DAN GREENBURG NANNY (The Nanny, 1987) A Suzanne e Zack 1 Il dolore straziante era passato. Soltanto il ricordo aleggiava...
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DAN GREENBURG NANNY (The Nanny, 1987) A Suzanne e Zack 1 Il dolore straziante era passato. Soltanto il ricordo aleggiava ancora, come il dolore fantasma di un arto amputato. Le fiamme avevano purificato quasi tutto ciò che di umano c'era in lei. Liberarsene era stato un sollievo. Si avvicinava alla casa, avanzando tra la neve alta nel fitto bosco. Era notevolmente più leggera ora: quel settanta per cento del suo corpo fatto d'acqua si era prosciugato nel fuoco, sfrigolando, bollendo ed evaporando. Si fermò dietro gli ultimi cedri. Nella casa le luci erano spente. Sebbene i suoi occhi bruciati avessero lasciato il posto a profonde cavità, riusciva a vederlo con quella parte di lei che non aveva bisogno di occhi. Tutto quanto rimaneva di lei era pura determinazione. Pura determinazione e amore: un amore travolgente e incontrollabile per l'uomo che le aveva fatto questo e un bisogno tanto profondo di riunirsi a lui e alla sua famiglia da spingerla a perdonare qualsiasi cosa lui le avesse fatto in passato e qualsiasi cosa potesse farle in futuro. Quella notte era la notte più terribile che Phil Pressman avesse mai vissuto. Pregava con tutto il cuore che non fosse anche l'ultima. Era molto tardi nella casa persa tra i boschi innevati della parte orientale di Long Island, forse erano addirittura le tre del mattino, ma Phil aveva paura di sdraiarsi e di chiudere gli occhi prima che facesse giorno. Il vento sibilava tra gli alberi in modo inquietante. Stando al termometro appeso fuori che dondolava avanti e indietro nel vento, picchiando contro la finestra come per chiedere asilo, la temperatura toccava i quindici gradi sotto zero. I ceppi che scoppiettavano nel camino mantenevano in casa un livello di calore accettabile, ma il gelo che attanagliava il corpo di Phil aveva a che fare con qualcosa di più della temperatura esterna. Dalle porte-finestre del soggiorno, Phil guardava il mezzo metro di neve caduto negli ultimi giorni sul terreno e sugli alti cedri che sovrastavano la casa. Gli sembrò di udire un rumore sul retro, come qualcosa che raspasse
piano contro la porta cercando di entrare. Sentì una morsa stringergli il petto e il cuore battergli forte come se improvvisamente non ci fosse abbastanza aria nella stanza per respirare. Ti prego, fa' che là fuori non ci sia quello che penso io, pregava. Stava accadendo qualcosa a Phil, a sua moglie e al loro bambino, qualcosa di orribile, e lui cercava ancora di capire di che cosa si trattasse, come impedirlo e perché mai delle persone normali e gentili come loro si trovassero in quella situazione. 2 Phil Pressman e Julie Stevenson erano nati e cresciuti a Chicago. Si erano incontrati all'università, dove Phil si stava laureando in inglese, materia complementare psicologia, e Julie si stava laureando in psicologia, materia complementare arte, e se non fu amore a prima vista fu qualcosa di molto simile. Phil aveva una zazzera castana, occhiali con la montatura d'osso, un pungente senso dell'umorismo e una faccia che raramente si apriva in un sorriso. Julie aveva capelli color platino, un naso perfetto, una figura snella e occhi verdi così miopi che era costretta a strizzarli anche quando portava le lenti a contatto. Questo era l'unico neo nel suo aspetto che, quanto al resto, lasciava senza fiato. Julie era cattolica, Phil ebreo. Il solo difetto di Phil, a giudizio di Julie, era che nella vita preferiva comportarsi da osservatore piuttosto che da partecipante: era un irrimediabile pianificatore, un tipo sempre ansioso per il quale era difficile vivere attimo per attimo. Il solo difetto di Julie, a giudizio di Phil, stava nel ricordarglielo costantemente. Dopo la laurea, Phil era stato assunto come copywriter in una piccola agenzia pubblicitaria di Chicago e Julie si era dedicata all'arredamento grazie a una sua cugina che lavorava per la Merchandise Mart e le passava di tanto in tanto qualche lavoretto che giudicava troppo piccolo o noioso per occuparsene di persona. Sebbene Julie desiderasse apertamente sposarsi, lei e Phil vissero insieme nel peccato per quattro anni, finché un giorno Phil, che non era uomo incline ai gesti impulsivi, annunciò: «Ho una splendida idea». «Questo sarò io a giudicarlo», rispose Julie. «Che cosa ne diresti se prendessimo un taxi per farci portare in munici-
pio, in blu jeans e scarpe da tennis, e ci sposassimo?» «Perfetto», disse Julie. Aveva sempre desiderato un bel matrimonio romantico con tanto di abito bianco e chilometri di pizzi, ma voleva sostenere Phil in quel suo raro tentativo di spontaneità. Inoltre sapeva che Phil guardava con troppo nervosismo all'impegno rappresentato dal matrimonio per trasformare quella cerimonia in una grande occasione sociale. Così Julie lasciò che la paura dell'impegno si travestisse da disinvoltura e finse che quel colpo di testa in jeans e scarpe da tennis fosse esattamente il tipo di matrimonio a cui aveva sempre aspirato. Prima di rendersene conto, Phil e Julie si ritrovarono trentenni. «Credo sia ora di pensare seriamente alle nostre carriere», disse Phil. «Trasferiamoci a New York.» «Io credo che sia ora di pensare seriamente a metter su famiglia», replicò Julie. «Traslochiamo in un appartamento più grande.» «Prima di pensare a una famiglia dovremmo aspettare che le nostre carriere siano avviate», rispose Phil. «Nel caso non lo avessi riconosciuto», ribatté Julie, «questo tic tac che senti è il mio orologio biologico.» Phil provò a sondare le dieci agenzie di pubblicità più importanti di New York. Tra queste, una di medie dimensioni, la Sullivan, Stouffer, Cohn and McConnell, che si era fatta un nome con Babe, la birra leggera per donne, gli pagò il biglietto per un colloquio a Manhattan con la presidentessa, una vivace donna di sessantacinque anni, Mary Margaret Sullivan. Phil rimase sorpreso dalla bellezza della Sullivan. Aveva capelli argentei, ciglia lunghe e scure e una carnagione inspiegabilmente abbronzata. Era di altezza media e si manteneva bene. Studiò il portfolio di Phil con grande interesse. C'era un annuncio per una crema depilatoria istantanea che prometteva una «pelle splendente senza ricrescita», intitolato «Peli oggi, persi domani». In una campagna per una marca di caramelle e bonbon, un bambino s'infilava in bocca un lecca lecca di cioccolato e lo slogan diceva: «Addio, ciuccio». C'era infine un annuncio per un rossetto dal titolo: «Baciami, stupido». Tra i film, Phil aveva portato uno spot per Spugna-Roll, pannocarta per cucina. Nel film si vedeva il prodotto assorbire un'enorme chiazza di liquido rovesciato per terra mentre si sentiva il rumore amplificato dell'acqua che scendeva nel tubo del lavandino. Il testo, in una nuvoletta sopra la chiazza a mo' di fumetto era: «Slurp!»
«I suoi annunci sono intelligenti», commentò la Sullivan. «Grazie», rispose Phil. «Non è necessariamente un complimento. La pubblicità in genere è intelligente a scapito della forza del messaggio di vendita.» «I suoi annunci, quelli che ho visto», disse Phil, «sono forti a livello di messaggio di vendita e allo stesso tempo intelligenti.» «Buona risposta», osservò lei. «Mi dica, perché crede che dovrei assumerla?» Phil ci pensò per un momento. «Perché sono bravo, ma ci sono ancora molte cose che lei può insegnarmi.» Lei rise. «D'accordo», concluse. L'offerta della Sullivan era nettamente inferiore a quello che Phil si era aspettato di valere a New York, ma l'idea di lavorare per lei gli piaceva. E poi quella era l'unica agenzia che gli avesse fatto un'offerta concreta e che gli avesse effettivamente pagato il volo fin lì. Phil accettò il posto. Quel febbraio, un mese inclemente a Chicago, con il vento che soffiava dal lago Michigan così forte da buttare letteralmente a terra la gente, Phil e Julie Pressman si trasferirono a New York. 3 Febbraio a New York era freddo e senza vita, ma non come a Chicago. Le strade non erano coperte per tutto l'inverno da una patina dura di ghiaccio grigio e pieno di buche, e il vento non faceva oscillare per settimane le temperature nella gamma di quelle dell'idrogeno liquido. «In confronto a Chicago», osservò Phil allegramente, «New York sembra Fort Lauderdale.» Arrivarono nel bel mezzo di uno sciopero dei netturbini. Lungo le strade erano allineate montagne di rifiuti chiusi in grandi sacchi di plastica, come argini di emergenza costruiti sulla riva di un fiume in piena. Durante la prima settimana andarono a vedere trentanove appartamenti. «Pensavo che gli affitti fossero già alti a Chicago», esclamò Julie. «A New York sono impossibili.» Julie trovò un posto nella Lower West Side, nella zona dei mercati generali della carne. Nel quartiere regnava un'atmosfera vivace e affascinante, con le strette strade affollate da autocarri a rimorchio e dagli energumeni
che li scaricavano, trasportando sulle spalle giganteschi pezzi di carne sanguinolenti che imbrattavano i loro grembiuli bianchi. L'appartamento era situato in un edificio in Perry Street, che aveva ospitato un tempo una fabbrica di sottaceti. Julie pensò che una delle due camere da letto più piccole sarebbe stata l'ideale per un bambino, anche se Phil l'aveva convinta ad aspettare un anno prima di avere un figlio. Dall'altra, che Phil progettava di usare come studio, si godeva la vista di un tratto dell'Hudson River, a patto di salire in piedi su una sedia. La camera da letto padronale offriva il bel panorama dell'angusto cortile interno con un muro di mattoni su cui spiccava la scritta a grandi caratteri «Generic Graffito». La zona dei mercati generali della carne non era uno dei quartieri più ambiti di Manhattan, eppure era più cara di quanto avessero pensato. Avevano sempre visto l'appartamento di mattina, quando le strade brulicavano di camion e di uomini in grembiule bianco che scaricavano quarti di manzo. Subito dopo il trasloco, scoprirono che le attività correlate alla vendita all'ingrosso della carne cominciavano alle tre del mattino circa e si concludevano a mezzogiorno. Nel pomeriggio magazzini e terminali di carico e scarico chiudevano, gli automezzi venivano parcheggiati e i facchini andavano a casa. Di notte l'intera area era abbandonata e sinistra, con i suoi capannoni bui, i marciapiedi deserti, gli autorimorchi diesel senza guidatori. Uomini in giubbotti di pelle nera, catene e occhiali scuri uscivano allora furtivamente dai portoni e un altro genere di mercato di carne prendeva il sopravvento. «Oh, fantastico», brontolò Phil. «Abitiamo nel cuore della comunità sado-maso-gay di New York.» Presto Julie trovò il corrispettivo della generosa cugina di Chicago che le passava i lavori che trovava troppo piccoli o tediosi e Phil ottenne tre clienti fissi all'agenzia: Tuttocrema, un gelato senza latte ricavato dalla soia, il deodorante Sudorstop e uno spray per capelli della linea maschile della stessa casa, Tenuta. Decisamente non un terzetto eroico, ma pur sempre tre prodotti con dei buoni spazi televisivi che fruttavano all'agenzia commissioni sufficientemente sostanziose da far tenere in notevole considerazione chi lavorava a quelle campagne. Poco dopo il trasloco nel nuovo appartamento Julie rimase incinta. Ne fu compiaciuta, sebbene fosse stato un caso. Phil invece accolse la notizia con apprensione.
«Non è il momento giusto per avere un figlio», sentenziò. «Perché no?» rispose Julie. «Ci siamo trasferiti da poco», osservò Phil. «Ho appena cominciato a lavorare nella nuova agenzia e se quello che guadagno basta a mantenere noi due non sarà sufficiente per tre. Non possiamo permettercelo adesso.» «E quello che guadagno io dove lo metti?» obiettò Julie risentita che Phil non prendesse mai sul serio il suo reddito. «Anche contando quello che guadagni tu», ribatté Phil, «ora non possiamo permettercelo.» «Credo che i soldi siano soltanto una scusa», disse Julie che era abilissima nel riconoscere le scuse, essendosi laureata in psicologia. «Che cosa vuoi dire?» chiese lui. «Penso che tu abbia paura delle tue responsabilità di padre e che continui a parlare di soldi perché è più comodo pensare che quello sia il vero problema.» «Non ho affatto intenzione di negare che guardo con apprensione alle mie responsabilità di padre», affermò Phil, «ma gran parte di questa apprensione è realmente dovuta al denaro.» «Dai, Phil.» «Dai tu! Sai che mandare a scuola un bambino a New York costa un milione di dollari?» «E questa dove l'hai sentita?» domandò Julie. «Non importa dove l'ho sentita», rispose Phil. «Un milione di dollari è quello che ci vuole per dare un'istruzione decente a un figlio a New York, scuole private e tutto... del resto è indispensabile mandarlo in una scuola privata se non vuoi che finisca pestato e seviziato tutti i giorni. E poi ci sono tutte le altre spese: il cibo, i vestiti, i giocattoli, i conti del dottore, la tata... Immagino che tu ti aspetti che il bambino abbia una tata, vero?» «Avremo bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui quando non siamo in casa, non ti pare?» «Be', noi una tata non possiamo permettercela», dichiarò, «senza contare che teniamo alla nostra privacy. Non mi va proprio di vivere con un'emerita sconosciuta in casa, e a te?» «Non so come sia successo, ma a un certo punto l'oggetto della discussione è passato dall'avere o meno un bambino all'avere o meno una tata», ribatté Julie. Phil emise un profondo sospiro. Julie lo guardò un momento e poi gli prese le mani nelle sue.
«Phil, eravamo d'accordo che sarei rimasta incinta entro un anno», disse, «e abbiamo preso in affitto un appartamento con spazio sufficiente per un bambino.» «E allora?» «Allora io sono incinta. Non so come sia successo, credevo davvero di poter andare sul sicuro. Cosa vuoi che faccia, che abortisca?» Phil sospirò di nuovo e scosse la testa. «No, certo che no.» «E allora perché non cerchiamo di vivere la gioia di questa gravidanza e di smetterla di essere così apprensivi? Perché non diciamo sì alla vita? Avere un figlio è un'avventura, Phil, una meravigliosa avventura, specialmente se si smette di osservare e si comincia a partecipare. Se non vuoi assumere una tata, d'accordo: troveremo il modo di lavorare parzialmente a casa a turno e così forse riusciremo a prenderci cura del bambino da soli.» Phil ci pensò, poi abbracciò sua moglie e la baciò. L'idea di aver creato un nuovo essere facendo l'amore cominciava a sembrargli eccitante. Gli venne una gran voglia di andare a letto con lei, ma Julie disse che quella sera non se la sentiva e così lasciarono perdere. 4 La gravidanza procedeva senza complicazioni. Il tempo si fece più mite, gli alberi senza vita si riempirono di gemme ed esplosero in mille boccioli. I seni e il ventre di Julie, che dapprima crescevano lentamente, si riempivano ora come palloni infilati sotto un rubinetto aperto. Nuda in piedi di fronte allo specchio del bagno, Julie si rimirava da diverse angolazioni. «Guarda qua, Phil», disse orgogliosa. «Sono passata dalla seconda alla quinta e stanno ancora crescendo. Sono già aumentata di tre misure.» «Perché non telefoni a Dolly Parton e le chiedi se ha dei vecchi reggiseni da prestarti?» «I reggiseni di Dolly Parton non mi andrebbero più», replicò Julie. «Queste sono le tette che si sono mangiate Pittsburgh.» Cominciarono a frequentare un corso preparatorio secondo il metodo Lamaze. Comprarono una culla, un marsupio per portare il piccolo, un port-enfant pieghevole, una carrozzina pieghevole, decine di biberon di plastica, tettarelle e ciucci. Comprarono minuscole magliettine, minuscole scarpine da tennis e minuscoli pigiamini decorati con coniglietti.
Phil aveva paura che comprare così tante cose prima della nascita del bambino potesse portare sfortuna. Julie cercò di togliergli quelle idee dalla testa prendendolo in giro, ma quando in agenzia un account executive gli raccontò che un'antica superstizione ebraica prescriveva di legare nastrini rossi intorno agli acquisti per scacciare il demonio Phil comprò e legò tanti nastrini rossi. Entrambi consideravano con inquietudine gli effetti che la gravidanza avrebbe avuto sulla loro vita sessuale. Phil aveva detto a Julie che trovava quel rapido dilatarsi della sua pancia e del suo seno più eccitante che scoraggiante, ma malgrado tutto non riuscivano a fare l'amore più di una volta ogni quindici giorni. Tutti e due trovavano infinite scuse per evitare di fare l'amore. A turno ci mettevano così tanto in bagno che l'altro, già a letto, si arrabbiava o si addormentava. Durante gli afosi mesi estivi si dissero per razionalizzare che faceva troppo caldo per quel genere di attività, ma in autunno la frequenza dei loro rapporti non aumentò. Nei rari casi in cui facevano l'amore con reciproca soddisfazione, il giorno dopo erano irritabili e spesso cadevano nei tipici insensati battibecchi di coppia. Julie diceva che i motivi per cui litigavano erano tutte scuse. Insisteva che era la loro intimità a spaventare Phil. Phil ribatteva che Julie parlava come una laureanda in psicologia. Sebbene sempre più arrapato, Phil si nascondeva dietro la paura di far del male al feto durante il rapporto e tutti e due si sentivano impacciati a fare l'amore alla presenza di un bambino. Julie suggerì che forse sarebbe riuscita a superare quell'imbarazzo con un po' di vino, ma nonostante l'ostetrica le avesse assicurato che un bicchiere ogni tanto non poteva nuocere, Phil era terrorizzato che ne potessero derivare delle menomazioni per il neonato e le proibiva di bere. Di conseguenza i rapporti erano sporadici e spesso Phil non riusciva a resistere abbastanza a lungo da far raggiungere anche a Julie l'orgasmo. E così arrivò novembre, il nono mese. La neve cominciò a cadere in brevi e indecisi turbinii. L'ostetrica li informò che Julie aveva una dilatazione di due centimetri. Non era più il caso di parlare di sesso fino alla metà di gennaio circa, sei settimane dopo il parto. La notizia fu accolta da entrambi con un misto di frustrazione e di sollievo. Le acque si ruppero durante la cena del giorno del Ringraziamento. All'accettazione del New York Hospital un dottorino consigliò loro di stare attenti agli oggetti di valore.
«Nelle ultime due settimane al reparto di ostetricia tre future mamme sono state derubate in sala travaglio», confidò, «e una donna che si stava risvegliando dall'anestesia appena fuori della sala operatoria si è trovata accanto un ladro che cercava di sfilarle la vera dal dito.» «Oddio», disse Julie, «avere un bambino al New York Hospital non è più sicuro che partorire in metropolitana.» La spinsero con il suo lettino in una piccola sala travaglio del reparto ostetricia e nelle prime ore tutto andò come previsto. Phil e Julie praticarono gli esercizi respiratori secondo il metodo Lamaze con buoni risultati, ma quando la dilatazione di Julie raggiunse i cinque centimetri il dolore divenne insopportabile. «Phil, ho cambiato idea», disse Julie tra i singhiozzi. «Tutto considerato non voglio questo figlio... portami via di qui!» Phil cercò di consolarla, ma si sentiva troppo spaventato e impotente per affrontare la sua sofferenza. Il parto in se stesso fu un'esperienza terrorizzante, piena di sangue. Niente durante il corso con il metodo Lamaze li aveva preparati al dolore... niente in tutti i film che avevano visto in cui donne sorridenti partorivano senza sforzo e i neonati sgusciavano fuori dalla vagina delle madri come porcellini coperti di grasso. Durante l'ultima ora Phil era ormai convinto che Julie e il bambino sarebbero morti su quel lettino. Cominciò quindi silenziose trattative con la Divinità in cui barattava il proprio successo professionale in cambio della vita di sua moglie e di suo figlio. Attirate dalle urla di Julie, le infermiere facevano capolino in sala parto ammonendola di non spaventare tutte le altre donne del reparto. Julie si scusava, ma continuava a gridare. Infine il bambino, un maschio, emerse sano e salvo. 5 Quando l'infermiera del turno di notte entrò nella stanza, pensò che il paziente stesse dormendo. Poi si accorse che aveva gli occhi spalancati. «Buonasera, signor Parsons», lo salutò. «Buonasera», rispose lui. «Credevo che stesse dormendo», disse lei. «No», replicò lui, «non stavo dormendo.» «Vuole dormire un po'?» chiese lei. «Non particolarmente.»
«Vuole guardare la televisione?» «Non particolarmente.» «Vuole leggere?» «Non particolarmente.» «Vuole che accenda la luce?» «Non particolarmente.» «Vuole qualcosa da mangiare?» «Non particolarmente.» «Allora cosa posso fare per lei?» domandò l'infermiera. «Nulla», rispose lui. «Sto bene così.» «Davvero?» insistette lei. «Davvero», confermò lui. «Bene così.» «Non mi sembra che lei stia bene», osservò l'infermiera. «Mi sembra molto depresso.» «Che strano», disse l'uomo. «Non sono mai stato più felice in vita mia.» 6 Phil e Julie portarono a casa dall'ospedale il minuscolo neonato. Nei primi tempi Phil lo toccava impacciato, timoroso di fargli del male. Dita e mani del bambino si muovevano costantemente, come anemoni marini sott'acqua. Phil rimaneva incantato a guardare suo figlio, meravigliato dei suoi capelli castani insolitamente folti e dei suoi occhi azzurri e intelligenti, meravigliato alla vista delle microscopiche dita delle mani e dei piedi. Il petto gli si riempiva d'orgoglio all'idea di aver creato un bambino, tuttavia sentiva soltanto una responsabilità marginale quanto ai dettagli; avvertiva uno spavaldo senso di protezione per la salute di suo figlio, eppure sapeva di essere profondamente ignorante sul come mantenerla. Aveva bisogno di abituarsi al pensiero di essere diventato realmente il padre di qualcuno, dal momento che era a malapena convinto di potersi prendere cura di se stesso. Gli amici di Chicago che avevano già dei figli consigliarono loro caldamente di assumere una nurse per almeno un paio di settimane, ma Phil e Julie avevano deciso di occuparsi del bambino di persona e non intendevano dividere il merito dell'impresa nemmeno con un'aiutante temporanea. I genitori di Julie si offrirono di trasferirsi da loro per rendere i primi giorni meno difficili. Furono accolti con gratitudine, almeno all'inizio, e sistemati nella piccola stanza accanto a quella del bambino.
Julie era decisa ad allattare, ma quando il bambino si attaccava al seno, diventato ormai due volte quello che era, non cavava altro che un liquido incolore scientificamente chiamato colostrum. Phil aveva l'impressione che le mammelle di Julie, che un tempo accarezzava e si godeva soltanto lui, fossero diventate pascolo esclusivo del bambino, il che ergeva una sottile barriera tra lui e loro. «Quando io allattavo Julie», ricordava la signora Stevenson, «avevo tanto latte che bagnavo le lenzuola.» «Io non ne ho di latte... come potrò mai essere una buona madre?» disse Julie e cominciò a piangere. «Non ti preoccupare, il latte ti arriverà da un giorno all'altro», la consolò Phil. Sperava che il pianto di Julie fosse dovuto unicamente alla depressione post-partum, ma quell'esserino capellone non smetteva un attimo di urlare e la madre e il padre di Julie non nascondevano la loro preoccupazione. «Quel povero bambino morirà denutrito», commentò il nonno. «Sciocchezze», ribatté Phil, temendo in cuor suo che il suocero avesse ragione. La madre di Julie guardava il piccolo succhiare attaccato al seno vuoto della figlia. «Non ci trovi niente, eh, tesoro?» chiocciava. «Puoi tirare fino alla morte.» Phil rimase a bocca aperta, ma la madre di Julie gli spiegò che «tirare fino alla morte» era un modo di dire di quando era piccola e non andava preso alla lettera. Quando Phil cercò di fare il bagno al piccolo nel lavandino, i genitori di Julie gli si riisero al fianco per supervisionare la sua tecnica, velando la loro crescente ansia con domande retoriche espresse in forma studiatamente diplomatica. «Philip», chiese il padre di Julie, «non pensi che l'acqua sia un po' troppo calda per lui?» «Philip», attaccò la madre di Julie, «non credi che il lavandino sia un po' troppo pieno?» «Non è che gli sta andando il sapone negli occhi, vero?» «Forse è troppo vicino al bordo del lavandino.» I due riuscirono a innervosirlo tanto che Phil rischiò di far cadere per terra il bambino. Quando i nonni ripresero l'aereo per Chicago, Phil e Julie furono contenti di ritrovarsi soli con il loro bambino e Phil chiese due settimane di permesso non retribuito di paternità.
L'avevano chiamato Harry. Era più bello e apparentemente più vulnerabile di quanto si fossero aspettati. Osservava Phil con un'espressione tanto intelligente che Phil era certo stesse memorizzando ogni tratto del suo viso. Harry stava in una culla bianca di vimini nella camera da letto dei suoi genitori, lasciandoli raramente dormire più di tre ore per notte. Era un omicidio. «Non posso andare avanti così», disse Phil un giorno barcollando penosamente per l'appartamento. «Ogni muscolo del mio corpo urla che vuole dormire.» «Tu non puoi andare avanti così?» sbottò Julie. «Non sei tu ad alzarti ogni ora e mezzo per allattarlo.» «Comincio a capire perché per torturare i prigionieri di guerra non li lasciavano dormire», osservò Phil. All'inizio della seconda settimana le cose andavano un po' meglio. Harry era sopravvissuto all'ignoranza dei suoi genitori. Il seno di Julie cominciò a produrre un irregolare flusso di latte e Harry divenne meno nervoso. La vista di Julie che teneva in braccio il bambino cullandolo e allattandolo, con chiaro mutuo piacere, rassicurò Phil confermandogli che avevano compiuto un atto meraviglioso. Julie adorava Harry e Harry senza dubbio adorava Julie. Cominciavano a prendere confidenza con il cambio dei pannolini, i ruttini e i bagnetti. Avevano meno paura di far cadere il bambino o di rompergli inavvertitamente le dita incredibilmente minuscole mentre lo vestivano e lo svestivano. Così a metà della seconda settimana, sebbene Julie non avesse ancora molto latte, Harry sembrava averne abbastanza per sopravvivere e i suoi genitori cominciarono a pensare che dopotutto ce l'avrebbero fatta. Ma quando mancavano pochi giorni al termine del permesso di Phil, Harry cominciò di nuovo a piangere e questa volta incontrollabilmente, fino a due o tre ore di seguito senza interruzioni. Il suo pianto aveva i toni disperati di una creatura che patisce atroci sofferenze. Contorceva il viso in smorfie di dolore, raccoglieva le minuscole ginocchia contro il petto e strillava. Era come se ripresentasse l'immagine delle doglie laceranti che avevano accompagnato la sua nascita. Lo portarono da un pediatra che lo trovò perfettamente sano. I nonni telefonavano di continuo per dar consigli. «Non credi che sarebbe meglio prenderlo in braccio quando piange?» suggerì diplomaticamente la madre di Julie. «Tanto per rassicurarlo...»
«Mai prenderlo in braccio quando piange», intimò senza un minimo di diplomazia la madre di Phil. «Rischiate di farlo venire su viziato marcio.» «Avete provato a dargli della camomilla con il biberon?» chiese la madre di Julie. «Gli disinfiamma il pancino...» «Appoggiatelo a pancia in giù sulla lavatrice durante la centrifuga», consigliò la madre di Phil. «Vedrete che si distrae.» «Prendetelo in braccio e passeggiate su e giù per la stanza facendolo saltellare», suggerì il padre di Phil. «Lo aiuterà a liberarsi dell'aria.» Provarono a seguire tutti i suggerimenti, ma quest'ultimo fu l'unico a sortire l'effetto promesso. I genitori di Phil arrivarono per qualche giorno a dare una mano e Phil tornò all'agenzia. Come era successo con i genitori di Julie, sulle prime la loro presenza fu apprezzata, ma con l'andare del tempo produsse più problemi di quanti ne risolvesse. Questi nonni avevano gli stessi dubbi sulla competenza del figlio e della nuora in fatto di neonati, ma non li nascondevano con alcun espediente diplomatico. «Questi pannolini non vanno bene», affermò la madre di Phil, «gli irriteranno tutta la pelle. Non cambiarlo troppo vicino al bordo del fasciatoio e non prenderlo in braccio tutte le volte che piange, così non fai altro che incoraggiarlo a piangere ancora. Non aggiratevi per la casa parlando sottovoce mentre dorme o non imparerà mai a dormire anche con i normali rumori del giorno.» Quando i suoi genitori ripartirono per Chicago, Phil chiese un appuntamento a Mary Margaret Sullivan per chiedere un altro permesso. 7 Mary Margaret Sullivan a sessantacinque anni era una specie di leggenda nel mondo della pubblicità. Aveva inventato una serie di campagne spiritose e intelligenti, basate su una tecnica di persuasione diretta, per gli ammortizzatori Cushman e aveva creato le Cliniche di terapia antiurto Cushman in tutto il paese. Aveva usato lo stesso stile in una campagna per dei pannolini inglesi, i Nappy, e aveva creato il Telefono amico Nappy, un servizio gratuito cui i genitori inquieti potevano rivolgersi a tutte le ore del giorno e della notte per parlare dei problemi del loro neonato con la voce registrata di un'infermiera. Nei primi tempi era stata molto selettiva nella scelta dei clienti. Aveva
escluso sigarette e liquori e accettava soltanto i prodotti migliori nelle rispettive aree di mercato. Ma le commissioni derivanti da questi prodotti di qualità non erano sufficienti e presto Mary Margaret Sullivan era stata costretta a scendere a compromessi. Aveva così accettato un detersivo per lavastoviglie, Tutto-brilla, che a volte lasciava sul piatto delle striature, e un'acqua di colonia maschile, Attrazione Fatale, prodotta da una società che si diceva fosse finanziata in parte con denaro riciclato nelle isole Cayman. Pur recalcitrando ancora quando si trattava di alcolici, aveva accettato di pubblicizzare una birra leggera e per differenziarla dalla concorrenza aveva convinto il cliente a posizionarla come la prima birra per donne. Nello spot che aveva ideato un gruppo di giovani donne attraenti e dalla voce roca assalivano un maschio che faceva lo spogliarello in un club privato: il film aveva immediatamente portato Babe in testa alle vendite. Introdotto nell'ufficio della Sullivan, Phil ebbe l'impressione di cogliere in lei una nota preoccupata. «Come va il neonato, Pressman?» s'informò Mary Margaret alzandosi per stringergli la mano. «Non troppo bene», rispose Phil, «piange tutto il tempo.» «È così che fanno i bambini», ribatté lei, «piangono.» «Tutto il tempo non era un modo di dire», le rispose lui. «I dottori non capiscono di cosa si tratti.» «Sono coliche», affermò la Sullivan. «Oh, spero proprio di no.» «È così», insistette lei. Phil non aveva intenzione di litigare. «Comunque», disse, «temo di doverle chiedere un altro permesso. Julie non ce la fa a occuparsi del bambino da sola.» «Non avete una nurse?» «No, ci tenevamo a fare da soli.» «Sciocchezze. Quel bambino ha le coliche. Trovatevi una nurse.» «Be', forse faremo così, ma nel frattempo sono davvero costretto a chiedere un altro permesso, perché...» «Non c'è bisogno di permessi, lavori a casa.» «Per lei andrebbe bene?» domandò Phil. «Perché non dovrebbe andarmi bene?» rispose lei. «È quello che faccio anch'io.» «Allora grazie», mormorò Phil, «grazie mille.» Lei gli porse la mano, chiaro segno che l'incontro era terminato. Lui la
strinse e si diresse verso la porta. «E per l'amor del cielo, Pressman», disse Mary Margaret, «cercatevi una nurse.» 8 Natale e Hanukkà, la Festa della Dedicazione del tempio, si avvicinavano. Phil e Julie erano stati così occupati con il bambino che non avevano avuto il tempo di spedire auguri e comprare regali, né nelle loro stime ci sarebbero riusciti fino a febbraio, ma speravano che parenti e amici capissero. Il bambino continuava a piangere senza tregua. Phil e Julie lo riportarono dal pediatra, il quale sentenziò che quei disturbi avevano tutto l'aspetto di coliche. Avevano sentito storie terribili sulle coliche e rifiutavano di credere che il loro bambino ne soffrisse. «Non possono essere coliche», disse Julie. «Nelle prime due settimane non piangeva così tanto.» «È proprio questo il momento in cui tendono a manifestarsi le coliche», ribatté il pediatra, «dopo le prime due settimane.» «Quanto dura?» chiese Phil ricordando la sicurezza con cui Mary Margaret Sullivan aveva stabilito la sua diagnosi. «Circa tre mesi», rispose il dottore. «Tre mesi?» ripeté Phil. «Vuole dire che andrà avanti per tre mesi a piangere per tre ore di seguito?» «No», spiegò il dottore, «i bambini che soffrono di coliche piangono fino a dieci ore di seguito.» Phil e Julie rimasero momentaneamente senza parole. «Come si curano le coliche?» riuscì infine a mormorare Julie. «Non si curano», disse il dottore. «Come?» «Nessuno sa che cosa le provochi. Non ci sono cure.» Usciti dallo studio del pediatra, Julie propose una serie di soluzioni, la prima delle quali era tagliarsi le vene. Presto arrivarono alla conclusione che avrebbero dovuto rassegnarsi ad assumere qualcuno per aiutarli con il piccolo Harry. Phil prese gli elenchi telefonici e chiamò tutte le agenzie che procuravano domestici. Le risposte che ricevette non furono incoraggianti: il salario che offrivano non era abbastanza alto da risultare interessante per il perso-
nale di un certo livello, dicevano le impiegate; e il periodo delle vacanze non era il momento giusto per trovare aiuti di un certo tipo, aggiungevano. La mancanza di personale esperto non impedì alle agenzie di mandare a Phil e Julie mandrie di candidate. Nel loro salotto sfilò una pietosa processione di aspiranti tate, la maggior parte delle quali non aveva alcuna esperienza di bambini di qualsiasi età e molte erano persino incapaci di sostenere la più terra a terra delle conversazioni. Presi dalla compassione per quelle donne, Julie e Phil cercavano di passare almeno una decina di minuti con ognuna, anche quando era ovvio fin dal primo istante che la persona con cui stavano parlando era tragicamente inadatta all'incarico in questione. Sapevano che era una perdita di tempo prezioso, ma erano troppo gentili per liquidare la candidata dopo un paio di minuti. Si stavano ormai rassegnando all'idea che non sarebbero mai riusciti a trovare qualcuno sufficientemente responsabile ed esperto da prendersi cura di un bambino che soffriva di coliche, quando una delle agenzie gli parlò di una tata che si era appena resa disponibile, un'inglese, referenziata, di nome Luci Redman che prima di lavorare come balia aveva fatto l'infermiera. Sembrava la persona ideale. Si chiesero se avrebbero potuto permettersi una collaboratrice di quel livello, ma nonostante tutto, con immagini fantastiche di Mary Poppins che danzavano davanti ai loro occhi, fissarono un appuntamento con Luci Redman per il giorno dopo. 9 Luci Redman lasciava senza fiato. Aveva gli zigomi alti, lunghi capelli dritti di un nero corvino tanto intenso da sembrare quasi blu e occhi azzurri così chiari e penetranti che fissarli dava una sensazione di disagio. Il suo viso si sarebbe potuto definire bello, se non fosse stato per un certo che di severo che metteva in imbarazzo. Forse era la mancanza di trucco, o forse l'aspetto della sua pelle, che sembrava quella di una donna molto più vecchia di lei. Doveva avere all'incirca trentacinque anni, ma a giudicare dalla pelle gliene si sarebbero dati cinquantacinque. Aveva un'ossatura forte, circa un metro e ottanta di altezza, un fisico prestante. Superato l'impatto con il suo aspetto imponente, Phil e Julie notarono i suoi modi. Il suo atteggiamento era di benevola superiorità, leggermente
irrispettoso. Era come se fosse lei a condurre il colloquio e non loro. Per ogni domanda che riuscivano a rivolgerle, lei gliene poneva altre tre: «Cosa avete fatto per educarvi al ruolo di genitori? Che schema seguite attualmente e come pensate di modificarlo? Quali sono le vostre conoscenze di dietologia? Cosa pensate della disciplina? Perché avete deciso di avere un figlio? Avevate programmato questo bambino?» Phil e Julie si scambiavano occhiate divertite; avevano già deciso di non assumerla. Improvvisamente il bambino si svegliò e cominciò il suo pianto convulso. Luci Redman si diresse decisa verso la culla di Harry e, senza chiedere il permesso a nessuno, lo prese in braccio. Il bambino piagnucolò ancora per un momento e poi tacque. Phil e Julie ne rimasero loro malgrado colpiti. Finché Luci Redman lo tenne in braccio, Harry sembrò soddisfatto, ma appena venne rimesso nella culla riprese il suo angoscioso pianto. «A quanto pare ci sa fare con i bambini», commentò Julie. Luci Redman reagì come se l'affermazione fosse così ovvia da risultare banale. «È solo questione di sapere come tenerli in braccio», disse. Phil e Julie si guardarono. «Posso vedere quale sarebbe la sistemazione della tata?» chiese Luci Redman. «Oh, certo», rispose Julie facendole strada verso la piccola camera da letto accanto a quella del bambino. Luci Redman le diede a malapena un'occhiata. «Non avete niente di più grande?» s'informò, come se stesse scegliendo una stanza in albergo. Phil alzò gli occhi al cielo, ma Julie si scusò. Spiegò che avrebbero voluto trovare un appartamento più grande, ma che non se lo potevano permettere. Phil fissò sua moglie, non poteva credere che si stesse giustificando per le dimensioni della loro casa e piangendo miseria davanti a un'emerita sconosciuta. Sebbene non glielo avessero chiesto, Luci Redman li mise al corrente delle sue richieste in quanto al salario, che risultarono sostanzialmente inferiori a quello che temevano. Phil stava per dire che avrebbero preso in considerazione la sua candidatura insieme con quella di numerose altre, quando Luci Redman dichiarò che avrebbe valutato la loro posizione e avrebbe dato loro una risposta nel giro di una settimana. Di nuovo Phil e Julie si scambiarono un'occhiata: la tata avrebbe dato
loro una risposta, avevano sentito bene? Luci Redman s'infilò il lungo cappotto nero con il cappuccio che ricadeva sulle spalle e stava avviandosi verso la porta quando il bambino ricominciò a piangere. Allora tornò indietro, attraversò la stanza, lo prese dalle braccia di Julie e per la seconda volta Harry piagnucolò un po' e tacque. Un attimo dopo Luci Redman se n'era andata, lasciando le fotocopie di diverse lettere di referenze. Julie guardò Phil con espressione interrogativa. «Non mi piace», disse lui. «Mi fa venire i brividi.» «Cielo, neanche a me piace», ribatté Julie, «ma devi ammettere che è stata grande con il bambino.» «Sarà anche stata grande con il bambino», rispose Phil, «ma non sono disposto a sopportare quello che dovrei sopportare se l'assumessi. Dimmi la verità, ti sentiresti di vivere con quello che hai appena visto?» Julie guardò Phil, inspirò lentamente, trattenne il fiato per un momento e increspò le labbra. Phil attese. Dopo un po', Julie chiuse gli occhi, sospirò e scosse la testa. «Credo di no», ammise, «ma di certo sarebbe stata grande con il bambino.» 10 Per pura curiosità diede una scorsa alle lettere di referenza di Luci Redman. Una era di un dermatologo di Palm Beach, in Florida, un'altra di un banchiere di Detroit, nel Michigan, la terza del presidente di una piccola compagnia petrolifera di Houston, nel Texas. Tutte e tre erano scritte in tono assolutamente adulatorio. «A quanto pare loro non hanno avuto troppi problemi a sopportarla», commentò Julie. «Ad alcuni non dispiacciono i collaboratori domestici con l'aria da padroni», disse Phil. «Lo so», ribatté Julie. «È come vivere con i propri genitori.» E così dicendo infilarono le lettere di Luci Redman in un cassetto della scrivania. Una sera, poco prima di Natale, convinto che non ci sarebbe stata alcuna festa se non ci avesse pensato lui, Phil si recò su un molo abbandonato lungo l'Hudson River dove vendevano alberi di Natale. Passò in rassegna il misero assortimento degli sparuti abeti rimasti e canticchiando uno dei
suoi motivi natalizi preferiti dall'album di Dolly Parton e Kenny Rogers si chiese se non stesse compromettendo i milioni di ebrei che nel corso della storia erano morti piuttosto che rinnegare la propria religione; ma nonostante tutto cercò di contrattare il prezzo dell'albero meno malconcio, un pino scozzese grottescamente spoglio su un lato. Il venditore di origine spagnola che indossava un giubbotto di pelle nera da motociclista e occhiali scuri, appresa la deformità dell'albero non si dimostrò incline ad abbassare il suo prezzo e non sembrò nemmeno colpito dalla rivelazione che un pino scozzese di quella taglia in buona salute sarebbe costato un terzo a Chicago. Phil pagò il prezzo richiestogli e si trascinò dietro l'albero fino a casa dove lo dispose in soggiorno, mimetizzando il lato spoglio contro il muro. L'addobbo fu veramente minimo, perché in quel periodo Harry piangeva cinque, sei, persino sette ore senza interruzione. Ogni notte percorrevano chilometri passeggiando su e giù con Harry in braccio. Telefonarono ad altri pediatri per chiedere un consulto, ma tutti furono concordi nell'affermare che non esistevano cure per le coliche, non conoscendone la causa. Un unico dottore decretò che le coliche non esistevano. Il pianto di Harry aveva assunto una caratteristica rabbiosa e selvaggia. Unite a una media di tre ore di sonno per notte, le sue urla stavano conducendo Phil e Julie al limite della sopportazione. Si chiedevano tanto per cominciare perché mai avessero messo al mondo un figlio, perché si fossero sposati, perché avessero avuto la disgrazia di nascere. Il loro amore per il bambino era ormai un riflesso, un sentimento puramente teorico. Era difficile per entrambi guardare quel neonato con la faccia rossa che si contorceva strillando e provare un affetto sincero. La prima cosa che pensavano vedendolo era che la loro vita, un tempo piacevole, era ormai irrevocabilmente rovinata. Phil e Julie battibeccavano, poi si chiedevano scusa, poi scattavano di nuovo. A malapena parlavano con i loro genitori al telefono. A prescindere dalle comunicazioni vitali riguardanti il bambino facevano la cura del silenzio. La prima sera di Hanukkà, Phil si accorse che non avevano in casa la menorah, il tradizionale candelabro ebraico. Tutti i negozi in cui entrò a chiedere avevano già venduto tutti i candelabri e le candele per Hanukkà. Phil allora decise per un compromesso: acquistò candeline di compleanno, le dispose su una torta margherita stantia recuperata all'ultimo momento, le
accese e recitò le preghiere. Aveva l'impressione di aver tradito la religione in blocco. La notte di Natale lui e Julie si scambiarono zero regali e un totale di diciassette parole. Quando finalmente il bambino si addormentò, mangiarono due porzioni di tacchino surgelato e guardarono alla televisione la trasmissione in differita della Messa di mezzanotte in Vaticano. Non era quella l'idea che Phil e Julie avevano sempre avuto di Natale, Hanukkà, del matrimonio, della paternità e della maternità. Si sentivano entrambi sopraffatti, intrappolati e senza speranza. Cercavano di ricordare ognuno la propria vita prima dell'arrivo del bambino, invidiando ciascuno in cuor suo i single. Nella settimana dopo Natale riuscirono a vedere altre diciannove aspiranti al posto di tata, comprese due signore anziane e tre ragazze non ancora ventenni, tutte così incompetenti da lasciarli senza parole e una donna handicappata che si presentò su una scassata sedia a rotelle elettrica. L'unico lato positivo del loro comune compito di intervistatori era che si trovavano immancabilmente concordi nel giudizio negativo sulle intervistate. 11 Nel tardo pomeriggio del 31 dicembre, quando l'ultima candidata aveva varcato la soglia, Julie e Phil si lasciarono pesantemente cadere sulle sedie in soggiorno. «Non ce la faccio più, Phil», disse Julie cominciando a piangere. «Sto perdendo il controllo.» Phil le si avvicinò per cercare di consolarla. «Vedrai che presto andrà meglio, piccola», le disse senza convinzione. «Te lo prometto.» Squillò il telefono. «Deve andar meglio, Phil», ribatté Julie tra i singhiozzi, «perché altrimenti finirò per avere un esaurimento nervoso, o forse ce l'avrò lo stesso.» Phil non gradiva l'argomento «esaurimenti nervosi»: li considerava una possibilità non troppo remota. Di nuovo squillò il telefono. Sospirando Phil si alzò e andò a rispondere. Julie continuava a singhiozzare piano. «Sì?» fece Phil in tono scontroso. «Signor Pressman», si presentò l'inconfondibile voce inglese, «sono la signorina Redman.»
Phil inarcò le sopracciglia. «Ah, sì, signorina Redman...» disse Phil. Julie smise di piangere per ascoltare. «Ho considerato la vostra posizione, signor Pressman, e ho deciso che nel complesso sono disposta, tutto sommato, ad accettare quel posto.» «Capisco», rispose Phil. «Sempre che mi vogliate ancora, naturalmente.» Sempre che mi vogliate ancora? Phil rimase colpito da quell'insolito sprazzo di vulnerabilità. «Può attendere in linea un momento, per favore, signorina Redman?» «Certo.» Phil coprì con la mano il ricevitore e si protese verso Julie. «Luci Redman ha considerato la nostra posizione e ha deciso che nel complesso è disposta, tutto sommato, ad accettare il posto», le disse sottovoce. «Sempre che la vogliamo ancora, naturalmente.» «Sempre che la vogliamo ancora?» ripeté Julie spalancando gli occhi. «Ha usato queste precise parole?» «Com'è vero Iddio», disse Phil. Julie spalancò ancora di più gli occhi. Phil attese sempre tenendo la mano sul ricevitore. «Allora?» chiese. «Allora cosa?» rispose Julie. «Dio santo, non mi dirai che la vorresti davvero assumere?» «Santo cielo, Julie, che alternative ho?» ribatté Phil. «O assumo Luci Redman o ti spedisco in manicomio.» Julie sorrise e accarezzò il braccio di Phil. «Immagino che dovremmo controllare le sue referenze», disse. «Immagino di sì», concordò Phil. «Anche se probabilmente non farebbero altro che ripeterci a voce quello che hanno già messo per scritto nelle lettere.» «Probabilmente hai ragione», ammise Julie. «Vuoi che le dica che ci prendiamo un paio di giorni per controllare le referenze o pensi che nel frattempo potremmo perderla?» Julie sospirò. «Penso che aspettare un paio di giorni potrebbe farci perdere me», disse. Ci fu un momento di silenzio. «Allora?» chiese Phil. «Che cosa le dico?» Julie lo guardò.
«Possiamo permettercela?» domandò. «In realtà no. Prossima domanda?» Julie ci pensò un momento. «Tu, che cosa le diresti?» chiese. «Le direi di alzare quel suo bel culetto e di correre qui il più in fretta possibile», rispose Phil. Julie sorrise per la prima volta in una settimana. «D'accordo, allora. Assumila.» Phil tornò al telefono. «Signorina Redman?» «Sì, signor Pressman?» «Quando sarebbe in grado di cominciare?» Un istante di silenzio. «Potrei essere a vostra disposizione da domani mattina.» «Domani?» ripeté Phil. «Intende il primo dell'anno?» Ci fu una breve pausa. «Sì, se per voi va bene.» Phil lanciò un'occhiata a Julie e per tutta risposta lei si strinse nelle spalle. «Domani mattina va benissimo, signorina Redman.» Appena Phil depose il ricevitore, Julie lo abbracciò sprofondando il viso nella conca della sua spalla. «Buon anno, amore», disse e le sue lacrime questa volta erano lacrime di gioia. «Buon anno, piccola», ripeté Phil. «Dio, che bel modo di cominciare l'anno nuovo!» «D'ora in poi andrà tutto bene», mormorò Julie, «vero?» «D'ora in poi andrà tutto a gonfie vele», le rispose. «Ti amo, Phil», gli sussurrò e lo baciò. «Anch'io ti amo», disse Phil e le restituì il bacio stringendola forte mentre gli occhi gli si inumidivano. «Phil?» «Mmm?» «Che cosa volevi dire con 'quel suo bel culetto'?» 12 Il mattino dopo, il primo dell'anno, alle sette in punto, Luci Redman ar-
rivò e s'installò in casa di Phil e Julie Pressman. Se fosse stato un primo dell'anno qualsiasi, pensò Julie, li avrebbe trovati ancora addormentati in preda ai postumi dei bagordi, ma il mattino di quel primo dell'anno erano svegli come grilli, in piedi già da due ore. Luci Redman aveva portato con sé soltanto due valigie di pelle decisamente consumate, come notò Julie, ma chiaramente articoli di lusso. Alle sette e trentacinque aveva già disposto le proprie cose nella sua stanza, indossato un camice da infermiera bianco e inamidato e cambiato il bambino dopo avergli fatto il bagno nella piccola toilette tra la camera della tata e quella di Harry. Julie aveva osservato con grande interesse il modo in cui Luci Redman maneggiava Harry. Non era così che le avevano insegnato a fare durante il corso in ospedale. Sulle prime si fece degli scrupoli a parlarne, per paura di offenderla. Ma poi si disse: che diavolo, lei lavora per noi. «Non è così che ci hanno insegnato a tenerlo per fargli il bagno durante il corso all'ospedale», osservò. «Forse no», rispose Luci Redman, «ma è così che gli faremo il bagno d'ora in poi, cara.» Julie si sentì una stupida. Alle otto e venti Luci Redman aveva riorganizzato tutto ciò che in cucina riguardava il bambino e risistemato il fasciatoio in camera da letto, bell'e pronto, ma mai usato. Guardando Julie che allattava il piccolo Harry, le aveva fatto notare che lo teneva in braccio nel modo sbagliato. «Ma è così che mi hanno insegnato a tenerlo durante il corso all'ospedale», disse Julie. «Sarà così», replicò Luci Redman in tono accondiscendente, «ma d'ora in poi lo terremo nel modo giusto, cara.» Julie si diceva che probabilmente Luci Redman aveva ragione, ma sentirsi criticare non le piaceva. Alle nove e quindici Luci Redman aveva riorganizzato tutto il resto della cucina e preparato un'abbondante colazione all'inglese per Julie e Phil. Julie, che provava soggezione nei confronti di quella donna così energica, cercò di vincere il proprio orgoglio ferito con un gesto di cordialità. «Perché non si siede con noi?» propose sorridendo. Luci Redman rimase per un attimo spiazzata. «Nel mio paese, signora Pressman», rispose, «i domestici non si mettono a tavola con i padroni di casa.»
Un rossore intenso coprì le guance e la fronte di Julie. Mi sta bene, pensò. Mi sta proprio bene. Così imparo a cercare di fare la cordiale. «Be', Luci», disse poi, «in questo paese non siamo proprio così formali.» «Con il suo permesso, signora Pressman, io sì!» «Molto bene, allora, Luci», riprese Julie in tono cauto. «Rispetteremo i suoi desideri.» «Ancora una cosa, signora Pressman. Preferirei non essere chiamata Luci, se non le dispiace.» Julie chiuse gli occhi. Luci Redman è una donna maledettamente difficile, osservò tra sé, ma si dà da fare ed è piena di energia e molto esperta. Se saprò mantenere le distanze, potrebbe salvarmi il matrimonio e la salute mentale. «E come vorrebbe che la chiamassimo?» chiese. «Nanny o Tata», disse lei. «D'accordo», annuì Julie. «Vada per Tata.» «Grazie», replicò. «E ora, dal momento che avete tutti e due l'aria di chi ha disperatamente bisogno di dormire, suggerirei che andaste a sdraiarvi per un po' mentre io mi occupo dei piatti.» Non c'era chiaramente possibilità di discutere con quella donna. Julie scambiò un paio di occhiate furtive con Phil che sembrava quasi divertito dalla Tata. Be', pensò, non di rado l'arroganza sembra comica, almeno all'inizio. In camera Phil e Julie bisbigliarono e ridacchiarono della Tata come piccoli monelli, e Julie ne fece persino l'imitazione, accento e tutto. «Nel mio paese, signora Pressman», disse con un'intonazione esageratamente affettata, da benpensante inglese, passeggiando su e giù per la stanza con andatura rigida e altezzosa, «i domestici non si mettono a tavola con i padroni di casa.» Andarono avanti ancora un po' a ridere come stupidi, ma poi si sdraiarono e per la prima volta da quando avevano portato a casa il bambino, quattro settimane prima, si rilassarono. La Tata poteva anche essere autoritaria e testarda, pensò Julie, ma era chiaro che aveva in mano la situazione. 13 Le due infermiere erano ferme fuori della camera del signor Parsons. «Non so cosa fare con lui», disse la più giovane. «Se ne sta sdraiato lì a
guardare il soffitto giorno e notte e quando gli chiedo se vuole dormire, guardare la televisione, leggere, mangiare qualcosa, stare con la luce spenta o accesa l'unica cosa che dice è 'Non particolarmente'. Se gli domando che cosa posso fare per lui mi risponde 'Niente', dice che va tutto benissimo e che non è mai stato più contento in vita sua. Davvero non so cosa fare con lui.» «Il signor Parsons è stato vittima di una terribile tragedia», intervenne l'infermiera più anziana. «In questo momento tutto quello che è disposto a fare è starsene sdraiato a guardare il soffitto. Ora come ora non può fare di più.» «Ma sono settimane che va avanti così in questa terribile apatia», ribatté l'infermiera più giovane. «Non vorrà mai più far altro che starsene sdraiato a guardare il soffitto?» «Se avessi passato quello che ha passato il signor Parsons», rispose la più anziana, «forse anche tu non vorresti far altro che startene sdraiata a letto a guardare il soffitto e non avresti né la forza né la voglia di reagire in alcun modo.» 14 Sebbene Harry smettesse di piangere ogni volta che la Tata lo prendeva in braccio, lei sentenziò che tirandolo su appena si metteva a frignare ne avrebbero fatto un bambino viziato, e così Harry andava avanti a strillare per ore. I suoi urli erano uno stillicidio di acido sui nervi dei genitori. Phil ritornò in agenzia, alla ricerca di una scusa per stare fuori di casa. Julie, negli intervalli tra gli orari dell'allattamento, aiutava la Tata con Harry e cercava di riprendere il suo lavoro di arredatrice. Phil creò un annuncio per il deodorante Sudor-stop in cui si vedeva un gruppo di marinai tutti sudati a torso nudo che lavoravano nella sala macchine di una nave e tra loro un perfetto gentiluomo in smoking bianco. La temperatura in sala macchine aveva l'aria di aggirarsi intorno ai cinquantacinque gradi, ma il gentiluomo azzimato era perfettamente asciutto. Tutti in agenzia, dalla Sullivan in giù, avevano trovato lo spot delizioso, ma il cliente l'aveva bocciato e Phil era stato silenziosamente allontanato dal prodotto. Più o meno negli stessi giorni Tuttocrema fece registrare un calo nelle vendite e poco dopo il cliente lasciò l'agenzia per la Wells Rich Greene.
Al posto di Tuttocrema e Sudor-stop a Phil vennero assegnati uno spray per vetri, Aria chiara, e un caffè solubile talmente nuovo che non aveva ancora un nome. Spettava a Phil, assieme al resto del reparto creativo, fare delle proposte. Il responsabile sotto cui Phil lavorava per entrambi i nuovi prodotti era Ralph Roberts, un account executive dalla voce roca e i capelli tinti. Phil aveva avuto la prima riunione con Roberts nell'ufficio dell'account executive, insieme con l'art director che avrebbe fatto coppia con lui sui due prodotti, un giovane italoamericano di nome Tony Davinci. Phil non aveva ancora lavorato con l'affascinante art director sempre vestito alla moda, ma gli piaceva l'atteggiamento scanzonato che Tony adottava nei confronti dell'agenzia, un atteggiamento non molto apprezzato nel mondo del lavoro dopo gli anni Sessanta. «Vi ringrazio per le proposte che mi avete sottoposto per il nome del nuovo prodotto», attaccò Roberts. «Alcune le ho trovate molto divertenti, ma non credo che presenterò al cliente niente del tipo 'Addio, vecchio Chicco' o 'Incredibile ma senza caffeina'. Quelli della Consolidated Foods non hanno un gran senso dell'umorismo.» «Quali sono i favoriti?» chiese Tony. «Fragrante tostata e Gusto di montagna», rispose Roberts. Tony fece un fischio di ironica ammirazione. «Fragrante tostata», ripeté. «Splendido. Sembra la costata da servire a colazione... 'Ehi, cameriera mi porti una tazza di Fragrante tostata, bella al sangue, mi raccomando.'» Phil e Roberts sogghignarono apprezzando la battuta. «E cosa ne dici della mia proposta?» s'informò Phil. «Java? A me è piaciuta un sacco», rispose Roberts. «Ha un sapore antico e un po' macho, ma penso che il loro target si collochi più in alto. Credo che in questo momento siano orientati verso Fragrante tostata.» «Che vadano al diavolo», esclamò Tony. «Se anche lo volessero chiamare Sbobba rancida che cazzo me ne frega? È solo pubblicità, giusto?» Phil aveva la sensazione che quell'atteggiamento sarebbe stato per Tony o il più grande ostacolo alla sua carriera o un razzo propulsore che lo avrebbe portato dritto in cima. «Sai che cosa usano per decaffeinarlo, Ralph?» chiese Phil. «No», rispose Roberts. «Immagino ci sia una sostanza comunemente usata nell'industria del caffè. Perché me lo chiedi?» «Vedi, ho appena avuto un bambino», spiegò Phil, «e mentre mia moglie
era incinta siamo stati molto attenti a tutto quello che beveva. Non volevamo correre il rischio che nostro figlio nascesse con delle malformazioni come quelle che può causare la caffeina, finché ho scoperto che esistono diversi procedimenti di decaffeinizzazione e non tutti sono ugualmente sicuri.» «Ah, sì?» si stupì Roberts. «Il migliore è un metodo svizzero ad acqua», continuò Phil, «ideato dalla Nestlé. In questo modo non si usano agenti chimici sui chicchi di caffè, ma è un procedimento dispendioso e quindi molte industrie non l'adottano. Un metodo più economico, pur sempre sicuro, utilizza etilacetato; il peggiore invece cloruro di metilene, una sostanza con effetti cancerogeni sugli animali.» «Merda, dici sul serio?» intervenne Tony. «Intendi dire che ci si può beccare il cancro con il caffè decaffeinato?» «Solo le cavie in laboratorio», specificò Roberts. «Mi piacerebbe sapere che procedimento di decaffeinizzazione usa il nostro cliente», disse Phil. «Controllerò», rispose Roberts, «ma sono sicuro che la Consolidated Foods usa uno di quelli sicuri.» «Da dove ti viene tanta certezza?» chiese Phil. Roberts e Tony scoppiarono a ridere, ma Phil non scherzava. «Per curiosità», disse, «hai proposto Java al cliente?» «Per essere sinceri, no», rispose Roberts. «Non lo accetterebbero mai.» «Se il nome ti piace», insistette Phil, «ti sarei grato se tu lo presentassi al cliente, anche se pensi che non lo accetteranno.» «Okay, Pressman», si arrese Roberts. «Glielo proporrò, e che diavolo!» Il giorno dopo Roberts passò dall'ufficio di Phil. «Ho proposto Java al responsabile dell'immagine pubblicitaria della Consolidated Foods», annunciò. «Gli è piaciuto?» «No», rispose Roberts. «No?» «No», ripeté Roberts. «Non gli è piaciuto, l'ha trovato irresistibile.» «Davvero? Irresistibile?» disse Phil scoppiando a ridere per la sorpresa. «Assolutamente irresistibile», ribadì Roberts dando una pacca sulla spalla a Phil. «Se decidono per Java, come credo faranno, per te potrebbe esserci un bonus.» «Parli sul serio?» disse Phil. «Questa sì che è una bella notizia!»
«Se devo essere sincero, non avrei mai pensato che gli sarebbe piaciuto.» «Davvero grande!» esclamò Phil. «A proposito, hai saputo che cosa usano per la decaffeinizzazione?» Roberts scosse la testa. «Ehi, Pressman, non ti bastano le buone notizie?» 15 Seguendo il suggerimento della Tata, Julie aveva passato una giornata frustrante con una pompetta dall'aspetto osceno, cercando di cavarsi abbastanza latte da riempire un biberon con cui Phil potesse provvedere al pasto notturno di Harry. Così lei avrebbe potuto riposarsi e fare più latte. A Phil non dispiaceva occuparsi dell'ultima poppata: tutta l'operazione era diventata una routine, una serie di gesti automatici che riusciva a ripetere senza nemmeno bisogno di svegliarsi del tutto. E poi a quell'ora anche Harry era talmente addormentato che Phil poteva tranquillamente cullarlo e nel contempo meditare sul giorno in cui l'essere umano che teneva in braccio gli avrebbe chiesto soldi in prestito e sarebbe corso dietro alle ragazze. Il flusso di latte di Julie non si era ancora stabilizzato e tra la voracità di Harry e l'azione del tiralatte i suoi capezzoli doloranti cominciavano a tagliarsi. Quel giorno quindi fu contenta, tanto per cambiare, di parlare del successo che Phil aveva ottenuto con il nome del nuovo caffè, pensando almeno per una volta a qualcosa che non fosse latte. Per festeggiare Phil versò un po' di vino in due bicchieri, ma Julie era riluttante ad assumere alcolici durante l'allattamento e così lo lasciò bere da solo. Il vino lo mise in un leggero stato di ebbrezza e Phil si chinò verso di lei per baciarla. Sulle prime Julie lo ricambiò, ma quando lui le fece scivolare la lingua tra le labbra lei s'irrigidì. «Cosa c'è?» le sussurrò Phil. «Niente.» «Non è vero, dimmelo», insistette lui. «Perché ti sei tirata indietro?» Julie sospirò. «Oh, lo sai anche tu. Se vado troppo su di giri, poi finisce che mi vien voglia di fare l'amore e...» «E...?» «Ed è troppo presto, Phil. Credo che le lacerazioni del parto non si siano
ancora rimarginate.» «Andiamo a vedere», disse Phil spingendola dolcemente verso il letto. «Dai, Phil. Questa non è una mossa leale.» «Una mossa leale? Cosa c'entra la lealtà? Sono otto settimane che non facciamo l'amore. Julie, io ti voglio!» «Anch'io ti voglio, Phil, ma è troppo presto.» «Okay», si arrese lui lasciandola andare. 16 In una delle serate di libertà della Tata, Phil e Julie andarono fuori a cena con Harry: la sua dieta era ancora strettamente limitata a quello che riusciva a estrarre dal seno della mamma, ma Phil e Julie avevano una gran voglia di uscire di casa. La prospettiva di portare Harry in un buon ristorante dove la direzione probabilmente non si sarebbe dimostrata tanto tollerante nei confronti delle sue urla implacabili era scarsamente attraente e così un self-service sembrò un ottimo compromesso. Entrando nel locale con tutta l'attrezzatura — passeggino, borsa dei pannolini, giocattoli eccetera eccetera — Phil pensò a come un tempo compatisse i genitori costretti a viaggiare sempre con quel po' po' di armamentario, ma erano considerazioni che appartenevano al passato, a prima della nascita del bambino. Appena si sedettero al loro tavolo, Harry decise che aveva fame e cominciò ad agitarsi per ottenere da mangiare. Senza badare a coprirsi, Julie tirò fuori una mammella e vi attaccò il bambino. A Phil era capitato di vedere donne che allattavano il figlio in pubblico, ma per quanto si fosse sforzato non era mai riuscito a cogliere neppure di sfuggita un quadratino di carne. In compenso quella sera, se qualcuno avesse lanciato un'occhiata in direzione di Julie, avrebbe avuto di che guardare: sua moglie non aveva ancora capito che cosa voleva dire allattare in presenza di estranei. Mentre Harry cercava di estrarre un po' di nutrimento dal seno riluttante di Julie, il tavolo vicino fu occupato da una coppia di ragazzi che appena seduti si accesero una sigaretta. Phil detestava l'idea di chiedere alle persone di comportarsi come voleva lui in un locale pubblico, ma detestava ancora di più la prospettiva di intossicare di fumo i polmoncini nuovi nuovi del suo bambino nuovo nuovo. Così dopo una breve battaglia interiore si alzò e si diresse verso i due fumatori.
«Scusate», esordì, «ma io ho qui un neonato al tavolo vicino e non vorrei affumicarlo. Vi dispiacerebbe spegnere le sigarette?» Il ragazzo e la ragazza lo guardarono e, senza dire una parola, con aria colpevole lo accontentarono. Phil li ringraziò e tornò al suo tavolo. Be', pensò, mi è andata bene. Che cosa avrei fatto se invece di una coppia di persone gentili mi fossi trovato di fronte due rozzi camionisti? Quando Harry si sentì abbastanza pieno, smise di poppare e cominciò a giocare con il capezzolo di Julie. «Non credo che dovremmo lasciarlo fare», mormorò Phil guardandosi nervosamente intorno per controllare che nessuno si godesse gratuitamente lo spettacolo del décolleté di sua moglie. «Ehi, Harry, questo non è un giocattolo», disse Julie, ma Harry era chiaramente più interessato a divertirsi che a mangiare. Julie si richiuse la camicetta e il bambino si mise a piangere, ma appena riattaccato al seno ricominciò a giocarci e Phil, che avrebbe voluto fare altrettanto, ricordò che c'era stato un tempo in cui non considerava il seno di sua moglie territorio esclusivo di suo figlio. Quando il pianto di Harry divenne insopportabile, Phil prese in braccio il bambino e si mise a passeggiare su e giù per il self-service. Due ragazzine sedute in un angolo del locale gli chiesero di poterlo tenere un momento. Preoccupato di esporre il figlio ai germi irresponsabili di due teenager, ma nello stesso tempo temendo di fare la figura del burbero, Phil arrivò al compromesso di tenerlo in braccio rivolto verso di loro. Sebbene Harry continuasse a frignare, le ragazzine gli fecero un sacco di complimenti e confessarono a Phil che non vedevano l'ora di avere un figlio. «I bambini sono belli, ma danno tanto di quel da fare», disse lui, «potete credermi!» Le due teenager ribatterono che a loro non importava niente e Phil cercò di immaginarle trasformate in mamme, con i nervi a fior di pelle e una media di tre ore di sonno per notte, mentre cullavano mostriciattoli urlanti in preda a coliche. «Penso proprio che fareste meglio ad aspettare un po'», le consigliò. «Un po' quanto?» chiese la più carina. «Venti, venticinque anni», rispose Phil serissimo. 17 Lo psichiatra entrò nella stanza e vide il paziente seduto sotto le coperte,
intento a guardare fuori della finestra. Dal momento che l'uomo aveva in precedenza mostrato scarso interesse per tutto ciò che non fosse starsene sdraiato a letto a fissare il soffitto, lo psichiatra considerò quella novità un dato incoraggiante. «Bene, bene. Come andiamo oggi, signor Parsons?» L'uomo si voltò a guardare il medico con gran curiosità. «Per quel che mi riguarda», rispose, «e naturalmente posso parlare solo per quel che mi riguarda, vado a gonfie vele, a vele spiegate.» «Splendido», commentò lo psichiatra consultando la cartella medica e annotandovi rapidamente «vele spieg.». «C'è solo una cosa che mi preoccupa», riprese il paziente. «Anzi, per essere precisi due.» «E di cosa si tratta?» chiese il medico scarabocchiando sulla cartella «2 preoccup.». «Una è il suo stetoscopio.» «Il mio stetoscopio la preoccupa?» domandò lo psichiatra scribacchiando «stet.» «Sì.» «E perché il mio stetoscopio la preoccupa?» «Mi preoccupa perché lo porta buttato sulla spalla, da dove potrebbe scivolare da un momento all'altro, cadendo a terra e rompendosi, mentre se lei lo tenesse semplicemente appeso al collo, che è poi il modo più logico di portarlo, sarebbe sempre al sicuro, al suo posto e pronto a essere usato.» «Capisco», disse il medico. «E qual è la seconda cosa che la preoccupa?» «Gli psichiatri che vengono a chiedermi 'Come andiamo', e facendo finta di niente cercano di prendere appunti di nascosto sulle loro cartelle», rispose l'uomo. 18 Phil e Julie, che erano stati educati a trattare tutti gli esseri umani come pari, erano imbarazzati all'idea di dar ordini a qualcuno e non erano quindi sufficientemente determinati nel dire alla Tata che cosa fare, con la logica conseguenza che la Tata si sentiva libera di fare ciò che riteneva più opportuno. Sebbene Julie all'inizio propendesse per allattare Harry ogni volta che aveva fame, la Tata stabilì una tabella rigorosa che prevedeva poppate ogni
quattro ore e Julie acconsentì a rispettarla dal momento che la Tata sembrava sapere che cosa fosse meglio per Harry. Phil e Julie tendevano a prendere in braccio il bambino ogni volta che piangeva finché la Tata lo proibì, riprendendoli con uno schiocco della lingua se per dimenticanza infrangevano il divieto. Quando li vedeva giocare con lui, si aggirava intorno con aria di disapprovazione, castrando così gran parte della loro spontaneità. Gli standard della Tata in fatto di pulizia erano addirittura più severi dei loro. Appena aveva un momento libero dalle cure di Harry, passava l'aspirapolvere sulla moquette e sui divani, sprimacciava i cuscini, lustrava finestre, specchi, tavolini, lavandini, sanitari e rubinetti finché non li vedeva splendere, senza fermarsi nemmeno davanti alle sedie o ai divani su cui erano seduti Phil e Julie. La Tata era rimasta indignata dal loro modo di mangiare e, facendoli profondamente vergognare, li aveva indotti a passare a una dieta ad alto contenuto proteico. Ora mangiavano carne di pollo, pesce, crostacei, frutta e verdura cruda e avevano dimenticato bistecche, arrosti, hamburger, hot dog, chili, tacos, pizze, gelati, torte al cioccolato e la maggior parte dei loro piatti preferiti. Si erano lamentati delle restrizioni, ma il risultato li aveva conquistati. «Mi secca ammetterlo», confessò Phil, «ma negli ultimi tempi mi sento davvero in forma.» «Sì», confermò Julie, «anch'io.» «A quanto pare, ne sa davvero qualcosa di alimentazione.» «Se è per questo ne sa qualcosa anche di come si tiene una casa», disse Julie. «Per quanto la sua repulsione viscerale per lo sporco e il disordine mi innervosisca, devo ammettere che come governante è una bomba.» Phil annuì. «E bisogna darle atto», aggiunse, «che con Harry ci sa fare. Sembra che sappia sempre esattamente di cosa ha bisogno e quando lo tiene in braccio lui non piange mai.» «Sì, con Harry ci sa proprio fare», ripeté Julie e sul suo viso si dipinse improvvisamente la tristezza. «Forse ci sa fare anche troppo.» «Cosa vuoi dire?» le chiese il marito. Julie sospirò e alzò le spalle. «Avanti, parliamone», insistette lui. «Be'», disse finalmente lei, «non mi va che mio figlio non smetta di piangere quando lo prendo in braccio io e che invece con la Tata sia un an-
gioletto, mi capisci?» «Mmm.» «Insomma, a volte mi sembra che lei gli piaccia più di me.» «Questa è una sciocchezza», la rimproverò Phil. «E perché sarebbe una sciocchezza?» «Harry è figlio tuo, non della tata. Credi che lui non lo sappia?» Julie scosse la testa. «Non so, Phil. A volte ho la sensazione che Harry pensi che la sua mamma è la tata.» «Questo vuol dire che non hai letto abbastanza.» «Letto cosa?» «I libri che ti ho comprato: I primi dodici mesi di vita e tutti gli altri. Lì c'è scritto che un bambino riconosce la madre dall'odore fin dal momento del parto. Ti garantisco che Harry sa che sei sua madre... se non altro a naso.» «Questo sì che è rassicurante», commentò lei con sarcasmo. «Dio santo, Julie, te lo attacchi al seno ogni quattro ore... come vuoi che ti dimentichi?» «Non so», continuò Julie. «Non lo allatto neanche come si deve. Forse se avessi più latte sarei una madre migliore e mi meriterei di più il suo affetto.» Phil si alzò e andò ad abbracciarla. «Tesoro, ti prego, non ricominciamo con questa storia. La quantità di latte che produci non è la misura del tuo valore come madre. Non sei mica una fottuta mucca!» «Lo so, ma...» «Ma niente. La mamma sei tu, non la tata... e Harry lo sa quanto me. Tu sei l'unica a nutrire dubbi in proposito.» «Non so», ripeté lei, «spero che tu abbia ragione.» 19 Nonostante tutte le loro apprensioni, la qualità della vita che conducevano era nettamente migliorata dopo l'arrivo della Tata. Harry piangeva di meno e Phil e Julie potevano concedersi ore preziose senza di lui; avevano tempo per dormire, forse non abbastanza, ma sicuramente più di prima. Non avevano ancora ripreso a far l'amore, il che provocava loro una buona dose di sensi di colpe e paure. Ci avevano provato due volte, ma Ju-
lie aveva dovuto chiedere a Phil di smettere perché le faceva troppo male. Niente di ciò che avevano letto sui manuali o sentito dire dai dottori o dagli amici che avevano avuto figli li aveva preparati a quello che stava succedendo. Sotto sotto temevano di essere loro ad avere qualcosa che non andava. Era chiaro che la vagina di Julie era diventata più stretta dopo l'episiotomia, era di nuovo come quella di una vergine o anche peggio. Quando gli amici, strizzando l'occhio, chiedevano se la loro vita intima fosse tornata normale, non riuscivano a far altro che ammiccare imbarazzati e rispondere di sì, perpetuando il mito. Una sera, prima di cena, Phil e Julie si misero a giocare con Harry sul divano del soggiorno. Julie cercava di strappargli un sorriso facendogli le moine e solleticandogli il mento, mentre Phil gli muoveva davanti un coniglietto di peluche che gli aveva comprato, nascondendolo e poi ritirandolo fuori con gran divertimento di Harry. In piedi un po' in disparte, la Tata li osservava. «A questa età», disse, «è in grado di ricordare un oggetto se lo si riporta nel suo campo visivo entro due secondi e mezzo.» «Due secondi e mezzo?» ripeté Julie. «È la durata della sua memoria, per ora», spiegò la Tata. «Appena tre secondi meno della tua, amore», osservò Julie rivolta a Phil. Un giorno, mentre lo cambiava, Phil notò che Harry aveva il pisellino ritto. Senza preavviso ne fuoriuscì uno schizzo di pipì che disegnò un arco perfetto finendo direttamente nella bocca aperta di Harry. Il bambino scoppiò in un pianto sbalordito e Phil non poté fare a meno di ridere, mentre asciugandolo cercava di consolarlo. Phil aveva studiato diverse linee per la campagna stampa Aria chiara, ma non aveva ancora trovato niente che piacesse a Ralph Roberts. Si gingillava con l'idea di una finestra così pulita da sembrare senza vetri, e da lì era nato «Giorni tetri, con i vetri!» che non aveva senso; poi gli era venuto in mente «Come in uno specchio», ma era una strada che non portava da nessuna parte. Avrebbe potuto usare «Aria azzurra aria chiara» che somigliava al titolo della canzone per cui il cliente aveva pagato fior di bigliettoni pur di poterla usare come jingle dello spot televisivo, ma qui si trattava di un annuncio stampa. Infine produsse una campagna sull'uso delle soluzioni per la pulizia degli occhiali, il cui slogan era: «Nei tuoi occhi
mi ci specchio», ma si rese conto che era ormai arrivato alla disperazione. Harry dormiva e Phil lavorava al tavolo in soggiorno, preoccupato di non riuscire a ideare un annuncio che soddisfacesse Ralph Roberts, preoccupato di venir licenziato e di non poter più pagare l'affitto e lo stipendio della Tata, preoccupato che Harry soffocasse nel sonno, tanto che di notte si alzava e andava a chinarsi sulla culla del figlio per ascoltare il suo respiro leggero. 20 Una sera Phil era in cucina a prepararsi un gin tonic quando sentì venire dal bagno il gioioso sguazzare di Harry a cui la Tata stava facendo la consueta toilette serale. Phil, che adorava il calore di simili scenette domestiche, senza bussare aprì la porta del bagno ed entrò. Avrebbe fatto meglio a bussare. Si trovò di fronte Harry e la Tata. Nessuno più spruzzava e schizzava. Harry e la Tata erano tutti e due nella vasca, tutti e due erano nudi e tutti e due lo fissavano. La Tata lo guardava impassibile, dritto negli occhi, senza accennare minimamente a coprirsi. Phil rimase a bocca aperta davanti al corpo inaspettatamente voluttuoso della donna. Immagini intime della sua pelle liscia e bagnata s'impressero per sempre nelle sue retine: i seni sorprendentemente pieni e perfetti, i capezzoli rosa sorprendentemente turgidi, il ventre sorprendentemente piatto, la fitta chiazza scura del pube in agguato a pelo dell'acqua come un riccio di mare gigante. Balbettando scuse imbarazzate, Phil indietreggiò impacciato e uscì dal bagno chiudendosi la porta alle spalle. Rimase in piedi nel corridoio cercando di riprendere fiato: improvvisamente gli era diventato difficile respirare. Trovarsi di fronte a quell'imprevista nudità lo aveva irritato e disorientato. Si era involontariamente reso colpevole di una grave invasione della privacy altrui. Ma lei cosa ci faceva nuda nella vasca con suo figlio, tanto per cominciare? Si domandò se ci fosse sotto qualcosa che non avrebbe dovuto esserci, qualcosa di poco pulito, di ambiguo, di perverso, qualcosa che aveva a che fare con quei maniaci che violentano i bambini negli asili. No. Conosceva le credenziali della Tata, aveva letto le sue lettere di referenze e l'aveva vista all'opera... non per molto tempo, questo era vero, ma abbastanza da rendersi conto che non era un'adescatrice di neonati. E poi, se avesse voluto fare qualcosa di cui vergognarsi, avrebbe sicuramente
chiuso a chiave la porta del bagno, no? E vedendolo entrare di sorpresa avrebbe reagito agitandosi, e non guardandolo con quell'aria calma e innocente, come se l'intruso fosse stato lui. Perché, in realtà non era così? Eppure... eppure fare il bagno con un bimbo aveva qualcosa di anormale. O forse no. Il giorno prima anche Julie era stata nella vasca con Harry a coccolarlo e a giocare. Ma Julie era sua madre e la Tata era la tata. Da qualsiasi prospettiva la si guardasse, tutta quella storia era molto strana. Phil si chiese perché la Tata avesse lasciato la porta aperta. Si chiese perché non avesse fatto nemmeno un gesto per coprirsi al suo ingresso. Era rimasto stupito per l'occhiata che lei gli aveva lanciato mentre lui indietreggiava balbettando qualche scusa. Qualcosa nei modi della donna lo aveva infastidito. Forse era stato un chiaro invito. Forse aveva architettato tutto per provocarlo. No, non era possibile. Era una situazione troppo assurda. Fino a quel momento la Tata si era comportata come una delle donne meno sensuali che Phil avesse mai incontrato. Al contrario, tutto in lei scoraggiava un rapporto di familiarità. Aveva persino snobbato l'innocente invito a sedersi a tavola con loro che la povera Julie le aveva fatto il primo giorno, spiegando che i domestici non mangiano mai con i padroni di casa. Be', i domestici che non mangiano con i padroni di casa, di sicuro non ci vanno a letto! No, qualunque fosse la ragione per cui la Tata si trovava nella vasca con Harry, certamente non era di natura sessuale. Il problema era piuttosto che Phil non sarebbe più riuscito a guardare la Tata vestita senza rivedersela davanti nuda. Si chiese cosa avrebbe potuto raccontare a Julie di quell'episodio, quanto avrebbe potuto dire senza lasciarle immaginare che si era eccitato. Conosceva i livelli che la sua gelosia raggiungeva anche nei periodi migliori, e quello non era certamente uno dei loro periodi migliori. Decise di dire alla Tata che non avrebbe più dovuto fare il bagno nuda con Harry, ma rimandò il colloquio al mattino seguente, augurandosi che ora del giorno dopo il suo cervello ritrovasse la lucidità sufficiente a menzionare con indifferenza l'accaduto a entrambe le donne. Ma l'indomani si rese conto che il fatto di aver lasciato passare la notte senza parlargliene avrebbe insospettito Julie. Gli avrebbe chiesto perché non gliel'aveva detto subito, lo avrebbe capito da sola e sarebbero ricomparse tutte le sue antiche gelosie, le gelosie che avevano rischiato di far naufragare la loro relazione ai tempi dell'università. Phil decise quindi
di non fare parola dell'episodio con Julie. Avrebbe trovato il modo di parlarne direttamente alla Tata. 21 Phil aveva cercato di trovare una maniera gentile per chiedere alla Tata di non fare più il bagno con Harry, ma non riusciva a mettere insieme una frase decente. Forse era perché si sentiva ancora in colpa per la sua irruzione. La incrociò in cucina, il mattino seguente, di ritorno da una spedizione dal droghiere con il bambino. Phil si sentiva a disagio e fece modo di guardare da un'altra parte. Forse per cominciare poteva dire qualcosa sul tema della privacy, ma non sapeva cosa. Poteva farle presente che gli dispiaceva di averla sorpresa nuda... ma non gli dispiaceva affatto. Che aveva visto più di quanto avrebbe mai immaginato... ma non era stato abbastanza. Si era già profuso in scuse la sera prima, probabilmente anche più del dovuto. Forse la cosa migliore da fare era semplicemente dimenticare l'accaduto. Ma dimenticare l'accaduto non era facile. Phil le lanciava occhiate di soppiatto, quando lei non guardava. Restava a fissare il suo camice bianco severamente inamidato, cercando di figurarsi tutto ciò che di soffice nascondeva, tentando di immaginare prima il sottile strato setoso della biancheria intima, poi i morbidi segreti della carne di cui era brevemente e per puro caso venuto a conoscenza. Era assurdo sentire di avere una sorta di legame intimo, per quanto sottile, con quella donna, che apparentemente respingeva qualsiasi forma d'intimità, eppure era quello che Phil sentiva. La Tata non sembrava tipo da mostrarsi spontaneamente senza vestiti a nessuno che non fosse un dottore (o un neonato). Phil dubitava che mezza dozzina di uomini messi insieme avesse mai visto di quella donna ciò che aveva visto lui da solo e a quel pensiero non poteva fare a meno di provare un certo attaccamento per lei. Era estremamente improbabile che una femmina adulta, di quei tempi, a New York, fosse sessualmente inesperta, eppure Phil non riusciva a immaginare la Tata con un amante. In lei non sembrava esserci alcuna traccia di calore o di sensualità. Ma se le cose stavano così perché il suo corpo era diventato per lui un'ossessione? Lo spessore del camice di cotone inamidato rendeva difficile distinguere le linee leggere che normalmente segnano i contorni della biancheria inti-
ma femminile. Quando la Tata si chinò sulla culla di Harry, Phil azzardò una rapida ricerca degli slip. Era appena riuscito a individuarli all'attaccatura delle gambe, quando si rese conto che la Tata gli aveva chiesto qualcosa che lui non aveva assolutamente assimilato. Sollevò gli occhi e arrossì incontrando lo sguardo di lei, colto sul fatto come uno scolaretto. «Scusi?» Lei lo guardò con aria interessata. «Mi sta davvero chiedendo scusa?» Non era una risposta consueta. Non era la normale risposta alla richiesta implicita di ripetere la domanda. «Veramente intendevo dire che non ho sentito che cosa mi ha chiesto», si giustificò Phil. Ci fu un momento di silenzio. «Ah, non ha sentito.» «No», ripeté Phil. «Non ho sentito.» «Non mi stupisco», commentò la donna. Nella stanza non faceva caldo, ma la fronte di Phil era madida di sudore. Decise di ricominciare da capo. «Mi ha chiesto qualcosa, no?» «Proprio così.» «E io non ho sentito.» «No, lei non ha sentito.» La conversazione non accennava a procedere. «Le dispiacerebbe ripetermi la domanda?» chiese Phil mentre il sudore gli gocciolava negli occhi. Lo sguardo della Tata non vacillava mai. Phil non riusciva a immaginare che cosa stesse pensando. Nell'aria c'era più tensione che in una presa elettrica. «Sì, mi dispiacerebbe», rispose infine la Tata e si girò di nuovo verso la culla. Per un attimo Phil rimase lì in piedi come uno stupido, poi uscì dalla stanza barcollando. 22 Phil andò alla scrivania e tirò fuori le lettere di referenze della Tata per rileggerle. La prima era di un dermatologo di Palm Beach, in Florida:
Con la presente attesto che la signorina Luci Redman è stata al nostro servizio per un periodo di tre anni durante i quali è stata la tata di nostro figlio e in generale la nostra governante. Tra i suoi compiti rientravano anche la spesa, la cucina e la pulizia della casa. In tutti i suoi incarichi, la signorina Redman è stata per noi una collaboratrice senza uguali e con sincero dispiacere abbiamo dovuto rinunciare a lei. In fede, Harold A. Millman La seconda lettera era firmata da un banchiere di Detroit, nel Michigan: Egregi signori, con la presente dichiaro che la signorina Luci Redman ha lavorato presso di noi come governante e balia per un periodo di due anni e mezzo. Per tutto questo tempo è stata una lavoratrice instancabile, uno straordinario aiuto domestico e un'eccellente tata, trattando nostro figlio come se fosse suo. La sua presenza è stata insostituibile. È con grande dispiacere che salutiamo la sua partenza, mentre pensiamo con invidia al suo prossimo datore di lavoro. Distinti saluti, William R. Parsons Trattando il bambino come se fosse suo, ma davvero? Phil sogghignò amaramente. Su questo sarei pronto a scommetterci, pensò. La terza lettera era del presidente della compagnia petrolifera texana: Ho il piacere di raccomandare la signorina Luci Redman per qualsiasi posto lei stessa decida di accettare come governante o balia. La signorina Redman si è dimostrata una collaboratrice preziosissima per noi che abbiamo avuto il privilegio di servircene come tata e collaboratrice domestica. Nel caso desideriate ulteriori informazioni su di lei, non esitate a contattarmi. Cordiali saluti, Robert T. Conroy
Okay, Conroy, pensò Phil, dal momento che ti sei offerto volontario... allungò una mano, sollevò il ricevitore del telefono e richiese una chiamata personale con il signor Conroy di Houston. Sbadatamente la centralinista annunciò la telefonata a carico del destinatario e Phil, imbarazzato e irritato, si affrettò a correggerla. La centralinista, a sua volta imbarazzata per l'errore commesso e irritata per la correzione, gli rispose qualcosa in tono arrogante. La segretaria del petroliere disse che il signor Conroy non era in ufficio e Phil dovette accontentarsi di lasciarle il proprio nome e il numero di telefono, cosa che la centralinista arrabbiata quasi non gli lasciò il tempo di fare. Phil provò allora a telefonare al dermatologo in Florida e al banchiere a Detroit, ma non riuscì a parlare con nessuno dei due. Quella sera tornò a casa con i numeri privati di tutti e tre, ottenuti dall'ufficio informazioni elenco abbonati. A casa del petroliere e del dermatologo non rispondeva nessuno, fatto strano dal momento che tutti e due avevano bambini piccoli, e al numero del banchiere di Detroit un nastro registrato informava che la linea era stata disattivata su richiesta dell'utente, qualsiasi cosa ciò significasse. Il giorno dopo Phil chiamò l'ufficio del petroliere dall'agenzia e chiese alla segretaria di poter parlare con il signor Conroy. «Di cosa si tratta?» domandò la ragazza. «Il signor Conroy ha scritto una lettera di referenze per una governante che è stata al suo servizio e volevo sentire da lui se conferma quello che dice nella lettera.» All'altro capo del filo ci fu una pausa un po' troppo lunga. Infine la segretaria disse: «Sono sicura che il signor Conroy pensa sempre quello che scrive, signore». «Non ne dubito», ribatté Phil, «ma ci sarebbero un paio di cose che vorrei chiarire e che non vengono specificate nella lettera.» «Per quando ha in programma di assumere questa governante?» s'informò la segretaria. «Be', veramente... l'ho già assunta», rispose Phil perfettamente consapevole di quanto l'avrebbe reso ridicolo quell'affermazione. «Ma...» «Se l'ha già assunta cos'altro ha bisogno di sapere dal signor Conroy?» domandò logicamente la segretaria. «È una questione troppo... complicata da spiegare», disse Phil. «Forse sarebbe meglio che ne parlassi personalmente con il signor Conroy.»
«Il signor Conroy è in riunione in questo momento. Se mi lascia il suo nome e numero di telefono, vedrò di farla richiamare.» Phil le ripeté il nome e recapito telefonico sapendo benissimo che non c'era la benché minima probabilità che Conroy lo richiamasse. Era stato uno stupido a rispondere che l'aveva già assunta. Perché lo aveva detto? Compose il numero dell'ufficio di Parsons, il banchiere, e chiese di lui. «Mi può dire di cosa si tratta?» s'informò la segretaria. «Una persona che vorrei assumere mi ha dato come referenza il nominativo del signor Parsons», rispose Phil. «Volevo controllare le sue credenziali.» «Se mi lascia il suo nome e il suo numero di telefono, farò senz'altro pervenire il suo messaggio al signor Parsons», disse la donna. Phil diede per l'ennesima volta il suo recapito, convinto che non avrebbe più avuto notizie neanche dal banchiere. Poi sollevò di nuovo il ricevitore chiedendo del dermatologo. «Posso sapere di che cosa si tratta?» s'informò l'infermiera. «No», disse Phil. «Come, scusi?» «Il fatto è che ho una grave eruzione cutanea in un punto piuttosto imbarazzante e preferirei parlarne direttamente con il dottore.» «Vuole che le fissi un appuntamento?» chiese l'infermiera. «Sì, sì, va bene», rispose Phil, «ma ho comunque bisogno di parlare subito con il dottore.» Lasciò che l'infermiera gli fissasse un appuntamento per un giovedì di lì a tre settimane e poi si fece passare il dottor Millman. «Pronto?» Il dottore aveva una voce profonda. «Dottor Millman? Mi chiamo Phil Pressman...» «Sì?» «Ho bisogno di parlarle a proposito di Luci Redman.» L'affermazione cadde nel silenzio più totale. «Dottor Millman, è ancora in linea?» «L'infermiera mi ha detto che aveva bisogno di me per un'eruzione cutanea», disse il medico in tono piatto. «Infatti», rispose Phil. «Ma ho anche bisogno di parlarle di Luci Redman. È stato lei a scriverle una lettera di referenze, no? Voglio dire, è lei quel dottor Millman...» Un altro silenzio. «Mi dispiace, signor... signor?...»
«Pressman. Phil Pressman...» «Signor Pressman, noi qui siamo molto occupati», proseguì il dottor Millman. «La mia professione è visitare pazienti che hanno bisogno di assistenza medica ed è tutto quello che posso fare. Se lei ha davvero un problema dermatologico, la vedrò il giorno in cui la mia infermiera le ha fissato l'appuntamento, ma questo è tutto quello che posso...» «Non potrebbe almeno rispondere a un paio di domande? Soltanto un paio. È molto importante per me.» Ancora un silenzio. «Dottor Millman?» «Signor Pressman, la persona di cui mi sta parlando non è un soggetto che mi sento di raccomandarle. E ora devo proprio tornare dai miei pazienti.» Riagganciò e Phil rimase lì come uno stupido a guardare la cornetta muta. 23 Julie cercava di allattare Harry che non voleva saperne. Continuava a tentare di infilargli in bocca la sua mammella e Harry continuava a sputarla. «Harry, sai quanti uomini avrebbero pagato per succhiare quello che tu sputi?» lo rimproverò. «E intendo letteralmente pagato.» Harry scoppiò a piangere. «Non vuole più attaccarsi al seno», disse Julie. «Sembrava che ci avesse preso gusto», rispose Phil. «Mi sembrava che tu cominciassi ad avere più latte e che riuscisse finalmente a tirare bene.» «Per un po' è andata meglio, ma poi ha iniziato a non volersi più attaccare al seno e adesso il latte comincia a diminuire. È così che succede, se il bambino non tira abbastanza il latte diminuisce, finché non ne avrò più e non potrò più allattarlo», e così dicendo si unì al pianto di Harry. «Mi dispiace Phil», mormorò fra i singhiozzi. «Volevo allattarlo per almeno tre mesi. Almeno il tempo di fargli assorbire tutti i nutrimenti e gli agenti immunitari contenuti nel latte materno. Ma non ci riuscirò. Vedrai che adesso dovrò dargli il biberon.» Phil cercava di consolare moglie e figlio. «Puoi provarci ancora», la incitò. Julie scosse la testa. «Ci ho già provato. Non ne vuole più sapere. E perché dovrebbe? Le tettarelle del biberon con cui gli dai la poppata della not-
te si ciucciano molto più facilmente. Perché dovrebbe faticare tanto per cavar latte dai miei capezzoli quando può ottenerlo con minor sforzo da una bottiglia?» «Bene, vorrà dire che passeremo una volta per tutte al biberon», disse Phil. «Di certo ti semplificherà la vita. Quando smetterai di allattarlo ogni quattro ore, potrai dormire di più di notte e uscire di più di giorno. Davvero, sai, non credo che il biberon sarà una catastrofe per te.» «E invece sì.» «Ma perché?» «Perché allattarlo è l'ultimo legame che mi resta con lui, Phil», rispose Julie tristemente e ricominciò a piangere. «Perché dici così?» le chiese Phil cercando di consolarla. «Non vedi come si comporta con me? Con noi? Guardalo: mi tollera a malapena, Phil. Lui pensa che la mamma sia la Tata, non io.» «Dai, Julie. Non essere ridicola. Te l'ho ripetuto un sacco di volte. Il bambino sa perfettamente chi è sua madre. Il bambino...» «Il bambino», lo interruppe Julie con voce stridula che rasentava la crisi isterica, «piange quando tu o io lo prendiamo in braccio e smette quando la Tata lo prende in braccio. Il bambino, come chiunque altri in questa casa, è completamente in balia di quella donna!» «Se è così, la questione va sistemata direttamente con lei.» «Cosa vuoi dire?» «Dobbiamo convocarla e parlarle», spiegò Phil. «Dobbiamo farle capire chiaramente chi comanda qui dentro.» «Ma lei sa benissimo chi comanda qui dentro, questo è il punto.» «In questo caso si tratta di cambiare le regole, tutto qui.» Le urla di Harry stavano raggiungendo il parossismo. «È troppo tardi», disse Julie con aria sconfitta. «Non è troppo tardi», ribatté Phil deciso. «D'accordo, all'inizio abbiamo commesso degli errori, lo ammetto. Il problema è che siamo partiti con il piede sbagliato. Non eravamo abituati ad avere dei domestici e siamo stati troppo timidi nel chiederle di fare quello che volevamo, così lei se n'è approfittata. Ma se le parliamo e stabiliamo chiaramente le nuove regole, filerà dritto, puoi credermi. O si adegua, o si dilegua.» «Pensi veramente che potremmo farle cambiare modi?» «Ma certo. La Tata è un tiranno, Julie, e i tiranni sono come i bambini che fanno i capricci. Un bambino che fa i capricci non desidera altro che essere obbligato a smetterla. Se noi la obblighiamo a smetterla, lei ce ne
sarà grata.» Julie lo guardò perplessa. «Ne sei convinto?» «Assolutamente», confermò. «La Tata è al nostro servizio, Julie. Noi siamo i suoi datori di lavoro, lei è la nostra domestica. È vero che questa parola non ci piace, ma piace a lei. Lei la capisce benissimo. O fa come vogliamo noi, o ce ne liberiamo.» Julie si asciugò gli occhi. «Adesso ho capito qual è il vero problema», confessò. «Quale?» «Adesso sì che mi è tutto chiaro», ribadì lei. «La Tata ci domina perché sente che in questo modo soddisfa un nostro bisogno profondo.» «Tu sei matta.» «Per niente. A te piacciono le figure materne forti perché tua mamma è una donna energica... la Tata ti ricorda tua madre! E a me piace probabilmente perché mia madre è sempre stata così debole. La Tata per me è la mamma forte che non ho mai avuto.» Phil chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi le tempie con la punta delle dita. «Julie, quando ti sveglierai e ti accorgerai che fai l'arredatrice e non lo strizzacervelli?» sospirò, ma aveva il sospetto che stesse per combinarne una delle sue. 24 L'incontro ebbe luogo in soggiorno dopo che Harry si fu finalmente addormentato. Phil e Julie erano seduti sul divano di fronte alla Tata. A giudicare dall'espressione di tutti e tre, nella stanza regnava la massima serietà. «L'abbiamo convocata», attaccò Phil, «perché la signora Pressman e io non siamo soddisfatti di una serie di cose.» «Capisco», disse la Tata. «Cose che devono cambiare», riprese Phil. «Capisco», ripeté la Tata. Funziona, pensò Phil sorpreso. Sembra proprio che funzioni: mi sta prendendo sul serio. «Prima di tutto», proseguì, «la signora Pressman e io abbiamo l'impressione che lei non si comporti in modo adeguato nei nostri confronti. Noi
siamo i suoi datori di lavoro e lei è una nostra domestica. Gradiremmo che si regolasse di conseguenza. «Secondo», continuò Phil, «in futuro vorremmo che lei comprasse e cucinasse per noi soltanto quello che le chiediamo, senza prendere iniziative riguardo alla nostra dieta.» Diede un'occhiata alla Tata, temendo di trovarsi davanti a una reazione furibonda, e fu profondamente sollevato nel vedere che le sue parole non avevano suscitato invece la benché minima reazione. «Infine», riprese, «c'è Harry. Vogliamo che sia nutrito, curato e accudito, nel modo che noi e non lei giudichiamo per lui il migliore... a prescindere dai suoi principi, senza dubbio basati su fondate conoscenze, in fatto di puericultura.» Phil si rivolse alla moglie. «Hai qualcosa da aggiungere, Julie?» «No», rispose lei. Phil tornò a rivolgersi alla Tata. «C'è qualcosa che vorrebbe dire?» chiese. La Tata gli rivolse uno sguardo assente. Gesù, pensò, l'ho stesa... è rimasta assolutamente senza parole. «Tata», ripeté Phil lentamente, «c'è qualcosa che vorrebbe dire?» «Sì», replicò la donna in tono piatto. «Ha dichiarato che è vostro desiderio che il bambino sia nutrito, curato e accudito nel modo che voi giudicate per lui il migliore, signor Pressman.» «Esattamente.» «E quale sarebbe questo modo?» «Come scusi?» «Qual è il modo che giudicate per lui il migliore?» ripeté la Tata. «Sono ansiosa di conoscerlo.» «Ah», disse Phil momentaneamente spiazzato dalla domanda e, come aveva imparato a fare all'università, prese tempo formulando la risposta a partire dalla domanda. «Be', il modo che giudichiamo per lui il migliore, il modo in cui vogliamo che sia nutrito, curato e accudito è il modo che ci hanno, ehm, insegnato gli istruttori del corso Lamaze e, ehm, il modo che abbiamo imparato durante il corso preparatorio all'ospedale.» Per un momento la Tata rimase a fissare il vuoto davanti a sé, poi riprese a parlare con la stessa intonazione piatta. «E non può essere più specifico di così?» «Per il momento no», rispose Phil. «Capisco», disse la donna. «Bene, ora che mi avete espresso i vostri mo-
tivi di insoddisfazione vorrei esternarvi alcuni dei miei.» Phil guardò Julie. «D'accordo», concesse. «Mi sembra giusto.» «Bene», iniziò la Tata. «Prima di tutto le vostre conoscenze sui bambini e su come accudirli sono talmente misere che c'è da stupirsi se vostro figlio era ancora vivo quando sono arrivata. In effetti è soltanto grazie a me che il bambino è sopravvissuto finora. Vi posso garantire che qualsiasi tentativo di sostituire ai miei metodi i vostri avrà conseguenze disastrose per la salute di Harry. Secondo», continuò, «la stanza che attualmente occupo è così penosamente piccola da far venire la claustrofobia. Davvero non so come in tutta coscienza possiate aspettarvi che qualcuno ci viva. Se rimango qui è soltanto per rispetto al bambino. «Terzo, vorrei farvi presente che mi prendo cura del bambino e della casa in modo più che competente a condizioni davanti a cui qualsiasi altra balia inglese con un minimo di amor proprio scapperebbe urlando inorridita. Mi ritengo offesa dalle vostre osservazioni. Voglio sperare che scene del genere non si ripeteranno mai più.» La Tata si alzò, fece un educato cenno con il capo nella loro direzione e si accinse a tornare nella sua stanza. «E ora, se permettete», disse, «il mio orario di servizio è terminato.» E uscì con passo deciso dal soggiorno. 25 A Phil e Julie ci vollero una decina di secondi per riprendersi. «Buon Dio, e questo cos'era? Voglio dire, puoi spiegarmi cos'è successo?» Julie aveva la faccia di chi sta cercando di decidere se scoppiare a ridere o piangere. Iniziò a parlare, senza sapere bene cosa stesse per dire. «Penso... che la nostra tata abbia... espresso alcune riserve sul suo lavoro», fu quello che riuscì infine a borbottare prima di cominciare a ridere così forte che Phil dovette darle un paio di pacche sulla schiena. Ma poi anche lui scoppiò a ridere: era il modo migliore per liberarsi di tutta la tensione che si era andata accumulando durante le settimane precedenti. La crisi di risa andò calmandosi per poi riprendere di nuovo, ancor più violenta, ma anche questo secondo attacco si esaurì e tra Phil e Julie scese il silenzio. «Bene», disse Phil. «Mi sembra di capire che i nostri dubbi iniziali si sono dimostrati fondati.»
Phil stava per raccontare a Julie della telefonata al dottor Millman e del fatto che Millman non si fosse sentito di raccomandargli la Tata, ma poi si rese conto che se ne avesse parlato avrebbe dovuto spiegare prima di tutto perché aveva deciso di fare quella telefonata, il che comportava necessariamente raccontare che aveva visto la Tata e Harry nel bagno e giustificare il fatto di non averne parlato a Julie fino a quel momento: decise che non ne valeva la pena. «Ci pensi tu a licenziarla o vuoi che lo faccia io?» chiese Julie. «Ci penserò io», rispose Phil. «Okay. Penso faresti meglio a parlarle subito. Possiamo darle tempo fino a domattina per lasciare la stanza, ammesso che sia in grado di resistere ancora per una notte nella sua minuscola camera da claustrofobia.» Phil si alzò ridacchiando e si diresse verso la stanza della Tata. «Phil?» Il tono serio di Julie lo fece fermare. «Sì, tesoro?» Un sospiro. «Ce la faremo senza di lei?» 26 Phil si fermò un momento davanti alla porta della stanza della Tata, cercando di formulare la frase con cui l'avrebbe licenziata. Non aveva mai licenziato nessuno in vita sua e sebbene la Tata se lo fosse ampiamente meritato per il modo in cui si era rivolta a loro Phil non poteva fare a meno di considerare come fosse stata in gamba con Harry. Bussò. «Sì?» rispose la voce della Tata. «Sono il signor Pressman», disse Phil. Ci fu una pausa. «Sì, signor Pressman?» «Vorrei parlarle un momento, è possibile?» Un'altra pausa. «Entri pure, signor Pressman.» Phil girò la maniglia ed entrò nella camera indubbiamente piccola. La Tata era in piedi accanto al letto, rivolta verso la porta. «Di cosa desiderava parlarmi?» s'informò. «Prima di tutto», esordì Phil, «penso sia giusto informarla che recentemente ho telefonato a uno dei nominativi indicati nelle sue credenziali, il
dottor Millman. Il dottore mi ha detto che non si sentiva di raccomandarla.» «Non mi stupisce», disse la donna. «Come dice?» «Il dottor Millman mi ha proposto di andare a letto con lui», continuò la Tata. «Quando ho rifiutato, è andato su tutte le furie. Mi sarei stupita, piuttosto, se si fosse dichiarato disposto a parlar bene di me.» «E perché allora le ha scritto quella lettera di referenze?» «L'ha scritta quando ho annunciato che me ne sarei andata», rispose la Tata. «Prima di chiedermi di andare a letto con lui.» «Capisco», disse Phil. «Comunque il fatto è che, sebbene non ci sia niente da ridire su come accudisce il bambino, riteniamo che il modo in cui lei si comporta con noi renda impossibile la sua permanenza al nostro servizio.» Per un attimo la Tata lo guardò pensosa, poi portò una mano dietro la schiena e aprì la cerniera del camice. Phil la fissava sbalordito. «Ma cosa fa?» chiese. Per tutta risposta la Tata si sfilò prima una manica, poi l'altra, e quindi il camice da sopra la testa. «Sarà meglio riparlarne domani mattina, in un momento più opportuno», mormorò Phil concitatamente muovendosi per uscire. Ma la Tata fu più rapida di lui e richiuse la porta prima che Phil potesse varcare la soglia. «Non troveremo mai un momento più opportuno», disse sistemando le grinze che la sottoveste bianca di nailon aveva formato sui fianchi e nello stesso tempo bloccando con la propria presenza l'accesso alla porta. Non può essere vero, pensò Phil in preda alle vertigini. È tutta un'allucinazione. «Penso che farebbe meglio a lasciarmi uscire», ansimò cercando nuovamente di raggiungere la porta e trovandosi di nuovo la strada sbarrata dalla Tata. «E penso che farà meglio ad andarsene entro domani mattina.» Per la prima volta scorse un'espressione incerta sul volto della donna. «Non farà sul serio», disse lei. «Certo che faccio sul serio», rispose Phil impadronendosi di quel minimo di padronanza di sé che la Tata aveva perso. Lei lo guardò ancora un attimo, poi si fece scivolare la sottoveste sui fianchi e la lasciò cadere a terra. Reggiseno e mutandine di nailon bianchi erano decorati con un discreto motivo floreale che lo stilista doveva aver
ideato come omaggio alla modestia, una modestia improbabile dal momento che il completo era semitrasparente e Phil non aveva difficoltà a distinguere le ombre più scure dei capezzoli e del pube della Tata. Si sentiva stordito, come in trance. «Perché lo fa?» chiese con voce rauca. «Per farle cambiare idea.» «Ma tutto questo non farà altro che rafforzare la mia decisione.» Con un sorriso stranamente vulnerabile, la Tata gli si avvicinò. Le sue labbra sfioravano quelle di lui. Phil sentì un intenso calore salirgli lungo il collo e le guance fino alla fronte, mentre arrivava all'erezione. Sapeva che restare in quella stanza anche un solo istante di più era pura follia, ma i segnali di movimento che il suo cervello inviava alle gambe non arrivavano a destinazione. Il canale di comunicazione era interrotto, proprio come la respirazione del metodo Lamaze interrompeva i canali di comunicazione del dolore. Aveva l'impressione che il suo corpo fosse trattenuto da una specie di campo elettromagnetico. Con un supremo sforzo di volontà riuscì a sollevare un piede, portandolo in direzione della porta. Poi toccò all'altro. Era come camminare sott'acqua con le pinne. «Ci tengo a questo lavoro, signor Pressman», mormorò la Tata. «Non voglio essere licenziata.» Phil sbuffò. «Dico sul serio», insistette lei, accarezzandogli il viso, appoggiandovi contro le sue labbra calde. «Voglio restare qui. Forse non l'ho lasciato capire, ma lei mi piace moltissimo. E anche la sua famiglia. Farei qualsiasi cosa per restare qui. Qualsiasi cosa.» «Qualsiasi?» chiese Phil. «Qualsiasi», rispose lei in un sussurro. «Anche mantenere un comportamento professionale?» «Se è questo che mi si chiede...» disse allontanandosi da lui, raffreddandosi rapidamente per il suo rifiuto. Fatto incredibile, Phil ebbe l'impressione di scorgere una lacrima nei suoi occhi. Afferrò la maniglia, vi strinse intorno le dita intorpidite, la girò in senso orario e aprì la porta. Con equilibrio incerto varcò la soglia, si girò concedendosi un'ultima occhiata alla donna alta e voluttuosa che stava rifiutando, e poi con mano tremante richiuse la porta dietro di sé. Era terribilmente eccitato e non aveva la minima idea di che cosa avreb-
be raccontato a sua moglie. 27 «E allora, come l'ha presa?» chiese Julie, alzandosi dal letto con indosso la sua camicia da notte di flanella rosa. Phil s'infilò barcollando in bagno e si dedicò a una elaborata pulizia dei denti. «Non come avresti pensato», rispose Phil, cercando di prendere tempo. «Davvero?» disse Julie. «Cosa è successo?» «Mi sa che all'inizio non mi aveva preso sul serio», rispose Phil sputando nel lavandino. «Forse credeva che stessi bluffando. Forse era sicura che non potessimo fare a meno di lei...» «Eh già...» commentò Julie raggiungendolo in bagno. «Ma poi finalmente si è resa conto che non scherzavo», continuò Phil stendendo sullo spazzolino un'abbondante striscia di dentifricio con gel incorporato. «E come ha reagito?» chiese Julie. Phil rimase zitto per trenta secondi, fregandosi su e giù i denti e meditando sulla storia che stava per raccontare. Poi si voltò e la guardò dritta in faccia. «È scoppiata in lacrime», disse. «Mi stai prendendo in giro!» Phil fece di no con la testa. «È scoppiata in lacrime come un bambino», ripeté. «Non posso crederci!» esclamò Julie con un gridolino deliziato, battendo le mani come una ragazzina. «All'inizio», continuò Phil rassicurato dalla reazione della moglie, «è stata una bella soddisfazione, certo. Ma poi la scena è diventata quasi patetica. Mi ha fatto tutta la manfrina: non sa quanto ci tengo a questo lavoro, non voglio essere licenziata, voi mi piacete veramente, farei qualsiasi cosa per restare, qualsiasi... Insomma la solita solfa. Comunque, il punto è che mi ha pregato di darle un'altra possibilità.» «Ti ha pregato? Davvero?» «Davvero.» «E tu che cosa le hai detto?» chiese Julie. Phil riempì d'acqua il bicchiere di plastica rosso appoggiato sulla mensola, bevve un sorso, si sciacquò i denti e sputò nel lavandino.
«Julie, non sono proprio senza cuore. Non so fare il duro: le ho detto che le avremmo dato un'altra possibilità.» «Così le hai detto?» «Era così contenta che mi ha baciato, Julie. La Tata mi ha baciato per dimostrarmi la sua gratitudine!» Julie scosse la testa incredula. «Non posso crederci», disse. «Non riesco a immaginarmi la Tata che bacia qualcuno.» «Eppure mi ha baciato», ripeté. «Dio», esclamò Julie. «Questa sì che è una storia straordinaria.» «Le ho detto molto chiaramente che, se le cose non cambieranno radicalmente entro due settimane, dovrà andarsene», continuò Phil. «Spero che questa soluzione ti vada bene, ma se non sei d'accordo torno indietro a dirle di andarsene stasera stessa.» Julie fece cenno di no. «No, no. Va benissimo la decisione che hai preso. Sono solo curiosa di vedere come si comporterà ora con noi, tutto qui.» «E lo stesso vale per me», disse Phil. «Credimi, Julie, lo stesso vale per me.» 28 Seduto alla scrivania nel suo ufficio alla Sullivan, Stouffer, Cohn and McConnell, Phil fissava il foglio bianco infilato nella macchina per scrivere perso tra i suoi pensieri. Se prima gli era stato difficile guardare la Tata con indosso il camice senza vederla svestita, ora gli era impossibile. Immagini della Tata nuda o a diversi stadi nell'atto di spogliarsi soggiornavano nel suo cervello come ospiti lascive. L'ambivalenza che sentiva nei confronti di quanto era successo nella camera della governante era monumentale. Aveva l'impressione di essersi vagamente compromesso, ma si congratulava con se stesso per non aver ceduto alle avances della donna. Sapeva esattamente cosa sarebbe successo se avesse ceduto e avesse acconsentito a fare l'amore con lei: sommo piacere ed eccitazione per venti minuti e poi per giorni e giorni una densa palude di sensi di colpa, finché non avrebbe più sopportato la propria natura corrotta. Per far svanire il senso di colpa avrebbe allora cominciato a razionalizzare l'accaduto rac-
contandosi che Julie si meritava quel tradimento. E per dimostrarsi che aveva ragione avrebbe rispolverato vecchi risentimenti, risentimenti che risalivano ai primi anni del loro rapporto quando erano ancora all'università, risentimenti da tempo rielaborati e risolti. Più fosse riuscito a razionalizzare che Julie si meritava di essere tradita, meno si sarebbe sentito in colpa, finché sarebbe arrivato a considerarsi innocente come un agnello dopo aver scaricato tutto il catrame addosso a Julie. Aveva denominato questo processo il «Te-lo-meriti-in-retrospettiva». Il motivo per cui ne conosceva tanto bene la meccanica era che si era scoperto a metterlo in pratica già ai tempi dell'università, quando faceva lo stupido con le altre ragazze e aveva bisogno di trovare una scusa per non odiarsi. Sentiva che se avesse messo in atto il processo del «Te-lo-meriti-inretrospettiva», questa volta non sarebbe riuscito a fermarsi e alla fine il loro matrimonio avrebbe rischiato di andare in pezzi. Per quanto potesse essere arrapato, non era disposto a mettere in pericolo il suo rapporto con Julie, che amava sinceramente, in cambio di venti minuti di estasi con la tata di suo figlio. Ripensò alla tesi di Julie secondo cui lui era attratto dalle donne energiche perché gli ricordavano sua madre. In genere era riluttante a dar credito alle onnipresenti teorie psico-pop della moglie, ma questa volta aveva il sospetto che ci avesse azzeccato: sia la Tata sia Mary Margaret Sullivan esercitavano su di lui un'insolita attrazione. Sua madre era stata per lui una figura non soltanto energica, ma anche inconsapevolmente provocante. Quando Phil era un ragazzo lei girava per casa in reggiseno, mutandine, calze e giarrettiere, lasciando le porte della sua camera e del bagno aperte mentre si vestiva, si svestiva, si lavava o faceva la pipì. Starle vicino era troppo pericoloso e così Phil aveva fatto del suo meglio per mantenere le distanze, cogliendo ogni occasione per prenderla in giro davanti agli altri sperando di disorientarli. Nessuno avrebbe immaginato quali erano i veri sentimenti di Phil nei suoi confronti, tranne forse Julie. La sua ossessione di uomo adulto per la Tata rispecchiava la sua ossessione di bambino per la mamma. Grazie alla Tata, Phil era ormai incapace di lavorare, incapace di farsi venire una sola buona idea per la campagna Aria chiara. Idee pessime ne aveva avute a volontà: un signore pomposo finisce dritto dentro una porta a vetri che è stata appena pulita con il prodotto; Alice, il personaggio di Alice nel paese delle meraviglie, spruzza con Aria chiara uno specchio e poi
ci salta dentro; una donna pulisce con il prodotto una finestra in inverno e il paesaggio fuori diventa primaverile; un vecchietto spruzza lo spray su una finestra e vi vede riflesse immagini color seppia della sua gioventù; un ragazzino passa Aria chiara su un vetro e vede riflesso il futuro tecnologico; Clark Kent si pulisce gli occhiali con lo spray e con la sua vista a raggi X guarda attraverso i vestiti delle donne; una donna manager usa il prodotto sui suoi occhiali, li rimette, dà uno sguardo al suo mite segretario ed esclama: «Ma, signor Jeffries, lei è... lei... è splendido!» Phil trovava orribili tutte le idee che gli erano venute fino a quel momento. Peggio ancora, aveva l'impressione di non riuscire a farsene venire altre, nemmeno cattive. Il pozzo sembrava essersi improvvisamente asciugato. Era vittima di qualche diabolico blocco del copywriter. Cominciava a chiedersi se sarebbe stata una condizione permanente o quantomeno se sarebbe durata tanto da farlo licenziare. 29 Julie era allibita. Allibita, rincuorata e persino commossa. L'idea che la Tata tenesse tanto a quel posto da pregarli di darle un'altra possibilità e da scoppiare addirittura in lacrime era davvero incoraggiante. La diceva lunga sulla Tata, su aspetti della sua personalità che Julie non avrebbe mai sospettato, e che invece avrebbe dovuto intuire, data la conoscenza della natura umana che le derivava dai suoi studi universitari. La diceva lunga sulla sua vulnerabilità. Julie conosceva diverse persone che ostentavano un'aria di superiorità e si comportavano in modo aggressivo come la Tata (be', forse non proprio con tanta aggressività e superiorità come lei) e quasi tutti prima o poi, anche se per un fuggevole istante, si erano rivelati individui vunerabili e sensibili che indossavano una corazza per non essere feriti. Era rassicurante sapere che anche la Tata aveva sentimenti, bisogni, debolezze e insicurezze come chiunque altro. In poche parole era bello sapere che anche la Tata era umana. 30 Phil cercò di nuovo di controllare le referenze della Tata. Richiamò Parsons, il banchiere, e chiese di parlare con lui. «Lei è un cliente del signor Parsons, signor Pressman?»
«No, ma vorrei aprire un conto.» «Chi le ha dato il nominativo del signor Parsons?» «Il signor... Johnson», disse Phil sperando che Parsons avesse almeno un cliente con quel nome. «Il signor Emmet Johnson?» «Esattamente», rispose Phil. «Ma vorrei parlare con Parsons di persona.» «Se desidera, posso aprirle il conto anche per telefono», disse la segretaria. Phil emise un lungo sospiro. «Senta, signorina», riprese, «ho duecentocinquantamila dollari da investire. Johnson mi ha raccomandato in termini entusiastici il signor Parsons e io sono disposto a concludere l'affare con lui e soltanto con lui. Ma se non è in grado di farmi parlare con lui immediatamente mi vedrò costretto a rivolgermi alla Shearson Lehman.» La segretaria ci pensò su. «Signor Pressman, il signor Parsons sarà per un certo periodo lontano dal lavoro, ma in sua assenza lo sostituisce il signor Thurston che si occupa dei suoi clienti. Il signor Thurston si è appena liberato e posso passarglielo immediatamente, se vuole.» «Non voglio parlare con il signor Thurston», insistette Phil. «Johnson mi ha raccomandato il signor Parsons. Quando tornerà in ufficio?» «Questo è... difficile a dirsi, signore», rispose la segretaria. «Ritornerà appena possibile, ne sono sicura. Naturalmente non era possibile per lui lavorare dopo la tragedia.» «La tragedia?» «Mi scusi, ma ho un'altra chiamata in linea», disse la segretaria. «Vuole che le passi il signor Thurston?» «Senta, so che è un momento difficile per il signor Parsons», replicò Phil, «ma devo assolutamente parlargli.» «Capisco», osservò la donna. «Mi può dare un recapito a cui rintracciarlo?» chiese Phil. «Mi dispiace, signor Pressman. Mi è stato raccomandato esplicitamente di non dare questo tipo di informazioni. Vuole parlare con il signor Thurston?» «Stia a sentire, mi rendo conto che lei ha i suoi ordini, ma è davvero importante per me parlare con il signor Parsons», ripeté Phil, pur capendo che era del tutto inutile insistere. «Può almeno fargli pervenire un messaggio?
Si tratta di un messaggio personale, non ha niente a che fare con i miei investimenti.» «Vedrò cosa posso fare, signore.» «Bene», disse Phil in tono rassegnato. «Dica al signor Parsons che ha telefonato il signor Pressman. Gli dica che ho assunto Luci Redman in base a una lettera di referenze firmata da lui e che si è venuta a creare una situazione per cui ho urgentemente bisogno dei suoi consigli. Glielo dirà?» «Sì, signore.» «Ha preso nota di tutto o vuole che le ripeta qualcosa?» Si udì un sospiro esasperato. «Ho preso accuratamente nota del suo messaggio, signor Pressman.» «Grazie.» 31 Ralph Roberts si fermò nell'ufficio di Pressman per vedere come procedevano le campagne per il caffè solubile e lo spray per vetri. Ralph aveva simpatia per il giovane copywriter e avrebbe voluto che il ragazzo non patisse tutte le sofferenze che ovviamente s'infliggeva ogni volta che doveva ideare un annuncio. «Hai già qualcosa da farmi vedere?» gli chiese. Pressman sollevò gli occhi e gli passò un fascio di fogli. Ralph gli diede una scorsa mentre Pressman attendeva nervosamente. In cima a una pagina c'era lo slogan: «Finalmente un decaffeinato che non ha perso l'espresso». Su un'altra era riprodotto un fotogramma di Casablanca in cui Humphrey Bogart e Ingrid Bergman si guardano l'un l'altra nello specchio dietro il bancone del bar. Con un pennarello Pressman aveva disegnato una confezione di Aria chiara in mano a Bogart che in un fumetto diceva: «Ora sì che ti vedo, bambola». «Comincia a funzionare», disse Ralph. Pressman lo guardò incredulo. «Dici sul serio?» «Te lo garantisco», gli assicurò Ralph. «Sono due ottime idee.» «Sia ringraziato il cielo!» esclamò Pressman. «Avevi dei dubbi?» «Puoi giurarci», rispose Pressman. «Io no», osservò Ralph. «Grazie. Tony ha buttato giù dei layout su queste proposte che vorrebbe farti vedere.»
«Passo subito da lui.» «Bene», riprese Pressman. «A proposito, hai scoperto che cosa usano per decaffeinare Java?» Ralph scosse la testa: non capiva proprio perché quel ragazzo fosse così fissato con il processo di decaffeinizzazione. «Non ti preoccupare», lo rassicurò. «Te l'ho detto, è tutto a posto.» «Quindi non usano il cloruro di metilene?» chiese Pressman. «Ti ha mai detto nessuno che hai una personalità ossessiva?» «Per essere sinceri sì», confessò Pressman. Ralph notò, appesa alla parete, la foto incorniciata di due donne e un bambino. «Moglie e figlio?» chiese. «Sì.» «Carini», commentò Ralph. «E l'altra pulzella chi è?» «La tata.» Ralph spalancò gli occhi. «Tuo figlio è fortunato.» «Già...» «Viso deciso e struttura ossea perfetta», continuò Ralph. «E ha un fisico niente male.» «Non l'avevo notato», disse Pressman. Le sue risposte avevano un tono un po' troppo indifferente. Continuando ad analizzare la fotografia Ralph si chiese se Pressman si fosse già infilato nelle mutandine della tata. «Spesso mi sono domandato», riprese soppesando le parole, «come sarebbe vivere con un'estranea che si prende cura di mio figlio, sotto il mio stesso tetto. Voglio dire, spesso mi sono chiesto come me la sarei cavata. Capisci cosa intendo?» «No», rispose Pressman. «Cosa intendi?» «Mi sono chiesto se la tentazione di andarci a letto non sarebbe stata tanto travolgente da diventare incontenibile.» «Non saprei», replicò Pressman. «Ma davvero?» ironizzò Ralph. «No, davvero non saprei.» Ralph sorrise malizioso. «Dai, Phil. Mi stai raccontando che non ti ha mai sfiorato nemmeno la tentazione di giocare a nascondino con la ragazza della foto?» Pressman gli sorrise. «Mai nemmeno la tentazione.»
32 Phil era inquieto. Era immensamente sollevato che a Robert fossero piaciute le sue idee per gli annunci di Java e Aria chiara, ma quanto al processo di decaffeinizzazione Ralph gli era sembrato evasivo. Le due volte che Phil gliene aveva parlato si era limitato a rispondergli che andava tutto bene e che non c'era da preoccuparsi. Phil invece se ne preoccupava. Aveva il sospetto che quelli della Consolidated Foods trattassero il suo caffè (il suo caffè, il caffè che lui si prendeva la responsabilità di convincere la gente a comprare e bere) con prodotti chimici cancerogeni, e lui non voleva assolutamente avere niente a che fare con quella storia. Si chiese che cosa sarebbe successo se si fosse rifiutato di lavorare sulla campagna Java per ragioni morali. Si chiese se gli avrebbero semplicemente tolto il prodotto o se invece l'avrebbero licenziato. Non poteva permettersi di farsi licenziare, specialmente ora che avevano il bambino e tutte le nuove spese. D'altra parte non poteva permettersi di contribuire a una campagna che spingeva la gente a bere qualcosa che poteva causare il cancro. Pensò di sottoporre il suo dilemma a Mary Margaret Sullivan. Aveva sentito dire che ai vecchi tempi, quando aveva messo in piedi l'agenzia, era una donna con un codice morale rigoroso. All'inizio tra i suoi clienti non rientravano produttori di sigarette, né di liquori, né di prodotti che fossero meno del meglio nel loro settore. Phil sapeva che nel corso degli anni la Sullivan non era riuscita a mantenere lo standard di qualità dei suoi clienti, come aveva sperato. Sapeva che aveva dovuto scendere a compromessi, ma era sicuro che non avrebbe tollerato l'idea di spingere una bevanda cancerogena. Su questo punto avrebbe sicuramente trovato il suo appoggio. Si fermò davanti alla scrivania della segretaria della Sullivan. «Vorrei vedere la signora Sullivan, quando avrà un momento di tempo», disse. «Di cosa si tratta?» «Preferirei parlargliene di persona», rispose lui. «Nessun problema», riprese la donna. «Però devo dirle che oggi la signora è molto occupata e domani si fermerà a lavorare a casa. Forse sarebbe meglio se potesse darmi un'idea del motivo per cui ha bisogno di vederla.»
«D'accordo. Si tratta di cancro.» «Come ha detto?» chiese la segretaria. «Ho ragione di pensare che uno dei prodotti per cui sto lavorando possa essere dannoso alla salute dei consumatori.» «Di che prodotto si tratta?» «Java.» «Oh, sono sicura che su questo fronte non ha di che preoccuparsi», gli garantì la segretaria. «Bene», disse Phil con un tono da cui sperava trasparisse un agghiacciante sarcasmo. «Sono immensamente sollevato. Le sono davvero grato per questa rassicurazione.» «Si figuri...» rispose la segretaria con un sorriso soddisfatto. «Ha ancora intenzione di parlare con la signora Sullivan?» «Sì», affermò Phil. «Vedo per quando posso fissarle un appuntamento», ribatté delusa la ragazza. 33 Prima del suo sonnellino Harry si era tormentato i capelli in cerca di sicurezza, tirandoli e piangendo per il dolore. Julie era riuscita a sciogliere il groviglio che il bambino si era formato intorno alle dita, poi gli aveva messo in bocca il ciuccio e lo aveva sdraiato a pancia in giù nella culla. Ma Harry continuava ad agitarsi, sbattendo la testa di qua e di là, sprofondando la faccia nel cuscino, sputando il ciuccio per poi gridare quando lo aveva perso. Dopo un po' arrivò la Tata a prendere in mano la situazione. Sistemò Harry e riuscì a farlo addormentare, ma le urla del bambino avevano provocato a Julie un atroce mal di testa. Le sembrava che i muscoli del collo e delle spalle si fossero ristretti dopo un cauto lavaggio e che pian piano le tirassero la testa verso il basso, o che qualcuno le avesse legato intorno alla fronte delle cinghie di cuoio bagnate che, asciugandosi al sole, le stringevano sempre più le tempie, stritolandole il cranio. Julie aveva preso due analgesici tre ore prima, ma il dolore era diminuito appena. Avrebbe voluto prendere delle altre pillole, ma era preoccupata che potessero in qualche modo passare nel latte e intossicare Harry. La Tata era in cucina a preparare la cena. La Tata era un'infermiera, avrebbe potuto chiedere a lei se fosse il caso di prendere delle altre pasti-
glie. «Tata», disse Julie, «ho un terribile mal di testa. Quante pastiglie posso prendere al giorno?» La Tata si girò a guardarla. «Mi faccia vedere dove le fa male», disse. Julie le indicò il percorso del dolore intorno alla testa, lungo il collo, fino alle spalle. «Venga qui», la invitò. Julie si avvicinò al lavello dove la Tata stava sbucciando le carote e la donna le appoggiò le mani sulla testa, con tocco leggero. «Chiuda gli occhi», disse. Julie chiuse gli occhi e la Tata cominciò a massaggiarle piano le tempie, poi la fronte, poi la zona intorno agli occhi. «Si giri.» Julie si girò. La Tata continuava a massaggiarla, scendendo piano con la punta delle dita lungo il collo, verso i muscoli del trapezio tra la nuca e le spalle, fino alle scapole. «Che male», si lamentò. «Non c'è da stupirsi», commentò la Tata. «È tesa come un tamburo.» Più la Tata massaggiava, meno Julie sentiva male. Il calore cominciava a diffondersi nei punti che la Tata manipolava. Piano piano i muscoli si sciolsero e il dolore si calmò. «È davvero brava», la ringraziò Julie. «Grazie», rispose la Tata. Julie fu sorpresa e compiaciuta di quel ringraziamento. Non le era capitato spesso sentire la Tata accettare un complimento. In effetti si era notevolmente addolcita da quando Phil aveva cercato di licenziarla. Il cambiamento che si era verificato in lei era sorprendente. Doveva tenere a quel posto molto più di quanto Julie e Phil avessero immaginato. «Sto molto meglio», commentò. «Non so davvero come ringraziarla.» «Vuole che le massaggi ancora un po' la schiena?» propose la Tata. «Ma certo», accettò Julie. «Voglio dire, se non è troppo disturbo.» «Non è affatto un disturbo, cara», disse la Tata. «E anche se lo fosse, non lavoro forse per voi?» «Be', sì. Certo.» «Si sdrai sul letto che le faccio un bel massaggio.» Julie andò in camera, seguita dalla Tata. La donna l'aiutò a togliersi il maglione e la camicia e la fece sdraiare sul letto a faccia in giù, poi le slacciò il reggiseno e cominciò a manipolarle i muscoli della schiena.
Julie non aveva mai provato niente del genere. D'accordo, non si era fatta fare molti massaggi dato quello che costavano (per essere sincere non più di tre in vita sua), ma era certa che nessuna delle massaggiatrici che l'avevano toccata avevano mani così straordinarie come quelle della Tata. Le mani della Tata erano le più forti e le più delicate che Julie avesse mai conosciuto. Lavoravano su e giù per la schiena di Julie, stuzzicando, stimolando, dando piccoli pugni, tirando, schiacciando e impastando, finché il calore cominciò a irradiarsi in tutto il suo corpo, abbandonato, rilassato, formicolante. Il mal di testa era scomparso, cacciato dalle magiche dita della Tata e al suo posto era giunta una sensazione di assonnata leggerezza, simile all'euforia. «Oh, Tata...» sospirò Julie, «nessuno mi aveva mai fatto un massaggio così in vita mia. Mi sento splendidamente bene.» «Ne sono felice, cara», disse la Tata. «Vuole dormire un po' ora?» «Sì, è giusto quello che ci vuole.» La Tata coprì Julie con una trapunta, le accarezzò dolcemente la testa e poi uscì in punta di piedi dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. 34 Mentre l'acqua riempiva la vasca, la Tata spogliava con delicatezza Harry e lo preparava per il bagno. Era un bambino splendido e amava tanto la sua Tata. Anche la Tata lo amava; si era accorta di avere un rapporto speciale con lui fin dal primo momento in cui l'aveva visto, il giorno in cui era venuta per il colloquio. Harry non piangeva mai quando la Tata lo prendeva in braccio e, coliche o no, non era affatto un bambino difficile. Lo immerse nell'acqua calda e cominciò a insaponare il suo corpicino grassoccio, dal viso squisitamente intelligente fino al suo delizioso pisellino. La mamma di Harry si era rivelata un po' meglio di quanto la Tata avesse pensato. La signora Pressman era una donna splendida e di buon cuore. Tutto ciò di cui aveva realmente bisogno era di un po' di protezione materna e un po' d'amore. E guarda caso la protezione materna e l'amore erano proprio le specialità della Tata. Qualsiasi cosa la signora Pressman chiedesse, la Tata poteva fornirgliela (e gliel'avrebbe fornita) meglio di chiunque altro al mondo. Bastava che la lasciasse fare e sarebbero diventate intime in men che non si dica. Il signor Pressman era l'unico fatto imponderabile. Sembrava vacillare
tra la forza e la passività, tra lussuria e puritanesimo, tra comportamenti da adulto e atteggiamenti infantili. Era rimasta sorpresa dalla reazione alle sue avances in camera da letto, ma aveva il sospetto che l'episodio lo avesse segnato più di quanto lui lasciava a intendere. Anche il signor Pressman aveva bisogno di amore... l'unica cosa che doveva ancora stabilire era quale tipo di amore. Eppure, sotto qualsiasi forma ne avesse avuto bisogno, lei sicuramente poteva offrirglielo. 35 Con grande stupore di Phil, il comportamento della Tata in seguito al suo tentativo di licenziarla era profondamente cambiato. La sua arroganza e la sua rigidità si erano considerevolmente ammorbidite; aveva mantenuto un programma rigoroso rispetto al bambino e alla casa, ma aveva abbandonato qualsiasi atteggiamento dominante, a volte era addirittura quasi deferente e, fatto ancor più straordinario, aveva introdotto nelle sue comunicazioni con loro qualcosa di simile a un po' di calore umano. Phil aveva notato che ogni volta che incrociava lo sguardo della Tata, lei gli sorrideva con aria maliziosa e carica di complicità. Doveva aver capito che non aveva detto nulla a Julie di quanto era accaduto nella sua camera la sera in cui aveva cercato di licenziarla. L'episodio era diventato un piccolo segreto che lui e la Tata dividevano. Phil aveva sempre trovato quel genere di cose eccitante. Quando, ai tempi dell'università, usciva con Julie e vedeva altre ragazze di nascosto, i sotterfugi erano stati emozionanti quasi quanto il sesso. Per essere un uomo onesto, Phil era attratto a livello allarmante dall'imbroglio, dal rischio e dal doppio gioco. Se non fosse stato un pubblicitario di successo avrebbe potuto fare egregiamente la spia. Phil non era un giocatore, ma spesso si era sentito dire che aveva una faccia da poker. Diversamente da Julie, si era sempre sentito più a proprio agio tenendo per sé i propri sentimenti; raramente mostrava le sue emozioni, non piangeva mai, faceva sempre finta che andasse tutto bene, restando costantemente attaccato a un superficiale senso dell'ordine a costo poi di cedere a oscuri bisogni, precipitando nell'abisso. Alcuni giudicavano il pugno di ferro con cui Phil si autogovernava passività, per sua moglie si trattava semplicemente di mancanza di spontaneità. Julie aveva ragione, la spontaneità non era il suo forte, nemmeno a letto. Era un amante abile, un amante esperto e sollecito, a volte perfino un a-
mante appassionato, ma non certo istintivo. Aveva cercato a lungo, sui libri e sul campo, per scoprire dove si trovavano esattamente il clitoride e le zone erogene. Ogni gesto che faceva era premeditato; ogni piccolo movimento era studiato per condurre la sua partner e poi se stesso all'orgasmo ed era per lui importante che entrambi lo raggiungessero, preferibilmente insieme. Se non accadeva lo considerava un fallimento. Ci scherzava e diceva a Julie che lui era un amante di prima categoria, ma avrebbe voluto che non fosse così. Aveva sulla Tata incessanti fantasie in cui si ripeteva la scena che aveva avuto luogo in camera da letto, ma questa volta lui restava vittima del suo fascino. Assaporava il gusto di essere sedotto, obbligato a fare ciò che agognava senza assumersene la responsabilità. Ma nella realtà non le aveva ceduto, le aveva imposto di cambiare atteggiamento e lei lo aveva fatto. Sì, il comportamento della Tata era cambiato, e lo stesso valeva per Julie. Una certa tranquillità si era impadronita di lei, avvolgendola come un velo. Forse se n'era accorto persino Harry che piangeva sempre meno energicamente quando Julie lo prendeva in braccio. Infine era arrivato a lasciarsi prendere in braccio senza piangere affatto e Julie era tornata felice. Una sera, poco dopo essere rientrato dall'ufficio, Phil andò in cucina a prendere un bicchiere di succo d'arancia. La Tata stava pulendo l'insalata nel lavello. «Come va, signor Pressman?» «Bene, Tata», rispose Phil prendendo dal frigorifero la brocca di plastica bianca che conteneva il succo di frutta. «Ha avuto una buona giornata?» «Non c'è male», disse lui. «Signor Pressman, devo farle una confessione.» «Davvero?», fece Phil riempiendosi un bicchiere e girandosi a guardarla. «Sì», continuò la Tata. «Oggi pomeriggio ho visto il suo portfolio sul tavolino in soggiorno e mi sono presa la libertà di sfogliarlo. Spero non le dispiaccia.» «Affatto», replicò Phil chiedendosi dove volesse andare a parare con quel discorso. «Tutti quegli annunci li ha inventati lei?» «Tutti quanti», l'assecondò Phil sorseggiando il succo d'arancia freddo. «Be', devo dirle che ne sono rimasta impressionata. Sono così intelligenti. Non avevo idea di quanto lei fosse intelligente.» «Be', grazie, Tata. Che bel complimento.»
«Spero che i suoi datori di lavoro la paghino bene», aggiunse la Tata. «Non abbastanza», commentò Phil. Lei gli sorrise con l'aria di chi ha ancora qualcosa da dire. «Signor Pressman...» «Sì, Tata?» «Vorrei... ringraziarla per essere stato così comprensivo l'altra sera... e per non avermi licenziata. Il mio comportamento è stato ingiustificabile. Avrebbe avuto tutte le ragioni per insistere che me ne andassi. Le sono molto grata per non averlo fatto.» «Ah», esclamò Phil stupito dal suo candore, «grazie per avermelo detto.» «Da quella sera ho fatto di tutto per modificare il mio comportamento», proseguì la Tata. «Spero che abbia notato il miglioramento.» «Sì, certo, Tata. E ne sono molto soddisfatto.» «Se in futuro ci dovesse ancora essere qualcosa che non la soddisfa di me», aggiunse, «spero sinceramente che non esiterà a farmelo notare. Lo farà per me?» «Non ne dubiti, Tata», disse Phil. «Non ne dubiti.» 36 Quando la donna dai modi bruschi e i capelli grigi tagliati corti entrò nella stanza, l'uomo a letto era intento a guardare fuori della finestra senza vedere nulla in particolare. I suoi capelli erano grigi come quelli della donna, anche se dal suo aspetto si capiva che doveva avere una ventina d'anni meno di lei. Più preoccupante era la sua pelle che, dello stesso grigio dei capelli, lo faceva apparire in mezzo al bianco delle lenzuola e dei cuscini sullo sfondo della parete bianca alle sue spalle, uno studio monocromatico. La donna rimase in piedi ad aspettare per alcuni istanti che l'uomo nel letto si accorgesse della sua presenza prima di parlare e quando si decise a farlo il suo tono risultò più deferente di quello che ci si sarebbe aspettati dal suo atteggiamento. «Buonasera, signor Parsons», esordì. L'uomo nel letto non rispose subito, continuando a guardare fuori della finestra senza vedere nulla in particolare. Dopo un po' si girò verso di lei. «Buonasera, signorina Phipps», salutò. «Come va oggi, signore?» «Bene. Non potrebbe andare meglio.»
«Le ho portato la posta e alcuni messaggi di persone che hanno telefonato», riprese la donna e appoggiò con cura ai piedi del letto un pacchetto di lettere e un mazzetto di foglietti rosa con stampigliato sopra «In sua assenza». «Grazie, signorina Phipps», disse l'uomo senza manifestare il minimo interesse per le carte ai piedi del letto e tornando a fissare la finestra. «C'è qualcosa che posso fare per lei?» «No, no», rispose lui. «Qui pensano a tutto. È splendido.» «Ha bisogno di niente?» chiese. L'uomo non rispose. Continuava a guardare fuori della finestra. «Qualsiasi cosa...» insistette. «Niente», tagliò corto lui infine. «Qui ho tutto quello che potrei desiderare.» «Sì, signore», obbedì. «Bene, allora credo che andrò.» «D'accordo.» La donna esitò un istante, come aspettando qualcosa. «Dirò a tutti in ufficio che li saluta», disse infine. «Oh, ma certo.» E prima che lui potesse vedere i suoi occhi inumidirsi la donna si voltò e si diresse verso la porta. 37 Julie aveva perso il latte da quando Harry non aveva più voluto attaccarsi al seno e, non dovendo più allattare, cominciava a poter mettere piede fuori di casa per andare al Design Center. Aveva una coppia di nuovi clienti, i signori Sharp di Teaneck, nel New Jersey, che avevano appena acquistato un appartamento in un condominio e non vedevano l'ora di trovare un salotto componibile per il soggiorno. Il signor Sharp, un broker di beni di largo consumo basso e dall'aspetto indifeso, sulla via della calvizie, con baffi radi e occhiali fumé, confessò a Julie di avere un debole per il moderno... «Per essere precisi il Postmoderno», aveva detto. La signora Sharp, agente immobiliare, minuta e con il viso scarno, che portava buffi occhiali troppo grandi con la montatura in osso, aveva un debole per il tradizionale... «Per essere precisi il Vecchia America», le aveva confidato. Julie li guidò per decine e decine di saloni di esposizioni al Design Center, alla ricerca di un salotto componibile stile Postmoderno Vecchia
America, ricerca nel corso della quale il signor Sharp la prese da parte per metterla al corrente del fatto che avevano un budget molto ristretto, mentre la signora Sharp le precisò a quattr'occhi che i soldi non erano un problema. Julie cercò di trovare qualcosa di relativamente poco caro in uno stile tradizionale ma pulito che sembrasse anche un po' moderno, però tutto ciò che sceglieva non andava bene o al signor Sharp o a sua moglie, a eccezione di quello che non andava bene a entrambi. Ogni tanto uno dei due prendeva in disparte l'altro, conducendolo in un angolo dell'esposizione dove rimanevano a bisbigliare rabbiosamente per alcuni minuti, per poi tornare da Julie con un sorriso tirato sul volto, la signora Sharp con le lacrime agli occhi, e chiedendo di passare all'esposizione seguente. Dopo sei ore di ricognizione, il signore e la signora Sharp si parlavano a malapena e Julie stava rapidamente precipitando in un altro dei suoi martellanti mal di testa. «Ho una proposta», passò al contrattacco. «Perché non andate al Macy's e al Bloomingdale's? E se vedete qualche soluzione che vi piace prendete nota del numero di modello, così poi ci torniamo insieme.» «Ma non voleva venire con noi per consigliarci?» chiese la signora Sharp delusa. «Oh, certo», rispose Julie, «vorrei tanto. Ma ho un bambino piccolo a casa che mi aspetta per essere allattato.» Quando rientrò, le cinghie di cuoio bagnate sulla fronte erano ormai così strette che Julie riusciva a malapena a vederci. Alla Tata bastò uno sguardo per condurla senza una parola dritta in camera da letto. Lì l'aiutò a togliersi il cappotto, le scarpe, la gonna e la camicia, ripose rapidamente gli indumenti nell'armadio e la fece sedere sul letto con addosso soltanto la biancheria intima. Come si fa con un bambino piccolo, la Tata andò decisa in bagno, aprì il rubinetto della vasca poi, senza consultarla, tornò in camera a finire di spogliarla. Le sfilò le calze, le tolse il reggiseno, la fece sdraiare con decisione a faccia in giù sul letto e cominciò a massaggiarle la schiena e le spalle. «Ha avuto una giornata difficile?» chiese. «Non poteva essere peggio», rispose Julie. «Non poteva essere peggio.» «Se ha voglia, me ne può parlare.»
Grata per l'occasione che la Tata le offriva di sfogare un po' di tensione, Julie iniziò a descrivere i signori Sharp, i loro desideri contrastanti fra mobili Postmoderno e stile Vecchia America e i loro gusti abominevoli. La Tata sogghignava senza smettere di manipolare e sollecitare la schiena di Julie e Julie si sentì ispirata da quell'incoraggiamento a punte sempre più alte di perfida parodia nella descrizione dei suoi clienti. «Ma non voleva venire con noi per consigliarci?» disse imitando il tono petulante della signora Sharp. Julie decise che il marito sembrava un'aquila calva e la moglie una civetta. Quando la vasca fu piena, le due donne si sbellicavano dalle risate al pensiero dell'aquila e della civetta. La Tata condusse Julie in bagno, versò un po' di bagnoschiuma nella vasca, le sfilò le mutandine e la fece scivolare nell'acqua. Dato che la Tata era un'infermiera e aveva eseguito l'intera procedura con tanta naturalezza, Julie non si era chiesta se fosse il caso di lasciarsi spogliare dalla propria domestica. «Sa», disse in tono allegro alla Tata che le lavava i capelli, «quando è venuta a stare da noi non mi sentivo affatto a mio agio con lei.» «Non mi sorprende», rispose la Tata sfregando il cuoio capelluto di Julie. «Neanch'io mi sentivo a mio agio con voi.» «Davvero?» chiese Julie. «Non si trovava bene?» «Oh, cielo, no. Devo dire che lei e suo marito avete un modo di trattare con i domestici notevolmente diverso da quello a cui sono stata abituata.» «Capisco», annuì Julie. «Specialmente lei, signora Pressman», continuò la Tata facendole inclinare indietro la testa per sciacquarle i capelli sotto la doccia. «Il suo desiderio di trattarmi da pari mi metteva a disagio. Perlomeno all'inizio... sa com'è l'istruzione che una tata riceve in Inghilterra... ma devo dire che ora i suoi modi mi piacciono.» «Dice sul serio?» «Sì», rispose la Tata. «Sembra quasi che siamo compagne di scuola.» «Anche a me», concordò Julie. «È straordinario.» «E provo anche uno strano affetto materno nei suoi confronti», riprese la Tata insaponando la schiena e le spalle di Julie con una grande spugna, «anche se ci saranno a malapena cinque anni di differenza tra noi. Credo che lei abbia molto bisogno di affetto materno.» «Mmm», fece Julie. «Penso proprio che abbia ragione.» «E io sono più che felice di poterglielo offrire», dichiarò la Tata insapo-
nandole braccia, ascelle e seno. «Aveva un buon rapporto con sua madre quando era piccola?» le chiese. Julie ci pensò su un momento prima di rispondere. «Sì e no», ammise. «Ho sempre pensato che io e la mamma fossimo molte attaccate quando ero piccola... Ho un sacco di ricordi di lei che mi insegna a cucire, a cucinare e cose del genere. Ma ora capisco che era sopraffatta dalla maternità e in qualche modo dovevo sentirlo anche allora. Probabilmente pensavo che fosse troppo debole per potermi dare l'affetto di cui avevo bisogno. Così ho dovuto crescere più in fretta del dovuto, tanto che a dieci anni ero più materna nei confronti di mia madre di quanto lei fosse con me. Ha senso quello che le sto raccontando?» «Un senso preciso», rispose la Tata. «E sua madre com'era?» s'informò Julie. Il viso della Tata assunse per un istante un'espressione gelida, poi tornò a rilassarsi. «Ho avuto dei pessimi genitori.» «Oh, mi dispiace.» «Anch'io non ho avuto infanzia», continuò la Tata. «Forse è per questo che ora è una Tata tanto brava», osservò Julie. «Forse è così», concordò. Terminato il bagno, la Tata aiutò Julie a uscire dalla vasca e l'asciugò sfregandola energicamente con un grande telo di spugna. «Tata», esordì Julie in tono incerto. «Pensavo di chiederle un consiglio medico su un argomento piuttosto... intimo...» «Certo, cara», disse la Tata aiutandola a infilarsi la camicia da notte. «Che cosa vuole sapere?» «Be'», riprese Julie, «l'ostetrica mi ha detto che l'episiotomia sarebbe guarita completamente entro sei settimane dal parto e che allora avrei potuto ricominciare ad avere rapporti sessuali.» «Sì...» «Ma le sei settimane sono passate e i rapporti sono ancora... troppo dolorosi. È normale?» «Perfettamente normale, cara», la rassicurò la Tata iniziando ad asciugare i capelli di Julie con il fon ed energici colpi di spazzola. «Mi sento così in colpa costringendo Phil all'astinenza.» «Non si preoccupi del signor Pressman», disse la Tata. «Si preoccupi di se stessa. Il signor Pressman si arrangerà.»
38 Sebbene Phil fosse ripassato dall'ufficio della Sullivan altre tre volte, la segretaria stranamente non era stata in grado neppure di dargli un'idea di quando avrebbe potuto ottenere un'udienza dall'occupata presidentessa dell'agenzia. Prima c'erano stati guai inaspettati con una campagna che stavano per far uscire per una marca di automobili; poi la Sullivan aveva lavorato per un periodo a casa e non poteva essere disturbata; infine un cliente di fuori città si era presentato senza preavviso e aveva dovuto essere intrattenuto. Phil cominciava a sentirsi preso per il naso. Era sorpreso e deluso. Dopo tutto quello che aveva sentito dire su Mary Margaret Sullivan, si sarebbe aspettato di più da lei. Se lo avesse semplicemente fatto chiamare nel suo ufficio e gli avesse detto: stia a sentire, in passato sono stata un'idealista e mi sono rifiutata di accettare prodotti che pensavo fossero nocivi, ma non posso più permettermi questo lusso, devo fare dei compromessi e quindi se non se la sente può lavorare a qualcos'altro. Se avesse fatto così almeno avrebbe potuto capirla. Un comportamento del genere avrebbe richiesto un po' di coraggio da parte sua, ma continuare a negarsi senza neppure trattare con lui direttamente... questo gli sembrava davvero vergognoso. Imperdonabile. Continuando a evitarlo forse l'avrebbe portato al punto di costringerla a parlargli di persona. Nonostante l'episiotomia di Julie fosse finalmente guarita, i rapporti sessuali tra loro erano ancora troppo dolorosi per essere sinceramente presi in considerazione, così lei e Phil a letto dovevano accontentarsi di insoddisfacenti scambi di coccole. La vicinanza della Tata e il ricordo del suo tentativo di sedurlo avevano messo sotto pressione Phil fino a dare alla sua eccitazione una durezza adamantina che avrebbe potuto scalfire anche il vetro. Una mattina, poco prima delle sei, Phil fu svegliato dal rumore della Tata che in cucina dava la poppata ad Harry. Julie si stirò e bofonchiò qualcosa, ma rimase immersa nel sonno. Phil non fu così fortunato: dopo un po' si alzò, andò in bagno a fare pipì, poi decise che voleva una tazza di caffè. La vista che lo accolse in cucina gli fece venire il dubbio di essere ancora addormentato.
Sulla sedia a dondolo bianca di vimini c'era la Tata con in braccio Harry. I primi bottoni del suo camice erano aperti e Phil ebbe l'impressione che si fosse attaccata al seno il bambino. «Cosa sta facendo?» chiese. La Tata gli sorrise, cambiò posizione a Harry e Phil non fu più sicuro di ciò che aveva visto. 39 Julie non voleva svegliarsi. Phil continuava a scuoterle una spalla. «Ti prego...» sussurrò lei tentando di restare aggrappata agli ultimi brandelli di sonno. «Ancora un'oretta.» «Julie», insistette Phil, «la Tata sta allattando il bambino.» Julie fece un verso. «Ancora un'oretta...» «Julie, la Tata si è attaccata al seno tuo figlio.» Julie aprì gli occhi. «Sono appena entrato in cucina e li ho visti», spiegò. «Pensavo di sognare.» Julie sollevò la testa dal cuscino tutto appallottolato. Strizzava gli occhi mettendo a fuoco la scena a fatica. «Che cosa hai detto?» «Credo che tu mi abbia sentito benissimo», rispose Phil. Julie scosse la testa, poi la lasciò ricadere sul cuscino e chiuse gli occhi. «Hai sognato», concluse. «Non mi credi?» Julie sospirò. «Credere che la Tata abbia il latte e si sia attaccata al seno nostro figlio? No, Phil. Non ci credo.» «Ma, Julie, l'ho vista con i miei occhi.» «Impossibile, Phil. È fisicamente impossibile.» «Nel libro sull'allattamento ho letto di una madre adottiva che è riuscita a farsi venire il latte con una cura di ormoni e massaggi», ribatté Phil. Sul viso di Julie passarono in rapida successione una serie di emozioni, come se stesse cercando quella adatta. «Non farmi questo, Phil», lo pregò piano. «Per favore, non farmelo.» «Non farti cosa?» Sulle labbra di Julie comparve l'ombra di un sorriso. Non era adatto al-
l'occasione e scomparve, lasciando il posto a due lacrimoni che le scivolarono giù lungo le guance. «Proprio adesso che le cose con la Tata cominciavano ad andare meglio...» mormorò Julie. «Ti prego, non rovinare tutto, tesoro. Ti prego.» Phil ci pensò su. Sua moglie gli stava dicendo che non voleva sentire niente di brutto sulla tata. Sua moglie gli stava dicendo che non poteva sopravvivere senza la Tata. Era molto tempo che non lo chiamava tesoro. «Okay, piccola», accettò Phil, «come vuoi.» 40 Phil aveva preso la sua decisione. Avrebbe rispettato il desiderio di Julie di non sentire niente di brutto sulla Tata, almeno per un po'. Due persone che si amano possono fare almeno questo l'uno per l'altra, raccontarsi le bugie che vogliono sentire, risparmiarsi le verità troppo dolorose. E poi forse Julie aveva ragione. Forse, nonostante lo strano comportamento della Tata, non potevano farcela senza di lei. Forse fare il bagno con lei e attaccarsi al suo seno (ammesso che questo fosse realmente successo) non era pericoloso per il bambino. Da un punto di vista logico, il fatto che la Tata facesse il bagno con lui e lo allattasse non era più pericoloso di quando era Julie a fare le stesse cose. Nonostante Phil avesse sempre assicurato a Julie che non era così, Harry probabilmente non si sarebbe nemmeno accorto della differenza. Forse la differenza non c'era. Forse. Forse la Tata non stava allattando il bambino. Forse era stato lui ad avere le allucinazioni. Non era del tutto impossibile che Phil avesse creduto di vedere una cosa simile, dato lo stress a cui era stato sottoposto nelle ultime settimane. Non era del tutto impossibile. In fondo che lui fosse paranoico era risaputo. Julie aveva fatto in qualche modo la pace con la Tata una volta per tutte e ora sembrava improvvisamente che tra loro ci fosse l'intimità che viene a crearsi tra compagne di scuola. Non era poi così sorprendente, pensò Phil: l'oppresso che si identifica con il suo oppressore è un fenomeno psicologico comune. Gli stessi carcerati prendono a modello i secondini, così come le vittime di un rapimento i loro sequestratori. Patty Hearst per esempio era diventata una combattente dell'Esercito di liberazione simbionese con tanto di mitragliatrice in spalla... un regresso al momento della nostra vita in cui tutti siamo stati prigionieri dei nostri genitori. Forse era quello che stava succedendo tra Julie e la Tata. Forse era il motivo per cui Julie era
disposta a chiudere un occhio su qualsiasi cosa la Tata avesse o non avesse fatto. Phil sperava che fosse così, dal momento che un'altra ipotesi gli si era affacciata alla mente, un'idea che non era ansioso di verificare: l'ipotesi che la Tata avesse tentato di sedurre Julie come aveva tentato di sedurre lui. E l'ipotesi che Julie le avesse ceduto, diventando la sua amante. No, non era possibile. A Julie non piacevano le donne, di questo Phil era certo. Se fosse stato così, gli sarebbe capitato di scorgere dei segni di questa tendenza in passato e invece non si era mai accorto di niente. Eppure tutto era possibile. Niente di ciò che la Tata faceva lo avrebbe sorpreso, neppure il tentativo di sedurre sua moglie. Phil cercò d'immaginare Julie e la Tata a letto insieme abbracciate, mentre si accarezzavano e si baciavano, due corpi nudi l'uno contro l'altro, e rabbrividì. 41 «Sì, la signora Sullivan è in ufficio», disse la segretaria, «ma è occupata.» «A far che?» chiese Phil. «Come, scusi?» «Cosa sta facendo?» «Sta lavorando», rispose la segretaria. «Le dica che voglio vederla.» «Sa benissimo che lei vuole vederla.» «Le dica che la voglio vedere adesso.» La segretaria lo fulminò con un'occhiataccia. «La signora Sullivan è occupata. Sta lavorando», ripeté a denti stretti. «La riceverà quando avrà un momento libero.» Phil si diresse a grandi passi verso la porta dell'ufficio della Sullivan e l'aprì. «Ma cosa fa?...» esclamò la segretaria scioccata. «Lei non si preoccupi», la zittì Phil entrando nell'ufficio. Mary Margaret Sullivan alzò gli occhi, sinceramente sorpresa. «Cosa fa lei qui?» chiese. «Mi dispiace per questa irruzione, signora Sullivan», si scusò Phil mentre gli nasceva il sospetto di aver commesso un terribile errore, «ma ho un problema serio ed è per me d'importanza capitale parlargliene immediatamente.»
«È cieco o cosa, che non capisce quando qualcuno è occupato?» sbottò lei, fumante di rabbia. Phil si sentì salire al viso una vampata d'imbarazzo. Era davvero la mossa peggiore che avesse mai fatto nel mondo della pubblicità e probabilmente gli sarebbe costato il licenziamento, ma si sentiva troppo indignato al pensiero di dover convincere la gente a bere un caffè che avrebbe potuto causare loro il cancro per poter trattenere il proprio risentimento. «E lei è cieca o cosa, che non capisce quando la sua agenzia gioca come se niente fosse con la vita della gente?» Il volto della Sullivan era acceso d'ira. «Di che diavolo sta parlando?» Phil cominciò a spiegare con calma ma rapidamente, cercando di non lasciarle spazio per interromperlo tra una parola e l'altra. «Sto parlando del fatto che mi paga per scrivere annunci che persuadano persone innocenti a comprare e bere un caffè che, essendo decaffeinato con un processo che utilizza un additivo chimico chiamato cloruro di metilene, con effetti cancerogeni sulle cavie da laboratorio, invece che con il processo ad acqua svizzero o con l'etilacetato, che è una sostanza non nociva che si trova in natura e approvata dalla FDA e utilizzata da...» «Basta così!» lo interruppe la Sullivan e Phil si fermò. «Chi le ha detto che Java viene decaffeinato con cloruro di metilene?» «Be', Ralph Roberts», rispose Phil. «Ralph Roberts le ha detto che Java è decaffeinato con il cloruro di metilene?» «Per la verità non così esplicitamente, forse, ma mi ha detto...» «Se Ralph le ha detto una cosa simile ha mentito», affermò la Sullivan. «Java è decaffeinato con etilacetato proprio come Gran qualità e Folger.» Phil la guardò dritta in faccia. «Davvero?» chiese con espressione ebete. «Sì.» «Mmm, ne è sicura?» insistette cominciando a sudare abbondantemente. «Del tutto sicura», confermò. «È una delle prime cose che ho chiesto quando abbiamo accettato il cliente.» «Capisco», mormorò Phil estraendo il fazzoletto e asciugandosi viso e collo ormai grondanti. «Temo di doverle delle scuse. Credo di essermi lasciato un po' trasportare e...» «Un po'?» «È che ho imparato un paio di cose sul caffè decaffeinato durante la gravidanza di mia moglie e...»
«E quelli che sanno soltanto un paio di cose sono sempre pericolosi», lo interruppe lei. «... e quando ho chiesto a Ralph che cosa usassero per decaffeinare Java lui si è limitato a rispondermi di non preoccuparmi. Credevo sinceramente che volesse tenermi nascosto che usavano il cloruro di metilene. E poi, dato che non riuscivo a fissare un appuntamento con lei, ho cominciato a pensare che anche lei stesse cercando delle scuse.» La Sullivan scosse la testa con aria di compatimento. «Be', mi sono davvero reso ridicolo», ammise Phil in tono abbattuto, «e non potrei rimproverarla se ora decidesse di licenziarmi.» La Sullivan lo guardò per alcuni istanti e poi scoppiò a ridere di gusto. «Si è davvero reso ridicolo», convenne, «ma non ho alcuna intenzione di licenziarla. Ho seguito attentamente il suo lavoro, Pressman, e ne sono rimasta colpita. Ho bisogno di gente in gamba come lei.» «Grazie.» «Ma le devo dire», continuò riprendendo a ridere, «che da anni non vedevo un pazzo scatenato ai suoi livelli.» «Mi dispiace», si scusò Phil. «Non so cos'altro dire.» «D'altra parte devo ammettere che erano anni che non incontravo qualcuno con una coscienza morale così determinata nel mondo della pubblicità», riprese. «Anche se non era il caso, ha avuto un bel fegato per irrompere nel mio ufficio come ha fatto.» «Lo crede davvero?» La Sullivan annuì. «E come va il suo bambino?» «Oh, meglio», rispose Phil sollevato di poter parlare di qualcos'altro. «Molto meglio.» «Ha assunto una nurse come le avevo suggerito?» «Sì.» «Bene. Okay, Pressman, ora è meglio che mi lasci tornare al mio lavoro.» «D'accordo.» Lei gli sorrise. «Dormirò sonni più tranquilli», gli disse con una strizzatina d'occhio, «adesso che so che Phil Pressman veglia sul codice morale dell'agenzia.» Phil le restituì un vago sorriso e con un incerto cenno di saluto si diresse verso la porta. «Pressman...»
«Sì?» «Le prometto che la prossima volta che vorrà parlarmi l'ascolterò», disse con calore. «Non c'è bisogno di buttare giù la porta.» «Grazie, signora Sullivan.» 42 I signori Sharp avevano trovato al Bloomingdale's un salotto che non giudicavano né bellissimo né bruttissimo, ma con cui pensavano di poter convivere e avevano insistito perché Julie si trovasse fuori del grande magazzino all'apertura per vederlo. Così Julie si alzò presto quella mattina e uscì di casa proprio mentre Phil entrava in bagno a farsi la doccia. Phil aprì il rubinetto dell'acqua calda, si tolse gli slip e la maglietta e quando la cabina della doccia fu piena di vapore vi entrò. Assaporò per un attimo la sensazione dell'acqua calda che scendeva in tanti piccoli aghi a massaggiargli le spalle e la schiena, poi cominciò a insaponarsi. Ebbe l'impressione di sentire la porta del bagno aprirsi e pensò che Julie fosse tornata indietro a prendere qualcosa che aveva dimenticato. Non era Julie. Attraverso il vetro appannato del box doccia Phil distinse una spettrale figura in bianco: la Tata con il suo camice bianco inamidato. Il cuore di Phil cominciò a battere forsennatamente. In nome di Dio, cosa... «Cosa vuole?» esclamò. La Tata si mosse lentamente in direzione della doccia. Prendendosi il suo tempo, prendendosi tutto il suo dolcissimo tempo, prendendosi tutto il tempo del mondo, la Tata allungò una mano verso il bordo di alluminio del box doccia e fece scorrere il pannello aprendolo. «Esca di qui», le ordinò. Sul viso della Tata era disegnata un'espressione divertita. «Deve essere più spontaneo, signor Pressman», disse. «Deve imparare ad approfittare del momento. Non è così che le dice sempre la signora Pressman?» Fissava senza pudore il corpo di Phil, dedicando particolare attenzione al suo basso ventre insaponato. Phil si sentiva vulnerabile, arrabbiato, eccitato, confuso. Cosa poteva mai... «Esca immediatamente di qui», ripeté. Lentamente la Tata si slacciò e si tolse una per una le scarpe di pelle bianca. Poi entrò nella doccia, completamente vestita, e richiuse il pannello scorrevole. Una pioggia di acqua calda cadde sul suo camice, diluendone
lo spessore e facendoglielo aderire addosso come una seconda pelle. Tutti i suoi indumenti e le parti del corpo che nascondevano divennero visibili a Phil come se fosse improvvisamente stato dotato di vista a raggi X. Fu sopraffatto dalla stessa sensazione di stordimento e trance che si era impadronita di lui nella camera da letto della Tata la sera in cui aveva cercato di licenziarla. «Si rilassi, signor Pressman», sussurrò la donna. «Pensi a cogliere il momento. A essere qui e ora, come dicevano nel Sessantotto.» Ondeggiò verso di lui senza spostare i piedi nemmeno di un millimetro. Phil si ritrasse, ma non c'era spazio per sfuggirle. In piedi di fronte a lei, con la schiena appoggiata contro la parete del box doccia, non voleva vedere come sarebbe andata a finire, ma non riusciva a far nulla per interrompere la scena. «Per favore, se ne vada», mormorò. La Tata gli passò le braccia intorno al collo e appoggiò il proprio corpo contro il suo. Phil registrò il contatto della stoffa bagnata del camice sulla pelle nuda e sentì arrivare l'erezione. Non se l'era cercata. Fino a quel momento aveva fatto di tutto per tenersene alla larga. Lui non era più responsabile di quanto stava accadendo. E poi forse non stava neppure accadendo. La Tata gli appoggiò le labbra sulla fronte, sulla guancia, sul collo e sulla bocca. Phil rimase immobile e la lasciò fare. Forse Julie aveva ragione. Approfittare del momento non era poi così male. La Tata fece scivolare la lingua fresca tra i denti di Phil andando a toccare la punta della sua. La risucchiò nella propria bocca e la morse. Phil si lasciò sfuggire un gemito involontario. Con un gesto incerto le mise le braccia intorno al collo e lei allora si staccò. Sorridendogli aprì il pannello scorrevole e uscì dalla doccia, creando immediatamente un lago sulle mattonelle del pavimento. Afferrò l'asciugamano di Phil, se lo avvolse intorno ai capelli grondanti e uscì dal bagno. A Phil ci volle un po' per farsi passare i bollori. Vivere sotto lo stesso tetto con la Tata equivaleva a fumare in una polveriera. Si sentiva teso come una corda di violino sul punto di rompersi. Era offeso per il modo in cui la Tata lo aveva preso in giro, ma si rendeva conto di trovare il gioco troppo eccitante per licenziarla. E poi grazie alla Tata Julie era di nuovo felice, Harry aveva ripreso a dimostrarle il suo affetto e non piangeva più quando lei lo prendeva in braccio.
Il giorno prima Phil si era goduto una splendida scena. Aveva sorpreso Julie e Harry a giocare in cucina. Julie era seduta sulla sedia a dondolo con il bambino sulle ginocchia, rivolto verso di lei. Harry alzava le braccia sopra la testa e Julie lo imitava, strappandogli stupendi sorrisi sdentati. Harry continuava a lasciar cadere le braccia e a risollevarle sopra la testa. Julie gli rifaceva il verso e lui sembrava trovarlo esilarante. Erano andati avanti a fare su e giù con le braccia finché Harry era scoppiato a ridere forte. Il suono della risata di suo figlio aveva fatto venire a Phil voglia di piangere. Scene come quella erano diventate possibili solo grazie alla Tata. Julie avrebbe pagato quella felicità qualsiasi cosa e Phil cos'era disposto a pagare? 43 Quando Julie arrivò davanti al Bloomingdale's, i signori Sharp la informarono che avevano cambiato idea. «Nessuno di noi era veramente convinto di quella soluzione», le spiegò la signora Sharp, «e dati i prezzi perché accontentarsi di un compromesso?» Julie rientrò proprio mentre Phil usciva per andare al lavoro. Guardò il pavimento e non poté credere ai suoi occhi. «Buon Dio, Phil», disse, «cos'è tutta quest'acqua sulla moquette?» «Stavo facendo la doccia quando mi è parso di sentire suonare il telefono», rispose lui. «Hai bagnato dappertutto, in camera da letto, in soggiorno, in corridoio», continuò. «Mi dispiace, Julie. Al momento non mi sono reso conto che gocciolavo tanto.» Julie squadrò il marito. «Il telefono è in camera da letto. Come mai ci sono impronte bagnate fino davanti alla porta delle altre stanze? Fino davanti alla stanza della Tata?» «Come mai?» ripeté. «Te lo dico io come mai. Perché quando sono arrivato in camera e ho sollevato il telefono (era uno che aveva sbagliato numero, comunque) ho sentito Harry che piangeva. A quanto pare non sono più capace di calmarlo, così sono andato a chiamare la Tata.» «Ah», disse Julie. «Be', questo spiega tutto.» E invece no, pensò tra sé. C'era qualcosa di strano in tutta quella storia.
C'era qualcosa di strano nel modo in cui Phil gliel'aveva raccontata. In effetti Phil era molto strano ultimamente. Julie si chiese che cosa gli stesse succedendo. Si chiese se avesse le fregole per la Tata. Sperava non stessero per avere un replay di quello che era successo quando, ai tempi dell'università, i suoi infantili filarini con le altre ragazze l'avevano quasi obbligata a rinunciare a lui. A volte Phil era davvero ancora un bambino. C'erano momenti in cui non era sicura si rendesse conto di essere il padre di Harry. C'erano momenti in cui non era sicura si rendesse conto di essere suo marito. A periodi di durata variabile, senza alcuna particolare ragione, smetteva di fare le piccole cose che generalmente faceva in casa, costringendo Julie a togliere di mezzo le sue calze e la sua biancheria sporche. D'improvviso non sapeva più dov'erano le cose e doveva chiedere a Julie di trovargliele, mentre in compenso sembrava aspettarsi una speciale approvazione quando faceva tutte quelle cose che Julie sbrigava senza discussioni, per esempio rifare il letto, cosa che apparentemente rientrava nei normali doveri di una moglie, ma diventava immediatamente un favore particolare quando era Phil a occuparsene. In quei periodi Phil sembrava più suo figlio che suo marito. A quanto pareva nemmeno lui si divertiva particolarmente in quelle situazioni, eppure di tanto in tanto ci scivolava dentro. Doveva essere una bella tentazione per un uomo farsi accudire dalla donna con cui vive, pensò Julie. Doveva essere una sensazione così familiare, lo faceva tornare un po' bambino, quando era la mamma a occuparsi di tutto. Ma sfortunatamente se l'uomo è un adulto e la donna con cui vive è sua moglie un rapporto così non funziona. Trasformare la moglie in madre non soddisfa nessuno dei due partner e soprattutto uccide il sentimento. Non che in quel momento il povero Phil avesse una scelta in quel campo, pensò Julie. Finché i rapporti sessuali avessero continuato a essere tanto dolorosi non sarebbe stata molto disponibile. Phil aveva suggerito il sesso orale, ma lei non si era mostrata molto entusiasta dell'idea. Eppure, prima dell'arrivo del bambino, la cosa le piaceva. Non sapeva perché il pensiero di rapporti orali non la eccitasse più, semplicemente non le sembrava più appropriato. Forse era perché ora era madre. Ogni volta che guardava Harry, si meravigliava di quella piccola creatura e pensava che il sangue e i tessuti di Phil e suoi si erano fusi in lui. Era un concetto con una forte carica emotiva.
Il bambino faceva di lei e di Phil una vera famiglia, li rendeva realmente parenti di sangue e c'era qualcosa che non andava moralmente nel fare del sesso con un parente di sangue. Si rendeva conto del logorio che la totale astinenza doveva rappresentare per Phil; si rendeva conto che continuando a negarsi lo avrebbe obbligato prima o poi a cercare la propria soddisfazione altrove. Si chiese se non l'avesse già trovata; si chiese se la sua riluttanza ad avere rapporti sessuali con Phil non fosse fondata più su motivi psicologici che fisici. Forse anche lei, come Phil, si stava comportando in modo tutt'altro che adulto. Permettere alla Tata di prendere in mano la casa come una madre onnipotente di certo aveva fatto sentire Julie una ragazzina, la sorella più grande anziché la mamma di Harry. Forse il suo modo di fare la pace con la Tata (per quanto fosse piacevole essere così completamente e amorevolmente accuditi) era in effetti l'equivalente del comportamento infantile di Phil. Avrebbe dovuto pensarci. O non pensarci, il che era forse più semplice. 44 L'infermiera era sollevata. Per la prima volta dal suo arrivo alla clinica, il signor Parsons aveva chiesto un cestino per la carta straccia e aveva dimostrato un effettivo interesse per la posta che gli era arrivata. Appena gli avevano portato il cestino, aveva sparso sulla coperta all'incirca duecento lettere fissandole con un interesse che l'infermiera non ricordava di avergli mai visto sul volto fin dal giorno del suo ricovero, poco dopo la tragedia. «Si sente meglio oggi, eh, signor Parsons?» «Oh, meravigliosamente», rispose lui. «Vado al massimo.» «Ne sono davvero contenta», disse. «Be', allora buon divertimento.» «Oh, grazie, farò del mio meglio.» Uscita l'infermiera, Parsons dispose con somma attenzione tutte le lettere chiuse in ordine di grandezza: le più piccole vicino, le più grandi lontano. Poi passò ai foglietti rosa dei messaggi telefonici. Con gesti rapidi e precisi, piegò i primi tre quadratini di carta rosa a formare rispettivamente le splendide versioni in origami di un pellicano, un coniglio e un armadillo. Poi aprì le dodici buste più piccole e inserì in ognuna un foglietto rosa prima di depositarle delicatamente in un cestino.
Entrò un'altra infermiera e, vedendolo impegnato, sorrise. «Oh, sta lavorando», commentò deliziata. «Sì.» «Guarda un po' quante lettere e messaggi!» esclamò. «Non saprei neanche da dove iniziare.» Parsons sfoggiò un educato sorriso. «Anch'io mi raccapezzo a malapena.» «Oh», fece l'infermiera. «Eccone qui uno che le è scappato.» Si chinò a raccogliere un foglietto rosa scivolato sotto il letto e glielo porse. «Grazie.» «Di niente. Se ha bisogno qualcosa non deve far altro che suonare, d'accordo?» «Assolutamente d'accordo.» L'infermiera si girò e uscì dalla stanza. Per diversi minuti Parsons rimase a fissare il foglietto rosa che l'infermiera aveva raccolto. C'erano sopra un sacco di righe scrìtte a macchina, notò. Se lo avesse piegato lasciando le parole all'esterno, avrebbe potuto sembrare una interessante decorazione. Si chiese che forma dargli e infine decise di farne un canguro. Stava eseguendo la prima piega quando gli cadde l'occhio sul nome. Il nome era Luci Redman. Luci Redman. La mano in cui teneva il foglietto rosa cominciò a tremare. Gli ci era voluto tanto impegno per allontanarsi dalla sua vecchia vita e da qualsiasi cosa avrebbe potuto ricordargli quello che era successo a lui e alla sua famiglia, e invece ecco lì di nuovo quel maledetto nome, proprio in quella stanza dove pensava di essere al sicuro, proprio su quel pezzo di carta che teneva in mano. Riaprì la piega e stese il foglietto sulla coperta. Mentre leggeva attentamente il messaggio, nelle orecchie cominciò a risuonargli un ruggito soffocato. Il messaggio era di un certo signor Pressman. Seguiva un numero telefonico di New York. Il ruggito si fece più forte nelle sue orecchie. Parsons accartocciò il foglietto e lo buttò nel cestino. 45 Era il giorno libero della Tata. Phil infilò Harry nella sua tutina imper-
meabile e lo portò fuori a fare un giro in passeggino. Nel quartiere residenziale semideserto passarono accanto a una serie di barboni dall'aspetto ripugnante e dall'abbigliamento bizzarro; alcuni portavano sulle spalle come una mantella sudici sacchetti di plastica e borbottavano sottovoce o discutevano animatamente da soli. Phil si chiese se fossero pericolosi. A volte a New York era accaduto che i pazzoidi che vivono in strada assalissero i passanti senza motivo. Si chiese cosa avrebbe potuto fare per proteggere suo figlio se uno di loro avesse improvvisamente dato in escandescenze. Forse i viali pieni di traffico erano più sicuri, pensò, e spinse il passeggino verso la Dodicesima Avenue. Arrivati lì, Phil si sentì momentaneamente rassicurato dal movimento e dal rumore di macchine e autocarri che passavano rombando accanto a lui, ma poi gli vennero in mente articoli che raccontavano di taxi che passavano con il rosso, andando a sbattere contro altre vetture per poi venire sbattuti dall'urto sui marciapiedi, schiacciando i pedoni contro lampioni e cassette delle lettere, riducendoli in una poltiglia rossa spiaccicata simile a gelatina. Il suo bambino gli sembrò così vulnerabile nel passeggino. Phil si chiese se avrebbe mai sopportato che succedesse qualcosa a Harry. Julie non avrebbe retto, ne era certo. Sarebbe sprofondata nella disperazione e probabilmente avrebbero dovuto ricoverarla in una casa di cura. Phil allora prese in braccio Harry e, spingendo il passeggino con il corpo, si diresse verso casa. Arrivati di sopra Phil spogliò Harry e gli cambiò il pannolino chiedendosi da dove tirassero fuori cacca solida i bambini così piccoli che mangiano soltanto liquidi. Poi, mentre Julie cercava di allattarlo, riempì la vasca per fargli il bagno. Aveva appena sistemato il bambino nella vasca, meravigliandosi della sicurezza con cui ormai gli reggeva la testa, quando Phil starnutì. Harry scoppiò a piangere terrorizzato. Phil fece di tutto, ma non riuscì a consolarlo e quando finì di fargli il bagno il bambino non aveva ancora smesso di urlare. «Il tuo starnuto l'ha spaventato, tutto qui», lo rassicurò Julie. «È soltanto un bambino piccolo.» «Lo so.» «Sembra che tu ce l'abbia con lui perché piange.» «Nient'affatto», scattò Phil. «E allora perché tieni il broncio?»
«Non ho il broncio», ribatté Phil, ma sapeva che Julie aveva ragione. «Ehi», fece Julie. Estrasse rapidamente una mammella e gli spruzzò in faccia uno schizzo di latte. Sulle prime Phil rimase allibito, poi passò la punta della lingua sulle gocce che gli erano rimaste all'angolo della bocca e le trovò dolci, con un vago sapore di malto. «Che cosa ne diresti di fare il bagno con me dopo aver messo a letto il bambino?» propose. Julie gli rivolse un sorriso civettuolo. «Candele e vino fanno parte dell'invito?» «Puoi giurarci.» «Aggiudicato.» Quando finalmente Harry si addormentò circondarono la vasca di candele votive, la riempirono di bagnoschiuma, stapparono una bottiglia di vino e scivolarono nell'acqua. Phil era preoccupato che Julie bevesse mentre stava ancora allattando, ma lei aveva letto in un libro che era permesso e Phil si rilassò. Dopo un solo bicchiere di vino cominciavano tutti e due a sentirsi un po' brilli, quando Harry cominciò a piangere. La prima reazione di entrambi fu fingere di non sentire, poi sospirarono, uscirono dalla vasca, s'infilarono l'accappatoio e andarono a vedere cosa succedeva. Quando Harry si rimise tranquillo, tornarono in bagno, ma la schiuma era scomparsa e con le bolle di sapone se n'era andato anche il loro buonumore. Si prepararono per andare a letto e Phil propose di provare a far l'amore, ma Julie non aveva voglia di sentire male, così s'infilarono sotto le coperte, si girarono l'una da una parte e l'altro dall'altra e si accinsero a dormire. 46 Era notte fonda. Phil e Julie dormivano nella loro stanza. Julie russava alla destra di Phil, abbracciata al suo cuscino, sostituto sicuro di un marito che rappresentava una pena. Nel sonno Phil sentì il leggero rumore della porta della loro camera aprirsi e poi richiudersi. Era entrato qualcuno? Se fosse stato sveglio avrebbe potuto controllare. Ancora sprofondato nell'incoscienza, Phil udì il legno del pavimento scricchiolare sotto il tappeto. Avvertì una presenza materializzarsi accanto al letto dalla sua parte. La sentì inginocchiarsi in terra con uno scatto appena percettibile dei muscoli e dei tendini delle gambe e percepì il movi-
mento di una mano che s'intrufolava sotto le coperte facendosi strada tra le lenzuola fino a raggiungere il suo corpo caldo. Nuotò verso l'alto, attraverso strati e strati di torpore, mentre immaginava la mano passeggiare in punta di dita sul materasso, sul suo petto, e dal suo petto giù verso la vita, e poi da un fianco all'altro verso la sua coscia sinistra. Affiorando alla superficie della veglia, sentì la mano percorrere l'esterno della sua gamba sinistra fino al piede, accarezzargli la pianta del piede e risalire all'interno di nuovo fino alla coscia. Era ancora addormentato e stava facendo uno di quegli incubi in cui si sogna di svegliarsi mentre si continua a dormire? La mano sfiorò il cavallo dei suoi boxer e passò all'altra coscia. Indugiò e tornò al cavallo. Phil trattenne il respiro, non osando neppure fiatare. Rimase assolutamente immobile. Una seconda mano s'infilò sotto le coperte e si fece strada fra le lenzuola. Phil la sentì tirargli giù delicatamente i boxer, giù dai fianchi fino alle cosce, liberando il suo pene. Julie continuava a russare leggermente alla sua destra, ignara della perversità di ciò che stava accadendo a pochi centimetri da lei. Una testa seguì le due mani sotto le coperte, una talpa che frugava sotto le zolle erbose e due labbra presero ad accarezzargli l'estremità del pene, risucchiandola lentamente in una cavità calda e umida. Phil trattenne un verso di struggente piacere. Improvvisamente, con la stessa imprevedibilità con cui erano apparse, labbra, testa e mani sgusciarono fuori delle coperte. Di nuovo si udì lo scricchiolio del pavimento una, due volte. Silenziosamente la porta si aprì e si richiuse. Oppresso da un senso di frustrazione, Phil cercò nel letto il corpo caldo di Julie. Lei si mosse nel sonno, mugolò, scivolò e scivolò un po' più in là. Phil si tirò su i boxer e cercò di prendere sonno. Ma dormire non era più possibile. Giacque sveglio immaginando la conclusione di ciò che la Tata aveva cominciato. 47 Saperne di più sulla Tata era diventato importante per Phil. Doveva scoprire quali erano stati i suoi rapporti con gli altri datori di lavoro, tracciare i limiti della sua perversione, valutare con esattezza il danno che avrebbe potuto causare loro se le avessero permesso di restare.
Tirò fuori il suo curriculum vitae e lo rilesse. Sembrava tutto in regola: due scuole inglesi dal nome roboante, un corso universitario al Trinity College di Dublino, un diploma da infermiera e alcuni anni di pratica al St. Barnabas Hospital di Londra. Phil andò al telefono, chiamò l'Ufficio informazioni internazionali e si fece dare il numero del St. Barnabas. Poi prenotò una chiamata per l'ospedale e chiese di parlare con l'archivio, ma la prima donna che gli passarono pensava che cercasse informazioni su un paziente e la seconda che si trattasse di una richiesta riguardante il personale attualmente impiegato all'ospedale. Quando finalmente riuscì a parlare con la persona giusta, Phil aveva paura che la Tata potesse rientrare da un momento all'altro, senza contare che cominciava a preoccuparsi di quanto gli sarebbe costata quella telefonata, così preferì tagliar corto. L'impiegata controllò rapidamente ma non trovò nessuna Luci Redman tra il personale che aveva lavorato lì negli ultimi tempi. Phil allora specificò gli anni in cui Luci Redman sosteneva di essere stata impiegata da loro e suggerì che la donna lo richiamasse con una telefonata a carico del destinatario al suo numero di casa o di ufficio se avesse trovato qualcosa. Poi riprovò a cercare Conroy, il petroliere di Houston. La segretaria sembrò seccata di sentire di nuovo la sua voce. «Ho riferito al signor Conroy il suo messaggio, signor Pressman», disse. «È tutto quello che posso fare.» «Capisco. Forse potrebbe semplicemente ricordargli che ho urgenza di parlargli.» «Dal momento che ha già assunto questa persona», ribatté la segretaria, «non riesco a capire che bisogno abbia di parlarne con il signor Conroy.» «Per favore, gli riferisca il mio messaggio.» «Molto bene», replicò la donna. Poi Phil richiamò Parsons, il banchiere di Detroit. «Ho riferito il suo messaggio», gli disse la segretaria in tono altrettanto seccato. «Sono sicura che il mio principale la richiamerà appena sarà in grado di farlo.» «E pensa che ciò accadrà presto?» s'informò. «Quanto a questo, non mi permetterei mai di azzardare delle previsioni», rispose la segretaria. «Capisco», si affrettò a dire Phil. «Ma, vede, forse potrei comprendere meglio la situazione in cui attualmente si trova il signor Parsons se riuscissi a farmi un'idea della natura della tragedia che lo ha colpito.»
Per qualche istante non si udì risposta. «Non so con che tipo di segretarie sia abituato a trattare, signor Pressman», ribatté poi la donna gelidamente, «ma per quanto mi riguarda non mi sognerei mai di parlare della vita personale del mio principale con un perfetto sconosciuto come lei.» E detto questo mise giù il ricevitore. 48 La Tata aveva portato Harry a fare una passeggiata. Phil scivolò silenzioso nella sua stanza per dare un'occhiata. Non sapeva esattamente cosa stesse cercando; un paio di fogli della carta da lettera intestata sua e di Julie avrebbero potuto essere un inizio. Il letto era scrupolosamente rifatto, con gli angoli ripiegati come in ospedale. Le coperte erano così tirate che si sarebbe potuto far rimbalzare sopra una monetina. Phil si avvicinò ai cassetti e cercando di rimettere ogni cosa nell'esatta posizione in cui l'aveva trovata cominciò a passarne in rassegna il contenuto. C'erano reggiseni, mutandine, collant e sottovesti, quasi tutto bianco, a eccezione di alcuni completi rossi e un paio neri. In nero c'erano anche un reggicalze e un paio di calze di nailon. E poi camicette, cinture, maglioni, calzettoni, sciarpe di seta, fazzoletti di pizzo e due costumi da bagno sorprendentemente malandati. Rovistare di nascosto tra gli oggetti personali della Tata era eccitante e la sola idea di essere sorpreso gli faceva aumentare le pulsazioni. Nell'ultimo cassetto trovò un piccolo portagioielli antico e una vecchia cartelletta per lettere e documenti. Stava per aprire il portagioielli quando gli sembrò di sentire un rumore dall'altra parte della casa. Richiuse in fretta i cassetti e si avvicinò alla porta. «Chi è?» chiamò. Non ci fu risposta. «Julie?» Ancora nessuna risposta. «Tata?» Niente. Nell'appartamento non si udiva più alcun rumore. Se si fosse trattato della Tata, sicuramente ormai avrebbe sentito lei o il bambino. Nel portagioielli c'erano diverse paia di orecchini antichi, un vecchio ed elegante orologio, alcuni braccialetti d'oro, collane d'oro d'altri tempi, un
piccolo crocifisso anch'esso d'oro e due anelli di diamanti sorprendentemente preziosi. Se quei diamanti erano veri, pensò Phil, il cassetto non era il posto più adatto. Non aveva idea di quanto valesse un diamante, ma quelli avevano l'aria di costare un sacco di soldi. Aprì la cartelletta e diede una scorsa al contenuto. C'erano numerose lettere, così vecchie che sembravano andare in pezzi, consumate dal lento fuoco del tempo che brucia la carta, alcune fotocopie di documenti legali relativi alla professione di infermiera, un passaporto, un visto e un permesso di lavoro per stranieri. Phil guardò la fotografia sul passaporto della Tata: decisamente le assomigliava, ma il documento su cui era riportata sembrava più vecchio del dovuto. Phil controllò la data e si stupì di scoprire che il passaporto era scaduto da almeno dodici anni. Aprì l'armadio e passò in rassegna gli abiti che vi erano appesi. Coperti da buste di plastica, c'erano due camici bianchi, una camicia da notte e una vestaglia di seta, e una camicia di flanella a scacchi. Sul fondo dell'armadio stavano alcune paia di comode scarpe bianche, un paio di Reebok da corsa e una piccola borsa con una serratura. Phil cercò di forzarla, ma era chiaro che ci voleva la chiave. Frugò nei cassetti e trovò una forcina con cui cercò di forzare il lucchetto. In realtà non sapeva cosa farsene di una forcina, ma l'aveva visto fare tante volte alla televisione e al cinema che pensava valesse almeno la pena di provarci. Trafficò per alcuni minuti finché sentì qualcuno armeggiare fuori della porta d'ingresso, questa volta ne era sicuro. Ripose in tutta fretta la borsa sul fondo dell'armadio, scivolò fuori della stanza e si ritrovò nell'ingresso proprio mentre la Tata entrava con il bambino. 49 Sdraiato nel suo letto immacolato, fissando nella stanza immacolata il soffitto immacolato, Parsons malediva il signor Pressman di New York che aveva avuto la sfrontatezza di invadere il piccolo mondo che lui si era tanto meticolosamente costruito per isolarsi dal passato. Parsons abbassò lo sguardo dal soffitto sul telefono bianco appoggiato sul piccolo comodino bianco accanto al suo letto. Rimase a fissarlo per alcuni minuti: i piccoli tasti rettangolari, il filo a torciglione del ricevitore, il cavo rotondo che collegava l'apparecchio alla presa. Poi, imprecando, frugò nel cestino, ne estrasse il foglietto rosa accartocciato, lo aprì, e chiese alla centralinista una
chiamata personale a New York. 50 «Siediti, siediti e rilassati», disse Ralph Roberts. Phil si sedette dall'altra parte della scrivania di Roberts, assurdamente ingombra di carte. «Come stanno tua moglie e tuo figlio?» «Benissimo», tagliò corto Phil. «Non potrebbero stare meglio.» «E come va con la tata?» Roberts ammiccò significativamente. «Una meraviglia», rispose Phil ignorando il sottinteso. «Ci date sempre dentro come forsennati?» chiese Roberts. «Tutte le sere.» Roberts ridacchiò. «Il motivo per cui ti ho fatto venire qui, Phil, è che abbiamo deciso di assegnarti il bonus per Java. È stata la Sullivan a insistere.» «Magnifico!» esclamò Phil allegramente. «Così potrai comprare un paio di scarpe nuove al bambino, eh?» «Puoi giurarci.» «E magari qualche regaluccio per la vostra tata dalle gambe lunghe», insinuò Roberts. «Oh, certo», ammiccò Phil. Roberts sogghignò di nuovo. «Non me la fai.» «Come?» «Tu credi che ammettendo con tanta indifferenza di scopartela mi convincerai che non te la scopi. Ma è troppo facile. Mi sa che tu sei già arrivato sotto quella sottana fin dove potevi arrivare senza infilartela.» «Se lo dici tu...» «D'accordo, la riservatezza non è una colpa», concluse Roberts. Phil studiò per un istante il viso furbo di Ralph e la sua testa brizzolata, chiedendosi cosa sarebbe successo se si fosse fidato di lui. Non aveva né uno strizzacervelli, né un prete, né un amico con cui parlare di tutta quella storia, e non poteva certo confidarsi con sua moglie. Sarebbe stato un sollievo potersi aprire con qualcuno. «E se ti raccontassi quello che sta realmente succedendo con la nostra tata?»
51 Julie era seduta sul water e sfogliava un catalogo di accessori per il bagno, quando squillò il telefono. La Tata era con Harry in cucina e Julie pensò che avrebbe risposto lei. Il telefono continuava a squillare. Finalmente la Tata rispose dalla cucina. «Casa Pressman», disse. «Ho una chiamata personale per il signor Pressman», annunciò la voce di una centralinista del servizio interurbano. «Chi lo desidera?» chiese la Tata. «Qual è il suo nome, signore?» s'informò la centralinista. Dall'altro capo del telefono ci fu un silenzio. «Signore?» ripeté la centralinista. Cadde la linea. «A quanto pare hanno attaccato», spiegò la signorina. «Cosa vuole, ne capitano di tutti i colori.» «Questo è certo», disse la Tata e attaccò. «Chi era?» chiese Julie entrando in cucina. «Qualcuno che aveva sbagliato numero», rispose la Tata. Fu difficile per Parsons deporre il ricevitore sulla forcella: le mani gli tremavano troppo violentemente. Nell'istante in cui aveva sentito la voce di Luci Redman aveva riattaccato, ma era troppo tardi. Le immagini tornarono a scorrergli nel cervello, quelle immagini che aveva con tanta cura chiuso fuori. Allora cominciò a piangere. 52 La Tata era andata al mercato con Harry a fare la spesa e Phil ne aveva approfittato per introdursi nuovamente nella sua stanza e riprendere le subdole ricerche del giorno prima. Prese una forcina da un cassetto, aprì l'armadio e trovò la borsetta. Dopo aver trafficato per alcuni minuti con la forcina, Phil sentì un lieve clic e la serratura scattò. Phil aprì la borsa e ci guardò dentro. Si era aspettato di trovarci migliaia di dollari o altri gioielli. C'erano invece poco più di duecento dollari, alcune banconote inglesi, un libretto
d'assegni, un mazzetto di traveler's cheque, delle chiavi, il necessario per il trucco e un piccolo medaglione d'oro antico a forma di cuore. C'erano poi alcuni oggetti che per Phil risultarono molto strani: due candele consumate a metà, una bustina di cuoio piena di qualcosa che pareva incenso, un'altra piena di semi e una terza di una polvere che sembrava apparentemente sabbia. Phil prese in mano il medaglione d'oro e lo aprì. Alla vista della foto che conteneva, rimase senza fiato. Quella era l'ultima cosa che si sarebbe aspettato di trovare all'interno di un medaglione appartenente a Luci Redman. Nella piccola fotografia erano ritratti lui, Julie e il bambino. 53 Sulle prime Phil si sentì commosso. L'idea che la Tata avesse una fotografia con lui, Julie e il bambino in un piccolo medaglione d'oro a forma di cuore nascosto in una borsetta in fondo all'armadio (come per assicurarsi che nessuno scoprisse mai i teneri sentimenti che nutriva per la famiglia per cui lavorava) apriva un'altra serie di possibilità tali da conferirle un'immagine che Phil non poteva fare a meno di trovare attraente. Forse, pensò, la Tata non era quello che sembrava. Forse sotto sotto era una persona tenera e dolce che Dio solo sa quali circostanze e quale tipo di educazione in Inghilterra avevano ferito e indurito al punto da costringerla a nascondere la propria dolcezza e vulnerabilità per non correre il rischio di lasciarsi distruggere. Forse, come lui stesso aveva suggerito a Julie la sera in cui aveva cercato di licenziarla, la Tata era in realtà tutto un bluff, una bambina che faceva i capricci non desiderando altro che qualcuno abbastanza forte da farla smettere. Forse i suoi tentativi di sedurlo erano motivati da qualcosa di più della pura e semplice lussuria. Forse era realmente innamorata di lui. Avrebbe mai potuto considerarla seriamente una rivale di sua moglie? No. Phil amava Julie più di chiunque altri al mondo, l'amava più di quanto avesse amato qualsiasi altra donna nel corso della sua vita, con Julie condivideva talmente tante esperienze, sentimenti, interessi, obiettivi, antipatie, passioni, pregiudizi e punti di vista che non erano più due persone, ma un essere unico: un unico individuo che... che... Ah, al diavolo! Certo, tra lui e Julie non c'era più passione, ma date le circostanze non avrebbe potuto essere altrimenti. Quando finalmente la sua maledetta epi-
siotomia fosse completamente guarita e non avesse più sofferto ogni volta che lui cercava di penetrarla, avrebbero ripreso i loro normali rapporti sessuali, avrebbero ritrovato tutto il romanticismo e sarebbero di nuovo stati felici. Se avesse incontrato Luci Redman all'università, tanto tempo prima, quando aveva incontrato Julie, e avesse vissuto con Luci, sposato Luci e fatto un figlio con Luci e assunto Julie come tata, probabilmente si sarebbe sentito tanto annoiato con Luci e tanto eccitato con Julie quanto ora... No. Non era così, non si sentiva annoiato con Julie. Lui amava Julie e il raffreddamento della passione nei suoi confronti era una condizione puramente temporanea che si sarebbe dileguata appena fossero usciti da quel periodo chiaramente provante. E non si sentiva affatto eccitato da Luci Redman, poteva infilargli la lingua in bocca sotto la doccia o toccarlo sotto le coperte al buio quanto voleva, poteva tenere tutte le fotografie che voleva con lui, sua moglie e suo figlio nei suoi piccoli medaglioni d'oro a forma di cuore in fondo all'armadio: non sarebbe cambiato nulla. Poi però gli venne un'altra idea per spiegare la presenza della fotografia nel medaglione, un pensiero un po' più inquietante: l'idea che la Tata avesse nascosto quel ritratto perché ci faceva qualcosa di strano. Aveva letto che esistono persone che credono nell'occulto e che celebrano strani riti magici sulle foto di coloro che vogliono manipolare. I membri delle tribù primitive nei paesi del Terzo Mondo spesso si rifiutano di lasciarsi fotografare dai turisti per questa ragione, perché temono di diventare vulnerabili attraverso le loro immagini fotografiche. Era plausibile pensare che le strane cose che Phil aveva trovato nella borsetta (le candele, i semi, la sabbia, l'incenso) facessero parte di qualche rito magico riguardante la fotografia chiusa nel medaglione. Phil si chiese se non stesse invece rasentando la paranoia. Rimise tutto nella borsetta, la richiuse, la appoggiò nell'armadio nella precisa posizione in cui l'aveva trovata e uscì tranquillamente dalla camera della Tata. 54 Quella sera Phil immaginò che rannicchiata nel letto accanto a lui al posto di Julie ci fosse la Tata, provando a quel pensiero un malinconico, deliziosissimo senso di colpa. Come il solito Julie non era dell'umore giusto per far l'amore, così Phil si accontentò di baci e carezze. Si lasciò andare e dopo un po' si ritrovò in una casa nel bosco con la Tata. Forse la casa di
Ralph Roberts. Era come se fosse sposato con la Tata, ma nello stesso tempo Julie era sua moglie. Avevano sentito dire che una specie di gigantesca bestia dalle sembianze umanoidi vagava libera per il bosco e che aveva ucciso e mutilato molti animali più piccoli. Phil era a letto con la Tata nella casa del bosco. La Tata, sdraiata sopra di lui, lo baciava e lo accarezzava, mentre Julie guardava con approvazione, seduta su una sedia accanto al letto. Da una stanza sul retro della casa giunse il pianto di Harry. Apparentemente né Julie né la Tata lo sentirono. Phil si divincolò dall'abbraccio della Tata, si alzò e corse nella camera del bambino. Una scena orribile lo attendeva. China sulla culla c'era la bestia del bosco, enorme, pelosa, con gli occhi iniettati di sangue e lunghe zanne. Harry la guardava senza emettere alcun suono, sebbene il mostro gli avesse divorato una gambina riducendola a un moncherino sanguinolento. Con un grido di rabbia animale Phil si gettò sulla belva e cominciò a tempestarla di pugni e calci. Julie lo scuoteva violentemente. «Phil, svegliati! Phil!» Sempre dibattendosi Phil si liberò del sogno e si ritrovò disteso sul letto, senza fiato. «Phil, sei sveglio?» «Certo che sono sveglio», rispose lui imbarazzato per essere stato sorpreso in un incubo. «Gridavi e tiravi pugni e calci», gli fece notare Julie. «Avevo paura che ti facessi male. O che facessi male a me.» «Mi dispiace», si scusò Phil. «Ti ricordi cosa stavi sognando?» «Ho sognato un mostro», cominciò a raccontare Phil. «Un mostro enorme, peloso e con gli occhi iniettati di sangue che aggrediva Harry nella culla. Gli divorava una gambina.» «Dio mio», rabbrividì Julie. «Io cercavo di ucciderlo», continuò Phil. «Da come picchiavi e scalciavi, direi che ci sei riuscito.» «Mmm», fece Phil. «Hai fatto un sogno tipicamente edipico, lo sai?» «La maggior parte dei sogni sono edipici», commentò. Rimasero per un po' sdraiati al buio senza parlare, poi Julie si addormen-
tò. Phil rimase sveglio a lungo, mentre sua moglie riprese a russare leggermente. Ricordava il terrore che aveva provato vedendo il mostro attaccare Harry e ricordava la sensualità con cui la Tata faceva l'amore. Per qualche motivo non riusciva a separare le due cose. La mattina dopo Julie si alzò presto per andare a un appuntamento con dei possibili clienti nell'Upper East Side. Phil si era svegliato con un brutto mal di gola e aveva telefonato in ufficio per avvertire che, se si fosse sentito meglio, sarebbe andato a lavorare nel pomeriggio. Mentre se ne stava a letto, pensando ancora al sogno della notte precedente, e al suo significato, sentì bussare leggermente alla porta della stanza. «Sì?» La porta si aprì ed entrò la Tata. «Signor Pressman?» «Sì, Tata?» «Mi è parso di capire che oggi non si sente molto bene.» «Credo proprio di no, Tata.» «Mi dispiace. C'è qualcosa che posso fare per lei, signore?» «Non credo, ma grazie lo stesso.» La Tata si avvicinò al letto. «Apra la bocca e faccia 'Ahhh'.» Phil aprì la bocca e obbedì. La Tata gli puntò in bocca la lampada che aveva sul comodino e gli guardò in gola. «Ha la gola un po' irritata», osservò. «Ci credo», replicò Phil. «Non riesco neanche a deglutire.» «Vuole che le provi la febbre?» «Non so», rispose lui. «Non credo di avere la febbre.» La Tata gli appoggiò una mano sulla fronte. «È un po' caldo.» «Be', allora proviamola.» La Tata s'infilò una mano in tasca, ne estrasse un termometro, lo scosse con un movimento secco del polso, da infermiera esperta, e glielo infilò in bocca. Poi gli prese il polso e gli ascoltò i battiti per sessanta secondi. Gli tolse il termometro, si avvicinò alla finestra e lo lesse alla luce del sole. «Niente febbre», constatò. «Ma ha la gola davvero un po' infiammata. Le suggerirei di prendere due aspirine subito dopo colazione e di fare dei gargarismi con acqua calda e sale.» «Okay», annuì Phil. «Farò così. E grazie ancora per le sue premure.»
«Per questo non deve ringraziarmi, signor Pressman. È il mio lavoro. E poi lei mi piace.» «Be', grazie, Tata. Anche lei mi piace.» «Grazie, signore!» Si girò per andarsene, ma raggiunta la porta si voltò leggermente verso di lui. «Gradirebbe la colazione a letto, signore?» «La colazione a letto?» ripeté Phil deliziato. «Be', sì, Tata, sarebbe splendido.» «Molto bene, signore.» La Tata sorrise timidamente, poi tornò accanto al letto, sollevò la testa di Phil dal cuscino con una mano e con l'altra si alzò la gonna del camice bianco e poi la sottoveste fin sopra la vita, si abbassò le mutandine di nailon bianche sotto le ginocchia e attirò verso di sé il viso di Phil. 55 La Tata non lo lasciò andare finché Phil non la ebbe completamente soddisfatta con la lingua. Quando lei infine fece per allontanarsi, Phil le diede uno strattone tirandola verso di sé con tanta forza che la Tata emise una risata rauca. Gli afferrò l'elastico degli slip e li strappò riducendoli in brandelli, poi gli montò sopra a cavalcioni e s'impalò su di lui. Proprio quando Phil stava per raggiungere l'orgasmo, la Tata si fermò restando immobile e tenendolo prigioniero tra le cosce. Phil sentì che non poteva più sopportare quella pressione e la scongiurò di andare avanti. Lei si mosse leggermente e lui le esplose dentro. La Tata lo lasciò completamente esausto. Sdraiato di traverso sul letto, prosciugato di sperma ed energia, era incapace di muoversi. Non aveva mai avuto un incontro sessualmente più eccitante in vita sua. E non si era mai sentito più infelice. Per la prima volta aveva attivamente fatto qualcosa per averla ed era furente con se stesso per averla trattenuta quando se ne stava andando. Era furente con se stesso per averlo fatto con lei nello stesso letto che divideva con Julie. Suonò il telefono. Phil sollevò il ricevitore. «Pronto?» «Il signor Philip Pressman, per cortesia.» «Sono io.»
«Qui è il centralino internazionale, signor Pressman. Abbiamo una chiamata da Londra per lei.» «Ah, sì, me la passi.» Si udirono dei suoni metallici e poi gli diedero la linea. «Signor Pressman?» «Sì, sono io...» «Ah, signor Pressman, sono la signorina Higgins del St. Barnabas. Ho fatto delle ricerche dei nostri archivi su una certa signorina Luci Redman, come ci aveva richiesto...» «Sì, signorina Higgins...» «In effetti c'è una Luci Redman che ha lavorato qui al St. Barnabas come infermiera, signore.» «Ah, c'è... bene. Bene. È stato più o meno nel periodo che pensavo? Circa dodici anni fa?» «La signorina Redman ha lavorato presso il St. Barnabas dal 1898 al 1902, signore.» «Come scusi? Non credo di aver capito bene.» «Ho detto che la signorina Redman ha lavorato qui al St. Barnabas dal 1898 al 1902.» Il primo istinto di Phil fu di scoppiare a ridere, ma non voleva rischiare di offendere delicati sentimenti transatlantici. «Il fatto è, signorina Higgins, che la nostra signorina Redman avrà trentacinque, trentasei anni.» «Ah.» «Sì. Se avesse lavorato al St. Barnabas quando dice lei, adesso avrebbe cent'anni.» «Eh, già.» «Quindi ho l'impressione che non si tratti della stessa donna.» «Eh, sì. Be', sfortunatamente quella è l'unica Luci Redman che risulta dal nostro archivio qui, signor Pressman. Mi dispiace non poterla aiutare di più.» «Grazie comunque per averci provato.» «Di nulla, signore.» Phil riattaccò il telefono sogghignando. La Tata aveva i suoi difetti, pensò, ma di certo si manteneva bene per essere una donna di più di cent'anni. Gli sarebbe piaciuto poter ridere della battuta assieme a Julie. Ma poi fu improvvisamente assalito da una spiacevole sensazione che non riusciva a spiegare. La sensazione che per una qualche ragione grotte-
sca e assolutamente incongrua la Luci Redman che lavorava per lui e quella che aveva lavorato al St. Barnabas alla fine del secolo avessero in comune più del nome. L'idea era così inverosimile che Phil scoppiò a ridere forte. 56 Quando Julie tornò a casa dal suo incontro con i due possibili clienti nell'Upper East Side, Phil aveva fatto abbastanza gargarismi e consumato abbastanza vitamina C da ridimensionare il suo mal di gola, ma i sensi di colpa per essere andato a letto con la Tata lo rendevano così nervoso che non sapeva più dove mettersi. Intrattenersi in una conversazione che suonasse naturale era un compito superiore alle sue capacità. «Ciao, Julie.» «Ciao. Come va il raffreddore?» «Meglio», disse Phil. «Com'è andata stamattina? La riunione, intendo.» «Credo bene.» «Pensi che ti affideranno l'incarico?» «Non so. Hanno detto che ci penseranno.» «Oh», fece Phil. «E quando pensi che ti faranno sapere qualcosa?» «Non so. Più o meno in una settimana.» «Oh», ripeté Phil. «Cosa c'è da mangiare stasera?» «Non so. Bisogna chiedere alla Tata. Perché?» «Oh, così», rispose lui. «Stai bene?» «A parte la gola, vuoi dire? Certo. Perché me lo chiedi? Sì, insomma, perché me lo chiedi?» «Sei così nervoso!» «Nervoso? Stai scherzando. Ho avuto proprio una giornata rilassante.» «Davvero? Cos'hai fatto stamattina?» «Stamattina?» ripeté stolidamente. «Sì. Non ti ricordi?» «Certo che mi ricordo cosa ho fatto stamattina. Perché non dovrei ricordarmelo?» «E allora che cosa hai fatto?» «Sono rimasto un po' a letto, poi ho fatto colazione...» «Sì?...» «Poi ho ricevuto una telefonata da Londra.»
«Una telefonata da Londra? Da chi?» «Dal... St. Barnabas Hospital», spiegò Phil. «Per essere precisi li avevo chiamati io un paio di giorni fa per controllare le credenziali della Tata. Sai, per controllare che abbia veramente lavorato lì come dice il suo curriculum.» Julie lo guardava accigliata. Phil non capiva se fosse perché aveva detto troppo o perché aveva controllato le credenziali della Tata di cui Julie aveva detto chiaramente che non voleva più sentire parlar male. «Vorrei che tu non avessi fatto quella telefonata.» «Perché no?» chiese Phil. «Lo sai perché.» «Be', volevo saperne di più», ribatté. «E così ho fatto semplicemente una telefonata.» «E ti hanno confermato che ha lavorato lì?» «Qui sta il divertente», riprese Phil, «ho detto all'ospedale che Luci Redman doveva essere stata impiegata lì circa dodici anni fa. Così diceva il suo curriculum vitae, dodici anni fa. Ma quando mi hanno richiamato...» «Ti hanno detto che ha lavorato lì o no?» lo interruppe bruscamente Julie. «Ci sto arrivando. L'impiegata che mi ha richiamato mi ha confermato che, sì, avevano in archivio una Luci Redman che ha lavorato al St. Barnabas...» «Benissimo», tagliò corto Julie. «Spero che tu sia soddisfatto ora e che possa...» «... Ma la cosa buffa è che secondo loro Luci Redman ha lavorato all'ospedale dal 1898 al 1902. Non è spassoso?» Julie lo fissava con sguardo assente. «Ho detto dal 1898 al 1902, Julie. Se fosse così avrebbe più di cent'anni.» Phil ridacchiò, Julie rimase impassibile. «Pensavo l'avresti trovato divertente», le disse. «L'idea che mi abbiano risposto che la Tata ha lavorato per loro alla fine del secolo...» «Qual è il punto, Phil?» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire qual è il punto. Vuoi dimostrare che la Tata è una bugiarda? Si tratta di questo?» «No», rispose Phil in tono impaziente. «No, non è così... per l'amor del cielo, sei tu che non capisci. Ti sto soltando raccontando una storia buffa,
Julie. Ho semplicemente pensato che l'avresti trovata divertente, tutto qui.» «D'accordo», ribatté lei gelidamente. «Sono divertita. Non riesco a frenare il riso. E adesso, se non ti dispiace, vado a vedere se c'è qualcosa da fare per la cena.» Julie raggiunse la Tata in cucina. Phil rimase per un po' a crogiolarsi nella rabbia in silenzio. Non riusciva a capire perché mai Julie si comportasse in modo così irritante. Non poteva essere perché aveva telefonato a Londra dopo averle promesso di non fare ulteriori ricerche sulla Tata. Forse la riunione con i possibili clienti nell'East Side non era andata bene. In cucina Harry mandava i suoi urletti e Julie e la Tata chiacchieravano. Poi Phil sentì Julie ridere. Si chiese come potesse sua moglie essere così scorbutica con lui e un minuto dopo ridere con la Tata. Si chiese cosa ci fosse mai da ridere. Scivolò fuori della stanza e percorse in silenzio il corridoio fino a un punto da cui riusciva a sbirciare in cucina. Harry era seduto sul seggiolone e Julie e la Tata, in piedi davanti al piano di lavoro, parlavano sottovoce. Voltavano la schiena alla porta. E si tenevano per mano. 57 Uno strano malessere s'impadronì di Phil. Era una specie di mal di mare: aveva la nausea, gli girava la testa e faceva fatica a mantenere l'equilibrio. Non sapeva come affrontare la suprema ironia del fatto che sua moglie si trovasse in cucina mano nella mano con la stessa donna con cui lui si era trovato in colpevole intimità non più tardi di quella mattina. Era perfettamente possibile che quella stretta non avesse alcun significato e fosse semplicemente la manifestazione del sano cameratismo che spesso esiste fra le donne. Era possibile, ma improbabile. A Phil tornò in mente un racconto di Hemingway intitolato «Cambiamento al mare» che gli piaceva tanto ai tempi in cui andava all'università. Un uomo e una donna si lasciavano in un bar. Lei lo abbandonava per un'altra e lui non la prendeva bene. Improvvisamente Phil si ricordò che nel racconto l'uomo si chiamava come lui. «Povero vecchio Phil», diceva a un certo punto la donna. La Tata mise a letto Harry e annunciò che la cena era pronta. Phil entrò in soggiorno e andò a sedersi a tavola al suo posto, ma la vista del cibo gli
fece di nuovo venire la nausea. «Cos'è?» chiese indicando il contenuto del suo piatto. «Melanzane», rispose la Tata. «Melanzane?» ripeté Phil. «Sono molto nutrienti.» «Tata, mi sembrava di averle detto che sono allergico alle melanzane», sbottò Phil. «L'ultima volta che abbiamo mangiato melanzane, non le ho forse detto che sono allergico?» «Non hai detto che sei allergico», intervenne Julie. «Hai detto che non ti piacevano. Se tu avessi detto che eri allergico, la Tata non te le avrebbe fatte questa volta, non è vero, Tata?» «Perché ti schieri dalla sua parte?» esclamò Phil. «Credi che la Tata non sia capace di parlare da sola?» «Non mi schiero dalla parte di nessuno», ribatté Julie, «e vorrei che tu la smettessi di comportarti come un bambino.» «Non mi sto comportando come un bambino. Mi sto comportando come un adulto che è allergico alle melanzane.» «No, tu ti stai comportando come un bambino!» Phil sapeva che Julie aveva ragione, ma non riusciva a cambiare atteggiamento. Spinse la sedia lontano dal tavolo, attraversò a grandi passi la stanza e uscì sbattendo la porta. Poi aprì il guardaroba e afferrò il cappotto. «Dove vai?» chiese Julie. «Fuori», rispose Phil dirigendosi verso la porta. «Fuori dove?» «Fuori a mangiare qualcosa che non siano melanzane», esclamò afferrando la maniglia della porta di casa. «Le melanzane non c'entrano», insinuò Julie, ma Phil si era già richiuso la porta alle spalle. 58 Phil decise di fare una passeggiata nei dintorni per riflettere. Faceva un gran freddo e dal cielo avevano cominciato a cadere fiocchi di neve piccoli e asciutti. Non era il quartiere migliore della città per riflettere. Non era il quartiere migliore della città per fare una passeggiata, soprattutto di sera. La gente normale abbandonava quella zona alcune ore prima del tramonto e chiunque si trovasse per strada a quell'ora era con tutta probabilità in cerca di qualcuno del proprio sesso con cui procurarsi un piacere doloroso e
violento. Proprio il posto che ci voleva a Phil per pensare a ciò a cui doveva pensare. La logica gli diceva con certezza che tra Julie e la Tata c'era qualcosa, ma non sapeva con sicurezza di cosa si trattasse. Forse non erano ancora arrivate al sesso, ma se la situazione si fosse protratta alla fine ci sarebbero arrivate. Phil non pensava che Julie fosse attratta dalle donne. Era sicuro che se tra le due c'era qualcosa del genere era tutta una manovra della Tata. Il suo parere era che la Tata stesse seducendo Julie come aveva sedotto lui, e che lo scopo di entrambe quelle seduzioni fosse ottenere il controllo. Era sorpreso della facilità con cui la Tata aveva ottenuto da lui quello che voleva. Aveva sempre pensato che le sue convinzioni in fatto di monogamia fossero più fondate di quanto avevano dimostrato di essere ed era sorpreso che la Tata fosse arrivata al punto cui era con Julie. In circostanze normali, pensò, Julie non sarebbe stata neppure avvicinabile. Ma le circostanze in cui si trovavano non erano normali, ovviamente. L'insoddisfazione nella sfera sessuale del loro matrimonio e la stretta vicinanza di una personalità così forte e seducente come quella della Tata avevano reso Phil e Julie molto più vulnerabili di quanto sarebbero stati normalmente. Anche questo tuttavia non spiegava la facilità con cui la Tata si era imposta sulle loro vite. Forse era riuscita ad arrivare dove era arrivata utilizzando dei poteri che loro non potevano nemmeno immaginare. Una qualche forma di condizionamento inconscio o subliminale, una suggestione postipnotica. Un'influenza mistica, o paranormale. Phil non era sicuro di credere nell'esistenza di cose simili, ma se esistevano e se la Tata stava usando tali forze su di loro questo in fondo lo toglieva dai guai con la sua coscienza. Avrebbe voluto poterne parlare con qualcuno. Un amico o (a Julie quell'idea sarebbe piaciuta da matti) uno strizzacervelli. Una volta aveva raccontato della Tata a Ralph Roberts e il colloquio era stato abbastanza soddisfacente. Ma non poteva fidarsi di Roberts al punto di raccontargli del sospetto che ci fosse qualcosa tra Julie e la Tata o che la Tata potesse usare su lui e Julie dei poteri paranormali. Non si era mai fidato degli uomini tanto da aprirsi completamente con loro. I segreti che lo rendevano più vulnerabile li aveva sempre confidati alle donne. Prima a sua madre, poi a tutta una serie di figure femminili forti e materne. Ma a parte la Tata non c'erano in quel momento figure femminili forti e materne nella vita di Phil. Tranne Mary Margaret Sullivan, naturalmente. Mary Margaret gli piaceva. Sapeva che andare dal datore di lavoro con i
propri problemi personali era di dubbio gusto, ma sentiva che se l'avesse fatto lei lo avrebbe capito e gli avrebbe dato saggi consigli sul da farsi. Sapeva che sarebbe stata capace di arginare la sua paranoia, se di paranoia si trattava, come aveva fatto con la sua isteria passeggera sui processi di decaffeinizzazione. Quello che provava ora era una forma di leggera isteria rispetto alla Tata e a Julie. Forse tutto ciò di cui aveva bisogno era qualcuno che lo calmasse. E Mary Margaret aveva effettivamente detto che se in futuro avesse voluto discutere con lei di qualcosa lo avrebbe ascoltato, non era così? Phil si disse che una conversazione sulle generali... niente di troppo specifico, una chiacchierata occasionale, tanto per discutere, non gli avrebbe fatto male. Forse sarebbe bastato a rassicurarlo. Si era sentito molto calmo e tranquillo dopo la loro chiacchierata sulla decaffeinizzazione. Improvvisamente provava un bisogno razionalmente inspiegabile di parlare con Mary Margaret, ma non aveva il suo numero di casa e dubitava fosse sull'elenco di Manhattan. Anche se, pensò, non si può mai sapere chi C'è sull'elenco di Manhattan e chi no. Alla fine dell'isolato, sotto un lampione, c'era una cabina del telefono. Phil la raggiunse e compose il numero del servizio abbonati. Mentre aspettava che la centralinista rispondesse, una figura vestita di pelle nera emerse dall'ombra a un centinaio di metri di distanza. Oh, splendido, pensò. Proprio quello di cui avevo bisogno. Il numero non rispondeva. Phil valutò se fosse il caso di attaccare e togliersi di torno per evitare un confronto con il losco figuro in pelle, poi decise che non si sarebbe lasciato intimidire. La figura si avvicinava silenziosamente. Era un uomo alto e robusto che indossava pantaloni di pelle neri, un giubbotto nero da motociclista con cerniere e catene, un berretto di pelle nera con la visiera, alti stivali di cuoio neri, guanti di pelle sempre nera e occhiali scuri. L'uomo guardava apertamente in direzione di Phil e si avvicinava. «Servizio abbonati. Posso aiutarla?» recitò la centralinista. «Sì», rispose Phil, tenendo un occhio sospettoso sul moticiclista. «Vorrei il numero della signora Sullivan, Mary Margaret Sullivan, Central Park West.» «Un attimo, prego.» Il motociclista si avvicinò ancora e disse qualcosa con voce roca. «Come?» disse Phil rendendosi immediatamente conto di quanto fosse stato stupido a fare vedere di aver notato la presenza di quell'individuo.
«Ho detto perché chiamare Mary Margaret quando potresti avere me?» Phil si sentiva estremamente a disagio per quel tentativo idiota di abbordaggio. Non era in cerca di incontri, stava soltanto facendo una telefonata. «Non pensi che io sia più attraente di Mary Margaret?» latrò il motociclista. Oddio, pensò Phil, questo è quello che le donne devono sopportare per tutta la vita dagli uomini? «Ho un M.M. Sullivan, Central Park West», annunciò la centralinista. «Potrebbe essere questa?» «Sembra proprio di sì», rispose Phil sollevato. «Splendido», disse il motociclista fraintendendo le parole di Phil, e fece un altro passo verso il telefono. Il robot dalla voce femminile utilizzato dalla società telefonica lesse il numero. Phil riappese proprio mentre il motociclista lo prendeva sottobraccio. Sentì il cuore battergli forte in gola. «Se non togli quel braccio immediatamente», intimò con una voce chiara e forte che non ricordava di avere, «ti faccio sprofondare il naso nel cervello.» «Oh, tesoro, prendimi. Sono tuo!» esclamò il motociclista ma nello stesso tempo gli lasciò il braccio e fece un passo indietro. Phil constatò con soddisfazione di averlo intimorito. Girò sui tacchi e si avviò in direzione opposta. Il motociclista lo seguiva a un paio di metri di distanza. «Dimmi ancora cosa mi farai, tesoro.» Phil si fermò e si girò. «Se non te la dai a gambe prima che abbia contato fino a tre», disse con la stessa sorprendente voce, ostentando un pugno chiuso nella tasca vuota della giacca, «ti faccio sei bei buchi con una 357 Magnum tra i tuoi fottuti occhi, finché non ci sarà il tuo cervello spiaccicato su tutta la strada! Uno! Due!...» Il motociclista se la diede a gambe correndo con una velocità che Phil non avrebbe mai sospettato si potesse raggiungere con quei pantaloni di pelle addosso. Mentre il cuore gli batteva forte, rimase a guardare il motociclista in fuga con una sensazione animalesca di vittoria. Se solo potessi essere tanto forte a casa, pensò. 59 Julie fissò la porta, poi si afflosciò sulla sedia. Rimase ancora un po' con
la testa bassa a guardare nel proprio piatto, infine si alzò, andò in camera e si buttò sul letto. Dopo pochi minuti la Tata si presentò alla porta della stanza e, sebbene non fosse chiusa, bussò leggermente. «Sì?» disse Julie con la testa sprofondata nel copriletto. La Tata entrò e si avvicinò al letto. Julie piangeva piano, le sue lacrime avevano formato una chiazza bagnata che si allargava sotto il suo viso. «Il signor Pressman non sta bene», osservò la Tata. «È per questo che si comporta come un bambino.» Julie scosse la testa. «Il signor Pressman si comporta come un bambino perché il signor Pressman è un bambino», replicò continuando a piangere. «Ssst!» fece la Tata chinandosi ad accarezzare la schiena di Julie. «Gli uomini sono tutti dei maledetti bambini», continuò Julie. «Giuro davanti a Dio che in tutta la vita non ho mai incontrato un solo uomo che fosse davvero un adulto.» «Preferisce che la lasci un po' da sola, signora Pressman?» chiese la Tata. «No», rispose Julie. «Per favore, rimanga ancora un momento.» La Tata si sedette sul letto accanto a Julie. E dopo un attimo le sollevò la testa e se la mise in grembo, accarezzandole i capelli. «Che bello», sospirò Julie. Mentre la Tata continuava ad accarezzarle i capelli, Julie smise di tirar su con il naso e cercò di rilassarsi. «Vuole che le prepari un bel bagno caldo?» «No, grazie.» «E cosa ne direbbe di un massaggio?» Julie ci pensò un momento. «Credo che sarebbe l'ideale. Grazie, Tata.» La Tata sparì nel bagno e tornò con due grandi asciugamani e una boccetta di lozione emolliente Swiss Formula. Julie aveva già tirato indietro le coperte e si stava togliendo i vestiti. La Tata l'aiutò a spogliarsi e, dopo averla fatta sdraiare a faccia in giù su uno degli asciugamani, cominciò a massaggiarle la lozione sulla pelle. Julie sospirò e mugolò mentre le mani della Tata la percorrevano lente e metodiche, liberando i muscoli dalla tensione, sciogliendo i nodi, diffondendo calore, scioltezza e rilassamento fin verso le punte delle dita di mani e piedi, accarezzandola magistralmente fino a farla sprofondare nella penombra di una meravigliosa, irreale trance.
Quando ebbe finito di lavorare la schiena di Julie, la Tata la voltò delicatamente e cominciò a massaggiarla davanti. Julie teneva gli occhi assolutamente chiusi, ed era vagamente cosciente delle mani della Tata che sulle proprie braccia, sulle spalle, sullo stomaco, sulle cosce, dappertutto sul suo corpo, diffondevano una luce ardente verso le sue estremità. Mentre le dita calde della Tata continuavano a far penetrare la lozione oleosa, il suo corpo era percorso da leggeri brividi e i capezzoli le si inturgidivano. Avvolta dall'oscurità vellutata in cui la Tata l'aveva fatta sprofondare, Julie si sentiva vagamente turbata, come in un sogno. Non ricordava nessuno che le avesse mai massaggiato così il seno con un unguento, non ricordava niente di simile al crescente fremito che cominciava a farsi sentire tra le cosce. Non le sembrava che la Tata le avesse toccato la zona del pube, o se l'aveva fatto, si era limitata a sfiorarla in modo leggerissimo e fugace con la punta delle dita. Ma Julie era talmente intontita e il suo intero essere si trovava in uno stato di tale beatitudine che non le era possibile considerare seriamente il problema. 60 «Buonasera, Pressman», lo salutò Mary Margaret Sullivan. «Mi fa piacere vederla.» Phil entrò, un po' imbarazzato, e strinse la mano al suo capo. «Mi dispiace disturbarla», cominciò Phil, «specialmente all'ora di cena, ma ho davvero...» «Nient'affatto, nient'affatto», lo interruppe Mary Margaret chiudendo la porta con tre serrature di un tipo speciale che Phil non aveva mai visto prima. «Non si preoccupi, ho già finito di mangiare. In realtà questa è più o meno l'ora in cui comincio a lavorare.» «Oh», si scusò Phil. «Mi spiace. Forse potremmo fissare un momento più adatto per vederci.» «Sciocchezze», tagliò corto la donna. «Cerco disperatamente una scusa per non lavorare.» «D'accordo, allora», si arrese Phil. Lo condusse in un ampio salotto dal soffitto alto. Due delle pareti erano coperte da scaffali pieni di libri, mentre su una terza era appesa una spada giapponese dall'aspetto sinistro accanto a diversi quadri di piccola dimensione e piuttosto familiari. Phil si avvicinò a guardarli e si rese conto, con un improvviso sottile brivido d'eccitazione, che erano quasi tutti Manet,
Monet e Picasso, originali. «Molto belli», commentò indicando con un cenno della testa i dipinti. «Uno dei vantaggi di possedere un'agenzia di successo», rispose Mary Margaret. «Vuole qualcosa da bere?» «No, grazie», rifiutò Phil, ma si pentì subito della reazione. «Non ho ancora mangiato, però forse un po' di brandy mi aprirà lo stomaco.» «Posso offrirle un brandy, ma anche qualcosa da mangiare, se crede.» «Non voglio che si disturbi», si schermì Phil. «Neanch'io voglio disturbarmi», rispose lei. «Venga in cucina, è avanzato un po' di pollo.» Sorridendo al pensiero della facilità con cui era riuscito a farle assumere un ruolo materno, Phil la seguì in cucina e rimase a fissarla mentre gli preparava la cena. «Dunque», lo incitò riscaldando il pollo, «se non cercava qualcosa da mangiare, perché è venuto qui stasera?» «Per essere sinceri», rispose Phil imbarazzato, «avevo bisogno di un amico con cui parlare.» «Dal momento che non è qualcosa di cui vuole parlare con sua moglie, deduco che sua moglie sia parte del problema.» Phil sorrise. «Proprio così.» «Bene. Perché non mi racconta tutto? Alla fine le dirò la mia opinione.» «Mi sembra giusto.» Tra un boccone di pollo e un sorso di brandy, Phil parlò per un'ora, raccontandole nel modo più candido possibile tutto ciò che era successo a lui e a Julie dal momento in cui la Tata si era trasferita nel loro appartamento nella zona dei mercati generali della carne. Dapprincipio fu riluttante a raccontarle del sesso, ma Mary Margaret si dimostrò così comprensiva sul resto che, decise Phil, probabilmente era importante metterla al corrente di tutto ciò che era successo, se voleva essere aiutato. E se le sue rivelazioni la scioccarono Mary Margaret lo nascose perfettamente, come una brava psichiatra. Phil concluse il suo racconto e rimase in attesa di un commento. Mary Margaret non reagì immediatamente. «Allora», concluse Phil, «qual è il verdetto? Mia moglie ha una relazione con la tata o il paranoico sono io?» «Quando ha cominciato a raccontarmi tutta questa storia», riflette Mary Margaret, «ho pensato che sarebbe stata la solita confessione di un marito spinto dai sensi di colpa per aver sedotto un bel tocco di domestica...»
«Già», disse Phil arrossendo. «Ma la faccenda è un po' più grave, vero?» continuò Mary Margaret. «Si può come minimo dire che la vostra tata vi sta strumentalizzando sessualmente. Dubito che abbia sedotto sua moglie, ma certamente ha sedotto lei, e in modo decisamente sconveniente e sfrontato. Mi sembra un comportamento meschino per una tata. Dubito che abbia allattato vostro figlio perché è fisicamente impossibile, ma trovo strano che facesse il bagno con lui. Se fossi al suo posto, me ne libererei.» «Ma mia moglie le si è molto affezionata. È convinta che non potremmo fare a meno di lei.» «Sarà così, ma in questo caso sua moglie potrebbe anche non essere la persona più indicata per giudicare cosa è meglio per sé, per lei o per il bambino. Sono convinta che dovrebbe parlarle seriamente, che dovrebbe raccontarle del nostro colloquio e farle capire che tenervi in casa la Tata può rappresentare una grave minaccia per voi. Le dica tutto quello che ha confidato a me.» «Tutto?» «Tutto.» «Non mi starà suggerendo di raccontarle anche del sesso?» Margaret annuì. «Tutto», ripeté. «Metta le carte in tavola. Sulle prime si sentirà ferita, ma sono sicura che l'aiuterà a rendersi conto della gravità di ciò che le sta raccontando e a farle vedere che tipo di persona è realmente la tata.» Phil sospirò. «Julie è una donna estremamente gelosa. Se le racconto del sesso non starà a sentire altro.» «Be', questa è una questione sulla quale deve decidere lei», commentò Mary Margaret, «ma le deve raccontare del nostro colloquio e indurla a rinunciare alla tata.» «Crede davvero che sia necessario?» «Non glielo suggerirei se non lo credessi veramente.» «Okay», accettò Phil bevendo l'ultimo sorso di brandy e alzandosi. «Grazie per avermi dedicato tanto tempo. Credo sia ora di lasciarla tornare al suo lavoro.» «È tutto quello che voleva chiedermi?» «Veramente... veramente no», ammise Phil. «Cos'altro c'è?» «So che le sembrerà una cosa stravagante, ma...»
«Sì?» «Ho la vaga sensazione che la Tata possa essere più di una seduttrice. Ho la vaga sensazione che sia qualcosa di... mmm... più sinistro.» «Cosa intende?» «Be'», spiegò Phil, «a un certo punto mi è venuto in mente che le lettere di referenze che ci aveva dato potessero essere false, che se le fosse scritta da sola rubando la carta da lettera intestata. Così ho dato un'occhiata tra le sue cose, cercando qualcosa che confermasse la mia ipotesi... che ne so, magari qualche foglio della nostra carta da lettere... e invece ho trovato degli oggetti piuttosto misteriosi.» «Per esempio?» «Non so... candele, sabbia, incenso, piccoli semi. E un vecchio medaglione d'oro con dentro una nostra fotografia.» «Candele, sabbia, incenso, semi e una vostra fotografia in un medaglione?» ripeté Mary Margaret. «A me non sembra per niente misterioso.» «Be', ci sono anche altre cose, ora che ci penso.» «Vada avanti.» «Ho telefonato a Londra all'ospedale in cui la Tata dice di aver lavorato circa dodici anni fa. Dai loro archivi non risulta nessuna Luci Redman in quel periodo, ma hanno avuto un'infermiera con il suo nome verso la fine del secolo...» Mary Margaret lo guardò con un'espressione interrogativa. «Non credo di capire.» «All'inizio ho pensato che fosse una buffa coincidenza trovare una sua omonima che aveva lavorato lì alla fine del secolo», continuò Phil. «Ma poi mi ha preso questa sensazione così sinistra...» «Non mi starà dicendo che pensa si tratti della stessa donna?» «So che è un'idea folle», si schermì Phil, «ma c'è qualcosa in lei che ultimamente ha cominciato a farmi venire la pelle d'oca.» «E questo le fa pensare che quella donna sia... come si potrebbe dire? ...Una specie di creatura soprannaturale?» «Devo ammettere che ho considerato l'idea», confessò Phil. Mary Margaret Sullivan scosse la testa e rise. «Ho capito, pensa che sia paranoico.» «Quello che penso, Pressman, è che lei ha veramente una gran fantasia», disse Mary Margaret. «Il che è un'ottima dote per un copywriter... finché non lo porta a immaginare che il caffè per cui fa pubblicità sia cancerogeno o che l'infermiera che si prende cura di suo figlio sia una zombie.»
«Okay», convenne Phil. «Ho capito. A questo punto è davvero arrivato il momento di andarmene e di lasciarla tornare al suo lavoro.» «Se proprio devo...» L'accompagnò alla porta e aprì le tre serrature. «Grazie per il pollo e il brandy.» «Di niente.» «E grazie ancora per avermi ascoltato», continuò. «Sentivo di non potermi rivolgere a nessun altro.» «Spero di esserle stata d'aiuto.» «Oh, certo. Mi è stata realmente d'aiuto.» «Qualsiasi cosa abbia bisogno, sono qui», continuò Mary Margaret. «E mi faccia sapere com'è andata.» «Può giurarci», rispose Phil. Lei lo guardò pensierosa, poi gli sorrise. «Lei mi piace, Pressman. E un po' troppo nevrotico per i miei gusti, ma è un ragazzo simpatico.» «Grazie», disse Phil. «Anche lei mi piace.» «E ogni volta che ha bisogno di parlare con qualcuno, per favore, non abbia paura di cercarmi. Sono in ufficio tre giorni la settimana e a casa lavoro fino a tardi. Mi farà piacere aiutarla a rimettere i piedi per terra ogni volta che le sembra di finire tra le nuvole.» «Grazie», accettò Phil con un sorriso imbarazzato. «Probabilmente ne approfitterò.» «E se non mi trova in casa lasci un messaggio sulla segreteria telefonica. La richiamerò subito.» Phil le strinse la mano, poi impulsivamente la baciò sulla guancia. Mary Margaret arrossì, gli sorrise e lo baciò a sua volta. Phil uscì e salì sull'ascensore. Si ritrovò in strada. La chiacchierata con Mary Margaret Sullivan lo aveva rassicurato. Non aveva più paura che la Tata volesse sedurre Julie e doveva ammettere che l'idea di una Tata soprannaturale era decisamente assurda. Era comunque d'accordo che si dovevano liberare di lei il più presto possibile. Ne avrebbe parlato con Julie e avrebbe convinto anche lei. Risalì la Central Park West cercando un taxi. La serata era diventata più fredda e Phil si sollevò il bavero per ripararsi dal vento sferzante che soffiava dal parco. La neve fine e compatta che aveva cominciato a cadere nel tardo pomeriggio si era fatta più pesante e bagnata. Phil si ricordò di aver sentito dire che se ne prevedevano quindici, venti centimetri entro la mat-
tina dopo. Questo significava che la città si sarebbe fermata, pensò. A Chicago quindici, venti centimetri di neve erano una cosa normale e la vita continuava come ogni giorno; ma a New York, aveva scoperto, la gente reagiva alla neve come se non l'avesse mai vista prima. Si avvicinò un taxi con l'insegna accesa, ma quando Phil gli fece segno di fermarsi il conducente lo ignorò. I taxisti, pensò, come tutti gli altri commercianti a New York, in realtà non hanno bisogno di lavorare. Si strinse nelle spalle e continuò a camminare. 61 Quando Phil arrivò a casa, l'appartamento era immerso nel buio e ognuno sembrava addormentato. Entrò nella stanza di Harry per assicurarsi che fosse tutto a posto. Illuminò con la lucina notturna il bambino che dormiva a pancia in giù, con le ginocchia raccolte sotto lo stomaco e il sederino per aria. Gli sistemò la coperta ripiegandogliela sulle spalle in modo che avesse il viso libero e non corresse il rischio di soffocare. Phil guardava Harry dormire, chiedendosi se sarebbe mai venuto il giorno in cui non avrebbe più sofferto di coliche e gli avrebbe dimostrato la sua gioia nel vederlo, come faceva con la Tata e Julie. Era difficile sostenere la parte dell'emarginato. Phil desiderava tanto essere accettato da suo figlio, poterlo coccolare senza farlo piangere, sentire di essere amato da lui, o almeno di piacergli, sentirsi realmente il padre del bambino. Mentre guardava il piccolo nella culla, Phil si rese conto che aveva automaticamente cominciato a dondolarsi. Aveva passato tante notti tenendo Harry in braccio e cullandolo avanti e indietro cercando di consolarlo, che ormai si dondolava anche quando non lo aveva in braccio. Presto sarebbe arrivato il momento di far fare a Harry le vaccinazioni contro la difterite, la pertosse e il tetano. Phil aveva sentito che su alcuni bambini quelle vaccinazioni potevano avere effetti terribili: convulsioni, collasso, lesioni cerebrali e ancora peggio. Facendogli fare le vaccinazioni correvano il rischio di provocargli una lesione cerebrale irrecuperabile. Se non gliele facevano fare, correvano il rischio che prendesse la difterite o il tetano e morisse. Solo una piccola percentuale di bambini subiva lesioni cerebrali in seguito a una vaccinazione... ma se Harry fosse stato uno di lo-
ro? Doveva smettere di pensare a quelle cose. Doveva smettere di immaginarsi sempre il peggio. Phil si chinò sulla culla e baciò il bambino. Harry fece un verso nel sonno e Phil si ritrasse, spaventato all'idea che si potesse svegliare e attaccare uno dei suoi pianti interminabili. Senza accendere le luci Phil percorse il corridoio fino alla camera da letto, aprì silenziosamente la porta ed entrò. Seguendo la parete della stanza arrivò fino in bagno e seguendo la parete del bagno trovò il lavandino. Sempre al buio individuò il suo spazzolino e il dentifricio, si lavò i denti e la faccia, poi trovò a tentoni l'uscita del bagno e risalendo la parete della camera arrivò al letto. Si spogliò, lasciò i vestiti sul tappeto e s'infilò sotto le coperte il più silenziosamente possibile. «Sono sveglia», disse Julie con un normale tono di voce. «Oh. Sono stato io a svegliarti?» «No», rispose lei. «Non riuscivo a dormire. Continuavo a chiedermi dove fossi finito.» «Davvero?» «Sì.» «Be', avrei potuto telefonarti per dirtelo, ma per essere sinceri non m'importava molto che tu ti preoccupassi. Ero parecchio arrabbiato con te.» «Lo so.» «Bene.» «Phil?» «Sì?» «Io... sto davvero male per come negli ultimi tempi ci trattiamo.» Ci fu un sospiro. «Anch'io», ammise Phil. «Non mi piace il modo in cui ci parliamo. Sembra così senza amore. Non è... non è quello che sento.» «Davvero?» chiese lui. «Cominciavo a dubitarne.» «Davvero.» Julie gli si avvicinò e gli mise le braccia intorno al collo. Phil l'abbracciò. «Dove sei stato stasera?» Lui esitò. «Te lo dico, ma non voglio che tu stia male.» «Perché dovrei star male?» «Non lo so, ma potrebbe andare così.»
«Tu comincia a dirmelo e vedremo.» «Okay», acconsentì lui. «Sono andato a trovare Mary Margaret Sullivan.» Un attimo di silenzio. «La presidentessa della tua agenzia?» «Esattamente.» Un silenzio più lungo. «Capisco», disse Julie. «Significa che ho una rivale?» Al primo momento Phil non comprese il senso della domanda, ma quando ci arrivò scoppiò a ridere. «Posso sapere cosa c'è di tanto divertente?» disse Julie con esagerata freddezza. «Mi dispiace», rispose Phil. «Non avevo mai pensato che tu potessi essere gelosa di una donna di sessantacinque anni.» «Mary Margaret Sullivan ha sessantacinque anni?» «Già.» Julie ridacchiò. «Sia ringraziato il cielo!» «Vorrei che tu avessi più fiducia», le sussurrò Phil. «In me e in te.» «Anch'io», convenne lei. «Oh, Dio. Be', perché sei andato a trovarla? Si tratta di uno dei tuoi annunci?» «Il motivo per cui sono andato lì non ti piacerà.» «Dimmelo lo stesso.» «D'accordo», accettò Phil. «Sono andato per parlarle di quello che sta succedendo fra te, me e la Tata.» Julie sospirò. «Avevi ragione», convenne. «Questo argomento non mi piace.» «Comunque, questo è quello che ho fatto.» «E lei cosa ti ha detto?» «Mi ha detto che le sembra che la Tata si comporti in modo intrigante e inappropriato. La Sullivan pensa che faremmo meglio a liberarcene.» Ci fu un'altra pausa. «E tu che cosa ne pensi?» «Penso che abbia ragione.» Per un momento rimasero in silenzio. «Phil?» «Sì, tesoro?» «Ti amo.»
«Anch'io ti amo.» Si abbracciarono. Per un po' lui le accarezzò pigramente la schiena, poi cercò di spingere le carezze un po' più in giù, verso le natiche, nella speranza di passare con nonchalanche a qualcosa di più promettente. Ma quando continuò al di sotto della vita Julie sbadigliò, si girò e si accinse ad addormentarsi. Phil rimase sveglio stringendola a sé. Il braccio che teneva sotto di lei divenne freddo, insensibile e formicolante, finché Phil si addormentò. Poco dopo la sentì girarsi verso di lui e cominciare ad accarezzargli il viso e le braccia. Nell'intontimento del sonno, capì che Julie non si era addormentata e sentendosi in colpa per averlo respinto stava ora doverosamente cercando di corrisponderlo. Ma lui non voleva saperne di far l'amore grazie a un senso di colpa e decise di continuare a dormire. Si svegliò più o meno un'ora dopo con la sensazione che la porta della stanza fosse spalancata. Nella stanza entrava abbastanza luce da permettergli di distinguere la figura della Tata, in camice bianco, in piedi, immobile appena oltre la soglia, di fronte al letto. Eccoci da capo, pensò amaramente. Fissandolo, la Tata fece un passo avanti verso il letto, si abbassò la cerniera del camice e lo lasciò scivolare sul tappeto. Poi si levò le scarpe, si sfilò la sottoveste, si slacciò il reggiseno e si tolse le mutandine. Completamente nuda, fece un altro passo verso il letto. Phil alzò una mano per intimarle di non avvicinarsi oltre. La Tata emise in una risata sprezzante. Poi si infilò le dita negli occhi e cominciò a strapparsi la pelle del viso come una maschera di gomma dietro cui comparvero occhi a palla e un teschio umido e lucido coperto di una ributtante poltiglia. 62 Il grido fu il più lacerante che Phil avesse mai sentito. Quando Julie cominciò a scuoterlo, si rese conto che proveniva dalla sua gola, ma in un primo momento non riuscì a fermarlo, sebbene Julie gli urlasse di svegliarsi. Infine si svegliò, terrorizzato all'idea di guardare là dove un momento prima la Tata lo fissava con i bulbi degli occhi che le schizzavano fuori delle orbite e due file di denti luccicanti nel volto scheletrico senza più le
labbra, strappate via come il resto del volto. Ma la Tata era svanita e la porta della stanza era di nuovo chiusa. Era chiaro che, tanto per cominciare, la Tata non era mai entrata in quella camera ed era stato tutto un incubo, tuttavia Phil non riusciva a impedire ai propri denti di battere. Julie lo strinse tra le braccia, accarezzandogli la schiena e cercando di calmarlo e consolarlo, finché finalmente Phil si rilassò. Nella sua stanza Harry si era svegliato per l'urlo del padre e aveva cominciato a piangere. «Un altro incubo?» chiese dolcemente Julie. «Spero di sì.» «Cosa hai sognato questa volta?» Phil rifletté un attimo prima di rispondere. «Non credo che ti farebbe piacere sentirtelo raccontare», concluse. «Perché no?» «Non credo che gradiresti questo tipo di simbolismo.» 63 Durante la notte caddero su New York venti centimetri di neve. La mattina dopo la città era nel panico. Fu dichiarata l'emergenza. Un patetico pugno di spazzaneve e macchine per lo spargimento del sale venne spiegato per dichiarare guerra a quella strana bambagia fredda. La raccolta dei rifiuti fu sospesa a tempo indeterminato poiché gli spazzini dovevano essere mandati al fronte. Phil si svegliò all'alba dopo un sogno inquietante che non riusciva a ricordare, ma che l'aveva lasciato esausto. Cominciò a rimuginare sul colloquio avuto la sera precedente con Mary Margaret Sullivan e sulle sue paure paranoiche dell'occulto. Che la Tata avesse o meno a che fare con l'occulto, dovevano liberarsene e aveva l'impressione che la conversazione che si era svolta quella notte con Julie non fosse stata definitiva. Si sedette sul letto a guardarla e proprio in quel momento Julie si stirò, alzò gli occhi, lo vide e gli sorrise. «Ciao», lo salutò allegramente dandogli un bacio. «Ciao.» «Che ora è?» «Più o meno le sette e mezzo», rispose Phil. «Julie, dobbiamo parlare.»
«Certo. Perché così cupo?» «Ti ricordi di cosa abbiamo parlato ieri sera? Quello che abbiamo detto della Tata?» «Sì?...» «È dall'alba che sono sveglio e ho continuato a pensarci e ripensarci. Julie, credo che la Tata sia quantomeno una persona con dei gravi disturbi psichici. Sono convinto che dobbiamo liberarcene subito... prima che faccia qualcosa a Harry.» Improvvisamente Julie apparve esausta. «Mi dispiace», riprese Phil. «So come ti senti.» Julie annuì. «Phil, come faremo senza di lei?» «Sopravviveremo. Troveremo qualcun altro che ci aiuti con Harry, altrimenti faremo da soli. Ricordi, avevamo sempre pensato che avremmo fatto da soli.» Julie gli prese la mano. «Sei molto determinato, vero?» «Julie, sono convinto che la Tata rappresenti una minaccia. Per il nostro bambino e... e anche per il nostro matrimonio.» Julie si accigliò. «Per il nostro matrimonio?» ripeté. «In che senso rappresenta una minaccia per il nostro matrimonio?» Phil non rispose. «In che senso rappresenta una minaccia per il nostro matrimonio, Phil?» «Per quanto ne so, la Tata... sta facendo di tutto per sedurci entrambi», dichiarò. Julie rimase un attimo in silenzio. «Capisco», riprese. «E ci è riuscita?» Ci fu una pausa. «Ci è riuscita, Phil?» «Dimmelo tu.» «Con me no», assicurò Julie. «Bene.» «E con te?» Phil non rispose. Julie lo guardava. «Phil?» Lui rimase in silenzio e gli occhi di lei si riempirono di lacrime. «D'accordo allora, liberiamocene», concluse in tono piatto e inespressi-
vo, e affondò il viso nel cuscino. 64 Per licenziarla, pensò Phil, questa volta avrebbe dovuto dimostrare fermezza. Era un compito da svolgere rapidamente, con sicurezza e senza ambiguità. La volta precedente la sua ambiguità sul piano sessuale le aveva offerto una via d'uscita. Questa volta non dovevano esserci ambiguità, né sessuali né di altra natura. Se non fosse riuscito a liberarsene subito, rischiava di mettere in pericolo Julie e il bambino, e questo non poteva tollerarlo. Quando la Tata tornò dalla consueta passeggiata mattutina con Harry, Phil andò a parlarle nella stanza del bambino. La Tata stava togliendo a Harry la tutina impermeabile. «Tata, ho qualcosa di importante da dirle.» «Sì, signor Pressman?» «La signora Pressman e io siamo arrivati a una decisione molto penosa...» «Sì, signor Pressman?» «Abbiamo deciso di lasciarla libera.» La Tata continuò a spogliare il bambino senza dar segno di aver sentito. «Ha capito quello che le ho detto, Tata? Lei è licenziata», la congedò. «Preferiremmo che se ne andasse il più presto possibile.» «Eh là», esclamò lei. «Quanta fretta, signor Pressman.» «Già.» «Posso chiederle quali sono i motivi che hanno provocato una decisione tanto improvvisa e avventata?» «I motivi che l'hanno provocata non hanno alcuna importanza», rispose Phil. «L'unica cosa importante è che lei capisca che deve andarsene immediatamente. L'ideale sarebbe prima di stasera.» «Questo è quello che nel mondo aziendale si chiama 'licenziamento in tronco'», osservò la Tata sorridendo. «Date le circostanze, è la cosa migliore per tutti.» «Non è la cosa migliore per me», ribatté lei. «In questo caso mi dispiace, ma è comunque così che faremo.» La Tata andò avanti a cambiare il bambino. «Posso chiederle perché vengo licenziata?» «Per una serie di ragioni», rispose lui.
«Me le elenchi.» «Preferirei di no.» «Potrà ben dirmi perché mi licenziate. Almeno questo me lo deve, dopo l'intimità che abbiamo condiviso.» «Oh, questa sì che è bella», esclamò Phil con una risata sarcastica. «'Dopo l'intimità che abbiamo condiviso'!» «Trova divertente la nostra intimità, non è vero?» «Trovo che la nostra intimità non sia poi così intima. Credo che lei sarebbe capace di condividerne altrettanta con un... un manico di scopa.» La Tata gli mollò uno schiaffo in piena faccia con tanta forza che quasi gli fece perdere l'equilibrio. Harry cominciò a gridare. «Come osa parlarmi in questo modo?» sibilò. «Come osa?» «Suppongo che sedurre mia moglie non sia stato facile quanto sedurre me!» «Allora è così?» sbottò la Tata. «Crede davvero che io abbia sedotto sua moglie?» «Perché, non l'ha fatto?» «No», rispose la Tata. «Bene.» «Per sua informazione, signor Pressman», continuò la donna, «sua moglie fa fatica a togliermi di dosso quelle sue mani piccole e grassocce.» «Come?» «Sua moglie si è presa un'imbarazzante cotta per me», continuò. «Mi guarda con aria trasognata come un ragazzino innamorato. Se di seduzione si tratta, posso assicurarle che non dipende da me.» Phil la fissava, incapace di parlare. «Cosa crede che sia», disse la Tata, «una schifosa lesbica?» «Non ho idea di che cosa lei sia», rispose Phil. «E non credo di volerlo sapere. Voglio invece che lei se ne vada da questa casa entro stasera.» La Tata si diede un contegno. «Quindi su questo punto è determinato.» «Assolutamente determinato», assicurò Phil. Ci fu un momento di silenzio. «Lascerò questa casa quando e come deciderò io», dichiarò la Tata. 65 Phil telefonò in ufficio per dire che non si sentiva bene e che sarebbe ri-
masto a casa a lavorare per un po'. Quando tornò in camera per raccontare a Julie del licenziamento, scoprì che si era riaddormentata. Non era da lei rimanere a letto fino a tardi. A mezzogiorno circa, Julie arrivò barcollante in cucina e consumò una leggera colazione. Phil le chiese se si sentisse bene, ma lei rispose a monosillabi. Dopo colazione tornò a letto e vi rimase fin dopo le quattro del pomeriggio. Alle quattro e venti si alzò di nuovo per pranzare, ma era più debole della mattina. Di nuovo Phil cercò di parlarle, e di nuovo lei non gli rispose esaurientemente. Phil pensò che si trattasse di una reazione alla sua tacita ammissione di essersi lasciato sedurre dalla Tata e di conseguenza non insistette. Si sentiva già abbastanza in colpa e sapeva com'era gelosa Julie. Le affermazioni della Tata circa i tentativi di Julie di sedurla erano pure idiozie. Julie non era una seduttrice... non lo era con gli uomini, figuriamoci con le donne. Verso sera Julie non era assolutamente migliorata e la Tata non accennava ad andarsene. Se se ne fosse effettivamente andata e se Julie fosse rimasta immersa nel suo sonnambulismo, Phil sarebbe stato per esclusione l'unico a poter badare a un bambino che soffriva di coliche, una prospettiva che gli appariva poco entusiasmante. All'ora di cena Julie era troppo debole per alzarsi. Phil le misurò la temperatura e riscontrò che era al di sotto del normale. Le chiese ancora se si sentisse bene e ottenne una risposta vaga. Le portò qualcosa da mangiare su un vassoio, ma lei riuscì a malapena a buttar giù un paio di bocconi. Phil cominciava a sentirsi allarmato. Il giorno dopo Julie non era migliorata e la Tata non accennava a muoversi. Continuava a occuparsi di Harry e delle faccende domestiche come se fosse sempre al loro servizio. Phil richiamò in ufficio per dire che non si sentiva ancora molto bene e che avrebbe continuato a lavorare a casa, poi telefonò a un dottore e descrisse i sintomi di Julie, ma il medico non poté far altro che suggerirgli di portarla nel suo studio per una visita. Alla proposta di andare dal dottore, Julie non mostrò alcun interesse e Phil non si sentì di forzarla. L'idea di lasciare la Tata da sola con Harry non lo entusiasmava. Aveva paura di tornare per scoprire che se n'erano andati tutti e due. Se i suoi genitori o i genitori di Julie avessero abitato a New York, avrebbe potuto chiedere a loro di portarla dal medico. Ma se i suoi genitori o i genitori di Julie avessero abitato a New York probabilmente non avrebbero dovuto assumere una tata.
Phil cercò di pensare a un amico che potesse portare Julie dal dottore e si rese conto che tutti i loro amici stavano a Chicago. Erano stati così presi dalla gravidanza, dal parto e dalle coliche che avevano avuto poco tempo per occuparsi del mondo esterno. Non avevano stretto amicizia con nessuno a New York, nemmeno con un vicino, neppure con una delle coppie che avevano seguito con loro il corso Lamaze. Mary Margaret Sullivan era quanto di più vicino a un amico Phil avesse, ma in verità non si sentiva di chiederle di portare sua moglie dal medico. Decise allora di tener duro e aspettare di vedere se le condizioni di Julie miglioravano senza consultare il dottore. Verso sera squillò il telefono. Andò a rispondere Phil. «Ho una chiamata personale per il signor Pressman», cantilenò la voce di una centralinista. «Sì», disse Phil. «Me la passi pure.» «È il signor Pressman?» si assicurò la centralinista. «Sì», confermò Phil. «Parli pure, signore», disse allora la centralinista a chi effettuava la chiamata. Dall'altra parte del filo non giunse un'immediata risposta. «Pronto? Chi parla?» «Signor Pressman?» chiese una voce maschile. Sembrava stranamente cupa e turbata. «Sì», ripeté Phil, «chi parla?» «Sono William Parsons.» «Signor Parsons!» esclamò Phil eccitato. «Grazie per avermi richiamato! Stia a sentire, mi dispiace averla disturbata in un momento che mi sembra di capire sia particolarmente difficile per lei, ma ho una serie di domande che...» «Signor Pressman», lo interruppe Parsons in tono deciso, «temo di dover essere breve. La Redman lavora ancora per lei?» «No», rispose Phil. «O meglio, sì e no.» «Sì o no?» «Tecnicamente no», spiegò Phil, «l'ho licenziata.» «Ha già lasciato la casa?» «Be', no. Ha detto che...» «Sa quando ha deciso di andarsene?» «Non esattamente. Ha detto che se ne sarebbe andata come e quando avrebbe deciso lei.»
Dall'altro capo del filo ci fu un breve silenzio. «Deve costringerla ad andarsene immediatamente», insistette Parsons. «Mi piacerebbe», rispose Phil, «ma non so come fare. Voglio dire, se vado alla polizia a dire che ho licenziato la tata, ma che lei si rifiuta di lasciare l'appartamento, mi rideranno in faccia. Immagino anche che potrei buttarla fuori di forza, ma...» «No», inveì Parsons. «Eviti in qualsiasi caso uno scontro fisico.» «Perché no?» chiese Phil. «Può prendere sua moglie e suo figlio e lasciare la casa senza che lei vi veda?» «Come, scusi? Intende dire che dovrei lasciarle l'appartamento?» domandò incredulo. «No, basterà che vi allontaniate per un po'», spiegò Parsons. «Non rimarrà lì a lungo senza di voi. Non è l'appartamento che vuole. Potete andarvene subito?» «Be', immagino di sì», disse Phil. «Ma mia moglie è molto debole in questo momento e...» «Mi scusi», disse Parsons, «sua moglie è molto cosa?» «Debole, perché?» «Da quando è debole?» «Da ieri.» «È successo prima o dopo che lei avvertisse la signorina Redman che doveva andarsene?» «Dopo. Ma perché?» «Perché il motivo per cui sua moglie si sente debole dipende dalla signorina Redman. Mi ascolti», continuò Parsons in tono grave, «deve portare via di lì sua moglie e suo figlio immediatamente.» «Capisco che probabilmente ha ragione», obiettò Phil, «ma...» «No, ho detto immediatamente», ripeté Parsons. «Perché?» «Le vostre vite sono in pericolo.» «Ma cosa sta dicendo?» «Sto dicendo che se non ve ne andate immediatamente di lì, quella donna vi ucciderà», sbraitò Parsons e riattaccò. 66 Con il cuore in gola, Phil tornò in camera da letto e si chinò sul letto per
scuotere Julie, cercando di svegliarla. Lei mugolò qualcosa, ma non aprì gli occhi. «Julie», le sussurrò Phil nell'orecchio in tono brusco, «dobbiamo andarcene immediatamente. Tu, io e Harry. Pensi di farcela a camminare con il mio aiuto?» Julie rispose qualcosa troppo fievolmente per poter essere comprensibile. «Come?» chiese Phil. «Perché?» ripeté Julie debolmente. «Non posso spiegartelo ora. Ma dobbiamo andarcene immediatamente. Pensi di poter camminare con il mio aiuto?» «Dove... dove andiamo?» chiese Julie in un sussurro. «Non importa», rispose Phil. «Dimmi solo se credi di riuscire a camminare con il mio aiuto.» «Posso... provarci.» «Brava, amore», la incoraggiò Phil. La aiutò a mettersi seduta e a infilarsi vestiti pesanti. Poi si mise un maglione, s'infilò la giacca di piumino e gli stivali e si avviò piano lungo il corridoio verso le stanze della Tata e di Harry. Da sotto la porta della camera della Tata non filtrava alcuna luce. Era già qualcosa. C'era una buona probabilità che la Tata stesse dormendo. Se solo Harry fosse stato addormentato com'era di solito quando Phil gli dava la poppata della notte, forse non si sarebbe messo a piangere e non l'avrebbe svegliata. Phil appoggiò la mano sulla maniglia e la girò lentamente, poi con la massima attenzione spinse la porta. I cardini cigolarono leggermente. Phil entrò piano nella stanza, tendendo l'orecchio all'impercettibile scricchiolio del pavimento sotto il tappeto. Dalla culla di Harry non veniva alcun suono. Per il momento tutto bene. Ma era così buio che Phil avrebbe rischiato di sbattere contro qualcosa e di svegliare sia Harry sia la Tata. Decise allora di correre il rischio di accendere la luce notturna. Arrivò a tentoni al muro, seguì la parete fino al fasciatoio, poi fece scorrere la mano sopra il fasciatoio verso l'interruttore. Accese la luce notturna e stava per allungare le braccia verso la culla e sollevare il bambino, quando la vide. Era seduta sulla sedia a dondolo lì accanto. Li guardava impassibile. La Tata. 67
«Cosa crede di fare?» ringhiò la Tata. Per lo choc di scoprirla lì, il cuore di Phil aveva preso a battergli all'impazzata. «Volevo soltanto vedere come stava Harry.» «Ah, voleva vedere come stava Harry», ripeté la Tata. «Sì», ribadì Phil. Harry si svegliò e cominciò a piangere in modo indeciso. «Ha visto cos'ha fatto?» disse la Tata. «L'ha svegliato.» Il pianto di Harry si fece meno incerto. «Cristo, è figlio mio! Posso svegliarlo e farci il cavolo che voglio!» Harry cominciò a urlare. La Tata si alzò dalla sedia a dondolo e lo prese in braccio. Pianti e urla cessarono immediatamente. «C'è qualcos'altro che voleva vedere?» Phil incrociò il suo sguardo ostile. Stava per darle una risposta rovente, quando ricordò l'esplicita raccomandazione di Parsons di evitare lo scontro fisico e decise che sarebbe stato saggio assecondarla, specialmente dal momento che in quella stanza c'era anche Harry. «In questo momento no», disse. Si girò e uscì dalla camera. 68 Benissimo, questo round l'ha vinto lei, pensò Phil tornando nella sua stanza. Apparentemente si aspettava qualcosa del genere. Per quella sera non c'era più molto da fare, ma forse il giorno dopo sarebbe riuscito a farla uscire di casa con qualche pretesto, approfittandone per sgattaiolare via. Spogliò Julie e la rimise sotto le coperte. Era così debole che non gli chiese nemmeno di spiegarle cosa stava succedendo. Prima di andare a letto, Phil controllò tutte le serrature all'entrata. Poi appoggiò una pesante scrivania contro la porta, pensando che se la Tata avesse cercato di scappare con il bambino il rumore e il traffico per spostare il tavolo lo avrebbero svegliato. Anche se non sapeva cosa avrebbe potuto fare per fermarla. Continuava a riesaminare nella sua testa l'inquietante conversazione che aveva avuto con Parsons. Chiaramente Parsons era terrorizzato dalla Tata. Phil non ne capiva il motivo. Quella donna non sembrava pericolosa. Se
avesse voluto far loro del male, non le sarebbero mancate le occasioni. Era possibile che Parsons fosse pazzo. Eppure il tono della sua voce al telefono gli aveva fatto venire la pelle d'oca. Phil decise di tener conto dell'avvertimento di Parsons. Dopo essersi spogliato, aver spento la luce, ed essersi infilato a letto accanto a Julie, Phil rimase a lungo ad ascoltare i rumori dall'altra parte dell'appartamento. Non udiva altro suono che il battito del suo cuore e finalmente si addormentò. 69 All'alba Phil scivolò silenziosamente in cucina, aprì diverse confezioni di latte artificiale e ne svuotò il contenuto nel lavandino. Solo dopo aver terminato l'operazione, si rese conto che, se anche fosse riuscito a convincere la Tata ad andare a comprarne dell'altro, lei si sarebbe con tutta probabilità portata dietro Harry, privandoli dell'occasione che Phil cercava. Non gli rimaneva comunque che spostare il pesante tavolo davanti alla sua porta e tornare nella sua camera. Alcune ore dopo, Phil trovò la Tata in cucina. Aveva tutta l'aria di eseguire la sua consueta routine come se non fosse mai stata licenziata. Phil decise allora di approfittare del fatto che lei lavorava ancora per loro. «Tata, a quanto pare c'è rimasto poco latte», disse. «Ho paura che finisca. Con tutta questa neve presto i supermercati rimarranno a corto di merce. Forse più tardi può andare a comprarne qualche confezione.» La Tata ridacchiò. «Trova la mia richiesta divertente?» chiese Phil. «Sì, davvero divertente.» «E perché mai?» «Se è tanto preoccupato, signor Pressman», disse la Tata, «che ragione aveva di aprire tante confezioni di latte artificiale e svuotarle nel lavandino?» «Che ragione avrei avuto di fare cosa?» rispose Phil, ma era chiaro che aveva perso anche questo round. Per tutto il giorno Julie rimase in uno stato semicomatoso. Phil si aggirava furtivamente per l'appartamento, aspettando l'occasione di afferrare Harry e Julie e scappare, ma il momento propizio non si presentò. Quella sera, quando la Tata ebbe finito di fare il bagno a Harry, prepa-
rarlo per la notte, dargli l'ultima poppata e sistemarlo a letto, Phil tornò come se nulla fosse nella sua stanza e cominciò a scegliere dei vestiti pesanti per Julie. La Tata di solito faceva la doccia tutte le sere verso le otto e quella era un'ottima occasione per prendere Harry e cercare di fuggire. Erano le sette e quaranta. Phil aiutò Julie a vestirsi, un processo laborioso, data la sua momentanea incapacità di cooperare. Poi si infilò anche lui degli abiti pesanti e attese. La Tata andò in cucina e prendendosi tutto il tempo necessario svuotò la lavastoviglie di piatti, bicchieri, tazze, scodelle, biberon e tettarelle, riponendo ogni cosa negli scaffali sopra il lavandino. Poi raccolse i piatti sporchi, li passò velocemente sotto l'acqua e li sistemò nella lavastoviglie. Pulì il lavandino, il piano di lavoro e i fornelli, e infine preparò quello che rimaneva del latte artificiale e mise tettarelle e ciucci in una pentola a bollire sul fornello. Alle otto e cinque la Tata uscì dalla cucina e si chiuse in bagno. Qualche istante più tardi Phil sentì lo scroscio della doccia. Ebbe l'impressione che l'acqua fosse stata aperta quasi immediatamente dopo che la Tata aveva chiuso la porta del bagno e si chiese se non ci avesse messo troppo poco tempo a spogliarsi. Forse intuiva che avrebbe di nuovo tentato di scappare e aveva aperto la doccia solo per tranquillizzarlo e fargli credere che non sospettava nulla. Phil aspettò, sprecando momenti preziosi. Quando fu convinto che la Tata fosse realmente sotto la doccia, sgattaiolò fuori della stanza e scivolò lungo il corridoio fino alla camera di Harry. Allungò la mano lungo la parete verso l'interruttore e si accinse a schiacciarlo, aspettandosi di trovare la Tata sulla sedia a dondolo. Ma quando la luce si accese la sedia accanto al letto era vuota. Grazie a Dio! Con il cuore che gli batteva all'impazzata, Phil si chinò sopra la culla, pregando silenziosamente che Harry non si mettesse a piangere, prese in braccio il bambino, lo avvolse in una coperta di lana e uscì in silenzio dalla stanza. Harry spalancò gli occhi, ma miracolosamente non pianse. Grazie, Harry, gli disse tra sé e sé. Passò in punta di piedi davanti alla porta del bagno in cui a quanto sembrava la Tata era ancora sotto la doccia, ed entrò nella loro stanza. Julie era seduta ai piedi del letto, completamente vestita, proprio come l'aveva lasciata. «Ora andiamo, tesoro», le sussurrò. «Sei pronta?» Senza attendere risposta, Phil le passò il braccio libero intorno alla vita aiutandola ad alzarsi, a uscire dalla stanza e ad attraversare il soggiorno fi-
no alla porta d'ingresso. A quel punto Harry cominciò a piangere. Oh, no, pensò. Per favore, no! Aprì rapidamente le serrature e in quell'esatto momento, con suo immenso disappunto, udì chiudere l'acqua della doccia. 70 Harry non smetteva di piangere. Phil aprì la porta e, tenendo in braccio il bambino da una parte e sostenendo come poteva Julie dall'altra, si diresse sul pianerottolo verso il piccolo ascensore di servizio. Ti prego, fa' che l'ascensore sia fermo al nostro piano, supplicò tra sé. Ti prego, fa' che sia lì. Arrivarono davanti all'ascensore e Phil schiacciò il bottone. Misericordiosamente le porte si aprirono e ancor prima che fossero spalancate, Phil si precipitò dentro con Julie e il bambino. Premette il bottone del pianterreno e l'ascensore partì con un sobbalzo. Il movimento sembrò distrarre Harry quanto bastava per farlo smettere di piangere, ma quando atterrarono nell'atrio il bambino riprese a gridare. Phil aiutò Julie a raggiungere il portone. Lo aprirono e furono letteralmente investiti da una raffica di vento gelido e neve. Phil tirò la coperta sul viso di Harry, sperando che il bambino avesse abbastanza aria per respirare, e s'incamminò sulla strada tra le folate di neve, tirandosi dietro Julie che continuava a inciampare e doveva essere ripetutamente rimessa in piedi. La nevicata si era trasformata in una bufera. Non c'erano taxi al parcheggio. Phil trascinò Julie lungo Perry Street in direzione della Dodicesima Avenue, un viale straordinariamente ampio per quella zona, in cui a tutte le ore del giorno e della notte enormi camion a rimorchio passavano rombando ad alta velocità. Phil continuava a guardarsi nervosamente alle spalle, terrorizzato di veder emergere la Tata dall'edificio. Il bambino aveva momentaneamente smesso di piangere, forse affascinato dalla tempesta di neve. Julie riusciva a stento a camminare, ma lo seguiva incespicando, sostenuta dal suo braccio libero. La neve che cadeva pesante attutiva i suoni. Era come avere la testa avvolta da un brutto raffreddore. Proprio mentre raggiungevano la Dodicesima Avenue, i più oscuri timori di Phil si materializzarono. La Tata, con il cappotto nero buttato addosso, sbucò dal portone e prese a risalire la strada verso di loro. Phil si tuffò nel mezzo del viale, guardandosi ansiosamente intorno in
cerca di un taxi. Ne apparve uno, lanciato proprio nella loro direzione. Phil si agitò disperatamente facendogli segno di fermarsi, ma la macchina sfrecciò via davanti a loro spruzzandoli di neve che si era rapidamente trasformata in fanghiglia. Phil si guardò alle spalle: la Tata era a meno di un isolato di distanza. Un altro taxi passò come un fulmine schizzandoli, e se li lasciò alle spalle ignorando le disperate segnalazioni di Phil. La Tata era a meno di mezzo isolato. Apparve un Tir che andava almeno a cinquanta all'ora. Phil considerò che quella era la loro ultima chance. Improvvisamente gettò Harry tra le braccia di Julie, sperando che il suo naturale istinto di protezione prendesse il sopravvento e la tenesse in piedi e balzò esattamente sulla rotta dell'autocarro che si avvicinava. L'autista suonò il clacson, schiacciò i freni, sterzò, sbandò e fermò il camion con un acuto stridio a pochi centimetri dal corpo di Phil. Allora Phil riafferrò Harry e lo sollevò in modo che il camionista, lanciato in una serie di stravaganti improperi, lo vedesse. «Il nostro bambino è malato!» gridò, sicuro che soltanto un'emergenza di quel tipo potesse giustificare il suo comportamento. «Abbiamo bisogno un passaggio fino all'ospedale!» La Tata era quasi arrivata all'angolo. Phil afferrò la maniglia della portiera dalla parte del passeggero e la spalancò. «Mio figlio e mia moglie stanno male», urlò, «se non ci porta all'ospedale, moriranno.» Il camionista guardò Phil, decise di dominare la rabbia, e gli fece cenno di salire. Phil gli passò Harry, salì tirandosi dietro Julie e richiuse la portiera sbattendola, proprio mentre la Tata li raggiungeva gridando. «Vada!» lo implorò Phil. «Per favore, vada!» La Tata picchiava contro il finestrino. «E quella chi diavolo è?» chiese il camionista sporgendosi a guardare in direzione della Tata. «Nessuno», rispose Phil. «Nessuno?» ripeté il camionista. «Una pazza che abita vicino a noi, d'accordo?» rispose concitato Phil. «Ma, per favore, adesso vada!» 71
Il camionista ingranò la marcia e partì. Phil si girò a guardare la Tata che diventava sempre più piccola nello specchietto retrovisore e riprese a respirare un po' più liberamente. «Qual è l'ospedale più vicino?» chiese l'autista, un uomo tarchiato, più o meno dell'età di Phil che indossava un gilet di piumino macchiato di grasso sopra una giacca di jeans, un berretto da baseball e aveva una barba di due o tre giorni. «Probabilmente il St. Vincent», rispose Phil. «È tra la Settima Avenue e l'Undicesima Strada.» Il camionista annuì e lanciò un'occhiata inquieta a Julie e al bambino. «Cos'hanno?» domandò apparentemente preoccupato che, qualsiasi cosa fosse, gliela potessero attaccare. «Non so», rispose Phil. «Se solo lo sapessi.» Il camionista continuò a guidare. La neve cadeva sul parabrezza, spazzata via dagli enormi tergicristalli. La cabina del Tir era alta sulla strada e il motore potente, così Phil si sentì momentaneamente in salvo da qualsiasi cosa nella Tata stessero fuggendo. Arrivati al St. Vincent, l'autista divenne inaspettatamente sollecito; aiutò Julie a scendere dal camion e a entrare in ospedale, insistette per tenere in braccio lui il bambino e augurò loro di cuore di rimettersi in fretta. Phil lo ringraziò profusamente, Julie borbottò qualcosa e il camionista risalì nella cabina di guida e se ne andò. Per il momento Phil si sentiva al sicuro in ospedale. Se fosse stata cosciente, Julie gli avrebbe probabilmente detto che era la vicinanza di tutte quelle figure terapeutico-paterne a rassicurarlo. In ogni caso, un ospedale non era uno dei primi dieci posti in cui la Tata li avrebbe cercati. Dato che siamo qui, pensò Phil, tanto vale cercare di scoprire se i sintomi di Julie hanno una spiegazione medica. Un indiano minuto in camice bianco li chiamò, li fece entrare in un ampio ambulatorio e li condusse verso un lettino intorno a cui tirò una tenda. Il dottore indiano era magro e scuro di carnagione. Il suo tono cantilenante sembrava una parodia dell'accento indiano usato da Mel Brooks e Robin Williams. Il medico pareva irritato dal pianto di Harry e quando Phil gli spiegò che il bambino soffriva di coliche, scrollò le spalle. «Suo figlio è soltanto esausto, signore», sentenziò, «lo porti a casa, lo metta a letto e lo lasci dormire. Vedrà che si rimetterà se lo lascia dormire.» Il dottore visitò Julie. Le guardò sotto le palpebre, nelle orecchie, in go-
la; le ascoltò il cuore con lo stetoscopio; le controllò le pulsazioni e sollevò le sopracciglia. «Sua moglie corre, signore?» domandò. «No», disse Phil. «Perché me lo chiede?» «Le pulsazioni sono quelle di un ottimo corridore», disse il medico. «E cioè?» «Trentatré.» «Trentatré?» si stupì Phil. «Normalmente ha più o meno settantadue pulsazioni al minuto.» «Oh, no», disse il dottore. «Si sbaglia, signore. Se avesse normalmente settantadue pulsazioni non potrebbe rallentare così.» «A meno che non fosse terribilmente malata», commentò Phil. «Oh no», ripeté il dottore, «sua moglie non è malata, signore. Ha un eccellente cuore da atleta, eccellente. È soltanto stanca. La porti a casa, la metta a letto e la lasci dormire.» Phil non sapeva cosa fare. Andò al telefono nella sala d'aspetto e chiamò Mary Margaret Sullivan. La donna rispose al terzo squillo. «Credo di doverle chiedere un favore veramente stravagante», attaccò Phil. «Sì?» «Sono in una situazione di emergenza e mi chiedevo se non avrebbe potuto ospitare per un po' mia moglie e mio figlio.» «Cosa c'è che non va?» chiese la Sullivan. «Be'», disse Phil guardando le persone sedute lì intorno che lo osservavano con interesse, «è difficile spiegarglielo ora per telefono. Forse potrei venire da lei per parlarne.» «Quando vuole venire?» «Cosa ne direbbe se arrivassi subito?» «D'accordo», accettò la Sullivan. «Grazie», sospirò Phil. Riappese il ricevitore e guidò Julie e il bambino fuori dall'ospedale. Salirono su un taxi e Phil diede all'autista libico l'indirizzo di Mary Margaret Sullivan. 72 Il taxi correva sulla neve lungo l'Ottava Avenue, sbandando preoccupantemente, a una velocità decisamente troppo alta date le condizioni del fon-
do stradale. «Può rallentare, per cortesia?» disse Phil al di là dello sporco pannello di plexiglas. «C'è un bambino qui dietro!» Ma l'autista libico non sentì o preferì far finta di non aver sentito. Phil si chiese che requisiti occorressero per diventare taxista a New York e se nella storia di quell'esame si fossero mai registrate delle bocciature. Poi cominciò a pensare alla Tata. Aveva perso quel round, ma ciò non significava che si sarebbe arresa. Sicuramente avrebbe cercato di seguirli. Chissà se avrebbe immaginato che potevano rifugiarsi a casa della Sullivan. Phil si ricordava di aver parlato di lei con la Tata e di averle detto che quella donna era una delle poche persone di cui sentiva di potersi fidare a New York. Se lo sarebbe ricordato? Era una possibilità reale. Non era escluso che la Tata potesse essere già lì... avrebbero potuto arrivare dalla Sullivan e trovare ad aspettarli la Tata. No, la casa di Mary Margaret era troppo pericolosa. Dove potevano andare, allora? Da Ralph Roberts? No, aveva parlato anche di lui... con tutta probabilità la Tata ci sarebbe andata. Roberts però gli aveva accennato a una casetta a Long Island. Forse Phil poteva chiedergliela in prestito per un paio di giorni. «Autista, cambiamo destinazione», disse Phil da dietro il pannello di separazione. Il taxi non rallentò. «Autista, ehi!» Nessuna risposta. «Autista, fermi il taxi!» Senza diminuire l'avventata velocità, il taxista si girò a guardarlo. «Mi ha sentito? Voglio che si fermi. Voglio cambiare destinazione.» «Cambiare?» «Sì!» Sebbene le cognizioni d'inglese del libico fossero ancora più vaghe delle sue capacità di autista, Phil riuscì in un modo o nell'altro a farsi portare a una cabina telefonica. Si fece dare il numero di Ralph Roberts dal servizio abbonati e lo formò mentre la neve gli cadeva pungente sul viso. Dimmi che sei in casa, pregava. Per favore dimmi che sei in casa. Qualcuno rispose. «Ciao, sono Ralph...» disse la voce dall'altro capo del filo. «Ralph!» esclamò sollevato Phil. «Dio come sono contento di sentire...»
«... Se sei un ladro e pensi che io non sia in casa, ti devo avvisare che sono seduto qui al buio accanto a due dobermann ringhianti e a una pistola a doppia canna. Ma se non sei un ladro», continuò la voce, «per favore lascia il tuo nome, numero di telefono e l'orario in cui hai chiamato dopo il segnale acustico. Ti richiamerò appena torno.» Phil si stava chiedendo che messaggio lasciare, quando udì il bip. «Mmm, Ralph... sono Phil Pressman», disse. «Sono circa le dieci di sera e non so dove potrai trovarmi perché...» «Pressman?» «Ralph, ma sei in casa!» sospirò Phil sollevato. «Grazie a Dio.» «Cosa ti succede?» chiese Roberts. La sua voce aveva un tono indifferente e distante. Non era la voce che faceva venire voglia di chiedere quello che Phil stava per chiedergli. «Ralph, ti telefono perché ho bisogno un grosso favore.» «E cioè?» «Mi pare che tu mi abbia parlato di una casetta che hai a Long Island. East Hampton, credo...» «Sì...» «Be', il punto è che, Ralph», balbettò Phil desiderando che Roberts gli facilitasse il tutto, «sono un po' in un guaio e mi chiedevo se non potessi andare a casa tua a Long Island, per un paio di giorni. So che ti sembrerò invadente, ma...» «Per un paio di giorni?» disse Roberts. «Sì», rispose Phil vergognandosi improvvisamente della propria richiesta, consapevole di aver esagerato e sicuro che Roberts gli avrebbe detto di no, sapendo perfettamente che si trattava davvero di un'emergenza e che quella era una possibilità che doveva tentare. «Credi che sarebbe possibile, Ralph?» «Quando vuoi andarci?» chiese cautamente Roberts. «Questo fine settimana o cosa?» «No, no. Adesso», rispose Phil. «Subito. Stasera.» «Stasera?» «Sì», confermò Phil. «Non posso spiegarti, ma ha a che fare con Luci Redman ed è una specie d'emergenza.» «Con Luci Redman, eh?» insinuò Roberts animandosi improvvisamente e assumendo un tono lascivo e mieloso. «Ho capito di che emergenza parli.» «Non è come pensi», disse Phil rendendosi conto di quello che Roberts
si stava immaginando. Ma poi decise: al diavolo, forse questo lo renderà più disponibile. «Come preferisci, ragazzo», lo assecondò Roberts. «Allora, cosa mi dici?» chiese Phil. «Pensi che possa andarti bene prestarci la casa per un paio di giorni?» «Prestarci, eh?» ripeté Roberts. «Certo, potete andarci... drittone che non sei altro!» Roberts gli diede le indicazioni necessarie per raggiungere la casa. Phil scarabocchiò il tutto su un pezzetto di carta con le dita insensibili per il freddo. «La porta della cucina sul retro dovrebbe essere aperta. Credo che funzioni tutto, riscaldamento, acqua, elettricità; la casa sarà piuttosto fredda quando arrivate, ma dovreste essere in grado di scaldare l'ambiente in men che non si dica», aggiunse Roberts con un sogghignò ammiccante. «Non so dirti quanto ti sia grato per questo favore», gli disse Phil. «È una sciocchezza.» «Ma devo chiederti di promettermi una cosa», riprese Phil. «Che cosa?» «Per favore, non dire a nessuno, per nessun motivo, dove siamo.» «Di questo non devi proprio preoccuparti», rispose Roberts con un'altra risata lasciva. «Ho le labbra cucite.» Dopo aver riattaccato Phil telefonò di nuovo al servizio abbonati per avere l'indirizzo della più vicina agenzia di noleggio auto aperta a quell'ora e, non certo per merito del taxista libico, riuscirono ad arrivarci sani e salvi. All'ufficio AVIS trovarono un impiegato di origine spagnola preoccupantemente magro, con la pelle butterata, una barba rada e di umore misteriosamente allegro. Phil noleggiò l'unica vettura a quattro ruote motrici disponibile, una jeep Cherokee, e dovette pagare una quota extra per un seggiolino per bambini. Per un qualche inspiegabile motivo, e nonostante Phil e Julie non avessero con sé nemmeno l'ombra di un'attrezzatura da sci, l'allegro impiegato aveva deciso che erano in partenza per una settimana bianca. «Siete diretti a Killington?» chiese mentre cercava di fissare il seggiolino per bambini. «No», rispose Phil, «non andiamo a Killington.» «Ci si scia abbastanza bene», riprese l'uomo. «Anche se, per essere sinceri, le piste sulle montagne dell'Est sono un po' troppo ghiacciate per i
miei gusti.» «Eh già», commentò Phil. L'impiegato aveva i suoi guai a installare il seggiolino sull'automobile. «Proprio così», continuò. «Personalmente preferisco le piste dell'Ovest.» «Mmm», mormorò Phil che non vedeva l'ora di essere in viaggio e non desiderava altro che l'impiegato riuscisse a sistemare il seggiolino. «Mi sono comprato un appartamentino in multiproprietà in un bel condominio a Vail», riprese l'uomo. «Proprio a Lion's Head, vicinissimo agli impianti. Conosce Vail?» «Per niente.» «A me piace la neve fresca», proseguì l'impiegato. «Sa, sono fondamentalmente uno che scia con il didietro.» «Ma non mi dica...» Sistemarono Harry nel seggiolino che l'uomo era finalmente riuscito a fissare. Poi, dopo essersi familiarizzato con le quattro ruote motrici, Phil aiutò Julie a salire in macchina. «Sua moglie sembra un po' stanca», notò l'impiegato. «Ha avuto una giornata difficile», spiegò Phil. «Se fossi in lei non la lascerei sciare troppo il primo giorno», gli raccomandò l'uomo. «Sa, l'altitudine...» «Okay, non mancherò», rispose Phil accendendo il motore. «Grazie per il consiglio.» «Divertitevi», gli augurò l'impiegato. «E si ricordi: 'Meglio un rammollito vivo che un campione morto'.» «Cercherò di tenerlo a mente», disse Phil e inserita la marcia partì verso la Long Island Expressway. 73 Seduta alla macchina per scrivere, Mary Margaret Sullivan fissava la neve turbinare nell'aria sulla terrazza del suo attico. Doveva lavorare a una proposta dell'agenzia per un possibile cliente nell'industria automobilistica, ma pensava a Phil Pressman. Non riusciva a immaginare il motivo per cui Pressman volesse portare sua moglie e suo figlio da lei, ma le era sembrato in uno stato di grande agitazione e quella visita le avrebbe offerto quantomeno l'opportunità di conoscere il resto della famiglia. Nonostante le sue nevrosi, l'eccentrico copywriter le piaceva. Lo trovava brillante, coscienzioso e molto commo-
vente. Lo giudicava anche buffo, sebbene quest'ultima dote fosse del tutto inintenzionale. Anche il suo ex marito, Hy, era un tipo divertente, ma nel suo caso lo spirito era sempre voluto. Hy e Pressman erano entrambi ebrei ed entrambi pubblicitari di talento, ma non avevano altro in comune, neppure lontanamente. Le veniva perciò spontaneo chiedersi perché Pressman le piacesse tanto. Aveva l'impressione che i figli cercassero sempre di essere l'opposto dei padri. Se lei e Hy avessero avuto un figlio, sarebbe somigliato a Pressman. Suonò il citofono. Mary Margaret andò a rispondere. «Sì, Otto?» «Signora Sullivan, c'è una visita per lei», annunciò il portiere con un leggerissimo accento tedesco. «Una sola?» si stupì Mary Margaret che aspettava l'arrivo di Phil con moglie e bambino. «Sì», confermò il portiere. «Faccio salire la signora?» «La signora?» si stupì Mary Margaret. «Sua nuora», specificò il portiere. Mary Margaret rimase perplessa. «Io non ho nessuna nuora», commentò. «Come ha detto che si chiama?» «Si è presentata come signora Redman, signora», rispose il portiere. «La signora Redman non è mia nuora», protestò Mary Margaret. «Se intende vedermi, le dica di telefonarmi in ufficio per fissare un appuntamento domani mattina.» Ci fu quello che sembrava uno scambio di battute tra il portiere e la visitatrice, poi Otto riprese il citofono. «La signora Redman dice che si tratta di una cosa estremamente importante e che deve vederla subito. Dice che c'è una crisi in famiglia di cui deve assolutamente parlarle.» «Dica alla signora Redman che non ho nessuna nuora, Otto», sentenziò Mary Margaret. «E le dica che non intendo vederla.» «Certo, signora Sullivan», rispose Otto. Mary Margaret riattaccò. Non sapeva perché la tata dei Pressman volesse vederla, ma la cosa non le piaceva e preferiva che fosse Pressman a spiegarle di che tipo di emergenza si trattava prima di parlare con la Redman. Cercò di concentrarsi sulla sua lettera di offerta, ma i suoi pensieri tornavano in continuazione a Pressman, sua moglie, il bambino e Luci Red-
man. Il fatto che la governante si fosse presentata a casa sua l'aveva impressionata. Non sapeva spiegarselo, ma per qualche motivo le sembrava un oscuro presagio. Rimase per un po' ad ascoltare il vento che ululava fuori, sulla terrazza, poi si alzò a prepararsi una tazza di caffè. Riempì il bollitore e accese il fornello, ma appena ebbe messo l'acqua sul fuoco le sembrò di udire qualcuno bussare alla porta. Che strano. Possibile che Luci Redman avesse convinto Otto che lei era davvero la nuora di Mary Margaret? O si trattava dello stesso Otto venuto a perorare la causa di Luci Redman? Mary Margaret andò alla porta e guardò fuori dallo spioncino. Era la Tata. «Signora Sullivan», si sentì chiamare, «devo parlarle.» Come fa a sapere che sono venuta alla porta, pensò Mary Margaret... non ho detto una parola. «Signora Sullivan, la prego, apra la porta», ripeté la Tata. «Ho bisogno di parlarle.» «Io invece non ho niente da dirle.» «Allora mi faccia parlare con il signor Pressman», ribatté la Tata. «Il signor Pressman non è qui», disse Mary Margaret chiedendosi come facesse a sapere che era diretto lì. Dall'altra parte della porta ci fu un momento di silenzio e dalla cucina arrivò il fischio del bollitore. «Vorrei che dicesse al signor Pressman che sta commettendo un terribile errore», cominciò la Tata. «Vorrei che gli dicesse che se lui, la signora Pressman e il bambino tornano a casa immediatamente l'errore può essere riparato. È molto importante. Glielo dirà?» Mary Margaret trovava il fischio del bollitore particolarmente stridente, forse perché si sentiva improvvisamente spaventata. «Gliel'ho detto», riprese. «Il signor Pressman non è qui. E ora mi scusi, ma devo tornare al mio lavoro.» «Non posso andarmene senza aver parlato personalmente con il signor Pressman», insistette la Tata. «Allora resti pure lì quanto vuole», concluse Mary Margaret. «Io chiamo la polizia.» Andò al telefono e fece il numero del commissariato di zona. «Mi chiamo Mary Margaret Sullivan», annunciò. «Abito nell'attico delle San Sebastian Towers. C'è un ladro fuori della mia porta e credo che sia
armato e pericoloso. Ho bisogno che mandiate qui qualcuno il più presto possibile.» Il sergente di servizio controllò l'indirizzo e le assicurò che avrebbero immediatamente mandato una pattuglia. Mary Margaret tirò un sospiro di sollievo. Passarono venti lunghi minuti, durante i quali non trovò niente di meglio da fare che bere caffè e ascoltare l'ululato del vento. Finalmente udì qualcuno bussare vigorosamente alla porta. «Chi è?» chiese non troppo ansiosa di avvicinarsi alla porta al pensiero che ci potesse essere Luci Redman dall'altra parte. «La polizia!» Mary Margaret andò alla porta e guardò dallo spioncino. Sul pianerottolo c'erano effettivamente due poliziotti in uniforme. Di Luci Redman neanche l'ombra. Aprì le numerose serrature e lasciò entrare gli agenti. «Ha segnalato un ladro?» chiese il più alto dei due. «Sì», rispose lei. «Avete incontrato nessuno salendo?» «No, signora. Che aspetto aveva l'uomo?» «Non era un uomo, era una donna», affermò Mary Margaret. «La conosceva?» «No», rispose. «Può dirci che cosa voleva?» «Cercava qualcuno che credeva fosse qui, ma che non c'è», spiegò. «Ha detto che non se ne sarebbe andata finché non l'avessi lasciata entrare per parlargli.» «E che cosa le fa pensare che si tratti di una donna pericolosa?» «È stata... una sensazione, tutto qui», ammise. «Capisco, signora.» Vide lo sguardo tra i due poliziotti e si rese conto che l'avevano catalogata come la vecchia pazza che si immagina le cose. Inscenarono la solita rapida ispezione dell'appartamento e poi se ne andarono. Rimasta sola, Mary Margaret chiuse le tre serrature e tornò in cucina a prepararsi dell'altro caffè. C'era qualcosa che la preoccupava, ma per il momento non riusciva ad afferrare di che cosa si trattasse. C'entrava con l'arrivo della polizia. Allora capì. Gli agenti erano arrivati di sopra senza che Otto li annunciasse al citofono, come faceva normalmente. Otto era molto scrupoloso nel non lasciare salire nessuno senza prima annunciarlo. Perché non le aveva citofonato l'arrivo della polizia?
Le sembrò di sentire un rumore in camera da letto. Forse erano le persiane che sbattevano. Avrebbe dovuto chiuderle prima di andare a letto se non voleva che i colpi la tenessero sveglia tutta notte. Poi il rumore si ripeté e, temendo che fossero i vetri a sbattere, Mary Margaret, con la tazza di caffè fumante in mano, andò in camera da letto. Fu seccata di trovare che il vento aveva spalancato la finestra e che era entrata un bel po' di neve bagnando la moquette. Poi alzò lo sguardo e si rese conto che la neve non era l'unica cosa entrata dal terrazzo. 74 Non era difficile capire perché ci fossero poche macchine sulla Long Island Expressway. Era caduta così tanta neve sull'autostrada non ancora percorsa dagli spazzaneve che non si riuscivano a distinguere i limiti delle corsie. Phil aveva l'impressione di guidare in una sconfinata pianura immacolata, o su un ghiacciaio diretto verso il Polo Nord, e il disegno dei fiocchi di neve che, illuminati dai fari della jeep, gli volteggiavano davanti al parabrezza ricordavano gli effetti speciali di Star Trek quando la nave spaziale Enterprise passava nell'iperspazio. Le quattro ruote motrici davano alla jeep stabilità sulla neve, facendola avanzare con un movimento tranquillo, surreale e lento. Anche quando l'autista di qualche rara macchina davanti alla jeep perdeva il controllo e l'auto faceva un testa-coda, tutto accadeva come al rallentatore, accentuando in Phil la sensazione di trovarsi in un sogno. Dopo la prima ora di viaggio, Harry cominciò a piangere in un modo che, come ormai avevano imparato, significava fame. Phil uscì dall'autostrada al primo casello e proseguì su una strada secondaria finché trovò una drogheria aperta tutta notte. Lasciò Julie in macchina con Harry e scese per cercare di procurarsi del latte artificiale, pannolini e un paio di biberon. Il negozio vendeva pannolini usa-e-getta, anche se non della marca che Phil preferiva, ma sugli scaffali non c'era traccia di latte artificiale o di biberon. Il ragazzo alla cassa suggerì che forse un autogrill più avanti sulla strada poteva avere quello che il cliente cercava. Phil tornò in macchina. Harry piangeva ormai disperatamente. Al primo autogrill trovarono biberon e tettarelle, ma niente latte artificiale. Phil comprò tutto l'occorrente per il bambino assieme a un po' di cibo per sé e
per Julie e sebbene sapesse che Harry era troppo piccolo per il latte di mucca ne prese comunque un paio di cartoni e tornò alla jeep. Alle tre uscite successive non trovarono negozi aperti. Harry era arrivato all'isterismo e Phil rasentava la disperazione. Si chiese cosa sarebbe successo se avesse dato a Harry il latte che aveva comprato. Chiese il parere di Julie, ma sua moglie era ripiombata nello stato in cui era rimasta tutto il giorno, di qualsiasi cosa si trattasse. Se solo avesse potuto parlare con la Sullivan forse lei avrebbe saputo consigliarlo. In realtà avrebbe dovuto telefonarle per dirle che avevano cambiato programma e per sentire cosa aveva da suggerirgli. Cercò un telefono in un emporio e compose il suo numero. Rispose la segreteria telefonica. Strano, pensò Phil. Mi ha detto che lavora fino a tardi, di sera. Be', a quanto pare non stasera. 75 Mary Margaret Sullivan e la Tata si guardavano in silenzio, l'una di fronte all'altra. «Le avevo detto che non me ne sarei andata finché non avessi parlato con il signor Pressman», incominciò la Tata. «E io le avevo detto che non è qui», rispose Mary Margaret. La donna le passò davanti sfiorandola e, scuotendo via la neve dal cappotto e dagli stivali, fece un rapido giro dell'appartamento. «Dove li ha mandati?» chiese poi con calma. «Non li ho mandati da nessuna parte», ribatté Mary Margaret. «Dove sono andati?» «Gliel'ho detto, non lo so.» La Tata la osservò impassibile per un momento, poi, senza preavviso, la colpì in pieno petto con tanta forza che Mary Margaret si piegò su se stessa e cadde a terra. «Dove?» ripeté la Tata. Guardando dal pavimento la donna che incombeva su di lei, Mary Margaret riuscì a malapena a riprendere fiato. «Dove?» Mary Margaret scosse debolmente la testa. Era nei guai, i guai più brutti che avesse passato in vita sua, e per la prima volta non le veniva in mente una via d'uscita. «Posso aspettare», riprese la Tata. «Ho tutto il tempo del mondo, e an-
che qualcosa di più.» «Che cosa... vuole... da loro?» chiese Mary Margaret con grande difficoltà. Aveva uno spaventoso dolore al petto e faceva una terribile fatica a respirare. «Sono la tata del bambino», spiegò la Tata. «Voglio soltanto fare il mio lavoro.» Squillò il telefono. Udirono la voce di Mary Margaret registrata sul nastro della segreteria telefonica chiedere a chi chiamava di lasciare un messaggio dopo un segnale acustico. «Salve, sono Phil Pressman...» Le due donne si girarono a guardare il telefono. La prego, non dica dove siete e dove state andando, pensò Mary Margaret. «Volevo soltanto dirle che stiamo bene», continuò la voce di Pressman. «Ho cambiato idea. Non passeremo di lì, ma volevo chiederle qualche consiglio. Immagino che dovrò riprovare a chiamarla quando sarà in casa. Siamo diretti...» «No!» pensò Mary Margaret e subito dopo si rese conto che l'aveva gridato. Ma evidentemente Pressman aveva delle riserve a raccontare a una segreteria telefonica dove erano diretti perché lasciò il pensiero in sospeso. «La richiamerò più tardi», concluse. E riattaccò. Stesa sul pavimento Mary Margaret cercava di pensare a come comportarsi. Le era ormai chiaro che aveva a che fare con una pericolosa psicotica. Si rese conto che molto probabilmente non sarebbe sopravvissuta alla visita di Luci Redman se non avesse rapidamente escogitato qualcosa di ingegnoso. Decine e decine di possibili soluzioni le passarono per la testa a velocità supersonica e vennero sommariamente respinte. «Il signor Pressman ha detto: 'Siamo diretti...'», riprese Luci Redman. «Dov'è che sono diretti?» «Crede davvero che glielo direi, anche se lo sapessi?» domandò Mary Margaret. «Credo proprio che me lo direbbe», le assicurò Luci Redman, «con il tempo.» «Esigo che lei lasci quest'appartamento immediatamente», ingiunse Mary Margaret allungando una mano sul tappeto per afferrare la gamba di una sedia e tirarsi in piedi. «E le conviene darmi retta prima di cacciarsi in guai peggiori.» «Non sono io a trovarmi nei guai, cara», ribatté Luci Redman calpestan-
dole la mano. 76 Phil decise che non sarebbe riuscito a trovare latte artificiale, così aprì una delle confezioni di latte di mucca che aveva comprato e riempì il biberon, versando nel travaso una discreta quantità di liquido sul pavimento della jeep. Quando fu pronto, diede a Harry la sua poppata. Sulle prime il bambino sembrò vagamente confuso, ma poi prese a succhiare voracemente. Julie era sospesa nel suo mondo di ombre e a Phil non restava altro che sperare che Harry sarebbe riuscito a digerire la sua cena. Ripresero la strada sulla Long Island Expressway sotto la bufera di neve. I fiocchi che colpivano il parabrezza, illuminati dai fari, cominciavano ad avere su Phil un effetto ipnotico e psichedelico tanto che un paio di volte si sorprese a scivolare a sua volta in un mondo di ombre e dovette scuotere la testa vigorosamente per restare sveglio. Non poteva permettersi di addormentarsi al volante. All'uscita 70, Phil lasciò l'autostrada e prese la Statale 111. Se già c'erano poche macchine sull'Expressway, sulla Statale 111 ce n'erano ancora meno. Secondo le indicazioni di Roberts, dovevano aver percorso ormai più di due terzi della strada. Harry, dopo essersi scolato l'intero biberon, si era finalmente addormentato sul suo seggiolino. Julie sembrava più morta che viva. Rendendosi conto che stava guidando in uno stato di sonnambulismo, Phil si fermò al primo bar aperto, entrò e ordinò due tazze di caffè da portar via. Un camionista di mezza età seduto al banco cercava di abbordare la cameriera, bionda e giovane. «Gente, che tempaccio», esclamò la ragazza rivolta a Phil mentre gli faceva il conto e passava poi a impalare il foglietto sull'apposito e alquanto perverso chiodo fermacarte. «Eh, sì», convenne Phil. «E per stanotte ne sono previsti altri quindici centimetri», proseguì la cameriera. «Te li do io quindici centimetri stanotte, tesoro», intervenne il camionista. «Scordatelo», rispose la ragazza. «Non so neanche se riuscirò ad arrivare a casa stasera.» «Se non ci riesci puoi sempre stare con me», insistette il camionista.
«Scordatelo», ripeté la cameriera. Phil tornò alla jeep e trangugiò i due caffè, mentre il vapore che saliva dal liquido caldo gli appannava gli occhiali. Nel breve tempo in cui erano rimasti fermi, il parabrezza era stato completamente ricoperto da una coltre bianca. Phil riaccese la macchina e riprese la Statale 111 fino all'incrocio con la Sunrise Highway, un'autostrada a quattro corsie. Più si allontanavano da New York, più Phil si sentiva al sicuro. La Tata non sarebbe riuscita a escogitare nulla per seguirli fin lì, pensò. Ma se era così perché si sentiva tanto nervoso? Roberts era stato splendido a prestargli la casa e Mary Margaret Sullivan, da parte sua, era stata grandiosa. Il calore umano e l'affettuosa disponibilità di quella donna lo commuovevano profondamente. Era la sua prima vera amica a New York. Quando tutta quella storia fosse finita, Phil voleva trovare un modo per esprimerle la propria gratitudine. Improvvisamente si sorprese a chiedersi quanto le restasse da vivere. 77 Nella piccola stanza adiacente l'atrio principale delle San Sebastian Towers, su una vecchia poltrona in similpelle marrone con uno squarcio nello schienale da cui usciva un pezzo di gommapiuma gialla, sedeva Otto Montag, il portiere. Otto Montag indossava una livrea nera con galloni dorati sulle maniche e sulle spalle, camicia bianca del tipo di quelle da sera con le punte del colletto rivoltate, un papillon nero e un berretto nero da ufficiale con la visiera di pelle, decorato sulla parte anteriore con altri galloni dorati e lo stemma delle San Sebastian Towers. Sul tavolo, a circa un metro di distanza da lui, c'era un vecchio televisore a colori, appartenuto un tempo a qualche inquilino, sul cui schermo di tanto in tanto l'immagine prendeva a girare accompagnata da scariche crepitanti. Il televisore era sintonizzato su una replica del David Susskind Show che ospitava fra gli altri George Segal, David Steinberg e Mel Brooks. Gli abiti dei partecipanti indicavano chiaramente che si trattava di una puntata molto vecchia: alcuni indossavano vestiti di pelle e tutti portavano le basette lunghe. Mel Brooks aveva monopolizzato la trasmissione e Susskind, nel tenta-
tivo di riprendere il controllo, gli aveva formulato un'articolata domanda piena di parole polisillabiche, nel bel mezzo della quale Brooks l'aveva zittito con un «Oh, chiudi la bocca, idiota!» Il pubblico e lo stesso Susskind scoppiarono a ridere. Ma Otto Montag non rise. Stava seduto con lo sguardo fisso davanti a sé, non sullo schermo, ma su un punto della parete mezzo metro dietro il televisore. Aveva gli occhi sbarrati. E la sua testa ciondolava in una posizione inquietante. 78 Mary Margaret aveva due possibilità: un'antica spada samurai che aveva comprato in Giappone e teneva appesa sulla parete del soggiorno, o il set di affilatissimi coltelli comprendente anche una piccola mannaia con una lama che avrebbe potuto tagliare in due un capello, infilati nelle apposite fessure di un blocco di legno cubico sul piano di lavoro in cucina, come Excalibur nella roccia. Una qualsiasi di quelle armi, se Mary Margaret fosse riuscita a metterci sopra le mani prima che la Tata la fermasse, avrebbe potuto significare la sua salvezza. Il trucco era evitare che fosse usata contro di lei. «Dove sono andati?» riprese la Tata. Non sembrava particolarmente impaziente di ottenere risposta. Aveva l'aria di chi sa con certezza che otterrà ciò che vuole. «Mi permetta di rivolgerle una domanda», prese tempo Mary Margaret. «Prego.» «Supponiamo che io sappia effettivamente dove sono diretti...» «Sì...» «E supponiamo che io glielo dica...» «Sì...» «A cosa le servirebbe l'informazione?» «Andrei a prenderli per riportarli a casa, alla casa a cui appartengono.» «E non farebbe loro del male?» «Signora Sullivan, perché mai dovrei far loro del male. Io sono la tata. Il mio lavoro è prendermi cura di loro.» «Come faccio a essere sicura che mi stia dicendo la verità?» «Le do la mia parola di professionista e di inglese.» Mary Margaret ci pensò un momento. «Benissimo», esclamò poi. «Mi aiuti ad alzarmi.» «È disposta a dirmi dove sono?»
«Prima di tutto mi aiuti ad alzarmi», ripeté Mary Margaret. La Tata la rimise in piedi. «Grazie.» «Si sente bene?» s'informò la Tata. «Credo di sì», rispose Mary Margaret. «Mi ha soltanto tolto il fiato.» «Le ho soltanto cosa?» «Tolto il fiato quando mi ha colpita.» La Tata la fissò. «Non l'ho colpita», disse. «È lei che ha inciampato ed è caduta.» «Ho inciampato e sono caduta?» ripeté Mary Margaret. «Sì», confermò la Tata. Continuava a fissarla. «Forse ha ragione», l'assecondò Mary Margaret. «Forse ho inciampato e sono caduta.» «E ora vuole dirmi dove sono andati?» «Ammesso che lo trovi», specificò Mary Margaret. «Ammesso che trovi cosa?» «Il foglietto su cui ho preso l'appunto quando il signor Pressman mi ha telefonato prima che lei arrivasse.» «Ah», fece la Tata. «Da che telefono gli ha parlato?» Eccomi alla scelta, pensò Mary Margaret. Questo è il momento in cui devo fare la mia scelta: la spada in soggiorno o i coltelli e la mannaia in cucina. «Da quello in cucina», rispose. «Bene», continuò la Tata. «Andiamo in cucina, allora. Prego, dopo di lei.» E s'incamminò dietro Mary Margaret. Sotto il telefono a muro, sul piano di lavoro alla sinistra del blocco cubico in cui erano riposti i coltelli e la mannaia, c'era un blocchetto di carta gialla con degli appunti scarabocchiati a matita. Da circa un metro di distanza era perfettamente credibile che uno di quegli scarabocchi fosse l'indirizzo che Pressman aveva dato a Mary Margaret durante la telefonata prima che la Tata arrivasse. «Cosa ne direbbe di una tazza di tè?» tergiversò Mary Margaret. «Oh no, grazie», rispose la Tata. «Ne è sicura?» insistette Mary Margaret. «Ho del delizioso English Breakfast, se vuole, e anche dell'Earl Grey.» «No, grazie, non ora», rifiutò la Tata. «Forse dopo.» A questo punto, pensò Mary Margaret, il trucco non era cercare di avvi-
cinarsi il più possibile al blocco dei coltelli. Il trucco era afferrare la migliore delle lame, estrarla dal blocco e affondarla nel minor tempo possibile in qualsiasi parte anatomica della Tata che potesse causarle il danno maggiore. Il tempo era fondamentale, pensò Mary Margaret, e notò con interesse che esso aveva in effetti preso a scorrere ad almeno un terzo della velocità normale. Era, lo sapeva perfettamente, la tipica reazione al panico: la sensazione che il tempo avesse rallentato il suo corso. Eppure non provava terrore, era in uno stato esilarante. Uno stato esilarante e di strana calma. «Dov'è l'indirizzo?» chiese la Tata. «Lì, sul blocco sotto il telefono», rispose Mary Margaret. «Ma sarà meglio che glielo legga io, ho una calligrafia tremenda.» Il problema della scelta del coltello aveva ormai per Mary Margaret una soluzione evidente: la mannaia aveva senza dubbio la lama più affilata fra tutte quelle reperibili in casa e avrebbe sicuramente inflitto la ferita più grave. «Immagino che questa sia la ragione per cui uso la macchina per scrivere», proseguì Mary Margaret. «Come, scusi?» «Ho detto, immagino che questo sia il motivo per cui uso la macchina per scrivere», ripeté. «Perché ho una calligrafia orribile.» «Ah, sì. Certo», annuì la Tata. Il problema di come usare la mannaia meritava un attimo in più di riflessione. L'avrebbe afferrata con la destra, questo era chiaro, perché non era mancina. Avrebbe dovuto fare un movimento verso l'alto per toglierla dal blocco e sollevarla abbastanza in alto sopra la testa da dar forza al colpo. E poi avrebbe dovuto fare un secondo movimento per abbatterla di fronte a sé nel punto più vicino possibile all'intersezione tra il collo e la spalla destra della Tata. Due, solo due movimenti rapidi e precisi, uno verso l'alto e uno verso il basso e avrebbe potuto farcela, pensò. Avrebbe dovuto ruotare a sinistra, naturalmente facendo perno sul piede sinistro per trovarsi di fronte alla Tata nel momento in cui avrebbe estratto la mannaia e l'avrebbe sollevata sopra la testa, perché ruotare durante il movimento verso il basso avrebbe sottratto troppa forza al colpo con cui la lama doveva abbattersi sul collo della Tata. «Lo prendo io o lo prende lei?» chiese la Tata. «No, no. Lasci che faccia io...» disse Mary Margaret e fece un passo
verso il piano di lavoro. Allungò la mano sinistra per prendere il blocchetto di carta gialla mentre con la destra afferrava l'impugnatura della mannaia. 79 Dopo una ventina di minuti di guida, la Sunrise Highway passò da quattro a due corsie, sebbene con tutta quella neve fosse difficile accorgersene. Allo svincolo di Southampton Phil si diresse a sinistra sulla Statale 27 verso East Hampton. Tre quarti d'ora dopo, all'incrocio tra la North Main e la Cedar Street a East Hampton, Phil svoltò di nuovo a sinistra e procedette in direzione di Northwest Woods. I cumuli di neve divennero più alti quando Phil imboccò la Sleepy Pond Drive seguendola fino alla Live Oak Road. Qui la neve caduta era tanta che persino la jeep procedeva a fatica, nonostante le quattro ruote motrici. Dalla strada non si vedevano case, soltanto il bosco fitto di alberi. Il cartello all'imboccatura del vialetto diceva «Roberts». La stradina privata, che fiancheggiava il bosco di cedri, era lunga poco più di un isolato e larga a malapena quanto bastava per far passare una macchina. Più di una volta la jeep si fermò con le ruote affondate nella neve e Phil dovette ingranare la retromarcia per ripartire. Alla fine del vialetto sorgeva la casa. Phil si avvicinò con la macchina il più possibile e poi si fermò tirando il freno a mano. Con i fari accesi e senza spegnere il motore per mantenere acceso il riscaldamento, scese dalla jeep. Si aprì un varco attraverso la neve che gli arrivava alla coscia e s'incamminò verso il lato più lontano della casa per raggiungere la porta della cucina sul retro. Era una casetta bassa e moderna, con portefinestre che davano sull'esterno e porte scorrevoli in vetro nella maggior parte delle stanze. Sebbene Phil avesse avuto l'impressione che Ralph usasse spesso la casa in inverno, qualcuno aveva steso delle lenzuola sopra i divani in soggiorno, il che conferiva a quel posto un aspetto un po' spettrale. Le lenzuola, pensò Phil, si stendono sopra i cadaveri, ma scacciò immediatamente l'immagine. Non era mai stato lì prima, eppure aveva la sensazione che quella casa gli fosse stranamente familiare. Improvvisamente si ricordò... era la casa
del sogno, il sogno in cui il mostro usciva dalla foresta e irrompeva nella stanza di Harry per assalirlo. Mentre faceva un giro all'esterno della costruzione, Phil udì lo scricchiolio della coltre di neve compressa sotto i suoi stivali. Si fermò ad ascoltare. C'era un silenzio tale che riusciva a sentire ogni singolo fiocco di neve che cadeva sul suo cappotto. Gli alti cedri si piegavano sotto il peso della nevicata insolitamente abbondante. Il bosco, notò Phil, arrivava a un metro e mezzo dalla casa e la circondava da ogni lato. Era come se gli alberi fossero lì in attesa, pronti a inghiottirla completamente. È una fantasia folle, pensò. Questa è una casa splendida in un posto meraviglioso, sprofondata nella tranquillità del bosco e se mai avessi i soldi per comprarmi una casa per le vacanze la vorrei proprio così, anche se forse non mi sentirei molto tranquillo a starci da solo. Mentre si avvicinava alla porta sul retro, a Phil sembrò di vedere con la coda degli occhi una grande ombra scivolare dietro gli alberi. Si chiese cosa potesse essere: forse un cervo, o forse un cane. O forse un lupo... C'erano i lupi nei boschi di Long Island? Probabilmente no. Ma Phil ricordava di aver letto da qualche parte che spesso villeggianti irresponsabili abbandonavano nei boschi i loro cani alla fine dell'estate, prima di tornare in città. Gli esemplari più forti, quelli che riuscivano a sopravvivere, si inselvatichivano e si riunivano in branchi. Non di rado, diceva l'articolo, branchi di cani inselvatichiti attaccavano e uccidevano per procurarsi da mangiare. Phil percorse gli ultimi metri che lo separavano dalla porta della cucina con le spalle rivolte alla casa. La porta sul retro non era chiusa a chiave, proprio come Ralph aveva detto, ma Phil dovette spalare un metro e mezzo di neve prima di riuscire ad aprirla. Entrò. La casa era fredda e odorava vagamente di muffa dopo l'estate. Sulle prime Phil ebbe qualche difficoltà a trovare gli interruttori. Cercando di evitare le sagome avvolte nelle lenzuola, riuscì finalmente a individuarne uno e accese alcune lampade del soggiorno. L'aspetto di quel posto illuminato era meno sinistro. Nel grande camino di pietra c'era una grata di ferro sotto cui erano accatastati sei ceppi di legna di cedro. In una cassapanca appoggiata al muro Phil trovò dei legnetti e alcune copie ingiallite dell'edizione domenicale del New York Times. Accartocciò qualche foglio di giornale e lo infilò insieme con un pugno di ramoscelli sotto ai ceppi. Poi, quando il fuoco ebbe preso,
tornò alla macchina a prendere Julie e il bambino. Portò in casa per primo Harry. In una delle stanze che davano sul retro trovò un letto a una piazza abbondante. Depose il bambino nel mezzo, gli cambiò i pannolini, e poi lo coprì con una trapunta, sistemandogli tutt'intorno dei cuscini in modo che non potesse cadere. Una volta sistemato il bambino, Phil tornò a prendere Julie. Trascinarla nella neve fino alla casa non fu impresa da poco, ma infine arrivarono nella camera adiacente a quella del bambino. Dato che in casa faceva ancora freddo, Phil si limitò a togliere a Julie gli stivali, infilandola sotto le coperte vestita di tutto punto. Sulla parete individuò un termostato e lo regolò sui ventidue gradi. Con un'ultima spedizione alla jeep prese tutte le provviste che aveva comprato e chiuse a chiave la macchina per la notte. Era sicuro che la gente lì intorno non chiudeva mai a chiave la macchina, ma lui era un ragazzo di città e uno di quelli nervosi, per di più. Ripose nel frigorifero in cucina i generi deperibili e dedicò una decina di minuti a togliere le lenzuola che coprivano i mobili e a passare in rassegna ogni stanza della casa per assicurarsi che tutte le porte e le finestre fossero ben chiuse. C'erano in totale otto porte scorrevoli di vetro e dodici portefinestre. La constatazione fece sentire Phil vulnerabile. Sapeva benissimo che con la luce accesa chiunque, o qualunque cosa ci fosse fuori, poteva guardar dentro e vederlo senza essere vista. Si sentiva relativamente al sicuro in casa con le porte e le finestre sbarrate, ma non era contento al pensiero che ci fossero tutti quei vetri rivelatori e tutte quelle porte. Non gli era chiaro da che cosa volesse difendersi, ma si sorprese a pensare che si sarebbe sentito più tranquillo con un'arma. Accanto al camino c'era una rastrelliera con gli attrezzi per il fuoco. Quelli potevano all'occorrenza fungere da armi. Poi gli vennero in mente i coltelli che aveva visto in cucina appoggiati su un pannello calamitato. Fra attizzatoi e lame aveva di che difendersi. Pensò di andarsi a sdraiare accanto a Julie, nella camera di fianco a quella del bambino, ma poi cambiò idea. Non c'era motivo di credere che potessero trovarsi in pericolo quella notte, ma se fosse successo il soggiorno che guardava sul vialetto gli avrebbe fornito il primo e miglior punto di osservazione. Esaminò il divano sistemato di fronte al camino come possibile postazione di riposo e la scoperta che si trattava di un divano letto lo rincuorò.
Tolse i cuscini e tirò fuori il materasso. In un piccolo armadietto di legno di cedro, appena fuori del soggiorno, trovò una serie di lenzuola che puzzavano di muffa e delle vecchie coperte di lana di un verde spento che sembravano provenire dai tempi del servizio militare del loro proprietario. Phil tornò in soggiorno con tutto l'occorrente e stese lenzuola e coperte sul materasso. Spense la luce e si sdraiò sul divano aguzzando gli occhi per scrutare l'oscurità del bosco. Non distingueva altro che alberi e neve. Dopo un po' permise alle proprie palpebre di abbassarsi e rimase sdraiato ad ascoltare. Sentì il vento sibilare tra gli alberi e la neve cadere piano sfiorando i vetri delle finestre. Un attimo prima di assopirsi, udì qualcosa di pesante sfregare contro il muro esterno dall'altra parte della casa. 80 Mossa numero uno: con uno strattone Mary Margaret estrasse all'improvviso la mannaia dalla fenditura nel blocco di legno in cui era riposta e la sollevò alta sopra la testa facendo al contempo una mezza giravolta sul piede sinistro. Mossa numero due: Mary Margaret abbatté la mannaia con tutta la propria forza mirando al collo della Tata. Ma la Tata vide il colpo arrivare e riuscì a scansarsi leggermente verso destra mentre la lama scendeva. La mannaia non penetrò, come Mary Margaret aveva sperato, nel punto di giuntura tra collo e spalla. Sfiorò appena la spalla sinistra della Tata penetrando attraverso la pesante stoffa di lana del suo cappotto nero, il leggero cotone del suo camice bianco e gli strati superficiali della pelle della sua spalla. Il sangue schizzò fuori dalla ferita macchiando entrambi gli indumenti. La Tata non gridò. Non emise alcun suono, ma fece un altro passo, più deciso, verso destra e rimase assolutamente immobile, respirando profondamente e regolarmente e ignorando per il momento il sangue che le usciva dalla spalla. Fissava con freddezza la sua attaccante e cercava di fare il punto della situazione. Mary Margaret aveva il respiro corto e irregolare. Sapeva di aver giocato e perso. Sapeva che, sebbene avesse ancora in mano la mannaia, l'elemento sorpresa era svanito e con esso anche quel minimo di vantaggio che lei poteva aver avuto. Sapeva che ormai le speranze di poter fare qualcosa erano
inesistenti. Se solo l'avesse colpita più velocemente. Se solo non avesse inavvertitamente lasciato prevedere le sue mosse in modo da permettere alla Tata di scansarsi. Se solo fosse stata venti o trent'anni più giovane. Cosa aspetta, pensò Mary Margaret... perché sta lì a guardarmi? In quel momento la Tata allungò il braccio verso i fornelli che si trovavano alla sua destra, afferrò una grande padella con il fondo in rame e brandendola come uno scudo avanzò lentamente verso la donna terrorizzata, che stringeva ancora in mano la mannaia. 81 Ralph Roberts non riusciva ad addormentarsi. Continuava a pensare a Phil Pressman in macchina con Luci Redman sulla strada di casa sua a East Hampton; continuava a pensare a Phil e Luci seduti davanti al camino di pietra in soggiorno ad ascoltare il crepitio delle fiamme sui ceppi di legna; continuava a pensare che forse stavano cominciando a fare l'amore proprio lì, con Phil che infilava una mano sotto il camice bianco della Tata e risaliva su per la gamba fino all'orlo della calza. O forse, pensò, l'aveva portata dritta in camera da letto. La camera da letto di Ralph, dove avevano tirato indietro le lenzuola, le lenzuola di Ralph, e si stavano strappando di dosso i vestiti l'un l'altra, travolti da una passione selvaggia e animalesca. Ralph era roso dall'invidia. Non che non avesse avuto la sua parte di donne in quella casa. L'aveva avuta eccome. Qualche ragazza del posto (cameriere, commesse, perfino una bibliotecaria), ma per la maggior parte donne che si portava dalla città: insegnanti, illustratrici, venditrici di spazi pubblicitari e segretarie dell'agenzia con cui poi era diventato imbarazzante lavorare nello stesso ufficio. Ma, era triste ammetterlo, nessuna di queste donne si era rivelata a letto eccitante come lui si era immaginato. La cosa migliore restava l'attesa. Gli approcci. Le fantasie, i preparativi, la seduzione. I primi baci, i vestiti che cadevano, le prime tenerezze, l'inizio del rapporto. Il dopo era sempre in discesa. Il sesso vero e proprio era piacevole ma prevedibile, gli orgasmi sempre un po' inconcludenti. Quando era tutto finito, Ralph sarebbe stato perfettamente soddisfatto se la sua compagna si fosse alzata e se ne fosse andata a casa. Poiché tuttavia sapeva che quello era un comportamento da villano, chiedeva sempre alla donna di turno di restare per tutta la notte, la mattina
dopo si produceva sempre doverosamente in un altro rapporto anche meno soddisfacente senza i benefici del dentifricio e del deodorante e divideva sempre con lei un'imbarazzata colazione cercando di intavolare futili conversazioni. La storia che era durata più a lungo era andata avanti per sette mesi ed era stata con una ragazza che aveva già un altro uomo. Ralph sospettava di non essere tipo da matrimonio e sapeva con certezza di non essere tipo da figli. Provava compassione per gli uomini come Phil Pressman che erano diventati mariti e padri. Provava compassione per loro e, per dirla tutta, anche un po' d'invidia. Forse sarebbe stato bello avere una moglie con cui dividere la vita, un bambino che perpetuasse il nome della famiglia, una famiglia con cui ritrovarsi nell'inverno della vita. Be', non era ancora troppo tardi. Se avesse trovato la donna giusta, avrebbe ancora potuto lasciarsi persuadere a tentare di costruire un rapporto un po' più serio. Ma avrebbe dovuto essere la donna giusta. Una donna abbastanza forte da mantenere vivo il suo interesse, una donna con un cervello proprio, forse anche un po' stravagante, una che non gli avrebbe permesso di sapere in anticipo tutto ciò che avrebbe detto o fatto. Una donna come... be', una donna come Luci Redman. Naturalmente Ralph non l'aveva mai incontrata, ma dalla fotografia sulla scrivania di Phil e dalle cose che lui gli aveva raccontato Luci Redman sembrava proprio il tipo di ragazza che faceva per Ralph. Era chiaro che era troppo donna per il povero Phil Pressman. Forse, quando Phil avesse chiuso con lei, Ralph gli avrebbe chiesto di presentargliela. 82 In piedi nel bagno di Mary Margaret Sullivan con la sottoveste bianca schizzata di rosso, la Tata si esaminava il taglio sulla spalla. Si trattava soltanto di una ferita superficiale, niente di serio. Aveva arrestato il flusso di sangue iniziale tamponando il punto con uno strofinaccio da cucina per diversi minuti e ora la ferita non sanguinava più. La Tata aprì l'armadietto dei medicinali e ne esaminò il contenuto con interesse professionale. Ne estrasse la bottiglietta di plastica marrone dell'acqua ossigenata, un pacchetto di cartoncino blu scuro con delle piccole croci rosse sopra contenente garza sterilizzata, una scatola blu scuro di cotone sterilizzato, un rotolo di cerotto di un colore sgargiante e un piccolo
paio di forbici chirurgiche. Si pulì minuziosamente la ferita con un batuffolo di cotone sterile imbevuto di acqua ossigenata e si applicò una piccola medicazione riparandola con la garza fissata dal cerotto. Poi rimise la garza e il cotone al loro posto nella scatola, riavvitò il tappo sulla boccetta di acqua ossigenata e sistemò scatole, bottiglietta, cerotto e forbici dove le aveva trovate nell'armadietto. Uscì dal bagno e si mise a riordinare. Dopo aver pulito la cucina che si trovava in uno stato pietoso, passò al bucato. Mise a mollo nel lavandino lo strofinaccio che aveva usato per fermare il sangue, poi si tolse il camice macchiato e immerse anche quello nell'acqua. Si accorse che il sangue aveva schizzato la sottoveste e persino la biancheria, così se le tolse e le buttò insieme con il resto nel lavandino che aveva riempito con acqua fredda. Vi aggiunse una buona dose di Clorox-2, uno sbiancante per tutti i tessuti e, lasciati gli abiti a bagno nel lavandino della cucina, si diresse in camera di Mary Margaret Sullivan, aprì l'armadio e diede un'occhiata agli abiti disponibili. Scelse una vecchia vestaglia di flanella blu che, nei punti in cui era più lisa, tirava sul porpora, e se la infilò. Mentre aspettava di lavare i vestiti, curiosò in giro. Entrò in soggiorno e si divertì a passare in rassegna gli originali e le croste appese ai muri oltre alla ricca scelta di libri ben disposta sugli scaffali. Mezz'ora dopo tornò in cucina, tolse gli indumenti dal lavandino e li infilò nella lavatrice. Raccolse i piatti sporchi che giacevano sul tavolo della cucina e li sciacquò per poi infilarli ordinatamente nella lavastoviglie. Aggiunse un po' di detersivo, chiuse lo sportello, lo bloccò e schiacciò il bottone su cui era scritto LAVAGGIO ENERGICO. Notò che il fondo delle padelle di rame appese al muro si stava ossidando, così le tirò giù e le lustrò con una speciale pasta per metalli. Quando la lavatrice si fermò prese i panni bagnati e li trasferì nell'asciugatrice. Poi, mentre il cestello cominciava a girare, tornò in soggiorno a cercare qualcosa da fare. Notò infastidita una certa lanugine sul divano. Andò nello sgabuzzino, prese il battitappeto e, canticchiando tra sé, pulì moquette e divani. Il rumore del battitappeto le piaceva, le piaceva vederlo risucchiare la polvere e il lavoro procedeva speditamente. Quando l'asciugatrice segnalò la fine del ciclo, la Tata aveva pulito la moquette in soggiorno, in sala da pranzo e in camera da letto, aveva avuto tempo di lavare la vasca, il water e il lavandino del bagno e persino di lucidare lo specchio dell'armadietto dei medi-
cinali e le cromature. Riappese la vestaglia di flanella blu nell'armadio in mezzo ai due vestiti tra cui l'aveva trovata, poi tornò in cucina, tolse biancheria, sottoveste e camice dall'asciugatrice e si rivestì. Ripose al loro posto tutti i prodotti per la pulizia che aveva usato e gli stracci, spense le luci e uscì dalla porta principale, assicurandosi di richiudersela per bene alle spalle. 83 Phil si svegliò di soprassalto. Impossibile definire quanto tempo avesse dormito. Era ancora notte. La tempesta di neve si era calmata e tra le nuvole era apparsa la luna piena. Il suo chiarore riflesso sulla neve proiettava tutt'intorno una luce tanto intensa che sarebbe quasi bastata per leggerci un libro. Sembrava una di quelle scene di un film girate in pieno sole con la pellicola sottoesposta per simulare il chiaro di luna. Ciò che l'aveva svegliato, ricostruì Phil, era un rumore in tutto simile a quello prodotto da qualcuno che stesse armeggiando per entrare dalla porta sul retro. Phil afferrò l'attizzatoio dalla rastrelliera accanto al camino e scivolò in punta di piedi in cucina. Qui prelevò dalla piastra calamitata un coltello affilato e, reggendo nella sinistra l'attizzatoio e nella destra il coltello, si appiattì contro il muro e, sempre strisciando contro la parete come un granchio, si avvicinò all'entrata. Per quelli che gli sembrarono diversi minuti rimase ad aspettare immobile, in piedi dietro la porta, con l'attizzatoio sollevato sopra la testa, trattenendo il respiro e ascoltando. Quando non ne poté più riprese fiato. Dall'esterno non proveniva alcun rumore. Si avvicinò cautamente alla finestra e sbirciò fuori. Non c'era nessuno, niente da vedere, solo il bosco di cedri sotto la luce splendente della luna e le nitide ombre degli alberi proiettate sulla distesa azzurrognola di neve. Phil fece silenziosamente il giro della casa e controllò tutte e otto le porte trovandole perfettamente chiuse. Poi andò a dare un'occhiata a Julie e a Harry che dormivano tranquilli. Prese le pulsazioni di Julie: erano immutate, trentatré al minuto. Tornò in soggiorno, si sdraiò sul divano letto davanti al camino in cui la brace ardeva ancora, chiuse gli occhi e cercò di sprofondare di nuovo nel sonno. Il pianto di Harry lo svegliò alle prime luci dell'alba. Si alzò, decisamen-
te più stanco di quando si era addormentato, e si diresse in camera del bambino. Aveva la sensazione di essere stato tirato sotto da uno schiacciasassi. Cambiò il pannolino a Harry, lo prese in braccio e lo portò in cucina. Prese dal frigorifero il cartoccio del latte e riempì il biberon mettendolo poi a scaldare in uno speciale contenitore di plastica. Quando il contenuto del biberon ebbe raggiunto la temperatura giusta Phil diede a Harry la sua poppata, senza staccare gli occhi dal bosco, pronto a cogliere il minimo segno di movimento. Harry rimase tranquillo finché fu intento a mangiare, ma appena terminato il biberon riprese a piangere. Phil se lo appoggiò sulla spalla e prese a picchiettargli la schiena impaziente, sperando di facilitargli il ruttino. Harry cercò di sistemarsi in una posizione più comoda, abbracciando il collo di suo padre. Phil fu commosso dal gesto, ma sapeva che si sarebbero sentiti entrambi meglio dopo il ruttino, così sistemò il bambino sulla spalla e continuò a picchiettargli la schiena. Finalmente il tanto atteso versetto arrivò, però Harry non smise di piangere. Phil andava su e giù per la casa a passo lesto, agitando il piccolo il più energicamente possibile per attirare la sua attenzione. Finché il trattamento era violento, lui restava tranquillo. Phil si chiese per quanto tempo sarebbe riuscito a resistere nella casa di Ralph nel bosco, vegliando sulla sua famiglia e accudendo Harry. Nel giro di poche ore avrebbe potuto richiamare Mary Margaret. Aveva bisogno di parlarle. 84 La Tata si stiracchiò, sbadigliò e si rigirò avanti e indietro nel letto del signore e della signora Pressman. Indossava una camicia da notte della signora Pressman e si godeva l'idea di poter finalmente dormire in quel letto. Quella sarebbe rimasta la sua stanza anche quando avrebbe riportato a casa i signori Pressman e il bambino. Il signore e la signora Pressman avrebbero potuto alternarsi al suo fianco nella camera da letto padronale e quello dei due che non le faceva da partner avrebbe potuto dormire nella vecchia stanza della Tata. E se si fossero rifiutati di tornare a casa con lei? Era una possibilità che doveva prendere in considerazione. Be', la signora Pressman non aveva la forza di rifiutare niente, finché la Tata la teneva in stato di coma. Ma non poteva tenerla così in eterno. E cosa sarebbe successo se, quando l'avesse lasciata uscire da quella condizione, lei e il signor Pressman si fossero ri-
fiutati di tornare a casa... Cosa sarebbe successo allora? Allora la Tata sarebbe semplicemente stata costretta a eliminarli e a trovarsi un'altra famiglia, proprio come aveva fatto con i Millman, i Conroy, i Parsons e tutti gli altri. Era triste, ma sfortunatamente inevitabile. Con i Parsons la faccenda era stata particolarmente spiacevole. Non si sarebbe mai aspettata che la signora Parsons restasse tanto sconvolta dalla seduzione. Come se venire iniziati all'amore da un'altra donna fosse così terribile. Incredibile! Certo, all'inizio sembrava le piacesse. Comunque c'erano sicuramente metodi meno indiscreti per suicidarsi. Era una fortuna che il bambino non fosse sopravvissuto all'incendio, a giudicare dalle ustioni che aveva riportato. Il corpo della signora Parsons, poi, era letteralmente carbonizzato, tanto che quando i pompieri lo avevano ritrovato e avevano tentato di sollevarlo si era sgretolato. Il signor Parsons era sopravvissuto, con qualche piccola bruciatura, certo, ma non se ne poteva più cavare nulla Non era stata colpa della Tata. Aveva cercato in tutti i modi di tenere unita la famiglia Parsons fungendo da polo di attrazione e per un po' ci era anche riuscita: il signor Parsons, sua moglie, il bambino... tutti avevano lasciato che la Tata si prendesse completamente cura di loro e tutti erano arrivati ad amarla profondamente, ad amarla più di se stessi e dei loro cari. Non c'era niente di male in questo. Senza un amore tanto devoto e puro di cui nutrirsi, lei non avrebbe mai potuto prendersi cura di loro come doveva, né degli altri, del resto. Senza un amore tanto devoto e puro di cui nutrirsi, lei stessa sarebbe avvizzita e morta, come si diceva avvizzissero e morissero i vampiri senza il nutrimento del sangue umano. La morte non le era sconosciuta. Era nata a Londra, centocinquant'anni prima, da Malcolm e Diana Redman, maledetti. Sua madre e suo padre, che non avevano mai voluto un figlio, che non avrebbero mai dovuto concepirne uno, che erano così egoisticamente e perdutamente innamorati l'uno dell'altra da accorgersi a malapena dell'esistenza della piccola Luci, praticavano una forma di magia vagamente basata sul Libro della magia sacra di Abra-Melin il mago. Il giorno del suo settimo compleanno, Malcolm e Diana Redman l'avevano offerta come sposa simbolica a Edward Alexander Seagrave, il sommo sacerdote del loro ordine. Il rito della consumazione del matrimonio sull'altare magico era stato inaspettatamente brutale. Le ferite interne avevano provocato alla bambina terrorizzata un'emorragia che l'aveva condot-
ta alla morte per dissanguamento. Nel mondo di ombre in cui era rimasta in quegli ultimi minuti di vita, Luci Redman aveva invocato da una potenza superiore soddisfazione per la terribile ingiustizia subita. Le sue preghiere erano state misericordiosamente esaudite. Seagrave, Malcolm e Diana Redman avevano contratto tutti una malattia venerea che li aveva portati alla morte entro l'anno e Luci Redman era rinata, aveva avuto in dono una seconda possibilità, una seconda vita in cui trovare l'unico amore che avesse senso cercare. Amore puro, perfetto, senza compromessi, totale, incondizionato. Sfortunatamente non era riuscita a ottenerlo nemmeno dai suoi secondi genitori, Michael ed Emily Broderick. Anche loro, come Malcolm e Diana Redman, sembravano nutrire meno affetto per la figlia di quanto ne provassero l'uno per l'altra. Così, poco prima di raggiungere di nuovo la temuta età di sette anni, la bambina aveva lasciato la casa dei Broderick per le strade di Londra, dove aveva badato da sola a se stessa. Grazie alla sua fiera volontà di vivere e di trovare l'amore che cercava, era sopravvissuta. Un giorno, lo sapeva, l'amore perfetto sarebbe stato suo per sempre. L'amore perfetto che riconosceva in lei il suo unico oggetto e la sua unica beneficiaria avrebbe soddisfatto la sua insaziabile fame. La ricerca di quell'amore veniva prima di qualsiasi cosa e meritava qualsiasi sacrificio. Per ottenerlo tutto era giustificabile, persino uccidere. La Tata si fece una lunga doccia nel bagno del signore e della signora Pressman, prendendosi tutto il tempo che voleva. Si lavò i capelli con lo shampoo della signora Pressman, si avvolse nel telo di spugna dei signori Pressman, si asciugò i capelli con il loro fon e si massaggiò il corpo senza badare a sprechi con la crema emoliente della signora. La sua pelle cominciava a invecchiare e a mostrare qualche ruga. Presto sarebbe stata ora di passare a qualcosa di più efficace della Swiss Formula. Passò in rassegna i cassetti e l'armadio della signora per vedere se ci fosse qualcosa tra i suoi indumenti che desiderasse indossare, ma decise che preferiva le proprie cose, e tornò in quella che era stata la sua camera a scegliere biancheria, calze e un camice bianco pulito. Dopo un'abbondante colazione a base di salsicce, pomodori alla griglia, uova, pane tostato e tè, la Tata mise i piatti sotto l'acqua, caricò la lavastoviglie, passò rapidamente l'aspirapolvere e uscì. Da diverse ore aveva smesso di nevicare, ma in Perry Street non era ancora passato lo spazzaneve. Portinai e inquilini spalavano i marciapiedi
davanti all'entrata delle loro case. La Tata camminò nella neve alta fino alla Dodicesima Avenue dove fermò un taxi e, salita in macchina, diede all'autista un indirizzo del centro. Si fece depositare davanti a un edificio sulla Madison Avenue, prese l'ascensore fino al tredicesimo piano, oltrepassò la pesante porta a vetri su cui era scritto Sullivan, Stouffer, Cohn e McConnell, e si diresse decisa al banco della reception. «Posso fare qualcosa per lei?» l'accolse la bionda receptionist inglese. «Volentieri», rispose la Tata lieta di sentire un accento familiare. «Sono la signorina Luci Redman. Vorrei vedere il signor Roberts.» «Ha un appuntamento, signorina Redman?» le chiese con un sorriso. «No», dichiarò la Tata. «In questo caso mi dispiace», riprese la ragazza, «il signor Roberts riceve soltanto su appuntamento.» Luci sorrise. «Dica al signor Roberts che Luci Redman è qui, cara», insistette. «Lui capirà.» 85 Maria Esposito entrò puntualmente nell'atrio delle San Sebastian Towers alle otto e cinquantasei del mattino. Le ci volevano esattamente altri quattro minuti per attraversare l'entrata fino all'ascensore, aspettare che arrivasse al piano e salire all'attico. Nei sedici anni in cui era stata al servizio dalla signora Sullivan, tre volte la settimana, non era mai rimasta a casa malata un giorno e non era mai arrivata in ritardo. Prevedendo che ci sarebbero stati dei rallentamenti dovuti alla tempesta di neve della sera prima, Maria aveva calcolato che ci sarebbe voluta un'ora e un quarto in più quella mattina per raggiungere Manhattan da Brooklyn in metropolitana ed era arrivata in Central Park West in perfetto orario. La vista di diverse macchine della polizia ferme fuori del palazzo la allarmò. Appena entrata Enrique, il portiere, la informò in spagnolo che Otto, il suo collega del turno di notte, era stato trovato morto nella piccola stanza adiacente l'entrata. Enrique non era riuscito a farsi dire altro dalla polizia, ma sospettava si fosse trattato di un attacco di cuore. Maria si rattristò nell'apprendere la notizia della morte di Otto, ma non conosceva quel signore e poi non aveva tempo da perdere in chiacchiere.
Così chiamò l'ascensore e quando arrivò vi salì, schiacciando il bottone dell'ultimo piano. Prima di arrivare davanti alla porta della signora Sullivan aveva già in mano le chiavi, come sempre. Aprì le tre serrature ed entrò nell'appartamento. La signora Sullivan c'era cascata di nuovo, vide. Aveva passato l'aspirapolvere e sistemato tutto come se non ci fosse nessuna Maria Esposito che lavorava per lei tre giorni alla settimana. Maria sorrise accigliata, scosse la testa e andò in bagno a cambiarsi. Oh, no! Aveva pulito anche il bagno! Fece schioccare la lingua: in effetti l'aveva pulito fin troppo bene per i gusti di Maria. Era possibile che la signora Sullivan stesse cercando di dirle qualcosa? Era possibile che fosse insoddisfatta del suo lavoro e cercasse di dimostrarle quello che si aspettava da lei? Un terribile pensiero la colpì. Forse la signora Sullivan aveva già assunto una ragazza per sostituirla? No, no, la signora Sullivan era una brava persona, una donna giusta. Non le avrebbe mai fatto una cosa tanto crudele. Doveva esserci un'altra spiegazione. Maria lavorava bene, la signora Sullivan gliel'aveva detto tante volte. Poteva fare meglio? Sì, probabilmente sì. Si può sempre fare meglio. Quando aveva cominciato a lavorare per la signora Sullivan, sedici anni prima, Maria tirava tutto l'appartamento lustro come quel bagno. Forse con gli anni era diventata un po' meno precisa. Ma era normale diventare un po' meno precisi quando si fa lo stesso lavoro per sedici anni. Il che non significava che la signora Sullivan non fosse stata splendida con lei e non le avesse dato tutti gli anni un aumento di stipendio e una mancia a Natale. Anche se, per dirla tutta, aumenti e mance non raggiungevano esattamente quelli delle sue amiche che non erano rimaste al servizio della stessa persona per sedici anni. Ciononostante la signora Sullivan si meritava il meglio da Maria e quello era quanto Maria le avrebbe dato da quel giorno in poi. Finì di mettersi il grembiule nero con il colletto bianco e uscì dal bagno. Andò nello sgabuzzino e tirò fuori aspirapolvere, secchi, stracci e i vari prodotti per la pulizia. Quando entrò in cucina, Maria trovò la stanza immacolata come il resto dell'appartamento. Per sino il fondo delle padelle di rame appese al muro splendeva! Cosa stava succedendo? Forse la signora Sullivan non voleva lasciarle fare il suo lavoro oggi? E poi dov'era la signora Sullivan? Probabilmente
era ancora a letto, dopo una delle sue nottate di lavoro. Maria non riusciva a capire come si potesse lavorare fino a certe ore, come faceva la signora Sullivan. Decise che avrebbe dato un'occhiata in camera da letto per vedere se fosse sveglia; in tal caso le avrebbe chiesto se quel giorno avesse bisogno di lei o meno. Maria bussò piano alla porta della camera. Non ci fu risposta, eppure la porta era aperta. Maria la spinse leggermente e fece capolino nella stanza. Proprio come pensava. La signora Sullivan era a letto, con le coperte tirate fin sotto il mento e gli occhi chiusi. Maria stava per richiudere la porta e cominciare a pulire l'appartamento già perfettamente pulito quando qualcosa la trattenne. Qualcosa sul lenzuolo tirato fin sotto il mento della signora Sullivan. Una macchia scura. Sangue? Forse non era sangue, ma la signora Sullivan dopotutto era una donna di una certa età e forse Maria avrebbe fatto meglio a controllare. Bussò di nuovo alla porta. «Signora Sullivan?» chiamò piano. Non giunse risposta. «Signora Sullivan?» ripeté a voce un po' più alta. «Si sente bene, signora Sullivan?» Ancora nessuna risposta. Forse c'era effettivamente qualcosa che non andava. Per l'amor del cielo, forse la signora Sullivan aveva avuto un attacco di cuore! Con passo incerto Maria entrò nella stanza, pregando di sbagliarsi, che tutto fosse a posto, che la signora Sullivan stesse semplicemente dormendo fino a tardi perché aveva lavorato tutta la notte e non avesse sentito Maria che la chiamava. Arrivata a fianco del letto, Maria scoprì che quella che dalla porta sembrava una macchia di sangue coagulato sul risvolto del lenzuolo aveva da vicino esattamente l'aspetto di una macchia di sangue coagulato e un istante dopo si accorse che la coperta sotto il lenzuolo era fradicia dello stesso colore. «Signora Sullivan!» gridò improvvisamente agghiacciata. In preda al panico si rese conto che non sapeva neppure da dove cominciare con gli interventi di pronto soccorso che bisognerebbe sempre conoscere in situazioni come quella e non riuscendo a immaginare niente di meglio da fare diede all'anziana signora un vigoroso schiaffo sulla faccia. Probabilmente aveva impiegato più forza di quanta intendeva mettercene. La testa della signora Sullivan rotolò giù al cuscino e allora Maria vide, con orrore indescrivibile, che la testa della signora Sullivan non era più at-
taccata al suo corpo, bensì recisa alla base del collo. Maria indietreggiò barcollante, lanciò un urlo e, sentendosi mancare, vomitò sullo scendiletto. 86 Ralph Roberts non aveva parole per la sorpresa. Cosa diavolo faceva Luci Redman nel suo ufficio quando doveva trovarsi nella sua casa di East Hampton a gozzovigliare con Phil Pressman? «Piacere, signor Roberts», si presentò. «Sono la signorina Redman.» Cristo, pensò Ralph, è uno schianto, proprio come me l'aveva descritta Phil. «Piacere, signorina Redman», disse Ralph alzandosi per stringere la mano che lei gli aveva teso. «Spero di non sembrarle troppo invadente disturbandola così senza preavviso.» «No, no. Nient'affatto, s'immagini», farfugliò lui. «Vuole darmi il cappotto?» «Grazie.» Ralph la stava aiutando a togliersi il lungo cappotto nero, quando notò lo squarcio sulla spalla sinistra. «E qui che cos'è successo?» chiese. Lei gli rivolse un sorriso seducente. «Mi hanno assalita con una mannaia», spiegò. Lui rise, e andò ad appendere il cappotto dietro la porta. «Bene, si sieda, si sieda», la invitò. «Grazie.» La Tata prese posto dall'altra parte della scrivania e accavallò le gambe. «Allora», attaccò Ralph cercando disperatamente di toglierle lo sguardo di dosso, «come sta Phil?» «Abbastanza bene», rispose lei. «E Julie e il bambino?» «Bene anche loro.» «Benissimo.» Seguì una pausa imbarazzata. «Dunque», riprese Ralph, «che cosa posso fare per lei, oggi?» «In verità», cominciò la Tata, «ho bisogno di alcune informazioni.» «Di che genere?»
«Il signor Pressman mi ha dato l'indirizzo e il numero di telefono del posto per cui è partito ieri sera, ma nel trambusto ho paura di averli persi.» «Capisco», commentò Ralph. «Ora succede che il signor Pressman si sia dimenticato la medicina del bambino ed è molto importante che io lo rintracci immediatamente.» Ralph aggrottò la fronte. Fino a quel momento era stato talmente sicuro che Pressman si fosse portato in montagna Luci Redman e non volesse farne sapere niente a Julie che faceva fatica a registrare il fatto che Phil fosse partito con Julie e il bambino. Ma se Julie e il bambino erano con lui, allora forse la persona a cui non voleva dire dove si trovava era Luci Redman. «Che cosa le fa pensare che io sappia dove sono andati?» chiese Ralph cercando di guadagnare tempo. Luci sorrise. «Oh, signor Roberts, io so che lei sa», rispose e riaccavallò le gambe. Da una certa angolazione Ralph riusciva a vederle un pezzo di coscia. «Stia a sentire», disse cercando di non fissarla troppo apertamente, «voglio essere sincero con lei. Le dirò molto francamente che mi è stato raccomandato di non rivelare la loro destinazione, okay? Non so perché, ma Phil mi è sembrato molto determinato in merito. Quindi, anche se mi piacerebbe poterla aiutare, non mi è possibile dirle nulla.» «Oh, che peccato!» esclamò la Tata increspando le labbra. «Come farà il bambino senza medicina?» «Be', non so», rispose Ralph. «Immagino che Phil si accorgerà di averla dimenticata e a quel punto telefonerà a lei o a me, così potremo portarglierla.» «Dal che deduco che non si trova a casa sua...» inquisì la Tata. «Oh, no. Certo che no», confermò Ralph. «Ma è in città, non è vero?» continuò la Tata. Ralph le lanciò un'altra occhiata sotto la gonna e quando sollevò lo sguardo si rese conto di essere stato colto sul fatto. «Senta», disse arrossendo, «non sono cose di cui dovrei parlare con lei. Per un motivo o per l'altro, Phil mi ha fatto giurare che avrei mantenuto il segreto e credo che dovrei rispettare il suo desiderio.» «Oh, certo che dovrebbe», concordò la Tata. «Se non lo facesse si comporterebbe in modo sleale.» «Sono spiacente», concluse Ralph alzandosi per andare a prendere il cappotto della Tata appeso dietro la porta. «Anch'io», sussurrò la Tata lasciando che Ralph l'aiutasse a infilarsi il
cappotto. «Be'», si accomiatò Ralph, «grazie della visita.» «È stato un piacere incontrarla.» «Anche per me.» Improvvisamente Luci Redman spalancò gli occhi. «Mi dispiace immensamente, signor Roberts», esclamò, «ma devo assolutamente sapere... dove l'ha presa?» «Dove ho preso cosa?» chiese Ralph senza la minima idea di ciò a cui si riferiva. «Quella splendida fibbia», spiegò lei. Ralph abbassò lo sguardo sulla sua cintura. «Questa?» domandò. «Sì.» «Ce l'ho da anni.» «Ma è straordinario», continuò lei. «Mio fratello ne aveva una esattamente uguale, comprata molti anni fa qui negli Stati Uniti, finché la perse. Gli è così dispiaciuto. Avevo in mente di comprargliene un'altra se l'avessi trovata, ma poi me ne sono del tutto dimenticata fino a questo preciso istante. Posso?» Fece un passo verso Ralph e allungò una mano verso la fibbia. Poi sfilò la punta della cintura dal passante e slacciò la fibbia. «Sì», ripeté. «È esattamente come quella che mio fratello ha perso.» Mentre Ralph la osservava con crescente incredulità, la Tata gli tolse la cintura dai calzoni, afferrò la linguetta della cerniera e la tirò giù fino in fondo. «Cosa fa?» chiese Ralph con una strana voce. «La convinco a dire dov'è andato il signor Pressman», rispose lei facendogli scendere i pantaloni fin sotto le natiche. Gesù, tutto quello che mi aveva raccontato Pressman è vero, pensò. Ralph non riusciva a credere che quella storia stesse realmente capitando a lui. «Gliel'ho detto», ripeté con un filo di voce. «Non posso rivelarle quest'informazione.» «Lo so che non può», mormorò lei scivolando in ginocchio sulla moquette, «ma ho il sospetto che me lo dirà lo stesso.» 87
Quando i detective Max Segal e Salvatore Caruso arrivarono alle San Sebastian Towers erano quasi le dieci del mattino e il palazzo pullulava di agenti. C'erano le macchine di cinque pattuglie di quartiere, con le luci lampeggianti sul tetto, il furgone della Scientifica e un'unità della Omicidi. L'area circostante l'intero edificio era stata recintata con funi e contrassegnata con cartelli su cui era scritto «Luogo d'indagine, vietato l'ingresso». Caruso e Segal si aprirono un varco nella piccola folla di curiosi e di giornalisti all'entrata, dove due uomini in uniforme tenevano lontani gli estranei. Caruso, il più anziano dei due, mostrò rapidamente il distintivo agli agenti. «Cosa abbiamo oggi?» «Due morti», rispose uno dei due in uniforme. «Il portiere di notte e un'anziana signora che abitava nell'attico.» «Dove sono?» «Il portiere è qui giù, la vecchia di sopra», lo informò il più giovane dei due. «Prima di tutto vada di sopra. È una scena irreale.» «Il medico legale è già arrivato?» «Macché, è rimasto bloccato a Westchester per la neve», replicò l'altro agente. «Nell'attico, giusto?» chiese Caruso. «Giusto.» «Andiamo, Sherlock Holmes», disse Caruso precedendo il suo compagno verso l'ascensore. Max Segal era uno degli agenti più giovani che fossero mai diventati detective nel dipartimento di polizia di New York. Da più di un anno ormai i cadaveri erano diventati la sua routine e, sebbene facesse di tutto per evitare che il suo socio rozzo e navigato se ne accorgesse, non era mai riuscito ad abituarsi ai morti. La vista delle vittime dopo un po' non impressionava più la maggior parte degli agenti, Max lo sapeva. Ma quando lui guardava un cadavere si vedeva davanti qualcuno che poco prima era ancora vivo, come lui, qualcuno che non si aspettava di ritrovarsi steso a terra morto nel giro di così poco tempo. Max seguì Caruso fuori dell'ascensore sul pianerottolo dell'attico e quindi nell'appartamento dell'anziana signora. Due uomini della Omicidi erano occupati a fotografare ogni particolare dell'appartamento e a pennellare ogni superficie alla ricerca di impronte. Altri due detective in borghese,
Cassidy e Mahoney, prendevano appunti su tutto quello che c'era da vedere lì intorno su piccoli blocchetti a spirale. Cassidy alzò gli occhi e vide Segal e Caruso. «Signori...» li salutò Cassidy. «Cosa abbiamo oggi?» chiese Caruso estraendo il suo blocchetto personale, staccando con i denti l'estremità di un sigaro e infilandoselo in bocca. «La vittima è una certa Mary Margaret Sullivan, presidentessa dell'agenzia di pubblicità Sullivan, Stouffer, Cohn e McConnell», rispose Cassidy. «La donna delle pulizie ha trovato la testa della sua datrice di lavoro sul cuscino nel suo letto più o meno alle nove e zero otto di questa mattina. Roba da non crederci, eh? Andate a dare un'occhiata, ne vale davvero la pena. A proposito, il nome della donna di servizio è Maria Esposito, e non l'ha presa affatto bene.» «L'avete già interrogata?» domandò Caruso infilandosi una mano in tasca alla ricerca di una scatola di fiammiferi e ritirandola fuori vuota. «Ci hanno provato», raccontò Cassidy. «Ma a quanto pare è in stato di choc. L'hanno portata nell'appartamento del custode.» «Non è possibile che sia stata lei, eh?» «È improbabile», rispose Cassidy. «Maria è una donna piuttosto esile e direi che ci deve essere voluta un bel po' di forza per staccare la testa della signora dal corpo.» «E il resto del cadavere dov'è?» chiese Segal per nulla sollevato all'idea di trovarsi davanti a una testa mozzata. «Non lo sappiamo ancora», intervenne Mahoney. «Vuoi darci una mano a cercarlo?» Max gli lanciò un'occhiata per controllare che non stesse dicendo sul serio. «Mi stai prendendo in giro, vero?» ribatté. «Davvero non sapete dov'è il resto del cadavere? Non l'avete ancora trovato?» «No», rispose Mahoney. «Non l'abbiamo ancora individuato.» «Ehi, qualcuno ha del fuoco?» chiese Caruso. «Perché», rispose Cassidy, «cosa vuoi incendiare?» «Dico sul serio.» «Sul serio?» ripeté Cassidy. «Allora sì, ho un pacchetto di fiammiferi nella giacca del cappotto, nell'armadio. Ehi, Max, fa' il bravo, va' a prendere i fiammiferi a Caruso, ti dispiace?» Max si avvicinò all'armadio mentre Cassidy, Mahoney e tutti gli uomini della Omicidi osservavano attentamente la scena.
Max aprì l'anta dell'armadio. All'interno, appeso a un gancio sulla parete, con i piedi appoggiati sul pavimento, c'era il corpo senza testa di Mary Margaret Sullivan. 88 La Tata uscì dal palazzo sulla Madison Avenue con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Diede un'occhiata al foglio su cui Ralph le aveva scarabocchiato le indicazioni necessarie e poi si guardò intorno alla ricerca del passaggio che le serviva. In piedi sul ciglio della strada, in mezzo alla neve ormai mista a fango, passava in rassegna i veicoli fermi al semaforo in attesa del verde. Passò davanti a due taxi vuoti e andò a bussare al finestrino di una Cadillac Coupe de Ville ultimo modello, guidata da un robusto signore brizzolato di mezza età, che indossava un cappotto color cammello e un vestito blu a righine. L'uomo la guardò con aria interrogativa. La Tata gli fece cenno di tirar giù il finestrino e lui si sporse verso la portiera del passeggero e le obbedì. «Salve», disse la Tata nel suo più aristocratico accento britannico. «Mi chiedevo se non potesse darmi un passaggio. Sono un'infermiera e si tratta di un'emergenza.» «Lì davanti ci sono due taxi», rispose l'uomo. «Perché non ne prende uno?» «Vede», spiegò lei con un sorriso affascinante, «il fatto è che due ragazzi di colore mi hanno appena rubato il portafogli e sono in ritardo per il mio turno in ospedale. Se non fosse troppo disturbo per lei...» L'uomo annuì. «Salti su», disse. «Grazie», esclamò la Tata prendendo posto accanto a lui. La macchina era rivestita all'interno in pelle rossa ed era equipaggiata di autoradio stereo con mangiacassette Blaupunkt e antenna da trecento dollari. «Bella la sua automobile», commentò la Tata. «Grazie», rispose l'uomo con evidente orgoglio. «Neanche l'autista è male», aggiunse. L'uomo arrossì. Scattò il verde e la macchina si mosse. «Di che ospedale si tratta?» «Ha le catene?» chiese la Tata.
«Certo che ho le catene, ma di che ospedale si tratta?» «Il fatto è che è un po' lontano», rispose lei. «Spero non sia un problema.» «Quanto lontano?» La Tata fece una risatina. «Southampton», rispose. «Southampton in Inghilterra?» scherzò lui. «Southampton, a Long Island.» «Mi sta prendendo in giro», fece lui sbalordito. «No, assolutamente.» «Senta», cominciò lui fermando la macchina, «non posso certo portarla fino a Long Island. Ho un lavoro. Devo andare in ufficio.» «Oh», mormorò lei mettendo il broncio. «Perché non si prende un paio d'ore di permesso?» «È fuori discussione», tagliò corto l'uomo. «Non mi dirà che la licenziano se arriva con un paio d'ore di ritardo?» «No, che non mi licenziano», rispose lui, «di questo non c'è proprio da preoccuparsi.» «Come fa a esserne così sicuro?» «Se c'è da licenziare qualcuno in quell'ufficio, sono io che decido chi.» «È così potente?» domandò la Tata. «Sì», rispose l'uomo. «Trovo il potere molto interessante.» «Davvero?» «Molto interessante», ripeté lei. «E molto afrodisiaco.» «Dice sul serio?» buttò lì l'uomo mentre il rossore gli saliva su per la nuca. «Sì», confermò la Tata. «Che peccato che stiamo tutti e due andando al lavoro.» «Davvero un gran peccato», commentò lui. Procedettero per un po' in silenzio. «Ho un'idea», riprese a un tratto la Tata. «E cioè?» «Se lei farà tardi in ufficio, io farò tardi in ospedale.» «Come, scusi?» «Ho una casetta nel bosco a East Hampton», proseguì lei. «Potremmo andare lì per un paio d'ore. Così lei mi racconterà quanto è potente e io le regalerò un'esperienza di natura erotica che non si è mai nemmeno so-
gnato. Dopo mi potrà portare in ospedale.» L'uomo continuò a guidare in silenzio per altri tre semafori, come se non avesse sentito ciò che lei aveva detto. Quando finalmente parlò, lo fece senza girarsi verso di lei, tenendo lo sguardo dritto davanti a sé sulla strada. «Mia moglie non dovrà mai saperlo», disse. «Mi deve dare la sua parola d'onore davanti a Dio che mia moglie non ne saprà mai niente.» «Glielo giuro sul mio onore», gli assicurò la Tata. 89 Harry si era calmato e Phil lo aveva rimesso a letto circondato dai cuscini. Julie non aveva reagito alle sue preghiere di mangiare qualcosa e per il momento lui aveva deciso di lasciar perdere. Aveva messo insieme un sandwich improvvisato e aveva fatto colazione da solo, in piedi davanti al lavandino della cucina. Finito di mangiare andò al telefono e compose il numero di Mary Margaret Sullivan. Dopo tre squilli arrivò a rispondere una voce maschile e roca. «Squadra Omicidi, O'Malley», annunciò la voce. «Oh, mi scusi», farfugliò Phil, «credo di aver sbagliato numero.» «Chi cerca?» «Credevo fosse casa Sullivan.» «Questa è casa Sullivan», rispose la voce. «E lei chi è?» «Mi chiamo Phil Pressman, sono un amico della signora Sullivan. Potrei parlarle?» «La signora Sullivan non può venire al telefono», dichiarò la voce. «Quali sono i suoi rapporti con lei, signor Pressman?» «Con chi parlo?» chiese Phil. «Sono il tenente Patrick O'Malley del dipartimento di polizia di New York.» «Il dipartimento di polizia?» ripeté Phil. «Cosa è successo? È accaduto qualcosa alla signora Sullivan?» «Può darmi l'indirizzo e il numero di telefono del luogo da cui sta chiamando, signor Pressman?» 90
La polizia rifiutò di dire a Phil cos'era successo a Mary Margaret. Continuavano a chiedergli chi fosse e da dove telefonasse. Phil riappese e in preda a un'agitazione febbrile, fece il numero di Ralph Roberts. Roberts aveva già saputo di Mary Margaret Sullivan ed era sconvolto. «È morta, Phil», gli annunciò con una voce che suonava improvvisamente invecchiata. «Qualcuno l'ha uccisa nel suo appartamento ieri sera tardi.» Phil era sbigottito. Non riusciva a credere a quello che Roberts gli stava dicendo. Mary Margaret morta? Non era possibile. Le aveva parlato la sera prima. Come se il solo fatto di averle parlato avesse dovuto renderla in qualche modo immortale. Phil ebbe la sensazione di essere rimasto orfano. «Come è successo?» chiese. «Si sa?» «Non ancora», rispose Roberts. «Oh, Dio», esclamò Phil quasi parlando tra sé. «E ora cosa faremo?» «Ne sentiremo tutti la mancanza, questo è certo», cominciò a dire Roberts, fraintendendo il significato del commento di Phil. «Naturalmente l'agenzia andrà avanti ugualmente anche senza di lei. Ma, Phil, prima che me ne dimentichi... hai lasciato la medicina del bambino a New York.» «Cosa ho fatto?» «La medicina che il bambino deve prendere», ribadì Roberts. «L'hai dimenticata a casa.» «Di che medicina stai parlando?» chiese Phil. «Il bambino non prende nessuna medicina.» «Non so di che medicina si tratti», spiegò Roberts, «ma Luci Redman è venuta qui apposta per cercare un modo di fartela avere, quindi deve trattarsi di una cosa importante.» «Luci Redman è venuta nel tuo ufficio?» «Sì», ammise Roberts. «Sembrava davvero preoccupata. Voleva sapere dove eri andato in modo da poterti fare avere questa medicina.» Phil sentì una morsa stringergli il petto. «Ralph, ti prego, non dirmi che le hai dato l'indirizzo», supplicò Phil. «Ti prego, dimmi che non l'hai fatto.» «Be', io non volevo», si scusò Roberts, «ma ha insistito tanto. Non puoi immaginarti quanto abbia insistito, Phil...» Un sussurro: «Gliel'hai detto?» «Sarò sincero con te, pensavo che tu fossi lì a spassartela con Luci. Ero sicuro che fosse tua moglie a cui non bisognava dir niente.» «Così gliel'hai detto...»
«Sì», ammmise Roberts, «gliel'ho detto. Ehi, spero di non averti combinato un guaio...» «Da quanto tempo è uscita dal tuo ufficio, Ralph?» s'informò Phil cercando febbrilmente di decidere qual era la prima cosa da fare. «Vediamo... da circa tre ore, tre ore e mezzo. Non di più. Dovrebbe essere lì da un momento all'altro se gli spazzaneve hanno ripulito la strada.» «Ralph adesso devo proprio andare», tagliò corto Phil e riattaccò bruscamente senza lasciargli il tempo di replicare. La Tata sapeva dov'erano! La Tata stava arrivando! Doveva immediatamente portar via da quella casa Julie e Harry! 91 Alle undici i detective avevano finito di interrogare Maria Esposito, la donna delle pulizie, Enrique Marquez, il portiere diurno, Hector Montalban, l'amministratore, e una decina di inquilini. Dalle loro testimonianze non era emerso alcun indizio utile. Gli uomini della squadra Omicidi avevano scattato tutte le loro fotografie e se n'erano andati, il medico legale era finalmente arrivato da Westchester e aveva eseguito un esame preliminare dei cadaveri prima di ripartire alla volta del suo ufficio all'obitorio fra la Tredicesima Strada e la Prima Avenue. Il corpo di Otto Montag, il portiere, e la testa e il resto del cadavere di Mary Margaret Sullivan erano stati etichettati e spediti anch'essi all'obitorio per l'autopsia. Era stata rinvenuta una mannaia, immediatamente catalogata come possibile arma del delitto. Max si era ripreso dal macabro choc subito quando, aprendo l'anta dell'armadio, si era trovato davanti il corpo senza testa e i suoi colleghi si erano ripresi dalla sfrenata ilarità che la sua reazione aveva provocato. «Allora, cosa abbiamo scoperto fin qui?» chiese il tenente O'Malley. «Se vuoi il mio parere», intervenne Caruso, «sono stati dei drogati.» «Proprio così», concordò Cassidy. «Anch'io voto per i drogati. Secondo me hanno sentito dire che nell'attico viveva una ricca pubblicitaria e magari hanno pensato che si tenesse in casa un sacco di gioielli e di fumo...» «Il portiere non li lascia entrare», continuò Mahoney, «e loro lo uccidono. Poi salgono, la vecchia cerca di fare resistenza, loro danno fuori di testa e la tagliano in due.»
«Anch'io immagino che sia andata più o meno così», confermò Caruso. «È l'unica spiegazione plausibile», concluse Cassidy. 92 L'uomo aveva viaggiato a velocità sostenuta. Lo spazzaneve aveva ripulito un'unica corsia sulla Long Island Expressway e sulla Sunrise Highway, ma dato che tanti erano rimasti a casa dal lavoro per via della bufera di neve della sera prima avevano trovato poco traffico. Sulla Statale 27 avevano dovuto procedere più lentamente che sull'autostrada, ma ormai erano quasi arrivati. Mentre la Cadillac lasciava la Sleepy Pond Drive e s'immetteva sulla Live Oak Road, la Tata capì che era quasi giunta a destinazione e che non aveva più bisogno di lui. «Quanto manca a casa tua, tesoro?» le chiese l'uomo scrutando la strada. «Non è lontano», rispose lei, «ma ho paura di doverti una confessione.» «Di cosa si tratta?» «Non so come la prenderai», continuò lei, «ma credo sia meglio dirtelo.» «Avanti.» «Ho l'herpes.» Il viso dell'uomo si rabbuiò. «Vuoi dire che tu mi hai fatto fare tutta la fottuta strada fino a Long Island per tre fottute ore e mezzo per dirmi che hai un fottuto herpes?» la aggredì. Frenò improvvisamente e la macchina si fermò con un sobbalzo, slittando di un quarto di giro verso sinistra. «Mi dispiace», piagnucolò la Tata. «Ma se te l'avessi detto prima non saresti venuto.» «E perché cazzo me lo dici adesso?» Lei gli fece gli occhi dolci. «Perché parlandoti durante il viaggio ho deciso che sei una persona troppo a posto per mentirti», rispose. «Mi vergogno terribilmente. Volevo tanto far l'amore con te. Spero che riuscirai a perdonarmi.» Allungò la mano verso la portiera e fece per scendere. «Aspetta», la trattenne lui. «Cosa c'è?» «Mi stai dicendo la verità?» le chiese incerto. «Davvero ti sono piaciuto tanto che non potevi mentirmi?» «Proprio così.»
«E davvero volevi far l'amore con me?» «Sì.» L'uomo ci pensò su un momento e sospirò. «D'accordo allora», concluse. «Come?» «D'accordo, facciamolo.» «Vuoi dire che non t'importa se ho l'herpes?» Lui alzò le spalle. «Ho dei preservativi nel cassetto del cruscotto. E poi sono sicuro al novanta per cento di essere anch'io un portatore sano», disse, tirandola a sé in un abbraccio. La Tata cedette e si lasciò baciare, poi fece scivolare con lentezza la mano in tasca e ne estrasse il coltello che aveva preso per precauzione dalla cucina di Mary Margaret Sullivan. Con estrema cautela glielo puntò alle spalle e, sospirando profondamente, trapassò il pesante cappotto di cammello, la giacca blu a righine, la camicia azzurra di tela oxford, la maglietta bianca, la pelle della schiena e gli affondò la lama nel polmone sinistro. 93 Phil corse in camera a prendere Harry, lo avvolse nella coperta e lo portò fuori verso la jeep. Aprì la portiera, sistemò Harry sul seggiolino, richiuse la macchina e tornò in fretta verso la casa. Succedeva tutto troppo in fretta per i suoi gusti. Mary Margaret era morta. La Tata stava venendo a prenderli. Era stata a casa di Mary Margaret come lui aveva temuto? Era stata lei a ucciderla? Non riusciva a ragionare con chiarezza. I pensieri continuavano ad accavallarglisi nel cervello. Tirò fuori dal letto Julie, cercò di infilarle gli stivali, ma il panico gli impediva di agire. Le mani gli tremavano. Calma, si disse, il panico non fa altro che bloccarti. Calmati, ritrova il tuo sangue freddo e vedrai che puoi farcela. Continua così e garantirai la morte a te e alla tua famiglia. Trascinò Julie fuori di casa fino alla jeep e la spinse sul sedile davanti dalla parte del passeggero. Salì al posto di guida, chiuse tutte le portiere, infilò la chiave nel blocco di accensione e la girò. La macchina non si mise in moto. Oh, no, ti prego, Dio, no, supplicò. Falla partire, per favore, per favore, falla partire! Girò di nuovo la chiave e cominciò a premere freneticamente sull'accele-
ratore. Niente. Assolutamente niente. Il motore non dava cenni di vita. Spalancò la portiera, scese e fece il giro della macchina per cercare di aprire il cofano, ma non ci riuscì. Da qualche parte doveva esserci un dispositivo per farlo scattare, così tornò in macchina e sotto il cruscotto sulla sinistra trovò una leva con stampigliato sopra COFANO. La tirò e udì lo scatto di una molla. Smontò di nuovo dall'automobile, corse a infilare una mano sotto il cofano leggermente sollevato e lo aprì. Non capiva molto di motori, ma tutte le volte che in passato aveva avuto guai con una macchina aveva sempre guardato nel cofano e spesso era riuscito a individuare il guasto, quando si trattava delle cose più ovvie. Un paio di volte era riuscito persino a ripararlo. Guardò nel cofano. La disposizione dei pezzi del motore di una jeep Cherokee non gli era familiare, ma questa volta il problema era evidente e non gli ci volle molto a scovarlo: qualcuno aveva rimosso la batteria. 94 Devo stare calmo, pensò, mentre strappava Harry, che gridava disperatamente, dal suo seggiolino e poi fuori della macchina e lo riportava in casa, nel nido di cuscini sul letto. Non devo pensare che la Tata è già qui, che ha tolto la batteria dal cofano e che ci sta aspettando. Devo continuare a fare quello che posso finché posso, perché per il momento non posso fare altro. Tornò di corsa alla macchina, tirò giù Julie e la trascinò attraverso la neve fino alla casa, alla stanza dove aveva passato la notte, al suo letto. Poi si precipitò a chiudere la porta da cui erano entrati, girò la chiave nella serratura, andò a riprendere il coltello e l'attizzatoio e tenendoli uno in una mano e l'altro nell'altra si fermò in piedi davanti alla finestra a scrutare il bosco, cercando di respirare più lentamente e di calmarsi. Bene, pensò, fin qui ce l'ho fatta. È già qualcosa. Avrebbe potuto assalirci mentre eravamo fuori, mentre avevo in braccio Harry o sostenevo Julie e non avrei potuto fare nulla in quel momento, ma non ci ha attaccati, e adesso almeno siamo tutti di nuovo in casa, tutti di nuovo uniti e in salvo, almeno temporaneamente. A meno che... A meno che, pensò, mentre ero fuori vicino alla macchina, la Tata non sia penetrata in casa e ora sia qui con noi.
95 Phil passò furtivamente in punta di piedi di stanza in stanza, l'attizzatoio nella destra, il coltello nella sinistra e il cuore che gli batteva in gola. È qui, pensò, in una delle stanze di questa casa, in questo esatto momento, e mi aspetta. Ma dove? Il sangue gli pulsava nelle orecchie fin quasi ad assordarlo. Respirava in modo così affannato, irregolare e rumoroso che doveva continuamente trattenere il fiato per cercare di cogliere i rumori che potevano rivelargli la presenza di qualcuno appostato per sorprenderlo. Quali stanze aveva già controllato? La camera di Harry... sì. La camera di Julie... sì. No! Un momento in tutte due le stanze c'era un armadio e quelli non li aveva controllati. Poteva essersi nascosta dietro le ante in attesa che lui abbassasse la guardia per colpirlo, in attesa del momento buono per fracassargli il cranio, squartare Harry, sbudellare Julie! Basta! Non poteva permettersi di pensare quelle cose! Doveva calmarsi! Doveva ragionare. Doveva formulare un piano, una tattica, qualcosa o sarebbe stata la fine. Era madido di sudore. Il cuore gli batteva all'impazzata e il petto era così contratto che riusciva a malapena a immettere ossigeno e emettere anidride carbonica. D'accordo. Dunque si era dimenticato gli armadi. Avrebbe dovuto ricominciare da capo. Scivolò silenziosamente nella stanza di Julie. Non trovò nulla. Tutto sembrava esattamente come l'aveva lasciato. Il letto con le coperte tirate da parte, il cuscino sul pavimento e... un momento, quel cuscino era sul pavimento quando era entrato l'ultima volta nella stanza? Sì, ora ricordava, l'aveva buttato per terra lui stesso mentre tirava Julie giù dal letto. Lanciò un'occhiata all'armadio. Le ante erano chiuse. Erano chiuse quando aveva lasciato la stanza pochi minuti prima? Non ricordava. Il punto era comunque che erano chiuse. Ciò poteva significare che la Tata era lì dietro, pronta ad attaccare. Brandendo coltello e attizzatoio, Phil si avvicinò in punta di piedi all'armadio. Mise il coltello tra i denti, afferrò la maniglia con la mano libera, la girò rapidamente e spalancò le ante. Niente. La Tata non era nell'armadio. Phil passò furtivamente in camera di Harry. Avanzò di soppiatto verso l'armadio e aprì di scatto le ante. Qualcosa cadde in avanti colpendolo al petto. Phil lanciò un urlo. Ma quello che gli era caduto sul petto era soltanto il tubo di un'aspira-
polvere stipato malamente dentro l'armadio. Phil lo rificcò dentro e chiuse le ante, mentre Harry, svegliato dall'urlo del padre, cominciava a gridare a sua volta. Phil entrò in punta di piedi in cucina, ma non trovò nulla. In soggiorno. Nulla. La terza camera da letto. Nulla. L'armadio della terza camera da letto. Ancora nulla. Sembrava proprio che la Tata non fosse in casa. Sembrava proprio che fosse ancora fuori, in attesa del momento giusto per cercare di penetrare all'interno. Tenere sotto controllo tutte e otto le porte contemporaneamente era impossibile. Phil prese il telefono e chiamò il centralino. «Centralino», rispose la voce giovanile di un uomo. «Senta», cominciò Phil con voce spezzata. «Questa è un'emergenza. Mi passi la polizia.» «Quale stazione vuole?» chiese il centralinista. «Quella in paese o quella in città?» «Come?» Le parole del centralinista non avevano senso per lui. «Che stazione di polizia vuole, quella in paese o quella in città?» «Mi passi quella che vuole», disse Phil scandendo le sillabe della sua risposta, «ma me la passi immediatamente.» «Si trova in paese o in città, signore?» chiese il centralinista. «Devo saperlo.» «Non so dove mi trovo», rispose Phil. «So solo che sono arrivato qui. Mi passi qualcuno e in fretta, per l'amor di Dio... E un'emergenza! La vita della mia famiglia è in pericolo!» «Sì, signore. Le passo la stazione di polizia in paese.» Phil non staccava gli occhi dalle porte a vetri scorrevoli. Tutto era immobile all'esterno. La Tata poteva essere ovunque. Con tutta probabilità si trovava nel bosco, vicino alla casa. Con tutta probabilità, poteva vederlo in quel preciso istante, poteva vedere tutto ciò che faceva, poteva vedere che stava parlando al telefono e aspettare per colpirlo il momento in cui fosse stato più vulnerabile. Il telefono squillò quattro volte, poi qualcuno rispose. «Stazione di polizia.» «Mi chiamo Pressman», si presentò Phil meticolosamente. «Io e la mia famiglia siamo in grave pericolo. Ho bisogno che veniate a prenderci.» «Dove vi trovate?» chiese la voce in tono impassibile. «L'indirizzo è Live Oak Road, si prende dalla Sleepy Pond Drive», spie-
gò Phil. «Quanto ci metterete ad arrivare?» «Live Oak Road?» ripeté la voce. «Ma allora è sotto il distretto della città, signore, non del paese. Deve chiamare la stazione di polizia in città.» «Ha sentito quello che le ho detto? La mia famiglia è minacciata da un pericolo mortale e lei mi sta dicendo che non potete intervenire perché non siamo nel vostro maledettissimo distretto?» «Esattamente, signore», confermò la voce. «Le passo direttamente la stazione di polizia in città.» Il collegamento fu interrotto. Phil sentì una serie di suoni metallici e poi un'altra voce maschile. «Stazione di polizia.» «Mi chiamo Pressman», ricominciò Phil concitato. «Io e la mia famiglia siamo in grande pericolo. Dovete venirci a prendere e portarci via immediatamente.» «Di che pericolo si tratta, signore?» «Qualcuno sta cercando di ucciderci», spiegò Phil. «Ci hanno seguito fin qui da New York.» «Chi vuole uccidervi?» «Qualcuno che lavora per noi.» «Diciamo il vostro uomo di fatica?» «Per essere precisi si tratta della nostra tata», rispose Phil sapendo benissimo che quell'affermazione l'avrebbe fatto sembrare un folle. «E perché non ve ne andate?» suggerì la voce. «Non possiamo. Ci ha rubato la batteria della macchina.» «Vi ha seguito da New York per rubarvi la batteria della macchina?» chiese la voce. «No, no, lei... Stia a sentire», sbottò Phil, «in questo momento non posso spiegarglielo, ma dobbiamo andarcene di qui immediatamente! Per favore, potete venirci a prendere?» «Qual è il vostro indirizzo, signore?» «Live Oak Road, sulla Sleepy Pond Drive! Per favore, fate in fretta.» «È la casa del signor Roberts?» «Sì.» «E il signor Roberts è lì con voi?» «No. Ma perché mi domanda...?» «Dov'è il signor Roberts?» «A New York! È a New York! Ma che differenza fa dove?...» «E il signor Roberts sa che vi trovate lì?»
«Certo che lo sa! Ci ha prestato la casa per scappare da... senta, maledizione, ci aiutate o no?» «Vi aiuteremo, ma non subito, signore», promise la voce. «E perché diavolo no?» «In questo momento siamo impegnati in diverse emergenze.» «Emergenze!» esclamò Phil. «Questa è un'emergenza, maledizione! Qualcuno vuole ucciderci! Avete emergenze più urgenti?» «Verremo appena possibile, signore», concluse la voce e la linea s'interruppe. Phil riappese il ricevitore sentendosi frustrato e incredulo. La polizia dovrebbe proteggere i cittadini, pensò. Com'è possibile che si rifiutino di intervenire in un caso di emergenza? Forse avevano pensato che era pazzo. Forse avrebbe dovuto dire che c'era un bambino. Perché non gli era venuto in mente di parlare del bambino? Forse se li avesse richiamati precisando che c'era di mezzo un bambino sarebbero venuti immediatamente. Phil risollevò il ricevitore e fece per chiamare il centralino, quando si rese conto con un improvviso senso di vuoto allo stomaco che il telefono era muto. La Tata doveva aver tagliato i fili e ora erano completamente isolati dal resto del mondo. 96 Nelle prime ore del pomeriggio Harry piombò in un sonno profondo e non ne uscì neppure quando Phil, preoccupato, cercò di svegliarlo per dargli la poppata. Era tutto inutile. Come Julie, Harry era sprofondato in uno stato semicomatoso, da zombie. Se i fili del telefono non fossero stati tagliati, Phil avrebbe potuto chiamare un pediatra e chiedere cosa fare... come se un pediatra avesse potuto rispondergli! Era stata la Tata a ridurre così Harry e Julie, di questo ormai era sicuro. Maledetta! Non era un essere umano. Phil non sapeva cosa avrebbe potuto fare contro qualcuno che aveva poteri simili. Non sapeva quanto gli sarebbero serviti contro di lei un coltello e un attizzatoio. Dove diavolo si era cacciata e cosa stava facendo? Se era fuori in mezzo alla neve, doveva gelare, a meno che creature come lei non sentissero nemmeno il freddo. Forse era là fuori a cantare e a caricarsi, a rafforzare il sortilegio che aveva gettato su Julie e Harry, e il prossimo a diventare uno zombie sarebbe stato lui. Che cosa diavolo stava aspettando?
Phil entrò in cucina alla ricerca di qualcosa che avrebbe potuto essergli più utile contro la Tata di un coltello o un attizzatoio. Guardò sotto il lavandino e tirò fuori una bottiglia di antigelo, un contenitore di plastica rossa con un'etichetta su cui era scritto «Benzina», alcuni barattoli di olio lubrificante Castrol GTX 20/50, una piccola lampada a gas e una mazza da baseball. Appoggiò la lampada a gas e la mazza da baseball su un mobiletto. Non aveva idea di come avrebbe potuto usarle per difendersi, né del motivo per cui avrebbero potuto rivelarsi più efficaci di un coltello o di un attizzatoio. Ma più erano gli oggetti tra cui poteva scegliere maggiori erano le possibilità di trovarne uno che potesse essergli utile. Scrutava il bosco da ogni porta e da ogni finestra. Osservava gli alberi uno per uno in cerca di un segno qualsiasi di movimento, ma non vedeva nulla. Se c'erano dei vicini, le loro case erano nascoste tra i cedri. Aprire la porta e gridare «Aiuto!» non avrebbe ottenuto altro risultato che pubblicizzare la loro vulnerabilità. Phil cominciava ad avere il presentimento che la Tata avrebbe aspettato il buio per fare la sua mossa. Si preparò un altro sandwich con le provviste che aveva comprato e lo mangiò, senza smettere di sorvegliare il bosco. Andò da Julie e cercò di nuovo di svegliarla per cercare di farle mangiare qualcosa, ma lei non riuscì a risalire alla superficie della coscienza neppure il tempo sufficiente per prendere in considerazione l'idea. Phil era preoccupato dal suo digiuno, ma in quel momento aveva problemi più gravi. Cercò ancora di svegliare il bambino, ma anche Harry era perso nel mondo dei sogni. Il sole, una grande palla arancione, era calato dietro l'orizzonte e una luce azzurra era tornata a coprire i cumuli di neve. Venne buio, ma Phil non accese le lampade per paura di diventare un bersaglio troppo facile. I suoi occhi si erano abituati alla graduale scomparsa della luce, aiutati dal riflesso della luna sulla neve. Continuava a scrutare il cerchio di alberi che circondavano la casa. Improvvisamente vide qualcosa. Un'ombra che scivolava leggera sulla neve verso il retro della casa. Nel silenzio udì un fievole rumore contro la porta in cucina. Aspettò, senza nemmeno osare respirare. Silenzio. Il sibilo del vento. Lo scricchiolio di un ramo, carico di neve. Poi un altro rumore, qualcuno che armeggiava con la serratura. E infine il più agghiacciante di tutti, il cigolio di una porta che si apriva lentamente. Capì che era arrivato il momento che stava aspettando, il momento del
confronto. Afferrò il coltello e se l'infilò nella cintura. Poi, con la lampada a gas stretta in una mano e la mazza da baseball nell'altra, scivolò furtivamente in cucina. La Tata era ferma sulla soglia. Nel buio l'azzurro chiaro dei suoi occhi ardeva come la fiamma di un fornello. 97 «Buonasera signor Pressman», salutò la Tata. La sua voce aveva ora un che di metallico e riecheggiante. Gesù, pensò Phil, davvero non è umana. «Esca di qui», ordinò. La Tata fece un passo avanti. «Come state?» s'informò con la sua voce soprannaturale. «Ero preoccupata per voi.» Fece un altro passo avanti. «Se ne vada!» le intimò Phil. «Sono pronta a riportare lei, la signora Pressman e il bambino in città.» Ancora un passo avanti. «Esca di qui immediatamente!» Un altro passo avanti. «Voglio soltanto riportare lei, la signora Pressman e il bambino in città», ribadì. «Perché vuole che me ne vada?» Di nuovo fece un passo avanti e Phil indietreggiò sapendo di commettere un grave errore. «So cos'è lei», le disse. «Davvero?» «Ho parlato con Parsons», proseguì. «E so cosa ha fatto a Mary Margaret Sullivan.» «Lei non sa niente», rispose la Tata e fece un altro passo avanti. «Non si avvicini», esclamò Phil, «l'ho avvisata.» «La prego, non opponga resistenza a ciò che è meglio per tutti noi, signor Pressman. Per favore, tornate in città con me. Ho un grande bisogno di prendermi cura di lei e della sua famiglia.» Phil sapeva di non poter fare un altro passo indietro. Sapeva che doveva fermarla immediatamente. Non poteva più rinviare il momento della verità. «Stia ferma dov'è!» esclamò. «Non si avvicini di un passo o la distruggo!»
«Chi pensa di potermi distruggere?» sibilò la Tata. Phil le sferrò un colpo con la mazza da baseball che andò ad abbattersi pesantemente sulla parte sinistra della sua testa. L'impatto le fece momentaneamente perdere l'equilibrio, ma non provocò alcun danno visibile. «Pagherai con la vita per questo!» Gli sputò le parole dritte in faccia. «Voglio vederti dannato agli eterni tormenti dell'inferno, per questo, a marcire vivo nella tomba!» «Tornatene all'inferno o da dove sei venuta!» gridò Phil buttando a terra la mazza e accendendo la lampada a gas. La fiamma guizzò con un leggero sibilo. La Tata avanzò verso di lui, tendendo le mani per afferrargli la gola. Phil le andò incontro, brandendo davanti a sé la lampada che emetteva un sommesso ronzio. La Tata indietreggiò cercando di evitare la fiamma. «Vattene!» gridò Phil. «Vattene e lasciaci in pace!» La Tata rimase immobile dov'era. Allora Phil le gettò in faccia la lampada e, con orrore, vide i suoi capelli prendere fuoco. La donna cominciò a lanciare urla così spaventose che a Phil si gelò il sangue nelle vene. Con i capelli in fiamme, indietreggiò lontano da lui, verso la porta della cucina, varcò la soglia e fu sulla neve. Avevano preso fuoco anche i suoi indumenti e presto le fiamme l'avvolsero trasformandola in una torcia umana che barcollava urlante verso il bosco. Si buttò a terra e si rotolò nella neve, ma le fiamme non si spegnevano. Si rialzò a fatica e, sempre vacillante, scomparve gridando nel bosco. Phil era rimasto in piedi sulla porta di casa, paralizzato dallo choc per ciò che aveva fatto, mentre la figura ardente scompariva strillando tra gli alberi, lontana, lontana, lontana, sempre più lontana, finché Phil non riuscì più a distinguere le fiamme, né a udire le urla. Aspettò un segno che gli indicasse che la Tata era morta o viva, ma non accadde nulla. Un vento gelido gli colpiva il viso portando con sé fiocchi di neve sollevati dai rami dei cedri. Tremando più al pensiero di ciò che aveva visto che per il freddo, Phil rientrò in casa e chiuse a chiave la porta. C'erano buone probabilità che quella fosse stata la fine di Luci Redman. La sua parte umana doveva essere morta ormai. Ma quello che c'era in lei di non umano, pensò Phil, poteva ancora tornare. La lampada a gas era stata un'arma eccezionale contro una Tata viva. Non riusciva però a immaginarsi che cosa avrebbe potuto usare contro una Tata morta. Andò ad aprire l'armadietto sopra il lavandino, in cui aveva visto una bottiglia di Remy Martin, la tirò giù, tolse il tappo e bevve a canna un sor-
so di liquore. Phil sentì il cognac bruciargli in bocca e in gola mentre lo deglutiva e scendergli giù per l'esofago con un delizioso dolore fino allo stomaco. 98 Quella era la notte più terribile che Phil Pressman avesse mai vissuto. Pregava con tutto il cuore che non fosse anche l'ultima. Era molto tardi nella casa persa tra i boschi innevati della parte orientale di Long Island, forse erano addirittura le tre del mattino, ma Phil aveva paura di sdraiarsi e di chiudere gli occhi prima che facesse giorno. Il vento sibilava tra gli alberi in modo inquietante. Stando al termometro appeso fuori che dondolava avanti e indietro nel vento, picchiando contro la finestra come per chiedere asilo, la temperatura toccava i quindici gradi sotto zero. I ceppi che scoppiettavano nel camino mantenevano in casa un livello di calore accettabile, ma il gelo che attanagliava il corpo di Phil aveva a che fare con qualcosa di più della temperatura esterna. Dalle portefinestre del soggiorno, Phil guardava il mezzo metro di neve caduto negli ultimi giorni sul terreno e sugli alti cedri che sovrastavano la casa. Gli sembrò di udire un rumore sul retro, come qualcosa che raspasse piano contro la porta cercando di entrare. Sentì una morsa stringergli il petto e il cuore battergli forte come se improvvisamente non ci fosse abbastanza aria nella stanza per respirare. Ti prego, fa' che là fuori non ci sia quello che penso io, pregava. Ma non era nulla, soltanto un ramo che sfregava contro il muro della casa. Controllò di nuovo tutte le porte e poi andò a dare un'occhiata al bambino. Harry aprì gli occhi e gli sorrise per la prima volta nel corso della sua breve vita. Il cuore di Phil si sciolse alla vista di quel sorriso; era come se lui e Harry fossero finalmente in grado di comunicare. Era come se fossero finalmente in grado di condividere uno scherzo segreto e meraviglioso che Phil non aveva mai compreso fino a quel momento. Prese in braccio il suo bambino, lo abbracciò, lo baciò e lo coccolò accarezzandolo con la propria guancia. Poi gli diede il biberon a cui Harry si attaccò ciucciando con voracità. Gli fece fare il ruttino e lo rimise a letto in mezzo al suo nido di cuscini. Harry non pianse. Phil entrò nell'altra stanza per dare un'occhiata a Julie e al suo ingresso
anche lei aprì gli occhi e gli sorrise. «Ciao», gli sussurrò. «Oh, Dio, che bello vederti di nuovo viva», mormorò Phil stringendosela al petto. «Dove siamo?» chiese Julie. «A casa di Ralph Roberts a East Hampton.» Julie lo guardò confusa, come se si fosse svegliata da un delirio, come se avesse avuto una brutta febbre. «Cosa ci facciamo qui?» «Siamo scappati, ma credo che forse a quest'ora ci siamo liberati del pericolo», le spiegò Phil. «Lo sapremo con certezza domani.» «Dov'è la Tata... è qui con noi?» chiese Julie. «Dio, spero proprio di no!» esclamò Phil. «Come?» «Non importa», la tranquillizzò. «Non credo che vorresti saperlo.» «Cosa dici?» «Abbi fiducia in me.» Phil la baciò e l'abbracciò, poi le rimboccò le coperte e tornò in soggiorno a vigilare sulla sua famiglia per il resto della notte. Si sdraiò sul divano accanto al camino e poco dopo s'infilò sotto le coperte, facendo attenzione a sistemare la lampada a gas a portata di mano, nel caso ne avesse avuto di nuovo bisogno. Per una decina di minuti lottò per tenere gli occhi aperti, ma il cognac gli aveva fatto venire un gran sonno e presto Phil si sentì sprofondare nell'oscurità. Un attimo dopo stava già leggermente russando. Dormì tormentato dalle immagini di strane creature: demoni, fantasmi, spettri, zombie, mummie, vampiri, lupi mannari. Creature con occhi ardenti, esseri con artigli da rettili, mostri con lunghe zanne grondanti di sangue. Corpi straziati dalle fiamme. Tentavano tutti di assalire Julie e il bambino, e Phil li respingeva con una spada sulla cui elsa era raffigurata l'immagine di suo figlio. All'ora delle streghe, risalendo diversi livelli di coscienza, Phil percepì la sensazione che ci fosse qualcuno accanto a lui sotto le coperte. Julie! Doveva sentirsi davvero meglio se aveva voluto raggiungerlo sul divano! Ancora a un passo dall'emergere dal sonno, Phil fece un verso di piacere e si girò con l'intenzione di far scivolare le braccia intorno a sua moglie, assopita al suo fianco.
Ma uno strano odore gli riempì le narici. Un odore tutt'altro che piacevole. Odore di bruciato. Odore di cenere. Odore di carni carbonizzate. Phil aprì gli occhi e gli apparve non Julie, ma il cadavere bruciato della Tata sdraiata accanto a lui nel letto. 99 Phil balzò in piedi. Il corpo carbonizzato della Tata, senza capelli, senza occhi, senza orecchie, senza naso, orribile a vedersi, si mosse e si mise a sedere, mentre il suo teschio socchiudeva i denti anneriti, allineati in una bocca senza labbra. Era lo stesso sorriso grottesco che le aveva visto sul viso nell'incubo in cui lei si sfilava i vestiti e si strappava la pelle dalla faccia. Phil indietreggiò mentre quell'orrore carbonizzato buttava da parte le coperte e si alzava. Tra le lenzuola rimasero minuscoli brandelli di cenere nera. Phil si mise a correre in direzione della cucina con quella cosa abominevole, che un tempo era stata una persona, che gli si trascinava dietro a fatica reggendosi su monconi di gambe carbonizzati. Phil batté il piede nudo contro qualcosa, inciampò, si sentì proiettare in avanti e cadde a terra, ma riuscì a rialzarsi prima che la cosa lo raggiungesse. La creatura continuava ad avanzare. Phil entrò di corsa in cucina guardandosi disperatamente intorno alla ricerca di un'arma da usare per difendersi, ma non c'era ombra di lampada, coltello, attizzatoio, né di qualsiasi altra cosa utile. Sul mobiletto c'era soltanto la mazza da baseball. L'afferrò e si girò ad affrontare l'abominevole visione carbonizzata che lo inseguiva. Ma alle sue spalle non trovò niente. Era scomparsa. Non poteva crederci... un istante prima gli era alle costole, e un momento dopo era svanita. C'era stata veramente o si era trattato di un'allucinazione? Phil tornò cautamente in soggiorno, trattenendo il fiato e brandendo la mazza da baseball. Nella stanza soffiava un vento freddo. Una delle pesanti porte scorrevoli di vetro era stata aperta... la cosa si era nuovamente rifugiata nel bosco! Con un balzo Phil raggiunse la porta, la richiuse rapidamente e per maggior sicurezza girò la chiave nella serratura. Poi rifletté: le porte erano tutte chiuse a chiave ed era riuscita comunque a entrare. Richiuderle non sareb-
be servito a proteggerli. L'unica cosa che poteva fare era inseguirla fuori e... e cosa? Ucciderla? Come poteva ucciderla... era già morta. Ma finché non fosse andato là fuori e non avesse cercato di distruggerla sua moglie e suo figlio sarebbero stati in pericolo di vita. S'infilò in gran fretta il piumino, poi raccattò la lampada a gas, prese la mazza da baseball, aprì la porta scorrevole di vetro e varcò la soglia. 100 Il suo stratagemma aveva funzionato. Lo vide richiudersi alle spalle la porta scorrevole e inoltrarsi furtivo nel bosco. Emerse da dietro la porta dello sgabuzzino in soggiorno, dove si era nascosta e aspettò che Phil scomparisse. Quando lui le aveva dato fuoco con la lampada a gas, era corsa fuori e si era rotolata nella neve, ma accorgendosi che le sue carni attempate bruciavano troppo rapidamente perché le fiamme si potessero spegnere in quel modo aveva messo a tacere la sofferenza inimmaginabile del suo corpo che ardeva fino alla morte inoltrandosi barcollante nel profondo del bosco, sdraiandosi a terra e ritirandosi in quella parte della sua mente che aveva usato per controllare da lontano la signora Pressman e il bambino e che in quel momento invece utilizzò per sospendere le sue funzioni fisiche. Una volta interrotte respirazione, circolazione e reazioni sinaptiche, non poteva più provare dolore. Lasciò che la sua carne si ossidasse completamente e quando infine le fiamme non ebbero più combustibile languirono e si spensero. Rimaneva soltanto la sua struttura scheletrica e qualcosa di ancor più elementare. Il suo immenso amore e la sua risoluzione. La risoluzione di riportare i Pressman a New York per prendersi cura di loro nel modo di cui avevano bisogno. Nel modo di cui lei aveva bisogno. Il signor Pressman si stava dimostrando irrecuperabile. Se avesse continuato così, con immenso dispiacere sarebbe stata costretta a mettere fine alle sue sofferenze. Ma poi la signora Pressman e il piccolo Harry, che dormivano tranquillamente nelle camere sul retro, sarebbero stati completamente suoi. Si voltò e si diresse lungo il corridoio con movimenti rigidi verso la stanza in cui riposava il bambino, lasciandosi dietro sul pavimento minuscoli frammenti carbonizzati. 101
Sotto le coperte Julie si sistemò in una posizione più comoda, infilò un pugno nel cuscino sotto la testa per dargli un po' più di forma e cercò di non svegliarsi del tutto. Dalla tenue luce che intravedeva attraverso le palpebre chiuse, capiva che non era ancora l'alba, il che significava un altro paio d'ore di sonno. Aveva bisogno di dormire, ne aveva disperatamente bisogno. Era esausta come non si era mai sentita prima. Si stiracchiò e lasciò che il suo corpo affondasse nel materasso troppo molle. Mentre i suoi pensieri si facevano più vaghi e la sua mente si riassopiva, Julie udì il bambino gridare. Improvvisamente allarmata, lottò per liberarsi delle coperte e si alzò. Non erano le grida di un bambino che si è fatto la pipì addosso, ha freddo, fame o vuole essere preso in braccio. Quelle erano grida di terrore. Una volta in piedi, Julie si accorse di essere stranamente malferma sulle gambe, ma uscì il più rapidamente possibile dalla stanza e si diresse verso il punto da cui provenivano le urla di Harry. Si chiese se anche Phil avesse sentito il bambino piangere e se fosse già arrivato nella stanza. La porta della camera da cui provenivano le urla era accostata. Julie provò a far girare la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. «Phil? Phil, sei lì?» Si mise a bussare. All'interno Harry continuava a urlare. «Phil, per l'amor del cielo, apri!» Dopo alcuni istanti la chiave girò nella serratura e la porta si aprì verso l'interno. Julie entrò nella stanza buia. «Cristo, Phil, cosa sta succedendo?» Era troppo buio e non riusciva a vedere nulla. Tastò con violenza la parete a fianco la porta dove avrebbe dovuto esserci l'interruttore, lo trovò e accese la luce. Per un istante i suoi occhi rimasero abbagliati dal chiarore improvviso, e poi la vide. L'orribile cosa carbonizzata si ergeva tra lei e il letto su cui si trovava Harry. Era la cosa più repellente che avesse mai visto in vita sua: uno scheletro annerito coperto qua e là da sottili brandelli di carne carbonizzata. Un indistinto suono metallico proveniva da quella che avrebbe potuto essere un tempo una gola dotata di corde vocali. La cosa si mosse per afferrarla. Julie lanciò un urlo e si ritrasse vacillante. La cosa sembrò perplessa dalla sua reazione. Julie sentì che la testa le girava e si chiese se sarebbe svenuta o avrebbe vomitato. Doveva uscire da quella stanza. Doveva salvare il suo bambino. Gridò il nome di Phil con tutto il fiato che aveva in gola e passando accanto alla cosa si lanciò verso
suo figlio. 102 Quando sentì le urla di Julie, Phil capì immediatamente a cosa erano dovute. Si voltò per tornare verso casa il più velocemente possibile, procedendo a fatica tra la neve alta. Giunto di fronte alla porta scorrevole da cui era uscito, le diede un vigoroso strattone e poi di colpo ricordò di averla chiusa a chiave. Imprecando, buttò a terra nella neve la mazza da baseball, incastrò la lampada a gas tra la pancia e la vita dei calzoni e cominciò ad armeggiare con le chiavi di Roberts. Cercò ripetutamente di aprire la porta, ma le sue mani tremavano troppo convulsamente per riuscire a infilare la chiave nella serratura. Colto dalla disperazione, Phil prese la mazza da terra e l'abbatté violentemente contro il pannello della porta. Il vetro di sicurezza si frantumò al rallentatore; milioni di sottilissime incrinature si diffusero in tutte le direzioni come una tela di ragno, ma la superficie della porta rimase intatta. Phil la colpì ripetutamente con la mazza finché la plastica che teneva insieme i frammenti di vetro cedette e riuscì ad aprirsi un varco sufficientemente grande da passare. Entrò in casa e corse in direzione del punto da cui venivano le urla di Julie. Si fermò davanti alla porta della camera di Harry. Julie, seduta sul bordo del letto, pronta a balzare via, si stringeva al petto il bambino terrorizzato. Tra loro e Phil si ergeva ciò che restava della Tata. La cosa spettrale si mosse barcollante verso di lui. Phil indietreggiò di parecchi passi nel corridoio, poi alzò la mazza da baseball e l'abbatté con tutta la sua forza sulla spalla sinistra della cosa. Con un rumore impressionante, la spalla si sgretolò, mentre frammenti di osso tra il nero e il marrone volavano dappertutto. Il braccio si staccò e cadde a terra. Incredibilmente la cosa fece un altro passo verso di lui. Phil indietreggiò ancora. La cosa lo seguì sollevando l'unico braccio rimastole. Erano ormai lontani dalla porta della camera. «Scappa, Julie, scappa!» gridò. Julie balzò in piedi e scivolò fuori della stanza proteggendo Harry come poteva. «Corri fuori!» le urlò Phil. «Corri alla macchina!» Julie aprì la porta scorrevole più vicina e corse fuori. Phil sferrò un altro terribile colpo con la mazza, ma mancò il bersaglio. La forza che aveva i-
nutilmente impresso al movimento gli fece perdere l'equilibrio e Phil finì in terra, battendo contro lo spigolo aguzzo di una libreria e procurandosi un brutto taglio sullo stinco, mentre la mazza gli volava via dalle mani. Piccole galassie di dolore esplosero davanti ai suoi occhi. Un liquido caldo gli uscì dal taglio, inzuppandogli i calzoni. La cosa continuò ad avanzare finché gli fu sopra. Phil estrasse dai calzoni la lampada a gas e l'accese. La fiamma azzurra apparve con un sibilo. La cosa emise rumori metallici dalla zona della gola, balzò in avanti e con un calcio fece cadere di mano la lampada a Phil. Questa scivolò sul pavimento e andò a fermarsi su un tappeto di pelle di montone. Il tappeto, che non aveva mai visto un montone in vita sua e che era fatto in realtà di fibra sintetica, prese immediatamente fuoco. Phil si trascinò faticosamente verso la mazza da baseball, mentre le fiamme che si alzavano dal tappeto sfioravano il divano. Il divano, di gommapiuma, s'incendiò con una vampata. Phil afferrò la mazza con entrambe le mani e, mentre la cosa gli si avvicinava di nuovo, la usò come sostegno per tirarsi in piedi. Il divano e il tappeto in fiamme emanavano fumo ed esalazioni tossiche. Phil si appoggiò contro la parete, sollevò sopra la testa la mazza e, emettendo un verso di rabbia, l'abbatte con tutta la propria forza sul cranio della cosa. Il teschio esplose al contatto e Phil udì un grido di dolore soprannaturale riecheggiare per tutta la casa ormai in fiamme. In preda a una furia demoniaca, mentre il fuoco crepitava intorno a lui, Phil continuò ad agitare selvaggiamente la mazza, abbattendola una, due, tre, quattro, mille volte sulla cosa, sferrando colpi di striscio, mancandola grossolanamente, prendendola in pieno, finché l'involucro in cui un tempo aveva vissuto la Tata fu fatto a pezzi, ridotto in briciole, brandelli e frammenti di ossa annerite. Ma anche allora Phil continuò a colpire e a picchiare finché i frammenti divennero polvere sul pavimento e così la partita si chiuse, finalmente si chiuse, si chiuse definitivamente e della Tata non restò più nulla. Le fiamme avevano ricoperto le pareti e attaccavano ora il soffitto. Singhiozzando per l'immane fatica e il sollievo, fradicio di sudore e del sangue che gli usciva dalla ferita, sentendosi soffocare per il fumo, Phil si trascinò fuori attraverso il buco che si era aperto nella porta scorrevole, fuori della casa trasformata in un rogo, fuori all'aperto, nell'aria fredda e dolce. 103
Il 14 febbraio, giorno di San Valentino, Phil Pressman, dopo aver disdetto il contratto triennale per l'appartamento che aveva affittato nel cuore della zona dei mercati generali della carne, nel Lower West Side di Manhattan, osservava le ultime casse contenenti gli oggetti della famiglia Pressman che venivano caricate su un enorme camion per essere trasportate nella loro nuova casa. Quando tutto fu pronto, fece salire sua moglie e suo figlio su un taxi per l'ultima corsa fino all'aeroporto LaGuardia, dove li attendeva un volo per Chicago. Phil aveva ripreso il suo vecchio posto all'agenzia in Michigan Avenue e Julie non vedeva l'ora di tornare ai suoi lavori di arredamenti d'interni per la Merchandise Mart. Non davano a New York la colpa di quello che avevano passato, ma avevano deciso che tutto sommato preferivano Chicago, nonostante gli inverni artici. I gioielli della Tata si erano rivelati persino più preziosi di quanto Phil avesse immaginato... gli avevano fruttato, incredibile ma vero, duecentomila dollari. Sebbene non si sentisse realmente in diritto di venderli, Phil aveva deciso che i soldi gli spettavano: la Tata gli aveva ben procurato almeno duecentomila dollari di dolore. Poiché l'assicurazione di Ralph Roberts copriva una minima parte di ciò che era andato perso nell'incendio, Phil divise il ricavato della vendita dei gioielli della Tata con il suo ex capo. Sommata allo stipendio che Phil guadagnava all'agenzia e a quello che Julie riusciva a guadagnare con il suo lavoro, la parte di denaro che spettava a loro sarebbe bastata a mantenerli per un pezzo e a comprare una casa abbastanza grande da contenere Harry e tutti i fratelli e le sorelle che Phil e Julie sarebbero riusciti a fabbricargli: ora che Harry aveva definitivamente superato la crisi di coliche, degli altri figli erano una possibilità concreta. Ma per quanto ricchi fossero diventati c'era un punto su cui Phil e Julie concordavano: avrebbero cresciuto la loro famiglia senza tate. 104 L'agenzia di collocamento Sterling a Santa Barbara, in California, stava per chiudere e, mentre la luce del sole colpiva di sbieco il pavimento di pino appena lucidato del suo ufficio, Clara Winston si apprestava a conclu-
dere il colloquio con la nuova candidata. Per dirla con franchezza, Clara era entusiasta. La donna esile e bionda che sedeva di fronte a lei, con le gote rosee e vellutate, la figura minuta e un delizioso accento del Sud, era energica, vivace, cortese e provvista di un'esperienza sorprendente per la sua giovane età, senza contare che si trattava di una delle donne più belle che Clara avesse mai incontrato. In verità, se la ragazza non fosse stata così chiaramente abile nel suo lavoro e non avesse amato così apertamente la sua professione, avrebbe potuto diventare una star del cinema, Clara ne era sicura. Non che la bellezza fosse mai stata una qualità frequentemente richiesta in una tata, pensò ma chiunque vedesse quella ragazza non poteva fare a meno d'innamorarsene. «Bene», disse Clara, «sono felice che si sia messa in contatto con noi e sono convinta che saremo in grado di sistemarla in men che non si dica in un'eccellente famiglia a Santa Barbara.» «Grazie, signora Winston», rispose la deliziosa bionda. «È stato un vero piacere conoscerla.» «Il piacere è stato mio», le sorrise Clara, «signorina Redman.» FINE