, premevo un polpastrello sul palmo della mano... otto, nove, dieci e poi cominciavo da capo... undici, dodici... Raggiungemmo l'incrocio con la Walker, svoltammo a destra e quasi subito ci ritrovammo a camminare sul ponte. Il torrente due metri sotto di noi era fangoso con chiazze di olio che prendevano sfumature arcobaleno. Svoltammo ancora a destra, in un sentiero fangoso. Passai un braccio sopra
le spalle di Suzy e le sorrisi. «Ho contato diciassette. Tu?» «Sì.» «Sembra vuota.» «Sì, chiusa.» Aveva ripreso a contare e la imitai. Uno, due, tre... Il torrente era largo due metri, l'argine ripido dell'altra riva era praticamente contro il retro delle case, separato soltanto da un sentiero molto battuto. Bastava guardarlo per capire che era piuttosto frequentato dalle persone che buttavano spazzatura nel canale. Vecchi pacchetti di sigarette e cicche, lattine di bibite e pezzi di carta erano sparsi ovunque. Il posto era un buco di merda. Sembrava che l'area vuota tra noi e la principale fosse stata liberata per nuovi insediamenti. Una staccionata dipinta di bianco era stata posta a protezione ma era già coperta di graffiti e in alcuni punti anche abbattuta. Nove, dieci, undici... A volte il davanti di una casa poteva non avere niente in comune con il retro; magari il davanti era ben curato e dipinto di verde e il retro trascurato e dipinto di rosso. Le case a terrazza, in particolare, possono essere un vero incubo. Alcune avevano le stesse strutture in alluminio come davanti, altre ancora le vecchie intelaiature. Dodici, tredici, quattordici... Giungemmo all'altezza di una porta di legno marrone, inserita in un muro fatiscente di mattoni rossi; non c'erano panni stesi, anzi non c'era neppure la corda per stendere. Vecchie tendine coprivano vetri sporchi. Suzy piegò la testa. «Quella senza biancheria stesa, con le finestre e la porta marrone. È il mio diciassette.» «Anche per me.» Continuammo. Non c'erano luci, né vapore ai vetri o finestre aperte, non c'era spazzatura fresca sparsa lungo l'argine del canale. La porta era chiusa con una serratura ma, come per il portone principale, potevano esserci altre chiusure all'interno. Il muro era scalabile in più punti; oltrepassarlo non costituiva un problema. Studiai l'area non edificata per trovare un punto di riferimento con la zona porto. Di notte tutto sarebbe apparso diverso. «È all'altezza delle cisterne della Q8.» Continuammo lungo il sentiero, il sopralluogo era finito, ci piacesse o no. Un pensionato pedalava verso di noi su una mountain bike nuovissima e lucidissima. Ci scambiammo ancora parole inutili fino a che lui, e la casa bersaglio, non furono lontani e le case a schiera sostituite da bungalow e villette. Avevo la testa piena di un centinaio di cose diverse, lei mi prese per mano e camminammo in silenzio sino alla fine del sentiero. Il primo pensiero
è sempre per il nemico, in quel caso la ASU. Era molto probabile che fossero all'interno della casa; al momento rimanere nascosti era la loro arma migliore. Quali erano i loro scopi e le loro intenzioni? Conoscevamo il loro obiettivo, ma non sapevamo nulla del loro addestramento, dei loro capi, del loro morale. Non erano soldati: la terza ondata era formata da tecnici. Ma, comunque fosse, che tipo di persone ci saremmo trovati a combattere? Non sapevamo neppure se fossero armate. La fonte aveva detto soltanto che erano fondamentalisti, che desideravano andare in paradiso con un ardore pari al nostro di andare via da King's Lynn. Ma ciò cosa implicava? Avrebbero lottato? Mi augurai di no. La priorità successiva era il terreno di caccia. Entrare dal bianco sarebbe stato un incubo perché, a parte le finestre chiuse, c'erano solo gli abbaini e il portone frontale e la porta posteriore. E, anche se uno degli abbaini fosse stato aperto, non saremmo mai riusciti a passarci attraverso, quindi non restavano che le porte e per quelle era il caso di attendere il buio per attaccare la Yale frontale. Ma il rischio di essere compromessi era molto alto dato il considerevole numero di tendine che potevano essere spostate. Suzy era arrivata alla stessa conclusione. «Dobbiamo farlo dal nero, vero?» Le zone bersaglio vengono sempre codificate per rendere più facile l'identificazione. La facciata è sempre denominata bianco, il lato destro è rosso, il sinistro è verde e il retro è nero. E, dato che la nostra faceva parte di una schiera, avevamo a disposizione solo nero e bianco. «Già, a meno che Mazzadagolf non ci procuri un Packet Echo per far saltare un muro e aprirci un varco dalla casa dei vicini.» Si passava la gomma in bocca da parte a parte e non riuscì a trattenere un accenno di sorriso al solo pensiero. «Non ci resta che entrare dal cortile. Lì saremo al coperto per indossare la tenuta NBC e attaccare la serratura.» Annuii. Era un piano semplice perché avevamo scarsissime informazioni. Ghignò. Masticava in modo esagerato. «Merda, a volte mi faccio quasi paura per quanto sono in gamba.» «Per prima cosa dobbiamo trovare un posto fuori città dove preparare l'attrezzatura NBC. Non è il caso di aprire i sacchetti e il resto quando siamo sul bersaglio. Poi torniamo a piedi sul bersaglio con le sacche pronte, scavalchiamo il muro, Bob è tuo zio, indossiamo le tute, scassiniamo la porta e procediamo.»
«L'unica rifinitura che mi sento di aggiungere è che vorrei comprare un paio di guanti di gomma. Non voglio quelli NBC. È veramente troppo difficile azionare il grilletto, soprattutto avendo sotto quelli di cotone.» Annuii. «Ottima pensata. Così magari quando saremo dentro potrai anche lavare i piatti.» Tornammo al parcheggio. Al tramonto mancavano ancora due ore. «Beviamo qualcosa?» Accettò con entusiasmo. Entrammo nel bar di Morrisons e ordinammo due tè, tramezzini e biscotti. Io continuavo a guardare il Traser. «Rilassati, Nick.» Dagli altoparlanti The Best of Janet Jackson ci martellava la testa, interrotto di tanto in tanto da una voce che pubblicizzava le grandiose offerte presenti nel negozio. Anche Suzy guardò l'orologio. «Vado a comprare i guanti. Li vuoi anche tu?» «Sarebbe stupido non accettare. E compra anche della schiuma da barba e qualche rasoio.» Mi accarezzò il viso. «Non è grave. Chi può dirlo? Magari se ti occupassi un po' più del tuo aspetto potresti essere più fortunato.» Mi lasciò con i biscotti che non aveva toccato e io presi il telefono. Beccai ancora una volta la segreteria di Josh; per loro era ancora mezzogiorno di venerdì. Chiusi e composi un altro numero. «Pronto?» «Carmen, c'è Kelly?» «Vado a cercarla.» Sentii il rumore della televisione mentre lei usciva dalla cucina e poi: «C'è Nick». Mi giunse un piagnucoloso «pronto?» «Ciao, Kelly, ascolta... ti ho telefonato perché non abbiamo avuto abbastanza tempo per parlare. Mi spiace tanto non poter venire a salutarti, ma sono nel Nord. Carlisle.» «E dov'è?» «Quasi in Scozia. Ascolta, mi dispiace...» «Josh è tornato?» «Non ancora. Tornerà questa notte, orario americano.» Sollevai lo sguardo e vidi Suzy in coda alla cassa con il cestello pieno. «Senti, devo andare. Ti chiamerò ancora, forse non questa notte perché sarò in viaggio. Proverò in mattinata. Okay? È tutto a posto per il volo?»
«Non credo.» «Allora forse è meglio che io parli un attimo con la nonna, è ancora lì?» Sentii che la chiamava e che passava il telefono a Carmen. «Avete fatto tutto per il volo?» «No, cambiare il biglietto costava cento sterline e non avrebbero aspettato la tua telefonata. Volevano i soldi subito e tu sai quanto sia costoso usare la carta di credito, quando abbiamo pagato...» «Ascolta, paga e basta, ti prego, ti mando i soldi, non importa quanto costa.» Spensi il telefono e lo riposi nel marsupio mentre Suzy finiva di pagare. 31 Per una volta era piacevole essere insieme con lei in una zona non fumatori. Avevamo ordinato un vassoio di tramezzini, un paio di banane e uno yogurt, avevamo bevuto il tè e parlato di niente come facevano tutte le altre coppie. Alle sei il bar aveva smesso di servire ma ce ne restammo lì a gustare cibo e bevande per un'altra ora. In quel momento la donna delle pulizie stava facendo del suo meglio per lavare il pavimento intorno a noi. Era ora di andare. Per uscire dalla città prendemmo la strada principale che costeggiava il porto diretti alla tangenziale. Guidava ancora Suzy. Io tolsi la copertura dalla luce interna e cominciai a cercare nella tasca della portiera. «Dove sono le lampadine?» «Nel vano del cruscotto, credo.» Le avvitai e collegai il telefono al filo che pendeva dalla presa dell'accendino. Estrassi il necessario per radermi dal sacchetto, abbassai l'aletta con lo specchio e cominciai a darmi da fare con la schiuma. Alla nostra destra, oltre la zona non edificata, alcune luci delle camere sul retro delle case della Sir Lewis erano accese, ma non in quella che, secondo noi, era il bersaglio. Sul sentiero lungo il fiume giravano poche persone, a piedi o in bicicletta. Fumo da un paio di camini. Suzy stava già pensando a quando saremmo tornati. «Meglio per loro se non hanno messo dei cavoli a bollire.» Stavo facendo un lavoro di rasatura decisamente pessimo. Suzy superava un condominio dopo l'altro, case arretrate rispetto alla strada e una stazione dei vigili del fuoco con i manifesti di sciopero ancora attaccati alle porte. Dopo un po' raggiungemmo gli edifici commerciali di vetro e cemento do-
ve lucidissime Audi e Citroën erano in esposizione negli autosaloni in attesa di essere consegnate alle ville dei dintorni; quelle costruite su terreni di proprietà, quelle con i leoni di guardia ai cancelli. Con un fazzoletto di carta preso dai miei sacchetti di Next, mi pulii il viso pieno di piccoli tagli e sangue. Mi rimase addosso una bella puzza di mentolo. Finalmente raggiungemmo la rotatoria principale. La seconda strada a destra sembrava portare in una zona buia. Suzy la imboccò mentre io laceravo la confezione di guanti per i piatti appena comprata da Morrisons. Svoltò a destra in una stradina secondaria e dopo un po' si fermò in una piazzola di fango secco vicino a un campo. Invece di riflettere con calma su quello che poteva succederci nel giro di qualche ora, sembrava sempre più su di giri. Prese i guanti e mi diede un colpetto. «Tu con la protezione? Roba da non crederci.» Rise. Aprì la portiera e la luce si accese mentre tendeva la mano per prendere la lampadina del baule. «Prendo la roba.» Sentii che apriva il bagagliaio e che frugava in fretta all'interno. Non passò molto e sei pacchi di NBC vennero buttati sul sedile posteriore. Sotto il cellofan c'erano dei cartoncini bianchi piuttosto grandi su cui era scritto solo pantaloni, oppure casacca. Avremmo preparato un pezzo alla volta e lasciato il resto impacchettato dietro. Sarebbe stato più facile da nascondere se qualcuno fosse passato con il cane al guinzaglio o se un'altra macchina avesse posteggiato accanto alla nostra. Tolsi la copertura esterna e con i denti strappai quella sottovuoto. L'aria entrò immediata per equalizzare la pressione. L'interno della tuta NBC era fatto di un guscio di scuro cotone grigio-verde, rivestito con lamine di piccole sfere di carbonio. Con una buona dose di fortuna, avrebbe assorbito ogni agente biologico o chimico prima che entrasse in contatto con i vestiti che indossavo e, ancora più importante, con la mia pelle. Suzy chiuse il portellone piano e solo fino al primo scatto, per ridurre il rumore al minimo. Poi tornò al posto di guida e afferrò un pacco di pantaloni. In tutto avevamo tre pacchi a testa: pantaloni, giacca con cappuccio e stivali di gomma. I pantaloni sembravano usciti da una lavanderia cinese che aveva usato troppo amido: fui costretto a infilarci dentro un braccio per staccarli. Suzy fece la stessa cosa con la casacca. Era sempre molto eccitata. «È fantastico», bisbigliò. «Sembra che ci stiamo preparando per andare a una festa in maschera.» Finito con casacche e pantaloni li arrotolammo e ci dedicammo alle soprascarpe nere. Erano taglia unica e andavano allacciate come sandali ro-
mani. Infilammo le strisce di gomma negli anelli ai lati delle suole. Adesso le NBC erano pronte per l'azione. I finestrini si stavano appannando. Avvolgemmo i vestiti intorno agli stivali e uscimmo per infilarli nella sacca. Aprii il velcro di una sacca di nylon verde ed estrassi il respiratore S6, dotazione standard dell'esercito inglese. Era un affare di gomma nera con una maschera per gli occhi e una bombola già collegata. Non ci erano stati forniti ricambi, ma quello, con buona probabilità, non costituiva un problema; una bombola poteva durare più giorni. Certo sarebbe stato bello sapere se era nuova. Controllai se la camera d'aria che sigillava il respiratore era correttamente inserita, in modo che niente potesse entrare. Davanti, dove presto si sarebbe posizionato il mio mento, c'era una piccola valvola: la ruotai in senso antiorario in modo che la pressione nella camera d'aria arrivasse allo stesso livello della pressione ambientale per sigillarla perfettamente. Per quello mi ero rasato, perché i peli della barba non dessero fastidio. È per lo stesso motivo che i capelli corti sono un vantaggio: nessuno desidera che delle ciocche di frangia impediscano il completo isolamento. Lo lasciai aperto per un minuto e guardai Suzy che puliva la maschera con un angolo della felpa. Poi, chiusa la valvola e tirati ben indietro i capelli, mi portai il respiratore sul viso e regolai l'elastico sulla nuca. Il naso si riempì dell'odore di gomma nuova. La bombola era montata sulla sinistra, in modo da poter portare il fucile sulla spalla destra. La aprii e coprii l'apertura con la mano e inspirai forte in modo che il respiratore mi si schiacciasse contro il viso. La tenuta era ottima. Adesso toccava alle SD. Avevamo tre caricatori da trenta colpi a testa, più che sufficienti. Se quel lavoro avesse richiesto qualcosa come centottanta colpi voleva dire che eravamo nella merda e che molto probabilmente saremmo stati uccisi. Non avevamo un posto per i caricatori di scorta; per qualche misteriosa ragione Packet Oscar non comprendeva né portacaricatori né imbragatura a spalla per l'arma. E quello voleva dire che non avremmo potuto correre o lottare con entrambe le mani libere; avremmo dovuto poggiarli e forse anche lasciarli sul posto ed è per quello che i guanti Morrisons erano necessari. Li indossai e con un dito coperto di gomma premetti il pulsante di accensione dell'HDS. Il piccolo schermo s'illuminò. In teoria le batterie di quegli affari duravano giorni, ma avevo avuto delle brutte esperienze in passato. Lo spensi subito.
Inserimmo entrambi un caricatore pieno di proiettili 10 mm nell'apposito alloggiamento delle SD. Ascoltai lo scatto, scrollai il caricatore e lo tirai un pochino per essere sicuro che fosse correttamente inserito. Suzy teneva la mano destra sopra il cane. «Pronto? Al mio tre. Uno, due, tre.» Ci preparammo ad agire insieme, tirammo indietro il cane, che era parallelo alla tozza canna, e lo lasciammo scivolare in avanti in modo che le parti mobili raccogliessero un proiettile. Controllai la camera di scoppio tirando un poco indietro il cane un'altra volta e inserii la sicura. Suzy era di nuovo più avanti di me: aveva srotolato la tuta NBC e aperto il velcro che chiudeva le tasche dei pantaloni. Mise un caricatore in ogni tasca, così non avrebbero fatto rumore. La imitai. Intanto pensavo alla Browning. «Non porterò la corta, anche se ne avessi bisogno non saprei dove metterla.» Senza rispondermi infilò il portafoglio rigonfio nella tasca alta della giacca, la chiuse con il velcro e controllò che non si aprisse. Non potevamo permetterci che ci cadesse niente: non volevamo fare più rumore del necessario e non volevamo neppure lasciare niente dietro di noi. Se non fossimo riusciti a raccogliere i bossoli dei proiettili, li avremmo lasciati lì, ma niente altro. «È il tuo modo per insistere che le pistole restino in macchina?» Svitai il fondo della mia mini Mag-Lite e girai la pila in basso per avere di nuovo energia. Un'altra cosa che non volevo finisse quand'ero sul bersaglio «Sì, insieme con i documenti. Perché rischiare di lasciare qualcosa?» «Affare fatto. Ma fai in modo che il parcheggio sia sicuro.» Il mio astuccio MOE sarebbe rimasto nel bagagliaio. Rimase in silenzio per un momento. «Nick, che succede se ci contaminano sul serio? Se cominciano a spargere il bacillo?» «Dovremo prendere atto di essere davvero nella merda e augurarci che le tute funzionino mentre aspettiamo per circa un'ora che quella roba perda l'effetto.» «Seduti fermi ad aspettare?» «Che altro potremmo fare?» Infilai una mano nella tasca dei jeans. «A parte cercare di proteggerci in anticipo.» Presi quattro capsule e le passai l'incarto mentre le sentivo scendere nella gola. Abbaglianti in avvicinamento provenienti da King's Lynn sparirono in un avvallamento della strada. Tornammo all'interno della Peugeot. Portai il respiratore con me e cominciai a pulire le lenti con la maglietta mentre i
fari si avvicinavano. Per alcuni secondi fummo inondati da un vago chiarore mentre gli abbaglianti fendevano i vetri appannati della nostra auto. Guardai Suzy. Non sembrava più tanto eccitata e continuava a pulire le lenti con gesti brevi e distratti. Verificai ancora una volta che la valvola della pressione fosse ben chiusa e intanto mi chiedevo se magari aveva una capsula piantata di traverso in gola o qualcosa del genere. Raccogliemmo tutti gli involucri di plastica e gli oggetti per radermi e li mettemmo nel baule. Tutto quello di cui avremmo avuto bisogno sul bersaglio era nelle sacche, perciò mi tolsi i guanti e me li infilai in tasca. Niente di quello che avremmo preso dall'auto e portato sul bersaglio aveva le nostre impronte. Saremmo entrati sterili e, con un po' di fortuna, usciti nello stesso stato. «Com'è che conosci questo posto?» Chiuse il bagagliaio. «Ci venivi in vacanza con la famiglia?» Tornammo alle rispettive portiere. «Molto divertente», dissi. Nel buio non riuscivo a vederla in viso. «Non andavamo mai in vacanza.» La verità era che non eravamo neppure una famiglia. «Ho abitato a qualche chilometro da qui per un certo periodo. Solo per poco tempo.» «Con Kelly?» Aprimmo e la luce interna si accese mentre salivamo. Suzy era in attesa di una risposta, ma non l'avrebbe ricevuta. «Okay, parliamo di questo, allora. Non trovi strana la coincidenza che la fonte abiti in una baracca a King's Cross?» «Io voglio solo che questo lavoro sia fatto e finito, così posso tornare in America.» «A risolvere i problemi di Kelly?» «E anche tutto il resto.» 32 A portiere chiuse la luce si spense. Suzy avviò il motore, io intanto sistemai la Browning perché il cane armato a metà cominciava a pungermi lo stomaco. Dopo anni passati a portare uno di quegli affari l'irritazione rossastra non andava mai via, ma adesso stava per sanguinare. Un altro paio di auto passò veloce. Chi guidava la seconda suonò quattro o cinque volte il clacson e gli occupanti ci rivolsero urla triviali. Suzy era tornata di ottimo umore. «Credono che stiamo facendo sesso.» Portò alla bocca le mani a coppa e fece finta di urlare all'auto che stava
ormai scomparendo: «Ehi, non sono così disperata». Passò la mano sulla condensa del parabrezza per riuscire a vedere fuori, io guardai l'ora. «Allora mi sono rasato per niente?» Costeggiammo le banchine. Le luci ad arco dall'altro lato della recinzione splendevano come quelle di uno stadio illuminato. Più avanti, sulla sinistra, oltre l'oscurità dei terreni deserti, le case Corrie facevano del loro meglio per essere all'altezza. I lampioni di Walker Street iniziavano in prossimità del ponte e si allungavano davanti a noi, ma la loro luce non illuminava per niente il sentiero lungo il canale. Avevamo un triangolo d'ombra lungo i muri posteriori in cui poter lavorare al sicuro. Suzy mi ricordò che dovevamo fare ancora una cosa prima di parcheggiare e dirigerci verso il bersaglio. «Devi chiamarlo, Nick. Lo farei io ma sto guidando.» «Secondo me è meglio se lo chiamiamo a lavoro finito, quando tutto è sotto controllo.» Più cose sapeva Signorsì, più alte erano le possibilità che chiedesse dei cambiamenti e più potere sarebbe venuto a lui su quello che stavamo facendo. Non era così che mi piaceva lavorare. «No, non possiamo, dobbiamo chiamarlo subito. Se non lo fai tu, lo farò io, non mi sembra così difficile. Ha bisogno di essere aggiornato.» Di un calcio nelle palle aveva bisogno, ma per quello purtroppo doveva attendere. Riluttante aprii il cellulare schermato e composi il numero. Odiavo il fatto che sapesse quello che stavamo per fare, mi faceva sentire esposto. Il telefono squillò una sola volta. «Avresti dovuto chiamare molto prima.» «Abbiamo eseguito il sopralluogo. Saremo sul bersaglio fra circa un'ora. Non ho idea di quanto ci metteremo a fare irruzione. Non abbiamo visto segni di vita.» «Voglio notizie di Dark Winter un secondo dopo che siete fuori, voglio sapere se lo avete, quanto ne avete, dovete prenderlo a ogni costo.» «Sì.» «Sì, cosa?» Respirai a fondo. «Sì, signore. Mi sa dire altro del controllo che c'è sul bersaglio?» «No. È a livello locale. La città ha seri problemi con l'immigrazione clandestina di sudestasiatici. Le organizzazioni cinesi usano quelle abitazioni fatiscenti come deposito prima di spargerli in tutto il Paese. Niente a che vedere con noi.» «Sì, signore.»
Lui chiuse la comunicazione. Suzy era tutta un sorriso. «È andata bene, mi sembra.» Ci stavamo avvicinando alla stazione ferroviaria e la luce gialla della grande insegna di Morrisons ci accolse mentre andavamo al parcheggio. Mi piegai nel vano davanti ai sedili e sfilai la cinghia del marsupio dai passanti dei jeans. Lo infilai sotto il sedile insieme con tutti i documenti a nome Nick Snell, la Browning e i caricatori di scorta. Chiesi a Suzy di fermarsi alla cassa per il pagamento del parcheggio. «Me ne occupo io, tu intanto parcheggia.» Inserii nove sterline e venti in monete ed ebbi in cambio uno scontrino che consentiva la sosta fino alla mezzanotte del giorno successivo. Dall'altro lato dei binari le insegne di Morrisons e di Matalan brillavano contro il cielo. Suzy buttò i suoi documenti sotto il sedile, io misi il contrassegno contro il parabrezza e gli spiccioli che mi erano rimasti nel cassetto del cruscotto e la raggiunsi per scaricare le sacche pronte. Chiudemmo il portellone e, dopo un ultimo controllo che niente fosse in vista, premette il pulsante di chiusura. Superammo il piccolo negozio che vendeva giornali e serviva il tè ed entrammo nella stazione. Per chiunque ci stesse osservando, in particolare la telecamera a circuito chiuso che copriva quasi tutto il parcheggio vuoto, eravamo una coppia che andava a prendere il treno, niente di più. Mi augurai solo che non ci seguissero per tutto il percorso attraverso la stazione perché uscimmo decisi dall'altro lato e, superati sei o sette taxi in attesa, raggiungemmo l'area di Morrisons. Da lì ripercorremmo la strada già fatta. Niente era cambiato tranne il fatto che era buio. La luce era accesa in quasi tutte le case. In alcune le tende erano tirate, ma in altre vidi persone che guardavano la TV con il piatto sulle ginocchia. Suzy rimosse un paio di mattoni nel muro della DLB e ci infilò dentro le chiavi della macchina, poi li rimise a posto. Se tutto fosse finito in merda e fossimo dovuti scappare veloci, se non altro almeno uno di noi sarebbe riuscito a prendere la macchina. Raggiunta Loke Road guardai a sinistra, verso i negozi. Il bar che vendeva hamburger stava facendo affari alla grande a giudicare dal vapore che saliva a spirale dalla ventola di aspirazione. Il negozietto accanto era chiuso e le vetrine erano protette da spesse griglie. Attraversammo nello stesso punto di prima poco lontano dai negozi. Due adolescenti cinesi, una ragazza e un ragazzo, tra i quindici e i sedici anni, uscirono dal vicolo ridacchiando mentre cercavano con una certa gof-
faggine di tenersi per mano e camminare allo stesso tempo. Poco più avanti era parcheggiata una Ford Focus con due persone a bordo. Quello al volante era calvo come una palla da biliardo. Si voltò per seguire i due che attraversavano e li guardò un po' troppo a lungo prima di girarsi e dire qualcosa al compagno. Imboccammo il vicolo con l'accompagnamento di un numero maggiore di TV accese. Molte le luci al piano terra e di tanto in tanto qualche movimento confuso dietro le tendine sottili o i vetri smerigliati. Suzy cambiò mano alla sacca per venirmi più vicino. «Hai visto la Focus?» «Controllavano quei due ragazzini. Potrebbero essere spacciatori, o poliziotti. O, più semplicemente, dei perversi. Freghiamocene e continuiamo.» Raggiunta Walker Street svoltammo a sinistra verso l'incrocio con Sir Lewis e il ponticello pedonale. «Tu controlla il bersaglio, io controllo a sinistra.» Mentre attraversavamo l'incrocio io guardai in su verso l'altra metà di Sir Lewis Street. Quattro ragazzini sfrecciarono veloci in bicicletta con i bastoncini dei ghiaccioli fra i raggi delle ruote per simulare il rombo di una moto. Due auto con gli abbaglianti stavano venendo verso di noi. La più lontana accostò e posteggiò a metà strada. Sapevo che era la Focus. Forse si erano fermati solo per mangiare qualcosa prima di tornare a casa, ma se erano lì per noi lo avremmo scoperto fin troppo presto. Suzy mi guardò e mi sorrise da innamorata. «Nel bersaglio non c'è vita.» Le restituii il sorriso mentre eravamo quasi al ponte. «La Focus ha appena parcheggiato vicino all'incrocio.» Sapeva che non potevamo fare altro che procedere. «Cazzo, e allora cosa facciamo?» Arrivammo al ponte e invece di attraversare girammo subito a destra. Non avevamo altro modo per finire il lavoro se non giocare il tutto per tutto. Non avrebbe avuto senso perdere tempo e lasciar trapelare la nostra indecisione: dovevamo avere l'aria di persone del posto che sapevano dove andare. Continuammo lungo il sentiero protetti dall'ombra dei muri dei cortili posteriori. Suzy stava indietro perché il vicolo non era grande abbastanza per noi e per le sacche. Contammo le case. Tre luci, quattro luci... vidi i serbatoi della Q8 lungo le banchine in diagonale a sinistra e i lampioni della principale che gettavano una fioca luce sul nostro lato del terreno deserto. Raggiungemmo il bersaglio. Ancora nessuna luce accesa alla finestra alta. Alle mie spalle sentivo il ronzio del traffico sulla principale e al secon-
do piano della casa sulla sinistra qualcuno stava usando il bagno. Ci accostammo al muro del giardino e restammo nella sua ombra. Era alto circa due metri e c'era una porta di legno per accedere alla casa. I normali rumori della vita domestica riempivano l'aria della notte mentre ci infilavamo i guanti. Da Walker Street ci giunsero un paio di grida, poi lo sferragliare delle bici, sempre più forte. Un attimo dopo, i ragazzini volavano sopra il ponte e svoltavano a destra. Suzy e io ci abbracciammo come se ci stessimo baciando nel buio. Erano solo sagome contro la luce dei lampioni della strada principale. Erano troppo occupati a cercare di non cadere nel fiume mentre si tagliavano la strada l'un l'altro, per fare caso a forestieri. Suzy si stava immedesimando nella parte più di quanto non mi aspettassi: mi portò le braccia al collo, mi attirò a sé e mi baciò con forza sulle labbra. Durò solo pochi secondi, troppo poco perché comprendessi quanto stava accadendo, ma mi restò una traccia di yogurt alla fragola e sapeva di buono. «Credevo che non fossi così disperata...» Mi teneva ancora la testa fra le mani e mi tirò di nuovo verso il basso, stavolta però per parlarmi all'orecchio. «Non ti vantare, ragazzo del Norfolk. È solo che, se mi combini qualche casino lì dentro, questa potrebbe essere l'ultima volta che ho l'occasione di baciare un uomo.» Aspettammo che i ragazzini, fra risate e urla, pedalassero via nel buio e poi ci sciogliemmo dall'abbraccio mentre Bagno Billy urlava a Maureen di portargli un asciugamano. Mi spostai contro la porta di legno e guardai nella fessura tra il chiavistello e il muro. Il cortile era ancora buio, ma riuscii a distinguere la porta sulla destra e una finestra sulla sinistra. Nessun segno di vita nel bersaglio. Ciò poteva voler dire che la casa era deserta o che la ASU aveva fatto un salto al burger bar. Ma poteva anche significare che avevano oscurato tutte le finestre, o che seguivano la prassi dura: zero luci, zero sigarette, niente cucina, solo restare immobili e pronti, in attesa di farci una bella sorpresa. Tirai con delicatezza la porta verso di me prima di abbassare la leva del saliscendi, poi la spinsi nella direzione opposta. Cedette solo di qualche millimetro. O c'era un'altra serratura oppure era incastrata. Non volevo spingere con forza per non correre il rischio di fare rumore, così, sempre tenendo abbassata la leva, spinsi piano con il piede la parte bassa della porta. Nessuna resistenza. Con la mano libera feci la stessa cosa in alto e non si mosse. Mi spostai, afferrai la parte alta del muro e piegai la gamba de-
stra. Suzy intrecciò le mani sotto il mio piede e mi issai fino ad avere lo stomaco sul bordo del muro. Guardai e ascoltai. Sembrava tutto tranquillo, così mi lasciai scivolare piano dall'altra parte. I miei piedi incontrarono una catasta di legna, ne cercai l'estremità ed entrai in contatto con il cemento del cortile, mentre Maureen urlava a Bagno Billy di darsi una mossa che il tè era pronto. C'era un bidone dei rifiuti senza coperchio e senza spazzatura. Niente nel cortile faceva supporre che la casa fosse abitata. Tastai il bordo della porta fino a che le dita coperte dai guanti non incontrarono un piccolo paletto. Lo spostai con delicatezza e finalmente la aprii quel tanto da consentire a Suzy di sgusciare dentro con le sacche. Rimase addossata al muro mentre io richiudevo e tiravo i paletti. Scroscio d'acqua dal bagno della casa a fianco, Billy doveva aver apprezzato la cena. Suzy rimase immobile mentre io mi avvicinavo al bersaglio. Da entrambe le case adiacenti mi giungeva luce ambientale a sufficienza, ma cominciavo ad abituarmi al buio. La finestra a sinistra della porta era a semplice ribalta e si apriva verso l'esterno. Era in legno dolce, vecchio e con le vernice scrostata. Il problema era che aveva una serratura Chubb saldamente abbassata. Per entrare dalla finestra avremmo dovuto rompere il vetro. La porta sulla destra era in legno stagionato speciale tipo fai-da-te. Come ovvio portava in cucina; attraverso il vetro riuscii a vedere un paio di rubinetti cromati. Presi dalla tasca la mini Mag-Lite e, tenendoci due dita sopra per ridurre la luce, la puntai contro il vetro. La cucina aveva tutta l'aria di non essere mai stata cambiata da quando la formica era la regina del mondo. Mi spostai di due passi e mi accucciai in modo da essere a livello con la serratura. Era una normale serratura a perni. Ci accostai l'orecchio e aprii la bocca per ascoltare meglio. Silenzio assoluto. Dalla strada proveniva rumore di traffico punteggiato da improvvisi echi delle TV dei vicini. Con la pila controllai l'interno della serratura: era del tipo normale a quattro perni, ma la chiave non era all'interno. Mi avrebbe semplificato la vita: non avrei dovuto fare altro che farla girare con un attrezzo dal mio astuccio per effrazione. Abbassai piano la maniglia per verificare che non fosse già aperta. Non lo era. Spinsi l'angolo in basso sotto la serratura e cedette un poco. Mi rialzai e controllai l'angolo superiore e anche quello cedette. Cercai nel cortile vasi da fiori, ciotole o altri posti stupidi dove fosse logico piantare una chiave. Non aveva nessun senso fare tutta la fatica di scassinare la serratura se qualcuno era stato così gentile da lasciare la chia-
ve di scorta a portata di mano. Mi protesi e sollevai un paio di mattoni ma senza trovare niente. Da dietro mi giunse un lento e cauto fruscio. Suzy stava iniziando a indossare la tuta NBC, aveva già addosso i pantaloni e si stava un po' incasinando con gli stivali sopra le scarpe da ginnastica. Solo per scrupolo controllai ancora una volta la finestra, ma la porta sembrava il punto di entrata più sensato. Una macchina in avvicinamento dall'altro lato della casa; tornammo nell'ombra in attesa che i fari passassero. Billy veniva sgridato da Maureen per aver usato tutta l'acqua calda. Adesso non poteva neppure darsi una spugnata prima di uscire e comunque cosa gli era preso di farsi un bagno solo per andare fino al pub? Un portone sbatté dall'altro lato della strada ma io attesi ancora un paio di minuti prima di togliermi il giubbotto e aprire la sacca. Per limitare il rumore Suzy l'aveva già aperta per me prima di entrare nel cortile. 33 Mentre con estrema cautela indossavo la tuta NBC sentii che nella cucina di Bagno Billy veniva riempito un bollitore. Avevo richiesto il tipo vecchio perché, sebbene fossero più difficili da indossare rispetto a quelle moderne, c'era un'enorme quantità in meno di velcro da slacciare. Il rumore c'era sempre ma se non altro era più contenuto. Mi voltai e mi resi conto che Suzy aveva qualche problema. Era piegata in avanti, con il corpo scosso da improvvise convulsioni e fece appena in tempo a togliere la SD dalla sacca prima di vomitarci dentro. Quando mi piegai su di lei era già tutto finito. Le misi una mano sulla spalla. «Va tutto bene», le dissi. «A me capita spesso.» Finì di pulirsi la bocca e inspirò per mandare indietro un paio di pezzi che le erano rimasti conficcati alla base del naso. Mi venne così vicino che mi fece lacrimare gli occhi. «Non ho bisogno della tua comprensione del cazzo. Lo yogurt doveva essere scaduto.» Annuii e infilai i Caterpillar nei pantaloni che poi tirai su fino allo stomaco. Allora anche Suzy era un essere umano, dopo tutto. Non era male avere un po' di paura. Avevo prestato servizio con uomini che se l'erano fatta addosso ma che avevano portato a termine il lavoro. Cuciti dietro i pantaloni c'erano due lunghi nastri di cotone che facevano
da bretelle. Me li passai sopra le spalle e li incrociai sul torace prima di infilarli negli appositi anelli della cintura e legarli. Suzy aveva già indossato la casacca ed era quasi pronta mentre io avevo appena infilato le braccia e stavo lottando per far uscire la testa. Il materiale ruvido mi graffiò il viso. Dalla TV dei vicini mi giunsero risate registrate. Immaginavo la scena: Billy che beveva il tè guardando il programma, mentre Maureen si dava da fare con il deodorante. Quando la mia testa riuscì infine a emergere, Suzy era di fronte a me a meno di mezzo metro, il suo viso una maschera di concentrazione, gli occhi fissi alla porta mentre si preparava psicologicamente al compito che l'attendeva. Sedetti sul cemento dissestato mentre Maureen riceveva un invito urlato a sbrigarsi perché altrimenti sarebbero arrivati tardi. La sua risposta dalla camera da letto mi giunse forte e chiara: «Chiudi quella cazzo di bocca e spegni quella TV di merda». Presi il primo stivale, che mi ricordava la calza di Natale solo che era di gomma, lo misi sopra il mio stivale sinistro e allacciai le cinghie dal fondo. Messo anche il secondo portai i pantaloni a coprirli e chiusi il velcro alle caviglie. Billy non ce la faceva più. «Cazzo, adesso basta. Andiamo solo fino al pub e non al Casino di Montecarlo!» Suzy prese la sua SD e usò la pila per controllare un'ultima volta se il colpo era in canna, poi accese il mirino. Le toccai un braccio e lei si chinò con la pila in modo che anch'io potessi fare lo stesso. Ci scambiammo uno sguardo nella penombra e i ragazzini tornarono lungo l'argine, diretti al ponte sempre con i fanali spenti e il bastoncino del ghiacciolo che sferragliava tra i raggi. Ci restava solo da controllare che i guanti di gomma sormontassero i polsini della casacca e indossare i respiratori. Afferrai il mio con la sinistra e con la destra allargai l'elastico per farlo passare sopra la testa. Di nuovo l'odore di gomma nuova mi riempì le narici mentre verificavo che la tenuta fosse stagna. Controllai che la bombola fosse aperta del tutto prima di abbassare il cappuccio e stringere la fibbia. Immediatamente respirare diventò una bella impresa, lottavo per succhiare aria attraverso il cilindro e lottavo per farla uscire fuori. Quegli oggetti non erano progettati per gli amanti dell'aria aperta e sarebbero stati un vero incubo per chiunque affetto anche solo da un accenno di claustrofobia. A livello tattico il rumore del respiratore sarebbe stato un bel casino: a-
vrebbe riempito le nostre orecchie molto più dei rumori esterni. Ma non potevamo farci niente. E poi, comunque, se dietro la porta ci fosse stato davvero DW, l'ultimo dei miei problemi sarebbe stato quello di non sentire a causa dei rumori del mio respiro. Suzy sollevò la testa perché io controllassi che il cappuccio fosse a posto, poi verificò lo stato del mio. Eravamo pronti a muovere. La stazione dei vigili del fuoco sulla strada principale aveva appena ricevuto una richiesta d'intervento. Le sirene urlarono e fari azzurri lampeggiarono sul terreno deserto mentre i mezzi passavano veloci lungo le banchine. All'improvviso vidi gli occhi di Suzy dietro le lenti. Spalancati, immobili, la sua concentrazione era massima. Come se fossi Darth Vader con l'asma mi chinai a prendere la SD, controllai la leva della sicura spostandola fino alla posizione di raffica da tre colpi prima di riportarla in posizione. Non potevo permettermi che polvere o altra schifezza ne bloccasse il movimento impedendomi di fare fuoco. Non succedeva spesso ma una volta sola è più che sufficiente. I dettagli contano. Suzy si avvicinò alla porta a passi grandi e cauti in modo che gli ingombranti stivali non la facessero inciampare. Le tasche alte sulla casacca NBC erano chiuse da due quadratini di velcro alle estremità. Lei infilò le dita nella parte centrale in modo da non fare rumore ed estrasse l'astuccio MOE. Qualcosa nei suoi gesti mi fece pensare che la serratura a quattro leve non avrebbe resistito a lungo. Srotolò l'astuccio e prese il grimaldello e la chiave fissa. Normalmente una serratura viene aperta dalla parte dentellata della chiave che fa sollevare e allineare le quattro leve. Con l'attrezzo a punta le avrebbe fatte ruotare una per una, poi con la chiave fissa avrebbe fatto scattare all'indietro il tamburo. La osservai iniziare a saggiare l'interno con l'attrezzo di acciaio, mentre con la mini Mag-Lite che teneva con la sinistra illuminava il buco della chiave. Forzare una serratura è un'esperienza zen. L'idea è di usare tutti i sensi per visualizzare quello che sta accadendo all'interno del meccanismo e come reagisce al tuo attacco. Avviene solo se è possibile concentrarsi unicamente sul lavoro, senza preoccupazioni per quello che succede intorno. A quello avrei pensato io. Ero vicino alla spazzatura con occhi e orecchie in allerta. Dall'altro lato del terreno deserto il ronzio del traffico sulla tangenziale era continuo.
Passarono alcuni minuti. Sentii delle voci lungo l'argine del torrente. Una portiera venne sbattuta e la porta di casa di Billy subì lo stesso trattamento. Suzy aveva ragione, era come essere a Belfast. Stavo cominciando a preoccuparmi, ma lei allargò l'astuccio sul cemento, mise a posto gli attrezzi e lo ficcò nella sacca piena del suo vomito. Lasciai che sistemasse le sue cose, mi avvicinai alla porta, scivolai in ginocchio e posai con cautela la SD a terra. Sentii che lei adesso era dietro di me, in piedi, e stava lentamente portando la SD in posizione di tiro, sopra la mia testa, calcio sulla spalla, corpo piegato sull'arma. Il sudore cominciò a grondarmi sul viso mentre con la destra afferravo la maniglia e con la sinistra esercitavo pressione contro la porta. Non si mosse. Spinsi ancora e stavolta cedette silenziosa, di quel tanto che ci permise di mettere dentro la testa e, ancora più importante, la canna della SD di Suzy. In fondo alla cucina c'era un arco con una tenda, oltre il quale riuscivo a vedere la luce fioca della strada che filtrava dalla stanza frontale fino al piccolo ingresso e illuminava i primi gradini della scala. Ero ancora in ginocchio, Suzy sopra di me, arma pronta. Cercai di ascoltare per quanto mi era possibile dati il cappuccio e il respiratore. Non sentii nulla. Aprii la porta un poco di più, abbastanza perché Suzy potesse sgusciare dentro, con l'arma sempre sulla spalla. Avanzava cauta sul pavimento di linoleum, esagerando ogni passo in modo da non inciampare in qualche ostacolo imprevisto mentre tutta la sua attenzione era concentrata sull'ingresso. Raccolsi la mitraglietta per coprirle le spalle, mi sollevai piano portando l'arma alla spalla, la leva in posizione di colpo singolo. Posai con gesto morbido il dito sul grilletto in modo da arrivare alla prima pressione. Con gli occhi ben aperti superai la soglia, mi portai dietro di lei, leggermente sulla destra, e mi fermai. In silenzio avremmo ispezionato la casa, stanza per stanza. Il piano era preciso: se avessimo trovato la ASU e le cose fossero diventate rumorose, non ci saremmo preoccupati di dare il nostro personale contributo. Avanzò oltre l'arco, gli stivali cigolarono sul linoleum, poi si voltò e puntò la canna della SD verso l'alto mentre si appoggiava al muro e controllava la scala. Raggiunsi l'arco, arma pronta, concentrato sulla porta della stanza di fronte, il piccolo schermo del mirino di fronte a me. Cominciavo ad avere la gola secca. Superai Suzy e prima degli ultimi quattro o cinque passi sen-
tii un rumore davanti a me. 34 La maniglia ruotò. La porta si aprì. La luce della strada inondò l'interno. Sulla soglia una figura scura, un sacchetto in una mano e le chiavi nell'altra, fece un paio di passi dentro l'abitazione prima di accorgersi di me. Girò su se stessa per fuggire attraverso la porta ancora aperta. Non c'era tempo per pensare, azione. Mi accucciai, lasciai andare la SD, mi scagliai contro la sagoma e l'aggredii di schiena. La bombola colpì le ossa della nuca e sentii di avere un naso contro le mani coperte dai guanti, poi cademmo insieme sul marciapiede e sulla strada. La testa si voltò. Era una donna. Scalciava per liberarsi. Suzy le afferrò una gamba e cercò di trascinarci entrambi di nuovo dentro la casa. Balzai in piedi e afferrai l'altra gamba. La donna scalciava e si dimenava ma senza lasciare andare il sacchetto. Non appena fummo all'interno coprii la bocca della prigioniera con le mani e mi buttai su di lei a corpo morto. Non si sarebbe arresa facilmente: cercò di mordermi e pestò i piedi contro il muro. Suzy scattò per recuperare la SD. «No! La porta, la porta!» La collega afferrò l'arma, mi superò e chiuse il battente con un calcio. Eravamo immersi nella penombra, Suzy si chinò su di noi. «Tienila ferma, ferma!» «No! Lei...» Tud, tud, tud. La raffica da tre colpi disintegrò metà del viso della donna; il sangue mi schizzò sulle lenti del respiratore. Scalciando mi liberai dal corpo senza vita. «Di sopra!» Recuperai in fretta la mia SD e, mentre cercavo di ripulire le lenti, mi lanciai per le scale. Suzy rimase dov'era per coprirmi le spalle. Non c'erano più dubbi, l'operazione stava diventando decisamente una faccenda rumorosa. Raggiunsi il pianerottolo. Di sopra era molto più buio. L'unico rumore che udivo era il rantolo del mio stesso respiro. La porta del bagno era aperta: nessuno. Le altre due erano chiuse. Suzy iniziò a salire mentre io aprivo
quella sulla sinistra. La stanza da letto era vuota, nessuno, ma qualcuno c'era stato. Due sacchi a pelo di nylon erano srotolati sul pavimento. Cartacce di cibo ovunque, insieme con vassoietti di plastica unti e ricolmi di cicche di sigarette. Jeans e camicie erano ammonticchiati in un angolo. Una coperta era stata legata contro la finestra. Suzy uscì dall'altra stanza e cominciò a scendere. Guardai dentro, era nelle stesse condizioni schifose e c'erano altri due sacchi a pelo, poi scesi per dire di tutto a Suzy. Era stato terribilmente stupido farla fuori: poteva essere soltanto una clandestina o un'altra fonte d'informazioni se faceva parte della ASU. Dal basso mi giunse una voce maschile, agitata, spaventata. Sentii Suzy rispondere calma ma decisa: «Fermo immobile, non muovere un dito». Inciampai e per poco non caddi dalle scale. Suzy era inginocchiata nel lago di sangue, arma pronta, puntata verso l'ingresso. «Chiudi la porta, adesso!» Tutto si fece più buio ma riuscii lo stesso a capire che erano in due, due bianchi. Uno era il pelato della Focus. Fissavano i fucili a bocca aperta. Non era il loro giorno fortunato. Suzy avanzò decisa: afferrò Pelato, lo trascinò sopra il cadavere fino alla stanza frontale dove gli assestò un calcio dietro le ginocchia per trascinarlo a terra. Feci un gesto verso l'altro con la mia SD. «Seguilo. In ginocchio, muoviti.» Accesi la luce mentre Suzy mi superava per tornare in corridoio, sentii raschiare il respiratore mentre lei cercava di aspirare e parlare. «Vado a controllare il motivo per cui siamo qui.» Le tende tirate erano di materiale scadente e non allineate, ma ci proteggevano dal mondo esterno. Entrambi gli uomini erano in ginocchio, con la testa sulla moquette, dai volti contorti trapelava più paura che dolore. Il mio era freddo e umido, come quello di un pesce morto, e rivoli di sudore si raccoglievano intorno alla parte del respiratore che mi copriva il mento. Sentii che sprangava la porta e saliva di sopra. I due indossavano i jeans. Pelato aveva un giubbotto di pelle marrone simile al mio; l'altro un affare nero con i risvolti piuttosto consunto. Il loro sguardo aveva cambiato direzione, non verso di me, però: il cadavere coperto di sangue che era oltre la soglia attirava tutta la loro attenzione. Era di carnagione molto scura, più indonesiana che malese, jeans, scarpe da
ginnastica, giacca di nylon verde da pochi soldi. Quanto restava del suo volto diceva che era molto giovane, forse universitaria. Il sudore rigava le guance di quello con i capelli lunghi e dal mento gocciolava sulla moquette lisa. Sopra di noi le tavole del pavimento scricchiolarono. Sentimmo il rumore di una sedia che veniva spostata, di metallo contro il pavimento, e di vetro rotto. «Toglietevi le giacche. Uno alla volta.» Assestai un calcio al calvo e il sangue della donna si trasferì dal mio stivale alla sua gamba. «Comincia tu, Pelato.» Cominciò a sfilarsi il giubbotto, sempre in ginocchio, sempre a occhi bassi. Quando fu a metà strada vidi che era pulito, non aveva armi. Suzy tornò di sotto e andò direttamente in cucina. «Okay, Pelato, basta così. Tu con i capelli, togli la giacca, solleva la maglia e fammi vedere lo stomaco.» Fece quanto gli avevo ordinato. Notai che aveva un inizio di pancetta da tipico bevitore di birra. Lui pure non era armato. «Adesso giù a terra, tutti e due. Braccia e gambe divaricate.» Una coppia passò davanti casa, parlavano e ridevano, erano solo a pochi metri. Suzy era sulla soglia. Scuoteva la testa, poi si voltò verso la ragazza morta. Il sacchetto frusciò mentre lo spostava da una parte per dedicarsi alle tasche. Tornai dai vivi. Pelato guardava Suzy che rivoltava la ragazza nella pozza del suo sangue per controllare le tasche posteriori dei jeans. L'uomo sembrava sul punto di svenire. Gli diedi un calcio. «Chi sei?» «Immigrazione. Noi siamo...» «Perché sei qui?» «Normale controllo, nient'altro. Dall'esterno abbiamo visto strani movimenti e siamo entrati. Non siamo armati, facciamo solo il nostro lavoro.» Era agitatissimo. Avevano tutti e due la fede al dito e, senza dubbio, il mutuo da pagare che ne è il naturale complemento. Voltai di scatto la testa verso quello con i capelli castani. «Hai figli?» «Due.» Punzecchiai Pelato. «E tu?» Annuì. «Quanti?» «Una sola, ha due mesi.»
«Bene, se volete rivederli fate solo quello che vi dico. Capito?» Annuirono entusiasti. Sapevo che non avrebbero fatto niente che potesse compromettere la possibilità di rivedere i bambini perché era a loro che stavano pensando in quell'esatto momento. «Tu, Pelato, fammi vedere un documento. Resta fermo, usa solo una mano.» Raggiunse la tasca posteriore dei jeans e mi tese un portafoglio in pelle nera piuttosto vecchio. «Aprilo e posalo a terra di fronte a te.» Eseguì e io vidi che Russell George era veramente un dipendente del ministero degli Interni di Sua Maestà. «Adesso tu.» Quello con i capelli lunghi si contorse in modo strano per raggiungere la tasca della giacca e il signor Warren Stacey esibì il tesserino o come cavolo lo chiamavano. Suzy aveva finito di svuotare le tasche della donna e stava infilando tutto nelle sue insieme con i bossoli di ottone che aveva raccolto nell'ingresso. «Ancora una volta?» Non si prese neppure il fastidio di rispondere: sentii di nuovo i suoi passi sui gradini. Warren era sdraiato bocconi con il lato destro del viso contro la moquette, lo sguardo fisso sulle mie soprascarpe in gomma. Sollevò la testa di qualche centimetro e c'era paura negli occhi che incontrarono i miei. E chi non ne avrebbe avuta? La solita stronzata: se il lavoro non ti va, non prendi i soldi. «Non c'è da preoccuparsi, amico. Siamo dalla stessa parte, solo che tu non lo sai. Ma se fai una mossa sbagliata diventeremo il tuo incubo peggiore. Capito?» Annuì e tornò a fissare i miei stivali. «E tu, Russell?» Era girato dall'altra parte. «Non vogliamo casini.» La superficie liscia della sua testa si corrugò mentre si muoveva. «Riconosco la tuta che indossi. Ho capito che sei dei nostri. Noi vogliamo solo uscirne vivi. Okay? Non avrai problemi da noi.» Suzy scese le scale e si diresse in cucina. «Mi fa piacere sentirlo dire. Dovete solo accettare il fatto di essere nella merda, d'accordo? Capita a tutti nella vita. Eseguite i miei ordini e ne uscirete sani e salvi. Adesso vi legheremo e ce ne andremo. Più tardi verrà qualcuno a liberarvi, forse tra un'ora, forse domani. Tutto chiaro fin qui?» Entrambi fecero segno di sì con la testa. «Ottimo, seguite le istruzioni che vi daranno e non perderete il lavoro.
Ma se fate casini non vedrete crescere i vostri figli. Quelli per cui lavoriamo tutti noi a volte si comportano da bastardi del cazzo.» M'inginocchiai, posai la SD accanto a me, slegai i lacci degli stivali di gomma e li usai per legare le loro mani dietro la schiena e poi insieme. «Restate così, va bene? E non combinate casini.» Infilai i loro documenti in tasca. Le spalle di Warren si alzavano e abbassavano come se cercasse di trattenere le lacrime, non capiva quanto era fortunato. Controllai l'ora sul suo orologio subacqueo. Erano appena passate le dieci. 35 Spensi la luce e chiusi la porta della stanza in cui si trovavano, poi mi diressi in cucina. I miei stivali aggiunsero il loro contributo alle impronte di sangue e schegge di ossa lasciate da Suzy. Con la pila la mia collega illuminava le cose appartenute alla donna, appoggiate sul tavolo della cucina. Mi avvicinai. «Perché cazzo l'hai uccisa? E se non era neppure...» Il sacchetto frusciò mentre lo sollevava e io vidi delle forme dure e cilindriche contro la plastica. «Volevi lasciarle qualche possibilità?» Le presi dalle mani il sacchetto, lo posai sul tavolo ed estrassi tre grandi bombolette spray di quella che speravo fosse vernice rossa. Le posai sul tavolo vicino al resto, otto sterline in banconote e alcuni spiccioli, un biglietto di ritorno da King's Cross e uno scontrino per un panino al formaggio. C'erano anche un cellulare e la chiave della porta di entrata. Presi il telefono e lo accesi con il pollice coperto dal guanto di gomma proprio mentre nella casa di Maureen e Billy si accesero le luci. Maureen non si era divertita. «Cazzo, non ne fai mai una giusta!» La TV venne accesa e la sua voce acuta svanì per le scale. «Il karaoke è l'unica sera in cui esco e tu me l'hai rovinata!» E, chiunque fosse Cheryl, era solo una grossa e grassa «loppa» e lui era libero di andare da lei. La luce posteriore del Motorola si accese e successivamente anche lo schermo che chiese un PIN. Provai con 1234. Niente. 4321. Niente. Restai con un'unica possibilità. Provai una sequenza a caso ma l'affare si spense. Merda. Tesi un braccio e avvicinai la testa di Suzy alla mia maschera. «Dobbiamo andarcene. Porta dentro le sacche, dobbiamo stare attenti alla casa a
fianco.» Stavolta fu lei a spostare la mia testa in modo che il mio orecchio potesse ascoltare. «E se il posto è contaminato? Anche se andiamo fuori dovremmo aspettare un'ora.» Cacciai la roba della donna nel sacchetto. «Un'ora in più non farebbe differenza...» La baruffa dall'altra parte era in crescendo mentre noi continuavamo il giochetto con le teste. «No, adesso non possiamo aspettare e non voglio perdere tempo a spiegare. Cambiati fuori se ti fa sentire meglio. Abbiamo preso le pillole, o no?» Presi il sacchetto e andai fuori. Da Billy si sentivano sbattere delle porte e aumentare il volume della TV. Tirai la cinghietta e spinsi indietro il cappuccio prima di strappare il respiratore. L'aria gelida mi sferzò il viso umido. Con gesti veloci e silenziosi mi tolsi il resto dell'attrezzatura e lo infilai nella sacca. Suzy mi raggiunse dopo aver chiuso la porta. Anche lei abbassò il cappuccio e tolse il respiratore. «'Fanculo.» Finito di riempire le sacche, dopo un ultimo sguardo al cortile per vedere se avevamo dimenticato qualcosa, uscimmo dalla porta nel muro e ci dirigemmo verso il ponte. Svoltammo a sinistra in Walker Street con le sacche sopra le spalle. All'esterno del negozio di patate fritte sulla Loke si era formata la coda. Il pub rimbombava per la voce di un pessimo cantante del karaoke che assassinava Like a Virgin. Suzy camminava a grandi passi al mio fianco in attesa di una spiegazione. Quando fummo lontani da possibili orecchie ottenne quello che voleva. «Potremmo essere nella merda, qui. Cosa facciamo se in queste bombole c'è davvero DW? E se gli altri stronzi hanno spruzzato questa merda in giro, oggi? O se si sono divisi e sono in attesa che il bottone venga premuto? Ascolta, consegniamo il cellulare a Signorsì... lui trova i numeri e trova la sede e noi becchiamo gli altri bastardi.» Praticamente stavamo quasi correndo, raggiungemmo il muro e, recuperate le chiavi, andammo diretti alla Peugeot. Con il telefono protetto chiamai Signorsì. «Ce l'avete?» «Forse, ma solo un certo quantitativo. Ascolti.» Gli parlai dei due tipi dell'Immigrazione e gli dissi che quelli della ASU potevano aver vissuto lì. «Se le bombolette contengono DW, cosa ci dice che l'attacco non abbia già
avuto luogo? È sabato sera, i pub sono affollati, ci sono state le partite di calcio e l'elenco continua. Ma abbiamo il cellulare della donna. Io non riesco ad accenderlo e dobbiamo muoverci in fretta in caso debba fare rapporto a una certa ora e in assenza di quello l'azione abbia inizio. La cosa positiva è che era spento, quindi è molto probabile che non attendesse telefonate.» «Muovetevi.» Nel sottofondo sentivo che intorno a Signorsì c'erano molte persone che parlavano e rispondevano a telefoni che continuavano a squillare. «Voglio quel cellulare e le bombolette.» Suzy, senza emettere nessun suono, muoveva le labbra: Immigrazione. «È immune la nostra targa?» domandai. Volevo sapere se potevamo andare come razzi senza correre il rischio di essere inseguiti dalla polizia, se il numero della targa era nella lista informatica di coloro che non dovevano essere fermati. «Certo. Andate a tavoletta.» «E quelli dell'Immigrazione?» «'Fanculo. Se ne occuperà la squadra di pulizia.» Ancora caos nel sottofondo e un blip dal filtro prima che chiudesse la comunicazione. «Londra. La targa è segnalata.» Il motore salì di giri e noi iniziammo a volare via da King's Lynn. Dondolai la testa. «È la prima volta che lo sento imprecare. Tu?» «Mai. Deve essere piuttosto agitato.» Andò dritta sopra una rotatoria con il cordolo all'uscita della città, mettendo in mostra tutti i trucchi di guida veloce che probabilmente aveva imparato nel Det. Guardai l'ora. Erano quasi le undici, quasi le sei da Josh. Il telefono di lavoro squillò. Io sussultai, ma Suzy non staccò gli occhi dalla strada. «Cambiamento di piano. Recatevi all'ippodromo di Fakenham, ripeto ippodromo di Fakenham. Chiamate non appena ci arrivate. Capito?» «Ippodromo di Fakenham.» «Un elicottero arriverà in trenta minuti. Consegnate il telefono al tecnico. Vi voglio a Londra e pronti a muovere quando avremo trovato dove si rintanano. La situazione è cambiata adesso che l'agente può essere emesso con l'aerosol. Se non li troviamo questa notte dovremo rivolgerci al governo ed è una cosa che non deve accadere. Mi hai capito?» «Sì.» La comunicazione finì e io mi voltai per prendere la guida sul sedile po-
steriore. «Abbiamo un recupero in elicottero all'ippodromo di Fakenham.» «E dove si trova esattamente Fakenham, ragazzo del Norfolk?» Accesi la pila e sfogliai qualche pagina. «Non dove stiamo andando.» Frenò e fermò l'auto sul ciglio della strada. «Dobbiamo tornare indietro verso King's Lynn. Fakenham è a circa quaranta chilometri verso est, ancora più dentro il Norfolk. L'ippodromo è a sud della città. Ti conviene darci sotto.» Ruotò il volante e fece inversione. «Perché riesce sempre a farci sentire colpevoli?» Scalò dalla quinta alla terza prima di sorpassare tre macchine in fila. «Non noi, io lo sono. Avevi ragione a voler abbandonare subito il posto.» «Niente di grave. Comunque mi ha detto che una squadra di pulizia sarà sul bersaglio questa notte per sistemare tutto con i ragazzi dell'Immigrazione. Faranno colazione con Simon per qualche giorno. Mi aspetto che ci ringrazino per gli straordinari.» Rise, forse un po' troppo a lungo, ma lo feci anch'io. Adesso era tornata normale. «'Tirar su', è così che chiamate un'inversione a U nel Det Nord, vero?» Le feci da navigatore mentre percorrevamo cigolando strette stradine di serie B e attraversavamo villaggi non illuminati. Saremmo arrivati con il cambio praticamente distrutto, ma che ci fregava? La Ditta era grande abbastanza. Raggiungemmo una città che si chiamava Swaffham e puntammo quasi verso nord in direzione Fakenham. La strada era in condizioni molto migliori ma non riuscivo a non mimare una frenata quando Suzy prendeva le curve a tutta velocità. «Smettila», scattò. «Oppure guida tu.» Sorrisi, presi il cellulare e composi il numero di Josh. Suzy non commentò il fatto che usassi un telefono che ovviamente non era quello schermato. Josh rispose. Mi piegai in avanti nello spazio davanti ai sedili alla ricerca di un posto più silenzioso. «Sono io. Sono Nick.» Avevo l'impressione che non riuscisse a sentirmi bene con quel rumore di motore imballato. «Cosa? Nick, sei proprio tu?» «Sì, ascolta... torna domani.» «Vuoi ripetere?» «Domani, torna domani.» «Dove sei? Dentro un ciclone o qualcosa del genere?» «Chiama Carmen e vedi di scoprire con che volo arriva, così la vai a
prendere. Devi andare a prenderla. Torna domani. Mi hai capito?» Aveva capito ed era in orbita. «Ma cosa combini? Lo hai fatto ancora, ancora casini. Ma perché ti comporti così?» «Ti chiedo solo di chiamare Carmen, si è occupata lei di tutto.» Non gli dissi che la mia era solo una speranza. Suzy frenò di colpo, sollevai lo sguardo e vidi che lampeggiava a una VW di togliersi di mezzo. Mentre la sorpassava in prossimità di una curva, l'altro suonò il clacson e Josh mi urlò nell'orecchio: «Vaffanculo, ecco che ricominci da capo!» Quella notte Signorsì non era l'unico ad aver modificato il suo modo di comportarsi da cristiano. Forse ero magico. «Telefonale, telefonale.» E chiusi la comunicazione. Per quanto incazzato fosse con me, di sicuro era già al telefono con Carmen. Ci saremmo chiariti in seguito. 36 La luce del cruscotto illuminava il viso di Suzy, sempre concentrata sul tunnel di luce creato dagli abbaglianti e dagli alti alberi ai lati della strada. La lancetta del contagiri era sul rosso. Con un accenno di movimento dell'angolo dell'occhio, sorrise come se sapesse tutto. «Kelly torna a casa?» «Sì, cazzo, sì.» Superò un dosso e mi afferrai al sedile quando tutt'e quattro le ruote persero il contatto con la strada. «E tu non hai nessuno per cui preoccuparti?» Un cartello sfrecciò a centottanta all'ora. FAKENHAM 6. Un'altra curva in avvicinamento. Abbassò i fari per controllare che non giungesse nessuno nell'altro senso, poi inserì di nuovo gli abbaglianti. Frenò decisa sul rettilineo, scalò dalla quinta alla seconda, a metà curva e nella carreggiata opposta riprese ad accelerare con forza. A circa duecento metri una macchina che ci veniva incontro lampeggiò incazzata. Lasciai passare ancora qualche minuto e chiamai Carmen. «Sono io, Nick. Hai cambiato il volo?» «Chi?» «Nick.» «Ma sai che ore sono? È molto tardi.» «Hai prenotato il volo per domani?» «È così tardi e anche Josh ha chiamato... ci ha svegliato.» «Hai risolto per il volo?»
«Sì. Parte nel pomeriggio. Dobbiamo essere all'aeroporto all'una, partiremo di qui alle undici, se riusciremo a svegliarci in tempo. Ho scoperto che se paghiamo non appena arriva l'estratto conto non c'è da...» «È sveglia?» «Certo che no, dev'essersi appena riaddormentata, dopo la telefonata di Josh. Non posso svegliarla di nuovo.» «Carmen, ti prego, è davvero importante.» «Per una ragazzina della sua età niente è più importante di una buona notte di sonno. Non ho nessuna intenzione di svegliarla.» «Okay.» Riuscii a resistere dall'urlarle tutta la mia rabbia. Forse aveva ragione. «Chiamerò domattina. Devo lasciarti, sto per entrare in galleria.» E chiusi. Eravamo ormai alla periferia di Fakenham e un cartello ci indicò che l'ippodromo era sulla destra. Svoltammo e circa un chilometro dopo svoltammo ancora. A ogni deviazione la strada diventava più stretta. Suzy non modificò l'andatura. «E adesso cosa si fa?» «Entri e parcheggi, direi.» Presi il telefono schermato e chiamai Signorsì. «Siamo arrivati.» «Telefono e bombole sono con voi?» «Sì.» Ma cosa cazzo credeva? Che mi fossi venduto la roba lungo la strada? «Il recupero dovrebbe essere lì a momenti. Segnala la posizione con Quebec.» «Okay, Quebec. Userò la Mag-Lite.» «Non m'importa cosa usi. Fallo atterrare e salici sopra.» La comunicazione venne chiusa. Adesso la strada era diventata solo una striscia di asfalto che correva fra pali bianchi, i quali molto presto, dato che Suzy dimenticò di far riposare il piede destro, diventarono una macchia confusa. Cercavo possibili punti di atterraggio in caso non riuscissimo a raggiungere l'ippodromo. Superammo campi da tennis sulla destra, alcune costruzioni sulla sinistra e arrivammo a un grande parcheggio con il fondo di ghiaia. Le macchine erano raccolte intorno all'ingresso di uno sport club, o qualcosa di simile, notai diversi cartelli che indicavano campi per le varie discipline, squash e via dicendo. Attraverso le vetrate illuminate vidi un gruppo di persone non-moltosportive appoggiate al bancone del bar. La pista era di fronte a noi, recintata dalla ringhiera di plastica bianca. L'ombra della tribuna era in diagonale sulla destra. Suzy parcheggiò. Re-
cuperammo i documenti di copertura sotto i sedili e riempimmo le borse con i sacchetti vuoti dell'attrezzatura NBC. Non avevamo intenzione di far trovare ai poliziotti un'auto piena di cose interessanti. Si sarebbero dovuti accontentare di qualche paio di calzini e dei boxer comprati da Next. Ci avviammo verso la tribuna. Suzy portò con sé anche la chiave, così non sarebbe stata ritrovata per caso nella carrozzeria sopra la ruota. Signorsì non aveva dato istruzioni per la macchina, ma la cosa migliore sarebbe stata recuperarla in fretta; i dettagli lasciati in sospeso creano disordine. Lontano verso sinistra si vedeva il bagliore della città, con il campanile illuminato di una chiesa che dominava la collina. Cominciai a sentire in lontananza un debole sferragliare, che diventò un preciso rumore di rotore di elicottero da qualche parte nel buio sopra di noi. Si avvicinava a luci spente. Frugai nelle tasche e recuperai la mini Mag-Lite. Girai la parte alta per accenderla canticchiando la marcia nuziale. «Ecco la sposa, daa-daa-dedaa.» Suzy mi guardò come se fossi impazzito. «È l'unico modo per ricordare Quebec. Hai capito? Ecco la sposa, daa-daa-de-daa.» Continuai a ripeterla sottovoce mentre puntavo la pila contro il cielo chiudendo e aprendo il contatto al ritmo della musica per trasmettere la lettera Q con l'alfabeto Morse. A bordo dell'elicottero avrebbero visto un puntino di luce bianca in basso in un campo buio e, se non l'avessero visto, avrei continuato a farlo fino a che non lo avrebbero visto. Ecco la sposa, daa-daa-de-daa. Il rumore del cielo diventò un rombo pulsante e pochi secondi dopo riuscii a distinguere a soli quindici metri di distanza davanti e sopra di noi la parte anteriore dell'elicottero che scendeva piano. Puntai la Mag-Lite verso il prato e la tenni accesa come punto di riferimento per il pilota e anche per non correre il rischio di puntargliela negli occhi. Dalla sagoma decisi che si trattava di un Jet Ranger. Rimase sospeso per qualche secondo, la deflessione del rotore sbatteva contro di noi mentre ondeggiava da sinistra a destra e poi si lasciò cadere sui pattini d'atterraggio a circa sei metri di distanza. Spensi la Mag-Lite. Ci fu un improvviso, solitario lampo dalla luce di navigazione sotto la pancia del Jet Ranger per indicarci il punto esatto in caso non l'avessimo visto. Come se fosse possibile. Suzy mi superò correndo diretta al muso del velivolo che aggirò per raggiungere il portello che si stava aprendo. La seguii con la sacca sulla spal-
la, piegando automaticamente la schiena. Mai capito perché lo si faccia dato che i rotori sono sempre molto più alti della testa. Il getto d'aria m'investì viso e vestiti mentre anch'io ci giravo intorno. La puzza dei gas di scarico riempiva l'aria. Buttai dentro la sacca e mi trovai con il viso contro il sedere di Suzy: io cercavo di entrare, lei cercava di sistemare la sacca dietro i sedili. Alla fine ci riuscimmo e chiusi il portello, l'ambiente era rassicurante, caldo e per quanto possibile poco rumoroso. Sentivo odore di caffè, ma non abbastanza forte da superare quello del vomito di Suzy. Il Jet Ranger si sollevò da terra. Il pilota, seduto davanti a me, indossava gli NVG (Night Viewing Goggles, occhiali per la visione notturna), che assomigliavano a un paio di piccoli binocoli tenuti in posizione da un'armatura sopra la testa, a un paio di centimetri dagli occhi. Erano inondati dal riflesso verde del retro degli occhiali mentre lui controllava il decollo. Suzy si voltò per spingere indietro le sacche alle nostre spalle e creare un po' di spazio in più, poi il rombo del motore coprì ogni altro suono. Impossibile parlare e la cosa mi andava benissimo. L'uomo seduto a fianco del pilota ruotò sul sedile in modo da trovarsi più o meno frontale rispetto a noi. Aveva indosso una cuffia e il braccio di un microfono davanti alla bocca. Alla fioca luce della strumentazione vidi che era piccolo, sorridente, affabile, cicciottello, sulla trentina, con i capelli scuri e mossi. Avvicinò il pollice all'orecchio e l'indice alla bocca e mi urlò con tono quasi di scusa: «Il telefono, per piacere? Il telefono?» Sotto la camicia a quadri indossava una maglietta del Signore degli anelli che gli tirava sulla pancia. Infilai la mano in tasca e gli porsi il Motorola della ragazza. Frodo lo prese con un cenno di ringraziamento. Sotto e dietro di noi le luci di Fakenham si fecero piccole piccole, il pilota era impegnato a parlare con chiunque parlino i piloti quando sorvolano l'Inghilterra con quegli affari in operazioni sotto copertura. Be', non tanto segrete visto che appartenevano a compagnie private i cui piloti non disdegnavano di lavorare in nero per la Ditta. Perché mai affrontare tutte le spese, acquisto e gestione, quando se ne poteva affittare uno a costo orario? E, a parte ogni altra considerazione, costituivano una copertura migliore. Frodo, il tecnico, tolse la carta SIM dal telefono e la inserì in una macchinetta, grande quanto un blocco da giornalista, che teneva sulle ginocchia. Pochi secondi dopo lo schermo che aveva davanti si riempì di parole e numeri, mentre lui parlava veloce nel microfono. Non riuscivo a sentire
quello che diceva ma lo immaginai in collegamento radio con Signorsì, o con chiunque fosse incaricato di controllare i dati. Sarebbero stati sufficienti pochi minuti per conoscere l'identità di chiunque avesse parlato con la ragazza o fosse stato chiamato da lei. Lasciai vagare lo sguardo fuori dal finestrino, con il pensiero ero a Bromley. Per il momento non avevo ruolo attivo nelle operazioni: non avevo controllo su quello che mi accadeva, ero nelle mani del pilota. Cos'avrei potuto fare per lei se l'attacco aveva già avuto luogo? Sarebbe stata più al sicuro in Inghilterra? Che rischi correva in un aeroporto forse contaminato? Di colpo mi venne in mente che qualcosa potevo fare. Mi protesi in avanti e toccai il tecnico sulla spalla. Si voltò e io lo invitai a gesti a togliersi la cuffia. Lo fece e si avvicinò. «Ho sentito l'aroma. Dov'è il caffè?» Parlò al microfono e il pilota si chinò e mi passò un grande thermos di acciaio inossidabile. Tolsi il bicchiere, svitai il tappo e versai una mezza tazza. La porsi ai due davanti, ma rifiutarono con un cenno. Probabile che avessero appena bevuto. Suzy accettò e ne prese qualche sorso prima di passarmela. Era nero e molto dolce, ma fece il suo effetto. Frugai nei jeans e trovai il blister tutto schiacciato delle pillole. Con un sorso ne inghiottii quattro e le passai a Suzy insieme con la tazza. Mi voltai e tornai a guardare fuori dal finestrino il nastro illuminato - la M11 lontano sotto di noi e, ancor più in lontananza, le luci di Cambridge. Frodo parlò ancora nel microfono, poi, con un cenno d'intesa, si voltò, tolse le cuffie e mi fece capire a gesti che dovevo indossarle. Portai le cuffie rivestite di stoffa bianca sulle orecchie ma sentii solo il tud tud del rotore nel sottofondo. Poi: «Ci sei?» Era Signorsì. «Pronto?» Frodo mi prese la mano e la guidò all'interruttore sul cavo delle cuffie, lo dovevo azionare per poter parlare. Lo ringraziai con un cenno. In realtà sapevo benissimo come fare, ma non avevo motivo di offenderlo. «Sì, sono qui.» «Ascolta. Vi portano a Northolt. Roger?» La linea era protetta e quindi avremmo potuto parlare liberamente eppure, ogni qualvolta si trovava a parlare via radio, ritornava al passato, a quando era capo del dipartimento comunicazioni in codice. «Roger.» Avevo deciso di stare al gioco. «Ci sarà Yvette con mezzi di trasporto. Roger fin qui?» «È un roger.»
«Okay, ottimo lavoro con il telefono. È stato usato una volta circa due ore fa. Quel numero non si è mosso e si trova nella zona della stazione di King's Cross, nel triangolo fra Pentonville Road, Gray's Inn Road e King's Cross Bridge. Roger fin...» «Lo conosciamo, conosciamo l'edificio. C'è qualcosa che non quadra. La fonte vive a circa trecento metri da lì.» «È un roger, io...» «Faccia in modo che la fonte si metta in contatto con noi non appena atterriamo. Forse possiamo usarla. C'è qualcosa che non convince.» «D'accordo, chiudo.» Passai le cuffie al tecnico e mi voltai verso Suzy; con la bocca praticamente dentro il suo orecchio la informai di quanto mi aveva detto Signorsì. S'illuminò. «È probabile che fosse una telefonata di rapporto per dire che aveva fatto tutto.» Suzy era davvero eccitata per la situazione. 37 Domenica 11 maggio, ore 0.04 Il bagliore di Londra inondò l'orizzonte e poco dopo le gigantesche torri di Canary Wharf, con i fari di orientamento che lampeggiavano tra le nuvole basse, si stagliarono contro il cielo. Molto probabilmente la squadra della pulizia che lasciava la città diretta a King's Lynn era responsabile di un paio di abbaglianti sotto di noi. Il loro lavoro consisteva nello sterilizzare l'ambiente prima dell'alba, magari con il pretesto d'investigare su una fuga di gas o qualcosa di simile. Non avrebbero avuto la benché minima idea di quello che era successo: avrebbero portato via il corpo e infilato i ragazzi dell'Immigrazione in un furgone senza fare domande. E forse gli avrebbero presentato Simon. Il pilota dell'elicottero e il tecnico Frodo presto si sarebbero uniti alla compagnia. In nessun caso uno di loro sarebbe stato lasciato libero sino alla fine dell'emergenza. Il pilota parlò in cuffia e ci spostammo verso destra. Non mancava molto all'atterraggio alla base RAF di Northolt a West London. Per un attimo mi domandai se ci avrebbero portato al centro di controllo del comando per un rapporto, come mi era successo durante le campagne in Kosovo e in Bosnia. Sembrava di essere in un film di James Bond, schermi giganteschi ovunque e persone molto indaffarate ed efficienti che premevano tasti e
bevevano caffè da tazze di polistirolo. Non so perché ma decisi che quel giorno non sarebbe successo. Le camicie che indossavamo non erano abbastanza inamidate. Poco dopo eravamo sopra la A40, l'arteria a doppia carreggiata molto trafficata che tagliava Londra da ovest, e pochi minuti più tardi iniziavamo la manovra di avvicinamento all'aeroporto militare immerso nell'oscurità che la costeggiava. La pioggia aveva cominciato a sferzare il Perspex e il pilota azionò il tergicristallo. Ci stavamo avvicinando a due berline e a un furgone parcheggiati con gli abbaglianti accesi. Alla luce arancione del nostro faro di navigazione riuscii a scorgere le sagome delle persone chiuse all'interno per evitare lo spostamento d'aria e la pioggia. In una macchina c'era una sola persona, nelle altre ne vidi due. I pattini d'atterraggio toccarono il suolo e le pale persero velocità mentre il rombo del motore turbo scemava lentamente. Il pilota si girò, mi fece segno di aprire e io balzai giù con qualche problema. A causa del calore dello scappamento, del turbine del rotore e della puzza di carburante del velivolo, quasi non mi accorsi della pioggia. Suzy buttò fuori le sacche e uscì. Mentre correvamo verso i veicoli, da una delle macchine, credo una Mondeo, emerse una figura e riconobbi Yvette che si stava tirando su il cappuccio del Gore-Tex. Si fermò accanto alla portiera dell'autista e attese lì che il rotore si fermasse. Due uomini in felpa e jeans saltarono dal Transit bianco, totalmente anonimo, e di corsa raggiunsero l'elicottero. Quando furono più vicini vidi che erano Sundance e Scarpedatennis. Non mi degnarono di uno sguardo e passarono oltre. Yvette ci fece cenno di raggiungerla. Mentre noi superavamo l'avvallamento lei si dava da fare ad aprire una grande scatola di alluminio che era accanto alla ruota più vicina. A fatica sentii le sue parole. «Per favore, mettete qui le bombole.» Mi accucciai con la sacca. I due uomini dell'equipaggio vennero condotti verso il retro del furgone. Il pilota era agitatissimo e mi guardava come in cerca di aiuto. «Ma cosa succede qui?» Alzai le spalle e uno di quelli in jeans rispose al posto mio: «Non preoccuparti, è tutto a posto. Salta dietro, amico». Visto come li tenevano Sundance e Scarpedatennis, non è che avessero molta scelta. «Potrei avere le chiavi della Peugeot, per piacere? Così possiamo pulire su nel Norfolk».
Suzy poggiò a terra la sacca e si frugò nei jeans mentre io aprivo la mia per prendere il sacchetto sporco di sangue secco che conteneva tutto quello che avevamo preso dalla donna, a esclusione del telefono. Lo misi nella scatola che sembrava un contenitore termico, solo che quell'affare aveva quattro chiusure che lo rendevano ermetico. A giudicare dall'espressione che aveva sul viso, Yvette stava cominciando a fiutare il contenuto della sacca di Suzy mentre lei le passava le chiavi. «È nel parcheggio dell'ippodromo.» La voce di Suzy era stranamente calma, forse cercava di fare il verso a Mazzadagolf. «Vicino al centro sportivo.» Yvette fece un cenno di ringraziamento. «Nel cassetto del cruscotto troverete altri antibiotici e nel bagagliaio due tute NBC nuove e complete.» Il portellone posteriore venne sbattuto e il Transit partì. Chiusi il coperchio del contenitore e vidi apparire un sorriso sotto il cappuccio di GoreTex. «Ottimo lavoro, a tutti e due. Laggiù sulla destra c'è un lampeggiante azzurro, dove si sta dirigendo il furgone. Andate in quella direzione e vi ritroverete fuori dall'aeroporto. Buona fortuna.» Sollevò il contenitore e lo portò con sé nell'altra macchina, una Vauxhall Vectra scura. Non appena la scatola venne assicurata al sedile posteriore con la cintura di sicurezza, si accese il motore. E, non appena Yvette si accomodò nel sedile del passeggero, l'autista girò l'auto e partì in direzione della luce azzurra lampeggiante. Suzy portò le nostre sacche al bagagliaio della Mondeo e cercò di ripulire il vomito, io presi il telefono schermato e chiamai Signorsì. Rispose al secondo squillo e, come al solito, non aveva tempo da perdere in convenevoli. «Dove siete?» «Northolt. Abbiamo la macchina.» «Bene. Partite. La fonte dice di non sapere nulla di King's Cross. Vi chiamerà ma non vuole essere coinvolta. Ha paura di essere compromessa.» «Duro.» «Esatto. Fai tutto quello che deve essere fatto e voglio rapporti frequenti quando siete in azione. È un roger?» «Roger.» Buona fortuna a lui. Chiusi la comunicazione e chiamai Suzy. «Non c'è tempo per le pulizie. Accendi il telefono. Facciadiculo sta per chiamare.» Suzy lasciò aperto il baule e iniziò a preparare la tuta NBC per metterla
nella sacca. La aiutai ad aprire i sacchetti e infilai il pugno nelle gambe e nelle braccia. Fradici di pioggia saltammo in auto e lei partì veloce verso la luce lampeggiante, i tergicristallo a velocità doppia. Scoprimmo che si trattava di una Range Rover del ministero della Difesa, parcheggiata vicino ai cancelli di sicurezza nel reticolato che recintava l'aeroporto. L'ufficiale del ministero con il giubbotto fluorescente giallo ci fece cenno di passare e poi richiuse il cancello. Non avevamo nessuna idea su quale direzione prendere e puntammo verso le luci che secondo noi erano la A40, poi svoltammo a sinistra, diretti a est verso la città. Ogni telecamera per il controllo della velocità lampeggiò per salutarci al nostro passaggio. Non parlammo molto: non c'era molto da dire. Non so quali pensieri angoscianti le affollassero la mente al punto di farla tacere, ma ne avevo abbastanza dei miei. Presi gli antibiotici dal cassetto del cruscotto e ne inghiottii quattro. Non avevo idea se stessi superando le dosi. Di certo mi avevano fatto venire mal di stomaco, ma non è che facessero venire i denti gialli o qualcosa del genere? La plastica che rivestiva le capsule mi grattò in gola mentre ne estraevo altre quattro per Suzy e gliele passavo sul palmo della mano. «Le prendo quando arriviamo.» Superò un paio di macchine che erano nella corsia interna e gli schizzi ci inondarono il parabrezza. «Non riesco a mandarle giù senz'acqua, è orribile.» Lo stomaco cominciò a protestare. O mi voleva comunicare che era passato troppo tempo dal tè di Morrisons o gli antibiotici avevano cominciato a darci dentro per sterminare la flora intestinale. Non m'importava quanta parte buona di me avrebbero fatto fuori a patto che attaccassero ogni atomo di come-cazzo-si-chiama-pestis incontrassero nel percorso. 38 Attaccammo la parte sopraelevata della A40, oltre gli edifici della BBC e l'insediamento di riprogettazione urbanistica di White City. L'orologio del cruscotto segnava mezzanotte e un quarto. Cazzo. Presi il telefono dal marsupio. Suzy era ancora concentrata sui fari che ci venivano contro, ma sapeva esattamente ciò che stava accadendo. «Muori dalla voglia di parlarle, non è così? L'ultima telefonata della vita. Sai com'è, magari succede qualcosa...» Accesi il telefono e s'illuminò la schermata di benvenuto. «In un certo
senso.» Non l'avevo pensata in quei termini. Non l'avevo mai fatto: non che avessi molto da lasciare e in quel preciso momento doveva essere convinta che ero in debito con lei. Premetti i tasti e sentii squillare il telefono ai Sicomori. Mi sembrò che squillasse all'infinito prima che Carmen rispondesse. «Pronto? Pronto?» Era confusa. Infilai un dito nell'orecchio sinistro e mi piegai nuovamente nello spazio davanti al sedile. «Sono io, Nick. Ascolta, ho bisogno di parlarle.» Carmen non ascoltava. «È mezzanotte passata. Te l'ho già detto, non la...» «Carmen, ti prego, per favore, svegliala. Ho bisogno di parlarle prima che parta. Forse non avrò un'altra occasione. Sono sicuro che mi capisci.» La sentii sospirare e ascoltai i fruscii di lei che usciva dalla camera da letto e raggiungeva il pianerottolo. «Dopo stacco il telefono. Abbiamo bisogno di dormire, lo sai, e ci aspetta una giornata faticosa.» Udii borbottare ma non riuscii a distinguere le parole a causa del rumore della macchina. Con mia sorpresa Kelly rispose subito e sembrava decisamente sveglia. «Dove sei? Non ti sento bene.» «Sono in macchina. Sveglia così tardi?» «Oh, be', avevo delle cose da fare.» «Devo andare al Nord e quindi non ce la faccio a venire a salutarti. Ma Josh viene a prenderti, lo sai, vero?» Continuai per non darle modo di rispondere. «Mi dispiace davvero tanto ma proprio non posso. Cercherò di farcela, ma, sai...» La sua calma metteva quasi paura. «È tutto a posto, Nick.» «Ho voglia di vederti. Di dirti come mi dispiace di averti fatto passare dei giorni orribili, di non essere riuscito a stare un po' di tempo con te, che tu non possa tornare dalla dottoressa Hughes, ma...» «Ehi, davvero, va tutto bene. Ho parlato con Josh, è tutto a posto. Lunedì chiamerà la dottoressa Hughes e organizzerà le cose con un terapista per quando sarò a casa. È tutto sotto controllo. Venire qui mi è servito veramente molto.» «Gli hai già parlato?» «Sì, abbiamo chiarito tutto.» «Sul serio? Ma è magnifico. Ascolta, non appena finisco il lavoro volo da te.» «Mi chiami da Josh?» «Non riuscirai a impedirmelo.»
«Ciao, allora.» «Ciao.» «Nick?» «Cosa?» «Ti voglio bene.» Gli antibiotici tornarono a farsi sentire. «Anch'io. Devo andare.» Premetti il tasto off. Stavamo entrando in città e il traffico era aumentato. Suzy manteneva gli occhi fissi sulla strada mentre saltavamo un rosso. Ero curioso. «Davvero non hai nessuno da chiamare?» «Nessuno.» Il telefono operativo squillò e in una frazione di secondo raggiunse il suo orecchio. «Sì?» Restò in ascolto senza cambiare espressione, gli occhi fissi alla strada. «Non ce ne frega un cazzo, resta lì e stai all'erta, ci vediamo da Boots.» Doveva aver chiuso la comunicazione. «Paraculo di merda.» Ripose il cellulare. «Piagnucola che lui non è qui per questo e che rischia di essere compromesso. E chi se ne sbatte?» «Ha visto qualcosa?» Scosse la testa. Superammo la British Library sulla principale, Euston Road, molto vicino a King's Cross. I cantieri stradali della stazione dilagavano fino a noi e rendevano caotico il traffico della notte. Giganteschi divisori in cemento e nastri fluorescenti bianchi e rossi incanalavano veicoli e pedoni in quelli che avevano tutto l'aspetto di recinti per pecore. Indicai un cartello blu che segnalava un parcheggio e lei svoltò a sinistra, un po' più in giù rispetto alla biblioteca, in una piazzola a pagamento. A quell'ora di notte era gratuito. Controllammo più volte le portiere e l'interno della Mondeo, quindi tornammo sulla principale e girammo a sinistra verso la stazione. Era distante un centinaio di metri. I locali fast food, come al solito, erano in piena attività. Ventenni dall'andatura instabile, capelli e giubbotti bagnati, cercavano di camminare in linea retta attaccando il panino di kebab dopo una serata di Bacardi Breezer. Un paio di prostitute nell'androne di un negozio cercò di attirare la loro attenzione. In ogni possibile anfratto, sotto coperte cenciose e sacchi a pelo unti di sporco, cercavano riparo fagotti di esseri umani. Suzy scrollò la testa e io gettai un'occhiata. Le ragazze avevano incastra-
to uno dei Breezer che tentava di mangiare servendosi direttamente dal vassoio di polistirolo. «Non è più lo schifo di prima», disse. «Ma non è che il problema sia stato risolto. Lo hanno solo spostato da qualche altra parte.» Eravamo quasi arrivati da Boots. Della fonte nessuna traccia. Inquadravamo bene il bersaglio che si trovava a soli sessanta metri. Il triangolo degli edifici assomigliava sempre di più alla prua di una nave che attraverso la pioggia puntava minacciosa verso di noi. Probabilmente quando era stato costruito, in epoca vittoriana o giù di lì, era un edificio imponente, ma adesso il piano terra consisteva solo di negozi chiusi con tavole di legno e i tre superiori di finestre annerite dallo sporco e dallo smog. La prua s'incuneava nella piazzetta pedonale che la fonte aveva attraversato quando l'avevamo seguita fuori dalla stazione. Il negozio sulla destra aveva venduto kebab, hamburger e patatine fritte qualche secolo prima. L'insegna artigianale dipinta a mano diceva a chiare lettere che Jim era IL MIGLIOR AFFETTATORE DI CARNE DALLO SPIEDO ROTANTE, ma di sicuro non nel nostro secolo. La saracinesca metallica non veniva sollevata da troppo tempo. Il negozio sulla sinistra si era chiamato MTC. L'ingresso era ricoperto da pannelli di truciolato; l'insegna verde chiariva che un tempo era stato un'agenzia di prenotazioni. Doveva essere fallito più o meno insieme con Joe: il numero da chiamare per prenotare I MIGLIORI BIGLIETTI IN CITTÀ non aveva neppure il vecchio prefisso nazionale. Ci unimmo ai tre tizi con lo zaino che si erano rifugiati nella vetrina di Boots per ripararsi dalla pioggia. Consultavano perplessi uno stradario infastiditi da ubriachi e spacciatori. Subito a sinistra, tra noi e il McD dall'altro lato della strada, la CCTV era puntata verso la prua della nave e senza dubbio garantiva una perfetta inquadratura delle strade su entrambi i lati. Abbassai gli occhi su Suzy e lei scrollò le spalle. «Non c'è. Cosa facciamo? Quando chiama sullo schermo non compare nessun numero. Che vada a farsi fottere, noi andiamo avanti.» «Diamogli ancora un minuto, magari è qui intorno che controlla se c'è qualcun altro.» La barca di mattoni era sormontata da una torretta belvedere che assomigliava a un Moulin Rouge ricoperto di piombo e senza le pale. Probabile che nei suoi giorni migliori fosse stato l'orgoglio e il vanto di King's Cross, adesso come tutto il resto dell'edificio era coperto di sporco e di cacca di piccione, un rudere. Prima lo demolivano per far nascere il collegamento
con l'Europa e meglio era. Vedevo bene tutta Birkenhead Street sino in fondo. La CCTV che era a circa duecentocinquanta metri stava girando su se stessa. Dall'altro lato della strada i neon delle insegne facevano brillare il marciapiede e illuminavano a chiazze i personaggi dall'aspetto ambiguo che stazionavano intorno alla sala giochi. L'unico ambiente non illuminato era la stazione di polizia all'angolo di Birkenhead. Ma non era detto che fosse chiusa, chissà cosa stava succedendo dietro i vetri a specchio? Presi il telefono schermato. Suzy ricominciò la commedia della fidanzata innamorata e si accoccolò contro di me. Due poliziotti con i giubbotti fluorescenti gialli decisero che era arrivato il momento di svegliare un mucchio di stracci che dormiva davanti a Boots e farlo sloggiare. Signorsì era affabile come al solito. Nel sottofondo sentii ancora molte voci. «Che c'è?» «Siamo arrivati. La macchina è fissa a est della British Library, noi siamo alla stazione di fronte al bersaglio. La fonte non c'è. Vuole che andiamo a prenderla, per scoprire che cosa sa?» «Negativo. Non ce n'è bisogno, non andrà da nessuna parte. Cosa vedi?» «Sempre nessun segno di vita. Gli diamo ancora cinque minuti. Aspetti...» Un gruppo di adolescenti con un po' troppa roba illegale in corpo passò urlando e i due poliziotti li squadrarono. Niente di nuovo. Tornai a Signorsì. «Se non si fa vedere, lo cestiniamo. Un momento... il segnale si è mosso?» «Certo che no», scattò. «Altrimenti ve lo avrei detto. Non dimenticate che voglio aggiornamenti puntuali.» La comunicazione venne chiusa e spensi il telefono. Signorsì doveva limitarsi ad aspettare che lo chiamassimo, non avrebbe mai telefonato per non correre il rischio di comprometterci. Ma era comunque meglio tenerlo spento. Non si sa mai. Stavamo perdendo minuti preziosi. «'Fanculo, muoviamoci.» Mentre i poliziotti si mettevano sulle piste degli adolescenti, lei annuì e mi prese sotto braccio. Lasciammo il riparo e ci avviammo nella pioggia verso Pentonville. Non avremmo attraversato subito ma, restando da quel lato, avremmo iniziato la nostra perlustrazione a trecentosessanta gradi del bersaglio. Due i sopralluoghi da fare. Il primo come ricognizione generica, il secondo con particolare attenzione ai sistemi di chiusura e altri dettagli. Attraversammo all'incrocio a sinistra della stazione e ci aprimmo un varco fra i bicchieri di McFlurry che insozzavano il marciapiede davanti al
McDonald's chiuso. I cento metri di lunghezza dell'edificio, MTC escluso, erano coperti a livello della strada fino a King's Cross Bridge da pannelli di legno dipinti di viola. Mi ero fermato lì ad aspettare la prima volta che avevamo seguito la fonte e i suoi due amici da Starbucks. Suzy mi sorrise, come avrebbe fatto a quell'ora della notte se avessimo passato alcune ore insieme in un pub, durante la romantica passeggiata verso casa sotto una pioggerellina costante. Guardai il cielo. «Non possiamo entrare da questo lato. Hai notato l'illuminazione stradale?» Annuì. Le lampade erano a livello della parte alta delle finestre del secondo piano. Erano in pessime condizioni, ma le grandi finestre avrebbero fatto entrare tanta luce da proiettare ombre ovunque. Chi abitava a quei due piani non aveva bisogno di luce elettrica, quella stradale era più che sufficiente, ma anche durante il giorno avrebbe dovuto muoversi sotto il livello dei davanzali, soprattutto considerato il fatto che attraverso le finestre del primo piano si riusciva a vedere fino a Gray's Inn Road. Regole rigide per loro, niente sigarette, niente luci, niente di cucinato. Qualsiasi movimento sarebbe stato individuato all'istante dagli edifici di Gray's Inn. Le finestre del secondo e terzo piano da quella parte erano leggermente più piccole rispetto a quelle di sotto e ciò che riuscivo a vedere dei due piani di sopra era che non costituivano un unico ambiente. Ancora nessun segno di vita, nessuna luce, niente vetri appannati e neppure una finestra coperta da tendine o da fogli di giornale. Più giù in Pentonville c'era un certo numero di edifici a due piani che erano ancora abitati; erano il retro del triangolo, la poppa della nave. Probabilmente risalivano agli anni '60 e comprendevano un'imitazione di Kentucky Fried Chicken e un negozio di radiofonia. Non avevo dubbi: i proprietari se ne stavano a dita incrociate nella speranza che venissero comprati anche i loro immobili. Attraversammo Pentonville e raggiungemmo la base del triangolo, King's Cross Bridge. In passato doveva esserci un ponte che passava sopra un canale, adesso era una strada lunga settanta metri che collegava Pentonville con Gray's Inn. Svoltammo a destra, sotto un'ennesima CCTV, e attraversammo Gray's Inn mentre un'auto e un furgone della polizia transitavano dietro di noi a sirene spiegate. 39
Adesso la telecamera davanti alla stazione di King's Cross era puntata verso la British Library. Suzy sorrise dandosi da fare con un'altra gomma alla nicotina. «Forse le toglieranno quando questo posto sarà tutto carino e luccicante.» «Facile, più o meno quanto un secondo mandato di Ken Livingstone.» Il traffico scorreva fra gli schizzi su per Gray's Inn, mentre noi controllavamo ancora una volta l'ingresso di Boots alla ricerca della fonte. Secondo me l'edificio bersaglio era perfetto come FOB (Forward Operations Base, base avanzata di operazione). Era probabile che il cantiere non lavorasse durante i weekend, così da quel lato non ci sarebbero stati occhi indiscreti, ammesso che si vedesse attraverso il rivestimento in plastica di protezione. I negozi su quel lato di Gray's Inn avevano alle finestre dei piani superiori cartelli che segnalavano uffici in affitto, ma non sarebbe stato un problema nascondersi dagli sguardi di chi lavorava lì durante i weekend, soprattutto se quelli della ASU si limitavano alle stanze superiori dell'edificio che davano su Pentonville. Controllai i campanelli sulle porte incuneate fra i negozi dal nostro lato della strada. Volevo scoprire se qualche appartamento era abitato, compresi quelli sopra Costcutter. I nomi erano pochissimi e quei pochi erano scarabocchiati su pezzetti di carta. Anche se le telecamere a circuito chiuso erano ovunque, altri fattori lo rendevano un'ottima scelta per una FOB. In una stanza d'albergo c'è sempre il rischio che qualcuno senta i preparativi. Per una stanza o un appartamento in affitto c'è la procedura per fissarlo, i contratti, i depositi e tutte quelle lungaggini burocratiche da espletare che possono risultare compromettenti. E non avevano dovuto usare la forza né prendere in ostaggio o uccidere i proprietari per avere l'accesso ai locali; non avevano dovuto fare altro che entrare e starsene fuori vista. Cercai d'immaginare la loro vita lì dentro, forse nei sacchi a pelo nuovi, a mangiare schifezze nei vassoi di plastica. Prima d'iniziare un lavoro pregavano? Se la facevano sotto o erano talmente concentrati da non avere paura? C'erano altre donne lassù? E che piano avevano? Di uccidersi dopo l'attacco o di andarsene in giro ancora per qualche giorno, continuando a contaminare vittime fresche finché non ce l'avrebbero più fatta? Nel vano della porta di un negozio un paio di ventenni cercava di usare al meglio le lattine di Stella, con una ragazzina che aveva tutta l'aria di dormire all'aperto anche lei. Indossava jeans strappati, maglietta e un vecchio giubbetto di nylon verde, poteva avere al massimo un anno più di
Kelly. Aveva un viso affilato coperto di brufoli e i capelli bagnati e sporchi come il marciapiede. Stava appoggiata a un contenitore dell'Evening Standard che riportava in prima pagina altre follie collettive sulla SARS. I due ondeggiavano e lei rideva. Uno dei ragazzi disse che per il favore che stavano per farle doveva fare a tutti e due un lavoretto con la bocca. Lei prese un sorso dalla lattina. «Può darsi.» Aveva gli occhi grandi come piattini, le pupille dilatate e nere. «Stai bene?» Suzy mi puntò un dito nel braccio. Il dolore allo stomaco era tornato. «Credo che i tramezzini non fossero troppo freschi. Sai com'è.» Terminammo il tragitto vicino alla prua, il traffico era fermo al semaforo, i tergicristallo in movimento. Da quel lato dell'edificio i negozi non esibivano vezzosi pannelli di legno dipinti di viola. Solo saracinesche arrugginite. Ancora nessuna luce all'interno e, per quanto ero riuscito a vedere, tutte le porte erano chiuse da lucchetti. Giungemmo alla stazione di polizia all'angolo di Birkenhead e sotto la relativa CCTV che la inquadrava. Suzy era sempre su di giri. «Che ti dicevo? Non è poi così male, quella per esempio è fissa sulla stazione.» Attraversammo diretti al porticato. Il fatto che la fonte non si facesse vedere mi irritava oltre ogni limite. «Facciamo ancora un giro prima della ricognizione per i sistemi di chiusura. Voglio passare davanti alla casa della fonte per vedere se c'è. Non mi fido di quello stronzo.» Un'occhiata verso l'incrocio tra Birkenhead e St Chad's per vedere dov'era puntata la CCTV. Non era più girata verso l'appartamento della fonte ma sulla parte destra dell'incrocio. Suzy si fermò di colpo e si voltò come per baciarmi. «È arrivato, è sulla sinistra.» Sollevai lo sguardo. La fonte stava andando verso la stazione. Mi girai insieme con lei. «Lo blocchiamo all'incrocio.» Giunti al porticato svoltammo a sinistra. Suzy sputò la cicca prima di abbracciarmi con tenerezza. Lui arrivò pochi secondi dopo, colletto dell'impermeabile alzato, braccia incrociate. Esitò un attimo quando ci vide poi attraversò in fretta. Alla luce intermittente delle insegne vidi che era incazzato almeno come me. Ma non m'importava. Quando fu a pochi passi dal riparo della piccola galleria Suzy attaccò per prima. «Sei in uno stramaledetto ritardo, ti avevamo ordinato di non muoverti...» «Non essere sciocca, non posso fare quel genere di cose. Il mondo intero ci osserva.» Si guardò in giro furtivo come se si aspettasse di vedere paia
di occhi a ogni finestra. «Sono dovuto allontanarmi per un po', c'è troppa gente per strada. Sono qui solo per incontrare voi.» Suzy gli servì il sorriso come-sono-felice-di-vederti. «Visto qualcosa?» «No, niente. Ma cosa vi aspettate da me? Vi ho già detto di King's Lynn, cos'altro volete?» Balle. Secondo me erano tutte balle. «Hai la squadra di ASU sulla porta di casa tua e non ne sai niente?» I suoi occhi iniettati di sangue si fecero piccoli. «Sono molte le cose che non si sanno. Non m'importa quello che pensate e ancora meno m'importa di voi e del vostro Paese, ma voi due fareste meglio a capire una cosa. Se lì dentro ci sono dei JI, non hanno paura di niente, sono solo felici di diventare dei martiri. Eseguiranno l'attacco con il contenuto delle bottiglie, qualunque esso sia. Conosco quella gente, ho combattuto per quindici anni.» Suzy si piegò verso di lui. «Non ti piacciamo, questo è chiaro: allora, cosa ci fai qui?» Si morsicò un labbro, fece svariati respiri profondi e lasciò cadere lo sguardo. «Perché la vostra gente mi dice che non ho scelta.» Nessuno di noi due rispose. Ricordai che Signorsì aveva detto che non aveva scelta. In un modo o nell'altro lo tenevano per i coglioni. Sapevo cosa si provava. Sospirò, ci guardò, poi sorrise. «Morirò combattendo.» E detto quello se ne andò. Suzy e io lo osservammo sparire in Birkenhead, poi lo seguimmo. Giungemmo al vicolo dietro l'appartamento quando una lama di luce filtrò attraverso le tende chiuse dell'ultimo piano. Più in giù lungo St Chad's i due ventenni e la ragazza con i foruncoli emersero da una zona buia, barcollavano, incuranti della pioggia, o di noi, mentre si disputavano il contenuto di una bustina di plastica. Quando ci superarono la ragazza sghignazzò, ci aveva riconosciuto, e si passò la lingua sulle labbra screpolate. Attraversammo in una parte buia in caso la CCTV avesse deciso di ruotare verso di noi. I tre erano usciti da quella che sembrava la via di accesso di un garage. Mentre passavamo una voce bassa ma pressante mi chiamò: «Salute, fratello, ne vuoi?» Scrutai l'oscurità. Un accendino venne acceso. Era un ragazzo bianco, l'aria strafottente, più o meno della stessa età dei due ubriachi che lo avevano appena lasciato. Indossava jeans stracciati e un giubbotto di pelle fradicio di pioggia. L'ultima volta che l'avevamo visto doveva essere così
fuori di testa che non si ricordava di noi. «Cos'è che dovrei volere?» Sapevo di aver fatto la domanda, ma la voce non sembrava la mia. Lo spacciatore non ci fece caso. Prese una sigaretta, la portò alle labbra e fece un gesto con le mani. «Qualsiasi cosa, bianca, marrone, a te la scelta.» Parlava strascicando le parole. «Togliti dalla strada, vieni dentro. Non ci sono problemi.» Mi sganciai da lei e mi voltai per guardarlo in faccia. Sembrava che Suzy sapesse cosa stavo per fare prima ancora di me. «No, non adesso, non adesso...» 40 Suzy si fermò sul marciapiede mentre io m'infilavo nel buio. Lo spacciatore si staccò dal muro e prese a dondolarsi da un piede all'altro. «Allora, cosa vuoi, amico? Ho tutto, le bianche, la marrone, basta chiedere.» Ero a meno di un metro da lui. Tenevo lo sguardo fisso sulla sua testa. Lui guardò Suzy. Cominciava a preoccuparsi. «Dille di...» Non riuscì ad aggiungere altro. Con la sinistra gli afferrai il collo ossuto e con la parte bassa del palmo della destra lo colpii forte sul mento. La testa scattò all'indietro e lui crollò sul cemento come un sacco di merda. Adesso compresi perché biascicava: ciò che teneva nascosto sotto la lingua, qualsiasi cosa fosse, volò sul marciapiede. «Vai a fare in culo, stronzo.» Adesso avrebbe ripreso a parlare normalmente. Forse. Cominciò a muoversi, così feci quello che andava fatto: gli sferrai un calcio in faccia. Era buio e non avrei saputo dire dove avevo colpito, ma non m'importava più di tanto. Continuai a calciare. Suzy mi afferrò per un braccio e sussurrò decisa: «Cosa cazzo fai? Andiamo...» Il tizio era a faccia in giù, lo colpii ai fianchi cercando di beccare un rene, poi ancora allo stomaco. Mi liberai da lei e mi accucciai. «Non è il momento.» Lo trascinai sull'asfalto bagnato fino al gradino del marciapiede. Suzy cercava di tirarmi via. «Cosa cazzo...» Lo sistemai a faccia in giù, con la spalla sul bordo del marciapiede e il gomito sopra la cunetta. Cercò di raggomitolarsi, ma gli afferrai il braccio e lo stesi di nuovo. Suzy mise un ginocchio a terra. «Cazzo. Lascia, ci penso io.» Gli afferrò
il polso e raddrizzò il braccio. Nel tentativo di proteggersi lui agitava le gambe. «Stronzi, stronzi che non siete altro» farfugliò. Doveva avere la bocca piena di sangue. Cercò ancora di chiudersi in posizione fetale per difendersi. Ma Suzy gli bloccava il polso come in una morsa, il gomito girato in fuori, l'avambraccio sul bordo del marciapiede. «Avanti, cazzo, procedi.» Con il piede destro appena più alto spiccai un salto di una trentina di centimetri e ricaddi giù con tutta la mia forza e tutto il mio peso. Si udì uno schianto sordo quando il destro entrò in contatto e il sinistro toccò l'asfalto. Urlava come un maiale. Mi voltai e gli piazzai un altro calcio in faccia per farlo tacere. Suzy era già tornata in St Chad's per controllare la CCTV. «Andiamo, andiamo, andiamo.» Svoltò a destra verso Gray's Inn, la seguii e la raggiunsi in pochi passi. «Cosa cazzo succede, Nick?» Guardava davanti a sé, in tensione, mentre io prendevo a calci un paio di pozzanghere per togliere il sangue dagli stivali. «Hai deciso di fare un po' di straordinario per mandare a puttane l'operazione?» Non le risposi. Non ne avevo voglia: non m'importava cosa ne pensasse. Ma era lei che aveva qualcosa da aggiungere. «Non so quale sia il tuo problema ma sono pronta a scommettere che è maledettamente difficile da esprimere.» Accelerò il passo. Cazzo, ero sicuro di essere nel giusto, bastava capire le mie motivazioni, ma adesso non era il momento per spiegargliele. «Stammi a sentire, ormai è andata, ho piantato un casino, scusa.» L'afferrai per un braccio per farla rallentare, poi presi il telefono schermato. Il traffico era ancora piuttosto intenso e per sentire Signorsì fui costretto a chiudere con un dito l'orecchio libero. «Che c'è?» «Abbiamo fatto la ricognizione a trecentosessanta gradi e non abbiamo visto niente, nessun segno di vita. I segnali sono fermi?» «Sì. Vi voglio dentro non appena...» Gli chiusi la bocca. Una volta iniziata l'operazione era lui quello che doveva ascoltare perché in prima linea c'ero io. «Abbiamo visto la fonte. Non ha niente. In questo momento stiamo per iniziare un controllo ravvicinato all'edificio bersaglio.» Stavamo raggiungendo la prua della nave. «La richiamo presto.» Chiusi. Bella sensazione avere l'ultima parola di tanto in tanto. Suzy mi aveva preso di nuovo sotto braccio e si era voltata per controlla-
re che non fossimo seguiti. Come un cane con l'osso, non mollava. «Hai qualche circuito fuori uso? Non dovevi farlo, hai rischiato di compromettere tutto il lavoro.» «Non è vero, anzi, ci ho fatto un favore. Se va dalla polizia si concentreranno sull'altro edificio e per noi sarà più facile penetrare in questo. Sempre che ci vada, dalla polizia.» «Che Dio mi fulmini, questa è la più grossa che mi sia mai capitato di sentire.» La sostenni nello slalom veloce tra le pozzanghere di King's Cross Bridge. «Bene, ragazza MOE, prossima fase: serrature.» Annuì e cambiò lato in modo da avere il braccio sinistro nel mio destro. La ragazza MOE voleva trovarsi più vicino alle serrature. Mentre ci avvicinavamo al bersaglio un gruppo di ragazzi neri con i calzoni larghi e il cappuccio sopra il berretto si unì a noi. Mangiavano patatine e bevevano da lattine di Coca. Qualcuno dietro di noi agitò una lattina e schizzò un altro del gruppo. Risero tutti tranne la vittima, incazzata nera perché le scarpe da ginnastica nuove non solo erano bagnate di pioggia ma erano anche macchiate di Coca-Cola. Suzy e io rallentammo per farli passare avanti e lasciare spazio fra noi. Buono, avevamo un motivo plausibile per fermarci a guardare intorno prima di procedere lentamente dietro il gruppo. Al piano terra dell'edificio bersaglio c'erano quattro negozi separati da portoni. Uno di questi doveva essere stato un tempo un ristorante indiano. Lo sporco intorno alla porta e alla serratura presentavano dei segni? Era stata aperta negli ultimi tempi? Tutti quei locali avevano l'aria di essere chiusi da secoli, perciò doveva essere facile distinguere spostamenti recenti. Era chiuso da pannelli di truciolato e da un lucchetto sporco e incrostato di ruggine mai toccato da anni. Subito accanto c'era il Mole Jazz, un club o un negozio di dischi, difficile stabilirlo da quello che restava dell'insegna. Il lucchetto sulla porta era nello stesso stato ma con un pezzetto secco di gomma da masticare nel buco della chiave, opera di un passante annoiato. Dress Wright, il successivo, era chiuso da saracinesche con pesanti lucchetti dove qualcuno, mesi prima, aveva fatto pipì ripulendo i primi due strati di sudiciume. Era decisamente impossibile che fosse una possibile entrata o uscita: le saracinesche fanno troppo rumore e ci vuole troppo tempo per aprirle e chiuderle.
Con assoluta certezza l'Eastern Eye era stato un ristorante indiano ed era l'ultimo locale prima del burger bar di Jim. Sulla destra del locale chiuso c'era una porta: il lucchetto non era nuovo ma, senz'ombra di dubbio, aveva visto del movimento. Anche Suzy lo vide e ci fermammo abbracciandoci sorridenti. Io con la schiena verso l'entrata, in modo che lei avesse una buona visuale. I suoi capelli umidi mi sfiorarono il viso mentre mi confermava le mie ipotesi. «Sullo strato di sporcizia qualcuno ha messo le mani e il lucchetto è stato aperto molto recentemente. Non vedo segni rivelatori, ma potrebbe essere stata la ragazza a chiudere dentro i compagni prima di rientrare a King's Lynn.» Suzy cominciò a passare una mano lungo la cornice della porta. «Ma la ragazza non aveva un'altra chiave con sé.» «Furbo, cosa credi che stia cercando?» Abbassò la mano, gli occhi luccicanti d'eccitazione. «Trovata. Probabile che avesse intenzione di tornare. Scommetto che i bastardi hanno una via di fuga, se li ha chiusi dentro.» I nostri visi erano quasi a contatto e sentivo il suo fiato sulla pelle. «Sempre meglio controllare, ragazza MOE. Forse ci sarà ancora bisogno delle tue arti magiche.» Sorrisi mentre la abbracciavo per consentirle d'inserire la chiave. Non l'avrebbe girata, però, non poteva correre il rischio di non riuscire a richiuderla o che la chiave si spezzasse all'interno. Sembrava tutto a posto. Una pattuglia della polizia passò a sirena spiegata in Gray's Inn Road. Da quelle parti le sirene erano comuni come le coppiette che amoreggiavano. Nessuno faceva caso né a noi né a loro. Si staccò appena, sorrise e mi piazzò un bacio sulle labbra. «Per chiunque ci stia osservando.» «Avrei preferito che la gomma fosse alla menta, puzzi come la tua sacca.» «Ma scommetto che ti è piaciuto lo stesso.» Tornammo alla prua della nave che aggirammo per la ricognizione ravvicinata del lato di Pentonville. MTC, l'ufficio prenotazioni, era il numero 297. Suzy mi abbracciò e mi attirò a sé. «Due-nove-sette. Lo vedi? Nessun lucchetto. Via di fuga?» «Potrebbe... forse è sprangata dall'interno o semplicemente chiusa e coperta con i pannelli di legno.» «Credo che lo scopriremo presto.» Proseguimmo per Pentonville e attraversammo King's Cross Bridge prima di girare a sinistra e poi ancora a sinistra, in modo da raggiungere la
macchina mantenendoci però a distanza di sicurezza dalla zona bersaglio. Alla fine ci ritrovammo sotto alcuni viadotti ferroviari che si dipartivano dalla stazione: era molto tranquillo, pochissimi veicoli, quasi nessun passante. Chiamai Signorsì e fornii i dettagli di quanto avevamo visto. «Quanto vi ci vuole per entrare e ripulire l'edificio?» «Calcolo difficile. Un'ora, forse due. Prima dobbiamo pianificare l'azione.» «Fate in fretta. Ricordate che la priorità è Dark Winter.» Lo sentii prendere fiato come se volesse lanciarsi in un discorso. Non c'era tempo per cazzate simili. «Richiamo quando saremo pronti.» Era la seconda volta che gli buttavo giù il telefono, ma perché avrei dovuto preoccuparmi se s'incazzava? Di lì a poco potevo essere morto. «Allora, ragazza MOE, che ne pensi? Con quella telecamera puntata addosso dobbiamo giocarcela e fare in modo di essere più naturali possibile. Non abbiamo alternative. Sempre che tu riesca a girare la chiave, naturalmente.» Ignorò la frecciata. «Come facciamo con le tute NBC? Non possiamo entrare già equipaggiati.» «Se riusciamo a entrare senza problemi, ce le mettiamo all'interno e poi ispezioniamo l'edificio sino a che la faccenda non si fa rumorosa.» Annuì, era di nuovo su di giri. Non capivo perché: con ogni probabilità eravamo sul punto d'infilarci in un incubo totale. 41 Suzy si passò le dita fra i capelli zuppi mentre schivavamo le zone illuminate intorno al cantiere. Rallentai un po': non eravamo lontani dalla macchina ma non volevo restarci dentro più del necessario per non correre il rischio di attirare l'indesiderata attenzione della polizia in massima allerta per il terrorismo, oppure, considerato il quartiere, della Buoncostume. L'ultima cosa di cui avevamo bisogno era che qualcuno in uniforme ci invitasse a scendere dall'auto per una visita guidata al bagagliaio. «Okay, ragazza MOE, che ne dici di questo piano? Prendiamo le sacche e raggiungiamo la porta. Ci scambiamo tenerezze come abbiamo fatto prima e tu giri la chiave, d'accordo? Che modello è?» Sapevo che avrebbe portato con sé l'astuccio MOE in ogni caso. «Ward. Non dovrebbe essere difficile.» «Allora, tu apri il lucchetto, io entro e ti copro mentre tu porti dentro le
sacche e chiudi la porta. Quando sarai anche tu all'interno, la blocchiamo.» Suzy gettò un'occhiata al più grande cantiere del mondo. «Lì dentro c'è di sicuro qualcosa che può servirci.» Avevamo bisogno d'impedire che la porta d'ingresso venisse aperta e di bloccare possibili vie di fuga se la faccenda diventava rumorosa. Dovevamo rinchiudere gli ASU come maiali in un porcile se volevamo una possibilità di spuntarla. «Poi indossiamo la NBC. Non ho intenzione di tirare su il cappuccio, fa troppo rumore. Indosserò il respiratore ma terrò giù il cappuccio fino all'ultimo momento.» Niente di sofisticato ma entrambi dovevamo avere le idee chiare su quello che sarebbe successo. «Una volta pronti, ispezioneremo l'edificio dal basso verso l'alto. A meno che non li sentiamo muovere, verificheremo una stanza alla volta.» «Cosa facciamo se abbiamo sbagliato porta? E se in quella parte dell'edificio non c'è nessuno? Non possiamo uscire con la NBC addosso.» «Dovremo passare dal tetto.» «Dark Winter a ogni costo, vero?» Vidi di nuovo quello sguardo euforico. «Qualcosa del genere.» Annuì senza smettere di esaminare il cantiere. «Soldi facili.» Mi augurai che avesse ragione. Le arcate che sorreggevano i binari in entrata e in uscita da St Pancras e da King's Cross stavano per essere rimesse a nuovo. Ma non era l'edilizia vittoriana in mattoni che m'interessava, erano solo le impalcature. Doveva esserci di sicuro qualche giunto vagante in giro e comunque il deposito dei pezzi nuovi non poteva essere lontano. A ogni punto d'ingresso della zona recintata con rete metallica erano sistemate baracche in lamiera. Nessun guardiano in vista, dovevano essere tutti rintanati a guardare i porno della notte su Channel Five. «Vieni.» Suzy aveva visto qualcosa. Mi guidò sul marciapiede opposto, mi allacciò le braccia intorno al collo e mi parlò nell'orecchio. Cominciava a piacermi. «È ora di uno dei nostri leggendari abbracci, Romeo. Vicino ai tuoi piedi, dall'altra parte della rete, c'è della roba.» Ci abbracciammo e io mi guardai in giro. Nessuna CCTV in vista. «Bene, facciamolo.» «L'ultimo dei romantici, sai di esserlo, vero?» Mi chinai e protesi le dita nei buchi della rete. Pochi secondi dopo, abbracciati, eravamo diretti alla macchina. Avevo le tasche gonfie di cinque o sei pezzi di acciaio. Alcuni triangolari, altri rettangolari, ma tutti potevano servire allo scopo.
«Il capo ha bisogno di essere aggiornato, Nick. È ora di chiamarlo.» Aveva ragione, naturalmente. Una delle arcate aveva delle rientranze che nei tempi andati dovevano essere state elementi ornamentali, ma che ormai venivano usate per fare pipì o per fumare uno spinello. Mi rifugiai nel buio di una nicchia al riparo dalla pioggia per qualche minuto. «Ultimo controllo.» Estrassi la 9 mm e, tenendola vicino allo stomaco, con la parte finale del palmo della mano posato sulla canna feci arretrare il carrello fino a veder brillare l'ottone. Lei mi imitò. Presi il telefono schermato. Prima che scattasse il secondo bip era già lì, incombente. «Cos'è successo? Dove siete?» Voci nel sottofondo. Due che mi parevano americane e un'altra che non riuscii a distinguere. Malese forse? Non m'importava. Avevo già abbastanza preoccupazioni. Le voci si affievolirono come se si fosse allontanato. «Stiamo tornando a prendere le sacche e poi ci spostiamo sul bersaglio. Dovremmo essere dentro in meno di trenta.» «Da dove entrerete?» «I segnali sono sempre all'interno dell'edificio?» «Certo. Da dove entrerete?» Glielo dissi e per una volta lo sentii nervoso. «Siete sicuri di farcela?» «No.» Non ero mai sicuro di niente. «E cosa pensate di fare se non riuscirete a entrare?» Mi sembrò agitatissimo. Doveva essere parecchio sotto pressione, mi divertii a pensare che un grosso foruncolo gli pulsasse sul collo. «Non posso permettere che siate scoperti, non voglio sentir parlare di voi nel notiziario del mattino, mi hai capito? Impadronitevi di Dark Winter a ogni costo.» Le voci americane tornarono a portata d'orecchio. L'altra non era malese: era tedesca. «Se non avrà nostre notizie entro l'alba vuol dire che c'è un problema. Richiamo dopo.» E chiusi. Non avevo voglia di passare la notte ad ascoltare Signorsì che mi spiegava come comportarmi sul lavoro. Lui non era mai stato sul campo: aveva passato l'intera vita professionale davanti ai monitor, a occuparsi di comunicazioni e cazzate varie. Ricevere una conferenza di teorie di terza mano mi avrebbe fatto incazzare all'infinito e io non volevo essere incazzato, solo preoccupato e un po' spaventato. Una piccola dose di sana paura mi serviva per rimanere concentrato su tutto e restringeva il mio cervello a una dimensione tale che non riuscivo a pensare ad altro che al lavoro e a come uscirne con il corpo intatto. Cos'è che biasci-
cava di continuo Josh? «Il coraggio non è altro che la paura quando ha detto le preghiere.» Tornammo per strada, alla luce e alla pioggia. «Cos'ha detto?» Studiai l'espressione del suo viso, avrei voluto che mostrasse almeno un accenno di paura. Sembrava solo assente, ma niente di più, con ogni probabilità si stava preparando mentalmente. «Le solite cazzate, ricordati la canottiera e niente televisione né caffè dopo le nove.» Imitai l'accento delle Home Counties. «'Impadronitevi di Dark Winter a ogni costo.'» Strinse gli occhi. «Anche lui ha un lavoro da fare e lo sai.» Raggiunta la macchina Suzy andò diretta al posto di guida. «Faccio io la prima guardia.» Mi spostai dietro la macchina, lei mi aprì il bagagliaio e cominciò a scaricare, come avevamo fatto a King's Lynn. Controllai la mia attrezzatura, senza preoccuparmi di quello che accadeva intorno a me. Ci avrebbe pensato Suzy. In caso di problemi avrebbe messo in moto, io avrei chiuso in fretta il bagagliaio, sarei andato al mio posto e saremmo partiti. Se mi avesse chiamato perché qualcuno si stava avvicinando, voleva dire che c'era tempo. La SD era carica e pronta, ma verificai comunque la camera di scoppio e l'inserimento corretto del caricatore. Quindi controllai che nei caricatori di scorta la parte superiore dei proiettili fosse nel verso giusto prima d'infilarli nella tasca dei pantaloni della NBC. Non volevo cambiare caricatore e ritrovarmi con un inceppo causato dalle parti in movimento che avanzando si bloccavano perché il proiettile non era ben inserito, non è piacevole se a pochi metri di distanza hai una ASU pronta a tagliarti la gola. Quando ebbi finito picchiettai sul tetto della Mondeo e raggiunsi il posto di guida. Suzy scese e fui felice di notare che il suo viso non aveva espressione. Era chiaro che si stava concentrando. Un taxi avanzò pesantemente fra le pozzanghere nella strada dietro di noi. Sedetti al volante, controllai che la chiave fosse inserita e arretrai un poco il sedile. Mentre dietro Suzy organizzava le sue cose, io svuotai le tasche di tutto, tranne gli elementi delle impalcature, telefono schermato e mio cellulare compresi. Misi tutto nel marsupio che infilai sotto il sedile... per l'ultima volta, mi augurai. Se le cose fossero filate lisce, lo avrei recuperato entro un paio d'ore. Anche Suzy era pronta. Presi le chiavi, scesi e mi unii a lei che aveva appeso la sacca alla spalla destra. Misi la mia sulla sinistra in modo che
fosse facile camminare vicini, poi premetti il pulsante di chiusura. «Muoio dalla voglia di bere qualcosa.» «Ottima idea. Io prendo un Jack Daniel's e Coca.» Fece un giro intorno all'auto e controllò ogni porta. Soddisfatta, mi prese sotto braccio e ci avviammo verso la principale lasciando la chiave sotto un blocco di cemento che deviava il traffico. Da adesso in poi non avremmo più parlato. Lei avrebbe fatto esattamente quello che facevo io: cercare di visualizzare ogni fase dell'azione, cercare di creare un film nella testa di quello che voleva che accadesse, a partire dalla serratura, come se i suoi occhi fossero le lenti di una telecamera e le orecchie il registratore. Io visualizzai di varcare la porta con la 9 mm, sollevando i piedi per evitare di fare rumore, poi d'indossare la NBC evitando movimenti veloci. Immaginai di salire le scale, ogni passo con estrema lentezza, preciso, ai bordi dei gradini per non farli cigolare. Ultima scena, io che entro in una stanza, Suzy che mi copre e insieme prendiamo quelli della ASU. Feci rigirare il nastro tre o quattro volte nella telecamera dentro la mente, da quando entravo nel bersaglio a quando ne uscivo con Suzy, Dark Winter e gli ASU morti. Suzy prese un pezzo di gomma e cominciò a masticare. Adesso era il momento di prevedere i casini, non più tardi. Cosa fare se la porta fosse stata ostruita? E se ci avessero attaccato mentre indossavamo l'attrezzatura? Cosa se uno fosse scappato in strada con Dark Winter, o se lo avessero gettato dalla finestra? Premetti play, poi replay, cercando di trovare delle risposte. Non sarebbe andato tutto come da copione, non capita mai. Durante l'azione, tutte le situazioni sarebbero state diverse da come le avevamo immaginate. Ma i filmati nella testa erano un punto di partenza; significava che avevamo un piano. Se tutto fosse andato in merda, se non altro avremmo reagito immediatamente invece di restare fermi a compiangerci. 42 Controllai il Traser: erano passate da poco le due, ma era improbabile che gli ASU dormissero. Ogni sibilo d'aria compressa dei freni nella strada e ogni raspare di un topo sull'intonaco li avrebbero fatti sussultare. Qualcuno magari se ne stava raggomitolato nei nuovi sacchi a pelo, ma di certo almeno uno era di guardia. Cos'era peggio? Ed era importante? Ciò che contava era che quei bastardi erano dentro e presto ci saremmo stati anche
noi. Svoltammo a sinistra in direzione King's Cross. Tutti i posti in cui si mangiava ormai erano chiusi, ma i marciapiedi erano lerci dei loro incarti e di montagne di vecchie lattine di Stella. In giro c'erano meno ubriachi e un paio di puttane in più rispetto a prima, ma la tipologia dei personaggi era più o meno la stessa. La telecamera era puntata verso l'altro lato della strada e sulla stazione di polizia. Forse a quell'ora della notte i vetri a specchio necessitavano più protezione del pubblico. Raggiunto l'incrocio che ci portava alla prua della nave, Suzy prese dalla tasca dei jeans il set di attrezzi per serrature Ward. Non eravamo fuori posto nel quartiere: era zona di alberghetti a poco prezzo, gente con lo zaino e turisti con pochi soldi erano ovunque giorno e notte. Attraversammo la strada tenendoci abbracciati, come se cercassimo lo spaccio di kebab di Jim. La guardai e le sorrisi. «Pronta?» Mi restituì il sorriso. «Puoi scommetterci.» Guardò oltre me verso la CCTV della stazione. «È sempre puntata verso la strada.» Svoltammo a sinistra in Gray's Inn. Raggiunto il bersaglio posai a terra la sacca e mi misi in posizione: schiena contro la porta e braccia spalancate per accogliere lei. Sorrise, posò la sacca vicino alla mia e si abbandonò al mio abbraccio. «Appena a sinistra.» Mi spostai come aveva richiesto e sentii il lucchetto contro la spalla sinistra mentre le carezzavo i capelli bagnati e la guardavo adorante. Sollevò il braccio per la chiave, poi cercò di vedere oltre la mia spalla e di trovare la posizione giusta per aprire il lucchetto. «Va bene così, resta come sei. Ci siamo, fermo.» In giro non c'era nessun altro, non che importasse. Qualunque cosa fosse accaduta, avremmo continuato, come avevamo fatto a King's Lynn con il muro. Star lì a cazzeggiare serve solo a farsi notare di più. Dalla strada giunse un persistente suono di basso, proveniva dallo stereo di due auto che accelerarono e bruciarono il semaforo davanti alla prua della nave a non più di venti metri da noi. Suzy si era impossessata della chiave sopra la porta. Subito dopo sentii il gancio del lucchetto uscire dall'occhiello e il suo respiro contro il collo. «Facile.» Suzy spostò un poco la testa verso di me mentre io controllavo le finestre sopra i negozi di fronte. «La porta si apre.» Si girò appena per controllare la CCTV della stazione. Sorrisi e annuii. Spostai la destra dalla sua schiena e la infilai fra i nostri corpi. Se fosse passato qualcuno avrebbe pensato che stavo dando una toccatina. Si scostò
appena per consentirmi di accedere sotto la felpa. «Fermo, fermo.» Due figure in avvicinamento, sul nostro lato della strada, provenienti dalla poppa della nave. Avevo ancora la mano fra noi, adesso salda sull'impugnatura della pistola. Erano un paio di ragazzini, in giro a festeggiare. Videro entrambi dove avevo la mano e ovviamente pensarono che fosse la mia serata fortunata. Ci superarono con un ghigno e un «ehi, mettilo dentro». Suzy mi baciò con forza sulle labbra. Adesso sapeva più di gomma che di vomito. Con la sinistra la strinsi ancora più forte. Forse era l'ultima occasione che avevo di baciare una donna. Sparirono verso la stazione. Dopo un'ultima occhiata in giro presi il comando. Tenevo la porta con la sinistra. «Pronta?» Sputò la gomma e annuì. Impugnai la Browning con maggior forza. Respiro profondo. «Okay, pronti... pronti... via.» Arretrò lievemente per lasciarmi spazio e io estrassi la pistola e armai il cane con il pollice. Tra la porta e l'infisso c'era uno spazio di circa trenta centimetri. Con l'arma bassa contro il torace, feci un passo di lato e sgusciai nel piccolo ingresso, sempre tenendo la porta. All'interno era buio pesto. Nel momento esatto in cui i miei piedi poggiarono sul cemento estrassi la pistola e mi piegai a metà per offrire un bersaglio minore. Polpastrello sulla prima pressione del grilletto. Una lama di luce dalla strada illuminava il percorso verso una scala coperta di linoleum a circa otto metri di distanza. Mi spostai dalla porta per lasciar passare Suzy, la Browning sempre alta davanti a me e retta con entrambe le mani per darle maggiore stabilità. Con la Browning puntata sulla scala sollevai in alto un piede per essere sicuro di non urtare nessuna schifezza per terra. Gli occhi saettavano in giro. La scala era circa cinque o sei passi davanti a me. Un veicolo passò in Gray's Inn alle mie spalle e un lampo di luce bianca inondò l'ingresso. Sulla mia sinistra c'era una porta chiusa. Mi fermai e attesi che Suzy richiudesse il portone. Buio completo, adesso. Rimasi immobile, bocca aperta e orecchio puntato alla scala. Tacchi alti di donna ticchettarono sul marciapiede. Qualcuno le suonò il clacson. Poi un fruscio soffocato: Suzy stava togliendo le SD dalle custodie. Qualche istante dopo l'avevo vicina. Riposi con un movimento lento la pistola nei jeans e con il pollice destro feci scattare la sicura. Tenevo gli occhi fissi sulla porta chiusa e le orecchie tese alle scale. Sollevai la mano destra e lei ci si avvicinò. Un istante di esitazione e afferrai il metallo freddo della SD raggiungendo a tasto l'impu-
gnatura, finché con il pollice non alzai la sicura. Il retro del mirino emanava un bagliore flebile. La sinistra scese alla tasca frontale dei jeans dove tenevo la Mag-Lite. La feci ruotare con la bocca. Con le dita coprii quasi interamente la lente in modo da lasciar filtrare solo un piccolissimo filo di luce. La porta era rivestita di legno. Due serrature sulla sinistra coperte di vernice che si sfogliava. Una più o meno a metà altezza, insieme con una maniglia di ottone, l'altra ad altezza mento. Si apriva verso l'interno. Puntai la pila appena sopra la maniglia in modo che Suzy potesse vedere e mi spostai dal lato dei cardini cercando di fare del mio meglio per evitare pezzi d'intonaco caduto e la sporcizia di cui era coperto il pavimento. Feci anche attenzione a che il fascio di luce non puntasse dritto nel buco della chiave e fosse quindi visibile dall'altra parte. Suzy sapeva quello che volevo. Con la mano coperta dalla felpa afferrò con calma ma saldamente la maniglia. Il resto del suo corpo rimase contro il muro, in caso dall'altra parte si fosse manifestato qualcuno con un'arma in pugno. Mi misi in posizione. Con la spalla destra ancorata all'infisso aprii la parte estensibile dell'impugnatura della SD finché gli incastri non scattarono. Caricai l'arma sulla spalla destra e inghiottii la saliva che mi si era raccolta nella bocca aperta. Avrei potuto lasciarla colare ma non volevo seminare DNA. Sistemai la testa in modo da alloggiare contro la guancia l'acciaio della leva che bloccava quel lato del calcio e afferrai la canna silenziata con la sinistra. Alla tenue luce della pila vidi che anche Suzy aveva aperto il calcio dell'arma. La sua destra era serrata sull'impugnatura, con l'arma puntata a terra portò il calcio sulla spalla destra. Quando vidi che la sinistra era tornata sulla maniglia spensi la pila. Uno scoppio di risa per strada. Abbassai la leva della sicura fino al primo clic. Era su colpo singolo. Mi staccai lentamente dal muro e tastai l'aria fino a toccare Suzy. Un colpetto leggero a quello che speravo fosse il suo braccio, poi la mano tornò alla canna. Sentii cigolare la maniglia. Calcio sulla spalla, entrambi gli occhi aperti, mirino alzato, arma puntata nel punto in cui la porta si sarebbe aperta. Cominciai ad avanzare. Il battente si aprì di qualche centimetro, la luce opaca della strada filtrava all'interno attraverso i buchi vuoti dei ventilatori per l'estrazione dell'aria posizionati in alto vicino al soffitto. Mi spostai a
sinistra, fuori dal vano della porta, entrambi gli occhi aperti, e mi bloccai. Gambe piegate, mi allungai sull'arma fino a renderla parte di me. Suzy entrò e si spostò a destra. Adesso eravamo entrambi fuori dal vano della porta, all'interno del negozio di kebab di Jim. La luce della strada, lato Pentonville, filtrava da un'apertura di una ventina di centimetri fra le tavole di legno sopra le vetrine di MTC. C'era una porta sulla destra, socchiusa. Suzy si avvicinò, rapida, ma attenta a non far rumore con i detriti. La seguii. Lei prese posizione dal lato dei cardini, di fronte all'apertura, arma alta, in attesa che io la coprissi. Le ero alle spalle quando fece il primo passo nella stanza adiacente. La seguii, mi spostai a destra, il pollice controllava senza posa che la leva fosse su colpo unico. MTC era un locale piccolo, giusto un vecchio bancone e delle scaffalature. Attraverso la barriera dei pannelli di legno ci giunsero delle voci alterate. Una lite tra un autista di minicab e un gruppo di nottambuli. Seguii le voci con gli occhi, un uomo appoggiato al 297 diceva al tassista che poteva infilarsi la corsa su per il culo perché venticinque sacchi erano troppi per andare a Herne Hill. La porta aveva due serrature, una in alto e una in basso. Tornai nel locale di Jim, arma sempre sulla spalla, calibrando bene i passi tra la schifezza sul pavimento. Adesso che la visione notturna stava entrando in funzione riuscii a distinguere una lama di luce che dal fondo della porta da cui eravamo entrati si allungava nel corridoio. Passò un paio di auto. Suzy copriva la scala mentre io estraevo dai jeans i pezzi d'impalcatura. Cercando di fare meno rumore possibile ne incuneai tre fra la porta e l'infisso. Non volevo perdere tempo: ne infilai con forza uno a un terzo dall'alto, uno a un terzo dal basso. E uno sotto. In nessun modo quella porta si sarebbe aperta in fretta. Recuperate le sacche rientrammo da Jim. Ancora una volta Suzy coprì la mano con la felpa prima di chiudere la porta. La stanza era sporca e così impregnata di grasso che potevo sentirne il sapore. Un veicolo di emergenza passò a tutta velocità in Pentonville dall'altro lato di MTC e la luce azzurra rimbalzò sul soffitto. Andai a bloccare la porta del 297 con i pezzi d'impalcatura avanzati. Suzy intanto indossava la NBC.
43 Mi unii a Suzy e indossai la tuta NBC con la SD sempre a portata di mano, posta sul lato sinistro, così da non dovere far altro che impugnarla e far scattare la sicura con il pollice. Mantenni sempre gli occhi puntati sulla porta chiusa. In un attimo fui pronto, respiratore escluso. Infilai la pistola nella tasca situata nella sezione frontale della casacca e controllai che i caricatori di scorta della SD - dentro le sacche applicate ai pantaloni - avessero i proiettili rivolti verso il basso e la parte concava del caricatore girata all'interno. Se avessi dovuto cambiare caricatore non avrei dovuto fare altro che infilare la mano in tasca, prenderne uno che avrei trovato con i colpi verso l'alto e il lato concavo nel verso giusto per essere infilato nell'arma. Almeno in teoria. In realtà i caricatori si sarebbero mossi e girati, ma a me piaceva pensare che fossero posizionati correttamente all'inizio di un lavoro. Sempre più concentrato verificai per l'ultima volta che il caricatore fosse inserito bene e che la leva si spostasse libera fino al selettore del tiro a raffica. Mentre Suzy si piegava per allacciare gli stivali, controllai la parte estensibile del calcio per essere sicuro che i due giunti fossero bloccati. C'era un po' di lasco nelle giunture, ma quegli affari non danno mai la solida posizione di tiro che si ottiene con quelli a pezzo unico. Avrei preferito essere coperto dalla testa ai piedi di Kevlar antiproiettile, ma a parte quello ero pronto. Un ultimo controllo con il pollice che la sicura fosse inserita e con il respiratore nella sinistra iniziai a muovermi sollevando con estrema cautela un piede dopo l'altro per abituarmi di nuovo agli stivaloni di gomma. Mentre raggiungevo la porta, dall'esterno arrivò un rumore di tacchi alti e di risate. Mi spostai sulla destra, vicino alla maniglia, poi mi accucciai e posai a terra la SD. Controllai che la valvola della pressione del respiratore fosse chiusa, liberai la fronte dai capelli e mi coprii il viso con il respiratore. Verificai la tenuta e che la bombola fosse fissata bene. Trassi qualche respiro lento e profondo per ossigenarmi e inspirai l'odore acuto di gomma nuova. Quindi mi alzai. Arma nella destra, calcio contro la spalla, indice dritto sul coprigrilletto, pollice pronto a disinserire la sicura, ultima verifica al mirino della SD. Suzy sistemò il calcio dell'arma contro la spalla, nella zona morbida tra clavicola e articolazione, poi si appiattì contro il muro dall'altro lato della porta. Mi sporsi in avanti e avvicinai l'orecchio destro contro la porta. Non
sentii altro che i veicoli in strada avanzare fra le pozzanghere. Tornai eretto e mi misi in posizione di tiro, gambe aperte allineate con le spalle, corpo in avanti, ginocchio sinistro flesso, curvato sull'arma in modo che fosse, ancora una volta, parte di me. Suzy si protese e afferrò la maniglia. Annuii e lei la abbassò. Con uno scricchiolio la porta si schiuse d'un soffio, cinque centimetri, dieci, quindici. Buio. Non vedevo altro che buio. Quando l'apertura fu di circa cinquanta centimetri, spostai lentamente il piede sinistro sulla soglia e posai il bordo dello stivale nel corridoio. Sentii dei frammenti d'intonaco contro la gomma e mi spostai di qualche centimetro fino a che non trovai uno spazio pulito. Eseguii la stessa operazione con il destro, tastando fino a individuare un piccolo spazio di cemento libero. Alla mia destra, un filo di luce filtrava sotto la porta da cui eravamo entrati e dall'altro lato due veicoli procedevano tra le pozzanghere gonfie di pioggia. Sempre respirando con la bombola, mi aprii un varco fino alla scala che si trovava quattro passi alla mia sinistra. Avevo gli occhi spalancati, l'arma a quarantacinque gradi, puntata nel buio. Raggiunsi il fondo della rampa e scrutai l'oscurità. I polmoni faticavano a riempirsi d'aria. Sentii il debole fruscio della NBC di Suzy e mi voltai. Era sulla soglia, l'arma alta, e copriva il buio sopra di me. Lei sarebbe stata il mio piede a terra in quel pezzo dell'azione. Mentre io mi concentravo a salire le scale più veloce e silenzioso che potevo, lei sarebbe rimasta ferma. Quando mi fossi fermato, lei mi avrebbe raggiunto. Se si fosse presentato un problema sarebbe stato difficile per lei aprire il fuoco senza correre il rischio di colpirmi e più in alto fossi salito più avrei invaso il suo spazio di mira. Se si fosse andati sul rumoroso, il mio piano era di appiattirmi a terra e scivolare indietro per le scale lasciando che fosse lei a colpire qualsiasi cosa si trovasse sopra di me. Tempo di andare. Feci un lento respiro profondo. Ogni muscolo del corpo in tensione per mantenere una salda posizione di sparo. Mi spostai a destra della scala per concedere a Suzy un arco di tiro appena più ampio, sollevai il piede destro e lo feci avanzare stando attento a vecchie lattine o a sacchetti fruscianti, tutto quello che poteva provocare rumore. Quando la punta del piede toccò il muro lo posai sul primo gradino con il peso spostato in avanti. Il legno scricchiolò più forte del rumore del mio respiratore. Mi bloccai in ascolto. Niente. Portai tutto il peso sul piede destro e ripetei la sequenza con il sinistro
nel gradino successivo, il corpo contro il muro. Il sudore mi faceva prudere la pelle. Gli occhi puntati verso l'alto si stavano lentamente abituando all'oscurità. Sembrava che lassù ci fosse un pianerottolo, non sapevo se ci sarebbe stata anche una porta. Mi fermai sul quinto gradino, roteavo gli occhi nel tentativo di distinguere forme o sagome nel buio. Non ci riuscivo: ancora non riuscivo a vedere niente. Dei visori notturni sarebbero stati molto utili. Avanzai piano lungo i gradini, a ogni scricchiolio mi fermavo, in attesa di sentire reazioni dall'alto. Ormai avevo il viso completamente bagnato: mi sembrava che il respiratore galleggiasse sopra la pelle. Ogni muscolo era in tensione, perché usavo tutta la forza delle gambe per avanzare e mantenere l'equilibrio, mentre sguardo e arma erano puntati verso l'alto. Ero a metà strada dal pianerottolo, forse dieci o dodici gradini ancora, quando il piede destro cominciò a tremare e fui costretto ad appoggiarmi al muro per sostenermi. Inalai ossigeno come un sommozzatore. Il respiratore produceva il rumore di una cascata. Il sudore mi colava lungo la schiena; la parte dei jeans che copriva le cosce era fradicia e appiccicata alla pelle. Nessuna porta sul pianerottolo, solo muro intonacato. Adesso dall'alto proveniva una luce diversa, probabilmente filtrava dalla finestra del primo piano. Veniva da destra, e ciò poteva significare che la scala girava su se stessa. Avanzai a fatica, sempre con la schiena contro il muro, tutto concentrato sulla qualità della luce, cercavo d'individuare ogni variazione d'intensità che poteva essere indizio di movimento nella rampa successiva. Ancora qualche gradino e alla fine raggiunsi il pianerottolo. Con l'arma sempre contro la spalla attraversai l'arco di tiro di Suzy e mi appiattii nell'angolo di sinistra delle scale. Da dove mi trovavo riuscivo a vedere sei o sette gradini, che portavano in alto verso la luce, ma non mi sarei spostato per non correre il rischio di farmi vedere da qualcuno lassù; volevo Suzy accanto a me a darmi copertura. Guardai in basso e vidi la sua sagoma scura che emergeva piano nell'ombra. Certamente teneva bassa l'arma ed era concentrata in modo da spostarsi producendo meno rumore possibile. Occhi e orecchie erano al massimo dell'attenzione per individuare movimenti o suoni, ma non sentii altro che qualche cigolio dal basso, i miei respiri affaticati nel dannato respiratore e l'occasionale mormorio del traffico.
Rimasi fermo, arma alta e la sensazione della pozza di sudore intorno al sigillo. Odiavo quel congegno ma mi sembrava sempre un miracolo che il vetro davanti agli occhi non si appannasse. Aprii la bocca e mi sporsi in avanti per ascoltare ancora, cercando d'ignorare il ruscello di saliva che mi scendeva lungo il mento. Un paio di minuti dopo Suzy fu a due passi da me, la schiena contro il muro di destra, SD di traverso davanti al torace. Mi fece un cenno e io ripresi ad avanzare, schiena contro il muro, arma alta, centimetro dopo centimetro fino a che la debole luce che veniva da sopra non m'inondò. Stavolta ero rimasto sul lato sinistro della rampa; Suzy si tenne a destra mentre io cominciavo a salire. Avevo la schiena madida e le mani bagnate dentro i guanti di gomma. Morivo dalla voglia di usarli per detergermi il sudore che mi pungeva le palpebre. Quando arrivai con la testa all'altezza del pianerottolo del primo piano, riuscii a vedere da dove proveniva la luce: una finestra sporca alta quasi due metri che dava sulla strada. La pioggia che batteva contro il vetro confondeva il rumore del traffico e, mi augurai, anche quello del nostro avanzare. I locali sopra Costcutter, che erano esattamente di fronte e alla stessa altezza, non mostravano segni di movimento dietro le tendine cascanti alle finestre. Ero a metà del passo successivo quando sentii un rumore, il rumore di qualcosa che gratta, da sopra. M'irrigidii, bocca aperta, senza respirare. In strada un camion passò rombando. Era un'asse del pavimento che si sistemava per la notte o era un topo? Possibile. Poggiai il piede per essere più stabile e ripresi a respirare. Inghiottii saliva a fiotti. Restai immobile in attesa di sentirlo una seconda volta. Passarono sei minuti, forse sette. Stavano per venirmi i crampi. Ogni tanto transitava un veicolo e un paio di vagabondi litigò nel vano di una porta. Poi riprese a piovere forte e l'acqua iniziò a battere contro il vetro. Guardai in basso verso Suzy che non si era mossa dal pianerottolo e teneva il fucile puntato verso di me. Non era importante se anche lei avesse sentito o no. Aveva intuito che qualcosa non andava perché mi ero fermato. Avrebbe reagito a seconda di quello che avessi fatto io. Attesi altri trenta secondi, poi avanzai, arma alta, calcio contro la spalla, pollice a controllare la posizione di colpo singolo. Mi mantenni vicino al
muro di sinistra finché non raggiunsi il pianerottolo e poi l'angolo all'estrema sinistra per tenermi lontano dalla finestra. Granelli di luce opaca e ombre fluivano sulle tavole del pavimento, mentre la pioggia scivolava sui vetri. Di fronte a me, oltre la finestra e la successiva rampa di scale, c'era una porta chiusa. Una semplice porta da interno da poco prezzo di colore chiaro con la maniglia sul lato sinistro. Suzy mi raggiunse mentre io cercavo di inalare ancora ossigeno dal respiratore. Si fermò molto vicina al pianerottolo con la schiena contro il muro a destra in attesa di un mio cenno. Strisciai lungo il muro, fucile in posizione. La luce della finestra finiva a circa un terzo della rampa che saliva. Mi fermai quando la spalla raggiunse l'infisso della finestra. Vedevo la strada fino alla stazione di polizia sempre chiusa. Mentre un camion passava rombando, Suzy si abbassò e attraversò lo spazio davanti a me e prese posizione di fianco alla porta. 'Fanculo la finestra, dovevo passarci davanti. Raggiunsi Suzy, ero pronto a entrare, pollice su colpo singolo, sinistra sulla canna, polpastrello sul grilletto alla prima pressione. Feci un cenno e Suzy afferrò la maniglia e la girò. Con un cigolio minimo la porta si aprì di qualche centimetro. Vidi della luce, prima da un lato della prua della nave poi dall'altro. Superai la soglia e mi spostai subito sulla sinistra, scrutai tutta la stanza, sempre abbassato, per sgombrare il campo per Suzy che fu subito dietro di me. Compiuti tre passi all'interno mi fermai chino sull'arma. Vedevo l'intera prua della nave. Non c'erano suddivisioni come al piano di sotto ma un unico grande spazio aperto. Una vecchia scrivania di metallo e un paio di sedie di plastica capovolte. In mezzo alla stanza, appoggiato su un fianco, un disco satellitare in plastica di circa un metro e mezzo di diametro. Il resto del locale era nello stesso stato di degrado. Lì la pioggia batteva molto forte sui vetri, tanto che sembrava di essere dentro un tamburo. Dall'altro lato della strada l'insegna opaca della stazione di King's Cross luccicava verso di noi. Respirai un paio di volte, lentamente. Stavo per tornare verso la soglia quando echeggiò un colpo secco. Veniva da sopra. Suzy non si mosse ma alzò di scatto la testa. Cercai di non respirare. La saliva mi colava lungo il mento. Il rumore veniva da sopra, nessun dubbio. Erano di sopra. I bastardi erano di sopra, proprio sopra di noi, da qualche
parte al secondo piano. 44 M'irrigidii, la testa sempre rivolta verso il soffitto. Chiusi gli occhi per concentrarmi ancora di più, ma il rumore non si ripeté. Mi giunse solo il tamburellare della pioggia e, di tanto in tanto, rumore di traffico sull'asfalto bagnato. Passarono due o tre minuti. Ero sicuro che il suono fosse venuto da destra, dal lato del soffitto verso Pentonville. Ancora niente. Decisi di raggiungere Suzy sollevando bene i piedi per evitare lo stesso errore di quelli di sopra. Le strinsi una spalla e feci un gesto verso la parte destra del soffitto, poi alzai le spalle dubbioso. Lei sollevò una mano indicando un punto più verso il centro e la fece ondeggiare per farmi capire che non ne era certa. Ma, da qualsiasi punto fosse venuto, sapevamo entrambi con assoluta certezza che si trattava di un rumore provocato da un essere umano. Stavamo perdendo tempo, potevano esserci delle serrature lassù o altri ostacoli da riuscire a superare, o allarmi da evitare. Non c'era bisogno di parlarne con lei, si stava già muovendo verso la porta ancora aperta. Girai su me stesso, calcio contro la spalla, pollice su colpo singolo, e la seguii. Mi portai a destra dell'infisso e mi abbassai fino a vedere metà della rampa. Sistemai la guancia contro il metallo freddo della giuntura del calcio e buttai un occhio al mirino. Il cerchio e il puntino erano sempre al loro posto. Rassicurato, avanzai nel pianerottolo e su per le scale lungo il muro di sinistra, Suzy era dietro di me per coprirmi. Ogni due o tre gradini mi fermavo in ascolto e poi continuavo. La luce che veniva dal basso era appena sufficiente per consentirmi di distinguere il pianerottolo del secondo piano, che si allungava a destra e a sinistra. Quando la mia testa fu all'altezza dell'ultimo gradino, lasciai cadere la sinistra e puntai il fucile contro il soffitto con la sicura inserita per evitare che partisse un colpo involontariamente. Ciò di cui avevo bisogno adesso era una postazione valida per ispezionare il pianerottolo a sinistra e a destra. Si allungava per cinque o sei metri in entrambe le direzioni, chiuso alla fine da porte antincendio con grandi maniglioni in alluminio. Quando mi accucciai sui gradini la gomma degli stivali emise un debole cigolio. Feci cenno a Suzy di raggiungermi. Non sapevo cosa c'era al di là delle porte ma mi ero fatto un'idea e la volevo vicino a me prima di continuare.
In un attimo mi fu accanto, sulla destra. Con il pollice indicò verso sinistra per suggerirmi da quale lato dovevamo andare secondo lei. Con un cenno le comunicai che ero d'accordo e cominciai ad avanzare nel pianerottolo verso sinistra. Tenevo l'arma alta. Volevo evitare che le finisse addosso e, più ancora, il rumore metallico delle due armi che si scontravano. Suzy aveva preso posizione dietro di me, avrebbe coperto l'altra porta e le scale fino a nuove istruzioni. La porta era inserita a livello del muro, i cardini erano sulla sinistra, si apriva verso di noi, da destra, con un braccio a pressione. Mi avvicinai, la SD era di nuovo contro la spalla, sbattevo di continuo le palpebre per cercare di liberarle dal sudore prima di portare la testa contro la porta. Posai l'orecchio destro appena sotto la maniglia nel punto in cui incontrava l'infisso. Per alcuni secondi fu come ascoltare una grande conchiglia e non sentire altro che il mare; poi, da qualche parte dall'altro lato, sentii una porta cigolare e dei passi. Venivano verso di me. Compii due veloci balzi all'indietro e mi curvai sul fucile, occhi sbarrati, non li strizzavo più. Cosa fare se fossero usciti in due? Cosa se ce n'era uno solo, ma con qualcuno dietro che lo copriva? La conclusione era sempre la stessa: se qualcuno avesse varcato la porta avrei tirato. Non c'era tempo per controllare Suzy, avrebbe saputo come muoversi vedendo la mia reazione e mi avrebbe dato copertura. I passi si avvicinarono. Mi portai sulla prima pressione. I passi si bloccarono. Respirai e fissai la porta, pronto a far fuori chiunque fosse inquadrato nel piccolo schermo del mirino. Ancora niente. Poi, esattamente al di là della porta, sentii un rumore conosciuto. Il bastardo stava pisciando in un secchio. Sembrò non finire mai. Il sudore scorreva all'interno del guanto destro e gocciolava dalla palpebra sinistra, bruciava e mi confondeva la vista. Feci un altro respiro e sentii un bisbiglio. Non proveniva da quello che stava facendo pipì, ma da un punto più lontano. Il flusso rallentò e, dopo qualche altro spruzzo intermittente, finì. I passi tornarono indietro. Rilasciai la prima pressione e tornai in posizione contro la porta, sicura inserita, dito lungo la protezione del grilletto. Sentii tossire e poi più nient'altro se non il mare. Il secchio era un'ottima procedura. Anche se la fornitura dell'acqua non fosse stata sospesa, non avrebbero fatto scorrere acqua nei bagni. Era arrivato il momento di entrare. Mi allontanai dalla porta fino a rag-
giungere Suzy. Era piegata sull'arma e copriva l'altro lato. La sentivo respirare dalla bombola. Sollevai l'indice e il medio, abbassai il pollice, indicai il suo viso e poi la porta. Si voltò e si avvicinò alla porta bersaglio mentre io mi preparavo a fare fuoco e con uno scatto della testa cercavo di liberarmi di quel dannato sudore che mi andava negli occhi. Suzy, ferma a sinistra, fece un ultimo controllo con me e poi aprì piano la porta. Il braccio a pressione cigolò, non tanto, ma a me sembrò forte come un colpo di pistola. Quando ci fu spazio sufficiente sgusciai piano nel buio, testa e spalle basse. Non c'erano finestre, solo muri pieni su entrambi i lati. Avevo il viso zuppo e la gola secca mentre avanzavo con gli occhi spalancati cercando di respirare lentamente per ridurre il rumore. Sentii il clic soffocato della porta antincendio che si chiudeva sotto la supervisione di Suzy, poi sentii qualcosa di molle e scivoloso sotto lo stivale. Avevano fatto dell'altro, lì, non solo pipì. Sentii borbottare davanti a me, voci a una decina di metri, forse più lontane. Mi bloccai. Non vedevo altro che il debole bagliore del mirino della SD, anche se gli occhi cominciavano ad abituarsi. Mi sporsi in avanti per ascoltare meglio. Passarono tre o quattro minuti e cominciai a distinguere una porta chiusa a un paio di metri di distanza sulla sinistra. Mi avvicinai a piccoli passi. E se non fossero stati insieme? E se erano divisi e in stanze diverse? Dalla fessura sotto la porta non filtrava luce. Sentivo suoni soffocati provenire un po' più avanti nel corridoio, due, forse tre voci che bisbigliavano. Non riuscii a distinguere la nazionalità, ma che cazzo me ne fregava? Non sapevo se Suzy le aveva sentite, ma se io mi fossi fermato si sarebbe fermata anche lei. Era tempo di tirare su i cappucci. Con l'arma puntata verso il soffitto, girai lentamente su me stesso in modo da non mettermi sulla sua traiettoria o scontrare qualcosa. Non avevo compiuto più di due passi verso di lei quando Suzy venne inondata da una luce alle mie spalle. Come vidi il riflesso sulle lenti mi abbassai sulle ginocchia per lasciarle più spazio. Mentre mi giravo l'onda d'urto della raffica mi sfiorò la testa. Tud, tud, tud. La luce proveniva da un'altra porta, a non più di dieci passi verso sinistra. Nessun rumore di un corpo che piombava a terra, solo una luce portatile lasciata cadere e del fumo che saliva in spirali nel corridoio.
Nella stanza esplosero urla e grida. Suzy mi superò mentre correvamo verso la luce pronti a fare fuoco. Non c'era tempo per cazzeggiare, entrò decisa e si portò sulla destra. Forme confuse in movimento: caricò a testa bassa. Andai verso sinistra mentre lei scaricava un'altra raffica da tre colpi. Stanza grande. Chiazze di luce sul pavimento. Fumo di sigarette. Tante ombre. Disordine. Scritte sui muri. Bersaglio a sinistra, dietro una pila di cartongesso, ancor più a sinistra un'altra porta. Tutto rallentò. Era a più di dieci metri di distanza. Smisi di respirare. Con lo sguardo lo seguii mentre si spostava da sinistra a destra, senza guardarsi intorno, proiettato in avanti, concentrato. Seguii i suoi movimenti, piede sinistro in avanti, piegato sull'arma, ruotavo insieme con lui, controllai che la leva fosse su colpo singolo mentre alzavo l'arma di qualche centimetro, grilletto già in prima pressione, mirino in campo visivo, il bersaglio sul piccolo schermo, ancora in movimento verso destra. Ce lo avevo, il cerchio del mirino raggiunse da dietro la massa centrale del suo corpo. Tud, tud. I due colpi lo fecero crollare. Tornai al tempo reale. Ripresi a respirare, mi avvicinai, gli sparai altre due volte nella schiena. A quel punto vidi dov'era diretto. Sul pavimento, dietro un cartone c'erano le bottiglie. Un corpo mi urtò da sinistra e afferrò la SD. Finimmo a terra. 45 Il suo peso mi schiacciò. Scalciai, cercai di colpirlo a testate. La SD incastrata fra noi. Gambe in jeans ci saltarono addosso, una donna indiana. Afferrò un paio di bottiglie e fuggì verso la porta. Fu l'ultima cosa che vidi. Il respiratore venne girato a coprirmi gli occhi e la mano strappata dall'impugnatura dell'arma. Sentivo odore di sigaretta nel suo alito, girò la canna verso di me. Inarcai la schiena e scalciai. Partì un colpo. A vuoto. Merda, era in vantaggio. Nel corridoio rimbombarono delle urla. Sentii il tamburo della SD girare e raschiarmi contro il torace. Avevo gli occhi ancora coperti. Cercai di spostare il respiratore strofinandolo contro
il tizio che mi teneva a terra, senza smettere di dare calci e agitarmi per tenere la bocca dell'arma lontano da me. Una raffica da tre colpi dall'alto e il peso che avevo addosso si contorse e urlò. Mi liberai con spinte e calci, mi strappai il respiratore dalla testa. Suzy era in piedi sopra di lui che strisciava per raggiungere le bottiglie. Al posto del piede destro aveva una poltiglia di sangue e osso. Suzy gli piazzò un piede per parte e gli scaricò un'altra raffica da tre nella testa. Il sangue esplose sul linoleum. Raccolse dal pavimento una torcia a batterie sporca di sangue e si lanciò all'inseguimento della fuggitiva. Afferrai la mitraglietta. 'Fanculo al respiratore, era troppo tardi adesso. Se quella schifezza era già nell'aria gli antibiotici avrebbero fatto meglio a fare il loro lavoro. Suzy ricomparve con due bottiglie in mano che posò con delicatezza vicino alle altre. «Tre morti, non ce ne sono altri.» Sollevò la torcia in su e in giù per controllarmi. Succhiava a fatica aria dal respiratore. «Tutto a posto?» Mi guardai intorno tra il fumo di sigarette e di cordite. «Sì, credo di sì, cazzo, pensavo, lo sai...» Recuperai l'equilibrio e sollevai un piede per farle vedere cosa avevo attaccato alla suola. Poi indicai la bombola. «Se non avessimo avuto questi cosi li avremmo trovati soltanto seguendo la puzza dal negozio di kebab.» Non era molto divertente ma lei scoppiò comunque a ridere e continuammo a farlo mentre controllavamo le bottiglie. Del sangue si era raccolto alla base ma sembravano tutt'e dodici intatte, con i sigilli di stagnola intonsi. Mi sentii decisamente molto sollevato dato che respiravo senza protezione fra tabacco e cordite. Era logico che non avessero aperto le bottiglie fino all'ultimo minuto prima dell'azione per non correre il rischio di essere contaminati. Se l'attacco avesse subito un ritardo di un paio di giorni, sarebbero stati troppo deboli per portarlo a termine. Tre grosse sacche sportive in nylon con tracolla, identiche, erano lì vicino insieme con quattro set di vestiti e scarpe nuovi. C'erano cartine della metropolitana e carnet di biglietti per la Zona Uno su tutt'e quattro le pile, ma solo su tre era posato un cellulare. Piegai un ginocchio a terra e iniziai l'ispezione delle sacche. Contenevano ognuna una bombola di metallo piuttosto voluminosa di aria compressa lunga una sessantina di centimetri. C'era anche un cilindro di plastica dura, sessanta per trenta di diametro, collegato a un tubo infilato nella stoffa che terminava nello scomparto dove di solito si mettono le scarpe da tennis.
Suzy sollevò le bottiglie una alla volta e le ripulì dal sangue con una camicia. Io presi una cartina della metropolitana. Contai come minimo una dozzina di stazioni principali nella Zona Uno. Quattro erano circolettate a matita, King's Cross inclusa. Tutte erano servite da linee sotterranee. La lanciai a Suzy e ne presi un'altra; anche in quella c'erano stazioni segnate, ma erano tutte più a ovest e includevano Paddington e Victoria. Forse l'unica cosa che avevo imparato a scuola era che il sistema di ventilazione nella sotterranea funzionava come un pistone: i treni spingevano l'aria davanti a sé mentre avanzavano. Per questo le gallerie sono così a misura e ogni treno in arrivo è preceduto da una folata. Per diffondere DW non si sarebbe potuto scegliere un posto migliore. Suzy lasciò cadere la cartina e raccolse il blocchetto di biglietti più vicino. Ne mancavano tre o quattro. «I bastardi devono aver fatto i loro sopralluoghi.» Riprese a pulire le bottiglie e io mi guardai in giro. In passato la stanza doveva essere stata il magazzino di qualche ufficio. Quindici metri quadri e nessuna finestra. Gli stivali NBC avevano lasciato sul linoleum una striscia di sangue e merda. Pannelli di cartongesso e scaffali di metallo grigio ovunque. In un angolo quattro sacchi a pelo aperti decisamente nuovi. Spazzatura, vecchia e nuova, sparpagliata ovunque. A terra c'erano anche bombolette spray e i muri erano coperti di scritte in vernice rossa, messaggi in malese, arabo e cinese, qua e là impronte rosse di mani aperte e anche un Kiblat disegnato che indicava l'est. Guardai il cinese che mi aveva assalito e che giaceva scomposto a terra a faccia in giù. Dai buchi nella testa non fluiva più nulla, ma i suoi capelli nerissimi erano impastati di sangue che brillava alla luce della torcia. Non aveva più di trent'anni, indossava jeans, Nike nuove multicolore e una felpa blu. Dovevamo andare via. «Direi che non serve controllare anche il piano di sopra, se ci fosse stato qualcuno sarebbe già sceso. Prendiamo le bottiglie e andiamocene. Passami un sacco a pelo.» Me ne lanciò uno di quelli nell'angolo; erano del tipo con la cerniera tutta intorno che li trasformava in coperte e iniziò a togliere i cilindri di plastica dalle sacche. Io tornai alle bottiglie nascoste e con estrema cautela ne infilai una nel fondo del sacco a pelo che arrotolai due volte per proteggerla, poi ne infilai un'altra e feci altri due giri. «Tutto il resto rimane qui», indicai i vestiti, «cellulari inclusi. Se Signorsì li vede spostare entrerà in azione convinto che noi abbiamo fallito. E poi sicuramente è già in possesso di tutti i numeri che questi telefoni hanno
chiamato. Noi siamo qui solo per DW.» Suzy era perplessa. «Inclusa quella di King's Lynn ne abbiamo stesi quattro e quattro sono i set di attrezzatura, perché le sacche sono solo tre?» «Finito di impacchettare, daremo ancora un'occhiata veloce. Voglio andarmene da qui e consegnare questa merda il più rapidamente possibile.» Tre bottiglie dopo, Suzy prese il rotolo e lo infilò in una delle sacche sportive. Poco dopo anche le altre due erano piene. Ci dirigemmo di sotto senza riuscire a trovare la quarta. Pioggia e vento continuavano a darci sotto alla grande. Dalla finestra del pianerottolo vidi davanti alla stazione l'insegna illuminata della polizia metropolitana. «Ci mancava solo questo.» Attraversammo in fretta la finestra e cominciammo a scendere le scale. Suzy era sempre su di giri. «'Fanculo anche a loro, noi ci giriamo intorno per raggiungere la macchina.» Al buio del negozio di kebab ci strappammo di dosso la tuta NBC e la infilammo arrotolata nelle nostre sacche. Quando raggiunsi il 297 per togliere i blocchi alla porta, il sudore nel collo si era già raffreddato. Non ci preoccupammo di scaricare le armi. Sentivo Suzy respirare forte dal naso per recuperare il controllo. Tutta l'attrezzatura era dentro, la Browning al suo posto nei jeans fradici di sudore. Misi a tracolla la mia sacca e una con DW e presi l'altra in mano. Suzy indossava ancora i guanti di gomma e con la manica della felpa toglieva le impronte dal lucchetto e dalla chiave. Non le avrei messo fretta. Dopo un po' si alzò e sorrise. «Qualcosa ti trattiene? Andiamocene.» Infilò lucchetto e chiave nella tasca della felpa e tirò i polsini in modo da nascondere i guanti. «Non so tu», disse, «ma io ho un appuntamento urgente con il signor Nicorette.» Usai la Mag-Lite per individuare e togliere i blocchi di metallo che avevo incastrato nella porta. Li misi nella sacca. Spensi la pila. Pronti a uscire. Suzy era dietro di me con le sue due sacche. Mentre io ascoltavo, lei era pronta a tirare indietro la porta. Fuori trovammo solo vento e pioggia. Feci un cenno e lei aprì. La luce si riversò nel corridoio e la prima cosa che sentii fu la pioggia che batteva sul marciapiede. Attesi mentre il vento aggrediva il sudore: non c'era fretta. Volevamo sì uscire velocemente, ma anche fare le cose per bene. Cercai d'individuare rumore di passi, niente. Guardai fuori. Due persone erano piegate sotto un ombrello mezzo rotto, si stavano allontanando da noi, nessun altro in vista. Vista la situazione era tempo di andare. Uscii nella pioggia con due sacche
sulla spalla e una in mano e gli occhi fissi alla stazione di polizia. Il vento freddo sferzava contro i vestiti bagnati che diventavano sempre più fradici. Sentii la porta chiudersi alle mie spalle e il lucchetto entrare nell'anello. «Tutto fatto.» Svoltammo a sinistra, allontanandoci dalla stazione, diretti verso King's Cross Bridge e la poppa della nave. Suzy infilò la chiave nella felpa proprio quando in lontananza partirono delle sirene e due agenti di polizia - un uomo e una donna con giubbotti di un giallo brillante - comparvero da dietro l'angolo di Gray's Inn. La fortuna era dalla nostra: erano dall'altro lato della strada e piegati per proteggersi dalla pioggia sferzante. Per niente interessati a noi, o alle nostre sacche, o alla chiave che Suzy lasciò cadere in un tombino. Da quelle parti era pieno di gente come noi in cerca di un riparo dove poter dormire. 46 Con estrema cautela depositammo le tre sacche sportive all'interno della Mondeo, nello spazio davanti ai sedili posteriori, e buttammo le nostre nel bagagliaio. Anche se era bagnata fino al midollo e con i capelli appiccicati alla testa, Suzy era sempre eccitata. «Hai visto tutte quelle scritte e le impronte?» Annuii. «Stessa gente dell'11 settembre, direi, quei bastardi volevano far sapere al mondo intero chi erano e perché l'avevano fatto.» Suzy inserì la chiave. «Non c'era DW nelle bombolette. Forse la ragazza era tornata indietro per riempire i muri di scritte.» Portai una mano sotto il sedile e recuperai il telefono schermato. La priorità per Suzy era la gomma da masticare: cominciò a ruminare non appena si staccò dal marciapiede. Mascelle e tergicristallo facevano gli straordinari. La pioggia mi gocciolava dai capelli, dal naso e finiva sui tasti del telefono mentre digitavo il numero di Signorsì. «Sì?» Mi chiesi se avesse mai considerato di frequentare un corso di buone maniere. «Fatto, siamo in auto. Tre morti...» «Avete Dark Winter?» «Sì, dodici bottiglie. Tre set di attrezzatura per vaporizzare sono ancora all'interno dell'edificio, ma i carnet dei biglietti e le cartine della metro sono quattro. Metropolitana, di sicuro l'attacco era previsto per domani.» «Bottiglie aperte?»
«No, tutte ancora sigillate. Hanno scritto sui muri e lasciato impronte per essere identificati. Stesse bombolette che abbiamo trovato a King's Lynn. Ma dov'è la quarta sacca? Dobbiamo andare a prendere la fonte e vedere cosa sa? C'è qualcosa che non quadra.» Pausa. «C'è sempre qualcosa che non torna con queste persone. Abbiamo il controllo su Dark Winter, ed è questa l'unica cosa che conta per ora. Aspetta.» La sua voce mi giungeva attutita, forse aveva coperto il microfono, ma riuscii a sentirlo ugualmente. «Forse si tratta delle reti della metropolitana, passa l'informazione.» Tornò a me forte e chiaro. «Quanto vi ci vuole per raggiungere Pimlico?» Stavamo passando davanti al Madame Tussaud, direzione ovest, i tergicristallo sempre a tutta birra. «Direi quindici minuti, venti al massimo.» «Yvette è già partita. Voglio che lasciate tutto in macchina e che le consegniate le chiavi. Voi siete disarmati, liberi, capito?» «Sì.» «Aspettate all'appartamento. Sarò lì più tardi.» Ci fu una pausa. «Lavoro eccellente, tutti e due.» La telefonata venne chiusa prima che mi rendessi conto che parlava con me. Suzy abbassò il finestrino e accese il riscaldamento e poi pulì la condensa dal parabrezza mentre la pioggia le colpiva un lato del viso. «E adesso?» «Siamo fuori servizio. Mazzadagolf prende la macchina e noi dobbiamo starcene buoni all'appartamento. Lui arriverà più tardi a distribuire tè e medaglie.» Sorrise ma era seria. «Abbiamo fatto un ottimo lavoro, ragazzo del Norfolk, proprio eccellente.» Aprii il cassettino del cruscotto e presi un blister di antibiotici mentre lei chiudeva il finestrino. «Ma senti questa», dissi. «Ha chiuso dicendo che abbiamo fatto un lavoro eccellente. I casi sono due, o ha subito un trapianto di personalità o aveva pubblico.» «Difficile che se ne stesse là tutto solo.» «Non intendevo quello. Oggi ho sentito delle voci parlare con accento americano e in tedesco nel sottofondo e, quando gli ho detto delle cartine della metro, ha detto a qualcuno che era lì vicino che si trattava delle reti della metropolitana. Reti, plurale. Ne abbiamo una sola qui...» Restò pensierosa per un po', facendo rotolare la cicca con la lingua contro gli incisivi. «Ritengo che se i bersagli sono più di uno devono darci più tazze di tè e più medaglie.»
«Diventerai quadro permanente di sicuro, vero?» Non rispose. Non ce n'era bisogno con quel ghigno sul viso. Presi quattro capsule e gliene passai un paio. «Senti, grazie per avermi aiutato laggiù. Non riuscivo a vedere un cazzo di niente.» «Sembravi un sacco di merda.» Mi concesse un gran sorriso prima di tornare a concentrarsi sulla guida. «Ma non ti preoccupare, non ne parlerò con nessuno.» Rimase in silenzio per un momento. «Suppongo che tornerai presto in America, a trovare Kelly e a risolvere un po' di cose?» «Sì, e tu annaffierai le tue piante sospese e le altre schifezze nella tua serra e riprenderai a bighellonare per la tua Blue Lagoon o come diavolo si chiama.» Stavolta mi osservò con lo sguardo che le mamme nei supermercati riservano solo ai figli piccoli. «La serra non è ancora finita e si chiama Bluewater, scemo, il centro commerciale. Se si fosse trattato di Blue Lagoon non mi sarei certo preoccupata di vederlo dalla finestra della cucina.» Eravamo arrivati alla piazza. «Nick?» «Cosa?» «E se tu avessi ragione? Se progettano un attacco negli Stati Uniti? Che ne sarà di Kelly?» Annuii, mentre inquadravo un Transit bianco parcheggiato, con due persone a bordo. Stavo pensando esattamente la stessa cosa. Suzy parcheggiò di fronte all'appartamento. Riuscivo a vedere la luce della stanza sul davanti. Spense il motore e restammo seduti in ascolto della pioggia che continuava a battere. «Facciamo così, Suzy, io resto in macchina fino a che Mazzadagolf non scende. Noi non vogliamo che ci portino via qualcosa, vero?» Tolse la calibro 9 dalla fondina e l'aggiunse al resto dell'attrezzatura del lavoro sparsa all'interno dell'automobile. Io feci cenno di no. «Preferisco tenerla ancora un po', in caso di problemi.» Armai la pistola e la misi sotto la coscia. «Dietro di noi, più in giù, c'è il Transit bianco con due a bordo. Forse sono con Mazzadagolf, ma può anche non essere così. Li terrò d'occhio, non si sa mai.» Controllò la sicura e la rimise nella fondina. «Ci vediamo fra un minuto.» Sorrise. «Non scolarti la mercanzia.» Si avviò verso l'appartamento e quando sparì all'interno io controllai il Traser: erano quasi le cinque. Presi il mio telefono personale e chiamai
Carmen senza smettere di tenere d'occhio meglio che potevo il furgone con i due a bordo, data la pioggia che batteva contro i finestrini. Il telefono squillò molto a lungo prima che la segreteria telefonica m'informasse che non c'era nessuno, ma che potevo lasciare un messaggio. Merda, aveva veramente staccato il telefono. Yvette uscì dal portone e scese i gradini. Di lei vedevo solo gli occhi, il resto era coperto dal cappuccio in Gore-Tex. Portava la valigia dei Packet Oscar. Spensi il telefono e lo riposi nel marsupio, poi controllai che le chiavi fossero inserite nel cruscotto. La Browning tornò nei jeans mentre lei apriva lo sportello lato guidatore, buttava dietro la valigia e saliva. «Ben fatto, Nick.» La voce riuscì a fatica a superare la stoffa che le copriva il viso. La abbassò e vidi le sue guance asciutte incresparsi in un sorriso. Non sapevo cosa rispondere. Le spiegai cosa c'era nella macchina e dove. Annuì entusiasta, come se volesse aggiungere qualcosa e morisse dalla voglia di farlo. «Avete salvato tante vite, Nick.» Stese la mano e con gesto impacciato strinse la mia, come se io fossi un membro della famiglia reale. «Ben fatto, e grazie.» Provai uno strano dolore in mezzo al petto. Non ero abituato a essere trattato così: di solito non ricevevo altro che qualche urlaccio e l'ordine di tornare sotto il mio sasso fino all'incarico successivo. «E adesso, dobbiamo solo aspettare?» «Sarà qui fra poco.» «Quanti sono gli attacchi che hanno previsto? Questo non è l'unico, vero?» Valeva la pena di fare un tentativo, ma lei era una veterana. Tornò quel mezzo sorriso. «Devo portare via la macchina in fretta e tu devi restare nell'appartamento fino al suo arrivo.» Premette la frizione e inserì la prima. Mentre girava la chiavetta di accensione, io riportai il cambio in folle. «Ascolta, ho bisogno di sapere se hanno in mente di sferrare un attacco in America. Kelly partirà per Baltimora questa mattina. Ho bisogno di sapere, è meglio che resti qui? Ti prego, ha solo quattordici anni. E ha già avuto abbastanza tragedie nella vita.» Di colpo compresi quello che doveva aver provato Simon. Sapevo che implorare non sarebbe servito a niente, ma forse anche lei aveva dei figli. Era la mia unica possibilità. Signorsì non mi avrebbe detto un cazzo di niente. Sollevò la gamba sinistra e abbandonò la frizione. «Mi metti in difficoltà, Nick.»
La guardai dritto negli occhi. «Mi dispiace. Lei è tutto quello che ho. Ho bisogno di sapere se deve andare o se è più al sicuro qui.» Non c'era motivo di aggiungere altro. Guardò oltre il parabrezza verso niente in particolare e fece un paio di respiri profondi che non erano da lei. Rimasi seduto in ascolto del ronzio del motore per un tempo che mi sembrò lunghissimo. «Nick, forse è meglio se resta qui ancora qualche giorno. Per merito tuo e di Suzy, le cose dovrebbero risolversi. E tu resterai comunque ancora qui per un po'. Mi metterò in contatto.» Aprii la portiera mentre lei abbassava la frizione e inseriva la marcia. «Grazie.» Non rispose, tutta presa a cercare l'interruttore degli abbaglianti. Scesi. Mentre mi voltavo per chiudere la portiera vidi avvicinarsi dei fari. Era il Transit. «Nick?» Mi piegai per riuscire a sentirla al di sopra del motore. «Hai dimenticato di lasciare la pistola...» Tornai dentro veloce e tolsi la Browning dai jeans e due caricatori di scorta da sotto il sedile. «È carica e pronta.» Non riuscivo a trattenere la mia gratitudine. «Senti, devo proprio ringraziarti...» Mi allontanò con un gesto della mano. «Spero solo che Kelly reagisca bene alla terapia.» Chiusi la portiera e l'auto lasciò il marciapiede. Sundance e Scarpedatennis mi passarono davanti con il Transit senza degnarmi di uno sguardo. Con ogni probabilità avrebbero preferito fermarsi e prendermi a calci come si deve, ma avevano un lavoro più importante da fare: accertarsi che nessuno tamponasse Mazzadagolf e danneggiasse le bottiglie. Molto probabilmente erano diretti verso qualche edificio protetto che la Ditta aveva in giro per la città, o forse verso l'eliporto di Battersea, en route per Porton Down nel Wiltshire, dove gli amici di Simon avrebbero potuto giocare con i microbi. Adesso che eravamo senza armi, non c'era altro: finito, lavoro eseguito. 47 Presi il cellulare e provai di nuovo. Rispose il servizio di segreteria. «Ciao, Carmen, sono Nick. Cambio di programma. Così potrà andare a Chelsea martedì. Non accompagnatela all'aeroporto, deve restare. Richiamo più tardi, ma mi raccomando non portatela all'aeroporto, è importante
che resti qui. Pagherò comunque l'estratto conto della MasterCard.» Se ci fossimo sbrigati con i rapporti di fine missione, sarei riuscito ad arrivare a Bromley prima della loro partenza. Premetti il pulsante del citofono vicino al portone. «Ciao, tesoro, sono a casa.» Fu solo quando cominciai a salire le scale che mi resi conto di quanto fossi esausto. L'unica cosa positiva dell'essere completamente coperto di sudore era che avevo uno strato di unto fra la pelle e i vestiti fradici di pioggia. Mi strofinai il viso per recuperare un po' di sensibilità, mi bruciavano gli occhi e le mani puzzavano come una fabbrica di gomma. Avevo bisogno di una pulita radicale e morivo dalla voglia di bere qualcosa di caldo. Bussai alla porta e lei mi aprì. «Tutto bene in ufficio, caro? Ti preparo un tè?» «Ottima idea.» La seguii in cucina. «È previsto un attacco anche negli Stati Uniti. Me l'ha detto Mazzadagolf.» Si voltò e si appoggiò al fornello. «Oh, merda.» «Non una parola con Signorsì, mi raccomando. L'ha fatto solo per Kelly.» Annuì. «Ha detto niente sulla Germania?» «No, ma scommetto che sono anche lì. È follia. Hanno dovuto coordinarsi per evitare lo stato di allerta preventivo.» Smettemmo entrambi di parlare. Probabilmente stavamo facendo la stessa cosa, pensando a che incubo fosse un solo attacco, figurarsi tre. E, come avevamo scoperto, non era astrofisica. La ASU aveva solo bisogno di DW, di un nebulizzatore e di qualche telefono cellulare. M'imposi di non pensarci. Avevamo fatto la nostra parte. George avrebbe avuto una sua squadra sul terreno di caccia negli Stati Uniti per individuare DW prima di dover ricorrere al governo. E i tedeschi stavano facendo la stessa cosa. Pensai a Josh e ai suoi figli e a quello che avrei potuto fare per loro. Mi avvicinai al frigo e presi i due vassoi di schifezze pronte che avevamo comprato dopo il primo incontro con la fonte. Mentre strappavo l'astuccio di cartone pensai quanto fosse strano non riuscire a pensare a niente da dire adesso. Forse Suzy aveva la stessa sensazione: certo era che si stava concentrando un po' troppo a mettere le bustine di tè nelle tazze. Con una forchetta lacerai il cellofan di copertura, lei intanto armeggiava
con i cucchiaini e il latte. «Cosa abbiamo per colazione?» «Ti assicuro che non lo so.» Ispezionai il vassoio. «Roba bianca.» Non avevo nessuna voglia di controllare il cartone. «Pollo, forse?» Fece una smorfia di disgusto. «Per quanto mi riguarda, io passo.» Sempre senza guardarmi, s'impegnò a fondo con il bollitore, poi ce ne restammo lì in piedi ad aspettare il ping del microonde. La situazione stava diventando ridicola. «È così che succede e lo sai.» Le toccai con dolcezza una spalla. «Cominci a conoscere qualcuno e poi tutto si ferma. È così che funziona.» Sospirò e strizzò la bustina contro la tazza. «Non importa, Nick, King's Cross resterà sempre con noi.» Ancora non mi guardava. «Credo di dover dire che è stato magnifico lavorare con te, o qualcosa di simile.» Sembrava una banalità ma lo pensavo davvero. «Siamo stati bene, vero?» Fece un mezzo passo verso di me sempre senza sollevare lo sguardo, sembrava che facesse l'impossibile per non incontrare il mio. Non sapevo cosa aveva intenzione di fare, ma, qualunque cosa fosse, io volevo che la facesse. Posò il cucchiaio sul piano di lavoro e fece un altro passo verso di me. Non sapevo che fare. Non volevo sbagliare: spalancare le braccia e poi magari vederla passare oltre diretta al microonde. Era a meno di due passi da me quando suonò il campanello. Quel suo sorriso triste ricomparve mentre cambiava rotta e andava verso il corridoio per rispondere al citofono. «Sono io, aprite.» Signorsì era venuto senza pubblico, non c'era dubbio. Suzy premette il pulsante e tornò in cucina. «Salvati dal campanello, eh?» Ridemmo entrambi, forse un po' troppo a disagio. Il microonde fece ping, Suzy riempì di nuovo il bollitore per preparare altro tè e io andai ad aprire la porta di casa. Signorsì aveva tutta l'aria di aver fatto un bel po' di straordinario. Il vestito e la camicia di prima adesso erano molto sgualciti e la cravatta allentata. Fui molto felice di vedere che aveva un foruncolo sul collo pronto a scoppiare. Si accomodò sul divano e Suzy gli posò davanti la tazza di tè, ma lui non la ringraziò e non le fece neppure un cenno, si limitò ad aspettare che si sedesse sulla sedia di fronte. «Bene. Procediamo con ordine.» Mi agitai sulla sedia fino alla prima luce dell'alba. Tutte le fasi dell'ope-
razione vennero esaminate, riconobbi a Suzy il merito di avermi salvato la vita e di aver impedito che DW venisse danneggiato. Signorsì incamerò ogni dettaglio, poi le fece un cenno e per la prima volta lo vidi sorridere. «Ben fatto.» Se l'era guadagnato. Poi guardò me e il sorriso sparì. «Tu sei senza armi, ma resti qui nell'appartamento. Devi restare qui finché non ti lascio andare. Hai capito?» Annuii. Doveva ottenere il benestare da George prima di allentare il cappio. «Che mi dice dell'America? Colpiranno la costa occidentale o quella orientale?» Pensavo a Josh e ai bambini. Forse avrei dovuto inviargli una gigantesca montagna di antibiotici con un DHL. Indicò Suzy e mi ignorò completamente. «Tu puoi andare a casa. Non c'è motivo di trattenerti qui. Resta a disposizione.» «Sì, signore.» Signorsì si alzò e rinnovò le congratulazioni a Suzy, poi esitò. «In effetti, ben fatto, vale per tutti e due.» Mi sembrò di sentirlo digrignare i denti. Prese la valigetta e fece per andarsene. «Quando crede che potrò andare, signore?» «Quando sarò pronto.» «Posso avere un acconto, allora? Verrò pagato per questo, o sbaglio?» «Prendili con i documenti di copertura.» Fece una smorfia. «Per te si tratta solo di soldi, vero?» Come la porta si chiuse, Suzy mi guardò con occhi di fuoco. «Stava cercando di ringraziarti.» «Ma senza la sufficiente convinzione.» Rimase ferma per qualche momento. «Grazie per tutta quella roba sui meriti. Non era necessario.» «Certo che lo era. Avrai bisogno di tutto l'aiuto possibile, per lavorare con quel leccaculo a tempo pieno.» Mi passò vicino e per un secondo mi posò una mano sopra la spalla. «Grazie comunque.» Entrò in bagno e subito dopo sentii che lo scaldabagno elettrico entrava in funzione. Ne uscì e andò in camera. Finii il tè di Signorsì, augurandomi che i foruncoli non fossero contagiosi, mentre la ascoltavo camminare a passi silenziosi avanti e indietro. Controllai l'ora. Erano quasi le sei e mezzo. Di sicuro Carmen e gli altri erano già in piedi. Ancora una volta digitai il numero mentre Suzy usciva dalla camera avvolta nell'asciugamano verde. «Kelly?»
Annuii mentre scattava il servizio di segreteria telefonica. Suzy sparì sotto la doccia. Mi convinsi che in effetti c'era ancora un sacco di tempo: dovevano partire alle undici. Mi allungai sulla sedia e mi massaggiai le tempie. Cosa dovevo fare adesso? Per prima cosa andare a Bromley, vedere Kelly e prendere i miei documenti e gli antibiotici. 'Fanculo Signorsì... e George, per quello che m'importava. Avrei lasciato lì il cellulare così non sarebbe riuscito a rintracciarmi, poi sarei tornato nel pomeriggio e con un po' di fortuna nessuno si sarebbe accorto che ero andato via. Dovevamo sospendere gli antibiotici, adesso? Nessuno ci aveva detto niente. Chi cazzo se ne frega, avrei continuato ancora per un po'. Ero mezzo appisolato sulla sedia quando Suzy tornò. «Hai bisogno di una doccia, puzzi. Sei riuscito a parlare?» «No, ci andrò non appena mi sarò lavato.» Andai in cucina. La porta della camera da letto era ancora socchiusa mentre prendevo dal microonde il vassoio del cibo pronto e toglievo la pellicola. Frugai nel cassetto, presi un cucchiaio e cominciai a mangiare. «Avevo sbagliato.» «Su cosa?» «È pesce.» Era da qualche parte dietro la porta, ancora fuori campo. «Vai direttamente a casa?» «Ho una serra da costruire, ricordi?» «Sei sicura di riuscire a resistere a questo?» Uscì, aveva portato indietro i capelli e indossava pantaloni cargo neri e una maglietta senza maniche. «Io non mangio quelle schifezze.» «Nessun problema, mangerò anche la tua parte.» Posai il vassoio da una parte e presi l'altro. Lei sembrava avere altre idee. Sentii i suoi capelli umidi contro il viso e il suo respiro sul collo. La abbracciai ma tenendo una certa distanza mentre lei mi cingeva stretto. Sapeva di buono e io non riuscivo a pensare ad altro se non che puzzavo come una merda. La accarezzai lentamente fra le scapole. Lei si strofinò contro il mio collo. Ancora quell'odore di mele e la sua pelle contro la mia. Poi mi posò le mani sul torace e si staccò, rossa e imbarazzata. «Nick, mi... mi dispiace.» «Non devi, è molto meglio di qualsiasi colazione. Molto.» «No, davvero, mi dispiace... non avrei dovuto farlo.» Si voltò e tornò in camera. Sollevai il secondo vassoio, lo guardai e poi lo rimisi giù. Quando un paio di minuti dopo ricomparve indossava la giacca corta di
pelle nera e teneva in mano la sacca. «Vado. Chissà, forse un giorno ci rivedremo.» Annuii. «Già, probabile.» Ma sapevamo entrambi che non sarebbe accaduto. Mi tese la mano e mentre ce la stringevamo mi attirò a sé ancora una volta e le sue labbra mi sfiorarono la guancia. «Ciao.» Le lasciai andare la mano e se ne andò. 48 Il traffico a sud di Londra procedeva pigro. Ascoltai il giornale radio LBC delle nove, che ripeté le stesse notizie che avevo visto sul canale 24 della BBC un paio di volte mentre mi davo una ripulita. La maggior parte dei servizi riguardavano la SARS e l'Iraq, ma la notizia di apertura era che gli Stati Uniti avevano alzato il livello di allerta antiterrorismo. Avevano proclamato il codice arancio, a un passo dalla chiusura totale del Paese. Evidentemente George non se l'era sentita di correre il rischio di tenere il governo all'oscuro dell'operazione. Adesso sapeva che in Inghilterra le ASU erano già nelle FOB, pronte all'attacco. Della Germania non dicevano niente. Forse mi ero sbagliato, o forse anche lì i loro uomini avevano portato a termine la missione con successo. Se era così, pensai per un attimo, Suzy e io meritavamo un riconoscimento. Nessuno avrebbe mai saputo, naturalmente: e i pochi che sapevano avrebbero portato l'informazione nella tomba, insieme con i dettagli su come ne erano venuti a conoscenza. Sapevano che se mai fosse loro venuto in mente di farne parola, gente come Sundance e Scarpedatennis avrebbe scavato a mani nude quella tomba molto prima del previsto. Era così che andavano le cose. Non parlavano neanche di tre cadaveri ritrovati nei pressi della stazione di King's Cross. La squadra di pulizia era stata mandata immediatamente, prima che la Ragazza Foruncolo, o i suoi amici, entrassero in un rifugio e trovassero molto di più. A quel punto i quattro corpi dovevano essere già stati bruciati, insieme con il più piccolo frammento di prova, e i pezzi rimasti galleggiavano sul Tamigi in attesa di diventare cibo per pesci. Con i documenti di copertura avevo noleggiato una Vectra alla stazione Victoria, poi con la carta di credito di Signorsì avevo prelevato il massimo consentito da un bancomat vicino. In fondo cosa poteva farmi? Licenziarmi?
Anche se in pratica non avevo dormito mi sentivo incredibilmente bene quando raggiunsi la strada principale di Bromley. Nell'appartamento, mentre facevo la doccia, avevo infilato i vestiti nella lava-asciugatrice e anche i Caterpillar erano a posto. Non sapevo perché, ma mi sentivo sempre depresso quando imboccavo la strada linda e ordinata dove abitavano, con i suoi chilometri di siepi e villette perfette, Nissan Micra lucide e Jaguar di sei anni che ogni domenica avevano un incontro ravvicinato con la cera Turtle. Probabilmente era l'idea della pensione che mi mandava fuori di testa. Meglio morire piuttosto che finire a potare siepi e rose. O, ancora più deprimente, scoprire che magari mi piaceva. Svoltai nel vialetto in mattoni e mi fermai davanti alla porta del garage che Jimmy aveva dovuto ridipingere da poco perché secondo Carmen il rosso non era più così acceso e lucido. Scesi e suonai il campanello. Un piacevole, tradizionale din don echeggiò nell'ingresso. Nessuna risposta. Riprovai, quindi frugai tra le foglie nel vaso a sinistra della porta con i doppi vetri e presi la chiave. La gente non impara mai. Scampanellai ancora un paio di volte poi girai la maniglia. «Ciao... Sono io... c'è nessuno in casa?» Fui investito dall'odore di cera e deodorante rilasciato da quegli aggeggi che s'infilano nella presa della corrente e dal grande silenzio. Non potevano essere ancora a letto perché Jimmy sprangava la porta ogni notte. Forse erano partiti in anticipo: in effetti, per come guidava Jimmy, le undici lasciavano un margine troppo stretto. Era una seccatura, ma niente d'insormontabile. Avrei chiamato il banco American a Heathrow dicendo che c'erano problemi di famiglia e che Carmen doveva chiamare casa. Entrai in cucina e la tavola ancora apparecchiata per la colazione mi sorprese. Prima di andare a dormire Carmen lasciava tutto pronto e sparecchiava velocissima non appena il pasto era terminato, a volte anche prima. Se Jimmy indugiava a finire le fette di pane tostato e lei voleva passare l'aspirapolvere la faccenda si faceva seria. Presi una manciata di Mini Shreddies, i preferiti di Kelly, e li cacciai in bocca. Vidi le mie due buste imbottite sopra il frigorifero dove stava normalmente la posta. Sollevai il telefono e sentii il segnale bitonale. Ma perché ogni tanto non controllavano? La vita sarebbe stata tanto più semplice. Senza smettere di masticare, composi il 1571 e incastrai il telefono tra spalla e orecchio. La segreteria telefonica m'informò che c'erano due mes-
saggi. Afferrai la prima busta e cominciai ad aprirla con i denti riempiendomi di frammenti di Shreddies. Provai un senso di benessere a rientrare in possesso della mia vita mentre mi ascoltavo parlare con la segreteria. Buttai un occhio verso l'ingresso. Da dove mi trovavo vidi che la porta del garage non era del tutto chiusa. Che Jimmy avesse osato lasciarla socchiusa era difficile da concepire, ma vidi anche una lucidissima porzione della sua Rover. Merda. Busta e telefono scesero lentamente sul piano di lavoro della cucina e gli ultimi pezzetti di cereali mi scivolarono dalla bocca mentre lasciavo cadere la mascella. Tesi una mano e afferrai la maniglia del cassetto delle posate. Lo aprii con cautela. Era tutto in ordine: sbucciapatate, coltello per il pane, forchette e cucchiai. Presi due coltelli da verdura, uno per mano, e mi spostai nell'ingresso, calibrando con attenzione ogni passo in modo che gli stivali non cigolassero sulle piastrelle. Con la gola chiusa controllai il corridoio, poi svoltai a destra. Nessun segno di effrazione da nessuna parte. L'unica luce era quella esterna che entrava dalla cucina e dalla sezione in vetro del portone. La porta del salotto era a tre passi sulla destra. La stanza era vuota: tutto era dove doveva essere, le riviste ordinatamente impilate, i cuscini gonfi e le tende tirate per la notte. L'unico suono era il ticchettio dell'orologio del nonno nell'angolo. Tornai in ingresso e chiusi a chiave la porta del garage prima di procedere verso il bagno. Nessuna traccia di attività mattutina, niente condensa sullo specchio o sui vetri della finestra, nessun odore di sapone o deodorante. Il piatto della doccia era asciutto come la vasca. Gli asciugamani erano secchi e allineati sulla griglia del calorifero. Tornai in ingresso e andai a sinistra verso le camere da letto. La prima porta sulla destra era la stanza di Carmen e Jimmy, quella dopo la camera di Kelly. Entrambe erano socchiuse. Spinsi piano la prima e mi spostai di lato per non fare del mio corpo un bersaglio facile. La stanza era al buio e solo qualche lama di luce filtrava attraverso le immacolate tende imbottite di Carmen. Ma non avevo bisogno di vederli per sapere che erano lì: ne sentivo l'odore. Odore metallico di sangue. Puzza nauseante di merda. Qualcosa mi pulsava forte in mezzo al torace. Oh, merda, no. Non un'altra volta...
Mi precipitai all'altra porta, i piedi incapaci di percorrere quei sei o sette passi veloci quanto la mente richiedeva, volevo raggiungere la sua stanza prima che il video iniziasse a scorrere. Senza preoccuparmi di controllare prima, entrai deciso e accesi la luce. La stanza era vuota. Guardai sotto il letto, guardai dentro l'armadio. Niente. «Cazzo, cazzo, cazzo!» continuavo a ripetere fra me mentre tornavo nella stanza di Carmen e Jimmy. Dovevo accertarmi che non fosse lì. Accesi la luce del comodino e tirai via il piumino. Sembrava che avessero avuto un incidente di macchina. Jimmy se l'era fatta addosso, entrambi erano stati accoltellati e sfregiati molte più volte di quante non fossero sufficienti a ucciderli. Gli occhi di Carmen erano ancora aperti, spenti e opachi come quelli di un pesce rimasto troppo a lungo sul banco. Aveva uno strano mezzo sorriso, che lasciava scoperte le gengive prive di denti, e il sangue si era rappreso nei solchi delle rughe profonde che neppure Lorraine Kelly era riuscita a far sparire. Guardai sotto il letto: solo pantofole. Si era nascosta? Aprii gli armadi, ma tutto era in perfetto ordine e niente era stato toccato. Sentivo la mia voce urlare nella mente: Non un'altra volta... non è possibile che sia successo di nuovo a noi. Disneyland. Mi precipitai nel garage in preda allo stesso terrore che provavo da bambino quando il mio patrigno mi dava la caccia. Armeggiai con la serratura. «Kelly? Kelly?» La aprii. «Kelly, sono io! Sono Nick!» Senza preoccuparmi del fracasso dei coltelli contro il cemento mi lasciai cadere pancia a terra e controllai sotto l'auto. Aprii anche il congelatore. Non era lì. Mi sentivo come un bambino di sei anni che si è perso in un supermercato. Tornai nella sua camera, sempre più in preda all'angoscia. Nessun segno di lotta. Il copriletto era ripiegato in fondo al letto. La lampada sul comodino era dritta. La valigia e la tracolla erano pronte vicino alla porta. La mia sacca di pelle nera giaceva in un angolo. Rovesciai il contenuto della tracolla sul pavimento. Passaporto, biglietto, alcune monete, il lettore CD e una busta. L'unica cosa che mancava era la maglietta Old Navy che usava per dormire. Guardai ancora una volta sotto il letto: senza un perché, sapevo che non c'era nessuno. Lo stomaco faceva le capriole e la gola era così secca da far male. Crol-
lai a terra e lasciai cadere la testa fra le mani. Doveva esserci un collegamento con il lavoro. Merda, poteva essere opera di Signorsì, forse avevo fatto una domanda di troppo la sera prima e Sundance e Scarpedatennis erano stati spediti a mettere le cose a posto. Dovetti ordinarmi di smetterla. «Basta! Porca miseria, basta!» Non avrei ricevuto aiuto dal panico, e lei neppure. Dovevo rendere sicuro il posto. Nessuno doveva sapere cos'era successo. Non per il momento almeno. Ricevevano il latte a domicilio? Avevo dei dubbi. Cazzo, avrei dovuto sapere quel genere di cose. Mi alzai. Adesso che avevo qualcosa da fare mi sentivo un po' meglio. Non avevo ben chiaro che cosa ma non era importante. Aprii il portone d'ingresso. Niente latte sulla soglia. Tornai dentro e guardai nel frigorifero, ci trovai una bottiglia di plastica da un litro di Safeway. E la posta? La parte superiore della porta era in vetro smerigliato in modo che nessuno potesse vedere le buste ammonticchiate sulla moquette. Sapevo che non erano abbonati al giornale. Jimmy andava a piedi a comprarlo, senza fretta, per avere un po' di pace e di calma. Se non era stato Signorsì, allora chi? Chi poteva avercela con me? Nomi e ragioni si affollarono nella mente. Mi fermai per raccogliere i pensieri. Inutile perdere tempo a pensare a chi, era più importante concentrarsi sul qui e ora. Per prima cosa avrei portato via le sue borse e rifatto il letto, così se il posto fosse stato scoperto la polizia avrebbe impiegato del tempo prima di aver chiaro chi mancava. Non volevo che le procedure per il ritrovamento di un minore rapito li obbligassero a diffondere la notizia. La cosa avrebbe potuto esporla a un pericolo maggiore. L'odore dalla camera di Jimmy e Carmen stava filtrando nel corridoio. Tornai in quella di Kelly. Seduto sulla moquette azzurro chiaro, circondato dalla tappezzeria a fiorellini, raccolsi tutte le cose che avevo fatto cadere dalla sua borsa e cominciai a rimetterle dentro. Aprii il passaporto e non riuscii a resistere alla tentazione di guardare la foto. Non mi aveva mai permesso di guardarla. Era più giovane di due anni e i capelli biondi erano un pochino più lunghi. Mi resi conto che stavo sorridendo: aveva un foruncolo e aveva passato la mattinata a cercare di coprirlo prima che la trascinassi, urlante e scalciante, dentro la cabina per fare la foto. Lo chiusi di scatto e lo infilai nella tasca posteriore dei jeans, poi misi il biglietto nella borsa, mentre il vicino usciva dalla casa a fianco. Lo vidi
bene attraverso le tendine. Era nel vialetto e trascinava un sacco bianco pieno di spazzatura che gettò in un bidone con le ruote, poi sparì di nuovo all'interno. Mentre spostavo la busta violetta per raggiungere il portafoglio vidi che era diretta a me. Sedetti contro il muro e la aprii. Caro Nick, quando leggerai questa lettera io sarò già a casa da Josh. Sempre che io mi ricordi di metterla insieme con le altre lettere prima di partire! Mi dispiace aver litigato con te sabato. Il fatto è che sento davvero la tua mancanza quando vai via. Ricordi che al telefono mi hai chiesto cosa ne pensavo e che prima di poterti rispondere è caduta la linea? Bene. Ecco cosa penso. Ecco la mia proposta. Quando sarò a casa, m'impegnerò per comportarmi come si deve, mi farò aiutare, andrò a scuola e risolverò i miei problemi. Gli occhi mi bruciavano. Dovevo essere più stanco di quanto pensassi. Lo so che me la prendo sempre con te perché lavori troppo e adesso mi sento davvero male perché Josh mi ha spiegato il perché. Io non sapevo che tu continuassi a dargli dei soldi e che la dottoressa Hughes e la scuola fossero cose così costose. Non avevo capito la ragione per cui eri costretto a lavorare così tanto. Ed è per questo che voglio risolvere i miei problemi. Immagino che allora non dovrai più lavorare così tanto per mantenermi, e quindi riuscirò a vederti di più. Ci stai? Ci vediamo quando finisci il lavoro. Ti voglio bene, Kelly. PS: Quando hai telefonato stavo scrivendo questa lettera. Le lacrime ormai mi rigavano le guance. Ero in preda al panico. Non avevo chiaro quale parte di quell'incubo mi terrorizzasse tanto, ma non riuscivo a evitarlo. Non riuscivo a controllarlo. Il dolore al centro del torace tornò, raggiunto quasi subito da un pesante pulsare mentre leggevo e rileggevo la lettera. Mi costrinsi ad alzarmi. Dovevo fare qualcosa. Non sapevo ancora cosa,
ma dovevo agire assolutamente. Piegai la lettera e la misi nella tasca posteriore insieme con il passaporto e andai in cucina a prendere le buste. Le infilai nella maglietta, poi tornai in camera a prelevare le sue cose e la mia sacca. 49 Puntai con decisione verso nord. Fermai la Vectra vicino a una cabina telefonica e chiamai l'ufficio della Hughes. Ero agitatissimo ma controllai la voce in modo che risultasse calma, almeno così mi auguravo. La scusa era chiedere se per caso Kelly avesse chiamato per un ultimo saluto. Chissà, forse era riuscita a fuggire ed era andata alla clinica, oppure aveva lasciato qualche messaggio. Non l'avevano sentita. Sapevo che il numero per contattare Signorsì non era più valido, ma provai lo stesso. Avevo ragione. Valutai se fosse il caso di chiamare George, ma a che scopo? Qualsiasi cosa stesse facendo Signorsì, ne faceva parte anche lui, nessun dubbio su quello. Dovevo tornare nel mio territorio, l'appartamento, e aspettare pazientemente come mi era stato ordinato. Non sarebbe passato troppo tempo prima che Signorsì si mettesse in contatto con me per affidarmi un altro incarico che non avrei potuto rifiutare. Parcheggiai in Warwick Square, senza smettere di pensare a come contattare Signorsì. Non potevo aspettare. Avevo bisogno di sapere, in un modo o nell'altro. Finalmente mi venne un'idea. Avrei fatto scattare il pulsante antipanico: la sorveglianza sarebbe arrivata a sirene spiegate e Signorsì subito dopo. Una giovane coppia mi superò, avevano sacchetti di Habitat pieni di piante di bambù. Attraversai la strada, presi la chiave dal giubbotto di pelle e stavo per slanciarmi di corsa per le scale quando una voce asiatica che scandiva ogni parola sbucò dal nulla alle mie spalle. «Ehi? Ehi?» Mi voltai. Si era materializzato Grigio. Stessi vestiti indosso, mi sorrideva come se fossi un bimbo che si era smarrito. «Non ti spaventare.» Sollevò una mano. «Tua figlia... va' al bar, vacci subito. Adesso, ora.» Usava un tono quasi di scusa, come se mi stesse chiedendo un piacere. Io avrei voluto solo afferrarlo per il collo e stringere finché non mi avesse detto qualcosa di più, ma non sarebbe servito ad aiutare Kelly. «Vuoi dire Starbucks a Farringdon?» «Sì, devi andarci subito.»
Mi costrinsi a mantenere la calma. «Lei dov'è? Lo sai?» «Ti aiuterà lui, sbrigati.» Detto ciò, girò sui tacchi e si dileguò. Ma perché la fonte doveva sapere dov'era Kelly? Perché doveva anche solo sapere che esisteva? O la fonte faceva da portavoce per Signorsì? Ma se non altro qualcosa si stava muovendo. Ed era un bene, continuai a ripetermelo per convincermi. Questo è un bene. Lasciai la Vectra a un isolato di distanza, raggiunsi di corsa Starbucks, mi bloccai, entrai, presi da bere e sedetti a un tavolo vicino alla vetrata. Volevo essere visto. Trascorsero dieci minuti. Avevo bisogno di urinare ma non osavo abbandonare la postazione. Non potevo rischiare di perderlo. Presi la lettera e cominciai a leggerla. Era un errore. La riposi con il passaporto e mi concentrai a bere qualche sorso. Sotto il tavolo i talloni cominciarono a muoversi su e giù. Non riuscivo a tener ferme le gambe, come se volessero essere in movimento. Loro volevano fare qualcosa. Cazzo, avevo bisogno che si facesse vedere, e subito. Un altro paio di minuti, poi passò Grigio, da destra verso sinistra, scrutando l'interno del locale. Due ragazze che avevano caffè e cellulare in una mano e i sacchetti con gli acquisti appena fatti nell'altra presero posto al tavolo vicino. Poi lo vidi. Oltrepassò il bar, da destra a sinistra, e sparì. Sapevo che mi aveva visto, sapevo che dovevo restare dov'ero. Adesso stava ricevendo conferma da Grigio che non mi ero presentato con un gruppo di amici. Come se fosse possibile. Non ne avevo. Meno di un minuto più tardi sentii che la porta sul retro si apriva. Non mi voltai. Una mano si posò leggera sulla mia spalla. «Ciao.» Mi voltai e vidi che Grigio adesso copriva l'uscita posteriore. E Blu dov'era? Era con Kelly? La fonte continuò a camminare, raggiunse il bancone e ordinò da bere. I nostri sguardi s'incontrarono mentre la macchina del caffè sbuffava vapore nella sua tazza. I miei talloni non smettevano di andare su e giù mentre lo osservavo prendere il resto, superare le ragazze che mandavano SMS, raggiungermi e sedersi di fronte a me al piccolo tavolo rotondo. Mi sembrò che impiegasse un secolo. Compresi subito dall'odore che era un fumatore.
«Allora, cos'avete fatto a mia...» Sollevò una mano e mi mostrò una chiostra di denti gialli. «Tua figlia sta bene.» «Perché hai...» «È tutto a posto.» Cercò di bere un sorso ma il caffè era troppo caldo e posò la tazza. «Cosa cazzo significa che è tutto a posto? Sono appena stato alla casa.» Annuì lentamente. «Capisco.» Abbassò lo sguardo alla tazza, come se meditasse di fare un altro tentativo, poi mi guardò. «Ne hai parlato con qualcuno?» I piedi smisero di muoversi, il cuore smise di battere. Anche se lo avessi fatto avrei mentito. «No, nessuno.» Entrarono due ragazzini che salutarono le ragazze. Aspettammo che si sedessero. Sapevo che dovevo restare calmo e ascoltare attentamente ogni sua parola. Era quello che facevo sempre in situazioni di quel genere, ma adesso che la faccenda mi riguardava da vicino non era così facile. Spinse con calma la tazza da una parte e si sporse in avanti. «Devo trattenerla mentre tu farai quello che ti chiedo. Si tratta di una cosa molto semplice. Andare a Berlino, ritirare cinque bottiglie di vino e consegnarmele entro domani notte.» Aggredirlo non sarebbe servito a lei ma avrebbe aiutato un po' me. «Ma perché non ci andate da soli, stronzi che non siete altro?» «Perché la vita si è fatta difficile di questi tempi per quelli con la pelle scura o con gli occhi a mandorla che cercano di far entrare nel Paese qualcosa del duty free, sono sicuro che capisci quello che intendo.» «Come faccio a sapere che sta bene? Chi mi assicura che mi verrà restituita viva?» «Non puoi saperlo. Ma che scelta hai? È un incarico semplice e altrettanto semplice è la minaccia. Se mi tradisci o non riesci a effettuare la consegna, imparerai cosa si prova a veder uccidere il proprio figlio come un animale.» Senza staccare gli occhi dai miei prese una busta bianca e spiegazzata dalla tasca. «Devi dire che ti manda Londra. Ti stanno aspettando.» Picchiettò sulla busta con l'indice. «Chiama non appena torni. Ho un nuovo numero, solo per te. Preoccupati soltanto di farmi avere le bottiglie per le due di martedì mattina.» «Così avrete il tempo di preparare la quarta sacca, prima dell'ora di punta della mattina?»
«Vedo che capisci.» Presi la busta. «Berlino è stata annullata? Vi restano solo gli Stati Uniti, a meno che non vi dia una mano.» Il suo sorriso mi disse che avevo fatto centro. «I miei fratelli di Berlino sono di fronte a un problema che renderebbe il loro martirio veloce e meno glorioso del previsto. Ne sono molto dispiaciuti naturalmente, ma conosceranno lo stesso il paradiso. E comunque nella vostra metropolitana viaggiano sempre tre milioni di persone al giorno. È un bersaglio che vale lo sforzo. E sono sicuro che tu sei in grado di capire.» Gli occhi iniettati di sangue si fecero piccoli. «Ho una domanda da farti. Come avete fatto a sapere di King's Cross? Avete incontrato Yasmeen?» Non dissi nulla e continuai a bere. Annuì lentamente a labbra serrate. Era furioso. «Li avevo avvertiti che vi avrei detto della casa, dopo la loro partenza.» «Per continuare i buoni rapporti con il mio capo?» «Era importante che continuassero a fidarsi di me e anche depistarvi rispetto alla vera azione.» Sospirò. «Povera Yasmeen. Così intelligente, così impegnata, ma così irresponsabile, sotto alcuni aspetti. Avevo detto loro di scrivere i messaggi prima di abbandonare il posto, anche se personalmente non approvo quel genere di gesto. I fatti parlano più delle parole. Non lo credi anche tu?» Sì. E avrei tanto voluto dargli una dimostrazione immediata. Prese un altro sorso e sorrise. Il bastardo si stava divertendo. «Erano convinti che fosse indispensabile farlo perché voi non sapete niente. Dall'11 settembre l'Occidente è concentrato solo su quello che accade. Là su quelle pareti Yasmeen e i suoi fratelli e sorelle raccontano fatti avvenuti nel XV secolo, ma voi non avete la benché minima idea di cosa si tratti. Vero?» Distolsi lo sguardo. Discorsi che non ci avrebbero portato da nessuna parte. E di certo non più vicino a Kelly. «Siamo tutti di passaggio e il mio viaggio è quasi alla fine. Noi della JI siamo gli architetti del nuovo mondo. Voi siete ancora nel vecchio, amate gli ebrei e gli Stati Uniti. Volete continuare ad avere il controllo sull'Asia. L'unico modo per fermarvi è la jihad, la guerra santa. E quindi Bali, e adesso questo.» «Ma di che cazzo parli? Perché non li hai avvertiti che stavamo arrivando a King's Cross? Sapevi quello che stava per accadere, lo sapevi perché li avevi venduti tu stesso. Perché fai questi giochetti del cazzo?» Intrecciò le grandi mani dalla pelle scura e posò gli avambracci sul tavo-
lo. «Io non faccio mai giochetti. Ho dovuto mantenere la finzione perché voi avete minacciato la mia famiglia. Ho due maschi e sono stato costretto a fare cose che mai mi sarei sognato di fare per proteggerli.» Attese da me un qualche cenno di comprensione, ma ne avevo finito la scorta. «E, adesso che tu e la donna avete scoperto i miei fratelli e le mie sorelle prima che potessero portare a termine l'azione, dovrò occuparmene da solo. Non è stato difficile decidere. Sai che avrei potuto avvertirli e loro sarebbero fuggiti. Ma cosa sarebbe successo in quel caso? Che tipo di reazione ci sarebbe stata? La chiusura completa della rete sotterranea, l'innalzamento dello stato di allerta? Dovevano comunque morire, dal momento che avevate scoperto la base. Mi sono limitato a portare via una sacca prima che arrivaste voi. In quel momento erano all'oscuro di tutto, adesso sono in paradiso e comprendono le ragioni del loro sacrificio. Dio capisce quello che ho fatto per proseguire la lotta, e che la mia famiglia verrà uccisa dalla vostra gente.» Raddrizzò l'indice destro e me lo puntò contro. Teneva gli occhi fissi nei miei. Il tono della voce divenne molto calmo. «Per questo motivo noi vinceremo e voi perderete. Adesso siete ovunque, volete vivere e più di tutto volete che i vostri figli vivano, ed è questo che vi rende deboli. Non avete ancora capito cosa c'è dopo questo mondo.» Sulla vita aveva ragione, non su chi avrebbe vinto. Si alzò. «Non voglio trattenerti più a lungo.» Si voltò e se ne andò senza aggiungere una parola, io restai lì a guardare la sua schiena e la busta sul tavolo. Sollevai la linguetta. Conteneva una polaroid che inquadrava Kelly a mezzo busto con indosso la maglietta Old Navy, i capelli appiccicati al volto rigato dalle lacrime. A stento riuscivo a vederle gli occhi arrossati e gonfi. Teneva la testa appoggiata contro un televisore sintonizzato sulla BBC. Sopra l'apparecchio erano allineati ornamenti religiosi in vetro e in ottone. Nell'angolo dello schermo: 8.46 e la data di quel giorno. Nell'ora esatta in cui la foto era stata scattata, anch'io stavo guardando lo stesso programma. La voltai. Scritti a mano con un pennarello a punta fine c'erano il suo numero di cellulare e un indirizzo: appartamento 27, Bergmannstrasse 22. 50
Rimasi seduto a sorseggiare il caffè. I ragazzi ci davano sotto e le ragazze ridevano e scherzavano. Mi fumava la testa. Come aveva fatto a sapere dove si trovava Kelly? Grigio e Blu dovevano averci seguito fino all'appartamento e poi seguito me e quindi Jimmy e Carmen fino al bungalow. Era inutile muoversi in fretta e partire a razzo. La prima cosa da fare in situazioni del genere è accettare di essere nella merda. Fermarsi, fare un gran respiro, ritrovare una sorta di equilibrio e alla fine decidere cosa fare. Agitarmi non mi avrebbe aiutato a uscire dall'incubo, quindi non avrebbe aiutato neppure lei. Presi un sorso di caffè, con il preciso intento di recuperare il controllo. Il lavoro doveva essere fatto senza l'aiuto di Signorsì, adesso che tutto sembrava a posto nel Paese delle spie? Le gambe avevano smesso di andare su e giù. Non avevo energie da sprecare: la testa aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile. Cazzo, dovevo smettere di pensare se Signorsì poteva essere di aiuto. Certo che poteva, ma non glielo avrei mai chiesto: il rischio che mandasse tutto a puttane e sacrificasse la vita di Kelly per mettere le mani su DW e sulla fonte era troppo alto. Avevo bisogno di restare concentrato sulla mossa successiva, ma non ci riuscivo. Guardai ancora la foto. Non sapere che cosa le stava accadendo era la cosa peggiore da sopportare. Pensai che forse era spaventata, che aveva fame, sete, che forse dopo aver fatto la foto l'avevano legata e gettata in qualche posto buio e scomodo. Tornò lo strano pulsare al centro del torace. E, mentre i ragazzini decidevano dove andare a passare la serata, carezzai con il pollice il suo viso spaventato. Feci per bere un altro sorso ma mi accorsi che il caffè era finito. Misi la foto da una parte e presi la tazza della fonte. Non avevo scelta: consegnare le bottiglie era l'unica possibilità che avevo di ritrovare Kelly. Il modo migliore per aiutarla era di recarmi là e fare quanto mi era stato richiesto. Dopo avrei pensato a cosa cazzo fare in seguito. La tazza tornò sul tavolo. Le mie certezze erano che avevo un indirizzo dove andare a Berlino, avevo delle cose da ritirare, avevo un numero da chiamare al mio ritorno. Bene, era una cosa fattibile. Potevo portare DW nel Paese. I problemi veri sarebbero nati quando avrei tentato di prendere Kelly e allo stesso tempo impedire che la merda venisse scaricata nella metropolitana. Se non ci fossi riuscito, saremmo morti entrambi. Crollai contro lo schienale, totalmente a pezzi. Al ritorno da Berlino a-
vrei avuto bisogno di aiuto. Avrei dovuto improvvisare, e in due si riesce meglio che da soli. Suzy era l'unica speranza. Il rischio che rifiutasse era molto alto ed era anche possibile che si precipitasse da Signorsì. Ma quella era la cosa più semplice. Al primo accenno di esitazione, le avrei fatto passare un po' di tempo chiusa nel bagagliaio della Vectra. Se riuscivo a trovarla, ecco il vero problema. Altre persone entrarono nel bar e la macchina del caffè andò su di giri. Adesso che avevo uno straccio di piano mi sentivo meglio. Una cosa mi andò dritta. Non mi avevano bloccato la Vectra. Seduto al volante cominciai a ripensare a tutto quello che Suzy aveva detto del posto in cui viveva, e Bluewater era il punto di partenza più logico. Saltai di nuovo fuori e raggiunsi una cabina telefonica. L'elenco abbonati mi fornì il numero e subito dopo ero in linea con l'ufficio informazioni di Bluewater. «Devo fare acquisti di una certa importanza, ma non so dove siete.» La ragazza si riprese velocemente dallo stupore e rispose in automatico. «Signore, è molto semplice raggiungere Bluewater. Si trova a un chilometro e mezzo verso est dalla M25, stessa distanza a ovest dal punto d'incontro fra la A2 e la M2. La segnaletica è molto chiara in entrambe le direzioni.» «Siete nel Kent, allora?» «Sì, signore. Abbiamo una gamma di negozi molto ampia, troverà quanto le serve e potrà anche divertirsi. Il parcheggio è...» Chiusi prima che potesse terminare e tornai alla macchina diretto a est verso i Docklands e il cavalcavia di Dartford. Probabile che io passassi sopra il Tamigi mentre i resti degli ASU ci transitavano sotto. Guardai l'ora, erano da poco passate le due. Cos'avrei fatto se non l'avessi trovata? Era di nuovo l'ora delle sberle mentali: Chiudi quella cazzo di bocca e procedi. Avrei dovuto darmi un limite massimo per prendere il primo volo della mattina. Superato quello, avrei dovuto cavarmela da solo. Passai le lucenti torri di Canary Wharf sulla destra, mi fermai a un'altra cabina telefonica e chiamai di nuovo l'elenco abbonati. «Air Berlin, per favore.» Un minuto dopo una vivace voce femminile mi mitragliò con un tedesco velocissimo. La interruppi. «Da quale aeroporto di Londra volate su Berlino e a che ora è il primo volo di domattina e l'ultimo della sera?» Il tedesco si trasformò in un inglese molto migliore di quello che io avrei mai parlato. «Il primo volo parte da Stansted alle 7.30 e arriva a Berlino
Tegel alle 10.05 ora locale. L'ultimo volo di ritorno che ho è alle 19.05 da Berlino Tegel e arriva a Londra Stansted alle 19.40. Vuole prenotare?» «Sì, grazie. Un posto.» Infilai una mano nella felpa per prendere i documenti a nome Nick Stone e la mia nuova amica tedesca mi fissò il volo. Tornato sulla strada, venni subito diretto verso la corsia di destra per la M25 e il ponte Queen Elizabeth. E quasi subito venni circondato dai cartelli di Bluewater, come mi era stato promesso. Desiderai che ce ne fosse anche uno che diceva: CASA BOVIS, CON UNA SERRA COSTRUITA A METÀ E DALLA FINESTRA DELLA CUCINA SI VEDE BLUEWATER. Il complesso era un gigantesco parcheggio tutto intorno a un edificio centrale, circondato da collinette di ogni genere. I costruttori ci avevano dato dentro. Ero in presenza del Paradiso dei Pendolari: se non ti piaceva guidare fino a Londra sulla M25 per andare a lavorare, la stazione di Gravesend era a pochi chilometri di distanza. Passai lentamente attraverso Bean, Greenhithe e Swanscombe, guardando ogni passante nella speranza che i miei sei numeri uscissero tutti insieme e mi capitasse d'incontrare Suzy che camminava con sacchetti della spesa pieni di banane e barrette di muesli. Tutte le imprese costruttrici del mondo avevano alzato qualcosa da quelle parti e per quanto ne sapevo poteva aver usato Bovis giusto per dire un nome. Feci un giro intorno a un certo numero di quei grossi complessi di case. Avevano tutti una sola entrata da cui partiva una strada senza uscita con nomi tipo Panoramica del Presbiterio o Sentiero del Frutteto, ma senza una chiesa o un albero di mele in vista. Alcune delle costruzioni erano così recenti che il prato davanti era solo un cumulo di macerie. Vidi due posatori di moquette che uscivano da una bifamiliare e mi fermai. «Scusate, sapete dove si trova il complesso Bovis?» Il più vecchio dei due si accese una sigaretta e si consultò con quello più giovane, che aveva una camicia England e i capelli pettinati in avanti con una frangia piena di gel. Niente di promettente. «Non sono sicuro.» Aspirò un tiro. «A me questi cazzo di posti sembrano tutti uguali, non so se mi spiego.» Ringraziai con un cenno e feci inversione. Mi apparve una stazione di servizio e colsi l'occasione per fare il pieno di benzina e cibo: panino con formaggio e sottaceti, patatine fritte e una bottiglia di Coca. Mentre tornavo verso Bluewater il traffico si fece più intenso; le auto
che si riversavano dai parcheggi sembravano centinaia. Finalmente trovai un posto. L'interno del centro commerciale aveva lo stesso aspetto e gli stessi suoni di qualsiasi altro: musica di sottofondo dagli altoparlanti, ettari di vetro, piante verdi e scale mobili. Collegarsi alla rete era molto semplice, c'erano postazioni Internet distribuite su tutti i piani. Infilai una moneta da cinquanta pence nell'apparecchio e mi collegai a Google. Il sito Bovis che si aprì era pieno di foto e descrizioni accattivanti di immobili in vendita. Le costruzioni nel Kent erano molte, ma nessuna da quelle parti. Il più vicino era al confine con il Surrey. Cercai ancora per vedere se il dipartimento dell'Ambiente avesse un registro di immobili in costruzione nella contea, ma non arrivai a niente. Presi una fetta di pizza piccante e caldissima, un'altra Coca e tornai alla macchina. Al momento non potevo fare altro, se non resistere alla tentazione di guardare ancora la polaroid. Mi pulii le mani unte sui jeans e bevendo la Coca feci un giro del parcheggio per studiare la visuale degli edifici in lontananza. Erano da poco passate le quattro, quindi avevo ancora circa quattro ore di luce per controllare i gruppi di edifici che riuscivo a vedere, più tutta la notte se ne avessi avuto bisogno. Risalii in macchina e cominciai a guidare. Dopo circa un'ora, passata a guardare tutti quei nuovi edifici, non li distinguevo più, mi sembrava che fosse sempre lo stesso: mattoni rossi, imitazioni fuori scala dello stile Tudor con un pizzico di costosi mattoni gialli. Tutti con graziosi garage per due auto, tutti con BMW o Freelander parcheggiate nei vialetti. Finii in una stradina senza uscita con un'ampia piazzola per fare inversione che si chiamava Warwick. Il posto era di qualche anno più vecchio degli altri; tanto per cominciare l'erba del prato aveva messo radici. Era tutto molto curato e mi aspettavo di vedere, da un momento all'altro, le signore robot della Fabbrica delle mogli fare la loro apparizione per uno spot di acquisti sincronizzati. Continuai il giro per Warwick. Bluewater era a non più di tre o quattro chilometri di distanza attraverso i prati. Davanti a me avevo una possibilità. In fondo, dove si girava, le Serre Mick Davies e Figlio avevano un furgone Transit con pianale parcheggiato all'esterno, e nel prato c'era un sentiero molto battuto che spariva nella stradina che divideva la casa da quella adiacente. Nel vialetto non era posteggiata nessuna macchina e così ci parcheggiai
la mia, poi a piedi girai intorno alla casa per raggiungere il retro dove trovai una radio che a tutto volume trasmetteva la canzone di un complessino. Quello che secondo me era Mick era in cima a una scala che avvitava supporti nella struttura di legno scuro di una serra e il figlio era alla base a tenergliela ferma. Il giardino sembrava piccolo rispetto alla casa, e la siepe di alberi appena piantati all'interno del confine non era ancora abbastanza efficace per schermare la vista sul centro commerciale che si scorgeva in lontananza. Il resto del giardino era decisamente incasinato: vicino a un mucchio di sabbia c'era una impastatrice per il cemento con dentro una canna di gomma collegata a un rubinetto nel muro. Dal cestello fuoriusciva acqua. Papà in cima alla scala armeggiava con una pistola di sigillante per chiudere gli spazi fra la struttura in legno e il muro di mattoni, così feci un cenno al giovane. Parlai a voce alta per superare la musica. «Abito appena più in giù... e ho pensato di venire a dare un'occhiata. Sto pensando di costruirne una anch'io. Lei c'è?» Indicai la casa. «Parlo della bionda... Capelli corti...» Buttai un occhio attraverso la finestra di sinistra, nella sala da pranzo. In mezzo alla stanza c'era un tavolo scuro con le sedie intorno. Un arco la collegava al soggiorno. «No, credo che abbia i capelli scuri, amico.» Staccò la destra dalla scala e tracciò una linea all'altezza delle spalle. «Lunghi fin qui.» «Già, giusto. Pensavo all'altra vicina. È Suzy che abita qui, giusto?» A destra della finestra della sala da pranzo c'era una porta con la parte alta in vetro e a destra di quella la cucina, con pensili marroni e un rubinetto cromato che spuntava dal davanzale della finestra. «Penso di sì.» «Ma non è in casa?» «No.» «Sa quando torna?» Le fondamenta della serra e sei strati di mattoni erano già stati posati. Andavano dalla porta posteriore alla cucina. La struttura era a buon punto. Alzò le spalle. «E il marito, è qui in giro?» «Mai visto uno, amico.» «Grazie, arrivederci.» Mentre percorrevo la stretta stradina fra le due case, guardai l'ora. Erano le cinque e un quarto, entro poco i ragazzi sarebbero andati via. Avrei cer-
cato ancora ma avevo la sensazione di aver già fatto centro. Lasciai il complesso e mi resi conto che gli occhi mi bruciavano per la stanchezza e che vedevo tutto offuscato. 'Fanculo, avrei dormito la settimana successiva. Una cosa mi lasciava perplesso: la casa era troppo grande per una persona sola, ma tutto quello che lei aveva detto e fatto lasciava intendere che vivesse da sola. Non aveva nessuno cui telefonare e non era preoccupata per nessuno e per niente. Forse aveva comprato come investimento. E se non era così? Cos'avrei fatto se il motivo per cui aveva una casa tanto grande era che aveva marito e figli? Con una casa piena di gente, come avrei potuto fermarla se fosse fuggita ad avvertire Signorsì? Cazzo, ci avrei pensato se fosse stato il caso. Decisi di controllare altre possibilità. Sarei tornato lì non appena avesse fatto buio. 51 Warwick Drive risultò la mia unica speranza. Non ero riuscito a trovare altri posti possibili. Tornai al parcheggio di Bluewater e abbassai il sedile, ma non riuscii a dormire. Sonnecchiai per brevi periodi, svegliandomi a ogni grido, a ogni veicolo in movimento, a ogni portellone che sbatteva. Quando alla fine aprii gli occhi, erano più che mai appannati e in lacrime. La bocca mi puzzava come una pattumiera e il panino al formaggio e sottaceti aveva coperto i denti di una patina spessa. Ma se non altro era buio. Guardai il Traser. Merda, ero quasi in ritardo. Tornai nel centro commerciale e inserii un paio di sterline in un telefono a muro. Josh all'altro capo mi rispose con uno squillante e allegro «pronto!» «Sono io.» Il tono cambiò subito. «Oh, ciao, stavamo per uscire.» «Ascolta, non serve, è tutto cambiato. Non torna. Non per il momento, almeno.» «Scherzi? Le ho parlato ieri sera ed era tutto stabilito. Cos'è successo? Sta bene?» «Certo.» Cercai di sembrare più normale possibile. «Solo che si fermerà qui ancora un po'. Penso che sia meglio per lei.» La scuola della Bibbia aveva esaurito il suo potere. «Ma cosa dici? Sei tu che hai cambiato idea, o è stata lei? Mi aveva già comunicato che voleva
tornare per risolvere i suoi problemi.» «Lo so, lo so, solo che per ora non torna. Ti chiamerò più tardi. Adesso devo andare, amico... il lavoro, sai com'è. Volevo solo riuscire a parlarti prima che tu andassi all'aeroporto.» «Cosa succede? Hai paura di farla volare perché c'è lo stato di allerta? Ma dài, lo sai che le possibilità sono...» «Mi dispiace, devo andare, devo proprio.» Buttai giù il telefono e mi allontanai. Mi sentivo uno stronzo completo. Avrei voluto dirgli di restare in casa con i bambini, o dirgli di procurarsi una valanga di antibiotici, ma non potevo, non potevo rischiare una fuga di notizie. La cosa migliore che potessi fare per lui e per i suoi figli era tacere, in modo che George avesse più possibilità di bloccare le ASU. Chiunque fossero quelli che lavoravano per lui, era meglio che fossero maledettamente in gamba. Tornato alla macchina riportai il sedile in posizione di guida e scivolai fuori dal centro commerciale. Unico veicolo a non avere una montagna di sacchetti nei sedili posteriori. Al margine del complesso c'era una piccola fila di negozi: uno che vendeva alcolici, uno Spar 24/7 e una lavanderia. Parcheggiai ed entrai nello Spar. Dietro il banco c'era una coppia, la donna mangiava un KitKat. Non mi persero d'occhio mentre prendevo un pasticcio di carne e un paio di lattine di Red Bull. Lasciai la macchina dove si trovava e proseguii a piedi mentre m'ingozzavo di bistecca e rognone - così almeno era scritto sulla confezione - e caffeina, cercando di svegliarmi e di mettermi in moto. In giro c'erano poche persone, uscite per portare fuori il cane, la maggior parte probabilmente era a casa a fare il bagno ai bambini: il posto era pervaso dall'atmosfera di fine weekend. L'illuminazione della strada era sufficiente per vedere, ma non forte come nella principale. Facile che i costruttori avessero installato il minimo necessario, cosa che per me andava più che bene. Il riflesso dei televisori era in tutte le stanze sul davanti di file su file di villette unifamiliari e bifamiliari. Svoltai in Warwick Drive. Vidi che in fondo alla piazzola, in quello che speravo fosse l'appartamento di Suzy, le luci erano accese. Distinsi la sagoma di un'auto nel vialetto. Abbandonai la seconda lattina vuota di Red Bull sul muro di una villetta in finto stile Tudor e controllai che il cellulare fosse spento, poi, mentre mi avvicinavo alla casa, cominciai a esaminare le varie possibilità. Cos'avrei
fatto se aveva un marito e lui era in casa? Cosa se aveva dei figli? Cosa se era sola ma se il marito fosse tornato mentre ero con lei? Cos'avrei fatto se mi avesse detto che avrebbe informato Signorsì? Quando arrivai più vicino vidi spiragli di luce fra le tendine della stanza sul davanti, a destra del portoncino d'ingresso, e al pianerottolo del piano superiore. La macchina era una Honda 4x4 sporca di fango. Mi avviai lungo il viottolo che portava dietro la casa e mi fermai all'angolo di mattoni per esaminare il giardino. La luce del pianerottolo fu sufficiente per farmi schivare la betoniera e i mucchi di sabbia e di legname lì vicino. I Coldplay cantavano a squarciagola da una delle finestre del secondo piano della casa a fianco. A Kelly sarebbe piaciuto molto. Seguii la recinzione fino agli alberi piantati da poco in fondo al giardino, tenendomi basso per restare nella sua ombra. Vedevo Bluewater sullo sfondo oltre i campi, i parcheggi con quella luce forte sembravano piattaforme di atterraggio per gli UFO. Da lì avevo una visione completa di tutto il retro della casa. Il soggiorno aveva le tende tirate ma la cucina con i mobili in quercia era perfettamente visibile. Fra i due locali c'era la porta che usciva in giardino, circondata da un muretto alto sessanta centimetri che era la base della serra. Guardai oltre la siepe per controllare che il fan dei Coldplay non fosse affacciato alla finestra a fumare di nascosto, poi mi avvicinai alla finestra del soggiorno, tenendomi a distanza rispetto ai telai di legno e ai mucchi di altre schifezze del cantiere. Non volevo lasciare orme sulla sabbia. Movimento alla mia destra, all'interno della cucina; non c'era tempo per controllare, mi buttai a terra e strisciai al riparo del muro. 'Fanculo alle impronte, adesso. Con la faccia coperta di sabbia strisciai all'angolo per vedere cosa stava succedendo. Suzy stava riempiendo il bollitore. Indossava un accappatoio bianco e aveva i capelli pettinati indietro. Nessun movimento delle labbra, era concentrata solo sul rubinetto. Molto probabilmente avrei sentito se ci fosse stato qualcun altro nelle vicinanze. Poco dopo sparì nel corridoio. Scivolai all'indietro, sempre sullo stomaco, poi girai e tornai alla postazione originale. Il marsupio strisciava a terra, e mi fermai per sistemarlo. Quando fui sotto la finestra mi misi seduto dritto con la schiena contro il muro. Scrollai la sabbia dalla felpa e cercai di non fare caso all'umido e al freddo che stavano impregnando il dietro dei jeans. Attesi che tornasse in cucina per preparare il tè, uno solo mi augurai. I
Coldplay non erano di grande aiuto, ma ero certo che dalla casa non provenisse nessun suono, né televisione, né voci, né musica. Dalla porta un'ombra si proiettò nel giardino. Con un mezzo giro mi portai sulle ginocchia e sollevai la testa fino a vedere attraverso un angolo della finestra. La sala da pranzo era buia e notai solo una lama di luce che dalla porta del soggiorno filtrava sulla moquette. Apparve Suzy con una tazza in mano, poi svanì dalla mia visuale. Camminando carponi mi spostai all'altro angolo della finestra, quindi mi sollevai veloce. Era sdraiata sul divano e leggeva una rivista. La tazza era vicino a lei su un tavolino basso e altre riviste erano sparpagliate sul pavimento. Ovunque sacchetti di negozi di lusso e una serie di vestiti nuovi appoggiati su una poltrona con i cartellini ancora attaccati. Rimasi in posizione e controllai il Traser mentre lei girava le pagine. Erano da poco passate le undici. Doveva essere distrutta almeno quanto me. Perché non andava a dormire? Stava aspettando che il suo ragazzo, o suo marito, tornasse a casa? Continuai a osservarla facendo attenzione a tenere la bocca lontano dal vetro perché non si formasse la condensa. Sempre su mani e piedi feci il giro intorno alla serra e raggiunsi la finestra della cucina. Il lavandino era vuoto e non c'erano fotografie attaccate al frigorifero, né istantanee felici appese alla parete a fiorellini gialli. C'erano alcune lettere sul piano di lavoro. Spostai la testa per riuscire a scorgere il destinatario. Non potei leggere il nome, ma vidi che erano indirizzate a una persona sola. Scivolai di nuovo sotto la finestra e contro il muro. Piegai le gambe, le cinsi con le braccia e posai il mento sulle ginocchia. Continuavo a guardare il Traser. Non era ancora mezzanotte e avevo di nuovo il sedere bagnato. Il volo era alle sette e qualcosa, dovevo essere all'aeroporto un paio d'ore prima. Quindi dovevo andare via da lì intorno alle tre, meglio intorno alle due e mezzo, per avere il tempo di cambiare una gomma. Avevo poco meno di tre ore per catturare l'attenzione di Suzy, convincerla ad aiutarmi - o metterla nel baule della macchina - e darmi una ripulita prima del volo. Ero seduto in mezzo all'erba bagnata, e la sabbia che non ero riuscito a togliere mi faceva prudere la schiena. E pensavo a Kelly. Forse era seduta in un angolo di una stanza sporca, con addosso solo la maglietta Old Navy, congelata, bagnata e spaventata. Aveva fame? Le avevano dato da bere? Le avevano fatto del male? Si rendeva conto di quello che stava accaden-
do? C'erano altre domande che mi si affollavano nella mente ma che non avevo il coraggio di pormi. Mi sentivo del tutto inutile. Avevo voglia di muovermi, di agire, di fare qualcosa di costruttivo. Mentalmente mi schiaffeggiai con forza. Ciò che stavo per fare era la cosa giusta per aiutarla. Avevo bisogno dell'aiuto di Suzy ed era per quel motivo che ero lì. Era quella l'azione giusta. Ed era anche l'unica. Trattenni il fiato per vedere se il dolore al torace se ne andava. Rimase lì dov'era. Provai a riempire i polmoni per calmarmi e non funzionò. Perché m'infilavo sempre in casini così grossi? Tempo di procedere. Mi alzai lentamente, sempre nell'ombra. Tenendomi lontano dalle finestre tornai davanti alla casa, e di colpo mi resi conto che forse era sola come lo ero io. Le tende erano sempre tirate. Feci un passo nel portico e il faro di sorveglianza si accese. La porta era in solido legno. Suonai il campanello e scorsi dei movimenti nel corridoio. «Chi è?» Il tono di voce non era di paura ma di curiosità. «Sono io, sono Nick.» «Chi?» «Nick. Io... io ho bisogno di aiuto. Apri.» Aprì, ma lasciò la catena e vidi il suo viso. Non erano che pochi centimetri ma compresi che non era per niente colpita. «Cosa vuoi?» «Fammi entrare. È importante. Ti prego.» La porta si chiuse, la catena sferragliò, la porta si aprì. Mi pulii gli stivali pieni di sabbia sullo zerbino ed entrai. Il corridoio era azzurro chiaro e sentii subito odore di pittura e di moquette nuova. Le pareti del corridoio erano rivestite di carta a fiori che partiva da uno zoccolo decorato e qui e là erano appese stampe di alberi, cielo e cose del genere. Sembrava di essere in un salone espositivo di B&Q. C'era un'altra porta sulla sinistra, molto vicina alle scale, che doveva condurre al garage, come a casa di Carmen e Jimmy. Ottimo: se mi avesse rifiutato il suo aiuto, avrei portato dentro la macchina e l'avrei infilata con forza nel baule senza che nessuno potesse vedere. «Cosa cazzo ci fai qui, Nick?» Alzai le mani in segno di resa. «Avevo voglia di una tazza di tè.» «Scusa del cazzo. Come facevi a sapere dove abito?» «Non lo sapevo. Bluewater che si vede dalla finestra della cucina? La serra? Erano i soli indizi che avevo.»
Mi guardò i vestiti. Mi strinsi nelle spalle. «Ho dovuto aspettare per essere sicuro che fossi sola. Senti, ho bisogno di parlarti di una cosa, ma prima devo bere.» «Ti conviene che sia davvero importante.» Si voltò e andò in cucina. «Togliti gli stivali.» Sentii che riempiva il bollitore mentre obbedivo. I piedi puzzavano. Rimasi vicino alla porta. Anche da dietro, il linguaggio corporeo era fin troppo chiaro. Probabilmente era incazzata nera più con se stessa che con me: non riusciva a capacitarsi di essersi lasciata sfuggire così tanto. Ai tempi del Det un errore del genere poteva costare la vita a qualcuno. «Cosa vuoi?» «Kelly è stata rapita... dalla fonte.» Si voltò per guardarmi. Sempre con il bollitore in mano. Parlai piano e a bassa voce. Volevo che comprendesse ogni parola. «Sono andato a trovarla dai nonni, stamattina. Sono stati uccisi entrambi a coltellate. Kelly non c'era. Nessun biglietto, niente.» Ce ne restammo lì, Suzy sempre con il bollitore in mano, mentre le raccontavo quello che era successo dopo. «Un semplice scambio. Io vado a Berlino a fare un prelievo e lui mi rende Kelly.» «A prendere cosa?» Accese il bollitore. «Cinque bottiglie di vino.» Si voltò, orrore puro sul suo viso. «Oh, cazzo... devi chiamare il capo.» «No.» Scossi la testa. Si voltò verso i ganci da cui pendevano le tazze gialle in tinta con la tappezzeria, per la prima volta notai che portava la fede al dito. Cominciai a pensare in fretta. Sapeva quello che avevo visto. «Rilassati, sono sola.» Mi avvicinai. «Ho bisogno di aiuto. Potrei mentirti e dirti che si tratta d'impadronirsi di DW, ma non è così. Si tratta di riavere Kelly e dopo di cercare di controllare DW. Non posso riuscirci da solo. Tu sei l'unica persona cui posso chiederlo. Ma, qualsiasi cosa tu decida, nessuno deve saperne niente. Sollevai il dito medio della mano sinistra e lo piegai nell'aria. «Nessuno.» L'acqua bolliva e lei lasciò cadere la bustina del tè nella tazza, versò l'acqua, tirò fuori la bustina quasi subito e la gettò nel lavandino. La seguii in soggiorno con la tazza in mano. Accese la luce centrale. Le tende si accordavano al divano e al resto dell'arredamento. Per il mio gusto c'erano un po' troppi fiori e certo non mi sarei mai aspettato che a Suzy
piacesse quel genere di cose. Nella sala da pranzo su un mobile lucidissimo c'erano le foto di famiglia. In due o tre, con cornici in argento, il posto d'onore era riservato a un sorridente ufficiale di marina. Due ragazzini in divisa da rugby piena di fango, più o meno coetanei di Kelly, nelle altre. Picchiettò una delle foto dell'uniforme. «Per questo non avevo nessuno da chiamare. Geoff sta galleggiando da qualche parte in zona Golfo. Quelli sono i suoi figli. Vivono con la madre in Nuova Zelanda.» Geoff sembrava molto più vecchio di lei, ed era chiaro che era in marina da tanto. Non avevo mai capito quali fossero i segni distintivi della gerarchia, ma aveva diversa roba appesa alla giacca. Si aprì in un sorriso e andò al divano. «Te l'ho detto, rilassati. Sono da sola.» Buttò Hello! a terra insieme con le altre riviste e si sedette. Raccolse le gambe sui cuscini e si coprì con l'accappatoio. Io rimasi in piedi per rispetto all'arredamento. Feci un cenno verso i sacchetti. «Andata da Bluewater?» «Già. Non riuscivo a dormire. Morivo dalla voglia di farlo, ma non riuscivo a smettere di pensare al lavoro...» Sistemò meglio la stoffa sulle cosce, poi mi guardò decisa. «Dimmi tutto, qual è la storia della ragazzina se non è tua figlia?» 52 Ci misi un'ora. Ma lì in piedi riuscii a dirle tutto. Le raccontai di quel giorno a Hunting Bear Path, della nostra fuga durata settimane e di come dopo la terapia seguita a Londra era andata a vivere nel Maryland con Josh e i figli. Suzy comprese. «Non si è mai ripresa del tutto, vero? Ed è per questo che l'hai riportata dallo stesso dottore?» «Sì, è per andare lì che sono sparito sabato mattina. Ci vuole del tempo per superare il fatto di aver visto sterminare tutti i membri della propria famiglia. Ma lei è esattamente com'era suo padre, non si arrende...» Le raccontai di come era riuscita a ricostruirsi, di come da un fagotto chiuso e inerme fosse stata capace di affrontare il mondo fuori della clinica dove aveva passato quasi dieci mesi. E poi, quando ormai credevo stesse bene, la dipendenza da analgesici, la bulimia e chissà cos'altro ancora. «Adesso capisco il tuo strano comportamento a St Chad's.» Frugai in tasca e presi la polaroid. «Questa è lei, stamattina.»
Suzy tenne gli occhi fissi sul viso di Kelly, ma sembravano appena velati, come se stesse pensando ad altro. «Molto carina...» Mi restituì la foto. «Sei sicuro che non sia il caso di parlarne con il capo?» «Ricordi quel lavoro di cui ti ho parlato, quello che ho fatto per lui un paio di anni fa? Era a Panama. Mi ha minacciato di uccidere Kelly se avessi rifiutato di farlo. I due tizi del Transit, sono loro quelli che l'avrebbero fatto. Se vado da lui adesso, perdo quel minimo vantaggio che ho. Per lui nient'altro è importante, solo DW, è giusto, ma Kelly che fine farebbe? Ho solo un modo per liberarla ed è andare a Berlino a prendere le bottiglie.» «Sei sicuro che non vi ucciderà entrambi quando gliele consegnerai?» Mi strinsi nelle spalle. Cosa avrei potuto dire? Aveva ragione. Mi guardò a lungo. «Lo farai comunque, vero?» «Non mi sembra di avere alternative. Il punto è: mi aiuterai? Non so ancora come fare ma so che avrò bisogno di aiuto quando tornerò in Inghilterra.» Si agitò sul divano come se stesse cercando qualcosa, poi sorrise fra sé. «Forza dell'abitudine. Cercavo una sigaretta. Sarà difficile, Nick. Sono in una condizione piuttosto delicata.» «Se tutto va bene, la tua promozione a quadro permanente non sarà compromessa. Non penso...» Alzò una mano. «Sai, per essere un osservatore piuttosto esperto a volte sei proprio stupido. Ho detto 'condizione' e non 'posizione'. Rifletti, a Penang fumavo, giusto, ma la volta successiva che mi hai visto avevo smesso, io, la ragazza in grado di descrivere ogni singola sigaretta che abbia mai fumato. E poi ho vomitato. Nervi? E mi hai mai visto prendere una sola pastiglia di antibiotico? Pensaci, Nick. Veloce... sì, bravo, ci sei. Due mesi. Affettuoso ricordino che mi ha lasciato Geoffrey prima di partire per il Golfo.» «Perché non me lo hai detto? Da quanto lo sai?» «Non sono affari tuoi, ma ne ho avuto la certezza di ritorno da Penang.» «E Signorsì lo sa?» «Escluso. Spero di diventare quadro permanente prima che si veda, poi ringrazierò per la promozione e il giorno successivo... sorpresa, orrore, quanto mi dispiace, ho appena scoperto che devo mettermi in maternità.» «Ti fotterà alla grande, e lo sai.» Alzò le spalle. «Lo ha già fatto Geoff. Comunque staremo a vedere, che altro?» Non riuscii a capire se quanto aveva detto di Geoff fosse un gioco di pa-
role o qualcosa di più. «E lui che ne pensa?» «Non lo sa ancora. Non sono sicura di volerlo tenere.» Guardò altrove e si perse nei suoi pensieri. «Il nostro matrimonio è una specie di incubo, a essere onesti. Ero convinta di aver bisogno di stabilità. Ma guarda questa casa, questa non sono io, tu lo sai di cosa parlo, vero?» Agitò una mano verso il tripudio di fiori che ci circondava. «Ci ho provato. Ero convinta di volere tutto questo, ma non sono fatta per cazzate del genere. Mi capisci?» Sembrava sul punto di mettersi a piangere. Odiavo le situazioni di quel genere, non sapevo mai che cosa fare. Ascoltare e consolare o andare a preparare altro tè. «Ho come l'impressione che ce l'abbia con me, se non mi avesse incontrato sarebbe sempre infelicemente sposato con la prima moglie.» Prese un gran respiro ed espirò in modo rumoroso. Le lacrime le scendevano lungo le guance. Anch'io presi fiato, pronto a chiedere se voleva ancora tè, ma mi fregò sul tempo. «Chissà perché mi ha sposato.» Fece un ghigno mentre le lacrime cadevano silenziose sull'accappatoio. «Oh, no, aspetta, ora ricordo, sono così fantastica da scopare!» M'invitò a sedermi e a sporcare una poltrona. «Fottitene, ho sempre odiato quella fantasia.» Spostai maglie e giacche dallo schienale e presi posto. Da quando aveva fatto l'annuncio non avevo mai smesso di annuire, ma non avevo ancora idea dove ci avrebbe portato. «Quando hai suonato il campanello stavo pensando all'aborto. Vuoi che ti dica a quale conclusione ero giunta?» Continuai ad annuire. «Il mio matrimonio non sopravvivrà, ma voglio lo stesso il bambino.» «Questo cambia tutto, Suzy. Non posso chiederti...» «Ma che cazzo, perché no? Sono incinta, non invalida. Comunque, non preoccuparti, ho un'arma segreta.» Era chiaro che voleva che le chiedessi quale. Riprese il controllo e smise di piangere. «Non dirmelo... sei una degli X Men...» Mi scoccò lo stesso tipo di occhiata che mi lanciava Kelly ogni volta che dicevo qualcosa di imbarazzante. «La mia condizione, scemo.» «È proprio quella che mi preoccupa.» «Non quella... la sindrome RUC. Ne hai sentito parlare, ragazzo del Det?» Mai sentita, e quindi stavolta fui costretto a non annuire. «La prima volta è stata diagnosticata fra i corpi della polizia navale. So-
pravvissuti a bombardamenti o ad attacchi, alcuni di loro si convinsero che potevano sopravvivere a tutto. Io sono così. Sono invincibile.» «E, dimmi, cosa ti ha trasformato in una superdonna?» «Hai mai sentito parlare di quell'operatore donna che ha rischiato di essere catturata a Belfast negli anni '90? Ricordi, era l'agosto del '93. Tu eri ancora nel reggimento, vero?» Vero. E avevo qualche vago ricordo. «Stavo facendo insieme con un collega un normale lavoro di ricognizione intorno a un edificio a West Belfast. Facevamo parte di una squadra. Feci scendere il mio partner, Bob, che avrebbe fatto a piedi un sopralluogo ravvicinato dell'appartamento bersaglio, e andai a posteggiare dall'altro lato dell'edificio, in attesa di recuperarlo. Ma ci avevano individuato e io finii intrappolata nell'auto da una scavatrice. Il bastardo usò la benna per sfondare l'auto, mentre io ero ancora all'interno, e altri ragazzi erano pronti a fare a pezzi qualunque cosa fosse rimasta di me.» Stavo per mettermi a scherzare ma poi vidi la sua espressione. «Non chiedermi come, ma sono uscita dall'auto con un femore rotto dopo che la benna si era abbattuta con violenza due o tre volte sulla macchina. Ho sparato contro il tizio che azionava la scavatrice e contro uno sul punto di fracassarmi la testa con una spranga di ferro. E poi per tenere bloccati gli altri ne ho afferrato uno e gli ho ficcato la pistola in bocca fino a che le macchine del resto della squadra non sono riuscite ad aprirsi un varco tra la folla e venire in mio soccorso. Me l'ero fatta addosso. Bob era stato trascinato via e ucciso a calci all'interno della casa.» Adesso ricordavo: a quel tempo era stato un grande episodio. Era stata anche decorata per quello. «Così sei la famosa ragazza della scavatrice.» «Si, sono io. L'eroina. La migliore.» Il tono era piuttosto ironico, ma riuscire a sopravvivere era qualcosa di cui andare fieri, senza ombra di dubbio. Altri in situazioni simili erano morti, Bob incluso. Ashford e la scuola di MOE adesso avevano un senso, la sua copertura era saltata alla grande, ma il Det aveva bisogno di non farsi scappare una persona del suo calibro. «E Signorsì lo sa che hai questa meraviglia di RUC o come diavolo si chiama?» «No, non lo sa nessuno. Solo tu.» Fece un risolino mentre si copriva le gambe. «Vuoi sapere un'altra cosa che non sa nessuno? Vuoi sapere la vera storia?» Mi agitai a disagio e pensai che forse era giunto il momento di preparare
un altro tè. «Ci hanno scoperto per colpa mia.» La voce era rotta per l'emozione, era a testa bassa, i capelli in avanti le nascondevano il viso, con le mani continuava a lisciare l'accappatoio bianco contro le gambe. «Ho fermato la macchina per farlo scendere, procedura normale, ma quando Bob uscì aveva la giacca impigliata nella fondina. Si vedevano la Sig e il caricatore. Me ne accorsi solo quando era a metà strada. «Suonai il clacson e lui tornò indietro, pronto a risalire. Io gli dissi che era tutto a posto, di non fare lo stupido, che nessuno aveva visto. Il punto è che ero più preoccupata che la ricognizione fosse annullata e di fare la figura della deficiente, che di essere scoperta. Mi segui?» Annuii anche se non ero troppo sicuro di aver capito. «Comunque, lui si fidò delle mie parole, sistemò la giacca e si allontanò. Mi spostai dall'altro lato dell'immobile per il recupero. E subito dopo ci fu l'incontro con quella JCB del cazzo che voleva rifarmi la carrozzeria. Poi ho fatto il mio numero e le divise verdi sono entrate nel bersaglio in assetto da guerriglia, e dopo circa un'ora hanno portato fuori il cadavere di Bob.» Il viso era ancora coperto dai capelli, ma sapevo che stava di nuovo lottando con le lacrime. «Non puoi addossartene la colpa, avrebbe dovuto controllare da solo prima di uscire dalla macchina. Non è colpa di nessuno, a volte le cose s'incasinano da sole.» «No, ti sbagli. È successo quello che è successo solo perché io ero più preoccupata di dover ammettere con me stessa che ci eravamo fatti scoprire. Lo sentivo come un fallimento e non riuscivo ad accettarlo.» Sedette dritta, dondolando i piedi fuori dal divano. Aveva gli occhi umidi, le guance rosse e non si curava più dell'accappatoio che si aprì e le scoprì le gambe. «Non riuscii a dirlo a nessuno, forse per il senso di colpa, ma vidi Bob, vidi quando lo presero a calci e lo picchiarono a morte. Riuscivamo a vederci, mi urlava di aiutarlo. A quel punto ero fuori dall'auto ma non potevo raggiungerlo. Li vidi buttare una lastra di pietra del cazzo sulla sua testa, per colpa mia, ma io non potevo fare niente...» Le lacrime continuavano a scendere, ma nessun suono veniva da lei. Forse negli anni li aveva esauriti tutti. Il cuore mi batteva forte: avevo bisogno di sapere. «E ti capita anche di sognarlo, come un film che ti scorre in testa?» Restò immobile senza neppure asciugare le lacrime. «Lo sai, vero? Lo fai anche tu. A volte non riesco a fermarlo, anche un'immagine di lotta alla TV può farlo partire. Tu lo sai... È come se continuassi a farlo scorrere,
sempre sempre sempre, nella testa, e m'incasina tutta, mi distrugge. Non riesco a impedirlo.» Merda. Era troppo. Mi alzai e la bloccai. «Vuoi un tè?» Annuì. «Sì. Hai ragione. È meglio tacere prima di diventare persone normali che si raccontano... non si sa mai, le dighe possono davvero saltare e a quel punto saremmo davvero fottuti.» Mi seguì in cucina, si appoggiò al piano di lavoro e con una tovaglietta si asciugò le lacrime mentre mi guardava riempire il bollitore e armeggiare per cercare le bustine del tè. «Da allora, Nick, sono sempre stata la prima ad alzarmi. Nessun lavoro era troppo piccolo, Suzy è la ragazza che ci vuole per te. Nessun bisogno di fare psicologia spicciola, io sopravvivo anche quando commetto degli errori, anche quando non lo merito. Ed è per questo che verrò a Berlino con te.» Trovai il tè sul bancone dietro di lei e iniziai a versare. «Ho bisogno di te solo al ritorno.» «Rifletti. È meglio per la copertura e comunque non sai cosa ti troverai ad affrontare. Ma a parte questo...» sogghignò, «sei un buono a niente. Quante volte ho salvato il tuo grasso didietro?» Le allungai la tazza e vidi di nuovo quell'espressione inquietante. Ottimo, eravamo tornati alla normalità. Basta parlare di film e di dighe che scoppiano. Io avevo deciso di tenere ben chiuse le mie. «Così hai davvero quella sindrome? E io che credevo tu fossi una fottuta tortina alla frutta.» La battuta la fece ridere ma subito dopo socchiuse gli occhi. «Cos'avresti fatto se ti avessi detto di no? Mi avresti ucciso?» «No, ti avrei tenuto in ostaggio finché non avessi preso Kelly.» «Ascolta, non voglio mentirti. Se mi trovassi da sola e dovessi scegliere tra Kelly e DW, tu sai cosa farei, vero?» Annuii. «Devo farti due domande molto importanti.» «Vedi che lo siano davvero.» Allargai il collo della felpa. «Posso usare la doccia e la lavatrice? Sono pieno di sabbia qui sotto. E puoi fare tu la telefonata alla Air Berlin e prenotarti un posto sul mio volo?» 53 I sedili sul volo Air Berlin erano piccoli e stretti, ma entrambi eravamo così stanchi che non ci importava granché. Suzy era seduta vicino al fine-
strino, la testa appoggiata. I litri di caffè che avevamo ingurgitato per tutta la notte non erano sufficienti a tenerci svegli. E, poco dopo l'inizio di quel viaggio previsto di novanta minuti, eravamo tutti e due con la testa rovesciata all'indietro, la bocca spalancata, la saliva che colava dal mento, più o meno come gli altri viaggiatori del mattino, con la sola differenza che loro profumavano di dopobarba e indossavano vestiti perfetti e camicie stirate. Avevamo raggiunto Stansted con l'utilitaria che Geoff usava quando era in licenza, guidata da Suzy. Era una vecchia Micra che era uscita sferragliando dal garage dove avevo messo la Vectra. Adesso che l'azione stava per cominciare meglio non lasciarla in giro. Mentre i miei vestiti seguivano il trattamento di bellezza, noi avevamo cercato di fare dei piani per il prelievo. Avevamo discusso in lungo e in largo la possibilità di sostituire le bottiglie con altre contenenti polvere inerte. In teoria riuscire a portare a termine lo scambio non era un problema: entrambi lo avevamo fatto più di una volta in passato con armi ed equipaggiamento di altri giocatori. Ma portare a compimento un lavoro ben fatto richiede tempo e noi non ne avevamo. Qualsiasi giocatore con un po' di sale in zucca avrebbe messo dei segnali sulle bottiglie; un microscopico buchino nella stagnola che la sostituzione non avrebbe avuto, per esempio, oppure il gusto. Un pizzico di zenzero, o qualcosa di dolce sulla stagnola o sul tappo prima che venisse risigillato, avrebbe lasciato una traccia che un dito inumidito avrebbe individuato con facilità. Ma, se anche non ci fossero stati segnali di controllo, cosa sarebbe successo se lui fosse stato in grado di testare il contenuto? Potevo permettermi di correre il rischio? La fonte avrebbe richiesto l'assoluta certezza di avere DW prima di rilasciare Kelly - non che credessi davvero che avesse intenzione di farlo - e consegnare le bottiglie intatte era l'unico modo per avere una debole speranza di rivederla. 'Fanculo la sostituzione con materiale inerte. Dark Winter andava consegnato e basta. Avevamo dovuto usare i nostri passaporti perché non c'era tempo di fare altrimenti. Il suo vero nome era Susan Gilligan, o per lo meno quello era il suo nome da ragazza. Non aveva mai cambiato il passaporto anche se ormai era sposata da quasi quattro anni. La testa dondolò ancora e mi svegliai di soprassalto come se avessi l'incubo precipito-da-un-grattacielo-e-sto-per-sfracellarmi-al-suolo. I quotidiani che avevo sulle gambe erano scivolati a terra già da un po' e adesso erano ridotti a brandelli perché ci eravamo agitati parecchio nello spazio ristretto, con il risultato di stare ancora più scomodi. Grandi titoli su Ba-
ghdad nel dopoguerra, sullo stato di allerta arancio in America, attribuito alla situazione in Iraq, e fotografie di canadesi che camminavano con le mascherine sul volto per evitare di essere contagiati dalla SARS. Niente nelle pagine nazionali su King's Cross o King's Lynn. Mi asciugai la saliva all'angolo della bocca. Le comunicazioni precedenti l'atterraggio iniziarono in impeccabile tedesco e continuarono in un inglese con un forte accento ma perfetto. L'aeromobile iniziò a scendere e noi cominciammo a cercare la fibbia della cintura di sicurezza che come al solito si era nascosta. Imitai Suzy che regolò l'orologio sull'ora dell'Europa centrale, poi protesi il collo per guardare fuori dal finestrino dalla sua parte. Il cielo era terso e senza nuvole e riuscii a vedere bene la porta di Brandeburgo circondata da alti edifici che spuntavano ovunque. L'intero centro città sembrava un campo pronto per il raccolto, solo che le macchie gialle non erano campi di frumento ma una distesa di gigantesche gru. «Sembra la giornata ideale.» Da quando avevamo messo piede a Stansted non avevamo mai parlato del lavoro e ne avremmo riparlato solo una volta usciti dal taxi che ci avrebbe portato a destinazione. Non volevamo che qualcuno potesse sentirci e comunicare bisbigliando attira ancora di più l'attenzione. All'aeroporto Suzy aveva comprato una guida così adesso sapevamo che Bergmannstrasse era nella vecchia parte Ovest, in un quartiere che si chiamava Kreuzberg, che ricordavo dai tempi in cui c'ero stato come recluta negli anni '80. La guida diceva che c'era una forte concentrazione di turchi e che i tedeschi venivano lì per sfuggire al servizio nazionale e fare gli artisti e finivano per diventare punk o anarchici. Ero pienamente d'accordo. Non ricordavo gli artisti nella Berlino Ovest ma rammentavo bene i baristi che mi avevano truffato e le scazzottate con i punk tedeschi. L'aereo atterrò e, non appena il segnale delle cinture si spense, tutti intasammo il corridoio centrale. Gli uomini in giacca e cravatta accesero i cellulari per iniziare la giornata di lavoro. Quando finalmente scendemmo ci incanalarono verso due postazioni di controllo, molto vicino alla rampa. Gli addetti erano due militari dell'Immigrazione tedesca che, per le giacche verde scuro, le camicie color giallo slavato, i capelli a spazzola e l'espressione dura, avrei visto meglio a spuntare da un carro armato che a controllare passaporti e immigrati illegali. Suzy fece in modo da tenere la guida bene in vista mentre insieme ci av-
vicinavamo allo sportello. Il tipo sulla trentina - capelli biondi tagliati corti, guance rosse e occhiali rettangolari con montatura a giorno - prese i nostri passaporti, ci guardò, li chiuse e ce li restituì con un cenno. Borbottammo ringraziamenti ed entrammo in Germania diretti alla stazione dei taxi. Il Checkpoint Charlie era a un paio di chilometri da Bergmannstrasse ed era una delle principali trappole per i turisti. Per noi era solo una destinazione come un'altra da fornire al tassista, prima di raggiungere a piedi la zona bersaglio. Uscimmo accolti da un sole brillante. Presi un altro paio di pillole di antibiotico senza neppure fare il gesto di offrirne a Suzy. L'aria era ancora freddina mentre stavamo in coda insieme con una trentina di altre persone, in gran parte uomini d'affari con il cellulare collegato all'orecchio. Una processione di taxi - Mercedes bianche - continuava a sfilare e a prendere clienti per la corsa di una dozzina di chilometri con cui si raggiungeva il centro. Non parlammo. Ancora troppe orecchie intorno a noi. Quando finalmente fu il nostro turno salimmo su una Mercedes di sei o sette anni con i sedili in plastica. Non c'era bisogno che l'autista, un vecchio turco, conoscesse l'inglese per capire. «Checkpoint Charlie, caro», disse Suzy. «Ja, ja... Checkpoint Charlie, capito.» Lasciato Tegel ci infilammo dritti nei quartieri mal edificati e quasi subito passammo davanti al carcere di Spandau. Attraverso grandi viali alberati con il fondo in selciato giungemmo alla parte vecchia della città. Fissai il punto in cui una volta c'era il Muro che divideva il cuore di Berlino, Potsdamer Platz. Edifici nuovissimi spuntavano ovunque come funghi di cristallo dove una volta era il Muro e il corridoio della terra di nessuno. Berlino era l'unica metropoli del pianeta ad avere al suo centro uno spazio così grande su cui costruire. Per la sua rigenerazione con edifici futuristici, nuovi viali e spazi aperti molto curati, erano stati spesi miliardi. L'ultima volta che ero stato lì avevo visto solo il Muro, rotoli di filo spinato e l'entrata in mattoni della metro. Adesso la stazione Potsdamer era nuova e lucente e faceva viaggiare passeggeri per tutta la città. Mi chiesi se le ASU l'avessero inserita nell'elenco dei bersagli. Dall'altro lato della piazza non erano ancora spuntati i nuovi scintillanti edifici; c'erano fabbriche e magazzini in rovina difesi e circondati da terreni deserti dove altri edifici erano stati demoliti, in attesa della loro dose di cromo e paillette. A velocità sostenuta stavamo superando saloni di Porsche e boutique di Hugo Boss e, svoltato un altro angolo, il Checkpoint Charlie era di fronte a
noi. Adesso era conservato come un monumento ma era identico a come lo ricordavo, solo che non c'erano più il Muro e le falangi di soldati armati. La torretta bianca di controllo in mezzo alla strada era ancora circondata da sacchetti di sabbia. Il cartello che avvertiva che si entrava nel settore americano e, dall'altro lato, che se ne stava uscendo per entrare a Berlino Est era ancora al suo posto. Una comitiva di turisti si riversò da un autobus direttamente dentro il museo. Mentre pagavo il tassista, un vecchio americano attirò il mio sguardo. Stava indicando qualcosa a qualcuno che giudicai essere il figlio. Adesso l'uniforme che indossava erano jeans, giacca e scarpe da tennis bianche, ma era evidente che aveva ancora una miriade di storie di guerra su Checkpoint Charlie. La zona Est era stata rasa al suolo in attesa di essere ricostruita ed era piena di banchetti di turchi e bosniaci che vendevano colbacchi di pelliccia e berretti a punta e spillette della Germania dell'Est. Tutta la merce aveva un'aria sospettosamente nuova ed era molto probabile che fosse stata sfornata la settimana precedente dalla stessa fabbrica cinese che riforniva Penang di maschere etniche. Ci appoggiammo a un muro di fronte al museo e alla torre di controllo e Suzy tirò fuori la cartina. Io sorrisi. «Due inglesi che fanno un giro turistico lamentandosi in un tedesco orribile che non riescono a bere un tè decente, riesci a immaginare niente di più normale?» Lei rise e io guardai il Traser. Erano da poco passate le undici. «Meglio effettuare un controllo delle comunicazioni», disse estraendo il cellulare dalla tasca della giacca di pelle nera. Io presi dal marsupio quello di Geoff e lo accesi. Dopo un paio di secondi di ricerca, sullo schermo di entrambi comparve la scritta DEUTSCHE TELEKOM. Digitai il prefisso internazionale e poi il numero e il suo telefono squillò. Ci scambiammo un paio di parole prima di chiudere la comunicazione. «Bene, cerchiamo di trovare una farmacia.» Seguendo la cartina ci dirigemmo a sud verso la ex Berlino Est. Gli edifici di mattoni tutti uguali erano adesso coperti da giganteschi manifesti e graffiti con scritte STOP ALLA GUERRA. Superammo un condominio grigio di blocchi di cemento con finestre che avevano tentato, senza successo, di ravvivare con murales di sole, spiaggia e mare. C'era anche una vecchia bandiera inglese sbiadita che spuntava tra i graffiti. Ci superò una Trabant dipinta a mano con colori psichedelici, i cui fine-
strini erano coperti da manifesti che pubblicizzavano un nuovo cyber café. Un tratto del Muro era stato mantenuto e protetto per farne un monumento. Un'auto della polizia, una BMW con due agenti a bordo, era posteggiata a fianco di una fila di negozi di cui uno aveva una gigantesca A in gotico, come insegna. «Apotheke.» Suzy ne fu molto contenta. «Perfetto.» Mentre ci avvicinavamo vidi che uno degli agenti aveva grandi baffi da tricheco e la sua buona dose di ciccia. Mi ricordò un tale e mi sfuggì un sorriso. Suzy mi guardò interrogativa. «Che ti succede, ragazzo del Norfolk?» «Quando ero soldato semplice sono stato a Berlino per un po'. Un mio commilitone e io abbiamo preso un treno militare e da Hannover siamo venuti qui per un weekend. Era la nostra prima trasferta e non sapevamo dove andare e cosa fare, qualsiasi cosa pur di stare lontani dalla guarnigione per qualche giorno. Bighellonavamo da un bar all'altro e ci ritrovammo coinvolti in una rissa con un battaglione di residenti. Si unirono dei turchi e arrivò la polizia tedesca e cominciò a effettuare arresti. Ci gettarono dentro alcuni furgoni. «Io e il mio amico - non ricordo neppure come si chiamava, Kenny, forse - finimmo seduti, l'uno di fronte all'altro, vicino alle porte posteriori. Un piedipiatti grande e grosso, esattamente come quello là, fece il giro e ce le chiuse in faccia, ma la serratura non si bloccò. Kenny e io ci scambiammo un'occhiata e, follia non farlo, spingemmo le portiere e cominciammo a correre giù per la strada; non sentivamo altro che quel grosso tedesco che cercava di correrci dietro, agitava il manganello e urlava e gridava di fermarci. «Mi voltai e vidi che faceva ogni sforzo per raggiungerci. Impossibile che ci riuscisse, noi eravamo giovani e lui sembrava Hermann Goering. Non so perché ma mi voltai e mi fermai di nuovo e cominciai a urlargli contro: 'Mezzasega di un culone', e cose del genere. Comunque si stava veramente incazzando. Gli concessi ancora un paio di passi prima di voltarmi e riprendere a correre e bang... la cosa successiva che ricordo è che ero a terra a faccia in giù sull'acciottolato. E Culone che mi soffiava sul collo. Il bastardo aveva lanciato il manganello e mi aveva centrato in piena nuca.» Suzy scrollò la testa e sorrise. «È un sollievo sapere di essere in così buone mani.»
Entrammo in farmacia e non fummo certo costretti a impazzire per trovare mascherine e guanti. Il terrore della SARS si era diffuso ovunque e sugli scaffali la scelta era ampia. Presi un pacco di mascherine da dieci, verdi, che sembravano spessi panni da cucina. Non avrei saputo dire se fossero N-qualsiasi-numero avesse detto Simon. 'Fanculo, mi augurai che andassero bene. E lì accanto trovai guanti in latex in confezioni da dieci. Non era esattamente la tuta completa NBC che avrei voluto ma era meglio di niente. Suzy si diresse al reparto casalinghi e quando ci incontrammo alla cassa vidi che aveva preso due paia di occhialini da piscina e un set di quattro coltelli di diversa grandezza, in caso la consegna non fosse andata liscia. Una volta fuori continuammo verso sud. «Hai detto che Geoff era già stato sposato. E tu?» «Sì, quand'ero in marina. Ero poco più di una ragazzina, a dire la verità.» Ci fermammo all'angolo di un condominio e insieme controllammo la cartina. «Un disastro da subito. Non fare domande. Io avevo diciotto anni, lui diciannove. Dovrebbe essere proibito per legge. Mancano due isolati.» Quando riprendemmo a camminare smettemmo di parlare di matrimoni falliti. Adesso eravamo diventati molto seri. I casi erano due: gli edifici e i dintorni di Bergmannstrasse o erano sopravvissuti al bombardamento degli Alleati o erano stati ricostruiti identici a come erano stati in passato. Sembrava di camminare nel set di un film ambientato nella vecchia Berlino. Bergmannstrasse si rivelò una grande via di scorrimento. Il lato sud aveva un'unica fila di auto posteggiate, i marciapiedi erano ampi. Era alberata sino in fondo, con un miscuglio di case in stile XVIII secolo e pochi condomini recenti. Il piano terra di ogni edificio sembrava il prospetto di un negozio con una tettoia sopra. I marciapiedi erano affollati. Ci fermammo a un angolo a guardare i numeri. A quanto sembrava eravamo oltre il 100 e quindi il 22 doveva essere molto più in giù, alla nostra sinistra. Continuammo mescolandoci alla gente che andava a fare acquisti il lunedì mattina. Sembrava che la metà delle madri berlinesi fosse intenta a trattenere i bambini con le apposite briglie. Avevo la sensazione di essere già stato lì, anche se era difficile da stabilire, adesso che il quartiere si era fatto più chic. Decisamente eravamo nell'ex Boemia. Quasi tutti i negozi vendevano tovaglie indiane e lucidi cuscini, stoffe di canapa e candele. All'esterno di negozi che vendevano
prodotti biologici erano esposte delle zucche come invito a entrare per chi non si fosse ancora fatto sedurre dalla musica New Age. Sui marciapiedi c'erano scatole piene di libri accanto a cianfrusaglie e rastrelliere piene di vestiti usati. L'influenza turca era più che evidente, l'aroma di caffè aleggiava all'esterno di ogni negozio. Continuammo fino a vedere il 48 e il 46 dall'altro lato della strada. Ci fermammo sotto una tettoia, appoggiati contro un muro. Suzy curiosò fra le giacche di pelle usate e i jeans mentre io cercavo di scoprire quale poteva essere il 22. Quando ci riuscii, lo fissai incredulo. Lei seguì la direzione del mio sguardo. Il numero 24 era un grande negozio di frutta e verdura, all'esterno del quale si allineavano banchi ricolmi di prodotti. Un ragazzo vendeva la merce come al mercato. A sinistra c'era un anonimo condominio color crema con ampie finestre quadrate sulla facciata. C'era una porta centrale che secondo le mie supposizioni portava agli appartamenti, ai cui lati c'erano negozi. Quello sulla sinistra era un bar che si chiamava Break-out; quello sulla destra aveva un'insegna illuminata e non c'era bisogno di sapere il tedesco per capire cosa volesse dire EVANGELISCH-FREIKIRCHLICHE. A Josh sarebbe piaciuto. Lasciata la tettoia, mentre ci avvicinavamo, Suzy mi tirò per la giacca. «E guarda lì.» Fece un gesto in direzione del tetto dell'edificio dove brillava una gigantesca croce, alta circa sei metri, poi prese una gomma. «Si può dire quel che si vuole di questi rotti in culo, ma quanto a ironia se la cavano decisamente bene.» «Passiamoci davanti.» Attraversammo la strada, la mano destra di Suzy s'infilò nella mia mano sinistra, mentre con l'altra teneva la guida bene in vista. Passammo davanti al negozio di frutta e verdura e poi guardammo all'interno della porta a vetri della chiesa. Bianchi gradini di marmo conducevano alla reception di quello che poteva essere l'Hotel Paradiso. Alcune persone si stavano registrando. La porta d'ingresso del condominio era in vetro sabbiato, con due pannelli laterali in vetro e una pulsantiera in acciaio. Solo due caselle avevano i nomi. Il Break-out era immerso nella penombra, pavimento senza moquette e tavolini di metallo, pieno a metà di avventori che bevevano caffè. Continuammo a girovagare senza meta, non sapevamo dove stavamo andando, ma non era importante. Volevamo solo allontanarci da lì. Proseguimmo per Bergmannstrasse finché non ci fu possibile svoltare a destra e toglierci dal campo visivo degli appartamenti. Dopo tutto il casino
della via principale il posto era surreale: eravamo in un cimitero. Vecchie nonne sistemavano i fiori mentre i nipotini giocavano silenziosi. Lungo i sentieri c'erano panchine per meditare, molte delle quali occupate da coppie di giovani che stavano traendo profonde considerazioni mistiche. Suzy e io ne trovammo una libera da cui riuscivamo a vedere il retro del condominio e ci sedemmo. 54 La chiesa al primo piano si riempì di fedeli mentre Suzy con le mani nel sacchetto liberava i coltelli da plastica e cartone. Io tolsi la plastica dagli occhialini, dalle maschere e dal pacco da dieci dei guanti in latex. Ne infilai la metà in tasca. Il resto era per Suzy. «Ti dico quello che penso di fare. Cercherò di lasciare aperto il portone in caso tu debba intervenire. Ritiro DW e torno qui. Se non ritorno in trenta, o non ti telefono, vieni a prendermi. Se il portone è chiuso, forse c'è modo di entrare attraverso la chiesa, o forse c'è un ingresso qui nel retro. Devi controllare.» Annuì e una mano urtò contro la parete del sacchetto mentre un coltello si staccava dalla confezione che lo avvolgeva. «Capito, trenta, poi verrò in tuo aiuto, ancora una volta.» Mi tolsi il marsupio e glielo passai. Sarei entrato sterile, solo con il cellulare. Mi passò di nascosto un paio di coltelli che infilai nella tasca della giacca. «Trenta, d'accordo?» Mi alzai, la baciai su una guancia e mi avviai. All'uscita del cimitero girai a sinistra verso la strada principale e poi ancora a sinistra verso l'edificio. C'erano più persone sia da Break-out sia nella chiesa: la gente ci entrava mangiucchiando tramezzini o frutta fresca comprata ai banchi. Raggiunta la pulsantiera mi fermai. Con la nocca premetti l'interno 27, mentre dalla porta a fianco un organo strimpellava motivetti felici. Ci volle parecchio, ma alla fine gracchiò. Sentii qualcuno che tossiva, poi niente più di una scarica statica. Un camion passò con gran fracasso e fui costretto ad avvicinare la bocca al citofono. «Vengo da Londra. Mi state aspettando.» Ci fu una pausa, poi il ronzio della porta che veniva aperta. Quando fui all'interno usai il piede per impedire che si chiudesse. Mi guardai in giro. Non c'erano telecamere a circuito chiuso: le uniche forme di sicurezza erano il citofono e la serratura della porta, una Yale che non era inviolabile.
Avvolsi una mascherina sopra la serratura e chiusi la porta, che si bloccò in posizione. Mi ritrovai in un atrio di finto marmo bianco che sapeva di detersivo aromatizzato al pino. Secondo i cartelli il 27 era al secondo piano. Salii le scale con l'accompagnamento del borbottio dei fedeli felici e del cigolio dei miei Caterpillar sul pavimento lucido. Estrassi un paio di guanti. La porta tagliafuoco del secondo piano, in acciaio e vetro, si apriva su un corridoio bianco come quello di una clinica. Gli ingressi degli appartamenti si trovavano su entrambi i lati; indossai gli occhialini e tutt'e quattro le mascherine mentre cigolando mi avvicinavo al numero 27. Era in fondo a sinistra, quindi l'appartamento si affacciava sulla strada. Dopo aver controllato per l'ultima volta le protezioni, bussai con le nocche alla porta e feci in modo da avere il viso di fronte allo spioncino. Rimasi lì in piedi per quindici secondi buoni prima di udire il rumore di nastro da imballaggio che veniva strappato. E alla fine si aprì di un quarto, e quello che vidi mi fece arretrare e appiattire contro la parete di fronte. Due metri i miei coglioni: volevo essere chilometri da quell'individuo. Il viso alla porta era quello di un turco, forse un arabo, fra i venti e i trenta. Aveva le mani sporche di pittura rossa. Non era stata la pittura a farmi preoccupare. Ma il suo viso, piuttosto. Aveva gli occhi iniettati di sangue ed era fradicio di sudore. Non respirava ma rantolava e del muco gli gocciolava dal naso. Alzai una mano perché non mi venisse più vicino. «Parli inglese?» Annuì, poi sparì dietro la porta e tossì come un uomo in agonia. Anche attraverso la maschera, la puzza di escrementi e di putrefazione che veniva dall'appartamento era opprimente. Il volto riapparve incorniciato dai neri capelli lisci e unti. «Porta le bottiglie alla porta, okay? Hai capito?» Lentamente fece cenno di sì, si pulì il naso con la manica e sparì all'interno dell'appartamento lasciando la porta socchiusa. Al piano terra i fedeli felici continuavano a cantare per il Signore. Strisciai verso sinistra, sempre sul muro opposto, fino a essere a livello del battente. L'ingresso era piccolo, quadrato e vuoto, c'erano solo vomito, sulla moquette e sulle pareti, e il nastro adesivo che era servito a sigillare la porta. Sentii vomitare sul pavimento e mi spostai ancora a sinistra. Adesso riuscivo a vedere un pezzetto del soggiorno, notai una grande finestra quadrata con tendine di stoffa scadente che lasciavano filtrare la luce. Le pareti erano coperte con le stesse scritte di vernice rossa che avevamo
visto a King's Cross. Mi spostai ancora un pochino a sinistra per vedere di più e desiderai non averlo fatto. Un corpo dalla pelle nera giaceva scomposto a terra. Non riuscii neppure a capire se si trattava di un uomo o di una donna perché era in uno stato pietoso. E accanto, sul pavimento, due sacche. Non avevo bisogno di Simon per capire cosa contenessero. Sentii che stavo per vomitare. Lo stomaco del moribondo era così gonfio che era scoppiato dalla camicia imbrattata di vomito. Tutta la pelle in vista era coperta da croste grosse quanto piattini, da cui colava pus che brillava alla luce. Altro vomito vicino alla faccia. Non avrei saputo dire se lei o lui era ancora in vita, ma se sì non lo sarebbe stato per molto. Sentii il rumore di un conato di vomito giungere dall'altra stanza, seguito da un colpo di tosse rauco simile a uno scarico che veniva pulito. Il mio uomo ce la stava mettendo tutta per raggiungere la porta. La testa del corpo si mosse, rotolò da una parte all'altra fino a che i suoi occhi scuri non furono su di me. La bocca sorrise, solo per un secondo, non di più, prima di vomitare ancora, forse per l'ultima volta. Andassero a farsi fottere, a me non sembravano per niente dei martiri. Riuscì a raggiungere la porta con il cartone da sei bottiglie. Uno degli spazi era vuoto. Forse l'avevano rotta. Cosa che avrebbe spiegato, con assoluta certezza, perché erano ridotti in quello stato. Indicai il corridoio fra di noi. «Mettilo lì.» Tossì, la bocca si riempì di un grumo di catarro delle dimensioni di una palla da golf, si chinò e fece quanto gli avevo ordinato, poi si girò e sputò nell'ingresso dell'appartamento, quindi tornò dentro, tossì e sputò ancora. La porta venne chiusa. Adesso il silenzio era totale. Quelli della chiesa avevano finito. Da dove mi trovavo non vidi catarro, vomito o merda sulle bottiglie o sulla scatola. Non che importasse, avrei dovuto comunque prendere quella cazzo di scatola. Gli stivali cigolarono per quei tre passi. Con la mano coperta dal guanto afferrai il contenitore e cominciai a scendere le scale, tenevo il braccio destro in fuori in modo che il cartone non entrasse in contatto con i vestiti. Non avrebbe fatto la benché minima differenza, ma non so perché mi faceva sentire meglio. Raggiunto il portone posai il cartone a terra con estrema cautela. Mi tolsi le mascherine e gli occhialini facendo ben attenzione a non toccare la pelle
con i guanti. Tirai un poco e la maschera che bloccava la serratura cadde in strada. Mi piegai, sollevai la scatola e uscii all'aria aperta dove cominciai a fare profondi respiri per liberare dal fetore il naso e i polmoni mentre tornavo al cimitero. Al cimitero Suzy non c'era. Tenendo stretti con la sinistra occhialini e maschere tolsi il guanto sinistro in modo che tutto restasse all'interno e lo gettai in un cestino. Trovai una panchina libera e cominciai a sentirmi un po' preoccupato per il contagio. A dire la verità, molto preoccupato. Sapevo di essere stato abbastanza protetto e che mi ero tenuto distante da loro, ma che ne sapevo delle bottiglie? E se una perdeva? Mi dissi che non c'era tempo per pensare: erano ancora molte le cose da fare. Tolsi il guanto destro, accesi il cellulare e chiamai Suzy, ma mi rispose il messaggio registrato. Chiusi e riprovai, ma ottenni lo stesso risultato. Cosa stava succedendo? Provai ancora una volta e stavolta rispose. Sentivo il traffico e il rumore dei suoi passi. «Dove sei?» «Sulla principale.» «Non riuscivo a chiamarti.» «Forse ero in un punto senza campo. Ho fatto un giro davanti all'edificio.» «Io sono tornato al cimitero. Le ho prese. Porta dei sacchetti.» «Ti raggiungo in un paio di minuti.» Mentre spegnevo e mettevo il telefono nella tasca del giubbotto, vidi le persone al primo piano fluire davanti alle finestre. Tempo di tornare al lavoro per i fedeli felici. Dovevo supporre che le bottiglie fossero sigillate. Non potevano rischiare che l'operazione s'incasinasse più di quanto non fosse già. Volevano che l'attacco su Londra potesse procedere. Era per quello che sì erano chiusi dentro. Non volevano far scattare lo stato di allarme. Suzy oltrepassò il cancello in ferro battuto mentre io mandavo giù un altro paio di pastiglie di antibiotico. Le feci un anonimo cenno di saluto e ricevetti in cambio un sorriso cordiale mentre mi si sedeva accanto. Ci scambiammo un bacio sulla guancia e lei infilò un braccio sotto il mio. Mi porse due sacchetti bianchi da supermercato ancora con le maniglie attaccate. «Situazione terribile, lassù.» Le descrissi quello che avevo visto. «Prendiamo un taxi e portiamo via le palle. Chissà, forse riusciamo a prendere l'aereo prima.»
Infilai il contenitore in uno dei sacchetti, ma Suzy non era ancora pronta ad andare via. «Che facciamo con quei due lassù? Forse ce ne sono degli altri. Potrebbero decidere di...» «Non farebbero niente per farsi scoprire e compromettere Londra.» Avvolsi il secondo sacchetto intorno al primo. «Lasciamo che quei bastardi si dissolvano fino alla morte nei loro liquidi. 'Fanculo a loro, di certo non possono andare da nessuna parte.» Non le bastava. «Ma la bottiglia rimasta lassù forse non è vuota del tutto. Hai visto le conseguenze del contagio. Avanti, Nick, dobbiamo fare qualcosa.» Trassi un respiro profondo. «Ascolta, se hai qualche idea brillante, parla. Se non ti viene in mente niente, la cosa migliore che posso fare è portare questa schifezza in Inghilterra. Kelly, hai presente?» Presi DW e insieme ci avviammo verso la principale. «Mi spiace ma funziona così.» Evitammo di passare davanti al condominio, in caso qualcuno della ASU stesse guardando fuori. Non volevo che ci vedessero insieme, non sapevo se fossero in contatto con la fonte. Poco dopo eravamo dentro un taxi diretti all'aeroporto. Nessun problema a cambiare volo e partire prima. L'ultimo era il più affollato, quindi furono contenti che si liberassero due posti. Andammo diretti alle partenze, lì Suzy comprò un profumo e due Toblerone giganti, così entrammo in possesso di due enormi sacchetti del duty free di Berlino, l'uno dentro l'altro, per il contenitore del vino. Nel mare di sacchetti rossi in attesa del volo il nostro non era fuori posto. Decollammo per Stansted con DW alloggiato nelle cappelliere avvolto nei nostri giubbotti. L'assistente di volo non ci avrebbe consentito di tenerlo fra i piedi. Presi un appunto mentale di raggiungere lo stipetto prima del passeggero che avevo a fianco, al momento dell'atterraggio. 55 Riportammo gli orologi indietro di un'ora e ci avviammo verso il controllo passaporti inglesi mescolandoci agli uomini d'affari e ai vacanzieri abbronzati. Con la sinistra tenevo stretto il sacchetto con DW. Suzy era immediatamente dall'altro lato in modo da offrire protezione. Entrambi avevamo i passaporti pronti e aperti all'ultima pagina. Avevo eliminato dalla mente ogni pensiero di pericolo. È così che biso-
gna fare, come un attore quando entra in un personaggio, altrimenti si vede che recita. Tornavo da una piacevole gita di un giorno a Berlino e adesso ero lì che stavo per passare l'immigrazione insieme con la mia compagna, io con qualche bottiglia di vino comprata al duty free, lei con la pancia piena di cioccolata. Nei minuti successivi, mentre avanzavamo lentamente, Suzy rimase al mio fianco. Solo cinque o sei persone davanti a noi, alzai lo sguardo e vidi gli occhi della donna dietro lo sportello. Erano puntati dritti su di me. Li abbassò subito, ma ormai il danno era fatto. Di certo non l'avevano informata della situazione: le avevano semplicemente detto di farci passare senza problemi. Spostai il passaporto nella mano sinistra, senza mollare il sacchetto, e con la destra estrassi una bottiglia. Suzy mi osservò e non fece commenti. Guardai di nuovo la donna che controllava le persone in fila che avanzavano piano. Quando fu quasi il nostro turno, con un gesto ci fece passare veloci in un unico gruppo; non ci degnò di uno sguardo. Continuammo a camminare, seguendo gli altri diretti al ritiro bagagli. «Cosa c'è, Nick? Che succede?» Non smisi di guardarmi in giro. Doveva esserci una squadra pronta a catturarci da qualche parte. «Lurida puttana! Sai benissimo che succede.» «Cosa?» Mi spostai da lei, tenevo stretta per il collo la bottiglia come se fossi sul punto di lanciarla. Lei mi guardava totalmente incredula e perlustrò con lo sguardo il salone per capire cosa stavo cercando. «Cosa succede, Nick? Devo saperlo, parla.» Feci un cenno verso il nastro dei bagagli. Li vedevo. Sundance e Scarpedatennis, stessa maglietta e stessi jeans, solo che adesso erano coperti da un giaccone a tre quarti. Avevano aggiunto anche dei piccoli zaini portati su una spalla sola, il resto pendeva lungo il fianco, così avrebbero potuto correre anche se attaccati ai respiratori. Lei seguì il mio sguardo. «Io non c'entro, Nick. Credimi.» Superai deciso il nastro dei bagagli come molti altri passeggeri del nostro volo che avevano solo la valigetta o il portatile. Sundance e Scarpedatennis erano a circa trenta metri sulla mia destra. Puntai diretto verso la dogana. Ci guardammo negli occhi: tutti e tre avevamo afferrato la situazione. Non avrebbero corso il rischio di venire a vedere il mio bluff: troppe persone in giro. Avrebbero atteso il momento giusto, non avevano scelta.
«Laggiù, ce ne sono altri due», disse Suzy, che si trovava immediatamente dietro di me. Li individuai che gironzolavano intorno ai corridoi della dogana, esageratamente impegnati a mettere le borse a tracolla, ma con gli occhi fissi sul bersaglio. Mi fermai di colpo e mi girai verso Suzy. «Porterò fuori di qui tutt'e cinque le bottiglie di questa merda. Se tu o quei ragazzi tentate di fermarmi, le butto. Capito bene? Ti conviene andare a dirglielo.» «Non ho detto niente a nessuno. Non so come facciano a saperlo.» Sundance e Scarpedatennis erano la mia ombra e gli altri due sgombrarono il campo quando mi videro sollevare la bottiglia per rinforzare la minaccia. «Sei stata tu a chiamarli mentre io prendevo questa merda, non è così?» Mi raggiunse. «No. Ero fuori campo. E perché avrei dovuto farlo?» Riuscivo a pensare a una valanga di motivi. Le parole «permanente» e «quadro» erano in cima alla lista. Ci unimmo ai carrelli stracarichi di bagagli e sacchetti del duty free diretti verso la corsia azzurra riservata ai cittadini dei Paesi dell'Unione Europea. «Forse qualcuno gli ha segnalato i biglietti oppure ci hanno rintracciato per la carta di credito, chi può dirlo?» Arrivammo alla transenna e alla strettoia. Sarei voluto avanzare a spintoni e correre e poi continuare a correre, ma non potevo rischiare di attirare i poliziotti in divisa che probabilmente non avevano idea di quello che stava accadendo. Correre avrebbe trasformato l'intera faccenda in un casino generale, più di quanto già non fosse. Non potevo fare altro che comportarmi in modo normale, anche se le vene nel collo pulsavano forte come se fossero sul punto di scoppiare. Mi accodai a un gruppo di quattro donne sulla quarantina, avevano un carrello ciascuna. Sembravano quattro mamme che erano andate in vacanza da sole, tutte belle abbronzate in calzoncini e maglietta, ridevano e scherzavano, per mantenere l'allegria della vacanza, ma senza alcuna voglia di dover tornare in ufficio il giorno dopo. Feci un giro su me stesso. Suzy era tre passi indietro, Sundance e Scarpedatennis almeno venti. Mi augurai che non tentassero qualcosa in quel momento. Cosa potevo fare? Rompere una bottiglia sulla testa di una delle donne? Buttare la schifezza sul pavimento? Restai un paio di passi dietro il gruppetto di donne, la bottiglia un poco sollevata in una mano e il sacchetto nell'altra.
Le porte scorrevoli si aprirono e uscimmo nel terminal, solo per essere incanalati da barriere d'acciaio oltre file su file di sedili occupati da persone che trafficavano con il portatile o bevevano caffè della catena Costa che era lì vicino. Il bar attirò la mia attenzione. Gli uomini della seconda squadra mi stavano già aspettando da quel lato. Non mi staccai dalle quattro mamme che girovagavano nella sala fatta di vetro, acciaio e cemento, scambiandosi battute su quanto sarebbero stati fortunati i mariti quella notte dopo due settimane di astinenza. «Naturalmente, non per tutte noi sono state due settimane piene, vero Kate?» Le altre due scoppiarono a ridere. Kate parve non gradire. «Non so di cosa parli, Andreas e io abbiamo solo...» Persi la fine della frase perché un'intera famiglia sfrecciò in mezzo a noi diretta alle partenze. Kate e le sue amiche avanzarono fra gli altri passeggeri dirette verso gli ascensori che portavano al parcheggio e alla stazione direttamente sottostanti il terminal. I ragionamenti si affollavano veloci mentre cercavo di esaminare le varie possibilità. Volevo restare vicino a quelle quattro, ma se fossero uscite al livello del garage, un piano più sotto, avrei dovuto continuare fino al livello della stazione e agganciare qualcun altro. Totalmente escluso finire isolato nel parcheggio o prendere la Micra e andare via in macchina. Sarei stato solo. Loro avrebbero potuto seguirmi quando mi fossi messo per strada. Vedevo tutt'e due le squadre, una per parte una trentina di metri indietro. Suzy continuava a seguirmi e ci guardammo negli occhi. «Io resto.» Indicò quelli dietro. «Tu sbagli.» La ignorai. Raggiungemmo gli ascensori quando compresero quello che avevo in mente. Sundance e Scarpedatennis si precipitarono per le scale, lasciando gli altri due sul bersaglio. Le grandi porte di metallo si aprirono sferragliando e le donne entrarono con i carrelli contribuendo ad aumentare i graffi sulle pareti. M'infilai a fatica dietro di loro. Kate premette il pulsante della stazione. «A che piano vai, caro?» «Dove vai tu.» Le sue amiche scoppiarono di nuovo a ridere. Sentii un gomito nella schiena: Suzy era riuscita a entrare mentre le porte si chiudevano. Mantenni la mano serrata intorno al collo della bottiglia, in modo che potesse vederla. «Prova a fottermi.» Quando le porte si aprirono le donne ci gettarono occhiate in tralice. A-
vevano capito: le liti erano frequenti anche per loro. Uscii e mi spostai per farle passare, quindi rimasi subito dietro di loro mentre spingevano i carrelli all'interno della stazione. Senza dubbio Suzy era dietro di me da qualche parte. Non avevo nessuna voglia di controllare. Sundance e Scarpedatennis ci aspettavano, ansimando vistosamente, mentre gli altri due scendevano i gradini tre alla volta. Sollevai la bottiglia e incrociai lo sguardo di quello più basso. Lui fece un gesto tranquillizzante con le mani. Ormai le donne erano davanti al distributore automatico e prendevano biglietti di sola andata per Londra. Con la carta di credito ne presi uno anch'io, poi le seguii verso il treno in attesa. La pensilina era una confusione di voci in italiano e tedesco. Con grande sollievo di tutti i turisti l'altoparlante annunciò in tre lingue che il treno per Liverpool Street era in partenza. Cigolio di carrelli, strilla di bimbi. Guardai i quattro che mi seguivano, ma vidi Suzy con il biglietto in mano. Le donne abbandonarono i carrelli e sollevarono a fatica le valigie decisamente troppo grandi nell'interno azzurro del vecchissimo treno. Le seguii. Sundance e Scarpedatennis salirono nell'altra carrozza. Come prevedibile gli altri mi superarono diretti al vagone successivo. La nostra carrozza era stipata di bagagli, persone e anche un cane simile a un topo portato nello zainetto dall'amorevole padrona, una francese. Tutti gli stranieri avevano in mano la guida, altri stavano già sonnecchiando. Io rimasi in piedi vicino al telefono pubblico a scheda e alla toilette. Suzy, che aveva superato un passeggino a tre ruote e delle valigie, era dall'altro lato. L'altoparlante annunciò in inglese che il treno andava diretto a Londra, unica fermata Tottenham Hale. Il messaggio venne poi tradotto mentre il fruscio continuava. Le porte si chiusero e il treno partì. Suzy mi venne più vicino. «Stammi lontana, chiaro?» «Nick, io non...» Buio per un paio di secondi, poi le luci si riaccesero. Non riuscii a sentire la fine della frase, eravamo in galleria e c'era troppo rumore. Mi appoggiai contro il telefono, con la bottiglia sempre in mano. Non l'avrei mai buttata ma dovevo dare l'impressione di essere pronto a farlo. Usciti dalla galleria sentii un'altra voce con accento dell'estuario, stavolta maschile. «Biglietti, prego.» L'uomo si stava avvicinando in automatico. «Biglietti, prego.» Abbassai lo sguardo alla fila di teste verso la carrozza
successiva. Sundance e Scarpedatennis erano entrati attraverso la porta di comunicazione e adesso se ne stavano appoggiati alle griglie per i bagagli. Comprendevo bene l'espressione che avevano sul viso. Sundance parlava al cellulare. Senz'altro la QRF aveva ricevuto l'ordine veloce di alzare il culo dalla TV e precipitarsi a Liverpool Street. Il treno che avanzava a scossoni, non troppo rapido, ci sballottava da una parte all'altra. Il telefono di Suzy squillò mentre dei bambini correvano fra le valigie redarguiti in tedesco dal padre. Lei sembrava sorpresa. Io no. Portò il telefono all'orecchio e ascoltò. «Pronto? Sì, signore. Lo abbiamo.» Pausa. «No, non possiamo farlo, signore. Mi dispiace.» Un'altra pausa. «Comprendo i rischi, signore, ma c'è un buon motivo che ci costringe ad agire così e io non intendo... No, signore, non posso farlo. È tutto sotto controllo.» Sollevò il telefono fra di noi e lo sentii ringhiare: «Io voglio che Dark Winter venga consegnato subito! Non disobbedire, non fotterti la carriera per quell'uomo! Ma cosa diavolo credi di fare?» Riuscii a portare la bocca a livello del microfono. «Lo avrà quando avrò finito. Le spiegazioni in seguito.» «Stone, sono al corrente di tutto. Non eri all'appartamento questa mattina. Ti abbiamo cercato. Dov'è la fonte? È sparita, ha tua figlia? Ha intenzione di usare Dark Winter? Io posso aiutarti, ma ho bisogno che tu mi consegni l'agente, subito.» «Ordini alla squadra di ritirarsi. Se provano a catturarmi, io lascerò cadere una bottiglia. Cos'ho da perdere?» La sua voce si fece calma come l'acciaio. «Ascolta. Tu non farai mai una cosa del genere. La squadra non si ritira e tu non getterai niente, da nessuna parte. Io so cosa succede; ho ripristinato i vecchi numeri della missione così potremo parlare. Io posso aiutarti. Mi capisci?» Imitai il suo tono di voce. «'Tu, mi capisci?'» «Consegna le bottiglie, Stone. Solo allora potrò darti una mano con il tuo problema. Ti farò riavere tua figlia, ma devo ottenere il controllo sulle bottiglie.» «Non posso farlo. Ascolti bene: a Berlino ci sono almeno due contaminati e forse una bottiglia già aperta o rotta, non so. Appartamento 27, al 22 di Bergmannstrasse. Capito?» Ci fu una brevissima pausa. «Ricevuto. Adesso, ti consegni e noi ti aiuteremo. Mi rendo conto della situazione della ragazzina, ma possiamo lavorare insieme e...»
Abbassai il piccolo finestrino e scaraventai il cellulare, frugai in tasca e quello di Geoff lo seguì. «Sembra che alla fine la soluzione giusta sia venuta a me, non trovi?» Era chiaro che ne era contenta. Mi voltai di nuovo a guardare Sundance e Scarpedatennis. Suzy controllava l'altro lato, oltre la toilette e verso la carrozza successiva dove dovevano essere gli altri due. «Ero convinto che li avessi chiamati tu da Berlino. Scusa.» Mi venne più vicino: davamo sicuramente l'impressione di essere due fidanzatini che dopo aver litigato stavano facendo pace. «E adesso?» Sundance era sempre al cellulare, non mi staccava gli occhi di dosso. «Non possiamo andare a Liverpool Street. Conosci Tottenham Hale?» «No.» «Neanch'io. Okay, ci incontriamo da Smith in Sloane Square, è l'unico punto noto solo a noi due, giusto?» «Ci dividiamo le bottiglie?» Ottima idea. Se solo uno di noi due fosse riuscito a raggiungere la fonte, avremmo potuto portare a termine il lavoro. Feci un lento cenno di assenso mentre una donna ci passava davanti per andare alla toilette, ma dopo aver aperto la porta l'odore disgustoso le fece cambiare idea. Suzy si tolse la giacca e si accucciò ai miei piedi, tolse uno dei sacchetti del duty free e ci infilò due bottiglie. Io continuavo a tenere sotto controllo le due squadre. Sundance, incazzato nero perché era caduta la linea, stava rifacendo il numero, i bambini tedeschi passarono di nuovo correndo mentre lei si rialzava con il fagotto sotto il braccio. Io avevo sempre il sacchetto con due bottiglie nella mano sinistra e la terza bene in vista nella destra. «Il nostro RV resterà aperto fino alle undici e trenta di stanotte. Se uno di noi due non arriva, l'altro deve mettersi in contatto con Facciadiculo con le bottiglie che ha. È l'unica possibilità per Kelly.» Annuì. «Qualunque cosa accada, non coinvolgere Signorsì.» Guardai oltre lei e vidi che Sundance era di nuovo al telefono mentre Scarpedatennis si sistemava il marsupio con gli occhi piantati su di me. Aria incazzata. «Se ne sbatte di lei. Me lo prometti?» Annuì di nuovo e guardò in fondo alla carrozza. «Farò del mio meglio, ma la cosa più importante è che DW sia sotto controllo, lo sai, vero?» 56
Brutti edifici alti e grigi spuntarono in mezzo al verde mentre l'altoparlante ci descriveva gli aspetti piacevoli di Tottenham Hale: a soli venti minuti da Oxford Circus con la linea Victoria. I turisti potevano raggiungere molti punti di Londra più velocemente rispetto a Liverpool Street. Mentre il treno rallentava guardai fuori dal finestrino nel tentativo di mascherare le nostre intenzioni. Subito dopo eravamo in una confusione di vetro, Perspex, cemento e cartelloni, circondati da edifici adibiti a uffici e spazi aperti. Scorsi una grande strada e un grande parcheggio affollato. Nella nostra carrozza un certo numero di persone si alzò e cominciò a raggiungere le porte: donne in divisa di compagnie aeree che avevano finito il turno di lavoro alle biglietterie, vacanzieri che tornavano a casa. Una donna di colore mise il figlio nel passeggino dietro Suzy e armeggiò per chiudere le cinghie. Sundance e Scarpedatennis erano ancora in fondo dall'altra parte, sembravano sempre più incazzati. Non riuscivo a vedere gli altri due ma non avevo dubbi che fossero pronti all'inseguimento. Controllai che il marsupio avesse la lampo ben chiusa e che niente corresse il rischio di cadere dalle tasche. Suzy iniziò a fare lo stesso, senza nemmeno cercare di nascondere i gesti. «Tanto che differenza fa?» Aveva ragione: loro erano comunque pronti all'inseguimento e aspettare l'ultimo minuto non ci sarebbe stato di nessun aiuto. Il treno rallentò al punto che ormai potevo leggere i cartelloni. La donna riuscì a incuneare il passeggino fra valigie e zaini e noi ci posizionammo dietro di lei. Il treno si fermò cigolando e le porte automatiche si aprirono. Era l'ultima occasione per parlarci. Avvicinai le labbra al suo orecchio. «Smith, undici e trenta.» Lei annuì e seguimmo la mamma con il bambino sulla piattaforma. Nei suoi occhi era tornato lo sguardo che metteva paura. L'unica via d'uscita era attraverso un ponte pedonale chiuso da Perspex pieno di graffi e di scritte. Sundance e Scarpedatennis s'infilarono immediatamente dietro di noi mentre ci mescolavamo alla folla di persone che andava in quella direzione. Gli altri due erano davanti ma vicini al treno, in caso avessimo deciso di risalire. Suzy mi toccò la spalla. «Buona fortuna. Io vado verso la metropolitana.» Mentre saliva le scale con movimenti veloci ma regolari, gli altri due si staccarono e la seguirono. Io proseguii sempre dietro la madre con il passeggino a tre ruote. Porta-
va una grande sacca sulle spalle e stava un po' inclinata per sostenerne meglio il peso. Attraverso il Perspex vidi Suzy che si portava veloce sull'altro binario. Raggiunsi il passeggino ai piedi delle scale. «Ha bisogno di una mano per salire?» Mi sorrise riconoscente. Con la destra afferrai la parte anteriore. DW ben saldo nella sinistra. Il bambino doveva avere circa un anno, ne vedevo poco, quasi tutto il viso era nascosto da un gigantesco ciuccio di plastica azzurra. Guardai al di sopra della cupola di copertura prima di cominciare a salire. Sundance e Scarpedatennis erano di nuovo al telefono, circa a venti passi di distanza, adesso avevano gli zaini sul davanti, più o meno sul torace. Probabile che volessero averlo a portata di mano in caso avessi lasciato cadere per sbaglio DW mentre salivo le scale all'indietro con il passeggino. Arrivato in cima posai a terra la ruota davanti e la madre mi ringraziò ancora. Sorrisi, girai a sinistra e abbandonai la zona riservata ai pedoni. Attraverso il Perspex vidi che la mia nuova amica aveva incidentalmente scontrato la testa di Sundance mentre si sistemava la borsa sulla spalla. Lui non si fermò abbastanza da sentire le sue scuse. Guardai avanti. Vidi la biglietteria e subito dopo l'ingresso della metropolitana. Distributori automatici di biglietti e tornelli portavano a un grande gruppo di scale mobili che sparivano sottoterra. Suzy non era in vista. E neppure gli altri due. Proseguii deciso e giunsi all'ingresso della stazione dove sostavano i taxi e poi di corsa verso sinistra in direzione della principale, a una ventina di metri. Inconsciamente tendono tutti a mettere più distanza possibile tra sé e chi li insegue e non importa il contesto ambientale in cui si trovano, campagna o città: questo si riduce sempre a correre in linea retta più svelti possibile. Invece quello che bisogna fare è mettere più cambi di direzione che si riesce, soprattutto in una zona edificata. Ogni volta che si passa un incrocio di quattro strade, si complica il compito di chi insegue: deve effettuare una scelta fra diverse opzioni, ha una zona più ampia da coprire e deve dividere le forze. Una lepre inseguita in mezzo a un campo non corre mai in linea retta: compie grandi curve, cambia direzione e poi riparte. E nel momento in cui gli inseguitori hanno preso velocità ecco che anche loro devono cambiare direzione, cosa che implica un rallentamento e un nuovo studio della situazione. Io dovevo essere quella lepre. Mi trovai in un incrocio che si rivelò piuttosto importante. A sinistra c'e-
ra una strada dritta che proseguiva per duecento metri e che costeggiava l'ampio parcheggio di un negozio, una grande piazza coperta con tutti i regolamentari B&Q, Curry, Burger King. Pullulava di gente che spingeva carrelli, di furgoni, di macchine in cerca di parcheggio. Tanta confusione, tanto movimento, tanta copertura. Non volevo arrivare sino in fondo all'incrocio, farlo mi avrebbe lasciato direttamente in linea con la biglietteria. Saltai il guardrail, invece, e cominciai a correre, schivando il traffico. Quando fui in mezzo alla strada mi fermai sulla doppia linea in attesa di un varco fra le auto, poi ripresi a correre. Quando raggiunsi il parcheggio vidi che Sundance e Scarpedatennis mi avevano imitato. Mi tenni sul marciapiede di sinistra della piazza e avanzai in mezzo alle persone per raggiungere l'angolo opposto dove c'era un magazzino di tappeti. Mi voltai di nuovo. Si erano divisi. Scarpedatennis era circa quaranta passi indietro e, adesso che io ero fermo, aveva rallentato. Alla sua destra, all'interno del parcheggio, Sundance cercava di mettersi alla mia altezza e parallelo a me. Afferrai il sacchetto con DW con entrambe le mani. Non avrei mai lasciato cadere le bottiglie. Proseguii verso destra, sempre nella zona lastricata vicino alla vetrina dell'ingrosso di moquette. Sundance stava guadagnando terreno, intenzionato a tagliarmi la strada, così io girai secco a sinistra e dentro il B&Q. Spinsi il tornello ed entrai in un locale ampio come un hangar: scaffali su scaffali di pittura, trapani, di tutto e di più si allungavano davanti a me. Ero già sudato dalla testa ai piedi, il torace che si sollevava e abbassava. I due si stavano dirigendo decisi verso l'ingresso. Dovevo mettere degli angoli fra di noi, dovevo tenerli sulla corda. Svoltai a destra, cercando un punto dove non potessero individuarmi, senza mai perdere di vista i cartelli che indicavano l'uscita. Da qualche parte dovevano esserci le uscite di sicurezza, ma di certo erano collegate all'allarme. Puntai verso il retro del negozio, cercavo piazzole di carico e scarico, finestre aperte o cose del genere. Compresi troppo tardi che era un unico locale chiuso completamente e presto se ne sarebbero accorti anche loro. Uno si sarebbe appostato all'uscita. L'altro avrebbe continuato a seguirmi. Dall'angolo dove si trovavano gli attrezzi a motore vidi Sundance che entrava, anche lui respirava veloce mentre avanzava fra carrelli pieni e
uomini con tute sporche di cemento. Sulla destra, attraverso un grande buco nel muro, si accedeva al reparto giardinaggio. Mi tuffai in un mondo di siepi e tosaerba, capanni prefabbricati e montagne di lastre in pietra. Essere all'aria aperta mi fece sentire subito meglio. Potevo illudermi di avere qualche possibilità di fuga in più. Un muletto svanì in un'apertura circa venti o trenta metri più avanti. Un magazzino, forse? O un punto di ritiro per i clienti. Guardai ancora indietro. Sundance non era in vista. Mi unii a quelli che spingevano i carrelli diretti verso il punto in cui era sparito il muletto ma, merda, non portava a niente: era solo un altro locale senza uscita con una barriera di ficus e alberelli. L'irrigazione automatica funzionava con qualche difetto e il pavimento di cemento era bagnato. Mi voltai per tornare sui miei passi, ma Sundance mi era quasi addosso e mi guardava dritto negli occhi. Mi spostai verso l'angolo, sfiorando un gruppo di clienti con carrelli difficili da spingere. Forse c'era la possibilità di passare attraverso la recinzione. Non correvo: oltre a tutto il resto dovevo anche stare attento a non attirare la sicurezza su di me. Potevo essere già nella merda, ma coinvolgere il mondo reale mi ci avrebbe fatto sprofondare ancora di più. Non sarebbe successo, spostai i rami di una palma in vaso e raggiunsi la siepe. Non c'era modo di passare. Sundance era sempre più vicino. Mi voltai per affrontarlo. Tenevo il sacchetto ben alto. «Lo lascio cadere.» «No, non lo farai, ragazzo.» Aprì la giacca e vidi la fondina sul fianco e il revolver. «Dammi le bottiglie o ti faccio secco qui, adesso.» Compì un altro paio di passi, poi si fermò mentre un altoparlante annunciava che c'era bisogno di un assistente al banco della pittura. Ero incastrato, la schiena contro la siepe. Non più di tre o quattro passi fra noi. Tese una mano. «Dammelo.» Gocce di sudore luccicavano sul suo cranio prima di colargli sul viso. Alzai il sacchetto ancora più in alto. Spostò piano la mano all'arma corta e me la puntò contro. Era una pistola silenziata. La teneva bassa, i suoi occhi non mi lasciarono mai. Con il pollice tirò indietro il cane. «Vale la pena di correre il rischio...» Non avrei saputo dire se ne avesse veramente l'intenzione, ma l'espressione sul suo viso era preoccupante. Aveva negli occhi lo stesso tipo di esaltazione di Suzy. Con DW nella mano destra appoggiai la schiena contro il metallo zincato, mi lasciai scivolare giù e posai il sacchetto sul pavimen-
to bagnato. Gli spruzzi battevano contro la plastica del duty free. I miei jeans erano già umidi. Il muletto passò veloce, dall'altra parte della fila di palme, suonando il clacson per far spostare i clienti con i carrelli dal suo percorso. Cosa sarebbe successo adesso? Sapevo che avrebbe voluto che mi spostassi, in modo da poter prendere il sacchetto. Eravamo troppo vicini nel piccolo spazio e non aveva la certezza che non avremmo combattuto. Doveva tenermi bloccato mentre s'impossessava della borsa in plastica. «Apri la bocca.» Io avrei fatto la stessa cosa. Mentre lasciavo cadere la parte bassa della mascella, fece l'ultimo passo e spostò l'arma dal suo fianco al mio viso. Tenevo gli occhi incollati alla canna, il cervello lavorava velocissimo. I suoni intorno a me si confusero e svanirono mentre si avvicinava alla mia bocca. Non volevo respirare, non volevo staccare gli occhi. Il cane era ancora arretrato, il polpastrello del dito sul grilletto, il silenziatore mi stava quasi sfiorando il viso. Alzai di scatto le mani al punto che stavo fissando, afferrai la canna e la girai a sinistra verso l'alto. Ruotò su se stesso per colpirmi con la mano libera. Non ebbi il tempo di schivare il colpo. Un dolore improvviso alla tempia e buio negli occhi. L'arma era a pochi centimetri dal mio viso, puntata verso l'alto. Incastrai il mignolo davanti al cane e lo feci voltare in modo che avesse la schiena contro la siepe. Lui premette il grilletto e il cane mi sbatté contro la pelle. Intrecciai strette le braccia piegate e mi portai il suo polso così vicino al viso che sentivo anche il grosso tamburo sporgente, poi mi lasciai cadere a terra con tutto il peso del corpo. L'urlo che lanciai quando le ginocchia si schiantarono contro il cemento fu forte quasi quanto il suo quando il braccio gli uscì dalla spalla. Crollò come un sacco di merda. Tenni stretta la pistola e torcendola gliela strappai dalle mani, quindi riportai il dito davanti al cane in modo da bloccarne l'avanzamento e tenerla mezzo armata. Con gesto veloce afferrò DW. «Vaffanculo, vaffanculo», ringhiò fra spruzzi di saliva. Sapeva cosa stava per succedere a quel punto e io non avevo intenzione di deluderlo. Gli sferrai un unico calcio preciso in mezzo alla faccia e lo lasciai a contorcersi sul pavimento mentre tentava di proteggere il braccio destro e cercava di non respirare con troppa forza attraverso la bocca piena di denti rotti.
Infilai il revolver sul davanti dei jeans, presi il sacchetto del duty free e tornai all'interno del negozio principale, quindi puntai verso il lato opposto. Tenni gli occhi fissi verso l'uscita aspettando di veder apparire Scarpedatennis. Che puntuale arrivò e si diresse verso la sezione giardinaggio infilando il cellulare in tasca. Sundance non doveva aver parlato troppo chiaramente, ma lui aveva capito il messaggio. I suoi occhi scrutavano ogni scaffale. Mi avviai verso la parte frontale del negozio, non correvo, cercavo di restare normale. Sentivo la gente alle mie spalle cominciare a bisbigliare che stava accadendo qualcosa, e di certo non si riferiva all'offerta del giorno. L'altoparlante iniziò a parlare, una voce maschile quasi strozzata richiese l'intervento dell'addetto del pronto soccorso al reparto giardinaggio. Abbandonai l'edificio passando davanti al guardiano della sicurezza, un indiano con il collo della camicia troppo largo e un berretto a punta in bilico sulle orecchie. Un bel colpo di fortuna che mi avesse seguito uno solo. Se fossero stati in due o se non fossi stato abbastanza veloce con Sundance, sarebbe stata tutta un'altra storia. 57 Gli occhi di Kelly mi fissavano dalla polaroid mentre la pioggia batteva forte contro l'asfalto e rimbombava sui tetti delle automobili. Sembrava che il temporale fosse ricominciato e avesse intenzione di continuare tutta la notte. Avevo trovato riparo nella soglia di un negozio di scarpe di lusso, poco lontano da Sloane Square, circondato dalle impalcature per i lavori nell'edificio a fianco. Il bordo del marciapiede era occupato dai cassoni per le macerie pieni di gesso fradicio e vecchi mattoni inzuppati. Riposi la foto stropicciata nel marsupio vicino al revolver e al silenziatore brasiliano di Sundance, un Taurus calibro 38. Il Traser mi disse che erano le undici e sedici. Gettai uno sguardo in direzione della stazione della metropolitana di Sloane Square. Chiusa. In effetti tutte le stazioni della metropolitana che avevo visto arrivando lì, passate le otto, avevano un paio di poliziotti annoiati davanti ai cancelli chiusi. Cartelli scritti in bianco avvertivano i viaggiatori che c'era stato un guasto alla linea elettrica che coinvolgeva l'intera rete. Qualcosa che aveva a che vedere con il tipo sbagliato di pioggia. La metropolitana di Londra era chiusa fino a nuove comunicazioni. Mi augurai che Suzy fosse da qualche parte lì vicino, come me, sotto un
qualsiasi riparo in attesa dell'ora dell'RV. In caso contrario, le mie possibilità nei quindici minuti successivi sarebbero state molto limitate. Avrei dovuto tentare di usare a mio vantaggio il fatto di non avere le sue due bottiglie: avrei detto alla fonte che avrei consegnato le ultime due solo quando Kelly fosse stata liberata. Non che mi sarebbe servito a molto. Quel tipo di minaccia funziona solo a Hollywood. Se fossi stato la fonte, avrei tentato di portare avanti il lavoro con quelle che avevo e avrei ucciso entrambi in ogni caso. A quell'ora della notte c'erano in giro più persone di quante non avessi immaginato, forse a causa della chiusura della metropolitana. Se non altro i taxi avevano da lavorare. C'era una fila di ombrelli al posteggio che pareva non dovesse avere mai fine. Indossavo pantaloni di tuta da ginnastica e giacca in nylon della Fila abbinata al berretto con visiera che mi nascondeva dalle telecamere a circuito chiuso. L'insieme era completato da un nuovo paio di scarpe da tennis che erano già sporche e bagnate dopo la passeggiata attraverso la City. DW era accanto a me in una sacca Nike, ben avvolto nel giubbotto di pelle e nei jeans. A circa mezzo chilometro da B&Q avevo preso un minicab senza assicurazione e senza licenza. L'autista sapeva appena quel po' d'inglese sufficiente per seguire le mie indicazioni verso sud mentre la sgangherata marmitta della Rover vetusta sferragliava sotto di noi. Mi aveva lasciato a Bethnal Green, dove ero andato a fare acquisti in un negozio indiano prima di prendere la metropolitana più o meno nello stesso momento in cui Signorsì decideva che la situazione non poteva più essere tenuta nascosta. Dopo solo due fermate ci avevano fatto scendere a Bank e avevano chiuso la stazione. Tenevo gli occhi incollati alla fermata degli autobus, ma nessuna delle persone in attesa sotto i lucidi ombrelli, o al riparo davanti alle vetrine di Smith, le assomigliava lontanamente. Controllai ancora il Traser e ai ventisei, con la testa bassa, la sacca su entrambe le spalle in caso fossi stato costretto a correre, mi avventurai sotto la pioggia. Due minuti dopo ero appoggiato contro le vetrine di Smith e la sacca era ai miei piedi. Cercavo di restare sotto la tettoia larga una decina di centimetri per illudermi di essere al riparo dalla pioggia. Dall'altro lato dell'incrocio, a trenta metri di distanza, sulla destra, una coppia di poliziotti, un uomo e una donna, stazionava davanti ai cancelli chiusi della metropolitana, già annoiati, ma probabilmente felici di essere più al coperto di me e certo soddisfatti di fare lo straordinario. I due si fecero una bella risata per qualcosa che aveva detto la
donna. Se avessero saputo la verità su quello che stava accadendo, non avrebbero scherzato. Due uomini, ancora vestiti da ufficio e con le valigette, mi passarono davanti, da destra verso sinistra, contorcendosi sotto un piccolo ombrello pieghevole. Li seguii fino quasi a King's Road, poi spostai lo sguardo su una ragazza che veniva dalla direzione opposta. Mi si aprì il cuore. Poteva anche avere la testa abbassata, ma non c'era dubbio, era Suzy. Un tipo sui vent'anni si riparò sotto la mia tettoia. Lei indossava ancora il vestito NatWest, con il bavero alzato, logo sul taschino. L'uomo si accese una sigaretta e il fumo si disperse fino a coprire la poca distanza che c'era tra noi. Mi giunse anche l'odore di alcolici del suo alito. Guardai ancora verso sinistra. Suzy aveva raccolto i capelli sotto un berretto e la giacca jeans e i pantaloni larghi color cachi erano tutti fradici. Portava una grande borsa di cuoio a tracolla. Quando fu più vicina alzai la testa in modo che potesse vedermi. Era tutta un sorriso. «Ciao. Come stai?» Mi baciò cordiale su entrambe le guance. «Bene. Mi godo la pioggia. Sto tornando a casa.» «Ho la macchina posteggiata proprio dietro l'angolo, vieni che ti do un passaggio.» Sarebbe sembrato strano avviarci da dove era venuta, così ci dirigemmo verso la metropolitana e poi svoltammo a destra in direzione del fiume. Seguimmo la curva della strada fino a trovarci fuori campo per i poliziotti. A circa metà strada prima dell'incrocio successivo, Suzy sollevò la testa di quel tanto che mi rese possibile vedere le sue labbra che si muovevano sotto la visiera che gocciolava. «Hai visto che hanno chiuso la metropolitana?» Annuii. «Mi hanno sbattuto fuori a Bank. Mancanza di corrente i miei coglioni. È come quando effettuano un trasporto di armi nucleari sull'autostrada. Alle tre del mattino chiudono tutti gli svincoli a causa di qualche misterioso incidente capitato poco più avanti che si risolve non appena passato il convoglio.» Le sue labbra s'incresparono in un sorriso ironico. «Sembra che il capo sia stato costretto a parlare con il Dieci di Downing Street, dopo tutto. Giusto. Al suo posto non vorrei correre rischi. E tu?» Fece una risatina appena surreale. «Scommetto che Tony è agitatissimo. Immagini che casino c'è là dentro?» «Non riusciranno a non far trapelare la notizia. Domani a quest'ora sarà un vero inferno.»
Si guardò fugacemente alle spalle. «Ho passato quasi tutta la sera nascosta nell'atrio di un albergo a Marble Arch, ma poi mi hanno sbattuta fuori. Mi hanno preso per una puttana. Allora ho fatto un rapido giro per negozi, mi sono cambiata ed eccomi qui.» «Mi hanno quasi beccato nel B&Q vicino alla stazione. Sundance. Lo stronzo voleva spararmi. Comunque siamo qui.» «E adesso?» «Devo fare la telefonata.» Arrivammo all'incrocio. I cartelli indicavano che Victoria e Pimlico erano a sinistra, ma non era lì che volevamo andare. Sapevo che girando a destra e poi a sinistra avremmo raggiunto prima la caserma di Chelsea e poi il ponte. Dietro gli imponenti cancelli in ferro battuto ferveva una grande attività. Davanti i poliziotti di guardia erano coperti di Gore-Tex e armati di SA80. Gli autocarri erano allineati nella vasta piazza delle esercitazioni con luci e motore accesi. Chelsea Bridge fece la sua apparizione e così una cabina telefonica. Ci frugammo nelle tasche e fra tutti e due riuscimmo a mettere insieme quattro sterline di monete. M'infilai nella cabina insieme con lei, estrassi la polaroid per il numero della fonte. Suzy la prese e la esaminò. Tre furgoni della polizia pieni di uniformi sfrecciarono cigolando verso di noi dall'altro lato del ponte. Era quasi mezzanotte, forse era l'ora del cambio del turno. Mi restituì Kelly. «Cazzo, domani andranno tutti molto più piano quando sapranno di questa merda.» L'Ufficio di Gabinetto, al numero settanta di Whitehall, aveva una serie di stanze a disposizione per i ministri del governo e ufficiali, denominate COBR ossia Cabinet Office Briefing Rooms, sale riunioni dell'Ufficio di Gabinetto. Non avevano numeri ma lettere e le riunioni sulle emergenze di solito si tenevano nella sala A. Di certo ce n'era una in corso proprio in quel momento. Il capo dello staff della Difesa, i capi dell'intelligence e dei servizi di sicurezza, servizi Met e antincendio, ogni uomo con il suo cane, sarebbe stato seduto intorno al tavolo con la camicia stropicciata, impegnati a stabilire cosa cazzo fare di quelle cinque bottiglie di Y. pestis che erano in giro per la capitale, cercando allo stesso tempo di mantenere la situazione il più normale possibile, il più a lungo possibile. Presieduta da Tony. Signorsì stava sicuramente cercando di spiegare la sua soluzione per uscire dalla merda. Composi il numero, immaginando il caos nelle stanze adiacenti alla sala
A: telefoni che suonavano, gente che correva di qua e di là con un foglio in mano, altri che ordinavano ai militari di stare pronti, ma senza spiegare ancora il perché, altri che tentavano di avere un sì o un no definitivo per le loro azioni per l'attacco biologico. Il telefono squillò tre volte prima che la fonte rispondesse. Non gli diedi tempo di parlare. «Sono io. Sono tornato. Dove lo porto?» Lui cercava di sembrare calmo. Lo sentii fare un respiro e distinsi la voce di un annunciatore della TV. «Le hai tutt'e cinque?» «Sì. E tu hai ancora quello che voglio?» Ci fu un'altra pausa. Sentii il motivo di News24 e il cronista che si buttava deciso nell'elencare le principali notizie. Nessuna sorpresa. Tutte riguardavano la chiusura della metropolitana e la mancanza di energia. «La situazione è molto tesa, al momento, lo sai?» «Sanno di te, sanno quello che stiamo facendo.» «Naturalmente. Me lo aspettavo. Vai al solito bar e chiama non appena arrivi. Qualcuno verrà da te. Mi hai capito?» «Sì, ho capito.» La comunicazione venne chiusa. Uscimmo dalla cabina e ci rifugiammo al riparo di un piccolo garage. Sotto la tettoia, aprii il marsupio e presi la pistola. «Tieni, è quella di Sundance.» Aprì la camera per controllare che non fosse piena di bossoli vuoti. «Okay, io vado a incontrare l'uomo di Facciadiculo, tu mi segui ovunque mi portino. È probabile che non ci liberino finché non avranno sparso in giro la merda.» La pioggia colpiva la visiera del suo berretto. Annuì. «Sempre che intendano davvero liberarvi.» Mi strinsi nelle spalle. Non c'era niente che potessi fare finché non fosse accaduto. «Dammi un'ora, ovunque io sia. Se non mi vedi, o se ti accorgi che la situazione precipita, raggiungimi e vieni a prendere Kelly, DW, me, o quello che sarà rimasto.» Luci lampeggianti azzurre passarono silenziose in una strada vicina. Lei mise la pistola in borsa. «Bene, dobbiamo procurarci una macchina. Stai di guardia.» La ragazza MOE si allontanò da me e cominciò a controllare le auto stipate nel piccolo garage. Più vecchia era meglio era, ecco quello che avrebbe cercato: più facile da aprire, più facile da mettere in moto. Si fermò vicino a una vecchia Renault 5, con la targa con la V, e cinque minuti dopo
eravamo diretti a sud attraverso Chelsea Bridge. Giunti in fondo svoltammo a sinistra, verso Westminster. Dopo Tower Bridge, saremmo passati di nuovo sulla riva nord del Tamigi, avremmo costeggiato il cerchio di acciaio intorno alla City e ci saremmo diretti verso Starbucks. 58 Smithfield era un brulicare di attività. Furgoni e autocarri lottavano per posteggiare vicino al mercato molto illuminato. Caricavano e scaricavano di tutto. Da piccoli cartoni a mezzene di mucca. Uomini con cappotti bianchi, cappelli e stivali di gomma erano ovunque, chi fumava, chi si strofinava le mani per vincere il freddo. La sgangherata Renault si fermò e i tergicristallo la imitarono. Non che fossero particolarmente efficaci. Mi precipitai nella cabina telefonica accanto alla quale ci eravamo fermati e cercai gli spiccioli in tasca. Presi ancora una volta la polaroid dal marsupio, infilai una moneta nella fessura e composi il numero. Squillò a lungo prima che rispondesse. «Pronto?» Sembrava calmo come se stesse organizzando una passeggiata nel parco. «Sono quasi arrivato.» «Bene. Un furgone bianco verrà a prenderti.» «Sarò nel vicolo lì a fianco.» «Vedi di essere in vista rispetto alla strada. Arriverà subito.» La comunicazione terminò. La pioggia batteva forte sul parabrezza quando rientrai in macchina. Comunicai a Suzy il luogo dell'incontro. Mi ascoltò con un sorriso triste, poi si avvicinò e mi baciò con dolcezza sulla guancia. «Questa potrebbe essere davvero l'ultima volta.» Non c'era molto da aggiungere. Sorrisi anch'io, poi controllai i documenti, il marsupio e scesi. I pantaloni della tuta si attaccarono alle gambe mentre mi sistemavo la sacca sulle spalle. «Speriamo di no.» Le rivolsi un gesto di saluto appena abbozzato. «Lo spero anch'io. Forse fuori dal lavoro... sai, io vengo a trovarti, tu vieni a trovare me, cose così.» Accese il motore. «Sarebbe bello. Mi piacerebbe.» Finalmente riuscì a inserire la prima e partì per trovare un buon punto da cui tenere d'occhio Starbucks. Io mi avviai a piedi. Non incontrai quasi nessuno mentre raggiungevo il bar e svoltavo nel
vicolo. L'intera zona era chiusa per la notte; era tutto buio tranne i lampioni che brillavano debolmente nel rovescio di pioggia. Un'auto passò fra schizzi d'acqua e un paio di persone sotto gli ombrelli si diresse veloce verso la stazione di Farringdon. Non ne compresi il motivo: si vedeva benissimo che era chiusa. Non vidi uniformi, ma con certezza erano al riparo da qualche parte. Un Transit bianco, a pezzi come la Renault, scese lentamente verso di me e si fermò dall'altro lato. Strizzai gli occhi per riuscire a capire chi era al volante, attraverso la pioggia. Quando abbassò il finestrino, uscii dall'ombra. Era Grigio, sempre da solo, sempre con quell'aria da buono, il più grande degli assassini con il sorriso. «Dammi la borsa, prego, e sali dietro.» Non l'avrei mai fatto. Se tenevo il controllo su DW avevo qualche possibilità in più di vedere Kelly. «Mai. Resta con me.» Sorrise come se fosse il mio ospite per la serata e indicò la maniglia della porta laterale. Dopo un paio di tentativi riuscii ad aprirla e la luce interna si accese. Salii. L'interno del furgone era nelle stesse condizioni dell'esterno, il fondo di metallo era arrugginito, ammaccato e scrostato. C'era odore di spezie. Chiuse la portiera e io mi misi in ginocchio per tenere fermo DW. Poggiai un lato della testa contro la paratia della cabina e lo sentii risalire. Non appena partiti cominciò a blaterare in indiano, o altro, probabilmente informava la fonte che era tutto sotto controllo, che mi aveva preso. E adesso? Mi avrebbero sparato? Mi ero convinto che non avrebbero corso quel rischio, nel caso io avessi sostituito le bottiglie. Di certo mi avrebbero tenuto in vita finché non sapevano quello che avevano. Cazzo se lo speravo, ma che scelta avevo? Mi augurai solo che Suzy fosse là fuori da qualche parte che ci seguiva. Meno di un minuto dopo il furgone si fermò. La portiera della cabina venne aperta e dopo un paio di tentativi anche quella laterale si schiuse. La luce si accese. Si era fermato vicino a un cassone per l'edilizia davanti a un muro di mattoni rossi e finestre chiuse con assi. Dovevo parlare per primo. «Qualsiasi cosa abbiate in mente, amico, pensateci bene. Cosa succede se questa roba non è quella giusta, se ho effettuato uno scambio...» Il sorriso di Grigio mi comunicò che non gliene fregava un cazzo. Potevo parlare quanto volevo: per lui era uguale. Mi gettò un rotolo di sacchetti della spazzatura neri ed entrò accanto a me, in mano aveva un cartone per
trasportare bottiglie di Sainsbury. «Spogliati. Prego, spogliati.» Azionò l'interruttore, così la luce restò accesa anche quando chiuse la porta. Non mi ero accorto prima di quanto infossati fossero i suoi occhi. «Hai la foto di tua figlia, prego?» Dal suo tono era chiaro che non saremmo andati da nessuna parte se io non obbedivo. Mi tolsi la sacca dalle spalle e la posai sul pianale, poi gli passai la polaroid che era nel marsupio. Iniziai a spogliarmi. Era una cosa buona. Non voleva correre nessun rischio che io avessi addosso qualche dispositivo di sorveglianza e adesso, qualsiasi cosa accadesse alle mie cose, la foto e il numero non ci sarebbero stati. Voleva dire che solo i miei vestiti sarebbero finiti nel cassone, per adesso almeno. Mentre io mi spogliavo lui aprì la sacca. Le bottiglie tintinnarono quando le liberò con delicatezza dai miei vecchi vestiti che le avvolgevano. Le sollevò una per una verso la luce, poi alzò un angolo dell'etichetta con l'unghia del pollice e controllò ancora. Doveva esserci qualche segnale, forse un graffio sul vetro: l'avrebbe trovato. Ero ormai in calze e boxer. La notte era piuttosto fredda ed essere bagnato non era di aiuto. Fece un gesto verso il mio corpo scosso dai tremiti. «Tutto, prego. Continua.» Feci quanto mi veniva detto e buttai gli indumenti nel sacchetto insieme con il marsupio, i documenti e il Traser. «Indietro, prego.» Mi fece il gesto di andare ancora più verso il fondo del furgone e si frugò in tasca. Ed ecco apparire un paio di guanti chirurgici e un tubo di gel KY. Sapevo benissimo quello che stava per succedere. L'avevo già subito diverse volte. I congegni devono essere molto piccoli per starci, ma potevano ugualmente avere una pila della durata di qualche ora. Senza bisogno che mi venisse chiesto, mi piegai fino a toccarmi la punta dei piedi. Il guanto schioccò dietro di me, poi toccò al KY. L'ispezione durò solo un paio di secondi. Quando ebbe finito aprì la portiera laterale, prese il sacchetto della spazzatura e la gettò nel cassone. I guanti seguirono. Ecco la situazione: io ero completamente nudo, senza niente, con una scatola di cinque bottiglie di DW con le etichette staccate. La porta venne di nuovo chiusa, ma se non altro la luce restò accesa. E poi partimmo, Grigio parlava al cellulare, rideva anche, di tanto in tanto. Non sapevo quello che trovava più divertente: il giochetto con il gel KY, o la mia paura di essere ucciso. Ci fermammo ai semafori, rallentammo agli incroci, svoltammo a destra
e a sinistra. I pedoni sguazzavano nella pioggia. Mi capitò di sentire l'autoradio o il motore che perdeva colpi di veicoli vicino a noi. Cercai di ignorare il freddo e la pelle d'oca e mantenni una salda presa su DW. Non avevo idea di quanta strada avessimo percorso, per quanto ne sapevo poteva aver fatto giri su giri intorno a due isolati, solo per farmi perdere l'orientamento. Di nuovo fermi, ma stavolta la porta della cabina si aprì e sentii il rumore di una catena e il cigolio di un cancello. Il furgone scivolò in avanti, poi il motore venne spento e non mi rimase altro da ascoltare se non il battere della pioggia. Ovunque fossimo diretti avevo la sensazione di essere arrivato. La porta laterale venne aperta. Eravamo in un cortile. A due passi da me c'era un muro di mattoni scuri, bagnati e sporchi. In mezzo a quello c'era una porta aperta che conduceva in un piccolo ingresso molto sporco. All'interno c'era un'altra porta e a sinistra di quella delle scale. «Dài, entra!» Grigio m'invitava a entrare come se fossi arrivato per una cena. Feci un passo sull'asfalto freddo e bagnato. DW era nella mia mano destra. Vedevo solo alti muri di mattoni e i lucidi tetti in ardesia delle case vicine. Non avevamo viaggiato per più di mezz'ora, quindi dovevamo essere ancora a Londra. Non avevo idea dove, però. Mi augurai che l'avesse Suzy. 59 Con un paio di passi raggiunsi l'atrio. Sentii odore di muffa e di cucina speziata. Le scale erano ripide, strette, coperte da un tappeto unto e salivano verso il buio. Grigio, in piedi dietro di me, spinse la porta interna e l'aprì. Ci trovavamo nella cucina in disuso di un ristorante. Non c'era luce diretta, solo il riflesso che riusciva a filtrare dai quadrati di vetro nella porta tipo saloon che era in fondo al locale. Strano che avesse mantenuto l'odore: nessuno cucinava lì dentro da secoli. Portò il dito piegato davanti al mio viso e sussurrò: «Vieni, vieni». Avanzammo fra vecchie pentole, tegami e stoviglie di ogni genere che erano ancora sui fornelli e sui banchi di lavoro. Sotto i miei piedi nudi le piastrelle erano gelide. Si fermò vicino alle porte e si voltò. Alla luce indiretta riuscivo a malapena a vedergli gli occhi e il dito che avvicinò alle labbra. «Guarda.» Indi-
cò l'apertura. «Guarda.» Portai il naso contro il vetro, le bottiglie erano sempre strette in mano mia. Quasi tutto l'arredo del vecchio ristorante era ammassato contro le pareti, ma Kelly era su una sedia in mezzo alla stanza. Ne vedevo la schiena, era girata verso la strada. Blu era in piedi sopra di lei. Su un tavolo che non era stato spostato c'era una lampada che gli illuminava il viso e il coltello che teneva in mano. Mi chiesi se fosse quella la lama che aveva sistemato Carmen e Jimmy. Anche se fosse stata girata nell'altro verso non mi avrebbe visto comunque. Era bendata e aveva mani e piedi legati, indossava ancora la maglietta Old Navy e i suoi capelli erano una massa arruffata. Feci un gran respiro. Avrei voluto urlare il suo nome, farle sapere che ero lì, che era salva. Ma sapevo di dover restare calmo. Era viva ed eravamo sotto lo stesso tetto. Doveva bastarmi per il momento. Grigio cominciò a tirarmi per la spalla. «Vieni, vieni.» Sembrava quasi lievemente più eccitato, forse dopo tutto non voleva portarmi a cena; forse saremmo andati a una vera festa. Lo seguii fino ai piedi delle scale. Adesso il pianerottolo di sopra era illuminato. La porta d'ingresso era ancora aperta e la pioggia s'infilava dentro. M'invitò a salire per le scale strette. «Da questa parte, prego, da questa parte.» Quando fui circa a metà, nel pianerottolo comparve la fonte. Senza un cenno di saluto, spense la luce ed entrò nel salotto stretto e lungo. Mi fermai sulla soglia. Le tende di velluto rosso erano chiuse ma era impossibile non riconoscere la TV, ancora sul canale 24 della BBC, senza audio, e la fila di ninnoli. Per quasi due giorni mi ero portato la loro foto nel marsupio. Il resto della stanza mi era sconosciuto. Intorno alla TV c'erano un divano e due poltrone verdi e sullo schienale della poltrona più vicina il suo impermeabile. Contro il muro, sulla destra, un piccolo tavolo in legno scuro e due sedie. Il caminetto era rivestito di piastrelline grigie anni '30 e dentro c'era una stufa a gas più o meno della stessa epoca. Non era accesa. Sulla mensola del camino erano sistemati altri ninnoli, tipo quelli sulla TV, tozze riproduzioni in ottone o in vetro di moschee. Sopra era appesa una fotografia della Mecca durante l'Haj, insieme con le foto di famiglia: una coppia con i capelli bianchi e un matrimonio con il tradizionale vestito bianco. Nella stanza c'erano altre due porte che erano chiuse. «Entra. La tua bambina sta bene, hai visto?» La fonte era seduta sul di-
vano, fissava la TV senza sonoro. Un cellulare era accanto a lui sul bracciolo. Aveva ancora la giacca, ma aveva tolto la cravatta e lasciato l'ultimo bottone della camicia abbottonato. La quarta sacca era ai suoi piedi. Ken Livingstone era in diretta, aveva i capelli bagnati e dozzine di microfoni piantati davanti al viso. La didascalia ci informò: «Il sindaco non è al corrente di nessuna minaccia terroristica, tutti gli sforzi sono concentrati sul ripristino dell'energia nella metropolitana». Il sottotitolo successivo era un aggiornamento delle notizie. «Un anonimo funzionario del ministero degli Esteri informa la BBC di un imminente attentato biologico alla metropolitana. Il governo non rilascia dichiarazioni sulla pubblica sicurezza. Il portavoce del governo definisce infondata la notizia e invita a mantenere la calma.» Convinto che il lavoro fosse finito, Signorsì doveva aver lasciato libero Simon. E forse anche Simon ci aveva creduto finché non aveva sentito che la metropolitana era stata chiusa. Sundance e Scarpedatennis non ci avrebbero messo molto a trovarlo. Sundance avrebbe avuto il braccio appeso al collo, il che non gli avrebbe impedito di fare la sua parte. Due anni prima mi aveva quasi ucciso a calci; Simon non sarebbe durato a lungo. Triste, ma io l'avevo avvertito. Attesi sulla soglia per sfruttare la possibilità di guardare di sotto. La porta dipinta di bianco della cucina si stava aprendo. Ombre si proiettarono ai piedi delle scale. «Vi prego... vi prego, lasciatemi andare.» La portavano fuori, verso il furgone. Vaffanculo al mondo, forse non l'avrei rivista mai più. «Kelly!» Posai il cartone sulla moquette e mi precipitai giù per le scale. «Nick! Nick!» Praticamente caddi addosso a loro sul pianerottolo. Afferrai la benda, mentre lei si dimenava, le mani e i piedi sempre legati. «Va tutto bene, sono qui. È tutto a posto.» Quando riuscii ad abbassare la benda, un paio di mani forti mi serrò il collo e mi spinse in ginocchio. Riuscii a scorgere il suo viso impietrito mentre Grigio e Blu la sollevavano. Lacrime le scorrevano lungo le guance. «Mi dispiace, Nick, mi dispiace... niente Disneyland...» Non potevo risponderle. Non potevo neppure respirare. Blu le coprì la bocca con la mano, riuscivo a vederle solo gli occhi, impazziti per la paura. Un paio di secondi dopo non c'era più. Quando la porta venne chiusa le mani mi mollarono. Ero a terra, cercavo di respirare.
La fonte mi rimase addosso mentre cercavo di riavermi. Lo guardai. «Perché non può restare qui con me?» «Non va lontano. Perché sei così stupido? Per salvarla devi restare calmo. Ho impedito che la uccidessero. Questo è l'ordine che hanno ricevuto. Se volevi parlare con tua figlia, dovevi solo chiedere. Vieni, vieni con me.» Lo seguii su per le scale, tossivo e cercavo di respirare. Dovevo mantenere la calma. Aveva ragione lui. Agire d'impulso non le sarebbe stato di nessun aiuto. Prese le bottiglie ed entrò nel soggiorno, io invece rimasi di nuovo sulla soglia in ascolto del furgone. Merda, fra quanto sarebbe arrivata Suzy? Fece un gesto con la mano verso le fotografie di famiglia che erano sopra il caminetto. «La portano a casa del figlio, il figlio del nostro ospite qui. Volevo solo che tu la vedessi, per farti sapere che vale ancora la pena di salvarla. Il tuo comportamento mi ha dimostrato che avevo ragione a tenervi separati. Dovrebbe garantire che non ci saranno più gesti irrazionali mentre aspettiamo.» La sua voce era calmissima, molto controllata, mentre si dirigeva di nuovo verso il divano con gli occhi puntati alla televisione che faceva scorrere immagini di poliziotti annoiati e in disordine che presidiavano la stazione di Earl's Court. «Come puoi vedere, le cose non stanno filando lisce quanto avrei desiderato.» Il furgone era in moto, pronto a portarla via. Entrai nella stanza. «Pensi di accendere quel fuoco? Si gela.» «Ma naturalmente.» Si accucciò e premette il pulsante di accensione mentre apriva il gas. «Adesso ti spiego perché è necessario che tu sappia che lei è viva.» Parlava al fuoco. «Allora, non ho nessun sistema scientifico per controllare che le bottiglie che hai portato contengano proprio la Y. pestis. Le bottiglie sono quelle giuste, ma il contenuto? Ci vorrà un po' per accertarlo, ma non è un problema. Il vostro sindaco dice che la metropolitana potrebbe restare chiusa per un giorno o due. Quindi...» si alzò agitando le mani per aria, poi sedette sul divano e le lasciò cadere sulle gambe, «... quindi dobbiamo usare la tattica dell'attesa. So che sei un uomo ragionevole. La stupidità di prima», fece un gesto in direzione delle scale, «è stata solo un attimo di debolezza. So che non ti comporterai più così, perché, se tu lo facessi, la ucciderebbero subito. Dunque noi aspettiamo.» La fonte accese una sigaretta. Udii dei passi salire le scale. Grigio entrò,
nel sottofondo sentivo il motore del furgone. Mi passò davanti come se non fossi lì. La fonte si alzò e aprì la porta più vicina. Vidi una cucina economica, anni '60, accanto a un lavandino con piano scolapiatti in acciaio inossidabile. Ai piedi di quella, a terra sulle piastrelle, c'era la coppia dai capelli bianchi della fotografia sopra il caminetto. Lui indossava un cardigan grigio sopra una camicia bianca abbottonata fino al colletto, le rughe e i baffi bianchi conferivano al suo viso una tranquilla dignità. Lei a confronto sembrava inadeguata. Indossava un sari verde con un golf sopra e le calze del marito per tenere caldi i piedi. Sembravano una coppia molto unita e probabilmente lo erano stati fino al momento in cui non erano stati uccisi. Non c'era sangue. Non erano stati fatti a pezzi come Carmen e Jimmy. Strangolati, forse, o soffocati per ridurre al minimo il rumore. La fonte studiò la mia espressione mentre guardavo la coppia morta. «Non essere triste per loro. Sono in paradiso. Sono felici adesso che conoscono il motivo del sacrificio della loro famiglia.» Grigio si fermò vicino alla porta e prese le bottiglie. La fonte si teneva il viso fra le mani e il fumo della sigaretta gli saliva a spirale tra i capelli. Si fissarono con intensità per un paio di secondi mentre la fonte borbottava qualcosa, poi Grigio raggiunse il frigorifero, posò a terra le bottiglie e si chinò per vuotarlo. La fonte lo chiuse dentro nella stanza e tornò a sedersi. Aspirò un'ultima boccata della sigaretta quasi finita. «Quel figlio di cui mi hai parlato, dove avete portato Kelly... anche lui è morto?» «Sì, anche lui ha avuto questo onore. E forse è te che deve ringraziare. Avevamo bisogno di due case per questa nuova, inattesa fase dell'operazione.» Il fumo usciva lento dalle sue labbra quando mi fece un cenno verso le sedie. «Siediti, resteremo qui per parecchio tempo.» Sentivo un tintinnare di bottiglie. Presi l'impermeabile asciutto, lo indossai e andai a sedermi nella poltrona più vicina al fuoco. La fonte era ancora in vena di spiegazioni. «Sai, l'unico modo che abbiamo per scoprire se hai portato la Y. pestis è che qualcuno la usi. Così, se hai scambiato le bottiglie, ti prego di dirmelo adesso. Tua figlia non deve morire solo perché tu ci hai mentito. Ti darei l'opportunità di andare a prendere quello che voglio.» Fece una pausa. «Allora, è genuino il contenuto delle bottiglie?» Annuii. «Lo sapremo presto.» Guardò la porta chiusa come se potesse vederci at-
traverso. Sentii lo schiocco di un tappo, seguito da forti ed energici colpi di tosse. Grigio doveva aver annusato in modo generoso e obbediente. La fonte mi guardò e sorrise. «Questo è l'esempio della nostra dedizione al Signore che ci renderà vincitori. Noi tutti andremo in paradiso.» La porta si aprì e apparve Grigio. Indossava una mascherina. Il frigorifero era chiuso, nessuna bottiglia in vista. Solo un panetto di burro, un cartone di latte e dei Tupperware a terra vicino agli anziani coniugi. Mentre chiudeva la porta della cucina si scambiarono un altro cenno di assenso, poi Grigio sparì per le scale. Tutto chiaro, adesso. Avremmo aspettato fino a che Grigio non avesse avuto sintomi di contaminazione. Solo allora la fonte avrebbe preparato l'attrezzatura e sarebbe uscita. Forse gli altri due si sarebbero uniti a lui per un certo tempo, riempiendosi i polmoni nella metropolitana durante l'ora di punta. Cosa sarebbe successo a Kelly? Verrà contaminata da lui. Merda, merda... non devi pensarci. Pensa solo a cosa puoi fare adesso, in questo minuto, per impedire che accada. «Ti prenderanno e lo sai. Ci stanno già cercando. Lasciala andare. Ti assicuro che le bottiglie sono quelle vere. Sai che non rischierei mai la sua vita. Perché esporla al contagio? Lasciala libera, lei non sa dove siamo. Falla portare a una biblioteca o un posto del genere. Tieni me... lei è solo una bambina.» Sentii chiudere il portone e il motore del Transit essere portato su di giri. La fonte si protese verso di me, il fumo le usciva dal naso e dalla bocca. «Voi, voi non vi siete preoccupati molto per i miei figli. Tutti e due hanno la stessa età di tua figlia.» Il viso s'indurì. «Forse non hanno la stessa importanza, non sono bianchi. Sono io quello che lotta per la jihad, non i miei figli, ma sono loro a pagarne il prezzo per colpa tua. Dimmi, perché tua figlia è così più importante dei miei?» «Non lo è. Ma è mia.» «Hai perfettamente ragione e hai ancora la possibilità di farla vivere. Se le bottiglie contengono davvero la Y. pestis, è molto probabile che tua figlia venga contaminata. Ma tu hai il potere di tenerla in vita, devi solo restare calmo finché io non avrò portato a termine il mio compito. Poi potrai andare a prenderla e farla curare.» Prese il cellulare e compose un numero. «E tu ci stai aiutando perché tutte quelle migliaia di persone non hanno valore per te, solo tua figlia ne ha.
Forse vivrà, forse no, ma tu resterai qui. E lo farai perché non sei come me, sei debole e vuoi salvare tua figlia.» Finalmente spense la cicca di sigaretta che gli era rimasta attaccata fra le dita e parlò veloce al telefono. Non avevo la benché minima idea di quanto stesse dicendo o in che lingua stesse parlando, ma le due parole «guardia nazionale» erano abbastanza facili da capire, ed era anche facile capire perché le avesse dette. Teneva gli occhi incollati ai vari servizi di News24 su quanto stava accadendo negli Stati Uniti. Sembrava reagire con estrema calma al sottotitolo che dichiarava che lo stato di allerta arancio era sempre in vigore; immagini della guardia nazionale che controllava ponti e altri punti strategici, era evidente che tutti i permessi degli agenti di polizia e dei vigili del fuoco erano stati cancellati. Passarono anche alcune inquadrature di americani che compravano in preda al panico e con maggiore agitazione adesso che la notizia diffusa dalla BBC sul possibile attentato a Londra aveva raggiunto le reti americane. Centinaia di persone erano in coda alle casse con carrelli pieni di bottiglie d'acqua, cibo in scatola, protezioni in plastica e nastro isolante. Signorsì aveva avuto torto quando aveva affermato che ci sarebbe stato panico per le strade in caso di successo dell'attentato. C'era già adesso. Posò di nuovo il telefono sul bracciolo del divano ma senza staccare gli occhi dal televisore. «Era la squadra americana?» Non mi guardò. «Come puoi vedere, potrebbe esserci un ritardo. Ma Dio è con noi.» Il cellulare squillò mentre scorrevano le immagini di inglesi che compravano in un Tesco aperto notte e giorno, si comportavano esattamente come gli americani, dopo aver visto il notiziario della notte. Non era allarmato: si limitò a controllare il numero, poi premette il pulsante e cominciò di nuovo a parlare. La conversazione durò diversi secondi. Sul teleschermo la testa di un politico che muoveva le labbra, probabile che invitasse a mantenere la calma. La comunicazione finì. Avevo bisogno di sapere con chi aveva parlato. «Si trova alla casa del figlio, adesso? Sta bene?» Annuì. «Certo. Non siamo animali.» 60 Cosa cazzo potevo fare, adesso? E che fine aveva fatto Suzy? Era riusci-
ta a seguire il Transit fin lì? Ed era ancora fuori o lo aveva seguito di nuovo? Doveva essere rimasta ferma. Anche se avesse visto sbattere Kelly all'interno del furgone, non si sarebbe mossa. Logico, non potevo fargliene una colpa: non aveva visto me, né, cosa ancora più importante per lei, DW. Da quanto tempo ero lì? Trenta minuti, forse quaranta, non ne avevo idea. Poteva essere sul punto di fare irruzione da un momento all'altro, incasinando qualsiasi cosa dovesse succedere. Ma cosa doveva succedere? Dovevo fare qualcosa e dovevo farlo in fretta. E se Grigio e Blu facevano un controllo con la fonte ogni mezz'ora od ogni quarto d'ora? Cosa sarebbe successo a Kelly se un controllo non avesse avuto esito positivo? Conoscevo la risposta ed era una risposta cui non potevo non pensare. L'avrebbero uccisa. La TV era a circa un metro da me, sulla sinistra. La fissavamo entrambi mentre panico, ipotesi e vere e proprie bugie sui due lati dell'Atlantico venivano a galla. La fonte era un paio di metri alla mia destra. Si fece scivolare in tasca il cellulare ed estrasse un'altra sigaretta dal pacchetto. Portai di nuovo la sguardo alla TV e misurai la distanza tra me e la moschea di ottone che c'era sopra. Aveva le dimensioni di una videocamera SLR. Feci un respiro lento, profondo per raggiungere la massima concentrazione. Avevo solo una possibilità. Contai, uno... due... tre... Scattai in avanti, occhi fissi al blocco di metallo lucido. Un grido soffocato alle mie spalle. Nell'afferrarlo, rovesciai la TV e il resto dei soprammobili volò a terra. Girai la testa per inquadrare il bersaglio. Girai anche il corpo, la mano sul soprammobile sollevata come un martello. Sul suo volto non lessi sorpresa o paura, solo rabbia mentre schizzava via dal divano. «Idiota! Tua figlia!» Abbattei con violenza la moschea sulla sua testa, piegando le ginocchia per avere più forza. Lo mancai. Scoppio di stelle negli occhi, crollai e rotolai sopra il divano. Cazzo, faceva male. Dovevo continuare a muovermi. Mi obbligai ad aprire gli occhi, strinsi ancora più forte la mia arma. Un
lato del viso mi bruciava per il dolore e sentivo sapore di sangue. Sentivo denti dove non dovevano essere. Riuscivo a vedergli solo i piedi, saltellava sulla moquette come un pugile. In attesa che io mi rialzassi. Dai fori nelle gengive sgorgava sangue. Mi aggrappai allo schienale del divano e riuscii a mettermi in ginocchio. Liberai il naso dal muco per riuscire a respirare. La mascella faceva così male che non riuscivo a muoverla. Lui stava ancora saltellando. «Vuoi giocare ancora? Oppure sederti? A te la scelta.» «Okay, okay. Mi siedo.» Lasciai cadere la moschea di fianco al divano, atterrò senza rumore sulla moquette davanti al camino. Zoppicai verso una sedia. La TV continuava a trasmettere, Dubya e Tony Blair formulavano, muovendo solo le labbra, vuote promesse al soffitto. «Idiota. La prossima volta ti farò veramente male. Siediti.» La fonte era in piedi vicino alle tende, non aveva neppure il fiatone. Non mi aveva ucciso per un unico motivo, ancora non sapeva se aveva il vero DW. Cazzo, che culo! La moschea era rovesciata e fuori campo per lui. Mi spostai come per raggiungere la parte frontale del divano e poi scattai di nuovo per prenderla. Movimenti sulla destra mentre cercavo di alzarmi. Troppo lento: dovevo essergli addosso prima che potesse assestarmi un altro colpo a mano aperta. Mi piantò la testa nello stomaco e mi spinse verso il camino. Cademmo sopra la TV e mi schiantai di schiena contro le piastrelle. L'urto mi svuotò i polmoni. Dalla bocca ferita usciva sangue. Lo tenevo bloccato con un braccio. Se fosse riuscito a staccarsi e a usare le mani sarei stato fottuto. Con la moschea lo colpii con tutta la forza che avevo. Non m'importava dove lo colpivo, ma solo di riuscire a farlo. Urlò forte e io mantenni la presa tenendolo bloccato. Volevo colpirlo in testa, ma era troppo avvinghiato a me. Sollevai ancora la moschea e gliela cacciai fra le scapole. Sentii odore di bruciato e poi provai caldo. I capelli si stavano strinando contro la griglia della stufa. Con un movimento rapido mi staccai dal muro e rotolammo. Inarcai la schiena per riuscire ad andargli sopra ma con il braccio libero per piantar-
gli la base della moschea in piena testa. Mancato, ma lo beccai sul collo. Giù ancora, centrai il suo viso. Ancora. Rumore sordo di ossa sbriciolate. Sangue. Un lamento soffocato. Adesso non era del tutto cosciente, il suo sangue impregnava la moquette. Mi misi a cavalcioni sopra di lui. «Dov'è mia figlia? Dov'è la casa?» Voltò la testa e cercò di sorridere, ma non riuscì a far funzionare i muscoli. «Presto, all'inferno.» Ruotai il soprammobile di ottone in modo che la mezzaluna sulla torre del muezzin fosse diretta verso di lui e gliela piantai sul viso coperto di sangue e poi ancora, ancora. Il pesante metallo scricchiolò altre due volte contro la sua testa, il mio braccio sussultò a ogni contatto, poi il cranio cedette. Le piccole bolle di sangue smisero di formarsi intorno al naso. Nei suoi occhi un'espressione assente, pupille dilatate al massimo. La pozza di sangue più scuro si addensò sulla moquette, che non poteva assorbire la quantità che fuoriusciva dal suo corpo. Gli lasciai la torre piantata nella tempia. Nel tentativo di respirare inghiottii del sangue, gli infilai una mano in tasca e tastai in cerca del cellulare. Non avevo tempo da buttare per cercare l'indirizzo della casa del figlio. Non lo avrei riconosciuto neanche se lo avessi visto. Il telefono era imbrattato di sangue ma era ancora attivo. Non potevo chiamare Signorsì da lì... non volevo sapesse dov'erano le bottiglie. Non ancora. Inghiottii un dente e per poco non soffocai perché scendendo mi lacerò la gola. Sempre cercando di controllare la respirazione mi avvicinai alle tende e le aprii. La pioggia tamburellava contro i vetri. La strada fuori era una principale, ma non c'erano cartelli in vista. Proprio di fronte c'era un pub di quartiere in stile vittoriano che era stato convertito in moschea. Dove cazzo era Suzy? Mi precipitai per le scale e poi fuori nella pioggia. Il cancello era in lamiera ondulata. Abbassai la maniglia ma non si aprì, doveva essere chiuso con catena e lucchetto. Infilai il cellulare in una tasca dell'impermeabile e mi arrampicai come un pazzo. Del dolore al viso si occupava l'adrenalina. Scivolai e scivolai ancora sulla struttura angolare in metallo.
Riuscii a incastrare il piede destro nell'incrocio, ma quando feci forza sul tallone per issarmi verso l'alto sentii che la pelle si lacerava e l'osso sfregava contro il metallo. Mi lasciai andare e crollai sul marciapiede dall'altra parte, tutto il corpo scosso dal dolore. Mentre ero ammucchiato a terra e cercavo di riprendermi presi il cellulare per controllare che non avesse subito danni nella caduta. Era ancora acceso ed era tutto a posto. Circa quindici metri alla mia sinistra c'era la strada principale e dall'altro lato la moschea. Saltellai in quella direzione e vidi un cartello. Ero all'incrocio fra Northdown e Caledonian. Merda, era dall'altro lato di King's Cross, dove Blu e Grigio si erano diretti quando li avevamo seguiti. Dài, Suzy, dai! Mi trascinai per Caledonian, la principale, e superai il ristorante indiano in disuso. Dovevo mettere distanza fra me e DW. La pioggia mi entrava in bocca, la tenevo aperta per riuscire a respirare. A ogni passo fango e schifezze s'infilavano nel taglio sul tallone. Composi il numero di Signorsì. Rispose prima ancora che sentissi lo squillo. Mi riparai veloce nell'ingresso di un centro della comunità del Bangladesh quasi nello stesso momento in cui Suzy fermava la Renault lì davanti. «Sono io. Dark Winter... una bottiglia è stata aperta, ma ho il controllo su tutte.» «Più piano, ripeti.» Superai veloce il marciapiede e saltai in macchina sbattendo la portiera. «Dov'è D...?» Alzai una mano per farla tacere, poi chiusi l'orecchio libero con un dito per eliminare il rumore del riscaldamento e della pioggia che batteva forte. Presi un gran respiro e lo trattenni per un secondo. «Ripeto, ho tutto Dark Winter sotto controllo.» «Dove sei?» «Rintracci questo telefono, lo terrò acceso.» «Lo hai con te?» «No. Taccia e ascolti. Gli ASU si sono separati. È probabile che usino questo telefono per i controlli a tempo. Uno della squadra è contaminato. Devo andarci adesso... se chiamano per fare rapporto e nessuno risponde...» «Rapporto a chi? Cos'è successo?»
«Non importa. Ascolti, se chiamano e non hanno risposta nessuno sa cosa cazzo possono fare. Ripeto, uno di loro è contaminato. Questo è il telefono della fonte. Le darò i numeri chiamati. Lei mi dirà dove sono e io posso andarci subito, prima che chiamino. Deve darsi una mossa, non so quando faranno rapporto. Capisce?» Suzy mandò il motore su di giri e ingranò la marcia. «Cerchiamo il furgone.» Selezionai dal menu «chiamate in uscita» mentre la Renault cigolava sulla strada. Suzy aggredì la condensa sul parabrezza mentre i tergicristallo andavano senza nessun effetto dall'altra parte. «Macchina del cazzo!» Superammo un intrico di strade attraverso un complesso di edifici. Comparvero tre numeri. Sapevo che Signorsì, adesso che aveva il numero, lo stava già facendo controllare per conoscerne la storia, ma ci avrebbe impiegato un paio di minuti. Il mio sistema era più veloce. Merda: 001212. La telefonata in America. Tornai a lui. «Ho un numero di Manhattan. Ha parlato con loro meno di trenta minuti fa.» Glielo dettai e poi continuai con gli altri due numeri inglesi. «Ricevuto. Sta' calmo e aspetta.» Chiuse. Suzy rallentò mentre passavamo davanti alla strada di servizio di una schiera di negozi e abbassò il finestrino. La imitai, i miei occhi scrutavano veloci da una parte all'altra. Cercai di ignorare il dolore al piede. «Ero sul punto di venire dentro a prenderti, quando ti ho visto ammucchiato sopra il cancello.» Praticamente stava urlando. Aveva la testa fuori dal finestrino per poter vedere la strada, il parabrezza era coperto di condensa. «Io dovevo restare con DW. Lo sai, vero?» «Kelly è con loro, l'hanno portata via con il furgone.» «Parla con il capo, deve sapere.» «Perché? È l'unica possibilità che ho per salvarla. Se ne sbatte di lei. Non posso correre rischi.» Accelerammo verso l'incrocio, la strada di servizio era finita. «Li ho visti... sono andati da questa parte, ne sono sicura. Cazzo, cazzo!» Frenò di colpo perché gli abbaglianti avevano inquadrato una serie di pali che bloccavano la stradina per uscire dal complesso. Ingranò la retromarcia. Ci voltammo entrambi facendo ogni sforzo per riuscire a vedere attraverso il vetro posteriore coperto di pioggia. «Non possono essere più lontani di cinque minuti. Hanno chiamato la fonte non
appena sono arrivati. Dobbiamo trovarli prima dell'ora del controllo, o è finita. Dai, fai volare questa cazzo di macchina.» Svoltammo a un altro incrocio, tenevo le mani sul cruscotto e dondolavo avanti e indietro, volevo che la macchina andasse più veloce. Furgoni ce n'erano, e tanti, ma nessuno era lo sgangherato Transit. «Perché non ha ancora chiamato? Non dovrebbe essere una cosa così lunga rintracciare quei bastardi. Più veloce, Suzy, cazzo, più veloce.» «Piantala. Chiamerà, non preoccuparti. Ma dobbiamo controllare queste strade. Continua a guardare, li troveremo, li troveremo.» Guardavo di continuo il cellulare. Ma perché Signorsì ci metteva tanto? Un altro incrocio. La pioggia entrava dai finestrini. «Laggiù. Guarda, gira a sinistra, sinistra.» Svoltò, massima velocità, verso due furgoni parcheggiati più avanti. «Trovato!» urlò. «Guarda a destra, parcheggio coperto, quattro case più in su.» La Renault venne sbattuta da un lato, scontrò e salì sul marciapiede. Mi buttai giù dal lato del passeggero e usai i furgoni come copertura. La casa aveva il tetto a terrazza, una tettoia di plastica ondulata da una parte. Il cellulare squillò. Controllai il numero prima di premere il pulsante verde e Signorsì cominciò subito a parlare. «Ascolta bene. Non entrare nella casa, mi hai capito? State fuori tutti e due. Mantenete controllo sulla zona. Una squadra sta arrivando. Ripeto, restate fuori.» Come cazzo faceva a sapere dove eravamo? Girai su me stesso, alzai lo sguardo e lo scoprii. Una telecamera CCTV in fondo alla strada. Quel rotto in culo aveva localizzato i numeri un minuto dopo che glieli avevo dati, solo che ci aveva fottuto e aveva preso il comando. Suzy continuava a fissare il bersaglio mentre io ero chinato per proteggere il telefono dalla pioggia. «Bastardo! Kelly è lì dentro.» «Dov'è Dark Winter?» «Vada a farsi fottere. Se lo trovi da solo.» «Non entrare, Stone. Non farlo.» Abbassai il telefono ma Suzy lo afferrò prima che premessi il pulsante rosso. «Digli dove si trova. Diglielo. Non puoi correre rischi, ricordi?» Merda. Riportai il cellulare all'orecchio. «Si trova sopra il ristorante in-
diano in disuso in Caledonian Road, di fronte alla moschea. Ha capito... di fronte alla moschea.» Sentivo una gran confusione dov'era lui, che superava anche il rovescio di pioggia. Chiusi la telefonata e immediatamente ricevetti un'altra serie di suoni brevi e acuti. 61 Il numero sul display era uno dei due numeri inglesi. «Sono loro, è il controllo! È il controllo!» Di colpo Suzy iniziò a correre, dritta verso la casa. Io le zoppicai dietro, il taglio nel tallone si allargò, fino a che non sentii l'asfalto contro l'osso. Ero a pochi metri da lei quando sgusciò nello spazio tra il furgone e la porta laterale. Io andai diretto verso il portone principale che cercai di aprire a spallate. Feci tre tentativi, non cedeva. Controllai le finestre. Niente di buono, doppi vetri. Suzy stava rompendo un vetro. Scivolando sul fango e sull'erba bagnata zoppicai più veloce che potevo verso di lei. Aveva un braccio dentro il vetro sfondato. Sparò e il polso vibrò verso l'alto. Il rumore dell'esplosione fu soffocato dal silenziatore e dalla pioggia. Ritirò l'arma e urlò: «L'ho mancato! È andato a sinistra, a sinistra!» La spinsi via. La manica dell'impermeabile salì sul braccio mentre mi davo da fare con la serratura. Schegge di vetro mi lacerarono la pelle. Suzy scattò in posizione, arma alta, mi urlava nell'orecchio: «Sbrigati! Veloce!» Le mie dita si chiusero su una Yale. La girai e per poco non caddi in avanti con il braccio ancora infilato dentro. Suzy mi superò, arma pronta, e passò la porta interna. Quasi subito urlò: «Porca puttana! Cazzo!» La seguii all'interno, la bocca continuava a riempirsi di sangue. La luce dei lampioni filtrava dai pannelli in vetro del portone principale. I cadaveri di due giovani erano sul pavimento. Suzy doveva esserci caduta sopra. Adesso stava arrancando per le scale. I passi rimbombavano sui gradini. Raggiunse il pianerottolo. Da qualche parte sopra di me echeggiarono urla acute e concitate. «Kelly! Kelly! Sto arrivando!» Saltai i cadaveri e feci gli scalini due alla volta. Le mie gambe non pote-
vano andare più veloci. Una porta aperta davanti a me. Il bagno. Vuoto. Suzy era in piedi a pochi passi di distanza, arma alta, cane alzato. C'era pochissima luce, solo quella della strada che filtrava dall'ingresso, ma riuscii a distinguere tre, forse quattro, porte. Un paio per ogni lato del corridoio. Suzy cercava di stabilire dietro quale poteva essere Kelly. Afferrai la maniglia della prima sulla sinistra e lei andò a quella di destra. Era buio, ma intuii dei movimenti. Mi buttai scontrando dei mobili. Cademmo insieme fra i due letti. Una lama mi penetrò nella coscia. «Suzy! Suzy!» Il muscolo s'irrigidì intorno alla lama, contrazione immediata. Ci schiantammo sul pavimento e la mano mollò la presa lasciandomi l'arma piantata dentro. Era sopra di me, la testa conficcata contro il mio collo, mordeva, voleva strapparmi la pelle. Sentii odore di colonia, di sigarette, di caffè quando mi sprofondò i denti nel collo. M'inarcai, scalciai, tentai di afferrare il coltello piantato nella gamba. Del sangue mi scendeva lungo il collo. Un altro urlo dall'altra stanza. Bene, respira ancora. Urlai anch'io quando la sua bocca si staccò da me con la mia carne fra i denti. Per un momento non sentii altro che i suoi rantoli e i suoi grugniti, poi la voce di Suzy. «Via da lì! Lontano da lei! Subito!» Poi di nuovo le urla di Kelly e corpi che sbattevano contro il muro. Gli piantai le dita negli occhi. Avrei voluto infilarle dentro fino a raggiungere il cervello. Spostò di scatto la testa e cercò di mordermi la mano. Lo afferrai per i capelli, unti e scivolosi, tirai all'indietro per tenere lontani i suoi denti. Il locale si riempì delle urla dell'altra stanza. Le chiusi fuori dalla mente, dovevo concentrarmi sul coltello. Presi a testate il tizio e i suoi denti mi lacerarono la faccia. E poi ancora - «Bastardo!» - avrei fatto qualunque cosa pur di distrarlo, mentre tendevo la mano verso il coltello. Suzy cercava ancora di prendere il controllo. «Lasciala andare! Lasciala andare!» Afferrai il manico e tirai.
Gli urlai ancora contro mentre la lama usciva e lo pugnalai con tutta la forza che avevo. Non sapevo dove lo avevo colpito, ma lui s'irrigidì, i muscoli si tesero per combattere il dolore. Lo estrassi e colpii ancora, ancora, nella schiena, nei glutei, ovunque riuscissi ad arrivare. Le sue urla raggiunsero un crescendo mentre conficcava la testa nel mio viso e cercava di mordermi una guancia: non si arrendeva. Ancora un urlo fortissimo dall'altra stanza. «Kelly! Arrivo! Kelly!» Sanguinava sopra di me; il nostro sangue mi bruciava negli occhi. Affondai il coltello nella schiena, lo lasciai dentro e lo feci ruotare avanti, indietro, a sinistra, a destra. Aveva problemi a respirare, ma non mollava. Feci girare la mano in alto, in basso, in cerchio, in tutti i modi che riuscivo. Avevo la testa sopra la sua spalla sinistra e respiravo a denti serrati. Urlò a pochi centimetri dalla mia guancia. Cercò di mordermi e poi grugnì come un animale contro il mio viso. Ma i suoi movimenti scomposti si erano fatti più lenti e le urla meno forti. Le grida di Kelly rimbalzarono ancora dal muro e poi si bloccarono. Mi sentivo come ubriaco. Ero cosciente di quanto stava accadendo ma era come se il messaggio ci mettesse troppo per raggiungere il cervello. Negli occhi avevo solo bolle di luce rossa e stelline bianche. Dovevo raggiungerla... I nostri volti erano ormai vicinissimi quando allentò la presa del tutto e i suoi movimenti si fecero deboli fino a ridursi a spasmi incontrollati. Il mio software cominciò a funzionare, recuperai il controllo e cercai di alzarmi. L'impermeabile era sotto di lui, feci del mio meglio, tirai finché il suo corpo non rotolò da una parte. La nuca mi dava la sensazione di non essere più in grado di reggere la testa. Le stelline e le bolle tornarono. Mi arrampicai sopra il letto singolo e caddi nel buio del pianerottolo. Perdo troppo sangue, non ce la faccio... Nessun rumore intorno, solo la pioggia sui vetri. A passo incerto raggiunsi la porta e mi allungai verso la maniglia, però la mano mi tremava troppo e non riuscii ad afferrarla. Mi voltai verso le scale, avrei voluto andarmene ma i piedi si bloccarono.
Caddi in ginocchio, la testa contro la porta, non potevo fare altro che singhiozzare piano mentre dalla porta mi giungeva l'odore metallico del sangue. Un senso di nausea e d'impotenza s'impossessò di me. «Kelly... Kelly? Suzy? Vi prego, parlatemi... vi prego. Per favore.» Perché non ero arrivato prima? Avrei potuto impedire quella cazzo di tragedia... Non volevo entrare, volevo solo strisciare via e far finta che non fosse successo niente. Ma dovevo. Cominciai a picchiare contro la porta, urlavo, imploravo che qualcuno mi rispondesse. «Suzy, apri la porta, ti prego, Kelly, Kelly...» Scivolai a terra, ero un sacco senza forma. Ma dovevo vedere, avevo bisogno della certezza. Dovevo entrare. Questa volta non potevo scappare... Una lama di luce filtrava sotto la porta. Mi aggrappai alla maniglia e spinsi per riuscire a entrare. Non cedeva. Spinsi ancora, con più forza e stavolta si mosse, ma non più di pochi centimetri. Sapevo il perché e sentii le lacrime che mi rigavano il viso. Le mani mi tremavano, persi il controllo sul respiro. Avevo la vista offuscata. Il collo sanguinava, la gamba sanguinava. Mi alzai. Spinsi ancora la porta e stavolta il peso morto dall'altra parte mi concesse un po' di spazio in più. Era Suzy che bloccava la porta. Le avevano infilato un coltello nel collo; si vedeva la punta dall'altra parte. Aveva gli occhi chiusi, ma da quello che potevo vedere del suo viso coperto dai capelli impregnati di sangue mi sembrò che avesse un piccolo sorriso segreto. Crollai in ginocchio, non vedevo più niente, strisciai nel varco. Gli altri due giacevano sul letto matrimoniale. Blu era riverso a faccia in giù di traverso sopra di lei, la camicia bianca era rossa di sangue dove era uscito il proiettile. «Kelly, sono qui, adesso... Va tutto bene, ti avevo detto che sarei arrivato...» Strisciai ancora e raggiunsi i piedi del letto. Lacrime, muco, sangue schizzarono dal mio viso mentre gli tiravo il braccio con le ultime forze rimaste. Sirene in avvicinamento. Rumore di frenate all'esterno. Cadde da un lato, quasi addosso a me. Piangendo in silenzio, lo scalciai
via, poi mi arrampicai sul letto. Urlarono degli ordini. Stavano sfondando la porta. Giaceva perfettamente immobile, come l'avevo vista migliaia di volte quando era addormentata, allungata sulla schiena con le braccia e le gambe allargate come una stella marina. Solo che stavolta non si succhiava il labbro inferiore, nessun movimento degli occhi sotto le palpebre a seguire i suoi sogni. La testa era girata verso destra, con un'angolazione innaturale. Sentii la squadra entrare in casa, vidi la luce azzurra rimbalzare sui vetri e finalmente la porta di casa che cedeva. Mentre mi piegavo su di lei le lacrime scesero sul suo viso mezzo coperto dai capelli. Sapevo che era un gesto inutile ma le tastai il polso comunque. Era morta. La trascinai sul bordo del letto e la presi in braccio. A passi incerti, cercando di tenerla meglio che potevo, raggiunsi la porta. Con dolcezza adagiai Kelly accanto a Suzy. Di sotto stavano controllando le stanze. Di lì a poco sarebbero venuti su, tuta NBC e respiratori, pistola in pugno. Estrassi il coltello dal collo di Suzy e lo scagliai contro il muro, poi mi sdraiai fra di loro e presi le loro teste senza vita, come bambole di pezza, e me le portai sul torace. Le loro fronti si toccavano. Sprofondai il viso tra i loro capelli. 62 Hunting Bear Path Giovedì 17 luglio, ore 11.12 Una colonna di fumo nero sbuffava dallo scappamento della JCB mentre le sue gigantesche ruote sconvolgevano il prato appena tagliato. Si portò all'angolo della casa. Il sole brillava sulla benna. Il braccio si sollevò fino al primo piano e poi si allungò. Infilai la lettera stropicciata di Kelly nel passaporto, dove era la foto, e guardai ancora una volta il suo viso. Dio solo sa quante volte l'avevo fatto da quando avevo recuperato la Vectra prima che Geoff tornasse dal Golfo e trovasse un'auto sconosciuta nel garage. Nascosto dagli occhiali da sole a specchio Josh aveva un'espressione indecifrabile. Si rivolse alla donna che aveva al fianco e borbottò: «Sembra
la coda di uno scorpione». La signora Billman rispose qualcosa che non riuscii a comprendere a causa del rumore della scavatrice. C'eravamo solo noi tre così vicini alla casa. Gli altri erano raggruppati lungo la strada, avevano troppo riguardo per venire più in su nella strada privata. La benna sembrò esitare per un paio di secondi, poi scattò in avanti. La signora Billman sollevò la macchina fotografica, il metallo aggredì il rivestimento in legno. Ci aveva chiesto il permesso di fare un paio di foto e come potevamo risponderle di no? Era un grande avvenimento per la comunità. Non capitava tutti i giorni di comprare una casa per pochi spiccioli e poi demolirla. I progettisti sarebbero presto intervenuti per creare un parco giochi, con fontanella e fondo in gomma al suo posto. Sembrò che tutta la casa fosse scossa da un tremito, poi il muro della camera di Kev e Marsha si arrese con rumore di legno sbriciolato e vetri infranti. Ci avevo messo un po' a decidere se andare o no, ma sapevo di doverlo fare. Avevo bisogno di vedere con i miei occhi per mettere la parola «fine» a quell'incubo. Il giorno in cui i nonni erano stati cremati a Bromley, in seguito a una fuga di gas nella loro villetta, avevo portato Kelly in America. Non sapevo se la sorella di Carmen fosse riuscita ad arrivare dall'Australia. Josh, al suo primo incarico ufficiale, aveva officiato il servizio funebre e fatto seppellire Kelly insieme con il resto della sua famiglia. La chiesa era affollatissima. Non so se di quello sarebbe stata fiera o in imbarazzo. Riconobbi la segretaria del preside della scuola e l'insegnante di matematica e poi parlai con Vronnie che mi sembrò molto serena: decisi che si era strafatta di Vicodin. Il funerale in se stesso non m'importava molto. Le avevo detto «addio» quando eravamo sdraiati a terra sul pavimento di quella camera da letto. Forse in seguito avrei fatto aggiungere qualche parola alla lapide, ma non sapevo ancora cosa. Gli addetti delle onoranze funebri erano riusciti a farla sembrare così in pace: aveva le mani incrociate sul petto ed era difficile non pensare che stesse dormendo. Mentre me ne stavo seduto accanto alla bara a rileggere la lettera mi aspettavo che da un momento all'altro aprisse gli occhi, me la strappasse di mano e dicesse: «Rilassati. È solo uno scherzo». La benna demolì un grosso pezzo di tetto e lo gettò da una parte, poi il braccio si allungò di nuovo e azzannò un muro. La signora Billman cominciò a piangere, io guardai a terra e presi a calci una pietra. La metropolitana aveva ripreso a funzionare e Londra era tornata alla
normalità, qualunque cosa fosse la normalità di quei tempi. Il numero di Manhattan aveva condotto George dritto alla ASU americana. Erano stati catturati con dodici bottiglie intatte e probabilmente poche ore dopo galleggiavano sullo Hudson. Le mie ferite ci avrebbero messo un po' a guarire, ma se non altro ero vivo. Credo di doverla considerare una cosa positiva. Altro rumore di demolizione. Alzai lo sguardo a quello che restava della casa. Il tetto e il primo piano non esistevano più e la benna si stava occupando del piano terra. Ci avevano detto che la demolizione avrebbe preso solo un'ora o due e che il lavoro grosso era portare via i detriti. Non sapevano quello che dicevano. Josh era stato al gioco e non aveva domandato come erano morti. Sapeva che era meglio non chiedere. Gli avevo lasciato tutto il profitto della vendita della casa e gli avevo detto di considerarlo la caparra del mio posto in paradiso. Il casino che avevo lasciato a Londra era stato ripulito da Signorsì e Yvette con la consueta efficienza. Suzy era stata cremata nel Kent a seguito di incidente stradale mortale sulla M20. Nessun altro veicolo era stato coinvolto. A quanto risultava una sbarra di ferro le si era infilata dritta nel collo. Morte istantanea. Tutto era stato predisposto molto bene e io mi ero confuso fra gli altri in fondo alla cappella. Vidi Mazzadagolf fare lo stesso e avevamo scambiato qualche parola. Mi aveva detto che sapevano che era incinta e che stavano solo aspettando che fosse lei a comunicarlo in caso avesse deciso di abortire. Sarebbe diventata comunque quadro permanente. Geoff era stato fatto rientrare dal Golfo. Era sicuro che la storia dell'incidente non aveva senso, ma era anche sicuro che non poteva farci un cazzo di niente. Anche lui era consapevole che era meglio non fare domande. Abbandonai la chiesa quando lui si alzò per dire qualche parola sulla moglie e sulla loro figlia non nata. A quanto sembrava anche Mazzadagolf ne aveva avuto abbastanza perché ci ritrovammo fuori insieme. Da quell'ultima notte a Londra sembrava che Sundance e Scarpedatennis fossero stati molto impegnati. Simon era stato aggredito e ucciso in Namibia mentre dall'aeroporto raggiungeva in macchina la sua famiglia. I ladri avevano preso solo la macchina fotografica. Alcuni giornali riportarono che un anonimo dottore si era fatto avanti e aveva reso noto che da qualche mese era in cura per stato depressivo. Mi dispiaceva per i figli, ma non si fanno casini con informazioni di quel genere. Noi l'avevamo avvertito. In pochi attimi la casa fu ridotta a un ammasso di detriti. Guardai Josh e
vidi una lacrima che rotolava dagli occhiali da sole. Controllai il Traser: erano quasi le dodici meno dieci. «Ne ho abbastanza, che ne dici di andare?» Salutammo la signora Billman e ci avviammo nel vialetto. Ci disse che ci avrebbe contattato per farci sapere la data dell'inaugurazione del parco, avevamo annuito ma sapevo che non ci saremmo andati. Josh aveva voglia di parlare. «Senti, ma perché non ti fermi e passi la notte da noi? Puoi restare qualche giorno o più a lungo, se vuoi. Non hai un bell'aspetto. Potresti dormire in camera sua...» «Sto bene. Veramente. Preferisco tornare all'appartamento. Mi sto appena riprendendo da sei anni di Pocahontas, non ho voglia di riempirmi di Eminem per i prossimi sei...» Forse la comunità avrebbe fatto installare un'altalena nel parco, ma di certo non avrebbero usato quella di Kelly. Raggiunta la Dodge controllammo che i pali di legno che avevamo smontato, le catene e il copertone di gomma fossero ben fissati sul retro. «Cosa ne vuoi fare di questa?» «Non lo so ancora, per adesso mettila in garage, ci penserò. Volevo solo tenerla, tutto qui.» «Nessun problema, amico. Ho capito.» Salimmo e, mentre metteva in moto, guardai per l'ultima volta. Non sarei tornato mai più. Avevo fatto tutto quel che dovevo, negli ultimi mesi, tranne risolvere i miei problemi, naturalmente. Josh s'inserì nella principale diretto a Laurel, a casa. «E cosa farai nel tuo appartamento? Te ne starai chiuso dentro a sbattere la testa contro il muro? E dai, perché non ti fermi, anche solo per una notte?» «Sto pensando di andare via per qualche mese. Non so il perché. Ho solo voglia di fare le valigie, sistemare un paio di cose...» Annuì come chi la sa lunga. Sapeva bene dove volevo andare e perché. La scavatrice poteva aver distrutto la casa, ma non aveva cancellato il video. E adesso si era aggiunto un paio di sequenze in più. Mi attendevano molte notti di freddo e sudore se non avessi dato un senso alla mia vita di merda. Avevo pensato di andare dalla dottoressa Hughes. I cancelli dello zoo si erano davvero spalancati e gli animali fuggivano liberi. Forse mi avrebbe aiutato. L'orologio del cruscotto segnava le 11.58 quando estrassi il cellulare e controllai se avevo campo. Josh era stupito. «Hai finalmente imparato a usarlo?»
«Aspetto una telefonata.» A mezzogiorno in punto il telefono squillò. Quando George diceva un'ora era come se la incidesse su una pietra. «Tutto bene con la casa, figliolo?» «Sì, siamo appena venuti via.» «Bene. Non posso lasciarti andare in Inghilterra. Strane cose possono succedere durante la terapia. Il rischio per la sicurezza è troppo grande.» Mi sentii crollare. Anche ammettere di aver bisogno di aiuto era una lotta. «Ma ho una proposta, figliolo. Conosco il tipo giusto. È un'ottima persona e comprende le situazioni del nostro lavoro. Ha aiutato anche me, in passato. E avrai il beneficio del fondo pensioni prima del previsto. Il tipo costa parecchio.» «Grazie, George.» «Non devi ringraziarmi. Il fatto è che non ho ancora trovato qualcuno meglio di te. E tu non sei ancora morto.» FINE